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MANLIO pASTOrE STOCChI
Cento canti
IL LUME D’ESTA STELLA
per cento anni
rICErChE DANTESChE
I. INFERNO
1. canti i-xviI
A cura di
Enrico Malato e Andrea Mazzucchi
1. « I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle
letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lascia-
to nella cultura o nelle culture che hanno attraversato ».1 Questa riflessione di
Italo Calvino è un ottimo viatico per il nostro esercizio. Ricorda infatti che
nessuna lettura di un autore canonico può essere davvero incondizionata, pri-
va di giudizi precostituiti, tanto piú, com’è il caso della Commedia, quando il
relativo corredo esegetico si è accumulato nel corso di quasi settecento anni.
Eppure la frase di Calvino, invece di dissuadere dall’impresa, stimola a riper-
correre il canto assegnatomi nel tentativo (illusorio, forse) non tanto di illumi-
nare sensi nascosti sinora sfuggiti (su Dante – credo – si è già scritto tutto),
quanto di porre in rilievo elementi che la competenza e la sensibilità di ciascun
lettore riescono a ricavare da un testo miracoloso, perché inesauribile e mai
logoro.
L’entità “canto”, forzatamente enfatizzata in ogni lectura Dantis, non deve far
dimenticare l’intero edificio dantesco dal quale viene estratta: il canto è, per
cosí dire, la puntata di un unico ed esteso racconto, soggetto alla necessità nar-
rativa (non dimentichiamo mai che la Commedia, anche nelle zone piú dottri-
narie, sta raccontando una storia) ma anche consapevole delle capacità di te-
nuta sia dell’autore sia del lettore/ascoltatore. La formidabile coesione del-
l’intera architettura dantesca comporta una serie costante di segnali e di richia-
mi – ora espliciti ora impliciti – che si inseguono a tutti i livelli del libro e
gettano ponti verso l’intera produzione dell’autore. Dovremo perciò dare
qualche sguardo sia all’indietro, nei primi tre canti, sia in avanti; né manche-
ranno escursioni anche al di fuori del poema. La potente riflessione che Dan-
te compie sulla tradizione culturale che lo precede (poetica, biblica, teologica,
filosofica) si sviluppa infatti su tutto l’arco dell’opera che, pur essendo stata
realizzata nel corso di circa un ventennio, ha una sostanziale compattezza
(minime sono le sbavature) e prevede collegamenti nelle due direzioni, attra-
* Lectura tenuta alla Casa di Dante in Roma domenica 13 dicembre 2009. Il testo è stato rivisto
in base ai criteri del presente volume.
1. I. Calvino, Perché leggere i classici (1981), in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano,
Mondadori, 1995, pp. 1818-19.
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2. L’espressione è ricavata da G. Contini, Un nodo della cultura medievale; la serie ‘Roman de la Ro-
se’-‘Fiore’-‘Divina Commedia’, in Id., Un’idea, p. 280.
3. Vd. L. Blasucci, Sul canto come unità testuale, in Leggere Dante, a cura di L. Battaglia Ricci,
Ravenna, Longo, 2003, pp. 25-38, alle pp. 29-30.
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4. Si avverte che le citazioni dai commenti antichi sono ricavate dai testi critici presenti nel
DDP.
5. Per una fitta rassegna delle piú diverse posizioni critiche su questo canto vd. F. Mazzoni,
Saggio di un nuovo commento alla ‘Commedia’. Il canto iv dell’ ‘Inferno’, in SD, vol. xlii 1965, pp. 29-206.
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buio carico di nebbia che lascia però percepire la voragine (vv. 10-12). Insiste
poi sul motivo delle tenebre l’esortazione virgiliana a iniziare la discesa nel
« cieco mondo » (v. 12), ossia quell’enorme penitenziario (si pensi alla variazio-
ne « cieco / carcere » di Inf., x 58-59) abitato da demoni e da dannati, chiuso
nelle viscere della terra e privo della luce di Dio. Solo un leggero chiarore,
narrativamente indispensabile allo svolgimento del racconto, permette a Dan-
te personaggio di vedere quanto basta (aveva già precisato, a iii 75: « com’i’ di-
scerno per lo fioco lume »). L’insistenza sulla tenebra infernale ha lo scopo di
preparare il contrasto tra l’intero « cieco mondo » e l’isolata luminosità della
zona che sarà presentata dal v. 67 e che rischiarerà gli eventi del canto fin qua-
si all’ultimo verso.
Grazie al vago lume Dante vede il pallore sul volto di Virgilio, ricavandone
un ulteriore dubbio che manifesta al maestro: « Come verrò, se tu paventi /
che suoli al mio dubbiare esser conforto? » (vv. 17-18). Virgilio spiega il proprio
impallidire come effetto non di paura (« tema », v. 21) bensí di un coinvolgi-
mento emotivo (« pietà ») per la sofferenza « delle genti / che son qua giú »,
ossia quelle che condividono col poeta latino la collocazione nel primo cer-
chio, e non, come vogliono altri interpreti, tutti i dannati che popolano l’infer-
no. Infatti è particolarmente vivo nel Virgilio personaggio costruito da Dante
il turbamento per la propria condizione di escluso dalla salvezza senza colpa
attuale, come risulterà chiaro entro poche terzine, da integrare con le sue pa-
role di Purg., iii 37-45 e vii 25-36, e col dialogo con Stazio (Purg., xx-xxi), il poe-
ta criptocristiano salvato: tre momenti che richiameranno proprio la situazio-
ne descritta fra breve. Inoltre Virgilio avrà presto modo di manifestare con
gesti e con parole la durezza contro Filippo Argenti, ricacciato nella « broda »
della palude Stigia (« Allor distese al legno ambo le mani; / per che ’l maestro
accorto lo sospinse, / dicendo: “Via costà con li altri cani!” », Inf., viii 40-42),
sostenendone poi l’opportunità (Inf., xx 27-30).
