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ISTITUZIONI DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

La classificazione della tipologia della lingua italiana, annunciata da Gaetano Berruto, è diviso
sostanzialmente in 4 parti, legate allo strato sociale e alla condizione socio-culturale. Un altro
elemento che contraddistingue l’uso dell’italiano è il contesto nel quale si usa: varietà interne. In
Italia ci sono tantissime varietà : diatopiche, diastrafiche, diafasiche e diametriche. Esistono persone
che possiedono tutti e quattro i livelli della lingua da quello più alto (istruzione universitaria) a
quello più basso (dialetto locale).

Che oggetto è la lingua?

È un oggetto storico, il sistema di comunicazione primario di una comunità. Queste comunità


assumono caratteristiche divergenti con la lingua di base, quella che possiamo definire nazionale e
standard, per esempio in Italia, al di fuori dell’italiano standard esistono centinaia di dialetti, sì della
lingua italiana, ma che spesso si allontanano molto dalla lingua grammaticalmente corretta. Così
come succede con il francese o l’inglese, visto che esistono svariati tipi di dialetti. L’elemento
sincronico (la lingua oggi) e l’elemento diacronico (da dove deriva la lingua) sono strettamente a
contatto per capire la storia della lingua italiana.

Quando nasce la lingua italiana?

Prima dell’unità d’Italia nel paese non era presente una vera a propria lingua italiana ma una serie
infinita di dialetti. L’italiano come lingua comunemente parlata e riconosciuta ha una storia che
risale alla fine dell’800, prima dell’unità d’Italia le comunicazioni all’interno del paese erano legati
strettamente alle comunità locali indipendenti linguisticamente l’una dall’altra. Sicuramente
bisogna dire che le prime testimonianze della lingua italiana si trovano all’interno dello Stil Novo, si
parla però dell’italiano utilizzato a scopo letterario, differente da quello di fine ‘800 utilizzato per la
comunicazione che possiamo definire più “burocratica”. La parola italiana quando è stata usata per
la prima volta? Intorno al ‘500 si inizia ad utilizzare l’aggettivo italiano per indicare chi provenisse
da Napoli piuttosto che da Venezia, insomma dai luoghi che avrebbero comunque fatto parte del
successivo Stato italiano che però ancora non si era formato. In Italia utilizziamo una data
convenzionale per indicare l’inizio dell’uso della lingua italiana nel 1525 con la pubblicazione di
un’opera linguistica di Pietro Bembo Prose della volgar lingua.

A partire dal 1861 si pone il problema dell’uso dell’italiano nella burocrazia o in quello all’interno
delle scuole.

Possiamo dire che il riferimento onomastico alla lingua italiana appartiene al ‘500, perché prima di
allora nessun letterato o poeta utilizza il termine italiano per riferirsi alla lingua utilizzata all’interno
delle loro opere, il primo a farlo è un letterato di nome Brissino. Prima di allora l’aggettivo
utilizzato per riferirsi alla lingua utilizzata dagli autori di prima del ‘500 è volgare, e prima ancora
del volgare parliamo del latino. Dal latino provengono le cosiddette lingue romanze, che hanno
dei tratti che le accomunano tra loro ma che non appartengono al latino, per esempio l’uso
dell’articolo: in tutte le lingue romanze è presente mentre nel latino non appare. Una sostanziale
differenza nell’uso delle lingue è il diverso utilizzo della lingua parlata da quella scritta, ci sono
elementi che nel parlato non appaiono mentre nello scritto si (es. l’uso maggiormente corretto
delle coniugazioni dei verbi).

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Come nasce una lingua?

Noi stabiliamo l’inizio di una lingua quando abbiamo i primi documenti scritti che testimoniano
una lingua nuova rispetto a quella utilizzata fino a quel momento. Questo però sottintende un
fattore secondo il quale se una lingua non ha una tradizione scritta questa non esiste, e facendo
questa affermazione dovremmo ammettere che migliaia di dialetti per esempio africani non hanno
motivo di esistere in quanto non hanno un precedente scritto, ma questa affermazione non può
essere vera. Il placito capuano viene considerato il primo documento scritto in lingua italiana, nel
960, è un documento giuridico. Il documento giuridico è un tipo di documento che utilizza una
scrittura altamente formalizzata (con delle forme prestabilite). Una lingua diventa tale quando
all’interno di una comunità si sviluppa una coscienza di gruppo secondo la quale la società in
questione inizia a percepire che si sta parlando una nuova lingua diversa dal latino che è accettata,
compresa e utilizzata da tutti.

Una seconda testimonianza è la catacomba di Motodilla nella quale appare il prete che legge un
appunto scritto sul muro ‘non dicere ille secrita a boce’.

LEZIONE 15/10/20

Bonvesin de la Riva: la storia della lingua italiana si rivolge all’italiano secondo una storia che
ripercorre la tradizione della lingua della grande tradizione letteraria e quello che è fuori da esse è
fuori dalla lingua. Questa storia viene studiata attraverso due tipi di esse: la storia interna e quella
esterna, quella interna studia la grammatica storica di una lingua (linguistica).

LEZIONE 22/10/20

Qual è il modo standard per descrivere una lingua? Per esempio i foni e più in generale con la
grammatica con la quale ci si riferisce nel pensiero medievale alle lingue secondarie, le quali sono
appunto legittimate da queste regole grammaticali. I primi esempi di grammatica appaiono nel
quarto secolo, mentre la grammatica fondativa appare a Costantinopoli nel terzo secolo, viene
scritta la grammatica perché non si conosce più il latino. Le grammatiche servono a costruire delle
regole che possano essere utilizzate per sostituire il latino che stava scomparendo. Ancora oggi
abbiamo l’idea che esista una divisione in 8 parti del discorso (le parti principali della grammatica
di base es: articolo, nome, aggettivo ecc..). Aristotele e Platone si sono interrogati su quali fossero
le funzioni che legavano la frase dandogli un senso (analisi logica). Nel senso comune la
grammatica è quell’insieme di regole che servono per far parlare bene una lingua. Ha un fine
normativo, stabilisce quello che è corretto e quello che non lo è. Il problema della grammatica è
che essa ha il compito di descrivere o di prescrivere.

La cultura linguistica è tuta quella mole di esperienze entità, aspetti e fatti storici che sono legati a
come si è parlato in un determinato territorio per tot tempo. Questa storia comprende una
complessità storica di cui fa parte anche la lingua italiana. La prima grammatica italiana è stata
prodotta più o meno interno al 1435, un umanista, Leon Battista Alberti, ha scritto un piccolo
pamphlet intitolato Opere volgari facendo un intervento linguistico mettendo in discussione la
duplice divisione delle lingue (naturali e artificiali).

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LA QUESTIONE DELLA LINGUA

DANTE ALIGHIERI

La “questione della lingua italiana” nasce con il De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri e si svolge
nei secoli richiamando di continuo la propria origine. Infatti quest’opera oltre ad essere il primo
discorso organico sul volgare, inaugura quelli che rimarranno i due fondamentali punti di vista sulla
“questione”: quello socio-linguistico e quello stilistico-letterario. Dal primo si sviluppa una critica
sociopolitica mirata all’identificazione di una norma linguistica nazionale; dal secondo scaturisce la
lunga controversia su quale lingua usare in letteratura. L’intento formativo della teoresi dantesca si
realizza attraverso una speculazione che scavalca la precettistica grammaticale provenzale.
Composta tra il 1303 e il 1305, scritta in latino perché destinata ai doctores illustres e interrotta a
metà del secondo libro. Oggetto della trattazione è il volgare, tematizzato come lingua naturale,
appreso senza l’applicazione di “regole” e contrapposto alle lingue artificiali quali il latino e il greco.
Dante nel primo libro del Dve procede dal generale al particolare: partendo dalle origini del
linguaggio come peculiarità eminentemente umana, giunge alla rassegna dei differenti volgari
italiani, allo scopo di indentificare in una di questi l’idioma deputato ala scrittura letteraria. Tra i 14
volgari censiti e messi al vaglio, nessuno corrisponde a quella forma eccelsa di lingua che Dante
ipotizza. La teorizzazione avviene quindi deduttivamente a Dante la conduce attraverso la
definizione degli attributi che sono propri del volgare perfetto: illustre perché investito di potere e
magistero; cardinale perché è come il cardine su cui ruotano tutti i vulgaria municipalia; aulicum e
curiale perché, in quanto codice linguistico condiviso e unitario, è anche idoneo strumento di “aula”
e “curia”. Nel libro successivo (II), dedicato alla poesia, nel mezzo del quale l’opera si interrompe,
vengono circoscritti gli argomenti degni del volgare illustre, le forme metriche e il livello stilistico;
prevedibilmente il terzo libro avrebbe dovuto svolgere la teoria della prosa e nel quarto trovare
posto la presentazione della forme poetiche in volgare basso. Il De vulgari eloquentia fu concepito
più come la sistematizzazione di una dottrina degli stili e dei registri che come una discettazione di
teoria della lingua. Il primo libro non si risolve in sé ma introduce all’idea che fonda il trattato: il
volgare illustre. Se Dante attribuisce al volgare aulico e curiale, insieme al carattere di codice
letterario esclusivo dello stile alto, quello di idioma comunitario, di lingua nazionale, la poesia è
chiamata a svolgere un ufficio anche politico. Ma un’incoerenza complica la teoria dantesca e sta
nel considerare allo stesso tempo il volgare illustre come un sovracodice che comprende le varietà
municipali e queste delle loquele scisse e contaminanti che ne ostacolerebbero l’espressione. Il
toscano in cui furono trascritti i testi della Scuola Siciliana era il codice della recente tradizione lirica
italiana. Assimilare volgare toscano e volgare illustre avrebbe significato implicitamente approvare
la disgregazione politica dell’Italia e assegnare a una sua parcella il primato linguistico. Dante
costruisce il Dve su un’incongruenza e assegna al volgare letterario uno statuto di conseguenza
fantomatico. Il Dve resta nei secoli un precedente da ridiscutere. Scomparso se non per sporadiche
citazioni dal panorama culturale.

Si noti che nel Convivio, composto contemporaneamente al De vulgari eloquentia il


<<banchetto>> di sapienza non è concepito come trattato riservato ai dotti, ma si rivolge a tutti
coloro che non abbiano saputo dedicarsi agli studi. Dante qui ignora la tradizione che imponeva
l’uso del latino per le opere dottrinali e scrive in volgare, di cui afferma la pari dignità,
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argomentando estesamente le ragioni della scelta nel primo trattato. L’uso del volgare è motivato
da ragioni di opportunità e coerenza; il latino poi avrebbe reso accessibile il testo solo ai dotti
letterati, mentre la volontà di Dante era di diffondere i contenuti anche a <<principi, baroni,
cavalieri e molt’altra gente nobile>>.

LEONARDO BRUNI

Leonardo Bruni costituisce una delle rare epifanie del trattato dantesco del Quattrocento
scomparso misteriosamente dal panorama letterario. Anche per questa occasione mancata il
Quattrocento va considerato un secolo “al di qua” della questione della lingua, e le discussioni
inerenti al rapporto tra latino e volgare interpretate sostanzialmente in chiave di storia della
cultura. Il volgare è un lascito ulteriore, un segno tra gli altri della barbarie medievale e in questa
prospettiva si interpreta la riduzione delle grandi opere del Trecento fiorentino a episodi di valore
liminare. Non è una lingua – e una letteratura con i suoi autori – che si vuole travolgere, ma
un’intera epoca, a favore di quella rinascente e classica identificata nel latino. Fu Colluccio Salutati a
informare di sé il circolo umanista fiorentino a cavallo tra Trecento e Quattrocento: la
rappresentazione di Firenze come attualizzazione della Roma repubblicana.

La ricostruzione degli ideali della civiltà classica, vilipesa e perduta, attraverso il rapporto diretto
con l’attualità in Bruni si concretizza in una attiva pratica del mondo che corrisponde all’intervento
diretto nella città di Firenze. Tale intervento deve essere volto, insisteva Bruni, al bene comune, e in
questo senso si legge la sua attività politica, filosofica e letteraria. Documento di questo nuovo
umanesimo sociale sono i Dialoghi ad Petrum Paulum Histrum, scritti tra il 1401 e il 1408 e dedicati
a Pietro Paolo Vergerio, uno dei più significativi frequentatori del circolo umanistico tra Trecento e
Quattrocento. In quest’opera, oltre alla generale condanna del Medioevo e di tutti i suoi esiti, si
professa un nuovo umanesimo che trae origine e si proietta fattivamente nel luogo materiale della
città di Firenze. Nei Dialoghi assistiamo a un capovolgimento singolare che molto ha impegnato
critici ed esegeti: nel primo libro la posizione rispetto a Dante, Petrarca e Boccaccio è di aperto
contrasto, sino alla derisione; nel secondo libro si assiste alla riabilitazione delle Tre Corone, sino
all’elogio, al panegirico. Si parte quindi dalla mortificazione della grande letteratura trecentesca per
poi accreditarla come fondamentale e inaggirabile, parlandone già, implicitamente, in termini di
“tradizione”. Ipotizzando una diversa data di composizione dei due libri, un effettivo cambiamento
di prospettiva anche motivato da ragioni opportunistiche, in quanto una posizione favorevole alla
letteratura fiorentina trecentesca avrebbe potuto favorire la candidatura di Bruni al cancellierato.
Vero è che l’dea bruniana di praticare l’impegno di rinnovamento civile e culturale rivolgendosi
espressamente e direttamente alla città di Firenze rendeva comunque problematico liquidare,
dileggiandola, la sua più illustre produzione letteraria, i suoi autori, la sua lingua. Il dibattito mise in
luca due posizioni distinte e per certi versi antitetiche: la lingua parlata dai Romani, nettamente
distinta dal latino scritto, sarebbe stata un volgare non regolato, posizione che attestava quindi
uno stabile regime di diglossia (tesi di Bruni); i Romani avrebbero parlato registri diversi ma dello
stesso latino documentato nei testi scritti, dunque il principio era quello di una lingua unitaria
differenziata dalle sue varietà (tesi difesa da Biondo Flavio). Tale dibattito influenzerà più o meno
esplicitamente il modo di concepire la lingua attraverso i secoli ed in particolar modo la distinzione
tra scritto e parlato.

POGGIO BRACCIOLINI
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Il dibattito linguistico quattrocentesco è convenzionalmente rappresentato da una dicotomia
cronologica e ideologica: nella prima metà del secolo riscoperta, protezione e promozione della
civiltà classica e della lingua latina; nella seconda battaglia per la legittimazione del volgare come
lingua d’arte. Il primo Quattrocento rivendica quindi la necessità di riscoprire e rivalutare valori e
testi. La volontà di ricongiungimento e prosecuzione del mondo classico corrisponde a un’urgenza
di rifondazione che ripaghi della rovina medievale. Così, per gli umanisti di prima generazione, il
riscatto e la riappropriazione della latinità e della sua lingua passano da un’appassionata attività
pratica, volta alla ricostruzione del patrimonio di testi che l’epoca precedente aveva ignorato. Di
questo umanesimo d’azione Poggio Bracciolini è il massimo esponente per talento, vocazione e
condizioni biografiche. Segretario e scrivano di sette papi, costretto a viaggiare al seguito della
Curia. Quest’opera di ricerca e disseppellimento rappresenta per Poggio la più efficace modalità di
affermazione del mondo classico, i cui valori vengono condivisi e proiettati nella dimensione di una
nuova civiltà. Delle lettere, quella a Guarino scritta da Costanza al tempo del Concilio è la
testimonianza più celebre della usa portentosa attività di scopritore, copista e divulgatore di opere
latine. L’importanza dell’arte del discorso come espressione e perfezionamento delle virtù umane,
la rilevanza del metodo retorico-argomentativo che lo studio del passato restituisce e attualizza
sono tematizzate nell’epistola a Guarino e rappresentano i principi da cui parte ogni interesse
umanistico per il linguaggio. Il contributo di Poggio Bracciolini alla questione della lingua italiana in
questi primi anni del secolo va quindi letto in negativo: disinteresse pervicace e acritico del volgare
e del suo impegno come lingua d’arte. L’intervento di Poggio è un tentativo di confutazione delle
tesi di Bruni secondo cui nella Roma antica convivevano due lingue, il sermo litteratus, ovvero il
latino dei dotti, e il sermo vulgaris coè quello contaminato e parlato. Nella sua disposizione Poggio
sostiene invece che tutti parlavano latina lingua, anche il volgo, e adduce come prova le molte
sopravvivenze del latino nei volgari romanzi. La degenerazione viene presentata come dato di fatto
in rapporto con l’origine della lingua volgare.

LORENZO VALLA

Per i primi umanisti la riscoperta del mondo classico si compiva all’insegna della restaurazione di
una civiltà di una lingua. Il recupero materiale delle opere latine andate perdute, la loro
divulgazione all’interno della confraternita umanista, il dibattito sulle questioni che la lettura
condivisa dei testi suscitava, costruivano i passaggi necessari a istituire un rapporto di continuità
con la tradizione. Il processo di magnificazione del passato era così condotto attualizzando i
principi della classicità e vagheggiando un futuro che li perpetuasse. Il sistema di valori su cui si
fondava la cultura latina veniva celebrato acriticamente e importato senza adattamenti. A
correggere la tendenza propria del primo umanesimo fu Lorenzo Valla. Avverso, anche per
caratteriale disposizione polemica, a qualsiasi credo tradizionalmente intoccabile, contestò
violentemente la celebrazione e l’assunzione dei valori della classicità come principi assoluti. Per
Valla l’insidia peggiore stava nella volontaria cecità che è propria di ogni atto di fede; l’affidarsi
inerti alla “ credenza” nell’autorità del passato e l’impegno nel tramandarne i valori senza sottoporli
ad analisi corrispondevano alla legittimazione di una posizione intellettuale fiera della propria
ignoranza. Il rimedio a questo malcostume culturale corrispondeva alla formulazione di un
concetto di “valore” relativizzato, inerente a una precisa dimensione temporale, e alla conseguente
sua interpretazione alla luce del sapere storico. Lorenzo Valla poneva grammatica e retorica a
cardine di tutti i saperi e l’indagine filologica come presupposto di una lucida coscienza storica. Il
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veteroumanesimo di Poggio, contro il quale Valla si scaglia in una serie di famose invettive
denunciandone l’incompetenza retorica e storico-linguistica, fu definitivamente sopravanzato
all’uscita delle Elegantiae latinae linguae, opera che Valla scrisse per inaugurare una nuova stagione
dell’umanesimo quattrocentesco. Le Elegantiae si presentarono subito come un’operazione di
rifondazione culturale: per il nuovo umanesimo valliano, il recupero dei valori intellettuali e degli
strumenti di conoscenza propri della latinità poteva realizzarsi soltanto attraverso la restaurazione
della sua lingua. Nella Prefazione dell’opera, denunciando il preoccupante processo di
degenerazione subito dalla lingua latina, Valla enfatizza l’urgenza di un’azione immediata. La
gravità della situazione obbligava a un intervento radicale a tutela del latino; la sua corruzione
anche nei testi formalmente più controllati e nei registri alti generava il fraintendimento dei
significati nell’esegesi. La soluzione era ravvisabile nella compilazione di un complesso di regole
grammaticali la cui stretta osservanza avrebbe consentito di restituire al latino la sua originaria
elegantia. L’elegantia valliana non è soltanto un attributo del discorso chiaro ed efficace , ma è
considerata strumento di conoscenza capace di sottoporre a verifica le categorie del pensiero e per
questo posta da Valla a fondamento del suo programma di rinascita dei saperi. Nelle Elegantiae la
fede nella vitalità del latino è massima, tanto che se Valla parla di vulgaris sermo è per indicare
forme di latino corrotto e parlato e mai espressioni del volgare italiano. La rilevanza delle
Elegantiae latinae linguae nel dibattito linguistico del tempo è da interpretarsi quindi come la
prova che, ancora a metà secolo, un organico e imponente progetto di ricostruzione linguistico-
culturale può continuare a ignorare l’uso del volgare come lingua pratica e letteraria.

