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GRAMMATICA STORICA DELLA LINGUA ITALIANA (2020-2021)

Appunti di: Maria Sabrina Cirillo


22/02/2021
Definizione di italiano  Oggetto di questo percorso di studi sarà la lingua italiana. L’italiano/la lingua
italiana è la lingua ufficialmente parlata e scritta in Italia, ciò significa che l’ufficialità è data dall’uso che ne
viene fatto. Gli ambiti e i luoghi in cui siamo costretti a usare l’italiano sono tutti quei contesti di confronto
fra persone che fra loro non si conoscono (scuole, luoghi pubblici, ospedali). La lingua ufficiale è quella che
viene scelta da uno stato ed è presente anche nella costituzione di questo stato, pertanto non si può
utilizzare ufficialmente un’altra lingua che non sia quella, a meno che non si tratti di regioni a statuto
speciale. L’ufficialità necessità della presenza di una regolamentazione cha avviene attraverso degli
strumenti: la grammatica, per quanto concerne le strutture (l’uso della lingua); i dizionari, in particolare i
“dizionari dell’uso”, per il lessico. I dizionari dell’uso sono la tipologia testuale all’interno della quale si
trovano tutte le parole appartenenti al lessico di una lingua. L’italiano e i dialetti italiani non sono parlati
solo sul territorio nazionale, ma vengono parlati anche in luoghi esterni al territorio italiano, in alcuni casi
questi stati sono ubicati al territorio italiano (come lo Stato Pontificio e San Marino) e ciò fa pensare al fatto
che la realtà linguistica italiana fuoriesca dallo stato politico italiano; si pensi per esempio al fenomeno degli
emigrati che hanno portato i dialetti italiani in vari parti del mondo: l’emigrazione di questi tempi, tuttavia,
è una emigrazione di prestigio, pertanto di persone che parlano perfettamente la nostra lingua, poiché si
tratta di persone che hanno conseguito delle lauree e quindi, in questo contesto, l’italiano che circola fuori
dall’Italia è un italiano alto/standard, sebbene possa presentare degli elementi marcati in diatopia (quali, ad
esempio, gli accenti) che consentono di far capire la provenienza del parlato.
L’italiano ha origine dal latino ma, nello specifico ha un’altra motrice un po’ più autoctona, ovvero il
fiorentino, un dialetto, o forse sarebbe meglio dire un “volgare”, del Trecento, che ha avuto fortuna.
Questo consente di riflettere sul fatto che si sarebbe potuta parlare una qualsiasi altra lingua, ragion per la
quale tutti gli altri dialetti non possono esser considerati come “lingue di serie B”, poiché l’origine stessa
della nostra lingua è un’origine autoctona, dettata dalla fortuna di esser stata codificata.
Fasi della codificazione del fiorentino come lingua nazionale  Il successo e la diffusione delle opere delle
“Tre Corone” (Dante, Petrarca e Boccaccio), sia tra i letterati che presso il pubblico, determinò la
consacrazione del “fiorentino trecentesco” come modello di riferimento fin dal Trecento.
Tra la metà del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento gli stampatori evidenziarono la necessità di trovare
e utilizzare una lingua comune letteraria poiché la nascita della stampa a caratteri mobili aveva determinato
una rivoluzione dal punto di vista della diffusione dei libri e di conseguenza nacque l’esigenza di una lingua
comune per tutti i letterati, affinché la produzione libraria potesse esser maggiormente diffusa e compresa
su tutto il territorio. Nel Cinquecento, quindi, andò a crearsi un dibattito di tipo linguistico, denominato
“Questione della lingua nel Cinquecento”, che vide lo scontro fra diverse correnti, fra le quali a uscirne
vincitrice fu la corrente di Pietro Bembo, il quale nelle sue Prose della volgar lingua (opera del 1525)
promosse, come modello comune, proprio la lingua delle Tre corone (questi autori venivano e vengono
tutt’ora percepiti come dei “classici”, pertanto identificati come “modello classicista arcaizzante”;
“arcaizzante” perché guarda a due secoli prima). Tre secoli dopo, Manzoni nell’edizione Quarantana (cioè la
seconda edizione) dei Promessi Sposi ripropose quello stesso modello, diffusosi nel tempo fra gli scrittori,
ma lo modernizzò: egli fece riferimento all’uso medio-alto del fiorentino contemporaneo, ma emendato
(cioè ripulito dei tratti più bassi come: la gorgia, la deaffricazione delle affricate prepalatali, ecc…). Sia la
Comedia di Dante, che i Promessi Sposi di Manzoni, sono opere che hanno fatto la storia della lingua
italiana, esse rappresentano la tradizione del nostro bagaglio linguistico.
Riflettendo dunque su alcuni elementi già in qualche modo evidenziati, la prima cosa che viene in mente è
che l’italiano è una lingua che formalmente ci è giunta per tramite letterario. La nostra lingua (cioè
l’italiano) è una delle più belle del mondo, perché ha una storia che va avanti ininterrottamente dal 1300 e
per questa ragione viene considerata “la lingua di cultura”.

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La lingua italiana la si impara attraverso i testi della codificazione (quali le grammatiche e i dizionari);
tuttavia, questa lingua non viene appresa in maniera naturale (se ovviamente per italiano si vuol intendere
quello standard). Quando si impara l’italiano spontaneamente, si apprende una lingua marcata dal punto di
vista diatopico (L1 = lingua marcata in diatopia), cioè marcata dal luogo in cui ci si forma, ovvero una lingua
che si apprende attraverso l’interazione con gli altri parlanti appartenenti alla comunità, pertanto una
varietà che non è primaria (L2 = lingua seconda, lingua standard). Quindi, questa lingua normativa, definita
“italiano standard”, non è una lingua della comunicazione primaria (L1), bensì una varietà non primaria (L2)
imparata attraverso lo studio scolastico.
Anche i fiorentini parlano una lingua dell’acquisizione primaria che non è equivalente all’italiano standard e
che presenta dei tratti locali (dialettali) che distanziano la varietà fiorentina da quella standardizzata.
Eugenio Coseriu ha parlato delle variabili coseriane: la lingua cambia nello spazio (diatopia) e nel tempo
(diacronia), vi è una differenziazione della produzione orale (diafasia), una differenziazione tra il parlato e lo
scritto, ovvero una differenziazione del mezzo comunicativo (diamesia) e una differenza a livello culturale
(diastratia).
Italiano spontaneo = varietà marcate in diatopia  In Italia si parlano in maniera spontanea (L1) molte
varietà di italiano che sono locali e/o areali (che possono essere “microaree” o “macroaree”, quest’ultima
può andare anche a superare i confini geopolitici). Gli italiani locali e areali risentono ovviamente
dell’influenza dei dialetti. Quando si passa dal dialetto all’italiano marcato in diatopia molti tratti dialettali
vengono cassati poiché percepiti come più marcati.
Potremmo prendere in considerazione, come esempio, l’italiano parlato in area barese, che presenta i
seguenti fenomeni: la sonorizzazione della “t” in “d” (ex. “tando” anziché “tanto”); l’affricazione della “s”
(ex. “penzo” anziché “penso”); la chiusura o l’apertura delle vocali (ex. “capèlli” anziché “capélli”); la
pronuncia sorda della “s” intervocalica (“razo” anziché “raso”).
Il “neo-standard” è una varietà che si discosta leggermente dallo standard e che tiene in considerazione dei
cambiamenti fondamentalmente avvenuti a partire dagli anni ’80.
23/02/2021
Alle origini dell’italiano: dal latino classico al latino volgare alle lingue romanze  Durante il periodo di
espansione dell’Impero Romano il latino (ovvero la lingua dei latini, il popolo che abitava il Latium da cui i
Romani, secondo la leggenda di Romolo e Remo, discendono direttamente) si diffuse in un territorio molto
vasto comprendente quella che noi chiamiamo la “Romània linguistica”; l’estensione del latino riguarda
un’ampia fascia che va dalle coste dell’Africa settentrionale, all’Europa centro-settentrionale (Province di
Gallia, Hispania e Bretagna) per giungere all’Europa orientale fino al Mar Nero (Province di Pannonia e
Dacia). Il territorio di espansione del latino è dunque molto vasto. Questo processo di espansione del latino
(lingua dei Romani) si chiama “romanizzazione linguistica”, perché furono appunto i romani a portare
avanti questa espansione che oltre ad essere di tipo politico, amministrativo e militare, fu anche di tipo
linguistico. Questo territorio prende il nome di Romània ovvero ‘terra in cui si parla la lingua dei romani’.
Naturalmente il latino imparato dai popoli vinti non era quello dei grandi oratori e dei grandi studiosi, ma
quello esportato dai soldati, quello che i soldati parlavano tutti i giorni, definito dagli studiosi come “latino
volgare”; questa denominazione non sta ad indicare una varietà bassa e triviale, ma si rifà a VULGUS,
ovvero ‘volgo’, ‘popolo’ e dunque si riferisce ad una varietà parlata tendenzialmente dal popolo, o dalle
persone di cultura in situazioni di informalità, di familiarità, quindi potremmo definirlo anche una “varietà
quotidiana”. Il latino volgare si oppone a una varietà che invece noi conosciamo grazie ai libri di scuola, cioè
il “latino classico”, una varietà presentante una serie di regole che venivano sistematicamente applicate
soprattutto in un certo periodo storico. Si tratta prevalentemente di un latino scritto utilizzato nelle opere
letterarie dell’età aurea (meta I secolo a.C. – metà I secolo d.C.). Definito CLASSICUS cioè ‘di classe’ (poiché
usato dai cittadini più ricchi), questo aggettivo venne poi esteso alla letteratura da Aulo Gellio (II secolo
d.C.) che considerava di prima classe la letteratura prodotta in quel periodo storico dagli scrittori più
raffinati (Virgilio, Orazio, ecc…).

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I motivi della diffusione del latino nelle provincie  Il latino prima di tutto era una lingua di prestigio,
considerata una buona varietà da utilizzare sia in ambito politico che in altri ambiti di uso pubblico. La
politica linguistica dei Romani non fu mai di tipo impositivo, poiché i romani consideravano parlare il latino
una caratteristica distintiva rispetto agli altri popoli, ragion per cui questa lingua non venne mai imposta.
Per questo le popolazioni conquistate, dopo un normale periodo di bilinguismo (ovvero dell’uso in
contemporanea della loro lingua autoctona, cioè L1, e del latino, cioè L2) ritennero un privilegio e non un
atto di violenza e di imposizione, abbandonare le loro lingue (L1), dette “lingue di sostrato” (cioè presenti
prima dell’arrivo della L2) a favore della lingua importata dai colonizzatori. Un ruolo importante nella
romanizzazione venne svolto anche dai mercati e dalle fiere: l’esigenza di comprendersi nello scambio e
nell’acquisto delle merci favorì infatti la diffusione del latino.
Con la romanizzazione linguistica si crearono delle “lingue di contatto”, non a caso le lingue parlate nelle
diverse regioni dell’impero presentavano una base autoctona locale (lingua di sostrato) su cui si era
innestato il latino volgare (lingua di superstrato, ovvero la lingua dei conquistatori romani).
Le dinamiche del contatto: lingue di sostrato e superstrato  Le lingue di sostrato sono lingue autoctone
(L1) presenti su un territorio e poi sostituite da un’altra lingua (L2). Le lingue di superstrato sono lingue non
autoctone (L2) che impongono la loro presenza su una lingua già presente in un territorio (sostrato); se la
permanenza di una lingua è breve (come nel caso di dominazioni brevi e non incisive) la nuova lingua
superstratica non va a sostituire quella che c’era prima, ma lascia qualcosa nella lingua autoctona come, ad
esempio, forme lessicali legate a oggetti sconosciuti a quella cultura; il processo deve essere molto più
lungo e capillare per esser duraturo; pertanto, alle volte queste lingue di superstrato permangono, altre
volte no.
Le diverse lingue di sostrato presenti sul territorio romanizzato, quando vengono sostituite dalla lingua di
superstrato, lasciano in eredità alla nuova lingua (lingua di contatto), che si crea da questa fusione fra L1 ed
L2, molti tratti, generalmente di tipo fonetico o lessicale.
Ad esempio, i cinesi che vengono nel territorio italiano non riescono a pronunciare la “r” e al suo posto vi
inseriscono la “l”, pertanto adattano la nuova lingua che loro imparano (in questo caso l’italiano) alle
caratteristiche della loro lingua d’origine, questa cosa avveniva anche nell’antichità. Naturalmente, ciò
comporta la presenza di tante lingue di contatto quante sono le varietà delle lingue sostratiche. Questo è il
meccanismo alla base di quelle che noi oggi chiamiamo “lingue romanze”, che possiedono tutte una base
comune dalla quale poi si sono create diverse varietà.
Esempi dell’influenza del sostrato sul territorio italico
 La gorgia toscana, ovvero l’aspirazione delle consonanti occlusive sorde intervocaliche (ex. “ocaola”
anziché “cocacola”)  questo fenomeno pare essere di origine etrusca, poichè l’area di diffusione di questo
fenomeno si trova in Toscana, Umbria e alto Lazio, ovvero nei territori abitati da quella popolazione;
dall’etrusco derivano anche alcune parole come “popolo”, “taverna”, “persona”, “cisterna”.
 L’assimilazione progressiva di “ND” > “nn”, “MB” > “mm”  pare che questo fenomeno sia di origine
osco-umbra visto che questa popolazione era stanziata nell’Italia centrale e proprio nell’Italia centrale e
nell’Italia centro-meridionale si verifica questo fenomeno. La testimonianza è data dalla parola “upsannam”
(al posto di “upsandam”), ritrovata incisa su una ciotola votiva. A questo popolo si fanno risalire anche le
parole “lupo”, “bufalo” e “bue”.
Lingue di sostrato nell’Italia Preromana: A Nord  Ligure, Celtico, Reto e Carnio; nel Veneto meridionale
 Veneto; centro-ovest  Etrusco e Umbro; a sud-est  Dauno, Iapigio e Messapico; in Sicilia  Sicano,
Siculo ed Elimo; in Sardegna  Paleosardo; sud costiero e In Sicilia  colonie greche.
Le prime testimonianze dell’uso del latino volgare  Ci sono una serie di testimonianze che raccontano di
come effettivamente il latino volgare sia stato la lingua utilizzata nella quotidianità; ovviamente però vi
erano diverse varietà tutte marcate dal punto di vista diatopico, tuttavia è possibile notare anche degli
elementi di tipo trasversale, a dimostrazione del fatto che ci sono elementi che, indipendentemente dal

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luogo, appartengono ai meccanismi di evoluzione e di semplificazione delle lingue, a prescindere
dall’influenza della lingua autoctona.
1. Le iscrizioni pompeiane, sono delle iscrizioni murarie graffite che fotografano la situazione del latino
volgare nel 79 d.C., data dall’eruzione del Vesuvio. Fra le tante scritte troviamo un distico pompeiano:
“Quisquis ama valia peria qui nosci amare / Bis tanti peria quisquis amare vota” che in latino classico
sarebbe stato: “Quisquis amat valeat pereat qui nescit amare / Bis tanti pereat quisquis amare vetat”; sono
in questi versi presenti dei fenomeni di iotizzazione (passaggio da “e” a “i”) o di apofonia (passaggio da “e”
ad “o”); elementi che evidenziano l’utilizzo quotidiano del volgare e la caduta delle consonanti in posizione
finale.
2. Lettere di soldati romani che avevano partecipato alla campagna d’Egitto (I-III secolo d.C.), né
possediamo un corpus piuttosto ampio di circa 300 lettere (che sembrano essere piuttosto attuali).
3. Il Satyricon di Petronio (I secolo d.C.), nella fattispecie il passo sulla Cena di Trimalchione. La coena
Trimalchionis è un lungo episodio (capp. 27-78) che, a differenza della maggior parte del romanzo di
Petronio, è giunto integro fino a noi; questo passo racconta la cena a casa del liberto Trimalchione (o
Trimalcione) a cui assistono i tre protagonisti dell’opera (Encolpio, Ascilto e Gitone). Nell’economia del
romanzo la Cena, che non determina alcun avanzamento della storia principale, costituisce una pausa nella
quale l’autore offre uno spaccato (grottesco ed efficacissimo) sulla società del tempo:
“In aditu autem ipso stabat ostarius praesinatus, cerasino succinctus cingulo, atque in lance argentea
pisum purgabat.” (All’ingresso invece stava l’oste in persona vestito di verde stretto da una cintura
cerasina/rosso ciliegia, e in una bacinella argentata puliva piselli) / “Super limen autem cavea pendebat
aurea, in qua pica varia intrantes salutabat” (Sopra la soglia invece era appesa una gabbia d’oro, nella
quale una gazza varipinta salutava coloro che entravano) / “Ceterum ego dum omnia stupeo, paene
resupinatus crura mea fregi. Ad sinistram enim intrantibusnon longe ab ostiarii cella canis ingens, catena
vinctus, in pariete erat pictus superque quadrata littera scriptum ‘cave canem’” (Tra l’altro io, mentre
guardo stupito tutte le cose, per poco non mi ruppi una gamba. Infatti, alla sinistra di coloro che
entravano non lontani dallo sgabuzzino del portiere, un cane enorme, legato alla catena, era dipinto sulla
parete e sopra, a lettere cubitali, era scritto “attenti al cane”).
4. I trattati tecnici di architettura, veterinaria, culinaria, farmacologia (I-IV secolo d.C.); essendo trattati
pratici non potevano utilizzare parole troppo alte poiché erano destinati a una fruizione pratica, pertanto
dovevano esser poter compresi.
5. La Peregrinatio Aetheriae ad loca sancta (anche detto Itenerarium Egeriae) (IV secolo d.C.): è il diario di
una donna colta religiosa spagnola che aveva preso i voti e che compì un viaggio in Terra Santa; a colpire è il
fatto che fosse una donna e che se ne andasse in giro da sola nel IV secolo.
6. Le Sacre Scritture (IV secolo d.C.), in queste Sant’Agostino diceva “mellus est reprehendant nos
grammatici quam non intelligant populi” e cioè “è meglio esser ripresi dai grammatici piuttosto che non
esser compresi dal popolo”.
[Tutte queste testimonianze vanno nella direzione di una lingua più bassa e più vicina alla lingua del popolo
e quindi ad una varietà di lingua che ci porterà alle nuove lingue presenti nel territorio romanizzato.]
7. L’Appendix Probi, tramandata da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C. (codice che è ora
conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli), consiste in una una lista di 227 parole redatte da un
maestro di scuola (III-V secolo d.C.) secondo lo schema “così NON così”:
 catulus (non) catellus (fenomeno: estensione dei diminutivi);
 masculus (non) masclus (fenomeno: sincope);
 vetulus (non) veclus (fenomeno: esito comune TL/CL);
 calida (non) calda (fenomeno: sincope);
 frìgida (non) fricda (fenomeno: verso l’assimilazione progressiva);
 vinea (non) vinia (fenomeno: chiusura della “e” in “i” se seguita da vocale);
 tristis (non) tristus (fenomeno: metaplasmo);
 umbilicus (non) imbilicus (fenomeno: assimilazione a distanza).

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Non sempre la forma condannata nell’Appendix Probi è quella che ha dato origine agli sviluppi romanzi.

[Simboli dell’analisi storica in linguistica:


1. Le basi latine devono sempre essere indicate in maiuscolo, quelle derivate in minuscolo (o, se richiesto,
in trascrizione fonetica o fonematica)
2. Il simbolo > significa “diventa” (Es. pedem > piede)
3. Il simbolo < significa “deriva da” (Es. piede < pedem)
4. Il simbolo * viene anteposto a una base latina quando questa è ricostruita
5. ( ) significa che un suono è caduto
6. -…- significa che un elemento è intervocalico
7. -… indica un elemento preceduto da vocale
8. …- indica un elemento seguito da vocale
Le “cadute” possono essere di vario tipo: aferesi (soppressione di una vocale o sillaba iniziale), sincope
(caduta di un suono o di un gruppo di suoni all’interno della parola), apocope (caduta della consonante o
della vocale finale di una parola ed eventualmente anche della consonante che la precede).]
Fenomeni del latino volgare
Apocope (caduta in posizione finale) delle consonanti finali:
 La caduta della -(M) dell’accusativo singolare è un fenomeno piuttosto antico e anche ben
documentato;
 La caduta della -(T) come morfema della terza persona singolare pare databile al I secolo d.C. (le prime
testimonianze scritte sono date proprio dalle iscrizioni pompeiane);
 La -S subisce diversi trattamenti  nel nominativo maschile singolare cade, nei monosillabi si vocalizza
palatizzandosi in /i/ (si iotizza) (ex. NOS > noi, VOS > voi), nei polisillabi prima di cadere palatizza la vocale
precedente (ex. CAPRAS > capre) o aumenta il grado di palatalità della vocale (ex. CANES > cani, VIDES >
vedi).
Tutto ciò comportò il collasso dei casi  Il latino aveva un sistema basato sui casi e sulle declinazioni e i casi
stabilivano la funzione di ogni elemento nominale all’interno della frase, per questo non era necessario
avere un ordine fisso degli elementi (come accade invece in italiano). Con il collasso del sistema casuale (a
seguito della caduta delle consonanti finali) non si ebbe più la possibilità di distinguere la funzione del
termine usato. Le nuove strategie messe in atto per il riconoscimento si basano su dinamiche in qualche
modo già avviate. Già in epoca classica presero piede due dinamiche: il potenziamento delle preposizioni e
lo spostamento sull’accusativo di molte funzioni del genitivo, del dativo e dell’ablativo (l’accusativo aveva in
realtà cominciato la sua ascesa già nel periodo del latino arcaico; nelle commedie plautine era infatti una
sorta di “caso tuttofare”).
Quasi tutte le basi delle parole italiane sono dunque accusativali: ex. FLORE(M) > fiore (nominativo FLOS,
genitivo FLORIS); CARNE(M) > carne (nominativo CARO, genitivo CARNIS). Vi sono invece sette parole che
derivano dal nominativo: uomo < HOMO (accusativo HOMINEM); moglie < MULIER (accusativo MULIEREM);
re < REX (accusativo REGEM); sarto < SARTOR (accusativo SARTOREM); ladro < LATRO (accusativo
LATRONEM); drago < DRACO (accusativo DRACONEM); fiasco < got. FLASKO (accusativo FLASCONEM). Per
LATRO, DRACO e FLASKO la scelta del nominativo è probabilmente collegata alla forma di -ONEM
dell’accusativo, poiché quest’ultima sembrava un accrescitivo.
25/02/2021
Potenziamento delle preposizioni  Il collasso dei casi e la selezione dell’accusativo come caso unico
hanno portato alla necessità di una serie di accorgimenti, tra i quali il potenziamento delle preposizioni già
usate per indicare alcuni complementi (Es. “AD” = moto a luogo; “IN” = stato in luogo; ecc…). Durante la
fase del latino arcaico esse erano utilizzate frequentemente nell’uso orale, ma in questo momento
divennero indispensabili per il riconoscimento delle funzioni; infatti, se prima si aveva la possibilità di

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individuare la funzione dell’elemento all’interno della frase a seconda del morfema di posizione finale, nel
momento in cui prende piede il caso unico, naturalmente il potenziamento delle preposizioni consente di
andare a lavorare sull’accusativo e mettendo davanti la preposizione si riesce ad ottenere lo stesso
significato del genitivo, del dativo e così via. Quindi la preposizione fa sì che si possano utilizzare le forme
accusativali, dandogli però una semantica ed una forma diversa (Ex. Latino VINI (genitivo) > Latino Volgare
de vino > Fiorentino di vino).
Ordine fisso dei costituenti frasali  Il collasso dei casi ha portato anche alla necessità di un ordine fisso dei
costituenti frasali rispetto all’ordine mobile del latino. In latino, infatti, non era importante la posizione
poiché la funzione era data dal caso, di conseguenza trovando scritto “CLAUDIUS AMAT MARIAM”, si
sapeva che “CLAUDIUS” era un nominativo e quindi il soggetto, mentre “MARIAM” era un accusativo e
quindi un complemento oggetto. Con il collasso dei casi invece divenne necessario stabilire una posizione
fissa (soggetto + verbo + oggetto; soggetto + verbo + complementi) per comprendere la funzione dei vari
termini (ex. Claudio ama Maria ≠ Maria ama Claudio).
Sistema vocalico: dalla quantità alla qualità  Si passò da un sistema di tipo quantitativo ad un sistema di
tipo qualitativo, cioè, al posto di avere le lunghe e le brevi si hanno le aperte e le chiuse. Il latino classico
aveva 10 vocali che si distinguevano in base alla durata (5 brevi e 5 lunghe): Ī Ĭ Ē Ĕ Ā Ă Ŏ Ō Ŭ Ū; un
sistema speculare formato dalla serie delle anteriori (Ī Ĭ Ē Ĕ) e la serie delle posteriori (Ŏ Ō Ŭ Ū). La
lunghezza vocalica aveva dunque un carattere fonematico (distintivo): SŌLU(M) ‘solo’ vs SŎLU(M) ‘suolo’;
ŎS ‘osso’ vs ŌS ‘bocca’. Le parole uguali in tutto tranne che per un elemento, per un suono (che è la durata
vocalica) si chiamano “coppie minime”.
Nel latino volgare alla quantità cominciò ad affiancarsi anche la distinzione qualitativa: le brevi venivano
pronunciate più aperte, le lunghe più chiuse, per cui Ē e Ō iniziarono ad essere pronunciate come delle
vocali più chiuse rispetto alle corrispondenti Ĕ e Ŏ, così come Ĭ e Ŭ venivano pronunciate più aperte rispetto
alle corrispondenti Ī ed Ū. La Ĭ e la Ē alla fine iniziarono ad esser pronunciate come una “e chiusa”; allo
stesso modo la Ŭ va a coincidere con la Ō.
S. Agostino evidenziò il fatto che man mano che ci si allontanava da Roma era difficile che il parlante
potesse comprendere la quantità lunga-breve tanto da farla diventare funzionale, poiché questo era un
tratto talmente tanto sensibile da esser difficilmente riconoscibile. Egli diceva in particolare che le “aures
africae” ovvero le ‘orecchie africane’ non erano in grado di distinguere due parole uguali tra loro ma
diverse solo per la quantità vocalica. Questo naturalmente avveniva perché la lingua soggiacente in Africa
(L1) non possedeva la distinzione di quantità con valore fonematico.
Da un certo punto in poi il latino volgare perse la distinzione di durata e rimase soltanto quella di qualità;
questo tipo di fenomeno (tipico del latino volgare) si è riversato nelle lingue romanze in cui infatti si hanno
solamente vocali chiuse e vocali aperte.
In gran parte dell’area italo-romanza ma anche in molte altre zone della Romània il nuovo sistema presenta
7 vocali e pertanto si definisce “eptavocalico”, ed è a tre timbri (anteriore “Ī Ĭ Ē Ĕ”, centrale “Ā Ă”,
posteriore “Ŏ Ō Ŭ Ū”) e a quattro gradi di apertura (alto, “Ī e Ū”; medio-alto, “Ē e Ĭ” e “Ō e Ŭ”; medio-basso,
“Ĕ e Ŏ”; basso, che ha unito la Ā e la Ă, dette per questo motivo “ancipite”):
 Ī => i
 Ĭ e Ē => e
 Ĕ => Ɛ
 Ā e Ă => a
 Ŏ => ᴐ
 Ō e Ŭ => o
 Ū => u
[L’IPA è l’alfabeto fonetico internazionale, dove “ᴐ” indica la “o aperta” ed “Ɛ” indica la “e aperta”. Man
mano che si alza il grado, le labbra tendono a chiudersi sempre più, questa cosa si chiama: “protrusione
delle labbra” o “procheilia”.] Il sistema vocalico “tonico” si chiama così poiché vi è la presenza dell’accento

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e, proprio perché si diffonde in gran parte della Romània, viene definito “romanzo comune” o anche
“panromanzo”. Il sistema atono invece (cioè privo di accento) è un sistema ridotto a 5 vocali, quindi è un
sistema pentavocalico. Vengono infatti eliminate le medio-basse (ovvero la Ɛ e la ᴐ) che convogliano sui
rispettivi esiti medio-alti:
 Ī => i
 Ĭ, Ē e Ĕ => e
 Ā e Ă => a
 Ŏ, Ō e Ŭ => o
 Ū => u
Da accento melodico ad accento intensivo  In latino le parole avevano un accento musicale consistente
nell’innalzamento della voce. La posizione dell’accento era determinata dalla quantità della penultima
sillaba (legge della penultima): se è lunga, la sillaba porta l’accento; se invece è breve, l’accento viene
ritratto sulla terzultima (naturalmente questo principio era valido per le parole di almeno tre sillabe).
Dunque, la posizione accentuale era legata ad alcune leggi, tra le quali la più importante era, appunto, la
legge della penultima.
In genere in italiano l’accento mantiene la stessa posizione che aveva in latino tranne in due casi:
 Ricomposizione verbale  In epoca arcaica nei verbi composti con una preposizione le basi con
penultima breve avevano perso l’accento: TĔNET (tènet) > CÙMTĔNET (cùmtenet). Nel latino volgare invece
i parlanti, riconoscendo la base, fecero slittare nuovamente su questa l’accento: CUMTÈNET (cumtènet >
cumtène).
 Slittamento dell’accento con vocali in iato  Nella fase del latino tardo (dal III secolo d.C.) le parole
che in latino classico presentavano due vocali contigue, di cui la seconda breve, erano regolarmente
accentate sulla terzultima (legge della penultima) (ex. LINTÈŎLU, ARÌĔTE, FILÌŎLU). Nel latino volgare queste
subirono uno slittamento dell’accento sulla seconda vocale, la quale era divenuta più aperta e dunque
attirava l’accento su di sé (ex. LINTEÒLU, ARIÈTE, FILIÒLU).
Le nuove lingue dell’impero  Nelle province dell’impero le lingue create dal contatto tra le varietà
autoctone (L1) e il latino volgare (L2) sono diventate nel tempo delle nuove varietà totalmente autonome e
in molti casi sono giunte fino a noi; vediamone alcune senza però prendere in considerazione i vari dialetti:
la Provincia di Hispania, che è l’odierna penisola iberica presenta castigliano, catalano, portoghese; la
Provincia di Gallia e cioè l’odierna Francia presenta francese, provenzale, franco-provenzale. Proprio per il
fatto che queste lingue si parlavano nella Romània vengono definite “lingue romanze”. Vi è infatti un’iter-
comprensione fra queste lingue data dalla continuità e dalla matrice comune che le unisce. È importante
sottolineare che si tratta di “continuazione” e non di “derivazione”, poiché le lingue romanze (e i dialetti ad
esse collegati) non derivano dal latino ma ne sono, appunto, una continuazione, una evoluzione. Le lingue
romanze vengono dette anche “neolatine” proprio perché sono come dei nuovi latini, delle evoluzioni del
latino volgare contaminate dalla base sostratica. L’italiano, pertanto, non nasce dal latino, ma continua il
latino.
In altre province invece, dopo la caduta dell’Impero Romano, questi latini mescolati con tratti locali sono
stati sostituiti dalle lingue di nuovi conquistatori: Africa  arabi; Britannia e Renania  germani; Pannonia
 magiari; Dacia  slavi. In tutti questi territori quindi la base latina è scomparsa (lasciando pochi relitti) o
si è fortemente attenuata.
Le lingue romanze  La formazione delle lingue romanze va dal IV all’VIII secolo d.C.: gruppo ibero-
romanzo (portoghese, castigliano e catalano); gruppo galloromanzo (francese, provenzale e franco-
provenzale); gruppo italo-romanzo (italiano e dialetti italiani: sardo, ladino o retoromanzo, corso ‘dialetto
della Corsica’ che è un miscuglio fra i dialetti sardi e i dialetti toscani); gruppo balcanoromanzo (dalmatico,
estinto agli inizi del ‘900, quando è morto l’ultimo parlante; rumeno, che però ha subito nel tempo una
quasi totale slavizzazione).
Prendiamo in esempio una stessa base latina e vediamo come si è evoluta nelle diverse lingue romanze:

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 Latino BRACHIU(M) ‘braccio’: spagnolo brazo; portoghese braço; francese bras; provenzale bratz;
italiano braccio; sardo rattu; rumeno braţ.
 Latino CABELLU(M) ‘cavallo’: spagnolo caballo; portoghese cavallo; francese cheval; provenzale caval;
italiano cavallo; sardo caddu; rumeno cal.
 Latino STELLA(M) ‘stella’: spagnolo estrella; portoghese estrella; francese étoile; provenzale estela;
italiano stella; sardo isteddu; rum steà.
 Questo, a contrario dei precedenti, è un esempio di doppia base latina => Latino EDERE ‘mangiare’:
spagnolo comer; portoghese comer. Latino MANDUCARE ‘masticare’: francese manger; provenzale manger;
italiano mangiare; sardo mandicare/mannicare; rumeno a manca.
Lo strumento più importante per la ricostruzione del latino parlato è il confronto tra le varie lingue
romanze; sulla base dei risultati delle parole avute nelle varie lingue romanze si può ricostruire una forma
che non è stata ben documentata  questo processo si chiama “metodo ricostruttivo e comparativo”.
Una volta create, queste lingue romanze, non sono rimaste invariate, ma hanno subito ulteriori
cambiamenti: le invasioni barbariche e quelle musulmane hanno lasciato sul nostro territorio tantissimi
elementi lessicali; in genere si tratta di oggetti o concetti sconosciuti  i germani hanno lasciato parole
come “sapone”, “brache”, “albergo” (quasi tutte le parole terminanti in “erg” sono di origine germana),
“stanga”, “stamberga”; gli arabi hanno invece lasciato parole come “zero”, “algebra”, “algortimo” (quindi
molti termini inerenti all’ambito matematico), “zucchero”, “limone”, “carciofo”, “albicocca”, “alcool”,
“cotone”.
I primi atti di riconoscimento delle lingue romanze
Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, la trasformazione durò secoli e il latino continuò per molto
tempo a mantenere il dominio della cultura e della scrittura. C’è stata tuttavia una fase intermedia, in cui si
parlava un “latino medievale”  in questa fase affidata all’oralità, non furono prodotti documenti. I
documenti antichi che ci sono giunti sono stati scritti successivamente e ritrovati per pura casualità.
La prima lingua di cui abbiamo testimonianze è il francese detto “rusticam romana linguam” o “francisca
lingua”. Nell’813 il Concilio di Tours sancì che nelle omelie i predicatori dovessero adottare la rusticam
romanam linguam, aut thiotiscam. Nell’842 il Giuramento di Strasburgo testimonia l’uso del francese
antico: Nitardo (contemporaneo all’accaduto) nella sua Cronica intitolata Storia dei figli di Ludovico il Pio
dice che Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico (nipoti di Carlo Magno) giurarono l’alleanza contro il fratello
Lotario, rispettivamente l’uno nella lingua dell’esercito dell’altro, affinché i soldati dei due schieramenti
potessero comprendere quanto promesso dal capo avversario. Carlo, re dei francesi, giurò in teutisca lingua
(tedesco antico), mentre Ludovico il Germanico, re dei tedeschi, giurò in francisca lingua (francese antico).
Si trattava naturalmente di un francese diverso dal parigino dell’lle de France che molti secoli dopo divenne
lingua nazionale della Francia.
Prime testimonianze dell’uso dei volgari in area italiana  Il primo gruppo è quello che presenta alcune
testimonianze in cui però il volgare non veniva utilizzato consapevolmente; dunque lo scrivente usava la
forma ma non aveva una chiara percezione di quel che stesse facendo. Queste fonti provengono da zone
diverse: dal Veneto abbiamo l’Indovinello veronese (un’opera che risale ai secoli VIII-IX); da Roma,
l’Iscrizione della catacomba di Commodilla (risalente alla prima metà del IX secolo); dalla Lombardia, il
Glossario di Monza (che risale agli inizi del X secolo).
L’indovinello veronese “Se pareba boues alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen
seminaba” è la prima postilla di un codice liturgico scritto in Spagna e giunto dopo varie peregrinazioni a
Verona. Il testo è composto da due esametri ritmici caudali, simili a quelli usati in epoca longobarda. È
scritto in minuscola corsiva italiana centro-settentrionale ed è stato vergato alla fine dell’VIII o all’inizio del
IX secolo.
La natura enigmistica del testo fu scoperta casualmente da un’allieva del De Bartholomeis che ne rivelò allo
studioso l’affinità con un indovinello presente nella cultura contadina veneta; ma il testo non nacque in
ambienti popolari, come sostenuto dai primi studiosi che pensavano alla più antica canzone del bifolco, un

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topos ripreso più volte nella letteratura popolare, ma in ambienti colti, come testimonia anche la presenza
della coppia metaforica arare/scrivere già presente nella produzione, tra gli altri, di Paolo Diacono. Al
termine di numerose discussioni si è giunti ad un’interpretazione oggi unanimemente accolta:
 SE PAREBA BOVES significa “spingeva avanti a sé i buoi” (cioè le dita); PARERE ‘spingere’ è una forma
lessicale tipica di area veneta. Vi è una mancata applicazione della Tobler-Mussafia (tipica dei testi di area
toscana) ovvero dell’enclisi del pronome all’inizio del verso.
 ALBA PRATALIA ARABA significa “arava prati bianchi” (cioè i fogli); PRATALIA ‘prati’ (questa è una
forma di neutro plurale che veniva utilizzata al posto della forma latina PRATORA, che era quella più
classica) è anch’essa una forma lessicale di area veneta.
 ALBO VERSORIO TENEBA significa “teneva un bianco aratro” (ovvero la penna); VERSORIO ‘aratro’ è
sempre una forma di area veneta perché utilizzare VERSORIO con il significato di aratro è sicuramente
locale, in quanto, nelle altre zone italiane il versorio è soltanto una parte dell’aratro.
 & NEGRO SEMEN SEMINABA significa “e un seme nero seminava” (cioè i caratteri neri scritti con
l’inchiostro).
Il protagonista dell’indovinello che fa tutte queste cose è lo scrittore. Nel testo si trova la commistione tra
elementi latini e volgari (o influenzati dal volgare), questa è una commistione capillare e continua; per
questo motivo gli studiosi hanno utilizzato una definizione: si può dire che questo testo sia stato scritto in
“latino circa romançum”, cioè un tipo di lingua che sicuramente ha ancora molti tratti della latinità, ma che
comunque presenta anche molti tratti volgari. Spie del volgare sono ad esempio: la caduta di consonanti
finali nei verbi (ex. SEMINABA X SEMINABATI); morfemi di genere e numero di tipo volgare (ex. NEGRO X
NIGRUM, ALBO X ALBUM, ecc…; parole ancora esistenti ma poco usate: solitamente si usa dire “nero” non
“negro”, “bianco” non “albo”); lo sviluppo romanzo di Ĭ in “e”; SE X SIBI.
L’Iscrizione della catacomba di Commodilla può esser fatta risalire a un periodo che va tra il VI-VII secolo e
la prima metà del IX secolo ed è di area romana, dunque di area centrale. In questo caso abbiamo un
graffito scritto accanto ad un affresco: “NON DICE REIL LESE CRITA A B BOCE”, ‘non dire a voce alta le
segrete’.
La scritta si trova nella cappella dei Santi Felice e Adautto in
un rettangolo a lato dell’affresco raffigurante la Madonna in
trono con il Bambino e i due martiri, i santi Felice e Adautto
che, come nella vecchia iconografia, fanno da corona alla
vergine. Venne sicuramente scritta da un chierico per i suoi
confratelli con lo scopo di ammonirli a non recitare il canone
della messa (ovvero le ‘cose segrete’) ad alta voce,
probabilmente secondo quanto prescritto dal rito gallicano
diffusosi nella prima età carolingia, il quale prevedeva proprio
che il canone non venisse più pronunciato a voce alta da chi officiava la messa, bensì sottovoce (ancora oggi
alcune parti della messa vengono ufficiate in silenzio).
Dal punto di vista linguistico, l’iscrizione, presenta alcuni tratti di tipo centrale: per esempio l’infinito
DICERE (coincidente con il tipo latino) era diffuso a Roma in modo esclusivo in tutta l’epoca medievale,
invece in altre varietà dialettali di tipo centro-meridionale si ritrovava la forma apocopata DICE; l’occlusiva
velare sorda, presente in SECRITA, tipica del romanesco antico; la spia più evidente è però la segnalazione
di un fenomeno che noi chiamiamo “betacismo” nella sequenza ABBOCE (latino VOCE(M) > bboce), il
betacismo ha due facce, una forte e una debole; in questo caso è presente nel suo aspetto “forte” di
geminazione legata al raddoppiamento fonosintattico, il cui esito è la seconda B che è stata aggiunta in
seguito, più piccola poiché mancava lo spazio, dopo la rilettura a voce alta; a contrario la faccia “debole” del
betacismo è lo sviluppo in /v/, cioè una spirantizzazione, che avviene sia quando abbiamo una /b/ che
quando abbiamo una /v/, questo però avviene in posizione intervocalica, la quale è, appunto, una posizione

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breve poiché l’intervocalicità comporta in genere l’indebolimento dell’elemento consonantico. Questo è
stato il primo caso di betacismo (la prima testimonianza scritta), databile alla prima metà del IX secolo d.C.
26/02/2021
Il Glossario di Monza risale agli inizi del X secolo ed è un glossario (una sorta di vocabolario) romanzo-
romaico (greco bizantino) che è stato scoperto nella Biblioteca Capitolare di Monza dal Bischoff nel 1924. Si
tratta di 65 lemmi (forme lessicali) in cui accanto alla voce romanza/latina viene data la forma greca in
grafia greca. Lo scopo era quello di fornire ai chierici una sorta di vocabolarietto, un aiuto lessicale per
poter viaggiare in Oriente. Il codice in cui è contenuto riguarda degli scritti religiosi (di patristica e relativi a
tutta la procedura del sacramento del battesimo).
Vediamo alcuni esempi delle forme contenute  de capo: κηϕαλІ (che si pronuncia “chefali”); de naso:
ρІναϛ (“plinas”); gamba: πᴏІδα (“poida”); linga: γλωσα (“glossa”).
Per quanto riguarda la provenienza del testo, gli studiosi si sono un po’ divisi perché: Sabatini propende per
un’area centrale tra la Lombardia (Monza) e il Veneto, dunque l’Emilia (per una serie di motivi legati ad
abitudini linguistiche); Contini pensa invece alla Lombardia.
In questa testimonianza possiamo notare numerosissimi fenomeni di tipo settentrionale: ad esempio, la
sonorizzazione delle occlusive intervocaliche  coglari ‘cucchiai’ (il passaggio da ch a gh è un fenomeno
che si chiama “sonorizzazione”; ari è il plurale di arius e vede il suo sviluppo regolare in area settentrionale
e anche in area meridionale con il tipo ari e quindi con il mantenimento della r, mentre noi sappiamo che in
Toscana il nesso r in iod si sviluppa come iod), mandegare ‘mangiare’, flademario ‘medico’ (<
*FLĀTOMARIUS, la t si è trasformata in d), compresa la spirantizzazione lavro ‘labbro’. E poi la
degeminazione nelle occlusive intense in posizione intervocalica: vaca ‘vacca’, saco ‘sacco’, favela ‘favella’.
Quindi, in questa testimonianza sono già evidenti alcuni dei fenomeni che poi saranno considerati
caratteristici dell’Italia settentrionale dal punto di vista dialettologico, tanto che tutte questi fenomeni sono
presenti nel fascio di isoglosse La Spezia-Rimini, che è una specie di fascio immaginario di linee che separa
la zona settentrionale dell’Italia dalla zona centro-meridionale.
Uso consapevole del volgare (2° gruppo)  Mano a mano che si va avanti l’uso del volgare diventò sempre
più consapevole e, a partire dal 960 che è l’atto di nascita della lingua italiana, ovvero l’anno in cui troviamo
attestata la prima testimonianza dell’uso consapevole di una varietà volgare (che non era fiorentino), e
quindi dalla fine del X secolo al XI secolo facciamo partire tutta una serie di testimonianze di testi in cui
invece c’era una maggiore consapevolezza dell’uso del volgare.
I Placiti campani o cassinesi sono tre iudicata e un memoratorium stilati tra il 960 e il 963 nel territorio
dell’Abbazia di Montecassino, precisamente a Capua, Sessa Aurunca e Teano; questi non costituiscono un
testo unico ma sono diversi testi accumunati dalla somiglianza.
 Il placito più antico è quello capuano del marzo 960 (è considerato “l’atto di nascita” della nostra
lingua): si tratta di uno iudicatum (un verbale notarile, scritto su un foglio di pergamena), cioè del giudizio di
un giudice, in cui viene sancito il possesso di alcune terre al Monastero di Montecassino grazie ad una
triplice testimonianza. In quest’atto notarile, un privato, Rodelgrimo di Aquino, rivendica infatti alcuni
possedimenti sostenendo che questi appartengono alla sua famiglia, ma l’Abate di Montecassino, Aligeno,
si reca davanti al giudice Arechisi, insieme a tre confratelli che attestano, in volgare, che quei possedimenti
da trenta anni li coltiva il monastero. Dunque, per il “diritto di usucapione” (legge longobarda) quei
possedimenti vengono assegnati ai benedettini. Si ritiene che questa sia la prima fonte in cui il volgare viene
utilizzato in maniera consapevole perché le tre testimonianze sono formalmente identiche e poi perché
abbiamo il numero 30 che guarda caso è proprio il numero di anni necessario ad avere il diritto di
usucapione. Queste formule vengono scritte appositamente in volgare affinché se qualcuno, anche dopo
anni, si fosse trovato dinanzi a questo iudicatum, lo avrebbe compreso. “SAO KO KELLE TERRE PER KELLE
FINI QUE KI CONTENE TRENTA ANNI LE POSSETTE PARTE SANCTI BENEDICTI”. La specialità di questo
documento consiste nel fatto che, la verbalizzazione sino ad allora era sempre stata fatta in latino, ma in
questo caso, include delle vere e proprie forme testimoniali volgari. La facies della testimonianza è

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totalmente volgare, ci sono però delle concessioni grafiche al latino (come l’uso della K e di CT) che sono
talmente radicate da restare vive fino a tutto il Quattrocento, quindi sono delle caratteristiche grafiche su
cui anche i grammatici del Quattrocento-Cinquecento dovranno ancora confrontarsi con questi relitti
grafici. Latina è anche la formula conclusiva “PARTE SANCTI BENEDICTI” (riprodotta ancora oggi nelle forme
italiane del tipo “Piazza S. Giovanni”). La forma SAO è probabilmente analogica [“forma analogica” vuol dire
che c’è un’altra forma uguale/simile che viene utilizzata con una certa frequenza e che quindi è
ampiamente riconosciuta da parte dei parlanti e che spinge sulla forma diversa per “uniformarla”] sul
congiuntivo di seconda persona *SAS > sai, compresente nell’Italia meridionale con la forma saccio > SAPIO
più regolare in questa zona e forse per questo considerata non adeguata ad un testo notarile. La perdita
dell’appendice labiale del nesso labiovelare secondario, quindi per esempio in KELLE, KI (> ECUM ILLAS),
tipico dell’area campana. Anche il termine FINI ‘confini’ è un termine locale. POSSETTE è un perfetto forte
analogico rifatto sul tipo stette ancora oggi frequente in area campana.
 Iudicatum di Sessa Aurunca (marzo 963):
SESSA – marzo 963 IUDICATUM
SAO CCO KELLE TERRE PER KELLE FINI QUE TEBE MONSTRAI PERGOALDI FORO QUE KI CONTENE ET TRENTA
ANNI LE POSSETTE
Si può notare che il documento è molto simile alla testimonianza che avevano reso i monaci di
Montecassino, la zona è quella, quindi i monasteri erano fra loro collegati. Un aspetto interessante è questo
CCO, il quale riproduce graficamente il raddoppiamento fonosintattico probabilmente analogico (forse dalla
terza persona *SAT visto che la forma SAO non poteva produrre questo fenomeno). In italiano le parole non
possono mai iniziare con una doppia consonante uguale, tuttavia solo dal punto di vista grafico, poiché
oralmente questo fenomeno chiamato “raddoppiamento fonosintattico” si verifica. Proprio per questo
fenomeno, nella lingua italiana si è verificato un interessante sviluppo: alcune parole si sono unite, come ad
esempio “soprattutto” formato da “sopra + tutto”, questo fenomeno si chiama “univerbazione”, cioè
unione di due parole. La formula PERGOALDI FORO ci ricorda ciò che noi abbiamo oggi nei patronimici
(“patronimico” perché ci ricorda il pater familias alla base della discendenza) in -i, cioè i cognomi costituiti
da nomi di persona terminanti in -i (Es. Mattei, Orlandi, Lorenzi, ecc…).
 Memoratorium di Teano (luglio 963)
TEANO luglio 963 – MEMORATORIUM
Il custode del Monastero di S. Maria di Cengia fa memoria di una controversia tra privati svoltasi davanti ad
un giudice che firma il documento: KELLA TERRA PER KELLE FINI QUE BOBE MONSTRAI SANCTE MARIE È ET
TRENTA ANNI LA POSSET PARTE SANCTE MARIE
Possiamo notare che SANCTE MARIE scritto in questo modo da un lato evidenzia la permanenza del
latinismo, dall’altro però presenta una monottongazione (AE > -e), che è chiaramente un fenomeno
volgare. Altro aspetto interessante è il betacismo di BOBE (< VOBĪS), in questo caso sembra essere una
forma iper-estesa poiché non ci si aspetterebbe un betacismo dopo QUE, in quanto quest’ultima non è una
parola che provoca raddoppiamento fonosintattico e quindi che faccia scattare poi la faccia “forte” del
betacismo; ciò potrebbe significare che l’uso di questo fenomeno era talmente tanto alto da tendere a
sovra estenderlo [queste iper-estensioni sono molto frequenti soprattutto nei documenti delle origini, ma
anche fino a tutto il 1300-1400; sono collegata spesso alla resa della dialettalità che noi chiamiamo
“riflessa” (cioè quando si ripropongono dei fenomeni di tipo dialettale ma in maniera imprecisa)]; la -e è
analogica su tebe (< TĬBĬ).
 TEANO ottobre 963 – IUDICATUM
Lo stesso custode questa volta si deve difendere dal conte di Teano che vuole delle terre. Tre testimoni
avallano quanto sostenuto dal Monastero: SAO CCO KELLE TERRE PER KELLE FINI QUE TEBE MONSTRAI
TRENTA ANNI LE POSSETTE PARTE SANCTE MARIE.
La formula di confessione umbra (1037-1080) è contenuta in un codicetto liturgico consistente in un
breviario monastico, un calendario e un sacramentario. Il fascicolo in cui è contenuto è custodito nella

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Biblioteca Vallicelliana di Roma. La formula è inserita tra le formule sacramentali del rito penitenziale dei
monaci del monastero di S. Eutizio vicino Norcia. Il manoscritto è una formula penitenziale che i fedeli
dovevano recitare a voce alta e la sua struttura si può dividere così: il penitente inizia la formula di rito della
confessione in un latino ecclesiastico fortemente contaminato (“Confessu so…”; la “u” del singolare
maschile che si oppone alla “o” di una forma che viene percepita come più neutra è una caratteristica tipica
di area mediana); il penitente chiede perdono riconoscendosi colpevole dei suoi peccati in volgare (con una
lista di “miserere. Accusome…” e una sintassi paratattica); sempre in spiccato volgare è la richiesta di
perdono del penitente (“de istis et his similia si me nde metto en colpa”); il confessore, ancora in volgare,
accetta la confessione del penitente in nome di Dio e dei santi; infine, il confessore pronuncia la formula
d’assoluzione in corretto latino.
“Confesio
Domine, mea culpa III. Confessu so ad mesenior Dominideu et ad matdonna sancta Maria et ad s.
Mychael archangelu et ad s. Iohannes Baptista et ad s. Petru et Paulu et ad omnes sancti et sancte
Dei de omnia mea culpa et de omnia mea peccata ket io feci dalu battismu meu usque in ista hora, in
dictis, in factis, in cogitatione, in locutione, in consensu et opere, in periuria, in omicidia, in aulteria,
in sacrilegia, in gula, in crapula, in commessatione et in turpis lucris. Miserere. Accusome delu corpus
Domini, k’io indignamente lu accepi.
Miserere. Accusome de li mei appatrini et de quelle penitentie k’illi me puseru e nno l’observai.
Miserere. Accusome delu genitore meu et dela genitrice mia et deli proximi mei, ke ce non abbi quella
dilectione ke mesenior Dominideu commandao.
Miserere. Accusome deli mei appatrini sanctuli et delu sanctu baptismu ke promiseru pro me e
noll’observai.
Miserere. Accusome dela decema et dela primitia ed offertione ke no la dei si ccomo far dibbi……”
La Postilla amiatina in Toscana (1087)  Miciarello e sua moglie Gualdrada fanno dono dei loro beni al
Monastero di S. Salvatore sul Monte Amiata, in provincia di Siena. In realtà non si tratta di una donazione
reale, ma di un modo per sanare un debito contratto. Il notaio Reinerio scrive su tre righe una glossa
vergata contestualmente al testo principale ma esterna ad esso che dice: ISTA CARTULA EST DE CAPUT
COCTU ILLE ADIUVET DE ILL REBOTTU QUI MAL CONSILIU LI MISE IN CORPU [ si osserva la presenza delle
-u al posto delle -o finali]. Il testo risente molto dell’influsso grafico latino ma è probabile che la pronuncia
fosse in realtà già volgare. Ci sono due interpretazioni di questo documento: 1. Questa carta è di
Capocotto / Dio (ILLE) l’aiuti dal Maligno (ILL REBOTTU) che gli mise in corpo il mal consiglio (dello
sperpero). 2. Questa carta è di Capocotto / Dio l’aiuti dal vizio (ILL REBOTTU) che gli mise in corpo il mal
consiglio (dello sperpero). Il tratto volgare più evidente è la presenza di -u tipica dell’area mediana (che
ancor oggi distingue -o e -u), ma il testo risente fortemente del latino.
L’iscrizione di S. Clemente (fine secolo XI) è situata nella Basilica inferiore di S. Clemente a Roma, viene
definita ludicamente dagli studiosi “il primo fumetto della storia”.
Presenta una difficoltà di base legata
non all’interpretazione linguistica ma
alla attribuzione delle battute ai
singoli personaggi. L’unica “vignetta”
sicura è quella di S. Clemente,
riconoscibile, oltre che
dall’argomento anche dal codice
utilizzato: DURITIAM CORDIS VESTRIS SAXA TRAERE MERUISTIS. Anche in questo caso il latino è un po’
approssimativo, infatti si hanno DURITIAM al posto dell’ablativo di causa DURITIA, VESTRIS al posto del
genitivo VESTRI, TRAERE al posto di TRAHERE. Più difficile appare invece l’attribuzione delle altre battute.
Appartiene quasi certamente al patrizio romano Sisinnio la frase FILI DE LE PUTE TRAITE. “DE LE” rispetta la
legge Porena con lo scempiamento della preposizione articolata davanti a parola iniziante per consonante.
TRAITE da leggere tràite < TRAGĬTE al posto di TRAHITE presenta l’assorbimento di G da parte della vocale

