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Riassunto - libro "La lingua italiana. Storia, testi, strumenti." -


Claudio Marazzini

Istituzioni di linguistica (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

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LA LINGUA ITALIANA: STORIA, TESTI, STRUMENTI – Marazzini


L’italiano, oltre che nel territorio della Repubblica italiana, è parlato anche a S.Marino, nel Vaticano, in alcuni
Cantoni della Svizzera, in zone della Slovenia e della Croazia. Inoltre esistono comunità di emigrati italiani in
tutto il mondo. Entro i confini della Repubblica italiana si parlano poi altre lingue minoritarie; si parla di
“penisole” o “propaggini” di alloglotti quando aree linguistiche confinanti si estendono anche all’interno del
nostro territorio nazionale; si parla invece di “isole linguistiche” o “colonie” per indicare comunità di alloglotti
molto piccole e isolate. In alcune zone del Piemonte si parla il provenzale, che si ritrova anche in Calabria,
mentre in Valle d’Aosta si parla il franco-provenzale, presente anche in due colonie della Puglia. Il ladino non
è un semplice dialetto, tanto che in Svizzera è una delle lingue ufficiali, e in Italia viene non solo parlato nelle
valli alpine dolomitiche, ma viene anche insegnato in alcune scuole. Il sardo può essere considerato una vera
e propria lingua ed è parlato da circa un milione e mezzo di persone. Grande importanza hanno le comunità
che parlano il dialetto tedesco, le quali chiamano il loro territorio Sud Tirolo, con evidente rovesciamento della
prospettiva italocentrica; in provincia di Bolzano la toponomastica è bilingue. In Calabria e in Puglia troviamo
due isole linguistiche greche. In Sicilia è presente un grosso centro chiamato Piana degli Albanesi, in cui vive
appunto una comunità di albanesi. Infine rientra in un flusso tradizionale e antico la presenza degli zingari.
L’Italia è la nazione europea più ricca e differenziata per varietà linguistica; in origine l’italiano era uno dei tanti
dialetti derivanti dal latino. La differenza tra dialetto e lingua non è assoluta, perché i due termini hanno valore
solo nel confronto reciproco: la lingua è un dialetto che per cause storiche ha raggiunto uno status superiore.
In genere il dialetto è usato in un’area più ristretta, ha un prestigio sociale minore ed è simbolo di un’identità
locale; inoltre non sempre ha una tradizione scritta. La lingua invece ha maggior diffusione, è simbolo di
un’identità nazionale, ha superiore dignità culturale, è insegnata a scuola ed è codificata da precise norme
grammaticali. Si possono distinguere in Italia 3 aree dialettali: settentrionale, centrale, meridionale, separate
da due grandi linee di confine, dette isoglosse:
-la linea La Spezia-Rimini
-la linea Roma-Ancona
L’italiano non è parlato in modo uniforme nell’intero territorio nazionale; vi sono marcate differenze a livello
fonetico, lessicale e sintattico. Esistono pertanto delle varietà diatopiche dell’italiano o, secondo De Mauro,
delle varietà regionali o italiani regionali. Il linguaggio è patrimonio di tutta la comunità dei parlanti. Mentre in
passato si riteneva che la lingua del popolo non avesse valore, nell’Ottocento si è cominciato a studiare
l’italiano dei semicolti, cioè delle persone solo parzialmente alfabetizzate. Antonio Gramsci in Quaderni dal
carcere nel 1935 aveva dedicato un paragrafo all’analisi dell’ italiano popolare, categoria che si è poi fissata
all’inizio degli anni Settanta per indicare la “parlata degli incolti di aspirazione sopradialettale e unitaria”. Il
toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, poiché questa deriva appunto dal
toscano trecentesco. Firenze è stata considerata per secoli la città in cui si poteva imparare a conversare nella
lingua migliore, anche se poi fiorentino e italiano non sono la stessa cosa. L’ italiano standard è una lingua di
tipo neutro, codificato dai grammatici e stabilmente diffuso a livello scritto; ma per quanto riguarda il parlato è
poco diffusa una lingua che sia priva di tratti diatopicamente e diastraticamente marcati. Lo standard non
garantisce l’assoluta omogeneità, in quanto anche dentro al parlato normato si infiltrano alcuni elementi
informali o regionali. Francesco Sabatini ha elaborato la categoria dell’ italiano dell’uso medio (o italiano
neostandard) sulla base di una serie di fenomeni grammaticali ricorrenti nell’italiano comunemente parlato
anche dalle persone colte nelle situazioni comunicative di media formalità. La differenza rispetto all’italiano

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standard sta nel fatto che questo italiano accoglie alcuni fenomeni colloquiali generalmente tenuti a freno dalla
norma grammaticale. Lo standard rappresenta dunque un italiano ufficiale e astratto, mentre l’italiano dell’uso
medio rappresenta una realtà diffusa che si avvicina allo standard.

Fonetica e grammatica storica


Mentre la grafia delle lingue naturali presenta ridondanze, l’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) è un
sistema grafico artificiale univoco, nato da una standardizzazione internazionale concordata. Ad ogni suono
corrisponde un segno grafico. Fu inventato da Graziadio Isaia Ascoli, padre della linguistica italiana nel
secondo ‘800.

La grammatica storica si occupa dello sviluppo diacronico della lingua, quindi nel nostro caso, del passaggio
dal latino all’italiano. Nell’analisi dei mutamenti dovremo usare segni e caratteri convenzionali: le basi latine
sono indicate in maiuscoletto, mentre i corrispondenti esiti italiani sono riportati in minuscolo corsivo. Il simbolo
> significa “dà origine a”, mentre il simbolo < significa “proviene da”. Le parentesi tonde racchiudono i suoni
della base latina che scompaiono durante la fase evolutiva. L’asterisco anteposto a una base latina indica che
quella forma non è attestata nel latino scritto, ma che gli studiosi ne ipotizzano l’esistenza nel latino volgare.
Questa disciplina si è sviluppata a partire dalla Germania e quindi anche i primi testi di grammatica storica
dell’italiano sono stati scritti in tedesco. Nel 1890 esce infatti la Italienische Grammatik dello svizzero Meyer-
Lubke, pubblicata poi in italiano nel 1901 a cura di Bartoli e Braun. Molto importante la celebre Grammatica
storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Gerhard Rohlfs. Una grammatica è uno strumento che
descrive sistematicamente una lingua, ne illustra le regole, suggerisce e talvolta impone scelte di carattere
normativo e di stile. La grande grammatica italiana di consultazione di Renzi e Salvi descrive l’uso reale della
lingua nei vari livelli comunicativi, segnalando l’esistenza di varianti regionali e di costrutti talvolta giudicati
scorretti dalla grammatica normativa ma possibili nel parlato (es: a me mi piace).

Strumenti
La storia della lingua italiana ha come oggetto di studio l’italiano in tutte le sue forme e in tutti i suoi impieghi,
dalle origini ad oggi. La prima cattedra di Storia della Lingua Italiana fu istituita nel 1937-38 nella Facoltà di
Lettere di Firenze e fu affidata a Bruno Migliorini, che pubblicò nel 1960 (in coincidenza con la celebrazione
dei 1000 anni della lingua italiana) il manuale Storia della Lingua italiana. Importanti in quegli anni furono
anche La Questione della Lingua di Maurizio Vitale e Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro. Negli
anni novanta uscirono invece tre grandi manuali di riferimento: Storia della lingua italiana diretto da Bruni,
Storia della lingua italiana diretto da Serianni e Trifone, e L’italiano nelle regioni diretto da Bruni. Per quanto
riguarda la metrica italiana il manuale di riferimento è Beltrami (2002) nel quale è anche tracciato un profilo
storico della versificazione dalle origini al ‘900. Per la retorica invece si prende come riferimento Mortara
Garavelli (2003). Molto utile anche il Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica diretto da Beccaria
(2004).
Gli atlanti linguistici rappresentano in forma cartografica la variazione dialettale di una determinata area,
regione o subregione, o zone estese o nazioni intere. Il primo atlante dialettale italiano fu l’ Atlante linguistico
ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS), in otto volumi stampati tra il 1928 e il 1940
realizzata dai dialettologi svizzero-tedeschi Jaberg e Jud. La nostra massima impresa dialettale su scale

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nazionale è in corso di realizzazione; si tratta dell’Atlante linguistico italiano (ALI) progettato nel secondo
decennio del Novecento da Bartoli. Dopo l’AIS sono stati realizzati alcuni atlanti linguistici regionali. Ricca e
affascinante è la storia della lessicografia italiana, per la quale si può ricorrere alle sintesi di Della Valle e al
Marazzini. Lo strumento lessicografico più comune è il dizionario dell’uso, che documenta in primo luogo la
lingua corrente. Ad esso ci si rivolge per risolvere problemi pratici, come dubbi sull’ortografia o la pronuncia,
sulla divisione sillabica, sui sinonimi, sugli ambiti d’uso, sugli impieghi metaforici. L’impostazione di questi
strumenti è sincronica, ma sono registrate anche parole e forme antiche, letterarie, gergali, regionalismi. Da
ricordare il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT) diretto da Tullio De Mauro, in cui sono state
introdotte le marche d’uso (in forma di sigle) accanto ad ogni singola parola, per indicarne il grado di diffusione
rilevato su base statistica.

I dizionari storici documentano il passato della lingua sulla base dei testi scritti: attestano gli usi e i significati
delle parole nel corso dei secoli. Il più importante dizionario storico dell’italiano è il Grande Dizionario della
lingua italiana noto come Battaglia, dal nome del fondatore, Salvatore Battaglia. Gli esempi in questo
dizionario sono tratti da un vastissimo corpus di scrittori di tutti i secoli, anche quelli di testi giornalistici e
scientifici. Il lemma è in neretto seguito dalla specificazione grammaticale e dall’indicazione dell’ambito d’uso;
la voce è divisa in accezioni. Ogni definizione della parola a lemma è seguita dai rispettivi esempi, citazioni
testuali rinvii a opere. Le sottovoci, precedute da un trattino, informano su usi più circoscritti e specifici del
termine. In chiusura è data l’etimologia della parola, preceduta dal segno =.
Strumento insostituibile per lo studio della lingua italiana dei primi secoli è il Tesoro della lingua italiana delle
Origini, un vocabolario storico di tutte le varietà dell’italiano antico, dalle origini al 1375 (data di morte di
Boccaccio). Il corpus contiene testi in versi e in prosa dei grandi maestri del Trecento, ma anche di moltissimi
minori, e raccoglie anche documenti non letterari.

I dizionari etimologici indicano l’origine delle parole di una lingua in modo molto dettagliato. Il DELI,
Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, di Cortelazzo e Zolli è uscito in 5 volumi e riaggiornato nel
1999 in un unico volume con CD-Rom. Le voci si articolano in due sezioni: una parte dà le indicazioni che
definiscono il termine e ne dichiarano la data di prima attestazione; la seconda parte è propriamente
etimologica, che si apre con l’etimo, seguito da ricche indicazioni bibliografiche sulla storia della parola.
Il Battisti-Alessio è più vecchio del DELI, ma più ricco di lemmi. Il LEI invece è un dizionario etimologico
altamente specialistico, diretto da Pfister e redatto in Germania (usando la lingua italiana): questo dizionario è
in fase di lavorazione (nel 2010 si era arrivati alla lettera C). Le parole non sono raccolte in ordine alfabetico
italiano, ma secondo la base etimologica. Infine esistono molti strumenti messi a disposizione in formato
elettronico o disponibili in Internet, utili perché permettono le ricerche in base a criteri diversi rispetto al
semplice ordine alfabetico, per la loro ricchezza di rimandi bibliografici e per la rapidità di consultazione.