LEON BATTISTA ALBERTI

Alla disputa tenutasi a Firenze nel 1435, nell’anticamera papale, durante la quale Leonardo Bruni e
Biondo Flavio disquisirono su quale lingua parlassero i Romani, conseguiva la presa d’atto
dell’esistenza del volgare e di due modi distinti di concepirlo:

1) Posizione di Bruni: ipotizzava per Roma antica un regime di diglossia in cui al latino scritto
si accompagnava una lingua parlata non grammaticale, non normata, da qui derivava
un’idea “naturale” di volgare come lingua pratica;
2) Posizione di Biondo: secondo lui il latino scritto non divergeva da quello orale se non per
scarti di registro, obbligava implicitamente a considerare il volgare una lingua “altra”,
barbarica, che aveva contaminato il latino con la violenza delle invasioni, e che, per questa
ragione, andava osteggiato con ogni mezzo.

Leon Battista Alberti fu il primo umanista che, pur aderendo alla cosiddetta “teoria della
catastrofe” di Biondo, riuscì a rovesciare tale avverso giudizio sul volgare. Nel suo trattato Della
Famiglia affronta varie questioni di carattere essenzialmente pratico: l’educazione dei figli, la cura
dei rapporti umani, la gestione dei beni materiali, l’amministrazione del lavoro. I temi ricorrenti
della virtù e della fortuna sono qui sorretti dalla convinzione che l’uomo sia artefice della propria
sorte. È necessario notare che il discorso è circoscritto al solo ambito familiare. Se sino a Valla il
volgare veniva tematizzato o alluso come concetto precipuamente culturale, è proprio da qui che
prende l’avvio una riflessione sul volgare in rapporto invece al suo uso concreto. È nel celebre
Proemio del III libro che si teorizzano una difesa e una promozione del volgare non soltanto su basi
culturali e storiche ma specificatamente pedagogico-grammaticali. Alberti dichiara infatti di non
poter svincolare l’impegno pedagogico che sta alla base del trattato della scelta di un codice
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largamente condiviso e comprensibile. La letteratura e la lingua sono inscindibili dalla funzionalità
pratica che viene loro attribuita, e che si coglie con chiarezza nella conclusione del Proemio,
quando l’autore insiste ripetutamente sull’”utilità” della sua opera. Ora è la convinzione che il
volgare abbia raggiunto una maturità tale da poter essere impiegato a questo scopo, il che
significa dare come assodata la pari dignità rispetto al latino. Le molteplici revisioni cui l’Alberti
sottopose l’opera costituiscono proprio la messa in atto del suo pensiero linguistico, che si fa
materialmente scrittura. La prosa dell’Alberti dunque attinge alle espressioni del parlato,
soddisfacendo così la volontà di intonare il discorso ai modi del colloquio, inserire all’interno di una
struttura stilistica classica, posta a sostegno di quella misura, dignità e gravità che l’idioma volgare
deve comunque possedere se vuole competere con la stabilità della lingua dei padri. Le soluzioni
sintattiche sembrano prescindere dalla lezione dei maestri del Trecento e si collegano direttamente
alla tradizione latina. Ulteriore impresa “pratica” che Alberti condusse fu la compilazione della
prima grammatica di una lingua volgare moderna, intitolata Grammatica della lingua toscana. La
grammatica di Alberti muove dalla volontà di mostrare la possibilità di ridurre il volgare, lingua
selvatica e barbarica, a “regola”. Impresa fondamentale come indicatore delle tendenze culturali e
ideologiche di quegli anni, si risolse in un fallimento. Leon Battista Alberti tuonò nella Protesta,
testo diretto ai giurati che avrebbero a suo parere scientemente boicottato l’impresa. La Protesta
costituisce un documento centrale per l’interpretazione di questa fase geminale del pensiero
linguistico e l’attestazione di una passione culturale veramente libera.

LORENZO DE’ MEDICI

Nel 1449, a distanza di pochi anni dagli interventi militanti di Leon Battista Alberti, nasceva a
Firenze Lorenzo de’ Medici. Se per i predecessori Firenze rappresentava un campo sperimentale in
cui testare la possibilità di una nuova civiltà nascente, con Lorenzo il primato politico che
conquisterà la città nel giro di pochi anni rileggerà l’intera storia letteraria e linguistica italiana. Il
processo di svuotamento della istituzioni repubblicane iniziato da Cosimo raggiunge, nelle mani di
Lorenzo, la fase conclusiva: l’accentramento del potere nella persona del principe può dirsi con lui
completato. La determinazione che orienta Lorenzo nelle pratiche politiche può considerarsi par
alla cura che dedica all’organizzazione della cultura con il recupero della tradizione letteraria
fiorentina che per Lorenzo, oltre ai capolavori delle Tre Corone, comprende anche la produzione
volgare popolaresca; questa promozione viene attuata in concreto con i maggiori uomini di cultura
del tempo. La partecipazione diretta di Lorenzo alla vita culturale del tempo alla quale contribuì
con una cospicua produzione letteraria non può che vederlo come promotore della cultura
fiorentina. Due sono, in questa prospettiva, gli interventi promossi da Lorenzo:

1) La compilazione della Raccolta aragonese con la quale propone al futuro re di Napoli


Federico d’Aragona la produzione lirica dei più significativi poeti toscani;
2) Il Commento sopra alcuni de’ suoi sonetti vicenda amorosa ispirata alla Vita Nova di Dante.

Il fondamentale motivo ispiratore di queste liriche è da leggersi tra le righe si una delle pagine
esplicative, che predica i principi che sono alla base della Raccolta avignonese allargando il
programma alla prosa: Dante, Petrarca e Boccaccio hanno dimostrato che il volgare può esprimere
<<ogni senso>>; la Commedia ha affrontato le questioni <<teologiche e naturalo>> adattando la
lingua a ciascuno dei tre stili teorizzati dalla retorica antica; i Fragmenta hanno trattato la materia
amorosa; il Decameron, infine, ha dipinto una varietà straordinaria di situazioni e sentimenti,
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dall’odio, al timore, alla speranza fino ai loro opposti. Ecco dunque che il discorso torna alla lingua,
la lingua di Firenze e dei suoi grandi poeti. L’esperienza di Lorenzo. La genericità dei suoi interventi
teorici al confronto delle straordinarie riflessioni e iniziative di Leon Battista Alberti mostra che la
canonizzazione del volgare fiorentino come lingua della tradizione letteraria italiana è stata
raggiunta più per sapienza politica che per raffinatezza teorica.

ANGELO POLIZIANO

La straordinaria erudizione che impregna i lavori di ricerca filologica e i raffinati esercizi linguistici
della poesia greca e latina non impedisce ad Angelo Ambrogi detto il Poliziano di subire le
suggestioni della più recente tradizione letteraria in volgare. Le motivazioni sottese alla
compilazione della silloge sono chiaramente nell’epistola posta a proemio: in virtù della continuità
che lega i primi autori a quelli contemporanei e dell’eccellenza raggiunto da alcuni di essi, è
legittimo parlare di tradizione volgare. La silloge avviò la diffusione della lirica toscana nell’Italia
meridionale e si pose, in area fiorentina, a manifesto del programma culturale di corte, esponendo i
principi di poetica che lo ispirarono. Il canone sembra corrispondere a un compromesso tra la
volontà di attestare la tradizione letteraria municipale di Firenze e il gusto personale di Lorenzo. Il
succedersi dei testi della Raccolta mostra comunque che la lirica volgare ha seguito un processo di
progressiva crescita e che, grazie ai meriti dei suoi autori, ha ormai raggiunto una dignità pari a
quella del latino, rispetto al quale tuttavia non è affatto in opposizione, ma in totale autonomia.
L’incipit dell’epistola si sofferma sulla funzione eternatrice della poesia, cosa che, attribuendo
all’espressione lirica la facoltà di rendere immortali gli uomini e le loro imprese. Il contenuto della
lettere, oltre a testimoniare l’impegno che la corte medicea assunse a sostegno della letteratura
municipale fiorentina, può essere considerato una dichiarazione di poetica ascrivibile in primo
luogo a Poliziano stesso. Se con la Raccolta avignonese il fiorentino viene promosso attraverso una
mossa anche politica, sarà con le prolusioni dantesca e petrarchesca di Cristoforo Landino che il
volgare farà il suo ingresso nell’università. Tradurre in volgare testi latini significava dimostrare
implicitamente l’equivalenza linguistica ed espressiva dei due codici e nella pratica della traduzione
il volgare acquistava la dignità di una lingua “regolata”.

NICCOLO’ MACHIAVELLI

Niccolò Machiavelli è l’autore del Discorso intorno alla nostra lingua, presumibilmente scritto
attorno al 1524, che egli preferì non divulgare <<per evitare polemiche con il Trissino o piuttosto
con i potenti protettori fiorentini del Trissino>>. Dunque l’opera, la cui attribuzione è stata per
lungo tempo incerta e discussa, più che come voce del dibattito linguistico primocinquecentesco,
va letta come reazione a forze contrastanti: alla volontà di assolutizzare in chiave fiorentina il
volgare e la sua tradizione letteraria si opponeva quella di appropriazione del patrimonio fiorentino
trecentesco da parte della cultura. In risposta a tale popolarità, Machiavelli rivendica quale unico e
legittimo attributo della lingua volgare la fiorentinità, a dispetto di chi intendeva chiamarla toscana
o, peggio, italiana. Egli sostiene che Dante, Petrarca e Boccaccio scrissero in fiorentino, e ciò risulta
chiaro qualora si confrontino i loro scritti con gli idiomi delle altre province d’Italia i quali, se non
elaborati sull’esempio dei suddetti modelli sono evidentemente differenti. L’autore afferma che
ogni lingua il realtà è mista, in quanto è naturale che essa assorba altri vocaboli attinti a fonti
allotrie, riadattandoli però allo loro peculiarità fonetiche e morfologiche. Per quanto poi concerne
la lingua parlata nelle corti, egli nota che la maggior parte del vocabolario di cui si serve deriva, di
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nuovo, da tra grandi scrittori di Firenze, e può dirsi comune proprio perché è stato assimilato da un
contesto diverso da quello da cui ha avuto origine. A proposito di lingua scritta invece, il
riferimento al fiorentino rimane necessario in tutti i casi in cui il genere letterario che si intende
affrontare non abbia modelli antichi. Nel Discorso intorno alla nostra lingua Machiavelli contesta il
concetto dantesco di volgare illustre, attestano la diffusione del De vulgari eloquentia anche prima
della pubblicazione curata da Trissino nel 1529.

GIAN GIORGIO TRISSINO

Le riflessioni di Trissino e Castiglione, quest’ultimo si dedicherà alla trattazione linguistica in termini


programmatici, a partire dalla lettera dedicatoria premessa all’edizione del 1528 de Il Cortegiano
qui egli risponde alle <<riprensioni>> ricevute, che lo accusano, a second dell’orientamento dei
detrattori, di non aver imitato il modello del Boccaccio oppure di non essersi attenuto al
<<toscano d’oggidì>>. Il Boccaccio diede molto miglior prova della sua abilità narrativa quando
scrisse seguendo d’istinto naturale. In secondo luogo, continua Castiglione, se anche si volesse
seguire un modello, il soggetto della sua opera, così diverso dall’eterogeneo materiale del
Decameron, non glielo consentirebbe. L’unico modo per poter parlare bene è attenersi alla parole
che l’uso e la consuetudine suggeriscono. Per quanto concerne il toscano corrente, il problema è
un altro: esistono altri luoghi, oltre alla Toscana, nella penisola, ma anche al di fuori, in cui vivono
uomini ingegnosi ed eloquenti che si servono di un linguaggio decoroso ed elegante, del quale
sarebbe grave errore non tener conto. Scartare vocaboli correnti, familiari e corretti per i
corrispondenti errati oppure in disuso non pare all’autore imputabile di colpa, per cui,
concludendo, asserisce di preferire essere riconosciuto <<per lombardo parlando troppo lombardo
che per toscano parlando troppo toscano>>. Ma è con Gian Giorgio Trissino che la posizione
favorevole alla lingua-collettore di tradizione italiana si oppone al settarismo fiorentino
producendo un dibattito acceso. Trissino scrisse l’ Epistola delle lettere nuovamente aggiunte ne la
lingua italianai, in cui suggeriva di integrare l’alfabeto con le lettere da lui utilizzate nella
composizione dell’opera teatrale, mutate dall’alfabeto greco. Tali caratteri si erano dunque rilevati
funzionali a riprodurre fedelmente, a livello fonico, sia l’uso <<cortigiano>> sia l’uso <<toscano>>
della lingua, considerati senza esitazione le <<pronunzie>> migliori tra le varie dell’Italia. Trissino
utilizzò il fiorentino ogni volta in cui ritenne che i termini scelti fossero conosciuti anche al di fuori
del luogo d’origine, e adottò il <<cortigiano>> in tutti gli altri casi. Egli sviluppò la sua tesi a
partire dal concetto di <<lingua italiana>> a seconda dell’uso che ne veniva fatto, in <<toscano>>
o <<cortigiano>>. L’Epistola suscitò vive polemiche non soltanto in merito alla proposta di riforma
ortografica, ma anche a proposito della distinzione linguistica operata alla base della pronuncia.
Questa e altre questioni linguistiche furono affrontate nel dialogo intitolato Il Castellano, anche per
far fronte al coro di polemiche che l’Epistola aveva suscitato. Gli interlocutori principali sono
Giovanni Rucellai, che espone il punto di vista dell’autore, di cui fu fraterno amico, e Filippo Strozzi,
che invece è portavoce della tesi della fiorentinità. Il Rucellai espone innanzitutto le ragioni che
l’hanno indotto a parlare di <<lingua italiana>>, ragioni che non implicano alcuna svalutazione
dell’idioma toscano, dal momento che anch’esso può dirsi italiano, oltreché pregevole. A questo
punto però egli rivendica della primigenia espressione lirica ai siciliani, si passa poi all’esposizione
della tesi: la lingua italiana dovrà essere costituita da una sintesi dei vari volgari, per cui il toscano
ne sarà soltanto una componente insieme a tutti gli altri. Così il Trissino pensò di rispondere
all’applicazione della discretio suggerita da Dante, e di poter per tanto attribuire a tale lingua gli
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attributi di illustre e cortigiana, sempre secondo le indicazioni, dedotte e reinterpretate, del De
vulgari eloquentia.

GIOVAN FRANCESCO FORTUNIO

Le Regole grammaticali della volgar lingua sono un’opera che va interpretata alla luce della
complessa biografia del loro autore. Fortunio è collocabile tra il 1460 e il 1470, a Pordenone, città
che allora apparteneva all’Impero asburgico. Nella Repubblica veneziana approfondì i suoi interessi
filologici. Nel 1511 raggiunse il fratello Matteo a Treviso, soldato di professione a servizio della
Serenissima, arruolandosi come volontario per difendere la città dai francesi. La campagna militare
creò però non pochi problemi ad entrambi. La genesi delle Regole grammaticali della volgar lingua,
che rappresentano il primo tentativo di trattare organicamente la grammatica volgare, risale agli
anni veneziani: nel 1509 il Fortunio inoltrò ai consiglieri del doge una richiesta di privilegio sulla
pubblicazione del trattato e di alcuni versi in onore della Serenissima. Le drammatiche vicende che
segnarono il corso degli anni successivi posticiparono però l’uscita delle Regole al 1516. A Venezia
ebbe la possibilità di prendere visione delle edizioni aldine del Canzoniere e della Commedia; non
è poi da escludere che abbia avuto modo di avvicinare i primi due libri delle Prose della volgar
lingua. La grammatica, stando alle dichiarazioni del Proemio, nasce dalla volontà di fissare una serie
di regole per facilitare la pratica della scrittura: esigenza necessaria anzitutto all’autore, il quale
afferma, sfruttando un ricorrente motivo topico, di aver pensato alla pubblicazione delle sue private
annotazioni solo in un secondo tempo, spronato da alcuni amici. Le annotazioni in questione sono
state stilate parallelamente alla lettura di Dante, Petrarca e Boccaccio. L’operazione del Fortunio si
allinea dunque a quella del Bembo, la quale, sebbene non avesse ancora trovato la definitiva
sistemazione teorica, era stata preceduta dalle edizioni di Commedia e Canzoniere nel 1505 e dalla
pubblicazione degli Asolani, che fornivano un modello di prosa molto vicino a quello utilizzato
successivamente nelle Prose: elementi indubbiamente presenti al Fortunio, la cui scrittura evolve
proprio in direzione di un progressivo avvicinamento al purismo trecentesco, a partire da uno stile
meno rigoroso. In questo senso l’attacco del Proemio risulta del tutto plausibile: è possibile che il
lavoro abbia davvero avuto origine da appunti personali, poi elaborati e integrati per essere offerto
a un pubblico di lettori verosimilmente ampio. Fortunio anticipa alcune prevedibili accuse e a
queste risponde prima di procedere con l’esposizione della ricerca, articolata in due libri che si
occupano rispettivamente della morfologia e dell’ortografia. Egli parte dal presupposto che le Tre
Corone debbano essere il modello unico di riferimento, e detto questo il problema della varietà
geografica del volgare e della sua evoluzione nel tempo non sussisterebbe. Poi, per prevenire
l’accusa di non sufficiente competenza, relativa alla sua formazione, giuridica e non letteraria, e alla
sua lingua, veneta e non fiorentina. Rivolgendosi ai sostenitori del più intransigente classicismo, per
i quali la lingua non deve svincolarsi dalle sue origini latine, procede con una perorazione a favore
del volgare: il volgare ha, rispetto al latino, peri autonomia e pari dignità. Egli sa che la opera potrà
comunque presentare imprecisioni, sia sul piano del contenuto sia su quello dell’espressione, e
auspica che un giorno altri vi possano porre rimedio perfezionando la ricerca: cosa che accadde.

