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MANUALE 2

lunedì 5 dicembre 2022 12:43

CAPITOLO 7

Il canone letterario può essere definito, a una prima approssimazione, come la lista, il repertorio delle opere sulle quali si
fonda una tradizione letteraria.
La parola "classico" individua fin dall'inizio quegli autori appartenenti a una "classe superiore", le cui opere veicolano i
valori sui quali deve costruirsi la società. La sua origine è, pertante, classista e presuppone una gerarchia.
A una classificazione del genere sono stati sottoposti nella storia, anche i generi e i sottogeneri letterari.
In base a queste gerarchie veniva affermato un legame tra l'argomento dell'opera e la forma dell'opera stessa.

I classici costituiscono un elemento fondamentale nella scoperta, o se vogliamo nell'invenzione, della tradizione. Voltaire
espresse la sua soddisfazione al pensiero che il suo popolo potesse finalmente dare una qualche forma alla sua lingua e
al suo gusto.
Il classico è perciò l'opera della quale si raccomanda lo studio per una corretta formazione delle classi dirigenti di una
comunità: in questo senso, il suo valore pedagogico è chiaro fin dall'inizio.
Nei dipartimenti di letteratura negli USA, in Inghilterra o in Irlanda, si capisce subito che i "classici" rappresentano una
porzione ben definita del patrimonio letterario mondiale: in particolare, si tratta delle opere mondo greco e latino.
Questa distinzione non è altrettanto forte nella cultura italiana e suggerisce come mai la parola "canone" abbia preso il
centro della scena, in particolare il mondo anglosassone nell'ultimo quarto del 900.
Secondo John Guillory, sul quale ritorneremo, <<la parola "canone" sostituisce "classico", un termine esplicitamente
onorifico, proprio per isolare i classici come oggetto di critica.

Il sostantivo latino canon può indicare un'unità di misura o una lista; la parola passò a definire non solo l'insieme delle
regole da rispettare per il conseguimento della bellezza, ma anche il repertorio, l'elenco dei testi che definiscono il
lascito di una determinata istituzione, collettività, organizzazione.
Il canone seleziona, tra tutti i libri possibili, quelli che sono legati da alcune carateristiche formali, linguistiche, morali.
Ad esempio, il canone biblico è l'insieme di quei testi che nel corso dei primi concili della Chiesa sono stati considerati
come contenenti il messaggio originale di Dio; lo stesso canone della scrittura è il frutto di secoli di aggiustamenti e
negoziazioni.
Ciò che è importante stabilire, è quanto il canone sia tanto importante in entrata quanto in uscita.
Nell'età ellenistica, il canone indicava un "catalogo" di libri degni di essere studiati e trasmessi.

(Autori come Sainte-Beuve (classique), Thomas Stearns Eliot (tradition) e Matthew Arnold (touchstone), sono
accomunati da una delle caratteristiche del classico, ovvero il suo valore morale, la sua capacità di innalzare
spiritualmente chi venga investito dalla sua opera civilizzatrice.)

Nell'800, secondo Pierre Bourdieu, la letteratura conquistava un suo ambito specifico e sembrava assumere compiti
riservati alla filosofia o alla religione.
Secondo Arnold, la poesia poteva sostituire le ultime due discipline, e la considerava come l'unica forza capace di
portare unità tra gli uomini.
Negli anni 20 del 900, Ivor Armstrong Richards considera il critico letterario come una sorta di medico della mente e il
"cattivo gusto" come la radice di tutti i mali della società.
Diversi autori arrivarono comunque a definire il canone come qualcosa che cambia nel tempo, pur sempre rimanendo
definitivo.

Eliot sosteneva una visione trans-storia del canone, in cui le grandi opere della "tradizione" sono sempre presenti nelle
opere dei grandi autorei del presente, e i "monumenti" del passato vengono cambiati dall'opera "veramente nuova",
dalle riscritture, riprese e allusioni cui danno origine.
L'Ulisse di Joyce, ad esempio, è qualcosa di nuovo che rende omaggio alla tradizione.
Kermode affermerà successivamente che esistono due motivi di leggere un classico: uno filologico e uno in cui l'opera
viene adattata alle nostre esigenze. Così il canone si rinnova pur rimanendo uguale.

Ancora, per Eliot il classico è l'opera d'arte che esprime il momento di maggior maturità di una cultura e in qualche
modo la esaurisce, indipendentemente dalla sua grandezza; quelle di Shakespeare, ad esempio, sono grandi opere,
eppure non sarebbero classici secondo la teoria di Eliot.
Nel 1908 ci fu un tentativo da parte dell'Artists' Suffrage League di stabilire un canone non solo di sicenziate, ma anche
di autrici letterarie, che includesse Jane Austen, Virginia Woolf e altre; si introduce una schiera di autrici messe a tacere.

Ci fu poi uno spostamento da parte di Jauss, che alla fine degli anni 60 sosteneva che per giudicare il fatto letterario
fosse importante investigare gli aspetti legati alla comunicazione e alla ricezione.
È un atteggiamento tipico del 900 e che presuppone una decisa attenzione per il "soggetto", per il lettore. Cruciale
nell'esperienza del lettore è l'orizzonte d'attesa, cioè quelle convenzioni che fanno parte dell'esperienza condivisa di
lettori e produttori delle opere letterarie e che per sua natura è sia personale che nazionale.
Jauss ha proposto l'obiettivo di valutare la costruzione degli orizzonti d'attesa nella diacronia e ha avuto il merito di
porre l'accento su alcuni elementi legati alla discussione intorno al canone: la relatività del giudizio alla base della scelta
di ciò che è letterario in base alla comunità interpretante che si sceglie di prediligere.

Per Fowler, il canone sarebbe costituito dall'intero corpus letterario. I generi letterari e la loro più o meno alta
reputazione sono la lente attraverso la quale Fowler legge le oscillazioni della fortuna di autori e opere: <<ogni epoca
sembra avere un repertorio abbastanza circoscritto di generi al quale lettori e critici rispondono con entusiasmo>>. Nel
momento in cui l'epica declina, il posto dell'eroe epico è preso da quello del romanzo o della biografia.

Che cos'è la letteratura? Per parlarne in termini più vicini a noi, bisogna aspettare i primi dell'800, in particolare con il
Romanticismo, in cui il significato di letteratura si restringe e si specializza.
Bourdieu individua nel 1830 la data in cui si forma un campo letterario staccato da quello economico, e ciò implicava
una divisione tra letteratura alta e bassa.
Negli anni 60 e 70, le barriere tra i generi alti e bassi cominciano ad abbassarsi soprattutto grazie agli studi culturali, in
cui l'idea stessa di letteratura si allarga di nuovo, prestando attenzione anche tipo a cose come il folklore.
Secondo Terry Eagleton, il canone era da rivedere perché era troppo condizionato dalle classi dominanti.
Per Frank Kermode questo processo ha dato il via a una vera e propria <<decanonizzazione>>.
Il problema del pregiudizio ideologico alla base della scelta dei canoni è sentito in maniera particolarmente forte negli
USA negli anni 80.
Bill Readings afferma che ciò è avvenuto soprattutto lì perché il canone è usato come strumento di negoziazione
identitaria.
Ci fu una rivolta studentesca a Stanford nel 1987, e le liste di classici passarono da 1 a 8.
A partire dagli anni 70 e 80 si svilupparono una serie di proposte anticanone volte a smantellare il predominio WASP
(white anglosaxon protestant) all'interno dei programmi di Letteratura inglese e comparata, in particolare nelle
università americane. Trovano sempre più spazio autori della Harlem Renaissance, cioè gli immigrati.
Secondo Guillory, allargando il canone a elementi eccentrici, si trasporta sul piano culturale il progetto del pluralismo
liberale, finendo per impiegare il campo letterario per pacificare la coscienza politica.

Negli anni Novanta acquista vigore un'opposizione di matrice controriformistica.


Il canone occidentale di Bloom si basa su una difesa strenua del "genio" fondatore, Shakespeare, e si scaglia contro ogni
tipo di prospettiva multiculturalista. Ciò che Bloom riteneva pericoloso in questa deriva metacritica era il rischio che
l'analisi politica o scientifica finisse per annullare il godimento estetico.
Va comunque sottolineato che esso condivide con ogni altro tentativo di formazione di un canone un aspetto decisivo: si
tratta di un canone ricco di contrasti e di autori che da un punto di vista anche solo ideologico non possono essere
considerati facilmente assimilabili a un'ideologia conservatrice.
Ci sono poi delle posizioni intermedie che provano a ridefinire un canone condiviso della letteratura mondiale.

Kermode sostiene l'idea di un canone mutevole per natura, destinato a subire e a beneficiare delle <<collusioni con il
potere>>, ma soprattutto a mutare in funzione dei cambi di gusto e al caso che influenza la storia letteraria; egli fa
spazio a un'idea di canone come risultato di un accordo all'interno della comunità interpretativa, e sottolinea come
questa non possa mai spearare di abbandonare del tutto le scelte soggettive.
Kermode aveva chiarito quanto il problema del gusto e del "valore" delle opere letterarie discendesse almeno in parte
da un aspetto inevitabile: la limitatezza del tempo e della memoria.
L'unica opzione alternativa non è accettare il passato e la sua letteratura in toto, ma la loro distruzione dadaista.
Questa visione è oggetto di critiche e Hartman punta l'attenzione sul valore politico del canone e su come Kermode eviti
questo aspetto.
Guillory, pur non contestando a Kermode la ncessità di ripensare al piacere del testo anche nella storia del canone,
sottolinea come questa nozione abbia ancora poco corso negli studi letterari a causa del rischio politico che comporta,
cioè di quel camuffamento delle ideologie di cui parlava Eagleton.