1^ORIGINI E PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO


L’italiano, come le altre lingue romanze deriva dal latino, ma non dal latino letterario, bensì dal latino volgare.
La maggior parte delle parole italiane trova inoltre corrispondenza con quelle presenti in altre zone della
Romània, che è l’area romanza nel suo complesso, formata dalla penisola iberica, la Francia, l’Italia, una parte
della Svizzera e la Romania, le isole Baleari e la Corsica. Il latino volgare non è una lingua omogenea e non è

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un idioma vivo e vero; esso conteneva molte parole del latino scritto; altre erano presenti solo nel parlato; altre
ancora derivarono dal cambiamento di significato della parola del latino letterario. Tra i documenti di latino
volgare ha particolare rilievo la cosiddetta Appendix Probi (Probo è un grammatico che aveva tramandato
anche gli Instituta artium); essa è una lista di 227 parole considerate errate affiancate alle forme corrette
secondo il modello “A non B”. Non tutte le forme condannate dal maestro dell’epoca hanno dato luogo a
prosecuzioni nella lingua volgare; molte volte gli errori contengono in sé gli sviluppi della lingua futura; l’errore
è dunque una deviazione rispetto alla norma, ma in esso possono manifestarsi innovazioni importanti, e
quando l’errore si generalizza, diventa norma. Per spiegare i mutamenti della lingua gli studiosi fanno
riferimento: al sostrato (=strato che sta sotto), cioè la lingua vinta che influenza quella dei vincitori; al
superstrato, cioè le lingue che si sovrapposero al latino al tempo delle invasioni barbariche (superstrato goto,
longobardo, franco); all’adstrato, cioè le lingue confinanti. Gli Ostrogoti entrarono in Italia nel 489 guidati da
Teodorico e il loro regno finì nel 553 con la guerra intrapresa dagli eserciti di Giustiniano. La lingua gotica ci è
nota grazie alla traduzione della Bibbia fatta nel IV secolo dal vescovo Ulfila. I termini gotici entrati nell’italiano
sono una settantina. I Longobardi entrarono in Italia nel 568 e il loro domino durò a lungo fino alla venuta dei
Franchi nell’VIII secolo. L’insediamento dei Franchi avvenne ai vertici del potere militare e civile; e l’influenza
della lingua d’oltralpe si fece sentire nei secoli XI e XII: il Tresor di Brunetto Latini e il Milione di Marco Polo
furono scritti in francese. Ci fu un lungo lasso di tempo in cui il volgare esistette nell’uso, ma non fu usato per
scrivere. In questa fase non furono prodotti documenti, perché la lingua scritta era il latino medievale, diverso
sia dal latino classico sia dal latino volgare. A un certo punto, però il volgare si fece sentire nel latino
medievale, anche se solo nel XIII secolo alcune scuole di scrittori scelsero questa lingua volgare in maniera
sistematica e motivata.

I più antichi documenti


Gli atti notarili:
PLACITO CAPUANO del 960, di datazione molto precisa, nato da una piccola controversia giudiziaria di
portata locale. Viene considerato l’atto di nascita della nostra lingua. E’ un verbale notarile, scritto su
pergamena, riguardante il diritto di usucapione di alcune terre del monastero di Montecassino. Qui il contrasto
tra italiano e latino è netto, anche se si tratta di un latino che risponde ai caratteri propri dell’uso notarile
dell’epoca. La formula volgare viene ripetuta sempre identica, quindi non siamo di fronte a un frammento
“naturale” di lingua parlata, ma a una frase formalizzata, in un contesto interamente latino giuridico. I notai
erano la categoria che più aveva occasione di usare la scrittura e quindi è normale che siano stati loro i primi a
dare spazio alla nuova lingua volgare.
POSTILLA AMIATINA del 1087, è una postilla aggiunta alla fine di un atto in lingua latina conservato
nell’Archivio di Stato a Siena. Dal punto di vista linguistico si osserva la presenza di -u finali al posto delle –o
(caratteristica ancora presente nella zona del monte Amiata).
CARTA OSIMANA del 1151. Qui il volgare affiora non in una postilla ma all’interno del testo latino mediante il
quale il vescovo di Osimo dona all’abate di Chiaravalle di Fiastra la chiesa di S.Maria in Selva presso
Macerata.
CARTA FABRIANESE del 1186, pergamena conservata a Fabriano, con cui un nobile si accorda col
monastero di San Vittore circa la ripartizione dei “frutti” di un loro “consorzio”, una serie di possedimenti di cui
sono dati i confini e alcune indicazioni di toponimi.

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CARTA PICENA del 1193 è un rogito per una vendita di terre. La parte in volgare rende chiaro come la terra
ceduta fosse in realtà un pegno per garantire la restituzione di un prestito.
TESTIMONIANZE DI TRAVALE del 1158, sono due pergamene conservate a Volterra.
DICHIARAZIONE DI PAXIA databile tra il 1178 e il 1182 conservata a Savona.
Filone religioso:
FORMULA DI CONFESSIONE UMBRA databile tra il 1037 e il 1080 proveniente dalla zona di Norcia.
SERMONI SUBALPINI (sec.XII-XIII) una raccolta di prediche in volgare piemontese
CARTA PISANA (sec.XI-XII) scoperto in America e di proprietà della Free Library of Philadelphia, un elenco di
spese navali.
Iscrizioni:
NELLA CATACOMBA ROMANA DI COMMODILLA, (VI-IX secolo) un anonimo graffito tracciato sul muro. Si
tratta di un’antica testimonianza del parlato, antica all’incirca come i Giuramenti di Strasburgo.
NELL’AFFRESCO DELLA BASILICA SOTTERRANEA DI SAN CLEMENTE a Roma; qui compare un volgare
vivace ed espressivo, che comunque resta affiancato al latino; l’affresco fu dipinto alla fine dell’XI secolo e
rappresenta una storia miracolosa:il patrizio romano Sisinnio ha ordinato ai servi di catturare Clemente, ma i
servi in realtà trascinano una pesante colonna.
Il vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe nel XIII secolo, a partire dalla scuola poetica fiorita alla corte di
Federico II, la cosiddetta scuola Siciliana. Ma non mancano documenti precedenti a carattere poetico, scritti in
versi, quasi sempre legati alla poesia religiosa.
Primi testi letterari:
INDOVINELLO VERONESE, due note in scrittura corsiva, di cui la seconda in latino corretto e la seconda in
una lingua che fa pensare al volgare. Alcuni escludono che le due note siano state scritte dalla stessa mano.
RITMO BELLUNESE, quattro versi volgari in una memoria latina esaltante le vittorie delle milizie di Belluno e
di Feltre su quelle di Treviso nel 1193 e 1196.
CONTRASTO BILINGUE di Rambaldo di Vaqueiras, anteriore al 1194 tra un giullare che parla provenzale e
una donna che parla genovese, e in cui si fa riferimento alla differenza di lingua usandola con intento artistico.
DISCORDO PLURILINGUE dello stesso Rambaldo, in cui compaiono 5 idiomi diversi, il provenzale, l’italiano,
il guascone, il francese, il galego-portoghese.
CARTA RAVENNATE contiene versi d’amore, quindi questo fa pensare che anche in Italia, già prima dei
Siciliani, ci fosse una tradizione poetica italiana di genere lirico. Il primo testo della Carta Ravennate è una
canzone in 50 decasillabi, il cui verso iniziale suona “Quando eu stava in le tu’ cathene”. Il secondo testo si
compone di 5 endecasillabi di cui il primo è “Fra tuti qui ke fece lu Creature”.

IL DUECENTO
In Italia la prima produzione letteraria medievale in lingua volgare fu poetica e si ebbe in ambito colto,
nell’ambiente dell’imperatore Federico II di Svevia, nel XIII secolo, quando altre due letterature romanze si
erano già affermate: la lingua d’oc e la lingua d’oil. La poesia in lingua d’oc si era estesa anche al di qua delle
Alpi, tanto che troviamo poeti italiani che scrivono in provenzale. I Siciliani imitarono la poesia provenzale, ma
ebbero l’idea di sostituire a quella lingua straniera il volgare di Sicilia. La scelta del Siciliano insulare come
lingua letteraria fu dotata di un valore formale, fu scelta consapevolmente dagli scrittori.

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Nel Medioevo le poesie siciliane venivano trasmesse da copisti toscani, i quali spesso sostituirono sicilianismi
con toscanismi, arrivando al punto in cui non siamo più riusciti a capire se il toscano fosse la lingua originale
della poesia. Il Libro siciliano definitivamente perduto, conteneva alcuni testi poetici siciliani in una forma
molto diversa da quella comunemente nota. Barbieri, uno studioso del Cinquecento, esperto di poesia
provenzale, aveva trascritto alcuni di quei versi durante il lavoro per un libro, che non concluse mai, intitolato
L’Arte del Rimare. Le cosiddette Carte Barbieri rimasero inedite fino al Settecento, e contengono dei
frammenti e il testo intero di una canzone di Francesco Protonotaro “Pir meu cori allegrari”. La sicilianità è
vistosa, ma si notano alcuni adattamenti al toscano. L’eredità della Scuola Siciliana passò in Toscana e a
Bologna con i poeti siculo-toscani e gli stilnovisti, e a lungo durò la rima siciliana in tutto il linguaggio letterario.

La maggior parte del patrimonio della poesia in volgare del Duecento ci è tramandata da tre manoscritti:
-il Canzoniere Vaticano latino 3793, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, che ci trasmette un
migliaio di componimenti, tra i quali alcuni versi di Giacomo da Lentini (“Madonna dire vi voglio”) in cui
spiccano rime imperfette che mostrano il successivo adattamento al toscano di rime inizialmente in siciliano, e
“S’eo trovase Pietanza”, i versi iniziali della canzone di Re Enzo (figlio naturale di Federico II);
-il Laurenziano Rediano 9, conservato alla Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, che contiene
soprattutto l’opera di Guittone di Arezzo, poesia e lettere;
-il Palatino 418 della Biblioteca Nazionale di Firenze, di provenienza pistoiese, che è il meno esteso, ma
quello esteticamente più bello, perché miniato.
Il Cantico di Frate Sole di san Francesco è databile al 1223, è scritto in volgare con elementi umbri. Oggi è
un monumento di poesia, ma in ambiente francescano aveva solo valore di preghiera religiosa, tanto che non
fu nemmeno riportato nella Storia della Letteratura Italiana di De Sanctis. La tradizione delle “laudi” religiose
ebbe comunque grande sviluppo anche nel 300 e nel 400, essa ha origine soprattutto umbra, ma anche
marchigiana e toscana. Le laudi di Jacopone da Todi erano componimenti per lo più anonimi e di scarsa
qualità letteraria, ma arrivarono al nord portando il modello linguistico centroitaliano. In Italia settentrionale, e
in particolar modo in area lombarda, fiorì inoltre nel 200 una letteratura moraleggiante in versi in volgare, molto
diversa da quella amorosa sviluppatasi alla corte di Federico II. In Toscana la poesia “siculo-toscana” si
sviluppò soprattutto nella zona occidentale, tra Pisa e Lucca. Firenze invece si affermò solo nella seconda
metà del Duecento (si ricordi che Dante nacque nel 1265). In tutti i poeti del Duecento si ritrovano gallicismi e
sicilianismi. Tra i sicilianismi si possono notare le –i finali al posto di –e in sostantivi singolari e nella terza
persona singolare presente dei verbi. Alcuni sicilianismi dei poeti siculo-toscani passarono poi agli stilnovisti e
a Dante, Petrarca, e poi in tutta la poesia italiana. Altri sicilianismi sono chi- per pi- (chiacere=piacere); gli
imperfetti in –ia, le –i e le –u toniche dove il fiorentino ha –e ed –o toniche chiuse. In Toscana quindi
arrivavano sia elementi d’oltralpe che elementi siciliani, e quindi la lingua letteraria si sviluppò in modo
indipendente e non strettamente locale. (vedi gallicismi e provenzalismi in Guinizelli, pg.105). Dante non solo
fu grande poeta e padre della lingua italiana, ma fu anche il primo teorico del volgare, nel senso che gli dedicò
attenzione, cercò di comprenderne l’origine e di stabilire quale dovesse essere per raggiungere i massimi
risultati d’arte. Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e nel De Vulgari Eloquentia (primo trattato
sulla lingua e sulla poesia volgare). Viene riconosciuta la superiorità del volgare in quanto lingua naturale.
Dante muove dalle origini prime, dalla creazione di Adamo: stabilisce che fra tutte le creature l’unica ad essere
dotata di linguaggio è l’uomo; dunque il linguaggio caratterizza l’uomo, differenziandolo dagli esseri bruti e

