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ITALIANO E DIALETTI

Fino al XVI secolo tutti i volgari furono


considerati sullo stesso piano: erano tutte
lingue di uguale prestigio.

1525 Pietro Bembo pubblicò le Prose della


volgar lingua.
Modelli da imitare: Petrarca per la poesia e
Boccaccio per la prosa.

Dal quel momento il fiorentino letterario


trecentesco fu la lingua usata per la scrittura e
per tutti gli usi alti e riuscì a imporsi su tutti gli
altri dialetti.

Nel 1861 l’Italia divenne una nazione


unitaria. Il sistema scolastico si unificò, i
collegamenti migliorarono, cominciò
l’emigrazione e il servizio militare
obbligatorio; l’italiano si diffuse molto più di
prima.
Anni ‘50 del Novecento: sviluppo economico,
spostamenti verso le città e da una regione
all’altra, scuola dell’obbligo, mezzi di
comunicazione di massa e soprattutto la
televisione: in pochi decenni l’italiano è
diventata una lingua parlata da tutti e per
tutti gli usi.

Una comunità linguistica è costituita da


persone che condividono una stessa lingua con
tutte le sue varietà, lo stesso territorio
geografico, la stessa organizzazione politica,
lo stesso atteggiamento verso le varietà della
propria lingua.

Il repertorio linguistico è l’insieme delle


varietà di una lingua.

La varietà linguistica è un sottoinsieme della


lingua caratterizzato da tratti linguistici
adoperati da un certo gruppo di parlanti in
certe situazioni. I tratti possono essere fonetici,
morfologici, sintattici, lessicali, testuali.
L’italiano è la lingua comune a tutto il
territorio nazionale e convive da sempre con i
dialetti delle singole regioni. I dialetti sono
lingue autonome. Hanno tutti origine dal
latino. Non sono “figli dell’italiano ma
fratelli”.

Con bilinguismo si indica “una situazione


linguistica in cui i parlanti possono alternare
due lingue considerate di uguale livello e
prestigio”.
Si ha un bilinguismo comunitario quando
tutta la popolazione di un territorio conosce
entrambe le lingue (es. in Valle d’Aosta con
italiano e francese).
Si ha invece bilinguismo bicomunitario,
quando una parte della popolazione parla e
conosce una delle due lingue e l’altra parla e
conosce l’altra (es. in Alto Adige con italiano
e tedesco).
Con diglossia si indica una situazione
linguistica in cui i parlanti usano una lingua
per le comunicazioni più alte e formali e
un’altra per situazioni basse e informali: le due
lingue non possono scambiarsi mai i ruoli.

Per definire la situazione italiana il linguista


Gaetano Berruto ha parlato di dilalia, con cui
si indica l’esistenza di due lingue, una
l’italiano, comune all’intera comunità
linguistica e adoperato in tutte le situazioni
(dunque anche nella comunicazione
informale), l’altra il dialetto, diverso da
regione a regione e adoperato solo per gli usi
privati e colloquiali.

I confini di una carta geolinguistica sono


segnati dalle isoglosse.
Un’isoglossa è una linea immaginaria che
unisce tutti i punti estremi di un’area
geografica che condivide lo stesso fenomeno
linguistico. Il fenomeno può essere fonologico
(e in questo caso definiamo la linea isòfona),
morfologico (isomòrfa), lessicale (isolessi).

Due fasci di isoglosse individuano i due


principali confini dialettali italiani:
- linea La Spezia – Rimini (separa i dialetti
settentrionali da quelli centromeridionali)
- linea Roma – Ancona (separa i dialetti
mediani da quelli meridionali).

I dialetti settentrionali (parlati a nord della


linea La Spezia – Rimini) si distinguono in:
- dialetti galloitalici: in aree anticamente
abitate dai celti: Piemonte, Liguria,
Lombardia, Emilia Romagna e, per effetto
di antiche migrazioni, piccole aree
linguistiche di Basilicata e Sicilia;
- dialetti veneti: in aree abitate anticamente
dai veneti: Veneto, Trentino, Venezia
Giulia
Dialetti toscani (compresi tra linea La Spezia
– Rimini e la linea Roma – Ancona)

Dialetti mediani: altre regioni dell’Italia


centrale: Lazio (ad esclusione di Roma e
dell’estremità meridionale della regione),
Marche centrali, Abruzzo aquilano, buona
parte dell’Umbria.

Dialetti meridionali: Lazio meridionale, parte


di Umbria e Marche, quasi tutto l’Abruzzo,
Molise, Campania, Basilicata, Puglia centro
settentrionale, Calabria settentrionale.

Dialetti meridionali estremi: parlati nel


Salento (Puglia meridionale), nella Calabria
centromeridionale e in Sicilia.

Hanno sistemi linguistici autonomi


nell’insieme delle varietà italo-romanze il
ladino, parlato in alcune vallate del
Trentino-Alto Adige e del Veneto, e il
friulano, parlato nel Friuli. A parte vanno
considerati i dialetti sardi, distinti tra
gallurese e sassarese, a nord (più vicini al
toscano), logudorese, campidanese.

In Italia esistono minoranze alloglotte (gr.


allos ‘altro’ e glotta ‘lingua’) che parlano
lingue minoritarie, non considerate nel
novero delle varietà italo-romanze, come
l’arbäresh (varietà di albanese in comuni tra
Abruzzo e Sicilia)
i dialetti greci (comuni del Salento e della
provincia di Reggio Calabria)
e minoranze nazionali come
lo sloveno (in Friuli)
il francese, il provenzale, il francoprovenzale
(in Piemonte e Valle d’Aosta)
il tedesco (in Alto Adige)
sono varietà di confine; la lingua da noi
minoritaria è lingua ufficiale nelle nazioni
confinanti (Slovenia, Francia, Austria).

Caratteristiche dei dialetti settentrionali:


- sonorizzazione delle consonanti sorde
intervocaliche: es. roda ‘ruota’
- caduta delle vocali finali diverse da a: es.
molin, fradel...
- scempiamento delle consonanti
intervocaliche: es. cavel ‘capello’
- presenza di vocali turbate: es. dyr ‘duro’

Caratteristiche del toscano:


- monottongazione: es. bono, novo
- gorgia: indebolimento (spirantizzazione)
delle occlisive intervocaliche [p], [t], [k]

Caratteristiche dei dialetti mediani:


- assimilazione dei nessi consonantici -nd- >
-nn-, -mb- > -mm-: es. munnu ‘mondo’,
gamma ‘gamba’ (anche dei dialetti
meridionali)
- metafonesi: e, o toniche > i, u per effetto di
i o u finali del latino volgare (anche dei
dialetti meridionali)
- conservazione di u finale del latino: es.
ferru
Caratteristiche dei dialetti meridionali:
- riduzione delle vocali finali a una vocale
indistinta (russə “rosso”)
- accusativo preposizionale: compl. oggetto
con tratto semantico [+ umano] retto da
preposizione a: ho incontato a Giovanni,
salutami a tuo fratello

Caratteristiche dei dialetti meriodionali


estremi:
- diverso vocalismo tonico (a cinque vocali,
assenza di vocali chiuse)
- le vocali atone finali sono solo tre: i, a, u
(tila, cruci, filu...)
-
DIALETTI ITALIANIZZANTI

L’italianizzazione riguarda in misura minore o


maggiore tutto il repertorio del dialetto. È un
fenomeno che colpisce in particolare il lessico
originario dei dialetti.
Si formano coppie sinonimiche. Il termine del
dialetto arcaico può convivere o essere
soppiantato da un termine dell’italiano quasi
sempre rifonetizzato. È una sorta di traduzione
in dialetto del termine italiano.

Esempio dal salentino:


agnello: italiano
aunu: dialetto arcaico
agnellu, agnieddu: dialetto italianizzato

Dal calabrese meridionale:


fazzoletto: italiano
muccaturi: dialetto arcaico
fazzolettu: dialetto italianizzato

Dal bolognese
trovare: ital.
catér: dialetto arcaico
truver: dialetto italianiz.

IL TIPO LINGUISTICO ITALIANO


Tratti che caratterizzano il tipo linguistico
italiano:
- importanza delle vocali nella struttura in
sillabe;
- posizione libera dell’accento (anche se la
maggioranza delle parole è accentata sulla
penultima sillaba);
- suffissi alterativi per esprimere grandezza e
piccolezza (campanella, campanone,
scatolina, scatolone, ecc.);
- possibilità di formare parole per
composizione (cassapanca, aspirapolvere,
ecc.);
- possibilità di non esprimere il pronome
personale (dormo bene, piove, ecc.);
- maggiore libertà nell’ordine delle parole
(Mario canta domani; domani canta
Mario; canta Mario domani).

Con le altre lingue romanze condivide:


- la preferenza per la sequenza
determinato+determinante (la casa di
Giulia, la gonna gialla, piazza Garibaldi,
ecc.);
- la tendenza a dare maggiore pregnanza
semantica al nome più che al verbo, quindi
alla parte esterna della frase più che a
quella centrale.

L’ITALIANO STANDARD

Definiamo standard una lingua che


rappresenta il modello di riferimento di
una comunità linguistica e che ha carattere
neutro, non marcato.

L’italiano standard è la lingua descritta


dagli strumenti di riferimento, come
dizionari e grammatiche.

Deriva dalla lingua letteraria fissatasi nel


Cinquecento sul fiorentino trecentesco di
cui porta ancor oggi le tracce (per es. il
dittongo --uo-- in parole come buono, il
nesso atono --er -- in forme come amerò,
ecc.). Nel tempo si è però distanziato dal
modello letterario.

In generale il prestigio del fiorentino si è


esaurito a favore dell’italiano
settentrionale e (in misura minore da
qualche anno) della varietà romana.

L’italiano standard è il modello linguistico di


maggior prestigio, ma mentre nello scritto
la sua presenza e il suo uso sono
estremamente rilevanti, nel parlato i suoi
usi sono più limitati. Dal punto di vista
fonetico è realizzato solo parzialmente nella
comunicazione orale.

MORFOLOGIA
La morfologia studia le forme delle parole e
il modo in cui queste forme cambiano per
esprimere diversi valori grammaticali.

L’italiano è una lingua flessiva: le sue forme


nominali, verbali, pronominali flettono,
variano cioè la desinenza per esprimere
significati grammaticali diversi.

La morfologia flessiva studia il modo in cui


si esprimo i diversi significati grammaticali.

La flessione
- dei nomi, degli articoli e degli aggettivi
indica genere (maschile/femminile) e
numero (singolare/plurale);
- dei pronomi indica numero, persona
(prima, seconda, ecc.) e funzione sintattica
(io soggetto, me oggetto);
- dei verbi indica persona, numero, tempo,
modo (amo, amerei, ecc.), aspetto (amai,
ho amato, amavo) e diatesi (amo, sono
amato, ecc.).

La morfologia lessicale o derivazionale


studia invece la formazione delle parole
attraverso la derivazione e la composizione.
Da una parola base se ne possono ricavare
delle altre.
In base al sistema morfologico le lingue sono
classificate in analitiche e sintetiche.

Lingue analitiche o isolanti: ogni


significato è rappresentato da un solo
elemento, una sola parola autonoma che non
cambia forma.

Lingue sintetiche: più elementi si uniscono,


si legano in una sola parola per esprimere
significati diversi.

Gli elementi isolati o legati insieme in una


parola sono i morfemi.

Morfema: la più piccola unità linguistica


dotata di significato.

Nelle lingue analitiche abbiamo morfemi


liberi, in quelle sintetiche morfemi legati.
Le lingue flessive come l’italiano
appartengono alle lingue sintetiche.
In quasi tutte le parole dell’italiano possiamo
distinguere:

- un morfema lessicale, detto anche radice,


che porta il significato della parola

- uno o più morfemi grammaticali o


desinenze, che danno l’informazione
grammaticale o, in alcuni casi, sono in
grado di cambiare il significato e il ruolo
grammaticale della parola.