PIETRO BEMBO

Pietro Bembo già nel De imitatione propone il nucleo della propria riflessione sulla lingua.
Poliziano, dopo aver rimproverato l’amico per il fatto di eleggere quale unico modello di stile
Cicerone, afferma che è al contrario necessario attingere a una pluralità di autori diversi.
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L’imitazione, infatti, ben lungi dall’essere un pedissequo calco della parola altrui, implica un
personale processo di rielaborazione nei confronti delle stesse fonti prese a modello; Bembo
trasferisce il discorso dal latino al volgare, considerato ormai lingua classica e pertanto in attesa di
un modello di riferimento stabile e unitario. La sistemazione teorica di questa riflessione
extravagante si leggerà nel trattato le Prose della volgar lingua. Il trattato è suddiviso in tre libri e i
tempi della stesura dell’opera sono da Bembo così definiti:

 1512: conclusione dei primi due libri;


 1516: completamento dell’opera;
 1525: pubblicazione.

Bembo teneva a fissare il 1516 come data di completamento della composizione del trattato per
almeno due ragioni:

1) Per attestare la precedenza temporale delle Prose rispetto alle Regole;


2) Per giustificare il maestoso silenzio sul De volgari eloquentia.

Le Prose della volgar lingua sono suddivise in tre libri e l’impostazione è dialogica: Venezia questa
volta è la cornice, e l’anno immaginato per la conversazione è il 1502. Gli interlocutori sono
Giuliano de’ Medici, Ercole Strozzi, Federico Fregoso e Carlo Bembo, fratello e portavoce
dell’autore. Il pretesto a partire dal quale si sviluppa la discussione sulla “questione della lingua”,
questione quanto mai viva in assenza di una norma linguistica stabile, generatrice di indicazioni e
polemiche da parte di ogni rappresentante del gusto letterario e linguistico nell’arco di tutto il
Cinquecento, è una parola pronunciata da Giuliano de’ Medici in volgare; qui comincia la
dissertazione sui pregi del latino, il quale distingue tra lingua parlata e lingua scritta: per
quest’ultima è possibile usare il proprio idioma, ma solo nel caso in cui esso sia sostenuto da una
dignitosa tradizione letteraria. Segue una breve storia della letteratura volgare, a partire dalle
origini latino-barbariche fino all’attuale varietà di dialetti regionali l’eterogeneità dei quali sposta il
discorso al problema del volgare letterario. L’unica soluzione, decretata da Carlo Bembo, sta nel
toscano dei grandi del Trecento: una lingua <<regolata>>, <<pura>>, <<vaga>> e <<gentile>>.
Non ultimo merito è la varietà dei vocaboli, che la rende duttile rispetto ad ogni tipo di stile, e ne
attesta pari dignità rispetto al latino. Il secondo libro suggerisce una selezione di voci <<pure>>,
armonizzate da uno stile raffinato, armonico, musicale, per cui Petrarca sarà la pietra di paragone
in campo lirico, mentre per la prosa verrà l’esempio del Boccaccio. Il terzo libro infine si configura
come una grammatica, e si avvale ancora una volta di citazione tratte dal Decameron e dai
Fragmenta. Il merito delle Prose consiste evidentemente nell’aver stabilito un modello di lingua
letteraria stabile e unitario che è in grado di opporsi alle tendenze centrifughe ed eterogenee degli
idiomi municipali. La tesi di Bembo ebbe un’influenza decisiva; il principio d’imitazione dei grandi
del Trecento, che divenne il cardine del classicismo stilistico rinascimentale, diede un sistemazione
teorica definitiva a tendenze già ampliamente diffuse nella pratica della scrittura del tempo. Inoltre,
a partire da un’impostazione rigorosamente classicistica e restauratrice, non esitò a conferire al
volgare piena dignità di lingua letteraria, pari al latino per l’esemplarità delle prove già offerte. Il
discorso del Bembo vale non solo come proposta di lingua unitaria, ma di un’unità culturale per
l’intera penisola, al di là di ogni frantumazione politica interna e di ogni tentativo di egemonia
straniera. Fu necessario insistere sulla fondatezza di una tradizione e di una cultura, brevi ma
comuni, e straordinariamente feconde, anche a costo di sacrificare elementi di lingua viva.
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BENEDETTO VARCHI

L’Hercolano è l’opera più nota di Benedetto Varchi, in questo trattato egli raccoglie e amplia in
modo molto più approfondito i temi di alcune ricerche precedenti, opere incomplete o lezioni
accademiche: l’Alfabeto bastante a sprimere tutti gli elementi e suoni della lingua toscana , la
Grammatica toscana, e una Grammatica comparata tosco-fiorentino. Lo spunto per la stesura fu
offerto al Varchi da una polemica relativa a una canzone composta da Annibal Caro per il re di
Francia. Il Caro, volendo rispondere agli attacchi con una Apologia, chiese l’intervento di Varchi, il
quale gli fornì la propria consulenza per lo scritto e gli promise la compilazione di un trattato in cui
si sarebbe occupato specificatamente della questione. Il detrattore così fece, redigendo, pochi mesi
dopo, una dettagliata Ragione d’alcune cose segnate nella canzone di Annibal Caro. Fu a questo
punto che il Varchi non poté esimersi dall’impegno preso con il Caro; l’intenzione dell’autore era
l’esposizione organica delle riflessioni maturate in ambito linguistico, supportate dal materiale
raccolto e schedato nei precedenti anni di ricerca: un lavoro che sarebbe certamente andato al di là
dei termini polemici da cui prendeva origine. È verosimile pensare che proprio a tal proposito il
Varchi interruppe per la seconda volta la Storia di Firenze commissionatagli dal governo mediceo,
ma tale cautela non servì a posticipare indefinitamente la pubblicazione dell’opera che l’autore non
cessava di correggere ad ampliare. Sappiamo che nel 1563 l’ Hercolano esisteva ancora sottoforma
di abbozzo, seppur già ampliamente articolato. Alla struttura dell’ Hercolano è data
un’impostazione dialogica che si avvale delle voci di Vincenzo Borghini e Lelio Bonsi. A prescindere
dall’analisi della canzone del Caro e dal confronto tra la posizione di quest’ultimo e di quella del
Castelveltro, l’opera può senz’atro considerarsi un contributo di notevole importanza alla più ampia
questione della lingua, all’interno della quale si asserisce il primato della fiorentinità. La scelta
dell’idioma di Firenze è motivata e chiaramente deducibile da un diagramma ad albero, modellato
su quelli tipici della trattatistica filosofica e scientifica che riassume le caratteristiche delle diverse
lingue. Le virtù del fiorentino emergono in evidenza: esso è giudicato <<originale, articolato e
nobile>>, oltreché rispondente alle tre principali qualità di cui una lingua deve disporre per
detenere il primato di eccellenza rispetto alle altre, e cioè la bontà, la bellezza e la dolcezza.
L’autore insiste sull’attributo della vitalità: il fiorentino cui fa riferimento è l’idioma parlato prima
che scritto. Ciò non significa che la lingua ideale debba essere svincolata da un apparato
normativo, che anzi risulta di primaria importanza per controllare la magmatica e metamorfica
varietà del materiale attinto alla parlata viva; esso però non può cristallizzarsi in precetti troppo
rigidi, ma deve al contrario essere suscettibile di variazioni che il temo interverrà, necessariamente,
ad aggiornare. È proprio grazie all’illustre modello fornito dagli autori del Trecento che il fiorentino
ha acquisito l’attuale veste, ma non potrà sussistere come unico termine di riferimento: a meno che
si intenda rinunciare al ricchissimo serbatoio lessicale che solo la lingua d’uso può fornire, in
quanto organismo in continua evoluzione e sviluppo. L’autore proponeva un tentativo di
mediazione tra la rigidità dei canoni applicati allo scritto e la libera spontaneità della lingua parlata.
Il Varchi stesso era stato un promotore. La questione è stata letta molto spesso in termini di
insanabile contraddizione, oppure di radicale stravolgimento dell’orientamento teorico iniziale.
Volendo scindere in due tempi la riflessione teorica del Varchi, si potrebbe dire che in un primo

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momento egli abbia posto maggiore attenzione alle esigenze dello scritto, in un secondo
momento a quelle del parlato, fondendo poi entrambe all’interno di un circuito di reciproca
dipendenza. La rivalutazione del parlato, se da una parte rivitalizzava la lettera morta a cui precetti
troppo rigidi rischiavano di ridurre la lingua letteraria, presentava ovviamente altri problemi.
Sebbene il Varchi tentò di limitare il concetto di lingua parlata alle modalità espressive delle
persone colte, per studio o esperienza, oppure dotate di naturale predisposizione a un parlare
regolato, ciò non escluse l’introduzione di una serie di termini plebei che, non essendo stati
segnalati come tali, si esponevano al rischio della riproducibilità da parte degli scrittori a venire. La
familiarità con le espressioni del fiorentino parlato rappresentava un obbiettivo che i non toscani
difficilmente potevano acquistare, se non disponendo della possibilità di soggiornare lungo tempo
proprio a Firenze, soluzione che il Varchi non manca di consigliare. L’ Hercolano è inoltre un
esempio di <<linguistica generale ante litteram>>, in quanto articola le posizioni attraverso
l’esposizione di dieci <<quesiti>> di carattere essenzialmente teorico:

1) Sul che cosa sia una lingua;


2) Sul riconoscimento di una lingua;
3) Sulla classificazione delle lingue;
4) Sul rapporto tra lingua e letteratura;
5) Sull’origine della lingua volgare;
6) Sul rapporto tra latino e volgare;
7) Sull’etimologia dei termini in volgare;
8) Sulla differenza tra lingua scritta e parlata;
9) Sui criteri per stabilire la bellezza di una lingua;
10) Sul nome da attribuire alla lingua volgare.

LIONARDO SALVIATI

Lionardo Salviati fu avviato agli studi umanistici e filosofici e affinò la propria formazione alla scuola
del maestra Benedetto Varchi. A partire dal 1583, anno in cui il Salviati fu ammesso tra i membri
della congrega, il carattere e lo spirito del gruppo subirono una sensibile variazione di tendenza.
Intorno all’Accademia Salviati fece confluire tutta la sua attività di filologo e grammatico, oltre ad
avviare i lavori per la compilazione del noto Vocabolario. Nonostante i lavori di schedatura utili alla
compilazione del Vocabolario della Crusca fossero iniziati nel 1591, quindi dopo la morte di Salviati,
gli accademici osservarono diligentemente le sue linee-guida: il corpus di autori da sottoporre al
vaglio doveva comprendere autori del Trecento fiorentino, anche al di là della loro rilevanza
letteraria. Questa estremizzazione e insieme riduzione della teoria di Bembo lascerà un segno
indelebile nel dibattito dei secoli successivi, che si concentrerà in buona sostanza, intorno all’avallo
o alla critica di quell’idea di lingua letteraria selettiva e astorica che il Vocabolario della Crusca
aveva mediato. Al 1564 risale l’Orazione in lode della fiorentina lingua e de’ fiorentini autori , in cui
tesse l’elogio della lingua del Boccaccio. Sul Decameron effettuò approfonditi studi linguistici
preoccupandosi di restituire al testo la struttura originaria, che era stata sottoposta a numerosi
tagli. Due anni più tardi terminò la sua opera più celebre, Degli avvertimenti della lingua sopra ‘l
Decamerone, suddivisa in due volumi e non completata con il terzo. Il Salviati ribadisce il suo ideale
modello di lingua, che è quella del <<buon secolo>> (il Trecento), a partire dal quale essa non ha
fatto altro che degenerare, salvo poi tornare allo splendore delle origini grazie all’opera del Bembo

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e dei suoi seguaci. A tale scopo egli annunciava il proposito di compilare un’opera lessicografica di
riferimento, a cui avrebbe effettivamente dato avvio insieme agli accademici della Crusca. Gli
Avvertimenti risentono indubbiamente del clima di rinascita dell’orgoglio cittadino cui Cosimo I de’
Medici diede avvio. Il Salviati s’impegnò a dimostrare la versatilità dell’idioma patrio non soltanto in
sede di teoria linguistica, ma con un’ampia serie di scritti di argomento e stile vari, in larga parte
rimasti inediti. La sua fama di studioso fu molto ampia tra i contemporanei, e la sua opera continuò
ad essere altamente stimata anche nel corso dei due secoli successivi, sebbene alcune autorevoli
voci della cultura sei e settecentesca ne accusarono l’asistematicità. Il fervore di rinnovamento
culturale del Romanticismo ottocentesco ne ridimensionò ulteriormente i meriti, enfatizzando il
carattere conservatore e tradizionalista del suo contributo, a cui veniva imputata la colpa di aver
cristallizzato le forme espressive all’insegna di un purismo non soltanto troppo lontano dal
concreto della lingua, ma anche antigrammaticale. Agli Avvertimenti non fu misconosciuto il valore
di notevole lavoro di ricerca, sia dal punto di vista filologico sia dal punto di vista linguistico, e che
le questioni di carattere grammaticale furono poste in secondo piano in quanto riservate ad una
tradizione a sé.

PAOLO BENI

L’Anticrusca, pubblicata nel 1612 a seguito dell’uscita della prima edizione del Vocabolario, si
configura come una sorta di recensione di quest’ultimo. Le argomentazioni addotto per motivare le
forti riserve circa i criteri di composizione sono elaborate sul rapporto di due fondamentali
proposte, che rappresentano il contributo più interessante dell’opera. A partire dall’esposizione del
proprio giudizio sull’opera lessicografica appena pubblicata espone dunque il proprio ideale di
lingua, che si basa su una concezione fondamentalmente evoluzionistica dell’atto linguistico,
concepita sulla base di una prospettiva diacronica: partendo dal presupposto secondo cui una
lingua è tanto più <<regolata>> quanto più venga esercitata la sua fruizione nel tempo, afferma
che il modello di riferimento è da cercarsi nell’idioma del Cinquecento. Senza soffermarsi troppo a
lungo sul nome da attribuire a questa lingua, egli la nomina indifferentemente toscano o italiano,
ma riferendosi sempre alla lingua toscana, considerata nella fase ultima, cinquecentesca, non in
quella germinale del Trecento. Destituisce dunque a Dante e Boccaccio il ruolo di modelli
d’imitazione, con l’eccezione di Petrarca, il quale nonostante dovette servirsi della stessa
<<rozza>> lingua, riuscì a plasmarla in modo così elegante e raffinato da creare, per la poesia, il
canone linguistico rimasto insuperato. La prima parte dell’ Anticrusca si concentra sullo scritto
dell’Alunno dedicato al Boccaccio, e per questo l’autore si sofferma sull’inadeguatezza della prosa
del Decameron, estendendo poi la critica a Salviati e agli autori arcaici citati in così larga copia nel
Vocabolario. La seconda parte è dedicata al lessico che costituisce la base su cui il Beni struttura
l’analisi dei vocabolari presi in esame: se la funzione di un vocabolario è quella di fornire i punti di
riferimento normativi per parlare e scrivere correttamente nella lingua di cui si occupa, allora
un’esauriente disamina del lessico è il principale requisito cui esso dovrebbe rispondere. Poi
inserisce l’analisi lessicale dell’Orlando Furioso dimostrando che il valore della lingua dell’Ariosto
derivi proprio dalla capacità ch’egli ha mostrato nell’assimilare e perfezionare, con un lungo lavoro
di lima e revisione, la lezione petrarchesca. La questione sintattica è ripresa nella terza parte,
nuovamente a partire dal confronto di due autori coevi, Boccaccio e Passavanti, il secondo dei
quali, a giudizio dell’autore, ha saputo elaborare uno stile molto più armonico e strutturato del
primo, e continua con l’inserzione di Guicciardini, di cui si evidenzia la maggiore agilità sintattica
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non soltanto a paragone del Boccaccio, ma anche di illustri precedenti classici. Il momento
intermedio fra il fiorentino antico incolto e il fiorentino moderno raffinato è rappresentato
dall’Arcadia del Sannazzaro, che si colloca in un punto cruciale della storia della lingua italiana, in
cui effettivamente si giocarono le sorti del suo successivo sviluppo: l’opera dell’autore napoletano
raggiunge sulla falsariga del Petrarca, un notevole esito poetico nelle parti in versi: ad essa è
attribuito il merito di aver chiuso l’operazione umanistica di restauro classicheggiante dal volgare
aprendo le porte alla prospettiva cinquecentesca. In queste pagine il Beni offre un modello
metodologico che sarà un supporto fondamentale allo sviluppo della ricerca filologica applicata al
volgare. La quarta parte dell’opera è dedicata a un’articolata accusa al lavoro dei cruscanti, primo
fra tutti Salviati, di cui si condanna non soltanto l’impostazione di metodo e la proposta di lingua,
ma anche la malafede: il Beni sottolinea un’incongruenza ingiustificata, e cioè l’aver inserito nel
Vocabolario autori del Cinquecento dopo aver esplicitamente asserito l’assoluta superiorità
dell’idioma trecentesco; dal momento che tali autori appartengono all’Accademia per il Beni è
chiaro che la principale finalità di quest’ultima è quella della propria celebrazione. Altra importante
questione affrontata è quella dell’ortografia, che per i cruscanti deve essere fonologica, cioè non
deve cancellare le tracce delle proprie radici e origini. L’operazione di decostruzione critica ai danni
del Vocabolario si chiude con un lungo apparato propositivo, costituito dall’esposizione dei
precetti necessari per la compilazione di una buona opera lessicografica. Per il Cavalcanti overo la
difesa dell’Anticrusca l’autore si servì di uno pseudonimo, Michelangelo Fonte, per dedicarne una
pagina a Cosimo II. Il dono non fu comunque gradito e l’antifiorentinismo linguistico impedì la
diffusione dell’opera. A ciò contribuì probabilmente già il titolo, in quanto il personaggio citato era
unoppositore della tesi purista e della cultura accademica di Firenze e un filorepubblicano. In
questo libello il Beni riprende le argomentazioni esposte nella prima parte dell’opera precedente,
orientando ancor più specificatamente la polemica nei confronti del Salviati e spostando la critica
linguistica su Dante piuttosto che Boccaccio. L’Accademia della Crusca non rispose a nessuna delle
due opere.