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dagli angeli. Nodo centrale è l’episodio biblico della Torre di Babele. Secondo Dante la grammatica delle lingue
letterarie è una creazione artificiale dei dotti, intesa a frenare la continua mutevolezza degli idiomi, garantendo
la stabilità senza la quale non può esistere la letteratura. Il volgare per diventare letterario ha dunque bisogno
di essere regolarizzato, si deve distinguere dal parlato popolare. Per arrivare a definire i caratteri del volgare
letterario, Dante procede in maniera ordinata, seguendo la diversificazione spaziale delle lingue naturali e
concentrando la sua attenzione su spazi via via più ristretti. La sua attenzione si concentra sull’Europa, dove
nei Paesi del Nord e del Nord-Est si parlano lingue in cui “sì” si dice “iò” (lingue slave e germaniche); nei Paesi
del Centro-Sud si parlano la lingua d’oil (francese), la lingua d’oc (provenzale) e il volgare del sì (italiano); in
Grecia e nelle zone orientali è diffuso il greco. L’area italiana risulta poi diversificata al suo interno in una
quantità di parlate locali; Dante le esamina tutte per cercare quale sia degna di essere usata come volgare
illustre. Le parlate migliori risultano il siciliano e il bolognese nell’uso di alto livello. Ma Dante sta cercando una
lingua ideale, illustre, priva di tratti locali e popolari, formalizzata ad un livello alto. Il volgarizzamento consiste
nel trasporre in volgare un testo francese o latino, che quindi continua a risentire dell’influenza della sua fonte.
L’influenza del francese nella prosa italiana fu minore, anche se alcuni italiani scrissero le loro opere in
francese (Marco Polo, Il Milione; Brunetto Latini, Tresor). Ci sono testi in prosa dall’aspetto fortemente
settentrionale. Bologna è la città di Guido Faba, autore di Gemma Purpurea e dei Parlamenta et Epistole,
modelli di prosa epistolare e di oratoria in lingua bolognese illustre, in cui Faba vuole applicare le regole
retoriche al volgare. In questa prosa i tratti dialettali vengono in gran parte eliminati, anche se non del tutto. In
questo secolo non esiste ancora una prosa modello che si imponga sulle altre, ma il ruolo della Toscana si
delinea a poco a poco. Importanti per la documentazione dell’antico fiorentino sono le scritture mercantili, i
conti di spese amministrative comunali e i trattati di pace. Il Novellino è un testo anonimo molto importante
per la prosa dell’italiano antico, in quanto primo esempio di testo narrativo con intento artistico. Il genere è la
novella e la lingua è fiorentina.

IL TRECENTO
La Divina Commedia di Dante Alighieri è scritta in una lingua diversa da quella teorizzata nel De Vulgari
Eloquentia e il suo stile utilizza risorse ben più vaste di quelle della lirica stilnovista. Il successo della
Commedia fu inoltre determinante per il successo del Toscano, che si espanse nel giro di alcuni secoli.
Sempre nel Trecento altri due autori scrissero opere in fiorentino degne della massima ammirazione: Petrarca
scrisse il Canzoniere e Boccaccio scrisse il Decameron. I tre autori sono designati col nome di Tre Corone, a
indicare la loro supremazia su tutti gli altri. I latinismi usati da Dante nella Commedia hanno provenienza
diversa: dalla letteratura classica, dalle Sacre Scritture, dalla scienza medievale, che Dante conosceva bene.
Il plurilinguismo (o multilinguismo) è una delle definizioni date alla lingua poetica di Dante (mentre Petrarca si
caratterizza per il monolinguismo). Il poema comunque si presenta nel suo complesso come opera fiorentina e
ciò sembra contraddire la tesi del De Vulgari Eloquentia. Ma nella Commedia sono presenti molte forme
diverse prese da varie lingue e questo portò a una tendenza alla polimorfia della lingua italiana. Petrarca
esclude molte delle parole usate da Dante ritenendole inadatte al genere lirico. Egli è molto selettivo, e il
Canzoniere è scritto in gran parte in latino; le parti in volgare sono ridotte, in quanto secondo lui la lingua
naturale dei dotti è il latino. Importante notare anche che Petrarca scrive ancora in maniera unita sualuce,
almio, delbel, laprima, belliocchi. L’apostrofo sarà introdotto solo all’inizio del 500; il sistema dei segni di
interpunzione si riduce a pochi elementi, con valore diverso da quello moderno. Sono presenti anche molti

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latinismi grafici, come le h etimologiche in huomo, humano, honore, le x in extremi, excellentia, dextro. Sono
presenti i segni d’abbreviazione, come il comunissimo tratto di penna sopra la vocale per segnalare una
consonante nasale, o il taglio nella gamba della p per indicare l’abbreviazione di per. A differenza della poesia,
la prosa trecentesca non era ancora stabilizzata in una tradizione salda. Un buon modello di prosa narrativa
era il Novellino, ma il salto di qualità si ebbe con il Decameron di Boccaccio. Nelle novelle di Boccaccio
ricorrono varie situazioni narrative in contesti sociali diversi; esse concedono spazio alla vivacità del dialogo
con aderenza ai moduli del parlato. Ma lo stile boccacciano per eccellenza è quello caratterizzato dalla
complessa ipotassi: le subordinate si accumulano in gran numero, i verbi vengono spostati in fondo; le frasi
iniziano con un relativo (a cui…, al quale….). Anche nella scrittura di Boccaccio si notano latinismi grafici,
come le x, il nesso ct in decto, la forma advenuto per avvenuto, le h etimologiche in herba, habito, honore,
honesto, huomo. Il sistema dei segni di interpunzione è più ricco che nel Canzoniere: si trovano virgola, punto
e virgola, due punti con valore di pausa lunga, punto, la sbarra obliqua, il punto interrogativo usato anche
nelle interrogative indirette, e un “coma” simile al punto esclamativo ma con valore di punto e virgola.
Boccaccio è anche autore di uno dei più antichi testi in volgare napoletano, un’epistola databile al 1339, nota
come Epistola Napoletana. Si tratta di uno scritto in tono scherzoso, in cui l’autore si rivolge all’amico
fiorentino Francesco de’Bardi. E’ noto che il soggiorno napoletano fu molto importante per la formazione di
Boccaccio e per la sua conoscenza dell’ambiente mercantile. Questo esperimento di Boccaccio mostra un uso
volontario di un volgare diverso dal proprio, ricostruito a orecchio. I volgarizzamenti continuarono anche nel
300, e quello più importante è la Cronica contenente la Vita di Cola di Rienzo, databile al 1360 circa e scritta
da Bartolomeo di Iacovo da Valmontone. La lingua usata non è il toscano, ma l’antico romanesco.

IL QUATTROCENTO
La svolta umanistica iniziata da Petrarca ebbe come conseguenza la crisi del volgare, la quale però non
arrestò l’uso del volgare dove esso era divenuto comune, ma lo screditò agli occhi dei dotti. Vi furono umanisti
che non usarono il volgare, come Coluccio Salutati, mentre altri addirittura lo disprezzarono. Il volgare
secondo i dotti del Quattrocento andava bene solo per le scritture pratiche e d’affari, mai nella scrittura d’arte.
Gli umanisti della prima metà del secolo si interessarono alla situazione linguistica al tempo di Roma antica, e
riguardo all’origine dell’italiano c’erano due ipotesi:
-secondo Biondo Flavio (grande studioso delle antichità romane) al tempo di Roma si parlava solo il latino e
questa lingua si era corrotta per una causa esterna, cioè la venuta di popoli barbari: da questa corruzione era
nato l’italiano, che quindi aveva un carattere negativo;
-secondo Leonardo Bruni (umanista fiorentino) al tempo di Roma antica esistevano due livelli diversi di
lingua, uno alto, letterario, l’altro basso, popolare, da cui si sarebbe poi sviluppato l’italiano.
La tesi più accreditata nel Rinascimento fu quella del Biondo e fu ripresa da molti, in particolare da Pietro
Bembo.
Leon Battista Alberti, nato a Genova nel 1404, fu un intellettuale di indiscusso prestigio, che elaborò un
programma di promozione della nuova lingua, iniziando il movimento chiamato Umanesimo Volgare. A lui è
attribuita la prima grammatica della lingua italiana, che è anche la prima di una lingua volgare moderna, scritta
intorno al 1440. Questa Grammatica della lingua toscana , conosciuta col nome di Grammatichetta, viene
conservata nella Biblioteca Vaticana e dimostra che anche il volgare ha una sua struttura grammaticale
ordinata, al pari del latino. Questa Grammatichetta però non ebbe influenza, non circolò e non fu stampata. La

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prima grammatica dell’italiano destinata alla stampa uscì nel 1516 e fu realizzata da Francesco Fortunio.
Caratteristica della grammatica dell’Alberti è l’attenzione verso l’uso toscano del suo tempo, quindi c’è più
interesse per l’uso che per gli autori antichi (mentre nel secolo successivo la produzione grammaticale sarà
basata sui modelli letterari). L’Alberti organizzò nel 1441 il Certame coronario, una gara poetica in cui i
concorrenti dovevano presentare componimenti poetici in volgare, sul tema dell’amicizia; la giuria, composta
da umanisti, non assegnò nessun premio, dimostrando la sua chiusura nei confronti della lingua italiana,
ritenuta indegna di gareggiare con il latino. Alla giuria fu indirizzata un’anonima Protesta, attribuibile all’Alberti
stesso, nella quale si criticava la posizione conservatrice della cultura umanistica avversa al volgare.
Lorenzo De’Medici e il suo segretario privato Angelo Poliziano, insieme anche all’umanista Cristoforo
Landino furono promotori della lingua toscana. Nel 1476 Lorenzo il Magnifico aveva incontrato a Pisa l’erede
al trono di Napoli, Federico, figlio del re Ferdinando. In tale occasione i due avevano discusso di letteratura
volgare e di autori che avevano poetato in lingua toscana. L’anno dopo Lorenzo inviò a Federico una raccolta
di poesie, detta Silloge o Raccolta Aragonese. In ambiente mediceo il volgare fiorentino viene assunto a
soggetto di un esercizio letterario colto da parte di autori che sono in grado di gustare le bellezze della
letteratura classica ma che comunque si mostrano disponibili all’adozione della lingua popolare. Alla corte di
Lorenzo i letterati si cimentarono anche col toscano comico, realistico e popolare; significativo da questo punto
di vista la Nencia da Barberino, poemetto di Lorenzo de’ Medici.
Poliziano, che con la sua raffinatissima cultura scrisse addirittura in tre lingue (greco, latino e toscano) ricorse
all’elemento comico nei Detti Piacevoli. Sempre in ambiente mediceo assistiamo poi alla prima trasposizione
su un piano colto di un genere popolare che godeva di grande fortuna: il cantare cavalleresco, cioè una forma
poetica in ottave che veniva portata sulle piazze dai cantastorie per l’intrattenimento di un pubblico medio-
basso: ad esempio il Morgante di Luigi Pulci composto su richiesta della madre di Lorenzo il Magnifico, tra il
1461 e il 1481. Ricordiamo infine le Stanze per la Giostra del Poliziano, poemetto in ottave incompiuto.
Nei testi tecnici e pratici, privi di intenti artistici, era frequente la compresenza di latino e volgare. Per tutto il
400 si ritrovano molti latinismi grafici e lessicali in qualsiasi tipo di testo di uso comune. La lingua scritta mira
all’eliminazione dei tratti locali appoggiandosi al toscano ma accogliendo anche i latinismi. Nelle cancellerie
(uffici amministrativi) aumentarono le manifestazioni scritte del volgare, a partire da Urbino ed espandendosi
poi a Milano, Mantova, Ferrara e Venezia. Le lettere private di Boiardo sono molto meno toscanizzate delle
opere poetiche, in particolare rispetto alle liriche d’amore; nelle sue lettere non si trovano tanto tratti dialettali
emiliani, quanto elementi settentrionali, e diversi latinismi, che sono una soluzione linguistica naturale, che non
segna una marcatura stilistica, ma soccorre una lacuna lessicale lasciata dalla coscienza toscana dello
scrivente.
La letteratura religiosa contribuì alla circolazione di modelli linguistici toscani o centrali tra il popolo anche in
regioni diverse dalla Toscana e lontane dall’Italia mediana. Nel ‘400 troviamo raccolte di laude (laudari) in uso
presso molte comunità dell’Italia settentrionale. Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un
pubblico popolare e quindi erano un’altra occasione in cui gli incolti dialettofoni potevano incontrare una lingua
più nobile e toscanizzata.
Anche la predicazione si rivolgeva al popolo e quindi aveva bisogno del volgare, che era molto vicino al
dialetto locale illustre. Latino e volgare si mescolano nella predica, e i “sermoni mescidati” sono il limite
estremo di questa commistione. I predicatori si recavano in diverse terre e quindi dovevano usare la lingua del
posto per farsi comprendere, e soprattutto depurare la propria lingua dagli elementi vernacolari.