Se i morfemi grammaticali hanno la funzione


principale di variare la parola per darci le
forme del genere, numero, tempo, aspetto, ecc.
sono detti morfemi flessivi.

Se invece hanno anche il potere di cambiare il


significato della parola ed eventualmente la
sua categoria grammaticale, parliamo di
morfemi derivativi
morfemi morfemi morfemi morfemi
lessicali grammaticali -- lessicaligrammaticali
flessivi derivativi
ragazz-- --o ragazz-- --ata
am-- --are am-- --abile
cant-- --erei cant-- --ata
bell-- --e bell-- --ezza

La flessione grammaticale si realizza


attraverso i morfemi grammaticali che si
legano direttamente al morfema lessicale (con
qualche eccezione come alcuni tempi verbali
che si formano con l’aggiunta dell’ausiliare:
ho mangiato, avevo letto, ecc. o con lo
spostamento dell’accento: amo/amò).

La morfologia lessicale riguarda la


formazione delle parole, che in italiano può
avvenire per derivazione e per composizione.

Derivazione: si ottiene con l’aggiunta di


affissi:
suffissi: si aggiungono di seguito alla parola
base (deciso > decis-ion-e)
prefissi: si premettono alla parola base (deciso
> in--deciso)
infissi: si inseriscono nel mezzo della parola
(cantare > cant-icchi- are).

Caratteristiche dei suffissi:

1. I suffissi possono modificare anche la


categoria grammaticale di una parola:
transcategorizzazione:
es. deciso > decisione, lavorare > lavoratore,
bianco > biancheggiare, ecc.

2 Da un derivato se ne può ottenere un altro:


ricorsività (possibile anche con i prefissi, ma
più rara):
accett-are > accett-abile > accett-abil-ità
con un prefisso: ri-de-stabilizzare

Alcuni suffissi si specializzano nel formare


nomi di persona o di azione, ma più spesso
formano derivati con funzioni differenti
(benzinaio ma anche vecchiaia).

I suffissi non sono mai morfemi autonomi,


mentre i prefissi possono avere anche funzione
di preposizioni o avverbi: sotto, con, sopra,
ecc.

La composizione associa due parole distinte e


autonome formando una nuova entità (chiaro
+ scuro > chiaroscuro; porta + bagagli >
portabagagli).

I composti si distinguono in

verbali: formati dall’unione di verbo + nome


(asciugamano, portabagagli) o dall’unione di
verbo + avverbio (benedire).

nominali: derivano dall’unione di due nomi


(cassapanca), di nome + aggettivo
(pellerossa), di due aggettivi (agrodolce).
Lessema: denominatore comune a tutte le
forme che una parola può assumere => forma
registrata nel vocabolario: lemma.

Polirematiche: espressioni formate da due o


più parole con significato unitario: es. ferro da
stiro, carta di credito, conferenza stampa.

Sono sequenze particolari: non possiamo


sostituire un elemento e dire *attrezzo da stiro,
non possiamo neppure modificarne le singole
parti con l’aggiunta di determinanti: *la carta
nuova di credito, *il ferro caldo da stiro ecc.
Morfema: ciascun elemento minimo dotato di
significato di cui si compongono le parole (es.
in cas-a morfema lessicale e morfema
grammaticale).
La distinzione tra lingue analitiche e lingue
sintetiche si basa sul numero prevalente di
forme autonome (morfemi liberi) o di parole
sintetiche (morfemi legati).
In ogni lingua però esistono sia elementi
analitici sia elementi sintetici.
Es. di formazioni analitiche in italiano: i verbi
con ausiliare; il comparativo: più bello, meno
grasso; a volte forma analitica e sintetica
convivono: più cattivo e peggiore.
Es. di morfemi liberi, che da soli costituiscono
una parola: ieri, oggi...
Es. di morfemi semiliberi: possono svolgere la
loro funzione solo se legati a un nome: es.
articoli, preposizioni, ausiliari...

Allomorfi: diverse forme che un morfema può


assumere: es. prefisso in-: incoerente ma
impertinente e irripetibile; paradigmi di verbi
in cui si alternano forme con dittongo e senza
dittongo: posso, puoi, possiamo, potevo;
esiti irregolari: il plurale di amico è amici (con
l’affricata palatale), ma il plur. di cuoco è
cuochi (con occlusiva velare);
alternanza di radici come vad-o/and-iamo (in
questo caso nel paradigma si alternano forme
non direttamente derivabili le une dalle altre:
suppletivismo).
Di solito questi allomorfi sono complementari:
si escludono a vicenda, possiamo cioè usare o
l’uno o l’altro.
Esiste però anche un’allomorfia libera che fino
agli inizi del Novecento si incontrava spesso
soprattutto nei testi scritti: la prima persona
dell’imperfetto poteva essere io amavo o io
amava, alternanze della vocale protonica del
tipo questione/quistione, ecc.

Una forte spinta alla riduzione di questi


doppioni fu data da Alessandro Manzoni, che
pose su nuove basi la questione della lingua:
non più ricerca di modelli letterari ma di uno
strumento comune adatto a scrivere e
parlare di qualsiasi argomento

Mancanza di una lingua viva e spontanea;


eccessiva distanza tra lingua scritta e lingua
parlata.
1821-23: stesura del Fermo e Lucia, misto di
“frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’
francesi, un po’ anche latine”

1825-27 Promessi sposi, lingua mista toscano-


milanese (toscano libresco)

1827 soggiorno a Firenze

1840-42 seconda ed. dei Promessi sposi:


revisione linguistica: il modello è il fiorentino
parlato dalle persone colte.

Semplificazione delle oscillazioni presenti


nella lingua:
- amava > amavo (1a pers. imperf. ind.)
- sieno > siano (cong. pres.)
- avea > aveva (3a pers. imperf. ind.)
- egli, ella, essa > lui, lei, loro pron. sogg.
- loro > gli pron. atono dativo (es. gli ho detto)
- costruzioni tipiche del parlato (frasi scisse,
tema sospeso...).
1868 Relazione al ministro Broglio.
Strumenti per diffondere la lingua italiana:
pubblicazione di un dizionario fondato
sull’uso vivo fiorentino; invio di insegnanti
toscani nelle scuole primarie delle diverse
province; revisione linguistica dei libri di
lettura e dei testi della pubblica
amministrazione.

L’italiano deriva il suo carattere flessivo dal


latino, che però possedeva un grado maggiore
di flessività. Il latino cambiava desinenza
anche per esprimere la funzione sintattica:
ROS-A (“la rosa”) femminile, singolare,
soggetto;
ROS-AE (“della rosa”) femminile, singolare,
genitivo, ecc.

In italiano l’espressione della funzione


sintattica è esterna alla parola:
avviene tramite preposizioni o tramite la
posizione nella frase.
Tutte le forme che possono assumere nomi,
verbi, pronomi, ecc. rappresentano il
paradigma.
I paradigmi nominali sono più opachi:
invariabili; morfema –e che può indicare
femminile plurale (rose) ma anche maschile
singolare (cane); morfema –i che può indicare
anche il plurale femminile (mani), ecc.
Più trasparenti sono i paradigmi dei verbi, che
indicano in un solo morfema la persona, il
tempo, il modo, l’aspetto (cant-avamo).

MORFOLOGIA NOMINALE
I NOMI
La flessione dei nomi indica le categorie di
numero e di genere.
Il genere non sempre è legato al significato del
nome, in rapporto al quale è perlopiù
immotivato.
La distinzione maschile/femminile coincide
spesso con il genere naturale quando si tratta
di nomi che indicano persone o esseri animati.
Per le cose inanimate o per i concetti astratti il
genere maschile o femminile è del tutto
indipendente dal significato. È solo un genere
grammaticale.
Il maschile è il genere non marcato in cui si
inseriscono le parole nuove formate senza
suffissi e i prestiti stranieri.

Per indicare il numero i nomi italiani


sostituisco sempre la desinenza e non devono
aggiungere un nuovo morfema come avviene
in altre lingue: spagnolo: amig-o / amig-o-s
italiano: ragazz-o / ragazz-i
è un sistema più economico perché un solo
morfema grammaticale indica il genere e il
numero.
In italiano distinguiamo sei classi di nomi:
1. La classe dei nomi in -o / plur. -i: soldato/-
i, lupo/-i, fatto/-i. Sono tutti maschili, con
eccezioni come mano/-i che è femminile.
2. La classe dei nomi in -a / plur. -e: donna/-
-e, cicala/-e, causa/-e. Sono tutti femminili.
3. La classe dei nomi in -e / plur. -i:
occasione/-i, fiore/-i, insegnante/-i. Sono sia
maschili sia femminili, con l’eccezione di il
carcere maschile al singolare e femminile al
plurale: le carceri.

4. La classe dei nomi invariabili: re, virtù,


caffè, città, ecc. Sono sia maschili sia
femminili.

5. La classe dei nomi in -a / plur. -i: poeta/-i,


papa/-i. Sono maschili con l’eccezione di
arma/-i, ala/-i che sono femminili.

6. La classe dei nomi in -o / plur. -a: dito/-a,


ciglio/-a. Sono maschili al singolare e
femminili al plurale.
La classe 6 non è più produttiva. Non si
formano più plurali in -a che derivavano
direttamente dal latino.
Per molte di queste parole si è affiancato anche
un plurale in -i: il lenzuolo, le lenzuola/i
lenzuoli; il braccio, le braccia/i bracci; il
muro, le mura/i muri, ma in molti casi il
significato dei due plurali può essere diverso.
La classe 4 nell’italiano antico comprendeva
soltanto i monosillabi (re, gru, tre, ecc.); in
seguito si sono aggiunte le parole tronche
derivate da parole che avevano subito
un’apocope: virtu(de)/virtu(di) > virtù
Oggi le parole invariabili, riconducibili alla
classe 4, sono molte di più e comprendono:
- prestiti da altre lingue: bar, computer, sport;
- parole in -a: mascara;
- parole in -e: specie;
- parole in -i: crisi.
Le categorie di genere e numero in questi casi
sono espresse dagli articoli o anche dal verbo
o dal contesto.
I prestiti integrali dalle lingue straniere
arricchiscono il serbatoio delle parole
invariabili. La norma prevede infatti che il
plurale con –s finale in italiano non sia
espresso (il computer / i computer).
Nell’italiano popolare accade spesso però che
la –s del plurale non solo sia mantenuta ma sia
estesa anche al singolare (i jeans ma anche un
jeans, un fans e, per lingue diverse
dall’inglese, un murales).
In alcuni casi più rari il plurale originario si è
stabilizzato (i marines).

AGGETTIVI

Gli aggettivi si dividono in tre classi:


1. la classe in -o/-i per il maschile e -a/-e per il
femminile, che comprende le desinenze per
entrambi i numeri ed entrambi i generi
(bello/belli/bella/belle);
2. la classe in -e/-i, senza distinzione tra
maschile e femminile (triste/tristi);
3. la classe degli aggettivi invariabili che
comprende l’aggettivo pari, aggettivi che
indicano colori (rosa, viola, avana, ecc.), i
prestiti (trendy, ecc.) e altri elementi usati
come aggettivi (è un locale in; una giornata
no, ecc.).
Il comparativo in italiano è di tipo analitico:
più ricco, più triste, ecc.

Ma esistono relitti di comparativo sintetico


modellati sul latino:

migliore, minore, peggiore, inferiore (accanto


a più buono, più piccolo, più cattivo, più
basso).

