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Il Purgatorio: introduzione generale

il secondo dei tre regni dell'Oltretomba cristiano visitato da Dante nel corso del viaggio, con la guida di
Virgilio. Dante lo descrive come una montagna altissima che si erge su un'isola al centro dell'emisfero
australe totalmente invaso dalle acque, agli antipodi di Gerusalemme che si trova al centro dell'emisfero
boreale. Secondo la spiegazione di Virgilio (Inf., XXXIV, 121-126), quando Lucifero venne precipitato
dal cielo in seguito alla sua ribellione, cadde al centro della Terra dalla parte dell'emisfero australe e tutte
le terre emerse si ritirarono in quello boreale, per timore del contatto col maligno; si cre cos la voragine
infernale e la terra che la lasci and a formare la montagna del Purgatorio, che sorge in posizione
opposta all'Inferno. L'isola collegata al centro della Terra da una natural burella, una sorta di cunicolo
sotterraneo che si estende in tutto l'emisfero meridionale e dove scorre un fiumiciattolo, probabilmente lo
scarico del Lete.
Ai tempi di Dante il secondo regno era creazione recente della dottrina, essendo stato ufficialmente
definito solo nel 1274: secondo alcuni storici della Chiesa tale invenzione era dovuta al fine di lucrare
sul pagamento da parte dei fedeli delle preghiere, destinate ad attenuare le pene cui i penitenti erano
sottoposti (e in effetti Dante sottolinea a pi riprese nella Cantica che i fedeli possono abbreviare la
permanenza delle anime nel Purgatorio, ma ci indipendentemente dal denaro versato o meno alle
istituzioni ecclesiastiche).
Secondo Dante, le anime destinate al Purgatorio dopo la morte si raccolgono alla foce del Tevere e
attendono che un angelo nocchiero le raccolga su una barchetta e le porti all'isola dove sorge la montagna.
Qui arrivano su una spiaggia e sono probabilmente accolte da Catone l'Uticense che del secondo regno
il custode; quindi alcune attendono nell'Antipurgatorio un tempo che varia a seconda della categoria di
penitenti cui appartengono (contumaci, pigri a pentirsi, morti per forza, principi negligenti). L'attesa pu
protrarsi a lungo, ma non oltrepassare il Giorno del Giudizio in cui queste anime, comunque salve,
accederanno al Paradiso. Terminato il periodo di attesa, i penitenti attraversano la porta del Purgatorio che
presidiata da un angelo, quindi accedono alle sette Cornici in cui suddiviso il monte. In ogni Cornice
punito uno dei sette peccati capitali, in ordine decrescente di gravit e dunque con un criterio opposto
rispetto all'Inferno: essi sono la superbia, l'invidia, l'ira, l'accidia, l'avarizia e prodigalit, la gola, la
lussuria. All'ingresso di ogni Cornice ci sono esempi della virt opposta (il primo dei quali sempre
Maria Vergine), mentre all'uscita ci sono esempi del peccato che si sconta; gli esempi possono essere
raffigurati visivamente, dichiarati da delle voci o dai penitenti, rappresentati con delle visioni. Il
passaggio da una Cornice all'altra assicurato da delle scale, talvolta ripide e difficili da salire.
Le anime dei penitenti soffrono delle pene fisiche, analoghe per molti versi a quelle infernali e con un
contrappasso, ma con la differenza che i penitenti non sono relegati per l'eternit in una Cornice ma
procedono verso l'alto: quando un'anima ha scontato un peccato e si sente pronta a proseguire, passa alla
Cornice successiva. Dante rappresenta nelle varie Cornici i peccatori pi rappresentativi del peccato che
vi si sconta, anche se ovvio che queste anime stanno compiendo un percorso; il criterio analogo a
quello del Paradiso, in cui i beati si mostrano a Dante nel Cielo di cui hanno subto l'influsso in vita,
mentre normalmente risiedono nella candida rosa nell'Empireo. Le anime si trattengono nelle varie
Cornici un tempo che varia a seconda del peccato commesso, che in certi casi pu essere nullo (Stazio, ad
esempio, non si sottopone alle pene delle ultime due Cornici) o protrarsi per anni o secoli. In ogni caso la
pena non pu andare oltre il Giudizio Universale, dopo il quale i penitenti accedono al Paradiso.
Ovviamente le anime di personaggi particolarmente santi o meritevoli vanno direttamente in Cielo senza
passare dal Purgatorio, come afferma ad esempio l'avo Cacciaguida.
Quando l'anima di un penitente ha scontato per intero la sua pena, il monte scosso da un tremendo
terremoto e tutte le anime intonano il Gloria: a quel punto l'anima accede al Paradiso Terrestre, che si
trova in cima alla montagna dopo il fuoco dell'ultima Cornice. Qui accolta da Matelda, che
probabilmente rappresenta lo stato di purezza dell'uomo prima del peccato originale e che fa immergere il
penitente nelle acque dei due fiumi che scorrono nell'Eden: il Lete, che cancella il ricordo dei peccati
commessi in vita, e l'Euno, che rafforza il ricordo del bene compiuto. A questo punto l'anima pronta a
salire in Cielo, pura e disposta a salire a le stelle come Dante dir di se stesso.
Struttura morale del Purgatorio
Come detto, il secondo regno comprende l'Antipurgatorio e le sette Cornici in cui si scontano i peccati
capitali; eccone uno schema riassuntivo, che indica anche la pena subta dai vari penitenti:
Antipurgatorio
Ospita le anime che devono attendere un certo tempo prima di accedere alle Cornici. Si dividono in
queste categorie:
Contumaci: coloro che sono morti dopo essere stati scomunicati dalla Chiesa (attendono un tempo trenta
volte superiore a quello trascorso come ribelli alla Chiesa)
Pigri a pentirsi: coloro che si sono pentiti troppo tardivamente, per pigrizia (attendono tutto il tempo della
loro vita)
Morti per forza: coloro che sono morti violentemente e sono stati peccatori fino all'ultima ora (attendono
un tempo indefinito)
Principi negligenti: re e governanti che non hanno avuto cura della propria anima in vita (attendono in una
amena valletta, piena di fiori ed erba, per un tempo indefinito).
I Cornice (Superbi)
Camminano curvi sotto un enorme macigno, che li costringe a guardare verso il basso (mentre essi, in
vita, guardarono verso l'alto con presunzione)
II Cornice (Invidiosi)
Hanno gli occhi cuciti da del filo di ferro e non possono quindi guardare in malo modo, come fecero in
vita
III Cornice (iracondi)
Camminano in una spessa e fitta oscurit, che provoca irritazione agli occhi (simboleggia il fumo della
collera)
IV Cornice (accidiosi)
Corrono a perdifiato lungo la Cornice, contrariamente alla loro pigrizia in vita
V Cornice (avari e prodighi)
Sono stesi proni sul pavimento della Cornice, col volto a terra, proprio come in vita hanno badato solo ai
beni materiali (tra loro Dante include papa Adriano V)
VI Cornice (golosi)
Sono consumati dalla fame e dalla sete, provocate da due alberi che producono frutti invitanti e da una
fonte d'acqua; essi presentano una spaventosa magrezza
VII Cornice (lussuriosi)
Camminano in un muro di fiamme che li separa dall'Eden, e che simboleggia il fuoco della passione
amorosa che ebbero in vita (Dante include sia i peccatori secondo natura sia i sodomiti, divisi in due
schiere diverse che si rinfacciano reciprocamente il peccato)
L'ascesa di Dante nel Purgatorio
Il poeta compie l'intero percorso accompagnato da Virgilio, che non esperto di questo luogo non
essendovi mai stato prima. Prima di attraversare la porta del Purgatorio, l'angelo guardiano incide con una
spada sulla fronte di Dante sette P, che rappresentano i sette peccati capitali che dovranno essere da lui
scontati moralmente (ogni P verr cancellata all'uscita da ciascuna Cornice). L'ascesa di Dante lungo il
monte, quindi, si presenta come un percorso di purificazione morale analogo per certi aspetti alla discesa
all'Inferno, che ricorda anche (specie nei Canti iniziali) il colle del Canto I dell'Inferno che rappresentava
la felicit terrena e che il poeta non aveva potuto scalare a causa delle tre fiere. La salita faticosa e dura
assai pi della discesa all'Inferno, dal momento che la legge del secondo regno vieta di salire di notte
(secondo quanto Sordello spiega nel Canto VII, 43 ss.) e Dante deve compiere tre soste in altrettante notti
durante l'ascesa (Canti IX, XIX, XXVII, episodi nei quali il poeta fa dei sogni di significato allegorico).
Quasi alla fine del viaggio ai due poeti si unisce l'anima di Stazio, che ha scontato la sua pena nella V
Cornice e pu quindi terminare il suo percorso nel Purgatorio. Stazio fornisce a Dante alcune preziose
indicazioni circa la struttura morale del regno, quindi accompagna lui e Virgilio nell'Eden. Una volta
arrivato qui, il poeta incontra Beatrice alla fine della processione simbolica che rappresenta la vicenda
storica della Chiesa e all'apparire della donna scompare Virgilio, cosa che provoca la disperazione e il
pianto di Dante. Beatrice rimprovera aspramente Dante per i peccati che l'hanno fatto smarrire nella selva,
quindi lei e Matelda immergono Dante nelle acque dei due fiumi, operazione che permette la successiva
ascesa al Paradiso Celeste.
Lingua e stile nel Purgatorio
Rispetto alla I Cantica, il Purgatorio presenta un'atmosfera decisamente meno cupa, pi rilassata e serena
che si manifesta fin dal Canto I, all'arrivo di Dante e Virgilio sulla spiaggia nei minuti che precedono
l'alba, la mattina della domenica di Pasqua. Se lo stile dell'Inferno era spesso aspro e duro, adeguato alla
rappresentazione del regno del dolore, quello della II Cantica di tono pi leggero ed elegiaco, senza
neppure l'elevatezza tragica che sar propria del Paradiso: questo evidente gi nell'incontro con
Casella del Canto II, sulla spiaggia del Purgatorio, quando il musico che fu amico di Dante scende dalla
barca dell'angelo nocchiero e inizia col poeta una conversazione dai toni pacati e amichevoli, che sarebbe
stata impensabile nella I Cantica.
Questa leggerezza si riflette ovviamente anche nella rappresentazione dei penitenti e delle loro pene, che
per quanto plastica e fisica come quella dei dannati non presenta l'asprezza che era propria delle anime
infernali. I penitenti sono color che son contenti / nel foco, perch salvi e ben felici di sottoporsi alla
giusta punizione per i loro peccati terreni: non hanno l'animosit e l'astio che caratterizzava molti dannati,
che rivolgevano invettive o predizioni malevole a Dante, e il poeta pu avere con loro delle serene
conversazioni che spaziano sui pi vari temi (religiosi e politici, artistici e letterari). soprattutto la
riflessione intorno al fine dell'arte e della letteratura che acquista rilievo in questa Cantica, specie
nell'incontro con personaggi quali Oderisi da Gubbio, Bonagiunta da Lucca, Guido Guinizelli: Dante si
permette anche un virtuosismo linguistico alla fine del Canto XXVI, nell'incontro col trovatore
provenzale Arnaut Daniel cui fa pronunciare alcune parole in perfetto volgare occitanico (e in questo
ambito molto significativo anche l'incontro col poeta latino Stazio, che contrariamente alla realt storica
Dante presenta come cristiano grazie all'inconsapevole aiuto di Virgilio).
Una parentesi a s stante poi la rappresentazione dell'Eden, che si ricollega al mito classico dell'et
dell'oro e consente a Dante di introdurre il personaggio di Beatrice al centro della processione simbolica
delle vicende della Chiesa. questo forse il momento pi elevato e lirico dell'intera Cantica, che prelude
al passaggio del poeta nel terzo regno: anche il momento del commiato da Virgilio, che abbandona il
discepolo dopo averlo guidato attraverso tanti ostacoli e asprezze e al quale Dante rivolge un appassionato
e patetico omaggio chiamandolo dolcissimo patre (XXX, 50). il passaggio all'ultima fase del viaggio
allegorico, quella che porter Dante alle altezze sovrumane del Paradiso: qui lo stile si innalza
improvvisamente, anticipando il proemio della III Cantica in cui il poeta invocher l'assistenza di Apollo
oltre che delle Muse (come si conviene alla rappresentazione di un luogo ben al di l delle capacit di
comprensione dell'intelletto umano: sar il motivo dominante della poesia del Paradiso, il cui stile sar
molto diverso da quello medio del Purgatorio, il regno dove lo spirito umano di salire al ciel diventa
degno).
Purgatorio, Canto I
Argomento del Canto
Proemio della Cantica; Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia del Purgatorio. Dante vede le quattro
stelle. Apparizione di Catone Uticense. Virgilio prega Catone di ammettere Dante al Purgatorio, poi cinge
il discepolo col giunco.
la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba.
Proemio della Cantica (1-12)
La nave dell'ingegno di Dante si appresta a lasciare il mare crudele dell'Inferno e a percorrere acque
migliori, poich il poeta sta per cantare del secondo regno dell'Oltretomba (il Purgatorio) in cui l'anima
umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. La poesia morta deve quindi risorgere e Dante invoca
le Muse, in particolare Calliope, perch lo assistano con lo stesso canto con cui vinsero sulle figlie di
Pierio trasformandole in gazze.
Dante osserva le quattro stelle. Catone (13-39)
L'aria, pura fino all'orizzonte, ha un bel colore di zaffiro orientale e restituisce a Dante la gioia di
osservarlo, non appena lui e Virgilio sono usciti fuori dall'Inferno che ha rattristato lo sguardo e il cuore
del poeta. La stella Venere illumina tutto l'oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei Pesci
che la segue. Dante si volta alla sua destra osservando il cielo australe, e vede quattro stelle che nessuno
ha mai visto eccetto i primi progenitori. Il cielo sembra gioire della loro luce e l'emisfero settentrionale
dovrebbe dolersi dell'esserne privato.
Non appena Dante distoglie lo sguardo dalle stelle, rivolgendosi al cielo boreale da cui ormai tramontato
il Carro dell'Orsa Maggiore, vede accanto a s un vecchio (Catone) dall'aspetto molto autorevole. Ha la
barba lunga e brizzolata, come i suoi capelli dei quali due lunghe trecce ricadono sul petto. La luce delle
quattro stelle illumina il suo volto, tanto che Dante lo vede come se fosse di fronte al sole.
Rimprovero di Catone e risposta di Virgilio (40-84)
Il vecchio si rivolge subito ai due poeti chiedendo chi essi siano, scambiandoli per due dannati che
risalendo il corso del fiume sotterraneo sono fuggiti dall'Inferno. Chiede chi li abbia guidati fin l,
facendoli uscire dalle profondit della Terra, domandandosi se le leggi infernali siano prive di valore o se
in Cielo sia stato deciso che i dannati possono accedere al Purgatorio. A questo punto Virgilio afferra
Dante e lo induce a inchinarsi di fronte a Catone, abbassando lo sguardo in segno di deferenza. Quindi il
poeta latino risponde di non essere venuto l di sua iniziativa, ma di esserne stato incaricato da una beata
(Beatrice) che gli aveva chiesto di soccorrere Dante e fargli da guida. In ogni caso, poich Catone vuole
maggiori spiegazioni, Virgilio sar ben lieto di dargliele: dichiara che Dante non ancora morto, anche se
per i suoi peccati ha rischiato seriamente la dannazione; Virgilio fu inviato a lui per salvarlo e non c'era
altro modo se non percorrere questa strada. Gli ha mostrato tutti i dannati e adesso intende mostrargli le
anime dei penitenti che si purificano sotto il controllo di Catone. Sarebbe lungo spiegare tutte le
vicissitudini passate all'Inferno: il viaggio dantesco voluto da Dio e Catone dovrebbe gradire la sua
venuta, dal momento che Dante cerca la libert che preziosa, come sa chi per essa rinuncia alla vita.
Catone, che in nome di essa si suicid a Utica pur essendo destinato al Paradiso, dovrebbe saperlo bene.
Virgilio ribadisce che le leggi di Dio non sono state infrante, poich Dante non morto e lui proviene dal
Limbo dove si trova la moglie di Catone, Marzia, che ancora innamorata di lui. Virgilio prega Catone di
lasciarli andare in nome dell'amore per la moglie, promettendo di parlare di lui alla donna una volta che
sar tornato nel Limbo.
Replica di Catone a Virgilio (85-111)
Catone risponde di aver molto amato Marzia in vita, tanto che la donna ottenne sempre da lui ci che
voleva, ma adesso che confinata al di l dell'Acheronte non pu pi commuoverlo, in forza di una legge
che fu stabilita quando lui fu tratto fuori dal Limbo. Tuttavia, poich Virgilio afferma di essere guidato da
una donna del Paradiso, sufficiente invocare quest'ultima e non c' bisogno di ricorrere a lusinghe.
Catone invita dunque i due poeti a proseguire, ma raccomanda Virgilio di cingere i fianchi di Dante con
un giunco liscio e di lavargli il viso, togliendo da esso ogni segno dell'Inferno, poich non sarebbe
opportuno presentarsi in quello stato davanti all'angelo guardiano alla porta del Purgatorio. L'isola su cui
sorge la montagna, nelle sue parti pi basse dov' battuta dalle onde, piena di giunchi che crescono nel
fango, in quanto tale pianta l'unica che pu crescere l col suo fusto flessibile. Dopo che i due avranno
compiuto tale rito non dovranno tornare in questa direzione, ma seguire il corso del sole che sta sorgendo
e trovare cos un facile accesso al monte. Alla fine delle sue parole Catone svanisce e Dante si alza senza
parlare, accostandosi a Virgilio.
Virgilio lava il viso di Dante e lo cinge con un giunco (112-136)
Virgilio dice a Dante di seguire i suoi passi e lo invita a tornare indietro, lungo il pendio che da l conduce
alla parte bassa della spiaggia. ormai quasi l'alba e sta facendo giorno, cos che Dante pu guardare in
lontananza il tremolio della superficie del mare. Lui e Virgilio proseguono sulla spiaggia deserta, come
qualcuno che finalmente torna alla strada che aveva perso: giungono in un punto in cui la rugiada
all'ombra e ancora non evapora. Virgilio pone entrambe le mani sull'erba bagnata e Dante, che ha capito
cosa vuol fare il maestro, gli porge le guance bagnate ancora di lacrime. Virgilio gli lava il viso e lo fa
tornare del colore che l'Inferno aveva coperto, quindi i due raggiungono il bagnasciuga e il maestro estrae
dal suolo un giunco, col quale cinge i fianchi di Dante proprio come Catone gli aveva chiesto di fare. Con
grande meraviglia di Dante, l dove Virgilio ha strappato il giunco ne rinasce subito un altro.
Interpretazione complessiva
Il Canto si apre col proemio della II Cantica, in modo analogo al Canto II dell'Inferno in cui Dante aveva
invocato genericamente le Muse: qui il poeta chiede l'assistenza di Calliope, la Musa della poesia epica
che dovr guidare la navicella del suo ingegno in un mare meno crudele di quello dell'Inferno che si
lasciato alle spalle (la metafora della poesia come di una nave che solca il mare era un tpos gi della
letteratura classica e torner nell'esordio del Canto II del Paradiso). Rispetto al proemio dell'Inferno,
quello del Purgatorio pi ampio e si arricchisce del mito delle figlie del re della Tessaglia Pierio, che
osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte proprio da Calliope, venendo poi trasformate in uccelli
dal verso sgraziato (le piche, cio le gazze); Dante avvisa il lettore dell'innalzamento della materia
rispetto alla I Cantica, ma ribadisce ulteriormente che il suo canto dovr essere assistito dall'ispirazione
divina, di cui le Muse sono personificazione, e che la sua poesia non avr certo l'ardire di gareggiare
follemente con Dio nel descrivere la dimensione dell'Oltretomba, troppo elevata per essere pianemente
compresa dall'intelletto umano ( la concezione dell'arte del Medioevo che torner a pi riprese nel corso
della Cantica, nonch un preannuncio della poetica dell'inesprimibile che sar al centro del Paradiso).
Il primo dato che si offre al poeta visivo, in quanto lui e Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile
discesa all'Inferno e Dante pu respirare di nuovo aria pura, ammirando il cielo prima dell'alba che di un
bell'azzurro intenso; la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che segna la Resurrezione di Cristo e la
vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio che avr per lui lo stesso
effetto. Nel cielo non ancora illuminato dal sole brillano quattro stelle, la cui luce intensa colpisce Dante e
gli fa compiangere l'emisfero settentrionale che non ha mai visto quella costellazione: nonostante vari
tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache
di viaggio), probabile che le stelle simboleggino le quattro virt cadinali, ovvero fortezza, prudenza,
temperanza e giustizia, il cui pieno possesso condizione indispensabile per il conseguimento della grazia
e, quindi, della salvezza eterna. Possedere le virt cardinali permette di raggiungere la felicit terrena, a
sua volta rappresentata dal colle che Dante aveva invano tentato di scalare nel Canto I dell'Inferno, mentre
ora c' un altro monte che dovr ascendere con la guida di Virgilio, allegoria della ragione che alla felicit
terrena deve condurre; il paesaggio di questo episodio ricorda volutamente quello del Canto iniziale
dell'Inferno, fatto che lo stesso Dante ribadisce nei versi finali dicendo che gli sembra di tornare a la
perduta strada, che altro non se non la diritta via che aveva smarrito e che lo aveva fatto perdere nella
selva oscura.
La luce delle stelle illumina del resto anche il volto di Catone l'Uticense, il custode del Purgatorio che
accoglie i due poeti accusandoli di essere dannati appena fuggiti dall'Inferno: la sua presenza in questo
luogo e con il ruolo di custode del secondo regno ha creato molti dubbi fra i commentatori, in quanto
sembra assai strano che un pagano, per giunta nemico di Cesare e morto suicida, possa trovarsi tra le
anime salve ( Virgilio a dichiarare che la vesta, il corpo lasciato da Catone ad Utica risplender il Giorno
del Giudizio, quando sar ammesso in Paradiso). In realt Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di
una lunga tradizione antica, che riconosceva in Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa,
anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano allegoricamente la vicenda personale sua e
della moglie Marzia. Dante, pi semplicemente, vede in lui il simbolo di chi lotta tenacemente per la
libert politica e ne fa il simbolo della lotta per la libert dal peccato, che il motivo essenziale nella
rappresentazione del Purgatorio; Catone anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta al
giudizio divino imperscrutabile, come si visto in alcuni casi nell'Inferno (Brunetto Latini, Guido da
Montefeltro) e come si vedr nel caso ancor pi scandaloso rappresentato da Manfredi, protagonista del
Canto III. Del resto Dante afferma chiamaramente che Catone stato nel Limbo fino a quando Cristo
trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai patriarchi biblici, quindi nonostante la sua condotta
peccaminosa era gi collocato fra gli antichi spiriti che si erano distinti per il possesso delle virt terrene,
come Virgilio; e la sua descrizione lo accosta proprio a un patriarca, con i suoi lunghi capelli e la barba
che Dante trovava peraltro nella rappresentazione che di lui offre Lucano nel Bellum Civile (II, 373-374).
I rimproveri di Catone ai due poeti danno modo a Virgilio di riepilogare le vicende della I Cantica in una
sorta di breve flashback, forse a beneficio dei lettori che non avevano letto tutto l'Inferno, e il suo discorso
un'abile suasoria con tanto di captatio benevolentiae in cui il poeta latino ricorda a Catone il suo sucidio
come atto di suprema protesta per la libert politica, gli rammenta che lui comunque salvo e cita la
moglie Marzia che lui ha conosciuto nel Limbo, promettendo di parlarle di lui se Catone li ammetter nel
Purgatorio. Il discorso di Virgilio sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante voluto
da Dio e non pu certo essere ostacolato da Catone, il quale infatti si affretta a dire che Marzia non ha pi
alcun potere su di lui e che la sola donna a legittimare il viaggio di Dante Beatrice, che dal cielo guida i
suoi passi verso la grazia. Dante pu quindi procedere, ma non prima di aver compiuto un duplice atto
rituale: prima di presentarsi all'angelo guardiano dovr lavare il viso, sporco del fumo dell'Inferno e delle
lacrime che l'hanno segnato in pi di un'occasione, e dovr anche cingere i fianchi di un giunco liscio, in
segno di umilt e sottomissione alla volont divina. Il giunco la sola pianta a crescere sul bagnasciuga
della spiaggia del Purgatorio, in quanto col suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde (segno
anch'esso di sottomissione, come dimostra il fatto che il giunco poi definito umile pianta); Dante se ne
deve cingere i fianchi dopo essersi gi liberato da un'altra corda, che era servita a Virgilio per richiamare
Gerione alla cine del Canto XVI dell'Inferno. Non sappiamo se la cosa sia casuale o abbia un preciso
significato allegorico, ma il rito conclude il Canto preannunciando ci che avverr negli episodi
successivi e segnando il passaggio ad un luogo retto da leggi del tutto diverse rispetto a quelle del
doloroso regno: la pianta strappata da Virgilio rinasce immediatamente tale qual era, il che riempie Dante
di meraviglia e ci fa capire che gli orrori dell'Inferno sono definitivamente alle spalle (giova ricordare in
quale ben diversa atmosfera Dante aveva strappato un altro ramoscello, quello di un albero della selva dei
suicidi nel Canto XIII dell'Inferno, episodio dal quale siamo evidentemente lontanissimi).
Purgatorio, Canto II
Argomento del Canto
Ancora sulla spiaggia del Purgatorio. Apparizione dell'angelo nocchiero. Incontro con le anime dei
penitenti, tra i quali c' il musico Casella. Canto di Casella e rimprovero di Catone. Fuga di Dante e
Virgilio.
la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba.
Descrizione dell'alba. Apparizione dell'angelo (1-36)
Il sole sta ormai tramontando all'orizzonte di Gerusalemme, il cui cerchio meridiano sovrasta la citt col
suo punto pi alto, e la notte, che gira opposta al sole, sorge dal Gange nella costellazione della Bilancia,
in cui non si trova pi quando essa supera per durata il giorno; cos sulla spiaggia del Purgatorio l'aurora
diventa da rossa progressivamente arancione. Dante e Virgilio sono ancora sul bagnasciuga, pensando al
cammino che devono intraprendere, quando al poeta pare di vedere sul mare una luce simile a quella di
Marte quando velato dai vapori che lo avvolgono, che si muove rapidissima verso la riva. Dante
distoglie un attimo lo sguardo per parlare a Virgilio, e quando torna a guardare la luce la vede pi
splendente e pi grande. In seguito ai lati di essa compare qualcosa di bianco e un altro biancore al di
sotto: il maestro resta in silenzio, fino a quando capisce che il primo biancore sono delle ali e allora grida
a Dante di inginocchiarsi e di unire le mani in preghiera, perch si avvicina un angelo del Paradiso.
Virgilio spiega a Dante che l'angelo non usa remi n vele o altri strumenti umani, ma tiene le ali aperte e
dritte verso il cielo, fendendo l'aria con penne eterne che non cadono mai.
Incontro con le anime dei penitenti (37-75)
Man mano che l'angelo si avvicina e diventa pi visibile a Dante, questi non riesce a sostenerne lo
sguardo e deve volgere gli occhi a terra. Poi il nocchiero celeste viene a riva spingendo una barchetta cos
leggera che non affonda minimamente nell'acqua; l'angelo sta a poppa e nella barca di sono pi di cento
anime, che intonano a una voce il Salmo In exitu Israel de Aegytpo. L'angelo fa loro il segno della croce,
quindi le anime si gettano sulla spiaggia e il nocchiero riparte con la stessa velocit con cui giunto. La
folla delle anime si guarda intorno, come qualcuno inesperto di un luogo, mentre il sole ormai alto e la
costellazione di Capricorno sta gi declinando dalla met del cielo. I nuovi arrivati si rivolgono ai due
poeti chiedendo di mostrargli la via per il monte, ma Virgilio li informa che anch'essi sono appena arrivati
in quel luogo, attraverso una via talmente aspra che l'ascesa del monte sembrer uno scherzo. Le anime si
accorgono che Dante respira ed vivo, impallidendo per lo stupore: esse si accalcano intorno a lui per la
curiosit, come fa la gente attorno al messaggero che porta notizie di pace, quasi dimenticandosi di
accedere al monte per purificarsi dai loro peccati.
Incontro con Casella (76-111)
Dante vede una della anime farsi avanti per abbracciarlo, il che spinge il poeta a fare altrettanto, ma i suoi
tre tentativi vanno a vuoto in quanto le braccia attraversano lo spirito, inconsistente, e tornano al suo
petto. Dante stupito e l'anima sorride, invitandolo a separarsi dagli altri penitenti. Il poeta lo segue e i
due si appartano, finch Dante lo riconosce come l'amico Casella e lo prega di fermarsi un poco a
parlargli: il penitente risponde dicendo che gli vuole bene da morto come da vivo, e gli chiede perch si
trova in quel luogo. Dante risponde che fa questo viaggio per salvarsi l'anima e chiede a sua volta a
Casella perch giunga solo ora in Purgatorio dopo la sua morte. Il penitente spiega che non gli stato
fatto alcun torto se l'angelo nocchiero gli ha negato pi volte di condurlo l, poich la sua volont
conforme a quella di Dio. In realt, spiega, da tre mesi l'angelo ha raccolto tutti quelli che hanno voluto
salire sulla barca: stato allora che Casella stato preso alla foce del Tevere, dove si raccolgono tutte le
anime non destinate all'Inferno e dove l'angelo si diretto dopo aver lasciato la spiaggia del Purgatorio. A
questo punto Dante prega Casella, se una nuova legge non glielo vieta, di confortarlo col suo canto come
faceva quand'era in vita, poich il poeta giunto l con tutto il corpo ed quindi particolarmente
affaticato.
Il canto di Casella. Rimprovero di Catone (112-133)
Casella inizia a intonare la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, cantando con tale dolcezza che essa
ancora presente nell'animo di Dante. Non solo lui, ma anche Virgilio e tutte le anime stanno ad ascoltare
il canto di Casella, contenti e appagati come se non avessero altri pensieri. Sono tutti attenti alle note,
quando ricompare all'improvviso Catone che rimprovera aspramente le anime, accusandole di lentezza e
negligenza e spronandole a correre al monte per purificarsi dai peccati che impediscono loro di vedere
Dio. Le anime fuggono disordinatamente verso il monte, come quando i colombi, che stanno beccando
tranquillamente il loro pasto, sono spaventati da qualcosa e volano via d'improvviso, e anche i due poeti
scappano allo stesso modo.
Interpretazione complessiva
Il Canto strutturalmente diviso in due parti, che corrispondono all'arrivo dell'angelo nocchiero con la
barca dei penitenti e all'incontro col musico Casella, che si conclude col rimprovero di Catone che, come
si vedr, non privo di significato allegorico. L'episodio aperto dall'ampia e complessa descrizione
astronomica dell'alba, che rappresenta un piccolo proemio dopo quello della Cantica del Canto I: Dante
descrive il sole e la notte come due figure astronomiche che percorrono la stessa strada ai punti opposti
del cielo, per cui il sole sta tramontando sull'orizzonte di Gerusalemme e la notte spunta sul Gange, il
punto estremo dell'Occidente; essa in congiunzione con la costellazione della Bilancia che,
metaforicamente, tiene in mano, mentre le cade di mano quando supera in durata il giorno (vuol dire che
dopo l'equinozio di autunno il sole ad essere in congiunzione con la Bilancia). L'immagine si completa
con quella dell'Aurora, personificata come la dea classica, che rossastra quando il sole sta per sorgere e
diventa giallo-arancione ora che sull'orizzonte del Purgatorio l'alba. La metafora astronomica proseguir
a met circa del Canto, quando Dante spiegher che il sole salito nel cielo tanto da aver cacciato il
Capricorno dallo zenit, dardeggiando con le sue saette ogni punto della spiaggia.
A questo inizio stilisticamente sostenuto segue poi l'apparizione dell'angelo nocchiero, non a caso
introdotta anch'essa da un'immagine astronomica (quella di Marte che rosseggia talvolta nel cielo del
mattino, temperato dai vapori che lo avvolgono). il primo incontro con un ministro celeste e la sua
apparizione avviene per gradi, con la descrizione della luce che si muove rapidissima, del biancore che
appare ai suoi lati (le ali) e al di sotto (la veste), infine con Virgilio che invita Dante a inginocchiarsi in
segno di riverenza poich ormai vedr di s fatti officiali. Quasi tutti i commentatori hanno sottolineato
l'enorme differenza tra questo traghettatore e il nocchiero infernale Caronte, che trasportava le anime
dannate al di l dell'Acheronte: l'angelo non usa strumenti umani, non ha remi n vele, si limita a spingere
da poppa la barca che non affonda nell'acqua e dentro la quale pi di cento anime intonano il Salmo che
rievoca la fuga degli Ebrei dall'Egitto (il fatto era interpretato come allegoria della liberazione dal
peccato). Il vasello snelletto leggiero il lieve legno che dovr portare Dante in Purgatorio, come lo
stesso Caronte gli aveva predetto in Inf., III, 91-93 e da esso le anime si accalcano sulla riva, inesperte del
luogo e incerte sulla direzione da prendere; si stupiscono nel vedere che Dante vivo e gli si accalcano
intorno come un messaggero che porta buone notizie ( uno schema che si ripeter pi volte nei primi
Canti del Purgatorio, in totale difformit dagli incontri con i dannati che erano dominati da sentimenti ben
diversi).
L'incontro con l'amico e musico fiorentino Casella il primo colloquio con l'anima di un penitente nel
secondo regno, e l'episodio costituisce una pausa narrativa caratterizzata da grande serenit e pace dopo
l'asprezza della discesa attraverso l'Inferno. Al di l della difficile identificazione del personaggio, su cui
si sono fatte varie congetture, il dato significativo il grande affetto che egli ancora dimostra a Dante (che
tenta inutilmente tre volte di abbracciarlo, con evidente imitazione di due passi virgiliani), mentre
l'incontro d modo a Dante di puntualizzare alcune cose fondamentali circa il destino delle anime non
dirette all'Inferno: Casella a spiegare che le anime salve si raccolgono alla foce del Tevere, dove l'angelo
raccoglie chi lui vuole e quando vuole, secondo la imperscrutabile volont divina, il che giustifica il fatto
che lui giunga solo ora in Purgatorio (la cosa aveva stupito Dante, che lo sapeva morto da qualche mese).
L'indizione per l'anno 1300 del Giubileo da parte di Bonifacio VIII ha permesso a tutte le anime di salire
sulla barca ed per questo che Casella ha potuto fare il suo arrivo in Purgatorio: Dante gli chiede di
cantare per lui, per confortarlo della fatica del viaggio che sta compiendo, e l'amico esaudisce la sua
preghiera intonando la canzone Amor che ne la mente mi ragiona (quella commentata nel III Trattato del
Convivio), che probabilmente lui stesso aveva musicato. La canzone, forse dedicata inizialmente a
Beatrice e rientrante nei canoni dello Stilnovo, nel Convivio era stata reinterpretata allegoricamente alla
luce della donna gentile e della Filosofia, quindi rimanda al periodo del cosiddetto traviamento di
Dante e del peccato che la stessa Beatrice gli rifaccer nei Canti finali del Purgatorio; il canto di Casella
cos melodioso che tutti, incluso Virgilio, si attardano ad ascoltarne le note, come se nessun altro pensiero
toccasse loro la mente, avvinti dal potere della musica che Dante, proprio nel Convivio, descriveva come
irresistibile.
a questo punto che si inserisce il duro rimprovero di Catone, che riappare all'improvviso e mette fine al
canto esortando gli spiriti a non essere lenti, a non peccare di negligenza indugiando ad ascoltare la bella
musica invece di correre al monte per iniziare il percorso di purificazione. Il richiamo non casuale e si
comprende alla luce del significato che alla musica e all'arte in genere era assegnato nel Medioevo: fine
dell'arte non quello di dare piacere o quetar tutte le voglie dando appagamento all'anima, come per lo
pi ritiene la concezione moderna, bens quello di fornire un utile ammaestramento e insegnamento di
carattere morale per raggiungere la salvezza. Ogni manifestazione artistica che distolga l'animo umano
dai suoi doveri e lo appaghi inducendo a dimenticarsi dei propri obblighi non solo disdicevole, ma
addirittura pericolosa sul piano religioso: in questo senso va interpretato il rimprovero di Catone, cos
come la reazione delle anime che scappano disordinatamente verso il monte (inclusi Dante e Virgilio); il
fatto che la canzone scelta da Dante fosse dedicata alla Filosofia e sia tratta dal Convivio non forse del
tutto casuale, poich probabile che quell'opera costituisse un tentativo pericoloso sul piano dottrinale di
arrivare alla verit non attraverso la grazia e la teologia, ma esclusivamente con l'uso della ragione
umana. Dante respinge quindi qualsiasi concezione dell'arte, inclusa la poesia, di carattere puramente
edonistico e non finalizzata alla salvezza spirituale, come del resto gi aveva fatto nell'episodio di Paolo e
Francesca che stavano leggendo per diletto la storia di Lancillotto e Ginevra ed erano caduti nel peccato:
il canto solitario di Casella si contrappone a quello del Salmo che tutte le anime avevano intonato a una
voce, il cui scopo non era per quello di consolare l'anima afflitta ma celebrare la liberazione dal peccato
e dai vincoli terreni (e un analogo discorso sull'arte, soprattutto su quella figurativa e sulla poesia, verr
affrontato anche nei Canti X, XI e XII dedicati ai ai superbi della I Cornice, per comprendere il quale sar
indispensabile tener presente proprio la natura morale del richiamo di Catone).

Note e passi controversi


Il meridian cerchio (v. 2) il meridiano, il cui arco sovrasta Gerusalemme con lo zenit, il suo punto pi
alto. Il v. 6 indica invece che la Notte tiene in mano la Bilancia, cio in congiunzione con essa, quando
pi corta del giorno, mentre dopo l'equinozio d'autunno nella costellazione entra il sole e alla Notte le
bilance cadono di mano.
Nel v. 13 sorpreso significa offuscato, velato (cfr. I, 97: l'occhio sorpriso / d'alcuna nebbia); alcuni
mss. leggono sul presso del mattino, ma lezione poco probabile.
La descrizione dell'angelo fatta da Virgilio (vv. 31-36) stilisticamente elevata e contiene l'anafora
Vedi...che all'inizio e alla fine delle due terzine.
Alcuni mss. leggono il v. 44 tal che faria beato per iscripto, tale che la sua beatitudine pareva scritta sul
suo volto, ed entrambe le lezioni sono accettabili.
Il salmo intonato dalle anime (v. 46) il 113, che veniva cantato accompagnando il defunto al cimitero in
quanto libero dai vincoli terreni.
Il messaggero che porta notizie di pace con in mano un ramoscello d'ulivo (vv. 70-72) non solo
reminiscenza classica, ma corrisponde a un uso del tempo di Dante testimoniato, fra gli altri, da G. Villani
(Cron., XII, 105).
I vv. 80-81 si rifanno quasi letteralemente a Aen., II, 792-793; VI, 700-701 (ter conatus ibi collo dare
bracchia circum; / ter frustra comprensa manus effugit imago, per tre volte tent di abbracciarlo al collo
e per tre volte lo spirito, vanamente afferrato, sfugg le mani); i due episodi virgiliani raccontano
l'incontro di Enea con la moglie morta Creusa e con l'ombra del padre Anchise.
I vv. 98-99 alludono al Giubileo dell'anno 1300, indetto da papa Bonifacio VIII il 22 febbraio ma valevole
a partire dal 24 dicembre del 1299; ci fa supporre che Casella sia morto poco prima e sollevano la
questione del perch egli giunga solo ora in Purgatorio. Si ipotizzato che le anime chiedano di salire
sulla barca dell'angelo solo quando si sentono pronte, analogamente alla fine della loro purificazione.

Purgatorio, Canto III


Argomento del Canto
Ancora sulla spiaggia del Purgatorio. Discorso di Virgilio sulla giustizia divina. Incontro con le anime dei
contumaci. Colloquio con Manfredi di Svevia.
la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette.
Ripresa del cammino (1-18)
Dopo i rimproveri di Catone e la fuga precipitosa delle anime verso la montagna, Dante si stringe a
Virgilio, senza la cui guida fidata non potrebbe certo proseguire il viaggio. Il maestro sembra essere punto
dalla propria coscienza, cos monda e dignitosa che anche il pi piccolo errore le provoca un forte
rimorso. Quando Virgilio prende a camminare senza la fretta che toglie decoro a ogni gesto, Dante inizia a
guardarsi attorno e osserva la montagna, che si erge verso il cielo pi alta di qualunque altra. Il sole brilla
rossastro dietro di lui e proietta l'ombra davanti, dal momento che Dante ne scherma i raggi col proprio
corpo.
Paura di Dante e rimprovero di Virgilio (19-45)
Dante vede all'improvviso che c' solo la sua ombra sul terreno e non quella di Virgilio, quindi si volta a
lato col terrore di essere abbandonato: il maestro ovviamente l e lo rimprovera perch continua a
diffidare e non crede che sia accanto a lui per guidarlo. Virgilio spiega che il corpo mortale nel quale lui
faceva ombra riposa a Napoli, dove fu traslato da Brindisi e dove adesso gi sera, quindi Dante non
deve stupirsi che la sua anima non proietti un'ombra proprio come i cieli non fanno schermo al passaggio
della luce. La giustizia divina fa in modo che i corpi inconsistenti delle anime soffrano tormenti fisici, in
un modo che non vuole che si sveli agli uomini, per cui folle chi spera con la sola ragione umana di
poter capire i misteri della fede. La gente deve accontentarsi di ci che stato rivelato, perch se avesse
potuto veder tutto non sarebbe stato necessario che Ges nascesse. Grandi filosofi hanno desiderato
vanamente di conoscere questi misteri, e il loro ingegno glielo avrebbe permesso se ci fosse stato
possibile, mentre ora tale desiderio la loro pena. Virgilio parla di Aristotele, di Platone e molti altri; poi
resta in silenzio, china la fronte e rimane turbato.
Incontro coi contumaci (46-102)
I due poeti intanto sono giunti ai piedi del monte: la parete cos ripida che impossibile scalarla, tanto
che la roccia pi impervia della Liguria sarebbe un'agevole scala al confronto. Virgilio si ferma e si chiede
da quale parte ci sia un accesso pi facile al monte; e mentre lui riflette guardando a terra, e Dante osserva
in alto la montagna, da sinistra appare un gruppo di anime che si muovono lentissime verso di loro.
Virgilio esorta il discepolo ad andare verso di esse poich si muovono piano, e lo invita a rafforzare la
speranza poich saranno loro a fornire indicazioni. Dopo mille passi le anime sono ancora molto lontane,
quando esse si accorgono dei due poeti e si stringono alla roccia. Virgilio chiede loro dove sia l'accesso al
monte, dal momento che essi non vogliono perdere tempo. Le anime iniziano ad avanzare, simili alle
pecorelle che escono dal recinto una dietro l'altra senza sapere dove vanno e perch, poi le prime vedono
che Dante proietta l'ombra e si arrestano, tirandosi indietro e inducendo le altre a fare lo stesso. Virgilio le
rassicura dicendo che Dante effettivamente vivo, ma non certo contro il volere divino che egli cerca di
scalare il monte. I penitenti fanno cenno con le mani di tornare indietro e procedere nella loro stessa
direzione.

Incontro con Manfredi (103-145)


Una delle anime si rivolge a Dante e lo invita a guardarlo, per capire se lo ha mai visto sulla Terra. Il
poeta lo osserva e lo guarda con attenzione, vedendo che biondo, bello e di nobile aspetto, e ha uno dei
sopraccigli diviso da un colpo. Dopo che il poeta gli ha risposto di non averlo mai visto, il penitente gli
mostra una piaga che gli attraversa la parte alta del petto, quindi di presenta come Manfredi di Svevia,
nipote dell'imperatrice Costanza d'Altavilla. Egli prega Dante, quando sar tornato nel mondo, di dire a
sua figlia Costanza la verit sul suo stato ultraterreno. Manfredi racconta che dopo essere stato colpito a
morte nella battaglia di Benevento, piangendo si pent dei suoi peccati e nonostante le sue colpe fossero
gravissime fu perdonato dalla grazia divina. Male fece il vescovo di Cosenza, istigato da papa Clemente
IV, a far disseppellire il suo corpo che giaceva sotto un mucchio di pietre vicino a un ponte e a farlo
trasportare a lume spento fuori dai confini del regno di Napoli, lungo il fiume Liri. La scomunica della
Chiesa infatti non impedisce di salvarsi finch c' un po' di speranza, anche se chi muore in contumacia
deve poi attendere nell'Antipurgatorio un tempo superiore trenta volte al periodo trascorso come
scomunicato, a meno che qualcuno con le sue preghiere non accorci questo periodo. Manfredi prega
dunque Dante di rivelare tutto questo alla figlia Costanza, perch lei con le sue preghiere abbrevi la sua
Interpretazione complessiva
Il Canto si divide strutturalmente in tre parti, che corrispondono al rimprovero di Virgilio a Dante (1-45),
all'incontro con le anime dei contumaci (46-102) e al colloquio col protagonista dell'episodio, Manfredi di
Svevia (103-145). I tre momenti sono strettamente legati dal punto di vista tematico, perch ruotano
intorno al complesso e delicato problema della grazia e della giustizia divina imperscrutabile: la paura di
Dante che crede di essere abbandonato poich non vede l'ombra di Virgilio accanto alla sua (una
situazione che non poteva presentarsi all'Inferno, nel buio delle viscere della Terra) provoca il rimprovero
di Virgilio che spiega il carattere inconsistente e umbratile delle anime, sottolineando per il fatto che la
volont divina fa in modo che questi corpi aerei possano subire pene e tormenti fisici. Come ci possa
avvenire inspiegabile con la sola ragione umana, il che d modo al maestro di pronunciare un duro
rimprovero a tutti coloro che hanno la folle pretesa di svelare i misteri della fede con l'ausilio del solo
intelletto. un tema centrale nel poema, gi affrontato nell'episodio di Ulisse (il cui folle volo oltre le
colonne d'Ercole costituiva il superamento dei limiti della ragione umana, peccaminoso e punito con la
morte) e alla base probabilmente del traviamento che ha condotto Dante nella selva: la ragione pu
condurci alla sola felicit terrena, al possesso delle virt cardinali che non assicurano la salvezza eterna
per la quale indispensabile la grazia divina. Nello sfogo di Virgilio c' anche il suo dramma personale, di
un uomo saggio che vissuto in modo retto ma non ha conosciuto Dio ed quindi relegato per sempre nel
Limbo senza alcuna possibilit di redenzione; gli uomini non possono conoscere tutto e per le questioni di
fede devono accontentarsi del quia, di ci che stato rivelato, senza la pretesa di spiegare con l'intelletto
ci che non razionalmente spiegabile (come cercarono di fare i filosofi pagani, tra i quali Virgilio
include forse anche se stesso, esclusi per sempre dalla redenzione in base al giudizio divino che appunto
imperscrutabile, inesplicabile col solo ausilio della ragione).
La giustizia divina ha invece salvato il gruppo di anime che i due poeti incontrano successivamente, dopo
essersi fermati di fronte alla parete scoscesa e inaccessibile del monte che sembra invalicabile a chi va
sanz'ala: sono le anime dei contumaci, di coloro che sono morti dopo essere stati scomunicati dalla Chiesa
e devono trascorrere un tempo lunghissimo nell'Antipurgatorio prima di poter accedere alle Cornici (fra
loro Dante incontrer Manfredi). L'episodio come un intermezzo narrativo posto tra la parte iniziale,
molto sostenuta stilisticamente, e il successivo colloquio col re di Sicilia, caratterizzato dall'estrema
lentezza con cui si muovono le anime e dalla similitudine delle pecorelle che escono dal recinto una dietro
l'altra, senza sapere dove vanno e perch. stato osservato che questo paragone non casuale, sia perch
la pecora animale simbolo di mansuetudine ed spesso citato nei Vangeli come immagine del buon
fedele cristiano, sia soprattutto perch l'attitudine di queste anime (il fatto di muoversi senza opporre
resistenza, senza sapere dove vanno) la traduzione visiva del discorso fatto prima da Virgilio, del dovere
del cristiano di accontentarsi del quia lasciandosi guidare dai ministri della Chiesa verso la salvezza,
senza avere la pretesa intellettuale di veder tutto (al contrario della capra, animale anch'esso citato spesso
nei Vangeli come l'esempio opposto e caratterizzato da riottosit e selvatichezza, immagine del cattivo
fedele che si ribella all'autorit della Chiesa: cfr. XXVII, 76 ss., dove le capre sono definite rapide e
proterve / sovra le cime). Il paragone acquista ancor pi significato se si pensa che queste sono appunto le
anime degli scomunicati, che per motivi giusti o sbagliati si sono ribellati all'autorit della Chiesa e non
hanno certo dimostrato mansuetudine quand'erano in vita.
Tra loro c' anche Manfredi e il suo personaggio consente a Dante di fare un importante discorso intorno
alla salvezza e alla giustizia divina, che opera una sintesi tra la prima e la seconda parte del Canto. Da un
lato, infatti, il re svevo il cattivo cristiano che si mostrato riottoso all'autorit ecclesiastica e che per
motivi politici si attirato la punizione della Chiesa (questo indipendentemente dal giudizio che Dante
pu dare sulla sua vicenda), ma al tempo stesso salvo in Purgatorio e rappresenta dunque un esempio
clamoroso e inatteso di come la grazia divina possa beneficare anche un personaggio che con la sua fama
stato posto fuori dalla comunit del fedeli. Manfredi rappresenta un vero e proprio scandalo, ben pi
di Catone in quanto il sovrano era un protagonista della storia recente dell'Italia di Dante: morto
violentemente a Benevento, scomunicato dalla Chiesa come ribelle all'autorit papale, colpito dalla
durissima pubblicistica guelfa che lo dipingeva come una specie di Anticristo (essendo anche figlio
illegittimo di Federico II), tutto lasciava presupporre che fosse dannato all'Inferno, mentre il suo sincero
pentimento in punto di morte gli ha guadagnato la salvezza e lo colloca tra le anime del Purgatorio. Dante
vuole affermare che la giustizia divina si muove secondo criteri che non sono sempre evidenti al mondo e
che il destino ultraterreno degli uomini dipende non solo dalle loro azioni terrene (i peccati di Manfredi
erano stati, per sua stessa ammissione, orrendi), ma soprattutto dalla sincerit del loro pentimento che
solo Dio pu leggere nel profondo del cuore ( il caso opposto a quello di Guido da Montefeltro, che tutti
credevano salvo perch fattosi francescano, ma che invece dannato perch il suo pentimento non era
sincero). La polemica di Dante quindi rivolta contro le istituzioni ecclestiastiche corrotte, che si
arrogano il diritto di stabilire in modo irrevocabile il destino ultraterreno dei loro nemici, mentre solo Dio
pu sapere con certezza se uno, dopo la morte, sia salvo o dannato: le parole di Manfredi sono rivolte
soprattutto alla figlia Costanza, che sapendo della sua salvezza pu pregare per lui e accorciare il periodo
di attesa nell'Antipurgatorio (il che un'ulteriore polemica contro la Chiesa che lucrava sulle preghiere
per i defunti, che invece sono demandate alla fede dei congiunti rimasti in vita). Lo scandalo di
Manfredi riafferma dunque il discorso di Virgilio in apertura di Canto, ovvero il fatto che l'uomo non pu
sapere tutto e che c' un limite alla ragione umana, per cui la giustizia divina non sempre spiegabile
razionalmente o alla luce soltanto delle azioni pubbliche di un personaggio: occorre l'umilt, anche da
parte di papi e vescovi, di rimettersi al giudizio divino, come ha fatto Manfredi che non ha parole astiose
nei confronti di chi (come papa Clemente IV o il vescovo di Cosenza) ha disseppellito i suoi resti e li ha
dispersi come si usava fare con gli scomunicati. Il tema della giustizia divina ovviamente al centro del
poema e presenter altri esempi di salvezze inattese, come quella di Bonconte da Montefeltro o di Rifeo e
Traiano in Paradiso, ed parte della durissima polemica contro le istituzioni della Chiesa corrotte che
grande spazio avr specie nella III Cantica, in particolare nei Canti XIX-XX che si svolgeranno nel Cielo
di Giove dove si manifestano gli spiriti che hanno operato in nome della giustizia.

Note e passi controversi


L'onestade citata al v. 11 il decoro dei comportamenti esteriori, che la fretta dismaga, sminuisce (cfr.
il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, ma anche oltre il v. 87: pudica in faccia e ne l'andare onesta,
che anche un chiasmo).
Il verbo dislaga (v. 15), che vuol dire esce di lago (quindi si erge dal mare) invenzione dantesca.
Il v. 25 intende dire che se nel Purgatorio appena spuntato il sole e sono circa le 8 del mattino, in Italia
(posta a 45 da Gerusalemme, agli antipodi del Purgatorio) sono circa le 18 e quindi il Vespero.
Il v. 27 allude al fatto che Virgilio fu sepolto a Brindisi, dove mor, quindi Augusto fece traslare i suoi
resti a Napoli, sulla via di Pozzuoli.
La particella quia (v. 37) nel latino medievale introduceva una proposizione dichiarativa, quindi
equivaleva al nostro che: Virgilio intende dire che gli uomini devono accontentarsi di sapere ci che
stato loro dichiarato nelle Sacre Scritture (cfr. Dante, Quaestio de aqua et terra: Desinant ergo, desinant
homines querere que supra eos sunt, et querant usque eo possunt, cio: Smettano dunque gli uomini di
indagare quelle cose che sono al di sopra di loro, e indaghino su quelle che sono alla loro portata).
Il v. 49 indica con Lerice e Turbia gli estremi a oriente e a occidente della Liguria, che al tempo di Dante
era di difficile accesso per via delle sue scogliere impervie (Lerici vicino alla Spezia, La Turbie nei
pressi di Nizza).
La figlia di Manfredi, Costanza, detta da lui genitrice / de l'onor di Cicilia e d'Aragona (vv. 115-116) in
quanto sposa di Pietro III d'Aragona e madre di Giacomo e Federico, sovrani rispettivamente di Aragona e
di Sicilia. Onor significa dinastia, corona e non ha valore elogiativo (Dante del resto giudicava
severamente entrambi i re).
La grave mora del v. 129 un mucchio di sassi, sotto la quale Manfredi sarebbe stato sepolto dopo la sua
morte a Benevento, presso la testa (in co) di un ponte. La traslazione dei suoi resti a lume spento, come
per gli scomunicati e gli eretici, e la loro dispersione lungo il fiume Liri fuori dal regno di Napoli (per
ordine di papa Clemente IV) un fatto di cui non ci sono documenti.
Il v. 135 (mentre che la speranza ha fior del verde) stato ripreso dallo scrittore statunitense Robert Penn
Warren nel romanzo All the King's Men (Tutti gli uomini del re, 1946) che in epigrafe recita As long
as hope still has its bit of green.
Contumacia (v. 136) vale disobbedienza (i contumaci erano gli scomunicati che si erano ostinati a
disobbedire alla Chiesa).

Purgatorio, Canto IV
Argomento del Canto
Dante e Virgilio raggiungono il punto in cui si accede al monte. Faticosa salita dei due fino al primo balzo
dell'Antipurgatorio; spiegazione di Virgilio sul corso del sole. Incontro con le anime dei pigri a pentirsi e
con Belacqua.
la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, tra le nove e mezzo e mezzogiorno.
Osservazioni di Dante sul trascorrere del tempo (1-18)
Quando l'anima umana, spiega Dante, si concentra tutta su qualcosa per una forte impressione di piacere o
di dolore, questo annulla tutte le altre facolt e ci contraddice chi crede che in noi vi siano pi anime.
Quindi l'uomo non si avvede del passare del tempo, se la sua attenzione tutta rivolta verso qualcosa, e di
ci Dante ha avuto esperienza in questa occasione perch mentre parlava con Manfredi non si accorto
che il sole salito ben alto nel cielo. Lui, Virgilio e le anime dei contumaci sono intanto arrivati al punto
dove possibile iniziare l'ascesa del monte.
Dante e Virgilio salgono verso il primo balzo (19-54)
Virgilio si incammina subito lungo un erto sentiero, pi stretto di un'apertura nella siepe che il contadino
talvolta chiude con delle spine per proteggere l'uva matura, e Dante lo segue. Presso i sentieri montani pi
ripidi e impervi d'Italia si procede solo coi piedi, ma qui necessario aiutarsi con le ali del desiderio,
come fa Dante che si sforza di star dietro alla sua guida. I due salgono con estrema difficolt, aiutandosi
con piedi e mani, finch raggiungono l'orlo superiore del fianco della montagna, da dove si procede in
uno spazio maggiore. Dante chiede a Virgilio che via faranno e il maestro lo invita a seguirlo, finch
qualcuno dar loro nuove indicazioni. I due si rimettono in marcia, inerpicandosi lungo un pendio assai
ripido, tanto che a un certo punto Dante chiede al maestro di attenderlo perch non riesce a stargli dietro.
Virgilio lo esorta a raggiungere un ripiano roccioso (il primo balzo) che cinge orizzontalmente tutto il
monte. Spronato dalle sue parole, Dante fa un ultimo sforzo e raggiunge carponi il punto indicato, quindi i
due si siedono e si rivolgono a oriente.
Virgilio spiega a Dante il corso del sole (55-84)
Dante rivolge lo sguardo dapprima verso il basso, poi verso il sole e resta stupito del fatto di vederlo alla
sua sinistra, cio verso nord. Virgilio capisce che il discepolo osserva stupito il fenomeno, per cui gli
spiega che se fosse il solstizio d'estate lui vedrebbe il sole ancora pi a settentrione. Per spiegargli bene
come ci sia possibile, il maestro invita Dante a pensare che Gerusalemme e il Purgatorio sono agli
antipodi e hanno lo stesso orizzonte, essendo al centro degli opposti emisferi; per cui il corso del sole per
chi sta al Purgatorio procede da destra a sinistra, verso nord, mentre per chi sta a Gerusalemme compie il
percorso opposto (verso sud). Dante risponde di aver compreso la spiegazione e di capire che l'Equatore
celeste dista dal Purgatorio esattamente quanto dista da Gerusalemme.
Caratteristiche del monte del Purgatorio (85-96)
Dante chiede a Virgilio quanto durer l'ascesa, poich il monte sembra salire al di l di dove arriva il suo
sguardo. Virgilio risponde che la montagna tale che l'ascesa all'inizio sempre molto faticosa, per man
mano che si procede essa diventa pi agevole; perci, quando la salita sembrer a Dante tanto facile
quanto lo scendere la corrente con una nave, allora sar giunto alla fine del cammino. Solo allora potr
riposare e con questo il maestro pone fine alla sua spiegazione.
Incontro con Belacqua. I pigri a pentirsi (97-139)
Appena Virgilio ha finito di parlare, Dante sente una voce che lo apostrofa e osserva ironicamente che,
forse, prima di arrivare avr bisogno di sedersi. I due poeti si voltano e vedono alla loro sinistra una gran
roccia, che prima non avevano notato, verso la quale procedono e dove trovano delle anime che stanno
all'ombra dietro al sasso con fare negligente. Uno degli spiriti, che a Dante sembra affaticato, sta seduto
con le braccia attorno alle ginocchia, tenendo la testa rivolta in basso. Dante lo indica al maestro come
qualcuno che si mostra tanto negligente che la pigrizia sembra sua sorella. Allora il penitente si volta
verso di loro, muovendo solo lo sguardo lungo la coscia, e invita Dante a salire se capace di tanto. Solo
allora Dante lo riconosce ( Belacqua) e anche se il poeta ancora affannato per l'ascesa va verso il
penitente, il quale alza la testa e gli chiede se ha capito bene la dotta spiegazione sul corso del sole. Dante
ride un poco, poi si rivolge a lui rallegrandosi per la sua salvezza e chiedendogli perch se ne sta l
seduto, invece di salire la montagna. Belacqua ribatte che salire non servirebbe a nulla, in quanto l'angelo
guardiano sulla porta del Purgatorio gli sbarrerebbe il passo: poich stato pigro a pentirsi, ora deve
attendere tutto il tempo della sua vita per accedere alle Cornici, a meno che una preghiera che giunga da
un cuore in grazia di Dio non abbrevi l'attesa. Dante deve poi interrompere il colloquio, perch Virgilio lo
invita a procedere essendo ormai mezzogiorno.
Interpretazione complessiva
Il Canto si apre con una sottile dissertazione di Dante sulla natura dell'anima umana, che egli (seguendo
Aristotele e san Tommaso) ritiene una sola, anche se possiede tre distinte potenze o virt fondamentali,
quella vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva. Di ci, spiega, ha avuto un'esperienza diretta nel
corso del colloquio con Manfredi, che ha assorbito totalmente la sua attenzione e non gli ha permesso di
accorgersi del tempo trascorso: il sole, infatti, gi salito di cinquanta gradi sull'orizzonte e sono dunque
circa le 9.20 del mattino, mentre il gruppo di anime ha ormai guidato i due poeti al varco d'accesso al
monte. La teoria esposta da Dante, che controbatte quella platonica e averroistica della triplice anima
umana (concupiscibile, irascibile, razionale), pu sembrare solo un'arida divagazione filosofica, ma si
inserisce in un complesso discorso sul trascorrere del tempo che centrale nel Canto e che avr il suo
momento culminante nell'incontro col protagonista Belacqua: il tempo dimensione fondamentale nel
Purgatorio, che un luogo eterno come Inferno e Paradiso ma in cui le anime devono compiere un
percorso di espiazione e sono quindi ansiose di poter accedere alle pene, per abbreviare il pi possibile la
loro permanenza l prima di essere ammesse in Paradiso (e il passare del tempo rappresentato
visivamente dal corso del sole, citato da Dante in apertura di episodio, nell'ampia e complessa spiegazione
astronomica posta al centro del Canto e alla fine, con l'avvertenza che gi mezzogiorno e che la notte
giunta all'estremo occidente dell'emisfero boreale).
Dopo essersi separati dai contumaci, i due poeti iniziano quindi ad ascendere verso la parte alta del monte
e la salita inizialmente molto faticosa: devono inerpicarsi lungo uno stretto sentiero scavato nella roccia,
dal quale poi escono in un pendio pi ampio ma sempre molto erto, con Virgilio che fa ovviamente da
guida e Dante che fatica a stargli dietro, aiutandosi con mani e piedi. La salita allegoria del percorso
morale dell'anima umana verso la virt e la salvezza, che naturalmente un percorso difficile, anche se
poi Virgilio spiegher che l'ascesa ardua solo all'inizio e diviene poco alla volta pi agevole, fino ad
essere semplice come seguire la corrente di un fiume. La scena ricorda molto quella di Inf., XXIV, 22 ss.,
quando i due poeti avevano dovuto arrampicarsi lungo la parete della VI Bolgia per raggiungere quella
seguente e una volta arrivati in cima il maestro aveva spronato Dante a proseguire, avvertendolo che
seggendo in piuma, / in fama non si vien, n sotto coltre (47-48): qui l'avvertimento di natura morale,
significa che solo a fatica e a prezzo di sacrificio si raggiunge la sperata salvezza, senza farsi scoraggiare
dalle difficolt. il senso della risposta di Virgilio a Dante, che dopo la dotta spiegazione sul corso del
sole (Dante era stupito di vederlo a nord anzich a sud) chiede al maestro quanto durer ancora la salita,
dal momento che la cima del monte neppure si vede: il maestro lo esorta ad andare al fin d'esto sentiero, /
quivi di riposar l'affanno aspetta, che un invito a seguire la ragione finch questa lo condurr alla meta
agognata, quel Paradiso Terrestre dove lo attende la felicit terrena e, soprattutto, Beatrice.
A questa prima parte del Canto dominata dall'ansia del tempo che scorre, dalla necessit di salire per
raggiungere la virt e dallo sprone di Virgilio a vincere le difficolt con la sollecitudine, fa da
contrappunto ironico la figura di Belacqua, che i due poeti incontrano tra le anime dei pigri a pentirsi che
devono attendere tutto il tempo della loro vita prima di entrare in Purgatorio. L'incontro con l'amico
fiorentino una parentesi affettuosa che ha molte analogie con l'episodio di Casella, anche se qui i toni
sono decisamente ironici (e corrispondono probabilmente al carattere del personaggio e ai suoi rapporti
col poeta): Belacqua ad apostrofare Dante, osservando sarcastico che prima di arrivare in cima al monte
avr bisogno di sedersi, mentre il poeta ribatte indicando a Virgilio quell'anima che siede con aspetto
tanto negligente che la pigrizia sembra sua sorella. Belacqua li guarda senza neppure muovere la testa,
invitando Dante a proseguire visto che pu farlo e chiedendogli con molta ironia se ha ben compreso la
spiegazione del maestro sul corso del sole. L'ironia del penitente doppia, essendo rivolta contro Dante
ma anche contro se stesso, per il quale lo scorrere del tempo ha ben diverso peso dal momento che lunga
sar l'attesa prima di iniziare la purificazione. Ritorna poi il motivo fondamentale soprattutto nei Canti
iniziali del Purgatorio, ovvero la possibilit che le preghiere dei congiunti accorcino la permanenza delle
anime nell'Antipurgatorio e nelle varie Cornici: lo stesso Belacqua, a dispetto dalla sua inerzia e del suo
apparente disinteresse per il sole che compie il suo corso nel cielo, si mostra in fondo ansioso di iniziare a
scontare la propria pena e si augura che una orazione... / che surga s di cuor che in grazia viva lo aiuti ad
abbreviare la sua permamenza l prima di poter attraversare la porta del Purgatorio. la stessa richiesta
che gi Manfredi aveva fatto a Dante alla fine del Canto precedente, sia pure in ben diverso contesto, e
che gli rivolgeranno anche le anime dei morti per forza nei due successivi, anche se in quel caso con ben
maggiore sollecitudine (Dante sar addirittura assediato dalla folla di anime che lo pregano di ricordarli ai
vivi, in una scena concitata che sar antitetica alla immobilit della descrizione di Belacqua).

Note e passi controversi


Il v. 15 indica che il sole ha percorso cinquanta gradi sull'orizzonte, quindi sono passate circa tre ore e
venti minuti dall'alba (il sole compie quindici gradi in un'ora); poich in questa stagione il sole sorge circa
alle 6 antimeridiane, sono circa le 9.20 del mattino.
La calla del v. 22 indica probabilmente un'apertura nella roccia, pi che semplicemente un sentiero.
Le localit citate ai vv. 25-26 sono luoghi montani difficili da scalare: Sanleo un piccolo borgo presso S.
Marino, arroccato su un alto e scosceso colle; Noli una cittadina della Liguria di ponente, circondata da
monti alti e di difficile accesso; il Bismantova un monte dell'Appennino emiliano, dalle pareti a
strapiombo; il Cacume una cima del gruppo dei Lepini, vicino a Frosinone (alcuni mss. leggono in
cacume, sulla vetta, riferito al Bismantova).
Condotto (v. 29) prob. sostantivo e indica probabilmente la guida, Virgilio (altri lo interpretano come
participio riferito a Dante: io guidato dietro a quello...).
L'espressione al v. 37 (nessun tuo passo caggia) non molto chiara e potrebbe voler dire nessun tuo
passo cada a vuoto, oppure nessun tuo passo vada in discesa, come raccomandazione a proseguire
l'ascesa.
Il v. 42 indica che la pendenza era maggiore di 45 gradi: il quadrante era uno strumento usato dagli
astronomi per determinare l'altezza degli astri, con un quarto di cerchio graduato e un'asticciola fissa al
centro, qui detta lista.
Il v. 54 pu voler dire che guardare il percorso compiuto fa piacere, ma anche che guardare il levante, cio
il sole nascente, di buon auspicio.
Aquilone (v. 60) indica il settentrione, da dove spira quel vento: Dante intende dire che, rivolto a est, ha il
sole alla sua sinistra, cio verso nord come consueto nell'emisfero australe, e non a destra come
accadrebbe nell'emisfero boreale.
I vv. 61-66 indicano che se la costellazione dei Gemelli (Castore e Poluce) fosse in congiunzione con il
sole (lo specchio / che s e gi del suo lume conduce), cio se fosse il solstizio d'estate, Dante vedrebbe il
sole stesso (il Zodiaco rubecchio, ovvero la parte dello Zodiaco rosseggiante per il sole) che ruota ancora
pi vicino alle Orse, quindi con una pi forte componente nord.
I vv. 71-72 (la strada / che mal non seppe carreggiar Fetn) alludono al mito di Fetonte, che ottenne dal
padre Apollo di guidare il carro del sole: per la sua imperizia non seppe trattenere la foga dei cavalli, usc
dal percorso tracciato incendiando il cielo (da qui l'origine leggendaria della Via Lattea) e venne
fulminato da Giove, che lo precipit nel fiume Eridano (che venne identificato col Po).
Il mezzo cerchio del moto superno (v. 79) il cerchio meridiano del Primo Mobile, che corrisponde
all'Equatore celeste.
I versi finali (137-139) indicano che il sole tocca il meridiano, quindi mezzogiorno, e nell'esmisfero
boreale la notte copre ormai col suo piede il Marocco, cio l'estremo occidente.