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La stampa a caratteri mobili, inventata da Gutenberg, rivoluzionò il mondo della lingua e della scrittura.
La Bibbia uscì in Germania, a Magonza, prima del 1456. L’arte tipografica si concentrò soprattutto a Venezia,
dove fu attivo Aldo Manuzio, che da sola produsse oltre metà degli incunaboli italiani. L’incunabolo è il libro
quattrocentesco appartenente al primo periodo dell’arte tipografica, che prendeva a modello il libro
manoscritto. In seguito la tipografia si distaccò dal modello del manoscritto e introdusse il frontespizio,
contenente titolo, nome dell’autore, marca tipografica dell’editore, città e anno di stampa.
Il primo libro volgare italiano oggi conosciuto è un testo popolare devoto: il Parsons Fragment, risalente al
1462. Nel 1470 uscì l’edizione a stampa del Canzoniere di Petrarca, nel 1472 il Decameron di Boccaccio e la
Commedia dantesca. La prima edizione a stampa di un testo è detta “princeps”, o “edizione principe”.
Esiste anche la mescolanza di italiano e latino in testi colti, nelle due forme dette macaronico e polifilesco. Il
macaronico è un linguaggio e un genere poetico comico nato come divertimento nell’ambiente universitario
padovano, alla fine del ‘400. Il nome deriva da un tipo di gnocco e il linguaggio è caratterizzato dalla
latinizzazione parodica di parole del volgare, o dalla deformazione dialettale di parole latine. Il risultato può
sembrare un latino pieno di errori, ma l’errore in questo caso non è dovuto a imperizia. L’iniziatore del genere
macaronico fu Tifi Odasi che compose una Macaronea, ma livelli più alti furono raggiunti da Teofilo Folengo,
autore del celebre poema Baldus, vero capolavoro letterario. Il polifilesco, invece, detto anche pedantesco,
non ha alcun intento comico; con il latino si combina non il volgare locale, ma il toscano letterario (quello usato
da Boccaccio). Un esmpio di polifilesco si ha nella Hypnerotomachia poliphili (=Guerra d’amore in sogno
dell’amatore di Polia), romanzo anonimo ma attribuito a Francesco Colonna, pubblicato nel 1499 a Venezia. A
Ferrara, presso gli Estensi, il toscano si diffuse grazie a Matteo Maria Boiardo, che scelse l’imitazione
petrarchesca negli Amorum Libri (mentre nell’Orlando Innamorato, poema incompiuto, scelse l’emiliano
illustre). A Napoli fiorì una poesia cortigiana che si avvicinò sempre di più alla lingua letteraria toscana;
Sannazaro scrisse l’Arcadia, in cui si alternano egloghe pastorali e parti in prosa, che ebbe una grande fortuna
in Italia e in Europa e fu imitato anche nella lingua.

IL CINQUECENTO
Nel Cinquecento il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo anche il consenso dei dotti, nonché
estendendosi in tutti i campi del sapere e raggiungendo un pubblico sempre più ampio. Furono stampate le
prime grammatiche e furono realizzati i primi lessici (talvolta vocabolario e grammatica si fusero in una sola
opera, come ad esempio Le tre fontane del Liburnio, e il Vocabolario et grammatica dell’Acarisio). Verso la
metà del secolo si assiste al definitivo tramonto della scrittura di coinè tipica del Quattrocento, che fu
declassata a scrittura popolare degli ambienti meno colti. Il latino invece mantenne lo stesso una posizione
rilevante negli ambiti della giustizia, della filosofia, della medicina e della matematica. Nella scienza il volgare
veniva usato nelle opere di divulgazione; nel settore umanistico-letterario Machiavelli inaugurò una solida
tradizione volgare nella letteratura e nella storiografia. Nel 1501 Aldo Manuzio stampò Virgilio e Orazio (il
carattere aldino è il corsivo da lui usato nelle sue edizioni); nello stesso anno uscì il Petrarca volgare curato da
Bembo. In entrambi i casi si ebbe una rottura con la tradizione latineggiante, e l’introduzione di innovazioni
significative, come ad esempio l’apostrofo usato per segnare l’elisione. Bembo, nella sua opera Gli asolani usa
la lingua di Boccaccio, teorizzata poi nelle “prose, che Bembo scrisse nei dieci anni seguenti. Egli fu il grande
regolarizzatore della lingua letteraria italiana e la sua autorità venne riconosciuta dopo la pubblicazione delle
“Prose della volgar lingua”, pubblicate a Venezia nel 1525 presso il tipografo Tacuino, divise in tre libri, il

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terzo dei quali contiene una vera e propria grammatica dell’italiano in forma dialogica (quindi poco sistematica,
non schematica come possiamo immaginare una grammatica dei nostri giorni): in questo dialogo sono
presenti 4 personaggi, ognuno dei quali rappresenta un’ideologia. Giuliano de’Medici (figlio di Lorenzo il
Mgnifico) rappresenta la continuità con l’Umanesimo volgare, Federico Fregoso espone le tesi storiche, Ercole
Strozzi espone le tesi del volgare, e Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro. Le
edizioni moderne delle Prose prendono come base la terza edizione, del 1549, che è postuma (Bembo morì
nel 1547). Nel primo libro viene espresso l’ideale classicistico e aristocratico della”impopolarità” della lingua
letteraria (classicismo integrale). Nel secondo libro Bembo esprime il giudizio sulla lingua e sullo stile di Dante,
di cui non accoglieva in modo totale la lingua usata. La cosiddetta questione della lingua è la lunga
discussione, che ha un importante significato culturale, sulla natura del volgare e sul nome da attribuirgli, al cui
centro si pone proprio lo studio dell’opera di Bembo. Con il termine “volgare” Bembo intende non il toscano
vivente, ma il toscano letterario trecentesco usato da Petrarca e Boccaccio e in parte da Dante. Lui sostiene
anche che la somiglianza della lingua fiorentina vivente con il toscano letterario può indurre gli scrittori ad
accettare forme popolari che possono macchiare la dignità della lingua scritta. Quindi secondo Bembo il
volgare non si acquisisce dal popolo, ma dagli scritti trecenteschi. Per nobilitare il volgare era necessario il
totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo non apprezzava la Commedia di Dante, che scendeva verso
lo stile basso e realistico, al contrario del Canzoniere di Petrarca che invece effettuava una selezione
linguistico-lessicale; per quanto riguarda il Decameron di Boccaccio, Bembo sostiene che il volgare vero sia
quello usato dall’autore, ma non nelle parti dialogiche, in cui si usa la lingua popolare. La teoria “cortigiana”
elaborata da Calmeta, e poi da Castiglione nel Cortegiano, sosteneva la tesi che il volgare migliore fosse
quello usato nelle corti italiane e spacialmente a Roma. Ma questa tesi non uscì vincente, in quanto la teoria di
Bembo aveva il vantaggio di offrire modelli molto più precisi ai letterati. La teoria di Trissino presenta analogie
con quella cortigiana. Nella sua opera Il Castellano, sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta
da vocaboli provenienti da tutta Italia, e quindi non si doveva definire fiorentina, ma italiana. Egli negava
dunque la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante nel De Vulgari Eloquentia
aveva condannato la lingua fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario. Trissino introdusse
anche i segni greci dell’epsilon e dell’omega per distinguere l’apertura delle vocali e ed o. Alla cultura toscana
non piacque la proposta di Trissino, ma questa influenzò un gruppo di giovani intellettuali di Firenze. La più
interessante reazione fiorentina alle idee di Trissino è il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, attribuito
a Niccolò Machiavelli, in cui Dante dialoga con Machiavelli. Qui egli presenta un Dante che viene condotto a
correggere i propri errori, facendogli ammettere di aver scritto in fiorentino, e non in lingua comune o
cortigiana. Trissino non è mai nominato, ma l’allusione è chiara. Quest’opera non influì direttamente sul
dibattito cinquecentesco. Si sviluppò poi una polemica sull’autenticità del De Vulgari Eloquentia, anche perché
Trissino non rese mai pubblico il testo originale latino dell’opera. Nella seconda metà del secolo, quando uscì
L’Hercolano di Benedetto Varchi (1570); egli aveva conosciuto Bembo e introdusse le sue idee a Firenze,
città sostanzialmente avversa. Secondo Varchi era inutile ricercare una lingua primordiale, come aveva fatto
Dante nel DeVulgari Eloquentia sostenendo che la prima lingua naturale fosse l’ebraico, in quanto la varietà
delle lingue secondo Varchi era parte integrante della perfezione dell’universo. Il concetto di lingua veniva
discusso da Varchi nell’ambito di una concezione sociale del linguaggio e veniva proposta anche una
classificazione delle lingue basata su una serie precisa di elementi: la loro provenienza dall’estero o la loro
originale esistenza in un luogo, il loro patrimonio culturale e letterario, la loro natura di idiomi vivi o morti, la