Fin dagli anni 80, Barbara Herrnstein Smith aveva rivolto la sua attenzione al problema della gloria letteraria e della
canonicità, dimostrando subito una tendenza a considerare il valore delle opere letterarie come dipendente dalle
<<dinamiche di un sistema economico, in particolare l'economia personale costituita dai bisogni, dagli interessi e dalle
risorse del soggetto>>.
Ciò che interessa di più del suo libro Contingencies of Value, è l'accento posto non solo sull'importanza del giudizio di
valore nella formazione del canone, ma sul suo mutare progressivo e sulla necessità di studiarne gli sviluppi.
La proposta pragmatica e sociologica di Herrnstein Smith e quella di Kermode hanno entrambe il merito di riportare al
centro del dibattito un cavallo di battaglia dell'educazione liberale: il piacere che si deriva dalla lettura dei testi e il peso
che questo ha nello stabilire il canone stesso.
Nel momento in cui il giudizio di valore deriva dal piacere, deve confrontarsi con la sua dimensione sociale e con il
mercato.

Se stabilire un canone significa venire incontro alla necessità umana di selezionare quello che è importante ricordare, ciò
si riflette spesso in uno degli effetti principali delle operazioni di scelta: la creazione di un ritratto che ordina in una
gerarchia condivisibile il materiale a disposizione.
Il romanticismo è l'epoca delle storie letterarie, ma è con la formazione degli Stati-nazio0ne che la storia letteraria di un
popolo diventa la sua (auto)biografia.
La stessa formazione di un canone nazionale è spesso parte di più ampie politiche di invenzione della tradizione, che non
solo forniscono a una comunità il proprio passato, ma che spesso, come è stato sottolineato da Benedict Anderson,
contribuiscono a creare la comunità stessa.
Osserviamo ora i casi per nazione.

Irlanda: la formazione di un canone irlandese risulta un'operazione soprattutto politica. Questa viene effettuata
attraverso il recupero di una tradizione folklorica dimenticata che si unisce a quella della letteratura in lingua
irlandese. Si tratta anche di una rivendicazione degli autori ostaggi di altre nazioni, come l'Inghilterra.

USA: la formazione di un canone seguì la strada indicata dalla guerra di seccessione di una separazione
dall'Inghilterra. L'arrivo di un canone originale è da ritrovare comunque negli inizi del 900, il quale includeva opere
patriottiche e fortemente ideologiche.

Regno Unito: qui, la formazione di un canone ha motivazioni imperialistiche. Lo studio della letteratura inglese
iniziò nelle università di Edimburgo e Glasgow; solo più tardi, tra la fine dell'800 e l'inizio del 900, il canone inglese
iniziò a essere studiato istituzionalmente a Oxford e Cambridge.

Italia: il romanticismo influenzò molto l'Italia, tanto che la storia della nazione, il suo spirito, la sua nascita e il suo
sviluppo venivano narrati come in un romanzo.
Vengono recuperati i padri, Dante, Boccaccio e Petrarca, nei quali si individuano i caratteri utili alla costruzione
della nazione.
Ci furono anche problemi di lingua, soprattutto da parte del mitteleuropeo Italo Svevo, a lungo accusato di
scrivere male nell'Italia di D'Annunzio.

Evan-Zohar si propone di spiegare le modalità del cambiamento del gusto letterario studiando l'alternanza di generi e
modi diversi, "canonizzati" e "non canonizzati", al centro e alla periferia del sistema letterario. Quando un elemento del
sistema diventa centrale, esso prende il posto di ciò che occupava il centro prima e lo relega, momentaneamente, alla
periferia del sistema.
Quella del polisistema è una teoria funzionalista e pertanto differenzia le proprietà, come la canonicità, dai testi che ne
sono caratterizzati; all'interno di una teoria come questa è importante stabilire che cosa viene visto come esemplare,
quali generi, quali forme, quali modi; è cruciale il modo in cui il sistema legge e canonizza le opere e ne considera la
produttività in termini di evoluzione letteraria.

Con una forte semplificazione, potremmo dire che un'analisi della storia delle traduzioni ci pone di fronte a due risultati
fondamentali: in seguito a una traduzione, a una pseudotraduzione o a una serie di traduzioni, il sistema letterario e il
canone possono cambiare o confermare il proprio status.
Il governo fascista, con la circolare dell'aprile 1934, imponeva per la prima volta una censura esplicitamente preventiva;
ad esempio, la prima traduzione dell'Anima dell'uomo sotto il socialismo di Oscar Wilde è del 1912, ma il libro scompare
fino al 45, quando torna con quattro traduzioni diverse.
L'insieme di norme che presiede alla traduzione delle opere è perciò rivelatore di un intero sistema di valori, letterari e
non: rappresenta una radicalizzazione delle norme che in ogni periodo della storia umana regolano le possibilità dello
scrivere.

La storia della letteratura presenta a ogni angoloo delle "occasioni mancate": una di queste è il romanzo collettivo
italiano, cioè un sottogenere che avrebbe dovuto essere la proiezione di massa di fatti individuali.
È un tentativo di adattamento di forme nate negli Stati Uniti.

Se è vero perciò che il canone "limita" l'espressione, che le pone delle contraintes formali e generiche, è anche vero che
lo fa nei due modi che tradizionalmente vengono riconosciuti alla stessa censura da teorici quali Sue Curry Jansens,
Andrew Ross e Richard Burt, i quali insistono sul continuum che esiste tra la censura di Stato di un regime totalitario e
quella più silenziosa e pervasiva in azione in qualunque Stato democratico.

CAPITOLO 8 - LA DIMENSINE CULTURALE DEI TESTI

Al fondo dell'incessante dibattito sui compiti della critica, un dato permane: la virata, o deciso riorientamento, del
concetto di testo letterario verso una definizione che ne contempli e valorizzi appieno le componenti e le implicazioni
culturali.
"Cultura" è un lessema sottoposto a torsioni, modificazioni, discordanti interpretazioni lungo le diverse epoche come
all'interno delle diverse tendenze critiche.
Terry Eagleton ricorda che la parola è considerata <<fra le 2 o 3 più complesse della lingua inglese>>, costretta a cedere
la palma della vincitrice alla sua controparte necessaria, "natura", in asoluto la più complicata a spiegarsi. È proprio tra
l'intreccio dei due termini che possiamo cogliere uno sviluppo fondamentale: significato originario, latino di cultura, dal
verbo colere, come intervento di regolamentazione compiuto su di una natura che si viene così a praticare e abitare;
coinvolge idee di crescita e sviluppo, conservazione e salvaguardia delle messi.
Raymond Williams ha rintracciato l'evoluzione del termine, fissando all'età moderna l'elaborazione della sua accezione
metaforica, nel senso di <<coltivazione attiva della mente>>; giunge a sintetizzare 3 macrocategorie:

1. Un ampio processo di sviluppo intellettuale, spirituale ed estetico: mostra chiare affinità con la definizione 3, e
riguarda sia una condizione personale, <<uno stato evoluto della mente>>, sia gli esiti dei percorsi formativi
dell'individuo, che nel tempo, le forze intellettuali trainanti di un popolo o di una determinata area, hanno
riconosciuto come espressioni illustri, e sono quanto racchiuso oggi nel concetto di cultura alta (letteratura nelle
lingue romanze, grande romanzo americano…);
2. Il particolare modo di vivere proprio di una popolazione, di un periodo storico o di un gruppo: esprime un
complesso sistema di valori, costumi e credenze di un gruppo scientifico.
a. Altra accezione - concetto semiotico di cultura: appunta la propria attenzione su una rete di significati
condivisi che gli studiosi indagano oltre la superficie.
3. Le opere e le pratiche dell'attività intellettuale, e in modo particolare di quella artistica.

Quindi, ora indica l'affermazione di un'identità specifica piuttosto che la trascendenza da essa. E dato che tutte queste
identità (nazione, sesso, etnia, regionale) si considerano represse, la cultura è terreno di scontro, e non più un paradiso.

Dalla critica provengono nozioni come quella di pop art; poi, nel campo della teoria e storia dell'architettura, si sarebbe
teorizzata un'espressione "vernacolare" americana, tipo gli stili architettonici tipici di Las Vegas.
Comparse inoltre il camp, che è un gusto che si lega a elementi di affettazione, teatralità, gioco e "lo smisurato", con
effetti allusivi o al contrario apertamente provocatori.
Per quanto variegate e tra loro diverse, sono categorie particolarmente innovative, accomunate dalla capacità di
iniettare gli elementi della cosiddetta cultura popolare all'interno della cultura alta (o viceversa).
Gli anni 60 sono l'epoca in cui divengono via via sempre più manifesti i segni di una nuova condizione storica,
esistenziale e culturale; la transizione dalla modernità alla postmodernità.
C'è la componente ludica della riproposizione creativa delle forme del passato, come proiettate sul presente; vengono
citati e ricombinati gli stili passati, in un singolare e talora frastornante collage.

Ora bisogna dunque introdurre e definire gli studi culturali, e si è soliti risalire al contesto britannico, in particolare il
1964, quando ci furono gli esordi di un preciso indirizzo di ricerca, esplicitato dai lavori di due anglisti, Richard Hoggart,
Raymond Williams e Edward Palmer Thompson.
Tale tradizione di pensiero rompeva vistosamente con la nozione idealista ed elitaria di cultura come arte, anteponendo
<alla singolarità dell'opera come oggetto di studio preferenziale in quanto espressione individuale e ideale di valori
universali>> il fenomeno culturale, con tale gesto riconnettendo <<l'oggetto d'analisi alla propria storicità materiale e
sociale>>, ovvero alle condizioni concrete.
Gli stimoli provenienti dal marxismo e dallo strutturalismo, dagli sviluppi negli studi di semiotica e psicanalasi in Europa,
segnarono un deciso approfondimento della dimensione politica. In particolare, l'analisi postulae che i testi vadano
interpretati correttamente con il fine di demistificare le ideologie dominanti che agiscono attraverso di essi.
Gli anni 70 e 80 del CCCS (centre for contmporary cultural studies) vedono così una foritura cospicua di nuovi indirizzi e
oggetti delle ricerche, un'espansione evidente degli innteressi verso le problematiche della razza e del gender, verso i
mass media.
Se è vero difatti che alle sue origini la versione americana dei cultural studies esibiva un interesse solo accennato verso
le questioni legate alla classe e alla formazione operaia, risultando <<politicamente orientata verso il consenso e meno
di sinistra rispeto alle varianti britanniche del progetto>>, è altrettanto indubbio che la sua dilagante influenza nella
ricerca ha introdotto questioni quali la rappresentanza delle minoranze e la revisione del sistema del sapere.