Purgatorio, Canto V
Argomento del Canto
Dante e Virgilio lasciano le anime dei pigri e raggiungono il secondo balzo dell'Antipurgatorio. Incontro
con i morti per forza. Colloquio con Iacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia de' Tolomei.
mezzogiorno di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300.
Dante e Virgilio lasciano i pigri. Rimprovero di Virgilio (1-21)
Dante e Virgilio hanno appena lasciato le anime dei pigri nel primo balzo dell'Antipurgatorio, quando una
di esse si accorge che Dante proietta un'ombra e lo addita agli altri, come un uomo vivo. Dante si volta e
vede le anime che continuano a indicarlo, finch il maestro gli chiede perch si attardi nell'ascesa badando
alle chiacchiere di quelle anime; lo esorta a seguirlo senza ascoltare nessuno, come una torre che resta
salda nonostante i venti, perch l'uomo che si perde in troppi pensieri non raggiunge l'obiettivo che si
proposto. Dante accetta il rimprovero e segue Virgilio, col viso cosparso di rossore.
Incontro con le anime dei morti per forza (22-63)
Intanto, lungo un ripiano roccioso trasversale alla montagna, delle anime che cantano il Miserere vengono
incontro ai due poeti: quando si accorgono che Dante proietta un'ombra, emettono una esclamazione di
stupore e due loro corrono incontro ai due chiedendo loro di spiegare la propria condizione. Virgilio
risponde dicendo che Dante vivo ed in carne e ossa, e li invita a riferire il messaggio ai loro compagni
in quanto ci potr essergli utile. Le anime corrono su per il balzo rapidissime, come stelle cadenti nel
cielo notturno o lampi al calar del sole, quindi insieme agli altri penitenti raggiungono velocemente i due
poeti. Virgilio raccomanda a Dante di essere breve, dato il gran numero di anime, e di limitarsi ascoltare
le loro preghiere senza arrestarsi.
I penitenti seguono Dante e lo esortano a rallentare un poco, invitandolo a guardarli e dire se in vita ha
mai visto qualcuno di loro. Essi, spiegano, furono tutti morti per forza e peccatori fino all'ultima ora,
quando si pentirono delle loro colpe e morirono in grazia di Dio. Dante li osserva uno a uno, ma non ne
riconosce nessuno; tuttavia li invita a parlare e, se potr fare qualcosa per loro, sar ben lieto di esaudire
ogni loro richiesta in nome di quella pace di cui egli stesso in cerca.
Colloquio con Iacopo del Cassero (64-84)
Uno degli spiriti (Iacopo del Cassero) dice che essi si fidano di Dante senza bisogno di giuramenti, quindi
lo prega, se mai andr nel paese posto tra la Romagna e il regno di Napoli (la Marca Anconetana), di
pregare a sua volta i suoi conoscenti a Fano affinch essi preghino per abbreviare la sua permanenza
nell'Antipurgatorio. Lui originario di Fano, ma le ferite che lo hanno ucciso gli furono inferte in
territorio padovano, dove credeva di essere al sicuro: il colpevole fu Azzo d'Este, adirato con lui ben al di
l del lecito. Se lui fosse fuggito verso la Mira, sul Brenta, quando fu raggiunto dai suoi assassini ad
Oriago, sarebbe ancora vivo; invece rimase impigliato nella palude e cadde a terra vedendo spargersi il
suo sangue.
Colloquio con Bonconte da Montefeltro (85-129)
Un altro spirito prende la parola, augurando a Dante di raggiungere la sommit del monte e pregandolo di
aiutarlo. Si presenta com Bonconte da Montefeltro, la cui vedova non si cura di lui sulla Terra, per cui il
penitente va con la fronte bassa. Dante gli chiede quale circostanza fece s che il suo corpo non fosse mai
ritrovato dopo la sua morte nella battaglia di Campaldino: il penitente risponde che ai piedi del Casentino
scorre un fiume di nome Archiano, che nasce in Appennino e sfocia in Arno. Qui Bonconte arriv con la
gola squarciata, a piedi e sanguinante, e prima di morire si pent nominando Maria: una volta morto, la
sua anima fu presa da un angelo, mentre un diavolo protestava perch, a causa del suo tardivo pentimento,
non poteva portarlo all' Inferno. Il demone infier per sul suo corpo: Bonconte spiega che nell'atmosfera
si raccoglie l'umidit che si trasforma in pioggia a causa del freddo, per cui il diavolo us il suo potere per
scatenare una terribile tempesta che copr di nebbia tutta la pianura e rivers una gran quantit d'acqua a
terra. Il suolo non la pot assorbire tutta ed essa riemp i fossati confluendo poi nei fiumi, fino all'Arno; le
acque dell'Archiano, con la sua corrente rapinosa, trascinarono via il corpo di Bonconte nell'Arno,
sciogliendo il segno della croce che lui aveva fatto in punto di morte, quindi il suo cadavere fu seppellito
sul fondale del fiume.
Colloquio con Pia de' Tolomei (130-136)
Appena Bonconte ha terminato di parlare, prende la parola l'anima di una penitente: costei chiede a
Dante, quando sar tornato nel mondo e si sar riposato del suo lungo cammino, di ricordarsi di lei, Pia
de' Tolomei: era nata a Siena e poi mor violentemente in Maremma, come ben sa l'uomo che l'aveva
chiesta in sposa e le aveva dato l'anello nuziale.
Interpretazione complessiva
Il Canto inizia coi due poeti che si allontanano dal primo balzo dell'Antipurgatorio, mentre le anime dei
pigri si accorgono che Dante vivo e iniziano a indicarlo con insistenza, inducendolo a fermarsi e a
guardarli. La cosa suscita il rimprovero di Virgilio al discepolo, accusato di perdere tempo ascoltando ci
che quivi si pispiglia, invece di affrettarsi a seguirlo per raggiungere la sommit del monte: il richiamo del
maestro sembrato eccessivo ad alcuni commentatori, ma esso si inserisce nel discorso sul tempo che ha
occupato buona parte del Canto IV e che fondamentale nel secondo regno, dove le anime, incluso
Dante, devono compiere un percorso che richiede impegno e fatica, per cui attardarsi oziosamente
inutile e contrario al loro dovere (si anche pensato a un riferimento alle critiche che il poeta ricevette per
la sua condotta politica, in particolare per il suo rifiuto a rientrare a Firenze nel 1315, per cui
l'ammonimento di Virgilio a non badare alle chiacchiere di gente inferiore, di mantenersi saldo nei suoi
propositi sapendo di essere dalla parte della ragione). Fatto sta che Dante prova vergogna per il
rimprovero, in modo simile a Inf., XXX, 130-148, e si affretta a seguire il maestro fino al secondo balzo,
dove incontrano la schiera delle anime dei morti per forza.
Qui la reazione dei penitenti di stupore come quella delle altre anime gi incontrate, anche se il loro
atteggiamento del tutto opposto a quello dei pigri: questi penitenti mandano subito dei messaggeri per
chiedere notizie dei due viaggiatori, quindi tornano dai loro compagni con la notizia che Dante vivo
correndo velocissimi, come stelle cadenti che fendono il cielo notturno o lampi che squarciano il cielo
estivo al tramonto. La loro concitazione segna tutto l'episodio e l'inizio del successivo, creando un forte
contrasto con l'inerzia e l'immobilit di pigri: queste anime rincorrono letteralmente Dante (cui Virgilio ha
raccomandato di non fermarsi e di ascoltare camminando), lo assediano, lo esortano a rallentare il passo
in modo insistente (deh, perch vai? deh, perch non t'arresti?). La loro preoccupazione, come per tutte le
anime dell'Antipurgatorio, di essere ricordati ai vivi perch questi, con le loro preghiere, possono
abbreviare la loro attesa, cosa che vale soprattutto per loro che essendo morti violentemente e avendo
peccato fino all'ultima ora potevano essere creduti all'Inferno. Dante presenta tre di queste anime, la cui
rapida successione scandisce i vari momenti della seconda parte del Canto: sono tre episodi molto diversi,
per il tono e la funzione narrativa che ciascuno di essi assolve e anche per estensione, dal momento che
quello di Bonconte decisamente pi ampio degli altri due che gli fanno, per cos dire, da cornice.
Il primo a parlare Iacopo del Cassero, che non dice il proprio nome (la sua storia era talmente nota che
l'identificazione non lasciava dubbi) e dopo aver pregato Dante di sollecitare le preghiere dei congiunti
racconta la vicenda della sua uccisione. Le sue parole sono un duro atto d'accusa contro il mandante dei
suoi sicari, quell'Azzo VIII d'Este gi citato da Dante come uccisore del proprio padre in Inf., XII, 112 e
spesso da lui esecrato come spietato tiranno; Iacopo descrive la crudezza della sua morte, che avvenne l
dove credeva di essere al sicuro (in grembo a li Antenori, nel padovano), ed esprime un certo rimpianto
per il fatto di essere rimasto impacciato nella palude di Oriago dove fu ferito a morte, cosa che gli imped
di essere soccorso e, forse, di sopravvivere.
Molto diverso il discorso di Bonconte da Montefeltro, che si presenta e suscita la curiosit di Dante,
poich il suo corpo non era mai stato trovato sul campo di Campaldino dove egli era caduto, nella stessa
battaglia cui il poeta aveva preso parte. Il racconto di Bonconte delinea uno scenario grandioso e solenne,
che riprende per contrasto (anche di toni) il racconto simile che il padre Guido aveva fatto a Dante nel
Canto XXVII dell'Inferno, in quel caso credendo che le sue parole non sarebbero arrivate nel mondo.
Bonconte invita invece Dante a riferire a' vivi la verit di quanto accadde a Campaldino: la sua anima
venne contesa tra un angelo e un diavolo, ma l'esito di questo contrasto era stato opposto a quello narrato
da Guido, in quanto Bonconte si era pentito sinceramente e dunque la sua anima era destinata al
Purgatorio. A quel punto il diavolo aveva scatenato una terribile tempesta che trascin via il cadavere di
Bonconte, seppellendolo sul fondale dell'Arno e non facendolo pi ritrovare: il racconto del penitente
importante e crea un voluto contrasto con l'episodio del padre Guido, poich quello era da tutti creduto
salvo per la sua monacazione e invece finito dannato per la non sincerit del suo pentimento, mentre
Bonconte si realmente pentito e ora salvo, anche se la sua morte violenta e la scomparsa dal cadavere
potevano far credere alla sua dannazione. La salvezza di Bonconte l'ennesimo caso di una rivelazione
inattesa che sconfessa la credenza popolare su un personaggio, meno clamoroso di quello di Manfredi o di
altri, ma egualmente significativo del fatto che solo Dio pu leggere la bont del pentimento nel cuore
dell'uomo e nessuno, quindi, pu sapere con certezza quale sar il destino ultraterreno di un personaggio.
L'episodio si chiude con la parentesi delicatissima di Pia de' Tolomei, che prende la parola dopo la
grandiosa descrizione delle potenze infernali con pochi versi di straordinaria dolcezza: la penitente
meno insistente degli altri, prega Dante di ricordarsi di lei quando sar tornato sulla Terra ed essersi
riposato de la lunga via (l'accento torna sulla fatica del cammino, che il poeta compie per purificarsi e con
tutto il corpo). Gli ultimi tre versi del Canto sono come un'epigrafe funeraria, con l'indicazione del luogo
di nascita e di morte della fanciulla (Siena mi f, disfecemi Maremma, che anche un chiasmo) e
l'accusa, molto velata e in tono col personaggio, rivolta al marito di averla uccisa, senza alcuna parvenza
di rancore o di biasimo. Non conosciamo la causa esatta di questo omicidio, che forse non era nota
neppure a Dante, quindi impossibile dire se Pia con le sue parole voglia protestare la sua innocenza, o
scusare il marito per averla assassinata, o ancora esprimere il perdurare del suo amore per lui nonostante
quel che ha fatto: non escluso che qui, come in altri casi nel poema (Ugolino, ad es., sia pure in un
contesto lontanissimo da questo) Dante voglia lasciare le cose nell'indeterminatezza, chiudendo il Canto
con questa figura fragile e delicata che costituisce quasi una pausa al tono concitato dell'intero episodio (e
che riprender all'inizio del seguente, con Dante che faticher a liberarsi delle anime che lo assillano con
una certa petulanza, rispetto alle quali Pia rappresenta una notevole eccezione).
Note e passi controversi
Alcuni mss. al v. 14 leggono fermo, riferito a Dante e non alla torre, ma lezione poco probabile.
Il verbo insolla (v. 18) significa indebolisce e deriva dall'aggettivo sollo, debole.
In forma di messaggi (v. 28) vuol dire in qualit di messaggeri.
L'espressione vapori accesi (v. 37) significa sia stelle cadenti sia lampi: fa da soggetto al verbo
fender che ha come compl. ogg. rispettivamente sereno e nuvole d'agosto; sol calando ha valore di un
ablativo assoluto latino e vuol dire al calare del sole.
Il v. 66 significa purch l'impossibilit non impedisca la tua buona volont; nonpossa parola
composta come noncuranza.
Il paese (v. 68) che sta tra la Romagna e il regno di Napoli, governato da Carlo II d'Angi, la Marca
Anconetana dove sorgeva Fano.
L'espressione in sul quale io sedea (v. 74) vuol dire sul quale (sangue) io, anima, avevo la mia sede (era
opinione diffusa, nella fisiologia medievale, che l'anima umana risiedesse nel sangue.
Il territorio di Padova detto in grembo a li Antenri (v. 75) perch secondo un'antica leggenda Antenore
aveva fondato la citt veneta.
Il braco citato al v. 82 il fango (cfr. Inf., VIII, 50: come porci in brago).
Al v. 88 Bonconte si presenta e usa due diversi tempi (fui... son), a indicare ci che fu in vita, cio
membro della casata di Guido da Montefeltro, e ci che continua a essere come individuo.
L'Archiano (v. 95) un affluente di sinistra dell'Arno, che vi sfocia dopo aver attraversato la pianura del
Casentino e che nasce presso l'Eremo (Ermo) di Camaldoli, in un luogo boscoso presso il Falterona,
sull'Appennino. Il suo nome diventa vano (v. 97) nel punto in cui sfocia nell'Arno.
Ai vv. 100-102 alcuni editori moderni mettono una virgola dopo vista e legano la parola al verbo fin
(prima persona singolare); in tal caso si dovrebbe leggere: Qui persi la vista e le mie parole finirono col
nome di Maria.... L'interpretazione convincente, anche se il verbo finire nel senso di morire
ampiamente attestato nella lingua del Trecento.
L'etterno (v. 106) l'anima di Bonconte, mentre l'altro (v. 108) il corpo; da notare la replicazione de
l'altro altro governo.
I vv. 112-113 sono stati variamente interpretati, ma il senso pi probabile sembra essere questo: quello
(il demonio) un la volont malvagia (mal voler), che ricerca solo il male, all'intelletto.... Era opinione
dei teologi che il diavolo avesse il potere di agire sugli elementi atmosferici.
Il gran giogo (v. 116) non indica forse una cima in particolare, ma l'ultimo tratto dell'Alpe di Serra (detto
anche giogana).
Il fiume real (v. 122) l'Arno, che nel Trecento era detto cos come tutti i fiumi che sfociavano in mare.
Il v. 129 che chiude il racconto di Bonconte (poi di sua preda mi coperse e cinse) sembrato a molti
commentatori particolarmente lapidario, tanto da essere accostato alla chiusa del racconto di Ulisse (Inf.,
XXVI, 142): infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.
Il verbo salsi (v. 135) forma contratta di sallosi e significa lo sa.
Alcuni mss. leggono al v. 136 disposata, che darebbe alla frase questo senso: colui che mi aveva sposata
dopo che ero stata gi inanellata, quindi in seconde nozze (di un primo matrimonio di Pia non abbiamo
alcuna notizia certa); pi probabile la lezione a testo, poich il disposare e l'inanellare erano i due atti
della cerimonia religiosa, in quanto col primo si dichiarava la volont di sposare, col secondo si poneva
l'anello come segno di tale volont.

Purgatorio, Canto VI
Argomento del Canto
Ancora fra i morti per forza del secondo balzo dell'Antipurgatorio. Incontro con l'anima di Sordello da
Goito. Invettiva contro l'Italia. Apostrofe contro Firenze.
il pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle tre.
I morti per forza si affollano intorno a Dante (1-24)
Dante spiega che quando finisce il gioco della zara, il perdente resta solo e impara a sue spese come
comportarsi nella prossima partita, mentre tutti si affollano intorno al vincitore, attirando la sua
attenzione; quello non si ferma, ma si difende dalla calca dando retta a tutti e porgendo la mano all'uno e
all'altro. Lo stesso fa il poeta attorniato dalle anime dei morti per forza, rivolgendosi ora a questo ora a
quello, e si allontana promettendo. Tra le anime c' quella dell'Aretino che fu ucciso da Ghino di Tacco e
Guccio de' Tarlati che mor annegato; ci sono Federico Novello e il pisano che fece sembrare forte il
padre Marzucco; ci sono il conte Orso degli Alberti e l'anima di Pierre de la Brosse, che dice di essere
stato ucciso per invidia e non per colpa, per cui Maria di Brabante dovrebbe pentirsi per evitare di finire
tra i dannati.
Virgilio spiega l'efficacia della preghiera (25-57)
Non appena Dante riesce a liberarsi dalle anime che lo pressano, si rivolge a Virgilio e gli ricorda come in
alcuni suoi versi egli nega alla preghiera il potere di piegare un decreto divino. Queste anime si augurano
proprio questo, quindi Dante non sa se la loro speranza vana, oppure se non ha capito bene ci che
Virgilio ha scritto. Il maestro risponde che i suoi versi sono chiari e la speranza di tali anime ben riposta,
a patto di giudicare con mente sana: infatti il giudizio divino non si piega solo perch l'ardore di carit
della preghiera compie in un istante ci che devono scontare queste anime. Nei versi dell'Eneide in cui
Virgilio parlava di questo, inoltre, la colpa non veniva lavata dalla preghiera, poich questa era disgiunta
da Dio. Virgilio esorta Dante a non tenersi il dubbio e ad attendere pi profonde spiegazioni da parte di
Beatrice, che illuminer la sua mente e lo aspetta sorridente sulla cima del monte. A questo punto Dante
invita il maestro ad affrettare il passo, essendo molto meno stanco di prima e osservando che il monte
proietta gi la sua ombra ( pomeriggio). Virgilio dice che procederanno sino alla fine del giorno, quanto
pi potranno, ma le cose stanno diversamente da come lui pensa. Prima di arrivare in cima, infatti, Dante
vedr il sole tramontare e poi risorgere.
Incontro con Sordello da Goito (58-75)
Virgilio indica a Dante un'anima che se ne sta in disparte e guarda verso di loro, che potr indicare la via
pi rapida per salire. Raggiungono quell'anima che, come si sapr, lombarda, e sta con atteggiamento
altero e muove gli occhi in modo assai dignitoso. Lo spirito non dice nulla e lascia che i due poeti si
avvicinino, guardandoli come un leone in attesa. Virgilio si avvicina a lui e lo prega di indicargli il
cammino migliore, ma quello non risponde alla domanda e gli chiede a sua volta chi essi siano e da dove
vengano. Virgilio non fa in tempo a dire Mantova... che subito l'anima va ad abbracciarlo e si presenta
come Sordello, originario della sua stessa terra.
Invettiva contro l'Italia (76-126)
Dante a questo punto prorompe in una violenta invettiva contro l'Italia, definita sede del dolore e nave
senza timoniere in una tempesta, non pi signora delle province dell'Impero romano ma bordello: l'anima
di Sordello stata prontissima a salutare Virgilio solo perch ha saputo che della sua stessa terra, mentre
i cittadini italiani in vita si fanno guerra, anche quelli che abitano nello stesso Comune. L'Italia dovrebbe
guardare bene entro i suoi confini e vedrebbe che non c' parte di essa che gode la pace. A che servito
che Giustiniano ordinasse le leggi se poi non c' nessuno a metterle in pratica? Gli Italiani dovrebbero
permettere all'imperatore di governarli, invece di lasciare che il paese vada in rovina, affidato a gente
incapace. Dante accusa l'imperatore Alberto I d'Asburgo di abbandonare l'Italia, diventata una bestia
sfrenata, mentre dovrebbe essere lui a cavalcarla: si augura che il giudizio divino colpisca duramente lui e
i discendenti, perch il successore ne abbia timore. Infatti Alberto e il padre (Rodolfo d'Asburgo) hanno
lasciato che il giardino dell'Impero sia abbandonato: Alberto dovrebbe venire a vedere le lotte tra famiglie
rivali, gli abusi subti dai suoi feudatari, la rovina della contea di Santa Fiora. Dovrebbe vedere Roma che
piange e si lamenta di essere abbandonata dal suo sovrano, la gente che si odia, e se non gli sta a cuore la
sorte del paese dovrebbe almeno vergognarsi della sua reputazione. Dante si rivolge poi a Giove (Cristo),
crocifisso in Terra per noi, e gli chiede se rivolge altrove lo sguardo oppure se prepara per l'Italia un
destino migliore di cui non si sa ancora nulla. Le citt d'Italia, infatti, sono piene di tiranni e ogni
contadino che sostenga una parte politica viene esaltato come un Marcello.
Invettiva contro Firenze (127-151)
Dante osserva ironicamente che Firenze pu essere lieta del fatto di non essere toccata da questa
digressione, visto che i suoi cittadini contribuiscono alla sua pace. Molti sono giusti e tuttavia sono restii a
emettere giudizi, mentre i fiorentini non hanno alcun timore e si riempiono la bocca di giustizia; molti
rifiutano gli uffici pubblici, mentre i fiorentini sono fin troppo solleciti ad assumersi le cariche politiche.
Firenze dev'essere lieta, perch ricca, pacifica e assennata: Atene e Sparta, citt ricordate per le prime
leggi scritte, diedero un piccolo contributo al vivere civile rispetto a Firenze, che emette deliberazioni cos
sottili (cio esili) che quelle di ottobre non arrivano a met novembre. Quante volte la citt, a memoria
d'uomo, ha mutato le sue usanze! E se Firenze bada bene e ha ancora capacit di giudizio, ammetter di
essere simile a un'ammalata che non trova riposo nel letto e cerca di lenire le sue sofferenze rigirandosi di
continuo.
Interpretazione complessiva
Il Canto di argomento politico ed dedicato all'Italia, simmetricamente al VI dell'Inferno in cui si
parlava di Firenze e al VI del Paradiso in cui si parler dell'Impero (secondo un crescendo che allarga
progressivamente il campo, dalla citt di Dante all'Europa cristiana). In realt il Canto VI del Purgatorio
strettamente legato al VII con cui forma una sorta di dittico, in quanto nell'episodio successivo Sordello
mostrer ai due poeti i principi negligenti della valletta e biasimer i loro successori che rappresentano
una degenerazione rispetto a loro e si sono macchiati di gravi colpe politiche, di cui i sovrani passati in
rassegna si rammaricano. La scelta di Sordello quale protagonista dei due Canti non casuale, in quanto il
trovatore lombardo aveva scritto un famoso Compianto in morte di Ser Blacatz in cui biasimava i principi
suoi contemporanei per la loro codardia e li invitava a cibarsi del cuore del nobile defunto per acquistarne
la virt, per cui non sorprende che sia lui a passare in rassegna le anime confinate nella valletta e, in
questo Canto, a consentire a Dante di lanciare la sua violenta invettiva all'Italia (del resto anche i suoi
versi avevano il tono di una satira e di un'apostrofe ai potenti del sec. XIII).
Anche l'inizio dell'episodio in linea con la sua conclusione, in quanto la rassegna dei morti per forza che
assillano Dante perch li ricordi ai congiunti ci porta nel vivo delle lotte politiche che dilaniavano i
Comuni dell'Italia del tempo: tranne Pierre de la Brosse, vittima degli intrighi alla corte di re Filippo III,
gli altri sono tutti italiani protagonisti delle lotte tra Guelfi e Ghibellini o vittime di vendette ed odi
familiari, tra i quali figura anche il figlio di uno dei conti di Mangona gi visti coi traditori dei parenti
nella Caina (Inf., XXXII) e il figlio di Marzucco degli Scornigiani, ucciso dal conte Ugolino (Inf.,
XXXIII) nell'ambito delle lotte interne al Comune di Pisa. Tra questo esordio e l'incontro con Sordello si
inserisce la parentesi dedicata a chiarire il passo dell'Eneide (VI, 376) in cui la Sibilla diceva a Palinuro
che le sue preghiere non avrebbero piegato i decreti degli dei (egli chiedeva con insistenza di essere
traghettato di l dell'Acheronte pur essendo insepolto). Dante espone il suo dubbio a Virgilio, in quanto
l'insistenza delle anime che si lasciato alle spalle sembra contraddire con quanto detto dal poeta latino, il
quale spiega che i suffragi dei vivi per i penitenti non annullano l'espiazione delle loro colpe, ma fanno
soltanto in modo che questa avvenga pi rapidamente; nel caso di Palinuro, poi, la preghiera non era
rivolta al Dio cristiano e dunque era priva di valore. La chiosa di Virgilio importante perch sottolinea
una volta di pi il valore delle preghiere dei vivi per i penitenti, nel che si avverte la polemica di Dante
contro la Chiesa corrotta che lucrava sui suffragi sfruttando il dolore dei congiunti per i loro defunti in
Purgatorio; il maestro rimanda il discepolo alle pi dettagliate spiegazioni di Beatrice, che in quanto
allegoria della teologia arriver l dove la ragione umana non pu giungere (e basta che Dante senta il suo
nome perch metta fretta alla sua guida, mentre Virgilio lo avvertir del fatto che l'ascesa del monte
durer pi di quanto pensa).
Segue poi l'incontro con Sordello, mostrato da Dante in tutto il suo aspetto regale e dignitoso mentre
osserva in silenzio e con fare altezzoso i due poeti che si avvicinano, a guisa di leon quando si posa:
stato osservato che ci sono molte analogie tra la presentazione di Sordello e quella di Farinata Degli
Uberti, con la differenza fondamentale che il dannato non mutava atteggiamento in tutto il colloquio con
Dante e si mostrava ancora prigioniero della logica delle lotte politiche, mentre a Sordello sufficiente
sentire che Virgilio viene da Mantova per perdere ogni alterigia e gettarsi ad abbracciarlo affettuosamente
(nel Canto seguente, dopo averne appreso l'identit, si inchiner di fronte a lui per rispetto). E infatti
proprio l'affetto di Sordello verso un suo concittadino di cui non sa ancora il nome a far scattare la
violenta invettiva di Dante contro l'Italia, che parte dal fatto che nell'Italia del suo tempo i cittadini sono
in lotta l'uno contro l'altro e addirittura entro la stessa citt, come dimostra l'elenco delle anime all'inizio
del Canto e come dichiara lo stesso esempio di Firenze che torner alla fine. Dante riconduce la causa
principale di tali lotte all'assenza di un potere centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere
garantito dall'Impero: l'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e assicurare pace e giustizia agli
Italiani, invece il paese ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca n governa (e a poco serve
che Giustiniano le avesse sistemato il freno, cio avesse emanato il Corpus iuris civilis visto che nessuno
fa rispettare le leggi). L'immagine del paese come un cavallo che dev'essere domato la stessa usata nella
Monarchia (III, 15) e nel Convivio (IV, 9), dove si dice che il potere temporale ha soprattutto il compito di
assicurare il rispetto delle leggi: la polemica rivolta contro i Comuni italiani ribelli, che come Firenze
non si sottomettono all'autorit imperiale, ma anche contro il sovrano stesso che rinuncia a esercitare i
suoi diritti, come Alberto I d'Asburgo che lascia la sella vta e preferisce occuparsi delle cose tedesche,
seguendo il cattivo esempio del padre Rodolfo I. Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo
divino, in modo da indurre il successore Arrigo VII a comportarsi diversamente; nella visione
anacronistica di Dante l'imperatore detiene un potere che deriva da quello dell'Impero romano di Cesare e
Augusto, quindi il suo compito quello di ristabilire la sua autorit su tutta Italia stroncando con la forza
ogni resistenza, specie quella dei Comuni guelfi alleati col papa ( quanto Arrigo VII tenter invano di
fare nel 1310-1313 e i toni usati da Dante in questi versi ricordano molto quelli dell'Epistola VII a lui
indirizzata: molto discusso se, al momento della composizione del Canto, Arrigo fosse gi sul trono
oppure no).
L'ultima parte dell'invettiva si rivolge a Firenze, che come Dante afferma con amara ironia non toccata
da questa sua apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperit (l'antifrasi
l'artificio usato in questi versi finali, con un sarcasmo quanto mai tagliente). I fiorentini si riempiono la
bocca della parola giustizia, mentre Dante stesso un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i
loro nemici; essi sono fin troppo solleciti ad assumersi l'onere di cariche politiche, al fine di arricchirsi e
di colpire i nemici (da notare l'insistenza delle accuse, con l'anafora Molti... ai vv. 130, 133 e tu
nell'allocuzione al v. 137, come gi c'era la quadruplice anafora di Vieni... ai vv. 106-115 nell'allocuzione
ad Alberto I). Atene e Sparta fecero ben poco rispetto a Firenze, i cui provvedimenti di legge sono cos
sottili (l'aggettivo ambiguo, potendo significare elaborati o fragili) che durano solo poche
settimane, mentre la citt cambia nel breve volgere di tempo tutti i suoi costumi, simile a un'ammalata che
si rigira nel letto senza trovare pace. L'ultima immagine molto efficace, in quanto riassume la triste
condizione di tante citt italiane piene... di tiranni, come stato detto prima, e in cui anche i cittadini di
pi umile condizione diventano capi-fazione e sono pronti a commettere ogni sorta di abuso; un tema
gi affrontato varie volte da Dante nel poema e che torner soprattutto nei Canti in cui si affronter ancora
la spinosa questione dell'autorit imperiale (ad es. il XVI del Purg., ma anche il VI e i XIX-XX del Par., al
centro dei quali sar il tema della giustizia terrena). Del resto il poema nel suo complesso un duro atto di
accusa contro il disordine politico e morale dell'Italia del Trecento, che trovava la sua radice prima nella
cupidigia nonch nelle lotte tra citt che insanguinavano il giardin de lo 'mperio, unitamente alla
corruzione ecclesiastica che sovvertiva ogni giustizia calcando i buoni e sollevando i pravi ( chiaro che
in questa visione Firenze non poteva che essere l'esempio negativo per eccellenza, quindi non stupisce
che l'invettiva all'Italia si chiuda proprio con la dura apostrofe dedicata alla citt che aveva ingiustamente
esiliato Dante per il suo ben far).

Note e passi controversi


La zara (v. 1, dall'arabo zahr, dado) era un gioco simile alla morra, assai diffuso nell'Oriente bizantino e
a cui si giocava in due gettando tre dadi su un tavolo. Repetendo le volte (v. 3) indica probabilmente che il
perdente ritenta le gettate dei dadi, o forse che ripensa al gioco.
L'espressione correndo in caccia (v. 15) pu voler dire inseguendo o essendo inseguito, da cui la
dubbia interpretazione del verso.
I vv. 17-18 alludono forse al fatto che Marzucco, il padre di Gano (o Farinata) qui ricordato, segu il
funerale del figlio ucciso senza lacrime.
Inveggia (v. 20, invidia) deriva dal prov. enveja.
Alcuni mss. al v. 48 leggono ridente e felice, ma lezione molto dubbia (ridere dipende dal verbo vedrai
ed riferito a Beatrice).
L'immagine dell'Italia come una nave senza timoniere (v. 77) usata anche in Conv., IV, 4, dove il
nocchiero dev'essere per Dante proprio l'imperatore.
L'espressione donna di province (v. 78) vuol dire signora delle province e rievoca l'antico Impero
romano di cui l'Italia era centro.
Al v. 93 (ci che Dio ti nota) Dante allude probabilmente a Matth., XXII, 21 (Reddite ergo, quae sunt
Caesaris, Caesari et, quae sunt Dei, Deo, Date dunque a Cesare quel che di Cesare e a Dio quel che di
Dio), quindi alla separazione tra potere temporale e spirituale; in tal caso la gente che dovrebbe essere
devota il corpo ecclesiastico.
Il v. 96 indica che gli Italiani (o la Chiesa) non permettono all'imperatore di montare in sella (cio di
governare il paese) e conducono il cavallo a mano per la predella, la parte della briglia attaccata al morso
(dunque l'Italia mal governata).
Montecchi e Cappelletti (v. 106) erano due famiglie rivali, la prima ghibellina di Verona, la seconda
guelfa di Cremona, invece Monaldi e Filippeschi (v. 107) erano casate di Orvieto, una guelfa e l'altra
ghibellina: mentre nel primo caso le famiglie citate erano gi in rovina (gi tristi), nel secondo esse
presagivano la futura decadenza (con sospetti).
I gentili citati al v. 110 sono i feudatari dell'Impero, che sono vittime o artefici di oppressioni (a seconda
del senso di pressure) e le cui magagne (le colpe commesse o i danni subti) Alberto d'Asbugo dovrebbe
curare; la contea di Santafior era l'esempio di una famiglia feudale caduta in disgrazia.
Il Marcel citato al v. 125 potrebbe essere il pompeiano G. Claudio Marcello, avversario irriducibile di
Cesare, o anche M. Claudio Marcello, espugnatore di Siracusa e salvatore della patria: Dante vorrebbe
dire che ogni contadino che si mette a capo di una fazione si atteggia a ribelle dell'autorit imperiale, o a
salvatore della patria (le due interpretazioni non si escludono a vicenda).
L'espressione se... vedi lume (v. 148) vuol dire se vedi chiaramente.
Purgatorio, Canto VII
Argomento del Canto
Ancora nel secondo balzo dell'Antipurgatorio. Colloquio tra Virgilio e Sordello, che spiega la legge della
salita nel Purgatorio. I tre poeti raggiungono la valletta. Sordello passa in rassegna i principi negligenti.
il tardo pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, fra le quattro e le sei.
Colloquio tra Virgilio e Sordello (1-39)
Sordello, dopo aver ripetuto alcune volte le sue felicitazioni al concittadino Virgilio, chiede a lui e Dante
chi siano e il poeta latino risponde di essere morto quando Ottaviano era al potere, prima dell'avvento del
Cristianesimo. Si presenta come Virgilio e dichiara di non essere salvo solo per non aver avuto fede. A
questo punto Sordello resta stupito e incredulo, poi abbassa lo sguardo e abbraccia Virgilio alle ginocchia
in segno di rispetto, rivolgendogli parole di elogio per la sua altissima poesia e chiedendogli infine se
viene dall'Inferno e da quale Cerchio. Virgilio ribatte di aver attraversato tutto l'Inferno e di essere guidato
dalla virt divina, quindi ribadisce di non essere salvo solo per non aver creduto in Dio. Spiega inoltre di
provenire dal Limbo, dove le anime non subiscono alcun tormento e dove lui risiede insieme ai bambini
innocenti che sono morti prima del battesimo, e a coloro che hanno posseduto le virt cardinali ma non
quelle teologali. Virgilio chiede infine a Sordello di indicar loro la via per giungere alla porta del
Purgatorio.
La legge della salita nel Purgatorio (40-63)
Sordello risponde che lui e le altre anime non hanno una sede fissa, ma loro consentito vagare per il
monte; tuttavia ora il sole sta per tramontare e salire col buio impossibile, quindi bene pensare a dove
trascorrere la notte. Aggiunge che poco lontano ci sono altre anime separate dalle altre e, se Virgilio
d'accordo, li condurr ad esse. Il poeta latino stupito e chiede a Sordello se salire di notte di fatto
impossibile o vietato da qualcuno, allora l'altro si china in terra e traccia una riga sul suolo col dito,
spiegando che col buio non si potrebbe varcare neppure quella. Solo le tenebre impediscono l'ascesa,
perch le anime rischierebbero di tornare in basso o di vagare senza meta lungo il monte. Allora Virgilio,
pieno di meraviglia, chiede a Sordello di condurre lui e Dante al luogo che ha detto prima.
La valletta dei principi (64-90)
I tre si allontanano di poco e Dante vede che il monte incavato sul fianco, ospitando un'ampia valletta;
Sordello spiega che in quel luogo conviene trascorrre la notte. Un sentiero obliquo li conduce sul fianco
del monte, in un punto a meno di met dell'altezza della valletta, dove la natura si presenta rigogliosa e
bellissima. L'erba e i fiori sono di colori cos vivi che vincerebbero sicuramente le tinte pi preziose e
raffinate usate dai pittori per dipingere, come l'oro, l'argento, lo smeraldo. Lo spettacolo non solo visivo,
in quanto i fiori emanano un profumo che mescola in s mille odori soavi. Sedute sul prato e sui fiori
Dante vede pi di mille anime (i principi negligenti) che intonano il Salve, Regina, non visibili fuori dalla
valle. Sordello dice di non voler guidare Dante e Virgilio gi tra gli spiriti prima del tramonto, ma che
preferibile osservarli da quel ripiano dall'alto, da dove li potranno vedere tutti.
I principi negligenti (91-136)
Sordello inizia a indicare alcuni spiriti ospitati nella valletta: il primo siede pi in alto degli altri e mostra
di aver trascurato il suo dovere, non partecipando al canto della preghiera, ed l'imperatore Rodolfo I
d'Asburgo, che avrebbe potuto risolvere i problemi dell'Italia. Un altro che sembra confortarlo col suo
aspetto govern la terra (Boemia) dove nasce la Moldava che poi sfocia in Elba: Ottocaro II, che fin da
piccolo fu migliore di suo figlio Venceslao II, che vive nella lussuria e nell'ozio. Sordello indica poi uno
spirito dal naso sottile (Filippo III l'Ardito), che mor in fuga e disonorando la Francia, mentre accanto a
lui un altro appoggia la guancia al palmo della mano ( Enrico I di Navarra, suocero di Filippo il Bello di
cui Filippo III il padre: entrambi conoscono la sua vita peccaminosa e ne sono addolorati). Sordello
nomina ancora uno spirito dall'aspetto robusto (Pietro III d'Aragona) accanto a un altro dal naso
prominente (Carlo I d'Angi), che cantano all'unisono: se a Pietro fosse succeduto il giovinetto che ora
siede dietro di lui, l'erede del suo regno sarebbe stato valoroso, il che non si pu dire degli eredi attuali,
Giacomo re d'Aragona e Federico re di Sicilia. raro, spiega Sordello, che la virt dei padri si trasmetta
ai figli e ci voluto da Dio affinch gli uomini la chiedano a Lui. Egli si riferisce anche a Carlo I
d'Angi, dal momento che il regno di Napoli e la Provenza si dolgono di essere governati dal suo
successore: Carlo II tanto inferiore al padre, quanto Carlo I lo rispetto a Pietro III d'Aragona. Sordello
indica ancora il re d'Inghilterra Enrico III, che ebbe vita semplice e siede in disparte, potendo vantarsi di
avere eredi migliori; siede invece pi basso degli altri il marchese Guglielmo VII del Monferrato, il quale
fu causa della guerra contro Alessandria che ancora provoca danni al Monferrato e al Canavese.
Interpretazione complessiva
Il Canto strettamente legato al precedente, non solo per la presenza dello stesso protagonista Sordello,
ma anche perch entrambi hanno argomento politico (il VI era dedicato all'Italia, bersaglio polemico
dell'invettiva di Dante, mentre la seconda parte del VII occupata dalla rassegna dei principi della valletta
che vengono mostrati da Sordello ai due poeti). L'apertura si collega ai vv. 71-75 del Canto VI, col
penitente che si felicita col concittadino Virgilio e poi ne apprende il nome, gettandosi ai suoi piedi in
segno di rispetto e dedicandogli un commosso elogio per i suoi meriti di poeta; una situazione che
anticipa quella dei Canti XXI-XXII, in cui il poeta latino ricever gli elogi ancora pi appassionati di
Stazio. Il riconoscimento dell'alto magistero poetico di Virgilio da parte di Sordello non casuale, in
quanto tutta la seconda parte del Canto con la presentazione delle anime della valletta sar un chiaro
riferimento al libro VI dell'Eneide, all'episodio in cui l'ombra di Anchise mostra al figlio Enea nei Campi
Elisi le anime dei futuri grandi eroi di Roma: gi prima Sordello, spiegando la legge della salita nel
Purgatorio, aveva detto Loco certo non c' posto, che riprende Aen., VI, 673 (Nulli certa domus, la
risposta alla Sibilla del poeta Museo prima di scortare lei ed Enea al luogo dov' Anchise). Virgilio
ribadisce inoltre per ben due volte il fatto di provenire dal Limbo, ovvero da un luogo fisicamente posto
all'Inferno ma in cui le anime non soffrono alcuna pena, in quanto la loro unica colpa stata quella di non
aver posseduto le virt teologali. C' una sorta di parallelismo tra la sua condizione ultraterrena e quella
delle anime dei giusti che lui stesso aveva descritto nei Campi Elisi, cos come quella dei principi che
abitano la valletta; in questo luogo, tra l'altro, converr trascorrere la notte, poich come spiega Sordello
impossibile salire col buio che rischierebbe di far scender le anime in basso (e gi Virgilio aveva
raccomandato a Dante di salire pur su al monte, e lo aveva avvertito che l'ascesa sarebbe durata pi di un
giorno).
Sordello scorta poi i due poeti alla valletta, scavata sul fianco del monte e dove i principi non sono visibili
all'esterno: un luogo dalla natura rigogliosa, con l'erba verde e i fiori colorati e profumati, che
rappresenta quasi un'anticipazione dell'Eden. Dante sottolinea il fatto che uno spettacolo cos ameno
frutto dell'arte divina, poich i colori pi vivi dei pittori non potrebbero gareggiare con lo splendore
dell'erba e dei fiori, n col loro odore soave ( il tema dell'arte umana che non pu riprodurre la natura
creata da Dio, gi presente nel proemio della Cantica e che sar ripreso nei Canti dedicati ai superbi).
naturalmente Sordello a passare in rassegna i pi ragguardevoli tra i principi che si trovano nella valletta,
stando su un'altura rocciosa come Anchise aveva fatto con Enea nell'episodio citato: la scelta di Sordello
come guida di Dante e Virgilio legata al Compianto in morte di Ser Blacatz da lui composto, in cui
aveva biasimato i vizi dei principali sovrani del suo tempo secondo lo schema del planh provenzale. Le
analogie sono molte, a partire dal fatto che nel Compianto egli cita otto sovrani partendo dall'imperatore e
finendo con due vassalli minori, come fa qui Dante che parte da Rodolfo e finisce con Guglielmo del
Monferrato; notevoli sono per anche le differenze, perch Dante non critica tanto le colpe di questi
principi (che furono negligenti soprattutto per la cura della loro anima, essendosi pentiti tardivamente)
quanto quelle dei loro successori che diventano il vero bersaglio polemico di Sordello. La rassegna
anticipa quella di Par., XIX, 115 ss., in cui l'aquila accuser duramente i cattivi principi cristiani, e si
collega a tutti quei passi del poema in cui Dante rimprovera i sovrani temporali di non amministrare nel
modo dovuto la giustizia, fatto che all'origine di tanti mali che affliggevano l'Italia (e l'Europa) del
Trecento.
I principi vengono mostrati a coppie, a cominciare da Rodolfo I d'Asburgo (l'imperatore siede pi alto di
tutti e si rammarica di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere) e Ottocaro II di Boemia, che in vita
furono nemici e si combatterono strenuamente: Ottocaro contest la nomina imperiale di Rodolfo, mentre
qui in Purgatorio ne la vista lui conforta, quindi i due implacabili nemici si sono riconciliati e hanno
perdonato le offese subte. Se Rodolfo ha le sue colpe avendo lasciato vacante la sede imperiale in Italia,
cosa che Dante rimproverava anche al figlio Alberto nel Canto precedente, Ottocaro stato invece un
ottimo sovrano e pu rammaricarsi del successore, il figlio Venceslao II che fu uomo inetto e vizioso e
che Dante accuser anche nel passo citato del Paradiso. L'altra coppia formata da Filippo III l'Ardito e
Enrico I di Navarra, rispettivamente padre e suocero di Filippo il Bello che Dante pi volte biasima nel
poema: entrambi furono valenti sovrani e si rammaricano proprio della vita... viziata e lorda dell'attuale re
di Francia, il primo battendosi il petto e il secondo sospirando (di Filippo III viene detto che mor
fuggendo e disfiorando il giglio, con allusione al disastro della flotta francese a Las Formiguas del 1285:
pu essere un'accusa di aver disonorato la corona, ma forse solo un accenno al fatto che con quella
guerra la Francia perse un petalo del giglio, ovvero la Sicilia). Seguono poi Carlo I d'Angi e Pietro III
d'Aragona, che morirono entrambi nel 1285 e furono in vita fieri avversari come Rodolfo e Ottocaro,
mentre qui cantano in perfetto accordo: anch'essi si rammaricano dei loro successori, sia Pietro che ha
lasciato Sicilia ed Aragona a Federico e Giacomo (l'onor di Cicilia e d'Aragona, entrambi pi volte
attaccati da Dante), sia Carlo che ha lasciato Provenza e regno di Napoli a Carlo II lo Zoppo, tanto
inferiore al padre quanto lui lo rispetto a Pietro III. L'ultima coppia non ha legami apparenti, essendo
formata da Enrico III d'Inghilterra (ottimo sovrano, dalla vita semplice e dai buoni successori) e da
Guglielmo VII del Monferrato, che mor per mano degli Alessandrini e che il figlio Giovanni volle
vendicare con una lunga e sanguinosa guerra, che caus gravi danni alle sue terre; Guglielmo seduto in
posizione pi bassa rispetto agli altri, in quanto occupa una posizione politica di minor prestigio, e guarda
in suso (forse verso i sovrani pi importanti, ma forse verso il Cielo in segno di preghiera).
L'elemento pi importante della rassegna non solo il rimprovero al malgoverno dei principi sulla Terra
che verr ripreso in altri passi di Purgatorio e Paradiso, ma soprattutto la rappresentazione di queste anime
come sciolte dalle loro cure terrene, tutte volte al loro percorso di espiazione, per cui anche gli antichi
nemici siedono accanto e mostrano una perfetta armonia. Ci si accorda con la presentazione dei morti
per forza del Canto V, i quali non avevano parole di odio o astio verso i loro uccisori ma si preoccupavano
unicamente di essere ricordati dai vivi; l'episodio della valletta, che si concluder nel Canto seguente con
l'incontro fra Dante e altri penitenti, prepara il terreno alla rappresentazione del Purgatorio vero e proprio,
che sar dominata dall'atteggiamento sereno e rassegnato delle anime, anche in questo ben diverso da
quello dimostrato dai dannati incontrati nella discesa all'Inferno.

Note e passi controversi


Il v. 15 (e abbraccil l 've 'l minor s'appiglia) indica che Sordello abbraccia Virgilio non al collo, come
tra pari, ma in un punto pi basso come si conviene a chi inferiore, quindi probabilmente alle ginocchia
o ai piedi.
Il verbo merr (v. 47) significa condurr ed forma contratta di mener.
Al v. 71 in fianco de la lacca vuol dire sul fianco dell'avvallamento (lacca indica una cavit, una fossa).
Il v. 72 non del tutto chiaro e vuol dire probabilmente nel punto dove l'argine digradava di pi della
met della sua altezza.
I termini usati ai vv. 73-75 sono tecnicismi che indicano i colori usati dai pittori: l'oro e l'argento fine sono
le polveri stemperate per ottenere queste due tinte, il cocco il carminio (colore ricavato dalla
conchiglia), la biacca il bianco di zinco, l'indaco l'azzurro, il legno lucido e sereno prob. la lychite,
pietra preziosa del colore del legno quando ben levigato, lo smeraldo il verde quando la pietra preziosa
si spezza (ne l'ora che si fiacca). Alcuni editori leggono il v. 74 indaco legno, lucido e sereno, intendendo
l'ebano (il legno indiano) e l'azzurro del cielo, ma pare poco probabile che Dante citi l'ebano accanto agli
altri colori sgargianti della scena.
Il v. 96 (s che tardi per altri si ricrea) potrebbe essere un'allusione ad Arrigo VII di Lussemburgo e al suo
tentativo di restaurazione imperiale in Italia, il che per abbasserebbe la data di composizione del Canto
al 1310-13; altri pensano a un ritocco posteriore o a un accenno generico.
I vv. 98-99 indicano la Boemia, la terra dove nasce la Moldava (Molta) che sfocia nell'Elba (Albia), che a
sua volta sfocia in mare.
Il nasetto citato al v. 103 Filippo III l'Ardito, di cui si dice al v. 105 che mor fuggendo e disfiorando il
giglio con allusione al disastro della flotta francese a Las Formiguas contro contro gli Aragonesi (non
detto che il verso abbia valore spregiativo).
Il mal di Francia (v. 109) Filippo il Bello.
Il giovanetto indicato al v. 116 pu essere Alfonso III, il primogenito di Pietro III che tenne il regno
d'Aragona dal 1285 al 1291, ma forse Dante si riferisce all'ultimo figlio Pietro, premorto al padre.
Ai vv. 128-129 sono citate Beatrice e Margherita, prima e seconda moglie di Carlo I d'Angi, e Costanza,
la figlia di Manfredi di Svevia che fu moglie di Pietro III; Dante intende dire che Costanza pu vantarsi
del marito pi delle altre due, quindi Carlo II inferiore a Carlo I quanto quest'ultimo lo fu rispetto a
Pietro III.

Purgatorio, Canto VIII


Argomento del Canto
Ancora nella valletta dei principi negligenti. Le anime intonano la preghiera della sera. Arrivo degli angeli
armati di spada. Sordello conduce Dante e Virgilio nella valletta. Incontro con Nino Visconti. Arrivo del
serpente, messo in fuga dagli angeli. Incontro con Corrado Malaspina.
la sera di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette.
La preghiera della sera (1-18)
ormai il tramonto, l'ora in cui i viaggiatori sentono una stretta al cuore per la nostalgia di casa, specie
quando ascoltano il suono delle campane che indica la Compieta. Dante non ascolta pi con attenzione e
osserva una delle anime della valletta dei principi negligenti che si alza e leva ambo le mani al cielo,
guardando a oriente come se fosse pienamente appagata: essa inizia a recitare l'inno Te lucis ante con
grande devozione, imitata dalle altre anime che alzano tutte gli occhi al cielo.
L'arrivo dei due angeli (19-42)
Dante esorta il lettore ad aguzzare lo sguardo alla verit, perch il velo dell'allegoria cos sottile che
facile passarvi dentro. Il poeta vede le anime della valletta restare in attesa e guardare in alto, poi vede
scendere due angeli armati di spade infuocate e senza punta, che indossano vesti verdissime e hanno ali
con penne dello stesso colore. Uno si pone sopra lui, Virgilio e Sordello, l'altro si colloca all'altro capo
della valletta, per cui le anime si raccolgono al centro. Il poeta distingue la loro testa bionda, ma lo
sguardo non vede il loro volto che al di l della comprensione umana. Sordello spiega che entrambi gli
angeli vengono dal grembo di Maria, a proteggere la valle da un serpente che arriver tra poco. Dante,
non sapendo da quale parte giunger il malefico animale, si sente raggelare e si stringe al suo maestro.
Incontro con Nino Visconti (43-84)
Sordello invita i due poeti a scendere nella valletta tra le ombre dei principi, per parlare con loro, cosa che
sar molto gradita alle anime. I tre scendono di appena tre passi e Dante, giunto nella valle, si avvede di
uno spirito che lo osserva attentamente, come se volesse riconoscerlo. quasi buio, ma ci non impedisce
a Dante di riconoscere in quel penitente il giudice Nino Visconti, che gli si fa incontro mentre lui si
avvicina (il poeta felice di vederlo tra le anime salve). I due si salutano con affetto, poi il Visconti
chiede a Dante quando sia giunto sulla spiaggia del Purgatorio con la barca dell'angelo nocchiero: il poeta
risponde di essere giunto l attraverso l'Inferno e di essere ancora vivo, poich compie questo viaggio per
ottenere la salvezza. All'affermazione di Dante sia Sordello sia Nino si traggono indietro stupefatti, e
mentre il Mantovano si rivolge a Virgilio, Nino chiama Corrado Malaspina per mostrargli ci che la
grazia divina ha concesso. Quindi il Visconti si rivolge a Dante e lo prega, in nome del privilegio datogli
da Dio, di dire sulla Terra alla figlia Giovanna di pregare per la sua anima. Sua madre (Beatrice d'Este), la
vedova di Nino, non lo ama pi, dal momento che ha lasciato le bianche bende del lutto per risposarsi,
cosa di cui dovr dolersi. Lei l'esempio di come l'amore delle donne finisca presto, se i sensi non lo
tengono desto; ma quando sar morta, lo stemma dei Visconti di Milano non orner il suo sepolcro cos
come avrebbe fatto il gallo, simbolo della Gallura. Nino dice queste parole mostrando con la sua
espressione l'impronta di un giusto sdegno, che gli arde con misura nel cuore.
Le tre stelle. Gli angeli mettono in fuga il serpente (85-108)
Dante alza lo sguardo al cielo, nel punto dove le stelle ruotano pi lentamente (il polo), e Virgilio gli
chiede cosa stia osservando. Il discepolo risponde che sta guardando tre stelle, tanto risplendenti da
illuminare tutto il cielo australe. Virgilio ribatte che le quattro stelle viste da Dante al mattino sono ora
dietro il monte, mentre queste tre sono sorte al loro posto. Mentre sta parlando, Sordello lo tira a s e gli
indica un punto col dito da dove, dice, sta arrivando il loro avversario: dal lato in cui la valletta non
riparata dal monte arriva un serpente, forse lo stesso che aveva dato il frutto proibito ad Eva. Il malefico
animale striscia tra le erbe e i fiori, leccandosi il dorso con la lingua: Dante non vede come si muovano i
due angeli, ma si accorge che calano in basso e fendono l'aria con le ali verdi, per cui il serpente messo
in fuga e gli angeli tornano in alto, l da dove erano giunti.
Colloquio con Corrado Malaspina (109-139)
Durante l'azione degli angeli, l'anima che Nino Visconti aveva chiamato a s non ha cessato di guardare in
volto Dante. Alla fine si rivolge al poeta e, dopo avergli augurato di giungere alla fine del suo viaggio
ultraterreno, gli chiede se ha qualche notizia della Val di Magra o dei luoghi vicini, dove lui in vita stato
potente. Il suo nome fu Corrado Malaspina (il Giovane), non il Vecchio del quale comunque un
discendente. Dante risponde di non essere mai stato nella sua terra, ma la fama di questa diffusa in tutta
Europa. La cortesia dei Malaspina celebrata dai nobili e dal popolo, cos che nota anche a chi non
mai stato l; Dante giura che la sua famiglia non priva della liberalit e della virt guerresca ed
talmente privilegiata dall'onore cavalleresco e dalla natura che la sola a camminare diritta in un mondo
dove tutti si volgono al male. Corrado risponde che il sole non entrer in congiunzione con l'Ariete altre
sette volte (non passeranno cio altri sette anni) prima che la cortese opinione di Dante gli sia confermata
con prove pi convincenti dei discorsi altrui, se i decreti divini non arrestano il loro corso.
Interpretazione complessiva
Il Canto si apre con la descrizione del tramonto e della nostalgia di casa che in quell'ora del giorno nasce
in cuore ai navicanti, specie quando sentono il suono delle campane della sera (probabilmente l'ora
canonica della compieta): un evidente riferimento alla situazione di esule del poeta, che sar poi ripresa
alla fine dell'episodio durante il colloquio con Corrado Malaspina la cui famiglia dar asilo a Dante nel
1306. Il tema dell'esilio e delle lotte politiche interne alle citt si riallaccia all'invettiva all'Italia del Canto
VI ed al centro anche dell'incontro con l'altro penitente di questo Canto, quel Nino Visconti che qui
ricordato come giudice di Gallura, ma che era stato parte attiva nelle lotte interne alla citt di Pisa che
avevano coinvolto anche Ugolino e Ruggieri (protagonisti entrambi del Canto XXXIII dell'Inferno). Nino
era stato amico di Dante nella sua giovent e il poeta sembra escluderlo da quel groviglio di lotte e
tradimenti che avevano sconvolto Pisa negli ultimi anni del Duecento, bench sia sollevato di trovarlo tra
le anime salve e non tra' rei; il colloquio tra i due ripropone i toni sereni e rilassati di quelli con Casella e
Belacqua, con Nino che si preoccupa unicamente che i vivi preghino per lui e sembra ormai lontanissimo
dalle ansie e cure terrene che gli hanno precluso l'accesso immediato al Purgatorio. Il suo solo rammarico
che la vedova Beatrice non pensi pi a lui dopo essersi risposata, per cui Dante dovr rivolgersi alla
figlia Giovanna (una situazione assai simile a quella di Manfredi e Bonconte), e anche se le sue parole
esprimono un dritto zelo (un giusto sdegno) non suonano accusatorie nei confronti della moglie, che
dovr pentirsi delle sue nuove nozze per le vicissitudini che attendono lei e il secondo marito. Nino scusa
in fondo la vedova con un luogo comune assai diffuso nella letteratura medievale (cfr. soprattutto
Boccaccio, Dec., II, 9 e Corbaccio), cio che l'amore delle donne dura poco se non sostenuto dai sensi,
indicando la moglie col termine femmina che Dante riteneva spregiativo rispetto a quello stilnovistico di
donna (lo dice nella Vita Nuova, XIX, 1), anche se ci non ha un valore perentorio.
Egualmente sciolto dalle preoccupazioni terrene e politiche Corrado Malaspina, gi chiamato in causa
da Nino all'apprendere che Dante vivo e che si rivolge al poeta al termine della sacra
rappresentazione degli angeli e del serpente. Corrado si presenta come membro di un ramo della potente
famiglia Malaspina, quella dello Spino Secco di Val di Magra che discendeva dal suo omonimo Corrado il
Vecchio, e non chiede a Dante di ricordarlo ai vivi quanto piuttosto di dargli notizie dei luoghi dove
vissuto. La risposta di Dante l'occasione per sciogliere un sincero e commosso omaggio alla nobilt dei
Malaspina, che (come detto) lo ospitarono nei primi anni dell'esilio e che ora il poeta celebra come una
famiglia dalla fama positiva che conosciuta in tutta Europa, benvoluta da signori e popolani, in pieno
possesso del pregio de la borsa e de la spada (ovvero del pretz provenzale, la perfezione della nobilt che
deriva dalla liberalit, opposta all'avarizia, e dal valore guerresco, opposto alla fellonia). Uso e natura,
ovvero la consuetudine cavalleresca e le qualit naturali, fanno s che i Malaspina camminino retti
contrariamente al resto del mondo, che ricerca il peccato: Corrado ribatte che prima di sette anni (nel
1306, appunto) Dante sperimenter di persona la generosit e la cortesia dei suoi parenti, profetizzando
indirettamente l'esilio che era gi evocato nei versi iniziali del Canto ( da notare come simili profezie,
nel Purgatorio, hanno tono ben diverso rispetto a quelle infernali).
Prima e durante l'incontro coi due penitenti ci sono poi i due atti di quella che stata definita una sacra
rappresentazione, ovvero l'arrivo degli angeli a guardia della valletta e poi del serpente, che sar messo
in fuga dagli astor celestiali. Si inizia con il sereno atteggiamento di un'anima che si volge a oriente e
inizia la recita dell'inno Te lucis ante, composto da sant'Ambrogio per invocare l'aiuto divino contro le
tentazioni notturne: l'inno invoca l'aiuto del Creatore contro il nostro nemico, quindi evidente che il
senso allegorico di quello che segue che solo la grazia pu aiutare il credente a sconfiggere le tentazioni
demoniache, rappresentate qui dal serpente che ha l'aspetto di quello che tent Eva nell'Eden, di cui la
valletta chiaramente prefigurazione. Pu stupire che Dante avverta il lettore di ingegnarsi nella lettura,
in quanto il velo allegorico talmente sottile che facile passarci attraverso (cio confondere allegoria e
verit), ma questo probabilmente vuol dire solo che il lettore dovr prestare particolare attenzione alla
scena che segue, non che il suo significato sia particolarmente astruso (il richiamo assai simile a quello
di Inf., IX, 61-63, che precedeva una rappresentazione assai simile nel senso se non nel tono). Il tutto
confermato dalla visione delle tre stelle che hanno preso il posto delle quattro viste al mattino, e che
certamente rappresentano le tre virt teologali indispensabili alla salvezza: alcuni commentatori hanno
visto nei due angeli i colori tradizionali di esse, ovvero il verde delle vesti che rimanda alla speranza, il
biondo dei capelli che rimanda alla fede e il rosso dei volti invibili a occhio nudo che rimanda alla carit,
per quanto l'interpretazione sembri molto sottile. Certo il valore della rappresentazione simbolico e non
si riferisce direttamente alle anime dei principi, ormai salve e immuni a ogni tentazione, quando forse ai
vivi rimasti sulla Terra, per cui la preghiera della sera rivolta principalmente ad essi come lo sar
l'ultima parte del Pater noster recitato dai superbi della I Cornice. Il dato che prevale su tutta la scena
infatti di grande serenit da parte delle anime, sia nella cacciata del serpente (il solo a preoccuparsi
Dante, che in effetti l'unico ad essere ancora esposto al rischio della tentazione) sia nell'atteggiamento
dell'orante all'inizio, che appare cos appagato dal proprio destino da dire quasi D'altro non calme, non
mi cale, non mi importa di altro; tale rassegnazione in fondo la stessa che traspare nel colloquio con
Nino e Corrado, i quali sono in effetti del tutto separati dalle loro ansie terrene e proiettati come Dante
verso l'ascesa del monte.

Note e passi controversi


Il v. 3 ha valore di compl. di tempo (il giorno in cui hanno detto addio ai dolci amici), anche se alcuni
(Tommaseo, Pagliaro) lo hanno interpretato come sogg. di volge, 'ntenerisce e punge.
La squilla del v. 5 probabilmente la campana che indica l'ultima ora canonica di compieta, quando cio
si recitava l'inno Te lucis ante e anche il Salve, Regina intonato dalle anime nel Canto precedente. Si
pensato al suono serale dell' Ave Maria, ma non certo che quest'uso fosse gi presente in Italia quando
questi versi furono scritti.
I vv. 19-21 avvertono il lettore di aguzzare lo sguardo al vero della rappresentazione allegorica, perch il
velo dell'allegoria cos sottile (cio la differenza tra vero e allegoria talmente minima) che facile
trapassar dentro, ovvero confonderli.
Il v. 37 (Ambo vegnon del grembo di Maria) vuol forse dire che i due angeli vengono dall'Empireo, ma
non escluso che sia proprio Maria a inviarli l, visto che la preghiera Salve, Regina era rivolta a Lei.
Le bianche bende citate al v. 74 erano indossate dalle vedove intorno al capo sulle vesti nere, in segno di
lutto.
Il v. 80 (la vipera che Melanesi accampa) vuol dire lo stemma (una biscia che divora un saraceno) che fa
accampare i Milanesi, che cio li rappresenta; alcuni mss. leggono 'l Melanese, riferito a Galeazzo
Visconti, che diventerebbe soggetto di accampa (lo stemma che il Visconti ha nel campo del suo
stemma).
Suso a le poste (v. 108) vuol dire probabilmente alle loro sedi celesti, ma altri pensano ai lati della
valletta dove gli angeli sono di guardia.
Il sommo smalto (v. 114) molto probabilmente l'Eden, detto cos perch posto sulla cima del monte e
smaltato di fiori; altri pensano al Paradiso Celeste.
Il pregio de la borsa e de la spada (v. 129) il pretz provenzale, ovvero l'onore cavalleresco che
costituito da liberalit (borsa) e da virt guerresca (spada).
Al v. 131 il capo reo pu essere sogg. o ogg. di torca, ma pi probabile la seconda ipotesi (per quanto il
mondo volga il capo dove non dovrebbe).
I vv. 133-135 vogliono dire letteralmente che il sole non entrer in congiunzione con la costellazione
dell'Ariete, nella quale si trova adesso, pi di sette volte (non passeranno pi di sette anni).