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loro comprensibilità. Quindi Varchi affiancava all’importanza della lingua scritta teorizzata da Bembo,
l’importanza della lingua parlata di Firenze. L’Hercolano sanciva il principio secondo il quale esisteva
un’autorità popolare da affiancare a quella dei grandi scrittori. Questi principi permisero a Firenze di esercitare
di nuovo un controllo sulla lingua, a differenza di quanto era accaduto nella prima metà del secolo. Nel
Cinquecento nacquero le prime grammatiche e i primi vocabolari, nei quali si riflettono le proposte teoriche, in
particolare quelle di Bembo. La prima fu quella di Giovan Francesco Fortunio del 1516. Nel 1550 uscirono le
Osservazioni nella volgar lingua di Ludovico Dolce, che ebbero molte ristampe. La stampa delle grammatiche
si sviluppò soprattutto a Venezia, mentre a Firenze si segnala l’assenza di opere di questo genere, anche
perché in Toscana c’era meno bisogno di consultare le grammatiche e le opere normative della lingua; a
Firenze si ebbe solo la grammatica di Giambullari, uscita nel 1552, che proponeva la norma della lingua
parlata a Firenze, rivolgendosi ai non fiorentini, ma l’opera fallì. Il più noto vocabolario della prima metà del
Cinquecento è La Fabrica del Mondo (1548) di Francesco Alunno di Ferrara, mentre il primo vocabolario
italiano è “Le Tre Fontane” di Liburnio, una raccolta lessicale strutturata secondo le categorie grammaticali. La
grammatica di Bembo influenzò l’esito di un grande capolavoro come l’Orlando Furioso, perché Ariosto
corresse la terza e definitiva edizione del poema seguendo proprio le indicazioni delle Prose (sostituzione
dell’articolo maschile el con il). La prima edizione, infatti , risentiva ancora del padano illustre, anche se
toscanizzato.
Una funzione di primo piano ebbero le Accademie, in quanto in esse si organizzavano gli intellettuali e
venivano dibattuti i principali problemi culturali. Le più importanti sono l’Accademia degli Infiammati di Padova
(frequentata anche da Bembo); l’Accademia fiorentina nata nel 1541 e finanziata dal duca di Toscana Cosimo
de’Medici; ma la più famosa accademia italiana fu quella della Crusca, nata nel 1582 e attiva ancora oggi.
Lionardo Salviati, famoso per aver censurato molte parti del Decameron di Boccaccio ritenute immorali e
antireligiose (rassettatura del Decameron), entrò nella Crusca, dando inizio con il suo lavoro all’attività
filologica condotta in seguito anche sulla Commedia di Dante. La lingua italiana era già molto diffusa nel
Cinquecento, in diversi ambiti, come ad esempio l’architettura, che coniò parole entrate anche nel lessico di
lingue straniere (facciata, casamatta, balcone), la trattatistica d’arte, e soprattutto la traduzione dei classici.
Nel 1532 fu stampato a Roma il trattato De Principatibus di Machiavelli, in cui egli scrive in un fiorentino ricco
di latinismi e di vere e proprie parole latine che non hanno una funzione nobilitante, ma piuttosto ricollegano
questa scrittura a quella quattrocentesca di tipo cancelleresco. Il titolo, così come i titoli dei capitoli sono in
latino (ma solo nel manoscritto, non nella versione data alle stampe nel 1532). Il volgare prevaleva nel settore
della scienza applicata o diretta a fini pratici, non nella ricerca di tipo accademico e non tra gli scienziati di
alto livello. La scelta del volgare assume tuttavia un rilievo particolare nel caso di Galileo, nel settore della
scienza universitaria; l’uso del volgare però limitava la circolazione internazionale, in quanto il latino era
compreso dalle persone colte di tutte le nazioni. Nel settore dei libri geografici va registrata la pubblicazione
della raccolta Navigazioni e Viaggi di Ramusio, cioè una raccolta di tutti i testi del genere dalla Classicità e dal
Medioevo fino al Cinquecento. L’interesse linguistico della letteratura di viaggio consiste nella possibilità di
reperire in essa neologismi e forestierismi, legati alla descrizione di luoghi esotici. Lo spagnolo aveva allora
una grande importanza come lingua internazionale. Carletti, che fece il giro del mondo, dice che per farlo
basta sapere lo spagnolo, che a quel tempo era paragonabile all’inglese oggi. Nei settori pratici si assiste a
una crescita dell’impiego della lingua italiana, verificabile nelle scritture e nelle stampe. L’analfabetismo era
molto diffuso, soprattutto nelle campagne; sembra però che nelle città ci fossero già popolani in grado di

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leggere e scrivere, anche se il modello omogeneo di lingua toscana diffuso dalle teorie di Bembo agiva solo
sugli scriventi colti. Anche in alcuni libri a stampa si ha materiale extraletterario ricco di termini quotidiani, ad
esempio nei “libri di segreti”, cioè le raccolte di ricette medico-alchemiche, culinarie, sanitarie, così come nei
ricettari di cucina e nei trattati di dietetica. In queste opere si ritrova una terminologia tecnica e settoriale
estranea all’italiano poetico e letterario, ma legata alla vita quotidiana del tempo e alle necessità pratiche della
comunicazione. La commedia si rivelò come il genere ideale per la realizzazione del mistilinguismo e per la
ricerca di particolari effetti del parlato. Giovan Maria Cecchi, fiorentino, riempì i dialoghi delle sue commedie di
motti e proverbi, da cui derivarono espressioni molto particolari. Inoltre la commedia comprendeva diversi
codici per i diversi personaggi: ad esempio agli innamorati si addice il toscano della tradizione poetica, ai
vecchi il veneziano o il bolognese, per i capitani è adatto lo spagnolo, ai servi conviene il milanese o il
bergamasco, o il napoletano. Venezia, al centro dei traffici commerciali dell’Adriatico, era l’ambiente adatto per
sollecitare il plurilinguismo. Machiavelli si era espresso in favore del fiorentino vivo, esponendo le sue idee nel
Discorso intorno alla nostra lingua. Le sue commedie fanno ricorso ai modi gergali usati dal popolo. Il
Principe fu pubblicato molti anni dopo che era stato composto (la prima stampa risale al 1532, postuma). Il
libro finì all’Indice con condanna grave, pari a quella che colpiva gli eretici, e quindi ebbe poche ristampe. I
titoli sono in latino, e il latino ricorre anche nel testo sia con latinismi grafici (la x al posto della doppia s) che
con latinismi lessicali (preterire per dimenticare) affiancati a toscanismi. Questa commistione è tipica della
lingua di tipo cancelleresco, quella che lui stesso aveva usato come segretario della Repubblica, e che restava
usata nella burocrazia e nell’amministrazione al suo tempo. Nella versione a stampa, Il Principe non ha molti
dei latinismi grafici che troviamo invece nel manoscritto; nella stampa è già usato l’apostrofo per indicare
troncamento e questo significa che la stampa ha un orientamento bembiano. Il petrarchismo è caratteristico
del linguaggio poetico cinquecentesco; si ha la scelta di un vocabolario lirico selezionato che rappresenta
perfettamente il gusto letterario. Tasso, collocato tra i modelli linguistici, non aveva preso le distanze dalla
lingua toscana, né aveva teorizzato un’aperta ribellione ai modelli letterari affermatisi nella prima metà del
secolo. Egli in realtà non mise mai in discussione la sostanziale toscanità della lingua italiana, anche se non
riconobbe il primato fiorentino. Lo stile di Tasso epico era giudicato oscuro e distorto; la sua lingua appariva
troppo colta; il suo linguaggio era visto come una mistura di voci latine, straniere, lombarde, composte e
nuove; i suoi versi erano giudicati “aspri”. Tasso, rispetto ad Ariosto, non era facile da capire, soprattutto
durante la lettura ad alta voce. L’uso dei latinismi preoccupavano in quanto potevano costituire un legame con
la tradizione della lingua cortigiana, non gradito ai fiorentini e quindi alla Crusca. Tasso inoltre si era staccato
dalla norma bembiana, al contrario di Ariosto. Molte delle critiche, però, quella di Salviati, animatore
dell’Accademia della Crusca, furono mosse dal senso di appartenenza alla fiorentinità, e non dal giudizio
imparziale; infatti ricordiamo che da Firenze giunsero i migliori vocabolari, ma non la migliore letteratura. La
Chiesa fu tra i protagonisti della storia linguistica dal Concilio di Trento alla fine del Seicento. La lingua ufficiale
della Chiesa restò il latino, ma il problema del volgare emerse nella catechesi e nella predicazione. Il Concilio
di Trento discusse in primo luogo la legittimità delle traduzioni della Bibbia. La versione latina manteneva il
libro sacro più distante dai lettori meno colti e quindi lasciava l’interpretazione nelle mani della Chiesa. Inoltre il
Concilio insisteva sulla predicazione in volgare, alla quale i parroci non dovevano sottrarsi, in quanto quello
era l’unico momento in cui la comunicazione diretta con i fedeli richiedeva l’uso di una lingua largamente
comprensibile. Per la questione della lingua, restava da stabilire quale fosse il volgare da adottare durante la
predica; l’influenza di Bembo è riconoscibile già nel primo grande predicatore di questo periodo, Cornelio

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Musso, che era stato allievo di Bembo. Il Predicatore, opera di Panigarola, è forse il primo caso in cui un
esponente della gerarchia cattolica interviene nella disputa normativa sull’italiano. Qui si trova l’adesione ai
principi fiorentinisti di Bembo e il riconoscimento del primato della lingua fiorentina parlata, giudicata come la
più adatta al pulpito, se depurata dai localismi troppo evidenti. La Riforma Protestante invece aveva puntato
proprio sulla lettura diretta della Bibbia, facendo della comprensibilità del testo una questione decisiva.

IL SEICENTO
L’Accademia della Crusca realizzò il primo grande vocabolario italiano senza il sostegno pubblico, in un’Italia
divisa in Stati diversi, ciascuno con la propria tradizione. Per secoli l’attività della Crusca fu avversata, ma
nessuno poté ignorarla. Il contributo più rilevante della Crusca si ebbe quando essa si indirizzò alla
lessicografia, dal 1591, anno in cui gli accademici si divisero gli spogli da compiere, mettendo a punto un
procedimento razionale di schedatura. Al momento della realizzazione del Vocabolario, Salviati era già morto,
e dopo di lui non ci fu nessuna altra figura di spicco all’interno dell’Accademia, che quindi da quel momento
cominciò a effettuare un lavoro di squadra, attenendosi alle regole fissate dall’ Accademia stessa. Il
Vocabolario degli Accademici della Crusca fu stampato nel 1612 a Venezia presso la tipografia di Giovanni
Alberti. Sul frontespizio portava l’immagine del buratto, un moderno strumento per separare la farina buona
dallo scarto (Crusca), con sopra scritto “il più bel fior ne coglie”, che allude alla selezione operata sul lessico. Il
Vocabolario ebbe altre due edizioni, la seconda nel 1623, analoga alla prima, e la terza nel 1691 stampata a
Firenze divisa in tre tomi e con un aumento significativo del materiale. L’opposizione al Vocabolario della
Crusca si manifestò da subito con Paolo Beni, professore all’Università di Padova, autore di un’Anticrusca
(1612) in cui venivano contrapposti al canone di Salviati gli scrittori del Cinquecento, in particolare Tasso,
escluso dagli spogli della Crusca. Beni polemizza soprattutto con la lingua di Boccaccio, ritenuta irregolare e
plebea. Altra critica venne da Alessandro Tassoni, modenese, che appose direttamente sul Vocabolario della
Crusca delle postille inviandole agli accademici, che comunque le usarono per fare correzioni. Il tema
fondamentale del Tassoni è l’improponibilità dell’arcaismo linguistico e il pregio della modernità. Infine Daniello
Bartoli, scrittore gesuita conosciuto anche con lo pseudonimo di Ferrante Longobardi, dimostrò che proprio
nelle opere trecentesche si trovavano elementi incoerenti con il canone grammaticale di Salviati. Nel Seicento
la lingua italiana acquisì meriti senza pari anche nel campo della scienza, grazie a Galileo, che aveva scritto
in italiano già da quando aveva 22 anni. La scelta tra le due lingue non era facile, perché l’italiano avrebbe
tolto la possibilità di diffondere i testi all’estero, ma fu un modo per staccarsi polemicamente dalla casta
dottorale alla ricerca di un pubblico nuovo. Galileo non usò mai uno stile basso o popolare, raggiungendo un
tono elegante perfettamente accoppiato alla chiarezza terminologica e sintattica. Più che coniare termini
nuovi, Galileo si affidò alla tecnificazione di termini già in uso, evitando di usare il greco e il latino e preferendo
parole semplici (macchie solari, candore della Luna). In questo periodo tuttavia ebbero fortuna anche le
denominazioni dotte prese dal greco (telescopio, microscopio, idrostammo). Nel Seicento ebbe grande
successo il melodramma, nato alla metà del secolo precedente nella Camerata dei Bardi a Firenze, convinta
che la tragedia greca fosse stata a suo tempo interamente cantata. Il melodramma creava un canto in grado di
far comprendere il testo senza deformarlo, come avviene nell’Euridice del Peri e del Caccini, usato in
occasione delle nozze di Maria de’Medici. Il melodramma si caratterizza come spettacolo d’élite, in quanto
richiede allestimenti dispendiosi; quindi anche la lingua usata non sarà quella popolare, ma piuttosto quella
della corte. Con Marino e il marinismo, a partire dall’inizio del Seicento, le innovazioni si fanno ancora più

