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LEOPARDI

VITA:
Leopardi nasce nel 1798 a Recanati, nelle Marche. E’ importante sottolineare il suo
anno di nascita perchè lui, anche se viene considerato un poeta romantico, in
realtà appartiene al XVIII secolo. Ciò è evidente in alcuni aspetti del suo pensiero,
come il sensismo, cioè la dottrina per cui la conoscenza era effettuabile solo
tramite i sensi, ciò implicava un elemento totalmente materialistico e concreto.
Quindi la sua formazione non è soltanto romantica, ma lui risente anche della
cultura settecentesca.
Lui nasce in una famiglia piuttosto abbiente, il padre era il conte Monaldo, uomo
molto appassionato di lettura, e da Adelaide Antici, una donna autoritaria e non
comprensiva, soprattutto nei confronti del primogenito Giacomo. La passione per
la lettura del padre, lo porta a possedere una grande collezioni di libri e ad avere
una grande biblioteca. Provenendo da una famiglia altolocata, egli viene educato
principalmente da precettori privati ma lui studia moltissimo autonomamente e
definisce questo studio “matto e disperatissimo”. Proprio in gioventù, a 17 anni,
scrive una delle sue prime opere che era “saggio sopra gli errori popolari degli
antichi” nel quale riflette principalmente sull’astronomia, sulle stelle e
sull’osservazione notturna del cielo. Sempre nello stesso anno lui traduce un’opera
greca intitolata “Batracomiomachia”, lui aveva infatti studiato greco, latino e anche
ebraico, oltre ad alcune lingue moderne come il tedesco, lo spagnolo e il francese.
Ciò sottolinea anche gli interessi in campo filologico che Leopardi nutriva.
Nel 1816, si ha un primo grande cambiamento nel suo pensiero, quello che viene
definito “conversione dall'erudizione al bello”. Da questo momento, lui sostiene che
non è importante solo conoscere le opere ma bisogna anche valorizzare la poesia
come espressione dell’animo umano.
Sempre nel 1816, interviene nella polemica classico romantica, rispondendo
all’articolo pubblicato da Madame de Stael intitolato “sulla maniera e l’utilità delle
traduzioni”. In questo articolo ella giudicava la letteratura italiana dicendo che era
troppo dipendente dai classici, mentre avrebbe dovuto modernizzarsi, sia nelle
forme che soprattutto nei contenuti. In merito a ciò moltissimi italiani rispondono,
scrivendo articoli che poi verranno definiti come il manifesto della letteratura
romantica in Italia. Tra essi figurano Borsieri, Visconti, Berchet e ovviamente
Leopardi. Quest'ultimo aveva assiduamente difeso l’importanza e il valore dei
classici, in quanto soltanto essi potevano portare all’armonia con la natura.
Successivamente inizia una corrispondenza con Pietro Giordani, con cui diventa
amico, e si innamora della cugina Geltrude Cassi Lazzari, dal loro incontro ha poi
origine un’opera intitolata “il primo amore”. Sempre nel 1816 inizia la stesura dello
Zibaldone, una grande raccolta di pensieri e riflessioni.
Nel 1818 entra in crisi, abbandona la fede cattolica e tenta la fuga da Recanati,
fallendo, e inizia la stesura delle canzoni civili. Le due canzoni, definite civili, che
scrisse sono “All’Italia” e “Sopra il monumento di Dante”. Scrive anche altre canzoni
come “Ad Angolo Mai”, “A un vincitore nel giuoco del pallone”, “Il bruto minore” e
“Ultimo canto di Saffo”. Queste ultime due canzoni rappresentano anche quelle che
vengono definite canzoni del suicidio.
Tra il 1819 e il 1821 scrive gli Idilli, opere in poesia tra cui figurano: “L’infinito”, “Alla
luna”, “Odi, Melisso”, “La sera del dì di festa”, “Il sogno” e “La vita solitaria”. La parola
idillio fa riferimento ad eulion, una parola greca che significa descrizione di un
quadretto campestre(l'idillio più famose è quello di Teocrito, al quale si ispira
Virgilio per le bucoliche, che a sua volta ispira Tasso nella scrittura del ”Aminta”).
Leopardi però non si ferma alla descrizione della natura, ma tramite essa riesce a
esprimere i suoi sentimenti.
Dopo la crisi, ha un’altra conversione, quella detta “conversione dal bello al vero”,
detta anche conversione filosofica. Leopardi scopre anche una passione per la
filosofia. É Importante sottolineare che le fasi che attraversa non sono rigide ma i
confini sono piuttosto labili, già in alcune opere del periodo del bello si possono
vedere elementi che tendono al vero. Ciò è soprattutto evidente nel “Ultimo canto
di Saffo” scritto nel 1820 dove lui si pare già al vero.
Successivamente va a Roma dagli zii materni sperando di trovare un ambiente
innovativo e moderno, ma rimane molto deluso in quanto anche la città di Roma
era dominata dall’ignoranza, dalla corruzione e dall’arretratezza culturale. Quindi
torna a Recanati, luogo che lui definisce “natio borgo selvaggio”.
Intorno al 1824 perde la vena poetica e scrive le operette morali, che anticipano già
il periodo del pessimismo cosmico e i “canti pisano-recanatesi”. Poco dopo viaggia
in Italia e recupera l'ispirazione poetica e mentre si trova a Pisa scrive i canti
pisano-recanatesi. In essi si trovano componimenti poetici tra cui: “A Silvia”, “Il
risorgimento”, “Il sabato del villaggio”, “Canto di un pastore errante dell’Asia”, “Le
ricordanze” e “La quiete dopo la tempesta”. Nel 1830 torna a Firenze e si innamora
di Fanny Targioni Tozzetti, la quale ispira il ciclo di aspasia, che contiene: “Amore e
morte”, “Il pensiero dominante”, “Aspasia” e “A se stesso”. Nel 1833 si trasferisce a
Napoli con Antonio Ranieri, dove scrive “palinodia al marchese Gino Capponi” e
“paralipomeni della batracomiomachia”, scrive anche due canzoni sepolcrali e “il
passero solitario”. Quando scoppia il colera, i due si rifugiano a Torre del Greco,
vicino al Vesuvio, dove Leopardi scrive “la ginestra”. Torna a Napoli nel 1837 e
muore, i suoi resti si trovano ancora a Napoli, in particolare sono nel parco
virgiliano di Piedigrotta.

