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Riassunto Breve storia della linguistica

Glottologia (Università degli Studi di Milano)

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Breve storia della linguistica storica: riassunto

I.
Perché una storia della linguistica

Perché studiare la storia? Lo storico greco Tucidide scriveva che le cose passate si ripetono in modo
simile in futuro e questo suggerisce che lo studio della storia può essere una guida per le nostre azioni.
Egli si riferiva alla “storia fattuale”, ossia quella di guerre ed eventi naturali, e considerazioni simili si
possono fare anche sulla “storia delle idee”, di cui fa parte anche la storia della linguistica. In questo
caso è meglio parlare di “storia delle idee linguistiche”, perché la linguistica è diventata disciplina
autonoma solo in tempi recenti.
L’uso della parola linguistica per indicare lo studio del linguaggio è ancora più recente poiché in Italia
fino agli anni Sessanta non esistevano cattedre con questo nome ma solo cattedre di Glottologia (la cui
parola composta significa <<scienza del linguaggio>> o <<scienza della lingua>>).
Questo, però, non significa che lo studio delle lingue e del linguaggio non abbia una storia ben più
antica: nella Grecia classica osserviamo come le prime idee in materia risalgano proprio a quell’epoca,
nella quale si pongono molti problemi tipici della linguistica “scientifica”.
Uno di essi consiste nella definizione e nella classificazione delle entità linguistiche: che cos’è un suono
del linguaggio? Cosa una sillaba, una parola, una frase? Queste entità si raccolgono in categorie
differenti? Le risposte date dagli studiosi greci e latini hanno permesso la nascita di quella disciplina che
fu chiamata grammatica.
A questi problemi più tecnici se ne affiancano altri più generali, come quello che riguarda la natura
delle entità linguistiche e il loro rapporto con la realtà: su cosa si fonda il legame tra i suoni, per
esempio, della parola cavallo e l’animale in questione? Si tratta di un legame naturale tra espressioni
linguistiche ed elementi della realtà o tali espressioni sono semplici “soffi di voce”, il cui rapporto con
gli oggetti che designano è puramente convenzionale?
La soluzione sarà quella adottata da Aristotele, ma essa pone diversi problemi, tra cui l’equivalenza dei
vari segni linguistici in lingue diverse.
Inoltre, il linguaggio è un fatto individuale oppure sociale? Certo, esso è il mezzo di comunicazione tra
individui diversi e si manifesta come un fenomeno sociale, ma è anche una capacità posseduta da ogni
singolo individuo. Altro problema riguarda la parentela tra lingue: sappiamo che l’italiano e il francese
sono “parenti stretti”, ma quali sono i criteri per definire questa parentela?
Aristotele era un filosofo, eppure fu lui per primo a proporre dei criteri che più tardi saranno utilizzati
per classificare le parti del discorso.

2.
L’antichità classica
Quadro introduttivo

Con l’aggettivo ‘classico’ ci si riferisce all’unità culturale costituita dal mondo greco e romano in
un’epoca che va dagli inizi del I millennio a.C. alla metà del VI secolo d.C.
In origine, questa unità culturale era greca: essa comincia a diventare greco-romana a partire dal II
secolo a.C., quando Roma conquista la Grecia assorbendone la cultura.
L’unità culturale greco-romana o greco-latina trova la sua realizzazione politica più compiuta nei primi
quattro secoli dell’Impero Romano, dall’anno in cui Augusto assume la potestà imperiale fino a quando

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Teodosio divise l’impero tra i suoi eredi. Nonostante questa divisione, l’unità greco-latina persistette
anche dopo il crollo dell’Impero d’Occidente e venne meno solo con la guerra gotica.
I dotti romani erano bilingui e conoscevano il greco quanto il latino.
Dalla metà del VI secolo il bilinguismo greco-latino scompare: in quello che era stato l’Impero
d’occidente rimane solo il latino, in quello d’Oriente solo il greco.
La cultura greca fu dunque fatta propria dai dotti romani, che cominciarono a scrivere in latino su tutte
le discipline teoriche: uno dei più importanti tra questi fu Cicerone, a cui si deve tra l’altro la traduzione
latina di molti termini filosofici greci.
I grammatici avevano costantemente presenti i loro modelli greci: è quindi più adeguato trattare la
linguistica classica come una tradizione unitaria, piuttosto che distinguere tra linguistica greca e latina.

2.2
Origine del termine grammatica

Cominciamo dalla fine: V e VI secolo.


In quest’epoca risale la classificazione delle sette cosiddette arti liberali, che non era stata elaborata di
punto in bianco, ma rappresentava la sistematizzazione di un sapere che si era gradualmente costituito
attraverso i secoli precedenti.
Le sette arti erano distinte in trivio e quadrivio: le prime tre sono le cosiddette artes sermocinales,
grammatica, dialettica e retorica; le altre quattro sono le artes reales, cioè aritmetica, musica,
geometria e astronomia.
Qui ci occuperemo delle arti del trivio, perché riguardano il linguaggio.
La linguistica in senso moderno non si identifica con nessuna di esse ma è trasversale a tutte e tre.

Torniamo all’inizio, cioè alle radici della linguistica occidentale, che si collocano nella Grecia antica.
L’aggiunta della specificazione ‘’occidentale’’ non è superflua: esiste infatti un’antica e importante
tradizione di studi linguistici anche in Cina e in India: i lavori dei grammatici indiani hanno influito sullo
sviluppo della linguistica successiva e c’è un contributo della civiltà del Vicino Oriente alla cultura greca:
l’alfabeto.
I Greci adottarono il sistema alfabetico dei Fenici, con alcune modificazioni e aggiunte dovute alle
differenze tra le rispettive lingue. L’alfabeto può sembrare una cosa banale, ma in realtà si tratta di una
delle scoperte più importanti nella storia dell’umanità. Prova ne sia il fatto che il sistema alfabetico è il
più recente tra i tre sistemi di scrittura sviluppati dall’umanità nel corso della sua storia: esso è
preceduto dal sistema ‘’ideografico’’ (geroglifici egiziani) e da quello ‘’sillabico’’ (scrittura cuneiforme
delle popolazioni mesopotamiche).
L’invenzione di un alfabeto richiede una capacità di analisi molto più raffinata che non quella di un
sistema ideografico o di un sistema sillabico.
Il linguaggio ci si presenta come una successione continua di suoni, entro la quale si tratta di
individuare delle singole unità, che ricorrono in un numero indefinito di enunciati diversi e l’operazione
più semplice consiste nell’individuare le unità di significato, cioè le parole: questa è la base del sistema
ideografico.
L’operazione successiva è individuare all’interno di questa unità di senso i gruppi di suoni che le
formano: questo è il fondamento del sistema sillabico; operazione ancor più raffinata è individuare i
singoli suoni da indicare con le singole lettere, cioè la creazione dell’alfabeto.
Che lo sviluppo e l’uso della scrittura abbiano costituito la prima conquista della linguistica greca è
attestato dalla storia della parola grammatikós, che deriva dalla parola greca grámma, che significa
‘lettera’: il ‘’grammatico’’ è colui che sa leggere e scrivere e lo ‘’scriba’’ è colui che scrive per gli
analfabeti. L’aggettivo grammatikē si è poi sostantivato e ha dato origine al nome ‘’grammatica’’.

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Le singole lettere e i suoni corrispondenti costituiscono gli elementi minimi del linguaggio, di cui i Greci
elaborarono una prima classificazione già dal V secolo a.C., distinguendo tra ‘’vocali’’, ‘’semivocali’’
(come S ed R) e ‘’mute’’ (come K o D).
La classificazione adottata oggi è molto più raffinata, ma non totalmente diversa: la K e la D continuano
a essere collocate nello stesso gruppo di consonanti, mentre alla R è assegnata una posizione
intermedia tra le altre consonanti e le vocali.

2.3
La riflessione filosofica sul linguaggio
Dai Presocratici a Platone

La riflessione filosofica sul linguaggio nasce poco dopo la filosofia tout court, cioè con alcuni dei
cosiddetti ‘’Presocratici’’, termine coniato in epoca moderna per indicare genericamente i filosofici
greci dall’inizio del VI secolo a.C. fino all’epoca di Socrate.
La parola ‘’filosofo’’, in greco, ha un senso molto più ampio: ilo filosofo è letteralmente ‘colui che ama il
sapere’, quindi vale ‘scienziato’.
Il pensiero dei Presocratici ci è pervenuto in modo frammentario e indiretto, ma è possibile fare
qualche congettura.
I Presocratici erano proprio dei filosofi naturali, cioè volevano fornire una descrizione della realtà fisica:
uno dei loro problemi fondamentali era quello del rapporto tra la realtà e il linguaggio che noi
utilizziamo per descriverla. Il nostro linguaggio rappresenta fedelmente la realtà oppure la deforma?
Secondo uno di loro, Eraclito, esiste un rapporto naturale tra il linguaggio e le cose: il termine lógos
indica sia il discorso che la razionalità inerente alla realtà.
Bisogna ricordare che lógos in greco antico ha vari significati: oltre a ‘parola’, ‘discorso’ vale ‘calcolo’ e
‘ragionamento’. Quindi, i termini logica e logico si riferiscono tanto al discorso quanto alla ragione.
Parmenide sostiene la posizione opposta ad Eraclito: per lui l’unica realtà è quella dell’essere, intuita
dalla mente, e i segni linguistici non hanno alcun titolo per rappresentarla; all’essere si contrappone il
‘non essere’, che non solo non può essere concepito, ma nemmeno espresso.
Tuttavia, le loro opinioni finiscono con il condurre a una conclusione simile: non è possibile dire il falso.
Se da un lato c’è una corrispondenza tra il logos come discorso e il logos come principio organizzativo
della realtà tutti i discorsi dovrebbero essere veri; dall’altro, se ciò che non esiste non potesse essere
nemmeno espresso, non esisterebbero discorsi falsi.
Probabilmente, né Eraclito né Parmenide volevano giungere a queste conclusioni, ma esse furono
tratte da altri filosofi, i cosiddetti “Sofisti”.
Se infatti il discorso falso non esiste, allora non è nemmeno possibile contraddire: quindi tutte le
opinioni individuali hanno lo stesso valore, e non è possibile fondare né una scienza, né una morale
oggettive. Sofisti significa ‘sapientissimi’ e non ha quel significato negativo che la parola ha assunto fin
dall’epoca del più acerrimo avversario di questi filosofi, Socrate.
Del pensiero di Socrate non ci è rimasta nessuna testimonianza scritta: le sue posizioni antisofistiche
sono rappresentate nelle opere del suo allievo Platone, una delle quali, Cratilo, è l’opera più antica
dedicata al linguaggio.
Il problema fondamentale di questo dialogo è infatti se le parole rappresentino la realtà in base a un
rapporto naturale con le cose oppure in base a una convenzione adottata dai parlanti: la prima
posizione è simile a quella di Eraclito, la seconda a quella di Parmenide. Il personaggio che dà il nome al
dialogo sostiene la tesi naturalista, mentre un interlocutore sostiene la tesi convenzionalista; un terzo
personaggio, Socrate, funge da arbitro tra i due.
Il dialogo ha un andamento apparentemente bizzarro: mentre inizialmente Socrate sembra dare torto a
Ermogene e ragione a Cratilo, successivamente presenta alcuni controesempi alla tesi naturalista.

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Platone ha decisamente scartato la posizione di origine eraclitea, ma non si può nemmeno dire che
abbia accettato quella di Parmenide: cerca di superarle entrambe.
La realtà deve essere conosciuta per sé stessa e non attraverso il linguaggio: occorre determinare le
condizioni a cui il linguaggio deve sottostare per poterla rappresentare. Queste condizioni sono esposte
in un altro dialogo di Platone, cioè il Sofista e consistono nella definizione delle caratteristiche che
oppongono il discorso vero dal discorso falso.
In quest’opera, Platone fa dire a uno dei personaggi del dialogo che esistono due tipi di <<elementi
fonici che indicano la sostanza>>: gli onómata e i rhēmata. Questi ultimi <<indicano le azioni>>; i primi
<<coloro che tali azioni compiono>>.
Platone con il primo termine intendeva piuttosto qualcosa di simile al nostro ‘’soggetto’’ e con il
secondo al nostro “predicato’’; egli osserva che, se si mettono di seguito soli nomi oppure soli verbi
non si produce un enunciato, ma delle semplici liste di parole.
La distinzione tra onóma e rhēma oggi ci sembra ovvia. Il significato originario di onóma non
corrispondeva al nostro ‘nome’, ma oscillava tra ‘nome proprio’ e ‘parola’: il grande risultato ottenuto
da Platone è proprio quello di mostrare che le parole non sono tutte dello stesso tipo e che solo la
combinazione di parole di tipo diverso può dare origine a un enunciato, vero o falso.
Il significato originario di rhēma era invece qualcosa di simile a ‘detto’, ‘motto’.

Aristotele

Egli fu allievo di Platone, ma sviluppò una filosofia diversa.


Anche lui è interessato al linguaggio come strumento tramite il quale si possono formulare enunciati
veri oppure falsi, e giungere a conclusioni valide oppure non valide: alcune delle riflessioni linguistiche
più importanti si trovano nei trattati di logica.
Nel primo di essi, le Categorie, il filosofo distingue anzitutto le <<cose che si dicono per connessione>>
da quelle <<che si dicono senza connessione>>: le prime sono gli enunciati, le seconde le parole
isolate. Queste si suddividono in dieci categorie, la prima delle quali esprime la ‘’sostanza’’, la seconda
la ‘’qualità’’, la terza la ‘’qualità’’ etc.
All’interno della categoria ‘’sostanza’’, il filosofo distingue poi <<sostanze prime>> e <<sostanze
seconde>>, nelle quali le prime sono i singoli individui e le seconde le specie e i generi (quindi un
determinato uomo appartiene alla specie ‘uomo’, che è inclusa nel genere ‘animale’).
L’esame delle cose dette per connessione, quindi l’enunciato, è l’argomento del secondo trattato
dell’Organon, il cosiddetto De interpretatione.
Aristotele precisa che esistono vari tipi di enunciati: uno di essi è quello ‘’assertivo’’, che è l’unico a
poter essere vero oppure falso.
Gli altri tipi, come la preghiera, sono oggetto di altre discipline, come la retorica e la poetica.

Nell’opera Retorica si introduce la nozione di periodo, distinto in ‘’composto’’ e ‘’semplice’’, ma non è


una nozione di tipo grammaticale quanto retorico, perché si riferisce alle caratteristiche che un
enunciato deve avere per poter essere efficace.
Nell’opera Poetica Aristotele fornisce il primo elenco delle entità che costituiscono il linguaggio umano,
ma prima bisogna esaminare alcuni aspetti della cosiddetta ‘’sezione linguistica’’ del De
interpretatione.
Questo trattato si apre ricordando che è anzitutto necessario definire le nozioni di ónoma e rhêma, e
poi quelle di negazione, affermazione, asserzione ed enunciato.
Prima affronta il problema del rapporto tra realtà, pensiero e linguaggio > la realtà è costituita dalle
<<cose>>; il pensiero dalla <<affezioni dell’anima>>, che sono immagini della realtà; il linguaggio da
<<ciò che sta nella voce >> e dalle <<cose scritte>> (suoni e lettere).

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Mentre i suoni e le lettere non sono identici per tutti, le affezioni dell’anima e le cose lo sono > in altre
parole: il pensiero è identico per tutti gli esseri umani; le differenze tra lingue sono soltanto differenze
tra i modi in cui questi pensieri vengono espressi tramite i suoni e i segni scritti.

Ritorniamo indietro.
L’ónoma è definito ‘’voce che significa per convenzione, senza tempo’’ e che non è scomponibile in
parti dotate di significato;
Il rhêma ‘’in più significa il tempo’’, ed è ‘’segno di ciò che si dice di qualcos’altro’’.
Entrambi dunque ‘’significano per convenzione’’ e il dibattito tra naturalismo e convenzionalismo che
caratterizzava il Cratilo di Platone è risolto con la seconda posizione, alla quale aggiunge un breve inciso
relativo ai suoni emessi dagli animali: essi manifestano qualcosa ma per natura.

Vi sono elementi differenti tra le due entità (o e r).


Il di più del rhêma sta nelle indicazioni di tempo: a differenza dei verbi, i nomi non indicano il presente,
passato o futuro > quindi con ónoma indichiamo il nome e con rhêma il verbo, o meglio predicato.

Aristotele sembra voler presentare anche una classificazione delle entità del linguaggio e tali entità
sono:
- l’elemento, cioè il singolo suono del linguaggio;
- la sillaba;
- il syndesmos, traducibile con congiunzione;
- l’arthron, ossia l’articolo ma che comprende anche i pronomi personali e dimostrativi;
- l’onoma, il rhema, la ptosis e il logos.

Stoici ed Epicurei
Carattere e natura del linguaggio

La dottrina aristotelica è quella che ha esercitato per secoli il maggiore influsso sulla cultura
occidentale ma oltre a essa fiorirono altre scuole filosofiche come quella stoica ed epicurea.
Gli Stoici erano così chiamati dal nome del ‘portico dipinto’, dove uno di questi filosofi, avrebbe iniziato
il suo insegnamento.
Il pensiero stoico si sviluppò per vari secoli ed è rappresentato soprattutto da Zenone e da Crisippo; la
scuola degli Epicurei trae invece il nome dal suo fondatore Epicuro. La filosofia epicurea è
tradizionalmente etichettata come ‘’materialista’’, in contrapposizione a quella ‘’spiritualista’’ degli
Stoici > ‘’epicureo’’ e ‘’materialista’’ sono spesso sinonimi di ‘’godereccio’’, ma in realtà l’etica di Epicuro
è altrettanto rigorosa di quella degli Stoici > essi elaborarono proprie teorie del linguaggio, che si
differenziarono notevolmente da quella di Aristotele. Quest’ultima è strettamente convenzionalista;
Stoici ed Epicurei adottano una concezione parzialmente naturalistica, basata sulle rispettive ipotesi
sull’origine del linguaggio.
La concezione naturalistica del linguaggio è assai più raffinata di quella che Platone fa presentare da
Cratilo. Secondo gli Stoici, le singole parole non sono frutto di convenzione, ma hanno un legame con la
natura, che si deve scoprire mediante la ricerca del rapporto originario tra i suoni di cui sono composte
e le entità a cui si riferiscono: questo studio è l’etimologia, ossia lo ‘studio del vero’.
Gli Stoici spiegavano l’origine delle parole primitive mediante l’onomatopea o la sinestesia. Da queste
parole originarie, altre parole sarebbero derivate per ‘’somiglianza’’, ‘’vicinanza’’ oppure per
‘’contrasto’’; agli occhi dei linguisti moderni, queste etimologie non sono meno fantasiose di quelle che
Platone mette in bocca a Cratilo o Socrate: l’etimologia deve rispettare rigorosamente i canoni della
linguistica storico-comparativa e quindi non c’è più spazio per etimologie del genere.

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Per i linguisti moderni lo scopo della ricerca etimologica è solo quello di spiegare i mutamenti di
significato che le varie espressioni linguistiche hanno subito nel corso del tempo, mentre gli Stoici
concepivano l’etimologia anche come il mezzo per ricostruire l’origine di tali espressioni.
Anche secondo Epicuro i nomi non sono stati imposti alle cose per convenzione: essi derivano per
impulso naturale, cioè sono conseguenza delle emozioni e delle immagini che le cose producono negli
esseri umani. Queste emozioni sono diverse a seconda delle varie popolazioni e questo spiega il perché
delle diversità delle lingue.
All’interno delle singole popolazioni si creò un accordo per disegnare le stesse cose con gli identici
suoni, e più tardi furono trovati anche nomi per ‘’cose non visibili’’, ossia si può interpretare per nozioni
astratte > Epicuro mediava in un certo senso tra la concezione naturalistica e quella convenzionalista: il
linguaggio ha origine per un impulso naturale, ma si stabilizza in base a un accordo.
Non è un caso che Stoici ed Epicurei si occupino anche del sistema di comunicazione naturale per
eccellenza, ossia il cosiddetto ‘’linguaggio degli animali’’.
Aristotele poneva una netta cesura tra quest’ultimo e il linguaggio umano: naturale e non articolato il
primo, convenzionale e articolato il secondo. Anche gli Stoici assumono una posizione simile,
nonostante sostengano che il linguaggio umano abbia un carattere naturale. Tuttavia, attribuire un
carattere naturale non significa attribuirgli anche un’origine naturale: esso si è sviluppato grazie alla
capacità di riflessione che l’uomo possiede.
Secondo gli Stoici, questa capacità di riflessione è totalmente assente negli animali e quindi tra i loro
‘’linguaggi’’ e quello della specie umana c’è una frattura incolmabile. Diversa è la posizione degli
Epicurei: essi negano che ci sia una differenza irriducibile tra i due tipi di linguaggi.
Tanto gli animali quanto gli uomini possono esprimere vari stati d’animo mediante vari tipi di segni;
posizioni simili saranno sostenute in modo ancora più netto da Sesto Empirico, che affermava che i
linguaggi delle varie specie di animali ci paiono non articolati perché non li comprendiamo, tanto
quanto non comprendiamo i popoli che parlano lingue diverse dalle nostre.
Posizioni come quelle di Aristotele e degli Stoici verrebbero definite ‘’discontinuiste’’, mentre quelle
degli Epicurei o di Sesto Empirico sarebbero chiamate ‘’continuiste’’.

L’analisi del linguaggio presso gli Stoici

Gli Epicurei non ci hanno tramandato analisi specifiche della struttura del linguaggio; ci rimangono
numerose tracce di quelle compiute dagli Stoici.
Essi distinguono tre parti della filosofia: naturale, morale e razionale. La logica si distingue poi in
retorica e dialettica: la prima è ‘’l’arte del ben parlare’’, la seconda è ‘’l’arte del dialogare
correttamente’’, ovvero ‘’la scienza di ciò che è vero, di ciò che è falso e di ciò che non è né l’uno e né
l’altro’’. La dialettica si occupa dei significati e del suono.
Il modo in cui gli Stoici trattano il rapporto tra suono e significato è diverso rispetto a quello di
Aristotele.
Mentre quest’ultimo prende in considerazione tre livelli, ossia <<le cose, le affezioni dell’anima e le
cose scritte>>, gli Stoici ne introducono un altro: all’oggetto, alle rappresentazioni e alla voce
aggiungono il lektón ossia il ‘’dicibile’’, ‘’l’esprimibile’’.
Per gli Stoici le affezioni dell’anima sono identiche per tutti, ma i significati sono diversi per Greci e
barbari: questi ultimi non comprendono le voci emesse dai Greci, pur sentendole.
Agostino distingue tra verbum, dicibile, dictio e res.
Verbum in latino vale sia ‘verbo’ che ‘parola’, ed è su questa seconda accezione che si concentra
Agostino, che definisce verbum come <<il segno di una qualunque cosa, emesso da chi parla e
comprensibile da chi ascolta>>. Egli è il primo a dire che la parola è un segno e il verbum può significare
sia la voce in sé stessa (come per esempio ‘’armi’’ è una parola) e sia qualcos’altro (usiamo la parola

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‘’armi’’ per parlare di uno scudo o una spada): la nostra immagine mentale delle armi è il dicibile; la
dictio è la parola in quanto espressione di questa immagine mentale; la res corrisponde all’oggetto.

Aristotele affermava poi che il linguaggio umano è significativo e articolato e si distingue dai linguaggi
degli animali per la seconda di queste due proprietà: il latrato del cane è significativo quanto le
espressioni del linguaggio umano, ma solo queste ultime sono analizzabili in sillabe e in suoni singoli.
Gli Stoici separano la proprietà dell’articolazione da quella della significatività, distinguendo la ‘’voce
articolata’’ (léxis) dalla ‘’voce significativa’’ (lógos) > gli Stoici non considerano quindi il lógos come una
‘’parte del linguaggio’’ al livello delle altre, ma come l’insieme dei vari tipi di voci significative e cioè
‘’parti dell’enunciato, del discorso’’.
Mancano ‘’elemento, sillaba e ptôsis’’ > le prime due entità non sono dotati di significato; la terza non
viene trattata come una classe di parole a sé ma come una concomitante del nome.

2.4
La grammatica antica
I filologi alessandrini e la Téchnē di Dionisio Trace

Agli Stoici si deve l’elaborazione di alcuni concetti fondamentali di grammatica, anche se essi li trattano
come parte della dialettica.
La grammatica come disciplina autonoma nasce solo successivamente, ma con vari limiti e
semplificazioni. I grammatici ignorano i concetti di soggetto e predicato, risalenti a Platone e ad
Aristotele, e non discutono del rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà > chiameremo ‘’bassa’’ la
tradizione dei grammatici e ‘’alta’’ quella di origine filosofica.
Gli scopi dei grammatici rimangono pratici, non teorici, anche se ampliati: non hanno più solo il
compito di insegnare a leggere e scrivere, ma anche di analizzare e descrivere il greco e di fissare i
canoni dello scrivere ‘’corretto’’.
A partire dalla fine del IV secolo a. C., le conquiste di Alessandro Magno avevano diffuso la cultura
greca in un’area vastissima.
Dato che la stragrande maggioranza delle popolazioni di questi territori in origine non parlava greco,
era necessario fissare una norma, una regola del buon parlare e scrivere. In questa stessa epoca si
cominciava a ricostruire il testo dei poemi di Omero, dapprima trasmessa oralmente, mentre le loro
prime redazioni scritte risalgono a non prima dell’VIII secolo: si trattava di stabilire quale potesse essere
la loro versione originale > a questa attività si dedicarono i filologi alessandrini.
Tra essi ricordiamo Zenodoto, Aristofane e Aristarco di Samotracia; è in questo ambiente culturale che
probabilmente fu composto il primo trattato di grammatica, attribuito ad un allievo di Aristarco,
Dionisio > si tratta della Téchnē grammatiké.
Da quanto si dice all’inizio di questo trattato, i compiti della grammatica sono di carattere filologico e
letterario > queste definizioni di grammatica si trovano anche in studiosi successivi, come Cicerone e
Quintiliano.
Dionisio si occupa dei suoni, di alcuni segni di punteggiatura, delle sillabe e delle parti del discorso.
Le parti del discorso elencate da Dionisio sono otto:
1. il nome
2. il verbo
3. il participio
4. l’articolo
5. il pronome
6. la preposizione
7. l’avverbio

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8. la congiunzione.
Le innovazioni introdotte sono:
- il participio, così chiamato perché ‘’partecipa’’ della natura tanto del nome quanto del verbo;
- il pronome, che diventa una parte del discorso a sé;
- la preposizione, distinta dalla congiunzione;
- l’avverbio.
L’influsso del pensiero stoico sui grammatici alessandrini è chiaro, tuttavia i grammatici non riprendono
alcune delle tematiche stoiche più raffinate, come quelle relative al rapporto tra voce, dicibile,
rappresentazione e oggetto > questo per via degli obbiettivi differenti: teorici quelli degli uni, pratici
quelli degli altri.
Anche i termini di léxis e lógos assumono un significato più specifico di quello che avevano per gli
Stoici: il primo non indica più la voce articolata in genere, ma la singola parola; il secondo non indica la
voce dotata di senso, ma più specificatamente la frase.
Lógos viene tradizionalmente reso con ‘’discorso’’ ma oggi si intende la <<esposizione di un’idea, di una
tesi per mezzo della parola, l’argomento, il contenuto>>.
L’elenco delle parti del discorso contenuto nella Téchnē si ripete identico negli altri grammatici greci e
latini, con una sola modifica: manca l’articolo in latino.
I grammatici latini considerano l’interiezione come parte a sé, mentre i greci la collocano tra gli avverbi.

Lo sviluppo della grammatica nell’Età classica


Varrone

Il modello di Dionisio fu adottato da quasi tutti i grammatici successivi.