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omorganica I. Probabilmente Albertel e Gosmari dicono: FALITE DERETO COLO PALO CARVONCELLE mentre
Carboncello rintuzza: ALBERTEL GOSMARI TRAITE.
Le forme antroponimiche sono certamente interessanti perché evidenziano l’attenzione alla situazione
pluriculturale romana all’epoca dell’iscrizione: ALBERTEL è infatti nome di origine germanica, GOSMARI è
nome di origine greca (Cosma) con il suffisso latino -ARIUS forse mediato anche dal germanico -ari e infine
CARVONCELLE è latino (Carbone) con suffisso diminutivo e tratto centro-meridionale (la spirantizzazione di
B > v); interessanti anche le forme PUTE ‘puttane’ da *PUTTUS o PUTUS ‘bambino’ e DERETO con
dissimilazione della R.
01/03/2021
Uso più frequente del volgare (3° gruppo)  A partire più o meno dal XII secolo l’uso del volgare diviene
sempre più frequente. La prima testimonianza consapevole della lingua sono i placiti campani che vanno
dal 960 al 963, man mano che si procede nel corso dei secoli l’uso del volgare diviene sempre più
frequente; il 1100 è un secolo di passaggio che porterà alla fioritura dei volgari nel 1200.
Il conto navale pisano venne scoperto a Philadelphia da Baldelli (che è stato uno degli studiosi più
importanti che hanno formato la disciplina, ovvero la storia della lingua italiana) negli anni Sessanta, per
questo viene chiamato anche Carta pisana di Philadelphia. Risale alla prima metà del XII secolo. È un elenco
di spese navali che sono state sostenute probabilmente dal comune di Pisa per armare delle galee da
guerra; si tratta di 21 righe totalmente vergate in volgare, ma il testo era probabilmente più lungo (perché
la carta pisana di Philadelphia in realtà era servita come sovra copertina di un altro testo, quindi
sicuramente queste poche righe che ci sono giunte erano accompagnate da altre).
“In nomine Domini, amen. A restaiolo lis. Vi. Al marmuto sol…… timone sol. xxv …… aloispornaio sol. xxxx.”
‘Al Restaiolo gli hanno dato questi soldi. Al marmuto hanno dato soldi … soldi xxv … all’ipsornaio soldi
xxxx.’
Analisi  Restaiolo = ‘costruttore di funi’ (< RESTIS ‘fune’) (il suffisso “iolo” è tipico di quest’area, ancora
oggi presente); Marmuto = ‘costruttore di vele’ < marbutto ‘vela da galea’ < Marbut ‘legato’; Ispornaio =
‘costruttore di speroni’, sperone = ‘rostro per nave da guerra’ (che servivano per agganciare la nave nemica,
attirarla a sé e consentire quindi l’assalto alla nave). Tra gli elementi certamente pisani abbiamo la
conservazione di au davanti ad l (come taula ‘tavola’); cigulo ‘piccolo’; e i due antroponimi chiaramente di
area pisana, entrambi con suffisso in -ello, quali: Gualandello e Pisanello.
La Carta osimana (1151)  Il Vescovo di Osimo dona al Vescovo dell’Abbazia di Chiaravalle la chiesa di S.
Maria in Selva. Il volgare è presente sporadicamente in alcuni punti del testo, per il resto il testo è redatto
totalmente in latino.
In nomine sante et individue Trinitatis ab incarnatione Domini nostri Iesu Cristi anni sunt milleimo
C.l.i. et die mense Iulius, per indictione vero x.i.i.i. Ausimo civitatis.
Le forme volgari che ritroviamo in questo testo sono: 1. DA MO NNANTI ‘da ora in avanti’ in cui si ha la
prima testimonianza di MO ‘adesso’ (< MODO) ancora oggi presente nell’Italia centro-meridionale; 2. NU
‘nello’ < (en)nu < en lu ‘in lo’ (c’è un’assimilazione progressiva di n su l, un fenomeno presente nell’Italia
centro-meridionale e non in area toscana, e da un lu > ennu; con la perdita dell’elemento la sillaba di
posizione iniziale abbiamo soltanto NU); 3. QUALEUNGUA ‘qualunque’ (< QUALEM + UMQUAM,
conservazione della -a in posizione finale, tipica dell’area mediana).
Le Testimonianze di Travale (1158) sono date da sei boni homines al giudice Balduino in merito ad alcuni
casolari appartenenti alla corte di Travale vicino Volterra, tra Grosseto e Siena. Si tratta della prima
registrazione scritta di testimonianze rese spontaneamente.
→IO DE PRESI PANE E VINO PER LI MACCIONI A TRAVALE
‘io presi pane e vino per i muratori a Travale’
(maccioni ‘muratori’ < germanico makjon < *MAKON ‘fare’)
→FECIT LA GUAITA A TRAVALE
→GUAITA GUAITA MALE NON MANGIAI MA MEZO PANE […] NON TORNÒ MAI A FAR GUAITA
‘guardia guarda male: non mangiai fuorché mezzo pane … non tornò mai a fare la guardia’
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(guaita < franco *WAHTA ‘sentinella’ < germanico guaita < germanico WARDON ‘guardare’; mangiai <
francese manger; questa è la prima attestazione in italiano).
“… et ab eodem Gkisolfolo audivit quod Malfredus fecit la guaita a Travale. Sero ascendit murum et
dixit: Guaita, guaita male, non mangiai ma mezo pane. Et ob id remissum fuit sibi servitium. Et
amplius non tornò mai a far guaita…”
Il Memoratorio del Monte Capraro (1171) è invece molisano, interno al circuito mediano monastico-
benedettino. In questo testo si trova attestata la forma metafonetica meridionale iurni ‘giorni’ che
testimonia per la prima volta la presenza in Italia del tipo DIURNUM, proveniente dall’area galloromanza
per influsso della letteratura d’Oltralpe contrapposto a DIES. Un tratto tipico del Molise è la palatizzazione
di Si in sci ‘sì’. Quilli / iurni sono forme di metafonesi delle medio-alte (un fenomeno importantissimo
nell’Italia centro-meridionale, perché va a influenzare la vocale tonica facendola innalzare di grado; questa
trasformazione avviene quando in posizione finale vi è o la -i o la -u, quindi o un maschile plurale o un
maschile singolare, o quando si trattava di una -i derivante da -es. Nel momento in cui questi fenomeni
vengono meno, il riconoscimento del valore morfologico sulla vocale tonica diventa fondamentale perché
altrimenti non si sarebbe più in grado di distinguere).
“Frater Ruele prior heremitus Sancti Iohannis de Monte Caprarum......li quali laborasseru pro ipsi
et pro aliis fratribus li quali fusseru in Sancti Iohannis et pro facere orationem quilli iurni li quali
non gisseru a llabore. Qualunqua homo volsesse departire ista ecclesia da Sanctu Iohannes scì
scia excommunicatus.
La Dichiarazione di Paxia (si pronuncia Pasgia) consiste nel dettato dei propri beni fatto dalla vedova
savonese Paxia ad un notaio dopo la morte del marito. Il testo contiene tratti tipici settentrionali quali la
sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche (vergada al posto di “vergata”, encantado al posto di
“incantato”, buada al posto di “buata”; quest’ultima è lo scempiamento di buatta che signfica ‘barattolo’) e
lo scempiamento delle geminate (rota al posto di “rotta”, bruneta al posto di “brunetta”).
Gli incipit sono sempre latineggianti; si tratta di un testo stilato in un contesto alto.
“In nomine Domini. Ei Paxia, uxor Iohonnes, manifesto ante consules per sancti Dei evangelii in bona
fide. Quando ego aduxi viro meo da Ianua costà sol. iiii dr. l. In sepellir viro meo dispexi sol v. minus dr.
i. …… Et ei Paxia habeo de viro meo colcera una et unum oreger et carpite due et unum mantello
d’Araҫa cum une pellis d’agnello.”
‘… quando io l’ho portato via da Genova, per seppellire il mio uomo ho speso cinque soldi meno un
denaro. E da mio marito ho preso una coperta, un cuscino, altre coperte, un mantello di arazzo e una
pelle di agnello’.
La Carta fabrianese (1186) documenta un patto tra il Monastero di S. Vittore, vicino Fabriano, e due privati.
Le parti si accordano sulla spartizione del raccolto di alcune terre. Il testo è vergato in latino ma si trovano
alcuni volgarismi: masi ‘poderi’ < *MANSUM ‘abitazione’; inforzati ‘danari rinforzati nella lega, quindi
nuovi’.
La Carta picena (1193) presenta un’intera frase in volgare in cui il notaio rende ufficiale un patto ufficioso
tra le due parti in base al quale la cessione di un appezzamento di terreno era il risarcimento per un debito
in danaro non sanato:
“……se Plandeo non potese non volese redere li denari xx. Libras la mitade delo prode (‘guadagno’) ke
questa tera si aba Iohanni ad proprietate iss et sua redeta……”.
‘Se Plandeo non può o non vuole ridare i soldi, allora la produzione che si ha su questa terra vada a
Giovanni e anche ai suoi eredi’.
A partire dal 1200 in Italia si ebbe l’affermazione dell’uso scritto dei volgari, tale pratica si consolidò nel
1300 e continuò nel 1400  Le cause della diffusione del volgare furono fondamentalmente tre:
1. La rapida evoluzione sociale che coinvolse i nuovi ceti borghesi  mercanti e banchieri, che erano
illetterati (che cioè non conoscevano il latino), iniziarono a usare il volgare per le loro pratiche scrittorie
(libri di conti, annotazioni);

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2. la crescente partecipazione dei ceti popolari alla vita pubblica dei Comuni, così come la nascita di
confraternite laiche, diedero un immediato impulso all’uso del volgare sia nei documenti pubblici politici
(statuti, ordinamenti, leggi) sia in quelli religiosi (laude, statuti di confraternite);
3. mentre la prassi liturgica restava legata al latino, i predicatori itineranti (come S. Bernardo da Siena,
Giordano da Pisa) sotto la spinta degli ordini mendicanti usavano il volgare per parlare alle folle e farsi
comprendere.
Nel corso del Duecento e del Trecento il latino cedette dunque il passo al volgare sia nell’oralità, sia in
moltissimi generi letterari (letteratura didattica e allegorica) e non letterari (agiografia, epistolografia,
memorialistica, cronachistica, prosa scientifica, scritture esposte come scritte in dipinti e affreschi, epigrafi,
ecc…). Molto interessante è il fatto che si inizi a utilizzare il volgare anche nei generi letterari, poiché questa
cosa costituisce una novità, in quanto la letteratura in Italia nacque dopo rispetto alla Francia e quindi ciò
che si può definire opera letteraria inizia con il cantico delle creature di San Francesco (1225),
contemporaneamente alla poetica siciliana.
I volgari diventarono il simbolo di un’identità, della consapevolezza di un cambiamento culturale e sociale.
Quindi la società cambiò, ci furono una serie di professioni di persone laiche, non istruite in latino, che
progressivamente iniziarono a diventare importanti per la società, diventando dei punti di riferimento e la
società si ristrutturò; si ebbe un cambiamento sociale e culturale di cui l’uso del volgare divenne il simbolo.
Dalla Francia giunse la poesia trobadorica che diede l’input per la scuola poetica siciliana e il dolce stile
borghese. L’uso scritto non sporadico del volgare in Italia a partire dal Duecento evidenzia un ritardo di
circa un secolo rispetto all’area galloromanza.
Non tutti i centri italiani presenteranno in realtà la stessa quantità di produzione o lo stesso periodo di
fioritura: alcuni saranno più attivi, altri meno, alcuni presenteranno testimonianze precoci (nel XII secolo:
Savona, Milano, Belluno, Roma), altri più tardive (nel XIV secolo: Trentino, Ferrara, Urbino, l’Aquila).
Non sempre, inoltre, si tratterà di un volgare puro a causa della copiatura dei manoscritti o dell’intervento
di trascrittori locali, che da un lato hanno consentito la trasmissione di queste fonti, dall’altro hanno
manipolato questi testi, modificandoli. Tra i casi riconosciuti di manipolazione delle varietà volgari in fonti
scritte si possono ricordare: per la poesia siciliana, la toscanizzata operata dai copisti toscani; per uno dei
codici più antichi della Commedia, l’Urbinate 366, la settentrionalizzazione attraverso tratti emiliano-
romagnoli; per le prediche dei padri predicatori, la trascrizione delle omelie (che venivano fatte oralmente)
ad opera di trascrittori locali.
Tra il Trecento e il Quattrocento l’uso del volgare (anche se accanto al latino) si impose anche nella scrittura
amministrativo-politica di grandi Repubbliche come quella di Venezia e di Genova così come nelle corti
delle Signorie settentrionali (Montefeltro a Urbino dal 1378, Gonzaga a Mantova da 1401, Sforza a Milano
dal 1438, Este a Ferrara dal 1445). Si trattava di un volgare non locale bensì areale, una coinè di tipo
settentrionale che si appoggiava al latino umanistico che serviva proprio alla comunicazione fra queste
realtà. Dal punto di vista grafico erano presenti ad esempio i nessi ct, ps, k, x, ph, th, ecc… Sarà proprio
questa coinè cortigiana ad essere proposta nel Cinquecento da Giangiorgio Trìssino come modello letterario
in seno alla Questione della Lingua del Cinquecento.
Nel Sud l’uso del volgare in atti amministrativo-politici è documentato piuttosto precocemente: a Napoli
(corte angioina) fin dal 1356; con gli aragonesi (1442) si passa invece ad una varietà ancora marcata a livello
diatopico, ma molto più aperta a latinismi e all’influsso toscano. Spicca tra le varie regioni la posizione della
Sardegna che usa il volgare (senza affiancarlo al latino) nei documenti giuridici di cancelleria fin dall’XI
secolo.
Nel 1200 i Ritmi storici e giullareschi e la Poesia didattica e religiosa sono i tipi testuali in cui il volgare
compare con più frequenza. Nonostante la presenza di testi quasi ritmici anche tra i documenti anteriori
(come l’Indovinello veronese, la Postilla amiatina e almeno una delle Testimonianze di Travale) fu solo a
ridosso del 1200 che si ebbero dei veri ritmi che riproponevano la versificazione medievale.

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Gli autori dei ritmi duecenteschi erano in genere anonimi e si dividevano in due grandi tipologie: gli
storiografi e i giullari.
I ritmi storici erano naturalmente scritti dagli storiografi ed erano solitamente composti per ricordare e
lodare una vittoria. Il più antico di questi è il Ritmo bellunese (1193-1196) in cui si canta la vittoria dei
cavalieri di Belluno e Feltre su quelli di Treviso.
DE CASTEL D’ARD AV LI NOST BONA PART ‘Di Castel D’Ardo ebbero i nostri buona parte
(vittoria)’
I LO GETÀ TUT INTRO LO FLUM D’ARD ‘Essi li gettarono tutti nel fiume D’Ardo’
SEX CAVALER DE TARVIS LI PLUI FER ‘Sei cavalieri di Treviso i più forti’
CON SÉ DUSÈ LI NOSTRE CAVALER ‘Con sé portarono i nostri cavalieri (li fecero
prigionieri)’
Gli elementi di tipo linguistico che possiamo evidenziare in questo ritmo sono: av ‘ebbero’ < *HABIT <
HABUIT: uso della terza persona singolare anche con valore di terza persona plurale, fenomeno tipico di
alcune zone quali la Lombardia, il Veneto e la Romagna; i ‘essi’ < (IL)LI: le due forme li e i si alternano (la
forma ILLI con l’aferesi di IL rimane LI e possiamo avere sia li che i); in questa zona tra l’altro vi è l’apocope,
cioè la caduta della vocale in posizione finale (castel, cavaler, ecc…); de è tipico di area toscana; plui
presenta la vocalizzazione della -s in -i; intro ‘dentro’, la i è un latinismo; dusé ‘condussero’ < DUXIT uso
della terza persona singolare con valore plurale.
I ritmi giullareschi sono invece scritti da giullari che avevano contatti con il mondo ecclesiastico e con i
potenti (il mondo politico) e chiedevano loro beni materiali o favori. Il più antico è il Ritmo cassinese in cui
un monaco -giullare racconta la disputa tra vita ascetica e vita terrena occidentale:
Eo senjuri, s’eo fabello, Io Signori, se io parlo
lo bostro audire compello il vostro ascolto sollecito
de questa bita interpello di questa vita avanzo riserve
e dell’altra bene spello. e dell’altra bene parlo
Poi ke ‘nn altu me ‘ncastello, Poiché mi sono arroccato in alto
ad altri bia renubello agli altri la via retta mostro
en mebe ‘ncendo flagello. e in me accendo la fiaccola
Et arde la candela, sebe libera, E arde la candela, si consuma,
et altri mustra bia delibera… e agli altri mostra la via libera…
Il Ritmo su sant’Alessio ripropone invece l’ideale della vita ascetica orientale; mentre nel Ritmo laurenziano
un giullare (forse di Volterra) tesse le lodi del vescovo Grimaldesco di Jesi nella speranza di ottenere da lui
un cavallo: SALVA LO VESCOVO SENATO LO MELLIOR C’UMQUE SIA NATO.
La poesia didattica  Un’altra tipologia di letteratura in cui le forme volgari sono piuttosto presenti
riguarda la poesia didattica. In area settentrionale abbiamo: i proverbi de femine, lombardi, altamente
misogini; il contrasto di Rambaut de Vaqueiras (1186), in cui la ragazza parla in genovese letterario (una
sorta di letteratura riflessa ante litteram) con il cantore provenzale; e il Discordo, sempre di Rambaut, in cui
si mescolano cinque idiomi tra cui il “lombardo” (cioè l’italiano) nella seconda strofa.
Contrasto di rambaut de vaqueiras (1186) ↓
Giullare:
(strofa I) Domna, tant vos al preiada / Si vus plaz, q’amar me voillaz / Q’eu sui vostr’ endomenjaz / Car
es pros et enseignada / E toz bos prez autreiaz: / Per que m plai vostr’amistaz. / Car es ne toz faiz
cortesa, / S’es mos cors en vos fermaz / Plus q’en nulla genoesa; / Per q’er merces, si m’amaz; / E pois
serai meilz pagaz / Qe s’era mia ill ciutaz, / Ah l’aver, q’es ajostaz, Dels Genoes
“Donna, tanto vi ho pregata / se vi piace, che mi vogliate amare; / che io son vassallo vostro / perché
siete valente e istruita / e riconoscete ogni buon pregio: / per ciò mi piace la vostra amicizia. / poiché
siete in ogni atto cortese, / il mio cuore s’è fermato in voi / più che in nessun’altra genovese. / Gran
mercede sarà se m’amate, / e poi sarò meglio compensato / che se la città fosse mia / con tutta la roba
ammassata là dentro dai genovesi.”
(II strofa) Donzella Genovese:
Jular, voi no se’ corteso, / Que me chaidejai de zo, / Qe niente no farò. / Ance fossi voi apeso /
Vostr’amia no serò. / Certo, ja ve scanerò, / Proenzai malaurao! Tal enojo ve dirò: Sozo, mozo,
escalvao! / Ni za voi no amerò, / Q’e’ chu bello mari ò, / Qe voi no se’, ben lo so. / Andai via, frar’, en
tempo millorado
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“Giullare, voi non siete cortese / nel chiedermi questo; / io non ne farò niente; / anche se voi foste
impiccato vostra amica non sarò. / certamente io vi scannerò, / provenzale sciagurato! / Sentite le
parole noiose che vi dirò: sozzo, sciocco, testa rapata. / Io non vi amerò mai; / che io ho un marito più
bello / che non siete voi / ben lo so. / Andate via, fratello, aspettate un’occasione migliore.”
La poesia religiosa  Con la poesia religiosa ci si sposta più a sud, nell’area mediana, e si ha il Lamento di
Maria, il quale chiude un dramma liturgico latino sulla Passione di Cristo (area mediana – aquilano):
TE PORTAI NILLU MEO VENTRE
QUANDO TE BEIO MORO PRESENTE
NILLU TEU REGNU AGIME A MENTE
In questo testo è possibile notare questi fenomeni: Te = mancata chiusura in protonia sintattica; Nillu ‘nel’ <
IN ILLUM = metafonesi delle medio-alte; mantenimento di -u dell’Italia meridionale ma anche mediana;
Meo/teu = mancata chiusura in iato e mancato dittongo toscano; Beio ‘vedo’ < *VEDJO = betacismo; DJ > j;
Moro ‘muoio’ < MOREO = esito di RJ > r; Regnu ‘regno’ = mantenimento -u; Agime ‘abbimi’ = BJ > gg
(HABEO > aggio).
Se si vanno a controllare le attestazioni dell’uso del volgare in Italia tra 1200 e 1400, si nota uno sviluppo
diverso, a seconda delle zone, a seconda delle città, sia dal punto di vista del momento storico (in cui c’è
l’attestazione), sia dal punto di vista della tipologia dell’attestazione.
In area Mediana si hanno i Fioretti di S. Francesco, scritti in volgare umbro nel 1225, considerati l’atto di
nascita della poesia italiana; che sono abbinati più o meno allo stesso periodo storico della scuola poetica
siciliana e infatti, dal punto di vista cronologico, contestualmente si sviluppa la scuola poetica siciliana.
Storia del volgare in Sicilia  La prima scuola poetica italiana si sviluppa, quindi, contestualmente alla
scrittura dei Fioretti umbri francescani (1225), a partire dal 1220 fino al 1250 circa. I poeti sono dignitari
della corte di Federico, provengono dunque da zone diverse e possiedono anche volgari diversi. Scrivono
pertanto in un volgare illustre siciliano, una lingua dichiaratamente letteraria, non appartenente a nessun
centro dell’isola, e nobilitata dal provenzale; una lingua che nasce con un chiaro progetto letterario e che
per tale ragione viene anche ripulita da alcuni tratti.
I copisti toscani toscanizzarono però la facies linguistica delle rime fin dall’inizio della loro circolazione, e
pertanto fino al Settecento le poesie furono conosciute non nella loro veste originale bensì in quella
toscanizzata. La sede in cui è più evidente l’origine siciliana è la rima poiché vi è conservato lo stesso tipo di
vocalismo che è ancora oggi vigente nei dialetti siciliani. Anche se in una veste edulcorata e toscaneggiante,
la lingua della scuola poetica siciliana resta comunque uno dei modelli (assieme al petrarchismo) della
lingua della poesia nel nostro Paese fino a tempi recentissimi.
Alcune caratteristiche della lingua poetica italiana derivate dalla poesia siciliana sono: l’assenza del dittongo
toscano (ex. core, novo, leto); il vocalismo tonico siciliano (ex. nui); il condizionale in -ìa (ex. cantaria); le
forme marcate localmente (aggio ‘ho’). Quindi i tratti meridionali estremi presenti nelle poesie sono: il
vocalismo tonico siciliano; l’affricazione dopo /n/, /l/, e /r/; RJ > /r/ (rj che diviene r).
Si prenda in esempio un lamento di parte siciliana (1350-1360):
O Fortuna fallenti, pirkì non si’ tuta una?
Affachiti luchenti, et poi ti mustri bruna;
non riporti a la genti sicundo lor pirsuna,
ma mittili in frangenti pir tua falza curuna.
A ti mindi ritornu, oy mostru Criatfuri!
Quando mi isguardu intornu, tramutu li culuri
Kì notti mi par iornu, tanti fai fatti duri!
Fidi et spiranza morinu pir li toi gesti scuri
Questo testo si identifica nella richiesta di comprendere il perché delle cose brutte che accadono agli
uomini.
I primi testi in volgare palermitano sono quelli del Regnum Siciliae che risalgono al 1320, ma a partire da
quell’anno si trovano anche traduzioni in prosa volgare siciliana di opere religiose (come il San Gregorio di
Giovanni Campoli) o laiche (come il Libru di Valeriu Maximu di Accursio da Cremona). Durante il Trecento
nelle cancellerie di Palermo, Messina e Catania i testi pubblici di norma si scrivevano invece ancora in
latino.
02-03-2021

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Storia del volgare tra Sicilia e Toscana  Successivamente si sviluppò la scuola siculo-toscana la cui lingua
era simile alle copie toscaneggianti delle rime della scuola federiciana.
Storia del volgare nel settentrione: Bologna
Il dolce stile bolognese  La precoce circolazione della poesia siculo-toscana nella scuola letteraria
bolognese è testimoniata fin dal 1286 (grazie ai Memoriali bolognesi). La lirica bolognese si fondava su una
lingua ibrida in cui convivevano tratti locali bolognesi, elementi letterari, sicilianismi e toscanismi. Sempre a
partire dal 1200 è attestata a Bologna una produzione locale di testi di vario genere: Lauda dei servi di
Maria; Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei; poesie giullaresche (nei Memoriali Bolognesi); Vita di San
Petronio; Cronache. L’Università di Bologna era il centro più importante d’Italia per la cultura giuridica in
latino, proprio qui nacque anche la prima difesa pubblica del volgare: Guido Faba, in un trattato in latino ( la
Gemma purpurea, 1239-1248), inserì 15 formule in volgare modellate secondo le regole dell’epistolografia
latina; nel 1243 nei suoi Parlamenta et epistole presentò dei modelli di eloquenza anche in volgare oltre che
in latino. Ci troviamo quindi non solo nella difesa del volgare ma in una fase di consapevolezza dell’uso del
volgare, data della necessità di affiancare all’uso della lingua latina anche il volgare.
Milano  Anche qui fra gli inizi del 1200 e il 1300 si svilupparono tutta una serie di fenomeni che ancora
oggi si trovano in Lombardia ma in generale nell’Italia settentrionale. Possiamo notarne alcuni nel
Bonvensin de la Riva - De quinquaginta curialitatibus ad mensam (fine 1200-inizi 1300):
La cortesia segonda: se tu sporzi aqua a l(e) man,
Adornament(e) la sporze, guarda non sii vilan (non fare il villano).
Assai ghe’n sporz(e), no tropo, quand e lo temp(o)
dra stae; d’inverno, per lo fregio (“freddo”), im pic(e)na quantitae (in piccola quantità).
La terza cortesia si è: non sii tropo presto (non sederti a tavola troppo presto se nessuno ti ha detto
di farlo)
de corr(e) senza parolla per assetar al desco;
s’alcun t’invidha a noz(e), anze ke tu sii assetao, (prima che tu ti sia seduto)
per ti no prend(e) quel asio dond tu fiz(i) descaҫao. (non ti prendere quell’agio di mangiare perché
potresti esser cacciato)
Analisi  segonda al posto di “seconda”; sporzi al posto di “sporgi” (notiamo una progressiva assimilazione,
cioè il passaggio dall’affricata prepalatale /g/ all’affricata alveolare /z/, fenomeno che porterà poi alla /s/);
man al posto di “mani” (apocope); vilan (apocope e scempiamento della consonante in posizione
intervocalica  altro fenomeno tipico di area settentrionale e cioè la “degeminazione delle consonanti
doppie”); dra sta per ‘della’ (vi è una sincope, uno scempiamento della > dela > dla che si trasforma in dra;
questo è un altro fenomeno tipico che si chiama “rotacismo ambrosiano”, cioè il passaggio dalla /l/ a /r/);
stae (aferesi in posizione iniziale per cui cade la /e/ e sincope per cui cade la /t/); invidha (lenizione della
/d/ in posizione intervocalica; la /d/ tende a spirantizzarsi, diventa una fricativa e per segnalare questo
indebolimento viene messa l’h).
Venezia  L’uso del volgare a Venezia, solo sporadico nella prima metà del Duecento, si infittisce nel corso
del secolo, anche se ad esso si affianca fin da subito il modello toscano. La prima testimonianza, in realtà
piuttosto ibrida linguisticamente, sono i volgarizzamenti presenti nei Proverbia quae dicuntur super natura
feminarum (anche questi abbastanza misogini). Piuttosto tardo è l’uso del veneziano in cancelleria (intorno
al Quattrocento) dove, tra l’altro, il latino prevale fino al Cinquecento.
Tristano Veneto (Anonimo, inizi 1300)
Or dise l’auctor che tanto demorà lo re Apollo ala corte delo re Claudex che lo fio delo re Claudex, lo qual
era troppo prodromo dela soa persona et era stado fato novel chavalier, se inamorà tanto con la donna
delo re Appolo che infra sì ello diseva ch’elo voleva megio murir, se morte li convegniva, qua ello non fesse
la voluntadhe del so desiderio; et ciò elo se ‘maginà et sì se messe in cuor de tignir tal muodo ch’elo possa
far la soa volontade con la donna secretamente, conciosiachè altramentre non lo podeva far, inperciò che
s’ello avesse vogiudho parlar ala donna, ello dubitava qu’ella non li fese onta e vilania.
In questo testo sono presenti molti dei fenomeni già visti inerentemente alla zona settentrionale ma è
molto più conservato il vocalismo di posizione finale; quindi, un tipo di varietà volgare che, per quanto
aperto al tipo settentrionale, presenta comunque delle caratteristiche più di tipo toscano.
Tra i tratti settentrionali presenti nei testi del Nord-Italia più generalmente si ha: la degeminazione delle
consonanti intense; la sonorizzazione; la lenizione; l’assibilazione (fenomeno che progressivamente ci porta
dalle occlusive prepalatali attraverso le affricate alveolari; quindi la /c/ e la /g/, attraverso la /f/ e la /z/,
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possono arrivare fino alla /s/); l’apocope (la caduta delle vocali atone in posizione finale  tuttavia la
caduta delle vocali atone si può avere anche in posizione interna e quindi la chiameremo “sincope”, che in
posizione iniziale e quindi “aferesi”).
Storia del volgare nel centro: Roma  Come già visto, le prime attestazioni del volgare a Roma sono molto
antiche, sì pensi al Graffito della Catacomba di Commodilla (prima metà IX secolo) e/o all’iscrizione di San
Clemente (fine XI secolo). A queste precoci attestazioni però seguì un lungo periodo di silenzio. I testi in
volgare prodotti a Roma tra il Duecento e il Trecento sono generalmente volgarizzamenti: storie de Troja et
de Roma (XIII secolo); Miracole de Roma (XIII secolo); Cronica di Anonimo Romano (XIV secolo)
(quest’ultima ci racconta la vita di Cola di Rienzo). Nel Quattrocento la produzione in volgare romanesco
aumentò in tutti gli ambiti; i testi più popolari presentano dei tratti che rappresentano una varietà un po’
diversa rispetto a quella odierna, perché prima del Sacco di Roma, cioè prima del 1527, Roma possedeva
una varietà di volgare di tipo più centro-meridionale; con il ripopolamento della città dalle campagne e
dalla Toscana, a seguito del Sacco di Roma e della pestilenza, si passò a una varietà un po’ più
toscaneggiante, grazie anche alla presenza di padri medicei a Roma (che si portavano dietro tutto il loro
entourage): questa fase si chiama “toscanizzazione” (Toskanizierung); tanto che oggi dal punto di vista
linguistico si parla dell’asse Roma-Firenze. Dunque, nel corso del Quattrocento la politica culturale
pontificia orientata verso la politica italiana spinse verso una lingua ufficiale scritta di tipo toscaneggiante.
Nel Cinquecento il modello toscaneggiante proposto dalla Corte pontificia e la massiccia emigrazione dalla
Toscana (ripopolamento della città e seguito del sacco di Roma del 1527 e della pestilenza) portò alla
toscanizzazione della parlata anche del ceto medio-basso (Toskanizierung).
I tratti mediani-meridionali presenti nella fascia che va dal 1200 al 1400 circa sono: la sonorizzazione
(fenomeno che quindi non riguarda solo il nord); la lenizione (fenomeno di indebolimento: se le sorde
diventano sonore, le sonore diventano lenite); il betacismo; l’assordimento (il contrario della
sonorizzazione); l’assimilazione consonantica di tipo progressivo (quindi nd > nn, mb > mm, ld > ll; mentre
in Toscana è di tipo regressivo); l’affricazione in posizione post-nasale (Ex. penzo al posto di penso); la
metafonesi (in genere si ha sia la metafonesi delle medio-alte che delle medio-basse; in quest’area la
metafonesi delle medio-basse riguarda gli esiti di Ӗ e Ŏ latine, quando c’erano appunto in posizione finale
una /i/ e una /u/; mentre per gli esiti delle medio-alte teniamo in considerazione quelle basi che in latino
avevano rispettivamente Ĭ ed Ē per quanto concerne l’anteriore e Ŭ e Ō per quanto riguarda la posteriore);
il mantenimento delle medie protoniche (“de” e non “di”).
Cronica di Anonimo Romano (prima metà del 1300)
Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome
Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare… […] Era bello omo e in soa vocca sempre riso
appareva in qualche muodo fantastico. Questo fu notaro. Accadde che un sio frate fu occiso e non fu
fatta vennetta de sia morte. Non lo potéo aiutare. Penzao longamano vennicare lo sangue de sio frate.
Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata.
Analisi  Cola è la forma aferetica di Nicola; de e non “di” perché non c’è la chiusura in protonia; Rienzi
presenta una dittongazione metafonetica (che scatta con Ӗ ed Ŏ, che diventano rispettivamente ie e uo);
vasso per basso (spirantizzazione della /b/ in posizione intervocalica, quindi la faccia debole del betacismo);
lo patre/la matre (alcuni pensano che si tratti di una forma di assordimento, altri sostengono che sia la
continuazione diretta dal latino senza passare attraverso la sonorizzazione di tipo toscano); tavernaro e non
tavernaio (perché qui c’è l’esito di RJ (r iod) poiché la base con suffisso in - arius diviene -aro, mentre in
toscana diventa -aio); Matalena (assordimento); soa al posto di “sua” (questo è un fenomeno regolare
poiché la base era SUAM, c’era una Ŭ quindi regolarmente questo diventava una O chiusa; in fiorentino
invece, quando la vocale tonica si trova in iato, cioè è seguita da un’altra vocale che fa sillaba a sé, questa si
chiude e diventa sua); notaro al posto di notaio (stesso sviluppo di RJ); sio al posto di suo (qui è analogico su
mio); occiso (non vi è la chiusura di o in u); vennetta/vennicare (assimilazione progressiva); penzao
(affricazione della sibilante in posizione post-nasale); bisogna notare che per l’articolo singolare maschile
troviamo tutte forme forti (ex. lo patre, lo sangue, …) perché in quel momento storico la forma forte era più
comune e la forma debole (cioè “il”) non era ancora molto sviluppata; citate (< CIVITATEM, caduta di -vi- in
posizione interna e della -m in posizione finale; tuttavia noi in italiano abbiamo “città”, questo perché
quando si hanno due sillabe molto simili fra loro c’è un fenomeno in fiorentino, che poi è passato
all’italiano, per cui la seconda sillaba viene eliminata, questo fenomeno si chiamo “aplologia”).
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Storia del volgare in Toscana: Il ruolo della Toscana nel Duecento-Trecento  Fra Duecento e Trecento ci
fu un forte sviluppo economico dovuto all’aumento del commercio (di lana, seta, pellame), alla presenza di
molte compagnie di mercanti che comportava una maggiore circolazione di merci e danaro;
progressivamente quell’area diventò importante perché se un’area diveniva importante dal punto di vista
economico è chiaro che automaticamente iniziasse ad avere un’attrattiva ed anche un certo potere.
Si sviluppò poi socialmente una catena, una struttura presentante un numero molto alto di mercanti e
commercianti che lavoravano a favore di una migliore situazione economica e, dall’altra parte, i contadi,
quindi le campagne, si spopolarono a favore dell’inurbazione, i contadini erano dunque più propensi a
lasciare le campagne e a muoversi verso i centri urbani. Questo comportò progressivamente un’altissima
concentrazione urbana (se teniamo conto che si trattava di una piccola area – la metà rispetto a quella
attuale – ma formata da tante città, di cui molte importanti come Pisa, Lucca, Prato, Arezzo, Pistoia e poi
Firenze che inizialmente però non aveva il ruolo di punta di diamante della regione  quindi l’area più
urbanizzata d’Europa tra fine ‘200 e inizi ‘400 era proprio questa).
Lo sviluppo dell’uso della scrittura per motivi di lavoro fece sì che in Toscana questa tradizione volgare
trovasse la sua espressione maggiore (sviluppo della corsiva mercantesca di tradizione volgare che trova la
sua forma canonica nella Toscana del Trecento e poi si diffonde) e in questo contesto si vennero a creare
dei nuovi tipi di scuole finalizzate non all’insegnamento del latino (che non serviva) ma alle capacità
pratiche, utili ai mercanti come ad esempio la scuola d’abaco. Quindi, la borghesia fiorentina diventò
fiorente dal punto di vista economico e alfabetizzata e aumentò la produzione di testi pratici: i libri d’abaco;
le pratiche della mercatura; i libri di conti; i registri; le epistole di scambio; i libri di famiglia (o di
ricordanze).
Diffusione del modello fiorentino  Fino agli inizi del Duecento le città più importanti erano Pisa e Lucca;
dalla metà del Duecento si assiste invece alla veloce ascesa di Firenze. Nel 1252 venne coniato il Fiorino
d’Oro che sostituì ben presto le altre monete in circolazione in Toscana e divenne uno dei più pregiati mezzi
di scambio della finanza internazionale. Con il 1284 e la sconfitta dei Pisani da parte dei Genovesi Firenze
diventò la città più importante della Toscana. Il Trecento segna l’unificazione delle città della Toscana sotto
l’egemonia fiorentina. Pisa venne annessa però solo nel 1406, mentre Siena resistette fino al 1555. Ma
l’egemonia di Firenze su tutto il resto del territorio era altissima, legata anche alla potente famiglia De
Medici e al potere economico e politico.
In epoca medievale il fiorentino era un volgare considerato alla stregua degli altri volgari. Fu grazie alle
opere in volgare fiorentino scritte da Dante che, già alla fine del Duecento, a Bologna (con la scuola del
Dolce Stile) si iniziò a diffondere come lingua di un modello letterario.
Dante e le motivazioni dell’uso del volgare  Dante avrebbe potuto utilizzare tranquillamente il latino,
poiché comunque lo conosceva abbastanza bene, però accanto al latino decise di usare comunque il
volgare, adducendo le sue motivazioni. Per esempio, per la Vita Nuova (i commenti alle poesie d’amore)
egli disse che poiché le poesie d’amore erano destinate alle donne e le donne non conoscevano il latino, era
chiaro che se avesse usato una varietà da loro non conosciuta, queste non avrebbero potuto fluire di quei
testi, non avrebbero potuto mai godere di quel che lui scriveva. Per quanto concerne il Convivio (un
commento a canzoni dottrinarie, di ambito filosofico) le motivazioni addotte da Dante furono: 1. la
coerenza linguistica, poiché se le poesie erano state scritte in volgare anche il commento doveva esser fatto
in volgare; 2. la volontà di divulgazione, cioè la voglia di far leggere i propri scritti sia ai litterati che agli
illitterati (cioè ignari del latino); 3. il naturale amore per la propria loquela (e in questo caso entrò in
polemica contro Brunetto Latini che per il Tresor aveva scelto il volgare francese.
Il volgare viene definito il “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino, poiché non tutti erano in
grado di comprendere la lingua dei classici, specialmente le donne a cui le poesie d’amore erano dedicate. Il
latino restava comunque una lingua superiore perché era una lingua d’arte e non reale (Dante pensava
infatti che fosse una lingua inventata dai letterati).
Nel De vulgari eloquentia (1304-1305) Dante passa in rassegna delle diverse varietà italiane allo scopo di
trovare il volgare ideale (decentiorem atque illustrem Ytalie […] loquelam, I, XI, 1), che a suo parere
dovrebbe essere: illustre, cardinale, curiale e aulico. L’opera è scritta in latino ma parla del volgare e Dante
vi sostiene la superiorità del volgare in quanto lingua naturale in opposizione all’artificiosità del latino. In
quest’opera l’autore individua 12 aree linguistiche, corrispondenti a numerose varietà municipali, nessuna

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delle quali però reputata degna di assumere il titolo di volgare illustre. Dante però porta in palmo di mano,
tanto da definirle volgari, 2 varietà: il siciliano letterario e il bolognese letterario, elevatisi a dignità
letteraria all’interno del circolo della Scuola poetica siciliana di Federico II e della Scuola del Dolce Stile di
Bologna, grazie all’innalzamento della lingua locale compiuto tramite la cancellazione dei tratti più marcati
(va però ricordato che Dante leggeva i siciliani attraverso il filtro dei copisti toscani e non nella loro facies
originale). Mentre le corrispondenti varietà locali non usate dai poeti venivano considerate sempre idiomi
municipali.
Nella lettera di dedica del Paradiso a Cangrande della Scala Dante usò per due volte il termine comedia;
l’aggettivo comico in quanto comprensivo di tutti gli stili (pluritismo) equivaleva per lui ad un volgare
opposto al latino.
Diffusione del modello fiorentino  Nel Trecento la grande fama di cui godevano gli scritti delle Tre
Corone tra i contemporanei fece sì che ci fosse una loro buona circolazione tra i ceti cittadini alti. Nobiltà e
alta borghesia migliorarono la loro cultura. Il Decameron diventò il libro per iniziare alla lettura i mercanti;
essi frequentavano anche scuole di base per imparare a scrivere e a far di conto. Anche a Venezia (e nelle
altre città del Veneto) e a Milano cominciò a diffondersi come modello di riferimento letterario il toscano.
Nello stesso secolo anche altre città del Centro e del Sud adottarono lo stesso modello.
I volgari toscani in epoca medievale: fiorentino; tipo occidentale (pisano e lucchese); tipo orientale (aretino
ma anche cortonese e borghese – varietà di Borgo S. Sepolcro); Senese. Tale classificazione si rileva anche
nella descrizione della Toscana che fa Dante nel De vulgari eloquentia (assai simile anche alla situazione
contemporanea).
Alcuni tratti del fiorentino trecentesco:
1. Futuro di essere con inversione della tendenza AR > er: serò sarò;
2. Ogne  ogni;
3. Riduzione del dittongo toscano per alcune forme come iera  era e ierano  erano;
4. Desinenza in -iamo del congiuntivo per la prima persona plurale dell’indicativo presente (quindi al
posto di avere “cantamo” si ha “cantiamo”, al posto di “dormimo”, “dormiamo”);
5. Sincope vicino a /r/ nel futuro e nel condizionale: averò  avrò, averei > avrei; questa però non
avviene con sistematicità con la /p/ e la /f/ (ex. comperare, opera, vespero, sofferire);
6. AMAS > ame > ami si sviluppa analogicamente sulla base delle altre coniugazioni in -ES/-IS > i;
7. Generalizzazione della preposizione articolata con doppia ll: prima solo davanti a vocale tonica (ex.
dall’albero, dell’oro vs dela casa, del’amico) ora anche della casa, dell’amico.
06-03-2021
8. Il dittongo toscano è ancora presente anche vicino alla /r/ (per cui priego, truovo);
9. Non c’è chiusura di e tonica in iato nelle forme del congiuntivo presente di DARE (dea ‘dia’) e STARE
(stea ‘stia’);
10. Non è ancora presente sistematicamente il passaggio di e protonica ad i (ex. serocchia, Melano,
melanese, pregione, nepote)  che è lo stesso fenomeno che ci porterà poi da “de” a “di”;
11. Apertura di EN > an (ex. danari, sanatore, sanese, sanza);
12. In parole dotte la pronuncia di z < TJ pare non fosse ancora geminata (ex. grazia, vizio)  il suono di
/z/, in questi casi, non era né scritto né pronunciato come se fosse doppio, a differenza dell’italiano che
invece pronuncia il suono come se ci fosse una doppia /z/, ma lo scrive come se non ci fosse;
13. Applicazione della Tobler-Mussafia.
Alcuni tratti pisani e lucchesi (area toscana occidentale):
1. Mancata dittongazione toscana con consonante + /r/ (prego, trovo);
2. Conservazione di au primario o derivante dalla velarizzazione di I (Paulo, paraula ‘parola’, taula
‘tavola’);
3. Chiusura di e tonica in iato nelle forme del congiuntivo presente di DARE (dea > ‘dia’) e STARE (stea
>‘stia’);
4. Conservazione di AR > ar (quindi ad esempio si diceva margarita e non margherita), tranne nel futuro e
nel condizionale della prima coniugazione;
5. Conservazione di EN > en (denari, senatore, senese);
6. -evile < -IBILEM senza labializzazione (in fiorentino invece avremo -evole);

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7. Sonorizzazione delle consonanti occlusive in posizione intervocalica molto estesa (oga, pogo, segondo,
privado);
8. Tendenza al rotacismo (corpa al posto di ‘colpa’, carculare anziché ‘calcolare’);
9. Esigo ng < NG (piangere, tingere);
10. X > ss (lassare, cossa); anche STR > ss (nosso al posto di ‘nostro’, mossare al posto di ‘mostrare’);
11. Perdita di /v/ nel nesso VR (vibrante) nelle forme del futuro e del condizionale (arò anziché ‘avrò’).
Alcuni tratti del Senese:
1. Asimmetria nella dittongazione formata con consonante + /r/ (ex. truovo, pruovo ma breve, prego);
2. Presenza di forme dittonganti diversamente dal fiorentino (ex. liei ‘lei’, puoi ‘poi’, uopere ‘opere’);
3. Assenza di anafonesi (è un innalzamento in determinanti condizioni, cioè quando accanto ci sono
alcuni contesti consonantici);
4. Passaggio di o protonica ad u molto frequente (ex. murire, muneta, buttiga);
5. X > ss (ex. lassare, cossa);
6. Sonorizzazione molto estesa (ex. oga, pogo, segondo, privado);
7. Tendenza all’epitesi (cioè ad un’aggiunta in posizione finale) di -ne (ex. provòne ‘provò’, ène ‘è’).
Cambiamenti nel fiorentino della seconda metà del ‘300 e nel ‘400  Dopo la peste del 1348 l’assetto
linguistico di Firenze, cambiò notevolmente a causa delle massicce ondate migratorie provenienti da
diverse zone che ripopolarono la città. Il fiorentino precedente a questo evento è fissato nelle opere delle
Tre Corone ed è destinato a diventare il modello di riferimento letterario. Il nuovo fiorentino, dell’uso e in
movimento, è da un lato il frutto della regolare evoluzione diacronica della varietà locale, dall’altro il
risultato dell’incontro con gli altri dialetti dei nuovi cittadini, soprattutto di quelli provenienti dalla toscana
occidentale.
Alcuni tratti del fiorentino tardo trecentesco-quattrocentesco: duo al posto di “due”; diciassette anziché
“dicessette”, diciannove al posto di “dicennove”; sete anziché “siete”; mila anziché “milia”; imperfetto
indicativo in -o (analogico al presente) e quindi amavo anziché amava; la terza persona plurale della prima
coniugazione in -ono invece di -ano (ex. lavono, amono). Di questi fenomeni alcuni sono presenti ancora
oggi, altri si sono invece evoluti ulteriormente.
Nel Quattrocento vi sarà una specie di blocco, con il ritorno al latino, e sarà soprattutto il modello
petrarchesco a mantenere salda la posizione del volgare toscano nel panorama letterario. La
toscanizzazione in ambito amministrativo-cancelleresco risale alla fine del secolo (con Ludovico il Moro che
promuove l’uso del volgare a Milano tra il 1480-1499); il modello toscaneggiante, conosciuto solo
approssimativamente dai cancellieri, si mescolava all’inizio ai tratti locali o di coinè. Il riconoscimento del
fiorentino/toscano trecentesco come modello era già iniziato dunque con la diffusione delle opere dei Tre
scrittori toscani, ma fu nel primo trentennio del Cinquecento che venne definitivamente sancita la sua
supremazia sugli altri volgari.
Gli studiosi infatti si confrontarono aspramente sul modello di lingua da scegliere dando vita alla Questione
della lingua del Cinquecento; si confrontarono in maniera abbastanza animata alcune tesi, quali: la tesi
cortigiana (sostenuta da Trissino e altri studiosi e volta a mantenere una lingua un po’ sovramunicipale,
quindi non appartenente ad unico luogo, ma che prendesse il meglio delle corti, una sorta di coinè); la tesi
classicista-arcaizzante (la tesi di Bembo che guardava a un modello più vecchio, arcaizzante, di due secoli,
ma guardava anche ai classici, cioè alle Tre Corone); la tesi fiorentinista contemporanea (sostenuta da
Machiavelli; che andava a duellare con la tesi precedente poiché proponeva una lingua più contemporanea
al ‘500); la tesi umanista (che spingeva verso la ripresa del latino).
A causa dell’Umanesimo latino (quindi del ritorno ad una produzione scritta in latino) e a causa della
supremazia del modello fiorentino (iniziatosi ad imporre come lingua comune sia per la letteratura sia per
l’attività amministrativa) nel corso del ‘400 si notò una progressiva sfioritura dell’uso degli altri volgari.
Umanesimo latino  Per tutto il Medioevo la lingua dei dotti era stata il latino e anche le Tre Corone oltre
che in volgare avevano continuato a comporre in questa lingua (soprattutto Petrarca). Durante
l’Umanesimo la questione del rapporto tra latino e volgare si fece molto animata grazie al rinvigorito
interesse nei confronti delle lingue classiche. Anche dopo l’Umanesimo il latino resterà per molti secoli la
lingua di riferimento per letterati, prelati e scienziati, e anche quando lascerà definitivamente spazio al
fiorentino alcune tipologie testuali particolari, come le leggi e il canone della messa, vi rimarranno legate.