PENSIERO, pag 273:


Leopardi si può anche considerare un filosofo, infatti la formulazione del pensiero
è simile al processo della formulazione di un pensiero filosofico. L’unica differenza,
che però è molto importante, è che Leopardi non indaga la natura con un metodo
speculativo filosofico, ma la indaga come normale essere umano, quindi il suo
pensiero non ha una struttura volontaristica, ma subisce cambiamenti nel tempo.
Dal 1817, lui sviluppa il pensiero dell'infelicità dell'uomo: egli è infelice perchè è stato
dotato di una tensione inappagata verso un piacere infinito. Gli uomini cercano la
soddisfazione nelle azioni, ma il piacere non si raggiunge mai del tutto perchè una
volta ottenuto un po’ di piacere si passa a desiderarne sempre di più. Questo porta
anche al senso della nullità delle cose, in quanto niente può portare l’uomo al
piacere finale.
PESSIMISMO STORICO: da ciò sviluppa la teoria del sistema della natura e delle
illusioni. Prima di tutto lui, così come altri poeti romantici, fa una distinzione tra
uomo moderno e uomo antico. Quest’ultimi erano felici perché avevano desideri
che la natura poteva soddisfare e niente di più, inoltre essi erano dotati
dell’immaginazione quindi anche se non potevano conseguire un piacere
riuscivano ad immaginarselo. Per questo motivo, gli uomini antichi erano più felici
dei moderni. La civiltà moderna ha distrutto l’illusione, ma Leopardi è comunque
speranzoso perché dice che si possono recuperare tramite le azioni eroiche,
oppure la ribellione in nome di valori più elevati. Questo periodo viene definito del
pessimismo storico, proprio per la concezione dell’uomo antico e moderno e delle
loro differenze. Quindi agli antichi la natura ha dato il desiderio infinito, ma allo
stesso tempo anche le immaginazioni e le illusioni per consolarsi, mentre all'uomo
moderno è rimasto solo il desiderio infinito, che senza illusioni, non potrà mai
essere totalmente appagato.
TEORIA DEL PIACERE: grazie ad alcuni eventi storici che ha vissuto, lui medita poi la
teoria del piacere. Questi eventi furono:
● Il fallimento dei moti carbonari del 20/21 lo ha profondamente deluso, quindi
inizia anche a riflettere sul fatto che le illusioni non sono così facilmente
recuperabili come credeva precedentemente.
● Adesione al sensismo e l'abbandono del cattolicesimo.
● L'esperienza romana che lo delude profondamente.
La teoria del piacere ha un fondamento fortemente sensista e si basa sulla
concezione che l’infelicità umana è nel rapporto tra bisogni e la soddisfazione di
tali bisogni con il conseguimento del piacere. Però i bisogni sono sempre maggiori
perché una volta ottenuto un po’ di piacere l’uomo ne vuole sempre di più, quindi il
desiderio diventa infinito e il piacere conseguito quasi nullo o inesistente.
ZIBALDONE, 25 agosto 1821: spiega precisamente questa sua teoria: prima di tutto
afferma che la natura è come una madre benigna perché ha ordinato la realtà nel
miglior modo possibile. Successivamente l’uomo si è creato nuovi bisogni tramite la
civilizzazione e il perfezionamento, che Leopardi chiama corruzione, e le cose che
la natura aveva creato per l’uomo sono diventate inutili e l’uomo le ha
abbandonate o ha cambiamento totalmente il loro scopo o il loro utilizzo. Inoltre, il
cambiamento che ha subito l’uomo non si può chiamare perfezionamento perchè
la natura è rimasta immutata e non si è adattata ai nuovi bisogni dell’uomo
garantendogli una vita migliore. Per questo Leopardi dice che l’uomo si è corrotto,
e che adesso non è in armonia con il sistema naturale della realtà. Questo non
significa che la natura non è perfetta ma che l’uomo non avrebbe dovuto crearsi
tali bisogni. Per dimostrare che il cambiamento non è stato voluto dalla natura egli
afferma che se fosse stato ordinato dalla natura essa sarebbe cambiata per prima
per portare l’uomo alla mutazione dei propri costumi, quindi l’uomo si sarebbe
trovato in contrapposizione con la natura prima di cambiare, non dopo. Inoltre,
nella nuova condizione la natura avrebbe disposto la realtà in modo da garantire
la massima felicità e il massimo piacere all’uomo, dato che ella è generosa e
benigna. Questo perché tutti gli esseri viventi si trovano in uno stato di equilibrio e
di armonia con la natura, e la natura è perfettamente corrispondente ai loro
bisogni. Soltanto l’uomo si trova in una condizione di mancanza di armonia, e
pensa alla natura come essere che non vuole soddisfarlo e gli conviene piuttosto
creare una nuova, che corrisponda ai suoi bisogni. Per concludere Leopardi
afferma che più l’uomo si perfeziona, o meglio si corrompe, meno sarà in armonia
con la natura e quindi la vita risulterà infelice e faticosa. Inoltre, si chiede che
genere di assurdità sarebbe che più l’uomo si perfeziona e peggio vive e quindi alla
fine ne deduce che l’unico vero stato di perfezione è quello primitivo. In questo
brano, è anche importante sottolineare cosa pensa Leopardi dell’arte: essa
consiste nell’allontanamento della natura e viene concepita come artificio.
ZIBALDONE, 12-13 luglio 1820: anche in queste pagine Leopardi scrive di quella che
successivamente definisce la teoria del piacere. Il testo si può dividere in sezioni:
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a
riempirci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non
comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale
che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre
essenzialmente e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere,
ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo
desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita
coll'esistenza e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può
essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti: 1. né per
durata; 2. né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che
uguagli: 1. né la sua durata, perché nessun piacere è eterno 2. né la sua
estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta
che tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto
desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto non
finisce se non coll'esistenza, e quindi l'uomo non esisterebbe se non provasse
questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch'è sostanziale in noi, non
come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una
tal natura porta con se materialmente l'infinità, perché ogni piacere è
circoscritto, ma non il piacere, la cui estensione èindeterminata, e l'anima
amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile
di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perché non si può
formare idea chiara di una cosa ch'ella desidera illimitata. Veniamo alle
conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo e
come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato.
Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente
circoscritto e senti un vuoto nell'anima, perché quel desiderio che tu avevi
effettivamente non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per
estensione, non potrebbe per durata, perché la natura delle cose porta
ancora che niente sia eterno. [...] Quindi potrete facilmente concepire come il
piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia,
come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia
ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l'anima desidera una cosa
piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera
veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere
particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l'estensione del piacere, ne
segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere
appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma
inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza.
Dimostra l’infinità del desiderio e del piacere e quindi l’impossibilità di
soddisfarlo totalmente. L’anima umana desidera il piacere che per la concezione
sensistica di Leopardi si identifica con la felicità. Questo desiderio non ha limiti
perché è intrinseco nell’uomo e quindi può avere fine solo con la fine della vita
stessa. Essa non ha limiti né per durata né per estensione, quindi non esiste
nessun piacere che sia illimitato nel tempo e senza limiti di immensità, in quanto
tutte le cose che porta la natura sono limitate e circoscritte. Dato che questo
desiderio finisce solo con la morte, si può anche affermare che l’uomo non
esisterebbe se non provasse questo desiderio. Inoltre, si può dire che non ha
limiti di estensione perché l’uomo non rincorre un piacere specifico ma desidera
il piacere nella sua totalità. Da ciò Leopardi trae delle conclusioni facendo un
esempio: se una persona desidera un cavallo, le sembra di desiderarlo come
materiale quando in realtà lo si desidera come un piacere astratto e illimitato.
Quando si possiede il cavallo si trova un piacere circoscritto e quindi il desiderio
non viene totalmente appagato, quindi è quasi come se il piacere stesso non
esistesse. Anche se venisse appagato, lo sarebbe solo parzialmente o per durata
o per estensione. Quindi il cavallo rimarrebbe come un oggetto fisico, ma l’uomo
perderebbe la ragione della sua felicità. Quindi si può anche dedurre che tutte le
cose si logorano e tutte le impressioni svaniscono. Per concludere Leopardi
argomenta relativamente all’appagamento temporaneo dei desideri e alla
ricerca del piacere da parte dell’anima.
Veniamo alla inclinazione dell'uomo all'infinito. Indipendentemente dal
desiderio del piacere, esiste nell'uomo una facoltà immaginativa, la quale può
concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono.
Considerando la tendenza innata dell'uomo al piacere, è naturale che la
facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della
immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza
immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli
infiniti: 1. in numero, 2. in durata, 3. in estensione. Il piacere infinito che non si
può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale
derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia: 1. che la speranza
sia sempre maggior del bene; 2. che la felicità umana non possa consistere se
non nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran
misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo
spogliar l'uomo e nessun essere vivente, dell'amor del piacere che è una
conseguenza immediata e quasi tutt'uno coll'amor proprio e della propria
conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall'altra parte non
potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire: 1. colle illusioni, e di
queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie
in natura, la quale poteva ben farcene senza; 2. coll'immensa varietà
acciocché l'uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all'altro, o
anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran
varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un
piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e
dall'altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i
piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità
degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L'immaginazione come ho
detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà
nell'uomo, tanto più l'uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa
non può regnare senza l'ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella
degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose,
circoscrive l'immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo
spesse volte più grande negl'istruiti che negl'ignoranti, non lo è in atto come in
potenza, e perciò operando molto più negl'ignoranti, li fa più felici di quelli che
da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. [...] .
In questa parte parla dell’inclinazione dell’uomo all’infinito inizia dicendo che
nell’uomo c’è una facoltà immaginativa, la quale concepisce cose non reali, e con
una funzione consolatrice. Quest’ultima deriva dal fatto che l’immaginazione rende
possibile all’uomo di pensare a piaceri infiniti in numero, estensione e durata. Da
ciò derivano le illusioni, che portano l’uomo alla felicità. Esse sono donate dalla
natura, madre benigna e generosa, all’uomo e oltre ad esse la natura dona anche
all’uomo la varietà. La varietà è importante per tre motivi:
● L’uomo non si stanca degli stessi piaceri, e quindi rimane felice.

