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DANTE ALIGHIERI

Volgare Latino                
Dante Vita nova De vulgari eloquentia
Convivio Monarchia
Commedia Epistole
Rime Egloge
Il Fiore Questio de aqua et
Detto d’amore terra

La giovinezza, Firenze, Beatrice


Nato a Firenze nel 1265 riceve una buona istruzione nella grammatica e nella logica e segue
successivamente, lezioni di diritto e di filosofia. Partecipa tra le fila della parte guelfa ai
combattimenti della propria parte contro i ghibellini di Arezzo. Tra adolescenza e giovinezza cade
il secondo evento significativo: l’amore per Beatrice, quando quest’ultima muore precocemente
nel 1290, Dante ricostruisce la storia amorosa nel libretto della Vita nova.

LA VITA NOVA
La Vita Nova è la prima opera di Dante assegnata al biennio 1294-95 ed è l’unica opera
duecentesca e fiorentina (questo a causa del suo esilio da Firenze).
É una sorta di autobiografia giovanile per cui il titolo può anche essere inteso come “vita giovanile”,
anche se è legittima anche l’altra interpretazione di “nova” inteso come rinnovata dall’amore per
Beatrice. L’opera, infatti, si può considerare anche una celebrazione di Beatrice, presentata quasi
come una santa. è un prosimetro, cioè un misto di prosa e versi sul modello del De consolatione
Philosophiae di Severino Boezio.
I componimenti lirici presenti nella Vita Nova sono in tutto 31 e appartengono a delle tipologie
metriche diverse:
 25 appartengono alla tipologia metrica del sonetto;
 3 sono canzoni, considerate da dante nel De vulgari eloquentia come la forma metrica più
importante, esse segnano dei nodi di transizione importanti nella storia dell’opera, testi
cardine dell’opera;
 1 ballata, forma molto amata dai poeti stilnovisti;
 2 sono frammenti di canzoni: uno è una stanza di canzone, l’altro è 1 frammento di
canzone consistente in due strofe;
Ci sono esempi di questo genere di scrittura anche nella letteratura antica latina ma la
caratteristica del prosimetro dantesco, rispetto ad altri prosimetri, è quella di essere un prosimetro
scritto in due tempi diversi per la parte in prosa e per quella in versi. Per definire i prosimetri così
strutturati si parla “prosimetro diacronico”, infatti, Dante scrisse prima la parte in versi, poi quella in
prosa e infine unì le due parti. Qualora, invece, un prosimetro risulti scritto continuativamente si
parla di “prosimetro sincronico”.
Dante riferisce della prima volta in cui gli appare Beatrice, a nove anni, e di quando la rivede nove
anni dopo, insistendo sul numero nove come segno di perfezione in quanto multiplo di tre,
indicativo della trinità. Si passa poi al “saluto” che Beatrice rivolge al poeta e tanto il saluto, da
intendersi, alla luce dell’etimologia latina, come “salvezza”, quanto il nome stesso della donna,
portatrice di beatitudine, prefigurano allusivamente una destinazione non mondana dell’incontro,
rafforzata da un’enigmatica visione che il poeta ha dopo essere stato gratificato del saluto.
La data di composizione (1294-1295) della Vita Nova si riferisce alla stesura della parte in prosa.
Le parti in versi già preesistevano, furono scritte intorno al 1283, anno che corrisponde ai 18 anni
di Dante.
Si evince che Dante iniziò a comporre i suoi primi componimenti in versi subito dopo il suo
secondo incontro con Beatrice avuto a 18 anni, e in quell’occasione Beatrice gli avrebbe rivolto il
primo di altri saluti. Il saluto dispone Dante all’amore, poiché sul piano dei rapporti sociali, esige
discrezione e segretezza, secondo le regole dell’amor cortese, cui il poeta si attiene nella prima
fase della sua esperienza e del libretto che la racconta. Dante mette in atto una strategia di gesti e
di atti che possano celare la vera identità della donna da lui amata. La soluzione è quella di
simulare e far credere che ad altra donna sia indirizzato il suo interessamento: una <<gentile
donna schermo>> che gli consente di conservare il segreto sulla gentilissima donna cui veramente
è indirizzato il suo amore. Quando la donna dello schermo si allontana da Firenze, il poeta rivolge
il suo fittizio amore a una seconda donna dello schermo, ma le voci del suo comportamento
giungono a Beatrice, che lo punisce togliendoli il saluto. Questo saluto gli avrebbe prodotto un tale
sconvolgimento che lo avrebbe indotto a scrivere il suo primo componimento intitolato “A
ciascun’alma presa e gentil core”.
Questo sonetto racconta di un sogno che Dante aveva avuto, quando, dopo l’incontro con
Beatrice, si era ritirato nella sua stanza. Durante il sogno Dante vede Amore personificato che
tiene in braccio una donna addormentata. In una delle mani Amore tiene il cuore del poeta e, dopo
aver svegliato la donna, le fa mangiare il cuore, cosa che ella fa «dubitosamente», cioè con paura.
A questo punto il poeta vede Amore, con la donna tra le braccia, andare verso il cielo, piangendo.
Dante decide quindi di mandare questo sonetto ad altri poeti, cercando di ottenere delle
spiegazioni in merito al sogno.
Nella prosa che segue, infatti, il sonetto racconta di alcune risposte che aveva avuto, in particolare,
quella di Guido Cavalcanti, Dante da Magliano (omonimo di Dante) e Terino da Castelfiorentino.
Tra queste risposte Dante allude, nella Vita Nova, solo a quella di Guido Cavalcanti che gli fa gioco
per accreditare l’identificazione di questa Madonna con Beatrice, perché Cavalcanti dice che
Amore dà da mangiare alla donna il cuore del poeta, quindi di Dante stesso, per cui si parla di una
donna di cui Dante è innamorato.
L’opera è stata scritta dopo la morte di Beatrice (Beatrice muore nel 1290); all’interno dell’opera si
parla anche di un altro amore per una donna che lo avrebbe consolato dalla morte di Beatrice, un
amore che avrebbe poi ripudiato per tornare al culto dell’amore per Beatrice. Per concludere la
narrazione, nella canzone si immagina di avere una mirabile visione in cui appare Beatrice nella
beatitudine dell’empireo, una visione che non descrive perché è impossibile.

Bisogna cercare di essere precisi quando si presenta un'opera di un autore riguardo:


-la forma in cui è scritta
- il genere letterario a cui appartiene
poiché dire opera non è abbastanza definitorio: opera è un iperonimo, un nome onnicomprensivo
in quanto tutte sono opere della letteratura (ovviamente se io dico che la Vita Nova è un'opera
come la Commedia, come il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio..., non è che do a
chi mi ascolta delle informazioni più chiare per capire le differenze tra questi testi, quindi è sempre
bene essere precisi).
Esistono varie forme di scrittura di un’opera e le principali sono:
- in versi: esistono testi in versi particolarmente lunghi detti POEMI e testi in versi brevi detti
COMPONIMENTI LIRICI (Canzoniere composto da 366 componimenti appartenenti a 5 tipologie
metriche -proprie dei componimenti lirici- distinte: sonetto, canzone, ballata, sestina e madrigale);
- in prosa (es. La regina di Madonna Fiammetta, ‘romanzo’ di Boccaccio);
- prosimetro (mista tra prosa e versi) che appunto è quella a cui appartiene la Vita Nova.
Commedia, Orlando furioso, Gerusalemme liberata sono dei poemi, scritti in endecasillabi,
secondo aggregazioni strofiche diverse - le due grandi famiglie di aggregazione in cui è usato
l’endecasillabo nel poema sono le terzine a rima incatenata o dantesca (quasi sempre questi
poemi hanno un tema allegorico, sono perciò anche detti poemi allegorici: oltre alla Commedia, i
Trionfi di Petrarca e L’amorosa visione di Boccaccio).
L’innamorato e il furioso sono invece due poemi cavallereschi, non allegorici in quanto trattano
delle avventure dei paladini, dei cavalieri di Carlo Magno: sono scritti in endecasillabi, ma non con
aggregazioni strofiche a rima incatenata bensì divisi in gruppi di 8 versi, dunque in ottave con uno
schema preciso di rime, ossia rima alternata nei primi quattro versi e rima baciata negli ultimi due
(la Commedia invece si presenta come un insieme di versi che si susseguono senza stacchi, in un
continuum che viene spezzato solo dal poeta quando decide di finire il canto).
Il poema è un genere letterario particolarmente diffuso nella storia della letteratura italiana, perché
occupa a pieno titolo la dimensione della narratività, nel senso che per secoli intellettuali, scrittori,
letterati italiani che hanno voluto narrare qualcosa, si sono affidati alla poesia, in particolar modo al
poema. Anche uno dei maggiori narratori trecenteschi, ossia Boccaccio, che scrive un'opera in
prosa come il Decameron, non ha narrato solo in prosa, ma anche in versi: tutta la produzione
degli anni napoletani, come la Caccia di Diana, Il Filostrato, il Teseida sono dei poemi e quindi
Boccaccio, oltre a narrare storie nelle 100 novelle del Decameron, si è cimentato nella forma del
poema che è stata la forma principe in cui si è svolta la finzione narrativa della letteratura italiana
fino all’800, fino a quando lo spazio narrativo occupato dal poema comincia piano piano ad essere
sostituito da un altro genere che è quello del romanzo. Uno dei più grandi esponenti del romanzo
storico italiano è Alessandro Manzoni: anch’egli nella sua produzione giovanile aveva avuto modo
di praticare il genere del poema. Manzoni da giovane scrive un poemetto mitologico che si intitola
L'Urania, nome di una delle muse.
Il termine romanzo si applica in maniera, legittima soltanto a un certo tipo di narrazione in prosa
dal tardo 700 in poi; nulla toglie al fatto che si definiscono appunto romanzi anche delle narrazioni
in prosa che contemplano anche vicende piuttosto intersecate, piene di avventure, sia in età
ellenistica (si parla infatti del romanzo ellenistico) sia nella tarda latinità ( es. Asino d’oro di Apuleio,
alcuni inseriscono il Satyricon, anche se in realtà si tratta di un'etichetta forzata, perché il termine
romanzo di per sé è un termine strettamente connesso alla lingua romanica, una delle lingue
neolatine nelle quali cominciano queste narrazioni di vicende particolarmente avventurose). E
quindi si applica in questo termine retrospettivamente a dei testi anche della tarda latinità o dell'età
ellenistica che hanno le stesse caratteristiche, cioè quelle di narrazioni in prosa, di vicende di un
personaggio particolarmente incredibile, con un intreccio piuttosto complesso che poi arriva ad uno
scioglimento.
Bisogna dire che però il termine romanzo viene usato anche in senso improprio quando lo
applichiamo a testi anteriori al XVIII secolo: quindi o precisiamo che lo usiamo in senso lato (quindi
possiamo usarlo) o altrimenti è meglio parlare come di una narrazione in prosa, come la Regina di
Madonna Fiammetta, assimilabile a quella del romanzo moderno con connotazione psicologica,
perché poi nella storia di Fiammetta, i fatti che accadono sono pochi e principalmente è lei che
parla dei suoi ricordi, della sua esperienza: di conseguenza il termine romanzo in senso tecnico
non sarebbe facilmente applicabile.
Quindi questo per dire che, nella famiglia della prosa, possiamo distinguere diverse tipologie
narrative: la storia di Fiammetta è infatti una narrazione lunga a differenza del Decameron, una
raccolta di novelle, che presenta un'estensione più circoscritta.
Il De Vulgari Eloquentia è invece un trattato, quindi è un'opera in prosa latina, un'opera narrativa di
carattere scientifico (tratta appunto qualche argomento); altro esempio è il Principe di Machiavelli,
anch’esso un trattato in prosa volgare, di tipo politico.
Prendendo spunto dal sonetto A ciascun arma presa e gentil core viene inoltre presentato il
concetto di tenzone, uno scambio poetico in versi che di fatto lega il sonetto di Dante con quelli
degli altri poeti che lo risposero: solitamente il metro impiegato in questi scambi, soprattutto in
ambito italiano, è il sonetto (nato nell’ambito della scuola siciliana) poiché breve e consente
un'articolazione sufficiente del quesito che il poeta (che apre la tensione, per questo si chiama
proponente in quanto propone un quesito), offre al suo pubblico. Non per questo bisogna pensare
che le tenzoni poetiche, prima dell'invenzione del sonetto, non esistessero: la consuetudine di
scambiarsi versi è presente anche nella poesia provenzale, nella poesia in lingua d’oc e in quel
caso, i poeti provenzali si scambiavano semplicemente delle stanze di canzoni dette cobla (e in
ambito italiano il sonetto ha ricoperto in modo ottimale questa funzione di testo di scambio).
Il testo di chi apre la tenzone si chiama proposta poiché propone un quesito che a sua volta
richiede una risposta, mentre i sonetti di risposta si chiamano risposte; se poi il proponente
risponde di nuovo a chi lo ha risposto, si parla di replica, cioè tutti i secondi sonetti dello stesso
poeta nell'ambito di uno scambio poetico (possono esserci quindi una o più repliche).
Generalmente si parla di Tenzone aperta se il proponente non si rivolge a un poeta particolare (es.
sonetto di Dante, in quanto non si rivolgeva a qualcuno in particolare se non a qualunque anima
presa d'amore e a qualunque cuore gentile; che poi dovessero essere poeti lo si può capire dal
fatto che solo un poeta poteva rispondere a Dante con un altro sonetto: poeti innamorati, poeti che
conoscevano la materia amorosa di cui Dante parlava e che di conseguenza potevano rispondere
al suo quesito). Si parla invece di Tenzone chiusa se il proponente si rivolge ad un interlocutore in
particolare (es. scambio di sonetti di Dante: sono molti perché i due poeti si replicano a lungo l'uno
all'altro prima di porre fine alla tenzone; un esempio è rappresentato dalla tenzone di Dante con il
suo amico Forese Donati che poi incontra nel purgatorio e durante il colloquio che ha con lui
ricorda anche quel periodo della loro vita giovanile in cui si erano scambiati questi versi fintamente
ingiuriosi, nel quale si rinfacciano reciprocamente delle colpe e dei vizi -si trattava di un modo
codificato di scambiarsi dei testi).
Le (uniche) 3 canzoni della Vita Nova sono:
1. Donne ch’avete intelletto d’amore
2. Donna pietosa e di novella etate (canzone presagio sulla morte di Beatrice),
3. Li occhi dolenti per pietà del core (canzone planctus per la morte di Beatrice);
la seconda e la terza sono legate alla morte di Beatrice, un evento che, pur essendo principale,
viene rimosso dal libro perché Dante non lo racconta in presa diretta, ma lo anticipa nella canzone
presagio e lo commenta nella canzone planctus, cioè nella canzone che piange della morte di
Beatrice come fatto già avvenuto.