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Umanesimo volgare fiorentino  A Firenze però la convergenza tra tradizione letteraria trecentesca
(Dante, Petrarca, Boccaccio) e volgare promosse un Umanesimo diverso, definito per l’appunto Umanesimo
volgare fiorentino [la cui figura di riferimento fu Leon Battista Alberti; uomo di grande cultura, trascorrerà
una parte della sua vita a Firenze a seguito di un entourage. Egli cercò di evidenziare la bontà del volgare,
facendo effettivamente vedere che, come il latino possedeva le sue caratteristiche e le sue regole
grammaticali, così anche il fiorentino le aveva. La prima cosa che fece fu scrivere la prima grammatica di un
volgare italiano, e cioè la Grammatichetta vaticana (scritta tra il 1434 e il 1438) e poi scrisse un’altra cosa,
che fu il Certamen Coronario (nel 1441), un agone poetico, in cui praticamente faceva vedere come si
potesse parlare di argomenti classici (lui scelse il tema dell’amicizia), sullo stile di Seneca e Cicerone, usando
però il volgare (la giuria non decretò alcun vincitore poiché non riteneva il volgare adatto all’altezza del
tema e dei modelli latini; l’Alberti scrisse poi una lettera anonima di protesta contro la decisione presa)].
Il dibattito che animò le discussioni linguistiche tra gli umanisti ebbe come oggetto: la legittimità o meno di
usare il volgare per la letteratura e l’interrogativo su quale fosse stata la lingua effettivamente parlata a
Roma durante l’età augustea.
Il problema della natura del latino era sorto nel 1435 tra due segretari Apostolici di Papa Eugenio IV:
Leonardo Bruni e Biondo Flavio. Leonardo Bruni pensava che il latino parlato dalle persone colte fosse
diverso da quello parlato dal popolo e che quest’ultimo dovesse essere senza grammatica e simile al
volgare parlato contemporaneo. La tesi del Bruni dal punto di vista concettuale era uguale a quella
accettata oggi dai linguisti, ovvero quella che sostiene l’esistenza di un latino classico usato in circostanze
alte e un latino volgare usato nella quotidianità, da cui sarebbero poi scaturite le lingue romanze. Nel
Dialogus ad Petrum Histrum Leonardo Bruni riprese le tesi dell’epoca mettendole in bocca a personaggi
reali: l’umanista Coluccio Salutati, ad esempio, lamentava l’uso del volgare da parte di Dante nella Comedìa;
mentre per Niccolò Niccoli la lingua di Dante era adatta alle persone umili e per questo andava espulso
dalla schiera dei letterati (Bembo, nel 1525, prenderà in considerazione questo discorso e infatti non farà
prevalere Dante come modello, ma Petrarca). Biondo Flavio pensava invece che a Roma tutti parlassero il
latino classico, e che le forme più basse fossero solo varianti di registro, inoltre egli era fermamente
convinto del fatto che questo latino fosse stato corrotto dalle invasioni barbariche, dando origine alle lingue
volgari che per tale ragione (non essendoci una continuità diretta tra il latino classico e le lingue volgari che
si sarebbero poi prodotte dall’imbarbarimento) sarebbero mutevoli e senza grammatica.
La maggior parte degli umanisti diedero ragione alla tesi di Biondo Flavio e quindi non accettavano il
volgare come lingua degna di essere usata in letteratura. Alcuni studiosi però si schierarono in difesa del
volgare: il più tenace fu Leon Battista Alberti (genovese, ma di stanza per molti anni a Firenze) con il
Proemio al terzo libro Della famiglia, la Grammatichetta vaticana e il Certamen coronario.
Leon Battista Alberti  L’Alberti scrisse la Grammatichetta vaticana (che non venne pubblicata dall’autore)
durante il suo soggiorno fiorentino (1434-1443 ca.) coincidente con un Concilio (era al seguito del Papa);
egli coltivava interessi assai diversi ma era attratto sempre dalla necessità di trovare e descrivere le regole
della materia indagata (De pictura, De architectura) proprio come fece anche con la grammatica del
fiorentino.
Il manoscritto che contiene l’operetta è il Reginense Latino 1370 conservato nella Biblioteca Apostolica
Vaticana (copiato da anonimo nel 1508 dall’originale della Biblioteca Medicea di Firenze, che andò perduto
durante un incendio). Fu scoperto nel XIX secolo e dato alle stampe nel 1908 da Trabalza, nel 1964 da
Grayson e nel 1996 e nel 2003 da Patola.
Alla base del progetto albertiano c’è il dibattito degli umanisti sulle origini del volgare (1435): sia Biondo
Flavio sia Leonardo Bruni davano per assodata la derivazione del volgare dal latino, però Biondo Flavio
riteneva che il volgare fosse il risultato della corruzione dell’idioma iniziale ad opera dei barbari mentre
Leonardo Bruni pensava che il volgare derivasse da un latino popolare privo di grammatica e opposto a
quello colto (classico).
L’Alberti è dunque il promotore dell’Umanesimo volgare fiorentino: il volgare ha per lui pari dignità rispetto
al latino, poiché ha delle strutture fonetiche e morfologiche ben precise e una sua sintassi, pertanto poteva
essere usato per la prosa alta.
La grammatica dell’Alberti è descrittiva non normativa: descrive cioè la lingua dell’uso vivo alto di Firenze
(ex. fusse ‘fosse’ non il popolare fussi). In alcuni casi le forme scelte appartengono all’uso popolare come

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el/e ‘il/i’, che però era la forma toscana occidentale diffusasi a Firenze dalla metà del Trecento; oppure la
prima persona dell’imperfetto in -o (amavo ‘io amavo’) al posto di quello in -a (io amava).
La nobilitazione del volgare promossa dall’Alberti non fu però autonoma ma, al contrario, si basò proprio
sul confronto con il latino, evidenziando le similitudini tra le due lingue (testo di riferimento: Prisciano,
Institutiones da cui riprende ripartizioni e nomenclatura).
La Grammatichetta vaticana (1434-38) ha dunque un primato: rappresenta il primo prospetto
fonografematico del volgare fiorentino, tuttavia non venne pubblicata. La prima grammatica pubblicata in
Europa è infatti molto più tarda (1492); si tratta della grammatica castigliana di Antonio Nebrija.
Alla fine del Quattrocento fuori dalla Toscana il volgare continuava a non esser considerato. Le discussioni
erano volte soprattutto al recupero del Greco. Sintomatiche di queste nuove tendenze furono anche alcune
scelte di carattere grafico compiute da alcuni autori come, ad esempio, il Trissino che nel 1524 nell’Epistola
alle nuove lettere aggiunte nella lingua italiana inserì ω e ε per rendere ò (o aperta) e è (e aperta) (la sua
idea venne tra l’altro attaccata da molti come il Liburnio e dal Tolomei).
La complessa riflessione sulla lingua che si sviluppò nel Cinquecento (denominata Questione della lingua)
aveva come cause fondamentalmente due motivazioni: prima di tutto l’esigenza da parte di alcuni
intellettuali di innalzare il volgare locale a volgare sovramunicipale utilizzabile in contesti alti  quindi c’era
la necessità della scelta di un volgare letterario/alto/unico; questa esigenza era legata anche alla diffusione
del libro a stampa, poiché diffondendosi il libro a stampa aumentò anche la possibilità di produrre
velocemente un numero molto alto di copie e quindi la possibilità di diffondere questi testi non solo su
microaree ma anche su scala più ampia  che conseguentemente portò all’esigenza di avere una lingua
letteraria normalizzata.
A causa delle discussioni nate in seno alla Questione della lingua, a differenza della Grammatichetta
dell’Alberti, le grammatiche del ‘500 non si basarono sulla descrizione delle lingue vive parlate sul territorio
nazionale, ma sulla codificazione di un modello letterario. La maggior parte dei grammatici scelse come
modello il fiorentino trecentesco delle Tre Corone.
Il riconoscimento del fiorentino/toscano trecentesco come modello era infatti già iniziato con la diffusione
delle opere dei Tre scrittori toscani, ma fu proprio nel primo trentennio del Cinquecento che venne
definitivamente sancita la sua supremazia sugli altri volgari.
Nel dibattito nato in seno alla Questione della lingua del Cinquecento, infatti, tra le varie correnti (tesi
cortigiana, tesi classicista-arcaizzante, tesi fiorentina contemporanea, tesi umanista) risultò vincitrice quella
classicista-arcaizzante che si rifaceva proprio alle Tre Corone toscane.
08-03-2021
La discussione aveva visto il confronto della tesi classicista-arcaizzante (o tesi bembiana) soprattutto con
altri due modelli: la tesi cortigiana (una tesi sovramunicipale che non vedeva nel toscano e in Firenze una
supremazia tale da giustificare la scelta del fiorentino) e la tesi fiorentinista contemporanea (che
prediligeva una lingua più contemporanea).
La tesi cortigiana è una tesi che si stacca da questa supremazia dei toscani e vorrebbe una lingua
sovramunicipale (non toscana). Molti scrittori non toscani che viaggiavano nelle varie corti o che facevano
parte della corte papale romana promossero un’idea di lingua non toscana. Promotore di questa tesi fu
Vincenzo Colli detto il Calmeta. Di origine settentrionale, la sua opera maggiore, Della volgar poesia, è
andata perduta, per cui non conosciamo direttamente la sua teoria sulla lingua ma solo ciò che dice Bembo
nelle Prose cercando di confutarla. Bembo dice che la lingua della corte papale romana proposta dal
Calmeta (una sorta di lingua cortigiana romana) era il risultato del mescolamento di lingue straniere e
regionali e che pertanto non era adatta a diventare una lingua letteraria. Quest’idea del mescolamento,
della sovraregionalità che costituiva proprio l’obiettivo della tesi cortigiana, era ovviamente collegata ad
altro, dunque i detrattori non dovevano evidenziare la comunione del lessico alto, ma le caratteristiche
peculiari relative; e quindi si evidenziava il fatto che siccome questi autori-intellettuali alle volte non erano
italiani o si portavano dietro alcune loro peculiarità locali, la loro lingua non poteva essere una lingua di
riferimento.
Mario Equicola era napoletano ma visse nelle corti di Ferrara (Estensi) e Mantova (Gonzaga). Nel suo Libro
de natura de amore (1509) anche lui sosteneva la lingua cortesiana romana che a suo avviso era su base

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latineggiante con inserti di buoni vocaboli provenienti dalle varie zone d’Italia (quindi l’immagine che da
Equicola di questa varietà è un’immagine alta).
Baldassare Castiglione tra il 1518 e il 1520 scrisse Il Cortegiano pubblicato però solo nel 1528. Castiglione
era mantovano, attivo alla corte dei Gonzaga e dei Montefeltro, non parlava più di lingua cortigiana bensì di
lingua commune scritta e parlata dagli aristocratici di tutte le corti italiane, di base toscana ma aperta a
forestierismi e forme alte di altri volgari. Castiglione attacca il toscanocentrismo e l’affettazione arcaizzante
dei modelli trecenteschi rivendicando invece la dignità degli altri volgari non toscani.
Una figura molto importante all’interno di questa corrente è stata quella di Gian Giorgio Trìssino che era di
Vicenza, ed è il teorico della teoria sovramunicipalistica italiana. Nel 1529 nel Castellano si avvale dell’avallo
dantesco del De vulgari eloquenza per sostenere la sua teoria antitoscanista/antifiorentinista e
sovramunicipale. Trìssino aveva infatti scoperto il trattato, fino ad allora sconosciuto, e lo aveva tradotto in
volgare scegliendo però di non firmare personalmente la prefazione ma di attribuirla ad un tale
Giovanbattista Doria e per questo molti credettero che fosse un falso (ricordiamo che Dante nel De vulgari
Eloquentia non parlava molto bene del fiorentino). Trìssino parla di una lingua volgare italiana costituita
dalle parole comuni a tutti i volgari italiani; tali forme si erano create grazie alla diffusione delle opere delle
Tre Corone, conosciute da tutti i letterati. Nel Castellano il portavoce del Trissino è il fiorentino Giovanni
Rucellai comandante della Fortezza di Castel Sant’Angelo a Roma. Il dialogo letterario si svolge nel 1524,
data in cui effettivamente ci fu un folto dibattito riguardo a quando aveva scritto il Trissino nell’Epistola alle
nuove lettere aggiunte nella lingua italiana.
Tesi classicista-arcaizzante di Bembo  Pietro Bembo era padovano e pubblicò a Venezia nel 1525 Le
Prose della volgar lingua presso l’editore Aldo Manuzio (con il quale Bembo aveva un rapporto di amicizia e
di lavoro molto stretto, poiché insieme avevano dato vita al cosiddetto Petrarca aldino, pubblicato nel
1501, ma non solo: in quest’opera, che vede anche delle innovazioni dal punto di vista dei segni
paragrafematici, si inseriscono per la prima volta in un testo a stampa alcuni simboli che aiutano alla
prosodia, alla lettura del testo). L’opera era formata da tre libri: i primi due erano un dialogo mentre il terzo
conteneva i fenomeni grammaticali. Per rivendicare la paternità della prima grammatica su quella di
Fortunio uscita nel 1516, Bembo ambientò il dialogo contenuto nei primi due libri (riferito a tutte le tesi
sulla Questione della lingua del Cinquecento) nel 1502 a Venezia. Il modello da adottare secondo lui era
quello fiorentino/toscano letterario del Trecento (il modello classicista-arcaizzante) per via dell’ideale
umanistico riguardante il primato della letteratura sull’uso (quindi si ha il rifiuto del livello popolare).
Contrasta con la tesi fiorentinista contemporanea (cinquecentesca) proposta da Macchiavelli. Gli
interlocutori presenti nel dialogo bembiano ambientato nel 1502 sono: Giuliano de’ Medici (sostenitore
dell’Umanesimo volgare fiorentino cinquecentesco); Ercole Strozzi (sostenitore dell’umanesimo latino);
Federico Fegoso (sostenitore delle tesi storiche); Carlo Bembo, fratello di Pietro (portavoce della tesi
bembiana del fratello).
Nel primo libro Bembo si sofferma sulla nascita del volgare rifacendosi alla tesi di Biondo Flavio secondo cui
il volgare era il risultato della corruzione del latino classico durante le invasioni barbariche.
Nel secondo libro si ha la confutazione della tesi toscanista contemporanea (quella che si rifà al modello di
Machiavelli): Bembo non è toscano quindi non è spinto da patriottismo linguistico; egli punta ad un modello
senza tempo, riconosciuto da tutti, per questo non ha importanza il fatto che la lingua scelta sia di due
secoli anteriore. Il modello che propone è puramente letterario, non condizionato dalla provenienza degli
autori eletti a modello quanto dal riconoscimento del loro valore presso i letterati. I modelli sono Petrarca
per la poesia e Boccaccio per la prosa (ma solo le novelle tragiche della X giornata del Decameron e le
cornici, in cui la lingua è più alta e sostenuta). Dante viene escluso perché nella Comedìa utilizza spesso
forme popolari, perché è aperto a molti stili e si lascia andare a forme più basse.
Il terzo libro consiste in una elencazione, che segue una struttura dialogica, delle caratteristiche fonetiche e
morfologiche del fiorentino del Trecento usato da Petrarca e Boccaccio. Oltre ai fenomeni vengono illustrati
anche temi di stilistica e retorica. Tra i fenomeni: eliminazione di el (descritto dall’Alberti) > il; eliminazione
di lui soggetto a favore di egli.
Per via della complessità dell’impianto e della mancanza di schematicità fuori dalla ristretta cerchia degli
intellettuali l’opera non ebbe il successo atteso (che invece toccò alla grammatica del Fortunio).

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Polemica Fortunio-Bembo  Bembo era entrato in contrasto con Fortunio (che all’epoca era podestà di
Ancona ma nativo di Podernone e vissuto a Venezia) che nel 1516 aveva dato alle stampe le Regole
grammaticali della volgar lingua, la prima grammatica volgare stampata (quella dell’Alberti non venne data
alle stampe). Fortunio apparteneva ad un circolo filologico contrario a quello degli infiammati a cui
apparteneva Bembo ed era contrario allo studio filologico e alle edizioni aldine di Petrarca e Dante curate
da Bembo. La prima grammatica a stampa dell’italiano è dunque quella di Giovanni Francesco Fortunio,
Regole grammaticali della volgar lingua (Ancona, 1516): è un’opera in due volumi anche se nell’idea iniziale
era divisa in 4 o 5 sezioni, con una struttura simile a quelle a cui siamo abituati oggi (nomi, pronomi, verbi,
avverbi, ortografia) e grazie alla sua schematicità (poche forme e moltissimi esempi tratti dalle Tre Corone)
ebbe molta fortuna.
I modelli della grammatica fortuniana sono in realtà gli stessi di quella bembiana, ovvero le Tre Corone. Il
modello di lingua è dunque sempre quello arcaizzante del Trecento toscano, anche se Fortunio non
condanna affatto i termini bassi usati da Dante come fece invece Bembo. Fortunio, tuttavia, non teorizzò
sulla lingua, e questa fu la critica più aspra mossagli dal Bembo. Nell’introduzione però prese le distanze
dalla tesi pseudo-bruniana che faceva derivare dal latino volgare privo di grammatica il volgare sostenendo
che i Tre scrittori non avrebbero potuto scrivere così bene se non avessero avuto a disposizione una lingua
con una sua grammatica ben definita (che è quella che lui riporta poi nelle sue Regole).
Un anno dopo le Prose della volgar lingua di Bembo venne pubblica Le tre fontane di Messer Nicolò
Liburnio, opera divisa in tre libri, sopra la grammatica, et eloquenza di Dante, Petrarcha, et Boccaccio
(stampatore A. Manuzio, Venezia, 1526).
Anche il Liburnio, nativo del Friuli, era dunque di origini settentrionali (proprio come Bembo e Fortunio). La
sua opera è il primo vocabolario interamente in volgare italiano (prima vi erano delle liste di parole bilingue
volgare/latino che servivano alle persone colte a scopo traduttivo) ma fornisce anche una buona
descrizione grammaticale poiché nelle tre sezioni di cui si compone vengono analizzati distintamente verbi,
avverbi, sostantivi ecc…
Liburnio a differenza del Bembo scelse anche Dante come modello (così come aveva fatto già Fortunio);
inoltre fece una cernita tra le parole utilizzate dai tre autori selezionando i termini considerati in uso ancora
nel suo tempo ed eliminando quelli vetusti. L’autore mostrò già una certa attenzione nei confronti dei
forestierismi e dei tecnicismi; distinse parole adatte alla prosa e parole adatte alla poesia.
Sulla stessa scia si colloca quasi un ventennio più tardi un altro grammatico settentrionale, Alberto Acarisio,
con il suo vocabolario, Gramatica et ortographia de la lingua volgare (1543), pubblicato a Cento (in
provincia di Ferrara), la sua città natale. Si tratta di un vocabolario preceduto da una grammatica in cui
spesso l’autore prende le distanze dalle idee bembiane. Il modello di lingua è infatti sempre quello delle Tre
corone ma si nota una forte autonomia a favore della lemmatizzazione di varianti regionali o appartenenti
all’uso, e anche stigmatizzazione dei latinismi e di molte voci appartenenti agli autori presi a modello.
Altro personaggio importante fu Ludovico Dolce, con la sua opera Osservationi nella volgar lingua (la prima
grammatica ad avere più edizioni: 1° ed. 1550 - 8° ed. 1568) – Editore Giolito; veneziano e di ottima
famiglia, dopo gli studi padovani tornò a Venezia dove lavorò per tutta la vita a servizio dello stampatore
Giolito. Non teorico ma divulgatore delle idee già esposte da Bembo e Fortunio, la sua opera si divide in
quattro sezioni. Nella IV parte inserì la metrica (cambiamento innovativo che porterà la grammatica e la
metrica ad esser – da questo momento in poi – trattate sempre insieme).
Nel Cinquecento si stabilì l’egemonia del fiorentino letterario sugli altri volgari grazie all’imposizione del
canone bembiano derivato dalla vittoria della sua posizione in seno alla Questione della lingua. In ambito
amministrativo si procedette ad una progressiva toscanizzazione che tendenzialmente si concluse alla fine
del secolo. Tra la fine del Cinquecento e il Seicento il toscano diventò la lingua degli scriventi colti italiani.
Polemica tra il Nord e la Toscana  Nel frattempo però si sviluppò una polemica tra il nord e la Toscana.
Le grammatiche erano stampate presso editori veneziani. A Firenze non si sentiva l’esigenza di normare la
lingua perché si pensava di esserne i detentori. E Cosimo de’ Medici entrò nella polemica e incaricò
l’Accademia fiorentina di approntare una grammatica facile ed agevole, ma non vi fu una linea condivisa,
pertanto non si giunse a nulla.
Tesi fiorentinista contemporanea  Il maggior sostenitore delle teorie fiorentiniste contemporanee fu
Niccolò Machiavelli nel suo Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua che però non venne pubblicato nel

26
Cinquecento ma solo nel 1730 in appendice ad un’edizione dell’Hercolano del Varchi. Machiavelli si
scagliava contro Bembo (nativo del Nord) che pretendeva di insegnare ai fiorentini come dovessero parlare.
Benedetto Varchi tornò a Firenze dall’esilio richiamato da Cosimo de’ Medici nel 1543. Il suo compito fu
quello di trovare una mediazione tra le due tesi fiorentiniste e dunque cercò di far accettare il modello
bembiano trovando un compromesso allettante: il classicismo-arcaizzante bembiano poteva essere il
modello per la scrittura se oltre agli scrittori illustri si accettavano anche gli scritti dell’autorità popolare
(Trecento aureo fiorentino), mentre per l’oralità proponeva un modello fiorentino moderno ma colto.
L’assenza di opere che difendevano la tesi fiorentinista contemporanea giocò senza dubbio a suo favore.
Varchi era fiorentino ma aveva vissuto a lungo a Padova in esilio e aveva partecipato alle riunioni
dell’Accademia degli Infiammati di Bembo per questo conosceva bene il modello e le idee bembiane.
L’Hercolano (iniziato nel 1559) è il libro più importante dedicato ai temi linguistici della metà del
Cinquecento. L’opera venne pubblicata postuma nel 1570. Il libro era nato per difendere Annibal Caro, suo
amico, nella disputa contro Girolamo Castelvetro durata dal 1553 al 1559, ma poi era divenuto la summa
delle teorie del dibattito linguistico contemporaneo.
Varchi mise anche in dubbio la paternità dantesca del De vulgari eloquentia, anche se in molti punti il suo
trattato è estremamente simile a quello di Dante (linguaggio animale vs lingua umana; origine del
linguaggio ecc…).
Il richiamo dall’esilio di Benedetto Varchi rientra nell’operazione di rivalutazione del primato fiorentino
voluta da Cosimo I che infatti aveva finanziato anche l’Accademia degli Umidi, divenuta nel 1542 Accademia
fiorentina.
In questo progetto rientrava anche la grammatica del fiorentino di Pierfrancesco Giambullari intitolata
Regole de la lingua fiorentina del 1548 ma date alle stampe con il titolo di De la lingua che si parla et scrive
in Firenze nel 1552. Questa grammatica ebbe come modello il fiorentino parlato colto dell’uso
contemporaneo.
La posizione dell’Accademia fiorentina è qui evidente, anche se la grammatica venne realizzata dall’autore a
titolo personale. Era infatti accompagnata da un dialogo di Giovan Battista Gelli, sopra le difficoltà di
mettere in regole la nostra lingua che avallava la posizione dell’Accademia fiorentina riguardo alla varietà
tipica della lingua dell’uso, e quindi alla libertà personale delle scelte. L’opera non ebbe fortuna.
09-03-2021
Partendo dalle nuove posizioni indicate da Varchi nell’Hercolano, Lionardo Salviati nei suoi Avvertimenti
sopra il Decamerone (1584-86) operò un cambio sostanziale aprendo il canone anche agli scrittori minori
del Trecento (età aurea) dando inizio al Purismo. Questo nuovo canone ebbe un ruolo decisivo per la
prosecuzione del modello fiorentinista poiché Salviati, a partire dalla fine degli anni Ottanta del ‘500, fu il
promotore del primo Vocabolario degli Accademici della Crusca (che uscì nel 1612).

Grafemi e fonemi dell’Italiano  I segni alfabetici scritti (grafemi) della lingua italiana sono 21. A questi
vengono aggiunti 5 grafemi considerati stranieri: j, k inseriti dopo la i; w, x e y inserite dopo la v.
Il sistema grafematico dell’italiano è di tipo fonetico, cioè nella maggior parte dei casi i suoni si pronunciano
come si scrivono, è un rapporto biunivoco, un simboletto–un suono (quest’ultima cosa non appartiene a
tutte le lingue del mondo). Questa caratteristica agevola anche nella scrittura poiché tendenzialmente vi è
una corrispondenza biunivoca tra suono da rappresentare (fono  indica tutte le diverse realizzazioni di un
suono), anche nel suo valore distintivo (fonema  è l’essenza del suono), e segno grafico (grafema).
Comparando i grafemi dell’italiano e la loro pronuncia (foni/fonemi) ci accorgiamo però che non esiste
sempre un rapporto biunivoco tra grafia e suono; alcuni grafemi possono anche indicare dei suoni diversi:
cena vs casa; gelato vs gatto; pozzo vs mezzo; cosa vs naso; botte ‘recipiente’ vs botte ‘schiaffi e pugni’;
pesca ‘atto del pescare’ vs pesca ‘tipo di frutto’. Nel ‘500 si sono scelti quali grafemi dovessero
effettivamente esser riportati, per non avere troppi simboli. Ci sono anche casi in cui a un unico suono
corrispondono più grafemi (ex. sciare; gnomo; bottiglia; laghi; bruchi). I casi di non biunivocità tra grafema e
suono realizzato sono proprio quelli in cui più facilmente si verifica l’errore nelle prime fasi dell’acquisizione
linguistica scritta (bambini, stranieri) o nelle acquisizioni approssimative (semicolti). Anche altre lingue
hanno sistemi in cui il rapporto tra grafia e pronuncia è abbastanza soddisfacente come lo spagnolo, il
polacco e l’ungherese; francese e inglese hanno invece sistemi meno corrispondenti.

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Gli alfabeti fonetici si basano invece sul principio di corrispondenza biunivoco e garantiscono dunque il
rapporto 1:1 ovvero un suono-un simbolo. Il più usato è l’IPA (International Phonetic Alphabet), usato dagli
studiosi delle varie lingue del mondo per rendere i foni e i fonemi rilevati (questo alfabeto viene, per tale
ragione, revisionato di continuo negli anni). Naturalmente l’IPA è anche utile nell’apprendimento delle
lingue straniere, soprattutto dal punto di vista professionale (per la dizione, dover cantare canzoni in lingue
straniere o recitare in una lingua non conosciuta).
Riflessioni su fonetica e fonologia: il “fono” è il suono e chiamiamo “Classi di suoni” il ventaglio di suoni
simili fra loro e riconducibili però ad un unico elemento; il “fonema” è l’unità minima distintiva e
chiamiamo “Coppia minima” la contrapposizione di due parole uguali in tutto che differiscono fra loro per
un solo fonema. La “fonetica” analizza i suoni di una lingua; la “fonologia” studia invece i fonemi di una
lingua (che hanno carattere distintivo). La fonetica fotografa il suono e lo scrive fra parantesi quadre [ ],
dunque la trascrizione fonetica è la trascrizione del fono; la trascrizione fonematica è invece la trascrizione
del fonema e viene trascritto fra due slash / /.

 Trapezio vocalico generale

 Il trapezio vocalico
dell’italiano
La vocale presenta queste
carat-teristiche: il suono è
sempre sono-ro; la vocale
costituisce un nucleo sillabico
anche da sola; i parametri di
analisi sono l’altezza; l’anterio-
rità, la centralità e la
posteriorità;
aprocheilia/procheilia.

Vocali (sistema tonico)  è formato da 5 grafemi: <a>; <e>; <i>; <o>; <u> e 7 fonemi: /a/; /e/ - /ε/; /i/; /o/
- /ⴢ/; /u/.
Rapporto vocali alte e approssimanti: grafemi <i>, <u>; fonemi /i/-[j], /u/-[w]. Le vocali /i/ e /u/ possono
essere sia toniche che atone; le approssimanti [j] e [w] possono essere solo atone (senza accento); tra le
poche coppie minime che si possono citare: pi.ano ‘di Padre pio’ vs pjano ‘piano’; lacu.ale ‘relativo al lago’
vs la quale /lakwa:le/.
Corrispondenza base storica-sviluppo romanzo  Il sistema vocalico tonico del fiorentino/italiano è
dunque di base eptavocalio, ovvero ha 7 vocali. Anche la maggior parte delle altre lingue romanze presenta
lo stesso sistema tonico di base che viene perciò detto “romanzo comune” o “panromanzo”. Dal sistema
decavocalico latino basato sulle quantità (lunga e breve) si è passati a un sistema qualitativo basato sul
grado di apertura e chiusura:
Īi

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ĬeĒe
Ӗ ε
ĀeĂa
Ŏⴢ
ŌeŬo
Ūu
Le vocali medio-basse però presentano un ulteriore sviluppo collegato all’apertura/chiusura della sillaba in
cui si trovano: ε in sillaba chiusa rimane ε, ma in sillaba aperta invece dittongava e diventava jε, cioè si
sviluppava in un dittongo di tipo ascendente, cioè con il secondo elemento tonico; ⴢ  in sillaba chiusa
rimane ⴢ, ma in sillaba aperta diventa wⴢ, poiché dittonga (come nel caso soprascritto).
Dunque, le vocali dell’italiano nel sistema tonico sono sette,
mentre i grafemi sono cinque e la distinzione avviene sulle
medie (infatti abbiamo la distinzione di medio-alte e medio-
basse). Le vocali dell’italiano sono sette e non ce ne sono
altre perché nello sviluppo dal sistema decavocalico di tipo
latino quantitativo a un sistema romanzo di tipo qualitativo
c’è stata un’eliminazione del sistema quantitativo a favore
del sistema timbrico (apertura e chiusura, non più lunghe e
brevi) e le vocali si sono sviluppate, su base storica, tanto da
dare come esito finale sette vocali; in più, nel fiorentino, questo sistema si può sviluppare in sillaba libera
con il dittongo jε e il dittongo wⴢ.
Sistema vocalico atono  Il sistema atono è invece pentavocalico ed elimina l’opposizione delle medie
(quindi non abbiamo più medio-alte e medio-basse, né anteriori né posteriori) individuando solo il grado
medio-alto:
Īi
Ĭ, Ē e Ӗ  e
ĀeĂa
Ŏ, Ō e Ŭ  o
Ū u.
Quindi si ha l’eliminazione dello sviluppo di Ĕ che doveva essere ɛ, e di Ŏ che doveva essere ɔ e una fusione
verso le medio-alte. Dunque, un’eliminazione del grado medio-basso, sia anteriore che posteriore, con
fusione sul grado medio-alto. Di conseguenza le vocali sono cinque, non più sette. Se facendo una
trascrizione ci troviamo dinanzi ad una parola come, ad esempio, moro, per la prima o (che è tonica)
dobbiamo chiederci se questa sia chiusa o aperta, per la seconda o (che invece è atona) non dobbiamo
chiederci se è chiusa o aperta, perché è in posizione finale ed atona, quindi potrà essere solo chiusa.
11-03-2021
Fenomeni del vocalismo tonico del fiorentino
1. Monottongazione dei dittonghi latini
o AU > /o/: già nel latino classico (I secolo a.C. – I secolo d.C.) era avvenuta la chiusura in /o/ (ex.
CAUDAM > <coda> /’ko:da/; FAUCEM > <foce> /’fo:tʃe/);
 AU > /ⴢ/: all’VIII secolo d.C. risale invece l’apertura in / ⴢ/, che è ad oggi la pronuncia più frequente in
italiano (ex. CAUSAM > <cosa> /’kⴢ:za/; AURUM > <oro> /’ⴢ:ro/);
o AE > /ε/ (ex. GRAECUM > <greco> /’grε:ko/; PRAESTO > <presto> /’prεsto/);
 /ε/ > /jε/: successivamente, a causa del dittongo toscano, in sillaba libera si verificò la dittongazione
(ex. LAETUM > <lieto> /’ljε:to/; LAEVITUM > <lievito> /’ljεvito/; QUAERO > <chiedo> /’kjε:do/);
o OE > /e/ (ex. POENAM > <pena> /’pe:na/).
[I due punti segnalano la lunghezza, che si chiama “cronema” ed è l’indicazione della lunghezza. La
lunghezza in italiano è fonematizzata (distintiva), cioè si ha soltanto quando abbiamo le consonanti. Per
quanto riguarda le vocali invece, la quantità vocalica non ci interessa più. Tuttavia, in alcuni casi vi è la
segnalazione di lunghezza, quando si tratta di parossitoni (accentato sulla penultima) in sillaba libera. La
lunghezza vocalica in italiano è collegata ad un tipo di produzione che avviene quando una vocale si trova
accentata sulla penultima e si trova in sillaba libera; è come se fosse un po’ più lunga rispetto ad altre vocali
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che vengono pronunciate in altre posizioni. Facciamo l’esempio tra gatto e cane: la /a/ di cane è molto più
lunga rispetto alla /a/ di gatto; quindi, isocronia vuol dire che la sillaba cane deve andare ad essere pari
come quantità alla sillaba gatto, quindi se gatto è formato da gat, cane è formato da ca + l’allungamento
di /a/  questa è la legge dell’isocronia sillabica ed è stata studiata per l’italiano da Bertinetto nell’84 e ci
racconta questa necessità dell’italiano di avere isos cronos, cioè stesso tempo tra le sillabe.]
2. Il dittongamento toscano (si chiama così perché non riguarda solo il fiorentino ma tutta l’area
toscana). Le condizioni affinché il dittongamento toscano possa avvenire sono: le vacali brevi Ӗ e Ŏ devono
essere toniche; la sillaba dev’essere libera (cioè quella vocale non deve avere una coda consonantica,
perché così si può allungare), questo fenomeno generalmente avviene con le parole parossitone; le parole
dovevano essere di derivazione culturale (non si verifica nei cultismi, cioè in quelle parole usate poco in
quanto riferite a determinati ambiti e a sfere alte): Ӗ > /jε/ (ex. PӖDE(M) > <piede> /’pjε:de/, TӖNE(T) >
<tiene> /’tjε:ne/); Ŏ > /wⴢ/ (ex. LŎCU(M) > <luogo> /’lwⴢ:go/, PŎTE(T) > <puote> /’pw ⴢ:te/ >
<può> /’pwⴢ/) [Se non si trascrivono questi termini attraverso l’alfabeto fonetico, ci si rende conto che non
ci si accorge delle approssimanti e delle vocali che si pronunciano aperte].
Per la regola del dittongo mobile nelle flessioni verbali il fenomeno si riscontra solo nelle forme rizotoniche
(cioè in quelle accentate sulla radice), ma non in quelle rizoatone ovvero accentate altrove, ad esempio
sulla desinenza (ex. DŎLET > /’dwⴢ:le/ ma DOLERE > /do’le:re/).
Questa regola presenta però delle eccezioni  in alcuni paradigmi la regola non è più operativa perché si è
assistito ad un livellamento analogico del paradigma verbale sulla forma rizoatona (ex. LӖVO > /’lε:vo/ è
rifatto su LEVARE > /le’va:re/); in alcuni casi si è avuta addirittura la chiusura della tonica (ex. NӖGO
> /’ne:go/); al contrario in altri verbi si è invece assistito al livellamento analogico sulla forma rizotonica per
cui anche le forme rizoatone presentano la dittongazione (ex. SŎNAT > /’sw ⴢ:na/ ma anche SONARE >
/swo’na:re/).
Casi di restrizione del dittongo toscano  spesso la proparossitonia tende a bloccare il dittongamento (ex.
pècora, òpera), ma in molti casi ciò non avviene (ex. tièpido, suòcero, uòmini); BӖNE > bène e *(IL)LAEI > lèi
non dittongano perché nella maggior parte dei casi venivano usati in protonia sintattica (quindi perdevano
l’accento); NŎVE(M) > nòve non dittonga perché avrebbe creato collisione omofonica con l’aggettivo
NŎVAS > nuòve; nell’italiano attuale sono scomparse alcune forme toscane antiche come ӖRAT > ièra e
ӖRANT > ièrano che originariamente erano dittongate (quando alcune forme vengono utilizzate
normalmente in una posizione che non è quella di tonicità, in maniera naturale perdono la dittongazione,
ed è quello che è accaduto con le forme verbali sopracitate; il fatto di averle utilizzate in posizione
protonica e quindi di avergli fatto perdere la possibilità della dittongazione, è legato all’uso che ne è stati
fatto e che ha dato vita a delle forme cristallizzate), probabilmente anche in questo caso il fenomeno è
dovuto all’uso in protonia sintattica che veniva fatto di questa forma verbale; dal ‘400 a Firenze vi è
l’eliminazione (per influsso dei dialetti occidentali come pisano e lucchese) del dittongo quando vicino c’era
una vibrante (quando precedevano consonante + R), questa attitudine di eliminare la dittongazione in
prossimità di vibrante era una caratteristica che apparteneva ad altre varietà dialettali, quali il pisano e il
lucchese (ex. PRAEGO > prègo, BREVEM > brève; TROPO > tròvo); dall’800 (con la riforma manzoniana
nell’edizione quarantana dei Promessi sposi) è avvenuto il declino del dittongo posteriore quando è vicino a
una consonante palatale (ex. PHASEŎLU(M) > fagiòlo, FILIŎLU(M) > figliòlo; IŎCU(M) > giòco); per influsso
della lingua poetica siciliana fino al primo Novecento erano molto frequenti le forme senza dittongo (ex.
còre, fòco, lòco, nòvo).
[Dittongo ascendente  è il tipo in jε, quindi la prosodia è da più alta a più bassa. Dittongo discendente 
ha l’elemento vocalico accentato all’inizio e l’approssimante che è invece in seconda posizione.]
[Dubbi sulle regole della sillabazione
Come si dividono le vocali?  Dittonghi e trittonghi = stessa sillaba (tautosillabici): cuò-re /’kw ⴢ:re/, a-iuò-
la /a’jwⴢ:la/; Vocali in iato = sillabe diverse (eterosillabiche): be-a-to /be’a:to/.
Fenomeni contrari  Dieresi: quando un dittongo viene scisso e quindi si hanno due vocali in due sillabe:
/pi.’ε:de/; Sineresi: quando due vocali in iato vengono realizzate in una sola sillaba: /’leo.ne/.
Riconoscimento dello iato  le due vocali sono diverse da i e u: ma-e-stro, le-o-ne; una delle due vocali è o
ì o ù (toniche) e l’altra è a, e, o: pa-ù-ra, dù-e; composizioni in cui sia riconoscibile il prefisso: su-e-spo-sto,
di-ar-chi-a, ri-a-ve-re.

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Si può andare a capo con una vocale? Meglio di no, quindi: bea-to meglio di be-ato.]
3. L’Anafonesi è un fenomeno di area toscana (fiorentino, lucchese, pisano, ecc…) con esclusione della
parte meridionale (senese). Non riguarda le altre aree dialettali, pertanto è un fenomeno che da Castellani
viene considerato una delle spie più importanti della fiorentinità dell’italiano. Consiste in un innalzamento
delle vocali toniche medio-alte (quindi da medio-alte diventano alte): Ē, Ĭ > /e/ > /i/; Ō, Ŭ > /o/ > /u/.
Questo fenomeno avviene per effetto di alcune consonanti adiacenti:
1° caso: Ē, Ĭ > /e/ > /i/ quando seguono gl < LJ e gn < NJ (non da GN): ex. FAMĬLIA(M) > famèglia > famiglia,
GRAMĬNEA(M) > gramègna > gramigna, mentre LĬGNUM > lègno (non ligno: ligneo è un cultismo);
2° caso: Ē, Ĭ > /e/ > /i/ quando seguono NC e NG velari: ex. LĬNGUA(M) > lèngua > lingua, TĬNCA(M) > ténca
> tinca;
3° caso: Ō, Ŭ > /o/ > /u/ quando segue NG: ex. FŬNGU(M) > fòngo > fungo mentre con NC (che è una
nasale velare sorda) è meno frequente: IŬNCU(M) > giònco > giunco ma SPELŬNCA(M) > spelònca,
TRŬNCU(M) > trònco.
[Ovviamente tutto questo ragionamento vale per il sistema del vocalismo TONICO.]
4. Chiusura della vocale media in iato: quando una vocale media e o o si trova in iato, ovvero è seguita
da una vocale appartenente a una sillaba diversa, e questa non è una i, la media si chiude rispettivamente
in /i/ o in /u/: ex. DĒŬ(M) > dèo > dio (il femminile DEAM > dèa è un cultismo); MӖU(M) > mèo > mio;
BŎVE(M) > bòve > bu(v)e. Quando invece segue la i il risultato è quello regolarmente atteso: ex. MӖI > miei
(/’mjεi/ dittongo toscano); BŎVES > buoi (/’bWⴢi/ dittongo toscano); il plurale DӖI > dèi è un cultismo.
12-03-2021
Esercitazione sul vocalismo tonico
PӖDE(M) > /’pjε:de/  dittongazione toscana di Ӗ > jε
TIMĒRE > /te’me:re/  esito di Ē > /e/
LĪNŬ(M) > /’li:no/  esito di Ī > /i/
IŬVENE(M) > /’ʤovane/  esito di Ŭ > /o/
BŎNŬ(M) > /’bwɔ:no/  dittongazione toscana di Ŏ > wⴢ
LAEVITŬ(M) > /’ljεvito/  monottongazione di AE > /ε/  successiva dittongazione toscana di Ӗ > jε
TĒGULA(M) > /’tegola/  esito di Ē > /e/
FUSTICӖLLŬ(M) > /fuʃ:εl:o/  esito di Ӗ > /ε/ in sillaba chiusa
GRŎSSŬ(M) > /’grɔs:o/  esito di Ŏ > /ɔ/ in sillaba chiusa
NŪBULŬ(M) > /’nuvolo/  esito di Ū > /u/ e Ŭ > /o/
ŬMBRA(M) > /’ombra/ -> esito di Ŭ > /o/
LINTEŎLŬ(M) > /len’tswⴢ:lo/  dittongazione toscana di Ŏ > /wⴢ/ in sillaba libera/aperta ed esito di Ŭ >
/o/
RŪPE(M) > /’ru:pe/  esito di Ū > /u/
FAUCE(M) > /’fo:ʧe/  monottongazione di AU > /o/
ŬBI > /’o:ve/  esito di Ŭ > /o/
Che fenomeno è presente in questo sviluppo?
TĬLIŬ(M) > /tiʎ:o/  anafonesi
TRŎPAT > /’trɔ:va/  eliminazione del dittongo toscano vicino a vibrante
DӖŬ(M) > /’di:o/  chiusura di una vocale tonica media in iato
MAURŬ(M) > /’mɔ:ro/  monottongazione del dittongo AU > /ɔ/ (VIII secolo circa)
FILIŎLŬ(M) > /fiʎ’:ɔ:lo/  riduzione del dittongo toscano posteriore quando vicino c’è una consonante
palatale (processo normalizzato da Manzoni nella quarantana)
SPELŬNCA(M) > /spe’loŋka/  3° caso di anafonesi  mancata anafonesi per Ō, Ŭ + NC
PӖCORA > /’pεkora/  esito di Ӗ > /ε/ in sillaba aperta a causa della proparossitonia che tende a bloccare la
dittongazione toscana
PŎTE(T) > /’pwɔ/ (può)  dittongazione toscana di Ŏ > wⴢ e apocope sillabica
/deɲ:o/ < DĬGNŬ(M)? (Sì)
< DĪGNŬ(M)? (no, perché Ī > /i/)
< DĬNEŬ(M)? (no, perché Ĭ si sarebbe sviluppata secondo il fenomeno dell’anafonesi)
< DĪNEŬ(M)? (no, perché Ī > /i/)

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/’so:le/ < SŌLE(M)? (Sì)
< SŎLE(M)? (no, perché Ŏ > /ⴢ/)
< SŬLE(M)? (Sì)
< SŪLE(M)? (no, perché Ū > /u/)
Base storica e ortoepia (pronuncia corretta)  Esiste dunque un rapporto imprescindibile tra le basi
storiche e la corretta pronuncia (ortoepia) dello standard su base fiorentina. I suffissi che in latino avevano
Ӗ, Ŏ in sillaba chiusa in italiano hanno /ε/ ed / ⴢ/ (in grafia possiamo trovare ad indicare la /ε/ una “e” con
accento grave <è> e ad indicare la /ⴢ/ una “o” con accento grave <ò>; questo perché in italiano l’accento
grave sulle medie segna l’apertura, l’accento acuto segno la chiusura; la a, la i e la u in italiano hanno solo
l’accento grave a segnalare la pesantezza prosodica): -èllo/-èlla (ex. monello, bustarella); -ènne (ex.
ventenne); -ènza (ex. clemenza); -èstre (ex. silvestre); -òtto (ex. giovanotto).
In sillaba aperta Ӗ, Ŏ dittongano per cui Ӗ > /jε/ e Ŏ > /w ⴢ/. Il dittongo ha sempre il secondo elemento
aperto perché è il risultato di vocali brevi.
Per il suffisso -ŎLUM si ha la riduzione del dittongo -uolo > -òlo (ex. fagiuolo > fagiolo) che è avvenuta
sistematicamente a partire dall’Ottocento grazie all’influsso dell’edizione Quarantana dei Promessi Sposi.
La vocale media posteriore è sempre medio-bassa (ovvero aperta) negli ossitoni (ex. portò, comò). La
vocale è sempre aperta nei proparossitoni (accentati sulla terzultima) composti da un elemento dotto greco
(ex. filòsofo, cardiòlogo, buròcrate). La vocale è sempre aperta: nella desinenza del gerundio di seconda e
terza congiunzione in -endo (ex. vedèndo, dormèndo); nella desinenza del participio presente in -ente (ex.
vedènte, dormiènte); nella desinenza del condizionale in -èi, -èbbe, -èbbero (ex. canterèi, canterèbbe,
canterèbbero); nella desinenza del passato remoto in -ètte/-èttero (ex. gemètte, perdèttero).
I suffissi che in latino avevano Ē, Ō in italiano hanno invece vocale /e/ e /o/ (in grafia anche <é>, <ó>): -étto/
-étta (ex. cassetto, cassetta, clarinetto); -éssa (ex. dottoressa, principessa); -ézza (ex. lentezza, contentezza);
i morfemi del congiuntivo imperfetto (-éssi, -éssi, -ésse, -éssimo, -éste, -essero); i morfemi del passato
remoto (-éi, -ésti, -émmo, -éste); i morfemi dell’imperfetto (-évo, ecc…); per quanto riguarda il tipo -ménte
(ex. veramente, allegramente) e -ménto (ex. monumento) la chiusura è legata invece alla presenza della
nasale contigua (tendenza presente anche in altre zone, prevalentemente settentrionali): -óio (ex.
corridoio); -óne/-óna (ex. bambinone, testona); -óre/-tóre (ex. dolore, trattore); -óso (ex. favoloso); -
azióne/-sióne (ex. ammirazione, ammissione).
Nelle parole dotte (nei cultismi) viene riprodotta la vocale che c’era in latino: DĬSCUM > disco (dà l’idea di
un oggetto di forma piatta e circolare), mentre nell’evoluzione popolare questa parola è diventata “désco”,
che stava ad indicare la tavola rotonda e successivamente essenzialmente la tavola; VĬTIUM > vizio, mentre
nell’evoluzione popolare “vézzo” ( quando si hanno più esiti diversi da una stessa base, si parla di
allotropia); LĬGNEUM > ligneo, mentre nell’evoluzione popolare “légno”.
Le parole che subiscono mutamenti fonetici sono quelle che hanno una tradizione popolare, ovvero che
hanno seguito la regolare evoluzione storica. Mentre i cultismi, ovvero le parole rimaste collegate alla
tradizione latina, non presentano variazione rispetto alla base etimologica.
Tendenze contemporanee  Il sistema con opposizione tra medio-basse e medio-alte di tipo tosco-
romano pur rimanendo il modello di riferimento sta subendo forti attacchi da parte di alcune varietà locali
tendenzialmente settentrionali percepite dai parlanti come più di prestigio (eleganti e più moderne) anche
grazie alle reti televisive Mediaset che si servono di molti conduttori/giornalisti settentrionali. A causa di
questo sistema si sono estese pronunce divergenti da quella fiorentina.
15-03-2021
Alcuni dubbi di pronuncia sono collegati al modello romano, piuttosto diffuso sempre grazie ai media e alla
presenza a Roma del potere statale centrale: Romano atròce vs fiorentino atróce (< ATRŌCEM); Romano
Bològna vs fiorentino Bológna (< BONŌNIA); Romano colònna vs fiorentino colónna (< COLŬMNAM);
Romano dòpo vs fiorentino dópo (da DE PŎST > depo > dopo – è una labializzazione, cioè la /e/ che
diventa /o/ va verso la chiusura dell’elemento); Romano trènta vs fiorentino trénta (< TRĬGĬNTA).
Fenomeni del vocalismo atono
1. Chiusura della /e/ protonica (in una posizione atona, posizionata prima dell’accento) in /i/: ex.
DECEMBRE(M) > decembre > dicembre; FENESTRA(M) > fenestra > finestra; DEFENDO > defendo > difendo
(si parla di chiusura perché sull’asse anteriore si hanno le medie /ε/ e /e/ e poi la alta /i/, quindi il grado va

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a chiudersi). Il fenomeno però è avvenuto progressivamente e non tutto insieme. Solo nel Trecento, ad
esempio, si è avuto il passaggio per MELIORE(M) > megliore > migliore; NEPOTEM > nepote > nipote;
SENIORE(M) > segnore > signore. Dal Quattrocento invece per ME(DIO)LANU(M) (‘terra di mezzo’) > Melano
> Milano; ME(DIO)LANE(N)SE(M) > melanease > milanese; PRE(HE)NSIONE(M) > pregione > prigione.
Il fenomeno è molto frequente ma in alcune parole non si è verificato: ex. CEREBELLU(M)) > cervello NON
cirvello; FEBRUARIU(M) > febbraio NON fibbraio; VENENU(M) > veleno NON vileno. In alcuni derivati il
fenomeno non si è verificato perché la parola di base non era protonica: ex. FIDELEM > fedele per influsso
di FEDE(M) > fede; FESTIVU(M) > festivo per influsso di FESTA(M) > festa; PEIORE(M) > peggiore per influsso
di PEIUS > peggio (quindi, si potrebbe dire che, ci si trova dinanzi ad un fenomeno per analogia). In altre
parole, invece, in epoca rinascimentale si è avuto un ritorno alla /e/ per rilatinizzazione: ex. DELICATUM >
dilicato > (dal Cinquecento) delicato. Oltre che nei cultismi il fenomeno non avviene nemmeno nei prestiti
da altre lingue: ex. dallo spagnolo regal > regalo NON rigalo, dal francese “petar” > petardo NON pitardo.
Il fenomeno è avvenuto non solo all’interno delle parole ma anche nella fonosintassi, ovvero all’interno
della frase (poiché quando noi parliamo, parliamo all’interno di un continuum e non a pezzettini, per
comodità nella scrittura segmentiamo le parole – questo è un’espediente che bisogna mettere in atto
perché altrimenti il continuum renderebbe più difficile per il lettore segmentare immediatamente le parole
e quindi comprenderne il significato staccato; pertanto questo fenomeno non lo si trova solo all’interno
della parole, ma anche all’interno dell’intero continuum, ovvero la fonosintassi): MĒ > me > mi (ex. mi lavo);
TĒ > te > ti (ex. ti siedi); SĒ > se > si (ex. si veste); DĒ > de > di (ex. di Roma); ĬN > en > in (ex. in casa). Nei
dialetti in cui il fenomeno della chiusura della protonica non c’è in fonosintassi, viene mantenuta la forma
che storicamente ci si attende (quindi me, se, te, de, ecc…  ad esempio nel romano).
2. Chiusura della /o/ protonica in /u/ (non è un fenomeno che avviene con sistematicità, però può
avvenire): ex. ŎCCIDO > occido > uccido; CŎQUINA(M) > cocina > cucina; POLIRE > polire > pulire;
UNCINU(M) > oncino > uncino; AUDIRE > odire > udire (ma se si va a vedere il paradigma notiamo che “io
òdo, tu òdi, …”, questo accade perché il verbo coniugato in questo caso presenta una vocale tonica e non
protonica).
3. Chiusura di /e/ postonica in /i/: avviene in sillaba interna ma mai in sillaba finale, pertanto può
verificarsi solo in parole di almeno tre sillabe; inoltre deve provenire da una Ĭ: ex. DOMĬNĬCA(M) >
domeneca > domenica; HOMĬNES > uomeni > uomini; LAEVĬTU(M) > lieveto > lievito; FACĬLE(M) > facele >
facile.
16-03-2021
4. La labializzazione delle vocali protoniche: in alcune parole la /e/ e la /i/ precedute o seguite da
consonanti labiali (/p/, /b/, /v/, /f/, /m/) acquisiscono per coarticolazione il tratto più labiale e si
trasformano nelle vocali labiali /o/ o /u/: ex. DEBERE > devere > dovere (la /v/ è una fricativa labiodentale
sonora); DEMANDARE > demandare > domandare (la /m/ è una bilabiale nasale); DE MANE > de mani >
domani; EBRIACU(M) > ebriaco > ubriaco.
[Le caratteristiche dei suoni si identificano nella “matrice di tratti” di ogni suono, che è una specie di carta
d’identità del suono.]
5. Il passaggio di AR latino > er fiorentino si ha nelle parole in cui AR era atono  ex. Margarita >
Margherita. Sistematicamente lo si trova in alcuni suffissi: -erìa < -ÀRIA(M) con spostamento dell’accento in
avanti per influsso del greco (ex. frutteria, macelleria); -erello < -ARELLU(M) < -ARIUM incrociato con -
ELLUM (ex. vecchierello, acquerello, pazzerello); -ereccio < -ARICEU(M) < -ARIUM incrociato con -ICEUM
(ex. casereccio, godereccio). Questo fenomeno lo si ritrova anche nel futuro romanzo: ex. CANTARE + *AO >
cantarò > canterò (gli infiniti di prima coniugazione terminano in -ARE, tuttavia AR non è atono, mentre
sulla forma coniugata canterò, AR è atono, quindi AR > er).
Quando le parole sono dei dialettismi (di origine non fiorentina e quindi sviluppatisi in altre zone dell’Italia)
entrati nell’italiano, il fenomeno non si verifica (ex. mozzarella, sigaretta, bustarella, spogliarello).
Sapiente e saccente dal punto di vista semantico sono due parole differenti, inoltre saccente viene
solitamente usato con un’accezione negativa, dispregiativa. In queste due parole, nel primo caso si ha lo
sviluppo di iod (/J/), tra l’altro senza la geminazione interna che invece è tipica degli sviluppi fiorentini
(sapiente e NON sappiente  e questo già indica che si tratti di un cultismo); nel secondo invece si ha lo
sviluppo pj > cc.

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Altri sistemi vocalici dell’area italo-romanza
1. Sistema vocalico siciliano: è operativo nei dialetti dell’Italia meridionale estrema: nella Puglia salentina
(a Sud del fascio di isoglosse Taranto-Brindisi), nella Calabria centro-meridionale (a Sud del fascio di
isoglosse Diamante-Cassano) e in Sicilia. Il sistema tonico accettato è pentavocalico con una bassa centrale,
due medio-basse e due alte; le vocali brevi latine hanno dato come esito vocali medio-basse, mentre le
altre si sono chiuse in vocali alte:
Ī, Ĭ e Ē  i
Ӗε
ĀeĂ
Ŏⴢ
Ō, Ŭ e Ū  u
2. Il sistema vocalico atono siciliano si trova in Sicilia ed in Calabria ed è trivocalico e presenta solo tre
timbri (uno centrale, uno anteriore e uno posteriore) e due gradi, uno basso (/a/) e uno alto (/i/ e /u/):
Ī, Ĭ, Ē e Ӗ  i
ĀeĂa
Ŏ, Ō, Ŭ e Ū  u
3. Sistema vocalico atono salentino: nel Salento invece è presente un sistema tetravocalico,
asimmetrico, con due gradi anteriori e un grado posteriore:
ĪeĬi
ĒeӖe
ĀeĂa
Ŏ, Ō, Ŭ e Ū  u
4. Il sistema vocalico tonico sardo è anch’esso pentavocalico, ma presenta una situazione più semplice
poiché le vocali latine si uniscono in base al loro timbro eliminando solo la quantità, per cui:
ĪeĬi
ĒeӖε
ĀeĂa
ŎeŌⴢ
ŬeŪu
A causa delle metafonesi e di altri fenomeni le vocali medie sono però soggette molto spesso a chiusura
divenendo /e/ e /o/.
5. Il sistema atono sardo è uguale a quello tonico.
Esercitazione sul vocalismo atono:
QUĬD > ke  sviluppo di Ĭ > /e/;
MĒ > /mi/  chiusura di /e/ protonica in /i/ in fonosintassi;
DĒMANDARE > /doman’da:re (antico /diman’da:re/)  labializzazione di /e/ in /o/ perché vicino c’era la
/m/;
VĬDEBA(T) > /ve’de:va/  esito di Ĭ > /e/;
DӖCӖMBRE(M) > /di’tʃεmbre/  chiusura di /e/ protonica in /i/;
FĒNӖSTRA(M) > /fi’nεstra/  chiusura di /e/ protonica in /i/;
MĒDŬLLU(M) > /mi’dol:o/  chiusura di /e/ protonica in /i/.
Sistema di
trascrizione IPA –
consonanti
I parametri di
defini-zione delle
consonanti sono: il
modo di arti-
colazione (che tipo
di ostruzione viene
mes-sa in atto nella
cavità orale); il

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luogo di articolazione (dove viene articolato il suo-no all’interno della cavità orale); sordità / sonorità (le
pliche vo-caliche, che sarebbero le corde vocali sono in posizione di riposo, e quindi producono un suono
sordo, o vibrano, e quindi producono un suono sonoro, al passaggio dell’aria).
Modi di articolazione (come avviene): occlusivo o esplosivo (vi è un’occlusione completa di una parte della
cavità orale quindi quando l’aria esce produce una sorta di esplosione); fricativo (vi è un’ostruzione parziale
della cavità orale quindi quando il suono esce produce una sorta di fruscio; il suono in questo caso può
essere mantenuto perché l’ostruzione della bocca è solo parziale e per questo si può parlare anche di
consonanti continue); affricato (il suono ha un attacco occlusivo e un rilascio fricativo; in italiano le affricate
sono solo quattro); nasale (il suono presenta l’uscita attraverso la cavità nasale poiché l’innalzamento del
velo palatino permette l’immissione dell’aria nelle fosse nasali); vibrante (il suono viene prodotto con la
vibrazione della punta della lingua sul palato superiore nella zona anteriore centrale); laterale (il suono
viene prodotto con l’attaccamento della lingua nella parte anteriore del palato superiore e l’uscita dell’aria
attraverso le fessure laterali); approssimante (il suono si produce con una parziale occlusione della cavità
orale anteriormente o posteriormente).
Luoghi di articolazione (dove avviene): bilabiale (l’ostruzione avviene mediante entrambe le labbra);
labiodentale (l’ostruzione avviene tra la punta della lingua e gli incisivi superiori); alveolare (l’ostruzione
avviene tra la punta della lingua e gli alveoli, cioè la parte interna dei denti, degli incisivi superiori);
prepalatale o post-alveolare (l’ostruzione avviene tra la punta della lingua e la parte anteriore del palato
superiore); palatale (l’ostruzione avviene tra la parte centrale del dorso linguale e la parte centrale del
palato superiore); velare (l’ostruzione avviene tra la parte più arretrata del dorso linguale e la parte
posteriore del palato superiore).
Sordità/sonorità: se mentre il suono fuoriesce dalla trachea fa vibrare le pliche vocali il suono è sonoro, se
invece queste restano in posizione di riposo il suono è sordo. Ponendo una mano sulla gola possiamo
avvertire la pressione messa in atto dalle pliche vocali in movimento durante il passaggio dell’aria.
OCCLUSIVE
sorda sonora
bilabiali /p/ /b/
alveolari /t/ /d/
retroflesse [ʈ] [ɖ]
palatali [c] [ɟ]
velari /k/ /g/
FRICATIVE
sorda sonora
bilabiali [φ] [β]
labiodentali /f/ /v/
dentali [θ] [ð]
alveolari /s/ /z/
prepalatali /ʃ/ (sc) [Ʒ] (sg)
(o postalveolari)
AFFRICATE
sorda sonora
alveolari /ts/ /dz/ (il primo grafema lo si trova per la s il secondo per la z)
prepalatali /ʧ/ /ʤ/ (esempio pronuncia ciliegia)
(o post-alveolari)
18-03-2021
NASALI  sono tutte sonore e infatti appartengono anche a quella categoria che definiamo “sonoranti”,
cioè alcune consonanti che hanno un grado di sonorità tanto alto da poter esser eguagliate in molte
circostanze alle vocali (che sono sempre sonore e che costituiscono nucleo vocalico, anche da sole) ed in
alcuni dialetti possono costituire nucleo sillabico (NON nell’italiano standard).
sonora
bilabiale /m/ (se il naso è otturato si tende a pronunciare la bilabiale /b/)

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labiodentale [ɱ] (questo suono è messo tra parentesi quadre perché è un allofono e cioè una possibilità
di realizzazione che però non ha valore fonematico, cioè distintivo; questo vuol dire che abbiamo una
realizzazione abbinata al contesto di produzione, sono quindi degli allofoni abbinati per coarticolazione per
facilitare la pronuncia)
alveolare /n/
palatale /ɲ/ (pronuncia gn)
velare [ŋ] (segue la stessa logica del grafema [ɱ])
VIBRANTI (anche le vibranti sono delle sonoranti)
sonora
alveolare /r/
uvulare /ʀ/ (è una specie di “r” aspirata)
APPROSSIMANTI
sonora
labiale /w/ o [w] (esempio pronuncia lacuale)
palatale /j/ o [j] (esempio pronuncia piano)
Il grafema è diversamente trascritto a seconda del suo valore poiché se ha valore distintivo fonematico si
usa il primo grafema, se invece abbiamo solo la pronuncia diversa il secondo grafema.
LATERALI
sonora
alveolare /l/
palatale /λ/ (pronuncia gl)
Matrice di tratti  una matrice di tratti è l’insieme dei tratti costitutivi di ogni fonema e quindi permette di
individuarlo inequivocabilmente. I tratti distintivi delle vocali sono l’asse (posteriore, centrale, anteriore), il
grado di apertura (basso, medio-basso, medio-alto, alto) e l’aprocheilia (a sinistra dell’asse) o procheilia (a
destra dell’asse) (ex. /a/  vocale bassa centrale); i tratti distintivi delle consonanti sono il modo di
articolazione, il luogo di articolazione e sordità/sonorità (ex. /b/  consonante occlusiva bilabiale sonora).
Coppia minima  ex. /’pa:ne/ vs /’ra:ne/ vs /’ka:ne/. I fonemi, in quanto unità minime distintive, sono in
grado di distinguere parole uguali in tutto tranne che in un fonema (le coppie minime, appunto). Anche la
lunghezza consonantica in italiano è fonematica ed è segnalata con il cronema ovvero (ex. /’pa:la/
vs /’pal:a/). La coppia minima va in distinzione anche per l’apertura e la chiusura vocalica (ex. pesca dal
verbo pescare vs pesca il frutto).
Polisemia  la facoltà di avere significati diversi sia per svolgimento di significato (ex. macchina per
‘automobile’ aggiunta al valore tradizionale di ‘ordigno meccanico’) sia per confluenza di due diverse
tradizioni (ex. consumare una ricca colazione [dal latino consummare] e consumare un patrimonio [dal
latino consumĕre]).
Consonanti sempre intense  ci sono cinque consonanti in italiano che quando si trovano in posizione
intervocalica (sia all’interno di parola sia all’interno di frase, cioè in fonosintassi) sono sempre intense
(vengono sempre pronunciate come se fossero delle doppie): /ʃ:/, /λ:/, /ɲ:/, /t:s/ e /d:z/.
Coarticolazione  Per la Legge di Zift (anche detta Legge del massimo rendimento minimo sforzo) i foni
possono attrarre alcuni tratti di foni attigui, poiché l’apparato articolatorio per sforzarsi il meno possibile
cerca di articolare insieme (coarticolare) due suoni vicini. In questo caso, almeno in italiano, non si tratta
però di fonemi poiché non hanno valore distintivo, ma solo di foni (suoni) dati dalla necessità di
semplificare la produzione. Ex: [‘vɛŋgo]: /n/  nasale velare sonora + /g/  occlusiva velare sonora; /n/ >
[ŋ]  nasale velare sonora; viene acquisito dalla nasale alveolare il tratto di velarità dell’occlusiva velare
contigua; [iɱ’vɛrno]: /n/  nasale alveolare sonora + /v/  fricativa labiodentale sonora; /n/ > [ɱ] 
nasale labiodentale sonora; viene acquisito dalla nasale alveolare il tratto di labiodentalità della fricativa
labiodentale sonora contigua.
Teoria della sillaba – il nucleo  La sillaba la si indica con il simbolo sigma: “σ”; quindi, si può avere σ1
(prima sillaba o ossitona, cioè ultima sillaba), σ2 (seconda o penultima sillaba), σ3 (terza o terzultima
sillaba), a seconda se si parte dall’inizio o dalla fine. In italiano ogni sillaba è formata sempre da un nucleo
(N) che è costituito per forza da una vocale poiché essa possiede un grado di sonorità tale da poter anche
costituire da sola una sillaba (ex. A-MO-RE; E-LI-COT-TE-RO; O-LEZ-ZO).