I primi 22 versi introducono dunque i due grandi temi che, intrecciati e
trasformati in materia narrativa, dominano nell’inventio del canto: il rapporto
con l’intera tradizione culturale pagana (problema secolare affrontato dai
maggiori intellettuali cristiani) e la questione teologica della sorte ultraterrena
degli infedeli (trattata dai Padri della Chiesa).
2. La prima percezione ricevuta, una volta che Dante e Virgilio sono entra-
ti nel « primo cerchio », è, come all’inizio del canto, sonora: essa precisa e in-
sieme marca la differenza rispetto ai « sospiri, pianti e alti guai » (iii 22) che ri-
suonavano nel vestibolo (iv 25-27):
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Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;
(‘In base all’udito, il solo suono lamentoso percepito era quello di sospiri che
facevano vibrare l’atmosfera dell’eterno regno infernale’). I sospiri vibranti
sono gli unici effetti del lamento emesso dalle « turbe [. . .] molte e grandi, /
d’infanti e di femmine e di viri » (vv. 29-30). Un suono attutito, dunque, in
contrasto con la cacofonia dell’antinferno, e che forse Dante indugia ad ascol-
tare, visto che Virgilio constata in forma interrogativa la mancata richiesta di
chiarimento da parte del suo protetto (vv. 31-33):
Lo buon maestro a me: « Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi [. . .].6
La spiegazione virgiliana (vv. 33-42) contiene uno scarto emotivo dopo l’enun-
ciazione del fatto che la moltitudine d’anime di bambini, donne e uomini so-
spiranti non ha compiuto alcun peccato individuale; i loro eventuali meriti
non son bastati a salvarli, non avendo essi ricevuto il battesimo, sacramento
che segna l’ingresso ufficiale nella fede cristiana; nel caso poi fossero vissuti
prima dell’avvento del cristianesimo, non manifestarono in modo dovuto la
loro fede in Cristo venturo (« non adorar debitamente a Dio », v. 38), come in-
vece fecero i patriarchi e il popolo ebraico secondo la testimonianza dell’An-
tico Testamento. Al v. 39 arriva la rivelazione che anche Virgilio appartiene a
questo gruppo di spiriti: « e di questi cotai son io medesmo ».
Sottolineo il colpo di scena, l’impatto della rivelazione virgiliana e l’effetto
di sorpresa previsto, che noi perdiamo perché di solito lo sappiamo già (come
accade in molti altri passi di libri tanto frequentati). Se però ci mettiamo nei
panni di un ipotetico lettore vergine, possiamo meglio apprezzare l’abilità
dantesca nel dosaggio delle informazioni e nella scelta del momento in cui
darle. Nei tre canti precedenti il personaggio di Virgilio assume via via i ruoli
di duca, signore e maestro, sedando le paure di Dante, mostrandosi solido,
senza cedimenti. Qui, coi segni vistosi di una profonda sofferenza interiore,
prima spiega la situazione delle anime usando la terza persona plurale (vv. 33-
38):
6. L’edizione Petrocchi pone un punto di domanda alla fine del v. 32, ma la situazione può
giustificare anche il punto fermo: con tale punteggiatura, anziché domandare spazientito la causa
dell’inerzia dantesca con palese intento provocatorio, Virgilio constaterebbe il silenzio di Dante.
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« Or vo’ che sappi, innanzi che piú andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;
e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio [. . .] »,
3. Tali spiriti sono sottratti alla pena sensibile (la “pena sensus”, secondo il
linguaggio teologico, applicata invece agli altri dannati) ma subiscono una pe-
na del danno (“pena damni”) che li priva della visione di Dio. Si tratta, a ben
riflettere, di un castigo terribile, perché congela queste anime in una situazio-
ne di stallo senza uscita, le priva di soddisfare la sete naturale di conoscenza
(« Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere », Conv., i 1) che si appaga
pienamente solo nella contemplazione di Dio. E tanto piú forte sarà il peso del
castigo se applicato, come Dante intuisce subito e come si scoprirà fra poco, ai
maggiori poeti classici e ai maggiori filosofi, ossia agli intellettuali che hanno
posto al centro della loro esistenza l’attività conoscitiva, e che nella collocazio-
ne oltremondana scoprono di aver fallito clamorosamente. È una sconfitta che
Virgilio avverte con dolore anche altrove, ricordando proprio questo confino
forzato nel limbo.7
L’assenza di un vero e proprio peccato commesso in vita si traduce nel mo-
7. « “State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era
parturir Maria; / e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmen-
te è dato lor per lutto: / io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’altri”; e qui chinò la fronte, / e piú
non disse, e rimase turbato » (Purg., iii 37-45); « Non per far, ma per non fare ho perduto / a veder
l’alto Sol che tu disiri / e che fu tardi per me conosciuto. / Luogo è là giú non tristo di martíri, /
ma di tenebre solo, ove i lamenti / non suonan come guai, ma son sospiri. / Quivi sto io coi par-
goli innocenti / dai denti morsi de la morte avante / che fosser da l’umana colpa essenti; / quivi
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dulo retorico della negazione, col martellante ribattere dei non (cinque in die-
ci versi, vv. 33-42), che sancisce la lucida presa di coscienza virgiliana di una
condizione eternamente bloccata, che relega i limbicoli in una zona sí franca
ma pur sempre dentro l’inferno, e li pone in uno stato di perenne frustrazione
del desiderio di conoscere Dio: « [. . .] ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi /
non basta, perché non ebber battesmo » (vv. 34-35), « non adorar debitamente a
Dio » (v. 38), « per tai difetti, non per altro rio » (v. 40). La formulazione per via
negativa della colpa punita con il confino nel limbo manifesta lo sbigottito
smarrimento di chi non si capacita di aver commesso un errore, pur patendone
le conseguenze, e ricomparirà per l’appunto, come un ritornello ossessivo,
nella ricapitolazione dello stato proprio e degli altri limbicoli che Virgilio fa a
Sordello nella seconda cantica.8
4. Il crescendo della rivelazione dei vv. 33-42 provoca il « gran duol » (v. 43)
di Dante, perché egli comprende che persone di grande valore stavano nella
condizione sospesa di quell’orlo, di quel lembo d’inferno; e solo ora il lettore
realizza il significato della frase di Virgilio « Io era tra color che son sospesi »
(Inf., ii 52), piuttosto misteriosa al suo apparire. Interessa notare che Dante usa
il termine limbo come nome comune (altra occorrenza a Purg., xxii 14: « nel
limbo de lo ’nferno »), pur sapendo di ricorrere a un termine che ha il signifi-
cato tecnico assegnatogli dalla teologia scolastica, quasi per sottolineare la col-
locazione topografica, fisica del luogo. Secondo le elaborazioni di san Tomma-
so e di Alberto Magno, il lembo dell’inferno accoglie i bambini morti nel
peccato originale (limbus puerorum) ed è stato anche, in via provvisoria, prima
della morte di Cristo, la sede dei patriarchi biblici (limbus patrum).