ALESSANDRO TASSONI

La produzione di Alessandro Tassoni comprende scritti politici, opere saggistiche e letterarie. In


ambito di critica letteraria e di riflessione linguistica tale atteggiamento si traduce in aperta
denuncia nei confronti dell’intransigenza del canone, considerato intollerabile e ingiustificata
limitazione all’espressione dello spirito e del gusto personali. Gli Accademici della Crusca sono il
bersaglio primo della critica tassoniana. Nel 1609 furono pubblicate le Considerazioni sulle “Rime”
di Petrarca, con le quali l’autore, esaltando il valore dell’ispirazione e della libertà creativa poetica,
dà voce alla prima reazione seicentesca nei confronti del principio di autorità in termini di
imitazione; l’oggetto della critica è la meccanica riproduzione del modello da parte degli epigoni di
Petrarca che, secondo il Tassoni, hanno completamente smarrito il senso del fare poetico.
L’insofferenza nei confronti di ogni forma di dogmatismo trovò ampio spazio di espressione anche
in materia di lingua; lo dimostrano gli scritti di argomento filologico, e soprattutto le note Contro
ad alcune voci del Vocabolario della Crusca, rimaste anch’esse a lungo inedite. L’avversione del
Tassoni per un modello di lingua impermeabile alle innovazioni si sviluppa in quattro direzioni
principali: egli rimprovera ai cruscanti innanzitutto di aver consentito l’ingresso a voci arcaiche e

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antiquate, estranee all’uso vivo della lingua; contesta gli idiotismi tosco-fiorentini, incompatibili con
una proposta linguistica che voglia estendersi al resto d’Italia; rifiuta sia le voci iperletterarie sia le
voci plebee. La sua critica, condotta con i consueti toni acri e polemici, investe in realtà l’intera
impalcatura dell’opera lessicografica, e non soltanto la concezione di lingua che ne sta alla base: le
definizioni dei lemmi sono giudicate insufficienti o addirittura del tutto errate; le citazioni d’autore
soffrono di imprecisioni analogiche; la veste grafica e fonetica dei lemmi non è coerente. Accanto
alla pars destruens è però presente una nutrita alternativa di proposte, che ricalcano fedelmente lo
spirito eclettico e aperto dell’autore; egli suggerisce l’adozione di neologismi, di forestierismi di
recente acquisizione, di voci o di locuzioni attinte dal parlato, di dialettismi. L’eterogeneità delle
soluzioni proposte è così varia da non poter rappresentare un praticabile modello sostitutivo, ma
vale a dimostrare l’assenza più autentica del suo pensiero: i commenti alle voci sembrano voler
suggerire che la ricchezza della lingua viva, in perenne mutamento, non può e non deve adeguarsi
alle impalcature di un’opera lessicografica, anche nel caso che questa fosse meno rigida e pedante
del Vocabolario della Crusca.

ALESSANDRO VERRI

Nel dibattito linguistico settecentesco le opposizioni “a caldo” di Beni e Tassoni al Vocabolario


della Crusca si stabilizzarono in ideologia e diventarono un argomento forte della nuova cultura.
Alessandro Verri fu assiduo frequentatore dell’Accademia dei Pugni, che fondò insieme al fratello
Pietro nel 1761 e a un gruppo di giovani intellettuali, particolarmente insofferenti nei confronti
della cultura classicista e attenti piuttosto agli sviluppi delle istanze illuministe europee. Proprio in
questo ambito nacque la nota rivista Il Caffè, alla quale Verri collaborò con la stesura di 32 articoli
in cui denunciò l’arretratezza dell’apparato giuridico. L’articolo più celebre pubblicato nella
suddetta rivista si intitola Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al
Vocabolario della Crusca, e affronta la questione linguistica ponendola perfettamente in linea alle
esigenze e alla prerogative della nuova cultura. Il rifiuto del fiorentino trecentesco viene giudicato
da sette precise motivazioni, dalle quali si evince un concetto di lingua duttile e disponibile ad
aperture innovative, in contrapposizione con i cruscanti. Il Verri nega che la forma conferita alla
lingua dalle Tre Corone rappresenti l’acme di perfezione da essa raggiungibile, e rivendica si
contemporanei la possibilità di arricchirne il lessico, senza alcuna restrizione all’ampiezza del
Vocabolario, questo deve poter attingere agli idiomi colti d’ogni parte d’Italia e d’Europa. A
suffragio della propria tesi l’autore ricorre all’autorevolezza di un riferimento classico, Orazio, di cui
propone due passi della Poetica omologhi alle ragioni esposte: anche l’autore latino ammette
l’integrazione tra lingue differenti e la creazione di nuovi vocaboli, purché condotta con criterio, e si
pone quindi a emblema di un classicismo del tutto legittimo. Il discorso si articola sulla
fondamentale contrapposizione tra due poli, che assumono una connotazione politica oltre che
linguistica in senso stretto: la rivendicazione di una lingua più flessibile e moderna coincide infatti
con l’affermazione di una cultura libera, svincolata dalla schiavitù che l’istituzione accademica le
impone, limitando le potenzialità dell’attività intellettuale a un vuoto conformismo di maniera. Il
primo mezzo necessario a tale scopo è proprio un linguaggio che possa raggiungere un pubblico
più ampio, capace di esporre i concetti nuovi e di estendere i propri campi di ricerca e d’interesse.
L’articolo, riassumendo tra le righe del discorso sulla lingua i cardini basilari dell’orientamento
culturale della rivista, suscitò grande scalpore intorno al gruppo, che il fratello dell’autore non
mancò di sviluppare per accrescerne ulteriormente la risonanza. Gli intellettuali del ”Caffè”
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teorizzarono proposte linguistiche analoghe con una lunga serie di scritti affini. Ma al di là del
dibattito strutturato “pro” e “contro” il Vocabolario, la riflessione settecentesca sulla lingua
sperimentò altre vie: la rivalutazione dell’idea di lingua mescidata e “cortigiana”; l’orientamento
filologico delle questioni linguistiche; un ritorno alle indagini di archeologia linguistica.

MELCHIORRE CESAROTTI

Chi sintetizzò e interpretò in chiave già ottocentesca il pensiero linguistico del Settecento fu
Melchiorre Cesarotti. Nominato professore per la cattedra di Retorica presso il seminario di Padova,
impostò un metodo di insegnamento totalmente svincolato da canoni e precetti della tradizione e
si schierò apertamente contro la pedanteria del purismo e dei suoi rappresentanti (Accademia della
Crusca). Nel passaggio cruciale dalla cultura illuminista al rinnovamento del nuovo secolo, dava
alle stampe i due scritti a cui consegnava la formulazione organica e completa delle sue teorie in
campo estetico, critico e linguistico. Nel primo vengono poste in discussione le tradizionali forme
della critica letteraria in virtù della necessità di restituire alla ragione il valore adeguato: la pretesa
illuministica di conferirle la facoltà suprema e ultima di giudizio risulta all’autore ormai
improponibile; secondo il Cesarotti il criterio di massima affidabilità in materia di esegesi letteraria
è il gusto, ben prima di ogni prospettiva razionalistica: il critico deve partecipare in prima persona
al sentimento che ha animato lo spirito d’autore in fase compositiva. Anche il secondo saggio
rappresenta perfettamente il mutamento culturale in corso e può essere considerato la più
complessa e importante questione settecentesca sulla lingua. Lo scopo fondamentale dello scritto
è di <<toglier la lingua dal dispotismo dell’autorità e dai capricci della moda e dell’uso, per
metterla sotto il governo legittimo della ragione e del gusto>> e dunque <<per renderla più ricca,
più disinvolta, più vegeta>>. Tale scopo è strutturato sulla base di un sostrato filosofico che il
Cesarotti compone a partire dalle teorie di Condillac e de Brosses. Tali presupposti concettuali
vengono opportunatamente rielaborati e piegati al campo specifico della lingua italiana di fine
secolo, cosa che fa assumere all’opera un carattere più pratico che teorico, come si può dedurre
dall’organizzazione in quattro libri:

1) Confutazione delle teorie linguistiche correnti;


2) Principi che dovrebbero sostituirle;
3) Norme necessarie allo scrittore per orientarsi nella composizione;
4) Applicazione di quanto esposto alla lingua italiana.

Il proposito di arricchire l’idioma nazionale si sviluppa parallelamente a due fondamentali


constatazioni:

1) Il bagaglio ereditato dalla tradizione non può non fare i conti con la pluralità di tendenze e
atteggiamenti offerti dalla cultura contemporanea;
2) La lingua deve poter rispondere all’espressione del temperamento intimo e originale dello
scrittore, senza alcun tipo di limitazione.

Tali riflessioni concorrono di pari passo all’affermazione del rinnovamento della lingua: la libertà
dello scrittore è infatti il principio sulla base del quale il confronto con altre realtà culturali e
linguistiche si dà come possibile, anzi necessario, dando forma a quel rapporto di reciproco
confronto e scambio che è indispensabile per arricchire e potenziare il mezzo espressivo. Il
Cesarotti dimostra di aver presente un altro fondamentale principio teorico, e cioè la connessione
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imprescindibile tra vita della lingua e vita della nazione da cui deriva lo sviluppo storico dell’istituto
linguistico. Il concetto di uso assume i lineamenti di un principio più ipotetico che reale; non si
tratta di un cardine statico e fisso ma, al contrario, di un elemento in movimento, sottoposto alle
variazioni dello svolgimento storico come ogni altra componente della lingua; esso diventa così
uno strumento di cui lo scrittore concorre a definire lo statuto. Il significato dell’opera del Cesarotti
va piuttosto cercato nella forza di rottura rispetto alla situazione contingente da cui sorge: una
cultura a rischio d’atrofizzazione per il peso dell’auctoritas indiscussa della tradizione, chiusa e
antiquata, e in quanto tale incapace di assorbire gli stimoli per consentire l’adeguata
manifestazione e il necessario sviluppo del pensiero contemporaneo.

ANTONIO CESARI

Se si decide di prestar fede alle testimonianze dei biografici ottocenteschi furono le opere del
Passavanti a stimolare Antonio Cesari. Il Vocabolario dell’Accademia della Crusca cresciuto d’assai
migliaia di voci e di modi de’ classici era un’opera che si prefiggeva lo scopo di restituire alla lingua
<<la natural dote>>, e conteneva migliaia di voci trecentesche raccolte dal Cesari per supplire
all’<<inadempienza dei Fiorentini>>. Vincenzo Monti rimproverò Cesari non soltanto per
l’anacronismo della scelta, ma anche per la sua incompetenza filologica, a causa della quale egli
inserì tra i nuovi lemmi diverse parole erroneamente trascritte dai copisti. In alcune pagine di
un’opera il Cesari, opponendosi recisamente al concetto di koinè linguistica, afferma che il Trecento
è il solo secolo in cui la lingua abbia raggiunto il massimo grado di perfezione, e non tanto, per
l’opera di Dante, Petrarca e Boccaccio, ma soprattutto perché in quel tempo <<tutti parlavano e
scrivevano bene>>; egli attribuisce il merito della bellezza dell’antico idioma a un indefinito e
indefinibile <<non so che>> rimasto da allora ineguagliato. L’unica soluzione è dunque tornare al
vocabolario del Trecento, ch’egli ritiene peraltro idoneo a esprimere qualsiasi concetto nel
frattempo elaborato dall’evoluzione del pensiero contemporaneo. A questo punto scrisse la
Proposta scritta a dialogo e suddivisa in tre libri. Nonostante il tono di accresciuta pedanteria,
all’opera non mancarono notevoli estimatori.

VINCENZO MONTI

Vincenzo Monti intervenne in merito alla questione linguistica compilando la Proposta di alcune
correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca. La posizione assunta in proposito è deducibile
da alcuni articoli che egli scrisse nel 1813 per “Il Poligrafo”, nei quali espose una satirica polemica
nei confronti del purismo intransigente dell’Accademia. Monti, dopo aver presentato un progetto
all’Istituto, diede inizio all’opera, che constatava di quattro volumi, suddivisi in sette toni ciascuno.
Essa comprendeva due trattati scritti da Perticari e varie dissertazioni critiche a opera di altri
collaboratori, ma la parte più estesa era costituita dall’apparato lessicografico, curato da Monti, il
quale appose alle voci selezionate dal Vocabolario della Crusca commenti e correzioni. Il criterio al
quale si attenne per la formulazione dei giudizi era sorretto innanzitutto dall’opposizione alla
<<tirannia del toscano dialetto>>, che avrebbe dovuto essere sostituito da una lingua
comprensibile a tutti alla proposta di un italiano illustre e comune segue poi una serrata critica ai
metodi utilizzati dall’Accademia, che si concreta in una serie di indicazioni pratiche per migliorare
l’orami obsoleta compilazione cruscante: essa dovrebbe sostituire le voci arcaiche e desuete con
termini di uso corrente, riservando alle prime una trattazione a parte; inserire le citazioni degli
autori di pregio che sono stati esclusi e, al contrario, eliminare quelle degli autori mediocri che
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sono state poste a esempio; accogliere il linguaggio scientifico a lungo trascurato. L’opera, che fu
composta in aperta polemica alle teorie di Antonio Cesari, peccò di debolezza teorica e scarsa
sistematicità, anche in ragione del fatto che Monti ne fu il promotore ma che la Proposta si
presenta come il frutto di più autori.

ALESSANDRO MANZONI

Alessandro Manzoni, per ragioni storiche, teoriche, pratiche, è stato il linguista che più di ogni altro
ha connotato di valenze sociali, civili, pedagogiche e politiche “la questione della lingua “ in Italia.
la sistemazione della veste linguista dei Promessi Sposi fu affiancata dal progetto di un’opera che
affrontasse in modo organico ed esaustivo il discorso sulla lingua italiana in chiave teorica. Un
trattato, Della lingua italiana fu iniziato nel 1830 e sottoposto a cinque diverse stesure. I nuclei
principali a partire dai quali il Manzoni imposta la dissertazione sono tre:

1) Questione della lingua in termini di problema sociale;


2) La questione della lingua è necessaria per eliminare la disuguaglianza delle classi sociali;
3) Soluzione alla questione purista: sebbene sia ammissibile fare riferimento al Trecento come
esemplare modello di perfezione, questo risulta comunque inadeguato rispetto
all’evoluzione che il pensiero e la cultura hanno fatto nel corso del tempo.

Approfondisce poi il concetto di uso, che deve, a suo avviso, sostituire il riferimento alla norma in
quanto fattore interno e strutturale alla lingua, sua precisa e specifica peculiarità. Il primo capitolo
della quinta redazione argomenta la necessità di escludere la fruizione dei dialetti,
controproducente e dispersiva rispetto alla prioritaria esigenza di individuare una lingua comune e
unitaria. Nel 1859 il manoscritto fu ampliato da un’inserzione di esempi grammaticali e il testo fu
sottoposto a una continua operazione di rifinitura e riorganizzazione che venne successivamente
interrotta. Su incarico del ministro dell’Istruzione Broglio fu nominato nel 1868 presidente della
Commissione che avrebbe dovuto elaborare criteri e strumenti di diffusione della lingua italiana,
limitando l’uso dei dialetti, unificandone progressivamente le varietà municipali, omologando la
pronuncia. Manzoni allora lasciò da parte il trattato e si affrettò a stendere la relazione Dell0unità
della lingua e dei mezzi di diffonderla ampliata poco dopo da un’Appendice. Manzoni nella
relazione propone con decisione il fiorentino quale unico mezzo per poter prevenire a una lingua
comune, affronta tutte le possibili obiezioni in merito e auspica l’unità linguistica equiparandola a
quella nazionale da poco raggiunta. Mezzi pratici di diffusione della lingua:

 Scelta di insegnanti toscani per le scuole primarie;


 Sussidiari scritti da fiorentini;
 Gite di istruzione in Toscana;
 Proposta di compilazione di un Vocabolario del fiorentino vivo da stampare in
edizione economica per garantirne la massima diffusione;

La relazione suscitò immediatamente una grande risonanza, dopo il primo rientro da Firenze
l’incontro con Antonio Cesari stimolò la stesura di due lettere.

GRAZIADIO ISAIA ASCOLI

Il primo volume dell’Archivio glottologico italiano, la poderosa rivista di cui da tempo Graziadio
Isaia Ascoli meditava il programma, risale al 1783. La finalità era quella di raccogliere i più recenti
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studi condotti sui vari idiomi d’Italia, affiancati eventualmente da dissertazioni su lingue straniere.
Fu proprio in occasione del primo numero che egli stese il Proemio, documento nel quale espose la
propria posizione in merito alla “questione della lingua” scegliendo come punto di partenza la
proposta manzoniana. L’Ascoli pur concordando sul fatto che, <<per la virtù sovrana di Dante>>,
la base della lingua letteraria era costituita da fonetica, morfologia e sintassi fiorentine, considerava
l’imposizione di un modello municipale una dannosa e indebita forzatura: Firenze non
rappresentava per l’Italia ciò che Parigi aveva rappresentato per la Francia, e cioè non poteva, per
oggettive ragioni storiche e politiche, assurgere al ruolo di centro catalizzatore della cultura
nazionale; in secondo luogo la lingua letteraria e dialetto fiorentino avevano subito evoluzioni del
tutto distinte, e mentre la prima si era ben presto stabilizzata in canone accogliendo semmai forme
e costrutti da altri idiomi e regioni, il secondo aveva modificato completamente la propria struttura,
come accadde a ogni lingua viva e parlata. Secondo Ascoli l’unificazione linguistica tardava a
realizzarsi per lo stato di arretratezza generale del giovanissimo Stato nazionale: problema a cui
avrebbero posto presto rimedio soltanto l’effettiva <<attività mentale della nazione>> e la sua
spontanea forza moderatrice, parallelamente alle quali il naturale processo di formazione
linguistica si sarebbe perfezionato ed esteso. L’intervento dell’Ascoli presenta un rigore logico e
scientifico che lo rende tappa fondamentale del secolare dibattito sulla lingua, dimostrando di aver
assimilato e integrato sia la prospettiva linguistica evoluzionista di conto tedesco sia quella storico-
sociologica illuministica. Ascoli rielaborò in modo personale tali teorie con la competenza dei suoi
inappellabili strumenti d’indagine. Il primo volume dell’ Archivio ricevette due autorevoli
riconoscimenti, e diede inizio alla trattazione scientifica delle lingue neolatine.

GIULIO BERTONI, FRANCESCO A. UGOLINI

Pubblicato nel 1939 da Bertoni e Ugolini il Prontuario di pronunzia e ortografia segnala l’attenzione
nei confronti di una questione che, a partire dagli anni trenta, cominciò a imporsi con importanza
crescente, stimolando una serie di proposte e iniziative di natura eminentemente pratica: fissare i
caratteri della lingua scritta. La questione sorse non solo in quanto naturale conseguenza del
progressivo livellamento formale dell’italiano, ma si pose, quale necessario corollario di politica
linguistica previsto dal regime. Alla legittima e naturale candidatura del fiorentino, consacrato dalla
tradizione letteraria e non, si affiancava quella romana, con una motivazione di natura prettamente
politica: Roma era di nuovo “la capitale dell’Impero”, rinnovato centro della vita culturale e civile del
paese e avrebbe dovuto assurgere a fulcro dell’unificazione linguistica. A Roma si concentravano
non solo i principali organi governativi, ma anche le sedi centrali dei maggiori mezzi di
comunicazione di massa. Bertoni e Ugolini, fedeli interpreti dell’autarchia linguistica del regime,
esplicitano il punto della questione in un famoso articolo. Ribadendo le motivazioni
dell’orientamento romanocentrico, essi propongono una sorta di compromesso tra antica e nuova
capitale: l’idea è quella di correggere la pronuncia fiorentina con quella romana in tutti i casi in cui
quest’ultima differisca dalla prima. La volontà di restituire a Roma il ruolo di capitale, conferendole
la facoltà di essere una complessiva influenza sul resto del paese, venne parzialmente assecondata
dalla situazione immediatamente posteriore al secondo dopoguerra.