Purgatorio, Canto IX
Argomento del Canto
Dante si addormenta nella valletta. Sogno dell'aquila (santa Lucia porta dante alla porta del Purgatorio).
Incontro con l'angelo guardiano, che incide sette P sulla fronte di Dante. Ingresso in Purgatorio.
la notte tra domenica 10 aprile (o 27 marzo) e luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
Dante si addormenta e sogna (1-33)
L'aurora sta ormai imbiancando il cielo a oriente, nell'emisfero boreale, con la costellazione dello
Scorpione di fronte ad essa, mentre nel Purgatorio sono gi trascorse circa tre ore dall'inizio della notte.
Dante, affaticato per il viaggio e per il fatto di avere un corpo in carne e ossa, si sdraia sull'erba nella
valletta e si addormenta. Verso l'alba, quando la rondine emette i suoi stridi e la mente umana fa dei sogni
rivelatori della realt, il poeta sogna di vedere sopra di s un'aquila dalle penne d'oro, che volteggia e
sembra sul punto di scendere a terra. Dante nel sogno pensa di essere sul monte Ida, l dove Ganimede fu
rapito da Giove tramutatosi in aquila, e pensa fra s che forse il rapace solito colpire in quel luogo le sue
prede. Poi sogna che l'aquila piombi su di lui e lo ghermisca, portandolo in alto sino alla sfera del fuoco
dove gli sembra di bruciare: nel sogno prova dolore, il che lo induce a svegliarsi improvvisamente.
Risveglio di Dante e spiegazione di Virgilio (34-69)
Dante si scuote non diversamente da Achille, quando si risvegli a Sciro non sapendo dove si trovasse
poich la madre Teti lo aveva rapito a Chirone mentre dormiva. Dante si sveglia d'improvviso e
impallidisce, raggelando: accanto c' solo Virgilio, mentre il sole gi alto nel cielo e lo sguardo del poeta
rivolto al mare. Virgilio si affretta a spiegargli che non ha nulla da temere e deve anzi confortarsi,
poich il viaggio procede bene ed egli giunto alla porta del Purgatorio, scavata nella parete rocciosa del
monte l dove il maestro gli indica. Virgilio spiega inoltre che poco prima, sul fare dell'alba quando Dante
dormiva, una donna era giunta nella valletta dicendo di essere santa Lucia e prendendo il poeta
addormentato, per condurlo in alto. Sordello e gli altri principi della valletta erano rimasti l e Dante era
stato trasportato alla porta del Purgatorio quando fu giorno fatto, seguito dallo stesso Virgilio. Lucia aveva
deposto Dante in quel punto, ma prima i suoi occhi avevano indicato al maestro l'accesso al monte, quindi
la santa se ne era andata proprio nel momento del risveglio di Dante. Il poeta riconfortato dalle parole di
Virgilio e appena il maestro lo vede privo di dubbi e di paure procede verso la porta, seguito da Dante
stesso.
La porta del Purgatorio. L'angelo guardiano (70-93)
Dante avverte il lettore che la materia del suo poema si innalza, perci il suo stile diventer d'ora in avanti
pi elevato. I due poeti si avvicinano al punto in cui la parete rocciosa del monte spaccata e dove c' una
porta alla quale si sale lungo tre gradini, di colore diverso, e sulla soglia c' un angelo che fa la guardia e
non dice nulla. Dante fissa lo sguardo e vede che l'angelo siede sul gradino pi alto e il suo volto cos
luminoso che non riesce a vederlo; egli tiene in mano una spada, che riflette i raggi del sole e impedisce a
Dante di vederla bene. L'angelo chiede ai due che cosa vogliono e chi li ha condotti l, avvertendoli che
l'accesso alla porta potrebbe recare danno. Virgilio risponde che santa Lucia poco prima ha loro indicato
la porta, quindi l'angelo d ai due il permesso di salire i gradini.
Le sette P sulla fronte di Dante. Accesso al Purgatorio (94-145)
Dante inizia salire i tre gradini: il primo di marmo bianco e candido, talmente chiaro che il poeta ci si
pu specchiare; il secondo molto scuro, formato da una pietra ruvida che presenta una spaccatura nella
lunghezza e nella larghezza; il terzo sembra di porfido, rosso come il sangue che sgorga da una vena.
L'angelo tiene i piedi su quest'ultimo e siede sulla soglia, simile al diamante. Virgilio conduce Dante
lungo i tre gradini e lo invita a chiedere umilmente di aprire la porta. Il poeta si getta devotamente ai piedi
dell'angelo, chiedendo misericordia dopo essersi battuto per tre volte il petto. L'angelo incide sette P sulla
fronte di Dante con la punta della spada, raccomandandogli di lavare queste piaghe una volta avuto
accesso alle Cornici. L'angelo estrae dalla sua veste, del colore grigio della cenere, due chiavi, una d'oro e
l'altra d'argento, con le quali apre la porta usando prima quella argentea. L'angelo avverte che se una delle
due chiavi non funziona la porta non pu aprirsi, aggiungendo che quella d'oro pi preziosa, ma quella
d'argento richiede molta scienza e acutezza in quanto quella che permette al penitente di entrare. Spiega
inoltre che le chiavi gli sono state date da san Pietro, il quale gli ha raccomandato di sbagliare nell'aprire
piuttosto che nel tenere chiusa la porta, purch i penitenti mostrino una sincera contrizione. Poi l'angelo
spinge la porta per aprirla, dicendo di entrare e avvertendo i due poeti che chi guarda indietro torna fuori.
Gli spigoli della porta, fatti di metallo massiccio, ruotano intorno ai cardini ed emettono un forte stridore,
mostrando che la porta restia ad aprirsi pi di quanto lo fu la rupe Tarpea dopo la rimozione di Metello.
Dante ascolta con attenzione e gli pare di udire una voce che canta l'inno Te Deum laudamus, in modo
simile ai canti alternati al suono dell'organo, per cui le parole ora si sentono e ora no.
Interpretazione complessiva
Il Canto funge da passaggio tra la prima parte della Cantica, dedicata per lo pi all'Antipurgatorio, e la
seconda dedicata alle Cornici e al luogo del secondo regno dove le anime si purificano dai peccati, il che
corrisponde a un innalzamento della materia e di conseguenza a un affinamento dello stile poetico nei
Canti successivi ( Dante ad avvertire i lettori con l'appello ai vv. 70-72, che anticipa quelli simili che
saranno assai frequenti nel Paradiso). Questa sorta di piccolo proemio cade a met circa del Canto, dopo
che Dante si addormentato nella valletta all'inizio della notte e ha sognato un'aquila che lo ha ghermito
sul monte Ida e trasportato in alto, che come poi Virgilio spiegher non era altri che santa Lucia che
portava il poeta alla porta del Purgatorio. L'episodio si apre con la famosa descrizione dell'aurora, assai
problematica e variamente interpretata, anche se probabilmente Dante allude al sorgere dell'aurora solare
nell'emisfero boreale cui corrisponde, nel Purgatorio, l'inizio della notte; il poeta si addormenta vinto
dalla stanchezza e verso l'alba, quando si credeva che i sogni fossero veritieri, fa il sogno dell'aquila,
anch'esso variamente interpretato e che forse solo la traduzione in termini visivi dell'aiuto di Lucia che
agevola Dante per la sua via. Del resto l'aquila era l'uccello sacro a Giove e simbolo dell'autorit
imperiale, il che ha poco a che fare con il significato allegorico di Lucia (che qui, come gi nel Canto II
dell'Inferno, la grazia illuminante che assiste l'uomo per consentirgli di salvarsi). Il risveglio di Dante
traumatico in quanto non sa dove si trova, per cui Virgilio deve rassicurarlo e indicargli la porta del
Purgatorio dicendogli che ormai il viaggio a buon punto; Dante si scuote anche perch nel sogno gli
sembrava di attraversare la sfera del fuoco e il calore lo ha svegliato, e secondo alcuni commentatori
probabile che egli abbia in realt sentito il calore del sole che gi alto sull'orizzonte e lo colpisce una
volta che Lucia lo ha deposto di fronte alla porta. Il sogno di Dante anticipa gli altri due che far negli
altri pernottamenti in Purgatorio (nei Canti XIX e XXVII), anch'essi allegorici e analogamente
interpretati.
La seconda parte del Canto ovviamente dedicata alla descrizione della porta custodita dall'angelo,
nonch del complesso rituale cui Dante deve sottoporsi prima di essere ammesso alle Cornici dall'angelo
stesso. La simbologia connessa ovviamente al riconoscimento dei propri peccati e all'assoluzione da
parte dell'angelo, che riguarda Dante come tutti i penitenti che di l devono passare: i tre gradini che
conducono alla porta corrispondono quasi certamente ai tre momenti del sacramento della confessione,
ovvero la contritio cordis (la consapevolezza dei peccati: il primo gradino, di marmo bianco in cui
Dante pu specchiarsi), la confessio oris (la confessione vera e propria: il secondo gradino, di pietra
scura e screpolata, che rappresenta lo spezzarsi della durezza dell'animo) e la satisfactio operis (la
soddisfazione per mezzo di opere: il terzo gradino, rosso come l'ardore di carit necessario a rimediare
ai peccati commessi). Variamente interpretata anche la spada di cui l'angelo guardiano armato, che forse
simbolo della giustizia o dell'ufficio del sacerdote confessore: con essa l'angelo incide sulla fronte di
Dante le sette P che rappresentano ovviamente i sette peccati capitali, che il poeta dovr purificare
moralmente durante l'ascesa del monte (esse saranno cancellate all'uscita da ogni Cornice). L'angelo
ammette Dante in Purgatorio e ne apre la porta con le due chiavi (una d'oro e l'altra d'argento) che tiene
sotto la veste color cenere, simbolo quest'ultima della mortificazione della penitenza o forse dell'umilt
del confessore: la chiave d'oro rappresenta certo l'autorit di dare l'assoluzione che al confessore deriva da
Dio e dalla Chiesa, quella argentea (che secondo l'angelo vuol troppa / d'arte e d'ingegno) invece la
scienza e la sapienza che il confessore stesso deve avere per valutare i peccati commessi. Dante sottolinea
che entrambe sono state date all'angelo da san Pietro e che se una delle due non funziona l'apertura della
porta, ovvero l'ammissione del peccatore al Purgatorio, impossibile: una velata polemica contro le
facili indulgenze di cui la Chiesa faceva mercato nel Trecento, come lo il fatto che la porta si apre a
fatica e producendo un tremendo stridore, nel senso che il perdono di Dio concesso solo a chi
sinceramente si pentito delle proprie colpe e ci avviene assai di rado.
Una volta varcata la soglia del Purgatorio, per Dante e la sua guida inizia un nuovo cammino che li
porter alla tappa successiva, ovvero l'ingresso nell'Eden sulla cima del monte: anche allora ci sar un
innalzamento dello stile, mentre qui Dante colpito dal suono melodioso di alcune voci che intonano il Te
Deum laudamus, in modo tale che egli non ne sente tutte le parole (come quando in chiesa si canta in
alternanza al suono dell'organo). Siamo ormai entrati in una dimensione diversa da quella
dell'Antipurgatorio, dominata dalla serena rassegnazione delle anime che espiano attivamente le loro
pene, come far anche Dante unendosi moralmente a loro: il passaggio in ogni Cornice avverr secondo
un cerimoniale fisso, in cui il canto di Salmi o inni avr una parte importante (ed stato osservato come
ci renda il Purgatorio simile a un enorme monastero, in cui ogni momento scandito da uffici liturgici
precisi: a ci, forse, rimanda la similitudine degli organi, peraltro molto discussa, che chiude questo
Canto).

Note e passi controversi


I vv. 1-6 descrivono con ogni probabilit il sorgere dell'aurora solare a oriente nell'emisfero boreale, che
corrisponde alle nove di sera circa nel Purgatorio. L'aurora definita concubina di Titone antico perch
nel mito classico essa si innamora di Titone e lo rapisce, per sposarlo, quindi ottiene da Giove
l'immortalit; non la chiede per per lo sposo, che quindi invecchia (di qui l'agg. antico). Le gemme che
le rilucono in fronte sono la costellazione dello Scorpione, il freddo animale / che con la coda percuote la
gente, che si trova nella parte opposta del cielo (quindi fronte indica non la fronte dell'aurora, bens il
cielo a lei opposto). C' chi ha pensato alla costellazione dei Pesci che sorge a oriente nell'emisfero
boreale, ma essa assai poco luminosa al contrario dello Scorpione; poco probabile l'interpretazione
dell'aurora come quella lunare.
I vv. 7-9 indicano che sono le nove di sera circa, perch i passi con cui la notte sale sono le ore e Dante
dice che essa ne ha fatti quasi tre, quindi sono passate circa tre ore dal tramonto.
I vv. 13-15 indicano che quasi l'alba, l'ora in cui la rondine emette i suoi stridi: Dante fa riferimento al
mito di Progne mutata in rondine per aver ucciso il marito Tereo con l'aiuto della cognata FIlomela.
Il v. 18 allude alla credenza, assai diffusa nel Medioevo, che i sogni fatti all'alba fossero veritieri.
I vv. 22-24 vogliono indicare il monte Ida nella Troade, dove Ganimede fu rapito da Giove tramutatosi in
aquila e portato sull'Olimpo a far da coppiere agli dei.
Infino al foco (v. 30) vuol dire sino alla sfera del fuoco, che secondo la scienza del tempo separava la
Terra dal I Cielo della Luna.
I vv. 34-39 alludono al mito secondo il quale Teti, madre di Achille, rap il figlio al centauro Chirone che
gli faceva da precettore per nasconderlo a Sciro, sottraendolo cos alla guerra di Troia; Ulisse e Diomede
lo scoprirono con l'inganno e lo portarono via di l.
Il balzo citato al v. 50 probabilmente la parete rocciosa che circonda il monte, che digiunto (spaccato)
in corrispondenza della porta.
I raggi che si riflettono nella spada dell'angelo (v. 83) possono essere quelli del sole, oppure lo splendore
del suo volto, oppure la luminosit della spada che potrebbe essere fiammeggiante come quelle degli
angeli che hanno scacciato il serpente, anche se nulla nel testo lo conferma.
L'espressione tinto pi che perso (v. 97) indica un colore pi scuro del perso, ovvero un colore misto di
purpureo e nero (cfr. Inf., V, 89).
La parola regge (v. 134) indica la porta e deriva dal lat. med. regia (porta principale di un edificio, spec.
sacro).
I vv. 126-128 alludono al racconto di Lucano (Phars., III, 153 ss.), secondo il quale Cesare giunse a Roma
deciso a impadronirsi del tesoro pubblico, custodito nella rupe Tarpea e affidato al tribuno L. Cecilio
Metello. Questi tent di opporsi, ma Cesare lo rimosse con la forza e apr la porta che conduceva al
tesoro.
Al primo tuono (v. 139) ha probabilmente valore di compl. di tempo, quindi indica il momento in cui la
porta emette il suo stridore.
I vv. 142-145 sono stati oggetto di un vivace dibattito interpretativo, ma il senso pi probabile questo:
Quello che udivo aveva lo stesso suono che si sente, di solito, quando si canta in chiesa alternando la
voce all'organo, per cui le parole si sentono ora s, ora no. Dante farebbe riferimento non al canto
polifonico, bens all'uso di alternare le voci alla musica dell'organo nelle funzioni liturgiche, ampiamente
attestato gi nel XII sec., e vorrebbe indicare che le voci intonano l'inno tacendone alcuni versi (non
occorre pensare a un vero e proprio accompagnamento con organo, anche se sarebbe ipotesi suggestiva).

Purgatorio, Canto X
Argomento del Canto
Ingresso nella I Cornice. Dante osserva gli esempi di umilt (Maria, David, l'imperatore Traiano).
Incontro con le anime dei superbi. Apostrofe contro la superbia dei miseri cristiani.
la mattina di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici.
Ingresso nella I Cornice (1-27)
Dopo che Dante e Virgilio hanno attraversato la porta del Purgatorio, questa si richiude alle loro spalle
con un forte stridore e il poeta si guarda bene dal voltarsi a guardare indietro, secondo le prescrizioni
dell'angelo guardiano. I due iniziano a salire lungo una spaccatura nella roccia, che procede a zig-zag
come un'onda che va e viene, per cui il maestro avverte Dante che occorre avanzare evitando le sporgenze
pi aguzze. Questo li costringe a procedere molto lentamente, cosicch arrivano al fondo del sentiero
quando ormai la luna tocca l'orizzonte con la parte in ombra (circa alle 10 del mattino). I due poeti si
ritrovano nella I Cornice del monte, che si presenta deserta e misura in larghezza tre volte un corpo
umano, dalla parete rocciosa fino al vuoto. Dante guarda a destra e a sinistra, vedendo che la Cornice ha
lo stesso aspetto fin dove arriva il suo sguardo.
Esempi di umilt: Maria (28-45)
Dante e Virgilio non si sono ancora mossi, quando il discepolo si accorge che lo zoccolo della parete del
monte, nel punto in cui essa meno ripida, presenta dei bassorilievi di marmo bianco e intagliato con tale
maestria che non solo Policleto, ma persino la natura ne sarebbe vinta. Uno di essi raffigura l'arcangelo
Gabriele che viene sulla Terra portando l'annuncio della nascita di Ges e la scultura cos realistica che
sembra che dica proprio Ave. rappresentata anche Maria che si sottomette alla volont divina e pare che
dica le parole Ecce ancilla Dei.
Esempi di umilt: re David (46-69)
Virgilio, che ha Dante alla propria sinistra, lo invita a non osservare solo una scultura e cos il discepolo
allarga lo sguardo e vede, oltre l'esempio di Maria, un'altra storia scolpita nel bassorilievo. Dante
oltrepassa Virgilio per osservarla meglio e vede che il marmo raffigura il carro che trasport l'Arca Santa
a Gerusalemme, preceduto dagli Ebrei disposti in sette cori. La scultura cos realistica che l'udito di
Dante gli dice che le figure non cantano, mentre la vista glielo fa credere; anche il fumo dell'incenso
cos veritiero che solo l'olfatto impedisce a Dante di credere che sia reale. L'Arca preceduta dal re
David, che danza con la veste umilmente alzata, mentre da un palazzo lo guarda la moglie Micl,
sprezzante e crucciata.
Esempi di umilt: Traiano e la vedova (70-96)
Dante si muove dal punto in cui si trova e vede scolpita un'altra storia nel bianco marmo, proprio accanto
a Micl. Qui rappresentata la gloria dell'imperatore Traiano, che spinse papa Gregorio a pregare per la
sua salvezza: l'imperatore raffigurato a cavallo, mentre una vedova gli si avvicina in lacrime. Intorno a
lui pieno di cavalieri che levano al cielo le insegne imperiali a forma di aquila d'oro, che sembrano
muoversi al vento. Sembra che la vedova si rivolga a Traiano e gli chieda giustizia per il figlio ucciso,
mentre l'imperatore risponde di attendere il suo ritorno. La vedova ribatte che Traiano potrebbe non
tornare, e lui replica che il suo successore le dar soddisfazione. La vedova ricorda al principe che se un
altro far del bene al suo posto a lui non verr alcun vantaggio e Traiano accetta allora di fare giustizia
prima di partire, poich prova piet per la donna. Solo Dio, osserva Dante, pu aver prodotto tali sculture,
che non si sono mai viste sulla Terra e che sembrano parlare anche se non lo fanno.
Incontro con i superbi (97-139)
Mentre Dante attento a osservare le sculture che raffigurano esempi di umilt, Virgilio gli sussurra che
molte anime (i superbi) si avvicinano a passi lenti e saranno loro a indirizzarli verso la Cornice
successiva. Dante volge subito lo sguardo, curioso di vedere queste anime, ma avverte il lettore che ci
che dir non deve distoglierlo dai buoni propositi, dal momento che la pena assai dura ma, nel peggiore
dei casi, non pu protrarsi oltre il Giorno del Giudizio. Dante chiede spiegazioni a Virgilio, perch le
figure che vede non gli sembrano anime umane, cos non sa che pensare. Il maestro spiega che la loro
pena li obbliga a camminare curvi al suolo e lui stesso stato incerto al primo sguardo. Dante invitato
comunque a guardar meglio e osservare le anime che procedono sotto il peso di enormi massi.
Dante prorompe in una violenta invettiva contro i cristiani superbi, che hanno la mente ottenebrata e
procedono all'indietro, senza capire che noi siamo come vermi destinati a formare una farfalla angelica e a
volare verso la giustizia divina. Perch invece l'animo umano insuperbisce e fa s che l'anima resti una
sorta di insetto non pienamente formato? Le anime dei superbi sono simili a quelle sculture (le cariatidi)
che talvolta, nell'architettura romanica, sostengono con le spalle un soffitto a guisa di mensola, e piegano
le ginocchia cos da far nascere affanno a chi le osserva. I superbi hanno lo stesso aspetto, essendo piegati
sotto il peso del macigno che li fa curvare in maggiore o minor misura, e quello che sembra pi paziente
pare dire: Non ne posso pi.
Interpretazione complessiva
Il Canto descrive l'ingresso dei due poeti nella I Cornice ed dedicato in gran parte agli esempi di umilt
scolpiti nel bassorilievo alla base della parete del monte, mentre nell'ultima parte sono presentati i superbi
e la loro pena (camminano curvi sotto dei pesanti macigni, in modo tale che anche il pi paziente sembra
al limite della sopportazione). L'apertura mostra Dante e Virgilio che accedono alla Cornice salendo lungo
una via scavata nella roccia, che procede a zig-zag e li obbliga a camminare lentamente per evitare gli
spuntoni di roccia; questa l'interpretazione pi probabile, anche se alcuni hanno ipotizzato che la roccia
si muova effettivamente come un'onda, fenomeno che per Dante dovrebbe spiegare in modo pi
dettagliato (il sentiero tortuoso simbolo della via ardua e difficoltosa che conduce alla salvezza, con un
chiaro riferimento all'ascesa al primo balzo del Canto IV, vv. 31 ss.). La salita richiede molto tempo, visto
che i due arrivano nella I Cornice quando sono circa le dieci di mattina, e una volta qui ci sono mostrati
gli esempi di umilt (cio della virt opposta a quella del peccato che si sconta nella Cornice), che si
presentano in forma di sculture su dei bassorilievi di marmo posti sullo zoccolo della parete rocciosa, in
modo che i superbi possano vederli.
Gli esempi sono tre, partendo come sempre da quello di Maria Vergine (l'Annunciazione recatale
dall'arcangelo Gabriele), cui segue quello biblico di David (e al quale fa da contrappunto la moglie Micl,
dispettosa e trista per l'umilt del sovrano) e quello classico di Traiano, la leggenda della vedova che
chiede giustizia divenuta un luogo comune della letteratura medievale e all'origine della presunta salvezza
dell'imperatore pagano (cui Dante d credito, poich includer Traiano tra gli spiriti giusti del VI Cielo).
Dante sottolinea a pi riprese che tali sculture sono frutto dell'arte divina, quindi superano non solo la
maestria del pi grande artista classico (lo scultore greco Policleto), ma addirittura la natura che a sua
volta creazione divina. il preannuncio di un discorso sull'arte che Dante ha gi iniziato col rimprovero
di Catone nel Canto II e riprender nel Canto XI col il discorso di Oderisi da Gubbio, che toccher non
solo le arti figurative come la miniatura o la pittura ma anche la poesia: Dante qui ribadisce che queste
sculture sono estremamente realistiche, come mai potrebbero esserlo opere realizzate da artisti umani,
tanto che esse ingannano la vista e sollecitano altri sensi come l'udito o l'olfatto. L'arcangelo Gabriele e
Maria sembrano davvero parlare, cos come le schiere di Ebrei che accompagnano l'Arca Santa sembrano
cantare e solo l'udito smentisce l'impressione di Dante, mentre la vista lo ingannerebbe; allo stesso modo
il fumo degli incensi raffigurato inganna l'olfatto, mentre l'esempio di Traiano e della vedova si trasforma
agli occhi del poeta in una sorta di sacra rappresentazione, con attori in carne e ossa che si muovono sulla
scena e dialogano, mentre gli stendardi con l'aquila imperiale paiono sventolare al vento. Dante sottolinea
che ci possibile in quanto frutto dell'arte divina, mentre l'arte umana non sarebbe certo in grado di
riprodurre la realt in modo cos fedele; obiettivo dell'arte quello di fornire insegnamenti agli uomini e
non gareggiare follemente con Dio o la natura, per cui da condannare ogni intento edonistico dell'opera
d'arte cos come la superbia degli artisti, oggetto del discorso di Oderisi nel Canto seguente e che tocca lo
stesso Dante molto da vicino.
Una similitudine tratta dalla scultura ancora usata per descrivere la pena dei superbi, che sembrano a
Dante quelle cariatidi che, specie nell'architettura delle chiese romaniche, rappresentavano come capitelli
figure umane o bestiali che sostenevano l'architrave (e facevano nascere con la finzione un autentico
affanno in colui che le osservava). I superbi sono addirittura stravolti sotto il peso degli enormi macigni,
per cui Dante da un lato rassicura il lettore e gli ricorda che tale pena, per quanto dura, cesser il Giorno
del Giudizio, dall'altro accusa duramente i superbi cristian, miseri lassi, che credono presuntuosamente di
saper tutto e finiscono per camminare all'indietro. Gli uomini sono come vermi per la loro imperfetta
fisicit, destinati a formare una angelica farfalla (l'anima libera dal peccato) purch non vengano distolti
dalla loro superbia, che li fa restare antomata in difetto, insetti non pienamente sviluppati. L'insistenza
sulla pericolosit della superbia e sulla durezza della sua punizione in Purgatorio, che si svilupper anche
nel Canto XII con i numerosi esempi del peccato punito, si spiega col fatto che questo il peccato
capitale pi grave e che pi lega l'uomo alla terra, nonch con la considerazione che proprio la superbia
era stata all'origine della ribellione di Lucifero e, quindi, del male nel mondo (ci spiega anche l'ampio
risalto dato da Dante ai risvolti di tale peccato nel campo artistico, in cui lui come si detto si sente
particolarmente coinvolto).

Note e passi controversi


I vv. 7-12 indicano probabilmente che il sentiero scavato nella roccia procede tortuosamente, per cui
Virgilio avverte Dante che occorre salire evitando le sporgenze e accostandosi alle rientranze
(accostarsi / ...al lato che si parte); suggestiva ma poco convincente l'ipotesi che la roccia si muova
effettivamente.
Lo scemo de la luna (v. 14) la parte in ombra del disco lunare, che la prima a toccare l'orizzonte
quando la luna cala dopo il plenilunio: poich la luna tramonta circa quattro ore dopo l'alba, sono pi o
meno le 10 del mattino.
I vv. 29-30 indicano con ogni probabilit che lo zoccolo della parete rocciosa del monte ha minor
ripidezza (che dritto di salita aveva manco), quindi non perpendicolare al pavimento della Cornice ma
inclinato a 45 gradi circa, in modo che le anime dei superbi, pur chinate, possano vedere gli esempi
scolpiti.
Policleto, citato al v. 32 come supremo esempio di arte classica, era noto nel Medioevo essendo citato
varie volte dagli scrittori latini.
I vv. 55-57 descrivono la traslazione dell'Arca Santa dalla casa di Abinedab a Gerusalemme, narrata in II
Reg., VI, 1-16; il v. 57 allude al fatto che Oza, uno dei condottieri del carro, tocc l'Arca in pericolo di
cadere e fu folgorato da Dio, in quanto solo ai sacerdoti era permesso toccarla. Il benedetto vaso (v. 64)
ancora l'Arca.
L'umile salmista (v. 65) re David, che secondo il racconto biblico precedeva l'Arca danzando con la
veste alzata in segno di umilt (trescando indica una danza compiuta a salti, come il trescone popolare).
Micl indispettita dal fatto che David si mortifichi in tal modo e Dio la punisce con la sterilit.
La leggenda di Traiano e della vedova (vv. 73-93) era molto diffusa nel Medioevo e forse traeva origine
da una scultura presente in molti archi romani, raffigurante un imperatore romano a cavallo e una donna
inginocchiata accanto a lui, simbolo di una provincia sottomessa. Ci aveva originato un'altra leggenda,
quella di papa Gregorio Magno che, commosso dall'episodio, preg intensamente per Traiano fino ad
ottenerne la salvezza (la gran vittoria del v. 75), fatto accettato da molti teologi.
Le aguglie ne l'oro (v. 80) sono le aquile in campo d'oro degli stendardi romani, che Dante immaginava
come vessilli in panno simili agli stendardi medievali e perci mossi dal vento.
L'espressione visibile parlare (v. 95) propriamente una sinestesia, che sottolinea l'assoluto realismo delle
sculture.
La frase ciascun si picchia (v. 120) pu indicare che i superbi si battono il petto, oppure avere valore
impersonale (ognuno di loro tormentato dalla giustizia divina).
La forma antomata, insetti un grecismo che deriva da un falso plurale, sulla base di vocaboli come
problemata, dogmata, ecc. (il plur. greco, ntoma, era ritenuto sing.). Alcuni mss. leggono entomata.
Il termine pazienza (v. 138) vuol dire capacit di sopportazione, ma stato anche interpretato come
sofferenza (quindi, in tal caso, l'anima che soffre di pi sembra dire che non pu sopportare oltre).

Purgatorio, Canto XI
Argomento del Canto
Ancora nella I Cornice. I superbi recitano il Pater noster. Virgilio chiede dove sia l'accesso alla Cornice
successiva. Incontro con Omberto Aldobrandeschi. Colloquio con Oderisi da Gubbio. Oderisi indica
l'anima di Provenzan Salvani e predice l'esilio a Dante.
la mattina di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, alle undici.
I superbi recitano il Pater Noster (1-30)
Dante, appena entrato nella I Cornice, sente i superbi che recitano il Pater noster : essi invocano il Padre
che nei cieli, non limitato da essi ma per il maggior amore che prova per gli angeli; ogni creatura deve
lodare il suo nome, la sua potenza e lo Spirito Santo. I superbi invocano la pace di Dio, che essi non
possono ottenere senza l'aiuto della grazia; gli uomini devono sacrificare la loro volont a Dio, come
fanno gli angeli. Chiedono al Padre la manna quotidiana, senza la quale si torna indietro quanto pi si
cerca di avanzare; e come loro perdonano il male subto, cos Dio perdoni i loro peccati. Chiedono al
Padre di non mettere la loro virt alla prova con la tentazione diabolica, ma di liberarli da essa:
quest'ultima preghiera non per i penitenti, ma per i vivi che sono rimasti sulla Terra. Quelle anime
recitano la preghiera camminando piegate sotto i pesanti massi, mentre procedono pi o meno curve in
tondo lungo la Cornice, purgandosi dei mali del mondo.
Ammonimento ai vivi. Virgilio chiede per dove si possa salire (31-45)
Se le anime del Purgatorio, riflette Dante, sono sempre pronte a pregare per i vivi, anche questi devono
fare qualcosa per i morti, ovvero pregare a loro volta per aiutarli a purificarsi dei peccati e salire in
Paradiso. Virgilio si rivolge poi ai penitenti, augurando loro di riuscire a liberarsi dei peccati prima
possibile, e chiedendo di indicargli da quale parte si trovi la scala che conduce alla Cornice successiva. Se
c' pi di un varco, aggiunge, gli mostrino quello che sale in modo meno ripido, poich Dante ancora in
possesso del corpo mortale e quindi pi lento a salire, bench ci sia in contrasto con la sua volont.
Incontro con Omberto Aldobrandeschi (46-72)
Una delle anime risponde a Virgilio, anche se Dante non pu vedere chi stia parlando, e dice che l'accesso
percorribile da una persona viva a destra, per cui i due poeti devono seguirli. Il penitente aggiunge che
se il macigno che porta sulle spalle e punisce la sua superbia non lo costringesse a tenere il viso basso,
alzerebbe gli occhi e guarderebbe Dante per capire se lo conosce e renderlo pietoso verso di s. Egli
stato italiano e figlio di un grande toscano: il padre fu Guglielmo Aldobrandeschi e il suo nobile
lignaggio, unito alle grandi opere dei suoi antenati, lo resero in vita cos superbo da disprezzare tutti gli
uomini e dimenticare che siamo tutti figli della stessa madre. La sua arroganza gli procur la morte, che
avvenne come ben sanno i Senesi e come sanno anche i bambini a Campagnatico. L'anima si presenta
infine come Omberto Aldobrandeschi, la cui superbia danneggia i suoi parenti ancora vivi, e che qui in
Purgatorio dovr scontare la pena per tutto il tempo che piacer a Dio, visto che non lo ha fatto quand'era
sulla Terra.
Incontro con Oderisi da Gubbio (73-117)
Mentre ascolta le parole di Omberto, Dante china la faccia verso il basso e un altro penitente si piega
sotto il peso del masso e lo guarda, riconoscendolo e chiamandolo per nome, tenendo a fatica lo sguardo
fisso sul poeta. Dante lo riconosce a sua volta e gli chiede se sia Oderisi, l'onore di Gubbio e il maestro
dell'arte della miniatura. Il penitente risponde che sono pi apprezzati i codici miniati da Franco
Bolognese, col quale deve condividere la gloria di quell'arte; egli non sarebbe stato cos pronto ad
ammettere la sua inferiorit mentre era in vita, dato il grande desiderio di fama che sempre lo anim. Ora
sconta la pena per la sua superbia e non sarebbe ancora in Purgatorio, se non si fosse pentito quando era
ancora lontano dalla morte. Oderisi critica la gloria effimera degli uomini, che destinata a durare poco
se non seguita da un'et di decadenza: cita l'esempio di Cimabue, superato nella pittura da Giotto, e di
Guido Guinizelli, superato nella poesia da Guido Cavalcanti, mentre forse gi nato chi li vincer
entrambi. La fama mondana solo un alito di vento, che soffia ora da una parte e ora dall'altra, sempre
pronto a cambiare nome. Se uno muore da piccolo, non avr fama pi ampia di uno che muore vecchio,
prima che siano trascorsi mille anni: questo tempo brevissimo se paragonato all'eternit, meno di un
batter di ciglia rispetto al movimento del Cielo delle Stelle Fisse (360 secoli). L'anima che cammina
lentamente davanti a lui ne un esempio: un tempo era noto in tutta la Toscana, ora a malapena si
bisbiglia il suo nome a Siena, di cui pure era signore al tempo della battaglia di Montaperti, quando la
rabbia fiorentina fu distrutta. La fama degli uomini come il colore verde dell'erba, che va e viene ed
cancellato dallo stesso sole che l'ha fatta spuntare dalla terra.
Provenzan Salvani (118-142)
Dante risponde a Oderisi che le sue parole gli ispirano grande umilt e abbassano il suo orgoglio, poi
chiede chi sia l'anima di cui ha parlato prima. Il miniatore spiega che si tratta di Provenzan Salvani,
costretto in questa Cornice perch volle essere il signore e padrone di Siena. Dal giorno in cui morto
cammina sotto il peso del masso, scontando la giusta pena per chi osa troppo mentre in vita. Dante
chiede ancora come sia possibile che Provenzano sia gi in Purgatorio, dal momento che chi attende a
pentirsi in punto di morte deve poi attendere nell'Antipurgatorio tanto tempo quanto visse, a meno che
qualcuno non preghi per lui. Oderisi spiega che quando era all'apice della potenza, Provenzano volle
riscattare un amico dalla prigionia di Carlo I d'Angi, quindi and a chiedere l'elemosina in piazza del
Campo, a Siena, umiliandosi di fronte ai suoi concittadini. Oderisi non aggiunge altro, pur sapendo di
parlare in modo oscuro, ma fra poco i concittadini di Dante faranno s che lui stesso possa provare la
stessa esperienza. Fu quel gesto ad ammettere Provenzan Salvani in Purgatorio.
Interpretazione complessiva
Il Canto si apre con la preghiera del Pater noster recitata dai superbi, che rappresenta una sorta di
parafrasi e ampliamento rispetto al testo originale (in pratica ogni verso della preghiera diventa una
terzina, per una ampiezza complessiva di ventiquattro versi). Ci ha fatto storcere il naso a molti studiosi
moderni, ma ovvio che Dante non intende in alcun modo correggere la preghiera di Ges n mettersi a
gareggiare col testo evangelico, quanto piuttosto invitare gli uomini ad essere umili e a non cadere nel
peccato di superbia: esso il pi grave, quello che maggiormente rischia di privare l'uomo della salvezza,
il che spiega anche perch il poeta vi insista per ben tre Canti (qualcosa di simile, nel Purgatorio, avverr
solo con il peccato di avarizia). Ogni parola della preghiera infatti un invito perentorio all'umilt: gli
uomini devono lodare la potenza di Dio, invocare la sua pace alla quale non potrebbero mai arrivare con
le loro forze, sacrificare a Dio i loro desideri come fanno gli angeli, chiedere a Lui il cibo quotidiano,
perdonare le offese subte. L'ultima parte della preghiera (il verso Ne nos inducas in tentationem, sed
libera nos a malo) non rivolto dai penitenti a se stessi, visto che essi sono ormai immuni alla tentazione
diabolica, ma ai vivi rimasti sulla Terra, per cui essi si mostrano tanto umili da rivolgere ogni pensiero al
destino altrui e non al proprio, come fecero invece quand'erano in vita.
Dante ci mostra poi i penitenti della I Cornice (dopo aver ammonito i vivi a pregare a loro volta per le
anime del Purgatorio) e ci illustra la loro pena attraverso tre esempi, due dei quali parlano direttamente
(Omberto Aldobrandeschi e Oderisi da Gubbio) e il terzo (Provenzan Salvani) soltanto citato;
quest'ultimo personaggio assai affine a Omberto, dal momento che entrambi morirono violentemente e
furono uomini nobili, peccando di superbia proprio a causa della loro attivit politica. Omberto riconosce
apertamente la propria arroganza in vita, che derivava dall'appartenere a una nobile famiglia e di avere
avuto come padre un gran Tosco, quel Guglielmo Aldobrandeschi che fu aspro nemico dei senesi come lo
fu anche il figlio. Omberto parla della sua cervice... superba, si definisce arrogante e ammette di aver
disprezzato tutti gli uomini non pensando alla comune origine, tanto che fin per morire violentemente per
mano dei senesi (Dante non scioglie i dubbi sulla sua morte, che potrebbe essere avvenuta in battaglia o
per mano di sicari assoldati dai senesi, il che per non cambia la sostanza del suo destino). Anche i suoi
parenti sono superbi come lo fu lui sulla Terra, e poich non ha scontato la pena della sua arroganza in
vita deve farlo da morto, per tutto il tempo che piacer a Dio. Il suo esempio molto simile a quello di
Provenzan Salvani, citato alla fine del Canto da Oderisi per mostrare quanto effimera la fama terrena:
egli stato signore di Siena, proprio la citt rivale di Omberto, e fu tanto presuntuoso da voler essere il
padrone assoluto della citt. A differenza di Omberto, tuttavia, egli seppe in un'occasione umiliarsi di
fronte ai concittadini, chiedendo l'elemosina per riscattare un amico fatto prigioniero da Carlo d'Angi
(forse un Bartolomeo Saracini, catturato dopo la battaglia di Tagliacozzo e per cui fu chiesta l'enorme
somma di 10.000 fiorini); quell'opera buona gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio, come
avrebbe dovuto fare tra i morti per forza, ma di accedere subito alla I Cornice.
Tra i due esempi di superbia in campo politico posto quello di superbia artistica, rappresentato dal
miniatore Oderisi da Gubbio che Dante conobbe forse a Bologna, e che infatti riconosce e apostrofa per
primo il poeta (lui, a differenza di Omberto, pu guardare Dante, quindi meno curvo del suo compagno
di pena). Attraverso Oderisi Dante fa un importante discorso relativo all'arte e alla poesia, che si collega a
quello iniziato nel Canto X e che avr un corollario nel Canto XII, con gli esempi di superbia punita: il
miniatore respinge infatti il titolo di onor di quell'arte / che alluminar chiamata in Parisi, riconoscendo
umilmente la superiorit di Franco Bolognese che in vita fu suo concorrente. Oderisi dichiara che la fama
mondana in campo artistico effimera, poich ogni artista destinato ad essere superato da qualcuno che
viene dopo, come successo a lui (sopravanzato da Franco), a Cimabue (superato nella pittura da Giotto)
e a Guinizelli (vinto da Cavalcanti, ed entrambi saranno superati da un terzo poeta che concordemente
interpretato come Dante stesso). Oderisi intende dire che in campo artistico la fama non infinita e chi
oggi viene celebrato come maggiore esponente di una scuola o di una corrente verr presto surclassato da
qualcun altro che far dimenticare il suo nome, e cos via; la vita umana poca cosa rispetto alla
dimensione dell'eterno, quindi meglio farebbero gli uomini a preoccuparsi della loro salvezza spirituale
anzich a come saranno ricordati sulla Terra, perch presto o tardi il loro nome verr dimenticato (e
l'esempio di Provenzan Salvani, che Oderisi indica allusivamente a Dante, dimostra proprio questo: un
tempo era famosissimo, ora a malapena si ricordano di lui a Siena). sembrato strano che nel Canto
dedicato alla superbia Dante citi indirettamente se stesso come colui destinato a vincere poeticamente i
due Guido, ma in realt ci coerente con il discorso di Oderisi: Dante vuol dire probabilmente che anche
lui, come esponente dello Stilnovo, sar a sua volta superato da qualcun altro, senza contare che all'epoca
della Commedia la fase poetica stilnovista era per lui definitivamente chiusa. Dante ora l'autore di un
poema sacro al quale collaborano Cielo e Terra, dal momento che lui mette a disposizione la sua maestria
poetica per dare forma alla visione cui stato ammesso per un eccezionale privilegio, per un'altissima
missione di cui la volont divina lo ha investito. Dante autore ispirato e componendo il poema pu
ben aspettarsi la fama eterna, ma ci non deriva esclusivamente dai suoi meriti di scrittore: nel Paradiso
ribadir a pi riprese di essere incapace di descrivere l'altezza delle cose vedute, ammettendo
continuamente l'inadeguatezza della sua poesia e dei suoi strumenti retorici e invocando l'assistenza
divina, senza la quale la composizione di quest'opera impossibile. Viste le cose in quest'ottica evidente
che l'autocoscienza poetica di Dante si spiega perfettamente nel poema, cos come l'orgoglio di chi
percorre una strada mai compiuta prima di allora, senza che ci contrasti con l'appello all'umilt che
caratterizza il Canto dei superbi; del resto alla fine dell'episodio Oderisi profetizza velatamente a Dante
l'esilio, che lo costringer a sperimentare la stessa umiliazione di Provenzano nel chiedere aiuto ai potenti,
e Dante stesso nel Canto XIII dichiarer a Sapa di temere assai pi la pena della I Cornice, ammettendo
sinceramente la propria suberbia intellettuale e politica.
Note e passi controversi
I primi effetti (v. 3) sono le prime cose create da Dio, quindi i Cieli e gli angeli.
Nei vv. 4-6 i termini nome, valore, vapore sono stati interpretati come le attribuzioni della Trinit, ovvero
Padre, Figlio, Spirito Santo.
L'aspro diserto citato al v. 14 sicuramente la Terra e non il Purgatorio (i superbi dicono questo perch
il monte si trova fisicamente sulla Terra).
L'antico avversaro il demonio, cos definito anche in Purg., VIII, 95.
Il termine ramogna (v. 25), di origine incerta, stato variamente interpretato e pu voler dire augurio,
(buona) sorte.
Al v. 49 riva significa parete del monte.
La comune madre (v. 63) citata da Omberto prob. Eva, ma potrebbe anche essere la Terra.
Alcuni editori pubblicano il v. 65 con questa punteggiatura: ch'io ne mori'; come, i Sanesi sanno
(mettendo in rilievo che i Senesi sanno il modo in cui Omberto morto; il senso generale non cambia con
la punteggiatura a testo).
Agobbio (v. 80) la forma antica di Gubbio, dal lat. Iguvium.
Alluminar (v. 81) deriva dal franc. enluminer, che significa appunto miniare.
Ai vv. 89-90 Oderisi intende dire che, possendo peccar (quindi essendo ancora lontano dalla morte) si
pent, il che gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio (era morto forse nel 1299).
I due Guido citati al v. 97 sono certamente Guinizelli e Cavalcanti, anche se non sono mancate altre
interpretazioni, come Guittone d'Arezzo e Guinizelli (tale interpretazione, pur suggestiva, poco
probabile). Il poeta citato allusivamente al v. 99 probabilmente Dante, anche se l'espressione
indeterminata.
Il pappo e il dindi (v. 105) sono parole infantili, che vogliono dire pressappoco cibo e denaro.
Il cerchio che pi tardi in cielo torto (v. 108) il Cielo delle Stelle Fisse, che secondo le cognizioni
astronomiche del tempo compiva una rotazione completa attorno all'eclittica in 360 secoli.
Il v. 109 (colui che del cammin s poco piglia) indica probabilmente che Provenzan Salvani cammina a
passi lenti, quindi si avvantaggia poco rispetto a Oderisi.
I vicini citati al v. 140 sono i concittadini di Dante.

Purgatorio, Canto XII


Argomento del Canto
Ancora nella I Cornice. Esempi di superbia punita; ammonimento agli uomini. Incontro con l'angelo
dell'umilt. Salita alla II Cornice.
mezzogiorno di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
I due poeti lasciano i superbi (1-24)
Dante cammina chinato assieme a Oderisi da Gubbio, come se i due fossero buoi aggiogati insieme, poi
Virgilio invita il discepolo a lasciare la schiera dei superbi per proseguire il cammino di espiazione. Dante
torna a camminare in posizione eretta, anche se il suo atteggiamento interiore continua ad essere umile, e
segue il maestro lungo la I Cornice camminando in modo assai pi agile e spedito delle anime penitenti.
Virgilio esorta poi Dante a guardare in basso, poich il pavimento della Cornice potr essergli di utile
insegnamento: infatti esso presenta delle sculture del tutto simili ai coperchi di certe tombe poste nel
pavimento delle chiese, istoriati con l'aspetto del defunto e tali da provocare dolore in coloro che le
osservano; cos il pavimento della Cornice, con la differenza che queste sculture sono di aspetto pi
bello in quanto realizzate da Dio.
Esempi di superbia punita (25-63)
Dante vede scolpiti sul pavimento della Cornice gli esempi di superbia punita: vede Lucifero, il pi bello
degli angeli, precipitare dal Cielo dopo essere stato folgorato da Dio e dall'altro lato il gigante Briareo
giacere a terra morto, dopo essere stato colpito dal fulmine di Giove. Vede Apollo, Pallade, Marte armati
intorno al padre Giove, mentre osservano le membra dei giganti abbattuti nella battaglia di Flegra; vede
anche il gigante Nembrod, smarrito ai piedi della Torre di Babele, mentre guarda le altre genti che a
Sennar eressero con lui la superba costruzione.
Dante vede l'esempio di Niobe, raffigurata con aspetto dolente in mezzo ai cadaveri dei quattordici figli, e
quello di Saul, che si uccide gettandosi sulla propria spada a Gilboa, luogo che poi non fu pi bagnato da
pioggia o rugiada. Vede poi Aracne, gi trasformata per met in ragno e triste sui brandelli del tessuto che
ebbe la presunzione di realizzare; vede anche Roboamo, la cui immagine non sembra minacciare ma lo
raffigura mentre pieno di paura portato via da un carro, senza che nessuno lo insegua.
Il pavimento mostra poi Alcmeone che uccide la madre, Erifile, che aveva denunciato il marito Anfiarao
in cambio di un prezioso monile; Sennacherib, ucciso dai figli nel tempio e l lasciato morto; la crudele
uccisione di re Ciro da parte di Tamiri, che lo accus di aver avuto sete del sangue di suo figlio e adesso
nel sangue lo annegava; la rotta e la fuga degli Assiri, dopo l'uccisione di Oloferne da parte di Giuditta,
con quel che restava della sua decapitazione. L'ultimo esempio mostra la rovina di Troia, ridotta in cenere
e finalmente umiliata dopo la superbia sempre mostrata dalla citt.
Ammonimento agli uomini (64-72)
Quale maestro di pittura o disegno potrebbe mai realizzare immagini cos perfette come quelle viste da
Dante sul pavimento della Cornice, che farebbero meravigliare un ingegno raffinato? I morti sembrano
davvero morti e cos i vivi, e nemmeno chi vide la scena dal vero la vide meglio di quanto abbia visto
Dante finch ha osservato chino le sculture. Il poeta si rivolge ironicamente agli uomini, figli di Eva, e li
esorta a continuare a camminare col viso altero e a non chinare lo sguardo, cos da vedere il malvagio
cammino che percorrono.
L'angelo dell'umilt (73-99)
L'animo di Dante non si reso conto di quanto spazio abbiano percorso n di quanto tempo sia trascorso,
poich era tutto preso da ci che vedeva e udiva, finch Virgilio invita il discepolo ad alzare lo sguardo
perch non pi tempo di camminare chinato. Il maestro indica un angelo che si avvicina e dice che
appena terminata l'ora sesta ( passato mezzogiorno). Dante deve assumere un'espressione e atteggiamenti
deferenti, in modo da indurre l'angelo a farli salire alla Cornice seguente, poich questo giorno non
ritorner mai. Dante abitutato agli ammonimenti di Virgilio circa la necessit di non perder tempo,
quindi capisce subito cosa vuol dire: vede poi l'angelo che viene verso di loro, vestito di bianco e col
volto luminoso come la stella Venere al mattino. L'angelo apre le braccia e poi le ali, invitando i due poeti
a venire verso i gradini della scala che agevolmente li porter alla II Cornice. Aggiunge la considerazione
che le anime si presentano di rado a quel varco, perch gli uomini, pur essendo creati per volare in alto,
rivolgono facilmente i loro desideri verso il basso. L'angelo conduce poi i due poeti alla scala scavata
nella roccia, colpisce la fronte di Dante con le ali e gli promette un cammino sicuro.
Salita alla II Cornice (100-136)
Come a Firenze, per salire al monte dove ha sede la basilica di S. Miniato che domina dall'alto la citt
cos ben governata (detto in senso ironico) si possono usare delle scale realizzate sul fianco della
montagna, costruite nel tempo in cui a Firenze non c'era la corruzione odierna, allo stesso modo la parete
del Purgatorio che conduce alla II Cornice meno ripida dove c' la scala, ma questa stretta tra le rocce.
Mentre i due poeti si accingono a salire, sentono delle voci che cantano Beati pauperes spiritu, in modo
cos soave che impossibile descriverle. Quanto sono diversi gli accessi del secondo regno rispetto a
quelli dell'Inferno, visto che qui si entra accompagnati da canti e laggi da terribili lamenti! Dante sale
con grande facilit, pi agevolmente di quanto non camminasse prima in pianura. Il poeta chiede a
Virgilio qual il peso di cui si liberato, dal momento che si sente cos leggero, e il maestro risponde che
quando le altre sei P saranno cancellate dalla sua fronte come l'angelo ha appena fatto con la prima, i suoi
piedi si muoveranno con tanta facilit che non solo non sentiranno fatica, ma proveranno piacere a salire.
Allora Dante reagisce come quelli che hanno in testa qualcosa che non vedono e di cui si accorgono
grazie ai cenni altrui, per cui si toccano il capo e scoprono al tatto ci che non possono vedere con la
vista. Egli infatti si tocca la fronte e sente solo le sei lettere rimaste, cosa che induce Virgilio a sorridere.
Interpretazione complessiva
Il Canto simmetricamente diviso in due parti, di cui la prima chiude l'ampio episodio dedicato alla
superbia mostrando gli esempi di questo peccato punito, mentre la seconda ci introduce alla Cornice
successiva con la descrizione dell'angelo dell'umilt e l'accesso alla scala che consente ai due poeti di
salire. Gli esempi di superbia punita sono anch'essi scolpiti come quelli di umilt del Canto X, con la
differenza che questi effigiano il pavimento della Cornice e costringono Dante e i superbi a calpestarli, in
segno spregiativo rispetto alla presunzione dei personaggi raffigurati: si tratta anche in questo caso di
opere d'arte straordinarie, realizzate dalla mano di Dio e perci incredibilmente pi realistiche di
qualunque scultura prodotta da un artista umano, il che chiude l'ampio discorso intorno all'arte che ha
occupato buona parte dei Canti X-XI. L'insolita ampiezza degli esempi si spiega con la gravit del
peccato di superbia, lo stesso compiuto da Lucifero nella sua ribellione a Dio e che ha cos originato il
male del peccato che affligge il mondo: si tratta di ben tredici esempi, che occupano altrettante terzine e
sono tratti quasi in egual misura dal mito classico e dalla tradizione biblica; le prime dodici terzine sono
disposte in tre gruppi di quattro e iniziano rispettivamente con le lettere V, O, M, come i versi dell'ultima
terzina, a formare l'acrostico VOM (uomo, l'essere soggetto a questo peccato: e infatti la conclusione di
questa prima parte un ironico e antifrastico invito agli uomini, detti figliuoli d'Eva, a continuare a
camminare a testa alta, invece di chinare lo sguardo per capire quanto sia sbagliato il cammino
intrapreso).
Il primo esempio proprio quello di Lucifero, precipitato dal Cielo dopo la sua folle ribellione a Dio
dovuta a invidia e superbia e la cui vicenda era spesso accostata alla analoga ribellione dei giganti della
mitologia classica: infatti gli altri due esempi sono tratti dalla Titanomachia, con Briareo fulminato da
Giove e direttamente contrapposto a Lucifero, e poi con gli altri giganti sconfitti e uccisi dagli dei dopo la
battaglia di Flegra (a loro fatto seguire Nembrod, il personaggio biblico erroneamente interpretato come
un gigante e quale autore della costruzione della Torre di Babele, episodio fin troppo simile alla ribellione
dei giganti classici e perci a questa assimilato). Gli altri esempi accostano ugualmente personaggi tratti
dalla tradizione classica e da quella biblica, spesso protagonisti di folli sfide o oltraggi verso la divinit:
il caso di Niobe, che irrise Latona per la sua scarsa prole e fu punita con la morte dei quattordici figli, di
Aracne, che sfid Atena nella tessitura e fu tramutata in ragno, di Saul, che incorse nell'ira di Dio per la
sua arroganza, del re assiro Sennacherib, che disprezz il Dio di Israele beffandosi della fiducia che
Ezechia riponeva in lui. Gli altri episodi sono rimarchevoli per l'esemplarit del castigo, come Erifile
uccisa dal figlio Alcmeone per vendicare il padre, o il re persiano Ciro ucciso dalla regina Tamiri per
vendicare la morte del figlio, o ancora l'esercito assiro sconfitto dopo che Giuditta decapit Oloferne.
L'ultimo esempio classico (quello di Troia ridotta in cenere alla fine della lunga guerra), riassumendo in
modo clamoroso il triste destino di una citt che aveva dominato l'Asia Minore e che pag la sua
presunzione con la totale distruzione.
Pi distesa la seconda parte del Canto, in cui Dante, dopo la considerazione che il tempo trascorso senza
che lui se ne sia accorto (in maniera analoga all'inizio del Canto IV), invitato dal maestro ad affrettarsi a
raggiungere l'accesso alla II Cornice in quanto ormai passato mezzogiorno. l'angelo dell'umilt a
indirizzare i due poeti verso la scala, non prima di aver cancellato dalla fronte di Dante la prima P
corrispondente al primo peccato capitale espiato: l'angelo sottolinea che ben di rado delle anime passano
da l per salire alla Cornice successiva, considerazione che analoga alla difficolt con cui l'angelo
guardiano aveva aperto la porta del Purgatorio. Dante si sofferma sulla maggiore facilit dell'ascesa, come
se si fosse liberato da un peso: ci conferma quanto detto da Virgilio circa la salita del monte (IV, 85-96) e
d modo a Dante di spiegare con la vivace similitudine finale il fatto che la prima P sia stata cancellata, il
che ricorda che il suo percorso, qui nel Purgatorio, soprattutto un cammino di purificazione. Notevole
ed elaborata, infine, la similitudine che descrive la scala con l'immagine di quelle che conducono alla
basilica di San Miniato al Monte, sopra Firenze: al di l dell'indicazione geografica, analoga ad altre
simili gi viste nei primi Canti del Purgatorio (cfr. III, 49-51; IV, 25-27), da notare l'antifrasi di Firenze
indicata come la ben guidata, con ovvio riferimento al malgoverno dei Neri dopo il 1302, nonch la
rievocazione dei tempi antichi in cui la citt non conosceva gli episodi di corruzione di fine Duecento ( il
riferimento al quaderno e alla doga che un tempo erano sicure, non essendoci casi di corruzione in campo
giudiziario o fra le magistrature comunali: la rievocazione dell'antica Firenze torner in Par., XVI, nelle
parole anch'esse nostalgiche dell'avo Cacciaguida).

La concezione dell'arte nel Purgatorio.


Nella II Cantica emerge in diversi episodi una concezione dell'arte molto lontana da quella rinascimentale
e moderna, in quanto Dante riconduce l'opera d'arte a una funzione esclusivamente didattica e pedagogica
e respinge con forza ogni finalit edonistica, come invece avverr in modo consueto nei secc. XV-XVI.
L'arte (sia quella figurativa come la scultura o la pittura, sia la poesia e la musica) ha per l'uomo
medievale come unico scopo l'insegnamento della parola di Dio, deve cio guidarlo nel suo cammino di
redenzione e non dargli piacere distogliendolo dalla preoccupazione per il suo destino ultraterreno: in
questo senso va letto il duro rimprovero che Catone rivolge a Dante, Virgilio e alle altre anime che si
attardano ad ascoltare il canto di Casella, come a nessun toccasse altro la mente e scordandosi di iniziare
il loro percorso di purificazione (Purg., II, 115 ss.). Le anime sono colpevoli in quanto il loro cuore si
acquietato abbandonandosi all'ascolto della musica, mentre il cuore del cristiano deve sempre essere
inquietum e teso alla faticosa conquista della salvezza, per cui ogni distrazione rappresentata dall'arte
vista come un ostacolo sulla via della beatitudine (la musica, come si vedr, sar parte della
rappresentazione del Paradiso, ma in quanto funzionale alla descrizione della pace eterna di quel regno e
non certo come espressione di qualcosa che fornisce piacere all'anima di per se stessa).
Dante rifiuta quindi il concetto tipicamente rinascimentale di ars gratia artis, dell'arte per l'arte, in quanto
essa deve fornire utili ammaestramenti all'uomo in campo escatologico, e allo stesso modo respinta la
concezione, essa pure tipica del Cinquecento, di un'arte che imita perfettamente la natura, tanto da
considerare l'artista (specie il pittore e lo scultore) come una sorta di demiurgo. Solo Dio in grado di
riprodurre fedelmente lo spettacolo naturale, quindi l'artista che si mettesse a gareggiare con Lui
peccherebbe di superbia intellettuale e rischierebbe la salvezza: l'idea centrale nei Canti che descrivono
la I Cornice del Purgatorio, in cui gli esempi di virt premiata e vizio punito sono scolpiti su bassorilievi
in marmo e, in quanto prodotto dell'arte divina, sono incredibilmente superiori a qualunque opera
scultorea degli uomini. Le immagini sono cos realistiche che traggono in inganno i sensi e inducono
Dante a credere di sentir parlare i personaggi, di percepire l'odore dell'incenso (X, 28 ss.): ci possibile
in quanto Dio l'autore di questo visibile parlare, mentre pi avanti Dante osserva che nessun maestro di
disegno o pittura sarebbe mai in grado di realizzare immagini cos vive, tanto che neppure chi vide la
scena reale la percep meglio di lui di fronte alle sculture (XII, 64-69). Per Dante sarebbe dunque
sembrato blasfemo l'atteggiamento di Michelangelo di fronte al Mos appena scolpito, quando secondo
una nota leggenda avrebbe esclamato Perch mi guardi e non favelli?, colpito dalla perfetta
verosimiglianza della scultura realizzata; questo sar tuttavia l'atteggiamento proprio dell'arte del
Rinascimento, che riprender quella dell'arte classica in cui era perfettamente normale esaltare l'abilit
dell'artista in quanto capace di imitare in modo realistico la realt (Anchise in Aen., VI, 847-848 parlava
di popoli come i Greci capaci di scolpire spirantia... aera, bronzi in grado di respirare e vivos... de
marmore vultus, volti in marmo che sembrano vivi). Del resto lo stesso proemio alla II Cantica
conteneva un duro richiamo alla superbia dell'artista che pretende di gareggiare con la divinit, attraverso
l'esempio classico delle Pieridi trasformate in gazze per aver sfidato le Muse nel canto; e l'insistenza
riservata da Dante al peccato di superbia e alla Cornice in cui questo punito si spiega anche per la
considerazione della superbia in campo artistico, in cui il poeta si sentiva direttamente coinvolto come
l'ampio discorso di Oderisi da Gubbio del Canto XI dimostra.
Note e passi controversi
Alcuni mss. leggono al v. 5 con la vela e coi remi, che considerata lectio facilior (Dante segue
probabilmente Virgilio, Aen., III, 520: velorum pandimus alas).
Le tombe terragne del v. 17 sono le sepolture sotto il pavimento di chiese e conventi che un tempo erano
assai diffuse, tanto che saranno citate anche da Foscolo nei Sepolcri (104 ss.).
L'espressione d delle calcagne (v. 21) vuol dire letteralmente d di sprone, quindi pungola.
Apollo detto Timbreo al v. 31 per il culto praticato a lui a Timbra, nella Troade.
Sennar (v. 36) era la pianura vicino a Babilonia dove si inizi a costruire la Torre, secondo il racconto
biblico.
Il v. 42 allude alla maledizione scagliata da David contro la localit di Gelbo (Gilboa), dopo la morte di
Saul, che non avrebbe pi ricevuto pioggia e sarebbe stata sterile.
Alcmeone (v. 50) era figlio di Anfiarao, l'indovino morto nella guerra di Tebe e incluso da Dante fra gli
indovini della IV Bolgia (Inf., XX, 31-36).
Nei vv. 55-57 Dante segue strettamente il racconto dello storico Paolo Orosio (Hist., II, 7), secondo il
quale Tamiri disse a Ciro: Satia te sanguine quem sitisti (saziati del sangue di cui fosti assetato).
Le reliquie del martiro (v. 60) indicano il tronco decapitato di Oloferne, e non il massacro degli Assiri.
Maestro... di stile (v. 64) indica il disegnatore, poich lo stile era un'asticciola metallica che serviva per
disegnare: alcuni hanno pensato allo scultore, ma stile non pu indicare lo scalpello; altri ancora hanno
ipotizzato che gli esempi siano non scolpiti ma disegnati, per il paragone con le tombe terragne lo
esclude. Le ombre e' tratti del v. 65 indicano probabilmente le figure e i loro lineamenti, senza bisogno di
pensare a effetti di chiaroscuro.
Alcuni editori attribuiscono i vv. 94-96 a Dante e non all'angelo, ma sembra pi probabile che sia l'angelo
a osservare la scarsit delle anime che passano da quel varco.
I vv. 104-105 alludono a due gravi fatti di corruzione avvenuti a Firenze alla fine del XIII sec. Il primo
ebbe come protagonista Niccol Acciaioli, assolto in un processo grazie a una falsa testimonianza
ammessa dal podest Monfiorito di Coderda che poi confess la colpa: l'Acciaioli fu eletto priore e,
approfittando della carica, prese gli atti del processo (il quaderno) e cancell la falsa testimonianza, cosa
che fu scoperta e denunciata (l'uomo fu arrestato). Il secondo episodio riguarda Durante Chiaramontesi,
frate della penitenza, che fu sovrintendente per la vendita del sale e alter la misura ufficiale dello staio,
togliendo da esso una doga di legno e arricchendosi (fu condannato a morte).
L'aggettivo scempie (v. 133) stato variamente interpretato, ma forse aggettivo riferito alle dita e vuol
dire staccate l'una dall'altra.
Purgatorio, Canto XIII
Argomento del Canto
Ingresso nella II Cornice. Esempi di carit. Descrizione della pena degli invidiosi. Incontro con Sapa
senese.
poco dopo mezzogiorno di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
Ingresso nella II Cornice. Virgilio si rivolge al sole (1-21)
Dante e Virgilio arrivano in cima alla scala che li conduce nella II Cornice, di aspetto simile alla
precedente ma di minor circonferenza. Essa non istoriata da sculture e sia il pavimento, sia la parete
rocciosa del monte sono del colore livido della pietra. Virgilio riflette ad alta voce, dicendo che attendere
l'indicazione di qualcuno porterebbe via troppo tempo; quindi fissa il sole voltandosi a destra e si rivolge
all'astro dicendo che la sua luce dovr far loro da guida nel muovere i passi lungo la Cornice, in quanto
esso riscalda e illumina il mondo (e se non c' una ragione apertamente contraria, il sole deve sempre
guidare il cammino dell'uomo).
Esempi di carit (22-42)
I due poeti si mettono in cammino e percorrono circa un miglio, procedendo spediti e di buona lena,
quando sentono volare sopra di s degli spiriti che rivolgono degli inviti alla carit. La prima voce dice in
modo chiaro Non hanno vino, ripetendolo pi volte dietro di loro, e prima che essa cessi di essere udita
per la lontananza, ne sentono una seconda che grida Io sono Oreste e anche questa non si ferma. Dante
stupito e chiede al maestro cosa siano queste voci, ma prima che Virgilio possa rispondere ne echeggia
una terza, che dice: Amate colui che vi ha fatto del male. Allora Virgilio spiega che in questa Cornice
punita l'invidia, quindi gli esempi che hanno udito sono degli inviti alla carit. All'uscita della Cornice
sentiranno esempi opposti, ovvero di invidia punita, e certo Dante li udir prima di incontrare l'angelo.
Incontro con gli invidiosi (43-72)
Virgilio invita Dante a guardare attentamente nella Cornice, perch vedr delle anime sedute lungo la
parete del monte. Il poeta apre ancora pi gli occhi, guarda di fronte e vede delle ombre (gli invidiosi) che
indossano dei mantelli di colore simile a quello della pietra. I due si spingono un po' pi avanti e sentono
che le anime recitano le litanie dei santi, invocando Maria, l'arcangelo Michele, san Pietro e tutti i santi.
Dante molto colpito dalla pena degli invidiosi, tanto che non crede ci sia uomo cos duro da non esserne
commosso: infatti, quando li vede meglio costretto a versare lacrime. I penitenti indossano un panno
ruvido e pungente, come un cilicio, e ognuno sorregge l'altro con la spalla, mentre tutti si appoggiano alla
parete. Sono simili ai ciechi, che chiedono l'elemosina fuori dalle chiese nei giorni delle solennit e fanno
leva sulla carit dei passanti con il loro aspetto misero. Anche queste anime, infatti, non vedono nulla,
perch a ciascuno un filo di ferro cuce gli occhi, come si fa con gli sparvieri selvaggi per addomesticarli.
Dante si rivolge agli invidiosi (73-99)
A Dante sembra oltraggioso camminare tra quelle anime che non possono vederlo, quindi chiede
consiglio a Virgilio con lo sguardo. Il maestro capisce al volo e dice subito a Dante di parlare, sforzandosi
di essere conciso. Virgilio si trova dal lato della Cornice che si affaccia sul vuoto, mentre le anime si
trovano contro la parete rocciosa, intente a versare lacrime attraverso gli occhi cuciti. Dante si rivolge
loro e li definisce spiriti sicuri di vedere la luce divina, augurandogli di lavare presto ogni macchia dalla
propria coscienza, quindi chiede se tra gli invidiosi c' qualche italiano. Un'anima risponde che loro, in
realt, sono tutte cittadine del Paradiso, mentre forse lui vuole sapere se una di loro stata straniera in
Italia. Queste parole provengono da un'anima alquanto lontana da Dante, per cui il poeta le si avvicina.
Incontro con Sapa (100-132)
Dante vede un'ombra che solleva il mento con aria interrogativa, come sono soliti fare i ciechi. Il poeta
chiede alla penitente di dire il proprio nome o il luogo di provenienza e l'anima risponde di essere stata
senese, e di fare ammenda con gli altri delle sue colpe. Anche se si chiamava Sapa non stata saggia e in
vita fu sempre assai pi lieta dei danni altrui che della propria felicit: ora spiegher a Dante il perch
delle sue parole. I suoi concittadini stavano combattendo a Colle Val d'Elsa e lei preg Dio di procurare
loro la sconfitta; quando li vide in rotta, fu talmente felice che ebbe l'ardire di rivolgersi a Dio dicendo di
non temerlo pi, come fece il merlo credendo che l'inverno fosse finito. Si pent in punto di morte e certo
sarebbe ancora nell'Antipurgatorio, se Pier Pettinaio non avesse pregato per lei provando carit nei suoi
confronti. A questo punto Sapa chiede a Dante di rivelare il proprio nome, visto che lei ha intuito che
vivo e ha gli occhi aperti.
Confessione di Dante e ultime parole di Sapa (133-154)
Dante risponde che gli occhi saranno cuciti anche a lui, quando sar in questa Cornice, ma per poco
tempo avendo lui peccato lievemente di invidia; egli ha molta pi paura del tormento dei superbi, tanto
che sente gi il peso del macigno. Sapa gli chiede chi lo abbia condotto fin l e Dante indica Virgilio,
confermando di essere ancora vivo e di poter far visita a qualcuno per suo conto, una volta che sar
tornato in Terra. Sapa reagisce con meraviglia e chiede a Dante di ricordarla nelle sue preghiere; gli
chiede inoltre di andare dai suoi concittadini, se mai capiter in Toscana, per restaurare la sua fama. Dante
li trover presso quel popolo vanesio, che nutre speranza nel porto di Talamone dal quale non ricaver
nulla come dalla ricerca del fiume Diana, anche se a perderci di pi saranno gli ammiragli.
Interpretazione complessiva
Il Canto, che a molti interpreti moderni sembrato tra i meno felici del poema, ha pi che altro la
funzione di introdurci nella II Cornice e preparare il terreno per l'episodio successivo di Guido del Duca,
molto pi significativo ed interessante: qui sono molte le lungaggini e le parti puramente didascaliche,
mentre la protagonista Sapa in effetti un personaggio non perfettamente centrato nella sua fisionomia.
Abbastanza superfluo il discorso che Virgilio rivolge al sole, che ha la sola funzione di spiegare perch
il maestro decide di seguirlo per incamminarsi lungo la Cornice (e l'allocuzione al sole preceduta dalla
descrizione di Virgilio che fa perno sulla gamba destra e si volta col fianco sinistro, con un movimento
che ha del ginnastico come disse Momigliano). Seguono gli esempi di carit, gridati da voci aeree e
non scolpiti come nella I Cornice, che sono assai meno ampi e particolareggiati di quelli di umilt (si
riducono a tre, ovvero il miracolo delle nozze di Cana, la nobile gara tra Oreste e Pilade e l'insegnamento
della carit di Ges ai discepoli, che a ben vedere una massima generica e non un vero esempio).
Puramente didascalica anche la successiva chiosa di Virgilio, che spiega che in questa Cornice punita
l'invidia e, ovviamente, all'uscita gli esempi saranno di invidia punita.
Pi interessante la descrizione della pena degli invidiosi, con una serie di immagini che riconducono tutte
alla vista negata ai penitenti: Virgilio esorta Dante a ficcare li occhi per l'aere e vedere i peccatori, il
discepolo li spalanca ed per li occhi che versa lacrime, provando compassione per le anime e il loro
tormento; pi avanti, quando il poeta si rivolge agli invidiosi per sapere se qualcuno di loro italiano, li
definir gente sicura... di veder l'alto lume di Dio, sottolineando che la loro pena consiste principalmente
nel non poter guardare in modo malevolo come fecero quando erano in vita (invidia da invideo, guardare
di malo occhio). Ampia e forse sovrabbondante la similitudine dei ciechi che chiedono l'elemosina fuori
dalle chiese, con l'insistenza sul fatto che essi fanno compassione non pur per lo sonar de le parole, / ma
per la vista, cos come il dialogo muto con Virgilio cui Dante si rivolge per avere il permesso di parlare
alle anime. E alla domanda di Dante risponde Sapa, la quale puntualizza le parole del poeta dicendo che
esse sono cittadine d'una vera citt (la Gerusalemme celeste, il Paradiso), mente in Italia ognuna di loro
era stata peregrina, straniera.
Questa figura parsa non perfettamente realizzata, soprattutto perch nella prima parte del suo discorso
mostra una sincera contrizione e la consapevolezza del peccato compiuto (si definisce non savia,
nonostante il suo nome che si credeva collegato all'aggettivo, ammette di aver provato un'invidia
smisurata e gratuita, per giunta nella fase finale della sua vita, quando avrebbe dovuto essere pi accorta,
fu talmente contenta della rotta dei Senesi da dire a Dio pi non ti temo, paragonandosi al merlo che fece
lo stesso in un giorno di sole credendo che fosse finito l'inverno), mentre nell'ultima parte mostra una
sottile perfidia nel canzonare i suoi concittadini, col riferimento al porto di Talamone che essi
acquistarono a caro prezzo senza ricavarne nulla, come del resto avevano fatto cercando il leggendario
fiume sotterraneo della Diana, e a perderci di pi saranno gli ammiragli (ovvero, ma il passo di incerto
significato, i capitani della flotta che Siena sognava di allestire, o forse gli appaltatori navali). I
commentatori moderni l'hanno infatti definita vecchia, livida e maligna o anche una donna con tanta
femmilit e tanta fragilit, il che dimostra che il personaggio ha in s delle ambiguit che l'arte dantesca
non ha saputo in questo caso eliminare. probabile che la pungente canzonatura contro i Senesi che
chiude il Canto risenta dello spirito fiorentino dello stesso Dante, che conservava il ricordo bruciante
della sconfitta di Montaperti dovuta in gran parte proprio alla ghibellina Siena, mentre qui Sapa rievoca
la sconfitta di Colle Val d'Elsa che fu per i Guelfi una terribile rivincita (e in quella battaglia fu ucciso e
decapitato Provenzan Salvani, da Dante gi incontrato tra i superbi e verso il quale Sapa provava un odio
personale e gratuito). Si sono cercate nei documenti le ragioni biografiche di quest'odio della donna verso
i concittadini, senza in realt approdare a nulla in quanto del personaggio storico si sa molto poco;
probabile che Dante abbia voluto delineare un personaggio smisuratamente invidioso, al punto di
desiderare la rovina della propria citt, e ci per sottolineare il carattere negativo del peccato di invidia e
opposto alla carit (in questo senso acquista significato il contrappasso degli occhi cuciti, in quanto i
penitenti non possono vedere il sole che personificazione della grazia divina e dell'ardore di carit, cos
come forse non del tutto gratuito risulta l'appello di Virgilio all'astro in apertura di episodio).