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accentuate che nel Tasso, anche se gli schemi metrici e le cadenze ritmiche sono ancora quelli tipici di
Petrarca. Nel settore del lessico, la poesia barocca estende il repertorio dei temi e delle situazioni; ad
esempio, in campo botanico, accanto alla rosa (fiore barocco per eccellenza) vengono citate molte piante
diverse, spesso accompagnate da un epiteto: la bella clizia, il vago acanto, il biondo croco, il fresco giglio.
Viene usata anche un’ampia gamma di animali: nel Marino troviamo il pardo leggiadro, il fiero leone, l’aspra
pantera,… La prosa scientifica dopo l’avvento di Galileo, aveva studiato il regno animale, e la poesia barocca
riprese questi strumenti della scienza. Marino, nell’Adone introduce l’anatomia del corpo umano ed utilizza
termini anatomici dell’occhi, dell’orecchio, del naso (nervi, pupilla, cristallo, circolo visivo,…). Questa presenza
di termini scientifici indica la tendenza al rinnovamento. A partire dalla fine del Seicento prese piede il giudizio
sul cattivo gusto del Barocco, prima in Francia e poi in Italia. Dominique Bouhours, gesuita francese, svolse la
tesi secondo cui solo i francesi sono capaci di “parlare”, mentre gli spagnoli sono solo in grado di “declamare”,
gli italiani di “sospirare” e addirittura i tedeschi di “ragliare” e gli inglesi di “fischiare”. Egli voleva promuovere il
francese a lingua universale, mentre la lingua italiana era vista come incapace di esprimere in modo ordinato il
pensiero umano e veniva confinata a strumento della lirica amorosa e del melodramma. La lingua italiana
venne difesa solo nel secolo successivo con Orsi, Muratori e Salvini. In questo secolo nasce anche una
letteratura dialettale consapevole, volontariamente contrapposta al toscano. Michelangelo Buonarroti il
Giovane, pronipote di Michelangelo, accademico della Crusca e collaboratore all’impresa del Vocabolario,
scrisse due opere teatrali in versi, la farsa rusticale Tancia (1611) e la farsa in cinque giornate Fiera (1619) in
cui utilizzò termini toscani popolari e rari.

IL SETTECENTO
Nel Settecento si manifestarono reazioni polemiche nei confronti della lingua arcaizzante e della retorica
accademica, in particolare da parte degli intellettuali milanesi del “Caffè”, periodico di grande rilievo pubblicato
tra il 1764 e il 1766. Essi erano contrari al passatismo e quindi anche alla Crusca, che era conservatrice.
Alessandro Verri scrisse un articolo intitolato Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico
al Vocabolario della Crusca, in cui veniva respinta l’autorità della lingua toscana e dell’Accademia di Firenze. Il
testo è diviso in brevi paragrafi numerati e la sintassi è semplice (come nel Saggio sulla filosofia delle lingue di
Melchiorre Cesarotti); qui fa appello alla libertà espressiva, alla facoltà di introdurre forestierismi, alla
chiarezza comunicativa, e invoca la centralità dei contenuti. La pedanteria risulta uno dei mali della società, da
contrastare con regole esplicite, in quanto le parole vuote e i banali convenevoli rallentano la lettura e la
comprensione. Denuncia lo spazio eccessivo dato alle parole in confronto alle cose, cioè a danno del concreto
progresso. Cesare Beccaria scrisse una Risposta alla Rinunzia, fingendo di prendere le parti della Crusca
contro le tesi di Verri. Naturalmente è un testo comico e parodico, che serve a rendere ancora più ridicoli gli
Accademici. Giambattista Vico invece imitava fedelmente i modelli toscani antichi: nella Scienza Nuova si
trovano arcaismi e latinismi, in una sintassi che però è ben diversa da quella armonica di Boccaccio o di
Bembo. Secondo Cesarotti l’italiano, al contrario del latino, ha il costrutto “logico”, cioè usa il presunto ordine
naturale soggetto-verbo-complemento, corrispondente all’ordine logico della ragione. Lui crede, come era
tipico dell’Illuminismo, nel miglioramento delle lingue, cioè pensava che le lingue migliorassero nel tempo e
che quindi quelle moderne fossero migliori di quelle antiche. Nell’Ottocento questo principio fu ribaltato e si
tornò al purismo della lingua, e a una rivalutazione del sanscrito, del greco e del latino. Cesarotti è attento

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anche alle differenze sociali nell’uso della lingua. Egli scrisse il Saggio sulla filosofia delle lingue, che si apre
con una serie di enunciazioni teoriche così sintetizzabili:
1. Tutte le lingue nascono e derivano
2. Nessuna lingua è pura

3. Tutte le lingue nascono per caso e non da un progetto razionale

4. Tutte le lingue possono migliorare

5. Ogni lingua cambia nel tempo

6. Nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione


Secondo Cesarotti la lingua scritta ha una dignità superiore a quella parlata, in quanto momento di riflessione
e strumento dei dotti. Egli ammette l’adozione di parole straniere, ma presenta questa scelta come un male
necessario. A questa posizione, aperta nei confronti del contributo delle lingue forestiere, si collegano
interessanti osservazioni sul “genio della lingua”, inteso come carattere originario tipico di un idioma e di un
popolo: questo concetto era usato dagli avversari per dimostrare l’improponibilità dei termini esotici, il quale
per loro natura dovevano ripugnare alla spontanea natura della lingua di una nazione. Cesarotti invece
propone un duplice concetto di genio, grammaticale e retorico: secondo lui la struttura grammaticale non deve
essere alterata, mentre il lessico dipende dal genio retorico che riguarda l’espressività e che è alterabile. La
conclusione del trattato esamina la situazione italiana e propone soluzioni positive alle polemiche della
questione della lingua: qui si propone di istituire un “Consiglio nazionale della lingua” a Firenze, che si doveva
occupare di studi etimologici e filologico-linguistici, ma soprattutto doveva dedicare attenzione alla
terminologia tecnica delle arti, dei mestieri e delle scienze; compito finale del Consiglio era la compilazione di
un vocabolario realizzato in due forme, una ampia e una ridotta di uso comune; il Consiglio inoltre avrebbe
dovuto avviare una serie di traduzioni da autori stranieri. Ma questo progetto non fu realizzato. Nel Settecento
il francese divenne la lingua più importante d’Europa, raggiungendo il culmine con la Rivoluzione e l’Impero
Napoleonico. Tramontata la funzione del latino come lingua di scambio internazionale, il francese raggiunse
una posizione paragonabile a quella che oggi ha l’inglese. In Italia, nel Settecento, non c’era persona colta che
non sapesse leggere e parlare in francese. Da ricordare che un’opera fondamentale come l’Encyclopédie di
D’Alembert e Diderot ebbe due ristampe entrambe in francese. Alfieri, appartenente alla nobiltà e originario
del Piemonte sabaudo, iniziò a scrivere il suo diario personale in francese (che però abbandonò presto in
favore del toscano), e quando volle migliorare il suo latino, scrisse i suoi appunti affiancando le forme toscane
a quelle francese e a quelle piemontesi. La sua autobiografia letteraria intitolata La Vita, descrive fra l’altro la
sua conversione al toscano e la faticosa rinuncia al francese a partire dal 1777, in una prosa vivace che vuole
avvicinarsi alla lingua toscana. Le tragedie di Alfieri, in versi, hanno uno stile che si allontana dalla normalità e
dal cantabile attraverso la trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi. Nel 1784 l’Accademia di Berlino
premiò un saggio di Rivarol intitolato De l’universalité de la langue francaise, che attribuiva il successo
internazionale del francese a una virtù naturale, in quanto dotata di chiarezza, logica e capacità di
comunicazione razionale, al contrario dell’italiano, caratterizzato da inversioni sintattiche illogiche. Si cominciò
a pensare che anche il popolo dovesse saper scrivere e parlare italiano, anche se in Italia la situazione era
complicata per la mancanza di uno Stato unitario nazionale. Si insisteva sul fatto che ai giovani serviva una
cultura legata alle esigenze dei commerci e delle attività pratiche, e il latino era accusato di essere un freno al
progresso. Alla fine del Settecento furono avviate riforme nella scuola del Lombardo-Veneto grazie alla politica

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scolastica di Maria Teresa d’Austria. Fu ideato a Berlino e giunse poi in Italia attraverso l’Austria un nuovo
metodo didattico detto “normale”, in cui per la prima volta prendeva forma l’unità della classe. Tra il 1786 e il
1788 il padre Soave pubblicò una serie di manuali per l’insegnamento dell’italiano, che ebbero molto
successo. Dalla riforma austriaca nacque anche l’idea di una scuola comunale istituita poi a partire dall’
Ottocento. Per diverso tempo l’uso della lingua continuò ad essere un fatto d’élite; il toscano era riservato alle
situazioni ufficiali, mentre restava estraneo alla conversazione e ai rapporti confidenziali, dove si usava ancora
il dialetto. In senso strettamente tecnico non si può dire che l’italiano era una lingua morta, ma esso restava
ancorato al passato e alla scrittura. Goldoni, al contrario di Alfieri, dopo aver conquistato una solida fama in
Italia con le commedie in dialetto veneto e in italiano, si trasferì a Parigi, dove scrisse un paio di commedie in
un francese giudicato formalmente imperfetto ma vivace Anche le sue memorie sono in francese, mentre
molte commedie sono scritte in veneziano, anche allargando il campo a varietà non strettamente cittadine, ad
esempio usando la parlata popolare di Chioggia; altre volte adottò la lingua italiana, una sorta di lingua media
che suscitò anche delle critiche da parte di censori che la ritenevano sciatta. Nell’opera Il Campiello dovette
affrontare il problema di comunicazione con un pubblico non veneziano, e infatti Goldoni stesso nella
prefazione alla commedia spiegò il significato del titolo, che si riferiva a una realtà nota ai veneziani ma non ai
cosiddetti “forastieri”. Nel dialogo tra il Cavaliere forestiero e Gasparina veneziana Goldoni mostra di essere
consapevole delle difficoltà di comunicazione linguistica che realmente affliggevano gli italiani del suo tempo e
ne trae occasione di divertimento, unendo a un difetto di pronuncia di Gasparina gli elementi regionali, usati a
fini comici. Goldoni sentì quindi spesso il bisogno di aggiungere delle note per migliorare la comprensione da
parte del pubblico non veneziano. Anche l’alternanza di lingua e dialetto favoriva la comunicazione, oltre a
dare l’idea di naturalezza e realismo. La lingua teatrale di Goldoni non si preoccupa della purezza, essa è
lingua viva e innovativa.
Nel 1690 a Roma fu fondata l’Arcadia, un movimento che creò una miriade di poesie in una lingua
tradizionale ispirata al modello di Petrarca e quindi attaccata al passato. Si scelgono i termini più rari e
letterari. Per quanto riguarda la prosa, invece, essa comincia ad essere semplificata a livello sintattico.

