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LA LETTERATURA COPTA E LA STORIA DELL'EGITTO CRISTIANO

Tito Orlandi

1. La nascita della letteratura copta

Alessandria d'Egitto, oggi al-Iskandariyyah, poveri resti di una basilica cristiana,


forse l'antica cattedrale, nel giardino archeologico di Kom el-Dikka nel centro della città

La nascita e lo sviluppo della letteratura copta sono intimamente legati alle circostanze storiche che
hanno accompagnato lo sviluppo della Chiesa cristiana in Egitto. La letteratura copta non si
presenta come un fenomeno spontaneo di espressione di contenuti svariati, ma come una creazione
meditata e in gran parte programmata per soddisfare esigenze di ambienti culturali che gravitavano
intorno alla Chiesa cristiana.
Per attuare questo disegno si dovette creare praticamente ex-novo una lingua letteraria. L'egiziano
utilizzato intorno al II secolo d.C. (epoca in cui possiamo collocare gli inizi dell'operazione "copto")
era una lingua assai povera di possibilità espressive, soprattutto di tipo concettuale e teorico. Quello
che sopravviveva dell'antica letteratura in lingua egiziana[1] poteva servire a ricordare l'esistenza di
un glorioso passato, ma non costituiva un modello per la produzione di opere quali sono state poi
effettivamente proposte in lingua "copta". Si è dunque provveduto a formare una lingua
essenzialmente nuova, nella cui struttura potessero coesistere gli elementi della lingua egiziana
tradizionale, come era parlata (e raramente scritta) nel suo ultimo stadio (cosiddetto demotico, dal
VII sec. a. C. al V sec. d. C.), e gli elementi della lingua greca, che forniva i modelli letterari che
dovevano essere prima tradotti e poi imitati.
Chi abbia ideato e condotto un'operazione del genere, è una domanda alla quale non è stata ancora
data risposta soddisfacente[2]. Del resto, la documentazione su cui basarsi è assai scarsa. Nessuna
fonte "indipendente" ci dà alcuna notizia, per quanto breve, o anche falsa, relativa alla nascita della
letteratura in lingua copta.
Eusebio stesso, che menziona parecchie volte la lingua siriaca, e sostanzialmente annuncia la
nascita della letteratura siriaca nella notizia circa Bardesane (HE IV 30), non parla mai della lingua
egiziana né della sua letteratura, che pure al suo tempo esistevano. Le varie ipotesi che sono state
fatte dagli studiosi moderni (Lefort, Steindorff, Schmidt)[3] prendono in considerazione i tre
ambienti religiosi che corrispondono ai testi (sempre traduzioni dal greco) che si trovano nei
manoscritti più antichi: quello cristiano "normale" (dal momento che si trovano testi del Nuovo
Testamento), quello cristiano "gnostico" (dal momento che si trovano testi gnostici), e quello
giudaico (dal momento che si trovano testi dell'Antico Testamento).
Naturalmente ciascuna delle categorie di testi menzionate può provenire da uno dei due ambienti
cristiani; ma ad ogni modo non sembra che questa strada sia la migliore per trovare una soluzione al
nostro problema. È utile anzitutto sbarazzarsi di un pregiudizio che purtroppo trova un accordo
pressoché unanime negli studiosi, e cioè che il lavoro di traduzione in lingua copta sarebbe stato
attuato per mettere i testi in questione alla portata di quei settori della popolazione egiziana che non
conoscevano il greco. Che cosa si intenda con questo in realtà non è molto chiaro, ma quello che mi
sembra di capire non mi soddisfa per parecchi motivi.
Il modo più normale per rendere comprensibile un testo greco ad un egiziano che non conoscesse il
greco dovette essere prima di tutto la traduzione orale, in particolare la spiegazione in lingua
egiziana di ciò che era stato prima letto in greco, vuoi in una cerimonia liturgica vuoi in una
riunione a carattere catechetico (anche di gruppi gnostici, che fossero interessati a far proseliti). Il
produrre libri contenenti traduzioni per un pubblico ignorante e sicuramente poverissimo (si parla
infatti sempre di contadini della Valle del Nilo) non può essere stata un'idea di quei tempi.
Ma poi, e soprattutto: la lingua usata per queste traduzioni non sembra essere stata propriamente
l'egiziano di quel tempo. Come abbiamo detto, un egiziano letterario non esisteva praticamente più
da molto tempo (e il copto nasce invece con piene caratteristiche letterarie); l'egiziano aveva
certamente assorbito un certo numero di vocaboli greci, ma non certo tutti quelli che si trovano
comunemente nei testi copti di cui parliamo, e che fanno ritenere che chi davvero non conoscesse il
greco non potesse nemmeno capire il copto. Anche la sintassi e direi la stilistica del copto si
comprendono, per quanto posso vedere, soltanto sulla falsariga della sintassi e della stilistica del
greco, e sarebbero state difficilissime per le persone ignoranti a cui i testi avrebbero dovuto essere
diretti.
In sostanza mi sembra che un altro tipo di ipotesi sia più consona alla documentazione in nostro
possesso, e alle circostanze storiche nelle quali essa fu prodotta. È probabile che nell'epoca in cui
nacque la letteratura copta, i nuovi fenomeni religiosi (dei quali il principale fu il cristianesimo) si
incontrassero in Egitto con il rinascere di sentimenti nazionali connessi con la nostalgia per l'antica
cultura autoctona che stava definitivamente tramontando. Se si aggiungessero anche motivi di
insoddisfazione politica ed economica per il modo con cui la classe dominante greca (e in parte ora
romana) conduceva l'amministrazione del Paese, e contrasti fra la capitale Alessandria e la "chora"
egiziana non si può dire con certezza[4].
L'antitesi culturale fra religione tradizionale (che nell'epoca di cui parliamo era un miscuglio di riti e
miti greci ed egiziani) e cristianesimo; e l'antitesi linguistica fra greco ed egiziano (poi copto),
forma un intreccio in qualche modo sorprendente. Gli ultimi grandi filosofi pagani[5] che
guideranno nel V secolo la resistenza al cristianesimo si esprimeranno in greco, e avranno forti
legami con la cultura greca internazionale di Atene e dell'Asia Minore.
Al contrario, il copto verrà usato quasi esclusivamente dai cristiani, che avversavano il culto
tradizionale, e più tardi, nell'epoca di Shenute, contribuiranno a distruggere i templi rimasti attivi, e
a disperder nei sacerdoti.
È possibile che il Cristianesimo fosse visto (nonostante i legami con il giudaismo, che presto si
sciolsero per dar luogo a rivalità) come il portatore di un'assoluta novità, che poteva essere
considerata in alcuni ambienti come l'espressione di una rivolta contro la situazione presente, in cui
i rappresentanti della religione tradizionale erano compromessi con il regime dominante e la sua
cultura.
Il Cristianesimo poteva essere il veicolo per il recupero di elementi nazionali e tradizionali (la
lingua, l'ansia di riscatto...) che non partecipavano come tali a quel compromesso.
L'operazione fu comunque, secondo noi, voluta e pilotata da una élite, come è dimostrato dal fatto
che i manoscritti più antichi di cui disponiamo (quasi tutti contenenti traduzioni di testi biblici)
testimoniano una lingua perfettamente stabilita nelle sue regole grammaticali e sintattiche, ed
un'ortografia assai accurata, per la quale dunque fin dall'inizio sono state concepite regole precise. È
vero d'altra parte che possediamo anche una serie di testi altrettanto antichi (IV secolo) che
testimoniano invece un linguaggio ed una ortografia assai meno accurati. Ma questo significa
soltanto, a nostro avviso, che l'esempio dato dal gruppo di cui abbiamo parlato prima è stato imitato
da altri gruppi (tutti comunque operanti in ambito cristiano, anche se non necessariamente
ortodosso), i quali tuttavia non si saranno troppo preoccupati della qualità formale della loro
produzione.
Dopo questi inizi, la storia della letteratura copta si presenta da un lato come un'evoluzione verso
forme letterarie che soddisfacessero, in questa lingua "nuova", alcune delle esigenze della vita
culturale della Chiesa cristiana; dall'altro come una serie di risposte diverse e talora contradditorie a
problemi vitali posti dalle vicissitudini di quella stessa Chiesa. È da questo punto di vista, ed in
particolare facendoci guidare da quattro dei fenomeni più importanti in questo senso, che
cercheremo di dare un'idea dei caratteri e dell'evoluzione della letteratura copta.

