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Che cos’è la traduzione?

Secondo Berman, una riflessione fruttuosa sulla traduzione e sui traduttori deve articolarsi attorno a tre assi fondamentali: Una
storia della traduzione; Un’etica della tradizione; Un’analisi della traduzione.
Nella “bibbia” dei traduttologi, quel saggio After Babel [chapter 4, The Claims of Theory] firmato da George Steiner di cui già
abbiamo parlato a inizio lezione, il critico anglo-franco-americano ha suddiviso la letteratura sulla teoria, pratica e storia della
traduzione in quattro stadi. In che modo descrive il primo di essi?
Un secondo, importante, motivo che ci porta a interessarci alla storia della disciplina traduttiva è il fatto che, come scrive lo stesso
Steiner, e come molti altri studiosi hanno più volte sostenuto, l’intera disciplina dei Translation studies attuali è fortemente
condizionata e influenzata dai risultati teorici impostati nel passato. Le grandi “problematiche” che attraversano la disciplina
traduttologica (quello della “fedeltà” allo spirito o alla lettera, in primis) non potrebbero essere cioè comprese senza tener in
considerazione una dimensione prettamente “storica”. Addirittura, in una pubblicazione recente, di agile consultazione, lo studioso
Michaël Oustinoff arriva a affermare che «À la question: Qu’est-ce que traduire ?, il est impossible de répondre sans tenir compte
de la dimension historique » (Michaël Oustinoff, La traduction, 2003).

•Tutta la storia della traduzione, da un certo punto di vista, sarebbe attraversata cioè dalla stessa, incessante, domanda: quale tra la
traduzione fedele alla “lettera” e la traduzione fedele allo “spirito”, al senso globale del testo, sia più giusta. La perenne questione,
a cui generazioni di traduttori hanno tentato di rispondere, sarebbe rimasta, per Steiner, invariata negli anni:
Traduciamo sempre di più, e traduciamo sempre di più in maniera «specialistica», per rispondere alle esigenze di un mercato
editoriale in crescita, e di respiro internazionale. Di conseguenza, pensiamo di più alla traduzione, ne ricerchiamo le fondamenta
teoriche, le problematiche, le insite criticità. Di qui, la maggiore attenzione verso il fatto storico, di qui lo sviluppo e l’importanza
di una «storia della traduzione».
Una prima, consistente riflessione sui caratteri del tradurre si delinea d’altronde già in epoca antica. La definizione stessa di
«antichità» è soggetta a declinazioni differenti, e molto si discute circa i limiti da assegnare a questa particolare fase storica: in
generale si potrebbe intendere per «antichità» quella fase che prende avvio con l’apparizione della scrittura (tra 4000 e 3000 a.C.)
e si conclude con la deposizione dell’ultimo imperatore d’occidente (476).
-In generale il Novecento è il secolo di una «presa di coscienza» della problematicità del tradurre, il secolo – per altro – di una
metariflessione sempre più articolata della traduzione su se stessa. Di certo a questo ha contribuito la diffusione delle ricerche di
comparatistica, di letteratura comparata, ma si deve soprattutto all’espansione di un campo di studi ora di grandissimo peso in
ambito accademico, appunto gli studi in traduttologia – o translation studies –, lo sviluppo e il nuovo prestigio delle ricerche di
storia della traduzione. Come vedremo meglio in seguito, la “traduttologia” è un dominio di ricerca naturalmente pluridisciplinare,
che in sé accoglie elementi e suggestioni provenienti dalle più diversissime metodologie d’indagine, dalla linguistica, alla
sociologia, all’antropologia. Ma si deve anche alla maggiore “professionalizzazione”, al definirsi di una figura sempre più
specializzata in ambito lavorativo come quella del traduttore, lo slancio tutto nuovo che vivono al giorno d’oggi gli studi di storia e
tecnica della traduzione.
Dunque si può dire, come scrive Michel Ballard nel suo Histoire de la traduction, che «la conscience de l’histoire de la traduction,
de son étendue et de son poids, est un phénomène relativement récent». Bisognerebbe cioè attendere studiosi come Alexander
Tytler, teorico scozzese che opera tra XVIII e XIX secolo, o Valéry Larbaud, più spostato verso il XX, per ritrovare i primi cenni
di una storia della traduzione che si leghi anche a una riflessione sulla sua pratica, sulla sua teoresi. Con il costituirsi, dopo la metà
del secolo, di una vera e propria scienza della traduzione, ecco che si abbandonerebbe una volta per tutte l’empirismo proprio alle
prime ricerche sull’argomento, tanto deplorato tra gli altri da George Mounin nei suoi Problèmes théoriques de la traduction.
Passiamo una volta per tutte a una riflessione a un tempo teorico e pratica, che da un lato passa in rassegna una serie di questioni
d’ordine linguistico, filosofico, etico, estetico, e dall’altro non trascura problematiche di tipo più sociologico, pragmatico, creativo.
E per far questo, per portare avanti una riflessione che sia quanto più possibile complessa e cosciente dei suoi fondamenti, sarebbe
necessario affrontare la traduzione innanzitutto da un punto di vista storico-diacronico.

L’antichità

Due sono probabilmente le influenze, i gruppi «madre» da tenere soprattutto in considerazione quando si voglia tracciare una
«storia della traduzione» a partire dall’Antichità: gruppi che, a ben vedere, fanno parte del patrimonio genetico della cultura
occidentale, ne costituiscono forse, almeno in parte, l’ossatura prima.
•Da una parte la cultura greca, considerata a lungo culla della civiltà occidentale, origine delle diverse forme testuali verso cui si
orienterà in seguito la cultura del mondo latino, in un doppio movimento d’ossequio e trasformazione (perché l’imitatio non
prevedeva mai, come vedremo, una pedissequa riproduzione del modello, ma era piuttosto traduzione-riscrittura, traduzione-
adattamento).
•Dall’altra, la cultura ebraica, depositaria di una tradizione testuale fondatrice, che avrà larga ripercussione nei secoli successivi, e
che presenterà precocemente alcune rilevanti osservazioni sulle lingue e la traduzione – fondatrici anch’esse, al punto da
influenzare ancor oggi il pensiero occidentale sul tradurre.

Nella cultura ebraica, come si è detto, considerazioni sul linguaggio e la traduzione si ritrovano in una notevole messe di testi, che
conobbero per altro una tradizione testuale complessa, a lungo discussa e commentata dagli studiosi. Quel che ci interessa
sottolineare è appunto la presenza, nella Torah, di una serie di «idee» matrici sul tradurre, destinate poi a sopravvivere nei secoli, e
a influenzare notevolmente il pensiero occidentale sul linguaggio e lo scambio interlinguale.
•Nella tradizione ebraica e poi cristiana, il verbo di Dio è in effetti associato fin dall’inizio all’atto della creazione. Il «verbo» della
Genesi è parola in sé creatrice, d’origine divina, che instaura un rapporto di corrispondenza naturale con i suoi referenti: c’è
adesione totale tra parola e cosa. Ma sarà poi questo stesso rapporto a esser discusso e ripreso, durante il Medioevo, dai teorici di
due opposte tendenze, i cosiddetti «realisti» e «nominalisti». Come scrive Mounin, nella sua Histoire de la Linguistique: «Pour les
réalistes, issus de Platon et saint Augustin, les mots sont des manifestations concrètes des Idées, il y a un rapport intrinsèque entre
l’idée et le mot. Pour les nominalistes, qui procèdent d’Aristote (et de saint Thomas plus tard), les idées n’ont de réalité que dans
l’esprit des hommes, les mots ne sont pas les choses, ni les germes des choses, mais ne sont que des noms; et les noms ne sont tels
que par convention» (1974). È d’altronde proprio questa concezione, l’idea che esista un rapporto strettissimo, sostanziale, tra la
«forma» e ciò che essa comunica, ad aver generato nel campo dei «testi sacri» una naturale diffidenza nei confronti della
traduzione, che si è poi estesa anche al campo letterario e in particolare poetico (con le ipotesi di marca «idealista» e crociana
sull’impossibilità effettiva della traduzione).

La Torah è un testo sacro, pensato come direttamente ispirato da Dio: ed è da questo statuto particolare che discendono tre
particolari caratteristiche, legate alla storia letteraria della traduzione. In primis, l’origine e lo sviluppo di una pratica ermeneutica:
l’origine divina del testo esclude ogni possibilità di accesso diretto al senso, e impone conseguentemente il ricorso a
un’intelligenza interpretativa.
In secondo luogo, una certa gerarchizzazione delle lingue: l’ebraico è concepito come «lingua-madre», lingua nobile e sacra, la
lingua appunto in cui Dio si è espresso. Una concezione, questa, che avrà forti ripercussioni in campo culturale e linguistico.
L’intera storia della traduzione è attraversata dall’idea che le lingue «vernacolari», legate a una civiltà inferiore, abbiano di fatto
meno prestigio e potere rispetto a lingue più antiche, legate a civiltà più raffinate, elaborate. Una simile gerarchizzazione, oltre a
essere di fatto viziata da un pregiudizio etnocentrico, contribuirà a approfondire nei secoli la «diffidenza» nei confronti della
pratica traduttiva, considerata di volta in volta come impossibile o «degradante» rispetto all’opera originale (considerata come su
un piano di perfezione immutabile, irraggiungibile).
In terzo luogo, la preferenza per la «traduzione letterale»: la diffidenza nei riguardi del tradurre, già percepibile dei testi greci,
diviene a questo punto evidentissima. Per paura di «deformare» la parola di dio, si adotterà dove necessario un tipo di traduzione a
tal punto letterale da risultare, talvolta, incomprensibile.
Si deve inoltre, come noto, alla cultura ebraica, il mito della Torre di Babele, con cui si spiegherebbe l’origine dei diversi idiomi
parlati nel mondo. In origine, secondo la Torah, gli uomini comunicavano servendosi di un’unica lingua comune. Ma per punirli
della loro impudenza (voler costruire una torre «la cui cima tocchi il cielo»), Yahvé «confuse la lingua di tutta la terra e di là […]
li disperse su tutta la terra» (Genesi, 11). Un mito che ha continuato nei secoli ad affascinare linguisti, letterati e filosofi (da Rask a
Grimm, da Humboldt a Schleichter), fino a suggerire appunto a Steiner il titolo della sua eminente opera sul tradurre (After Babel).
•Quel che è d’obbligo sottolineare, ad ogni modo, è che nasce qui il senso di un «interdizione» legata al tradurre: operazione
concepita, in termini teologici, come problematica al punto d’apparir blasfema. Di fatto, nell’ambito delle scritture sacre, la
«traduzione» appare come naturalmente trasgressiva: è un esercizio che pretenderebbe compiere, portare a termine un compito
quasi sacrilego, quello di trasferire in una lingua altra un «senso» concepito come in sé inaccessibile, o come strettamente legato,
fin quasi a confondersi, alla «forma» attraverso cui è espresso. In altre parole, si affaccia già qui l’idea – destinata a prender piede
nei secoli – della traduzione cometradimento.
Il mondo latino