L’assenza di definizioni dogmatiche di tale luogo lascia aperto a Dante il
varco per accogliere il fondamento dottrinario tomistico dell’area marginale
dell’inferno e insieme, per rielaborarlo con libertà che definiremmo creativa a
fini poetici, sfiorando anche il problema della salvezza degli infedeli senza
colpa che sarà sviluppato e sciolto nel Paradiso (xix 25-114). La piú vistosa licen-
za concerne la presenza nel limbo delle anime di coloro che, pur possedendo
e praticando le virtú cardinali, che danno « mercedi » (‘meriti’, v. 33), non rice-
vettero il battesimo, ossia l’estensione agli adulti della condizione che Bona-
ventura assegna ai bambini. Le scelte che fa Dante sono certo singolari, al
sto io con quei che le tre sante / virtú non si vestiro, e sanza vizio / conobber l’altre e seguir tutte
quante » (Purg., vii 25-36).
8. « Io son Virgilio; e per null’altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé » (Purg., vii 7-8 e 25-36,
citati nella nota precedente).
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5. Il narratore Dante non intende però attardarsi sul limbus puerorum, allarga-
to, come si è ricordato, agli adulti dei due sessi, riservandogli pochi versi co-
struiti a partire da un altro passo virgiliano (iv 28-30):
ciò avvenia di duol sanza martíri,
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.
La terzina riecheggia Aen., vi 305-7: « Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat,
/ matres atque viri [. . .] / [. . .] pueri innuptaeque puellae » (‘Là tutta una folla
riversata sulle rive accorreva: le madri, ma anche i loro mariti [. . .] i fanciulli e
le fanciulle mai maritate’, traduzione di Carlo Carena), dove accanto alla ripre-
sa letterale di turba, che diventa un plurale, si assiste all’associazione di matres
con le innupate puellae che si fondono nelle indistinte « femmine ».10 Dante
neppure indugia sul limbus patrum: quest’ultimo viene presentato nel giro di
quattro terzine (vv. 52-63), quando Virgilio risponde a Dante circa l’uscita dal
limbo di anime che per merito proprio o di altri sarebbero poi state salvate,
una domanda formulata per consolidare la fede, ossia richiedendo i particolari
dell’evento capaci di fornire maggiori dettagli sulla discesa di Cristo risorto al
limbo proclamata nel Credo sulla base della definizione dogmatica di due Con-
cili (vv. 46-50):
« Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore »,
comincia’ io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
« uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato? ».
In piena consonanza con l’intento occulto del suo protetto, Virgilio chiarisce
10. Quest’ultima osservazione si deve, come moltissime altre relative alle traduzioni-rifaci-
menti danteschi, alla fine sensibilità di M. Chiamenti, Dante Alighieri traduttore, Firenze, Le Lette-
re, 1995, p. 180. La traduzione di Carlo Carena è tratta da Virgilio, Opere, a cura di C. Carena,
Torino, Utet, 1971.
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che le anime estratte da quel luogo (« trasseci », ‘portò fuori da qui’, v. 55) poco
dopo il suo insediamento nel limbo, sono state le prime a essere salvate (vv.
62-63), e sono quelle dei patriarchi ebrei, nati prima della venuta di Cristo, ma
che sono vissuti nell’attesa di questo evento (vv. 52-54):
[. . .] « Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria, coronato ».
11. Altri interpreti intendono invece che il possente è incoronato dall’aureola crocifera presen-
te in molte raffigurazioni.
12. J.L. Borges, Il nobile castello del canto quarto, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano,
Mondadori, vol. ii 1985, p. 1271.
13. U. Eco, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009.
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attraverso canali indiretti, come, per esempio, le immagini dei cicli pittorici.
La compresenza di figure appartenenti a epoche diverse – qui giustificata an-
che dalla situazione specifica dell’oltremondo – è un “anacronismo” usuale in
molti testi del Medioevo, che, oltre a radunare figure ed eroi di varie epoche,
li ritrae con abbigliamento contemporaneo, adottando un uso elastico del cri-
terio cronologico, come si constata anche negli elenchi danteschi. Le figure
dei viri illustres e delle clarae mulieres, da storiche che erano, o che erano credute,
diventano quasi simboliche.