ANTONIO GRAMSCI

Il pensiero di Antonio Gramsci principia dall’assimilazione e dalla scrupolosa analisi critica


dell’allora preminente cultura idealistica e si sviluppa nella direzione di una prassi intellettuale
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totalmente aderente alla concretezza dei fatti storici. La polemica nei confronti di una cultura
astratta ed elitaria, che poneva come principale bersaglio d’accusa quel ramo della tradizione
socialista ancora vincolato a presupposti di tipo positivistico. Ampia parte della speculazione
gramsciana è rivolta ad argomenti di carattere linguistico e letterario, che svolge in perfetta
aderenza ai principi ideologici che ne costituiscono il nucleo originale e inalienabile; si occupa di
linguistica comparata, mostra un singolare interessa nei confronti dell’esperienza futurista. La sua
riflessione si sviluppa a partire dalla sua biografia e dalla sua esperienza politica. A Torino conosce
Togliatti ed entra in contatto con la realtà proletaria cittadina, che rappresenterà il fulcro della sua
riflessione intellettuale e del suo impegno politico. A sostegno del movimento di occupazione delle
fabbriche fonda il periodico “L’Ordine Nuovo”, approfondisce il discorso di una nuova coscienza di
classe che conduca all’emancipazione i lavoratori: ricollegandosi ai principi del marxismo, Gramsci
ne rielabora i fondamentali assunti teorici adattandoli al contesto sociale in cui egli stesso opera e
alle concrete esigenze della lotta di classe; proprio per questo decide di non raccogliere i suoi
scritti in volume, considerando l’attività giornalistica il mezzo più immediato per coinvolgere il
pubblico. Gramsci collabora alla fondazione dell’”Unità”, la lotta contro il fascismo gli costa l’arresto
e vent’anni di reclusione. La fitta serie di pensieri e riflessioni stesa nei lunghi anni di prigionia
diede vita ai Quaderni del carcere, salvati dalla cognata, raccolti e suddivisi in temi e poi pubblicati.
Se con Gramsci <<la ‘questione della lingua’ è considerata per la prima volta come un segno dei
rapporti che intercorrono tra le classi sociali, tra i ceti dirigenti e le masse>>, sarà proprio a partire
dagli anni cinquanta del secolo scorso che il suo pensiero sulla lingua e sulla grammatica come
mezzo di emancipazione e libertà verrà assimilato e proseguito nelle questioni legate alle
problematiche della lingua italiana viva e attiva ancora oggi.

PIER PAOLO PASOLINI

Dopo la politica linguistica autarchica, e autoritaria e acritica del Ventennio, il solo che con una
mossa poderosa riporta le problematiche linguistiche al centro del dibattito pubblico è Pier Paolo
Pasolini. Nel 1964, con una conferenza che tiene in giro per l’Italia, Paolini rivitalizza la “questione
della lingua” annunciando che l’italiano stava subendo un processo di unificazione. Prima di
giungere a tale asserzione, Paolini traccia una mappa della letteratura italiana del Novecento
usando come parametro l’<<italiano medio>>, l’italiano strumentale e l’italiano letterario. Questo
codice che va identificato da Pasolini come la lingua del <<borghese o piccolo borghese
italiano>>si pone in reazione con la scrittura letteraria, al di sopra o al di sotto di essa. Ci sono poi
autori, che attraversano, usandoli, la molteplicità dei registri, delle varietà, dei sottocodici della
lingua italiana. In realtà l’uso in letteratura di una lingua così mescidata potrebbe anche valere
come operazione politica. Ma l’impegno impiegato per condurre un’impresa del genere è diventato
inutile, proprio perché la lingua italiana sta diventando una lingua nazionale. Questo accade,
secondo Pasolini, sotto l’azione congiunta di due fattori: la <<fine del mandato dello scrittore>> e
la realtà aziendale sempre più imponente, che ha come correlato la progressiva influenza della
borghesia neocapitalistica. Il nuovo <<italiano tecnologico>> non si elabora più nei centri culturali
di Roma e Firenze ma nei centri industriali del Nord Italia. se nello specifico le tesi espresse in
Nuove questioni linguistiche non colgono il segno, è invece nella denuncia di un’evoluzione in
corso che Paolini non sbagliava; specialmente nella messa a fuoco delle sue conseguenze:

1) La sostituzione della letteratura come modello di lingua colta con modelli extraletterari;

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2) Il conseguente e graduale livellamento del codice linguistico;
3) Il progressivo depotenziamento della cultura umanistica a favore dei saperi tecnici;

Pier Paolo Pasolini in Nuove questioni linguistiche ritesse echi continiani, la propria personale idea
di letteratura e di lingua, la capacità non comune di leggere i fenomeni politici e culturali non come
dati inerti ma in relazione ai loro effetti nel tempo. Questa dimensione di dibattito intorno alle
questioni linguistiche non ha più avuto l’eguale in Italia.

ITALO CALVINO

Il 1965 fu un anno segnato dal ritorno al centro del dibattito pubblico della “questione della lingua”
grazie alle tesi esposte da Pier Paolo Pasolini. Il quesito principe (“Come parleremo domani?”) si
snoda in quattro puntuali interrogativi, da leggersi come sintesi dei principali argomenti di
riflessione che occuparono il dibattito in quegli anni, ci si chiede se:

 si assisterà finalmente alla comparsa di una lingua unitaria ma articolata a seconda delle
esigenze dei vari livelli d’uso e d’espressione;
 se, e in quale misura, le parlate regionali contribuiranno a questo processo;
 quale parte avranno i linguaggi tecnico-scientifici;
 in quale modo il rinnovamento linguistico nazionale influirà sulla lingua letteraria e sulle
attività e il ruolo degli scrittori.

Si constata la pressione esercitata sulla lingua da una serie di fattori nuovi; torna il confronto tra
lingua e dialetti; si riflette su modi, obiettivi e risultati dell’insegnamento dell’italiano, dalle
elementari alle università. La riflessione sulla lingua, nella molteplicità delle voci, subisce una
diffrazione e in molti casi si sviluppa anche al di là dell’obiettivo polemico da cui aveva preso le
mosse. L’obiezione invece più diretta e mirata alle testi pasoliniane fu quella che Italo Calvino
presentò in un articolo in cui, a partire dalle divergenze nei confronti della tesi pasoliniana, si
espone la fraseologia roboante, astratta, generica e vuota dell’<<antilingua>>, ovvero di quel
linguaggio burocratico di cui propone una celebre riscrittura <<più vera del vero>>. Calvino
auspica, come unica soluzione produttiva per rispondere a questa tendenza, l’evoluzione
dell’italiano in lingua <<strumentalmente moderna>>, cioè capace di nominare in modo diretto,
preciso e concreto servendosi di espressioni esatte ma semplici, eventualmente ricorrendo alla
terminologia tecnica ma senza consentirle di allontanare, soffocandolo, il significato: evoluzione
che dovrebbe coinvolgere sia l’italiano scritto e letterario sia l’italiano parlato, d’uso pratico e
quotidiano.

ANDREA ZANZOTTO

Si distingue in questo scenario il pensiero linguistico di Andrea Zanzotto, in lui la profondissima


analisi autoscopica della propria personale lingua poetica si accompagna a un’articolata riflessione
sulla lingua italiana. Lo scardinamento dei parametri d’ordine e razionalità della lingua e la
conseguente regressione dell’espressione a mero segno trovano, in Zanzotto, uno statuto di
legittimità in quanto strumenti di poesia e in lui è innanzitutto all’interno del <<fornello
alchimistico>> della poesia che la disconnessione dei consueti circuiti logici del linguaggio si dà
come possibile, oltre che motivata e necessaria: dal caleidoscopio di frammenti che la lirica avrà
opportunatamente raccolto sarà infatti ipotizzabile il percorso inverso, quello che, oltre la

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confusione babelica, rivelerà lo spettro di una razionalità pura, sulla base della quale si potrà
realizzare il sogno antico di una lingua veramente universale, cristallina, neutra, puramente
razionale. Zanzotto giunge alla concreta proposta espressa in alcuni importarti contributi: una
lingua comprensibile a tutti i popoli, intesa come soluzione a ciò che Zanzotto stesso giudica <<un
problema tra i più gravi del nostro tempo>>. Partendo dal presupposto che il plurilinguismo, in
una società in cui i contatti tra uomini di nazionalità diversa sono sempre più facili e frequenti, è un
paradosso, egli suggerisce la creazione di un <<novello latino>>, cioè di un’<<interlingua
veramente razionale>>, in grado di essere parlata e compresa da tutti gli uomini. Andrea Zanzotto
vede con chiarezza quanto il monopolio da parte di una “lingua egemone” non sia una soluzione
neutra e strumentale ma implichi delle imponenti ricadute di ordine politico e culturale. I temi che
Zanzotto affronta in questi importanti contributi costituiscono il cardine su cui potrebbe iniziare
una riflessione sulla lingua italiana nei termini critici di percezione delle differenze, come presa
d’atto che la lingua è unitaria soltanto nella molteplicità delle espressioni, non in una
omologazione progressiva e asemantica.

BREVE GRAMMATICA STORICA DELL’ITALIANO

L’italiano è una lingua, e come ogni lingua, come pure in ogni dialetto, si configura come un
sistema dotato di un suo funzionamento, con specifiche regole, e di una sua struttura, analizzabile
a diversi livelli.

Fonetica e fonologia

La lingua si fonda sulla produzione di suoni (foni) e quindi bisogna innanzitutto conoscere come
questi vengono realizzati nel parlato. Il ramo della linguistica che studia i foni è la fonetica. I suoni
che fanno parte del linguaggio articolato vengono prodotti dall’uomo nell’apparato fonatorio,
costituito dalla cavità orale (e da quella nasale). Il loro numero varia da lingua a lingua. I suoni
vengono prodotti durante l’espirazione: l’aria che proviene dai polmoni risale, attraverso la trachea,
nella bocca e fuoriesce dalle labbra; nel percorso verso l’uscita incontra una serie di organi che
frappongono ostacoli alla sua uscita, o determinano variazioni nell’apertura della cavità orale. Se le
corde vocali restano inerti in fase di respirazione si realizzano foni sordi; se invece le corde vocali
sono tese ed entrano in vibrazione i foni prodotti sono sonori. Per quanto riguarda il velo palatino
se:

1) È staccato dal fondo della faringe, l’aria esce, oltre che dalla bocca, anche dalle narici,
producendo foni nasali;
2) È sollevato contro la volta superiore della faringe, l’accesso al naso è impedito e i foni
prodotti sono orali.

Importante è la distinzione tra vocali e consonanti. Le vocali sono foni sonori che si producono
quando le corde vocali vibrano regolarmente e l’aria nel canale orale non incontra veri e propri
ostacoli; le consonanti sono invece foni (sonori o sordi) che si realizzano, in modo irregolare,
quando l’aria nella cavità orale incontra resistenze dovute alla chiusura (in punti diversi) del canale,
o a un suo forte restringimento. Esistono dei foni intermedi tra vocali e consonanti che vengono
chiamati semivocali o semiconsonanti. Le vocali in italiano sono gli unici foni sui quali può ricadere
l’accento tonico. Lo studio dei foni è compito della fonetica. Un’altra branca della linguistica, la
fonologia, prescinde dalle realizzazioni concrete e studia i foni nel loro configurarsi per
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individuarne i fonemi, cioè i foni che costituiscono le più piccole unità distintive di una lingua, di
per sé non portatrici di significato, ma capaci di determinare differenze di significato. La fonologia
studia le possibili posizioni, combinazioni e distribuzioni dei diversi fonemi.

La grafematica studia anzitutto i grafemi, cioè le lettere, che sono le unità minime dello scritto,
corrispondenti ai fonemi del parlato. Delle volte un fonema è reso con due lettere (digrammi) o
persino con tre (trigrammi).

Morfologia

La morfologia è il livello dell’analisi linguistica dedicato allo studio delle forme delle parole e alle
modificazioni che possono presentare per assumere funzioni e valori diversi. La morfologia studia
come si esprimono, nei nomi e negli aggettivi, i valori di genere e di numero, nei pronomi quello di
persona e di caso, nei verbi anche quelli di tempo, di modo, di aspetto e di diatesi. Lo studio delle
varie forme individuate, dette forme flesse, classificate e raccolte in paradigmi, costituisce la
morfologia flessiva. Un altro settore della morfologia, detta lessicale, studia invece la formazione
delle parole mediante la derivazione o la composizione. L’elemento minimo della morfologia è il
morfema, definito come la più piccola unità linguistica dotata di significato. Nelle lingue flessive o
sintetiche normalmente una parola è costituita almeno da due parti: la radice, che dà il significato
lessicale, e la desinenza che dà il significato grammaticale. Una lingua flessiva per eccellenza è il
latino classico. L’italiano presenta molti aspetti flessivi, in genere ereditari dal latino, ma anche varie
caratteristiche sconosciute al latino, di tipo analitico e non sintetico.

Sintassi e lessico

La morfologia si occupa del cosiddetto piano paradigmatico, studiando forme che in una stessa
frase possono comparire l’una al posto dell’altra, il piano sintagmatico, cioè lo studio dei rapporti
fra elementi presenti in contemporanea, è l’oggetto di studio della sintassi. La sintassi studia
insomma la frase e le unità più piccole da cui questa è costituita (dette sintagmi); definisce funzioni
come quelle di soggetto, di predicato, di complemento; classifica le congiunzioni. La sintassi è il
livello di analisi più complesso. Il lessico di una lingua è il complesso delle parole che costituiscono
un sistema linguistico e il suo studio è detto lessicologia. L’analisi lessicale può essere condotta
lungo varie direzioni, tra cui molto importante è quella relativa al significato delle parole:
semantica.

La variazione linguistica

Ogni lingua presenta una serie di differenze interne, dovute alle seguenti variabili:

 La variabile diamesica, legata al mezzo materiale in cui avviene la comunicazione (parlato,


scritto, trasmesso);
 La variabile diacronica, legata al tempo, che determina inevitabilmente un mutamento
linguistico;
 La variabile diatopica, legata allo spazio;
 La variabile diastratica, legata alla classe sociale;
 La variabile diafasica, legata alla situazione comunicativa.

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L’asse di variazione che più ci interessa è quello diacronico, che si occupa del mutamento
linguistico. I fattori che determinano trasformazioni in una lingua possono essere interni o esterni.

La grammatica storica

Si definisce grammatica lo studio delle regole di funzionamento di una lingua; la grammatica studia
in genere la lingua in una prospettiva sincronica, cioè riferendosi a uno specifico momento storico.
La grammatica sincronica può essere normativa, se intende fornire un modello di lingua, o
descrittiva, se descrive le strutture e il funzionamento di una lingua, prescindendo da ogni giudizio
di correttezza. Lo studio in prospettiva diacronica esamina l’evoluzione storica della lingua,
analizzando le trasformazioni proprie del sistema, mettendola in rapporto a fatti di storia sociale,
politica, letteraria e culturale. Si definisce grammatica storica la ricostruzione, attraverso il
confronto tra fasi diverse della stessa lingua, delle regole che spiegano le trasformazioni.

Dal latino all’italiano

L’italiano è una delle lingue romanze o neolatine: appartiene cioè alla famiglia linguistica costituita
dagli idiomi derivati da un’unica lingua madre, il latino, attraverso un lungo e complesso processo
evolutivo. Lo studio dell’evoluzione dal latino alle lingue romanze è particolarmente significativo
anche dal punto di vista generale della linguistica storica: sia per il punto di partenza (il latino) sia
per quello di arrivo (le lingue attuali) si dispone di una ricca documentazione.

Il latino volgare

Anche il latino era soggetto alle variazioni che abbiamo ricordato inizialmente e la definizione di
latino volgare, cioè parlato da vulgus, dal popolo, fa riferimento alla variabile diastratica.
L’espressione “latino volgare” è ormai accettata negli studi. C’è però chi preferisce adottare la
definizione più amia di latino parlato, in quanto varietà parlata in ogni strato sociale lungo l’intero
arco della latinità. Le stesse Lettere di Cicerone sono scritte in una lingua abbastanza diversa da
quella usata dallo stesso autore per le orazioni e le opere filosofiche e retoriche. Si trattava pur
sempre, però, di due registri di una stessa lingua, che variava sul piano diamesico e diafasico. C’è
pertanto anche chi preferisce parlare di latino tardo, collocando la separazione tra i due sistemi
nell’età del basso Impero. Bisogna anche fare attenzione a non confondere il “latino volgare” con il
“volgare”, cioè la lingua romanza da questo derivata e parlata. Il latino volgare non era uniforme su
tutto il territorio dell’Impero, ma presentava notevoli differenze sul piano diatopico, soprattutto dal
punto di vista lessicale. Il latino volgare era essenzialmente parlato. Com’è dunque possibile
ricostruire la fisionomia, visto che le lingue del passato ci hanno lasciato solo documenti scritti? Il
primo criterio è la comparazione degli esiti neolatini: se due o più lingue o dialetti romanzi
presentano forme affini, non documentate nel latino classico, possiamo ricostruire con buona
approssimazione la forma del latino volgare che le ha determinate, ripercorrendone a ritroso le
diverse evoluzioni fonetiche. Esistono anche forme del latino volgare effettivamente documentate
in una serie di fonti. Il latino volgare presentava rispetto al latino classico profonde innovazioni sia
nel vocalismo (perdita della durata delle vocali), sia nel consonantismo (caduta di varie consonanti
in fine di parola). La collocazione del latino volgare nella dimensione prevalentemente parlata
spiega inoltre l’abbandono di molte strutture sintattiche proprie del latino classico e la riduzione
del patrimonio lessicale.

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Le lingue romanze

L’azione di conquista dei Romani, che da una piccola zona del Lazio arrivarono a espandersi in
buona parte dell’Europa, fu accompagnata dalla diffusione del latino, attraverso un’attenta politica
linguistica. La progressiva ma definitiva scomparsa delle lingue originarie non avvenne in tutte le
terre conquistate dai Romani: in Grecia e nelle parti orientali dell’Impero già ellenizzate il greco,
grazie anche al suo prestigio culturale, non venne mai insidiato dal latino. Anche il latino
presentava differenze da zona a zona. Verso la fine dell’Impero e soprattutto con le invasioni
barbariche, il potere centrale e la stessa unità amministrativa vennero meno e anche l’assetto
sociale, economico e culturale della popolazione romanizzate mutò profondamente. Il passaggio
dal latino volgare ai nuovi “volgari” non fu, naturalmente immediato, né tanto meno fu avvertito
dai parlanti. Solo all’epoca di Carlo Magno, con la riforma carolina, che riuscì a imporre all’uso
scritto un maggior rispetto per le regole grammaticali proprie del latino classico. Dal secolo VIII in
poi comincia la documentazione scritta in volgare. In questa sede, una problematica assai
complessa, ricordiamo velocemente le principali lingue romanze, da ovest a est: il portoghese, lo
spagnolo, il catalano, il francese, il provenzale, il francoprovenzale, l’italiano, il sardo, il ladino, il
romeno. Il caso dell’italiano invece si presenta particolare per vari aspetti: basti dire, per ora, che il
dialetto fiorentino del Trecento fu il fondamento della lingua nazionale. Ricordiamo anzitutto la
pressione esercitata sul latino dalle diverse lingue a cui questo si era sovrapposto, che ha
determinato i cosiddetti fenomeni di sostrato, attivi soprattutto sul piano fonetico.
Secondariamente, va citato l’influsso delle lingue parlate dai conquistatori, germanici o slavi, cui si
devono i cosiddetti fenomeni di superstrato, evidenti soprattutto sul piano lessicale. Il terzo fattore
è il contatto con le lingue di altre popolazioni, che ha causato fenomeni ad adstrato, dovuti a
situazioni di bilinguismo; anche qui si tratta prevalentemente di elementi lessicali accolti grazie al
peso politico o al prestigio che questi popoli ebbero in determinati ambiti culturali o economici.