•Non solo Andronico, d’altronde, greco originario di Taranto, e bilingue; la letteratura latina nasce e si sviluppa anche grazie
all’apporto del teatro greco, ampiamente importato e riadattato da autori e drammaturghi romani di epoca varia (celebri Plauto e
Terenzio che riadattano soprattutto la nea commedia menandrea, sempre e comunque partendo dall’originale greco per produrre
una «loro» versione, sensibile e accordata ai valori e alla cultura latina; dunque, diremmo oggi, più un «adattamento» che una
traduzione).
A Roma nascono anche e soprattutto le prime metariflessioni “teorico-filosofiche” sul tradurre: non esiste, a quanto pare, una
riflessione teorica sul tradurre prima che sia impiegata la traduzione artistica, dunque letteraria, prerogativa questa della latinità – a
dar ragione a uno studioso come Folena. La società romana, d’altronde, è naturalmente bilingue (soprattutto a partire dal II-III
secolo a.C., quando assistiamo a processi di marcata acculturazione e ellenizzazione, favoriti da élite xénophiles come quelle degli
Scipioni).
•Due, a questo proposito, gli autori da tenere soprattutto in considerazione: Cicerone e Quinto Orazio Flacco.
•Cicerone, nel De optimo genere oratorum (46 a.C.) mostra di aver elaborato con grande consapevolezza quella che diverrà in
seguito la distinzione capitale tra interpres (chi traduce alla lettera) e orator (chi traduce come autore, oratore), con un’operazione
che prevede anche creatività e una certa libertà sia sul terreno dell’elocutio sia su quello della dispositio. D’altronde si deve
proprio a Cicerone la differenza tra “lettera” e “spirito” del testo, basata su quella dicotomia che sottende all’annoso dibattito tra
sostenitori della traduzione letterale e della traduzione libera.
Quinto Orazio Flacco, pochi anni dopo, nella sua Ars poetica (17 a.C.) riprenderà i precetti ciceroniani, scrivendo: « Nec verbo
verbum curabis reddere fidus intepres »: la traduzione artistica deve essere cioè in grado di cogliere il senso del testo, e insieme di
arricchire la lingua d’arrivo, venendo al tempo stesso compresa dalla cultura alla quale è destinata. Da Quintiliano a Aulo Gellio, il
principio della traduzione al “senso” – di una traduzione quindi più libera, non ancorata alla lettera – trascorrerà liberamente fino a
giungere ai giorni nostri, e a ottenere una risonanza particolare nei traduttori della Bibbia.
•Oltre a Orazio e Cicerone, infatti, altri autori latini (soprattutto tra I e II secolo) hanno voluto dire la loro sul senso del tradurre.
Quintiliano e Plinio il Giovane, sulla scorta di Cicerone, sottolineano il ruolo «educativo» della traduzione, il suo essere maestra di
stile; ma Quintiliano possiede una visione già più realista e meno pragmatica del tradurre, concedendo ad esempio la sostituzione
dei giri figurali da lingua a lingua; mentre Plinio noterà la possibilità, per la traduzione, di «approfondire» il senso, portando il
lettore a una comprensione più ampia del testo [e quasi anticipando in questo senso alcuni assunti benjaminiani]. Aulo Gellio,
nelle sue Notti attiche, difenderà invece una forma di traduzione libera, per ragioni sia linguistiche che morali [quando, ad
esempio, alcuni passaggi del testo originale rischierebbero di urtare la sensibilità o il pudore del lettore nella «lingua» ricevente].
L’antichità mediolatina e il tardoantico.
Un momento cardinale per la diffusione di una riflessione meta-testuale sulla traduzione è legato all’avvento del cristianesimo e
alla diffusione della Bibbia – e alla necessità di “diffondere” la Buona novella, dunque di comunicarla, tradurla [e qui diviene
evidente anche la natura “pragmatica” e comunicativa che sta al fondo delle necessità della traduzione].
•La traduzione del testo sacro occupa, di fatto, una posizione di rilievo nella storia della cultura occidentale, contribuisce in
maniera determinante all’affermarsi delle lingue volgari, allo sviluppo dell’ermeneutica, e a porre in rilievo, per così dire, la
dimensione “naturalmente” problematica del tradurre.
L’antichità mediolatina e il tar
Dunque la traduzione biblica come catalizzatore delle problematiche soggiacenti a ogni atto traduttivo. Da un punto di vista
storico, la prima traduzione in latino, tratta direttamente dall’ebraico, è la Vulgata di San Girolamo, che fu non solo traduttore, ma
anche esegeta e per dir così critico di se stesso: è nella Epistola ad Pammachium, denominata Liber de optimo genere interpretandi
(390 a.C.) che Gerolamo ci lascia in consegna una sorta di trattatello traduttologico, che riprende in parte quella che era stata la
distinzione ciceroniana tra traduzione letterale e traduzione a senso.
•San Girolamo è una figura cardine della storia della traduzione (più tardi infatti epitomata nel noto saggio che – fin dal titolo –
da lui prende le mosse, firmato da Valéry Larbaud). Erudito, gran conoscitore e critico della cultura e letteratura pagana, Gerolamo
compie un’impresa traduttiva senza precedenti, che lo terrà impegnato per oltre quindici anni (dal 390 al 405 circa). Con
Girolamo, l’Occidente cristiano conosce l’esegesi e soprattutto un metodo traduttivo-comparativo che si approssima già ai criteri
filologi che nasceranno solo più tardi in epoca umanistica: per produrre la Vulgata, Girolamo apprende l’ebraico, ritorna ai testi
più antichi, li confronta con l’edizione alessandrina detta degli Esapla, si consulta con importanti studiosi della materia ebraica,
dando vita dunque a una traduzione che è già, dichiaratamente, interpretazione.
Nel trattato Liber de optimo genere interpretandi («Le meilleure méthode de traduction»), elaborato in forma epistolare (Lettre à
Pammaque) come risposta polemica alle critiche che Gerolamo riceveva sulla sua versione (dal greco al latino) di una lettera di
Epifanio al vescovo di Gerusalemme, l’erudito autore della Vulgata mostra di riprendere in parte la lezione ciceroniana.
Dunque, Girolamo distingue qui due fondamentali modi di tradurre: per i testi laici rivendica una traduzione interpretativa, che
permette al traduttore di esprimere il senso dell’originale senza restare necessariamente fedele all’ordine delle parole e rifacendosi
alla formula, già ciceroniana, “non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sensu”. Diversa, tuttavia, è la concezione legata
alla prassi traduttiva dei testi sacri, che, secondo Gerolamo, deve essere letterale per conservare il mistero (mysterium fidei) che
l’ordine stesso delle parole (ordo verborum) racchiude.
Fine della latinità

La fine della latinità sancisce una distinzione ancor più netta tra l’interprete che opera sulla lingua orale (l’interpres)
e il traduttore (orator) che opera su quella scritta e fonda una nuova terminologia, funzionale all’incremento dell’attività traduttiva,
in relazione alle grandi trasformazioni culturali e sociali che quest’epoca conosce. Come abbiamo visto nella lezione-audio
precedente, i problemi legati all’operazione del tradurre [dal latino alle nuove lingue] assumono in quest’epoca una complessità
nuova.
•Il Medioevo è secolo che conosce intensissimi scambi tra popoli, e il fenomeno delle evangelizzazione è all’origine di
numerosissime traduzioni nelle lingue volgari. La necessità della traduzione, come nel caso citato di Carlo V e dei traduttori della
sua corte, è legata soprattutto alla trasmissione di contenuti, sia in forma di rifacimento che di rielaborazione; è in quest’epoca,
come precisa anche Folena, che si assiste al tramonto della concezione artistica della traduzione, che tanta parte aveva avuto nel
fenomeno dell’aemulatio (imitazione degli antichi modelli letterari).
Se in latino, e con Cicerone tra gli altri, si era oltretutto fissato un vocabolario ricco e complesso attorno ai termini relativi alla traduzione
scritta, in quest’epoca si assiste alla creazione di nuovi termini nelle lingue volgari: accanto alla persistenza del termine latino transfero (che
veicola l’idea del «passaggio»), compare l’italiano translatare e il francese translater.
•In ultimo si assisterà alla comparse del termine traducere (sempre a indicare la traduzione scritta, e non l’attività dell’interpres, legata
invece alla sfera orale): è questa la parola che darà origine all’italiano tradurre e al francese traduire. Sul passaggio dell’uso da transferre a
traducere, Folena precisa che: «traduco non solo era più dinamico di transfero, ma rispetto al suo più vulgato predecessore conteneva, oltre
al tratto semantico dell’attraversamento e del movimento, anche il tratto della individualità, o della causatività soggettiva (si pensi al
duco/dux rispetto a fero), sottolineando insieme l’originalità, l’impegno personale e la “proprietà letteraria” di questa operazione sempre
meno anonima». (1991, cit.).
Umanesimo e epoca Rinascimentale

D’altronde la fortuna dei termini romanzi come traducere e traducteur si dovrà soprattutto alla diffusione, in epoca più tarda, delle
grandi riflessioni teoriche di letterati come Leonardi Bruni a Firenze e Etienne Dolet in Francia. È questa l’epoca, tra Quattro e
Cinquecento, in cui compaiono infatti i primi trattati organici di traduzione provenienti da contesti non italiani, anche se
chiaramente improntati al modello dell’Umanesimo fiorentino. È questa l’epoca, di portata europea, in cui la vita intellettuale
europea si risveglia, il confronto con i classici stimola un ritorno ai grandi modelli del passato, l’invenzione della stampa
promuove la circolazione libraria e il neonato mercato editoriale vede un accrescimento senza pari del numero delle traduzioni
disponibili.
•È d’obbligo menzionare e approfondire, a questo proposito, una figura come quella di Leonardo Bruni, aretino di nascita,
fiorentino d’adozione, grande conoscitore e traduttore d’opere greche (nella prima metà del secolo XV porta a compimento
traduzioni da Senofonte, Plutarco, Platone, Demostene, Aristotele). Bruni è umanista militante, potremmo dire, lettore e traduttore
d’opere greche, lette e riscoperta personalmente. La lettura degli storici antichi (da Polibio a Tucidide) lo spinge a scrivere una
serie di riflessioni sul rapporto tra Antichità e epoca contemporanea, riflessioni finemente basate su quello che egli stesso ci
presenta come una vera e propria critica delle fonti.
Ma a Bruni dobbiamo soprattutto il saggio De interpretatione recta (1420), nel quale si affrontano in maniera organica le grandi
questioni teoriche della traduzione: Folena ne parla di fatto come del «primo specifico trattato moderno sulla traduzione», di certo
il più meditato e penetrante di tutto l’Umanesimo.
•In Bruni vengono analizzati e discussi i principi fondamentali del tradurre correttamente: risalta, in particolare, l’attenzione che lo
studioso riserva ai criteri filologici e ermeneutici (cioè la comprensione del testo da tradurre), alla profonda padronanza e
conoscenza di ambedue le lingue e all’eleganza stilistica. Bruni è quindi uno dei primissimi teorici della traduzione ad aver
insistito sulla necessità di conoscere a menadito le lingue sulle quali si lavora. Da moderno umanista, Bruni sottolinea oltretutto
l’importanza delle qualità personali del traduttore: la traduzione è operazione che suppone cultura, conoscenze linguistiche e
raffinatezza. Ancora una volta, prima che tecnico delle lingue, il traduttore è orator, uomo di cultura in senso pieno – secondo una
concezione che già aveva mosso i suoi primi passi con la riflessione ciceroniana sul tradurre.
Bruni ha oltretutto la sua importanza anche nell’ambito della storia della lingua. Come si diceva, è con lui che si afferma la nuova
famiglia di parole traducere, traductio, traductor. Il “tradurre” italiano sarebbe così comparso in una lettera datata al 5 dicembre
1400: tale termine, scrive Folena, si afferma con «un nuovo significato tecnico e con una connotazione marcatamente dinamica
che mancavano ai suoi predecessori» (1991, cit.).
•Nella stessa epoca, in area francese, il termine translateur va a definire colui che si occupa della traduzione della lingua scritta (di
contro a quel trucement – turcimanno, termine di origine araba – che stava a indicare l’antico interpres). La voce interpres
riemergerà solo in epoca moderna, in italiano, spagnolo, francese e inglese. In francese il verbo escrivre andrà poi a indicare la
trascrizione materiale, mentre translater e turner verranno usati per la traduzione prosastica in latino.

François I [1515-1547, durata del regno] prosegue la politica già avviata dai suoi predecessori di sostegno e promozione delle
opere in traduzione. È questa l’epoca in cui il francese, per altro, con l’ordinanza di Villers-Cotterêts (1539), si afferma
definitivamente come lingua franca del potere e dell’amministrazione a spese del latino. La politica culturale del sovrano muove in
effetti secondo più direzioni: da un lato è evidente la sua curiosità verso la cultura classica, greca e italiana, dall’altro pressante il
desiderio di smarcarsi dal modello latino, per promuovere definitivamente il francese a lingua della cultura e della letteratura.

•Proprio la traduzione svolgerà in questo campo un ruolo di rilievo senza pari (e non è un caso che sia appunto questa l’epoca in
cui si diffondono i primi trattati organici sul tradurre in lingua francese, primo tra tutti quello di Etienne Dolet che mostra evidenti
debiti rispetto al suo predecessore italiano). Diverse le concezioni del tradurre che a quest’epoca appartengono, e che riflettono
orientamenti variabilissimi, talvolta idiosincratici, propri dunque al singolo autore. Faremo qui cenno solo ad alcuni dei
rappresentati di quest’epoca, analizzandone traduzioni e poetiche del tradurre.

Clément Marot (1496-1544) fu valet de chambre del re François I; studiò a Parigi, ma ebbe educazione caotica, poco organica:
ignorava difatti il greco, conosceva in maniera imperfetta il latino. Nonostante una conoscenza parziale delle lingue, Marot si
cimenta nella traduzione: nel 1512, realizza una versione in francese della prima Bucolica virgiliana, di due libri delle
Metamorfosi d’Ovidio e due sonetti del Petrarca. Nel 1533, realizzerà la traduzione del Salmo VI, poi nel 1541, altri trenta dei
Salmi di Davide. Una traduzione fortunatissima, che sarà poi adottata dalla nuova religione riformata, e in seguito condannata
dalla Sorbonne. Quel che qui più ci interessa è però la concezione stessa del tradurre che Marot sembra possedere e applicare:
Thomas Sébillet, giurista e intellettuale del XVI secolo, dedito alla precettistica letteraria su modello oraziano, giudicherà quella
di Marot un’arte della version, dell’imitazione. Così scrive infatti nella sua Art poétique del 1548: « Mais puis que la version n’est
rien qu’une imitation, t’y puy je mieus introduire qu’avec imitation ? Imite donc Marot en sa metamorphose, en son Musée, en sés
Psalmes : Saltel, en son Iliade : Héröet, en son Androgyne : Désmasures, en son Eneide : Peletier, en son Odyssée et Géorgique.
Imite tant de divins espris, qui suivans la trace d’autruy, font le chemin plus douz a suivre et sont eus mesmes suivis ». Vediamo
qui, cioè, come la traduzione sia ancora da alcuni considerata, alla metà del XVI secolo, come « imitazione »: il buon traduttore,
per Sébillet, dovrebbe cioè aderire alla pratica dell’imitatio, egli non potrà cioè che realizzare una « mimesi » del testo da tradurre,
e solo in questo modo potrà dar luogo a un testo degno a livello linguistico.