Il catalogo biblico cita Adamo, il « primo parente » (v. 55), il progenitore
dell’umanità intera, Abele il suo secondogenito, Noè – che ebbe il privilegio
di scampare coi figli dal diluvio universale –, Mosè « legista e ubidiente » (v.
57), che trascrisse sulle tavole la legge divina ed eseguí l’ordine ricevuto da Dio
di salvare il popolo ebraico dalla schiavitú d’Egitto; il patriarca Abramo, il re
Davide, Giacobbe (« Israèl », v. 59) con il padre Isacco e i suoi figli avuti dalla
seconda moglie Rachele, « per cui tanto fé » (v. 60), per ottenere la quale Gia-
cobbe si piegò a servire per quattordici anni il padre di lei, Làbano. Attraverso
la menzione diretta di sette personaggi e l’indicazione implicita di altri tre (due
singoli e un gruppo di famiglia) vengono rappresentate le prime cinque età
della storia umana secondo una partizione diffusa nella tradizione enciclope-
dica e spesso raffigurata nei gruppi di statue che ornavano i portali di molte
cattedrali. L’ultima delle tre terzine dedicate alle grandi figure dell’Antico Te-
stamento che Cristo risorto ha recuperato dal loro temporaneo soggiorno nel
limbo per condurle al cielo si chiude con l’informazione che esse furono le
prime anime salvate (vv. 62-63).
14. P. Brieger-M. Meiss-Ch.S. Singleton, Illuminated Manuscripts of the ‘Divine Comedy’, Prin-
ceton, Princeton Univ. Press, 1969, vol. ii tav. 69, con le lingue di fiamme (Egerton 943, f. 9r; Laur.
40.1, f. 12v) e il fuoco di segnalazione sul castello (Holkham Hall, 514, p. 6; Roma, Biblioteca An-
gelica 1102, f. 3v).
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te riceve il piú alto attestato d’onore dai poeti classici con l’inclusione nella
loro schiera) e 133 (i filosofi onorano Aristotele).
Che il commento di Tommaso fornisca a Dante spunti per costruire le figu-
re delle « quattro grand’ombre » che « sembianza avean né trista né lieta » (vv.
83-84) pare confermato da quanto il teologo esegeta scrive a proposito dell’at-
teggiamento fisico del magnanimo: « motus magnanimi videtur esse gravis, et
vox videtur esse gravis, et locutio esse stabilis et tarda » (in Eth., iv 1).17 Del resto
l’impassibilità e la solennità dei gesti appartengono alla lunga tradizione che
tratteggia la prossemica del saggio; qui però il distacco dissimulerà anche la
sofferenza interiore del desiderio inappagato della visione di Dio. Contraddi-
ce la solennità gestuale dei quattro poeti la pur suggestiva miniatura di Chan-
tilly, dove tutti pieni di entusiasmo corrono incontro a Virgilio, staccati in ve-
locità da Omero.18
7. I vv. 86-93 sono riservati al secondo elenco del canto, pronunciato da Vir-
gilio, che presenta i suoi colleghi: è un canone di autori classici che Dante or-
ganizza secondo criteri stilistici diffusi nella cultura mediolatina a partire dalla
seconda metà del secolo X. Gli autori rappresentati sono figura di un livello
stilistico, come dichiarano anche certe specificazioni del testo:
« Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sí come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano ».
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19. Altri preferiscono collegare Ovidio a opere di altra natura (Heroides o altri testi di contenuto
amoroso) per allargare lo spettro stilistico del catalogo dantesco, altrimenti limitato agli stili alto e
medio.
20. Cfr. Inf., xx 112-14 (parla Virgilio): « Euripilo ebbe nome, e cosí ’l canta / l’alta mia tragedía
in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta ».
21. La sostituzione di Dante a Terenzio è sostenuta da G.C. Alessio-C. Villa, Per ‘Inferno’, i
67-68 (1984), riedito in Dante e la ‘bella scola’ della poesia. Autorità e sfida poetica, a cura di A.A. Iannuc-
ci, Ravenna, Longo, 1993, pp. 41-64.