Il superlativo assoluto è di tipo sintetico:


ricchissimo, tristissimo, ecc.
Sul latino sono modellati ottimo, minimo,
pessimo, infimo (accanto a buonissimo,
piccolissimo, cattivissimo, bassissimo).
Soprattutto nel parlato si sono affermati
superlativi formati con prefissi: super-eroe,
maxi-schermo ecc.
Il superlativo relativo è di tipo analitico:
Mario è il più bravo studente della nostra
scuola.
Anche gli alterati in italiano si formano tramite
suffissi che si aggiungono alla base lessicale di
nomi e aggettivi:
pover-ino, ragazz-accio, palazz-one, pan-ino,
ecc., a volte con cambiamento del genere
grammaticale: campana / campanone, scatola
/ scatolone, villa / villino, ecc.

ARTICOLO
In italiano le categorie di genere (maschile e
femminile) e di numero (singolare e plurale)
sono spesso marcate due volte, tramite
l’articolo (nella testa del sintagma) e per
mezzo del morfema grammaticale:
il (masch. sing.) tavol-o (base lessicale +
morfema grammaticale masch. sing.)
la (femm. sing.) ragazz-a (base lessicale +
morfema grammaticale femm. sing.).
In molti casi, però, l’articolo disambigua: il
poeta, le città, ecc.

L’articolo ha anche importanti funzioni


deittiche e testuali.
La scelta dell’articolo determinativo o
indeterminativo si basa:
a. sulle caratteristiche del referente (cioè della
cosa o persona a cui l’articolo si riferisce);
b. sul tipo di referenza;
c. sulla struttura informativa del testo.

a. Relativamente alle caratteristiche del


referente, se questo è costituito da una
categoria generale si usa il determinativo:
Il cavallo è un mammifero;

se invece è costituito da un termine che indica


un individuo specifico si usa
l’indeterminativo:
Posseggo un cavallo da corsa.

b. Per il tipo di referenza, se questa è univoca


si usa il determinativo:

Non sforzare l’occhio destro;


ma se il referente non è univoco usiamo
l’indeterminativo:
Si è fatto male a un occhio.

c. Per la struttura informativa, si usa l’articolo


determinativo se ci riferiamo a un elemento
dato, cioè a un referente già introdotto nel
testo, o ben noto a chi ascolta, o presente nel
luogo in cui parliamo:
Nel paese delle fate viveva una fanciulla... Un
giorno la fanciulla decise di partire…
Questa mattina il postino non è venuto.
Chiudi la porta.
Ma se l’elemento è introdotto per la prima
volta, non è noto a chi ascolta, non è presente
nel luogo in cui parliamo, si usa
l’indeterminativo:
C’era una volta una fanciulla.
Oggi è venuto un postino nuovo.
Nell’aula dovrebbe essere rimasto un
ombrello.
L’alternanza tra lo/gli e il/i o tra uno e un si è
andata fissando nel corso del tempo. Oggi
l’uso di lo è previsto davanti a s
preconsonantica (lo sforzo), nasale palatale (lo
gnomo), fricativa palatale (lo sciopero),
affricata alveolare (lo zio), semivocale j (lo
Ionio) e vocale, davanti alla quale si elide. Si
usa talvolta anche per gruppi consonantici
estranei alla tradizione italiana (lo psicologo,
ma la psicologia) e oscilla nel caso della
semivocale w (l’uomo ma il week end).

I PRONOMI PERSONALI

I paradigmi dei pronomi sono più complessi di


quelli di nomi.
Pronomi tonici = pronomi accentati; sono
forme autonome e sono quindi considerati
morfemi liberi.
Pronomi atoni (detti anche clitici)= pronomi
privi di accento; si appoggiano sempre alla
parola che segue (proclitici: mi piace) o si
legano alla parola che precede (enclitici:
dimmi); per questo motivo sono considerati
morfemi semiliberi.
I pronomi, oltre a esprimere nella flessione la
persona, il numero e, per la terza persona, il
genere, esprimono anche la funzione sintattica:
spesso cambiano in base al ruolo che debbono
svolgere.

I pronomi tonici possono svolgere la funzione


di soggetto o di complemento; per il
complemento indiretto si associano a una
preposizione: a me, con te, per lui, ecc.
Pronomi tonici
Ruolo di soggetto Ruolo di complemento
Io Me
Tu Te
Egli/ella/lui/lei [esso/essa] Lui/lei
Noi Noi
Voi Voi
Essi/esse/loro Loro

Le forme di prima e seconda persona plurale


(noi, voi) sono identiche per entrambi i ruoli
sintattici.
Per la terza persona è da tempo in atto
nell’italiano di uso comune una
semplificazione: si usano le forme del
complemento al posto delle forme soggetto
(lui, lei, loro in luogo di egli, ella, essi, esse).
In alcune aree della penisola anche te in luogo
del soggetto tu.

I pronomi atoni si adoperano solo per le


funzioni sintattiche di complemento diretto
(oggetto) o indiretto (di termine).

Per quanto riguarda la distribuzione, hanno


delle restrizioni: devono sempre precedere o
seguire il verbo (ti regalo un libro; regalati un
momento di pausa; non voglio regalarti
niente)
Di norma si pongono prima dei verbi, tranne
nel caso degli imperativi e dei modi verbali
non finiti:
lo ascolti; ascoltalo; ascoltandolo impari.
La posizione è libera con l’imperativo
negativo:
Non ascoltarlo / non lo ascoltare.

Oggi sta diventando libera anche la posizione


in presenza di infinito dipendente da un verbo,
soprattutto se verbo modale come potere,
dovere, ecc. => risalita o anticipazione del
clitico:
Mario deve ascoltarlo ogni giorno
Mario lo deve ascoltare ogni giorno
(soprattutto nel parlato).

Anche il paradigma dei pronomi atoni presenta


delle semplificazioni:
Pronomi atoni (clitici)
Complemento oggetto Complemento di termine
Mi Mi
Ti Ti
Lo/la Gli/le
Ci Ci
Vi Vi
Li/le Gli/[loro]

I pronomi di prima e seconda persona,


singolari e plurali (mi, ti, ci, vi), coincidono per
entrambi i ruoli sintattici.
Variano i clitici di terza persona (lo / la / li / le
ascolto compl. ogg.; gli / le dico – dico loro
compl. di termine).
Loro per il complemento di termine: forma in
forte regresso, anche a causa delle sue
limitazioni d’uso:
1. è bisillabo, quindi non è un pronome atono;
non può combinarsi, a differenza di gli, con
altri pronomi atoni (diglielo; dirlo loro è ormai
arcaico e totalmente in disuso);
2. ha poche possibilità di movimento nella
frase: deve collocarsi sempre dopo il verbo (ho
detto loro).

Nell’uso vivo e comune, per il compl. di


termine: gli per il maschile singolare e per il
plurale sia maschile sia femminile; le per il
femminile singolare.
Nell’italiano popolare (o substandard)
ulteriore semplificazione: gli anche per il
femminile singolare, ma si tratta di una
tendenza marcata come bassa.

Il pronome riflessivo ha
una forma tonica (sé) per il ruolo del
complemento (dovrebbe accusare sé e non gli
altri; parla sempre di sé)
una forma atona (si) tanto per il complemento
oggetto (si rade ogni mattina) quanto per il
complemento di termine (quando si vide
davanti quel colosso rimase di stucco).

Il pronome si è adoperato anche per le


costruzioni impersonali: si dice bene di te; si
parla poco quando non si sa, ecc.
E nelle costruzioni passive (si è votato ieri) ma
non è sempre facile distinguere la funzione
impersonale da quella passivante: si è scritto
molto su questo tema.
In più di un caso i clitici perdono la funzione
pronominale per assumere altri ruoli,
grammaticali e lessicali: es. verbi transitivi
usati come se fossero pronominali: mi bevo
una birra, ci facciamo un bagno (valore
intensivo: segnala una più attiva e sentita
partecipazione del soggetto all’azione).
Il pronome la assume un valore indefinito in
presenza di alcuni verbi: la sa lunga; se la
passa male, anche con funzione soggetto in
alcune espressioni fisse: o la va o la spacca.
Il pronome ne, i locativi ci e vi
Tra i pronomi atoni sono da includere anche
ne, ci, vi (con funzioni diverse da quelle dei
personali ci e vi)

Ne svolge funzioni
di partitivo (non ne voglio);
di complemento di argomento (non ne voglio
parlare);
di moto da luogo (non se ne andrà) ma in
questo ruolo sopravvive ormai quasi
esclusivamente con il verbo andarsene.

Ci ha funzioni
di locativo (non ci sono fiori, non ci vado);
di complemento indiretto se riferito a oggetti
inanimati (non ci penso mai = “non penso mai
a ciò”) o talvolta a persone ma soprattutto in
alcune espressioni tipiche del parlato (non ci
conto = “su di lui”; non ci vado mai insieme =
“con lui”).
Vi svolge il ruolo di locativo, ma è sempre più
in disuso anche nello scritto.

Sovraestensione della particella ci: ci parlo per


dire “parlo a lui, lei, loro” invece di dire gli
parlo (nel parlato molto informale).
Ci è usato ormai in moltissimi contesti:
- ha preso quasi totalmente il posto di vi come
locativo: c’è polvere / c’è polvere in casa; qui
c’è il maestro.
- ha valore attualizzante soprattutto con il
verbo avere usato nel suo significato pieno e
non come ausiliare: ci ho mal di testa
- esserci ha assunto significati particolari: aver
raggiunto lo scopo (coraggio, che ci sei); o
arrivare a comprendere, a indovinare (ora ci
sono), essere giunti alla meta, a un risultato
concreto, a un momento decisivo (Ci siamo!)
− Ha assunto significati particolari anche con
i verbi entrarci: non c’entra niente questa
storia; farcela: ce l’abbiamo fatta per un pelo;
volerci: ci vuole un tecnico, ecc.
Anche il ne in alcuni verbi attenua la sua
funzione pronominale: importarsene: non me
ne importa niente (con riferimento a un
complesso di cose e non a un referente ben
preciso).
Si assiste in alcuni di questi casi a una lenta
lessicalizzazione: il pronome ci, in particolare,
perde lo statuto di pronome e si lega
stabilmente al verbo (entrarci “essere
pertinente”, starci “essere d’accordo”, tenerci
“avere a cuore”, ecc.) cambiandone il
significato.

Funzioni allocutive
Pronomi con funzione allocutiva: servono cioè
per rivolgersi a qualcuno.

Nei rapporti paritari si usa tu per il singolare e


voi per il plurale.

Gli allocutivi di cortesia sono lei, ella per il


singolare e loro per il plurale.
Ella e loro sono però ormai in disuso. Il voi
dunque finisce con l’essere l’unico allocutivo
al plurale.
L’allocutivo di cortesia al singolare voi è da
considerarsi un regionalismo di area
meridionale. Lei è dunque l’unico allocutivo di
cortesia al singolare.

I DIMOSTRATIVI
Aggettivi e pronomi:
questo: per ciò che è vicino a chi parla;
codesto: per ciò che è vicino a chi ascolta;
quello: per ciò che è distante da chi parla e da
chi ascolta.

Tale sistema tripartito sopravvive solo nell’uso


parlato toscano e nella scrittura burocratica.
Nell’italiano scritto e parlato il sistema è ormai
solo bipartito (questo, quello).

Nel parlato i dimostrativi hanno


prevalentemente valore deittico, nello scritto
prevalentemente valore anaforico:
valore deittico:
Prendimi quel libro.
Valore anaforico:
I ragazzi che hai incontrato al bar non sono gli
stessi che ti ha presentato Mario; questi sono
di Roma, mentre quelli vengono da Firenze.

Recente fenomeno che tende ad assegnare ai


dimostrativi il valore di articolo. È un
fenomeno del parlato e degli scritti informali;
non è ammesso nella scrittura elevata e
accurata:

Ho trovato un libro in classe e non so di chi


sia, ma è probabile che l’abbia perso Giovanni
perché è andato via di corsa. Questo libro tra
l’altro ha delle note che sembrano scritte da
lui.
Laddove sarebbe sufficiente l’articolo
determinativo (Il libro tra l’altro…).