Umanesimo e epoca rinascimentale: Jacques Amyot.


In realtà, nelle traduzioni di un Marot troviamo già espressa quell’istanza di creatività che prenderà poi il sopravvento dei secoli
successivi: Marot è per così dire un traduttore libertino, creativo, vicino alle pratiche «deformanti» adottate dalla tradizione
medievale per i testi non sacri. Diversa, se non opposta, la posizione di Jacques Amyot, celebre traduttore delle Vite parallele di
Plutarco. La traduzione sarà pubblicata, dopo alterne e lunghe vicende e ben diciassette anni di elaborazione, nel 1559, con una
dedica al re Enrico II: nel testo che precede la traduzione, Amyot sostiene di aver prodotto una traduzione «fedele» e di non aver
cercato di abbellire lo stile originario dell’autore – secondo il procedimento diffuso nelle epoche precedenti. Ma la sua traduzione
rivelerà, come vedremo, procedimenti traduttivi tutt’altro che «letterali».

•Nonostante la cura, l’attenzione meticolosa che Amyot applicò nel suo lavoro di trasposizione, la traduzione delle Vies des
hommes illustres fu comunque oggetto di critica. Critiche che però sembrarono oscurarsi, lasciar poco segno, di fronte a giudizi
positivi da parte dei grandi letterati di epoca appena più tarda. Scrive ad esempio Montaigne nei suoi Essais: «Je donne avec
raison, ce me semble, la palme à Jacques Amyot sur tous nos écrivains français, non seulement pour la naïveté et pureté du
langage, en quoi il surpasse tous autres, ni pour la constance d’un si long travail […]» (1580). E ancora in un altro luogo,
Montaigne avrebbe difeso a spada tratta le soluzioni traduttive di Jacques Amyot contro i suoi detrattori, affermando che «où le
traducteur a failli le vrai sens de Plutarque, il y en a substitué un autre vraisemblable».

Uno dei primi teorici francesi della traduzione in epoca rinascimentale è Etienne Dolet, a cui si dovrebbe per altro la comparsa
della parola traduction, attestata come italianismo fin dal 1540, anno di pubblicazione de La manière de bien traduire d’une langue
en autre. Il trattato di Dolet deve molto al saggio di Leonardo Bruni, rispetto al quale presenta molte somiglianze. E tuttavia, a
differenza di quest’ultimo, il trattato di Dolet non va ad occuparsi solo e unicamente della traduzione in latino, ma appunto della
altre «langues non reduictes encores en art: la Francoyse, l’Italienne, l’Hespaignol, celle d’Allemaigne, d’Angleterre, et aultres
vulgaires». L’opera ebbe largo successo e conobbe una seconda edizione nel 1541, una terza del 1542 e una quarta nel 1543.

Umanesimo e epoca rinascimentale: Etienne Dolet.


Come già in Bruni, cinque sarebbero per Dolet i principi da rispettare per tradurre
correttamente:

En premier lieu, il fault que le traducteur entende parfaictement le sens, et matière de l’autheur, qu’il
traduict.
La seconde chose, qui est requise en traduction, c’est que le traducteur ait parfaicte congnaissance de
la langue de l’autheur qu’il traduit : & soit pareillement excellent en la langue, en laquelle il se mect à
traduire.
Le tiers point est, qu’en traduisant il ne se falt pas asservir jusques à là, que l’on rende mot pour mot.
[…] sans avoir esgard à l’ordre des mots, il s’arrestera aux sentences, et faira en sorte que l’intention de
l’autheur sera exprimée, gardant curieusement la propriété de l’une et l’autre langue.
[La quarta regola riguarda la traduzione dal latino nelle lingue volgari:] Il te fault garder d’usurper mots
trop approchants du latin et peu usités par le passé. [Dunque, si tratterebbe di rispettare l’uso, ma
Dolet riconosce allo stesso tempo che, in alcuni casi, sarebbe d’obbligo l’introduzione di neologismi].
La cinquième règle [est] l’observation des nombres oratoires : c’est asscavoir une liaison et
assemblement des dictions avec telle doulceur, que non seulement l’ame s’en contente, mais aussi les
oreilles en sont toutes ravies.

En 1549 verrà data alle stampe la celebre Défense et illustration de la langue française, che è di fatto una celebrazione della
maturità a cui ormai è pervenuta la lingua nazionale rispetto alle lingue antiche, e un invito – al contempo – a creare una letteratura
originale in questa nuova lingua. Du Bellay, autore dell’opera, riprenderà il i termini specialistici impiegati da Dolet e da questi
creati per calco italiano (traducteur – traduction).

•Sarebbe attribuibile a Du Bellay, secondo alcuni, il binomio che tanto avrà fortuna nei secoli successivi, di “traduttore/traditore”,
coniato in riferimento a certi traduttori del suo tempo («vraiment mieux dignes d’estre appellés traditeurs que traducteurs») e
ripresa da Roman Jacobson nel saggio seminaleOn Linguistic Aspects of Translation (1959).
•Nella Defense et illustration, du Bellay riprende un ragionamento ciceroniano, applicandolo al contesto francese: l’imitazione
degli Antichi non deve essere, cioè, pratica servile, ma mettersi al servizio della lingua francese, superiore – per qualità – a tutte le
altre. È questa, d’altronde, come abbiamo detto, l’epoca che vede l’instaurarsi del francese come sola lingua del regno, con l’editto
di Villers-Cotterêts del 1539: il francese scardina così la supremazia del latino e declassa a rango inferiore tutte le altre lingue del
Paese.

La France Classique.
Come si è detto, la Francia di epoca classica è divisa tra l’ammirazione per il classico e l’esaltazione del bello stile: si cerca di
creare con Malherbe una lingua «pura», misurata, appositamente forgiata per scrivere in uno stile che mirasse all’ordine e alla
chiarezza. Capofila autoritario, Malherbe procede dunque a un’opera di sistematica normalizzazione della lingua francese,
eliminando tutti i residui arcaismi, latinismi e regionalismo: l’obiettivo è quello di elaborare uno stile quanto più semplice e chiaro,
incanalato in regole di scrittura ben definite e imposte dall’altro. Sono queste, d’altronde, le «basi» ideali su cui si fonda la pratica
traduttiva in Francia à l’âge classique.

•Malherbe è traduttore egli stessi: porta in francese diverse opere di Seneca e il XXXIII Libro di Tito Livio, opera questa tra le sue
più note e celebri. L’interesse di questa traduzione risiede d’altronde, principalmente, nell’Avertissement che l’accompagna,
spazio dove Malherbe prende la parole per esporre i suoi principi di traduzione. Leggendone un estratto, è possibile comprendere
quanto la sua «politica traduttiva» anticipi alcuni tratti che diverranno poi pratica comune: «Pour ce qui est de l’histoire, je l’ai
suivie exactement et ponctuellement ; mais je n’ai pas voulu faire les grotesques, qu’il est impossible d’éviter quand on se restreint
dans la servitude de traduire de mot à mot. Je sais bien le goût du collège, mais je m’arrête à celui du Louvre» [1616]. L’obiettivo
principale è per Malherbe quello di delectare.
Corso di Laurea: Insegnamento: Lezione n°: Titolo: Attività n°: LINGUE E LETTERATURE MODERNE E TRADUZIONE
INTERCULTURALE LINGUA E TRADUZIONE FRANCESE 4 52/S1 L'epoca delle belles infidèles, la France classique, la
France des Lumières 1

La France Classique.
A ben vedere, si assiste in quest’epoca a un vero e proprio rovesciamento delle posizioni sostenute in epoca medievale e
rinascimentale: l’originale cessa di essere oggetto sacro; nel Seicento, tradurre un autore antico significa proseguire «un atto di
scrittura» che ha avuto inizio nell’Antichità; e significa, soprattutto, riadattarlo al gusto odierno, elemento questo che apparirà
centrale poco più tardi, all’epoca delle belles infidèles. Il «bello stile» e lo «spirito del tempo» saranno le due insegne sotto cui si
disporrà l’azione del traduttore «perrotin» – nome che deriva dal principe, dal campione di questa modalità del tradurre, Nicolas
Perrot d’Ablancourt.
In una fase durata circa trent’anni, d’Ablancourt «fut le traducteur le plus goûté des français» (Zuber, 1995). La sua attività di
traduttore inizia con opere di retorica, l’Octavius di Minucio Felice e quattro delle otto orazione di Cicerone. Si occupò poi in
epoca successiva di opere storiche e morali. Di queste traduzioni, risultano preziose soprattutto le prefazioni: paratesti che (in
forma di d’apologia o giustificazione) espongono la sua concezione del tradurre. Se ne considerino qui appena due dei molti
disponibili [raccolti poi in un unico volume dallo stesso Zuber nel 1972].

Nella prefazione ai suoi Annales tacitiani, tre sono soprattutto gli elementi da sottolineare: innanzitutto, la consapevolezza che –
tra originale e testo tradotto – inevitabilmente si produca uno scarto, dovuto alle differenze tra lingue; in secondo luogo il giudizio
negativo sullo stile di Tacito, tacciato appunto d’esser incoerente e oscuro. E in terzo luogo, la giustificazione delle libertà del
traduttore, in nome del superiore principio dell’unità d’insieme di un’opera: «Je ne traduis pas un passage, mais un Livre, de qui
toutes les parties doivent estre unies ensemble» (1640).

•Nelle prefazione alla Storia vera di Luciano, celebre soprattutto per aver indotto la comparsa del termine celebre di belle infidèle,
d’Ablancourt traccia in maniera piuttosto netta il suo doppio obiettivo polemico: l’intento è quello di difendersi da un doppio
attacco «l’une contre Lucien suspect de libertinage, l’autre contre d’Ablancourt et sa méthode de traduction» (1654). Proprio il
carattere «libertino» dell’opera originale, permette a d’Ablancourt di esporre il suo primo principio traduttivo: la censura. «[…] je
ne suis d’autant moins blâmable que j’y ai retranché ce qu’il avait de plus sale et adouci en quelques endroits ce qui était trop
libre».

Nella sezione più apertamente dedicata ai procedimenti traduttivi, d’Ablancourt si sofferma lungamente su ciò che, a suo avviso,
non può essere tradotto letteralmente, senza alterazione. Rientrano in questa categoria in particolari:

•I brani che contengono giochi di parole o che comunque utilizzano la «forma» come materia prima o elemento portante del
discorso.
•I brani che potrebbero costituire uno shock per la morale comune dell’epoche : «Toutes les comparaisons tirées de l’amour
parlent de celui des garçons, qui n’était pas étrange aux moeurs de la Grèce et qui fait horreur aux nôtres» [1654].
•L’elemento retorico e il gioco delle citazioni antiche, che non avrebbero appunto preso sul pubblico del tempo: «L’auteur allègue
à tout propos des vers d’Homère, qui seraient maintenant des pédanteries, sans parler des vieilles fables trop rebattues, de
proverbes, d’exemples et de comparaisons surannées, qui feraient à présent un effet tout contraire à son dessein […]». [1654].

L’obiettivo primo è ancora una volta quello di delectare, di creare un testo che possa piacere al pubblico del tempo, anche a costo
di rimaneggiare in profondità la fonte originale. È così che si arriva all’enunciazione del principio della belle infidèle, che è
appunto quello di «piacere» al pubblico, offrendo una traduzione che corrisponda ai gusti e alle usanze dell’epoca.
Je m’attache donc pas toujours aux paroles ni aux pensées de cet auteur et, demeurant dans son but, j’agence les choses à notre
air et à notre façon. Les divers temps veulent non seulement des paroles, mais des pensées différentes ; et les ambassadeurs ont
coutume de s’habiller à la mode du pays où on les envoies, de peur d’être ridicules à ceux à qui ils tâchent de plaire. Nicolas
Perrot d’Ablancourt, Préface à l’Histoire véritable de Lucien, 1654

L’Ottocento : i teorici tedeschi.