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8. I cinque poeti, dopo aver parlato fra di loro, rivolgono a Dante un cenno
di saluto, che provoca il sorriso compiaciuto di Virgilio (che Dante chiama qui
« [i]l mio maestro » (v. 99) per richiamare la propria discepolanza poetica); e gli
conferiscono un ulteriore segno di onore accogliendolo nel loro gruppo, « sí
ch’io fui sesto tra cotanto senno » (v. 102). La scena ha un valore simbolico
evidente: è la legittimazione della missione poetica dantesca da parte di un
ideale parnaso, come scrive Ernst Robert Curtius in apertura del secondo ca-
pitolo del suo fondamentale Letteratura europea e Medio Evo latino.24 Dante si
proclama sesto di una « schiera », termine che implica il concetto di ordine, di
organizzazione, di posizione, e su tale aspetto il canto insiste: « io sarò primo e
tu sarai secondo » (Virgilio a Dante, v. 15); le « quattro grand’ombre » (v. 83); « co-
lui [. . .] / che vien dinanzi ai tre » (vv. 86-87); « l’altro è Orazio » (v. 89); « Ovidio
è il terzo, e l’ultimo Lucano » (v. 90); « io fui sesto tra cotanto senno » (v. 102); « La
sesta compagnia in due si scema » (v. 148). Dunque Dante si pone come succes-
sore dichiarando la propria adesione alla tradizione poetica dell’antichità, ge-
sto che è stato valutato in modi opposti, come segno di modestia o come di-
chiarazione orgogliosa.25
In realtà l’incontro con i magni auctores del limbo traduce narrativamente
l’omaggio e insieme il superamento ideologico e stilistico attuato da Dante nei
confronti della tradizione classica pagana, che ora resta relegata in una zona
franca, avendo esaurito la propria funzione; Dante la assorbe e la supera, es-
sendo egli poeta e cristiano: la sua poesia – si è ricordato – ha una missione
salvifica, preclusa a tutti i predecessori. La formale modestia che obbliga Dan-
te a dichiararsi sesto è sostanzialmente contraddetta dall’effettiva autoincoro-
nazione poetica, con l’effettiva estensione a se stesso di un termine, poeta ap-
punto, che era riservato ai poeti latini e non ai rimatori in volgare.26 La transla-
tio, il trapianto fertile – concetto fondamentale per il Medioevo – e la renovatio
sono realizzate da Dante nella nuova letteratura in volgare attraverso un’ap-
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27. C. Villa, Il canone poetico mediolatino (e le strutture di Dante, ‘Inf.’, iv, e ‘Purg.’, xxii) (2000), e ‘Co-
moedia: laus in Canticis dicta’. Schede per Dante: ‘Paradiso’, xxv 1, ‘Inferno’, xviii (2001), rivisti in Ead., La
protervia, cit., pp. 17-37 e 163-81.
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28. Gli altri poeti residenti nel limbo secondo Purg., xxii, sono Giovenale, Terenzio, Cecilio,
Plauto, Varro, Persio, Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone e altri greci; ma non di tutti l’iden-
tificazione è certa.
29. Sfrutterà l’ambiguità dell’ultima posizione assegnata a se stesso anche Petrarca nella can-
zone R.v.f., 70, che sigilla le cinque stanze con un verso di altri rimatori, riservando all’ultima un
proprio verso: chissà se anche per suggestione di questo canto dantesco?
30. Giovanni di Salisbury, Metalogicon, iii 4: « Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi
nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii
visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine
gigantea ».
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Non è questo il solo punto del canto in cui alcuni elementi restano imprecisa-
ti, avvolti nell’ombra: nulla vien detto su modi e tempi del passaggio dell’A-
cheronte da parte di Dante e di Virgilio né sui contenuti della confabulazione
tra i poeti classici prima di rivolgere il saluto a Dante (v. 97). I commentatori
piú zelanti si ingegnano nel coprire questi vuoti con congetture di varia plau-
sibilità, ora spassose ora assurde, come se le vicende narrate si riferissero a una
realtà autonoma, esterna al poema. Circa il contenuto del conciliabolo del v.
97 si immagina, per esempio, che Virgilio faccia una presentazione ufficiale di
Dante agli altri colleghi, come per l’ammissione in un club privato, illustran-
done la carriera poetica, la devozione verso i poeti presenti, il progetto di rin-
novamento morale del mondo, o addirittura si presume che, avendo Omero e
gli altri poeti assistito al colloquio di Beatrice con Virgilio, ricevano un raggua-
glio sul buon esito della missione. Quanto al contenuto dei discorsi fra poeti,
si oscilla fra un elogio di Dante da parte degli altri poeti, omesso per modestia,
e le discussioni su argomenti troppo elevati per essere riferiti in pubblico; chi
invece recupera quanto Virgilio dirà a Stazio in Purg., xxii 104-5 (« spesse fïate
ragioniam del monte / che sempre ha le nutrici nostre seco »), indica argo-
menti di poetica, richiamando anche dal medesimo canto l’affermazione di
Dante (vv. 127-29): « Elli givan dinanzi, ed io soletto / di retro, e ascoltava i lor
sermoni / ch’a poetar mi davano intelletto ».
Dal punto di vista narrativo questi particolari sono irrilevanti. Taglia corto
Boccaccio: « Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano d’indovinare
quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il che mi par fatica super-
flua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse, poi che l’autore il volle tacere? ».
Quel che conta non è la materia discussa ma la motivazione del silenzio, che
consiste nell’inopportunità di trasferire quella conversazione nel tessuto del
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canto, come bene coglie Francesco da Buti, che è appunto professore di reto-
rica:
Molti esquisitori domandarebbono qui: Che parlarono costoro che l’autore dice che il
tacere è bello? Ai quali si può rispondere convenientemente che parlarono della poe-
sia: imperò che dice Orazio: Quod medicorum est, promittunt medici: tractant fabrilia fabri
[Ep., ii 1 115-16]. Et è qui notabile ai poeti, et a’ componitori che non deono fare nelle
loro opere digressioni impertinenti alla materia che si dee scrivere, e però dice: che il
tacere è bello; per non incorrere in vizio, che si potrebbe chiamare nell’arte della poesia
Nimia ampliatio.