Di primaria importanza è l'area dei subaltern studies, sviluppatasi in India a partire dagli anni 80, la quale origina dalla
necessità di rifondare e riformulare il racconto della storia del paese. Tale narrazione farà risuonare la voce calpestata
del subalterno, ovverosia delle mase dei nativi oppressi.
Per comprendere l'ampiezza geografica del progetto, si considererà il valore strategico, l'attualità dei border studies,
rivolti a interrogare l'idea di confine e la sua importanza in termini geopolitici, storici e artistici.
I modi con i quali, a ridosso delle frontiere, si ridefiniscono in continuazione i concetti di identità e appartenenza.
Anzaldùa ha teorizzato Borderlands/La frontera, intorno al concetto di patria e a usi, figure e tradizioni testuali del sacro
e della mitologia popolare, e delle diverse forme di oppressione, razziale e sessuale.
Tenendo fermo al centro dei propri interessi un luogo, un determinato paesaggio o una città, la geocritica è interessata
a vedere e comparare le singole rappresentazioni che i diversi autori ne hanno dato al tempo, privilegiando così i
contrasti.
Con l'intera gamma degli studi culturali la geocritica condivide il ricorso a una spiccata interdisciplinarità, la capacità di
operare in maniera trasversale coinvolgendo più campi artistici, più tradizioni del sapere.

Le vicende dell'introduzione degli studi culturali nell'accademia segue da vicino il dibattito sulla revisione del canone
letterario. Se a Stanford come altrove si viene sperimentando l'inclusione di nuove letture obbligatorie che rompono con
l'imprenscindibilità dell'asse composto da classici greci e latini e letterature medievali e moderne europee, in altre
cittadelle si levano le proteste di coloro che si ergono a difesa del patrimonio storico della letteratura sinora trasmesso e
preservato dalle università. In un simile rivolgimento, le recriminazioni riguardano il preteso di impoverimento
dell'educazione letteraria e, in senso più ampio, umanistica.
Un testo chiave di tale posizione, Il canone occidentale. I libri e le scuole dell'età, di Harold Bloom, si rivolge
polemicamente agli studiosi della cultura materiale, ai sostenitori del neostoricismo e ai portavoce, nella critica e
nell'insegnamento, delle istanze nere, femministe, gay, lesbiche e delle altre voci subalterne, unificando le loro posizioni
della denominazione <<scuole del Risentimento>>.
L'attaccamento all'idea di una cultura alta ha raggiunto parecchi consensi.
Spivak ha espresso in un suo pamphlet una diagnosi provocatoria quanto sconsolata di morte della comparatistica, là
dove questa non si riproduca, allargando il proprio raggio d'azione sino ad adottare una prospettiva <<planetaria>>.
A fronte delle sue preoccupazioni, l'Europa rinsalda le proprie convinzioni: Guillén allude agli studi culturali come a una
<<febbre>> che avrebbe colpito gli Stati Uniti, per trasformarsi, poi, tragittata in Europa, come qualcosa di irreparabile.

Egli chiede: <<tra i contendenti, chi avrà ragione? Chi pensa che le letterature comparate stiano giungendo ad una fine o
chi crede che queste influenze le arricchiscono?>>.
Una risposta proviene da Jonathan Culler, il quale assegna agli studi letterari il compito della <<interpretazione
valutativa>>, mentre agli studi culturali spetterebbero procedimenti di <<analisi sintomatica>>. Ai secondi toccherebbe
riconoscere in tali attestazioni culturali il sintomo di qualcosa d'altro, il richiamo a una totalità sociale, politica, culturale,
nella quale i testi si situano.
La sua suddivisione riesce alla fine dei conti un po' schematica, tendendo a riprodurre la distinzione tra un valore
monumentale e uno documentale del testo.

Martha Nussbaum, nel secondo capitolo del Giudizio del poeta, rilegge Hard Times di Dickens alla luce delle teorie
economiche classiche e contemporanee per mostrare l'efficiente macchina satirica di cui lo scrittore si serve, nel
raffigurare il personaggio di Gradgrind, la cui filosofia può adottare una teoria della motivazione umana che è semplice
ed elegante, perfetta per il gioco del calcolo, ma la cui relazione con le leggi più complicate che governano il mondo
interiore di un essere umano dovrebbe essere considerata con scetticismo.
A conclusione del discorso sull'interpretazione di Tempi difficili, il punto è riaffermare la liceità, rilevando la stratificata
serie di riferimenti interdisciplinari in direzione dell'economia politica che la sorreggono, dotandola di originalità e
spessore dell'economia.

Degli studi culturali, la ramificazione nelle pratiche di interpretazione testuale contemporanea è indubbia; difficile
negare gli effetti del cultural turn.
Gli insegnamenti che ne provengono sono svariati; i reception studies e diverse proposte di rilettura e analisi della
produzione letteraria italiana, dalla prospettiva gender sino a felici incursioni della critica militante in territori ibridi, di
una nuova definizione, come quello teso fra saggio e narrazione della nonfiction. Secondo Daniele Giglioli tali scritture
contemporanee vanno lette correttamente come <<sintomi>> di tensioni che agitano nel profondo la società attuale e il
suo immaginario.
Si può sostenere che i reception studies siano stati tanto poco teorizzati quanto intensamente praticati da più di un
ventennio e in maniera particolare nell'accademia inglese, per poi diffondersi all'America, all'Australia e all'Europa
continentale.
Gli studi sulla ricezione dell'antico paiono partecipare in misura sensibilmente inferiore ai presupposti e agli obiettivi
politici di approccio alle dinamiche culturali.
La lettura degli usi ideologici, o politicamente orientati, della tradizione classica ha disegnato scenari conflittuali,
demistificando i fondamenti culturali del sapere e dei sistemi educativi nazionali. Lavorare sulla ricezione, sulla vita
postuma degli autori e dei loro testi, implica la consapevolezza teorica di dare vita, nel nostro leggere, accogliere,
riplasmare, insegnare in modo nuovo i classici, a un "dialogo".

L'amplissima rete di rapporti, derivazioni, allusioni e ricreazioni mobilitata dalla lettura dei classici nel tempo richiede
allo studioso una particolare sensibilità nei confronti dello statuto originario e, allo stesso tempo, delle variazioni che
interessano il testo.
I reception studies introducono una particolare attenzione ai processi di appropriazione e rimodellamento dei connotati
del classico, alla soggettività dell'interprete e al suo situarsi in una condizione socioculturale marcata.
Un ideale punto di osservazione per cogliere l'addensarsi di ben definite connotazioni storiche, sociali e politiche sulle
immagini del mito, è costituito dalla figura di Medea.
Nella sintesi di Fusillo le motivazioni basilari che hanno condotto scrittori antichi e moderni a confrontarsi con il mito di
Medea sono le seguenti:

1. Il carattere soprannaturale del personaggio, che crea distanza dall'universo del personaggio;
2. Il conflitto tra civiltà occidentale e civiltà orientale;
3. La violenza del sentimento amoroso,

La tradizione teorica e critica afroamericana è la risultante di un processo tardonovecentesco di riplasmazione dei black
studies: dalla fase delle ricerche a essi associata, più propriamente militante, costituita dai movimenti di rivendicazione
etnica degli anni 60 e 70, incentrata sul problema dell'identità -e disparità- etnica.
Il problema della razza viene oggi riproposto tra virgolette, intendendo con questo la sua attuale inservibilità come
categoria di interpretazione scientifica di dati e fatti sociali.
Anime del popolo nero di Du Bois, riflette la sua ricca esperienza e la sua capacità di osservazione in una prosa intensa
ed elevata, la cui matrice saggistica incorpora toni lirici e spunti narrativi e autobiografici, eleggendo nei diversi capitoli
oggetti e temi apparentemente eterogenei. Tra questi, l'analisi delle condizioni delle scuole rurali e della povertà degli
affittuari e dei mezzadri; i contenuti dei cantanti di dolore; la critica ai neri riformatori.

Tra le scene di folla che occupano la seconda parte del romanzo Invisible Man, di Ralph W. Ellison, scritto durante i primi
decenni del 900, l'incontro del narratore con Tod Clifton, membro della suddetta fratellanza, è rivelatore.
Procede dal riconoscimento di un amico di Clifton che issa qualcosa per aprirsi a comprendere le braccia dell'uomo, che
danno vita alle mosse del ballerino Sambo.

Da più parti si interrogherà la storia dell'oppressione afroamericana, innestandovi ad esempio una prospettiva legata
all'esplorazione della soggettività femminile; l'ambientazione potrà essere quella della seconda metà dell'800, come in
Beloved.
Scritture come queste preoccupano i difensori del canone occidentale come Harold Bloom.