● Avendo tanti piaceri diversi, è più semplice che gli si dimentichi di uno che
non ha potuto conseguire.
● Tutti i piaceri lo distraggono dal fatto che nessun piacere potrà soddisfarlo
completamente.
Da ciò ne deduce che gli uomini antichi erano più felici dei moderni, ma fa anche
delle considerazioni sui moderni. L’immaginazione è la fonte della felicità, e questo
è evidente anche nei bambini, i quali non sono ancora istruiti e hanno la stessa
ignoranza degli antichi. Quindi l'istruzione circoscrive l'immaginazione, quindi essa
diventa maggiore in potenza che in atto, al contrario di come accade per gli
ignoranti. Quest’ultimi hanno tanta immaginazione in atto e per questo risultano
essere più felici. Inoltre, la natura voleva che l'uomo confondesse immaginazione e
facoltà conoscitrice, in modo che egli pensasse ai suoi sogni come alla realtà e
quindi fosse animato da quello che riteneva vero.
Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione
(non solamente nell'uomo, ma in ogni vivente), la pena dell'uomo nel provare
un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l'uomo non
molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto: 1. perché
tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l'ignoto sia più bello del
noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura
al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. Perché l'anima
preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la
considerazione qui sopra detta, l'anima deve naturalmente preferire agli altri
quel piacere ch'ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee
abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime iI più antico cioè
Omero, abbondano i fanciulli, veramente Omerici in questo, [...] gl'ignoranti ec.
in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce
difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno, ec., perciò
appunto sono così dolci, perché immergono l'anima in un abisso di pensieri
indeterminati, de' quali non sa vedere il fondo né i contorni. [...] Del rimanente,
alle volte l'anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e
confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la
stessa, cioè il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo della vista, lavora
l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima s'immagina quello
che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va
errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la
sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe
l'immaginario. Quindi il piacere ch'io provava sempre da fanciullo, e anche ora
nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia,
come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta
moltissimo l'anima. Ne deducono ch'ella è nata per il grande ec. Non è questa
la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità delle sensazioni confonde
l'anima, gl'impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l'esaurimento
subitaneo del piacere, la fa errare d'un piacere in un altro, senza poterne
approfondare
nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito.
La pena dell’uomo sta nel vedere i limiti del piacere, che appaiono all’uomo solo
quando si avvicina ad essi. Le ragioni per cui la mente si immagina i piaceri sono:
l’anima preferisce il bello aereo, la poesia, le idee indefinite e l’ignoto e l’illimitato
attraggono l’uomo e l’anima odia i confini. Si può dedurre che l'anima preferisce
quei piaceri che non può abbracciare totalmente. Inoltre di queste idee di bello e
del bello aereo abbondavano negli antichi, i poeti antichi, tra cui anche Omero, i
fanciulli e gli ignoranti. All’uomo moderno, invece, viene molto difficile immaginarsi
dei piaceri, a causa dell’aumento del sapere e quindi della conseguente limitazione
dell’immaginazione. L’unico modo per recuperare, anche solo parzialmente
l’immaginazione, è ricorrere al sentimentale che porta l’anima in una condizione di
indeterminatezza, nella quale non può vedere i limiti. In questa situazione l'anima si
trova in una condizione vaga e indefinita e vede un tipo di bello che è pensabile
solo con l’immaginazione e che può essere rappresentato solo dalle illusioni.
Quindi l’anima cerca il piacere e lo può trovare solo in forma limitata nella realtà,
quindi prova avversione. Per questo motivo, quando vede la natura che “ama che
l’occhio si spazi quanto è possibile”, ciò significa che cerca la lontananza e
l’indefinitezza.
Successivamente Leopardi argomenta anche che l’anima, a volte, ha bisogno di
limiti e confini. Ciò appare contraddittorio, rispetto a tutto ciò che ha scritto in
precedenza, ma egli precisa che, solo in una situazione limitata l’uomo attinge
all'immaginazione, e il fantastico subentra nel reale. In questa condizione, l'anima si
immagina ciò che non vede, ed essa non immaginando confini e limiti può arrivare
a un piacere che può quasi essere considerato infinito. Questo concetto è
particolarmente presente nella poesia “L’infinito”, in cui Leopardi scrive
.
“Ma sedendo e mirando, inte
Un altro passo molto importante, che esplicita questo concetto è contenuto nel “La
sera del dì di festa” dove scrive “traluce la notturna lampa”, descrivendo una luce
non diretta ma filtrata dalle imposte delle finestre.
PESSIMISMO COSMICO: dal pessimismo storico, si passa a quello cosmico intorno
al 1819/1823, periodo nel quale vive una profonda crisi, derivante da tre motivi
principali: abbandono del cattolicesimo, l’adesione al sensismo e la delusione
derivante dall’esperienza romana e dai moti carbonari del 20/21. Durante questo
periodi di crisi, rivaluta la funzione della natura: essa diventa uno strumento che
mira solo alla conservazione della specie, e non si preoccupa della felicità del
singolo. Quindi, la natura acquista una concezione negativa di tipo meccanicista e
materialista: essa diventa solo un meccanismo cieco volto alla conservazione della
specie umana, che però rimane indifferente verso le sofferenze dell’uomo stesso.
Essa diventa negativa, anche perchè Leopardi acquista la consapevolezza che la
natura ci ha dato un desiderio infinito per il piacere ma non ci ha dato i mezzi per
soddisfarlo, quindi l'infelicità dell’uomo viene imputata alla natura. Da ciò arriva
anche alla conclusione che anche gli antichi erano infelici, poiché lo sviluppo della
razionalità non ha influito sulla felicità. Dal 1823/24, lui assume un atteggiamento
distaccato o di autoironia, abbandonando il titanismo, in quanto anche con la
ribellione l’uomo non può cambiare la situazione di infelicità in cui si trova. Perde
anche l’ispirazione poetica e inizia il progetto delle “operette morali” che lo
impegnano per moltissimi anni. La stesura delle prime operette risale al 1821, anche
se la maggior parte fu scritta nel 1824: nonostante ciò Leopardi continua a
modificarle e perfezionarle fino al 1832. Nel triennio 1824-1827 tenta anche di
risolvere un nodo che aveva tralasciato: la funzione della civiltà e della ragione.
PESSIMISMO EROICO: inizia con la riflessione sulla funzione della civiltà e della
ragione; essa ha due principali funzioni. La prima è positiva poiché rende la
ragione lo strumento con cui l'uomo ha smascherato la vera essenza della natura.
A ciò si aggiunge anche l’esaltazione dei periodi storici dominati dalla ragione,
come l'illuminismo e la critica dei periodi dove la ragione non fu la protagonista,
come il medioevo e il romanticismo. Allo stesso tempo la ragione ha reso l’uomo
consapevole togliendogli le illusioni, e quindi lo ha reso anche più fragile,
vulnerabile e di conseguenza egoista, perché egli mira soltanto alla propria felicità.
Questa contraddizione viene risolta in una delle operette morali, intitolata “Il
dialogo di Plotino e Porfirio”. In essa viene valorizzato il momento sociale, quindi
viene sottolineata l’importanza della vita in comunità, perché bisogna mirare
all’aiuto reciproco. Di fronte al dolore e alla consapevoleza del ruolo della natura, è
importante che gli uomini si uniscano per fronteggiare insieme il dolore e per
opporsi alla natura. Quindi la civiltà ha dato la consapevolezza, ma anche la
possibilità di denunciare il vero e il dolore derivante dalla realtà, ma questo è
possibile solo tramite l’unione degli uomini. Fronteggiare il dolore non significa
farlo scomparire, ma raggiungere una felicità fisico biologica, legata quindi al
fisico e non alle emozioni e all’interiorità. In questa condizione tutti gli uomini si
devono identificare nel titanismo, che però diventa un titanismo democratico, in
quanto serve per sopportare il dolore. Questo concetto è particolarmente visibile in
uno dei suoi ultimi scritti, “La ginestra”.

