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LETTERATURE COMPARATE

LEZIONE 1 – 22/02/23
Critica letteraria e letterature comparate convergono spesso come insegnamenti e programmi nella vita
universitaria.
La seconda parte del corso è dedicata al rapporto tra fiction e non fiction, molto di moda oggigiorno, che
attraversa i millenni ed è suggerito da un’esigenza epistemologica contemporanea. Le frontiere tra queste due
cose sembrano assottigliarsi.
Messa in funzione della realtà, la cosiddetta narrazione del mondo e della realtà. Non serve a niente in realtà
fare un’affermazione del genere. Non sono argomenti nuovi.
Testo fictionale che si oppone al testo fattuale.
Esistono degli indici di fictionalità nel testo. Lavoro dello scrittore diverso da quello dello storico e da quello
del giornalista.
In Gomorra egli racconta tutte cose fattuali ma l’io che le collega è fictionale.
Che cosa sono le letterature comparate? Molto strano arrivare alla fine del percorso universitario e non aver
mai affrontato questo argomento.
Le letterature comparate tendono a problematizzare concetti che tutti noi conosciamo e diamo per scontati,
come il testo, l0autore, la critica, il trattato, il saggio, la traduzione. Tutti termini che pensiamo di sapere, ma
che sono molto difficili da definire. La sorella maggiore della comparatistica è l’estetica.
Alcune definizioni di letterature comparate, che possono aiutarci; il sottotitolo della slide è “un sapere
antigerarchico”, perché la comparatistica negli ultimi 30 anni si è impegnata a smontare le gerarchie che le
filologie nazionali si impegnano a costruire.
Citazione dal padre della comparatistica statunitense, Henry?:
La letteratura comparata è lo studio della letteratura non nazionale, dei rapporti tra la letteratura e altre aree
della conoscenza e delle opinioni, come la pittura, la sociologia, le scienze sociali, la religione. È il confronto
tra più letterature e tra letteratura ed altre espressioni umane. Si tratta di ragionare ad un livello
sovranazionale e sovradisciplinare.
La comparatistica si dà solo nel confronto tra più tradizioni letterarie. Inoltre, studia i rapporti tra il sapere
letterario e altre forme di sapere. Libro convergenze di un tipo italiano: tentativo di mettere in comparazione
la letteratura con molti altri saperi.
In Francia chiamano letteratura generale (rapporto tra varie letterature nazionali) e letteratura comparata
(rapporto tra letteratura e altri saperi). In Italia non c’è questa distinzione. Si parla di letterature comparate
generali.
Henry è uno dei due grandi modelli decisivi nel corso del 900 rispetto a cosa deve fare la comparatistica.
L’altro modello è di scuola francese, con l’obiettivo di spiegare la genesi di un’opera attraverso un’altra
opera di un’altra nazione. Esempio lampante è il confronto tra Chaucer e Boccaccio. Ad oggi non è
necessario che gli autori di due opere siano in contatto storicamente determinato per fare un’operazione
comparatistico.
Ciò di cui ci occupiamo è la storia letteraria. Ciò di cui ci preoccupiamo è la maniera di intendere questa
storia, di pensarla. La storia letteraria è un preconcetto.
più recentemente la disciplina si è allargata. Dichiarazione di un’insegnante di LC a Oxford, che ha scritto un
buon manuale. Egli dice: il comparatismo si applica bene al singolo e alla coppia di autori. Come si fa
comparatismo sul singolo? Egli non è una monade, si può fare interno, quindi applicare un’analisi teorica su
quell’autore senza dover ricorrere alla comparazione. Si applica bene anche ad un periodo storico.
Fondamentale infatti è sempre la periodizzazione.
sono ugualmente comparatisti quelli che studiano la formazione dei generi letterari, che sono istituzioni che
si modificano nel tempo. Ma lo sono anche quelli che spiegano i generi sessuali con i procedimenti
linguistici del narratore. Come i gender studies. Come cambia la narrazione in base alla sessualità del
narratore, o dell’autore.
tecniche dell’identità: l’identità è una costruzione, non è natura. Essa dipende dall’alterità, solo grazie ad
essa si può costruire l’identità. Fare il comparatista significa stare da entrambi i lati di uno specchio.
Decostruire ciò che pensiamo sia normalmente appannaggio della nostra identità, capire che essa è solo una
costruzione storica ed ideologica.
Il canone stabilisce qualcosa che ha un effetto retroattivo sul passato.
L’identità è una costruzione e lo capiamo anche dai piatti tipici italiani, che vanno dal cous cous siciliano al
gulasch di Trieste…
la nostra identità si esprime attraverso tecniche che non sono pure, provengono da una lunga storia. Noi ci
occupiamo di ciò che è specifico del genere umano, cioè la capacità di rappresentarsi. Diventiamo uomini
quando diventiamo in grado di rappresentare concetti astratti fuori da noi. La letteratura ci permette di
riflettere sui modi in cui rappresentiamo noi stessi. La poesia rappresenta il modo in cui noi ci vediamo, in un
certo momento storico. Noi subiamo quella rappresentazione, la incameriamo e la facciamo nostra.
falso e finto sono due cose diverse.
Il comparatista è colui che mette in relazione, studia scambi, riflette sui rapporti. Il dato essenziale è la
differenza, o fatto differenziale. Non siamo chiamati solo a studiare l’identità, ma le differenze. Ciò che
distingue le opere, le tradizioni, i metodi critici.
Saggio famoso di Hans Robert fondatore della scuola di Costanza, che ha lanciato l’idea di studiare la
ricezione dei testi letterari.
definizione di un saggio di Franca Sinopoli: per storia comparata della letteratura si intende una storia
letteraria che ha come oggetto di studio la rete di interazioni tra le diverse letterature. Frutto di una pre
comprensione e di un interesse da parte dell’interprete. C’è bisogno di un terzo elemento, al di fuori degli
altri, che agisca come orizzonte direttivo della comparazione. In pratica, perché ci interessiamo
specificatamente ad un autore, ad un argomento piuttosto che ad un altro? C’è una precomprensione. La
comparazione ci aiuta a storicizzare questo orizzonte. Se io confronto A e B, c’è un terzo elemento che ha
guidato questo confronto. Il comparatista si occupa appunto di questo terzo, il C: perché uno studioso decide
di paragonare A e B. la comparazione non è fine a sé stessa, si occupa di questioni teoriche, è teoretica. Ciò
sovrappone la comparatistica alla teoria della letteratura, che nasce cercando di rispondere alla domanda: che
cos’è la letteratura? Esiste un modo di stabilire se un testo è letterario oppure no?

La nostra identità si costruisce proprio grazie alla presenza di una parte che non si vede. Più un’identità si
deve affermare e riaffermare, più probabilmente è debole. Chi è nel giusto non ha bisogno di dirlo in
continuazione.
Questa disciplina è giovane, comincia alla fine del 700 come storia universale della letteratura. Si pone come
studio delle fonti documentarie e orali, anche con il focus sulle tradizioni popolari. Solo i grandi eruditi
potevano occuparsi di questa roba, perché i libri erano rari.
Si studiava ad esempio la rappresentazione letteraria di certi temi topici, come la morte. Il modo di procedere
di questi eruditi era per accumulazione, perché loro creavano cataloghi di fonti che spiegavano nascita ed
evoluzione dei testi. Però non spiegavano niente, era roba contenutistica. Purtroppo stiamo tornando a
questo, negli ultimi tempi.

Il romanticismo è un momento di passaggio per la storia della letteratura, perché pone dei canoni per
eccellenza. È in questa fase, ad esempio, che Dante e Shakespeare diventano dei grandi poeti.
Si comincia poi a capire che le lingue strutturano il pensiero, non sono strumenti esterni.

LEZIONE 2 – 23/02/23
Fasi della disciplina (‘700-‘900)
Canonizzazione di un metodo che dipende però dal lavoro di studiosi che non appartengono esattamente al
nostro campo di studi, rispetto alla comparatistica ottocentesca.
Paul Hazard, “La crisi della coscienza europea” (1934). Storico delle idee. Difficile fare il comparatista
senza un interesse forte per la storia, l’interesse letterario non è mai svincolato e fine a sé stesso. Il testo in sé
ci interessa il giusto. Ci interessa la domanda che l’interprete si fa rispetto al testo.
La comparatistica è una disciplina metodologica. La crisi della coscienza europea è un libro importante per la
storia moderna. Nel corso del ‘500 in Europa si passa da un modello basato sulla superiorità della cultura
europea (esclusività di quel modello) ad uno in cui si comincia a pensare anche ad altre culture. Momento di
svolta concettuale che attraversa il 500.
Questa svolta dipende dalla scoperta dell’America e dalla riforma protestante. L’idea che l’universalismo
cristiano sta crollando, l’idea di universalità e coesione entra in crisi.
[ Manuale un po’ trash dell’università, sta parlando di Lutero, che pensava che Gesù non avesse mai istituito
il sacramento della confessione. Egli intende dire di mettersi in crisi rispetto alla grandezza di dio. Il
sacramento della confessione non esiste, la chiesa non può rimettere i peccati, quindi non può vendere le
indulgenze. Tale vendita è la conseguenza di un errore interpretativo. Imparare a leggere i vuoti nei testi. Dal
17 al 21, quando viene scomunicato, cosa succede? ]
il papa non può scomunicare Lutero per eresia, quindi lo fa per scandalo. È un buon compromesso. A noi
interessa che il potere universalistico tenuto dalla chiesa per molti decenni, quasi un millennio, di fatto si
spezza. La popolazione europea, per la storia delle idee, si rende conto che l’idea di coesione culturale entra
in crisi. I parametri della cultura cambiano tantissimo.
Dobbiamo smetterla di attualizzare tutto. Mettiamoci nell’orizzonte di attesa di un uomo colto di fine
400/inizio 500. La scienza è un metalinguaggio per interpretare il mondo, o è un modo per spiegare il mondo
in sé?
Paul analizza anche la letteratura popolare e la storia del costume, dei costumi popolari, mostrando come essi
siano imparentati coi grandi cambiamenti del pensiero. Tutti i fenomeni culturali, come anche le cose meno
performanti, tipo gli abiti, sono legati ad una logica molto più ampia che riguarda la crisi della coscienza
europea dell’uomo moderno e che poi conduce al relativismo culturale della modernità.

Poi abbiamo l’opera di Curtius, “Letteratura europea e Medioevo latino” (1948). Opera che fonda la
letteratura latina medievale e tutta la riflessione legata alla tarda latinità. Egli è convinto che non si possa
capire la letteratura moderna volgare senza considerare il passaggio dalla letteratura medievale. Noi
studiamo i classici latini e greci e poi quelli volgari, ma nel mezzo ci sono 1000 anni di storia e di
produzione letteraria in latino.
[Molto meglio conoscere le strutture sintattiche dell’italiano piuttosto che due o tre stringhe informatiche che
non verranno mai usate nella vita. Si può votare ad un referendum senza sapere cosa significa? Le serie tv su
Netflix sono la riedizione BRUTTA delle opere greche e latine. ]
Curtius va aldilà delle materie disciplinari.
Egli scompone lo studio della letteratura latina medievale in forme, in strutture di lunga durata, in topoi, ed è
attraverso scomposizione di questo tipo che i comparatisti lavorano, sottraendosi ad un'unica interpretazione
linguistica.
Possiamo studiare come nasce il romanzo moderno, perché è una cosa che interessa trasversalmente tutto il
pianeta e tutti i generi. Curtius lo fa attraverso i topoi della letteratura latina medievale, che oltrepassano i
limiti del medioevo e arrivano fino alle letterature moderne in volgare. Secondo lui il medioevo inizia molto
prima e finisce verso la Rivoluzione francese; ne parla in “Letteratura della letteratura”, una raccolta di saggi
in cui esplicita il suo tentativo di periodizzazione del medioevo. Qui dice che alcuni parametri culturali del
Medioevo nascono molto prima del 476, e altri sopravvivono ben oltre il ‘600.
Opera di Spitzer, Linguistica e Storia Letteraria (1948). Ha scritto dei saggi sulla pop art. Ci interessa un
aspetto del suo metodo, cioè considerare i cambiamenti storici attraverso i cambiamenti linguistici. La lingua
è una forma di espressione ideologica che porta in sé alcuni presupposti e concetti; dunque, le grandi svolte
linguistiche della lingua rappresentano delle svolte di tipo storico.
Questi due autori sono stati storicizzati, nel senso che si studiano ma non sono più applicati ai nostri studi.
Esiste invece un altro autore che fa differenza in questo, perché i suoi principi sono ancora applicati in critica
letteraria: Auerbach.
Parliamo di Mimesis, uno dei saggi più famosi di Auerbach. Vedi slide. Egli cita dei frammenti di testo di
opere fondamentali attraverso i quali ricostruisce la sensibilità di un’epoca. Esempio tipico di critica stilistica
che dischiude un macrocosmo riguardante l’epoca di queste produzioni, attraverso l’analisi minuziosa di
pochi frammenti testuali. Aldilà dei singoli saggi, Auerbach non studia né Omero né Dante né la Woolf in sé,
ma propone l’analisi di un terzo oggetto, che spinge a mettere vicini autori così lontani: il realismo. Intende
con esso la rappresentazione della realtà attraverso il testo letterario.
Egli individua due linee che si confrontano e si oppongono tra loro nel mondo classico e per tutto il mondo
rinascimentale, soppiantate nella modernità da un modello nuovo si rappresentazione della realtà, cioè il
realismo moderno. Queste due linee erano:
-modello laico faceva capo alla classicità greco latina, retta da una ferrea divisione degli stili;
-modello che fa capo alla tradizione giudaico – cristiana, dove non vale la distinzione di stile.
Il conflitto tra i due modelli dura da Dante fino al 700, stroncato dalla nascita del romanzo moderno, dove si
parla di uomini né peggiori né migliori di noi.
Lettura di varie parti di Mimesis. Il realismo moderno non si spiega se non attraverso questo conflitto tra i
due precedenti modelli.
Mimesis è dunque uno shift culturale. Auerbach propone una filosofia della storia. Egli mette in luce per
ogni epoca una serie di testi per indicare questa lunghissima trasformazione culturale. Con questo metodo,
viene lasciata qualche scelta all’interprete, che ha più criterio quando studia. Gli si concede più libertà nello
studio di un autore piuttosto che un altro. Questo perché si mette al centro dello studio non il testo stesso, ma
ciò che sta dietro ad esso. I testi ci devono guidare, si ha a che fare con tendenze e correnti che ci sono
suggerite dai testi stessi.
Auerbach fa pochissime note, e questa è una caratteristica dei comparatisti, spesso lasciano perdere il resto
della bibliografia.
In un altro saggio molto famoso, “Lingua letteraria e pubblico”, Auerbach sostiene che la nostra domanda è
più importante del testo. Dobbiamo saggiarla sui testi, ma non tratta solo del testo.
Ideologia: ciò che ci fa apparire le cose così come ci sembrano.
Auerbach e tutti i comparatisti dopo di lui cercano di storicizzare il proprio studio, di collocarsi all’interno
della storia. È necessario rendere esplicita la nostra posizione storica e culturale. Questo anche perché non
esiste un modo neutrale di affrontare il problema, tutto dipende da delle pre-comprensioni.
La teoria della letteratura nasce formalmente negli anni 50/60, in opposizione alla comparatistica. Nasce con
un libro omonimo, Teoria della Letteratura, di due intellettuali che criticano il modo estrinseco di trattare i
modi letterari che sui fanno nella comparatistica. L’accusa è che noi studiamo non le strutture dei testi, ma in
modo estrinseco, le cose esterne. In realtà un testo letterario produce senso perché è costruito in un certo
modo. Altrimenti non capiamo come funziona, né perché un testo letterario sia più importante di un altro.

Seconda metà del 900, vedi slide. Strutturalismo francese e formalismo russo. Fase complessa per la
comparatistica, ci sono grandi nomi anche in Italia. D’altra parte, a livello di dibattito culturale, la nostra
disciplina viene un po’ marginalizzato. Il modello di analisi del testo che usiamo ancora oggi è quello dello
strutturalismo + formalismo.
Il bulgaro Todorov è una figura molto importante, specie perché conosceva anche il francese.
Analisi intrinseche di come un testo produca significati, di come la struttura funzioni. La comparatistica è un
po’ esclusa, perché significa affrontare un testo in modo assolutamente dettagliato. Noi ci occupiamo di più
di cose sovranazionali.
Nascono poi delle forme che appartengono al nostro modo di vivere la letteratura, come la sociologia della
letteratura. Ad esempio, studio del riflesso della letteratura rispetto alla società. Nelle forme letterarie si
formano delle omologie rispetto alle forme sociali (Opera di Goldmann: nelle forme letterarie si formano
delle omologie rispetto alle strutture economiche che regolano le società).
Opera di Jauss della Scuola di Costanza. Teoria della ricezione, studio estrinseco del testo vicino alla
sociologia della letteratura. Studiamo come un testo venga letto, non prodotto. Spostiamo il focus sul lettore
e non sull’autore.
Quindi la nostra disciplina si complica tantissimo, ovviamente si arricchisce anche.
La crisi della comparatistica di stampo positivistico si accompagna alla nascita della teoria della letteratura,
disciplina omologa alla nascita dello strutturalismo. Si cerca di uscire dalla ristretta ottica eurocentrica su cui
si era focalizzato Auerbach. Ci si apre di più ad un’ottica internazionale.
Slide sulla soluzione della crisi. Il significato di una lingua non è assoluto, ma differito nello spazio e nel
tempo. Uno stesso messaggio acquisisce e acquista significati diversi a seconda di come si modifica il nostro
modo di interpretare le parole. Nessuna opera ha un significato sempre presente e uguale a sé stesso. Questo
ci porta ad un superamento della logica “scientificheggiante” dello strutturalismo francese.
Alla fine degli anni 50 dunque il modo di concepire i modi letterari entra in crisi. Alcune scuole
interpretative, che schematizziamo, contestano tutti i presupposti della generazione precedenti. Il significato
di un testo, ad esempio, potrebbe non essere presente dentro quel testo. Magari è meglio mettersi nei panni di
una minoranza, modificare gli strumenti che analizziamo per studiare i testi, relativizzare le gerarchie.
Esistono altre storie, non solo quella eurocentrica.
Modello logofallocentrico che presuppone un dominio dell’uomo bianco maschio borghese sano etero cis.
Regimi scopici della storia per studiare l’arte: analizzare il rapporto tra immagini, sguardi e dispositivi.
Insomma, è un momento di grande variazione rispetto alle metodologie classiche. Metodo di
schematizzazione di tutto ciò di Jakobson.

LEZIONE 3 – 24/02/23
Le funzioni e il linguaggio della critica letteraria; vedi slide riassuntiva
-approccio storico sociologico
-approccio biografistico
-approccio strutturale e formalistico
-approccio ricezionista
-approccio filologico
-approccio ipertestuale
La comparatistica è metodologica. Nel comparare due oggetti si occupa di qualcosa di sovratestuale.
(slide di massimo fusillo.)
Sapere antigerarchico. Decostruire i miti e i presupposti ideologici con cui si fa una certa storia letteraria
significa anche mettere in discussione quelle stesse gerarchie e le produzioni letterarie. A cosa serve la critica
e qual è il suo statuto ?
Lettura dell’introduzione polemica di Nortoph Frye, “Anatomia della critica”. Egli percepisce una crisi della
funzione storica del critico, perché in quella fase sembra che il pubblico, l’audience, il successo sia l’unico
criterio possibile per stabilire la qualità di un testo. Questo ci porta violentemente al presente. La qualità di
qualcosa deriva dai likes anche oggi (i romanzi di Moccia sarebbero migliori di quelli di Thomas Mann).
Lettura. È ancora molto diffusa l’idea che il critico sia un artista fallito. Impotenza o aridità del critico, odio
per gli individui creativi. L’età dell’oro della critica è stata l’ultima parte del diciannovesimo secolo. La
critica è un’arte che si basa su un’altra arte, quindi è parassitaria. Questo è il punto di partenza di Frye: I
critici, dunque, posseggono la qualità del gusto ma non la capacità dello scrittore né i soldi di un editore o un
mecenate.
L’arte che ha voluto fare a meno della critica per arrivare direttamente al pubblico non ha retto. La
conservazione della memoria nel lungo periodo è appannaggio del lavoro del critico, perché l’attività di
costruzione della memoria è socialmente demandabile alla critica. All’estremo opposto, come reazione alla
concezione primitivistica (arte per l’arte), si considera l’arte un mistero, una reazione esoterica alla comunità
civilizzata. (la memoria è un atto selettivo, che sceglie di conservare qualcosa, non conserva tutto).
Considerare l’arte per l’arte e la critica solo per i critici, con una logica che riduce la critica ad una specie di
rituale massonico, dove la critica ha tutte parole d’ordine incomprensibile apposta per escludere il pubblico:
anche questa reazione è sbagliata, così come il tentativo di arrivare direttamente al pubblico. Idea di
correlazione tra la qualità di un testo e la reazione di un pubblico, come punto di partenza sbagliato. Non c’è
correlazione reale tra la qualità di un testo e la sua fruibilità.
[Gli influencer che parlano di letteratura sono da sopprimere. La mediazione del critico è essenziale.]
Sanguinetti, situazionista, diceva che il problema della società di massa è la distribuzione dell’intelligenza.
Se si parla con 50 persone, ognuno penserà di essere il più intelligente.
Perché un critico dice una cosa su un autore e un altro dice un’altra cosa? È fondamentale comprendere
questo punto. La nostra reazione emotiva ha un senso rispetto al testo ma non può essere il nostro unico
criterio per storicizzare la letteratura.
Censura sta a critica come linciaggio sta a giustizia.
Un’altra cosa giustifica l’esistenza della critica. La critica può parlare, mentre le arti sono mute. Le parole
dell’artista non si ascoltano, si sentono per caso. Quindi in realtà, la critica non è una cosa derivativa, ma è
fatta per conto suo. La poesia non può esprimere di per sé tutto ciò che sta dicendo.
Pensare a quanto la traduzione di un testo sia un’interpretazione che parte dallo stesso testo. Attraverso
l’interpretazione in un’altra lingua, anche la cultura d’origine può trarre beneficio, risemantizzando il testo. Il
testo è stabile ma il nostro modo di leggerlo cambia nel tempo, la nostra interpretazione cambia nel tempo.
Se il significato fosse interno al testo, ad un certo punto smetteremmo di dare interpretazioni. I significanti
restano gli stessi ma i significati cambiano. Il significato è sempre differito nello spazio e nel tempo. Mentre
il testo originale è stabile, il nostro modo di leggerlo cambia nel tempo e si modifica.
C’è una dinamica storia che dobbiamo conoscere, ma l’orizzonte storico non può vivere senza l’orizzonte
contemporaneo. Si tratta di un errore prospettico, perché spesso ci sentiamo gli unici depositari del vero e del
giusto. Perché la nostra epoca dovrebbe essere migliore della precedente?

Chi ha detto che un poeta è il miglior critico di sé stesso? L’idea che Saviano ha di Gomorra è kitsch, ad
esempio. Se Dante avesse fatto un commento della Commedia, sarebbe stato soltanto un altro critico della
Commedia, e non necessariamente il migliore. Dobbiamo sempre chiederci in che rapporto sta l’intenzione
dell’autore col significato di un’opera, perché c’è una diffrazione spesso tra le dichiarazioni di poetica e
l’opera vera e propria. Questo ci fa spesso non sperimentare il significato profondo dell’opera. Non
dobbiamo assimilare l’idea univoca riposta dall’autore dentro l’opera.
A tal proposito si può fare una distinzione con i tre ordini pensati da Umberto Eco:
-significato dell’opera
-significato attribuito dall’autore
-significato attribuito dal lettore

Secondo molti, non si può conoscere bene un’opera se non si conosce bene anche l’autore. Il professore però
non è d’accordo.

Le espansioni della disciplina di cui parla Fusillo seguono 3 assi:


-geografico: dall’universalismo illuminista alla world literature (branca di studi il cui maggiore esponente è
Damrosh, che propone di studiare la dimensione mondiale della letteratura. Esistono anche altri teorici di
questo filone, tra cui un critico israeliano di nome Zohar, che propose negli anni 80 l’idea che la letteratura
del mondo sia organizzata all’interno di un polisistema culturale, che determina gli scambi tra i vari sistemi
che a loro volta determinano la cultura. Se noi analizziamo ad esempio gli scambi tra il centro di quel
sistema, cioè il mondo culturale egemone, e le periferie, osserviamo che le periferie tendono a riportare
molta più letteratura di ciò che si può immaginare);
-culturale: dalla letterarietà allo storytelling. Dire che cosa sia la letteratura è un problema enorme, e noi non
riusciremo mai a dare una risposta soddisfacente. Questo termine, infatti, indica oggetti diversi in tempi
diversi della storia, e la letteratura ha ricoperto funzioni diverse nelle varie epoche; i testi conservano un
grado di letterarietà che li rende riconoscibili rispetto ad altri discorsi? Possono essere definiti “letteratura” in
sé per sé? Quest’idea è molto sorpassata, non si decifra più il tasso di letterarietà di un testo. A volte
qualcosa che nasce senza intenti letterari, diventa comunque un’opera di letteratura. Ciò può dipendere da
una propensione alla scrittura letteraria, e da vari fenomeni esterni.
-mediale, dal dialogo inter artes all’iconologia della letteratura

Che cos’è il canone e perché gli interventi critici contribuiscono a costruire la nostra memoria e a
condizionare il nostro modo di pensare. Noi pensiamo attraverso modelli, non viviamo nel vuoto
pneumatico.
Oggi i prodotti delle varie nazioni si mescolano con una tale velocità che abbiamo bisogno di nuovi modi per
imparare e per poter agire, Goethe 1827.
[La memoria non ha fatto il suo tagliente corso]
CANON CANONIS - slide
dal greco kanon: l’etimo indica un’unità di misura costituita da uno strumento di misurazione, un bastone di
canna, un regolo. Dunque, in senso figurato…. Vedi slide.
I libri importanti variano a seconda dei criteri utilizzati per studiarli.
Luperini ci spiega che noi con lo stesso termine vediamo il canone da due punti di vista diversi:
-da parte delle opere, cioè a parte obiecti, dove il canone è costituito da un insieme di opere che formano la
tradizione. Esempio italiano è Le Prose della Volgar Lingua di Pietro Bembo; questo implica anche il
concetto di angoscia dell’influenza, perché io autore letterario immerso in una tradizione, se voglio essere
canonico sarò influenzato in modo ansiogeno dai grandi modelli. Questa citazione è di Harold Bloom.
Fenomeno tipico che dipende dal canone stesso e che porta forzatamente alla costruzione di anti-canoni. Essi
si contrappongono alla norma, in Italia abbiamo l’opposizione al canone bembesco. Analisi di tipo
diacronica, misuro in diacronia il rapporto tra un poeta e la sua linea di tradizione;
-da parte dei lettori, cioè a parte subiecti. Si tratta del numero e del tipo di autori che uno studente legge per
avere una sorta di cultura generale. Questi nomi cambiano nel corso degli anni. Analisi di tipo sincronico,
perché ogni momento della storia presuppone un canone subiecti diverso, a seconda dei valori politici e
sociali in quell’epoca. Questo cambia gli autori studiati a scuola, a dimostrazione del forte legame che unisce
politica, società e scuola. Il canone subiecti aggiorna la memoria selettiva dei lettori e dipende dalla
cosiddetta economia politica gramsciana.
Il canone a parte obiecti ha anche un potere di automodellazione. Vedi slide. Ci conformiamo ad esso anche
quando non lo conosciamo. Siamo portati a pensare la poesia come dotata di una lingua specifica, che è il
frutto del canone a parte obiecti. L’anticanone riconosce l’autorità del canone.
Canone letterario e memoria storica. Se il canone obiecti è la costruzione estetica e ideologica di ogni
letteratura arrivata ad un certo livello di autocoscienza e di maturità per cui alcuni critici legislatori sentono il
bisogno di esplicitare una serie di norme, il canone subiecti è una costruzione politica che si esercita sulla
memoria culturale in un certo momento storico.
Slide con citazione di Mario Domenichelli.
il canone fornisce oltre che modelli di rappresentazione della realtà esterna, anche modelli di discorso
interiore, come si parla con se e si rappresenta la memoria, emozioni, affetti, il fluire del pensiero; cosi il
canone definisce con la mimesi i diversi modi di rappresentazione, le poetiche collettive epocali
dell’esistenza, l’etica, l’estetica, l’assiologia, ciò che è desiderabile ed elegante, e ciò che non lo è, ciò che è
politicamente corretto e ciò che non lo è. Si intende con questa frase che il canone fornisce non solo modelli
di pensiero, ma anche di comportamento.
Il canone decide quali opere rappresentano una certa fase della storia.
Ciò che non è canonico ha comunque una funzione nella società. (I vangeli apocrifi li pubblica Einaudi…)
Convergenza delle due definizioni: teoricamente le due definizioni di canone tendono a sovrapporsi, sino
all’identificazione in particolari momenti storici. Ci sono momenti in cui il canone si espande o si restringe al
minimo.
In età neoclassica o in età romantica, per esempio, la fedeltà a certe regole del canone fonda anche una certa
tipologia di ricezione e dunque una certa gerarchia di opere.
Esempio interessante il canone irlandese, vedi slide. I canoni fanno spesso delle ricostruzioni retrospettive.
Interessante anche il canone americano, che inserisce nella letteratura anche molti testi non fictionali; non è
strano trovare in questo filone parte dei discorsi politici di Washington.
Canonico e classico sono due cose diverse. Un classico può essere classico anche senza essere canonico,
come dante. Classico indica una gerarchia di valori, mentre canonico indica un rispetto delle regole che
normano il canone.
Molte scuole critiche si interessano al canone, specie nella seconda metà del ‘900.
La modernità che si apre con la Rivoluzione francese segna un distacco, una faglia rispetto alle funzioni e ai
modi che abbiamo avuto, per secoli, di intendere arte e letteratura. Infatti, prima della modernità, l’artista è
costretto dai mecenati e dai modelli a scrivere, scolpire, dipingere determinate cose. L’artista ha dunque la
protezione, lo stipendio, la tranquillità, ma non la libertà. Tale funzione politica dell’arte è però distrutta
dalla Rivoluzione francese, che nega la legittimità stessa del potere temporale che prima pagava le arti stesse.

Il primo a capire che il poeta non era più un mercenario, che era finita la stagione politica della poesia, è
stato Baudelaire.

LEZIONE 4 – 01/03/23
Il poeta dunque è libero dalla propaganda politica e la letteratura diventa autonoma rispetto ai grandi capi;
ma questa autonomia non è assoluta e anzi si fa presto eteronomia dell’arte.
Da B in poi i poeti non guardano più indietro verso il canone, ma cominciano a guardare in avanti, verso
qualcosa di nuovo. In questo modo possono provare a proporre qualcosa di nuovo al pubblico. Nasce così il
periodo delle avanguardie, che operano secondo due assetti coincidenti ma non sempre consapevoli:
-momento eroico: proporre sul mercato un prodotto nuovo, talmente nuovo da essere spesso rifiutato dal
mercato stesso. Questo dipinge un’opposizione tra il poeta di avanguardia e la società; l’avanguardia non è
mero sperimentalismo, c’0è differenza formale tra le due cose. Arriva sempre però il momento in cui una
cosa nuova proposta in modo avanguardistico, si fa arte vera e propria.
Alternarsi del momento eroico e del momento cinico nelle varie opere. L’arte è ciò che l’artista decide sia
arte, non c’è più la tecnica o l’abilità costruttiva; la firma dell’artista è ciò che divide ciò che è arte e ciò che
non è arte.
-il momento cinico è quello in cui il mercato borghese economizza l’arte; l’avanguardista odia i musei,
eppure prima o poi le sue opere finiranno in un museo.
Differenza tra oggetto e merce: la merce nasce per essere venduta. Ha sempre due aspetti, perché ha un
valore chiuso (compro una mensola perché mi serve), ma il prezzo non dipende da questo valore chiuso,
bensì dal suo valore di scambio, cioè dalla sua relazione con gli altri tavoli e con le persone che possiedono
gli altri tavoli.
Un oggetto, dice Marx, non vale di per sé: ma possederlo significa qualcosa a proposito dei rapporti umani.
La commerciabilità di nuovo non è il valore puro, ma il valore di scambio. La BMW è molto più preziosa
della Panda perché possederla denota un certo livello sociale; insieme ad essa acquistiamo un modo di
essere, uno stile di vita. Stessa cosa per chi sceglie l'IPhone o il Samsung. Il possesso degli oggetti ci
determina socialmente e l’avanguardia è il primo movimento artistico che si rende conto di tutto questo: del
fatto che la borghesia riconosce sé stessa, ad esempio, andando al teatro di gala.
Quindi è ovvio che tutto diventi una questione politica, perché a seconda del tipo di arte che fruisci, hai una
certa forma mentis.
quando negli anni 60 l’idea di avanguardia viene ripresa, diventa molto più teorica, forse perché il clima del
secondo novecento è assolutamente diverso; il pubblico ora tende ad abituarsi, le persone si scandalizzano
sempre meno. Per scandalizzare, l’avanguardia deve arrivare a degli eccessi assolutamente radicali, come il
tizio che fece pipì sul palco sulla testa di un altro tizio. Si può arrivare all’arte abietta degli anni 70 e 80, fino
alla morte dell’artista che si taglia davanti al pubblico. L’arte tende ad essere passivizzata ed estraniata dal
pubblico.
Quindi l’idea di sottrarsi al mercato è praticamente impossibile: anche dietro questi gesti assurdi c’è la
capacità del sistema di assorbire e mercificare tutto.
nel passaggio tra la prima avanguardia e quella del secondo Novecento, c’è chi pensa di dover integrare a
livello di canone con lo sperimentalismo dell’avanguardia, all’interno di un classicismo sperimentale. Ciò è
merito soprattutto del movimento modernista. Il fine modernista è letterario, quello avanguardista è sociale e
politico. Non è un caso che molte avanguardie si leghino a delle correnti politiche precise, come il futurismo
col fascismo e il surrealismo con la rivoluzione troskista.

Si comincia inoltre a pensare che non ci sia una storia unica. Tutti i pensatori dell’800 facevano riferimento a
UNA storia: ciò entra profondamente in crisi nel secondo novecento. Partiamo dal libro “La fine della
storia”, che si basa sull’idea del confronto tra le due superpotenze e tra i modi di intendere la società,
comunisti da un lato e blocco americano dall’altro.
Nel mondo sovietico molti pensano che le atrocità vadano commesse per un fine ultimo più grande.
L’idea univoca di emancipazione che nasce con la Rivoluzione francese e si protrae nel periodo delle grandi
rivoluzioni, entra assolutamente in crisi.

Rispetto al passato, la società occidentale non crede più alle metanarrazioni che sono state usate per
raccontare la realtà. Di tutte queste grandi narrazioni non resta quasi nulla; rimane un po’ la metanarrazione
cristiana, che resiste ancora oggi.
Quindi passare a più storie dà spazio a molte questioni che erano sempre stati tralasciati, tipo i discorsi sulla
differenza: la storia è anche la storia delle donne, degli omosessuali, di gruppi subalterni rispetto alla norma
egemone, che hanno tutto il diritto di costruire una propria narrazione.
Nel 1987 succede una cosa importante per il canone: nell’università di Stanford avvengono molti scontri,
perché gli studenti dicono che la letteratura inglese che studiano è fatta da uomini bianchi etero cis
imperialisti, quindi costituenti il gruppo sociale egemone.
Qualcuno non è d’accordo, come il critico non conservatore Harold Bloom, che poi sarebbe diventato il più
importante dei critici letterari americani. Egli scrive un libro nel 1994, in risposta alla rivolta di Stanford e
alla costruzione di dipartimenti di studio della cultura. Egli costruisce un canone internazionale, a parte
subiecti, della letteratura occidentale, con scelte spesso arbitrali. Ci sono solo due donne in questo canone.

Cosa si deve leggere? Anche se una persona passasse tutta la vita a leggere, coprirebbe solo una piccolissima
percentuale.

Dice Bloom:
ai giorni nostri tutti i critici dicono cose sulle responsabilità politiche degli artisti e dei letterati. Nel fare ciò, i
critici si stanno suicidando in massa, come gli insetti che si buttano dalle rocce. Non si rendono conto che
con queste sciocchezze politiche stanno ammazzando la nostra disciplina. Ma questo moraleggiare un giorno
finirà, tranquilli. Quando ogni facoltà avrà il suo dipartimento culturale, il dipartimento di letteratura tornerà
a rifiorire, perché farà della bellezza estetica di un’opera l’unico oggetto di studio.
la posizione di Bloom da questo punto di vista è fortemente reazionaria.
Scuola del risentimento: molti sono incapaci di storicizzare i fenomeni, ma solo di attualizzarli, causando
spesso censure e rischiando di sfociare nella polemica del politically correct. La capacità di storicizzare è
fondamentale per il pensiero.
Durante il 900 l’arte ha inglobato dentro sé stessa anche il brutto, il negativo, l’orrido. E rimane uno dei
pochi modi per simulare quelle esperienze negative, senza doverle esperire concretamente.
Bloom è stato un critico progressista fino al 94, poi fa uscire un libro profondamente reazionario. Ha
comunque dei difetti, cioè che la sfera estetica ha pur sempre una ragione politica. Non è un caso che nasca
in corrispondenza con la Rivoluzione francese.
Una critica ci dice che la comparatistica è passata di moda perché la globalizzazione rende labili i confini e le
coordinate dei comparatisti precedenti, a cui bastava conoscere qualche lingua e qualche letteratura. Oggi
dobbiamo imparare lingue minori, studiare tradizioni piccole.
Citazione di Fusillo sul concetto unitario di letteratura, che cambia nel corso del tempo.
Ci sono caratteri che sono comuni a varie tradizioni letterarie, mentre altri variano singolarmente.
Noi facciamo spesso risalire la nascita dei generi letterari ad Aristotele, ma ciò è errato perché intanto lui
parlava di forme, non di generi; in più anche Platone aveva provato a formulare qualcosa in tal senso. Oggi
possiamo chiederci se il genere sia costruito da noi o se abbia un suo statuto, se sia proprio, se sia
indipendente da noi. Gli studiosi si dividono tra chi lo considera uno strumento improprio e chi invece crede
che abbia caratteristiche concettuali.
I grandi capolavori letterari non possono inquadrarsi in un unico genere.
Discorso sui poeti di Platone, secondo cui alcuni poeti fanno la mimesis, cioè la locuzione del poeta che
parla attraverso sé stesso; all’altro estremo c’è il teatro e nel mezzo c’è il poeta che fa un po’ entrambe le
cose.

LEZIONE 5 – 02/03/23
Platone è il primo a fare un discorso sui generi letterari, ma lo fa per esprimere il problema e l’utilità della
poesia e della letteratura sulla società. Solo la poesia ideologica e direttamente impegnata è utile, e cioè
quella funzionale, che è adorante nei confronti degli dèi e degli uomini al potere. I totalitarismi del 900 sono
molto platonici in questo senso, utilizzando la censura o al contrario sfruttando la cultura per fare propaganda
e rafforzare una certa idea della società. Platone è poi convinto che gli artisti siano pericolosi per la società,
intanto perché non essendo filosofi e quindi non completamente consapevoli della propria abilità, non sanno
che stanno utilizzando delle forme di imitazione solamente in modo parziale. Infatti, dice Platone, la tecnica
dell’imitazione è lontana dal vero e riesce a produrre le cose solo perché coglie una piccola parte di ognuna,
cioè un simulacro: imitazione di un’imitazione. I poeti non sanno comprendere la vera natura delle idee
dietro le quali stanno le incarnazioni della realtà, perciò sono creatori di simulacri. Colgono solo l’apparenza.
Sono molto irrazionali.
Il punto è che la letteratura ha un potere seduttivo; dunque, si deve stare attenti a cosa un poeta imita. Quel
poeta potrebbe farci vedere uomini ingiusti ma felici; criminali che hanno sentimenti, e cose similari. Tutto
ciò è molto pericoloso, perché se il lettore comune volesse imitare questi protagonisti negativi, cosa
succederebbe? L’arte ha sempre un potere di seduzione sul pubblico.
Questa logica è molto politica e ideologica.
Esempio della Camorra che imita Gomorra: è colpa di Gomorra? È un nostro diritto censurare l’arte, magari
per ragioni politiche?
La letteratura contemporanea gioca molto su questo aspetto, tanti prodotti sono espressamente nati per
scandalizzare o per stravolgere i limiti morali. E forse la letteratura ha anche lo scopo di farci immedesimare
in personaggi completamente negativi, ci permette di sperimentare cose che nella realtà non potremmo mai
provare. Incontrare i cattivi sulla carta è ben diverso. Quindi va bene costruire più spirito critico e
consapevolezza nel lettore, ma non censurare.
Spesso gli artisti sono stati costretti a cambiare le proprie opere a causa di ideologie e regimi politici.
Dobbiamo rifiutare la visione della letteratura che serve ad amplificare le nostre coscienze in senso sociale.
La visione di Platone è superata radicalmente dall’opera di Aristotele. Egli intanto fa qualcosa di molto
moderno, cioè mette da parte le istanze pedagogiche e politiche del suo maestro. Parla della poetica in sé e
delle sue proprietà intrinseche. Non c’è preoccupazione pedagogica, gli interessa solo come funziona
un’opera poetica, come è composta. Si concentra sulle forme e non sulle finalità.
la poetica non è un’opera prescrittiva, bensì descrittiva. Aristotele descrive la poesia e l’arte che lui conosce,
quella che sta terminando nell’epoca in cui lui scrive (letteratura greca antica). Non codifica le norme ma
legge criticamente i testi che conosce, illustrandone le forme.
Aristotele ampia il concetto di mimesis: la poesia ricopre un ruolo essenziale, perché il compito del poeta
non è dire le cose avvenute, ma quali potrebbero avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza e
necessità. Il poeta ha dunque compiti più importanti di quelli che ha lo storico. Il discorso poetico ha
maggiore fondamento teorico, dice gli universali, mentre la storia può dire solo i particolari. È alla poesia
che è demandata la potenzialità del dire umano.
storico e poeta sono dunque distinti non dallo scrivere in prosa/poesia, ma dal parlare di fatti avvenuti o di
fatti che potrebbero accadere o che sarebbero potuti accadere.
se la poesia è imitazione delle gesta degli uomini, si differenzia in base a 3 aspetti:
-i mezzi con cui imita, tra cui non c’è differenza qualitativa: danza, parola e musica;
-oggetti dell’imitazione, cioè uomini migliori, uguali o peggiori a noi;
-modi in cui le cose possono essere imitate, e qui viene ripreso Platone: narrativo quando il poeta parla a
proprio nome restando sempre uguale a se stesso, drammatico quando il poeta fa agire e parlare i personaggi
sulla scena, o misto, quando le due modalità si alternano.
Gerald Genette ci spiega chiaramente che dopo aver detto questa roba Aristotele sceglie di occuparsi solo dei
due macro modi di intendere la poesia: il modo drammatico e quello narrativo. Il primo è il teatro,
praticamente; il drammatico superiore è quando lo spettacolo parla di dèi o eroi, quindi la tragedia, che imita
persone migliori di noi; infatti Aristotele è un forte difensore della tragedia. Ma a teatro c’è anche la
commedia, dove si imitano persone peggiori di noi (servi, furbi).
Il sistema narrativo misto (unico contemplato da Aristotele) comprende invece l’epica (uomini migliori di
noi) e un altro genere non nominato per gli uomini peggiori di noi. Fa solo l’esempio di Margite, opera
attribuita ad Omero di cui noi abbiamo solo un frammento. Era un uomo che conosceva tante cose, ma tutte
male, quindi fa un po’ ridere.
Sistema quadripartito dunque:
- modo drammatico
1)tragedia
2)commedia
-modo narrativo
1)epica
2) Margite; forse si potrebbe parlare di parodia
Dal II secolo, l’opera di Aristotele viene utilizzata come sistema di normalizzazione delle tradizioni
letterarie. Con quello che lui ha usato per descrivere una precisa tradizione, diventa norma per praticamente
tutto il resto. Quest'opera del filosofo ha una lunghissima ed incredibile egemonia, che di fatto attraversa i
secoli, seppur con qualche piccolo aggiustamento.
Si comincia ad essere insoddisfatti del sistema aristotelico presso alcuni autori che attraversano l’esperienza
romantica. Sarà soprattutto l’estetica di Hegel a stabilire una dinamica diacronica dei generi letterari.
Hegel trova la distinzione tra epica, lirica e dramma, e la tira fuori da un contesto culturale in cui si capisce
che il quadrilatero aristotelico non spiega più alcuni fenomeni. La prima descrizione di tale insoddisfazione
viene dall’opera di Goethe, “Il divano occidentale – orientale".
Esistono forme a priori della poesia, che poi si sono declinate in generi specifici: sono l’epos, cioè la poesia
che narra con chiarezza, la lirica, cioè la poesia che si accalora nel racconto, e il dramma, la poesia che mette
in azione i personaggi. Esse sovraintendono tutti i generi storicamente determinati.
Questa idea nasce per inserire la lirica in un sistema complesso, e per spiegare il fatto che la poesia è stata
declinata in forme diversissime, ma sono tutte poesie. Quindi tutte le forme possono essere ricondotte a
queste tre macro-forme naturali.

Fondamentale in Italia il lavoro di Luciano Anceschi, incredibilmente immune al pensiero crociano (che non
attecchisce solo nell’ambiente fenomenologico, opposto a quello idealista crociano, e nell’ambiente
ermetico). In particolare, l’ambiente fenomenologico insiste molto sull’importanza del genere letterario, non
se ne deve fare uno studio a posteriori, altrimenti non riusciremmo a capire la produzione letteraria a noi
contemporanea. (sta citando a memoria il Laborintus sanguinetiano).
Non dobbiamo considerare il genere come qualcosa da usare post letteratura, bensì dobbiamo pensarlo in re,
non ante rem né post rem. Concepire il genere nelle cose, solo così capiamo la letteratura che si fa,
evenemenziale, quella che esiste.
“Progetto di una sistema dell’arte”: solo il recupero in re del concetto di genere letterario ci fa superare
l’impostazione crociana irrigidita su categorie astratte (distinzione tra poesia e non poesia) e ci consente di
comprendere la letteratura. Si deve rovesciare l’esorcismo della norma nell’utilizzo di strumenti che ci
facciano cogliere l’empiria letteraria.
Come si è prodotto Laborintus e quali sono le intenzioni che muovo una tradizione alternativa che passa
attraverso Laborintus? Secondo Anceschi, l’unico modo per spiegare tutto ciò è diacronico e il genere è
pseudo-concettuale. Croce invece era sempre sincronico.
Il momento di analisi strutturale di un testo, sincronico, è fondamentale per lo studio letterario, ma non basta;
si deve inserire quel testo in diacronia rispetto alla tradizione. Per farlo non basta mettere gli autori in fila
uno dietro l’altro, altrimenti abbiamo solo delle analisi sincroniche. Non ha senso mettere il Montale della
Bufera accanto a Laborintus, che pure sono coetanei, ma è roba che pare provenire da due universi differenti.
Quindi dobbiamo metterli in diacronia attraverso il genere letterario.
Vediamo la posizione del libro “I generi del discorso” del 1970, di Todorov, che è simile a quella
anceschiana. Lettura del paragrafo “l’origine dei generi”. Viene mostrato il parere di uno studioso francese di
cui non ricordo il nome: sostiene che non esiste più alcuna differenza tra la letteratura particolare e quella
generale (stessa cosa di croce, ma secondo Todorov questo è un cambiamento recente). Un libro non
appartiene più ad alcun genere, appartiene solo alla letteratura.
Non c’è più una mediazione da parte dei generi letterari, la singola opera si richiama solo al concetto
generale di letteratura, come se esistesse un’essenza della letteratura. Croce sarebbe in linea con queste idee.
Come risponde Todorov, dopo aver dato voce all’avversario per quasi due pagine: il francese sembra avere
dalla sua la forza dell’evidenza, ma pecca di egocentrismo (non ho capito molto bene).
[Essere capaci di farcela da soli, di organizzarsi e di auto organizzarsi è fondamentale, tanto quanto aver
incontrato grandi maestri che ti possono aver formato, e che magari ora rimpiangi]
Eliminare le regole non ti dà libertà, in letteratura; è la presenza di regole che ti permette di evaderle.
Inoltre l’eccezione fa presto a diventare regola.