Note e passi controversi


I vv. 13-15 intendono dire che Virgilio, per voltarsi a destra verso il sole, fa perno col piede destro e piega
la parte sinistra del corpo.
Nel v. 22 migliaio bisillabo per effetto del trittongo -aio (alcune edizioni riportano migliai' ).
Il primo esempio di carit (v. 29) sono le parole di Maria a Ges alle nozze di Cana, quando la Vergine
invit il figlio a compiere il primo miracolo; il secondo (v. 32) si riferisce al personaggio classico di
Oreste, figlio di Agamennone, che volle vendicare la morte del padre Agamennone ucciso dalla moglie
Clitennestra con l'aiuto dell'amante Egisto. Tornato a Micene con l'amico Pilade, la congiura venne
svelata e Oreste condannato a morte; Pilade finse di essere lui per salvarlo e tra i due inizi una nobile
gara dettata dall'amicizia (ciascuno pretendeva di essere Oreste).
Il passo del perdono (v. 42) il passaggio alla Cornice seguente, dove Dante incontrer l'angelo della
misericordia.
La preghiera degli invidiosi (vv. 49-51) sono le litanie dei santi, che iniziano con Sancta Maria, ora pro
nobis e poi continuano con Sancte Michael, poi con Sancte Petre e si chiudono con Omnes Sancti et
Sanctae Dei, intercedite pro nobis.
I perdoni citati al v. 62 sono le indulgenze, ovvero le solennit in cui nelle chiese si lucrava su questi
provvedimenti (e, per estensione, le chiese stesse).
I vv. 71-73 alludono a una crudele pratica descritta da Federico II nel trattato De arte venandi cum avibus
(II, 37), che consisteva appunto nel cucire le palpebre degli sparvieri selvaggi per addomesticarli.
Nei vv. 88-90 Dante augura alle anime di lavare presto le macchie (schiume) della loro coscienza, in
modo che il fiume della memoria torni a scorrere chiaro e limpido.
Il v. 123 allude a un'antica leggenda, secondo cui il merlo, scambiando un giorno di sole per la fine
dell'inverno, avrebbe detto Pi non ti curo, Domine, ch uscito son del verno. Tale diceria non ha a che
fare con il racconto dei giorni della merla, che nell'Italia del nord indicano i giorni di gennaio pi freddi
dell'anno.
Pier Pettinaio (v. 128) era un mercante di pettini vissuto a Siena e morto in odore di santit nel 1289: fu
terziario francescano e Ubertino da Casale lo defin vir Deo plenus, uomo ripieno di Dio. Sapa intende
dire che l'uomo preg per la sua anima, permettendole di accedere subito alle Cornici senza attendere
nell'Antipurgatorio.
I propinqui (v. 150) dai quali Dante pregato di recarsi per restaurare la fama di Sapa sono
probabilmente i suoi concittadini, ma potrebbero anche essere i suoi parenti (la donna vuole che Dante
dica che non dannata).
I vv. 151-154 alludono malignamente al porto di Talamone, sulla costa meridionale della Toscana,
acquistato dai Senesi per 8.000 fiorini al fine di procurarsi uno sbocco sul mare e allestire una potente
flotta; Siena profuse ingenti somme per risanare il luogo infestato dalla malaria, ricavandone per scarsi
frutti. La Diana era un leggendario fiume sotterraneo che si diceva scorresse sotto Siena e che la citt
cerc di trovare spendendo forti somme. Gli ammiragli potrebbero essere i capitani delle navi della flotta
senese, che non fu in realt mai approntata, ma anche gli appaltatori navali che in quella flotta speravano;
altri li interpretano come gli impresari dei lavori per la ricerca infruttuosa della Diana, ma ipotesi meno
probabile.

Purgatorio, Canto XIV


Argomento del Canto
Ancora tra gli invidiosi della II Cornice. Incontro con Guido del Duca e Rinieri da Calboli. Apostrofe di
Guido contro gli abitanti di Valdarno e profezia su Fulcieri da Calboli. Condanna della corruzione morale
della Romagna. Esempi di invidia punita e ammonimento di Virgilio agli uomini.
il pomeriggio di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, alle tre.
Due invidiosi parlano fra loro e con Dante (1-21)
Dante sente due invidiosi della II Cornice che parlano fra loro: uno chiede chi sia l'uomo che scala il
Purgatorio essendo ancora vivo e con gli occhi aperti, l'altro risponde di non saperlo ma di essere certo
che non solo, per cui invita il compagno a rivolgersi a lui gentilmente per indurlo a parlare. I due spiriti
sono chinati l'uno verso l'altro, alla destra di Dante, quindi alzano il viso e uno dei due chiede al poeta chi
sia e da dove venga, poich la grazia che gli concessa di essere l da vivo li fa meravigliare. Dante
risponde dicendo che dal Falterona nasce un fiume (l'Arno) che attraversa la parte centrale della Toscana
per pi di cento miglia, e che lui proviene dalla sua valle. Dire il proprio nome sarebbe inutile, giacch
egli non ancora cos famoso.
Corruzione degli abitanti di Valdarno (22-54)
Una delle due anime (Guido del Duca) osserva che Dante sta parlando dell'Arno, mentre l'altra (Rinieri da
Calboli) chiede al compagno di pena perch il poeta abbia omesso di pronunciare il nome del fiume,
come se fosse qualcosa di orribile. Guido risponde di non saperlo, ma di essere certo che il nome della
Valle dell'Arno dovrebbe scomparire. Infatti l'Arno, dalla sua sorgente sull'Appennino da cui il Peloro si
staccato e dove il rilievo particolarmente alto, fino alla foce dove il fiume restituisce al mare l'acqua che
evaporata da esso, scorre in terre dove tutti fuggono la virt e gli abitanti della valle si sono trasformati
in bestie. L'Arno scorre dapprima tra sudici porci (i Casentinesi) pi degni di mangiare ghiande che cibo
umano, poi trova dei botoli (gli Aretini) che ringhiano pi di quanto essi siano forti, allontanandosi poi da
loro. Nel suo basso corso, dove la valle pi ampia, l'Arno trova una fossa dove i cani sono diventati lupi
(i Fiorentini), poi scende in bacini profondi e trova volpi dedite alla frode (i Pisani), tanto che non temono
alcuna astuzia.
Profezia su Fulcieri da Calboli (55-72)
Guido non smetter di parlare solo perch altri lo ascoltano, e anzi ci che sta per dire sar utile a Dante,
se si ricorder la verace profezia che sta per fare. Egli prevede che il nipote di Rinieri (Fulcieri da
Calboli) diventer cacciatore dei lupi (i Guelfi Bianchi di Firenze) e li riempir di terrore sulle rive del
fiume feroce. Ne vender la carne quando saranno ancora vivi, per poi ucciderli come una belva, privando
molti della vita e se stesso di onore. Uscir dalla triste selva (Firenze) tutto sporco di sangue e la lascer
in un tale stato che ci vorranno mille anni perch si ripopoli. Mentre Guido parla, Rinieri assume
l'espressione di chi sente preannunciare gravi danni e perci si turba e rattrista, mentre ascolta con grande
attenzione.
Guido del Duca presenta se stesso e Rinieri da Calboli (73-96)
Le parole di Guido e l'aspetto corrucciato di Rineri rendono Dante desideroso di sapere i nomi dei due
penitenti, per cui li prega di rivelare la loro identit. Guido, che ha parlato prima, ribatte che Dante chiede
a loro ci che lui non vuole fare, ovvero dire il suo nome, ma poich Dio gli ha riservato una tale grazia
non si negher e si presenta come Guido del Duca. In vita egli fu talmente roso dall'invidia che, se avesse
visto qualcuno allietarsi, sarebbe diventato livido. Ora sconta la pena per i suoi peccati e si chiede perch
gli uomini desiderano quei beni il cui possesso comporta l'esclusione di altri (i beni materiali). Guido
presenta il suo compagno come Rinieri da Calboli, che ha fatto onore al suo casato a differenza dei suoi
discendenti. Non solo la sua famiglia in Romagna ad essere priva delle virt intellettuali e morali,
poich quella regione piena di sterpi velenosi e ormai sarebbe tardi per estirparli.
Corruzione morale della Romagna (97-126)
Guido inizia una lunga rassegna di antichi romagnoli virtuosi, chiedendosi dove siano ormai Lizio di
Valbona e Arrigo Mainardi, Pier Traversaro e Guido di Carpegna, lamentando il fatto che i Romagnoli si
sono imbastarditi. A Bologna ormai non esiste pi un uomo come Fabbro dei Lambertazzi, n a Faenza
uno come Bernardino di Fosco. Dante non deve stupirsi se Guido piange, quando ricorda Guido da Prata,
Ugolino d'Azzo, Federigo Tignoso e la sua brigata, la famiglia dei Traversari e gli Anastagi, entrambe
rimaste senza eredi, e quando rammenta le nobildonne e i cavalieri del suo tempo, gli affanni delle guerre
e gli agi signorili a cui erano invogliati dall'amore e dalla cortesia. Ora i cuori sono diventati malvagi, per
cui la citt di Bertinoro dovrebbe scomparire in quanto non pi abitata da nobili cavalieri. Fanno bene
quelle famiglie che non hanno discendenti, come Bagnacavallo, mentre fa male Castrocaro e ancor peggio
Conio, che si ostina a generare conti cos corrotti. I Pagani si comporteranno bene, dopo che sar morto
Maghinardo, ma non al punto di cancellare il ricordo della cattiva fama. Ugolino dei Fantolini sicuro,
poich la sua discendenza si interrotta. A questo punto Guido invita Dante ad allontanarsi, poich questi
discorsi gli hanno messo in cuore una gran voglia di piangere.
Esempi di invidia punita. Ammonimento di Virgilio (127-151)
Dante e Virgilio si allontanano in silenzio dalle due anime, sicuri di andare nella giusta direzione in
quanto esse non dicono nulla. I due poeti sono ormai soli quando sentono una voce dall'alto simile a un
fulmine, che dice: Chiunque mi trover, mi uccider. La voce svanisce come un tuono quando squarcia
una nube, quindi se ne sente un'altra che produce un gran fracasso, come un tuono che ne segue un altro, e
dice: Io sono Aglauro, che fui tramutata in pietra. Allora Dante si stringe a Virgilio, procedendo alla sua
destra e non davanti a s. Torna il silenzio e il maestro spiega a Dante che ci che ha udito il richiamo
che dovrebbe indurre l'uomo a restare nei suoi limiti; l'uomo, invece, attratto dalle lusinghe del
demonio, per cui ogni freno risulta inefficace. Il cielo ruota intorno all'uomo mostrandogli le sue bellezze
eterne, ma egli si ostina a volgere lo sguardo a terra, per cui incorre nella dura punizione divina.
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude l'episodio dedicato agli invidiosi iniziato con il XIII e che prosegue senza alcuna
introduzione con il dialogo di Guido del Duca e Rinieri da Calboli, stupiti della presenza in Purgatorio di
un vivo di cui vorrebbero conoscere il nome e la provenienza: in realt il vero protagonista del Canto
Guido, il nobile ravennate che nella prima parte dell'episodio condanna la degenerazione dei popoli di
Valdarno, nella seconda critica il declino morale e il tramonto delle virt cavalleresche della Romagna.
L'occasione per il primo discorso di Guido offerta da Dante personaggio, che si presenta allusivamente
come un viaggiatore venuto dalla valle dell'Arno, fiume che non viene nominato ma indicato con una
perifrasi che contiene precise indicazioni geografiche (il poeta non rivela il proprio nome perch non
ancora famoso, gesto che ad alcuni sembrato un atto di umilt che segue la confessione di superbia del
Canto precedente). Guido giustifica la reticenza sul nome dell'Arno condannando come poco virtuosi i
popoli che ne abitano la valle, anche da lui descritta con una complessa perifrasi che ne illustra i confini
geografici e ricorda in parte l'excursus di Virgilio su Mantova di Inf., XX, 55 ss.: Casentinesi, Aretini,
Fiorentini e Pisani sono paragonati ad animali come se avessero subto una trasformazione da parte della
maga Circe, ed chiaro che ciascun animale rispecchia un difetto o un vizio di ognuno (i Casentinesi
sono porci in quanto sudici, gli Aretini sono botoli perch bravi a parlare ma non altrettanto ad agire, i
Fiorentini sono lupi per la loro cupidigia e avarizia, i Pisani sono volpi in quanto astuti e imbroglioni). Il
quadro dominato dagli odi e dalle rivalit dei Comuni toscani al tempo di Dante, il quale attacca anche
il governo dei Neri a Firenze attraverso la profezia sul nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli: durante la sua
podesteria a Firenze nel 1303 esegu in nome dei Guelfi Neri persecuzioni e vendette nei confronti dei
Bianchi, diventando uno spietato cacciatore che sgomenta i lupi fiorentini sulle sponde del fero fiume;
l'immagine decisamente cupa e degna di una descrizione infernale, con Fulcieri che vende la carne dei
Fiorentini ancor vivi, li uccide come antica belva, esce tutto sporco di sangue dalla citt definita triste
selva, ridotta in tale stato che ci vorranno mille anni perch torni allo stato originale ( l'ennesimo
preannuncio dell'esilio sia pure in termini molto indiretti, nonch un duro attacco contro il declino politico
e morale della Toscana del tempo e, in generale, dell'Italia intera che si ricollega all'invettiva del Canto
VI).
Solo a questo punto Guido presenta se stesso e il compagno di pena, su preghiera di Dante che rimasto
colpito dalle parole del penitente e dall'aspetto corrucciato di Rinieri per ci che ha udito del nipote: la
presentazione dell'altro invidioso permette a Guido di iniziare un secondo discorso sulla decadenza
morale della sua terra, la Romagna, un tempo dominata da signori in pieno possesso di quelle virt
cavalleresche che ora, invece, non esistono pi. Dante rimpiange la scomparsa del mondo cavalleresco-
feudale a vantaggio della civilt comunale e mercantile, dominata dall'avarizia e dalla bramosia di denaro
(lo stesso tema sar affrontato da Marco Lombardo nel Canto XVI e, pi ampiamente, nei Canti XV-XVI
del Paradiso attraverso la rievocazione dell'antica Firenze da parte dell'avo Cacciaguida). Guido del Duca
esalta Rinieri come esempio delle virt cortesi di un mondo scomparso, iniziando una lunga rassegna di
nobili uomini del passato che illustravano la Romagna, attraverso la formula dell'ubi sunt...? che risale ai
testi patristici: la rievocazione di una societ in cui si coltivavano le virt cavalleresche della liberalit,
della cortesia, del valore guerresco, dove le donne e' cavalier si dedicavano ad affanni e agi, ovvero ai
doveri militari del rango nobiliare e ai signorili riposi cui erano spinti da amore e cortesia (sono gli
elementi tipici del mondo cortese, al punto che Ludovico Ariosto riprender questi versi nel proemio
dell'Orlando Furioso). Quella societ ora non esiste pi e gli eredi di quegli uomini nobili non dimostrano
le stesse virt, per cui fanno bene quelle famiglie che non hanno lasciato discendenti che sarebbero
degeneri rispetto a quel glorioso passato; Guido interrompe bruscamente il discorso congedando Dante,
poich le sue stesse parole lo spingono a piangere per l'amarezza dei concetti espressi e per la
constatazione del declino morale della sua terra, proprio come poco prima egli aveva aspramente
condannato quello politico della Toscana (non a caso questo Canto stato definito tosco-romagnolo).
Il Canto si chiude con gli esempi di invidia punita, ovvero quello di Caino uccisore del fratello e di
Aglauro, tramutata in pietra perch invidiosa degli amori della sorella Erse per Mercurio; le ultime parole
sono di Virgilio, che sottolinea la follia degli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male
anzich scegliere il bene offerto dal Cielo, per cui ovvio che siano duramente puniti da chi tutto
discerne, cio da Dio. La condanna di Virgilio rivolta contro la corruzione umana, collegandosi al
discorso di Guido che aveva in fondo lo stesso significato e che sottolineava proprio come la gente umana
desideri pi spesso i beni materiali, ovvero quelli il cui possesso esclude la partecipazione altrui (al
contrario di quelli celesti: e l'allusione di Guido dar modo a Virgilio di chiarirne il significato nel Canto
seguente, preparando il terreno all'ampia descrizione della struttura morale del Purgatorio contenuta nel
Canto XVII).

Note e passi controversi


Il Falterona (v. 17) il monte dell'Appennino da cui nasce l'Arno, che in effetti all'inizio poco pi di un
fiumicel.
Il verbo accarno (v. 22) significa penetro profondamente nella carne, detto solitamente di un'arma o dei
denti; chi sta parlando usa una metafora animalesca e venatoria, che introduce le immagini della
successiva descrizione dei popoli di Valdarno.
I vv. 31-36 indicano il corso dell'Arno dalla sorgente alla foce: la sorgente indicata come l'Appennino
(l'alpestro monte) che pregno, nel senso che ricco d'acqua o forse massiccio, e che stato separato dai
monti Peloritani che ne sono la continuazione orografica in Sicilia (la definizione geologicamente
esatta); la foce definita come il mare cui il fiume restituisce l'acqua che dal mare evaporata e ha
alimentato il fiume stesso attraverso pioggia e neve.
Le galle (v. 43) sono le ghiande di cui sono ghiotti i maiali, cui sono paragonati i Casentinesi: pu darsi
che Dante si riferisca al castello di Porciano nell'alto Casentino, uno dei feudi dei conti Guidi.
Gli Aretini (vv. 46-48) sono definiti botoli... ringhiosi, forse perch sullo stemma di Arezzo si leggeva a
cane non magno saepe tenetur aper, cio spesso un cinghiale preso da un piccolo cane.
I pelaghi cupi del v. 52 sono i bacini profondi in cui l'Arno scorre nel suo corso inferiore, verso Pisa.
Non chiaro a chi si riferisca Guido dicendo altri al v. 55, potendo trattarsi di Dante oppure di Rinieri
(pi probabile la prima ipotesi).
I vv. 86-87 indicano i beni materiali, il cui possesso esclude che possano essere condivisi con altri, come i
beni spirituali. L'espressione di Guido, volutamente oscura, sar spiegata a Dante da Virgilio nel Canto
seguente.
Il vero e il trastullo (v. 93) sono l'oggetto delle virt cavalleresche, che devono portare a coltivare il bene
e a concedersi piaceri signorili (li affanni e li agi citati al v.109: questo verso sar imitato da Ariosto nel
Proemio del Furioso, che inizia proprio dicendo Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori...).
Nei vv. 97-111 Guido del Duca cita una serie di personaggi nobili della Romagna antica: Lizio di Valbona
fu guelfo e aiut Rinieri da Calboli contro i Ghibellini di Forl; Arrigo Mainardi, di Bertinoro, fu amico di
Guido; Pier Traversaro, di origini bizantine, fu signore di Ravenna nella prima met del Duecento; Guido
di Carpegna fu guelfo e si oppose a Federico II; Fabbro dei Lambertazzi fu capo dei Ghibellini bolognesi
e combatt valorosamente contro Modena e Ravenna; Bernardino di Fosco, di umili origini, divenne uno
dei principali cittadini di Faenza; Guido da Prata era un gentiluomo faentino; Ugolino d'Azzo appartenne
alla nobile famiglia toscana degli Ubaldini che visse in Romagna (da qui la lezione vivette nosco) e fu
parente dell'arcivescovo Ruggieri; Federigo Tignoso, forse di Rimini, era detto cos per antifrasi avendo
dei bellissimi capelli biondi e si circondava di una brigata di giovani noti per la loro liberalit; i Traversari
e gli Anastagi erano nobili famiglie ravennati.
Ai vv. 112 ss. sono citate alcune citt le cui nobili famiglie erano note per la loro liberalit: Bertinoro era
una cittadina tra Forl e Cesena, i cui signori erano parenti di Guido; Bagnacavallo era dominata dai
Malvicini; Castrocaro e Conio erano castelli posseduti da signori con titolo di conti; i Pagani erano i
signori di Faenza e il demonio Maghinardo da Susinana, con cui la stirpe ebbe fine; Ugolino dei
Fantolini era un nobiliuomo di Cerfugnano, signore di parecchi castelli in territorio faentino e morto
intorno al 1278.
Il v. 133 cita le parole dette da Caino a Dio dopo l'uccisione di Abele (Gen., IV, 14: omnis igitur qui
invenerit me, occidet me).
I vv. 134-135 alludono alla credenza medievale per cui il tuono era il rumore prodotto dalla nube
squarciata dal vapore igneo, ovvero il fulmine che vi si dilatava.
Il camo citato da Virgilio (v. 143) il freno che deve guidare l'uomo ( immagine biblica: Ps., XXI, 9).

Purgatorio, Canto XV
Argomento del Canto
Incontro con l'angelo della misericordia. Salita dalla II alla III Cornice. Spiegazione di Virgilio circa una
frase di Guido del Duca. Esempi di mansuetudine. Ingresso nel fumo della III Cornice.
il pomeriggio di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
L'angelo della misericordia (1-39)
Il sole deve ancora percorrere fino all'inizio della sera lo stesso tratto che percorre al mattino tra le sei e le
nove, per cui in Purgatorio il vespro, mentre in Italia mezzanotte. I raggi solari colpiscono Dante e
Virgilio di fronte, perch i due hanno girato intorno al monte e procedono ora verso occidente, quando
Dante si accorge che la luce davanti ai suoi occhi molto aumentata e questo lo fa meravigliare, per cui il
poeta si ripara gli occhi con la mano. La luce del sole colpisce Dante come se fosse riflessa, in modo
simile a un raggio di luce che colpisce una superficie d'acqua o uno specchio, per cui il raggio sale
formando un angolo identico a quello del raggio che scende, rispetto alla verticale; la luce che vede Dante
talmente forte che deve distogliere lo sguardo. Egli chiede a Virgilio cosa sia quel fulgore e il maestro lo
invita a non meravigliarsi se la vista degli angeli ancora lo abbaglia, come fa quel messo celeste (l'angelo
della misericordia) che li invita a salire. Ben presto Dante non solo non prover pi disagio a vedere cose
simili, ma addirittura ne sar lieto, per quanto la natura lo ha disposto a questo. I due raggiungono
l'angelo, che con voce lieta li esorta a salire lungo una scala meno ripida delle precedenti; essi salgono, e
dietro di loro sentono intonare il canto Beati i misericordiosi.
Virgilio spiega una frase di Guido del Duca (40-81)
Dante e Virgilio salgono lungo la scala e il discepolo pensa di rivolgere al maestro un'utile domanda, per
cui gli chiede di spiegargli cosa intendesse dire Guido del Duca parlando di beni il cui possesso esclude la
condivisione. Virgilio risponde che il penitente conosceva il proprio peccato di invidia, perci il suo
rimprovero non sorprendente: infatti gli uomini desiderano quei beni materiali il cui godimento tanto
minore quanto maggiori sono i beneficiari, il che suscita invidia. Ma se l'amore di Dio facesse desiderare i
beni celesti, questo non avverrebbe, perch nell'Empireo quanto pi numerosi sono i possessori di un
bene, tanto maggiore ne il godimento e tanto pi si arde di carit. Dante non soddisfatto della risposta
ed in dubbio, poich non capisce come sia possibile che un bene, posseduto da molti, sia goduto in
maggior misura che se goduto da pochi. Virgilio risponde che Dante pensa ai beni terreni, mentre quelli
spirituali si rivolgono subito a chi ama; Dio si concede a seconda della carit che trova nell'anima, per cui
in cielo l'amore maggiore quantio pi numerosi sono coloro che amano, come un raggio di luce riflesso
da uno specchio all'altro. E se la spiegazione di Virgilio non soddisfacente, Dante ricever la chiosa pi
ampia di Beatrice, quindi deve affrettarsi a cancellare le cinque P che rimangono sulla sua fronte.
Esempi di mansuetudine: Maria, Pisistrato, S. Stefano (82-114)
Dante vorrebbe ringraziare il maestro, ma vede che giunto ormai alla III Cornice e volge gli occhi per
vedere cose nuove. Qui rapito in una visione estatica, che gli mostra molte persone radunate in un
Tempio, mentre una donna (Maria) entra e rimprovera dolcemente Ges, che ha fatto preoccupare lei e
suo padre. La visione svanisce e ne compare un'altra in cui una donna piange indispettita, mentre si
rivolge a Pisistrato tiranno di Atene e lo esorta a vendicarsi di colui che ha osato baciare in pubblico la
loro figlia. Il tiranno risponde benigno che, se chi li ama viene condannato, troppo dura sar la punizione
per chi li odia. Poi Dante vede persone accese d'ira che lapidano un giovane (S. Stefano), incitandosi l'un
l'altro, mentre il martire cade a terra morente e volge gli occhi al cielo, chiedendo a Dio di perdonare i
suoi uccisori con aspetto pietoso e mansueto.
Spiegazione di Virgilio (115-138)
Dante torna in s e capisce di aver avuto delle visioni; Virgilio lo vede camminare lentamente come
qualcuno che si sveglia da un sonno pesante, per cui gli chiede cosa gli successo, visto che per un buon
tratto di strada Dante ha camminato con gli occhi velati e le gambe impacciate, come un uomo vinto dal
vino o dal sonno. Dante si dice pronto a raccontare a Virgilio quello che ha visto in estasi, ma il maestro
dichiara di aver letto ogni cosa nella sua mente e ci che Dante ha visto erano esempi di mansuetudine
che devono distogliere dal peccato di ira. Egli non gli ha chiesto cosa avesse per conoscere la ragione del
suo barcollare, ma per esortarlo a camminare velocemente, come si deve fare per incitare i pigri che sono
restii a muoversi quando si svegliano.
Ingresso nel denso fumo della III Cornice (139-145)
I due poeti continuano a camminare mentre ormai il vespro, attenti a guardare in avanti quanto i raggi
bassi del sole glielo consentono: all'improvviso vedono avvicinarsi un fumo acre e denso, oscuro come la
notte, dal quale risulta impossibile scansarsi. Il fumo li acceca completamente, togliendo loro la
possibilit di respirare aria pura.
Interpretazione complessiva
Il Canto un intermezzo narrativo e dottrinale che introduce al passaggio nella Cornice successiva,
attraverso i tre momenti dell'apparizione dell'angelo, della spiegazione di Virgilio, degli esempi di
mansuetudine. L'incontro con l'angelo della misericordia ricalca quello avvenuto nel Canto XII con
l'angelo dell'umilt, con la variante che qui Dante abbagliato dal suo fulgore: Virgilio spiega che ci
dovuto al fatto che la natura umana del poeta non gli consente di fissare lo sguardo nei messi celesti,
proprio come non pu guardare direttamente il sole che li colpisce di fronte, mentre pi avanti ci gli
procurer piacere ( il carattere del viaggio in Purgatorio come purificazione morale, per cui quanto pi
Dante sale tanto pi si avvicina a Dio e si purga dai peccati: pi avanti Virgilio dir che l'angelo ha
cancellato dalla sua fronte la seconda delle sette P).
La salita alla III Cornice lungo una scala meno ripida delle precedenti d modo a Dante di chiedere
spiegazioni circa una frase di Guido del Duca, che nel Canto XIV aveva parlato dei beni materiali come
quelli il cui possesso esclude che siano condivisi con altri, il che suscita invidia negli uomini. Virgilio
offre una spiegazione dottrinale, distinguendo tra i beni terreni che hanno questa caratteristica e quelli
celesti che sono opposti, in quanto il loro godimento cresce quanto pi numerosi sono coloro che li
possiedono: la chiosa del maestro anticipa quelle che spesso Beatrice far nella III Cantica, tali da
suscitare altri dubbi nel poeta come avviene in questo caso, per cui Virgilio rimanda proprio alle pi
dettagliate spiegazioni di Beatrice una volta che Dante l'avr incontrata. Virgilio sottolinea il carattere dei
beni spirituali che sono concessi in misura maggiore quanto pi forte l'ardore di carit, il che riprende il
suo duro rimprovero agli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male, fatto in chiusura del
Canto XIV: interessante la similitudine della luce che si riflette da uno specchio all'altro, che si collega a
quella proposta da Dante riguardo alla luce dell'angelo che lo abbaglia, ricca di elementi scientifici e
precisazioni geometriche (l'elemento della luce domina largamente questo episodio, evidentemente per
contrasto col buio fitto che avvolge la III Cornice e in cui i due poeti si ritroveranno alla fine del Canto).
L'ingresso nella III Cornice degli iracondi accompagnata dagli esempi di mansuetudine, questa volta
attraverso visioni che Dante osserva in una sorta di rapimento estatico. I tre esempi sono ancora una volta
tratti dalla tradizione bibilica (Maria che rimprovera Ges al Tempio, S. Stefano che perdona coloro che
lo hanno martirizzato in preda all'ira) e da quella classica (Pisistrato che rifiuta di punire il giovane che ha
baciato sua figlia in strada, aneddoto che Dante ricava da Valerio Massimo con una citazione quasi
letterale). La domanda di Virgilio a Dante quando tornato in s puramente didascalica, con la funzione
di sottolineare che gli esempi di mansuetudine devono aprire il cuore alle acque de la pace in grado di
estinguere il foco d'ira punito in questa Cornice, oltre che spingere il discepolo ad affrettare il passo senza
indulgere alla pigrizia (forse ci anticipa il peccato punito nella Cornice successiva, ovvero l'accidia). Il
Canto si chiude con l'ingresso nel buio d'inferno della Cornice che rappresenta il contrappasso degli
iracondi, i quali agirono in vita con la mente ottenebrata e gli occhi chiusi alla luce dell'amore di Dio di
cui il Canto ha celebrato le lodi.

Note e passi controversi


I vv. 1-6 indicano che da quel momento al tramonto mancano tre ore, ovvero il percorso che il sole (la
spera del v. 2) compie al mattino dalle 6 sino alla fine dell'ora terza, le 9; quindi in Purgatorio il vespro,
mentre in Italia mezzanotte. Molto discusso il v. 3, che paragona il sole a un fanciullo che scherza:
forse un'allusione al movimento mutevole del sole che provoca il ciclo delle stagioni, mentre
improbabile che Dante con spera intenda il Cielo del Sole o l'eclittica.
Il solecchio (v. 14) indica l'atto di ripararsi gli occhi dal sole con la mano, dal lat. soliculus. Il soverchio
visibile (v. 15) indica ci che della visione eccede le facolt visive, con terminologia aristotelica e
scolastica.
I vv. 16-21 descrivono il fenomeno della riflessione della luce, ovvero l'uguaglianza dell'angolo di
incidenza e di quello di riflessione, per cui i due raggi (quello che cade sulla superficie riflettente e quello
che sale riflesso) formano due angoli di eguale ampiezza rispetto alla verticale al piano (il cader de la
pietra in igual tratta). Parecchio significa uguale.
L'espressione Godi tu che vinci (v. 39) non molto chiara, anche se forse una parafrasi delle parole con
cui Cristo conclude le beatitudini: Gaudete et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in coelis
(Matth., V, 12: Gioite ed esultate, perch la vostra ricompensa grande nei cieli).
I vv. 44-45 si riferiscono alle parole di Guido del Duca (XIV, 86-87).
Il v. 69 si riferisce alla credenza della fisica del tempo di Dante, secondo cui la luce si dirigeva solo verso
i corpi lucidi.
Il verbo s'intende (v. 73) vuol dire si ama e deriva dal prov. s'entendre en; alcuni mss. leggono
s'incende.
I vv. 88-92 si rifanno a Luc., II, 41-48, il passo evangelico in cui Maria e Giuseppe smarriscono Ges
dodicenne nella folla di Gerusalemme e lo ritrovano tre giorni dopo al Tempio intento a disputare con i
dottori; Maria lo rimprovera senza ira, dicendogli Fili, quid fecisti nobis sic? ecce pater tuus et ego
dolentes quaerebamus te (Dante traduce alla lettera).
I vv. 94-105 si rifanno a Valerio Massimo (Mem., V, I), che narra l'aneddoto di Pisistrato, tiranno di Atene
del VI sec. a.C.: un giovane aveva baciato sua figlia pubblicamente e la moglie, indignata, gli aveva
chiesto di punirlo; il tiranno aveva risposto con mansuetudine (Si eos, qui nos amant, interficimus, quid
iis faciemus quibus odio sumus?, ovvero: Se uccidiamo coloro che ci amano, cosa faremo a quelli che ci
odiano?). La villa (v. 97) Atene, per dare il nome alla quale ci fu una lunga contesa tra Nettuno e
Minerva.
Le visioni avute da Dante sono definite non falsi errori (v. 117), in quanto non esistenti fuori dalla sua
anima, ma veritiere.
Le larve citate da Virgilio (v. 127) sono le maschere dei latini; parve (v. 129) un altro latinismo
(piccole).
I vv. 134-135 non sono molto chiari, essendoci due possibili interpretazioni, a seconda che il v. 135 voglia
dire che non vede pi quando il corpo giace morto, oppure quando vede qualcuno che cade a terra
svenuto.
Purgatorio, Canto XVI
Argomento del Canto
Il fumo della III Cornice. Incontro con gli iracondi. Incontro con Marco Lombardo. Discorso sul libero
arbitrio e la confusione dei poteri. I tre vecchi simbolo di virt.
il tardo pomeriggio di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, verso le sei.
Il fumo della III Cornice. Preghiera degli iracondi (1-24)
Dante e Virgilio avanzano lungo la III Cornice, attraverso il denso fumo che rende quel luogo pi buio di
una notte priva di qualunque stella e irrita fortemente gli occhi del poeta, che costretto a chiuderli e ad
appoggiarsi al maestro. Dante cammina come un cieco, seguendo la sua guida senza vedere nulla e
Virgilio gli raccomanda di non separarsi da lui. Sente delle voci che invocano pace e misericordia,
intonando le prime parole dell'Agnus Dei in modo tale che dimostrano un'assoluta concordia. Dante
chiede a Virgilio se a parlare sono dei penitenti e il maestro risponde di s, aggiungendo che si tratta degli
iracondi.
Incontro con Marco Lombardo (25-51)
Uno dei penitenti si rivolge a Dante e gli chiede chi sia, visto che attraversa il fumo come se fosse ancora
vivo. Virgilio esorta il discepolo a rispondere, chiedendo se quella la direzione giusta per salire, e Dante
dice allo spirito che ha parlato che, se lo seguir, udir qualcosa che lo stupir molto. Il penitente dichiara
che seguir Dante fin tanto che potr e se anche il fumo non gli permetter di vederlo, il suono della voce
li terr uniti. Dante a questo punto dice di essere giunto in Purgatorio col proprio corpo mortale dopo aver
attraversato l'Inferno, in virt di una speciale grazia di Dio che vuole mostrargli i regni dell'Oltretomba in
modo del tutto eccezionale. Dante prega il penitente di rivelare il proprio nome e di confermare se stanno
seguendo la giusta direzione per l'accesso alla Cornice seguente. Lo spirito dichiara di chiamarsi Marco
Lombardo, che in vita fu uomo di mondo e conobbe quella virt cortese che ormai tutti hanno
abbandonato. Egli aggiunge che in quella direzione si arriva alla scala e chiede a Dante di pregare per lui,
una volta che sar giunto in Paradiso.
Spiegazione di Marco sul libero arbitrio (52-81)
Dante promette di fare quel che Marco gli chiede, ma lo prega a sua volta di sciogliere un dubbio che lo
assale e che raddoppiato a causa delle sue parole, dopo essere stato suscitato da quelle di Guido del
Duca. Il mondo privo di ogni virt cavalleresca, come Marco ha dichiarato, e pieno di malizia; Dante
vorrebbe saperne la ragione per mostrarla agli altri, poich alcuni la attribuiscono alle influenze celesti e
altri alla condotta degli uomini. Marco emette un forte sospiro e un verso di disappunto, quindi afferma
che il mondo cieco e Dante sembra proprio venire da l. Gli uomini, infatti, riconducono la causa di tutto
al cielo, come se esso determinasse necessariamente gli eventi: ma se cos fosse il libero arbitrio sarebbe
nullo, e non sarebbe giusto essere premiati per la virt e puniti per la colpa. Il cielo, prosegue Marco, d
inizio alle azioni umane, almeno ad alcune, ma in ogni caso l'uomo pu scegliere tra bene e male, e la
volont in grado di vincere ogni disposizione celeste. Gli uomini sono dunque guidati dal proprio
intelletto, che una forza ben maggiore di quella delle influenze astrali.
Causa politica della corruzione umana (82-114)
Se il mondo attuale degenere, la causa dunque tutta degli uomini e Marco lo pu dimostrare
chiaramente. Egli spiega a Dante che l'anima, una volta creata, come una fanciulla inconsapevole, che
mossa dalla bont di Dio e si indirizza verso ci che le d piacere. Essa rivolge il proprio amore anche a
beni materiali e sbagliati, se non viene frenata e guidata opportunamente: per questo esistono le leggi ed
necessario che un sovrano le applichi con rigore. Le leggi nel mondo esistono, ma chi le fa rispettare?
Nessuno, dal momento che il papa guida il gregge dei fedeli, confondendo per il potere spirituale con
quello temporale. Il popolo vede che il pontefice corre dietro ai beni terreni, quindi fa altrettanto e non
chiede altro; dunque la causa del male del mondo la cattiva condotta degli uomini e non la cattiva
influenza dei cieli. Roma aveva due soli (l'imperatore e il papa) che illuminavano due diverse strade,
quella del mondo e quella di Dio: essi si sono spenti a vicenda, perch la spada si unita al pastorale e
questo connubio decisamente negativo, poich i due poteri non si temono l'un l'altro.
I tre vecchi, simbolo di antica virt (115-145)
Per confermare quanto ha detto, Marco aggiunge che nel paese (Lombardia) attraversato da Adige e Po
regnavano valore e cortesia, prima che Federico II fosse ostacolato dalla Chiesa. Ora invece qualunque
uomo malvagio pu passare di l, sicuro di non incontrare alcun uomo virtuoso. Ci sono ancora tre vecchi
in cui l'et antica rimprovera quella nuova, tanto che desiderano ormai passare a miglior vita: sono
Corrado da Palazzo, il buon Gherardo e Guido da Castello, quest'ultimo meglio conosciuto come il
semplice Lombardo. Si pu concludere che la Chiesa cade nel peccato, volendo confondere in s i due
poteri. Dante risponde dicendo che il ragionamento di Marco veritiero, e che comprende perch i
sacerdoti ebrei furono esclusi dall'eredit dei beni temporali; tuttavia chiede chi sia il Gherardo che,
secondo il penitente, rimprovera al presente la sua mancanza di virt. Marco ribatte che o non ha capito le
parole di Dante, oppure il poeta lo stuzzica per fargli dire altro, pocih il poeta parla toscano e afferma di
non conoscere Gherardo. Non saprebbe indicarlo con altro soprannome, se non dicendo che la figlia ha
nome Gaia. A questo punto Marco si congeda dai due poeti, in quanto vede attraverso il fumo la luce del
sole e deve allontanarsi prima di apparire all'angelo che si trova l. Il penitente se ne va senza ascoltare
altro.
Interpretazione complessiva
Il Canto ha argomento prevalentemente politico, prendendo le mosse da un dubbio di Dante che si
ricollega alle parole con cui Guido del Duca nel XIV aveva criticato la decadenza morale della sua
Romagna e quella politica di Toscana, mentre qui le accuse del protagonista Marco Lombardo saranno
rivolte contro la Lombardia, ovvero la Pianura Padana da cui proveniva. Quella di Marco una voce che
Dante ascolta nel buio della Cornice, in cui procede come un cieco appoggiato a Virgilio: chiaro il
contrappasso della pena (l'ira acceca la mente e porta ad atti inconsulti), cos come la necessit di seguire
strettamente la ragione, simboleggiata in questo caso dal poeta latino. L'oscurit del fumo descritta
attraverso una serie di similitudini per contrasto, col dire che neppure un cielo notturno e privo di stelle,
tutto coperto di nuvole, potrebbe rendere l'idea del buio della Cornice; Dante sente solo le voci degli
iracondi, che intonano le prime parole dell'Agnus Dei che ben si adatta alla loro espiazione, dal momento
che Cristo invocato come esempio supremo di mansuetudine e prontezza al sacrificio, mentre i penitenti
sembrano assolutamente concordi.
L'incontro con Marco Lombardo d modo a Dante di affrontare un complesso e delicato discorso politico
e dottrinale, che il poeta affida a un personaggio di scarso spessore biografico: di lui si sa solo che fu un
uomo di corte del nord Italia molto saggio e valente, citato in alcuni racconti del Novellino, che secondo
alcuni commentatori ebbe una condizione simile a quella di Dante durante l'esilio, costretto a diventare
anch'egli cortigiano presso signori di Lombardia e Romagna. Pu essere questa la chiave di lettura che
spiega la scelta dell'interlocutore per affrontare il discorso sul libero arbitrio e poi la confusione dei due
poteri, che come detto si riallaccia al lamento di Guido del Duca circa la decadenza delle virt
cavalleresche nell'attuale civilt comunale. Dante ha un dubbio che lo tormenta, se cio tale declino
morale sia da imputare alla condotta umana o a quelle influenze celesti che la dottrina cristiana
ammetteva: Marco spiega che gli influssi astrali esistono, ma non sono certo tali da determinare di
necessit le azioni umane, il che renderebbe ingiusto premiare la virt e punire il peccato. Dante segue
strettamente l'interpretazione tomistica della questione, riconducendo tutto alla libera scelta dell'uomo che
perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, per cui sbaglia chi attribuisce agli influssi celesti
una responsabilit che essi non hanno; se il mondo dominato dal vizio la colpa degli uomini, punto
che naturalmente centrale nell'architettura morale del poema come di tutto il pensiero religioso e
dottrinale di Dante.
A conferma di ci, Marco affronta poi il delicato problema del rapporto tra potere spirituale e temporale:
l'uomo naturalmente portato a ricercare il proprio bene, il che spesso lo porta a peccare (ci spiegato
attraverso la dottrina della creazione delle anime, in cui Dante segue san Tommaso e polemizza con la
teoria platonica delle idee innate), per cui necessario che vi siano le leggi che lo tengono a freno e
correggono la sua condotta. Nella visione dantesca le leggi devono essere applicate dal potere politico,
ovvero dall'imperatore: ma la sede imperiale in Italia vacante dalla morte di Federico II di Svevia, per
cui le leggi ci sono ma nessuno le fa rispettare, come gi aveva duramente affermato nei Canti VI e VII.
La responsabilit di ci attribuita al papa, reo di volersi arrogare il diritto di governare politicamente
l'Italia in assenza del potere imperiale, e in particolare condannato l'atteggiamento teocratico di
Bonifacio VIII, che con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva affermato sostanzialmente questo
principio e aveva unito il pastorale con la spada, il potere spirituale con quello temporale. Ci causa, per
Dante, dei guasti politici dell'Italia del tempo e di quel disordine morale contro cui il poema una
denuncia, come del resto aveva detto nel Canto VI con l'immagine del cavallo la cui sella vuota e che
viene condotto a mano per le briglie dalla Chiesa; Dante si rif qui anche alla teoria dei due soli
espressa in termini lievemente diversi nella Monarchia, dicendo cio che il papa e l'imperatore brillano di
luce propria e derivano entrambi la loro autorit da Dio, mentre nel trattato politico aggiunger che
l'imperatore deve semplicemente una certa deferenza al pontefice, come un figlio al proprio padre. Nella
visione di Dante diverso il fine delle due autorit, dal momento che il papa deve guidare i fedeli alla
felicit eterna, mentre l'imperatore deve applicare le leggi e assicurare a tutti la giustizia: ci pu avvenire
solo se le due autorit sono distinte e indipendenti, reciprocamente autonome, non se il papa pretende di
governare senza averne le capacit (egli pu rugumare, conoscere le Sacre Scritture, ma non ha l'unghie
fesse, non distingue come dovrebbe i due poteri, finendo per dare un pessimo esempio ai fedeli che lo
vedono correre dietro i beni terreni).
Il tema di importanza centrale e sar pi ampiamente affrontato nel Canto XIX del Paradiso, nel Cielo
di Giove dove trionfa la giustizia: qui Marco Lombardo cita l'esempio della sua terra come conferma di
quanto ha detto, affermando che la Lombardia (nel senso di Italia del nord, di Pianura Padana) un tempo
brillava per virt cavalleresche, poi caduta in decadenza dopo che la Chiesa e i Comuni guelfi diedero
briga all'imperatore Federico II, opponendosi di fatto alla sua autorit politica. Solo tre personaggi
dimostrano le antiche virt e rimproverano il declino morale del presente, tre vecchi che sono esempio
della cortesia rimpianta e destinata a scomparire: i loro nomi sono una nostalgica rievocazione di un
passato che non esiste pi, facendo eco al discorso di Guido del Duca e alla sua rassegna dei nobili
personaggi della Romagna antica, con la sola differenza che questi sono ancor vivi e non vedono l'ora di
passare a miglior vita. Si molto discusso sull'effettivo valore morale di questi tre personaggi, di cui
Dante tace o ignora alcuni misfatti politici, ma chiaro che qui prevale l'ammirazione per l'esercizio delle
virt cavalleresche in cui essi si distinsero; in particolare, Gherardo da Camino ebbe rapporti con Corso
Donati, il che spiega lo stupore di Marco alla domanda di Dante che mostra di non conoscerlo. Marco lo
indica come il padre di una certa Gaia, il che potrebbe avere valore ironico in quanto la giovane citata
da alcuni commentatori come esempio di corruzione: se cos fosse, le parole di Marco vorrebbero
sottolineare il contrasto tra passato glorioso e presente misero, come anche il fatto che il valore dei padri
non stato ereditato dai figli (, in fondo, lo stesso discorso gi affrontato da Guido del Duca nel parlare
della decadenza morale della Romagna, quindi non sorprende che qui Dante segua la stessa linea).
Note e passi controversi
Sotto pover cielo (v. 2) pu indicare semplicemente un cielo oscuro perch privo di stelle, oppure
dall'orizzonte limitato.
La preghiera recitata dagli iracondi l'espressione di Ioann., I, 29: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit
peccatum mundi, ripetuta tre volte e seguita due volte da miserere nobis e una volta da dona nobis pacem.
Le parole sembrano adatte all'espiazione di questi peccatori, che in vita indulsero proprio all'ira.
Le parole con cui Marco Lombardo si presenta (v. 46-48) sono retoricamente elevate: dopo il chiasmo del
v. 46 (Lombardo fui... fu' chiamato Marco) c' il parallelismo del v. 47 (del mondo seppi, e quel valore
amai, con duplice ripetizione nome/verbo) e la raffinata metafora del distendere l'arco (v. 48) per indicare
la disabitudine al valore cortese. Anche ai vv. 50-51 c' il poliptoto ti prego / che per me preghi, in
enjambement.
Nei vv. 85-90 Dante, attraverso le parole di Marco, illustra la creazione dell'anima seguendo la dottrina di
san Tommaso, non la teoria delle idee platoniche (l'anima al momento della creazione una tabula rasa,
non ha idee innate); egli contrasta anche la dottrina della creazione delle anime una volta per tutte,
sostenuta da Origene (Dio crea ciascuna anima volta a volta).
La vera cittade citata al v. 96 probabilmente la Civitas Dei, la cui prima attuazione deve realizzarsi sulla
Terra; la sua torre pu essere la giustizia terrena.
I vv. 98-99 vogliono dire che il papa (il pastor che procede, che guida il gregge) pu rugumar (ruminare),
cio conosce le Sacre Scritture, ma non ha l'unghia fessa, cio non distingue l'autorit temporale dalla
spirituale; la metafora biblica (Levit., XI, 3-8; Deut., XIV, 7-8) e fa riferimento alla legge ebraica che
vieta ai fedeli di mangiare carne di animali che non siano ruminanti o non abbiano l'unghia fessa. Ci era
stato interpretato in senso allegorico dai filosofi cristiani, intendendo la ruminazione come la capacit di
interpretare la legge sacra, e l'unghia fessa come quella di distinguere tra bene e male; Dante con tutta
probabilit intende quest'ultima come la capacit di distinguere tra i due poteri, quindi di governare
politicamente.
I due soli cui Dante si riferisce al v. 106 sono ovviamente il papa e l'imperatore, ma poich egli dice che
Roma era solita averli non chiaro a cosa alluda: forse alla distinzione tra potere politico e sacerdotale
nell'antico Impero romano, o forse all'Impero cristiano prima della presunta donazione di Costantino.
L'espressione l'un l'altro ha spento (v. 109) indica che il papato ha soffocato l'autorit imperiale, quindi
non ha valore reciproco come invece al v. 112.
Il paese ch'Adice e Po riga (vv. 115) la Lombardia, intesa pi generalmente come la Pianura Padana
attraversata dai due fiumi.
I tre vecchi citati da Marco Lombardo (vv. 124-126) sono Corrado da Palazzo (bresciano, di cui si hanno
scarse notizie, tranne che fu podest a Firenze nel 1276 e che era lodato per la sua liberalit); Gherardo da
Camino (capitano generale di Treviso dal 1283 fino alla morte, avvenuta nel 1306, forse coinvolto
nell'uccisione di Iacopo del Cassero da parte di Azzo VIII d'Este); Guido da Castello (ancor vivo nel 1315
e di cui sappiamo molto poco, citato da Dante in termini lusinghieri nel Convivio). Quest'ultimo era detto
dai Francesi, secondo Marco, il semplice Lombardo perch lombardo era sinonimo di italiano ed era
associato, Oltralpe, alla fama di mercante disonesto; Guido sarebbe un'eccezione a questa cattiva fama.
Il v. 135 legge rimprovro con accento sulla penultima sillaba, il che rende regolare la scansione
dell'endecasillabo (altri leggono rimproverio).

Purgatorio, Canto XVII


Argomento del Canto
Uscita di Dante e Virgilio dal fumo della III Cornice. Esempi di ira punita. L'angelo della mansuetudine.
Salita alla IV Cornice e spiegazione di Virgilio sulla struttura morale del Purgatorio.
la sera di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, verso le sette.
Uscita dal fumo della III Cornice. Esempi di ira punita (1-39)
Dante e Virgilio escono dal fumo che avvolge la III Cornice e il poeta paragona se stesso a colui che esce
poco a poco da una fitta nebbia montana, cos che intravede gradualmente la luce del sole, come lui vede
il sole al tramonto filtrare tra il fumo. Dante procede di pari passo col maestro ed esce dal fumo, quindi la
sua mente colpita da una forte immaginazione, che sottrae l'intelletto a ogni stimolo esterno e nasce
evidentemente in Cielo per volere divino. Nella mente di Dante appare l'immagine di Progne tramutata in
usignolo, su cui talmente concentrato da non vedere nient'altro. Poi il poeta vede un uomo crocifisso
(Aman), con atteggiamento sdegnoso, mentre accanto a lui ci sono il re Assuero, Ester e Mardocheo. Non
appena questa immagine si dissolve di per s, come una bolla d'acqua che scoppia, ne appare un'altra in
cui una fanciulla (Lavinia) piange disperata e rimprovera la madre (la regina Amata) per essersi uccisa, in
quanto non voleva perdere la figlia e adesso l'ha persa per sempre, mentre lei piange per la sua morte.
L'angelo della mansuetudine (40-69)
Dante torna in s come qualcuno che dorme e viene svegliato da una luce improvvisa, per cui il sonno
scompare gradualmente: le immagini svaniscono e il poeta colpito da un fulgore assai pi intenso di
quelli naturali. Egli guarda per capire dove si trova, quando si sente una voce che invita a salire e Dante
acceso da un fortissimo desiderio di guardare di fronte a s, anche se non vede nulla come chi fissa il sole
che troppo luminoso per essere osservato. Virgilio spiega che si tratta dell'angelo della mansuetudine,
che li invita a salire e si comporta con loro come l'uomo fa con se stesso; infatti, chi aspetta di essere
pregato pur vedendo il bisogno altrui, come se negasse il suo aiuto. Virgilio esorta quindi Dante ad
affrettarsi a salire, poich non sar possibile farlo una volta calata la notte. I due poeti iniziano dunque a
salire lungo una scala e appena Dante ha messo il piede sul primo gradino, sente un vento che lo colpisce
al viso e una voce che dice Beati i pacifici.
Salita alla IV Cornice (70-90)
Ormai il sole quasi tramontato, per cui appaiono gi le prime stelle. Dante sente la forza delle gambe
venir meno, mentre giunto in cima alla scala e si fermato l insieme a Virgilio, come una nave
approdata a riva. Dante resta in ascolto qualche istante, per capire se c' qualcosa di notevole nella IV
Cornice, poi si rivolge al maestro e gli chiede quale peccato sia punito in questa zona del Purgatorio, in
modo da trarre vantaggio dalla sosta forzata. Virgilio risponde che in questa Cornice punito l'amore
troppo tiepido verso il bene (accidia), e per essere ancora pi chiaro aggiunger una spiegazione che
render fruttuosa l'attesa dei due poeti.
Ordinamento morale del Purgatorio (91-139)
Virgilio spiega a Dante che ogni creatura prova amore, che pu essere naturale o d'elezione; mentre il
primo sempre giusto, il secondo pu errare perch diretto verso l'oggetto sbagliato, oppure per vigore
scarso o eccessivo. Finch l'amore diretto verso Dio ed misurato verso i beni terreni, non pu
sbagliare, mentre quando diretto al male o corre al bene con energia scarsa o eccessiva, allora incorre
nel peccato. Da qui Dante pu capire che l'amore genera nell'uomo ogni virt, cos come ogni peccato.
Dal momento che l'amore non pu non volere la conservazione del proprio soggetto, non si pu odiare se
stessi, n possibile odiare Dio del quale ogni essere fa parte e da cui non pu essere diviso. Dunque il
male che si desidera quello del prossimo e questo pu avvenire in tre modi. C' chi vuole eccellere
calpestando il prossimo, perch brama di primeggiare (superbia); c' chi teme di perdere onore e fama se
altri lo superano e si rattrista quando questo accade (invidia); c' chi riceve un'offesa e si adombra al
punto da desiderare la vendetta (ira). Questi tre peccati si scontano nelle Cornici sottostanti. Ciascuno,
poi, desidera un bene con cui acquietare l'animo e cerca di ottenerlo: se lo fa con amore troppo debole,
allora il peccato si sconta nella IV Cornice (accidia). Vi poi un altro bene che diverso, in quanto
terreno e mondano e non rende l'uomo felice: se l'uomo vi si abbandona con eccessivo vigore, commette i
tre peccati che si scontano nelle Cornici soprastanti. Virgilio interrompe la spiegazione, invitando Dante a
riflettere da solo.
Interpretazione complessiva
Il Canto strettamente legato al successivo, rispetto al quale presenta una struttura sostanzialmente
speculare: infatti alla prima parte narrativa del XVII (l'uscita dei due poeti dalla III Cornice e l'accesso
alla IV, dopo le visioni di ira punita) ne segue una seconda didascalica (la spiegazione da parte di Virgilio
della struttura morale del secondo regno), mentre il Canto XVIII vedr una prima parte didascalica che
completa le parole del maestro seguita da una narrativa (gli accidiosi della IV Cornice). Le quattro parti
sono di lunghezza pressoch equivalente e le prime due sono divise dall'indicazione dell'ora, proprio
come la terza e la quarta ( fondata l'ipotesi che i due Canti siano stati pensati unitariamente, come parte
di un dittico: del resto l'ampia parentesi dottrinale a cavallo di entrambi coerente sul piano dei
contenuti).
L'uscita di Dante dal fumo della III Cornice un ritorno alla luce, descritto con la similitudine del
viandante sorpreso dalla nebbia in montagna che intravede la luce del sole, mentre alla fine dell'episodio
precedente Marco Lombardo aveva preannunciato il fulgore che indicava la fine del denso fumo. Il poeta
riacquista la vista in tempo per essere nuovamente rapito in estasi e avere nuove visioni di esempi di ira
punita, che sono tre come gli esempi di mansuetudine del Canto XV, ma di cui due sono tratti dalla
tradizione classica e uno solo da quella biblica: l'esempio di Progne tramutata in usignolo dopo essersi
vendicata del marito Tereo e quello della regina Amata morta suicida e compianta dalla figlia Lavinia
sono intervallati da quello di Aman, il ministro di Assuero che progett di far crocifiggere Mardocheo e fu
a sua volta messo in croce; il personaggio mostra nella morte la stessa protervia che aveva in vita, con
analogie rispetto a Capaneo e Caifas (incluso il particolare che tutti e tre sono in qualche modo inchiodati,
i primi due al suolo infernale e il terzo alla croce). L'esempio di Amata tratto ovviamente dall'Eneide,
con qualche lieve differenza rispetto al testo virgiliano in cui la regina si impicca per il rimorso di aver
causato la guerra, non per la morte di Turno e il matrimonio imminente della figlia con Enea.
L'accesso alla IV Cornice dopo l'incontro con l'angelo della mansuetudine coincide con il calare della
sera, che provoca in Dante un momento di stanchezza e propizia la spiegazione di carattere dottrinale da
parte di Virgilio, che prende spunto dalla domanda del discepolo sul peccato punito in questo luogo
(l'accidia, ovvero lo scarso amore per il bene). La spiegazione della struttura morale del Purgatorio si rif
ovviamente alla dottrina cristiana della Summa Theologiae di san Tommaso d'Aquino, che si fonda sulla
concezione dell'amore: ogni creatura prova amore naturale o d'animo, cio dovuto alla scelta, e mentre il
primo sempre corretto il secondo pu essere peccaminoso a seconda che sia diretto verso un malo
obietto (causando superbia, invidia, ira), o che sia privo di vigore (accidia) o eccessivo verso i beni terreni
(causando avarizia, gola, lussuria, se i beni troppo desiderati sono il denaro, il cibo, il piacere sensuale).
Questa tripartizione dei peccati capitali corrisponde almeno in parte a quella della topografia morale
dell'Inferno, illustrata nel Canto XI della I Cantica che con questo episodio ha pi di un'analogia, e ha
suscitato qualche perplessit fra gli interpreti a causa di alcune incongruenze con i peccati puniti nel
primo regno: Dante esclude qui i peccati di violenza e frode, che sono causati da malizia anzich da
amore e sono puniti nel basso Inferno, il che spiega perch Virgilio neghi che si possa provare odio verso
se stessi o Dio (cosa che accade coi suicidi e i bestemmiatori, come il caso di Capaneo prima evocato
dimostra ampiamente). Solo i peccati causati da amore possono essere purificati arrivando alla
redenzione, come i peccati di incontinenza puniti nell'alto Inferno che corrispondono quasi perfettamente
a quelli capitali che si scontano nelle Cornici del Purgatorio, con la sola differenza che i dannati non si
sono pentiti prima della morte e i penitenti s. Il maestro interrompe la spiegazione prima di illustrare i
peccati puniti nelle Cornici soprastanti e invitando il discepolo a ricercare da s la risposta, il che crea una
pausa che coincide con la fine del Canto e rimanda alla successiva spiegazione all'inizio del successivo,
quando Virgilio affronter il delicato problema del rapporto tra amore e libero arbitrio: tale discorso
completer quello di Marco Lombardo del Canto XVI e si collegher a un'ampia riflessione di Dante sulla
concezione stessa dell'amore e i suoi rivolti letterari, preparando il terreno all'incontro coi poeti a cavallo
dei Canti XXIV-XXVI prima dell'incontro con Beatrice (che simbolo della grazia divina e quindi, in
certo modo, dell'amore: Dante, come si vedr, sottoporr a una sorta di revisione il suo stesso
Stilnovismo, cosa che peraltro aveva gi fatto nel Canto V dell'Inferno nell'incontro con Francesca e
culminer nell'esaltazione dell'amore divino al centro della III Cantica, il solo degno di essere oggetto di
trattazione poetica).
Note e passi controversi
Al v. 3 talpe sing. arcaico per talpa.
L'imagine del v. 7 indica la facolt dell'immaginazione, proprio come l'imaginativa del v. 13 e la fantasia
del v. 25. Tale concezione tratta dalla filosofia scolastica, in particolare da san Tommaso (Summa
Theologiae, I, qq. 12 e 78).
L'esempio di Progne che, per vendicarsi del marito Tereo che aveva violentato la sorella Filomela, uccise
il figlioletto Iti e ne imband le carni al padre, lo stesso citato nel Canto IX, 13-15. Secondo il mito
Progne fu mutata in rondine e Filomela in usignolo, ma in entrambi i passi Dante sembra affermare il
contrario (Progne sarebbe stata trasformata in usignolo), anche perch le fonti a lui note (Ovidio,
Virgilio...) non sono chiare.
Aman (vv. 25-30) era il ministro del re persiano Assuero, da identificare con Serse I, che essendo adirato
contro Mardocheo, zio della regina Ester, volle crocifiggerlo; Ester rivel i suoi piani al re e questi fece
crocifiggere a sua volta Aman. L'episodio tratto da Est., III-VII, dove tuttavia il re non definito grande,
n Mardocheo giusto, n l'atteggiamento di Aman dispettoso e fero una volta posto in croce (forse
Dante si rif a un testo diverso dalla Vulgata).
Il verbo lutto (v. 38) vuol dire piangere, essere in lutto, pur non essendo di uso frequente.
La rima del v. 55, ne la, composta (cfr. Inf., VII, 28).
Al v. 58 sego vuol dire con se stesso (da seco).
I vv. 68-69 citano la settima beatitudine evangelica, Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (Beati i
mansueti, perch saranno chiamati figli di Dio); Dante modifica la seconda parte introducendo la
distinzione tra ira buona e cattiva, che trae da san Tommaso (Summa Theol., II-IIaa, q. 168).
Il primo ben citato al v. 97 Dio, mentre i secondi (v. 98) sono i beni terreni.
Purgatorio, Canto XVIII
Argomento del Canto
Ancora nella IV Cornice: spiegazione di Virgilio sull'amore e il libero arbitrio. Incontro con gli accidiosi e
l'abate di San Zeno. Dante si addormenta e sogna.
la mezzanotte di luned 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
Virgilio spiega la natura dell'amore (1-39)
Virgilio pone fine alla sua spiegazione e osserva Dante per vedere se soddisfatto. Il discepolo vorrebbe
ulteriori chiarimenti, ma tace per timore di irritare il maestro con altre domande, finch il poeta latino
capisce il suo desiderio e lo invita a parlare liberamente. Dante dichiara di aver ben compreso la
precedente spiegazione, ma di voler conoscere in modo pi dettagliato la natura dell'amore, cui Virglio
riconduce ogni azione virtuosa e ogni peccato. Il maestro esorta Dante ad ascoltare attentamente, cos da
capire l'errore dei falsi maestri, quindi dichiara che l'anima umana si volge naturalmente verso ci che le
piace, non appena la cosa piacevole pone in atto la sua disposizione ad amare. L'intelletto umano attratto
dalle cose reali e fa piegare l'anima verso di esse: se ci avviene, quel piegarsi amore ed del tutto
naturale. Quindi, come il fuoco destinato a salire in alto per la sua natura, cos l'anima presa da amore si
volge verso la cosa amata, per tutto il tempo in cui questa gli procura gioia. Dante pu allora capire
quanto sbagliano coloro che considerano lodevole qualsiasi amore, dal momento che forse pu essere
buona la disposizione ad amare, ma non necessariamente lo la sua attuazione.
Amore e libero arbitrio (40-75)
Dante afferma che le parole di Virgilio gli hanno spiegato cos' l'amore, tuttavia hanno accresciuto i suoi
dubbi: infatti, se l'anima ama ci che le offerto dalla realt esterna e obbedisce a un impulso naturale,
ci non pu essere considerato una colpa. Virgilio premette che la sua risposta atterr esclusivamente alla
filosofia, mentre per una spiegazione dottrinale Dante rimandato alle chiose di Beatrice. Egli spiega che
ogni anima ha in s una disposizione che non avvertita se non agisce, e si manifesta solo attraverso i
suoi effetti. Dunque l'uomo ignora la provenienza delle prime nozioni innate e l'amore dei primi beni, che
sono innati come nelle api la tendenza a produrre il miele, il che non motivo di lode o biasimo. Affinch
a questa prima inclinazione si conformi ogni altro desiderio, l'uomo ha la ragione che deve governare la
volont e deve dare o negare il proprio assenso agli impulsi naturali. Questo il principio da cui deriva la
colpa o il merito, a seconda che la ragione distingua gli amori buoni da quelli cattivi. I filosofi
compresero bene questa libert e basandosi su di essa elaborarono la morale: quindi, supponendo che
l'uomo sia necessariamente portato ad amare, l'intelletto in grado di trattenere questa tendenza. Beatrice,
conclude Virgilio, d il nome di libero arbitrio a questa virt e il maestro esorta Dante a tenerlo a mente.
Sonnolenza di Dante. Esempi di sollecitudine (76-105)
Ormai mezzanotte passata e la luna offusca col suo chiarore le stelle, simile a un grosso paiolo di rame,
mentre percorre il cielo in senso contrario a quello percorso dal sole quando tramonta tra Sardegna e
Corsica (per chi guarda da Roma). Virgilio ha ormai sciolto i dubbi di Dante e questi, soddisfatto dalle sue
risposte, colto da sonnolenza, venendo per subito scosso dalle anime degli accidiosi che corrono dietro
i due poeti. La corsa delle anime paragonata a quella dei Tebani che correvano durante i riti orgiastici in
onore di Bacco, lungo i fiumi Ismeno e Asopo in Beozia. I penitenti raggiungono i due poeti e due di loro
gridano piangendo gli esempi di sollecitudine di Maria, che si affrett alla montagna a visitare Elisabetta,
e di Cesare, che per sottomettere Ilerda prima colp Marsiglia e poi corse in Spagna. Gli altri accidiosi
incitano i compagni di pena a non perdere tempo e ad acquistare la grazia divina con le buone azioni.
L'abate di San Zeno (106-129)
Virgilio si rivolge ai penitenti e li definisce anime mosse da un acuto fervore che supplisce alla loro
negligenza in vita, quindi dichiara che Dante ancor vivo e desidera salire alla Cornice seguente appena
ci sar di nuovo la luce del sole, per cui li prega di indicar loro il passaggio. Uno degli spiriti risponde
invitandoli a seguirli, poich essi sono pieni di buona volont e non possono fermarsi. Egli si presenta
come l'abate di San Zeno a Verona, al tempo di Federico Barbarossa che fece distruggere Milano; un tale
che prossimo alla morte (Alberto della Scala) si pentir di aver avuto potere su quel monastero, poich
vi ha posto come abate suo figlio, menomato nel corpo e nella mente, al posto del prelato che avrebbe
dovuto ricoprire quella carica.
Esempi di accidia punita. Dante si addormenta (130-145)
Dante non sa se il penitente aggiunga altro o taccia, poich corre via da loro velocemente, quindi Virgilio
invita il discepolo a osservare altri due accidiosi che gridano esempi del peccato punito. Essi, correndo
dietro agli altri, gridano che gli Ebrei che furono lenti a seguire Mos morirono prima di giungere al
Giordano, mentre i Troiani che non seguirono Anchise in Italia e si fermarono in Sicilia vissero una vita
ingloriosa. Alla fine, quando le anime sono cos lontane che non si possono pi sentire, Dante passa poco
a poco dalla veglia al sonno, iniziando a vaneggiare e a chiudere gli occhi, finch comincia a sognare.
Interpretazione complessiva
Il Canto ha struttura speculare rispetto al precedente, con cui forma una sorta di dittico, poich a una
prima parte didascalica segue una parte narrativa in maniera rovesciata rispetto al XVII (anche qui le due
parti sono intervallate dall'indicazione dell'ora, con la discussa descrizione della posizione della luna in
cielo). Virgilio completa e integra la spiegazione dottrinale iniziata alla fine del Canto precedente, che
riguardava la struttura morale del Purgatorio basata sulla concezione dell'amore: Dante vorrebbe
conoscere nel dettaglio la natura di questa inclinazione dell'animo e Virgilio risponde con una complessa
spiegazione filosofica, che si rif ovviamente ad Aristotele e alla Scolastica, per cui l'amore trae spunto
dagli oggetti reali del mondo circostante e trasforma in atto la naturale potenza di amare che innata
nell'anima umana, obbedendo cos a un impulso che connaturato al suo essere. Ci suscita gli ulteriori
dubbi di Dante, poich se l'amore un'inclinazione naturale verso la cosa che fa gioire, l'uomo non fa che
obbedire a un impulso irresistibile e ci non pu essere ascritto a sua colpa, secondo quanto Virgilio
aveva detto nel Canto precedente. La chiosa del maestro, che rimanda a Beatrice per ulteriori dettagli in
materia dottrinale, tale da eliminare ogni dubbio: l'uomo , s, naturalmente portato ad amare, ma ad
essere sempre lodevole solo la disposizione innata nell'anima, quindi l'amore in potenza, mentre la sua
trasformazione in atto (quando l'uomo sceglie l'oggetto verso cui indirizzare il proprio amore) pu essere
buona o cattiva a seconda della libera scelta della cosa amata e da questo nasce la virt o il peccato. In
altri termini, l'uomo non deve abbandonarsi in modo indiscriminato alle sue inclinazioni ad amare ma
deve sottoporre la sua elezione al vaglio della ragione, o, come direbbe Beatrice, del libero arbitrio;
Virgilio completa il discorso di Marco Lombardo nel Canto XVI che aveva ridimensionato la necessit
dell'influenza astrale sulla condotta umana, mentre il poeta latino esclude quella dell'amore come impulso
naturale e irresistibile contro il quale l'uomo non si pu opporre (pu e deve farlo, invece, in forza della
ragione e del libero arbitrio). Il discorso di Dante di importanza centrale nel Purgatorio e nella struttura
del poema, anche perch il poeta prende le distanze da un concetto base della poesia amorosa di cui lui
stesso era stato esponente, ovvero la forza irresistibile dell'amore cui vano opporsi: ci era stato
ampiamente affermato dalla trattatistica amorosa del XIII sec., ad esempio da A. Cappellano nel De
amore, e ripreso dalla tradizione poetica provenzale, dai Siciliani e in ultimo dagli Stilnovisti, specie da
Guinizelli e Cavalcanti (quest'ultimo aveva affermato non solo la forza irresistibile del sentimento
amoroso, ma anche i suoi terribili effetti sull'anima umana, la sua azione distruttiva). Dante si discosta da
questa impostazione e afferma che l'amore lodevole solo quando ben diretto e deve quindi essere
sempre sottoposto al vaglio rigoroso della ragione: lo stesso principio per cui Francesca e Paolo erano
dannati tra i lussuriosi, in quanto i due avevano seguito il cattivo esempio della letteratura erotica (la
donna citava Cappellano, ma anche Guinizelli e Dante) e si erano abbandonati al piacere amoroso
subordinando ad esso la ragione, motivo per cui hanno perso la speranza della salvezza. Ci non significa
che Dante rinneghi o rifiuti in blocco tutta la poesia dello Stilnovo, tuttavia la sottopone a una revisione
critica e ne corregge almeno in parte alcuni principi, affermati da quei cattivi maestri (i ciechi che si fanno
duci, secondo le parole di Virgilio) che dovranno essere intesi come gli autori della trattatistica amorosa
che molti danni possono causare a chi li segue senza criterio, come appunto era successo ai protagonisti
del Canto V dell'Inferno. Non un caso che questa digressione preceda e in certo modo prepari l'incontro
con Bonagiunta del Canto XXIV, in cui Dante spiegher in maniera precisa cosa si deve intendere per
Dolce Stil Novo, e quello con Guinizelli del Canto XXVI che si trover proprio fra i lussuriosi del
Purgatorio, a scontare la colpa di aver prodotto quella letteratura di cui Francesca era stata avida
consumatrice.
La seconda parte del Canto dedicata alla descrizione della pena degli accidiosi, fra cui Dante incontra
l'abate di San Zeno, episodio che occupa assai meno spazio rispetto alle altre Cornici e agli altri peccatori
visti in precedenza e che si vedranno in seguito. Si molto discusso sulle possibili ragioni di questa scelta
di Dante (che racchiude in soli 51 versi la descrizione dei penitenti, l'incontro con l'abate e gli esempi di
sollecitudine e di accidia punita) e che pu essere ricondotta a esigenze di carattere strutturali e narrative,
nonch al maggior interesse del poeta per peccati profondamente legati al degrado morale del suo tempo,
a cominciare dall'avarizia cui saranno dedicati i Canti XIX-XX (e in parte anche i due successivi,
attraverso la figura di Stazio che prefigura l'ampia parentesi letteraria degli episodi seguenti). La
descrizione della IV Cornice rappresenta un momento di pausa narrativa e didascalica che ha l'importante
funzione di spiegare l'ordinamento morale del secondo regno, con la digressione filosofica sulla
concezione di amore che sar ripresa nei suoi risvolti poetici e letterari durante gli incontri con
Bonagiunta e Guinizelli; da sottolineare la raccomandazione di Virgilio a Dante circa la necessit di
integrare la sua spiegazione con quella teologica di Beatrice, preannunciandone la venuta sulla cima del
monte di l a pochi Canti e anticipando la struttura di tanti dialoghi di argomento dottrinale che
avverranno nel Paradiso tra lei e il poeta, con la funzione analoga di chiarire i dubbi di Dante (e del
lettore) in materia di fede.