POETICA DEL VAGO, INDEFINITO, RICORDO:


La poetica leopardiana viene direttamente teorizzata da lui, in alcune delle sue
opere, in particolare in: “Lettera ai compilatori della biblioteca italiana” e “Discorso
di un italiano intorno alla poesia romantica”. Lui parte dall’idea che il piacere è
irraggiungibile nella sua totalità, perché è infinito e l’uomo per provarlo dovrebbe
essere in grado di sentire infinitamente. Per sentire l'infinito l'uomo deve usare delle
tecniche, come l’illusione dell’infinito. Essa trae origine dall'immaginazione di
aspetti vaghi, negli antichi tale facoltà era naturale mentre nella modernità si trova
solo nei fanciulli. A tal proposito, il poeta deve recuperare il tempo della sua
fanciullezza tramite il ricordo. La funzione della poesia diventa quella di ristabilire
un rapporto di armonia con natura, e il bello poetico viene trovato nelle sensazioni
indefinite e infinite. Tali sono suscettibili soltanto tramite parole che danno un idea
di vaghezza o indefinitezza, e sono dette parole poetiche. Al contrario, le parole che
danno un senso di limitatezza sono dette parole impoetiche e causano anche
dolore e sofferenza nell’uomo. Come temi vengono sempre usati quelli che
suscitano indefinitezza, come elementi lontani e memorie dell’infanzia. Quindi la
poetica del vago si fonde con quella del ricordo, generando la teoria della visione
e del suono. Essa implica che la visione di un cielo tramite una finestra è diversa
rispetto ad un cielo aperto, poiché il limite della finestra porta l’immaginazione
all'infinito. Similmente l’ascolto di un suono in lontananza, può rievocare ricordi del
passato e dell’infanzia. La sua poetica viene anche espressa in alcuni brani dello
“Zibaldone”, in cui definisce le parole e i temi trattabili.
ZIBALDONE, pag 431:
“Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio
sull’Infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa
che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare
d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso
pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo
che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce
un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec.“
“Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè
destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse.”
“Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime,
perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che
un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene.
Così oscurità, profondo.”
“Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza,
altezza, vastità ec. ec., sia in estensione o in forza intensità ec. ec., sono pure
poeticissime, e cosí le immagini corrispondenti.”
“Antichi, antico, antichità; posteri, posterità sono parole poeticissime ec.,
perché contengono un’idea, 1,o, vasta, 2o, indefinita ed incerta, massime
posterità della quale non sappiamo nulla, ed antichità similmente è cosa
oscurissima per noi. Del resto, tutte le parole che esprimono generalità, o una
cosa in generale, appartengono a queste considerazioni.”