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In alcuni dialetti italiani la vocale può essere sostituita da una sonorante, cioè da una consonante che ha un
alto grado di sonorità tanto da essere equiparabile ad una vocale. Le sonoranti sono: /l/, /r/, /n/, /m/.

Teoria della sillaba – attacco e coda


Attacco (A): il nucleo può essere preceduto da una o più consonanti. L’attacco, in italiano, può essere
semplice, ma può anche essere doppio o triplo, in questi ultimi due casi però la sequenza è blindata (il
secondo elemento deve essere per forza una sonorante e il terzo elemento una sibilante). In questo caso si
dice che la sillaba ha un attacco consonantico (ex. PA-NE, TRA-GE-DIA).
Coda (C): il nucleo può essere seguito da una consonante. In questo caso si dice che la sillaba ha una coda
consonantica (ex. AR-TO, AL-TO).
Il nucleo (N) può essere anche congiuntamente preceduto e seguito da consonanti (ex. FER-MO, CAL-ZA).
[Il giudizio di accettabilità è quella cosa che ci fa percepire sulla base delle nostre conoscenze pregresse e le
nostre abitudini locutorie un elemento come autoctono o straniero, plausibile o non plausibile; in genere il
giudizio di non accettabilità viene segnalato con un asterisco posto dinanzi alla parola e questa cosa viene
utilizzata tantissimo nelle grammatiche di tipo generativo.]
Sillaba: tipi prosodici  In italiano esistono tre tipi prosodici di base: parossitonia  accentazione sulla
penultima sillaba (75-80% circa dell’itero patrimonio lessicale) (ex. pane, maglione, sedia, calma); ossitonia
 accentazione sull’ultima sillaba (ex. caffè, città, volontà  le ultime due parole sono ossitone per
evoluzione storiche e si sono formate tramite il fenomeno dell’aplologia, ovvero quando si hanno due
sillabe simili, l’ultima tende a cadere  ex. VOLUPTA(TEM) > volontà, CIVITA(TEM) > città); proparossitonia
 accentazione sulla terzultima (ma anche quartultima, quintultima), che non sono molte ma aumentano
grazie all’aggiunta delle particelle enclitiche (ex. tàvolo, màschera, lièvito, prènditelo, mangiàtevelo).
Diacritici: accento e lunghezza  L’accento ‘ viene messo prima della sillaba accentata 
Es: /’gat:o/, /’rab:ja/, /per’ke/. Il cronema : segnala la durata di una consonante o di una vocale. In italiano
le consonanti lunghe sono dette geminate o doppie (ex. /’gat:o/, /’rab:ja/). Quando si tratta di un’affricata
(composta da due simboli fonetici) il cronema si può mettere subito dopo il primo suono oppure dopo i due
simboli (ex. /’pot:so/ oppure /’pots:o/). In italiano la vocale lunga si trova solo nella sillaba aperta dei
parossitoni, ma non ha valore distintivo (ex. /’pa:ne/, /’ma:no/).
Rapporto grafemi e foni/fonemi consonantici dell’italiano (anche detto rapporto fono-grafematico)
Grafemi (16) Fonemi (21) / Foni (che sono di più per la coarticolazione)
<b> /b/
<c> /k/ /ʧ/
<d> /d/
<f> /f/
<g> /g/ /ʤ/
<h> assente
<l> /l/
<m> /m/ (+ /b/ e /p/) [ɱ] (+ /f/ e /v/)
<n> /n/ (+ /t/ e /d/) [ŋ + /k/ e /g/)
<p> /p/
<r> /r/
<s> /s/ /z/
<t> /t/
<v> /v/
<z> /ts/ /dz/
19-03-2021
Le varianti possono essere combinatorie e libere  le prime non hanno valore fonematico ma dipendono
dal contesto fonetico (la coarticolazione) e in questo caso parliamo di allofoni; le seconde invece non hanno
valore fonematico, ma dipendono dal singolo locutore.
Digrammi/Trigrammi
Grafemi Fonemi/Foni

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<sc>/<sci> /ʃ/
<gn> /ɲ/ (è raro che si pronunci /g/ + /n/)
<gli> /λ/ (è raro che si pronunci /g/ + /l/ di glicine)
-----------------------------------------------------------------------------------------
<ch> /k/ [c]
<gh> /g/ [ɟ]
-----------------------------------------------------------------------------------------
<q> /k/ + [w]
Nonostante la pronuncia sia la stessa, nella scrittura si distingue la <q> dalla <c> per una questione di
abitudine storica, si tratta di una discrepanza su base storica.
Ricapitolando: in italiano vi sono alcuni grafemi che corrispondono a più pronunce, quindi sono omografi
ma non omofoni: <o> = /o/ e /ͻ/; <e> = /e/ e /ɛ/; <i> = /i/ e [j]; <u> = /u/ e [w]; <z> = /ts/ e /dz/; <c> = /k/
e /ʧ/; <g> = /g/ e /ʤ/; <s> = /s/ e /z/. In italiano ci sono cinque consonanti che quando si trovano in
posizione intervocalica (sia all’interno di parola sia all’interno di frase, cioè in fonosintassi) sono sempre
intense: /ʃ:/, /λ:/, /ɲ:/, /t:s/ e /d:z/ (ex. <nazione> /nats’:jone/; <coscia> /’kͻʃ:a/). Nella lingua italiana anche
la lunghezza consonantica è fonematica (ex. pala vs palla, casa vs cassa, micia vs miccia). Non è invece
fonematica la lunghezza vocalica che si realizza nel nucleo di una sillaba libera nei parossitoni (Legge
dell’isocronia sillabica dell’italiano).
Ortoepia: pronuncia corretta  Quello rappresentato finora è il repertorio fonetico/fonematico
dell’italiano standard. In realtà quasi tutti gli italiani presentano nel parlato una pronuncia marcata a livello
diatopico, poiché l’italiano standard è una cosa che solitamente si apprende in un secondo momento: ad
esempio l’area barese presenta  la distinzione fra vocali medie aperte e chiuse che non avviene su base
storica ma su base metrico sillabica (ex. rósa, póllo, béne, quéllo); la pronuncia sempre sorda della /s/
intervocalica (ex. rósa, cósa); la pronuncia sempre intensa di /b/ e /ʤ:/ in posizione intervocalica (ex.
Robberto, Luiggi); l’affricazione della sibilante in posizione post-nasale (ex. penzare, inzieme).
22-03-2021
Come già visto per le vocali è utile ribadire anche per le consonanti quali sono le regole che stabiliscono la
pronuncia dello standard. La prima cosa che si va a controllare per avere contezza di quel che è accaduto è
la base latina perché conoscere la base latina e i fenomeni della grammatica storica aiuta a pronunciare
correttamente le forme. In seguito, si va a vedere quali sono le tendenze contemporanee poiché conoscere
le tendenze contemporanee e consultare i dizionari dell’uso aiuta a dirimere i dubbi e le
irregolarità/particolarità.
Fenomeni del cambiamento storico del consonantismo
1. L’assimilazione può essere di tipo totale o parziale e quella totale rientra nei casi di coarticolazione (e
quindi tutti i tratti di un suono vengono presi dal suono vicino). Tramite questo fenomeno due consonati
adiacenti diventano uguali; il fenomeno avviene quando le consonanti si trovano tra due vocali. In italiano il
fenomeno dell’assimilazione è solo regressivo, vale a dire che è la seconda consonante ad attirare a sé la
prima (quando invece è il contrario, cioè quando è il primo elemento che porta a sé il secondo si parla di
assimilazione progressiva, perché progredisce). I nessi vocalici che hanno subito questo tipo di trattamento
sono: -PS- > -ss- (ex. CAPSA(M) > cassa, IPSU(M) > esso); -CT- > -tt- (ex. LACTE(M) > latte, OCTO > otto); -PT-
> -tt- (ex. SCRIPTU(M) > scritto, RUPTU(M) > rotto); -DV- > -vv- (ex. ADVENIRE > avvenire, ADVISARE >
avvisare); -MN- > -nn- (ex. DAMNU(M) > danno, SOMNU(M) > sonno); -X- (ovvero l’unione dei suoni -CS-) >
-ss- (ex. SAXU(M) > sasso), ma anche > sc (ex. AXILLA(M) > ascella, COXA(M) > coscia). Nei dialetti centro
meridionali invece si hanno anche casi di assimilazione progressiva: -LD- > /l:/ (ex. CAL(I)DU(M) > [‘kal:o];
-ND- > /n:/  MUNDU(M) > [‘mon:o]/[‘mun:ə]); -MB- > /m:/ (ex. PLUMBU(M) > [‘kjum:ə], GAMBA(M) >
[‘jam:ə]); -NV- > /m:/ (ex. INVIDIA(M) > [m:irj:ə]). La prima assimilazione progressiva riguarda -ND- > /n:/ ed
è un’iscrizione su una ciotola votiva ritrovata in aerea osco-umbra (quindi popolazioni prelatine),
testimonianza che ci consente di notare quanto antico sia questo fenomeno.
2. Assimilazione in fonosintassi (cioè nell’insieme degli elementi che compongono la frase) 
L’assimilazione regressiva in italiano può avvenire anche in fonosintassi, tuttavia si sente nella pronuncia
ma la scrittura in genere lo censura (ex. AD CASA(M) > <a casa> vs /a k’:asa/; TRES CANES > <tre cani> vs
/tre k:ani/  ma enciclopedia Treccani). Quando il raddoppiamento fonosintattico non avviene solo nella

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pronuncia ma anche nella grafia le parole coinvolte nel fenomeno si attaccano fra loro, questo fenomeno si
chiama univerbazione (ex. soprattutto). In italiano provocano questo fenomeno (quello dell’univerbazione):
i monosillabi (perché avevano finale consonantica in latino)  a (< AD), che (< QUID), da (< DE AB), e (< ET),
TRES (< TRES) ecc…; alcuni polisillabi  come, dove, sopra, qualche. Questo è un escamotage che la lingua
ha messo in atto nel tempo per poter salvaguardare il rapporto biunivoco tra grafia e pronuncia. Il
fenomeno è assente nell’Italia settentrionale dove è presente il fenomeno dialettale dello scempiamento (o
degeminazione consonantica) in posizione intervocalica.
3. La labiovelare è un nesso consonantico formato da una consonante velare /k/ o /g/ + un
approssimante velare (o posteriore) /w/, quindi i nessi /kw/ e /gw/. In latino la labiovelare sorda QU poteva
trovarsi sia all’inizio di parola (ex. QUALIS) sia all’interno (ex. AQUA(M)). La labiovelare sonora invece era
presente solo in posizione interna (ex. ANGUILLA(M), SANGUE(M)), quindi in italiano i termini con gu- in
posizione iniziale non sono autoctoni bensì di origine germanica e provengono da W- (ex. WERRA > guerra,
WARDON > guardare; guanto; guantiera ecc…). In italiano esistono pochissime parole che hanno gu- in
posizione iniziale e che sono di origine latina (ex. guado < VADO, guadare < VADARE e guaìna <
VAGĪNA(M)). La V- in posizione iniziale latina è stata trattata come la W- germanica in posizione iniziale e
per questo motivo in questo caso si parla di germanizzazione secondaria.
In italiano la labiovelare sorda può essere: primaria se era presente già nel latino classico come in
AQUA(M), AEQUALIS, QUE(M); secondaria se si è creata nel passaggio dal latino volgare all’italiano come in
(EC)CU(M) ĬSTU(M) > questo, (EC)U(M) HAC > qua.
La labiovelare primaria sorda si conserva se è seguita da A e in posizione interna si gemina (ex. QUALIS >
quale /’kwa:le/; AQUA(M) > acqua /’ak:wa/). In alcuni casi si è sonorizzata (ex. AEQUALIS > eguale >
/u’gwa:le/). Se seguita da una consonante diversa ha perso la /w/ (ex. QUI(D) > chi; QUE(M) > che). La
labiovelare secondaria sorda invece si mantiene sempre, qualunque sia la vocale che segue: ex. (EC)CŬ(M)
ĬSTU(M) > /’kwesto/ ‘questo’; (EC)CŬ(M) ĬLLŬ(M) > /’kwel:o/ ‘quello’; (EC)CU(M) HĀC > /’kwa/ ‘qua’.
La labiovelare sonora si mantiene sempre, qualunque sia la vocale che segue  ex. ANGUILLA(M) >
/aŋ’gwil:a/; SANGUE(M) > /’saŋgwe/; LINGUA(M) > /’liŋgwa/. Nei dialetti meridionali invece la labiovelare
sonora si perde e quindi il fenomeno non è presente (ex. [‘saŋgə], [‘lɛŋgə]).
4. La spirantizzazione  in posizione intervocalica la -B- > /v/ (ex. DEBERE > dovere; FABULA(M) >
favola); l’occlusiva bilabiale tende ad indebolirsi e si passa quindi ad una fricativa labiodentale (questo
fenomeno rientra nel campo della lenizione, ma nello specifico si parla di spirantizzazione). Nella lingua
poetica abbiamo un ulteriore sviluppo e le forme dell’imperfetto hanno perso la /v/ (ex. VIDEBA(T) >
vedeva > vedea  avviene una vera e propria sincope della /v/  parliamo in questo caso di grado zero). I
casi in cui questo fenomeno non si presenta sono: i cultismi, poiché si tratta di parole molto legate alla
tradizione storica e quindi non partecipano ai fenomeni del cambiamento che avvengono in ambito
popolare (ex. HABILE(M) > abile, SUBITO > subito); i germanismi o forestierismi, entrati probabilmente
quando il fenomeno si era ormai concluso, non presentano la spirantizzazione (ex. RAUBON > rubare,
RAUBA > roba).
5. La sonorizzazione  in italiano in posizione intervocalica o tra vocale e R le consonanti sorde possono
(non sempre) trasformarsi in sonore (ex. LACU(M) > lago, ACU(M) > ago, MATRE(M) > madre). Nell’Italia
settentrionale la sonorizzazione è molto diffusa tanto da essere considerata (insieme alla degeminazione)
un tratto caratterizzante di quella varietà (ex. AMICUM > amigo vs fiorentino amico; CAPILLI > cabelli e
addirittura > cavei con la spirantizzazione, /p/ > /b/ > /v/ vs fiorentino capelli). Nell’Italia meridionale la
sonorizzazione è presente ma molto spesso al suo posto si ha il mantenimento della sorda (ex. aco, laco,
matre, patre ecc…) e a volte si ha addirittura la tendenza all’assordimento delle consonati (ex. ciardino
‘giardino’, ciallo ‘giallo’).
Ma da dove viene la sonorizzazione? In Toscana la tendenza alla sonorizzazione in posizione intervocalica è
collegata alla tipologia settentrionale che a sua volta l’aveva con tutta probabilità ereditata dalla Francia.
Plausibilmente furono i mercanti ad importare questo tipo di pronuncia, che venne accettata perché
percepita come più elegante: se infatti si va a controllare, la percentuale più alta di pronunce sonore si ha
nella zona pisana, aperta alle attività commerciali e agli scambi navali molto prima di Firenze.
La sonorizzazione della sibilante è ormai sistematica in italiano, per cui /s/ > /z/. Tuttavia, resta la pronuncia
sorda in alcuni casi: le parole casa, naso, così; nei suffissati in -oso (curioso, famoso); nelle voci latine in cui

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si aveva -NS- intervocalica (ex. MENSEM > mese) compresi i suffissati in -ese < -ENSE(M) (ex. inglese,
milanese).
6. La palatizzazione  A partire dal III secolo d.C. e poi definitivamente dal V secolo le consonanti latine
C e G non furono più pronunciate come occlusive velari ma subirono la palatizzazione quando seguivano le
vocali palatali E e I (per coarticolazione) e quindi diventarono delle affricate prepalatali (ex. CICERO
= /’kikero/ ‘Cicerone’ > /ʧiʧ’ro:ne/; COENA(M) = latino volgare /’ke:na/ ‘cena’ > /’ʧe:na/; GELUM > latino
volgare /’gɛ:lu/ ‘gelo’ > /’ʤɛ:lo/).
[Curiosità: In Sardegna ancora oggi il Venerdì Santo si chiama kenapura (cena pura), questa denominazione
mantiene ancora la pronuncia sorda della consonante, a dimostrazione del fatto che le aree laterali sono
più conservative.]
La G in posizione interna oltre a palatizzarsi ha avuto altri due sviluppi: si è intensificata, si è cioè geminata
in posizione interna) (ex. LEGI(T) > legge); oppure, al contrario, è stata assorbita dalla vocale omorganica (in
questo caso la /i/) adiacente (ex. SAGITTA(M) > saetta).
7. Esiti di J  La I seguita da un’altra vocale si trasforma in /j/. In posizione iniziale I- + vocale > /ʤ/ (ex.
IUNIU(M) > /’ʤuɲ:o/ ‘giugno’; IOHANNES > /ʤo’van:i/ ‘Giovanni’). In posizione interna -I- intervocalica
> /ʤ:/ geminata (ex. MAIUS > /‘maʤ:o/ ‘maggio’; PEIORE(M) > /peʤ’:o:re/ ‘peggiore’).
8. Esiti di consonante + J  Fin dal II-III secolo d.C. si ritrovano iscrizioni latine in cui le consonanti
(tranne R e S) seguite da J tendevano a geminarsi.
o Raddoppiamento in posizione interna: -PJ- > /p:j/ (ex. SEPIA(M) > /’sep:ja/ ‘seppia’); -BJ- / -VJ- > /b:j/
(ex. RABIE(M) > /’rab:ja/ ‘rabbia’, GAVEANU(M) > /gab’:ja:no/ ‘gabbiano’, CAVEA(M) > /’gab:ja/ ‘gabbia’);
-MJ- > /m:j/ (ex. SIMIA(M) > /’ʃim:ja/ ‘scimmia’, VINDEMIA(M) > /ven’dem:ja/ ‘vendemmia’). Quindi la
consonante seguita da J in posizione interna > consonante doppia + J.
o Alcune consonanti dopo essersi raddoppiate però subiscono altre trasformazioni come il
raddoppiamento e la palatizzazione: -CJ- > /t:ʃ/ (ex. FACIO > /’faʧ:o/ ‘faccio’); -GJ- > /d:Ʒ/ (ex. REGIA(M) >
/rɛʤ:a/ ‘reggia’); -NJ- > /ɲ:/ (ex. GRAMINEA(M) > /gra’miɲ:a/ ‘gramigna’, IUNIU(M) > /’ʤuɲ:o/ ‘giugno’); -
LJ- > /λ:/ (ex. FILIU(M) > /’fiλ:o/ ‘figlio’, MULIER > /moλ:e/ ‘moglie’).
23-03-2021
o Un altro esito riguarda la T e la D che diventano affricate alveolari (raddoppiate in posizione
intervocalica)  l’affricazione accanto a -TJ- > /ts/ (ex. FORTIA(M) > [‘fͻrtsa] ‘forza’), mentre > /t:s/ in
posizione intervocalica (ex. PLATEA(M) > [‘pjat:sa] ‘piazza’).
o Nelle parole di origine galloromanza o settentrionale si ha anche un esito più tardo solo in Toscana. Si
tratta di /ӡ/ scempio, tale suono era assente nel patrimonio fonematico consonantico italiano al di fuori
della Toscana. Per trascriverlo è stato usato il grafema <gi>  TJ > /ӡ/ = <gi> (ex. RATIONE(M) > [ra’ӡo:ne]
‘ragione’, SERVITIU(M) > [ser’vi:ӡo] ‘servigio’), ma trascrizione <gi>  quindi fuori dalla Toscana la
pronuncia di questo suono viene fatta su base grafica e quindi /ʤ/ (motivo per cui pronunciamo
[ra’ʤo:ne], [ser’vo:ʤo]; tra l’altro proprio perché riproduce un suono scempio non viene scritto come
geminato come invece ci saremmo aspettati visto che si trova in posizione intervocalica).
o In fiorentino raramente alcuni nessi triconsonantici composti da N, R, P, C, M, T + TJ danno come
esito /ʧ/ o /t:ʃ/ (ex. *CUMINITIARE > /komin’ʧa:re/; *EXQUARTIARE > /skwar’ʧa:re/; *CAPTIARE >
/kaʧ’:a:re/; *COMPTIARE > /kon’ʧa:re/; *GUTTIARE > /goʧ’:a:re/); DJ > /dz/ (ex. PRANDIU(M) > /’prandzo/; -
DJ- > /dz:/  MEDIU(M) > /’mɛd:zo/ oppure > /ʤ:/  HODIE(M) > /’ͻʤ:i/).
In alcuni casi la stessa base etimologica si è evoluta in modi diversi, quindi abbiamo degli allotropi (ex.
PRAETIU(M) > /’prɛts:o/ o > /’prɛ:ʤo/; RADIU(M) > /’radz:o/ o /’raʤ:o/); in questo caso l’evoluzione non
significa che una delle due parole sia un cultismo come invece spesso accade in DĬSCUM > desco (forma
popolare) vs disco (forma dotta).
-RJ- ha dato invece due esiti diversi: in toscana -RJ- > /j/ (ex. AREA(M) > aia, GLAREA(M) > ghiaia)  il
fenomeno si vede sistematicamente soprattutto nelle parole derivate dal suffisso latino -ARIU(M) > -aio/-aia
(ex. tabaccaio, benzinaio, lavandaia – il suffisso -aio solitamente è un suffisso d’agente); nel resto dei
dialetti italiani invece -RJ- > /r/ (ex. CALAMARIU(M) > calamaro) > fiorentino calamaio (entrambe le parole
stanno ad indicare un contenitore di inchiostro)  il suffisso -ARIU(M) > -aro evidenzia la provenienza non
toscana di alcune parole come paninaro (Nord), palombaro, calamaro (Sud), palazzinaro, borgataro
(Centro: Roma).
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In Toscana -SJ- ha dato vita alle fricative prepalatali sorda e sonora scempie /ʃ/ e /ӡ/ che non sono però
presenti nel repertorio fonematico e grafematico italiano, pertanto in grafia vennero trascritte con <ci> e
<gi> e a causa di questa scrittura fuori dalla Toscana vennero pronunciate come affricate prepalatali /ʧ/
e /ʤ/ (ex. BASIU(M) > /’ba:ʧo/, CAMISIA(M) > /ka’mi:ʧa/, PHASIANU(M) > /fa’ʤa:no/, PHAESEOLU(M) >
/fa’ʤͻ:lo/). Il fatto che sia solo una resa grafica giustifica l’assenza della geminazione attesa per i nessi di
consonante + J in posizione intervocalica.
I nessi di consonante + L (laterale alveolare sonora) si trasformano in consonante + J (ex. PLUVIA(M)
> /’pjͻʤ:a/ ‘pioggia’, PLANGERE > /’pjanʤere/ ‘piangere’, CLAVE(M) > /’kja:ve/ ‘chiave’, FLORE(M)
> /’fjo:re/ ‘fiore’). In posizione interna (come già visto per i nessi con J) la consonante raddoppia (ex.
AURIC(U)LA(M) > /o’rek:ja/-/o’rec:a/, STUP(U)LA(M) < /’stop:ja/ ‘grano bruciato’).
L’ipercorrettismo di -GL- > <gli>. A Firenze nel Medioevo -GL- diventava regolarmente <gghi> (/g:j/-/ɟ:/), per
cui si avevano, ad esempio, TEG(U)LA(M) > <tegghia>, VIG(I)LARE > <vegghiare>. Nel Quattrocento però
nelle campagne fiorentine si impose <gghi> anche al posto della laterale palatale <gli> derivata da LJ, per
cui si avevano <figghio> anziché <figlio>, <pagghia> anziché <paglia> e così via. Nel Cinquecento Firenze
reagì a questa pronuncia campagnola ripristinando <gli> in tutti i contesti, non solo quelli in cui
effettivamente serviva, ovvero nelle forme derivate da LJ, ma anche in quelle derivate da -GL-. [Quando un
fenomeno viene esteso a parole che non lo dovrebbero avere perché il parlante pensa che sia la forma
corretta si parla di ipercorrettismo.]
9. Esiti di consonante + L  Sia (-)SL- > cchj che –(T)L- > cchj. SL- in posizione iniziale in latino non
esisteva, il nesso è infatti di origine germanica (ex. SLAVUM > schiavo, SLAVONE(M) > schiavone, SLAVONEA
> Schiavonea; SLAITEN > schiattare). In posizione interna invece il latino aveva qualcosa di simile, -S(U)L-,
che ben presto perse per sincope la (U) (ex. INS(U)LA(M) > isola  in napoletano invece c’è la sincope e
quindi > /c/ > Ischia). Anche TL- in posizione iniziale in latino non esisteva, mentre in posizione interna c’era
-T(U)L- (ex. VET(U)LU(M) > vecchio, SIT(U)LU(M) > secchio).
Fenomeni generali che possono riguardare o l’aumento o la diminuzione del corpo fonico  È possibile
avere una serie di fenomeni (abbastanza sistematici) che possono influenzare il corpo fonico della parola.
Fenomeni di aggiunta  1. Prostesi: l’inserimento di un suono in posizione iniziale; in italiano in genere si
tratta di una i- prostetica davanti ad una /s/ seguita da consonante (la cosiddetta s impura), quindi ad
esempio Ispagna, (per) iscritto, ma anche davanti ad altri tipi di consonanti come nel caso di Ignudo. 2.
Epentesi: l’inserimento di un suono in posizione interna; in italiano in genere si tratta dell’inserimento di
una consonate tra due vocali per evitare lo iato e quindi, ad esempio, MANTUA(M) > Mantova, IOHANNES >
Giovanni; oppure l’inserimento di una vocale tra due consonanti per facilitare la pronuncia di un nesso
complesso (ex. BAPTISMU(M) > battesimo). 3. Epitesi: inserimento di una vocale o di una sillaba in
posizione finale; in genere il fenomeno si ha nelle parole terminanti in consonante e in quelle ossitone o
monosillabi (ex. DAVID > Davide, Cosìe ‘così’, trovòe ‘trovò’, none ‘no’).
Fenomeni di perdita  1. Aferesi: caduta di un suono o di una sillaba in posizione iniziale quindi (ex. questo
―> sto). 2. Sincope: caduta di un suono o di una sillaba in posizione interna (ex. MAC(U)LA(M) > macchia,
SPEC(U)LU(M) > specchio). 3. Apocope: caduta di un suono o di una sillaba in posizione finale (ex. buono
―> buon, grande ―> gran).
Per approfondire  L’apocope sillabica obbligatoria in italiano si ha ad esempio in Santo ―> San quando
segue una consonante (ex. San Carlo, San Bonifacio), mentre Sant’ è un’elisione perché è davanti a vocale
(ex. Sant’Oronzo, Sant’Agostino, Sant’Ubaldo). In alcuni casi anche l’apocope viene segnalata e viene
segnata sempre con l’apostrofo, in quanto segna la caduta, come nelle parole Frate ―> fra’ + nome proprio
(ex. Fra’ Martino) o Modo ―> mo’ all’interno della locuzione preposizione a mo’ di.
L’apocope vocalica obbligatoria si ha: negli infiniti seguiti da pronome atono (ex. vederl+lo, dir+gli); negli
appellativi maschili singolari di rispetto o professionali se seguiti da nome proprio (ex. signor Bianchi,
professor Rossi); con l’aggettivo buono se anteposto al sostantivo (ex. del buon vino, un buon pane).
La vocale da apocopare deve esser preceduta da una sonorante e quindi /l/, /r/, /m/ o /n/ (ex. dello > del;
dormire > dormir; buono > buon); la vocale da apocopare deve essere atona; -e e -i non possono essere
apocopate se assumono valore morfologico (ex. buone madri non buon madri); -a in posizione finale non
può essere apocopata se non negli avverbi ora, allora, ancora e in suora quando è seguito da nome proprio

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(ex. or ora; allor; ancor; suor Faustina ma è arrivata la suora); prima di una pausa non si può avere
l’apocope se non in caso di una struttura ben precisa che è la poesia.
Differenza tra elisione e apocope  l’elisione avviene unicamente davanti a vocale e deve essere
obbligatoriamente segnalata con l’apostrofo; l’apocope invece in genere non viene segnalata tranne in po’,
mo’ e quando la vocale apocopata è preceduta da un’altra vocale, come nelle antiche preposizioni da’ (dai)
e de’ (ex. Pia de’ Tolomei, Paperon de’ Paperoni).
La metatesi consiste nello scambio di posto di due suoni (o sillabe) all’interno della stessa parola, come nel
caso di crapa < CAPRA(M), ciocca < COCIA(M).
L’errore di discrezione è quando una parola comincia con un suono che può essere percepito come un
articolo (lo/o, l’, la) o una preposizione (in) e viene staccato dalla parola di base (ex. LUSCINIOLU(M) >
l’usignolo, OBSCURU(M) > (l)o scuro, HARENA(M) > la rena, ABBATISSA(M) > (l)a badessa, INCICTA(M) > in
cinta).
Nell’errore di concrezione, al contrario, l’articolo può essere percepito come parte integrante del sostantivo
e essere inglobato nel lessema come nel caso di ASTRACU(M) > *l’astrico > il lastrico.
25-03-2021
Esercitazione
[La freccia “―>” indica un cambiamento in sincronia, quindi qualcosa che è avvenuto in un lasso di tempo
più breve.]
ADVENIRE > /av:e’ni:re/ ‘avvenire’  fenomeno dell’assimilazione regressiva (la matrice dei tratti della
seconda consonante viene trasferita sulla prima)  la consonante fricativa labiodentale sonora /v/
trasferisce i suoi tratti sull’occlusiva alveolare sonora /b/; la /v/ è geminata e quindi la si scrive seguita dal
cronema (/v:/), il secondo cronema segue la /i/ perché è una vocale tonica in sillaba libera ed è in posizione
parossitona e quindi scatta la legge dell’isocronia sillabica dell’italiano; le /e/ sono entrambe chiuse perché
sono atone.
DEBĒRE > /’do’ve:re/ ‘dovere’  la /e/ > /o/ per il fenomeno della labializzazione, perché in contiguità vi è
una consonante labiale (in questo caso la b che è un’occlusiva bilabiale sonora); dal punto di vista del
consonantismo vi è il fenomeno della spirantizzazione (la /b/ > /v/).
AD CANTU(M) > /ak’:anto/ ‘accanto’  abbiamo il raddoppiamento fonosintattico e l’univerbazione; il
cronema è usato dopo l’accento per la teoria della sillaba (la scansione sillabica).
[Il motivo per cui quando si ha una doppia consonante (una geminazione) si usa il cronema è perché la
consonante non viene pronunciate due volte, ma il suo suono è come se venisse prolungato/rafforzato.]
(EC)CŬ(M) ĪLLŬ(M) > /’kwel:o/ ‘quello’  fenomeno della labiovelare secondaria.
VADARE > /gwa’da:re/  la V- in posizione iniziale latina viene tratta come se fosse una W- germanica in
posizione iniziale e quindi si ha la germanizzazione secondaria.
MATRE(M) > /’ma:dre/ ‘madre’  fenomeno della sonorizzazione.
MĒNSE(M) > /’me:se/ ‘mese’  non scatta la sonorizzazione perché c’era il nesso intervocalico -NS-.
RŬPTU(M) > /’rot:o/ ‘rotto’  fenomeno dell’assimilazione regressiva (-PT- > tt).
GĔLŬ(M) > /’ʤɛ:lo/ ‘gelo’  fenomeno della palatizzazione (affricazione di G + E, I).
CŬBARE > /ko’va:re/ ‘covare’  Ŭ > o e spirantizzazione di /b/ in posizione intervocalica.
QUOM(O)(DO) E(T) > /’ko:me/ ‘come’  trattamento della labiovelare primaria con vocale diversa da A.
CŪN(Ŭ)LA(M) > /’kul:a/ ‘culla’  assimilazione di tipo regressivo.
LINTEŎLŬ(M) > /len’tswͻ:lo/ ‘lenzuolo’  TJ > ts e Ŭ > wͻ.
IŎCŬ(M) > /’ʤͻ:co/ ‘gioco’  Ŏ > ͻ, Ŭ > o e J > /ʤ/.
SĪMIA(M) > /’ʃim:ja/ ‘scimmia’  palatalizzazione di SJ > ʃ e geminizzazione di -MJ- perché si trova in
posizione interna.
IŪNIŬ(M) > /ʤuɲ:o/ ‘giugno’  palatalizzazione di J- in posizione iniziale e palatalizzazione di -NJ- in
posizione intervocalica.
SERVITIU(M) > /ser’vi:tzio/ ‘servizio’ o /ser’vi:ʤo/ ‘servigio’  resa grafica con <gi> della fricativa palatale
sonora toscana /ӡ/ e conseguente lettura/pronuncia /ʤ/.
CAPTIARE > /kat’:ʃa:re/ ‘cacciare’  esito di -PTJ- > ʧ.
ŎCŬLŬ(M) > /’ͻk:jo/-/’ͻc:o/ ‘occhio’  esito di -C(U)L- (sappiamo che lo sviluppo di CL è KJ, perché lo
sviluppo di consonante + L diventa consonante + J e in posizione interna c’è la geminata, solo che questo

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nesso consonantico specifico può anche avere una produzione più palatalizzata, e l’intacco palatale è
rappresentato dal suono /c/, ovvero dall’occlusiva palatale sorda).
ĬPSŬ(M) > /e’s:o/ ‘esso’  Ĭ > e, assimilazione regressiva del nesso -PS- > ss.
SIMILIARE > /somiλ’:a:re/ ‘somigliare’  labializzazione ed esito di -LJ-.
LABORE(M) > /la’vo:ro/ ‘lavoro’  spirantizzazione della /b/ in posizione intervocalica e metaplasmo di
classe (un fenomeno che riguarda la morfologia e vuol dire che una forma che appartiene ad una
determinata classe, per motivi legati in genere alla bassa frequenza, viene spostata in una classe che invece
presenta un maggior numero di forme; quindi essendo un maschile la forma in -e è stata trasportata sulla
classe dei maschili in -o; la stessa cosa può succedere anche per le forme in -e femminili che vengono
spostate sulla classe dei femminili in -a).
/monta’na:ro/  il suffisso -aro ci rivela che la forma non si è diffusa in area toscana e quindi abbiamo il
trattamento di RJ > /r/ che non è toscano.
BASIU(M) > /’ba:ʧo/ ‘bacio’  trascrizione con <ci> di /ʃ/ toscana e conseguente lettura/pronuncia.
FLŌRE(M) > /’fjo:re/ ‘fiore’  Ō > o e esito di FL- > /fj/.
SĬTŬLŬ(M) > /’sek:jo/-/’sec:o/  esito palatalizzato di T(U)L > /k:j/-/c:/.
ACUTIARE > /agut’:sare/  sonorizzazione di -C- > -g- e affricazione di -TJ- > /t:s/.
Da cosa viene influenzato lo standard  Oltre agli sviluppi storici lo standard viene influenzato anche:
dalla settentrionalizzazione e dall’influenza del tipo romano. Ma sono soprattutto le pronunce areali a
divergere dallo standard fiorentino e a rendere diverse le varietà italiane. Si parla di varietà marcate
diatopicamente, cioè in base al luogo.
Per esempio, la pronuncia di /s/ vs /z/, in Toscana/italiano standard tende alla sonorizzazione della sibilante
sorda in posizione intervocalica, questo fenomeno si deve probabilmente all’influsso settentrionale (a sua
volta dal francese già dal XIII-XIV secolo). Il fenomeno non si rileva però: nelle parole casa, cosa, naso, così,
peso, Pisa; mese (< MENSEM), paese (< PAGENSEM), che non erano intervocalici in latino; nei suffissati in
-ese (tranne francese), -eso e in -oso. Nel centro-sud si ha la pronuncia sempre sorda di /s/ in posizione
intervocalica. In Sardegna la pronuncia di /s/ è sempre sonora in posizione intervocalica, spesso addirittura
intensa (ex. [kaz:a] ‘casa’).
In italiano l’opposizione fonematica tra /s/ e /z/ è praticamente inesistente; solo in Toscana permangono
infatti coppie minime del tipo /fuso/ e /fuzo/. In italiano in posizione iniziale e finale la <s> (non
intervocalica in fonosintassi, ex. sasso, caos) è di regola sorda, mentre davanti a consonante dipende dalla
sordità/sonorità della stessa (coarticolazione) (ex. smunto /’zmunto/ ma storto /’stͻrto/).
Secondo la regola storica, la Z sorda (/ts/) proviene da: TJ-CJ (ex. PLATIAM > piazza); S latina (ex. SULPHUR >
zolfo); S araba (ex. Sukkar > zucchero); Z germanica (ex. ZAN > zanna). La Z sonora (/dz/) proviene da esiti
del latino DJ (ex. MEDIUM > mezzo); dalla Z greca (ex. ZOION > zoo); dalla Z araba (ex. ZIRBIY > zerbino).
Secondo le tendenze contemporanee  la tendenza a pronunciare la Z sorda si ha: 1. Nella sequenza
vocale + z + i/j + vocale (ex. azione, emozione, anziano) tranne alcuni casi (ex. azienda) o quando deriva da
una base con z sonora (ex. romanziere derivato da romanzo)  siccome in italiano in posizione
intervocalica si pronuncia intensa c’è una discrepanza tra grafia (scempia) e pronuncia (geminata); 2. Dopo
L (ex. milza, scalzo) e N (ex. anziano, suffisso -anza/-enza, ex: baldanza, udienza); 3. Nei suffissi in cui è
geminata intervocalica  -azzo/a (ex. paninazzo), -ezza (ex. bellezza), -ozzo/a (ex. birrozza), -uzzo/a (ex.
peluzzo). La tendenza a pronunciare la Z sonora si ha: 1. In posizione iniziale (ex. zucchero, zio) anche se i
casi con pronuncia sorda sono in aumento; 2. Nei neologismi (ex. zombi); 3. Tendenza in posizione
intervocalica (ex. azalea, kamikaze). 4. Nei suffissati in -izzare (ex. gerarchizzare) e -izzazione (ex.
centralizzazione).
26-03-2021
Raddoppiamento fonosintattico  Al Nord il raddoppiamento fonosintattico non viene realizzato perché si
oppone a un fenomeno locale (lo scempiamento delle geminate); al Centro-Sud questo fenomeno tende a
ridursi, per esempio, a Roma non viene applicato dopo come quando ha valore interrogativo (ex. come va?
X fiorentino come vva?), da (ex. da lui X fiorentino da llui), dove (ex. dove vai X fiorentino dove vvai).
Eliminazione di i- prostetica  In italiano esisteva una riorganizzazione della prima sillaba quando questa
iniziava con una S preconsonantica in posizione iniziale; questi casi venivano percepiti come di difficile
pronuncia e pertanto i parlanti cominciarono ad aggiungere un nucleo vocalico prima della S (una prostesi,

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per cui si parla di i- prostetica). Vi fu però poi un’accettazione dei nessi consonantici complessi e un
conseguente abbandono della i prostetica (ex. Isvizzera) tranne in forme cristallizzate (ex. per iscritto).
La d eufonica si usa quando si incontrano due parole che rispettivamente finiscono e iniziano con la stessa
vocale (ex. ad andare, ed essendo). In genere non si usa invece quando si ha la stessa sequenza (ex. * ad
adoperare, *ed educare).
La <i> diacritica in italiano ha un ruolo nella scrittura perché trova una soluzione al problema
dell’omografia. La <i> diacritica viene normalmente inserita per evitare una lettura velare dei grafemi <c> e
<g> quando essi sono seguiti dalle vocali <a>, <o> e <u> (ex. <giacca>, <gioco>, <giugno>). In alcune parole
però la <i> diacritica viene inserita anche quando seguono <e> e <i> che invece in italiano vengono
normalmente lette con pronuncia palatale. Queste parole si possono raggruppare o per campi semantici o
per tipi di suffissi: la famiglia di scienza e derivati (ex. scienziato, scientifico, fantascienza, fantascientifico,
onnisciente); la famiglia di coscienza (CUM SCIENTIA) e derivati (ex. cosciente incosciente, coscienzioso,
coscienziosità); i composti in -ciente/-cienza (ex. coefficiente, coefficienza, efficiente, inefficiente, efficienza,
inefficienza, insufficiente, sufficiente; non si ha in fatiscente).
In merito alla <i> diacritica legata ai plurali, nel momento in cui si ha l’inserimento della <i> diacritica nel
singolare rimane nel plurale quando si ha soltanto una consonante, se invece si ha una consonante palatale
geminata o un gruppo consonantico formato con una palatale, la <i> diacritica del singolare viene
riassorbita nel plurale e quindi non c’è (ex. <buccia> / <bucce>, <loggia> /<logge>, <coscia> / <cosce>,
<malconcia> / <malconce>); con consonante semplice, invece, resta (ex. camicia ―> camicie, ciliegia ―>
ciliegie).
Dubbi sulle regole della sillabificazione
I gruppi di consonante + /l/ e /r/ non si possono dividere (ex. le-pre, mo-to-ci-clo).
Il nesso labiovelare -cqu- si divide come se fosse una doppia (ex. ac-qui-tri-no, ac-qua).
Nei composti con prefissi terminanti in consonante (del tipo: sub, trans ecc…) si perde l’unità sillabica del
prefisso e si risillabifica come se di trattasse di una parola normale (ex. su-bac-que-o).
C’è una discrepanza tra scansione grafica e scansione fonetica con /s/ preconsonantica  grafia: <ca-sco>
(tautosillabica) vs fonetica: /’kas-ko/ (eterosillabica).
C’è una discrepanza tra grafia e fonetica anche per i nessi GN, SC e GL che hanno pronuncia sempre intensa
in posizione intervocalica (ex. grafia: <ragno> vs fonetica: /’raɲ-:o/; grafia: <co-scia> vs fonetica: /’kͻʃ-:a/;
grafia: <ma-glia> vs fonetica: /’maλ-:a/).
In italiano i plurali di parole inglesi non hanno la -s, dal punto di vista della tendenza generale (ex. film non
films, fan non fans, partner non partners, manager non managers).
Rietimologizzazione errata
Far aerare il locale non far areare il locale  la base latina è AER ‘aria’, quindi aerare. Il tipo areare è legato
all’italianizzazione (forma metatetica area  aria). Aeroporto non aereoporto, Aeroplano non aereoplano

il prefisso aero- ‘aria’ deriva AER ‘aria. A trarre in inganno è il fatto che in italiano esistono l’aggettivo aèreo
‘di aria; che si leva nell’aria’ e il sostantivo aèreo ‘velivolo’.
Il verbo latino ADCELERARE è composto da AD + CELER ‘celere, veloce’  accelerare non *accellerare.
L’aggettivo efferato ‘crudele, feroce, bestiale’ < FERA ‘fiera, bestia’ per questo si scrive con una sola /r/ e
non *efferrato.
Esercitazione in IPA
Giorno  /’ʤorno/; Maggio  /’mad:ӡo/-/’maʤ:o/; Cena  /’ʧe:na/; Musone  /mu’zo:ne/; Acqua
 /’ak:wa/; Buono  /’bwͻ:no/; Lievito  /’ljɛvito/; Rozzo  /’rod:zo/-/’rodz:o/; Pozzanghera 
/pots’:aŋgera/; Maschio  /’masco/-/’maskjo/; Ciliegia  /ʧi’ljɛ:ʤa/; Cassetto  /kas’:et:o/; Calcio
 /’kalʧo/; Angolo  /’aŋgolo/; Bottiglia  /bot’:iλ:a/; Ragnatela  /raɲ:a’te:la/; Camoscio  /ka’moʃ:o/;
Letizia  /le’tit:sja/; Cucciolo  /’kuʧ:olo/; Pesce  /’peʃ:e/.
29-03-2021
Riflessioni sul rapporto tra grafia e suono
<giorno> = /’ʤorno/  grafema <gi> = trascrizione /ʤ/  <o> “o chiusa” (perché < Ŭ) = /o/
<cena> = /’ʧe:na/  <c> = /ʧ/  <e> (< Ē) = /e/
Omografi ma non omofoni

44
<accetta> ‘scure’ = /aʧ’:et:a/ vs <accetta> che indica il verbo ‘egli accetta’ = /aʧ’:ɛt:a/
<e> congiunzione = /e/ (< ĒT) vs <è> verbo = /’ɛ/ (< ĔST)
<buono> = /’bwͻ:no/  <uo> (< Ŏ) = /’wͻ/
<rozzo> = /’rodz:o/  <o> (< Ŭ) = /o/  <zz> (< DJ) = /dz:/
VĬ(GĬ)NTI > <venti> = /’venti/ vs VĔNTI ><venti> = /’vɛnti/
<angolo> = /’aŋgolo/  <ng> = /ŋg/
<bottiglia> = /bot’:iλ:a/  <gli> = /λ:/
<mugnaio> = /muɲ’:a:jo/  <gn> = /ɲ:/  <i> = /j/
<ascia> = /’aʃ:a/  <sci> = /ʃ:/
<letizia> = /le’tits:ja/  <zi> = /ts:/  <i> = /j/
<cucciolo> = /’kuʧ:olo/  <c> = /k/  <cci> = /ʧ:/  <o> = /o/
Storia del sistema grafematico dell’italiano  Il sistema grafematico dell’italiano contemporaneo (quindi
l’alfabeto utilizzato oggigiorno) si basa essenzialmente sull’alfabeto cinquecentesco. Si giunse a questo
modello dopo la moda dell’etimologizzante dell’Umanesimo latino in voga nel Quattrocento. Il modello del
Cinquecento è su base fonetica ovvero si cerca di riprodurre ai segni grafici il suono reale che viene
prodotto. Si trattò di un’innovazione coraggiosa che tagliò i ponti con i modelli culturali precedenti di stile
latineggiante, molti sono però anche i cambiamenti avvenuti nei secoli successivi, fino alla
regolamentazione ora vigente.
In epoca medievale sono fondamentalmente i notai a produrre documenti scritti, poiché la scrittura non era
a panaggio di tutti, ma solo di pochi; queste persone erano in grado di scrivere perfettamente in latino
perché avevano un’alfabetizzazione di quel tipo, così come un’alfabetizzazione simile era riservata ai
chierici (chierici e notai erano infatti le due categorie più alfabetizzate in epoca medievale). Naturalmente,
pur avendo una buona conoscenza grafica, questi ultimi non vivevano fuori dal loro tempo, e quindi
iniziarono anche loro, in maniera consapevole, a riprodurre nelle proprie carte alcuni suoni che si erano
sviluppati e che erano diversi rispetto al latino. Dall’analisi delle fonti cartacee, si possono rilevare questi
numerosi cambiamenti nella grafia che rappresentano le nuove pronunce:
1. Per rendere la nuova pronuncia affricata del latino volgare accanto a TI (tj) e CI (cj) latine si aveva come
grafia sia il digramma <tz> (l’aspetto interessante è che alcuni cambiamenti grafici che ancora oggi noi
segnaliamo, attraverso gli stessi simboli, sono stati evidenziati e poi resi graficamente in epoca antica, le
carte sono infatti risalenti a prima dell’anno Mille) ma soprattutto <z> e <zi>.
2. Per rendere la nuova pronuncia palatale del latino volgare accanto a NI (nj) si aveva <gn> o anche
<ngn> (dove il doppio simboletto n sicuramente stava ad indicare una geminazione, e dunque questo
evidenzia che già all’epoca in posizione intervocalica la /ɲ/ aveva una pronuncia geminata).
3. Per rendere la nuova pronuncia palatale del latino volgare accanto a LI (lj) si avevano <gi>, <gli>, <igi>.
4. Per rendere la nuova pronuncia palata del latino volgare accanto a SI (sj) si avevano <sc>, <sci>.
5. Per rendere i suoni velari si sviluppano: nel Nord  i digrammi ch e gh in arte longobarde dell’VIII
secolo (ex. Adelchis, fabriche); nel Centro  nell’area centrale e occidentale della Toscana ch + e, i diventa
sistematica già dai primi del Duecento; nell’Italia mediana e meridionale  nei primi documenti il suono
velare sordo veniva segnalato con la k (in ricordo di questo si può segnalare SAO KO KELLE TERRE, la prima
testimonianza di volgare usato con consapevolezza, nel 960 d.C., in area meridionale nell’Abbazia di
Montecassino).
Il primo intervento normativo fu quello di Leon Battista Alberti nella Grammatichetta vaticana (1434-1438),
si tratta del primo prospetto fono-grafematico (dei primi principi) del volgare fiorentino. Le innovazioni
proposte dall’Alberti sono: la distinzione tra u e v (in latino c’era solo v, che aveva valore di /u/, di /v/ e di
quella che oggi chiamiamo /w/, quindi anche valore di approssimante); la distinzione tra c/g velari e c/g
palatali (un problema che si era già affrontato nel 1200 a Firenze); la distinzione tra z sorda e z sonora (cosa
che nell’alfabeto moderno non si ha, così come non si ha la distinzione tra c/g velari e c/g palatali); la
distinzione tra e, o chiuse ed e, o aperte (cosa che oggigiorno non si fa, tranne nei casi di ossitonia,
segnalata con l’accento – obbligatorio – sull’ultima  ex. canterò, mangerò); l’eliminazione dell’h
etimologica latina.
Per gli interventi normativi successivi all’Alberti si distinguono due momenti di riflessione fondamentale: il
Cinquecento e l’Ottocento.