Costui, costei, costoro sono quasi scomparsi.


Colui, colei, coloro resistono nello scritto,
soprattutto al plurale, quando precedono una
relativa (coloro che/i quali vogliono aderire,
rimangano).

I RELATIVI
In italiano abbiamo tre forme diverse per il
relativo:
che: invariabile per il soggetto e per il
complemento oggetto, al singolare e al plurale;

articolo + quale: variabile per il plurale


(quali) e nell’accordo con l’articolo o con la
preposizione nel genere e nel numero (il quale
/ la quale, dei quali, alle quali, ecc.); si può
adoperare per tutti i ruoli sintattici;

preposizione + cui: solo per i ruoli di


complemento indiretto.

La seconda forma (articolo + quale) è in


regresso, soprattutto per i ruoli di soggetto e di
oggetto, e anche nello scritto comincia a essere
avvertita come arcaica.

Casi di sovraestensione del che, sempre più


usato in luogo di il quale: si parla di che
indeclinato.
Nella funzione di complemento di tempo, per
esempio, è ormai diffusissimo l’uso del solo
che in frasi come la sera che ci siamo
incontrati, il giorno che abbiamo fatto la gita
con Mario. Nel parlato non è più avvertito
come marcato.
In altri casi invece il fenomeno è più frequente
nelle varietà substandard:
una signora che conosco il marito.

Molto frequente è anche l’inserimento di un


pronome che specifica il ruolo del relativo:
un fatto che ne hanno parlato in televisione;
un posto che ci vado volentieri;
un amico, che gli posso dire tutto.
Il pronome che viene inserito serve a
disambiguare il valore del che. Viene infatti
definito che relativo analitico, perché si serve
di due elementi per trasmettere due
informazioni distinte: l’introduzione di una
relativa con il che (che svolge quasi il ruolo di
una congiunzione) e la funzione sintattica con
il pronome. Si tratta di fenomeni molto
marcati, connotati come bassi sia nello scritto
sia nel parlato.
Che congiunzione con valore indeterminato o
polivalente (subordinante generico):
copriti che fa freddo (= copriti perché fa
freddo).

I RELATIVI
In italiano abbiamo tre forme diverse per il
relativo:
che: invariabile per il soggetto e per il
complemento oggetto, al singolare e al plurale;

articolo + quale: variabile per il plurale


(quali) e nell’accordo con l’articolo o con la
preposizione nel genere e nel numero (il quale
/ la quale, dei quali, alle quali, ecc.); si può
adoperare per tutti i ruoli sintattici;

preposizione + cui: solo per i ruoli di


complemento indiretto.

La seconda forma (articolo + quale) è in


regresso, soprattutto per i ruoli di soggetto e di
oggetto, e anche nello scritto comincia a essere
avvertita come arcaica.

Casi di sovraestensione del che, sempre più


usato in luogo delle altre forme: si parla di che
indeclinato.
Nella funzione di complemento di tempo, per
esempio, è ormai diffusissimo l’uso del solo
che in frasi come la sera che ci siamo
incontrati, il giorno che abbiamo fatto la gita
con Mario. Nel parlato non è più avvertito
come marcato.
In altri casi invece il fenomeno è più frequente
nelle varietà substandard:
una signora che conosco il marito.

Molto frequente è anche l’inserimento di un


pronome che specifica il ruolo del relativo:
un fatto che ne hanno parlato in televisione;
un posto che ci vado volentieri;
un amico, che gli posso dire tutto.

Il pronome che viene inserito serve a


disambiguare il valore del che. Viene infatti
definito che relativo analitico, perché si serve
di due elementi per trasmettere due
informazioni distinte: l’introduzione di una
relativa con il che (che svolge quasi il ruolo di
una congiunzione) e la funzione sintattica con
il pronome. Si tratta di fenomeni molto
marcati, connotati come bassi sia nello scritto
sia nel parlato.
Che congiunzione con valore indeterminato o
polivalente (subordinante generico):
copriti che fa freddo (= copriti perché fa
freddo).
LA MORFOLOGIA DEL VERBO
La flessione del verbo in italiano è di
particolare trasparenza.
Può esprime il tempo, il modo, la persona e il
numero.
Il tempo va visto soprattutto come categoria
deittica: indica un tempo in rapporto al
momento dell’enunciazione. Ciò di cui
parliamo è presente, passato, futuro rispetto al
momento in cui enunciamo qualcosa.

Il modo indica l’atteggiamento del parlante nei


confronti dell’azione o dell’evento: possibilità,
irrealtà, incertezza, comando.

Abbiamo altre due categorie che riguardano la


coniugazione e le funzioni del verbo: l’aspetto
e la diatesi.
L’aspetto descrive lo svolgimento dell’azione,
sotto determinati profili o prospettive che
interessano il parlante. Ci dice se si tratti di
azioni concluse o non concluse e durative nel
tempo. L’opposizione principale è tra
aspetto perfettivo: l’azione è vista nella sua
globalità e completezza
e aspetto imperfettivo: l’azione è visualizzata
come ancora in corso, non delimitata.
Non c’è in italiano una vera e propria marca
morfologica, un elemento interno alla
desinenza che esprima l’spetto.
La diatesi è il modo con cui la persona o la
cosa indicata dal soggetto partecipa all’evento
descritto dal verbo.
Diatesi attiva, passiva, media. Quest’ultima si
realizza con il pronome riflessivo: io mi lavo
(con azione consapevole del soggetto su sé
stesso) e io mi pento, io mi ammalo (per la
ricaduta dell’azione sull’interiorità o
comunque all’interno del soggetto).
Anche per esprimere la diatesi il verbo non
varia attraverso l’alternarsi delle desinenze.

La flessione verbale esprime anche la persona


e il numero, distinguendo tra persona singolare
e plurale.
Il participio passato partecipa delle
caratteristiche della flessione nominale,
variando per il genere e il numero.

Si accorda con il soggetto se è coniugato con il


verbo essere:
Maria è arrivata presto

o con l’oggetto se è coniugato con il verbo


avere e si trova in particolari costruzioni:
Maria ha comprato una casa e Giovanni l’ha
arredata con i suoi vecchi mobili
(il participio si accorda con l’oggetto,
rappresentato dal pronome la, che lo precede).

La flessione morfologica dei verbi è più


complessa di quella dei nomi:
morfema lessicale + vocale tematica (indica la
coniugazione: a, e, i) + marca temporale e
modale + la marca personale:
am-a-v-o
legg-e-v-o
sent-i-v-o
Non sempre tutte le componenti sono
rappresentate:
am-o
legg-o
sent-o
è annullata la distinzione basata sulla vocale
tematica; un unico morfema esprime tutte le
categorie grammaticali
lo stesso accade al congiuntivo: am-i (che
peraltro coincide con la seconda persona del
presente indicativo: qualche opacità è anche
nei paradigmi verbali).

Il tempo
Le categorie temporali più importanti sono il
presente e il passato.
La distinzione tra presente e passato rispetto al
momento dell’enunciato si trova in tutti i modi
del verbo; unica eccezione: l’imperativo, che
in italiano si esprime solo al presente.

Tra le due principali categorie del tempo, il


presente è quella centrale, perché sul piano
semantico ha possibilità di esprimere più
informazioni:
1. indica coincidenza tra il momento
dell’evento e il momento dell’enunciazione
(mangio un gelato);
2. indica un’azione abituale al presente (bevo
latte ogni mattina);
3. indica una verità universale, priva di
temporalità (il ferro è un metallo);
4. nel modo indicativo il futuro ha una sua
forma, ma, soprattutto nel parlato, può essere
sostituito dal presente (ci vado domani).

Il passato serve per eventi che precedono il


momento dell’enunciazione.

Tempo fisico e tempo grammaticale:


il tempo fisico è misurabile (sistema preciso di
suddivisione dei secondi, dei minuti, delle
ore);
il tempo grammaticale esprime soltanto una
relazione tra il tempo dell’avvenimento di cui
stiamo dicendo qualcosa e quello del momento
in cui lo diciamo.

Il momento dell’avvenimento (MA) può


essersi verificato, prima, dopo o
contemporaneamente al momento
dell’enunciazione (ME).
ME è una sorta di ancora, di punto di
ancoraggio rispetto al quale giudichiamo
presente, passato o futuro l’avvenimento.

I tempi deittici hanno un solo punto di


ancoraggio (ME):
Ieri ho incontrato tuo padre (MA è passato
rispetto a ME)

Domani partirò con Maria (MA è futuro


rispetto a ME).

Nel sistema dell’indicativo, i tempi deittici


sono il presente, passato prossimo, passato
remoto, futuro semplice.
I tempi deittico-anaforici oltre ad ancorarsi a
ME si ancorano a qualcosa di espresso nel
testo, tramite un avverbio o un’altra
proposizione definiti momenti di riferimento
(MR)

Quando è arrivato Giovanni (MR) avevo da


poco finito di lavorare (MA)
MA è passato rispetto a MR e a ME.

I tempi deittico-anaforici sono il trapassato


prossimo, il trapassato remoto, il futuro
anteriore e il condizionale passato quando è
usato per esprimere il futuro nel passato
(Giovanni disse che sarebbe partito per
l’America, dove sarebbe partito indica
posteriorità rispetto al tempo deittico di
riferimento).

Nel parlato il futuro tende sempre più a essere


sostituito dal presente; tuttavia occupa altri
spazi assumendo, per esempio, valore
epistemico, per esprimere dubbio o incertezza:
saranno le 10; sarà Maria.

L’aspetto
Distinzione tra azioni concluse e non concluse,
momentanee e durative.
L’opposizione si realizza mediante la scelta
dei tempi verbali; al modo indicativo:
l’imperfetto è una forma imperfettiva
passato prossimo e passato remoto sono forme
perfettive.

L’imperfetto codifica:
- eventi passati abituali (vestivamo di bianco);
- eventi durativi (ascoltavo la musica mentre
leggevo);
- eventi finiti in testi narrativi di tipo biografico
o cronachistico => imperfetto storico o
cronachistico: prolunga la durata dell’azione
espressa dal verbo, immobilizzandola davanti
agli occhi del lettore. (Nel 1840 Manzoni
pubblicava i Promessi Sposi).
Un’azione perfettiva individua il punto iniziale
e finale dell’avvenimento, mentre un’azione
imperfettiva individua il punto iniziale e non
sempre mostra con chiarezza quello finale.

1. Quando arrivò la notizia Andrea fece


colazione come ogni mattina.
2. Quando arrivò la notizia Andrea faceva
colazione come ogni mattina.

Differenza tra passato remoto, passato


prossimo e imperfetto:
1. da giovane leggevo molto;
2. da giovane lessi molto;
3. da giovane ho letto molto.
L’azione descritta è la stessa, cambia il modo
di percepirla da parte del parlante.
Frase (1) indica l’abitualità dell’azione e
sfuma sui contorni (sulla quantità,
sull’accaduto successivo, ecc.);
frase (2) inserisce l’azione in coordinate
temporali molto ben definite, sottolineandone
compiutezza e distacco dal presente;
frase (3) rivive il processo nelle sue ricadute
successive: collega implicitamente l’enunciato
a un risultato attuale («… e quindi sono
istruito», «… mentre oggi non posso più
farlo», ecc.).
Es. distinzione tra è nato nel 1925, detto di
persona ancora vivente e nacque nel 1813 di
persona non più in vita.
Nella percezione di chi parla o scrive l’azione
espressa con il passato prossimo perdura nel
presente, è sentita come vicina soprattutto dal
punto di vista psicologico.