Un’eccezione è rappresentata da Varrone, erudito romano, che nel suo De lingua latina affronta
problemi relativi non solo al latino, ma anche al linguaggio in generale, come l’etimologia e la disputa
tra ‘’analogisti’’ e ‘’anomalisti’’: i primi sono rappresentati da Aristarco, i secondi da Cratete di Mallo,
filosofo stoico greco.
Secondo gli analogisti la lingua è frutto di razionalità e convenzione, secondo gli anomalisti la presenza
di irregolarità nelle lingue è inevitabile.
La prima posizione è parallela a quella convenzionalista sulla natura del linguaggio, mentre la seconda
si collega a quella naturalista.
Varrone distingue le parti del discorso in maniera differente, ossia in quattro classi di parole:
1. quelle che hanno caso ma non tempo;
2. quelle che hanno tempo ma non caso;
3. quelle che hanno sia caso che tempo;
4. quelle che non hanno né caso né tempo.
La seconda, la terza e la quarta classe corrispondono a verbi, participi e avverbi; la prima classe è
suddivisa in due sottoclassi, ovvero nomi e pronomi > a loro volta nomi comuni e propri, articoli definiti
e indefiniti.

Apollonio, Donato, Prisciano

Si contano numerosi trattati grammaticali, greci e latini, e tutti adottano il sistema di parti del discorso
della T., con omissione di articolo e l’inserimento dell’interiezione come parte del discorso a sé.
I grammatici che hanno esercitato il maggior influsso sono Apollonio (greco) e Donato e Prisciano
(latini).
Ad Apollonio si deve il primo trattato dedicato alla sintassi, cioè all’analisi delle combinazioni di parole.
Si può considerare il primo tentativo di grammatica ‘’ragionata’’, che intende cioè spiegare il perché
delle forme linguistiche. In greco i verbi che significano ‘’vedere’’ reggono il caso accusativo, mentre

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quelli che significano ‘’ascoltare’’ reggono il genitivo: Apollonio spiega questa differenza osservando
che una percezione auditiva è molto più ‘’passiva’’ di una visiva.
Anche in questo grammatico mancano le nozioni di soggetto e predicato, e altre che sono oggi
fondamentali per la sintassi, come la frase principale e la frase dipendente.

Grammatico pratico è Donato, la cui opera grammaticale consta di due parti, note come Ars minor e
Ars maior. Quest’ultima è divisa in tre sezioni:
- la prima fornisce una classificazione dei suoni, delle sillabe e delle altre entità fonetiche;
- la seconda tratta delle parti del discorso;
- la terza dei ‘’difetti e dei pregi del discorso’’, ossia delle variazioni rispetto alla norma
grammaticale.
La cosiddetta Ars minor è un elenco delle parti del discorso e delle loro definizioni.
Le definizioni di Donato sono molto simili a quelle di Dionisio; il trattato di Donato è semplice e lineare,
e costituì il modello di grammatica scolastica per molti secoli.

A differenza delle due opere di Donato, le Institutiones grammaticae di Prisciano sono un ponderoso
trattato che rappresentò il modello di grammatica ‘’colta’’. Egli visse a Costantinopoli in un’epoca in cui
la conoscenza del latino stava scomparendo nell’Impero d’Oriente; gli imperatori bizantini si
consideravano legittimi eredi di Roma e l’imperatore Giustiniano fece raccogliere la giurisprudenza
romana nel famoso Corpus iuris.
L’opera rappresentava quindi la ‘’grammatica di riferimento’’ del latino anche per parlanti che avevano
una conoscenza limitata della lingua ed è particolarmente importante perché sistematizza molte delle
nozioni elaborate dai grammatici greci e latini tra il II e il VI secolo d.C., come:
- l’elenco delle otto parti del discorso;
- l’analisi delle varie forme, nominali e verbali, mediante ‘’paradigmi’’: a una forma base vengono
opposte le altre forme flesse;
- la definizione di frase come <<combinazione coerente di parole che esprimono un senso
compiuto>>;
- la classificazione dei verbi in attivi, passivi e deponenti;
- la distinzione tra costruzione intransitiva e costruzione transitiva (la prima è la combinazione
tra verbo e caso nominativo, la seconda tra verbo e casi obliqui).
Altre nozioni grammaticali assenti sono quelle di complemento e di frase dipendente.

QUINDI

La riflessione sul linguaggio nell’antichità classica nasce da preoccupazioni di carattere pratico, ossia la
costruzione di un alfabeto e l’insegnamento della lettura e della scrittura, ma presto diventa parte della
filosofia.
I filosofi si domandano se il linguaggio sia natura o convenzione e vanno alla ricerca degli elementi
costitutivi dell’enunciato, individuati nel soggetto e nel predicato.
Siamo quindi all’origine di due problematiche: la natura del segno linguistico e la combinazione delle
diverse categorie di segni nella produzione di frasi; a queste problematiche si collega quella dell’origine
del linguaggio e delle differenze tra i sistemi di comunicazione dell’uomo e degli animali.
Infine, si vuole stabilire quali siano le forme corrette del latino e del greco.

3.

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Il Medioevo
Quadro introduttivo

Si fa iniziare il Medioevo con il 476 d.C., deposizione dell’ultimo imperatore romano d’Occidente, e lo si
fa terminare nel 1492, scoperta dell’America.
All’interno di questo spazio si distinguono abitualmente due periodi: l’Alto Medioevo e il Basso
Medioevo > queste date e questa suddivisione sono del tutto convenzionali, tant’è che ormai è abituale
considerarli un’unica epoca storica, definita ‘’tarda Antichità’’.
All’epoca tardoantica appartiene sant’Agostino, che ha avuto grande influenza sul pensiero medievale e
rappresenta una sorta di ponte tra antichità classica e Medioevo.
Da bilingue, l’Europa occidentale si trasforma dunque in monolingue: il latino parlato cambia, fino a
trasformarsi nelle lingue dette ‘’volgari’’, cioè popolari e i cui primi documenti risalgono ai secoli IX e X:
i ‘’giuramenti di Strasburgo’’ ci forniscono la prima testimonianza del francese, i ‘’placiti capuani’’
dell’italiano.
 SITUAZIONE DI DIGLOSSIA: a una varietà ‘’alta’’, il latino, si contrappone una varietà ‘’bassa’’, le
lingue volgari.
Ci sono però aspetti in cui le due fasi del Medioevo si differenziano nettamente: il primo è
rappresentato dal recupero di testi antichi che nell’Alto Medioevo erano andati perduti; il secondo dalla
fondazione delle università.
Una preoccupazione dei dotti medievali è quella di definire le tre artes sermocinales.
Isidoro di Siviglia definisce così:
- La prima è la grammatica, ossia la capacità del parlare;
- La seconda è la retorica, necessaria nelle questioni civili;
- La terza è la dialettica, che nelle dispute distingue le cose vere da quelle false.
Questa distinzione sarà adottata nel Medioevo ma è spesso difficile separare ciò che riguarda la
grammatica da ciò che pertiene alla logica.

La tarda Antichità, il Medioevo e tutte le epoche successive si differenziano dalla civiltà precedente per
un elemento fondamentale: la presenza del cristianesimo.
L’avvento del cristianesimo assegna alle artes sermocinales una funzione forse ancora più importante di
quella che avevano in epoca classica.
Una caratteristica della cultura medievale è il tentativo di conciliare auctoritas e ratio, ossia il
contenuto dei testi sacri e dei dogmi stabiliti dalla Chiesa con in canoni della ragione umana:
la funzione della grammatica, della retorica e della logica è quella di illustrare nel modo più razionale
possibile il contenuto di tali dogmi e di difenderli dagli attacchi degli eretici.
Non è quindi un caso che sant’Agostino si occupi della natura e del funzionamento del linguaggio: nel
suo De doctrina christiana afferma che le sacre scritture contengono i segni di Dio, ma sono formulate
nel linguaggio degli uomini.

3.2
Tarda antichità e Alto Medioevo

Boezio è noto per la drammatica parabola della sua esistenza: nato in una nobile famiglia, si impegnò
per la collaborazione tra Romani vinti e barbari vincitori, e fu ministro del re ostrogoto Teodorico, che
però lo fece poi giustiziare.
La sua opera più famosa è ‘’La consolazione della filosofia’’ ma ciò che ha esercitato il maggiore influsso
è stata la sua opera di traduttore e commentatore dei filosofi greci > è quindi il tramite fondamentale
tra la cultura dell’antichità classica e quella del Medioevo occidentale.

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Egli tradusse alcuni trattati logici di Aristotele e compose poi molti trattati di logica, di musica e di
aritmetica.
Boezio presenta la concezione aristotelica del rapporto tra realtà, pensiero e linguaggio: in ogni
conversazione, entrano in gioco tre entità: le cose, i concetti e i suoni > a queste si aggiungono anche i
segni scritti. Di queste quattro entità, le prime due sono date <<per natura>> e le altre due <<per
convenzione>>.
I concetti sono universali, i suoni che li esprimono sono invece diversi da lingua a lingua. La posizione di
Boezio è diversa da quella degli Stoici e della loro dottrina egli riprende la distinzione tra léxis e lógos:
la prima, da lui resa con ‘’espressione’’, è la <<voce articolata>>, che può essere priva di significato; alla
seconda corrisponde invece quella che Boezio chiama ‘’interpretazione’’, cioè la locutio dotata di senso,
le cui parti sono le frasi o enunciati e i cui elementi sono i nomi e i verbi.
Boezio riprende le definizioni di Aristotele del nome e del verbo, affermando che entrambe le categorie
sono <<significative per convenzione>>.
Secondo Boezio, Aristotele vuole dire che il verbo non indica il tempo, ma significa azioni o passioni >
“corre” indica che l’azione del correre si svolge in questo momento. La seconda proprietà del verbo è
riformulata in termini di ‘predicazione’, quindi il verbo dice (<<predica<<) qualcosa del nome.
Boezio distingue verbo/nome e soggetto/predicato e parla anche di frase semplice e frase composta: la
prima contiene un solo soggetto e un solo predicato, la seconda è composta da due frasi semplici.
Questi concetti non sono però trattati in opere di grammatica bensì di dialettica.

Anche Isidoro ha avuto un ruolo fondamentale nel trasmettere la cultura classica al Medioevo. Le sue
Etymologiae sono una specie di enciclopedia in venti libri, che presentano in forma sistematica il
sapere antico, spaziando dalla grammatica, la retorica e la dialettica ai legni e gli utensili.
Il termine ‘’etimologie’’ è posto come titolo in quanto l’etimologia fornisce un contributo fondamentale
alla conoscenza non solo delle parole, ma delle cose che indicano; in quest’ottica si colloca anche
l’interesse di Isidoro per la ricerca della lingua originaria, che egli sostiene essere l’ebraico.

Studi grammaticali nell’Alto Medioevo

L’opera di Boezio ebbe un influsso enorme sulla cultura medievale, ma solo dal IX secolo in poi.
Si può dire che il passaggio dalla tarda antichità al Medioevo si verifica proprio dopo la sua morte, con
la guerra gotica (Ostrogoti contro Bizantini), che provocò enormi danni materiali, anche
sull’organizzazione e la diffusione della cultura. Non si può neanche trascurare l’ostilità dell’imperatore
bizantino Giustiniano nei confronti della filosofia classica, considerata pagana.
Quando i Bizantini tornarono in possesso dell’Italia, questo atteggiamento si impose e pochi anni dopo
l’Italia conobbe una nuova guerra, dovuta all’invasione longobarda che contribuì ad un’ulteriore
devastazione materiale e cultura.
La situazione era quindi sfavorevole allo sviluppo delle arti liberali, che cominciarono a riprendersi solo
con la cosiddetta ‘’rinascenza carolingia’’, epoca di Carlo Magno e dei suoi successori.
Rimangono sconosciute le opere di Prisciano, ma rimane costante la conoscenza di Donato, utilizzato
per l’insegnamento del latino, ignoto alle popolazioni di origine barbarica.
I testi di Donato sono il modello per la stesura di altre grammatiche, anche in altre lingue, e una di
queste è la grammatica latina di Aelfric, scritta in anglosassone. Le grammatiche dell’Alto Medioevo
hanno quasi esclusivamente uno scopo pratico, cioè quello di insegnare una lingua che ormai nessuno
possedeva più come materna > rimangono quindi nel solco della tradizione ‘’bassa’’.
La tradizione ‘’alta’’ e quella ‘’bassa’’ si avvicinano con la rinascenza carolingia, per la riscoperta dei
trattati di Boezio e Prisciano.
Particolarmente importante è l’opera di Alcuino di York, che di Carlo Magno fu consigliere culturale.

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Ci interessano particolarmente due opere in forma di dialogo, una dedicata alla grammatica e l’altra alla
dialettica: tramite la seconda, Alcuino intende illustrare i concetti della prima ad un ‘’livello più
elevato’’. Nel dialogo sulla grammatica, svolto tra un maestro e due allievi, le parti del discorso sono
presentate secondo i tradizionali schemi di Donato.

3.3
Basso Medioevo
Un nuovo quadro culturale

Abbiamo detto che almeno due fattori distinguono la cultura del Basso Medioevo da quella del periodo
precedente: la riscoperta di testi classici o tardoantichi e la fondazione delle università.
Tra i primi testi ci sono le Institutiones di Prisciano > gli ultimi due libri, che riguardano la sintassi,
ricominciano a circolare dalla seconda metà dell’XI secolo e nella stessa epoca viene riscoperta anche
l’opera di Boezio.
Ancora più importante è la riscoperta di alcune opere di Aristotele: delle sue opere logiche si
conoscevano solo le Categorie e il De interpretatione, nella traduzione di Boezio; anche il resto
dell’Organon viene tradotto in latino e verrà chiamato logica nova (logica moderna), mentre gli altri
trattati verranno detti logica vetus (logica antica) > l’antichità e la modernità non riguardano la data di
pubblicazione ma quella di traduzione.
La riscoperta di Prisciano e di Aristotele permetterà la rifondazione della grammatica su basi
scientifiche, ossia la sua trasformazione da ‘’arte’’ a ‘’scienza’’, quindi l’unificazione di tradizione alta e
bassa > questa unificazione non avverrà sempre.
La conservazione della tradizione bassa è dovuta all’esigenza pratica dell’insegnamento del latino:
l’opera più importante è forse il Doctrinale di Alexander de Villa Dei: si tratta di una presentazione in
versi che divulga il sistema di Prisciano e di cui se ne contano oltre duecento manoscritto.
In quest’epoca cominciano ad apparire anche alcune opere relative a lingue volgari, come il provenzale;
significative sono anche le grammatiche relative a lingue non romanze e la più famosa è il ‘’Primo
trattato grammaticale islandese’’, il cui scopo principale è quello di stabilire un sistema adeguato di
notazione dei suoi dell’islandese, che il latino rendeva imperfettamente.

Le università medievali: la fondazione delle prime risale agli inizi del XII secolo e grazie al fatto che la
lingua di insegnamento fosse una sola, il latino, allievi e docenti potevano spostarsi da un paese
all’altro. Esse erano articolate in ‘’facoltà’’, con una funzione diversa rispetto a quella attuale: quella
delle arti, ossia le arti liberali, era propedeutica alle altre.

La ‘’grammatica speculativa’’
Caratteristiche generali

Con l’espressione ‘’grammatica speculativa’’ si intende la teoria linguistica elaborata dai cosiddette
‘’Modisti’’, tra la seconda metà del ‘200 e l’inizio del ‘300; questa etichetta si può applicare a tutta la
corrente di pensiero che vuole dare alla grammatica un fondamento filosofico e trasformala da arte in
scienza. Possiamo distinguere diverse fasi:
- La prima, dalla seconda metà dell’XI secolo, caratterizzata da commenti anonimi a Prisciano;
- La seconda, nel XII secolo, in cui appaiono altri commenti più sistematici;
- La terza, nel ‘200, nella quale arriva al suo culmine ed è qui che sono attivi i Modisti;
- Una fase di decadenza, che prelude al completo rifiuto da parte degli umanisti.

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Possiamo quindi dire che la grammatica speculativa è un tentativo di fondare il sistema grammaticale di
Prisciano sulla filosofia di Aristotele e, quindi, i grammatici che appartengono a questa corrente
cercheranno di fornire una giustificazione filosofica al sistema delle parti del discorso.
Una nozione introdotta da Prisciano viene particolarmente approfondita ed è quella che distingue la
‘costruzione’ in ‘’transitiva’’ ed ‘’intransitiva’’, diversa da quella attuale > questi termini indicano
l’identità o la diversità delle persone coinvolte nell’azione descritta: ad esempio, ‘’Prisciano legge’’ è
una costruzione intransitiva, mentre ‘’Socrate vede Platone’’ è transitiva.

Origini e sviluppi

I commenti anonimi a Prisciano esaminano le definizioni che il grammatico dà delle proprietà di


ciascuna delle varie parti del discorso: dice Prisciano <<la proprietà caratteristica del nome>> è quella
di <<significare la sostanza e la qualità>>. Stostanza e qualità sono due delle dieci categorie
aristoteliche; lo stesso Aristotele afferma che le parole che significano le <<sostanze seconde>>, cioè le
specie e i generi, come uomo o cavallo, <<significano una certa quale sostanza>>, mentre parole come
bianco <<significano soltanto una qualità>>.
Oggi diremmo che uomo o cavallo sono nomi, mentre bianco è un aggettivo, ma questa soluzione non
era disponibile né per Aristotele né per Prisciano: la soluzione più famosa proposta è quella data dal
teologo Anselo d’Aosta, che spiega la differenza tra uomo e grammatico introducendo due distinzioni:
quella tra ‘significato’ (significatio) e ‘denominazione’ (appellatio) e ancora quella tra ‘significato
diretto’ e ‘significato indiretto’.
Le due distinzioni sono collegate: ‘uomo’ significa direttamente e denomina un determinato essere
umano; ‘grammatico’ significa direttamente la grammatica e indirettamente lo studioso di grammatica,
ma denomina quest’ultimo.
Una distinzione simile è introdotta nei commenti a Prisciano, con differenze terminologiche: invece di
appellatio si trova spesso nominatio. Altri commentatori distinguono due tipi di significato, ‘principale’
e ‘secondario’: ad esempio, il significato principale di ‘bianco’ è la qualità, il significato secondario è un
oggetto > questa è la posizione di uno dei più grandi filosofi medievali, Pietro Abelardo, i cui trattati di
logica hanno importanti osservazioni linguistiche e a cui si deve l’introduzione del termine copula per
indicare il verbo essere.
Distinzioni come quelle tra significatio e appellatio possono risultare sottili, tuttavia sono importanti
perché hanno messo alla luce la complessità del rapporto tra le espressioni linguistiche e la realtà che a
cui si riferiscono: i significati non sono solo cose o immagini, ma sono piuttosto un modo di presentare
la realtà. Questi modi sono diversi a seconda delle varie classi di parole: la grammatica speculativa va
quindi alla ricerca di un fondamento razionale per la distinzione tra le varie parti del discorso.

La teoria linguistica dei Modisti

Con l’etichetta di Modisti ci si riferisce a un gruppo di grammatici attivi nella seconda metà del XIII
secolo. Tra questi grammatici, i più noti sono Boezio e Martino di Dacia, Rdulphus Brito e Tommaso di
Erfut.
Lo scopo fondamentale della grammatica speculativa è espresso dai Modisti con molta chiarezza:
Boezio di Dacia osserva che Prisciano non fornisce le ragioni delle sue conclusioni in materia di
grammatica, ma si limita a richiamarsi all’autorità dei grammatici precedenti.
Tommaso di Erfurt scrive che <<noi vogliamo conoscere la scienza della grammatica, e a questo fine
occorre concentrarsi su tutti i suoi principi, ossia i modi significandi>>.
L’espressione modi significandi non indica soltanto i modi del verbo ma le categorie del linguaggio in
generale; la peculiarità dei Modisti sta nell’utilizzare il concetto di ‘modo’ per l’analisi dei rapporti tra
linguaggio, pensiero e realtà. Ai modi significandi corrispondono le categorie del pensiero, dette modi

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intelligendi e quelle della realtà, dette modi essendi > si tratta quindi della stessa visione di Aristotele,
alla quale però vengono apportate modifiche e integrazioni.
Tommaso di Erfurt dice che non è necessario che tutti i nomi indichino un oggetto reale, ma solo che lo
presentino.

Perché le parti del discorso sono diverse? Questa è una domanda fondamentale per i Modisti, che
rispondono così: ciascuna parte del discorso ha il proprio modo di significare la realtà.
Uno stesso significato può essere espresso in quattro modi diversi: come nome (dolore), come verbo
(ho male), come participio (dolente) e come interiezione (ahi!) > questi diversi modi esprimono
un’unica dictio, termine che non ha quindi il valore di ‘parola’, ma quello di segno linguistico in
generale. La dictio <<significa>>, mentre le diverse parti del discorso <<consignificano>>, cioè
rappresentano la realtà mediante l’aggiunta di caratteristiche specifiche di ciascuna.

Il modus entis e il modus esse sono esempi di modi ‘essenziali’, quelli che cioè assegnano l’essenza
propria a una parte del discorso.
I modi essenziali sono disposti secondo una gerarchia:
- ‘generalissimi’
- ‘subalterni’
- ‘specialissimi’
- ‘accidentali’, che si contrappongono ai precedenti.
Mediante questa complessa tipologia, i Modisti sono in grado di definire tutte le otto parti del discorso
della tradizione classica.
Il modus entis è il modo di significare <<essenziale e generalissimo>> del nome, cioè quello che
esprime la proprietà che caratterizza tutte le parole che appartengono a tale classe: i suoi modi
subalterni sono il nome comune e il nome proprio.
Anche i Modisti affrontano il problema della distinzione tra sostantivo e aggettivo: quest’ultimo non è
più presentato come uno dei tanti tipi di nome.
Il nome e l’aggettivo si suddividono in modi <<specialissimi>> e i modi accidentali del nome, secondo
Tommaso di Erfurt, sono:
- La specie
- Il genere
- Il numero
- La figura
- Il caso
- La persona

La sintassi dei Modisti: si fonda su tre nozioni: ‘costruzione’ (transitiva e intransitiva), ‘coerenza’ e
‘completezza’.
Ogni costruzione è formata esattamente da due termini (‘costruttibili’): il dipendente e il terminale > il
primo <<richiede>>, il secondo <<dà>>.
In una costruzione intransitiva delle persone come ‘uomo bianco ’, ‘bianco’ è il dipendente e ‘uomo’ è il
terminale.
Ognuna di queste costruzioni è poi ‘coerente’ se a determinati modi relativi del terminale
corrispondono determinati modi relativi del dipendente, ad esempio il predicato deve avere lo stesso
numero del soggetto.
La completezza è il <<fine ultimo della costruzione>> che consiste nel <<generare un senso compiuto
nella mente dell’ascoltatore>>, e affinché accada sono necessarie tre condizioni:
1. La costruzione completa non può essere formata da un dipendente e un terminale qualunque,
ma solo da un soggetto e da un predicato;
2. I due costruttibili devono essere coerenti;

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3. Tutti i dipendenti devono essere soddisfatti da altrettanti terminali.

Kilwardby e Ruggero Bacone

I Modisti non sono stati gli unici linguisti a concepire la grammatica come una scienza: una prospettiva
simile è stata adottata anche da vari altri studiosi, tra cui Robert Kilwarby e Ruggero Bacone (l’inglese
Roger Bacon); quest’ultimo, frate francescano, non si occupò soltanto di logica e grammatica, ma anche
di fisica e ottica.
Era solito chiamare questi studiosi ‘’pre-Modisti’’ ma questa etichetta è abbastanza impropria, poiché
la loro prospettiva teorica è diversa. Mentre i Modisti si concentrano sull’analisi delle strutture del
linguaggio in sé stesse, Kilwardby e Bacone esaminano la funzione delle espressioni linguistiche nel loro
contesto d’uso.
Questa differenza si rivela tra l’altro nel modo in cui Bacone definisce la nozione di perfezione di una
frase > per i Modisti, una costruzione non coerente non può essere perfetta; negli autori classici si
trovano costruzioni che non sono coerenti, ma il cui senso è ugualmente perfetto: si tratta delle
cosiddette ‘’costruzioni figurative’’. Queste sono esaminate da Bacone e uno dei tanti esempi è la frase
urbem quam statuo vestra est (la città che fondo è vostra, Eneide) > urbem ha il caso accusativo del
pronome relativo quam, non il nominativo, che invece dovrebbe avere in quanto soggetto di vestra est.
La soluzione di Bacone è complessa ma molto raffinata e si basa sulla distinzione, introdotta da
Kilwardby, tra intellectus primus e intellectus secundus, cioè da due modi diversi in cui si può valutare
se una costruzione è perfetta.
Il primo consiste nella coerenza delle varie parti del discorso l’una con l’altra; il secondo in quella dei
significati. Una costruzione figurativa, come quella precedente, non è coerente dal punto di vista
dell’intellectus primus, in quanto il soggetto è all’accusativo e non al nominativo; è coerente invece dal
punto di vista del secundus perché i significati delle espressioni di cui si compone sono compatibili l’uno
con l’altro. Ci deve però essere un motivo per cui le regole grammaticali sono violate e tale motivo può
essere dovuta a ragioni metriche.

Bacone definisce il significare come una relazione <<essenzialmente e principalmente>> diretta a


qualcuno, non a qualcosa: la funzione del segno è prima di tutto di rivolgersi a un ricevente; una
prospettiva del genere è estranea ai Modisti.
Il francescano elabora una classificazione dei vari tipi di segni, linguistici e non, che combina quella
aristotelica con quella esposta da Sant’Agostino.
La prima suddivisione è tra segni a) naturali e b) stabiliti dalla mente per significare.
I segni del tipo a) si distinguono in quelli che potremmo chiamare ‘’indizi’’, come l’aurora (indizio del
sorgere del sole); in immagini; in effetti che permettono di risalire alle cause, come le orme (che
indicano il passaggio di un animale).
I segni del tipo b) si distinguono in segni convenzionali o intenzionali, cioè i segni linguistici e i
‘’pittogrammi’’; in segni istintivi, come i suoni degli animali.
Le interiezioni costituiscono un livello intermedio tra i segni del tipo b) e quindi si distinguono dalle
altre parti del discorso.
Bacone ha un atteggiamento diverso anche sotto un altro aspetto: l’attenzione alla variazione
linguistica. Oltre al latino, conosceva infatti il greco e l’ebraico, la cui conoscenza diretta è necessaria
per comprendere correttamente i testi sacri e quelli dei filosofi greci.
Il riconoscimento della diversità linguistica pone un problema: le lingue differiscono totalmente l’una
dall’altra oppire condividono delle proprietà? > egli sembra aderire ad una posizione che oggi diremmo
‘’universalista’’, poiché ritiene che tutte le lingue differiscano: non solo nei diversi modi in cui indicano
un medesimo oggetto, ma anche nella diversa organizzazione delle categorie grammaticali.

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Cenni sul pensiero linguistico di Dante

Le riflessioni di Dante sulla natura e la storia delle lingue non si possono collocare nell’ambito della
grammatica speculativa.
Il suo trattato De vulgaris eloquentia ha come obiettivo la definizione del ‘volgare illustre’, che egli non
individua in nessuno dei dialetti italiani diffusi al suo tempo.
Il trattato dantesco presenta molte considerazioni di carattere generale.
Superata da molti secoli è la visione dantesca dei rapporti tra latino e lingue volgari: egli infatti non
crede che le seconde derivino dal primo, ma che il volgare sia la lingua <<che i bambini acquisiscono
con l’uso da chi si prende cura di loro>>, mentre il latino sarebbe un altro linguaggio, che può essere
acquisito da pochi.
Ugualmente superate sono le considerazioni svolte nei capitoli successivi del trattato, che intendono
spiegare il perché dell’esistenza del linguaggio, che per Dante è esclusiva dell’uomo.
Gli uomini non sono guidati dall’istinto ma dalla ragione.
Dante prosegue domandandosi quale sia la lingua originaria: fedele agli insegnamenti della Bibbia,
risponde che è l’ebraico > gli unici a conservarla furono gli Ebrei.
I popoli che migrarono verso l’Europa si divisero in tre gruppi: Europa meridionale, Europa
settentrionale e Europa/Asia: i componenti di quest’ultimo gruppo sono i Greci; quelli del secondo
parlano una lingua in cui la particella affermativa è jo (I MESSINESI AHAHAHAH); quelli del primo,
lingue in cui è oc oppure oil.
Dante affronta una questione tuttora fondamentale: perché le lingue cambiano? La sua risposta è che
le lingue sono prodotti umani e quindi cambiano attraverso il tempo come tutti i costumi degli uomini.