2. La letteratura copta e il monachesimo egiziano

Diocesi e monasteri copti nel basso Egitto antico

Gli inizi del monachesimo, come movimento di una certa consistenza, in Egitto si possono collocare
all'inizio del IV secolo. È appena terminata la grande persecuzione di Diocleziano, l'ultima e la più
dura, o almeno la più propagandata, che lascerà soprattutto in Egitto una memoria del tutto
particolare, legata addirittura ad un sistema di datazione ("anno dei Martiri"). Con la sua fine, si
apre l'epoca della grande pace religiosa, in cui il Cristianesimo è finalmente libero di esercitare il
proselitismo e di organizzarsi senza alcuna restrizione, e in breve acquisterà il privilegio di religione
ufficiale. Tuttavia occorre ricordare che ancora in questo periodo il numero degli appartenenti alla
Chiesa cristiana in Egitto era scarso, ed è dunque all'interno di un movimento "di punta", se non di
élite, che si forma un movimento di punta "ulteriore"[6]. Questo comporta, a mio modo di vedere,
che all'interno del monachesimo delle origini, accanto a motivi spirituali ed anche economico-
sociali (sui quali di solito anche troppo si insiste, e che forse diventeranno preponderanti con
l'espansione del fenomeno) dovevano esistere componenti culturali e dottrinali di notevole
importanza.
L'espansione del monachesimo è descritta dalle fonti antiche nei suoi elementi principali, ma non in
dettaglio[7]. Si comprende d'altra parte che ciò sarebbe stato impossibile, in mancanza di un
reclutamento diciamo così sistematico, ma basato su un volontariato che avrà obbedito a impulsi di
vario carattere. Il fatto fondamentale (riscontrato fin dai primordi, se possiamo credere alla
descrizione che Atanasio fa del primo periodo di Antonio) sembra essere che intorno ad un
personaggio "esemplare", cioè che si poneva personalmente come esempio di un certo genere di
vita, si radunavano gruppi di seguaci, dei quali i più significativi diventavano a loro volta centro di
attrazione per altri gruppi. Si determinò così una crescita geometrica, testimoniata dalle cifre
impressionanti date dalle stesse fonti antiche, che del resto sono documentate dai resti archeologici.
Le grandi personalità del primo monachesimo egiziano sono molto note attraverso gli ampi
resoconti che storici e memorialisti contemporanei (o poco successivi) gli hanno dedicato. Antonio
è colui che la tradizione, basandosi sulle indicazioni date da Atanasio, considera il fondatore del
movimento monastico, colui che per primo, ispirato da un preciso versetto evangelico, si ritirò dal
mondo per condurre una vita dedicata soltanto agli interessi religiosi[8]. Fra questi interessi,
secondo il quadro probabilmente tendenzioso che voleva proporre Atanasio, erano la lotta contro i
demoni del deserto e la lotta contro gli eretici in quanto organizzati in gruppi; non sarebbero stati
compresi, invece, la cultura e la riflessione dottrinale. Per questo motivo Antonio è stato visto anche
dalla critica fino a tempi recenti come una persona di grande spiritualità ma completamente
ingenua, ignorante perfino della lingua greca, solo disposto ad aiutare il suo Patriarca per l'unità del
popolo cristiano, quando ve ne fosse bisogno. La rivalutazione della raccolta delle sue lettere,
pervenute in modo fortunoso, che fa permanere qualche dubbio sulla completa genuinità, ha
modificato questo luogo comune storiografico.
Le lettere di Antonio (parliamo qui delle sette lettere la cui tradizione ha maggiore consistenza)
sono conosciute attraverso la traduzione latina di un manoscritto greco andato perduto; una versione
araba dal copto; un frammento abbastanza consistente del copto; una versione completa in
georgiano; una versione siriaca della sola lettera prima[9]. Si discute se la redazione originale fosse
in greco o in copto, e comunque se risalga davvero ad Antonio o gli sia stata attribuita da un
anonimo autore. Non possiamo ovviamente soffermarci su tali problemi, ma diremo che a nostro
avviso il testo copto deve essere considerato una traduzione dal greco, e che la critica moderna
propende per l'autenticità delle lettere. In questo caso esse testimonierebbero di una figura
indubbiamente colta, al corrente delle idee filosofiche del tempo. Abbia o meno egli redatto in
copto i suoi scritti, si può ritenere che da un ambiente di questo tipo possa essere stato originato il
movimento che ha portato alla nascita della letteratura copta.
Vi sono molti elementi nelle lettere che fanno ritenere Antonio legato all'interpretazione origeniana
della dottrina cristiana, tanto che il Couilleau può affermare che "occorre ammettere che una
corrente che si può ben chiamare origenista avanti lettera abbia fecondato il monachesimo delle
origini. Dopo tutto, l'origenismo che Evagrio doveva trovare nel deserto dei Kellia non è nato per
generazione spontanea"[10].
Sembra accertato, in Antonio, un disinteresse per gli aspetti organizzativi della vita monastica, forse
addirittura una opposizione. Per questo furono piuttosto i suoi discepoli, andando evidentemente
oltre le primitive intenzioni dell'ispiratore, a fondare e far progredire quelle che diventeranno in
breve le grandi comunità del Basso Egitto, tutte situate nella parte occidentale del Delta del Nilo
(ramo Canopico): Sketis, Nitria (Pernouj), Kellia[11]. Il nome fondamentale per quest'opera
è Macario (quello chiamato Egizio), a cui i posteri si richiameranno tanto sistematicamente, da darci
la certezza che egli abbia precisato il carattere sia organizzativo sia dottrinale di queste comunità.
Esse erano costituite da monaci autonomi, ma viventi in piccole comunità con gli alloggi
abbastanza vicini. Nei giorni e momenti fissati vi erano riunioni di culto, guidate da monaci facenti
regolarmente parte anche del clero, cioè della gerarchia ecclesiastica cittadina. La dottrina
prevalente in queste comunità era quella origenista, tanto che Evagrio vi troverà l'ambiente più
congeniale a passare gli ultimi anni della sua vita. La lingua letteraria era, per quanto se ne può
sapere, il greco. Il copto (nella varietà dialettale che viene chiamata boairico) è presente solo nelle
iscrizioni trovate negli scavi di Kellia[12], ed è possibile che sia testimoniato da alcuni codici
boairici antichi contenenti testi biblici che possono provenire dall'ambiente di cui ci stiamo
occupando. Ma tale ambiente aveva una fitta rete di relazioni "internazionali" che venivano
evidentemente coltivate mediante lo scambio di testi greci.
Nello stesso periodo, al Sud dell'Egitto, Pacomio metteva a punto un tipo diverso di organizzazione
monastica. La sua opera è troppo nota per volerla riassumere qui[13]. Desidero però proporre
alcune osservazioni. La caratteristica dell'organizzazione pacomiana non sta tanto nel "modo di
vita" che egli immaginò per la sua comunità (e per quelle che via via ne nacquero). Modi di vita
simili erano probabilmente condotti anche da altri gruppi contemporanei ma indipendenti, e lo
saranno successivamente. Quello che dà il carattere ai Pacomiani è prima di tutto la redazione di
una regola fissa e precisa che i monaci si impegnano a rispettare. Se le regole che ci sono state
tramandate siano esattamente quelle originali o vi sia stato un lavoro redazionale anche posteriore,
in questa sede non è il caso di discutere[14]. Piuttosto va detto che accanto e come conseguenza
della Regola è il fatto che i Pacomiani si consideravano un gruppo unitario sotto il comando di un
capo, una specie di esercito. Questo vale, e tanto più, anche dopo la grande espansione dell'ordine,
con la creazione di una rete di monasteri che andava da Pbou al Sud fino al Canopo al Nord. Essi
tutti obbedivano al successore di Pacomio, residente appunto a Pbou. Se dal punto di vista
organizzativo la differenza fra Macariani (diciamo così) e Pacomiani è fondamentale, da quello
dottrinale le cose stanno diversamente. Qui a mio avviso una differenza interessante sta nell'uso che
si fa in ambiente pacomiano della lingua copta, cioè di un ibrido fra egiziano e greco sviluppato nel
corso del III secolo da ambienti che volevano in qualche modo raccordare la tradizione antica con il
nascente Cristianesimo. Ma per quanto riguarda i contenuti, sembra possibile affermare che i
Pacomiani erano perfettamente allineati con le posizioni del Patriarca alessandrino, e dunque col
didaskaleion, e dunque con un origenismo più o meno moderato. Le affermazioni in contrario sono
chiaramente tardive, ed anzi sono espresse in modo tale da confermare l'esistenza dell'origenismo
presso i Pacomiani. Va aggiunto oltretutto che gli studi sui testi copti definibili gnosticizzanti fanno
propendere anche per l'ipotesi che presso i Pacomiani si potesse trovare un origenismo parecchio
spinto nel senso che si può definire propriamente gnostico[15].
Si noti che tutto ciò, anche se contraddice a qualche visione storica tradizionale, dovrebbe apparire
semplicemente ovvio, dal momento che la dottrina elaborata ad Alessandria e accettata come ovvia
presso la Chiesa egiziana fino a Teofilo (e per la verità anche oltre, dopo la crisi) non poteva che
richiamarsi ad Origene, sia pure con qualche differenza nei riguardi di teorie particolari. Ci si
dovrebbe invece meravigliare che esistessero contemporaneamente dei gruppi che, come abbiamo
detto, si rifacevano ad un tipo di esegesi del tutto diverso. Questi gruppi esistevano, ma le fonti che
li attestano sono molto particolari, e devono essere interpretate con molta cautela. Almeno due
figure emergono come importanti, in questo contesto: Apollo di Bauit (-Titkooh) e Paolo di Tamma.
Il primo ha lasciato tracce in iscrizioni e calendari liturgici che ci attestano la sua fama[16]. La sua
vita è narrata in un testo copto che appare nella sostanza antico e degno di fede. Apollo sarebbe
stato al principio un anacoreta del tipo solitario, che dopo un periodo di noviziato presso un certo
Petra si stabilì presso Shmun con alcuni compagni. Ivi lasciò una comunità, e poi riprese la vita
itinerante, fondando parecchi monasteri nella stessa regione. Su Paolo di Tamma abbiamo notizie
meno sicure: egli deve aver passato la vita sempre isolato, ma in qualche modo in contatto con altre
grandi figure monastiche del periodo come Amun, Apollo, Aphu, ed altri[17]. Di lui ci sono
pervenuti però scritti molto interessanti, che possono essere messi in relazione con la letteratura
monastica in lingua greca (cosiddette Lettere di Antonio, di Ammona, di Macario Egizio, etc.). Essi
mancano del tutto di struttura letteraria (come del resto gli scritti dei Pacomiani), e sono formati di
aforismi senza alcun apparente legame fra loro. Solo in qualche caso si riferiscono ad un tema, che
è quello generale dell'opera in cui sono riuniti; ma senza svolgere un ragionamento i cui elementi
passino dall'uno all'altro aforisma. Le citazioni scritturali sono naturalmente molto numerose.
Fra la fine del IV e l'inizio del V secolo si forma, e acquista sempre maggiore importanza, la figura
del grande Shenute, a cui si rifà tutta la tradizione copta come elemento fondamentale della propria
identità spirituale. Stranamente ignorato dalle fonti greche, egli rivestì un ruolo di primo piano, sia
nei rapporti con la non piccola parte di popolazione ancora legata ai culti tradizionali, sia nelle
controversie cristologiche culminate nei concili di Efeso e di Calcedonia[18]. Ma egli ebbe
importanza non minore dal punto di vista letterario. Fu fecondissimo autore originale in lingua
copta; portò nella letteratura copta tutto il bagaglio di tecniche retoriche greche pre-cristiane, che
già erano state adottate dai Padri greci, in particolare dai Cappadoci; promosse, nell'ambito del suo
monastero (chiamato oggi Monastero Bianco), una vasta attività di traduzione di testi dal greco in
copto. Il suo successore, Besa, ne continuò l'opera; e il Monastero Bianco resterà fino all'XI sec. il
centro culturale della Chiesa copta.