Ci sono inoltre le scritture del mondo queer, parola che indica un sapere in buona parte creativo, immaginativo; è una
teoria aperta ed eminentemente interdisciplinare, spesso antagonistica e provocatoria.
Indica anche le idee di strano e obliquo, eccentrico, per poi incarnare nei giorni odierni anche i significati di
"incomprensibile", "deviante" e "imprevedibile".
Rinominare/rinominarsi implica la primaria necessità di una destituzione delle identità fisse; di questa perenne fluidità
delle appartenenze il queer ha coerentemente fatto il proprio argomento-chiave.
Quali che siano gli estremi effettivi della parabola descritta dal queer, interessa qui dare conto della sua influenza e della
sua efficacia nello studio della letteratura.
Da un lato sono stati riscoperti autori e tradizioni laterali, la messa in risalto del pensiero omosessuale; dall'altro, forse
più significativo, si sono condotte letture trasgressive a carico dei classici e della tradizione delle lettere occidentali
(pagina 281, dante queer)

CAPITOLO 9 - TRADUTTOLOGIA

I translational studies sono un campo di ricerca molto giovane. Henri Meschonic ha sentito il bisogno di affermare in
maniera netta che <<la teoria della traduzione non è che una linguistica applicata. È un campo nuovo nella teoria e nella
pratica della letteratura>>.
Per Meschonic, la poetica realizza l'incontro tra la teoria della letteratura e la pratica della scrittura nella modernità. La
poetica della traduzione non separa teoria e pratica. Si fonda nella loro interazione.
Ci sono voluti decenni perché la traduttologia acquisisse finalmente una sua autonomia, e perché se ne riconoscesse
l'importanza fondamentale per gli studi di letterature comparate.
Nel 1993 Susan Bassnett conclude il suo Comparative Literature dichiarando formalmente che <<d'ora in poi gli studi
sulla traduzione dovrebbero essere ritenuti la disciplina più importante>>.
Evan-Zohar, nella Posizione della letteratura tradotta all'interno del polisistema letterario, dice: "attraverso le opere
straniere, vengono introdotti nella propria letteratura elementi che prima non esistevano."
Ponendo come criterio di traducibilità la pertinenza e non più l'equivalenza, la teoria del polisistema letterario suscita
molti quesiti del campo traduttologico: su quali parametri una lingua-cultura sceglie di tradurre tal testo o talatro?
La traduzione è anche un'operazione linguistica: Dopo Babele, Steiner pone una citazione da Heidegger in cui il filosofo
afferma che l'uomo sbaglia a credere di dominare il linguaggio, perché dal linguaggio è invece dominato.
Steiner disegna una costellazione: filosofia del linguaggio/linguistica con Heidegger; predominio del ruolo delle
traduzioni all'interno dello studio delle letterature con Borges; critica/poetica del tradurre con Meschonic.

La taraduttologia si sviluppa nella seconda metà del Novecento. Michel Ballard attribuisce la paternità del neologismo
<<tranlsatology>> a Brian Harris.
Successivamente, Harris scopre che nel 1968 un gruppo di studiosi belgi aveva già usato il termine <<traductologie>>.
La riflessione sull'attività traduttiva ha origine ben più lontane; la traduzione è un'operazione strettamente legata alla
principale facoltà umana, quella del linguaggio, che coinvolge un bisogno fondamentale, ossia il confronto con l'altro.
In un capitolo del suo Dopo Babele, Steiner propone una periodizzazione di tale produzione: la prima fase andrebbe da
Cicerone ad Orazio, e sarebbe il periodo in cui la riflessione scaturisce dalla diretta esperienza della traduzione; la
seconda fase andrebbe da Schlegel e Humboldt a Goethe; la terza fase inizierebbe con i primi lavori sulla traduzione
automatica negli anni 40; l'ultima fase, dagli anni 60 in poi, sarebbe nuovamente interessata dalla corrente
ermeneutica.
Susan Bassnett critica la scarsa funzionalità che caratterizza la periodizzazione in cui la prima fase è costituita da un
blocco di circa 1700 anni, mentre le ultime due ne coprono soltanto una trentina.
Ma il lavoro di Steiner non è una storia della traduzione vera e propria: l'autore propone una serie di descrizioni
ragionate di procedimenti traduttivi.

Essendo un processo fondamentalmente binario, la traduzione è quasi sempre descritta attravero metafore che si
articolano intorno a due polarità.
Lingua/testo di partenza/testo d'arrivo è una terminologia molto frequente, asciutta ed efficace, che restituisce la
dinamicità del processo traduttivo ed evoca spiritualmente l'idea della traduzione come percorso verso l'altro, il cui
obiettivo è il rapporto.
Metafrasi/parafrasi è il binomio impiegato già nel 600 da John Dryden nella sua prefazine alle Epistole di Ovidio; la
prima si rifà a un modello di traduzione letterale, mentre la seconda è associata a una traduzione più libera.
Borges vede nella perifrasi una modalità propria dell'epoca classica, periodo durante il quale gli autori erano interessati
all'opera d'arte. La metafrasi sarebbe invece più affine alla sensibilità romantica, che poneva l'io del poeta al di sopra di
tutto.
Il discorso investe qui una delle principali questioni traduttologiche, posta già da Schleiermacher: bisogna che il
traduttore avvicini lo scrittore alla cultura d'arrivo, addomesticando il testo in questione, o è più opportuno che la
traduzione resti straniante, spingendo il lettore a compiere uno sforzo verso l'altro da sé?
È proprio riprendendo questa linea di pensiero che Lawrence Venuti introduce nel discorso traduttologico i concetti di
domestication e foreignization.
Schleiermacher fu sostenitore di una traduzione straniante e Venuti, nel pieno rispetto della diversità culturale, è del
suo stesso avviso.
Antoine Berman suddivide la traduttologia in tre branche: la storia della traduzione, la critica o analitica della traduzione
e l'etica della traduzione.
Celebre dicotomia della traduttologia francese è anche quella proposta da Jean-René Ladmiral, il quale conia i concetti
di sourcier e cibiste, il primo indicante l'atteggiamento traduttivo di chi si concentra perlopiù sul significante della lingua
di partenza, il secondo relativo a chi presta attenzione soprattutto all'effetto della parole (come esso sarà riprodotto
nella lingua d'arrivo).

Pierre Menard, autore del "Chisciotte" (è tutto un racconto di Borges) è un racconto ben noto ai comparatisti perché
pone in questione l'identità stessa dell'opera letteraria e cela al suo interno una sorta di teoria della riscrittura. La sua
ambizione era di produrre alcune pagine che coincidessero -parola per parola, riga per riga- con quelle di Miguel de
Cervantes. I due paragrafi, identici, si specchiano l'uno nell'altro, ma Borges commenta la prova d'autore di Menard
arricchendola di significati e offrendone una lettura che la rende infine persino più interessante dell'opera di Cervantes.
L'obettivo di Borges: spingersi a sostenere che l'<<originale>> non esiste, perché qualsiasi opera costituisce sempre una
ripresa più o meno parziale di un'opera precedente.
Borges sostiene che non c'è ragione di considerare una traduzione necessariamente inferiore all'originale. Se pensiamo
che il suo primo intervento sulla traduzione è del 1926, stupisce pensare a quanto la sua irriverenza verso il testo
originale contrasti con il saggio di Walter Benjamin apparso pochi anni prima:
La traduzione non è considerata da Benjamin come esperienza, ma come forma. Con questo concetto di forma filosofia
egli riprende e radicalizza l'idea romantica della traduzione come funzione critica.
Nel solco di Goethe e della tradizione romantica tedesca, Benjamin esalta il carattere originale del testo di partenza; il
testo originale è per lui indissolubilmente radicato nella lingua in cui è stato concepito ed è, dunque, in qualche modo
intraducibile.
Lo scarto fra le lingue, così come fra due testi, esiste ed è innegabile.
Benjamin è convinto che nella traduzione la parentela tra lingue si esprima in forma più profonda; attraverso la
traduzione si palesa il "segreto seme di una lingua più alta nascosto nella reciproca estraneità delle lingue storiche",
ossia ciò che l'autore definisce "la pura lingua". Benjamin lascia allo studioso di oggi un'eredità ancora da esplorare: è in
questo senso che gli è ancora "en avant de nous", nelle parole di Berman.

Nel 1813 Schleiermacher tiene una conferenza intitolata Sui diversi metodi del tradurre. Questo discorso costituisce un
testo importante negli studi di traduzione. La ragione principale della sua celebrità è che esso rappresenta un capitolo
della ricerca ermeneutica del filosofo tedesco: secondo Berman, bisogna considerare Schleiermacher come il fondatore
di quella ermeneutica moderna che si pone come una teoria della comprensione. Per lui c'è "traduzione" ogni qualvolta
si è chiamati a interpretare un discorso.
Palesando la distanza fra due lingue, la traduzione si fa operazione ermeneutica e diventa una forma del comprendere.
Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco costituisce così un prezioso campionario di interessanti casi di traduzione
letteraria. Interpretare non è (sempre) tradurre, ci dice Eco, ma la traduzione implica sempre una propedeutica
interpretazione.
Nel 900 l'interpretazione della traduzione come paradigma ermeneutico prosegue con Paul Ricoeur, per il quale
l'operazione traduttiva diventa la porta che apre alla dialettica del sé e dell'altro. Topos ricoeuriano della riflessione
intorno alla traduzione è quello dell'hospitalité langagière, dell'ospitalità linguistica, regime di una <<corrispondenza
senza adeguazione>>.
Per Ricoeur è all'ideale della traduzione perfetta che bisogna rinunciare, lasciando cadere la pretesa di poter ridurre
l'altro all'interno dei confini del testo; occorre, a suo avviso, elaborare il "lutto" di un guadagno senza perdita.
Édouard Glissant dirà che l'essenziale, nella traduzione, è riconoscere la bellezza della rinuncia, perché in tale rinuncia
c'è la parte di sé che si abbandona all'altro.
La concezione di Ricoeur invece rientra appieno nell'idea di <<traduzione etica>> promulgata da Berman già nel 1985:
laddove la traduzione etnocentrica è quella che riconduce tutto alla propria cultura, a norme e valori già noti,
considerando l'alterità come un negativo da annettere, la traduzione etica è quella che consiste nel riconoscere e
accogliere l'Altro in quanto altro.
Il discorso di Berman sulla traduzione etica si sviluppa non solo intorno a case studies positivi, ma anche attraverso
esempi negativi: si tratta di quelle ch'egli definisce "tendenze deformanti". Lo studioso ne individua tredici.
Prendiamo ad esempio la chiarificazione, ossia quel procedimento che tende a rendere il testo più esplicito, a precisarlo,
provocando magari il passaggio dalla polisemia alla monosemia, dal definito all'indefinito; è una tendenza che può
manifestarsi attraverso l'aggiunta di termini funzionali, perifrasi e via dicendo.
A volte una chiarificazione può modificare l'interpretazione di un incipit celeberrimo. È il caso della soluzione "diciamo
che mi chiamo Ismaele" per tradurre "call me Ishmael", la quale è stata tradotta da Pavese come "chiamatemi Ismaele".
Un altro caso è quello della traduzione di Yves Bonnefroy de "L'infinito" di Leopardi. Egli introduce una parola: Naufrage,
mais qui m'est doux dans cette mer" da "E il naufragare m'è dolce in questo mare".
Berman, nel suo ultimo libro, parla di eticità come "un certo rispetto dell'originale".
Anthony Pym si pone criticamente nei suoi confronti e chiarisce che la lacuna dell'etica di Berman sta nel non aver
coinvolto il piano pi specificamente professionale. È necessario che il traduttore sappia rispondere alla domanda sul
perché tradurre, e per chi; in questo modo, sarà in grado poi di capire anche come tradurre. Se il traduttore è
responsabile, è perché egli è causa di qualcosa.
Possiamo poi parlare di Ugo Tarchetti, pioniere del gotico in Italia, esponente della Scapigliatura e traduttore plagiario:
motivi e scene tratte -ad esempio- da Edgar Allan Poe confluivano in produzioni pubblicate a suo nome. Il suo obiettivo
era quello di scuotere le ideologie del tempo, di sovvertire una società ancora troppo legata a un realismo conservatore.
Opzione speculare a quella di Tarchetti, è quella della pseudotraduzione, di cui Venuti si occupa nel lavoro successivo,
Gli scandali della traduzione. Questa tecnica è una "composizione originale che l'autore ha scelto di presentare come un
testo tradotto".