4.
Il Rinascimento e l’Età moderna
Quadro introduttivo

L’età moderna va dal 1492, scoperta dell’America, al 1789 con la presa della Bastiglia.
Il Rinascimento è una fase della cultura europea occidentale i cui limiti cronologici non sono definiti e
non coincidono da paese a paese. In Italia, esso ha origine con l’Umanesimo, che caratterizza tutto il
Quattrocento. In altri paesi comincia più tardi, verso la fine del Quattrocento.
I dotti umanisti sottolineano il loro distacco dalla cultura che li ha preceduti, ossia quella medievale: e
infatti il termine ‘’Medioevo’’ risale proprio a loro, per indicare un’epoca di decadenza > questo
atteggiamento negativo dura per molti decenni, mentre ora si tende a rivalutare la cultura medievale, o
quantomeno a darne un giudizio più equilibrato.
È importante individuare i caratteri che avvicinano o differenziano queste epoche: non c’è dubbio che
esistano differenze profonde.
Dagli inizi del Quattrocento il greco torna a diffondersi in Occidente; anche l’unità religiosa di questa
parte del mondo si rompe con la Riforma protestante di M. Lutero > la Riforma si imporrà durante i
cento anni successivi provocando una forte differenziazione tra Europa settentrionale ed Europa
meridionale. Dal punto di vista politico, l’Età moderna è caratterizzata dalla formazione degli Stati
nazionali: si costituiscono come Stati unitari i regni di Francia, Inghilterra, Spagna.
Questi mutamenti religiosi e politici hanno effetti anche dal punto di vista linguistico.
Traduzioni della Bibbia in lingue volgari esistevano già da prima, ma con la Riforma si moltiplicano e si
diffondono nei paesi diventati protestanti, contribuendo all’affermazione delle loro lingue come lingue
di cultura; nei paesi rimasti cattolici i volgari diventano lingue ufficiali e il latino perde il monopolio

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intellettuale che aveva esercitato nel Medioevo: questo declino avverrà però gradualmente, perché
molti studiosi continueranno ad usarlo.
Ciò che più caratterizza l’Età moderna rispetto al Medioevo è l’effetto delle scoperte geografiche.
Mentre prima gli europei che si avventuravano fuori dalle terre sconosciute erano pochi, adesso, con le
scoperte, i contatti si moltiplicano. Gli europei si insediano anche in altri continenti, a spese delle
popolazioni autoctone come gli indiani d’America.
L’inizio dell’Età moderna segna una svolta decisiva: gli studiosi non si occupano più soltanto di una
lingua, ma di molte e diverse fra loro.
Anche le rivoluzioni scientifiche e le nuove idee filosofiche segnano quest’epoca: abbiamo Copernico,
che pubblica ‘’Sulle rivoluzioni delle sfere celesti’’, in cui sostiene il movimento della Terra attorno al
Sole e non il contrario; abbiamo Keplero, Galileo Galilei e Newton.
Uno degli effetti di tali scoperte è l’abbandono della visione aristotelica: in particolare Cartesio e J.
Locke elaborano due teorie della conoscenza umana totalmente innovative.

4.2
La scoperta della diversità linguistica
Lingue ‘’volgari’’ e lingue ‘’esotiche’’

Un segnale di frattura si coglie nell’atteggiamento dei primi Umanisti nei confronti della grammatica e
del tipo di latino usato dagli autori medievali. Quest’ultimo si distaccava dal latino degli autori
dell’epoca classica. Numerosi umanisti vogliono un ritorno ai classici, cioè al latino usato dagli scrittori
dell’antica Roma.
Essi criticano non solo il latino dei dotti medievali ma anche la loro preferenza per gli studi grammaticali
rispetto alla lettura degli autori classici: per loro, la grammatica può avere qualche utilità nelle prime
fasi dello studio del latino, ma oltre a ciò non ha altro valore.
Lo studio della grammatica filosofica è molto ridotto per quasi tutto il Rinascimento, ma ricomparirà
verso la metà del Cinquecento.
Se in epoca rinascimentale non si avverte il bisogno di una grammatica latina nel senso medievale, in
quanto il ‘’buon latino ’’ si trova nei classici, la situazione è diversa per quanto riguarda le lingue
moderne, i cosiddetti ‘’volgari’’, che stanno diventando lingue ufficiali.
Per queste lingue una norma non è stata ancora fissata, ed è quindi necessario scrivere delle
grammatiche > a questo contribuisce l’invenzione della stampa, altro fattore di distacco tra Medioevo e
Rinascimento. Le edizioni a stampa cominciano a fissare degli standard per l’ortografia e la grammatica:
le grammatiche delle lingue volgari si moltiplicano.
La prima grammatica dell’italiano è la cosiddetta Grammatichetta Vaticana, anonima ma attribuita
ormai a Leon Battista Alberti, risalente al 1440.
Il ritorno al latino classico operato dagli umanisti aveva prodotto una svalutazione non solo del latino
medievale, ma anche delle lingue volgari, considerante inferiori al latino.
L’Alberti padroneggiava perfettamente il latino, ma scrivendo e paragonando il suo lavoro a quello degli
studiosi greci e latini mostrava come il volgare fosse sullo stesso livello.
La Grammatichetta andava contro corrente e forse questo è uno dei motivi per cui rimase ignorata;
altro motivo sta nel fatto che la varietà di lingua di cui si occupava era quella dell’uso, il toscano e non
la lingua letteraria delle ‘’tre corone’’ del Trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio).
Questa è invece la varietà su cui si baseranno le prime grammatiche italiane pubblicate, come le Prose
di Bembo.
La prima grammatica di una lingua volgare apparsa a stampa è la Gramática de la lengua castellana di
A. de Nebrija; in seguito ne furono pubblicata altre per ogni lingua.

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Tutte queste grammatiche sono di tipo pratico, ma non filosofico, e seguono i modelli di Donato e
Prisciano; il fatto di descrivere lingue diverse dal latino e dal greco fa sì che esse introducano alcune
innovazioni. Si tratta di tentativi di adattare le lingue volgari alle categorie della grammatica latina: ad
esempio, Nebrija parla di <<casi>> per lo spagnolo e l’italiano, osservando che essi sono indicati dalle
preposizioni.
A volte, si tratta di innovazioni abbastanza significative, soprattutto per quanto riguarda le parti del
discorso: dato che molte lingue moderne hanno l’articolo, quest’ultimo viene introdotto come una
nuova parte del discorso.
Una modifica radicale è quella proposta da Fortunio, secondo il quale le parti del discorso <<bastevoli
ed essenziali>> sono il nome, il pronome, il verbo e l’avverbio.
La preoccupazione principale degli autori è di carattere pratico e normativo: essi vogliono definire
quella che deve essere scelta come ‘’standard’’ (lingua).

Nel Cinquecento, le lingue europee moderne non sono le sole a ricevere attenzione dei grammatici: la
stagione delle scoperte provoca l’interesse anche per le lingue degli altri continenti.
L’ebraico e l’arabo non erano del tutto sconosciuti, ma con l’inizio dell’Età moderna gli studi
moltiplicano. La novità più grande però è rappresentata dall’incontro con lingue semisconosciute, come
il cinese e il giapponese, o le amerindiane. Ed ecco apparire grammatiche del quechua o del nahuatl, a
cui seguiranno quelle del cinese e del giapponese.

Origine e divenire delle lingue

Questa riconosciuta pluralità e diversità delle lingue induce vari studiosi a porsi in modo nuovo il
problema del mutamento linguistico. Molte discussioni vertono sul rapporto tra latino e lingue volgari,
e in particolare tra latino e italiano: Dante non pensava che il volgare derivasse dal latino.
Nel Rinascimento, si fronteggiano due diverse idee: la prima sostiene che all’origine del volgare sta la
mescolanza del latino con le lingue dei barbari invasori; la seconda che sia sempre esistita una ‘’lingua
volgare’’ latina > si potrebbe dire che la prima delle due posizioni concepisce il cambiamento linguistico
come una frattura, mentre la seconda come evoluzione continua.

Non mancano teorie curiose per quanto riguarda l’origine dell’italiano, o meglio del toscano, come
quella ‘’aramea’’, proposta da due eruditi del Cinquecento, Giovan Battista Gelli e Pierfrancesco
Giambullari: in base a essa, il toscano sarebbe la continuazione dell’etrusco, il quale a sua volta deriva
dall’arameo, lingua introdotta in Toscana da Noè.
Teorie simili sono proposte anche per altre lingue romanze: il francese non deriva dal latino, ma dal
greco; lo spagnolo è sempre stata la lingua del paese e il latino vi si è affiancato.
Gli studi sui rapporti di parentela tra le varie lingue hanno obiettivi molto più vasti, che ritornano sulla
questione della lingua originaria e della sua frammentazione per effetto della torre di Babele. Tra
questi studi citiamo quelli degli svizzeri Bibliander e Gessner.
Entrambi partono dal riconoscimento dell’importanza di conoscere molte lingue, entrambi si
richiamano alla figura di Mitridate, re del Ponto, che conosceva 22 lingue.

Lo studio e la conoscenza delle diverse lingue è un rimedio alla confusione babelica: il suo
atteggiamento è opposto a quello assunto nel Medioevo.
Bibliander rimane fedele all’idea che la lingua originaria sia l’ebraico, ma propone una spiegazione più
articolata dell’origine delle differenze interlinguistiche, combinando la spiegazione ‘’babelica’’ a quella
‘’noachica’’, dove si dice che i tre figli di Noè diedero origine a differenti popoli: le lingue che si sono
discostate maggiormente dall’ebraico sono quelle dei figli di Japhet; quelle dei figli di Sem vi sono
rimaste più vicine; quelle dei figli di Cam sono in posizione intermedia.

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L’opera di Gessner è un catalogo di più di 110 lingue, di ciascuna delle quali è indicata la popolazione
che la parla. Anche egli rimane fedele al mito dell’ebraico come lingua originaria.
Gessner indica la necessità di introdurre nuovi termini, le migrazioni di popoli.
Entrambi gli eruditi cercano di spiegare i motivi della variazione linguistica attraverso lo spazio e il
tempo.
Osserviamo due innovazioni fondamentali: da un lato, affiora l’idea che la lingua originaria non coincida
con una lingua esistente; dall’altro, quella che le lingue si raggruppino in ceppi diversi, non imparentati.
Un’esponente di quest’ultima idea è il francese Giuseppe Giusto Scaligero, il quale classifica le lingue
europee in base alle loro diverse <<lingue madri>>, quattro ‘’maggiori’’ e sette ‘’minori’’ > le prime
sono indicate mediante le parole per esprimere il concetto di Dio.
Non mancano studiosi che ipotizzano parentele ben più vaste: caso interessante è quello del fiorentino
Filippo Sassetti, che invia a due suoi amici eruditi lettere in cui nota una sorprendente somiglianza tra
alcune parole toscane e alcune parole di una lingua indiana, il sanscrito.

L’olandese Boxhorn avanza l’idea di un’originaria lingua <<scitica>> da cui deriverebbero il greco, il
latino, il persiano e le lingue germaniche. La teoria sarà ripresa da Leibniz, che afferma che l’esistenza
di molte radici comuni tra latino, greco e lingue germaniche può essere spiegata ipotizzando <<la
discendenza comune di questi popoli dagli Sciti>>.
Leibniz accetta il racconto biblico ma afferma che lo sviluppo storico non rendeva più riconoscibile
questa lingua arcaica, e classifica le lingue attestate in due grandi specie: le <<jafetiche>> e le
<<aramaiche>>: le prime sono quelle dell’Eurasia, le seconde quelle dell’Africa e del Vicino Oriente.

4.3
Grammatica e filosofia del linguaggio nel Seicento
Grammatica ‘’civile’’ e grammatica ‘’filosofica’’

La riflessione teorica sul linguaggio e sulla grammatica comincia a riproporsi verso la metà del secolo
seguente.
Nel 1540, Giulio Cesare Scaligero pubblica un volume intitolato ‘’Le cause della lingua latina’’, all’inizio
del quale afferma che la grammatica non è arte ma scienza, assumendo quindi una posizione simile a
quella dei Modisti; a differenza di questi, Scaligero fa ricorso non ad esempi inventati, ma tratti da testi
latini classici.
Esce poi Minerva seu de causis linguae latinae, dello spagnolo Francisco de la Brozas (Sanctius), che si
propone anch’esso di individuare il perché di certe forme linguistiche.
Entrambi adottano come modello la lingua degli autori classici latini, ma cercano di individuare i
principi logici che stanno alla base del suo funzionamento.
Un fenomeno a cui Sanctius dedica attenzione è l’ellissi, ossia l’omissione di certe parole in una
costruzione; l’ellissi è necessaria perché molte frasi risulterebbero pesanti, ma non è possibile omettere
qualunque parola o gruppo di parole.
Con questi autori si ha la rinascita della grammatica filosofica.

La linguistica di Port-Royal

Port-Royal era un monastero cistercense femminile, il cui direttore spirituale era un religioso, l’abate
Saint-Cyran, appartenente alla corrente dei giansenisti, che poi fu condannata come eretica.
Intorno all’abate si formò un gruppo di intellettuali, tra cui spiccano i nomi del filosofo Blaise Pascal e
del tragediografo Jean Racine (me cumpari!).

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Essi tra l’altro organizzarono un sistema di istruzione, le cosiddette Petites écoles, in cui la riflessione
sulla struttura del linguaggio e del pensiero aveva un ruolo fondamentale.
Vi sono due opere: la Grammaire e la Logique di Port-Royal > si sa che gli autori della prima sono A.
Arnauld e C. Lancelot, e quelli della seconda lo stesso Arnauld e P. Nicole e che entrambe furono
ristampate più volte, ma in seguito dimenticate fino alla riscoperta fattane da Chomsky.
Chiamando fin dal titolo la loro grammatica <<generale>> e <<ragionata>>, i Signori di P.R indicavano il loro
obiettivo: non limitarsi a indicare le forme del parlare corretto, ma determinarne le ragioni, per qualsiasi
lingua umana. La pluralità linguistica è rispecchiata dalla varietà delle lingue esaminate: oltre al francese, si
citano esempi di lingue classiche, dall’italiano e dall’ebraico.
I portorealisti non cercano di forzare questa diversità imponendo a tutte le lingue un unico modello: da un
lato, osservano che le stesse categorie non sono presenti in ogni lingua: è il caso dell’articolo; dall’altro,
riconoscono che <<non sempre l’uso si accorda con la ragione>>: ad esempio, il greco usa l’articolo
determinativo anche davanti ai nomi propri, anche se è inutile.
Un esempio di che cosa i portorealisti intendano per grammatica generale e ragionata è dato dalla loro
analisi dei casi. Questi sono realizzati come desinenze del nome solo in latino e greco, ma dato che la loro
funzione è quella di esprimere le relazioni tra le cose indicate dai nomi, si può parlare di genitivo, dativo ecc.
anche per le lingue volgari.
Il latino distingue il nominativo Dominus dal vocativo Domine; il francese, anteponendo o meno l’articolo al
nome.
L’universalità delle categorie del linguaggio è data dalla loro corrispondenza con quelle del pensiero. La
concezione dei portorealisti ricorda quella di Aristotele o dei Modisti, ma con un’importante differenza:
mentre il filosofo greco e i grammatici speculativi assumevano un sostanziale parallelismo tra categorie del
linguaggio, del pensiero e della realtà, quest’ultima non viene presa in considerazione nel quadro di P.R.,
che si limita a considerare le espressioni linguistiche come un riflesso delle operazioni della mente. Tali
operazioni sono il ‘concepire’, il ‘giudicare’ e il ‘ragionare’.

La proposizione è definita l’espressione di un giudizio, ed è analizzata come costituita da tre elementi:


soggetto, copula e predicato. Questa analisi è erede di quella di Aristotele, ma contiene una novità: gli
elementi che entrano nella proposizione non sono due, ma tre, in quanto si aggiunge la copula.
La novità introdotta consiste nell’analizzare ogni proposizione in base a questo schema.
L’uso principale del verbo è quello di <<significare l’affermazione>>: questa proprietà è posseduta solo dal
verbo essere.
Un risultato acquisito nella storia della linguistica è la distinzione che i Signori di P.R. individuano tra due tipi
di frasi: le principali e le dipendenti.
Boezio era arrivato alla nozione di ‘frase composta’, senza specificare quale fosse principale e quale
dipendente.
La Logique di P.R. distingue le proposizioni semplici da quelle composte in termini non diversi da quelli di
Boezio: le p. semplici sono quelle con soggetto e un predicato, quelle composte quelle che hanno più di un
soggetto e predicato. Ci sono delle proposizioni che sono composte apparentemente, ma in realtà sono
semplici: si tratta delle proposizioni ‘complesse’, ossia quelle in cui il soggetto o predicato sono modificati da
quella che i portorealisti chiamano ‘proposizione incidente’: ad esempio, ‘Dio che è invisibile ha creato il
mondo che è visibile’ > le p. incidenti sono le nostre relative.

Il linguaggio secondo i Razionalisti e gli Empiristi

Chomsky ha considerato la Grammaire e la Logique di Port-Royal come l’esempio più tipico di


‘’linguistica cartesiana’’.
In Cartesio non si trovano però analisi di fatti linguistici determinati, ma solo considerazioni generali sul
linguaggio come capacità specificatamente umana > le più celebri di queste considerazioni sono
contenute nella V parte del Discorso sul metodo, dove il filosofo francese afferma che <<è degno di
nota particolare il fatto che non ci sono uomini tanto ottusi e sciocchi che non siano capaci di mettere

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insieme diverse parole e di ricavarne un discorso; mentre non c’è nessun animale che faccia
altrettanto>>.
Quello che Chomsky ha chiamato l’aspetto creativo dell’uso del linguaggio è l’argomento fondamentale,
secondo Cartesio, per attribuire solo agli uomini la mente. Si può dunque concludere che i signori di
P.R. si ispiravano a Cartesio per quanto riguarda la visione generale del linguaggio, mentre le loro
analisi delle strutture grammaticali non hanno nulla di specificatamente cartesiano.
Cartesio è considerato il caposcuola del Razionalismo, ossia quella corrente filosofica che sostiene che
la mente umana possiede conoscenze precedenti e indipendenti dalle espressioni sensoriali: ad
esempio, percepiamo un triangolo quando vediamo una figura disegnata sulla carta perché è innata in
noi l’idea di triangolo.
La corrente opposta, nota come Empirismo, sostiene che tutte le conoscenze hanno origine dalle
sensazioni: il suo motto è ‘’non c’è nulla nella mente che non sia stato in precedenza nella sensazione’’.
Locke, considerato caposcuola empirista, dedica ampio spazio all’analisi di singoli fatti linguistici: il terzo
libro della sua opera più importante, Saggio sull’intelletto umano, si intitola proprio ‘’Sulle parole’’. Le
parole hanno infatti un ruolo fondamentale nell’organizzazione della nostra conoscenza; esse servono a
fissare la varietà e la molteplicità delle nostre impressioni sensoriali: incontriamo tanti individui diversi
e a tutti possiamo assegnare un nome proprio, ma la nostra memoria non può ricordarli tutti; noi
quindi astraiamo dalle qualità individuali.
Questa capacità di astrazione è posseduta dall’uomo ma non dagli animali: quindi l’empirista Locke,
come il razionalista Cartesio, considera il linguaggio come proprietà esclusiva dell’uomo.
Locke attribuisce un ruolo fondamentale al linguaggio per ciò che riguarda la formazione di un tipo
particolare di idee, quelle che chiama ‘’modi misti’’, formati dalla combinazione di <<idee semplici di
diverse specie>>. Mentre le idee semplici derivano da cose reali, i modi misti sono frutto di un atto
arbitrario della nostra mente: non c’è nessuna differenza tra l’uccisione di un uomo e quella di una
pecora, eppure vi è la parola ‘assassinio’ per indicare la prima e non per la seconda.
Questa arbitrarietà spiega perché molte parole di una lingua non possano essere tradotte in altre: per
esempio, la parola latina versura, che indica un debito contratto per pagarne un altro, non ha
corrispondente in italiano o altre lingue.

Al saggio di Locke replicò Leibniz, con i suoi Nuovi saggi sull’intelletto umano.
Per quanto riguarda la questione dei modi misti e la precedenza che Locke assegnava alle parole sulle
idee, Leibniz risponde che l’arbitrario si trovi soltanto nelle parole e non nelle idee, perché queste
ultime non esprimono che delle possibilità.
Le lingue umane sono diverse, come sono diversi i costumi dei vari popoli, e quindi i contenuti della
ragione umana si possono esprimere in modo diverso.

Le lingue ‘’universali’’

I motivi che spingevano all’elaborazione di una lingua universale erano numero: il più nobile era quello
di evitare il ripetersi di guerre di religione che, secondo alcuni studiosi, erano state originate dal diverso
modo in cui le verità di fede erano presentate nelle varie lingue.
Il filosofo e pedagogista Komensky auspicava alla creazione di una <<nuova lingua>> che permettesse a
chiunque di avventurarsi in ogni parte del mondo, sapendo di capire tutti e di essere capito da tutti>>. I
modelli di lingue universali costruiti nel 600 sono numerosi; qui parleremo G. Dalgarno e di J. Wilkins.
Non è forse un caso che entrambi questi lavori siano opera di studiosi britannici: oltre alla probabile
influenza di Comenio, già Bacone aveva sostenuto che l’imprecisione e la vaghezza delle lingue naturali
erano fonte di equivoci > nessuno di questi tentativi di costruire una lingua universale ebbe successo.
Questi progetti si collocano nell’alveo della grammatica filosofica; Wilkins oppone la Natural Grammar
alla Instituted Grammar.

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Il principio generale che ispira Wilkins e gli altri proponenti di lingue universali è che il linguaggio e il
pensiero siano indipendenti l’uno dall’altro. Le lingue universali devono soddisfare al principio ‘’un
segno, un concetto ’’; devono quindi essere costituite dai cosiddetti ‘’caratteri reali’’, cioè segni <<che
non significano parole, ma cose e nozioni>>.
Nel tracciare questi caratteri reali, Dalgarno e Wilkins si ispiravano esplicitamente agli ideogrammi
cinesi; questi studiosi elaborarono dei sistemi originali, basati su una classificazione della realtà simile a
quella aristotelica, cioè divisa per generi e specie, da quelli di massima estensione alle più minute,
ognuna indicata da un segno proprio, formato dalle indicazioni dei vari generi e delle loro suddivisioni
interne. Ad esempio, il carattere con cui Wilkins indica ‘padre’ consiste nella combinazione di quattro
segni, indicanti a) relazione economica, b) consanguineità, c) ascendenza diretta, c) maschio.
Per molti studiosi di oggi non esiste un insieme di concetti indipendenti dalle singole lingue, ma ognuna
di esse impone la propria forma al pensiero.
Le lingue universali di Dalgarno e Wilkins hanno anche una propria morfologia e una propria sintassi,
che testimoniano di alcuni cambiamenti considerevoli rispetto alla tradizione delle grammatiche
classiche e medievali.
La lingua assunta come base non è il latino ma l’inglese, che non è considerata perfetta, ma comunque
si avvicina a questo ideale molto più del latino, perché il suo carattere analitico è considerato superiore
a quello sintetico.
Wilkins si pronuncia a favore del tipo analitico; il fatto che gli aggettivi sono invariabili non è
considerato un difetto, ma una cosa positiva: non è necessario che gli aggettivi presentino i tratti di
numero, genere e caso, perché questi sono già espressi dal sostantivo a cui si riferiscono.
Dalgarno e Wilkins sono citati frequentemente da Leibniz, che li assume come punto di partenza per la
costruzione della sua characteristica universalis. Secondo Leibniz, questi modelli di lingua universale
avevano uno scopo diverso dal suo: una tale lingua doveva infatti essere <<strumento della ragione>>,
e <<solo in minima parte>> un mezzo di comunicazione tra popolazioni diverse.
Non si deve pensare che Leibniz non fosse interessato alla soluzione delle controversie filosofiche e
religiose: anzi, proponeva una riconciliazione tra le varie sette protestanti; tuttavia, riteneva che questi
risultati potessero essere raggiunti solo con l’elaborazione di un autentico ‘’linguaggio del pensiero’’,
espresso in caratteri. Tali caratteri sono di due tipi: il primo deve indicare le singole idee, il secondo le
loro relazioni. La lingua universale come concepita da Leibniz è quindi un calcolo, il cui uso porterà alla
soluzione di ogni disputa. Leibniz non riuscì ad individuare quei pensieri semplici che avrebbero dovuto
fungere da primitivi del sistema di calcolo. Quest’ultima idea era destinata a grandi sviluppi, in quanto
anticipava i moderni linguaggi di programmazione, cioè il modo in cui il ‘’computer pensa, senza
sapere’’ che cosa significhino le istruzioni che riceve ed elabora in termini puramente binari.
Si tratta però di un apparato di calcolo puramente formale, quindi l’impresa di costruire una lingua
universale corrispondente alla natura e al funzionamento dei nostri pensieri non riuscì neppure a
Leibniz, il quale rileva l’eterogeneità della categoria ‘’avverbio’’: i cosiddetti avverbi interrogativi
andrebbero classificati tra le congiunzioni. Ancora: le preposizioni stanno ai nomi come le congiunzioni
stanno ai verbi, in quanto le prime reggono i casi, le seconde i modi.

4.4
Grammatica e filosofia del linguaggio nel Settecento

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Sviluppi della grammatica generale


Analisi grammaticale, analisi logica e analisi del periodo

La Grammaire di Port-Royal ebbe un influsso notevolissmo sul pensiero linguistico successivo, e non
solo in Francia.
Una grammatica come quella del ticinese Francesco Soave si distacca da quelle precedenti proprio per
la presenza di alcune nozioni derivate da P.R., come quella della frase dipendente, oppure l’analisi della
frase in soggetto, copula e predicato. Soave si rifaceva ai grammatici francesi del Settecento, i cosiddetti
grammatici ‘’illuministi’’ o ‘’enciclopedisti’’.
Gli autori della maggior parte di queste voci sono C.C Du Marais e Nicolas Beauzée, a cui si devono gli
sviluppi più interessanti delle idee portorealiste. A loro risale la distinzione tra ‘grammatica generale’ e
‘grammatica particolare’. Beauzée definisce così i due tipi:
- La grammatica generale è la scienza dei principi immutabili e generali del linguaggio
pronunciato o scritto.
- Una grammatica particolare è l’arte di applicare ai principi immutabili e generali del linguaggio
le istruzioni arbitrarie e usuali di una lingua particolare.
Il grammatico illuminista non solo oppone la grammatica generale alle grammatiche particolari in
termini di universalità e necessità, e di diversità e arbitrarietà, ma caratterizza questa opposizione di
termini di scienza e di arte.
Abbiamo visto nei capitoli precedenti come questi due termini abbiano di volta in volta caratterizzato la
storia della grammatica fin dalle sue origini, con un moto pendolare che va da una sua considerazione
come arte oppure come scienza.
Beauzée riconcilia queste due opposizioni, vedendo la scienza nella grammatica generale, e l’arte nelle
grammatiche particolari.
Per quanto riguarda i temi più specifici dell’analisi del linguaggio, i grammatici illuministi non seguono
l’impostazione di P.R.
Du Marsais e Beauzée non analizzano la frase in tre elementi, ma in due (soggetto e predicato); Du
Marsais introduce la distinzione tra proposizione diretta ed enunciazione: la prima è espressione di un
giudizio, la seconda indica non un giudizio, ma una qualche considerazione particolare dello spirito.
La proposizione diretta corrisponde a quella che noi chiameremmo frase dichiarativa, mentre
l’enunciazione può essere una frase esclamativa, interrogativa, imperativa, etc.
Du Marsais può essere considerato l’autore della distinzione tra analisi grammaticale e logica: nella sua
Logique distingue tra <<proposizione considerata grammaticalmente>> e <<proposizione considerata
logicamente>>. Ad egli si deve anche l’introduzione della nozione di complemento.