3. La lotta intorno all'origenismo


In tutta la storia dottrinale della Chiesa egiziana fra il III e il V secolo serpeggia un'antitesi che
probabilmente non è dovuta solo a diverse attitudini culturali e spirituali, ma anche alle condizioni
storiche e sociali dei diversi ambienti nei quali si formano e si sviluppano le due correnti di pensiero
antagoniste.
Da una parte abbiamo la corrente che prende le mosse da una interpretazione allegorizzante della
Scrittura, e sviluppa una teologia basata sul Logos, dunque su una concezione spiccatamente
spiritualistica dell'evolversi della storia sacra, dall'origine del mondo alla venuta del
Salvatore. Dall'altra la corrente che, mantenendo l'interpretazione della scrittura in un ambito
quanto più possibile letterale, (e tuttavia in ciò facendo ampio uso della "tipologia") sviluppa una
teologia più vicina ad un certo sentimento comune del sacro, nel quale il lato materialistico non
viene del tutto schiacciato a favore di quello spirituale.
Dal punto di vista geografico, l'ambiente in cui hanno avuto origine queste due correnti sono: quello
alessandrino, sotto l'influsso diretto della scuola filosofica platonizzante, che ebbe il massimo
esponente in Origene, attorno alle cui teorie si giocherà la battaglia finale fra le due scuole[19];
e quello asiatico, sotto l'influsso dello stoicismo, che ebbe prevalenza ecumenica fino al II secolo
con esponenti quali Melitone, Ireneo, Tertulliano, conobbe un'eclisse con la polemica condotta in
modo assai deciso da Origene, ma riemerse in modo vincente con Epifanio, Girolamo e il Teofilo
"seconda maniera" (dal 401 in avanti)[20].
Sembrerebbe dunque improbabile che nell'Egitto del IV secolo, in cui la scuola alessandrina
avrebbe dovuto costituire il punto di riferimento dottrinale comune, vi fossero dei forti nuclei di
tendenza "asiatica". Ed in effetti, come abbiamo visto, tutto il monachesimo dei centri che si erano
costituiti presso il Delta (Nitria, Sceti, Kellia) era in vario modo origeniano; e gli stessi pacomiani,
nel Sud, erano schierati su analoghe posizioni, nonostante la più tarda descrizione agiografica "post
eventum" che si trova nelle varie redazioni delle vite di Pacomio.
Invece proprio in alcuni testi copti, dei quali solo recentemente si è cominciato a studiare il vero
significato storico e dottrinale[21], abbiamo la prova che esistettero, probabilmente fin dagli inizi
della espansione del Cristianesimo lungo la valle del Nilo, gruppi che si richiamavano alla scuola
asiatica, e tale posizione mantennero sempre fedelmente, fino a costituire, al momento della crisi
definitiva del 401, il nucleo vincente della disputa teologica ed esegetica combattuta intorno
all'origenismo. Il fatto che siano i testi copti a darci tale documentazione testimonia probabilmente
che elementi di contrapposizione sociale e forse etnica fra la Chora egiziana e la metropoli di
Alessandria non furono estranei alla contrapposizione dottrinale. Il primo dato interessante è fornito
dalla diffusione dell'opera di Melitone presso i Copti. Oltre a due codici papiracei in lingua greca
del IV sec., trovati comunque in Egitto[22], è conservato un codice papiraceo, anch'esso
probabilmente del IV sec., con la traduzione copta del Peri Pascha. Altri frammenti molto antichi
della stessa traduzione testimoniano la diffusione dell'opera presso i Copti[23]; ed inoltre un
rimaneggiamento del De anima et corpore venne conservato nella tradizione copta almeno fino al
VII secolo, sia pure sotto il nome di Atanasio di Alessandria. È da notare che il testo del Peri Pascha
era divenuto presto molto raro nella stessa tradizione patristica greca, tanto che era ritenuto perduto
fino a poco tempo fa, quando a poca distanza uno dall'altro furono scoperti i papiri a cui si
accennava sopra. Dunque non si può ritenere casuale questa situazione, anche se è evidente che in
Egitto la conservazione di testi altrove periti è dovuta alle caratteristiche climatiche, che hanno
contribuito alla conservazione (nelle sabbie desertiche) di manoscritti antichi.
Si deve allora ritenere che Melitone godesse in Egitto di notevole considerazione, e questo suscita
una certa meraviglia. Proprio sulla questione della Pasqua si era manifestata una grave controversia
fra Clemente alessandrino e Melitone. Clemente difendeva la celebrazione della festa nella
domenica successiva al 14 nisan, mentre gli asiatici davano importanza soprattutto al 14 nisan. La
disputa non dipendeva tanto da questioni cronologiche, quanto dall'interpretazione esegetica del
"fatto" pasquale. È dunque strano che proprio l'omelia pasquale di Melitone sia stata tanto tenuta in
pregio in Egitto[24].
L'altra omelia di Melitone, De anima et corpore, è perduta come testo a sé nella tradizione greca
principale, salvo che per alcuni excerpta inclusi in altre omelie dall'antichità. Invece ne abbiamo il
testo completo, sia pure in redazioni differenti, in copto (sotto il nome di Atanasio)[25]; in siriaco
(sotto il nome di Alessandro di Alessandria); in georgiano (sotto il nome di ambedue). Il copto
sembra dare l'idea più completa del testo originale, che era diviso in due parti. La seconda parte è in
certo senso la più ovvia, e parla dell'incarnazione e della passione del Salvatore, in termini molto
simili a quelli del Peri Pascha. La prima parte, invece, contiene un notevole brano teologico sul
problema della relazione fra anima e corpo, che in ogni caso è molto lontano da una teologia che
potesse essere accettabile per un seguace della scuola alessandrina.
Dunque si constata la diffusione in Egitto di una delle maggiori autorità della scuola teologica
"asiatica", per la quale la scuola alessandrina non nascose mai la propria opposizione, a causa
soprattutto della sua esegesi ingenua, semplicistica, e talora pericolosamente materialistica. Le
stesse osservazioni sono da fare per un'altra omelia, che non può essere attribuita a Melitone, ma
sembra originaria dallo stesso ambiente asiatico. Essa è attribuita, nell'unico codice che la tramanda,
a Basilio di Cesarea[26], e consiste in un'esegesi del brano biblico relativo alla costruzione
del Tempio di Salomone, interpretato come un'allusione alla creazione del mondo, prima, e poi
dell'uomo. Il testo comincia con un interessante brano che si rifà alla cosiddetta teologia "del
silenzio", il silenzio nel quale il mondo fu creato, in contrasto col rumore che accompagnerà la sua
distruzione.
Quindi il tempio è preso come simbolo dell'uomo, creato direttamente da Dio; quindi si parla del
peccato, cha ha causato (o causerà) la distruzione sia del mondo, sia dell'uomo, ed in particolare la
rovina dei Giudei. Finalmente si accenna alla redenzione di Cristo, attraverso la quale il corpo
dell'uomo è di nuovo purificato. È soprattutto la teologia del silenzio, che sembra non avere
paralleli, dopo i brani di Ignazio di Antiochia, Eph. 18 e Mag. 8, che lega questa omelia alla linea
"asiatica" che va da Ignazio a Marcello di Ancira, il quale fu addirittura un forte oppositore della
linea alessandrina.
Sembra dunque di poter concludere che la documentazione copta rivela una situazione molto
diversa dal quadro convenzionale, secondo cui il cristianesimo egiziano deriva direttamente dal
cristianesimo alessandrino. Invece occorre ammettere un quadro più complesso, nel quale una
molteplicità di elementi diversi stabilirono fra loro varie forme di relazione. L'elemento nuovo,
quello dell'influenza asiatica, pone il problema di cercare quale fosse l'ambiente egiziano che l'ha
accettata e sembra averne fatto la sua caratteristica prevalente. Per trovare questo ambiente, occorre
a nostro avviso rivolgersi al movimento monastico. Le traduzioni copte di questo periodo sono
generalmente attribuite al monachesimo di tipo pacomiano. Questo tuttavia non risolve il nostro
problema, perché, sebbene in effetti Pacomio sia stato il primo (o uno dei primi) ad aver adottato la
lingua copta, egli ed i suoi successori non erano interessati, anzi si opponevano, alla cultura
patristica greca del loro periodo, con i suoi modelli retorici, ed è quindi assai improbabile che
abbiano fatto o fatto fare delle traduzioni.
Oltre a ciò, le lettere di Pacomio (con il loro linguaggio mistico), mostrano almeno una certa
tendenza verso qualche genere di gnosticismo o per lo meno di cultura gnosticizzante, e questo
porta ad escludere un atteggiamento amichevole verso l'esegesi asiatica.
Esistono invece altri testi, relativi alle vite di Aphu di Ossirinco e di Apollo di Bauit (presso
Shmun), e le opere di Paolo di Tamma (tutti nel medio Egitto)[27], che possono risolvere il nostro
problema. Essi infatti delineano l'ambiente monastico del Medio Egitto come il possibile ricettacolo
della teologia asiatica, con una esegesi tendenzialmente letterale ed un materialismo spinto fino
all'antropomorfismo. Per la verità, né la Vita di Apollo né le opere (comunque molto interessanti dal
punto di vista della storia della spiritualità monastica) di Paolo di Tamma forniscono elementi sicuri
per collocare queste due figure sul versante anti-origenista o non alessandrino. Ma esse sono da un
lato dimenticate dalla tradizione greca "ufficiale", dall'altro accomunate con Aphu nella tradizione
letteraria copta.
La figura di Aphu è senza dubbio una delle più interessanti che ci fornisca la documentazione
copta[28]. Egli sarebbe stato un asceta dedito ad un tipo di ascesi straordinario, che consisteva nel
vivere mescolato ad una mandria di bufali, nei pressi della città di Ossirinco, scendendo solo una
volta all'anno in città per le celebrazioni pasquali. Appunto in occasione di una Pasqua (penso si
alluda a quella fatidica del 399) ascoltò la lettura della lettera pasquale in cui Teofilo si esprimeva
(secondo il testo della Vita) in questo senso: "Quasi per innalzare la gloria di Dio, egli rammentava
l'inferiorità degli uomini, e quello che parlava (in realtà si tratta della lettura della Lettera Festale,
come si comprende poi) diceva: Non è l'immagine di Dio quella che noi uomini portiamo."
Aphu si reca direttamente ad Alessandria da Teofilo per contestare queste idee: "... udii una frase in
essa (= nella lettera) che non concorda con le scritture ispirate da Dio". Segue un dibattito esegetico,
alla fine del quale Teofilo si convince e invia una rettifica (allusione alla lettera del 401?) in senso
anti-origenista.
In questo caso, della polemica intorno all'origenismo è stato preso in considerazione solo uno degli
aspetti. Ma questo aspetto, per quanto meno interessante per noi a paragone della preesistenza delle
anime o del subordinazionismo, doveva essere uno dei principali per gli ambienti monastici, e forse
proprio quello su cui si giocò la partita essenziale.
Sul versante dell'origenismo, una testimonianza interessante è fornita dal corpus di opere attribuite
alla fittizia figura di Agatonico di Tarso[29]. Essa fu costruita in ambienti evagriani per attribuire ad
una autorità di provenienza non egiziana scritti che non potevano portare il nome dell'autore reale,
che del resto non conosceremo mai.
Siamo probabilmente nel momento critico in cui Teofilo rompe l'accordo con gli ambienti origenisti
di Sceti, Nitria e Kellia, per schierarsi a favore dell'opposto schieramento. Come è noto, questo
determinerà la diaspora di quei monaci, e, a quanto sembra, la produzione di opere clandestine a
difesa delle posizioni che ufficialmente non potevano essere sostenute. Scrive dunque lo ps.
Agatonico in una specie di "confessio fidei": "Chi si figura la sostanza della divinità nel suo cuore
pose una forma nel suo cuore dicendo: Dio è in questa forma, calunniando la divinità. L'arconte
della tenebra è colui che suggerisce queste sostanze inferiori nel cuore degli sciocchi ingannandoli
come se la divinità fosse di questa forma, ed essi adorano degli idoli senza saperlo." E ancora: "Non
si deve restringere la divinità in una piccola sostanza inferiore come quella dell'uomo, che non può
mutare nella sua inferiorità. Coloro che si oppongono a queste parole sono degli sciocchi, che hanno
gli occhi del loro cuore appannati".
Le opere delle Ps. Agatonico, scritte originariamente in greco, ebbero fortuna in ambiente copto,
come testimoniano le traduzioni pervenute (l'originale greco è invece perduto). Ma tali traduzioni
ebbero una loro storia. Eseguite dapprima fedelmente, esse rispecchiavano le idee origeniane ed
evagriane dell'autore; ma accolte in un altro ambiente, probabilmente quello scenutiano di cui ci
occuperemo fra poco, esse furono sottoposte ad alcuni adattamenti (p.es. tutto il primo brano citato
fu omesso; altri furono omessi o stravolti), tanto da assumere un aspetto antropomorfita ed anti-
origeniano.
Il momento del voltafaccia di Teofilo rappresentò un momento di crisi acutissima fra il patriarcato e
quegli ambienti che fino allora, in sintonia più o meno perfetta con le sue posizioni, avevano
coltivato la dottrina origenista. Le fonti greche sono assai esplicite nei riguardi del conflitto che si
generò con i monaci di Nitria, Sceti e Kellia; nulla invece ci dicono di ciò che riguarda i pacomiani.
Quello che sia accaduto (a parte il fatto che alcune fonti ci dicono che una parte dei monaci del
Nord trovò rifugio in quel frangente presso conventi pacomiani, al Sud) è desumibile da un lato da
quanto dicono le Vite di Pacomio sugli origenisti, ove si riporti correttamente il significato di tali
episodi a questo periodo piuttosto che a quello in cui Pacomio era in vita; dall'altro da un
interessante testo di ambiente pacomiano, in cui Teofilo e Horsiesi hanno una parte tutta
particolare[30].
Esso riporta un episodio che si presenta sconcertante, e cioè che, all'ascesa al trono di Teofilo (la
cronologia è fissata sicuramente nei parr. 43-44) un miracolo che avveniva puntualmente ai suoi
predecessori nel giorno del battesimo (il sabato precedente la Pasqua) non avviene più, e Teofilo è
avvertito in una visione che solo la presenza di Horsiesi potrà di nuovo farlo avvenire. L'opera di
cui parliamo fu scritta probabilmente al fine di chiarire, nel modo più opportuno, i rapporti fra
l'organizzazione pacomiana e il patriarcato alessandrino, nel momento in cui il mutamento
dottrinale di Teofilo avrà causato non pochi problemi presso il movimento pacomiano, che aveva
fedelmente recepito le direttive dottrinali precedenti. Non c'è dubbio comunque che il redattore
vedesse i problemi dal punto di vista dei pacomiani, e dunque dovesse appartenere egli stesso alla
comunità pacomiana o esserle molto vicino.
Chi invece saluterà con entusiasmo il mutamento teofiliano, e ne resterà il combattivo custode
contro ogni tentativo di restaurazione anche lontanamente origeniana sarà Shenute, il grande
archimandrita che organizzò il suo monastero secondo criteri pacomiani, senza tuttavia mai aderire
al movimento pacomiano in quanto tale.
Come abbiamo visto, egli si differenziò dai pacomiani anche culturalmente. Prima di tutto, accolse
le tecniche letterarie della retorica greca, che, per quanto sembra, i pacomiani avevano rifiutato. In
secondo luogo, sembra che fin dall'inizio della sua opera si sia legato alle correnti monastiche del
Medio Egitto (cfr. sopra), anti-origeniste. Siamo comunque documentati sul fatto che in una omelia,
da collocare poco dopo il Concilio di Efeso (431), Shenute si scaglia contro Origene: "...il
bestemmiatore che dice: come è possibile che il corpo e il sangue del Signore siano pane e vino?
Sono fra di noi coloro che dicono ciò, gente il cui cuore è stato ferito dalle parole di Origene"[31].
Inoltre siamo documentati sul fatto che intorno al 440 il vescovo Dioscoro chiese la sua
cooperazione per un'opera di bonifica intrapresa nei riguardi di elementi origenisti del clero alto-
egiziano.
In questa occasione Shenute tradusse la lettera di Dioscoro, che doveva essere letta e commentata
nei monasteri; ma compose anche un'opera sua personale, in cui trattava ampiamente la questione
origenista dal suo punto di vista, e vi pose in appendice la traduzione della lettera festale in cui a
suo tempo Teofilo aveva abbracciato la causa anti-origenista[32]. L'opera di Shenute rappresenta un
contributo interessante sia per le sue conoscenze dottrinali, sia soprattutto per la documentazione a
cui fa riferimento puntuale, e che in parte coincide con i testi gnostici copti in nostro possesso.