L’Ottocento è il secolo dei grandi teorici tedeschi della traduzione, a partire da Goethe, che con il Divano occidental-oriental
(1819) [West-östlicher Divan] compone secondo Berman l’opera che meglio esprime «la pensée classique allemande sur la
traduction». (L’épreuve de l’étranger, 184). In quest’opera, il grande autore, saggista e traduttore tedesco (a lui si devono
traduzioni da tutte le lingue europee antiche e moderne, tra cui l’autobiografia di Cellini e le Neveu de Rameau diderottiano)
s’impegna a stabilire una «classificazione» delle maniere di tradurre, distinguendone tre, che possono anche reiterarsi o trovarsi
associate nella storia della cultura. Goethe le presente in ordine cronologico, inquadrandole secondo una concezione
«progressiva»: queste modalità del tradurre sono cioè altrettante tappe progressive che conducono verso il miglior procedimento
del tradurre, quello appunto adottato dai traduttori tedeschi: Il primo di tipo di traduzione, scrive Goethe, «nous fait connaître
l’étranger dans notre sens à nous ; pour cela, rien de mieux que la simple traduction en prose». È un tipo di traduzione che elimina
tutte le particolarità proprie allo stile poetico, e permette un «primo approccio» al testo facile e diretto. La Bibbia di Lutero si
allineerebbe a questo principio traduttivo.

.
La seconda grande epoca traduttiva sarebbe quella detta «parodistique» e corrispondente al gusto francese della traduzione: «Le
Français, de même qu’il adapte à son parler les mots étrangers, fait de même pour les sentiments, les pensées et même les objets ;
il exige à tout prix pour tout fruit étranger un équivalent qui ait poussé sur son terroir».
La terza maniera, la migliore, è quella verso cui si sta orientando la pratica traduttiva tedesca. Si tratta per Goethe della «suprême
et dernière période, celle où l’on voudrait rendre la traduction identique à l’original. […] Ce mode de traduction rencontre d’abord
la plus grande résistance ; car le traducteur qui serre de près son original renonce plus ou moins à l’originalité de sa nation, et il en
résulte un troisième terme auquel il faut que le goût du public commence par s’adapter[…]».

•Una traduzione che miri a identificarsi con l’originale, scrive ancora Goethe, tende ad avvicinarsi alla «traduzione interlineare,
facilitando così al massimo la comprensione del testo originale». In questo modo, il ciclo si chiuderebbe, e il lettore si troverebbe
infine nuovamente al punto d’inizio, «involontaiarement ramené au texte primitif». «Et ainsi s’achève le cycle selon lequel s’opère
la transition de l’étranger au familier, du connu à l’inconnu» (1819).
.Nonostante Goethe abbia certamente inciso più estesamente e più a lungo sulla storia culturale d’Europa, si deve a un altro
studioso, Schleiermacher la pubblicazione del saggio più informato e approfondito sulla traduzione, in epoca ottocentesca.
L’opera, Ueber die verschiedenen Methoden des Uebersetzens (1813) comparirà in Francia solamente nel 1985, per iniziativa di
Berman, che infatti ai teorici tedeschi di quest’epoca, come vedremo, dovrà molto nell’elaborazione del suo pensiero
traduttologico.
Schleiermacher affronta la traduzione da un punto di vista filosofico, distinguendo notoriamente tra tre tipi di traduzione
[distinzione, questa, che verrà ripresa anche negli studi traduttologici novecenteschi]: Traduzione «intralinguistica» opposta alla
traduzione «interlinguistica»: nella traduzione di Berman, il passo di presentazione suona così: «N’avons-nous pas souvent besoin
de traduire le discours d’une autre personne, tout à fait semblable à nous, mais dont la sensibilité et le tempérament sont
différents?»
Traduzione «intra-individuale», per opposizone alla traduzione «inter-individuale»: «Plus encore: nous devons traduire parfois nos
propres discours au bout de quelque temps si nous voulons de nouveau nous les approprier convenablement».
La traduzione scritta, opposta all’interpretazione, al truchement: «On entend plutôt par truchement la traduction orale, et par
traduction, la traduction écrite, que l’on excuse la commodité présente de cette définition, d’autant plus que les deux
déterminations ne sont pas si éloignées l’une de l’autre […]».
Il portato dell’idealismo tedesco, delle riflessioni sul tradurre compiute dai grandi teorici dell’Ottocento, proseguirà in molte forme
anche nel secolo successivo. Nel 1914, il celebre studioso tedesco, di ascendenza ebraica, Walter Benjamin, comincerà a tradurre i
Tableaux parisiens di Baudelaire, opera che lo terrà impegnato per i successivi quattro anni. Nel 1927, completerà invece la
traduzione de A l’ombre des jeunes filles en fleur di Proust.
Ma Benjamin è noto soprattutto per i suoi meriti di teorico: nel 1923, come prefazione alla sua traduzione dei Tableaux, darà alle
stampe un saggio destinato a fare storia, e a marcare profondamente una certa concezione della traduzione di matrice per lo più
filosofica e letteraria. È il saggio sul «compito del traduttore», testo-manifesto della maniera littéraliste, sorta di punto di approdo
di quelle che erano state le idee e teorie sulla traduzione sbocciate in ambito tedesco a partire dall’epoca romantica.
Nel saggio, Benjamin difende una nuova maniera d’intendere il tradurre, come lavoro da compiersi innanzitutto sulla «lingua
d’arrivo». Scrive Benjamin: «l’erreur fondamentale du traducteur est de conserver l’état contingent de sa propre langue au lieu de
la soumettre à la motion violente de la langue étrangère» (1923). Concezione questa che riflette l’essenza in sé «dialettica» del
pensiero benjaminiano, e avrà grandissima fortuna soprattutto a partire dagli anni Sessanta del XX secolo (in Francia, in
particolare, grazie all’azione e alle riprese di Berman).
•Alla fine del XVIII secolo, si deve a una figura di pensatore originale come quella di Maximilien-Henri, marchese di Saint-Simon
(1720-1799), l’anticipazione di una serie di concezioni sul tradurre che prenderanno poi pienamente piede nel secolo successivo.
nel suo Essai de traduction littérale et énergique de l’essai sur l’homme de Pope, pubblicato nel 1771, dichiara che, alla stessa
maniera di un pittore obbligato a riprodurre fedelmente il suo soggetto, «un traducteur doit rendre avec fidélité les images, les
phrases et jusqu’à la ponctuarion de son auteur» (1771). Una teoria che lo porterà a sostenre l’amalgama linguistico e il prestito da
lingua a lingua, principi che applicherà nella sua traduzione francese del Temora di Ossian.
•È però solamente all’inizio del XIX secolo che vediamo diffondersi in Francia le nuove idee sulla traduzione, su influsso dei
teorici tedeschi: idee che scuoteranno al fondo i principi che avevano dominato il classicismo letterario.
.Madame de Staël produrrà con L’Allemagne (1800) una vera e propria apologia e illustrazione della cultura tedesca, destinato a
divenire per altro uno dei testi-pilastro della cultura romantica. Alcune pagine del saggio sono appunto dedicate all’ambito del
tradurre: l’idea base è che la letteratura francese debba ormai aprirsi alle influenze straniere per poter rigenerarsi: «Les traductions
des poètes étrangers peuvent, plus efficacement que tout autre moyen, préserver la littérature d’un pays de ces tournures banales
qui sont les signes les plus certains de sa décadence» (1816).
•È con Madame de Staël che la Francia si apre all’influenza tedesca: una parte di queste concezioni sono ben espresse dai fratelli
August Wilhelm e Friedrich Schlegel. Il secondo applica alla traduzione la nozione di Bildung, cioè di «cultura» e di «grado di
formazione dell’opera». La Bildung equivale a un movimento progressivo verso la forma, un vero e proprio dispiegamento
dell’essere in vista del suo completamento, della sua realizzazione, ottenuta appunto tramite il contatto con l’altro, con l’estraneo.
Secondo Schlegel – altro autore di riferimento di Berman, come vedremo, che ne sarà anche tradurrore – « le même pour se
déployer jusqu’à acquérir sa pleine dimension doit passer par l’autre». Una concezione filosofica e etica che influenzerà a lungo la
cultura traduttologica della seconda metà del Novecento.
I procedimenti traduttivi, e l’atteggiamento critico-teorico verso la traduzione mutano dunque radicalmente in quest’epoca.
Comincia a prendere piede una più decisa critica verso le metodologie proprie ai traduttori di scuola «perrotine». Benjamin
Constant, intellettuale francese d’origine svizzera, ritorna polemicamente sulla traduzione belle infidèle nella prefazione alla sua
traduzione del Wallenstein di Schiller (1809): l’autore critica le scelte dei traduttori «oltranzisti» à la d’Ablancourt, che avevano
reso autori come Milton e Virgilio «par des périphrases très élégantes et très harmonieuses, mais beaucoup plus longues que
l’original» (1809).

Tre figure chiave del panorama letterario del secolo XIX (Chauteubriand, Leconte de Lisle, Littré) risultano poi altrettanto
emblematiche per un’ideale storia della traduzione: sono autori che mettono in pratica, in maniera decisa, significativa, una nuova
relazione al testo d’origine e alla cultura stessa di cui quel testo è portatore.
Chauteaubriand, nei Remarques apposti in testa alla sua traduzione del Paradise lost miltoniano, illustra la sua nuova maniera di
tradurre, sottolineandone l’implicita novità rispetto alle tecniche del secolo passato: «Tout m’a paru sacré dans le texte,
parenthèses, points, virgules…» (1828).

I grandi rappresentanti della traduttologia francese: Mounin.


Alla traduttologia descrittiva e comparata, su base linguistica, si ispira uno dei primi fautori della traduzione come “disciplina”,
più che come arte, il linguista francese Georges Mounin.
•Nella seconda metà del Novecento, la scienza della traduzione non è più dunque dominata dalla linguistica diacronica, ma da
quella strutturale e incomincia dunque a prender piede, anche in Europa l’opinione che la letteratura teorica sulla traduzione debba
dotarsi di strumenti pedagogici e pragmatici: assistiamo allora al florilegio di pubblicazioni che mirano, in primo luogo, a proporre
“mezzi e strumenti” per affrontare, da un punto di vista pratico, produttivo, l’operazione traduttiva. È appunto con Mounin, e con
lo scozzese John Catford, che la riflessione sulla traduzione si dà in questo periodo un’articolazione più “scientifica”: il contributo
teorico di Mounin, in particolare, manifesta appunto lo stretto legame che in quegli anni, all’inizio dei Cinquanta, cioè, si era
venuto a creare tra linguistica e teoria della traduzione. Mounin guarda appunto con favore al lavoro di Vinay e Darbelnet, proprio
in virtù del tentativo – compiuto dai canadesi – di riscattare la traduzione dall’imprecisione dei metodi empirici, e consegnarla
invece a un procedimento d’indagine esatto, che permette di capire il funzionamento di una lingua in rapporto a un’altra.
-Les belles infidèles, 1955: nel saggio sulle “belle infedeli”, Mounin compone un vero e proprio manifesto del tradurre,
documentando – attraverso una completa disamina diacronica – il concetto di “intraducibilità” e il pregiudizio critico che,
storicamente, ha tacciato la traduzione di “secondarietà”, relegandola a uno statuto di incorreggibile “imperfezione”. Scrive
Mounin:

« Tous les arguments contre la traduction se résument en un seul : elle n’est pas l’original ».
•Un paradosso, dunque: si dimostrava ostilità nei confronti della traduzione e del tradurre, perché il testo tradotto non era e non
poteva essere l’originale. Mounin sottolinea, richiamandosi anche a du Bellay, e a uno dei più importanti trattati rinascimentali
sulla questione della lingua, la Defense et illustration de la langue françoyse, che insistere sulla dicotomia
traducibilità/intraducibilità distoglie erroneamente da quelli che sono gli effettivi problemi inerenti alla disciplina: la traduzione è
necessaria, non è mai completamente possibile o impossibile, ma ha piuttosto le caratteristiche di un inesauribile rapporto
dialettico.
Tradurre non significa solo e unicamente rispettare il contenuto lessicale e strutturale del testo, ma anche e soprattutto il senso
globale, semantico e pragmatico dell’originale: un senso molto più ampio della somma dei segni linguistici che lo compongono.
Questa è una cosa che occorrerà sempre, sempre, tenere a mente nel momento in cui traducete: quello che stiamo facendo non è
trasporre dei segni linguistici A in dei segni linguistici B (all’occorrenza, dei segni linguistici del francese in italiano); nella
traduzione agiscono una serie di elementi ampiamente culturali, per cui il passaggio che si opera da A a B non è tanto, e non si
esaurisce, in una dimensione meramente linguistica, ma opera invece a un livello ancora più alto, di matrice culturale; quello che
un traduttore deve tenere in conto è cioè lo scarto di fattori extra-linguistici che esiste tra l’insieme A (concepito come realtà
sovra-linguistica, storica, geografica, antropologica e socio-culturale) e l’insieme B, d’arrivo.
Le contexte linguistique ne forme que la matière brute de l’opération [traduisante] : c’est le contexte, bien plus complexe, des
rapports entre deux cultures, deux mondes de pensée et de sensibilité, qui caractérise vraiment la traduction.
(Edmond Cary, La traduction dans le monde moderne, 1956)
•All’istanza scientista dei Vinay, Mounin associa le formulazione di Cary, che fanno della traduzione qualcosa di flessibile, di
naturalmente “evolutivo” – dovendo necessariamente aver a che fare con delle nozioni vivide e reali come quelle relative alla
“cultura” del pubblico d’arrivo e di partenza. Di base, vediamo già estende l’orizzonte “epistemologico” della scienza del tradurre,
e il campo applicativo della pratica della traduzione: non più solamente un concetto tecnico e linguistico, ma un esercizio
ampiamente culturale, saldamente ancorato a un contesto storico e antropologico.
.Con la pubblicazione di Les problèmes théoriques de la traduction, 1963, Mounin viene appunto consacrato a padre fondatore
della traduttologia francese: diviene più evidente, visibilissimo, l’approccio “culturale” alla traduzione che era stato abbozzato nel
saggio precedente: il campo di ricerca – che comprende un’ampia sintesi delle riflessioni che fino a quel momento erano state
prodotte sulla traduzione, da Humboldt a Martinet, da Bloomfield a Saussure – il campo di ricerca, nonostante le sue premesse,
non si esaurisce però nel puro orizzonte linguistico, ma si apre a una dimensione più apertamente problematica: la traduttologia
sconfina così nella sociologia, nell’etnologia e nella sociolinguistica.
Ed è proprio muovendo dagli studi a lui precedenti, e in particolare dai grandi teorici della linguistica moderna (Hjelmslev,
Bloomfield, Nida, Martinet) che Mounin cerca di definire quale sia lo statuto “moderno” della traduzione, armonizzando due punti
di vista tra loro opposti: da una parte coloro che come Cary, sostenevano la natura intrinsecamente “estetica” della traduzione,
dunque la traduzione come “arte”.