Note e passi controversi


I verbi parta e descriva del v. 12 sono termini propri della filosofia scolastica, e indicano rispettivamente
il separare con ragionamenti e l'esporre analiticamente una tesi (alcuni mss. leggono porti o descriva,
ma lezione poco probabile).
Il v. 21 (tosto che dal piacere in atto desto) vuol dire non appena posto in atto dalla cosa piacevole.
L'apprensiva (v. 22) la facolt conoscitiva dell'uomo, mentre l'intenzione (v. 23) la rappresentazione
dell'oggetto visto.
Al v. 27 di novo pu voler dire prevalentemente oppure per la seconda volta.
L'espressione fin che (v. 33) vuol dire probabilmente per tutto il tempo che e non fino al momento in
cui.
I vv. 38-39 indicano che la cera pu essere buona, ma non necessariamente lo sar l'impronta suggellata
da essa: fuor di metafora, Virgilio dice che l'amore buono come disposizione in potenza, ma pu non
esserlo quando si tramuta in atto.
Al v. 44 non va con altro piede indica che l'anima non pu fare a meno di comportarsi in questo modo,
cio di seguire l'inclinazione ad amare.
Forma sustanzial (v. 49) l'anima, separata (setta) dalla materia e al tempo stesso unita ad essa.
La specifica virtute (v. 51) la disposizione innata dell'anima, che si manifesta solo attraverso gli atti.
Le prime notizie (v. 56) sono i primi principi, gli assiomi indimostrabili con cui opera la ragione, mentre
de' primi appetibili l'affetto (v. 57) l'amore verso i primi beni desiderabili, innato nell'anima umana.
Il verbo vigliare (v. 66) proprio del volgare toscano e vuol dire separare il grano dalle impurit.
I vv. 76-78 sono stati interpretati nel senso che la luna sta sorgendo in ritardo rispetto al giorno
precedente, verso la mezzanotte, il che suscita dubbi di precisione astronomica, ma Dante in realt vuol
dire soltanto che mezzanotte passata (tarda da riferire a mezza notte, non a luna) e l'astro lunare
offusca col suo chiarore le stelle. La luna paragaonata a un paiolo di rame (un secchion che tuttor arda),
perch vicina all'ultimo quarto e, quindi, tonda in basso e con la parte oscura in alto.
Pietola (v. 83) l'odierna Andes, piccolo centro del mantovano dove era nato Virgilio.
Ismeno e Asopo (v. 91) sono i due fiumi della Beozia che vedevano correre i Tebani duranti i riti orgiastici
in onore di Bacco.
Il vb. falca (v. 94) vuol dire probabilmente curva e regge il compl. ogg. suo passo: Dante indica che gli
accidiosi corrono in modo simile a dei cavalli, curvando la loro andatura.
Il v. 120 allude alla distruzione di Milano, ordinata dal Barbarossa nel 1162.
Il tale citato dall'abate di San Zeno al v. 121 Alberto della Scala, che sarebbe morto nel 1301 (la visione
avviene nel 1300).
I versi 139-145 indicano, con una certa precisione, il passaggio della mente dalla veglia al sonno, quando
i pensieri si succedono senza un ordine logico e le immagini si succedono in modo disordinato.

Purgatorio, Canto XIX


Argomento del Canto
Ancora nella IV Cornice: sogno di Dante (la femmina balba). L'angelo della sollecitudine; salita alla V
Cornice. Le anime degli avari e prodighi. Incontro con papa Adriano V.
marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, dall'alba alle prime ore del mattino.
Il sogno di Dante: la femmina balba (1-33)
l'ora in cui il calore della Terra svanito e la costellazione dei Pesci sorge sull'orizzonte, poco prima
dell'alba, quando Dante sogna una donna balbuziente, con gli occhi storti e zoppa, dalle dita rattrappite e
di colorito smorto. Lo sguardo del poeta nel sogno la rende bellissima, come il calore del sole riscalda le
membra infreddolite nella notte: la donna prende a parlare con scioltezza e dichiara di essere una dolce
sirena che tenta i marinai nell'oceano, proprio come aveva fatto con Ulisse, ed in grado di legare a s chi
la ascolta. La donna non ha ancora smesso di parlare, quando ne appare una seconda dall'aspetto di santa,
che chiede a Virgilio chi sia l'altra: quest'ultima avvicinata dal maestro, che le strappa la veste e mostra a
Dante il suo ventre da cui esce un gran puzzo, tale da risvegliare immediatamente il poeta.
L'angelo della sollecitudine (34-51)
Dante si sveglia e Virgilio gli dice di averlo gi chiamato tre volte, invitandolo ad alzarsi e a seguirlo, cos
da trovare il passaggio alla Cornice seguente. Dante obbedisce e segue il maestro, procedendo col sole
nascente alle spalle (quindi verso occidente). Il poeta cammina curvo e pensoso, simile a un mezzo arco
di ponte, quando sente la voce dell'angelo della sollecitudine che li esorta a salire la scala con voce dolce
e benevola. L'angelo apre le ali bianche come quelle di un cigno e li introduce alla scala, stretta tra due
pareti rocciose, quindi muove le penne e fa vento verso i due poeti, affermando che sono beati coloro che
piangono e che saranno consolati.
Virgilio interpreta il sogno di Dante (52-69)
Mentre i due iniziano a salire la scala, Virgilio chiede a Dante perch cammini cos pensieroso e con lo
sguardo a terra e il discepolo risponde che a renderlo dubbioso il sogno da lui fatto poco prima. Virgilio
gli spiega che la femmina che ha sognato rappresenta la cupidigia dei beni materiali, ovvero il peccato
punito nelle tre Cornici soprastanti, e ha visto il modo con cui l'uomo pu liberarsene (con l'aiuto della
ragione). Virgilio invita dunque Dante ad affrettare il passo e a rivolgere lo sguardo ai beni celesti, che
devono essere il solo richiamo per l'uomo. Dante come il falcone che fino a quel momento ha guardato
in basso e poi drizza il collo al richiamo del padrone che gli porge il cibo, poich egli si affretta a
percorrere la scala fino all'ingresso nella V Cornice.
Gli avari e i prodighi. Incontro con papa Adriano V (70-114)
Appena entrato nella Cornice, Dante vede le anime dei penitenti (gli avari e i prodighi) stese con la faccia
a terra, intente a piangere, mentre recitano il salmo Adhaesit pavimento anima mea con profondi sospiri.
Virgilio si rivolge alle anime e chiede loro di indicare l'accesso alla Cornice successiva: una di queste
risponde invitandoli a procedere col fianco destro verso la parte esterna della Cornice. Dante intuisce che
il penitente vorrebbe dire altro, per cui guarda interrogativamente Virgilio che gli consente di parlare con
un cenno, quindi il poeta si porta vicino all'anima che ha parlato e le chiede di rivelare chi sono questi
peccatori e di dirgli il suo nome, cos da giovargli una volta tornato sulla Terra. Il peccatore (papa Adriano
V) risponde presentandosi come successore di Pietro e spiega di essere originario della terra di Lavagna,
in Liguria, come la nobile casata cui appartenne in vita. Fu papa per poco pi di un mese, in cui tuttavia
speriment quanto sia gravoso ricoprire quell'alta carica. Egli si convert tardivamente, ma non appena
divenne papa cap i suoi errori passati e si avvide che i beni terreni non danno la felicit, dal momento che
non poteva aspirare a una pi alta dignit. Fino a quel momento era stato ambizioso e avaro e ora, in
Purgatorio, sconta la pena per i suoi peccati.
Adriano spiega la pena degli avari. Le sue ultime parole (115-145)
La pena degli avari rispecchia il loro peccato in vita ed la pi amara di tutto il Purgatorio: come sulla
Terra essi non hanno rivolto lo sguardo in alto ma lo hanno tenuto fisso sulle cose terrene, cos ora la
giustizia divina li tiene stesi e rivolti a terra, con piedi e mani legati, e li terr in quelle condizioni fin
tanto che piacer a Dio per purificare le loro colpe. Dante si inginocchia davanti a Adriano e sta per
parlare, quando il penitente gli chiede per quale motivo si sia inchinato. Dante risponde di averlo fatto in
segno di rispetto per la sua dignit di pontefice, ma il penitente lo esorta ad alzarsi in piedi, poich lui e
Dante sono egualmente soggetti alla stessa autorit di Dio. Nell'Oltremondo si tutti uguali e le dignit
terrene non contano pi, quindi Adriano invita Dante ad allontanarsi, poich il protrarsi del colloquio gli
impedisce di espiare la colpa in modo conveniente. Aggiunge di avere una nipote di nome Alagia, piena di
virt a patto che la sua famiglia non la corrompa, che la sola che possa pregare per lui sulla Terra.
Interpretazione complessiva
Il Canto diviso in due parti, la prima delle quali dedicata al sogno della femmina balba e all'incontro con
l'angelo della sollecitudine, la seconda all'ingresso nella V Cornice e all'incontro con papa Adriano V,
incentrato prevalentemente sulla condanna del peccato di avarizia. L'inizio dell'episodio sostenuto, con
l'indicazione dell'ora (siamo in prossimit dell'alba, il momento in cui i sogni secondo la tradizione
medievale sono veritieri) attraverso una complessa perifrasi, come nel Canto IX: il momento in cui il
freddo della Luna e di Saturno vince il calore della Terra, e in cui la costellazione dei Pesci sorge
sull'orizzonte, simile nella forma alla figura della Fortuna Maior ricercata dai geomanti. Dante sogna una
donna deforme e balbuziente, che il suo sguardo trasforma in una donna bellissima e seducente: essa si
presenta come una sirena capace di incantare i marinai, come gi fece con Ulisse, finch sopraggiunge
una santa donna che fa intervenire Virgilio, il quale mostra come essa abbia il ventre marcio. Virgilio
stesso a spiegarne il significato a Dante, presentando la femmina balba come il simbolo dei beni materiali
concupiti dall'uomo: essi danno una falsa illusione di felicit ed l'occhio avido degli uomini a renderli
appetibili, mentre la ragione umana (allegorizzata da Virgilio) ne svela la reale natura e il carattere vile. Si
molto discusso sull'identit da attribuire alla donna che si oppone alla femmina balba, che stata
interpretata come Beatrice (il che poco probabile, in quanto Dante l'avrebbe riconosciuta), la Ragione
(ma essa raffigurata dal poeta latino), la Temperanza (cio la virt opposta alla cupidigia, ipotesi che
forse la pi verosimile); certo il richiamo di Virgilio a drizzare lo sguardo al cielo, dove Dio alletta gli
uomini col suo logoro, ovvero il richiamo che il falconiere usava per richiamare il falcone e addestrarlo. Il
monito del maestro ricorda molto quello alla fine del Canto XIV, quando aveva detto che il cielo 'ntorno
vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze eterne, mentre gli uomini abboccano all'esca ammannita dal
demonio: qui la reazione di Dante alle parole di Virgilio di grande sollecitudine, affrettandosi a salire la
scala che conduce alla V Cornice come il falcone che risponde al richiamo del suo padrone, proseguendo
la similitudine dei versi precedenti (e l'immagine del volo verso l'alto anticipa l'accesso al Paradiso
Terrestre che condurr Dante a sollevarsi fisicamente verso il Cielo, dopo aver espiato le sue colpe ed
essersi purificato l'anima).
L'allegoria della femmina balba e dei beni terreni ci introduce alla Cornice dove sono puniti gli avari,
stesi sul pavimento roccioso e con le spalle rivolte a quel cielo che essi disdegarono in vita,
contrariamente al richiamo che Virgilio ha rivolto nel passo precedente: l'attenzione di Dante per il
peccato di cupidigia, anche se apprenderemo in seguito che qui si sconta anche quello opposto di
prodigalit. Significativa la scelta del protagonista, quel papa Adriano V che fu pontefice per pochi
giorni e si rese conto dell'enorme responsabilit di portare il gran manto, pentendosi dell'ambizione e
dell'avarizia dimostrata sino a quel momento: la sua figura speculare rispetto a quella di papa Niccol
III, il protagonista del Canto XIX dell'Inferno dedicato ai simoniaci e condannato per sempre a causa
delle sua corruzione nell'esercitare la stessa carica. Va detto che Dante confonde sicuramente Ottobono
Fieschi con Adriano IV, la cui avidit ben nota e testimoniata nei documenti, ma ci non toglie che il
poeta abbia voluto creare un perfetto parallelismo con l'episodio della I Cantica (a cominciare dal numero
del Canto, che il XIX in entrambi i casi, e dall'espressione gran manto usata da ambedue i pontefici per
indicare la loro carica). Sia Niccol III sia Adriano V erano nobili, entrambi ambiziosi e cupidi di
ricchezze materiali, ma mentre il papa Orsini diventato pontefice per arricchirsi e privilegiare i suoi
parenti, Adriano V ha capito proprio sul soglio di Pietro che quei beni terreni non danno la vera felicit,
poich ottenere una carica pi alta non era possibile ed essa non soddisfaceva i suoi desideri. I due
personaggi sono speculari anche sul piano stilistico, in quanto Niccol usava un linguaggio comico e
pieno di amaro sarcasmo, mentre il discorso di Adriano retoricamente elevato, a iniziare dalla perifrasi
latina con cui si presenta in qualit di successor Petri, passando poi all'elegante descrizione geografica dei
luoghi natali, arrivando infine alla presentazione della propria conversione una volta arrivato alla
massima carica ecclesiastica. Diverso e opposto anche l'atteggiamento di Dante, che contro Niccol aveva
rivolto un'aspra invettiva dai toni biblici e solenni, mentre qui si inginocchia in segno di rispetto per la
dignit pontificale del penitente, che si affretta a farlo rialzare: nella dimensione ultraterrena si tutti
uguali, le dignit terrene non contano pi nulla e tutto ci che interessa al peccatore espiare prima
possibile la sua colpa, per cui Dante invitato ad allontanarsi per non rallentare la sua purificazione.
In questo senso va interpretato l'ultimo accenno del papa alla nipote Alagia, giovane dai costumi virtuosi
che la sola sulla Terra della sua famiglia che possa pregare per la sua anima: Alagia fu moglie di
Moroello Malaspina e Dante la conobbe personalmente durante il suo soggiorno in Lunigiana, quando fu
ospite di quella nobile casata (da lui celebrata nell'incontro con Corrado Malaspina, nel Canto VIII). Il
discorso intorno all'avarizia proseguir nel Canto successivo, strettamente legato a questo quanto al tema,
il cui protagonista sar il re di Francia Ugo Capeto: dopo un pontefice verr presentato un sovrano, scelta
motivata dal fatto che l'avarizia era il peccato pi di ogni altro responsabile, secondo Dante, del degrado
morale del suo tempo, tanto in campo ecclesiastico quanto in quello politico.

Note e passi controversi


I vv. 1-3 indicano le ultime ore della notte, quando secondo la tradizione i sogni erano veritieri, attraverso
l'immagine del calore della Terra ormai dissolto dal freddo dei raggi lunari e di Saturno (questi due astri
erano considerati entrambi molto freddi dalla fisica aristotelica). La Maggior Fortuna la figura della
Fortuna Maior, una di quelle individuate dai geomanti (erano degli indovini) che collegavano con linee
sulla sabbia dei punti segnati a caso: essa aveva forma simile alla costellazione dei Pesci, che poco prima
dell'alba sorge sull'orizzonte ma presto offuscata dal sole nascente (cfr. I, 19-21).
La femmina balba ha il volto di colore smorto, di un pallore scialbo (v. 9), mentre lo sguardo di Dante le
d un colore com'amor vuol (v. 15), ovvero un pallore luminoso simile alle perle, come voleva il canone
della bellezza femminile degli Stilnovisti.
Il vb. dismago (v. 20) vuol dire probabilmente affascino, incanto.
L'agg. vago (v. 22) riferito a Ulisse pu significare bramoso del suo viaggio, oppure invaghito dal
canto della sirena; meno probabile che sia riferito al cammino e che significhi errabondo. Dante non
conosceva il testo omerico e ha tratto l'immagine delle sirene che tentano Ulisse da fonti indirette, anche
se non c' un collegamento diretto col Canto XXVI dell'Inferno.
La donna santa e presta che richiama Virgilio contro la femmina balba stata interpretata come Beatrice,
la Ragione, santa Lucia, la Temperanza, la Grazia divina.
La rima Almen tre / entre (vv. 34-36) composta (cfr. Inf., VII, 28; Purg., XVII, 55).
Il mezzo arco di ponte citato al v. 42 potrebbe essere un arco a sesto acuto, raro tuttavia nei ponti del
Medioevo, oppure un frammento di un'arcata di un ponte rotto.
I vv. 50-51 parafrasano la terza beatitudine, Beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur (Matth., V, 5:
Beati coloro che piangono, perch saranno consolati). Dante dice che avranno le anime donne,
posseditrici di consolazione, modificando in parte il testo evangelico; non molto chiaro il rapporto tra la
beatitudine e il peccato di accidia della IV Cornice.
L'espressione batti a terra le calcagne (v. 61) pu voler dire affretta il passo, ma anche calpesta e
disprezza i beni terreni.
Il logoro (v. 62) era un bastone con due ali posticce in punta, usato dal falconiere come richiamo per il
falcone da caccia.
Il v. 73 (Adhaesit pavimento anima mea) riproduce il versetto 25 del Salmo CXVIII, che in realt ha
tutt'altro significato; non improbabile che questa immagine abbia suggerito al poeta l'idea della pena di
avari e prodighi.
Il v. 84 pu indicare che Dante avverte qualcosa di inespresso, di sottaciuto nelle parole del penitente, ma
anche semplicemente che egli ha capito chi ha parlato, quale anima si cela dietro le parole udite.
Il v. 99 (scias quod fui successor Petri) vuol dire sappi che fui successore di Pietro, come veniva
abitualmente chiamato il pontefice; cfr. Inf., XIX, 69: sappi ch'i' fui vestito del gran manto.
I vv. 100-102 indicano il luogo geografico dove s'adima, cio scende a valle il fiume Entella, che nasce
dal Lavagna e divide Sestri Levante da Chiavari; non molto chiaro cosa intenda Adriano V quando dice
del suo nome / lo titolo del mio sangue fa sua cima, ma forse indica che il nome Entella era riportato sulla
parte alta del blasone dei conti di Lavagna, la famiglia di Ottobono Fieschi (far cima sarebbe termine
tecnico dell'araldica).
I vv. 136-138 alludono al passo evangelico (Matth., XXII, 30) in cui i Sadducei chiedono a Cristo di chi
sar moglie nel regno dei Cieli una donna che ha sposato in successione sette fratelli: Ges risponde in
resurrectione enim neque nubent neque nubentur, dopo la resurrezione non ci si ammoglia n ci si
marita, intendendo dire che nel mondo ultraterreno i rapporti umani non hanno alcun valore.

Purgatorio, Canto XX
Argomento del Canto
Ancora nella V Cornice: esempi di povert e liberalit. Incontro con Ugo Capeto, che accusa i suoi
discendenti (tra cui Filippo il Bello). Esempi di avarizia punita. Un terremoto scuote il Purgatorio e le
anime cantano il Gloria.
la mattina di marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
Maledizione contro l'avarizia. Esempi di liberalit (1-33)
Dante vorrebbe prolungare il colloquio con papa Adriano V, ma la volont di quest'ultimo ha la meglio e
il poeta si ritrae, pur insoddisfatto. Lui e Virgilio percorrono la V Cornice tenendosi stretti alla parete del
monte, poich le anime sono stese sull'orlo verso il vuoto e piangendo espiano il peccato di avarizia che
causa dei mali del mondo. Dante maledice la lupa, simbolo della cupidigia, chiedendo al Cielo quando
essa sar cacciata dalla Terra.
Mentre i due poeti procedono lentamente, Dante sente le anime degli avari e prodighi che mormorano con
voce lamentosa e citano l'esempio di Maria, che visse cos poveramente da partorire Ges in un'umile
stalla. I penitenti ricordano anche G. Fabrizio Luscinio, il console romano che prefer vivere poveramente
con virt piuttosto che da ricco cedendo al vizio. Queste parole spingono Dante ad avvicinarsi all'anima
che crede le abbia pronunciate, la quale intanto cita ancora l'esempio di san Niccol che don denaro a
delle fanciulle povere per mantenere intatto il loro onore.
Colloquio con Ugo Capeto (34-96)
Dante si rivolge all'anima che ha parlato e le chiede di dire il proprio nome, spiegando perch l'unica a
citare gli esempi di liberalit. Il poeta promette di ricompensarla ricordandola sulla Terra, dove destinato
a tornare alla fine del viaggio. Il penitente risponde che esaudir la richiesta, non in quanto desideroso di
essere nominato nel mondo dei vivi, ma per la grazia divina di cui Dante evidentemente oggetto. Egli
dichiara di essere il capostipite della dinastia francese dei Capetingi, che danneggia tutta la cristianit e
raramente produce buoni frutti, profetizzando la vendetta delle terre fiamminghe contro Filippo il Bello.
Si presenta come Ugo Capeto, da cui sono nati i re francesi chiamati Filippo e Luigi e figlio a sua volta di
un macellaio di Parigi: dopo essere entrato in possesso del regno, circondato da amici, lasci la corona in
successione a suo figlio dal quale ebbe inizio la dinastia capetingia. I suoi discendenti, fino all'annessione
della Provenza, non si segnalarono per grandi imprese ma neppure commisero malefatte; da quel
momento in avanti, invece, la dinastia inizi una lunga serie di ruberie e violenze, di cui fece
ironicamente ammenda Filippo il Bello occupando Normandia e Guascogna. Sempre per ammenda, Carlo
I d'Angi invase il regno di Napoli e mand a morte Corradino e poi san Tommaso d'Aquino; di l a poco
Carlo di Valois lascer la Francia armato solo del tradimento e colpir duramente Firenze, impresa che
non gli procurer una terra ma solo vergogna e disonore. Carlo II d'Angi, invece, arriver al punto di
vendere la propria figlia a Azzo VIII d'Este come fanno i corsari con le schiave, dimostrando che
l'avarizia ha del tutto soggiogato i Capetingi. Il culmine di tali empiet sar raggiunto da Filippo il Bello,
che mander i suoi emissari ad Anagni a oltraggiare papa Bonifacio VIII: Cristo sar catturato e deriso
nella persona del suo vicario, ucciso nuovamente tra due ladroni. Il penitente profetizza ancora che
Filippo, nuovo Pilato, porter le sue vele nel Tempio (scioglier cio l'ordine dei Templari). Ugo Capeto
invoca per tutti costoro la vendetta e l'ira divina.
Esempi di avarizia punita (97-123)
Ugo Capeto spiega poi a Dante che gli esempi di liberalit sono pronunciati dalle anime solo di giorno,
mentre di notte i penitenti citano quelli di avarizia punita. Tra questi vi Pigmalione, che per bramosia
d'oro trad e uccise il cognato Sicheo; il re Mida, che pag la sua avidit con una misera esistenza; Acan,
che rub il bottino di Gerico e fu duramente punito da Giosu; Safira e suo marito; Eliodoro, ucciso a
calci da un cavallo; Polinestore, che uccise a tradimento Polidoro; infine Licinio Crasso, decapitato dopo
la sua morte e nella cui bocca fu versato oro fuso. Tutti i penitenti citano questi esempi, con voce pi o
meno alta a seconda dell'affetto che li stimola: dunque Ugo Capeto non era l'unico a parlare quando Dante
l'ha udito, ma accanto a lui le altre anime mormoravano a voce bassa.
Un terremoto scuote il monte. Le anime intonano il Gloria (124-151)
Dante e Virgilio si sono ormai allontanati dal penitente e tentano di percorrere la strada nella Cornice,
quando il monte inizia a tremare con un tremendo rimbombo e Dante si sente raggelare il cuore. Certo
l'isola di Delo non fu scossa da un terremoto simile, prima che Apollo la rendesse stabile. Subito dopo
inizia un grido emesso da tutte le anime, per cui Virgilio rassicura Dante e gli promette la sua guida: le
anime intonano a una voce Gloria in excelsis Deo e i due poeti stanno immobili e in attesa, come i pastori
che per primi udirono quel grido al momento della nascita di Cristo. Quando il terremoto cessa e il grido
si interrompe, i due poeti riprendono il cammino marciando fra le anime stese a terra, che intanto hanno
ripreso a piangere. Dante assillato dal desiderio di conoscere la ragione di quello strano fenomeno, tanto
quanto non crede di essere stato mai in vita sua: non osa domandare a Virgilio per la fretta che lui
dimostra e non vede nulla o nessuno che possa sciogliere i suoi dubbi.
Interpretazione complessiva
Il Canto completa il discorso di Dante intorno al peccato di avarizia, presentando come exemplum morale
il personaggio di Ugo Capeto che, in quanto re di Francia e capostipite della dinastia capetingia,
speculare rispetto a quello di papa Adriano V protagonista del Canto XIX (il peccato pi grave e fonte
della decadenza morale del tempo condannato attraverso due esponenti delle massime cariche
nell'Europa cristiana, un sovrano e un pontefice). L'incontro con Ugo Capeto preceduto dalla dura
invettiva del poeta contro la lupa, simbolo del peccato di cupidigia come gi nel Canto I dell'Inferno, cui
seguono gli esempi di povert e liberalit recitati dalle anime dei penitenti, che come apprenderemo in
seguito dichiarano di notte quelli di avarizia punita, unico caso nella Cantica in cui essi non sono
presentati direttamente a Dante. L'anima che secondo il poeta ha parlato proprio quella di Ugo Capeto, a
cui Dante si avvicina e attraverso il quale svolge un importante discorso di condanna dell'avarizia e, al
tempo stesso, di dura critica ai discendenti della sua dinastia.
L'esempio di Ugo Capeto gi di per s significativo, in quanto il sovrano (che Dante confonde in parte
col padre Ugo il Grande e indica erroneamente come figlio di un macellaio) giunse al regno nonostante le
sue umili origini e divenne avido di potere, salvo poi pentirsi dei suoi peccati e guadagnare la salvezza
eterna; non cos si pu dire per i suoi discendenti, verso i quali il re lancia un duro atto d'accusa che
colpisce soprattutto Filippo il Bello e i due Carlo d'Angi, ovvero i capetingi verso cui Dante aveva
maggiori motivi di risentimento e di condanna politica. Il penitente individua un momento storico a
partire dal quale la casata inizi il suo declino morale, ovvero l'acquisizione della gran dota provenzale
avvenuta nel 1245 col matrimonio di Beatrice (figlia di Raimondo IV Berlinghieri) con Carlo I d'Angi:
da l in poi inizi la rapina della dinastia francese, sia perch il matrimonio fu concluso con la rottura
fraudolenta del fidanzamento tra Beatrice e Raimondo di Tolosa, sia perch in seguito le truppe francesi
invasero la Provenza con un vero atto di guerra. Ugo Capeto usa la tecnica dell'antifrasi per biasimare le
ulteriori malefatte dei suoi discendenti, in quanto afferma che per fare ammenda di quel torto Carlo I
d'Angi invase il regno di Napoli e fece decapitare Corradino nel 1268, dopo la battaglia di Tagliacozzo, e
in seguito fece avvelenare san Tommaso d'Aquino per timore di ci che avrebbe detto contro di lui al
Concilio di Lione (Dante d credito a questa versione della morte del santo, usando l'espressione ironica
ripinse al ciel). Ugo Capeto profetizza poi l'azione di Carlo di Valois quando sar paciaro a Firenze e
favorir l'ascesa violenta al potere dei Guelfi Neri, causando indirettamente l'esilio di Dante, nonch la
condotta di Carlo II d'Angi il quale, dopo essersi coperto di vergogna nella battaglia del Golfo di Napoli
del 1284 in cui fu fatto prigioniero dagli Aragonesi, arriver nel 1305 a vendere la giovane figlia Beatrice
ad Azzo VIII d'Este come fanno i pirati con le schiave (entrambe le immagini si rifanno all'ambito
marinaresco e ai prigionieri fatti sul mare).
Naturalmente il principale bersaglio polemico del penitente il re di Francia sul trono al momento della
visione dantesca e della composizione del Canto, ovvero Filippo il Bello di cui Ugo Capeto gi all'inizio
biasima la guerra condotta contro i Fiamminghi nel 1297-1299: Filippo aveva consumato l'indegno
tradimento del conte di Fiandra che indusse ad arrendersi e poi fece prigioniero, salvo poi scatenare la
ribellione delle citt fiamminghe che nel 1302 sconfissero i Francesi (il fatto qui profetizzato da Ugo
Capeto come prossima punizione delle malefatte del sovrano). Altri due gravi fatti vengono predetti dal
penitente con un discorso retoricamente elevato e solenne, attraverso l'anafora Veggio... con cui egli
prefigura l'oltraggio di Anagni e lo scioglimento dell'Ordine dei Templari: in entrambi i casi il penitente
usa immagini tratte dal testo evangelico e relative alla vicenda di Cristo, a iniziare dall'offesa subta da
Bonifacio VIII ad opera di Sciarra Colonna e Guglielmo di Nogaret, paragonati ai due ladroni con cui
Ges venne crocifisso e indicando il papa stesso come Cristo oltraggiato e umiliato sulla via crucis.
chiaro che Dante condanna l'offesa perpetrata non alla persona di Bonifacio ma all'abito che egli indossa
come vicario di Cristo in Terra, per cui l'azione compiuta dai due complici di Filippo degna della
massima esecrazione come quella profetizzata subito dopo, ovvero lo scioglimento dell'Ordine dei
Templari allo scopo di impadronirsi delle loro ricchezze: qui Filippo paragonato a Pilato per essersi
proclamato estraneo ai fatti di Anagni e aver lasciato il papa nelle mani dei suoi nemici Colonna (quindi
con un'immagine ancora relativa alla passione di Cristo), mentre poi detto portare le cupide vele nel
tempio come un pirata che va all'arrembaggio dei tesori dei Templari, con una metafora che nuovamente
si collega all'ambito marinaro. L'azione di Filippo condannata anche per il movente dettato dall'avarizia,
per cui in ultima analisi la condanna dei discendenti di Ugo Capeto anche un ulteriore esempio di
cupidigia come causa del malcostume politico del mondo, il che spiega il particolare malanimo sempre
dimostrato da Dante verso il sovrano che fece iniziare la cattivit avignonese (Filippo il Bello non mai
nominato direttamente nel poema e verr sempre colpito con amara irrisione, come nella figura del
gigante di Purg., XXXII e nel preannuncio della sua morte in Par., XIX).
Dopo la chiosa di Ugo Capeto circa gli esempi di avarizia punita, tratti come al solito dalla tradizione
classica e biblica, e il fatto che tutte le anime li dichiarano con voce pi o meno alta a seconda del
sentimento provato, il Canto si chiude col terremoto che scuote il monte del Purgatorio e il canto del
Gloria da parte delle anime, che accende la pi viva curiosit da parte di Dante: il preannuncio
dell'incontro con Stazio che avverr nel Canto successivo, con cui inizier un lungo discorso intorno alla
poesia e che consentir a Dante di spiegare tra l'altro il fatto che nella V Cornice punito anche il peccato
di prodigalit. L'episodio si conclude in un'atmosfera di attesa e di dubbio da parte del poeta, che intende
trasmettere anche al lettore e che sar sciolta nello svolgersi del Canto seguente.

Note e passi controversi


La rima per li al v. 4 composta e si legge prli, come altri esempi nel poema (cfr. Inf., VII, 28).
Nel v. 15 Dante chiede al Cielo quando verr colui destinato a cacciare la lupa dal mondo, alludendo
implicitamente al veltro gi evocato nella profezia di Inf., I, 101 ss.
Ugo Capeto ai vv. 43-45 usa la metafora della pianta per indicare la dinastia capetingia, di cui lui stato il
capostipite e quindi la radice, mentre i discendenti sono i rami; essa aduggia, cio fa ombra e danneggia
tutta la Cristianit, cos che raramente se ne colgono buoni frutti (il vb. schianta da riferire alla pianta).
Le citt indicate in forma italianizzata al v. 46 sono Douai, Lille, Gand e Bruges, che alludono all'intera
regione delle Fiandre.
Ugo Capeto (v. 49) si presenta come Ciappetta, soprannome che deriva probabilmente dal franc. Chapet
che indicava la piccola cappa indossata da Ugo I e Ugo II come abati laici (da cui Capeto, dalla piccola
cappa).
Ai vv. 50-51 Ugo Capeto si riferisce ai molti re francesi di nome Filippo e Luigi che si sono succeduti dal
X al XIII sec.
Al v. 52 beccaio bisillabo per effetto del trittongo -aio.
I regi antichi citati al v. 53 sono i Carolingi, che Ugo Capeto dice erroneamente essere tutti morti tranne
uno fattosi monaco (renduto in panni bigi): si tratta di una leggenda che conobbe una certa diffusione nel
Medioevo, in base a cui l'ultimo carolingio sarebbe stato costretto da Ugo a chiudersi in convento, forse
per contaminazione con l'episodio analogo dell'ultimo merovingio Childerico III.
Il figlio di Ugo citato al v. 59 Roberto I, se a parlare davvero Ugo II Capeto, ma potrebbe essere lo
stesso Ugo II se a parlare fosse il padre Ugo I il Grande ( quasi certo che Dante confonda i due Ughi).
Al v. 66 Ugo allude alla conquista della contea di Ponthieu e della Guascogna, feudi del re d'Inghilterra,
da parte di Filippo il Bello nel 1294 (Dante aggiunge anche la Normandia, occupata in realt nel 1204 da
Filippo II).
La lancia / con la qual giostr Giuda (vv. 73-74) l'arma del tradimento, usata da Carlo di Valois nella sua
azione a Firenze del 1301-1302 che port alla vittoria dei Neri; l'immagine cruda di Firenze cui Carlo fa
scoppiar la pancia (v. 75) forse ispirata a un passo degli Act. Ap. (I, 18) in cui Pietro a proposito di
Giuda dice che si impicc, si squarci nel mezzo e le sue viscere si sparsero in terra (suspensus crepuit
medius et diffusa sunt omnia viscera eius). Pi avanti Dante osserva con sarcasmo che per questa azione
Carlo, detto senzaterra, guadagner soltanto vergogna e disonore, alludendo forse allo sfortunato
tentativo da parte sua di riconquistare la Sicilia agli Aragonesi.
Il fiordaliso (v. 86) il giglio, simbolo della casa di Francia (cfr. Purg., VII, 105; Par., VI, 100 ss.).
Al v. 92 il decreto quello papale che solo poteva sancire lo scioglimento dei Templari, mentre Filippo il
Bello ag di sua iniziativa.
Risposto (v. 100) vale responsorio e indica che le anime alternano la recitazione delle prece, delle
preghiere, a quella degli esempi di liberalit durante il giorno e di avarizia punita durante la notte.
I vv. 130-132 alludono al mito secondo cui l'isola di Delo era scossa da frequenti terremoti essendo
vagante sul mare, mentre dopo che Latona vi partor Diana e Apollo quest'ultimo la rese stabile.

Purgatorio, Canto XXI


Argomento del Canto
Ancora nella V Cornice: apparizione di Stazio. Spiegazione del terremoto e del canto. Stazio si presenta,
poi rende omaggio a Virgilio.
la mattina di marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
Apparizione di Stazio (1-36)
La sete di conoscere le ragioni del terremoto tormenta Dante, mentre egli si affretta a seguire Virgilio
lungo la Cornice e prova compassione per il castigo delle anime. All'improvviso, in modo simile a Cristo
risorto che apparve ai due discepoli, appare un'anima (Stazio) che segue i due poeti intenti a camminare
tra i penitenti stesi a terra, cos che essi non se ne accorgono finch non si rivolge a loro. Il nuovo arrivato
augura loro la pace, quindi i due si voltano e Virgilio risponde al saluto. Il poeta latino augura all'anima di
raggiungere la salvezza da cui lui escluso, al che l'altro si stupisce e chiede come sia possibile la loro
presenza in Purgatorio. Virgilio spiega che Dante ha sulla fronte i segni incisi dall'angelo, quindi degno
di essere in questo luogo: ma poich ancora vivo, gli era necessaria una guida e per questo ruolo Virgilio
stato tratto fuori dall'Inferno, per cui far da scorta al discepolo finch gli sar permesso. A questo punto
Virgilio chiede all'anima qual la ragione per cui poco prima il monte stato scosso da un terremoto e le
anime hanno intonato il Gloria.
Stazio spiega le ragioni del terremoto e del canto (37-75)
Con la sua domanda Virgilio ha indovinato il desiderio di sapere di Dante, che ora spera di avere una
risposta. Stazio spiega che il monte del Purgatorio non subisce alcun fenomeno che sia in contrasto col
suo assetto religioso, inoltre su di esso non avviene alcun evento atmosferico estraneo all'influsso celeste.
Ne consegue che l non cade la pioggia, n la neve o la grandine, n si vedono mai brina o rugiada al di
sopra della porta presidiata dall'angelo; ugualmente non ci sono nubi n lampi, n compare mai
l'arcobaleno. In Purgatorio non ci possono essere i venti sotterranei che causano i terremoti, mentre forse
possono avvenire al di sotto della porta: gli unici terremoti l avvengono quando un'anima penitente si
sente purificata e pronta a salire all'Eden, e il grido accompagna tale ascesa. Quando un penitente ha
espiato la propria pena se ne accorge perch si sente libero dal peccato e pu salire, mentre prima ci gli
impedito dalla giustizia divina. Stazio spiega di essere stato nella V Cornice per oltre cinque secoli e di
essersi sentito purificato poco prima, quindi per questo che c' stato il terremoto e le anime hanno
intonato il Gloria. Alla fine della spiegazione Dante soddisfatto come chi, bevendo, spegne una sete
tormentosa.
Stazio si presenta ed esalta l'Eneide (76-93)
Virgilio risponde a Stazio di aver compreso quanto ha detto e gli chiede quindi il suo nome, e il motivo
per cui ha trascorso tanto tempo nella V Cornice. Stazio dichiara di essere vissuto sulla Terra al tempo in
cui l'imperatore Tito vendic la crocifissione di Cristo con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, e di
aver avuto il nome onorato di poeta, famoso ma non ancora dotato di fede cristiana. Fu un poeta cos
apprezzato che da Tolosa and a vivere a Roma e qui ricevette l'incoronazione poetica. Nel mondo
ancora ricordato come Stazio, autore di Tebaide e Achilleide, bench il secondo poema sia rimasto
incompiuto per la sua morte. La sua opera poetica trasse ispirazione dall'Eneide, che stata un modello
per altri mille: essa stata per lui una madre e una nutrice, tanto che senza il suo esempio non avrebbe
scritto nulla di importante. E per essere vissuto al tempo del suo autore, Virgilio, sarebbe disposto a
restare un altro anno nella Cornice a espiare il suo peccato.
Imbarazzo di Dante. Omaggio di Stazio a Virgilio (103-136)
Alle parole di Stazio, Virgilio si volta verso Dante e gli fa cenno con lo sguardo di tacere, ma il discepolo
non pu trattenere le proprie emozioni e non riesce a mascherare la propria espressione, sorridendo al
maestro e suscitando la meraviglia di Stazio che inizia ad osservarlo con attenzione. Stazio chiede a Dante
il motivo del suo improvviso sorridere e ci mette il poeta in grande imbarazzo, poich vorrebbe obbedire
alla richiesta di Virgilio e al tempo stesso pressato dalla domanda dell'altro. I suoi sospiri inducono
Virgilio a consentirgli di parlare liberamente, per cui Dante spiega a Stazio che la sua guida proprio quel
Virgilio dal quale egli ha tratto ispirazione nella sua opera poetica. Se Stazio ha creduto che lui avesse
un'altra ragione per sorridere, sappia che essa era unicamente per le parole che il penitente ha appena
pronunciato. A questo punto Stazio si getta ad abbracciare i piedi di Virgilio, che per lo invita a non farlo
in quanto entrambi sono ombre inconsistenti. Stazio si rialza e dichiara di provare incondizionato amore
per il grande poeta latino, al punto che si era scordato di essere un corpo aereo, pensando che le ombre
siano di carne e ossa.
Interpretazione complessiva
Protagonista assoluto di questo Canto e del successivo Stazio, il poeta latino che Dante pone in
Purgatorio tra le anime salve come un ulteriore esempio dell'imperscrutabile giustizia divina, al pari di
Catone Uticense custode del secondo regno e di Manfredi gi incontrato tra i contumaci
dell'Antipurgatorio. La novit rispetto agli altri personaggi che Stazio un poeta, il che permette a
Dante di iniziare un lungo e complesso discorso intorno alla poesia che durer almeno fino all'ingresso
nel Paradiso Terrestre (da questo momento in poi, infatti, le anime incontrate dai due viaggiatori saranno
unicamente di poeti).
L'episodio stilisticamente e retoricamente elevato, specie nel discorso di Stazio che prima spiega la
ragione del terremoto e del canto delle anime, poi si presenta con una elegante prosopopea; l'atmosfera
densa di immagini religiose, a cominciare dalla similitudine della Samaritana che diede da bere a Ges e
di cui Dante si serve per descrivere la sua sete di conoscenza dottrinale, per passare poi a quella di Stazio
paragonato ancora a Ges risorto che appare ai due discepoli a Emmaus ( evidente che la resurrezione
simbolo della liberazione dal peccato, come per Stazio che ha appena concluso il suo percorso di
espiazione). Il penitente augura ai due viaggiatori la pace di Dio chiamandoli frati, quindi Virgilio gli
ricorda che destinato al beato concilio da cui lui esiliato in eterno, il che sorprende Stazio al punto da
fargli chiedere spiegazioni in quanto ci sembra in contrasto con l'ordine religioso del Purgatorio. Il
personaggio dimostra fin dall'inizio il pieno possesso delle conoscenze dottrinali e teologiche, come sar
chiaro dalla spiegazione successiva, il che aumenter ancor pi la sorpresa di apprendere la sua identit e
la sua presenza in un luogo da cui anch'egli, al pari di Virgilio, dovrebbe essere escluso.
La spiegazione di Stazio circa il motivo del terremoto e del conseguente canto delle anime un discorso
retoricamente complesso, anticipato dalla domanda di Virgilio anch'essa stilisticamente elevata con la
metafora delle Parche per indicare che Dante ancor vivo: Stazio spiega che il Purgatorio esente da
ogni alterazione atmosferica, distinguendo tra vapore umido e secco che secondo la fisica aristotelica
erano causa rispettivamente delle precipitazioni come pioggia, neve, ecc., e dei terremoti, che si pensava
fossero prodotti da venti sotterranei (l'arcobaleno indicato con la perifrasi figlia di Taumante, per
indicare la dea Iride messaggera degli dei, mentre la spiegazione si conclude con la duplice anafora
Trema... Tremaci). Stazio spiega inoltre in che modo l'anima penitente si sente pronta a salire all'Eden in
quanto purificata, mettendo l'accento sulla volontariet della pena cui essa si sottopone con pieno
desiderio, e distinguendo tra volont assoluta e relativa secondo l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino
i cui argomenti dottrinali egli padroneggia con disinvoltura. Non meno stilisticamente raffinata la
presentazione di se stesso che Stazio fa su richiesta di Virgilio, che inizia con l'indicazione del tempo
della sua vita coincidente con la distruzione del Tempio da parte di Tito (ancora il tema religioso, poich
ci era considerato la giusta punizione per il deicidio: cfr. Par., VI, 91-93), prosegue con l'affermazione di
essere stato poeta e di aver ricevuto l'alloro a Roma, si conclude con la dichiarazione del proprio nome e
delle due opere principali da lui scritte, Tebaide e Achilleide. A questo punto Stazio rende omaggio al suo
maestro e modello Virgilio, autore dell'Eneide che definisce preziosamente una divina fiamma le cui
scintille hanno scaldato lui e illuminato mille altri, facendogli da mamma e da nutrice (da notare
l'accostamento fummi, e fummi... nonch l'espressione peso di dramma particolarmente rara e difficile);
l'esaltazione di Virgilio raggiunge il suo apice allorch Stazio, che ovviamente non sa di averlo di fronte,
afferma che sarebbe disposto a trattenersi un altro anno nella Cornice per essere stato suo contemporaneo,
cosa che ha spinto alcuni commentatori a parlare di affermazione empia (si tratta in realt di un
adynaton, ovvero l'indicazione di un fatto manifestamente impossibile).
L'elogio appassionato dell'Eneide e del suo autore, che sar causa del siparietto ironico che conclude il
Canto e che ha protagonista un imbarazzato Dante (anch'egli del resto cultore di Virgilio), in realt
un'esaltazione del ruolo e dell'importanza della poesia, che nella vita di Stazio ha avuto un peso essenziale
anche per la salvezza come dir lui stesso nel Canto seguente. anche una celebrazione della grandezza
assoluta di Virgilio, gi riconosciuto da Dante come suo maestro e autore nell'incontro iniziale del poema
e qui ulteriormente elogiato attraverso le parole di Stazio, anch'egli rientrante nel canone dei poeti classici
pi ammirati nel Medioevo e pi volte citato da Dante stesso nella Commedia: Virgilio era riconosciuto
come indiscussa autorit poetica e filosofico-morale, il che spiega perch Dante lo scelga come sua guida
nella prima parte del viaggio e si giustifica con il culto dell'Eneide che durava almeno dalla tarda
antichit, dando origine a svariati commenti dell'opera e alla sua rilettura in chiave cristiana. In questa
luce non stupisce l'appassionato omaggio che Dante attribuisce a Stazio nel momento in cui incontra
l'anima di Virgilio, ma neppure che attraverso la lettura dei suoi versi egli si sia ravveduto dai suoi peccati
e abbia abbracciato il Cristianesimo, come lui stesso dir nel Canto XXII; ci rientra in quell'errata
interpretazione della letteratura classica che lo stesso Dante pienamente condivide, ed al tempo stesso
l'affermazione che la salvezza segue percorsi inconoscibili per l'intelletto umano, come gli esempi di
Rifeo e Traiano dimostreranno ampiamente nel Paradiso. La scena finale di Stazio che si getta ai piedi
dell'antico maestro chiude la scenetta comica dell'equivoco svelato poi da Dante (e che tuttavia ha delle
analogie con l'episodio evangelico di Ges risorto a Emmaus, non ricosciuto subito dai discepoli), anche
se conserva tutta la sostanza dell'omaggio al grande poeta e al suo altissimo magistero: il Canto seguente
spiegher quanto grande sia il debito di riconoscenza che Stazio ha verso l'opera di Virgilio, e sar il
primo passo di un percorso di riflessione intorno alla poesia che avr il suo punto finale nell'ingresso
nell'Eden e nell'incontro, anch'esso non privo di riferimenti letterari, con Beatrice.

Note e passi controversi


L'episodio evangelico cui alludono i vv. 1-3 narrato da Giovanni (IV, 6-15) e ha come protagonista una
donna di Samaria a cui Ges chiese dell'acqua: Ges spiega che chi beve quell'acqua avr ancora sete, ma
chi berr l'acqua che lui gli dar non avr sete in eterno (Omnis qui bibit ex aqua hac sitiet iterum; qui
autem biberit ex aqua quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum). Nel passo evangelico l'acqua simbolo
della grazia, qui della rivelazione divina.
I vv. 7-9 alludono all'episodio di Ges risorto che apparve ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luc.,
XXIV, 13-17).
La verace corte (v. 17) di cui parla Virgilio il giudizio divino che lo relega nel Limbo.
La scaletta di tre gradi breve (v. 48) la scala di tre gradini che conduce alla porta del Purgatorio.
La figlia di Taumante Iride, la messaggera degli dei identificata dagli antichi con l'arcobaleno.
I vv. 64-66 si rifanno alla dottrina tomistica della volont assoluta e relativa espressa nella Summa
Theologiae: la volont relativa il talento, che in vita queste anime hanno rivolto al peccato, mentre in
Purgatorio, per volont divina, tutta rivolta all'espiazione e contrasta la volont assoluta, che
ovviamente di salire in Cielo.
Il vb. cappia (v. 81) pu voler dire sia contenuto, oppure abbia luogo; ne le parole tue pu avere
valore strumentale (attraverso le tue parole) oppure di luogo figurato.
Al v. 89 Stazio detto Tolosano, mentre in realt era nato a Napoli: il poeta era confuso in parte col retore
L. Stazio Ursolo, che era appunto originario di Tolosa. La notizia dell'incoronazione poetica vera, ma
Dante non la trasse dalle Silvae che erano ignote nel Medioevo, bens dall'Achilleide (I, 9-12: fronde
secunda / necte comas, l'invocazione ad Apollo).
L'espressione peso di dramma (v. 99) indica l'ottava parte dell'oncia (dalla moneta greca dracma), quindi
circa quattro grammi; Stazio intende dire che senza l'ispirazione di Virgilio non avrebbe scritto nulla che
avesse peso poetico.
Forte (v. 126) sostantivo e significa abilit, maestria.
Purgatorio, Canto XXII
Argomento del Canto
Salita alla VI Cornice. Stazio spiega il suo peccato di prodigalit e il suo Cristianesimo; nomina illustri
personaggi del Limbo. Ingresso nella VI Cornice: esempi di temperanza.
la mattina marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le undici.
L'angelo della giustizia. Virgilio chiede a Stazio del suo peccato (1-24)
L'angelo della giustizia ha indirizzato Dante, Virgilio e Stazio alla scala che conduce alla VI Cornice,
dopo aver cancellato dalla fronte di Dante la quinta P ed aver dichiarato beati coloro che hanno desiderio
di giustizia. Dante segue spedito gli altri due poeti su per la scala, mentre Virgilio informa Stazio che da
quando l'anima di Giovenale giunta nel Limbo e gli ha rivelato l'affetto di Stazio verso di lui, egli ha
ricambiato il sentimento. Proprio in nome di questa amicizia, nonostante i due non si siano mai visti
prima, Virgilio prega l'antico poeta di spiegargli com' possibile che abbia peccato di avarizia data la sua
grande sapienza.
Stazio rivela il suo peccato di prodigalit (25-54)
Dapprima Stazio sorride un poco, quindi spiega a Virgilio che spesso si traggono conclusioni errate
riguardo cose le cui vere ragioni sono nascoste. Stazio ha capito che Virgilio lo crede un avaro per il fatto
di averlo trovato nella V Cornice, ma in realt egli ha commesso il peccato opposto, quello di prodigalit,
che ha scontato con una permanenza di secoli in quella Cornice. Stazio sarebbe dannato se non avesse
letto il passo di Virgilio (Aen., III) dove il poeta latino parla dell'assassino di Polidoro ad opera di
Polinestore e invoca la sacra fame / de l'oro. Fu allora che egli cap che si poteva peccare spendendo
troppo, oltre che troppo poco, e si pent di quella come delle altre colpe. Quanti peccatori, risorgendo il
Giorno del Giudizio, si ritroveranno coi capelli tagliati per non aver saputo che questo un peccato
mortale come l'avarizia! Stazio precisa che nella V Cornice si sconta con la stessa espiazione un peccato e
il suo opposto; quindi egli stato fra gli avari, ma per purificarsi del peccato opposto a quello di avarizia,
cio della prodigalit.
Il Cristianesimo di Stazio (55-93)
Virgilio osserva che Stazio nella Tebaide, cantando della lotta fratricida fra Eteocle e Polinice, mostrava
di non possedere quella fede cristiana senza la quale la salvezza impossibile, non essendo sufficienti le
buone opere. Se cos, chiede Virgilio, chi o cosa lo ha indotto a convertirsi al Cristianesimo? Stazio
risponde che il merito proprio di Virgilio, il quale prima lo ha indirizzato alla poesia e in seguito lo ha
illuminato dal punto di vista religioso, facendo come quello che cammina di notte e porta il lume dietro di
s, giovando a chi lo segue e non a se stesso. Virgilio infatti aveva scritto nella IV Egloga che era
imminente un profondo rinnovamento del mondo e ci spinse Stazio a farsi cristiano, nel modo che ora
spiegher. La nuova religione era gi diffusa nel mondo e le parole di Virgilio si accordavano agli
insegnamenti dei Cristiani, cos che Stazio inizi a frequentarli. Al tempo delle persecuzioni di
Domiziano egli prov pena per loro, li aiut e ader totalmente al loro culto, venendo battezzato prima di
iniziare la sua opera poetica. Tuttavia, per timore di subire anch'egli persecuzioni, non rivel la sua
conversione e ostent a lungo il paganesimo, con una tiepidezza che ha scontato restando pi di quattro
secoli nella IV Cornice fra gli accidiosi.
Stazio nomina personaggi del Limbo (94-114)
Stazio chiede a Virgilio, che gli ha svelato la verit sul Cristianesimo, di dirgli se conosce il destino
ultraterreno del poeta antico Terenzio, di Cecilio Stazio, di Plauto e di Varrone, poich egli vuol sapere se
sono dannati e in quale Cerchio si trovano. Virgilio risponde che tutti loro, insieme a lui, a Persio e a molti
altri, si trovano con Omero nel I Cerchio dell'Inferno, il Limbo; spesso parlano del monte Parnaso, che
ospita le Muse nutrici dei poeti. Nello stesso Cerchio vi sono anche Euripide, Antifonte, Simonide di Ceo,
Agatone e molti altri poeti greci; ci sono anche personaggi della Tebaide, fra cui Antigone, Deifile, Argia,
Ismene, Isifile (che mostr ai greci la fonte di Langia), Manto (la figlia di Tiresia), Teti, Deidamia con le
sue sorelle.
Ingresso nella VI Cornice. Esempi di temperanza (115-154)
I tre hanno ormai percorso tutta la scala e fanno il loro ingresso nella VI Cornice, dove Stazio e Virgilio si
guardano intorno. Sono gi passate le prime quattro ore del giorno (sono tra le 10 e le 11 del mattino),
quando Virgilio osserva che forse meglio procedere verso destra e girare il monte come lui e Dante sono
soliti fare. Stazio non fa obiezioni, quindi i tre vanno in quella direzione, con Virgilio e l'altro poeta latino
che procedono innanzi e Dante che li segue e ascolta i loro discorsi. A un tratto la conversazione
interrotta dall'apparire di un albero posto a met strada, dai cui rami pendono frutti dal dolce profumo:
simile a un abete rovesciato, si allarga cio progressivamente verso l'alto, forse per impedire alle anime di
salire su di esso. Sul lato vicino alla parete del monte sgorga una fonte d'acqua che sale verso l'alto, tra le
foglie dell'albero. Stazio e Virgilio si avvicinano alla pianta e una voce li ammonisce a non toccarne i
frutti, aggiungendo poi alcuni esempi di temperanza: quello di Maria, che alle nozze di Cana pens al
decoro della cerimonia e non alla propria gola; quello delle donne dell'antica Roma, che erano cos sobrie
da bere soltanto acqua; quello del profeta Daniele, che disprezz il cibo e ottenne in cambio la sapienza;
quello dell'et dell'oro, quando la fame e la sete resero appetibili le ghiande e l'acqua dei ruscelli; infine
quello di Giovanni Battista, che nel deserto si nutr di miele e locuste, rendendosi in tal modo glorioso.
Interpretazione complessiva
Il Canto completa l'episodio che ha per protagonista Stazio e di cui il Canto XXI stato il momento
iniziale, col poeta latino che rivolgeva un appassionato omaggio a Virgilio come suo maestro e modello di
poesia: qui l'elogio prosegue e si amplia, indicando Virgilio come colui che ha dapprima spinto Stazio a
convertirsi al Cristianesimo e poi lo ha fatto ravvedere dal suo peccato, quello di prodigalit (ci rientra
nel culto di Virgilio e del suo magistero morale, assai diffuso nel Medioevo e cui Dante aderisce
pienamente). Il Canto si apre con l'accenno fugace all'incontro con l'angelo della giustizia, che indirizza i
tre verso la Cornice successiva, per poi tornare a concentrarsi sui due poeti latini che conversano tra loro
mentre salgono la scala: Virgilio a chiedere a Stazio spiegazioni circa il suo peccato di avarizia, che gli
pare incompatibile col senno mostrato dall'autore della Tebaide nei suoi scritti. Stazio spiega che il suo
peccato stato in realt quello opposto, ovvero quello di prodigalit che punito nella stessa V Cornice e
che pu condurre alla dannazione tanto quanto quello di cupidigia: assai discusso da dove Dante abbia
tratto la notizia della prodigalit di Stazio, che potrebbe essere sua invenzione o derivare da un passo di
Giovenale (VII, 82-87) dove si dice che Stazio era cos povero da non avere di che vivere se non avesse
venduto a un attore una sua tragedia inedita (sed cum fregit subsellia versu / esurit, intactam Paridi nisi
vendit Agaven). Altrettanto discusso se la regola che vuole puniti nella V Cornice i peccati
rappresentanti gli eccessi opposti, secondo la dottrina aristotelica per cui in medio stat virtus, valga solo
per quel luogo o per tutto il Purgatorio, anche se di questa seconda ipotesi non c' alcuna prova evidente
(la pena di avari e prodighi identica, mentre nel IV Cerchio dell'Inferno le due opposte schiere di
dannati erano precisamente distinte). Pi interessante quanto Stazio dice circa il passo virgiliano che
l'avrebbe indotto a pentirsi del suo peccato, ovvero l'episodio del Libro III dell'Eneide in cui Virgilio, a
margine dell'incontro tra Enea e l'anima di Polidoro ucciso da Polinestore per le sue ricchezze,
commentava: Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames? (A cosa non spingi i petti dei mortali,
o esecranda fame dell'oro?). chiaro che Dante interpreta scorrettamente l'espressione auri sacra fames,
intendendola come giusto desiderio dell'oro e quindi come la virt mediana tra le opposte colpe di
avarizia e prodigalit, per cui la lettura del passo indusse Stazio a rendersi conto che spendere troppo era
un peccato quanto non spendere affatto, pentendosi di quella colpa come delle altre. Se si tratti di un vero
e proprio fraintendimento del testo latino o di una libera interpretazione da parte di Dante difficile dire,
anche se vanno respinte le contorsioni di commentatori antichi e moderni per ricondurre i versi danteschi
al senso originale, mentre esempi di analoghe errate traduzioni non sono infrequenti nell'opera dantesca
(cfr. ad esempio Conv., II, 5, dove un verso dell'Eneide tradotto in modo evidentemente scorretto).
La celebrazione del magistero di Virgilio non si esaurisce a questo ma coinvolge il grande poeta classico
anche nel Cristianesimo di Stazio, che infatti riconduce la sua conversione alla lettura della celeberrima
IV Egloga, dedicata al figlio nascituro di Asinio Pollione ma che una lunga tradizione esegetica aveva
interpretato come preannuncio del Cristianesimo. Non si tratta della leggenda di Virgilio mago e
profeta della religione cristiana, quanto della consueta cristianizzazione della sua opera come di altri
scrittori classici: questi avevano intravisto le verit di fede e le avevano espresse in forma imperfetta,
sotto il velo della finzione poetica, come peraltro pensavano molti Padri della Chiesa che sottoponevano
questi scritti pagani a una intensa opera di moralizzazione. La stessa cosa afferma Stazio per Virgilio,
indicato come colui che cammina al buio e porta il lume dietro di s, giovando a chi lo segue e non a se
stesso: egli intravide la nascita futura di Cristo e ne scrisse velatamente nella famosa IV Egloga, salvo
ignorare egli stesso questa verit e restare escluso dalla salvezza. Il Cristianesimo di Stazio ovviamente
in contrasto con la verit storica ed molto discusso se anche questo particolare sia invenzione dantesca
oppure derivi da una fonte biografica a noi ignota, oppure ancora dall'interpretazione di alcuni passi della
sua opera: nel IV libro della Tebaide (vv. 514-517) l'indovino Tiresia, non riuscendo a evocare le anime
dei morti, minaccia di far intervenire una divinit superiore e sconosciuta, che egli restio a nominare in
quanto desidera avere una vecchiaia tranquilla. Dante potrebbe aver interpretato quel passo come un
velato accenno al Dio cristiano, anche perch Tiresia lo definisce triplicis mundi summum, mentre la
reticenza dell'indovino poteva sembrare la paura di un cristiano di incorrere nelle persecuzioni religiose,
attribuita del resto anche allo stesso Stazio; possibile che Dante non si sia basato solo su quel passo ma
su altri testi medievali che sostenevano il Cristianesimo del poeta latino, cosa non strana in quanto
leggende analoghe si formarono anche per Virgilio, per Seneca, per Orazio e Ovidio. La novit consiste
semmai nell'attribuire il merito inconsapevole di questa conversione alla poesia di Virgilio, per cui la
celebrazione della sua autorit raggiunge il punto pi alto ed , al tempo stesso, un'assoluta esaltazione
del valore e del potere della poesia in generale.
Dopo la rievocazione nelle parole di Virgilio delle anime dei poeti e dei personaggi della Tebaide che
sono relegati insieme a lui nel Limbo, tra cui la maga Manto che crea pi di un dubbio per l'incongruenza
col Canto XX dell'Inferno (si veda oltre), il Canto si chiude con l'accesso alla VI Cornice e la descrizione
dell'albero rovesciato che sembra avere le radici rivolte verso l'alto, fra i cui rami si sentono gli esempi di
temperanza dichiarati da una misteriosa voce. L'espediente simile a quello degli esempi di carit e
invidia punita della III Cornice e come di consueto gli aneddoti sono tratti in egual misura da tradizione
biblica e classica: accanto agli esempi di Maria, del profeta Daniele e di san Giovanni Battista sono
ricordati quello delle antiche Romane, sobrie e contente di bere acqua (Dante cita da Valerio Massimo, II,
1, 5) e quello dell'et dell'oro (ricavato da Ovidio, Met., I, 103-112), che sar ripreso da Matelda nell'Eden
proprio in riferimento alla poesia dei poeti pagani Stazio e Virgilio. Il discorso relativo alla poesia
proseguir nei Canti successivi, a cominciare dall'incontro tra Dante e Forese Donati e Bonagiunta da
Lucca tra le anime dei golosi.