Al presente, quando l’evento riferito è


strettamente connesso al momento
dell’enunciazione (funzione deittica), si ha
l’uso della forma progressiva: sto mangiando
il gelato.

Funzioni aspettuali rappresentate da perifrasi


(stare + gerundio): sto parlando a telefono;
stavo studiando a casa di Giovanni
indicano un’azione progressiva; è un aspetto
imperfettivo, che serve a indicare l’azione nel
suo svolgimento.

In alcuni verbi gli infissi danno informazioni


vicine a quelle aspettuali: fischi--ett-are,
cant-erell-are, legg-icchi-are.
Indicano un’azione continuativa ma priva di
attenzione e impegno.

Il modo
In italiano esistono sette modi verbali.
Modi finiti: indicativo, congiuntivo,
condizionale e imperativo;
non finiti: infinito, gerundio, participio.

I modi finiti subiscono flessione verbale per


esprimere la persona; quelli non finiti sono
privi di flessione personale.

L’atteggiamento del parlante verso


l’enunciato, oltre che dal modo verbale, può
essere espresso, soprattutto nel parlato, anche
da avverbi come forse, sicuramente, ecc.,
dall’intonazione, dai gesti.

La principale funzione del modo, essendo


legata a ciò che il parlante pensa di ciò che
dice, è di carattere semantico. Di solito, infatti,
si lega il modo indicativo alla certezza, il
condizionale a qualcosa di possibile o di
subordinato ad alcune condizioni e il
congiuntivo a qualcosa di possibile, di
auspicabile, di desiderato e così via.
Le cose non sono sempre così lineari e
schematiche:
es. Che ore sono? Mah, saranno le 10
futuro epistemico, che indica una possibilità
e anche un dubbio, un’incertezza da parte del
parlante su ciò che sta dicendo => il modo
indicativo non segnala una certezza del
parlante e il significato dubitativo è affidato al
tempo e non al modo.
Il condizionale al passato è un modo che
adoperiamo in alcuni contesti per esprimere un
contenuto temporale: il tempo futuro al
passato: es. Giovanni disse che sarebbe partito
per l’America.

In conclusione con un tempo, il futuro,


possiamo esprimere le funzioni semantiche del
modo e con un modo, come il condizionale,
possiamo esprimere le funzioni temporali.

Il modo congiuntivo può svolgere le funzioni


semantiche tipiche del modo, spaziando dalla
probabilità all’impossibilità degli eventi, ma
può anche svolgere funzioni sintattiche; spesso
è una marca della subordinazione.

Il congiuntivo si può adoperare anche in


proposizioni indipendenti, dove assume il
valore di:
- esortativo (anche con il senso di imperativo):
si decida in fretta e scelga bene;
- dubitativo: e se avesse preso la macchina?
- ottativo (augurio o anche timore): volesse il
cielo!; che Dio ci guardi!
- esclamativo: Vedessi che prezzi!

Nelle proposizioni subordinate non sempre la


scelta del congiuntivo dipende
dall’espressione dell’incerto o
dell’impossibile. Nella scelta del congiuntivo
è molto importante il verbo della proposizione
principale.
Reggono sempre il congiuntivo:
- i verbi che esprimono un ordine, una
preghiera o un permesso (ordinò che tutte le
truppe fossero pronte per l’attacco; voglio che
tu sia qui per le 9,00; pregò che il Signore la
esaudisse; consento che la cena sia spostata
alle 21);
- i verbi che esprimono opinione (suppongo
che tu sia pronto).

Con alcuni verbi si usa l’indicativo o il


congiuntivo ma con sfumature diverse di
significato:
• ammettere, ind. 'riconoscere': ammisi
davanti al professore che non avevo studiato
bene;
cong. 'supporre': ammettendo che tu abbia
ragione, cosa dovrei fare?;
• badare, ind. 'osservare': cercò di non
badare all'effetto che gli faceva quella strana
voce;
cong. 'aver cura': mi consigliava di badare che
non cadessi;
• capire ind. 'rendersi conto': non vuole
capire che io non sono un suo dipendente;
cong. 'trovare naturale': capisco che tu voglia
andartene.
Il congiuntivo si usa inoltre:
- con alcune congiunzioni subordinanti, come
affinché, benché, sebbene, a meno che, ecc.
(sebbene sia stanco andrò a cena fuori);
- con aggettivi o pronomi indefiniti come
qualunque, chiunque, qualsiasi, dovunque
(chiunque sia non voglio vederlo);
- con espressioni impersonali, come è
necessario che, è probabile che, è bene che (è
bene che tu vada a casa al più presto)
- in sequenze ormai fisse come vada come
vada; costi quel che costi.

Solo in alcuni casi il congiuntivo esprime


dubbio o incertezza, in altri il suo uso è
condizionato da fattori sintattici.
Mi pare che tu sia nel giusto
l’incertezza è anche affidata alla semantica del
verbo della principale.

MORFOLOGIA LESSICALE
Morfologia derivazionale o lessicale: studia il
modo in cui si formano nuove parole che
ampliano il lessico italiano.
I meccanismi di cui si serve sono la
derivazione e la composizione.
Indagando nel lessico del vocabolario di base,
il 35% delle parole non viene dal latino e non
è un prestito da altre lingue: si tratta di termini
che sono stati ottenuti attraverso i
procedimenti della derivazione o della
composizione.

Derivazione
La derivazione avviene tramite gli affissi, da
distinguersi in suffissi, prefissi, infissi.
Proprietà dei suffissi:
transcategorizzazione (cambio di categoria
morfologica): deciso (aggettivo) > decisione
(sostantivo);
ricorsività: socio > sociale (aggettivo) >
socializzare (verbo) > socializzazione
(sostantivo): abbiamo sia ricorsività sia
transcategorizzazioni.
La ricorsività è possibile più raramente e solo
in alcuni casi anche con i prefissi:
stabilizzare > de-stabilizzare > ri-de-
-stabilizzare.

Nel parlato sono anche frequenti coniazioni


spontanee come ex-ex-marito o iper-iper-
-attivo, ma non sono formazioni stabili.
Verbi parasintetici: prefisso + nome o
aggettivo + morfema grammaticale
dell’infinito: bello > abbellire, nervoso >
innervosire, coppia > accoppiare, briciola >
sbriciolare ecc.
Perché si possa parlare di formazione
parasintetica, non deve esistere una parola che
abbia solo quel suffisso o solo quel morfema
grammaticale; non esistono, infatti, *abbello,
*innervoso, *accoppia, *sbriciola e neppure
*bellire, *nervosire, *coppiare, *briciolare.

È un procedimento ancora molto produttivo in


italiano: es. nei linguaggi giovanili:
impasticcarsi, incasinare ecc.

Derivazione a suffisso zero: derivazioni di


parole nuove senza l’aggiunta di suffissi. Si
tratta quasi sempre di sostantivi derivati da
verbi, che sono anche definiti deverbali a
suffisso zero: verificare > verifica, arrestare
> arresto.
Sono piuttosto frequenti nel linguaggio
burocratico amministrativo che tende a
produrne anche di specifici come inoltrare >
inoltro, reintegrare > reintegro, ripristinare >
ripristino, ecc.

Conversione: cambiamento della categoria


morfologica di una parola, senza affissi.
Es. la congiunzione perché può diventare un
sostantivo: il perché delle cose;
il participio presente di cantare è divenuto
stabilmente un sostantivo: cantante;
il verbo piacere è diventato un sostantivo: il
piacere.
Retroformazione: creazione di parole base
(inesistenti) a partire da derivati (esistenti).
Sono errori, ma a volte alcune di queste
formazioni errate con il passare del tempo si
affermano.

Es. candidare ‘presentare qualcuno come


candidato’ derivato erroneamente da
candidato, interpretato come participio
passato di un inesistente candidare (in realtà
candidato, originariamente aggettivo, è
arrivato in italiano direttamente dal latino
candidatum).
Postfazione generato, per analogia, da
prefazione in cui si è individuato erroneamente
un prefisso pre- (in realtà prefazione deriva dal
lat. praefationem).
Altre forme continuano ancora a essere
avvertite come erronee: es. redarre, tratto da
redazione o da redatto. Il verbo in realtà è
redigere (lat. redigere).

Alcuni suffissi tendono a specializzarsi, per


esempio –aio prevale nella formazione di nomi
che indicano mestieri e professioni (benzinaio,
notaio, fioraio ecc.), ma abbiamo anche
pollaio.
A volte i suffissi tendono a modificare la
categoria grammaticale solo di alcune basi; per
esempio il suffisso –oso tende a modificare
nomi in aggettivi: fatica > faticoso, noia >
noioso ecc.
È una tendenza, non una regola: es.
transcategorizzazioni con –oso da verbo ad
aggettivo: piovere > piovoso.

Gli alterati
L’alterazione consiste nell’aggiungere un
affisso non per cambiare completamente il
significato ma solo per modificarne alcuni
tratti => si aggiungono informazioni sulla
dimensione (appartamentino, scatolone);
sulla negatività di vari aspetti (ragazzaccio,
cartaccia);
su elementi affettivi (amoruccio, tesorino).
Anche i suffissi alterativi hanno solo una
tendenza a specializzarsi: per esempio alcuni
suffissi destinati a formare diminutivi o
accrescitivi, se legati ad alcune basi lessicali,
possono assumere sfumature di negatività
(attricetta, grassone) o di affettività,
confidenza e così via (ci prendiamo un
caffeino?).
Alcuni alterati divengono parole autonome: es.
carrozzina non è più una “piccola carrozza”,
ma un mezzo di trasporto per i neonati,
spazzolino è oggi solo lo “spazzolino da
denti”.
Lo stesso è avvenuto nel passaggio dal latino
all’italiano: fratello, agnello erano
originariamente degli alterati con valore
diminutivo.
Si tratta di esempi di lessicalizzazione: forme
che in una fase storica precedente della lingua
non venivano percepite come termini
autonomi del lessico, mentre da un certo
momento in poi lo diventano.
Anche alcuni casi di conversione sono
lessicalizzazioni: es. cantante; condotta,
participio passato al genere femminile, che ha
assunto il significato di “tubatura”.
In qualche caso con il suffisso –ino e qualche
volta anche con il suffisso –one, si verifica sia
lessicalizzazione sia cambio di genere:
capanna > capannone ‘grande edificio
destinato ad attività industriali o usato come
deposito di materiali’, rosa > rosone
‘finestrone decorativo applicato alla facciata di
chiese romaniche o gotiche’, spazzola >
spazzolino, ecc.
Quando un alterato si lessicalizza non può più
essere usato come alterato e quindi ricorriamo
spesso a una sostituzione di suffisso o a un
doppio suffisso: fiorellino (perché fioretto ha
assunto un altro significato ‘sottile spada senza
taglio’).

L’alterazione può interessare anche i verbi in


forme come canticchiare, fischiettare, ottenute
con un infisso invece che con un suffisso.
Possiamo formare alterati anche con
prefissoidi come super, mega, maxi, mini, ecc.
Composizione
È il secondo più importante procedimento in
italiano per la formazione delle parole.
Si ricavano parole nuove partendo da basi già
esistenti: due parole diverse si uniscono per
ottenerne una di nuovo significato.

Composti con grafia univerbata


(portaombrelli, pellerossa, agrodolce, ecc.);
composti separati (croce rossa);
composti divisi da un trattino
(fono-morfologico, afro-americano)
sul piano morfologico si comportano
esattamente come tutti gli altri composti.

I composti si comportano e sono percepiti a


tutti gli effetti come termini autonomi del
lessico => possibilità (non molto frequente) di
ottenere anche dei derivati, aggiungendo come
sempre un morfema legato: pallavolo >
pallavolista.
Tre principali tipi di composizione, ancora
oggi pienamente attivi: nome+nome
capostazione; aggettivo+aggettivo agrodolce;
verbo+nome portaombrelli.
Ne esistono anche altri; analizzando, i
composti esistenti nel lessico italiano si può
arrivare a contare fino a 11 tipi di composti, ma
si tratta di tipi poco o per nulla attivi.