Un altro grammatico francese, Gabriel Girard, aveva presentato la dottrina dei <<membri di frase>>, da
lui nominati ‘soggettivo’, ‘oggettivo’, ‘terminativo’, ‘attributivo’, ‘circostanziale’, ‘congiuntivo’,
’aggiuntivo’.
Egli è anche il primo grammatico a elencare l’aggettivo come una parte del discorso a sé stante, e a
ridurre il participio a modo del verbo.
Tra molti aspetti importanti dell’opera di Beauzée ricordiamo la sua classificazione dei tipi di frase,
condotta in base a quattro diversi punti di vista:
I. Frasi ‘semplici’ VS frasi ‘composte’
II. Frasi ‘non complesse’ VS frasi ‘complesse’
III. Frasi ‘principali’ VS frasi ‘incidenti’
IV. Frasi ‘isolate’ VS ‘periodi’
Il merito di Beauzée è di aver dato una formulazione più organica e sistematica.
Se quindi Du Marsais hanno fondato la distinzione tra analisi logica e grammatica, Beauzée è il padre
dell’analisi del periodo.

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Il ‘’genio delle lingue’’ e i tipi di lingue

L’espressione ‘’genio delle lingue’’ risale al Rinascimento e ha inizialmente un valore quasi magico, un
po’ come quando si parla di ‘’genio della lampada’’. Più tardi, si laicizza, assumendo il significato di
‘’struttura propria di una lingua’’.
Nel Settecento, la nozione viene utilizzata per esaminare il rapporto tra linguaggio e pensiero: come i
Signori di P.R., i linguisti dell’epoca illuminista ritengono che le strutture del pensiero siano universali,
ma rivolgono un’attenzione molto particolare al modo in cui esse sono rappresentate nelle diverse
lingue.
Per Girard, <<ogni lingua ha il proprio genio, ma si possono ridurre a tre tipi>>, in modo che ne risultino
tre classi di lingue: ‘’analitiche’’, ‘’traspositive’’, ‘’miste’’.
Le prime sono quelle che seguono l’ordine naturale e la gradazione delle idee, cioè collocano il
soggetto prima del verbo (es. il francese, l’italiano, lo spagnolo); le seconde sono quelle che a volte
cominciano la frase con il complemento oggetto, altre con il verbo (es. il latino e le lingue slave): questa
possibilità di ordinare liberamente le parti è data dalla presenza delle differenti desinenze di caso > un
c. oggetto non può essere scambiato per soggetto.
Le terze sono un tipo intermedio tra le prime due (es. il greco e il tedesco): hanno l’articolo e le
desinenze di caso.
Questa analisi verrà ripresa da Beauzée, che insiste sul fatto che l’ordine del pensiero è universale ed è
direttamente rappresentato dalle lingue ‘’analoghe’’. Egli preferisce parlare di due tipi all’interno delle
lingue traspositive, ossia ‘’libere’’ e ‘’uniformi’’: le prime sono quelle che hanno una costruzione libera
della frase, come il latino; le seconde quelle la cui costruzione della frase è costantemente regolata
dall’uso, come il tedesco.
È facile osservare che il ragionamento di Girard e Beauzée è circolare: è l’ordine del francese e delle
altre lingue di questo tipo che viene assunto come l’ordine universale del pensiero; questa distinzione
tra due tipi opposti di lingue ha delle conseguenze anche sull’analisi dei loro rapporti di parentela: dato
che il francese e l’italiano sono analoghi, mentre il latino è traspositivo, entrambi i grammatici
sostengono che le prime due non derivino dalla terza, ma dal ‘’celtico’’.
La classificazione delle lingue su base tipologica si oppone a quella su base genealogica: infatti non
raggruppa le lingue in famiglie e sottofamiglie secondo la lingua originaria, ma in base alle loro
caratteristiche strutturali, morfologiche e sintattiche.

Dibattiti sull’origine del linguaggio

L’idea che le varie lingue esprimano un contenuto di pensiero universale non è solo propria di studiosi
di impostazione razionalista, ma anche di impostazione empirista.
La differenza sta all’interpretazione del modo in cui il linguaggio si è sviluppato negli esseri umani: a
quest’argomento è dedicata tutta la second parte del Saggio di Condillac.
Altri filosofi si erano occupati della questione poco prima di lui, come l’italiano Giambattista Vico, la cui
posizione non si può definire razionalista o empirista, bensì storicista.
Per Vico, il linguaggio non deve essere considerato come semplice espressione di concetti o come
strumento dell’organizzazione delle impressioni date dai sensi, ma come realizzazione progressiva della
coscienza dell’umanità, che si sviluppa tramite le ‘’tre età’’ della storia > quella degli ‘’Dei’’, ‘’degli eroi’’,
degli ‘’uomini’’: rispettivamente sensazione, fantasia e ragione.

Condillac presentava la sua concezione dell’origine del linguaggio come semplice ipotesi, per non
sfidare la Bibbia:

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<< supponiamo che, qualche tempo dopo il Diluvio, due bambini si fossero smarriti in luoghi deserti
prima di conoscere l’uso dei segni>>. Sulla base di tale ipotesi, egli descrive l’origine del linguaggio.
<<uno dei due bambini ha la percezione di un oggetto che potrebbe soddisfare un suo bisogno e lo
manifesta con grida e gesti; l’altro bambino è stimolato a soddisfare questo bisogno fornendo al suo
partner l’oggetto da lei/lui desiderato. I bambini cominciano a collegare sistematicamente queste grida
e questi gesti all’oggetto: nasce così il ‘’linguaggio d’azione’’ > i segni diventano sempre più familiari e i
due bambini giungono a fare ciò che prima non facevano, se non per istinto.>>
Il linguaggio d’azione fu sostituito da un sistema di comunicazione molto più complesso, il ‘’linguaggio
dei suoni articolati’’.

Condillac descrive lo sviluppo delle diverse lingue e traccia la storia delle varie parti del discorso,
giungendo a conclusioni differenti.
 Le prime parole ad apparire sono i nomi, poi gli aggettivi e gli avverbi.
 I primi verbi si sono manifestati più tardi ed erano solo all’infinito: per indicare il passato o il
futuro, si collocarono dopo i verbi alcune parole, dando origine ai verbi flessi.
 Si comincia poi a legare l’aggettivo al suo sostantivo, mediante il verbo ‘essere’.
Le ipotesi di Condillac ebbero successo notevole, tanto che Rousseau affermò che esse gli avevano
fornito la prima idea sull’origine del linguaggio.
Tuttavia, Rousseau individua due problemi all’interno del quadro delineato da Condillac:
- Il primo riguarda il rapporto tra nascita della società e origine del linguaggio > per R. gli
individui vivevano isolati gli uni dagli altri e non esisteva quindi la società. Il linguaggio ha avuto
origine quando gli uomini hanno abbandonato lo stato naturale.
- Il secondo riguarda il rapporto reciproco tra linguaggio e pensiero: il pensiero presuppone un
linguaggio organizzato, ma il linguaggio presuppone un pensiero che lo organizzi > circolo
‘vizioso’.

A queste obiezioni si rifecero i sostenitori del punto di vista razionalista: Beauzée affermava che <<era
difficile enunciare più chiaramente di Rousseau l’impossibilità di dedurre l’origine del linguaggio
dall’ipotesi rivoltante dell’uomo selvaggio nelle prime età del mondo>>.
Per spiegare l’origine del linguaggio, Beauzéé richiamava ancora al dettato biblico, anche per spiegare
la diversità delle lingue.
Aggiungeva anche che i mutamenti introdotti da Dio nella lingua primitiva non potevano essere diversi
da quelli che si sarebbero verificati se i vari gruppi di uomini si fossero dispersi per cause naturali.

Un altro tentativo analogo di conciliare ragione e rivelazione caratterizza anche il saggio del medico
tedesco Johann Süßmilch, che sosteneva di arrivare non <<in base alla storia o alla Bibbia>>, ma su
pura base razionale.
Procede confrontando ipotesi alternative: il linguaggio è stato creato dall’uomo oppure da Dio.
Nel primo caso, dovrebbe essere collocato negli istinti o nella ragione: ma le differenze tra le varie
lingue ci mostrano che il linguaggio umano non si basa su istinti animali, quindi il linguaggio umano non
è il prodotto di un istinto. Ma l’uso della ragione è impossibile senza l’uso dei segni linguistici: quindi il
linguaggio non può che essere stato creato da Dio.
A queste posizioni si contrapposero quelle di Lord Monboddo e Herder.
Per il primo, la natura umana non è qualcosa di statico e immutabile, ma si sviluppa parallelamente alla
società.
Herder conosceva e apprezzava le opere di Monboddo, ma la sua soluzione al problema dell’origine del
linguaggio è diversa, in quanto fa appello a quella che potremmo chiamare la capacità cognitiva
dell’essere umano.

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Egli voleva superare le difficoltà dell’impostazione di Condillac ed evitare conclusioni creazioniste come
quelle di Süßmilch; secondo lui, si può attribuire un linguaggio agli esseri umani per il fatto che sono
animali; tuttavia, questo tipo di linguaggio non può spiegare l’origine del linguaggio in senso stretto.
Secondo Herder, gli animali sono guidati dall’istinto, mentre gli uomini no; la differenza tra essi è quindi
di tipo qualitativo, poiché l’uomo è sprovvisto di istinti animali, ma è dotato di una qualità particolare,
la ‘sensatezza’, il cui linguaggio umano è il prodotto.
Inoltre, secondo Herder, la prima parte del discorso a comparire è il verbo, giacché il linguaggio nasce
dall’osservazione delle azioni.

5.
L’Ottocento
Quadro introduttivo

L’Ottocento è il secolo in cui la linguistica diventa una disciplina autonoma.


Nelle epoche precedenti, del linguaggio e delle lingue si erano occupate varie discipline: le tre ‘’arti del
trivio’’ e la filosofia, ma la linguistica non era ancora stata riconosciuta come campo di studi a sé.
Questo riconoscimento avviene nel 1821, quando l’Università di Berlino istituisce una cattedra di
linguistica, assegnandola a Franz Bopp.
Il fatto che la linguistica diventi disciplina autonoma non significa che perda ogni rapporto con altre
scienze; le caratteristiche della linguistica dell’Ottocento non possono essere comprese correttamente
se non si esaminano questi rapporti, che testimoniano influenze e conflitti. Quest’ultima situazione si
verifica soprattutto per quanto riguarda le relazioni tra la linguistica e la logica.
È difficile distinguere le analisi del linguaggio svolte nel quadro dell’una e dell’altra disciplina.
Dall’Ottocento in poi, linguistica e logica tendono a differenziarsi l’una dall’altra e il portabandiera di
questo ‘’divorzio’’ è il tedesco Heymann Steinthal, che pubblica un volume dal titolo ‘’Grammatica,
logica e psicologia’’, in cui sostiene che la logica ha scopi diversi dalla linguistica:
- Una frase come ‘’questa tavola rotonda è quadrata’’ è perfetta per il grammatico, mentre il
logico la condanna come ‘’nonsense’’;
- Una frase come ‘’questo tavola sono rotondo ’’ è mal formata per il grammatico, ma non
preoccupa il logico.
Steinthal propone quindi di fondarla sulla psicologia > questo è indicativo del clima culturale che
caratterizza i rapporti tra le varie scienze nell’Ottocento.
Anche la psicologia si costituisce come disciplina autonoma, distaccandosi dalla filosofia, e assume le
caratteristiche di scienza sperimentale, grazie all’opera di vari studiosi.
Vedremo più volte come la linguistica degli ultimi due secoli sia spesso interrogata sui suoi rapporti con
la psicologia; per quanto riguarda i rapporti tra linguistica e logica, osserviamo che quest’ultima non è
più vista come la scienza o l’arte del pensiero corretto, ma come un calcolo matematico.
Questo distacco tra le due discipline avrà delle conseguenze negative per entrambe: per molto tempo i
linguisti non saranno in grado di cogliere l’utilità degli strumenti formali elaborati dai logici; e i logici
tenderanno sempre più a disinteressarsi dell’analisi del linguaggi0o naturale.
Un’altra scienza con la quale la linguistica spesso si confronta è la biologia, soprattutto nei rami
dell’anatomia comparata e della teoria dell’evoluzione.
L’anatomia comparata studia le correlazioni tra gli organi delle diverse specie animali, individuandone
le ‘omologie’: due organi si dicono ‘omologhi’ quando derivano da un antenato comune, ma hanno
funzione diversa; organi che hanno stessa funzione ma non origine comune si chiamano ‘analoghi’.
L’anatomia comparata fu presa a modello dalla linguistica, poi chiamata storico-comparativa: la
scoperta di corrispondenze sistematiche tra strutture morfologiche e fonologiche di lingue diverse
permetteva di dimostrare la loro derivazione da una stessa ‘lingua madre’.

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L’individuazione delle omologie apriva la strada alle ipotesi sull’evoluzione delle specie, sostenute da
Charles Darwin.
Darwin si ispirava agli ‘’alberi genealogici’’ delle lingue che la linguistica storico-comparativa stava
costruendo in quegli anni.
Una ventina d’anni prima di Darwin, un cambiamento si era verificato in un’altra scienza naturale, la
geologia, ad opera di uno studioso inglese, Charles Lyell, la cui concezione, detta ‘’uniformista’’, si
opponeva a quella tradizionale detta ‘’catastrofista’’, ispirata al racconto biblico > secondo Lyell, le varie
trasformazione subite dalla Terra si possono spiegare soltanto in base alle stesse cause che sono
attualmente in azione.

5.2
Prime fasi della linguistica storico-comparativa
La ‘’scoperta del sanscrito’’ e Friedrich Schlegel

Il nome esatto della cattedra di Bopp era ‘’Letteratura orientale e linguistica generale’’ > se il termine
‘’linguistica’’ non stupisce, ci si può domandare il motivo del richiamo alla letteratura orientale.
La rivoluzione consiste in un approccio nuovo al problema della classificazione genealogica delle lingue,
cioè del loro raggruppamento in famiglie derivate da una stessa lingua originaria, o ‘lingua madre’. La
radicale novità è dovuta all’azione di diversi fattori e ne possiamo indicare tre:
I. La conquista inglese dell’India, nella seconda metà del Settecento;
II. L’atmosfera culturale del Romanticismo tedesco;
III. Alcune geniali intuizioni di un esponente di questo movimento culturale, Schlegel, che era
uno scrittore, critico letterario e filosofo, che a una lingua dell’India si era dedicato con
entusiasmo.
Questa lingua era il sanscrito, semisconosciuta anche per l’atmosfera di segretezza in cui l’avvolgevano i
sacerdoti indù.
La conoscenza del sanscrito comincia a diffondersi in Europa: tra gli studiosi abbiamo il frate Pasolino
da San Bartolomeo. Questo studioso aveva ipotizzato una parentela tra il sanscrito e le varie lingue
europee, in particolare con tedesco e latino. Un’ipotesi del genere era già stata avanzata da un erudito
inglese, William Jones, che affermava che le affinità che il sanscrito mostrava con latino e greco
facevano pensare che tutte queste lingue derivassero da una fonte comune, che forse non esiste più.
Come diceva Louis Hjelmslev, si può sempre dimostrare che due lingue sono imparentate, ma non si
potrà mai dimostrare che non lo sono: quindi è anche possibile che il cinese e il giapponese siano
imparentate con il latino.
Tuttavia, mentre la parentela tra sanscrito e le lingue europee è stata dimostrata, niente del genere si
può dire delle altre parentele proposte.
Torniamo a Schlegel e alla sua opera, il cui risultato più importante è il libro Sulla lingua e la sapienza
degli Indiani: si tratta di un libro diviso in tre parti, di cui solo la prima tratta del sanscrito, mentre le
altre due hanno per oggetto la filosofia e la cultura indiana.
Schlegel fondò, insieme al fratello, la rivista ‘’Athenaeum’’. Una caratteristica di questo movimento
culturale era la ricerca di pretese radici autentiche dello spirito germanico, cioè indipendenti dalla
cultura greco-latina.
Trovare un’origine comune di tutte le lingue europee nel sanscrito avrebbe significato che esse sono
tutte sullo stesso piano; Schlegel, a differenza di Jones, che alludeva a una possibile lingua originaria
poi scomparsa, credeva che il sanscrito fosse la lingua madre del latino, del greco, del germanico, etc.
Egli si recò a Parigi e trovò una persona che gli insegnò il sanscrito; non era l’unico a ipotizzare una
parentela con le lingue europee, fu tuttavia il primo a dimostrarla, o almeno a indicare il metodo per
farlo. Tale metodo fu applicato da Bopp e perfezionato per tutto il XIX secolo.

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Si può sintetizzare così: due o più lingue sono imparentate se mostrano una corrispondenza sistematica
tra i loro suoni e le loro forme grammaticali.
La coincidenza nel lessico può essere dovuta al contatto che nel corso del tempo si è esercitato tra
queste lingue: si tratta dei cosiddetti ‘’fenomeni di prestito’’.
Questo criterio è messo in discussione da Schlegel: l’ebraico e l’antica lingua indiana hanno in comune
un certo numero di radici di parole, ma questo non prova alcuna parentela. La corrispondenza non
deve presentarsi soltanto tra radici, ma anche tra le desinenze: ad esempio, le forme sanscrite che
significano ‘’io sono, tu sei, egli è’’ corrispondono pienamente a esmi, essi, esti, cioè le forme greche.
Le corrispondenze rilevate sono dunque di due tipi: una lessicale, tra la radice as- del sanscrito e quella
es- del greco; e una grammaticale, tra le desinenze delle tre persone.
Schlegel chiama questo suo metodo di analisi dei rapporti tra le lingue ‘’grammatica comparata’’ e
afferma che esse fornisce delle spiegazioni del tutto nuove sulla genealogia delle lingue.
L’etichetta ‘grammatica comparata’ era già stata utilizzata nel ‘600 e nel ‘700 per confrontare la
struttura di lingue diverse, ma è nuovo il senso che le dà Schlegel > la comparazione non è statica, ma
ha lo scopo di dimostrare una derivazione o un’origine comune.
La tesi di una parentela tra sanscrito e lingue europee si basava sul confronto della flessione verbale.
Sulla base della presenza o assenza della flessione Schlegel distingueva due categorie principali, nelle
quali ricadono tutte le lingue, da lui definite ‘organiche’ e ‘meccaniche’.
Nelle lingue del primo tipo, tempo, persona, numero sono indicati dalla flessione grammaticale, tramite
variazione vocalica interna.
Nelle lingue del secondo tipo, le stesse nozioni sono indicate di volta in volta da una parola appropriata
annessa, che già significhi pluralità, passato, necessità futura.
Secondo Schlegel, solo il sanscrito e le altre lingue imparentate sono organiche; tutte le altre
meccaniche. All’interno di questa seconda categoria, egli notava alcune differenze: da un lato, lingue
come il cinese, in cui le determinazioni di tempo, persona etc. sono indicate da <<parole
monosillabiche>>, dall’altro, lingue come il basco, la cui grammatica è interamente costituita da suffissi
e prefissi.
Osservava poi che tutte le lingue organiche avevano origine comune; di fatto la classificazione
genealogica si sovrapponeva alla classificazione tipologica: le lingue organiche venivano a coincidere
con il sanscrito e le lingue che ne sono derivate, e sarebbero nate dalla capacità riflessiva; quelle
meccaniche invece da ‘’grida meramente fisiche e da prove di espressione linguistica volte ad imitare
suoni’’.

Bopp, Rask, Grimm


Il sanscrito e le altre lingue indoeuropee: Bopp

Il libro di Schlegel suscitò interesse nella cultura tedesca dell’opera.


Il compito di dare però una struttura sistematica alla grammatica comparata e di definirne i metodi e gli
scopi toccò ad un altro studioso, Franz Bopp.
Spesso si tende a considerare Bopp come puro tecnico, inferiore a Schlegel, ma questa immagine è
riduttiva; era piuttosto diversa l’impostazione culturale a essere diversa: nel caso del primo legata al
Romanticismo, il secondo alla tradizione della grammatica generale.
Inizialmente, Bopp concepiva la grammatica comparata come una specie di introduzione al sanscrito,
ma ben presto diventò un fine a sé stesso, dando come risultato il libro Sul sistema di coniugazione
della lingua sanscrita, in comparazione con quello della lingua greca, latina, persiana e germanica (e
alla Rosso sembra lungo il titolo della tua tesi!!!!).
Questo libro non si limitava ad abbozzare una grammatica comparata, ma svolgeva un confronto
sistematico delle forme verbali delle varie lingue esaminate. C’era poi una differenza importante:

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mentre Schlegel considerava il sanscrito come lingua madre, Bopp parlava di ‘’tutte le lingue che
derivano dal sanscrito o da una comune madre’’.
Egli non basava le sue comparazioni sulle parole, ma sui morfemi. Rimaneva legato alla tradizione della
grammatica generale seicentesca: la sua grande idea fu quella di applicare un’analisi di questo tipo alla
comparazione tra sanscrito e altre lingue indoeuropee, creando lo strumento tecnico necessario alla
grammatica comparata.
Bopp scomponeva il latino potest (può) nei tre elementi pot-, -es-, -t-, letteralmente ‘potente-essere-
egli’ > questa analisi era vicina a quella del latino vivo come ‘’io-sono-vivente’’, che si trova in Port-
Royal: entrambe individuavano in un’unica voce verbale la struttura soggetto-copula-predicato.
Bopp riconduceva la desinenza -t a una forma originaria ta, che indicherebbe la terza persona
singolare, in base al fatto che ta in sanscrito e to in greco significano ‘’egli, questo’’.
Altra idea di Bopp è quella che la ‘’comune madre’’ delle lingue indoeuropee rappresenti uno stadio di
lingua perfetto e che le modifiche siano manifestazione di decadenza.

La grammatica storico-comparativa delle lingue germaniche: Rask e Grimm

Lo scopo di Schlegel era quello di provare la parentela del sanscrito con varie lingue europee.
Questo genere di prova differiva in modo radicale dai tentativi precedenti per il fatto di fondarsi non su
una generica comparazione tra parole, ma tra elementi grammaticali.
Si dimostrò che il metodo storico-comparativo si poteva applicare anche senza prendere in esame il
sanscrito e che la comparazione poteva basarsi anche sui suoni.
Questi due risultati furono fondamentali nella definitiva costituzione della grammatica storico-
comparativa: essi sono dovuti all’opera di due studiosi Rasmus Rask e Jacob Grimm, che inaugurarono
la grammatica storico-comparativa delle lingue germaniche e una lingua di attestazione, il gotico.
L’opera di Grimm a cui ci riferiamo è intitolata ‘’Grammatica tedesca’’, ma si tratta di un tetso per tutte
le lingue germaniche.
La scoperta più importante è la ‘mutazione consonantica germanica’: con questo termine si intende
l’individuazione di corrispondenze sistematiche tra le consonanti occlusive delle lingue germaniche da
un lato, e quelle di altre lingue europee dall’altro > questa è la prima mutazione.
La seconda mutazione consonantica germanica individua le corrispondenze tra le occlusive dell’antico
tedesco e delle altre lingue germaniche. Le due mutazioni possono essere formulate come segue:
a) Alle occlusive sorde (p, t, k) del greco e del latino corrispondono I) spiranti sorde nelle lingue
germaniche e II) occlusive sonore in AAT.
b) Alle occlusive sonore (b, d, g) del greco e del latino corrispondono I) occlusive sorde nelle lingue
germaniche e II) spiranti sorde in AAT
c) Alle spiranti sorde (ph, th, kh) del greco corrispondono I) occlusive sonore nelle lingue
germaniche e II) occlusive sorde in AAT

Istituzionalizzazione della linguistica storico-comparativa

La linguistica storico-comparativa comincia ad avere un assetto istituzionale e preciso: questo è dovuto


a Bopp ma anche ad un suo allievo, August Friedrich Pott.
L’opera maggiore è rappresentata dalle ‘’Ricerche etimologiche nel dominio delle lingue indoeuropee’’
> nell’introduzione a quest’opera, Pott sosteneva che la linguistica storico-comparativa era una
disciplina autonoma, con scopo la ricostruzione della lingua madre indoeuropea. Egli forniva una un
elenco di radici da cui derivavano le parole comuni alle varie lingue indoeuropee, e indicava le varie
corrispondenze fonetiche che permettevano di giustificare un’etimologia ricostruita.

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Si chiarì che il suono e il significato tra parole in due lingue diverse non indica un’origine comune e che
due parole molto diverse tra loro possono avere una tale origine.
Un esempio è il caso di bad in inglese e in persiano > sono identiche ma non sono etimologicamente
imparentate tra loro.
A metà dell’Ottocento, grazie a Bopp, Pott e altri la famiglia linguistica indoeuropea era stata suddivisa
nei seguenti gruppi: indiano, iranico, armeno, greco, albanese, italico, slavo, baltico, germanico e greco.

5.3
La linguistica generale dell’Ottocento
La tradizione della grammatica generale

La tradizione della grammatica generale seicentesca non si spense da un momento all’altro, ma è


indiscutibile che questa abbia subito un progressivo declino.
Un chiaro sintomo di questo declino è il fatto che la Grammaire di Port-Royal non venne più ristampata
fino al 1966.
Particolarmente significativa fu l’opera di alcuni studiosi di Francoforte per la lingua tedesca e in
particolare quella di Karl Ferdinand Becker: a lui si deve la distinzione tra rapporto attributivo (la casa
bianca) e predicativo (la casa è bianca). Becker definisce il rapporto attributivo come <<espressione di
un concetto>> e quello predicativo come <<espressione di un giudizio>>. L’opposizione tra concetto e
giudizio risale a P.R., ma Becker la utilizza anche come criterio per distinguere la frase principale dalla
subordinata; inoltre, stabilì la classificazione ancora oggi in uso: soggettive, oggettive, attributive e
avverbiali.

Humboldt tra universalismo e relativismo

Il maggior linguista teorico del XIX secolo è Wilhelm von Humboldt, il quale si ritirò da ogni carica
pubblica per dedicarsi unicamente agli studi, soprattutto quelli sul linguaggio.
Il suo pensiero in materia è stato oggetto di interpretazioni differenti, dovute anche al suo modo di
esprimersi, spesso oscuro e contradittorio. C’è chi lo ha ritenuto legato al Romanticismo e chi alla
linguistica di età illuminista.
In base alla prima interpretazione è l’alfiere del relativismo linguistico, cioè di una differenza tra le varie
lingue; in base alla seconda, si muove nella tradizione della grammatica generale e considera il
linguaggio come espressione di una struttura universale di pensiero.
Secondo lui, il linguaggio è connaturato all’uomo: <<l’uomo è uomo solo attraverso il linguaggio; ma
per inventare il linguaggio egli doveva già essere uomo>>.
Non si può pensare che il linguaggio abbia avuto un’origine in un determinato momento della storia
dell’umanità. Il linguaggio non ha avuto origine come risposta a necessità di <<aiuto reciproco>>: per
sopperire a queste necessità, sarebbero bastati dei <<suoni inarticolati>>.
Il linguaggio potrebbe essere chiamato <<un istinto intellettuale della ragione>>; altrove lo definisce
<<l’organo formativo del pensiero>>.
Sotto questo aspetto si può pensare ad un influsso di Immanuel Kant: il linguaggio farebbe parte di
quegli elementi che Kant definiva ‘trascendentali’, cioè non derivati dall’esperienza.
Una delle affermazioni più famose di Humboldt è che il linguaggio non è un’opera ma un’attività.
Chomsky ha considerato tale affermazioni vicina alla sua concezione del linguaggio come costituito
fondamentalmente da un insieme di ‘’regole generative’’; Benedetto Croce concludeva che la
descrizione grammaticale di una lingua non ha un reale fondamento scientifico, ma utilità pratica.