LEZIONE 6 – 03/03/23
Todorov è l’intellettuale ottocentesco che segna un punto di svolta nell’analisi dei generi letterari, in
un’epoca in cui ancora è forte l’impatto dei critici e dei pensatori che avevano dismesso completamente
questo concetto. Perciò dal saggio di Todorov riparte un interesse, specie da parte della comparatistica.
Eravamo arrivati al punto in cui si dice che al giorno d’oggi le opere sembrano non appartenere ad alcun
genere letterario: ma Todorov ci dice che in realtà sono i generi del passato a non esistere più, non i generi
letterari in sé.
La necessità del genere dipende da 2 ragioni:
-il genere stabilisce una serie di regole, ed eluderle significa riconoscerle;
-nessuno scrittore e nessun lettore vive in un vuoto pneumatico, dunque qualsiasi scrittore sarà influenzato
dal contesto storico in cui vive. Tale influenza si nota soprattutto nella differenza tra un genere e l’altro. Il
genere costruisce l’orizzonte di attesa nel lettore e anche l’orizzonte di preparazione dell’opera da parte dello
scrittore.
Ancora esempio del Laborintus sanguinetiano, un “esaurimento storico”, come disse il suo autore in risposta
alla polemica di Zanzotto. Sanguineti è il primo che accetta di registrare un cambiamento, e questo
costituisce una nuova regola: la poesia post Laborintus tenta sempre di giustificare se stessa.
Da dove vengono i generi letterari? Questo dobbiamo chiederci, secondo Todorov. Si tratta di un
cambiamento perenne, quando notiamo che cambiano? Un genere nuovo è sempre la trasposizione di generi
antichi, e un testo odierno è sempre debitore ad un testo precedente. L’analisi delle origini di un genere, in
Todorov, non è storica, bensì sistematica. Egli cerca di spiegarci come la società codifica un genere, cioè
cosa presiede alla formalizzazione di un genere.
Perché a un certo punto Petrarca scrive il canzoniere? Possiamo spiegare i generi solo all’interno della stessa
storia dei generi. I generi sono unità descrivibili da due punti di vista diversi: quello dell’analisi empirica e
quello dell’analisi astratta. Un genere è una codificazione di proprietà discorsive.
Quindi, l’unico modo di studiare storicamente i generi è studiare i discorsi sui generi, cioè la critica e la
trattatistica su di essi. Alla base di un genere c’è un atto linguistico che può riguardare questioni di semantica
o di pragmatica, e ogni società istituzionalizza quell’atto linguistico ricorrente, e gli dà un nome. Ne è un
esempio l’intervista, che nasce ad un certo punto perché si rende nominativo ed individuale il senso di una
risposta.
Digressione sulla nascita dell’intervista ad opera della giornalista americana Anne Newport.
Il problema dell’intervista è che spesso si va a chiedere agli scrittori e ai poeti consigli di moda, in un certo
senso tentando di farli diventare degli influencer ante-litteram. Di questo già si lamentava Zola.
I generi dunque sono istituzionalizzati, e già lo si vede andando in libreria, perché il romanzo ha tantissimo
spazio, mentre gli altri generi sono relegati in un piccolo scompartimento.
Non è vero che ad ogni atto linguistico corrisponde un genere, perché la società sceglie gli atti che
corrispondono maggiormente ad una certa ideologia. Per esempio, l’intervista dell’800 americano è un
genere omologo alla distruzione dell’idea moderna di privacy.
Dopo Todorov ci sono ovviamente altri discorsi sul genere, ma meno rilevanti. Citiamo comunque Gerald
Genette, che scrive che non esiste una naturalità del genere, e che i generi mutano continuamente e possiamo
postulare la coincidenza di essi coi testi.
Per la scuola di Costanza si pensa che il pubblico dei lettori sia influenzato dal genere perché immerso in un
certo contesto letterario. Il genere è un diaframma tra le poetiche generali e la letteratura che si fa,
evenemenziale, in re. Ci sono poetiche collettive e generali che attraversano i tempi (romanticismo, barocco).
All’interno di esse si trova la letteratura prodotta, che possiamo leggere. Tra queste due dimensioni, una
generale e una specifica, c’è questo mediatore del sistema dei generi.
Genere fondamentale per 6 ragioni:
-ragione storica, perché i generi sono modelli che vanno collocati in uno spazio e in un tempo;
-quando si identifica la letteratura come istituzione, vedremo che il genere costituisce parte di questa
istituzione, accanto alla scuola, all’editoria eccetera;
-ragione pragmatica, dal punto di vista dei lettori;
-ragione strutturale, il genere non è isolato ma interagisce con altri sistemi, indica una delle possibili scelte
-ragione logica, il genere costituisce un modello mentale;
-qualsiasi storia sovra nazionale della letteratura è una storia di generi, quindi ragione della critica;

Concetti di tema e di iperletteratura.


Tema: sembra immediato, ma è quasi impossibile da definire.
Nella storia della critica occidentale ci sono due storie che si sono concentrate:
-la critica tematica, studio della rappresentazione di un tema in un’opera o in un autore. Fa delle letture
ravvicinate di un testo e ne estrae un tema. Diventata importante all’interno della scuola critica Nouvelle
Critique, i cui adepti fanno delle letture, ma non come gli strutturalisti che vedono le relazioni tra un
elemento e un altro; l’approccio di questi al testo ricorda quello crociano, può sembrare impressionistico e
passa spesso attraverso la nominazione di un soggetto dell’opera letteraria. Ci si riferisce alla biografia non
storica, bensì letteraria. Ciò che emerge della vita dell’autore dal testo letterario. Interessante la posizion di
Muron, il fondatore della psicocritica: un tipo di critica tematica influenzata anche dalla psicanalisi, che
studia le tematiche ossessive all’interno di un autore.
-la tematologia, lo studio comparato dei temi; studia l’evoluzione e i cambiamenti della rappresentazione di
un tema nel tempo e nello spazio. Non può essere fatta attraverso lo studio ravvicinato di un testo, ma deve
essere diacronica, anzi studiata su un lungo tempo e un gran numero di autori, altrimenti non si vede la
variazione del tema. Profondamente imparentata con la branca storica della comparatistica, definito
attraverso i fratelli Grimm, studio del folklore e delle influenze della letteratura popolare. Questo perché
anche i Grimm studiavano in senso diacronico. Ciò ha provocato la scomunica del loro modo di studiare da
parte dei critici formalisti del 900, tutti coloro che si sono concentrati sulla lettura e sui meccanismi dei testi
singoli. Qualità versus quantità, dicono loro. Ma se noi ci spostiamo nel 1800, capiamo che all’epoca il
grande catalogo erudito era essenziale, i libri dovevano essere letti e conosciuti, perché non esistevano le
banche dati di Google. Quindi la catalogazione dei temi è stata fondamentale anche per i critici tematici.
Il primo critico occidentale che ha parlato di tematologia è stato un belga, Paul Van Tieghem. Non è molto
delicato nei suoi confronti, ma intanto riconosce la sua esistenza. Fino agli anni 60 invece viviamo nella
scomunica di questa modalità di affrontare i testi letterari, a causa della reminiscenza crociana e dello
strutturalismo (che si basano entrambi sulla lettura del testo singolo).
Il riscatto della tematologia come disciplina critica, e non solo come erudita, avviene negli anni 60 e 70
grazie a due critici:
-Raymond Trousson, che invita i critici a riflettere su come mai un tema tragga il proprio significato dalla
messa in contesto di quel tema nella storia. Non è significativo il tema in sé, ma il modo in cui la storia
politica, sociale e letteraria assegna un significato a quel tema. Esso viene continuamente risemantizzato
dalla storia, in ogni epoca significa qualcosa di diverso. In definitiva la tematologia studia la metamorfosi di
un tema nel tempo, in relazione ai grandi cambiamenti storici, teologici e intellettuali, che fanno da sfondo
alla produzione letteraria. È un lavoro che riguarda i rapporti della letteratura con la società;
-Henry Levin, che si allontana da posizione formaliste dei suoi maestri; egli ci spiega che la tematologia è
accusata di contenutismo, ma non esistono forme senza contenuti. Non si possono scindere col bisturi queste
due cose. Il contenuto si metamorfizza sempre nella forma, quindi la selezione di un certo tema è anche
formale, riguarda anche le forme. Dunque è importante la polisemia connaturata alla logica dei temi.
Mitocritica: studio tematologico di un mito. E che cosa è un mito? Nasce in ambito religioso e non letterario,
oggetto di studio antropologico. Fonda attraverso l’adesione ad un culto una certa appartenenza etnica. È più
di un racconto, perché narra qualcosa e l’origine di qualcosa, roba in cui la società crede.
Il mito ha sempre 3 funzioni:
-narrativa, che configura uno scenario mitico che fa da sfondo;
-funzione esplicativa, punto di riferimento su come qualcosa si è creato;
-funzione di rivelazione, perché si radica nella sfera del sacro descrivendo quasi sempre l’irruzione del
sovrannaturale nel naturale.
Quando comincia ad interessarci il mito, dal punto di vista letterario? Secondo levi Strauss, la storia di
letteralizzazione del mito è la storia della sua devalorizzazione sociale. Quando diventa letteratura, non è più
fondante di una certa comunità etnica. Perdita della dimensione collettiva e anonima.
Brunel dice che conosciamo questi miti solo attraverso la letteratura. La scrittura è stata fondamentale per
conservare il mito, quindi non possiamo considerarlo scevro dalla letteratura. il mito letterario però conserva
lo scenario ricorrente, la caratterizzazione simbolica e l’irruzione del sacro, anche quando perde la
connotazione etnico religiosa. Quindi si deve stare attenti a considerare ciò che è originale nel mito. Tutte le
versioni di uno stesso mito potrebbero essere originali, si semantizzano a vicenda. Non è possibile separare
la lettura di un mito da tutte le letture che conosciamo di esso. Anche le versioni più nuove interagiscono con
quelle vecchie. E’ possibile pensare a Edipo senza pensare a Freud? Secondo Brunel non è assolutamente
possibile.
I miti vengono da 5 ambiti diversi, secondo Brunel:
-miti che nascono dal la rielaborazione di una fonte di origine mitica del mondo greco e romano, o delle
sacre scritture;
-miti che nascono già letterari, come il Don Giovanni o il Faust. Nascono con la letteratura, non per base
etno religiosa;
-miti politici eroici, che riguardano alcune figure della storia come Cesare o Napoleone;
-i miti parabolici, il cui input è dato da indicazioni delle sacre scritture, ma rielaborate letterariamente. A
differenza del primo punto, nel mito parabolico solo un particolare della Bibbia viene usato come spunto, poi
trasformato in modo diverso;
-i miti del progresso, quelli sulle macchine della modernità.
Noi dobbiamo studiare la ricorsività, che può riguardare i comportamenti dei personaggi o lo sfondo su cui i
personaggi si muovono. Tutte le declinazioni del mito sono però uguali dal punto di vista della trama o della
caratterizzazione dei protagonisti.
[Lo sforzo razionale di dr House o di Sherlock salva il mondo anche per noi]
Dunque: un tema. Tema e mito si confondo tra loro. Il tema è un soggetto di preoccupazione e interesse
generale per l’uomo che si deposita in un orizzonte storico - letterario e che si trasmette in vari modi; può
riguardare varie cose. Entità difficile da definire perché mobile, flessibile e metamorfico. Composto da unità
minime più piccole, chiamate motivi da un tizio: particelle di contenuto che si combinano tra loro costruendo
dei nessi tematici, che costituiscono il tema. Il tema è comunque riconoscibile, anche se compare sempre in
modo diverso. Un tema è un aggregato di nessi tematici tra motivi, che dunque possono comparire in modo
diverso di volta in volta, ma ciò non pregiudica la nostra capacità di riconoscere quel tema. Il topos è un
tema cristallizzato, che compare sempre nello stesso modo: esempio è il locus amoenus.

LEZIONE 7 – 08/03/23
Per Domenichelli un tema è la formalizzazione dell’esperienza umana. Dato che noi facciamo esperienza e
costruiamo delle immagini di essa, i temi sono la formulazione fatta attraverso immagini ricorrenti di questa
esperienza. Questo ci costringe a pensare le immagini con cui rappresentiamo gli altri come un concetto
condiviso, cioè l’immaginario, l’insieme di temi dettati dall’esperienza umana. Esse costituiscono una sorta
di repertorio attraverso il quale ci rappresentiamo.
La tematologia contemporanea e i teorici della tematizzazione, in particolare Daniele Giglioli. Il suo primo
libro è dedicato al rapporto tra il lettore e il tema letterario. Ci spiega in esso che dobbiamo stare attenti
perché se la tradizione letteraria della tematologia presuppone che i temi siano dei contenuti del testo, in
realtà questo non è affatto vero. I testi hanno istanze autotematizzanti, cioè parlano di qualcosa, ma l’atto
ermeneutico è compiuto dal lettore. Dunque un tema non esiste senza l’attività ermeneutica e il
riconoscimento di un certo tema nel testo.
tutti noi ci approcciamo ad un testo con dei preconcetti, con un modo già formato di pensare le cose, e questa
istanza è fondamentale per riconoscere un tema nel testo. Un tema si riconosce dunque da questa istanza
autotematizzante.
Per studiare in maniera compiuta un tema dobbiamo disinnescare l’opposizione tra forma e contenuto, perché
non esistono contenuti senza forme o forme prive di contenuti, dunque le due istanze sono dialettiche e le
forme sono sempre portatrici di senso, in un testo letterario. Noi oggi siamo indotti da ragioni etiche ed
extraletterarie a pensare che un testo sia importante per quello che dice, ma dovremmo recuperare la
questione fondamentale che ha reso la letteratura un sapere autonomo: ciò che è significativo è come un testo
dice la cosa, non cosa dice.
La letteratura non è una questione etica, bensì una questione formale, dunque il contenuto esiste solo
attraverso un contenitore formale che lo veicola, e questo è l’oggetto di studio della letteratura stessa.
Quando un messaggio è letterario attiva la funzione poetica del linguaggio (Jakobson).
Lo studio tematico in letteratura mette in campo due concetti umani fondamentali, cioè la memoria e
l’immaginario. La memoria è una questione individuale, e tutti noi ricordiamo delle cose, conserviamo dei
ricordi, via via li modifichiamo. La memoria collettiva è un’astrazione, ma esistono forme condivise
attraverso cui noi mettiamo in comunicazione ciò che la società ha deciso di conservare; un insieme di
rappresentazioni che la tradizione ha considerato importante conservare: questo è l’immaginario.
Ciò che costituisce l’immaginario stratifica la società, perché in esso è rappresentato sia ciò che è stato, sia
ciò che si è immaginato, sia ciò che è stato per come è stato immaginato. L’immaginario riguarda lo storico,
il critico letterario e il sociologo, che si riferisce a una specie di deposito di immagini per dar valore a ciò che
vede. Riproposizione di immagini, che certo assumeranno sfumature diverse da soggetto a soggetto e da
epoca a epoca, e funzionano in quanto si ripresentano e sono riconoscibili.
Rispetto alla memoria, l’immaginario è soltanto un pezzo, perché essa è costituita anche da falsi ricordi o
zone di oblio, che sembrano essere funziona stessa della memoria; con essa non si intende ciò che
conserviamo, ma ciò che pensiamo di conservare e che in realtà stiamo modificando. L’immaginario è
storico, si sceglie cosa è significativo, non è involontario come invece la memoria individuale può essere.
Riproporre qualcosa che già conosciamo, ridisporre il suo significato: è possibile qualcosa di mimetico, ma a
partire dal conosciuto. Non si può inventare nulla ex novo, si deve mettere insieme qualcosa di già noto
(esempio dei bestiari medievali).
[L’esperienza è un tipo di conoscenza che si basa sull’auctoritas di chi la racconta. Non è misurabile, perché
la misurazione dell’esperienza la trasferisce agli strumenti usati per misurarla. Sono gli strumenti che
sperimentano l’esperienza al posto nostro.]
Come si studia l’immaginario e che rapporto ha con i termini letterari?
c’è una parte di noi che non conosciamo e non tutto ciò che sappiamo dipende dalla nostra parte conscia e
visiva. Noi siamo ciò che ricordiamo, o che non ricordiamo, o che pensiamo di ricordare. Noi stessi ci
rappresentiamo all’interno di forme e contenuti che condizionano e plasmano la nostra idea di noi. Questo
perché le immagini possiedono un plus valore risetto a ciò che valgono, una certa immagine di noi ci
definisce. Tutto ciò è per esempio teorizzato dai social network, dove costruiamo un nostro avatar che è più
noi di ciò che in realtà siamo: proiettiamo quello che vorremmo essere su strumenti che vivono al nostro
posto.
Il tema rende rappresentabili le cose all’interno della tradizione, e la costituiscono.
Teniamo conto di due aspetti nello studio dell’immaginario:
-l’ordine cronologico, perché alcuni temi hanno una vita, alcuni molto lunga e altri molto breve;
-l’aspetto associativo, che possiamo tutti sperimentare. Un ricordo che ci ricollega ad altri ricordi, ad altri
pensieri, ad altri temi.
Questi due sistemi interagiscono tra loro. Un termine è sempre connesso a tutti gli altri all’interno della
nostra memoria.
Esistono due criteri per studiare l’immaginario:
-criterio archeologico, che pensa il tema come archetipo e quindi come origine. All’origine c’è qualcosa di
vero, per cui lo studioso vuole risalire ad essa. Di ciò parla molto Jung, secondo cui tutti gli uomini alla
nascita hanno già una psiche formata (inconscio collettivo strutturato in figure e immagini). Queste immagini
primordiali sarebbero residui psichici di generazioni passate, come se ci fosse una trasmissione delle
esperienze. Problema irrisolvibile perché si potrebbero definire sia forme a priori sia derivanti dalle
esperienze primordiali, quindi non innate.
Il discorso degli archetipi è anche al centro dell’opera di Curtius, che scompone le forme dell’arte e della
letteratura medievale latina per rintracciare i topoi, cioè le figure tematiche ricorrenti e sempre uguali a sé
stesse che costituiscono l’origine del nostro immaginario. I topoi nella tradizione antica fanno parte del
primo momento dell’attività retorica, l’inventio, e rappresentano delle metafore spaziali. Sono luoghi della
memoria, non figure o argomenti di essa.
Curtius trasforma queste specie di scaffali dove abbiamo depositato le immagini in immagini stesse, e ci dice
che i topoi non sono i luoghi delle cose che ricordiamo, ma proprio le cose. Questo spostamento non è molto
giustificabile dal punto di vista teoretico, perché soffre dello stesso problema del ragionamento di Jung: sono
scaffali o sono immagini a comporre l’inconscio collettivo?
[Tropologia o studio dei tropi e delle figure retoriche]
Lo studio dei topoi è demandato alla topica, una branca dell’inventio. Nella disposizione mentale sarebbe
l’insieme delle argomentazioni disponibili per qualunque discorso. L’inventio è il primo momento e la
memoria è l’ultimo, ma attraverso forme di memotecnica e attivazione di una memoria artificiale, noi siamo
in grado di estrarre i topoi dalla memoria. Questa era la retorica classica: ma Curtius ci dice che [sta parlando
del palazzo mentale di Sherlock] invece di una scienza dei luoghi attraverso cui richiamare le immagini, in
realtà ci sono solo le immagini. Questo ci provoca dubbi, perché da cosa vengono queste immagini? Sono
innate o frutto di esperienze? Forse i magazzini sono innate, ma non le immagini.
Tutti noi possiamo costruire il nostro palazzo, drogare la nostra memoria; come funziona questo palazzo ci
interessa in questo senso, cioè se è innata oppure no. Possiamo dargli input come se fosse un hardware
oppure è esso stesso un input, un software?
La linguistica generativa di Chomsky parte da un presupposto simile, cioè che abbiamo una capacità
generativa innata delle parole e dei suoni, che a una certa età si esaurisce.
Northop Frye ha tentato di ricostruire un archetipo con una operazione molto complicata, costruisce
un’impalcatura fatta di generi e temi della letteratura legati insieme. Lettura di un passaggio di questa cosa
molto complessa.
Secondo lui la letteratura è un insieme di parole che fa da ossatura e contesto ad ogni relazione individuale,
utile nella conciliazione del dualismo tra uomo e natura, esattamente come la mitologia. Letteratura è
mitologia traslata, combinazione di elementi semplici presenti in tutte le culture. Tutta la scrittura, sia mitica
che letteraria, si basa sul concetto di ricorrenza: quella che riguarda lo spazio e quella che riguarda il tempo.
La letteratura dispone delle capacità tecniche per rammentare la ricorrenza di entrambi i tipi. Ogni testo è un
elemento temporale, la narrazione, ed è un elemento atemporale, sincronico.
Se ha ragione Frye noi non facciamo altro che ripetere la stessa cosa, anche se modificata e ripulita. Il ruolo
del soggetto è debole e passivo nella sua impalcatura, ha una funzione minima. Frye è l’unico esponente
coerente del criterio archeologico.
Questo sistema è tautologico, se tutto dipende da cose originali che poi vengono riproposte all’infinito. È un
cerchio in cui tutto torna.

-criterio genealogico, che funziona in maniera opposta. Ci spiega che all’origine non c’è niente o qualcosa di
diverso da quello che pensiamo ci sia. Il padre di questa tradizione è il principe della genealogia della
morale, che ci dice che all’origine di verità giustizia e ragione c’è il loro opposto. Categoria semantica degli
aggettivi nobile e gentile che in origine significano tutt’altro e manifestano tutta la violenza del loro
significato originale, ma che con il tempo arrivano a descrivere sentimenti del tutto positivi. Essi in realtà
sono traslazioni di ingiustizie di base, nella separazione tra ciò che è nobile e ciò che non lo è. Dunque non
possiamo fidarci dell’origine delle cose, che è una ininterrotta catena di metamorfosi, attivata da ciò che
Nietzsche chiama remi. Ci sono degli eventi che modificano retroattivamente i parametri con cui noi
giudichiamo le cose.
Le fratture storiche esistono perché avviene qualcosa di importante con cui noi modifichiamo la nostra idea
del passato.

Freud ci spiega che c’è una differenza radicale tra bisogno e desiderio, perché il bisogno è una cosa interna
soddisfatta da una cosa esterna (il bambino piange perché ha fame). Il desiderio è un’attività legata alla
memoria, cioè al ricordo dell’esaudimento di un bisogno. Perciò è inesauribile, perché riattiva ogni volta
quella traccia amnestica attraverso cui noi ricordiamo di aver avuto un desiderio esaudito. In realtà
ricordiamo una condizione priva di desiderio, che è quando siamo nella pancia della mamma. I nostri bisogni
erano immediatamente soddisfatti. Quindi tutta la nostra attività di formalizzazione è mossa dal fatto che
abbiamo un’origine inaccessibile e barrata, che è solo una traccia di ricordo. Esperienza primitiva ma non
attingibile. L’origine per Freud è sempre mancata, non c’è qualcosa all’inizio a cui possiamo risalire.
Germanista italiano morto giovane che ha fatto in tempo a lasciarci un contributo essenziale, definendo il
mito e l’attività archeologica di risalire all’origine di qualcosa come la scienza di ciò che non esiste.
All’origine non c’è niente e il mito è solo una macchina di produzione di senso, vuota al suo interno e priva
di sostanza.
Dobbiamo stare attenti anche per questo a evitare la cristallizzazione ideologica quando operiamo sui temi.
Quando un’ideologia opera in maniera cristallizzata non è più distinguibile da un’altra. Fascismo,
comunismo e nazismo, quando operano con forme cristallizzate, funzionano allo stesso modo.
Nelle teorie del complotto manca la critica.

Alla base della differenza tra i due criteri c’è un conflitto: il modello archeologico istituisce tra soggetto e
oggetto una dialettica bloccata che li verifica entrambi. L’oggetto è sempre lo stesso perché viene reiterato
all’infinito; il soggetto anche perché non può produrre nulla che sia davvero nuovo.
Il sistema genealogico funziona al contrario, attribuisce al soggetto forse un eccessiva capacità di reiterarsi
rispetto al materiale tematico e mitico che viene dal nostro immaginario. Presuppone che la trasformazione
sia continua e perenne. Questo non spiega perché siamo in grado di rintracciare l’immaginario condiviso
attraverso i millenni. I critici genealogici dicono che non è vero, che è una nostra illusione, e che una cosa di
millenni fa significava altro rispetto a quello che le facciamo significare oggi. Ce la caviamo accettando che
se i critici straordinari e importanti come Frye e Curtius si sono incartati con il sistema archeologico e altri
come Iesi hanno insistito su quello genealogico, in modo anche politicamente interessato, forse ora
dobbiamo capire che esistono entrambe le posizioni e che possono essere messe in dialettica. Cosa che ci
manca, la capacità di comprendere una cosa e il suo opposto. Forse la verità sta qui, nell’unione, nella
coesistenza delle due cose.
Iesi non ha ragione dicendo che la macchina del mito è vuota, perché comunque tale macchina ha costruito
qualcosa di noi. Dobbiamo stare attenti alle posizioni estreme, metterle insieme.

Esempio della disubbidienza di San Francesco. Ubbidire alla legge alla lettera è la forma più alta di
disubbidienza.

LEZIONE 8 – 10/03/2023
Tra tutti i temi letterari, ce n’è uno in particolare che ha dato vita ad una disciplina che lo studia: il tema dello
straniero. Esso, per la comparatistica, è talmente centrale che già nel corso dell’800 alcuni intellettuali hanno
deciso di studiare specificatamente questo tema, dando vita ad una disciplina imparentata con le scienze
sociali e la storia delle idee, che sarebbe l’imagologia.
L’imagologia è lo studio della rappresentazione dello straniero in un testo letterario o in un’opera d’arte.
Questo perché osservare gli stranieri e confrontarli con noi è qualcosa che culturalmente ci aiuta a definire
noi stessi. Tutto ciò che riguarda incontri con turisti e immigrati, e mercanti nel mondo antico, diventa un
modo per definire chi non è in questa condizione specifica, chi non è in terra straniera.
La letteratura ha sempre costruito un certo immaginario sullo straniero, sempre in maniera ambigua,
producendo pregiudizi e cliché, formulazioni distorte rispetto alla figura dello straniero. Ma il testo letterario
essendo infinitamente interpretabile, ci permette di vedere oltre l’intenzione dell’autore. Esempio della figura
di Medea, che nel mondo classico ha le caratteristiche classiche del personaggio straniero: noi a distanza
possiamo eroicizzare tale figura. Tenere insieme la prospettiva storica.
La letteratura ha un potere suggestionante e può convincerci di certe posizioni. In questo senso l’imagologia
usa la letteratura per far vedere come il testo possa influenzare il giudizio di una comunità rispetto alla
complessa figura dello straniero.
Un testo deve contenere più image delle straniero per essere analizzato dall’imagologia, cioè una o più forme
di rappresentazioni delle straniero. Contrapposta al mirage, un’immagine dello straniero profondamente
distorta e portatrice di pregiudizio. Studiare le relazioni tra il testo e ciò che gli sta intorno, per capire perché
una certa immagine radicata nell’immaginario passa anche dal testo letterario. L’imagologia cerca anche di
risalire al senso politico e sociale del testo. Insomma, è uno studio dell’immaginario, quel deposito attraverso
cui sperimentiamo noi stessi.
Confronto continuo che muove dall’identità all’alterità, e questa continua contrapposizione definisce anche
noi stessi.
Esempio della rappresentazione dello straniero nell’antico testamento, ce ne sono vari tipi. Quello
temporaneo, quello accettato in un’altra comunità, quello non integrato. Ma nella bibbia non ci sono mai
giudizi di ordine xenofobo, e tale fenomeno è interessante perché ci permette di fare un confronto con l’altra
grande genealogia della nostra storia, quella greco latina. Il mondo greco è molto diverso, noi rintracciamo i
primi dati del razzismo culturale dopo gli scontri tra greci e persiani. Questi stranieri vengono esclusi
attraverso il logos, cioè la conoscenza della lingua diventa strumento essenziale per far parte di un certo
etnos. Questo perché il logos da accesso al pensiero e quindi alla filosofia, che fonda la civiltà. Solo che per
sconfiggere i persiani non basta il pensiero, servono anche le armi, e questo lo capiranno benissimo i romani.
Essi infatti creano le province, lasciando le élite straniere a comandare i luoghi conquistati.
Testi canonicamente imagotipici:
-racconti di viaggio; il viaggio mette in gioco tutta una ridefinizione di sé, una formazione; il primo dei
grandi racconti di viaggio è l’Odissea. Esempio dell’aedo che sa tutto della storia di Ulisse, ma solo quello
che è condiviso dall’etnos; quello che gli è successo quando era da solo non lo sa nessuno. Il punto fondante
del racconto di viaggio è insomma la prima persona, la coincidenza nominale tra autore, narratore e
personaggio che compie le azioni; Ulisse parla non di cose sapute, ma di cose viste. Se io parlo di cose viste,
non le posso verificare in nessun modo.
Non si può pensare di separare completamente la conoscenza dall’esperienza: soprattutto non si può
interrogare roba medievale con queste categorie del tutto moderne.
L’imagologia nasce nell’800, in pieno positivismo, e si porta dietro tutta una serie di problemi:
-gli imagologi pensano di operare in una condizione di neutralità culturale, cosa che non è del tutto vera;
-per sfuggire ad un certo determinismo culturale, si è basata sullo studio delle ricezioni letterarie nel secondo
‘900; la ricezione di un testo straniero si porta dietro tutti gli stereotipi culturali che un contesto di partenza
ha nei confronti del contesto di arrivo. Abbiamo dei pregiudizi verso un romanzo americano ad esempio, ci
immaginiamo come potrebbe essere costruito. Nel nostro immaginario è stratificata una sorta di assiologia,
di scienza dei valori culturali.
Dovremo chiederci prima di tutto cosa è uno straniero: lo hanno fatto in molti, tra cui Ceserani; egli ci spiega
che quella dello straniero è una condizione esistenziale, prima che un problema letterario. Prima di essere un
personaggio di miti e di storie, è un’immagine di proiezione culturale, fortemente implicata nel processo di
costruzione dei popoli. Tanto più le comunità umane sono compatte, chiuse in se stesse e unitarie, tanto più
tenderanno a confinare gli stranieri, accentuandone i tratti differenziali. Allo stesso modo questo avviene
quando una comunità si sente debole e minacciata.
Il ruolo della letteratura è stato spesso duplice e contraddittorio in questo senso, perché talvolta ha rafforzato
determinate immagini negative dello straniero. Allo stesso tempo ha trasformato lo straniero in un
personaggio letterario.
Fatta da due scuole nel 900:
-scuola di Aquisgrana, fondata da Ugo Dysenrick; primo ad aver avviato una revisione nella ricerca
imagologica post positivismo. Occorre spostare la nostra attenzione dalla sociologia, a cui l’imagologia era
molto attaccata nel secolo precedente. Le identità nazionali e le lingue che le esprimono non hanno caratteri
specifici e determinanti, perché le lingue dipendono da specificità etnico-culturali. L’imagologia
novecentesca tende a complicare l’idea di identità, spezzando questa condizione dell’essere, per trasformarla
in una specie di rete. Non è un dato oggettivo, ma deriva da tante radici diverse. E’ possibile tenere insieme
le differenze che ci sono tra Palermo e Trieste, esiste comunque un’idea di identità italiana. Ma è un’identità
di tipo rizomatico.
Questa scuola poi studia i manuali di testo a scuola, che sono la parte fondante della costruzione delle
identità. In questo modo si svela il meccanismo che crea una costruzione arbitrale dell’immaginario.
Quindi l’imagologia è la scienza della demistificazione culturale, serve a questo, demistifica le credenze di
una certa epoca. La posizione di Dy è neutralistica, ma l’obiettivo è comunque quello di problematizzare
concetti che ci sembrano naturali.
Qualsiasi image e qualsiasi mirage è ideologicamente inquadrata. Nonostante ciò non è detto che esista un
image o un mirage vero. Secondo Dy il concetto di nazione non può esistere in assoluto, esiste soltanto
attraverso dei processi dialogico-differenziali che coinvolgono il rapporto tra quella comunità nazionale e
altre.
Il concetto di nazione può essere studiato come un autoimage, perché noi costruiamo la nostra identità
attraverso le eteroimage, cioè le identità degli altri.
La scuola di Aquisgrana si sviluppa anche in Olanda grazie ad un allievo di Dyserinck, chiamato Lersen.
Negli studi di imagologia ha importanza il valore di riconoscimento, cioè che un interprete sia in grado di
capire la natura di image o di mirage di una certa rappresentazione.
Asserzione imagotipica: gli asiatici sono bravi in matematica. Certe asserzioni hanno dei rapporti col testo, e
questo è ciò di cui si deve occupare l’imagologo. Qual è l’obiettivo politico di tali asserzioni, le loro
conseguenze sociali?
-scuola francese, che funziona diversamente. Il più importante imagologo di questa scuola, che la fonda, è
Pageaux. Egli studia grandi serie di testi letterari, sia di finzione sia di saggistica. Questo perché l’image
attraversa i generi letterari, e se li supera si radica bene nell’immaginario.
Quindi torniamo all’idea del canone e a ciò che è importante leggere. Pageaux inserisce una questione
fondamentale: non esistono rapporti tra due culture che non siano mediati da un’esplicita o implicita
egemonia o subalternità. Questo avviene sia tra le persone, sia tra identità nazionali. Esse si rapportano l’una
con l’altra in modo rappresentazionale, secondo tre coordinate:
-la mania, cioè la sopravvalutazione di un’altra cultura;
-la philia, la meno studiata di queste tre forme. Nella rappresentazione di una cultura, questa può essere
considerata paritaria rispetto alla nostra. Ma questo rapporto intanto non è biunivoco;
-la fobia, cioè il disprezzo indifferenziato dell’altro. È una specie di condizione ossimorica, perché il fobico è
in una posizione privilegiata di cultura, eppure ha paura di quella subalterna. Ma quella egemone teme che
quella subalterna voglia appropriarsi di quel potere che non ha. Per questo tendiamo ad attribuire allo
straniero subalterno un potere immenso, molto più di quello che possiede.
Si parla del potere di qualcosa quando questo qualcosa non ce l’ha.
Un’image non è mai slegata ad un testo, è sempre quello a stabilire il senso. Esso è portatore della verità, è
l’immagine della perversione della verità. Questo è già in Platone. Il testo scritto è già stesso un’immagine,
perché utilizza simboli che immagini. Non esiste né la pura immagina né la pura testualità, tutti i media sono
misti.
Kristeva diceva che anche noi siamo in parte stranieri a noi stessi, a livello individuale la nostra identità è
debole e fragile, non possiamo conoscere tutto di noi. E’ facile considerare lo straniero un elemento turbante
della nostra quotidianità: è molto facile dare la colpa della peste allo straniero e se tutti ci scagliamo contro lo
stesso abbiamo risolto il nostro problema di stare insieme.
“Lo straniero ci abita”, sempre nel senso che ci sono parti di noi che non conosciamo.
Pageaux teorizza tutto ciò in maniera alta e lo ribadisce dentro lo specifico letterario. Egli non sopporta le
analisi di tipo estrinseco, è contrario alla teoria letteraria che lavori a distanza dai testi. Essi sono il nostro
oggetto di studio. Mette a punto un modo di studiarli che è fatto di step successivi. Potremmo utilizzarlo in
generale per approcciare un testo.
[Lettura di Pageaux. L’immagine di un estraneo è prima di tutto un insieme di parole. Quindi è necessario
trovare le isotopie, i modi di dire, le comparazioni, l’aggettivazione. Dalla parola si passa a sequenze
narrative, perché l’immagine in un testo è un insieme di relazioni gerarchizzate. I processi di denominazione
sono processi di dominazione e qualificazione differenziale.]
Ci sono 3 step per studiare qualsiasi testo letterario, secondo Pageaux:
- analisi semeiotica del testo, dove si selezionano i termini che qualificano l’altro, le ricorrenze delle parole
chiave e delle espressioni;
- analisi semantico – strutturale, cioè mettere in luce i meccanismi coi quali li scrittore ha attuato certe scelte
linguistiche. Tali scelte muovono dall’assimilazione fino alla differenziazione dell’altro. Rientra in questo
tipo di analisi tutto ciò che riguarda lo spazio tempo, il sistema dei personaggi e i rapporti di denominazione;
- analisi del sistema di qualificazione differenziale, messa in luce dallo step precedente. Occorre capirne il
significato ideologico, testuale ed extra testuale. Secondo Pageaux la contrapposizione linguistica nominativa
tra l’altro e lo stesso costituisce nei testi imagotipici lo scenario stesso in cui l’azione viene svolta. Cioè tutta
la roba del secondo step si basa sulla contrapposizione tra l’altro e lo stesso. Lo scrittore tende a condividere
con la propria epoca certe emozioni, ma non dipende tutto da essa.

LEZIONE 9 – 10/03/23
Oggi parliamo delle teorie sulla traduzione e la riflessione su di essa: a che cosa serve la traduzione e che
conseguenze ha sulle letterature nazionali.
Il concetto antropologico di tradizione è assolutamente decisivo. Ha svolto per tutte le culture un ruolo
fondamentale e dal nostro punto di vista di letterati ha svolto un ruolo per lo sviluppo della letteratura
nazionale.
Definizione preliminare: tradurre è un’operazione di interscambio che mette in gioco lingue diverse e sistemi
simbolici diversi, dunque immaginari diversi. È uno scambio che fa della mediazione il proprio paradigma
conoscitivo. Tradurre significa prima di tutto mostrare e accettare la differenza tra questi sistemi simbolici.
letteratura e cultura sono intrepretati dalla comparatistica come sistemi plurimi.
Tanto centrale e politicamente rilevante è la pratica del tradurre, che già l’UE si è dotata di una sorta di
piattaforma nel tentativo di definire cosa è la traduzione. Hanno partorito una definizione che però è del tutto
insufficiente e sbagliata: la trasposizione di un messaggio scritto di una lingua di partenza in un messaggio
scritto nella lingua d’arrivo. Tutto ciò è incredibilmente semplicistico, perché intanto il messaggio non deve
essere scritto per forza. Inoltre, non si può dire che la traduzione sia una trasposizione di un messaggio,
perché ciò implica che si dica la stessa cosa, traducendo; in realtà non si conserva lo stesso messaggio. Con
sistemi simbolici diversi, non si può parlare di stesso messaggio.
Altra definizione più ampia: la traduzione è soprattutto un processo che trasforma un testo, scritto o non
scritto, chiamato prototesto, in un altro testo chiamato metatesto. Si insiste sulla trasformazione, non sulla
trasposizione.
Tale trasformazione fa sì che un testo realizzato in un contesto culturale sia utilizzato in altri contesti
culturali. Si può fare traduzione anche da una stessa lingua, nel senso che facciamo ad esempio la parafrasi
della Commedia, che diciamo essere scritta in italiano, ma non è certo l’italiano di oggi. La lingua si evolve
continuamente.
Proponiamo una breve storia della traduzione; noi sappiamo che essa è sempre esistita, già nelle società
arcaiche c’erano figure di interpreti e di traduttori. Essi agivano sulla lingua scritta, erano figure che non
avevano grande importanza sociale. È interessante il fatto che quando i romani iniziarono a colonizzare la
Grecia, si posero in continuità con la loro cultura, assorbendone molti tratti. Essi installano di fatto la propria
letteratura maggiore su quella greca (quasi tutti i generi latini sono rifatti sulla base di quelli greci).
Cicerone è il primo teorico della traduzione. Egli tenta di rendere con un lessico appropriato i caratteri delle
parole in un’altra lingua. Traducendo i grandi classici non si fa una traduzione parola per parola, ma si cerca
di rendere il senso complessivo, cercando le espressioni appropriate per la lingua in cui si traduce.
Quindi si distingue tra una traduzione di servizio, fatta da chi traduce letteralmente, e una traduzione
d’autore, da letterato.
Cicerone usa il termine interprete, che normalmente indicava una professione, colui che traduce la lingua
orale. Ma soprattutto lui usa la parola “convertire”, che ha in sé il significato di trasformazione e mutazione
del testo di partenza, che non ha il verbo tradurre. Esso è un verbo moderno, che ha acquistato l’accezione di
trasformazione solo nell’Umanesimo grazie a Leonardo Bruni. Nel latino classico indicava il trasporto (trans
duco), significa portare al di là. La materia che tu trasportavi però si conservava, quindi la parola indicava
una conservazione di un qualche messaggio.
Quintiliano utilizza il verbo transeo, in cui è insita l’idea di un cambiamento. C’è una mutazione nel corso
del trasporto.
Eppure tutte le lingue romanze utilizzano il verbo tradurre, quindi è un’idea che ha fortuna nel mondo
romanzo (trasportare senza modificare).
L’altro modello della traduzione è San Girolamo, l’autore della prima bibbia latina. Egli è un grandissimo
traduttore, prima che un teorico.
Nel corso del medioevo loro due fanno da modelli, per certi versi contrapposti, anche se Girolamo la pensa
come cicerone: egli richiama a gran voce che le sue traduzioni, ad eccezione delle sacre scritture, riproduce
integralmente il senso dell’originale anche se non si fa parola per parola. Questo non vale per la bibbia
perché lì anche l’ordine delle parole è parola divina. Quella si può tradurre solo in modo interpretativo, cioè
parola per parola.
Quindi i due modelli dell’antichità sono Cicerone e Girolamo. Traduzione artistica vs traduzione religiosa.
Traduzione bella e infedele e traduzione brutta e fedele: questa idea la si supera solo negli anni 70 del 900.
Opera di Leonardo Bruni da contestualizzare. Il recupero della classicità dell’umanesimo è un recupero
abbastanza ideologico, più che pratico. 1420, trattato di ordine prescrittivo come è prescrittiva tutta la ripresa
dei classici.
Lettura di un pezzetto.
egli fa notare di come un libro in greco fosse bellissimo, mentre in latino faceva schifo. Nella scienza ci sono
delle competenze e non tutti hanno le stesse: Bruni fa notare che un certo traduttore non era in grado di
tradurre Aristotele, mentre lui sì. Tradurre è una scienza, così come tutta la tradizione umanistica.
Bruni ci espone cosa pensa sulla traduzione. Continuo della lettura.
1) l’essenza della traduzione consiste nel fatto che quanto si trova scritto in una lingua venga trasferito in
un’altra. Non lo può fare chi non conosce esattamente entrambe le lingue, ma non basta, perché si deve oltre
a comprendere, anche spiegare ciò che si è compreso. Quindi si deve essere madrelingua ma anche grandi
scrittori.
Si devono conoscere i classici, per fare bene questo lavoro. Bruni descrive l’idea che esista sempre
un’equivalenza nella differenza, che si possa sempre tradurre con un’espressione latina un’espressione greca
(idee che lo strutturalismo svilupperà secoli dopo).
Tre errori del traduttore: non conoscere bene la lingua di partenza, non conoscere bene la lingua d’arrivo,
non saper rendere bene ed elegantemente il messaggio della lingua A nella lingua B. il traduttore secondo
Bruni deve diventare l’autore. Questo è interessante, tutt’ora noi leggiamo testi scritti da uno scrittore che
non è quello che compare in copertina.
I due modelli medievali avranno conseguenze, e la riforma protestante passa da un’idea di diversa traduzione
del vangelo. Ad esempio il sacramento della confessione non esiste, quindi la chiesa non ha potere di
rimettere i peccati eccetera eccetera. La traduzione ad hoc ha dato in un certo senso un forte potere alla
chiesa.
Anche Lutero è un teorico della traduzione e riflette molto anche su questo.
Continuo lettura di un pezzo di Lutero sulla traduzione della Bibbia in tedesco.
Le teorie della traduzione trovano un loro punto di svolta con il romanticismo, periodo che fa da faglia
culturale molto grande. L’innovazione principale è l’inserimento di un’innovazione storica. Dobbiamo
pensare che l’idea di trascorrenza o cambiamento storico della cultura sia un’idea moderna, proprio legata al
romanticismo e al protoromanticismo. I primi romantici, rispetto alla traduzione, sono scissi tra due
posizioni: ci sono intellettuali che non riconoscono frontiere di civiltà. Le lingue hanno caratteristiche
specifiche che rendono i testi e le opere d’arte intraducibili. Croce riprenderà questa posizione (che era anche
di Schlegel). Si può pur tradurre il testo, ma in due modi: con una traduzione di servizio, capendone il
significato letterale ma eliminando la parte artistica, oppure la si può riscrivere, conservando l’arte ma
cambiarla. Questo perché le lingue sono modi di intendere la realtà, sistemi simbolici che non sono del tutto
trasmissibili in altre lingue.
questo significa che ogni volta che traduciamo un testo lo stiamo risemantizzando, gli stiamo dando
significati nuovi: lo dice anche Goethe quando parla di Weltliterature. Le singole letterature nazionali si
risemantizzano l’una con l’altra. Il traduttore non lavora solo per la sua nazione, ma anche per quelle di cui
traduce le opere.
La traduzione rivivifica il testo e lo rende di nuovo significativo.
Il dibattito novecentesco sulla traduzione riparte dalla centralità fondamentale dell’idealismo e delle teorie
romantiche. Uno dei più importanti intellettuali dell’epoca è Croce, una star mondiale che tutti conoscono.
Un uomo che ha dedicato tutto alla cultura, ogni istante della sua vita. Ma non possiamo essere d’accordo
con sua posizione sulla traduzione: egli pensa che non sia arte, e questo non va bene, anche se è un concetto
passato molto nella letteratura italiana (di stampo crociano). Non si può pensare di non poter studiare la roba
in traduzione, sarebbe una posizione retrograda.
L’idealismo è uno dei due poli insieme allo strutturalismo, che invece basa tutta la sua riflessione sulla
traduzione come atto linguistico. Croce e Jakobson sono i due poli opposti.
Jakobson ci spiega che la traduzione è un tentativo di rendere l’equivalenza semantica nella differenza.
Possiamo tradurre qualsiasi testo purchè si faccia un’operazione preliminare: stabilire la funzione linguistica
più importante per quel tipo di testo. Egli è quindi all’opposto di Croce, che pensa che la traduzione non sia
possibile come arte. Per Jak la traduzione è sempre possibile, ci vuole un’analisi del tipo di traduzione, ma la
resa dell’equivalenza della differenza è sempre possibile, anche tra sistemi molto differenti.
Tripartizione dei tipi di traduzione conosciuta, by Jak:
-traduzione endolinguistica, che sarebbe tipo la parafrasi, o il trasformare una poesia in prosa;
-traduzione interlinguistica, che può invecchiare. Questo perché la lingua invecchia e muta;
-traduzione intersemeiotica, cioè fatta tra due media diversi, tipo l’adattamento cinematografico. Traduco in
parole un’immagine.
Quindi dobbiamo rifarci alla sua struttura per tradurre bene un testo. Ognuno degli attori del meccanismo
della trasmissione dei messaggi ricopre una funzione; la dominante è scegliere quale funzione del linguaggio
è essenziale a quel tipo di linguaggio. Dobbiamo decidere cosa è fondamentale rendere nella traduzione,
perché non si può rendere tutto. Accettando la differenza troviamo l’equivalenza.
In risposta a Jakobson Eco scriverà un librettino molto divertente, che si chiama “Dire quasi la stessa cosa”,
una raccolta di riflessioni sulla traduzione. Inizia con una prefazione spiritosa e molto dotta.
Cosa è la stessa cosa? Stesso cosa significa? Sappiamo bene che traducendo non diciamo mai esattamente la
stessa cosa, anche quando usiamo un sinonimo o facciamo una parafrasi. E poi davanti ad un testo da
tradurre non sappiamo neppure cosa sia la cosa. Tale cosa è il messaggio, il significato?
Infine, è dubbio anche cosa voglia dire dire. Può avere molti significati diversi. Ci sarà un oggetto puro che
si conserva al di là di qualsiasi traduzione? Oppure questo oggetto pure non può essere mai attinto?
queste sono ovviamente le due posizioni di strutturalismo e idealismo.
Esempio della frase inglese it’s raining cats and dogs.
Esempio di Bastardi senza Gloria di Tarantino, che gioca tutto sulle quattro lingue implicate nella seconda
guerra mondiale.