LA LINGUA ITALIANA

Le principali aree dialettali italiane

La varietà di dialetti è tuttora tipica del nostro paese è una conseguenza della frammentazione
romanza. Le particolari condizioni geografiche avevano reso la nostra penisola, la Sicilia e la
Sardegna sedi di popoli diversi. Con la conquista romana tutti questi popoli (ad eccezione dei
Greci) adottarono il latino, che a sua volta accolse molte parole d’origine etrusca o umbra o greca.
Ma le popolazioni romanizzate trasferirono nel latino alcune parole e, soprattutto, certe abitudini di
pronuncia che influirono sull’evoluzione successiva dei diversi dialetti italiani. Le popolazioni
germaniche non conquistarono l’intera penisola, perché alcune zone rimasero sotto l’influenza
bizantina. L’Italia meridionale, soggetta nel tempo a varie dinastie, venne separata da quella
settentrionale che ebbe vicende storiche profondamente diverse. Anche il superstrato nelle varie
zone fu dunque alquanto diverso. L’Italia infatti si presentava linguisticamente assai differenziata,
nel dominio italoromanzo possiamo infatti distinguere i dialetti settentrionali parlati a nord di
quella che viene definita “linea La Spezia-Rimini”, e i dialetti centromeridionali, che rientrano tra le
lingue romanze orientali e sono parlati a sud di questa linea. Fatta questa prima grande distinzione
segnaliamo le principali aree dialettali italiane contemporanee:

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tra i dialetti settentrionali possiamo distinguere:

 I dialetti galloitalici – Piemonte, Liguria, Lombardia e Emilia-Romagna;


 I dialetti veneti – Veneto, Trentino e Venezia Giulia;

tra i dialetti centromeridionali si distinguono:

 I dialetti toscani;
 I dialetti corsi – Corsica;
 I dialetti mediani – Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo;
 I dialetti alto-meridionali – Abruzzo, Molise, Campania, Puglia;
 I dialetti meridionali estremi – Salento, Calabria, Sicilia.

Mentre i dialetti mediani e alto-meridionali sono parlati nella zone anticamente occupate dalle
popolazioni italiche, quelli meridionali estremi si parlano in aree di influenza greca, o perché
costituenti l’antica Magna Grecia o perché riacquistate alla grecità in epoca bizantina. Nel periodo
medievale i confini linguistici non sempre corrispondevano esattamente a quelli attuali e i vari
dialetti antichi presentavano tratti talvolta diversi rispetto ai corrispondenti dialetti moderni. La
Toscana venne ad occupare una posizione intermedia tra il Nord e il Sud anche dal punto di vista
linguistico. I primi documenti dell’area italiana scritti in volgare, dalla prima metà del secolo IX in
poi, non sono toscani. Anche la prima importante scuola poetica italiana non fu in Toscana ma in
Sicilia, alla corte di Federico II di Svevia nella prima metà del Duecento.

Fiorentino e italiano

L’italiano deriva, nelle sue strutture fondamentali, dal dialetto fiorentino del Trecento,
nell’elaborazione letteraria che ne fecero Dante, Petrarca e Boccaccio. Sempre in ambito letterario
già prima di Dante la Toscana aveva raccolto l’eredità della scuola poetica siciliana trascrivendo le
poesie dei siciliani e dando loro una veste toscaneggiante; toscani i seguaci del “dolce sti novo”
inaugurato dal bolognese Guido Guinizzelli. I dialetti toscani presentavano, dal punto di vista
fonetico e morfologico, alcune caratteristiche che li rendevano a priori i più adatti ad assicurare
all’Italia un’unità linguistica. Forse perché lì il latino si era sovrapposto all’etrusco, lingua
geneticamente molto diversa, il volgare parlato in Toscana era rimasto più vicino al latino parlato
anticamente, i dialetti toscani avevano accolto nel periodo altomedievale, alcuni tratti propri
dell’area settentrionale. Naturalmente la diffusione del toscano non avvenne di punto in bianco: già
nel Trecento abbiamo testimonianze della sua espansione, ma solo nel Cinquecento con Bembo, il
quale nelle sue Prose della volgar lingua (1525) indicò il fiorentino trecentesco di Dante e,
soprattutto, di Petrarca e di Boccaccio come modello da imitare nelle scritture. Nelle scritture non
letterarie i tratti regionali e locali continuavano, invece, a manifestarsi più o meno ampiamente e,
ovviamente, i diversi dialetti continuarono a essere usati nel parlato. Se nei primi secoli si parla di
volgare, contrapposto al latino, successivamente le definizioni più frequenti sono quelle di lingua
fiorentina o toscana; il termine italiano si impose definitivamente solo nel Settecento. Va però detto
subito che alcuni tratti fonetici del fiorentino trecentesco, non rappresentati nell’uso scritto, non si
imposero al di fuori dei confini regionali. Sebbene in misura incomparabilmente minore, anche le
altre aree dialettali e regionali italiane hanno dato qualcosa alla costituzione della lingua nazionale
e pure le lingue straniere con cui la nostra è entrata via via in contatto hanno influito sull’italiano,
specialmente sul piano lessicale.
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Stabilità e mutamento nella storia dell’italiano

Una delle caratteristiche considerate specifiche della lingua italiana è la sua stabilità. Mentre la fase
medievale del francese è un sistema linguistico radicalmente diverso dal francese moderno,
l’italiano della tradizione scritta, non sembra aver portato sostanziali modifiche alle strutture
linguistiche del fiorentino trecentesco. Questo è stato spiegato con il fatto che l’italiano è stato per
secoli una lingua destinata solo alle scritture, sottratta all’uso del parlato, infatti agli scrittori stessi è
passata come “lingua morta”. Questo mutamento rispetto alle altre lingue è stato per secoli più
contenuto, tanto che sembra quasi avvenuto di colpo alla fine dell’Ottocento, dopo il
raggiungimento dell’Unità nazionale, fino al Duemila, l’epoca dell’informatica e della
multimedialità. L’italiano contemporaneo, paragonato alla lingua della tradizione letteraria e
grammaticale appare qualcosa di molto diverso. L’idea della stabilità dell’italiano contiene,
comunque, elementi di verità: l’elaborazione letteraria trecentesca del dialetto fiorentino ha fornito
alla nostra lingua le strutture fondamentali in cui tuttora essa si riconosce. Non a caso, per l’italiano
non è stata tentata, se non negli ultimi anni, una periodizzazione paragonabile a quella di altre
lingue di cultura: si parla spesso di italiano antico, per riferirsi alla lingua usata nei testi due-
trecenteschi, dotata di regole specifiche, specie sul piano della sintassi, e di particolarità lessicali,
ma molto numerosi sono anche i tratti che l’italiano antico condivide con la tradizione scritta
posteriore. L’italiano scritto tradizionale è stato caratterizzato da una forte polimorfia, cioè da una
sovrabbondanza di forme con lo stesso valore. L’italiano contemporaneo comunque ha
sensibilmente ridotto la polimorfia. L’italiano ha avuto inoltre per secoli una caratteristica
assolutamente peculiare: la lingua della poesia ha assunto tratti diversi da quelli della prosa.

I MUTAMENTI FONETICI

Il vocalismo

Il vocalismo del latino classico prevedeva dieci fonemi vocalici: ciascuna della cinque vocali
dell’alfabeto – A E I O U – poteva infatti essere breve o lunga. La differenza nella durata dei suoni
vocalici, detta quantità vocalica, si poteva avere sia in posizione tonica, sia in posizione atona;
ricordiamo che sono generalmente brevi le vocali che precedono un’altra vocale e precisiamo che
negli sviluppi romanzi conta la natura originaria della vocale. Probabilmente anche sulla spinta
della pronuncia del latino da parte di popoli romanizzati i cui sistemi linguistici originari non
conoscevano la quantità vocalica. La quantità vocalica, cioè la differenza di timbro, finì così col
sostituire, nel sistema fonologico del latino volgare, la quantità. Nel latino classico oltre alle 10
vocali che esistevano tre dittonghi – AE. OE. AU – che ebbero sviluppi diversi nel latino volgare: il
dittongo OE divenne una e con timbro chiuso; il dittongo AE diventò e ma di timbro aperto, e AU
divenne precocemente o. L’alfabeto latino aveva un’altra lettera relativa a una vocale, la Y, tratta
dall’alfabeto greco e usata solo nei grecismi, che andò ben presto a confondersi con la u e
successivamente, in parole entrate più tardi, per lo più con la i.

Il vocalismo tonico dal latino all’italiano

Il vocalismo “italico” è il passaggio dal latino classico a quello volgare al quale l’italiano è
sostanzialmente rimasto fedele. Andranno fatte delle precisazioni:

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 Il grado di apertura delle vocali medie indicato è quello del fiorentino;
 Parole come bene e nove costituiscono delle eccezioni;
 I passaggi considerati valgono solo per le parole di tradizione diretta e anche tra queste
non mancano eccezioni.

Nelle parole ‘dotte’ (latinismi), invece, si conserva in generale il timbro della vocale latina, a
prescindere dalla durata.

Il vocalismo atono dal latino volgare all’italiano

I suoni vocalici italiani in posizione atona, sia protonica, sia postonica, sia intertonica, si sono ridotti
ulteriormente, da sette a cinque, venendo meno, tra le vocali medie, l’opposizione aperte/chiuse.

Gli sviluppi del vocalismo tonico

Rispetto al vocalismo del latino volgare, le vocali toniche in fiorentino hanno conosciuto ulteriori
sviluppi innovativi. Il dittongamento spontaneo è quella che viene considerata l’innovazione più
importante. In sillaba aperta o libera, dalla e chiusa.

L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italiane.


Una nuova fase di studi
Il grande assente dei nostri studi per molti anni è stato l’italiano dell’uso medio. Le indagini sulla
cosiddetta lingua viva erano rivolti perlopiù al lessico e riguardava la presenza di forestierismi,
regionalismi, neoformazioni.
L’assunto principale della tesi può essere sintetizzata in tre punti:
1) I processi in corso nella situazione linguistica italiana hanno ormai portato alla diffusione e alla
accettazione, nell’uso parlato e scritto di media formalità, di un tipo di lingua che si differenzia
dallo “standard“ ufficiale più che per i tratti propriamente regionali, soprattutto perché è
decisamente ricettivo dei tratti generali del parlato;
2) Si tratta dell’esito più significativo dell’intero percorso della nostra storia linguistica, dato che
sostanzialmente segue il recupero, sul piano “nazionale“, di modalità appartenuta sempre ai
sistemi linguistici di base della comunità italiana, recentemente rimaste attive ed accettate sulle
forme di comunicazione regionali (dialetto, italiano regionale);
3) Tale esito rappresenta anche il vero punto di forza per le sorti della lingua italiana in una
società più omogenea socialmente e culturalmente è un tipo di civiltà che si avvale largamente
della comunicazione orale “ampliata“ e “ufficializzata“, qual è quella affidata ai moderni mezzi
di trasmissione fonica e visiva.
Tratti fonologici e morfosintattici
Ora elencheremo brevemente 35 tratti tra fonologici, morfologici e sintattici, che, insieme con altri
di natura lessicale, caratterizzano l’uso della nostra lingua in situazioni di media formalità, oltre che
di informalità.
Fonologia
1) La distinzione tra vocali chiuse e aperte secondo il modello toscano stenta ad entrare anche
nell’uso delle persone molto colte. Le cause di ciò sono molteplici: manca una distinzione
grafica; massicce correnti difformi dall’uso toscano vengono sia dal Nord sia dal sud; sono
rarissimi casi di distinzione lessicale affidata esclusivamente all’opposizione del grado di
apertura tra le vocali. Si può parlare di neutralizzazione di tale opposizione nella loro coscienza.
2) La distinzione tra S sorda e S sonora scempie intervocalica e secondo la norma Fiorentina è il
realtà impraticabile per la stragrande maggioranza degli italiani. La mancanza di distinzione

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grafica e di un criterio logico costringerebbe a imparare a memoria le singole parole con S
sorda e con S sonora. Nel Nord è costante la sonora, a Roma e nel sud è costante la sorda.
3) Il raddoppiamento fonosintattico è poco avvertito: è assente nella pronuncia di tutti i
settentrionali e dei sardi; nella pronuncia dei centro-meridionali non toscani manca dopo da,
come, dove…
4) La i prostetica davanti a nessuno iniziale S + consonante, Dopo una parola con finale in
consonante, è di uso raro, sia nel parlato che nello scritto. La maggiore coscienza
dell’autonomia lessicale delle parole, sia la maggiore familiarità con nessi consonantici
complessi, proprio dei parlanti settentrionali o acquisita attraverso la conoscenza di lingue
straniere.
5) Le forme ad, ed vengono limitate ai casi di incontro con la stessa vocale. La forma od è
pressoché scomparsa. Prevale, anche in questi casi, la coscienza dell’autonomia lessicale delle
parole.
6) L’elisione e il troncamento, aldilà dei casi canonici, si sono fatti molto più rari. Alcune giunture
oggi sarebbero sentite come arcaizzanti o affettati o poetiche. Per questi fenomeni il parlato e
lo scritto divergono alquanto: nel parlato le visioni e troncamenti sono leggermente più
frequenti, mentre nello scritto prevale più chiaramente la tendenza al rispetto dell’autonomia e
integrità delle parole.
7) La regola del “dittongo mobile“ è sostituita da serie congelate: per molti verbi sia generalizzata
la forma con dittongo; per altri sia consolidata la forma senza dittongo.
Morfologia e sintassi
8) tra gli aggettivi e pronomi dimostrativi codesto, e tra gli avverbi di luogo costì e costà, ormai
sono confinati, fuori di Toscana, nell’uso burocratico. Nel parlato si ricorre ad altri elementi della
frase o contestuali, e specificare la posizione degli oggetti rispetto all’interlocutore (gesti).
9) le forme afferetiche ‘sto, ‘sta, per questo, questa, connotano ancora la lingua in senso
colloquiale, ma sono certamente panitaliane, perfettamente fuse, ormai consolidate nella lingua
standard, come stamane, stamattina, stasera, stanotte e anche stavolta.
10) Con funzione di neutro si usano decisamente questo e quello. Molto raro è l’uso di ciò. Anche il
pronome neutro lo, che richiama un intero enunciato o un complemento predicativo del soggetto
dell’oggetto, è di uso larghissimo.
11) la forma pronominale dativale gli è di uso larghissimo con tutti i valori: a lui, a lei, a loro.
Questo uso generalizzato di gli è al centro di antiche e recenti discussioni. Per spiegare questa
tendenza bisogna richiamare vari argomenti:
1) storicamente, il dativo singolare illi E il dativo plurale illis, validi in latino per tutti i generi, hanno
dato l’esito unificato li presenti in vari dialetti toscani, centrali, meridionali e settentrionali.
2) In composizione con altre particelle pronominali, come, -la, -lì, -le, -ne, la forma dativale è glie-
Per tutti i generi e numeri.
3) Già la forma loro è usata senza distinzione di genere.
4) Molti scrittori dei secoli XIV e XVI usarono liberamente la forma unica e questa fu riemessa per
il plurale dal Manzoni; scrittori più recenti hanno accolto ancora più largamente la forma gli.

12) le forme lui, lei, loro in funzione di soggetti, al posto di egli, ella, essa, essi, Esse, sono ormai la
norma in ogni tipo di parlato, anche formale, e nelle scritture che rispecchiano atti comunicativi
reali. L’uso di egli, ella, essa, essi, Esse, è ristretto al parlato che possiamo definire “celebrativo“ e
alle scritture di tipo argomentativo e asituazionale.
Le forme lui, lei, loro in funzione di soggetto cominciano ad essere attestate con una certa
larghezza nel pieno del XIV secolo. Tali forme furono condannate dal Bembo nelle prose della
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volgar lingua, e ciò ebbe notevole effetto sulla lingua di molti scrittori, ma non di tutti. La rivincita
del parlato spiega ancora meglio se si tiene conto del fatto che sono diventati più frequenti le
scritture di tipo “situazionale“: in queste vigono le stesse regole della comunicazione orale nella
quale si fa grande uso dei pronomi personali con funzione deittica E scarso uso di quelli con
funzione anaforica.
13) trovano buona accoglienza le forme dei dimostrativi questo e quello rafforzate da qui e lì. È un
uso di origine settentrionale, parallelo le forme francesi rinforzate con -ci.
14) la combinazione di una preposizione con l’articolo partitivo, sconsigliata dalle grammatiche, è
in realtà di uso frequentissimo proprio nella lingua media. Nelle varietà più alte e più bassa si
incontrano altre soluzioni, come l’eliminazione del partitivo o la sua sostituzione con altri tipi.
15) tra ci e vi particelle pronominali con valori di avverbi di luogo, la lingua parlata ha scelto
decisamente la prima. Quando l’avverbiale di luogo verrebbe a trovarsi in compagnia di un ci
pronome personale (noi), si modifica piuttosto il costrutto anziché ricorrere all’uso di vi.
16) la particella ci, originariamente con valore di avverbio di luogo “qui“, ha un suo larghissimo in
unione con i verbi essere e avere.
Con il verbo essere il ci conserva una sfumatura di avverbio di luogo. Quando si descrive un evento
specifico del quale implicitamente sono richiamati aspetti materiali e localizzabili, il ci è
obbligatorio.
L’uso del ci è normale e obbligatorio con il verbo essere nel significato di “esistere“, anche se non è
implicito alcun riferimento concreto un luogo.
Con il verbo avere È ancora più evidente la funzione del ci puramente attualizzante del
originariamente avverbio di luogo. Nell’uso orale della lingua esistono casi in cui il ci è obbligatorio
per evitare ambiguità. Nell’uso scritto queste forme stentano ad entrare, non soltanto perché
fortemente connotata in senso colloquiale, ma perché hai bisogno difficoltà materiali nel rendere
con la grafia normale la pronuncia palatale della C isolata, conservando perlopiù l’h grafica del
verbo. Gli scrittori che hanno accolto la forma in questione hanno scritto ci ho, ci avevo, eccetera.
17) le grammatiche scolastiche tradizionali hanno sempre condannato come “pleonastiche” le
costruzioni con ripresa pronominale di un tema, e come “francesismi“ le costruzioni con inizi del
tipo È per questo che… inoltre, enunciano una generica regola secondo cui “il soggetto di norma
precede il predicato“. È stato così sottratto all’attenzione di chi insegna la lingua l’intero fenomeno
dell’enfasi, cioè della focalizzazione dell’informazione della presente il dato “nuovo“ nell’atto
comunicativo.
I fenomeni di enfasi sono ben presenti nella lingua italiana parlata in quella scritta che riflette più
direttamente la prima. A prescindere dall’enfasi prodotta esclusivamente con il tono della voce,
segnaliamo qui i quattro procedimenti di natura sintattica:
e) la posizione del soggetto al predicato
f) La frase segmentata, cioè con tematizzazioni del dato “noto“ assunto come “tema“, e ripresa di
esso mediante un pronome nella frase che predica l’informazione nuova, cioè il rema. Si tratta
delle comunissime costruzioni del tipo “i soldi te li ho dati; il libro non l’ho letto; queste parole
non le ho mai dette”. Questo stesso tipo alla base delle costruzioni come “a me mi” o “di
questo ne”. Enunciato così crudamente questo tipo sintattico da ancora fastidio, ma quando
altri elementi separano i due pronomi, l’uso del parlato vi ricorre volentieri, per esempio “a me
non me la fai”. È evidente che in queste frasi il primo elemento equivale a “per quanto riguarda
me” O “per quanto riguarda questo fatto“, era presente il tema, sul quale si svolgeva il discorso
o rema. Come tutti i casi di sequenza tema più rema, tra l’uno e l’altro segmento a funzionare
una leggera pausa, che tuttavia viene spesso annullata: si genera così la stretta sequenza “a me