Hermans e il suo manipulation college vedono la letteratura come un sistema complesso e dinamico e propongono un
approccio alla traduzione letteraria che sia descrittivo, target-oriented, funzionale e sistemico, adeguato a studiare sia le
norme e i vincoli che governano la produzione in una data letteratura. L'approccio proposto serve a interrogarsi sulle
traduzioni senza ridurle a oggetti derivati, contestualizzandoli sul piano culturale, storico e sociale.
Il significato di traduzione va di volta in volta stabilito, pur in via temporanea.
La difficoltà insita nel circoscrivere il raggio d'azione della traduzione è, per Tymoczko, ciò che costituisce la sua forza e
non già la sua debolezza.
Sulla stessa linea di pensiero di Theo Hermans si colloca André Lefevere; lo studioso afferma chiaramente in apertura
che la traduzione è una forma di riscrittura.
Lefevere vede la traduzione "as refraction rather than refletion".
In prospettiva postcoloniale si colloca la riflessione di Ganesh Devy, che nel suo contributo Traduzione e storia letteraria.
Una prospettiva indiana cita in apertura l'idea di Joseph Hillis Miller secondo cui la traduzione sarebbe "l'esistenza
errante di un testo in esilio perpetuo".
L'esilio fa qui riferimento alla visione metafisica occidentale, che considera la traduzione come una nuova creatura, che
conserva concetti e significati del testo di partenza, racchiudendo sia la ricchezza del suo autore, sia quella, aggiunta, del
suo traduttore.
Coniugando la prospettiva della critica letteraria femminista postcoloniale e quella dei gender studies, Spivak si
interroga su che cosa sia la traduzione responsabile. L'autrice vede la traduzione come l'orlo sfilacciato di un tessuto
linguistico. Ciò che conta è tradurre è soltanto quando si ha una vera intimità con la lingua-cultura d'arrivo, trovandosi a
tradurre il racconto della bengalese Mahasweta Devi; Spivak sceglie come titolo The Breast-Giver, che in inglese è
straniante tanto quanto lo era il titolo bengalese..
Il potere politico della traduzione sta nel definire e nell'articolare l'otherness, l'alterità. Su questa linea si muovono anche
altre studiose di traduzione e gender studies.
Godard concepisce la traduzione non come un trasferimento, ma come "a reworking of meaning", come il prosieguo di
una creazione, un contributo attivo alla circolazione di significati.
Riprendendo l'idea di Emilio Mattioli di una valenza epistemica della nozione di poetica, Lavieri si propone di indagare in
che modo la letteratura contemporanea pensa la traduzione, esplorando "il laboratorio sperimentale in cui gli scrittori
tematizzano la traduzione nei loro racconti, nella creatività del gesto della scrittura". È il caso appunto del già citato
Désert Mauve di Brossard, che contiene al suo interno un racconto, la sua traduzione e il commento che la (finta)
traduttrice ne fa.
Mattioli propone di considerare la traduzione come il rapporto fra la poetica dell'autore e la poetica del traduttore.
"se tradurre letteratura porta alla realizzazione di un incontro tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto,
questo incontro è unico e irripetibile, perché unico e irripetibile è lo stato delle due opere e delle due lingue che in quel
momento si incontrano".
È sulla stessa scia che si collocano anche gli scritti di Franco Nasi: dall'idea che il traduttore sia uno dei molteplici
"specchi" che costituiscono un testo, non limitandosi a restituirne un riflesso in cui si mette in luce come anche le
tradizioni più acrobatiche e ricche di contraintes siano in realtà capaci di rivelare nuove capacità del testo di significare.
La traduzione arricchisce il testo di partenza. Esempio della traduzione tedesca del saggio Dire quasi la stessa cosa di
Umberto Eco, analizzata da Hans Honnacker. In certi casi Eco prendeva spunto per le sue argomentazioni proprio dalle
traduzioni di Kroeber. Kroeber ha poi chiesto a Eco l'autorizzazione a poter rispondere in nota alle sue obiezioni: ne è
venuto fuori un dialogo fra traduttore e autore.

In Translation in the Twenty-First Century, Susan Bassnett ricorda che, alla prima pubblicazione del suo volume (1980), le
letterature comparate apparivano come un settore disciplinare in crisi, poco in contatto con altri campi emergenti ma
ancora marginali come i translational studies, i postcolonial studies e i gender studies. Dagli anni 90 in poi, lo studio delle
traduzioni risulta sempre più utile a sempre più campi, come i cultural studies.
Nel 2000, Spivak invoca una maggiore consapevolezza delle gerarchie della differenza linguistica e culturale a livello
globale all'interno del nuovo campo della World Literature, attraverso il riconoscimento dell'importanza dello studio
delle traduzioni.
Procendendo, Bassnett si sofferma sul testo The Translation Zone: A New Comparative Literature di Emily Apter.
Si apre con "niente è traducibile - la traduzione globale è sinonimo di comparatistica - tutto è traducibile".
Nel lavoro successivo, Apter procede sulla stessa linea, proponendo la "untranslatability" come fulcro teorico delle
letterature comparate.
L'intraducibile è per lei l' "apice di una zona traduttiva produttivamente opaca e resistente, una zona che respinge il
principio della sostituibilità e che invoca invece i ripensamenti elaborati dalla filosofia del linguaggio e la semiologia".
È proprio il paradosso dell'intraducibilità che si rivela decisivo all'interno del sistema letterario, perché scatena la
produzione di forme nuove.

CAPITOLO 10 - LA LETTERATURA E I MEDIA

A una veloce ricognizione, il rapporto tra le arti non è mai stato caratterizzato, nell'antichità, da una precisa
compartimentazione in ruoli fissi e satibili.
Questa condizione di instabilità nei confini tra le forme d'espressione, d'altra parte, corrisponde pienamente al
significato che la parola "arte" aveva nel mondo antico: se in essa erano comprese tutte le forme dell'artigianato e della
scienza era perché proprio l'arte, in quanto techne, veniva intesa come una pratica, quindi come qualcosa che si
acquisisce con lo studio e si trasmette con l'insegnamento,
Nel suo insegnamento originario poiein è un verbo del"fare" che, anche in epoche successive, "in particolare doveva
aver mantenuto l'uso anche il primitivo valore concreto e tecnico" (Braun).
Secondo Curtius, nessun popolo più del greco ha profondamente sentito la divinità nella poesia. A ricordarcelo è l'Iliade
che ricorre all'invocazione alle Muse, rivolgendosi alla loro conoscenza autoptica sia in apertura che in chiusura del
poema. Esiodo affida alla conoscenza delle dee olimpiche la materia cantata.
Le muse infondono la voce divina al poeta a cui spetta il compito di cantare i fatti in qualità di testimone diretto e di
riportarne in vita la memoria. Tuttavia nel mondo greco arcaico e classico il valore divino appartiene solo all'ispirazione
poetica; sarà poi nel periodo ellenistico che il concetto platonico d'ispirazione varrà anche per le arti figurative.
Se la pittura è usata da Platone come metafora per dare forma visiva all'idea di Stato ideale, e da Aristotele per
esemplificare l'attività umana, Luciano e Plutarco, sul versante opposto, sottolineano il discredito sociale a cui il lavoro
manuale condanna l'artista-artigiano.
Il numero canonico delle Muse si afferma e consolida nell'età ellenistica, e poi perché la stessa attribuzione delle arti
non è affidata a un racconto mitico fondativo: la musica e la poesia si trovano accanto alle arti liberali della grammatica
e dell'eloquenza, ma anche accomunate ad alcune di quelle che oggi consideriamo scienze, come la geometria e
l'astronomia. Le arti figurative, invece, a causa del lavoro manuale non risultavano partecipare ad alcuna assegnazione
divina.
Nella civiltà greco-romana possiamo però riconoscere un complesso di relazioni inter-artes nel quale si sono sviluppate
diverse nozioni e numerose riflessioni teoriche e tecniche che hanno avuto un influsso continuo, fino ai tempi moderni.