La traduction littéraire n’est pas une opération linguistique, c’est une opération littéraire.
(Edmond Cary, Comment faut-il traduire ?, 1958)
•Dall’altra, coloro che come Vinay e Darbelnet, premevano per una “assoluta tecnicizzazione” della disciplina traduttiva:
On lit trop souvent, même sous la plume de traducteurs avertis, que la traduction est un art. cette formule, pour contenir une part
de vérité, tend néanmoins à limiter arbitrairement la nature de notre objet. En fait, la traduction est une discipline exacte, possédant
ses techniques et ses problèmes particuliers […]
•Dunque, la traduzione è un’operazione linguistica, ma in egual misura letteraria: è d’altronde questa natura “bifronte” della
traduzione, associata al suo essere a un tempo sia “processo” che “prodotto”, dunque una natura bifida, centauresca, a rendere ad
ogni livello, anche al nostro livello minimo, la traduzione un’operazione altamente problematica: quale che sia il vostro obiettivo
comunicativo, quale che sia il vostro livello di pratica della lingua, l’importante è essere coscienti del necessario “posizionamento”
che l’atto del tradurre impone – come esercizio non neutro, ma a un tempo tecnico e artistico.
Quel che Mounin sembra comprendere oltretutto, sulla scorta di Martinet e Nida, e malgrado i suoi primi orientamenti nel campo
della linguistica teorica, è che, al di là appunto della base “linguistica” su cui la traduzione si trova certamente a operare, è agli
aspetti “extra-linguistici” che bisognerà porre particolare attenzione: perché ogni lingua incapsula necessariamente
unaWeltanschauung, una visione del mondo, e per questo può essere associata a un “sistema culturale modelizzante”. In breve,
ogni lingua è espressione di una determinata realtà sociale, di un determinato “mondo” etnografico, e le possibilità di una
“traduzione totale”, cioè di un’assoluta coincidenza tra visioni del mondo diverse è da escludere nella maniera più assoluta: è
proprio a partire da questo assunto, già ben sviluppato in Nida, che si prenderà coscienza della natura “dialettica”, “processuale” e
“problematica” della traduzione: come operazione che, per gradi e progressivi aggiustamenti, procede a una “messa in
comunicazione” – tramite equivalenze e adattamenti – non solo tra due “lingue”, ma innanzitutto tra due “mondi” etnografici e
mentali.

I grandi rappresentanti della traduttologia francese: Meschonnic.


Un approccio non solo speculativo, ma volto a individuare la traduzione come prassi concreta e a analizzare dunque la traduzione
testuale da un punto di vista empirico, non più unicamente teorico, verrà da Henri Meschonnic, illustre teorico e traduttore della
Bibbia: all’inizio degli anni ’70, in una serie di saggi intitolati Pour la poétique, Meschonnic propone di avviare una ricerca
traduttologica che non sia solo “astratta” o “metafisica” ma che tenda invece a incanalarsi nei binari di una “prassi”. Secondo
Meschonnic:
La traduction est un empirisme qui aujourd’hui peut se transformer en expérimentation, devenir une pratique théorique et non plus
un artisanat esthétique, c’est-à-dire une poétique en acte, au lieu d’une idéologie appliquée.
Lo scopo primario di Meschonnic risulta esser proprio il superamento di alcuni presupposti «paradossali» introiettati nel tempo
dalla traduttologia, e direttamente derivanti da una concezione «sacrale» o «trascendente» del linguaggio e della letteratura: tra
questi, ricade certamente il dogma dell’intraducibilità, ma anche tutta una serie di pratiche comune alla traduzione letteraria e, in
ispecie, poetica, a cui Meschonnic cercherà di rispondere elaborando una sua propria poetica-pragmatica del tradurre.

•Tradurre è per Meschonnic un’attività translinguistica che, come abbiamo detto, non può essere teorizzata a partire dalla
linguistica dell’enunciato, dalla grammatica trasformazionale o dalla semantica strutturale: dunque Meschonnic prende le distanze
da quelli che erano i presupposti teorici della prima «generazione» di studiosi della traduzione, senza però distanziarsi del tutto
dalla matrice «linguistico-letteraria» che è inerente a questi stessi studi. Per Meschonnic continua a rivestire un’importanza
capitale la «poetica», incentrata sul senso e sul valore del discorso: è da questa poetica che dovrebbe discendere per Meschonnic
una pratica non empirica, ma invece cosciente dei suoi fondamenti, dunque una «pratica teorica», della traduzione.
.
Meschonnic, si diceva, prende le distanze da quell’approccio ancora rigidamente “tecnicista” che aveva dominato gli anni
Cinquanta e Sessanta, e aveva portato alla formulazione di teorie fondate in gran parte sulla semantica strutturale e sulla
grammatica trasformazionale: quella di Meschonnic è una “poetica”, tesa a rivalorizzare il senso e il valore globale del discorso.
Vediamo alcuni degli “assunti” ideologici che governano la riflessione di Meschonnic sul tradurre.
Inscindibilità di significante e significato: per Meschonnic, i due elementi di “senso” e “forma”, “lettre” e “esprit”,
tradizionalmente scissi e considerati come “poli” centrali di contrapposte scelte traduttive, sarebbero in realtà inscindibili. Lo stile,
la forma, è dunque parte del senso, e come tale, non è relegabile a una mera funzione estetica-ornamentale: di conseguenza, il
traduttore non dovrà operare nel senso di una scissione, ma di un’unificazione, in un gesto che rispetto il tutto organico che crea la
“forma-senso”, perché – come scrive lo studioso – «quand il y a un texte, il y a un tout» (Meschonnic, Pour la poétique III, 1973).
Di conseguenza, il traduttore non dovrà solo e unicamente riproporre un transcodage passivo dei contenuti ma fare attenzione,
specialmente per quel che riguarda la traduzione letteraria, alla «sémantique profonde» del testo, cioè, tra le altre, alla sua ritmica.
Annessione e decentramento: dunque, secondo Meschonnic, la traduzione non si limita alla sola dimensione linguistica, ma è
invece un momento profondamente inter-linguistico e inter-culturale; essa non può esaurirsi in una semplice “decalcomania”
dell’originale, né tantomeno in una sua poétisation arbitraria o ingiustificata: ma opera invece tra catene di significati complessi, in
un passaggio delicatissimo che permette la comunicazione tra due lingue-culture. Due, a questo proposito, i principi traduttivi,
della ré-énonciation, individuati da Meschonnic:
Decentramento Annessione
È attraverso il decentramento che si instaura un “rapporto testuale” Sarebbe, per Meschonnic, condannabile al massimo grado perché
tra due testi in due langues-cultures. Il decentramento implica una corrisponderebbe a una «illusion du natural […] comme si un
partecipazione interpretativa del traduttore: il testo d’arrivo, texte en langue de départ était écrit en langue d’arrivée,
governato da una tensione verso l’altro, mantiene e riconosce la abstraction faite des différences de culture, d’époque, de structure
diversità linguistico-culturale. linguistique». Si tratta di una forma di « addomesticamento » che
porta di fatto al disconoscimento del traduttore e della cultura
dell’originale.

I grandi rappresentanti della traduttologia francese: Ladmiral.


Tutto sommato, sia con Mounin che con Meschonnic, rimaniamo ancora nell’alveo di una traduttologia normativo-prescrittiva:
sarà poi con Jean-René Ladmiral e in particolare con i suoi Théorèmes pour la traduction (1979) che si farà strada in Francia un
modello alternativo, di tipo analitico-descrittivo e semantico-pragmatico: muovendosi dalla linguistica e dalla filosofia, lo studioso
concretizza il suo punto di vista in una trattazione teorica che intende essere innanzitutto una “prasseologia”, cioè una riflessione a
taglio semiotico-pragmatico volta alla produzione di strumenti didattici e pedagogici utili ad affrontare l’attività traduttiva. Alle
teorie “toute faites”, Ladmiral contrappone una “linguistique d’intervention” – preferendo questo titolo alla definizione, stringente
e scientista, di “traduttologia” – di carattere necessariamente frammentario, che non sia dunque né sistematica, né normativa, ma
corrisponde invece a una sorta di «rhapsodie de théorèrmes disjoints affrontés à la tourmente de la pratique». Per Ladmiral, ciò che
è importante è «mettre à point un produit», svicolandosi da un’impostazione essenzialmente teorica o prescrittiva.
.
Le sue teorizzazioni, come abbiamo detto, trovano una sistematizzazione organica in Traduire : théorèmes pour la traduction
(1979), opera sintesi di riflessioni e studi precedenti che non si pone l’obiettivo di proporre «une théorie […] et encore moins la
théorie, la vraie et scientifique, mais de la théorie pour la traduction» (1979). Le preoccupazioni d’ordine pragmatico guidano
dunque l’approccio di Ladmiral: ponendosi nel solco delle riflessioni di Vinay e Darbelnet, lo studioso esordisce precisando la sua
terminologia, e soffermandosi sui problemi di pedagogia della traduzione senza voler necessariamente imporre un metodo
didattico che sia valido una volta e per sempre.
Vediamo alcuni degli assunti «pratico-teorici» da cui muove la riflessione di Ladmiral.
•Approccio semantico e necessità di superare la contrapposizione tra sourciers et ciblistes: contro le visioni “antinomiche” che
hanno dominato la traduttologia fino a quel momento, e opposto il mot-à-mot alle belles infidèles, la traduzione letterale e la
traduzione “bella” ma infedele, Ladmiral propone una visione saussuriana e semantica della traduzione, come operazione
metacomunicativa che assicuri «l’identité de la parole à travers la différence des langues». Dunque non si tratta di un processo di
transcodificazione semplice, di un passaggio basato sull’assunto – erroneo in sé per sé – di una supposta corrispondenza biunivoca
tra mot-source e mot-cible: ma appunto di un’operazione complessa, in cui interviene un’istanza comunicativa e un
posizionamento soggettivo e interpretativo. L’obiettivo, per Ladmiral, rimane quello di superare le posizioni antinomiche che
hanno caratterizzato, fino a quel momento, la storia e la teoria della traduzione: visione «dicotomica» tipica, a suo parere, di un
dibattito disancorato dalla prassi e incline «à déshistoriciser les problèmes théoriques pour le situer dans une éternité idéale».
Dunque, perché la traduttologia diventi produttiva, per Ladmiral è essenziale andare oltre la tradizionale opposizione tra
equivalenza formale e dinamica, tra mot à mot e belle infidèle; allo stesso modo, va evitata «une théorie linguistique
discontinuisiste» secondo la quale «il y a de l’intraduisible et il ya du traduisibile: d’un côté la poésie, de l’autre la science». È
questo, a ben vedere, uno dei punti chiavi della traduttologia «moderna»: il superare il vecchio pregiudizio, di matrice idealista,
dell’«intraducibilità» propria a determinati generi, espressioni, parole.
La dimensione ermeneutica della traduzione e il traduttore come co-autore: la traduzione, scrive Ladmiral, si attua «par la
médiation de la subjectivité du traducteur». Essa è dunque operazione eminentemente soggettiva e interpretativa, inscindibile dalla
lettura e dall’interpretazione soggettiva del testo di partenza, del texte-source: la traduzione, una volta liberata dal suo ruolo
tradizionalmente ancillare e servile nei confronti del testo originale, viene quindi riconosciuta come libera creazione soggettiva,
lontana da ogni illusione di “trasparenza”; è dunque riscrittura che risponde a determinate finalità comunicative, e risulta da ben
precisi atteggiamenti interpretativi.
.