L’OTTOCENTO
Nell’Ottocento, anche per reazione contro l’egemonia della cultura francese, si sviluppò il movimento chiamato
Purismo, caratterizzato dall’intolleranza di fronte a ogni innovazione e da una marcata esterofobia. La
conseguenza fu un forte antimodernismo diffuso dal manifesto purista di Antonio Cesari Dissertazione sopra
lo stato presente della lingua italiana. Secondo Cesari nel 1300 tutti parlavano e scrivevano bene, sia gli autori
letterari che i mercanti nelle loro scritture private, nelle note contabili,… Carlo Botta e Luigi Angeloni sono altri
due fanatici della lingua pura. Lo scrittore Vincenzo Monti si oppose alle esagerazioni del Purismo. Fin dal
1813 egli dimostrò di non sopportare Cesari rinfacciandogli di aver dato una versione del Vocabolario della
Crusca sbagliata, comprensiva di parole che la Crusca non avrebbe riconosciuto. Monti arrivò anche a colpire
lo stesso Vocabolario della Crusca nella versione fiorentina. Stendhal, così come Manzoni, e come nel
Settecento l’Algarotti, aveva parlato dell’italiano come di una lingua morta, inadeguata nei rapporti familiari, in
cui si usava il dialetto. La teoria linguistica manzoniana segna una svolta nelle discussioni sulla questione
della lingua. Alcune delle sue pagine migliori stanno in una serie di carte private uscite postume con il titolo
Della lingua italiana. Manzoni affrontò la questione della lingua a partire dalla sua personale esperienza di
romanziere, prima che come interprete di esigenze sociali della nazione, anche perché lo fece quando ancora

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la nazione politica non esisteva ancora. Iniziò a occuparsi della prosa italiana fin dal 1821, durante la
redazione del romanzo che divenne poi I promessi Sposi (titolo originale Fermo e Lucia, versione mai data alle
stampe). Manzoni studiò la lingua per cercare di capire se le forme linguistiche che usava fossero vive o
obsolete; Manzoni cercava infatti la lingua della conversazione comune, ed elaborò un concetto di uso molto
più vitale e innovativo. Nel 1827, dopo la prima pubblicazione del romanzo, andò a Firenze e il contatto diretto
con la lingua suscitò una reazione decisiva. L’esito di questo studio fu la nuova edizione dei Promessi Sposi,
detta quarantana (1840-1842 pubblicata a fascicoli), corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso resa
scorrevole e senza latinismi né dialettismi, più vicina alla lingua naturale e comune. Si trattava del linguaggio
fiorentino dell’uso colto. Nel 1868 Manzoni scrisse una Relazione su come diffondere la lingua e nacque la
cosiddetta questione sociale, che portò un’accesa polemica: Tommaseo e Lambruschini presero le distanza da
Manzoni, rivendicando la funzione degli scrittori nella regolamentazione della lingua e sollevando dubbi di
varia natura sul primato assoluto dell’uso vivo di Firenze. La teoria manzoniana ebbe effetti rilevanti.
L’esempio di Manzoni favorì la prassi della cosiddetta “risciacquatura in Arno” ovvero del soggiorno culturale a
Firenze allo scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata in quella città. L’unico freno alla teoria
manzoniana nel mondo della scuola fu probabilmente il prestigio di Carducci, che fu avversario del
popolanesimo toscaneggiante. Per diffondere il fiorentino, Manzoni proponeva una capillare politica
linguistica messa in atto nella scuola, la realizzazione di un vocabolario compilato sull’uso vivente di Firenze,
la compilazione di maneggevoli dizionari bilingui dialetto/toscano, l’obbligo di esporre insegne pubbliche e
avvisi cittadini in fiorentino. Propose quindi un modello di unificazione linguistica simile al francese lingua di
Parigi e al latino lingua di Roma. Il fiorentino doveva diventare lingua degli italiani, perché fiorentina era la
tradizione letteraria. La questione manzoniana non teneva conto però del policentrismo della penisola italiana,
che aveva molti poli urbani anche più importanti di Firenze. Inoltre la capitale linguistica sarebbe stata diversa
dalla capitale politica (Roma).
L’Ottocento è il secolo dei vocabolari: non c’è più solo il Vocabolario della Crusca. Nasce la Crusca Veronese,
ad opera di Antonio Cesari, che fa una serie di giunte a quello della Crusca per esplorare ancora più a fondo il
repertorio della lingua trecentesca; il Vocabolario della Lingua Italiana di Giuseppe Manuzzi, purista come
Cesari. Tra il 1829 e il 1840 la società tipografica Tramater diede alle stampe il Vocabolario Universale
Italiano, la cui base era ancora la Crusca, ma aveva un taglio enciclopedico e dedicava particolare attenzione
alle voci tecniche: l’opera si segnala per il superamento delle definizioni tradizionali; i vocabolari del passato
avevano fatto riferimento a conoscenze presupposte nel lettore, mentre nel Tramater la definizione poggia
sulla precisa classificazione scientifica. Il vocabolario più prestigioso dell’Ottocento è però il “Dizionario” di
Tommaseo (poi portato a termine da Bellini), vero e proprio vocabolario storico dell’italiano: quest’opera si
caratterizza per l’originalità; sono presenti le [T.] con cui Tommaseo firmava i propri contributi, spesso non
molto oggettivi; uno dei punti di forza del nuovo vocabolario era, oltre alla mole e all’abbondanza di lemmi, la
strutturazione delle voci. Il criterio seguito consisteva nel dichiarare “l’ordine delle idee” a partire dal significato
più comune e universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali significati diversi di una parola, individuati
da numeri progressivi e privilegiando l’uso moderno (temperato comunque dalla documentazione dell’uso
antico). Nell’Ottocento fu realizzato anche un vocabolario coerente con l’impostazione manzoniana, ispirata al
fiorentinismo dell’uso vivo, noto come Giorgini-Broglio, che prese come modello il Dictionnaire de l’Académie
Francaise, nel quale erano aboliti gli esempi d’autore; al posto delle citazioni tratte da autori, era presentata
una serie di frasi anonime, testimonianza dell’uso generale. Manzoni morì nel 1873, prima del completamento

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del vocabolario da lui ispirato, che non ebbe mai un gran pubblico. Risalgono all’Ottocento anche i più
importanti vocabolari dialettali, fatti per scoprire le tradizioni italiane.Al momento dell’unità d’Italia, nel 1861
non c’era ancora una lingua comune; il numero degli italofoni era molto basso; quasi l’80% era analfabeta, e
non tutto il restante 20% sapeva usare l’italiano. L’alfabetizzazione non corrispondeva a un reale uso
dell’italiano corretto. I toscani erano considerati “naturalmente in grado di usare l’italiano”, e lo stesso si può
dire dei romani. Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la scuola elementare divenne obbligatoria
e gratuita, secondo l’ordinamento previsto per lo Stato sabaudo dalla legge Casati del 1859. La legge Coppino
del 1877 rese effettivo l’obbligo della frequenza, punendo gli inadempienti. Comunque è un dato certo che nel
1861 almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico a causa delle condizioni
estremamente arretrate. Nel 1906, evadeva l’obbligo il 47% dei ragazzi.
Le cause che hanno portato all’unificazione della lingua, secondo De Mauro sono:
1. Azione unificante della burocrazia e dell’esercito;
2. Azione della stampa periodica e quotidiana;
3. Effetti di fenomeni demografici quali l’emigrazione;
4. Aggregazione attorno a poli urbani.
Il servizio militare obbligatorio fu una delle novità portate dal Regno d’Italia; anche la Grande Guerra, facendo
convivere masse di soldati provenienti da diverse regioni ebbe effetti linguistici rilevanti, ma qui siamo già oltre
l’Ottocento. L’industrializzazione fece crescere la popolazione di alcune grandi città e attirò manodopera
proveniente da altre regioni o dalle campagne della stessa regione, con un conseguente maggiore uso
dell’italiano rispetto al dialetto. Nel 1873 le idee di Manzoni furono contestate da Graziadio Isaia Ascoli,
fondatore della linguistica e della dialettologia italiana. Ascoli escludeva che si potesse identificare l’italiano nel
fiorentino moderno e affermava che non si dovevano combattere le forme dialettali. L’unità della lingua
sarebbe stata una conquista reale e duratura solo quando ci fosse stato un efficiente scambio culturale nella
società italiana. Egli vede che la lingua non può esistere isolata dal contesto sociale, essa è una conseguenza
di fattori extralinguistici. Ascoli giudica la Toscana una regione stagnante, terra di analfabeti, anche se questo
giudizio è discutibile. Nella seconda metà del secolo il giornalismo diventò fenomeno di massa; nacquero le
edicole, mentre prima i giornali erano diffusi soprattutto tramite abbonamento. Nei giornali si evitavano i
dialettismi più vistosi, ma molte parole regionali si diffusero proprio per mezzo della stampa giornalistica.
L’Ottocento è l’epoca in cui si forma la moderna letteratura narrativa, attraverso Manzoni e Verga. Manzoni
rinnovò il linguaggio del romanzo e della saggistica, avvicinando decisamente lo scritto al parlato. La prosa
letteraria della prima metà dell’Ottocento, infatti, era ancora legata a due modelli: quello puristico, che imitava
la letteratura antica, e quello classicistico, che si ispirava alla tradizione del Rinascimento, evitando gli
arcaismi medievali. Il linguaggio manzoniano ha sicuramente influenzato la lingua italiana di oggi. Modelli di
prosa toscana che stanno al margine rispetto al Manzoni sono Fucini e Collodi. Ben altra importanza ebbe la
svolta inaugurata da Verga, soprattutto nei Malavoglia. Verga non abusa del dialetto, ma cerca di adattare la
lingua italiana ai personaggi siciliani appartenenti al ceto popolare; molto nuova risulta la sintassi usata da
Verga, in particolare per il discorso indiretto libero (o discorso rivissuto), che consiste in “un miscuglio di
discorso indiretto e discorso diretto” (non vengono aperte le virgolette, ma nella voce dello scrittore compaiono
forme proprie del discorso diretto): c’è quindi un’oscillazione tra l’autore e il suo personaggio. Il linguaggio
poetico dell’Ottocento si caratterizza per la fedeltà alla tradizione aulica e illustre, come dimostra la solennità
dei Sepolcri di Foscolo. Il lessico è fatto solo di parole “nobili”, diverse da quelle usate nella quotidianità. Nel

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caso di parole usate anche in prosa, si faceva ricorso alla sincope (spirto per spirito, dolor, cor). Anche
Leopardi dichiara che gli arcaismi si confanno alla poesia; il suo linguaggio poetico si riallaccia alla tradizione
petrarchesca, e di Tasso, da cui riprende l’uso di termini vaghi, perché la vaghezza dà il senso poetico.
Manzoni, innovatore della prosa, in poesia si attenne alle forme tradizionali, sempre in un tono alto. Quando i
romantici vollero introdurre in poesia i contenuti realistici, si trovarono di fronte un linguaggio che no
permetteva l’inserimento di parole quotidiane, quindi fecero spesso ricorso alla perifrasi, così come avevano
fatto i classicisti. Qualche segno di innovazione si ebbe nella seconda metà del secolo con Praga e Betteloni,
che introdussero i termini “realistici” nel tessuto della poesia tradizionale, creando un particolare effetto di
stridore, per la coesistenza con le forme linguistiche canoniche. L’Ottocento vide lo sviluppo qualitativo della
poesia in dialetto. Il milanese Porta e il romano Belli rappresentano gli esempi più alti di questo tipo di
letteratura. Il classicista Pietro Giordani condannò l’iniziativa di dare alle stampe opere letterarie in dialetto
milanese, in quanto secondo lui l’uso dei dialetti era nocivo alla nazione, erano cosa per gente rozza o per i
bambini nelle circostanze della vita comune.