LEZIONE 10 – 15/03/2023
Umberto Eco era un intellettuale dotato di buonsenso. Era solito tenere una rubrica sull’Espresso, quando era
ancora un giornale dotato di buon senso.
Una volta scrisse a proposito della diatriba culturale della traduzione, inserendosi in posizione mediana tra le
due posizioni (testo non traducibile versus testo del tutto traducibile). Egli si colloca esattamente a metà,
riconoscendo che è molto complicato rendere l’equivalenza con una differenza, e che non è sufficiente
stabilire una dominante per fare una buona traduzione. Ma ci dimostra anche che molte pretese di oggettività
sono abbastanza assurde.
Esempio di Unglorious Bastards dove non è possibile fare un doppiaggio decente a causa del fatto che è
girato in 4 lingue. Idem nel film “il disprezzo”. Talvolta occorre fare della mediazione per fare l’equivalenza
nella differenza.
Ora sta facendo degli esempi con i Simpson e gli adattamenti tra le lingue regionali in originale e i dialetti
italiani (tipo il custode scozzese che parla sardo), per fare l’equivalenza nella differenza.
talvolta accettiamo il fatto di non poter rendere alcune sfumature. Esempio di Game of Thrones, che nel
doppiaggio italiano perde tantissimo del suo fascino, per via della provenienza geografica dei personaggi che
sono distinti proprio dalle inflessioni linguistiche. Secondo me idem i Peaky Blinders.
Finisce di leggere l’introduzione di Dire quasi la stessa cosa.
Ecco il senso dei capitolo che seguono: non si dice mai la stessa cosa, ma si può dire quasi la stessa cosa.
Accettiamo questo fatto, che quello che dice Jakobson è un’utopia, perché si può trovare quasi l’equivalenza
nella differenza. Il problema dunque non è più quello della STESSA cosa e neanche quello della stessa
COSA; bensì l’idea del QUASI. Cosa significa quasi? Quanto deve essere elastico? Dipende dai punti di
vista, perché la terra è quasi come Marte…ma può essere anche quasi come un qualsiasi altro pianeta.
Stabilire la sua flessibilità dipende da alcuni criteri che vanno negoziati preliminarmente. Dire quasi la stessa
cosa è un procedimento che si impone sulla base di una negoziazione (termine tecnico in Eco, derivante da
un movimento critico inglese che rifiuta l’idea di oggettività e pone come corollario di qualsiasi attività
critica la collocazione dell’interprete nella storia. Non esiste l’oggettività. Non c’è alcuna distinzione tra la
narrazione finzionale e quella storiografica, perché la storiografia è l’effetto di una certa versione del mondo
ma non ha niente di oggettivo.)
Eco adotta una posizione molto moderata rispetto a quelle degli anni 70.
Breve digressione su un aspetto sottolineato da Jakobson, cioè il fatto che la traduzione può essere fatta tra
sistemi semeiotici diversi (quella intersemeiotica), cioè tra un sistema di segni e un altro, come libro e film o
roba similare.
cosa sono le versioni, gli adattamenti, le trasposizioni e come sono legati questi concetti a quello di
traduzione? Quando smettono di essere riscritture?
Noi stabiliamo a priori delle categorie forti, tipo genere canone autore, ma non abbiamo realmente coscienza
delle sfumature di tutto ciò. Una riscrittura è un’imitazione? E’ difficile stabilire fermamente la differenza tra
traduzione e riscrittura. Tipo quelle che fa sanguineti dai classici, modernizzandole, cosa sono? Traduzioni o
riscritture? Egli imprime a quei testi un cambiamento radicale, rispetto alla tradizione. Non si può rispondere
si o no, dobbiamo appunto negoziare il nostro rapporto con certe cose.
Il termine adattamento ha avuto un grande successo culturale. Studiarlo in quanto adattamento significa fare
un’operazione comparatistica, perché stiamo già srudiando il rapporto tra prototesto e metatesto. Qualsiasi
attività di analisi di adattamento è di ordine comparatistico. Certo si può studiare un adattamento come testo
a sé, ma a noi interessa di meno. Noi lo studiamo come processo e attività culturale: adattare significa
rendere idoneo, ripetere qualcosa in altro modo o in altro contesto o con altro metodo. La maggiore studiosa
dell’adattamento è Linda Hutchen, con la quale possiamo definire adattamento una trasposizione dichiarata
ed esauriente di un’opera o di più opere.
Dichiarata perché sennò è un plagio o un criptoriferimento; esauriente perché non basta citare un testo per
adattarlo, occorre che il metatesto sia esauriente rispetto al prototesto. Non deve contenere tutto ciò che è
presente nel proto, ma non può essere una piccola citazione.
per adattare non è necessario che ci sia un cambio di medium, può avvenire un cambio di genere ad esempio.
Come fa Calvino traducendo in prosa il Furioso: cambio di genere ma non di medium.
Esempio di M di Scurati in cui Mussolini diventa praticamente un personaggio finzionale. Ricordiamo che
fiction non si contrappone a realtà ma a referenzialità.
Il successo degli adattamenti dipende da varie questioni. Ci piace molto riconoscere delle costanti, attivare il
nostro ricordo del prototesto, ma magari avere una sorpresa rispetto a ciò che ci ricordiamo.
Esempio di Romeo + Juliet. Scelta camp di riadattamento.
Ogni volta che studiamo un attaccamento dobbiamo rileggere i rapporti che si creano tra un testo e un altro.
Sono adattamenti tutte le opere che modificano il genere, mentre quelle che non rielaborano la stessa storia
non sono adattamenti. Tipo le fanfiction non sono adattamenti, sono altre cose.
Le fanfiction sono una di quelle cose che plasma il mercato cinematografico e culturale, perché convincono i
produttori. Così come i graphic novel di Matrix che aggiungono cose al sistema mediale originale del primo
film. Un mondo finzionale può costruire infinite porte che possono essere costituite dai media più disparati,
come i videogiochi e il merch, che espandono la storia, non la riscrivono. Sono espansioni narrative. Facendo
questo catturo più pubblico. Negli adattamenti invece si riracconta o si rielabora la stessa storia.
Questo ci porta a far i conti con il concetto di intertestualità.
Un testo non è nient’altro che è un insieme di citazioni di altri testi, un mosaico, la cui natura e il cui
significato cambiano nel testo.
Negli anni 60 quando viene rifondata la teoria letteraria in Francia, sotto la spinta anche dei formalisti russi,
quella generazione conduce una battaglia contro il comparatismo di scuola francese, secondo cui per fare il
comparatista occorresse che gli autori o le opere fossero in contatto tra loro. Questo non è necessario perché
appunto tutte le opere sono interpolate, tutte sono in relazione l’una con l’altra. È possibile prendere testi
molto distanti nello spazio e nel tempo e analizzarne le differenze.
L’intertestualità è il meccanismo proprio della lettura letteraria, una lettura semplice che legge il testo in
relazione a tutti gli altri testi. La produzione del senso, nella nostra attività di critici, è data dalle nostre
letture pregresse, grazie alle quali ci si attivano campanelli d’allarme. Non ci sono letture neutre, dipende dal
nostro bagaglio culturale e letterario. Un’opera si può studiare inserita in una certa tradizione e porta
significati solo se studiata nello scarto differenziale rispetto alle altre opere.
C’è un momento sincronico di studio del testo, ma esso assume valore solo se reinserito in una lettura
diacronica.
Jonathan Calder scrive nella sua teoria che i testi letterari non devono essere considerati come entità
autonome, ma come sequenze da mettere in relazione ad altri testi, che trasformano, dialogano eccetera.
Questa idea di intertestualità dà luogo a 3 rapporti: singolo testo e letteratura come sistema, tra originalità e
convenzione, tra funzione referenziale e autoreferenziale del testo.
Questa visione un po’ spontaneistica nella trattazione di Kristeva viene resa esaustiva nell’opera di Genette,
che combina le nostre categorie. Transtestualità o trascendenza testuale: kristeva non distingue le modalità
con cui i rapporti intertestuali possono crearsi. Genette prova a dare una schematizzazione di questi rapporti:
la presenza più o meno letteraria di un testo in un altro.
Tutti i rapporti possono essere chiamati come trascendenza testuale; ma per intertestualità possiamo
intendere anche solo un pezzettino di intertestualità. Possono esistere anche dei rapporti di paratestualità, con
ad esempio note, introduzione, titolo e sottotitolo () e forme paratestuali esterne, cioè l’epitesto (interviste,
lettere, diari, che entrano in una relazione di scambio col testo).
Discorsi di metatestualità: qualsiasi discorso che ragiona su quel testo stesso (letture, recensioni). Esistono
poi rapporti di arcitestualità, cioè rapporti di implicazione tra un testo e un genere letterario e discorsivo
(traduzioni che organizzano le strutture discorsive di ciascun genere).
Infine esistono rapporti di ipertestualità, cioè relazioni tra un testo cronologicamente anteriore, da noi
definito prototesto e da lui ipotesto, e uno successivo, da noi definito metatesto e che lui definisce ipertesto.
Tra questi fenomeni rientra la parodia, ad esempio, roba che lui studia come letteratura di secondo grado,
derivata dal testo di partenza. Non sono adattamenti perché la continuazione non è un adattamento.
Se complichiamo questo discorso a livello intermediale avremmo che le relazioni genettiane possono essere
riconsiderate in relazione tra media diversi.
Saggio di stefano calabrese: si può sviluppare la trascendenza testuale attraversando i confini tra i singoli
media. Potremmo cosi definire l’intermedialità o trascendenza mediale, i media sono legati da relazioni.
Quali sono queste relazioni?
Multimedialità quando si parla di Internet, ad esempio.
Intermedialità esterna quando concepiamo un racconto su più piattaforme mediali (trasposizione o
adattamento cinematografico, tipo una serie tv che viene tratta da una serie di libri. Anche se li non è proprio
la stessa storia. Invece il gattopardo è esattamente la stessa storia, più o meno, tra libro e film.).
Transmedialità: una stessa storia può avere sviluppi narrativi diversi o personaggi mediali che riappaiono
sempre diversi, ma che noi riconosciamo come appartenenti ad un certo mondo della finzione. Prendiamo ad
esempio Sherlock, che muta tantissime forme e generi, è ambientato in tempi diversi, in Elementary è una
donna, in House fa il medico, eppure noi lo riconosciamo sempre.
La Disney è tipicamente crossmediale: Tarzan ad esempio è un suo prodotto di punta, poi ci costruisce sopra
una serie (non capisco se dice cross o trasnmediale).
Medium concettualizzato: quando si va a vedere uno spettacolo a teatro, e a teatro c’è una tv accesa che
trasmette. Quella tv è un medium concettualizzato, la sua funzione dentro l’esperienza artistica è filtrata dal
teatro. I film marvel ad esempio iniziano tutti con un fumetto (che poi non è neppure legato ad uno specifico
supporto).
Tornando al concetto di traduzione intersemeiotica. Ci sono tre macromodi di farla secondo Hutchen:
-Narrativo: dal raccontare al mostrare quando passiamo da un medium narrativo a uno visivo
-Mostrativo: adattarlo da mostrazione a mostrazione, tipo un musical da un film o viceversa (mammamia)
-Interattivo: interagire, cioè una macroforma della medialità contemporanea, come i videogiochi o i giochi da
tavolo. Interazione diretta che è determinante rispetto allo svolgimento della storia. Tipo l’ultimo episodio di
Dark Mirror che è interattivo.
Non sono esattamente categorie assolute.
il cinema per alcuni è un’arte narrativa, non mostrativa. Il fumetto è narrativo o interattivo?
Nel 1976, in Belgio si tenne un grande convegno sui macro argomenti della teoria letteraria. Si parlò delle
ideologie della traduzione e in quel contesto un gruppo di più o meno giovani teorici, tra cui Lefebvre e non
ho capito gli altri nomi, fondano una scuola di interpretazione della traduzione che chiamano Translation
Studies, in diretto collegamento con i Cultural Studies (idea culturalista di analisi dei fenomeni letterari). Il
collegamento con le teorie precedente è che questi nuovi studi smettono di domandarsi quali sono i rapporti
di fedeltà o meno del testo tradotto. Essi descrivono in che modo e secondo quali scelte culturali i traduttori
hanno tradotto. Si accettano e si studiano tutte le traduzioni, cercando di far emergere la posizione culturale,
politica, etnica del traduttore. Scuola di tipo descrittivo e non prescrittivo.
Anzi loro odiano l’idea di prescrizione che è tipica dei teorici precedenti.
Negli anni 80 si tenta di trasformare l’idea di traduzione, rendendola un fenomeno di trasferimento culturale,
più che uno translinguistico. Mette in comunicazione sistemi simbolici diversi.
Traduttore italo americano che interpreta in maniera radicale le teorie sulla traduzione. Libro di Venuti: la
traduzione è un processo per il quale la catena dei significanti della lingua di partenza viene sostituita da una
catena di significanti nella lingua di arrivo. Il senso non è già dentro il testo, ma è un effetto del nostro modo
di leggere quella catena di significanti, la cui interpretazione è sempre differita nello spazio e nel tempo.
Testo straniero e traduzione sono entrambi derivativi, quindi l’originale non è sacro. Anche il suo significato
deriva da un’interpretazione. Cosa stabilizza il significato del testo? Non certo la volontà dell’autore, perché
il significato va al di là di questo.
Lettura di pezzi di questo testo. Non esiste l’equivalenza nella differenza, il significato cambia
continuamente. Una traduzione non è tanto migliore o peggiore di un’altra; possiamo dire che una esaspera
alcuni concetti più di un’altra. La vitalità di una traduzione è correlata alle caratteristiche sociali e culturali in
cui viene prodotta. Quanto è efficace una certa traduzione in una certa cultura.

LEZIONE 11 – 16/03/23
Lorentz venuti parla in un’epoca in cui le posizioni dominanti sulla traduzione sono l’idealismo crociano
oppure quella del “siamo in grado di tradurre tutto”.
la letteratura tradotta esercita un’enorme influenza sulle storie letterarie e sulla percezione dei testi letterari in
genere e sulla formazione di ognuno di noi. Una traduzione può essere molto bella e ci chiede Venuti: chi è
l’autore di un testo tradotto? Non quello di partenza. Anche il traduttore deve essere considerato, non
ignorato o invisibilizzato.
se vogliamo davvero incontrare l’altro, dobbiamo incontrarlo nella sua alterità. La nostra idea di alterità p
curiosa, perché l’altro ci piace quando è come noi. Se invece l’altro è altro, allora non ci piace e anzi ci fa
paura. Che tipo di altro vogliamo fondare allora? Dice Venuti che ci sono due modi violenti di tradurre:
- in maniera addomesticante, reazionaria
- in maniera stranierificante, mantenere tutta la distanza dal testo, non aiutare la cultura ricevente, lasciare in
originale la parola che non si può tradurre. Per capire quel testo si dovrà studiare così l’alterità culturale.
Ovviamente per scelte commerciali si sceglie sempre il modo addomesticante.
Storicizzare significa smettere di pensare che la storia del pensiero sia una specie di processo per cui la
nostra idea sia sempre superiore. Miglioramento progressivo della conoscenza. Significa problematizzare
questo concetto.
Continuo lettura di ieri, di Venuti.
riflessione in linea con quella contemporanea della scuola di Tel Aviv, in particolare con una teoria di
Ebenzoar, Polysistem Theory. Il mondo letterario è schematizzabile all’interno di un polisistema, e ognuno
di essi prevede al suo interno una serie di sottoinsiemi. Noi abbiamo un confronto tra vari polisistemi, che
creano un macrosistema. La letteratura tradotta occupa un luogo specifico e indipendente. Essa ha
un’influenza più o meno diretta e più o meno consapevole su tutto il resto. Le nazioni che sono dominanti nel
polisistema in un certo periodo storico, tenderanno a tradurre meno e in maniera addomesticante (tipo la
cultura angloamericana, che è un contesto egemonico che si appropria dell’alterità culturale). Nella periferia
del polisistema accade il contrario, le piccole letterature traducono molto e importano modelli, stili e tecniche
di altri luoghi. La verità è che tutti gli stili sono transilinguistici, non esistono stili nazionali.
Wu Ming scrivono come se fossero testi tradotti, sembrano opere inglesi tradotte in italiano. Anche questo è
addomesticamento culturale, perché è lo stile che determina l’ideologia di un testo.
Della scuola di Tel Aviv fa parte anche Gideon Turi, che a differenza di venuti non parla di
addomesticazione, ma di principio di accettabilità (quando un testo originale deve subire una trasformazione
che tende ad omologarlo al testo d’arrivo, il traduttore diventa invisibile) e di principio di adeguatezza
(l’opposto, il testo d’arrivo si adatta al testo originale). Secondo turi ogni traduzione è in equilibrio tra questi
due principi, in ogni traduzione sono presenti e si modellano l’un l’altro. Inoltre ciò che è adeguato oggi
potrebbe non esserlo domani. C’è quindi meno vis polemica e più riflessività rispetto a Venuti.
Lettura di un brano del 23 in cui si parla di traduzione, di Walter Benjiamin. Ribaltamento dell’idealismo.
Nessuno scrittore scrive per un pubblico, quindi è inutile pensare al pubblico. Pensare ad esso in modo ideale
vuoldire avere un’idea dell’uomo in generale, che però non esiste, perché esiste solo l’uomo in particolare.
La differenza tra originale e tradotto è che il testo tradotto è pensato per un pubblico ideale, mentre
l’originale assolutamente no.
qualsiasi traduzione che tenta di rendere la testimonianza di un’opera sarà una cattiva traduzione, perché in
questo hanno ragione gli idealisti: ciò che rende realmente letterario un testo non si può tradurre. Si può
tradurre ciò che il testo trasmette, che però è inessenziale all’arte. Sto quindi facendo un’operazione
imperfetta di qualcosa che è accessorio all’opera d’arte. Io traduco cosa l’opera dice, ma l’essenziale è quello
che l’opera d’arte è.
La questione della traducibilità di un’opera può essere intesa in due sensi:
-se mai troverà un traduttore adeguato
-se mai consentirà la traduzione e quindi esigerà un traduttore adeguato
La traduzione fa sopravvivere l’opera, fa in modo che dall’originale si traggano cose che sono presenti in
nuce nell’originale, ma che solo la traduzione rende atto. È come se l’originale avesse una potenzialità
enorme, espressa volta volta dalle traduzioni e dalle interpretazioni del testo.
Il testo originale è un frammento a cui possiamo attaccare tutte le lingue che mancano.
Benjamin era molto avanti, perché nel 23 aveva già anticipato i Translation Studies.

noi per comunicare facciamo continuamente attività traduttiva nel nostro cervello.
Non ci sto capendo realmente una sega.
Mettere in trama, fictionalizzare fa di noi esseri umani, ci rappresentiamo e rappresentiamo gli altri.

Argomento che riguarda i rapporti tra letteratura e le altre arti, con specifico riferimento alle arti visive.
rapporto tra fiction e non fiction.
La poesia può essere fatta in modi diversi, attraverso danza, musica e parola: questo veniva pensato nel
mondo classico da Omero. Nel mondo contemporaneo siamo abituati a separare con l’accetta la parola
dall’immagine, anche se la parola scritta ci appare come un’immagine.
Il primo punto di contatto tra ciò che è visivo e ciò che è verbale è definibile come la descrizione verbale di
qualcosa di visivo (ecfrasis). Definizione imperfetta. Dovremmo distinguere tra quella ad esempio dell’Iliade
sullo scudo di Achille (che probabilmente non esiste nella realtà); Omero interrompe la narrazione e per
molti versi scrive di questo scudo. Questo tipo descrive cose che non esistono, quindi in un certo senso lui lo
sta inventando e creando, con una ecfrasis nozionale. Di fatto l’attività descrittiva crea un’immagine.
L’ecfrasis mimetica è invece una falsificazione della realtà, non una creazione.
L’oggetto va descritto vividamente, quindi si deve per forza interrompere la storia. L’aspetto temporale deve
essere un attimo lasciato da parte.
L’ecfrasis differisce nella narrazione perché quest’ultima esamina le cose come un tutto, la prima solo come
in parte. Qui c’è già l’idea implicita che la narrazione sia un’arte del tempo, mentre quella ecfrastica sia
un’arte dello spazio.
Trattato della pittura di Leonardo, rinascimentale. Egli tende a distinguere da un punto di vista
epistemologico l’attività del pittore da quella del (?) Lettura di questo passo.
Per Leo la pittura supera di molto la scrittura, anche perché è più immediata, non servono grossi commenti
eccetera.
un testo letterario può tematizzare la figura dell’artista.
La teoria di Leonardo verrà ribaltata del tutto nel 700, in particolare da Lessing, nel 1776, nel Laooconte.
Due tipi di arte, quella del tempo cioè la poesia e quella dello spazio cioè la pittura.

LEZIONE 12 – 17/03/23
Significato che Lessing tenta di dare alla cultura, separando arti dello spazio da arti del tempo.
[Nel cinema il montaggio crea il sistema duale dell’intreccio e della fabula]
Il linguaggio verbale è arbitrario e ci permette di sviluppare una certa idea di noi stessi, mentre le arti visive
si limitano a cristallizzare un’idea in un certo istante. La poesia dunque dipende dal sistema convenzionale
della lingua, non opera con segni naturali.
L’immagine è un simulacro che a sua volta rappresenta altro.
Dobbiamo chiederci se le arti visive hanno una loro temporalità, possono rappresentare solo un punto nel
tempo, un presente; Lessing ci dice questo.
Le immagini hanno il potere di essere risemantizzate da una cultura, quindi possono essere ritrovate in tempi
e periodi molto diverse. È impossibile stabilire un filo, sono acroniche.
Solitamente il periodo del romanticismo inserisce un modo di pensare diacronico, che è assente nelle epoche
precedenti. È qui che si comincia a pensare che il terreno che faceva da sfondo all’estetica, dovesse essere il
soggetto stesso della grande arte, quindi il recupero di una dimensione totale dell’opera d’arte, non separata
tra arti dello spazio sia arte del tempo. Non ci devono essere limitazioni di ordine disciplinare per essere
grande.
Questa riflessione costruisce un lungo percorso di riappropriazione del tempo dell’immagine, che essa abbia
una sua temporalità.
La frattura moderna cominciata da Leonardo e Lessing impoverisce il discorso sull’arte, secondo i romantici:
è compito dell’artista moderno ricostruire ciò che Lessing aveva distrutto, bisogna puntare su un’opera d’arte
totale.
Da Baudelaire si comincia a pensare al mercato dell’arte.
Dal simbolismo alle avanguardie si nota il tentativo di molti poeti di costruire insieme immagine e parola:
questo metodo è la sinestesia. Essa elimina la referenzialità esterna al linguaggio del poeta, e ci porta
qualcosa che normalmente sperimentiamo attraverso la vista e i sensi. In questo si rompe ovviamente con
una certa tradizione di visione poetica. Image text che si sottrae alla logica dell’imitazione.
Nella modernità riesplode dunque una tradizione sommersa, che esiste da sempre, quella della parola figurata
e della poesia concreta. Basti pensare al grande successo dei calligrammi, che non erano delle assolute novità
come potevano sembrare.
Ci interessa che il contenuto di un testo sia rappresentato da come le parole sono disposte nello spazio, con
tutta una serie di paradossi di questo tipo di poesia.
Il primo paradosso dipende dal fatto che un carme figurato prevede due diversi momenti di fruizione:
riconoscimenti semiotico e attribuzione semiotica. Il primo si esercita non rispetto al discorso ma rispetto a
come le parole sono disposte nello spazio. L’attribuzione invece è come quella che si fa quando si legge un
testo lineare. Ma questi due momenti sono in conflitto tra loro, e il calligramma è un paradosso concettuale.
Se facciamo il primo non siamo in grado di dare un significato semantico al discorso; se facciamo
l’attribuzione, perdiamo l’immagine. Quindi questo testo che apparentemente fonda immagine e verbalità, in
realtà dimostra come queste due semiotiche restino in totale opposizione tra loro.
Queste opere pensano che anche la parola, occupando uno spazio sulla pagina, possa essere pensata come
un’immagine. Sono diverse dalle opere di Baldassare Bonifacio, dove la parola è scritta in maniera lineare,
ma è incasellata in un disegno. Disegno e parola convivono in un medesimo spazio. La parola si comporta
come parola ma risponde e interagisce con un disegno.
Il carme figurato è un iconismo; casi in cui l’aspetto semantico e l’aspetto semiotico del testo verbale
interagiscono tra loro, ma non abbiamo un incursione del disegno. Il disegno è creato dalla parola stessa.
Quando invece il tratto grafico interagisce con la parola, si parla di iconotesti.
Iconismo quando la parola è usata anche nel suo valore semiotico di valore simbolico sulla pagina.
Iconotesto invece indica l’uso di disegno e parola in un unico supporto, schematizzabile in 3 macroforme.
Volumi di Caruso e un altro che riscoprono la poesia figurata del mondo latino medievale. È curioso che
l’avanguardia sia la massima alleata di questo mondo classico.
Tavola parolibera, che però ha dei problemi (simultaneità, non c’è differenza tra significante e significato
come le onomatopee).
Opera di Magritte, ceci ne pas une pipe. Dal nostro punto di vista ci interessa che è la dimostrazione che la
semiotica del testo e la semiotica dell’immagine sono in opposizione l’una con l’altra.
Foucault dice che in realtà Magritte scompone un calligramma. Ci mostra i due momenti di un calligramma,
quello semiotico e quello semantico. Le due semiotiche gareggiano tra sé per l’egemonia del significato.
Il surrealismo insiste molto sul rapporto tra testo e immagine. Breton scrive una specie di romanzo
autobiografico corredato di foto, che sostituiscono le descrizioni, nella logica del racconto.
Iconotesto specifico che noi chiamiamo fototesto, perché la foto rispetto all’immagine ha tutta una serie di
Cometa (?), autore che tende a distinguere tra tre macroforme di fototesto:
-l’emblema, un fototesto in cui la costruzione spaziale è sempre la stessa, con titolo, immagine e commento
testuale. Modo di ancorare l’immagine al significato.
-forma di fototesto illustrativo, in cui l’immagine sostituisce una parte di testo;
-forma di fototesto atlantico, quella più libera. Ne sono esempi il collage d’avanguardia, la poesia visiva.
Giustappongono le immagini in modo che essi creino tra loro significati imprevisti. Molto usato dai
surrealisti.
Un immagine è sempre l’oggetto, il soggetto è sempre la scrittura. Il logos è sempre stato visto come un
qualcosa di maschile da mettere al centro.
Nel passaggio dal primo al secondo novecento si consuma un passaggio di atteggiamento, con l’arrivo della
neoavanguardia. Quell’atteggiamento scandaloso ed eroico patetico della prima avanguardia non funziona
più nel secondo novecento. Si modifica anche la riflessione del rapporto tra testo e immagine, con due
movimenti:
- internazionale, poesia concreta. Nasce dal tardo futurismo, con il poeta Carlo Belloli che chiama le sue
composizioni degli anni 40 “poesia visuale”. Questo ci confonde con poesia visiva, ma è importante
ricordare che essa è la poesia contemporanea. Si guarda al carattere delle parole, al font, tipo delle coppie
minime. Facendo occupare al testo una certa posizione io posso costruire una poesia paradossale, da leggere
come se fosse un’immagine. Tutte le poesie concrete sono tautologie, non parlano di sé stesse.
il valore semantico di un’espressione è dato dalla freccia che si crea tra la “e” e la “x” in FEDEX. Fedex non
ha un valore semantico, lo ha quella freccia. La poesia concreta funziona nello stesso modo. Unico dei
movimenti novecenteschi che dà all’immagine una priorità. Costruisce degli iconismi.
-nazionale, poesia visiva. Costruisce degli iconotesti. Avanguardia del 63 nata a Firenze, che si occupò di
questa cosa, Pignotti e Micci fondano il gruppo 70. Intendono proporre poesie tecnologiche, il tentativo di
esercitare della guerriglia semiologica alla pubblicità, egemone in quel periodo. Restituire alla poesia quello
che la pubblicità gli ha rubato.
Esempio del “chi vespa mangia le mele”-
Questi fenomeni possono essere letti come rappresentazioni del modo in cui percepiva la realtà un uomo
immerso nel passaggio culturale del secondo 900.
Le forme di integrazione tra testo e immagine sono conosciute in tantissimi modi diversi, che vanno dalle
versioni illustrate dei libri, fino a interazioni molto più radicali.
Negli ultimi 30 anni il quadro della critica letteraria è stato rivoluzionato dalla rilettura di alcuni studi degli
anni 60, e da una nuova attribuzione di significato:
-il libro di Goodman sui linguaggi dell’arte, dove si ragiona sul fatto che esistono forze e sistemi simbolici
non linguistici, che non assumono il linguaggio come paradigma del significato;
-rilettura della grammatologia di Deridà; le parole possono essere usate non come discorso, ma per rompere
il discorso. Non in funzione verbale, ma in funzione di immagine. Non è eliminabile il modo di significare di
immagini e testi.
-studio di Foucault, fondamentale per il discorso sulle immagini. Esiste un divario tra discorsivo e visibile, e
dipende da questioni di conoscenza.

I cultural studies avvengono negli stati uniti con Mitchell, che scrive negli anni 80 libri legati al rapporto tra
testo e immagine. Comincia anche a teorizzare un nuovo modo di pensare le immagini. Inscrive il suo
ragionamento sul concetto di cultural turn, un passaggio mosso in reazione rispetto al fatto che la linguistica
spieghi tutto; si deve distinguere tra image e fiction. L’immagine incarnata che abbiamo davanti, composta
da vari aspetti, da quella in senso astratto. Nella lingua inglese è chiara questa differenza: image è astratto,
picture è concreto. Picture è image su un supporto processata da un medium. Medium e supporto fanno parte
del cosiddetto dispositivo della visione: tutto ciò che comporre nell’organizzare lo sguardo di un fruitore di
un’immagine. Dunque è certamente il medium, il supporto, ma anche la condizione in cui quell’immagine è
posta.
rapporto tra l’idea di dispositivo della visione in senso tecnico, le immagini in senso generale e infine lo
sguardo in senso storico e culturale: si tratta di trovare i regimi scopici.
Abbiamo sempre diviso i medium tra verbali e visivi: in realtà ogni medium è misto, non ne esiste uno puro
di un tipo. Come fa un romanzo ad essere un medium visto? Intanto, è tale perché la scrittura incide sulla
carta delle forme, a cui noi diamo significato. In più i romanzi sono straordinari depositi di immagini.

LEZIONE 13 – 22/03/23
Da più parti si è cominciato a parlare di studi di cultura visuale, in particolare dagli anni 80 e 90. Si intende
un campo di studi transdisciplinare, cioè ci si arriva da tante discipline diverse (estetica, storia dell’arte,
letteratura, storia e teoria del cinema, comparatistica). Dovrebbe stonare il fatto che si arrivi ad una materia
che riguarda la visiva a partire dalla letteratura, che invece passa da un canale mediatico diverso, quello del
linguaggio. Linguaggio e immagine sono in un rapporto conflittuale e anche complementare nel
rappresentare le gesta degli uomini.
La letteratura è uno straordinario deposito della storia delle immagini, degli sguardi e dei dispositivi della
visione. Gli scrittori naturalmente hanno rappresentato i modi in cui le persone guardano le cose, dunque un
tassello essenziale nella storia millenaria del pensiero.
Dice Jameson che il nostro approccio a ciò che vediamo del passato passa attraverso i testi. Quando studiamo
l’archeologia di un’immagine dobbiamo per forza passare dai testi letterari. Studi di cultura visuale, per
insistere appunto su questo focus.
Questi dipendono da alcuni sconvolgimenti che sono avvenuti negli anni 90, una rivoluzione sensibile della
nostra percezione del mondo. Tre aspetti:
-la circolazione dell’immagine, la cui esplosione è avvenuta negli anni 90, e non ha pari nella storia
dell’umanità;
-la produzione delle immagini, perché le tecnologie con cui oggi siamo in grado di costruire e diffondere
immagini sono assai più immediate e di facile utilizzo rispetto a trent’anni fa;
Questo modifica il nostro modo di utilizzare lo sguardo. Gli studi di cultura visuale studiano il regime
scopico, cioè l’inter tra immagini, sguardi e dispositivi. Ognuno di questi tre grandi oggetti agisce solo
nell’interrelazione con gli altri due. Un dispositivo della visione che non usa immagini non serve, è fermo.
Niente della circolazione di immagini ha senso senza lo sguardo storico e culturale che gli esseri umani
adottano per percepire e incamerare le immagini. Libro di Belting, antropologia dell’immagine: qui egli ci
spiega chiaramente che in realtà la grande sovrabbondanza di produzione dell’immagine della nostra epoca a
livello di immaginario si riassume in poche immagini da noi incamerate e ricordate, perché si deve
distinguere tra immagine a noi esterna e una che specchia ciò che abbiamo inglobato nell’immaginario. Solo
quest’ultima resta in noi, le altre ci scivolano addosso.
Iconofobia della cultura occidentale. Non ci preoccupa mai la diffusione di suoni e testi, ma delle immagini
si. Le immagini ci fanno paura a causa della cultura occidentale dell’iconofobia, legata al ragionamento che
il logos sia portatore di conoscenza, mentre l’immagine sia portatrice di misconoscenza. Questo giustifica il
pensiero che cinema e tv siano arti inferiori rispetto alla letteratura.
Eppure anche guardando un film o una serie noi attiviamo i neuroni, come quando siamo davanti ad un testo.
Questa pessima idea nasce con i simulacri di Platone, che non possono mai condurre alla verità.
Alcune verità non possono essere misurate, come quella di un testo creativo. Non possiamo misurare il grado
di conoscenza che ci dà un romanzo. Se la verità non è solo di ordine misurabile, prevale un’idea di tipo
nichilistico, per cui per alcuni autori non c’è distinzione tra una conoscenza certa e una superstizione.
Gli studi visuali studiano il modo in cui noi umani percepiamo l’immagine, cosa gli viene detto di significare
e come la società vede l’immagine.
Mitchell ci chiede di fare un esperimento mentale. Pensiamo all’immagine come se fosse un soggetto, e non
un oggetto. Come un essere senziente. Cosi modifichiamo il nostro modo di interrogare l’immagine.
Dobbiamo porre all’immagine la domanda che cosa vuoi, non che cosa significhi. Il significato è
appannaggio del testo verbale, l’immagine ne è esclusa.
possiamo sospendere la nostra incredulità fin dal momento in cui si pone la domanda “che cosa vogliono le
immagini?”
Sospensione dell’incredulità è la famosa espressione di Coleridge.
fare questa domanda alle immagini ci potrebbe far cadere in un tipo di nevrosi che è considerata non
conoscenza, come l’animismo o l’idolatria di oggetti; ciò si basa sul fatto che esiste una netta differenza tra
ciò che è o meno considerato portatore di conoscenza.
Esempio del feticismo della merce. La superiorità di un oggetto su un altro è socio-economicamente
determinata, così come il costo di quell’oggetto assomma in sé il suo valore d’uso e il suo valore di scambio.
Il denaro serve per raccordare tutti i valori di scambio dei vari oggetti che hanno anche valore d’uso. È
possibile dunque separare i due valori in un oggetto? Secondo Mitchell non siamo in grado, continuiamo a
percepire come naturali qualità che non lo sono. Dunque non c’è separazione radicale tra l’oggetto che
vogliamo acquistare e noi: c’è interazione dialettica tra soggetto e oggetto.
Normalmente noi nei cultural studies ci poniamo domande sui rapporti di sbilanciamento tra gerarchia e
subalternità. Che cosa vogliono i neri, le donne, gli omosessuali, sono tutte domande di ordine fobico. È
legittimo che rispondano le minoranze e i gruppi subalterni a cui la cultura egemone pone queste questioni.
L’immagine potrà mai rispondere a questa interrogazione?
Continuo lettura di Mitchell. Cercare di scoprire i meccanismi coi quali noi di fronte alle immagini
conserviamo un certo atteggiamento di ordine magico e prescientifico, pre misurabile.
Questo atteggiamento non è confinato solo alle opere d’arte di valore. Anche immagini non famose possono
“avere le gambe”, cioè produrre effetti straordinari ad esempio in una campagna pubblicitaria.
Mitchell applica dei criteri imagologici tra immagini e uomini. Egli considera l’immagine come uno
straniero.
Tutte le battaglie di decostruzione del ruolo delle immagini, come il gruppo 70, non hanno quasi mai vinto:
tali attività sono facili ma anche inefficaci, non cambiano niente.
spostare la domanda dal potere al desiderio, è questo che si fa chiedendo cosa vogliono le immagini. Forse le
immagini non hanno potere, ma hanno un desiderio di potere, perché vorrebbero parlare con la propria voce
e invece non possono.
Mitchell ha scritto un libro in cui parla di come sono culturalmente determinate le immagini dei dinosauri.
Rapporto tra immagine e testo molto importante in un suo libro recente, Image Science, relazione tra
subalternità ed egemonia in questo rapporto. Testo egemone e immagine subalterna. Entrambi cooperano ma
continuano a essere in guerra tra loro nella costruzione della nostra realtà. Essa avviene in due modi:
-imagetext, dove prevale l’utopia della fusione, come gli imagotesti. Essi cercano di rendere qualcosa che è
socialmente determinato.
-image – text, cioè le forme oppositve
Possiamo supporre che tra i due poli ci sia sempre una sorta di X segreta, una frattura che è cicatrizzata dal
nostro modo di vedere la realtà. Noi copriamo questo buco da una sorta di guardiani dell’indicibile,
dell’inimmaginabile. Figure di cui possiamo dire qualcosa, come quella del terrorista, specie nel mondo post
2001. O la figura verbovisiva del virus.
La letteratura è da sempre il luogo di incontro e scontro di immagine e testo.
non vi è differenza essenziale tra testi e immagini, quindi nessun divario da colmare. Questo perché la
narrazione, la descrizione, l’esposizione, sono atti linguistici non specifici di alcun medium.
Dato che tutti i media sono misti, possiamo fare questo esperimento, in cui l’atto linguistico non è proprio di
nessun mezzo espressivo. L’atto è condiviso da tutti i media, anche dalla pittura, dai geroglifici… gli atti
linguistici con cui selezioniamo ciò che è legato al verbale e ciò che è legato all’immagine in realtà sono
legati ad entrambi.
Molti non sono d’accordo con Mitchell su questo punto, tra cui gli storici dell’arte e i teorici del fumetto.
Essi hanno lottato per secoli contro l’egemonia del verbale sul visivo.
tutti questi studiosi derivano le proprie teorie dall’idea lachaniana di realtà: noi si cerca di dare forma a
qualcosa che non è dotato di senso, cioè il reale in sé. Si cerca di dargli una struttura e una gerarchia, anche
se non le hanno. [vedi slide]
posizione del prof: idea che il nostro modo di gerarchizzare la realtà costruisca attraverso image text in
entrambi i modi che abbiamo visto, sia un modo di ordinare qualcosa che è molto più ampio e che di per sé
non ha senso. Noi diamo alla realtà dei significati ma l’ordine dell’immaginario è più ampio di quello del
simbolico, perché noi siamo in grado di vedere cose immaginarie e indicibili. Lo studioso dovrebbe quindi
storicizzare quella ICS che divide image e text, creare una specie di inconologia della letteratura. vedere
come questa x sia stata ricoperta dall’ideologia dominante.
Vedi slide
Image text in senso di relazione può essere studiato attraverso le figure che sottendono alla costruzione del
testo (simboli, metafore, allegorie), oppure studiando le rappresentazioni del testo letterario, degli sguardi,
delle immagini e dei dispositivi.
LEZIONE 14 – 23/03/23
Lo strutturalismo nasce a contatto con la linguistica strutturale e con riflessione che Saussure e i suoi allievi
hanno fatto rispetto alla comunicazione linguistica e narrativa.
(lettura e commento dei capitoli centrali del libro “Figure 3. Discorso del racconto”)
Come funziona il modello comunicativo che sta alla base della comunicazione narrativa?
È un modello che ricaviamo da Genette e che afferma che il modello che sovraintende il modello narrativo
funziona così: c’è un individuo empirico (autore) che scrive un testo; nel testo c’è un atto di enunciazione
(narrazione) svolto da un soggetto linguistico (narratore). Questo atto produce una serie di enunciati narrativi
(racconto); attraverso i racconti noi veniamo a contatto con tutte le altre forme di soggetti e oggetti
linguistici. Solo quando finiamo di leggere gli enunciati narrativo possiamo ricostruirli in un ordine che
chiamiamo storia. La storia è l’organizzazione strutturata e logica degli eventi raccontati dal narratore e
inizia solo quando abbiamo finito di leggere il testo. Il racconto è indirizzato sempre ad una figura linguistica
interna al testo che può essere presente o assente che chiamiamo narratario. Questo narratario è una sorta di
controfigura del lettore empirico; da un punto di vista ontologico abbiamo il mondo reale che interviene,
rispetto al mondo narrativo, solo all’estremità cioè l’autore che scrive, il lettore che legge. Tutti gli altri
soggetti implicati all’interno sono prodotti dal testo, non appartengono al mondo reale ma a quello della
finzione. Ecco perché non ha alcun senso confondere l’autore con il narratore ed ecco perché questo ci pone
un sacco di problemi ogni volta che un autore scrive un testo utilizzando l’io e magari chiama il narratore
con il suo stesso nome; questo confonde i due piani tra loro, confonde i due livelli ontologici diversi.
L’autore scrive un testo, all’interno del testo il narratore produce un racconto, alla fine del racconto noi
deduciamo una storia che è indirizzata ad un narratario attraverso un atto di locuzione. È il lettore che
attivando il testo attiva la storia e gli da significato. Questo ci fa capire che c’è sempre una discrasia tra
racconto e storia: è una discrasia di tempo perché la storia è l’insieme degli eventi narrati in un testo; il
racconto o intreccio è l’enunciato narrativo, il discorso che riferisce la storia cioè anche il modo in cui questa
storia viene organizzata in una sequenza verbale.
C’è una differenza tra storia e racconto che riguarda, in primo luogo, il tempo perché il tempo della storia è
la cronologia degli eventi dei fatti narrati ma nessun racconto dice una storia in un perfetto ordine
cronologico. Il tempo del racconto differisce sempre dal tempo della storia per sostanzialmente tre categorie
diverse, a cui Genette dedica parte del suo lavoro:
- Per ragioni di ordine: ci può essere discordanza tra il modo in cui il racconto dice il contenuto e la
posizione di quel contenuto nella storia.
- Discrasie di durata: un racconto può riassumere in maniera radicale, saltare o dilatare con pause,
ekfrasis, tra la durata del tempo del racconto e la storia. È evidente in alcuni racconti sperimentali
come “Anatomia di un istante”.
- Complesse relazioni di frequenza tra gli eventi della storia e quelli del racconto.
Infatti, il racconto può essere singolativo o interattivo: ad esempio, se dico “stamattina Marco va a scuola” è
un racconto collocato in un unico tempo della storia ma se dico “tutte le mattine Marco va a scuola” questo,
nella storia, è liberato più volte.
Il tempo della narrazione esprime la posizione temporale del narratore rispetto ai fatti che sta raccontando: se
i fatti narrati sono al passato, la posizione del narratore rispetto ai fatti sarà ulteriore cioè il narratore racconta
i fatti dopo che sono avvenuti e dunque usa il passato. Questa è la formula più classica del romanzo
ottocentesco, quello balzacchiano che usa il passato remoto. La questione del passato remoto è spinosa
perché dà l’illusione della possibilità di un tempo simultaneo del narratore rispetto alla storia, cioè quando
utilizza il presente ma sappiamo che il tempo simultaneo è una grande illusione perché quel presente è
sempre un passato perché o si vive o si scrive. Questo effetto che storicamente è irriproducibile, in realtà, i
videoreporter sono in grado di riprodurlo; in tutti gli altri casi, la posizione simultanea del narratore è
comunque ulteriore, si usa il presente storico. Il sistema temporale che utilizziamo all’interno della fruizione
di un testo letterario non è quello della realtà ma è quello della finzione, quello dei personaggi. Per questo
hanno senso frasi come “domani era natale” che nel tempo reale non ha senso.
Il tempo della narrazione può essere intercalato cioè in un romanzo possono convivere posizioni del
narratore diverse, per esempio, posso raccontare pezzi di storia al presente e poi narrare un altro pezzo al
futuro. C’è un’arte in cui il tempo della storia e della narrazione coincidono ed è nel cinema unilineare, senza
montaggio come nel film Sleep o Empire. Questo, in narrativa, non è possibile anche se ci sono alcuni autori
del nouveau roman che imitano questo effetto in alcuni passaggi dove la descrizione di qualcosa cerca di
sovrapporsi al tempo del racconto; abbiamo un effetto per cui quello che leggiamo avviene nello stesso
momento, per esempio, nel romanzo La Mortificazione dove tutto è scritto in seconda persona che amplifica
l’effetto di riconoscimento del personaggio perché questo tu siamo anche noi.
Ci sono anche dei romanzi come La Gelosia di Robbe-Grillet dove ricostruire il tempo della storia è
impossibile, cioè il tempo del racconto è talmente folle che non siamo in grado di collocare le stringhe di
testo in una storia che sia lineare, vediamo riapparire le stesse immagini più volte e quasi allo stesso modo e
quindi non sappiamo quella descrizione in che punto della storia va messa.
Le altre due categorie fondamentali nella comunicazione narrativa, oltre al tempo, sono modo e voce: esiste
un problema di rappresentazione dei personaggi ed un problema di distanza narrativa cioè la posizione da cui
il narratore racconta gli avvenimenti.
Il modo, in Genette, comprende vari aspetti, compreso il punto di vista. Il modo risponde alla domanda chi
vede? Mentre la voce risponde alla domanda chi parla? Raramente questi due coincidono. Se accettiamo
questa riduzione sineddotica possiamo dire che il punto di vista, il modo, secondo Genette è storicamente
declinabile. Il modo può essere:
- Non focalizzato o a focalizzazione 0: quando il narratore ha più consapevolezza di qualsiasi altro
personaggio. Esempio: I promessi sposi.
- Focalizzazione interna: il narratore restringe la sua prospettiva ad uno o più personaggi. Riferisce
solo ciò che un personaggio sa o percepisce. Può essere fissa quando tutta la narrazione è focalizzata
su un personaggio, che nella tradizione francese è detto personaggio riflettente perché è attraverso la
percezione fisica di quel personaggio che noi veniamo a conoscenza di tutti i fatti, oppure può essere
variabile quando salta da un personaggio ad un altro. Esempio: Madame Bovary perché la
focalizzazione interna cambia sempre.
- Focalizzazione esterna: il narratore è meno informato del personaggio. Sono casi limite perché è raro
trovare un romanzo tutto a focalizzazione esterna.
È difficile pensare ad un romanzo con una focalizzazione stabile, a parte quella a focalizzazione 0, quando
c’è una focalizzazione interna è difficile che ci sia l’intento di mantenerla fissa. Henry James finge una
focalizzazione interna, pur essendo non focalizzato il suo racconto, cioè costruisce un personaggio riflettente
di quella scena ma naturalmente questa è una spia che il racconto non è focalizzato perché nessun narratore a
focalizzazione interna sarebbe in grado di pensare questo, se non sapesse più dei personaggi.
La voce risponde alla domanda chi parla? Ma esprime contemporaneamente due aspetti diversi tra loro:
- Il livello diegetico del narratore: ogni narrazione viene iniziata da un narratore; questo narratore è
SEMPRE un narratore extradiegetico perché questo narratore crea il mondo finzionale in cui
avverranno gli eventi. Una volta creato questo mondo, questo narratore, può cedere la narrazione ad
altri narratori (I,II,III,IV grado). Tutti i narratori intradiegetici che incontriamo dipendono
concettualmente tutti dal narratore extradiegetico perché è lui che ha creato il mondo di cui si parla.
La voce in questo senso esprime solo il grado del narratore rispetto al mondo finzionale. Qui,
Genette, fa un errore terminologico perché indica con diegetico qualcosa che non è diegetico,
piuttosto qui la questione ha a che fare con lo storico, con il mondo finzionale e la sua costruzione.
- La presenza o assenza del narratore rispetto alla storia: se la narrazione è raccontata in prima persona
il narratore è omodiegetico perché è un personaggio della storia; se il narratore narra in terza persona
ed è assente dalla storia è eterodiegetico. Il diegetico ha a che fare solo con la storia cioè è dentro o
fuori la storia?
Il primo narratore della storia è sempre extradiegetico e può decidere di narrare in maniera omo o
eterodiegetica.
Robbe-Grillet gioca su un rapporto tra voce e mondo perché il romanzo, la Jalousie, apparentemente presenta
un narratore extra ed eterodiegetico e racconta con focalizzazione esterna; quindi, un narratore eterodiegetico
che sa meno dei personaggi di cui parla. Leggendo il testo, vediamo che questo narratore è omodiegetico e
racconta a focalizzazione interna. È un paradosso narratologico perché da un lato vuole punzecchiare la
critica e dall’altro vuole mostrare l’effetto della gelosia, perché la gelosia clinicamente è la costruzione di un
mondo idilliaco da cui il soggetto è escluso. Essendo il narratore eterodiegetico o omodiegetico, il mondo lo
sta costruendo lui perché è clinicamente pazzo. L’oggettivazione che questo paradosso narrativo ci porta ci
confonde facendoci crede che veramente i due siano amanti.
Questo romanzo simula perfettamente la narrazione cinematografica perché lì non possiamo mai essere del
tutto omodiegetici, nessun narratore nel cinema è omodiegetico perché c’è sempre un’altra persona che
sovraintende la narrazione che i teorici del cinema chiamano mega narratore finto e che fa sì che la mostra e
la narrazione convergano in un'unica figura. Però anche se la narrazione cinematografica sembra quasi
sempre a focalizzazione esterna, in realtà possiamo adottare una focalizzazione interna anche fissa.
Apparentemente sembra esterna perché seguiamo la vita dei personaggi senza saperne nulla.
Robbe-Grillet non ci mostra mai il pensiero del narratore, ce lo mostra con i fatti, con gli eventi ma mai il
pensiero interno. Questo è uno dei marker tipici della finzione del romanzo; ogni volta che vediamo che un
personaggio pensa, trasparent mind, che abbiamo accesso alla sua mente, il testo è finzionale. Non esistono
dei testi fattuali in grado di aprirci la mente di un personaggio, solo di un testo finzionale possiamo sapere
cosa pensa un personaggio. Nella narrazione storica, ci sono dei casi in cui lo storico dice ciò che il
personaggio pensa ma lo deve determinare a livello storico mentre nella narrativa si può dire liberamente ma
rende il personaggio finzionale.
Il tempo risponde alla domanda quando? E riguarda:
- Il tempo della storia: la cronologia dei fatti.
- Il tempo del racconto che differisce dal tempo della storia per questioni di ordine, durata e frequenza.
- Il tempo della narrazione che può essere ulteriore, anteriore, simultaneo o intercalato (il narratore
può assumere posizioni diverse dal tempo della storia a secondo del momento o raccontare un pezzo
della storia in maniera ulteriore e uno in maniera simultanea, ad esempio, nel Serpente di Malerba
tutto il racconto è narrato in maniera ulteriore ma l’ultimo capitolo è in maniera simultanea).
Ne “L’ultimo uomo” di Mary Shelley c’è un’introduzione in cui il personaggio ritrova, in una grotta, una
serie di foglie attraverso cui viene a sapere gli eventi che avverranno in futuro. Eppure, quel narratore
extradiegetico e che ha una posizione anteriore, cede il suo atto di enunciazione ad un narratore
intradiegetico che narra in maniera ulteriore la storia perché nel sistema di riferimento, nei personaggi della
storia di secondo grado, quegli avvenimenti sono già successi. Nel mondo del primo narratore quegli eventi
devono ancora succedere ma nel mondo del secondo narratore sono già successi.
Come si fa a registrare innovazione, conservazione, reazione rispetto al sistema letterario?
Si deve fare a partire dalla differenza tra un’opera e un sistema di significato, esattamente come, nella
linguistica, il significato di un termine è dato dalla differenze di quel termine con gli altri.
Questo modo di intendere la letteratura è antico e dà importanza a testi che, oggi, non ne hanno più per
esempio a tutta la narrativa e poesia di avanguardia perché in quei testi si registrava il distacco da tutte le
convenzioni di quei tempi; quelle opere venivano considerate più nuove rispetto a chi seguiva il sistema.
Genette non nasconde che nel costruire questo sistema ha incontrato un sacco di difficoltà e ha preferito non
forzare le sue categorie per spiegarle ma dilatarle ovvero creare una categoria per creare un fenomeno che
non rientrava nel sistema. D’altra parte rivendica questo approccio perché non si può stabile la qualità di un
testo se non con strumentazione che determinano la possibilità di scegliere tra progressione e regressione, tra
l’evoluzione e reazione; l’unico modo di farlo e confrontare un testo con il sistema che lo rappresenta. Da
cosa acquisisce importanza un testo? (POSSIBILE DOMANDA ESAME).
Non certo dalla realtà extra letteraria, secondo Genette, ma secondo la realtà interna alla storia letteraria. Ad
esempio, il nome della rosa è stato letto da molti seguendo input extra letterari ma leggendolo senza questi
input è un romanzo ambientato nel Medioevo, pieno di pathos come potrebbe essere un romanzo di Dan
Brown. Diventa un capolavoro nel momento in cui consideriamo i rapporti che intesse con la tradizione
letteraria, cioè l’ironica capacità di entrare in dialogo con la letteratura precedente che è sia la grande
letteratura classica ma è anche la capacità di entrare in dialogo con la tradizione popolare. Solo una lettura
letterario centrica ne rende la qualità, solo i rapporti con gli altri testi riescono a distinguere un capolavoro.
Qualsiasi cosa venga processata in una trama da uno scrittore in qualche modo è finzione; il termine
finzione, nell’origine semantica, ha in sé l’idea di mettere in trama, tutto ciò che è messo in trama è finzione.
Così come non è dalla verifica della fattualità che un testo finzionale, un testo letterario trae la sua qualità ma
è anche vero che possiamo operare in senso contrario, come ad esempio fanno i fratelli Coen nei loro film,
dove, per giustificare il realismo di eventi inverosimili, scrivono all’inizio del film che tutti gli eventi
presenti sono realmente accaduti. L’attenzione dello spettatore si modifica perché crede che si trattino di
eventi reali ma non è vero, quella scritta è una finzione. Ad esempio, quando Carrere scrive L’avversario,
romanzo francese basato su una storia realmente accaduta, sa che se si fosse trattato di romanzo finzionale
non avrebbe avuto lo stesso successo; è una occasione incredibile, per il narratore, raccontare una storia
incredibile accaduta realmente. Carrere ha fatto della scrittura non finzionale il suo campo d’azione e, quindi,
racconta questa storia incredibile in maniera non finzionale.
È un romanzo scorretto per quanto riguarda il rapporto con il pubblico perché Carrere sa che il romanzo avrà
successo nel mercato ma è raccontato problematizzando non tanto e non solo il personaggio principale ma
problematizzando il rapporto tra Carrere stesso, cioè la percezione dell’io che quasi scavalca le vicende
storiche. Non è la cronaca degli eventi giudiziari del protagonista ma, diventa importante, nel momento in
cui si pone come grande interrogativo sul bene e il male, sul giusto e sbagliato, sulla finzione e sulla
menzogna.