LA LEZIONE DEGLI ANTICHI


Parlando della Vita Nova possiamo iniziare a capire qual era il rapporto che Dante aveva con gli
antichi. Dante si confronta con gli antichi durante tutto il corso della sua produzione letteraria,
soprattutto nel genere della Commedia anche semplicemente per la sua scelta di farsi guidare da
Virgilio nell’oltretomba e questo porta con sé tutta una serie di conseguenze che riguardano
l’influenza delle opere latine sulla Commedia. Prima però di arrivare alla Commedia che è un’opera
della piena maturità, Dante ha comunque scritto delle opere facendo riferimento alla poesia
classica: a dire il vero nella Vita Nova questi riferimenti non sono poi così numerosi, anche perché i
modelli di riferimento a cui Dante, poeta volgare, lirico, si rifaceva durante la stesura dei
componimenti lirici della Vita Nova erano i poeti della generazione a lui precedenti, dunque pre-
stilnovisti, siciliani oppure, andando indietro, alla poesia cortese in lingua d’oc, quindi alla poesia
provenzale. Nonostante la Vita Nuova sia forse, tra tutte le opere dantesche, quella in cui il
confronto con l'antico sia meno evidente, c'è un passo contenuto nel sedicesimo capitolo di
quest’opera in cui Dante confronta la poesia volgare, dunque la poesia lirica d'amore, con la
grande poesia latina: in questo capitolo Dante fa una digressione, cioè si allontana
momentaneamente dal racconto che Dante sta facendo del suo amore giovanile per Beatrice, per
fare una precisazione importante sul rapporto della poesia volgare con la poesia classica.
L'occasione di questa digressione è fornita da un sonetto contenuto nella Vita Nova di Dante ‘Io mi
sentii svegliar dentro a lo core’ in cui egli rappresenta Amore come un personaggio, una figura
umana in carne ed ossa che a un certo punto gli viene incontro, gli sorride e gli parla. Terminato il
sonetto e riprendendo appunto la narrazione della sua storia, Dante mette in guardia il suo lettore
dal ritenere che lui possa considerare Amore come un ente dotato di una fisicità. Prendendo
spunto dalla filosofia Aristotelica egli afferma che bisogna considerare Amore non una sostanza,
bensì un accidente, una caratteristica transitoria dell'essere (in pratica Dante non credeva nella
sostanza amore, ma credeva che l'amore fosse uno stato d'animo o un ‘accidente della
sostanza’, cioè uno stato transitorio che l'essere poteva avere: esiste l’uomo così come esiste
l’uomo innamorato. Nell'uomo innamorato la sostanza è l'uomo e il fatto di essere innamorato è
una caratteristica accidentale, casuale che non definisce la sostanza dell'umanità). Anche nel
primo sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, seppur Dante stava sognando, Amore gli si era
presentato con una figura umana che addirittura coglieva tra le sue braccia la donna amata
addormentata (si tratta di una personificazione, una figura retorica che va a rappresentare un
concetto astratto come l'amore in modo concreto. Se poi acquista personificazione, si parla della
prosopopea, figura retorica che consiste nel dare un nome anche ad una statua o ad un essere
che non ha la facoltà di parola - Dante le ha inserite entrambe nel sonetto ‘Io mi sentii svegliar
dentro a lo core’). Il problema che si pone Dante, dunque, è quello di anticipare un'obiezione che
avrebbe poi potuto ricevere dato l’uso di figure retoriche pertinenti nella poesia antica classica
nelle poesie volgari (per questo motivo censurabili). Dunque Dante in questa digressione afferma,
dopo aver distinto nettamente la poesia in volgare dalla poesia latina, la loro equivalenza sul piano
della dignità artistica: si tratta di un'affermazione talmente rivoluzionaria che Dante vi arriva per
gradi partendo dalla consapevolezza che la lingua volgare è giovanissima, non ha padri illustri
come il latino e di conseguenza sa di non aver dei capisaldi alle sue spalle.
Il suo è quindi un tentativo di nobilitazione della letteratura volgare che necessariamente deve
passare attraverso l'auto nobilitazione: solo Dante può portare il volgare a un livello di
considerazione critica, di prestigio letterario che potenzialmente può avere. Questo è quello che fa
Dante dall'inizio della sua attività poetica fino a quando, con Giovanni del Virgilio, nelle sue
egloghe latine, difendeva la scelta del volgare per il suo poema.
Questi tentativi di nobilitazione della letteratura in volgare cominciano già nella Vita Nuova basti
pensare ad alcuni passi dal cap. 16:

... anticamente non erano dicitori d'amore, in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete
in lingua latina: qui Dante cerca di far comprendere la storia di come è nata la poesia in volgare. Ci
parla però di una poesia monotematica, cioè della poesia d'amore appartenente a tutte le liriche
della Vita Nova: la letteratura di cui sta parlando nella Vita Nova è una letteratura in volgare
circoscritta ad un unico tema, ossia l’amore. Dante ci racconta che anticamente non esistevano
dicitori d'amore, cioè coloro che parlavano d'amore in lingua volgare, anzi trattavano d'amore
soltanto alcuni poeti in lingua latina (afferma quindi che questa poesia d’amore non esisteva in
volgare).
tra noi, dico (...) non volgari ma litterati poete queste cose trattavano.: qui afferma che gli
argomenti amorosi non venivano trattati dai volgari, ma dai poeti letterati (litteratus, colui che
possiede delle lettere, cioè la conoscenza del latino). Quindi questa prima fase serve ad affermare
il fatto che la poesia lirica in volgare, non è sempre esistita.
E non è molto numero d’anni passati che apparirono prima questi poete volgari; qui viene
specificato da quanto tempo esiste questa poesia lirica in volgare e afferma che non sono passati
molti anni da quando sono apparsi questi primi poeti volgari.
N.B L'espressione dicitore, resa come coloro che trattano d'amore, è sì una parafrasi corretta, ma
bisogna tener conto del fatto che Dante, nella vita nuova, usa il termine dire e i suoi derivati (come
dicitore, colui che dice) in accezione tecnica: dire col significato di comporre poesie e dicitore come
poeta, colui che scrive poesie.
Un’altra precisazione da fare sta nel fatto che Dante utilizza per 3 volte la parola poete: la forma
che viene usata per il sostantivo poeta, è un plurale, una forma antica: anche Dante la usa ma in
questo caso si tratta di un latinismo morfologico, in quanto Dante intende tenere ben distinta la
poesia volgare dalla quella latina tanto è vero che ai poeti volgari li chiama ‘dicitori d’amore in
lingua volgare e usa il termine poète soltanto per quelli latini e solo alla terza il termine poète è
associato ai volgari. Ovviamente Dante si rende conto che il suo lettore potrebbe accorgersi di
questa contraddizione in termine perché la dimensione della poesia è estranea alla lingua volgare;
quindi, unire poète con vulgari potrebbe sembrare una contraddizione anche sulla base del suo
ragionamento fatto fino a quel momento.
che dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino,secondo alcuna proporzione:
ossia comporre testi poetici in volgare equivale a dire comporre in versi latini facendo le debite
differenze. Qui Dante afferma che si può accettare l'etichetta di poeti volgari poiché a suo giudizio
la poesia in volgare equivale, dal punto di vista artistico, alla poesia in latino ovviamente facendo le
debite differenze. Dante sapendo scrivere versi in latino sa benissimo che le regole della prosodia
(metrica in lingua latina, una metrica quantitativa, basata sulla durata, sulla lunghezza delle diverse
sillabe) sono diverse dalle regole della metrica in lingua volgare (o metrica della poesia italiana è
una metrica accentuativa e sillabica basata sul numero di sillabe e sulla posizione degli accenti
tonici dei versi per cui si parla: di endecasillabo, verso di 11 sillabe, di un ottonario, verso di 8
sillabe). Dante è consapevole di questa differenza tanto da scrivere ‘dire per rima è quanto dire per
versi’: dire per rima significa comporre poesia in volgare il cui schema metrico è dato dalla
successione delle rime, mentre usa il termine verso per la composizione latina.
E segno che sia picciolo tempo è che se volerno cercare in lingua d’oc e in quella di si, noi non
troviamo cose delle anzi lo presente tempo per .cl. anni.: qui Dante prende in considerazione la
poesia in volgare del sì e la poesia provenzale in lingua d’oc come se appartenessero alla stessa
famiglia, anche se di fatto è così dato che è consapevole del fatto che la poesia italiana è nata
proprio dalla poesia provenzale.
CL equivale a 150 scritto in cifre latine e ci fa comprendere che è da poco tempo che esiste questa
poesia in volgare; quindi, se indaghiamo nella lingua d’oc e in quella del sì non ‘troveremo alcun
componimento poetico riferito ad essa anteriori a 150 anni’. Dante, seppur sbagliando di pochi
decenni, colloca l’inizio della tradizione poetica provenzale che precede, quella italiana, a circa 150
anni prima dalla composizione della Vita Nova (dalla fine del 300, quindi intorno alla metà del
dodicesimo secolo del 1100).
E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuorono li primi che
dissero in lingua di sì: qui Dante aggiunge un’altra cosa importante poiché, in un arco di tempo
relativamente breve (secolo e mezzo di storia della letteratura) riesce a individuare una sorta di
percorso evolutivo della poesia volgare che l’ha portata poi al suo perfezionamento tanto che
Dante definisce rozzi i primi poeti rispetto ai poeti della generazione a cui apparteneva a lui. La
ragione per cui un certo numero di compositori antichi rozzi (ovviamente della tradizione italiana in
volgare) ebbero in passato la fama di saper dire, di saper comporre è che questi furono, quasi
primi tra i primi, poeti a scrivere nella lingua del sì. Dante non fa nomi, non fa riferimenti a nessuna
esperienza poetica e quindi gli studiosi critici hanno cercato di capire a chi potesse fare riferimento:
ovviamente il primo pensiero va ai poeti della scuola siciliana e di conseguenza nasce un questio
spontaneo: è possibile che Dante condannasse così tanto questi poeti quando poi in un'opera
successiva, De Vulgari Eloquentia li esalta?! (egli dice che questi poeti usarono una lingua
eccellente anche se non raggiunse il volgare illustre). Questo quesito impegna molto gli studiosi in
quanto non è di facile soluzione: sembra alludere ai poeti della scuola siciliana come Francesco
Petrarca il quale, all’interno dei Triunfi e in modo particolare nella parte riguardata al ‘Triunfus
cupidinis’ (trionfo d'amore), fa una carrellata sui poeti d'amore di tutti i tempi e quando presenta i
poeti italiani inizia un elenco di poeti, citando i siciliani.
Quando parla dei poeti siciliani immagina che questi nel corteo dei poeti d’amore che vede sfilarsi
davanti in questo trionfo allegorico procedono come ultimi anche se furono i pionieri della
tradizione lirica italiana. La valutazione invece positiva dell'esperienza poetica della scuola siciliana
fatta da Dante nel De Vulgari Eloquentia, non deve necessariamente essere letta come una
contraddizione rispetto a quanto detto nella Vita Nova, poiché egli più che parlare della poesia di
singoli poeti siciliani, esalta l'esperienza poetica della scuola siciliana, soprattutto esalta la figura di
Federico II e il suo ruolo nella fondazione di questa tradizione poetica. Quindi, Dante quel merito
alla poesia siciliana di essere stata la prima grande tradizione poetica in lingua volgare glielo
riconosce comunque e se nella Vita Nova allude ai poeti della scuola siciliana, probabilmente la
sua valutazione coglie più il senso tecnico, si tratta di un giudizio linguistico perché indubbiamente
la lingua poetica, nel periodo di tempo intercorso tra i siciliani e Dante, si era evoluta.
E io primo che cominciò a dire si come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue
parole a donna, alla quale era malagevole d’intendere li versi latini. E questo è contra coloro che
rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal
principio trovato per dire l’amore: il primo che cominciò a comporre liriche d'amore in volgare fu
indotto a farlo dalla volontà di far comprendere le sue parole poetiche ad una donna alla quale era
difficoltoso intendere in versi latini.
Dante qui cerca di dare una risposta al perché è nata la poesia in volgare, perché a un certo punto
i poeti che scrivono in volgare latino, lo conoscono: sarebbe dunque nata dalla necessità di
arrivare alle donne amate dai poeti che non comprendevano il latino data la mancata possibilità di
istruzione. Se questa, dice Dante, è la ragione per la quale è nata la poesia volgare, allora la
poesia volgare deve occuparsi unicamente d'amore e in tutti gli altri ambiti si può benissimamente
usare il latino.
Quindi Dante si dimostra ben consapevole che la giovane letteratura italiana (anche se questo vale
un po’ per tutte le letterature romanze) non può competere per tradizione, per prestigio con le
letterature antiche, infatti, in questa digressione mantiene ben distinti i campi della poesia latina da
quelli della poesia volgare. Però quello che è interessante è che Dante non per questo considera
la poesia volgare, nata di recente, di rango inferiore rispetto a quella classica, certo però limitando
(come fa qui nella Vita Nova) gli argomenti che si possono trattare nel De Vulgari eloquentia, alla
sola materia amorosa: di conseguenza questa promozione che cerca di equiparare la poesia
volgare a quella latina viene controbilanciata negativamente da questa circostanza poiché se
l’unico ambito in cui la poesia volgare può esplicarsi è quello amoroso, questo la rende inferiore
rispetto alla letteratura latina la quale si era cimentata in numerosi campi. Quindi siamo ancora
lontani da porre sullo stesso livello queste due tradizioni: ovviamente col tempo Dante cambierà
idea altrimenti non avrebbe usato il volgare per scrivere la Commedia, poema che mescola la
scienza umana con la scienza divina.
FIORE E DETTO D’AMORE
Fra le opere degli anni che precedono l’esilio si registrano anche due poemetti, il Fiore e il Detto
d’Amore, per i quali manca la certezza della sicura paternità: il sospetto di una possibile paternità
dantesca è sorto perché, nel Fiore compare in due circostanze il nome dell’autore Durante; Dante
è un ipocorismo –una forma abbreviata- di Durante, nome proprio con cui era stato battezzato
l’Alighieri. Altri indizi sono: corrispondenze lessicali, stilistiche, formali, metriche tra i versi del Fiore
e quelli delle Rime e della Commedia.