45
I motivi della regolamentazione grafica del Cinquecento riguardavano le esigenze degli stampatori, i quali
necessitavano dell’utilizzo di un’unica lingua ed una grafia unica, necessità data dalla presenza di lingue
diverse (sarà quello che poi verrà discusso durante i dibattiti sulla questione della lingua del Cinquecento); il
compito di trovare tale soluzione spettò ai grammaticografi.
Pietro Bembo nel III libro delle Prose della volgar lingua (1525) diede indicazioni chiare ed esaustive
riguardo alla lingua, mentre solo sporadiche riguardo alla grafia poiché il suo pensiero a tal riguardo era
stato già espresso nell’edizione del Petrarca aldino (1501) che ripropone l’originale petrarchesco. Le scelte
che fece Bembo sono: ch/gh + e, i (l’uso dell’h per segnalare il valore velare davanti a vocale palatale); l’uso
del trigramma gli per segnalare la laterale palatale; l’uso del digramma gn per segnalare la nasale palatale;
tendenza a mantenere l’h etimologica (anche se alternata a eliminazione) - uso di x, th, ph, tj; l’affricata
alveolare resa con ç; l’assimilazione regressiva dei nessi consonantici (ct, pt > tt; bs > ss; mn > nn); l’uso
dell’apostrofo (che è un’introduzione aldina).
Un altro grammaticografo fu Gian Giorgio Trìssino che si confrontò con le tematiche di tipo linguistico in
due momenti diversi della sua produzione  nella Sofonisba (1524, pubblicata dal vicentino tipografo
Ludovico degli Arrighi) proponeva: la distinzione tra u vocale e semivocale e v consonante (in latino solo v)
(u/v); la distinzione della i vocale e semivocale (i/j); la distinzione tra c/g velari e palatali (k/g contro c/ʓ); la
distinzione tra Z sorda e sonora (sorda z / sonora ç); la distinzione tra ɛ, ω aperte ed e, o chiuse.
Nei Dubbi grammaticali (1529, stampati dal bresciano tipografo Tolomeo Ianiculo) Gian Giorgio Trìssino
propose: la distinzione tra s sorda e ʃ sonora; l’uso di lj per L palatale; l’utilizzo della K velare davanti ad e, i
(contrariamente al grafema ch/gh); ω = o chiusa (variazione rispetto al 1524); sostituzione grafia
etimologica tj con zi (ex. pronuncia ―> pronunzia); ci sono inoltre molte grafie latineggianti (ch, ph, x,
ecc…). Questo sistema non fu accettato, poiché guardava troppo al passato.
Una sorte simile toccò a Claudio Tolomei che nell’opera Il Polito (1525) proponeva l’eliminazione di tutte le
grafie etimologiche (di tutti i latinismi) e un doppio alfabeto: uno più ortoepico (basato sul rapporto
biunivoco esistente fra il suono e la sua realizzazione grafica, un sistema uniforme), tanto complesso da
poter esser utilizzato solo dai dotti, e uno con solo qualche variazione per gli altri  le proposte non furono
accettate.
Sulla stessa linea, qualche anno dopo, si mise Giorgio Bartoli con l’opera Degli elementi del parlar toscano
(1584); egli propose un alfabeto fonetico molto complesso su base fonetica del fiorentino (che non fu
accettato), ma nel privato utilizzava un alfabeto semplificato in cui erano presenti solo poche distinzioni. Gli
elementi sui cui si basò il Bartoli sono: la distinzione tra i e j; la distinzione tra s sorda e ʃ sonora; la
distinzione tra u e v; la distinzione tra z sorda e ʓ sonora.
Si giunge così quasi alla fine del secolo con gli Avvertimenti sopra la lingua del Decamerone (1584-86) del
cavalier Lionardo Salviati (il promotore del vocabolario degli Accademici della Crusca, fondatore
dell’Accademia della Crusca), un’opera che rappresenta il momento conclusivo della lunga e dibattuta
riflessione cinquecentesca sul sistema ortografico che porta a: la distinzione fra la i vocale e la j semivocale
per indicare i maschili plurali in -io (ex. sing. studio – plur. studj; sing. matrimonio – plur. matrimonj),
presente fino al Novecento; l’assimilazione dei nessi consonantici (ct/pt > tt, bs > ss, mn >nn, s > ss); la
soppressione dell’h all’interno di parola, ma conservazione dell’h davanti a tutte le forme del verbo avere; Z
delle formazioni in -zia/-zione scritta sempre scempia (ex. notizia, condizione), dunque una mancata
geminazione; le sviluppi di TJ indicati con il grafema /z/.
Le regole descritte negli Avvertimenti sopra la lingua del Decamerone (1584-86) sono alla base dello
strumento di divulgazione della norma tardo-cinquecentesca, ovvero il Vocabolario degli Accademici della
Crusca (1612), un punto di riferimento saldo e duraturo per gli scriventi colti e per gli stampatori.
Il secondo momento normativo, relativamente al sistema grafematico, è l’Ottocento (importante perché
c’è Manzoni che ha un ruolo fondamentale nella definizione di modello linguistico comune e ci sono anche
alcuni casi in cui la regola manzoniana va a sovvertire alcune regole precedenti come: la scelta tra le
varianti e dal punto di vista fonetico l’eliminazione del dittongo posteriore quando vicino c’era una
consonante palatale). I momenti normativi ottocenteschi sono:
1. Gherardini che vorrebbe rifondare l’ortografia riportandola alle radici latine (la riforma, naturalmente,
non ha avuto fortuna);

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2. Petrocchi e Goidanich che promuovono invece le seguenti regole  l’utilizzo dell’accento grave per
indicare solo l’apertura vocalica (è, ò  solo sulle chiuse, le aperte non venivano segnalate); la distinzione
tra S sorda e ʃ sonora; la distinzione tra Z sorda e ʓ sonora; l’uso dei digrammi sc, gn, gl; c e g usati con
valore palatale, k usato con valore velare e l’esigenza (evidenziata) di scegliere un nuovo simbolo per g
velare.
Se volessimo ragionare sull’evoluzione di una regola grafica:
Ex. Distinzione u vocale / v consonante: proposta già nel Quattrocento dall’Alberti e poi nel Cinquecento da
Trìssino e Bartoli; prende piede solo alla fine del Seicento (nella terza edizione del Vocabolario degli
Accademici della Crusca, 1691 – anche se limitata alla minuscola) e diventa definitiva sia per minuscola che
per maiuscola solo a partire dal Settecento.
Ex. Distinzione i vocale / j semivocale: proposta nel Cinquecento senza successo; attecchisce nella prima
edizione del Vocabolario degli Accademici (1612) per indicare i maschili plurali in -io (ex. studj, matrimonj);
nel Settecento indica anche il valore semivocalico (ex. jattura, gennajo); nel primo cinquantennio del
Novecento si scriveva ancora ajuto, guajo ecc…; oggi l’uso semivocalico o l’oscillazione permangono solo
nei nomi propri (ex. Juventus, Iacopo/Jacopo, Iole/Jole).
Nell’ultimo periodo (secolo XX-XXI) si ha:
1. Il Migliorini-Tagliavini-Fiorelli: DOP-Dizionario d’ortografia e pronunzia (1959-1969) commissionato
dalla RAI. Ampio repertorio di pronunce e grafie dell’italiano e di molte parole straniere (Tagliavini era un
filologo romanzo, Migliorini è stato uno storico della lingua e il primo a cui venne affidata la prima cattedra
di storia della lingua italiana nel 1960 a Firenze e Fiorelli era uno studioso);
2. Canepari: DiPI, Dizionario di pronuncia italiana (2000) e MaPI, Manuale di pronuncia italiana (2004);
3. Carboni-Sorianello: Manuale professionale di dizione e pronuncia (2011), con un’ampia casistica e
un’ottima retrospettiva teorica.
Sistema paragrafematico dell’italiano  Quel che spesso accade… Una vaga disseminazione di virgole e di
punti e virgole, buttati a caso, qua e là, dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara (C.: Gadda,
Conforti della poesia, IN “LA fiera letteraria”, 1949).
Le funzioni dei segni interpuntivi  L’idea che i segni di interpunzione della scrittura siano assimilabili alle
pause della voce nell’oralità non è né completamente corretta, né esaustiva delle funzioni assunte dai segni
d’interpunzione nella testualità scritta. Fondamentalmente si tratta di due funzioni di base: la funzione
prosodica (che lavora sulla prosodia e sull’intonazione) e la funzione logico-sintattica (più funzionale dal
punto di vista del testo perché riguarda la struttura logico-sintattica e più in generale la struttura testuale).
La funzione prosodica e intonazionale  queste due funzioni si basano sulle pause della voce e
sull’intonazione prosodica delle frasi (ad esempio, se formulo un’interrogativa avrò un tono ascendente
“che mangiamo?”, se voglio dare un ordine userò invece il punto esclamativo “andiamo via!”) e sono i due
concetti che vengono più veicolati in ambito scolastico, tramite la punteggiatura. Nella maggior parte dei
casi è vero che questi elementi vengono riportati nella scrittura tramite la punteggiatura, ma ciò non
avviene sempre. Al contrario di quello che normalmente si pensa, infatti, la punteggiatura nasce dalla
necessità di aiutare la lettura endofasica (cioè mentale), ovvero di rendere immediatamente più evidenti i
rapporti logico-sintattici presenti nel testo; ne deriva che la funzione prosodico-intonazionale sia stata non
la causa della punteggiatura bensì una conseguenza.
La funzione logico-sintattica  rivela la struttura del testo e quindi mette in evidenza immediatamente i
rapporti esistenti tra i vari blocchi che compongono il testo: sia all’interno delle singole frasi, sia tra i
periodi, sia tra porzioni maggiori di testo (capoversi; paragrafi).
La funzione testuale  è strettamente collegata allo specifico testo analizzato. Le scelte possono essere
infatti legate a un uso consapevolmente non normativo dei segni interpuntivi, oppure a esigenze
professionali che si basano su alcune tendenze specifiche.
L’approccio migliore sarebbe quello di unire tutte e quattro le funzioni.
30-03-2021
Il sistema interpuntivo  Nel metodo didattico tradizionale tradizionalmente la punteggiatura si insegna
tenendo in considerazione la funzione prosodica (ovvero le pause) e intonazionale (cioè l’intonazione della
voce). Negli schedari dedicati all’apprendimento dell’ortografia si trovano generalmente unità didattiche
formate: dalla definizione del segno d’interpunzione e la spiegazione del suo utilizzo; da esercizi di

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completamento (inserire il segno d’interpunzione ritenuto corretto); da esercizi di correzione (cambiare il
segno considerato scorretto). Questa metodologia è però un po’ controproducente; il metodo migliore
sarebbe invece quello induttivo e quindi far leggere il testo e chiedere quale valore ha ogni segno
interpuntivo nel contesto in cui viene rilevato, poiché è importante comprendere la funzione nel testo per
dedurre la teoria e non applicare la teoria al testo. La funzione che viene utilizzata in questo nuovo
approccio è dunque quella logico-sintattica, che risponde alle domande Che funzione ha? A che mi serve?
Perché?
Il metodo utilizzato per comprendere la funzione logico-sintattica della punteggiatura nel testo è quello
dell’ambiguità semantica che si palesa mediante il confronto tra due frasi che hanno significati diversi a
seconda della presenza/assenza del diacritico, della diversa posizione oppure del tipo di diacritico usato
(ex. Marco è caduto dall’albero; suo fratello lo fotografa. ≠ Marco è caduto; dall’albero suo fratello lo
fotografa. / Mentre il nonno legge, sul divano Luca gioca. ≠ Mentre il nonno legge sul divano; Luca gioca.)
Le tipologie testuali  L’uso della punteggiatura può cambiare a seconda delle tipologie testuali:
1. Testo regolativo - Testo espositivo  pretende un uso più standardizzato, poiché deve esserci assoluta
chiarezza e nessuna interpretazione (è importante che in un testo regolativo o espositivo non ci sia la
possibilità del dubbio, del fraintendimento, o la possibilità di interpretare in una maniera o nell’altra);
2. Testo narrativo  presenta una maggiore flessibilità, una pluralità di usi che va incontro alle scelte
stilistiche autoriali;
3. Testi espressivi (diario, e-mail non ufficiali, sms, poesie)  presentano molta libertà nell’uso della
punteggiatura (aumenta il numero dei punti esclamativi e interrogativi, le emoticons, i puntini di
sospensione ecc… aumenta quindi il grado di espressività).
Guida semplificata all’uso dei segni d’interpunzione
Il punto .
1. segnala la fine logica di una porzione di testo (che può essere una frase, un periodo, un capoverso, un
capitolo)
2. può essere usato per abbreviare una parola alla fine (ex. n. = numero) o all’interno (ex. Chiar.mo =
chiarissimo; ill.mo = illustrissimo)
La virgola ,
1. non va mai messa tra soggetto e verbo (*Luca, guarda la partita alla TV)
[Il simboletto * in linguistica indica che la forma utilizzata è una forma non applicabile nella lingua presa in
esame; nella grammatica storica invece una forma viene preceduta dall’asterisco quando una parola in
latino non è attestata nel latino scritto ed è attestata solo nel latino volgare (il latino parlato) e quindi viene
ricostruita come forma del latino volgare]
2. non va messa tra verbo e oggetto (*Luca guarda, la partita alla TV); viene però messa quando il
soggetto ha valore vocativo ed è seguito da un imperativo (ex. Luca, guarda la partita alla TV!)
3. non va mai tra sostantivo e aggettivo (*il vecchio, nonno; *le guance, rosse)
3b. non va mai tra una proposizione principale predicativa e la sua subordinata (*abbiamo deciso, che non
andremo in vacanza; *Non è bello, che non vi sentiate proprio più!)
4. non va mai prima della congiunzione E che unisce due coordinate semplici (se invece si hanno più di
due elementi, la virgola può essere usata per separare l’ultima coordinata dalle precedenti) salvo quando
serve a dividere due coordinate con soggetto diverso (ex. Chiara ha incontrato Greta, e Laura Maria / Luigi
ha mangiato una mela, e Stefano un panino)
5. può essere omessa prima di MA se la frase principale è breve (ex. Poco ma buono), se invece è lunga
no (ex. Volevo venire a prenderti a scuola, ma ero in ritardo)
In realtà vale comunque il criterio semantico in base al quale mettendo la virgola decido di dare più
importanza alla parte che la precede (ex. Libro bello ma troppo lungo / Libro bello, ma troppo lungo)
6. può precedere PERCHÉ oppure essere omessa, a seconda dell’importanza che si vuole dare alla
principale (ex. Sono arrivato tardi perché ho perso l’autobus / Sono arrivato tardi, perché ho perso
l’autobus); il segno di punteggiatura in questo caso è come se servisse per andare a sottolineare una
determinata sfumatura all’interno della frase
7. si mette prima e dopo un inciso (ex. Gianni, poiché ha molta fame, sta cercando una trattoria)
8. si mette prima e dopo un’apposizione (ex. Maria, da giovane, era una bella donna)

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9. non si mette prima del relativo se ha valore limitativo/restrittivo (ex. I discorsi che fai / la signora con
cui ho parlato)
9b. si mette prima e dopo un inciso relativo (ex. Latina, che è stata fondata nel 1932, è una delle città più
grande del Lazio)
10. si mette dopo una temporale, una concessiva, o un’ipotetica che precede la principale (ex. Quando
piove, l’asfalto diventa più scivoloso. / Sebbene fosse tardi, Luigi l’ha accompagnata a casa ugualmente. /
Se vuoi andartene, non ti tratterrò)
11. si mette negli elenchi semplici (ex. La macedonia si fa tagliando a pezzi banane, fragole, mele, pere)
Due punti :
1. hanno funzione presentativa  introduzione di un elenco (funzione che si può però anche omettere)
2. hanno valore nella giustapposizione di due elementi, come nei titoli di giornale bipartiti (ex. Concordia:
la verità di Schettino); alcuni titolisti, negli ultimi anni, hanno scambiato i due punti con la virgola, però in
questo caso la virgola ha assunto una valenza diversa rispetto alla valenza che possiede normalmente, e
cioè ha valenza di coordinazione (un uso che viene fatto ma che non è previsto dallo standard)
3. si usano per introdurre un discorso diretto
4. varie funzioni esplicativo-appositiva/descrittiva/consecutiva/causale (ex. Facciamo una pausa: siamo
tutti molto stanchi. / Pioveva: non siamo più usciti. / È una casa in costruzione: due piani grezzi e una scala
esterna)
Punto e virgola ;
1. funzione demarcativo-testuale  si usa per legare due frasi complesse coordinate tra loro (ex. La lotta
trai due non era affatto collegata a un particolare evento; era invece attribuibile a vecchi dissapori familiari
che nel tempo si erano incancreniti fino a raggiungere il culmine)
2. funzione seriale  si usa nelle elencazioni di unità complesse, (a. ; b. ; c. ) o quando
ogni segmento è tanto lungo da contenere altri segni di punteggiatura (ovviamente di grado inferiore,
quindi NON il punto, il punto esclamativo e il punto interrogativo)
Punto esclamativo !
1. si usa dopo un ordine o dopo un’esclamazione
Punto interrogativo ?
Può essere utilizzato solo dopo una domanda diretta, non può essere usato nelle interrogative indirette (ex.
Mi chiedo: <<Cosa pensa?>>. NO  Mi chiedo cosa penserà)
Stupore/meraviglia: !? (abbinamento che lo standard non prevede)
Puntini di sospensione …
1. sospensione (come nel caso di pause lunghe all’interno di un dialogo), reticenza, allusività
2. sono sempre 3 … e non sono accumulabili con un punto
3. omissione di testo all’interno di una citazione: […]
Le virgolette
1. citazioni o dialoghi: si usano le virgolette basse uncinate << >> (se la citazione è breve viene spesso
usato il corsivo in luogo delle virgolette)
2. dialogo all’interno di citazioni: si usano le virgolette alte “ ” (ex . <<Mario disse sorpreso: “Che cosa ci
fai tu qui”. Luca non rispose>>)
3. uso metalinguistico: “ ” (tra virgolette)
4. per indicare il significato oppure per sottolineare una parola: si usa ‘ ’
Il trattino -
1. si può usare per segnalare l’andata a capo
2. si può usare per separare due cifre (ex. due-tre)
3. si può usare per segnalare la relazione tra due sostantivi, che può essere di giustapposizione (ex.
linguistico-letterario, Milano-bene), di reciprocità (ex. docenti-discenti) o di alternativa/opposizione (ex.
Italia-Francia)
4. si usa nei composti (ex. afro-americano)
5. si usa per segnalare il primo elemento di una coppia simile (uso prevalentemente scientifico) (ex .
micro- e macroareale)
La lineetta ―

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1. inciso (sostituisce la virgola)
2. introduce il discorso diretto (sostituisce le virgolette)  <<Gianni disse a bassa voce: ― Come ti senti?
―. Poi si piegò su di lei per accarezzarla>>
La barra obliqua /
1. separazione nell’elencazione di membri simili (ex. tratti fonologici/morfologici/sintattici)
2. separazione di versi nella scriptio continua di un testo poetico o di una canzone (ex. Sono un ragazzo
fortunato/perché mi hanno regalato un sogno/sono fortunato/perché non c’è niente che ho bisogno)
3. opposizione (vero/falso; maschio/femmina)
Le parentesi tonde ( )
1. possono sostituire le virgole o le lineette per segnalare un inciso
2. si possono usare per indicare la fonte (autore, opera, testata, sito ecc…)
3. nelle didascalie di testi teatrali e cinematografici
4. rinvii ad articoli e commi di legge
Le parentesi quadre [ ]
1. si usano per le omissioni all’interno di citazioni: […]
2. si usano per segnalare commenti editoriali [ndr], aggiunte, precisazioni
3. si possono usare all’interno di parentesi tonde ( [ ] )
Le parentesi graffe { } in italiano non vengono utilizzate nella produzione testuale, ma solo in ambiti
scientifici come la matematica o la fisica.
Asterisco *
1. può essere usato per segnalare l’omissione volontaria di un nome (* oppure ***)
2. uso specialistico in linguistica storia: *forma ricostruita
3. uso specialistico in linguistica descrittiva: *forma non accettabile (giudizio di accettabilità)
Spazi bianchi
1. si usa solo dopo il segno di punteggiatura per . , ; : ! ? …
2. prima e dopo il trattino lungo
3. prima di ( ) e [ ], mentre la grafia all’interno non ha lo spazio  Ex. (unico), [unico]
08-04-2021
Apocope postvocalica: nelle preposizioni articolate maschile plurale delle forme antiche (ex. Pia de’
Tolomei; Paperon de’ Paperoni; ne’ vostri capelli); forme dell’imperativo (ex. da’, ‘dai’, fa’ ‘fai’, sta’ ‘stai’, di’
‘dici’).
Apocope sillabica: po’ ‘poco’, mo’ ‘modo’ (nella locuzione a mo’ di).
Proparossitonia per ipercorrettismo  Molte parole italiane vengono accentate sulla terzultima
(proparossitonia) per ipercorrettismo. Il fenomeno nasce dal fatto che la maggior parte delle parole
appartenenti al nostro patrimonio lessicale sono accentate sulla penultima (parossitonia), quindi le parole
estranee (cultismi, forestierismi, neologismi), percepite dal parlante come diverse, devono avere anche un
accento diverso da quello usuale nella lingua. Tuttavia, queste sono situazioni dovute ad una serie di fattori,
tra i quali, l’evoluzione storica della lingua italiana; le altre lingue non seguono questo schema.
Casi più frequenti di ipercorrettismo accentuale: valùto NON vàluto (anche se ormai accettato); persuadére
NON persuàdere; Friùli NON Frìuli; edìle NON èdile; Pakistàn/Afghanistàn NON Pàkistan/Afghànistan.
Francesismi/forme italiane settentrionali: cognàc NON cògnac; crème-caramèl NON crème-càramel;
mignòn NON mìgnon; depliàn NON dèpliant; benettòn NON bènetton.
Casi di doppia grafia: parole base e composti  Alle volte potrebbero sorgere dei dubbi dovuti ai casi di
doppia grafia; solitamente le doppie grafie non sono mai ben accette all’interno di una lingua perché sono
fuorvianti, quindi quando si creano situazioni di doppio, solitamente nel tempo poi tendono a esser “messe
a tacere”, poiché potrebbero creare delle difficoltà. Le grammatiche moderne si stanno battendo per far sì
che la forma pronominale sé venga accentata sia quando si trova da sola che quando è seguita da stesso. In
italiano si hanno dei casi per cui i monosillabi possono presentare una doppia grafia: quando si trovano da
soli non si accentano; quando si trovano in composizione si accentano, altrimenti si rischierebbe di
pronunciare la parola in modo errato (ex. blu MA rossoblù, tre MA trentatré).
Accento grave e accento acuto: nella grafia italiana le vocali toniche medie vengono accentate con
l’accento grave ( ` ) se sono aperte, con quello acuto ( ´ ) se sono chiuse (tutte le altre vocali presentano

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solo l’accento grave). I composti di che (< QUĬD o QUĒM) presentano sempre la vocale chiusa per base
storica, dunque presentano l’accento acuto: finché, affinché, perché, poiché, giacché, nonché.
Apostrofo e non accento  mo’ NON mò  si tratta di forma apocopata di MODU(M) ‘modo’ > mo’. Si
trova nella locuzione a mo’ di ‘a modo/guisa di; tipo’
L’apostrofo viene utilizzato anche per segnalare l’aferesi; tendenzialmente in italiano quando si parla di
aferesi si parla di aferesi numerica, cioè quando vi è la caduta delle prime due cifre di un anno: 1948 ―>
’48. Se prima c’è una forma con apostrofo l’aferesi viene eliminata poiché non si può mettere il doppio
apostrofo (ex. nell’80).
Tendenze contemporanee a partire dagli anni Sessanta  La stabilizzazione del sistema paragrafematico
non è stata esattamente una passeggiata: c’è stato un percorso, ancora oggi non concluso, dato che tutt’ora
si sente la necessità di ampliare, sistemare e riorganizzare alcune cose.
1. La stabilizzazione dell’uso dell’accento grave o acuto su alcuni monosillabi omofoni e omografi (quindi
assume funzione distintiva): dà (verbo) vs da (preposizione); è (verbo) vs e (proposizione); lì (avverbio) vs li
(pronome); là (avverbio) vs la (articolo/pronome); sì (avverbio) vs si (pronome). La regola fu introdotta da
Buonmattei Della lingua toscana (1643) per ovviare all’abitudine precedente di accentare tutti i monosillabi
atoni.
2. Eliminazione dei tipi ò ‘ho’, ài ‘hai’, à ‘ha’, ànno ‘hanno’ forme sostenute nel Seicento da Magalotti e
nell’Ottocento da Petrocchi, oggi sostituite dalle forme con l’h (le forme che hanno l’h sono quelle che
hanno anche un omografo e un omofono: hai – ai, ho – o, ha – a, hanno – anno; infatti ‘abbiamo’ e ‘avete’
che non hanno forme omografe o omofone non presentano l’h).
3. Stabilizzazione dell’uso dell’apostrofo: eliminazione definitiva dopo tal (tal uno, tal altro), qual (qual è)
e un maschile singolare (teorizzato nel Settecento da Corticelli nel 1745 ma avversato da altri come, ad
esempio, il Gigli).
4. Tendenza all’eliminazione del punto e virgola.
5. Tendenza ad un uso più frequente dei due punti, anche grazie al modello giornalistico che li usa in
funzione giustappositiva (ex. Milano: al via l’Expò) o per l’elencazione.
6. Tendenza a un uso più frequente delle parentesi e dei trattini che tendono a sostituire la pesantezza
della subordinazione (altro escamotage che si potrebbe utilizzare è l’uso delle note).
7. Uso differenziato di virgolette doppie alte (uso metaforico della parola) e uncinate basse (discorso
diretto).
Curiosità: non si è trovato un accordo sull’accentazione dei proparossitoni (necessità sostenuta da molti
studiosi nell’Ottocento e nel Novecento), per cui tendenzialmente si ha un’oscillazione e un’incertezza
nell’accentazione di grecismi e latinismi.
ESERCITAZIONE SISTEMA INTERPUNTIVO GRAFEMATICO
1a. Il rapinatore uscì di corsa dalla banca; sparando un poliziotto riuscì ad arrestarlo.
1b. Il rapinatore uscì di corsa dalla banca sparando; un poliziotto riuscì ad arrestarlo.
2a. Paolo legge novelle, fumetti e gialli.
2b. Paolo legge: novelle, fumetti e gialli.
2) È corretta la prima frase perché i due punti non si inseriscono tra il predicato verbale e il complemento
oggetto, anche se si tratta di un elenco.
3a. Luisa chiese che ora fosse.
3b. Luisa chiuse che ora fosse.
3) È corretta la prima perché verbi come dire, chiedere, domandare non reggono un discorso diretto.
4a. Il progetto relativo allo sviluppo delle competenze in àmbito scolastico, è stato approvato.
4b. il progetto relativo allo sviluppo delle competenze in àmbito scolastico è stato approvato.
4) È corretta la seconda frase perché la virgola non si può inserire tra parti del discorso che sono
logicamente collegate tra loro (in questo caso soggetto e verbo).
5a. Ho passato qualche ora in giardino, a leggere un libro.
5b. Ho passato qualche ora in giardino a leggere un libro.
5) È corretta la seconda frase perché in genere non si mette la virgola davanti a complementi introdotti da
preposizioni.
6a. Non ci sono d’altra parte, altre decisioni diverse da questa.

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6b. Non ci sono, d’altra parte, altre decisioni diverse da questa.
6) È corretta la seconda frase perché l’inciso va sempre tra due virgole.
7a. <<Dirà (ne sono certa!) che ha ragione lui>>
7b. <<Dirà (ne sono certa)! Che ha ragione lui>>
7) È corretta la prima frase perché il punto esclamativo e il punto interrogativo vanno all’interno della
parentesi.
8a. Come già sottolineato (cfr. § 2), la poesia di Pascoli contiene tratti autobiografici.
8b. Come già sottolineato, (cfr. § 2), la poesia di Pascoli contiene tratti autobiografici.
8) È corretta la prima frase perché il rinvio va collegato alla parte in cui viene menzionato; non va tra due
virgole come un inciso perché il suo valore è già espresso dalle parentesi tonde.
9. Signora, può dirmi dove si trova la biblioteca comunale?  La virgola si mette dopo ‘Signora’, poiché
‘Signora’, in questo caso, è un vocativo.
10. Lo zio Leopoldo, stando ai racconti di mio cugino, aveva dilapidato una fortuna in pochi anni.  Le
virgole segnalano l’inciso ‘stando ai racconti di mio cugino’.
11. Parigi, la capitale della Francia, è una città ricca di storia e di arte.  ‘la capitale della Francia’ è un
inciso con valore appositivo, quindi va messo fra le virgole.
12. Il musicista si sedette al piano, sfogliò il libretto sul leggìo e cominciò a suonare una musica
meravigliosa.  Si tratta di elementi di un elenco; l’ultimo segmento è preceduto da e quindi la virgola non
si mette a meno che non si debba dare risalto al segmento finale.
13. Londra detiene il primato della metropolitana: fu inaugurata nel 1863 e utilizzava la trazione a vapore;
nel 1890 venne invece elettrificata.
09-04-21
14. Mio fratello preferisce scrivere al computer piuttosto che a mano: ha imparato a scuola quando era alle
elementari.  I due punti hanno, in questo caso, valore esplicativo.
15a. L’uomo entrò nella casa sulla testa. Portava un cappello marrone ai piedi, grossi stivali sulla faccia, un
maschio sorriso in mano, un bastone d’ebano nell’occhio, uno sguardo penetrante.
15b. L’uomo entrò nella casa. Sulla testa potava un cappello marrone, ai piedi grossi stivali, sulla faccia un
maschio sorriso, in mano un bastone d’ebano, nell’occhio uno sguardo penetrante.
15) Se volessimo disegnare la situazione della prima frase, ciò che ne verrebbe fuori sarebbe un’immagine
abbastanza strana. Viceversa, la seconda frase, presenta una segmentazione corretta e, di conseguenza,
anche una semantica corretta.
16a. ci misi molto tempo a capire da dove venisse il piccolo principe che mi faceva una domanda dopo
l’altra pareva che non sentisse mai le mie sono state le parole dette per caso che poco a poco mi hanno
rivelato tutto così quando vide per la prima volta il mio aeroplano non lo disegnerò perché sarebbe troppo
complicato per me mi domandò che cos’è questa cosa non è una cosa vola è un aeroplano è il mio
aeroplano ero molto fiero di fargli sapere che volavo allora gridò come sei caduto dal cielo sì risposi
modestamente ah questa è buffa e il piccolo principe scoppiò in una bella risata che mi irritò voglio che le
mie disgrazie siano prese sul serio poi riprese allora anche tu vieni dal cielo di quale pianeta sei intravvidi
una luce nel mistero della sua presenza e lo interrogai bruscamente tu vieni da un altro pianeta ma non mi
rispose
16b. Ci misi molto tempo a capire da dove venisse. Il Piccolo Principe, che mi faceva una domanda dopo
l’altra, pareva che non sentisse mai le mie. Sono state le parole dette per caso che, poco a poco, mi hanno
rivelato tutto. Così, quando vide per la prima volta il mio aeroplano (non lo disegnerò perché sarebbe
troppo complicato per me), mi domandò: <<Che cos’è questa cosa?>> <<Non è una cosa, vola. È un
aeroplano. È il mio aeroplano>>. Ero molto fiero di fargli sapere che volavo. Allora gridò: <<Come… Sei
caduto dal cielo?>> <<Si>> risposi modestamente. <<Ah, questa è buffa!>> e il Piccolo Principe scoppiò in
una bella risata che mi irritò. Voglio che le mie disgrazie siano prese sul serio… Poi riprese: <<Allora anche
tu vieni dal cielo!... Di quale pianeta sei?>>. Intravvidi una luce nel mistero della sua presenza e lo interrogai
bruscamente: <<Tu vieni da un altro pianeta?>> ma non mi rispose.
16) Si può notare che il primo esempio, che non presenta segni interpuntivi, è incomprensibile; viceversa, il
secondo, nonostante sia lo stesso e identico testo è facilmente comprensibile grazie all’inserimento dei
segni interpuntivi.

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Storia del sistema paragrafematico dell’italiano  Il rapporto biunivoco tra punteggiatura e pausa della
voce è un assioma da smentire poiché la punteggiatura nasce per agevolare la lettura endofasica, cioè la
lettura mentale (pertanto non sono i segni interpuntivi a riprodurre le pause della voce: i segni interpuntivi
sono presenti per poter dare un significato a quel che si sta scrivendo/leggendo). Si cominciò a adottare a
partire dal IV-V secolo d.C., in ambienti ecclesiastici (come nei monasteri, in cui vi era il culto del silenzio) e
divenne una pratica più diffusa tra i secoli XIII-XIV.
Si sa che il rapporto di latini e greci con la scrittura e i segni paragrafematici inizialmente presentava la
scriptio continua e la lettura ad alta voce (anteriore al III secolo a.C.); in seguito sono stati inseriti alcuni
segni interpuntivi, conosciuti però anche in epoca antica (distinctiones/théseis), quali: il punto in alto che
equivaleva ad una pausa lunga (ex. M · AGRIPPA · L · F · TERTIUM · FECIT); il punto al centro che equivaleva
ad una pausa media; il punto in basso che equivaleva ad una pausa breve.
La lettura endofasica serve per la comprensione e l’assimilazione di molto sapere (di molte informazioni) in
un tempo ridotto (quando si legge un libro, solitamente lo si legge “in mente”, ci si sofferma a leggerlo ad
alta voce quando non si riesce a concentrarsi abbastanza con la sola lettura della mente, quindi l’ausilio
della verbalizzazione favorisce la concentrazione)  è un processo complessissimo perché l’emissione di
suono articolato con valenza semantica è una caratteristica sola degli uomini, che distingue la lingua dal
linguaggio (che è quello degli animali).
La lettura endofasica comporta sia la necessità della ristrutturazione della sintassi regolare (SVO soggetto-
verbo-oggetto) e collegamento semantico tra le frasi (ad esempio, quando si costruisce un testo si cerca di
costruire una rete di fili, in modo tale da dare origine ad una trama coerente e coesa al suo interno; se
questa cosa non viene effettuata si rischia di rendere il testo poco comprensibile in quanto poco lineare);
ma anche la necessità di un sistema interpuntivo con modalità più regolari per individuare più velocemente
le parti del discorso; il legame semantico intercorrente tra le frasi, i periodi ecc…; i collegamenti, i cambi di
argomento, gli elenchi ecc…
XV secolo  Vi sono stati dei cambiamenti divenuti fondamentali quando si è passati dal manoscritto (e
quindi dalla scrittura a mano) alla stampa, perché con la stampa c’è stata una rivoluzione fondamentale di
tempi e di numero di testi stampati. L’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455) mette stampatori,
tipografi e curatori nella necessità di trovare oltre a una lingua comune e a un sistema grafico comune
anche un sistema paragrafematico comune (standardizzato). Fra i primi tentativi ci fu quello del
trasferimento dei segni interpuntivi usati nei manoscritti. Tuttavia, quest’ultimo, presentava troppi
problemi, del tipo: segni diversi nei vari manoscritti; segni vergati a mano spesso non riproducibili con i
caratteri a stampa; segni a mano spesso in opposizione con le linee teoriche più moderne dei grammatici
del ‘500.
Ad un certo punto si sentì la necessità di standardizzare la lingua, standardizzazione che è avvenuta per
step.
Momenti della codificazione del sistema paragrafematico dell’italiano
Il primo momento è il Cinquecento, ma non il Cinquecento in generale, poiché ci sono state varie fasi al suo
interno.
All’inizio del ‘500 vi fu il sodalizio fra il linguista Pietro Bembo e lo stampatore Manuzio. Nel Petrarca aldino
(1501) vengono introdotti i segni di interpunzione moderni, quali: la virgola, il punto e virgola, il punto, i
due punti, l’apostrofo, il punto interrogativo e l’accento grave. Il sistema promosso dal Bembo non venne
subito accettato da tutti e per lungo tempo vi furono molte proposte che tendevano a far crescere a
dismisura il numero dei segni.

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Petrarca aldino
(1501)
Una copia del
Petrarca aldino che
ci mostra i simboli
che ancora oggi
vengono utilizzati.

Verso la metà del Cinquecento le proposte bembiane diventarono regole grazie anche ai teorici di quel
periodo, tra i quali Lodovico Dolce (Osservazioni nella volgar lingua 1a ed. 1550; 8a ed. 1568) che dedicò
gran parte del suo terzo libro della grammatica alla punteggiatura.
Nella seconda metà del Cinquecento si ha la trattazione più completa dell’argomento nell’ Arte del puntar
gli scritti (1585) di Orazio Lombardelli. In quest’opera: vengono individuati i 9 segni interpuntivi bembiani
(virgola, punto e virgola, punto, due punti, apostrofo, punto interrogativo e accento grave) più il punto
esclamativo e le parentesi tonde (che non vengono però descritti sempre nei termini che conosciamo noi);
oltre al valore prosodico viene attribuito ai segni diacritici anche un valore sintattico-testuale; viene
tracciata anche una breve storia dell’interpunzione; vengono criticati i vari usi presenti nelle stampe a
discapito di un sistema unico.
Alla fine del ‘500 agisce il cavalier Marco Salviati, fondamentale per l’Accademia della Crusca (e per la prima
edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, 1612); Salviati assunse le linee guida proposte da
Bembo e diffuse attraverso le opere stampate da Manuzio e, dunque, portò alla diffusione di un modello
ortografico valido per circa due secoli. Tra le regole più usate: la virgola obbligatoria prima di congiunzione
o frase subordinata; mancata accentazione di che nei composti (ancorche, poiche); oscillazione dell’accento
sui polisillabi ossitoni (bonta).
Il Seicento fu un momento di stasi perché i trattatisti non si curavano più dell’argomento; credevano che la
punteggiatura fosse soggettiva e arbitraria. Come rappresentante del ‘600 vi è Daniello Bartoli ( Ortografia
italiana, 1670) che si distinse per la modernità con cui affrontò l’argomento dell’interpunzione: egli
individuò il doppio valore (sia logico-sintattico che prosodico) dei segni d’interpunzione; propose la
divisione del testo in paragrafi (fondamentale); ridusse i segni interpuntivi solo a cinque (punto, virgola,
punto e virgola, due punti, parentesi tonde).
Nel Settecento la sintassi del periodo divenne più sciolta (il modello francese; la polemica che ci fu fra Italia
e Francia; i francesi ritenevano che la propria lingua fosse in maniera naturale ordinata e quindi
osteggiavano la scrittura italiana prendendo in considerazione il Decameron di Boccaccio – avente una
struttura sintattica particolare; sempre i francesi nel ‘700 volevano che la propria lingua divenisse la lingua
degli intellettuali, “il nuovo latino”  vi furono a riguardo una serie di dibattiti che portarono a zittire tutto
queste velleità francesi evidenziando che la loro lingua non era naturalmente predisposta a razionalità,
come volevano far credere, ma che era stata un’operazione fatta a tavolino, voluta dal re e messa in atto

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dal cardinale Richelieu, attraverso una serie di operazioni deviate che fecero sì che il francese prendesse
una certa fisionomia).
Per quanto concerne la grammatica italiana i punti di riferimento del ‘700 sono: Salvatore Corticelli con le
Regole ed osservazioni della lingua toscana ridotte a metodo (1745) e Francesco Soave con la Grammatica
ragionata della lingua italiana (1771). In entrambi si nota la prevalenza del valore prosodico attribuito ai
segni interpuntivi a scapito di quello sintattico-testuale. Dal punto di vista dei segni interpuntivi scelti
entrambi riprendono nuovamente il pensiero bembiano. E quindi: sette segni (punto, virgola, punto e
virgola, due punti, punto esclamativo, punto interrogativo e parentesi tonde); decadenza del punto mobile
(seguito da minuscola), che aveva un valore a metà strada tra il punto e virgola e il punto; specializzazione
dei due punti con valore deittico-presentativo; diminuzione dell’uso della virgola (che inizialmente veniva
usata obbligatoriamente prima di ogni congiunzione e frase subordinata).
Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, Raffaello Fornaciari, con la Sintassi italiana dell’uso moderno (1881),
presenta di nuovo una preminenza del valore sintattico-testuale a scapito di quello prosodico. La scelta di
inserire le pagine riguardanti la punteggiatura nella sintassi e non nell’ortografia evidenziano proprio il
carattere logico-sintattico attribuito ai segni interpuntivi.
Il sistema paragrafematico dell’italiano contemporaneo (Novecento/Duemila): riflessioni
I segni oggigiorno utilizzati sono 11: il punto, il punto esclamativo, il punto interrogativo, la virgola, il punto
e virgola, i due punti, l’apostrofo, i tre punti di sospensione, il trattino breve, il trattino lungo, la barra
obliqua.
Ci sono 3 tipi di virgolette: virgolettato doppio alto “ ”, virgolettato semplice alto ‘ ’, virgolettato basso <<
>>.
3 tipi di parentesi: parentesi tonde, parentesi quade, parentesi graffe (queste ultime circoscritte all’ambito
matematico/scientifico).
Simboli in apice: l’asterisco *, la a in apice che indica “prima, seconda, ecc…” a, la o in apice che indica
“primo, secondo, ecc…” °.
3 tipi di accenti: accento grave, accento acuto, accento circonflesso (più frequente in altre lingue,
maggiormente presente nelle forme antiche dell’italiano; ad esempio, per segnalare la doppia i alla fine del
plurale matrimonii, si usava l’accento circonflesso matrimoni^).
Altri segni paragrafematici: l’uncinato basso semplice < > indica un grafema, un simbolo grafico e quindi
scritto; § indica il paragrafo; = significa o a capo o uguale; & e; % percentuale; $ soldi/dollaro; £ lire (non è
stato introdotto il simbolo di euro); + indica un’aggiunta.
La spaziatura del testo (è importante il modo in cui si utilizza lo spazio all’interno di un foglio): interlinea
(può essere stretta o ampia, a seconda del legame tra un paragrafo ed un altro); rientro di capoverso (a
capo senza rientro o con rientro di capoverso).
Tipi di carattere: Tondo (il carattere dell’esposizione); Corsivo (un carattere che evidenzia una particolare
parola o frase); Grassetto (utilizzato o nel titolo o nel capitolo o nel paragrafo, molto raramente nel
sottoparagrafo); MAIUSCOLO; MAIUSCOLETTO.
Costruzione del testo: capitoli; paragrafi; sottoparagrafi; capoversi.
12-04-2021
Non esistono regole applicabili ad ogni tipologia testuale; esistono tipi testuali diversi e ogni tipo testuale
possiede delle proprie regole. È chiaro, pertanto, che anche la gestione dello spazio pagina debba essere
diverso. Si pensi, ad esempio, ad una voce di vocabolario, costruita in un certo modo: il vocabolario è su
due colonne, per individuare immediatamente la forma lessicale (l’entrata) si usa il grassetto ed è un tipo di
carattere particolare che attira immediatamente l’occhio del lettore; le notizie aggiuntive vengono scritte
con caratteri diversi, se bisogna dare più semantiche si usano i numeri arabi, se si hanno due tipi diversi di
ruoli grammatica, come ad esempio una forma che può essere sia sostantivo che aggettivo, si avrà un
elemento con la voce s.m. (sostantivo maschile) e dall’altra parte un elemento con la voce agg. (aggettivo),
in modo tale da dividere le funzioni; il significato della parola è scritto in tondo. Se invece si prende in
considerazione un racconto, ci si renderà conto che non presenta la suddivisione in sottoparagrafi. Se si
prende il bugiardino di un medicinale si noterà un ulteriore formato, e così via per ogni tipologia testuale.

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La produzione tecnica  C’è un titolo (che è il titolo del libro) e che sta ad indicare il cuore, il nucleo degli
argomenti trattati nel manuale. Dopo di che è stato costruito un testo, partendo da dei capitoli suddivisi in
paragrafi, a loro volta suddivisi in sottoparagrafi che seguono fra loro una certa linearità.
13-04-2021
Morfologia nominale  Livello di analisi che studia in che modo nei diversi componenti della categoria
nominale (sostantivi, aggettivi, pronomi, articoli) si esprimono i vari valori abbinati alle rispettive categorie
nominali. L’analisi che viene fatta delle forme nominali avviene attraverso lo studio e l’analisi di come è
formata la parola (al di là della semantica), come è strutturata quella parola, quali sono gli elementi che
forniscono delle informazioni in merito alla partecipazione ad una categoria, se si tratta di forme
maschili/femminili, plurali/singolari.
Nella morfologia flessiva si ha lo studio delle forme flesse di una lingua che vengono classificate e raccolte
in paradigmi. Ciò che consente di distinguere la funzione morfologica è il morfema (cioè l’elemento che si
trova in posizione finale e che ha valore distintivo). Il morfema, dunque, è l’unità minima distintiva
dell’analisi morfologica.
Le lingue flessive sono quelle lingue in cui i morfemi si uniscono per formare le parole, sono dunque lingue
analitiche, ovvero lingue in cui le parole sono formate da un morfema lessicale portatore della semantica
(che è la radice) ed un morfema grammaticale portatore dei valori morfologici (che è la desinenza). Vi sono
anche altri elementi, tuttavia ciò che interessa per quanto riguarda la formazione della parola è, da un lato,
l’elemento utilizzato della forma nominale che esprime la semantica (ovvero la radice) e, dall’altro,
l’elemento utilizzato della forma nominale che fornisce delle notizie relative al valore morfologico che
quella determinata parola assume.
In alcuni casi ci possono essere due elementi in grado di veicolare i valori morfologici, ed è in questi casi che
si parla di allomorfia, cioè quando sono presenti più situazioni che veicolano più elementi/più tratti che
all’interno della stessa parola stanno veicolando la stessa attribuzione alla categoria grammaticale. Si pensi
al tipo amic-o /a’mi:ko/ - amic-i /a’mi:ʧi/  oltre ad avere la i di posizione finale che indica il maschile
plurale vi è la ʧ quindi abbiamo due elementi all’interno di una parola che ci identificano il maschile
singolare e il maschile plurale, di conseguenza se ci fosse un apocope vocalica di posizione finale, il secondo
tipo di allomorfia - cioè la ʧ - permetterebbe di distinguere comunque una forma dall’altra.
Dal punto di vista funzionale le lingue flessive sono più economiche perché permettono la creazione del
patrimonio lessicale utilizzando un numero ristretto di forme; nelle lingue sintetiche, invece, ogni parola
costituisce un morfema autonomo portatore di significato e quindi sono più difficili da memorizzare (tipo il
cinese mandarino).
Nelle grammatiche sostantivo e nome vengono utilizzati come sinonimi, pertanto anche qui li
identificheremo come tali. Gli elementi che vengono veicolati attraverso la desinenza sono il genere (per
l’italiano il maschile e il femminile) e il numero (per l’italiano il singolare e il plurale).
Dal latino all’italiano: scomparsa/relitti del neutro  In latino esistevano tre generi: maschile, femminile e
neutro; quest’ultimo era il genere degli elementi inanimati. In realtà vi erano molti termini neutri con una
doppia uscita, una maschile e una neutra (ex. CASEUS/CASEUM ‘formaggio’; COLLUS/COLLUM ‘collo’).
Proprio a causa di questa frequente commistione con il maschile, nel passaggio all’italiano la maggior parte
delle parole neutre sono state assorbite dal genere maschile (ex. DONUM > (il) dono; TEMPUS > (il) tempo).
Quasi tutte le parole neutre sono quindi state assorbite dal maschile, tuttavia, dei relitti di neutri sono però
rinvenibili in uno dei due plurali di alcune parole: m. i fili/n. le fila; m. i fondamenti/n. le fondamenta; m. i
membri/n. le membra.
L’articolo femminile plurale testimonia la reinterpretazione dei neutri plurali in -a come femminili (ex. le
fondamenta anziché le fondamente): questo ci fa capire che sono dei relitti di neutri plurali e non una
derivazione dai femminili plurali (quindi si tratta di un neutro che è stato reinterpretato come femminile),
inoltre la semantica (il significato) è anche diversa, o meglio sarebbe dire che le parole hanno significati
simili ma si usano in contesti differenti (ex. I membri di una squadra/Le membra di un corpo). I neutri plurali
in -a sono stati reinterpretati come femminili poiché -a è il morfema tipico del femminile singolare; in
questo caso è il genere femminile a prevalere nella marcatezza rispetto al numero (e questo è uno degli
universali di Greenberg). Alcune forme neutre plurali in -a sono state infatti addirittura reinterpretata come
femminili singolari: PECORA n.pl. di PECUS  f.s. la pecora  f.p. le pecore (il femminile plurale è stato

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costruito secondo le regole dell’italiano); FOLIA n.pl. di FOLIU(M)  la foglia  le foglie (stessa cosa di
pecora).
Classi dei nomi in italiano  La prima, la seconda e la terza classe sono più produttive rispetto alle altre
due, nel senso che presentano più forme e che nel momento in cui si va a creare un neologismo o si va a
fare un calco semantico, non si va a pescare tra le categorie usate poco, ma fra quelle usate di più.
1° classe  è formata dai maschili con l’uscita in -o per il maschile singolare e in -i per il maschile plurale
(ex. lupo/lupi);
2° classe  formata dai femminili con l’uscita in -a (per il femminile singolare) e in -e (per il femminile
plurale) (ex. rosa/rose);
3° classe  formata dagli ambigeneri con uscita in -e per il maschile/femminile singolare e in -i per il
maschile/femminile plurale (ex. femminile  la carne/le carni; maschile  il pesce/i pesci);
4° classe  formata prevalentemente da maschili (pochi femminili) terminanti in -a per il singolare e in -i
per il plurale (ex. maschile  il poeta/i poeti; femminile  l’arma/le armi);
5° classe  formata da termini con il singolare maschile e il plurale femminile (ex. maschile 
dito/femminile  dita)  questa è l’unica classe a non essere più produttiva;
6° classe  formata da ambigeneri invariabili, inizialmente solo ossitoni, poi anche forme straniere (ex. il
re/i re; la specie/le specie; il bar/i bar; l’euro/gli euro).
Dalle declinazioni alle classi nominali  Il latino aveva cinque declinazioni: la prima declinazione era
tendenzialmente formata da femminili in -A, -AE (ex. ROSA, -AE); la seconda declinazione conteneva
fondamentalmente maschili in -US, -I (ex. LUPUS, -I); la terza declinazione conteneva femminili, maschili e
neutri imparisillabi con genitivo in -IS (ex. TEMPUS, -ORIS); la quarta declinazione conteneva femminili e
maschili in -US, -US (ex. CURRUS, -US) e neutri in -U, -US (ex. CORNU, -US); la quinta declinazione
presentava femminili in -ES, -EI (ex. RES, -EI; FIDES, -EI). Poiché la quarta e la quinta non erano
particolarmente abbondanti di termini si svilupparono dei metaplasmi e quindi una riduzione delle
declinazioni: la quarta declinazione venne assorbita dalla seconda (maschili/neutri); la quinta declinazione
dalla prima (femminili). Rimasero così solo tre declinazioni. Le prime tre classi nominali dell’italiano (quelle
più produttive) risultano proprio derivanti da queste tre: la prima classe è formata da maschili in -o/-i < -
Ŭ(M)/-Ī come la seconda declinazione (ex. accusativo singolare LUPŬ(M)/nominativo plurale LUPĪ lupo,
lupi); la seconda classe è formata da femminili in -a/-e < -A(M)/ -AS come la prima declinazione (ex.
accusativo singolare ROSA(M)/accusativo plurale ROSAS rosa, rose); la terza classe è formata da maschili e
femminili in -e/-i < -Ē(M)/-ĒS come la terza declinazione (ex. accusativo singolare
FLORE(M)/accusativo plurale FLORES il fiore, i fiori).

Tipologie dei nomi in italiano


1. Nomi propri (che sono quelli che si segnalano con la maiuscola)  tra questi ci sono: antroponimi
(nomi di persona) che si dividono in forme nominali, cognominali e soprannomi; toponimi (nomi di luogo)
che possono essere macro- o microtoponimi; marchionimi (i nomi di marche); acronimi (le sigle); altro
(idronimi, oronimi, ecc…)
2. Nomi comuni di cose, animali e concetti (che non vanno segnalati con la maiuscola)
3. Nomi concreti
4. Nomi astratti
Basi accusativali  La maggior parte del patrimonio lessicale nominale italiano deriva dall’accusativo.
Fanno eccezione alcune parole (uomo, re, moglie, sarto, ladro, drago, fiasco) che derivano invece dal
nominativo. Presentano però una base nominativale anche altre forme come: i maschili plurali appartenenti
alla prima classe nominale, derivata dalla seconda declinazione latina che presentano l’uscita in -i, propria
del nominativo plurale -Ī (e non dall’accusativo ex. LUPOS).
Maschili  I nomi maschili sono: nomi di metalli e di elementi chimici; nomi di albero da frutto; i nomi dei
quattro punti cardinali (est, ovest, nord e sud); i nomi dei mesi (gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio,
giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre, dicembre); i nomi di mari, monti, fiumi, laghi (con
qualche eccezione); i nomi dei vini; i nomi delle preghiere (tranne l’Avemaria); i nomi di origine straniera
terminanti in consonante (ex. bar, sport). In italiano i nomi di piante/albero da frutto sono maschili, mentre

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in latino erano femminili, dato che appartenevano alla IV declinazione, la quale è stata assorbita dalla II
declinazione, rendendoli così maschili (ex. f. ARBOR > m. albero; f. FAGUS > m. faggio; f. PINUS > m. pino).
Femminili  I nomi femminili sono: nomi di frutti e agrumi, ma ci sono anche molte eccezioni (ex. il fico, il
lampone, il limone e i nomi dei frutti esotici); nomi di città (ex. Milano è bella), regioni (ma vi sono molte
eccezioni: l’Abruzzo, il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, il Molise, il Piemonte, il Trentino-Alto Adige, il Veneto),
stati e continenti (ex. Africa, Europa, Asia, America); nomi militari che indicano mansioni (ex. guardia, guida,
sentinella, ronda); nomi di scienze, discipline e nozioni astratte (ex. astronomia, filologia, matematica,
chimica, intelligenza, astuzia, bellezza); nomi terminanti al singolare in -i (ex: artrosi, ascesi, parafrasi), ma ci
sono anche delle eccezioni (ex. brindisi); nomi in -tà e -tù (ex. beltà, virtù), ci sono poche eccezioni,
solitamente termini stranieri (ex. taffetà, tutù, menù)  queste forme ossitone, in italiano, si sono fermate
per via del fenomeno dell’apologia.
Segnalazione dell’alternanza di genere
1. Morfema di posizione finale in -O per il maschile e in -A per il femminile (ex. figlio/figlia); in -TORE per il
maschile e in -TRICE per il femminile (ex. lavoratore/lavoratrice), un morfema presente anche nel nome di
quelle macchine che svolgono quelle mansioni che prima svolgevano gli uomini (ex. il trattore, la lavatrice,
la friggitrice); in -SORE per il maschile in -TRICE per il femminile (ex. difensore/difenditrice).
2. Alcuni nomi di professioni in -e formano il femminile aggiungendo -essa (ex. dottore/dottoressa;
studente/studentessa); oggigiorno si preferisce evitare i tipi vigilessa, avvocatessa e ancor più quelli con la
specificazione donna (ex. donna giudice); nell’accordo fra sostantivo e verbo o sostantivo e aggettivo si
mantiene invece il femminile (ex. L’avvocato Rossini è appena entrata in aula).
3. Ai nomi di animali si aggiunge spesso la specificazione maschio/femmina per indicarne il sesso.
4. Forme diverse di maschile e femminile che non sono prevedibili o che si differenziano abbastanza fra
loro: cane < CANEM / cagna < *CANIAM; dio (evoluzione popolare)/dea (cultismo); anche basi lessicali
diverse, con una radice completamente differente (Ex: pecora/montone; toro/mucca; padre/madre;
fratello/sorella).
Singolari e plurali particolari
1. Con raddoppiamento (ex. nn. ‘numeri’, pp. ‘pagine’).
2. Si può usare il plurale dei nomi propri quando ci si riferisce a due o più persone (ex. Tutti i
Marco/Marchi che conosco sono simpatici).
3. Singolare collettivo: sono sostantivi singolari che racchiudono l’idea di pluralità (gruppo, squadra,
mazzo ecc…); sono spesso seguiti da un partitivo che ne specifica la natura (gruppo di bambini; mazzo di
fiori) per questo spesso l’accordo avviene con il verbo al plurale (concordanza ad sensum).

16-04-2021
Singolari e plurali particolari
Il tipo mano, -i  presenta il singolare in -o e il plurale in -i, la parola è però femminile (la mano/le mani); il
singolare e il plurale derivano da una forma di IV declinazione (< singolare MANUS, -US // plurale MANUS),
in molti volgari antichi e in molti dialetti si è verificato però un metaplasmo ‘la mana’, dato dal passaggio
dalla IV alla I declinazione reso naturale dall’articolo femminile. Anche il plurale etimologico plurale ‘mani’
ha subito un metaplasmo ‘le mani’ (la forma ‘le mane’ è presente in alcuni dialetti, anche se
sporadicamente).
Il tipo uovo, -a  singolare uovo - plurale uova < neutro singolare OVUM - neutro plurale OVA; la forma in
-a del plurale è un relitto del neutro. In molti volgari antichi e in molti dialetti si è però verificato un
metaplasmo o sul maschile ‘gli uovi’ o sul femminile ‘le uove’. Altre forme che appartengono a questo tipo
(maschile in -o, plurale in -a) sono: paio/paia, riso/risa, miglio/miglia, migliaio/migliaia.
Il tipo bue, buoi  singolare bue – plurale buoi < maschile singolare BOVEM – maschile plurale BOVES.
BŎ(V)EM > bue: con la sincope della V e l’apocope della M si ha BŎE, che è diventato ‘bue’ perché si è
avuta la chiusura della media tonica in iato poiché seguita da una vocale diversa da /i/. BŎ(V)ES > buoi: con
la caduta della V (una labiodentale che in posizione intervocalica può indebolirsi sino a cadere, ad arrivare
al grado zero) e con ES > i, si ha la Ŏ seguita da I, pertanto è avvenuto il regolare dittongamento toscano
/bwɔ.i/.

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Singolare in -CA/-GA (velare) e plurale in -CHI/-GHI per il maschile e in -CHE/-GHE per il femminile  Si
ha il mantenimento della velare anche se si ha la i in posizione finale (ex. patriarca /patri’arka/ –
patriarchi /patri’arki/; collega /kol’:ega/ – colleghi /kol’:gi/ - colleghe /kol’:ege/), l’h diacritica serve a non
pronunciare il suono palatale /ʧ/ o /g/. Fanno eccezione alcune forme (ex. belga – femminile plurale belghe
/’bɛlge/ - maschile plurale belgi /’bɛlʤi/) che presentano il fenomeno della palatalizzazione per il maschile.
Maschile singolare in -CO/-GO vs maschile plurale in -CHI/-GHI o -CI/-GI  Tendenzialmente i parassitoni
tendono a non palatalizzare, mantenendo la velare anche al plurale (ex. baco /ba:ko/ – bachi /ba:ki/; ago
/a:go/ – aghi /a:gi/); ci sono però molte eccezioni (ex. amico/amici, greco/greci).
Nei proparossitoni maschili singolare terminanti in -CO/-GO tendenzialmente nel plurale si ha lo sviluppo in
-CI/-GI (ex. monaco /monako/ – monaci /monaʧi/); ma anche in questo caso ci sono molte eccezioni (ex.
carico/carichi, obbligo/obblighi, naufrago/naufraghi).
Per le forme in -òlogo e -òfago in genere i nomi di cosa sono solitamente in -ghi mentre quelli di persona in
-gi (ex. dialogo – dialoghi; sarcofago – sarcofaghi; ematologo /ema’tɔlogo/ – ematologi /ema’tɔloʤi/;
filologo /fi’lɔlogo/ – filologi /fi’lɔloʤi/). In alcuni casi si può avere una mancata normalizzazione per alcune
forme e quindi la formazione di doppi plurali data dalla tendenza ad utilizzare sia l’una che l’altra forma (ex.
intonaco – intonachi/intonaci; stomaco – stomachi/stomaci).
Dunque, in una forma singolare in -co/-go si ha uno sviluppo analogico plurale in -chi/-ghi; ma si può anche
avere una forma singolare in -co/-go che da un plurale con palatizzazione davanti a -e/-i  le due tendenze
si mescolano; non si sa quale delle due sia popolare e quale invece possa attribuirsi a cultismo (in questo
caso, pertanto, non si è ancora trovata una regola perché l’uso non ha ancora preso una specifica
direzione).
I plurali dei nomi in -ìo (quando la ì è tonica) e in -io (quando la i non è accentata)  I nomi che hanno il
singolare in -ìo hanno il plurale in -ìi (ex. pendio-pendii; rinvio-rinvii). I nomi in -io hanno invece il plurale in
-i (ex. omicidio-omicidi; matrimonio-matrimoni). In alcuni casi il plurale delle forme atone e quello delle
forme toniche potrebbero collidere (avrebbero praticamente la stessa forma), quindi la tendenza a
eliminare la doppia i nel secondo caso è data dalla necessità di disambiguare le forme che avevano la
doppia i per il plurale delle forme in -io. Anticamente, queste forme in -io venivano segnalate con l’accento
circonflesso ȋ.
Situazioni con maschile singolare ma doppio plurale maschile/femminile  In genere queste forme
hanno anche una semantica diversa: i bracci (arti meccanici)/le braccia (arti umani); i cervelli “menti
pensanti migliori”)/le cervella (inteso come mente, cervello); i calcagni (maschile della parte anatomica del
piede)/le calcagna (“stare dietro qualcuno/seguire”); i budelli/le budella; i cigli/le ciglia; i cuoi/le cuoia; i
gridi (i gridi degli animali)/le grida (delle persone); gli urli (degli animali)/le urla (delle persone); ecc...
Doppio singolare maschile/femminile e doppio plurale senza o con differenza semantica  orecchio-
orecchi = orecchia-orecchie (il significato non cambia); frutto ‘prodotto di qualcosa’ - frutti / frutta ‘insieme
di frutti; categoria alimentare’ – frutte.

