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PROBLEMI MODERNI
9. LINGUISTICA E TRADUZIONE
Finora la linguistica non s’era mai occupata di traduzione. Il termine non compare né in Saussure né in Jespersen.
Fu solo con le prime ricerche sulla traduzione automatica che si creò la necessità di considerare la traduzione da un
punto di vista linguistico. Solo nel 1959 Jakobson le ha dedicato alcune pagine, richiamando l’attenzione che senza
la traduzione la linguistica non sarebbe mai esistita.
Per lunghi secoli i traduttori hanno incontrato difficoltà che riguardavano il senso delle parole da tradurre.
Trovavano sempre una soluzione, ma empirica: l’oggetto denominato che non esisteva nella lingua del traduttore
veniva sostituito con un imprestito o con un calco, seguiti da una nota esplicativa1; se il numero degli imprestiti e
dei calchi era esagerato, se ne trasportava il senso senza introdurre la parola, descrivendo in nota la nozione
designata dalla parola in originale. È il modo di procedere classico degli etnografi: ad es. C. Levi-Strauss in Tristi
tropici (1955) usò circa 300 termini stranieri (noti, tradotti o spiegati in nota); così J. Malaurie, studioso di tribù
esquimesi.
Di tutt’altra natura è invece il problema dei transferts di significato, considerato la grande difficoltà del traduttore:
è il problema dell’espressività di certe parole, problema legato alla traduzione letteraria e poetica. Come fare infatti
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Ed ecco i lessici europei riempirsi di termini arabi (durante le crociate), amerindiani, russi (dalla fine del XVIII s.), africani
(colonizzazione).
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per rendere il fascino indefinibile di una particolare parola francese? Si moltiplicano dunque le espressioni tipo ‘in
italiano nel testo’ che un autore mette quando nella parola vi trova qualcosa di intraducibile.
Questi problemi, dunque, senza dubbio interessanti ma di minor peso, hanno mascherato per secoli agli occhi dei
traduttori i veri problemi del significato.
Ferdinand de Saussure
In realtà, il perché del significato delle parole è un vecchio problema filosofico che ha percorso Platone,
Descartes, Leibniz, Peirce, ma è solo nel linguista statunitense William Whitney (prima di Saussure) che lo
vediamo formulato in termini linguistici.
Saussure lo riprende, mettendo prima in luce la concezione tradizionale, la sottintesa teoria per cui una lingua è una
specie di ‘nomenclatura’ in cui viene attribuito un nome a ogni cosa o concetto già dati in precedenza, per cui non
esiste problema di significato che non sia solubile.
Saussure dimostra invece che il rapporto di significazione che unisce una cosa o un concetto a una parola non è così
semplice e che la loro denominazione non ubbidisce a leggi universali. Infatti, se il francese mouton indica le due
nozioni di animale e della sua carne, l’inglese le distingue (sheep e mutton). Ciò significa che ogni parola fa parte
di un sistema e non di una nomenclatura, in cui risulterebbe isolata e come un’etichetta ben definita. All’interno di
una lingua, infatti, tutte le parole con significato analogo si limitano reciprocamente e i sinonimi, quindi, hanno
valore proprio solo se contrapposti tra loro. Ciò significa che noi cogliamo non le idee già date, ma i valori che
emanano dal sistema. Quando si dice ch’essi corrispondono a dei concetti, si sottintende infatti ch’essi sono definiti
negativamente, cioè d’essere ciò che gli altri non sono.
Saussure non va oltre: è ancora l’epoca della psicologia classica in cui si crede sull’ipotesi di una natura umana
eterna. Tuttavia suggerisce che la suddivisione dell’universo materiale in cose e dell’universo mentale in concetti
non è un’operazione soggetta a un’unica legge universale. Tale suddivisione infatti può compiersi a mille livelli
diversi: ad esempio, nei gruppi nomadi del Sahara che vivono di allevamento di cammelli, lo spazio semantico
esaurito dalle tre povere parole europee (cammello, cammella, cammellino) è coperto da ben sessanta termini per
distinguere cose che noi invece confondiamo. Ogni civiltà dunque suddivide il mondo in oggetti secondo i propri
bisogni: dato che alleviamo ancora cavalli, ci sono sei termini che li indicano e li distinguono e poiché non
alleviamo rondini tutte le rondini sono semplicemente rondini.