LEZIONE 15 – 24/03/23
Per quanto riguarda il testo poetico, ad oggi, non esiste uno strumento unico in grado di analizzare, dal punto
di vista teorico, il testo poetico. Prima dell’800, il termine poesia, riassumeva l’intero sistema letterario; tutte
le opere letterarie composte da un insieme di parole e a livello estetico erano dette poesia. La poesia come
discorso scritto in versi, nel mondo antico e medievale, comprendeva generi diversi: poesia epica che fonda
la tradizione occidentale e che arriva fino alla tradizione cavalleresca; la poesia drammatica perché il teatro
fino all’800 è scritto in versi; esistono generi che, ad oggi, sono scomparsi come l’allegoria medioevale, la
poesia religiosa, la poesia didascalica (di contenuto scientifico).
C’è una lunga tradizione di poesia satirica che tenta di colpire gli intenti di uomini e donne; anche questa
tradizione è semi interrotta già dal 500/600 un po' per la pressione di altri generi in prosa esercitano su
questo modo di agire perché in fondo descrivono dei modi della modernità: ognuno delle modalità delle
espressioni poetiche corrispondeva un certo uso del verso; l’uso dei versi specifici o di strutturo prosodiche
specifiche destinate ad ogni genere. Si conserva qualcosa di profondo di questo sistema, quasi una specie di
sostrato di tensione epica, drammatica, religiosa che non descrivono delle regole specifiche ma che possiamo
ritrovare nei due generi egemoni della modernità: romanzo e poesia antica. Diventano dei modi, cioè questi
due macrogeneri che riassumono tutta la produzione contemporanea, hanno assorbito queste dimensioni
intenzionali. A metà del 500, l’idea di scrivere versi di argomento scientifico o storico inizia ad essere
respinta e la frattura romantica fa riscrivere i parametri.
Nel corso dell’800 succede che uno dei modi poetici, quello lirico, si espande e si sovrappone con forza
all’idea stessa di poesia tanto che oggi quando pensiamo a poesia la ricolleghiamo a quella lirica.
Mentre il mondo va verso il dominio della prosa, la lirica si è ritagliata una nicchia di resistenza sia dal punto
di vista estetico che commerciale, il poeta lirico assumendo una certa postura oppositiva ai meccanismi della
società si è separato dal corpo sociale ma ha conservato le funzioni della poesia.
La postura del poeta asociale, che vive nel suo mondo è un’idea moderna; se si pensa al poeta dell’arcadia ha
tutta un’altra postura, è un poeta sociale che si trova nella natura a scrivere versi, è un contesto di
socializzazione della poetica invece il poeta lirico romantico è un poeta che si rinchiude in una nicchia di
resistenza e rifiuta i meccanismi con cui la società moderna funziona. In qualche modo, la poesia lirica è una
forma residuale di un mondo antico, vuol far credere ai lettori che il peota lirico sfocia in questa forma
residuale ma, in realtà, noi sappiamo che non è proprio vero, che alcuni grandi poeti moderni sono anche dei
geni commerciali. L’immagine stereotipica che abbiamo è quella di un uomo dissociato e in lotta con la
società. La poesia incarna la funzione ontologica di contestazione dell’ordine ideologico dominante e sceglie
la separatezza come criterio qualificante. Secondo Guido Mazzone questo dipende essenzialmente da due
trasformazioni:
- dal lato del contenuto l’ingresso dell’io empirico in poesia
- dal lato della forma la liberazione del talento individuale
la poesia moderna è legata a degli sconvolgimenti sociali, cioè all’idea che il mondo moderno sia l’individuo
e che quindi la qualità del poeta sia il talento individuale, cosa che non è nel mondo precedente alla
Rivoluzione francese; anche nelle epoche passate si riconosce il talento del poeta ma è strutturato
socialmente non a livello di individuo perché la poesia ha una funzione pubblica mentre con la rivoluzione
francese la poesia perde la sua funzione pubblica e guadagna la libertà di contenuto (che nasce prima della
libertà formale) e stilistica che avviene progressivamente con una serie di innovazione e che provocano il
crollo del sistema antico, insieme al romanzo moderno; il romanzo moderno gli attacca da un lato perché
parla in maniera seria di persone comuni, distruggendo la separazione degli stili, tipica dell’umanesimo.
Dall’altro lato, la poesia moderna incanala dei contenuti imprevisti e distruggi gli antichi meccanismi con cui
il verso veniva costruito.
La storia della metrica occidentale, romanza è del tutto creativa perché noi sappiamo che nel mondo greco e
latino la struttura prosodica era data dalla durata delle vocali; già Sant’Agostino, nel de Musica, dice che non
sente più la differenza tra vocali. Questo è un problema perché i poeti continua a scrivere copiando le regole
del mondo classico ma non sentendole più, travisando più una cosa con un’altra. Da quel sistema dipende la
nostra capacità di mettere in versi la lingua volgare, dipende lo spostamento di attenzione, nel mondo
romanzo, sul sistema sillabico che provoca problemi perché, nella metrica romanza, ci sono delle posizioni e
le sillabe e raramente riescono a coincidere bene. Questo è un fenomeno che crea una serie di casi particolari
accettati dalla nostra prosodia.
Il testo poetico può essere diviso in strati:
- fonologico che è quello più superficiale che non ha significato autonomo ed è legato alla
corrispondenza dei suoni che legano le parole e ripetono gli stessi suoni. Esempio: la rima.
- Ritmico: è l’organizzazione del testo poetico ed esercita una funzione musicale combinatoria. Il
metro è il principio di strutturazione formale che si configura come non prosa nel testo.
- Sintattico: cioè l’ordine delle parole che in poesia è portatore di un marker semantico perché lo
spostamento di parola conferisce un significato diverso.
- Profondo dei significati simbolici, antropologici.
Etimologicamente, il termine prosa è esattamente l’opposto del verso perché la prosa significa qualcosa che
va avanti diritto senza errori, mentre il verso indica l’idea di un tornare indietro e quindi la logica della
ripetizione e trasformazione.
il verso, dunque, è una ripetizione che vale sotto vari aspetti diversi: ripetizione di tipo metrico, strofico,
fonica; spesso c’è anche una ripetizione a livello contenutistico. I neuroscienziati hanno studiato la differenza
di approccio che un lettore comune ha rispetto a un testo narrativo e poetico e hanno verificato,
sperimentalmente, che mentre in un testo narrativo procediamo con una lettura lineare e ci permette di stabile
progressivamente il senso di quello che stiamo leggendo, la lettura dei testi poetici è fatta spesso di salti e
differenze, cioè tendiamo a leggere una poesia saltando alcuni passaggi e ritornandoci dopo secondo
meccanismi di reiterazione del verso.
La metrica italiana si basa sul conto delle sillabe e questo crea un conflitto tra la posizione strutturale del
sistema prosodico e invece la posizione degli accenti. Ad esempio: il lettore moderno che non è chiamato a
performare il pubblico, all’interno della poesia ha delle scelte di fronte a sé su come leggere un certo testo,
qualsiasi spezzatura ci costringe a rispettare la lingua o la metrica.
Nel sistema poetico italiano esistono delle figure metriche che ricorrono e che prendono particolare
attenzione: l’opposizione tra sineresi e dieresi e quella tra sinalefe e dialefe; ci sono delle regole che regolano
il sistema poetico e si trovano nel rapporto tra gli ictus maggiori del verso e gli accenti minori perché noi
siamo abituati a pensare che l’endecasillabo è un verso di 11 piedi ma nella struttura classica di quel verso
l’endecasillabo ha delle regole precise di costruzione e presenta dopo il quinto o il settimo un ictus. Questo fa
si che le regole legate a sineresi, dieresi, sinalefe, dialefe siano legate alla posizione dell’ictus e nella
costruzione dell’endecasillabo ha delle strutture precise. Tra le figure di suono, nella nostra tradizione
medievale, la rima è ricorrente; ha molte funzioni, principalmente ha una funzione demarcativa perché
contribuisce a sottolineare e concludere l’unità metrica; ha una funzione strutturante perché il ricorrere di
posizioni obbligate concorre a definire l’unità strutturale di movimenti distopici e nella modernità si ha una
progressiva perdita strutturale; funzione associativo-ritmica che stabilisce un rapporto semantico tra unità
che rimano tra loro. Il verso tradizionale, in Italia, è organizzato secondo endecasillabo, settenario e quinario
e ci sono usi di novenari, decasillabo e ottonari e casi particolari di usi come il senario.
Il novenario è un verso tipicamente utilizzato in componimenti giullareschi nel corso del medioevo mentre il
decasillabo è utilizzato riprendendo la poesia francese ad esempio il Manzoni poeta o per narrazioni di
poesia epica. Nel mondo moderno, a partire dall’800, si parla di verso libero; con questa espressione si
intendono diverse cose: intanto, nel sistema antico dei generi, si comincia a sperimentare la poesia in prosa
cioè a trasferire invenzioni poetiche in lirica in un contesto che sembra appartenere a generi diversi ma
soprattutto si comincia a pensare che si possa scrivere poesia facendo uso di versi che non rispettano le
norme di versificazione ma questo avviene in maniera diversa perché un conto è rompere la struttura
isosillabica, che già a partire del 500 viene messa in dubbio dall’uso dell’endecasillabo sciolto.
Con verso libero si può intendere o il mancato rispetto dell’isosillabismo o il mancato rispetto della
costruzione del verso. Ad esempio il Pasolini delle Cenere di Gramsci utilizza degli endecasillabi che sono
tutti imperfetti volontariamente.
Per questo, Pier Vincenzo Mengaldo, ha spiegato che esiste uno spazio intermedio tra verso libero
novecentesco e verso tradizionale, cioè c’è rispetto tra la costruzione del verso ma non c’è più rispetto della
costruzione strofica e strutturale dei sistemi prosodici tradizionali; c’è una perdita della struttura strutturale
della rima e una mancanza di isosillabismo. In realtà, Puccini in Italia ed altri poeti in Francia, che per primi
usarono modi non isosillabici e sistemi del verso confusi da un punto di vista di strutture, furono considerati
primitivi cioè ricorrono a strutture rimiche antiche come fa Leon Battista Alberti, costruiscono il ritmo
dell’esametro latino o con Carducci che utilizza la metrica barbara senza rime.
La versificazione francese è sillabica come quella italiana e presta a quella italiana una serie di modelli; il
verso famoso utilizzato è quello alessandrino composto o da due senari o da dispari. Il secondo verso più
importante è il decasillabo che è il nostro endecasillabo perché le posizioni che occupano le sillabe toniche
sono le stesse con la differenza che normalmente il francese ha un uscita maschile, ha un accento tonico in
fondo alla parola cosa che non succede in italiano dove c’è una prevalenza di parole piane. Di fatto
decasillabo ed endecasillabo occupano le stesse posizioni, pur contando sillabe numericamente diverse.
L’ottonario, settenario e senario vengono utilizzati raramente come metri semplici, molto spesso come versi
doppi; l’ottonario viene utilizzato per poesia musicata.
L’alessandrino deve il suo nome ad un’opera importante e, a partire dal 600, si è imposto come verso
egemone. È interessante il fatto che è storicamente diviso in misure con un ictus sulla sesta sillaba; se la
divisione cade su una parola con desinenza femminile, la sillaba post tonica viene contata nella misura
successiva. Alla fine, abbiamo due modi di fare l’alessandrino:
- 6 sillabe+ictus+6sillabe divise in 3+ 3
- Alessandrino trittico di tradizione romantica che divide il verso in 4+4+4 e che non presenta il
classico ictus.
Altri sistemi di versificazione gerarchizzano il verso in maniera diversa come ad esempio la tradizione
inglese che è accentuale e non sillabica, il ritmo più utilizzato è quello giambico. Il metro principale più
utilizzato è il pentametro giambico che ha una larghissima varietà di impiego.
Il distico eroico è formato da una coppia di pentametri giambici ed è utilizzato nella poesia epica.
Nella nostra versificazione la struttura più complessa e nobile è la canzone: è un genere che deriva da una
formalizzazione che Petrarca da ad un genere già esistente; è formato da una fronte di due piedi, che possono
diventare anche quattro, e da una sirma. Tra fronte e sirma può esserci un verso che li collega o no che si
chiama chiave. La canzone si conclude sempre con una strofa più breve.
La canzone petrarchesca, nel corso dei secoli, ha subito varie trasformazioni; Leopardi è stato un grande
trasformatore ed ha utilizzato un sistema molto più libero che non prevedeva più simmetria tra strofa e strofa;
invece, chiamiamo canzonetta una canzone molto più breve e di argomento meno illustre.
Gli argomenti illustri per la canzone sono gli argomenti civili.
Il sonetto, nato con Iacopo da Lentini, è formato da due quartine e due terzine ed utilizzato nel corso del 900,
spesso in maniera ironica, come forma anche metricamente da replicare. Ad esempio, i sonetti si Zanzotto e
Sanguineti: Zanzotto scrive sonetti seri mentre Sanguineti no.
Il sonetto inglese non c’entra nulla con quello italiano, ha sempre 14 versi ma divisi in maniera diversa.
La ballata è considerata l’antenata della canzone moderna per avere la ripresa del ritornello cantato dal coro
mentre la strofa è cantata dal solista. La ballata non ha avuto successo nella modernità anche se questo
riferimento alla canzone moderna ci dovrebbe indurre a pensare che la poesia è tante cose e siamo figli di
una tradizione lirica non musicata nata dalla Scuola siciliana. La poesia provenzale è invece musicata.
Il madrigale che è un verso andato di moda nel XV sec. e un’importanza laterale, diversa da quella lirica, ce
l’ha l’ottava perché è il verso che Boccaccio usa in molte opere importanti ma è anche il metro della
tradizione cavalleresca.
Sestina lirica è una forma chiusa della tradizione provenzale, utilizzata da Dante a Petrarca nel medioevo
umanesimo e sfrutta la presenza di parole in rima che si presentano in ogni strofa. Nel 900 c’è una ripresa
con Fortini o Ungaretti in un componimento della Terra promessa.
La terzina, nata con Dante, ripreso e utilizzato spesso nel 900 nei poemetti narrativi con Pasolini.
L’esempio più importante della sintassi è l’enjambement
La tradizione lirica da sempre indica la propria specificità dal fatto che l’enunciazione è sovraintesa dal
lettore, questo io cambia nel corso dei secoli; prima di essere l’io idiosincratico, individuale, ha una funzione
sociale condivisa per molti secoli; non è l’io che abbiamo adesso. È chiaro che l’io poetico non coincide con
l’autore in carne ed ossa ma, rispetto ad un testo narrativo, la sovrapposizione tra io poetico ed autore è più
facile da incamerare. Ad esempio, l’io di Ungaretti in Vita di un uomo è l’autore stesso.
La poesia lirica non può essere considerato un genere finzionale perché le asserzioni fatte dalla struttura della
poesia lirica sono sul mondo reale e non sul mondo costruito. Questo si può vedere tra Petrarca e Leopardi
perché se si legge l’Infinito si nota che l’utilizzo dei deittici nella poesia è particolare e diverso dalla
tradizione, tende ad assolutizzare l’io empirico e il mondo che ha davanti agli occhi, cosa che non succede in
Petrarca.
È molto difficile, nella poesia lirica, separare un atto di enunciazione finzionale da uno che finzionale non è.
Questa è l’idea di Jakobson che la poesia non può essere tradotta.
Normalmente la storia letteraria distingue nell’attività di analisi di una poesia, l’atto di denotazione da quello
di connotazione perché bisogna sempre denotare da dove nasce questa poesia.
LEZIONE 16 – 29/03/23
Cominciamo a parlare della parte monografica.
Premesse:
-il problema della finzionalità può essere affrontato da moltissime prospettive diverse, quindi non ci deve
sorprendere una varietà di posizioni. Una viene dalla filosofia analitica, una dalla critica letteraria e una dalla
narratologia e dall’idea che si possa sempre separare una frontiera da un’altra attraverso un’analisi del testo;
-esistono molti problemi di ordine terminologico e tassonomico, e sono problemi complicati dal fatto che la
critica non è affatto concorde nell’uso di questi termini, perciò oi adottiamo una terminologia che speriamo
essere il più precisa possibile, ma è normale trovare oscillazioni anche nei saggi. Perché si può definire un
oggetto fiction o in altro modo?
-la posizione del prof su questo argomento non è neutrale, ma essendosi occupato più volte di queste cose,
lui ha una posizione abbastanza di parte
-il problema della finzionalità riguarda moltissime attività umane, non solo letteratura e arti, bensì tutte
quelle arti definite rappresentazionali (libro Mimesis, come far finta, Marco Nanni edizione italiana, autore
Worton?)
Secondo lui è normale avere dei supporti con i quali immaginare cose, specie nello spazio del gioco (usare
un manico di scopa fingendo che sia un cavallo, un legno funge da spada, e ci comportiamo come se questi
oggetti fossero, nello spazio della finzione, ciò che immaginiamo). Sappiamo bene che quel pezzo di legno
non è una spada, però le asserzioni mosse in regime di finzionalità non riguardano il rapporto tra vero e falso
del mondo reale, ma inscrivono questo rapporto a parte. Nello spazio del gioco se colpisco un drago con quel
legno, lo uccido; nel mondo reale, in realtà non succede niente. La finzione è quindi “come fare finta che”.
Per ragioni di competenza ci occuperemo solo di finzioni letterarie e narrative, selezioniamo un pezzetto di
queste arti rappresentazionali. Ci concentreremo solo su finzioni occidentali, benché Lavocat insista sul fatto
che la finzione non sia appannaggio solo della cultura occidentale. È qualcosa di legato al modo in cui gli
uomini si rappresentano, indipendentemente dal tempo e dallo spazio. È qualcosa di transculturale.
Che cos’è la finzione? È quasi impossibile rispondere a questa domanda.
Fingere in latino ha 3 significati:
-dare forma, intramare
-immaginare
-mentire
La prima accezione è molto depressa nella nostra cultura, mentre le altre due si contaminano spesso tra loro,
e nel senso comune spesso coincidono, anche se in maniera del tutto errata. Una storia del tutto inventata,
secondo questo pensiero, racconta il falso, dunque non è utile alla vita: in realtà questo luogo comune è
sbagliato, perché anche le cose “finte” possono insegnarci qualcosa sul mondo.
Queste due accezioni sono spesso in conflitto e ci impediscono di comprendere appieno le potenzialità
dell’immaginazione. Questo perché viviamo in un’epoca particolare, in cui l’immaginazione è considerata
una facoltà non utile o poco utile, se non nei processi creativi delle grandi aziende.
La scienza moderna ha radicalizzato il processo esperienziale. L’esperienza è diventata misurabile, con la
stessa logica del metodo galileiano. Questo nega la funzione storica dell’esperienza e di conseguenza anche
dell’immaginazione.
Quindi la nostra prima difficoltà nell’immaginare cosa è fiction sta nel dover separare ciò che è finzionale da
ciò che è falso. Sembra una banalità ma non lo è affatto, tanto che la preferenza di lettori e autori va verso
prodotti che hanno qualcosa di fattuale.
Fame di realtà è il titolo di un libro di David ?, che è una raccolta non creativa di citazioni tratte da altri
autori. Shiltz riprende frasi, concetti e asserzioni di molti scrittori, e le riporta nel testo citando a malapena le
fonti.
La differenza tra vero, falso e finto è qualcosa su cui gli storici ragionano da molto tempo, come ci dimostra
l’opera di Ginzburg che si interroga sul dominio della verità e si chiama proprio “vero falso finto”.
La capacità di fingere è primaria nell’essere umano. I personaggi di un romanzo sono da pensare come
supporti che producono realtà fittizie in contesti precisi e di principi generativi, che chiamiamo regole.
Questo è un primo modo di distinguere la finzione da ciò che non è finzione. Questa distinzione risiede solo
nella volontà di chi produce quell’oggetto, cioè non può essere distinta da caratteristiche interne al prodotto
stesso, ma solo dalla volontà di chi produce. Il bambino che gioca è l’unico responsabile della creazione di
un mondo immaginario in cui con alcuni supporti si inventa un mondo fittizio. Ma le regole interne del gioco
dipendono solo dalla sua volontà, non dall’analisi del gioco in sé.
La differenza tra fiction e non fiction non dipende dal fatto che un evento esista o meno nella realtà, ma dal
nostro desiderio: stiamo usando strumenti per far finta che oppure no? Se la risposta è sì, potremmo anche
raccontare tutti fatti realmente accaduti, ma il nostro testo sarebbe comunque di finzione. Potrebbe accadere,
per paradosso, l’opposto: un trattato storico completamente sbagliato è comunque asserzione di realtà.
Il prof non crede a questa posizione.
Lo scopo del far finta non è quello di farci credere che una proposizione sul mondo sia vera, ma che sia finta.

Mentre la fiction giustifica se stessa con le proprie asserzioni, la non – fiction ha bisogno di un criterio di
verità e falsità esterno a se stesso. Ad esempio un’opera storiografica: possiamo misurare le asserzioni di
verità in base a ciò che scopriamo sull’argomento che è trattato.
Dire che una cosa è vera in un mondo di finzione non significa che questa cosa sia vera nel mondo di realtà:
questo è un punto focale.
Non è possibile separare in modo radicale la storiografia dal mondo di finzione, per molti critici; Ginzburg
invece non crede che ci sia confusione tra questi modi di espressione. Questo perché lo storico deve sempre
giustificare le proprie asserzioni, mentre ciò non è appannaggio dello scrittore.
Che cos’è la letteratura e qual è lo spazio della letteratura rispetto alla costruzione del mondo?
Noi sappiamo che la parola finzione indica solo molto tardi, alle soglie del 900, i prodotti
dell’immaginazione. Noi chiamiamo finzione un romanzo, sul modello anglosassone, ma l’opposizione tra
ciò che chiamiamo finzione e altre tipologie di enunciazione narrativa esiste da sempre; gli antichi non
chiamavano fiction e storiografia i due tipi di testi, ma conoscevano la frontiera tra essi; questa conoscenza
c’è da Aristotele in poi, dalla sua poetica. Egli oppone tra loro la narrazione di fatti realmente accaduti e il
racconto di ciò che sarebbe potuto succedere. Per Aristotele, la specificità della poesia, cioè la capacità di
usare il linguaggio come strumento di produzione, indica nella mimesis (nella simulazione di eventi
immaginari) l’oggetto specifico dell’attività che è al centro dell’analisi narrativa. Il linguaggio è uno
strumento di comunicazione e azione, ma è anche simulazione, riferito al linguaggio stesso. Esso produce
qualcosa, non è legato a dire qualcosa che gli pre-esiste.
Aristotele dice: la storia rappresenta il particolare e la poesia l’universale. Questo significa che una cosa, per
essere accaduta, per essere fatto, deve essere riferita a qualcuno o a qualcosa di specifico. Mentre la poesia
parla di un tipo, imita una certa qualità di un uomo, sia uomini migliori di noi sia peggiori di noi, dunque il
valore di questa imitazione vale per tutti. Edipo ad esempio vale per tutti gli uomini, non solo per il suo
personaggio.
L’idea che Aristotele ha della storia è l’idea della cronaca, cioè l’esposizione in ordine cronologico di eventi.

Gli eventi del mondo reale hanno una fabula che non dipende da come i fatti vengono messi in intreccio.
Invece il poeta non può fare questo, perché la fabula non pre-esiste l’intreccio, è l’intreccio che crea la
fabula. La storia parla di fatti accaduti, mentre la poesia ci dice i fatti come potrebbero o come sarebbero
potuti accadere. La differenza si gioca nell’idea di verosimiglianza e necessità, il poeta è costretto per la
logica del proprio lavoro a pensare i fatti in una maniera consequenziale e coerente, mentre la storia non è
così: è il modello cronologico a giustificare l’ordine dei fatti di per sé. La poesia inoltre vale per tutti gli
uomini di una certa natura, non solo per il protagonista di una specifica opera. Questa cosa viene invece
negata dal romanzo moderno, che riferisce nominalmente la vita di una sola persona, che è considerata unica
ed esclusiva, anche se questa persona è inutile e insignificante. Questa cosa nel mondo antico non era
possibile, perché le persone facevano parte di tipologie.
Se tutto ciò è vero, allora non ci può essere finzione per mezzo del linguaggio, se esso non diventa utile a
inventare storie o a trasmettere storie da inventare. Il linguaggio è creativo, è poesia e la costruisce quando si
mette al servizio della finzione. Dice Genette, per questo la maniera più logica di tradurre la mimesis
aristotelica è con la fiction. Il poeta deve essere facitore di racconti, in quanto poeta rispetto all’imitazione,
ed egli imita le azioni.
Mimesis aristotelica e fiction moderna: secondo genette, possiamo sovrapporre i due significati, sono la
stessa cosa, perché il linguaggio diventa creativo (nel senso che crea qualcosa) solo se diventa utile a
inventare storie o a trasmettere storie già inventate.
Questa distinzione è anche troppo radicale, infatti nella modernità, Genette e altri autori la riprendono da
Aristotele, ma già dalla seconda sofistica si comincia a distinguere due tipi di finzione, e anche delle
modalità in cui la finzione può essere incasellata. Per esempio in Cicerone e Quintiliano c’è la differenza tra
la storia (fatti reali), la favola (fatti inventati) e l’argomentum (fatti possibili e non accertati).
Si costruiscono anche le due idee di finzione: una volta ad ingannare, cioè la menzogna, e quella non
destinata all’inganno, ma alla simulazione (quella aristotelica), che i greci chiamano (plasma?). due
accezioni diverse.
L’idea di finzione è molto legata alla nostra idea di letterarietà. Siamo indotti a pensare che un testo
finzionale sia sempre letterario, e che un testo non finzionale non sia mai letterario. La letterarietà è un
concetto legato alla condizione di finzione e di non finzione, cosa assolutamente non vera.

LEZIONE 17 – 31/03/23
E’ molto difficile associare la questione della finzione a quella che non va più di moda nel mondo attuale,
cioè il concetto di letterarietà. C’è qualcosa che distingue un’opera letteraria da ciò che non è letteratura?
Genette mette in relazione il concetto di finzionalità con quello stesso di letterarietà, perché parte da
un’analisi dell’opera che fonda la nostra tradizione, cioè sempre la poetica di Aristotele. Per lui è condizione
necessaria al fatto letterario la mimesis, la fiction di Genette. Per lui la letterarietà di un’opera è data dalla
sua finzione, e non dalla sua qualità stilistica e formale. È quindi qualcosa che è relativo ai contenuti di
un’opera, non la sua forma.
genette pone tre diversi problemi relativi a questo discorso:
-il primo è sul rapporto tra finzione e letterarietà
-posizione della lirica rispetto al sistema dei generi, perché questo genere non è presente nella teoria di
Aristotele, e questo crea problemi nella modernità, specie nel mondo romanzo, dopo la pubblicazione del
canzoniere di Petrarca. Infatti molti studiosi non sapevano come collocare quest’opera nel sistema
aristotelico, anche sene riconoscono la grandezza e la necessità di farla diventare canone. È dal romanzo
moderno che questo sistema cade nell’oblio. La posizione della lirica radicalizza l’idea di finzione, a partire
dal 500: noi avremo da una parte la finzione, dall’altra un tipo di letteratura che lo è senz’altro, ma che non è
finzione. È possibile perché esiste un altro modo di attribuire letterarietà ad un testo, che non riguarda lo
statuto della finzione, ma la sua forma.
-il terzo punto riguarda gli indicatori di finzionalità, perché se noi siamo in grado di stabilire una frontiera tra
racconto finzionale e non, essa deve essere segnalata da questioni interne al testo. Non può essere legata solo
all’intenzionalità.
Sul primo punto, Genette ci spinge a chiederci se l’appartenenza al canone riguardi questioni tematiche o
solo questioni formali. Il discorso sul Metodo di Galileo viene spesso studiato come letteratura, nonostante
non ci siano indicatori di finzionalità. Eppure ci interessa il suo stile, che ci fa ragionare sul concetto di
letterarietà in modo non matematico, ma condizionale rispetto ai testi. Ci sono epoche in cui un testo viene
considerato letterario e altre epoche in cui lo stesso testo non viene considerato letterario.
Secondo Genette, nella storia della critica letteraria ci sono due condizioni contrapposte rispetto al concetto
di letterarietà:
-posizione essenzialiste/costitutiviste che considerano acquisita e percepibile la letterarietà. Quali testi sono
letterari? La loro domanda riguarda cose oggettive, riguardanti il testo. Essa descrive poetiche di ordine
classico, chiuse, in cui è chiaro che un testo è letterario.
-si contrappone la posizione dei condizionalisti, che si chiedono quali siano le condizioni o le circostanze
esterne al testo che lo rendono un’opera letteraria, o a quali condizioni un testo smette di essere un’opera
letteraria. La domanda che si pongono non è cos’è l’arte, ma quando è arte, quando è letteratura. è qualcosa
che non riguarda il testo in sé ma le condizioni esterne che lo rendono tale. Il culmine di questa teoria si ha
con Stanley Fish e il suo libro “C’è un testo in questa classe?” (si analizza un testo che non è letterario, ma
che la classe identifica come tale).
Dal punto di vista costitutivo, il discorso sul metodo non è letteratura, ma per i condizionalisti lo è. Questi
ordini ci permettono dunque di considerare storicamente il mondo letterario. Il primo discrimina la questione
in maniera ferrea, mentre il secondo lo fa in maniera più rarefatta.
La finzione ha molto a che fare con tutto ciò. In un regime costitutivo, la finzione è sempre oggettivamente
letteraria. Se un testo è finzionale, allora costitutivamente è letterario. L’aspetto tematico, cioè la finzione,
rende un testo intransitivo, cioè è fatto da enunciazioni di finzione, non ha una relazione diretta col mondo
reale. Non si riferisce a nulla di realmente esistito, dunque è giustificato da sé stesso (come dice Aristotele).
La qualità di un testo è data dalla sua natura ambigua e tale ambiguità deriva proprio dall’intransività.
Il regime costitutivo riconosce come appartenente al dominio della letteratura delle opere che possono essere
non finzionali, ma che hanno certe caratteristiche formali, che Genette chiama rematiche. I testi di finzione
sono letterari, anche se possono essere belli o brutti. Ma esistono testi chiaramente non finzionali, tipo la
lirica moderna, che appartengono al regime della letterarietà per motivazioni formali. Questi testi fatti da
asserzioni non finzionali ma considerati letterari sono chiamati da Genette dizione, la letteratura di non
finzione che però appartiene al campo letterario. E di nuovo l’esempio è la poesia lirica: un sonetto o una
canzone manifestano la loro appartenenza alla letteratura alla struttura formale, non tanto al contenuto.
La letterarietà è data dal nostro atto di giudizio esterno: quest’opera è bella, per cui è letteraria, e viceversa.
Se un’opera storiografica è bella, allora è considerata letteratura.
Esistono dei testi che sono condizionalmente letterari, dal punto di vista non statutario ma condizionale. I
miti ad esempio nascono come cose fattuali e veritiere. Non esistono dei temi di contenuto in grado di
spiegare la letterarietà di un testo: non basta mettere certi personaggi o certe situazioni, il tutto dipende dalla
qualità del testo.
Il regime costitutivo la finzione ci mostra la sua letterarietà sempre per ordine tematico; mentre in regime
condizionale non siamo in grado di stabilire se una finzione è letteraria o no; il mito ad esempio, da un punto
di vista condizionale, varia nel tempo i propri aspetti tematici, che dunque non sono definiti per stabilire la
finzionalità.
Cita il saggio di Hambuger che abbiamo in bibliografia. Genette non è convinto della sua posizione anche se
ne riconosce l’inattaccabilità dal punto di vista teorico. Questa inattaccabilità però riguarda solo la finzione e
solo la narrazione finzionale in terza persona. Sul resto non è convinto, specie sulla dizione, perché nella
logica di Hamburger, un testo poetico lirico è costitutivamente letterario, anche se non è finzionale, per una
ragione insufficiente per Genette: cioè la sovrapposizione imperfetta tra l’autore e l’io poetico. Questa è un
arrampicarsi sugli specchi, secondo Genette. È molto più logico sperare finzione da dizione, e mettere sotto il
termine di dizione tutto ciò che presenta un significato inseparabile dalla propria forma verbale.
Perché noi accettiamo, in regime condizionale, testi intransitivi come finzionali?
Perché possiamo definire fattuale un testo? Ad esempio il racconto di viaggio, viene spesso definito fattuale,
per ragioni tematiche o rematiche.
in un racconto omodiegetico non siamo in grado di stabilire il livello di finzionalità. Il valore di verità di
questi testi cambia nel tempo: prendiamo i bestiari medievali, che nel loro tempo non erano considerati cose
fantasiose, ma reali.
Ci sono criteri universali per separare oggettivamente fiction da non fiction? Quando e perché l’impiego di
certe caratteristiche formali trasformano un testo fattuale in un testo letterario? Come il reportage scritto da
un grande romanziere, con caratteristiche rematiche tali che a noi pare un testo di narrativa.
Hamburger parla dei caratteri distintivi di finzione e dizione. Searle diceva che la finzione è la simulazione
di un atto enunciativo di realtà, dunque non è possibile capire quando quell’atto è simulato e quando non lo
è, non ci sono spie interne al testo. Questa è anche la posizione che arriva fino a Kendall, che ci dice che è
solo la volontà di chi ha prodotto il testo a stabilire la finzionalità o meno.
Commento al saggio di Hamburger. La chiave per parlare di finzionalità sono i personaggi. La narrazione di
finzione rende presenti le azioni di personaggi anche quando questi agiscono nel passato.

LEZIONE 18 – 05/04/2023
La posizione di Hamburger è decisamente radicale ed esclusivistica, possiamo stabilire che sono testi di
finzione solo leggendoli e vedendo che negli enunciati di finzione, l’io origine da cui dovrebbe muovere il
discorso si stabilisce al sistema dei personaggi; non è più l’io origine reale che sta muovendo il discorso ma è
il sistema dei personaggi. In un tipo di testo finzionale, in cui non comparissero personaggi, paradossalmente
non siamo in grado di stabilire il grado di finzione perché non siamo in grado di trasferire il sistema di
riferimento spazio-temporale da quello del soggetto che riferisce la storia a quello dei personaggi.
Nelle tipologie del testo presentate dalla narratologa austriaca è certo che queste tipologie di testo, l’analisi
dei tempi verbali, in particolare del passato, e delle relazioni tra i deittici temporali, consente di stabilire che
un testo è di finzione. La costruzione dei deittici del futuro più un perfetto segnalano immediatamente una
condizione di funzionalità tipica del romanzo ottocentesco, come ad esempio “domani era natale”, segnala
subito un testo di finzione perché un tipo di relazione invece che stabile il rapporto spazio-temporale tra l’io
origine che enuncia quella frase e un narratario di quella frase (lettore) quella frase non avrebbe alcun senso.
Quella frase ha senso solo se trasferiamo il sistema spazio-temporale tra chi enuncia quella frase e i
personaggi.
Nel testo finzionario l’imperfetto designa non un tempo al passato ma un tempo al presente e questa è una
condizione segnalata dal fatto che quando noi dobbiamo usare un tempo al passato in un testo di finzione che
è narrato all’imperfetto dobbiamo obbligatoriamente utilizzare il trapassato.
In un enunciato di realtà, la stessa successione di parole richiederebbe una struttura spazio-temporale diversa;
in un romanzo non si può dire “ieri era natale” ma soltanto “domani era natale” o “ieri era stato natale”
perché l’io origine di riferimento delle azioni non è quello di chi enuncia la frase, che la enuncia da una
posizione ulteriore direbbe Genette perché sta usando i tempi al passato, ma è quella dei personaggi che sono
presentificati dalla forma della finzione. Ad esempio “il signor x era in viaggio” nella percezione del lettore
immerso in un testo di finzione, il signor x è in viaggio; se no si direbbe “il signor x era stato in viaggio” per
stabilire che l’azione era antecedente rispetto al sistema io origine dei personaggi.
In qualche modo, il tempo della narrazione è un tempo falso; non è un tempo della realtà ma sempre della
finzione. Mentre per Genette il tempo della finzione è decisivo per la posizione del narratore rispetto agli
eventi narrati, per Hamburger questo non ha a che fare con la nostra fruizione del testo perché una volta che
siamo immersi nel testo perde le coordinate proprie di chi enuncia il testo ed entra in coordinate diverse.
Questo fenomeno, che Hamburger analizza da un punto di vista narratologico, oggi è al centro di indagini
neurocognetiviste. Nel discorso comunicativo normale questo non può avvenire.
C’è una legge che determina la finzionalità dei testi in terza persona: il racconto non è riferito ad un’origine
io reale ma ad un’origine io immaginario, perciò, è immaginario; se io riferisco un enunciato narrativo che
non riguarda la posizione di chi lo enuncia ma la posizione dei soggetti all’interno di questa enunciazione
allora quel racconto è immaginario perché i personaggi che sto immaginando sono di finzione. Quindi la
finzione narrativa è definita da due aspetti:
- Non implica alcuna origine io reale cioè non riguarda l’enunciatore come autore ma anche narratore
nella posizione di Hamburger che ancora non conosce la distinzione radicale che Genette, Todorov
praticheranno alla figura del narratore. I due non coincidono ed è per questo che non possiamo
attribuire un dato storico o assiologico ad un romanzo perché costruisce un ente immaginario che
costruisce la storia. In base a cosa, la critica marxista, può stabilire se un testo di finzione è
progressista o reazionario? L’unico modo per stabilirlo è confrontarlo con la storia letteraria in cui
quel testo si riferisce; ecco perché l’analisi sincronica di un testo, la scomposizione strutturalista, non
può in nessun caso stabilire il reale valore estetico e politico di un testo.
Dunque, un testo è realistico, nella misura in cui, riesce a cogliere dalla realtà qualcosa di tipico e
assoluto, non rende un testo realista il suo saper rendere il senso di realtà. Philippe Dick è molto più
realistico come romanziere rispetto a tanti romanzieri realisti o naturalisti perché riesce a cogliere un
certo aspetto dello sviluppo umano; Balzac lo è perché non è implicato con l’ideologia dominante
del suo tempo, lo è perché è in grado di mostrare le strutture implicate della borghesia nascente.
Un’analisi sincronica ci aiuta a capire il valore di un testo solo se poi è reinserita all’interno di
un’analisi diacronica e infraletteraria.
Le teorie di Hamburger sono state messe da parte agli inizi dei 60 perché scrivere in tedesco significa
marginalizzarsi all’interno del dibattito mondiale sulle lettere e perché la posizione intransigente si
contrappone alle posizioni egemoni rispetto al discorso finzione-non finzione.
L’intenzione non è sondabile per i testi letterari tanto che gli stessi narratori giocano su questo; l’11% dei
romanzi nati tra fine 700 inizi 800 hanno come titolo “storia di”, vuol dire che è una simulazione della
fattualità che sta alla base della nascita del romanzo.
Le teorie dell’Hamburger si contrappongono a quelle della French Theory, lo strutturalismo francese. Roland
Bart in un saggio “Il discorso della storia” spiega che noi viviamo in una specie di contesto pan
finzionalistico. L’autore del racconto storico, cos’ come l’autore del racconto romanzesco, esistono solo
come fenomeni linguistici; non possiamo arrivare all’extra-testo dal testo, non c’è niente fuori dal testo
perché il nostro accesso al passato è meramente testuale, non possiamo ricostruirlo se non attraverso la
lingua e l’interpretazione di fenomeni linguistici. Perciò le opere fattuali e quelle finzionali hanno in comune
la stessa illusione referenziale, cioè quanto interpretiamo un testo di finzione o un testo storico facciamo lo
stesso sforzo di interpretazione che dipende dall’illusione referenziale che un testo ha rispetto al mondo.
Nessuno nega che lo storico si occupi di fatti avvenuti nel mondo reale ma l’approccio che abbiamo alla
documentazione di uno storico così come al testo della finzione è lo stesso. Lavocat è molto critica nei
confronti di Bart perché demolisce la posizione di Bart perché non è scientifica in quanto Bart si lascia
andare a posizioni non verificabili. Bart e il movimento si contrapponevano in quegli anni ad una filosofia
della storia che era di ordine positivista ancora. È vero che il modo in cui Bart procede nel suo ragionamento
impedisce un dialogo strettamente scientifico. In Francia, la posizione pan finzionalistica di Bart è condivisa
da molti intellettuali diversi tra loro, per esempio, Paul Ricouer in “tempo e racconto” vol. 2, ci spiega che
sia l’enunciato fattuale che quello finzionale appartengono entrambi al discorso simbolico cioè che
affrontiamo l’interpretazione sia del prodotto storiografico, sia del prodotto finzionale attraverso una
fruizione preconcettuale che dipende dalle figure del discorso che impieghiamo nel realizzarlo. Entrambi
partengono all’ambito della retorica e attraverso la tropologia, la scienza delle figure del discorso, noi
incameriamo queste produzioni di significato. Il mondo creato dallo storico non è mai il mondo reale;
quando ricostruisce una vicenda storiografica non parla esattamente del mondo passato per come è stato ma
crea un analogo di quel passato. Utilizza la funzione del come e se, come fa chi finge: sia chi finge, sia lo
storico utilizzano un rapporto metaforico con l’alterità del testo. La metafora è alla base dei discorsi sia
fattuale che finzionale. La differenza tra storia e finzione è una differenza di mandato, lo storico ha come
mandato la verità che lui deve a chi non c’è più, è un mandato sociale, è un mandato di testimonianza. Se
uno storico inventa qualcosa della fabula che sta mettendo in trama non è più uno storico ma tuttavia, pur
dovendo fare affidamento a una tropologia inevitabile nel discorso che riferisce la storia è chiamato a
ricostruire quella favola in maniera non falsificata, cosa che invece non va perché la verità cercata dallo
storico è di tipo affettuale, di approssimazione perché non si può definire la verità effettiva di un fatto storico
ma possiamo misurarla attraverso i documenti. Secondo Todorov, la verità dello storico è molto simile a
quella dello scienziato, è una verità di approssimazione al vero e quindi vale il principio di falsificabilità
della storia, nessuna delle affermazioni storiche di uno storico può essere di tipo diverso da questo, non può
spingersi a fare delle affermazioni di senso che non siano sopportate dai documenti. Funzione diversa è
quella del testimone perché pur basando la propria analisi su fatti ricerca una verità di ordine interpersonale,
non riguarda la verifica dei fatti o dei documenti ma riguarda la sua capacità di muovere o commuovere, di
toccare emotivamente il suo lettore. Un esempio è il libro di Cercas “l’impostore” dove finge di aver vissuto
la Shoah.
Per Todorov esiste anche una quarta figura, istituzionalizzata dal potere, il commemoratore. È la cosa
peggiore per richiamare il passato perché ricorda un evento, come fa il testimone, ma non lo rende attivo
nella vita pratica contemporanea. Il testimone attiva la sua esperienza, la rende condivisa, ci spiega che
quello che è avvenuto non deve avvenire più, indaga la sua esperienza con il presente mentre il
commemoratore racconta ciò che è avvenuto a lui, senza renderla una verità interpersonale.
Infine, c’è lo scrittore che non è un testimone ma persegua una verità molto simile a quella della
testimonianza; non ha nulla a che fare con la verifica oggettiva della realtà dei fatti.
Gomorra, ad esempio, è un romanzo basato sull’effetto di testimonianza e sulla rilettura e reinterpretazione
dell’intellettuale impegnato alla Pasolini che propone sé stesso come misura di una certa testimonianza.
In Francia, questo problema tra storiografia e finzione è molto vivo soprattutto negli anni 70 80, con storici
come Paul Veyne. Secondo Veyne, la nostra capacità di dare significato sia alle narrazioni finzionali che
fattuali dipendono dal palazzo dell’immaginazione; non abbiamo un rapporto diretto con la realtà ma la
realtà che noi costruiamo è preorganizzata dal nostro sapere, cioè non esiste una realtà neutra su cui noi
facciamo dei giudici ideologici; il nostro rapporto è sempre mediato dall’immaginazione. I fatti sono sempre
frutto della nostra precomprensione e ci diventano accessibili solo attraverso l’interpretazione. Veyne non
dice che i fatti non esistono ma il modo in cui noi assimiliamo dalla condizione di fatto di un evento è
precondizionata.
Bisogna stare attenti a distinguere finzione e non finzione da un punto di vista ontologico, la si può
distinguere da un punto di vista storico perché questa frontiera cambia nel corso del tempo, non è stabilita,
dipende dai rapporti potere-sapere, da come gli esseri umani sono strutturati all’interno del sistema sociale. I
palazzi dell’immaginazione si modificano con il tempo, dipendono dalle relazioni sociali tra gli uomini e
questo sposta anche le frontiere tra fatto e finzione. Ad esempio, oggi, mentre la nostra vita tende sempre più
a virtualizzarsi la letteratura sembra fare la cosa opposta, procede al contrario, dalla finzione torna alla verità.
Mentre la vita va in direzione opposta, la tendenza degli scrittori contemporanei è il contrario. La critica
della vittima significa pensare a come noi siamo indotti che se la nostra posizione è quella della vittima
abbiamo più diritto rispetto ad altre posizioni del dibattito; ci si sente in credito perché vittime di uno
sopruso; l’altra posizione egemonica è quella dell’eroe.
Tra gli storici, chi più di tutti ha difeso in maniera radicale l’impossibilità di distinguere fatto e finzione è
Hayden White. Arriva a questa posizione dopo anni in cui ha diviso decisamente finzione e fattualità. A
partire dagli anni 70, in un libro “retorica e storia”, ci propone una rilettura di come siamo arrivati a pensare
alla storiografia contemporanea e ci spiega come fino alla fine del 700, la storia, era una branca della retorica
e non era una disciplina scientifica come la intendiamo oggi; come la finzione, noi cogliamo attraverso i
tropi del discorso i fatti caotici della storia. Non possiamo dividere i nostri preconcetti con cui noi
formuliamo il discorso da come assorbiamo i fatti che vengono detti. In White questo non da luogo ad un
relativismo radicale perché non si tratta di dire che tutte le interpretazioni di un certo fatto sono vane, si tratta
di stabilire che c’è una sovrapposizione dal modo in cui noi storicizziamo i fatti, il tipo di argomentazione
che utilizziamo per farlo e il genere che utilizziamo per giustificare questa locuzione. Secondo White, ci
sono dei rapporti di parallelo tra visione del mondo, tipologia di argomentazione e genere del discorso.
La realtà è incoerente mentre il discorso riferito sulla realtà, la messa in trama razionalizzante che lo storico
fa rispetto ai fatti è di tipo razionale.
Tutti questi critici vivono in epoca in cui, il rapporto fatto e finzione, è egemone; questi intellettuali sono in
una posizione egemonica rispetto alla natura del discorso pubblico. Negli anni 80 quasi tutti i grandi
intellettuali convergono su questi aspetti, tutti accettano la condizione di narrativizzazione del discorso
storiografico.
Le teorie di Hamburger sono fortemente marginali rispetto al discorso però spiega in maniera chiara che
almeno in certe tipologie di testi noi questa distinzione possiamo farla all’interno dei testi con una evidenza
palese, senza complicazioni di tipo ontologico ma con una semplice analisi di tipo strutturale. Genette ci
spiega che Hamburger ha ragione, tuttavia l’importanza del ragionamento deve essere ridimensionato:
- I criteri stabiliti da Hamburger hanno carattere storico contingente, non sono assoluti ma riguardano
la storia della finzione e cioè il romanzo ottocentesco.
- Un sistema complessivo che escluda i racconti in prima persona è problematico perché ci sono dei
racconti in prima persona che sono finzionali e non possiamo stabilire dei criteri.
- Hamburger si sbaglia sul fatto che sovrappone in maniera troppo netta narratore e autore. L’unica
azione che l’autore fa è scrivere, tutto il resto è svolto da figure interne al testo che non fanno parte
del mondo reale.
Bisogna stabilire se il narratore esiste anche in un’opera storiografica perché noi accettiamo passivamente i
discorsi fatti da Genette ma esistono delle correnti di matrice americana, in cui ripartendo proprio da questa
idea, ci spiegano che basta questa scomunica formalista nel separare i livelli in questa maniera drastica,
torniamo a considerare i personaggi come persone, soggetti; questo ci aiuterebbe a dare un uso empatico
della letteratura nella società.
Partendo dalle teorie di Hamburger, molti anni dopo, la narratologa austriaca Dorith Ponn ha ripreso il
sistema di Hamburger, e l’ha sistematizzato, rendendolo più complicato ed efficace: il tentativo è quello di
comporre in maniera diretta da dentro il testo il racconto finzionale e fattuale. Mentre Hamburger non fa
distinzione di racconto fattuale e ci parla di enunciazione di realtà e di finzione e quindi non distingue il
racconto storico da quello enunciativo, Ponn seleziona nei tanti discorsi fattuali possibili quello che più di
ogni altro rappresenta la contro parte del discorso di finzione, cioè quello storiografico. Secondo Ponn
esistono almeno 3 aspetti, che ci servono nella fase della modernità degli anni 70-80, per giudicare la
finzionalità del testo. Il soggetto polemico non è soltanto Ponn ma è anche tutti quegli storici che parlano di
rapporto tra retorica e storia perché, se è vero che fino all’800 la storia è stata una branca della retorica, è
anche vero che questo non ha mai impedito a intellettuali di domandarsi in che modo separare fatto e
finzione; lo hanno fatto anche quando la storia era una branca della retorica.
- Rapporto tra storia e discorso: sia nella narrazione storiografica che in quella finzionale possiamo
distinguere storia e discorso perché lo storico, a differenza di quello che credeva Aristotele, non deve
raccontare i fatti in maniera cronologica; lo storico moderno usa la narrazione per raccontare la
storia. Dunque, mettono in trame dei fatti. Nel racconto storiografico esiste una fabula che precede
l’intreccio, i fatti sono documentati; mentre il racconto storiografico è connesso ad una trama, il
racconto finzionale possiede una trama. Il racconto finzionale possiede una fabula solo perché noi
fruiamo di un intreccio.
- Le situazioni narrative che Genette chiama voce e modo: lo storico non può presentare gli eventi
passati attraverso una figura storica ma dagli occhi dello storico narratore che osserva il passato cioè
il racconto storiografico non può avere una focalizzazione interna. La focalizzazione è sempre
esterna perché non possiamo vedere i fatti del passato se non con gli occhi del presente. Il sistema di
riferimento diventa quello dei personaggi nel racconto finzionale; quindi, per quanto astratto possa
essere il punto di vista del narratore, primo o dopo ci saranno dei momenti di focalizzazione interna
o esterna. La focalizzazione esterna è un chiaro indicatore di finzionalità. Il modo riguarda anche gli
aspetti legati alla letteratura di rendere trasparenti le menti dei personaggi.
- La posizione del narratore:

LEZIONE 19 – 20/04/23
Abbiamo parlato a lungo dell’approccio pre-strutturalista di Hamburger, che lavora negli anni 60, e in
maniera pioneristica ha tentato di analizzare il testo per distinguere quello fattuale da quello finzionale (cosa
negata da analisti come Searle e non accettata benissimo da Genette e gli altri strutturalisti francesi). Le sue
teorie sono molto rilevanti e quelle successive non sono mai riuscite ad archiviare del tutto le sue posizioni.
Abbiamo smesso di considerare la sua posizione come seria, ma non ne abbiamo mai negato di fatto la
qualità. La studiosa esalta una certa fase del romanzo, quello a narrazione eterodiegetica, moderno realista
tipico dei primi decenni dell’Ottocento. Ma non si concentra affatto sulla narrazione omodiegetica. Nella
eterodiegetica noi siamo in grado grazie ai tempi verbali e ai deittici spazio-temporal di capire se siamo di
fronte a un testo finzionale o fattuale; nell’omo questa cosa non si può fare e l’unico modo per determinare il
grado di finzione di questi testi, è pensare che tali narrazioni siano simulazioni di discorsi referenziali. La
differenza non è dunque narrativa, ma di intenzione. Il romanzo omo finge un tipo di discorso. È la stessa
posizione dei filosofi analitici, come Kendall (?). questa posizione ci priva della possibilità di analizzare il
testo, perché a noi non interessa tanto l’intenzione dell’autore, che può ingannarci.
La posizione di Hamburger è stata ripresa in modo serio da Cohn, che più di ogni altra critica moderna e
post-strutturalista, ha amplificato la portata della sua riflessione. Il discorso di questa studiosa complica un
po’ le cose, perché riguarda tre aspetti diversi della narrazione. Esistono tre criteri fondamentali per giudicare
la finzionalità di un testo: rapporto tra storia e discorso, situazioni narrative e posizione del narratore.
esattamente a metà tra la riflessione di Hamburger e quella di Cohn sta la posizione di Genette, che è
egemone. Lui reagisce ad Hamburger e Cohn reagisce a Genette.
Cohn dice: nella narrazione storiografica e in quella finzionale possiamo sempre distinguere storia e
discorso. La narrazione finzionale costruisce con il discorso la fabula, la storia; ciò non avviene nel racconto
storiografico, che mette in trama una fabula che gli preesiste dal punto di vista storico, temporale ed
enunciativo. Non è l’enunciazione narrativa dello storico che crea la storia.
Il racconto storiografico esiste per dare ordine a eventi che altrimenti sarebbero disordinati.
Lo storico non può presentare gli eventi passati attraverso gli occhi di una figura presente sulla scena.
“Franco era sul treno” in un racconto storico indica che il tizio era sul treno nel passato; in un racconto
finzionale il tempo è un presente storico, cioè è un passato ma indica che il tizio è sul treno in quel preciso
momento.
Il racconto finzionale non è mai a focalizzazione zero, secondo Cohn. Non esiste questo tipo di narrazione in
senso assoluto, c’è la tendenza del narratore a conoscere più cose rispetto ai personaggi, ma comunque un
tipo di focalizzazione c’è. Qualsiasi racconto a focalizzazione esterna ha buone chances di essere finzionali.
(la fiction è un modo per rendere soggettivo un eroe, permette al lettore di immedesimarsi in un personaggio
e partecipare emotivamente ad esso. Questo forse è anche il motivo del successo del racconto finzionale. Nel
racconto storiografico non si può in nessun modo avere accesso alla mente dei personaggi storici.)
Notiamo che fino a tutto l’Ottocento, i personaggi storici non vengono mai mostrati nei loro sentimenti e nei
loro pensieri emotivi. Manzoni ci presenta l’interiorità di ogni personaggio inventato, ma non di quelli
realmente esistiti, come Borromeo. Il primo a rompere questa tradizione è Tolstoj.
Nella narrazione finzionale eterodiegetica ci sono tre modalità per rendere l’interiorità dei personaggi:
-psiconarrazione, cioè elaborazione di contenuti psichici del personaggio (pensava che, sentiva che…);
-dialogo riferito
-discorso indiretto libero, aspetto più tecnico del romanzo, utilizzato tantissimo da Flaubert. Può essere usato
con serietà o con ironia, confonde il punto di vista del narratore, ma quando è il personaggio che pensa, tale
pensiero è del tutto kitch e limitato.
Per quanto riguarda l’aspetto della voce, non è chiaro nemmeno a Genette, quindi il prof ce lo ripete: essa
riguarda sia il livello del narratore, sia il modo in cui il narratore riferisce.
E’ improbabile che si usi in un racconto storiografico un narratore di secondo livello, cioè extradiegetico.
Egli crea il mondo di cui sta parlando, lo avvia. Per quanto riguarda il rapprto tra narratore e storia, al
racconto finzionale è raramente concessa la metalessi dell’autore, cioè il passaggio tra un mondo e un altro,
tipico della finzione (vedi rosa purpurea del cairo, i cui personaggi escono dallo schermo del cinema e
saltano di livello; il primo è un film e il secondo è un film nel film: questa è una metalessi). (Credo che possa
valere anche per la storia infinita). Questo non si fa nell’analisi storiografica, perché il narratore non salta di
livello e non entra nel mondo passato che sta raccontando.
Il primo indice di finzionalità di un racconto omodiegetico, è dato dalla differenza nominale tra autore e
narratore. Questo apre un problema di cui ci occuperemo più avanti, cioè l’autonarrazione (se io racconto col
mio nome una storia in cui sono protagonista in modo omodiegetico, ma totalmente inventata, come fa
Walter Siti, cosa sta facendo?)
Come siamo arrivati ad avere una generazione di scrittori che confonde la nostra naturale capacità di
distinguere tra finzione e non finzione, in maniera sempre più tecnica?
Rileggiamo dunque la storia del romanzo moderno sotto il punto di vista della differenza tra fatto e finzione.
Questo riguarda il concetto di realismo e di realtà, ci riporta ad Aristotele e ad Auerbach.
Con la rivoluzione scientifica si ha una modifica irreversibile della fisiologia umana: il concetto di
esperienza, che la scienza moderna tende a rendere misurabile, era invece una forma di conoscenza che
aveva un soggetto sopra individuale, non individuale, almeno nel mondo antico e nel medioevo. Essa
riguardava la comunità, non l’individuo. La scienza moderna invece misura la ripetitività di un’esperienza,
ma questo ha la conseguenza di trasferire la sperimentazione dell’esperienza dai singoli soggetti agli
strumenti impiegati per misurarla. Questo spiega il fenomeno per cui di fronte a grandi eventi esperienziali,
come il sublime, non siamo più in grado di compiere e avere contemporaneamente esperienza del sublime, se
non attraverso strumenti, come le macchine fotografiche. Abbiamo bisogno di immortalare e fotografare, per
goderci un momento.

LEZIONE 20 – 21/04/23
A noi interessa questo momento di cambio di prospettiva sull’esperienza, perché segna uno stacco nel modo
di vedere la realtà e la finzione. Il problema del rapporto tra fatto e finzione è sempre esistito e le forme
simboliche della letteratura esplorano da sempre i possibili collegamenti tra fatti e finzione, da Aristotele ad
oggi. Esistono in tutto questo dei momenti di frattura epistemologica, in cui fatti e finzioni tendono a
mescolarsi l’uno nell’altro. Un altro dei momenti di frattura è negli anni 60 del 900 e un altro lo stiamo
vivendo oggi.
I primi novels costruiscono in modo razionale e credibile un discorso in cui sono inserite istante tipiche del
romance, come stranezze, viaggi assurdi o incontri bizzarri. Alla propria origine dunque, il novel cerca
istanze non troppo diverse dal romance, attraverso un percorso che conduce dalla frattura tra fatto e finzione
(molto chiara nel 600 e nel 700), che le forme letterarie addomesticano nel corso di un secolo.
Quando si usa il topos del manoscritto ritrovato, si mescolano un po’ le carte tra fatto e finzione, i due piani
si confondono; ma nel corso del 700 quasto espediente diventa un marchio di finzionalità, quindi il concetto
è rovesciato e reintegrato. Se ritroviamo un manoscritto, abbiamo quasi sicuramente davanti un testo di
finzione, che è il contrario di ciò per cui è nato questo topos (la verosimiglianza). Per questo nel 900 si
scherza tanto su questo topos, come fa Eco.
Si usa questo espediente anche per parlare della contemporaneità senza farlo davvero, come fa Manzoni con
la peste e l’occupazione spagnola al posto di quella austriaca.
Il percorso verso il realismo moderno integra istanze finzionali all’interno di una struttura razionale.
L’esempio che si fa sempre è quello di Swift, con i Viaggi di Gulliver. Si sviluppa in questo periodo il tema
dei grandi viaggi di esplorazione, di integrazione nella civiltà di ciò che ne è stato escluso; sono istanze pre
illuministiche che di fatto giustificano anche le mire imperialiste. Il successo di questi racconti dipende da un
grande cambiamento nei gusti dei lettori dell’epoca; la descrizione minuziosa del gusto per l’esotico si
oppone in questi racconti alle bizzarrie tipiche. Lettura di un pezzetto di Gulliver.
Lo storico e il testimone che fanno un racconto di viaggio, producono una storia diversa, perché il testimone
non è tenuto a darci resoconti fattuali esatti; lo storico in teoria si.
Dovremmo fare distinzioni tra una fase storica e l’altra dei racconti di viaggio; le responsabilità di Marco
Polo non sono le stesse di un viaggiatore dei secoli successivi. Fatto e finzione sono distinti in modo diverso
a seconda delle epoche. In alcuni periodi l’immaginazione è interna ai fatti, in altre è esterna. Nell’antichità,
essa è mediatrice tra il resoconto veritiero di un’esperienza e il fare ed avere esperienza di quel racconto.
Questo non vale più nella modernità, dove l’esperienza modifica fisiologicamente l’essere umano.
1722, Fortuna e Sfortune della famosa Moll Flanders; romanzo con alcune particolarità. Muove da una
cronaca nota all’epoca, fattuale, quindi si ha un primo grado di legame con i fatti del mondo reale. Inoltre si
pone come storia, come racconto fattuale, anche se non lo è. Crea un doppio legame tra mondo di finzione e
mondo reale. Il primo dipende dall’input, il secondo dall’output.
Abbiamo poi la geniale raffigurazione della peste che colpì Londra, costruita da Defoe in un libro del 1722.
È una specie di manuale contro la malattia che interessava molto la gente dell’epoca, perché la peste aveva
attaccato molte città europee. Defoe consegna questa narrazione ad un diario scritto da un sellaio londinese,
che scrive in modo molto chiaro e referenziale la propria esperienza della pandemia da peste nera. Egli ha
uno stile particolare e la sua condizione individuale viene spesso celata (non rivela mai nomi di amici o
famiglie); come in molti racconti di peste, il tutto diviene quasi un interrogativo sulla presenza del bene e del
male nel mondo. Il sellaio comincia a vedere intorno a sé la malattia e si chiede se sia il caso di lasciare
Londra, che è più pericolosa delle campagne, secondo la tradizione (aspetto in realtà metafisico, perché la
peste nasconde sempre una sorta di violenza sociale). Egli però sceglie di rimanere a Londra, abbastanza
casualmente, per vari motivi. Alla fine si salva e nel salvarsi dà testimonianza della propria esperienza, per
quelli che verranno dopo di lui. E’ un diario privato diretto al pubblico, quindi si ha un pedagogismo. È
lecito per lo scrittore esercitare l’autorità dello storico? Questo è un problema anche per il contemporaneo. E’
lecito scrivere un romanzo su Mussolini? Qual è il limite della scrittura di finzione, e il compito della
scrittura storiografica?
Ricorso alla misurazione, che troviamo già in Swift: Gulliver tende a dare misura di qualsiasi cosa, spazi,
pecore, personaggi eccetera.
Storico, testimone e narratore di finzione si collocano in maniera ambigua nella storia del racconto di
finzione.
Il sellaio è un testimone non neutrale, ha dei pensieri, delle idiosincrasie tipiche di un uomo borghese che
disprezza la vecchia nobiltà ed esalta la nuove figure sociali. Egli si pone dal punto di vista religioso in modo
contrapposto rispetto ad istanze cattoliche, e pone se stesso come il frutto di un certo protestantesimo. Tutto
cioè è spia di quanto questo tipo di romanzo sia di ordine finzionale e non storiografico, perché mostra dei
fatti privati.
La funzione testimoniale serve a mostrare l’evento incredibile come la peste di Londra, che è però
razionalizzabile attraverso una narrazione verosimile.
Richardson usa una dimensione metaletteraria che relega la sua opera nella zona delle opere di finzione. Da
una parte l’aspetto pseudo fattuale è formato da un documento, ma viene sottolineata sempre la finzionalità
del testo. La separazione tra fatto e finzione è molto ben delineata, mentre ancora in Swift era complicato
stabilire un confine. Infatti nel frontespizio l’autore scrive che è una narrazione fondata sulla verità e sulla
natura. Si sviluppa da alcuni germi di realtà, perché gli eventi narrati non sono del tutto inventati, esiste una
storia verificabile che riguarda la protagonista. Ma ciò che dà spessore a quest’opera è il secondo legame,
perché la narrazione è conforme al mondo empirico: i discorsi che vi si producono valgono sia nel mondo del
libro sia nel mondo reale. Quest’opera è fatta “secondo natura”. La letteratura ha un mandato pedagogico,
aspira al realismo ed è verosimile.
Gli anni 60 segnano un grande cambiamento per la storia della letteratura. con la nascita del romanzo post-
moderno, in coincidenza all’esordio di grandi romanzieri, c’è l’esigenza di altri autori di fondare il proprio
discorso su qualcosa di fattuale. E quando avviene questo, significa che fatto e finzione si stanno separando.
Si tenta di rifondare un giornalismo letterario, che fino a quel momento si era esercitato su resoconti e
reportage omodiegetici di grandi eventi a cui qualche scrittore aveva partecipato (come le opere di
Hemingway). Quel tipo di narrazione diventa profondamente insoddisfacente, il sistema è antico e facilmente
imputabile di scarsa oggettività.

Nella sua fase di canonizzazione, il novel può contemporaneamente indurre ad un’immersione profonda
nell’universo del racconto, un’identificazione empatica con il mondo dei personaggi, ma allo stesso tempo
può fare esattamente il contrario, cioè produrre distacco razionale da queste forme di empatizzazione.
Tornando quindi all’epoca degli anni 60, troviamo che la novel bug, che adotta strumenti brechtiani di
distanziamento rispetto al racconto, deriva direttamente da generi più referenziali della storia del cinema,
come il neorealismo.
Questo perché il sistema di racconto referenziale può indurre sia l’empatizzazione, sia il distacco razionale
dai personaggi. È dunque curiosa l’opera di Truman Capote, che scrive nello stesso periodo di autori che
prendono direzioni completamente opposte. Molte di esse perdono qualsiasi catena referenziale e tendono a
non uscire più dal mondo della finzione.
Friederich fa una cosa molto simile, cioè rende tutto ciò che fino a Richardson era catalogato come history, e
che legava fatto e finzione, ad una dimensione sempre meno legata alla confusione tra fatto e finzione. Ad
esempio il testo Tom Jones: ormai la dimensione pedagogica che può avere Richardson, si accompagna ad
una dimensione furba, commerciale e calata perfettamente in un mondo diverso, di passaggio, che ha
accettato di dividere i fatti dalle finzioni. Siamo all’origine del realismo moderno, come copia conforme alle
leggi che regolano la realtà, e non alla realtà stessa; dovremo attendere le avanguardie per avere
un’immissione della realtà reale nell’opera.
Dunque il realismo non ci preoccupa dal punto di vista della differenza tra fatto e finzione; tutte le sue forme,
una volta canonizzate, neutralizzano la complessità e la difficoltà di tenere insieme i mondi possibili con il
mondo reale. Non è realtà, ma un simulacro razionalmente orientato di questa realtà. Esso ha la facoltà di
mescolare cognizioni empiriche a descrizione di cose private.

LEZIONE 21 – 27/04/23
L’incontro tra fatti e finzione avviene in quella fase di grande trasformazione che conduce alla nascita del
Nobel in senso moderno e il romanzo come genere; il romanzo è un genere moderno che non esiste in
antichità, medioevo e rinascimento. Il romanzo greco è un para genere e non c’entra con il romanzo moderno
se non per il fatto che è scritto in prosa e presenta dei personaggi.
Il romanzo moderno nasce in una fase di grandi trasformazioni: della società, dei rapporti tra pubblico e
privato; in un periodo in cui il passaggio delle informazioni di tipo esperienziale passa da una dimensione
collettiva ad una individuale. Walter Benjamin ha dedicato a queste trasformazioni alcune riflessioni,
riflettendo sul fatto che la narrazione antica sia la cosa più distante in assoluto rispetto al romanzo moderno
perché prevede un’unità, si sviluppa in maniera orale e il suo fine è quello di essere raccontato nuovamente.
Il romanzo nasce in opposizione a questo modello, nasce come genere scritto, usa degli espedienti per
renderlo credibile come, ad esempio, topos di manoscritti ritrovati, finti epistolari, finti documenti che
attestino l’esistenza extra finzionale di questi tipi di testo. Se il romanzo settecentesco nasconde dietro una
cornice di tipo fattuale delle narrazioni di ordine omodiegetico, il romanzo che viene canonizzato nei primi
dell’800 crea ex novo una figura del tutto sconosciuta alle narrazioni precedenti ovvero una specie di super
narratore eterodiegetico esterno alle vicende narrate e dotato di una capacità, comprensione dei fatti storici
che fanno da sfondo e delle vicende private dei personaggi totalizzante. È indicativo della trasformazione.
Prefazione di Walter Scott a Ivanhoe per comprendere questa trasformazione: per la prima volta si comincia
a pensare che la storia costituisce lo sfondo naturale su cui si installano le vite di cui il narratore si incarica di
raccontare qualcosa. Questo significa che la storia ha sue precise regole assimilabile alle leggi di natura e che
i legami di causa effetto sono legami che si depositano sulle coscienze dei singoli personaggi creati.
Questa prefazione, aggiunta da Scott nel 1821 alla seconda edizione di questo romanzo, è interessante come
la prefazione sia costituita da due parti una prima parte firmata da Scott, la seconda da uno dei suoi
pseudonimi in cui si spiega la poetica del romanzo storico. È una delle prime attestazioni di descrizione di
questo tipo di narrazione e che avrà, nel primo cinquantennio dell’800, fortuna e che va anche al di là
dell’ingenuità dei meccanismi con cui molti romanzi storici sono congeniati; sono romanzi molto ripetitivi i
cui meccanismi di scrittura sono ripetitivi, a distanza ci appare una narrazione piuttosto ingenua.
Questo “brevetto Scott”, definizione di Francesco de Cristofori, lo scrittore può contare su una libertà
limitata, cioè lo sfondo determina le regole secondo cui lo scrittore può dare accesso alla sua creatività a
patto di non creare attriti o discordanze con il quadro generale. In questa fase della storia, l’idea stessa di
storiografia è più legata ai nudi fatti, ha un’idea più positiva di reperimento delle fonti: basta che un archivio
raccolga un certo numero di fonti senza alcuna selezione o analisi critica. L’idea è quella di riconoscere il
passato come nostro presente nella continuità degli avvenimenti e dei costumi soprattutto perché queste
narrazioni diventano dei grandi affreschi. Qual è la verità del romanzo storico in questo tipo di definizione?
Il romanzo storico non è nient’altro che l’esperienza di un sapere che è capace di riprendere e autenticare dati
positivi già noti alla storiografia; mettendo in moto la vita dei personaggi finzionali in quel quadro regolato
da grandi leggi della natura, noi verifichiamo la bontà dei dati che la storiografia già conosce in base a quel
periodo storico. Siamo lontani dall’idea che abbiamo oggi di romanzo storico che è veicolata dalla figura
centrale di Manzoni. Manzoni non è d’accordo sui limiti concessi allo scrittore rispetto alle leggi della natura
anche se è vero che nella sua tarda attività di saggista, tornerà sulle sue posizioni degli anni 30 dell’800 e
modificherà la sua idea di libertà del narratore, questa idea che l’essenza della storia, nel romanzo, scava nel
di dentro mentre l’opera storiografica si muove dal di fuori.
Il narratore, per Scott, è sempre mosso da una specie di impulso epistemofilico: il narratore di Scott è
caratterizzato dal bisogno ossessivo di accumulare informazioni pe accreditarsi come detentore della verità.
In Scott è vietato piegare la storia in qualsiasi modo mentre nei romanzieri contemporanei è perfettamente
lecito l’idea di piegare un dato storiografico per fini emozionali; l’empatia, l’emozioni, il sentimento sono
questioni che dominano il quadro contemporaneo sia da un punto di vista epistemologico che artistico.
L’approccio empatico al mondo è un approccio con dei limiti.
Nel primo trentennio dell’800, questa forma narrativa, fatta di convenzioni reiterata e schematismi ha avuto
successo in tutti quesi casi in cui dietro questo modo di costruire i romanzi, fosse stato possibile riconoscere
una poetica, un segno stilistico molto forte come, ad esempio, Hugo dove la riconoscibilità del testo diventa
lo strumento essenziale del suo successo. In questi casi, il brevetto Scott non viene applicato mai e questo è il
dato che fa riflettere sulle differenze tra le dichiarazioni di Scott e i suoi tentativi di applicazione del
romanzo storico e il successo di questo genere che è interessante analizzare attraverso Manzoni.
I Promessi Sposi è il frutto di una lunga complicata riflessione del suo autore rispetto alle funzioni della
letteratura nei confronti alle funzioni della storia. La scelta apparente è che c’è una distinzione molto forte tra
i personaggi di finzione e quelli che hanno una condizione reale perché affondiamo nella psiche dei
personaggi immaginari.
Il romanzo termina con un mandato pedagogico, quello di imparare a leggere, di acculturarsi, che può essere
stucchevole come pensa Gramsci. Secondo Manzoni, lo storico conosce la storia dall’esterno. Anche per
Manzoni la letteratura è finalizzata alla comprensione della verità storica ma non come mera riprova delle
leggi della storia già scritte ma soprattutto come verità di una storia che altrimenti non sarebbe visibile, cioè
la storia degli strati più umili della popolazione. C’è un’attenzione per chi normalmente non è storia, c’è
implicita un’idea, espressa poi in maniera chiara da Carl Marx, secondo cui la storia che leggiamo nei libri è
la storia dei potenti, non c’è una minima traccia delle persone normali perché non lasciano storia dietro di sé.
È un punto che nel romanzo moderno assume una funzione essenziale cioè raccontare la storia di persone
comuni la cui storia non ha alcuna rilevanza in sé ma che si fa portatrice di una verità interpersonale, in cui
possiamo rispecchiarci. Da questo deriva una accezione che in Manzoni è del tutto pedagogico, un mandato
che il romanzo ha per cercare di migliorare la vita delle persone senza considerare il fatto che questo
romanzo viene letto dalle stesse persone che fanno la Storia. È una contraddizione che è coerente con il
romanzo; nel marxismo tutto questo si converte non tanto in un mandato pedagogico ma nel tentativo di
fondare una diversa storia, cioè la storia della lotta di classe, come dice Hegel in una lettera. La vera storia
non è quella dei re e dei principi ma la storia degli scontri dei gruppi sociali per l’ottenimento dell’egemonia
politica, economica, sociale. Più tardi, alcuni critici, meno legati a questa separazione tra le strutture
economiche e del pensiero sovrastrutturale, spiegheranno che non c’è solamente una battaglia di tipo
strutturale, per il controllo dei mezzi di conduzione: chi possiede, gestisce e organizza i mezzi di produzione
in un determinato periodo, gestisce anche il pensiero che in quella fase della storia si organizza. È
un’equazione che il marxismo fa e che da Gramsci in poi tendiamo ad attenuare perché Gramsci ci spiega
che ci sono diversi tipi di battaglia, esiste una di ordine sovrastrutturale, una battaglia di idee che riguarda
l’egemonia culturale, cioè la capacità di porre alcuni valori al centro del dibattito e farli socializzare nel più
ampio ambito dello scontro di classe. In questa chiave un pensatore come Manzoni dalla chiara vocazione
pedagogica viene letto come un pensatore non progressista, rivoluzionario, legato ad un tipo paternalistico di
idea delle società incapaci di difendersi da soli, bisognosi di acquisire la cultura dominante per poter reagire.
Nel marxismo questo non vale, infatti c’è un lungo dibattito su cosa sia la cultura non cultura, qual è lo
scontro tra cultura borghese e proletaria. Lo scopo dello scrittore, secondo Manzoni, è quello di saper trarre
dal vero reale il vero storico, cioè senza alterare i fatti storici il bravo scrittore deve sapersi riservare degli
spazi in cui poter commentare personalmente le condizioni dei suoi personaggi all’interno dei fatti storici per
potersi rendere interprete dei sentimenti dell’uomo; è una posizione paternalistica ma è anche vero che per
l’italia dell’epoca questa posizione è inedita. C’è una identificazione tra vero storico e reale: in Manzoni lo
scopo della letteratura è l’utile, cioè insegnare alle classi più umili a difendersi; il soggetto della narrazione è
la verità storica, cioè è un romanzo senza idillio perché l’idillio dei Promessi Sposi è del tutto casuale. Nella
storia successiva a quella del Seicento, le storie di Renzo e Lucia ce ne saranno a bizzeffe, finiranno per caso
bene o male perché le persone sono sottoposte al potere di personaggi come Don Rodrigo. La mancanza di
lieto fine è la vera verità della storia ma anche senza questo il mandato pedagogico è essenziale, la natura
può far si che le persone aspirino a migliorare la propria condizione.
Senza alterare i fatti storici, lo scrittore è chiamato a farsi interprete dei sentimenti.
Il buon uso dell’invenzione finzionale deve evitare di rendere falso il libro; il verosimile legato alla finzione
deve essere organicamente integrata al vero che è storico e morale; c’è una congiuntura tra queste tre
posizioni: la finzione verosimile, la verità storica e la verità morale; in effetti, i Promessi Sposi, rispondono
quasi esattamente a questo morale dove la funzione verosimile della finzione è funzionale sia alla verità
storica che quella morale. Dopo la peste, una pioggia liberatoria portava via il momento di sconquasso
sociale dopo la peste dove i potenti muoiono in misere condizioni perché con la peste non c’è più distinzione
sociale, è una grande livellatrice, c’è una trasformazione dei ruoli sociali. Quella pioggia ristabilisce
apparentemente un nuovo idillio che spiega che tutta la storia narrata da Manzoni su Renzo e Lucia è stata
funzionale alla nostra conoscenza della verità vera e della conoscenza della verità morale. La verità della
storia e della provvidenza sono la stessa cosa, si corrispondono. I capitoli sulla peste di Milano
rappresentano, in questo senso, una sorta di compromesso tra la visione religiosa/ meravigliosa e quella
razionale/realista una drammatizzazione del conflitto tra bene e male. I capitoli sono costruiti da Manzoni
con una attentissima documentazione storiografica su quello che è successo effettivamente a Milano durante
la peste, fanno parte di quella che è stata definita l’odissea di Renzo e che è un percorso conoscitivo che fa
attraversare il concetto di pietà cristiana fino al perdono. La verità storica e morale si fondono in un’unica
verità nella logica manzoniana e che la finzione verosimile serve ad attivare questi due livelli.
Il romanzo storico, a livello tra fatto e finzione, ci insegna che, da alcune dichiarazioni programmatiche
molto radicali per cui il ruolo dello scrittore non deve fare nient’altro che installare dei piccoli dettagli su un
fondo che è già scritto dalle leggi della storia che assomigliano alle leggi della natura, si passa quasi subito
ad un’idea molto più libera di lavoro finzionale rispetto a questi dettagli. Prima alcuni autori, di ascendenza
romantica, tendevano a rendere riconoscibili, attraverso lo stile, i meccanismi e ammorbidirli. Nel caso di
Manzoni questa riflessione si allarga a livelli conoscitivi molto più ampi che inglobano un’idea meno
meccanica, più positivista; non è più la storia di Scott fatta solo di causa effetto e di legami di lunga durata
ma è una storia attraversata da un’istanza provvidenziale, di ordine religioso e che fa si che nella costruzione
manzoniana ci sia quasi una formazione di compromesso tra la visione meravigliosa religiosa e allusa anche
dai capitoli della peste; il pathos creato dalle descrizioni di Manzoni fa affidamento ad una dimensione
meravigliosa di stupore. È quindi una soluzione di compromesso tra una visione storicamente attendibile,
realista che desume anche da Scott e quella religiosa che fa si che i Promessi Sposi possano drammatizzare
in maniera non banale il conflitto tra bene e male.
La posizione di Manzoni cambia dopo la pubblicazione della quarantana e che consegna 10 anni dopo con il
titolo “del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e d’invenzione”, 1850, dove
Manzoni, individua una trasformazione che in Francia è già avvenuta e che riguarda i paradigmi e campi
d’azione della storiografia e della finzione, della poesia. La storiografia come scienza inizia il suo cammino
di scientifizzazione e il romanzo si modifica di conseguenza a questi cambiamenti; questo avviene in
maniera chiara attraverso la costruzione di una funzione del narratore che è del tutto sconosciuta alle forme
romanzesche del 700. Manzoni sembra perfettamente consapevole di una modificazione che solo gli studi
successivi rendono palese e cioè che mentre la storiografia non può più appagare lo scontro archivistico dei
nudi fatti e che invece per essere una materia scientifica necessita non solo di verificare i documenti ma
anche di selezionarli e disporli in una trama di significato, il romanzo mutua dalla storia l’idea di una
possibilità inedita di non raccontare più le vicende esemplari di qualcuno a cui è successo qualcosa di strano
ma di narrare questioni collettive perché la vita del singolo, eletto a protagonista dei romanzi, come noi o
peggiore di noi, era avviluppata ai destini generali che trascendono l’individuo. Al romanzo tocca raccontare,
attraverso la storia di un individuo, la storia collettiva di un pezzo di epoca storica, di una comunità. Questo
spiega da un punto di vista formale, la messa a punto di un’idea di un narratore autoriale, cioè, secondo la
logica di Genetta, un narratore eterodiegetico a focalizzazione 0 perché è un narratore che riesce a controllare
l’intero ambito che si sta raccontando, con oscillazione progressive di questo narratore di penetrare nelle
menti dei personaggi realmente esistenti e che nei romanzi del 700 non ci sarebbero. Questo da sostanza
pseudo fattuale ma non si serve di un narratore collettivo ma della narrazione omodiegetica di un singolo
personaggio. La funzione di questo narratore collettivo è del tutto nuova ed è legata alle trasformazioni della
storiografia. L’idea di questo narratore autoriale che caratterizza il romanzo, alla Balzac, che conosce tutti i
personaggi e gli avvenimenti e che è in grado di commentarne i fatti e capire le pieghe più intime della
psiche interna dei personaggi, conosce tutta la storia e la controlla.
La finzione nei Promessi Sposi è spiegabile dal fatto che si tratta di un manoscritto ritrovato e l’autore
commenta fatti che non sono del tutto narrati ma allusi dal manoscritto. Nel passaggio che da Standal a
Balzac porta al secondo 800 si consuma il fatto che non c’è più bisogno di questa topica del documento da
commentare perché il narratore conosce tutto, il cui compito è mostrare il fatto che la vita del personaggio è
avviluppata ai destini generali, è legata alla storia.