L'enigma di Manto, tra anime del Limbo e indovini


Il destino ultraterreno di Manto, la maga figlia dell'indovino Tiresia inclusa da Stazio nella Tebaide, uno
dei misteri tuttora insoluti del poema dantesco, in quanto l'autore la colloca tra gli indovini della IV
Bolgia dell'VIII Cerchio dell'Inferno e successivamente (Purg., XXII) fa dire a Virgilio che fra le anime
del Limbo vi anche la figlia di Tiresia, creando un'incongruenza difficilmente spiegabile. Sembra
piuttosto strano pensare a una semplice svista del poeta, non foss'altro perch Manto non citata di
sfuggita nel Canto XX dell'Inferno ma addirittura protagonista dell'ampia digressione con cui Virgilio
spiega le origini di Mantova (XX, 58 ss.) ed lo stesso maestro di Dante a includerla tra gli spiriti del
Limbo mentre ne fa l'elenco a Stazio, cio l'autore del poema di cui la maga era uno dei personaggi. Gli
studiosi si sono divisi praticamente in due fazioni, gli uni sostenendo l'errore di Dante e gli altri
ipotizzando un'errata trascrizione dei codici, per quanto tale supposizione non trovi conferme dirette. Non
ci aiutano i commentatori antichi, altrettanto disorientati quanto i moderni, mentre secondo un'ulteriore
ipotesi Dante avrebbe rimaneggiato tardivamente il passo infernale, aggiungendo la digressione su Manto
e scordandosi del rapido cenno fatto nel Purgatorio (qualcosa di simile si immaginato anche a proposito
di alcune profezie post eventum, come quella sulla morte di Clemente V in Inf., XIX). La questione
sostanzialmente insoluta, anche se va osservata una stranezza: nel passo infernale in cui sono descritti gli
indovini, infatti, Tiresia indicato pochi versi prima di Manto, la quale poi presentata senza alcun
accenno al fatto di essere sua figlia; nel passo del Purgatorio, invece, Manto non nominata direttamente
ma evocata con l'espressione vvi la figlia di Tiresia, per cui non si pu escludere che Dante intendesse
come figlia dell'indovino un personaggio diverso dalla Manto inclusa nella IV Bolgia. L'ipotesi
suggestiva ed escluderebbe la svista dantesca, anche se non confermata da alcuna prova diretta; simili
confusioni non sono del resto rare nell'opera di Dante e in generale nella tradizione dei testi classici nel
Medioevo, per cui pensare a un fraintendimento del mito e a una errata identificazione del personaggio
potrebbe essere la soluzione pi accettabile per la spinosa questione, che ha dato filo da torcere a intere
generazioni di dantisti. Pu darsi che in futuro nuovi lumi vengano dalla scoperta di qualche mitografia o
commento medievale che avvalorino questa ipotesi, mentre allo stato attuale non resta che arrendersi alla
possibilit che Dante, con tutta l'ammirazione che giustamente gli viene tributata, possa essere incappato
in questo caso in un clamoroso svarione.
Note e passi controversi
La beatitudine cantata dall'angelo (vv. 4-6) la quarta, che nel testo evangelico (Matth., V, 6) suona: beati
qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur (beati coloro che hanno fame e sete di
giustizia, perch essi saranno saziati). Il passo sembra indicare che l'angelo della giustizia reciti solo il
versetto beati qui sitiunt iustitiam, contrapponendo la sete di giustizia a quella delle ricchezze punita in
questa Cornice, mentre nella successiva la beatitudine sar: Beati qui esuriunt iustitiam (XXIV, 151-154).
Il poeta latino D. Giunio Giovenale (v. 14) visse nel 47-130 d.C. circa e fu contemporaneo di Stazio e
ammiratore della Tebaide. Dante lo cita spesso, anche se non certo ne conoscesse direttamente l'opera.
I vv. 16-17 alludono all'amore che si stringe fra persone che non si sono mai incontrate, frequente nella
lirica provenzale (il cosiddetto amor de lonh).
Migliaia di lunari (v. 36) vuol dire migliaia di mesi, quindi secoli (Stazio stato nella V Cornice oltre
cinquecento anni).
Il v. 46 (Quanti risurgeran coi crini scemi) si rif a quanto detto in Inf., VII, 55-57 sul fatto che i prodighi
dannati risorgeranno il Giorno del Giudizio coi capelli tagliati, mentre gli avari col pugno chiuso.
I vv. 49-51 significano: E sappi che la colpa che si contrappone (rimbecca) in maniera opposta all'altro
peccato, qui si estingue con l'espiazione (suo verde secca, si inaridisce) insieme ad esso.
La doppia tristizia di Giocasta indica i due figli della donna, Eteocle e Polinice, che nella Tebaide si
scontrarono in una lotta fratricida.
Il v. 58 indica che Clio, la Musa della poesia epica, tasta, cio accompagna col suono della lira, il canto di
Stazio.
Appresso Dio (v. 66) stato interpretato come verso Dio, ma pi probabile che voglia dire dopo
Dio (quindi Stazio fu prima illuminato dalla Grazia divina, e solo in seguito da Virgilio).
I vv. 70-72 sono una traduzione letterale della IV Egloga di Vigilio, vv. 5-7: magnus ab integro saeclorum
nascitur ordo. / Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies caelo demittitur alto (La
grande serie dei secoli ricomincia. Ecco che ritorna anche la Vergine [Astrea, dea della giustizia], ritorna
il regno di Saturno [l'et dell'oro]; ecco che una nuova progenie scende dall'alto dei cieli).
Centesmo (v. 93) vuol dire l'ultimo anno di cento, quindi Stazio indica che la sua permanenza nella IV
Cornice ha superato i 400 anni.
Gli scrittori citati da Stazio e da Virgilio (vv. 97-108) quali anime relegate nel Limbo sono P. Terenzio
Afro (192-159 a.C.), commediografo latino come anche Cecilio Stazio (220-166 a.C.) e T. Maccio Plauto
(254-184 a.C.); Varrone Reatino, l'erudito dell'et di Cesare (ma potrebbe essere anche Vario Rufo, amico
di Virgilio ed editore dell'Eneide); A. Persio Flacco (34-62 d.C.), poeta satirico dell'et di Nerone; Omero
(il Greco / che le Muse lattar...); i tragici greci Euripide (480-406 a.C.), di cui ci sono giunte diciannove
tragedie, e Antifonte (IV sec. a.C.), di cui non abbiamo nulla; Simonide di Ceo (556-467 a.C.), poeta
lirico greco; Agatone, tragico greco del V sec. a.C.
Ai vv. 109-114 Virgilio cita alcuni personaggi della Tebaide e dell'Achilleide: Antigone, figlia di Edipo e
Giocasta, uccisa da Creonte perch seppell il cadavere di Polinice; Deifile, moglie di Tideo che fu uno
dei re che assediarono Tebe; Argia, moglie di Polinice; Ismene, sorella di Antigone e con lei messa a
morte dal tiranno Creonte; Isifile (quella che mostr Langia), che indic ai sette re greci la fonte Langia
presso Nemea; Manto, figlia dell'indovino Tiresia; Teti, moglie di Peleo e madre di Achille; Deidamia, la
figlia del re di Sciro che si innamor di Achille (Teti e Deidamia sono personaggi dell'Achilleide).
Le ancelle citate al v. 118 sono le ore del giorno, rappresentate classicamente come fanciulle che si
avvicendano alla guida del carro del Sole: la quinta al timone (temo) e ne drizza la punta ardente verso
l'alto, perch il Sole deve giungere al meridiano.
Al v. 121 lo stremo indica l'orlo estremo della Cornice.
La voce che al v. 141 dice Di questo cibo avrete caro, cio avrete mancanza, ricalca il passo bibilico
(Gen., II, 17) che dice de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas; alcuni argomentano che l'albero
nasce da quello dell'Eden, come l'altro posto all'uscita della Cornice.
I vv. 146-147 si riferiscono all'episodio biblico in cui Daniele, fatto educare dal re babilonese
Nabucodonosor, rifiut insieme ad altri giovani i cibi prelibati della mensa regale per nutrirsi di acqua e
legumi: in cambio Dio concesse loro scienza e istruzione in ogni campo del sapere e a Daniele la capacit
di interpretare i sogni (Dan., I, 1-20).
Purgatorio, Canto XXIII
Argomento del Canto
Ancora nella VI Cornice. Descrizione della pena dei golosi. Incontro con Forese Donati. Rimprovero
delle donne fiorentine. Dante presenta Virgilio e Stazio.
mezzogiorno di marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
Arrivo di una schiera di golosi (1-36)
Dante, appena entrato nella VI Cornice, guarda con attenzione tra le fronde dell'albero, quando Virgilio lo
avverte che il tempo poco ed necessario procedere. Il poeta segue il maestro e Stazio che parlano tra
loro, finch sente delle anime che cantano piangendo il Salmo Labia mea, Domine e ne chiede spiegazioni
a Virgilio. Questi risponde che forse sono anime di penitenti e infatti poco dopo i tre sono raggiunti da
una schiera di golosi, che procedono spediti e li guardano sorpresi, senza fermarsi. Ciascuno di loro ha il
volto pallido e scavato dalla magrezza, al punto che la pelle aderisce tutta alle ossa del cranio; Eristtone
non dimagr cos tanto a causa del castigo di Cerere, mentre i golosi ricordano a Dante gli Ebrei che a
Gerusalemme, durante l'assedio di Tito, furono indotti ad atti di cannibalismo. Il loro volto cos smunto
che sembra di leggervi la parola OMO, e tutto ci a causa del profumo dei frutti che pendono dall'albero e
dell'acqua, che producono quell'effetto in modo incomprensibile all'uomo.
Incontro con Forese Donati (37-75)
Mentre Dante si chiede quale sia la causa della magrezza delle anime, una di queste fissa il poeta con gli
occhi che sporgono dal cranio, fino a emettere un grido di gioia per la grazia ricevuta. Dante non lo
avrebbe mai riconosciuto dall'aspetto, ma la voce gli fa capire subito che quel penitente, bench
irriconoscibile in volto, l'amico Forese Donati. Egli prega il poeta di non badare al suo aspetto stravolto,
bens di spiegargli le ragioni della sua presenza l e chi sono le due anime che lo accompagnano. Dante
risponde che il volto scavato di Forese lo induce a piangere non meno del suo viso al momento della
morte, quindi gli chiede la ragione per cui essi sono cos smagriti, in quanto solo dopo aver soddisfatto
questa sua curiosit egli potr rispondere alla domanda dell'amico. Forese spiega che l'albero posto nella
Cornice e l'acqua che sgorga dalla roccia hanno il potere di renderli cos magri, poich lui e tutte le altre
anime scontano il peccato di gola. Il profumo dei frutti e la freschezza dell'acqua li tormentano con fame e
sete, pena che pi volte ripetuta nel girare intorno alla Cornice, anche se i penitenti hanno desiderio di
soffrire proprio come Cristo quando fu posto sulla croce.
Esaltazione di Nella. Condanna delle donne di Firenze (76-114)
Dante ricorda che la morte di Forese avvenuta meno di cinque anni prima, per cui, dal momento che
l'amico pecc fino all'ultima ora e si pent solo in punto di morte, non comprende come mai si trovi gi in
questa Cornice e non nell'Antipurgatorio. Forese spiega che ci stato possibile grazie alla moglie Nella,
che dopo la sua morte ha rivolto le sue preghiere a Dio e gli ha permesso di salire direttamente alla VI
Cornice, senza neppure trattenersi nelle altre. Nella tanto pi cara a Dio, in quanto a Firenze ormai la
sola donna che si comporti rettamente, poich le donne della Barbagia sono assai pi modeste e pudiche
delle sue concittadine. Forese prevede che di l a non molto tempo dal pulpito si dovr proibire
espressamente alle donne di Firenze di andare in giro a petto nudo; e quali donne, barbare o saracene,
ebbero mai bisogno di un simile divieto? Ma se le Fiorentine sapessero cosa le attende, comincerebbero
gi a urlare, poich Forese prevede che su di loro si abbatter un terribile castigo nel giro di pochissimi
anni. A questo punto Forese invita Dante a rivelare le ragioni della sua presenza, da vivo, in Purgatorio,
per soddisfare la curiosit sua e di tutti gli altri penitenti che lo osservano stupiti.
Dante presenta Virgilio e Stazio (115-133)
Dante spiega a Forese che se ripensa allo stile di vita da loro tenuto negli ultimi anni, questo dovrebbe
farlo rammaricare: pochi giorni prima Virgilio lo ha tratto da quella vita peccanimosa, quando in cielo
c'era la luna piena, e lo ha condotto attraverso l'Inferno con il suo corpo in carne e ossa. In seguito Virgilio
lo ha guidato su per la montagna del Purgatorio, e promette di fargli da scorta fino al momento in cui lo
affider a Beatrice, che gli subentrer nel ruolo di guida e lo sostituir. Dante indica il maestro e ne
dichiara il nome, poi presenta Stazio spiegando che lui quel penitente che poco tempo prima ha
terminato la sua espiazione e per il quale il monte stato scosso dal terremoto.
Interpretazione complessiva
Il Canto forma con quello seguente un dittico che ha Forese Donati come protagonista, in maniera
analoga ai Canti XXI-XXII che erano invece centrati su Stazio, proseguendo quel discorso intorno alla
poesia che iniziato con l'autore della Tebaide e continuer negli episodi seguenti sino a culminare
nell'incontro nell'Eden con Beatrice. Qui viene anzitutto presentata la pena particolarissima dei golosi,
che si presentano a Dante dapprima con la voce cantando il Salmo Labia mea, Domine (si tratta del Salmo
L che chiede a Dio di aprire la bocca del fedele per annunciarne le lodi, in contrasto con chi l'ha usata in
vita per darsi smodatamente al cibo) e poi col loro aspetto stravolto, consumato da un'incredibile
magrezza: Dante si sofferma sulla descrizione dei loro volti ossuti, in cui si potrebbe leggere la parola
OMO formata dalla linea dei sopraccigli e del naso (la M maiuscola gotica) e dagli occhi (le due O che
spesso venivano scritte negli spazi interni della M). I golosi vengono descritti con altre due similitudini
tratte dall'ambito classico e giudaico, ovvero Eristtone che avendo oltraggiato la dea Cerere fu da lei
condannato a una fame perpetua che lo consumava, e gli Ebrei di Gerusalemme assediati da Tito nel 66-
70 d.C. che, spinti dalla fame, si diedero ad atti di cannibalismo (Dante cita l'episodio raccontato da
Flavio Giuseppe, di Maria di Eleazaro che divor il proprio figlio). L'insistenza sulla fisicit di questa
pena e dello stupore che genera in Dante notevole, tanto da indurlo a chiederne spiegazione a Forese
prima di rispondere alla sua domanda e da sollecitare la digressione di Stazio nel Canto XXV sulla
generazione delle anime, per spiegare la formazione dei corpi umbratili dei penitenti.
L'incontro con Forese naturalmente centrale nell'episodio ed ha caratteristiche simili agli episodi di
Casella, Belacqua e Nino Visconti, anche se qui Dante si mostra particolarmente colpito dall'aspetto
dell'amico che reso irriconoscibile dalla sua magrezza. Forese il primo di una serie di poeti che Dante
incontrer nei Canti XXIV e XXVI, avendo scambiato con lui i sonetti della famosa Tenzone che qui
indirettamente ricordata dal penitente attraverso la rievocazione della moglie Nella: dopo aver spiegato a
Dante quale colpa si espia in questa Cornice e cosa provoca la loro pena, Forese dichiara che solo le
devote preghiere della moglie gli hanno permesso di accedere direttamente alla Cornice senza attendere
nell'Antipurgatorio (Forese era stato peccatore fino all'ultima ora e quindi Dante stupito di vederlo l,
essendo morto meno di cinque anni prima). Le parole che Dante mette in bocca a Forese sulla sua
vedovella, che dice di aver amato molto e che elogia come unico esempio di modestia tra le donne di
Firenze, evidentemente una sorta di ritrattazione delle ingiurie che aveva rivolto nella Tenzone
all'amico-rivale, specie nel sonetto Chi udisse tossir la malfatata dove si diceva che la moglie di Forese
giaceva sola nel letto, trascurata dal marito che si dedicava ad altre relazioni o all'arte del rubare, tanto
che la donna era sempre raffreddata. Non solo una riparazione che Dante fa alla memoria dell'amico
defunto o a Nella, ma soprattutto un ripensamento di quella stagione di poesia comica che Dante aveva
vissuto negli anni seguenti la morte di Beatrice e di cui Forese era stato in parte protagonista: la
Tenzone era un aspetto di un pi generale traviamento morale di Dante che egli qui rievoca anche nelle
successive parole all'amico, quando gli ricorda il loro stile di vita disordinato e gaudente che poteva
costargli la dannazione e dal quale lo ha tratto, pochi giorni prima, quel Virgilio che presenta poi a Forese
e alle altre anime curiose di vederlo l. Dante allude certamente ad amori sensuali e disordinati, di cui
forse anche le Rime petrose sono una testimonianza e che gli saranno rimproverati da Beatrice nel loro
incontro nell'Eden (specie quando parler della pargoletta, XXXI, 59), ma forse si riferisce anche a quel
peccato di natura intellettuale che commise nell'affidarsi allo studio della filosofia a scapito della teologia
rivelata, per cui il superamento della poesia comica anche il riconoscimento della pericolosit sul piano
morale di quella fase, come dimostra il fatto che qui si dice chiaramente che Virgilio (ragione naturale) lo
conduce a Beatrice (teologia), la sola in grado di fargli completare il viaggio ultraterreno.
Il ricordo di Nella spinge poi Forese a lanciare una dura invettiva contro il malcostume delle donne di
Firenze, ormai dedite a pratiche disoneste e diventate peggiori delle donne dell'arretrata Barbagia, al
punto che la Chiesa dovr proibire loro addirittura di andare in giro a seno scoperto. Non sappiamo a
quali provvedimenti Dante faccia qui riferimento, n quale sia il tremendo castigo profetizzato da Forese
e destinato a fare urlare di orrore le donne fiorentine (tra le varie ipotesi, forse la pi probabile la discesa
in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo e la riconquista, peraltro mai avvenuta, di Firenze); certo questa
invettiva contro la decadenza morale della citt si collega ad altre pagine del poema, soprattutto la
rievocazione della Firenze antica da parte di Cacciaguida in Par., XV, 97 ss., dove parole di condanna
sono rivolte ai costumi sfrenati delle donne del tempo di Dante. Cacciaguida dir che la Firenze del XII
sec. era sobria e pudica, che le donne non indossavano monili sgargianti o gonne ricamate, n la figlia
faceva paura al padre per la dote che avrebbe dovuto assegnarle e per l'et precoce delle spose; le donne
vegliavano amorevolmente i figli, lavoravano al telaio e vivevano in modo parco e modesto, simili alle
antiche Romane da cui peraltro discendevano. La polemica di Dante contro il declino dei costumi parte
della condanna politica di Firenze che gi ha pronunciato nell'invettiva all'Italia del Canto VI e sar lo
stesso Forese a tornare sull'argomento nel Canto seguente, quando parler della sorella Piccarda e del
fratello Corso, esempi di virt e pudicizia l'una e di malcostume politico l'altro, del quale profetizzer la
terribile morte e la dannazione. In questo contesto acquista grande rilievo la conclusione del Canto, con la
presentazione di Virgilio e Stazio e, soprattutto, il racconto del viaggio di redenzione che Dante sta
compiendo da vivo attraverso i regni dell'Oltretomba, che ha avuto come punto di partenza la vita
scapestrata ben conosciuta da Forese (e che avvenne in quella stessa Firenze da lui criticata poco prima) e
che avr un primo punto di arrivo nell'incontro con Beatrice, ulteriore esempio di donna moralmente retta
in contrasto con il malcostume che i versi precedenti hanno biasimato.

Note e passi controversi


La forma Figliuole (v. 4) ha l'antica desinenza -e del vocativo latino ed attestata anche
indipendentemente dalla rima.
I golosi intonano il versetto 17 del Salmo L, che recita: Domine, labia mea aperies, et os meum
adnuntiabit laudem tuam (O Signore, tu aprirai le mie labbra e la mia bocca annuncer le tue lodi).
Dante crea evidentemente un contrasto tra chi usa la bocca per lodare Dio e chi, come i golosi in vita, l'ha
usata per mangiare e bere smodatamente.
Eristtone, citato al v. 26, era il mitico figlio di Triopa, re di Tessaglia, che aveva tagliato una quercia in un
bosco sacro a Cerere; la dea lo aveva punito con una fame inestinguibile che lo consum al punto di fargli
addentare le proprie carni. La fonte Ovidio (Met., VIII, 875-878: postquam consumpserat omnem /
materiam... ipse suos artus lacero divellere morsu / coepit et infelix minuendo corpus alebat, dopo che
ebbe consumato ogni cosa, egli con spietati morsi inizi a sbranare i suoi arti e l'infelice nutriva le sue
membra smagrendole).
Ai vv. 28-30 Dante cita Flavio Giuseppe, lo storico che nella Guerra giudaica narra il terribile assedio di
Gerusalemme ad opera di Tito nel 66-70 d.C., nel quale gli assediati erano tormentati dalla fame (VI, 3).
Lo spazzo (v. 70) lo spazio del ripiano della Cornice.
Il v. 74 allude alle parole pronunciate da Cristo sulla croce, ovvero: El, El, lamma sabachtani (Dio mio,
Dio mio, perch mi hai abbandonato?, Matth., XXVII, 46).
La Barbagia (v. 94) una regione centrale della Sardegna, nota ai tempi di Dante per l'arretratezza dei
suoi costumi. Forese la cita come esempio di barbarie paragonandola a quella fiorentina, probabilmente
per la pseudo-etimologia Barbagia / barbaries (cfr. v. 103: quai barbare...).
Il v. 105 allude a pene e sanzioni date dalle autorit ecclesiastiche (spiritali... discipline) o da quelle civili
(altre).
I vv. 110-111 indicano che il castigo contro le donne fiorentine non tarder molti anni e giunger prima
che i bambini che dormono in culla raggiungano la pubert (mettano cio la barba sulle guance).
Al v. 119 l'altr'ier vale genericamente alcuni giorni fa, in quanto l'incontro fra Dante e Virgilio nella
selva avvenne la mattina dell'8 aprile 1300, mentre ora siamo a mezzogiorno del 12 aprile. Al v. 120
Dante ricorda che l'8 aprile c'era la luna piena, come gi aveva detto Virgilio in Inf., XX, 127).
Purgatorio, Canto XXIV
Argomento del Canto
Ancora fra i golosi della VI Cornice. Forese indica il destino ultraterreno di Piccarda e nomina altri
compagni di pena. Incontro con Bonagiunta da Lucca. Profezia di Forese sulla morte di Corso Donati. Il
secondo albero e gli esempi di gola punita. L'angelo della temperanza.
il pomeriggio di marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
Forese parla di Piccarda e indica altri golosi (1-33)
Dante e Forese Donati continuano a parlare e a camminare lungo la VI Cornice, senza rallentare, mentre
le altre anime dei golosi osservano Dante stupite del fatto che sia vivo. Il poeta afferma che Stazio
procede lentamente verso l'alto per trattenersi con Virgilio, poi chiede all'amico se sa qual il destino
ultraterreno della sorella Piccarda e se fra i compagni di pena vi sono personaggi degni di nota. Forese
risponde che la sorella, bella e buona quand'era in vita, ora fra i beati in Paradiso, quindi afferma che
necessario nominare le anime rese irriconoscibili dalla magrezza. Forese mostra col dito l'anima di
Bonagiunta da Lucca e, accanto a lui, quella di papa Martino IV di Tours, che sconta il suo amore per le
anguille e la vernaccia. Nomina altre anime di golosi, tutti contenti di essere indicati: fra di essi ci sono
Ubaldino della Pila, Bonifacio Fieschi, Marchese degli Argugliosi che quando era vivo a Forl bevve in
modo smodato.
Incontro con Bonagiunta Orbicciani (34-63)
Dante nota che Bonagiunta si mostra pi degli altri desideroso di parlargli, mentre intanto mormora un
nome che gli sembra Gentucca, a fior delle labbra che sono tormentate dalla fame e dalla sete. Dante si
rivolge a lui e lo invita a parlargli, al che Bonagiunta risponde che nella sua citt, Lucca, gi nata una
femmina che ancora giovinetta e che avr modo di ospitarlo durante il suo esilio. Il penitente invita
Dante a ricordarsi la sua profezia, che sar avvalorata dai fatti, quindi gli chiede se sia proprio lui il poeta
che ha iniziato le nuove rime con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore. Dante spiega di essere un
poeta che, quando scrive, segue strettamente la dettatura di Amore: Bonagiunta afferma di capire quale
differenza separa lui, Giacomo da Lentini e Guittone d'Arezzo dal dolce stil novo che Dante ha appena
definito. Il penitente comprende che gli stilnovisti seguirono l'ispirazione amorosa, a differenza sua e dei
poeti della sua scuola, quindi tace mostrandosi soddisfatto della risposta.
Profezia della morte di Corso Donati (64-93)
Le altre anime si allontanano da Dante affrettando il passo, simili alle gru che svernano lungo il Nilo,
camminando spedite per la magrezza e la volont di espiazione. Solo Forese resta con Dante,
camminando lentamente e lasciando andare avanti gli altri golosi, chiedendo poi all'amico quando lo
rivedr. Dante risponde di non sapere quanto gli resti ancora da vivere, ma certo grande il suo desiderio
di staccarsi dalle cose terrene e di lasciare la citt di Firenze, che di giorno in giorno mostra il suo declino
morale. Forese ribatte che molto presto il principale responsabile di questa situazione (il fratello Corso)
verr trascinato all'Inferno legato alla coda di un cavallo, che lo sfigurer orribilmente. Non passeranno
molti anni, aggiunge, prima che i fatti chiariscano a Dante il senso della sua oscura profezia. Alla fine
delle sue parole Forese si accommiata da Dante e raggiunge i compagni di pena, per non perdere troppo
tempo nell'espiazione delle sue colpe.
Arrivo al secondo albero (94-120)
Forese si allontana a passi rapidi, simile a un cavaliere che esce di schiera al galoppo per scontrarsi col
nemico, mentre Dante resta in compagnia di Virgilio e Stazio. Il poeta segue Forese con gli occhi, finch
scorge un secondo albero i cui rami sono carichi di frutti. Sotto di esso i golosi alzano le mani verso i rami
e gridano parole incomprensibili, come dei bambini di fronte a un adulto che ammannisce loro qualcosa
che essi desiderano. Alla fine le anime si allontanano e i tre poeti raggiungono a loro volta l'albero, dove
sentono una voce che dichiara che quella pianta nata dall'albero dell'Eden il cui frutto fu morso da Eva e
li invita a passare oltre. I tre si stringono alla parete del monte e proseguono.
Esempi di gola punita (121-129)
La voce riprende poco dopo per ricordare esempi di gola punita, fra cui quello dei centauri che, nati da
una nube, ubriachi, combatterono Teseo, e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone
non li volle come soldati nella guerra combattuta contro i Madianiti. I tre poeti passano oltre stringendosi
all'orlo interno della Cornice, mentre ascoltano quegli esempi di gola cui segu un duro castigo.
L'angelo della temperanza (130-154)
Oltrepassato l'albero, i tre poeti proseguono nella Cornice ormai deserta, ciascuno meditando su ci che
ha udito. A un tratto sentono una voce che chiede loro cosa pensano, per cui Dante si scuote: alza lo
sguardo e scorge l'angelo della temperanza, che rosseggia come un metallo arroventato e invita i tre a
salire l se vogliono accedere alla Cornice successiva. Dante abbagliato da quella vista e segue gli altri
due ascoltandone le voci, mentre sulla fronte sente un dolce vento simile a una brezza primaverile,
prodotto dalle piume dell'angelo che cancella la sesta P. L'angelo dichiara beati coloro che sono illuminati
dalla grazia e non sono troppo inclini alla gola, avendo sempre desiderio del giusto.
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude l'episodio dedicato a Forese Donati ed la seconda parte di un dittico iniziato nel Canto
XXIII, con la differenza che qui l'amico di Dante protagonista della prima e della terza parte del Canto,
fra cui si inserisce la parentesi di Bonagiunta da Lucca che introduce l'importante discorso intorno allo
Stilnovo. All'inizio Forese, su richiesta di Dante, indica alcuni dei pi ragguardevoli golosi della Cornice,
fra cui spiccano soprattutto gli ecclesiastici, a cominciare da papa Martino IV (Simone de Brie, sulla cui
inclinazione al mangiare e al bere vi sono numerosi aneddoti nelle cronache) e Bonifacio Fieschi che fu
arcivescovo di Ravenna, nel che Dante alimenta l'accusa che spesso veniva rivolta ai prelati di darsi
smodatamente al cibo e di vivere nell'opulenza (gli altri due esempi sono di aristocratici, fra cui Ubaldino
della Pila imparentato sia col cardinale Ottaviano che con l'arcivescovo Ruggieri, entrambi dannati, e
Marchese degli Argugliosi). Forese preannuncia poi la beatitudine della sorella Piccarda, che sar la
protagonista del Canto III del Paradiso e costituisce un esempio di comportamento retto e virtuoso in
contrasto con quello delle sfacciate donne fiorentine biasimate nel Canto precedente, esattamente come il
fratello Corso sar nella terza parte esempio negativo del malcostume e della corruzione politica di
Firenze: la dannazione di Corso, che morir nel 1308, profetizzata in modo oscuro da Forese, secondo il
quale il fratello verr trascinato direttamente all'Inferno legato alla coda di un cavallo selvaggio, che ne
sfigurer orrendamente il corpo. L'uomo fu effettivamente ucciso da un colpo di lancia dopo essersi
lasciato cadere di sella e alcuni commentatori (tra cui il Buti) ricordano che gli rimase un piede impigliato
nella staffa e che l'animale lo trascin a lungo, il che potrebbe aver agito sulla fantasia dell'autore.
Significativo il contrasto che Forese crea tra i due opposti esempi dei fratelli, destinati rispettivamente al
Cielo e all'Inferno, tanto pi che i due erano legati da torbide vicende biografiche (Corso aveva rapito
Piccarda dal convento per costringerla a nozze con un uomo politico legato ai Guelfi Neri, per cui la sua
orribile morte costituisce la giusta punizione per i suoi peccati personali e le colpe politiche relative alle
vicende fiorentine, tanto pi gravi in quanto i Neri avevano causato l'ingiusto esilio del poeta nel 1302).
La parte centrale del Canto vede poi come protagonista Bonagiunta Orbicciani da Lucca, gi indicato da
Forese fra i suoi compagni di pena, il quale si mostra particolarmente voglioso di interloquire con Dante:
una importante parentesi dedicata a questioni poetiche e letterarie, che anticipa quella altrettanto
significativa del Canto XXVI che vedr protagonisti Guido Guinizelli e Arnaut Daniel. Bonagiunta era
infatti uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola dei siculo-toscani, di cui era stato l'iniziatore
bench Guittone (pi giovane di lui) ne fosse diventato poi il rappresentante di spicco, ed era colui che
aveva rivolto a Guinizelli il famoso sonetto polemico Voi ch'avete mutata la mainera in cui lo accusava di
scrivere versi troppo astrusi e dottrinali. Dante quindi il rappresentante dello stile nuovo iniziato da
Guinizelli e ripreso da lui e Cavalcanti, mentre il poeta lucchese l'esponente di uno stile vecchio e
superato da Dante e i suoi amici, per cui logico che una discussione di teoria poetica abbia lui come
interlocutore privilegiato. Dopo aver predetto in modo allusivo l'esilio di Dante, ricordando il nome della
donna lucchese Gentucca che ospiter il poeta in quella citt (il soggiorno fu forse intorno al 1306,
durante la permanenza in Lunigiana presso i Malaspina: la profezia anticipa quella relativa a Corso
Donati, con l'analogo avvertimento che i fatti chiariranno le parole oscure), Bonagiunta si rivolge a Dante
come colui che ha iniziato a sua volta una nuova maniera poetica, quella delle rime nuove cominciata
con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore del cap. XIX della Vita nuova: Dante si presenta come
un poeta che scrive sotto la diretta ispirazione di Amore, per cui l'altro comprende la differenza
fondamentale che ha separato lui, Guittone e Giacomo da Lentini (caposcuola dei Siciliani) dal dolce stil
novo di cui sente parlare. questa l'unica attestazione del termine Stilnovo, che i critici hanno poi
esteso a tutta la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizelli e ripresa dai poeti fiorentini; la novit
consisterebbe nell'immediata trasposizione dell'ispirazione amorosa, mentre Bonagiunta e i guittoniani
peccarono per eccesso di retorica, specie Guittone che prese a modello il trobar clus di Arnaut (mentre gli
stilnovisti si ispirararono al trobar leu e ricercarono un linguaggio semplice, non sofisticato). Si molto
discusso se la definizione di Bonagiunta vada estesa a tutta la scuola oppure solo alle rime nuove
iniziate da Dante nel cap. XIX della Vita nuova, ovvero le poesie in cui ripone tutta la sua soddisfazione
nelle parole di lode a Beatrice e non nel saluto di lei, per quanto tale ipotesi sembri troppo restrittiva e non
spiegherebbe perch Dante senta il bisogno di spiegare la propria poesia a un esponente dei siculo-
toscani. Del resto il poeta lucchese crea un'opposizione tra Siciliani e siculo-toscani da una parte e Dante
e i suoi amici dall'altra (dice infatti le vostre penne), per cui pare ragionevole che la sua definizione
indichi la mainera inaugurata da Guinizelli e contro cui lui stesso aveva polemizzato: indubbio che
Dante e Cavalcanti avessero coscienza di formare una cerchia di poeti accomunati da una stessa visione
dell'amore e del modo di scriverne, bench non sia certo che essi si definissero veramente Stilnovisti (
dunque da respingere l'ipotesi avanzata da alcuni studiosi, secondo cui una vera e propria scuola
fiorentina non sarebbe mai esistita). Il discorso verr ripreso con lo stesso Guinizelli nel Canto XXVI, in
cui Dante chiuder il cerchio della sua riflessione intorno alla poesia dello Stilnovo che egli aveva ormai
superato, pur recuperandone alcuni aspetti e senza rinnegarne totalmente l'esperienza, salvo le sue
implicazioni morali relativamente ai rischi della letteratura amorosa in genere ( lo stesso tema gi
affrontato nel Canto V dell'Inferno e nel Canto XVIII del Purgatorio, circa l'irresistibilit del sentimento
amoroso).
Dopo il commiato di Dante e Forese, con quest'ultimo che si allontana in modo assai simile a quanto gi
visto per Brunetto Latini alla fine del Canto XV dell'Inferno, l'ultima parte del Canto vede la descrizione
del secondo albero della Cornice e dei golosi che protendono inutilmente le mani verso i suoi frutti, e gli
esempi di gola punita dichiarati da una voce misteriosa come quelli di temperanza (XXII, 142-154). Gli
ultimi versi sono dedicati all'incontro con l'angelo della temperanza, che scuote i tre poeti assorti nelle
loro meditazioni e abbaglia Dante con la luce rosseggiante che promana dal suo viso: l'angelo cancella la
sesta P dalla fronte del poeta e indirizza lui e gli altri due lungo la scala che li porter alla Cornice
seguente, ascesa durante la quale Stazio spiegher la generazione delle anime per rispondere al dubbio di
Dante circa la magrezza dei golosi.

Note e passi controversi


I vv. 16-17 (Qui non si vieta / di nominar ciascun) indicano probabilmente solo il fatto che necessario
indicare per nome le anime, rese irriconoscibili dalla magrezza, e non il divieto di indicare i penitenti che
in questa Cornice non sarebbe in vigore (di tale divieto non c' alcun accenno negli altri Canti).
Al v. 21 trapunta significa screpolata a causa della magrezza.
Il personaggio citato ai vv. 20-24 Simone de Brie, nativo di Tours (Torso) che fu papa col nome di
Martino IV e la cui ghiottoneria era diventata proverbiale: si narra che uscendo dal concistoro spesso
dicesse: O Sanctus Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia Dei! Ergo bibamus! (O Dio Santo, quante
fatiche sopportiamo per il bene della Chiesa! Dunque beviamo!).
La vernaccia citata al v. 24 sicuramente la Vernazza, un vino delle Cinque Terre e non il vino sardo con
lo stesso nome.
Il v. 30 (che pastur col rocco molte genti), riferito all'arcivescovo di Ravenna Bonifacio Fieschi, stato
variamente interpretato per il senso non chiaro di rocco: potrebbe essere la punta del pastorale dei vescovi
ravennati, simile a un prisma esagonale che veniva detto rocco dal persiano rokh, da cui il termine
scacchistico arroccare. Il verso vorrebbe dire allora che Bonifacio guid (pastur, conio dantesco)
molte popolazioni col suo pastorale, senza alcun intento ironico legato al pascolare e alla colpa della
gola.
Il nome Gentucca mormorato (v. 37) da Bonagiunta stato variamente interpretato, anche se l'ipotesi pi
probabile che si riferisca alla donna lucchese poi indicata dal penitente come colei che ospiter Dante
nel suo soggiorno in quella citt durante l'esilio (vv. 43-45). Costei ancora una giovinetta in quanto non
porta la benda nera che copriva i capelli alle donne maritate, secondo gli statuti comunali.
Al v. 55 Issa vuol dire ora ed voce lucchese affine a quella lombarda Istra di Inf., XXVII, 21.
La valle ove mai non si scolpa (v. 84) certamente l'Inferno, anche se alcuni hanno pensato a Firenze,
dove non si cessa mai dalle colpe.
Al v. 99 marescalchi (dal franco marhskalk, servo del cavallo) indica maestri, guide.
Al v. 104 pomo significa albero.
Il v. 105 (per essere pur allora vlto in laci) pu voler dire che Dante, solo dopo aver svoltato la curva del
monte, vede in lontananza l'albero, ma anche che solo in quel momento ha rivolto lo sguardo alla pianta,
mentre prima osservava Forese che si allontanava.
La rima sol tre (v. 133) composta e va letta sltre.
Al v. 135 poltre vuol dire pigre, tranquille e meno probabilmente giovani.
Ai vv. 151-154 l'angelo della temperanza dichiara parte della quarta beatitudine, Beati qui esuriunt
iustitiam, mentre quello della giustizia aveva detto Beati qui sitiunt iustitiam; qui Dante parafrasa il passo
evangelico e indica beati coloro che hanno un amore giusto e misurato verso il cibo.

Purgatorio, Canto XXV


Argomento del Canto
Salita dalla VI alla VII Cornice. Spiegazione di Stazio circa la generazione delle anime e dei corpi aerei.
Ingresso nella VII Cornice. Esempi di castit.
il pomeriggio di marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le due.
Salita alla VII Cornice. Dubbi di Dante e spiegazione di Virgilio (1-30)
L'ora avanzata e occorre salire speditamente, in quanto il Sole ha lasciato il meridiano al Toro e la notte
allo Scorpione (sono le due pomeridiane). Dante, Virgilio e Stazio percorrono la scala che porta alla VII
Cornice con passo veloce, uno dietro l'altro. Dante ha un dubbio e vorrebbe esprimerlo ai due poeti, ma
teme di essere importuno ed esita, come il cicognino che leva le ali per spiccare il volo e poi non osa
farlo. Virgilio intuisce il desiderio di Dante e lo invita a parlare liberamente, cos il discepolo chiede come
sia possibile che le anime dei golosi, pur essendo incorporee, dimagriscano per fame. Virgilio risponde
spiegando che Meleagro consum al consumare di un tizzone ardente, e facendo l'esempio dello specchio
che riflette l'immagine come il corpo aereo riflette la sofferenza dell'anima. Tuttavia, per far s che il
dubbio di Dante sia chiarito meglio, Virgilio invita Stazio a fornire una spiegazione pi dettagliata.
Stazio spiega la generazione dell'anima (31-78)
Stazio accetta di parlare in presenza di Virgilio, ma solo in quanto non pu rifiutare una cos cortese
richiesta. Inizia dunque la sua spiegazione e dichiara che nel corpo paterno c' un sangue perfetto che non
alimenta le vene e che riceve nel cuore la virt informativa capace di dare forma a tutte le membra umane.
Una volta purificato, esso diventa seme, scende negli organi genitali maschili e si unisce poi al sangue
femminile nell'utero. Qui essi si fondano e il seme paterno opera dando vita alla materia, generando
quindi un'anima simile a quella di una pianta, salvo che questa suscettibile di ulteriore sviluppo. Essa ha
sensazioni simili a quelle di una spugna marina e inizia a organizzare le sue facolt sensibili, finch la
virt informativa del generante si distende nel feto per completare tutto l'organismo.
Va spiegato a questo punto come l'anima vegetativa e sensibile diventi intellettiva, punto delicato che ha
tratto in inganno un filosofo ben pi saggio di Dante (Averro): questi, infatti, ha separato l'anima dal
possibile intelletto, perch secondo lui non ci sono organi specifici per esso. Stazio spiega invece che, non
appena il feto ha sviluppato il cervello, Dio spira nel suo corpo un nuovo spirito, l'anima razionale che
assimila in s la virt informativa e genera un'unica anima che ha tutte e tre le potenze (vegetativa,
sensibile e intellettiva). Perch Dante comprenda meglio il ragionamento, Stazio fa ancora l'esempio del
vino, prodotto dall'umore sostanziale della vite e dal calore del sole, elemento immateriale.
Formazione dei corpi aerei (79-108)
Stazio prosegue spiegando che dopo la morte questa anima si separa dal corpo e porta con s le facolt
umane (vegetativa e sensibile) e quella divina (intellettiva): le prime due sono ormai inerti, mentre la terza
assai pi acuta che in precedenza. L'anima, a seconda che sia dannata o salva, cade sulla riva
dell'Acheronte o alla foce del Tevere, e non appena si trova nell'aria la sua virt informativa agisce
proprio come aveva fatto nel corpo in carne e ossa: come l'aria gonfia di umidit forma l'arcobaleno per la
luce del sole, cos l'anima d forma all'aria circostante e crea un corpo umbratile che ricorda nell'aspetto
quello del corpo mortale. Questo corpo fatto d'aria sviluppa poi tutti i sensi come la vista e il tatto, dando
capacit all'anima di parlare, ridere e piangere a seconda dei sentimenti e delle sensazioni fisiche che essa
prova, come Dante ha sperimentato in Purgatorio. Questo spiega dunque come sia possibile che le anime
dei golosi, pur immateriali, patiscano la fame e dimagriscano.
Ingresso nella VII Cornice. Esempi di castit (109-139)
I tre poeti sono ormai giunti nella VII Cornice, per cui iniziano a girare verso destra e osservano che la
parete rocciosa emette delle fiamme, mentre la Cornice emana una sorta di vento verso l'alto che fa s che
la cortina infuocata lasci uno stretto corridoio verso l'orlo esterno. I tre iniziano dunque a percorrere la
Cornice costeggiandone il ciglio, tra il vuoto da una parte e il fuoco dall'altra, cosa che spaventa non poco
Dante. Virgilio raccomanda al discepolo di stare bene attento a non mettere un piede in fallo, mentre
Dante sente degli spiriti entro il fuoco che cantano l'inno Summae Deus clementiae, per cui ha il forte
desiderio di voltarsi verso di loro: guarda e vede delle anime (i lussuriosi) che camminano nel muro di
fiamme, dividendo lo sguardo fra loro e il pavimento che deve percorrere. Le anime terminano il canto
dell'inno e dichiarano gli esempi di castit, come quello di Maria che disse all'arcangelo Gabriele Virum
non cognosco, di Diana che visse castamente nelle selve da cui scacci Callisto, delle mogli e dei mariti
che vissero con castit il vincolo matrimoniale. Dante pensa che le anime facciano questo durante tutta la
loro espiazione, rimarginando in tal modo la piaga del peccato.
Interpretazione complessiva
Il Canto ha argomento prevalemente didascalico, essendo dedicato per la maggior parte alla complessa
spiegazione di Stazio circa la generazione dell'anima e la formazione dei corpi umbratili dopo la morte,
per chiarire il dubbio di Dante sulla fisicit della pena dei golosi. Sullo stupore destato da un simile
tormento l'autore ha insistito pi volte nei Canti XXIII-XXIV, per cui egli approfitta della ascesa della
scala che porta alla VII Cornice (dopo l'indicazione astronomica dell'ora) per chiedere spiegazioni ai due
maestri, invitato da Virgilio a parlare dopo la sua iniziale esitazione che riprende una situazione gi vista
in precedenza. Virgilio a fornire una prima risposta sommaria, che si limita a indicare l'esempio
concreto di un corpo che si consuma per cause esterne (quello mitologico di Meleagro) e quello dello
specchio che indica come il corpo aereo rifletta la sofferenza dell'anima, per quanto tale spiegazione sia
insufficiente dal punto di vista dottrinale: Virgilio invita allora Stazio, anima salva e destinata al Paradiso,
a completare la sua chiosa, compito che il poeta latino assolve non prima di aver riconosciuto la
superiorit del maestro con una excusatio propter infirmitatem ( un artificio retorico, in quanto il
magistero di Stazio qui superiore come lo sar in Paradiso quello di Beatrice, le cui spiegazioni
teologiche sono in parte prefigurate).
Stazio spiega a Dante la complessa procedura con cui si forma l'anima umana dopo il concepimento,
seguendo strettamente la trattazione in materia di san Tommaso d'Aquino: preme soprattutto a Dante
ribadire che l'anima dell'uomo ha tre potenze, due delle quali sono comuni alle piante (quella vegetativa) e
agli animali (quella sensitiva o sensibile), mentre la terza (quella razionale o intellettiva) infusa
nell'uomo direttamente dal motor primo, cio da Dio. Ci distingue l'uomo dalle creature inferiori e in
questo la spiegazione di Stazio prende in modo dichiarato le distanze dalla dottrina di Averro, che nel
suo gran comento alla filosofia aristotelica aveva affermato che l'anima umana era un'entit separata
dall'intelletto possibile: Aristotele, infatti, nel De anima aveva distinto tra intelletto possibile e intelletto
attivo, affermando che il secondo agisce sul primo trasformando in atto le verit che nell'intelletto
possibile sono solo in potenza, come la luce trasforma in atto i colori che al buio sono in potenza. Il
filosofo antico non aveva per chiarito se l'intelletto attivo sia nell'uomo, in Dio o in entrambi, da cui i
dubbi dei filosofi medievali e la teoria avorroistica secondo la quale l'intelletto possibile separato
dall'anima umana, di cui si negava cos l'immortalit (tale teoria modificava la dottrina araba in materia,
per cui Averro era stato condannato dagli stessi musulmani). Stazio spiega invece che la facolt
intellettiva infusa da Dio nell'uomo e si lega inscindibilmente alle altre due potenze, vegetativa e
sensibile, formando un'unica sostanza come il vino che prodotto dall'umore della vite (elemento
materiale) e dalla luce e dal calore del sole (elemento immateriale), negando quindi in modo deciso le
implicazioni della teoria averroistica giudicate pericolose sul piano teologico. Stazio illustra poi il
processo per cui l'anima, una volta separata dal corpo dopo la morte, produce un corpo d'aria agendo su di
essa con la stessa virt informativa che aveva agito sul corpo materiale, per cui questo corpo aereo non
solo acquista lo stesso aspetto fisico dell'individuo quando era in vita, ma prova le stesse sensazioni
fisiche di un corpo terreno e pu gioire, soffrire, ridere e piangere come Dante ha visto attraverso l'Inferno
e il Purgatorio. Tale spiegazione si discosta almeno in parte dalla dottrina tomistica e giustifica l'esigenza
narrativa e poetica di rappresentare le anime nella loro fisicit e materialit, per quanto Dante si attenga a
tale principio in maniera non sempre coerente e obbedendo principalmente alla sua fantasia creativa (si
veda oltre).
La spiegazione di Stazio trae spunto dalla pena dei golosi, ma si lega in qualche modo anche a quella dei
lussuriosi che sono bruciati dal muro di fiamme della VII Cornice ed non meno fisica e materiale, tanto
che lo stesso Dante ne far esperienza diretta attraversando il fuoco nel Canto XXVII: il finale di questo
Canto XXV illustra proprio la pena degli spiriti che camminano nel fuoco e alternano il canto dell'inno
alla dichiarazione degli esempi di castit, tratti come sempre dalla tradizione cristiana (la verginit di
Maria che partorir Ges) e da quella classica (la castit di Diana e delle ninfe boscherecce), con un
ultimo exemplum generico (le mogli e i mariti che si attengono al vincolo matrimoniale) che l'unico
caso oltre a quello di Purg., XIII, 36 relativo alla massima evangelica dell'amare i propri nemici. La
curiosit di Dante che osserva le anime nel fuoco e bada a non mettere il piede in fallo cadendo nel vuoto
anticipa l'ulteriore descrizione dei penitenti che occuper buona parte del Canto seguente, in cui ci sar
l'incontro con Guinizelli e il prosieguo del discorso intorno alla letteratura amorosa gi avviato con
Bonagiunta.

Trattando l'ombre come cosa salda: la fisicit delle anime


Dante descrive le anime dei primi due regni dell'Oltretomba come entit materiali e dall'aspetto umano,
nude e in grado di sopportare pene fisiche tanto all'Inferno che al Purgatorio, cosa pu suscitare dubbi in
quanto l'anima una sostanza inconsistente e come tale non dovrebbe avere n aspetto esteriore n
sensibilit al dolore fisico. Il tema provocava perplessit e oscillazioni fra gli stessi teologi cristiani, i
quali erano per lo pi inclini a negare tale materialit all'anima: san Tommaso affermava (Summa theol.,
Suppl., q. LXIX) che l'anima separata dal corpo non ha un corpo vero e proprio (Anima separata a
corpore non habet aliquod corpus), salvo poi precisare (q. LXX) che l'anima conservava la potenza
sensitiva e poteva essere tormentata dal fuoco, quello che altri teologi definivano ignis corporeus. La
dottrina rilevava la contraddizione tra l'inconsistenza delle anime e la necessit di rappresentare le pene
infernali e purgatoriali come qualcosa di fisico, soprattutto per agire (ad esempio nelle arti figurative)
sulla fantasia dei fedeli e operare una sorta di deterrenza dal commettere i peccati, minacciando
punizioni che fossero facilmente comprensibili a delle menti semplici. Del resto anche la letteratura
classica descriveva le anime dei morti come ombre evanescenti ma dall'aspetto umano, senza contare che
la dottrina cristiana affermava che il Giorno del Giudizio le anime si sarebbero riappropriate del corpo
mortale e, dopo la gran sentenza, avrebbero sofferto insieme ad esso le pene infernali o goduto della pace
celeste.
Dante nella Commedia si attiene per lo pi a questo criterio e descrive quindi le pene inflitte alle anime
come qualcosa di fisico, fornendo anche una sorta di spiegazione dottrinale del fenomeno: in Purg., III, 22
ss. Virgilio spiega a Dante che il corpo mortale nel quale faceva ombra giace sulla Terra, mentre quello
che ha attualmente umbratile e fatto d'aria, pur conservando la capacit di provare sensazioni fisiche (A
sofferir tormenti e caldi e geli / simili corpi la Virt dispone / che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli). Di
fronte poi alla pena dei golosi, che patiscono la fame e sono consumati dalla magrezza, lo stupore di
Dante verr attenuato dalla spiegazione di Stazio (XXV, 79-108) che, pur discostandosi in parte dal
tomismo, illustra la creazione dopo la morte di un corpo aereo che circonda l'anima e conserva la potenza
vegetativa e sensibile, per cui l'anima pu provare tutte le sensazioni di un corpo umano, incluso il dolore.
Dante non si attiene in modo sempre coerente a tale spiegazione, descrivendo le anime dei trapassati ora
come inconsistenti, ora come corpi veri e propri dotati di una reale fisicit: in Inf., VI, 34-36 lui e Virgilio
camminano sulle anime dei golosi attraversando la lor vanit che par persona, e in Purg., II, 79-81 il poeta
tenta inutilmente di abbracciare l'amico Casella ritrovandosi le braccia al petto, come gi Enea con Creusa
e Anchise. Non mancano tuttavia esempi opposti, specie nella I Cantica: in Inf., VIII, 40-42 Virgilio
respinge Filippo Argenti che tenta di trascinare Dante dalla barca di Flegis nella palude stigia, mentre in
XXXII, 97 ss. Dante afferra Bocca degli Abati (posto fra i traditori della patria in Cocito) per i capelli
della nuca e gliene strappa addirittura una ciocca, nel tentativo di costringerlo a rivelare il proprio nome.
Qualcosa di simile avviene persino in Paradiso, dove le anime dei beati conservano una parziale umanit
nel I Cielo, in cui appaiono come immagini evanescenti riflesse sull'acqua (Par., III, 10 ss.) e nel II Cielo,
dove sono delle sagome a malapena distinguibili nella luce che le avvolge (V, 106-108), mentre pi avanti
saranno pure luci senza alcunch di fisico. chiaro che sulle scelte stilistiche di Dante opera l'esigenza
narrativa di rappresentare la realt ultraterrena in modo comprensibile all'intelletto umano, il che spiega le
apparenti incongruenze in materia: vale la chiosa di Beatrice di Par., IV, 40 ss., che per spiegare a Dante
perch i beati si mostrino a lui nei vari Cieli anzich nell'Empireo afferma che Cos parlar conviensi al
vostro ingegno, / per che solo da sensato apprende / ci che fa poscia d'intelletto degno, facendo
l'esempio del testo biblico che attribuisce tratti fisici a Dio e agli angeli e altro intende, per la necessit di
farsi capire dai fedeli con immagini visive e facilmente comprensibili. In quest'ottica perdono di interesse
le discussioni dei dantisti sulla presunta incoerenza di Dante in materia dottrinale relativamente ai corpi
delle anime, specie quando si rammenti che la Commedia un'opera poetica e non un trattato di teologia,
anche se l'elemento dottrinale parte integrante del poema e ne costituir l'essenza soprattutto nella III
Cantica.
Note e passi controversi
I vv. 2-3 indicano che il sole ha lasciato il meridiano alla costellazione del Toro e la notte a quella dello
Scorpione; il sole, all'epoca della visione, in congiunzione con l'Ariete e questa si trova sul meridiano a
mezzogiorno. Quando lascia il posto al Toro sono trascorse circa due ore, quindi sono le due del
pomeriggio.
I vv. 17-18 alludono all'atto di scoccare una freccia, tendendo la corda sino a far toccare il ferro, cio la
punta della freccia, con l'arco.
Ai vv. 21-23 Virgilio ricorda il mito di Meleagro, figlio di Oeneo e Atlea, che per decreto delle Parche era
destinato a vivere quanto un tizzone gettato dalle dee sul fuoco al momento della sua nascita. La madre
nascose il tizzone e lo spense, ma dopo che Meleagro uccise i fratelli della madre, questa, adirata con lui,
gett nuovamente il tizzone sul fuoco e Meleagro si consum con quello.
Il sangue perfetto citato da Stazio al v. 37 quello destinato al concepimento: cfr. san Tommaso, Summa
theol., III, q. XXXI (sanguis qui... est praeparatus ad conceptum, quasi purior et perfectior alio sanguine).
Al v. 56 alcuni mss. leggono fungo in luogo di spungo (spugna), che lezione pi difficile.
Al v. 61 fante significa parlante, quindi indica l'essere umano.
Il savio citato al v. 63 Averro, la cui dottrina relativa all'anima viene confutata da Stazio nei versi
seguenti.
Al v. 75 s in s rigira vuol dire che riflette se stessa su se stessa, cio ha coscienza del proprio essere.
I vv. 85-86 indicano che l'anima dopo la morte cade sulle rive dell'Acheronte, se dannata, o alla foce del
Tevere, se salva.
Piorno (v. 91) forma arcaica per piovorno, quindi pregno di umidit.
L'inno Summae Deus clementiae (v. 121) cantato dai lussuriosi non ha nulla a che vedere con questo
peccato, ma probabile che Dante si riferisca a quello che si canta al mattutino del sabato e che condanna
la lussuria: esso oggi inizia con le parole Summae parens clementiae, mentre al tempo di Dante l'incipit
era quello riportato nel Canto (cfr. il commento del Lana).
L'esempio di castit di Maria tratto da Luc., I, 34, quando la Vergine risponde all'annunciazione
dell'arcangelo Gabriele con le parole: Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? (Come potr
avvenire questo, visto che non conosco uomo?).
Elice (v. 131) il nome meno comune della ninfa Callisto, sedotta da Giove.
I vv. 138-139 sono parsi ad alcuni commentatori un accenno a delle piaghe effettivamente subite dai
lussuriosi, forse delle P incise sulle loro fronti: l'ipotesi suggestiva, ma nulla conferma che tale pratica
riguardi anche i penitenti e non solo Dante (riguardo a Stazio, per esempio, non se ne fa cenno).
Purgatorio, Canto XXVI
Argomento del Canto
Ancora nella VII Cornice: le due schiere di lussuriosi. Incontro con Guido Guinizelli. Incontro con Arnaut
Daniel.
il pomeriggio di marted 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le quattro.
Incontro con le anime dei lussuriosi (1-24)
Dante, Virgilio e Stazio camminano in fila lungo l'orlo esterno della VII Cornice, con Virgilio che mette
spesso in guardia Dante sul percorso da tenere, mentre il poeta colpito sul braccio destro dal sole, che
illumina tutto l'occidente. Dante proietta la sua ombra sulla fiamma e la rende pi rossa, il che rivela a
molti penitenti che ancor vivo. Questo il motivo per cui iniziano a parlare di lui, dicendosi l'un l'altro
che Dante sembra avere un corpo in carne e ossa, quindi si avvicinano al poeta e lo osservano meglio,
badando a non uscire dalla cortina di fiamme. Uno dei lussuriosi si rivolge a Dante osservando che
cammina dietro agli altri due poeti, non per lentezza ma per deferenza, e lo prega di rispondere a lui e alle
altre anime che sono tormentate dal dubbio: com' possibile che egli faccia ombra, come se fosse ancora
in vita in quel luogo dell'Oltretomba?
Le due schiere di lussuriosi. Esempi di lussuria punita (25-51)
Dante avrebbe gi risposto a quell'anima, se la sua attenzione non fosse attirata da qualcos'altro: infatti,
lungo la Cornice occupata dalle fiamme, giunge un'altra schiera di lussuriosi che procede in senso
opposto alla prima, per cui il poeta osserva meravigliato. Le anime dei due gruppi si baciano
reciprocamente, senza fermarsi, proprio come le formiche si toccano il muso l'una con l'altra; quando si
separano, prima di allontanarsi emettono delle grida e i nuovi arrivati esclamano Sodoma e Gomorra,
mentre gli altri ricordano il peccato di Pasifae che si un bestialmente al toro da cui fu generato il
Minotauro. Quindi procedono di nuovo in direzioni opposte, simili a gru che si separino per puntare
rispettivamente ai monti Rifei e alle sabbie dei deserti, le prime per schivare il sole e le altre il freddo. I
penitenti si allontanano e tornano piangendo al canto dell'inno e agli esempi di castit; quelli che si erano
rivolti a Dante tornano ad avvicinarsi al limite della fiamma, attendendo la sua risposta.
Dante risponde alle anime (52-66)
Dante risponde spiegando che il suo corpo non rimasto sulla Terra ma l con lui, con tutto il sangue e
le sue giunture: sta salendo il monte per vincere il peccato ed atteso nell'Eden da una donna (Beatrice)
che gli procura grazia, per cui pu attraversare il Purgatorio in carne ed ossa. Dante augura alle anime di
raggiungere presto la beatitudine e di poter entrare in Cielo, quindi chiede loro di rivelare i propri nomi e
di dirgli chi sono quegli altri lussuriosi che si sono allontanati, cosicch lui possa scriverne una volta
ritornato sulla Terra.
Un'anima spiega la condizione delle due schiere (67-87)
Come il montanaro si stupisce quando giunge in citt, ammirando muto ci che non abituato a vedere,
cos quelle anime si meravigliano alle parole di Dante, per quanto la loro sorpresa si attenui presto come
avviene di solito nei cuori magnanimi. L'anima che ha parlato prima (Guido Guinizelli) dichiara che
Dante beato in quanto ha il privilegio di visitare il Purgatorio da vivo, quindi spiega che i penitenti
dell'altra schiera sono colpevoli di lussuria contro natura (furono cio sodomiti) e per questo gridano
l'esempio di Sodoma, accrescendo la loro vergogna. Lui e gli altri penitenti di questa schiera, invece,
peccarono di lussuria secondo natura, abbandonandosi tuttavia al piacere sensuale in modo eccessivo e
come bestie, per cui gridano l'esempio di Pasifae che si un al toro nella falsa vacca di legno.
Guido Guinizelli si rivela a Dante (88-132)
Ora, prosegue il penitente, Dante sa chi sono lui e i suoi compagni di pena, ma non avrebbe il tempo di
indicare i loro nomi n peraltro li conoscerebbe tutti. L'anima rivela tuttavia il proprio nome,
presentandosi come Guido Guinizelli: espia i suoi peccati in Purgatorio perch se ne pent prima della
morte. Dante, sentendo il nome del poeta che considera il padre suo e degli altri poeti migliori di lui che
eccelsero nelle rime amorose in volgare, vorrebbe gettarsi nel fuoco ad abbracciare Guido, anche se non
osa farlo; per un buon tratto continua a camminare senza dire nulla, guardandolo con ammirazione e non
avvicinandosi alle fiamme. Dopo questa lunga pausa, Dante torna a rivolgersi a Guinizelli con un
giuramento che rende credibili le sue parole: il penitente afferma che Dante lascia in lui un ricordo
indelebile, che neppure le acque del Lete potranno cancellare, poi chiede a Dante il motivo per cui
manifesta tanto affetto per lui. Dante spiega di ammirarlo per le sue poesie, che renderanno preziosi i
manoscritti che le contengono finch si user il volgare.
A questo punto Guinizelli indica col dito un'anima che lo precede (Arnaut Daniel), dicendo che anche lui
fu poeta volgare e si mostr superiore a lui, primeggiando anzi su tutti coloro che scrissero romanzi in
prosa e versi amorosi. Guido afferma che gli stolti gli preferiscono Giraut de Bornelh, poich essi
seguono l'opinione comune e non la verit, proprio come molti antichi fecero nei riguardi di Guittone
d'Arezzo, dapprima apprezzato e poi vinto dalla verit. Guido prega poi Dante, se davvero ha il privilegio
di andare in Paradiso, di recitare un Pater noster davanti a Cristo, quel tanto che occorre alle anime del
Purgatorio.
Incontro con Arnaut Daniel (133-148)
Alla fine delle sue parole Guido scompare nel fuoco, forse per lasciare spazio all'anima accanto a lui,
simile a un pesce che raggiunge il fondo dell'acqua. Dante si avvicina un poco al penitente che Guido ha
indicato prima, dicendogli che nutre grande desiderio di conoscere il suo nome. Il penitente inizia a
parlare di buon grado e in perfetta lingua d'oc dichiara di non potere n voler nascondere la propria
identit, tanto gli gradita la cortese domanda di Dante: egli Arnaut Daniel, che piange e canta nel
fuoco. Ripensa con preoccupazione i suoi precedenti peccati, guarda con gioia alla beatitudine che lo
attende; prega Dante, in nome della grazia che lo conduce in Purgatorio, di ricordarsi di lui una volta
giunto in Paradiso. A questo punto il penitente scompare nuovamente entro le fiamme che lo purificano.
Interpretazione complessiva
Protagonista assoluto del Canto Guido Guinizelli, il cui incontro con Dante si articola in tre momenti
successivi che corrispondono allo stupore e alla domanda circa il fatto che lui vivo, alla spiegazione
della pena dei lussuriosi, al colloquio in materia poetica che introduce l'altro personaggio dell'episodio,
Arnaut Daniel. Il Canto completa e per cos dire integra il discorso intorno alla poesia stilnovistica che era
iniziato nel XXIV con Bonagiunta da Lucca, per cui non stupisce che lo stile sia linguisticamente e
retoricamente elevato: specie nelle parole di Guido, che prima ancora di essere presentato apostrofa Dante
affermando che egli segue Virgilio e Stazio perch reverente, chiedendo poi spiegazione della sua
presenza l essendo arso dalla sete di sapere, proprio come le altre anime che sono egualmente assetate di
acqua fredda come gli abitanti dell'India o dell'Etiopia (c' l'antitesi tra il calore del fuoco e del sole di
quelle regioni esotiche e la freschezza dell'acqua, nonch la preziosit della similitudine piuttosto rara: lo
stesso pu dirsi della morte citata poco dopo, vista come la rete che non ha ancora catturato Dante). La
risposta del poeta interrotta dall'arrivo della schiera dei sodomiti e dalla descrizione del rituale del bacio
reciproco, prima che le due schiere gridino gli esempi opposti di lussuria punita: l'unico caso in
Purgatorio di penitenti che nella stessa Cornice siano distinti nella modalit della pena, dal momento che i
due gruppi procedono in direzioni opposte e hanno commesso peccati analoghi ma differenti, come Guido
spiegher pi avanti, in quanto i sodomiti espiano l'amore consumato contro natura, mentre gli altri
scontano l'eccessivo e bestiale abbandono al piacere sensuale, come i lussuriosi infernali che la ragion
sommettono al talento. Il peccato di sodomia qui ricondotto alla topografia morale del secondo regno,
quindi come peccato di amore mal diretto e non di violenza contro natura come all'Inferno (dove i
sodomiti erano inclusi nel VII Cerchio e non avevano possibilit di redenzione), il che rappresenta forse
un parziale ripensamento di Dante rispetto all'ordinamento morale del primo regno, non sempre
congruente con quello del Purgatorio (cfr. a riguardo la Guida del Canto XVII di questa Cantica).
La ripresa del colloquio con Guido vede anzitutto la spiegazione di Dante, che si dichiara vivo e oggetto
di un eccezionale privilegio che gli consente di visitare il Purgatorio (con l'allusione a Beatrice che lo
attende nell'Eden), quindi domanda a sua volta alle anime di manifestarsi e dichiara di essere poeta,
affermando di volerlo sapere acci ch'ancor carte ne verghi, per scriverne cio nel poema una volta
tornato nel mondo. Dopo il comprensibile stupore delle anime nuovamente Guido a prendere la parola e
a usare un linguaggio elevato, definendo Dante fortunato in quanto imbarca esperienza visitando le loro
marche, il loro regno, quindi spiega la divisione delle schiere indicando il proprio peccato come
ermafrodito (con allusione al mito del figlio di Mercurio e Venere, tratto da Ovidio) e illustrando
l'esempio di Pasifae, colei / che s'imbesti ne le 'mbestiate schegge, con la replicazione imbesti /
'mbestiate per indicare la falsa vacca di legno da lei usata per unirsi al toro di cui s'era invaghita. Alla fine
si presenta come Guido Guinizelli, rinunciando per modestia a indicare i nomi di tutti i compagni di pena,
e tale rivelazione provoca l'ammirazione di Dante e il desiderio di abbracciare il suo maestro e modello,
attraverso la similitudine mitologica dei due figli di Isifile che sottrassero la madre ai soldati di Licurgo
che la portavano al supplizio (l'esempio tratto dalla Tebaide di Stazio). a questo punto che Dante, su
richiesta di Guido, manifesta tutta la sua ammirazione per colui che considerava il creatore del Dolce Stil
Novo, ovvero la nuova scuola poetica che Bonagiunta aveva definito a partire dalla spiegazione di Dante:
Guido il modello di dolci detti, ovvero di poesie amorose in stile dolce, la cui fama durer finch si
user il volgare (ed da rilevare l'uso del termine raro incostri, dal lat. encaustrum, per indicare i
manoscritti che contenevano le poesie). Gi prima Dante aveva definito Guido quale padre suo e di tutti
gli altri poeti amorosi in volgare, riconoscendolo come suo maestro e autore al pari di Virgilio per quanto
riguardava la poesia classica e affermandone il magistero per quanto concerne la poesia amorosa in
volgare; chiaro che Dante intende celebrarne la figura come creatore dello Stilnovo, ma anche
completare quella personale riflessione intorno a tale poesia che attraversa a vari livelli quasi tutto il
poema. Non pu sfuggire, infatti, che Guinizelli insieme ad Arnaut l'ultimo penitente con cui Dante
dialoga, come Francesca, anche lei lussuriosa, era stata il primo dannato: Francesca era stata consumatrice
di quella letteratura amorosa che l'aveva condotta insieme a Paolo all'Inferno, mentre Guido (come Arnaut
e Dante stesso) ne era stato produttore, per cui come se Dante chiudesse il cerchio indicando tale
letteratura come non condannabile in s, ma come rischiosa sul piano della salvezza perch pu portare
alla dannazione quei lettori che ne mettono in pratica i modelli, abbandonandosi al piacere dei sensi. Va
sottolineato, a questo riguardo, che non ci sono dati biografici che indichino per Guido e Arnaut il peccato
di lussuria, quindi dobbiamo pensare che Dante li collochi in questa Cornice per i loro versi pi che per le
loro azioni: Guido colpevole di aver scritto poesie che possono aver causato la perdizione di personaggi
come Paolo e Francesca, per cui questo il peccato di cui si pentito alla fine della sua vita e che ora
sconta nel fuoco della Cornice, che anche Dante attraverser nel Canto seguente (per cui come se Dante
bruciasse nel fuoco non le sue poesie stilnoviste, ma ci che di rischioso sul piano dottrinale vi era in
esse, oltre naturalmente all'esperienza totalmente condannabile delle Petrose).
Questo spiega in parte la polemica letteraria di Guido contro Guittone, che riprende analoghi severi
giudizi che Dante esprime sull'Aretino anche in altre opere (spec. in DVE) e si collega all'esaltazione di
Arnaut Daniel, che sconta la pena insieme a Guinizelli nel fuoco e che il Bolognese indica come miglior
fabbro di parlar materno: Dante riconosce dunque una linea Arnaut-Guinizelli-Stilnovo che solo in parte
spiegabile, non foss'altro perch Arnaut fu maestro di quel trobar clus imitato da Guittone, e per il fatto
che Guido lo preferisce a Giraut de Bornelh, maestro di trobar leu che fu modello per gli Stilnovisti,
mentre tale giudizio contraddittorio con altre opinioni espresse in DVE e Convivio. Ci confermato
anche dalle parole in volgare occitanico che Dante mette in bocca al provenzale alla fine del Canto, che
sono, s, un eccellente esempio di lingua d'oc, ma sembrano anche versi in perfetto trobar leu, ben lontani
dalle rimas caras e dal linguaggio prezioso e difficile di cui Arnaut era maestro e che Dante ben
conosceva. stato ipotizzato che qui Arnaut faccia una sorta di ritrattazione del suo stile poetico e,
soprattutto, del carattere sensuale dell'amore da lui cantato: quest'ultimo elemento confermato dal
termine folor che indica il fuoco della passione nei testi provenzali, contrapposto alla joi (felicit) che il
poeta vede davanti a s e al valor (la virt divina, o forse la grazia di Beatrice) che guida Dante in cima al
monte del Purgatorio. Di sicuro si pu affermare che Dante in questo Canto fa un discorso centrato pi sul
piano linguistico e stilistico che non tematico, per cui questo pu almeno in parte spiegare la preferenza
accordata ad Arnaut rispetto a Giraut, anche se ci si deve arrendere all'idea che qui, come in altri passi del
poema, egli rovesci totalmente giudizi precedentemente espressi in DVE e Convivio; senza dubbio le
parole di Arnaut chiudono in modo definitivo il discorso sulla poesia amorosa, per cui d'ora in avanti essa
potr essere recuperata solo per cantare la bellezza di Beatrice o lo splendore del Paradiso, quindi anche
Dante rinnega la sua passada folor per guardare alla joi che vede ormai prossima sulla cima del monte.