Saussure apre così il grande dibattito della linguistica sul problema del senso. E nella sua analisi i traduttori
avrebbero trovato di che inquietarsi perché mostrava che il problema della traduzione non era legato ad un preteso
‘genie des langues’ né a pretese ‘ricchezze’ o ‘povertà’ di certi idiomi bensì dalla descrizione di tutta una civiltà di
cui la lingua è espressione.
Saussure giustificava tuttavia le soluzioni empiriche dei traduttori: l’imprestito come il calco erano per lui legittimi.
Quanto alla traduzione parola per parola, antica utopia di un’epoca che credeva ancora nell’unità dell’universo,
essa era condannata e non per ragioni estetiche ma per ragioni epistemologiche: tale traduzione è impossibile
perché ogni gruppo sociale fa l’inventario delle cose del mondo in modo diverso e le ‘nomenclature’ non possono
quindi mai corrispondere. Tradurre era dunque più difficile di quanto si fosse creduto, ma non impossibile.
Louis Hjelmslev
Con Hjelmslev la critica alla nozione di significato si fa più radicale e in termini puramente linguistici. Prendendo
spunto da Saussure, attacca la concezione secondo cui ‘un segno è anzitutto il segno di qualche cosa’: il segno
linguistico non è qualcosa che indichi un contenuto esterno al linguaggio ma è un’entità generata dalla relazione fra
un’espressione e un contenuto. L’esempio tipico di Hjelmslev è quello di mostrare che non esistono concetti di
colori anteriori alle lingue che li denominano.
Se ne deduce la dimostrazione che le lingue riducono il mondo esteriore in oggetti o concetti secondo schemi
irrimediabilmente diversi e che non esistono cose o concetti eterni e universali già dati prima di qualsiasi
denominazione linguistica. Le diverse lingue dunque analizzano il mondo in modo arbitrario.
Su questo schema Hjelmslev moltiplica le sue analisi studiando la denominazione di legno nelle lingue europee, la
nozione di numero grammaticale traendone conclusioni epistemologiche draconiane: l’universo è in se stesso
inaccessibile alla conoscenza; esso non possiede un’esistenza scientifica al di fuori del modo con cui se ne parla.
Per indicare ciò che qui noi chiamiamo universo, Hjelmslev usa il vocabolo purport, che sta a significare tutto
quanto c’è nella testa di chi parla.
Tali concezioni negherebbero qualsiasi possibilità di tradurre se non fossero attenuate, e a volte contraddette, da
altre tesi. La sua posizione sarebbe più corretta infatti se la si modificasse in: il significato (purport) non può avere
esistenza linguistica se non rappresentando la sostanza linguistica di una forma linguistica.
E poiché lo studio del contenuto del linguaggio non è compito della linguistica ma di altre scienze esiste dunque la
possibilità di accostarsi al purport per altra via senza l’ausilio della linguistica. Tuttavia è importante che i
traduttori non dimentichino mai l’analisi dei fatti linguistici perché non si è mai sicuri che l’analisi della realtà di
cui parla una lingua corrisponda a quella della lingua usata nel tradurre.
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Leonard Bloomfield
Anche Bloomfield, fondatore della scuola di Yale, aveva tentato di eliminare dalla linguistica il ricorso ai
significati.
Bloomfield, da parte sua, lo fa cercando di analizzare il linguaggio in funzione del behaviorismo, cioè attraverso la
pura descrizione del comportamento del parlante e dell’ascoltatore, sperando di eliminare ogni riferimento di natura
psicologica. Pretendeva dunque di ignorare quel che noi chiamiamo coscienza, immagini mentali, ecc., tutte realtà
non linguistiche, inaccessibili al linguista e che non si possono mettere in evidenza attraverso mezzi puramente
linguistici. Il linguista dunque si occupa di segnali linguistici. Non ha competenza per problemi di psicologia o di
fisiologia e le sue scoperte avranno più valore per lo psicologo quanto meno distorsioni avranno subito da
supposizioni preconcette. Ne consegue che il significato di una forma linguistica è la situazione in cui l’enuncia il
parlante e la risposta ch’esso ottiene dall’ascoltatore; che il significato di un’enunciazione per un parlante non è
niente di più del risultato delle situazioni in cui questi ha concepito tale forma.