DE VULGARI ELOQUENTIA
Il De Vulgari Eloquentia è un trattato interrotto da Dante al XIV capitolo del secondo libro: può
essere definito un trattato in parte linguistico e in parte di retorica in quanto, il primo libro è
concentrato esclusivamente su questioni di filosofia del linguaggio e linguistiche, poiché Dante
indaga sull'origine del linguaggio umano e la sua evoluzione storica, la frantumazione dell’idioma
unico originario dell'umanità in diversi idiomi fino ad arrivare a concentrarsi su tre idiomi che oggi
noi definiamo tre lingue tra le lingue romanze: francese antico (lingua d’oil), il provenzale (lingua
d’oc) e l'italiano (lingua del sì, volgare). In un trattato in cui Dante sostanzialmente vuole parlare
del nostro volgare, il fatto che ci sia tanto spazio per il provenzale e il francese antico, si spiega
con la prospettiva letteraria, che questa trattazione ha: Dante cioè non perde occasione, parlando
del volgare, di confrontarlo con le due altre lingue che hanno già sviluppato una tradizione
letteraria di grande prestigio (provenzale: tradizione soprattutto lirica, quindi in versi). Dante inoltre
si sofferma soprattutto su 3 tra le 14 varietà principali di volgare che si parlano e si usano anche in
forma scritta nella penisola italiana: si tratta delle 3 varietà regionali che hanno saputo sviluppare
una poesia e una letteratura già abbastanza prestigiosa, dunque il siciliano (alla corte di Federico II
di Svevia), bolognese ( parliamo in particolar modo di Guido Guinizzelli, precursore dei poeti
stilnovisti, presente anche nel XXVI canto del purgatorio), toscano che riguarda Dante. Di queste
varietà Dante elenca una serie di poeti di primo rango, da lui chiamati eccellenti, hanno saputo
allontanarsi dal volgare più basso contenente le espressioni della lingua parlata elevandosi ad una
lingua più raffinata da usare in poesia. Vi sono poi i poeti municipali, di secondo rango, che invece
non hanno saputo emanciparsi più di tanto dalla lingua parlata. In ogni caso, a nessuno degli
eccellenti, Dante ha riconosciuto l’utilizzo del volgare illustre, un modello ideale, utopistico
(elaborato da Dante) che non si identifica concretamente con nessuno dei volgari usati e scritti e al
quale i poeti devono rifarsi se vogliono toccare, per qualche fase della loro produzione, l'eccellenza
del volgare attraverso la tendenza del Labor Limae, un lavoro finalizzato all’epurazione della lingua
con la conseguente scelta dei vocaboli, forme morfologiche più eleganti.
Se le tradizioni siciliana, bolognese e toscana hanno prodotto dei poeti notevoli, dunque degni di
essere ricordati, la generazione che ha saputo avvicinarsi di più al volgare illustre è quella dei poeti
stilnovisti. Quando parliamo di stilnovo facciamo riferimento ad una categoria storiografica che
discende da Dante e di un termine, da egli coniato, è presente nel XXIV canto del Purgatorio,
quando incontra un altro poeta toscano appartenente ad una generazione antecedente alla sua,
ossia Bonagiunta Orbicciani da Lucca, con il quale instaurò un discorso sulla poesia e
sull’esperienza poetica dell’autore, facendo affermare a Bonagiunta, nella finzione letteraria, che
egli ha inaugurato la poesia stilnovista, un tipo di etichetta a cui appartiene, oltre a quella di Dante,
anche l’esperienza poetica di Lapo Gianni, Guido Cavalcanti, Gianni Alfani (che Dante però non
cita) e Cino da Pistoia (poeti stilnovisti che, in base a quanto affermato da Dante nel De Vulgari
Eloquentia, hanno attinto all’eccellenza del volgare). Nel corso della tradizione poetica italiana
Dante individui una linea evoluzionistica, di progressione che parte dalla lingua dei siciliani illustri e
arriva alla poesia stilnovista che, nel De Vulgari Eloquentia, si presenta come l'esperienza poetica
più avanzata in senso cronologico e artistico: c’è da dire che l'eccellenza di questa produzione
lirica stilnovista viene riconosciuta da Dante in uno degli ultimi canti del Purgatorio degli anni 10 del
300 quando egli ha già abbandonato la poesia lirica d’amore presente all’interno della Vita Nova
per dedicarsi al poema, alla commedia.
Quindi nel primo libro del De Vulgari Eloquentia, si può dire che Dante si muova tra l'analisi
linguistica e un abbozzo di storiografia della letteratura italiana dai poeti prestigiosi della scuola
siciliana fino all'ultima generazione che lo comprendeva.
Nel secondo libro invece, dal trattato linguistico di filosofia della lingua, si passa al trattato di
retorica, il quale fornisce dei precetti sullo stile di scrittura da adottare e sugli argomenti da trattare.
A tal proposito Dante elabora una tripartizione stilistica distinguendo tre stili (che però esistevano
già come distinzione nella trattatistica retorica): tragico, elegiaco e comico.
Questa tripartizione stilistica, in età altomedievale, veniva ricondotta a Virgilio infatti: l'Eneide
rappresentava il vertice dello stile tragico, le Georgiche quello comico e le Bucoliche quello
elegiaco.
Questa ovviamente rappresenta la tripartizione di massima, poi naturalmente non tutti i retori erano
d'accordo, tanto è vero che alcuni facevano interferire lo stile comico con quello elegiaco poiché i
confini tra i due stili non erano sempre netti a differenza dei confini tra il tragico e gli altri. In Virgilio
questa tripartizione corrispondeva anche all’utilizzo di argomenti diversi, infatti, l’argomento epico
aveva come protagonisti dei nobili che si confrontavano con argomenti importanti, che andavano
trattati con uno stile elevato, come la fondazione di una nuova nazione (Roma) nel caso
dell’Eneide, mentre agli altri argomenti che avevano come protagonisti contadini o pastori e che
riguardavano vicende bucoliche o rurali, competevano scritture e stili bassi.
Dante si rifà a questa tripartizione stilistica e cerca di esporre le sue concezioni riguardanti i tre stili
all’interno del De Vulgari Eloquentia: di fatto, essendo interrotto al XIV capitolo del secondo libro, ci
resta soltanto la trattazione dello stile tragico sul quale Dante da moltissime informazioni utili anche
a comprendere la sua poetica, cioè il suo modo di fare poesia.
Parlando dello stile tragico, a cui competono gli argomenti più elevati, Dante afferma che la forma
metrica più adeguata ad accogliere questo tipo di trattazione è quella della canzone, visto come il
metro più nobile della tradizione lirica italiana. Inoltre entra anche in questioni più tecniche, dando
una serie di prescrizioni riguardanti il modo di comporre una canzone e gli schemi di rime poiché,
nello stile tragico, vi sono delle possibilità di modulare l'altezza della sua tragicità stilistica, anche
sul piano metrico perché, siccome Dante afferma che il metro del verso più nobile del volgare del
sì è quella dell’endecasillabo, allora le canzoni composte di endecasillabi saranno, tra tutte le
canzoni, quelle di stile tragico più elevato.
Si tratta di un’affermazione di Dante abbastanza peculiare perché nessuno di noi priverebbe le
canzoni di Petrarca, che non sono scritte in endecasillabi, dal titolo di alto stile, di stile tragico:
questo perché il tipo di canzone di soli endecasillabi in cui Dante individua la forma più alta di stile
tragico, non è una forma metrica molto praticata dalla tradizione lirica italiana tanto è vero che
questa viene usata (da Dante) solo in alcuni casi, come per esempio nella prima canzone della
Vita Nova -‘donne che avete intelletto d'amore’- e non mancherà di usare, come già facevano i
poeti siciliani, endecasillabi mescolati a settenari e quinari.
La canzone classica italiana non è quella dantesca, specialmente se fatta di soli endecasillabi,
bensì quella petrarchesca: Petrarca, infatti, codifica 1 metro di canzone che al suo interno
comporta la mescolanza di più misure di versi quali settenari e quinari; quindi, non parliamo
unicamente di endecasillabi come Dante asseriva che dovesse essere la canzone di stile più alto.
Questa riflessione che Dante fa è interessante per capire qual era il sistema di valori a cui si
ispirava e per comprendere quella che sarebbe stata l'evoluzione della sua poesia, visto che una
canzone di soli endecasillabi, anche se divisa in stanza, assomiglia molto ai capitoli in terzine che
troviamo all’interno della Commedia, ossia i canti che si presentano come una successione di
endecasillabi secondo un particolare schema metrico. Quindi questa predilezione teorica, che
Dante formula nel De Vulgari Eloquentia per componimenti di soli endecasillabi, già fa capire come
questa formula metrica fosse particolarmente congeniale (ciò ci fa comprendere il livello di
dettaglio della trattatistica retorica). Nel secondo libro del De Vulgari Eloquentia, Dante si sofferma
invece su questioni tecniche, quasi come se questo trattato fosse rivolto a dei poeti o degli
aspiranti tali.
Per quanto riguarda lo stile elegiaco è difficile capire cosa intendesse Dante, se non che si
trattasse di uno stile dei miseri, dei poveri che piangono: ovviamente questa definizione non da
molte informazioni al riguardo, ma se noi associamo (per esempio nella poesia classica, in
particolare nella tradizione della poesia latina che Dante meglio conosceva) cosa si intende con il
termine elegia, è possibile comprendere quello che Dante poteva intendere con stile elegiaco.
L’elegia è un componimento poetico che tratta d’amore (in una declinazione nostalgica, triste)
scritto in un metro latino chiamato distico, cioè in gruppi di due stikoi -dal greco versi- di cui il primo
è un esametro e il secondo un pentametro.
Ricordiamo per esempio i grandi poeti elegiaci dell’età augustea Properzio, Tibullo, Ovidio: spesso
in questi componimenti il poeta dà voce alle eroine dell'antichità che piangono per amore (come
nel caso delle Heroides di Ovidio) oppure il poeta, in prima persona, canta il suo amore infelice per
l’amata di turno. Quindi quando Dante definisce lo stile elegiaco lo stile dei miseri che piangono,
probabilmente allude al contenuto della lirica amorosa in questa sfumatura alquanto nostalgica e
disforica, che lamenta cioè la mancanza o la perdita dell’amore: certamente data la mancanza di
testi, non possiamo fare altro che fermarci a questa definizione approssimata.
Ancora più deprecabile è la mancanza della definizione di stile comico perché possiamo bene
immaginare che in questa sede Dante, così come per lo stile tragico, avrebbe spiegato bene che
cosa intendesse lui per stile comico e quindi ci avrebbe chiarificato le ragioni per le quali chiamò il
suo poema allegorico, lontano dallo stile comico, con il nome di Commedia: naturalmente gli
studiosi hanno dato una loro spiegazione, ma questo non ci permette di capire cosa intendesse
Dante con stile comico, cosa molto utile in funzione della comprensione della sua definizione di
Commedia.

Completa è unicamente la parte riguardante gli argomenti che si possono trattare nel volgare
illustre che sono sostanzialmente tre:
-il tema epico, anche se nessuno fino a quel momento nell'ambito della letteratura in volgare si era
occupato della materia. Per Dante rappresenta un campo in cui la poesia italiana potrà avere un
suo sviluppo (il quale però non è ancora avvenuto);
- la materia amorosa e la materia morale cantata dai maggiori poeti nel volgare del sì.
Se consideriamo il De Vulgari Eloquentia (la prima delle opere scritte da Dante dopo l’esilio e una
delle più importanti dopo la Vita Nova, l'opera con la quale si era fatto conoscere a Firenze come
poeta e intellettuale) quello che colpisce è il fatto che Dante non attribuisca a se stesso il titolo di
maggior poeta d'amore, titolo che invece viene assegnato all'amico Cino da Pistoia, uno dei poeti,
insieme agli altri stilnovisti, che attinsero all'eccellenza del volgare. Conseguentemente
interessante è che Dante abbia assegnato a sé, nel De Vulgari Eloquentia, il titolo di maggior
poeta di argomenti morali poiché, passando dalla Vita Nova al De Vulgari Eloquentia, amplia la
sua prospettiva sul poetabile in lingua volgare, cioè su ciò che può diventare materia di poesia
nella lingua volgare. Se nella Vita Nuova l'unica materia possibile della poesia in volgare era quella
amorosa, con il De Vulgari Eloquentia, il campo si allarga all’epica e la morale;

LE RIME
Il motivo per il quale Dante sembra improvvisamente cambiare idea va ricondotto nella sua
produzione letteraria intermedia tra la Vita Nova e il De Vulgari Eloquentia: quando noi facciamo
la cronologia delle opere di Dante, infatti, siamo abituati a passare dalla vita Nova, che è l'unica
opera Fiorentina e duecentesca di Dante, alle prime opere dell'esilio come il De vulgari Eloquentia,
il Convivio, ma nel periodo tra la composizione della Vita Nova (1294-95-96) e l’inizio della stesura
di questi due trattati (1304-06), Dante si è dedicato alla scrittura (fino a quando non mise mano alla
Commedia) di componimenti lirici confluiti tra le cosiddette Rime di Dante, cioè tutte quelle
composizioni liriche che Dante non selezionò per entrare a far parte della Vita Nova oppure del
Convivio contenente delle canzoni che considerava dei metri molto importanti poiché in esse
comincia a trattare anche di argomenti (oltre amorosi) di rilevanza filosofica, politica, civile (dunque
materia morale).
Negli anni che precedono l’esilio, Dante scrive quattro componimenti che costituiscono le
cosiddette <<rime petrose>>. All’opposto della dolce e celestiale donna angelicata dello
stilnovismo, la <<donna Petra>> per la sua durezza, si rivela avversa e crudele; il controcanto allo
stilnovismo è impostato tanto sull’opposizione stilistica quanto sul repertorio di immagini; il gelo, la
fredda neve, la noiosa pioggia; allestiscono uno scenario adatto a un amore che non è felice né
corrisposto, ma contrastato e respinto. E’ amore che non raffina né eleva, perché è amore dei
sensi e il dolore nasce dalla sottrazione del piacere. Si percepisce un’aura da <<petrose>> in un
componimento precedente: la canzone Tre donne intorno al cor mi sono venute. Al poeta fanno
visita tre donne, che personificano la giustizia divina, la giustizia umana e la legge positiva. Messe
al bando dal consorzio umano, appaiono al poeta prostrate nell’animo e lacere nelle vesti, ma
ancora fiere e dignitose. Dante si rende conto di come la sua malvagia sorte personale si iscriva
nel quadro di una ingiustizia generale, al punto che l’afflizione arriva a convertirsi in scatto di
orgoglio.
Una di queste canzoni contenuta nel Convivio è quella sulla nobiltà intitolata ‘Le dolci rime d'amor
ch’io solia’, cioè che io ero solito, oppure quella sulla leggiadria (bellezza, eleganza dei modi e
degli atteggiamenti) intitolata ‘Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato’.
Nobiltà e leggiadria sono due concetti affini: sostanzialmente si può dire che in queste due canzoni
Dante si occupi, con una piccola variazione, dello stesso tema, i quali ricoprono un ruolo centrale
nella definizione di poetica stilnovistica, della cortesia, cioè della qualità del buon amante. Tutta la
poesia provenzale, che aveva fornito l'ideologia dell'amor cortese, aveva presentato il sentimento
dell'amore come un appannaggio esclusivo dei nobili (solo i nobili di sangue potevano provare, in
modo particolare, il sentimento amoroso).
L'ideologia cortese, strettamente connessa a questa poesia, era un'ideologia che aveva veicolato
la materia d'amore dalla poesia provenzale alla poesia italiana con una serie di dilemmi: il poeta
amante della donna si presentava come vassallo della donna chiamata midons, cioè mio signore
(al maschile) proprio perché il rapporto d'amore veniva rappresentato nei termini di un rapporto
feudale tra il dominus, il signore e il suo sottoposto, il suo vassallo. Quindi l'ideologia feudale,
l'ideologia aristocratica, si era travasata nella poesia d'amore dei poeti provenzali e questo per la
ragione che la poesia provenzale era nata nelle corti feudali, era veicolo dell'ideologia di questo
ceto sociale il quale si rispecchiava in questa letteratura nella quale venivano celebrati i valori di
cortesia, di liberalità, di generosità (il poeta viveva infatti della generosità del suo signore, per cui
doveva contraccambiare il suo signore, celebrandone le gesta oppure piangendone la sua morte -
plan provenzali-) ed è per questo motivo che la poesia provenzale associa il sentimento dell'amore
unicamente al ceto sociale dell'aristocrazia (non è che al di fuori di questo ceto sociale non esista
l'amore, ma l'amore non è più amor cortese, ma è una forma di amore basso, sensuale, per cui
nasce un sotto genere di poesia, che è quello, per esempio delle pastorelle, componimenti
ugualmente provenzali in cui il poeta parlava di sue esperienze amorose sensuali avvenute con
delle giovani donne non aristocratiche, bensì pastorelle di animali che si concedevano con grande
facilità, con grande gioia, all'amante di turno). Spesso questa domina era la consorte del proprio
signore per cui il corteggiamento doveva avvenire secondo delle regole ben precise che
imponevano, per esempio, al poeta di non rivelare il nome dell'amata e quindi si ricorreva per
esempio al cosiddetto señal, nome in codice della donna amata che spesso poteva alludere a delle
sue virtù. La poesia provenzale, quindi, celebrava l'amore come un rapporto non paritario in cui il
poeta era completamente soggetto alla volontà della donna amata e associa, in maniera
indissolubile, un ceto sociale a questo sentimento escludendo gli altri ceti sociali dalla
partecipazione al nobile amore, se non carnale. Questa ideologia ovviamente (portata in
nell’ambiente sociale dei comuni italiani tra la seconda metà del 200 e i primi del 300) entrava in
conflitto con le dinamiche evolutive della società italiana data la nascita-a Firenze- di un nuovo
ceto sociale, ossia quello mercantile (chiamato propriamente borghese tra il 700 e l’800) costituito
da popolani che con la loro laboriosità e con la loro attività professionale sono riusciti a
emanciparsi dalla condizione sociale più bassa. Essi ambiscono alla partecipazione ai processi
politici dei comuni, di conseguenza questa loro volontà di emanciparsi viene a confliggere con la
volontà conservativa dello status quo dei ceti aristocratici. Tutto questo si ripercuote anche nella
sfera culturale e della poesia, ad un certo punto di quella letteratura nata come espressione dei
valori dell'aristocrazia si vuole appropriare il ceto mercantile in quanto dava prestigio a chi la
praticava. Quindi non c'è solo una questione di affermazione da parte del ceto mercantile su
quell’aristocratico, ma vi è anche tentativo di affermazione anche sul piano culturale, per cui
questo nuovo ceto sociale si rifiuta il fatto di essere considerato un ceto incapace di condividere i
sentimenti celebrati dalla poesia aristocratica.
Cosa c'entra questo con lo stilnovo?
La poesia nata tra la fine del 200 e l’inizio del 300, periodo di grande esplosione economica ed
urbanistica, ad un certo punto inizia a trattare tematiche riguardanti questioni sociali: è nobile chi
ha il sangue blu, quindi chi discende da antiche stirpi, oppure è nobile chi ha nobili sentimenti
indipendentemente dal ceto sociale a cui appartiene?!
Questo dibattito è quello che svolge Guido guinizzelli (poeta bolognese che Dante celebra nel De
Vulgari Eloquentia come uno dei gli eccellenti della varietà dialettale del bolognese) nella canzone
‘ Al cor gentil rempaira sempre amore’, etichettata come manifesto dello stilnovismo (documento
programmatico che enuncia quelle che sono le intenzioni di questo movimento letterario che molto
spesso si ripercuotono anche nell’arte -es. Futurismo). In questa canzone Guinizzelli afferma che
la gentilezza d'animo per la quale si prova amore non è una qualità ed esclusivo appannaggio
degli aristocratici, cioè di coloro che discendono per sangue, ma la gentilezza si può trovare in
qualunque ceto sociale. Si tratta di un'affermazione rivoluzionaria sul piano dell'ideologia
dell'amore e sociale: mentre il ceto dei mercanti combatteva concretamente nei diversi comuni per
affermare il proprio diritto nei processi legislativi e decisionali delle proprie città, e a non subire
sempre decisioni prese da altri che li riguardavano, sul piano della poesia, questi nuovi poeti
stilnovisti ‘estorcano’ l’amore dall’appannaggio esclusivo dell'aristocrazia poiché anche i ceti sociali
più umili sono in grado di provare un amore elevato.
In un certo senso questo è il motivo per il quale Dante enuncia una progressione evolutiva, anche
di carattere ideologico, della poesia: infatti dalla poesia stilnovista sposta alla poesia morale
l'indagine su cosa sia la vera nobiltà e tratta di questo tema nelle canzoni prima citate facendo
riferimento alle complesse dinamiche della civiltà cittadina per affermare che non sempre i nobili
erano depositari di quei valori morali che li rendevano superiori agli altri ceti obbligati a subire: la
nobiltà quindi può essere una condizione dello spirito indipendente dal ceto sociale a cui si
appartiene. Dante quindi, nel breve periodo che intercorre tra la composizione della Vita Nova e il
De Vulgari Eloquentia al suo pubblico non si presenta più come poeta d’amore bensì come poeta
morale.