L'arte nel suo complesso è "imitazione di un'azione nel linguaggio"; la differenza tra le singole arti risiede nello
strumento con cui viene compiuta l'imitazione e nei fattori con cui essa si realizza: le arti imitano "in cose diverse",
imitano "cose diverse", imitano "in un modo diverso".
A essere rilevante nel nostro contesto è l'idea specifica di ibridazione dei mezzi tecnici: metro, ritmo, melodia possono
essere usati tutti insieme, separatamente o in alternanza. Non è un principio di intermedialità, ma di prassi nella
relazione tra gli strumenti tecnici adoperati.
Con l'età dei media elettrici, infatti, muta il contesto, che dalla relazione tra le arti quali macroforme espressive si sposta
a quello tra i canali di comunicazione che veicolano quelle stesse macroforme espressive, insieme ad altre e nuove.
È di fatto un cambio di regime, uno spostamento del registro culturale. I nuovi media costituiscono la via d'accesso
interamente novecentesca a un ripensamento complessivo delle stesse forme artistiche.
Le arti raffigurative sono rapportate non solo al fenomeno della cultura visiva ma, da un lato, al supporto materiale che è
in grado di produrle, e dall'altro alla forma di relazione che sviluppano con la cultura materiale della società a cui
appartengono.
La letteratura e le arti figurative non solo rappresentano una traccia documentale del passaggio novecentesco dal
sistema delle arti a quello dei media ma, cooperano alla costituzione di un quadro teorico attraverso il quale entrare in
contatto con la nozione d'intermedialità dalla porta delle scienze filologiche.
A rinnovare le forme del discorso novecentesco sui media sono opere quali Il pensiero selvaggio, di Claude Lévi-Strauss,
Le conseguenze dell'alfabetizzazione di Jack Goody e Ian Watt, Cultura orale e civiltà della scrittua di Havelock.
Interessante che questa confluenza avvenga partendo da diverse tradizioni: quella degli studi letterari, quelli sull'oralità,
dagli studi sul processo evolutivo agli studi sui media elettrici novecenteschi.
Il patrimonio enciclopedico, che costituisce il grado non-genetico dell'informazione, convogliato dal sistema dell'oralità
primaria permette che venga attribuito anche alla "tecnologia elettrica" e all'oralità secondaria un peso storico
equivalente a quello delle fasi aperte nel passato dall'invenzione della scrittura e della stampa.
La posizione che considera non già solo come una mera protesi, rappresenta una linea di interpretazione e di analisi non
certo transeunte dal momento che porta nel nuovo contesto dei media digitali Jay David Bolter e Richard Grusin a
sussumerne le intuizioni all'interno della teoria di "rimediazione". In questo contesto la nozione stessa di messaggio
viene osservata nella sua natura quasi "disincarnata".
Il discorso sull'impatto della tecnica viene poi sviluppato nello studio sui media elettrici novecenteschi, capaci di
accogliere, conservare, registrare, e poi codificare, rimodificare, trasmettere le informazioni: Grammophon, Film,
Typewriter. L'aspetto "materialistico" delle componenti tecniche conduce alla determinazione di un primo corno degli
studi di archeologia mediale; il secondo, invece, procede all'assunto che ogni atto espressivo sia incorporato in una rete
di pratiche materiali.
Se, per Zielinski, l'archeologia "in una prospettiva pragmatica, significa scavare segreti nella storia", la ricerca non è
guidata da una canonica idea di "progresso", né storico, né tecnologico.
"la nozione di progresso continuo dal basso verso l'alto, dal semplice al complesso, deve essere abbandonata, insieme a
tute le immagini, le metafore e l'iconografia che sono state -e sono tuttora- utilizzate per descrivere il progresso".
Le forme di comunicazioni elettriche, nell'ibrido che caratterizza il video podcasting o le pagine dei blog trovano nelle
teorizzazioni di Walter Ong un percorso nel quale scorrono in continuità il wireless e la comunicazione via cavo perché
nella più nuova struttra comunicativa hanno a che fare con "un'oralità più deliberata e consapevole, basata sull'uso della
scrittura e della stampa".
È quindi vero che a partire dalle caratteristiche tecniche della letteratura al contatto con gli altri media, diviene
necessario ripensare e aggiornare gli elementi narrativi, stilistici e retorici.
Nel discorso sull'intermedialità la natura teconologica va osservata per la "materialità" specifica del segno di cui è
portatrice.
La questione diventa allora se il mezzo di comunicazione e il suo "contenuto" narrativizzato abbiano un modello verbale
univoco e valido per tutti i sistemi mediali.
Nei media le forme del discorso e l'aspetto materiale del segno sono grandezze che s'incastrano una nell'altra.
La differenza tra le parole e le immagini è nella differenza della loro base mediale o materiale che è la base della loro
grammatica: linee, colori, proporzioni possiedono per le arti visive una capacità espressiva e di articolazione altrettanto
complessa di quella delle parole.
La differenza più evidente è che le forme visive non sono discorsive, ma per le immagini esistono regole semantiche e
sintattiche più o meno fisse?
"quali sarebbero gli equivalenti degli elementi fonologici, morfologici, sintattici e semantici del linguaggio quando si
tratta di immagini?"
L'espressione "sistema dei media" esprime di per sé l'esigenza di ricondurre la pluralità delle forme di comunicazione a un
quadro unitario e coerente.
Nel secondo corno del discorso, quello relativo al campo artistico, compare il più accreditato antecedente
all'espressione "intermedialità", con una data e un luogo di nascita ben precisi.
Con "intermedia" di Higgins cattura proprio la relazione interseziale tra pratica artistica e sistema delle arti che avviene
tra i generi prevalenti nella neo-avanguardia degli anni 60: l'arte prende corpo come "qualcosa che cade tra i media".
"L'intermedia è sempre stata una possibilità fin dai tempi più antichi e rimane una possibilità ovunque esista il desiderio
di fondere due o più media esistenti".
Sebbene il concetto di intermedialità nasca in seno a un milieu letterario, gli studioso avevano inizialmente considerato
l'intermedialità come la sorella minore dell'intertestualità.
Nel decennio successivo, l'attenzione si appunterà in maniera più decisa sul medium, sia come mezzo di comunicazione
dei contenuti, sia in quanto combinazione di sistemi semiotici.

A partire dagli anni 90 con l'espressione "intermedialità" viene indicato il sistema dei linguagi mediali nel complesso
delle loro interazioni.
Ogni studio dei fenomeni culturali dovrebbe essere "interdisciplinare, almeno nel suo quadro interpretativo. Viviamo in
un mondo in cui siamo circondati da immagini ma, cosa ancora più cruciale, in cui immagini e linguaggio partecipano
iniseme a una vita culturale molto più ampia e variegata".

CAPITOLO 11 - DIGITAL HUMANITIES E STUDI LETTERARI

Delineare in maniera quanto più precisa che cosa si celi dietro l'eufonico anglicismo digital humanities è un atto
contraddistinto da un imbarazzante livello di difficoltà. È una locuzione-ombrello, icona del confine transdisciplinare tra
scienze esatte e umane. Nella loro veste teoretica, le digital humanities ragionano sulla permeabilità di tale confine e
sulla relazione di circolarità che sussiste fra la dimensione oggettiva dei dati empirici e quella soggettiva intrinseca alla
loro interpretazione.
Risulta difficile convergere su un'univoca definizione di questo complesso campo di studi.
Per ovviare all'interrogativo esistenziale "che cosa sono le digital humanities?", gli ultimi 20 anni di produzione
scientifica del settore hanno visto la realizzazione di una serie di progetti e ovviamente pubblicazioni di grande pregio e
rilevanza.
È chiaro che molte delle ragioni alla base della nuova primavera delle digital humanities vano ricercate nella coincidenza
storica dell'avvento dei big data: una monumentale opera di transcodifica da circa cinquecentomila miliardi di
megabytes che ha trasformato e continua a trasformare il nostro patrimonio culturale in una miniera d'informazione
virtuale che attende solo di essere scavata.
Si potrebbe citare il semplice ma efficace assioma proposto da Max Weber secondo cui una nuova scienza emergerebbe
quando un nuovo problema viene approcciato con un nuovo metodo. Sarebbe quindi possibile riconoscere alle digital
humanities lo status di nuova "scienza" dell'era dei grandi dati.
Credo sia utile tornare alle origini dell'incontro tra queste due culture ancora lontane e ostili ripercorrendone
diacronicamente i principali punti di svolta e cesura.

William G. Thomas riassume l'esperienza storica delle digital humanities in 3 punti:

1. Fase dedicata alla digitalizzazione dei prodotti culturali e l'organizzazione degli stessi in infrastrutture tipo archivi;
2. Fase incentrata sulle modalità di trattamento e rappresentazione dei suddetti materiali;
3. Fase di metariflessione critica circa la creazione di specifici modelli interpretativi attraverso cui dare e
comprendere il senso delle nuove evidenze empiriche costituite dai dati digitali.

Proprio grazie alla maggiore possibilità di dialogo e interconnessione portata dalla domesticizzazione della rete, la
comunità scientifica delle Humanities Computing subì un'estensione a dir poco smisurata. Il conseguente aumento della
quantità e della diversificazione dei materiali disponibili in rete generò una vera e propria emergenza organizzativa
relativamente alla categorizzazione di tale mole di dati.