Note e passi controversi


Al v. 6 cilestro indica il colore azzurro del cielo, che diventa bianco quando illuminato dal sole.
I vv. 7-8 vogliono dire che Dante, proiettando la propria ombra sulla fiamma, la rende di un rosso pi
cupo, mentre essa era sbiadita dalla luce del sole; ci induce le anime ad accorgersi che Dante vivo.
La sete citata al v. 18 sicuramente la sete di sapere (come al v. 20), anche se alcuni commentatori hanno
pensato che l'ardere della fiamma provochi nelle anime la sete come aggiunta di pena, cosa di cui non ci
sono conferme.
La similitudine ai vv. 34-36 relativa alle formiche che si toccano il muso a vicenda tratta da Ovidio,
Met., VII, 624-626, anche se si visto un richiamo a Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XI, 39). La schiera
bruna rimanda a Aen., IV, 404 (nigrum agmen).
Soddoma e Gomorra sono ovviamente le due citt bibliche (Gen., XVIII, 20 ss.) dedite al vizio della
sodomia e per questo distrutte da Dio con una pioggia di fuoco.
La similitudine delle gru (vv. 43-45) che si dividono in due schiere dirette ai monti Rifei, a nord, e ai
deserti del sud, ovviamente ipotetica e lo dimostra il verbo al congiuntivo (come grue ch[e]... volasser);
forse Dante ha voluto sottolineare il peccato contro natura dei sodomiti, cos come innaturale sarebbe il
volo delle gru verso i paesi freddi.
Il senso del v. 48 (e al gridar che pi lor si convene) non chiarissimo e si pu forse riferire agli esempi di
castit che tutti i lussuriosi gridano alternandoli al canto dell'inno Summae Deus clementiae, come
descritto nel Canto XXV. I penitenti griderebbero gli esempi di lussuria punita solo quando le due schiere
si incontrano, come descritto qui.
Al v. 73 marche indica il regno del Purgatorio, come in XIX, 45.
I vv. 76-78 alludono a un aneddoto riportato, tra gli altri da Svetonio, secondo cui Cesare venne
apostrofato da un certo Ottavio con l'epiteto di
regina per via dei rapporti che il dittatore avrebbe avuto con Nicomede, re di Bitinia (Caes., 49). Dante
cita probabilmente da Uguccione da Pisa (Magnae derivationes, s.v. Triumphus) che in proposito dice:
Caesari triumphanti fertur quidam dixisse... "Aperite portas regi calvo et reginae Bitiniae"... et alius de
eodem vitio: "Ave rex et regina!" (Si narra che un tale disse a Cesare, al momento del trionfo: "Aprite le
porte al re calvo e alla regina di Bitinia" e un altro sullo stesso vizio: "Salute, re e regina!). Dante non
credeva sicuramente a questa taccia, altrimenti non avrebbe posto Cesare nel Limbo.
Ermafrodito (v. 82) fu il mitico figlio di Mercurio e Venere, che si un alla ninfa Salmace cos strettamente
da formare un solo corpo con gli attributi di entrambi i sessi (Ovidio, Met., IV, 288 ss.). Guido intende
dire che il suo peccato fu di natura eterosessuale.
Il v. 91 (Farotti ben di me volere scemo) non chiarissimo nella costruzione e vuol dire forse far
mancante il tuo volere di me, cio soddisfer la tua volont di sapere chi sono.
I vv. 94-96 alludono all'episodio della Tebaide (V, 720 ss.) in cui si narra che la schiava Isifile aveva
ricevuto da Licurgo, re di Nemea, l'incarico di badare al figlioletto Ofelte; l'aveva lasciato incustodito per
mostrare ai Greci la fonte di Langia e il piccolo era stato ucciso dal morso di un serpente. Licurgo aveva
condannato a morte Isifile, ma i suoi figli Toante e Euneo l'avevano sottratta ai soldati e tratta in salvo.
Al v. 98 li altri miei miglior significa gli altri (poeti) migliori di me.
Il v. 105 indica una formula di giuramento, con cui Dante rende credibili le sue parole a Guinizelli.
I vv. 118-119 sono stati interpretati nel senso che Arnaut avrebbe scritto egli stesso prose di romanzi, ma
ci non ha conferme dirette; si pensa dunque che Dante intenda dire che il trovatore primeggi nella
letteratura in lingua d'oc e d'ol, quest'ultima indicata attraverso le opere narrative come i romanzi cortesi,
che in realt erano scritti in versi (Dante li conosceva attraverso tardi volgarizzamenti in prosa).
Il chiostro / nel quale Cristo abate del collegio (vv. 128-129) naturalmente il Paradiso. Il v. 131 allude
forse al fatto che del Pater noster non dovr essere recitato l'ultimo versetto, come fanno i superbi in XI,
19-24.
L'espressione ai vv. 133-134 poco chiara e indica forse che Guido cede il passo ad Arnaut che gli
vicino.
I versi in volgare occitanico di Arnaut iniziano con un'espressione (v. 140) che ripresa da una canzone di
Folchetto di Marsiglia, Tan m'abeliis l'amoros pensamen. Anche il v. 142 ne ricorda uno di Arnaut, Ieu sui
Arnautz qu'amas l'aura.
Al v. 143 folor termine tecnico della poesia provenzale, per indicare l'amore sensuale.
Alcuni mss. leggono al v. 144 jorn al posto di joi, mentre l'accostamento jausen / joi decisamente pi
ricercato.
Al v. 145 valor pu indicare Dio, ma anche la virt rappresentata da Beatrice che attende Dante al som de
l'escalina.
Purgatorio, Canto XXVII
Argomento del Canto
Ancora nella VII Cornice dei lussuriosi. L'angelo della castit. Dante, Virgilio e Stazio attraversano il
muro di fiamme. Dante si addormenta e sogna Lia. Salita al Paradiso Terrestre.
la notte tra marted 12 aprile (o 29 marzo) e mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
L'angelo della castit (1-15)
Il sole ormai al tramonto sul Purgatorio, mentre l'alba a Gerusalemme, mezzogiorno sul Gange e la
Spagna sotto la costellazione della Bilancia. Ai tre poeti appare l'angelo della castit, fuori dalla cortina
di fiamme, che canta la sesta beatitudine Beati mundo corde e invita i tre poeti ad attraversare il fuoco,
poich questa l'unica via per lasciare la VII Cornice. L'angelo invita a non essere sordi al canto
dell'angelo che sta dall'altra parte, mentre Dante a quelle parole raggelato dal terrore.
Paura ed esitazione di Dante (16-45)
Dante guarda atterrito il fuoco e pensa alle immagini di uomini arsi vivi, atterrito all'idea di dover
attraversare le fiamme. Virgilio e Stazio si voltano verso di lui e il maestro gli ricorda che in Purgatorio
nessuna pena pu causare la morte. Gli rammenta inoltre di averlo condotto sano e salvo sulla groppa di
Gerione, all'Inferno, quindi come potrebbe non fare lo stesso quando cos vicino a Dio? Il fuoco non
pu nuocergli e se Dante non crede alle sue parole, ne faccia lui stesso la prova avvicinando alla fiamma
un lembo della sua veste. Nonostante i ripetuti richiami di Virgilio, tuttavia, Dante non si persuade ad
attraversare il fuoco, cos al maestro non resta che ricordargli che quelle fiamme sono l'ultimo ostacolo
che lo separano da Beatrice. Dante si rianima come fece Piramo quando, ormai morente, ud il nome di
Tisbe, e dopo alcune parole ironiche di Virgilio che lo tratta come un fanciullo il poeta segue il maestro
nel fuoco, seguito a sua volta da Stazio che prima lo divideva dalla sua guida.
Passaggio attraverso il fuoco (46-63)
Il fuoco cos caldo che Dante, per rinfrescarsi, potrebbe persino gettarsi dentro del vetro incandescente;
Virgilio, per confortarlo, durante il passaggio gli parla di Beatrice, dicendo che gli sembra gi di vedere i
suoi begli occhi al di l delle fiamme. A guidare i tre poeti la voce di un angelo che sta dall'altra parte,
seguendo la quale essi escono dalla cortina di fuoco: una volt l, l'angelo dice Venite, benedicti Patris
mei! e splende con tale fulgore che Dante non riesce a vederlo. L'angelo aggiunge che il sole sta per
tramontare, quindi i tre devono affrettare il passo prima che cali la notte e sia impossibile proseguire.
Inizio della salita e sosta al calar della notte (64-93)I tre poeti iniziano a salire la scala che conduce al
Paradiso Terrestre, scavata entro la roccia e rivolta verso oriente, cos che Dante si accorge di proiettare la
propria ombra davanti a s mentre sale. Essi hanno il tempo di percorrere pochi gradini prima che il sole
tramonti del tutto, cosa di cui si avvedono in quanto l'ombra davanti a loro scompare. A questo punto,
prima che la notte abbia oscurato tutto il monte del Purgatorio, ciascuno di loro si sdraia su un gradino,
poich la legge della salita gli ha tolto ogni forza per procedere ancora pi in alto. Dante paragona se
stesso a una capra che durante il giorno ha pascolato libera sulle montagne e in seguito rumina placida
all'ombra, mentre il sole picchia, sorvegliata dal pastore, e le sue due guide al mandriano che di notte
sorveglia le sue bestie e le protegge dalle fiere selvagge. Dante non pu vedere molto a causa dell'alto
muro della scala che lo sovrasta, ma riesce comunque a scorgere le stelle in cielo che gli sembrano pi
grandi e luminose. Alla fine, vinto dalla stanchezza, si addormenta.
Il sogno di Dante: Lia (94-114)
Nell'ora in cui sul Purgatorio appare la stella di Venere mattutina, quindi in prossimit dell'alba quando i
sogni sono veritieri, Dante sogna una donna giovane e bella che vaga in una pianura, intenta a cantare e a
cogliere fiori: essa dichiara di chiamarsi Lia e di voler produrre per s una ghirlanda. La giovane
aggiunge che sua intenzione farsi bella per ammirarsi allo specchio, mentre sua sorella Rachele non si
stanca mai di guardare la propria immagine riflessa e sta tutto il giorno seduta. La sorella, dice Lia,
desiderosa di ammirare i propri begli occhi quanto lo lei di operare.
Ormai il sole sta sorgendo ed l'ora che pi gioiosa per il viaggiatore quando vicino a casa: la luce
dell'alba fa svegliare Dante, che si alza e vede che Virgilio e Stazio sono gi in piedi.
Salita al Paradiso Terrestre. Discorso di Virgilio (115-142)
Virgilio si rivolge a Dante e gli dice che oggi potr finalmente ottenere quel bene che i mortali cercano
affannosamente, ovvero la felicit terrena. Le parole del maestro riempiono Dante di gioia e volont,
quindi percorre gli ultimi gradini della scala dietro agli altri due quasi correndo, come se volasse verso
l'alto. Quando i tre sono giunti alla fine della scala, Virgilio si rivolge nuovamente al discepolo e con tono
solenne gli spiega di avergli ormai mostrato sia le pene eterne dei dannati sia quelle temporanee dei
penitenti, e di averlo condotto in un punto da dove lui, con le sue sole forze, non pu vedere oltre. Virgilio
lo ha portato fin l con ingegno e con arte, per cui Dante pu ormai seguire il proprio piacere: egli fuori
dalle strette vie della redenzione e vede di fronte a s il sole che gli brilla in fronte, vede l'erba, i fiori e le
piante del giardino dell'Eden che la terra produce spontaneamente. Il maestro invita Dante ad entrare
liberamente nel Paradiso Terrestre, nell'attesa dell'arrivo di Beatrice che lo aveva spinto a soccorrerlo:
Dante non deve pi attendere le sue indicazioni, poich il suo arbitirio finalmente sano e sarebbe un
errore non affidarsi ad esso, quindi Virgilio lo incorona come signore di se stesso.
Interpretazione complessiva
Il Canto strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde all'incontro con l'angelo
della castit e al passaggio attraverso il fuoco, la seconda alla salita verso il Paradiso Terrestre con la
relativa sosta notturna, durante la quale c' il sogno di Dante. L'apparizione dell'angelo ha soprattutto la
funzione di invitare i tre poeti ad attraversare la cortina di fiamme, invito che egli rivolge alle anime sante
e che, probabilmente, va esteso a tutte le anime dei penitenti: dei tre poeti, infatti, solo Stazio
propriamente un'anima santa in quanto ha completato il suo percorso di espiazione, mentre ci non pu
dirsi per gli altri due (specie per Virgilio, escluso da ogni possibilit di redenzione). Il passaggio
attraverso il fuoco assume dunque la funzione di un ultimo rito di purificazione cui tutte le anime devono
sottoporsi per cancellare ogni traccia del peccato, prima di accedere al Paradiso Terrestre in cui avverr il
rito simbolicamente opposto dell'immersione nelle acque dei due fiumi, il Lete e l'Euno, per cui logico
che ci sia imposto anche a Dante accompagnato dalle sue due guide. Non da escludere che ci sia un
riferimento al passo biblico (Gen., III, 24) in cui si dice che Dio, dopo aver cacciato Adamo ed Eva
dall'Eden, pose a guardia del giardino un cherubino armato di una spada fiammeggiante (conlocavit
ante paradisum voluptatis cherubin et flammeum gladium atque versatilem), per cui Dante circonda
l'Eden posto sulla cima del monte di un muro di fiamme che tutti devono attraversare, mentre l'angelo che
i tre incontrano dall'altra parte potrebbe essere proprio il cherubino che lo custodisce.
Di fronte alla prospettiva di attraversare il fuoco Dante colto da un terrore irrazionale, contro il quale a
nulla valgono i richiami e le rassicurazioni del maestro Virgilio: la paura di Dante quella del
personaggio umano, con le sue debolezze e fragilit (forse da mettere in relazione alla condanna al rogo
che pendeva su di lui e i suoi figli), per vincere le quali sar necessario ricordargli che, se vuole rivedere
Beatrice che lo attende dall'altra parte, deve buttarsi nel fuoco. Il richiamo a Beatrice non si riferisce solo
alla vicenda personale del poeta e all'amore che lo lega alla sua donna, ma significa anche che per
completare il percorso di redenzione e conquistare la felicit terrena rappresentata dall'Eden
indispensabile l'intervento della grazia, che raffigurata da Beatrice e a cui Dante guidato da Virgilio-
ragione. Al nome di Beatrice Dante si rianima come Piramo morente a quello dell'amata Tisbe
(similitudine interessante, in quanto i due giovani del mito erano divisi da un muro di pietra proprio come
lo sono Dante e Beatrice da un muro di fiamme) e segue senza paura Virgilio, non prima che questi lo
abbia canzonato in modo bonario come farebbe un padre con un bambino che fa i capricci, atteggiamento
che pi volte abbiamo visto nel maestro e che spiegher la disperazione di Dante di fronte all'abbandono
del dolcissimo patre, di l a pochi Canti. Una volta fuori dal fuoco inizia l'ascesa lungo la scala che
conduce al Paradiso Terrestre, cui i tre sono indirizzati dall'angelo che ha guidato il passaggio attraverso
le fiamme, salita che per deve interrompersi per il sopraggiungere della notte durante la quale, come gi
nelle due precedenti occasioni, Dante far un sogno rivelatore.
Il sogno avviene anche questa volta in prossimit dell'alba e ha come protagonista Lia, la biblica sorella di
Rachele che l'esegesi delle Scritture interpretava come allegoria della vita attiva, mentre la sorella era
simbolo di quella contemplativa. Tale interpretazione sicuramente seguita anche da Dante, che raffigura
Lia come una giovane e bella donna che canta in un prato e coglie dei fiori con cui produrre una
ghirlanda, mentre lei stessa a dire il proprio nome e ad affermare che desiderosa di operare, come
Rachele lo di stare seduta ad ammirare allo specchio i suoi belli occhi. L'atteggiamento di Lia anticipa
per molti versi quello di Matelda, la donna che Dante incontrer nel Canto successivo una volta entrato
nel Paradiso Terrestre, per cui molti commentatori hanno messo in relazione le due figure e hanno visto in
entrambe l'allegoria della vita attiva: essa indispensabile per il raggiungimento delle virt cardinali che a
loro volta conducono alla felicit terrena, simboleggiata proprio dall'Eden, per cui il sogno prefigura
l'ingresso di Dante in questo luogo che la prima tappa del suo viaggio di purificazione; meno sicuro che
anche Matelda abbia lo stesso significato, dal momento che la donna (come si vedr) interpretata
piuttosto come simbolo dello stato di purezza perduto dall'uomo dopo il peccato originale e riconquistato
dalle anime salve una volta compiuto il viaggio attraverso il Purgatorio. Altrettanto problematico
l'accostamento Rachele-Beatrice che pure stato proposto, specie per il particolare dei belli occhi che
accomuna entrambe, dal momento che Beatrice principalmente allegoria della grazia santificante e della
teologia rivelata come condizione essenziale alla salvezza, per quanto un suo richiamo alla vita
contemplativa non sia del tutto da escludere (la questione destinata probabilmente a restare insoluta).
L'ultima parte del Canto descrive l'arrivo dei tre poeti in cima alla scala e alle soglie del Paradiso
Terrestre, momento che rappresenta il primo importante traguardo nel viaggio di redenzione di Dante e
che, infatti, sottolineato dal solenne discorso di Virgilio che chiude l'episodio: il maestro anticipa la
separazione dal discepolo che avverr nel Canto XXX dopo l'arrivo di Beatrice e dichiara con
un'allocuzione retoricamente elevata di aver ormai condotto Dante in un punto da dove lui non pu vedere
oltre e, soprattutto, in cui Dante ormai libero di seguire gli impulsi della propria volont in quanto
questa libera dalla tentazione peccaminosa. La ragione naturale allegorizzata da Virgilio ha concluso il
suo compito e da questo momento in poi deve intervenire la fede, senza la quale il viaggio non potrebbe
proseguire; Dante invitato dal maestro ad andare liberamente a esplorare il giardino dell'Eden, essendosi
ormai riappropriato di quella felicit terrena che era rappresentata dal colle del Canto I dell'Inferno e la
cui ascesa gli era stata preclusa dall'apparizione delle tre fiere. Da notare, infine, la forte e voluta
somiglianza tra la scena del Prologo e quella che conclude questo Canto e ci prepara all'ingresso
nell'Eden, poich in entrambi i casi l'alba e anche qui Dante ha il sole che gli brilla in fronte, a
significare che la luce della grazia illumina il suo cammino e ha rischiarato le tenebre rappresentate dal
peccato (non sar casuale che Beatrice, nella sua apparirizione alla fine della processione simbolica, sar
paragonata proprio a un sole nascente: cfr. XXX, 22-33).

Note e passi controversi


I vv. 1-5 sono una complessa perifrasi astronomica per indicare che in Purgatorio il tramonto, quindi le
sei di sera: Dante fa riferimento agli altri punti cardinali, ovvero Gerusalemme, dove il sole sorge, Cadice
(qui indicata con l'Ibero, nome latineggiante dell'Ebro), in cui mezzanotte e sopra la quale si trova la
costellazione della Bilancia, e il Gange, dove mezzogiorno (indicato con l'ora nona, bench essa indichi
solitamente lo spazio di tempo tra le dodici e le quindici). Secondo le cognizioni del tempo, questi quattro
punti si trovavano a circa novanta gradi di longitudine l'uno dall'altro.
La beatitudine cantata dall'angelo della castit (v. 8, Beati i puri di cuore) la sesta, tratta da Matth., V,
8.
Il v. 16 (in su le man commesse mi protesi) stato variamente interpretato, bench l'ipotesi pi probabile
che Dante protenda le mani congiunte con le palme rivolte al fuoco, per allontanarlo da s.
Il v. 27 (non ti potrebbe far d'un capel calvo) richiama Luc., XXI, 18: capillus de capite vestro non peribit
(dal vostro capo non cadr un solo capello).
I vv. 37-39 alludono al mito di Piramo e Tisbe, citato da Ovidio (Met., IV, 55-166) e notissimo nel
Medioevo, che narrava la triste storia di due giovani babilonesi che si amavano contro il volere dei loro
parenti: un muro divideva le loro case ed essi comunicavano attraverso una fessura, per cui decisero di
fuggire insieme e di trovarsi sotto un gelso che sorgeva presso il sepolcro di Nino. Al convegno giunse
per prima Tisbe, che per fu messa in fuga da una leonessa e lasci un velo che fu poi lacerato dalla belva
con le fauci insanguinate. Piramo, giunto sul luogo, trov il velo imbrattato di sangue e credette che Tisbe
fosse morta, per cui si trafisse con la spada e macchi del proprio sangue il gelso che, da quel giorno,
produsse le more di color rosso e non pi bianco. Tisbe, tornata in quel luogo, trov Piramo morente e ne
invoc tra le lacrime il nome, fino a farlo rianimare: il giovane mor subito dopo e la fanciulla si uccise al
suo fianco. I versi di Dante sono una traduzione quasi letterale di Ovidio (IV, 145-146), Ad nomen
Thisbes oculos a morte gravatos / Pyramus erexit visaque recondidit illa (Al nome di Tisbe, Piramo apr
gli occhi gravati dalla morte e, dopo averla vista, li richiuse per sempre).
Il vb. rampolla (v. 42) pu significare sgorga come una polla d'acqua, ma anche rifiorisce.
L'espressione volenci (v. 44) vuol dire ci vogliamo, quindi vogliamo.
Il pome (frutto) citato al v. 45 allude al modo con cui un adulto vince le resistenze di un bambino,
promettendogli qualcosa in cambio: Virgilio user la stessa parola al v. 115 (dolce pome) per indicare la
felicit terrena raffigurata dall'Eden.
Le parole pronunciate dall'angelo al di l delle fiamme (v. 58, Venite, benedicti Patris mei, Venite,
benedetti del Padre mio) sono tratte da Matth., XXV, 34 e saranno quelle rivolte da Cristo agli eletti il
Giorno del Giudizio.
I vv. 64-66 indicano che la scala rivolta verso levante, quindi Dante ha il sole alle spalle ( il tramonto)
e proietta l'ombra davanti a s.
Il termine dispense (v. 72) stato variamente interpretato, potendo significare parti (prima che la notte
occupasse tutte le parti a lei assegnate) oppure dispensazioni (prima che la notte fosse tutta libera di
stendere le sue tenebre ovunque).
La doppia similitudine dei vv. 76-87 paragona Dante al bestiame che dorme o rumina tranquillo,
sorvegliato dai pastori rappresentati da Virgilio e Stazio. Le capre... rapide e proterve richiamano Georg.,
IV, 10 (oves haedique petulci), ma la capra in molti scrittori cristiani era contrapposta alla pecora come
animale poco mansueto, quindi rappresenta il fedele che deve essere richiamato all'osservanza delle
norme religiose. Dante vuole dirci che, essendo vicino alla fine del viaggio di purificazione, la sua anima
stata ammansita.
Ai vv. 89-90 Dante afferma di vedere le stelle pi grandi e luminose, il che forse si spiega in quanto il
poeta si trova vicino alla vetta del monte e, quindi, a una notevole altitudine.
Citerea (v. 95) indica Venere, detta cos per l'isola di Citera dove la dea classica aveva un particolare
culto.
Al v. 119 strenne pu voler dire doni augurali, ma anche lieti annunci (le strenne erano i doni
augurali che nell'antica Roma si facevano il primo gennaio).
L'espressione con ingegno e con arte (v. 130) significa con ogni accorgimento della ragione.
Al v. 130 arte sostantivo, mentre al v. 132 aggettivo (strette, riferito a vie): una rima equivoca.
L'espressione corono e mitrio (v. 142) una dittologia sinonimica (ti proclamo signore di te stesso), ma
anche una formula usata nel linguaggio ecclesiastico in riferimento al papa (propriamente la mitria o
mitra il copricapo a due punte indossato da vescovi e prelati nelle solennit).
Purgatorio, Canto XXVIII
Argomento del Canto
Ingresso di Dante nell'Eden. Arrivo presso il fiume Lete e incontro con Matelda. Spiegazione di Matelda
circa il vento e l'origine dei fiumi dell'Eden. L'et dell'oro nel canto dei poeti (Virgilio e Stazio sorridono).
la mattina di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Dante entra nel giardino dell'Eden (1-21)
Dante impaziente di esplorare la foresta dell'Eden, la cui vegetazione tanto fitta da non far filtrare i
raggi del sole appena sorto, cos vi si addentra e inizia a passeggiare con lentezza. Un lieve venticello
sempre uguale stormisce fra le piante facendole piegare verso occidente, mentre sui rami vari uccellini
cantano melodiosamente accompagnati dal rumore prodotto dalle foglie, come accade nella pineta di
Classe quando vi soffia il vento di Scirocco.
Il Lete. Apparizione di Matelda (22-51)
Dante si ormai inoltrato nella selva tanto che non pu pi vedere il punto da cui entrato, quando
giunge a un fiume (il Lete) le cui acque scorrono verso sinistra. Le acque pi pure dei fiumi terrestri
sembrerebbero sozze e fangose a paragone di quella di quel rio, per quanto essa scorra bruna sotto la fitta
vegetazione che fa da schermo al sole. Dante si ferma e spinge lo sguardo al di l del fiume, dove scorge
d'improvviso una giovane e bella donna (Matelda) che cammina solitaria e canta, mentre coglie vari fiori
dal prato che percorre. Dante si rivolge a lei chiamandola bella donna e affermando che sembra ardere
d'amore, invitandola poi ad avvicinarsi a lui sulla riva del fiume, in modo che possa comprendere che
cosa stia cantando. La donna, aggiunge Dante, gli ricorda Proserpina quando fu rapita da Plutone, evento
in seguito al quale il mondo perse la primavera.
Matelda spiega la ragione del suo riso (52-84)
Matelda si volge a Dante come una donna che danza e muove i passi lentamente uno dopo l'altro,
procedendo tra i fiori rossi e gialli e abbassando gli occhi come una pudica vergine. Si avvicina tanto
quanto serve a Dante per comprendere il suo canto e non appena giunta sulla sponda del Lete alza i suoi
occhi guardando il poeta. Lo sguardo della donna pieno d'amore, non meno di quello di Venere quando
venne trafitta dal figlio Cupido e si innamor di Adone. Matelda ride sull'altra riva, mentre con le mani
intreccia i fiori che ha raccolto: solo tre passi separano lei e Dante, che odia il fiume che si frappone a
loro non meno di quanto Leandro odiava l'Ellesponto che lo divideva dall'amata Ero.
Matelda si rivolge a Dante, Virgilio e Stazio spiegando che essi, nuovi del luogo, forse si meravigliano del
suo riso, ma la spiegazione contenuta nel Salmo Delectasti che pu illuminare le loro menti (ella gioisce
della contemplazione dell'opera di Dio). Invita quindi Dante, che precede gli altri due, di rivolgerle
liberamente altre domande, poich lei giunta espressamente per questo scopo.
Matelda spiega l'origine del vento e dei fiumi (85-133)
Dante osserva che la presenza del vento e dell'acqua in quel luogo contrastano con ci che Stazio gli ha
spiegato in precedenza, ovvero il fatto che l'Eden immune dalle perturbazioni atmosferiche. Matelda
dichiara che la sua risposta sar tale da dissipare ogni dubbio del poeta, quindi spiega che Dio cre l'uomo
buono e disposto al bene, donandogli il giardino dell'Eden come caparra dell'eterna beatitudine. L'uomo vi
rimase poco per il peccato originale, ma non di meno il monte del Purgatorio sal verso il cielo per porre
l'Eden al di sopra di ogni alterazione atmosferica e non arrecare fastidio ai primi progenitori, per cui ogni
fenomeno naturale si arresta alla porta del secondo regno. Il vento prodotto in realt dal movimento
delle sfere celesti che fa ruotare l'atmosfera rarefatta, causando lo stormire delle fronde della selva; le
piante, mosse dal vento, impregnano l'aria della loro virt generativa e questa ricade poi sulla Terra, che
genera la vegetazione a seconda della sua qualit e del suo clima. Ci spiega perch talvolta sulla Terra
crescono delle piante in modo apparentemente spontaneo, con l'aggiunta che nell'Eden ci sono anche
piante che non esistono nel mondo.
L'acqua dei fiumi dell'Eden, spiega poi Matelda, non sgorga da una vena naturale alimentata dalle piogge,
ma prodotta direttamente dalla volont divina: il Lete ha la virt di cancellare la memoria dei peccati
commessi, l'Euno invece rafforza il ricordo del bene compiuto. L'acqua del secondo fiume non opera
pienamente, se prima non si beve quella del primo, che supera ogni altro sapore.
L'et dell'oro nel canto dei poeti (133-148)
Conclusa la sua spiegazione, Matelda fornisce a Dante ancora un corollario: dichiara infatti che i poeti
classici che scrissero nei loro versi dell'et dell'oro, forse sognarono in Parnaso proprio questo luogo
felice, ovvero l'Eden. Qui la specie umana fu felice, qui ci fu un'eterna primavera e ogni frutto della
natura, qui scorreva il nettare di cui si parlava in quei testi. Dante si volta a osservare Virgilio e Stazio,
vedendo che entrambi sorridono felici alle parole di Matelda, quindi torna a guardare la bella donna.
Interpretazione complessiva
Protagonista assoluta del Canto Matelda, figura assai enigmatica del poema che stata al centro di un
intenso lavorio interpretativo e oggetto delle pi varie ipotesi nel tentativo di identificarla, nessuna delle
quali pienamente convincente. Il personaggio di Matelda strettamente legato al luogo dove essa appare e
che al centro di questo come degli episodi successivi, ovvero il giardino dell'Eden che Dante descrive
nella prima parte del Canto: dopo l'invito di Virgilio a seguire gli impulsi della propria volont libera dai
condizionamenti del peccato (fine Canto XXVII), Dante si inoltra nella divina foresta spessa e viva che si
presenta come un luogo meraviglioso, dove spira un vento regolare e continuo che fa piegare i rami degli
alberi verso occidente, dove gli uccelli cinguettano accompagnati dallo stormire delle fronde e i fitti rami
impediscono alla luce del sole di filtrare. un vero e proprio locus amoenus, come risulta poi evidente
dalla comparsa del fiume Lete le cui acque purissime scorrono lente in mezzo all'erba, in cui sono
evidenti gli echi sia della poesia classica (specie nella descrizione dell'aetas aurea, come sar chiarito pi
avanti) sia di quella dello Stilnovo, a sua volta richiamato proprio dalla figura di Matelda. Questa appare
improvvisamente sull'altra sponda del fiume, descritta in atteggiamenti che ricordano la figura di Lia
sognata da Dante nel Canto precedente e le tante donne cantate dai poeti stilnovisti: passeggia cantando
tra l'erba, cogliendo fior da fiore con cui, probabilmente, intrecciare una ghirlanda, scaldata dai raggi
d'amore come testimoniato dal suo aspetto, abbassa gli occhi come una vergine piena di riserbo e pudore.
La sua descrizione riprende sicuramente quella di Proserpina in Ovidio (Met., V, 391 ss.), cui
esplicitamente paragonata da Dante e il cui mito in qualche modo connesso a quello dell'eterna
primavera dell'et dell'oro, ma diverse espressioni rimandano anche a Cavalcanti, specie alla pastorella di
In un boschetto e alla ballata Fresca rosa novella: questa ripresa di moduli stilnovisti non casuale, in
quanto conseguente alla riflessione che su questa esperienza poetica Dante ha svolto nei Canti XXIV e
XXVI attraverso gli incontri con Bonagiunta e Guinizelli e si configura come utilizzo di quello stile e di
quel linguaggio non pi al fine di cantare l'amore terreno, bens quello divino cui Dante ormai tutto
proiettato, nell'attesa dell'arrivo di Beatrice che evocata in questo Canto e nel successivo.
Lo Stilnovo non dunque rinnegato da Dante, ma ripensato alla luce del viaggio di redenzione ed
espiazione che, nel suo caso, anche espiazione letteraria (di quanto di rischioso vi era nella poesia
amorosa, ormai cancellato dopo il passaggio nel fuoco purificatore della VII Cornice); esso ora
funzionale alla descrizione di Matelda come lo sar a quella di Beatrice, la cui presentazione in Inf., II, 52
ss. risentiva gi di fortissimi echi stilnovisti e la cui apparizione nel Canto XXX riproporr elementi
propri della Vita nuova, specie riguardo all'allegoria Cristo-verit rivelata. Tornando al valore simbolico
di Matelda e tralasciando le ipotesi pi fantasiose sulla sua identificazione storica, essa probabilmente
allegoria di quello stato di primitiva felicit e purezza che l'uomo possedeva nell'Eden prima del peccato
originale e che viene riconquistato dalle anime salve dopo il passaggio attraverso le pene del monte: ci
spiega perch Dante arda dal desiderio di passare il Lete per raggiungerla, mentre apprenderemo in
seguito che il ruolo della donna di immergere le anime salve nelle acque dei due fiumi, sottoponendole
all'ultimo rito purificatore prima dell'ascesa in Paradiso. Il paragone tra Matelda e Proserpina anticipa
l'accostamento che la donna stessa proporr alla fine del Canto, ovvero quello tra il Paradiso Terrestre e
l'aetas aurea della poesia classica che, forse, negli antichi poeti raffigurava proprio l'Eden: in effetti la
descrizione dell'et dell'oro come periodo di primitiva felicit nel mito pagano aveva molti punti di
contatto con quella del mito edenico, specie in Ovidio (Met., I, 89 ss.) che ne sottolinea il carattere di
eterna primavera e di abbondanza perduta dall'uomo come in seguito al rapimento di Proserpina da
parte di Plutone, per cui tale interpretazione in senso cristiano del mito pagano aveva una lunga tradizione
cui Dante si riallaccia. Il sorriso compiaciuto di Virgilio e Stazio alle parole finali di Matelda la
conferma della veridicit di questa lettura in chiave cristiana del mito classico, che rimanda al discorso di
Stazio (XXII) secondo il quale proprio l'opera virgiliana aveva favorito prima la sua conversione al
Cristianesimo, poi il suo ravvedimento morale dal peccato di prodigalit che aveva scontato in Purgatorio.
Tutta la seconda parte del Canto ha funzione didascalica, con la risposta di Matelda ai dubbi di Dante
circa la natura del Paradiso Terrestre e l'origine del vento e dell'acqua, in accordo alla spiegazione
precedente di Stazio: Dante si rif qui alla descrizione scritturale dell'Eden precisando che esso sal
insieme al monte del Purgatorio al di sopra delle perturbazioni atmosferiche, per non arrecare danno
all'uomo posto da Dio in questo luogo di delizie come arr(a) (caparra, pegno) della pace eterna.
Matelda sottolinea che l'uomo dimor poco nell'Eden per sua difalta, per il peccato originale, tuttavia il
luogo ha conservato il suo carattere di eterna primavera e la sua immunit agli eventi atmosferici terrestri,
per cui esente da pioggia, neve, vento che si arrestano al limite della porta del secondo regno. Il vento
ha un'origine naturale in quanto prodotto dal movimento delle sfere celesti, che inoltre fanno s che le
piante del giardino diffondano nell'aria le loro sementi che poi ricadono sulla Terra generando la
vegetazione (il che spiega la germinazione spontanea delle piante sulla Terra, mentre si dice che nell'Eden
vi sono specie sconosciute nel mondo); l'acqua dei fiumi ha invece un'origine metafisica, poich sgorga
dalla volont divina ed destinata al compiersi del rito purificatore che prepara le anime all'ingresso in
Paradiso. Le parole di Matelda che chiariscono i dubbi di Dante circa questioni scientifiche e che
propongono in gran parte spiegazioni di carattere metafisico e dottrinale si rifanno alla chiosa di Stazio
(XXV) sulla generazione delle anime e dei corpi aerei, anticipando una situazione che tante volte si
ripeter nella III Cantica in cui sar Beatrice (il cui arrivo preannunciato nei Canti XXVIII-XXIX) a
sciogliere i dubbi del poeta su questioni analoghe, chiarendole al lume di quella teologia il cui intervento
indispensabile per la comprensione dei misteri divini.

Note e passi controversi


I vv. 10-12 indicano che il vento fa piegare le piante verso occidente, il che conseguenza del fatto che il
vento prodotto dal movimento dei cieli da oriente a occidente.
Al v. 16 l'ore prime pu indicare i primi venti del giorno (ore nel senso di aure), ma pi probabilmente
significa le prime ore del giorno.
Al v. 18 bordone voce musicale, che indica una corda supplementare della viella che produceva un
suono monotono, che faceva da accompagnamento alla melodia; lo stesso avveniva nel canto polifonico,
in cui una voce ferma (tenor) accompagnava il discanto, ovvero la melodia.
Chiassi (v. 20) forma antica per Classe, l'antico porto di Ravenna vicino al quale sorge una pineta.
Al v. 36 i mai indicano i rami fioriti, dal maio o maiella che era il ramo d'albero da cui pendevano fiori a
grappolo vistosi, usati spesso nelle feste e nelle solennit religiose.
La descrizione di Matelda ai vv. 40-42 si rif a Cavalcanti: cfr. la pastorella di In un boschetto (v.12, sola
sola per lo bosco ga; v. 7, cantando come fosse 'namorata, che ripreso da Dante in XXIX, 1) e la ballata
Fresca rosa novella (vv. 3-4: per prata e per rivera / gaiamente cantando).
Il termine primavera (v. 51) indica forse non la stagione dell'anno, bens i fiori che Proserpina raccoglieva
quando fu rapita da Plutone e che perse venendo trascinata via; Dante crea cos un collegamento tra
questo particolare e il mito seconto cui il mondo perse appunto la primavera in seguito al ratto della dea.
Al v. 66 fuor di tutto suo costume pu riferirsi a Cupido, indicando che il dio colp la madre Venere senza
volerlo (secondo il racconto di Ovidio, Met., X, 525-526), ma anche a Venere stessa, significando che la
dea era stata colpita da amore per Adone mentre solitamente era lei che faceva innamorare gli altri.
I vv. 71-75 alludono al mito di Leandro ed Ero, i due giovani che vivevano sulle sponde opposte
dell'Ellesponto: ogni notte Leandro attraversava a nuoto il braccio di mare per raggiungere l'amata,
dovendo talvolta rinunciare per via delle violente mareggiate; una volta tent comunque e anneg. Il
riferimento a Serse (v. 71) rimanda alla seconda guerra persiana, quando il re pass l'Ellesponto nel 480
a.C. con un numeroso esercito per muovere guerra alla Grecia.
Il Salmo Delectasti citato da Matelda (v. 80) il XCI, che ai versetti 5-6 dice: Quia delectasti me,
Domine, in factura tua, et in operibus manuum tuarum exultabo. / Quam magnificata sunt opera tua,
Domine! (Poich, o Signore, mi hai allietato dei tuoi atti, ed esulto per l'opera delle tue mani. Come sono
grandi le tue opere, Signore!). Matelda giustifica il suo riso come gioia alla contemplazione dell'opera di
Dio nel giardino dell'Eden.
Le parole di Dante ai vv. 85-87 alludono alla spiegazione di Stazio (XXI, 40-57).
Al v. 93 arr(a) vuol dire caparra, anticipo della beatitudine celeste. Al v. 95 difalta vuol dire errore
e deriva dal fr. ant. defalte.
La prima volta (v. 104) quasi certamente il Primo Mobile, che col suo movimento imprime il moto a
tutti gli altri Cieli, ma alcuni pensano al Cielo della Luna, il pi vicino all'atmosfera terrestre.
I vv. 131-133 si riferiscono con ogni probabilit al solo Euno, le cui acque agiscono dopo che si sono
bevute quelle del Lete e il cui sapore supera qualunque altro.
I vv. 142-144 sono una ripresa quasi letterale di Ovidio, Met., I, 89-90: Aurea prima... aetas... fidem
rectumque colebat (La prima et dell'oro onorava la fedelt e la giustizia); 107: Ver erat aeternum (vi
era una eterna primavera); 111: Flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant (Scorrevano fiumi di
latte, fiumi di nettare). Al v. 144 questo indica l'acqua del Lete.

Purgatorio, Canto XXIX


Argomento del Canto
Ancora nel Paradiso Terrestre. Dante e Matelda risalgono il Lete; improvviso fulgore e melodia.
Invocazione di Dante alle Muse. La processione simbolica: apparizione del carro.
la mattina di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Dante e Matelda risalgono il Lete (1-15)
Matelda canta piena d'amore e dichiara beati coloro i cui peccati sono stati coperti dal perdono, quindi
inizia a risalire lentamente il corso del fiume Lete, simile ad antiche ninfe boscherecce che giravano sole
per le foreste. Dante segue la donna adeguandosi alla sua lenta andatura e dopo meno di cento passi il
fiume compie un'ansa verso levante. A un tratto Matelda si volta verso Dante e lo invita a guardare e
ascoltare con attenzione.
Improvvisa luce e melodia (16-36)
Improvvisamente un fulgore attraversa tutta la foresta e Dante per un attimo pensa si tratti di un lampo,
salvo che questo, a differenza dei lampi naturali, non termina ma persiste nel tempo. Il poeta si chiede di
che si tratti, quando una dolcissima melodia si diffonde nell'aria e Dante rimprovera l'ardimento di Eva, la
quale non volle rispettare i divieti divini e priv cos lui e tutti gli uomini del godimento delle delizie
dell'Eden. Mentre Dante prosegue il cammino tra quelle meraviglie, comprende che il fulgore una luce
rossastra che filtra tra i rami e la melodia si rivela come un canto melodioso.
Invocazione alle Muse. La processione simbolica: i sette candelabri (37-60)
Dante si rivolge alle Muse e ne invoca l'assistenza in nome dei sacrifici spesi per dedicarsi alla poesia, dal
momento che si accinge a descrivere cose difficili da pensare e avr bisogno in particolare dell'aiuto di
Urania. Poco lontano, infatti, a Dante sembra di vedere nell'aria sette alberi d'oro, che per quando si
avvicina gli appaiono chiaramente come candelabri, mentre ascolta il canto Osanna. I sette candelabri
risplendono in modo tale da rischiarare tutto il cielo, per cui Dante si rivolge interrogativamente a Virgilio
il quale, tuttavia, si mostra non meno sorpreso del discepolo. A questo punto Dante torna a osservare
quegli oggetti, che si muovono verso di lui pi lentamente di spose novelle.
Le genti biancovestite: le sette liste luminose (61-81)
Matelda esorta Dante a non guardare solamente i candelabri, ma a osservare ci che viene dietro di essi: il
poeta scorge allora delle figure vestite di bianco che seguono i candelabri come fossero le loro guide.
L'acqua del Lete risplende della luce dei candelabri e Dante vi vede il proprio fianco sinistro riflesso. Il
poeta avanza ancora, finch la distanza che lo separa dai candelabri solo quella del fiume, quindi si
arresta e vede che le lampade avanzano lasciando dietro di s sette liste luminose, simili ai colori
dell'arcobaleno. Le liste luminose si estendono al di l della vista di Dante, il quale crede che tra le due
pi esterne vi sia una distanza di dieci passi.
I ventiquattro seniori. I quattro animali (82-105)
Dietro i candelabri avanzano ventiquattro vecchi, a due a due e coronati con gigli, che cantano tutti le lodi
della bellezza della Vergine. I vecchi passano oltre e dietro di loro compaiono quattro animali, ognuno
coronato con una fronda verde: ciascuno di essi ha sei ali le cui penne sono piene d'occhi simili a quelli di
Argo, e il lettore che volesse ulteriori dettagli invitato da Dante a leggere il libro di Ezechiele, che
descrive quelle creature tali e quali salvo il particolare delle penne, tratto invece dall'Apocalisse.
Il carro trainato dal grifone (106-120)
I quattro animali circondano un carro trionfale a due ruote, trainato da un grifone che porta il giogo al suo
collo. Le due ali del grifone si ergono tra la lista luminosa al centro e le altre tre da ciascun lato, salendo
tanto in alto da non essere vedute; l'animale ha le parti da uccello di colore dorato, le altre di colore
bianco e rosso. Non solo l'antica Roma non aveva un carro cos bello con cui celebrare i trionfi di
Scipione o Augusto, ma addirittura il carro del Sole sarebbe povero a paragone di esso (Dante ricorda
come questo devi dal suo cammino sotto la guida di Fetonte, occasione nella quale Giove esercit la sua
giustizia in modo misterioso).
Le sette donne e i sette personaggi. Il carro si arresta (121-154)
Accanto alla ruota destra del carro avanzano danzando tre donne, delle quali una di colore rosso fuoco,
l'altra di verde smeraldo, l'altra ancora di bianco candido. Esse sembrano guidate ora dalla bianca, ora
dalla rossa, mentre quest'ultima a dare il ritmo alla danza. Accanto alla ruota sinistra ci sono altre
quattro donne, vestite di porpora, che seguono una di loro che ha tre occhi nella testa.
Dietro tutti costoro avanzano due vecchi, vestiti diversamente ma simili negli atti: uno di essi sembra un
seguace di Ippocrate, cio un medico, l'altro invece impugna una spada che incute timore a Dante. Dietro
di loro avanzano ancora quattro personaggi dall'aspetto umile, seguiti a loro volta da un vecchio solitario
che dorme ma ha il volto espressivo. Questi ultimi sette personaggi sono biancovestiti come i ventiquattro
vecchi, ma non hanno una corona di gigli bens di rose e altri fiori rossi che sembra ardere sopra le loro
ciglia. Quando il carro giunge di fronte a Dante si sente un tuono, quindi tutti i personaggi e il carro si
arrestano come se fosse loro proibito procedere oltre.
Interpretazione complessiva
Il Canto dedicato pressoch per intero alla descrizione della processione simbolica che rappresenta la
vicenda storica della Chiesa, costituendo una pausa didascalica che, da un lato, prepara l'arrivo di Beatrice
nel Canto successivo, dall'altro prefigura le vicende allegoriche del carro che saranno al centro del Canto
XXXII. Tutto l'episodio pervaso da un intenso fervore mistico, sottolineato da uno stile e da un
linguaggio alto e solenne che si rif ampiamente alle Sacre Scritture e si allontana decisamente dal tono
idilliaco e poetico del Canto precedente: ci sottolineato dall'invocazione alle Muse e in particolare a
Urania, la Musa dell'astronomia e della scienza celeste, che dovranno assistere Dante per mettere in versi
cose difficili da pensare ( un innalzamento della materia cui si accompagna uno stile pi elevato, come
gi era avvenuto in Purg., IX, 70-72 e come accadr varie volte nel Paradiso). La protagonista iniziale
ancora Matelda, che per ha qui l'unica funzione di accompagnare Dante alla visione delle figure
simboliche e richiamarlo con una certa durezza alla necessit di non perdere alcun dettaglio (La donna mi
sgrid, v. 61), mentre Virgilio osserva la scena con lo stesso stupore del discepolo senza poter spiegare
nulla, segno evidente del fatto che il suo ufficio di guida si ormai definitivamente concluso (il maestro
ha pronunciato le sue ultime parole nel poema alla fine del Canto XXVII e non parler pi fino alla sua
scomparsa nel XXX).
La processione simboleggia il procedere della Chiesa nella storia umana, che ha al centro la venuta di
Cristo sulla Terra raffigurato dal grifone che traina il carro: quest'ultimo rappresenta pi propriamente la
Chiesa di Roma e, come si vedr, Beatrice apparir nel Canto seguente proprio su di esso, a significare la
sua interpretazione come allegoria di Cristo-verit rivelata. Il carro preceduto e seguito da una serie di
figure e personaggi allegorici, su cui si speso un intenso lavorio interpretativo e che rappresentano le
vicende umane che precedono e seguono l'evento centrale della nascita di Cristo nella storia della
redenzione dell'uomo: i sette candelabri che aprono la processione sono probabilmente il settemplice
spirito di Dio, da cui derivano i sette doni dello Spirito Santo rappresentati dalle liste luminose che i
candelabri tracciano nell'aria; l'immagine dei candelabri deriva probabilmente da Apoc., IV, 5 (septem
lampades ardentes ante thronum qui sunt septem spiritus Dei, le sette lampade che ardono davanti al
trono e che sono i sette spiriti di Dio) ed essi sono stati interpretati anche come le sette chiese d'Asia, in
riferimento ad Apoc., I, 20, o come i sette ordini del chiericato, i sette sacramenti, ecc. La prima ipotesi
sembra la pi probabile, anche perch l'Apocalisse giovannea sar fonte di altre immagini della
processione, a cominciare dai ventiquattro vecchi biancovestiti che seguono i candelabri come a lor duci e
che sono concordemente interpretati come i ventiquattro libri dell'Antico Testamento: il colore bianco
della loro veste e delle corone di gigli che portano in testa rimanda alla fede, sottolineando il fatto che le
genti vissute prima di Cristo vissero nell'attesa della venuta del Messia e quindi ebbero fede in Cristo
venturo; essi rimandano certo ad Apoc., IV, 4 (super thronos viginti quattuor seniores sedentes,
circumamicti vestimentis albis, et in capitibus eorum coronas aureas, sopra i troni erano seduti
ventiquattro vecchi, cinti di vesti bianche, con corone dorate in testa) e il canto messo loro in bocca
scioglie un inno alla bellezza della Vergine, mentre l'Osanna sentito prima era rivolto probabilmente a
Cristo.
Dopo i libri dell'Antico Testamento vengono i quattro Evangelisti, raffigurati secondo l'iconografia
tradizionale come altrettanti animali (Matteo era un angelo, Marco un leone, Luca un bue o un vitello,
Giovanni un'aquila) e con particolari che fondono le descrizioni di Ezech., I, 4-14 e Apoc., IV, 6-8; sono
coronati di verde fronda, in riferimento probabilmente al colore della speranza che annunciata dai
Vangeli, e circondano da quattro lati il carro trionfale trainato dal grifone, che rappresentano
rispettivamente la Chiesa (le cui vicende allegoriche saranno descritte nel Canto XXXII) e Cristo, che
quindi posto al centro della processione mistica. Il grifone un animale mitologico dal corpo di leone e
le ali e la testa di aquila, interpretato nel Medioevo come allegoria di Cristo in quanto le parti da uccello
erano simbolo della sua natura divina, le altre di quella umana: il carro ha due ruote, in cui sono stati
riconosciuti vari significati (nessuno pienamente convincente: i due Testamenti, la vita attiva e
contemplativa, gli Ordini francescano e domenicano...) e accanto ad esse vi sono in tutto sette ninfe
danzanti, tre alla destra e quattro alla sinistra. Le tre donne sono le virt teologali, come testimonia il
colore della loro figura (rosso vivo per la carit, verde per la speranza e bianco per la fede, che saranno
anche i colori di cui sar vestita Beatrice), guidate ora dalla carit, ora dalla fede, mentre la carit a dare
il ritmo alla danza (la speranza la virt che deriva dalle altre due e da esse dipende); le altre quattro sono
le virt cardinali, vestite di rosso porpora in quanto derivanti dalla carit, e fra loro la prudenza a
condurre la danza (essa ha tre occhi, poich la virt che ha memoria delle cose passate, conoscenza delle
presenti e preveggenza delle future, come Dante stesso afferma in Conv., IV, 27). Il carro al centro della
processione in quanto la fondazione della Chiesa lo spartiacque della storia umana, quindi seguito da
altri personaggi che simboleggiano le vicende successive alla venuta di Cristo, nonch i libri del Nuovo
Testamento: i primi due sono gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, raffigurati rispettivamente
da un vecchio in sembianze di medico (tale era, secondo la tradizione, la professione di Luca, autore degli
Atti) e da un altro che impugna una spada, simbolo tradizionalmente attribuito a san Paolo. Chiudono la
processione altri quattro personaggi dall'aspetto umile, che simboleggiano le Lettere di Pietro, Giovanni,
Giacomo e Giuda, seguiti a loro volta da un vecchio che procede solo e sembra dormire, nonostante
l'espressione arguta ( l'Apocalisse, cos raffigurata in riferimento alla lunga vita dell'autore, Giovanni, al
valore profetico del libro e alla sua diversit dagli altri del Nuovo Testamento, il che si evince dal fatto
che solo rispetto alle altre figure). Gli ultimi sette personaggi indossano vesti bianche come i
ventiquattro seniori ma sono coronati di rose e altri fiori rossi, in riferimento al colore della carit di cui
essi ardono in seguito alla venuta di Cristo.
La processione si arresta quando il carro di fronte a Dante, sempre dall'altro lato del fiume, e ci stato
interpretato come espediente narrativo per creare l'attesa che sar sciolta nel Canto seguente, ovvero
dell'arrivo di Beatrice che l'evento centrale del poema: non sono mancate altre ipotesi, come l'annuncio
profetico di un futuro evento che sconvolger il mondo e in preparazione del quale la storia umana,
rappresentata dalla processione, deve arrestarsi (in effetti una profezia ci sar, quella enigmatica del
DXV pronunciata proprio da Beatrice, bench nulla autorizzi a metterla in relazione con la conclusione
di questo Canto). Pi probabile che l'intera processione prepari il lettore all'arrivo di Beatrice che, in
quanto allegoria della grazia santificante e di Cristo, fondamentale per il prosieguo del viaggio dantesco
e che non per caso occuper il carro ora vuoto che si ferma proprio a rimpetto a Dante: il viaggio del
poeta un viaggio a Beatrice e l'incontro con lei rappresenta una tappa essenziale nel raggiungimento
della salvezza, quindi la conclusione sospesa del Canto XXIX crea l'aspettativa dell'avvento di
qualcuno o qualcosa che il lettore sa essere molto importante, e che di l a pochi versi si manifester come
l'apparizione di Beatrice, il cui trionfo allude forse a quello di Cristo giudicante il Giorno del Giudizio.

Note e passi controversi


Il v. 3 corrisponde al versetto iniziale del Salmo XXXI: Beati, quorum remissae sunt iniquitates / et
quorum tecta sunt peccata (Beati coloro le cui iniquit sono state perdonate e i cui peccati sono stati
coperti [dal perdono]).
Le primizie / de l'etterno piacer (vv. 31-32) sono le prime esperienze che Dante prova delle bellezze del
Paradiso.
Al v. 41 Urane indica Urania, la Musa dell'astronomia e della scienza celeste; Dante ne conosceva forse
l'etimologia (da ourans, cielo).
La virt ch'a ragion discorso ammanna (v. 49) la facolt percettiva o stimativa, che elabora i dati offerti
dai sensi e fornisce alla ragione gli elementi del giudizio. Dante intende dire che quando pi vicino ai
candelabri, la sua vista fornisce la giusta informazione a tale virt ed essa li riconosce come tali.
Al v. 52 il bello arnese l'insieme dei sette candelabri; il loro splendore paragonato alla luna, perch,
anche se la processione avviene di giorno, la fitta vegetazione non lascia filtrare i raggi del sole e
l'atmosfera oscura (cfr. XXVIII, 3, 31-33).
Ai vv. 58-60 l'incedere lento dei candelabri paragonato a quello di novelle spose, cos come spesso
avveniva nella tradizione letteraria fiorentina (cfr. Frezzi, Quadriregio, I, 16, vv. 64-65: E come va per via
sposa novella / a passi radi, e porta gli occhi bassi...).
Al v. 67 imprendea voce settentrionale e vuol dire splendeva.
Al v. 75 tratti pennelli si pu interpretare come tratti di pennello, oppure come stendardi, in entrambi
i casi adatti a descrivere le liste luminose simili ai colori dell'iride (pi avanti, al v. 79, le liste sono
definite ostendali, stendardi).
I vv. 77-78 indicano i colori dell'iride, che il sole produce nell'arco (arcobaleno) e la luna (Delia, detta
cos dall'isola di Delo in cui era nata Diana, identificata con la luna) nel cinto, nel suo alone. discusso se
le sette strisce luminose corrispondano ognuna a un colore diverso dell'iride, oppure se ciascuna li rifletta
tutti; pi logica la prima ipotesi, anche se al tempo di Dante non era certo che i colori dell'iride fossero
proprio sette.
I ventiquattro seniori citati al v. 83 sono con tutta probabilit i libri dell'Antico Testamento, che secondo
il Canone ebraico (diverso da quello attualmente accettato dalla Bibbia cattolica) sono appunto 24; tale
interpretazione confortata da Girolamo, che nel Prologus galeatus della Bibbia afferma che i viginti
quattuor seniores di Apoc., IV, 4 sono i libri dell'Antico Testamento.
I vv. 100-102 sono la traduzione quasi letterale di Ezech., I, 4: Et vidi, et ecce ventus turbinis veniebat ab
aquilone, et nubes magna, et ignis involvens... (E vidi un vento tempestoso venire da nord, una gran
nube e fuoco che vi si avvolgeva). Da la fredda parte corrisponde a ab aquilone, mentre igne un forte
latinismo.
I vv. 118-120 alludono al mito di Fetonte, che ottenne dal padre il permesso di guidare il carro del Sole:
non seppe governare i cavalli ed usc dal giusto cammino, per cui Giove lo fulmin. Si pensato che
Dante alluda a una deviazione del carro della Chiesa dal suo retto cammino e a una prossima punizione
divina.
La parola brolo (v. 147) significa propriamente boschetto e qui vale ghirlanda.
Purgatorio, Canto XXX
Argomento del Canto
Ancora nel Paradiso Terrestre. Apparizione di Beatrice e scomparsa di Virgilio. Aspro rimprovero di
Beatrice a Dante.
la tarda mattinata di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Preludio all'apparizione di Beatrice (1-21)
Quando i sette candelabri che aprono la processione e che sono seguiti da tutti gli altri personaggi si
arrestano, i ventiquattro vecchi che precedono il carro rivolgono lo sguardo verso di esso e uno di loro
grida tre volte la frase Veni, sponsa, de Libano, imitato dagli altri. Cento angeli si alzano in volo sul carro
come in risposta al grido, simili ai beati che il Giorno del Giudizio risorgeranno dalle loro tombe. Essi
dicono Benedictus qui venis, gettando fiori sopra e tutt'intorno al carro.
Apparizione di Beatrice. Scomparsa di Virgilio (22-54)
Dante descrive l'apparizione di una donna coperta dalla nuvola di fiori e la paragona a quella del sole che,
talvolta, sorge velato da spessi vapori che rendono l'oriente di colore roseo e permettono di fissare lo
sguardo sull'astro. La donna indossa un velo bianco e una ghirlanda di ulivo, nonch un mantello verde e
una veste color rosso vivo: anche se Dante non l'ha ancora vista in volto in quanto velata, il suo spirito
avverte la potenza d'amore ed egli riconosce quella figura come la donna amata in vita, Beatrice. Turbato,
si volta alla sua sinistra per dire a Virgilio che ogni goccia del suo sangue sta tremando, ma il poeta latino
scomparso e ci provoca un enorme dolore al suo discepolo, che si sente abbandonato da colui che
l'aveva assistito come un padre, e la bellezza dell'Eden intorno a lui non gli impedisce di abbandonarsi a
un pianto dirotto.
Duro rimprovero di Beatrice (55-81)
Beatrice si rivolge a Dante e, chiamandolo per nome, lo invita a non piangere ancora per la dipartita di
Virgilio, in quanto dovr versare altre lacrime per altri motivi. La donna simile a un ammiraglio che
percorre il ponte per osservare le altre navi, volta sul fianco sinistro del carro: Dante la guarda e vede che
fissa i suoi occhi su di lui, nonostante sia ancora coperta dal velo. Beatrice ha un atteggiamento duro e
intransigente ed esorta Dante a guardarla bene, rivelando il proprio nome e accusando il poeta di aver
osato accedere al Paradiso Terrestre dove l'uomo felice. Dante abbassa lo sguardo verso le acque del
Lete, ma poich si vede riflesso in esse e si vergogna, volge gli occhi all'erba. Beatrice gli sembra tanto
severa quanto lo la madre che rimprovera aspramente il figlio.
Gli angeli intercedono per Dante (82-99)
Beatrice tace e gli angeli cantano subito il Salmo XXX (In te, Domine, speravi), non andando oltre
l'ottavo versetto. Dante trattiene le lacrime come la neve sull'Appennino che si ghiaccia al soffiare dei
venti freddi, e poi inizia a liquefarsi quando arrivano i venti caldi: cos quando gli angeli manifestano la
loro compassione per lui e sembrano intercedere presso Beatrice, il gelo che gli si era stretto intorno al
cuore si scioglie e il poeta si abbandona a un pianto dirotto, come prima per la scomparsa di Virgilio.
Beatrice accusa Dante di traviamento (100-145)
Beatrice resta ferma sul fianco sinistro del carro e si rivolge agli angeli, dicendo che essi vedono nella
mente di Dio tutto ci che accade nel mondo e quindi le sue parole saranno rivolte piuttosto a Dante,
affinch egli si penta delle sue colpe. Beatrice spiega che il poeta, non solo grazie a benefici influssi
celesti ma anche per speciale grazia divina, nella sua giovent mostr di avere in potenza ogni virt e di
poter compiere ammirevoli imprese. Tuttavia un terreno, se lasciato incolto o esposto a cattive sementi,
diventa tanto selvaggio quanto pi fertile: finch fu in vita Beatrice guid Dante sulla retta via, ma dopo
la sua morte il poeta la abbandon per dedicarsi ad altre donne. Dante le volt le spalle dopo che lei aveva
accresciuto la sua bellezza diventando beata, seguendo ingannevoli immagini che non mantengono alcuna
promessa. La donna tent di richiamarlo alla virt apparendogli in sogno, ma a lui non import nulla: si
travi al punto che, per salvarlo, non c'era altra strada che mostrargli i dannati all'Inferno, per cui
Beatrice fece visita a Virgilio nel Limbo, pregandolo di soccorrere il poeta. La suprema volont divina
sarebbe infranta, se Dante bevesse l'acqua del Lete senza prima pentirsi e piangere.
nterpretazione complessiva
Protagonista assoluta del Canto naturalmente Beatrice, la cui apparizione stata pi volte evocata nel
corso dei Canti XXVII-XXIX e che rappresenta l'evento centrale della prima parte del poema, il primo
fondamentale traguardo raggiunto da Dante nel suo percorso di redenzione. Il Canto risulta diviso in due
parti, la prima dedicata al preludio dell'apparizione della donna e alla scomparsa di Virgilio, col primo
rimprovero di Beatrice, la seconda riservata al pianto di Dante e alle dure accuse di traviamento che lei
gli rivolge. L'episodio si apre con la stessa atmosfera di attesa con cui si era chiuso il precedente e con i
ventiquattro vegliardi che si voltano a guardare il carro vuoto: uno di loro grida Veni, sponsa de Libano (il
versetto del Cantico dei Cantici solitamente riferito alla Chiesa, qui rivolto evidentemente a Beatrice) e
uno stuolo di angeli si alza in volo gettando rose sul carro, preparando l'avvento della donna che sar
protagonista di una sorta di trionfo e verr descritta con forti immagini cristologiche come gi nella Vita
nuova (inclusa l'espressione Benedictus qui venis, il saluto rivolto a Cristo al suo ingresso a Gerusalemme
e che qui rivolto esso pure a Beatrice). La scena descritta con numerose citazioni scritturali e
classiche, specie nel verso virgiliano Manibus... date lilia plenis tratto da Aen., VI, 883 in cui Anchise
celebrava la figura di Marcello, accentuando il carattere sacrale di tutta la cerimonia: Beatrice che appare
dietro la nube di fiori paragonata a un sole nascente, immagine che rimanda al suo significato allegorico
di grazia santificante e teologia rivelata, in quanto illuminer Dante mostrandogli il giusto cammino da
compiere (gi in XXVII, 133 Virgilio gli aveva detto che il sole gli splendeva in fronte). Analogo
significato ha anche il suo abbigliamento, con il velo bianco che la ricopre, simbolo di purezza, la
ghirlanda di ulivo che rimanda a Minerva come dea della sapienza (tale accostamento anche biblico), la
veste rossa che ricorda l'abito di colore sanguigno indossato da Beatrice al primo incontro col poeta (Vita
nuova, II), per quanto i tre colori siano quelli tradizionalmente associati a fede, speranza, carit, come gi
per le tre donne danzanti alla destra del carro.
L'apparizione di Beatrice tale da suscitare ovviamente la forte emozione di Dante personaggio, che
riconosce la donna da lui amata quando era in vita e ne rimane profondamente scosso: si volta verso
Virgilio per comunicargli la sua emozione, ma il poeta latino scomparso per lasciare il posto alla nuova
guida di Dante, in quanto allegoria della ragione umana che cede il passo alla teologia. Al di l del senso
allegorico, in ogni caso, Dante toccato da un profondo dolore per l'abbandono di colui che l'ha assistito
per i due terzi del viaggio, e la sua disperazione sottolineata dalla triplice anafora Virgilio..., nonch
dall'appellativo dolcissimo patre con cui il poeta latino qualificato (patre un forte latinismo, in
contrasto col popolare mamma di pochi versi prima, anch'esso riferito indirettamente a Virgilio). Da
rimarcare anche la citazione letterale di Aen., IV, 23 (adgnosco veteris vestigia flammae) con cui Dante
indica il riconoscimento di Beatrice, che l'ultimo commosso omaggio al maestro perduto: Dante ha
perso il proprio padre poetico e ha ritrovato la donna amata, ma questa gli rivolge subito dure parole di
accusa, chiamandolo per nome (la prima e unica volta nel poema che questo citato, di necessit) e
rimproverandolo per aver osato accedere all'Eden, sede dell'uomo felice. Qui si apre la seconda e
altrettanto importante parte del Canto, con la prima reazione di forte vergogna da parte di Dante, le parole
consolatorie degli angeli, la sua commozione e il pianto: quest'ultimo descritto con l'ampia e complessa
similitudine della neve ghiacciata sull'Appennino che si scioglie ai primi venti caldi, come il gelo del
cuore del poeta si scioglie in pianto per le parole degli angeli. Segue poi un pi ampio e dettagliato
rimprovero di Beatrice, le cui accuse circostanziate ci permettono di parlare di traviamento da parte di
Dante che corrisponde al peccato che lo ha condotto nella selva oscura iniziale, anche se assai arduo
precisare in cosa consistesse effettivamente tale peccato (si veda in proposito pi oltre): di sicuro Beatrice
sottolinea la natura virtuosa di Dante nella sua vita nova (in giovent), per effetto degli influssi celesti e
della grazia divina, ma anche il suo allontanamento dalla guida di lei dopo la sua morte per seguire altrui,
delle imagini di ben... false che non mantengono alcuna promessa e che conducono altres alla
dannazione. chiaro che Beatrice accusa Dante di averne tradita la memoria con un peccato di natura
morale, amando cio altre donne (come la donna gentile), o intellettuale, trascurando la teologia per
intraprendere studi filosofici, ma in ogni caso questo comportamento fu tale da fargli rischiare seriamente
la dannazione ed il motivo che l'ha spinta a scendere nel Limbo, invocare l'aiuto di Virgilio, mostrargli
le perdute genti per riportarlo sulla diritta via (fuor di metafora, condurlo alla salvezza attraverso un
percorso di espiazione: ora Dante ha scontato i suoi peccati e si riappropriato della sua innocenza
perduta, pronto a essere illuminato dalla grazia per proseguire il suo viaggio). Beatrice rivolge i suoi
rimproveri non direttamente al poeta, ma rivolgendosi agli angeli perch lui ascolti, dal momento che
quelle creature vedono tutto nella mente di Dio e ben sanno quindi la natura delle azioni peccaminose da
lui commesse: la donna sottolinea la necessit che Dante si renda conto della cattiva strada intrapresa a
suo tempo e ammetta le sue colpe, attraverso un sincero pentimento manifestato attraverso il pianto,
prima di essere immerso nel Lete le cui acque cancelleranno in lui ogni ricordo del peccato compiuto. Il
Canto si chiude appunto con questa giustificazione di Beatrice della propria durezza agli occhi degli
angeli, che avevano voluto intercedere con parole di misericordia a favore del poeta, riassumendo in
breve anche la vicenda allegorica che l'aveva vista protagonista insieme a Virgilio nel Canto II
dell'Inferno: la prima parte del viaggio si conclusa e sta per iniziare quella pi importante, che condurr
Dante in Paradiso e, allegoricamente, lo porter alla vera conoscenza che non pu prescindere dalla fede
nelle verit rivelate, senza ombra di superbia intellettuale. Il rimprovero al poeta avr un seguito, come si
vedr, nel Canto seguente, in cui Beatrice alluder in modo ancor pi esplicito alla sua vita peccaminosa
successivamente alla sua morte terrena, prima che Matelda lo conduca al rito dell'immersione nel fiume
Lete.