Ciò viene messo ben in mostra all’interno del De Vulgari Eloquentia, quando egli attribuisce il titolo
di poeta d’amore a Cino da Pistoia, preferendo quindi presentarsi come poeta morale. Questa
scelta è strettamente legata in qualche modo al pubblico a cui è destinato il De Vulgari Eloquentia,
oltre che al periodo in cui l’opera è stata composta,che va dal 1304 al 1306, coincidente con la
composizione del Convivio. Se tuttavia volessimo indicare una precedenza dell'una rispetto
all'altra, possiamo dire che egli cominciò a scrivere prima il Convivio, tanto da fare riferimento al
De Vulgari Eloquentia come un'opera “ventura” che sarebbe appunto venuta, ma già concepita.
Queste due opere sono le prime ad essere state scritte durante l’esilio e ovviamente, per quanto
riguarda il De Vulgari Eloquentia, il cambio della lingua in quella latina, comporta una restrizione
notevole del pubblico. Dante qui non può che rivolgersi a coloro che comprendono il latino, quindi
a un pubblico di intellettuali, dotti che in teoria disprezzavano il volgare perché era la lingua del
volgo. Quindi all’interno di questo trattato sulla lingua volgare ma scritto in latino, è evidente il
valore promozionale del volgare verso gli intellettuali che non lo stimavano. Il problema che si è
posto la critica riguarda quali fossero gli intellettuali a cui Dante si rivolgeva e come questi si
potessero identificare in maniera geograficamente circoscritta. Tra tutti gli studiosi, colui che ha
indicato non solo un'epoca precisa di composizione ma anche una localizzazione geografica ben
precisa, cioè quella della città di Bologna è Mirko Tavoni. Egli si è occupato molto a lungo del De
Vulgari Eloquentia e ritiene di aver ravvisato tutti gli elementi possibili per collocare nei primi anni
dell'esilio di Dante e soprattutto a Bologna, la composizione di questo di questo Trattato. C'è da
dire che in molta parte la biografia dantesca si ricostruisce in maniera ipotetica, non abbiamo
moltissimi documenti sulla vita di Dante e tutt’oggi gli studiosi dibattono su molti argomenti e
momenti della biografia di Dante. Secondo la prima importante biografia dantesca che è scritta
Giovanni Boccaccio,” Il trattatello in laude di Dante” Dante sarebbe stato a Bologna anche prima
dell'esilio, dopo la morte di Beatrice, quando aveva cominciato a dedicarsi agli studi di filosofia per
completare in qualche modo la propria formazione seguendo le lezioni dei grandi maestri dello
studio bolognese, però, in realtà non c'è nessun riscontro documentario a questa affermazione di
Boccaccio, che diamo per buona poiché essendo abbastanza vicino all'epoca in cui aveva vissuto
Dante, poteva aver raccolto testimonianze.

Proprio tra il 1303-4-5 Dante trovò ospitalità a Forlì, presso gli Ordelaffi, una famiglia signorile di
appunto Forlì e a Verona invece Bartolomeo Della Scala. Alcuni studiosi non sono d'accordo,
negano per esempio che Dante sia stato a Verona, prima dell'avvento di Cangrande Della Scala,
nipote di Bartolomeo, e soprattutto alcuni, al posto del soggiorno a Forlì, collocano un soggiorno a
Bologna, tra questi ritroviamo anche Tavoni. Il pubblico a cui si rivolgeva Dante era quello
accademico bolognese dei doctores, è per questo che Dante sceglie il latino perché vuole
rivolgersi ad un pubblico particolare che vedeva in Dante quasi uno sconosciuto. Come potevano i
bolognesi avere avuto notizia di Dante? Potevano averle avute in maniera indiretta tramite Cino da
Pistoia, conosciuto dai doctores bolognesi, egli infatti componeva poesia d’amore come
passatempo, ma la sua attività principale era quella di docente di diritto svolta anche nella città di
bologna dove era conosciuto come doctus. I suoi colleghi conoscevano questo passatempo e
potevano conoscere benissimo Dante in quanto corrispondente di Cino da Pistoia, con il quale si
scambiava sonetti. È proprio grazie Cino da Pistoia, quindi se a Bologna Dante poteva essere
noto, questo è il motivo per il quale, nel trattato, Dante mette sempre davanti la figura di Cino da
Pistoia, citato nel gruppo dei migliori poeti Toscani che attinsero all'eccellenza del volgare, oltre
che come maggior poeta d'amore.
La cosa più interessante è che Dante nel De Vulgari Eloquentia, non menziona mai con il suo
nome, non parla mai di sé in prima persona, bensì in terza, e si riferisce a se stesso con la
definizione di amico di Cino. Questo secondo Tavoni è un indizio molto significativo del fatto che
questo si rivolgesse a quel tipo di pubblico.
Un altro elemento importante da notare è che Dante, quando nel primo libro del trattato, parla dei
diversi volgari italiani che avevano sviluppato una tradizione poetica interessante e tra questi
volgari mette il bolognese, afferma che questo vulgare ha avuto uno dei suoi più grandi poeti
maximus Guido, cioè Guido Guinizzelli. Quindi parla in maniera onorevole di Guinizzelli e quando
esamina il bolognese come parlata dimostra una grandissima conoscenza delle varietà
geografiche del bolognese, nel senso che distingue le sue forme dialettali a seconda delle zone
della città, quindi, cita certi quartieri, certe strade che hanno come caratteristica una certa forma
per quella parola in contrapposizione ad un'altra zona della città di Bologna, dove quella stessa
cosa si dice con un'altra voce simile ma non identica, quindi mostra una conoscenza del
bolognese, che soltanto una presenza diretta nella società bolognese poteva consentirgli. Quale
sarebbe stato quindi lo scopo per il quale Dante avrebbe individuato in maniera così precisa, nel
pubblico accademico di Bologna, il destinatario di questo trattato? Secondo la ricostruzione anche
di Tavoni le regioni vanno ritrovate anche nel suo status di esule. Come sappiamo infatti, con
l'esilio si perdevano i diritti civili e politici. Dante, non potendo tornare a Firenze, dove l'aspettava
una condanna a morte, non poteva più disporre neppure delle sue proprietà patrimoniali; quindi,
l'esilio lo getta anche in una condizione di bisogno economico, per cui si trova anche costretto a
trovare presto una sua collocazione sociale. Bologna era una città in cui in questi primi anni era
ancora al potere la sua fazione politica, quella dei guelfi bianchi, quindi una fazione favorevole agli
esuli bianchi appunto di Firenze. E' chiaro però che egli doveva trovare una sua collocazione
professionale ed è molto probabile che con questo trattato, secondo la ricostruzione di Tavoni,
Dante ambisse a farsi riconoscere, dal corpo accademico bolognese come un intellettuale che
poteva essere integrato nel corpo accademico dello studio di Bologna e trovare in questo modo
una posizione professionale che gli avrebbe garantito un sostentamento. Questo però non accade
visti anche i cambiamenti nel regime politico bolognese. Anche qui i neri presero il sopravvento, sui
bianchi, quindi Dante fu costretto a lasciare appunto Bologna e anche questa motivazione, di tipo
personale può essere vista all'origine della composizione del Convivio.

Altre vicende biografiche


Dante intendeva dimostrare che sapeva utilizzare benissimo il latino, lingua della scienza e
dell’insegnamento didattico, anche per trattare questioni linguistiche, nel Convivio pur usando il
volgare e raggiungendo così nuovamente un pubblico vasto, dimostra di essere filosofo
abbandonando argomenti vicini alla letteratura, alla poesia e trattando temi vari anche di natura
scientifica, egli parla di filosofia, teologia ma anche di lingua e nobiltà (oggetto del quarto trattato
del Convivio). Quindi parla di argomenti vari attingendo a tutte le fonti del sapere medievale, ai
testi dei padri della Chiesa, dei filosofi medievali, e che quindi mostrano un Dante che non è solo
un semplice poeta volgare, ma è un intellettuale a tutto tondo, capace di trattare in maniera
articolata diverse questioni di carattere scientifico. Dante colloca il 1293, data del fatidico incontro
con Beatrice, come l'inizio della sua attività poetica, come se prima dell'incontro con Beatrice non
avesse mai composto versi, cosa abbastanza inverosimile, però Dante vuole che passi questo
messaggio. Un’altra data importante è quella della morte di Beatrice, che sembrerebbe un evento
poco importante ma in realtà è fondamentale. Della donna abbiamo notizie biografiche provenienti,
oltre che da quelle dantesche, anche da fonti differenti; tuttavia, è unicamente Dante a fornire
l’anno di morte. Si tratta di un anno climaterico, in quanto segnò una svolta nella vita di Dante:
dopo la morte di Beatrice, infatti, ci fu una profonda crisi interiore che portò Dante ad approcciarsi
agli studi filosofici, tanto da frequentare la scuola dei religiosi e le dispute dei filosofanti. Di
conseguenza, fino alla composizione della Vita nova possiamo definire Dante un poeta fiorentino
d’amore a tal punto da affermare che il volgare doveva essere utilizzato unicamente in
componimenti d'amore; nel periodo invece che va dalla seconda metà degli anni 90, Dante diventa
un poeta morale tanto è vero che all’interno delle due canzoni sopra citate egli affronta tematiche
di rilevanza etico-sociale. Contemporaneamente Dante si afferma anche come politico nella città di
Firenze: nel bimestre Giugno-Agosto del 1300 arriva a ricoprire la carica di Priorato. Si trattava di
una delle cariche più importanti della magistratura collegiale fiorentina la quale era costituita da 6
priori che venivano eletti di volta in volta e che restavano in carica per soli 2 mesi, periodo durante
il quale gestivano il potere esecutivo. Dante, in quanto studente di filosofia, dopo essersi iscritto ad
una delle corporazioni delle arti e dei mestieri, cioè quella dei medici e degli speziali, aveva avuto
la possibilità di accedere alla carriera politica, come previsto dall’obbligo dal 1295, data degli
ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, una riforma politica fiorentina molto importante. Dante,
in quanto priore (dal 15 giugno), il 23 giugno del 1300, insieme ai suoi colleghi, prese una
decisione molto difficile, poiché a Firenze c'era stato uno dei tanti scontri tra le fazioni dei guelfi
neri e dei guelfi bianchi. Dante era un bianco, così come Guido Cavalcanti, esponente dei guelfi
bianchi. Tali scontri furono sanguinosi, e i priori decisero di punire esemplarmente i capi delle due
fazioni mandandoli al confino: i bianchi a Sarzana, una città in provincia della Spezia, i neri a
Pistoia. Fu una decisione difficile perché Dante fu costretto a decretare il provvedimento di confino
anche per Guido Cavalcanti, suo amico, il quale a Sarzana contrasse la malaria e al suo ritorno a
Firenze morì e Dante si porta dietro, in qualche modo, questo senso di colpa mai espresso che
viene letto tra le righe dell’episodio del X canto dell’Inferno (canto in cui Dante si trova nel girone
degli eretici nel quale incontra il padre di Guido Cavalcanti, Cavalcante dei cavalcanti). La
decisione politica che Dante è stato costretto a compiere e il senso di colpa derivante dalla morte
di un suo amico sono strettamente connessi. Quando Dante personaggio incontra Cavalcante dei
Cavalcanti, sul piano biografico della realtà, Guido Cavalcanti è ancora vivo perché il dialogo
avviene prima degli scontri tra neri e bianchi ed è per questo motivo che egli non può nutrire un
senso colpa: non è quindi a carica di Dante personaggio che si avverte questo senso di colpa, ma
di Dante autore: quindi il modo in cui Dante organizza l'incontro con Cavalcante dei Cavalcanti,
durante il quale, per un equivoco, Cavalcante crede che Guido sia morto, quando poi Dante
personaggio non può avergli fatto capire questo, dato che Dante personaggio sa che Guido è
ancora vivo nell'aprile del 1300. Questo equivoco che Dante autore crea nella ricostruzione di
questo episodio è altamente significativo di questa interferenza della biografia sulla finzione
letteraria.
Gli eventi successivi vedono Dante che si dirige verso l’ambasceria a Roma, presso Bonifacio
Ottavo, per scongiurare il fatto che quest’ultimo mandi un suo ambasciatore a Firenze in quanto
filo nero: Bonifacio avrebbe finto di mandare un suo ambasciatore per far mettere pace tra i bianchi
e neri che continuavano a scontrarsi tra di loro, ma in realtà l’intento era quello di favorire l'ascesa
del partito dei neri, cosa che accade. Dante non era ancora tornato dell'ambasceria, che subito
Bonifacio Ottavo manda a Firenze il suo ambasciatore Carlo di Valois che, con il suo appoggio
militare, permise ai neri di prendere il sopravvento sui bianchi. Cominciò così il processo di
epurazione degli esponenti politici di parte bianca, tra cui Dante stesso (non più priore, ma
ambasciatore a Roma) condannato per baratteria, ossia colpa della corruzione del pubblico
ufficiale che nell'esercizio degli atti pubblici si fa corrompere per concedere favori. Questa
condanna, nel gennaio del 1302 comportava l'interdizione dai pubblici uffici ( Dante non avrebbe
più potuto ricoprire nessun ruolo pubblico a Firenze), una multa pecuniaria che andava pagata
subito (3 erano i giorni concessi per il pagamento, se non si pagava entro questo periodo la
sentenza prevedeva la commutazione della pena con la condanna a morte) e il confino (un
provvedimento di relegamento in una certa località, per cui Dante non poté tornare a Firenze
perché altrimenti sarebbe stato condannato a morte: da quel momento in poi Dante poteva contare
soltanto in un'amnistia che cancellasse la sua colpa, e quindi annullasse la sentenza di morte. La
sentenza invece, fu ribadita nel 1305 e aggravata). Si dice che Dante andò in esilio nel 1302, in
realtà va in esilio senza sapere che questo non avrebbe mai avuto fine, perché prima il
provvedimento era di confino; quindi, destinato a durare poco tempo ma successivamente fu
commutato con la pena di morte. Ricordiamo che fu condannato in contumacia-> un processato
che non è presente al suo processo. A Dante arriva la notizia di questa di questa condanna
quando si trova più o meno a Siena sulla via del ritorno da Roma verso Firenze. Il periodo che
segue praticamente questa condanna è uno dei periodi così un pochino più incerti sfumati della
vita. Gli studiosi non sono concordi sui luoghi in cui Dante si trovò a passare in questi anni (1303-
1304); si ipotizza che Dante possa essere stato a Forlì ospite di Scarpetta Ordelaffi; si ipotizza che
in questi anni possa aver compiuto un primo viaggio a Verona dove avrebbe conosciuto
Bartolomeo della Scala, il quale fu il suo principale benefattore negli anni tardi nell’esilio. In questo
primo periodo dell’esilio Dante si allontanò dalla Toscana solo per brevi periodi.
La vita pubblica Fiorentina in questi anni fu turbolenta perché i meccanismi di un potere politico
comune prevedevano la rotazione dei cittadini nei ruoli del potere pubblico. Il meccanismo della
politica Fiorentina contemplava una rinnovazione dei ruoli di potere, a questo si aggiungevano i
vari posizionamenti politici ovvero Guelfi bianchi e Guelfi neri. Oltre ai Guelfi nell'ambito degli
schieramenti politici medievali vi era la formazione dei ghibellini.
i Ghibellini erano un partito politico che riconosceva nell’Imperatore il proprio punto di riferimento
ideologico  filoimperiali; i Guelfi invece nel papa  filopapali.
Le sorti del partito ghibellino in Italia nella seconda metà degli anni Sessanta del 1200 subiscono
un rivolgimento importante: il partito filoimperiale in Italia per tutta la prima metà del Duecento
aveva riconosciuto il proprio capo indiscusso nella figura di Federico II di Svevia. Gli imperatori
sono tutti di nazionalità germanica, egli è un'eccezione e per discendenza si trova ad essere
Imperatore. Federico II per questa circostanza dinastica venne ad accumulare due corone -> re
dell'Italia meridionale con la corona imperiale. Questa circostanza è unica nella storia del Sacro
Romano Impero ed ebbe delle ripercussioni molto forti specialmente in ambito italiano perché ci fu
uno scontro con il Papa Innocenzo III tra il potere Imperiale e pontificio.
Da un punto di vista territoriale la figura dell’imperatore si trovò ad accerchiare il territorio del papa.
La posizione dello Stato pontificio era quindi scomoda perché poteva far precludere ad un
fagocitamento anche dei suoi territori. Federico II aveva tutti i mezzi per conquistare e unire i
territori del papa. Da questo nacque lo scontro tra Federico II e il papa. Questo scontro si trascinò
per secoli ma in Europa negli anni del Medioevo era particolarmente radicalizzato e durante il
regno di Federico II divenne ancora più forte. Quando l'imperatore morì il papa offrì la corona del
Regno delle Due Sicilie a Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia per un decennio poiché dopo la
morte di Federico ci fu suo figlio illegittimo Manfredi che venne poi sconfitto dagli Angiò nella
battaglia di Benevento nel 1266 per insediarsi nel Regno delle Due Sicilie. Fino a quel punto i
ghibellini ebbero una posizione di predominio; il momento più importante della vittoria del partito
ghibellino a Firenze nel 1260 fu la battaglia di Montaperti tra Ghibellini e Guelfi con Farinata degli
Uberti a capo dei Ghibellini. I Guelfi furono sconfitti e nell' assemblea di Empoli fu deciso il destino
della città di Firenze. In quella circostanza la maggior parte di rappresentanti politici avevano
deciso di radere al suolo Firenze per impedire ai Guelfi di rinascere. In questa circostanza è stato
solo Farinata degli Uberti a parlare in difesa della sua città, la sua autorevolezza a scongiurare per
Firenze questo finale disastroso. La sua figura passò in leggenda per questa autorevole difesa
contro i Ghibellini che dopo la morte di Federico II persero di importanza e vennero banditi dalla
città. Quando Dante nasce (1265) vede una Firenze che si è da poco liberata dai Ghibellini
mandati in esilio, non conosce dunque in prima persona un ghibellinismo politico attivo durante la
sua vita a Firenze ma gli viene raccontato da Farinata. La figura le ispira tanto che lo inserisce
nell'inferno come una delle prime figure. Però Dante ha comunque esperienza di contrapposizione
politica, esperienza con Ghibellini di altre città in particolare nel 1289 nella provincia di Arezzo
dove si combatte la battaglia tra Guelfi fiorentini e dall'altra ci sono i Ghibellini di Arezzo uniti ai
Ghibellini banditi da altre città toscane. Dalla parte dei Guelfi Fiorentini c'erano gli esponenti della
Fazione dei bianchi e dei Neri. Furono i Guelfi Fiorentini ad avere la meglio. Dante conobbe in
questa occasione cosa significassero le opposizioni politiche. Mostra la conoscenza di questi
eventi nel V canto del Purgatorio dove colloca le anime di coloro che si sono pentiti in extremis, la
maggior parte sono coloro che sono morti per morte violenta. Dante in questo caso incontra due
combattenti di Montaperti: Buonconte di Montefeltro e Jacopo di Montecassari.
La commedia ospita una quantità di invettive contro la chiesa e contro singoli Pontefici che si
sposano molto male con l'idea di un militante nel partito dei Guelfi. Questo significa che a un certo
punto egli abbandona l'ideologia Guelfa e prenderà delle posizioni diverse che lo porteranno ad
avvicinarsi alla ideologia ghibellina. Egli viene denominato da Ugo Foscolo nei Sepolcri ghibellin
fuggiasco.
Possiamo capire che ad un certo punto la posizione di Dante cambia: matura decisamente un
allontanamento dalle posizioni dei guelfi e coincide con un apparentemente secondario nella vita
politica fiorentina che accade quando Dante è lontano da Firenze.
Il 1308 si può considerare l’anno in cui Dante così cambia un po’ le sue posizioni politiche (Dante
appartiene per tradizione familiare a una visione dei guelfi bianchi come guelfo Bianco; viene
condannato e bandito da Firenze e colpevole di baratteria; viene poi Condannato alla pena di
morte, ma Dante continua a mantenersi fedele alla sua parte politica anche nei primi anni del suo
esilio.)
La morte di Corso Donati segna questo abbandono da parte di Dante delle posizioni politiche dei
bianchi, insomma, e comunque l’allontanamento dal partito. L’esilio continua a mantenersi fedele
alla parte dei bianchi tanto è vero che nei primi anni dell’esilio si unisce agli altri banditi esiliati da
Firenze e guelfi di parte bianca a cui poi si erano uniti anche i ghibellini ma questa alleanza tra i
ghibellini e guelfi appunto bianchi fuoriusciti da Firenze banditi da Firenze era un’alleanza militare
funzionale; erano propensi a rientrare con la forza delle armi se non era possibile per la via
diplomatica. Durante lo scontro nella città di Firenze vengono coniate due definizioni di fiorentini
intrinseci e fiorentini estrinseci.
I fiorentini intrinseci: sono i fiorentini che rimangono a Firenze, che di volta in volta affermano
politicamente cacciando il partito verso cui stiamo parlando e sono i guelfi neri;
i fiorentini estrinseci: i fiorentini di parte bianca a cui si unirono anche i ghibellini.
I fiorentini bianchi che accettarono l’alleanza con i ghibellini rappresentavano una sorta di
tradimento del proprio partito politico. Nel 1304 nella cosiddetta battaglia di Lastra una località
vicino Firenze, Dante non era più insieme ai suoi compagni d’esilio ma si era allontanato da questo
gruppo (nel paradiso nel canto di Cacciaguida, dove parla molto del suo esilio in forma di profezia,
Dante definisce questa compagnia di fuoriusciti fiorentini di parte bianca cui poi si erano uniti
anche i ghibellini in modo spregiativo la compagnia malvagia e scempia nella quale un certo punto
ha deciso di prendere di prendere le distanze), ma fino a quel momento Dante aveva anche
continuato a ricoprire un ruolo di rilievo politico.
All’indomani di questi provvedimenti politici i bianchi erano stati mandati fuori da Firenze ma
rimanevano le loro famiglie quindi le tensioni sociali erano forti nella città e il Papa con questa
situazione decise di mandare un nuovo ambasciatore: il cardinale Nicolò da Prato, il quale restò
alcuni mesi a Firenze cercando una strada per pacificare appunto la città senza riuscirci. Quindi
Dante continua ad avere ruoli di grossa importanza nella vita politica ma il cambiamento avviene
nel 1304 e 1308, quando Dante, dopo essersi allontanato dai compagni d'esilio, cerca di affermarsi
a Bologna e si reca a Treviso da Gherardo da Camino. É sicuro il soggiorno che fece in Lunigiana
presso il marchese Malaspina (un marchese guelfo Nero, quindi, era vicino alla classe politica
dirigente a Firenze in quel momento e quindi l’amicizia e la protezione di questo importante nero è
utile).