4. La crisi calcedonense come sbocco delle rivalità fra i grandi patriarcati


Il concilio di Calcedonia determinò una separazione sia dogmatica sia gerarchica con la maggior
parte delle altre Chiese, ed ebbe naturalmente anche conseguenze di carattere culturale, col distacco
sempre più accentuato della tradizione letteraria in lingua copta da quella greca di tipo
internazionale[33].
Tali conseguenze non furono immediate; esse cominciarono a prendere consistenza verso l'inizio
del VI secolo, quando le vicende seguite all'esilio di Teodosio di Alessandria fecero cessare le
speranze di un riavvicinamento fra i patriarcati calcedonensi e anti-calcedonensi e soprattutto della
possibilità che si svolgesse in Egitto una normale vita ecclesiastica, mantenendo convinzioni
dogmatiche e gerarchie diverse da quelle approvate ufficialmente dalla sede imperiale.
Il greco cominciò ad essere sentito come lingua degli oppressori, e la cultura greca patristica
guardata con sospetto, come veicolo di dogmi e di notizie storiche legati alle Chiese con cui non
c'era più comunione. Si cominciò dunque a sentire la necessità di costruire una cultura storica e
spirituale (la teologia vera e propria rimaneva un campo tutto speciale) tipicamente egiziana (copta),
in opposizione a quella appoggiata dal governo centrale dell'impero bizantino. La volontà di
differenziazione rispetto a quanto veniva da Costantinopoli portò prima alla chiusura rispetto alle
novità, alle eventuali nuove opere che giungessero in greco in Egitto, e poi alla decisione di non
utilizzare più la lingua greca nella produzione di opere destinate alla vita ecclesiastica. Questo
processo riguarda gli aspetti più specificamente letterari dell'uso delle due lingue, perché non solo le
questioni amministrative che riguardavano la magistratura bizantina, ma certo anche le questioni
ecclesiastiche con le altre Chiese anti-calcedonensi (prima fra tutte quella di Siria), continuarono a
svolgersi in greco. Dal punto di vista letterario, per qualche tempo ancora la scelta della lingua
dipese probabilmente non da ragioni culturali, ma geografiche. Le opere concepite nell'ambito di
Alessandria (e delle comunità che più direttamente gravitavano intorno ad essa) saranno state
redatte in greco; quelle concepite nell'ambito dell'Alto Egitto, in copto. Tutta la produzione di
questo periodo, sia essa originale copta o traduzione, ebbe carattere storico-polemico. Alcuni testi
sono storici in senso "tecnico", come la Storia ecclesiastica copta; altri sono classificabili come
appartenenti ad un genere in certo senso di confine fra l'agiografia, la disputa teologica e la
storia. La Storia ecclesiastica fu probabilmente concepita nel tempo del vescovo alessandrino anti-
calcedonense Timoteo II detto Eluro, e per sua ispirazione[34].
Essa comprendeva due parti ben distinte. La prima parte era la traduzione dei primi 7 libri
dell'Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, con alcune modifiche. La seconda parte consisteva
di 5 libri (i libri erano dunque in tutto 12). Cominciava probabilmente con il resoconto della
persecuzione di Diocleziano, e proseguiva con la crisi meliziana, il concilio di Nicea, la crisi
ariana, il pontificato di Teofilo con la distruzione dei templi pagani, in particolare del Canopo che
viene trasformato in uno dei maggiori centri del monachesimo pacomiano (monastero della
Metanoia). Si parlava poi di un fantomatico vescovo Filippo di Anatolia al tempo di Valentiniano e
Valente; della storia di Arsenio, precettore dei figli di Teodosio e poi monaco nella Nitria; del
carattere degli imperatori Arcadio ed Onorio e dell'invasione di Alarico; del conflitto fra Giovanni
Crisostomo ed Eudossia. Si giunge così alla parte cruciale e finale della Historia. Di Cirillo si
narrava come egli fosse tenuto in grande considerazione dalla corte imperiale, e come facesse
distruggere le opere di Giuliano l'Apostata contro i Cristiani; quindi i suoi rapporti con Nestorio ed
il concilio di Efeso; quindi le ultime vicende di Nestorio, i suoi rapporti con Shenute e la sua morte
nell'esilio egiziano. Finalmente si narravano le tragiche vicende di Dioscoro e del concilio di
Calcedonia; e subito dopo il tormentato periodo dei due vescovi rivali Timoteo Eluro e Timoteo
Salofaciolo (Pshoi in copto). La redazione primitiva fu quasi certamente in greco; vi sono elementi
per ritenere che la traduzione copta sia stata eseguita contestualmente, in ambito shenutiano, ma con
alcune modifiche che riguardavano appunto il ruolo di Shenute nella crisi nestoriana, e forse il
misterioso vescovo Filippo di Anatolia.
È questa l'opera più importante del periodo di cui ci stiamo occupando, e rispecchia più di ogni altra
l'affermarsi di una coscienza nazionale delle Chiesa egiziana, che ancora si considera parte
integrante della Chiesa internazionale, ma comincia a riflettere sulla sua storia per trovarvi una
propria particolare identità e le ragioni della propria fedeltà ai veri dogmi e alle vere tradizioni del
cristianesimo. Essa è rimasta nella tradizione copta dei secoli posteriori come l'opera storica
fondamentale, e la fonte autorevole a cui attingere le notizie di cui si avesse bisogno. Ad essa farà
ricorso il primo redattore della Storia dei Patriarchi araba, che con la sua continuazione ha sempre
rappresentato il testo storico ufficiale del patriarcato alessandrino[35].
Fra gli altri testi, che come abbiamo detto stanno fra l'agiografia e la polemica teologica, la Vita di
Atanasio[36] presenta il protagonista come il fondatore dell'ortodossia, persona in cui si riassume
tutto l'insegnamento autentico delle età precedenti, e che riesce a far prevalere tale insegnamento
contro tutti i nemici, quelli all'interno della Chiesa ma soprattutto quelli appartenenti alla sfera del
potere imperiale. Anche per il futuro, Atanasio diventa il fondatore della Chiesa egiziana nella sua
conquistata individualità e consapevolezza, e dunque il punto di riferimento per le lotte post-
calcedonensi contro tutti coloro che potevano insidiare l'autonomia della Chiesa egiziana. Egli
diventa un simbolo dei martiri per la fede ortodossa: una volta finita la persecuzione di Diocleziano,
subentrano altre prove nei confronti dei successivi imperatori. La figura di Atanasio è riproposta
come ideale a cui riferirsi anche sotto questo aspetto. Altri testi riguardano il vescovo Dioscoro, il
perdente del concilio di Calcedonia, e dunque figura eminente della tradizione copta. La Vita di
Dioscoro, attribuita a Teopisto, è pervenuta completa in traduzione siriaca, ma in copto sono
conservati pochi frammenti, che comunque ne testimoniano la sua diffusione in ambiente
egiziano[37].
A Dioscoro stesso era attribuito un testo che, quale lo abbiamo oggi, è il risultato della
manipolazione di testi anteriori di varia provenienza, per costruire un'omelia del genere
encomiastico sul vescovo-monaco Macario di Tkou[38].
Questa manipolazione non deve tuttavia essere molto tardiva: l'attribuiremmo al VI secolo. I testi da
cui il redattore ha attinto erano: (a) un resoconto del viaggio del vescovo-monaco Macario con
Dioscoro a Costantinopoli per partecipare al concilio. (b) Il resoconto dei disordini avvenuti al
momento del ritorno a Gerusalemme di Giovenale, dopo Calcedonia. L'episodio di Longino. La
storia di Andragate. (c) Il resoconto della visita di Papnute, personaggio peraltro non meglio
identificato, a Gangra, dove Disocoro è in esilio. Vi è prima un dialogo fra Dioscoro e Papnute, poi
la narrazione del "martirio" di Macario.
La vita del famoso monaco Giovanni di Licopoli (Siout, Assiut) formava uno dei capitoli della
Historia Monachorum che ci è rimasta nella traduzione latina di Rufino. Egli era morto una
cinquantina d'anni prima del Concilio di Calcedonia, ma un redattore copto pensò bene di
allungargli la vita, per farne un testimone degli eventi intorno al concilio[39]. Venne dunque
prodotto un testo, che comprende la traduzione copta del capitolo dell'Historia Monachorum, e una
parte del tutto nuova, che tratta soprattutto dei rapporti (inventati) fra Giovanni e l'imperatore
Marciano.
Besa, il successore di Shenute a capo del Monastero Bianco (dunque dal 466), ne continuò l'opera
letteraria riprendendone le capacità linguistiche e lo stile[40]. La sua opera più conosciuta è la Vita
di Shenute, che è tuttavia consona non ai generi toccati appunto dal maestro, ma al nuovo gusto e
alle nuove necessità. Essa è scritta naturalmente in modo agiografico, e tutt'altro che storicistico, e
tuttavia fornisce interessanti indicazioni. Quanto rimane delle altre opere, Lettere e Catechesi, ha
incontrato vari apprezzamenti (la caratterizzazione di un Besa di debole carattere nei confronti del
dominatore Shenute è probabilmente solo una facile supposizione) e comunque si esaurisce come
contenuto nella vita quotidiana dei monasteri con cui Besa era in contatto. Un gruppo di testi con
caratteristiche assai simili riguarda i monaci egiziani che si sono opposti alle decisioni del concilio
di Calcedonia, e sono stati naturalmente dimenticati dalla tradizione greca, in parte per motivi
polemici, ma soprattutto perché la loro opera è stata circoscritta allo stretto ambiente egiziano.
Essa ha tuttavia avuto una notevole importanza storica, in quanto ha preparato il terreno per la
costituzione di una Chiesa propriamente "copta" (che si può datare al periodo di Damiano, fine VI
sec.); e dunque sono importanti i testi copti che ci danno notizie su questi monaci. I testi sono
purtroppo redatti con intenti anche ingenuamente apologetici, e sono pieni di racconti miracolistici e
considerazioni che mettono a dura prova il nostro senso storico; ma aiutano se non altro a
comprendere le caratteristiche dell'ambiente in cui i monaci si muovevano. La vita di Longino
dell'Ennaton[41] è stata costruita a partire da alcuni apoftegmi preesistenti e da un episodio relativo
ai rapporti fra Longino e Marciano, anch'esso preesistente. Il redattore ultimo ha riunito quel
materiale, aggiungendo la storia di Longino precedente alla sua venuta in Egitto, e dando una
struttura letteraria al tutto.
Su Apollo, fondatore e archimandrita del monastero detto di apa Isaac, abbiamo un panegirico
scritto da uno dei suoi successori, Stefano, poi divenuto vescovo di Hnes (Heracleopolis Magna)
[42]. Apollo fu prima archimandrita del convento pacomiano principale, quello di Pboou, all'epoca
di Giustiniano, e conobbe i grandi esponenti monofisiti della sua epoca, Severo di Antiochia e
Teodosio di Alessandria. Essendo rimasto fedele alla tradizione di Dioscoro fu espulso dal
convento, e dopo aver vagato per l'Egitto fondò un suo convento, detto di apa Isaac, presso Hnes, a
Sud-est Faium. Qui fra l'altro si scontrò con una delle comunità meliziane che ancora in quell'epoca
erano attive.
Null'altro è noto della sua vita, ma il convento dovette acquistare grande importanza, come
testimoniano le sue rovine, che sono state anche oggetto di parziali scavi archeologici. Matteo il
Povero[43] fondò un monastero pacomiano presso Assuan, ma si distaccò dalla "casa madre" di
Pboou, quando essa si conformò alla gerarchia alessandrina calcedonense. Un altro testo di
caratteristiche analoghe concerne Mosé di Beliana. Secondo la tradizione, Shenute avrebbe predetto
la venuta di Mosé che avrebbe contribuito alla distruzione di centri ancora esistenti dedicati al culto
pagano presso Abido. Qui infatti Mosé fondò il suo monastero, e avrebbe operato in contatto coi
vescovi del luogo, che sono menzionati. Egli si sarebbe recato a Costantinopoli, contribuendo al
ravvedimento dell'imperatore insieme con Severo di Antiochia e Teodosio di Alessandria. Al tempo
dell'esilio egiziano di Severo, Mosé lo avrebbe accolto, ed avrebbe continuato a lottare contro i
calcedonensi, influendo anche su magistrati locali.
Manasse avrebbe fondato un monastero presso Abido, consacrato dal vescovo di Diospoli, ed
avrebbe accolto dei rifugiati dai monasteri pacomiani divenuti calcedonensi. Egli avrebbe anche
protetto la popolazione dalle scorrerie dei Mazici.
Abraham, nato a Tberkjot (Farshut) da famiglia facoltosa, sarebbe divenuto monaco a Pbau, e
quindi superiore di quel monastero, dunque dell'ordine pacomiano. Al tempo di Giustiniano si
sarebbe recato a Costantinopoli per difendere la posizione anticalcedonense, con poca fortuna. Al
suo ritorno fu costretto a lasciare Pbau, e quindi si recò al monastero di Shenute dove copiò le
regole shenutiane, secondo le quali fondò un suo monastero presso Tberkjot.