In questo, come si può intuire, Ladmiral si allinea all’idea di traduzione che Umberto Eco espone nel suo Dire quasi la stessa cosa:
la traduzione non è asservimento né riproduzione di una metafisica “lingua una”, ma il frutto – puntuale e circostanziale – di un
processo di negoziazione di significati che si attua a più livelli, e in cui hanno gioco diversi fattori – psico-linguistici, ma anche
sociologici, se non addirittura – diremmo – politici.

•Si è detto, oltretutto, che anche Ladmiral riconosce i «limiti della traduzione»: chi traduce è spesso costretto «à choisir le moindre
mal», distinguendo gli elementi del testo funzionali, necessari, da quelli invece accessori. Ma Ladmiral ammette, nella sua ottica
tutta pratica e pedagogica, che un certo grado di «disordine» è inevitabile nel passaggio da una lingua all’altra: non ammettere la
possibilità anche solo teorica di una perdita d’informazione significherebbe in effetti avvalorare, una volta di più, il concetto di
impossibilità traduttiva o comunicativa.
La questione della connotazione: considerata tradizionalmente come un ostacolo traduttivo tipico del testo poetico, la connotazione
riveste un ruolo di primo piano nella discussione teorica di Ladmiral. Come si è detto, «la connotazione» non viene affrontata
come elemento attinente alla stilistica, ma più che altro alla semantica: in opposizione alla visione tradizionale, che vede la
connotazione come un valore «secondario», «supplementare», un elemento stilistico «accessorio» rispetto al senso primo,
Ladmiral sostiene invece l’idea che essa sia, la connotazione, un elemento testuale e informativo come un altro, e che come tale
costituisca parte integrante del messaggio. A differenza di quanto scrive Mounin nei suoi Problèmes, Ladmiral non considera la
connotazione come attinente alla sfera dell’individualità, dell’idioletto: perché in realtà non esiste, nell’ipotesi socio-pragmatica di
Ladmiral, un fatto linguistico che non sia anche fatto sociale o collettivo. Il teorema proposto da Ladmiral, che recupera le
formulazioni del danese Hjelmslev, distingue tra connotazione semantica e semiotica: la prima sarebbe riconducibile al contenuto
semantico, mentre la seconda al funzionamento testuale. Una semantica della traduzione, per Ladmiral, favorirebbe un giusto
approccio testuale da parte del traduttore, aiutandolo ad affrontare i diversi referenti connotativi per ricrearli nella sua LA, nella
sua langue d’arrivée e nel texte-cible.
La questione della tipologia testuale: accennata nei Théorèmes, è questa questione che verrà ripresa più avanti, nel saggio
Éléments de traduction philosophique del 1981. Di contro alla tradizionale dicotomia che oppone scienza e poesia e,
conseguentemente, traduzione tecnica e traduzione letteraria, Ladmiral avanza una terza ipotesi, ritenendo questa categorizzazione
bipolare totalmente insufficiente agli effettivi ambiti pratici del tradurre. Occorre cioè tener conto d’un «troisième mode de
traduire : la traduction philosophique et, plus généralement, la traduction du discours théorique culturel» (1981). La triade
traduttiva che viene a profilarsi in questo saggio è così schematizzabile:
Traduction technique Denotation
Traduction littéraire Connotation
Traduction philosophique Métalangage

I grandi rappresentanti della traduttologia francese: Berman.


E veniamo, infine, all’ultimo studioso che prenderemo in considerazione, e personalmente quello a cui più sento affine: Antoine
Berman. La sua riflessione meta-letteraria sul tradurre è complessa, e si incardina in un sistema di riferimenti altrettanto complessi
e lontani, dal romanticismo tedesco, a Schleiermacher e Benjamin: è ovvio che qui ne offriremo una panoramica necessariamente
riassuntiva ma rimando, a chiunque voglia approfondire l’argomento, ad almeno due dei suoi testi seminali sulla teoria del
tradurre:

•L’épreuve de l’étranger: Culture et traduction dans l’Allemagne romantique, 1984


•La traduction et la lettre ou L’auberge du lointain, 1991
•Pour une critique des traductions : John Donne, 1995
Nel momento storico in cui il primo tra questi due saggi è pubblicato, la traduttologia ha già in gran parte valicato gli angusti
confini della linguistica teorica e del pensiero strutturalista, per aprirsi a una logica più ampia, intimamente dialettica, che trova per
altro in Benjamin uno dei suoi più celebri artefici e preconizzatori. Traduttore dei romantici tedeschi, Berman è ideatore di un
pensiero sulla traduzione in parte radicalmente nuovo, in parte nutrito appunto dall’esempio benjaminiano e dalle riflessioni di
Meschonnic sulla traduzione come decentramento. Per Berman, la traduzione è innanzitutto esperienza, che può aprirsi e
ricomprendersi nella riflessione, escludendo ogni categorizzazione normativa e metodologica, e sviluppando invece un nuovo,
fondamentale, atteggiamento etico. A differenza da quanto postulato da Mounin, secondo il quale la fase “pre-scientifica” della
teoria sulla traduzione non avrebbe prodotto che consigli empirici e teorie vaghe, Berman si riconnette a questo sostrato teorico per
così dire “impressivo”, recuperando la fondamentale lezione di Schleiermacher, Herder e Hörderlin. Il progetto bermaniano,
nutrito dagli esempi dei romantici tedeschi, si incentra sulla necessità di riscoprire il nesso antico tra teoria e prassi traduttiva, tra
riflessione teorica e esercizio del tradurre. Quali sono i pioli su cui si poggia questa rivisitazione delle antiche “teorie”
traduttologiche, questa loro “rivivificazione” alla luce del moderno?
La traduzione come accoglienza: contro ogni posizionamento etnocentrico – e recuperando in questo la lezione sia di
Schleiermacher che di Goethe – Berman concepisce la traduzione come un metaforico “auberge de lointain”, nei termini cioè di
un’accoglienza dell’Altro, di cui si accetta l’estraneità e la naturale differenza culturale e linguistica. Contro ogni tipo di
ripiegamento narcisistico, contro ogni pregiudiziale pretesa di “autosufficienza” culturale, Berman riconosce invece la necessità di
aprirsi all’«Autre: féconder le Propre par la Médiation de l’Etranger» (1984). Occorre dunque lascar che “l’altra” lingua scuota la
“nostra”. Un concetto, questo, che in ambito italiano è stato ampiamente teorizzato da un teorico come Antonio Prete, grande
comparatista e traduttore italiano di Baudelaire.
La finalità etica del tradurre: all’assimilazione, prototipo di brutta traduzione in quanto filtra e disconosce sistematicamente la
presenza dell’altro, Berman contrappone la finalità etica del tradurre, il suo essere necessariamente «mise en rapport» (1984). Lo
studioso ribadisce la necessità di scalzare la dimensione tradizionale della traduzione (etnocentrica, platonica, ipertestuale)
sostituendola con quella, sempre triplice, di etica, poetica e filosofica. È necessario dar spazio alla «visée éthique du traduire»
(Berman, 1985: chi traduce deve pensare a educare il proprio pubblico all’altro, piuttosto che sfrondare il testo da ogni elemento
estraneo, in nome della comunicazione e della leggibilità. La traduzione non è una semplice mediazione, ma ha un valore dialogico
fondamentale; oltre a ciò essa «fait pivoter l’oeuvre, révèle d’elle un autre versant» (1984). Contro la traduzione etnocentrica della
cultura classica occidentale che, sotto l’apparenza della trasmissibilità, opera una negazione sistematica dell’Altro, occorre invece
aprirsi, dialogare, confondersi e con-fondere la propria lingua con la lingue de l’étranger.
La critica della traduzione: a differenza di Meschonnic, che esaurisce in un orizzonte prettamente negativo il suo compito di
“studioso” e “analista” di traduzioni altrui, Berman sostiene la necessità di osservare le traduzioni attraverso un metodo di
indagine e critica che non si espliciti unicamente in una pars destruens, ma che sia soprattutto teso a individuare le “ragioni
intrinseche”, soggiacenti a quella determinata scelta traduttore. Allineandosi con il filone “ermeneutico” degli studi sulla ricezione,
Berman sostiene la necessità di procedere a un’attenta analisi delle traduzioni altrui, di quelle traductions-texte di cui è necessario
individuare “l’orizzonte interpretativo” in cui si pongono, e da cui scaturiscono. La traduzione non appare, cioè, ex nihilo: nella
valutazione di un testo tradotto, occorrerà sempre tenere in conto almeno tre fattori: la posizione traduttiva del traduttore stesso, la
maniera in cui viene a esser concepita l’operazione stessa del tradurre;
il progetto di traduzione e le finalità comunicative;
e infine, appunto, l’orizzonte culturale nel quale si inserisce il traduttore stesso.
Che cos’è la traduzione? Problematicità di un quesito.
Cerchiamo quindi, innanzitutto, di inquadrare da un punto di vista, per dir così, tecnico-sincronico, il problema della traduzione.
Nelle lezioni precedenti ne abbiamo evidenziato il destino di pratica “storiograficamente” rilevante, esercizio reputato ora tecnico
ora strenuamente letterario, disciplina dunque teorico-pratica tenuta tra due opposti principi ispiratori: quello della cosiddetta
“fedeltà” alla lettera e quello della cosiddetta “fedeltà” al senso; abbiamo anche cercato di comprendere quanto il concetto di
fedeltà – e questa dicotomica opposizione che negli anni si è andata via via profilando nelle riflessioni teorico-filosofiche sulla
traduzione – fosse in realtà limitante; al concetto di fedeltà, andrà quindi sostituita una concezione più mobile e aperta del far
traduzione: un’idea “problematica” che parta innanzitutto dall’assunto primo di una impossibile equivalenza assoluta tra lingue
diverse, e della necessità quindi di operare dei “balzi” che non siano solo linguistici o grammaticali ma, a un livello più profondo,
di senso, culturali. Quando traduciamo, e quando traduciamo da due lingue come il francese e l’italiano, dobbiamo cioè sempre
tener conto che quello che stiamo facendo non è operare solo tra due orizzonti linguistici, ma tra due Weltanschaungeen, tra due
“visioni del mondo” diverse – per quanto prossime, o talvolta sovrapposte.
Corso di Laurea: Insegnamento: Lezione n°: Titolo: Attività n°: LINGUE E LETTERATURE MODERNE E TRADUZIONE
INTERCULTURALE LINGUA E TRADUZIONE FRANCESE 4 59/S1 Che cos'è la traduzione? Ancora sulla nascita dei
translation studies. 1
Che cos’è la traduzione? Problematicità di un quesito.

Che cos’è, quindi, la traduzione? A voler riprendere una definizione quanto più possibile neutrale, si potrebbe citare quella fornita
dall’European Translation Platform nel 1998, secondo cui la traduzione sarebbe «the transposition of a message written in the
source language into a message written in the target langage» (la trasposizione di un messaggio scritto in una lingua di partenza in
un messaggio scritto nella lingua d’arrivo).
Ma è davvero una definizione completa, comprensiva dell’insieme di problematiche e elementi che entrano in gioco
nell’operazione del tradurre? A ben vedere, i più illustri studiosi della materia si sono più volte scontrati con l’impossibilità di
fornire una risposta pienamente soddisfacente al nostro quesito di partenza («Che cos’è il tradurre / che cos’è la traduzione?»). Tra
questi, citiamo il tedesco Friedmar Apel che, già negli anni ’90, scriveva di quanto la traduzione – per pratica millenaria che fosse
– sfuggisse di fatto a ogni etichetta definitoria “stabile” o conclusiva.
Corso di Laurea: Insegnamento: Lezione n°: Titolo: Attività n°: LINGUE E LETTERATURE MODERNE E TRADUZIONE
INTERCULTURALE LINGUA E TRADUZIONE FRANCESE 4 59/S1 Che cos'è la traduzione? Ancora sulla nascita dei
translation studies. 1
Che cos’è la traduzione? Impossibilità di una definizione?«Benché tradurre sia da sempre un’attività dell’uomo, benché esista
una tradizione millenaria della teoria del tradurre […] non si può comunque proporre una definizione di traduzione che sia
accettata su un piano generale e che tenga conto di tutti i fattori interessati al processo traduttivo. Tutto ciò sta nella complessità
del problema stesso, complessità della quale finora nessun singolo approccio scientifico è riuscito ad aver ragione nella sua
totalità», Friedmar Apel, Il manuale del traduttore letterario, 1993
•Ed è questa una posizione steineriana, cioè riconducibile appunto al quadro teorico – di matrice anche latamente mistico-
trascendentalista – tracciato da Georges Steiner, tra i più illustri studiosi della disciplina e della pratica del tradurre. Come ovviare,
dunque, all’insita “problematicità” dell’atto del tradurre, come giungere a definire un’idea del tradurre che riesca a tracciare, di
questa stessa attività, anche i confini pratici e i limiti invalicabili?
Che cos’è la traduzione? Una definizione «pragmatica».