Probabilmente tra il 1306 e 1307, scrive l’Inferno. Gli studiosi si sono posti la questione
particolare, cioè se la commedia possa o meno essere stata iniziata da Dante prima dell’esilio.
L’idea del viaggio nell’oltretomba è resa possibile ed è strettamente connessa all’indizione del
primo giubileo della cristianità di Bonifacio VIII (1300 quando era ancora a Firenze). Questa
Ipotesi (che riguarda i primi 7 canti dell’inferno) è collegata ad una testimonianza di Boccaccio
che nella sua biografia dantesca “Trattatello in laude di Dante” scrive che gli era stata riportata
notizia che Dante avesse lasciato a Firenze i primi 7 canti perché era stato condannato all’esilio
quindi da Roma non riuscì a tornare a Firenze. Successivamente gli amici glieli hanno fatti
pervenire e avrebbe poi iniziato a scrivere la commedia nel 1306-7. Lo stesso Boccaccio si
manifesta scettico ma i testimoni erano fedeli. Inoltre, all’inizio dell’ottavo canto egli scrive “Io
dico seguitando” quindi allude come ad un'interruzione che c’è stata tra il canto precedente e
questo è un altro indizio che Boccaccio cita nel suo trattato. Ma la maggior parte degli studiosi
colloca questi canti dopo l’esilio. l’inferno è quella che tra le tre cantiche ha maggiore aggancio
con la realtà storica e politica contemporanea di Dante; quindi è la cantica più fiorentina di tutta
la commedia, egli ha sempre cura di presentarsi come guelfo, nonostante il fatto che nella realtà
si fosse un po’ allontanato dai suoi compagni di esilio. Dante poteva contare in un rapporto di
parentela molto importante con Corso Donati il famigerato capo della fazione appunto dei neri
apparteneva alla stessa famiglia con la quale Dante si era imparentato. La moglie era Gemma
Donati. In tutta questa prima cantica c’è il desiderio di Dante, egli continua a sperare di rientrare
a Firenze anche se in un modo diverso cioè non insieme a tutti suoi compagni. Un importante
studioso di Dante che si chiama Umberto Carpi si è interessato particolarmente agli aspetti che
riguardano i rapporti degli intellettuali con il loro contesto storico e con il contesto storico in cui
vivono. Egli ha scritto” la nobiltà di Dante”, in cui conia una definizione dell'inferno ovvero
inferno guelfo perché vuole sottolineare questa caratteristica costituita dall'attenzione che Dante
pone nel suo racconto come un Fedele Guelfo.

Nelle cantiche successive con la morte di Donati egli si smarca completamente ai Guelfi e si
avvicina a quelle posizioni ghibelline.
Questo avvicinamento di Dante alla causa politica Imperiale non può essere definito adesione al
ghibellinismo perché i motivi per i quali Dante ad un certo punto si spende come intellettuale per
legittimare l'indipendenza dei poteri non sono gli stessi motivi che spingevano i partiti politici a
militare nel campo dell’imperatore. Dante sceglie il potere Imperiale per ragioni biologiche
profonde. Infatti era nato guelfo e aveva ereditato questo orientamento politico, non aveva avuto
motivi per odiare i Ghibellini quindi si avvicina perché è un certo punto si convince ideologicamente
che la monarchia universale quindi l'impero è l'unico assetto in grado di garantire la pace agli
uomini.

Intorno agli anni 1308-9 Dante conclude l’Inferno ed è il periodo in cui, con la morte di Corso
Donati, vede allontanarsi la prospettiva di un rientro in patria proprio perché era venuto meno un
esponente politico di primo piano su cui avrebbe potuto contare perché il provvedimento di
amnistia di morte (la condanna a morte), che pendeva sulla sua testa, potesse essere revocata. Di
conseguenza, dopo la morte di Corso Donati non ha più la necessità di esibire le sue posizioni
guelfe: ormai già da tempo aveva preso le distanze dalle ideologie guelfe, ma per ragioni di
convenienza politica, nell'Inferno aveva continuato a dimostrarsi guelfo.

IL CONVIVIO
Prima di proseguire verso l’ascesa è importante ricordare il Convivio (1304-1306), opera
contemporanea al De Vulgari Eloquentia, della quale non è possibile precisare la cronologia
relativa tra le due: queste opere furono scritte per buona parte parallelamente, ma è anche
possibile affermare che una sia stata iniziata prima dell’altra ed è per questo che si può ipotizzare
che questa precedenza, anche se di poco, l'abbia avuta il Convivio perché nelle prime pagine di
quest’opera Dante parla della sua produzione come autore facendo riferimento alla Vita Nova e ad
un’opera che scriverà sulla lingua volgare.
Sta di fatto che sono due opere di grande impegno intellettuale-scientifico da parte di Dante, due
trattati, anche se scritti in modo diverso (De Vulgari Eloquentia scritto in latino con citazioni volgari
mentre Convivio interamente in volgare anche se il titolo volgare Convivio può ingannare in quanto
si tratta di un termine aulico, un latinismo che deriva dal latino convivium- banchetto).
Il Convivio è suddiviso in 4 libri che prendono il nome di trattati:
-nel primo Dante affronta varie questioni, di sé, del motivo per cui ha usato il volgare anziché il
latino per un'opera che tratterà sostanzialmente di scienza, del pubblico al quale intende rivolgersi.
Dante inoltre utilizza la metafora del banchetto: il sapere che intende esporre viene paragonato ad
un cibo che andrà poi ad imbandire la mensa metaforica per il suo pubblico. La cosa interessante
è che quest’opera sia cronologicamente vicina al De Vulgari Eloquentia con il quale compone una
sorta di dittico che Dante utilizza per lasciare un preciso ritratto di sé di intellettuale, di uomo di
scienza. Il Convivio è interessante come opera in sé anche per il ritratto che Dante vuole dare di se
stesso come intellettuale: nel De Vulgari Eloquentia, Dante aveva scelto un pubblico di dotti, di
accademici a cui si rivolgeva nell’unica lingua che gli avrebbe assicurato l'attenzione e la
considerazione per presentare un argomento che questo pubblico non conosceva o non
considerava degno della sua attenzione, cioè il volgare; nel Convivio invece, Dante non si rivolge
al pubblico dei dotti, in primis perché non usa il latino (di conseguenza non si presentava come
un'opera accademica), in secondo luogo perché l’opera conteneva concetti di varia natura che, chi
non era a conoscenza del latino, non poteva studiare dai testi degli autori antichi. Dante quindi,
con quest'opera si presenta come un divulgatore di conoscenze, quindi attivo nella volontà di
incidere sulla cultura del suo tempo, e l'opera di divulgazione che Dante svolge con il Convivio,
rivela il profilo di un intellettuale militante, cioè che partecipa alla vita del suo tempo interessato ai
fenomeni culturali della società in cui vive e non in un intellettuale isolato, che si occupa soltanto,
dei suoi studi (es. Francesco Petrarca, basti considerare il complesso della sua produzione che è
quasi totalmente in lingua latina, con poche opere in volgare, mentre in Dante le proporzioni sono
più equilibrate). Il Convivio è stato definito una pedagogia della nobiltà, un insieme di istruzioni per
la formazione di qualcuno, in particolare del ceto aristocratico: opera non di esibizione narcisistica,
fine a se stessa, delle proprie conoscenze, della propria cultura, ma un'opera che vuole incidere
sulla società, portare un aiuto a coloro che non hanno avuto la possibilità di completare la loro
formazione fornendo, in volgare, un patrimonio di nozioni di facile comprensione.
-Che interesse ha il Convivio per la questione del volgare?!
Nel De Vulgari Eloquentia Dante aveva usato il latino per trattare scientificamente della lingua
volgare, un argomento forse non degno della considerazione del pubblico dei dotti a cui si
rivolgeva, ma che per avvicinarsi a questo pubblico, sente il bisogno dell’utilizzo della lingua latina.
In questo scritto quindi Dante tesse l'elogio di questa lingua allora nascente: si tratta comunque di
considerazioni riguardanti soprattutto l'uso poetico della lingua stessa. Secondo Dante, con la
lingua volgare si possono trattare diversi ambiti tematici come l’amore, l’etica e la morale tipici
della poesia: certo di morale si può trattare anche in prosa, nei trattati di tipo morale o filosofico,
ma nel De Vulgari Eloquentia, egli afferma che nel parlare di argomenti morali pensa soprattutto a
tematiche trattate in poesia, di conseguenza questa è una lingua che aveva sì le potenzialità di
esprimere concetti su argomenti diversi tra di loro, ma comunque una lingua ancora vincolata
all'ambito poetico nel Convivio. Ci troviamo di fronte ad un cambio di strategia da questo punto di
vista, tanto è vero che nel Convivio Dante conferma l’inferiorità del volgare rispetto al latino in
quanto si tratta di una lingua che muta nel tempo. Dante è perfettamente consapevole che la
lingua che si parla a Firenze è diversa da quella che si parlava un secolo prima nella città; e
proprio di tale consapevolezza, Dante ne discuterà con Cacciaguida (suo avo- fiorentino) durante
l’incontro avvenuto in Paradiso: Dante autore in questo dialogo dà la possibilità a Cacciaguida di
raccontare di sé, della Firenze antica e di metterlo al corrente di alcune profezie riguardante il suo
futuro di esule; nel frattempo Dante narratore fa notare al lettore come Cacciaguida non utilizzi un
fiorentino contemporaneo/moderno. Questo ci fa capire come Dante fosse estremamente sensibile
a questi dati linguistici, infatti, a partire dalla stesura del Convivio, egli afferma che il volgare si
caratterizza proprio per questo aspetto, cioè il fatto di essere una lingua come tutti i volgari,
mutevole nel tempo e quindi meno nobile del latino, che è una lingua fissa e non modificabile
(Ovviamente anche il latino ha subito delle trasformazioni nel corso della storia tanto è vero che le
stesse lingue romanze derivano da esso, cioè dal latino parlato detto ‘latino volgare’). Ora il
problema è comprendere perché Dante, il quale era sensibile studioso delle lingue a lui
contemporanee, non è stato in grado di riconoscere che anche la lingua latina alle sue spalle
possiede una storia: per Dante la lingua dei poeti classici non era diversa da quella di
Sant’Agostino, dunque degli autori tardo medievali e rappresentava una sorta di lingua di cultura
artificiale, secondo appunto il pensiero linguistico dantesco, inventata dai dotti per superare
l'inconveniente delle mutazioni linguistiche che portano alcune lingue a scomparire o a modificarsi
a tal punto da non essere più comprensibili nei secoli successivi. Come abbiamo già detto Dante,
nel Convivio, dichiara il latino superiore al volgare e questa sembrerebbe una contraddizione
rispetto a quanto affermato nel De Vulgari Eloquentia in cui si era preoccupato di dimostrare a
coloro che disprezzavano il volgare, che questa in realtà era una lingua degna di considerazione;
in realtà il Convivio rappresenta una contraddizione apparente di questa strategia di promozione
del volgare, perché nell’opera egli afferma sì che il volgare sia una lingua inferiore al latino (perché
il latino è una lingua che si apprende solo a scuola a differenza del volgare che è una lingua
naturale che nessuna scuola insegna), ma è anche il nostro materno idioma che in qualche modo
deve ancora crescere ed affermarsi. Per questo motivo Dante ha deciso di usarla nel Convivio per
scrivere un trattato di scienza varia andando contro l’orizzonte culturale del suo tempo
consapevole del fatto che neanche gli uomini dotti si sarebbero scandalizzati del suo uso del
volgare anche per argomenti morali in poesia, perché ormai l'associazione poesia-lingua volgare
era ormai pacifica. Quello che invece risultava essere rivoluzionario era la decisione di usare il
volgare anche in opere scientifiche in prosa, perché finché veniva utilizzato nell’ambito poetico,
poteva apparire particolarmente interessante date le rime, le figure retoriche che abbellivano la
lingua: il volgare scritto in prosa invece risultava nudo.
Dante usa una famosissima metafora, ricordata poi secoli dopo da Luigi Pirandello, nella sua
definizione contrastiva tra comicità e umorismo: Pirandello distingue comicità e umorismo
all’interno del saggio dell’umorismo chiamando in causa la figura di una donna anziana truccata
(vecchia imbellettata); al contrario Dante impiega la metafora della donna truccata (non anziana)
per paragonare quest’ultima al volgare usato in poesia, una lingua abbellita dall’uso di rime, figure
retoriche mentre la prosa viene paragonata ad una donna priva di trucco così da dimostrare la
vera bellezza del volgare.
Dante dice di essere l’unico in grado di promuovere il volgare come lingua da utilizzare in prosa e
nella trattazione di temi scientifici anche se prediligerà il suo utilizzo in poesia: nel Convivio, infatti,
pone sullo stesso livello il volgare e il latino riconoscendosi la possibilità di portare quel patrimonio
lessicale, che potenzialmente la lingua volgare possiede, dalla potenza all'atto, cioè di
manifestarlo. Difatti Dante è considerato fautore della nostra lingua (volgar materno) nella misura
in cui molte parole della Commedia sono proprio di invenzione dantesca. Dante è intenzionato a
valorizzare, nel corso di tutta la sua attività di scrittore ed intellettuale, la scelta del volgare per la
sua produzione letteraria nella corrispondenza che ebbe con Giovanni del Virgilio.
Il Convivio resta incompiuto, probabilmente perché l’alta fantasia della Commedia sottrae Dante
all’analitico lavoro della teoresi filosofica e della divulgazione enciclopedica. Al capitolo introduttivo
Dante riserva l’ufficio di definizione dei destinatari del libro e di giustificazione della lingua
impiegata.
INCIPIT del Convivio.
Convivio (1304-1306)
Sì come dice lo Filosofo nel principio de la così come dice Aristotele nel principio della
Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente Prima filosofia, tutti gli uomini desiderano
desiderano di sapere. La ragione di sapere naturalmente. La ragione di ciò è che
che puote essere ed è che ciascuna cosa, ogni cosa sarebbe spinta dalla Provvidenza
da providenza di prima natura impinta, è della prima natura (Dio) è incline a raggiungere
inclinabile a la sua propria perfezione; onde, la sua perfezione (la sua natura): poichè la
acciò che la scienza è ultima perfezione de la scienza è l’estrema perfezione della nostra
nostra anima, ne la quale sta la nostra anima, scienza (sapere) nella quale risiede la
ultima felicitade, tutti naturalmente al suo nostra ultima felicità, tutti noi per natura siamo
desiderio semo subietti… soggetti al suo desiderio (della scienza),