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mi”, “di questo ne” che nella lingua colloquiale è diventata pressoché normale ed è il vantaggio
di una maggiore corposità fonica.
g) Caso estremo di questa struttura è il cosiddetto anacoluto, nel quale il tema è una pura
enunciazione, è un “nominativus pendens” senza alcun raccordo sintattico con il rema: “Giorgio,
non gli ho detto nulla; i figli, Paolo non se ne cura affatto“.
h) La frase “scissa“ in due fasi, di cui la prima, col verbo essere, mette in forte rilievo il “nuovo“,
mentre la seconda contiene il “noto”. Si tratta di frasi del tipo: è Mario che canta; è lui che me
l’ha detto. Questa costruzione è particolarmente frequente nelle frasi interrogative: dov’è che
hai comprato questa borsa?; Quand’è che partirai per il Canada?. Questo tipo di frase non solo
porta al massimo grado l’enfasi sul nuovo, ma amplia la durata dell’enunciato e quindi
raggiunge l’effetto di quello spezzettamento dell’informazione che facilita la ricezione.
18) in presenza di un verbo cosiddetto “servile“ il pronome clitico tende a “risalire“, cioè passare
enclitico del verbo semanticamente più importante a proclitico del verbo servile. Non tutti i verbi
servili provocano con la stessa facilità il fenomeno, e non tutti i clitici si presentano allo stesso
modo. In linea di massima si può dire che:
- la risalita del sì passiva ante, specie se questo sfuma nell’impersonale, è già quasi d’obbligo: qui
si possono comprare cravatta a buon prezzo. Il critico d’arte invece a restare legato al verbo
subordinato se si tratta di una forma riflessiva o di un verbo pronominale: i ragazzi devono
ancora lavarsi.
- La risalita è molto più facile con i verbi modali dovere, potere, volere, sapere, con i verbi
aspettuali stare più gerundio, stare a, stare bene, cominciare a, finire di, e con i verbi andare e
venire, quando il loro specifico significato è fortemente attenuato, sicché essi formano un
complesso unico col verbo che accompagnano: non mi posso rassegnare; ora te lo posso dire;
non ti voglio far perdere tempo.
20) viene accolto con maggiore larghezza l’uso del che polivalente, originariamente pronome
relativo, ma poi è diventato connettivo generico con molte funzioni:
i) il che con valore temporale, in cui, dal momento in cui, nel momento in cui.
j) Il che che congiunge le due parti di una frase scissa: è qui che ci siamo incontrati l’anno scorso;
dov’è che hai comprato queste scarpe?.
k) Il che è un apparente funzione di soggetto oggetto, contraddetta da una successiva forma
pronominale che ha funzione di complemento indiretto: la valigia che ci ho messo i libri; quel
mio amico che gli hanno rubato la macchina. Questa costruzione rappresenta una parziale
rettifica del tipo più “radicale”, cioè senza ripresa da nominale correttiva, ben attestata in testi
letterari antichi. Lo stesso uso è accolto tal volta della narrativa moderna.
l) Il che sostitutivo di una congiunzione più nettamente finale o consecutiva o casuale: aspetta,
che te lo spiego.
21) Tra che cosa, cosa è che nelle frasi interrogative, specialmente dirette a perduto terreno che
cosa e si va affermando sempre più il semplice cosa, di provenienza settentrionale, mentre il che, di
provenienza meridionale, e ovviamente predominante da Roma in giù, livello nazionale sia fissato
più che in altri tre formule come Che dire? Di che si tratta?
22) in funzione di aggettivo interrogativo che è molto più usato di quale: che via faremo per andare
a Siena?; Non so che regalo fargli per la sua festa.
Il che esclamativo è ormai chiuso larghissimo anche con gli aggettivi: che bello!; Che strano!.
23) alcuni nessi relativi che all’interno della frase esprimono un legame dichiarativo o casuale, sono
stati ridotti, con l’ellissi dell’elemento nominale: tieni conto che col treno arriveresti troppo tardi
(invece di “tieni conto del fatto che…”).

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24) L’uso parlato a portata una notevole selezione tra i tipi di congiunzione causale, finale e
interrogativa.
Per le causali che precedono la proposizione principale, parlandosi dal netta prevalenza siccome,
dato che, rispetto a poiché o Jackie. Nella lingua. Meglio la relazione causale viene più spesso
espressa parata attica mente congiungendo le frasi con una e cosiddetta “pragmatica“ o
“esplicativa“, in quanto spiega quella particolare relazione dal punto di vista del locutore : fa molto
freddo e preferisco non uscire.
Per le finali, l’uso di affinché, che nelle descrizioni delle grammatiche primeggia, è invece rarissimo.
Il costrutto finale esplicito nel parlato è introdotto da perché o, più spesso, viene trasformato in
costrutto implicito che incorpora un verbo causativo: si usa comunemente te lo dico per fartici
andare e non te lo dico affinché tu ci vada.
Nelle interrogative è molto frequente anche l’uso di come mai: come mai non sei uscito oggi?.
Rispetto all’uso di perché, il come mai esprimono maggiore disponibilità preventiva ad ascoltare e
accettare le spiegazioni dell’interlocutore; perciò hai preferito nelle interrogazioni che, appunto,
colpiscono più direttamente la persona interrogata e che si vuole trattare con una certa delicatezza,
sia pure apparente.
25) L’avverbio allora con valore non temporale ma consecutivo a un largo impiego, non soltanto
come correlativo di una causale, ma come elemento riassuntivo e conclusivo che introduce o segue
domande, ordini, affermazioni categoriche, con il significato di “insomma“, quindi come verbi fra
sali che funge da segnale demarcativi del discorso: allora, andiamo o no al cinema?
26) L’uso del congiuntivo nell’italiano parlato richiederebbe un discorso molto ampio. Osserviamo
solo che per una serie di costrutti c’è una notevole tendenza a introdurre l’indicativo invece del
congiuntivo: non so se è vero (invece di se sia vero).
Modalità di questo tipo sono normali nel parlato medio e hanno alle spalle anche una tradizione
secolare di buona letteratura. Nelle ipotetiche dell’irrealtà prevale decisamente il tipo se me lo
dicevi, ci pensavo io invece di “se me lo avessi detto, ci avrei pensato io”.
27) quando il soggetto della frase è costituito dal nome collettivo il predicato spesso alla forma del
plurale, vale a dire e concordato “assenso“. Questa concordanza è più frequente quando il
collettivo è accompagnato dal partitivo al plurale: una quantità di uccelli si alzarono in volo; una
ventina di automobili restarono bloccate dalla neve.
La concordanza senso di questo tipo antichissimi larghi precedenti, sia nel latino, sia in altre lingue
romanze non romanze, sia nell’italiano di autori classici.
28)La concordanza tra il participio passato è l’oggetto sottoforma di pronome relativo antecedente
e raramente rispettata. Se il participio è accompagnato dall’ausiliare avere, resta più spesso nella
forma del maschile singolare: i libri che ho letto; le vacanze che ho passato in Sardegna. Se il
participio accompagnato dalla filiale essere, nelle costruzioni cosiddette “di affetto”, il participio
concorda piuttosto con soggetto in genere il numero: la camicia di Carlo sia comprato; le scarpe
che Luisa si è comprata.
29) È più accettata di un tempo la costruzione dei verbi con forma pronominale, per indicare una
più forte partecipazione affettiva o di interesse. Questo uso detto “costruzione riflessiva apparente
o di affetto” è frequentissimo con i verbi mangiare e bere e con altri che indicano azioni o
atteggiamenti implicanti effetti sulla persona del soggetto: Luca si è mangiato mezza torta; verso le
11 mi bevo un caffè.
30) sono frequenti i costrutti sostanzialmente impersonali realizzati però mediante la terza persona
plurale (bussano alla porta per dire “qualcuno, Che non conosco, bussa alla porta) o mediante il
pronome indefinito uno o il tuo generico.è molto usato il passivo senza la gente: è stato aumentato
il prezzo della benzina. La costruzione dice che è usatissima, ma quasi soltanto nel parlato.
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31) L’uso di niente in funzione di aggettivo permette di realizzare un tipo di espressione partitivo-
negativa: ragazzi, niente imbrogli; niente frutta, oggi; in questa marmellata niente coloranti, niente
conservanti.
32) la giustapposizione di due sostantivi presenta ormai una grande varietà di tipi. I più diffusi
sono:
m) il tipo treno lampo, marito modello, notizia bomba, mondo cane, nave fantasma, in cui il
secondo sostantivo a funzione di aggettivo che determina il primo sostantivo
n) Il tipo treno merci, uscita automezzi, fine mese, fine stagione, carro attrezzi, sala guida, in cui è
stata soppressa una preposizione (treno per le merci).
Il primo tipo deriva più direttamente dall’uso parlato; il secondo nasce più propriamente nei
linguaggi tecnici. Ma entrambi sono ormai di largo impiego nell’uso del parlato medio e medio
alto.
Il tipo con precedenza del determinante sul determinato, alimentato dalla miriade di composti con
prefisso idee (Automobili, televisione, autostrada eccetera), ettaro fatto altri passi avanti; tuttavia
resta ancora nell’ambito dei linguaggi di settore, dalla tecnologia, la pubblicità, all’espressione
comunque di richiamo.
33) nella sfera dei pronomi allocutivi di cortesia si è ormai affermato decisamente, per il singolare,
lei, mentre ella è estremamente raro nel parlato è rintracciabile quasi soltanto nella comunicazione
scritta molto formale. Per il plurale, nella stragrande maggioranza dei casi si usa voi, mentre loro è
decisamente formale. L’uso del voi plurale di cortesia è stato certamente favorito dal fatto che loro
crea casi di confusione con loro di 3ª persona.
34) La ripetizione dello stesso sostantivo per rideterminare, e quindi saltare, il significato della
parola è un procedimento che risale indietro di qualche secolo, ma è diventato caratteristico
dell’italiano più sciolto dall’inizio dell’ottocento: vorrei un caffè caffè (un caffè che sia vero caffè,
genuino benfatto).si tratta di un tipo di “superlativo del sostantivo” è usato con finalità espressive.
35) vari elementi lessicali, che però svolgono perlopiù tipiche funzioni sintattiche, specialmente a
livello testuale, possono caratterizzare la lingua media distanziandola dallo standard ufficiale: sono
nettamente dominanti nel parlato nella narrativa, ma vengono accolti con facilità anche nella
scrittura giornalistica:
- ci vuole, ci vogliono (occorre, occorrono)
- Si capisce (certamente, è ovvio)
- Si vede che (è probabile, si può supporre che)
- Mi sa (penso)

Lessico
Il lessico contribuisce fortemente a caratterizzare le varietà di lingua, ma nel raccogliere
isolatamente gli elementi pertinenti a una data varietà si rischia di beccare per eccesso per difetto:
molti vocaboli sono diverse polivalenti e solo nel contesto più stretto acquistano una specifica
valenza. È il caso ad esempio del vocabolo faccia, che certamente di livello medio come sostituto di
viso o volto in una serie di accezioni della sfera estetico sociale, o se è inserito in varie espressioni
come perdere la faccia. Ma si colloca anche a livello formale con altri significati: in senso
strettamente anatomico, contrapposto ad altri parti della testa. Si possono citare i vocaboli che si
caratterizzano in assoluto per la loro valenza A livello medio: ad esempio pigliare invece di
prendere, pure nel senso di anche, arrabbiarsi per adirarsi, adesso invece di ora. C’è dunque anche
uno strato nazionale di lessico che ricorre tipicamente nell’uso medio della lingua, e corrisponde al

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bisogno di comunicare in maniera abbastanza semplice, accessibile a tutti, vi sia o no l’intenzione
di aggiungere vere connotazioni espressive.
“L’ italiano dell’uso medio” sposta il baricentro della norma
I tratti sopra descritti
- sono panitaliani;
- Sono usati da persone di ogni ceto di ogni livello di istruzione;
- Formano sistema, cioè si ritrovano “solidamente“ in uno stesso tipo di discorso;
- Non sono limitati al discorso “orale-non pianificato“, ma risultano pienamente funzionali anche
per un discorso “scritto-pianificato“, purché non decisamente formale.
Gli studi più recenti che hanno richiamato maggiormente l’attenzione sul mezzo fisico e sul modo
della comunicazione linguistica, ci permettono di rendere più concreta la visione dei fatti che ci
interessano: soprattutto inducono a distinguere tra fatti generalmente pertinenti alla
comunicazione parlata e fatti propriamente di natura socio-culturale, geo-culturale, e a valutare
debitamente anche il processo storico di affermazione della norma. Possiamo dunque individuare
una varietà nazionale italiano, quella appunto che abbiamo già definito come “italiano dell’uso
medio“. Nulla toglie al riconoscimento di questa varietà “nazionali“ il fatto che gli stessi tratti si
ritrovino, ancora più marcati e rinforzati da altri concomitanti, in alcune varietà propriamente
diastratiche e diatopiche, Cioè nell’italiano regionale nei dialetti. Allo stesso modo, nulla toglie il
fatto che l’uso orale di questa varietà si accompagni, anche nei parlanti colti, a tratti specifici di
pronuncia regionale. E poi, è evidente che non siamo davanti ha un diverso sistema linguistico, a
una diversa “grammatica”: le varietà interne di una lingua sono collegate, almeno largamente, alle
stesse regole profondi, delle quali si possono però ottenere “uscite” diversi. L’uscita qui abbiamo
rivolto l’attenzione e ben caratterizzata, rispetto a quella standard, da:
- una complessiva minore distanza dall’uso orale spontaneo;
- L’emarginazione di alcuni tratti specificatamente di origine toscana, di scarsa rilevanza funzionale
e non ben recepiti finora nell’uso nazionale della lingua.
Sono questi tratti in virtù dei quali la varietà in questione, in quanto nazionale e rispondente ad
esigenze fortemente sentita dalla società presente, si candida ad occupare, dopo secoli di
ostracismo, il baricentro dell’intero sistema linguistico italiano o perlomeno a condividere con lo
standard ufficiale il crisma della norma.
È sintomatico che all’uso dell’italiano regionale popolare siano sostanzialmente estranea e le classi
istruite: i dati più tipici di questa varietà sono aperte di chiaramente come delle degli azioni, anzi
hanno “è già passato la soglia dello stereotipo e della stigmatizzazione“.
È bene mettere risalto il fatto che quasi tutti i tratti marzo simpatici che caratterizzano il nostro
“italiana“ non sono innovazioni docenti: molti di essi sono testati da vari secoli e dall’uso orale
erano già passati anche lo scritto, perfino i nobili altamente letterarie. La novità dell’italiano dell’uso
medio riguarda sostanzialmente la validità della norma, non le caratteristiche del sistema. Vari dati
dell’italiano dell’uso medio erano già presenti da tempo nel sistema che alla base della lingua
italiana ed erano stati accolti anche nelle varie norme scritte regionali, in quella particolare norma,
definibile come super norma, che dal secolo 16º in poi ha dominato lo standard della lingua
italiana: la norma letteraria di tipo bembesco. Esempi tipici di dati presenti nel sistema, esclusi dalla
super norma, ma oggi consolidatisi nell’italiano dell’uso medio, sono i fenomeni descritti i pontili
chiamarti poco fa. L’utilizzazione e che di questa verità oggi si fa attraverso i più diversi mezzi,
l’avallo che adesso viene dalla parte della produzione letteraria, la pressione che nella stessa
direzione esercitano i massicci usi linguistici regionali, sono questi fatti nuovi da mettere in
evidenza: ora un cambiamento della norma, ma certamente oggi la norma è già divaricata. Accanto
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alle trasformazioni socioculturali, e anche la complessità e varietà del sistema di comunicazioni che
mette in crisi, forse in tutte le comunità, il predominio di una sola rigida norma e comporta la
coesistenza e concorrenza di più norme. Nel contesto linguistico italiano l’attivazione di darti la tua
di nuovi sta ora portando a compimento un processo di selezione e promozione in altri contesti si
era compiuto già da tempo.
Il compito di indagare riflette sulla lingua e tutto qui: consiste nel farsi che i processi evolutivi si
svolgano nella consapevolezza. Ma i processi sono comunque in atto e proseguono: tale è la forza
che regola e domina, quasi senza controllo da parte dei linguisti grammatici, la comunicazione,
specie oggi, dati i suoi numeri voli e potenti mezzi.

L’insegnamento dell’italiano non può essere tenuto “al riparo“ dei problemi fin qui considerati.
Almeno la distinzione, ormai fondamentale per la situazione italiana, tra varietà standard per l’uso
scritto informale e varietà dell’uso medio parlato e scritto dovrebbe essere presa in seria
considerazione specialmente se l’insegnamento della lingua si perseguono obiettivi differenziati e
graduali: ciò si impone particolarmente per l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda, a
discenti che molto spesso puntano ad acquisire una competenza in anzitutto sul piano della lingua
dell’uso medio, parlato e scritto.
I molti strumenti didattici manca proprio l’attenzione verso la varietà dei tipi di lingua. Il vaglio di
un buon numero di grammatiche italiane ci fa constatare che:
o) molti dei fenomeni descritti sono semplicemente ignorati;
p) Altri sono presentati come decisamente abnormi o deteriori;
q) Altri ancora sono menzionati, ma senza sufficienti spiegazioni e senza alcuna indicazione sulla
loro maggiore pertinenza a questa o a quella varietà di lingua.