La derivazione e la composizione si
differenziano anche sul piano diacronico:
derivazione: procedimento attivo e importante
fin dalle origini della nostra storia linguistica;
composizione: più frequente a partire dalla
fine del Settecento.

Composti endocentrici: all’interno


distinguiamo una testa e un modificatore.
Es. in caposquadra la testa del composto è a
sinistra e oltre a guidare il comportamento
morfologico del composto ne indirizza anche i
tratti semantici.
Nella flessione morfologica per il maschile il
plurale è dato dalla testa capisquadra (al
femminile la forma rimane invariata, le
caposquadra).
Anche i tratti rilevanti del significato si
ricavano dalla testa: sappiamo che nel
significato di questa parola è presente il tratto
[+ animato] da capo e non [- animato] da
squadra (si tratta di una “persona che comanda
la squadra”).
Ordine proprio dell’italiano prevede la
successione determinato + determinante (il
libro di Mario, la bottiglia vuota) => nei
composti la testa è quasi sempre rappresentata
dal componente di sinistra e il modificatore da
quello di destra pescespada, vagone letto,
carro attrezzi ecc.).
Ci sono delle eccezioni: i composti che
derivano o sono formati basandosi su elementi
delle lingue classiche (terremoto)
o i composti arrivati come prestiti (personal
computer, videogame).
Dall’inglese oggi arrivano molti composti che
seguono l’ordine modificatore + testa,
incidendo dunque sull’ordine base (testa +
modificatore) dell’italiano.
C’è anche la tendenza a coniare nuovi
composti dove uno dei due elementi è inglese
e l’altro è italiano (baby-pensioni, pigiama-
party).
Composti esocentrici: la testa non è
rappresentata da nessuno dei componenti della
parola, ma è reperibile al suo esterno:
in croce rossa, colletto bianco, casco blu
nessuno dei componenti ci aiuta a individuare
quale sia il significato della parola:
colletto bianco, che indica genericamente un
“impiegato di ufficio”, non ha al suo interno
nessun elemento che ci segnali il tratto [+
umano]; dobbiamo dunque reperirlo
all’esterno della parola.
Sono le conoscenze diffuse e condivise o la
cultura di una comunità linguistica che aiutano
a reperire questo elemento all’esterno.

Sono ancora presenti in italiano composti che


conservano dal latino l’ordine modificatore +
testa; questo tipo di composizione è cresciuto,
soprattutto a partire dalla fine del Settecento,
con la formazione di composti fondati su
elementi del greco e talvolta anche del latino
=> composizione neoclassica, adoperata
soprattutto per la formazione di termini
specialistici, legati a diversi settori e
discipline: es. geologia, archeologia,
epatopatia
sono accostati termini che erano autonomi
nella lingua di provenienza ma che non sono
più avvertiti come tali nella coscienza del
parlante contemporaneo.
Fortuna di queste composizioni con la
diffusione crescente delle tecnologie =>
anche per designare oggetti della vita
quotidiana: semaforo (dal greco sema “segno”
che arriva a noi attraverso il francese
sémaphore) o a citofono (dal latino cito
“presto”, coniato sul modello di telefono, dal
greco tele “lontano” attraverso il francese
téléphone ).
L’ordine dei componenti segue la regola delle
lingue classiche: la testa è a destra e il
modificatore a sinistra.
Sulla base di questo schema di composizione
sono state formate parole che hanno accostato
a un elemento classico un componente italiano
(discoteca, psicofarmaco, fotosintesi,
televisione).
Il componente che rappresentava un termine
autonomo nella lingua antica non è stato più
avvertito come tale, ma è stato trattato come un
affisso (prefisso bio-, tele-, ecc. o suffisso –
logia, -fono).
In realtà non hanno le stesse identiche
caratteristiche dei prefissi e dei suffissi che
adoperiamo nella derivazione: non sono più
parole libere rispetto alle lingue classiche da
cui derivano, però hanno una capacità di far
riconoscere il significato maggiore dei normali
prefissi e suffissi => sono definiti prefissoidi
e suffissoidi.
Fortuna di questo tipo di composizione tramite
prefissoidi e suffissoidi nell’italiano
contemporaneo: es. formazioni con –poli
(tangentopoli, vallettopoli, ecc.).
Casi in cui il prefissoide ha aggiunto un
secondo significato al significato originario:
es. auto- aveva il significato di “da sé” (es. in
autocritica) ma per abbreviazione di
automobile (“che si muove da sé”) ha assunto
anche lo stesso significato della parola
abbreviata => autostrada non vuol dire
“strada che scorre da sé” ma “strada delle
automobili”;
foto- aveva il significato di “luce o relativo alla
luce”, ancora conservato in composti come
fotosintesi, ma per abbreviazione di fotografia
(“scrittura/disegno tramite la luce”) abbiamo
avuto formazioni come fotomontaggio,
fotoamatore, ecc.

Sono diventati molto diffusi, soprattutto nel


linguaggio televisivo e nei gerghi giovanili, i
prefissoidi che indicano dimensioni (mini-,
mega-, micro-, maxi-, ecc.).

IL TESTO
Testualità e sintassi sono strettamente
connesse tra loro e tuttavia si occupano di cose
sensibilmente differenti:
la sintassi guarda al modo in cui le parole si
organizzano per formare sintagmi o frasi;
la testualità si occupa soprattutto di capire
come i componenti di una frase o più frasi
instaurino relazioni per fornire al testo
coerenza e coesione.

Testo: qualsiasi comunicazione che abbia una


chiara relazione con un contesto e che abbia un
senso coerente (anche un saluto come
buongiorno può costituire un testo).
Non esiste comunicazione senza i testi.
Una sola frase o anche una parte di frase che
siano collocate in un adeguato contesto e
abbiano un significato costituiscono un
enunciato.
Un solo enunciato può costituire un testo; più
frequentemente un testo è costituito da una
combinazione di enunciati e può essere
realizzato oralmente, essere scritto o
trasmesso.
Caratteristiche fondamentali di un testo:
l’essere dotato di senso, essere collegato a un
determinato contesto e possedere funzioni
comunicative.
Un enunciato come la macchina rossa parlava
con la berlina azzurra ha una sua correttezza
grammaticale e sintattica, ma non è un testo
perché è privo di senso e non realizza alcuna
comunicazione.
Giovanni cammina da solo sulla spiaggia
il senso che attribuisco alla frase può cambiare
in base alla conoscenza che ho di Giovanni.
Ogni frase ha un significato letterale e
invariabile (in questo caso “un essere animato
e umano si sta spostando lungo una spiaggia”),
ma ha anche un significato che cambia in base
al contesto e ciò che conosciamo del contesto.

La testualità dunque non si occupa della


correttezza grammaticale dei testi, né studia le
loro relazioni grammaticali, ma del modo in
cui i testi riescono a comunicare con efficacia
qualcosa.

La comunicazione avviene attraverso lo


scambio di testi e per avere successo deve
poter mettere in relazione le conoscenze
condivise da emittente e ricevente.

Le conoscenze condivise, il contesto, i


riferimenti corretti alla realtà esterna sono
essenziali nella produzione dei testi => come il
lessico, anche il testo è l’aspetto della lingua
che più collega sistema linguistico e realtà
extralinguistica.

Per comprendere il significato essenziale di


una frase mettiamo in atto un processo di
decodifica: individuiamo le più piccole unità e
a mano a mano le colleghiamo per comporre
unità più ampie (fonemi, parole dotate di
senso, nomi, verbi, ecc. fino alla frase,
all’insieme di frasi, ecc.).
Non basta. Abbiamo anche bisogno di partire
dalle nostre conoscenze extralinguistiche o dal
contesto per giungere al significato di ciò che
leggiamo o ascoltiamo: compiamo
un’inferenza.
Un testo si comprende inoltre nel suo insieme:
non lasciamo separati gli elementi informativi
che di volta in volta vengono aggiunti, ma li
combiniamo insieme.

Comprendere un testo è un’operazione


complessa che richiede competenze
linguistiche vere e proprie (morfologiche,
sintattiche, ecc.), competenze testuali,
conoscenza del mondo e del contesto in cui il
testo è prodotto.

Fonologia, morfologia, sintassi, lessico e


testualità sono tutte competenze linguistiche,
ma il lessico e la testualità richiedono anche
conoscenze extralinguistiche.

Principi costitutivi del testo


Un testo compie la sua funzione comunicativa
solo se è dotato di un senso, ovvero di
coerenza, e se adeguatamente costruito sul
piano grammaticale (coesione). I principi
costitutivi del testo sono la coerenza, la
coesione.

La coerenza riguarda il livello profondo del


testo, l’unità concettuale, e coinvolge la
visione e la conoscenza del mondo di ciascun
parlante. Sul piano linguistico consiste nel
collegamento logico di tutti i contenuti del
testo e nella sua continuità semantica.
Senza una coerenza semantica non esisterebbe
alcun testo:
Giovanni respira con la mano perché piange
tutto il giorno
ho detto parole inconcludenti, non ho costruito
un testo coerente.
La coesione è ugualmente importante, perché
tutti gli elementi di un testo devono essere ben
connessi tra loro e costituire un insieme coeso,
altrimenti si pregiudica la comprensione.

La coesione consiste
- nel collegamento grammaticale tra tutte le
parti di un enunciato (coeso: Maria è una bella
ragazza, ma è molto timida – non coeso:
Giovanni sono un bel ragazzo, ma è molto
timida)
- nel legare tra loro le parti del testo tramite
mezzi di varia natura linguistica, detti coesivi,
come il ma degli esempi precedenti.

I mezzi con cui si attua la coesione sono molti:


- i connettivi (infatti, perché, ma ecc.);
- sequenze che segnalano le relazioni
endoforiche (che legano cioè tra loro elementi
interni al testo), per esempio le espressioni
come si è detto, come si è visto anche come
vedremo, ecc., che rinviano a passi del testo già
pronunciati o già scritti o a passi del testo
ancora da vedere;
- le forme sostituenti o proforme, che hanno
funzione coesiva quando rinviano a un
elemento di cui si è già parlato e di cui non si
vuole ripetere il nome:
Maria ha dato molti consigli a Giovanni, ma
lui non le ha dato retta;
Manzoni non era soddisfatto della prima
stesura del romanzo: lo scrittore lombardo
cercava una lingua più efficace.

Coerenza e coesione sono dunque essenziali


per la costituzione di un testo, ma non sono
sullo stesso piano.

Giovanni ha arrivato con ritardo e non ha


portato i chiavi
È scorretto grammaticalmente ma riusciamo
comunque a dare un senso all’enunciato.
I bambini sono sempre belli, perché il
parlamento ha votato la legge elettorale
ben costruito sul piano grammaticale, ma privo
di senso.

La condizione veramente indispensabile


perché un testo ci sia e riesca a comunicare è
la coerenza; la coesione è di estrema
importanza ma svolge soprattutto un ruolo di
supporto.
Per la realizzazione e la comprensione di un
testo il contesto è essenziale.
Il contesto è caratterizzato da molti elementi e
in una comunicazione orale è fondamentale il
luogo che condividiamo con il nostro
interlocutore; in un testo scritto dobbiamo
immaginare il contesto cui si riferisce chi
scrive.
Il cotesto o contesto linguistico è l’insieme
degli elementi linguistici presenti nel testo.

Prendi l’ombrello vicino alla porta prima di


uscire e quando torni non dimenticarlo sotto

Tutto è chiaro perché condividiamo gli stessi


spazi del nostro interlocutore: il contesto
situazionale è fondamentale per capire il
senso di ciò che ci viene detto.