10. L’azione continua con l’arrivo dei sei poeti davanti alla prima delle sette
cinte murarie di una magnifica costruzione, un castello nobile, dunque piena-
mente adeguato a ricoverare gli spiriti dei magnanimi (vv. 106-11):
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luca carlo rossi
Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Ogni dettaglio descrittivo è stato sottoposto a esami allegorici che hanno dato
esiti di vario tipo. Vediamone una sintetica campionatura. Il castello indiche-
rebbe la scienza in senso lato, oppure la scienza filosofica, o ancora la sede
dell’umana nobiltà di natura, fondata sulle virtú naturali. Le sette cerchie di
mura dotate ciascuna di porta sarebbero ora le sette arti liberali del trivio
(grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geome-
tria, astronomia), ora le virtú morali (con varie combinazioni: quattro natura-
li, giustizia, fortezza, temperanza, prudenza, e tre divine, fede, speranza, cari-
tà; queste ultime sostituite da tre speculative: intelligenza, scienza, sapienza),
ora le sette parti della filosofia (fisica, metafisica, etica, politica, economica,
matematica, dialettica); il « bel fiumicello » che difende l’edificio, e che viene
attraversato dal gruppetto come fosse « terra dura », cioè come terreno com-
patto e non acqua, indicherebbe o le difficoltà iniziali da superare (le diletta-
zioni mondane, i beni materiali) o un abito acquisito dai sei poeti (la perseve-
ranza nell’impegno morale, la disposizione al bene operare). E via allegoriz-
zando.31
In casi come questo risulta difficile, se non fuorviante, assegnare un sovra-
senso a tutto, forzando i particolari figurativi o la lettura simbolica, che pure è
prevista, perché non si riesce a trovare un unico sistema capace di giustificare
ogni singolo elemento, e si perde, soprattutto, il significato complessivo. Inol-
tre (questo vale soprattutto per il lettore colto della Commedia, ma non è inuti-
le nemmeno per gli specialisti) non dimentichiamo l’ammonimento di Fede-
rico Zeri: in tutte le opere artistiche esistono elementi ormai incomprensibili,
« connotati che sono morti per sempre. Il passato è morto per sempre ».32
Sappiamo poi che Dante spesso sovrappone codici interpretativi in modo da
moltiplicare le chiavi di accesso al testo, lasciando convivere diverse possibilità
di lettura.
Se ci accontentiamo di cogliere il significato complessivo, constatiamo che
31. Oltre a Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla ‘Commedia’, cit., vd. D. Consoli, s.v. Castel-
lo, in ED, vol. i pp. 864-66.
32. F. Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, redazione a cura di L. Ripa di
Meana, Milano, Longanesi, 1987, p. 75.
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33. Si vedano le osservazioni di P. Meiss, in Illuminated Manuscripts, cit., vol. i pp. 121-22.
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rispetto alle sedi delle anime per poterne facilitare la vista: Museo suggerisce
a Enea e alla Sibilla di salire una collina e li accompagna e ‘i campi lucenti dal-
l’alto vien mostrando’ (« camposque nitantis / desuper ostentat », vv. 677-78);
Anchise si colloca su ‘un poggio, di dove tutte le ombre nella loro lunga teoria
potesse di fronte elencare e di quante venissero riconoscere i volti’ (« tumulum
capit, unde omnis longo ordine posset / adversos legere et venientun discere
voltus », vv. 754-55). La volontà di misurarsi direttamente col riconosciuto mae-
stro Virgilio induce Dante a concentrare soprattutto nei primi canti dell’Infer-
no le riprese fortemente riconoscibili dall’Eneide; ed è quasi obbligatorio che,
subito dopo essersi proclamato poeta mediante la nomina effettuata all’unani-
mità dalla « bella scola » della poesia, Dante confermi il riconoscimento tra-
piantando nel suo personalissimo limbo cristiano, con le indispensabili modi-
fiche, i campi elisi pagani del suo modello.
Le « genti » che occupano il prato mostrano nello sguardo, lento e solenne,
nell’aspetto che promana « autorevolezza », ossia dignità di fede e d’obbedien-
za (secondo quanto Dante scrive per giustificare la « autoritade » di Aristotele,
Conv., iv 6, soprattutto comma 5), la stessa impassibile solennità assegnata alle
quattro grand’ombre dei poeti (vv. 83-84). La terzina si modella sul contegno
dei magnanimi descritto da Tommaso nel ricordato commento all’Etica Nico-
machea: anche le loro parole rade, ma significative, e a bassa voce (v. 114), ma-
nifestano esteriormente l’atteggiamento riflessivo, secondo quanto prescrive-
va una lunga tradizione di trattatistica sull’arte loquendi et tacendi.
L’osservazione dei nuovi personaggi è condotta in posizione soprelevata
per favorire lo sguardo d’insieme, che poi si tramuta, secondo il linguaggio
cinematografico, in piani lunghi, dai quali emergono figure identificate con
espressioni divenute di repertorio, come « Cesare armato con gli occhi grifa-
gni » (v. 123), « e solo in parte vidi il Saladino » (v. 129). Accanto alla suggestione
virgiliana sopra ricordata agisce anche un criterio qualificativo: il gruppo degli
eroi che operarono per l’impero di Roma e i magnanimi dell’azione, uomini e
donne, elencati tra i vv. 121 e 129, sono figurativamente collocati piú in basso
rispetto ai filosofi speculativi e agli autori morali, come si ricava dal v. 130: « Poi
che inalzai un poco piú le ciglia, / vidi [. . .] », perché Dante rispecchia la gerar-
chia delle scienze secondo la riflessione filosofica medievale, che giudica le
scienze speculative umane superiori alle scienze pratiche (ivi compresa la po-
litica), la vita contemplativa piú rilevante della vita attiva.34
34. G.C. Alessio, Il canto iv dell’ ‘Inferno’, in Regnum celorum vïolenza pate. Dante e la salvezza dell’u-
manità, a cura di G. Cannavò, Montella, Accademia Vivarium novum, 2002, p. 48. Cfr. Conv., iv 22
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inferno · canto iv
11. La forza evocatrice dei nomi, per noi oggi attiva solo parzialmente con
alcuni dei personaggi menzionati, informa il terzo catalogo del canto, disteso
su otto terzine (vv. 121-44), di cui le prime tre riguardano 14 eroi ed eroine
della vita attiva, e le ultime cinque i 21 campioni della vita speculativa, con uno
sbilanciamento numerico che conferma la predilezione dantesca per quest’ul-
tima. Noto che i due elenchi sono costruiti su multipli del 7, il numero asse-
gnato alle cerchie murarie del nobile castello: secondo un gioco numerico di
rimbalzi che è fondamentale per la cultura medievale, e per Dante in partico-
lare. E ciò perché la costruzione artistica si informava sulla creazione piú gran-
de di tutte, quella di Dio: dice il libro della Sapienza (11 21) « omnia in mensura
et numero et pondere disposuisti ». Il numero non è tanto uno schema esterio-
re, quanto il simbolo e il segno dell’ordo cosmico.