Il traviamento di Dante: peccato morale o intellettuale?


Non vi dubbio che la selva oscura della scena iniziale del poema, oltre a simboleggiare il disordine
morale e civile dell'Italia del tempo contro cui il poeta rivolge la propria denuncia, rappresenta anche il
peccato personale da lui commesso e che rischia di portarlo alla dannazione: nel Prologo non vengono
forniti ulteriori dettagli, ma nel corso dell'opera alcuni indizi permettono di avanzare qualche ipotesi circa
la natura del cosiddetto traviamento di Dante-personaggio, specie in occasione dei rimproveri di
Beatrice nel Canto XXX del Purgatorio. In realt gi poco prima, nell'incontro con Forese Donati (XXIII,
115-117), Dante aveva parlato all'amico della vita da entrambi condotta quando Forese era ancora vivo,
tale da rendere grave il memorar presente: evidente allusione al reciproco scambio di insulti della
Tenzone, ma anche a uno stile di vita gaudente e disordinato che, forse, li aveva visti compagni di bagordi
e che, nel caso di Dante, si riferiva a relazioni amorose con altre donne dopo la morte di Beatrice, periodo
nel quale era avvenuto lo scambio di sonetti ingiuriosi con l'amico-rivale. Della stessa cosa sembra
parlare anche Beatrice in occasione del suo incontro con Dante (XXX, 100 ss.), allorch lo accusa di aver
tradito le alte aspettative riposte nella sua persona e giustificate dalle qualit che egli possedeva
virtualmente, salvo poi voltare le spalle al bene e darsi altrui, quando la donna era morta e non poteva pi
guidarlo sulla retta via. Beatrice pare alludere ad amori peccaminosi e sensuali cui Dante si sarebbe
dedicato dopo la sua morte terrena, cosa che il poeta stesso aveva in parte ammesso nella Vita nuova
descrivendo la donna gentile, una giovane nobile donna che lo aveva consolato della perdita della
gentilissima, senza contare la Petra cantata nelle Petrose che era oggetto di una passione amorosa ben pi
carnale dell'amore spiritualizzato al centro del libello. Nel primo rimprovero Beatrice parla di imagini di
ben... false che Dante segu dopo la sua morte, che nulla promession rendono intera, mentre in XXXI, 34
ss. Dante parler di cose che col falso lor piacer deviarono i suoi passi e poco oltre Beatrice parler di
serene che hanno sviato il poeta e, in particolare, di una pargoletta (una giovane donna) che lo ha indotto
a gravar le penne in giuso, a volare basso verso la Terra anzich verso il Cielo. Chiunque sia la pargoletta
di cui si parla in questo passo (la donna gentile, Petra, la donna che con questo nome cantata da Dante
nelle Rime, LXXXVII-LXXXIX), tutto lascia intendere che Beatrice rimproveri a Dante-personaggio
relazioni amorose cui egli si diede dopo la sua morte, e che sarebbero avvenute pi o meno nello stesso
periodo della Tenzone con Forese; se non fosse che in quello stesso periodo Dante si dedic anche agli
studi filosofici da cui sarebbe poi nato il Convivio e che proprio in quest'opera (II, 12) Dante identifica la
donna gentile della Vita nuova come allegoria della filosofia, per cui lecito supporre che Dante, in
realt, abbia tradito la memoria di Beatrice in quanto allegoria della teologia per darsi a studi filosofici,
commettendo un peccato di natura intellettuale ben pi grave di qualche amore disordinato e sensuale.
Tale interpretazione non in contrasto con l'altra, in quanto semplicemente la rilettura in chiave
allegorica di una stessa vicenda biografica: essa inoltre confermata dalle parole che Beatrice rivolge a
Dante alla fine della II Cantica (XXXIII, 85-90), quando il poeta si stupisce di non riuscire a capire le sue
parole e lei risponde che ci serve a fargli comprendere quanto quella scuola che lui ha seguito e la sua
dottrina siano lontane dai suoi discorsi, e quanto quella via percorsa da Dante sia distante da quella di
Dio, tanto quanto la Terra distante dal Primo Mobile. Il termine dottrina fa pensare a un insegnamento
filosofico, il che ci riporta a quanto detto da Dante stesso nel Convivio: si tratta di una dottrina
indipendente dagli studi teologici, un tentativo di arrivare alla conoscenza senza tener conto della verit
rivelata e, quindi, un peccato di superbia intellettuale, un traviamento che poteva portarlo alla dannazione
non meno della sua vita gaudente e spregiudicata al tempo delle Petrose. Ci non significa, naturalmente,
che si debba pensare a un Dante eretico o seguace addirittura dell'Averroismo, ma indubbio che i suoi
studi filosofici culminati nel Convivio siano stati poi interpretati come una sorta di conversio ad
temporalia, di eccessivo amore per i beni e la scienza terrena, se non proprio come aversio a Deo; di
sicuro Dante riteneva quella stagione come un allontanamento colpevole da Beatrice in quanto
rivelazione, uno straniarsi da lei che l'aveva condotto direttamente nella selva oscura da cui lei stessa,
sollecitando l'intervento di Virgilio, l'aveva salvato: il metaforico viaggio per mare che Dante aveva
intrapreso nel Convivio era terminato in un naufragio, non diversamente da quello metaforico di Ulisse
giunto in prossimit del Purgatorio, colpevole non meno di Dante di superbia e orgoglio intellettuale nel
non voler sottostare ai decreti divini in materia di conoscenza.
Note e passi controversi
L'espressione settentrion del primo cielo (v. 1) indica i sette candelabri, definiti come una costellazione
dell'Empireo, appunto il primo Cielo (septem triones, lett. sette buoi, il nome latino dell'Orsa Minore;
'l pi basso invece la costellazione dell'Orsa che mostra la via ai naviganti, in quanto collocata nell'VIII
Cielo delle Stelle Fisse e perci pi in basso rispetto all'Empireo).
Al v. 11 parafrasato il versetto del Cantico dei Cantici (IV, 8) in cui si dice Veni de Libano, sponsa
mea, / veni de Libano, veni; l'esegesi biblica riferiva queste parole solitamente alla Chiesa, sposa di
Cristo.
Al v. 15 la revestita voce indica il fatto che le anime, dopo la resurrezione il Giorno del Giudizio, si
riapproprieranno del corpo (il vb. alleluiare prob. usato in senso intransitivo ed una sorta di abl.
assoluto: mentre la voce, rivestita del corpo, intoner alleluia). Alcuni mss. leggono carne in luogo di
voce, ma variante tarda.
Il termine basterna (v. 16) vuol dire carro e deriva dal lat. tardo, in cui indicava la lettiga per le
matrone.
Benedictus qui venis (v. 19) sono le parole rivolte a Ges al suo ingresso in Gerusalemme (Benedictus qui
venit in nomine Domini, Matth., XXI, 9; Marc., XI, 10; Luc., XIX, 38). L'invocazione certo da riferire a
Beatrice, associata all'immagine di Cristo e per questo indicata col maschile.
Il v. 21 citazione diretta di Aen., VI, 883, con l'interposizione di oh per quadrare la misura
dell'endecasillabo (sono le parole con cui Anchise celebra la figura di Marcello, il nipote di Augusto
destinato a una morte precoce).
I vv. 40-42 rimandano al cap. II della Vita Nuova, in cui narrato il primo incontro con Beatrice quando
Dante aveva nove anni; la puerizia finiva a dieci anni.
Al v. 46 dramma indica una quantit minima, come in XXI, 99 (peso di dramma).
Il v. 48 traduzione letterale di Aen., IV, 23 (adgnosco veteris vestigia flammae, tratto dal dialogo di
Didone con la sorella Anna sul suo amore per Enea).
L'antica matre citata al v. 52 Eva.
Al v. 55 il nome di Dante citato per la prima e unica volta nel poema (pi avanti, v. 63, il poeta se ne
scusa dicendo di essere costretto a registrarlo di necessit).
Al v. 56 anco potrebbe voler dire cos presto e non ancora come in fine di verso.
Il vb. Guardaci al v. 73 vuol dire guarda qui e non un pluralis maiestatis: alcuni mss. leggono Ben
sem, ben sem Beatrice, ma prob. una correzione per riportare tutto alla prima persona plurale (cos come
altri mss. leggono Guardami ben).
Il vb. degnasti (v. 74) stato interpretato nel senso di degnarsi, avere la compiacenza, quindi
Beatrice direbbe a Dante che finalmente si degnato di accedere all'Eden; pi probabile che la donna lo
accusi di avere l'ardire di presentarsi l (nel senso di avere il coraggio).
Il Salmo intonato dagli angeli ai vv. 82-84 il XXX della Vulgata e Dante intende dire che arrivarono
solo al versetto che si chiude con le parole pedes meos (pi avanti il Salmo non pi adatto alla
circostanza).
I venti schiavi (v. 87) sono i venti freddi della Schiavonia, la regione balcanica degli Slavi, che fanno
ghiacciare la neve tra gli alberi (le vive travi) dell'Appennino (lo dosso d'Italia). La terra che perde ombra
(v. 89) l'Africa, da cui spirano i venti caldi, cos definita perch l l'ombra a mezzogiorno sempre pi
corta man mano che ci si avvicina all'Equatore.
Il vb. notan (v. 92) pu voler dire cantano (gli angeli canterebbero seguendo l'armonia delle sfere
celesti), ma l'interpretazione dubbia.
Ai vv. 109-111 Beatrice intende dire che Dante aveva ricevuto un benefico influsso astrale alla nascita,
anche perch era nato sotto il segno dei Gemelli che disponeva alle lettere e alla scienza (cfr. Inf., XV, 55-
60, le parole di Brunetto Latini, e Par., XXII, 112-114).
Al v. 125 seconda etade indica la giovinezza, che si riteneva iniziasse a 25 anni dopo l'adolescenza (cfr.
Conv., IV, 24).
Purgatorio, Canto XXXI
Argomento del Canto
Ancora nel Paradiso Terrestre. Confessione di Dante e nuove accuse di Beatrice. Dante sviene, poi
Matelda lo immerge nel Lete. Dante condotto davanti a Beatrice, che si svela.
la tarda mattinata di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Accuse di Beatrice e confessione di Dante (1-36)
Beatrice, che finora ha parlato agli angeli, si rivolge direttamente a Dante al di l del fiume Lete e lo
esorta a dire se le sue parole sono vere, poich le sue accuse devono essere accompagnate dalla
confessione del poeta. Dante cos confuso che tenta invano di parlare, quindi la donna, irritata, gli
chiede cosa pensa e lo invita a rispondere, in quanto l'acqua del Lete non ha ancora cancellato in lui la
memoria dei peccati commessi. La paura spinge Dante a pronunciare un debole s, poi scoppia subito a
piangere, come una balestra che scocca una freccia con troppa tensione e spezza la corda, facendo arrivare
il dardo a bersaglio con poca forza. Beatrice chiede a Dante quali ostacoli insuperabili gli hanno impedito
di perseguire il bene attraverso il suo amore per lei, e quali vantaggi invece lo hanno indotto a ricercare
gli altri beni terreni. Dante sospira amaramente, quindi risponde a fatica dicendo che i beni che aveva
davanti lo irretirono col loro aspetto piacevole, non appena Beatrice mor.
Nuovi rimproveri di Beatrice (37-63)
Beatrice ribatte che se anche Dante tacesse o negasse la propria colpa, questa le sarebbe comunque nota
dal momento che la legge nella mente di Dio; tuttavia, quando il peccatore confessa, ci attenua la
severit del giudizio divino. E affinch Dante provi minor vergogna per il suo errore, imparando a essere
pi forte in futuro, la donna lo invita a smettere di piangere e ascoltarla, comprendendo che la sua morte
terrena avrebbe dovuto condurlo in una direzione opposta. Beatrice spiega che Dante sulla Terra non vide
mai una bellezza superiore a quella del suo corpo mortale, che ora giace sepolto: dunque quale altra
creatura terrena poteva suscitare il desiderio del poeta dopo la sua morte? Questa avrebbe dovuto indurlo
a desiderare i beni eterni, invece di volare in basso seguendo una giovane donna o altri beni passeggeri;
un giovane uccellino pu cadere in una trappola, ma un volatile adulto non si lascia certo irretire come
invece ha dimostrato Dante.
Pentimento e svenimento di Dante (64-90)
Dante ascolta in silenzio e a capo chino come un fanciullo che viene rimproverato e si pente, quando
Beatrice lo invita ad alzare lo sguardo e a sopportare una pena maggiore osservandola. Il poeta obbedisce
non senza resistenza, come un cerro robusto che viene sradicato con difficolt da un vento impetuoso,
quindi vede che gli angeli hanno cessato di spargere fiori. Dante vede Beatrice che fissa il grifone e pur
sotto il velo gli pare che superi in bellezza la donna conosciuta in Terra, pi di quanto questa superasse le
altre donne. Dante prova odio verso ci che, sulla Terra, lo ha distolto dall'amore di Beatrice, quindi la
forza del pentimento tale che il poeta sviene e solo Beatrice sa cosa gli sia accaduto dopo.
Immersione nel Lete (91-102)
Quando Dante riprende i sensi, si ritrova immerso fino alla gola nel fiume Lete, con Matelda che lo
sovrasta e lo esorta ad aggrapparsi a lei con forza. La donna cammina leggera sull'acqua, tirandosi dietro
Dante, finch giungono presso la sponda opposta e il poeta sente gli angeli cantare 'Asperges me' con
indicibile dolcezza. Matelda apre le braccia e spinge la testa di Dante sott'acqua, costringendolo a bere.
Dante condotto davanti a Beatrice (103-126)
Matelda trae Dante fuori dall'acqua e lo affida alle quattro donne che danzano alla sinistra del carro,
ciascuna delle quali lo abbraccia. Le donne cantano di essere ninfe e, al tempo stesso, stelle in cielo,
essendo state ordinate come ancelle per Beatrice prima che questa nascesse. Affermano di voler condurre
Dante di fronte a Beatrice, ma il poeta dovr essere aiutato dalle altre tre donne danzanti a fissare il suo
sguardo negli occhi della donna. Le quattro ninfe portano Dante al petto del grifone, quindi lo invitano a
guardare gli occhi di Beatrice, simili a degli smeraldi. Dante fissa gli occhi della donna, che sono a loro
volta fissi sul grifone: l'animale si riflette in essi come in uno specchio, mostrando ora una, ora l'altra sua
natura. Dante meravigliato nel vedere che il grifone resta lo stesso, mentre la sua immagine riflessa
trasmuta continuamente.
Beatrice si svela (127-145)
Dante continua a osservare quello spettacolo che, pur saziando i suoi occhi, gli infonde continuo
desiderio, quando le tre donne alla destra del carro si fanno avanti continuando la loro danza e
dimostrando di appartenere a una pi alta condizione. Le tre donne cantano e si rivolgono a Beatrice
invitandola a guardare Dante con i suoi occhi, per vedere i quali egli ha percorso tanta strada: la donna
deve fare loro la grazia di svelarsi e mostrare il suo sorriso che manifesta la sua bellezza di beata. Beatrice
esaudisce tale desiderio e Dante non in grado di descrivere pienamente la sua bellezza sfolgorante,
poich anche un poeta che si fosse esercitato assiduamente in quest'arte avrebbe la mente offuscata nel
vano tentativo di rappresentare Beatrice quale apparve in quel momento.
Interpretazione complessiva
Il Canto diviso in due parti, la prima delle quali prosegue il dialogo iniziato fra Dante e Beatrice
nell'episodio precedente (con nuove dettagliate accuse della donna, il pentimento e lo svenimento del
poeta), mentre la seconda descrive l'immersione di Dante nel Lete e la sua presentazione a Beatrice, che si
svela. L'inizio la ripresa della situazione finale del Canto XXX, con Beatrice che esorta duramente
Dante a confessare le proprie colpe per completare il rito della purificazione: la confessione serve a
ottundere la lama della giustizia divina, e ad essa il poeta perviene non senza difficolt, dapprima non
riuscendo neppure a parlare e in seguito pronunciando alcune deboli parole, con le quali ammette di aver
tradito la memoria di Beatrice morta per seguire beni terreni allettanti e ingannevoli, che lo distolsero
dalla retta via (sono le imagini di ben... false gi citate in XXX, 131 e che Beatrice poco oltre definir
serene, che col loro canto melodioso hanno irretito Dante sulla loro strada peccaminosa; cfr. anche XIX, 7
ss., il sogno della femmina balba). Questi beni sono parte del cosiddetto traviamento di Dante, un peccato
di natura morale e, forse, anche intellettuale che secondo Beatrice ha frapposto fossati e catene sulla
strada del bene e che corrisponde probabilmente ad amori sensuali e terreni, come le sue successive
parole sembrano dichiarare: nessuna donna mortale fu mai bella come lei quand'era in vita, quindi dopo la
sua morte Dante non avrebbe dovuto subire il fascino di altre donne terrene, come invece avvenne a causa
di una pargoletta, di una giovane e bella donna che lo fece innamorare di s. difficile ipotizzare chi
fosse realmente costei (forse la donna gentile, o la Petra, o la donna che con lo stesso senhal Dante
canta nelle Rime), sempre che dietro di essa, come dietro la donna gentile, non si celi il signifcato
allegorico della filosofia, ma chiaro che questa pargoletta ha deviato il volo di Dante verso il basso,
proprio come un uccello che si lasciato allettare da un'esca ed caduto nella rete del cacciatore, cosa
che a Dante non doveva succedere proprio perch la morte di Beatrice gli aveva dimostrato che la
bellezza materiale fugace e passeggera. La metafora del fedele che, come un uccello, deve volare verso
il Cielo e i suoi beni eterni e non lasciarsi irretire dagli allettamenti del mondo non nuova (anche in XIV,
145-151 Virgilio paragona le lusinghe del demonio a un'esca che alletta gli uomini, mentre in XIX, 58 ss.
le lusinghe del cielo sono dette il logoro, il richiamo che deve far volare alto il falcone); il richiamo di
Beatrice fa il suo effetto e produce un acuto pentimento in Dante, che riconosce la sua donna pi bella di
quand'era in vita, pi di quanto lo fosse rispetto alle altre donne, quindi prova sincera avversione verso ci
che lo aveva distolto dal suo amore per lei, da intendersi come un amore terreno o la ricerca filosofica in
contrasto col significato allegorico di Beatrice-teologia.
Lo svenimento di Dante fa da cerniera tra le due parti del Canto, poich al suo risveglio il poeta
immerso nel fiume sino alla gola, con Matelda che lo conduce all'altra sponda e lo costringe a bere l'acqua
che canceller la memoria del peccato commesso. Ha inizio a questo punto un complesso rituale in cui,
oltre a Matelda, entrano in scena le quattro donne che danzano alla sinistra del carro e alle quali Dante
affidato una volta uscito dall'acqua: esse rappresentano le virt cardinali e le loro parole confermano tale
interpretazione, presentandosi al contempo come ninfe nell'Eden e stelle in cielo (le quattro stelle di I, 22
ss.) e dichiarando di essere state ancelle di Beatrice prima della sua nascita, quindi, fuor di metafora, di
aver preparato il mondo all'avvento di Cristo e alla Rivelazione di cui Beatrice allegoria. Le quattro
donne conducono Dante a lei perch possa guardarla negli occhi, ma per aiutarlo a questo interverranno le
altre donne, simbolo delle virt teologali e che si mostreranno a Dante di pi alto tribo, di una condizione
pi elevata in quanto sono le virt direttamente infuse dalla Grazia divina nell'uomo redento, dopo che si
riappropriato di quelle cardinali con l'espiazione. Dante fissa lo sguardo negli occhi di Beatrice
paragonati a smeraldi, pietra che nei lapidari medievali rappresentava la giustizia: sono gli occhi da cui
Amore lo ha trafitto quando la donna era in vita, e adesso vede riflessa in essi l'immagine del grifone, che
raffigura Cristo e le cui due nature (umana e divina) si alternano nello sguardo di Beatrice. Il legame
Beatrice-grifone si spiega in quanto la donna allegoria della Verit rivelata e della Grazia, resa possibile
in seguito all'avvento di Cristo, mentre gi nella Vita nuova Beatrice era rappresentata con immagini
cristologiche: Dante quasi perso in quell'incredibile visione, quando le tre donne invitano Beatrice a
svelarsi e a mostrare la propria accresciuta bellezza di beata al poeta, definito suo fedele in ragione del
vincolo di vassallaggio amoroso che lo legava a lei in vita (e che ora, nell'Aldil, un amore spogliato di
ogni connotazione materiale e terrena). Il Canto si chiude con lo svelarsi di Beatrice, la cui bellezza tale
che la parola poetica di Dante del tutto insufficiente a descriverla, con una situazione che tante volte si
riproporr nella rappresentazione del Paradiso ( la cosiddetta poetica dell'inesprimibile, che nella III
Cantica sar riferita sia a Beatrice, sia alle bellezze eterne e ineffabili del terzo regno).

Note e passi controversi


Al v. 4 sanza cunta vuol dire senza indugio, dal lat. med. cuncta, attestato da Uguccione da Pisa.
La similitudine ai vv. 16-21, variamente interpretata, indica che Dante parla debolmente perch oppresso
da troppo dolore, come la balestra quando scocca la freccia con la corda troppo tesa, per cui la corda si
spezza e la freccia giunge a bersaglio con poca forza.
Il v. 42 indica che la giustizia divina diventa meno severa di fronte a una confessione, come la mola che
smussa il filo della lama se si volge contro il taglio.
I vv. 50-51 troveranno eco in Petrarca: cfr. Canzoniere, CXXVI, 2 (le belle membra), 34-35 (gi terra in
fra le pietre / vedendo).
I vv. 61-63 indicano che un giovane uccellino pu lasciarsi irretire dal cacciatore, ma quello adulto riesce
ad evitare trappole e frecce scagliate a suo danno.
Barba (v. 68) indica genericamente il mento, o il viso; Beatrice usa il termine in senso ironico, per
indicare l'et adulta di Dante.
Il vento indicato al v. 72 il libeccio, che spira dall'Africa (la terra di Iarba, il re dei Getuli pretendente di
Didone).
Il v. 91 vuol dire che il cuore restituisce la virt, la forza vitale, nelle membra esterne, quindi Dante
rinviene (la fisiologia medievale riteneva che lo svenimento fosse causato dal riflusso di tutto il sangue al
cuore).
Al v. 96 scola vale gondola, barca leggera e piatta, da scaula che parola attestata in area veneto-
romagnola; meno probabile il significato di spola, perch Matelda scivola a fior d'acqua e non va avanti
e indietro.
Il v. 98 cita un versetto del Salmo Miserere (L), che recita: Asperges me hyssopo, et mundabor; lavabis
me, et super nivem dealbabor (Mi aspergerai con l'issopo e sar puro; mi laverai e sar pi bianco della
neve).
Al v. 117 ti trasse le sue armi vuol dire ti lanci i suoi dardi.
Al v. 126 ne l'idolo suo indica nella sua immagine riflessa, cio negli occhi di Beatrice.
Al v. 132 caribo indica probabilmente una danza.
La seconda bellezza di Beatrice (v. 138) pu indicare quella della bocca in aggiunta a quella degli occhi,
ma forse la bellezza sovrumana della donna non pi mortale.
Il v. 144 stato variamente interpretato, bench il senso sia poco chiaro: forse vuol dire l dove le sfere
celesti con la loro armonia ti circondano.
Purgatorio, Canto XXXII
Argomento del Canto
Ancora nel Paradiso Terrestre. La processione torna indietro e si ferma presso un albero. Sonno e
risveglio di Dante; Beatrice lo invita a osservare quel che segue. Vicende allegoriche del carro.
la tarda mattinata di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
La processione torna indietro (1-33)
Dante osserva a lungo il volto di Beatrice, per soddisfare il desiderio di rivederla durato dieci anni, al
punto che non si accorge di quanto gli avviene intorno. A un tratto le tre donne lo forzano a distogliere lo
sguardo, gridando che sta fissando troppo Beatrice, e infatti per qualche secondo il poeta ha la vista
abbagliata come se avesse fissato il sole. Quanto Dante ha riacquistato la vista, vede che la processione
mistica si rivolta verso destra e procede da occidente a oriente, come una colonna militare che operi una
conversione. Le sette donne tornano presso le ruote del carro, trainato dal grifone senza che le sue penne
si mutino. Dante, Matelda e Stazio seguono il carro accanto alla ruota di destra, attraversando la foresta
vuota dell'Eden e ascoltando una musica celestiale.
Arrivo all'albero simbolico (34-63)
La processione percorre lo spazio che coprirebbero tre frecce scagliate da un arco, quindi si arresta e
Beatrice scende dal carro. Tutti circondano un albero spoglio e privo di ogni foglia, mormorando il nome
di Adamo; l'albero si allarga man mano che sale ed tanto alto che persino gli abitanti dell'India lo
ammirerebbero. Tutti gridano al grifone che fa bene a non lacerare col becco il legno dell'albero, poich
chi se ne ciba viene danneggiato, quindi il grifone dichiara che cos si mantiene la giustizia di Dio.
L'animale trascina il carro ai piedi dell'albero e ne lega il timone alla pianta con una sua frasca. L'albero a
questo punto fiorisce, come le piante sulla Terra quando sono scaldate dal sole primaverile, e produce
fiori di colore tra rosa e violetto. I personaggi intonano un canto cos celestiale che Dante non lo intende,
n pu quindi trascriverlo.
Sonno e risveglio di Dante (64-99)
Se Dante potesse rappresentare in che modo gli occhi di Argo presero sonno ascoltando il mito di Siringa,
allora potrebbe descrivere il modo in cui si addorment, ma non pu farlo perch non ha un modello cui
rifarsi. Pu solo raccontare il momento del risveglio, quando uno splendore lo desta e la voce di Matelda
lo esorta ad alzarsi. Dante paragona se stesso a Pietro, Giovanni e Giacomo che videro la trafigurazione di
Ges e caddero tramortiti, poi, risvegliati dalle sue parole, videro che Mos e Elia erano scomparsi e che
la veste di Ges era mutata; anch'egli, infatti, si sveglia e vede solo Matelda che lo sovrasta.
Il poeta chiede dove si trovi Beatrice e Matelda la indica seduta ai piedi dell'albero, circondata dalle sette
donne, mentre il resto della processione torna in Cielo. Dante non sa se Matelda abbia detto altro, perch
si volge a guardare Beatrice che siede, sola, a custodire il carro. Le sette donne la circondano e tengono in
mano altrettante lampade.
Missione di Dante (100-108)
Beatrice dice a Dante che rester poco tempo nell'Eden dopo la sua morte, mentre ben presto diventer
per sempre cittadino del Paradiso insieme a lei. Poi lo esorta a osservare con attenzione ci che sta per
avvenire al carro, per scriverlo una volta tornato sulla Terra e giovare al mondo che vive nel peccato.
Dante, desideroso di ubbidire a Beatrice, fissa lo sguardo sul carro come lei gli ha ordinato.
Vicende allegoriche del carro: l'aquila e la volpe (109-123)
Dante vede calare dall'alto un'aquila, pi rapida di qualunque fulmine che sia mai sceso da un'alta nube, la
quale squarcia i rami dell'albero, le foglie e i fiori appena nati. L'aquila danneggia poi il carro, che si
piega e oscilla come una nave in tempesta che colpita da forti venti. In seguito Dante vede una volpe
che si avventa sul fondo del carro, affamata come se fosse digiuna da molto tempo. Beatrice la mette in
fuga rimproverandole gravi colpe, e l'animale si allontana tanto rapidamente quanto glielo consente la sua
magrezza.
L'aquila dona al carro le sue penne. Il drago (124-141)
A questo punto Dante vede nuovamente l'aquila scendere sul carro e lasciare qui alcune delle sue penne:
una voce dal Cielo, simile a quella che esprime un profondo rammarico, dichiara che il carro carico di
una cattiva merce. Poi Dante vede la terra aprirsi fra le ruote del carro e uscirne un drago, che conficca la
coda nel fondo del veicolo: esso trae fuori la coda maligna staccando una parte del carro, per poi
allontanarsi. Il carro si ricopre in seguito delle penne lasciate dall'aquila, forse con buona intenzione, fino
a coprirsi completamente.
Trasformazione del carro. La meretrice e il gigante (142-160)
Cos ricoperto dalle penne, il carro si trasforma e mette sette teste, tre sul timone e una per ognuno dei
quattro lati: le prime sono cornute come quella di un bue, mentre le altre quattro hanno un solo corno
ciascuna. Dante vede una sfacciata prostituta sedere sul carro diventato un mostro, discinta e sicura di s:
accanto a lei c' un gigante, che la sorveglia perch non si allontani e scambia con lei dei baci. A un tratto
la prostituta rivolge a Dante uno sguardo pieno di desiderio e il gigante la frusta dalla testa ai piedi; poi,
pieno di sospetto e di crudelt, stacca il carro dall'albero e lo trascina via nella foresta, finch il poeta non
pi in grado di vedere n la meretrice, n il carro tramutato in un mostro.
Interpretazione complessiva
Il Canto costituisce il proseguimento e la conclusione della processione simbolica descritta nel Canto
XXIX, a sua volta divisa in due momenti distinti: nella parte iniziale la processione torna indietro e si
ferma presso l'albero, in quella seguente vengono rappresentate le vicende allegoriche del carro che
ripercorrono le vicissitudini storiche della Chiesa, che dal carro appunto raffigurata. L'episodio si apre
con l'abbagliamento di Dante che ha osservato con troppa fissit Beatrice, per questo richiamato dalle tre
donne che simboleggiano le virt teologali: il fulgore di Beatrice rappresenta la luce della grazia divina di
cui allegoria, rispetto alla quale la capacit visiva del poeta troppo debole essendoci sproporzione tra
la sua umanit e il carattere sovrumano della figura della donna (analoghe situazioni, come vedremo, si
riproporranno anche nel Paradiso). Dopo che Dante ha riacquistato la vista, la processione mistica opera
una conversione su se stessa e torna indietro, scendendo il corso del Lete e dirigendosi verso levante, con
Dante, Matelda e Stazio al seguito; non escluso che ci abbia qualche significato simbolico che ci
sfugge, mentre del tutto certo che l'albero presso cui il corteo si ferma e al quale il grifone lega il timone
del carro quello della conoscenza del bene e del male, soprattutto per il richiamo ad Adamo fatto da tutti
i personaggi presenti. L'albero ha la stessa strana forma di cono rovesciato del primo albero dei golosi
(XXII, 133-135, mentre del secondo si era detto che aveva la stessa origine di questo, XXIV, 116-117), e
rappresenta probabilmente la giustizia divina, offesa dal peccato originale compiuto da Adamo ed Eva, il
che spiega perch la pianta sia priva di foglie e fiori. Il grifone che lega il carro all'albero indica forse che
con la Redenzione e la crocifissione di Cristo (di cui l'animale figura) la giustizia divina stata
restaurata, come simboleggiato dal rifiorire subito dopo della pianta che si copre di fiori di colore tra rosa
e viola, probabilmente un riferimento al sangue di Ges o, forse, alla porpora degli imperatori; tutti
lodano il grifone per non lacerare il legno della pianta che, se gustata, provoca gravi danni (chiara
allusione al peccato originale) e l'animale ribatte che conservando la giustizia divina si conserva il
fondamento di ogni giustizia, anche di quella terrena. Alla fine di questo primo momento della
processione Dante si addormenta, fatto che descritto con un'elegante preterizione e un riferimento al
mito di Argo e Mercurio (anche di questo sonno del poeta si sono cercati sensi allegorici, senza risultati
convincenti).
La seconda parte del Canto inizia col destarsi di Dante, svegliato da una forte luce e dal richiamo di
Matelda, in tempo per accorgersi che la compagnia scemata in quanto il grifone e gli altri personaggi
stanno tornando in cielo, mentre Beatrice ai piedi dell'albero, circondata dalle sette donne-virt che
reggono in mano delle lampade (forse, ma non certo, i sette candelabri). l'inizio della sacra
rappresentazione delle vicende del carro, anticipata dalla complessa similitudine tra il risveglio di Dante e
quello degli apostoli dopo la trasfigurazione di Cristo, nonch dal richiamo di Beatrice che ammonisce
Dante a osservare con attenzione ci che vedr, poich la sua missione quella di riferire tutto nel poema
una volta tornato sulla Terra (in modo analogo a quanto far Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso).
Le vicende allegoriche del carro rimandano a quelle storiche della Chiesa, a cominciare dalle persecuzioni
degli imperatori pagani rappresentati dall'aquila che dapprima lacera l'albero in quanto l'Impero ha offeso
la giustizia divina, poi scuote il carro che tuttavia resiste e resta in piedi; poi si allude al diffondersi delle
eresie raffigurate dalla volpe, messa in fuga da Beatrice che rappresenta la scienza divina e l'azione dei
Padri della Chiesa. Poco oltre il carro sar attaccato da un drago uscito dalla terra, concordemente
interpretato come simbolo degli scismi all'interno della Chiesa e, forse, in particolare dell'Islam, il cui
fondatore Maometto gi stato posto da Dante tra i seminatori di discordie all'Inferno e che qui sarebbe
rappresentato da un animale di forte significato demoniaco (il drago stacca una parte del fondo del carro,
intendendo proprio che la Chiesa stata menomata nella sua integrit). Prima del drago, l'aquila era
tornata a lasciare alcune delle sue penne sul carro, chiara allusione alla presunta donazione di Costantino
che era fonte, per Dante, dell'inizio della corruzione ecclestiastica (ci rimanda a Inf., XIX, 115-117 ed
sottolineato dalla voce celeste che si rammarica per quanto accaduto): ci provocher in seguito la
mostruosa trasformazione del carro, che si ricoprir tutto di penne e metter sette teste cornute, simbolo
probabilmente dei sette peccati capitali, sormontato da una volgare meretrice che raffigura, secondo
l'opinione concorde dei critici, la Curia papale corrotta. L'immagine simile a quella di Inf., XIX, 109-
111, salvo che qui la fonte di Dante (il mostro dell'Apocalisse, XVII, 1) pi strettamente seguita e la
bestia rappresenta la degenerazione della Chiesa a causa della corruzione e della simonia, il che porta
Dante a occuparsi delle vicende pi vicine a lui nel tempo: la meretrice infatti se la intende con un
gigante, che si preoccupa che non gli venga sottratta e nel quale quasi certamente da individuare il re di
Francia Filippo il Bello. La soggezione della meretrice al gigante rappresenta la dipendenza della Curia
papale dalla monarchia francese, fonte secondo Dante di infiniti problemi e da lui pi volte aspramente
criticata, cos come spesso nel poema il personaggio di Filippo bersaglio di gravi accuse: la prostituta
rivolge uno sguardo cupido a Dante, il che allude forse al dissidio tra Filippo e Bonifacio VIII (oppure,
secondo altri, al volgersi della Chiesa al popolo cristiano rappresentato qui dal poeta) e il gigante la frusta
da capo a piedi, ci che potrebbe rimandare all'oltraggio di Anagni compiuto da Filippo ai danni di
Bonifacio. Senza dubbio il fatto che il gigante stacchi il carro dall'albero e lo trascini via nella selva
rappresenta la cattivit avignonese, fatto traumatico nella storia della Chiesa e che Dante imputava
soprattutto al re francese e a papa Clemente V: la rappresentazione termina con questa violenta
lacerazione che non si era ancora ricomposta ai tempi in cui Dante scriveva il poema e che arricchisce la
sua dura polemica contro il sovrano capetingio, come gi nel discorso di Ugo Capeto e, in seguito,
dell'aquila nel Cielo di Giove. La vicenda allegorica avr poi una coda nel Canto seguente, con la profezia
di Beatrice del DXV che dovr proprio uccidere la fuia / con quel gigante che con lei delinque, quindi
ristabilire la giustizia sulla Terra e porre fine alla cattivit avignonese, anche se il carattere oscuro di
questa predizione non permette di fare molte illazioni circa l'identit di questo messo di Dio (ci indica
che la processione ha ripercorso le vicende del passato della Chiesa gettando uno sguardo anche sul
futuro, anticipando la profezia che sar al centro del Canto successivo e che chiuder, in certo modo, la
stessa Cantica).

Note e passi controversi


La decenne sete (v. 2) allude al fatto che Beatrice era morta nel 1290, quindi nell'anno 1300 sono trascorsi
circa dieci anni da quando Dante l'ha vista per l'ultima volta.
Ai vv. 4-5 parete / di non caler indica che Dante, tutto assorto nella visione di Beatrice, non si cura di
quanto gli avviene intorno.
La similitudine ai vv. 19-24 rappresenta la processione che torna indietro, non facendo semplicemente
dietro-front, ma operando una conversione di fronte in modo che ognuno resti nella stessa posizione
(dunque i candelabri aprono nuovamente il corteo, seguiti dai ventiquattro seniori, ecc.). Ai vv. 22-24 si
dice che la processione passa oltre Dante, Matelda e Stazio prima che il carro, al centro del corteo, ruoti
verso destra.
Il fatto che le penne del grifone non si muovano nel trainare il carro (v. 27) pu indicare che Cristo guida
la Chiesa con mezzi spirituali e non materiali (cfr. l'angelo nocchiero di II, 31-33), oppure che la giustizia
divina immutabile.
La rota / che f l'orbita sua con minor arco (vv. 29-30) la ruota destra del carro, che volgendosi a destra
quella che ha percorso un arco meno ampio.
Il v. 51 (e quel di lei a lei lasci legato) indica quasi certamente che il grifone lega il timone all'albero con
una frasca dell'albero stesso.
Al v. 54 lasca vale genericamente pesce, anche se la lasca un tipo di pesce della specie dei Ciprinidi:
Dante allude alla costellazione dei Pesci, dietro la quale viene quella dell'Ariete che congiunta col sole
in primavera.
Quella ai vv. 64-69 una similitudine apparente, poich Dante non pu rappresentare il modo in cui si
addorment non avendo un modello cui rifarsi; egli ricorre pertanto al mito di Argo ucciso da Mercurio,
che per sottrargli la ninfa Io amata da Giove e trasformata in vacca che gli era stata affidata da Giunone,
lo aveva fatto addormentare narrandogli degli amori di Pan e Siringa. Dante cita Ovidio (Met., I, 568 ss.)
che, al pari di lui, non descrive il momento in cui Argo chiude gli occhi.
La similitudine ai vv. 73-84 descrive l'episodio evangelico (Matth., XVII, 1-8; Marc., IX, 1-7; Luc., IX,
28-36) della trasfigurazione di Ges, cui assistettero sul monte Tabor gli apostoli Pietro, Giovanni e
Giacomo; essi videro Ges con una veste candida che li abbagli, in compagnia di Mos ed Elia, poi
svennero. Al loro risveglio Ges era rimasto solo e la sua veste era tornata normale. L'espressione fioretti
del melo (v. 73) vuol dire un saggio dello splendore di Cristo, poich l'associazione melo-Cristo di
ascendenza biblica.
I lumi (v. 98) tenuti in mano dalle sette ninfe sono probabilmente i sette candelabri, anche se essi erano
stati descritti come molto grandi e simili ad alberi (XXIX, 43-50); c' chi ha pensato alle sette lampade
della parabola evangelica delle vergini savie.
L'espressione or da poggia, or da orza (v. 117) del gergo marinaro, poich i due termini indicano il lato
sottovento e sopravvento della nave: qui Dante vuol dire che il carro ondeggia da una parte all'altra.
La volpe del v. 119 l'eresia, cos rappresentata nel Medioevo per via dell'astuzia proverbiale
dell'animale.
Al v. 122 futa forma popolare per fuga (cfr. il dialetto genovese, fta).

Purgatorio, Canto XXXIII


Argomento del Canto
Ancora nel Paradiso Terrestre. Profezia di Beatrice sul DXV e missione di Dante. Matelda conduce
Dante e Stazio a bere l'acqua dell'Euno.
mezzogiorno di mercoled 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Canto delle sette donne e sospiro di Beatrice (1-12)
Le sette donne intonano un canto alternandosi fra loro (prima le tre poi le quattro), col quale lamentano
tra le lacrime la distruzione del Tempio di Gerusalemme; Beatrice sospira profondamente, simile a Maria
ai piedi della croce dove fu ucciso Ges. Quando le donne tacciono, Beatrice si alza in piedi e, rossa di
sdegno, afferma che fra poco tempo non la si vedr pi, poi riapparir nuovamente, come disse Cristo
nell'Ultima Cena.
Beatrice profetizza la venuta del DXV (13-51)
Beatrice si pone le sette donne di fronte, quindi si mette in cammino accennando a Dante, Matelda e
Stazio di seguirla. Dopo aver percorso circa nove passi, Beatrice si rivolge a Dante e lo invita ad affrettare
il cammino per potergli parlare pi da vicino. Dante obbedisce e, una volta vicino alla donna, questa gli
chiede perch non le domandi nulla. Il poeta risponde con voce esitante, come qualcuno che intimorito
dalla presenza di un superiore, e spiega che Beatrice conosce bene ci che gli serve senza bisogno che lui
chieda. Beatrice ribatte che Dante deve ormai abbandonare ogni vergogna e parlare in modo meno
confuso, poich il carro che stato rotto dal drago non esiste pi e il responsabile di questo pu stare
certo che la punizione divina lo colpir inesorabile. L'aquila che lasci le penne nel carro, prosegue, non
rester a lungo senza eredi e Beatrice profetizza che di l a poco le stelle saranno favorevoli alla venuta di
un cinquecento, dieci e cinque che sar un inviato di Dio e che uccider la prostituta e il gigante che
traffica con lei. Forse, aggiunge Beatrice, la sua profezia risulta troppo oscura per Dante, ma presto i fatti
toglieranno ogni dubbio senza causare alcun danno.
Missione di Dante. Oscure parole di Beatrice (52-78)
Beatrice invita Dante a prendere nota delle sue parole, in modo da riferirle ai vivi sulla Terra, senza
scordare di descrivere il modo in cui l'albero simbolico stato depredato due volte. Aggiunge che
chiunque danneggia quella pianta compie un atto sacrilego contro Dio, che la cre inviolabile solo per i
propri fini. Adamo, per aver morso il frutto di quell'albero, attese pi di cinquemila anni nel Limbo prima
che arrivasse Cristo trionfante, che col suo sacrificio riscatt il peccato originale. Dante vaneggia se non
comprende la ragione per cui l'albero capovolto e si estende tanto verso il Cielo; e se il suo ingegno non
fosse stato indurito da vaneggianti pensieri, capirebbe solo da questi segni il significato simbolico
dell'albero. Tuttavia, poich Beatrice si avvede che l'intelletto di Dante ancora ottenebrato, desidera che
il poeta porti con s almeno un'immagine sommaria di quanto gli ha detto, se non proprio tutto quanto
scritto nella mente.
Insufficienza della dottrina seguita da Dante (79-102)
Dante risponde che il suo cervello conserva l'impronta delle parole di Beatrice, come della cera segnata da
un sigillo. Ma perch, chiede, i discorsi della donna superano la sua capacit di comprenderli, al punto
che l'intelletto si perde quanto pi si sforza di seguirli? Beatrice risponde che ci serve a far capire a
Dante che la dottrina da lui seguita finora insufficiente a capire le sue parole, poich la via che ha
percorso dista tanto da quella di Dio quanto la Terra distante dal Primo Mobile. Dante ribatte di non
ricordare affatto di essersi allontanato dal culto di Beatrice e questa spiega sorridendo che il poeta non
pu ricordarlo, avendo bevuto l'acqua del Lete; il fatto che tale ricordo sia stato cancellato, del resto, la
prova evidente del fatto che tale azione da considerare peccaminosa. Da questo momento, conclude
Beatrice, le sue parole saranno all'altezza dell'ingegno ancora rozzo del poeta, perch lui possa capirle.
Matelda conduce Dante e Stazio all'Euno (103-135)
Il sole ha ormai raggiunto il meridiano, essendo pi luminoso e lento ( mezzogiorno), quando le sette
donne che aprono il corteo si fermano, come fanno le guide quando trovano qualcosa di nuovo lungo il
cammino. Il gruppo ha raggiunto un punto dove i raggi solari penetrano debolmente, simile a una radura
in alta montagna: qui Dante vede due fiumi (il Lete e l'Euno) che sgorgano da un'unica fonte e poi si
dipartono, simili al Tigri e all'Eufrate. Dante, stupito, chiede a Beatrice quali siano quei fiumi e la donna
invita il poeta a chiedere a Matelda. Questa ribatte di aver gi fornito la spiegazione a Dante e che questo
ricordo non pu essere stato cancellato dal Lete, per cui Beatrice conclude che l'attenzione prestata da
Dante ad altro ha forse provocato in lui questa dimenticanza. Beatrice indica poi a Matelda l'Euno,
invitando la bella donna a condurre l Dante per ravvivare la sua virt. Matelda obbedisce prontamente e
conduce Dante e Stazio al fiume.
Dante beve l'acqua dell'Euno (136-145)
Se Dante avesse pi spazio da dedicare alla scrittura potrebbe descrivere il modo in cui bevve l'acqua
dell'Euno, che ha un sapore cos dolce che non sazia mai: tuttavia, poich la II Cantica del poema
ormai ultimata, il freno dell'arte lo costringe a passare oltre. Dante, dopo aver bevuto, si allontana dalle
acque sante del fiume completamente rinnovato nell'animo, come le piante in primavera rinnovano del
tutto le loro fronde, cosicch ormai purificato e pronto a salire in Cielo.
Interpretazione complessiva
Il Canto conclude la sacra rappresentazione che ha avuto inizio con l'ingresso di Dante nell'Eden e pi
in particolare costituisce un epilogo e una chiosa alla vicenda allegorica del carro che stata al centro del
Canto precedente, attraverso le parole oscure di Beatrice che profetizza la venuta di un messo di Dio
destinato a ristabilire la giustizia in Terra. L'inizio si ricollega al finale proprio del Canto XXXII, quando
il gigante aveva trascinato via il carro simboleggiando l'inizio della cosiddetta cattivit avignonese: le
sette donne-virt cantano piangendo il Salmo 'Deus, venerunt gentes', che era dedicato alla profanazione
del Tempio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, mentre il trasferimento della sede papale ad
Avignone viene interpretato da Dante quale atto sacrilego compiuto da Filippo il Bello che era
rappresentato proprio dal gigante. Beatrice paragonata a Maria dolente ai piedi della Croce, in quanto
afflitta per la violenta lacerazione avvenuta in seno alla Cristianit, e usa le parole di Ges all'Ultima
Cena quando dice che di l a poco non la si vedr pi, mentre riapparir dopo qualche tempo.
improbabile che tale affermazione sia da riferire al significato allegorico di Beatrice come teologia,
mentre si pensa che la donna parli della sede papale destinata a lasciare Roma e poi a tornare, anche se
difficile dire che Dante, qui, profetizzi un pronto ritorno del pontefice in Italia (la sede papale torner a
Roma solo nel 1377). Certo questa oscura affermazione di Beatrice, che usa un linguaggio scritturale
denso di significato sacro, anticipa la profezia che occuper i versi seguenti e che prelude, forse, anche
alla fine della cattivit avignonese nell'ambito di un generale ristabilimento della giustizia.
Subito dopo la processione si rimette in marcia, con le sette donne che aprono il corteo e tutti gli altri a
seguire, mentre Beatrice invita Dante ad avvicinarsi per poter meglio ascoltare le sue parole. Il discorso di
Beatrice occupa tutta la parte centrale del Canto e mostra il personaggio nello stesso atteggiamento che
vedremo tante volte nel Paradiso, ovvero di guida e maestra del poeta che sar spesso invitato a
domandare spiegazioni per sciogliere i suoi dubbi in materia dottrinale (qui la donna esorta bruscamente
Dante a lasciare ogni timore e vergogna, dovuti in precedenza all'ammissione del suo peccato, e a non
parlare pi come un uomo che vaneggia). La prima parte del discorso di Beatrice l'oscura profezia della
punizione divina che si abbatter contro i responsabili della corruzione della Chiesa, indicata come il vaso
(il carro della processione simbolica) rotto dal serpente rappresentato dal drago: il carro, dice Beatrice, fu
e non (sono le parole con cui l'Apocalisse parla della bestia in cui il carro si tramutato nel Canto
precedente), in quanto la Chiesa pervasa dalla corruzione come inesistente, ma presto Dio colpir chi ha
colpa di questo in modo inesorabile. Beatrice preannuncia la venuta di un inviato di Dio, il cinquecento
diece e cinque destinato a occupare la sede vacante dell'Impero e a uccidere la prostituta e il gigante che
mercanteggia con lei, quindi, fuor di metafora, a sconfiggere la monarchia francese e a ristabilire la
giustizia in Terra stroncando la corruzione che affligge la Curia pontificia. Le parole della donna sono
troppo oscure per stabilire chi possa celarsi dietro questo misterioso DXV, ma l'accenno all'aquila che
non rester a lungo sanza reda fa pensare che si tratti di un imperatore destinato a ricondurre l'Italia e
Roma sotto il suo dominio, forse quell'Arrigo VII di Lussemburgo che nel 1310-1313 fu protagonista di
un tentativo analogo e sfortunato (tale ipotesi verrebbe avvalorata dalla certezza, che per non abbiamo,
che questo Canto sia stato composto da Dante in quel periodo e dunque prima della morte del sovrano nel
1313). Al di l dell'identificazione del personaggio, per cui si veda oltre, certo che Dante attribuiva le
cause del disordine politico e morale del suo tempo soprattutto alla mancanza di un'autorit imperiale in
Italia e alla dilagante corruzione ecclesiastica, che avevano raggiunto il loro culmine proprio nella
cattivit avignonese; chiunque sia il DXV, pare ovvio che da lui il poeta si aspettasse un profondo
rinnovamento politico e sociale, nonch il ristabilimento della giustizia fino a quel momento calpestata
dai potenti per la loro avidit, per cui la profezia di Beatrice suona come l'annuncio di una dura punizione
per tutti coloro che avevano offeso la giustizia divina (in questo senso la donna esorta Dante a trascrivere
tutto nel poema e, in particolare, a descrivere la doppia spoliazione dell'albero simbolico, ad opera di
Adamo e, probabilmente, del gigante, cio della monarchia di Francia).
Il discorso di Beatrice si fa a questo punto pi oscuro e allusivo, con un linguaggio denso di richiami
scritturali che ha la funzione di far capire a Dante l'insufficienza della dottrina filosofica da lui seguita in
passato: la donna spiega che l'albero capovolto rispetto alle piante terrene in quanto simboleggia la
giustizia divina, che ha la sua origine in Cielo e che nessuno dovrebbe danneggiare offendendo Dio, e
Dante lo capirebbe da solo se il suo ingegno non fosse ottenebrato e indurito dai suoi precedenti
vaneggiamenti, con un riferimento al traviamento intellettuale che gli ha rimprovetato nei Canti XXX-
XXXI. Beatrice afferma che tali pensier vani hanno offuscato l'ingegno di Dante come l'acqua calcarea
del fiume Elsa e l'hanno oscurato come il sangue di Piramo aveva mutato il colore dei frutti del gelso, con
due similitudini difficili e di elegante artificiosit; aggiunge che Dante dovr conservare un'immagine
sommaria delle cose da lei dette, come il pellegrino in Terrasanta porta una frasca di palma sul bordone in
ricordo del suo pellegrinaggio. Dante chiede a Beatrice come mai le sue parole siano cos ardue a
comprendersi e la risposta di Beatrice sottolinea l'enorme distanza che c' tra la dottrina seguita da Dante
in precedenza e la teologia, indicando il peccato di Dante come un allontanamento dalla teologia la quale
dovr, d'ora in avanti, fornire al poeta ogni risposta alla sua sete di conoscenza (si veda a riguardo la
Guida al Canto XXX). Il fatto che Dante non ricordi questo tradimento di Beatrice significativo,
poich l'acqua del Lete ne ha cancellato il ricordo e ci dimostra che si trattava di una condotta
peccaminosa, come dal fummo foco s'argomenta.
Il Canto si conclude con l'arrivo alla fonte da cui sgorgano Lete e Euno, paragonati a Tigri ed Eufrate che
secondo il libro della Genesi scorrevano essi pure nel Paradiso Terrestre, e dei quali il poeta non si ricorda
perch, a detta di Beatrice, la sua attenzione stata assorbita da altro, forse dalla processione simbolica.
Beatrice incarica Matelda (nominata qui per la prima e unica volta) di condurre Dante e Stazio all'acqua
dell'Euno, come la donna solita fare, perch bevendo da essa si rafforzi la memoria del bene compiuto
e si perfezioni il rito di purificazione che prelude all'ascesa in Paradiso: la fine della Cantica coincide con
un'elegante preterizione, con la quale Dante rimpiange di non avere maggiore spazio da dedicare alla
descrizione del gusto dell'acqua del fiume che mai lo sazierebbe, mentre ormai la cantica seconda giunta
al termine e lo fren de l'arte non gli permette di procedere oltre. Gli ultimi versi del Purgatorio descrivono
il ritorno di Dante dal fiume sacro totalmente purificato dai suoi peccati, attraverso la replicazione piante
novelle / rinovellate di novella fronda e la similitudine della pianta che a primavera si ricoperta di nuovi
fiori, forse con un riferimento al paesaggio desolato della selva iniziale, mentre il poeta ormai puro e
disposto a salire a le stelle.
La profezia del DXV
, assieme a quella del veltro del Canto I dell'Inferno, la pi oscura del poema e ha con quella pi di
un'analogia, dal momento che entrambe preannunciano la venuta di un personaggio che dovr ristabilire
la giustizia sulla Terra e si collocano, simmetricamente, all'inizio e alla fine rispettivamente della I e della
II Cantica della Commedia. Secondo molti commentatori il veltro e il DXV sarebbero in realt la
stessa persona, anche se la prima profezia molto pi indeterminata e indica soltanto che questo
personaggio dovr scacciare la lupa-avarizia dal mondo, senza fornire ulteriori dettagli che consentano la
sua identificazione; il DXV viene invece messo in relazione all'aquila imperiale che, si dice, non rester
a lungo senza eredi, per cui pare che il personaggio indichi un imperatore, destinato a ristabilire il suo
dominio sull'Italia e a sconfiggere la monarchia francese, eventualmente riportando la sede papale da
Avignone a Roma. Molti hanno naturalmente pensato ad Arrigo VII di Lussemburgo che fu protagonista
di una sfortunata discesa in Italia nel 1310-1313 e al quale Dante indirizz l'Epistola VII nel 1311 (dai
toni molto simili a quelli della profezia), anche se ignoriamo la data di composizione del Canto XXXIII
del Purgatorio; pu darsi che all'epoca il sovrano fosse ancora vivo e che in seguito, dopo la sua morte nel
1313, Dante non abbia sentito l'esigenza di modificare la profezia per il suo carattere oscuro, confidando
nell'avvento di un altro personaggio in grado di realizzare l'opera non riuscita all'imperatore. Vari studiosi
hanno pensato a Cangrande della Scala, gi associato alla profezia del veltro ed esaltato da Cacciaguida
nel suo discorso di Par., XVII, 76-93, per quanto il fatto di essere vicario imperiale non autorizza forse a
indicarlo come reda (erede) dell'aquila della processione di Purg., XXXII.
La scelta di indicare il messo di Dio con la formula cinquecento diece e cinque rimanda probabilmente
all'Apocalisse, dove ad esempio Nerone viene indicato col numero 666 poi associato all'Anticristo:
moltissime sono state le interpretazioni da parte degli studiosi, a cominciare da quella ovvia che considera
il numero romano DXV come anagramma di DVX (dux, condottiero) e lo riferisce appunto a un
imperatore destinato a una vittoriosa crociata contro la monarchia francese o i Comuni ribelli dell'Italia
settentrionale. Alcuni hanno considerato il numero 515 cercandovi vari significati, incluso quello secondo
cui 515 + 800 (l'anno della craazione del Sacro Romano Impero) = 1315, l'anno in cui secondo le profezie
gioachimite ci sarebbe stata la redenzione della Chiesa; altri hanno visto in DXV un acrostico del tipo
Domini Xristi Vertagus (levriero del signore Ges Cristo), Domini Xristi Vicarius (vicario del signore
Ges Cristo), mentre alcuni hanno pensato addirittura allo stesso Dante (Dante Xristi Vertagus,
interpretazione quanto meno originale). Quale che sia l'identificazione corretta, questione sulla quale
esiste una vasta letteratura critica e che destinata forse a restare insoluta, resta la sostanza della profezia
messa in bocca a Beatrice che parte della coraggiosa denuncia del poeta contro la corruzione e la
degenerazione del suo tempo, nonch la fede incrollabile nell'avvento di un personaggio inviato da Dio a
rimettere le cose a posto e assicurare al mondo la giustizia, tema che sar ripreso nei Canti centrali del
Paradiso e che costituisce il motivo ricorrente dell'intero poema. significativo che il percorso di
redenzione di Dante, che ha attraversato i primi due regni dell'Oltretomba mostrando tutto il male del
mondo, si concluda in certo modo con questa profezia, che per quanto oscura dichiara la fiducia del poeta
in una prossima palingenesi politica e morale, desiderio forse utopistico ma che nasce dal profondo
rammarico per la degenerazione cui l'Italia del primo Trecento era giunta e contro la quale Dante leva
fortissima la sua protesta e la sua denuncia.
Note e passi controversi
Il v. 1 cita il versetto iniziale del Salmo LXXVIII, Deus, venerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt
templum sanctum tuum (O Dio, i Gentili sono penetrati nella tua eredit, hanno profanato il tuo sacro
Tempio); Dante paragona la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera del re babilonese
Nabucodonosor del 587 a.C. alla cattivit avignonese.
I vv. 10-12 attribuiscono a Beatrice le parole pronunciate da Ges nell'Ultima Cena (Ioann., XVI, 16):
Modicum, et iam non videbitis me, et iterum modicum, et videbitis me quia vado ad Patrem (Ancora un
poco, e non mi vedrete pi; e un altro poco, poi mi vedrete di nuovo, poich vado al Padre mio). I vv. 10
e 12 hanno una scansione irregolare, a meno di non accentare fortemente et.
Il savio che ristette (v. 15) Stazio, rimasto con Dante a differenza di Virgilio che se ne andato.
I vv. 16-18 indicano che Beatrice si rivolge a Dante prima di compiere il decimo passo, quindi dopo
averne fatti nove (il numero simbolico e forse rimanda alla Vita nuova in cui nove il numero di
Beatrice).
L'espressione fu e non (v. 35) ripresa da Apoc., XVII, 8: bestia, quam vidisti, fuit et non est, dove la
bestia lo stesso mostro in cui si tramutato il carro della Chiesa nel Canto XXXII. Dante intende dire
che la Chiesa, pervasa dalla corruzione, come inesistente.
Il v. 36 (che vendetta di Dio non teme suppe) stato interpretato nei modi pi vari, per il senso non chiaro
di suppe: i commentatori antichi citavano un'usanza per cui l'omicida che avesse mangiato una zuppa
sulla tomba dell'ucciso per nove giorni consecutivi era certo di scampare la punizione; altri hanno pensato
a un rito dei re francesi che si facevano giurare fedelt dai vassalli con un pezzo di pane intriso nel vino;
altri ancora, tra cui Pietro di Dante, hanno inteso suppa come offa e hanno interpretato il messo di Dio
come il veltro, che non potr essere ammansito con una focaccia come nel caso di Cerbero (il veltro era
appunto un cane da caccia). Il senso generale che la punizione divina non pu essere evitata.
Al v. 44 fuia significa propriamente ladra ed riferito alla prostituta, con allusione alla Curia papale
corrotta e degenere.
Al v. 48 il vb. attuia vuol dire probabilmente affatica l'intelletto.
Le Naiade del v. 49 sono le Naiadi, le ninfe boscherecce del mito classico che non sono mai descritte
come scioglitrici di enigmi. Qui Dante segue un passo di Ovidio (Met., VII, 759 ss.) in cui si legge
Carmina Laiades non intellecta priorum / solverat ingeniis (Edipo, figlio di Laio, aveva risolto l'enigma
prima non compreso da alcun ingegno), ma che alcuni codd. medievali corrotti leggevano Carmina
Naiades, da cui l'equivoco. Nel testo ovidiano, poi, Temi (dea della giustizia) vendica la morte della
Sfinge determinata dallo scioglimento dell'enigma inviando una belva che fa strage delle greggi tebane:
nel Medioevo, invece, Temi era stata identificata con una profetessa in gara con la Sfinge, che si sarebbe
vendicata del disprezzo dei Tebani che si rivolgevano appunto alle Naiadi per sciogliere gli enigmi.
Al v. 67 Beatrice cita l'acqua del fiume Elsa, affluente dell'Arno, che particolarmente calcarea e incrosta
gli oggetti che vi restano immersi; la donna intende dire che i pensier vani seguiti da Dante hanno
offuscato e indurito il suo ingegno.
L'agg. smorta (v. 109) pu significare attenutata, in quanto in quel punto i raggi del sole penetrano
debolmente tra i rami, oppure cupa.
I fiumi Tigri ed Eufrate (v. 112) scorrevano insieme al Gehon e al Phison nell'Eden, secondo Gen., II, 10-
14, tutti nati da una stessa fonte; qui servono a Dante solo come paragone.
Al v. 119 Matelda direttamente nominata per la prima e unica volta nella Cantica.
Al v. 135 l'avv. donnescamente vuol dire con grazia signorile ed l'unica occorrenza del poema.
Il v. 145 che chiude il Purgatorio termina con la parola stelle, come l'ultimo di Inferno (XXXIV, 139) e
Paradiso (XXXIII, 145).

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