Il cotesto, invece, o contesto linguistico è


costituito da tutti i componenti della frase, da
ciò che è stato detto prima e dopo, per cui
riusciamo a riferire il pronome lo (non
dimenticarlo) all’ombrello che era stato già
introdotto nel testo.
Infine grazie alla nostra esperienza e alla
conoscenza del mondo che condividiamo con
il nostro interlocutore, il testo ci appare
coerente, perché sappiamo che se piove devo
prendere l’ombrello.
Quando parliamo non esplicitiamo mai
interamente tutti i contenuti, tuttavia tra
emittente e ricevente si instaura una forma di
cooperazione che aiuta a comprendersi
reciprocamente. Il filosofo inglese Paul Grice
parla di un principio di cooperazione.
Perché si abbia una buona comunicazione
devono essere rispettate quattro massime:
- la quantità di informazione che deve essere
data: il contributo informativo deve essere
tanto quanto richiesto e non di più o di meno;
- la qualità riguarda l’autenticità del
contributo che si dà alla conversazione e
prevede che si dica ciò che conosciamo come
vero; presuppone anche che non si dica ciò che
si ritiene falso o ciò su cui non si abbiano prove
sufficienti;
- la relazione richiede che il contributo alla
conversazione sia pertinente;
- il modo richiede che il contributo alla
conversazione sia chiaro ed eviti ambiguità,
oscurità, disordine nell’organizzazione dei
contenuti.

Il principio di cooperazione ci consente anche


di ricavare contenuti non esplicitati
dall’emittente: riusciamo a inferire sia le
presupposizioni sia le implicazioni.

Presupposizioni

Noi ricaviamo le presupposizioni dal


significato degli elementi che sono adoperati
nelle frasi.
Giovanni ha russato tutta la notte
il verbo russare mi fa presuppore che Giovanni
abbia fatto rumore tutta la notte e in qualunque
modo io formuli la frase (Giovanni non ha
russato tutta la notte; Se Giovanni avesse
russato tutta la notte sarei andato in un’altra
stanza), rimane stabile ciò che riesco a
presupporre tramite il significato della parola.

La presupposizione quasi coincide con


un’informazione non detta ma data per
scontata. Questa informazione rimane tale
anche se cambiamo l’enunciato in negativo.

La nozione di presupposizione è stata anche


estesa a tutte le assunzioni che il parlante fa
contando sulle conoscenze dell’interlocutore.

Implicazioni
La conoscenza del mondo condivisa con i
parlanti della nostra comunità, spesso
accompagnata dalle conoscenze linguistiche,
ci consente di ricostruire connessioni che sono
lasciate implicite nei testi.

Ho molti compiti e non verrò alla festa


non c’è un connettivo tra le due frasi che mi
consenta di capire in quale relazione siano: la
congiunzione e non esplicita il nesso logico-
-sintattico.

La conoscenza di come si colleghino gli


avvenimenti nel mondo mi fanno capire che tra
i due enunciati c’è un rapporto di causa-
-effetto.

Se la frase fosse stata formulata nel modo


seguente Ho molti compiti e verrò alla festa
saremmo stati indotti a ricostruire il rapporto
tra le due frasi come concessivo: “nonostante
abbia molti compiti verrò alla festa”.
In entrambi i casi le implicazioni sono
sufficientemente chiare, indipendentemente
dal contesto: parliamo in questo caso di
implicazioni convenzionali.

Ho molti compiti e verrò alla festa alle 6,00


non siamo sicuri che si tratti di un rapporto
causale o concessivo, perché non sappiamo se
l’orario indichi il mio arrivo molto più tardi
dell’inizio della festa o molto per tempo. Senza
la conoscenza del contesto non posso
ricostruire integralmente le implicazioni:
implicazioni non convenzionali.

Inferenze
Le operazioni che compiamo per ricostruire le
implicazioni sono definite inferenze.
Quando riceviamo un testo mettiamo subito in
atto la sua interpretazione, partendo dalla
nostra conoscenza del mondo e da una serie di
premesse che riteniamo vere per raggiungere
una conclusione che statisticamente dovrebbe
essere vera.
Questa nostra capacità di inferire, combinando
conoscenze e contesto, ci mette nelle
condizioni di interpretare anche annunci scritti
come
PARCHEGGIO – CUSTODE – COPERTO.

Noi tendiamo a interpretare un testo fin dal suo


inizio, dando subito un senso all’insieme di ciò
che stiamo leggendo o ascoltando; nello stesso
tempo, però, siamo disposti a modificare molto
velocemente le nostre inferenze:
Giovanni si preparava ad andare a scuola
anche quella mattina ed era molto
preoccupato. Il preside lo aveva rimproverato
perché non aveva saputo far mantenere il
silenzio nella classe. Era stata però la prima
volta che il professore gli aveva chiesto di far
osservare il silenzio nella classe e dopo tutto
non rientra tra i compiti di un bidello.

Importanza dei titoli di un testo


Giochi sulla spiaggia
Giovanni portò la sua barchetta sulla spiaggia
e la mise in acqua. Osservando le onde
tranquille si addormentò, ma dopo poco il
cielo si rannuvolò e una tempesta si affacciò
all’orizzonte.

Il senso che abbiamo dato al testo cambierebbe


completamente se il titolo fosse Tragedia in
mare.
I meccanismi della coesione

La coesione si serve di diversi coesivi


(connettivi, segnalazioni di relazioni
endoforiche, proforme).
Per mantenere la coesione, nel testo si attuano
diversi rinvii interni tra parti o elementi del
testo stesso.
Possiamo rinviare dirigendoci (a) verso la
sinistra del testo, e quindi verso qualcosa che
precede ed è già stato introdotto, o (b) verso la
sua destra, cioè verso qualcosa che segue e
deve ancora essere introdotto:

(a) Chiudete i libri e rimetteteli a posto. =>


rinvio anaforico

(b) Dopo averli sfogliati, rimettete i libri al


loro posto. => rinvio cataforico

Il rinvio anaforico rimanda a un elemento che


è già stato menzionato, mentre il rinvio
cataforico si riferisce e anticipa ciò che ancora
non è stato menzionato.

I rinvii cataforici ricorrono in misura minore


rispetto agli anaforici e sono adoperati
soprattutto in testi di narrativa o di cronaca
giornalistica per creare senso di attesa nel
lettore
È arrivato da tre giorni in Italia, stanco e
affamato, ma ora ringrazia Dio per averlo
salvato. Kamal è un giovane indiano...

I rinvii anaforici non solo sono più frequenti


ma sono indispensabili per la coesione di un
testo. Si creano spesso diverse catene
anaforiche che consentono la continuità dei
riferimenti.
L’elemento a cui si riferisce la proforma,
denominato punto di attacco o antecedente,
è il capo catena di una serie di rinvii che
costituiscono la catena anaforica.
I rinvii e la continuità dei riferimenti nel testo
si attuano, come abbiamo detto, attraverso
proforme, che possono essere esplicite e
lessicalmente piene, richiamando con
chiarezza ciò che è stato già menzionato nel
testo o meno esplicite.
Nel primo caso la continuità è espressa per
mezzo della ripetizione e della sostituzione
lessicale. La prima si realizza quando
antecedente e ripresa sono identici:
Le molecole sono l’unione di atomi. Sono
possibili due tipi di molecole: in un tipo tutti
gli atomi delle molecole sono esattamente
identici;; nel secondo tipo le molecole
contengono due o più atomi. Una sostanza
pura fatta da molecole che contengono
esclusivamente un tipo di atomo viene
chiamata elemento (Dalle molecole all’uomo,
a cura del BSCS – Biological Sciences
Curriculum Study –, Bologna, Zanichelli,
1980)
I club brasiliani di calcio hanno iniziato ad
ingaggiare degli assistenti sociali e degli
psicologi per rendere meno traumatico il
distacco e non creare turbative familiari. […]
I club hanno capito che per fare soldi è
necessario investire su strutture alberghiere
per ospitare giovani calciatori, maestri di
sostegno («La Stampa» 4 agosto 2007).
(esempi ripresi dalla voce di A. Ferrari,
Espressioni anaforiche in Enciclopedia
dell’italiano, a cura di R. Simone, Roma,
Treccani 2010--2011)

Nel primo esempio ci sono due catene


anaforiche, all’inizio delle quali abbiamo due
antecedenti cui nel testo si rinvia sempre e solo
per ripetizione totale. Si tratta infatti di un
testo scientifico che richiede massima
chiarezza ed esplicitezza.
Nel secondo esempio si ricorre sempre alla
ripetizione, ma si tratta di una ripetizione
parziale, che tuttavia esprime con chiarezza il
rinvio.
La sostituzione si realizza, invece, tramite
un’espressione che rinvia in modo diverso al
referente designato dall’antecedente (es.
antecedente casa – proforma abitazione).

La sostituzione si può realizzare attraverso


sinonimi:
L’autista ci faceva sobbalzare con le brusche
frenate. Al conducente le proteste della gente
non facevano alcun effetto;
iperonimi: per esempio usando il fiore per
riprendere la rosa;
perifrasi: La nostra epoca ha il gusto e il genio
della divisione e della suddivisione. In fisica,
si disgrega l’atomo: fino a pochi decenni fa
disgregare la particella più piccola degli
elementi era impensabile.

La sostituzione può avvenire anche tramite


incapsulatori anaforici, cioè di parole che
riescono a includere nel loro significato una
porzione di testo:
Nel maggio 1618 i rappresentanti imperiali
invitati per dirimere la questione tra cattolici
e riformati furono gettati dalla finestra nel
fossato del castello. L’episodio passò alla
storia come la defenestrazione di Praga.

I due partiti discutono ormai da mesi del taglio


delle spese alla sanità pubblica. La questione
non è certamente facile da risolvere.

I due partiti discutono ormai da mesi del taglio


delle spese alla sanità pubblica. La questione
non è certamente facile da risolvere.

Si può parlare di sostituzione anche nel caso in


cui per rinviare a un antecedente utilizziamo
un pronome, in questo caso però la
sostituzione non è pienamente esplicita.

La possibilità offerta dalla sostituzione


lessicale di aggiungere informazioni
sull’antecedente può anche aiutare a
distribuire meglio i contenuti informativi
lungo il testo, concentrando di volta in volta
l’attenzione del lettore o dell’ascoltatore su
contenuti differenti:
Emiliano De Cherchi è stato fermato dalla
polizia per il delitto di via Cuffaro alla
Garbatella. L’assassino quarantenne ha
ucciso la vittima con un tagliacarte.
Emiliano De Cherchi è stato fermato dalla
polizia per il delitto di via Cuffaro alla
Garbatella. Lo spietato assassino ha ucciso la
vittima con un tagliacarte.

Nel primo caso, la sostituzione aggiunge


informazioni, ma non aggiunge giudizi o
valutazioni; nel secondo caso si danno
informazioni sul tipo di delitto ma si esprime
anche una valutazione. Possiamo definire
quest’ultimo rinvio come anafora valutativa.
Anche con gli incapsulatori si può realizzare
un’anafora valutativa:
La collina è stata distrutta da un incendio che
ha compromesso la flora locale. La tragedia
ambientale è stata vissuta con stupore dagli
abitanti.

Gli incapsulatori sono molto adoperati nella


scrittura giornalistica perché consentono sia di
riprendere porzioni anche ampie di testo sia di
formulare un giudizio o un commento.

La coesione anaforica funziona diversamente


nei testi scritti rispetto ai testi parlati. In questi
ultimi, infatti, possiamo rinviare anche a
qualcosa di esterno al testo: se incontriamo un
amico che indossa una bella camicia, possiamo
anche guardarla e chiedere: dove l’hai
comprata?