Invariabili (singolare = plurale)  l’idea del genere viene data attraverso l’uso dell’articolo
1. Forme in -tù/-tà e ossitoni in generale di cui alcuni sono ossitoni primari e altri ossitoni secondari in
quanto forme aplologiche, cioè derivanti da un fenomeno presente nel fiorentino che si chiama aplologia e
consistente nell’apocope della sillaba finale quando è simile alla penultima sillaba e accentazione della
penultima (ex. la città/le città; la virtù/le virtù; il tabù/i tabù; il caffè/ i caffè).
2. Nomi di animali esotici (ex. il gorilla-i gorilla; il cobra/i cobra; il lama/i lama).
3. Nomi abbreviati: ex. l’auto/le auto (automobile); la bici/le bici (bicicletta); la metro/le metro
(metropolitana); il cinema/i cinema (cinematografo); la radio/le radio (radiotrasmettitore); la moto/le moto
(motocicletta).
4. Nomi femminili in -ie (ex. la barbarie/le barbarie; la serie/le seri).
5. Nomi maschili e femminili in -i (ex. l’analisi/le analisi; il brindisi/i brindisi; l’ipotesi/le ipotesi; l’oasi/le
oasi).
Plurale dei nomi stranieri e sigle

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1. Nomi stranieri invariati singolare/plurale: ex. il film/i film; il tram/i tram; non va aggiunta la-s perché
non tutte le lingue formano il plurale con la -s finale, pertanto la distinzione avviene mediante l’articolo.
Anche in parole straniere che hanno assunto una simbologia più simile alla nostra (ex. il kimono-i kimono)
la forma resta invariata e viene distinto il numero mediante l’articolo. Nel tipo il jeans/i jeans, il plurale
originale in -s si è esteso anche al singolare.
2. Sigle/marche invariate singolare/plurale: ex. la FIAT (stabilimento)/le FIAT /stabilimenti); la twingo/le
twingo.
Plurale dei nomi propri
I nomi propri in genere restano invariati al plurale, ma è possibile trovare la forma pluralizzata in alcuni casi:
quando più persone hanno lo stesso nome (ex. Le tre Marie); per enfasi (ex. Tutti Danti e Virgili in questa
classe!); per indicare più opere di un artista (metonimia) (ex. Quest’anno sono stati ritrovati due Caravaggi).
Plurale dei nomi composti  I nomi composti formano il plurale in modo diverso a seconda: del tipo e
dell’ordine dei loro costituenti e del grado di fusione dei costituenti (se sono percepiti come una sola cosa si
modifica il morfema finale come nei sostantivi semplici).
NOME + NOME:
1. Stesso genere: si modifica il secondo (ex. pescecane/pescecani);
2. Se appartengono a due generi diversi si modifica normalmente il primo (ex. pescespada/pescispada);
3. Se si ha autonomia tra le forme (le due forme vengono percepite dal parlante come due elementi
distinti) si modifica il primo elemento (ex. bustapaga/bustepaga);
4. Nomi con composti con capo:
- chi è a capo di qualcosa  il maschile plurale si segnala sul primo termine: capogruppo/capigruppo; il
femminile plurale è invece invariato (ex. la caporeparto/le caporeparto);
- chi è a capo di qualcuno  il maschile plurale si segnala sul secondo termine:
caporedattore/caporedattori; il femminile plurale si segnala sul secondo termine (ex.
caporedattrice/caporedattrici);
- chi è preminente rispetto ad altri suoi pari  il maschile plurale si segnala sul secondo termine (ex.
capolavoro/capolavori).
19-04-2021
NOME + AGGETTIVO: si modificano, tendenzialmente, entrambi i costituenti (ex. cassaforte-casseforti);
sono però presenti dei casi che esulano da questa tendenza in cui o il termine resta invariato (ex. il
pellerossa-i pellerossa) o si modifica solo il secondo elemento (ex. palcoscenico-palcoscenici).
AGGETTIVO + NOME: si modifica solo il secondo elemento poiché la parola viene considerata come un
elemento unico e non composta (ex. mezzogiorno-mezzogiorni; francobollo-francobolli); ma anche in
questo caso ci sono delle eccezioni in cui il termine rimane invariato (ex. il purosangue-i purosangue) o la
pluralità viene segnalata sia nel primo che nel secondo costituente della parola (ex. la mezzaluna-le
mezzelune).
AGGETTIVO + AGGETTIVO: si modifica solo il secondo elemento e la forma viene percepita, anche in questo
caso, come un unicum (ex. pianoforte-pianoforti; giallorosso-giallorossi).
VERBO + NOME MASCHILE PLURALE: invariati singolare/plurale (ex. il cavatappi-i cavatappi) in cui la
differenziazione avviene attraverso l’articolo.
VERBO + NOME MASCHILE SINGOLARE: si modifica solo il secondo elemento che porta il morfema di
pluralità (ex. parafango-parafanghi).
VERBO + NOME FEMMINILE SINGOLARE: invariato singolare/plurale (ex. il cavalcavia-i cavalcavia) dove la
differenziazione avviene attraverso l’articolo.
VERBO + VERBO: invariato singolare/plurale (ex. il dormiveglia-i dormiveglia) dove la differenziazione
avviene attraverso l’articolo.
Difettivi del singolare (parole usate unicamente al plurale)
- Oggetti formati da due parti uguali e che quindi hanno in sé l’idea del doppio (ex. pantaloni, forbici,
occhiali, manette), tuttavia, questa forma non è sempre rispettata, per cui si potrebbero anche trovare le
forme: il pantalone, l’occhiale, la forbice, ecc…;
- Oggetti che indicano una pluralità (ex. spezie, viveri, stoviglie, dintorni);

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- Cultismi difettivi del singolare, forme che già anticamente avevano una forma plurale e che si sono
mantenute nel tempo con questa forma plurale (ex. idi, calende, ferie, nozze).
Difettivi del plurale (parole che esistono solo al singolare)
- Entità uniche in natura e che quindi non possono essere pluralizzati in quanto unici (ex. Equatore,
Universo, Est, Sud);
- alcune malattie (ex. varicella, tifo);
- nomi di elementi chimici, metalli e metalli preziosi (ex. oro, ferro, nichel, zinco);
- nomi dei mesi (ex. gennaio, febbraio, marzo);
- alcuni prodotti alimentari: riso, pane, latte, alcool (questa forma non viene sempre rispettata).
- i nomi dei concetti astratti (ex. coraggio, felicità, superbia), anche se in alcuni casi questa regola non è
rispettata perché i concetti astratti vengono concretizzati, come nel caso di amore-amori, amicizia-amicizie.
Particolarità dei nomi
1. Nomi comuni derivati da nomi propri: il nome dell’artista equivale alla sua opera in generale o a un
libro specifico (metonimia) (ex. ho letto tutto Dante; hai visto il mio Castiglione-Mariotti?)
2. Nominalizzazione  anche altre parti del discorso possono assumere valore nominale senza cambiare
la loro forma:
verbo  Il cantare mi mette allegria;
aggettivo  Bisogna saper cogliere il buono e il bello della vita;
congiunzione  Nei tuoi discorsi c’è sempre un ma;
pronome  I tuoi sono in pensiero per te.
Questo è importante perché fa notare il fatto che al di là delle categorie fisse ci sono delle situazioni di
osmosi, di passaggi che permettono di passare da una categoria all’altra; per far questo però c’è la
necessità di creare dei legami.
L’articolo  In italiano l’articolo si distingue in determinativo e indeterminativo; si distingue in base al
genere (maschile/femminile che ricalcano i generi dei sostantivi) e in base al numero che, nel caso
dell’articolo determinativo può essere singolare o plurale, nel caso dell’articolo indeterminativo invece è
presente solo il singolare, perché l’idea di pluralità è espressa mediante altri elementi che non sono
assimilabili al tipo presente nell’articolo indeterminativo.
L’articolo si associa al nome concordando con esso in genere e numero, ma si può associare anche ad altre
parti del discorso rendendole un nome (processo di nominalizzazione). In generale l’articolo determinativo
o indeterminativo si seleziona in base a due opposizioni: classe/membro  il leone è il re degli animali
(ruolo)/ho visto un leone in gabbia (membro di una classe); noto/nuovo  lo porto io fuori il cane
(noto)/ho visto un cane per strada (nuovo). Il determinativo può abbinarsi a una preposizione semplice
dando vita alle preposizioni articolate (prerogativa dell’articolo determinativo).
Formazione degli articoli  Il latino non possedeva gli articoli però già nel latino arcaico plautino
l’aggettivo numerale UNUS veniva utilizzato con un valore simile a quello del nostro articolo
indeterminativo.
Per quanto concerne l’articolo determinativo, invece, nella prima traduzione latina della Bibbia, la Vetus
Itala (del II secolo d.C.), si trova un uso del dimostrativo ille con valore simile a quello del nostro articolo
determinativo. L’uso di questa forma era collegato alla presenza dell’articolo in greco e aramaico (la Bibbia,
in quanto parola di Dio, non doveva esser modificata sostanzialmente, pertanto si cercò di trovare una
soluzione per tradurre gli articoli presenti nel greco e nell’aramaico), lingue in cui erano stati redatti i testi
biblici.
In entrambi i casi si parla di articoloide, cioè di un elemento che aveva una funzione simile a quella che è
stata attribuita oggigiorno all’articolo.
Le forme dell’articolo indeterminativo in italiano sono: maschile singolare uno/un (dove un è la forma
apocopata); femminile singolare una/un’ (dove un’ è la forma elisa).
Per quanto riguarda l’uso dell’articolo indeterminativo maschile, l’italiano presenta una selezione su base
complementare in base al suono che segue:
UNO + /s/-/z/ <s> preconsonatica (ex. uno stivale, uno sbianco, uno sdentato);
+/ɲ/ <gn> (ex. uno gnomo);
+ /ʃ/ <sc> (ex. uno sciocco);

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+ /ts/-/dz/ <z> (ex. uno zaino, uno zunami);
+ /ks/ <x> (ex. uno xilofono);
+ <pn>, <pt>, <ps> ecc… (ex. uno pneumococco, uno pterodattilo, uno psicologo);
+ /j/ <y> e <i> + vocale (ex. uno yogurt, uno iato);
UN + consonante semplice (ex. un coniglio, un tamburo);
+ consonante (non /s/) + /r/ o /l/ (ex. un treno, un gladiolo);
+ /w/ anche delle parole straniere (ex. un uomo, un week-end);
+ vocale (ex. un albero).
Anche il femminile prevede un uso legato alla complementarietà della distribuzione, quindi in base al suono
che segue, si avrà:
UNA + tutti i contesti tranne vocale (ex. una bambola, una stringa, una tromba, una Wendy, una iena);
UN’ + vocale (ex. un’amica, un’infermiera).
N.B. L’elisione per il femminile non è obbligatoria, bensì una tendenza, per cui si possono avere anche le
forme: una amica, una infermiera, ecc…
Sviluppo storico dell’articolo indeterminativo
Uno < ŪNŬ(M) accusativo maschile singolare; un è la forma apocopata, ed è secondaria  uno stivale vs un
orecchino/un cane.
Una < ŪNA(M) accusativo femminile singolare; un’ è una forma elisa davanti a vocale, quindi secondaria 
una maglia vs un’amica (ma anche una amica).
Il plurale dell’articolo indeterminativo non esiste e viene espresso: o mediante indefiniti (alcuni/-e, certi/-e)
 ex. Alcuni/Certi bambini giocavano a pallone; o mediante il partitivo (dei/degli, delle)  ex. Dei bambini
giocavano a pallone.
Uso dell’articolo determinativo maschile:
1. Singolare IL – plurale I + consonante semplice (ex. il calice-i calici, il bicchiere-i bicchieri);
+ consonante (non /s/) seguita da /r/ o /l/ (ex. il trullo-i trulli, il glicine-i glicini);
+ /w/ nelle parole straniere (ex. il week-end - i week-end).
2. Singolare LO – plurale GLI + /s/ preconsonantica (ex. lo stivale-gli stivali; lo straccio-gli stracci);
+ /ɲ/ <gn> (ex. lo gnomo-gli gnomi);
+ /ʃ/ <sc> (ex. lo sciocco-gli sciocchi);
+ /ts/-/dz/ <z> (ex. lo zaino-gli zaini; lo zunami-gli zunami);
+ /ks/ <x> (ex. lo xilofono-gli xilofoni);
+ <pn>, <pt>, <ps> ecc… (ex. lo pneumococco-gli pneumococchi);
+ /j/ <i> + vocale e <y> (ex. lo yogurt-gli yogurt; lo iato-gli iati).
3. Singolare L’ – plurale GLI (in questi l’elisione è obbligatoria) + vocale (ex. l’indifferente-gli indifferenti);
+ /w/ (ex. l’uomo-gli uomini).
N.B. Anticamente anche la forma plurale GLI era elisa.
Sviluppo storico dell’articolo determinativo maschile singolare  In italiano antico l’unica forma per il
maschile singolare era lo < (ĬL)LŬ(M) accusativo maschile singolare (ex. lo pane, lo frate, lo stomaco). In
seguito, l’articolo cominciò a risentire del suono che lo precedeva, pertanto se si trattava di una consonante
l’articolo si manteneva intatto (ex. guardar lo mare); se invece era una vocale l’articolo si riduceva (ex.
guardare l mare). Nei volgari medievali successivamente la l (troppo debole a livello sillabico) venne fatta
precedere da una vocale d’appoggio (Tesi Rohlfs 1966-69): in Toscana si aveva el/il; a Firenze si aveva il tipo
il poiché il tipo el si chiudeva per protonia sintattica (dunque il è una forma secondaria, mentre lo è una
forma primaria); al nord si aveva al, ul.
La Norma Groeber descrive l’uso dell’articolo maschile singolare nel fiorentino antico dicendo che: si ha lo
all’inizio di frase; lo dopo parola terminante per consonante (cristallizzazioni di questo uso sono: per lo più,
per lo meno); il dopo parola terminante per vocale.
Sviluppo storico dell’articolo determinativo maschile plurale  In italiano antico esisteva solo la forma li <
(ĬL)LĪ nominativo maschile plurale. Quando li si trovava dinanzi a parola cominciante per vocale la -i
diventava j e il nesso lj si palatalizzava in [ʎi]. La forma i dell’italiano moderno è solo una riduzione di gli e
non è, dunque, autonoma a livello etimologico (le forme primarie erano dunque lo e li, tutte le altre sono
forme secondarie).

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Si ha un relitto di LÌ in italiano, indicato nelle date  Soprattutto nelle chiuse dei documenti/lettere ufficiali
(linguaggio burocratico) si usa la forma lì nelle date: ex. Roma, lì 16.04.2021. La forma lì accentata non è
locativa e pertanto la scrittura è errata: si tratta infatti dell’articolo maschile plurale antico li (che aveva
valore temporale, non locativo) ovvero: Roma, (l)i 16 (di) aprile (del) 2021.
Uso del femminile su distribuzione complementare in base al suono che segue:
o singolare La - plurale LE + tutti i contesti tranne vocale (ex. la bambola-le bambole, la stringa-le stringhe,
la tromba-le trombe, la iena-le iene);
o singolare L’ - plurale LE + vocale (ex. l’amica-le amiche, l’infermiera-le infermiere).
N.B. L’elisione per il femminile non è obbligatoria, bensì una tendenza, per cui si possono avere anche (ex.
la amica, la infermiera).
Sviluppo storico del femminile  Femminile singolare la < (ĬL)LA(M) accusativo femminile singolare.
Femminile plurale le < (ĬL)LAS accusativo femminile plurale  -as > -e per palatalizzazione (secondo la Tesi
di Aebischer).
Funzioni dell’articolo determinativo (e anche della preposizione articolata)
1. Dimostrativa: si avvicina a quella di un pronome o di un aggettivo dimostrativo (ex. Le città che ho
visitato mi sono piaciute tutte; Entro la settimana ti faccio avere quello che mi hai chiesto; I vestiti vecchi
sono più affascinanti dei nuovi).
2. Con i nomi propri:
- nelle forme cristallizzate nome proprio + il + attributo (ex. Guglielmo il Conquistatore);
- nei soprannomi o nei nomi usati come soprannomi (ex. Il Perugino, il Maradona de noantri);
- i nomi usati per metonimia (ex. il Dante e il Manzoni si leggono ormai solo a scuola);
- le forme in cui il nome ottiene una specificazione (ex. il Dante della Comedia);
- uso marcato in diatopia (ex. il Marco, la Maria).
3. Con i cognomi:
- per quanto concerne il femminile si usa:
a. per i personaggi sconosciuti  ex. La Carosella è arrivata? (tuttavia, questo fenomeno è in regresso per
rimodellamento sul maschile), quindi anche Salve, sono Carosella;
b. per personaggi conosciuti (ex. La Morante ha sempre espresso il suo pensiero senza timori).
- per quanto riguarda il maschile:
a. per i personaggi sconosciuti in genere non è presente, tranne in alcune zone di Italia per uso marcato in
diatopia, quali Nord e Toscana (ex. Il Guidetti c’è?);
b. per i personaggi conosciuti (ex. Il Manzoni sosteneva che la lingua comune… ma anche Cavour era un
politico di grande esperienza.);
c. al plurale quando ci si riferisce a famiglie storiche (ex. I Gonzaga, Gli Estensi).
4. Con i titoli onorifici o professionali + nome proprio:
- obbligatorio con signore/signora (ex. il signor Bianchi, la signora Anna);
- obbligatorio con avvocato, professore, ingegnere, ecc… (ex. l’avvocato Bianchi è appena arrivato; la
professoressa Sorianello sta facendo lezione);
- assente in genere con nomi di papi e sovrani (ex. Papa Paolo VI diceva…);
- assente con don, padre, monsignore, frate, suora (ex. Don Giulia fa sempre delle prediche; Suor Elda è
molte simpatica);
- assente con San/Santa (ex. Sant’Antonio Abate è il patrono degli animali);
- con Dio e Cristo alterna (ex. Dio perdona chi si pente ma se c’è la determinazione si mette il Dio di Abramo;
Cristo è stato crocifisso in croce ma anche, in passato, il Cristo si è immolato per noi).
20-04-21
5. Con i toponimi (i nomi di luoghi in generale):
a. Nei nomi di città si ha  la presenza obbligatoria dell’articolo in alcuni toponimi (ex. La Spezia,
L’Aquila, L’Avana, Il Cairo), ma in generale questo non accade; i nomi di città straniere mantengono
l’articolo originale (ex. Los Angeles, Le Havre); l’articolo è obbligatorio con i gruppi di isole al plurale (ex. le
Baleari, le Tremiti); l’articolo può essere presente o assente con i nomi di isole italiane (ex. la Sardegna, la
Sicilia, l’Elba, l’Asinara, la Maddalena ma anche Lipari, Lampedusa, Ponza, Ischia); le isole straniere non
hanno l’articolo (ex. Creta, Maiorca, Minorca); l’articolo è presente se c’è una determinazione (ex. la bella
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Bari, la nuova Palermo manca del fascino liberty dei quartieri storici); l’articolo è assente con mezzo/-a e
tutto/-a + toponimo di città (ex. mezza Torino tifa Juve; tutta Milano è nel caos).
b. con i nomi di nazioni  l’articolo è presente se c’è una determinazione (ex. la bella Italia); l’articolo è
presente con tutto/-a (ex. tutta l’Italia è nella morsa del gelo; tutto il Belgio è in festa); l’articolo è assente
con mezzo/-a (ex. mezza Italia è in zona rosa).
6. con gli idronimi (tutto ciò che è denominazione di acqua: fiumi, laghi, mari): l’articolo è obbligatorio con
nomi di laghi, fiumi, mari (ex. il Po, il Reno, la Loira, il Pacifico, Il mediterraneo); in alcuni sintagmi si usa la
preposizione articolata (ex. Valle del Sangro, Valle del Rodano).
7. Con gli oronimi (nomi di monti e catene montuose): l’articolo è obbligatorio con nomi di monti e catene
montuose (ex. i Pirenei, le Alpi, l’Abetone, il Cervino).
8. Odonimi (nomi delle vie, delle strade e delle piazze)/monumenti (vengono paragonati ad elementi di città
perché generalmente sono elementi stabili, che non spariscono da un momento all’altro)/quartieri/zone
urbane: in genere l’articolo è assente con i nomi di strade (ex. via s. Giacomo, corso Cavour); l’articolo è
presente con i nomi di monumenti (ex. il Maschio Angioino, il Colosseo, la Piramide Cestia, la Torre di Pisa);
l’uso dell’articolo è alternante per nomi di quartieri/zone urbane (ex. il Collatino, l’Eur, ma anche
Mergellina, Posillipo).
9. Con i singenionimi (nomi di parentela) in unione con il possessivo:
a. è obbligatorio  con il sostantivo plurale (ex. i miei nonni, le nostre zie); con le forme affettive mamma,
papà, babbo, figliolo, figliola (questi ultimi due sono un pochino marcati dal punto di vista diatopico perché
sono molto presenti in area mediana e toscana, e molto poco a sud) (ex. la mia mamma è alta; il tuo papà è
severo; la loro figliola è ancora piccina); con patrigno, matrigna, figliastro, figliastra (-igno/-igna e -astro/-
astra si portano dietro un valore peggiorativo, dato, in questo caso, da un mancato legame sanguigno) (ex.
il tuo patrigno è gentile? La vostra matrigna è simpatica?); con gli alterati (ex. la mia sorellina è ancora
piccola; la mia nonnina è troppo dolce!); con i nomi che indicano confidenza amorosa ma non parentela
(ex. il tuo fidanzato come si chiama?; La mia morosa è bellissima!; le vostre amanti sono più gentili delle
vostre mogli?); nei costrutti enfatici con possessivo posposto (ex. il fidanzato mio; la nonna tua).
b. è assente  con padre, madre, figlio, figlia, tutte forme percepite come meno marcate dal punto di vista
affettivo (ex. mio padre lavora troppo; mia madre cucina molto bene; tuo figlio è studioso).
10. espressioni di tempo: l’anno è preceduto dall’articolo (ex. il 2020 è stato un anno da cancellare);
giorno/mese/anno sono preceduti da articolo maschile singolare (ex. il 21 marzo 1980 è stato un giorno
memorabile); l’ora è preceduta dall’articolo femminile plurale (ex. sono le due; alle cinque ti passo a
prendere), ma l’una ha l’articolo singolare (ex. l’una è l’ora in cui pranzano quasi tutti).
11. Per quanto riguarda l’articolo indeterminativo abbiamo altri casi particolari
- è presente in frasi idiomatiche formate da aggettivo/sostantivo + di + un + altro sostantivo, anche con
nome proprio (ex. Ah, monello di un bambino!; Ah, fetente di un Michele!);
- è presente con determinazione del nome (ex. Voi vorreste un Alessandro studioso, ma io non sono così!);
- è presente quando ha valore di certo/tale (ex. Ti ha telefonato un dottor Pini prima. Lo conosci?);
- è presente quando ha valore antonomastico (ex. avevamo un Dante tra noi e non lo sapevamo!);
- è presente con un valore metonimico (ex. ho comprato un bellissimo Virgilio con rilegatura in pelle).
12. Casi di omissione dell’articolo: in molte locuzioni avverbiali (ex. per pietà, di corsa, in conclusione); nei
sintagmi modali formati con con e senza (es. con allegria, senza astuzia); in locuzioni verbali (ex. avere sete,
perdere tempo); nei complementi di luogo introdotti da in (ex. andare in piscina, recarsi in ufficio); vi è una
alternanza presenza/assenza in espressioni come parlare italiano/parlare l’italiano.
Preposizioni articolate analitiche e sintetiche  Nell’italiano contemporaneo si usano le preposizioni
sintetiche: alla, della, sulla, ecc… Con le preposizioni con e per invece prevale la forma analitica: con il e con
la NON col, colla; per il, per la NON pel, pella (col/colla, pel/pella sono forme che fino a poco tempo fa
esistevano, solo che oggi vengono percepite come forme antiche; a volte potrebbero anche esser percepite
come forme più poetiche). Le forme plurali maschili con apocope postvocalica di -i (a’, da’, de’, ne’) sono
considerate ormai desuete (ex. ne’ boschi e nelle valli; Pia de’ Tolomei).
La preposizione davanti al titolo di un’opera  Spesso dinanzi al titolo di un’opera non si sa come
comportarsi: inserendo un’apposizione (ex. ho letto un capitolo del romanzo I promessi Sposi), si mette in
atto una soluzione furba; fondere la preposizione e l’articolo (ex. ho letto un capitolo dei Promessi Sposi) è

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però la soluzione più corretta; mantenere la preposizione e l’articolo staccati (ex. ho letto un capito de I
Promessi sposi) è invece una soluzione inventata, poiché in italiano de non è più una preposizione in uso.
Gli aggettivi  L’aggettivo serve a modificare il significato del nome con cui ha il rapporto di dipendenza.
Nella maggior parte dei casi concorda con il nome in genere e numero. In molti casi l’aggettivo può
sostantivarsi e diventare a sua volta un nome.
Gli aggettivi si dividono in due gruppi:
1. Gli aggettivi qualificativi che determinano le caratteristiche e quindi ti dicono com’è fatto l’oggetto o la
persona in questione (aspetto, colore, forma, grandezza, qualità morali o intellettuali, ecc…) e
appartengono a questa categoria anche gli aggettivi di relazione (detti denominali: trasferiscono la
semantica del sostantivo nell’aggettivo)  costituiscono un sistema aperto poiché gli aggettivi qualificativi
sono implementabili;
2. Gli aggettivi determinativi che precisano alcune nozioni  i possessivi precisano l’appartenenza, i
numerali la consistenza numerica, gli interrogativi il dubbio o la richiesta, i dimostrativi precisano posizione
spaziale in merito agli interlocutori  costituiscono un sistema chiuso poiché sono definiti e non
implementabili (sempre secondo la “fotografia” della lingua parlata in questo periodo storico) (e sono
anche pronomi).
In latino esistevano due classi aggettivali: la prima classe era a tre uscite  singolare maschile -ŬS,
femminile -A, neutro -UM // plurale maschile -I, femminile -AE, neutro -A (ex. ALTUS, ALTA, ALTUM // ALTI,
ALTAE, ALTA) e abbracciava quindi i tre generi presenti in latino, i femminili della prima declinazione, i
maschili della seconda e i neutri sparsi fra le varie declinazioni. La seconda classe era, invece, a una singola
uscita  singolare -EM // plurale -ES (ex. VIRIDE(M) // VIRIDES). Questa macrodivisione consente di
comprendere da dove derivano la maggior parte delle forme oggettivali degli aggettivi qualificativi presenti
nell’italiano.
In italiano dalla prima classe a tre uscite si è sviluppata la prima classe oggettivale italiana a due uscite (il
neutro è stato eliminato): singolare maschile -o / femminile -a // plurale maschile -i / femminile -e (ex.
ALTU(M) > alto; ALTA(M) > alta; ALTI > alti; ALTAS > alte).
Dalla seconda classe a un’uscita si è sviluppata la seconda classe aggettivale italiana a uscita unica: singolare
maschile/femminile -e // plurale maschile/femminile -i (ex. VIRIDE(M) > verde; VIRIDES > verdi; DULCE(M) >
dolce; DULCES > dolci).
La terza classe si distingue dalla prima per il singolare maschile/femminile -a (motivo per il quale alcuni
studiosi considerano la terza classe come un sottogruppo della prima classe) // plurale maschile -i /
femminile -e (ex. entusiasta-entusiasti/entusiaste).
Aggettivi invariabili sono: pari/dispari; alcuni colori (ex. blu, arancio, rosa, viola); locuzioni avverbiali con
funzione attributiva (ex. perbene, dappoco, ammodo); l’aggettivo arrosto.
Forma allotropica in -o per le forme in -e  Esistono alcuni aggettivi della seconda classe con doppia uscita
in -e o in -o. In genere il significato di questi aggettivi è lo stesso (ex. inodore e inodoro; succube e succubo)
ma a volte può cambiare (ex. triste vale come ‘afflitto, privo di gioia’, tristo vale invece ‘cattivo’ o
‘sventurato’; fine è inteso come ‘raffinato, educato’, fino invece vale come ‘sottile’).
Gli aggettivi di relazione sono denominali: filosofia  filosofico; nazione  nazionale. I suffissi più
produttivi sono: -ico (ex. ritmico); -ale (ex. finale); -ista (ex. socialista); -istico (ex. artistico); -ano (ex.
mondano); -oso (ex. noioso) (quest’ultimo tipo è il più produttivo). In genere si dice che l’aggettivo di
relazione riproponga nella categoria aggettivale le caratteristiche del nome. In realtà non sempre il legame
è riconoscibile: per esempio quando ci troviamo di fronte a radici diverse (cultismi), si viene a creare una
mancanza di trasparenza nel legame fra il sostantivo e l’aggettivo, come nel caso di: pesce - ittico, cuore -
cardiaco, avorio - eburneo; esistono poi dei suffissi che possono assumere vari significati, come il suffisso -
iano  Manzoniano: 1. stile di Manzoni, 2. che si rifà allo stile di Manzoni; in politica significa appartenente
alla corrente di pensiero di qualcuno (renziano, berlusconiano).
Strutture formate da aggettivo + aggettivo: come ci si comporta?
1. La marca di plurale viene inserita sul secondo aggettivo: franco-italiano, franco italiani.
2. Se il primo costituente è un etnico, si ha una specie di decurtazione sillabica: africano-cubano ―> afro-
cubano.

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3. Quando il primo costituente etnico è un po’ particolare si fa ricorso alla base dotta: giapponese-
americano, nippo-americano; austriaco-ungherese, austro-ungherese; inglese-americano, anglo-americano.
L’aggettivo concorda col nome nel genere (ex. un gatto nero; una tovaglia bianca); se ci sono due nomi
dello stesso genere l’accordo avviene mantenendo il genere ma marcando il plurale (ex. un gatto e un cane
bagnati; una sedia e una tazza rotte); se ci sono due nomi di genere diverso in genere l’accordo è al
maschile plurale (ex. un gatto e una gallina affamati).
Posizione dell’aggettivo rispetto al nome  Normalmente in italiano l’aggettivo è posposto al nome a cui
si riferisce (ex. un maglione carino; una pietanza calda). L’anteposizione dell’aggettivo, in italiano,
solitamente indica enfasi emotiva o ricercatezza stilistica – in altre lingue invece è normale che l’aggettivo
sia anteposto – (ex. gli occhi neri vs i neri occhi). In molti casi la posizione dell’aggettivo conferisce alla frase
una diversità semantica (ex. I poveri ragazzi hanno avuto un incidente; I ragazzi poveri andavano a lavorare
presto).
In merito all’anteposizione dell’aggettivo qualificativo si è rilevata un maggiore utilizzo dell’aggettivo
anteposto nell’italiano nell’ultimo trentennio circa, derivato dalle traduzioni dall’inglese dei comunicati
stampa (ex. Hanno rilevato una modesta partecipazione del popolo; C’è stata una breve visita di Clinton in
Europa).
La sostantivazione dell’aggettivo è più frequente dell’aggettivazione del sostantivo. Alcuni esempi di
aggettivi sostantivati sono: il caldo, il freddo, un vecchio, un giovane, il povero, ecc… Una volta sostantivato
l’aggettivo può reggere a sua volta un aggettivo (ex. un vecchio stanco). L’aggettivo sostantivato al plurale è
equivalente al nome del popolo: gli italiani, i francesi.
Tendenze italiano contemporaneo
1. Nell’italiano si può utilizzare l’aggettivo con funzione avverbiale: ex. mangiare genuino (al posto di
genuinamente); andare veloce (al posto di velocemente).
2. Utilizzazione dell’avverbio con funzione aggettivale: ex. biglietto gratis (al posto dell’aggettivo
gratuito); corsa bis (al posto dell’aggettivo doppia); oggi niente giornali (al posto dell’aggettivo nessun);
giornata no (al posto dell’aggettivo negativa); prestazione super (al posto dell’aggettivo magnifica).
3. Sostituzione di un sintagma nominale sostantivo + aggettivo con il solo aggettivo: la polizia stradale 
la stradale; la macchina utilitaria  l’utilitaria.
23-04-2021
Usi particolari dell’aggettivo bello  Il tipo bello si può usare per segnalare un mutamento di situazione
(ex. un bel giorno). Un altro uso che si può fare è secondo la struttura bello + e + participio passato che
assume valore perfettivo, cioè qualcosa di concluso, di compiuto (ex. la pasta è bell’è pronta).
I tre gradi dell’aggettivo qualificativo  Oltre al grado positivo, l’aggettivo qualificativo ne possiede altri
due: il grado comparativo e il grado superlativo.
In latino il comparativo di maggioranza aveva una forma sintetica, ovvero era formato dalla radice del grado
positivo + -IOR (maschile/femminile) o -IUS (neutro): ALTIOR ‘più alto, -a’ /ALTIUS (neutro); PEIOR
‘peggiore’ /PEIUS (neutro). In italiano (ma anche nelle altre lingue romanze) si è sviluppata invece una
formazione analitica con PLUS o MAGIS. L’italiano e il francese hanno scelto il tipo PLUS (‘più’ in italiano,
‘plus’ in francese), lo spagnolo ha invece scelto il tipo MAGIS (‘mas’ spagnolo). Dunque, si può notare che
dal punto di vista della situazione reale romanza, si ha una struttura uguale che si realizza attraverso
elementi simili ma non uguali. Per cui in italiano si ha la perifrasi: più + il grado positivo dell’aggettivo
qualificativo + di/che + il secondo termine di paragone (ex. Mario è più alto di Luigi).
In latino il comparativo di minoranza aveva invece già una struttura analitica formata con MINUS > meno.
L’italiano, dunque, continua questa struttura, per cui si ha: meno + il grado positivo dell’aggettivo
qualificativo + di/che + il secondo termine di paragone (ex. Luigi è meno alto di Mario).
In latino anche il comparativo di uguaglianza aveva una forma analitica e si esprimeva attraverso le forme
TAM ‘tanto’, ITA ‘così’, AEQUE ‘ugualmente’. In italiano si ha: tanto + il grado positivo dell’aggettivo
qualificativo + quanto/come/così + il secondo termine di paragone (ex. Mario è tanto forte quanto Luigi).
Il grado superlativo si differenzia in due tipologie: il superlativo relativo in cui si stabilisce una relazione con
tutti gli altri elementi paragonabili (ex. Lucia è la più intelligente della sua classe); il superlativo assoluto in
cui l’intensificazione della qualità è espressa in senso assoluto, senza paragone con altri elementi di
confronto. La differenza è quindi l’elemento con cui si fa o non si fa il paragone.

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Il superlativo relativo si forma: l’articolo + più/meno + il grado positivo dell’aggettivo qualificativo + di (sia la
preposizione semplice che le preposizioni articolate che ne derivano)/fra/tra + il secondo termine di
paragone (ex. Mario è il più intelligente della sua scuola; Sara è la meno pettegola della classe).
Alcune volte l’italiano sceglie delle forme piuttosto che altre, come nel caso di meglio al posto di migliore e
peggio al posto di peggiore. Si tratta dell’uso degli indeclinabili meglio e peggio con valore dei rispettivi
superlativi relativi organici migliore e peggiore. Oggi tale selezione viene percepita come variante popolare
che si applica in un contesto di confidenza; questa marcatezza di tipo diafasico prima non esisteva (ex. La
meglio gioventù; Hai fatto la meglio pensata a partire all’alba; Andrea ha fatto il peggio compito di sempre).
Il superlativo assoluto esprime il grado massimo di intensità di una qualità o di un concetto senza creare un
paragone con altri elementi. Il latino aveva due forme: quella sintetica, formata dall’aggettivo al grado
positivo + -ISSIMUS, -A, -UM (oggi in italiano è il tipo più usato ma in realtà è recuperato dal latino scritto in
epoca rinascimentale, pertanto è un cultismo), ma formata anche con le forme -ERRIMUS/-ENTISSIMUS;
quella analitica, formata dall’avverbio (MULTUM, MAXIME, ADMODUM) + aggettivo al grado positivo.
Non tutti gli aggettivi presentano il superlativo assoluto. Ce l’hanno solo quelli che esprimono una qualità
che può essere accresciuta o diminuita (ex. fedelissimo, bravissimo, acutissimo, magrissimo, stupidissimo),
mentre non ce l’hanno quelli che esprimono già un valore elativo (ex. immenso, infinito, straordinario) e
quindi non presentano la forma in -issimo. Esistono poi delle forme particolari, come: amplissimo (che è un
cultismo e mantiene il nesso del latino in -pl-) e ampissimo (che si sviluppa in consonante + i vocalica).
Il suffisso del superlativo assoluto ha assunto anche la funzione di intensificare i sostantivi (ex.
poltronissima, vacanzissima, Canzonissima); quest’ultima non è, tuttavia, una tendenza contemporanea
poiché il fenomeno è anche rilevato in molti scrittori del Seicento-Ottocento (Magalotti, Baretti, Moise).
Gli aggettivi etnici possono essere usati al superlativo assoluto per sottolineare la provenienza, come se
fosse (il superlativo assoluto) un valore aggiunto (ex. italianissimo, americanissimo).
Il tipo -èrrimo è una forma colta, viene dal modello latino degli aggettivi in -ER con superlativo in -ERRIMUS:
ACER  ACCERIMUS > acre  acerrimo; CELEBER  CELEBERRIMUS > celebre  celeberrimo; INTEGER 
INTEGERRIMUS > integro  integerrimo; MISER  MISERRIMUS > misero  miserrimo; SALUBER 
SALUBERRIMUS > salùbre  saluberrimo. Mentre il grado positivo proviene dall’accusativo, per la
formazione del superlativo ci si rifà direttamente alla base latina (e cioè al nominativo). Alcuni superlativi
irregolari presentano una doppia forma, come nel caso di: asperrimo/asprissimo; miserrimo/miserissimo
(entrambe le forme sono corrette, ma le forme in -errimo vengono percepite dal parlante come più alte
perché usate di meno, mentre quelle in -issimo vengono considerate più basse, poiché più comuni).
Il tipo -dico è una forma colta che viene dal modello latino degli aggettivi in -DICUS con superlativo
-DICENTISSIMUS: MALEDICUS  MALEDICENTISSUMUS > malèdico  maledicentissimo (una forma
aggettivale poco utilizzata).
Il tipo -fico è anche una forma colta che proviene dal modello latino degli aggettivi in -FICUS con superlativo
-FICENTISSIMUS: BENEFICUS  BENEFICENTISSIMUS > benèfico  beneficentissimo; MUNIFICUS 
MUNIFICENTISSIMUS > munifico  muneficentissimo.
Anche il tipo -volo è una forma colta: BENEVOLUS  BENEVOLENTISSIMUS > benévolo 
benevolentissimo;
MALEVOLUS  MALEVOLENTISSIMUS > malévolo  malevolentissimo.
In italiano ci sono 4 aggettivi che presentano anche forme di comparativi e superlativi sintetici diversi dalla
base di partenza:
1. Buono > più buono e migliore (comparativo)
buonissimo e ottimo (superlativo)
2. Cattivo > più cattivo e peggiore (comparativo)
cattivissimo e pessimo (superlativo)
3. Grande > più grande e maggiore (comparativo)
grandissimo e massimo (superlativo)
4. Piccolo > più piccolo e minore (comparativo)
piccolissimo e minimo (superlativo)

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Sono 4 aggettivi che in realtà si riducono a 2 coppie oppositive (buono-cattivo, grande-piccolo); pertanto,
probabilmente questo tipo di meccanismo si abbina alla sociolinguistica e quindi ad un’evoluzione delle due
coppie oppositive avvenuta, probabilmente, per analogia.
I comparativi sintetici presentano l’uscita in -ior della forma maschile/femminile del comparativo sintetico
latino. I superlativi assoluti derivanti da base diversa dal grado positivo dell’aggettivo sono in continuità con
forme di superlativo già esistenti in latino (OPTIMUS, PESSIMUS, MAXIMUS, MINIMUS), pertanto si crea
semplicemente una continuità fra il vecchio e il nuovo che, specularmente, fotografa una realtà già
presente nella base storica; questo ci racconta come, se da una parte ci sono le spinte analogiche, dall’altra
il peso della storia e dello sviluppo etimologico è comunque molto forte (in italiano più che in altre lingue
romanze).
Esistono anche altri tipi di elezione sintetica, per esempio, si hanno i prefissi elativi (che forniscono un’idea
di amplificazione di un qualcosa) derivanti dalle lingue classiche (latino e greco): arci- (ex. arcicontento,
arcistufo); stra- < extra (ex. strafelice, stracotto); ultra- (ex. ultraforte, ultrabello); super- (ex. supercolorato,
superattivo); iper- (ex. ipereccitato, ipercalorico).
Forme analitiche con avverbio
Le forme analitiche possono essere composte da: un avverbio di quantità  molto, assai, tanto (ex. Sono
molto felice); un avverbio qualificativo  particolarmente, notevolmente, estremamente (ex. Mi sento
particolarmente stanca); un avverbio con valore asseverativo  davvero, veramente, proprio (ex. Oh, sono
proprio contenta!); delle locuzioni preposizionali con valore asseverativo  sul serio, per davvero (ex. Ma
dici per davvero? Fai sul serio?).
In italiano sono presenti anche altri tipi di elazione analitica, fra questi: l’uso di tutto/tutta (ex. Quello è
tutto strano, lascialo perdere! / Tu sei tutta matta!), usato con valore di totalità; la reduplicazione intensiva
dell’aggettivo, ma anche del sostantivo (ex. “Quella ragazza è magra magra” per dire che è magrissima;
“questo è un caffè caffè” per dire che è un caffè buonissimo); qui al sud (Bari/Taranto) usiamo anche la
posposizione del termine assai (ex. Fa caldo assai).
Comparativi o superlativi che hanno perso il loro valore  Alcuni comparativi o superlativi derivati da
forme presenti in latino hanno perso il loro valore per mancanza dell’uso dell’aggettivo di grado positivo di
riferimento: interiore per noi significa ‘interno’ NON ‘che è più interno’; esteriore; anteriore; posteriore;
ulteriore; postumo; infimo; estremo.
Gli aggettivi determinativi (anche pronomi) sono una classe non implementabile, che si divide in aggettivi:
possessivi, dimostrativi, indefiniti, interrogativi e numerali.
Gli aggettivi e i pronomi possessivi
Si veda la formazione degli aggettivi e pronomi possessivi partendo dalla 1°, 2° e 3° persona del maschile
singolare: MĔŬ(M) > meo (la e > i perché si ha la chiusura della vocale tonica media in iato, poiché segue
una vocale diversa da i) > mio; TŬŬ(M) > too (la Ŭ > o, e attraverso questa fase intermedia, per il fenomeno
della chiusura della vocale tonica in iato quando segue vocale diversa da i, si ha poi il tipo finale) > tuo;
SŬŬ(M) > soo (stessa cosa di tuo) > suo  sono tutte e tre forme derivate dall’accusativo maschile.
Per la 1°, la 2° e la 3° persona del femminile singolare e plurale, si nota una situazione speculare a quella del
maschile singolare: MĔA(M) > mea > mia // MĔAS > mee > mie; TŬA(M) > toa > tua // TŬAS > toe > tue;
SŬA(M) > soa > sua // SŬAS > soe > sue.
La situazione cambia un po’ per le tre forme del maschile plurale: MĔĪ > miei [‘mjɛ:i] (partendo dalla forma
MĔĪ abbiamo sempre la vocale tonica media in iato, però in questo caso segue la i, quindi la Ĕ dittonga in jɛ
e segue la i); per analogia anche i plurali tuoi (< TŬĪ) e suoi (< SŬĪ) hanno la forma dittongata anche se per
base etimologica non avrebbero dovuto averla (toi e soi; perché il dittongo è sviluppo di Ŏ, non di Ŭ).
Se si vanno ad analizzare le persone plurali (nostro, vostro e loro) si ha un altro tipo di approccio. La prima
persona plurale segue un’evoluzione abbastanza semplice: NŎSTRU(M) > nostro; NŎSTRI > nostri;
NŎSTRA(M) > nostra; NŎSTRAS > nostre. Per quanto concerne la seconda persona plurale, invece, il latino
classico VĔSTER > latino volgare VŎSTER (accusativo VŎSTRUM) rifatto analogicamente su NŎSTER
(accusativo NŎSTRUM). Questa influenza è documentata già dal latino arcaico delle commedie plautine, per
cui: VŎSTRU(M) > vostro; VŎSTRI > vostri; VŎSTRA(M) > vostra; VŎSTRAS > vostre. Diversa è l’evoluzione
della terza persona plurale: (IL)LŌRU(M) > loro (la base, in questo caso, è un genitivo plurale).

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Uso di suo e di proprio  Suo e proprio si usano interscambiabilmente quando si riferiscono al soggetto
della frase (tranne nei casi in cui si può generare confusione). Vi sono poi alcuni casi specifici in cui, invece,
si devono usare l’una o l’altra forma per evitare che si creino delle incomprensioni o per la presenza di
qualche regola grammaticale che lo richiede.
Si ha l’uso esclusivo di suo: quando non si riferisce al soggetto della frase (ex. Mio figlio è più giovane del
suo; Il suo appartamento è al quarto piano); in alcune espressioni idiomatiche (ex. Ne ha fatta una delle
sue; Sta sempre sulle sue); quando ha assunto valore sostantivale, cioè quando suoi vale come ‘genitori’ o,
più largamente, ‘parenti’ (ex. Stasera andiamo a cena dai suoi) e quando suo vale come ‘guadagno;
patrimonio’ (ex. Vive del suo); nella locuzione preposizionale con valore avverbiale di suo ‘in modo
naturale’ (ex. È bello di suo); quando assume valore di possesso affettivo/sessuale (ex. Lei non è mai stata
sua).
Proprio si usa per rafforzare un altro aggettivo possessivo, in genere di terza persona, ed è sempre posposto
(ex. Mario ha contato sempre soltanto sulle sue proprie forze).
Uso preferibile di proprio: quando si possono generare fraintendimenti (ex. “Lucia è andata da Maria con la
propria macchina”, perché se dicessi “Lucia è andata da Maria con la sua macchina”, verrebbe spontaneo
chiedersi ma sua di chi? Di Lucia o di Maria?); quando il soggetto è indefinito (ex. “Ognuno dice la propria”
ma posso anche dire “Ognuno dice la sua” / Bisogna assumersi le proprie responsabilità / “Aspettare qui il
proprio turno” ma “Signor Rossi, deve aspettare qui il suo turno” quando il soggetto è definito).
Un’altra cosa interessante riguarda la posizione. Oggigiorno in italiano l’aggettivo può collocarsi sia prima
che dopo il nome (ex. Il mio amico/L’amico mio); in genere però la posposizione assume valore di
marcatezza semantica (ex. Lascia stare i soldi miei!). Fino al Cinquecento però la posposizione era la
posizione regolare dell’aggettivo possessivo; l’anteposizione si diffuse per marcare lo scritto letterario in
opposizione alla lingua della quotidianità (quindi questa è un’altra delle operazioni che viene fatta nel ‘500
per marcare lo scritto letterario). Nell’Italia meridionale (esclusa la Sicilia) e in Sardegna l’aggettivo è invece
in generale posposto (ex. la maglietta mia, il fidanzato mio); tanto che con i singenionimi (i nomi di
parentela e marcati affettivamente) nell’Italia meridionale la posposizione è presente con la forma enclitica
(ex. mammeta, soreta).
Semantiche particolare del pronome possessivo: beni, proprietà (ex. Io spendo solo il mio; Tu sei ricco di
tuo); con la preposizione di, abbiamo il significato di ‘naturalmente/spontaneamente’ (ex. Sono bassa di
mio); al plurale, vale ‘genitori’, ma non ‘parenti’ (ex. I miei quest’anno non andranno in vacanza); al plurale
può valere anche ‘compagni’ (ex. Tu e i tuoi fate sempre delle cose strane; Sei dei nostri?); al singolare,
quando ci si riferisce al soggetto del discorso che si sta facendo (ex. Il nostro era sempre in prima linea),
tanto che a volte lo si trova marcato addirittura con la maiuscola, perché la maiuscola andrebbe in qualche
modo a sostituire la maiuscola del nome di riferimento; al femminile singolare, assume valore di lettera
missiva (ex. In risposta alla vostra; Ricevi questa mia); al femminile singolare, con il valore di opinione/idea
(ex. Lui dice sempre la sua; Vuoi sapere la mia?); al femminile singolare, con la preposizione alla, ha il valore
di salute (ex. Alla tua; Alla nostra); al femminile singolare, retto da essere e preceduto dalla preposizione
dalla, significa posizione/parte (ex. Stai dalla mia? Io sto dalla vostra); al femminile plurale, ha valore di
varie sciocchezze (ex. Ne ha fatta una delle sue); al femminile plurale, indica la confidenza (ex. Stare sulle
sue).
26-04-2021
Pronomi e aggettivi dimostrativi  Il dimostrativo serve ad indicare (a di-mostrare) qualcosa in riferimento
al luogo, al tempo o a un rapporto di vicinanza/lontananza anche astratto. I dimostrativi hanno dunque una
funzione che è fondamentalmente deittica. In italiano si ha una tripartizione dei pronomi/aggettivi
dimostrativi: il primo grado è questo, questa, questi, queste (ed indica qualcosa vicino a chi parla); il
secondo grado è codesto, codesta, codesti, codeste (ed indica qualcosa vicino a chi ascolta); il terzo grado è
quello, quella, quelli, quelle (ed indica qualcosa che si trova lontano da entrambi gli interlocutori).
Oggi la forma codesto del secondo grado, è presente nell’italiano standard ma, nell’uso effettivo della
nostra lingua, è circoscritto solo alla Toscana (e dunque l’uso del secondo grado è marcato dal punto di
vista diatopico). In italiano vale invece la bipartizione, con il secondo grado che viene assorbito o dal primo
o dal terzo; nei dialetti meridionali invece la tripartizione è ancora operativa: [‘kwistǝ] ‘questo’ / [‘kwis:ǝ]
‘codesto’ / [‘kwid:ǝ] ‘quello’.