5. La crisi araba. Risvolti politici e nazionali


Dopo la crisi calcedonense, l'invasione araba (641 sgg.) segnò un'ulteriore e definitiva svolta nello
svolgimento della letteratura copta[44]. L'invasione persiana (616-628), appena precedente, fu
troppo breve per lasciare una traccia culturale.
Al contrario, quella araba determinò una situazione che dura tutt'ora, all'interno della quale i copti si
adattarono variamente, anche dal punto di vista culturale, a seconda delle differenti circostanze
storiche e politiche.
Subito dopo la sconfitta dei Bizantini ed il loro abbandono dell'Egitto, i Copti si sentirono in
qualche modo sollevati dal dominio religioso e culturale bizantino, che a tratti era stato duro e
brutale, e ripresero l'attività letteraria in lingua copta, soprattutto nei generi dell'omelia e
dell'agiografia, che rispondevano alle nuove necessità della libera vita religiosa.
La letteratura copta continuò e anzi fiorì nei primi tre secoli del dominio arabo (dal VII al IX);
quindi fu sostituita via via da quella in lingua araba, anche presso i Cristiani. Di Beniamino di
Alessandria, vescovo dal 621 al 662, abbiamo un'omelia scritta poco dopo l'invasione[45]. In essa vi
sono soltanto espressioni di soddisfazione per aver riacquistato la libertà di confessione, conculcata
dai Calcedonensi: (par. 25) "Quando Dio ci liberò dai patimenti che erano su di noi per opera
dell'empio e fiorì di nuovo la pace della Chiesa". Non vi è alcuna allusione esplicita agli arabi. Essi
sono visti in sostanza come parte di un disegno favorevole della Provvidenza, evidentemente in
attesa di nuovi eventi.
Lo stesso si può vedere in due opere del successore, Agatone (662-680). Di esse, una è pervenuta
intera (Sulla consacrazione del santuario di S. Macario)[46], e l'editore nota come "l'auteur... écrit
vraisemblablement peu de temps après l'invasion arabe dans l'euphorie, semble-t-il, de la libération
des tracasseries de la police byzantine et des entraves au culte monophysite" (p. 48).
Anche nei frammenti dell'altra (Encomio di Beniamino)[47] troviamo polemiche dirette contro
personaggi calcedonensi, ma nessuna contro gli arabi. A quanto sembra, questo stato di cose, o per
meglio dire questa disposizione psicologica che trapassa nell'attività letteraria, perdura fin sotto
Giovanni di Alessandria (680-688), che nel suo Encomio di Mena[48] si limita a ricordare come la
conquista dell'Egitto da parte dei Saraceni ha messo fine al dominio del malvagio Eraclio.
Del resto nelle sue Responsiones teologiche[49], raccolte da un suo diacono, non v'è alcun accenno
all'Islam; ed egli invece partecipò ad una discussione con un Ebreo ed un Calcedonense, voluta e
presenziata dall'Emiro Abd el Aziz. Di Isaac, successore di Giovanni[50] (688-693) non abbiamo
opere letterarie; ma ci è giunta la sua Vita, scritta dal vescovo Mena di Pshati (Nikius), che
rappresenta uno dei testi fondamentali in lingua copta relativi al problema dei rapporti fra copti ed
arabi, ed in particolare fra l'Emiro Abd el-Aziz ed il Patriarca.
Ricorderemo brevemente i principali episodi: al momento dell'elezione, essendoci due candidati
(Isaac ed un certo Giorgio), la questione viene dibattuta alla presenza dell'emiro. Le relazioni fra
Patriarca ed Emiro sono amichevoli, tanto che il Patriarca fu spesso ospite dell'Emiro, e costui fece
costruire delle Chiese; sono narrati anche dei miracoli di cui Isaac è protagonista e Abd el-Aziz
testimone.
In alcuni casi, come quando l'Emiro invita a pranzo Isaac e vuole esser certo che egli non faccia il
segno di croce prima di mangiare, Isaac se la cava con un sotterfugio. Finalmente, alla fine della
vita di Isaac sorsero delle difficoltà, a causa dei rapporti fra la Chiesa copta e quelle della Nubia
(dunque evidentemente timori da parte araba di interferenze ed interventi nubiani a favore dei
cristiani d'Egitto), ma sembra che al momento siano state appianate.
Come si vede, in tutto questo periodo l'intesa fra copti ed arabi, con qualche incrinatura e qualche
difficoltà, si mantiene; ed è testimoniata anche un po' oltre (se ben vediamo) da un'omelia di
Zaccaria, vescovo di Shou (Chois) e compagno di Isaac ai tempi in cui ambedue erano monaci a
Sceti[51].
In questa omelia si consolano i fedeli per la carestia e la pestilenza che vi furono attorno al 714; e, a
meno che l'episodio lungamente commentato di Giona e dei Niniviti non nasconda allusioni alla
situazione del tempo, non troviamo alcuna polemica religiosa, ma solo esortazioni di carattere
morale.
Tuttavia nel frattempo dovette nascere e affermarsi un modo nuovo di far letteratura, che ci
testimonia crescenti difficoltà nei rapporti fra i dominatori islamici e la Chiesa copta. Purtroppo
questo fenomeno è stato sempre misconosciuto, proprio per le sue caratteristiche. Infatti una grande
quantità di testi copti risulta attribuita falsamente ai grandi autori della Patristica, e d'altra parte non
vi sono elementi esterni che indichino se tali opere siano tradotte dal greco od originali; e tanto
meno da quali autori ed in quale epoca sono state scritte.
Per quei pochi testi che sono stati studiati, i critici si sono generalmente guardati dal proporre
datazioni, ad eccezione dei testi agiografici, che tuttavia sono un caso molto particolare. Vari indizi
interni ai testi, su cui non è possibile ora soffermarsi, portano a credere che quelle opere siano state
composte quando la tradizione copta si era radicalmente staccata da quella greca. Per stabilire
quanto
tempo dopo, si deve riflettere sul fatto che il distacco può essere iniziato qualche tempo dopo
Calcedonia, cioè verso la fine del V secolo. Ci si chiede allora se gli elementi che si possono trarre
dai testi giustificano una polemica da condurre contro i Bizantini, cioè i calcedonensi.
Ebbene, noi possediamo parecchi testi nei quali è condotta una tale polemica, e la loro caratteristica
è quella di essere per lo meno molto espliciti: i "cattivi", cioè i calcedonensi ed i loro sostenitori a
livello politico, sono perfettamente individuati e chiamati col loro nome. Al contrario, nessun
accenno preciso troviamo nei testi dei "cicli" agiografici. Si può pensare, è vero, che tali testi
parlino della persecuzione di Diocleziano per pura continuazione tradizionale degli esempi
anteriori; e che lo scopo per cui furono costruiti sia stato solo quello di dare lustro a questo o quel
santuario. Noi tendiamo invece a credere che sotto questi testi debba nascondersi una polemica più
precisa, ma che doveva necessariamente essere tenuta in qualche modo nascosta, cioè essere
comprensibile solo agli iniziati.
Poiché dunque dopo il VI secolo, cioè il periodo centrale della controversia calcedonense, abbiamo
sùbito la conquista araba all'inizio del VII secolo, è ovvio domandarsi se questo, o meglio il
peggiorato rapporto fra copti ed arabi, venuto a mutare la situazione relativamente pacifica descritta
più sopra, non sia il fattore storico fondamentale che ha determinato la composizione di tali testi. In
effetti possediamo un'omelia, scritta verso la metà dell'VIII secolo ed attribuita ad Atanasio di
Alessandria[52], nella quale gli arabi sono dipinti come "un popolo feroce e senza misericordia nel
suo cuore. Egli non avrà pietà dei vecchi né risparmierà i bambini... E quel popolo governerà con
grande svergognatezza tutti coloro che abitano sulla terra e li distruggerà e li renderà polvere e li
spoglierà" (par. 51-52).
È probabile dunque che nella prima metà del VII secolo sia iniziato un tipo di letteratura protetto
dall'anonimato, che continuò almeno per l'VIII secolo.
Non c'è motivo per ritenere che le opere per noi "anonime" della letteratura copta (quelle cioè il cui
autore si è celato sotto un nome celebre per divulgare la propria produzione) rappresentino, almeno
nella loro grande maggioranza, una produzione che avviene parallelamente alla produzione di opere
il cui autore genuino è ben attestato: pensiamo sia al periodo post-calcedonense, sia al periodo
iniziale del dominio arabo. Non può essere invece un caso che proprio nel momento in cui si rompe
il delicato equilibrio che presiedeva ai rapporti fra Copti ed Arabi, la letteratura copta (che, non
dimentichiamo, era tutta religiosa; ma proprio per ciò includeva nella manifestazione religiosa le
altre manifestazioni della vita civile) scompare come letteratura "firmata", si fa cioè letteratura
clandestina.
Se la ricostruzione che abbiamo tracciato è corretta, saranno allora da ricercare in quei testi che
formano dei "cicli" di leggenda agiografica o patristica, tutte le forme di polemica religiosa e
politica che non potevano essere proclamate in modo esplicito. Esse vengono dunque camuffate in
due modi: da un lato, attribuendo la paternità dei testi a prestigiose quanto antiche figure della
letteratura ecclesiastica greca; dall'altro esercitando la polemica non direttamente, ma attraverso
narrazioni di episodi più o meno miracolosi o attraverso asserzioni teologiche dirette contro falsi
avversari (per lo più i giudei, come sembra), sotto cui del resto gli ascoltatori riconoscevano
probabilmente con facilità il vero obiettivo, cioè l'Islam e la dominazione araba. È evidente come,
leggendo il gruppo di opere a cui facciamo riferimento attraverso un tale criterio, esse acquistano
dei significati sia letterari sia storici che non erano evidenti sino ad ora, tanto che esse sono state per
lo più trascurate come scarsamente interessanti. Noi pensiamo invece che esse si possano
dimostrare delle fonti non disprezzabili per conoscere meglio la mentalità del loro tempo, cioè del
vero periodo nel quale furono scritte.