Il primo gruppo, tenuto saldo anche dall’anafora, quasi perfetta, del verbo
vidi (vv. 121, 124, 127) si apre col nome di una donna « Eletra », la prima delle
otto selezionate: madre del fondatore di Troia, Dardano, inaugura la stirpe
dalla quale discende, tramite Enea e Lavinia, entrambi nominati, quella roma-
na, consentendo in tal modo l’esecuzione del piano divino di salvazione, se-
condo quanto abbiamo appreso a Inf., ii 13-24. Poi due guerriere, Camilla e
l’amazzone Pentesilea. Sono allineate in un solo verso quattro celebri incarna-
zioni delle piú alte virtú coniugali, mogli e madri esemplari: Lucrezia, per la
castità (ancorché suicida), Giulia e Marzia per l’obbedienza ai rispettivi coniu-
gi (Pompeo e Catone l’Uticense) e Cornelia, madre dei Gracchi. Rispetto agli
altri guerrieri solo nominati (« Ettòr ed Enea » v. 122, « [i]l re Latino » v. 125,
« quel Bruto che cacciò Tarquino », cioè il Lucio Bruto autore della cacciata di
Tarquinio il Superbo), occupano un intero verso ciascuno Giulio Cesare (v.
123) – per il cui icastico dettaglio « li occhi grifagni » non si sono recuperati
adeguati precedenti35 – e, isolato, il Saladino (v. 129), che, rompendo la serie
romana, ripropone il tema teologico della prima parte del canto, in quanto
pagano negativo magnanimo, presente nella tradizione novellistica occidenta-
le che ne fa un munifico e cavalleresco signore, attenuandone la componente
musulmana.
18: « nostra beatitudine [. . .] prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le
operazioni dele morali virtudi, e poi perfetta quasi nele operazioni de le intellettuali ».
35. Difficilmente attingibile per Dante il passo di Svetonio, De vita Caes., i (Div. Iulius) « nigris
vegetisque oculis ». A norma di Brunetto Latini, Tresor, i 148 4, lo sparviero grifagno (Grifaing)
« est uns oiseaus ke l’en prent a l’entree d’yvier, et a les oils rouges et vermaus comme feu »; pertanto
l’aggettivazione dantesca sottolinea la minacciosa rapacità di Cesare, ribadita nella perifrasi « colui
ch’a tutto ’l mondo fé paura » (Par., xi 69).
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36. G. Piaia, La “filosofica famiglia” nella poesia allegorica medievale, in « Medioevo », a. xvi 1990, pp.
86-93.
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12. La vista di questi eroi della vita intellettuale provoca ancora, nel momen-
to della scrittura del iv canto, l’esaltazione di Dante, che appunto usa il presen-
te al v. 120 (« del vedere in me stesso m’essalto »), un tempo verbale che coinci-
de con il presente di ogni nostra lettura e rilettura, rendendoci letteralmente
contemporanei all’autore, e che torna negli appelli al lettore e nelle riflessioni
metanarrative. Il tempo presente, già usato al v. 104 per spiegare l’omissione di
« cose che » adesso durante la scrittura « [i]’l tacere è bello », cosí com’era piace-
vole la viva conversazione là dove era avvenuta, irrompe per la terza volta nel
finale del canto, quando Dante, scrittore e personaggio, riprende il lucido con-
trollo della propria materia, che è appena all’inizio: « Io non posso ritrar di
38. Cade nell’ingenuità metodologica di indicare un libro dietro ogni nome di auctoritas re-
gistrato da Dante L. Gargan, Per la biblioteca di Dante, in GSLI, vol. clxxxvi 2009, pp. 161-93. La
formula abstracteur de quinte essence applicata all’arte rappresentativa di Dante è di Auerbach, Studi,
p. 129 (che la desume dal titolo definitivo assegnato da Rabelais a Gargantua, come informa la
nota 155bis della traduttrice Maria Luisa De Pieri Bonino, ivi).
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tutti a pieno, / però che sí mi caccia il lungo tema, / che molte volte al fatto il
dir vien meno » (vv. 145-47).39
Come si è già detto, Dante, che si appena proclamato poeta a tutti gli effet-
ti, sesto della schiera dei poeti esemplari, non può ovviamente derogare alle
regole delle poetrie e deve rispettare lo spazio narrativo che si è assegnato,
ossia i 151 endecasillabi, equivalenti a 50 terzine piú il verso della chiusa. In tal
senso il dir, ossia il racconto in versi, è insufficiente a contenere « il fatto », la
realtà esterna che vuole rappresentare.40 Credo che il termine tema nell’acce-
zione di ‘argomento, materia’ fornisca piena conferma del fatto che la terzina
riguardi l’autoinvestitura dantesca: infatti ritornerà esclusivamente nei due
punti nevralgici della riflessione sulla poesia della Commedia stessa, nei mo-
menti piú intensi della sua crisi, quando, sulla scorta delle riflessioni oraziane
di Ars poetica, 38-41, Dante ammette l’impossibilità di riferire l’indicibile dolce
riso di Beatrice, riproponendo un sistema di rime quasi identiche a queste
(tema : si scema : trema).41
Continuando a usare il presente nel quale è immerso insieme al lettore,
Dante ora lo applica alla narrazione del « fatto » per conferire immediatezza e
coinvolgimento e sposta di nuovo l’attenzione sul gruppo dei sei poeti, cui egli
stesso appartiene per comune consenso degli altri membri (in realtà – ricor-
diamolo – si tratta di un’autoproclamazione altamente simbolica). « La sesta
compagnia in due si scema » (v. 146), ossia la schiera dei sei poeti si divide in
due gruppi (oppure, meno bene, diminuisce di due elementi): Virgilio, che è
l’« altissimo poeta », assume di nuovo le vesti del « savio duca » (v. 149) con una
missione da compiere e sottrae il personaggio Dante all’atmosfera ovattata del
primo cerchio per ripiombarlo nelle tenebre vibranti di lamenti, dove non c’è
nulla che emetta una luce (v. 151).