LINGUA E SESSISMO

Introduzione
La nozione di lingua che si sta o di sessismo nella lingua è relativamente recente. Sembra che sia
stata elaborata all’interno del movimento femminista negli ultimi decenni chi ne parla si rifà a
Nietzsche, Freud, Lacan ecc... ci si riferisce con questa etichetta idee sulla relazione tra lingua e
pensiero le quali appartengono ad una tradizione che risale almeno a Humboldt, idee che sono
state discusse da Edward Sapir, E che hanno trovato una formulazione più estrema nei lavori di B. L.
Whorf. Dopo essersi dedicato alle lingue amerindiane, e averle confrontate con quello che egli
chiamava l’europeo medio standard, egli arrivò alla conclusione che le lingue possono manifestare
visioni differenti della realtà, e che, per esempio, la teoria della relatività di Einstein sarebbe stata
formulata più facilmente in Hopi (una lingua amerindiana) piuttosto che in tedesco. L’ipotesi
generale è che la lingua non solo manifesta, ma anche condiziona il nostro modo di pensare: essa
incorpora una visione del mondo e ce lo impone. Siamo noi ad essere parlati dalla nostra lingua,
anziché essere noi a parlarla. I nostri discorsi non sono ciò che un soggetto singolo in piena libertà
decide di dire: essi appartengono piuttosto a un processo discorsivo che crea la nozione stessa di
individuo attraverso la quale si manifesta e si realizza. Il condizionamento di “genere” si intreccia
con quello di classe, ma di fatto è più profondo di quello di qualsiasi altra categoria sociale. La
discriminazione si assista e gli stereotipi di genere Pervadono la lingua nella sua interezza e sono
rafforzati da essa. Ad un primo livello, sembra che qualsiasi lingua sia dotata di una specie di
universalità e adattabilità indefinita che la rende per ogni essere umano il mezzo di comunicazione
più naturale a cui affidarsi con completa fiducia.ma ad un secondo livello, spesso si sperimenta una
sorta di resistenza della lingua, si è costretti ad ingaggiare una lotta per esprimere sentimenti che
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sembrano inesprimibili, per dare voce al disagio relativo al proprio essere alla propria condizione
con un mezzo che appare imposto dall’esterno piuttosto di appartenere a noi stessi. Questo senso
di diversità e estraneità che ci torna alla mente dal volta quando consideriamo certe realizzazioni
artistiche, e che ha sentito da Chi non appartiene a un gruppo sociale culturale dominante, e
spesso denunciato dalle donne, che trovano la lingua inadeguata a esprimere la loro esperienza in
quanto donne. Tutto questo sembra che sia relazione con ciò che alcuni teorici hanno chiamato
“discorso”, e perciò con la cultura con la società, più che con la grammatica. Sarebbe difficile
immaginare che il problema possa essere risolto introducendo dei cambiamenti nella morfologia,
nella sintassi, nel lessico della lingua. Il tentativo di trovare delle soluzioni grammaticali a problemi
che sembrano appartenere al dominio della teoria del discorso è forse la radice delle riserve che
linguisti solitamente esprimono sulla questione del sessismo nella lingua. Un esame interessante di
questo problema è offerto da Patrizia Violi, Che esprime la sua insoddisfazione nei confronti dei
tentativi ingenui di riformare alcune singole caratteristiche della lingua che esibiscono una
simmetria tra maschile femminile, e nello stesso tempo sostiene però che questi tentativi, anche se
ignorano quanto profondamente gli assunti patriarcali compenetrano la struttura della lingua,
almeno contribuiscono a rendere la gente più cosciente degli atteggiamenti sessisti incorporati nei
suoi discorsi. Il suo libro esprime bene il senso di alienazione ed esclusione che le donne possono
provare quando si confrontano con una nozione soggettiva che sia universale sia maschile, mentre
il femminile deve essere definito negativamente come deviazione della norma. Meno convincente il
suo tentativo di collegare nozioni di uso linguistico e sistema linguistico, e dimostrare
eventualmente come l’opposizione sessuale si rifletta nella grammatica. Nella cultura inglese e
americana ci sono alcuni lavori che sono stati di notevole importanza nella diffusione di queste
posizioni femministe, anti-sessiste; sulla loro base sono state compilate anche guide pratiche per
l’uso di una lingua non si assista. In Italia più tardi che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna lo
sviluppo di quest’idea ottenuto l’appoggio ufficiale e governativo maggiore che in altri paesi.
Questo sembra confermato dall’istituzione di una commissione nazionale per la realizzazione della
parità tra uomo e donna presso la presidenza del Consiglio dei Ministri.
La politica linguistica
Si dovrebbero abolire le distinzioni in giuste tra donne uomini in tutte le loro implicazioni sociali,
economiche, politiche, giuridiche, e lasciare la lingua a sé stessa. Se è vero che la lingua
rappresenta gli atteggiamenti dominanti, essa rifletterà inevitabilmente una società più equa e
meno sensista, una volta che l’abbiamo creata, allo stesso modo in cui era riflette la società iniqua e
se si sta. D’altro canto sembra legittimo obiettare che una discussione sulle questioni linguistiche
coinvolti e può essere vista non come qualcosa che sottrai attenzione ai problemi sociali
sostanziali, ma piuttosto come contributo ad intensificare tale attenzione. È di fatto possibile
sostenere che, una volta che esista la possibilità istituzionali per le donne di occupare certe
funzioni, la mancanza di termini appropriati per indicare quelle funzioni quando sono svolte dalle
donne , È uno degli elementi culturali che possono essere di intralcio ai loro progressi. Questo
impedimento linguistico può essere eliminato attraverso la prescrizione e la buona volontà dei
parlanti, piuttosto attraverso cambiamenti sociali che rendano normale per le donne diventare
ministri, cosicché un ministro si riferirà indifferentemente a donne uomini o ministra diverrà
normale come ministro. I linguisti hanno un atteggiamento scettico sulla realizzabilità di interventi
prescrittivi sulla lingua; in un passato questa posizione si fondava sulla nozione della lingua come
fenomeno sociale, e più recentemente sulla condizione della lingua sia una facoltà innata,
biologicamente determinata. È strano che siano coinvolte due questioni separate, una riguardante
la lingua, l’altra l’uso linguistico, e anche se la prima può essere estranea al sessismo, non è detto
che debba esserlo anche la seconda. Coloro che condividono l’opinione della grammatica sia un
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“organo mentale“ connesso più alla costituzione della nostra specie che ad organizzazioni sociali e
condizioni storiche, sono solitamente non c’è da mettere che questa posizione ci dice poco sull’uso
della lingua, e su quanto esso sia importato storico e in che misura contribuisca a creare il nostro
visione del mondo e della società. Qualsiasi tentativo di modificare deliberatamente il
funzionamento della lingua come organo mentale può essere utile e fuorviante, ma questo non
implica che ogni tentativo cosciente di cambiare l’uso linguistico sia altrettanto sconsiderato. C’è
anche l’ulteriore difficoltà dei cambiamenti dell’uso linguistico i cambiamenti grammaticali non
sembrano essere chiaramente separabili. Le strutture lessicali grammaticali di molte lingue rendono
difficile non riferirsi a una distinzione sessuale, anche quando questo non è pertinente per ciò che
si sta dicendo. In italiano il sistema dei pronomi personali distingue la terza persona il femminile e
il maschile. Per l’inglese questo è stato allungo sentito come uno degli ostacoli principali ad un uso
non si assista.
Italiano tuttavia il problema è più ampio, poiché tutti i nomi hanno un genere grammaticale. In
riferimento agli esseri umani il genere normalmente legato alla distinzione tra femmina e maschio;
Il genere grammaticale si manifesta anche nell’accordo di articoli, aggettivi partecipi, e riguarda la
prima la seconda persona così come la terza. Anche se si usa studente per entrambi sessi, si deve
però fare una scelta ulteriore quando la parola appare in una frase. È molto artificioso evitare
termini come donna o uomo, madre o padre, figlio o figlia e così via, anche se ci si vuole riferire
all’essere umano gabbia con un altro rapporti di genitura , figliolanza, fratellanza, amicizia, senza
riferirsi alla distinzione di sessi.
Se rifiutiamo di fare distinzioni, dovremmo sbarazzarci dell’intero sistema del genere grammaticale
dell’accordo e costituire da zero una lingua completamente nuova, sessualmente non
compromessa. Conviene allora accontentarti di quella che sia già, senza tentare di cambiarla.
Qualcuno buono naturalmente obiettare che anche una lingua non compromessa sessualmente
permetterebbe ancora di fare affermazioni sessiste e di introdurre discriminazioni a scapito delle
donne; questo tuttavia non toglie che alcune caratteristiche dell’uso linguistico possono facilitare
tali discriminazioni e che sarebbe meglio modificarle. Nella storia italiana c’è una lunga tradizione
di prescrittivismo linguistico, ispirato a posizioni puristiche. Fin dal Rinascimento la mancanza di
unità politica è stata accompagnata dal tentativo di imporre un modello di lingua basato sull’antico
toscano, e almeno dal XIX secolo sono state combattute continue campagne per perseverare
questo modello da influenze che avrebbero potuto corromperlo dall’esterno. Questo
atteggiamento avuto alcune delle sue manifestazioni più grottesche durante regime fascista, con
l’introduzione di una legislazione destinata a regolare il mio linguistico. Come conseguenza, ogni
tentativo di imporre una politica linguistica è guardato con sano scetticismo e sospetto dagli
italiani, che, avendo usato per secoli i loro dialetti nativi, sentono che la lingua nazionale avrebbe
bisogno casomai di diventare più spontanea, e di essere costretta di meno, e non di più, da regole
artificiali.
I dati esaminati e le proposte avanzate nelle raccomandazioni sembra che ricadano sotto quattro
categorie separate ma non indipendenti:
18) marca terza: perché le parole si riferiscono ai maschi dovrebbero essere usate come termini
generali che denotano sia uomini che donne?
19) Simmetria nel trattamento delle femmine e dei maschi: perché certe distinzioni, come quella tra
sposato e lo sposato vengono usate per le donne e non per gli uomini? Perché l’uso
dell’articolo davanti al cognome dovrebbe essere normale per le donne, ma non per gli uomini?
20) Genere grammaticale: dovremmo evitare un sistema che ci fa distinguere tra i sessi anche
quando questo non è pertinente per l’argomento discusso? E perché l’accordo al maschile
dovrebbe prevalere quando entrambi sessi sono coinvolti?
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21) Titoli professionali: i titoli professionali dovrebbero essere usati nella stessa forma, o in forme
differenti per uomini e donne?

Marcatezza
Una delle preoccupazioni centrali in queste raccomandazioni è quella dell’uso non marcato del
maschile che comprende anche il femminile, o l’uso di termini riferiti agli uomini per disegnare
anche le donne. Secondo linguisti della scuola di Praga che hanno elaborato la nozione di marca
terza, la nostra mente tende a considerare una coppia di due opposti in modo asimmetrico. Uno
dei due termini può a volte designare l’opposto dell’altro, in altre occasioni complesso che
comprende entrambi gli opposti, per esempio alto e basso denotano qualità opposte, ma il primo
è usato anche per indicare la dimensione lungo la quale si misurano le due proprietà, come in
quanto è alto?.La stessa cosa accade per i nomi di animali: gatto può denominare sia il maschio
della specie sia la specie in generale senza riferimento a distinzioni sessuali; la forma gatta al
contrario è marcata e può indicare solamente la femmina della specie. Anche per gli esseri umani,
Uomo è usato sia per chi appartiene alla specie sia in modo marcato, per i maschi. La distinzione
tra mercato e non mercato è profondamente radicata nel modo in cui noi concepiamo gli opposti
di ogni tipo e non solo quelli relativi al genere o al sesso. A volte è difficile o addirittura impossibile
distinguere tra uso marcato e non marcato e che, di conseguenza, l’immagine che si trasmette a
quella di un mondo in cui essere uomini (maschi) è la condizione presupposta come normale,
prevista, ordinaria. Alcuni dei suggerimenti proposti nelle raccomandazioni sono discutibili: l’uso di
persona, un individuo, al posto di uomo a spesso connotazioni che lo rendono un appropriato;
alcuni cambiamenti appaiono strani quando si tratta di forme idiomatiche o ben attestati. Così per
le espressioni che sono cariche di storia politica e intellettuale. Gli usi possono modificarsi anche se
l’eliminazione delle implicazioni sessiste nelle formule tradizionali può comportare la perdita di altri
connotazioni meno contestabili.
I riferimenti alle donne
L’autrice delle raccomandazioni ritiene che le donne non dovrebbero essere citate come categoria
separata dopo una serie di maschili non marcati, o in modo che suggerisca l’idea che esse siano
appendici o proprietà degli uomini.
Un’altra sezione dedicata all’uso simmetrico di nomi e titoli. Qui si può condividere il desiderio di
abolire il titolo signorina opposto a signora, poiché impone una distinzione tra donne sposate e
non sposate, caratteristica della società patriarcale dominata dagli uomini. In altri casi le
raccomandazioni consigliano usi che stanno guadagnando terreno, ma paiono meno giustificati.
Per esempio, l’autrice è contraria differenziare l’uso dei cognomi di donne con l’articolo, da quello
dei cognomi di uomini senza articolo, che era una regola grammaticale nelle varietà di italiano.
Il genere
Il genere grammaticale è una caratteristica più evidente nelle lingue romanze che in inglese in cui è
limitato ai soli pronomi personali. La distinzione tra maschile femminile. Inevitabilmente il
problema della parità nel trattamento dei due generi. Le raccomandazioni affermano che “la
prevalenza del maschile inerente alla lingua italiana come la Usiamo, si riflette inevitabilmente sulla
nostra interpretazione del mondo e della società, molto spesso indipendentemente o malgrado le
nostre convinzioni dichiarate”. Si potrebbe sostenere un punto di vista diverso: proprio perché in
italiano ogni nome deve avere un genere grammaticale, cioè deve essere un maschile o femminile,
questa caratteristica ha Perso la sua funzione semantica o referenziale, e non trasmette, in modo
animistico, il fatto che si attribuisca un’essenza maschile, per esempio il libro, e una femminile alla
penna. La visione tradizionale dei glottologi è che l’opposizione di femminile maschile sia uno
sviluppo tardo e secondario nelle lingue indo europei. La distinzione originaria era tra animato e

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inanimato, e si manifestava nella flessione grammaticali, poiché l’inanimato presentava la stessa
forma al nominativo all’accusativo, mentre l’animato aveva due forme diverse. Lo posizione di un
genere grammaticale femminile al maschile nasce noi con i nomi, gli aggettivi che usano temi
diversi per il femminile e il maschile. Anche il sistema degli aggettivi non rappresenta quello
originario.
Quanto al genere grammaticale come marca di accordo in italiano, le raccomandazioni consigliano
che, quando ci sono più nomi, i partecipi passati siano accordate quel genere dei nomi che sono in
maggioranza: Carla, Maria, Francesca, Giacomo sono arrivate stamattina. Nei casi in cui è difficile
stabilire qual è il genere maggioritario, si consiglia che l’accordo sia con l’ultimo nome. Questa
proposta contrasta con i normali meccanismi dell’accordo grammaticale in modo che pare poco
accettabile.
Titoli professionali
L’ultima sezione della raccomandazione dedicata ai termini usati per i titoli.su questo. Pare che
l’autrice abbia una posizione diversa da quella del primo femminismo. La mia prima impressione è
che in un certo tipo di italiano tradizionale si tendesse ad usare la forma femminile per questi
termini, creandola quando non fosse già disponibile; in molti casi femminile non era usato, e
sarebbe apparso strano, anche se grammaticalmente accettabile, presumibilmente perché era
inconcepibile che una donna potesse fare certi lavori. Durante gli ultimi due decenni, si è diffusa
l’abitudine di usare la forma maschile dei titoli anche per le donne, in particolare quando questi si
riferiscono a posizioni di rilievo. Questo uso è stato favorito dal movimento femminista con il
duplice scopo di affermare che le donne sono adeguate anche dei lavori importanti E di eliminare
la deplorevole abitudine di indicare il sesso della persona che esercita la professione. Una certa
insoddisfazione per questo maschile promiscuo, in parte perché contraddice l’uso comune e in
parte perché si pensava che il modo Giusto di procedere dovesse essere quello di cambiare la
società in modo tale che tutte le funzioni, compreso le più importanti, potessero essere svolte
ugualmente bene da donne uomini: la forma femminile perderebbe in tal caso qualsiasi
applicazione deduttiva. D’altro canto lo stava a un uomo criticare le posizioni prese dalle donne per
combattere la loro lotta. Questa attribuzione dei titoli maschile alle donne, appare tuttora
abbastanza comune… D’altra parte non è chiaro perché le donne dovrebbero accettare i nomi
maschili quando esista il corrispondente femminile. Gli uomini trovano naturale essere chiamati
con nomi al femminile come guardia o sentinella che non hanno una forma maschile e
normalmente si riferiscono all’individuo di sesso maschile, ma, si esercitassero il mestiere relativo,
probabilmente non gradirebbero essere chiamati con nomi femminili che tradizionalmente si
riferiscono a donne. In queste raccomandazioni si propone Per le donne di usare le forme al
femminile, ed evitare quello al maschile; ma il suggerimento è formulato in modo che pare
inutilmente restrittivo e insieme non troppo felice. Dal punto di vista della scelta di un titolo
appropriato per una donna, si raccomanda quasi sempre l’uso della forma al femminile,
introducendola, se non già disponibile, sulla base di criteri etimologici analogici, con la sola
avvertenza di evitare a tutti i costi le forme in-essa, a causa delle implicazioni deduttive e umilianti
di questo suffisso.
Gli esempi rientrano in tre categorie principali:
22) termini in -torre con il femminile in -trice
23) Termini con il femminile in -a: questi appartengono a varie categorie:
- quelli con il maschile in -aio/-ario/-iere;
- Quelli con un semplice maschile in -o
- Termini con un maschile in -sore;

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3) Termini di genere comune: tra questi troviamo le forme in -e Più o meno frequenti al femminile
come la caporale, la generale, la maggiore;
Conclusioni
Alcuni dei problemi discussi in queste raccomandazioni sono simili a quelli esaminati nei testi
inglesi americani sul sessismo nella lingua; altri sono diversi e sono connessi specificatamente a
caratteristiche presenti in italiano. Dobbiamo ricordare che la bibliografia corrente su questi
argomenti è prevalentemente inglese, in italiano e sull’italiano, non c’è molto. Le raccomandazioni
sono meno sottili e sistematica di alcuni corrispondenti da sti inglesi, non sono estreme nella loro
formulazione di Oria, ma non sembrano essere sufficientemente coscienti delle implicazioni di ciò
che propongono. Lo scetticismo con il quale guardato ogni tentativo di dettare legge la lingua in
un paese come l’Italia che ha una lunga tradizione di prescrittivismo purista. Sarebbe un peccato se
il disprezzo con cui sono giustamente trattate le tendenze socialmente e politicamente retrive della
tradizione puriste fascista dovesse danneggiare la causa della parità per le donne.

Ludovica Paolessi

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