EDIZIONE COMPLETA DEI CANTI, pag 292:


L’edizione completa venne pubblicata postuma, nel 1845 dall’amico Ranieri. Tutte
le composizioni sono divise in:
● Canzoni civili : “All’Italia” (tematica patriottica), “Sopra il monumento di
Dante”, “Ad Angolo Mai” (dedicata a un amico di leopardi che aveva
scopereto i libri de republica di cicerone), “A un vincitore nel gioco del
pallone”, “Il bruto minore” e “Ultimo canto di Saffo” (tematica del suicidio)
● Elegia: X il primo amore. (esprime l’amore per la cugina)
● Idilli in endecasillabi sciolti: XII.L’infinito, XIII.La sera del dì di festa, XIV.Alla
luna, XV.Il sogno, XVI.La vita solitaria.
● Canti pisano-recanatesi, canzone a schema libero: XX.Il risorgimento, XXI.A
Silvia, XXII.Le ricordanze, XXIII.Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia., XXIV.La quiete dopo la tempesta, XXV.Il sabato del villaggio.
● Ciclo di Aspasia, canzone a schema libero: XXVI.Consalvo, XXVI.Il pensiero
dominante, XXVII.Amore e morte, XXVIII.A se stesso, XXIX.Aspasia.
● Canzoni a schema libero: XXXIV.La ginestra, XI.Il passero solitario.
Le canzoni civili sono caratterizzate da un lessico e da una sintassi elaborati e
difficili da leggere; i temi sono generalmente civili o patriottici. Un esempio può
essere la canzone “Ad Angelo Mai”, la quale narra di questo amico di Leopardi
che aveva trovato alcuni libri della “Repubblica” di Cicerone, prima di quel
momento si possedeva solo il sesto libro, al quale si ero anche ispirato dante per
la struttura del Paradiso.
“Il passero solitario”, nonostante esso sia un componimento scritto nel 1831-1835
viene posto prima degli idilli, composti tra il 1819-1821. Viene messo lì, perchè la
canzone venne scritta da Leopardi adulto ma dal punto di vista della sua
giovinezza.
Gli idilli hanno un linguaggio molto più semplice, rappresentano in pieno la
poetica del vago e dell'indefinito e sono caratterizzati dalla presenza di
moltissimi enjambement.
I canti pisano-recanatesi sono canzoni a schema libero, con una struttura
diversa dalla classica canzone petrarchesca; in passato erano chiamati anche
“grandi idilli”.
Il ciclo di Aspasia venne scritto dopo che Leopardi si innamora di Fanny Targioni
Tozzetti. Tale ciclo prende il nome dal personaggio di Aspasia, una prostituta
amante di Pericle (governatore di Atene). Lei era molto intelligente quindi Pericle
le chiedeva sempre consigli politici. Il tema di questo ciclo è l’amore sofferto, e
l’amore come unica illusione dell’età adulta che porta comunque al dolore.
CONFRONTO CON IL “CANZONIERE”: il canzoniere di Petrarca è un’opera
unitaria, con un inizio e una fine, mentre i canti di Leopardi hanno una struttura
più aperta e la storia è discontinua, a tratti contraddittoria e presenta anche
salti temporali. Leopardi indubbiamente si ispira a Petrarca, anche per le
immagini e per il lessico che usa. Entrambi si collocano nel piano alto di lessico,
una linea formata da Petrarca-Tasso-Leopardi.

“ULTIMO CANTO DI SAFFO”, pag 299:


Saffo era una poetessa greca che viveva a Mitilene, città nell’isola di Lesbo, e
aveva organizzato un gruppo di sole donne chiamato tiaso, dove scrivevano
componimenti e vivevano insieme. Una parte del mito sostiene che ella si fosse
innamorata di Faone, ma lei era brutta quindi venne rifiutata da lui. Questa
sofferenza la porta al suicidio, gettandosi dalla rupe di Leucade. Leopardi usa
questo pezzo di mito, riportato da Ovidio e usato anche da Madame De Stael,
per scrivere una canzone, immaginandosi le ultime parole della poetessa prima
del suicidio. In questa lirica Leopardi non interviene direttamente nel testo,
lasciando spazio a Saffo, anche se ella si può considerare la proiezione dell’io
leopardiano nell’io di Saffo. I due hanno un punto di contatto principale: la
contrapposizione con la natura, che deriva dal fatto che essa illude gli uomini
ma in realtà li rende infelici, e quindi entrambi intonano dei canti come protesta
contro la natura stessa. Questo interesse per Saffo, porta anche Leopardi a
conoscere ad apprezzare le liriche brevi e i frammenti idillici, che sono in grado
di condensare una voce individuale rendendola universale.
PARAFRASI: o tranquilla notte e pudico raggio della tramontante luna, e tu
[Lucifero stella del mattino portatrice di luce], che spunti, messaggero del giorno,
sulla rupe. Quando mi erano ignote le sofferenze d’amore e il fato, la natura mi
appareva cara e piacevole, ma dopo averli scoperti, nessuno spettacolo (molle,
aggettivo non comune: modernità di Leopardi) può consolare i miei sentimenti. Di
tutta questa bellezza gli Dei e il fato non me ne hanno riservato nemmeno una
piccola parte.
O natura, io destinata ai tuoi regni come un'ospite fastidiosa e non degna,
un’amante sgradita, invano rivolgo a te le mie preghiere e il mio cuore e sguardo
alla tua bellezza. A me non sorridono la campagna, gli uccelli multicolore o il
fruscio delle foglie spostate dal vento. All’ombra dei salici, il ruscello si ritrae
quanto il mie piede tocca l’acqua.
Qual colpa, qual delitto indicibile mi macchiò prima della nascita, al punto da
rendere la sorte così ostile nei miei confronti? In che cosa peccai da bambina,
nel tempo in cui non si conosce la colpa? Perchè il filo scuro della mia vita, privo
di giovinezza e ormai sfiorito, deve avvolgersi intorno al fuso della Parca
inflessibile? Una volontà misteriosa muove gli eventi; tutto è misterioso tranne il
nostro dolore. Gli uomini nacquero destinati al piano e come figli trascurati della
natura. Giove, il padre, conferì alla bellezza un potere eterno sul mondo, mentre
la virtù in un corpo deforme non può brillare nonostante i suoi atti eroici o la sua
grandezza poetica.
Moriremo. Una volta a terra e disperso questo corpo indegno, l’animo fuggirà
nudo nell'oltretomba e correggerà la crudele ingiustizia del fato. E tu [Faone] a
cui mi strinse invano un lungo amore e una lunga fedeltà e una vana follia
d’amore nata da un desiderio insoddisfatto. Faone, vivi felice sulla terra, se mai
c’è stato un uomo terreno felice. Giove non mi ha più cosparsa con il dolce
liquore [acqua] del vaso avaro di felicità. Ogni giorno si conclude, e subentra la
vecchiaia, le malattie e l’ombra della morte. Ecco di tanti onori sperati e di tante
piacevoli illusioni, non mi resta che il Tartaro [morte], la dea degli inferi
[Proserpina], la buia e tenebre notte e il silenzioso fiume hanno il mio ingegno.
ANALISI LESSICALE: nel verso 5, per indicare i tormenti d’amore usa la parole
erinni, esse erano anche le dee della vendetta, che punivano gli uomini con il
pentimento. Un esempio della loro azione nel può essere nel mito di Oreste e
Clytaemnestra. Ella era la moglie di Agamennone, ma aveva anche una relazione
con i fratello di quest’ultimo, Menelao. I due uccidono Agamennone quando
torna dalla guerra e quindi Oreste, figlio di Agamennone e Clytaemestra, decide
di vendicare il padre uccidendo la madre e lo zio. Oreste deve espiare la sua
colpa, e quindi le erinni lo perseguitano finché egli non fa un sacrificio nel tempio
di Atene. Nel verso 8, c’è la parola noi, la quale può riferirsi all’umanità oppure
potrebbe essere un plurale maiestatico per indicare Saffo. Nel verso 15 c’è anche
la costruzione latina del verbo giovare, il latino essa reggeva il complemento
oggetto mentre in italiano regge il complemento di termine. Per tutto la canzone,
c’è una ricorrenza delle parole sembianze, forme e simili, esse evidenziano uno
dei temi cardine della canzone: la contrapposizione tra realtà e apparenza. Nei
versi 49 e 62-64 ci sono due espressioni omeriche: “e la ragione in grembo de
celesti si posa” e “del soave licor del doglio avaro Giove, poi che egli perir
gl’inganni e il sogno della mia fanciullezza” (nel mito Giove aveva la felicità in un
vaso, e ne distribuiva pochissima e quando lo faceva la mischiava sempre al
dolore o all’infelicità) . Nel verso 55 si ha un’ulteriore costruzione latina, simile
all’accusativo alla greca, quando dice “il velo indegno a terra sparso”. Al verso 72,
con l’espressione “Tenaria Diva” Leopardi fa riferimento a Proserpina, dea degli
inferi: uno degli ingressi possibili era nel Peloponneso, a Tenaro.
COMMENTO: questa canzone e l’ultima delle “canzoni del suicidio”, quindi si può
anche considerare come un punto di svolta per la poetica leopardiana, e il suicidio
di Saffo si riflette in Leopardi come l’abbandono della poesia per dedicarsi ad
opere in prosa. Il tema principale della canzone è sicuramente il conflitto con la
natura, e rispetto alle altre canzoni, in questa la natura presenta già un carattere
ambiguo che anticipa il pessimismo cosmico. Questo è evidente perchè Saffo si
trova in disarmonia con la natura ma in armonia con la furia degli elementi, quindi
Leopardi inizia a sviluppare il concetto dell’infelicità degli antichi e della natura
come matrigna. Nella seconda strofa il contrasto si fa ancora più evidente: Saffo si
sente estranea all’ordine naturale perchè lei non ha nemmeno una piccola parte
della belleza della natura. Nella terza strofa diventa evidente e viene esplicitata il
ruolo della natura come una legge segreta che condanna Saffo, ma anche tutta
l’umanità, all’infelicità. In questa strofa, Saffo evidenzia anche come la sua infelicità
sia ingiustificata, e che ogni illusione giovanile è destinata a cadere in favore del
dolore, che è l’unica certezza dell’umanità. In questo momento finisce l’illusione di
un mondo classico ellenico felice e in armonia con la natura, per svelare la verità:
anche gli antichi erano infelici e il dolore accomuna tutti gli uomini,
indipendentemente dal tempo o dal luogo. Questo concetto è anche evidente
nell’ultima strofa, nel verso 61-62 dice “vivi felice, se felice in terra visse nato mortal”.
La forma scelta da Leopardi è la canzone a schema libero e senza rime, questo
modello gli consente di creare l’effetto del meditar cantando, in cui Saffo riflette
senza curare troppo la forma. L’unica rima è quella baciata negli ultimi due versi di
ogni strofa, che ritma e divide la canzone. Nonostante l’assenza di rime, il canto
risulta comunque essere musicale grazie ai frequenti enjambement, assonanze,
consonanze e ripetizioni. Nella canzone sono anche molto importanti gli effetti
fonici donati dalle assonanze e dalla consonanze, che riflettono anche la poetica
del vago e dell’indefinito. Nella prima strofa si ha come una dissolvenza delle
parole di Saffo, che si originano nel silenzio e che partono pianissimo. Tale
dissolvenza è data dalla ripetizione del suono ND che cultima nella rima baciata
alla fine della strofa come sponda-onda. Nella seconda strofa si ha il suono ANT, e
al centro della strofa si hanno anche le parole canto-pianto, che manifestano la
sofferenza umana.
SUICIDIO: Saffo è per Leopardi un'eroina de suicidio, conformemente a una
tradizione che parte da Ovidio e dalla sua rielaborazione del mito. Il tema del
suicidio trova spazio nella produzione leopardiana nelle due canzoni, che vengono
a tal proposito definite del suicidio. In entrambe sono narrate le storia di
personaggi classici che alla fine si suicidano, tale gesto viene interpretato in chiave
stoica, assolutamente non cattolica o religiosa. Tale tema era rientrato in voga tra
il settecento e l'ottocento grazie a Plutarco, con la sua opere “vite parallele” in cui
aveva anche narrato di grandi personaggi suicidi: tale opera influenzò
notevolmente Alfieri, Foscolo e anche Goethe. Nelle due canzoni leopardiane i
protagonisti scelgono il suicidio come atto di protesta contro la natura che
obbliga l’uomo alla sofferenza; in ciò si intravede anche quello che diventerà il
pessimismo cosmico. Quindi, per Leopardi il suicidio è un atto di ribellione e quasi
una scelta naturale alla condizione imposto dalla natura. Questo argomento viene
anche trattato in una delle operette morali, “Il dialogo di Plotino e Porfirio”: in essa
però il pensiero leopardiano ha subito un’evoluzione. I due protagonisti
rappresentano le due ragioni che si fronteggiano, senza che una prevalga
sull’altra. Porfirio, rappresenta con logica una difesa al suicidio mentre il maestro
Plotino lo invita a recedere nella scelta in nome del senso dell’anima, che alimenta
la speranza e la forza degli affetti. In questa composizione, Leopardi sottolinea
anche l’amicizia come possibile ragione del vivere.