I cicli a cui abbiamo accennato si possono suddividere in due tipi fondamentali: quello omiletico e
quello agiografico. La differenza sta semplicemente nel diverso genere letterario usato nei due
casi. I cicli omiletici sono costituiti di testi redatti sotto forma di omelie; quelli agiografici sotto
forma di passioni di martiri. Questi ultimi cicli sono conosciuti maggiormente, e da più lungo
tempo, soprattutto per merito degli studi di Amélineau prima, e poi di Delehaye[53]. Quelli
omiletici si vengono riconoscendo soltanto oggi, in quanto i singoli testi sono spesso attribuiti
falsamente ai più noti padri del IV e V secolo, ed occorre uno studio condotto su basi ampie per
riunirli e datarli con ragionevolezza.
Sia per gli uni, sia per gli altri, il primo criterio attraverso il quale riconoscere l'unità di un ciclo (ad
un determinato momento della tradizione) è quello del contenuto, basato cioè soltanto sui
personaggi menzionati e sui fatti narrati. Ove questo dia come risultato un ambiente narrativo
unitario, le opere in questione si definiscono come facenti parte di quel determinato ciclo. Il
riconoscimento di un ciclo non coincide del tutto con l'assegnazione ad un autore unico, e nemmeno
ad un gruppo di autori coevi, né ad una determinata datazione. È però il primo passo
fondamentale per cercare di risolvere questi problemi.
Ciclo di Atanasio. Come si è visto, Atanasio fu la figura centrale della tradizione propriamente
copta (dopo Calcedonia), oltre che di quella egiziana in generale. Egli era considerato insieme il
fondatore della Chiesa egiziana come entità autoctona ben definita, ed il campione dell'ortodossia,
di cui dunque la Chiesa egiziana diventava la depositaria. Perciò la tradizione letteraria copta dedicò
grande attenzione alla figura di Atanasio, creando attorno ad essa un intreccio di fatti che, basati su
episodi storicamente attestati, diede presto luogo ad una leggenda complessa ma abbastanza
coerente. Di essa facevano parte due esili, uno in luoghi barbari e solitari, l'altro all'interno
dell'Egitto nascosto presso monaci; rapporti con popolazione barbare convertite al Cristianesimo;
lotte con l'imperatore Costanzo, ariano, con conseguenti tentativi di uccisione evitati per intervento
miracoloso.
Rientrano in questa prospettiva, oltre alla Vita di cui si è parlato prima, un Encomio attribuito a
Cirillo di Alessandria[54], ed alcune omelie, attribuite allo stesso Atanasio[55], generalmente di
contenuto morale, ma che contengono allusioni autobiografiche ai fatti sopra menzionati:
"Sull'omicidio, e per Michele arcangelo", dove parla del suo esilio e di un suo soggiorno nel
convento di Pacomio, e di un altro soggiorno presso un anacoreta; "Agli Isaurici, esegesi di Lc.
11.5-9", dove si parla dell'amicizia, di una visita al convento di Pacomio, e di un episodio del
Concilio di Nicea; "Sulla Pentecoste e sulla parabola del ricco e del povero"; una "Esegesi di Lev.
21.9sgg., e sulla fine del mondo", dove sotto forma di profezia si parla della dominazione araba
dell'Egitto (cf. sopra).
Il ciclo di Cirillo di Gerusalemme[56] è costituito da alcune omelie che dovevano aggiungersi alle
18 Catechesi (autentiche), formando i numeri 19, 20 e 21; inoltre da qualche altro testo aggiunto.
Questo ciclo sembra essere originato da un interesse per l'ambiente di Gerusalemme e per un certo
tipo di apocrifi che ne venivano fatti derivare.
Troviamo così un "Commentario sulla Passione" (diviso in due omelie), in cui si commenta il
relativo brano del Vangelo di Giovanni, ma si fanno anche altri excursus, fra cui uno sulla Vergine
(da mettere in relazione con le omelie seguenti); un'omelia "In lode della Croce", in cui sono inseriti
molti episodi leggendari, del tempo della Crocifissione e poi di tempi successivi (Eusignio; la Croce
luminosa; etc.); un'omelia "In onore della Vergine", in cui è inserita la narrazione della fanciullezza
della Vergine, e poi della dormitio. Altre omelie sembrano essersi aggiunte più tardi a questo ciclo:
due ulteriori "Sulla Passione e Resurrezione" (inedite); una detta anch'essa "Sulla Passione", che in
realtà nasconde un apocrifo con rivelazione del Risorto ai discepoli.
Teofilo, successore di Atanasio, dovette avere presso i copti la reputazione di grande distruttore di
monumenti pagani. Per questo la sua leggenda (costruita del resto sulla base di alcune frasi degli
storici ecclesiastici) parla della scoperta di grandi tesori nelle rovine di alcuni templi che egli aveva
distrutto, con cui intraprende la costruzione o l'ornamento di chiese in onore di diversi santi[57]. Il
suo ciclo era perciò costituito (per quanto è dato di ricostruirlo) di un'omelia sulla distruzione del
Serapeum e sulla costruzione del Martyrion del Battista; di un'omelia sulla costruzione della Chiesa
della Vergine al monte Kos (Qusqam); di un'omelia sulla costruzione della Chiesa per le reliquie dei
Tre Santi di Babilonia; di un'omelia sulla costruzione di una Chiesa in onore di Raffaele arcangelo
nell'isola di Patres.
La fama di Giovanni Crisostomo, presso la più tarda tradizione copta, è legata alla sua disputa con
l'imperatrice Eudossia, in seguito alla quale (lasciando in ombra l'operato di Teofilo di Alessandria)
egli morì in esilio. Un'omelia anonima sulla Vita di Crisostomo[58] sembra alla base del ciclo
sviluppato su quel tema; ad essa sono collegate un'omelia attribuita a Eustazio di Tracia In onore di
Michele arcangelo, ed una attribuita a Proclo di Costantinopoli In onore dei 24 Vegliardi, che si
riferiscono agli stessi avvenimenti, con variazioni romanzesche. Un ampliamento del tema si ebbe
con l'introduzione della figura di Demetrio di Antiochia[59], il vescovo che avrebbe consacrato
presbitero Giovanni. A lui allude un'omelia attribuita allo stesso Giovanni In onore di Vittore
martire; ed a lui direttamente sono attribuite alcune omelie di carattere agiografico, del resto non
strettamente connesse al ciclo.
Ciclo di Basilio di Cesarea[60]. Parecchie omelie autentiche di Basilio erano state tradotte in copto
nell'epoca "classica" delle traduzioni Ma più tardi si volle costruire, probabilmente per propaganda
nei confronti degli arabi, la figura di un Basilio difensore della Cristianità contro i barbari. Si
produssero così alcune omelie (ne sono pervenute a noi solo due) ambientate nella regione della
Lazica (Georgia; ma probabilmente il nome vale per una regione fantastica), in cui si celebra la
liberazione della regione dai barbari Sarmati con l'aiuto di Michele arcangelo.
Ciclo di Evodio di Roma: Secondo la normale tradizione, che doveva apparire anche nella Historia
Ecclesiastica copta, il successore di Pietro a Roma fu Lino. Ma i copti vollero attribuire ad un
Evodio di Roma, figura ripresa da quella di Evodio, successore di Pietro ad Antiochia, almeno tre
omelie il cui contenuto comprende narrazioni apocrife più antiche, che erano circolate senza autore,
e comunque necessitavano di un'autorità antica[61]. La prima tratta della Passione, e comprende un
interessante episodio relativo ad Ebrei a Roma all'epoca di Claudio; la seconda tratta della Dormitio
Virginis; la terza degli Apostoli.
Nella costruzione di tutti questi cicli, lo spunto per il soggetto generale e per le narrazioni è dato da
episodi e personaggi reali, che però appaiono filtrati attraverso la tradizione culturale copta ed
hanno quindi solo lontani legami con la realtà storica. La trama delle narrazioni e le considerazioni
che le accompagnano rispondono a scopi e mentalità diversi da quelli pensabili nell'epoca in cui i
fatti si svolsero ed i personaggi realmente vissero. Gli scopi per cui i testi furono composti sono
prima di tutto propagandistici, ma a vari livelli. A livello interno, per fortificare la fede del popolo
nella tradizione della Chiesa copta, e rafforzare e raddrizzare i sentimenti ed i costumi morali.
A livello esterno, per affermare il pieno diritto di esistenza e l'antichità e ortodossia della dottrina
della Chiesa copta in confronto a quelle separate. Inoltre per difendere la dottrina cristiana nei
confronti delle religioni rivali, giudaica ed islamica. Inoltre vi era uno scopo di intrattenimento
spirituale, al quale rispondeva lo stile enfatico e sovrabbondante, evidentemente gradito alla folla,
ed il racconto dei più amabili o truci o meravigliosi episodi che la fantasia potesse immaginare. I
testi spesso introducevano personaggi ed episodi già noti al pubblico, presenti in analoghi testi (ma
peraltro inventati di sana pianta), affinché il pubblico potesse automaticamente sentirsi a suo agio e
nello stesso tempo essere rafforzato nella fiducia da dare agli episodi ed ai loro impliciti
insegnamenti.
I testi erano prodotti spesso facendo uso di opere preesistenti, modificate in modo da aderire allo
scopo del redattore, ed unite, quando necessario, con altri brani scritti appositamente ed originali.
Questo fa sì che all'interno di queste omelie possano essere tramandati brani provenienti da vecchie
traduzioni di testi genuini dei Padri del IV-V secolo.
Le cause pratiche che hanno determinato la produzione di tali opere sono probabilmente due.
1. La necessità di rinnovare una letteratura ecclesiastica troppo legata all'ambiente greco-
internazionale, e dunque dopo la separazione dalla Chiesa ufficiale imperiale vista sempre con
qualche sospetto.
2. La necessità di agire clandestinamente, prima a causa delle persecuzioni dei Calcedonensi, ma
poi soprattutto degli arabi, che erano disposti a "proteggere" la vita delle comunità religiose dei
paesi conquistati, a patto che ciò non comportasse la fabbricazione di prodotti nuovi, sia
architettonici sia letterari.