39. Escludo dal conteggio il presente narrativo del v. 133: « tutti lo miran, tutti onor li fanno ».
40. Con gli stessi termini Dante invocherà l’aiuto delle muse che resero il canto poetico di
Anfione capace di erigere le mura di Tebe « sí che dal fatto il dir non sia diverso » (Inf., xxxii 12).
41. Cfr. Par., xxiii 55-69: « Se mo sonasser tutte quelle lingue / che Polimnïa con le suore fero /
del latte lor dolcissimo piú pingue, / per aiutarmi, al millesmo del vero / non si verría, cantando
il santo riso / e quanto il santo aspetto facea mero; / e cosí, figurando il paradiso, / convien saltar
lo sacrato poema, / come chi trova suo cammin riciso. / Ma chi pensasse il ponderoso tema / e
l’omero mortal che se ne carca, / nol biasmerebbe se sott’esso trema: / non è pareggio da picciola
barca / quel che fendendo va l’ardita prora, / né da nocchier ch’a sé medesmo parca », e Par., xxx
22-33: « Da questo passo vinto mi concedo / piú che già mai da punto di suo tema / soprato fosse
comico o tragedo; / ché, come sole in viso che piú trema, / cosí lo rimembrar del dolce riso / la
mente mia da me medesmo scema. / Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso / in questa vita, infino
a questa vista, / non m’è il seguire al mio cantar preciso; / ma or convien che mio seguir desista /
piú dietro a sua bellezza, poetando, / come a l’ultimo suo ciascuno artista ».
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L’ultima parola del canto (« luca », voce del verbo lucere, ‘emettere luce’, ‘ri-
splendere’) rievoca l’atmosfera luminosa del limbo dei sapienti, ma creata, te-
niamo presente, in modo artificiale, fittizio. L’intera tradizione culturale paga-
na costituisce un ponte necessario verso la nuova grande impresa totale avvia-
ta da Dante. Essa ha svolto una funzione essenziale, ma ormai esaurita, e resta
fissata in quel sole di mezzanotte, immobile. Dante ha fatto propria la sua le-
zione, e adesso procede con Virgilio, il quale tornerà in quel limbo, una volta
avvenuto il passaggio di consegne tra lui e Beatrice, che è soprattutto figura
della nuova poesia di Dante: una poesia capace – appunto – di dare letteral-
mente la beatitudine, perché conduce alla contemplazione diretta di Dio, alla
piena, unica e vera luce. Tutto il resto è definitivamente superato.
Il rapporto di Dante coi classici latini è improntato a devozione e ricono-
scenza, ma anche alla consapevolezza che essi hanno fatto il loro tempo: egli
prende volontariamente il testimone della loro tradizione ma ne sposta com-
pletamente il piano, « al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo » (Par., xxxi
37-38). In Purg., xxi, l’ombra di Stazio, altro poeta classico che nella Commedia si
salva per una misteriosa conversione al cristianesimo, tenta di abbracciare il
riconosciuto Virgilio, che lo ferma ricordandogli che « tu sè ombra e ombra
vedi » (v. 132). Stazio si scusa, adducendo l’entusiasmo che lo ha spinto a di-
menticare il loro stato attuale e a trattare « l’ombre come cosa salda » (v. 136).
Se torniamo, in conclusione, a considerare l’incontro di Dante coi poeti della
bella scola, tenendo a mente l’episodio purgatoriale, potremo anche vedere nel
congedo finale del canto la certezza che Dante ha del fatto che tutti gli altri col-
leghi, relegati nel limbo, sono solo « grand[i] ombre » (v. 83), una congrega dei
poeti estinti, che, dopo l’incontro col loro erede e liquidatore, tornano a essere
ombre del regno dei morti. Solo Dante è cosa salda.
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ne ed ‘auctoritas’ alle soglie dell’ ‘Inferno’, in Esper. dant., pp. 25-60; G. Güntert, Canto iv, in
Lect. Dant. Tur., Inf., pp. 61-74; M. Tavoni, Un nuovo strumento informatico per lo studio di
Dante (con una proposta interpretativa per ‘Inf.’, iv 69), in Dante in lettura, a cura di G. De
Matteis, Ravenna, Longo 2005, pp. 217-29; S. Carrai, Dante e l’antico. L’emulazione dei
classici nella ‘Commedia’, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2012; E. Fumagalli,
Dante e Virgilio, in Id., Il giusto Enea e il pio Rifeo. Pagine dantesche, Firenze, Olschki, 2012,
pp. 215-45.
L.C. R.
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stampato
presso le officine di bertoncello artigrafiche
in cittadella (padova)
per conto della salerno editrice
dicembre 2013