IL NOVECENTO
Il Novecento è stato decisivo per la storia della lingua italiana, perché si sono realizzati cambiamenti nell’uso
dell’italiano anche dal punto di vista sociale. La mobilitazione delle masse e la formazione dei partiti nella
prima metà del secolo ebbero come conseguenza un uso maggiore dell’italiano a scapito del dialetto. Anche la
prima guerra mondiale portò a conoscenza i contadini arruolati nella guerra di posizione della lingua italiana
parlata dagli ufficiali. Nel Novecento si ebbe inoltre un’industrializzazione senza precedenti che provocò
spostamenti dalle zone rurali alle città e dal Sud al Nord. Gli spostamenti non sono mai senza conseguenze
linguistiche. In questo secolo progredirono anche le tecnologie: radio, televisione, informatica e telematica.
L’italiano per secoli era stato usato soprattutto nella letteratura, mentre lo spazio della comunicazione
quotidiana era affidato ai dialetti. Nel Novecento i dialetti rimasero vivi e vitali, ma si avvicinarono alla lingua
nazionale, che spesso li sostituì. L’italiano era destinato a semplificarsi, a perdere parole e giri di sintassi;
prevalse una semplificazione delle strutture. Anche durante il ventennio fascista, quando furono avviati eventi
di politica linguistica particolare, come la lotta ai dialetti e ai forestierismi, la lingua continuò lo stesso a
progredire verso la modernizzazione e il rinnovamento. La politica xenofoba del fascismo portò
all’italianizzazione forzata della toponomastica nelle aree alloglotte, e dei cognomi stranieri (soprattutto slavi o
tedeschi). Nel 1930 si ordinò la soppressione nei film di scene parlate in lingua straniera; nel 1940
l’Accademia d’Italia (prestigiosa istituzione culturale del regime) fu incaricata di sorvegliare l’uso di parole
forestiere e di trovare alternative. Furono creati degli elenchi di parole proscritte, con l’indicazione dei relativi
sostituti. Durante il fascismo ci fu anche una campagna per abolire l’allocutivo “lei” e sostituirlo con il “tu”,
considerato più “romano”, e con il “voi” di rispetto per rivolgersi ai superiori; ma la campagna non ebbe molto
successo, perché il “voi” era sentito come dialettale, in quanto usato quotidianamente al sud.
Fu fondata “Lingua Nostra”, la rivista in cui Bruno Migliorini elaborò la sua concezione avversa ai forestierismi,
detta neopurismo (da non scambiare con la politica xenofoba fascista, in quanto Migliorini rifiutò di mescolare
la questione della lingua con la questione della razza). A Migliorini si deve la sostituzione di regista al francese
regisseur, e di autista al posto di chauffeur. I discorsi dei politici venivano trasmessi alla radio e alla
televisione, ma il loro fascino stava nel rapporto diretto con la folla; da ricordare i discorsi di Mussolini e
soprattutto quelli di D’Annunzio, poeta-soldato e uomo d’azione. Il modello d’annunziano influì sulla retorica

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del fascismo; nei discorsi di Mussolini si trovano: abbondanza di metafore religiose, metafore militari,
tecnicismi romani, e moltissimi numeri, oltre agli slogan, alle esagerazioni e ai luoghi comuni. Con l’avvento
della Repubblica è stata abrogata la normativa linguistica esterofoba e non si sono più avuti interventi
autoritari di politica linguistica, a parte quelli contro il cosiddetto uso sessista della lingua italiana che rifiutava il
“maschile non marcato” e le professioni in –essa (da sostituire con un femminile diretto: non avvocatessa, ma
avvocata). L’Accademia della Crusca tentava ancora di concludere la sua quinta versione del vocabolario, che
però non aveva più la funzione di un tempo. Nel 1923 il ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile
tolse alla Crusca il compito di preparare il vocabolario; il nuovo e moderno Vocabolario del Fascismo, diretto
da Giulio Bertoni, non ebbe però fortuna e arrivò solo alla lettera C. un aspetto interessante e innovativo di
questo vocabolario è dato dal criterio di citazione degli esempi, un compromesso tra la forma tradizionale della
Crusca e di Tommaseo, e quello del Giorgini-Broglio, che aveva sostituito il riferimento agli autori con esempi
del parlato: qui sono citati gli autori, ma solo come documentazione di un uso comune, senza riferimento
preciso all’opera.
Un certo rilievo ebbe invece il piccolo vocabolario che forniva la pronuncia esatta delle parole italiane, fatto
soprattutto per gli annunciatori della radio, da Bertoni e Ugolini. Gli autori vissuti a cavallo tra i due secoli,
come D’Annunzio e Pascoli, testimoniano nelle loro opere le trasformazioni in atto nel linguaggio letterario. La
poesia di D’Annunzio ricercò la nobilitazione attraverso la selezione lessicale (ad esempio l’ippopotamo è
chiamato “pachidermo fiumale” mentre l’operaio diventa “uomo operatore”). Pur aderendo alla tradizione, la
poesia di D’Annunzio si presenta comunque come innovativa per la sua capacità di sperimentare moltissime
forme diverse, anche metriche, e per il gusto di usare la lingua antica. A lui si devono alcuni neologismi, come
ad esempio “velivolo” per aeroplano.
Una prima rottura con il linguaggio poetico tradizionale si ebbe con Pascoli, con i crepuscolari e con le
avanguardie. Benché Pascoli usi termini colti e latinismi, con lui cade la distinzione tra parole poetiche e non
poetiche, fino ad includere dialettismi, regionalismi, e in alcuni casi un po’ di italo-americano (nel poemetto
Italy dedicato all’emigrazione degli italiani). La poesia crepuscolare, ispirandosi a Pascoli, accentuò la
tendenza alla prosa e all’abbassamento del tono. Quanto all’avanguardia, in Italia essa si identifica soprattutto
con il Futurismo, che introdusse l’uso di parole miste a immagini, l’uso di caratteri tipografici di dimensioni
diverse per rendere intensità e volume fonico delle parole, abolizione della punteggiatura, largo uso
dell’onomatopea. Un interessante riflesso del parlato si ha in Pirandello, non tanto nei romanzi, quanto nelle
sue opere teatrali; la riproduzione dell’oralità è verificabile nella presenza di frequenti interiezioni e di connetivi
come è vero, si sa, figurarsi,… Va ricordato che Pirandello è sempre stato diffidente verso il dialetto come
strumento letterario, ma non ha rinunciato a dare un colore locale alle sue opere, soprattutto nella scelta dei
nomi di persona, almeno nelle opere di ambiente siciliano. L’altro grande scrittore del primo Novecento, Italo
Svevo, è famoso per il suo difficile rapporto con la lingua italiana, in quanto veniva da Trieste. Gli fu anche
rivolta l’accusa di “scrivere male”, accusa che lo fece soffrire e che Mengaldo cercò di cancellare. Nel
Novecento anche il toscano viene considerato un dialetto: Federigo Tozzi introdusse senesismi nei suoi
romanzi (untare per ungere, piaggiata per terreno in pendio, astiare per odiare). Carlo Emilio Gadda invece
usa una varietà di dialetti, definito multilinguismo o pastiche gaddiano. Pasolini effettuò una vera e propria
analisi sociolinguistica della situazione dell’italiano; il suo intervento fu pubblicato sulla rivista “Rinascita” del
16 dicembre 1964 con il titolo “Nuove questioni linguistiche”. Egli sosteneva che era nata una nuova lingua
nazionale, icui centri irradiatori stavano nel Nord del Paese, dove avevano sede le grandi fabbriche e dove era

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sviluppata la moderna cultura industriale. Annunciava che era nato “l’italiano come lingua nazionale”, nel
senso che per la prima volta una borghesia egemone era in grado di imporre in modo omogeneo i suoi modelli
alle classi subalterne, superando una tradizionale estraneità tra ceti alti e ceti bassi. Delineò anche alcune
caratteristiche che sarebbero state proprie del nuovo italiano:
1. La semplificazione sintattica
2. La drastica riduzione di latinismi
3. La prevalenza dell’influenza della tecnicha rispetto a quella della letteratura.
Diversi anni dopo Pasolini rivendicò una funzione rivoluzionaria dei dialetti, che secondo lui erano da
difendere. La lingua media era usata come termine di confronto negativo, di mediocrità espressiva; privilegia
gli esperimenti di plurilinguismo alla maniera di Gadda. Pasolini prospettava una rivoluzione nella storia
dell’italiano. C’era stato un cambiamento a livello di scolarizzazione; gli analfabeti diminuirono fortemente, così
come i parlanti dialetto, o meglio i dialetti si avvicinarono alla lingua comune. Negli anni ’60 e ’70 anche la
fabbrica ha svolto una funzione di scuola, integrando nella realtà cittadina masse di origine contadina. La
fabbrica è stata una scuola che si è espressa attraverso l’assemblea e con uno speciale linguaggio ispirato
alla cultura marxista, oggi estinto. La radio italiana nacque nel 1924; la televisione ha iniziato a trasmettere in
maniera regolare nel 1954. I media sono diffusori di tecnicismi, esotismi, neologismi e luoghi comuni. La TV di
oggi parla sempre di più una lingua naturale, un italiano molto reale. Il linguaggio dei giornali ha continuato
anche nel Novecento a svolgere un’importante funzione, proponendo un modello più alto: “il quotidiano è il
tramite fondamentale tra l’uso colto e letterario dell’italiano e la lingua parlata.” Nel giornale troviamo una
pluralità di sottocodici (politico, burocratico, economico,…) e di registri (aulico, parlato-informale,…). Il titolo
deve essere costruito in modo da colpire il lettore e nello stesso tempo deve fare economia di spazio. Anche la
pubblicità ha avuto un ruolo importante nella fortuna di parole come ABS, airbag, …Essa inoltre deve
suggestionare e convincere, e per fare ciò usa un largo numero di superlativi in –issimo, e di prefissi come
iper, maxi, super,…Il caso del Partigiano Johnny, libro incompiuto di Fenoglio, scritto in una miscela di inglese
e italiano, assolutamente nuova per la nostra lingua, ha avuto un grande successo, nonostante le iniziali
critiche e incomprensioni. L”italiano dell’uso medio” è il nome di una categoria definita da Francesco Sabatini
sulla base di una serie di fenomeni grammaticali, ricorrenti nell’italiano di oggi a livello non formale. Mentre
l’italiano standard rappresenta un italiano ufficiale e astratto, l’italiano dell’uso medio rappresenta una realtà
diffusa. Sabatini ne delinea alcuni caratteri, che pur avendo contatto con il parlato, interessano però anche i
parlanti istruiti e riguardano tutta l’area nazionale:
1. Lui, lei, loro usati come soggetto;
2. Diffusione delle forme ‘sto, ‘sta,…
3. Tipo ridondante a me mi
4. Che polivalente, con valore temporale, finale, consecutivo;
5. imperfetto al posto del congiuntivo (se sapevo, venivo).
Poiché questo nuovo italiano è sostanzialmente unitario a livello morfosintattico e lessicale, Sabatini ne ha
annunciato l’esistenza chiamandolo “italiano unitario medio”; esso è essenzialmente parlato, anche se a volte
viene usato in testi scritto di livello medio-basso. Altri studiosi parlano di “neostandard”, ma il concetto è più o
meno lo stesso.Tappa importante per l’omologazione di tutti gli italiani fu l’introduzione, nel 1962, della scuola
media unica, uguale per tutti, con obbligo scolastico fino ai 14 anni. Don Milani espose le condizioni di
indigenza linguistica in cui si trovavano i ragazzi delle classi povere; propose una serie di interventi per

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adattare la scuola e l’insegnamento alle necessità dei suoi allievi, mettendo in discussione l’esistenza e la
legittimità di qualunque norma linguistica, di qualunque forma alta di comunicazione, identificando in questo un
trabocchetto repressivo ai danni degli umili. Queste tesi erano contrarie alle teorie di Gramsci, secondo il
quale la cultura è una sola, e compito della classe operaia è quello di impossessarsi della cultura per volgerle
a fini rivoluzionari. Oggi si trovano carenze linguistiche anche in studenti di alto livello, tanto che Francesco
Bruni ha parlato di “italiano selvaggio”. D’Achille invece ci fornisce una rassegna dei caratteri dell’italiano
moderno; egli nota che nel parlato i dimostrativi sono spesso usati quasi in funzione di articoli, rafforzati con
avverbi (quella porta là, questo libro qui,…); l’uso di codesto è rimasta solo nel toscano; molti verbi sono
semplificati (soddisfava al posto di soddisfaceva); l’uso del presente al posto del futuro; l’uso dell’indicativo al
posto del congiuntivo; tra gli ausiliari, avere acquisisce un certo vantaggio su essere; i verbi nuovi si formano
solo in prima o terza coniugazione, soprattutto in prima. Quanto alle strutture fondamentali, l’italiano mostra
una considerevole “tenuta”. L’italiano aziendale è un linguaggio settoriale non confinato in aree limitate. In
sostanza l’italiano del nuovo millennio non sembra staccarsi dalle tendenze che già molti anni prima Giacomo
Devoto individuò come tipiche di quello che chiamò “il terzo sistema fonologico” dell’italiano, in cui venivano
ammesse le parole terminanti per consonante anche in forma di sigle ed acronimi, mentre veniva respinta,
anche in Toscana,la distinzione tra –s- intervocalica sorda e sonora, perché il Nord aveva solo la sorda e il
Sud solo la sonora. Il sistema di 7 vocali della nostra lingua si andava evolvendo verso uno di 5.

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