Note al testo
[1] Cf. Eva A. E. REYMOND, A Contribution to a Study of Egyptian Literature in Graeco-Roman
Times, "Bulletin of the John Rylands Library" 65 (1983) 208-229; id., Demotic Literary Works of
Graeco-Roman Date in the Rainer Collection of Papyri in Vienna, in: AA VV, Festschrift... Papyrus
Erzherzog Rainer, p. 42-60, Wien, Oesterreichische Nationalbibliothek, 1983.
[2] Ampie considerazioni su questo problema si trovano in Tito ORLANDI, Egyptian Monasticism
and the Beginnings of the Coptic Literature, in: P. NAGEL (ed.), Carl-Schmidt-Kolloquium an der
Martin-Luther-Universitat 1988, p. 129-142, Halle, Martin-Luther-Universitat, 1990. 301 p.; id., Le
traduzioni dal greco e lo sviluppo della letteratura copta, in: P. NAGEL (ed.) Graeco-Coptica, p.
181-203, Halle, Martin-Luther-Univers., 1984 (Wiss. Beitrage 48).
[3] Louis Theophile Lefort, La litterature egyptienne aux derniers siecles avant l'invasion arabe,
"Chronique d'Egypte", 6 (1931) 315-323; Georg STEINDORFF, Bemerkungen uber die Anfange
der koptischen Sprache und Literatur, in: AA VV, Coptic Studies in Honor of W. E. Crum (Misc.
CRUM), p. 189-214, Boston, Byzantine Institute, 1950; Carl SCHMIDT, Die Urschrift der Pistis
Sophia, "Zeitschrift fur Neutestamentliche Wissenschaft" 24 (1925) 218-240.
[4] Cf. Ewa WIPSZYCKA, La christianisation de l'Egypte aux IVe-VIe siecles. Aspects sociaux et
ethniques, "Aegyptus" 68 (1988) 117-166; Id., La valeur de l'onomastique pour l'histoire de la
christianisation de l'Egypte. A propos d'une etude de R. S. Bagnall, "Zeitschr. fur Papyrologie und
Epigraphik" 62 (1986) 173-181; Annik MARTIN, L'Eglise et la khora egyptienne au 4e siecle,
"Revue des etudes augustiniennes" 25 (1979) 3-26; Id., Aux origines de l'Eglise Copte:
l'implantation et le developpement du Christianisme en Egypte (Ie-IVe siecles), "Revue des etudes
anciennes" 83 (1981) 35-56; Id., Les premiers siecles du christianisme a Alexandrie. Essai de
topographie religieuse (IIIe et IVe siecles), "Revue des Etudes Anciennes" 30 (1984) 211-225.
[5] Cf. Roger REMONDON, L'Egypte et la supreme resistance au christianisme (5e-7e siecles),
"Bull. de l'Institut Francais d'Archeologie Orientale" 51 (1952) 63-78.
[6] Cf. Antoine GUILLAUMONT, Esquisse d'une phenomenologie du monachisme, "Numen" 24
(1978) 40-51; Id., Aux origines du monachisme chretien. Pour une phenomenologie du
monachisme, Begrolles, Abbaye  de Bellefontaine, 1979, 243 p., (Spiritualite orientale), 30;
Theofried BAUMEISTER, Die Mentalitat des fruhen agyptischen Monchtums. Zur Frage der
Ursprunge des christlichen Monchtums, "Zeitschr. fur Kirchengeschicte" 88 (1977) 145-160.
[7] Karl HEUSSI, Der Ursprung des Monchtums, Tubingen, Mohr (Siebeck) 1936, XII 308 p.
(Repr. Aalen, Scientia, 1981); Derwas James CHITTY, The Desert a City. An Introduction to the
Study of Egyptian and Palestinian Monasticism under the Christian Empire, Oxford, Basil
Blackwell, 1966, 222 p.; Garcia M. COLOMBAS, El monacato primitivo. 1. Hombres hechos
cotumbres institutiones, Madrid, Ed. Catolica,  1974, XIX 376 p., 2. La Spiritualidad, Madrid, Ed.
Catolica, 1975, XII 398 p., (Biblioteca de Autores Cristianos).
[8] Ludwig von HERTLING, Antonius der Einsiedler, Innsbruck 1929 (Forschungen zur
Geschichte des innerkirchlichen Lebens 1); Lisa CREMASCHI, S. Atanasio, Vita di Antonio,
apoftegmi, lettere, Roma, Edizioni Paoline, 1984 (Letture cristiane delle origini, 19).
[9]Samuel RUBENSON, The Letters of St. Antony. Origenist Theology, Monastic Tradition and
the Making of a Saint, Lund, University Press, 1990. 222 p. (Bibliotheca Historico-Ecclesiastica
Lundensis, 24).
[10] Guerric COUILLEAU, La liberté d'Antoine, in: Jean GRIBOMONT (ed.), Commandements
du Seigneur et libération évangélique, p. 13-46, Roma, Anselmiana, 1977. 322 p., (Studia
Anselmiana 70).
[11] 11. Hugh Gerard EVELYN-WHITE, The Monasteries of the Wadi 'n Natrun. 2. The History of
the Monasteries of Nitria and of Scetis, New York, Metropolitan Museum Publications, 1932; AA
VV, Les Kellia, ermitages coptes en Basse-Egypte, Geneve, Editions du Tricorne, 1989.
[12]AA VV, EK8184. Survey archeologique des Kellia (Basse-Egypte), Louvain, Peeters, 1983, 2
Voll. XIV 558 XII 332 P.
[13]13. Heinrich BACHT, Pachome (Saint), in: Dictionnaire de Spiritualite 12.1, col. 7-16, Paris,
Beauchesne, 1984; Das Vermachtnis des Ursprungs. Studien zum fruhen Munchtum. II Pachomius:
der Mann und sein Werk, Wurzburg, Echter, 1983, 326 p. (Studien zur Theol. des geistl. Lebens 8);
Armand VEILLEUX, Pachomian Koinonia, Life, Rules and Other Writings of Saint Pachomius and
his Disciples, Kalamazoo MI, Cistercian Pulications, XXX 493 p., 1981 239 p.,1982 IX 313 p.; Lisa
CREMASCHI, Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti, Magnano, Edizioni Qiqajon (Comunita
di Bose), 1988, 469.
[14] Theofried BAUMEISTER, Der aktuelle Forschungsstand zu den Pachomiusregeln,
"Munchener Theologische Zeitschrift" 40 (1989) 313-322; Lisa CREMASCHI (cit. alla nota 13).
[15] Frederik WISSE, Gnosticism and Early Monasticism in Egypt, in: B. ALAND (ed.) Gnosis,
(Misc. Jonas), Gottingen, 1978; Clemens SCHOLTEN, Die Nag-Hammadi-Texte als Buchbesitz
der Pachomianer, "Jahrb. fur Antike und Christentum" 31 (1988) 144-172. Contra: Armand
VEILLEUX, Monachisme et gnose. Premiere partie: le cenobitisme pachomien et la bibliotheque
copte de Nag Hammadi, "Laval Theol. et Philos." 40 (1984) 275-294, Deuxieme partie: contacts
litteraires et doctrinaux entre monachisme et gnose, "Laval Theologique et Philosophique" 41
(1985) 3-24.
[16] T. ORLANDI - A. CAMPAGNANO, Vite dei monaci Phif e Longino, Milano, Cisalpino
Goliardica, 1975, 110 p. (Testi e documenti, Serie copta, 51); Rene-Georges COQUIN, Apollon de
Titkoo ou/et Apollon de Bawit?, "Orientalia" 46 (1977) 435-446; Jean GASCOU, Documents grecs
relatifs au monastere d'abba Apollos de Titkois, "Anagennesis" 1.2 (1981) 219-230.
[17] Tito ORLANDI, Paolo di Tamma, Opere, Roma, CIM, 1988, 197 p., 4 microfiche.
[18] Johannes LEIPOLDT, Schenute von Atripe und die Entstehung des national Agyptischen
Christentums, TU 25.1, Leipzig, Hinrich, 1903, 213 p.; Tito ORLANDI, Shenoute d'Atripe, in:
Dictionnaire de Spiritualite, t. XIV, coll. 797-804, Paris, Beauchesne, 1989.
[19] Sulla storia dell'origenismo cf. Antoine GUILLAUMONT, Les "Kephalaia gnostica" d'Evagre
le Pontique  et l'histoire de l'Origenisme chez les Grecs et les Syriens, Paris, Seuil, 1962, 366 p.
[20] Cf. Manlio SIMONETTI, Asiatica (cultura), in: Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, I,
Casale Monferrato, Marietti, 1983, col. 414-416.
[21] T. ORLANDI, A. CAMPAGNANO, Vite di monaci copti, Roma, Citta Nuova, 1984, 298 p.
(Collana di Testi Patristici).
[22] Stuart George HALL, Melito of Sardis, On Pascha and Fragments, Oxford, Clarendon Press,
1979, L 99 p. (Oxford Early Christian Texts).
[23] Il codice papiraceo è ancora inedito. Cf. James E. GOEHRING, A New Coptic Fragment of
Melito's Homily On the Passion, "Le Museon" 97 (1984) 255-259; Enzo LUCCHESI, Deux
nouveaux temoins coptes du "Peri Pascha" de Meliton de Sardes, "Analecta Bollandiana" 102
(1984) 383-393; Id., Encore un temoin copte du "Peri Pascha" de Meliton de Sardes, "Vigiliae
Cristianae" 41 (1987) 290-292.
[24] Sulla controversia pasquale la bibliografia è vasta, e basterà rimandare agli articoli nelle
Enciclopedie. Per quanto riguarda direttamente il nostro tema, cf. Carl SCHMIDT, Gesprache Jesu
mit seine Jungern nach der Auferstehung, (TU 43), Leipzig, Hinrichs, 1919, 731 83 p.: p. 622 sgg.
[25] Edizione in: Ernest Alfred Thompson WALLIS BUDGE, Coptic Homilies in the Dialect of
Upper Egypt, London, British Museum, 1910, LV 424 p.: p. 115-132. Cf. Othmar PERLER,
Recherches sur le Peri Pascha de Meliton, "Revue des Sciences Religieuses" 51 (1963) 407-421.
[26] Edizione in Budge (cit. alla nota 25), p. 105-114.
[27] Su Apollo e Paolo, cf. sopra, note 16 e 17.
[28] Edizione: Francesco ROSSI, Trascrizione di tre manoscritti copti del Museo Egizio di Torino,