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Humboldt è lontano da queste posizioni: la sua insistenza sul linguaggio come attività non esclude
affatto che esso possa essere analizzato con gli strumenti della grammatica; sostiene che la stessa
grammatica generale deve essere assunta come un <<canone>> per la comparazione delle lingue.
Egli è ‘’universalista’’ o ‘’relativista’’? sembra vicino alla prima quando definisce la grammatica come il
canone per il confronto interlinguistico; alla seconda quando scrive che <<ogni lingua traccia intorno al
popolo a cui appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando nel cerchio di un’altra
lingua>>.

La tipologia linguistica da Humboldt a Gabelentz

Humboldt elenca quattro tipi possibili di parentela tra lingue. Il quarto e più generale è che tutte le
lingue umane sono apparentate in quanto tutte condividono alcune caratteristiche.
Gli altri tipi sono rappresentati da:
I. Lingue che appartengono allo stesso ‘ceppo’, in cui si osserva identità e somiglianza di
concrete forme grammaticali;
II. Lingue che appartengono alla stessa ‘area’, che non presentano tale somiglianza, ma che
condividono una parte del lessico;
III. Lingue che appartengono alla stessa ‘classe’, che non hanno in comune né forme
grammaticali, né lessico.
Il primo tipo di parentela è quella genealogica; il secondo tipo è quella areale (lingue balcaniche, che
appartengono a gruppi diversi, ma che hanno affinità di lessico); il terzo tipo è tipologica.
Humboldt distingue con chiarezza genealogica e tipologica; Schlegel distingueva due tipi di lingue,
organiche e meccaniche > suo fratello ne distinse tre: ‘’senza struttura grammaticale’’, ‘’che usano
affissi’’ e quelle ‘’a flessioni’’.
Humboldt a queste ne aggiunge un quarto, le lingue ‘’incorporanti’, in cui le etichette ‘isolante,
agglutinante, flessivo, incorporante’ hanno avuto molto successo.
Egli intende il ‘tipo’ non come una classe di lingue, ma come entità astratta: non esistono lingue
agglutinanti o flessive etc., ma tutte le lingue presentano una o più forme di queste al loro interno.

Henri Weil si basa su un criterio fondamentale per la tipologia linguistica di oggi, nel classificare:
l’ordine delle parole nella frase.
Weil si richiama all’opposizione tracciata da Girard e Beauzée tra lingue analoghe e traspositive, ma la
sostituisce con quella tra lingue <<a costruzione libera>> e a <<costruzione fissa>>.
Queste ultime si distinguono a loro volta in lingue <<a costruzione ascendente>> e <<discendente>>:
nel primo tipo la parola dipendente precede la parola reggente, nel secondo tipo è inverso.
Non esistendo più un’opposizione tra lingue analoghe e traspositive, non si può nemmeno affermare
che esistano lingue più logiche delle altre: tuttavia anche Weil dispone le lingue su una scala di valore.
La costruzione ascendente e la costruzione discendente sono considerate sullo stesso livello, tuttavia
una lingua è perfetta se fa ricorso ad entrambe.
L’idea che le lingue siano ordinate su una scala di valore verrà abbandonata ad opera di Georg von der
Gabelentz, al quale si deve l’introduzione del termine ‘’tipologia’’.
Per lui, non esiste una differenza tra lingue e osserva che molte delle caratteristiche che dovrebbero
dimostrare la superiorità delle lingue indoeuropee non sono loro esclusiva, e che altre potrebbero
essere manifestazione di inferiorità: ad esempio, l’assegnare il caso nominativo al soggetto e anche al
predicato, genera confusione.

A Weil e Gabelentz è dovuta un’analisi della struttura della frase innovativa: Weil parlava di ‘punto di
partenza’ e di ‘scopo dell’enunciazione’ di una frase.

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Gabelentz chiama queste due categorie ‘soggetto psicologico’ e ‘predicato psicologico’: il primo è ciò
verso cui l’emittente dirige l’attenzione del destinatario; il predicato è ciò che l’emittente cominica al
destinatario a proposito del soggetto.

5.4
Sviluppi della linguistica storico-comparativa
La ricostruzione dell’indoeuropeo: Schleicher

Negli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento, l’edificio della linguistica storico-comparativa


indoeuropea viene completato da August Schleicher, le cui concezioni generali saranno oggetto di
dibattito.
Il risultato indiscutibile è costituito dal definitivo chiarimento da lui operato in merito al rapporto
genealogico tra le varie lingue indoeuropee.
Schleicher risolve il problema in maniera netta: il sanscrito, il latino, il greco etc. sono tutte lingue
‘’sorelle’’, derivate da un’unica lingua originaria, cioè l’indoeuropeo. Questa lingua è una lingua come le
altre: la sola differenza è che mentre queste ultime sono attestate, cioè documentate oppure scritte e
parlare, l’indoeuropeo è una lingua ricostruita.
Per indicare la differenza tra forme attestate e ricostruite, Schleicher introdusse una notazione
destinata a imporsi fino a oggi: la collocazione di un asterisco davanti alle forme del secondo tipo.
È possibile ricostruire i morfemi; combinando i morfemi, le parole, combinando le parole, anche le frasi
dell’indoeuropeo > quest’operazione non poteva dare un risultato attendibile: nella sua ricostruzione,
Schleicher si basava inevitabilmente su lingue attestate in epoche molto distanti tra loro.

Il ‘’naturalismo’’ di Schleicher

Abbiamo parlato più volte di parentela per individuare i rapporti tra le varie lingue: questa immagine si
traduce, in Schleicher, in un modello scientifico, ossia quello dell’albero genealogico di tali lingue. Alla
radice di tale albero sta l’indoeuropeo originario ricostruito, da cui si dipartono due rami principali;
ciascuno di questi si ramifica a sua volta, con un processo che è sempre binario.
Questo modello è stato ispirato dalla biologia e in modo particolare dalla teoria dell’evoluzione di
Darwin; Schleicher pubblicò un opuscolo intitolato La teoria di Darwin e la scienza della linguistica,
dove affermava che le lingue <<sono organismi naturali che sono sorti, cresciuti e sviluppati secondo
leggi fisse>>. La situazione è più complessa, perché il concetto darwiniano di selezione naturale non ha
spazio tra i suoi scritti: egli afferma che la storia del linguaggio si divide in due periodi: uno, preistorico,
di sviluppo e uno, storico, di decadenza. Questa concezione contrasta con la prospettiva darwiniana, in
base alla quale il trascorrere del tempo non produce una decadenza, bensì uno sviluppo.

Secondo Schleicher le lingue ‘’arie’’ (sanscrito e persiano), il latino e il greco, si trovano su uno dei due
rami principali, mentre le lingue germaniche sono collocate sull’altro: le lingue del primo ramo
dovrebbero mostrare molte più affinità tra loro che non con quelle dell’altro. Tuttavia, ci sono molti più
elementi in comune tra latino, greco e lingue germaniche che non tra latino, greco e lingue ‘’arie’’. Dato
che il modello dell’albero non prevede incroci, tale somiglianza non può essere spiegata.
Per ovviare a queste difficoltà, un suo allievo, Schmit, elaborò una nuova immagine, sostituendo quella
dell’albero con quella <<delle onde, che si propagano in cerchi concentrici, i quali si affievoliscono
allontanandosi dal centro>>: in base a essa, le varie lingue indoeuropee costituiscono una sorta di
continuum, trapassando l’una nell’altra solo con piccole modificazioni.

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Entrambi i metodi, da fine Ottocento, sono considerati insufficienti, ma ugualmente necessari per
illustrare i vari rapporti tra le lingue indoeuropee.

La linguistica si oppone alla filologia: mentre la seconda è di tipo storico, la prima adotta un metodo
<<totalmente diverso da quello di tutte le scienze storiche>> e che <<si lega piuttosto a quelle delle
scienze naturali>.
Per Schleicher, solo la morfologia e la fonologia appartengono alla linguistica, mentre la sintassi alla
filologia.
La concezione naturalistica di Schleicher si spiega quindi come tentativo di dare una giustificazione del
carattere regolare delle corrispondenze linguistiche individuate dalla grammatica storico-comparativa,
alle quali si cominciava a dare il nome di ‘’leggi’’.

Critici del naturalismo linguistico: Whitney e Bréal

Alla concezione naturalistica come scienza naturale si opposero vari studiosi, tra i quali William
Whitney e Michel Bréal. Entrambi fornirono contributi importanti alla linguistica generale ed insistono
sulla natura del linguaggio come strumento di comunicazione.
La prospettiva di Whitney contrasta non solo con quella di Schleicher, ma anche con quella di
Humboldt, il quale aveva sostenuto che l’origine del linguaggio non si poteva spiegare semplicemente
in base a necessità comunicative.
Whitney assume invece una posizione simile a quella di Condillac: dal fondamento sociale del
linguaggio deriva il fatto che esso è arbitrario e convenzionale.
Bréal afferma che <<il linguaggio è stato, prima di tutto, uno strumento di comunicazione necessario
tra gli uomini>>, quindi sostiene che la linguistica non è una scienza naturale, ma una scienza storia, in
quanto l’oggetto di cui tratta non esiste in natura.
Questa visione del linguaggio come entità sociale e storica è anche alla base del lavoro più famoso di
Bréal, il suo ‘’Saggio di semantica’’: semantica fu coniato da Bréal in opposizione a ‘fonetica’.
Egli contrappone le ‘’leggi intellettuali del linguaggio’’ alle ‘’leggi fonetiche’’. Queste leggi intellettuali
non sono cieche, ma condizionate dalla volontà umana.
Tra le molte pagine scritte, importanti sono quelle dedicate al segno linguistico, al suo concetto e al suo
rapporto col pensiero: Bréal sottolinea il ruolo fondamentale del linguaggio per quanto riguarda
l’organizzazione del pensiero. L’idea certamente precede il segno, tuttavia è solo quando è espressa
tramite un segno che noi siamo sicuri di possederla e di poterla comunicare agli altri.

I due si mostrano legati alle concezioni dei primi decenni del secolo: entrambi adottano l’idea di Bopp
secondo cui la coniugazione verbale indoeuropea deriva dalla combinazione di radici indipendenti;
sostengono che alcune lingue siano più sviluppate di altre.
Whitney scrive che <<una infinità di cose possono dirsi in inglese e non in figi; altrettante possono dirsi
in figi e non nei primi linguaggio umani>>; Bréal afferma che le lingue indoeuropee sono superiori alle
altre grazie alla loro maggior capacità di creare nomi astratti > esclude però ogni implicazione razzista,
dicendo che non bisogna confondere lingue e razze.

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5.5
Il perfezionamento della linguistica storico-comparativa: l’epoca dei neogrammatici
Nuove scoperte e nuove concezioni

Il quadro della grammatica storico-comparativa delineato da Schleicher era molto più organico e
completo di quello trasmesso dai ricercatori precedenti, ma la sua visione naturalistica non aveva
trovato consenso: tale posizione contrastava con quella di Stenthal, che fondava la linguistica sulla
psicologia e sull’analisi dei processi mentali dell’individuo.
Schleicher fondava la storia delle lingue indoeuropee in due periodi, preistorico e storico, ma questa
posizione non era sua esclusiva, perché era propria anche di linguisti della generazione precedente alla
sua > tale concezione contrastava con la prospettiva ‘’uniformista’’ che si stava imponendo nelle
scienze della natura.
A parte le dispute sulla natura del linguaggio, era lo stesso edificio rappresentato dal ‘’Compendio’’ che
aveva bisogno di perfezionamenti: Schleicher usava in modo sistematico l’espressione ‘’leggi
fonetiche’’, ma molte di queste leggi presentavano varie eccezioni inspiegate.
Il decennio successivo fu caratterizzato da nuove scoperte nel campo della linguistica che ricondussero
molte eccezioni all’azione di altre leggi.
Tra queste la più famosa è la cosiddetta ‘’legge di Verner’’: il caso a) della prima mutazione
consonantica asserisce che le occlusive sorde dell’indoeuropeo diventano spiranti sorde nelle lingue
germaniche e un esempio è la parola ‘fratello’: tuttavia, questa corrispondenza non la si trova in altre
parole.
Verner trova la spiegazione, riassunta così:
- Se nella lingua indoeuropea originaria l’accento cade sulla sillaba precedente, le occlusive sorde
diventano spiranti sorde nelle lingue germaniche;
- Se l’accento cade sulla sillaba seguente, le stesse occlusive diventano sonore.

I princìpi della scuola neogrammatica

Ai risultati di Verner se ne affiancarono vari altri, come la cosiddetta ‘’legge delle palatali’’, che tolse al
sanscrito la posizione di testimone privilegiata della lingua originaria. Questa legge spiegava
un’apparente bizzarria del sanscrito, cioè il fatto che in alcune parole la vocale a è preceduta da una c
come nell’italiano ‘cena’, in altre invece da una come nell’italiano ‘casa’: questa diversa pronuncia si
spiega per il fatto che, nel primo caso, la vocale a deriva da una vocale originaria indoeuropea e, nel
secondo caso, da una o. questo mostrava che il sistema vocalico si è modificato rispetto all’originario
sistema indoeuropeo.
L’effetto globale di queste ricerche fu un cambiamento notevole dell’immagine della linguistica storico-
comparativa di Schleicher.
Questo cambiamento trovò la sua formulazione nella dottrina dei cosiddetti ‘’neogrammatici’’, gruppo
di linguisti formatosi all’Università di Lipsia.
Non stupisce che essi volessero fondare la linguistica non sulle scienze naturali, ma sulla psicologia;
questa posizione è espressa nelle prime pagine del cosiddetto ‘’manifesto dei neogrammatici’’, cioè la
prefazione di Osthoff e Brugmann a una raccolta di studi sulla morfologia delle lingue indoeuropee.
I neogrammatici affermavano che le lingue non sono entità biologiche estranee all’uomo, ma elementi
della sua psiche, e che l’attività linguistica degli esseri umani è stata la stessa in tutte le epoche: una
concezione uniformista quindi.
Erano formulati i ‘’due principi della scuola neogrammatica’’, ossia l’ineccepibilità delle leggi fonetiche e
il ruolo dell’analogia in tutte le epoche della storia linguistica.

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Il primo principio era suggerito da risultati come quello di Verner: le eccezioni alle leggi fonetiche sono
solo apparenti, in quanto determinate dall’azione di altre leggi; alcune apparenti eccezioni erano poi
spiegate dall’azione del secondo principio, quello dell’analogia: ad esempio, una legge fonetica
stabilisce che ĕ (‘’e breve’’) latina si trasforma nel dittongo italiano ie solo se è in posizione accentata:
quindi dal latino pĕde(m) deriva ‘piede’, ma da pĕdāle(m), ‘pedale’. Tuttavia, abbiamo ‘chiedo’, in cui il
dittongo -ie- è in posizione accentata, e ‘chiediamo’, in cui lo stesso dittongo è posizione atona.
Questa apparente violazione della legge si spiega in quanto la seconda delle due parole è stata
costruita in base all’analogia con la prima.
I neogrammatici sostenevano che l’analogia è ed era sempre attiva e non ha soltanto la funzione di
spiegare alcune apparenti eccezioni alle leggi fonetiche, ma rende ragione anche dell’origine di nuove
forme grammaticali, di nuove parole, frasi etc.
Su questo potere creativo dell’analogia si soffermò Paul, che si preoccupa di definire la posizione della
linguistica rispetto alle altre scienze, che distingue in due tipi fondamentali: quelle ‘’basati sulle leggi’’ e
quelle ‘’storiche’’ > esistono <<scienze storiche della natura>> e <<scienze storiche della cultura>>.
L’opposizione tra i due tipi di scienze si basa sul fatto che in quelle del primo tipo manca un qualunque
riferimento allo sviluppo, concetti che invece caratterizzano le scienze storiche.
Cos’è dunque la linguistica? Una scienza storica che contiene una componente basata su leggi, ossia la
componente psicologica.
La psicologia ha per oggetto unicamente l’attività mentale dell’individuo; di conseguenza, anche il
linguaggio è un fenomeno puramente individuale.
Come fanno diversi individui a parlare tra loro? Paul risolve il quesito ricorrendo al <<presupposto che
l’organizzazione mentale di tutti gli uomini sia la stessa>>. L’interazione tra diversi individui produce ciò
che Paul chiama ‘’uso linguistico’’, che è una sorta media derivata dal confronto dei singoli organismi
linguistici, ed è su questa media che si basano le nozioni di ‘lingua’ o ‘dialetto’.
Per Paul e per i neogrammatici, tra lingua e dialetto non c’è differenza dal punto di vista linguistico, ma
solo dal punto di vista sociale.
Uno dei risultati dei neogrammatici è di aver chiarito la natura esclusivamente sociale della distinzione
tra lingua e dialetto.

I neogrammatici e i loro avversari: il dibattito sulle leggi fonetiche

I neogrammatici arrivarono a perfezionare l’edificio della linguistica storico-comparativa: il risultato più


significativo è l’opera di Brugmann e Delbrück, che è in realtà una monumentale trattazione della
fonologia, della morfologia e della sintassi delle lingue indoeuropee. Che quest’opera abbia segnato
una svolta definitiva è mostrato dal fatto che essa è tuttora un punto di riferimento per gli studiosi del
campo.
La concezione del linguaggio propria dei neogrammatici non trovò, tuttavia, consenso generale, anzi
provocò un acceso dibattito > ancora una volta si confrontavano due visioni opposte del linguaggio e
della linguistica. I neogrammatici si distaccavano da Schleicher: rifiutavano di opporre un periodo di
sviluppo ad uno di decadenza e affermavano che le lingue non sono entità biologiche, ma psicologiche.
Tuttavia, sia Schleicher che loro condividevano l’idea di un’affinità metodologica tra la linguistica e le
scienze naturali, in quanto entrambe possono formulare leggi, le leggi fonetiche.
Inizialmente, i neogrammatici sostenevano che tali leggi sono in tutto e per tutto assimilabili a quelle
delle scienze naturali: Paul, inizialmente, scriveva che ‘’ogni legge fonetica ammette eccezioni tanto
poco quanto una legge chimica o fisica’’, tuttavia si corresse affermando che ‘’il concetto di legge
fonetica non va inteso nel senso in cui si parla di chimica o fisica’’.
La legge fonetica non enuncia ciò che deve sempre verificarsi sotto certe condizioni generali, bensì so
limita a constatare la regolarità all’interno di un gruppo di determinati fenomeni storici.

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La differenza fondamentale tra i due tipi leggi riguarda il loro rapporto con il variare dello spazio e del
tempo: è difficile sostenere che la legge di Lavoisier sia valida in Francia e non in Australia; viceversa, la
legge di Grimm si è applicata solo in un determinato ambito geografico e in un determinato periodo
storico. Questo effetto limitato nel tempo della legge in questione si riconosce facilmente.
Confrontiamo i suoni iniziali di due coppie di parole italiane e inglesi:
- ‘pesce’ e fish
- ‘pagare’ e pay
Nella prima coppia, alla P italiana corrisponde una F, nella seconda una P: la legge di Grimm si è
applicata solo nella prima delle due parole, che era già presente, nella lingua da cui l’inglese è derivato.
Viceversa, pay è entrato nell’inglese solo nel XII-XIII secolo d.C., come prestito dal francese payer: dato
che a quell’epoca la prima mutazione consonantica non era più attiva, la P si è mantenuta identica.
Questa concezione delle leggi fonetiche come semplici constatazioni di regolarità di mutamenti di suoni
in determinate epoche si impose presso i neogrammatici.
Tuttavia, alla base di essa c’era l’idea che le lingue mutano nel tempo con regolarità e che quindi la
linguistica è una disciplina affine alle scienze della natura; a questa idea si opposero linguisti che
consideravano la linguistica come scienza storica e sociale: tra questi abbiamo Graziadio Iaia Ascoli,
Hugo Schuchardt e Jules Gilliéron, accumunati dal fatto di occuparsi di lingue romanze.

Ascoli introdusse in Italia la linguistica storico-comparativa e coniò il termine ‘’glottologia’’: a lui si deve
la fondazione della più longeva rivista di linguistica, l’’’Archivio glottologico italiano’’.
I suoi studi sul consonantismo indoeuropeo rappresentavano una di quelle grandi scoperte che
avevano ispirato ai neogrammatici la dottrina dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche.
Ciò che Ascoli opponeva a loro era la concezione generale della linguistica: polemizzava con la loro
posizione ‘’psicologista’’ > per lui, la linguistica non era scienza psicologica, bensì scienza etnologica:
dava particolare importanza al ‘sostrato’, cioè all’influsso che la lingua precedente di una popolazione
avrebbe esercitato su una nuova lingua: ad esempio, la pronuncia della u originaria latina come ü, in
molti dialetti settentrionali, sarebbe dovuta al fatto che, nelle aree in cui si parlano oggi tali dialetti,
anticamente si parlava una lingua che pronunciava tale vocale.

Schuchardt respingeva l’assunto dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche. In un saggio insisteva


sull’esistenza di mutamenti fonetici sporadici: l’attribuire ‘’leggi’’ al linguaggio significava rimanere
ancorati a una concezione simile a quella di Schleicher.
Schuchardt concepisce il linguaggio come fenomeno strettamente individuale: ogni singolo individuo
parla un proprio dialetto, diverso da qualunque altro; di conseguenza, qualunque tentativo di ricercare
leggi linguistiche è destinato al fallimento.
Possiamo notare come egli parta da premesse simili a quelle di Paul, per arrivare a conclusioni opposte:
entrambi sostengono che la linguistica è una ‘’scienza dello spirito’’ e che il linguaggio è un fenomeno
individuale. Questa contraddizione si spiega sulla base di differenti valori che la parola Geist ha in
tedesco: il primo è quello di ‘’mente’’, il secondo di ‘’insieme delle attività non materiali’’.
Paul lo intende nel primo senso, Schuchardt nel secondo, concentrandosi sul contributo dei singoli
individui allo sviluppo storico delle lingue.

Gilliéron introdusse un’innovazione fondamentale negli studi dei dialetti: egli ricorse al metodo
dell’intervista diretta dei parlanti dialettofoni. Questo nuovo metodo permetteva la raccolta di un
insieme di dati molto più vasto; la nuova metodologia si realizzò nell’Atlas linguistique de la France, al
cui modello se ne ispirarono altri come i due italiani AIS e ALI.
Un atlante linguistico è costituito da carte geografiche di un determinato territorio, una per ogni parola
o espressione: sulla carta geografica, si trovano le forme che essa ha assunto nelle varie località in cui
sono state effettuate le interviste. Per quanto riguarda i territori di lingua romanza, la parola di cui si

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esaminano i vari esiti dialettali è la forma latina originaria: si constata che questa forma è scomparsa,
sostituita da un’altra forma.
Questa sostituzione può essere un fenomeno di prestito, o altri fattori: l’esempio più famoso è quello
delle parole per ‘gallo’ e ‘gatto’ nei dialetti del sud-ovest della Francia: l’ALF mostra che la parola per
‘gallo’ non deriva dal latino gallu(m), ma da quelle per ‘fagiano’ o ‘vicario’.
Questa sostituzione è un tipico caso in cui i parlanti sono ricorsi a un <<mezzo terapeutico>> per sanare
una <<omonimia intollerabile>>. L’evoluzione fonetica ha prima fatto cadere la desinenza latima -um,
poi ha trasformato il gruppo consonantico finale ll in t: quindi, da un originario latino gallu(m) si è
passati prima a gall, poi a gat.
Fenomeni come questo spinsero Gilliéron a parlare di <<bancarotta dell’etimologia fonetica>>, ossia
dell’etimologia condotta con i metodi dei neogrammatici.
Entrambi avevano obiettivi differenti: il primo voleva ricostruire la storia di singole parole, i secondi
andavano alla ricerca di regolarità nell’evoluzione fonetica.

6.
La prima metà del Novecento
Quadro introduttivo

Se l’Ottocento è considerato il secolo della linguistica storico-comparativa, il Novecento è visto come


quello della linguistica generale: questa immagine è riduttiva, perché la prima fu praticata largamente
anche in questo secolo.
Nei primi decenni del secolo furono individuate due lingue indoeuropee: il tocario e l’ittita. Le
testimonianze della prima furono rinvenute nell’attuale Turkestan, della seconda nell’Anatolia centrale.;
furono poi ritrovati documenti in lingue imparentate con l’ittita e si individuò un ramo della famiglia
indoeuropea detta appunto anatolico.
Queste importanti scoperte non modificavano il quadro generale della linguistica storico-comparativa,
esse aggiungevano dettagli o conferme alle teorie già stabilite.
Novità sul piano teorico non potevano nascere che estendendo gli studi sul linguaggio ad altri campi:
uno di questi poteva essere l’analisi di lingue non indoeuropee o l’elaborazione di metodi e prospettive
nuove per l’analisi dei fatti linguistici.
Lo svizzero Ferdinand de Saussure è considerato il ‘’padre’’ della linguistica contemporanea e il suo
lavoro consisteva nel chiarire il valore esatto dei termini e delle nozioni che il linguista normalmente
impiega.
Altro linguista è Jan Baudouin de Courtenay: a lui e ai suoi allievi, noti come ‘’Scuola di Kazan’’, si
devono importanti osservazioni che furono riprese dai linguisti successivi.
Tra queste, ricordiamo la distinzione tra ‘’dinamica’’ e ‘’statica’’ dei suoni:
- La prima <<studia le leggi e le condizioni di sviluppo dei suoni nel tempo>>
- La seconda esamina i suoni da un lato come fatto puramente fisico, dall’altro in base <<al loro
ruolo nel meccanismo della lingua>>
Questa distinzione tra statico e dinamico prelude a quello tra ‘’sincronico’’ e ‘’diacronico’’ che Saussure
traccerà in seguito. I linguisti di Kazan distinguevano poi un aspetto ‘’antropologico’’ e uno ‘’fonetico’’:
il primo riguarda le proprietà fisiche dei suoni, il secondo la capacità dei suoni di modificare i significati.
Baudouin suggeriva di utilizzare denominazioni diverse per i due tipi di fenomeni: nel caso di una
differenza antropologica, si poteva continuare a parlare di suoni; in quello di differenza fonetica, di
fonemi.

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Il termine fonema assumeva quindi un valore tecnico, diventato di uso comune in linguistica a partire
dalla Scuola di Praga. I membri di tale scuola chiameranno ‘’fonetici’’ i fenomeni che i linguisti di Kazan
chiamavano antropofonici, mentre battezzeranno ‘’fonologici’’ quelli del secondo tipo.
Idee simili furono portate avanti da Saussure.

6.2
Ferdinand de Saussure
Cenni sulla vita e le opere

Egli compì i suoi studi di linguistica a Lipsia e contribuì a quella grande stagione di scoperte bell’ambito
della linguistica storico-comparativa che fu alla base della dottrina neogrammatica.
Si trasferì a Parigi, dove ottenne un posto di insegnamento alle Ecole pratique des hautes études.
Le sue pubblicazioni si diradarono considerevolmente: l’unico volume che pubblicò rimane il già citato
studio sul vocalismo indoeuropeo > questo era dovuto al fatto che Saussure si interrogava in modo
sempre più critico sui fondamenti della linguistica, senza però arrivare a soluzioni. Ebbe occasione di
presentare le sue riflessioni durante tre corsi di ‘’Linguistica generale e storia e comparazione delle
lingue indoeuropee’’; due suoi antichi allievi, Charles Bally e Albert Sechehaye, elabirarono un volume
intitolato Corso di linguistica generale: questo volume segnò l’inizio di una nuova epoca nella
linguistica, influenzando varie generazioni di studiosi.

