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Dante può essere considerato una sorta di ponte tra età antica e età moderna, con lui si apre

una stagione
di lunga durata, che possiamo ricondurre fino a Foscolo, spartiacque primario che avvia la stagione
romantica dando inizio all’età moderna in letteratura.

Il lungo tragitto storico, che dalla fine dell’Impero Romano giunge all’età umanistica e rinascimentale, non è
sintetizzabile in alcuna forma di comodo: i grandi fenomeni culturali e letterari hanno durate molto lunghe
su permanenze importanti e gli stessi picchetti cronologici che li delineano sono fortemente arbitrari e di
uso pratico. Così come Roma antica non svanisce d’un colpo, ma decade nel corso di un periodo molto
lungo, l’onda lunga di pratiche religiose, istituzionali, sociali, culturali medievali va tracimando oltre il
canonico 400 umanista e parlare di Medioevo vuol dire collocarsi tra questi picchetti mobili e addentrarsi
meglio nelle faglie di transizione. Per procedere in tale direzione è necessario partire dalla complessa ed
affascinante stagione medievale e dagli snodi problematici che di essa sono propri: è un epoca che si
configura come una chiave di volta per comprendere le forme della transizione e l’intreccio delle culture
vecchio-recenti. Occorre evidenziare la gigantesca mole di elaborazione ermeneutica che nel Medioevo
attraversa tutte le religioni tra mediterraneo e nord Europa: un’intera civiltà di dotti, religiosi, fedeli per
secoli e secoli impernia i paradigmi del sapere sulla lettura e sull’esegesi dei testi scritti, ovvero libri
fondativi delle proprie religioni, che porterà a continui conflitti ma anche ad una reciproca osmosi tra le
diverse culture religiose. All’interno di queste poi, emergeranno le profonde divisioni e le violente scissioni
rispetto alle posizioni di volta in volta dogmatiche ed egemoni, che porteranno ad un confronto duro
intorno all’interpretazione che si riteneva più corretta alla Verità. Confrontarsi con questa sorta di
“ermeneutica infinita” significa cimentarsi con un ambito di allegoresi dei testi, che è strettamente legato
all’immenso campo dell’immaginario medievale: per un verso rimanda a quella sfera del divino e
dell’invisibile (connaturata all’ermeneutica); dall’altro vi è il nesso con l’oralità delle antiche culture e
credenze popolari-pagane. Una concezione del mondo, del cosmo e della natura cui si accede come un
grande libro da sviscerare in modo allegorico, storie complesse e molteplici ricche comunque di senso da
decifrare (una pienezza che noi, educati alla percezione dei vuoti, dell’assenza e del finito, proprio del
sublime romantico, facciamo fatica a comprendere e rivivere). Nella cultura cristiano-medievale occidentale
tutto ciò ha una ricaduta decisiva sulle modalità di riappropriazione dei classici latini e dei classici greci, gli
ultimi conosciuti solo grazie alle traduzioni arabe poiché la conoscenza del greco in occidente si era
dispersa e rinascerà in Italia solo grazie ai dotti bizantini nel primo umanesimo. Queste modalità inizieranno
a seguire il modello esegetico, allegorico e sapienziale collaudato già sui testi sacri: i classici latini e greci
entrano a forza nell’olimpo intellettuale cristiano, mediati da procedure esegetiche e allegoriche atte a
“sminare” le conflittualità che potevano aprirsi tra i capisaldi della cultura pagane e generazioni addestrate
dal messaggio cristiano: una fra tutte la figura scandalosa e apparentemente inconciliabile con la cultura
classica del Gesù risorto (la figura di Cristo sarà centrale nello sforzo di conciliazione tra fede e classico, che
costituirà una delle imprese più originali della cultura medievale).

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