Il Markup è forse il più antico e funzionale tra i sistemi descrittivi proposti delle scienze informatiche per la realizzazione
di documenti elettronici interamente leggibili da qualunque macchina e contenenti la maggior quantità possibile
d'informazione.
L'SGML e il successivo XML permettono di identificare ed etichettare i diversi elementi di un testo digitalizzato,
esplicitandone ruolo e relazione con gli altri componenti all'interno dello stesso attraverso una determinata sintassi.
Come conseguenza, c'è stata l'istituzione e la diffusione della TEI: un progetto scientifico internazionale volto a
sviluppare una serie di linee guida comuni per la codifica delle nuove forme di testualità digitale.
La trasformazione di un qualunque testo da analogico a digitale realizza quel salto paradigmatico che Louis Althusser
definisce come passaggio dal mondo degli oggetti reali a quello degli oggetti della conoscenza. Per il filosofo francese, la
conoscenza di un oggetto reale è impossibile se non attraverso la creazione di un concetto dello stesso.
"Nessuna parte costitutiva dell'universo è così semplice da lasciarsi afferrare senza astrazione".
Un libro, ad esempio, è un oggetto reale e il testo, sua controparte concettuale, costituisce l'unità minima d'analisi negli
studi letterari. Nelle recenti versioni elettroniche per la lettura su schermo, il libro rimane un oggetto reale. Diviene
classificabile quale oggetti conoscenza solo quando, una volta digitalizzato, questo viene codificato attraverso l'apparato
metalinguistico descrittivo dei tag e metadati del MarkUp.
Nello specifico ambito del testo, l'importanza della misurazione emerge con particolare intensità da un pamphlet di
Franco Moretti dall'evocativo titolo Operationalizing.
"Operazionalizzare vuol dire costruire un ponte che dai concetti porti alla misurazione, e quindi al mondo".
Moretti illustra come la trasformazione di un concetto in una serie di operazioni quantificabili non si configuri solamente
quale condizione di possibilità per l'applicazione di strumenti computazionali alla ricerca letteraria, ma anche quale
essenza di una nuova teoria della letteratura non più teleologicamente deduttiva, osia theory-driven, ma induttivamente
veicolata dai dati, ossia data-driven.

L'uso di metodologie computazionali implica la rilocazione del critico all'interno di un nuovo orizzonte epistemologico
incentrato sulla quantizzazione delle forme quale fonte sufficiente di evidenze per conclusioni scientificamente rilevanti.
Per definizione, l'edizione critica di un testo è il risultato di una serie di operazioni e tecniche dettate dalle regole della
constitutio textus che mirano a stabilire la forma originale del manoscritto. Tale ricostruzione critica si articola
essenzialmente in due fasi: una documentativa e l'altra interpretativa.
Appare evidente come nella sua tradizionale versione cartacea, l'edizione critica si configuri come un prodotto
concettuale caratterizzato da una struttra implicitamente ipertestuale particolarmente adatta a una sua ricollocazione
nell'universo digitale.
Un'edizione elettronica, almeno in potenza, permette di mantenere molteplici livelli d'elaborazione tramite
procedimenti algoritmici sempre più interattivi.
Ecco dunque che l'edizione critica digitale s'impone oggi quale modello virtuale della ricerca di laboratorio.
Tra i più celebri esempi di applicazione di Digital Scholarly Editions, divenuti poi archivi e banche dati, si possono citare il
Walt Whitman Archive dell'Università di Nebraska-Lincoln, The Williams Blake Archive e l'archivio critico melvilliano
Textlab dell'Università di Hofstra.
La medesima vocazione collettivista e laboratoriale è ancor più fondamentale negli studi di matrice sintetico-
quantitativa ispirati alla macroanalisi computazionale.
Macroanalysis è definibile come una commistione di approcci radicata nell'esperienza interdisciplinare del text e data
mining: gli scavi che nelle scienze informatiche si fanno per reperire informazioni da grandi set di dati.
Riasumendo in un'unica e intraducibile parola, la macroanalisi computazionale è dunque lo studio dei patterns del
nostro patrimonio letterario.
Nel tentativo di legittimare la validità della macroanalisi computazionale, Jockers utilizza l'interessante metafora
dell'economia quale disciplina dipendente da entrambe le sue componenti micro- e macroanalitche:
Approcci alla letteratura micro-orientati, letture dei testi altamente interpretative, rimangono di fondamentale
importanza; mentre i metodi di indagine, di raccolta delle prove, sono diversi, non antitetici e condividono lo stesso
obiettivo finale di illuminare la nostra comprensione della storia letteraria.

La possibilità del tutto inedita di esaminare l'enorme "empirical potential of the digital universe" è un qualcosa che
indubbiamente fa tremare le fondamenta di secoli di teoria letteraria.
Come scrive Chris Anderson: "i petabyte ci permettono di dire che la correlazione sia sufficiente.".
Secondo Thomas Rommel "l'elaborazione computazionale della letteratura non ha mai, sin dai suoi albori, avuto un
impatto significativo sulla comunità scientifica".
Continuare ad aspettarsi dalle digital humanities risultati ascrivibili a una sfera ermeneutica ancora qualitativa, ancora
umana, sarà del tutto inutile o peggio, uno spreco di opportunità. Sarà dunque di vitale importanza che la futura così
come la presente generazione di umanisti digitali impari finalmente a guardare ai dati computazionali non solo in termini
di confutazione o conferma di ipotesi preesistenti all'applicazione delle analisi quantitative, ma come linfa vitale
dell'odierna riflessione letteraria giocata sulla spiegazione di inedite correlazioni, finora invisibili, e la formulazione di
nuove domande, finora impensabili.

CAPITOLO 12 - LE TEORIE E I METODI

È chiaro che oggi la teoria della letteratura è una disciplina in crisi, anche se l'area di significazione del termine "crisi"
non comprende solo l'arretramento, la difficoltà, lo stato di permanente instabilità, ma anche il senso di revisione di
concetti che piò preludere a nuove sintesi.
In un certo senso è all'interno stesso del fatto letterario che nasce e si sviluppa una teoria della letteratura, una
riflessione sul farsi della scrittura e sulle sue caratteristiche intrinseche.
È sempre più evidente come la crisi della teoria sia anche crisi degli "oggetti" testuali tradizionali e a dover essere
ridefinito sia soprattutto il "campo letterario". È infatti il campo letterario, il testo, ad aver subito una trasformazione e
una metamorfosi che ne ha cambiato la natura.
Ciò denota che la scrittura letteraria nell'epoca della globalizzazione è, ad esempio, un uso della citazione e
dell'intertestualità non più come richiamo/contestazione della tradizione ma come segno distintivo socialmente atteso.
La letteratura ha un carattere sempre più performativo a scapito dello statuto estetico che ancora sopravviveva nel
Modernismo.

Un primo sincronico stato dell'arte mostra quanto sia sbiadita, sfocata e improponibile per l'oggi l'immagine di una
teoria critica che coincida con un'area culturale e linguistica omogenea, con una "scuola", che è anche un insieme di
metodi, formata e orientata da studioi partecipi di paradigmi epistemici unitari.
Tale schema è stato teoricamente produttivo attorno ai primi anni 60, quando la nascita e lo sviluppo degli studi
narratologici e della semiologia letteraria tendevano a coincidere con la cultura francese attenta alle scienze umane,
dalla linguistica all'antropologia, alla psicanalisi.
Una riconsiderazione dell'opera Corso di linguistica generale di Ferdinand e Saussure sta mettendo in rilievo anche
un'attenzione allo scarto dalla norma e a una linguistica della parole, accanto a una considerazione della langue, ossia a
uno studio delle strutture sottostanti alle singole realizzazioni.
L'appartenenza all'area disciplinare della filologia romanza dei tre maggiori esponenti della critica stilistica -Leo Spitzer,
Karl Vossler ed Erich Auerbach- dovrebbe far riflettere su quanto l'abito comparatistico di Saussure sia stato ripreso da
questa corrente critica in una feconda bipolarità tra attenzione allo scarto e al microsegnale testuale e l'aspirazione a
riportare il particolare in una più ampia dimensione di comparatismo letterario.
Su questo piano d'attenzione ai testi moderni sembrano convergere i due luoghi di fondazione della teoria letteraria
moderna: il formalismo russo e la linguistica generale di Saussure.
Da un lato, la tradizione del comparatismo europeo che diviene in Saussure volutamente metodo d'analisi della forma
più alta e complessa di categorizzazione della realtà, cioè il linguaggio; dall'altro una contiguità, dal formalismo in poi,
con le sperimentazioni e i testi delle avanguardie della modernità.
Sarà Lévi-Strauss, con Roman Jakobson a produrre l'analisi di un sonetto di Charles Baudelaire, Les Chats.
Possiamo limitarci a ricordare i due principi metodologici che guidano l'intera analisi. Da un lato, l'idea che un uso delle
funzioni espressive e foniche del significante consenta la realizzazione sul piano del significato di una serie di equivalenze
e di letture simboliche; dall'altro, una correlazione sincronica tra i vari piani dell'analisi (fonico, metrico, retorico), sino a
trasformare l'approccio descrittivo in una volontà interpretativa innovativa.
Il limite posto dalle etichette e dalle mappe non lascia spazio al momento interpretativo. È il limite di questa prima
versione dello strutturalismo e al tempo stesso il suo fascino a distanza di tempo di fronte alla ripresa del contenutismo
o del lirismo della critica letteraria attuale. Ed è a partire da tale applicazione che prenderà corpo in questi anni l'idea di
una letterarietà come caratteristica oggettiva del testo estetico.
Sklovskij definisce il procedimento come qualitativamente solidale agli aspetti di ripetizione fonica e ritmica del verso,
sino a paragonare gli effetti di ritardo dell'azione narrativa e di pregnanza stilistica al ruolo percettivo e straniante svolto
dai fenomeni di assonanza e di allitterazione in poesia.
Al centro dell'opera letteraria rimane la funzione di "straniamento" svolta dal procedimento in opposizione
all'automatismo percettivo della lingua quotidiana, ed è grazie a questa funzione che l'opera artistica può essere
studiata nella sua "letterarietà".
Ben presto, il modello di Sklovskij mostrerà la sua insufficienza; attorno agli anni 20 la definizione della "letterarietà"
come scarto tra linguaggio poetico e comunicativo in termini quantitativi ha subito una revisione a opera di formalisti
come Tomasevskij e Tynjanov.
Non a caso Tynjanov nel Problema del linguaggio poetico e nel saggio Il fatto letterario riformula la contrapposizione
statica di Sklovskij tra materiali e procedimenti mediante il concetto di dominante.
La retroazione della funzione sulla forma trova con il concetto di dominante una sua applicazione nella critica letteraria
destinata a essere in un certo senso sottovalutata nelle sue potenzialità teoriche.
Si apre una nuova prospettiva di poetica teorica. Se tale dialettica si trasmette a tutti gli elementi dell'opera, allora
linguaggio poetico e linguaggio comune non si oppongono per la qualità degli elementi linguistici, quanto per la diversa
funzione e distribuzione degli elementi in un contesto poetico o narrativo. Nel modello letterario di Tynjanov sono
presenti due aspetti: il diverso ruolo del destinatario nel processo di fruizione dell'opera e l'alternarsi diacronico dei
sistemi letterari.