La prima parte del convivio inizia con una citazione proveniente dalle autoritas, ossia le grandi fonti
del sapere, in questo caso di Aristotele perché con un'opera di questo tipo che intendeva
affrontare vari argomenti scientifici, Dante era costretto a confrontarsi con il sapere del suo tempo
e con i grandi classici dell’antichità, dato che si citano sia filosofi che poeti antichi. Da ciò possiamo
già comprendere la relazione delle opere di Dante con l’antichità e non occorre aspettare
l’Umanesimo per far riferimento a questo rapporto.
-filosofo con la F maiuscola indica il filosofo per eccellenza, cioè Aristotele, e la Prima Filosofia
invece la prima parte della filosofia aristotelica (metafisica, in cui si occupa dell'essenza dei principi
del mondo).
Certamente Dante non conosceva Aristotele nei testi originali in greco antico perché questo, nel
periodo cristiano, non era una lingua accessibile neppure agli intellettuali come Dante, ma in
maniera indiretta; quindi, attraverso conoscenze acquisite durante la sua formazione filosofica
scolastica (es. lo studio delle traduzioni dei testi aristotelici provenienti dal mondo arabo tradotte
poi in latino).
Dante, quindi, spiega come l'amore del sapere, della conoscenza sia connaturato all'uomo in
quanto rappresenta la forma di perfezionamento più alto della natura umana: quindi la forma più
alta di felicità che in una dimensione di valori terreni l'uomo può conseguire consiste nel diventare
sapienti, nell'acquisire la scienza. Dante quindi non si limita a citare l’auctoritas di Aristotele, ma
riproduce l'andamento dialettico-ragionativo tipico della logica aristotelica fondata sul sillogismo,
forma di ragionamento deduttivo costituito da una premessa maggiore, una minore e una
conclusione derivata necessariamente.
Questa introduzione serve a Dante per restringere il campo del suo pubblico poiché questo esordio
farebbe capire che, siccome tutti gli uomini desiderano sapere, allora tutti riescono a conseguire la
saggezza, quel bagaglio di nozioni nel quale consiste la loro felicità. In realtà non è così perché
Dante sa che non tutti possono accedervi a causa di diversi fattori:
DENTRO L’UOMO
1) il primo gruppo è rappresentato dai difetti e impedimenti da parte del corpo, ossia condizioni di
minorazione fisica o mentale che precludono l’accesso all’istruzione a categorie come i sordi, i muti
e i loro simili.
Consideriamo infatti che, nell’età medievale, l'insegnamento avveniva in forma prevalentemente
verbale;
2) Il secondo gruppo di cause dentro l'uomo, sono quelle che Dante attribuisce all'anima
chiamandoli difetti e impedimenti da parte dell'anima. Per spiegarsi egli parla di malizia, cioè la
malvagità, la cattiva inclinazione della natura umana verso il vizio che porta l’anima a disprezzare
ogni altra cosa che non sia concreta, compreso il sapere.
FUORI L’UOMO
3) “la cura familiare e civile la quale convenevolmente a sé tiene degli uomini lo maggior numero sì
che in ozio di speculazione esser non possono”: per cura familiare intende le necessità
economiche, di lavorare per mantenere sé e la famiglia, per cura civile invece intende le
occupazioni di natura pubblica (chi è chiamato a mettersi al servizio della comunità-Dante stesso
era priore) che non consentono l’ozio di speculazione, dunque non permettono di dedicarsi alla
riflessione dello studio (l'ozio, latinamente, è il contrario di negotium- negotium è il tempo dedicato
agli affari, alle questioni familiari e civili- l’ozio invece è il tempo dei letterati di dedicarsi a se stessi
e allo studio).
Questa definizione importante ci fa capire qual è il pubblico al quale Dante si rivolge: ovviamente
non può rivolgersi ai muti, ai sordi, a coloro che hanno degli impedimenti fisiologici o a chi non è
interessato poiché ha l’animo vizioso alla cultura, alla scienza, ma si rivolge a coloro che,
impegnati nelle cure familiari e della società, non hanno tempo per studiare, perché studiare
significava accedere alle fonti primarie del sapere, ai testi degli autori classici, dei filosofi, dei padri
della Chiesa che erano tutti scritti in latino e non permettevano quindi la loro lettura a chi non
comprendeva la lingua. Di conseguenza questo tipo di pubblico può trovare il tempo per
apprendere delle nozioni utili dal libro di Dante (il Convivio, in quanto scritto in volgare). Proprio dal
fatto che Dante pensi a coloro che per impegni civili non hanno tempo di studiare, è nata anche la
definizione di Convivio come “pedagogia della nobiltà”.
Sappiamo che Dante scrive questo trattato tra il 1304 e il 1305, epoca in cui, esule da pochi anni
da Firenze, ha cominciato ad avere dimestichezza con delle forme statali molto diverse da quelle
del comune fiorentino, ossia quelle delle piccole signorie urbane, abbiamo parlato per esempio
degli Ordelaffi a Forlì, dei Da Camino a Treviso, dei Della Scala a Verona. Dante, dunque, nei
primi anni d'esilio, visitando le diverse corti signorili, ha fatto esperienza di forme statuali di tipo
monocratico, che vedono un principe, un signore al vertice che di fatto governava le città e nella
maggior parte dei casi parliamo di aristocratici; quindi, di persone che avevano un'estrazione
sociale nobiliare ma che, avendo anche responsabilità di governo, ricoprivano anche ruoli pubblici
di amministrazione della giustizia, quelli che definiremmo compiti di governo. Dante è
perfettamente consapevole del fatto che per ricoprire tali ruoli, vi è la necessità di avere una certa
cultura fatta di conoscenze storiche, delle dinamiche del vivere civile, di diritto, di filosofia, poiché
un uomo acculturato sarà certamente un amministratore o un governante migliore rispetto a chi
invece è cresciuto nell'ignoranza. Proprio perché Dante fa di questo gruppo di persone, cioè quello
degli uomini, che non possono studiare perché dediti a cure familiari e civili, che per il Convivio è
stata coniata l’etichetta “pedagogia della nobiltà”. C’è da dire che la lettura del Convivio avrebbe
fatto bene anche nei comuni, quando a gestire la cosa pubblica erano anche persone, cittadini,
non necessariamente di estrazione nobile.
4) La quarta delle cause, è particolarmente interessante perché Dante la spiega come la causa
che impedisce l’accesso al sapere: “difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che talora
sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano”; ossia mancanza
imputabile al luogo nel quale la persona è nata e cresciuta, luogo che talvolta si può trovare non
solo privo di ogni studio, ma lontano da gente studiosa. Quello di cui Dante parla è luogo
geografico, egli fa riferimento a quelle zone lontane dallo studio: qui studio ha il termine tecnico di
studium latino, che nel Medioevo significava università, centro di studio; dunque, ci si riferisce a
coloro che, vivendo in piccoli paesi, non hanno accesso ad un’università. Bisogna tener presente
che Dante in questo caso non tiene conto dell'estrazione culturale, un elemento presente, semmai,
alla causa precedente. Di fatto vi è la necessità di occuparsi della famiglia, se si nasce in
condizioni economiche disagiate, se si nasce infatti in una buona condizione economica, si può
anche fare a meno di mantenere la famiglia e c’è quindi la possibilità di dedicarsi allo studio.
Un esempio è Guido Cavalcanti, appartenente ad una famiglia Magnatizia, che non avendo
bisogno di lavorare ha potuto appassionarsi alla filosofia. Guido Cavalcanti rappresenta il prototipo
dell'aristocratico non vizioso, che amava il sapere e che godeva di ottima fama di filosofo.
Ricordiamo inoltre che egli era ateo ed è per questo che Dante pone il padre Cavalcante, tra gli
atei nell'inferno, visto che non può mettere il figlio perché ancora vivo, facendo così comprendere
anche il peccato di cui è accusato. (C'è una novella del Decameron di Boccaccio che parla di
Cavalcanti e lo presenta proprio così come grande filosofo e speculatore).
La formazione di Dante
A questo punto c'è da chiedersi se questa quarta causa non rifletta un po’ anche l'esperienza
personale di Dante, ricordiamo quello che è stato il soggiorno bolognese subito dopo l'esilio,
sostenuto soprattutto da Mirko Tavoni, e che probabilmente non era il primo compiuto da Dante
secondo quanto ci tramanda Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante. Si dice infatti
che egli sarebbe stato una prima volta a Bologna, prima dell'esilio, probabilmente dopo la morte di
Beatrice, in un periodo non molto precisato. Di entrambi i soggiorni a Bologna non esistono prove
certe, anche se quello che ipotizza Tavoni viene accettato sempre di più dalla comunità scientifica.
Per quanto riguarda quello pre-esilio bisogna credere alla testimonianza di Boccaccio perché
Dante stesso, nelle notizie biografiche che dà di sé nella commedia, nella vita Nova e nel Convivio
non fa riferimento a questo tipo di episodio. C’è da dire però che se questo soggiorno non pare
inverosimile è perché in realtà molti giovani fiorentini dell'età di Dante che avevano interessi di
studio, vista l'assenza di un’università nella città di Firenze, si dirigevano proprio a Bologna.
E’ sicuro però che se Dante fu a Bologna ad ascoltare dei corsi, lo fece in maniera assolutamente
privata, come uditore, ma non completò nessun curriculum di studi che gli avrebbe conferito dei
titoli. Un aspetto importante da tenere in considerazione, riguarda la formazione di Dante, come
sappiamo egli infatti scrive un trattato di scienza, il Convivio, ed è quindi legittimo chiedersi, che
titoli poteva vantare Dante come insegnante, saggio, docente, studioso da spendere in questo
trattato. Le prime informazioni, riguardanti le tappe di studio principali, sono presentate nella
biografia di Boccaccio “trattatello in laude di Dante” scritto intorno alla metà del 300, quindi a
distanza di circa un trentennio dalla morte di Dante che egli in parte attinge da quello che Dante
racconta nelle sue opere e in parte invece da fonti diverse. Quello raccontato da Dante è il tipo di
formazione avuto a Firenze, viene però saltata la formazione che oggi noi chiameremmo
elementare. I bambini anche nell'età di Dante andavano a scuola di abaco, cioè alla scuola dei
primi rudimenti della scrittura e della lettura. Generalmente avevano un maestro unico che
insegnava loro a leggere e scrivere in volgare e fare di conto, la formazione che noi chiamiamo
della scuola secondaria superiore era abbastanza standard e omogenea per tutti, cioè chi non
andava a fare il mercante, per cui chi sapeva leggere, scrivere abbastanza da gestire la propria
contabilità ed esercitare l’arte della mercatura, si avviava verso lo studio delle arti liberali cioè le
cosiddette arti del trivio e del quadrivio che lo stesso Dante ha compiuto.
Le arti del trivio sono la grammatica, la retorica e la dialettica: per la grammatica si intende lo
studio della lingua latina in tutti i suoi aspetti, per l'appunto grammaticali e sintattici, era quello
studio che permetteva di impadronirsi della lingua e poter scrivere in modo più o meno sufficiente il
latino. La retorica era l'arte del dire, naturalmente in latino, e la dialettica era invece l'arte che
presiedeva alla costruzione di discorsi coerenti, coesi e soprattutto di argomentazioni del proprio
pensiero, per convincere o per difendersi da argomenti contrari, l'arte del dire e quindi l'arte anche
agonistica, dell’imporsi con il proprio pensiero, con le proprie convinzioni, attraverso appunto la
parola. Quindi queste tre arti del trivio configurano una formazione di tipo prettamente umanistico,
linguistica, poetica e umanistica mentre le arti del quadrivio, invece, sono arti più varie, aritmetica,
geometria, astronomia e musica: discipline che oggi definiremmo prevalentemente scientifiche,
fisiche e matematiche. Anche la musica era strettamente imparentata alla matematica e
all’astronomia, dato che si riteneva che la musica primaria fosse la musica creata da Dio attraverso
il movimento dei pianeti, la famosa musica dell'universo, che anche oggi molti astrofisici studiano e
di cui parlano. Queste discipline venivano chiamate arti liberali perché erano le arti dell'uomo libero
e si contrapponevano alle arti dell'uomo schiavo, del servo, che erano arti meccaniche, che
avviavano alle professioni manuali. C’era poi un gruppo a parte di studi costituito da discipline
come medicina o diritto, che pure implicando molta applicazione scientifica e un lungo appunto
studio intellettuale, però avevano degli sbocchi professionali estremamente lucrativi contro cui si
scagliava F. Petrarca. Quest’ultimo vede nei medici, negli avvocati, nei giuristi, delle figure di
intellettuali che in qualche occasione pretendevano di assurgere a maestri del pensiero, superiori
anche ai poeti o agli storici. Compiute le arti liberali, Dante era un discreto studente, ma di certo
non possedeva quella che noi chiameremmo una formazione universitaria. Se Dante ascoltò
qualche lezione a Bologna, non sappiamo quali corsi, quali professori, quali discipline studiò e fino
a che livello di applicazione o di apprendimento giunse, proprio perché non si ha assolutamente
alcuna notizia su questo. Una notizia certa è quella che ci da Dante nel Convivio, ricordiamo infatti
la presenza, nel Convivio, di una lettura allegorica della famosa donna gentile, personaggio della
Vita Nova, che lo avrebbe consolato dopo la morte di Beatrice. Mentre nella Vita Nova quella
donna gentile era una donna in carne ed ossa, nel Convivio Dante propone un'interpretazione
allegorica paragonando la donna alla filosofia. Egli, infatti, dopo la morte di Beatrice, per consolarsi
inizia a frequentare le scuole dei religiosi e le dispute dei filosofanti. Ma cosa sono le scuole dei
religiosi? Con questo termine Dante indica gli studi conventuali presso, le grandi istituzioni culturali
e soprattutto di formazione superiore, che esistevano presso i conventi dei domenicani di Santa
Maria Novella (famosa chiesa di Firenze) e dei francescani di Santa Croce, chiesa in cui sono
presenti i famosi sepolcri degli uomini illustri di cui parla Foscolo nei Sepolcri. Sia domenicani che
francescani sono due ordini, conventuali di frati mendicanti, che vivevano delle elemosine, della
elargizione dei laici e che li beneficiavano in questo modo. Essi praticavano essenzialmente la
povertà, soprattutto per quanto riguarda l’ordine francescano, visto che di Madonna povertà
Francesco aveva fatto appunto la sua sposa. Questi ordini col tempo sono divenuti sempre più
potenti, visto anche il fatto che questi erano ordini predicatori, che si prefiggevano come missione
la diffusione del messaggio appunto evangelico nella società civile. Sono questi gli ordini che nel
Medioevo e anche in epoca successiva esprimeranno le maggiori figure di frati predicatori, un
personaggio abituale nell'immaginario e nell'universo medievale. Basterà pensare alla famosa
novella di frate Cipolla presente del Decameron di Boccaccio. La diffusione del messaggio
evangelico, dunque, era la prima missione di questi ordini, i quali avevano costruito delle strutture
di formazione dei propri adepti; quindi, dei giovani frati all’interno delle quali essi curavano la loro
formazione impartita da religiosi.
Erano comunque scuole di religiosi, ma questo non proibiva l’accesso ai laici come uditori delle
lezioni che venivano impartite: siccome questi studi di alta formazione erano finalizzati alla
formazione di frati predicatori, in molti casi, l'istruzione era basata sulla filosofia e la teologia,
nondimeno era uno degli ambiti del sapere medievale tra i più importanti (se Dante non avesse
avuto questo tipo di istruzione, non avrebbe di certo potuto affrontare la materia teologica della
Commedia, del Paradiso in particolare). La cosa interessante è che, proprio perché frequentò
questi studi conventuali, Dante conobbe alcune delle figure più in vista della cultura dominicana e
francescana dell'ultimo decennio del 200: Remigio dei Girolami, frate domenicano allievo di San
Tommaso d'Aquino a Parigi, Pietro di Giovanni Olivi, frate di origine provenzale (la lingua madre di
questi frati ha poco rilievo visto che insegnavano tutti in latino), Ubertino da Casale, francescano
esponente della corrente più conservatrice dei francescani spirituali che insegnò a Santa Croce
(inoltre è stato anche il personaggio del romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa). Questo
studio, seppur religioso, dei francescani di Santa Croce, era uno studium generale dei francescani,
perché questi conventi in molti casi avevano altri centri di formazione, oltre a quello fiorentino (che
era stato il più importante, addirittura il quarto per importanza d’Europa dopo i 3 di Parigi, Oxford e
di Cambridge), nei vari conventi italiani dei francescani. Quindi l'ambiente in cui si muoveva Dante,
anche se Firenze del suo tempo era priva di un'istituzione universitaria laica, come quella di
Bologna, non era certo un ambiente lontano da gente studiosa: dunque anche se Dante non compì
un percorso di studi regolare, poté attingere al fior fiore della cultura del tempo.