Simile definizione, fondata sulla nozione di situazione sconvolge profondamente la nozione di senso, perché non ci
sono mai situazioni uguali; perché per poter definire esattamente il senso di un enunciato la situazione dev’essere
corredata da una conoscenza di tutto quel che c’è nel mondo del parlante; perché la conoscenza esatta dei significati
implicherebbe l’onniscienza e quindi la scienza dei significati, la semantica, è il punto debole dello studio del
linguaggio.
Preso alla lettera, sembrerebbe che Bloomfield neghi ogni possibilità di traduzione per l’impossibilità di accedere al
senso completo degli enunciati. In realtà Bloomfield è stato meno intransigente: anzitutto nella comunicazione
delle situazioni vi sono aspetti che non hanno alcuna importanza semantica (se dico ‘ho visto una mela’
l’ascoltatore per capire non ha bisogno di saperne la grandezza, il colore, ecc: il linguaggio traduce infatti, di una
situazione, solo la parte socializzata e utile alla comunicazione); inoltre, possiamo definire il significato di una
forma linguistica quando esso si riferisce a qualcosa di cui si possiede conoscenza scientifica.
Bloomfield dunque non nega la possibilità di accedere ai significati linguistici e quindi tradurli, ma ha permesso di
prendere coscienza delle difficoltà che si incontrano quando vogliamo delimitare la superficie esatta dello stesso
enunciato per parlanti e ascoltatori diversi. Così, contribuendo a smantellare l’antica certezza che si potesse
tradurre tutto, Bloomfield ha contribuito a perfezionare gli strumenti del traduttore.
Edward Sapir
Le tesi humboldtiane furono riprese dalla scuola di linguisti-antropologi americani allievi di Franz Boas e Sapir
seppe chiarirle affermando che il linguaggio e le nostre abitudini di pensiero sono uniti fra loro inestricabilmente e
che gli esseri umani non vivono solo nel mondo oggettivo ma sono alla mercé della lingua, mezzo d’espressione
della loro società. Il fatto è che gran parte del mondo reale è modellata inconsciamente secondo le abitudini
linguistiche del gruppo e noi vediamo e sentiamo guidati dalle abitudini linguistiche della nostra società che ci
predispone verso certe scelte nella nostra interpretazione.
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Whorf ha contribuito così a dimostrare che gli uomini non vedono sempre il mondo nello stesso modo e che il
linguaggio ora facilita ora ostacola l’appercezione del mondo esterno.
Jost Trier
Ricorrendo all’esempio della denominazione dei colori in greco, Leo Weisgerber ha mostrato come la ‘visione del
mondo’ riflessa in una lingua trovi difficilmente il suo corrispettivo in un’altra, concludendo che, riguardo la
lingua, essa è quel mondo intermedio (intermondo) fra mondo esteriore e universo psicologico attraverso il quale il
primo si traduce nel secondo.
Ma le dimostrazioni più ricche di questo assunto si ritrovano in Trier nella nozione di ‘campo semantico’ che
amplifica la nozione saussuriana di ‘valori differenziali’ delle parole dipendenti da uno stesso sistema concettuale,
come ad esempio, la paura: paventare, temere, aver paura, ecc. Studiando a fondo questi campi concettuali,
corrispondenti a altrettanti campi semantici, Trier ha messo in evidenza che le parole di un campo semantico
costituiscono una specie di mosaico che ricopre il campo del concetto: es. cavallo. Per un bambino questo campo
concettuale è ricoperto da un mosaico fatto di una sola pietra: cavallo; per un adulto invece tale mosaico è
composto da sei termini e per un gaucho argentino molti di più. Ciò significa che questi diversi mosaici di termini
non si sovrappongono mai e che è dunque impossibile una traduzione eseguita parola per parola.