Le dicotomie saussuriane
Presentazione

La teoria linguistica di Saussure è riassunta in quattro ‘’dicotomie’’, cioè opposizioni binarie tra concetti:
I. Langue vs parole
II. ‘Sincronia’ vs ‘diacronia’
III. ‘Significante’ vs ‘significato’
IV. ‘Rapporti sintagmatici’ vs ‘rapporti associativi’

La prima dicotomia oppone il lato sociale del linguaggio a quello individuale; parole corrisponde
all’italiano ‘parola’ nel senso che il termine ha in locuzioni come ‘il dono della parola’, ‘perdere la
parola’ etc.
<<sincronia e diacronia>> designeranno uno stato di lingua e una fase di evoluzione; lo stato di lingua
può essere quello attuale, ma anche quello di un altro momento storico.
Significante e significato sono quelle che S. chiama le <<due facce>> del segno linguistico, ossia
<<un’immagine acustica>> e <<un concetto>>. Egli afferma che il legame che unisce significante e
significato è arbitrario: si tratta della cosiddetta ‘’dottrina dell’arbitrarietà del segno’’ che ha un ruolo
centrale nel suo pensiero.
L’opposizione tra rapporti sintagmatici e rapporti associativi può essere semplificata tramite la parola
‘’insegnamento’’: la combinazione tra il tema insegna- e il suffisso -mento è un caso di rapporto
sintagmatico, cioè di combinazione tra due segni; l’associazione tra ‘insegnamento’ e ‘apprendimento’,
‘istruzione’, ‘educazione’ etc. è un caso di rapporto associativo.

Langue e parole, sincronia e diacronia

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Le dicotomie sono legate l’una all’altra e hanno il loro fondamento nello sforzo di Saussure di
rispondere alle sue domande metodologiche fondamentali: che cos’è un’entità linguistica? Che cosa ci
permette di dire che il latino calidum e il francese chaud sono la stessa cosa, cioè che formano una
<<identità diacronica>>? Non basta dire che i suoni latini sono diventati i corrispondenti suoni francesi
per via di mutamenti fonetici regolari, descritti dalle leggi fonetiche.
La risposta data da Saussure è complessa. Osserviamo anzitutto che il problema dell’identità non si
pone soltanto per calidum e chaud, ma anche per qualunque espressione utilizzata più volte a pochi
minuti di distanza: è interessante sapere come mai Messieurs ripetuto più volte di seguito è identico a
sé stesso quanto sapere perché chaud è identico a calidum.
Il primo problema, cioè quello che S. chiama della <<identità sincronica>>, si risolve assumendo che gli
appartenenti a una stessa comunità linguistica condividano un codice: la langue. Le unità che la
costituiscono sono realizzate dai singoli parlanti: l’insieme di queste diverse realizzazioni è la parole.
Il problema che si poneva Saussure è lo stesso di Paul, ma la soluzione è diversa; mentre il
neogrammatico risolveva il problema della comunicazione assumendo che ciascun individuo
ricostruisce nella mente del suo interlocutore le stesse entità, per Saussure la comunicazione è
possibile in quanto tutti gli appartenenti a una stessa comunità linguistica dispongono di un repertorio
comune, la langue.
Saussure può risolvere anche quello dell’identità diacronica: <<l’identità diacronica di due parole
differenti come calidum e chaud significa che si è passati dall’una all’altra attraverso una serie di
identità sincroniche nella parole>>.
L’individuazione delle identità diacroniche presuppone quella delle identità sincroniche; a loro volta, le
identità sincroniche possono essere riconosciute solo distinguendo la langue dalla parole: la prima
appartiene alla sincronia.
Saussure definisce la diacronia come <<una serie di avvenimenti>>, indipendenti l’uno dall’altro,
mentre dice che la sincronia riguarda sempre il <<rapporto tra elementi simultanei>>.
La sincronia è quindi un sistema; la diacronia è invece un insieme di cambiamenti irrelati l’uno con
l’altro.

Significante e significato: l’<<arbitrarietà del segno>>

La langue è un sistema: questo significa che ciascuno degli elementi che la costituiscono non è
individuato dalle proprie caratteristiche intrinseche, ma dalla sua differenza dagli altri.
Il valore di tutte le entità linguistiche è determinato solo dal loro rapporto con gli elementi del sistema
linguistico a cui appartengono. ‘Valore’ è un concetto che ha un ruolo chiave in Saussure: su esso si
basa l’analisi del rapporto tra significante e significato, cioè la dottrina dell’arbitrarietà del segno
linguistico. Questa dottrina non si limita ad asserire che non c’è un legame naturale tra l’insieme di
suoni che formano la parola ‘cavallo’ e l’quino in carne ed ossa.
Arbitrarietà non significa solo questo, ma anche e soprattutto che ogni entità linguistica è definita
unicamente in base a ciò che non è, dalle sue differenze rispetto alle altre.
Ad esempio, in francese la parola mounton ‘montone’ può indicare tanto l’animale vivo che cucinato; in
inglese invece solo l’animale cucinato, mentre l’animale vivo è sheep.
Le lingue non sono insiemi di etichette, bensì insiemi di valori determinati dal loro rapporto reciproco,
che si riferiscono alla realtà in modi diversi. La stessa realtà può essere ‘’significata’’ in modo diverso:
da un plurale in italiano, da un duale in sanscrito.
I significati sono diversi solo se sono espressi da significanti diversi.
In francese la R si pronuncia come uvularizzata, ma a si può benissimo pronunciare all’italiana, poiché
queste due differenti pronunce non producono cambiamenti di significato.

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La concezione saussuriana del segno si collega strettamente alla nozione di langue e all’opposizione tra
sincronia e diacronia. Dato che i segni linguistici non hanno alcun aggancio stabile con la realtà, l’unica
garanzia della loro stabilità sta nel fatto che appartengono a un sistema condiviso da un gruppo sociale,
cioè alla langue.

Rapporti sintagmatici e rapporti associativi

Secondo Saussure, l’opposizione tra questi due tipi di rapporti è l’unica <<divisione razionale >> della
grammatica, e supera la tradizionale distinzione tra morfologica e sintassi: tanto i fenomeni sintattici
quanto quelli morfologici sono esempi di rapporti sintagmatici.
Secondo Saussure, i rapporti associativi appartengono certamente alla langue, mentre non è chiara la
sua opinione in merito ai rapporti sintagmatici, se cioè appartengono alla langue oppure alla parole.
Secondo De Mauro, linguista italiano, le frasi e i sintagmi appartengono alla parole in ciò che hanno di
dipendente dalla volontà individuale, e quindi non appartengono in tutta la loro realtà alla parole.
Questa sarà l’interpretazione adottata anche da Chomsky.

6.3
Le scuole dello strutturalismo europeo
L’eredità di Saussure

Le idee esposte da Saussure non riscossero consenso unanime: alcuni studiosi si opposero alla nettezza
delle dicotomie langue/parole e sincronia/diacronia.
Schuchdart criticava il concetto di langue come astratto, in quanto l’unica autentica realtà del
linguaggio sta nel comportamento individuale. Per quanto riguardava l’opposizione tra sincronia e
diacronia, obiettava che <<la stasi e il movimento non sono in contraddizione. Solo il movimento è
reale, solo la stasi è percettibile>>.
Meno reazioni suscitarono la dicotomia significante/significato e la nozione di arbitrarietà del segno; il
primo intervento critico sulla questione è quello di Benveniste, linguista seguace di Saussure, il quale
ne rilevava che l’affermazione di Saussure secondo cui <<il legame tra significante e significato è
arbitrario>> è sviante, in quanto fa entrare la ‘’realtà’’: è il rapporto del significato con la realtà a essere
arbitrario, mentre il rapporto del significato con il significante è necessario.
Il significato è tale solo in virtù del significante, e viceversa il significante è tale solo in virtù del
significato. Arbitrario significa in Saussure sia ‘’non fondato nella realtà’’, sia ‘’differenziale’’, cioè legato
a un determinato stato di lingua: Benveniste rileva entrambi questi aspetti, per indicare il fatto che il
valore del segno è determinato all’interno di un sistema.

Linguisti che si ispirarono a Saussure sono Bally e Sechehaye, Godel e Henri Frei.
Il pensiero di Bally e Sechehaye si sviluppò lungo direzioni abbastanza diverse da Saussure: il secondo
sosteneva che lui e S. avevano in comune <<il gusto delle grandi astrazioni>>, mentre il primo era
<<affezionato alla realtà del linguaggio vivo>>. L’interesse per il linguaggio vivo si concretizza nella sua
distinzione tra aspetto ‘’intellettuale’’ e aspetto ‘’affettivo’’ del linguaggio. Ognuno dei due aspetti può
prevalere sull’altro > questo è dovuto al fatto che l’uso concreto del linguaggio implica sempre una
relazione dialogica, il cui parlante non solo vuole trasmettere all’ascoltatore determinati contenuti, ma
anche le sue emozioni.

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Bally chiama ‘stilistica’ la disciplina che deve descrivere l’azione combinata dell’aspetto intellettuale e
dell’aspetto affettivo del linguaggio. Egli esamina un tipo di frasi poco trattate nelle grammatiche
tradizionali, che chiama frasi ‘segmentate’ e che contrappone alle frasi ‘collegate’.
A Sechehaye si devono invece importanti contributi di teoria generale del linguaggio e di sintassi.

Veniamo ora alle varie scuole della linguistica strutturale europea, alla quale si richiamarono diversi
studiosi > tra questi abbiamo l’antropologo Claude Lévi-Strauss, lo storico Michel Foucault, lo
psicanalista Jacques Lacan, il filosofo Louis Althusser.
Fondamentale eredità saussuriana della linguistica strutturale è la dicotomia langue/parole, ossia la
distinzione di un livello astratto e di uno concreto.
Un atto di parole consiste di tre momenti: uno <<psichico>>, cioè il collegamento nel cervello di <<un
dato concetto>> con <<una corrispondente immagine acustica>>; il secondo è <<fisiologico>>: il
cervello trasmette agli organi della fonazione un impulso correlativo all’immagine; il terzo è
<<puramente fisico>>: le onde sonore si propagano dalla bocca di A all’orecchio di B.
Il terzo momento è percepibile dall’udito, il secondo dall’osservazione del movimento, il primo tramite
le moderne tecniche di neuroimmagine.
Le entità della langue non sono percepibili in nessuno di questi modi.
Ciò pone un problema relativamente alla natura della langue stessa; Saussure definisce essa come
entità psichica, ma superiore ai singoli individui.
La linguistica strutturale postsaussuriana eliminerà qualunque residuo di psicologismo, la lingue viene
considerata un’entità sui generis e la linguistica come una disciplina autonoma, non fondata sulla
psicologia né sulla sociologia.

La Scuola di Praga
Le ‘tesi del 29’

Il Circolo linguistico di Praga fu fondato nel 1926 da Vilém Mathesius, professore di Anglistica > alcuni
suoi studi diedero l’avvio alla ‘prospettiva funzionale di frase’, basata sulla distinzione tra analisi
‘grammaticale’ e ‘attuale’ della frase stessa.
Il primo tipo di analisi suddivide la frase in soggetto e predicato, il secondo in ‘tema’ e ‘enunciazione’, o
‘rema’: il tema è il ‘’punto di partenza’’ della frase, il rema è ciò che si dice a proposito del tema.
Entrambe le grammatiche sono necessarie, in quanto non sempre coincidono.
In inglese moderno, l’ordine delle parole è determinato dal ‘’principio del valore grammaticale’’, in base
al quale il soggetto grammaticale è quasi sempre collocato davanti al predicato.
In altre lingue questo principio non è pervasivo e dunque il predicato grammaticale, quando è il tema,
può precedere il soggetto.
Il Circolo di Praga riuniva studiosi di varia nazionalità, come i russi Jakobson e Trubeckoj: a entrambi si
devono contributi fondamentali nel campo della fonologia.
I principi teorici del Circolo sono esposti nelle cosiddette ‘’tesi del ‘29’’, un insieme di assunti
programmatici presentati al congresso dei filologi slavi.
La prima di queste tesi afferma che <<la lingua è un sistema di mezzi d’espressione appropriati a uno
scopo>>. I praghesi adottano una concezione ‘’funzionalista’’ del linguaggio: esso è un mezzo di
comunicazione e le varie strutture linguistiche devono essere ricondotte a quest’uso comunicativo.
Tra gli altri aspetti, vanno ricordati la concezione ‘’dinamica’’ del sistema linguistico, che supera
l’opposizione netta tra sincronia e diacronia come definita da Saussure e l’attenzione per i problemi del
linguaggio poetico.
Relativamente al rapporto tra sincronia e diacronia, i praghesi da un lato osservano che ogni stadio
linguistico contiene tracce di stadi anteriori; dall’altro, sostengono che i cambiamenti linguistici non
sono isolati ma devono essere considerati nel quadro del sistema sincronico che li subisce.

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Secondo Jakobson, Saussure aveva compiuto un’innovazione radicale rispetto ai neogrammatici


introducendo la nozione di sistema sincronico; egli contrappone al metodo <<isolante>> dei
neogrammatici, un <<metodo integrale>>, il cui primo principio è il seguente: <<ogni modificazione
deve essere trattata in funzione del sistema all’interno del quale si è verificata>>.
L’adozione di un punto di vista sistematico e finalistico rappresentava <<lo sbocco logico>> del
cammino intrapreso qualche decennio prima dai neogrammatici > essi sostenevano che la linguistica
doveva adottare la metodologia delle scienze naturali e negavano che la linguistica fosse una scienza
naturale.

La distinzione tra linguaggio comune e linguaggio poetico è ricondotta a quella tra ‘funzione
comunicativa’ e ‘funzione poetica’: nel primo caso, il linguaggio è <<diretto verso il significato>>,
mentre nel secondo è <<diretto verso il segno stesso>>.
Jakobson elenca sei funzioni del linguaggio:
I. Funzione emotiva (emittente)
II. Funzione conativa (destinatario)
III. Funzione referenziale (contesto verbale e non)
IV. Funzione metalinguistica (codice)
V. Funzione fàtica (canale di comunicazione)
VI. Funzione poetica (messaggio)

La fonologia praghese

L’esposizione più dettagliata della fonologia si trova con Trubeckoj; fino agli studi dei linguisti del
circolo, non c’era una distinzione chiara tra fonologia e fonetica, egli invece contrappone le due
discipline in base alla dicotomia saussuriana tra langue e parole > la ‘fonetica’ è la <<scienza dei suoni
della parole>>, mentre la ‘fonologia’ è la <<scienza dei suoni della langue>>.
L’entità di base della fonetica è il suono; l’entità di base della fonologia è il fonema.
Baudouin de Courtenay definiva il fonema come ‘’equivalente psichico del suono’’; Trubeckoj respinge
questa concezione e la sostuisce con ‘’il fonema è l’insieme delle proprietà fonologicamente pertinenti
di una forma fonica>>. Quali sono queste proprietà? Quelle che permettono di distinguere due
significati; in italiano /p/ e /b/ sono due fonemi diversi perché distinguono due parole come ‘patto’ e
‘batto’, cioè una ‘coppia minima’.
Non sono quindi le proprietà fisiche a definire un fonema, ma la sua capacità di opporre significati: un
fonema è realizzato da due suoni diversi, ma non sempre due suoni diversi realizzano due fonemi
diversi.

In italiano la r è normalmente pronunciata facendo vibrare l’apice della lingua verso i denti superiori,
ma anche alla ‘francese’, ossia facendo vibrare il dorso della lingua verso la lingua. Queste differenze di
suoni non producono però differenze di significato: una parola come caro ha lo stesso significato sia
che venga pronunciata pronunciata con la ‘’erre normale’’ o la ‘’erre moscia’’.

Esaminiamo la posizione della nostra lingua quando pronunciano la prima e la seconda n della parola
‘’invano’’ e la n di ‘’incauto’’ > ci accorgiamo che tale posizione, nel secondo caso, è molto più arretrata
che nel secondo, e che nel terzo è ancora più arretrata; la diversità delle tre pronunce di n non produce
un cambiamento di significato.
In sintesi: i suoni sono diversi, ma non realizzano fonemi diversi, bensì varianti dello stesso fonema.
Quindi, secondo Trubeckoj, un fonema dipende dalla posizione di questo fonema nel sistema dato, cioè
in definitiva da questo: a quali altri fonemi esso viene opposto.

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Sviluppi diversi delle idee praghesi: Jakobson e Martinet

L’attività del circolo di Praga si arrestò tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta.
Trubeckoj morì a soli 48 anni per le conseguenze di una brutale perquisizione della sua casa da parte
della polizia nazista; Jakobson si trasferì prima nei paesi scandinavi e poi negli Stati Uniti.
L’attività del circolo riprese dopo la Seconda guerra mondiale, ma fu gravemente ostacolata dalla
politica culturale della dittatura comunista instauratasi nel paese a partire dal 1948 > si costituì un
gruppo di studiosi etichettato come Seconda Scuola di Praga > l’eredità della prima fase della scuola fu
raccolta da studiosi attivi in altri paesi.
Jakobson e Martinet svilupparono però concezioni sulla linguistica differenti.

Jakobson pubblicò un saggio dal titolo ‘’Linguaggio infantile, afasia e leggi fonetiche generali’’; la tesi
fondamentale è che l’ordine di acquisizione dei suoni linguistici da parte del bambino è speculare a
quello della loro perdita da parte dell’afasico (afasia = incapacità di esprimersi tramite parola o
scrittura): i suoni appresi per ultimi sono persi per primi dall’afasico, viceversa i suoni acquisiti per primi
si perdono per ultimi dall’afasico.
I primi suoni sono a tra le vocali, p tra le consonanti.
Queste leggi generali si riconducono a <<leggi fonetiche generali>>, cioè valide per tutte le lingue del
mondo, mentre le leggi fonetiche dei neogrammatici sono limitate nello spazio e nel tempo.
Come nel linguaggio infantile le consonanti fricative sono acquisite solo se sono state acquisite le
consonanti occlusive, così non esistono lingue che abbiano fricative e non occlusive.
Come il bambino acquisisce le consonanti posteriori solo dopo aver acquisito quelle anteriori, così
<<l’esistenza di consonanti posteriori nelle lingue del mondo presuppone allo stesso modo l’esistenza
di consonanti anteriori>>.

L’enunciazione delle leggi fonetiche generali nella forma di implicazioni anticipa gli ‘’universali
linguistici’’ come proposti da Greenberg anni più tardi.
Un’analoga prospettiva universalistica si coglie anche nella cosiddetta ‘’fonologia binarista’’. La
premessa di questo modello di fonologia è che il fonema è composto di ‘tratti distintivi’.
Tali tratti sono presenti oppure assenti in ogni fonema, senza possibilità intermedie: questo è il
principio del ‘binarismo’. Se un tratto è presente, lo si indica con +; se è assente, con -.
Due di questi tratti sono [+- vocalico] e [+- consonantico], in base ai quali si individuano le quattro
categorie fondamentali di fonemi:
I. Quelli vocalici sono [+vocalici] e [-consonantici]
II. Quelli consonantici sono [+consonantici] e [-vocalici]
III. Gli ‘liquidi’ (l e r) sono [+vocalici] e [+consonantici]
IV. Gli ‘approssimanti’ o ‘legamenti’ (come i e u semiconsonantiche) sono [-vocalici] e [-
consonantici]
Questo inventario è limitato: 12 tratti nelle prime formulazioni della teoria, 14 in quella definitiva.
I tratti sono universali: in qualsiasi lingua, i fonemi non possono essere analizzati che mediante tali
tratti; non tutti però sono presenti in ogni lingua > la fonologia binarista concilia la sua impostazione
universalistica con la necessità di rendere conto delle differenze tra le varie lingue.

Una visione funzionalista della linguistica caratterizzava la Scuola di Praga fin dalle tesi del ’29. La
concezione del linguaggio di Martinet ne rappresenta uno sviluppo.
Egli applica con molto rigore questa prospettiva all’analisi tanto dei fatti sincronici che di quelli
diacronici, nella quale ruolo fondamentale è giocato dalla nozione di ‘economia’.
Secondo Martinet, le proprietà che distinguono il linguaggio umano da altri sistemi chiamati
‘’linguaggi’’ sono fondamentalmente tre:
1. La sua funzione comunicativa;

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2. La sua natura fonica;


3. La ‘doppia articolazione’. >
Con questo termine, si intende il fatto che le lingue naturali sono analizzate in due diverse specie di
unità: quelle di ‘prima articolazione’ sono i segni, dotati di significante e significato, che combinandosi
tra loro possono descrivere situazioni diverse. Quelle di ‘seconda articolazione’ sono i fonemi, che
compongono i segni e non hanno significato proprio. Secondo Martinet, questa doppia articolazione è
dovuta a motivi di economia: se a ogni singola situazione dovesse corrispondere un segno diverso, la
capacità della memoria umana non sarebbe capace di immagazzinare un repertorio così vasto.
Se al significato di ogni segno dovesse corrispondere un significante non articolabile in elementi più
piccoli, i nostri organi fonatori non sarebbero in grado di riprodurre così tanti significanti diversi.

Il termine economia ricorre anche nel titolo dell’opera più importante di Martinet, dove il linguista
affronta il problema del rendere conto dei mutamenti diacronici in modo sistematico e finalistico.
L’economia consiste nel bilanciamento di due tendenze opposte: da un lato la tendenza a ricorrere al
minor numero possibile di elementi, dall’altro quella di operare il maggior numero possibile di
distinzioni.
Le opposizioni fonematiche che hanno un ‘rendimento funzionale’ ridotto, cioè che distinguono poche
coppie minime, tendono a scomparire > spiegazioni di questo tipo si possono ricondurre al ‘’principio
del massimo risultato con il minimo sforzo’’.

La Scuola di Copenaghen

Un altro circolo linguistico fu fondato nella capitale della Danimarca, la Scuola di Copenaghen: tra il
pensiero linguistico dei due principali animatori, Viggo Brøndal e Louis Hjelmslev non c’è molto in
comune.
Brøndal definisce la struttura <<come un oggetto autonomo e di conseguenza come non derivabile
dagli elementi di cui non è né l’aggregato né la somma>>; Hjelmslev a sua volta afferma che <<è
scientificamente legittimo considerare il linguaggio come costituito essenzialmente da un’entità
autonoma di dipendenze interne, o come struttura>>.
Entrambi insistono che il linguaggio va considerato come un soggetto autonomo, non come fenomeno
di natura psichica o sociale.
Questa concezione è chiamata da H. <<trascendente>>: a essa si oppone quella <<immanente>>,
rivolta solo all’analisi dell’insieme delle dipendenze che costituiscono la struttura di una lingua.
H., insieme ad un altro collega, diede alla sua teoria il nome di glossematica. Il termine glossema è
costruito sulla parola greca glossa, cioè lingua, a cui si aggiunge il suffisso -ema, caratteristico della
terminologia strutturalista per indicare le unità di analisi: ‘’glossema’’ indica un’unità minima di analisi
su qualunque livello.
L’ambizione di Hjelmslev e del collega era molto alta: la glossematica avrebbe dovuto applicarsi non
solo al linguaggio, ma a tutte le strutture considerate a esso analoghe, come quelle etniche e culturali.
L’impresa non riuscì.

L’opera più nota di H. si intitola ‘’Sulla fondazione della teoria del linguaggio’’, volume caratterizzato da
uno stile densissimo, in quanto consiste soprattutto in una lunga catena di principi e di definizioni.
Secondo H., la teoria linguistica da un lato deve essere ‘arbitraria’, dall’altro ‘adeguata’; il primo termine
significa che la teoria <<è in sé indipendente da qualsiasi esperienza>> e <<costituisce quello che si è
chiamato un sistema puramente deduttivo>>; il secondo che <<una teoria introduce certe premesse, di
cui l’autore sa che esse adempiono le condizioni di applicazione a certi dati empirici>>.
Questa caratterizzazione della teoria linguistica si collega alle tematiche di filosofia della scienza.

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Rudolph Carnap, sosteneva che le teorie fisiche sono costruite fissando certi assiomi sulla base di
alcune osservazioni, ma senza ricercare una corrispondenza totale tra tali assiomi e la realtà empirica.
Dagli assiomi si deducono alcune conseguenze che descrivono fatti particolari: se queste conseguenze
corrispondono alla realtà osservabile, la teoria è confermata; altrimenti no.
Nella linguistica si parte da alcuni concetti che sono definiti arbitrariamente, ma si basano su alcune
delle nostre osservazioni; si sviluppa poi un calcolo, che è per natura arbitrario. Il linguaggio è un
insieme di dipendenze e H. considera come il compito fondamentale della teoria linguistica quello di
individuare tali dipendenze, a cui assegna il nome di tecnico di ‘funzioni’ > intende questo termine in
maniera differente dalla Scuola di Praga > si riferisce alle dipendenze interne che costituiscono la
struttura del linguaggio.
Elabora poi una complessa tipologia di funzioni, tra cui quella ‘segnica’, cioè l’interdipendenza tra il
‘piano dell’espressione’ e il ‘piano del contenuto’ (significato e significante di Saussure) > parte
dall’affermazione di Saussure che la combinazione di significante e significato <<produce una forma,
non una sostanza>>: è quindi necessario partire dalla forma, non dalla sostanza, che vive solo grazie
alla forma e non si può dire abbia esistenza indipendente.
Le lingue differiscono in quanto ciascuna di esse dà una forma diversa a uno stesso fattore comune.
Forma, sostanza e materia esistono tanto sul piano dell’espressione che sul piano del contenuto: la
materia costituisce un continuum che la forma articola in unità discrete.

Tanto il piano dell’espressione quanto quello del contenuto sono analizzabili in entità ultime,
irriducibili, che H. chiama ‘’figure’’.
Le figure dell’espressione sono i fonemi, mentre quelle del contenuto sono le unità semantiche minime
che formano le unità semantiche più grandi.

Tesnière: la sintassi come connessione

Il francese Lucien Tesnière non era estraneo all’ambiente dei linguisti strutturalisti europei; la sua opera
è di notevole mole, ricca di esempi tratti da molte lingue, e che contiene un ripensamento sistematico
di quasi tutte le categorie della grammatica tradizionale.
La teoria di Tesnière è nota come ‘grammatica della valenza’, ma si concentra su un suo solo aspetto >
la nozione chiave è quella di ‘’connessione’’ > le connessioni nel senso di Tesnière non hanno mai
un’espressione esplicita, non sono cioè realizzate da elementi morfologici, ma <<avvertite dalla
mente>>. La connessione è un fatto intrinsecamente gerarchico. Quando gli elementi sono soltanto
due, uno di essi è reggente, mentre l’altro subordinato. Nella frase ‘Alfredo parla’, l’elemento della
reggente è ‘parla’, mentre subordinato è ‘Alfredo’ > rappresentazione grafica:

L’elemento più alto è quello della reggente, quello in basso quello subordinato; insieme formano un
nodo. Ogni elemento subordinato può reggere altri elementi; i vari nodi appariranno quindi in base a

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una gerarchia che rispecchia quella delle connessioni. Ad esempio, una frase come ‘’quella ragazza
bionda legge questo interessante libro’’ la frase sarebbe così rappresentata:

Queste rappresentazioni sono chiamate ‘stemmi’ e il linguista non era il primo ad utilizzarli, ma fu il
primo a non limitarsi a costruire stemmi per le varie frasi che analizza, ma elabora degli ‘’stemmi
virtuali’’ che rappresentano tutte le frasi di identica struttura, reali e possibili.
Questi sono costituiti dai simboli di quelle parti del discorso che T. chiama ‘parole piene’: i sostantivi, gli
aggettivi, i verbi e gli avverbi, indicati con O, A, I, E.
>>>

Gli stemmi rappresentano l’ordine strutturale della frase > usa il termine nel senso di ‘’gerarchico’’.
All’ordine strutturale si oppone quello lineare, che è direttamente osservabile, ossia la successione
delle parole nella frase.