E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di
coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro
m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente
mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è
più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro
apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è
mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata.
Questo continuo dell’incipit è utile per far capire la posizione con la quale Dante si presenta al suo
pubblico. Abbiamo detto che Dante dà vita ad un'opera di divulgazione e quindi il suo ruolo non
può essere assimilato a quello dei dotti, degli accademici che si esprimevano solo in latino e che
avrebbero disdegnato di insegnare qualcosa a qualcuno che non conosceva il latino, ma si
presenta come uno che, essendo originariamente ignorante (apparteneva dunque ad un vulgo
indotto) e desideroso di sapere come tutti gli uomini, si è avvicinato all'alta cultura (che lui chiama
beata mensa) grazie al fatto di ‘essersi seduto ai piedi di quelli che sedevano alla mensa ed aver
raccolto le briciole che cadevano da distribuire poi tra i miseri che non sono riusciti ad emanciparsi
dall’ignoranza’. Per questo motivo egli afferma che, nel Convivio, intende imbandire un banchetto
di sapere (ci parla metaforicamente di pane e vivanda) per i miseri, per coloro che non hanno
potuto dedicarsi alla loro istruzione per la non conoscenza del latino e per ragioni di cura familiare
e civile.
Perché Dante parla di pane e vivanda?!
Quando parliamo di trattato, facciamo riferimento ad un'opera in prosa concentrata su un
determinato argomento: in realtà Dante usa una forma di trattato molto più antica che è ispirata
alle lezioni universitarie che si svolgevano attraverso il commento dei testi classici biblici dei padri
della Chiesa, quindi degli auctores, degli autori principali della cultura.
Dante si ispira a tre canzoni che rappresentano la vivanda del Convivio (scritte prima del Convivio)
contenenti già nozioni di dottrina varia, che però adesso Dante intendeva rendere più accessibili al
pubblico dei suoi lettori accompagnandole col pane (pane del convivio - commento in prosa di cui
Dante correda questo trattato):
i) Voi che ‘intendendo il terzo ciel movete (Cv II)
ii) Amor che nella mente mi ragiona (Cv III)
iii) Le dolci rime d’amor ch’io solia (Cv IV)
Il convivio, dunque, è un prosimetro (trattato in prosa e in versi) dal punto di vista formale perché,
pur essendo scritto principalmente in prosa, al suo interno sono contenuti questi tre testi lirici: il
primo trattato è interamente in prosa, perché è un trattato improduttivo in cui Dante affronta vari
argomenti (a chi è rivolto, il motivo per cui usa il volgare e non il latino. Presenta appunto gli
argomenti e la forma con la quale svolgerà gli argomenti che si ripropone), il secondo, il terzo e il
quarto invece, si aprono con un testo di una canzone e poi segue la spiegazione del testo, il
commento che è svolto da Dante, se non per tutte le canzoni, secondo quattro livelli, quattro sensi
dell’esegesi:
i) letterale: decodifica del messaggio;
ii) morale: senso morale del messaggio della canzone;
iii) allegorico: senso figurato che si trova dietro la canzone (parla di una cosa ma ne intende
un’altra) e che viene decodificato nel commento;
iv) anagogico: senso del connesso al destino dell'uomo dopo la morte (che può essere alluso
anche in alcuni di questi testi e Dante spiega come e dove).
Quindi possiamo dire che il Convivio è un trattato enciclopedico in quanto le scienze toccate sono
molte (la filosofia, la teologia, la grammatica, la lingua, l’etica...) svolto nella forma tipica
dell'insegnamento medievale universitario, del commento al testo che in questo caso è un testo
lirico di Dante precedente al Convivio.
Il trattato è incompleto perché il progetto inizialmente doveva essere articolato in 15 trattati, di cui
uno introduttivo e gli altri 14 dedicati a canzoni di Dante commentate: in realtà si è interrotto al
quarto libro perché secondo l'interpretazione comune, avrebbe preso il sopravvento in Dante
l'ispirazione per la Commedia; quindi, avrebbero abbandonato il De Vulgari Eloquentia e il
Convivio. Col secondo trattato ha inizio la parte speculativa, in cui vengono affrontati due
argomenti: il primo di natura metodologica e riguarda i quattro sensi secondo cui vanno
interpretate le Scritture, il secondo consiste nella descrizione dei cieli e delle intelligenze angeliche
ad essi preposte.
Il terzo trattato si apre con la canzone Amor, che nella mente mi ragiona, che celebra la Filosofia,
in quanto l’intelligenza e il sapere avvicinano gli uomini a Dio e coloro che non accedono alla
conoscenza sono da considerare <<peggio che morti>>.
Il quarto trattato è introdotto dalla canzone Le dolci rime d’amor ch’io solia: le difficoltà incontrate
negli studi filosofici consigliano il poeta di sospendere l’esperienza delle rime allegoriche e di
orientarsi verso una tematica etica e civile. In questo quarto trattato Dante affronta il tema della
vera nobiltà, un tema di capitale importanza in una società qual era quella contemporanea al
poeta.

DE MONARCHIA
Il solo trattato portato a compimento da Dante è la Monarchia, che viene scritto in latino negli anni
dell’esilio. Nei tre libri in cui si articola la Monarchia, Dante riversa le tre idee fondamentali del suo
pensiero politico:
1) l’Impero è l’istituzione provvidenzialmente necessaria per unire politicamente l’umanità e per
garantire il benessere del mondo;
2) il popolo romano è deputato, per disegno della provvidenza, alla scelta dell’imperatore;
3) l’autorità imperiale e l’autorità pontificia discendono direttamente da Dio e dunque i due poteri
sono autonomi.
Il papa e l’imperatore derivano direttamente da Dio, senza mediazioni, la loro autorità è
considerata la separazione dell’uomo in corpo e anima, provvede ad un doppio fine: la felicità
terrena e la felicità eterna. La separazione delle competenze non esclude, uno spirito di matura
collaborazione, e in relazione al fatto che il raggiungimento della felicità terrena è preludio a quella
eterna.
EPISTOLE ED EGLOGHE
Sono tredici le Epistole di Dante che ci sono pervenute, tutte in latino. Dante intende
l’epistolografia come un genere letterario cui far ricorso per corrispondenza diplomatica, per
ammonimento morale, per partecipazione politica, per interventi a carattere letterario. L’epistola 12
diretta a Cangrande della Scala per annunziarli la dedica e inviargli il primo canto del Paradisco
chiarisce le motivazioni poetiche, morali e politiche che sono fondamento del poema e ne illustra i
criteri per una corretta interpretazione. Dante distingue tra senso letterale e senso allegorico della
visione e una lettura adeguata del poema esige l’integrazione tra i due sensi: il senso letterale che
raffigura il viaggio ultraterreno del protagonista e rappresenta lo stato delle anime dopo la morte e
il senso allegorico che presenta il destino di castigo o grazia eterni che l’uomo consegue
scegliendo con il libero arbitrio il male o il bene. Ai personaggi e agli episodi della Commedia sono
affidati un significato reale e storico e un significato esemplare e morale e il fine pratico di
insegnamento etico e di innalzamento spirituale è raggiunto in virtù della congiunzione tra verità e
allegoria. Agli ultimi anni della sua vita appartengono due Egloghe, in esametri latini, scritte in
risposta ad un grammatico bolognese.