LEZIONE 22 28/04/2023
Manzoni sceglie, in un’epoca piuttosto pioneristica, un modo di riflettere quasi saggisticamente attraverso il
testo finzionale. Le incursioni del narratore manzoniano sono incursioni che manifestano un alto tasso di
referenzialità non verso il mondo finzionale ma al mondo reale; questo pone una serie di quesiti tra fatto e
finzione. Il romanzo saggio, che va formandosi a partire dalla metà dell’800 e che tocca il suo apice negli
anni 20 del 900, è interessante perché mette in relazione tra loro due dimensioni: il romanzo e l’aspetto
saggistico; questo crea una referenzialità doppia, una rispetto all’azione romanzesca e l’altra rispetto al
mondo reale. Quando Manzoni interviene dicendo che i fatti di storia possono essere trovati nelle fonti ecc
sta mischiando apparentemente due dimensioni diverse (finzione e realtà storica). è un atteggiamento che in
Manzoni è quasi implicito nella sua formazione pedagogica, nel tentativo allegorico che c’è dietro questo
romanzo ma che in alcuni scrittori successivi diventa una riflessione più attenta sul rapporto che c’è tra i
generi referenziali e i generi finzionali.
Secondo molti studiosi come ad esempio Mazzoni, il romanzo, oltre ad essere un super genere capace di
confondere i piani della realtà e della finzione, è anche un genere che più di tutti si è interrogato sulla
distanza tra le esigenze dell’immaginario e le contingenze della vita materiale. A partire dalla metà del 700
assistiamo a una vera frattura di valenza etica, cioè le leggi morali iniziano a non trovare più fondamento in
qualcosa di trascendente rispetto alla vita sociale e dunque, l’etica tende a diffondersi nell’interiorità del
singolo. Il romanzo come nobel è il genere dell’interiorizzazione del tempo cioè le riflessioni di ordine
morale passano da una dimensione collettiva, condivisa, etnica ad una dimensione personale. Siccome il
romanzo è il genere della rappresentazione dell’idiosincrasia del singolo e a mettere quell’individualità al
centro di una vicenda raccontata come ad es. Madame Bovary che a detta del suo stesso autore è un romanzo
basato sul nulla e che ha come protagonista dei personaggi insignificanti. Questo genere funziona solo
all’interno di un mondo in cui ciò che è decisivo e fondamentale è l’idiosincrasia di tutti gli io che
compongono la società e solo attraverso questa dimensione individuale si spiega la solitudine del romanziere,
del lettore che è il termine tecnico che descrive l’evoluzione della società borghese. La società borghese è
l’estremizzazione di fenomeni di solitudine sociale. Nella seconda metà dell’800 la frontiera tra fatto e
finzione è labile perché a volte la finzione imita il fatto per avere credibilità, a volte il fatto imita la finzione
per avere una trama.
Ciò che differenzia il romanzo saggio dagli altri è la decisione dello scrittore di inserire in una certa vicenda
romanzesca, il discorso riflessivo slegato dagli eventi raccontati e indifferente alle necessità formali della
trama. Il romanzo saggio si distingue dai romanzi per l’intuizione e l’immissione di abbondanti discorsi di
tipo referenziale che non hanno alcuna funzione all’interno della vicenda raccontata e non accrescono o
diminuiscono la trama. I romanzi della fine 700, inizi 800 sono di drammi nel senso che, per tutta una serie
di ragioni legati ad una tradizione, l’idea che tiene insieme e che giustifica il contributo della finzione alla
scoperta della verità passa attraverso due principi che attraversano la modernità, prima della Rivoluzione
francese, arrivano al romanzo moderno per vie secondarie:
- L’idea di unità mimetica
- L’idea della continuità dell’illusione.
non qualificano solo il romanzo quando nasce ma qualificano la narrazione come strumento di acquisizione
della verità per varie ragioni:
- La riscoperta della poetica di Aristotele tra il 400/500 è una strana riscoperta che ibrida il pensiero
aristotelico e ha una cornice cristiana, sia il pensiero neoplatonico egemone nel pensiero
rinascimentale. Dietro tutto ciò c’è una lettura della poetica di Aristotele come l’opera che canonizza
una funzione della poesia dedicata alla scoperta della verità attraverso la coerenza e la
verosimiglianza e la capacità di concatenare secondo catene di causa effetto una trama per cui tutto
ciò che eccede a quella trama è accessorio rispetto alla scoperta della verità e il contributo che
l’opera d’arte da alla verità stessa.
- La continuità dell’illusio, modo di lettura che lega a sé il lettore e lo scrittore in una mutua
sospensione delle proprie incredulità; il lettore sospende alcune funzioni critiche che avrebbe rispetto
a un discorso di tipo referenziale perché quella è fiction e funziona in questo modo, cioè da
un’illusione di continuità del mondo narrato a cui il lettore accede tramite la lettura.
Il romanzo saggio viola questi principi che ritroviamo nel romanzo settecentesco perché tolta la cornice, il
romanzo settecentesco, implica la sospensione dell’incredulità e implica l’unità mimetica e la continuità
dell’illusione; non ci sono né incursioni dirette del narratore extradiegetico rispetto alla diegesi né
commentandola né interrompendola, non ci sono digressioni dei dibattiti, nei dialoghi dei singoli personaggi
tali per cui si possa avere l’illusione di una rottura del mondo finzionale.
Il romanzo saggio nasce in violazione proprio di questi due principi cioè sembra quasi che questi scrittori
come Manzoni, Tolstoj, Dostoevskij, non credano che la verità del romanzo sta nella sua trama e che
l’intreccio non possa essere interrotto pena la perdita della narrazione; studiano un sacco di modi diversi sia
per mostrare il fatto che la trama di per sé non è uno strumento assoluto di accesso a una verità intrinseca e
che la narrazione può essere interrotta senza che questo perda la natura, il percorso di verità iniziato
attraverso la lettura. L’interruzione dell’intreccio che è tipico del romanzo saggio sembra quasi un gesto di
sabotaggio rispetto a questi due antichi principi che il romanzo moderna eredita e soprattutto crea un
rapporto ambiguo di referenzialità tra il mondo finzionale e il mondo reale. L’intervento del narratore
diegetico interrompe la fruizione del mondo finzionale ma il narratore extradiegetico spesso nel romanzo
saggio sembra riferirsi a qualcosa che è al di fuori del mondo narrato, cioè la realtà esterna rispetto alla
finzione e questo crea un effetto di referenzialità. Nel romanzo settecentesco questo effetto era dato solo
dalla cornice ma Hamburger ha spiegato già che è solo quando ci immergiamo nello spazio-tempo dei
personaggi che sospendiamo davvero la nostra infermità, accediamo realmente a ciò che è fiction. Questo
tipo di letteratura potrebbe farci pensare al fatto che ciò che stiamo leggendo è una finzione; questo ricorda le
riflessioni sullo straneamento brechtiano perché se si interrompe la finzione facendo un ragionamento
referenziale sul mondo extra narrato, si sta implicitamente dicendo che ciò che viene narrato è finto.
In questa tradizione, il narratore compie sempre una selezione rigorosa rispetto a tutto il materiale
rappresentabile, escludendo gli elementi che non contribuiscono allo sviluppo della trama; dire la verità sul
mondo diventa legato a finzionalizzare quel mondo.
Le poetiche dell’impersonalità che nascono da Flaubert in poi mostrano la crescente diffidenza rispetto a
quella figura di compromesso tra due istanze molto distanti, cioè la serietà scientifica della storiografia e il
mondo della finzione, e questa trasformazione riguarda l’accesso a certe poetiche di tipo impersonale dove il
romanzo sembra farsi da sé, con la progressiva eliminazione della voce narrante.
Il romanzo saggio è una forma di media durata che ha una continuità dentro questo segmento ed è una forma
che i contemporanei utilizzano per violare la barriera tra fatto e finzione. Vi sono, dentro questa tradizione,
alcuni principi ricorrenti:
- La serietà della rappresentazione saggistica: intervento che spezza l’illusio non si trasforma mai in
scherzo e non è mai un contrappunto ironico rispetto alle vicende narrate ma è parte integrante e
necessaria, pur non essendo trama fa parte del significato del romanzo
- Instaura sempre un dialogo tra la fiction e le altre forme di conoscenza: crea dei rimandi che
eccedono i limiti della mimesi e confinano con discorsi di ordine referenziale; possono rimandare ad
enti che esistono nella realtà di chi scrive e chi legge come la storiografia scientifica in Guerra e
Pace, la psicoanalisi della Coscienza di Zeno. I legami con queste discipline sono aperti nella
narrazione e creano un rimando tra il fatto e la finzione.
- Si instaura dentro una dimensione profana del pensiero: sul modello del saggismo di Montaigne.
Scrivere da profano sugli argomenti più importanti perché siamo individui, abbiamo il nostro
pensiero e possiamo ragionare degli eventi che ci interessano.
- Esercita il rifiuto di delegare i gesti di riordinamento dell’esperienza ad autorità esterne al soggetto o
a quelli schemi di senso preesistenti: il romanzo saggio dimostra che le grandi riflessioni di ordine
storico, politico ecc non si riconoscono più in entità esterne all’autorità del soggetto che decidono o
pre impostano per quel soggetto il ragionamento su cui si argomenta.
- Esprime una ambizione universale dello sforzo conoscitivo: pur essendo mossa dall’esperienza e la
biografia privata del singolo quel tipo di sforzo conoscitivo ambisce alla creazione di un sistema
unico onnicomprensivo, capace di orientare non solo l’individualità ma anche la collettività. C’è
l’idea che il contributo che il singolo possa essere rilevante per un sistema generale della
conoscenza.
Perché il romanzo saggio nasce in questo momento?
Il saggio è unas trana forma di referenzialità; nasce in un’epoca in cui si vede il tramonto di vecchie forme di
indagine referenziativi come ad esempio il trattato perché si da come testo esaustivo e impersonale mentre il
saggio è una forma di scrittura che si basa sull’esperienza e l’autobiografia di chi la scrive. Il saggio nasce
con Montaigne legato a certo vissuto privato di chi compie le indagini ed eredita una enorme tradizione di
scritture scientifiche ma le filtra tutte attraverso l’idiosincrasia del saggista; il saggio si propone come
qualcosa da discutere, intende proporsi come una lettura privata di quell’argomento con funzione pubblica.
Nel momento stesso in cui crollano alcuni modi di fare critica di un testo, il romanzo reagisce reintegrando
parti di quel discorso referenziale all’interno delle narrazioni di finzione e questo collega la trasformazione di
alcuni grandi ambiti di riflessione (sulla storiografia, sulle società).
L’incontro tra il saggio e la fiction romanzesca pone alcuni problemi: il saggio è un genere che elegge
l’autorappresentazione dell’individuo che cerca di raccogliere la propria biografia e trasformare l’esperienza
in conoscenza attraverso l’applicazione di analisi di ordine metalinguistico. Tale presenza soggettiva
interagisce in maniera peculiare con il romanzo, cioè una riflessione di questo tipo, all’interno del romanzo
di finzione, di per sé sconvolge la funzione sia del saggio che del romanzo. Storicamente, nella fase classica
del romanzo saggio, è stato possibile inserire una riflessione all’interno della fiction attraverso 3 modi:
- Dialogo tra intellettuali come scelto da Dostoevskij perché il dialogo tende a dilatarsi in maniera
esasperante e in questo dilatarsi tendono a prendere la forma del saggio, cioè riflessioni su
argomenti, ad esempio, di ordine morale; su questo si costruisce un dialogo lunghissimo ma anche
l’inserzione di pseudo documenti, di saggi riportati su questo argomento. Il dialogo non è funzionale
alla trama, non ci dice nulla. Il dialogo è un antico genere deputato alla riflessione filosofica e prende
le pieghe di una vera riflessione saggistica.
- Intromissione del narratore onnisciente nel mondo finzionale: si tratta di una forma anche di
metalepsi perché il narratore extradiegetico interrompe la narrazione, propone la riflessione su
qualcosa di capitato e questa riflessione prende la forma di un saggio. Ad esempio, lo fa Tolstoj,
Manzoni in parte perché scrive in un’epoca diversa anche se, molte delle narrazioni del narratore
manzoniano, sono commenti puntuali, affermazioni minime; solo dal punto di vista storico, Manzoni
che ci racconta le vicende del gran ducato prendono la forma delle riflessioni di un vero saggio. Il
confine tra narratore extradiegetico e l’autore in carne d’ossa si assottiglia perché 1 attribuiamo
quell’intervento a quell’entità che non si capisce chi sia al narratore e 2 i riferimenti che fanno non
sono al mondo della finzione ma al mondo reale, dove vive l’autore in carne ed ossa ed è difficile
mantenere questo all’interno dei confini ontologici della finzione, siamo portati a pensare che sia un
ragionamento referenziale, che lo spazio tempo di cui parla non sia quello dei personaggi ma quello
del lettore. Nel sistema di Hamburger, quando il narratore extradiegetico ci concede la narrazione il
nostro spazio-tempo di riferimento è quello dei personaggi ma quando quella storia viene interrotta e
il narratore extradiegetico ci descrive l’architettura o le riflessioni sulla storiografia lo spazio-tempo
non è più quello dei personaggi, gli indicatori verbali sono a livello dell’autore-lettore e non a livello
dei personaggi.
- Saggismo indiretto libero: come il discorso indiretto libero; l’incursione di tipo saggistico,
l’interruzione della narrazione, avviene in regime di confusività tra i personaggi e il narratore stesso.
Nel disc. Ind. Lib. Non sappiamo se a parlare in quel momento è il personaggio o il narratore, lo
presumiamo dal discorso; ad esempio, “l’uomo senza qualità” in cui non sappiamo scindere la
digressione di tipo saggistico.
Il discorso referenziale che fa il narratore in questo tipo di opere ci pone problemi di ordine ontologico: a
quale tipo di mondo appartiene questa riflessione? Non sembra a quello dei personaggi perché a volte i
personaggi non ne parlano proprio, soprattutto nella seconda modalità.
Come facciamo a distinguere?
1 Queste frontiere tra fatto e finzione sono permeabili; 2 un’indagine di tipo strutturale sui tempi verbali
e i deittici spazio-temporali.
Il terzo momento di frattura nella letteratura è negli anni 60 del 900: polemica e critica rispetto ai compiti
della letteratura consolidati. Truman Capote, grande scrittore americano famoso soprattutto nei 60, cambia la
storia della letteratura, sposta la frattura tra fatto e finzione con l’opera “Sangue freddo”. Nasce perché il 16
dicembre Capote legge sul New York Times che in un piccolo paesino è stata massacrata un’intera famiglia
da mano sconosciuta senza motivo; fa un contratto con il new Yorker e si trasferisce in Cansas. In questo
contesto, Capote che è un newyorkese snob ed omosessuale, si trova a dover affrontare questa cittadina
bigotta e inizia la sua indagine. Si rende conto di non voler scrivere solo di finzione ma vuole scrivere di
fatti, di cose referenziali. Il 30 dicembre mentre Capote sta cenando con il capo della polizia locale che è il
protagonista dei fatti, arriva la telefonata che i due criminali sono stati già catturati; la struttura giornalistica
deve cambiare. Questo caso è decisivo per la nascita del non fiction Nobel perché non è giornalismo, non è la
costruzione di un’inchiesta in forma romanzesca ma è la rielaborazione finzionale, nel senso di messa in
trama, di un’indagine reale. Truman, quindi, decide di virare da indagine poliziesca a grande indagine sulla
cattiveria umana, sulla banalità del male e comincia ad andare a trovare in carcere i due che creano un
rapporto tra scrittore e criminali che rischiano la pena di morte.
È un romanzo diviso in 4 capitoli che coprono l’arco temporale che va dal novembre 59 all’aprile 65. La
struttura del romanzo è molto capottiana, l’attacco del romanzo è molto cinematografico perché si apre con
una ripresa dall’alto della cittadina; vengono presentati i vari personaggi e vengono presentati, attraverso il
montaggio alternato, la vita della famiglia e le vite dei criminali che vengono presentati in un preciso
momento della vicenda per mettere ben in evidenza l’estrazione sociale e le caratteristiche psicologiche.
Truman è costretto a dover rendere pathos e tensione in una storia di cui tutti conoscono gli sviluppi, ci
riesce attraverso la struttura dei capitoli e attraverso l’attesa che li porta alla morte.
Nel secondo capitolo vengono presentati gli agenti di polizia che conducono le indagini;
il terzo capitolo alterna le indagini della polizia e la fuga dei criminali. L’ultimo capitolo è quello più
importante: Truman si trova in difficoltà perché non sa come chiudere questa storia, non ha nessuna
intenzione di patteggiare per i criminali nonostante il legame che crea con i due che è funzionale solo alla sua
opera d’arte. La domanda che si fa è lo chiudo con l’esecuzione o no? Perché non sembra un finale dignitoso.
Descrive una cosa totalmente finzionale; fino al finale abbiamo possibilità di riscrivere quasi
referenzialmente tutto ciò che Truman finzionalizza, non lo possiamo fare del finale perché inventato. Questa
rottura della referenzialità dichiarata è significativa su quali sono i compiti del romanzo. Dove collocare
“Sangue Freddo”? viene preso a modello da tutti quegli scrittori non finzionali, dai giornalisti anche se non
c’entra nulla, è un romanzo che riusa un’indagine giornalistica per avere contenuti da mettere in trama e
questo finale del tutto finzionale ribadisce la funzione del romanzo che non è quella di descrivere il mondo
reale e di dirci qualcosa su quel mondo, il compito del romanzo è riflettere sulle grandi questioni che
riguardano l’uomo come per esempio vita-morte, bene-male. La scelta di questo finale dipende dalla volontà
di Truman di spiegare al lettore che la vita continua anche in mezzo alla morte.
In che modo altre forme di media hanno affrontato questo romanzo? Ci sono almeno tre film che
ricostruiscono da vicino le vicende. Il primo del 1967 di Brooks adatta il romanzo ed esclude Capote anche
se nella scena dell’esecuzione fa comparire un giornalista che da vicino ha tutte le fattezze di Capote perché
quando mettiamo in scena un’opera di questo tipo abbiamo il dubbio di perdere tutto ciò che sappiamo
dell’indagine attraverso cui quel romanzo è nato. Tutta l’indagine è extra testo non fa parte del romanzo.
Altri registi più recenti hanno pensato di rappresentare l’indagine di Capote perché l’indagine è ciò che ha
interessato di più, è ciò che definisce meglio la natura ibrida di questo testo. Il film di Miller non è
l’adattamento del testo ma è la vita di Capote durante la realizzazione del testo, è un’opera biografica.

LEZIONE 23 – 03/05/23
Ci siamo fermati parlando della faglia avvenuta a metà degli anni 60 grazie alla scrittura sdi Truman Capote,
che sfrutta anche dal punto di vista letterario ciò che il giornalismo andava facendo negli stessi anni. Questa
faglia, come le altre due del 700 e dell’800, in qualche misura ha un suo rispecchiamento anche nella storia
del giornalismo, e infatti contemporaneamente registriamo la nascita del movimento che più di altri ha
rinnovato le fonti del giornalismo americano, e che è stato battezzato new journalism.
Wolfe e gli altri reporter sono molto diversi tra loro, e vengono raggruppati da Wolfe per creare una sorta di
antologia, ma in realtà non sono un gruppo nel senso letterario del termine. Sono semplicemente accomunati
da una serie di caratteristiche, che dipendono dalla percezione di un cambiamento che riguarda il rapporto tra
chi scrive cose e la verità. Si sta creando in questa fase un capitalismo dei servizi, che non riguarda più solo
la produzione seriale di oggetti, ma piuttosto l’informazione e i servizi. Wolfe vuole rivalutare la funzione
etica del romanzo realista inglese, ma vuole farlo all’interno del giornalismo e delle sue forme, specie il
reportage (che concede più narratività ai giornalisti). Egli inoltre vuole riprendere da uno dei precedenti
grandi scrittori che è stato giornalista, Hemingway, la commistione tra romanzo e giornalismo. In lui c’è
tensione tra l’aspetto informativo e l’aspetto narrativo.
Tutto ciò che Hemingway scrive poi diventerà vero negli anni successivi.
Il NJ vuole quindi superare quella specie di gabbia che il giornalismo americano seguiva, con la regola delle
5 W: chi, quando, cosa, dove, perché. Non è mai stata seguita in maniera ferrea, ma si intende che qualsiasi
pezzo giornalistico deve rendere subito chiare al lettore queste cinque cose fondamentali. Vanno superate,
perché ci deve essere molto altro, secondo Wolfe: intanto l’idea di una referenzialità pura degli articoli
rispetto alla fattualità è un’invenzione, è ideologia. Se noi studiassimo i più importanti reportage del primo
900, vedremmo che questo piano di referenzialità è molto diverso da quello che ha lo storico. Il giornalista di
per sé adotta una prospettiva, legge le cose in modo diverso. Più è onesto più denuncia la sua posizione, non
esiste la neutralità.
Questo ci fa riflettere anche sul compito odierno del giornalista. Più un giornale è spostato verso posizioni
ideologiche dominanti, più esso è percepito come ideologicamente disposto. L’ideologia è infatti una forma
di feticismo per cui percepiamo come naturali delle qualità che invece sono socio-economicamente
determinate. Altri giornali manifestano proprio la posizione comunista, addirittura il Manifesto ha il
sottotitolo “quotidiano comunista”.
Questo significa che i fatti, senza una lettura, non esistono. Per essere tali e per essere scelti come fatti hanno
delle caratteristiche e una funzione politica. L’altra caratteristica che accomuna il NJ è che per realizzare
questo tipo di immersione nella notizia, per farci vedere davvero il filtro del giornalista, adotta dei criteri e
delle tecniche tipicamente negate alla tradizione giornalista. Si usano infatti i personaggi, i dialoghi, e altre
strategie letterarie del romanzo realista dell’800.
Ci sono 4 regole secondo Wolfe che determinano il reportage 2.0 del NJ:
-la costruzione del testo scena per scena, il graduale susseguirsi di immagini che fanno immedesimare il
lettore dentro il testo; mostrare il calore del testo, il motivo per cui questo fatto è stato scelto per raccontarlo.
Perché selezioniamo alcuni accadimenti da raccontare?
-uso dei dialoghi, molto raro nel giornalismo classico. Il punto di vista sarà così interno alla storia, descritta
da un quadro di personaggi, e spesso il giornalista usa l’io. Stile diverso da punto di vista a punto di vista.
Infine si tenta di descrivere le sensazioni di ambiente e personaggi con una resa di dettagli ripresa dal
romanzo borghese;
I modelli sono ovviamente i grandi scrittori realisti, come Balzac e Flaubert.
-nel NJ si dibatte anche lo scontro tra quelle che una volta venivano definite Fat News, cioè le grandi notizie
di politica economica, finanza o cronaca nera, e le Thin News (non ho capito la parola inglese), cioè quelle
piccole, locali, spesso eccentriche. Il NJ elegge a proprio oggetto specifico di narrazione proprio queste
ultime. Spesso si scelgono notizie marginali, laterali alle grandi notizie. È una scelta ovviamente politica, per
mostrare attraverso i piccoli casi aspetti molto più generali. Queste piccole notizie giocano la carta
dell’emozione e tendono a coinvolgere il lettore molto più delle fat news. Inoltre hanno una caratteristica,
cioè sono meno obiettive, sviluppano una funzione informativa attraverso la personificazione della notizia.
-ironia

Lettura di un intervento di una grande scrittrice e reporter, la più originale del suo movimento. Famosa per
questa notizia, “Compagno Lasky”. Qui si tratta l’aspetto esistenziale, non politico. Non è l’apparente
fattualità della notizia ad interessare, ma il suo risvolto esistenziale. Ci sono dialoghi, personaggi
romanzeschi e ironia, anche se mai distruttiva e dissacrante. Tutte le caratteristiche del NJ: si prende un fatto,
si finge di farne un reportage, e se ne ricava una grande morale che riguarda l’esistenza delle persone.
La paura di molti è che il giornalismo classico sia uno strumento del sistema, faccia parte del gioco. Per
questo il NJ si pone a margine, esso non vuol far parte del sistema.

Cosa è il romanzo non fictionale, prossimo tema importante da trattare.


Parliamo ora de “L’avversario”, romanzo francese di Carrere per cui il prof aveva coniato il termine di meta
non fiction. La storia si basa su una menzogna, il protagonista è un criminale francese che negli anni 90
stermina la famiglia per ragioni abbastanza futili. Quindi un fatto di cronaca che mischia la banalità del male,
l’emblema della mediocrità umana e la gravità della strage compiuta. Carrere è sconvolto quando legge di
questo fatto, perché la ragione della strage è una bugia detta dallo stesso assassino, detta vent’anni prima del
misfatto, quando il tipo frequentava medicina: sarebbe potuto diventare un grande medico, ma in realtà egli
aveva dato solo due esami e aveva poi finto di continuare la carriera universitaria. Ha fatto finta di laurearsi,
di lavorare e di essere stato chiamato dall’OMS. Conduce lo stile di vita di un medico ben pagato, in
Svizzera, ma in realtà si fa prestare soldi dai genitori con la scusa di amministrarli. Il problema dei soldi
ovviamente diventa ingestibile col tempo, qualcuno degli amici o dei parenti li chiede indietro e inizia a farsi
qualche domanda. Così, per uscire da questo problema, ammazza tutta la famiglia.
si può fare quindi non fiction basandosi su una menzogna, su una vita finta e simulata per trent’anni: diventa
per Carrere l’occasione ideale, il motivo quasi per cui diventare scrittore. L’interesse per una storia di questo
tipo è triplice, perché riguarda il rapporto tra finzione e realtà, tra finzione e verità e tra reale e finzionale.
Sono tre dimensioni diverse e molto importanti. Non interessa l’aspetto cronachistico, ma quello esistenziale
del protagonista: cosa deve aver pensato e fatto mentre fingeva completamente la sua vita. Ci si pone anche
l’interrogativo su cosa sia bene e cosa sia male. Il suo amore per i parenti sarà stato vero o finto, simulato?
Nella vita di un simulatore ci sarà stato qualcosa di vero?
Il titolo del romanzo è molto esplicativo, su cosa sia davvero l’argomento: il rapporto tra bene e male e il
fatto che in carcere il protagonista si converta al cristianesimo, e Carrere si chiede se anche questa
conversione sia reale o simulata. L’avversario è uno dei tanti nomi che Satana ha nella Bibbia, e forse è il
doppio di questo protagonista, è la sua parte malvagia.
Carrere dice anche che se uno scrittore si fosse inventato questa storia, l’editore l’avrebbe rifiutata; la realtà
spesso è molto più assurda della finzione. La realtà del nostro avversario è pazzesca ma fattuale, quindi sazia
la fame di realtà del pubblico. “Fame della realtà” è anche il titolo di un libro di Schiltz, costituito in modo
non creativo da una serie di citazioni. Esse in larga parte fanno riferimento al mondo referenziale, ma che
trascritte dalla penna di un romanziere suonano come finzionalizzazioni. Il titolo fa capire che qualcosa sta
cambiando, una certa idea di letteratura è sempre più spesso percepita come eccessivamente mediatrice. La
fame è quella degli scrittori che si rendono conto che il modo post-moderno di fare letteratura e fiction è
ormai fuori dal tempo. Il miglior modo di fare letteratura è mischiarla, è renderla bastarda, è farla intervenire
nel dibattito. Va pensata come strumento di azione rispetto ai problemi del mondo.
Rapporto tra verità e falsità è l’altro piunto che l’avversario tocca: il protagonista è un mentitore seriale,
mente anche durante il processo, perché parla sempre seguendo il proprio mondo di verità e menzogna.
Diventa convinto di star dicendo la verità, dentro la sua mente abituata alla menzogna (come i nazisti durante
il processo di Norimberga). La verità va maneggiata con molta cautela.
Il terzo punto riguarda la dialettica tra finzione e falsità, che non sono la stessa cosa: c’è un modo legittimo
di dire bugie, cioè la scrittura. È un mutuo inganno, accettato dallo scrittore e dal lettore. Il protagonista ha
vissuto in modo del tutto finto, ma la sua menzogna non nascondeva niente di vero, cosa che invece fa
solitamente la bugia. Lui non aveva due vite, lui semplicemente simulava una vita. Anche dietro la
simulazione letteraria non c’è niente, eppure essa ci racconta molto del mondo vero. La verità dunque non
passa solo dal fattuale, perché anche fattuale e vero sono diversi, così come sono diversi finto e falso.
Carrere parla spesso di questo argomento e fa una riflessione interessante sul rapporto tra fatto e finzione.
C’è un aspetto del suo romanzo evidente già dall’incipit, che lo distingue dalla tradizione: l’autore quando
legge questa storia sul giornale pensa di scrivere un romanzo nello stile di Truman Capote. ma non ci riesce:
va sui luoghi del protagonista, Roman, incontra i suoi amici, come avrebbe fatto Capote. ma il romanzo non
esce, non viene: perché “A sangue freddo” impressionava alla lettura per l’impianto cristallino della
narrazione, per la scelta di un narratore eterodiegetico che organizza tutto ma non si vede; l’approccio di
Capote è impersonale in modo violento, perché tutto il giornalismo letterario fino a lui era stato basato sul
fatto autobiografico, per cui egli scrive in modo eterodiegetico per distanziarsi da quella tradizione. Inoltre
egli tenta di ritrovare le forme del romanzo, non di parlare di sé. Carrere capisce che non può accettare
l’impianto impersonale: intanto perché lui è egocentrico, non può sentirsi messo in secondo piano rispetto ai
personaggi; la riflessione sul bene e sul male è vissuta in prima persona dal Carrere narratore, autore e
finzionale che è presente nel libro.
Questo romanzo è costruito da un narratore omodiegetico che corrisponde nominalmente a Carrere, ma le
parti giudiziare della vicenda e tutte le parti del processo sono raccontate da un narratore impersonale, simile
a quello di Capote. La riflessione è da parte dell’io, ma la narrazione dei fatti è quasi eterodiegetica.
Carrere dice poi che Capote falsifica la verità, ed è questo il motivo per cui lui non riesce a scrivere nello
stesso modo. Per falsificazione della verità, Carrere intende che Capote ha tolto se stesso dalla storia, anche
se era protagonista dei fatti: togliersi significa falsificare i fatti.
ovviamente Carrere non ha ragione, e il libro di Capote “A sangue freddo” è un capolavoro quasi
inarrivabile, perché c’è suspence intorno ad una vicenda che tutti già conoscono. Capote vuole trasferire la
credibilità e il livello di verità dai fatti (appannaggio del giornalismo) alla struttura letteraria, all’aspetto
estetico della narrazione.

LEZIONE 24 – 04/05/23
Lezione del professor Leonardo Quintavalle.
Descrizione e verosimile: tre teorie sulla prosa descrittiva.
Verosimile: cosa intendiamo normalmente con questa parola? Come distinguiamo, nel caso dei fatti passati,
una cosa verosimile da una cosa accaduta realmente? Una cosa verosimile potrebbe essere accaduta, ma non
importa che sia accaduta davvero. Deve essere plausibile.
Sta citando pezzi della bibbia su Mosè.
Ora cita un testo nel 1996, il primo romanzo della saga Trono di Spade.
Tra questi due testi quale appare più verosimile? Ovviamente il secondo, nonostante sia un fantasy. Martin lo
ha voluto rendere verosimile nonostante tutto.
Ora cita un pezzo di Mimesis di Auerbach, che inizia con un paragone tra l’Odissea e la Bibbia, su cui
Auerbach dice: nel primo ci sono eventi a tutto tondo, collegati tra loro in modo coerente, avvenimenti che si
compiono correttamente; nella Bibbia invece ci accentuazioni solo sui punti decisivi dell’azione, e luoghi e
tempi sono indefiniti, pensieri e sentimenti non sono espressi. In sintesi, l’Odissea è molto più verosimile
della Bibbia.
Esistono tre teorie letterarie che giustificano questa nostra esigenza e necessità di descrizione del reale:
- teoria del dettaglio rilevante, Cechov-Diderot-Aristotele: presa da una famosa frase del primo studioso; se
nel primo atto di una piece c’è un fucile appeso al muro, in seguito sarà utilizzato. Se non viene usato, non
dovrebbe starsene lì’ appeso. Se tu inserisci un oggetto, c’è una ragione e avrà un suo senso, oltre che un suo
background. È una teoria resa popolare da Cechov ma in realtà è molto antica. Saggio di Diderot: Sulla
poesia drammatica, che ha messo in postilla ad una sua commedia. È una giustificazione sul verosimile ma
anche un manuale di istruzioni per i drammaturghi. Tra i vari consigli: se avete pochi incidenti, abbiate pochi
personaggi. Non cercare personaggi superflui e un filo sottile unisca tutti i vostri accidenti, evitando che
alcuni di essi cadano nel vuoto. Questa è anche una delle verità aristoteliche: tutte le azioni di una trama
devono convergere in una stessa direzione. Il problema di questa teoria è che spesso non torna, specie in
ambito romanzesco.
Lettura di un passo di Balzac, del suo romanzo ?. Egli è uno dei primi grandi romanzieri realisti francesi, ed
egli come vediamo inserisce un sacco di elementi inutili nella sua narrazione. Lo fa solo per descrivere in
modo realistico e concreto una scena.
- teoria di Barthes, critico letterario della seconda metà del 900, strutturalista: ha scritto il saggio “L’effetto
di realtà”; in una trama, tutto è prevedibile, tranne la descrizione. Essa non ha alcuna marca predittiva, la sua
struttura è puramente sommatoria. Tratta una novella di Flaubert, Cuore Semplice, in cui compare un
barometro che non serve assolutamente a nulla. Non è importante e non tornerà nella storia, ma è lì per
garantire un migliore effetto di realtà: indica che quel testo si riferisce alla realtà empirica, quella del mondo
che vediamo tutti i giorni. La realtà di questi romanzi arriva a livello interstiziale, grazie a questi dettagli
apparentemente insignificanti, e non grazie ai personaggi o agli eventi narrati. Può apparire banale ma in
realtà è un pensiero del tutto moderno/contemporaneo. A un certo punto il discorso letterario ha sostituito il
verosimile al vero, cercando di far passare il verosimile vero al 100%. Se prima i dettagli più banali
appartenevano al solo discorso storico, ora sono stati inseriti nella finzione per farla apparire più verosimile
possibile. Questo è un cambio di paradigma nostro, perché oggi cerchiamo di mescolare verosimile e vero;
gli antichi non si ponevano questo problema.
- partiamo per la terza teoria dal romanzo di Scott, Ivanhoe, che ha inventato il modello di romanzo storico
come lo conosciamo oggi. Lettura di un passo in cui si vedono tanti dettagli inutili, che potrebbero fungere
da effetto di realtà. Ma c’è una differenza con questo libro e il barometro di Flaubert: Scott ha un interesse
storico nel mostrare la realtà del Medioevo. Non è una quotidianità che i suoi lettori possono conoscere,
quindi il piacere descrittivo è anche istruttivo, nasce da un fascino che il tempo storico evoca. Descrizione
evocativa che vuole affascinare, prima che descrivere il reale così com’è.
Nel passato la vita quotidiana non veniva conservata e raccontata dagli storici, bensì dagli antiquari.

Barthes parla dell’ecfrasis, il processo descrittivo isolato, che può venir tagliato fuori dal contesto senza far
perdere significato alla storia. Tali porzioni hanno un fine estetico, non sono necessari. Molta parte della
descrizione moderna non trova spazio nell’ecfrasis perché non sono descrizioni di cose “belle”, come invece
poteva essere lo scudo di Achille descritto nell’Iliade.
Secondo Balzac, i fatti della vita umana possono essere dedotti dai piccoli atteggiamenti del quotidiano;
questa idea è tipica del diciannovesimo secolo e della mentalità ottocentesca.
Fascino indiziario a proposito di Conan Doyle, che parla di tutti i dettagli per far dedurre a Sherlock le storie
dei personaggi. Per Ginzburg, tale procedimento indiziario si ritrova in letteratura, in psicanalisi e in storia
dell’arte, perché in tutti i casi dai minuscoli dettagli si può risalire alla trama, ai traumi o alla veridicità del
quadro.

LEZIONE 25 – 5/05/23
Carrere compie un percorso simile a quello di Capote, perché non sa bene come collegare sé stesso
all’interno della storia. Non riesce a dare una versione dei fatti che non sia filtrata dal suo punto di vista.
Si raccontano i fatti di un personaggio, quindi dove si colloca il narratore?
La scelta di Carrere occulta la distanza che si pone solitamente tra autore e narratore, oltre alla figura di
personaggio testimone. Hanno lo stesso nome ma non possono essere la stessa persona, anche perché l’autore
vive nel mondo reale, il narratore in quello referenziale, fatto di parole. Ma tra gli eventi e la loro scrittura,
inoltre, c’è una distanza tra il personaggio che ha vissuto gli eventi e l’autore che li scrive (o si vive o si
scrive). C’è anche una distanza morale, perché la posizione rispetto alla storia è successiva alla storia stessa,
quindi l’autore sa già cosa succede; invece il personaggio no, ha attività contemporanea agli altri personaggi
della narrazione, sta vivendo gli eventi.
L’istanza che muove la poetica di questi scrittori è di rivelazione della verità, per usare un’affermazione di
Saviano. Questa verità dovrebbe essere accettata da noi anche solo perché l’autore ci dice che è vera. Dunque
non possiamo fidarci di romanzi che si fingono essere cose referenziali, ma in realtà sono romanzi. “Emme”
non può essere usato da uno storico, perché è un romanzo. Il patto tra autore e lettore poi rimane sempre
molto ambiguo.
Il vincolo della verità è il frutto di un tentativo di questa generazione di scrittori, messi insieme da alcuni
esperimenti critici nonostante siano molto diversi tra loro. Questo vincolo tenta di scavalcare il problema
posto dal romanzo postmoderno: lo statuto referenziale del romanzo. Esiste da sempre e la storia del
romanzo moderno è la storia dei suoi tentativi di presentarsi a cavallo tra fatti e finzioni.
Molti romanzieri tentano di saltare il problema della referenzialità, chiedendo al lettore un patto di
crtedibilità della narrazione, basato sul soggetto e sulla trasparenza morale dello stesso. Si presentano dei
personaggi moralmente accettabili, che possano essere presi come testimoni credibili di un certo fatto.
Questo condiziona eticamente il racconto, perché si pongono sempre come narratori credibili. Questo salta
tutto ciò che il romanzo post moderno aveva pensato, tipo il rapporto tra testo ed extratesto (storia della
critica da Derrida fino agli anni 90). Negli anni 60 egli ci ha spiegato che non c’è niente fuori dal testo, per
paradosso: che differenza c’è tra storia e preistoria? La prima si misura in base a documenti scritti, la cui
referenzialità potrebbe essere diretta o indiretta. Siamo noi ad attribuire i significati ad un testo, esso non li
possiede di per sé. Un testo possiede solo i significanti.
il significato è un effetto, non è qualcosa di interno alle cose.
Una proposta seria rispetto a “non c’è niente fuori dal testo” è quella promossa da Jameson: un critico
letterario neomarxista, che ci spiega che è vero che il nostro accesso alla storia è testuale, però la storia non è
testuale. C’è un problema di referenza, non è vero che non c’è niente fuori dal testo: esse esistono, come il
neoliberismo, i contratti, gli scioperi, le proteste dei lavoratori… è il nostro accesso alle cose che passa
attraverso il testo, il nostro modo di dare senso alle cose passa attraverso la testualizzazione. Il significato è
un effetto ed è l’unico modo che abbiamo per dare significato alle cose.
Possiamo capire perché usiamo certe forme per spiegare le cose fuori dal testo. Ecco perché le forme
dell’arte registrano meglio di tutto il resto di noi i grandi cambiamenti della storia, che non sono testuali:
l’arte li registra perché registra anche i modi in cui le persone hanno dato significato alle cose. Registra la
costruzione di quel significato. Questi romanzi dunque ci interessano per cose diverse da quelle dichiarate
dai loro autori, di cui noi comunque non ci fidiamo.
Realismo di ordine etico ed epistemologico piuttosto che storico e letterario, portato avanti da Carrere. Non è
una verità storica o letteraria, perché non è provata da nessuna documentazione e gli autori insistono sulle
cose extratestuali. Gomorra è un capolavoro letterario non perché parli della Camorra, ma perché un
romanzo originale per la narrazione collettiva dell’epopea del male. Questi tipi di romanzo cannibalizzano
alcune tipiche metodologie di scrittura, come l’inchiesta o il reportage. Ma non sono inchieste, sono romanzi,
non possiamo credere che siano qualcosa di diverso.
Carrere sembra volersi porre come un’inchiesta giornalistica, ma perché spendere su 90 pagine di romanzo
20 per sottolineare il fatto tra verità e realtà? Quello di Carrere è un io problematico, perché è romanzesco e
Ci sono troppe etichette per il contemporaneo, come ipermodernità, sotto modernità e cose varie. Devono
essere i testi a parlare, non le cose extratestuali o le ricostruzioni editoriali.
Nella nostra società i rapporti tra finzione e realtà sono sempre più liquidi, e i nostri format sono sempre più
ibridi, mescoliamo storytelling e giornalismo, politica e letteratura eccetera. C’è una narrativizzazione
dell’attività culturale: anche i politici spesso diventano dei personaggi, svolgono ruoli, occupano la posizione
di attanti nella narrazione. Infatti anche loro mettono i video su instagram, facendo esercizi di dialogo col
popolo senza intermediazione (cosa fatta anche dai dittatori). Ci sono poi documentari e fiction mischiati
insieme. Come si interpretano le docufiction nella tematica della frontiera tra fatto e finzione?
Nella nostra società un tempo esisteva la figura “paterna” che censurava il nostro desiderio, come il maestro
di scuola o il professore; ad oggi questa cosa non succede più.
Man mano che la vita si finzionalizza, la fiction si definzionalizza.
Autorappresentazione di sé che i media contemporanei richiedono, coi social network ad esempio. Dunque
cosa è la non fiction contemporanea? Truman Capote è l’inventore della non fiction novel, ma ormai quando
parliamo di non fiction parliamo di qualcosa di diverso e più ampio. Non fiction in ambito anglosassone
significa tutt’altro, tutto ciò che non è fiction, compresi i manuali di anatomia ad esempio. In Italia invece si
intende altro. Negli ultimi anni con essa si indicano tutte quelle scritture in prosa tipo diario, reportage,
autobiografia, che rifiutano la finzionalità.
Gli scrittori contemporanei vorrebbero avere il tipo di impegno intellettuale del 700, convergendolo
nell’opera romanzesca, per rappresentare i problemi della realtà a loro contemporanea. Per farlo gli scrittori
hanno deciso di allontanarsi dalla finzione, perlomeno dalla finzione dichiarata. C’è sempre il problema etico
del dire la verità.
Il romanzo post moderno è celebre per il riuso di generi diversi, come il romanzo giallo, il romanzo
coloniale, il romanzo saggio: questa è una tipica istanza postmoderna, tornare su cose già viste, fare della
riscrittura uno strumento principale. Si modificano forme semeiotiche codificate.
Dunque la non fiction è una sorta di terra di mezzo che assottiglia il confine tra vero e falso. La parola chiave
è immaginazione: tutto è legato ad essa e a come si pone all’interno della realtà. In che modo essa ci
permette di arrivare alla verità? Se un tipo di verità misurata dalla scienza prende il sopravvento su tutte le
altre, l’immaginazione è espulsa.
esistono però forme di conoscenza che non possono essere giudicate, come l’etica e l’estetica. La non fiction
contemporanea è fatta direttamente da cose omodiegetiche, che si pongono come biografie finzionali o
autobiografie finzionali (autofiction o biofiction)
LEZIONE 26 – 10/05/23
La non fiction contemporanea, pur richiamando all’esperienza della non fiction novel, sembra muovere da
obiettivi critici distanti da quelli che avevano ispirato Capoti; il più importante di questi motivi è la
riappropriazione da parte dello scrittore di un discorso sulla realtà, che sappia intervenire sulla realtà. Tutto
questo è legato a una trasformazione della figura dell’intellettuale/scrittore dell’800, perché l’intellettuale
impegnato alla Pasolini riusciva a strappare un grosso peso nelle discussioni pubbliche. Figure che hanno
avuto un grosso peso rispetto al dibattito sono limitate; Pasolini, Sanguineti, Fortini sono poche ed enormi
ma è vero che la società degli anni 60 concedeva alla figura dell’intellettuale un prestigio che è andato
sgretolandosi per varie ragioni, compresa una certa resilienza degli intellettuali ad aprirsi a dibattiti un po'
più pop. Sono cambiati i modi della comunicazione e con essi gli intellettuali.
Per questo gli intellettuali contemporanei sentono profondamente la necessità di riappropriarsi di un discorso
della realtà, non solo di rappresentazione allegorica, esterna come invece funzionava per il romanzo post
moderno come ad esempio nel Nome della Rosa che è perfetto, sotto questo punto di vista, perché Eco gioca
con sistemi molto collaudati, utilizza tutta una serie di strumenti per rendere la lettura divertente eppure mira
anche al lettore molto più colto che sa cogliere le allusioni storiche perché è costruito come un romanzo
storico e dunque la ricostruzione del fondale è fatta in maniera rigorosa, retoriche ed allegoriche perché in
realtà allegorizza gli anni di piombo attraverso un fondale medioevale e allusioni di tipo semiotico-retorico
perché il lettore capisce subito che è una parodia. Tutto questo sembra una roba fatta a tavolino, artificiale,
finta e sembra un tipo di narrativa che non è in grado di afferrare la realtà, la rappresenta ma non può
incidere un testo di quel tipo sulla realtà in maniera diretta.
È normale che lo scrittore incida in maniera così diretta sulla realtà con la sua opera?
C’è un precedente in Italia con un romanzo non completo, “Petronio” di Pasolini, messo insieme dalla
critica, che rappresenta l’idea di riappropriazione della realtà da parte dello scrittore. Lo fa in maniera di
autocritica, ante litteram e in qualche modo sfida le convenzioni della letteratura post-moderna e lo fa con la
convinzione che la letteratura possa e debba avere una attività direttamente politica sulla contemporaneità.
IL PUNTO CIECO di Cercas
Nel primo saggio in programma si coglie perfettamente il significato dell’operazione letteraria di quella
generazione. (lettura saggio)
È interessante dall’inizio il fatto che questo saggio si apra con il nome di Robbe Grillet che è il romanziere
che da avvio all’idea che poi guiderà il post-modernismo nel secondo 900 perché è un romanziere iper-
sperimentale che cerca di rendere conto in maniera teorica e metaletteraria delle strutture della narrazione;
non piace a molti lettori proprio per la distanza che lo separa. I suoi romanzi non sono appassionanti, non
sono identificativi, non lo leggiamo per ragioni legati alla trama o all’empatia ma lo leggiamo per ragioni
teoriche perché sfrutta, da un punto di vista strutturale, le acquisizioni che progressivamente lo strutturalismo
letterario sta conducendo da un punto di vista critico. Cercas dice che Robbe Grillet fosse convinto che
nonostante l’attività di grandi autori modernisti, con riferimento a Joyce e Proust, l’idea generale di romanzo
è ancora quella ottocentesca, basata sull’opera di Balzac. Il post-modernismo e il modernismo non sono
riusciti a modificare l’idea mentale che ognuno di noi si fa di cosa è il romanzo. Questo vale almeno per il
lettore comune che poi è quello più importante.
Dà la definizione di romanzo come di finzione in prosa che narra la storia di alcuni personaggi che
conducono allo studio di passioni in un determinato ambiente. Tutto ciò che si allontana da questo modello
produce disagio o inquietudine nel lettore comune. È questa definizione l’unica possibile?
Noi siamo abituati alla definizione di romanzo come una scrittura di una certa estensione fatta di personaggi.
Nel 2009 Cercas pubblica il romanzo “Anatomia di un istante” che all’epoca non venne considerato come un
romanzo e sfruttando questa potenzialità del testo, lo stesso Cercas, impone all’editore di imporre la scritta
romanzo. La trama ha a che fare con un tentativo di golpe avvenuto il 23/02/1981, 6 anni dopo la morte di
Franco; in quell’occasione solo 3 dei parlamentari si rifiutarono all’ordine di guardie civili che tentato di
rifondare il colpo di stato: Alfonso Suarez, ex segretario del partito unico franchista, primo presidente del
governo democratico e principale architetto della transizione dalla dittatura alla democrazia; Manuel Mellato,
vicepresidente del governo ed ex generale franchista, riconvertito a leader del partito democratico; Santiago
Carrillo, segretario generale del PC e leader dell’antifranchismo durante la dittatura insieme a Suarez. Questo
evento è storico e lo hanno rappresentato gli storici o i giornalisti, i saggisti; è lecito rappresentarlo attraverso
il romanzo che storicizziamo in un certo modo e di cui abbiamo un’immagine stereotipata in testa? Per
rispondere bisogna rispondere ad una domanda più ampia, ovvero cosa è il romanzo?
I generi nobili erano per Cervantes i generi classici, aristotelici cioè lirica, teatro e l’epica. L’errore sta nella
lirica perché non c’è nel sistema aristotelico, perché è connessa all’evoluzione della società moderna tanto
quanto il romanzo. per Cervantes i generi nobili sono i 4 generi nobili: commedia, tragedia, epica, parodia.
Cercas fa l’errore solo di inserire la lirica. Il romanzo è un genere degenerato, strano perché può imitare tutti
questi generi ma non è nessuno di essi, può smontarli senza essere nessuno di quelli.
Il romanzo è un genere meticcio, plebeo ed è un genero omologo agli sviluppi della società borghese ed è per
questo che non è nobile, perché legato al collasso stesso del sistema aristocratico che reggeva il mondo.
L’idea stessa di una società strutturata e divisa secondo le funzioni che ricopre un soggetto maschile di
solito, non può prevedere un genere meticcio come il romanzo che è scandaloso da questo punto di vista. Il
Chisciotte è esattamente questo, un grande guazzabuglio. Secondo Cercas, il romanzo è un genere di generi
perché la storia del romanzo è riassumibile come la storia dell’appropriazione che il romanzo fa di altri
generi discorsivi, quella storia trova nell’opera di Cervantes il proprio inizio ma anche la sua potenzialità
perché c’è tutto ma da quella tradizione nasce una linea di sviluppo del romanzo che va da Sterne, Joyce,
Calvino che può essere descritta come i meccanismi con cui il romanzo si appropria degli altri generi
discorsivi. Dobbiamo togliere l’esclusiva a questi autori contemporanei che non fanno niente di nuovo,
partecipano ad una nuova tappa di assimilazione dei generi discorsivi che è il romanzo, come se non fosse
mai soddisfatto di se e della sua condizione plebea e dei suoi limiti e aspirasse sempre ad essere altro.
Il romanzo soffre di questo complesso e la sua storia è la dilatazione delle possibilità discorsive del romanzo
stesso; dilatazione che però già nel Chisciotte trova la sua completezza, come se lo sviluppo possibile del
romanzo fosse già completo. La differenza essenziale tra romanzo del 700 e 800 e la figura essenziale di
Balzac è tale perché in questo passaggio ciò che viene aggiunto è la battaglia che il romanzo fa per non
essere più considerato un genere basso, grottesco; trova nella grandezza di Balzac la propria realizzazione
perché nessuno può dire che la commedia umana non sia un capolavoro che descrive aspetti seri e complicati
della società, lo fa con il costo di rinnegare le distinzioni di stile che avevano caratterizzato i generi classici.
La gerarchizzazione stilistica, prima dell’avvento del romanzo, cade di fronte a questa contraddizione: la
grandezza dell’opera di Balzac rispetto ai contenuti delle azioni rappresentate perché i personaggi di Balzac
non hanno nulla di migliore dei personaggi dell’epica classica ma non hanno nemmeno niente dei personaggi
della parodia; sono personaggi medi, come l’uomo borghese,, ma il trattamento di questi personaggi è alto e
crea il conflitto nella storia dei generi: la possibilità di rappresentare in maniera seria qualcosa che non è
ironico, è questo il motivo per cui al lettore borghese piace il romanzo. Balzac aspirava ad equiparare
romanzo e storia e perciò in “Piccole miserie della vita coniugale” afferma che il romanzo è la storia privata
delle nazioni. Anni dopo, Flaubert continua la tradizione nell’idea che si possa parlare seriamente di
personaggi che non sono seri, addirittura del nulla tematizzato da Madame Bovary. Non si accontentò
Flaubert dell’equiparazione tra romanzo e storia ma è ossessionato dall’idea di elevare la prosa alla categoria
estetica del verso. La prosa non è, quindi, inferiore alla poesia e il romanzo non è inferiore alla lirica; è il
modo che la società che la società borghese ha di rappresentare cose alte.
Molti dei grandi rinnovatori della narrativa del 900 adottano Flaubert come modello e ciascuno a suo modo
(Kafka, Proust, Joyce, Cervantes) proseguono il disegno dell’autore ma alcuni scrittori tedeschi lottano per
dotare il romanzo dello spessore espressivo del saggio, trasformando le idee filosofiche, teoriche e storiche in
elementi rilevanti nel romanzo quanto la trama.
Facciamo difficoltà anche noi oggi a distingue Gomorra come romanzo piuttosto come inchiesta, saggio sulla
camorra ma questa è una costante del romanzo, non è un’eccezione. Il romanzo è questo, è la storia
dell’appropriazione di altri generi discorsivi. Il romanzo saggio è uno di questi step molto importante perché
un genere dalla referenzialità diretta ed uno dalla referenzialità indiretta sono agli opposti: un saggio si
riferisce al mondo, il romanzo rappresenta il mondo ma non si riferisce a lui direttamente. L’incrocio tra
questi due sistemi crea un ibrido. Quando Saviano scrive Gomorra e parla della Camorra e del suo modo di
operare, si riferisce al mondo della finzione costruito da Gomorra o al mondo esterno? Chiaramente si
riferisce al mondo esterno ma questo è imprevisto per il genere romanzo come lo concepiamo
tradizionalmente; ci dice che in questa fase della storia si appropria di generi narrativi referenziali, cioè di
generi reali.
Parallelamente, mentre i generi letterari subiscono il potere cannibale del romanzo, anche i generi che
mantengono un loro obiettivo referenziale ne subiscono il fascino. Il new journalism che non ha nessuna
intenzione di essere finzione letteraria vuole essere letto come leggeremmo un romanzo. L’indagine
giornalistica sfruttata da capoti ha il fine di ricostruire il romanzo.
“Anatomia di un istante” è un romanzo perché è un libro meticcio. Il fatto di scrivere un libro che ha
l’ambizione di parlare del mondo reale crea un fenomeno mediatico nella contemporaneità. La camorra
condanna a morte Saviano perché sa che avrà una circolazione che il reportage giornalistico non potrebbe
mai avere; a livello di target il romanzo ha un livello di target diverso dal saggio perché arriva a tutti. Il fatto
che Saviano reinterpreti dei reportage che già esistono e che preesistono fa sì che i reportage non subiscono
nulla ma il romanzo sì perché arriva ad una popolazione più vasta e variegata.
Il romanzo ha un potere molto efficace dal punto di vista comunicativo che i saggi e gli studi non hanno;
Petronio era un libro che valeva la pena di non pubblicare, valeva la pena di uccidere Pasolini perché era un
libro molto pericoloso non perché non si sapesse cosa Pasolini facesse ma perché aveva la libertà di poter
parlare liberamente senza fonti che arriveranno a molte persone.
Se quando pensiamo al romanzo non pensiamo direttamente a Cervantes è perché nella storia ci sono stati
due essenziali momenti:
- Un primo momento legato all’evoluzione delle forme proposte da Cervantes come mescolanza dei
generi, alternanza tra digressione e narrazione, aspetti meta romanzeschi.
- La seconda fase è quella rappresentata dal romanzo realista borghese rappresentato da Balzac,
Stendal sembra rinnegare alcuni aspetti della tradizione di Cervantes perché acquisisce uno status
culturale alto, il modo che sembrava al lettore non più un genere ridicolo ma molto serio in grado di
parlare di questioni serie pur essendo spesso questioni medio borghese, non grandi eroi ma persone
normali.
Se la relazione tra primo e secondo tempo è di lotta, la vittoria del secondo tempo è stata assoluta. La
conseguenza è che il lettore ha dimenticato le caratteristiche proprie del romanzo del primo tempo o non le
tollera.
C’è una terza fase del romanzo, quella legata al modernismo e che forse prosegue anche in epoca post-
moderna e cioè l’idea di integrare in maniera hegeliana le due fasi del romanzo dove la sintesi non è A+B,
ma A+B è molto di più, non reintegra solo tesi e antitesi ma sviluppa questa integrazione.
L’ibridazione dei generi è uno dei tratti della post-modernità e uno dei tratti di Borges. La letteratura è un
inganno, ci propone un patto di finzione e quindi per aderirci sospendiamo la nostra credulità, sono
consensuale ad essere ingannato. Per credere ad un romanzo bisogna sospendere la nostra incredulità
derivante dal mondo reale. Nel caso del racconto di Borges l’inganno non fu consensuale, lì la recensione di
un libro fittizio veniva presentata come la recensione di un libro reale è ciò che accade anche a Pierre
Menard, scrittore del Chisciotte. L’aspetto para testuale diventa decisivo per incasellare che cos’è quel testo.
In realtà il romanzo non nasce con il Cervantes ma 50 anni prima con il Lazarillo de Tormes, l’idea del
romanzo pseudo fattuale è alla base del romanzo stesso per noi moderni, quando fu pubblicato fu considerato
un testo vero di un banditore. Se io dico che tutto quello che racconto è finto induco nel lettore un certo patto
narrativo cioè la sospensione dell’incredulità ma se non lo dico e fingo che quel testo sia referenziale allora
l’inganno è non consensuale che diventa consensuale solo con il tempo. La non fiction nostra si basa su un
inganno non consensuale, non totalmente consensuale; il patto di lettura che abbiamo con questi testi non
può essere lo stesso che abbiamo con un reportage o un saggio di storia.