Trier ci aiuta in questo senso a capire che Humboldt aveva visto giusto: che gli uomini non vedono le cose cui non
danno un nome e non distinguono quello che la loro lingua non denomina. Gli uomini dunque non vedono sempre
allo stesso modo. Merito di Trier e stato quindi quello di suscitare il dubbio nel traduttore se mai sia possibile
tradurre sempre e nella sua totalità il senso di un enunciato.
Alla possibilità di accedere al significato totale di un enunciato anche l’etnografia ha inferto duri colpi. Frobenius
aveva già messo in luce che i diversi stati psichici dell’umanità sono irriducibilmente diversi. Infatti, siamo
incapaci d’immaginare quale fosse il significato delle pitture rupestri di Lascaux; ma ciò vale anche per le civiltà
che coabitano nello stesso periodo. La conclusione degli etnografi è dunque che ogni civiltà vive in un mondo
diverso a causa della sua diversa cultura: diversi universi naturali, diversi universi tecnologici, ecc. che conduce
Nida a proporre (come Bloomfield e Hjelmslev) che la semantica non sia più considerata parte della linguistica e
che lo studio dei significati linguistici sia quello etnografico. Affermazione ripresa da Leon Dostert, organizzatore
del gruppo di interpreti al processo di Norimberga e all’Onu: è difficile raggiungere l’effettiva comunicazione
anche con una lingua e una cultura unica e quando si passa a una situazione bilingue diventa ancor più complesso.
Infine, ha aggiunto: il grado di traducibilità è sempre in rapporto con la somiglianza tra due culture e più grande è
la distanza maggiore diventa l’intraducibilità
Questi attacchi alla nozione di significato non si esauriscono qui. Per molti anni, fino al primo quarto del
Novecento, i linguisti ponevano quasi tutta la loro attenzione all’analisi dei valori intellettuali e i traduttori
sentivano che tale modo non rendeva conto della natura di tutte le loro difficoltà: si parlava degli imponderabili di
un enunciato, delle famose sfumature, del fiuto indispensabile a ogni traduttore. Tutte queste difficoltà venivano
classificate sotto la rubrica dello stile e ci si affidava al talento.
L’esame scientifico di questi problemi ebbe inizio tanto nella linguistica europea, sotto il nome di stilistica, che in
quella americana, come aspetto della psicologia behaviorista.
Charles Bally
In Europa non ci si era mai preoccupati di sapere come si opera la trasmissione di quei valori soggettivi attraverso i
quali uno stile esprime anche la colorazione affettiva presente nell’animo del parlante. L’errore, scrisse Bally, era
quello di restare ancorati allo studio dei caratteri intellettuali. Nel suo trattato di stilistica solleva quindi il problema
dell’esistenza di un ‘linguaggio affettivo’ diverso dal ‘linguaggio intellettuale’, ma non si chiede se quei valori
affettivi facciano parte o no del significato, che invece sarà fondamentale per i linguisti americani.
Edward Sapir
Nel 1921, nel suo trattato di linguistica, Sapir dedica un capitolo al senso affettivo delle parole. Però bisogna
ammettere che la formazione delle idee è preponderante nel linguaggio e l’atto volitivo e l’emozione sono in
secondo piano e la loro espressione non appartiene al vero campo della linguistica.
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Leonard Bloomfield
Sapir, dunque, riconosce l’esistenza di un senso affettivo delle parole, ma lo esclude dalla linguistica. In
Bloomfield invece questi valori passano in primo piano perché fanno parte, sono i ‘valori supplementari’ del
significato. Riprendendo poi termini della vecchia logica, Bloomfield chiama denotazione di un termine il
minimum dei tratti oggettivi comuni per cui tale termine si può definire per tutti i parlanti e connotazione tutti gli
altri tratti distintivi del significato, che possono essere aggiunti o meno. Il merito di Bloomfield è dunque quello di
aver costretto la linguistica a considerare come linguistici fatti che Sapir ancora trascurava.