Uno degli approcci possibili è quello suggerito da Raffaella Bertazzoli in un agevole e prezioso manualetto da poco edito per
Carocci (e intitolato La traduzione: teorie e metodi, 2006): non si tratta di affrontare il problema “definitorio”, per dir così, sul
piano ontologico-concettuale; ma di spostare il nostro punto di vista su di un orizzonte pragmatico. In altre parole: non dovremmo
chiederci “Che cos’è la traduzione”, ma invece osservare, descrivere e problematizzare il processo stesso della traduzione,
tentando così di dare una nostra risposta alla domanda-problema: “Come tradurre, in che modo tradurre”? Operando questo
piccolo “cambio” di prospettiva, si riuscirà quindi a comprendere la natura intrinsecamente multisfaccettata dell’operazione
traduttiva, a conoscerne lo statuto dinamico: e cioè non neutro, ma culturalmente implicato in uno specifico orizzonte culturale e di
senso.
Che cos’è la traduzione? Per una storia delle definizioni.

Il problema, come vedremo, attiene al fatto che il significato di un testo non è in effetti riducibile alla sua sola semantica, ma
risiede piuttosto nell’intreccio, denso e complesso, di una serie di campi e elementi tra loro vicini, al punto da sovrapporsi l’un
l’altro: non è allora possible considerare il tradurre come un’operazione unicamente linguistica. Essa trasborda naturalmente nei
campi della sociolinguistica, della sociosemantica e, come vedremo, dell’antropologia.
•Nel tempo, come si è visto, diversi sono stati gli orientamenti teorici che hanno guidato i traduttologici nei loro diversi propositi
di teorizzazione (spingendo i translation studies ora verso la linguistica teorica, ora verso la semiotica, ora verso la teoria della
ricezione e l’ermeneutica testuale). Andiamo qui brevemente a riepilogare alcuni di questi assunti: teniamo sempre a mente – a
mo’ di premessa essenziale – quanto scritto da Bertazzoli, ma cerchiamo anche di inquadrare in una prospettiva meno impressiva,
e invece più tenica e accademica, il nostro problema. Quante e quali risposta sono state date e possiamo ancora dare alla domanda:
“Che cos’è la traduzione?”
Con la svolta degli anni Cinquanta del secolo scorso, abbiamo visto affermarsi una serie abbondantissima di contributi critici, fatti,
pensati e studiati per dare una risposta “univoca” e quanto più possibile “scientifica” al “problema” della traduzione. Un approccio
per così dire rigidamente positivista che è stato da ultimo, con il cultural turn degli anni Ottanta, messo profondamente in
discussione – e che ha visto piuttosto l’affermarsi di teorie “etiche” e “ermeneutiche” della traduzione.
È chiaro però che, da un punto di vista per dir così “pratico”, alcuni degli assunti e degli strumenti messi in opera da quei
“traduttologi” di primo pelo, fervidamente animati dal proposito di far quadrare il cerchio, e di riportare la traduzione a pratica
matematica, possono ancora essere considerati validi, parzialmente utilizzabili o riutilizzabili – certo, sempre tenendo ben in mente
quest’utile correttivo: che la traduzione non è una scienza, ma appunto una pratica creativa, suscettibile d’essere “scossa” da
variazioni profondamente soggettive, e da contingenze non riassorbili in mera formula.
Ad ogni modo, con la svolta degli anni Cinquanta, sulla scorta della linguistica saussuriana, e degli studi di semiotica, cominciano
a comparire termini e strutture che ben riassumono, in formula, l’essenza del tradurre: che cos’è il tradurre, dunque?
In molte opere di “traduttologia”, lo schema base a cui riportare ogni complessa operazione di traduzione sarebbe il seguente:

LD  LA
Dove con LD si indica la cosiddetta langue de départ, la source language, la langue source, la lingua d’origine; con LA si indica
invece la langue d’arrivée, la target languague o langue cible. Dunque la “lingua d’arrivo”.
La freccia tra le due simboleggia appunto quel transfert che la traduzione stessa costituisce, e che va a confermare l’etimologia
stessa del termine (per cui tradurre deriverebbe appunto da trans + duco = condurre dall’altro lato, dall’altra parte; un’idea di
attraversamento, movimento, trasporto, che compare già in epoca latina, e che poi si assesterà pienamente nel tardo latino
umanistico dei Bruni e Dolet).

Che cos’è la traduzione? Per una storia delle definizioni.


Al novero delle imprese “definitorie” della traduzione, andrà senz’altro aggiunto – e menzionato ancora – il seminale contributo di
Jakobson, che negli anni ’50, nel noto articolo intitolato On Linguistic Aspects of Translation (1959) individuava tre tipi di
traduzione, ancor oggi riconosciuti come i modi centrali del tradurre: la traduzione intralinguistica, la traduzione interlinguistica o
traduzione vera e propria, e la traduzione intersemiotica o trasmutazione. La traduzione è interlinguistica quando opera su testi
appartenenti a due sistemi linguistici diversi: ed è a questo tipo di traduzione che limiteremo – per altro nel sottocaso specifico
della traduzione letteraria – le nostre future analisi.
•La tripartizione di Jakobson è diventata un punto di riferimento forte e significativo per le teorizzazioni successive: è infatti il
primo modello che integra trasposizioni non solo monosistemiche, cioè interlinguistiche. Il modello jakobsoniano, per quanto
ancora solidamente ancora a una visione unicamente «linguistica» dell’operazione traduttiva, ha il merito di presentare già la
traduzione come atto interpretativo, dimostrando che «interpretare un elemento semiotico significa “tradurlo” in un altro elemento
(che può pure essere un intero discorso) e che da tale traduzione l’elemento da interpretare risulta sempre creativamente arricchito,
questa creatività continua essendo il risultato più importante della semiosi illimitata di Peirce» (Umbero Eco, Il pensiero semiotico
di Roman Jakobson, 1978).
Eco si soffermerà d’altronde più lungamente sul concetto di traduzione, tentando di ricavarne una definizione che sia in qualche
modo comprensiva dei molteplici aspetti sotto cui ricade quest’operazione (a un tempo linguistica, semiotica, interpretativa). Il
tentativo è proprio quello di dare una risposta all’interrogativo: «Che cosa vuol dire tradurre?»: «La prima e consolante risposta
vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire che
cosa significhi "dire la stessa cosa", e non lo sappiamo bene per tutte quelle operazioni che chiamiamo parafrasi, definizione,
spiegazione, riformulazione, per non parlare delle pretese sostituzioni sinonimiche. In secondo luogo perché, davanti a un testo da
tradurre, non sappiamo quale sia la cosa. Infine, in certi casi, è persino dubbio che cosa voglia dire» (2003). È da escludere,
dunque, una definizione per così «ingenua» e unicamente linguistica: si ritorna con Eco, invece, a riaffermare la natura
essenzialmente processuale dell’operazione traduttiva, descritta e definita in termini di negoziazione (non solo tra lingue, ma
principalmente tra culture). Traduzione, quindi, come pratica che mette al centro non semplicemente il sistema linguistico, ma
l’intero sistema culturale:
Nel tempo, vediamo dunque la «definizione» di traduzione spostarsi da una concezione teorico-linguistica, a una semiotico-
pragmatica, a una culturale e filosofica.
Con Georges Mounin, almeno nei suoi primissimi scritti, la traduzione rimarrebbe, ad esempio, apparentemente ancorata a una
dimensione prettamente «semantico-linguistica». Il primato è assegnato al «senso», alla trasmissione del significato del texte
source nel texte cible: «la traduction consiste à produire dans la langue d’arrivée l’équivalent naturel le plus proche du message de
la langue de départ, d’abord quant à la signification puis quant au style» (Mounin, 1963).

•Con Jean-René Ladmiral, la definizione di traduzione si carica di una componente pragmatica. L’autore dei Théorèmes definisce
la traduzione come «une activité humaine universelle rendue nécessaire à toutes les époques et dans toutes les parties du Globe»
(Ladmiral, 1979). In quest’ottica, la traduzione appare dunque innanzitutto come via di comunicazione, canale pragmatico di
scambio «interculturale», a cui la gente ricorre a tutti i livelli, a partire dal quotidiano. È una «via d’accesso» a un’informazione
che rimarrebbe, in altro caso, irreperibile.
Che cos’è la traduzione? Per una storia delle definizioni.
Ma già a partire da Edmond Cary, definizioni di taglio più teorico, ispirate per lo più alla linguistica o alla semiotica, convivono
con posizioni più nuancées, attente a restituire il tradurre a un ambito più vasto e problematico di quello fino a quel momento
delineato. Nel saggio edito postumo, Comment faut-il traduire ? (1985), che raccoglie differenti contributi del celebre interprete e
fondatore della Société française des traducteurs, vengono affrontati alcuni tra i più scottanti problemi della traduttologia: dalla
questione della fedeltà, a quella della connotazione e denotazione, passando per una riflessione sui «contesti» (letterari, culturali,
stilistici). Cary si pone in qualche modo a metà, come figura-cerniera tra le posizioni di matrice più teorica e linguistica e quelle di
ispirazione più pragmatica e semiotica (poi precisate da studiosi come Ladmiral, Eco, Bertazzoli). Tentando di dare una sua
risposta al problema di definire la traduzione, Cary scrive: «La traduction est une opération qui cherche à établir des équivalences
entre deux textes exprimés en des langues différentes, ces équivalences étant toujours et nécessairement fonction de la nature des
deux textes, de leur destination, des rapports existant entre la culture des deux peuples, leur climat moral, intellectuel, affectif,
fonction de toutes les contingences propres à l’époque et au lieu de départ et d’arrivée. Ne retenir de cette gamme d’équivalences
que le rapport entre les deux langues, c’est limiter arbitrairement le problème à un rapport formel et s’interdire de pénétrer la
nature des diverses opérations concrètes par quoi la traduction se manifeste dans la réalité» (Edmond Cary, Comment faut-il
traduire? , 1985).
•Dunque la funzione degli studi traduttologici non si esaurirebbe nel considerare la traduzione come «produzione di un testo
secondo», semplice passaggio di un testo da una LD a una LA: occorre invece, come abbiamo dimostrando citando Eco, citando i
primi teorici della traduzione come «passaggio di cultura», considerare l’insieme delle operazioni che a questo prodotto
permettono di delinearsi. In altri termini, la traduzione è da ultimo considerata come un atto culturale complesso, di cui è bene
considerare di volta in volta premesse, determinazioni, processi e risultati.

Le fase del tradurre e alcune sue premesse essenziali.


Fatte le premesse essenziali sul carattere «denso», differenziale, dell’atto traduttivo, passiamo ora – più specificatamente – a
osservarne i procedimenti, le pratiche, le fasi di elaborazione.
•1) Lettura e Analisi: Fattore centrale del processo traduttivo è infatti il testo di partenza: con tutte le sue peculiarità linguistico-
stilistiche, con la sua densità semantica.

•2) Interpretazione: Alla prima fase di lettura e analisi, seguirà una fase di interpretazione, nella quale il traduttore è chiamato a
compiere delle scelte: cosa significa operare delle scelte?

3) Stesura della traduzione: Il traduttore dovrà dunque produrre un «adattamento» dei segni linguistici-culturali del prototesto
attraverso il codice linguistico della cultura ricevente: e il risultato sarà quello che alcuni teorici chiamano metatesto.