LEZIONE 27 – 11/05/23
L’obiezione che alcuni storici muovono rispetto alla prospettiva di White, rispetto a Ricouer perché se ne
occupa di striscio anche se la posizione di White rispende espressamente alcune formulazioni di Ricouer. La
posizione è che se lo storico ricostruisce i fatti in maniera narrativa, attraverso un’attività che non si
distingue da quella del narratore, dove collochiamo l’evento traumatico per eccellenza, la Shoah? Perché la
Shoah è un evento reale, se facciamo un discorso panfinzionalista, dove non c’è più separazione tra finzione
e realtà, come facciamo a spiegare che c’è stato l’olocausto? L’olocausto è qualcosa che viola la normale
separazione della coscienza occidentale perché è il trauma della realtà. I campi di sterminio non sono i campi
di concentramento, sono sempre esistiti durante le guerre come ad esempio in Siberia. I campi di sterminio
sono costruiti per sterminare e lo fanno su base etnico razziale religioso, applicano un sistema di
rafforzamento etnico. Aidan White, da storico, come fa a spiegare la fattualità della Shoah? Perché se
diciamo che non c’è differenza tra costruzione finzionale dello storico e costruzione finzionale dello
scrittore, tutti i fatti si pongono sullo stesso piano, sono costruzioni ideologiche. Quei fatti non possono
essere declinati come costruzioni ideologiche. Lo stesso White soffre questo aspetto, dopo i libri
estremamente speculativi, negli anni 80/90, torna sulle sue posizioni; il problema che lui ribadisce è che non
si può fare una distinzione dal punto di vista formale tra fatto e finzione; è una questione anche di identità del
fatto storico, di quanto costruisca le coscienze e in questo bisogna collocare i testimoni:
- Per gli integralisti di fine anni 60 come White il testimone è come lo scrittore, il testimone non
citando fonti, non portando prove che non siano derivate dalla propria ottica fa un lavoro che non
può essere considerato come quello dello storico; svolgono due lavori diversi e quello del testimone
è molto più vicina a quella dello scrittore.
- Negli anni successivi, si è pensato che siano due figure separate come lo sono anche i loro compiti.
Primo Levi e molti testi di testimonianza si pongono un obiettivo diverso rispetto a quello della
testimonianza storica e cioè quello di condividere un aspetto interpersonale e dunque la narrazione
fattuale che non si sovrappone a quello dello storico ex post.
Può lo storico servirsi dei testimoni per scrivere la storia?
Il successo di una narrazione testimoniale non è dato solo dai contenuti ma più in generale dalla forma, il
testo di Levi è un capolavoro dal punto di vista retorico ma ci sono testimonianze che non hanno nessun tipo
di altezza letterale. La soluzione più logica è quella proposta da Todorov, strutturalista che proprio negli anni
di questo dibattito inizia a cambiare idea e arriverà negli anni 80/90 ad avere un’idea diversa della letteratura.
Uno ei suoi presupposti è che la verità del testimone non deve essere trovata, non ha alcun senso verificare i
fatti testimoniati; ciò che ha senso è verificare se a livello umano quella testimonianza ci ha comunicato
qualcosa. La testimonianza deve rendere attiva la storia.
L’attiva dello storico e del testimone è parallela ma con funzioni diverse: lo storico cerca di scrivere una
storia che può essere condivisa, attraverso una dura selezione degli accadimenti si cerca di costruire un
orizzonte societario comune anche da dibattere; il testimone cerca di rendere viva quell’esperienza che è
individuale e per questo che non si ritrova la stessa cosa in tutti i testimoni.
Il rischio della posizione di White, come quella degli ultra-relativisti, è di abbassare tutto sullo stesso livello;
la critica decostruzionista che nasce da idee geniali ma rischiano di appiattire gli oggetti della propria analisi
sullo stesso livello.
CONTINUAZIONE LETTURA SAGGIO DI CERCAS
Non ci deve spaventare il fatto che quando troviamo uno di questi romanzi non riconosciamo la specificità
della letteratura perché la migliore letteratura è quella che non sembra, è quella che si distanzia dall’idea che
noi abbiamo di letteratura; sembra molto distante dai presupposti culturali con cui storicizziamo i fenomeni
culturali in quel dato momento. Ci dice che la letteratura nasce dall’anti-canone o meglio con un’accortezza:
il canone si esercita per distinzioni che riguardano essenzialmente i generi, bisogna fare attenzione al fatto
che ci potrebbe apparire non letterario un testo perché lontano dalla nostra abitudine di concepire il testo e
quindi è un discorso anche di letteratura/ non letteratura. Ad esempio, quando venne pubblicato Gomorra nel
2006 non si riusciva a capire che si trattasse di letteratura, non si capiva come catalogarlo.
Paradosso: per un quarto della popolazione inglese Churchill è un personaggio inventato. Questo la dice
lunga sul livello di alfabetizzazione all’epoca; eppure, Churchill ha vinto premio Nobel, ha fatto cose
fattuali.
Riflette su cosa è la verità: la verità deve essere condivisa per essere tale; esistono degli avvenimenti nella
storia, come per esempio l’assassinio di Kennedy, in cui qualsiasi sforzo fattuale non si riesce a trovare una
versione fattuale degli eventi che soddisfi la necessità di verità che c’è dietro perché la verità eccede la
fattualità, non è soltanto la rispondenza dei fatti a ciò che è avvenuto. È qualcosa di più, qualcosa che fonda
la società; l’omicidio Kennedy è un evento talmente traumatico e fondativo che nessun americano crede alla
versione fattuale del fatto che un unico tiratore ha da solo organizzato ed eseguito l’omicidio della persona
più importante al mondo. Per paradosso scrivere una finzione su una finzione collettiva potrebbe sembrare
un’operazione inutile, insignificante ma costruire una verità su una finzione, come prova a fare Cercas, è
un’operazione diversa perché cerca di cucire la grande speculazione, la mitografia di quell’evento, molte
fonti entro un quadro che è attivo ma che miri ad una verità di tipo romanzesco, che è una verità di tipo
interpersonale visto che la verità fattuale che abbiamo a disposizione non soddisfa la nostra esigenza di
verità.
Che differenza c’è tra invenzione, fantasia e immaginazione?
La fantasia potrebbe esercitarsi in maniera del tutto separata dai fatti mentre la congettura muove dai fatti.
Questo modo di fare letteratura conduce verso una verità di ordine diverso perché qui torniamo alla funzione
antica del fatto letterario (ciò che sarebbe potuto succedere o potrebbe succedere per necessità), partire dai
fatti non significa evitare questo. Quello che lui fa è leggere la mente dei personaggi, cosa che non è
concesso allo storico, fa rientrare pienamente questo testo nell’ambito della letteratura. Lo storico non lo può
fare perché non può mostrarci i pensieri intimi dei personaggi; Cercas fa rientrare questo testo, pur
utilizzando solo fatti, all’interno del campo letterario.
L’immaginazione si esercita a partire da un fatto mentre la fantasia potrebbe non farlo.
Nessuna delle domande che si è posto prima ha delle risposte, l’unica risposta è che il romanzo non è
intrattenimento. Il ragionamento finale di Cercas si inserisce all’interno dell’evoluzione tipica delle forme di
narrazione che passa dal modernismo al post-modernismo all’epoca contemporanea senza essere esausto di
sperimentare forme nuove; il romanzo è una forma di conoscenza della realtà, non è solo intrattenimento ma
la sua funzione principale è accrescere la nostra conoscenza e in qualche modo cambiare il mondo. È un’idea
molto alta di letteratura, torna l’impegno che per Cercas è un impegno nelle forme, ciò il romanzo è un
accrescimento e non come dicono i fautori del neo-impegno che ci invitano a fare una letteratura
direttamente impegnata. La battaglia del romanzo è sulle forme, l’importante è come la racconta; il mondo lo
cambiamo attraverso le forme. Eco ci spiega più volte che si può cambiare il mondo degli operai senza farne
un romanzo; si rivendica comunque un intervento sulla realtà.

LEZIONE 28 – 17/05/23
Nell’ambito della finzione, resta il problema delle narrazioni omodiegetiche:
- Abbiamo visto che Hamburger addirittura esclude dalla finzione (in senso stretto) la narrazione
omodiegetica. Il grado di finzione in questo modo della narrazione è ricavabile solo da un’analisi che possa
determinare il livello dell’enunciato di realtà (dunque attraverso uno studio che eccede i limiti interni della
riflessione narratologica, e che utilizza aspetti paratestuali o extra-testuali).
- Cohn, in maniera più pragmatica, spiega che il primo indice di finzionalità di un racconto omodiegetico è
dato dalla differenza nominale tra l’autore e il narratore: nulla è più finzionale di un racconto che si finge
essere narrato da qualcuno che non è l’autore.
- Questo apre il problema che proveremo ad affrontare nella seconda parte di questo corso: come distinguere
un testo autobiografico e un testo auto-finzionale?
Abbiamo visto con Cercas la capacità del romanzo di inglobare tutti i generi: il romanzo lo ha sempre fatto,
quindi dobbiamo leggere la non-fiction contemporanea come un tassello in più nella storia del romanzo. A
vote abbiamo difficoltà a riconoscere un romanzo, tanto è forte la sua capacità di inglobare altri generiad
esempio Anatomia di un istante, la cui narrazione è molto vicina a quella del saggio storico. Le ragioni per
cui non possiamo considerarlo così hanno a che fare con la natura problematica dell’io che sta alla base di
questi romanzi. In un saggio storico, l’io dello storico non è mai problematico. Quando l’io è problematico,
allora siamo quasi certamente parlando di un romanzo.
Dopo aver visto la slide (inizio lezione) concludiamo il discorso teorico sulle narrazioni omodiegetiche.
Resta il problema del racconto omodiegetico in cui c’è coincidenza nominale tra narratore e autore. La
nascita stessa del genere dell’auto-fiction sfrutta gli studi strutturali sul genere autobiografico e che li usa
direttamente per creare un problema all’interno della percezione di finzionalità all’interno di quel testo.
L’autofiction è il risultato della fusione (ambigua) tra due patti di lettura relativi a modalità espressive molto
diverse e di lungo corso:
- La scrittura del sé (che comprende uno spettro di generi che vanno dall’autobiografia al diario);
- La finzione.
Vi è infatti la coincidenza onomastica tra autore-narratore-personaggio (indice secondo Lejeune del patto
autobiografico) accompagnata da un’esibita autenticità (“vi dico il vero!”), e tuttavia la lettura attenta
rivelerà che la materia della storia raccontata è falsa, nel senso che non corrisponde alla realtà dei fatti
avvenuti.
L’autofiction è l’emblema di una caratteristica essenziale del romanzo moderno, cioè la sua abilità di imitare
ogni altra forma espressiva. L’idea dell’autofiction nasce in relazione allo studio di Lejeune (1975) che
citavamo:
«Parallelo al patto autobiografico può considerarsi il patto romanzesco, che ha due aspetti anch’esso: pratica
manifesta della non-identità (autore e personaggio non hanno lo stesso nome), attestato di finzione (il
sottotitolo del romanzo, sulla copertina, ha questa funzione). Si può forse obiettare che il romanzo ha la
facoltà di imitare il patto» (slide.90!). Lejeune dice che un romanzo finzionale può benissimo avere autore e
personaggio con lo stesso nome, ma non può fare esempi perché, in quel momento non esistono.
Doubrovsky, legge il saggio di Lejeune e occupa la casella vuota, scrivendo un romanzo finzionale in cui
autore e personaggio hanno lo stesso nome. Nella letteratura francese, scrivere autofiction significherà
destrutturare lo stile dell’autobiografia e a far emergere contenuti rimossi e inconfessabili. L’autobiografia ha
a che fare con persone che ci stanno attorno e non possiamo raccontare tutto per varie ragioni: esistono una
serie di censure.
In Italia e negli USA, l’autofiction è volta invece a mettere in crisi il rapporto tra fatto e finzione.
L’autofiction, quindi, deriva dalla tradizione autobiografica, ma molte questioni che vi si raccontano sono
false e immaginate. Le bugie migliori sono quelle che mischiano la fattualità e la bugia, perché è più difficile
distinguere vero e falso. L’autofiction prende dalla fiction la licenza di mentire e ciò imprime una patina
romanzesca a fatti che si direbbero fattuali. A volte l’autofiction si prende la libertà di combinare generi
diversi. Quindi l’autofiction si muove fra due poli: può essere di carattere falsidico (si dice che ciò si
racconta è falso) o a carattere veridico (ciò che è falso lo desumiamo dal contesto). Esistono anche casi neutri
e qui andiamo in seria difficoltà, perché non possiamo riuscire a capire ciò che vero e ciò che è falso. Il
successo dell’autofiction è emblematico dell’epoca in cui viviamo: l’uso paradossale delle retoriche
dell’autenticità, il falso rapporto tra l’autore e il suo pubblico, la costruzione di un’identità personale che si
pone anche nella decostruzione pubblica dello scrittore (Houellebecq, che è un grande scrittore e si proclama
islamofobico e gira un porno per distinguersi nel panorama intellettuale posato tipico francese) e che dunque
diventa strumento di una certa postura.
Esiste un altro genere che ibrida le istanze del vero con quello del finto: la biofiction.
Il termine è stato introdotto negli anni Novanta da Buisine per descrivere le versioni postmoderne dei generi
biografici tradizionali (biografia, romanzo biografico, fiction metabiografica). La differenza con la biografia
è l’ibridazione tra gli aspetti fattuali della biografia e la fiction, sia sul piano testuali (contenuti e forme della
narrazione) che su quelle del patto con il lettore (es. Memorie di Adriano, discrasia tra autore e
personaggiobiofiction). La biofiction si distingue dunque dall’eterobiografia seria, vincolata all’obbligo di
referenzialità, in quanto il patto di lettura di quest’ultima bandisce in modo esplicito ogni elemento
finzionale o fittizio. Che dire però delle omissioni? Può una biografia essere realmente fattuale? La biografia
è infatti un racconto veridico scritto o orale, che un autore fa della vita di un personaggio storico.
Gli elementi letterali della biofiction non sono sufficienti a descriverla: esistono numerose biografie letterarie
che esibiscono una retorica identificabile come letteraria, ma non sono biofiction. Per esempio, le biografie
di Piero Citati dedicate a Proust o Leopardi non sono mai finzioni, fanno uso della psicofinzione.
La biofiction si distingue dall’autofiction perché è sempre scrittura dell’altro: si basa su documenti, non su
esperienze.
La biofiction si distingue dalle biografie storiche finzionalizzate perché si riferisce sempre a personaggi
veramente esistiti.
La biofiction può essere allodiegetica o eterodiegetica. Le eterobioction può avere focalizzazione zero, o più
comunemente ha una focalizzazione interna fissa. Ci sono poi casi geniali di focalizzazione esterna, come
Ravel (2006) di Jean Echenoz. Qui l’autore utilizza una focalizzazione esterna dando un effetto stranissimo
di lettura, perché il narratore si impedisce forzosamente l’accesso alla coscienza del personaggio (come lo
storico) ed evita di formulare ipotesi su ciò che sta vedendo (è una sorta di una ripresa dall’esterno dei fatti di
un personaggio). A differenza dello storico, in questo caso, il narratore non sa e descrive senza essere
interessato a ciò che non sa: non fa congetture, si limita a descrivere. La finzionalità della vita di questo
artista è data dal modo in cui si parla della sua vita.
Le omobiofiction possono essere omodiegetiche o allodiegetiche. L’omobiofiction omodiegetica non
contiene altro marker di finzionalità che quello paratestuale o di patto di lettura. L’allobiofiction sfrutta il
carattere testimoniale del personaggio narratore. Quando il testimone coincide con il narratore è molto
difficile separare fatto e finzione. in Limonov (2011), Carrère inizia la narrazione su basi testimoniali,
attenendosi, inizialmente, alla nescienza dello storico, manifestandosi onesti scrupoli referenziali e
rappresentandosi come personaggi, per poi spingere improvvisamente sul pedale della finzione penetrando la
mente del biografato.
Ogni volta che compare l’io, questo io ci pone un sacco di casini cosa che Cohn e Hamburger non avevano
troppo considerato. La Hamburger lo fa per una ragione storica (la sua idea di romanzo è basata sul modello
balzacchiano).
Vediamo ora l’opera di Philip Roth – The facts.
Roth, a metà degli anni ’90, dopo che i critici descrivono la sua opera in ordine cronologico, dice che in
realtà la sua opera non va letta in questo modo. I suoi romanzi sono da classificare in base ai suoi personaggi;
la maggior parte dei suoi libri vede Zuckerman come protagonista oppure come narratore di storie di altri
personaggi. I fatti, è un’autobiografia, quindi per collocarla la metteremmo tra la miscellanea, ma Roth
inserisce il libro tra i romanzi con protagonista Roth stesso.
I fatti, autobiografia di un romanziere, faceva parte di una quadrilogia di romanzi con protagonista Roth, che
prevede Inganno, Patrimonio. Una storia vera, Operazione Shylock: una confessione. Quindi i fatti è il primo
libro di questa quadrilogia, che doveva essere racchiusa in un unico volume. Già questo rende problematica
la questione, perché gli altri tre libri sono sicuramente finzionali. Quindi, autobiografia di un romanziere va
preso con le pinze, perché in questo caso la volontà dell’autore è estremamente ambigua. I fatti è una grande
riflessione sul rapporto tra immaginazione e realtà; è un testo che si pone a metà tra la prima fase dei libri di
Zuckerman e la seconda fase di quei libri. Esistono delle motivazioni autobiografiche, e lo dichiara lo stesso
Roth. La motivazione per scrivere un’autobiografia è data dalla depressione che lo colpisce ad un certo punto
della sua vita.
Leggendo, potremmo pensare che sia l’autobiografia di un romanziere; oppure autobiografia di uno che
inventa storie, e così suonerebbe diversamente. È possibile che la volontà dell’autore non abbia nulla a che
vedere con ciò che dice il paratesto, cioè autobiografia di un romanziere. In un’intervista dice “i miei libri
dovrebbero essere letti come narrativa; quanto alla mia autobiografia, consisterebbe solo in capitoli in cui me
ne sto seduto da solo a guardare la macchina da scrivere […]; per inventare me stesso, i miei diversi me
stesso.”

LEZIONE 29 + 30 – 18/05/23
Riprende il discorso di ieri sul problema delle scritture omodiegetiche e del loro complesso rapporto con la
fiction; abbiamo riconosciuto l’autofiction e la biofiction, dove le scritture dell’io sono manipolate in modo
programmatico. Nella tradizione autobiografica è molto utile avere il favore dell’interlocutore, perché
dicendo cose apparentemente inconfessabili io acquisto la fiducia del lettore; abbiamo poi iniziato a vedere la
riflessione di Philip Roth sulla scrittura del sé e su come è possibile scrivere un’autobiografia. Abbiamo detto
che I fatti è una strana autobiografia, con un sottotitolo che ha più valenze: mira a complicare il rapporto tra
fatti e finzione, o meglio tra realtà e immaginazione. Questo testo avrebbe dovuto essere il primo di una
quadrilogia; è una meta-autobiografia, cioè come un romanziere ha tradotto i fatti della propria esistenza di
individuo nella finzione dei suoi romanzi. È possibile a partire dall’immaginazione, ricavare al contrario i
fatti che l’hanno motivata?
È una scommessa persa in partenza, perché il personaggio Zuckerman si prende lo spazio in fondo
all’autobiografia per commentarla e per spiegare le ragioni per cui Roth non dovrebbe pubblicarla. È chiaro
che questa non sarà una autobiografia classica e non ci condurrà alla conoscenza della vita dello scrittore; la
cosa interessante dell’esergo è che viene attribuito a Zuckerman che però è un personaggio di finzione; già
questo ci fa capire la natura ibrida di questo testo. Ciò significa che questo personaggio ha esplicitamente la
natura di qualcosa di esistente al di fuori del testo, come se fosse una persona vera: c’è un rovesciamento, in
cui si scambia l’autore e il personaggio. Infatti, la parte dell’autore nell’esergo la fa Zuckerman; nella
tradizione teorica occidentale abbiamo insistito sulla trama, sulla consequenzialità delle cose, sottovalutando
il fatto che sono i personaggi delle storie a calarci nel mondo delle storie, e questo lo abbiamo capito solo
con la modernità e con la nascita del romanzo. Nel sistema aristotelico i personaggi non sono determinanti,
sono dei tipi di esistenza, non sono importanti in sé ma in quanto rappresentanti di qualcosa; il romanzo
moderno dà nomi e cognomi comuni, di personaggi medi, rivoluziona questa logica da un punto di vista
filosofico e formale. Mentre nella letteratura antica noi veniamo calati nella storia attraverso l’enunciazione
di un narratore, nel romanzo moderno non veniamo a contatto con la narrazione così, ma dal mondo dei
personaggi.
“Domani era Natale”: vale solo nel mondo dei personaggi, altrimenti non ha alcun senso. Dunque, a livello
di costruzione della fiction, i personaggi sono decisivi per farci accedere alle funzioni della fiction.
Philip Roth, che ha cercato di definire il rapporto tra realtà e immaginazione, ha riflettuto proprio sul
rapporto tra autore e personaggio: è la nostra abitudine alla lettura del testo che fa la differenza, la fattualità
rimane la stessa.
L’opera di Philip Roth è un’autobiografia, ma tutti gli elementi del testo ci indicano che è una riflessione
sulla natura dell’autobiografia; quindi, non va letta come opera autobiografica. Il testo comincia con una
lettera a Zuckerman: “i fatti gli ho sempre appuntati per costruire poi i miei romanzi; per me, ogni avventura
dell’immaginazione comincia con i fatti, con lo specifico, e non con l’astratto”; come quasi tutti i narratori
del ‘900, non parte da idee astratte, ma dai fatti, da situazioni specifiche per rielaborarli e renderli storia.
“Eppure, con mia sorpresa, sembra che abbia scritto un libro applicando un metodo opposto, in modo da
ricondurre la mia esperienza all’originale fattualità”: posso partire dalle mie storie e fare l’operazione inversa
tornando ai fatti che le hanno motivate, e dunque, è possibile scrivere i fatti decisivi della mia vita di
romanziere? “Per dimostrare che c’è uno scarto tra lo scrittore autobiografico che si pensa che io sia e lo
scrittore autobiografico che sono? (legge vari passi)
Non dobbiamo pensare alla storia come un meccanismo lineare di consequenzialità, è una lettura dialettica
che spiega la storia. (“Sto parlando di un esaurimento nervoso”)
L’autobiografia comincia con Roth adolescente e non bambino, quindi non è vero che tornerà all’origine,
perché qual è l’origine?
Non dobbiamo fidarci dello scrittore, perché Roth sfrutta le capacità dell’autobiografia classica, dicendo
onestamente perché ha scritto quel libro; ma non dobbiamo fidarci, perché l’io è sempre manipolativo, ci
costringe a una fiducia che altre forme di narrazione non hanno. (Roth nell’intervista ammette che le sue
opere sono congetturali e non autobiografiche). All’inizio del romanzo Roth mostra una situazione idilliaca,
tutto va bene, famiglia perfetta, amici, sport ecc. spezzato da una donna. L’unico avvenimento che rovina la
vita di Roth è la complicata storia d’amore con una donna. (sad story) Questi avvenimenti li richiama dal
presente al passato, forse perché lega il padre morente e la madre scomparsa. Il prologo è stato scritto più
tardi rispetto al resto della biografia, ed è interessante perché sembra invece parlare di cose antecedenti,
quindi perché l’ha scritto dopo? Soprattutto nel terzo capitolo, molti dei fatti sono strani, c’è un minimo di
drammatizzazione che passa anche per l’invenzione dello pseudonimo della donna, che alla fine morirà (e lui
sperava che morisse).
L’edipo re è il mito dell’irreversibilità del tempo, e non è un caso che Roth termini la sua carriera riscrivendo
l’edipo re. La seconda sezione copre gli anni universitari e riguarda altri fatti: partecipazione a
un’associazione letteraria, rapporto con Polly. La descrizione è ancora idilliaca. Le cose cambiano quando
Roth si lega a Josie, la donna che finge una gravidanza per condurlo al matrimonio e dopo il divorzio gli dice
che dovrà pagare gli alimenti a vita.
Nella terza parte, che si intitola “La ragazza dei miei sogni”, la natura problematica dei Fatti emerge in
pieno. Josie diventa una specie di tropo, una figura del linguaggio, una sorta di allegoria che nasconde la sua
vera identità.
Nella quarta sezione Roth recupera e risponde a tutte le accuse che hanno caratterizzato il suo esordio
letterario. Si sofferma sul primo racconto che esce sul Newyorker. Roth afferma di essere stato colto alla
sprovvista dal clamore con cui la stampa ebraica accolse quel racconto. Non dobbiamo fidarci: scrivi una
cosa provocatoria e ti stupisci se qualcuno si offende? Capiamo che l’infanzia e l’adolescenza idilliaca e
questa ingenuità non sono altro che una parte di una costruzione di un io altro da Roth. Tutta l’opera si
concentra sull’irreversibilità del tempo, perché questa autobiografia sembra dirci molto più sul presente
dell’autore che sul passato dell’autore. Nelle autobiografie i fatti del passato sono descritti con la memoria.
Le autobiografie non problematiche non fanno discorsi di questo tipo, non si indirizzano a personaggi di
finzione e non si fanno demolire il libro da un personaggio fittizio creato dallo stesso scrittore.
Nella quinta sezione c’è un’analisi del rapporto tra i fatti avvenuti e la loro finzionalizzazione, dove il
rapporto tra realtà e finzione diventa molto complicato. Alcuni critici americani sostengono che lo scopo del
libro è mostrare come i fatti non possono essere separati dall’immaginazione che li ha portati a diventare
testo: sia che si tratti di finzione, sia che si tratti di autobiografia. Questo libro dimostra i meccanismi con cui
Roth scrive i fatti di finzione, solo che lo fa al contrario. Però non c’è modo di separare fatti e finzione una
volta che i fatti sono diventati testo. Una volta scritti, i fatti sono fatti + immaginazione/fatti + memoria,
perché? Perché i fatti sono messi in trama. Quando nascono i fatti non hanno il significato che gli attribuiamo
dopo: questo spiega il prologo. C’è una differenza radicale tra ciò che viviamo e ciò che scriviamo dopo
averlo vissuto: quando scriviamo risemantizziamo noi stessi. Anche la più onesta delle ricostruzioni è una
forma di riscrittura di sé, e ciò rende i personaggi che inseriamo in questa riscrittura dei tropi.
Ora noi dobbiamo capire che cosa il suo simpatico personaggio, Zuckermann, risponde rispetto a questa
storia e alla domanda se valga la pena o meno pubblicare il libro. Zuckermann dice di non pubblicarlo,
perché Roth se la cava meglio a parlare di Zuckermann stesso. Ciò ci dovrebbe far riflettere sulla fattualità
dell’autobiografia. Che Zuckermann abbia bisogno di Roth è indiscutibile, perché Roth non esiste; ma perché
Roth ha bisogno di Zuckermann? Perché Zuckermann è un filtro attraverso cui Roth ha capito qualcosa di se
stesso. È sempre Roth a scrivere. Se non si inventa nulla, le persone trattate sono quella della vita vera che
magari non vuoi toccare. Cosa manca alla fine di tutto ciò? Qualcosa di interessante dal punto di vista
narrativo. Forse Roth doveva avere il coraggio di fare quello che più tardi farà Carrere, sputtanando le
persone a lui vicine. Ma Roth difende questa scelta di non farlo. Ciò che finisce sulla pagina serve al lettore
esperto e al biografo vero di Roth per decodificare ciò che non c’è sulla pagina e che è frutto dell’inibizione
di Roth. Zuckermann dice a Roth che Roth è il meno riuscito dei suoi personaggi. Dice di non essere l’autore
di un’autobiografia, ma un personificatore. Zuckermann dice a Roth che lui crea un mondo fittizio molto più
interessante del suo mondo vero. È molto duro con l’operazione di Roth.
[(Attenzione al sottotitolo! Autobiografia di un romanziere: il che potrà essere letto in maniera ancipite. Il
gioco di specchi è molto più complicato (e interessante). Ogniqualvolta lo scrittore descrive l’ambiente
famigliare, il rapporto con la cultura ebraica, l’educazione scolastica, gli amori più o meno importanti, è
sempre per indicare come questi tasselli della sua biografia siano stati origine di un racconto, di un capitolo,
di un romanzo. Questo testo è molto distante dagli altri libri. È un libro del 1988, molto prima che il rapporto
tra autore e realtà biografica diventasse una moda. La riflessione di Roth è davvero pioneristica.) da slide].
Riprendiamo la lettera di Zuckerman: la sua preoccupazione è divertente: se Roth scrive autobiografie non
scriverà più di me, pensa Zuckerman. Zuckerman dice di non poter mai essere diverso da come Roth lo ha
costruito.
La non fiction contemporanea impegnata, abbiamo visto, nasce da motivazioni etico-politiche e non è un
caso che si elegga la forma autobiografica come la forma privilegiata di queste opere. Saviano ha costruito su
questo il suo personaggio (sono una persona moralmente corretta, quindi credetemi). Zuckerman coglie la
differenza che passa tra un romanzo e un’autobiografia. All’epoca non giudicavamo un romanziere in base
alle morali che i suoi racconti trasmettevano, ma dalla qualità di ciò che racconta. Ma davvero leggiamo I
malavoglia perché parla di Padron Toni? No, lo leggiamo perché utilizza tecniche moderniste innovative,
perché Verga salta da un punto di vista all’altro amplificando gli insegnamenti flaubertiani. Eppure, oggi ci
viene detto che i romanzi importanti sono quelli che parlano di attualità. Forse noi dobbiamo criticare noi
stessi e leggere i nostri limiti sul perché abbiamo pensato le funzioni della letteratura in questa chiave qui.
L’autobiografia è ciò che siamo stati o ciò che vorremmo essere agli occhi degli altri? Zuckerman lo fa
notare a Roth. Poi pone anche la distanza tra fattualità e verità: noi siamo abituati a pensare che qualcosa di
fattuale sia vero. Ma fattualità e verità sono la stessa cosa? Forse la fattualità necessita di essere interpretata
perché sia vera. E questa interpretazione è svolta da persone non solo razionali.
Le pagine finali completano il libro di ciò che manca, perché naturalmente è sempre Philip Roth che parla, e
dice che nel suo libro manca l’onestà.
Zuckerman unisce alla parte scritta apparentemente da Roth tutto ciò che manca, e critica ma completa
l’autobiografia, riempiendo i vuoti che questa aveva. Spetta di nuovo a Zuckerman la funzione che Roth non
ha saputo esercitare sotto proprio nome, è il personaggio finzionale che completa ciò che è fattuale. Questo è
molto rilevante, perché i fatti rappresentano lui come scrittore, ma secondo Zuckerman ci sono delle
omissioni. Maria, moglie di Zuckerman, è d’accordo con lui sulla qualità del testo, ma dice se lo vuole
pubblicare faccia pure, anche se non è di massima qualità; l’aspetto meta autobiografico è ciò che ci
interessa, la lettera finale è un espediente ovviamente dell’autore per ritornare alla verità che mancava nella
prima parte. Nell’ultima parte Zuckerman prende il sopravvento come se ci fosse davvero un rovesciamento
tra autore e personaggio; chi parla, costruisce il personaggio come una figura linguistica.

Walter Siti- Troppi paradisi 2006


Roamnzo dichiaratamente autofinzionale, ed è il terzo capitolo di una pseudoautobiografia di Walter Siti,
riunita in Il Dio impossibile, che comprende Scuola di nudo e Un dolore normale. È la più complessa opera
della nostra contemporaneità ad affrontare il rapporto tra televisione e immaginario. Fase della vita di Walter
in cui scopre cos’è il vero amore (esergo); l’altro esergo è tratto da una lettera di E. Ferrero: “faccia il mostro
e non rompa le scatole”.
Vediamo l’avvertenza, posta subito dopo i due esergo. Questo romanzo parla moltissimo della tv e dei media
e della costruzione della verità che passa attraverso i media. Con questa convinzione di fondo: i fatti veri
intramati in un flusso falso, sono falsi. Intramare fatti falsi in un flusso vero, al contrario, non è più falso di
ciò che accade tutti i giorni. L’autofiction è una forma di opposizione al potere. Bisogna stare attenti perché
Walter Siti è un autore impegnato, anche se, paradossalmente, i suoi romanzi sembrano per nulla impegnati.
Il punto profondo che muove la sua opera è il fatto che a suo avviso il realismo – che per lui è impossibile –
è una forma di potere e che l’impegno non può passare attraverso dichiarazioni di impegno. L’impegno è
fare bene il proprio mestiere e complicare la percezione delle persone verso la verità. Siti vuole complicare il
nostro modo di considerare frivole certe cose. Siti viene dall’impegno serio e ha in mente Adorno. Per
Adorno le opere d’arte registrano i grandi cambiamenti della storia molto meglio di tutti gli altri campi. Le
forme sono il significato politico dell’arte. E allora, cercare l’impegno in ciò che si dice e non in come lo si
dice è una forma di restaurazione culturale. La realtà non è il reale. Il reale non è sperimentabile: il reale è
tutto e da questo tutto noi estraiamo delle cose, dandole una gerarchia, e facendola diventare realtà. Chi
compie queste gerarchie? La realtà è un progetto politico e opporvicisi vuol dire mostrare una confusione
rispetto a ciò che normalmente pensiamo essere affidabile, giusto, corretto e impegnato. Questo libro è
esattamente l’opposto di Gomorra, perché Siti ci dice di non fidarci di lui, testimone inaffidabile che fa parte
della classe dirigente. Questa immoralità del Siti personaggio è uno strumento conoscitivo. Siti vuole
disabituarci a credere nei testimoni e nelle testimonianze: “Non mi credete, perché dico sciocchezze”. Nel
processare il reale, i grandi mass media hanno un ruolo decisivo che è svolto in questa maniera: più una cosa
è presentata come certa, più quella cosa non sarà vera. Se è vero che la costruzione del reale è un progetto
politico, allora questa ideologia agisce al principio della costruzione del nostro immaginario. Al principio
vuol dire che non c’è un modo facile di decostruire l’ideologia dominante. Questo libro esegue una specie di
diktat che da sempre, nel mondo mediatico, trasforma le persone reali in avatar di persone. Siti prende delle
persone vere e si è inventato cose false, facendo le stesse cose che fano i mass media. Fa l’esatto contrario di
ciò che fa un biografo. “Condensatore di fantasmi”, perché? Perché qui si parla di desiderio. La tv è un
mezzo ad alto tasso di invidia perché noi siamo indotti voyeuristicamente a osservare i vip imitandoli e
sperando di conoscerli e di amarli, mentre, dall’altra parte, queste figure sono costruzioni di figure, la cui vita
reale non è quella che vediamo. Dunque sono fantasmi perché fanno parte del desiderio.
Siti crede che la televisione abbia ucciso la realtà. Ha senso l’autobiografia se il mondo è come lo descrive
Siti?

LEZIONE 31 + 32 - 19/05/23
Ha costruito un libro dove tutta la parte dei fatti vera è costruita come strumento per la narrazione?
Probabilmente è vera l’esigenza che lui dichiara, di tornare alla propria vita dal personaggio di fantasia
perché non è facile essere uno scrittore di successo. La sua identità è costantemente organizzata dalla lettura
che fanno delle sue opere, sottoposta ad una interpretazione libera. Alla base c’è un’idiosincrasia di Roth nel
controllare la propria opera, più volte torna sul come dobbiamo leggere la sua opera, su come dobbiamo
riorganizzarla nei volumi collettivi che la raccolgono. Si può prendere per buona la volontà di tentare i fatti
ma lui stesso si rende conto che l’idea di mettere a panino, tra lo scambio epistolare con un personaggio di
fantasia e tutta questa narrazione, manifesta l’incompletezza centrale di questo testo; è come se venisse
completata da una riflessione meta autobiografica. Ricordate che Roth è un grande bugiardo, è uno dei
grandi bugiardi della nostra letteratura. A volte lo fa in maniera esplicita, mischia con cose non verosimili
questioni personali e lo capiamo subito, è fiction dove uno dei personaggi è Philip Roth. Questo testo è un
po’ diverso, le letture della critica sono diametralmente opposte; non possiamo prenderlo solo come
un’autobiografia semplice, è una riflessione sul portato biografico. Quasi tutti i critici insistono sul valore
ibrido e sul fatto che sia un grande bugiardo.

Troppi paradisi è il terzo capitolo di una specie di saga autobiografica o autofinzionale. I 3 libri sono molto
diversi tra loro proprio nel mischiare finzione e realtà. Il primo, pioneristico, quando è uscito non è stato
compreso, le prime recensioni lo descrivono come un mostro e ci svela retroscena del mondo universitario
pisano terribili. Walter Siti già nel 94 faceva un’operazione strana: confessava alcune cose fattuali ma lo
faceva in un contesto poco credibile, in questo mix non si capiva più cosa fosse vero e cosa no.
Quando torna alla sua autobiografia finzionale lo fa in maniera diversi; infatti, potremmo collegare Scuola di
nudo a Troppi paradisi perché Un dolore normale è un capitolo un po' strano di questa saga perché è giocato
alla Lewbrosky piuttosto che alla Siti. In un dolore normale si mischiano resoconti analitici, sedute
psicoanalitiche, la costruzione ad una biografia ufficiale contrapposta alla costruzione di una biografia
finzionale, in un gioco di rimandi che tende a separare gli aspetti fattuali da quelli funzionali e metterli a
specchio.
Troppi paradisi è un testo radicale da questo punto di vista perché Siti ha avuto modo di riflettere e anche di
venire a conoscenza del fatto che l’autofiction si pratica anche fuori dall’Italia e che alcuni autori la usano
per esprimere problemi che riguardano l’identità dell’io e che diventano problemi legati all’identità dell’io in
generale nella epoca della post realtà.
La trama è piuttosto semplice: Walter Siti è un uomo che odia i genitori (I cap), mostra tutto il suo disgusto
sulla famiglia romagnola arretrata culturalmente che risparmia sul cibo. Lui riflette sulla madre e dice che da
lui vuole amore e non cibo ma questa è l’unica cosa che non posso dargli. Si mostra un Walter Siti fidanzato
con Sergio, un Walter Siti esperto di televisione perché Sergio lavora in quell’ambito, compaiono un sacco di
personaggi televisivi come la Carrà. Grazie a Sergio diventa autore fi un talk show e questo gli permette di
fare lunghe digressioni di gossip sul mondo della televisione, sullo show business. Questo gossip non sempre
verificabile mostra le coordinate spazio-temporali cronologiche degli eventi reali che accadono al WS
personaggio. La trama ruota attorno alla storia con Sergio che dura da anni e che è perfettamente accettata da
amici e genitori, è una storia in crisi perché W non prova più desiderio fisico per Sergio perché questa
abitudine quasi domestica, legata ad una sfera matrimoniale, lo inibisce e lo rende apatico. Durante un
viaggio negli USA, W scopre il mondo dei culturisti escort gay e capisce che lui è da sempre è innamorato
delle forme di Pietro Tarricone e può avere tutte le forme che vuole, basta pagare. Il denaro in cambio della
merce. In questo modo finisce per conoscere l’uomo della sua vita. Questo testo inizia con un mes ergo, cioè
la scoperta dell’amore poco prima della morte, nel senso che è già in là con gli anni ma capisce cosa sia
l’amore. C’è un piano letterale in tutto questo: WS paga degli escort culturisti, capisce che quest’estetica
culturista è ciò che lo attrae davvero, dismette moltissimi ragionamenti intellettuali su cosa sia l’amore e
finisce per innamorarsi furiosamente di Marcello. Marcello è un personaggio trans finzionale perché già
comparso nel foto testo “La magnifica merce” in cui viene fotografato nudo e tutto ciò accompagnato da un
testo di Siti. Nel piano letterale c’è una storia di rovesciamento rispetto a qualsiasi romanzo di formazione:
negli altri due romanzi c’è un W riflessivo che resisteva ad alcune delle tentazioni turbo capitaliste che
organizzano la nostra esistenza. Il W di Troppi paradisi non resiste più anzi realizza che resistere non serve a
nulla ma bisogna accedere al godimento che è solo quelle delle merci. Per questo Marcello è una bellissima
merce perché è quello che possiamo avere, è accettare che i rapporti tra persone è un rapporto tra merci. Per
potersi permettere questo scambio, WS fa di tutto, protegge e fa vincere un concorso ad un proteger di un
barone in modo da ottenere dei favori da lui, deruba i colleghi e progetta l’omicidio della madre per avere
l’eredità. Il rapporto con Marcello è complicato: M è bisessuale e sembra sfruttare il W ricco perché è un
uomo di borgata, parla solo romano; non è il compagno tipico di un intellettuale come Siti. Dal punto di vista
sessuale, Walter è affetto da impotenza selettiva, con alcune persone non riesce ad avere erezioni e non può
avere rapporti attivi. Il romanzo insiste molto su questo perché alla fine del romanzo si nota una scelta di W,
cioè quella di impiantarsi un meccanismo che gli consenta di ottenere erezioni meccanicamente. È geniale il
fatto che Siti intitola il post scritto dove ne parla “Tra Berlusconi e Osiride” (Osiride fu ricomposto ma non
fu trovato il pene che fu sostituito da un pene d’oro), è un po' la logica su cui è giocato questo testo cioè
l’iper-intellettualismo di Siti e la bassa dimensione popolare in cui inserisce il suo personaggio. Una volta
ottenuto questo sistema, WS è realmente felice per la prima volta, anzi dice di essere nato realmente, di
essere sbocciato alla vita. Questa felicità scaccia Siti dalla funzione autobiografica, cioè rinuncia a qualsiasi
intervento di ordine autobiografico, non ha più bisogno di scrivere di se e proteggersi da qualcosa.
Il romanzo si gioca su tre piani: biografico in cui si contrappongono due amori quello matrimoniale con
Sergio che non va bene per W ma accettato da tutti e l’amore fisico per Marcello che va bene per lui e non
per gli altri. Quando presenta Marcello ai suoi amici va in contro ad una scomunica sociale perhcè non
accettano un uomo di trent’anni più giovane che non ha mai letto un libro; si contrappone ciò che è giusto o
sbagliato ma anche ciò che in qualche modo è organizzato dall’immaginario e quindi è desiderabile da ciò
che non lo è. La riflessione in questo caso riguarda perché desideriamo una cosa e non un’altra?
C’è poi un piano sociale che occupa lo sfondo della narrazione e che è relativo all’ambiente televisivo;
moltissimi nomi di presentatori fanno la loro comparsa secondo una logica particolare cioè nel mondo vero,
non è importante ciò che hai fatto ma sei importante se ti invitano in tv o meno che è una posizione cinica ma
terribilmente vicina alla verità. Sul piano sociale Siti fa il reticente, non dice tutto, mette gli asterischi ma
questo accresce l’effetto della verità perché se dicesse tutto sembrerebbe più finzionale. Le reticenze
sottolineano la natura autentica del narrato del piano sociale. La vertenza iniziale serve per non finire in
tribunale. Una volta accettata per buona la versione paratestuale dell’avvertenza, posso dire cose vere.
Il piano saggistico fissa con chiarezza quasi didascalica i veri temi che uniscono il piano biografico a quello
sociale: il desiderio, il consumismo, il rapporto tra apparenza e realtà. Così come W accetta la superficie, il
lettore è indotto a pensare che non ci sono alternative a questo. È un’operazione ambigua perché nel dire
questo Siti ci mostra come funziona la società e nel dire questo possiamo definirlo un libro molto politico, di
resistenza se riusciamo a non sovrapporre il WS personaggio e autore.
In questo è straordinario replicare ciò che affascina il personaggio Walter, è presente davvero nel mondo
televisivo. Questo romanzo simula la superficie di cui è fatta la tv, replica quell’effetto di sottolineatura che
fanno certe musiche con inserzioni di tipo saggistico. Finge di fare l’intellettuale che riflette su quanto è
superficiale la tv. Il meccanismo è replicato anche se nel romanzo non c’è nessuna impalcatura morale.
Le descrizioni sono tipicamente romanzesche, è trapiantato dal romanzo realistico dell’800. La differenza
radicale è l’aspetto meta romanzesco ma il romanzo inizia con un periodo in cui Siti si descrive: nel 98 Siti
non ha 60 anni ed è una spia dell’aspetto finzionale. “Mi chiamo WS come tutti” qui c’è una crisi dell’idea di
unicità che è tipica dell’uomo contemporaneo che non tollera l’idea di essere rappresentante di qualcosa di
più grande di sé perché ha l’idea di sé smisurata. Non tollera ciò che invece noi abbiamo tratto a lungo dai
romanzi. Non si può parlare più di tipicità, l’unicità è negata palesemente dalla realtà. L’individualità che W
ha cercato nei primi due capitoli di questa sua saga e il motivo stesso per cui scrive un’opera autofinzionale
non riesce a cogliere più il generale, cioè la distanza tra la lettera e l’allegoria non si pone. Walter siti
rappresenta WS o rappresenta tutti?
Questo libro non ha un chiaro mandato metaforico, non c’è spazio per una lettura doppia su ciò che è e non è
perché l’idea è che il mondo di Troppi paradisi funziona proprio come la realtà, non contempla la
trascendenza e nessun tipo di idiosincrasia metaforica. Si tratta di passare da un W che studia la realtà e la
analizza ad uno che aderisce la realtà e non può più analizzarlo. Per farlo W aderisce alla logica desiderante
del capitalismo, non più desiderio assoluto astratto di non realizzabile ma qualcosa di reale, concreta e quindi
merci. Questo sistema può dare felicità soltanto attraverso la merce, gli oggetti serializzati delle merci sono
riprodotti dai corpi serializzati dei culturisti, sono costruiti per piacere, sono laboralizzati per piacere; il
desiderio non annulla il soggettivo ma vive nella superficie eterodiretta dell’immaginario. Per questo il
passaggio di Walter è molto più faticoso di altri, la vita di Walter è più faticosa di quella di Marcello perché
a lui nessuno chide di allontanarsi da questa logica; al Walter intellettuale, professore di università, critico
letterario che viene chiesto questo sforzo di rimanere distaccati, di essere resistenti a questo mondo. Invece
W fa esattamente il contrario, accetta l’etero direzione, Marcello è la merce per eccellenza, infatti, nella
descrizione che da il romanzo vediamo che è un uomo dalla natura passiva, basta pagare. Qual è la differenza
tra Marcello e una macchina? Che Marcello reagisce al nostro desiderio, può anche fingere di desiderare; ha
l’apparenza di un essere umano. Da questo punto di vista il romanzo è nichilismo totale, è molto di più di un
sistema di produttivo che comporta cambiamento perché in questo sistema i rapporti tra le persone sono
mediati dai rapporti tra le merci, anzi sono come i rapporti con le merci. Questo spiega perché le nostre
reazioni uniche sono standard a quelle degli altri e la nostra diversità unica è la diversità di massa. Questo è il
romanzo degli uomini medi che a un certo punto non vogliono star male, vogliono star bene e qui Marcello
lo fa star bene, paga per averlo. W accetta la post realtà e si inserisce nel circuito tipico dei fantasmi del
capitale. Il parallelo con Berlusconi è molto forte in questo romanzo perché Berlusconi è emblematico di un
passaggio culturale in Italia molto forte tra due classi politiche differenti, B. il suo stile di vita ha
radicalmente modificato l’idea di cosa è la cosa pubblica e il fine della Repubblica.
Nella tragedia intellettuale ma nella conquista della felicità del W personaggio vediamo riflesso questo
cambiamento della società, sappiamo vedere con occhio critico questo cambiamento. In questo avvento della
felicità c’è anche l’avvento dell’apocalisse che possiamo vedere, smonta il meccanismo che sta costruendo
smontandolo man mano, ci permette di dubitare di questo stesso ragionamento, disegna la resa al consumo
ma nel farlo ci fa riscoprire la funzione cardine dell’arte. Come fa a raggiungere Siti questo? In maniera
paradossale come lo è M. Bovary, Siti è la cosa più simile a Flaubert perché Flaubert aderisce alla realtà di
Emma, l’ironia del narratore è palese mentre qui quasi non c’è ma l’idea è che il lettore abbia modo di
riflettere su questo meccanismo perché riguarda tutti, WS siamo tutti. Troppi paradisi è la decostruzione del
romanzo di formazione, siamo abituati alla crescita del personaggio ma qui WS personaggio va incontro ad
una decrescita personale, non impara niente, impara ad accettare la realtà. Alla base di questo c’è una cosa
che WS uomo, autore cioè l’odio manifesto per la realtà.
L’autofiction in Siti diventa allora la possibilità di rivalersi sul mondo con la mostruosità iperbolica di
un’autobiografia di escluso, lo scrittore opera essenzialmente in due ambiti per far vedere che sta mentendo
(paratesto e forzatura dei dati biografici).
Leggendo il narcisismo di Siti siamo costretti a fare i conti con il nostro narcisismo perché rappresenta tutti,
ciò che facciamo quotidianamente tutti.