Il più noto dei concetti introdotti da T. è quello di ‘valenza verbale’, una metafora che trae dalla chimica.
Gli stemmi, reali e virtuali, rappresentano il verbo come elemento fondamentale della frase, che
domina. Egli paragona il verbo <<a una sorta di atomo munito di uncini>>, che può esercitare la sua
forza di attrazione su un numero maggiore o minore di ‘attanti’ (poi detti argomenti).
La frase però contiene anche altri elementi, detti ‘circostanti’, che esprimono le condizioni di luogo,
tempo, maniera etc. gli attanti sono sempre dei nomi, mentre i circostanti sono avverbi; i primi sono
obbligatori, i secondi sono facoltativi.
Il numero degli attanti varia secondo la classe a cui appartiene il verbo; i verbi privi di attanti sono
chiamati ‘avalenti’ e corrispondono ai verbi chiamati impersonali meteorologici, come ‘piovere’; i verbi
che possiedono un solo attante sono chiamati ‘ monovalenti’ e sono quelli intransitivi; i verbi che ne
richiedono due sono ‘bivalenti’ e sono quelli transitivi; infine, quelli che ne richiedono tre sono
‘trivalenti’ e sono esemplificati da verbi come ‘dare, dire’.
Dunque, il verbo ha il ruolo principale, mentre il soggetto no, rappresentato al pari degli altri attanti:
soggetto e oggetto sono definiti come primo e secondo attante.

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6.4
La linguistica strutturale negli Stati Uniti
Aspetti generali

Negli Stati Uniti, con l’espressione ‘’linguistica strutturale’’ si intendeva ‘’linguistica descrittiva’’, quindi
le si dava un significato diverso da quello di ‘’linguistica sistemica’’. Questa diversità si spiega con il fatto
che gli studi di linguistica erano nati con motivazioni proprie: lo studio delle lingue degli indiani
d’America. Queste lingue non hanno una tradizione scritta: quindi non è possibile compierne uno
studio diacronico, ma solo sincronico, e inoltre sono molto diverse da quelle indoeuropee.
Le prime descrizioni di queste lingue erano coscienti di queste differenze e i linguisti americani
cercarono di elaborare delle tecniche di analisi nuove, che verranno chiamate ‘’distribuzionali’’.
Le ricerche ebbero conseguenze anche al di fuori di questo campo > una di esse è l’abbandono del
pregiudizio secondo cui il grado di complessità di una lingua è legato al grado di sviluppo culturale della
popolazione che la parla; si mostrò che le lingue degli Indiani non sono affatto meno complesse
rispetto alle lingue indoeuropee. Il riconoscimento di questa diversità ebbe poi come conseguenza
l’adozione di forme sempre più accentuate di relativismo linguistico, cioè dell’idea che non esistano
elementi universali per tutte le lingue.
I due capiscuola della linguistica strutturale statunitense sono Edward Sapir e Leonard Bloomfield,
rispettivamente etichettati con ‘’mentalista’’ e ‘’comportamentista’’.
Il comportamentismo sostiene che la psicologia non può ricorrere all’introspezione, cioè alla
descrizione degli stati mentali dell’individuo, quindi termini come ‘mente, idea, concetto, etc.’ vanno
banditi dalla psicologia.
Linguistica strutturale europea e statunitense giunsero in alcuni casi a risultati simili, come la
distinzione tra fonetica e fonologia, e quella legata a essa tra suono e fonema.

Sapir sostiene che una descrizione fisiologica dei suoni linguistici è del tutto insoddisfacente: dal punto
di vista fisico-fisiologico il suono wh- di parole inglesi come who, which, where è identico a quello
prodotto quando si spegne una candela, ma solo il primo dei due è collocato all’interno di un sistema
composto di un numero limitato di membri.
Egli definisce il fonema come <<unità che ha un significato funzionale nella forma o nel sistema rigidamente
determinati dei suoni propri di una lingua>>, quindi ogni elemento è definito in base alla posizione che
occupa all’interno del sistema; insiste anche sul fatto che i fonemi non sono utili soltanto <<in una
descrizione linguistica astratta>>, ma hanno una precisa realtà nella mente del parlante.

Anche Bloomfield concepisce il fonema come unità definita non dalle sue proprietà fonetiche intrinseche,
ma dalle sue relazioni con le altre unità del sistema cui appartiene. Egli oppone fonetica e fonologia,
insistendo sul carattere astratto di quest’ultima: <<la fonologia non presta alcuna attenzione alla natura
acustica dei fonemi, ma li considera solo in quanto unità distinte>>.

Sapir: lingua, cultura, tipologia: l’“ipotesi di Sapir e Worf’’

L’etichetta di mentalista affibbiata a Sapir non è certo sbagliata, ma non rende giustizia alla sua visione
del linguaggio come fenomeno socioculturale: <<la lingua è essenzialmente un prodotto culturale o
sociale e come tale deve essere intesa>>.
Il ‘parlare’ sembra un atto naturale come il camminare o poco naturale come respirare > tuttavia,
questa impressione è fallace: mentre il camminare è una funzione biologica inerente all’uomo, questo
non è il caso del linguaggio, poiché non c’è un organo specifico.
Il linguaggio è <<una funzione sovrapposta ad altre, ovvero un gruppo di funzioni sovrapposte>>.

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Sapir è uno dei pochi linguisti della prima metà del ‘900 a occuparsi di tipologia linguistica; parla solo di
<<tipi di struttura linguistica>>.
Egli non respinge la tipologia dei fratelli Schlegel o di Humboldt, cioè la suddivisione in lingue isolanti,
agglutinanti, flessive e polisintetiche, ma la giudica insufficiente. Essa corrisponde solo a una delle tre
dimensioni necessarie per una classificazione tipologica adeguata, a quella che Sapir definisce la
‘tecnica’ utilizzata nelle varie lingue; un’altra dimensione è il ‘grado di sintesi’, che distingue tra
procedure analitiche, sintetiche o polisintetiche.
Sapir divide questi concetti in due gruppi principali a seconda che riguardino il ‘contenuto materiale’ o
la ‘relazione’.
Il primo gruppo si suddivide in ‘concetti fondamentali’ (tipo A) e ‘concetti derivati’ (tipo B) > ad
esempio, nella parola inglese farmer la radice farm- esprime un concetto fondamentale e il suffisso -er
un concetto derivato.
Il secondo gruppo è quello dei ‘concetti relazionali’, suddiviso in ‘concreti’ (tipo C) e ‘puri’ (tipo D).
Solo i concetti di tipo A e D sono espressi in ogni lingua, mentre gli altri non sono necessari.
Sapir suddivide le lingue in questi quattro gruppi:
a) <<le lingue semplici pure relazionali>> (A e D)
b) <<lingue complesse pure-relazionali>> (A, B e D)
c) <<lingue semplici miste-relazionali>> (A, C e D)
d) <<lingue complesse miste-relazionali>> (tutti e quattro)

L’ipotesi di Sapir e Whorf non fu elaborata insieme, ma rappresenta lo sviluppo di Whorf di un’idea
nata da Sapir: la nostra percezione della realtà è condizionata dalla nostra lingua materna.
Whorf riprese questa idea ponendo a confronto la diversa organizzazione grammaticale di alcune
lingue amerindiane con quella delle lingue europee: il punto di arrivo è il ‘’principio di relatività
linguistica’’.

Bloomfield e i postbloomfieldiani: comportamentismo e distribuzionalismo

Bloomfield era indoeuropeista e germanista, fu professore in diverse università degli Stati Uniti e si
occupò intensamente di lingue amerinde.
Secondo lui, la linguistica non può che basarsi sul comportamento direttamente osservabile dei
parlanti, descritto mediante due termini fondamentali del comportamentismo: ‘stimolo’ e ‘risposta’.
Il suo esempio più classico è il seguente:
- Jill desidera una mela (stimolo non linguistico, S) ma non riuscendo a raggiungerla produce una
risposta linguistica (r ), ad esempio l’enunciato > ‘’voglio quella mela’’.
Questo enunciato funge da stimolo linguistico (s) per Jack, provocando in lui la risposta non
linguistica (R) di cogliere la mela dall’albero e passarla a Jill.
Questo processo è simboleggiato con la formula S-r-s-R, ovvero una catena di stimoli e risposte.
In sintesi, dice Bloomfield, <<il linguaggio consente a una persona di produrre una certa reazione (R)
quando un’altra persona riceve lo stimolo (S)>>.

Aspetto più tecnico della sua linguistica è quello dell’analisi distribuzionale: si tratta di un’analisi
formale > la prima distinzione è quella tra forme ‘libere’ e ‘legate’: quella legata è una forma linguistica
che non viene mai pronunciata da sola (ad esempio, -ing del gerundio inglese), mentre tutte le altre
forme sono libere.
Un’altra distinzione è quella tra forme ‘complesse’ e ‘semplici’: è complessa una forma linguistica che
ammetta una parziale somiglianza fonetico-semantica con qualche altra forma linguistica (ad esempio,

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blackberry, cranberry, strawberry); semplice è invece una forma linguistica che non ammetta alcuna
somiglianza.
Una volta definiti i tipi di forme possibili, bisogna raggruppare in classi: si hanno le cosiddette ‘’classi di
forme’’ > Bloomfield può così rivedere la concezione tradizionali delle varie parti del discorso, che va
incontro a difficoltà.
Bloomfield elaborò una tecnica apposita per individuarle, la cosiddetta ‘’analisi in costituenti
immediati’’: un costituente è un componente di una forma complessa ed è immediato quando non fa
parte di un altro costituente.
Per la loro individuazione, egli ricorre all’intuizione dei parlanti; i postbloomfieldiani andarono alla
ricerca di criteri più espliciti. La nozione chiave usata da Wells è quella di ‘’espansione’’: classi di
espressioni più ampie che possono occupare le stesse posizioni di classi di espressioni più semplici che
sono un’espansione di queste ultime > ad esempio, Il re d’Inghilterra salutò il Parlamento > i
costituente immediati sono ‘’il re di Inghilterra’’ e ‘’salutò il Parlamento’’, in quanto posso sostituire
rispettivamente i costituenti ‘’il re’’ e ‘’salutò’’ in una frase come ‘’il re salutò’’.
In certi casi, le stesse sequenze di morfemi possono essere analizzate in modi diversi; si tratta dei casi
ribattezzati da Wells con ‘’costruzioni omonime’’ o ‘’ambiguità sintattiche’’, ad esempio:
- La sequenza inglese old men and women può essere analizzata come composta da due
costituenti > (old | men and women) oppure da tre (old men | and | women): nel primo caso, il
significato è ‘uomini e donne vecchi’, cioè persone anziane di ambo i sessi; nel secondo caso, è
‘uomini vecchi e donne’, ovvero uomini vecchi e donne di qualsiasi età.
Un problema nell’analisi in costituenti immediati è rappresentato dai ‘’costituenti discontinui’’, cioè
insiemi di parole legate l’una all’altra, ma la cui successione lineare è interrotta da altre parole.
Un esempio che si deve a Hockett > in una frase interrogativa come Is John going with you? > is e going
formano un costituente discontinuo, dato che corrispondono a un costituente continuo nella
dichiarativa John is going with you.

Il massimo sviluppo dei metodi distribuzionali si deve a Zelling S. Harris > estese l’analisi sintattica alle
relazioni tra vari tipi di frasi, introducendo il concetto di ‘trasformazione’, ad esempio:
- Una frase attiva come ‘Cesare ha passato il Rubicone’ e la corrispondente passiva ‘Il Rubicone è
stato passato da Cesare’ sono due trasformate l’una dell’altra.
Entrambe le frasi contengono i morfemi ‘Cesare, Rubicone e passare’; al morfema ‘ha’ della
frase attiva corrisponde la combinazione di morfemi ‘è stato’ della passiva.

7.
La linguistica contemporanea
Quadro introduttivo

La linguistica ha conosciuto uno sviluppo tumultuoso: in tutte le università del mondo si sono istituiti
dipartimenti specifici di linguistica e ai due rami ‘’classici’’ della disciplina (storico-comparativa e
strutturale) se ne sono aggiunti altri > linguistica applicata, che esamina i problemi dello studio e
dell’apprendimento delle lingue, o linguistica clinica, che esamina i disturbi del linguaggio.
I richiami ai rapporti del linguaggio con la mente e con il contesto sociale segnano la differenza tra la
linguistica dagli anni Cinquanta del ‘900 in poi.
La linguistica strutturale considera il linguaggio come entità autonoma; al contrario, la maggior parte
delle correnti della linguistica contemporanea concepiscono il linguaggio come entità psicologica.
C’è l’abitudine di distinguere tra ‘’paradigma funzionale’’ e un ‘’paradigma formale’’: in base al primo,
le strutture del linguaggio sono considerate come determinate dalla funzione del linguaggio stesso

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come strumento di comunicazione; in base al secondo, queste stesse strutture sono invece fondate su
principi propri, indipendenti dall’uso comunicativo del linguaggio.
Per la maggior parte dei linguisti ‘’formalisti’’, a cominciare da Chomsky, sostenere che il linguaggio è
indipendente dal suo uso comunicativo non significa però adottare una posizione simile a quella della
linguistica strutturale; per Chomsky la linguistica è <<una branca particolare della psicologia
cognitiva>>. Sia Chomsky che i suoi avversari funzionalisti considerano un linguaggio come entità
mentale, biologica.

7.2
Un’epoca di svolta
Linguaggi formali e linguaggi naturale: la pragmatica

Dunque, la logica e la linguistica, a partire dall’inizio del XIX secolo cominciano a separarsi; da un lato, si
impone l’idea che le categorie linguistiche non sono di natura logica, ma psicologica; d’altra parte, la
logica, da ‘’arte di pensare’’ si trasforma in calcolo matematico. Questo ‘’divorzio’’ si accentua quando
filosofi come Gottlob Frege, Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein assumono un atteggiamento di
svalutazione del linguaggio naturale, considerato sistema imperfetto e fonte di equivoci concettuali.
L’ultimo dei tre dice ‘’il linguaggio traveste il pensiero, in modo tale che dalla forma esteriore dell’abito
non si può inferire la forma del pensiero rivestito’’.
>a questo linguaggio che traveste il pensiero il filosofo contrappone un <<linguaggio segnico il quale si
conformi alla grammatica logica – alla sintassi logica>>.
Caratteristica fondamentale del linguaggio segnico è una perfetta corrispondenza con la realtà che
denota > simile corrispondenza biunivoca tra segni e oggetti denotati manca nelle lingue naturali.
W. smonta l’idea che il significato delle parole consista negli oggetti che esse denotano. Ad esempio,
qual è l’oggetto indicato di parole come ‘là’ o ‘questo’? Che cosa designano le parole di questo
linguaggio? In questa seconda fase del suo pensiero, W., considera il significato di una parola come il
suo uso nel linguaggio, determinato da una serie di convenzioni implicite adottate da una comunità di
parlanti. Questa concezione del significato come uso e del linguaggio come insieme di abitudini verrà
etichettata ‘pragmatica’ > il termine è introdotto dal filosofo Charles F. Morris, il quale lo utilizzava per
indicare un’ulteriore dimensione nell’uso dei segni, oltre a quelle già conosciute della sintassi e della
semantica.
La sintassi consiste nel rapporto dei segni tra loro; la semantica, nelle <<relazioni dei segni con gli
oggetti cui sono applicabili>>; la pragmatica, nella <<relazione dei segni con gli interpreti>>, cioè con gli
utenti della lingua.
Questa tripartizione della teoria dei segni in sintassi, semantica e pragmatica fu ripresa da Rudolf
Carnap, che sostenne come la differenza tra lingue naturali e linguaggi formali consista nella presenza
nelle prime di una componente pragmatica.
W. assegnava a questa componente un ruolo molto più radicale rispetto a Morris e Carnap: per loro la
pragmatica si aggiunge alla semantica; per W. non esiste una relazione tra segni e designata
indipendente dall’uso dei segni stessi.

Una simile prospettiva caratterizza anche John L. Austin, il quale parte dalla distinzione tra ‘’enunciati
performativi’’ e ‘’enunciati constativi’’ > questi ultimi sono quelli esaminati dai logici, cioè quelli che
sono veri o falsi. Al contrario, non si può parlare di verità o falsità per gli enunciati performativi: se un
sindaco dice davanti a due sposi ‘vi unisco in matrimonio’ oppure se dico a qualcuno ‘ti prometto che lo
farò’, non descrivo uno stato di cose che sussiste oppure no, ma eseguo un’azione.

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Questa azione può avere un esito ‘felice’ o ‘infelice’: così, se a pronunciare l’enunciato del matrimonio
non è un sindaco, l’atto compiuto è infelice; allo stesso modo, è infelice un enunciato come ‘’ti
prometto che lo farò’’ se non ho intenzione di adempiere alla promessa.
La prima conclusione di Austin è che gli enunciati constativi si caratterizzano in base alla dimensione
‘vero’ ~ ‘falso’ e gli enunciati performativi in base a quella ‘felice’ ~ ‘infelice’.
Austin analizza il parlare come un fare che si realizza compiendo tre tipi di atti linguistici:
I. Atto locutorio: consiste nella pronuncia di determinate parole e sintagmi;
II. Atto illocutorio: è una domanda o risposta, un verdetto o intenzione;
III. Atto perlocutorio: tentativo di produrre un determinato effetto sul nostro interlocutore,
come ottenere da lui un’informazione.

La linea inaugurata da Austin comincerà a godere di successo soltanto a partire dagli ultimi anni
Sessanta del ‘900, con John R. Searle e H. Paul Grice.
Il primo rielabora sotto vari aspetti la dottrina degli atti linguistici, sdoppiando l’atto locutorio in ‘atto
enunciativo’ e ‘atto proposizionale’.
Il primo tipo di atto consiste nell’enunciazione di parole e di morfemi; il secondo, nell’operazione di
predicazione: ad esempio, tutti e quattro gli enunciati ‘Gianni parte – Gianni parte? – Gianni, parti! – se
Gianni partisse’ realizzano lo stesso atto proposizionale, mentre è diversa la loro forza illocutoria
(assertiva, interrogativa, imperativa, ottativa).
Searle nota l’esistenza di ‘atti linguistici indiretti’, come quello costituito da enunciati come ‘puoi
passarmi il sale?’: sintatticamente è una frase interrogativa, ma come atto illocutorio non è una
domanda, ma ordine o preghiera.

La ‘logica della conversazione’ di Grice vuole spiegare i casi in cui <<il parlante comunica all’ascoltatore
più di quel che egli effettivamente non dica>>. Alla base di questa logica sta il ‘principio di
cooperazione’, articolato in quattro categorie di ‘massime convenzionale’: massime della ‘quantità,
qualità, relazione, modo’.
Le massime della quantità richiedono al parlante di fornire tutta e sola l’informazione di cui è a
conoscenza; quelle della qualità di essere veritiero; quelle della relazione consistono in una sola: ‘’sii
pertinente’’; quelle del modo richiedono di evitare oscurità, ambiguità etc.
Le massime conversazionali possono essere però ‘’ostentatamente violate’’ o ‘’sfruttate’’.
Immaginiamo un dialogo tra due studenti, Pietro e Paolo:
(I) Pietro: ‘’andiamo al cinema stasera?’’
(II) Paolo: ‘’devo studiare per un esame’’

Paolo non risponde a Pietro né sì, né no e neppure ‘’non ne ho voglia’’, ma parla dei suoi impegni >
viola ostentatamente la massima della relazione, che gli imporrebbe di essere pertinente. Pietro
presume che Paolo rispetti il principio di cooperazione, e che quindi questa violazione sia soltanto
apparente: entrambi sono studenti e sanno che la preparazione di un esame richiede tempo, quindi
Pietro può ricavare dalla risposta di Paolo l’informazione che quest’ultimo non vuole andare al cinema.
Grice riconduceva il principio di cooperazione a una generica esigenza di <<razionalità>>.
Penelope Brown e Stephen Levinson ne hanno dato una spiegazione di tipo sociologico, basato sulla
nozione di ‘cortesia’: il parlante assume tanto atteggiamenti di cortesia positiva che di cortesia
negativa, ossia cerca da un lato di accattivarsi la simpatia dell’ascoltatore, ma dall’altro vuol far vedere
che ne rispetta l’autonomia.
Nel caso del dialogo dei due studenti, la risposta di Paolo potrebbe essere motivata dal desiderio di non
apparire troppo brusco con un semplice ‘’no’’.
Dan sperber e Deirdre Wilson sono ricorsi invece alla nozione di ‘pertinenza’, cioè considerano come
scopo della comunicazione il trasmettere il maggior numero possibile di nuove conoscenze con il
minimo sforzo.

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La tipologia linguistica di Greenberg

Possiamo distinguere due grandi linee di ricerca: la tipologia sintattica, basata sull’analisi dell’ordine
delle parole nella frase, e la tipologia morfologica, basata sull’analisi della struttura della parola.
La prima linea di ricerca ha inizio con la distinzione tra lingue analoghe e traspositive introdotta da
Girad e Beauzée e prosegue con gli studi di Weil, Gabelentz e Tesnière.
La tipologia morfologica risale a Humboldt e ai fratelli Schlegel.
L’interesse per la tipologia sintattica rimase confinato a pochi specialisti, mentre la distinzione delle
lingue nei quattro tipi morfologici entrò a far parte delle nozioni di base della linguistica.
L’elementarità e l’insufficienza di questa classificazione furono rilevate anche da Hjelmslev, che le
contrapponeva il suo ambizioso programma di tipologia come <<analisi della parentela linguistica tra
categorie>>.

Con il fondamentale saggio di Joseph H. Greenberg la situazione cambia: la tipologia non è più il
‘’bambino gracile’’ della linguistica, ma diviene uno dei suoi rami più produttivi. Gli elementi del saggio
sono da un lato, una classificazione tipologica delle lingue non morfologica, ma sintattica; dall’altro, la
formulazione di enunciati implicazionali: ossia, non del tipo ‘’la lingua X è del tipo Y’’, ma ‘’se una lingua
X ha la caratteristica Y, allora ha anche la caratteristica Z’’.
L’idea di Greenberg è stata quella di formulare in termini implicazionali la tipologia dell’ordine delle
parole, ravvivando così una tradizione che era stata in buona parte dimenticata.
Greenberg si basa su un campione di trenta lingue e le principali combinazioni sintattiche analizzate
sono le seguenti:
1. La presenza di preposizioni (Pr) oppure di posposizioni (Po) > una lingua che fa uso di
posposizioni anziché di preposizioni è il turco.
2. La posizione del verbo (V) rispetto al soggetto (s) e all’oggetto (o) nella frase dichiarativa; sei
ordini sono possibili > SVO, SOV, VSO, VOS, OSV > soltanto i primi tre sono attestati da un
numero considerevoli di lingue.
3. L’ordine dell’aggettivo (A) rispetto al nome (N) che esso modifica: in certe lingue prevale l’ordine
AN, mentre in altre lingue l’ordine NA.
4. L’ordine del complemento di specificazione, o genitivo, rispetto al nome (N) che esso modifica.

L’esame del campione di lingue selezionato mostra che esistono delle correlazioni sistematiche tra
l’ordine degli elementi in questi quattro tipi di costruzioni:
- A) VSO/ Pr/ NG/ NA > se una lingua presente l’ordine VSO, allora usa preposizioni, colloca il
genitivo dopo il nome e anche l’aggettivo.
- B) SVO/ Pr/ NG/ NA > se una lingua presenta l’ordine SVO, allora usa preposizioni, colloca il
genitivo e l’aggettivo dopo il nome.
- C) SOV/ Po/ GN/ AN > se una lingua presenta l’ordine SOV, allora usa posposizioni, colloca il
genitivo e l’aggettivo prima del nome.
- D) SOV/ Po/ GN/ NA > se una lingua presenta l’ordine SOV, allora usa posposizioni, colloca il
genitivo prima del nome e l’aggettivo dopo il nome.
Tutte queste formule seguono lo schema ‘’se…allora’’, cioè quello di una implicazione: sono quindi degli
‘universali implicazionali’.
Degli universali formulati di Greenberg, alcuni sono ‘assoluti’, altri ‘statistici’.

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Le prime fasi della grammatica generativa


Definizione

La grammatica generativa è la teoria linguistica elaborata da Chomsky e dai suoi allievi.


Che cosa significa ‘grammatica generativa’? Con grammatica, intende ‘teoria della lingua’; con
generativa, le proprietà che questa categoria deve possedere: essere cioè ‘esplicita’ e ‘produttiva in
base a regole’. Una grammatica esplicita deve rendere conto delle intuizioni che il parlante nativo di
una data lingua ha relativamente ad essa, in primo luogo la capacità di distinguere le frasi ben formate
da quelle che non lo sono.
Questa nozione di ‘grammaticalità’ ha un preciso valore tecnico e non deve essere confusa con quello
di correttezza, propria della grammatica normativa: il parlante nativo di una lingua può giudicare ben
formate anche frasi che la grammatica normativa censura come scorrette.
Molte lingue, come i dialetti, non hanno grammatiche normative: eppure i loro parlanti nativi
distinguono perfettamente le frasi che suonano loro ben formate, da quelle che non avvertono come
tali.

Livelli di rappresentazione, dipendenza dalla struttura, ricorsività, trasformazioni

Chomsky si era formato in un ambiente postbloomfeldiano; tuttavia, sia l’impostazione strettamente


distribuzionalista della linguistica post-bloomfeldiana, sia la psicologia comportamentista cominciavano
a entrare in crisi.
Abbiamo parlato di un problema difficilmente risolvibile all’interno di una prospettiva strettamente
distribuzionalista: quello dei cosiddetti ‘’costituenti discontinui’’.
Una soluzione adeguata è possibile solo superando l’analisi in costituenti immediati mediante
l’adozione di un modello che faccia uso di concetti astratti.
Tale modello è quello di Chomsky > egli indica una relazione tra strutture, diverse per grado di
astrattezza; chiamerà la struttura astratta ‘’struttura profonda’’ e quello osservabile ‘’struttura
superficiale’’.
L’idea fondamentale di questa teoria è che una frase ha più livelli di rappresentazione; questa idea di
fondo ha diverse origini.
Chomsky aveva fatto ricorso alla postulazione di ‘forme astratte soggiacenti’ nelle sue tesi universitarie
per spiegare alcuni fonemi morfofonetici nell’ebraico moderno.
Chomsky ha spesso ricordato l’incoraggiamento che ebbe dal filosofo Yehoshua Bar- Hillel, già allievo
di Rudolf Carnap. Quest’ultimo aveva sostenuto che in tutte le scienze della natura è necessario il
ricorso a concetti astratti; Chomsky trovava conferma della propria impostazione nel tipo di filosofia
della scienza che allora si stava imponendo.
L’esigenza di un maggior livello di astrazione cominciava a essere avvertita all’interno della stessa
psicologia comportamentista ed è particolarmente significativa la comunicazione che Karl Lashley
presentò ad un convegno dedicato ai ‘’Meccanismi cerebrali nel comportamento’’ > egli osserva che
<<le sequenze di azioni non possono essere spiegate in termini di successioni di stimoli esterni>>.
Questa critica al comportamentismo prendeva le mosse proprio da un argomento di tipo linguistico,
per poi estendersi a tutti i fenomeni mentali.
Chomsky insiste sul fatto che la sintassi del linguaggio umano non può essere ridotta a un semplice
‘’legame associativo diretto delle parole della frase’’. Uno dei primi capitoli di Chomsky è dedicato alla
confutazione di questa idea. La sintassi delle lingue naturali non è lineare, ma gerarchica o ‘dipendente
dalla struttura’.
Consideriamo le frasi seguenti:

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(4) the boy who is unhappy is watching Mickey Mouse

(5) *Is the boy who unhappy is watching Mickey Mouse?