Fin qui s’è detto contro la possibilità di accedere al significato totale di un enunciato; s’è voluto dare rilievo ad una
corrente linguistica americana ancora poco conosciuta; s’è dato corpo alle critiche che riguardano i traduttori; si è
spinto i traduttori a capire che il mondo odierno non richiede più impressioni fuggevoli, ma un’analisi approfondita
del loro mestiere. E tali esigenze sono poste da studiosi di logica, matematici, ingegneri informatici, e i traduttori
devono rispondere accettando una cura di linguistica metodica.
La comunicazione monolinguistica
Tutta la dimostrazione con la quale si stabilisce che gli uomini non comunicano mai completamente tra loro –
poiché due parlanti non hanno mai lo stesso sottofondo psicologico – si fonda su un paralogismo che la linguistica
può distruggere.
Si comincia col definire la comunicazione impossibile e si dimostra che effettivamente la comunicazione è
impossibile. Ma come creare una definizione della comunicazione tale da farla risultare impossibile?
Si parte dal principio che il mondo è inconoscibile: di una pietra, conosciamo la dimensione, la forma, la
situazione, ma non conosciamo, dicono i solipsisti, la pietra in sé, cioè anche dall’interno. Concepire la conoscenza
in questo modo e dire che i significati sono inconoscibili significa che il mondo è inconoscibile. Ammesso questo
la parola pietra non può essere segno di un’esperienza completa e comune a tutti. Prendiamo ora il caso Rimbaud.
Dire che capisco gli enunciati di Rimbaud sarebbe come dire ricominciare la sua vita, i suoi sogni, ecc. e quindi per
comunicare gli enunciati di Rimbaud bisognerebbe che io stesso fossi Rimbaud.
Ma comunicare significa ‘mettere in comune’. Essendo un fatto sociale la lingua può esprimere solo la faccia
accessibile alla conoscenza degli altri. In questi segni, quindi, che non si riferiscono mai alla stessa cosa ma a una
classe di cose, sono presenti i caratteri comuni e solo così è possibile la comunicazione. Dunque, poiché la
comunicazione possa avvenire, l’esperienza individuale deve inquadrarsi in una delle categorie tacitamente
riconosciute dalla comunità e l’impressione particolare diventa ‘simile’. Inoltre la mia ‘memoria generalizzata’, o la
mia nozione di quella cosa, deve andare a confondersi con le idee che se ne sono fatte gli altri.
I solipsisti (Paul Valery) tuttavia rispondono che l’utilizzo quotidiano del linguaggio secondo logica, non è vera
comunicazione: la prosa non è che uno strumento qualunque, ‘trasmissione banale’; solo la poesia è
comunicazione.
In definitiva, alle vecchie tesi non dialettiche secondo le quali la comunicazione è sempre possibile o sempre
impossibile la linguistica sostituisce una tesi dialettica della comunicazione non sempre pronta a funzionare
perfettamente ma un’attività in costante divenire sempre perfettibile, con le sue involuzioni e i suoi progressi. Non
sempre tutto è possibile, ma non sempre tutto è impossibile e grande merito del solipsismo linguistico è stato di
aver attirato l’attenzione sui casi in cui fallisce l’atto della comunicazione.
La comunicazione bilingue
A Saussure, Hjelmlev e Bloomfield, riguardo gli insuccessi della comunicazione bilingue dovuti alla differenza dei
sistemi semantici, la linguistica moderna ha risposto che esistono degli universali linguistici, degli elementi comuni
all’esperienza di tutti gli uomini, con denominazioni equivalenti in tutte le lingue. Ad esempio, non esiste lingua
conosciuta che descriva l’apparizione di un albero come un fenomeno meteorologico. Essere uomini, infatti,
comporta analogie fisiologiche e psicologiche. Così, a livello biologico, psicologico, socioculturale l’inventario di
questi universali stabilisce che esiste una base comune, grazie alla quale la comunicazione fra gli uomini è sempre
possibile.
Questo non implica ritornare alla tesi della ‘traduzione sempre possibile’: infatti, ogni difficoltà di traduzione
costituisce un caso speciale e nel tradurre c’è sempre un’irrimediabile perdita di informazioni.