LEZIONE 33 – 25/05/23
Il “narrativese” si oppone al “poetese”, cioè a quel tipico linguaggio che ci aspettiamo di trovare quando
apriamo un libro di poetica.
La trilogia di Siti è costruita sul modello della Divina Commedia, ma trapiantata nel mondo contemporaneo,
dove l’io sperimenta un inferno, poi si confronta con una dimensione purgatoriale e infine si arriva al
paradiso, alla beatitudine che si può sperimentare nel mondo di oggi. Tale beatitudine è quella del privato,
cioè accettare che in questo mondo l’unica soddisfazione possibile è smettere di resistere, è “accettare le
condizioni reali” (citazione di Stalin ripresa anche da Sanguineti nel Laborintus).
Noi abbiamo immaginato i paradisi in terra, come quelli agognati dal comunismo, tipo abolire la povertà di
classe, la lotta del proletariato e roba simile.
A Siti possiamo criticare che la figura dell’intellettuale cinico e spietato, è stereotipata, maggioritaria nel
mondo attuale. Nessun intellettuale serio ci fa un discorso come veniva fatto negli anni 60, perchè tutti sono
disposti ad accettare che questa realtà non ci concede il paradiso. Dunque pur esseno la struttura romanzesca
molto originale, rimane comunque maggioritaria la posizione del cinico disaffezionato al mondo. Sembra
inaccettabile chi fa il lavoro contrario, chi ci propone un modello di sviluppo della società ideale,
emancipativo, che però non è realistico.

[Intuizione di Lacan: la realtà ha sempre la struttura di una finzione; per apparire come realtà deve avere
questa struttura. Gli esseri umani usano dei sistemi simbolici per estrarre dal reale qualcosa che poi assume
finzionalmente la struttura della realtà. Esistono tre grandi insieme che costituiscono la percezione umana
della realtà, ma nessuno di essi tocca il reale. Esso non gerarchizzato e non organizzato mentalmente
dall’immaginario, non è percepibile. Quando lo tocchiamo stiamo male, e ciò avviene ad esempio quando si
soffre di depressione acuta. Essa non è una distorsione della realtà, è anzi la vera percezione del reale: privo
di senso, non gerarchizzato, ci sentiamo sprofondare quando lo tocchiamo. Il depresso non riesce a dare
precedenza alle cose importanti, perché non le gerarchizza. L’arte ci mostra quanto della nostra
immaginazione costruisce il mondo. I grandi eventi della storia precedono la storia, perché reimpostano i
parametri coi quali noi leggiamo la realtà e la storia stessa.

Oggi parliamo di GOMORRA, romanzo che ha avuto uno straordinario successo di vendite e di pubblico,
con risonanza internazionale. Era dai tempi del nome della Rosa che non succedeva.
Tra le ragioni del successo ci sono le negazioni delle funzioni storiche e post moderne del romanzo, con una
struttura che risponde a questo tipo di costruzione narrativa, è una costruzione che non si presenta come un
romanzo, ed è spiazzante.
I capitoli sono organizzati dal punto di vista tematico e l’unico personaggio che ricorre è l’io narratore. Tutti
gli altri compaiono qua e là ma niente di che. Il fine di questo romanzo è doppio: da una parte di rivendicare
la funzione dell’io testimone rispetto all’azione, e dall’altra di svelare i segreti e le organizzazioni della
camorra. La camorra nel piccolo fa e risponde a delle logiche molto più ampie, e qui sta la genialità del
romanzo: far vedere come la camorra sia la forma degenerata della politica e della cultura liberista. Fa
impresa, fa girare i soldi, e fa un lavoro funzionale al mercato liberista.
Il titolo è molto significativo, perché riprende un testo di una commemorazione per la morte di don Diana,
ucciso dalla mafia, che però non è mai stata pronunciata: la pronuncia di tale commemorazione sarebbe stata
molto pericolosa. Nella finzione romanzesca questo testo viene letto, ma Saviano prende dalla realtà fattuale
e da analisi giornalistiche sul fenomeno camorristico alcune cose e tende a deformarle in modo romanzesco,
per renderle più attive, più importanti e più condivisibili, organizzate secondo una verità di ordine
interpersonale.
Lettura del passo in cui legge il significato del titolo, associazione tra i luoghi della camorra e la Gomorra
biblica, e il fatto che il lavoro della camorra è funzionale al sistema economico, è svolto per altri. I
personaggi di questo romanzo non rimangono in mente perché passano molto rapidamente, perché muoiono.
La camorra è questo, impedisce l’identificazione del lettore coi personaggi perché essi, semplicemente,
spariscono. Qui c’è anche la differenza con la serie tv, per la quale natura abbiamo una durata e una
ricorsività dei personaggi che permette l’identificazione tra essi e lo spettatore.
Questo romanzo è costato a Saviano la condanna a morte della camorra, e il suo vivere sotto scorta dal 2013.
La sua figura di intellettuale è dedicata a questo romanzo, perché non può uscire dai riflettori: farlo
significherebbe essere in pericolo. Poche altre volte si è avuta in Italia una figura intellettuale simile.
Le critiche su basi sociologiche vanno dunque scartate: è stato detto che questo romanzo è una forma di
narcisismo e che Saviano ha cercato la notorietà; sono cazzate, perché la notorietà lo ha costretto a fare
testamento a trent’anni.
La camorra condanna a morte uno scrittore perché egli ha il potere di far arrivare a un pubblico vastissimo la
realtà di questa organizzazione mafiosa. Per questo i giornalisti e gli storici non sono mai stati condannati a
morte: il loro pubblico era infinitamente più piccolo e ristretto. Saviano capisce benissimo questo aspetto
della società: ad esempio il limite dell’opera di Sciascia, suo modello, è l’organizzazione della sua opera.
Egli tende a separare gli scritti saggistici – non finzionali dai romanzi, che sono profondamente ispirati a
eventi reali (il giorno della civetta), ma questa separazione è il vero limite del ragionamento di Sciascia. Le
due cose vanno fuse: la parte saggistica fatta di dati e di misurazioni con la parte romanzesca, che è molto
più aperta al vasto pubblico.
Saviano dunque raggiunge il suo obiettivo, perché il successo del romanzo veicola le conoscenze della
camorra in tantissimi strati della posizione, che non leggevano gli stessi dati magari in reportage o articoli di
giornale, letti da molte meno persone.
Qualcuno ha definito il romanzo una coazione alla cronaca, nel senso che vi sono riportati tantissimi fatti di
cronaca, e questa è una tendenza che si svilupperà anche successivamente: usare la cronaca per tornare alla
realtà attraverso un plot romanzesco.
Quando uscì non sembrava ovviamente un romanzo, venne considerato qualcosa di ibrido. I primi recensori,
come Luperini, lo definiscono appunto ibrido, come se avesse fondato una sorta di nuovo genere letterario.
La camorra qui rappresenta il male che c’è negli esseri umani, ma anche una parte del sistema politico che
svolge il lavoro sporco. Dunque chi ha interesse a fare una vera guerra alla mafia? Siamo sicuri che lo stato
voglia del tutto combatterla?
Viene poi detto che su questo romanzo come mai prima si accende una contesa: si avvia un grande dibattito
su cosa sia un reportage, un’autofiction o un romanzo. Saviano in questo, nel tenere insieme i vari generi, tra
cui le due forme di reportage e le forme del romanzesco, è bravissimo. L’opera è proprio mescolata bene,
non concede mai spie di finzionalità (come i deittici temporali o cose simili). Non fa psiconarrazione. Tutto il
romanzo è costruito con focalizzazione interna fissa, e anche quando si parla di altri personaggi, Saviano
pone prima frasi del tipo “mi pare, ho l’impressione” in modo che non possiamo mai distaccarci dal pensiero
dell’io narratore. Non si riesce mai a entrare nel cervello di qualcun altro. Perché allora lo chiamiamo
romanzo? Dove sta il marker di finzionalità?
Intanto l’io narratore non ha vissuto realmente tutto quello che racconta di aver vissuto. È un testimone
simbolico (anche se non sembra sinceramente…). L’io di Saviano è l’io di molti di noi indignati contro la
camorra, ma assolutamente fuori dal suo mondo, nel concreto.
Poi non sono indicate le fonti, perché il tutto vuole passare come esperienza, anche se in realtà è presentato
in maniera molto scientifica e tecnica (chili di droga, date, eccetera. Eppure noi sappiamo tutte queste cose
solo dall’enunciazione dell’io. In un reportage invece ci devono essere le prove di queste misurazioni, che
qui cambiano.
Ci sono marker impossibili sia per un romanzo sia per un reportage, dunque gode di questo ibridismo di cui
parlano molti critici. Egli alterna la descrizione omodiegetica con riflessioni varie in alcune parti, ad una
descrizione eterodiegetica quando parla dei numeri e dei dati. Quando deve documentare qualcosa utilizza in
fondo la forma classica, col narratore impersonale. Tipo quando parla della morte che fa schifo ragiona in
prima persona e racconta i suoi sentimenti di fronte ai cadaveri, lo fa in modo omodiegetico. Quando invece
parla della guerra di Secondigliano e di tutti i morti e di tutti i numeri delle stragi, lo fa in modo molto più
tradizionale e impersonale.
Il vero marker di finzionalità è nel reperimento delle informazioni. Esso è il risultato di un lavoro di cucitura
che deriva non solo dall’esperienza di Saviano, ma dalla sua analisi di documenti e reportage relativi alla
camorra. Lui scrive di tutto questo come se lo avesse vissuto ed esperito, ma in realtà è quasi tutto ricostruito
a posteriori dopo lo studio attento di articoli di giornali, inchieste e cose simili. Saviano ci dice di fidarci di
quello che dice, non vuole aver bisogno di mettere note: ci metto la faccia, sarò condannato a morte, dunque
fidatevi. Saviano inoltre non ha l’arroganza di essere l’unico testimone, sa che ce ne sono molti altri. Egli
vuole far conoscere quel pezzo di male di cui i lettori probabilmente non hanno idea.

LEZIONE 34 + 35 – 25/05/23

LEZIONE 36 + 37 – 26/05/23
Per ora sta rispondendo a domande e basta.
Genette è stato l’ultimo modo di leggere in modo parascientifico il testo, con tutte le categorie
dell’omodiegetico e dell’eterodiegetico. Non si può insegnare invece l’accesso intimo al testo, quello
personale, del tipo “il testo mi trasmette qualcosa”: questo è un discorso empatico, che può essere
incamerato, ma non espresso perfettamente a voce.
Ad oggi osserviamo la corrente di studio che propone di smetterla di analizzare a fondo i testi: dovremmo
piuttosto provare a goderceli, a leggerceli e basta.
Anatomia di un istante, libro di Cercas ambientato nel periodo della guerra civile spagnola.
Da alcuni punti di vista è tutto meno che un romanzo storico, perché la posizione del narratore, che usa l’io, è
chiaramente simultanea rispetto al lettore. I tempi verbali sono declinati al passato, ma il lettore ha
l’impressione che la condizione del narratore sia più simile alla sua che a quella dei personaggi. E’ un
romanzo che tematizza il rapporto tra presente e passato, e questo spiega anche il titolo. È una grande
meditazione anche su cosa è l’immagine. Il fatto che racconta è infatti stato anche immortalato da un video.
Per Cercas la categoria fiction non fiction non è sufficiente. Si tratta di un’opera non finzionale, anche se non
è storiografia. Si capisce però che è un romanzo perché l’io è problematico, fin dall’inizio. L’io poi dichiara
delle cose che poi non mantiene nel testo, perché dice di attenersi a fonti verificabili, quando in realtà si
attiene a interviste da lui stesso condotte ai testimoni. La memoria opera sempre in maniera finzionale sui
fatti riguardanti il passato.
Cercas stesso riflette molto sulla sua opera nel Punto Cieco. Perciò se vogliamo è un romanzo che parla di
una persona che cerca di scrivere un romanzo che cerca di raccontare il golpe, e ciò che ne esce è in parte
un’opera fallita: non è possibile risalire alla verità morale tramite la verità storica. Si ha solo
l’immaginazione, che colma il gap tra queste due verità, ed è la sostanza della letteratura. qualsiasi
operazione epistemologica che riguarda il passato utilizza due generi di discorso diversi:
-dato real che si riferisce in maniera documentaria al passato, che però ha solo senso se messo in trama
attraverso l’immaginazione con il
-dato fittizio.
La biforcazione tra questi due modo avviene già nella carriera di Cercas nel 2001: il fattuale e la fiction
devono collaborare per la costruzione che sia una verità interpersonale, ibrida. Essa non ha solo a che fare
coi fatti. Nella sostanza, un testo di fiction, per essere credibile, deve partire dalla non fiction. Bisogna
appropriarsi di una lettura dei fatti, perché la verità oggettiva dei fatti non esiste in fondo, e non serve
all’uomo. Non è possibile arrivare alla moralità dei fatti attraverso i fatti e basta.
Lui riesce a conquistare la verità di questo istante solo in modo soggettivo, dicendo che era una necessità del
suo io quella di raccontare questa storia.
Un testo smetterebbe di essere letterario se non si occupasse del generale.
Javier Cercas, Anatomia di un istante (2009)  ci dobbiamo ricordare che parla del fallito golpe del 23
febbraio 1981. Ed è una fase delicata della storia spagnola (il cosiddetto periodo di transizione). E
ricordiamoci che la storia spagnola è distinta da quella degli altri paesi europei dopo la seconda guerra
mondiale: perché la Spagna non partecipa alla seconda guerra mondiale, e la dittatura di Franco non viene
quindi abbattuta dalla guerra. La domanda che sta alla base del romanzo non è tanto “che cosa è successo
quel giorno?”, ma piuttosto: come mai tre uomini anti-democratici di fatto, che hanno speso larga parte
della propria esistenza a propagandare idee politiche non-democratiche, decisero quel giorno di
rischiare la loro vita per salvare la democrazia??? Questa è la vera domanda, e questo è ciò che è
intrappolato in quell’istante ripreso dalla televisione (quando nel tentativo di golpe da parte della guardia
civile, ci sono queste uniche tre persone che non lasciano il proprio scranno, anzi addirittura una di queste
affronta anche i golpisti, ecco loro sono le uniche figure che non si nascondo sotto i tavoli e che non cedono
a questo tentativo di colpo di stato, a rischio ovviamente della propria vita!).
Anatomia di un istante da questo punto di vista è tutto meno che un romanzo storico, perché se fosse un
romanzo storico racconterebbe una storia calata in quell’ambiente, mentre la posizione del narratore, che usa
l’Io per narrare, è una posizione chiaramente simultanea rispetto al lettore. Naturalmente bisogna tener conto
del passaggio tra la meditazione e la scrittura, e infatti i tempi verbali sono declinati al passato, ma
l’impressione che il lettore ha, se comincia dall’inizio e prosegue fino alla fine del romanzo, è che la
posizione del narratore sia molto più prossima a quella del lettore che non a quella dei personaggi. Dunque è
un romanzo non storico, ma un romanzo in cui la storia ha un ruolo importante, decisivo. Perché è un
romanzo che tematizza la relazione tra presente e passato (questo spiega il titolo: l’istante ha senso solo in
relazione a ciò che avviene prima!). E poi Anatomia è anche una grande meditazione su che cos’è
l’immagine: perché noi sappiamo che questo evento è stato immortalato da un video, ma quel video assume
significato solo in rapporto a ciò che non c’è in quel video, a ciò che viene prima di quel video, a ciò che è
esterno (e in parte anche a ciò che viene dopo, perché è anche grazie alla nostra interpretazione che quel
video acquisisce un significato!). Dunque il presente ha bisogno del passato per assumere significato. E
un istante non rappresenta niente, se non simbolicamente un momento di massimo patos (sembra di leggere
Lessing) di un evento che solo le arti del tempo, per dirla con Lessing, possono davvero affrontare!!!
Per Cercas forse la categoria fiction/non-fiction non è sufficiente, nel senso che questo testo è tutto NON-
FINZIONALE. E quindi la nostra impressione è che questo testo è un’opera di storiografia. Ma abbiamo già
detto che in realtà ci sono buone ragioni per rileggere con attenzione ciò che l’autore dichiara dentro il testo
per capire che in realtà questo è un romanzo. Intanto è un romanzo per la problematicità dell’Io che lo sta
per scrivere. In un libro di storia non si comincia così: “volevo scrivere un libro di storia su Napoleone, però
poi ho avuto dei problemi a pensarlo, con le interviste, ecc.”, ecco una roba del genere non avviene in nessun
libro di storia! E poi l’Io dichiara delle cose che non mantiene nel testo, dichiara cioè ad es. che si affiderà
integralmente a fonti verificabili, ma poi la fonte primaria che lui utilizza non è verificabile, perché è
costituita da inchieste da lui stesso condotte a testimoni. Inoltre lui stesso ci spiega che il modo in cui i
testimoni ricordano il passato è una specie di finzione (ieri lo abbiamo visto), infatti la memoria opera in
maniera finzionale rispetto al materiale disponibile del passato. Lo stesso Cercas ha molto riflettuto su come
pensare la propria opera, perché il prof. è convinto che una parte di quello che lui dice è vera (cioè il fatto
che lui senta davvero il bisogno di parlare di questo evento, e però lui lo sente come individuo!). Dunque se
vogliamo questo romanzo parla di una persona che sta cercando di scrivere un romanzo sul golpe del 23
febbraio 1981. E ciò che ne esce è un’opera fallita da questo punto di vista, dentro la finzione romanzesca:
perché lui dichiara alla fine di questa sua disamina che non è possibile risalire alla verità morale di
un’istante attraverso la verità storica!!! E allora cos’è che colma il gap tra verità storica e verità morale? È
L’IMMAGINAZIONE, e che cos’è l’immaginazione? È LA SOSTANZA DELLA LETTERATURA. E
dunque, dice Cercas, in realtà qualsiasi operazione epistemologica che riguardi il passato utilizza due
modalità, due generi di discorso diversi: un discorso si riferisce in maniera documentabile al passato, ma
questo non ha senso se non è messo in trama, e organizzato attraverso l’immaginazione, con una narrazione
fittizia. Ora, la biforcazione tra questi due modi, nella carriera di Cercas, avviene già nel capolavoro del 2001
(che ha avuto un successo inaspettato all’epoca e che è stato molto studiato, ossia Soldati di Salamina). E il
fattuale e la fiction devono, e di fatto lo fanno sempre, collaborare fra loro per la costruzione di una verità
che non sia esclusivamente fattuale ma che sia una verità anche morale (quindi interpersonale, come direbbe
Todorov). E per dar sostanza a questa verità occorre che ciò che si racconta non sia una finzione (quindi
vediamo il paradosso che Cercas sta costruendo!): cioè è una finzione che si serve della non-finzione per
funzionare!!! Cioè per esser credibile un testo di fiction deve partire dalla non-fiction. Si potrebbe dire che
la storiografia storicamente si appropria delle scienze naturali, incentrate sulla spiegazione oggettiva
positivista, e dall’altra parte che la letteratura resta ciò che non fa questa operazione, cioè la letteratura
reimmette la relazione soggettiva, o intersoggettiva, all’interno di un testo. È questa è la funzione
dell’immaginazione: reimmettere una relazione soggettiva coi fatti, e questo socialmente ci deve interessare,
perché è l’unica verità morale condivisibile. Bisogna appropriarsi cioè di una lettura dei fatti!!!
Che cosa significa in altre parole? Che la verità oggettiva della storia non è sufficiente all’essere umano.
La verità di cui ha bisogno l’uomo è certo quella oggettiva dei fatti, ma è anche quella soggettiva della
morale dei fatti. Però, dice Cercas, è possibile arrivare alla morale dei fatti attraverso i fatti? No! Ecco perché
questo testo è un fallimento, dice Cercas. Perché dice Cercas: io ho ricostruito in maniera dettagliata,
leggendo tutto ciò che esiste, tutto ciò che mi è stato raccontato dai testimoni, ho messo tutto insieme, ecc.,
eppure la verità morale di quest’evento non la posso conquistare se non in modo soggettivo, dicendo che per
me era necessario raccontarlo, che era un esigenza mia, del mio Io, e nessuno storico ragionerebbe così!!!
Quindi non si tratta banalmente di una questione legata a fiction e non-fiction: non è che un testo smette di
essere letterario se si occupa di cose fattuali (smetterebbe di essere letterario se smettesse di preoccuparsi del
“generale”, come direbbe Aristotele, e che qui potremmo chiamare “intersoggettivo”!!!). Se la letteratura
non cessa di fare questo, allora significa che questa è letteratura, anche se tutta la sua sostanza è fattuale!!!
Se ci pensiamo, Aristotele non è così rozzo e stupido da dire: guardate che la storiografia si occupa di cose
che possono essere misurate, ma dice che si tratta del “particolare”, di “ciò che è avvenuto”, perché la
distinzione non è di ordine fiction/non-fiction, ma la distinzione è tra un ordine di verità misurabile e un
ordine di verità interpersonale!!! Il racconto, e quindi i generi letterari dell’antichità (tragedia, epica,
commedia), sono basati proprio su questo! C’è da dire che in realtà Aristotele usa il termine verosimile
soltanto nell’accezione di “conseguenziale per necessità o/e verosimiglianza”, cioè le azioni devono essere
consequenziali in maniera verosimile. È per questo che si può dire che Il trono di spade è realistico: è
realistico non perché ci sono i draghi ovviamente, ma perché le azioni sono concatenate con causa-effetto in
maniera consequenziale, necessaria e verosimile (es. un cavaliere più debole se affronta un cavaliere più
forte muore!).
Sanguineti, ad es., in merito a Dante ebbe una proposta scandalosa, ora questa posizione non va più di moda
ovviamente (ed è stata super criticata!). E il discorso che fa Sanguineti (che è molto lukacsiano in quegli
anni) è: che Dante, che per un pezzo enorme della sua vita sposa la causa borghese e i generi letterari che
sono mossi da quella causa (cioè la poesia lirica), a un certo punto della sua vita, soprattutto quando è in
corso la scrittura della Commedia, cambia idea sulla direzione che la società borghese prende, e quindi, dice
Sanguineti, che la Commedia è un’opera di abiura della prima parte della vita di Dante (sarebbe il contrario
della Vita nova), perché Dante nel frattempo è diventato un reazionario politico dell’epoca!!! È in effetti il
fatto che la Commedia contenga delle posizioni reazionarie rispetto al tempo in cui Dante vive è certo! E la
stessa forma dell’intellettuale rappresentato dal Dante della Commedia è una forma che assolutamente è
precedente al tempo della Commedia, e quel tipo di conoscenza teologica è senz’altro dominante in epoche
precedenti a Dante (e non lo sarà più dopo Dante per altro!). Senz’altro in quegli anni va molto più di moda
l’opera di Guinizelli! Quindi questa è la posizione di Sanguineti, sicuramente anche criticabilissima, ad es.
Singleton ha scritto pagine tremende su questo studio di Sanguineti. Bisogna però imparare a misurare le
posizioni!!!

Anatomia di un istante  quindi attraverso una relazione col fattuale non si arriva mai a una conoscenza, a
una verità, di tipo morale, ma appunto paradossalmente è questo fallimento degli aspetti fattuali che
rivitalizza e ridà significato allo status invece di finzionalità di questo testo! Infine l’autoreferenzialità di
questa verità morale, che è tutta radicalmente riferita all’Io che la esprime. Vediamo infatti la chiusa di
questo romanzo (che si intitola: Epilogo, prologo di un romanzo). Quindi Cercas, dopo aver studiato
fattualmente le vicende del 23 febbraio 1981, e averci mostrato l’indagine che lui fa e tutte le piste che segue,
e tutte le possibili alternative rispetto alla spiegazione di un certo gesto, a questo punto siamo pronti a dare
sostanza di romanzo (visto il fallimento dell’operazione condotta fin qui) a questo stesso testo che abbiamo
letto. E nel racconto di come si conclude il processo degli atti del 23 febbraio, Cercas riconosce che la
propria necessità era privata, era cioè rileggere in maniera personale questo snodo fondamentale della storia
spagnola, ma soprattutto di fare un corpo a corpo con una figura (come quella di Suarez) che era
particolarmente ambigua da un punto di vista politico. Cercas lo dice anche all’inizio del romanzo: che ha
sempre disprezzato la maniera cinica e intrigante di far politica di questa figura (Suarez), che ha fatto il
braccio destro di Franco per un sacco di tempo, e poi mentre una parte dei franchisti più convinti veniva
estromessa rispetto all’evoluzione dello stato, lui diventa proprio l’uomo della transizione, e anche il primo
presidente democratico della Spagna!!!
E ci renderemo conto che, mettendo a confronto Il punto cieco con Anatomia di un istante, alcune cose sono
uguali, altre non sono proprio uguali! Perché mentre la coscienza del fatto di star scrivendo un romanzo ne Il
punto cieco è ormai evidente e digerita, non è ancora dichiarata nella scrittura di Anatomia di un istante, che
cerca con tutte le forze di mostrare la propria diffidenza e la propria distanza rispetto alla struttura finzionale
tradizionale del romanzo!

Ora parliamo di Carrère, Limonov (2011), è una bio-fiction allodiegetica. E la posizione allo-diegetica del
narratore è ciò che fa problema da subito! Ma come Cercas spiega molto chiaramente, invece che allarmarci
di questa cosa, cerchiamo di capire che quest’aspetto è un capitolo della storia del romanzo (in cui il
romanzo si appropria di forme che storicamente non gli appartengono!). Più paura ci fa la reazione del
pubblico: perché quello che è veramente preoccupante è il fatto che il lettore conceda al narratore credibilità
sempre!!! Ma noi dovremmo essere abituati a diffidare di ciò che ci dice uno che usa l’Io!!! Perché chi dice
Io se mente diventa pericoloso. Eppure gli concediamo una grande fiducia e ci fidiamo dell’apparato meta-
testuale di queste opere. Se io dico una menzogna dicendo “Io”, non abbiamo strumenti per misurarla. Un
narratore inattendibile omodiegetico ci fa ancora paura! Anche se appunto dovremmo avere confidenza con
questa cosa. Qual è la differenza tra Gulliver e Carrère? Che Gulliver è un personaggio di finzione che non si
chiama come l’autore che ha scritto il libro. Secondo punto: nelle opere del passato quando si fanno
operazioni di romanzo storico, non si usano personaggi veri come protagonisti delle proprie azioni, delle
proprie opere, semmai si usano come sfondo per dar sostanza storica agli eventi, ma gli attori principali sono
personaggi di finzione (vedi Renzo e Lucia). E poi terzo punto: noi non siamo abituati a questi tipi di testi!
Ma se invece di essere così apocalittici pensassimo che questo è un nuovo tassello della storia letteraria!!! Si
tratta del modo che il romanzo ha di appropriarsi di forme che preesistono e che avevano altre funzione e che
ora il romanzo ingloba e cannibalizza. È questo il punto: non sono reportage, non sono romanzi storici,
questi sono romanzi finzionali, che complicano però il rapporto tra fatto e finzione, e che mascherano la
propria natura di romanzo. Ma del resto il romanzo lo ha sempre fatto, ha sempre mascherato la sua natura di
romanzo (lo ha fatto al suo esordio, con romanzi pseudo-fattuali, lo ha fatto presentando i romanzi come
“storie”, “storie di questo”, “storie di quell’altro”, lo ha fatto come lettera di confessione di un malato, ecc.).
Il romanzo può fare tutto, può dire tutto, imitare tutto, e potendolo fare quindi si appropria di forme
discorsive, in certe fasi della storia, per ragioni molto pratiche. Inoltre i romanzi hanno una storia di
sperimentazione alle spalle (non è che la forma del romanzo resta stabile, anzi forse è la forma più dinamica
tra quelle che conosciamo!). È una forma che cambia di continuo, e i narratori hanno bisogno di trovare
nuovi spunti e nuovi modi di scrivere. Per cui bisogna stare attenti a non fidarci dei nostri narratori!!! E
questi scrittori hanno capito benissimo che questo è un terreno ancora vergine, su cui il lettore ancora non è
abituato a smontare criticamente. Anche perché un buon narratore per esserlo deve cercare di essere
credibile! I narratori cercano infatti di accaparrarsi la fiducia del lettore! E questo è uno strumento che oggi
funziona. Oggi purtroppo si pensa questo: che la letteratura di finzione è come se fosse una sciocchezza,
inutile, mentre la letteratura di verità, documentaria, è importante perché parlerebbe della realtà! Questa cosa
è terribile! E il fatto che questa letteratura “non-fiction” abbia un successo così grande, è anche un indicatore
sociale (tipo: leggo questo romanzo perché mi parla di qualcosa di vero e non perché è scritto in un certo
modo!). Questo è dunque anche un discorso sociale. Quindi oggi si ha una perdita di credibilità della fiction.

Pensiamo a Siti: che ci invita di fatto a non fidarci di lui, però poi ha un successo perché ci racconta gli affari
segreti dell’Università di Pisa, di Raffaella Carrà, ecc., quindi noi in realtà sappiamo che come operazione è
molto ambigua, perché comunque l’interesse morboso che noi abbiamo per il gossip alla fine è ciò che
muove anche il successo dei testi di Siti. Ma quella che usano questi narratori è infatti proprio una strategia
retorica, cioè noi si dà troppa credibilità alle dichiarazioni testuali degli autori che si chiamano per nome e
cognome. Ma Siti ce l’ha già spiegato: “Mi chiamo Walter Siti, come tutti” e questo attacco già spiega questo
fenomeno in maniera molto chiara, e ciò significa di non poter credere a tutto quello che ci dice!
Limonov è una biofiction allodiegetica molto complicata, complicata dal fatto che Carrère lo inizia, questo
testo, come si inizia un reportage, stando quindi bene attento a rimanere nei confini di ciò che è raccontato in
maniera non-finzionale, e nella prima parte di questo testo di fatto mantiene questa sua direzione! Potremmo
dire che nulla è più privato e al tempo stesso più pubblico della narrazione attraverso la quale costruiamo il
personaggio di noi stessi per raccontare e spiegare la nostra posizione nel mondo. Perché privato e perché
pubblico? Intanto perché tutto questo ha a che fare con la postura dello scrittore: perché Carrère si presenta
in tutti i suoi libri (allodiegetici o omodiegetici) in un certo modo, cioè costruisce un suo personaggio
finzionale che ha una sua continuità tra un testo e un altro, si presenta onesto, non racconta bugie, dice le
cose per come le ha vissute, ecc., ma noi sappiamo benissimo che non è vero, però ci crediamo a tutte queste
sue dichiarazioni! Poi, perché pubblico? Perché tutto ciò ovviamente ha un riflesso sociale: cioè la
costruzione finzionale ha un riflesso immediatamente nel mondo reale, perché quando noi pensiamo a
Carrère non pensiamo mica al Carrère che non conosciamo, ma pensiamo al Carrère che si è raccontato nei
suoi testi (e questa cosa in Italia l’aveva fatta, già molto prima di Carrère, Nanni Moretti, pensiamo al
cinema di Nanni Moretti che è l’operazione in assoluto più simile a questa che fa Carrère; infatti nella
seconda produzione “comica” Nanni Moretti si presenta come Nanni, Giovanni, cioè con il suo nome, e
chiaramente è un uomo che fa il regista, che sta girando dei film, e Moretti ha quindi costruito un’immagine
finzionale di sé stesso, fatta di tic, linguaggio, e di tutta una serie di cose che noi ci aspettiamo di ritrovare da
Nanni Moretti quando va a Cannes, ma quello che noi conosciamo è il personaggio di Nanni Moretti, non è
mica Nanni Moretti; infatti quando noi andiamo a chiedere l’autografo a Nanni Moretti, tutti emozionati di
trovare il personaggio dei film, troviamo in realtà un uomo spocchioso che non ha nulla a che fare con il
Nanni dei grandi film! Perché non sono la stessa cosa!). Nei film di Moretti ci sono sempre delle spie che
mostrano la finzionalità: pensiamo all’ultimo capitolo di Caro diario, che è dedicato alla sua malattia, a un
cancro che ha avuto, e la cosa divertente è che Moretti utilizza in quel pezzo del film alcuni filmati che ha
realizzato quando era davvero malato, ma tutto il resto è finzionalizzato (e quindi poi la malattia in realtà è
diversa da quella che ha avuto, ecc.). Ma l’utilizzo di spezzoni reali, fattuali, complica il nostro rapporto tra
fiction e non-fiction, e Moretti lo fa in tempi non sospetti, in cui queste cose non vanno di moda, e non le fa
nessuno, ma è la stessa identica operazione che fa Carrère!!!

PARTE II

Carrère nella seconda parte del romanzo accede alla mente di Limonov (con psico-narrazioni e meditazioni
riferite), e ci dice cose che nessun intervistatore e nessun amico di Limonov può conoscere davvero, perché
non hanno una referenzialità studiabile e ritrovabile. Allo-diegetica perché in realtà questo romanzo non
parla proprio di Limonov, che è un personaggio politico dissidente russo molto particolare. Carrère conosce
Limonov fin da quando questo strano dissidente, poeta, si trasferisce nel 1980 a Parigi dove Carrère lo
conosce per la prima volta, ma anche perché il Limonov del racconto di Carrère è un Limonov letterario,
cioè è il Limonov che si è descritto in un certo modo attraverso i suoi testi autobiografici e i suoi romanzi.
Dunque non è proprio Limonov il soggetto finale di questo testo, ma, come sempre avviene nei romanzi di
Carrère, è Carrère-personaggio-narratore ad essere al centro di questa narrazione. Cioè questa narrazione
mette in scena un corpo a corpo tra il Carrère-personaggio-narratore e il Limonov di cui sta parlando.
Dunque l’Io narrante non si limita a svolgere il ruolo di narratore-testimone, ma si comporta da avventuroso
ladro di vite altrui: cioè non solo deruba il personaggio narrato (oltre che del proprio passato, anche del
proprio racconto attorno al proprio passato, servendosi dei testi di Limonov), ma lavora più che su fatti
misurabili e verificabili sulle conseguenze finzionali di questi fatti rispetto al pensiero di questo personaggio.
E dunque questo racconto è una specie di sceneggiatura della vita di Limonov, mosso anche dal rapporto
morale e sentimentale che Carrère intesse con lui. Ora, nel corso degli 11 capitoli di cui è formato questo
testo, noi vediamo che questo Limonov è descritto come un teppista ucraino, un poeta, un sarto, un
protagonista della vita da bohemienne a Mosca, idolo dell’underground sovietico, poi più tardi quando esce
dall’Urss anche un barbone che vive a Londra, poi vive a Parigi dove diventa una specie di idolo della scena
intellettuale, degli scrittori francesi dell’epoca (infatti la Francia ha una fascinazione totale per i dissidenti!).
E poi più tardi Limonov è un combattente nei Balcani durante la guerra di Jugoslavia, e poi grande
oppositore dopo il crollo del Comunismo, e detenuto in un campo di lavori forzati sul Volga, e ancora più
tardi leader e fondatore del Partito nazional-bolscevico (che è uno strano mix tra un partito fascista e un
partito comunista di stampo sovietico).
Ora, qual è la tecnica di Carrère? È la classica tecnica di Carrère. Noi l’abbiamo vista ne L’avversario, e
anche l’ultimo libro è scritto così, ossia V13 (è costruito allo stesso modo: Carrère si presenta, dice che
problema ha in quel momento, perché sta facendo questa operazione, ecc., e così in questo modo cattura
l’attenzione del lettore!). Troviamo quindi l’aspetto autobiografico di Carrère: perché al centro di questi
romanzi c’è una figura radicalmente narcisistica dell’Io, e in fondo noi siamo a contatti con un Io veramente
incontinente rispetto ai romanzi che scrive. Il secondo livello è la biografia di questo personaggio, che già di
per sé è romanzesca: perché Limonov è un personaggio bizzarro, che ha fatto nella vita più di quello che una
persona comune farebbe in mille vite. Poi il terzo livello è sul piano storico: perché ripercorrere la storia di
questo personaggio significa ripercorre anche la storia dell’Unione sovietica da Stalin fino alla sua caduta, e
le conseguenze della sua caduta. E da questo terzo punto di vista, l’obbiettivo è chiaramente di far intendere
al lettore occidentale che noi non sappiamo quasi niente della storia russa, e che tutto quello che
sappiamo è in qualche modo veramente molto superficiale. Infatti questo testo già all’apertura ci spiazza,
perché c’è un esergo che dice così: “chi vuol restaurare il comunismo è senza cervello, chi non lo rimpiange
è senza cuore” (Vladimir Putin). Questo è un esergo tratto dalla figura chiave della Russia contemporanea,
che molto dopo la pubblicazione di questo testo ci costringe oggi a parlare di lui ancora una volta! Perché in
realtà Putin e Limonov sono due personaggi paralleli in questo testo, e in fondo dietro l’ombra di
Limonov c’è anche sempre l’ombra di Putin, perché questi due personaggi condividono una serie di aspetti,
che Carrère si sforza di mettere in fila. Il testo comincia in maniera fattuale in modo tale da catturare
l’attenzione del lettore: “Prima che Anna Politkovskaja venisse ammazzata sulle scale del palazzo in cui
abitava il 7 ottobre 2006… la realtà è quella che ha detto Putin, scandalizzando tanto le anime belle
occidentali: l’assassinio di Anna Politkovskaja, e il baccano che ne è seguito, danneggiano il Cremlino
molto più degli articoli che scriveva lei quando era in vita, in quel suo giornale che non leggeva nessuno ” (il
prof. legge un pezzo). Il prof. ci consiglia la lettura di Cecenia, anno III (di Jonathan Littell), scritto da un
giornalista e scrittore americano, che mostra come è possibile sbagliarsi su quello che succede nel mondo
pan-slavo di Russia, Cecenia, e luoghi prossimi. E Carrère è avvantaggiato su tutto questo: perché la madre
di Carrère è forse una delle massime studiose russe della storia occidentale, quindi è una delle massime
esperte viventi in assoluto del mondo russo.

Comunque sia, questo attacco ci mostra il personaggio fondamentale del testo, cioè il Carrère personaggio,
alle prese con uno degli eventi recenti, e assai controversi, della storia russa. Ci mostra dunque una sua
conoscenza del mondo russo, del mondo del contesto moscovita, perché lui ne ha esperienza. Carrère la
conosce bene. E mentre ci presenta questo ambiente, rincontra la figura che poi sarà al centro del suo
romanzo (ossia Limonov): “In cima alla scalinata, davanti alle porte chiuse del teatro, ho visto una sagoma
che mi ricordava vagamente qualcuno…”  ogni anno, nel luogo dove Anna P. è stata ammazzata si
ritrovano i leader di questo gruppo appunto per i diritti umani, e che protesta contro i modi che il Cremlino
utilizza per gestire e silenziare l’attività giornalistica, e si ritrovano tutti lì come se fosse una sorta di protesta
continua che ogni anno si ripete, e che la polizia non impedisce per ragioni di pubblica sicurezza, perché
impedirla sarebbe peggio che tollerarla. E mentre siamo lì Carrère scorge la figura e la sagoma di qualcuno
che gli sembra di conoscere (ed è Limonov). Il prof. legge un altro pezzo. Quindi c’è la presentazione di
questo personaggio, che subito è ammantato da una certa aura di fascino. È interessante il fatto che subito
dopo quest’incontro c’è una specie di presentazione del personaggio filtrata dall’esperienza dello stesso
Carrère! Quindi c’è la presentazione di questa figura carismatica che è anche ammantata in quegli anni di
uno spirito punk, siamo nell’80 infatti, e lo stesso Limonov è molto sensibile a quell’atteggiamento
(“Limonov era il nostro teppista, lo adoravamo!”). Questa è la presentazione di questo personaggio. E
Carrère personaggio-narratore decide molto rapidamente di cambiare l’assegnazione che gli ha dato il
giornale, sulla Politkovskaja, in un discorso più ampio sulla dissidenza rispetto al mondo sovietico. Ma
l’incontro con L. gli cambia un po' le idee, e inizia a pensare di scrivere una biografia romanzata sullo stesso
Limonov. Ed è interessante che in questo testo ci siano nella prima parte, quando ancora Carrère non fa
ricorso a psico-narrazione o penetrazione del pensiero profondo di questo personaggio, alcuni momenti di
riflessione meta-romanzesca che interrompono il meccanismo di identificazione della storia (vedi: “ho
l’impressione di aver già scritto questa scena…”).

Gli undici capitoli di questo testo quindi indagano le varie fasi della vita di Limonov e ripercorrono anche la
storia dell’Unione sovietica, attraverso questa figura. Il pregio sostanziale di questo personaggio e della sua
vita è quello di farci capire molto chiaramente che la nostra percezione del mondo russo (tranne per gli
esperti slavisti, ecc.) è una percezione completamente errata, di quel mondo. Cioè noi non capiamo
l’immaginario russo, e capiamo ancora meno il discorso pubblico che si svolge in quel contesto. Limonov
dunque funziona per noi, siccome è un personaggio avventuroso, ecc., come accesso a una specie di doppia
chiave di lettura, che l’uomo occidentale attribuisce in maniera istintiva quando pensa alla Russia, noi infatti
pensiamo a due cose quando pensiamo alla Russia, ossia il grande romanzo russo (Dostoevskij, Tolstoj, ecc.)
e il comunismo. Noi infatti quando pensiamo alla Russia pensiamo a questi due aspetti e basta, e
dimentichiamo che la Russia è un impero di lunghissima data, con una storia molto complessa, e che è
sempre stato un impero (e questo è decisivo nell’auto-percezione che il mondo russo ha di sé stesso, auto-
percezione nella quale il comunismo è un tassello non oppositivo, ma assolutamente integrato nella grande
storia russa, non è infatti un momento di rottura nella grandezza imperiale russa, ma è anzi un momento di
grande continuità e forza). E questa è una delle ragioni per cui noi capiamo molto poco i discorsi pubblici
sempre basati su storia e su fatti molto direttamente detti, senza grandi strategie retoriche, da chi gestisce la
politica al Cremlino.
Quando è scoppiata questa fase della guerra russo-ucraina, le dichiarazioni dei due poli contrapposti in
questo scontro, e cioè Biden e Putin, hanno fatto delle dichiarazioni opposte l’una all’altra. Biden ha fatto
un discorso molto metafisico, basato sul bene e sul male, su un ragionamento di ordine morale-etico, ecc.
Putin ha parlato invece di storia, ha preso un libro di storia e ha letto dei passi che riguardano la Russia e che
cos’è la Russia. Ecco forse questi due atteggiamenti sono rappresentativi di come noi differiamo nel nostro
immaginario di percezione delle cose rispetto a come lo intende il mondo slavo, e in particolare quello russo.
La percezione unilaterale, senza opposizioni, di una certa vulgata della storia russa, fa parte in maniera
profonda della formazione dei russi, cioè non è un accessorio: fare le scuole in Russia significa
sostanzialmente studiare la grande storia russa. E quando Putin fa questa dichiarazione parla proprio al
popolo russo affinché raccolga le forze per l’ennesima battaglia imperiale che il popolo russo è chiamato a
combattere!!! Non c’è né bene né male! C’è la Russia contro il mondo che vuole impedire lo sviluppo, il
benessere, la forza, e soprattutto l’immagine dell’impero russo.
È interessante che dopo la narrazione delle gesta di questo personaggio (Limonov), Carrère arrivi a
formulare una particolare riflessione, generale, su questo mondo. Infatti il romanzo si conclude con un
epilogo che dice così: “Eccoci tornati all’inizio di questo libro. Quando ho fatto il mio articolo su di lui,
Limonov era uscito di prigione da quattro anni. Di tuto quello che ho appena raccontato non sapevo niente.
Mi ci sono voluti quasi altri quattro anni per mettere insieme il materiale. Ho sempre avuto la sensazione
che qualcosa non andasse…” e qui vediamo anche come sono ripetitivi i romanzi di non-fiction da questo
punto di vista (c’è sempre una giustificazione, un fallimento, c’è sempre una preoccupazione dell’Io a
racchiudere il cuore del testo, c’è sempre un epilogo e sempre una giustificazione iniziale per questo tipo di
storia).
In merito a Putin: non è una questione la sua solo di potere personale, questa è infatti un’idea molto
occidentale che noi abbiamo delle figure politiche. Ma il mondo russo in questo è molto diverso: c’è un forte
senso di appartenenza alla grande madre Russia, che viene prima degli affari privati di Putin!
Questo libro di Carrère è anche una grande riflessione sul potere in Russia e su come l’immaginario russo
plasmi una serie di figure che vanno ben al di là dell’idea meramente contabile, economico-centrica, che
l’Occidente ha di questi luoghi. Cioè Limonov è un oppositore di Putin soltanto per caso, sarebbe potuto
essere lui al posto di Putin, e Putin in opposizione a Limonov (e niente o pochissimo sarebbe cambiato!).
Mentre le figure di sfondo di questa battaglia politica, le figure democratiche che vorrebbero una Russia
plasmata sul modello delle democrazie occidentali, sono figure assolutamente minoritarie e inascoltate nel
mondo slavo (sono in sostanza figure occidentali, che poco hanno a che fare col mondo russo). Perché il
mondo russo vive questo grande mito imperiale, di cui il comunismo è solo una continuità dell’impero russo.
E questo per noi occidentali è una cosa folle, a noi infatti ci sembra che quell’episodio abbia rappresentato un
trauma, uno stacco di radicale differenza rispetto allo zarismo e all’imperialismo precedente. Ma
paradossalmente lo zarismo aveva molti più legami col mondo occidentale di quanti non ne avrà poi
l’Unione sovietica dopo il ’24.
Ora, queste due narrazioni (cioè il romanzo russo che sta al centro dell’involucro, di cui Limonov è il
protagonista bizzarro e strano, così come spesso sono strani i grandi protagonisti dei romanzi russi, e il
comunismo, che sta fuori dall’involucro ma che è in qualche modo il soggetto essenziale per capire il passato
recente della Russia) funzionano appunto come delle grandi narrazioni che vengono, come dice lo stesso
Carrère, sovrapposte attraverso la scrittura dei dissidenti. Il comunismo da una parte, il romanzo russo
dall’altra. Perché molti dissidenti russi paradossalmente sono scrittori, poeti, intellettuali, ecc. Allora Carrère
compie questo spostamento: cioè mette in scena il comunismo come grande narrazione (e cioè nel senso di
auto-racconto legato all’evoluzione della figura di Limonov, nel senso anche di un’avventura morale degna
di attenzione!).
Naturalmente poi c’è una grossa differenza tra la narrazione del comunismo e il comunismo, così come c’è
una grande differenza tra la narrazione di Limonov e Limonov, e così come c‘è una grande differenza tra il
Carrère-finzionalizzato da questi testi di Carrère e il Carrère-uomo!!! E nella parte romanzesca del testo noi
vediamo che Carrère utilizza tutti gli strumenti a disposizione della fiction, e questo subito ci fa capire che
l’involucro non-finzionale che ha usato è piuttosto una scusa per costruire la cornice all’interno del quale
inserire questo romanzo!
Il problema quindi, da un punto di vista del rapporto tra fatto e finzione, dipende soprattutto dal patto
autobiografico!

All’esame la prima domanda riguarderà la parte generale del corso, la prima parte insomma. Una domanda
potrebbe essere: Che cos’è il concetto di canone? E come lo impieghiamo nella nostra disciplina? Quindi
sarà fatta una domanda generale, molto vasta. E i manuali della prima parte servono per arricchire e
sostanziare i discorsi che abbiamo fatto a lezione! Sulla seconda parte il prof. farà qualche domanda: ad es.
Qual è la posizione di Genette sul rapporto tra finzione e non-finzione? Sono domande generiche che ci
consentiranno di creare liberamente un nostro discorso, ricollegandoci a più cose possibili! Il libro della
Lavocat è un po' più complicato, quindi siamo noi che dobbiamo fare un lavoro di sintesi, ma bastano solo le
cose che ci interessano a noi! E poi ci farà una domanda sui due testi che abbiamo scelto di leggere (e noi
bisognerà cercare di ricollegarli ai discorsi fatti a lezione!).

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