Si tratta cioè per il traduttore di individuare un aspetto dominante, rispetto agli altri, nell’identità del protesto: di rispettare questo
carattere dominante, scegliendo nel processo traspositivo di accordargli una certa priorità.
-Le fase del tradurre e alcune sue premesse essenziali.
Se non è possibile produrre un’equivalenza assoluta tra segni linguistico-culturali differenti, i due poli verso cui può tendere il
traduttore saranno da un lato il principio di adeguatezza e dall’altro il principio di accettabilità. Sono termini, questi, introdotti in
ambito traduttologico dal linguista e teorico israeliano Gideon Toury e che possono essere così riassunti in maniera schematica:
Principio o norma dell’adeguatezza: il traduttore si concentrerà sui tratti distintivi del prototesto (lingua, stile, elementi culturali).
Principio o norma dell’accettabilità: il traduttore s’impegna a produrre un testo che sia quanto più possibile in piena armonia con le
convenzioni linguistiche, letterarie, culturali della cultura ricevente.
•L’adeguatezza, dunque, ingloberebbe il prototesto etichettandolo come estraneo, senza privarlo delle caratteristiche che ne
formano l’identità.
Quel che più importa, allora, è ancora una volta sottolineare il carattere dinamico e selettivo dell’operazione di traduzione: prima
di approcciarci a un qualsiasi testo, dovremo necessariamente cogliere certi aspetti, e prendere alcune decisioni, anche in relazione
allo specifico skopos del testo (per dirla con Reiss e Vermeer), e all’orizzonte d’attesa della cultura ricevente (quello cioè che
Umberto Eco nel suo Dire quasi la stessa cosa chiama un lettore-modello o un lettore-tipo).
I procedimenti del tradurre.
I sette procedimenti «leciti» dell’operazione traduttiva.
Nel 1958, i canadesi Vinay e Darbelnet pubblicano un testo destinato a divenire “la base” di tutti i futuri manuali di traduttologia:
la Stylistique comparée du français et de l’anglais. Partendo dall’assunto secondo cui esisterebbe un legame strettissimo tra
retorica e traduzione, i due autori compilano quello che è da un lato una vera e propria “opera di stilistica comparata” e dall’altro
un “précis de traduction”, un manuale di traduttologia che si assesta in parte su principi di ordine ancora prescrittivo-normativo, e
si ispira largamente e esplicitamente a studi di matrice linguistica-teorica.
•Ripreso da Mounin, il manuale dei canadesi indica sette procedimenti leciti in fatto di traduzione, distinti tra procedimenti di
traduzione cosiddetta “diretta” e procedimenti di traduzione cosiddetta “obliqua”. In parte questa “tassonomia” va a sovrapporsi e
intrecciarsi a quella che sarà definita, negli stessi anni, da Jakobson.
Traduction directe Traduction oblique

L’emprunt La transposition
Le calque La modulation
La traductionmot à mot L’équivalence
L’adaptation

La traduzione letterale

«La traduction littérale ou mot à mot désigne le passage de LD à LA aboutissant à un texte à la fois correct et idiomatique sans que
le traducteur ait eu à se soucier d’autre chose que des servitudes linguistiques. […] En principe, la traduction littérale est une
solution unique, reversible et complète en elle-même. On en trouve les exemples les plus nombreux dans les traductions effectuées
entre langues de même famille (français-italien) et surtout de même culture»
Nel mondo della traduzione, si parla di “traduzione letterale” quando essa riprende, parola per parola, il testo “di partenza”. La
tendenza generale è di affidarsi a traduttori che si discostano lievemente dal testo “di origine”, non dal punto di vista semantico,
bensì, dal punto di vista stilistico e, talora, lessicale. D’altro canto, una traduzione rigorosamente diretta può risultare poco fluida e
priva di naturalezza. I due estremi, tuttavia, coesistono: traduttori eccessivamente creativi da un lato, e traduttori particolarmente
attenti alla struttura morfosintattica, dall’altro.
Gli esempi più noti di “traduzione libera” provengono dal mondo dell’arte. La traduzione di una canzone, di una poesia, di un
annuncio risulta molto dissimile dall’originale; questo nel tentativo di preservare insieme al significato delle parole, la loro
intrinseca bellezza e musicalità. Talvolta, ritmo, figure retoriche come l’allitterazione (ripetizione di suoni) o giochi di parole
possono essere preservati. Il risultato è una traduzione apparentemente “distante” dal punto di vista formale, ma perfettamente in
linea col suo intento principale: conservare una certa equivalenza dinamica (o funzionale).
Altre circostanze possono spingere un traduttore a prendere le distanze dalla lingua di partenza. Ciò accade, in genere, in presenza
di sgrammaticature nel testo. Un tipico errore della lingua inglese concerne l’utilizzo delle locuzioni “i.e” (“ossia”, “vale a dire”) e
“e.g” (usata per introdurre esem-pi). In casi di questo tipo, il traduttore può apportare le dovute correzioni nella lingua di arrivo.
Anche in presenza di linguaggio ampolloso o poco trasparente, il traduttore può agire in maniera arbitraria, riformulando il testo, al
fine di rendere più agevole lo stesso.
Quando si parla di traduzione, è buona norma, tuttavia, essere prudenti! Ci sono casi in cui la traduzione letterale si presenta
doverosa e necessaria. È quanto accade con testi di natura giuridica, il cui contenuto necessita di una trasposizione fedele (ivi
compresi errori ed ambiguità), o con scritti particolarmente elaborati, i quali non possono essere semplificati. È auspicabile, in
questi casi, una ripresa puntuale della struttura originale del testo.
Ciò non significa, è ovvio, che la traduzione letterale vada in ogni caso evitata: ogni traduzione, per quanto libera e «riadattante»,
conserva sempre in parte una porzione di rispecchiamento mot à mot (e viceversa: una traduzione totalmente letterale si rivela
spesso impensabile, impraticabile). Ma è bene ricordare che il transcodage, il passaggio parola per parola è un fenomeno non così
ricorrente nella traduzione italiano-francese e francese-italiano, a dispetto di quanto si è usi credere.
In altre parole, noi che ci approcciamo al difficile compito di rendere il testo francese in italiano, dovremmo stare ben attenti a non
cadere nella tentazione di una «scontata», banale, traduzione letterale, lì dove invece altri procedimenti traduttivi (di trasposizione,
modulazione, adattamento) sono invece a effettuarsi per evitare di infrangere il genio della lingua – la componente stilistica,
lessicale, morfosintattica più congeniale, cioè, alla nostra lingua di arrivo. Le due lingue, francese e italiano, per quanto
“geneticamente vicine” sono in realtà delle “fausses amies”, delle false amiche.
La trasposizione
Tra i procedimenti più frequenti, vi sono appunto le “trasposizioni” chiamate anche, da Vinay e Darbelnet recatégorisations,
proprio perché si tratta di sostituire una categoria grammaticale con un’altra.
Nelle parole invece di Vinay e Darbelnet, a cui la Podeur si rifà: la trasposition è «le procédé qui consiste à remplacer une partie
du discours par une autre, sans changer le sens du message.
Il procedimento di “trasposizione” riguarda dunque:
•tutte le parti del discorso (articolo, nome, pronome, verbo, aggettivo, avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione);
•tutte le categorie grammaticali (predicato verbale, soggetto, complemento);
•interi periodi e paragrafi, con unificazioni e scissioni d’enunciati e slittamenti di proposizioni.
Podeur costruisce un utile schema a cui far riferimento nello studio di questo procedimento, e distingue tra trasposizioni
«semplici» o locali (che interessano un’unica categoria grammaticale) e trasposizioni «a catena» (cioè quelle trasposizioni che
provocano appunto con un effetto di conseguenza immediata un’altra trasposizione). Di seguito un breve schema riassuntivo di
quelle che vengono considerate le trasposizioni più frequenti:
Francese Italiano
Trasposizione nome  verbo Aucun rapport ! Non c’entra!
Trasposizione nome  aggettivo Le maximum de confort. Il massimo confort.
Trasposizione nome  avverbio Avec simplicité Semplicemente
Trasposizione verbo  avverbio Continue ! Avanti!
Trasposizione preposizione  Regarder autour de soi Guardarsi intorno
avverbio
Trasposizione aggettivo  avverbio Une franche ironie Un atteggiamento apertamente ironico

La modulazione
Parliamo a questo punto di modulazione. Se la trasposizione riguardava il livello puramente morfologico-sintattico, la
modulazione opera sul livello semantico, riguarda le categorie del pensiero. Corrisponde, in sostanza, a un “cambiamento di punto
di vista”. Passando da un primo significato a un secondo, perché si possa parlare di traduzione occorre che i due siano legati da un
legame di implicazione reciproca, secondo la formula:
Nella definizione di Vinay e Darbelnet : « une modulation […] est un changement de point de vie » (1958). In qualche modo, la
modulazione penetra nella profondità del messaggio grazie a un cambiamento di punto di vista, un cambiamento di « éclairage »
(1968). Vi si ricorre dunque quando una traduzione diretta o trasposta produce nel testo della lingua d’arrivo un enunciato
grammaticalmente corretto ma poco idiomatico, in contrasto con lo specifico génie della lingua.
La différence entre une modulation figée et une modulation libre est une question de degré. Dans le cas de la modulation figée, le
degré de fréquence dans l’emploi, l’acceptation totale par l’usage, la fixation conférée par l’inscription au dictionnaire (ou la
grammaire) font que toute personne possédant parfaitement les deux langues ne peut hésiter un instant sur le recours à ce procédé.
Dans le cas de la modulation libre, il n’y a pas eu de fixation et le processus est à refaire chaque fois. Notons cependant que cette
modulation n’est pas pour cela facultative ; elle doit, si elle est bien conduite, aboutir à la solution idéale correspondant, pour la
langue LA, à la situation proposée par LD. Si l’on veut une comparaison, la modulation libre aboutit à une solution qui fait
s’exclamer le lecteur: Oui, c’est bien comme cela que l’on s’exprimerait en français …» (Vinay e Darbelnet, Stylistique, 1958).
Podeur fornisce al solito un’utile lista di prime formazioni lessicali che è necessario «modulare» in sede di traduzione, pena lo
scadere in un letteralismo anomalo. Osservate attentamente:
Chaussures de ville Scarpe da passeggio
Le Journal parlé Il giornale radio
Chien d’appartement Cane da salotto
Entre chien et loup All’imbrunire
Chien d’aveugle Cane guida
Se la metafora può esser descritta, semplificando, come una sorta di “paragone” abbreviato, dobbiamo tenere in conto che una
lingua può vedere una similitudine laddove una seconda ne vede un’altra:
In qualche modo, cioè, può accadere che il francese e l’italiano scelgano due “comparés”, due termini di paragone distinti, per
indicare uno stesso comparant. Ad esempio, si guardi il caso – scolastico – della «stupidità»: all’italiano “gallina” (è stupida come
una gallina) corrisponderà sempre in francese il termine “oie” (oca) (elle est bête comme une oie). Lo stesso avviene nel caso del
«coraggio». Si guardi al seguente esempio:
•Dunque per uno stesso comparant (la stupidità, il coraggio), l’italiano e il francese scelgono comparés differenti (la gallina; l’oca
– lo stomaco; il fegato). Come vedete, una modulazione si rende necessaria, proprio per rendere quell’equivalenza implicita tra
«stomaco» e «fegato», o tra «gallina» e «oca», che denota uno scarto del punto di vista tra le due lingue.
Esistono metafore, come si è detto, comprensibili a gran parte delle lingue/culture, comuni dunque a diversi popoli e afferenti a
quella che potremmo considerare come una grammatica cognitiva universale. Altre metafore sono invece tipiche di una
determinata comunità linguistica, ne riflettono appunto un posizionamento culturale. Sono le metafore dette «culturali». Citiamo
una definizione di Podeur: «une métaphore est dite culturelle lorsque l’élément x n’est connu que d’une communauté
linguistique/culturelle déterminée, lorsque le sème commun à x et à C peut difficilement être établi par un interlocuteur d’une autre
culture». (2008).
•Differenti culture hanno cioè diversi punti di appoggio per la costruzione delle loro immagini analogiche, e per un locutore
straniero, di lingua differente, sarà dunque difficile interpretare un Comparant che si riferisce a un fenomeno X sconosciuto,
perché, ad esempio, estraneo alla sua cultura. È in effetti X un elemento «concretizzante» che viene il più delle volte utilizzato da
una lingua per «spiegare» e «comprendere» qualcosa: e perché il messaggio mantenga i suoi caratteri di immediatezza e efficacia,
è necessario che questo X sia immediatamente comprensibile, in una traduzione, anche nella cultura d’arrivo, o che traduca e/o
espliciti l’elemento Y implicito su cui si regge il meccanismo analogico.
Si deve ancora una volta a Eugene Nida, il fondatore della traduttologia, il merito di aver tracciato una tipologia specifica degli
ambiti del cosiddetto “metalinguistico”, gli spazi cioè dove risulta più evidente l’intervento – nella lingua – di fattori sociali,
culturali, soggettivi.
Dunque, i luoghi del metalinguistico saranno l’ecologia, la vita materiale, quotidiana e tecnologica, quella sociale, quella
linguistica e quella religiosa. In pratica, significa che – nonostante a separarci dalla Francia – ci sia apparentemente solo l’arco
alpino, le stagioni non sono le stesse tra Roma e Parigi, così come mutano le abitudini quotidiane, le percezioni delle festività, i
modi di dire, i giochi di associazione linguistica.
•Conoscere e riconoscere questi «luoghi del metalinguistico» costituisce una competenza fondamentale per ogni traduttore.
Occorre dunque innanzitutto sapere distinguere e riconoscere ciascuno di questi luoghi, e in seguito ragionare su che cosa voglia
dire procedere a una «traduzione» di questi stessi luoghi: in che modo procedere?
•A supplire l’impossibilità di un’equivalenza anche parziale, interviene appunto uno dei procedimenti considerati come ai limiti
della traduzione: l’adattamento.

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