COMMEDIA
Poco dopo i quarant’anni, Dante dà avvio alla stesura della Commedia e tale impegno lo
accompagnerà, nelle peregrinazioni dell’esilio, fino alla morte. Come congettura meglio accettabile,
risulta che l’avvio della stesura della prima cantica sia da collocarsi nel 1306-1307: con
l’interruzione del Convivio e del De vulgari eloquentia.
All’epistola a Cangrande, Dante distingue lo svolgimento della tragedia da quello della commedia
perché nella prima la materia al principio è ammirabile e placida, alla fine o conclusione è fetida e
orribile, mentre la commedia poi introduce l’acerbità di alcuna cosa, ma la sua materia termina
prosperamente. Il termine comedìa appare solo in due circostanze e solo nell’inferno, mentre nel
paradiso, per qualificare la sua opera Dante la denomina poema sacro.
La generica ed enigmatica mirabile visione con cui si chiudeva la Vita nova, accompagnata dalla
promessa di una celebrazione sublimante della donna amata, si adempie nella pienezza di
contenuto della visione della Commedia, col ritorno di Beatrice che promuove, guida e conduce
alla conclusione celeste il viaggio ultraterreno di Dante. Nel ricordare i precedenti viaggi ultraterreni
compiuti da san Paolo e da Enea, Dante suggerisce anche le fonti alle quali si appoggia la sua
ideazione. Sono da tenere in considerazione anche i viaggi dell’Averno, narrati in più di una
circostanza da Ovidio nelle sue Metamorfosi e il racconto di Lucano. E’ a questi testi che fa
riferimento Dante, piuttosto che ai più recenti –e forse da lui non conosciuti- poemetti di Giacomino
da Verona e di Bonvesin de la Riva, che contengono rappresentazioni dell’inferno e del paradiso.
I versi della Commedia sono distribuiti in cento canti di differente misura, da un minimo di 115 versi
a un massimo di 160. I canti sono ripartiti in tre cantiche di 33 canti ciascuna, tranne la prima,
l’Inferno, che consta di 34 canti, perché il primo è introduttivo. L’equilibrio dell’insieme si fonda su
di una serie di corrispondenze strutturali che si manifestano nel ritornare dei numeri 3 e 10 e dei
loro multipli. La terzina incatenata è lo strumento metrico di scansione degli endecasillabi e al
numero 3 al multiplo di 3, il 9, con a volte l’aggiunta di una unità per formare il 10, sottostanno altre
simmetrie.
Nove sono le parti dei tre regni ultraterreni: l’inferno, costituito da un vestibolo e nove cerchi (1+9);
le parti del purgatorio sono nove, con l’aggiunta al culmine del paradiso terrestre (9+1); i nove cieli
del sistema tolemaico più l’Empireo (9+1) compongono il paradiso. In tutte e tre le cantiche il canto
VI è di argomento politico, con progressione da Firenze all’Italia e quindi all’Impero. Il vocabolo che
chiude le tre cantiche è lo stesso stelle. Di rilievo è anche la constatazione che i due canti centrali
dell’intera opera, il cinquantesimo e il cinquantunesimo, vale a dire il XVI e il XVII del Purgatorio,
affrontano i fondamentali problemi del libero arbitrio e della dottrina dell’amore, veri e propri nuclei
concettuali del pensiero dantesco.
L’INFERNO
Secondo la maggioranza degli studiosi, Dante iniziò a comporre l’Inferno tra il 1306 e il 1307,
quando si trovava ospite del Marchese Malaspina in Lunigiana, e avrebbe condotto un lavoro di
composizione piuttosto alacre, visto che tra il 1308 e il 1309 si ritiene che la prima cantica fosse
già conclusa.
Dal punto di vista ideologico, l’Inferno sembra essere la cantica più legata alle contingenze
storiche e biografiche di Dante, la quale riflette la sua posizione politica di guelfo, in quanto in essa
Dante pone i diversi peccatori, i peggiori esempi di umanità che ci possano essere mai stati nella
storia per potersi scagliare anche contro i propri nemici politici. E’ stato calcolato che quasi tutti i
personaggi, presenti nell’inferno, che Dante cita e che hanno un ruolo da protagonista, sono per la
maggior parte fiorentini o comunque toscani (molti di più rispetto alle altre due cantiche). Si può
inoltre affermare che la cantica dell'inferno è anche quella in cui il tasso di realismo, quindi la
presenza, di dati storici verificabili attraverso altre fonti storiche è tra i più alti. Umberto Carpi ha
appunto definito l'inferno la Cantica guelfa per eccellenza ha parlato appunto di inferno guelfo
poiché essa riflette quello che Carpi chiama guelfismo ideologico e politico. Si intende quindi una
professione di fedeltà da parte di Dante all'ideologia guelfa che, secondo Carpi, si troverebbe nei
primissimi canti dell'inferno e in modo particolare nel secondo, appunto dell'inferno, dove Dante
incontra Virgilio e riceve la notizia di questo viaggio nell’ oltremodo voluto da Dio per lui, da
compiere ancora vivo.
Nel secondo canto Dante chiede a Virgilio perché proprio lui sia stato designato come depositario
di questa grazia chiedendosi cosa avesse fatto per meritare un simile riconoscimento da parte da
parte di Dio?
Virgilio chiamerà in causa direttamente Beatrice, è stata lei che su sollecitudine di Santa Lucia, e
prima ancora della vergine, a scendere nel limbo per chiedere a Virgilio di farsi guida per Dante;
quindi, Beatrice è senz'altro un mezzo della volontà divina. In qualche modo però, quello di Dante
non è un merito conquistato ma un sigillo, una dimostrazione della grazia di Dio nei suoi confronti.
Prima che Virgilio però gli dia questa risposta, Dante gli chiede perché sia stato scelto proprio lui,
visto che in precedenza soltanto due persone hanno compiuto tale viaggio nell'oltremodo da vive.
Parliamo cioè di un santo ossia San Paolo e Enea, come sappiamo personaggio letterario
circondato da un'aura mitica e leggendaria, che Dante considera invece realmente vissuto che ha
compiuto praticamente questo viaggio perché Dio stesso lo ha voluto in quanto Enea era stato
preordinato dalla Provvidenza divina per fondare la sua dinastia e quello che sarebbe poi diventato
l’Impero romano destinato ad essere universale. Nonostante nella letteratura siano diversi i
personaggi che hanno compiuto un viaggio nell’oltretomba, come ad esempio Ulisse, Dante
sceglie di ricordare unicamente San Paolo ed Enea poiché in primo luogo sappiamo che egli non
conosce i poemi omerici in forma diretta, ma solo quello che altri autori raccontano. Dunque Dante
definisce Omero il sovrano di tutti i poeti dell'antichità però è evidente che non può fare riferimento
all'episodio di Ulisse, mentre fa riferimento esplicito ad Enea quasi per dimostrare a Virgilio che lui
conosceva molto bene la sua opera. In questo modo si creano le condizioni storico politiche che
hanno portato alla diffusione del Vangelo con la maggiore ampiezza possibile. In questo canto
Dante fa professione ineccepibile dell'ideologia guelfa, ricordiamo che i guelfi sostenevano la
supremazia del potere e del Pontefice sull’imperatore proprio perché la nascita dello stesso Impero
Romano a cui spettava l’esercizio del potere politico, nelle forme imperiali, era avvenuta per
volontà divina ed era subordinato a questo disegno provvidenziale per la diffusione della salvezza
degli uomini, e quindi del messaggio evangelico della predicazione cristiana. Dante sembra
professare la sua ideologia guelfa in modo quasi scolastico davanti a Virgilio. Umberto Carpi ritiene
che egli nel momento in cui scrive questi versi sia sincero, cioè esprime quelle che erano le sue
convinzioni autenticamente avvertite. Come sappiamo però, le vicende politiche che coinvolgono
l’autore, lo porteranno presto a maturare un distanziamento dalle posizioni politiche dei guelfi e
forse anche dalla stessa ideologia, molto probabilmente anche prima della fine della composizione
dell'inferno. Ricordiamo che Dante nel paradiso incontrerà il suo avo Cacciaguida, con il quale
avrà un lungo colloquio (anticipato nel Convivio), una circostanza che permette ad altri di
raccontare molte cose su di sé. Ecco, in questo canto Dante, tramite Cacciaguida, ci racconta che
dopo l'esilio, si sarebbe inizialmente associato ai bianchi fuoriusciti e ai ghibellini nel tentativo di
rientrare in patria, magari attraverso l’esercizio delle armi. Successivamente però, Dante avrebbe
preso le distanze da questa compagnia, “tutta matta e scempia” così come la definisce nel
Paradiso e questa presa di distanze non è soltanto l'espressione di un’avversione nei confronti di
una strategia politica militare per ritornare in patria. Dante, infatti, si separa dai suoi compagni di
esilio non solo perché non è d’accordo sulla loro condotta politica e militare (che essi vogliono
adottare per tornare in patria), ma soprattutto perché Dante comincia a non condividere più quella
stessa fede politica con la quale era cresciuto. Tuttavia nell'inferno non dà subito espressione di
questo suo allontanamento dalle posizioni politiche, ma continua a manifestarsi, guelfo, per una
convenienza del tutto personale nella speranza che la parte politica al potere allora a Firenze ossia
i guelfi neri possano emettere per lui un provvedimento di amnistia e poterlo richiamare in patria.
(questo è il guelfismo politico di cui parla Carpi).
Già nell'età di Dante Virgilio era l'autore poetico latino per eccellenza e pensando quindi ad
un'opera che vedesse protagonista Dante, in un viaggio dell'oltretomba, era impossibile che a
Dante non venisse in mente di confrontarsi indirettamente con l'opera di Virgilio, visto che egli lo
aveva fatto compiere al protagonista del suo poema in un oltretomba pagano e non cristiano.
Virgilio è quindi oggetto del culto di Dante, che nutre un’estrema stima e considerazione nei suoi
confronti e quindi queste sono le condizioni che potranno convincere Dante nel seguirlo in questo
percorso. Inoltre c’è da dire che scrivendo un poema, Dante si poneva il problema dei modelli di
riferimento a cui questa nuova opera letteraria potesse guardare o da cui prendere esempio, egli fu
effettivamente il primo ad avvertire la novità della sua opera nel panorama dei generi letterari;
infatti, gli unici generi con i quali poteva confrontarsi si collocavano nell'ambito delle letterature
classiche e non della letteratura volgare, che aveva un'origine recente.
Il IV canto dell’Inferno è il primo in cui Dante incontra anche chi non avrebbe mai potuto conoscere
cioè i poeti antichi. Ci sono molti canti della commedia anche nel purgatorio, che ospitano incontri
di Dante con poeti più o meno contemporanei.
Nel primo canto Dante incontra Virgilio, ricordiamo l’episodio della selva oscura, delle fiere e
dell’arrivo di Virgilio.
Nel secondo canto egli spiega a Dante come sia nato il progetto divino che lo riguarda
direttamente e quindi di come sia stata anche la stessa Beatrice a venirlo a trovare per chiedergli
di farsi guida di Dante. Nel terzo canto inizia propriamente il viaggio dei due pellegrini che
attraversando l'Acheronte, vengono traghettati da Caronte “Caron Dimonio”, cioè dal demonio con
gli occhi di bracia. Il traghettamento non viene descritto perché come possiamo vedere alla fine del
canto, Dante ci spiega che a un certo punto si sollevò del vento e ci furono dei baleni di luce
vermiglia, come fossero appunto dei lampi e Dante cadde come addormentato. Quindi c'è questa
specie di svenimento o, di perdita momentanea di coscienza, che permette a Dante di saltare la
descrizione dell'attraversamento dell'acheronte.
Dal punto di vista grafico l'inferno è costituito da una serie di gironi concentrici, e a cono
praticamente che vanno restringendosi man mano che si scende in profondità. Questo bordo
esterno prende il nome di limbo, questa parola è particolarmente famosa ma Dante la usa solo due
volte nella commedia qui e nel purgatorio. Limbo viene dal latino lembus, cioè bordo, il lembo o
l’orlo. Il nome di questo luogo, che non è ancora propriamente l'inferno, deriva dal fatto che esso si
trova in questa zona contigua ma ancora fuori, quindi una zona periferica, marginale. Ovviamente
il limbo era un luogo dell’OLTREMONDO già teorizzato dalla teologia cristiana, in modo particolare
da San Tommaso che nella scolastica parla di questo luogo come un luogo in cui si trovano i
grandi patriarchi degli ebrei, del vecchio testamento. Per tale ragione lo chiama Limbus Patrum,
cioè limbo dei padri e colloca in questo luogo, ma in una parte separata del limbo, tutti coloro che
sono morti prima di ricevere il battesimo, quindi in tenera età, parliamo quindi del cosiddetto limbus
puerorum, cioè limbo dei bambini.
Da questo punto di vista Dante si colloca perfettamente nell'ortodossia cattolica, perché anche per
lui il limbo ospita gli antichi e i bambini. C’è da dire però che dal limbo sono usciti i patriarchi ebrei
della fede, per trovare la loro legittima collocazione in paradiso. L'uscita dei patriarchi, di cui Dante
farà poi un elenco, è avvenuta in un preciso momento, cioè quando Cristo è morto e al momento
della sua resurrezione, come racconta appunto il nuovo Testamento, prima di ascendere
definitivamente al padre è sceso negli inferi, ha rotto le porte degli abissi e ha tratto da questo
luogo, le anime di Adamo, di Noè, Di Mosè ecc..
Come già detto il limbo contiene tutti coloro che non hanno ricevuto il battesimo come i bambini
che sono morti molto piccoli che pur non avendo alcuna colpa, sono esclusi dalla possibilità di
salvezza, perché sono macchiati del peccato originale. In questo Dante dimostra così di non
essere poi dal punto di vista teologico così ortodosso. Secondo San Tommaso, infatti, la possibilità
di salvarsi pur non avendo ricevuto il battesimo o, in età adulta, essere stati raggiunti dalla
predicazione cristiana, per l'insondabile giudizio di Dio può essere riservata a tutti. La grazia
divina, secondo San Tommaso può, percorrendo vie misteriose, produrre la salvezza anche di chi
non ha mai conosciuto Cristo e quindi di chi non ha potuto praticare la fede cristiana, questi sono
quelli che vengono definiti da San Tommaso infedeli negativi. Il fatto che San Tommaso ammetta
quindi che individui che non hanno mai conosciuto Cristo possano alla fine salvarsi, è una
possibilità che rimane sul piano teorico, perché è praticamente impossibile che questi individui
muoiono soltanto con il peccato originale. Quindi la grazia che toccherebbe anche questi ultimi,
dovrebbe presupporre che in qualche modo essi possano essersi anche pentiti dei peccati che
hanno commesso. Da questo punto di vista quindi San Tommaso è possibilista, al contrario di
Dante che invece preclude in maniera assoluta la possibilità di salvarsi, per coloro che non hanno
ricevuto il battesimo. Tuttavia egli inserisce nella Commedia due eccezioni: una riguarda Rifeo, un
guerriero troiano, personaggio dell’Eneide, caratterizzato per essere un uomo particolarmente
giusto e che Dante colloca appunto nel cielo del sole, in paradiso, tra gli spiriti giusti insieme a
Traiano. Mentre però per quest’ultimo si ipotizza che sia potuto ritornare in vita brevemente per
convertirsi e ricevere il battesimo, nel caso di Rifeo, questo passaggio non c'è stato ed è morto
quindi pagano.
L’altra eccezione più nota è quella di Catone il Censore scrittore, uomo politico, appunto,
repubblicano Romano, certamente non cristiano, che Dante sceglie come custode
dell'antipurgatorio.
L'altra novità tutta dantesca sta nell’inserire, oltre alle due zone del Limbus Patrum (ormai vuota
poiché i padri ebrei erano in Paradiso) e Limbus Puerorum anche una terza, quella che lui definirà
degli spiriti magni. cioè grandi. In questo caso la grandezza va intesa nell’accezione del termine
greco di megalo psiuchia ossia la grandezza d'animo, morale di questi personaggi e vedremo
infatti essere degli scrittori, dei filosofi che si distinsero per la loro magnanimità e condotta etica,
oltre che per il loro altissimo impegno intellettuale e filosofico. Anche questa novità evidenzia la
sua non proprio totale aderenza all'ortodossia cristiana, poiché colloca nel limbo individui che
difficilmente possono aver avuto sulla loro coscienza soltanto il peccato originale. Questi spiriti
Magni, infatti, possono essere stati degli uomini con grandissime qualità morali, intellettuali ma in
molti casi sono uomini che hanno vissuto una vita, densa di passioni; quindi, è difficile immaginare
che si possano essere macchiati unicamente della colpa del peccato originale. Proprio per tale
ragione va detto che la loro presenza qui è alquanto strana, il limbo infatti è una zona che senza
essere propriamente di salvezza non è neanche una zona di tortura o di colpa, è quel luogo
dell'oltretomba in cui le anime non soffrono ma non gioiscono nemmeno. Quindi la scelta di Dante
è abbastanza significativa oltre che contraddittoria, egli stesso non la gestisce bene, perché, per
esempio nel quarto canto cita come anima che risiede nel limbo Cesare, mentre nel purgatorio
parla di Cesare come di un'anima lussuriosa, lasciando quasi intendere che la sua collocazione più
giusta, sarebbe stata appunto nell'inferno. Questa scelta compiuta dall’autore, inoltre, dipende dal
desiderio di Dante di riservare anche nell'oltretomba, una posizione distinta o privilegiata ai grandi
uomini dell'antichità, specialmente se artisti, intellettuali e poeti.
Ultima cosa che conferma quindi la volontà di Dante di fare in qualche modo del limbo la vetrina
dei più grandi intellettuali del passato è il fatto che egli metta tra queste anime persino dei
musulmani; quindi, quelle persone che San Tommaso avrebbe sicuramente escluso dalla
salvezza, perché definite da lui stessi infedeli positivi. Con questa terminologia ci si riferisce a
coloro che non hanno avuto fede in Cristo ma in un'altra religione, pur conoscendo il messaggio
evangelico. Persone che quindi devono essere esclusi dall'oltretomba e dal paradiso cristiano, ma
che Dante ammette.
Da un punto di vista formale, ci troviamo di fronte ad un canto in terzine di endecasillabi collegate
tra di loro secondo lo schema dell'incatenamento, uno schema metrico tipico di questo poema
tanto da prendere il nome di ‘terzina dantesca’: consiste nel legare la rima del verso centrale di
ogni terzina con il primo e il terzo verso della terzina successiva. Invece le prime due rime della
prima terzina di ogni canto non rimano con nessun'altra parola.
Che cos'è la Rima? -Due parole rimano tra di loro quando sono identiche a partire dalla vocale su
cui cade l'accento tonico della parola (es. riscossi cade sulla o, quindi la parte di rima è ossi, rima
con mossi e fossi).
Egli immagina di compiere il suo viaggio ultraterreno quando è giunto al culmine della sua
parabola esistenziale, a trentacinque anni, nel 1300. Il viaggio si svolge in sette giorni, lo stesso
numero di giorni impiegati da Dio nella creazione, a cominciare dal 7 aprile, il Venerdì Santo.
Dante smarrito in una <<selva oscura>> (il peccato), pensa di poter trovare salvezza dirigendosi
verso un monte che vede illuminato dai raggi del sole. Il suo cammino è però ostacolato da tre
fiere che gli si parano davanti successivamente: una lonza (l’invidia), un leone (la superbia) e una
lupa (la cupidigia). Gli viene allora in soccorso un’ombra, che si rivela essere quella di Virgilio,
inviato in suo aiuto da Beatrice e dalla Vergine. La salvezza per lui potrà venire solo dopo che avrà
percorso i regni della dannazione e della purificazione. Dante rappresenta l’Inferno come una
profonda voragine a forma di cono, che è stata aperta sotto Gerusalemme da Lucifero quando fu
cacciato dall’Empireo. I dannati sono distribuiti lungo i cerchi degradanti di questo imbuto secondo
un criterio di valutazione delle colpe che si rifà all’Etica Nicomachea e alla Fisica di Aristotele. Tutti
i dannati sottostanno alla legge del contrappasso: le punizioni infernali trovano corrispondenza per
similitudine o per contrasto col peccato commesso: i lussuriosi (abbandonati al furore della
passione) vengono incessantemente travolti da una bufera di vento; gli indovini che volevano
scrutare nel futuro hanno il viso girato dalla parte del dorso e devono procedere
all’indietro.

IL PURGATORIO
Ai piedi della montagna del Purgatorio, Dante e Virgilio s’imbattono in Catone Uticense, che è il
guardiano del luogo e che sollecita Virgilio a lavare la caligine infernale che ancora copre il volto di
Dante e a cingerlo di un giunco, in segno di umiltà. Si procede verso l’Antipurgatorio, dove sono le
anime di coloro che tardano a pentirsi: la prima schiera è quella degli scomunicati; seguono gli
spiriti negligenti, poi le vittime di morte violenta.
Dinnanzi alla porta che consente l’accesso al monte del Purgatorio sta un angelo portiere, il quale
incide sulla fronte di Dante sette P, indicative del peccato: esse verranno in successione cancellate
dagli angeli che sono a custodia delle sette cornici in cui è suddivisa la montagna del Purgatorio.
Le anime dislocate nelle prime tre cornici sono i superbi, gli invidiosi e gli iracondi. Gli accidiosi
occupano la quarta cornice. In successione troviamo gli avari e i prodighi (che spendono con
eccessiva facilità); seguono i golosi. Nella balza più alta della montagna sono collocati i lussuriosi,
avvolti tra le fiamme: fra di loro ci sono i grandi poeti d’amore: Guido Guinizzelli e Arnaldo Daniello.

Il viaggio nel Purgatorio finisce qui.


Gli appare al di là del fiume Lete una donna soletta che solo alla fine della cantica dichiarerà il suo
nome, Matelda. Rappresenta l’immagine della felicità terrena. Il poeta assiste a una processione
simbolica, aperta da sette candelabri e chiusa da sette vecchi, che configura la storia della Chiesa.
Finalmente, sul suo carro trionfale, entro una nuvola di fiori, compare Beatrice. Smarrito, il poeta
non può trovare appoggio in Virgilio (non può entrare in Paradiso, perché non è battezzato), ha
assolto al suo ufficio e d’ora in avanti il cammino dovrà essere guidato dalla fede, cioè da Beatrice.
Rimproverato dalla donna, il poeta confessa le sue colpe, dopo di che viene immerso nel Lete, le
cui acque fanno dimenticare il male.

IL PARADISO
Anche le anime del Paradiso, pur avendo tutte la loro dimora nell’Empireo, più o meno vicine a Dio
a seconda del grado di beatitudine di cui godono, vengono incontro a Dante seguendo una
tripartizione correlativa al loro essere stati in vita saeculares, activi o contemplativi. Per le anime
dei beati non esiste una gerarchia nel godimento della felicità. Essa è piena per tutte. Salito al
Paradiso a Dante compaiono, nel primo cielo, quello della Luna, sotto sembianze diafane ed
evanescenti, le anime degli spiriti mancanti vale a dire di coloro che mancarono ai voti perché
vittime della violenza altrui: come Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla. Fra gli spiriti attivi che
dedicarono il loro impegno alla politica e che sono assegnati al cielo di Mercurio c’è l’imperatore
Giustiniano. Nel cielo di Venere si trovano gli spiriti amanti. Nel quarto cielo – del Sole - a Dante e
a Beatrice appaiono gli spiriti sapienti disposti sotto forma di corone luminose, prende la parola
San Tommaso (domenicano) che esalta san Francesco e depreca la decadenza dell’ordine
domenicano. Nel cielo di Marte si presenta Cacciaguida, il trisavolo di Dante, morto in crociata;
dopo aver evocato la Firenze dei suoi tempi, sobria, civile, moralmente irreprensibile, e dopo aver
disegnato la parabola di decadenza delle antiche famiglie fiorentine, profetizza a Dante l’esilio e la
sua missione di poeta. Gli spiriti giusti cui è di appartenenza il sesto cielo, il cielo di Giove,
compongono con le loro luci le parole della sentenza biblica “amate la giustizia, voi che siete
giudici in terra” per formare poi l’immagine di un’aquila (appaiono le luci di Traiano, Costantino,
Guglielmo il Buono). Gli spiriti contemplativi del cielo di Saturno appaiono come luci che si
muovono velocissime lungo una scala d’oro: appaiono le figure di san Pietro Damiano e san
Benedetto. L’ottavo cielo è il cielo delle stelle fisse, dove a Dante è concesso assistere al trionfo di
Cristo e all’apoteosi della vergine. Dal successivo nono cielo, il Primo Mobile, sede delle gerarchie
angeliche, Dante compie l’ascesa ultima all’Empireo, dove le anime dei beati formano una candida
rosa e si dispongono come nei gradini di un anfiteatro. Al poeta, incantato davanti allo spettacolo
celeste, si affianca san Bernardo, che sostituito da Beatrice, rivolge alla vergine preghiere
d’intercessione, affinché Dante possa accedere alla contemplazione di Dio. La grazia viene
esaudita e il poeta ha l’ineffabile visione di dio e dei misteri della trinità e dell’incarnazione.

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