“L’INFINITO”, pag 309:


Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
CONTENUTO: è uno degli idilli, composto nel 1819, essendo un idillio presenta un
veduta naturale ma tale nell’opera si trasforma in una visione. Il paesaggio è
essenziale: solo una siepe e un colle, i quali fanno da limiti alla vista e non
permettono al poeta di vedere cosa c’è dietro facendo così scaturire
l’immaginazione di Leopardi. Lui si immagina “interminati spazi di là da quella,
sovrumani silenzi e profondissima quiete”. Allo stesso tempo però, sente anche il
rumore del vento sul colle e compara questo rumore al profondissimo silenzio
precedentemente citato e così gli arrivano alla mente pensieri relativi alle stagioni
passate e quella presente e i suoi suoni. Il componimento si conclude con il
pensiero di Leopardi che annega dolcemente in questa immensità. Il
componimento si può dividere in due parti: una parte visiva e una astratta, quindi
si può dire che avviene un'astrazione mentale a partire da una percezione
sensibile. La percezione dell’oggetto sensibile attiva l’astrazione che porta il
soggetto all’infinito e quindi anche al piacere.
LESSICO: una delle parole più usate in questo componimento è il pronome questo
o quello, per indicare la vicinanza o la lontananza di determinati elementi. Già nel
primo verso, Leopardi usa questo per indicare il colle, a lui vicino, così come la
siepe, nel secondo verso. Il pronome quello viene invece usato per indicare elementi
lontani da lui come il silenzio nel nono verso o lo spazio al quinto. Però tutto ciò
cambia nel penultimo verso, dove usa questa riferito all’immensità, quindi Leopardi
è come se alla fine portasse vicino a sè l’infinito e l’immensità dietro alla siepe. Oltre
a ciò è importante sottolineare l’utilizzo di quelle che lui definisce “parole
poeticissime”, cioè quelle riferite alla lontananza, all’antico e soprattutto
all’indefinito. Una parola chiave si trova nell’ultimo verso: “naufragar”, essa è usata
con un significato positivo e quindi è in contrapposizione con il naufragio di Ulisse
raccontato nel “Odissea” perché tale era causato da un desiderio di gloria, mentre
per Leopardi questo naufragio è più simile a una sospensione del vivere. Tale
concetto verrà ripreso da Ungaretti, che nomina la sua prima raccolta di poesie
“Allegria di naufragio”.
METRO: il componimento è composto di 15 versi, quindi non può essere
considerato un sonetto, anche se la struttura è abbastanza simile. La forma del
sonetto viene forzata anche tramite l’assenza della divisione in terzine e quartine,
cosa che sarebbe impossibile dati i numerosissimi enjambement. Però tale figura
retorica non viene usata nel verso 14, che si conclude con una pausa forte, i due
punti, che sembrano chiudere il discorso, ma allo stesso tempo lo riapre creando
un’attesa che sarà soddisfatta solo nell’ultimo verso. Esso viene aperto con la
congiunzione e, e presenta un’immagine estremamente innovativa. In questa scelta
si dimostra anche come Leopardi sia legato alla tradizione, ma allo stesso tempo
sia un innovatore (evidente anche nell’utilizzo dell’aggettivo “molle” ne “Ultimo canto
di Saffo”). I versi utilizzati sono endecasillabi ma sciolti, cioè senza uno schema
delle rime definito. Nonostante ciò l’opera ha moltissima musicalità, che non viene
donata dalle rima ma da procedimenti fonici ritmici interni al verso, come l’utilizzo
di enjambement, assonanze, ripetizioni, pause, nessi fonici, polisillabismo e una
varietà degli schemi accentuativi. Quest’ultimo elemento si basa sull’utilizzo sia di
endecasillabi a maiore che a minore (i primi hanno la pausa dopo la sesta o la
settima sillaba quindi la prima parte del verso risulta essere più lunga della
seconda. Negli endecasillabi a minore la pausa si trova tra la quinta e la sesta
sillaba, quindi la prima parte del verso è più corta della seconda.) Un altro
elemento fondamentale è l’utilizzo di enjambement, che sono presenti quasi in tutti
versi, se non per i versi 11 e 14. Sono anche presenti nessi fonici, che si ottengono
accostando consonanti in questo caso per ottenere un suono dolce, come NP o NT
(tanta parte, orizzonte, sedendo e mirando, profondissima, comparando, infinito,
immensità, pensier…). Il polisillabismo, invece, consiste nell’utilizzo di parole di tante
sillabe, come interminati, profondissima, comparando…. Tali parole riescono a
trasmettere un senso di immensità, come disse il critico Blasucci: “l’idea di
immensità sembra prendere corpo fonicamente”. La musicalità è anche donata
dall’accostamento di vocali aperte (A) e chiuse (O/U) in posizione tonica, cioè dove
c’è l’accento. Un altro elemento può essere l’aggettivazione, tali sono spesso in
negativo (interminati, infinito, sovrumani, ultimo orizzonte…) e danno un senso di
dolcezza, così come l’utilizzo del superlativo, del plurale e dei deittici.
SINTASSI: nel primo e nel quarto periodo si ha paratassi (quindi le frasi sono legate
per congiunzioni semplici/punteggiatura e le frasi sono sullo stesso livello) mentre
gli altri due presentano ipotassi (proposizioni più lunghe, frasi di importanza
diversa collegate con congiunzioni composte).
COMMENTO: questo componimento si configura come un viaggio dell’io
nell’infinito, che costituisce il piacere. Tale infinito viene prodotto
dall’immaginazione dell'individuo quindi viene vissuto a livello psicologico e non
scientifico, Leopardi non crede nell’esistenza fisica dell’infinito, infatti nello
Zibaldone lo definisce “illusione ottica”. Proprio per questo motivo l'infinito
costituisce l’unica risorsa di piacere infinito per l’uomo: tale però è raggiungibile
solo in determinate condizioni, che vengono delineate nei primi versi. Il paesaggio
presenta pochi elementi, ma essi sono fondamentali per fare da barriera alla vista
del poeta e per indurlo a immaginare l’io dietro tale siepe. Così il poeta si immagina
luoghi indefiniti e illimitati ma allo stesso tempo essi sono descritti così bene da
causare sensazioni precise. Lungo tutto il componimento si ha una
contrapposizione tra quello che c’è al di qua della siepe e quello al di là: ciò è
anche evidente per l’alternanza dei pronomi quello e questo. Il viaggio termina con
il naufragio dell’io e del pensiero, ma tale è positivo perchè è cercato dal soggetto
come abbandono momentaneo del pensiero razionale. Un altro elemento chiave
del componimento è la centralità del soggetto, e ciò è evidente nel continuo utilizzo
di io, mi, mio o particelle con simile significato. L’io è anche concepito come
elemento che lega le due parti del componimento: il primo in cui si ha
un’elaborazione di un ricordo affettivo che fa scaturire l’immagine di un infinito
spaziale, mentre il secondo in cui una sensazione uditiva causa l’immagine
dell'infinito temporale. Nei due versi risulta anche essere centrale la funzione del
soggetto e la sua disposizione affettiva, evidente in “...caro mi fu…” e “...m’è dolce…”.