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Formazione storica dei dimostrativi  I dimostrativi si sono formati attraverso ECCUM presentativo + il
pronome dimostrativo ISTUM o ILLUM. Per quanto concerne il primo grado: (EC)CU(M) ĬSTŬ(M) > questo
[kwesto] (abbiamo in questo caso una labiovelare secondaria); il secondo grado: (EC)CU(M) TĬBĬ ĬSTŬ(M) >
cote(ve)sto > codesto [kodesto] (a differenza degli altri due gradi qui c’è TĬBĬ, e abbiamo una
spirantizzazione di /b/ > /v/; la /t/ in posizione intervocalica si sonorizza); il terzo grado: (EC)CU(M) ĬLLŬ(M)
> quello [kwel:o].
Si noti che gli aggettivi dimostrativi possono essere spesso accompagnati dagli avverbi di luogo
corrispondenti al medesimo grado: qui/qua (primo grado), costì (/lì) (secondo grado), lì/là (terzo grado). Il
tipo costì può essere sostituito anche da lì che può prendere anche valore di secondo grado (oltre che di
terzo).
Tra le altre forme troviamo ↓
1. Forma apocopata e forma elisa dell’aggettivo maschile singolare quello: quel + consonante semplice
(ex. quel brigante, quel castello); quell’ + vocale (ex. quell’albero, quell’uomo).
2. Alcune forme dell’aggettivo maschile plurale semplice quelli: quei + consonante semplice (ex. quei
colori); quegli + s preconsonantica o vocale (ex. quegli alberi; quegli stivali).
3. Pronomi questi e quelli con valore di maschile singolare in funzione di soggetto, di uso letterario,
percepite anche come forme desuete, cioè marcate dal punto di vista diacronico (ex. Questi è uno su cui si
può fare affidamento; Quelli è il ragazzo di cui ti parlai).
4. Forme aferetiche del dimostrativo di primo grado: sto/sta/sti/ste (ex. Sta casa è diventata una
stamberga); questo per quanto concerne l’italiano, perché nelle varietà dialettali la forma aferetica è
presente anche per il secondo e il terzo grado. Le forme aferetiche sono presenti anche in univerbazione
(ex. stanotte, stasera, stamattina, stavolta).
5. Questo e quello  separati dalla disgiuntiva “o” indicano alternativa tra due possibilità equivalenti (ex.
Questo o quello per me pari sono); uniti da “e” segnalano una serie (ex. Prendi questo e quello); in alcune
locuzioni assumono valore neutro (ex. Questa è bella! A questo punto non so più che dire…); il femminile
singolare può avere delle semantiche particolari (ex. Questa gliela faccio pagare  intesa come ‘azione
sconsiderata’; In quella ormai non si può più intervenire  intesa come ‘circostanza chiusa’ che ormai è
avvenuta e sulla quale non si può più intervenire); quello/quel in unione con aggettivo e/o sostantivo + la
preposizione di assume un valore di determinazione (ex. Quel monello di tuo figlio ne ha fatta una delle
sue).
27-04-2021
Tendenze contemporanee ↓
1. Sostituzione di ciò con questo/quello (ex. Perché mi dici ciò?  Perché mi dici questo?), poiché la
forma ciò viene percepita come desueta. Sono stati fatti degli studi, sui giornalini di topolino, sulla
persistenza di ciò ed è venuto fuori che i fumetti contengono una serie di forme desuete che non sono più
utilizzate nella neostandardità (sicuramente non nell’oralità e neanche in alcuni tipi di testi scritti). Il fatto
che in questo genere di tipologia testuale (cioè il fumetto) ci sia la persistenza di certe forme ci fa
comprendere che questo genere di scrittura, sebbene ci sembri ancorato ad una fruizione quasi infantile o
comunque adolescenziale, è invece considerato non solo trasversale (perché Topolino lo leggono anche le
persone anziane, se appassionate) ma anche in collegamento con un tipo di lingua che è antico (anni
‘50/’60). Questa stessa cosa si è anche notata nelle canzoni dei cartoni animati Disney o DreamWorks.
2. Le forme maschili singolari questi, quegli e quei (ex. Questi era un signore distinto; quei era un uomo
d’altri tempi) vengono, nella maggior parte dei casi, sostituiti da questo.
3. Il regresso del tipo costui/costei che diventa questo/questa (ex. Costei non la conosco  Questa non la
conosco).
4. Resistenza di coloro nelle forme scritte (ex. “Coloro che volessero rimanere a pranzo dovranno
prenotare anticipatamente il tavolo” ma nell’oralità “Quelli che volessero…”).
Dimostrativi di identità  Stesso e medesimo hanno valore aggettivale e pronominale; entrambi segnalano
l’identità tra due o più persone/oggetti/concetti.
Formazione storica  (I)STU(UM) ĬPSU(M) > stesso [stes:o]; nella forma antica non c’era l’aferesi e quindi la
forma era istesso (la i è etimologica). *MET + ĬP(SIS)SIMU(M) (MET è una forma di rafforzativo;
ĬP(SIS)SIMU(M) è il superlativo di IPSE, IPSA, IPSUM nella forma accusativale) > metessimo (la /t/ in

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posizione intervocalica si sonorizza e la /s:/ perde la geminazione: questi due fenomeni insieme rivelano il
fatto che questo passaggio è avvenuto dal nord Italia, che probabilmente ha a sua volta preso questo
fenomeno dai dialetti gallo-italici) > medesimo, che letteralmente significa ‘proprio lo stessissimo’
[me’dezimo] (la sonorizzazione della /s/ in posizione intervocalica ci racconta una provenienza dal nord).
I dimostrativi di identità possono anche assumere dei valori semantici particolari: 1. ‘proprio lei’ (ex. Agata
andava al mare ma la medesima non sapeva nuotare); 2. ‘addirittura, persino’ (ex. Lo stesso Manzoni si
interrogava sui toscanismi, figurati io!).
In alcuni casi si ha l’obbligo di utilizzare una parola rispetto ad un’altra; in particolare, si ha l’obbligo di
utilizzare stesso quando significa: ‘importare’ (ex. fa lo stesso, lascia stare!); ‘ugualmente, nonostante tutto’
(ex. piove, ma giocheremo lo stesso); si usa anche come rafforzativo del riflessivo  sé stesso (anche sé
medesimo, ma è molto più raro).
Aggettivi/pronomi indefiniti  Gli indefiniti designano qualcosa/qualcuno in modo non specifico e si
dividono in quattro gruppi:
1. Singolativi: qualche, qualcuno/-a, qualcheduno/-a, qualcosa, qualche cosa, che, nessuno/-a (con valore
positivo), certo/-a/-i/-e, tale/-i, altro/-a/-i/-e, alcuno/-a/-e/-i;
2. Collettivi: tutto/-a/-i/-e, ogni, ciascuno/-a/-i/-e, qualsiasi, qualsivoglia, qualunque;
3. Negativi: nessuno/-a, niente, nullo/-a/-i/-e, alcunché, alcuno/-a/-i/-e (con valore negativo);
4. Quantitativi: molto/-a/-i/-e, poco/-a/-i/-e, troppo/-a/-i/-e, tutto/-a/-i/-e.
Alcuni degli aggettivi/pronomi indefiniti ricadono in due categorie (possono ad esempio avere valore sia
positivo che negativo).
Non tutti gli aggettivi/pronomi indefiniti hanno la forma plurale e alcuni sono invariabili, ad esempio sono
invariabili: qualche, alcunché, che, qualcosa/qualche cosa; mentre mancano del plurale: nessuno/nessuna,
qualcuno/qualcuna, qualcheduno/qualcheduna.
Formazione dei singolativi: Qualche non esisteva in latino ed è la forma univerbata di quale (< QUALEM) +
che (< QUĒM o QUĬD; entrambe queste forme si sviluppano in italiano nello stesso modo, pertanto non si
sa da dove derivi “che”); Qualcuno non esisteva in latino ed è la forma univerbata di qualche + uno (<
UNUM);
Qualcheduno non esisteva in latino ed è la forma univerbata di qualche + ed + uno; Qualcosa non esisteva
in latino ed è la forma univerbata di quale + cosa (< CAUSAM; questa parola ha fornito all’italiano due
forme diverse – si parla pertanto di allotropia; si è avuto l’italiano cosa e causa); Qualche cosa non esisteva
in latino ed è la forma di qualche + cosa; Che < QUĒM o QUĬD; Nessuno < NE(C) (I)PS(E) ŪNŬ(M)/-A(M);
Certo, -a, -i, -e < CĔRTŬ(M)/-A(M)/-I/-AS; Altro, -a, -i, -e < ALT(E)RŬ(M)/-A(M)/-I/-AS; Tale < TALĒ(M) /tali <
TALES (la /s/ prima di cadere palatalizza la /e/ e la fa innalzare di un grado); Alcuno, -a, -i, -e <
*AL(I)CŪNŬ(M) < ALIQU(EM) ŪNŬ(M)/-A(M)/-I/-AS.
Formazione dei collettivi: Tutto < TOTU(M) > latino tardo TŎTTUS > totto > tutto (abbiamo la “u” tonica al
posto della “o” perché la “u” si deve forse all’influsso analogico dell’opposto NŪLLUM che veniva utilizzato
in coppia con TŎTTUS); Ogni < ŎMNE(M) > onne (assimilazione regressiva di mn > nn) > onni (+ vocale = NJ
> gn) > ogni; Ciascuno, -a < QUISQUE che deriva molto probabilmente dalla forma ricostruita del latino
volgare *CISQUE ŪNŬ(M)/-A(M); Qualsiasi non esisteva in latino ed è l’unione di quale + si + sia ‘quale che
sia’; Qualsivoglia non esisteva in latino ed è l’unione di quale + si + voglia; Qualunque < QUAL(IS)(C)UMQUE
(uso colto della forma, perché altrimenti UMQUE si sarebbe sviluppato senza la labiovelare).
Formazione dei negativi: Niente < dalla forma ricostruita del latino volgare *NĔ(C) (G)ĔNTEM; Nullo, -e, -i, -e
< NŪLLU(M)/-A(M)/-I/-AS; Alcunché non esisteva in latino ed è l’unione di alcuno + che (< QUĒM o QUĬD).
Formazione dei quantitativi: Molto, -a, -i, -e < MULTU(M)/-A(M)/-I/-AS; Poco, -a, -i, -e < PAUCU(M)/-A(M)/
-I/-AS (AU > ɔ per la monottongazione dei dittonghi latini); Troppo < dal francese trop (a sua volta di origine
germanica).
Usi del pronome uno e dei suoi composti  Per quanto riguarda il maschile il pronome uno e i suoi
composti alcuno, taluno, ciascuno, nessuno non si apocopano nell’italiano moderno (ex. Ciascuno fa come
crede; non ti crede più nessuno). Le corrispondenti forme aggettivali sono sottoposte invece alla stessa
selezione complementare che riguarda l’articolo indeterminativo uno (ex. Non ho visto alcun bambino per
strada; non ho trovato nessuno stivale nella scarpiera). I pronomi aggettivi femminili singolari possono
invece presentare sia la forma elisa che non perché l’elisione non è obbligatoria (ex. Non ho visto nessuna

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alba/nessun’alba bella come questa; ciascun’altra non mi interessa più; non mi balena in testa alcuna
idea/alcun’idea di questo genere).
Usi di tale e quale  Le forme invariabili singolari tale e quale ammettono l’apocope (non l’elisione)
davanti a vocale o a consonante semplice (ex. Un tal signore ha chiamato oggi; Qual è il tuo pensiero in
merito a questa faccenda?). Esistono delle locuzioni cristallizzate, quali: in un certo qual modo; in tal modo.
Sono anche presenti delle forme univerbate poiché molte forme apocopate si sono unite alle parole di
riferimento, quindi abbiamo: talora, talvolta, taluno, qualora, qualche.
Uso di qualcuno/qualcheduno/alcuno  L’aggettivo/pronome qualcuno può essere inteso come ‘persona di
successo’: il pronome qualcuno al maschile singolare viene usato come nome del predicato o complemento
predicativo dopo essere, diventare, sentirsi con il significato di ‘persona di valore; di successo’. La variante
qualcheduno è oggi poco usata in italiano, ma è presente in molte varietà di italiano marcato arealmente,
soprattutto al Sud. Il pronome/aggettivo alcun/alcuno è percepito nell’italiano contemporaneo come
marcato dal punto di vista stilistico sia come alto che come letterario. Alcuno viene talvolta usato con valore
negativo al posto di nessuno (ex. Non è arrivata alcuna lettera per te); l’uso è più frequente quando sono
presenti un avverbio negativo o senza (ex. Non vi è alcun dubbio che sia così; è così senza alcun dubbio). Al
plurale il pronome/aggettivo alcuni/alcune è presente nelle serie correlative (ex. Alcuni prendono il primo,
alcuni il secondo; Alcune arrivano presto, altre tardi). L’invariabile alcunché non è di uso comune, e si usa
più spesso in frasi negative (ex. Non vi è alcunché di strano in lui).
Usi di qualcosa e che  Con il partitivo il pronome qualcosa, con valore neutrale, ha l’obbligo della
reggenza al maschile (ex. È accaduto qualcosa di brutto; Ho qualcosa di urgente da dirti); in realtà questa
tendenza si nota anche negli altri casi (ex. Qualcosa è cambiato in te; Qualcosa deve essere successo perché
normalmente non ti comporti così). È frequente anche l’uso nelle locuzioni cristallizzate di che inteso come
‘qualcosa’, preceduto dall’articolo indeterminativo (ex. Mario ha un che di familiare; Giorgia ha un certo
non so che, che mi affascina).
Uso di certo  Certo è un aggettivo indefinito solo quando si antepone al nome senza articolo (ex. Abbiamo
fatto certi discorsi strani) oppure se viene preceduto dall’articolo indeterminativo (ex. Con lui ho fatto un
certo discorsetto). Certo è invece usato normalmente come un aggettivo qualificativo quando ha il
significato di: ‘sicuro’ (ex. È una notizia certa? Ma tu sei certo di quello che dici?); ‘dato, determinato,
preciso’ (ex. Finché l’acqua non ha raggiunto un certo livello non possiamo azionare il Mose).
Gli aggettivi/pronomi certuni e taluni, sono forme meno comuni dei correlati certi e alcuni. Tale si usa per
indicare qualcuno o qualcosa di cui non ci interessa definire l’identità nella totalità o relativamente (ex.
Stamattina è passato a cercarti un tale; Il tale di cui ti parlavo è ripassato di nuovo); in unione con quale si
usa per indicare un rapporto di identità  tale e quale.
Usi di altro e altrui  L’aggettivo/pronome altro indica alterità, diversità (ex. Il vestito che avevo scelto era
un altro in realtà); preceduto da senza indica certezza (ex. Vengo senz’altro anch’io con te al cinema); si usa
nei rapporti di correlazione con alcuni, taluni, altri (ex. Alcuni dicono questo, altri quello); è preceduto
dall’articolo determinativo nei rapporti di reciprocità con l’un/l’uno (ex. Ci aiutiamo l’un l’altro).
L’aggettivo/pronome altrui ha un uso pronominale ormai desueto o letterario (ex. Che mena dritto altrui
per ogni calle); ma l’uso aggettivale è ancora abbastanza corrente (ex. Il pensiero altrui non mi interessa).
29-04-2021
Tizio/-a/-i/-e  Forma diffusasi nell’Ottocento ma risalente all’epoca mediolatina, quando i giuristi
ricorrevano a nomi comuni romani nelle loro esemplificazioni: tra questi vi erano Titius (Tizio), Caius (Caio)
e Sempronius (Sempronio) che proverbialmente costituiscono la triade degli sconosciuti (cioè delle persone
a cui non si sa dare un nome reale, per cui gli si attribuiscono questi nomi fittizi sulla base di questa antica
usanza). Tra questi, Tizio ha subito un processo di perdita del valore antroponimico per slittare verso il
deonomastico (parola che deriva da una forma onomastica) comune, pertanto vale come ‘sconosciuto,
indefinito’. Ci sono altri casi di slittamento di questo tipo, si pensi, ad esempio, a “Peter Pan” quando si
vuole indicare una persona che non vuole crescere mai, un eterno bambino; si pensi anche a “Fantozzi”, per
indicare una persona un po’ goffa, che fa tenerezza ma che viene considerata un po’ sciocca, e così via.
Un’altra forma di indefinito è il tipo persona/-e, usato ampliamente con il valore di ‘essere umano’; ma
anche il tipo gente, usato con valore di ‘pluralità di esseri umani’.
Checché  Poco usato, generalmente usato in frasi concessive (ex. Checché se ne dica resta il migliore!).

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Ciascheduno/-a  Forma desueta, marcata dal punto di vista diatopico in italiano, usato solitamente al
sud.
Cadauno/-a  Forma desueta che però resta nelle formule commerciali (ex. 2 euro cadauna).
Veruno/-a ‘nessuno’  forma desueta
Niuno  era presente nell’antica prosa toscana, poi è passato al linguaggio poetico e lì si è cristallizzato,
oggi costituisce una forma desueta.
Aggettivi e pronomi interrogativi
QUĪ > chi (QUĪ forma del nominativo; la labiovelare primaria sorda viene meno nel passaggio all’italiano
perché si ha una delabializzazione del nesso labiovelare primario sordo quando a seguire vi è una vocale
diversa da /a/);
QUĒM o QUĬD > che (gli studiosi non si sono ancora pronunciati in maniera definitiva perché entrambe le
forme presentano lo stesso tipo di evoluzione nell’italiano ed entrambe le forme possono avere una
spiegazione logica, in quanto semanticamente possibili);
QUĒ(M) + CAUSA(M) > che cosa (in questo caso si prende in considerazione QUĒ(M) per la marcatezza di
genere, poiché l’accusativo singolare femminile QUĒ(M) coincide con CAUSA(M), cosa che non avviene per
l’accusativo neutro QUĬD);
QUALE(M) > quale (questo tipo vale sia per il maschile che per il femminile singolare; in questo caso la
labiovelare primaria, poiché seguita da /a/ si mantiene);
QUALES > quali (questo tipo vale sia per il maschile che per il femminile plurale; ES > i grazie alla
palatizzazione della s che, prima di cadere, va ad aumentare il grado della e, facendola alzare da medio-alta
ad alta).
Che?/Che cosa? e Cosa? in italiano si alternano. Il tipo Cosa?, che è quello più utilizzato nell’italiano, si è
diffuso grazie all’uso manzoniano nei Promessi Sposi. Il tipo Che cosa? invece si usa sempre meno.
I numerali  I numerali indicano una quantità numerabile o traducibile in cifre (quindi utilizzano anche un
sistema grafico differente da quello delle lettere). Dal punto di vista grammaticale non costituiscono una
categoria grammaticale coesa perché hanno varie funzioni: aggettivale (ex. Compra due panini),
sostantivale (ex. È uscito il numero 54) e pronominale (ex. Lì ho visti entrambi, tutti e due). Si distinguono
in: cardinali, ordinali, frazionari, moltiplicativi, sostantivi/aggettivi numerativi.
I cardinali  Sono tutti i numeri, da zero in poi (poiché i numeri costituiscono una classe aperta, infinita).
Nella scrittura letteraria in genere si predilige la scrittura in lettere e non in numero, a meno che non si
tratti di date; negli scritti tecnico-scientifici si preferisce invece la scrittura in numero. In genere il numero
cardinale si antepone al termine a cui fa riferimento (ex. Ho comprato due mele), ma nell’uso matematico,
commerciale e burocratico si pospone e si usa la scrittura numerica (ex. Risultano consegnate due balle di
ferro da 20 quintali). L’abitudine di elidere il numerale davanti a parola iniziante per vocale è ormai in
disuso (ex. quattro alberi NON quattr’alberi; venti acquerelli NON vent’acquarelli), tuttavia in alcune
locuzioni cristallizzate permane (ex. quattr’occhi), così come prima del sostantivo anni (ex. cent’anni,
vent’anni), dove si può elidere l’ultima lettera o addirittura univerbare i termini. Il numerale uno è l’unico a
possedere anche la forma femminile una; tutti gli altri sono invariabili. Nei volgari antichi e nei dialetti
odierni possiamo rilevare invece molte forme numerali marcate diagenericamente (ex. maschile doi vs
femminile doe), sebbene nei dialetti odierni sia chiaramente una suddivisione che tende a sparire. Nei
composti formati da decine + unità, la finale del numero indicante la decina si elide e i due componenti
tendono ad univerbarsi (ex. venti uno  ventuno), ed è di uso molto raro la scrittura con la segnalazione
dell’elisione (ex. vent’uno); nei composti formati da centinaia + decine, invece, la vocale non si elide se non
quando vengono in contatto due vocali uguali o, meglio, quando convogliano (ex. centodieci, centoundici,
centotredici ma con ottanta e composti  centottanta, duecentottanta; diverso il caso di otto 
centootto); nell’indicazione dei secoli possono essere soppresse le migliaia (ex. Il ‘300 è stato un secolo
fondamentale per la letteratura italiana), dando luogo ad un’aferesi numerica, inoltre nelle date possono
essere soppresse le prime due cifre con segnalazione attraverso l’apostrofo (ex. Sono del ’94) e ciò avviene
anche per le date che riguardano avvenimenti riconosciuti dalla comunità poiché assumono un valore
autonomastico (ex. è scoppiato un ’48  con riferimento ai moti rivoluzionari del 1848); nei composti con
le migliaia non si ha l’elisione (ex. milleduecento). I multipli di mille si segnalano con -mila (ex.
duecentomila, ottocentomila), anticamente la forma era invece terminante in -milia (ex. centomilia).

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Boccaccio nel Decameron inventò il numerale millanta con valore di moltitudine indefinita, da questa forma
inventata ha preso vita il verbo millantare che significa ‘vantare meriti inesistenti’ e il derivato millantatore
‘bugiardo’ (inteso come colui che dice di avere tante qualità, tanti valori e altro, ma in realtà tutto è basato
su nulla). Il suffisso -anta che si abbina alle decine da 40 a 90 (quaranta, cinquanta, sessanta, settanta,
ottanta, novanta) si è lessicalizzato (assumendo così una propria autonomia) con il valore di ‘anni che vanno
dalla maturità alla vecchiaia’ (ex. Quando arrivano gli anta la vita è già a metà; li porti benissimo i tuoi
anta!).
[La lessicalizzazione non presenta casi isolati, cioè ci sono degli elementi che possono essersi lessicalizzati
nella lingua e si sono staccati dalla loro valenza di accostamento con altre forme e hanno assunto una loro
valenza semantica autonoma, tanto che poi il dizionario ha iniziato a percepirle come forme in autonomia;
ad esempio “tele” era un prefissoide con valore ‘da lontano’, oggigiorno sta per “televisione” che a sua
volta è una parola composta da tele ‘da lontano’ + visione ‘vedere’ (telefono letteralmente significa ‘voce
da lontano’). Nel tempo, per alcune forme, alcuni prefissoidi si sono lessicalizzati, per cui oggigiorno ad
esempio noi diciamo “ho visto la tele”. Stessa cosa con il prefissoide “eco” oggi sinonimo di ‘ecologico’ 
tutte queste nuove forme vanno ad implementare il nostro lessico.]
I composti di tre hanno l’accento (ex. ventitré, cinquantré). La forma italiana dieci non è propria del
fiorentino antico che aveva invece regolarmente diece < DĔCĒ(M); il morfema -i è infatti dovuto all’analogia
con altri numerali in -i legati alla seconda decina (undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici, venti).
In Toscana sopravvive la forma della tradizione letteraria dugento (al posto di duecento). Raro, e perlopiù
letterario o toscano, il tipo secento al posto di seicento; d’uso comune invece gli aggettivi secentista e
secentesco.
Alcuni numeri cardinali si sono lessicalizzati, come nel caso di: I Mille (di Garibaldi), i 3 di Roma (il
triumvirato di Cesare-Pompeo-Crasso) e così via.
Con l’ellissi del sostantivo i numerali cardinali indicano la moneta in vigore (prima lire, ora euro) (ex. Ho
solo cinquanta, mi può cambiare?). Con l’ellissi del sostantivo ora/-e si usa per indicare l’orario (ex. Sono le
tre; ripassa alle cinque), forme ellittiche in cui il numero cardinale fa riferimento alla semantica intera. Altri
significati con ellissi del sostantivo di riferimento possono essere: la linea di autobus/tram (ex. tra poco
passa il 30); un voto scolastico (ex. hai preso un altro 4); le carte da gioco (ho tutti due in mano); la misura
di scarpe (al maschile) o di abiti (al femminile) (ex. porto il 38; ho la 44).
Troviamo numeri cardinali anche all’interno di locuzioni idiomatiche: valere per due; fare due/quattro
passi; parlarsi a quattr’occhi; dirne quattro (a qualcuno); farsi in quattro; farsi prendere i cinque minuti;
pezzo da novanta; valere zero; contare zero e così via.
Dopo la virgola o dopo il punto lo zero si deve leggere (ex. Didattica 2.0; 2,03 = due virgola zero tre), poiché
omettendo lo zero cambia la semantica; quando non genera errore lo zero si può omettere (ex. il treno
delle otto e zero quattro come anche il treno delle otto e quattro).
Gli ordinali  vanno da primo in poi (all’infinito) e indicano l’ordine occupato in una serie numerica. Negli
scritti letterari si preferisce la scrittura in lettere; quando invece si esprimono in cifre possono essere
utilizzati i numeri romani (I, II, III, IV ecc.) oppure i numeri arabi seguiti da ° per il maschile singolare oppure
da a per il femminile singolare (ex. 1° classificato; 2 a media); nelle scritture informali si possono avere
sistemi di cifre e lettere (ex. 25esimo), queste forme possono anche essere utilizzate, ad esempio, nei loghi
o nelle pubblicità, insomma in quei contesti legati un po’ all’informalità. Normalmente i numeri ordinali si
antepongono al nome (ex. il mio primo amore; è la seconda volta che usciamo insieme). È possibile trovare
i numeri ordinali in espressioni idiomatiche: il terzo mondo (una definizione che era stata coniata in
opposizione tra il mondo occidentale e il mondo collegato ai regimi di tipo comunista; il terzo mondo stava
ad indicare i paesi in sottosviluppo); la terza età (per intendere la vecchiaia); il quarto potere (la stampa); la
decima Musa (il cinema). I numeri ordinali vengono posposti con i nomi di re, papi, ecc. (ex. Enrico VIII,
Paolo VI); si pospongono anche quando si vuole sottolineare una sequenza (Canto V; atto III; vol. VIII). Per i
numeri delle aule e nei nomi delle Università si può oscillare tra la scelta dei numeri ordinali e cardinali (ex.
aula terza o aula tre; Roma tre o Terza Università di Roma). Una variante, oggi considerata colta, è quando
con la decina si indicano secoli o Re e Papi (ex. Pio XI = Pio undicesimo o decimoprimo; secolo XVIII = secolo
diciottesimo o decimottavo).
30-04-2021

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Frazionari  Nella lettura delle frazioni il numeratore viene indicato da un cardinale, mentre il
denominatore da un ordinale (ex. quattro/quinti; sei/decimi). L’aggettivo mezzo/mezza concorda con il
sostantivo quando è anteposto (ex. ho bevuto una mezza bottiglia d’acqua); quando è posposto l’accordo
invece è facoltativo (ex. ho aspettato un’ora e mezza/e mezzo). Il femminile mezza quando è preceduto
dall’articolo determinativo la assume il valore sostantivale di ‘mezzogiorno e mezzo’ e si usa soprattutto nel
Nord Italia.
Moltiplicativi  Formano due serie di aggettivi o aggettivi sostantivati. Si tratta di serie limitate. Gli
elementi che appartengono alla prima serie indicano una moltiplicazione in base al numero di riferimento
 doppio (2), triplo (3), quadruplo (4), quintuplo (5), sestuplo (6) (forma ormai caduta in disuso insieme
alle successive quattro), settuplo (7), Ottuplo (8), nonuplo (9), decuplo (10), centuplo (100). La seconda
serie è composta da elementi che indicano che una cosa ha un certo numero di scopi, è formata da un certo
numero di parti e così via  duplice, triplice, quadruple, quintuplice, sestuplice, settemplice, ottuplice
(sestuplice, settemplice e ottuplice sono forme cadute in disuso), centuplice.
Sostantivi e aggettivi numerali  Vi sono forme parallele sostantivali o aggettivali rispetto ai numerali
cardinali che indicano la stessa entità/quantità come i tipi: paio, coppia, due, duetto, ambe, ambedue,
entrambi/e che vogliono dire ‘2’; terzetto, terno, terna, triade, terzina che valgano come ‘3’; quartetto,
quaterna che sono sinonimi di ‘4’; cinquina e sestetto che fanno rispettivamente riferimento a 5 e 6; ottava,
ottetto che sottintendono 8. Tali forme derivano da numerali cardinali o numerali ordinali attraverso vari
suffissi: -ina (ex. decina, ventina, trentina), -enne (ex. trentenne, cinquantenne), -ennio (ex. ventennio), -
inale (ex. quindicinale), -ennale (ex. biennale), -ario (ex. settenario, novenario, centenario), -etto (ex.
duetto, quartetto). È quindi importante individuare i suffissi che lavorano in ambito numerico per dar vita
poi a queste forme che esulano dal numerale ma che lo sottintendono dal punto di vista semantico.
I pronomi  Costituiscono una categoria molto complessa al suo interno e, pertanto, complessa anche dal
punto di vista della formazione. Secondo l’etimologia, il pronome (che letteralmente significa ‘che sta al
posto del nome’) è un elemento che fa le veci di un sostantivo avendone le stesse valenze grammaticali per
genere e numero. In realtà non sempre il pronome ha un rapporto con un nome (che sia esso espresso o
sottinteso) e fa invece riferimento a delle condizioni che non sono interne (e quindi di tipo grammaticale)
ma sono esterne e quindi extralinguistiche (ex. Dammi quello  è una frase che viene compresa solo
all’interno del suo contesto, dell’ambiente in cui viene pronunciata). A volte il rapporto è logico ma non
tiene dal punto di vista grammaticale, si veda questo esempio: Io (Susan) e te (Anna) abbiamo gli stessi
gusti *Susanna e Anna abbiamo gli stessi gusti  la frase dal punto di vista logico non fa una piega, ma dal
punto di vista grammaticale non regge.
Il sistema pronominale è un sistema chiuso, cioè non prevede implementazione (al contrario dei sistemi
nominali e degli aggettivi qualificativi che sono collegati strettamente a dei referenti e quindi sono
continuamente in evoluzione; si possono avere implementazioni di tipo straniere ma anche di tipo
autoctono, quest’ultima si avvale di bacini preesistenti che forniscono degli spunti per la formazione), ed
anzi può perdere degli elementi che cadono in disuso, ma non può prenderne di nuovi. Negli aggettivi
definiti (come già visto) la funzione pronominale si affianca a quella aggettivale.
Pronomi personali soggetto: forme toniche  Se andiamo a vedere come si sono formate queste forme
toniche dei pronomi personali soggetto, possiamo partire dalle forme singolari: 1 a persona singolare Ĕ(G)O
> eo (poiché si ha l’assorbimento di G da parte della vocale omorganica) > io (forma data dalla chiusura
della vocale tonica media in iato poiché segue una vocale diversa da i); 2 a persona singolare TŪ > tu  le
forme io e tu sono forme invariabili che valgono sia per il maschile che per il femminile, diversa è la
situazione della 3a persona singolare che invece si distingue in maschile e femminile: maschile  egli < ĬLLĪ,
è il risultato del rimodellamento del latino ĬLLE su QUĪ (questa forma è raramente usata nell’oralità, è più
percepita come forma letteraria ed è in genere abbinata a quel processo che noi chiamiamo interrogazione:
è un processo di acquisizione della nozione attraverso la lettura e quindi l’interrogazione, che è il momento
dell’esposizione di ciò che uno ha imparato, si porta dietro una serie di forme che nel parlato ormai
nessuno usa più). La sequenza ĬLLE QUĪ ‘colui che’, molto utilizzata, fece sì che ĬLLE assumesse la medesima
uscita in -Ī di QUĪ. Quando ĬLLĪ precedeva una parola che cominciava per vocale (ex. ĬLLĪ AMAT) la -Ī si
trasformava in J in fonetica sintattica: questa, palatalizzando la consonante L, produsse la laterale
palatale /ʎ/ (in grafia) <gli> per cui: ĪLLJ > /eʎ:i/. Il fenomeno poi si generalizzò anche davanti a consonante.

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Esso < ĬPSŬ(M) (una forma accusativale dove la Ĭ > e, la M in posizione finale cade per apocope, la Ŭ > o e
infine si ha l’assimilazione regressiva di ps > ss). Lui < dal latino volgare (ĬL)LŪI che è un dativo rimodellato
su CŪI, a sua volta dativo del pronome QUI, QUAE, QUOD (l’influenza analogica è la medesima già vista per
la creazione del pronome soggetto maschile singolare egli < ĬLLĪ). Per quanto concerne la terza persona
singolare del femminile, abbiamo anche in questo caso tre forme che si rifanno, in maniera speculare, al
maschile  ella < ĬLLA(M); essa < ĬPSA(M) (una base accusativale); lei < *(IL)LAEI è una forma dativale
ricostruita modellatasi sul maschile lui (a sua volta una forma che si era creata già analogicamente)  si
può da questo notare come il sistema pronominale sia un sistema concatenato (le categorie chiuse sono
infatti quelle in cui si nota di più la presenza di rapporti di tipo analogico).
Uso  la coppia egli/ella riferito a persona è ormai in disuso ed è sostituita da quella lui/lei; la diffusione
dell’obliquo lui/lei con funzione di soggetto è dovuta a Manzoni che scelse per la quarantana dei Promessi
Sposi queste forme sostituendole a egli/ella o sopprimendole [questa cosa non fu inventata da Manzoni:
lui/lei/loro vennero usate con valore di soggetto anche in precedenza (da Bembo nelle Prose volgar lingua)
ma siccome erano assenti negli scritti delle Tre Corone vennero censurate per molto tempo]; egli si usa (o
meglio si usava) quando era già stato menzionato il referente; lui ha un valore più deittico assimilabile al
dimostrativo di terzo grado quello (e quindi ha anche il valore di novità).
Passando alle forme del plurale, queste spesso vengono denominate come prima, seconda e terza persona
plurale, ma sarebbe più corretta la dicitura quarta, quinta e sesta persona perché le forme noi e voi non
corrispondono al plurale di io e tu, sono cose diverse, in quanto non hanno in loro un’idea di pluralità, ma
un’idea di inclusione.
1a persona plurale (o anche 4a) NŌS > noi (poiché si ha la vocalizzazione della s in i); 2 a persona plurale (o
anche 5a) VŌS > voi (grazie sempre alla vocalizzazione della s in i); la 3 a persona plurale (o anche 6 a)
presenta una doppia possibilità: maschile  essi > ĬPSĪ (si parte, per questa forma, dal nominativo plurale);
loro < (IL)LŌRU(M) (si parte dalla forma di genitivo plurale). La forma eglino nell’italiano corrente non
esiste, però nell’italiano antico era presente ed era una forma creata sulla base egli + il morfema -no, tipico
della sesta persona delle forme verbali (ex. mangiano, dormono). Per quanto riguarda il femminile  elle <
ĬLLAS; esse < ĬPSAS; loro < (IL)LŌRU(M).
La maggior parte del patrimonio lessicale nominale italiano deriva dall’accusativo, ma molte forme
grammaticali derivano da altri casi, tra queste spiccano per numerosità le forme pronominali.
In italiano l’uso del pronome personale soggetto non è obbligatorio (ex. io mangio una mela; mangio una
mela), questo a differenza di altre lingue che invece hanno il soggetto obbligatorio espresso (come l’inglese
e il francese). L’obbligo del soggetto pronominale espresso si ha: in risposta a una domanda (ex. Chi è
stato? Io); quando si trovano in sequenza frasi con soggetto diverso (ex. Io lavo, tu stiri, lui cucina) perché
altrimenti si rischierebbe di non capire il senso della frase; quando si vuole accentuare un ruolo (ex. Io lavo,
io stiro, io cucino, io faccio tutto in questa casa); nel caso di stessa forma verbale per più persone (ex. Che
io pensi questo a te non deve riguardare; che tu pensi che non sia giusto non mi interessa; che lui pensi solo
a sé stesso è un dato di fatto). In italiano esistono delle forme, ormai in disuso (meco, teco, seco), volte
all’indicazione del complemento di compagnia. I pronomi personali possono essere rafforzati attraverso il
dimostrativo d’identità stesso (me stesso, te stesso, lui stesso, noi stessi, voi stessi, essi stessi). I pronomi di
quarta e quinta persona si possono combinare anche con altri (noialtri o noi altri, voialtri o voialtri).
L’utilizzo del tu generico (è legato ad una tendenza molto forte nella neostandardità, che è quella anche
degli abbassamenti degli allocutivi – gli allocutivi di cortesia o reverenziali sono delle forme che distanziano
il parlante dal suo interlocutore. Noi in italiano, in forma di rispetto, solitamente usiamo il lei, a sud si usa
invece dare il voi)  Il tu viene riferito a un interlocutore generico (ex. Se tu studi l’esame non lo passi). Si
possono avere anche me e te con funzione di soggetto: nei paragoni di uguaglianza (ex. ne so quanto te
NON ne so quanto tu); nelle esclamative formate con un aggettivo (ex. beata te NON beato tu; povero me
NON povero io); funzione predicativa con soggetto diverso (ex. io non sono te NON io non sono tu); te si
può usare nel secondo posto di una correlazione (io e te non ci parliamo da mesi NON io e tu non ci
parliamo da mesi); me viene utilizzato di più nelle varietà settentrionali (ex. Te lo dico me che è così).
Uso impersonale  nei registri alti si usa sempre la terza persona (ex. la sottoscritta, nata a Milano). Si ha
l’obbligo di lui e lei: dopo come e quanto (ex. Tu sei come lui; Tu sei alta quanto lei) o in risposta ad una
domanda (ex. Chi è stato? Lui/lei).

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Lui/lei oltre alle persone si possono riferire anche a cose o animali, nonostante la grammatica normativa
prescriva in questo caso l’uso di esso/essa (questo perché ormai esso ed essa sono caduti in disuso).
Quando vengono usati come forme oblique, lui/lei sono preceduti dalle preposizioni (ex. Dillo a lui che non
vuoi più venire alla festa; Da lei non ci vado più). Egli/gli ha anche funzione impersonale, tuttavia
quest’ultimo è antico come uso (ex. egli/gli è che stavamo uscendo). In Toscana gli è che ‘è che’ è molto
usato (ex. No, non sono arrabbiato! Gli è che sua mamma non lo lascia più venire, sicché dobbiamo trovarci
un altro portiere). Simile nell’uso il toscano noi accompagnato dalla forma impersonale di terza singolare
(ex. noi si fa ‘noi facciamo’). Si tende (o meglio si tendeva) ad usare il noi maiestatico (o plurale maiestatico)
nelle situazioni solenni legate a religione o atti ufficiali (ex. noi consideriamo conclusa la diatriba). Il noi
plurale didattico è usato dagli insegnanti a lezione o nella manualistica destinata a studenti (ex. in questo
caso vediamo/possiamo vedere…). Il noi inclusivo è simile al noi plurale didattico e si usa per stabilire un
rapporto di solidarietà con il lettore o l’ascoltatore (ex. Ora analizziamo i nostri dati). L’uso di loro/esse-essi
soggetto è speculare all’uso di lui/lei soggetto ovvero: dopo come e quanto o in risposta alle domande;
essi/esse possono riferirsi sia a persone sia ad animali o cose.
Pronomi personali complemento: forme toniche
La 1a persona singolare MĒ > /me/; la 2a persona singolare TĒ > /te/ (me e te vengono entrambi da forme
accusativali). La 3a persona singolare presenta più forme: al maschile abbiamo (IL)LŪĪ > /lu:i/, ĬPSU(M) >
/es:o/ e la forma riflessiva SĒ > /se/; al femminile (IL)LAEĪ > /lɛ:i/, ĬPSA(M) > /es:a/ e la forma riflessiva SĒ
> /se/ (viene da una forma accusativale).
La 1a persona plurale (o anche 4a) NŌS > noi; la 2a persona plurale (o anche 5a) VŌS > voi; la 3a persona
plurale (o anche 6a) si distingue diagenereticamente con la forme maschile ĬPSĪ > /es:i/ e la forma femminile
ĬPSAS > /es:e/; invariabili sono la forma (IL)LŌRU(M) > /lo:ro/ e la forma riflessiva SĒ > /se/.
Forme atone
1a persona accusativo MĒ > me > mi (chiusura in protonia); 2 a persona accusativo TĒ > te > ti (chiusura in
protonia); 3a persona: maschile  dativo (IL)LĪ > gli (LI + vocativo > LJ = palatalizzazione) (ha valore di
complemento di termine); accusativo (IL)LU(M) > lo (ha lo stesso sviluppo dell’articolo determinativo ed ha
valore di complemento oggetto); femminile  dativo *(IL)LAE > le (valore di complemento di termine);
accusativo (IL)LA(M) > la (valore di complemento oggetto); forma riflessiva che deriva dall’accusativo SĒ >
se > si (chiusura in protonia).
Per la 4a persona si parte da una perifrasi avverbiale (EC)CE HĪ(C) ‘ecco qui’ (che inizialmente aveva valore
locativo e che poi assume valore pronominale) > ci (questa stessa cosa si può notare anche con ne  ex.
“non ce ne deve importare, di questo ne parleremo dopo” che è di natura avverbiale < ĬNDE ‘da questo
luogo’). Per la 5a persona la base di partenza è l’avverbio (I)BĬ ‘là’ > ve (aferesi della i di posizione iniziale,
spirantizzazione di b in v e Ĭ > e) > vi (chiusura in protonia). 6 a persona: maschile  nominativo (IL)LI > li
(valore di complemento oggetto) (ex. Non li compro più questi panini); femminile  accusativo (IL)LAS > le
(valore di complemento oggetto) (ex. Non le lavo più le tue maglie); invariabili (IL)LŌRU(M) > loro (valore di
complemento oggetto) e si ha anche l’estensione del singolare derivata dal dativo (IL)LI > gli (valore di
complemento di termine); forma riflessiva accusativo SĒ > se > si (chiusura in protonia).
03-05-2021
Le forme atone si possono usare solo per complemento oggetto e complemento di termine. Solo la 3° e la
6° persona presentano una distinzione tra maschile e femminile e tra forme oggetto e forme dativali (cioè
relative al complemento di termine).
Forma dativale plurale: gli/loro  Gli con valore di plurale sia maschile che femminile è attestato fin dalle
origini dell’italiano ma solo come appartenente al registro familiare, appartenente all’oralità; nello scritto
letterario e tecnico si opta invece per la forma loro.
L’estensione della forma gli dativale si è verificata anche per il femminile singolare  da evitare
l’estensione della forma maschile singolare gli al femminile (sia nello scritto che nel parlato). Il femminile
singolare gli è presente nella produzione letteraria italiana che va dal Trecento (Boccaccio) fino al
Novecento (Moravia).
Nell’italiano moderno le forme atone sono proclitiche (vengono cioè messe prima del verbo) però in alcuni
casi possono invece avere una posizione enclitica, come nei seguenti casi: quando sono in unione con ecco
(eccolo, eccola, eccoli, eccole, non si ha con loro); con l’imperativo affermativo (ex. sbrigati, dimmelo); con

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l’infinito apocopato (ex. farci, farlo); con il gerundio (ex. mangiandolo, attraversandola); con il participio
passato (ex. mangiatolo, attraversatala).
Nell’italiano antico non era così, la Legge Tobler-Mussafia descrive il comportamento dell’italiano e del
francese antico (Tobler si occupò del francese antico mentre Mussafia dell’italiano antico, ovvero del
fiorentino).
In italiano antico (dalle origini al Quattrocento) l’enclisi del pronome personale atono seguiva regole
diverse:
si trovava all’inizio di periodo (ex. dissegni allora… ‘Gli disse allora’); dopo la e congiunzione (ex. e mangiollo
‘e lo mangio’); dopo l’avversativa ma (ex. ma meravigliosse ‘ma si meravigliò’); all’inizio di una principale
che segue una subordinata (ex. camminando… trovossi ‘si trovò’).
Forme di questo tipo usate nell’italiano contemporaneo hanno un chiaro intento stilistico di tipo
arcaizzante/letterario. Appartengono alla cristallizzazione di questo tipo forme come volevasi/dovevasi
dimostrare, dicesi, dicasi, vendonsi (‘vendesi’).
Nelle forme doppie i gruppi pronominali non si devono scindere (ex. Glielo dico io a tua madre che tu non
hai fatto niente; non puoi dirgliela questa cosa a Luigi). Il maschile singolare può assumere anche valore di
neutro: in riferimento a una frase precedente (ex. Che farai? Non lo so); in frasi idiomatiche (ex. Lo dicevo
io; Chi lo sa? Chi lo dice?). Il femminile singolare può assumere valore di neutro nelle polirematiche,
costituite dall’unione di più elementi lessicali che presi a sé possiedono una propria semantica, ma che
presi insieme assumono una semantica differente (ex. darsela a gambe; saperla lunga; farla a qualcuno;
vedersela).
In italiano ci/vi vengono usati anche con valore locativo (ex. Ci vado anch’io con lui); in netto regresso è il vi
locativo (ex. Vi andiamo anche noi quest’anno a Nizza). Frequente l’uso di c’è e ci sono con valore
presentativo per rimarcare il soggetto (ex. C’è Gigi?; Ci sono dei fiori in giardino). L’etimologia di ne ci
ricorda la sua natura avverbiale (< INDE ‘di lì’); quest’ultimo è presente in molte locuzioni cristallizzate (ex.
Non poterne più, aversene a male, valerne la pena). Il pronome riflessivo si può essere usato in italiano
anche con altre funzioni, quella più diffusa è il costrutto impersonale (ex. Che si dice; Come si mangia in
quel ristorante). Il si passivante si usa nei costrutti con valore passivo (ex. A mezzogiorno si mangia; Non si
ammettono deroghe). In italiano non è ammessa la sequenza con si consecutivi, quindi quando è presente il
riflessivo si è necessario cambiare forma: c’è un cambiamento quando all’interno della struttura abbiamo
due forme pronominali che hanno la medesima forma che è appunto si (ex. Ci si addormenta a
mezzanotte).
Tendenze dell’italiano contemporaneo riguardo all’uso pronominale
1. Crescita dell’uso pronominale dei verbi transitivi (mi bevo una birra; ci guardiamo un film)
2. Verbo con clitico grammaticalizzato (il clitico fa assumere al verbo una particolare semantica): farci
‘fare lo stupido’, esserci ‘essere stupido’ (ex. Ma tu ci fai o ci sei?); starci ‘essere d’accordo (ex. Ok, ci sto),
‘essere disponibile’ (ex. Quello ci sta), ‘essere in linea, congruente con qualcosa’ (ex. Dopo quanto
accaduto, la sua risposta ci sta); esserci ‘avere capito’ (ex. Ora ci sono); cantarla/le/cantargliene
‘rimproverare’ (ex. Ora gliene canto quattro, così capisce); volerci ‘essere necessario’ (ex. Ci vuole tanta
pazienza); sentirci (ex. Non ci senti?); tenerci ‘avere a cuore’ (ex. Lo sai che ci tengo a te); prenderci ‘avere
indovinato’ (ex. Bravo, c’hai preso!)
3. Estensione del ci attualizzante: averci (ex. C’hai fame? Ce l’hai l’ombrello?); sentirci (non ci senti?)
4. Riprese/anticipazioni pronominali in frasi marcate: dislocazioni a sinistra e a destra (ex. il giornale l’ho
già comprato  dislocazione a sinistra con ripresa del clitico; la uso io la macchina oggi  “la” anticipa il
soggetto “macchina”; dislocazione a destra con anticipazione del clitico)
5. Ridondanze pronominali (ex. Di questo ne parleremo domani  ne è un clitico di ripresa; a me non mi
ha detto niente nessuno)
6. Estensione di gli dativale: al femminile singolare nell’oralità (ex. Ho chiamato Maria e gli ho detto di
passare da noi stasera) è molto marcato, ed è accettato, ma nello scritto non si può assolutamente usare; al
maschile/femminile plurale al posto di loro (ex. Chiama Luigi e Fabio e digli di venire subito; Maria e
Giovanna hanno fame: fagli un panino)
7. Uso di ci al posto di gli (ex. Perché non vai a parlarci?)
8. Uso di ci al posto di vi con valore localizzante (ex. andarci anziché andarvi)

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9. Uso del dativo etico: utilizzato tendenzialmente nella prima persona singolare con i verbi con forma
pronominale per indicare un maggiore coinvolgimento affettivo (ex. Se rileggo le sue vecchie lettere, me lo
ritrovo diverso da quello che è oggi; Stammi bene)
Pronomi allocutivi  Servono per parlare con gli interlocutori e possono essere di due tipi: confidenziali (al
singolare tu, al plurale voi) e reverenziali (o di cortesia) utilizzati quando non c’è conoscenza o confidenza.
Per il reverenziale si hanno quattro forme: lei, voi, ella e loro (si possono utilizzare con la maiuscola quando
si è in scrittura e questa cosa si può fare anche quando si tratta di forme clitiche; ella e loro si trovano ormai
solo in taluni contesti (ex. Loro cosa desiderano?), alle volte in contesti ironici. A loro si abbina anche il
desueto lorsignori (ex. Lorsignori desiderano?). I pronomi non reciproci indicano un rapporto non
simmetrico tra i due interlocutori per ruolo, età, situazione ecc…
Usi regionali: tu generico (area mediana) o voi sovraesteso (area meridionale); una cinquantina di anni fa, ai
genitori, si dava addirittura del vossignoria (solitamente quando i genitori erano molto severi o quando i
genitori erano acquisiti).
Nell’italiano neo-standard il tu confidenziale si è esteso anche a persone che non si conoscono ma con cui si
condividono età, esperienze, ecc… (è un tu confidenziale che tuttavia non ha motivo d’essere).
I pronomi relativi  Hanno la funzione di mettere in relazione una proposizione reggente e una
subordinata richiamando un elemento lì espresso. Tale antecedente deve essere determinato e quindi: “Il
ragazzo che ti ho presentato è di Roma” o “Uno dei ragazzi che ti ho presentato è di Roma” NON *un
ragazzo che ti ho presentato è di Roma (il generico UN non va bene, dev’essere sempre determinato, o
usando l’articolo determinativo o con una forma di partitivo).
Invariabile è il pronome relativo che con valore di soggetto e complemento oggetto (ex. Il libro che ho
comprato ieri è bellissimo); invariabile è cui preceduto da preposizione con valore di complemento obliquo
(ex. Il libro di cui ti ho parlato ieri è bellissimo)  questo però vale solo dal punto di vista generale perché
quando cui ha valore di complemento di termine la preposizione a è facoltativa (ex. Le foto a cui era legata
le ha conservate tutte/le foto cui era legata le ha conservate tutte); quando cui ha valore di complemento
di specificazione e si trova tra un articolo determinativo/una preposizione articolata e un nome può non
esser presente la preposizione (ex. Giordano, i cui figli vivono in America, ha deciso di trasferirsi da loro).
Formazione  Che < QUĬD (neutro) o QUĒ(M) accusativo; Cui < CUĪ (dativo di QUI, QUAE, QUOD). Le forme
variabili presentano invece un singolare maschile/femminile e un plurale maschile/femminile, pertanto non
sono marcati dal punto di vista diagenerico (ex. La ragazza della quale ti ho parlato / il ragazzo del quale ti
ho parlato). Per il singolare abbiamo quale < QUALĒ(M); per il plurale quali < QUALĒS.
Il che polifunzionale detto anche che polivalente è una delle caratteristiche più interessanti dell’italiano
neostandard ed è anche quello su cui non tutti concordano. In italiano può assumere vari valori: temporale
(ex. Maledetto il giorno che ti ho incontrato); indeclinato generico (ex. Su quello scoglio che ci si può tuffare
 il “che” vale come ‘di cui’).
04-05-2021
La morfologia lessicale (formazione delle parole in maniera specifica)
Il sistema lessicale di una lingua è un sistema fondamentalmente aperto perché le forme (le parole) che
non appartengono ad una struttura di un certo tipo (ovvero che non appartengono a delle classi chiuse)
sono sottoposte ad una continua implementazione, data dalla necessità di dare un nome o di descrivere
tutto quel che ci circonda. I meccanismi dell’arricchimento lessicale sono fondamentalmente due: il
meccanismo endogeno e il meccanismo esogeno. Il meccanismo endogeno è quello che riguarda i
meccanismi interni della lingua, quindi è possibile avere un’espansione del patrimonio lessicale sulla base di
un budget lessicale che già ci appartiene: noi abbiamo già delle parole e, sulla base di alcuni meccanismi
che possono essere messi in atto, quelle stesse parole si possono trasformare dando luogo ad
un’implementazione dall’interno; se, ad esempio, a una parola già esistente viene aggiunto un particolare
elemento modificatore, questo può creare una sfumatura di significato o addirittura una nuova parola. Il
meccanismo esogeno invece si serve dell’aiuto dall’esterno, quindi l’implementazione del patrimonio
lessicale avviene attraverso forme prese da altre realtà linguistiche; appartengono a questa dinamica
dell’implementazione esogena i forestierismi (forme che possono essere prese sia nella loro forma originale
– cioè non cambiandole – sia adattandole alla morfologia italiana) e i dialettismi. Le dinamiche di
realizzazione del meccanismo endogeno ci consentono di dare vita a delle nuove parole (a delle

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neoformazioni), che possono avvalersi fondamentalmente di tre dinamiche diverse: conversione,
alterazione, derivazione/composizione.
Conversione  Il meccanismo di conversione si basa sul passaggio da una categoria grammaticale ad
un’altra; ciò significa che si ha la possibilità di attribuire alla stessa forma due categorie grammaticali
diverse, questo perché probabilmente da una categoria (che è quella di partenza) si è poi creata
successivamente una seconda categoria. In italiano codesto meccanismo è poco usato, mentre in lingue
meno flessive è il meccanismo principale (ad esempio nella lingua inglese). I casi più frequenti di
conversione riguardano alcuni passaggi specifici, quali: il passaggio da nomi ad aggettivi (ex. arancio 
color arancio), il passaggio da aggettivi a nomi (ex. pieno  il pieno di benzina) e il passaggio da avverbio a
interiezione (ex. bene  bene!).
Ci sono naturalmente delle regole di restrizione, attribuite al fatto che, quando noi parlanti ci esprimiamo,
potremmo percepire delle forme come non presenti nella nostra lingua (mettendo così in atto il giudizio di
accettabilità); tra le restrizioni troviamo che: nel passaggio dal nome al verbo, la forma verbale è sempre un
infinito di prima coniugazione (ex. voce  vociare; salto  saltare); si ha il passaggio inverso nel passaggio
da verbo a nome (processo di nominalizzazione) (ex. L’abbaiare del cane mi dà fastidio; Il bianco è il mio
colore preferito).
La vera conversione avviene però quando le parole si pluralizzano, assumendo così tutta la fisionomia
grammaticale di una forma sostantivale (ex. piacere  il piacere/i piaceri; sapere  il sapere/i saperi).
Rientrano in questa categoria anche i participi presenti e passati (ex. gli abbaglianti, gli abitati).
L’alterazione  L’alterazione è un tipo di modificazione che avviene mediante suffissazione e che lascia
inalterato il significato di fondo del termine in questione aggiungendo però una sfumatura relativa alla
dimensione, al valore affettivo, e così via. L’alterazione lascia dunque inalterata la categoria rispetto alla
base e non muta (non del tutto almeno) la semantica della parola di base.
Alcuni diminutivi e vezzeggiativi possono terminare in: -ello (ex. cestello); -etto (ex. pochetto); -ino (ex.
benino); -otto (ex. difficilotto); -uccio (ex. difettuccio); -uzzo (ex. peluzzo). Tra gli accrescitivi troviamo le
desinenze: -one (ex. omone); -acchione (ex. furbacchione). Tra i peggiorativi: -accio (ex. gattaccio); -astro
(ex. medicastro); -uncolo (ex. avvocatuncolo).
Lessicalizzazione degli alterati  Molti alterati nel tempo si sono lessicalizzati, assumendo una propria
autonomia dal punto di vista lessicale e semantico, è questo il caso delle parole: finestrino (da finestra);
calzino (da calza); giubbino (da giubba); panino (da pane); rosone (da rosa); parolaccia (da parola).
I falsi alterati  Molte parole terminano con dei suffissi che le fanno sembrare alterate ma che in realtà
nascono già come derivate, ovvero non sono passate attraverso la semantica dell’alterazione, è questo il
caso nelle parole: manette ‘costrizione per mani’ non ‘piccole mani’; gallinaccio ‘tipo di pollo’ non ‘pollo
cattivo’; canino ‘dente aguzzo come quello dei cani’ non ‘cane piccolo’.
La derivazione è un fenomeno che parte da una parola di base (che chiamiamo primitivo) che veicola la
semantica della parola; a questa si può aggiungere o un prefisso (meccanismo di prefissazione) o un suffisso
(meccanismo di suffisazione) o un prefisso ed un suffisso (formazioni parasintetiche). Se si parla in generale
di prefissi e suffissi, parliamo di affissi (iperonimo utilizzato per indicare sia i prefissi che i suffissi); quindi
l’affissazione è il procedimento di unione degli affissi alle basi. Il prefisso è posto prima della base; il suffisso
è posto dopo la base. La produttività di un affisso si misura dalla sua utilizzazione nelle neoformazioni
(chiaramente questa è una cosa che dipende anche dalla fortuna data dal periodo storico).
Nella derivazione solitamente vengono messi in atto due tipi di meccanismi, il primo è la derivazione a
ventaglio; il secondo è quello della derivazione a cumulo. La prima fa sì che partendo da una base si
costruiscono una serie di parole attraverso un modificatore (ex. Lavorare  lavorante, lavorazione,
lavoratore, lavorio); la seconda invece è un processo che accumula una serie di affissi sino a che non si
giunge ad una forma che non viene più percepita come corretta (per il giudizio di accettabilità) dal parlante
(permeare  permeabile  impermeabile  impermeabilizzare  impermeabilizzazione).
Il meccanismo di derivazione più produttivo in italiano è la suffissazione: attraverso questo meccanismo si
possono creare forme con categoria grammaticale diversa da quella della forma di partenza, che possono
essere denominali (forme derivate da nomi), deverbali (forme derivate da verbi) o deaggettivali (forme
derivate da aggettivi).