Gli studi narratologici di Gerard Genette, Figures 1, 2 e 3, hanno contribuito a fondare una vera e propria grammatica
degli strumenti con cui sondare il testo nel suo livello di superficie, mentre Greimas e la sua scuola lavoravano invece
alle strutture semantiche profonde.
Nelle sue estreme formulazioni lo strutturalismo francese arriva a teorizzare un processo senza soggetto, formula che sul
piano della teoria si traduce nella valorizzazione in Barthes non più delle strutture ma dei testi; e quindi in una messa in
discussione delle proprie stesse ricerche precedenti.
L'interazione barthesiana tra jouissance e testo diventerà, nella samanalisi di Julia Kristeva, costruzione del testo come
luogo di manifestazione dei livelli profondi, pre-edipici del soggetto.
La critica strutturalista italiana ha avuto una genealogia più condizionata da Contini e dalla sua originale congiunzione di
ragioni stilistiche e di attenzione al contesto storico; pur nutrendosi di suggestioni straniere ha ben presto rielaborato e
adattato alla tradizione italiana i metodi della letteratura europea.
Di notevole interesse si sono rivelate la rivisitazione in chiave semiotica dei generi letterari operata da Maria Corti e
l'analisi delle correlazioni tra modelli culturali e strutture testuali esperita da Cesare Segre (la sua teorica semiotica era
volta ad indagare i rapporti tra mondo e testi).
Due altri approcci disciplinari sono stati, in questi anni, importanti per l'elaborazione della teoria letteraria: la semiologia
e le varie discipline storico-letterarie legate all'analisi delle letterature nazionali.
Combinata in vario modo con gli apporti soprattutto del marxismo critico, la teoria letteraria ha agiro come suggestione
di lettura, accanto alla stilistica, in vari critici italiani. Basti pensare a Forma & ideologia (Mazzacurati, 1974) a tener
presente il ruolo conoscitivo del linguaggio letterario e la conseguente funzione estetica della teoria della letteratura.

Negli anni 80, l'accento era posto sul testo più che sul segno, mentre negli anni 60 erano valorizzati soprattutto gli
aspetti comunicativi e cognitivi del linguaggio.
I meriti euristici del rigore metodologico della linguistica e della semiologia hanno costituito anche i limiti e i punti
irrisolti da cui è ripartita la critica. Pensiamo alla nozione di testo: nella sua complessità, non può essere descritto come
una semplice aggregazione di segni o di enunciati.
Alcuni teorici hanno auspicato l'avvento di una semiologia di seconda generazione, attenta più ai fenomeni
dell'enunciazione e della discorsività che a un'esclusiva attenzione al codice o alla descrizione formalizzata dell'opera ai
suoi aspetti tematici e contestuali.
Processo che parte dalle unità semantiche minime e basilari per poi vederle via via manifestarsi in strutture attanziali di
tipo narrativo, in nuclei tematici e in figure retoriche e stilistiche, fino ad arrivare alla superficie significante del testo.
La ripresa della critica tematica e dell'analisi retorica può fornire un prezioso contributo alla svolta teorica della
semiologia testuale. Basti pensare alla mobilitazione della retorica, soprattutto come repertorio di topoi, pensata da
Weinrich. Una simile visione della tematiche è centrata sulla possibilità di rielaborare temi presenti nei codici culturali, in
modo da farli divenire immagini testuali per il lettore e poi mentali nella postlettura.
Weinrich coinvolge oltre che il testo le percezioni e le immagini culturali che dall'opera transitano nella memoria
collettiva.
Mentre nel modello della comunicazione il messaggio aveva un valore essenzialmente informativo e constatativo,
l'attenzione all'enunciazione introduce la soggettività nella lingua come fenomeno che interviene sulla forma e sulla
funzione del messaggio.
Non a caso, oggi, i rapporti tra scienza del testo e scienza psicanalitica appaiono ben più complessi di quanto ipotizzato
dei primi tentativi di applicare alla letteratura la strumentazione della psicanalisi. Lo studio dell'enunciazione ha centrato
il punto di più produttiva intersezione tra la semiologia e la psicanalisi sulle tracce linguistiche e semiotiche che l'atto
enunciativo dissemina nel testo.
La centralità dell'aspetto testuale ha riportato in auge, soprattutto tra gli anni 70 e 80, un lato della teoria che sembrava
abbandonato: quello dei generi, delineati come modelli tematici e al contempo enunciativi.
Distinzione tra generi e modi: i generi sono categorie propriamente letterarie, i modi sono categorie che dipendono
dalla linguistica, o più esattamente da ciò che oggi si chiama pragmatica. (genette).
Il modello proposto da Genette ipotizza dei rapporti d'intersezione tra la situazione enunciativa (il modo) e il genere
come insieme di motivi e tematiche storicamente determinati. Un testo è analizzato dal punto di vista dell'atto
enunciativo (azione raccontata) e del soggetto trattato come insieme degli stilemi e dei contenuti utilizzati. Può essere
raggiunto un terzo rapporto di tipo formale (la prosa o il verso, un certo registro linguistico).
Esiste per Genette un architesto; noi lo definiremmo piuttosto un testo potenziale, cui i testi letterari attingono non solo
suggestioni stilistiche o contenutistiche ma soprattutto le proprie condizioni enunciative.
Una sola osservazione andrebbe avanzata a questo punto: circa la necessità d'introdurrre nell'analisi delle condizioni di
enunciazione la frontiera mobile che il sociale determina tra il letterario e l'extraletterario.
Si tratta del problema dell'utilizzo di materiale extraletterario in letteratura, un nodo teorico cui i formalisti russi e
Bachtin hanno dedicato pagine illuminanti.
Medvedev nel Metodo formale delinea il genere come un modo discorsivo con un duplice orientamento. Da un lato
presuppone e predispone una connessione "attiva" tra pubblico e opera. Al contempo il genere rappresenta un modello
del mondo che padroneggia forme determinate di visione e di organizzazione del materiale linguistico al fine di orientare
i caratteri tematici e compositivi dell'opera.
Il genere registra al suo interno il delicato equilibrio fra tradizione e innovazione del sistema letterario.
Potranno essere studiati i fenomeni della stilizzazione, della citazione, della parodia che tanta importanza hanno per la
nascita del genere del romanzo.
Il rapporto tra stilizzazione e parodia risulta in Bachtin restituito alla dimensione ermeneutica di un incontro tra "due
coscienze linguistiche individualizzate".

A questo punto emerge l'esistenza, nei vari modelli critici, di una tensione unitaria tesa a cogliere la mobile frontiera tra
l'effetto della scrittura e la soggettività dell'interprete.
In Genette la ripresa dell'elecutio retorica rintraccia nel testo le strategie di persuasione messe in campo dall'autore,
cosicché l'attenzione crescente al contesto della scrittura e ai modi di rappresentare l'emissione e la ricezione del
messaggio ha suscitato un pullulare di concetti teorici -l'autore implicito, il narratore, il lettore implicito, il lettore ideale,
il lettore modello.
Il narratario fa parte di una retorica della persuasione mediante la quale è possibile distinguere diversi gradi di credibilità
e di distanza tra la narrazione e i codici dell'opera.
In un'opera individuale vi è sempre la traversata di costellazioni testuali e l'enfatizzazione di alcuni momenti della
tradizione da parte dell'autore, che tenta di ricoprire con il proprio sistema la tradizione consolidata.
Nel modellotestuale di Jauss le differenze tra il contesto originario del testo e i contesti posteriori sembrano agire come
un ponte ermeneutico tra l'attività di scrittura dell'autore e quella interpretativa del lettore.
In questo senso la coesistenza ermeneutica di contemporaneo e non diviene l'anello di saldatura tra le letteratura e la
storia. In questa trasparenza tra l'ombra della tradizione e l'attualità della letteratura va interrogata criticamente la
teoria di Jauss.
Nelle Tesi di filosofia della storia di Benjamin si legge che "la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il
tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualita."
Jauss sembra consapevole della discontinuità d'orizzonte tipica della modernità tra l'esperienza del lettore e l'istituzione
letteraria.
Molte delle letture testuali dell'ultimo Jauss sono dedicate al valore assertivo e socialmente modellizzante delle norme
letterarie, sul filo di una propensione etica della letteratura che porta l'opera a influenzare l'immaginario e la prassi
sociale.
L'opera d'arte non si propone necessariamente come una violazione delle norme, ma può divenire una tessera del
mosaico che connette le strutture sociali alle norme letterarie e ideologiche.

La letteratura, nella società globale, sembra aver perduto l'esclusiva nella percezione artistica comune: altre forme
artistiche o para-artistiche sembrano agire più potentemente in tal senso. La teoria e la critica dovrebbero saper
interrogare queste nuove dimensioni della percezione e del rapporto tra l'esperienza comune e il fare estetico, senza
dimenticare che la letteratura sia la forma d'arte più semplice: bastano carta e penna per continuare a esistere nel
brusio della lingua.

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