"Mem. Acc. Scienze Torino", II.37 (1885). Traduzione italiana in: T. ORLANDI, A.
CAMPAGNANO, Vite di monaci copti, Roma, Citta Nuova, 1984, 298 p. (Collana di Testi
Patristici, 41), p. 55-65; cf. Id., La cristologia nei testi catechetici copti, in: Sergio FELICI (ed.),
Cristologia e catechesi patristica, 1, p. 213-229, Roma, LAS, 1980. 264 p. (Biblioteca di Scienze
Religiose 31).
[29] Tito ORLANDI, Il dossier copto di Agatonico di Tarso. Studio letterario e storico, in: D. W.
YOUNG (ed.), Studies Presented to H.J. Polotsky, p. 269-299, Beacon Hill MS, Pirtle Polson,
1981. Edizione del testo: Walter Ewing CRUM, Der Papyruscodex Saec. VI-VII der Phillipps-
Bibliothek in Cheltenham. Koptische theologische Schriften, Strassburg, Trubner, 1915, 171 p.
(Schriften der Wiss. Gesellsch. in Strassburg, 18).
[30] Cf. Tito ORLANDI, Due fogli papiracei da Medinet Madi (Fayum):L'Historia Horsiesi, "Egitto
e Vicino Oriente", 14 (1991) ***. Edizione del testo in Crum, cit. alla nota 29.
[31] Louis Theophile LEFORT, Catechese christologique de Chenoute, "Zeitschrift fur Aegyptische
Sprache" 80 (1955) 40-45; Cf. Orlandi, La cristologia..., citato alla nota 28.
[32] Edizione: Tito ORLANDI, Shenute contra Origenistas, Roma, CIM, 1985, 143 p.. Cf. Aloys
GRILLMEIER, "La peste d'Origene". Soucis du patriarche d'Alexandrie dus a l'apparition
d'origenistes en Haute Egypte, in:
 AA VV, Alexandrina. Melanges... Mondesert, p. 221-237, Paris, Cerf, 1986; Herbert
THOMPSON, Dioscorus and Shenoute, "Bib. Ecole Hautes Etudes" 234 (1922) 367-376
[33] S. J. GRILLMEIER - Heinrich BACHT, Das Konzil von Chalkedon: Geschichte und
Gegenwart, 3 vols., Wurzburg 1951; Jean MASPERO (A. Fortescue, G. Wiet), Histoire des
Patriarches d'Alexandrie, depuis la mort de l'empereur Anastase jusqu'a la reconciliation des eglises
jacobites (518-616), Paris, 1923.
[34] Tito ORLANDI, Storia della Chiesa di Alessandria, (Testi e Docum. per lo Studio
dell'Antichita 17 31),  Milano 1968, 1970; D. W. JOHNSON, Further Fragments of a Coptic
History of the Church, "Enchoriai" 6 (1976) 7-18; Tito ORLANDI, Nuovi frammenti della Historia
Ecclesiastica copta, in: AA VV, Studi in onore di Edda Bresciani, p. 363-384, Pisa 1985; Friedhelm
WINKELMANN, Die Kirchengeschichtswerke im ostromischen Reich, in: "Byzantinoslavica" 37
(1976) 1-10 e 172-190; Heinzgerd BRAKMANN, Eine oder zwei koptische Kirchengeschichte?, in:
"Le Muséon" 87 (1974) 129-142).
[35] Johannes Den HEIJER, Mawhub Ibn Mansur et l'historiographie copto-arabe. Etude sur la
composition de l'Histoire des Patriarches d'Alexandrie, Louvain, Peeters, 1989. XX 238 p. (CSCO
513 = Subsidia 83).
[36] Tito ORLANDI, Testi copti. 1. Encomio di Atanasio, 2. Vita di Atanasio, (Testi e documenti
per lo studio dell'antichita, 21), Milano, 1968.
[37] Walter Ewing CRUM, Coptic Texts Relating to Dioscorus of Alexandria, "Proc. Soc. Biblical
Arch." 25 (1903) 267-276; Eric O. WINSTEDT, Some Munich Coptic Fragments, "Proc. Soc.
Biblical Arch." 28 (1906) 137-142; F. N. NAU, Histoire de Dioscore..., "Journal Asiatique" X 1
(1903) 5-108 & 241-310.
[38] Edizione: Dwight W. JOHNSON, A Panegyric on Macarius Bishop of Tkow Attributed to
Dioscorus of Alexandria, (CSCO 415-416), Louvain 1980. Traduzione italiana: Tito ORLANDI,
Omelie copte, (Corona Patrum), Torino 1981 p. 162-198.
[39] Paul DEVOS, Fragments coptes de l'historia monachorum (vie de S. Jean de Lycopolis BHO
515), "Analecta Bollandiana" 87 (1969) 417-440; Id., Saint Jean de Lycopolis et l'empereur
Marcien. A Propos de Chalcedoine, AB 94 (1976) 303-316.
[40] Johannes LEIPOLDT, Sinuthii vita bohairice, (CSCO 41), Louvain 1951 (Rist. dell'ed. 1906);
K. Heinz KUHN, Letters and Sermons of Besa, Louvain 1956 (CSCO 157 158).
[41] T. ORLANDI, A. CAMPAGNANO, Vite dei monaci Phif e Longino (Testi e documenti, Serie
Copta, 51), Milano 1975.
[42] K. Heinz KUHN, A Panegyric on Apollo Archimandrite of the Monastery of Isaac by Stephen
Bishop of Heracleopolis Magna (CSCO 394 395), Louvain 1978.
[43] Sui testi relativi a Matteo il Povero, Mosé, Manasse, e Abraham cf. Antonella
CAMPAGNANO, Monaci egiziani fra V e VI secolo, "Vetera Christianorum" 15 (1978) 223-246.
[44] Stanley LANE-POOL, A History of Egypt in the Middle Ages, London 1925(4) (rist. 1968);
Tito ORLANDI, Koptische Kirche, Theol. Real-Encyclopadie 19 p. 595-608, Berlin New York, de
Gruyter, 1989; Alfred Joshua BUTLER, The Arab Conquest of Egypt and the Last Thirty Years of
the Roman Dominion, Oxford, The Clarendon Press, 1902.
[45] C. Detlef G. MULLER, Die Homilie uber die Hochzeit zu Kana und weitere Schriften des
Patriarchen Benjamin I. von Alexandrien, (Abhandlungen Heidelberger Akad., 1968, 1),
Heidelberg, Winter, 1968. Traduzione italiana: Tito ORLANDI, Omelie copte, Torino, SEI, 1981,
320 p., (Corona Patrum).
[46] Rene George COQUIN, Livre de la consecration du sanctuaire de Benjamin (Bibliotheque
d'Etudes Coptes 13), Le Caire, IFAO, 1975.
[47] Heinzgerd BRAKMANN, Zum Pariser Fragment angeblich des koptischen Patriarchen
Agathon. "Le Museon" 93 (1980) 299-309.
[48] James DRESCHER, Apa Mena. A Selection of Coptic Texts Relating to St. Menas (Textes et
documents), Le Caire, Societe d'arch. copte, 1946, XXXVI 186 p.
[49] Arnold Van LANTSCHOOT, Les "Questions de Theodore". Teste sahidique, recensions arabes
et ethiopienne, Citta del Vaticano, Bibl. Ap. Vat., 1957, VIII 302 p. (Studi e Testi, 192).
[50] Emile PORCHER, Vie d'Isaac Patriarche d'Alexandrie de 686 a 689, ecrite par Mina, eveque
de Pchati, PO 11, p. 300-390, Paris, 1915; David N. BELL, Mena of Nikiou. The Life of Isaac of
Alexandria & the Martyrdom of Saint Macrobius. Introduced, Translated, and Annotated,
Kalamazoo, Cistercian Publications, 1988. VIII 147 p. (Cistercian Studies Series, 107).
[51] Henri de VIS, Homelies coptes de la Vaticane. Texte copte publie et traduit, Kobenhavn,
Gyldendal, vol. 1, 1922, 220 p., vol. 2, 1929, 315 p. (Coptica 1, 5).
[52] Tito ORLANDI, Omelie copte, Torino, SEI, 1981, 320 p. (Corona Patrum). Id., Un testo copto
sulla dominazione araba in Egitto, in: T. ORLANDI, F. WISSE (ed.), Acts of the Second Int.
Congress of Coptic Studies, p. 225-234, Roma, CIM, 1985.
[53] Emile Clement AMELINEAU, Les Actes des martyrs de l'Eglise copte, Paris, Leroux, 1890,
313 p.; Hippolytus DELEHAYE, Les martyrs d'Egypte, "Analecta Bollandiana" 40 (1922) 5-154,
299-364.
[54] TITO ORLANDI, Testi Copti. 1. Encomio di Atanasio, 2. Vita di Atanasio, Milano, Cisalpino,
1968, 161 p., "Testi e documenti per lo studio dell'antichità 21".
[55] Queste omelie sono inedite, ma tradotte in Orlandi, cit. alla nota 52.
[56] Tito ORLANDI, Cirillo di Gerusalemme nella letteratura copta, "Vetera Christianorum" 9
(1972) 93-100;
 Antonella CAMPAGNANO, Ps. Cirillo di Gerusalemme. Omelie copte sulla Passione, sulla Croce
e sulla Vergine, Milano, Cisalpino, 1980, 214 p. (Testi e documenti per lo studio dell'antichità,
Serie Copta, 65).
[57] Tito ORLANDI, Theophilus of Alexandria in Coptic Literature, in: E.A. LIVINGSTONE
(ed.), Studia Patristica XVI (TU 129) p. 100-104, Berlin, Akademie, 1985.
[58] A. CAMPAGNANO, A. MARESCA, T. ORLANDI, Quattro omelie copte. Vita di Giovanni
Crisostomo, Encomi dei 24 Vegliardi (Ps. Procle e Anonimo), Encomio di Michele Arcangelo di
Eustazio di Tracia, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1977, 189 p. (Testi e documenti per lo Studio
dell'Antichita, Serie Copta, 60).
[59] Tito ORLANDI, Demetrio di Antiochia e Giovanni Crisostomo, Acme 23 (1970) 175-178.
[60] Tito ORLANDI, Basilio di Cesarea nella letteratura copta, "Rivista degli Studi Orientali" 49
(1975) 49-59.
[61] Francesco ROSSI, Trascrizione con traduzione italiana di un testo copto del Museo Egizio di
Torino, "Mem. Acc. Scienze Torino", II.42 (1892) 107-252; Paul Anton De LAGARDE,
Aegyptiaca, Gottingae, 1883, 296 p. - Ambedue le omelie meriterebbero una riedizione. L'omelia
sugli apostoli è inedita.

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