(6) is the boy who is unhappy watching Mickey Mouse?

L’asterisco davanti a (5) indica che la frase è agrammaticale, mentre (6) è perfettamente grammaticale.
La frase interrogativa (5) è prodotta applicando a (4) una regola non dipendente dalla struttura: il primo
verbo coniugato è spostato all’inizio della frase. La frase (6) è invece formata mediante una regola
dipendente dalla struttura: all’inizio della frase viene spostato il verbo della frase principale, cioè quello
gerarchicamente più in alto.

Mentalismo e innatismo

Chomsky apportò varie modifiche tecniche alla propria teoria, anche sulla base di alcuni lavori dei suoi
primi allievi; inoltre, delineò una teoria della natura del linguaggio umano e dei suoi rapporti con la
mente che capovolgeva in modo radicale le impostazioni comportamentistiche della linguistica
strutturale americana.
Queste questioni generali sono trattate in Linguistica cartesiana e nei primi tre capitoli di Il linguaggio
e la mente.
Secondo Chomsky, <<la teoria linguistica si occupa principalmente di un parlante-ascoltatore, in una
comunità linguistica completamente omogenea>>: la legittimità di queste nozioni sarà oggetto di
numerose critiche, e Chomsky stesso non le utilizzerà più.
Il linguista distingue tra ‘competenza’ ed ‘esecuzione’ > l’applicazione ricorsiva della regola che inserisce
una frase in un’altra frase permette di costruire una frase di lunghezza illimitata: ma questa potenzialità
non può realizzarsi perché avremmo bisogno di una memoria infinita.
Chomsky assimila la distinzione tra competenza ed esecuzione alla dicotomia saussuriana
langue/parole: tuttavia, osserva che, mentre per Saussure la langue è un semplice inventario di
termini, la competenza è <<un insieme di processi generativi>>.
Un elemento comune a entrambi è l’opposizione di un’entità astratta a una concreta.
La differenza sta invece nel modo in cui Saussure da un lato e Chomsky dall’altro concepiscono le due
entità astratte: mentre infatti la langue saussuriana è definita come un’entità sociale, la competenza
chomskiana è individuale.

Caratteristiche essenziali dell’impostazione mentalista di Chomsky:


il linguista deve <<determinare il sistema sottostante di regole che il parlante-ascoltatore ha acquisito e
che mette in uso nell’esecuzione effettiva.
La teoria linguistica è mentalistica, poiché il suo scopo è di scoprire una realtà mentale sottostante a un
comportamento effettivo>>.
L’ipotesi di una <<realtà mentale sottostante>> è non solo legittima, ma anzi è necessaria per rendere
conto adeguatamente del comportamento linguistico osservabile. Chomsky compie un passo ulteriore:
questa realtà mentale sottostante non potrebbe essere acquisita se ogni essere umano non fosse
dotato di un meccanismo innato, che Chomsky chiama ‘dispositivo di acquisizione del linguaggio’.
I primi argomenti a favore dell’esistenza di questo dispositivo si trovano in una lunga recensione di
Chomsky al volume di uno psicologo, Burrhus Skinner.
A parere di Chomsky, l’ipotesi di base del comportamentismo, cioè che il linguaggio viene appreso per
imitazione del comportamento linguistico degli adulti e dell’ambiente circostante, è insostenibile.
Egli osserva, i bambini di ogni razza e di ogni ceto sociale imparano in un tempo rapido la loro lingua
materna sulla base di una evidenza limitata e frammentaria.

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È quindi necessario ipotizzare che alla base dell’acquisizione di una qualunque lingua naturale stia una
specifica struttura mentale ‘’preprogrammata’’.

L’organizzazione della grammatica

La grammatica generativa ha conosciuto varie modifiche, in particolare per quanto riguarda il numero e
la denominazione dei livelli di rappresentazione, nonché le loro interrelazioni.
Chomsky suddivide la grammatica in tre componenti:
I. Sintattico: il quale ha solo lui il compito di generare le frasi;
II. Semantico: mette in relazione una struttura generata dal componente sintattico con
rappresentazione semantica;
III. Fonologico: mette in relazione una struttura generata dal componente sintattico con
segnale rappresentato foneticamente.
La struttura generata dal componente sintattico e interpretata dal componente semantico è chiamata
‘struttura profonda’ della frase; la struttura generata dal componente sintattico, mediante
l’applicazione delle trasformazioni, ‘struttura superficiale’.

La parte semantica della teoria standard si deve a Jerrold Kartz, ma questo modello non ebbe molto
successo; diversa invece è la storia delle ricerche relative al componente fonologico, dovuto a Morris
Halle > modello di riferimento per tutti gli studiosi di fonologia.

7.3
‘’Paradigma formale’’ e ‘’paradigma funzionale’’: alcuni aspetti del dibattito
L’impatto della grammatica generativa: consensi e critiche

La grammatica generativa conobbe successo sia negli USA che in Europa, spesso attribuito a Chomsky,
Halle e i loro allievi ma questa spiegazione non basta: gli strumenti concettuali che la grammatica
generativa metteva a disposizione erano nuovi e accattivanti.
A partire dalla metà degli anni Sessanta del Novecento, la grammatica generativa e l’opera di Chomsky
hanno suscitato discussioni accesissime.
Un solo precedente è rappresentato dal dibattito sulle concezioni dei neogrammatici; entrambe le
dispute hanno un’analogia di fondo > il problema è se la linguistica debba basarsi sul modello delle
scienze naturali oppure sia una scienza storico-sociale.
La polemica tra generativisti e anti-generativisti ha però assunto toni molto più violenti.
Le idee fondamentali della teoria generativa si possono riassumere nei seguenti punti:
I. Un’analisi adeguata del linguaggio deve postulare più livelli di rappresentazione, come
quelli che in Chomsky vengono definiti struttura profonda e superficiale;
II. Il linguaggio è una capacità mentale e perciò la linguistica è parte della psicologia;
III. L’acquisizione di questa capacità si può spiegare solo ipotizzando che il bambino possieda
un meccanismo innato all’acquisizione di qualunque lingua naturale;
IV. Lo studio della struttura del linguaggio è indipendente da quello delle sue funzioni, cioè dal
suo uso nel contesto sociale e comunicativo.
I punti di vista che si sono manifestati relativamente al linguaggio e alla linguistica sono stati sintetizzati
mediante l’opposizione tra paradigma funzionale e formale. Si tratta di un’opposizione di carattere
pratico; il paradigma formale non si identifica solo con Chomsky, ma si contano varie teorie che
prescindono dall’uso del linguaggio come mezzo di comunicazione. Una teoria di questo genere è la

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‘grammatica di Montague’, che consiste nell’applicazione diretta delle tecniche dei linguaggi formali al
linguaggio naturale.
Anche studiosi come Katz e Postal hanno sostenuto che la linguistica <<non ha scopi psicologici, non
dipende da dati psicologici e non ha statuto psicologico>>.
Il paradigma funzionale è ancor più differenziato di quello formale; secondo Givòn è impossibile
descrivere una struttura senza descriverne la funzione: è questo assunto che permette di indentificare
questi studiosi come funzionalisti e di opporli ai formalisti.

‘’La struttura profonda è necessaria?’’

La distinzione tra struttura superficiale e struttura profonda riscosse favore presso linguisti di
impostazione non generativista: il legame tra strutture sintattiche superficialmente diverse si può
spiegare derivandole da una stessa struttura profonda. Ma quel è il formato di questa struttura
profonda? Abbiamo visto che un punto essenziale della teoria di Chomsky è che la sintassi delle lingue
umane non è solo lineare, ma anche gerarchica. Però, tanto la superficiale che la profonda sono sia
gerarchiche che lineari, cioè formate da costituenti disposti gerarchicamente al loro interno e l’uno
rispetto all’altro, ma gli elementi di cui sono composti sono ordinati linearmente.
Alcuni studiosi come Saumjan e Fillmore sostennero che la struttura profonda è formata da un insieme
non ordinato di elementi.
Il nome di Fillmore è associato alla ‘grammatica dei casi’ > egli distingue i ‘casi superficiali’ dai ‘casi
profondi’: i primi sono le diverse terminazioni morfologiche che può assumere lo stesso nome in una
lingua come il latino; i secondi, <<le relazioni sintattico-semantiche sottostanti>>, come l’agentivo (A),
ossia l’agente dell’azione espressa dal verbo, lo strumentale (S), ossia la forza o l’agente inanimato che
è la causa dell’azione o dello stato espressi dal verbo.
La struttura profonda è costituita dall’insieme, non ordinato linearmente, formato dal verbo e da uno o
più di questi casi; il soggetto e il predicato non esistono a livello profondo, ma solo a livello superficiale.
Dato che soggetto e predicato sono relative alla sola struttura superficiale, a essi possono
corrispondere casi profondi differenti.
La ‘struttura di base’ di Fillmore era diversa dalla struttura di Chomsky. Due giovani generativisti, Lakoff
e Ross, avevano scritto un lavoro intitolato ‘’La struttura profonda è necessaria?’’. La risposta era
negativa: essi non sostenevano che la distinzione tra struttura profonda e superficiale fosse da abolire,
ma che la struttura profonda si identifica con l’interpretazione semantica della frase.
Il breve saggio segnava l’inizio delle cosiddette ‘’guerre linguistiche’’.

Chomsky ha modificato varie volte il numero e il ruolo dei livelli di rappresentazione. La fase più
recente della sua teoria è il ‘programma minimalista’ > obiettivo è la massima semplicità nella
descrizione del linguaggio: per Chomsky, la semplicità non è un concetto puramente estetico, ma la
ricerca della semplicità coincide con quella della verità.
I due unici livelli di rappresentazione rimasti nel programma minimalista sono le due ‘interfacce’ del
linguaggio con altri due sistemi cognitivi, ‘sensomotorio’ e ‘concettuale-intenzionale’.
Il sistema sensomotorio più utilizzato è quello fonico-acustico.
Il sistema concettuale-intenzionale riguarda <<l’inferenza, l’interpretazione, la programmazione e
l’organizzazione dell’azione, quello che si chiama ‘pensiero’>>
La <<proprietà fondamentale>> del linguaggio umano consiste nel generare un numero
potenzialmente infinito di espressioni alle due interfacce, mediante un’unica operazione, ‘Fondere’, che
costituisce il ‘sistema computazionale’ del linguaggio stesso.
‘Fondere’ prende gli elementi del lessico e li combina tra loro, dapprima formando un insieme bimebre,
poi aggiungendo unità. Ad esempio:

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- Date quattro parole come ‘mangiare’, ‘carne’, ‘vuole’, ‘Gianni’, l’applicazione Fondere genera
dapprima la struttura [mangiare[carne]], poi quella [vuole[mangiare[carne]], infine
[Gianni[vuole[mangiare[carne]]]] > le parentesi indicano la gerarchia prodotta da Fondere:
maggiore è il loro numero nel racchiudere un elemento, più bassa è la sua posizione nella
gerarchia.
L’operazione descritta è un esempio del ‘Fonderre esterno’, che combina elementi inizialmente
disgiunti; si ha invece ‘Fondere interno’ quando l’operazione coinvolge un elemento già fuso con un
altro e lo sposta in un’altra posizione: se spostiamo ‘carne’ all’inizio della struttura appena
esemplificata, il risultato sarà [[carne]Gianni[vuole[mangiare[carne]]]], come quando si dice ‘CARNE
Gianni vuole mangiare!’ > la seconda occorrenza di ‘carne’ è sbarrata per indicare la sua posizione
originaria.

C’è una differenza sostanziale: mentre nelle prime fasi della teoria l’output delle varie regole è una
struttura ordinata sia dal punto di vista gerarchico che da quello lineare, ora invece si assume che
<<Fondere non impone un ordine lineare o una precedenza agli elementi che mette insieme>> e che
<<una caratteristica del linguaggio umano è l’uso delle rappresentazioni gerarchiche>>.
Anche alcuni modelli funzionalisti assumono livelli diversi per la rappresentazione di una frase. La
grammatica funzionale ipotizza una ‘struttura di frase soggiacente’ in cui vengono assegnate le funzioni
di tutti i tipi, semantiche, sintattiche e pragmatiche.
A questa struttura soggiacente si applicano le ‘regole di espressione’, che determinano la forma e
l’ordine osservabile dei vari contenuti della frase.

Linguistica, psicologia, biologia


Linguaggio e mente, linguaggio e cervello

L’esistenza di una componente mentale innata è da tempo riconosciuta da quasi tutte le scuole di
pensiero; la discussione verte sulla natura di questa componente e sul suo rapporto con la componente
acquisita, cioè con gli stimoli che l’individuo riceve dall’ambiente circostante.
Il dibattito si è concentrato sull’esistenza o meno di una capacità linguistica specifica, mentre a parere
di molti altri studiosi sia l’acquisizione che il funzionamento del linguaggio sono spiegabili in base a
meccanismi cognitivi generali.
Quest tematiche si collegano alla questione dei rapporti tra linguistica e psicologia. Alcuni linguisti non
sono d’accordo con l’affermazione di Chomsky secondo cui la linguistica è parte della linguistica; però,
la maggior parte dei critici della grammatica generativa la accusa di mancare proprio di ‘’realtà
psicologica’’, di essere un apparato puramente formale che non descrive il funzionamento di alcun
meccanismo mentale.
Si svolse un dibattito tra Chomsky e uno dei più grandi psicologi dell’apprendimento, Jean Piaget.
Egli affermava che il linguaggio non è una capacità cognitiva specifica, in quanto la sua acquisizione da
parte del bambino è dovuta agli stessi meccanismi che regolano lo sviluppo dell’intelligenza generale.
Chomsky rispondeva che una caratteristica così astratta come la dipendenza dalla struttura non può
essere spiegata in base all’azione di meccanismi di questo genere: l’unica conclusione possibile è che
queste caratteristiche siano innate.

Langacker, uno dei fondatori della grammatica cognitiva, sostiene che il linguaggio e la sua acquisizione
non sono frutto di capacità specifiche, ma di abilità cognitive più generali: se una componente innata
può esserci, il suo sviluppo è comunque legato a quello di altre capacità cognitive.
I problemi sollevati dalla grammatica generativa riguardano anche i rapporti tra linguaggio e cervello,
cioè le basi biologiche del linguaggio, argomento al quale è dedicato il volume del medico e neuro-
fisiologo Eric Lenneberg.

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Alcuni neuro-linguisti si sono dedicati all’esame dei casi patologici, come i vari tipi di afasa; altri hanno
studiato il rapporto tra linguaggio e cervello nei soggetti normali.
L’italiano Andrea Moro ha mostrato che il nostro cervello può apprendere tanto regole dipendenti
dalla struttura, quanto regole ‘’impossibili’’, cioè basate sull’ordine lineare degli elementi.

L’origine del linguaggio

La ricerca sulle basi biologiche del linguaggio ha riportato al centro dell’attenzione un problema antico:
quello dell’origine del linguaggio.
Secondo Chomsky, il linguaggio è specifico non solo nel senso che non è riducibile a capacità mentali
generali, ma anche nel senso che è una capacità propria della sola specie umana. Un simile assunto
rappresenta una sfida per la teoria dell’evoluzione darwiniana. Si ripropone l’opposizione tra una
visione ‘’continuista’’ e ‘’discontinuista’’ del rapporto tra linguaggio umano e sistemi di comunicazione
animale che aveva caratterizzato le discussioni sull’origine del linguaggio nei secoli precedenti.
Chomsky non ha affrontato esplicitamente il problema; Steven Pinker e Paul Bloom hanno pubblicato
un saggio in cui sostenevano una spiegazione in parte continuista dell’origine del linguaggio > questo
saggio ha avuto una risonanza enorme.
In prospettiva continuista e antichomskiana, si colloca l’ipotesi avanzata da Tomasello: gli esseri umani
avrebbero sviluppato il linguaggio grazie a una ‘’condivisione di intenzioni’’, capacità che li distingue
anche dalle specie più prossime, come le scimmie > mentre gli individui di tale specie riescono a capire
le intenzioni di un loro simile, ma non sono disposti a collaborare con lui per realizzarle, questa
disponibilità è invece presente negli esseri umani.
Chomsky si è occupato della questione dell’origine del linguaggio in vari saggi > le soluzioni proposte in
ciascuno di tali lavori sono in parte diverse, ma il loro nucleo comune può essere riassunto così:
I. Il linguaggio non è nato per esigenze comunicative, in quanto la sua funzione primaria non
è la comunicazione, ma l’organizzazione del pensiero.
II. L’evoluzione non è frutto di mutamenti graduali, ma avviene ‘’per salit’’.
III. Per quanto riguarda il linguaggio, il salto fondamentale consiste nella comparsa
dell’operazione Fondere, che è assente in tutti gli animali.
Questa comparsa sarebbe dovuta a un <<leggero ricablaggio del cervello>> e consistente
nel collegamento di aree cerebrali diverse.

Linguistica e genetica

Secondo Chomsky <<la G[rammatica] U[niversale] può essere considerata come una caratterizzazione
del linguaggio geneticamente determinata>>.
Quali sono i possibili ‘’geni del linguaggio’’? Qualche anno fa, sembrava che si fosse giunti a scoprirne
almeno uno, il gene FOXP2. Si era osservato che alcuni membri di una famiglia nei quali era stata
individuata un’alterazione di tale gene mostravano disturbi del linguaggio, assenti invece nei membri
che non soffrivano di tale danno genetico; si cominciò dunque a parlare di ‘’gene della grammatica’’.
Ulteriori ricerche hanno però mostrato come <<il gene alterato non fosse selettivamente connesso con
la grammatica ma la sua espressione fosse ben più generale>>.
Risultati più interessanti sono venuti dall’incontro della linguistica con la genetica delle popolazioni.
Uno dei massimi esperti di quest’ultimo campo, Luigi Luca Cavalli-Sforza e i suoi collaboratori, hanno
potuto ricostruire un albero genealogico delle popolazioni del mondo sulla base dell’analisi del loro
patrimonio genico che in buona parte si sovrappone all’albero genealogico delle famiglie linguistiche

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ricostruito da Joseph Greenberg > questa parziale sovrapposizione non significa che nei nostri geni sia
iscritta una lingua determinata.
Secondo Greenberg e Ruhlen, le lingue del mondo si raggruppano in sole 17 famiglie; Ruhlen ipotizza
che tutte derivino da un’unica lingua originaria, cioè ritorna all’ipotesi monogenetica.
I loro lavori non hanno trovato consenso presso altri linguisti, in quanto, per dimostrare l’appartenenza
di due o più lingue alla stessa famiglia, non si basano sul confronto sistematico di fonemi e morfemi,
ma su somiglianze tra radici di parole.

La natura degli universali linguistici

La natura degli universali linguistici e il metodo per individuarli è l’argomento di maggior contrasto tra
paradigma formale di tipo chomskiano e tipologico-funziolista.
Per il primo, l’esistenza di universali linguistici è una conseguenza automatica dell’ipotesi innatista. Se il
meccanismo che permette al bambino di acquisire una qualunque lingua umana è innato, allora è
posseduto da tutti gli esseri umani, quindi è universale.
Un tipico esempio di universale linguistico è il più volte ricordato fenomeno della dipendenza dalla
struttura: come sostenuto da Chomsky, è difficile sostenere che una proprietà così generale e astratta
possa essere appresa dal bambino sulla base dell’osservazione degli enunciati prodotti dagli altri
parlanti.
Gli universali linguistici possono essere ricavati anche dall’esame di una sola lingua: se vi si scopre una
proprietà che non si può spiegare come acquisita in base all’esperienza, allora si ipotizza che essa sia
universali. Per falsificare questa ipotesi, bisogna trovare almeno una lingua in cui tale proprietà è
assente.
L’impostazione generativista è dunque deduttiva; quella funzionalista è invece induttiva, cioè esamina
un campione il più ampio possibile di lingue.
Il risultato di questa ricerca può anche essere che non esistono universali in senso stretto, cioè
proprietà effettivamente comuni a tutte le lingue, ma solo proprietà più frequenti di altre, cioè i
cosiddetti ‘’universali statistici’’, o ‘’tendenze’’.
Un’altra differenza tra i due paradigmi riguarda il tipo di universali proposti. In Chomsky, gli universali
linguistici sono distinti in ‘materiali’ e ‘formali’.
L’ipotesi innatista deve però fare i conti con il fatto innegabile che le lingue sono diverse; Chomsky ha
proposto una soluzione dettagliata a questo problema con il ‘modello a principi e parametri’.
I principi sono gli elementi della grammatica universale (GU); i parametri sono delle opzioni che la GU
lascia aperte alla nascita, e il cui valore deve essere fissato dall’esperienza > un esempio è il ‘parametro
della testa’, che distingue tutte le lingue a testa iniziale da quelle a testa finale: nelle lingue del primo
tipo si hanno preposizioni, il nome precede il c. di specificazione, il verbo il c. oggetto e l’aggettivo
comparativo il secondo termine di paragone; nelle lingue del secondo tipo, si hanno posposizioni, il c.
di specificazione precede il verbo e il secondo termine di paragone precede l’aggettivo.
Il bambino che acquisisce la propria lingua materna si trova davanti a un’opzione: collocare la testa
all’inizio oppure alla fine di ogni sintagma.

Analisi degli universali nel quadro del paradigma funzionale > la maggior parte degli aderenti a questo
paradigma limita la propria analisi alla sola struttura osservabile e va quindi alla ricerca di universali
‘’concreti’’. Questi universali concreti sono le categorie della grammatica tradizionale.
Dato l’approccio induttivo dei tipologi, l’ideale sarebbe poter esaminare la distribuzione di queste
categorie in tutte le lingue del mondo, ma questo è molto difficile: occorre selezionare un campione di
lingue significativo; questo campione non deve essere costituito prevalentemente da lingue identiche.

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La nozione di prototipo è stata introdotta dalla psicologa Eleanor Rosch, secondo cui le varie categorie
concettuali costituiscono un continuum che va dagli esemplari ‘’prototipici’’ a quelli più ‘’periferici’’. Ad
esempio, la gallina è un uccello ma, se una delle condizioni necessarie per rientrare in questa categoria
è la capacità di volare, allora non dovremmo definirla un uccello. Se invece consideriamo le categorie
come un continuum, allora si può dire che la gallina è sì un uccello, ma non prototipico.
Un esempio di applicazione della nozione di prototipo all’analisi delle categorie linguistiche riguarda ka
nozione di soggetto: secondo molti tipologi, il soggetto non si può definire in termini di una sola
proprietà, ma come un nesso di proprietà diverse.
Se tutte queste proprietà ricorrono insieme, il soggetto è prototipico, mentre le deviazioni dal prototipo
si dispongono lungo un continuum: il soggetto prototipico è il costituente che esprime al tempo stesso
l’agente dell’azione e il tema della frase.

I generativisti non possono condividere l’impostazione della tipologia funzionalista, in quanto la GU è


un insieme di universali in senso stretto: tanto i principi, quanto i parametri, i quali fanno comunque
parte della dotazione innata del bambino.
Tuttavia, alcuni generativisti si sono ispirati ai lavori di tipologia linguistica; i tipologi funzionalisti non
escludevano in linea di principio l’esistenza di universali in senso stretto, o <<assoluti>>, mentre
recentemente sono tornati all’idea che le lingue possono differire completamente l’una dall’altra.
Indicativo è il saggio di Nicholas Evans e Stephen Levinson, che dice <<le lingue differiscono in un
modo così fondamentale l’una dall’altra ad ogni livello di descrizione che è molto difficile trovare una
sola proprietà che abbiano in comune>>.

Linguaggio e società, linguaggio e comunicazione

Le nozioni di ‘’parlante-ascoltatore ideale’’ e di ‘’comunità linguistica omogenea’’ suscitarono molte


critiche; queste nozioni sono diventate superflue all’interno dello stesso paradigma generativo:
Chomsky ha sostenuto che l’oggetto della linguistica è la ‘’lingua-I’’, dove I sta per interno e individuale.
Se la lingua è un fenomeno individuale, non c’è bisogno di ricorrere all’astrazione di una comunità
linguistica omogenea, perché il concetto stesso di comunità linguistica non ha più importanza.
La comprensione tra individui diversi si realizza quando le loro lingue-I non sono troppo diverse tra
loro.
La concezione di Chomsky si oppone a quella secondo cui le strutture del linguaggio sono determinate
dal suo uso in situazioni concrete; un’alternativa a questa impostazione è rappresentata dalla
sociolinguistica, il cui fondatore è considerato Uriel Weinreich > autore di un fondamentale saggio
dedicato all’analisi dei fenomeni di ‘interferenza linguistica’ nel cantone dei Grigioni, dove si parlano sia
svizzero-tedeschi sia romanci.
Weinreich non era il primo linguista a segnalare l’importanza del rapporto tra linguaggio e società, ma
lo analizzava in modo nuovo: non come qualcosa che si aggiunge alla descrizione della struttura di una
lingua, ma come qualcosa di inscindibile da questa stessa descrizione.
Dell Hymes ha introdotto la nozione di ‘competenza comunicativa’, per integrare il concetto
chomskiano di competenza in una visione più ampia del linguaggio. Alla competenza grammaticale va
contrapposta una ‘competenza d’uso’, che viene acquisita negli stessi termini dell’acquisizione della
competenza grammaticale.
In questa competenza d’uso rientra anche la capacità di riconoscere i diversi tipi di atti linguistici.
In sintesi, secondo Hymes, lo scopo della teoria linguistica non è soltanto quello di distinguere le frasi
possibili da quelle impossibili, ma anche rendere conto della capacità del parlante di riconoscere ciò che è
appropriato e ciò che non lo è in un determinato contesto.
Il tentativo più sistematico di applicare le nozioni tecniche alle ricerche sociolinguistiche è stato operato da
William Labov, mediante la nozione di ‘’regole variabili’’ > tali regole hanno lo stesso formato di un

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determinato insieme di regole della grammatica generativa, ma la loro applicazione non è ‘categorica’, bensì
condizionata da alcuni fattori probablistici.
Mediante le regole variabili, Labov può rendere conto delle diverse realizzazioni di uno stesso elemento
grammaticale da parte di individui appartenenti a diversi gruppi sociali.
Il caso più famoso è forse quello della contrazione della copula in inglese, come in he’s good, he’s nice
fellow. La regola variabile pertinente mostra che la contrazione della copula è obbligatoria se essa segue un
pronome che termina in vocale.
Labov mette a confronto la contrazione della copula inglese americana standard e nella varietà inglese
parlata dai neri d’America (inglese veicolare nero, IVN) > in quest’ultima varietà la copula viene cancellata
nei casi in cui nell’inglese standard è contratta: la forma IVN we on tape corrisponde a quella dell’inglese
americano we’re on tape.
Lo sviluppo delle ricerche sociolinguistiche e di sociologia è stato enorme: alle analisi di tipo laboviano si
sono accompagnate quelle relative alle tematiche del bilinguismo e di etnolinguistica.

Il problema del rapporto tra le strutture del linguaggio e il loro uso si pone anche per chi sostiene che le
prime sono indipendenti dal secondo.
Chomsky assume posizione particolare: i termini delle lingue naturali non hanno ‘un riferimento’ > con
questo termine si intende l’oggetto designato da un nome. Uno degli argomenti addotti da Chomsky
riguarda i nomi di città: quando parliamo di Londra combiniamo delle proprietà che nella realtà non
appartengono a un oggetto unico e determinato. Ad esempio, possiamo dire <<Londra è infelice e
inquinata>>: con questa frase si fa riferimento al modo di vita di un insieme di persone e alla qualità
dell’aria > quindi non si riferisce ad un unico oggetto.

La conclusione di Chomsky è che i termini del linguaggio naturale si riferiscono solo a certe entità mentali e
che è l’interrelazione tra queste e il nostro uso del linguaggio che ci permette di parlare del mondo esterno.

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