“LA SERA DEL DÌ DI FESTA”, pag 313:


PARAFRASI: la notte è dolce, chiara e senza vento e sopra ai tetti e tra i giardini si
trova la Luna, che con la sua luce illumina le montagne lontane. O mia donna, tutte
le strade tacciono e sui balconi trapela la luce delle lampade accese nelle case: tu
dormi, dato che un sonno facile ti prese nelle tue stanze silenziose e nessuna
preoccupazione ti tormenta e di certo non sai né pensi quale grande ferita d’amore
mi hai inferto. Tu dormi: io mi affaccio a salutare questo cielo, che appare benigno,
la natura onnipotente che mi causò dolore. Essa mi disse: a te nego anche la
speranza, e gli occhi di brilleranno solo a causa del pianto. Questa è stata una
giornata di festa, e tu riposi e forse ripensi in sogno a quanti sei piaciuta e quanti
sono piaciuti a te: sicuramente non pensi a me, e non mi illudo di ciò. Intanto io mi
chiedo quanto mi resti da vivere e in questa situazione mi butto per terra, piango e
fremo. Oh che brutte giornate in così giovane età! Per la strada sento il canto
solitario di un artigiano che sta tornando alla sua dimora a tarda notte dopo gli
svaghi della domenica. Dolorosamente mi si stringe il cuore al pensiero di come
tutto passa e quasi non lascia traccia della sua presenza. Adesso è finito il giorno
di festa, e il giorno seguente se ne porterà via gli eventi. Ora dove si trova il rumore
di quei popoli antichi? E la fama dei nostri grandi antenati, del grande impero
romano? Di quella Roma di cui l’armi e il fragore si diffuse per terra e per mare?.
Tutto è in pace, il silenzio, e tocca ciò che tocca il mondo non verrà più ricordato.
Nella mia infanzia, aspettavo bramosamente il giorno festivo e quando era finito io
rimanevo sveglio, in preda alla sofferenza, e in mezzo alla notte si sentiva un canto
che piano piano si estingueva. Allo stesso modo oggi mi si stringe al cuore a quel
canto.
COMMENTO: in questo idillio è particolarmente evidente la poetica delle
rimembranze, che gli consente di passare dal ricordo di un canto che ha sentito da
bambino ad alcune riflessioni riguardo al tempo. Le riflessioni vengono scaturite
dall’udire un canto simile la sera di una domenica nella notte. Questo concetto
spiega come il componimento abbia un’apparente separazione tematica. Quindi lui
sentendo il canto dell’artigiano ricorda il suo dolore del presente, quello della sua
infanzia ma anche il dolore collettivo riguardo alla dimenticanza degli eventi
passati. Quindi lui riesce a passare da una situazione individuale, il suo dolore, a
una collettiva: per questo si può dire che c’è un parallelismo tra dimensione storica
e dimensione individuale. Tutto il testo è attraversato dai ricordi e da cambiamenti
temporali, ma esso si può dividere in sequenze tematiche: l'inizio è dato dalla
descrizione della sera in cui è evidente il rapporto tra l’io lirico e i luoghi familiari.
Successivamente si passa al pensiero della donna amata, e poi alla natura che l’ha
creato solo per farlo soffrire. A questo punto scatta il ricordo della giornata
appena vissuta, che riporta la mente di Leopardi alla donna amata, essa viene
seguita da un evento acustico, cioè il canto dell’artigiano, che riporta l’io lirico al
presente e lo spinge a riflettere sulla caducità della cose e sull’oblio. Dal silenzio dei
secoli si passa ancora al presente e infine tornano i ricordi dell’infanzia, derivanti
soprattutto dal canto dell’artigiano.
Oltre alla poetica del ricordo, è anche molto evidente quella del vago e
dell’indefinito, soprattutto nel lessico che usa e nel campo semantico che sceglie.
Oltre a ciò, c’è anche un inizio della fase del pessimismo cosmico con la concezione
della natura come matrigna. Questo è evidente nel verso 11, quando afferma che il
cielo appare benigno, ma soprattutto nei versi 13 e 14 quando scrive: “e la natura
onnipossente, che mi fece all'affanno” affermando che la natura lo creò per farlo
soffrire.

“A SILVIA”, pag 322:


PARAFRASI: Silvia ricordi ancora quel tempo della tua vita terrena quando la
bellezza splendeva nei tuoi occhi sorridenti e timidi, e tu ignora del destino ma
anche parzialmente consapevole di esso stavi superando la gioventù?
Risuonavano nelle stanze silenziose, e nelle vie intorno, il tuo ininterrotto canto
mentre eri occupata da lavori femminili e pensavi al tuo futuro. Era maggio,
profumato dallo sbocciare dei fiori, e tu occupavi così le tue giornate. Io, invece, mi
dedicavo agli studi gradite e alle carte impegnative, dove passavo la maggior parte
del mio tempo, e ogni tanto li lasciavo per sentire la tua voce e il suono della tua
mano abile che tesseva dal balconi della mia casa paterna. Miravo il cielo sereno, le
strade dorate dalla luce del sole, i giardini e da una parte vedevo la montagna
mentre dall’altra il mare. Le parole umane non possono esprimere quello che
provavo dentro.
Che pensieri soavi, che speranze e che sentimenti, o Silvia! Come ci appariva la vita
umana e il fato nella nostra gioventù! Quando mi viene in mente di tale speranza
che nutrivo, un sentimento mi opprime e ricomincio a dolermi per la mia sventura.
O natura, o natura, perchè non dai ciò che hai promesso in gioventù? Perché
inganni i tuoi figli?
Tu, prima che il freddo seccasse la vegetazione, combattesti e fosti sconfitta da una
malattia, quindi stavi morendo. Non hai mai visto il fiore della tua giovinezza
sbocciare nell’età adulta, non ti addolciva il cuore i complimenti delle persone o gli
sguardi innamorati e timidi, né potrai parlare con le tue compagne nei giorni di
festa.
Tra poco morirà anche la mia speranza: a me il fato negò la giovinezza. Come sei
svanita, cara compagna della mia giovinezza, mia compianta speranza! E questo il
mondo che avevamo immaginato nella nostra giovinezza? Sono questi i sentimenti,
l’amore, le opere e gli eventi di cui tanto parlammo in gioventù? All’apparizione del
vero, tu moristi e con la mano fredda indicavi una tomba nuda e spoglia.

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