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Tra i suffissi nominali si hanno quelli a due uscite (cioè quelli che presentano la distinzione diagenerica)
come i NOMINA AGENTIS: -aio/-aia (ex. lavandaia, macellaio), -tore/-trice (ex. trattore, lavatrice), -one/-ona
(ex. mangione), -ino/-ina (ex. imbianchino, postina); e quelli a una sola uscita (dunque senza distinzione
diagenerica): -ante (ex. badante, insegnante), -ista (ex. farmacista, edonista), in quest’ultimo caso è però
presente la distinzione di genere per il plurale.
I nomi di azioni e astratti terminano solitamente in: -mento (ex. cambiamento); -zione (ex. emozione); -
ismo (ex. dinamismo) (quest’ultimo ha avuto un boom nel Settecento e agli inizi dell’Ottocento).
Nel passaggio al derivato possono verificarsi alcune modificazioni fonetiche rispetto alla base, come: un
cambiamento legato ad un fonema particolare (ex. amico  amicizia); degli aggettivi di relazione che vanno
a riprendere la forma latineggiante (ex. subiaco  sublacense; legno  ligneo; figlio  filiale; fino ad
arrivare ai casi di allotropia: oggi  odierno < HODIE/HODIERNUS).
Tra i suffissi verbali: -ellare/-erellare/-arellare (ex. saltellare, salterellare); -icchiare/-acchiare (ex.
canticchiare, dormicchiare); -ificare (ex. edificare); -izzare (ex. aizzare); -eggiare (ex. amoreggiare).
Tra i suffissi aggettivali  a due uscite: -oso/-osa (ex. danaroso), -ico/-ica (ex. pacifico); a una sola uscita:
-bile (ex. lavabile); -ale (ex. sacrificale).
Mantenendo sempre l’idea della suffissazione, abbiamo anche quelli che si definiscono suffissi a grado zero:
vi sono dei nomi tratti da verbi che non aggiungono un suffisso ma solo il morfema di numero e genere;
questo tipo di formazione è frequente soprattutto nel linguaggio burocratico e in quello tecnico, anche se in
realtà da quegli ambiti si è poi spostato anche all’ambito dell’uso (ex. spaccare  spacco; strappare 
strappo; conteggiare  conteggio; modificare  modifica).
Anche la prefissazione è una dinamica presente nell’italiano. Il meccanismo di prefissazione non può
determinare un cambiamento di categoria. A differenza dei suffissi, molti prefissi sono autonomi perché
sono a loro volta preposizioni o avverbi (ex. la lessicalizzazione del prefisso auto che vale come
‘automobile’).
Suffissi avverbiali: -mente (veramente).
Formazione parasintetiche  Quando a una base nominale o aggettivale vengono aggiunti
simultaneamente un prefisso e un suffisso si generano le forme parasintetiche. Le categorie parasintetiche
sono: sostantivi, aggettivi e verbi. Quella più rappresentata è la categoria verbale: ex. in (< m) – bufalo –
irsi; a(b) – bello – ire.
In italiano i verbi parasintetici appartengono o alla prima o alla terza coniugazione (la seconda coniugazione
è infatti meno produttiva). I prefissi che si possono trovare più frequentemente sono: A- che ha valore di
cambiamento di stato (ex. dente  addentare); DE-/DIS- che ha valore negativo/sottrattivo (ex. ratto 
derattizzare); IN- che vuol dire entrare in una condizione (ex. amore  innamorarsi; burro  imburrare); S-
con valore sottrattivo (ex. macchia  smacchiare) o intensivo (ex. largo  slargare).
Composizione  I composti si formano con: base o confisso (greco o latino) + base o confisso (greco o
latino). In genere si ha l’unione di due forme che solitamente vengono univerbate.
I casi più frequenti di composizione in italiano sono quelli composti da base + base:
1. Basi solo nominali  nome + nome (ex. cassapanca); aggettivo + nome (ex. nobildonna); nome +
aggettivo (ex. cassaforte); aggettivo + aggettivo (ex. giallorosso)
2. Basi di cui almeno una è un verbo  verbo + nome (lavastoviglie); verbo + verbo (bagnasciuga); verbo
+ avverbio (buttafuori); avverbio + verbo (malmenare)
3. Basi miste  avverbio + aggettivo (sempreverde); preposizione + nome (dopoguerra).
Possiamo dedurre che la maggior parte di queste neoformazioni sono sostantivi.
Quando parliamo di composizione esogena (che può essere totale o parziale) pensiamo sempre alla
composizione neoclassica, cioè si potrebbe attingere totalmente al bacino esterno oppure solo in parte.
Abbiamo strutture formate da: confisso + confisso (ex. cardiopatia, emofilia); base + confisso (ex. anglofilo);
confisso + base (ex. televisione, cardiovascolare). Le lingue cui si attinge sono quelle classiche: latino e
greco. Il confisso è un elemento che può essere o latino o greco
I confissi in italiano non hanno autonomia, non possono cioè costituire da soli una parola autonoma (tranne
poche eccezioni come: terapia, grafia); in greco e in latino invece avevano autonomia lessicale (ex. emos’
sangue’, filos ‘amico’). La sequenza che troviamo più spesso è quella di determinante + determinato (ex.

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biblioteca = teca di libri ‘contenitore di libri’), nei composti di tipo base + base invece si ha il tipo opposto,
cioè determinato + determinante (ex. apribottiglia, cavatappi ecc…).
Il tipo di composizione neoclassica più frequente è quello confisso + base; tali composti si comportano
dunque come dei prefissati (cioè non sono soggetti a cambio di categoria). La composizione neoclassica è
molto produttiva; è nata per l’implementazione lessicale in ambito medico e scientifico (sappiamo che
latino e greco sono serbatoi inesauribili) ma poi è stata utilizzata anche per la neoformazione del lessico
comune.
Autonomia semantica di alcuni confissi  Alcuni confissi che in greco avevano una propria autonomia,
normalmente nell’italiano non sono autonomi, tuttavia ci sono dei casi in cui nel tempo alcuni confissi si
sono lessicalizzati: ex. inizialmente il confisso auto valeva (e vale tutt’ora) come ‘da sé stesso’, quindi si
sono create forme dove “auto” assume appunto questo significato, quali automobile, autoscatto e così via.
A un certo punto però il prefisso “auto” ha cominciato ad essere utilizzato da solo come accorciamento
della parola automobile; diventando sinonimo di automobile, auto, con valore di veicolo, inizia a dare il via
ad un’altra catena di composti in cui auto ha il valore di automobile, come autostrada, autotrasportatore e
così via.

06-05-2021
Lo stesso vale per il tipo eco che originariamente vale come ‘casa’ e quindi da vita a parola come economia,
ecografia; successivamente però eco diventa sinonimo di ecologia, dando inizio ad una nuova catena di
termini, come ecologista, ecoincentivo. Lo stesso vale per foto = luce (fotosintesi, fotoelettrico,
fotovoltaico)  foto = fotografia (fotografo, fotografico); o ancora per tele = da lontano (telefono,
telegrafo, telepatia)  tele = televisione (telegenico, teledipendente).
Polirematiche o unità lessicali superiori (il termine “polirematica” venne coniato da Tullio De Mauro e da
allora ci si riferisce a questo tipo di struttura con questo nome)  Sintagmi formati da più unità separate
ma costituenti un unico lessema dal punto di vista semantico. Il tipo più comune è formato da: nome +
preposizione + nome (ex. sala da pranzo, camera da letto, ferro da stiro, guardia del corpo, controllore di
volo, macchinetta del caffè). Quindi, quando abbiamo una struttura che è formata da più elementi (nome +
preposizione + nome), elementi che presi separatamente hanno una propria autonomia semantica, ma che
presi insieme assumono una nuova semantica, ci troviamo dinanzi ad una polirematica.
Altri tipi meno comuni sono: il tipo verbo + verbo (ex. dare ascolto, far appello, aver luogo, dare inizio); il
tipo nome + nome (ex. cane poliziotto, bambino prodigio, pausa caffè); il tipo nome + aggettivo (ex.
telefono azzurro, numero verde); il tipo aggettivo + nome (ex. giallo canarino, blu oltremare).
Le sigle sono parole formate con le lettere iniziali di una stringa lessicale (ex. CT = commissario tecnico; VIP
= very important person; CD = compact disc; DS = democratici di sinistra); gli acronimi invece sono sigle o
brevi parole formate non solo dalle iniziali ma anche da alcune lettere delle forme lessicali che
costituiscono il sintagma (ex. POLFER = polizia ferroviaria; COLF = collaboratrice familiare).
Le “parole macedonia” sono delle parole formate da pezzi di parole (ex. cantautore = cantante + autore;
cartolibreria = cartoleria + libreria); alcuni definiscono invece in questo modo solo le parole formate dalla
parte iniziale di una parola e da quella finale di un’altra parola (ex. glocalizzazione = globalizzazione +
localizzazione).
Esistono anche gli accorciamenti poiché, nel linguaggio colloquiale, si tende ad accorciare le parole. Nelle
parole italiane solitamente si toglie la parte finale lasciando il prefissoide (ex. televisione  tele; bicicletta
 bici; frigorifero  frigo; tossicodipendente  tossico; subacqueo  sub); si può eliminare anche la
seconda parte di un sintagma (ex. ex marito  ex); negli anglismi invece si elimina la parte iniziale e resta
quella finale (ex. autobus  bus; telefax  fax).
Le retroformazioni sono parole derivate da accorciamenti della struttura di base e assomigliano alle
derivazioni a suffisso zero (ex. canottiera  canotta; benzina  benza).
Il dibattito linguistico in Italia tra Seicento e Settecento
Fine Cinquecento/Primi decenni del Seicento  Il cavalier Salviati fu un personaggio fondamentale per
l’Accademia della Crusca, che con il suo valore contribuì alla decisione di fare questo vocabolario, senza
però riuscire a vederne la prima edizione, poiché morto prima. La teoria dell’allargamento del canone a
tutti gli scrittori del Trecento fiorentino piacque anche a Lionardo Salviati entrato nell’Accademia della

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Crusca nel 1583, un anno dopo la sua fondazione. Salviati proclamò le sue idee nell’Orazione in lode della
fiorentina lingua (1564). Il canone degli autori che vennero scelti da Salviati e spogliati (facendo un
controllo a tappeto di tutte le forme e poi scegliendo quel che era utile per creare una sorta di riassunto)
nelle prime due edizioni del Vocabolario degli Accademici (1612 e 1623, dove la seconda è praticamente la
fotocopia della prima) è presente nella sua opera Degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone
(pubblicati tra il 1584 e il 1586).
Nel 1691 uscì la terza impressione del Vocabolario degli Accademici. Il canone cambiò totalmente perché il
clima illuminista cominciò a farsi sentire e così si ebbe una forte apertura nei confronti di alcuni autori,
fondamentalmente nei confronti degli scrittori scientifici come Galileo (il quale fece una cosa
importantissima, prese cioè delle parole che venivano utilizzate con un significato comune e diede loro
un’accezione scientifica-tecnica) e Redi, ma anche autori minori (trattati di pittura, architettura ecc…).
Oltre al Vocabolario i Cruscanti puntarono anche sulla redazione di una grammatica affidata a Benedetto
Buonmattei che scrisse il Della lingua toscana (1643).
Il dibattito più acceso del secolo fu quello tra cruscanti e anticruscanti. Subito dopo l’uscita della prima
Crusca il Beni attaccò il vocabolario perché aveva escluso il Tasso in quanto non fiorentino e non
trecentesco. L’attacco più forte era nei confronti del periodare articolato di Boccaccio e, nella fattispecie, il
periodare ampolloso, ricco di subordinate, pieno di incisi, che è la produzione barocca alla Boccaccio.
Alessandro Tassoni, pur cruscante, criticò aspramente il canone solo trecentesco proposto dal Salviati e
l’esclusione di grandi autori come, ad esempio, il Tasso (che Salviati non amava), tanto che nella seconda
edizione venne inserito qualche autore del Cinquecento e non toscano (uso vivo). Anche il Baretti dalle
pagine della Frusta letteraria bacchettava il periodare complesso alla Boccaccio esortando a buttarlo via e a
favorire uno stile asciutto tipo quello di Cellini.
Abbinandosi a questo contrasto già presente in Italia, alla fine del Seicento, il francese Bouhours sferrò un
attacco alla lingua italiana in due opere del 1671 e del 1691 sostenendo che l’italiano fosse tramontato
come lingua di cultura perché adatto ormai solo alla poesia e al melodramma, mentre il nuovo momento
storico aveva bisogno di una lingua razionale capace di veicolare concetti razionali e filosofici; il francese
venne quindi proposto come il nuovo latino, ovvero come lingua internazionale della cultura.
A fondamento del pensiero di Bouhours c’era il binomio tra genio nazionale e genio della lingua, ovvero il
pensiero che la cultura di un popolo fosse strettamente connessa alla lingua che quel popolo usava per
esprimersi. L’inversione sintattica tra soggetto e verbo tipica della prosa del Boccaccio sarebbe stata
dunque per Bouhours sintomatica di un popolo razionale. La risposta italiana venne dall’Orsi, che difese
l’ordine libero capace di rappresentare meglio l’inventiva e la creatività linguistica.
Bouhours puntava proprio sull’ordre naturel del francese (cioè sul fatto che l’ordine naturale segue lo
schema “soggetto + verbo + complementi”, mentre lo schema con il verbo alla fine e i complementi che si
incastrano l’uno nell’altro non è affatto un ordine naturale e razionale) per andare contro l’italiano,
dimenticando però che quel tipo di periodare non apparteneva al francese da sempre, ma era stato il
risultato di una riforma voluta dal Re Sole e messa in pratica dal Cardinale Richelieu attraverso la
fondazione dell’Académie Française solo nel 1634. La creazione del genio razionale francese era dunque
recente e soprattutto non naturale bensì opera di una riforma politica.
Il dibattito settecentesco  Il dibattito iniziato nel Seicento contro la Crusca continuò ad essere alimentato
anche nel Settecento. Il cambiamento culturale europeo definì la nuova strada del conflitto: gli
anticruscanti si posero infatti a favore dell’innovazione lessicale e sintattica di provenienza francese che si
imponeva come modello di tipo razionalistico. La filosofia e la filologia spingevano verso un approccio
storico-funzionale della lingua. Scipione Maffei nella Verona illustrata (1732) illustrò la sua opinione sulla
nascita del volgare ponendosi vicino alle idee di Leonardo Bruni e giustificando la diversità con la presenza
di diversi sostrati italici presenti sul territorio. Ludovico Antonio Muratori nella Antiquitates Italicae Medii
Evii (1739) sostenne invece la tesi di Biondo Flavio sulla corruzione barbarica. La polemica italo-francese
venne ripresa sul finire del secolo quando nel 1784 il Rivarol vinse un premio presso l’Accademia di Berlino
con un’opera intitolata De l’universalité de la langue française in cui ribadiva il ruolo del francese come
lingua della comunicazione internazionale. Le qualità del francese venivano così riassunte: l’Ordre naturel;
uno stile coupé, ovvero uno stile frammentato ottenuto attraverso frasi brevi e asindetiche; la presenza
dell’ellissi verbale; la nominalizzazione dei verbi; le frasi scisse; l’uso del di partitivo; il presente progressivo;

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la presenza di modi di dire (l’utilizzo, dunque, dello slittamento metaforico); il lessico astratto (perché c’era
la filosofia); siccome utilizzato in attacco con valore causale.
Francese lingua di cultura  Gli intellettuali sapevano che per partecipare ai dibattiti dovevano usare
quella lingua e conoscere la storia e la politica francesi (è un po’ come succede oggigiorno con l’inglese).
Molti scrittori iniziarono, dunque, ad usare il francese anche per la scrittura privata (si pensi a Goldoni e
Casanova) per prestigio culturale. Solo in un secondo tempo la lingua dei colti diventò lingua anche del
popolo grazie all’uso che ne venne fatto nei linguaggi settoriali come la moda, la danza, la cucina che non
restarono legati ad ambienti intellettuali ma si diffusero ampiamente.
La francesizzazione in Italia seguì strade diverse: prestiti; adattamenti morfologici o fonetici (dati dalla
necessità di adattare le terminologie esterne alla propria lingua; solitamente l’adattamento avviene sulla
desinenza, sulla parte finale); calchi semantici (le traduzioni delle parole estere); la francesizzazione poteva
inoltre verificarsi attraverso l’utilizzo di suffissi di tipo francese (-isme > -ismo; -iste > -ista; -iser > -izzare). I
veicoli di diffusione furono da un lato la stampa periodica (giornali e gazzette; sappiamo che il ‘700
costituisce un momento storico importante per la diffusione della stampa pubblica), dall’altro i libri e le
enciclopedie spesso ristampati direttamente in lingua originale (il sapere nel ‘700 diviene un sapere
trasversale e, proprio per tale ragione, fu proprio in questo secolo che vennero realizzate le prime
enciclopedie).

07-05-2021
Nel 700 in Italia la polemica tra cruscanti e anticruscanti si basò prevalentemente sull’accettazione o meno
dei forestierismi. I cruscanti avevano come modello ancora il fiorentino del Trecento. Ci sono alcuni autori
che in questo periodo divulgano la grammatica, il loro pensiero in merito alla lingua (questi grammatici
avevano infatti il compito di promuovere un modello che potesse essere utilizzato come modello di
apprendimento e poi di uso), tra i maggiori nomi troviamo Salvini e Manni. Domenico Maria Manni,
pubblicò le Lezioni di lingua toscana (1737) ovvero la revisione in forma scritta delle sue lezioni tenute
presso il seminario vescovile di Firenze. Gli anticruscanti erano invece a favore di una lingua più moderna e
non legata al toscanocentrismo; il Muratori e il Gravina, ma anche molti autori più tecnici come Algarotti,
Spallanzani e Vallisnieri, promossero l’italiano all’università in opposizione al latino. L’idea di base era
quella di una lingua comune aperta a tutte le forme utili a livello lessicale, quindi sia quelle dialettali sia i
forestierismi.
Il motivo dell’attacco più veemente, quello del Verri sferrato dalle pagine del Caffè nel 1764, fu l’uscita della
IV Crusca (che tornava al momento Trecentesco: un’operazione folle e anacronistica che comportò la
soppressione dell’Accademia nel 1783), edita tra il 1729 e il 1738. Nella sua Rinunzia davanti a notaro al
Vocabolario della Crusca Alessandro Verri polemizzava contro tutte le questioni antiche in merito alla lingua
che non avevano portato a nessun risultato nell’evoluzione della lingua italiana. La veemenza degli attacchi,
che ormai da tempo venivano sferrati contro la Crusca, portarono il Granduca Pietro Leopoldo ad abolire
l’autonomia dell’Accademia nel 1783.
Nonostante la questione si protraesse da tempo fu solo nell’ultima edizione del Saggio sulla filosofia
applicata alla lingua italiana di Melchiorre Cesarotti del 1800 (prima edizione 1785, seconda edizione 1787,
ultima edizione nel 1800) che vennero teorizzate tutte le questioni relative all’idioma nazionale discusse tra
Seicento e Settecento. Trattandosi di un saggio filosofico, quest’ultimo affronta tematiche universali: non
esiste naturalmente una sola lingua nazionale, nella realtà molti dialetti coabitano in una nazione; dunque,
non esiste una lingua perfetta che possa prevalere sulle altre (il fiorentino è solo un dialetto che ha avuto
più fortuna degli altri); la lingua scritta e la lingua orale non sono la stessa cosa, presentano delle differenze
(la lingua scritta è molto più controllata rispetto a quella parlata, inoltre la lingua orale è più contestuale);
esistono differenze tra la lingua dei dotti e quella del popolo e bisogna pertanto trovare un compromesso
(quello che noi abbiamo definito uno standard); secondo il genio retorico ogni lingua si può ampliare
attraverso processi analogici, prestiti dalle lingue classiche, forestierismi e neologismi; il genio grammaticale
riguarda la tipologia e la struttura che possiede ogni lingua ed è per questo immutabile; non esiste pertanto
il genio della lingua di cui parlavano i francesi.
Solo la quarta sezione è dedicata nello specifico alla questione italiana. Cesarotti parla della riforma
lessicografica e propone di sostituire il Vocabolario della Crusca con due opere, una dedicata ai dotti con le

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etimologie, e una dedicata al popolo semplificata di tutti gli elementi troppo colti; bisognava però tenere in
considerazione i termini tecnico-scientifici. Propose inoltre l’istituzione di una commissione, riguardante la
lingua italiana, con sede a Firenze, da sostituire all’Accademia della Crusca per poter supervisionare e dare
delle direttive sulle questioni linguistiche (questa cosa ritornerà con Manzoni).
Il Cesarotti ebbe però molti detrattori, tra cui il Monti e il Gozzi. Altri vocabolari settecenteschi sono: quello
del Bergantini (1725) che contiene voci scientifiche degli autori letterari, ed è pertanto una sorta di
compromesso tra la Crusca (vocabolario storico) e l’enciclopedia; il D’Alberti di Villanova (1797-1805) che
un Dizionario universale critico enciclopedico di tipo francese.
Nel Settecento l’insegnamento della grammatica entra anche nella scuola non ecclesiastica. Alcune
grammatiche sono impostate sul confronto tra il latino e l’italiano. Grammatica innovativa di stampo
illuminista fu quella di Francesco Soave intitolata Gramatica ragionata della lingua italiana (1771).
Manzoni e il dibattito linguistico nell’Ottocento  Dopo Dante e Bembo la riflessione più profonda sulla
lingua italiana è stata quella di Alessandro Manzoni. La riflessione manzoniana si inserisce nel movimentato
dibattito ottocentesco sulla lingua.
Nell’Ottocento le idee cosmopolite dell’Illuminismo settecentesco lasciarono il posto alla riscoperta delle
radici nazionali promossa dal Romanticismo. A questo nuovo approccio localistico si collegava il problema di
trovare una lingua per l’Italia (un problema concreto che si abbina a un approccio storico).
Vi furono una serie di correnti, fra le quali:
 Il Purismo  Nel 1809 l’Abate Cesari vinse un concorso bandito dall’Accademia di Livorno sulla lingua
italiana e sui modi per preservarla con la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana. L’opera
era una replica al francese nuovo latino proposto dal Rivarole e sottolineava la preminenza del modello
toscano trecentesco aureo (data dall’idea che tutti in Toscana nel Trecento utilizzassero una lingua ottima).
Tra il 1806 e il 1811 il Cesari si dedicò alla revisione della Crusca, la cosiddetta Crusca veronese, riesumando
termini che le Crusche precedenti avevano eliminato perché percepiti come troppo desueti. Basilio Puoti
aprì una famosa scuola a Napoli e allargò il canone della buona lingua anche al Cinquecento.
 Il Classicismo  Vincenzo Monti tra il 1817 e il 1826 scrisse la Proposta di alcune aggiunte e correzioni
al Vocabolario della Crusca. L’opera era legata al rifiuto ricevuto nel 1816 da parte dei Cruscanti di fare un
vocabolario insieme. La critica si rivolgeva al metodo filologico usato dai Cruscanti e alle loro etimologie
fantasiose.
 Il Neotoscanismo  Esponente di questa corrente fu Niccolò Tommaseo che elaborò due dizionari in
cui il toscano risultava la lingua guida; nel 1830 abbiamo il Dizionario dei Sinonimi e nel 1861-79 il
Dizionario storico Tommaseo-Bellini in cui sono presenti numerosissime forme locali toscane (normalmente
dette riboboli). Il Tommaseo-Bellini è il primo vocabolario storico ed è come se fosse il padre del Dizionario
Battaglia (che è un’opera monumentale che fa la storia delle parole).
Il problema della lingua fu una costante del pensiero di Manzoni anche se non si evince in maniera forte in
tutte le sue opere.
Lettera al Fauriel (1806)  Appena ventunenne, trasferitosi a Parigi, Manzoni mostrò coscienza del potere
della letteratura e dei suoi fini educativi e evidenziò rammarico per l’impotenza della lingua italiana
impossibilitata a veicolare concetti concreti a causa della sua “forma letteraria” adatta a temi retorici e
fizionali (attacco al manierismo montiano), mentre i francesi potevano comprendere la lingua di autori di
secoli antecedenti e trarne vantaggio. Egli considerava l’italiano scritto una lingua morta, non adatta al
presente. La sua insofferenza era rivolta ad una lingua che presentava un divario troppo grande tra lo
scritto e il parlato, inadatta all’uso quotidiano come a quello letterario moderno, una lingua poco diffusa ed
elitaria (Manzoni fa riferimento all’italiano su base fiorentina veicolata attraverso i letterati).
Manzoni desiderava che la scrittura si facesse da sola, senza l’artificiosità dell’autore, ma si trovò di fronte a
due problemi insormontabili: la lingua italiana non era unica e non aveva una norma e inoltre non era
posseduta da tutti, quindi non poteva esserci comunicazione diretta tra autore e lettori/spettatori. In quel
periodo, dunque, Manzoni cominciò a interrogarsi sulla lingua che doveva essere in grado di argomentare
dei concetti, concetti relativi ai nobili pensieri dell’educazione e della condizione umana, ma era ancora
lontano dall’idea di lingua comune che diventerà il suo obiettivo. Mediante le sue riflessioni sulla
letteratura giunse al binomio utile/vero ripudiando il verisimile a favore del vero storico nel 1820.

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Nel 1819 con le Osservazioni sulla morale cattolica Manzoni lasciò la poesia per passare alla prosa. Il suo
periodare era di tipo francese, preciso e progressivo, in modo da favorire la fluidità del pensiero; egli
considerava infatti il periodo di tipo boccacciano (un po’ barocco) caratteristico della letteratura fizionale
italiana e quindi non adatto ad altri tipi di argomenti.
Nella Lettera al Fauriel (del 1821) Manzoni confessa la sua difficoltà a trovare una lingua per il romanzo
storico (ammettendo questa debolezza della lingua italiana); a differenza dei francesi che possiedono una
lingua in cui si possono esprimere concetti filosofici e reali (illuminismo), gli italiani possedevano una lingua
adatta solo ad esprimere cose inventate e piacevoli.
Nella prima introduzione al Fermo e Lucia (1821) ironizzava sul fatto che i classicisti e i puristi potessero
preferire il testo che lui fingeva di aver trovato al suo. Si pose in antitesi al fantomatico autore anonimo del
manoscritto che aveva utilizzato uno stile ampolloso e retorico, evidenziandone tutte le caratteristiche
barocche: l’ibridismo linguistico; la sgrammaticatura; la disorganicità del periodare; l’abuso di metafore; lo
sfoggio di rozza retorica. Esponendo un programma di stile e di lingua meditato ed organico basato sull’uso
utile e responsabile della lingua e sul suo potere (la lingua ha un potere grandissimo, poiché, quando viene
usato in modo positivo, è ciò che consente di unire tutte le persone, viceversa come si suol dire “la lingua
ferisce più della spada”  la lingua non si può imporre).
13-05-2021
Pur non rinnegando la tradizione Manzoni pensava che il giusto equilibrio risiedesse: in un andamento del
discorso piano e naturale; nel ricorso a una retorica di buon gusto nei momenti di maggior pathos; nel
ricorso a forestierismi e toscanismi (cioè una maggiore apertura nei confronti di forme non locali e un
ricorso a un patrimonio linguistico che viene percepito come modello all’interno della tradizione
linguistica).
Nella seconda introduzione al Fermo e Lucia (1823) Manzoni ammette di aver utilizzato un composto
indigesto e mistilingue di forme lombarde, toscane, francesi e latine. L’introduzione è una continua
excusatio per la lingua adottata, che è il motivo della mancata pubblicazione della stesura. In realtà l’opera
è (come notano alcuni studiosi moderni come Vitale e Sabatini) fondamentalmente toscaneggiante sia dal
punto di vista lessicale sia nella sintassi.
Nel 1824 iniziò la revisione linguistica del suo romanzo cercando di correggere l’impostazione mistilingue
della prima stesura. Dopo il 1822 Manzoni decise di abbandonare la poesia perché non concepiva più la
possibilità di usare due lingue, una per la prosa e una per la poesia, evidenziando la necessità di abbinare la
lingua e l’argomento.
Nella prima edizione dei Promessi Sposi (1824-1827) Manzoni postilla la IV Crusca, quella veronese del
Cesari, cercandovi le corrispondenze tra toscano e milanese (confrontandola con il Vocabolario milanese
del Cherubini) e integrandola con spogli di scrittori toscani aperti all’influenza del parlato o alle forme
straniere. Cerca di crearsi uno strumento utile a riprodurre vari registri e varie forme comunicative. Il suo
obiettivo era quello di una lingua comune, media e adatta alla conversazione.
Manzoni sosteneva che il requisito fondamentale di una grande cultura nazionale è l’esistenza di una lingua
comune utile all’esposizione delle idee. Il suo ideale di lingua comune si basava sull’interscambiabilità tra
scritto e parlato (l’eliminazione delle parole disdicevoli dell’oralità e di quelle troppo affettate della
scrittura).
Il tosco-milanese della Ventisettana scaturì dalla riflessione linguistica manzoniana, poiché il toscano era,
per motivi storico-culturali, l’unica varietà in Italia a poter assumere il ruolo di lingua comune, mentre il
milanese era la sua lingua madre. Lavorare su vocabolari scritti però non lo aiutò a modernizzare la lingua
(perché il suo lavoro andava così a focalizzarsi sui modelli scritti passati, non troppo contemporanei a lui).
La ricerca del vero e non del verisimile che lo aveva assillato durante il periodo della riflessione sul teatro
rifiorì. Il soggiorno a Firenze del 1827 segnerà il punto di svolta verso la lingua dell’uso vivo fiorentino colto
che si troverà nell’edizione Quarantana, poiché a suo avviso questa città rappresenta per la maggior parte
dei tratti l’intera Toscana. Tra gli informatori più utilizzati una nutrice e un commediografo, chiamati a dare
giudizi di accettabilità alle forme proposte da Manzoni. In una lettera dello stesso anno Tommaso Grossi
parla della famosa “risciacquatura dei panni in Arno”.
Polemica con il Cesari  Manzoni polemizzò contro l’opera Dissertazione sopra lo stato presente della
lingua italiana dell’Abate Cesari (pubblicata nel 1808 ma letta da Manzoni nel 1830) con il trattato Della

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lingua italiana che vide cinque stesure tra il 1830 e il 1859 ma che rimase comunque incompiuto. Il primo
capitolo è una lunga dissertazione sulla concezione manzoniana di lingua; il resto dell’opera è invece volta a
dimostrare scientificamente cosa è una lingua, cosa è la lingua italiana, quali sono i motivi della sua
diffusione/non diffusione. L’impianto è di tipo didattico e si rivolge ad un ipotetico ascoltatore indifferente
alle tematiche linguistiche che fa tre domande, a cui Manzoni risponde con domande retoriche e lunghi
monologhi. Manzoni attacca le regole fisse della grammatica sensistica e razionalistica orientandosi invece
verso l’empirismo e lo storicismo. All’idea di una grammatica universale contrappone dunque l’uso, anche
se è ancora ben lontano dal modello dell’uso vivo fiorentino coevo che proporrà nella Quarantana dei
Promessi Sposi. Al concetto giusto/sbagliato Manzoni sostituì quello molto moderno di uso/disuso.
L’attacco al purismo del Cesari si basava sull’ideale di predominio della scrittura sull’oralità e sul pensiero
che siano gli scrittori e non l’uso a decretare la bontà di una lingua.
L’attacco agli idéologues francesi e alla grammatica di Port Royal si basava, invece, sulle loro teorie riguardo
alla nascita del linguaggio e sul loro pensiero razionalistico: per Manzoni il linguaggio è un dono di Dio e
nessuno uomo è mai stato privo di linguaggio. La lingua deve essere viva e adeguata al periodo storico in
cui la si usa (uso e adeguatezza). Le lingue mutano nel tempo per questo non esistono regole né categorie
grammaticali immutabili. L’opera rimase incompiuta perché la lunga stesura del testo inficiò la sua efficacia;
nel frattempo infatti il dibattito linguistico Ottocentesco si era evoluto.
14-05-2021
Il Sentir messa (1836)  L’opera venne scritta per difendere l’amico Tommaso Grossi, che aveva pubblicato
il romanzo Marco Visconti, dalla recensione del Panza che lo accusava di aver utilizzato espressioni milanesi
e lombarde. Naturalmente anche la Ventisettana dei Promessi Sposi di Manzoni era stata menzionata.
All’inizio la difesa venne scritta insieme dai due autori accusati, ma ben presto Manzoni ne fece una
questione personale argomentando le proprie idee sempre attraverso ipotetici dialoghi con il lettore,
domande retoriche, ecc…
Argomenti dibattuti nella contesa sono: il rapporto tra dialetto toscano e lingua comune; il concetto di uso
(cosa vuol dire uso e quale tipo di uso: alto, medio, basso); fallacia delle lingue imposte arbitrariamente; la
critica a quegli autori (Monti, Perticari) che adottano soluzioni antifiorentiniste senza porsi assolutamente il
problema della natura sociale della lingua. Manzoni giunge nuovamente alla conclusione che non è più
necessario trovare le convergenze tra milanese e toscano (come aveva già tentato di fare nella
Ventisettana), perché l’obiettivo dev’essere quello di una lingua viva e vera che lui aveva individuato nel
fiorentino contemporaneo del ceto colto.
Edizione quarantana dei Promessi Sposi (1840-1842)  Il fiorentino dell’uso contemporaneo colto è
dunque la lingua scelta per la seconda edizione. Manzoni cerca soprattutto modi di dire che possano
rendere veri i dialoghi (modi che scelse attraverso degli informatori, fra cui una nutrice ed un
commediografo).
La Crusca non accolse la proposta del fiorentino contemporaneo di Manzoni (poiché la Crusca guardava al
Trecento), ma la schiera degli imitatori manzoniani ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione di questo
modello linguistico. Tra i detrattori di Manzoni c’erano molti settentrionali (Cantù, Verdi, ecc…) che non
comprendevano la sua volontà di aver voluto cancellare la sua naturale inclinazione linguistica lombardo-
milanese.
I tratti linguistici che cambiano tra Ventisettana e Quarantana sono fondamentalmente fonologici e
morfologici e tutti di matrice fiorentina, mentre dal punto di vista lessicale ai fiorentinismi troppo marcati (i
riboboli) vengono preferite forme toscane percepite come comuni a tutta la penisola.
Per quanto riguarda la fonetica, i passaggi sono: la riduzione dei dittonghi discendenti (ai  a’);
l’incremento dell’elisione (ci erano  c’erano); l’apocope nei sintagmi specialmente dopo nasale (abbiamo
voluto  abbiam voluto); l’eliminazione della d eufonica tranne nei casi in cui segue la stessa vocale (ed io
 e io), regola ancora oggi usata; la tendenza all’eliminazione della protonia sintattica (ex. il mantenimento
di de al posto di di); la tendenza alla labializzazione vocalica; la monottongazione del dittongo posteriore
dopo palatale (figliuòlo > figliòlo), uno dei fenomeni più importanti dell’edizione quarantana; i suffissati in -
icio  -izio (ex. beneficio  benefizio); una sorta di rilatinizzazione -ch-  -cl- (ex. conchiuso  concluso);
la semplificazione di grafie etimologiche (ex. -ii  -i); l’eliminazione delle varianti (ex. veggio/vedo  vedo;
tra/fra  tra; giovane/giovine  giovane; domandare/dimandare  domandare). Per quanto concerne la

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morfologia: si ha la semplificazione dell’interrogativa, quindi al posto di dire Che cosa?, già Manzoni diceva
Cosa? (ed è la stessa cosa che accade oggi); la proclisi del pronome nei costrutti impersonali (ex. suol dirsi
 si suol dire); il locativo vi  ci (altro elemento presente nell’italiano della neo-standardità); lui/lei/loro
soggetto; il tipo a loro  gli; la preposizione articolate usata per eliminare la doppia preposizione (ex. in su
la  sulla); l’eliminazione delle preposizioni articolate in alcuni casi (ex. pel  per il; col  con lo);
l’imperfetto in -o di prima persona al posto di quello etimologico in -a (la forma in -o è una forma analogica
rifatta sulla prima persona del presente indicativo). Per quanto riguarda il lessico, la presenza di forme
lessicali che “mutano”: pigliare (anche se è ancora presente nell’italiano, è marcato dal punto di vista
diafasico)  prendere; modo  maniera; a furia  a iosa.
Nella Lettera al Carena (1847) Manzoni scrive a Giacinto Carena che aveva pubblicato nel 1846 il
Vocabolario domestico criticando le forme non fiorentine presenti nel volume (chiaramente percepite come
marcate, in quanto forme che hanno un loro valore all’interno di una particolare area); a suo avviso infatti
tutti i geosinonimi menzionati dall’autore erano contrari al modello di lingua comune proposta da lui. Nella
lettera si trova la prima testimonianza del principio per cui l’italiano comune corrisponde per Manzoni al
fiorentino vivo.
Nel 1868 il Ministro della Pubblica istruzione Broglio (incaricato nel 1867) nomina una commissione
presieduta da Manzoni per suggerire delle direttive per l’alfabetizzazione. La commissione è suddivisa in
due sottocommissioni, una milanese e l’altra fiorentina (quindi è di nuovo presente la dicotomia fra Nord e
Toscana). Manzoni scrisse una relazione, Sulla lingua italiana comune e sul modo di diffonderla (1868), in
cui sollecitava l’inserimento dello studio del fiorentino vivo nel programma scolastico della prima scuola
dell’Italia Unita (ricordiamo che siamo a ridosso dell’unificazione italiana) proponendo: la compilazione di
un vocabolario redatto sull’uso vivo colto di Firenze (il suo modello della Quarantana); voleva che i maestri
fossero toscani o che vivessero almeno due anni in Toscana per imparare la lingua (cosa assolutamente
antidemocratica); l’erogazione di sussidi statali ai comuni che impiegavano maestri di origine toscana. I
Promessi Sposi divennero così il libro scolastico più diffuso per imparare l’italiano nei primi anni
dell’unificazione nazionale (così come la Divina Commedia viene studiata per comprendere l’italiano
trecentesco). La sottocommissione toscana, presieduta dal Lambruschini, proponeva invece: l’uso del
fiorentino del popolo contadino (e non quello colto) perché incorrotto; un vocabolario unico che integrasse
soltanto i vocabolari già pubblicati. Manzoni decise di dimettersi per incompatibilità con la
sottocommissione toscana, ma Broglio decise di nominare la Giunta che doveva presiedere alla stesura del
vocabolario secondo le direttive date da Manzoni e quindi un vocabolario che si rifacesse all’uso vivo colto
di Firenze, autonominandosi Presidente e nominando Vicepresidente Giorgini, genero di Manzoni. Il
vocabolario, che prese il nome di Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-97) –
meglio conosciuto come Giorgini-Broglio – aveva un impianto sincronico e si concentrava molto sugli ambiti
d’uso. Non ebbe però grandissima fortuna, perché i parlanti erano molto marcati dal punto di vista
diatopico e la lingua non poteva quindi essere imposta dall’alto. Naturalmente ci furono molti attacchi al
vocabolario Giorgini-Broglio: Tommaseo e Fanfani ritenevano che il toscano dovesse essere quello
esemplato sugli autori antichi non sul fiorentino vivo; Settembrini pensava che il fiorentino non avesse più
dignità delle altre varietà toscane, ugualmente degne di assurgere a modello; Capponi sosteneva che il
vocabolario desse un’eccessiva importanza al lessico in un’operazione di risistemazione linguistica, poiché
la lingua è fatta non solo di lessico ma di molti altri elementi.
L’apice della polemica si raggiunge nel 1873 quando il linguista Graziaddio Isaia Ascoli (un grandissimo
linguista che ha fondato l’Archivio Glottologico italiano, una rivista ancora oggi esistente) nel Proemio
all’Archivio Glottologico italiano di quell’anno (il primo volume di quest’opera) attacca l’idea manzoniana di
imporre dall’alto la lingua comune. Ascoli sostiene che solo potenziando lo scambio culturale si potrà
raggiungere una lingua comune e condivisa e abbattere il localismo del primo periodo postunitario. Ascoli
sostiene che in Italia non si possa imporre un modello cittadino come è avvenuto per Parigi, poiché in
Francia il potere politico e culturale della capitale avevano fatto sì che la lingua dell’ lle de France venisse
percepita da tutti come la lingua comune della nazione; la storia linguistica dell’Italia è invece più simile a
quella della Germania, dove un movimento religioso, la Controriforma del ‘500, favorì in un determinato
momento storico l’unione culturale-religiosa e insieme linguistica del Paese. Ascoli segnala Roma come
centro di promozione di questa lingua unitaria, poiché sede politica del nuovo Stato. Francesco D’Ovidio

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fece da mediatore tra Ascoli e Manzoni, evidenziando la necessità di ridimensionare l’uso vivo ma
sottolineando comunque l’indubbia origine fiorentina dell’italiano.
Inizia quindi la fioritura delle grammatiche scolastiche: Morandi_Cappuccini (1897) basata sulle indicazioni
manzoniane, dove viene abolito l’imperfetto di prima persona singolare in -a, ma presenta poca fiducia per
lui/lei soggetto e per gli al posto di a loro; Collodi (1883) (che ha avuto un ruolo importantissimo
nell’alfabetizzazione grazie a Le avventure di Pinocchio) con La grammatica di Giannettino, scritta in forma
dialogica tra maestro e scolaro, era pensata solo per le scuole elementari fiorentine perché conteneva le
regole di pronuncia fiorentina colta da sostituire al fiorentino plebeo.
Nonostante tutte le polemiche, l’idea manzoniana dell’italiano postunitario basato sull’uso vivo colto di
Firenze prese piede. L’alfabetizzazione avvenne più che mediante gli strumenti ufficiali (come il vocabolario)
attraverso testi “bassi” come i sillabari, i libri di lettura e i manuali per tecnici dell’amministrazione statale.
Va ricordato che molti autori di libri scolastici per la scuola di base e quindi per i bambini di quel periodo
furono toscani.
A questo punto venne a crearsi l’asse Roma-Firenze (1939), durante l’epoca fascista (ricordiamo che l’epoca
fascista è importante dal punto di vista linguistico poiché presenta la promozione dell’italiano a sfavore dei
dialetti che, percepiti come lingue subalterne e sfavorevoli all’unità, vennero sottoposti ad una politica
volta all’eliminazione dei dialetti), due linguisti, Bertoni e Ugolini, vennero chiamati a redigere un
prontuario di pronuncia da far usare agli annunciatori radiofonici; il modello proposto è toscano (non solo
strettamente fiorentino) e romano.
La morfologia verbale  Quando parliamo di una forma verbale le informazioni che ci vengono fornite
sono: la persona, il numero, il tempo, il modo, l’aspetto, la diatesi. Fondamentalmente la forma verbale è
costituita da una radice che è portatrice della semantica, la vocale tematica (a per i verbi in -are; e per i
verbi in -ere; i per i verbi in -ire) e il morfema flessivo che ci fornisce le informazioni su tempo, modo,
persona e numero.
Nei tempi semplici della diatesi attiva queste nozioni vengono veicolate dal morfema flessivo (ex. mangi o,
mangerei); nei tempi composti della diatesi attiva e di tutti quelli della diatesi passiva invece le notizie
vengono veicolate dagli ausiliari perché il secondo elemento nei tempi composti e nella diatesi passiva è
invariabile, poiché è il participio passato (ex. ho dormito; avete mangiato).
Andiamo a vedere i vari tipi che potremmo trovare: radice + morfema flessivo unico (ex. chiamò, mangio,
canti); radice + vocale tematica + il morfema che esprime tempo/modo/aspetto + il morfema flessivo che
rivela la persona e il numero (ex. mangi + a + v + o/i/a/amo/ate/ano); radice + morfema che indica
tempo/modo + morfema che indica persona/numero (ex. ascolt + er + ei/esti/ebbe/emmo/este/ebbero).
Per quanto concerne la persona e il numero: in italiano sono presenti sei persone che a volte si preferisce
dividere in singolari e plurali (1, 2, 3 singolari/1, 2, 3 plurali) e che appartengono solo ai modi finiti (quindi
non si hanno nell’infinito, nel gerundio e nel participio perché in questi casi la forma non è abbinata a
nulla); l’italiano mantiene una forte distinzione tra i morfemi indicanti la persona, pertanto non ha bisogno
del soggetto pronominale espresso obbligatoriamente (come invece succede in altre lingue); tuttavia, nei
casi di omomorfia in genere si esprime per evitare fraintendimenti (ex. congiuntivo presente che io parli/tu
parli/egli parli).
La categoria temporale esprime tre possibilità di realizzazione dell’azione nello spazio temporale: presente
(che esprime contemporaneità), passato (che esprime anteriorità; che è già avvenuto), futuro (che esprime
posteriorità; che deve ancora avvenire). L’azione può essere qualificata sull’asse cronologico: in maniera
assoluta (ex. Domani verrò a trovarti) o relativamente a un altro termine di riferimento contemporaneo o
non contemporaneo (ex. Domani quando avrò finito verrò a trovarti). Tale suddivisione permette di
individuare due tipologie temporali: i tempi deittici (che indicano il tempo dell’azione) e i tempi anaforici
(che indicano posteriorità o anteriorità rispetto a un altro tempo ricavabile dal testo o dal contesto). In base
alla loro struttura i tempi, in italiano, si dividono in: tempi semplici e tempi composti (questi ultimi formati
con l’ausiliare e il participio passato del verbo).
La categoria modale esprime una modalità della comunicazione instaurata dal mittente riguardante la
realizzazione dell’evento (certezza/incertezza) o codifica una dipendenza sintattica. I modi finiti sono:
l’indicativo (realtà), il congiuntivo (incertezza  desiderio, supposizione, ecc…), il condizionale
(condizionamento  in genere indipendente dalla volontà del soggetto) e l’imperativo (volontà di agire

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sull’interlocutore  ordine, preghiera, esortazione). I modi indefiniti sono: l’infinito, il gerundio e il
participio.
La diatesi esprime invece il rapporto tra verbo e soggetto/oggetto; la diatesi è attiva quando il soggetto
coincide con l’agente dell’azione (ex. i vigili dirigono il traffico); è passiva quando l’agente non è il soggetto
(ex. Carlo viene portato a scuola dal papà in macchina); è riflessiva quando soggetto e oggetto coincidono
(ex. Maria si lava  cioè Maria lava sé stessa).
La formazione delle coniugazioni  In latino c’erano 4 coniugazioni: -ĀRE, -ĒRE, -ĔRE, -ĪRE; in italiano
abbiamo solo 3 coniugazioni: -are, -ere, -ire, poiché nella seconda in -ere confluiscono sia la seconda latina,
sia la terza. Le neoformazioni e gli adattamenti da altre lingue appartengono in genere alla prima
coniugazione in -are, anche se alcune sono in -ire (poche); non esistono invece verbi “nuovi” appartenenti
alla seconda coniugazione (perché è la coniugazione più instabile, a causa dell’accentazione).
La prima coniugazione in genere è regolare; la seconda coniugazione raggruppa due tipi diversi latini, quello
in -ĒRE che ha dato le nostre forme parossitone (ex. cadére), e quella in -ĔRE che ha dato le nostre forme
proparossitone (ex. lèggere, piàngere) e, per tale ragione, dal punto di vista produttivo non è più una
coniugazione vitale in italiano; la terza coniugazione oltre ai verbi in -ire (ex. dormire, partire) comprende la
sottoclasse dei verbi in -isc- che presenta l’ampliamento: nelle tre persone singolari e nella terza plurale
dell’indicativo e del congiuntivo presente (ex. finisco/finisci/finisce/finiscono – finisca/finiscano); nella
seconda singolare dell’imperativo presente (ex. finisci).
I verbi in -isc- sono detti incoativi e in italiano sono circa cinquecento, quindi un numero piuttosto cospicuo
(e la tendenza contemporanea spinge verso l’estensione delle forme incoative). In genere gli incoativi
indicano un cambiamento di stato (ex. arrossisco = divento rosso; fiorisco = divento fiore da bocciolo); non
tutti gli incoativi in italiano però segnalano questo cambiamento (ex. fallisco non significa ‘cominciare a
fallire’; applaudisco non significa ‘cominciare ad applaudire’). Vi sono poi alcuni verbi che presentano la
doppia forma semplice e incoativa (ex. applaudo/applaudisco) anche se la tendenza contemporanea va
verso l’uso incoativo (ex. applaudiscono).
Formazione dell’indicativo presente
Prima coniugazione Seconda coniugazione Terza coniugazione
1. AMO > amo TĬM(E)O > témo SĔNT(I)O
Nella seconda e terza coniugazione si verifica la caduta della vocale tematica.
2. AMAS > ame > ami TĬMES > tèmi SĔNTĬS > sènti
Nella seconda coniugazione ES > i (la S prima di cadere palatalizza la E e la alza di grado, facendola
diventare una /i/). Stessa cosa accade per la terza coniugazione (la S cadendo alza di grado la Ĭ – che
sarebbe dovuta diventare una e – e diventa una /i/). La prima coniugazione è analogica sulle altre due (per
questo abbiamo la forma in -i, anziché la forma che etimologicamente avrebbe dovuto essere in -e).
3. AMA(T) > ama TĬME(T) > téme SĔNTI(T) > sènte
4. AMAMUS > amiamo TIMEAMUS > temiamo SENTIAMUS > sentiamo
Dalla seconda metà del Duecento a Firenze le forme etimologiche amamo < AMAMUS, tememo <
TIMEMUS e sentimo < SENTIMUS vengono sostituite da quelle con desinenza -iamo derivata dal
congiuntivo presente di seconda e quarta coniugazione (rispettivamente < -EAMUS/-IAMUS). La prima
coniugazione si riformula analogicamente sulle altre due. Alcuni studiosi ritengono che la forma ricostruita
*SIAMUS sia stata in qualche modo trainante per la formazione del tipo in -iamo.
5. AMATĬ(S) > amate TIMETĬ(S) > temete SENTITĬ(S) > sentite
6. Le seste persone non si sviluppano etimologicamente dalle basi latine corrispondenti AMANT, TIMENT,
SENTIUNT ma si formano per analogia su SUNT > sono. In un primo momento -NT cadde dando vita a
collisione con le forme della terza, per questo venne aggiunto il -no analogico da sono (percepito come
morfema di sesta persona).
amano temono sentono
Nella seconda e nella terza coniugazione si verifica la caduta della vocale tematica.
Uso dell’indicativo presente
Indica la contemporaneità dell’azione (ex. Luigi mangia). Si può anche utilizzare come presente iterativo o
abituale: indica un’azione non puntuale nel momento dell’esecuzione bensì estesa nel tempo, riferibile a
passato, presente e futuro (ex. Luigi non fuma; Carlo non mangiai legumi). Può essere usato come presente
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acronico (quello solitamente usato nelle sentenze o nei proverbi): indica un evento in generale (ex. Chi
dorme non piglia pesci; Non stuzzicar il can che dorme). Infine, il presente storico (usato nella prosa storica
o nelle fiabe) (Ex. Manzoni scegli per la Quarantana il fiorentino contemporaneo dell’uso medio).
Formazione dell’indicativo imperfetto
Prima coniugazione Seconda coniugazione Terza coniugazione
1. AMABA(M) > amava > amavo TĬMEBA(M) > temevo SĔNTI(Ē)BA(M) > sentivo
2. AMABAS > amavi TĬMEBAS > temevi SĔNTI(Ē)BAS > sentivi
3. AMABA(T) > amava TĬMEBA(T) > temeva SĔNTI(Ē)BA(T) > sentiva
4. AMABAMŬ(S) > amavamo TIMEBAMU(S) > temevamo SĔNTI(Ē)BAMU(S) > sentivamo
5. AMABATĬ(S) > amavate TIMEBATI(S) > temevate SĔNTI(Ē)BATI(S) > sentivate
6. AMABA(NT) > amavano TIMEBA(NT) > temevano SĔNTI(Ē)BA(NT) > sentivano
Nella terza coniugazione si verifica una ritrazione d’accento sulla vocale tematica -i- e caduta della Ē. La
sesta persona è analogica su quella dell’indicativo (e a sua volta analogica sugli sviluppi di SUNT > sono).
Uso dell’indicativo imperfetto  L’imperfetto è un tempo di tipo aspettuale (che ci segnala un valore di
incompiutezza e duratività), che segnala un’azione incompiuta nel passato, o meglio, un’azione di cui non si
danno le coordinate (inizio e fine) (ex. Maria mangiava una mela; Giacomo faceva colazione).
1. Imperfetto descrittivo (ex. C’era la luna piena quella sera…).
2. Imperfetto iterativo: sottolinea il carattere abituale di un’azione (ex. Facevamo colazione con i biscotti
al burro; Quando facevo l’Università prendevo il treno per andare a Bari).
3. Imperfetto narrativo o storico: larga diffusione nell’Ottocento e Novecento (ex. In battaglia rimaneva a
terra l’ufficiale tedesco, l’italiano ne usciva illeso; L’imputato si avvicinava minacciosamente alla parte
offesa puntando l’arma).
Questi primi tre indicano un’azione effettivamente avvenuta.
4. Imperfetto conativo: enunciazione di fatti rimasti a livello di progettazione, desiderio o rischio (ex.
Stavamo rischiando di rimanere a terra; Eravamo pronti per partire quando arrivò la telefonata di Luca).
5. Imperfetto di modestia o di cortesia (ex. Volevo un etto di mortadella per cortesia; Venivo per parlarti)
6. Imperfetto irreale: sostituisce l’imperfetto congiuntivo e il condizionale passato nel periodo ipotetico
dell’irrealtà al passato (ex. Se mi avessi chiamato sarei venuto  Se mi chiamavi venivo; Se fossi venuto
prima avresti trovato posto  Se venivi prima trovavi posto).
7. Imperfetto di fantasia, anche detto onirico (quello usato per raccontare i sogni) o ludico (quello che
viene usato dai bambini quando inventano i giochi) (ex. Ho sognato che stavo al mare e nuotavo;
Giochiamo che tu eri la principessa e io la fata?).
8. Imperfetto prospettivo: si usa al posto del condizionale composto per indicare l’idea del futuro nel
passato (ex. Era arrivata la sera prima ma aveva detto che ripartiva nel pomeriggio appena finita la
riunione); questa forma si usa nell’oralità ma si tende a censurarla nello scritto; più frequentemente viene
usato nel discorso indiretto (ex. Mi aveva detto che sarebbe venuto  Mi aveva detto che veniva)
Questi cinque indicano invece una trasposizione del mondo reale in uno immaginario o supposto (qualcosa
che appartiene alla sfera del pensiero).
Formazione dell’indicativo passato remoto
(perfetti deboli derivati dalla prima coniugazione in -AVI e dalla quarta coniugazione in -IVI)
Prima coniugazione Terza coniugazione
1. AMA(V)I > amai SĔNTI(V)I > sentii
2. AMA(VI)STI > amasti (prima della caduta della SĔNTI(VI)STI > sentisti
sillaba si ha una ritrazione dell’accento)
3. AMAV(IT) > amò (si ha la monottongazione di SĔNTI(V)I(T) o SĔNTIV(I)(T) > senti
au > o)
4. AMAV(Ĭ)MŬ(S) > amammo (assimilazione SĔNTIV(Ĭ)MŬ(S) > sentimmo
regressiva di vm > mm)
5. AMA(VĪ)STĬ(S) > amaste (vi è una ritrazione SĔNTI(VĪ)STĬ(S) > sentiste
dell’accento sulla vocale tematica)
6. AMA(VĒ)RU(NT) > amarono (vi è una SĔNTI(VĒ)RU(NT) > sentirono
ritrazione dell’accento sulla vocale tematica)
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La /v/ era probabilmente pronunciata dai latini come [wɔ].
La sesta persona è analogica su quella dell’indicativo (a sua volta analogica sugli sviluppi di SUNT > sono).
(perfetti deboli derivati dalla seconda coniugazione in -ERE)
1. TIMUI viene sostituita dalla forma parallela analogica - TIME(V)I > temei
2. TIM(U)ĬSTI > temesti
3. TIM(U)I(T) > temè
4. TIMUĬMUS viene sostituita dalla forma parallela analogica – TIMEV(I)MUS > tememmo
5. TIM(U)ĪSTIS > temeste
6. TIM(U)ERU(NT) > temero (poi temerono con aggiunta di -no morfema della sesta persona)
Fin dal Duecento però alla prima, terza e sesta persona si affiancarono delle forme parallele in -etti, -ette,
-ettero analogiche su stetti (< *STETUI): io temetti, egli temette, essi temettero (in alcuni casi queste forme
analogiche sono andate a sostituire le forme etimologiche).
(perfetti forti)
I perfetti forti sono accentati sulla radice e non sulla desinenza; riguardano prima, terza e sesta persona
1. DĔDI > dièdi (H)ĒBUI > ébbi VŎLUI > vòlli
3. DĔDI(T) > diède (H)ĒBUI(T) > ébbe VŎLUI(T) > vòlle
6. DĔDĒRŬ(NT) > dièdero (H)ĒBUERŬ(NT) > ébbero VŎLUERŬ(NT) > vòllero
Accanto a questi ci sono anche i sigmatici (cioè quelli che presentano una sibilante):
1. DĪXĪ > dissi SCRĪPSĪ > scrissi MĪSĪ > misi
3. DĪXĬ(T) > disse SCRĪPSĬ(T) > scrisse MĪSĬ(T) > mise
6. DĪXERU(NT) > dissero SCRĪPSERU(NT) > scrissero MĪSERU(NT) > misero

Formazione dell’indicativo passato prossimo


Questo tempo in latino era assorbito dal passato remoto. In italiano è un tempo composto. Si costruisce
con forme coniugate dell’ausiliare + participio passato del verbo (ex. ho mangiato, sono andato). Nel latino
volgare presero piede perifrasi come, ad esempio, COGNITUM HABEO in cui però il valore del verbo
HABERE era ancora pieno (di possesso) non di ausiliare.

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