La coesione si regge in questo caso attraverso


la deissi che rinvia al contesto esterno e
connette il testo alla situazione in cui il
parlante produce un enunciato.

La deissi si realizza tramite deittici, come i


pronomi personali di prima e seconda persona,
che rinviano a emittente e ricevente
specificandone di volta in volta i ruoli; gli
avverbi temporali e di luogo o tutte le
espressioni che indicano le relazioni di tempo
e di luogo (ora, ieri, domani, tra qualche
istante, ecc., qui, là, sopra, al lato di…, ecc.);
i tempi verbali.

Ora si è fatto buio: accendi il lume su quel


tavolo per favore
tutto è molto chiaro se condividiamo lo stesso
luogo.
Se devo trasporre in uno scritto questa frase,
per riferirla a una persona lontana ho bisogno
di specificare molte più cose:
Nel tardo pomeriggio di giovedì, quando fuori
stava ormai diventando buio, ho chiesto a
Giulio di accendere il lume che si trova sul
tavolo accanto alla finestra dello studio.

Ogni comunicazione che si svolge attraverso il


parlato avviene tramite un io che parla, un
luogo in cui parla (qui), e un momento in cui
formula gli enunciati (ora). Queste tre
componenti, io, qui, ora, costituiscono il
campo indicale, il campo cioè da cui il
parlante formula la comunicazione e può fare
riferimenti alla realtà esterna tramite deittici
temporali e spaziali.
Il campo indicale ha un’origine, detta in
linguistica orìgo, che si identifica con lo stesso
parlante.
L’origo dunque cambia in base al parlante e
nella comunicazione possono intrecciarsi più
campi indicali di origine e orientamento
diverso.

diverso.

Distribuzione dell’informazione

Perché la comunicazione abbia una buona


riuscita, nel testo le informazioni devono
essere ben dosate e ben distribuite: non
bisogna eccedere con ridondanze inutili né
sottrarre contenuti importanti.
Anche l’alternanza tra informazioni nuove e
vecchie deve essere ben dosata: troppe
informazioni nuove e sconosciute
all’ascoltatore o lettore rischiano di rendere
poco chiaro il testo, così come troppe
informazioni già note, per quanto più
facilmente comprensibili, trasmetteranno
pochi contenuti e non accresceranno le
conoscenze.

Se produciamo un testo parlato dobbiamo


ricordare che l’ascoltatore gode di una
memoria a breve termine, per cui non
possiamo aggiungere ogni volta troppe
informazioni nuove.

È anche opportuno segnalare quale sia


l’oggetto che vogliamo trattare, oggetto che in
un testo lungo e articolato rimarrà come
sfondo, e quali le informazioni che a mano a
mano intendiamo aggiungere su quell’oggetto.
In un enunciato
l’oggetto di cui parliamo e che rappresenta il
punto di partenza per realizzare la
comunicazione è il tema
le informazioni che aggiungiamo (cioè
l’insieme della nostra “predicazione”)
costituiscono il rema.

Di solito il tema coincide con le informazioni


già note all’interlocutore (o che riteniamo note
per l’interlocutore) e il rema con le
informazioni nuove (o che riteniamo nuove)
per l’interlocutore.

Mario ha regalato un libro a Giovanni

La frase può essere analizzata da diversi punti


di vista:
- struttura tematica:
Mario (tema) ha regalato un libro a Giovanni
(rema).

- struttura delle conoscenze


Mario (dato) ha regalato un libro a Giovanni
(nuovo).

- struttura logico-sintattica
Mario (soggetto) ha regalato (predicato) un
libro (complemento oggetto) a Giovanni
(complemento di termine).

La successione statisticamente più diffusa in


italiano e che più caratterizza le costruzioni
tematiche della nostra lingua è quella in cui il
tema e il soggetto coincidono e si trovano a
sinistra dell’enunciato, mentre il predicato
coincide con il rema e si trova a destra
dell’enunciato.
Sul piano della struttura logico-sintattica ogni
componente della frase continuerà a svolgere
sempre lo stesso ruolo in qualsiasi
comunicazione io inserisca la frase, ma sul
piano della struttura delle conoscenze non è
sempre così.
Se la frase è una risposta alla domanda Che
cosa è successo? L’intera frase si presenta per
chi la riceve come informazione nuova:

- Che cosa è successo?


- Mario ha regalato un libro a Giovanni
(nuovo).

Se frase è una risposta alla domanda Chi ha


regalato un libro a Giovanni? La struttura
delle conoscenze è ancora diversa:

- Chi ha regalato un libro a Giovanni?


- Mario (nuovo) ha regalato un libro a
Giovanni (dato).

L’italiano ha la possibilità di modificare


l’ordine dei componenti di una frase e ciò offre
la possibilità di mettere più in evidenza alcune
parti lasciandone sullo sfondo altre in
costruzioni che sono denominate costruzioni
marcate.
SINTASSI
Le singole unità di cui si compone la sintassi
italiana sono il sintagma, la frase semplice e la
frase complessa.
Rapporti paradigmatici e sintagmatici
Le parole non vivono isolate le une dalle altre
ma instaurano legami tra loro. I rapporti che
le parole possono avere tra loro sono o di
natura sintagmatica o di natura
paradigmatica.

I rapporti sintagmatici sono i legami che si


instaurano tra le parole che compaiono in una
stessa frase:
Il fratello di Mario ha indossato una camicia
verde
In questa frase abbiamo due tipi di rapporti
sintagmatici.
Una relazione sintagmatica intercorre tra due o
più elementi quando sono combinati per
formare unità linguistiche più complesse come
i sintagmi e le frasi.
I rapporti paradigmatici sono detti anche
associativi; sono relazioni che si stabiliscono
tra due elementi di una lingua sulla base di
un’associazione grammaticale, morfologica,
lessicale. L’associazione che compiamo è
un’operazione mentale che ci induce ad
accostare parole che condividono qualcosa.

Es. di associazione fondata sulla forma: libro,


libricino, libraio, libreria. Tutte queste parole
hanno in comune la presenza del morfema
lessicale libr-.

Es. di associazione basata sul significato:


libro, volume, testo, tomo, ecc.
Queste parole sono accomunate da uno o più
aspetti del loro significato: tutte hanno a che
fare con l’oggetto indicato dalla parola libro.

Spesso le relazioni basate sulla forma e sul


significato si intrecciano, per esempio nel caso
delle parole libro e libreria: c’è una relazione
formale perché condividono la stessa base
lessicale, ma anche una relazione semantica.

Le associazioni tra le parole possono avvenire


anche in base alla loro categoria grammaticale
(nomi, verbi, ecc.).

I rapporti paradigmatici si creano per


associazione tra parole che in una frase
potrebbero essere sostituite le une con le altre
in una stessa posizione sintagmatica: sono
rappresentati dai legami tra le parole che in un
enunciato possono comparire nello stesso
posto:

Il fratello di Mario ha indossato una camicia


verde

Azzurra
Gialla

Il fratello di Mario ha indossato una camicia


verde
sciarpa
cravatta

Il fratello di Mario ha indossato una camicia


verde

Il cugino
Il padre
L’amico

La relazione paradigmatica può essere vista


anche dal punto di vista grammaticale: nei
punti della frase in cui abbiamo operato delle
sostituzioni possono stare solo sostantivi; tutti
i sostantivi hanno una relazione paradigmatica.

I rapporti paradigmatici sono definiti come


rapporti in absentia: rispondono alla funzione
“o l’uno o l’altro”: può comparire cioè o l’uno
o l’altro elemento; i rapporti sintagmatici sono
invece rapporti in praesentia: rispondono alla
funzione “entrambi” e devono comparire uno
dopo l’altro.
I sintagmi sono sequenze strettamente legate,
unità coese che all’interno della frase possono
spostarsi solo tenendo insieme tutti gli
elementi che le compongono.

Il fratello di Mario ha indossato una camicia


verde
non è possibile spostare singoli componenti
dei sintagmi: *di Mario ha indossato verde il
fratello una camicia.

Anche l’intero sintagma non sempre si muove


con facilità all’interno della frase: ha
indossato una camicia verde, il fratello di
Mario (dove è anche da immaginare un diverso
tono di voce).

Abbiamo sintagmi nominali (SN: Il fratello di


Mario)
verbali (SV: ha indossato una camicia verde)
preposizionali (SP: ho studiato per l’esame)
aggettivali (SA: sono contento di te)
avverbiali (SAvv: ho viaggiato assai
comodamente).

Ciò che determina la natura del sintagma è la


testa, da cui dipendono il suo nome e le sue
funzioni sintattiche: la testa di un sintagma
nominale è un nome, di un sintagma
preposizionale una preposizione e così via.

Gli altri elementi che si legano alla testa sono


modificatori o complementi.
La testa del sintagma è sempre essenziale e
indispensabile.
C’è una differenza tra i SN, SV, SA, SAvv e i
SP: nei primi quattro la testa è autonoma,
mentre nel sintagma preposizionale deve
necessariamente essere accompagnata da un
modificatore, perché rappresenta la funzione
sintattica ma non è autonoma.

I sintagmi dell’italiano sono detti continui =>


gli elementi che compongono i sintagmi
tendono a non essere separati da altri elementi
o hanno molte restrizioni: non possiamo avere
*Il fratello mio amico di Mario.
Sono invece sintagmi discontinui i verbi
sintagmatici: andare giù, tirare su, portare
su, mettere sotto, ecc. Hanno una struttura
verbo + particella; il verbo è di solito un verbo
di movimento e la particella un avverbio
locativo.
Sono discontinui perché è possibile spezzare la
sequenza interponendo altri elementi: non
andare troppo giù con il colore. Anche in
questi casi però ci sono molte limitazioni.

Ordine dei costituenti


l’ordine dei costituenti di una frase, dei
componenti di un enunciato e così via in
italiano segue la direzione da sinistra a destra.
Anche nel sintagma nominale la testa è posta a
sinistra ed è seguita dai
complementi/modificatori: seguono quindi
una costruzione progressiva.
Un ordine progressivo segue tendenzialmente
anche il sintagma verbale che preferibilmente
pone prima il verbo, cioè la testa del sintagma,
poi l’oggetto e di seguito gli altri complementi
(Il giovane portava una valigia al deposito).

La prevalenza di questa struttura fa sì che


l’ordine delle parole a base dell’italiano sia
SVO (Soggetto -Verbo - Oggetto).

Questi tratti sono sempre tendenziali: sono


cioè prevalenti ma non sono assoluti.

La costruzione progressiva si rileva in vari


casi:
- le parole composte seguono perlopiù l’ordine
testa + modificatore (capostazione);
- i SN seguono lo stesso ordine (il fratello di
Mario);
- il verbo pone dopo di sé l’oggetto e poi i
complementi (diamo un fiore ai caduti)
- nella sintassi del periodo le frasi principali
tendono a precedere le subordinate.
Ci sono però anche delle eccezioni, come la
composizione neoclassica (archeologia) o
l’anticipazione stabile di possessivi e
dimostrativi (il mio collega, questa bottiglia).
Allo stesso modo non sempre è stabile l’ordine
SVO né è fissa la successione principale –
subordinate.

Si cerca in linguistica di capire le tendenze più


frequenti per cercare di ricostruire meglio il
funzionamento delle lingue; si compiono
astrazioni che facilitano la descrizione, ma le
lingue non rientrano mai in schemi rigidi e
fissi.

La frase
La frase è l’unità minima del discorso dotata di
senso compiuto; è anche detta l’unità di
massima estensione della grammatica,
composta di unità inferiori (parole, sintagmi).

La frase semplice è costituita da una sola


proposizione;
la combinazione di più proposizioni si
definisce frase complessa.
Nella grammatica tradizionale la frase
complessa è denominata periodo. Frase e
proposizione non sono perfettamente
sinonimi:
la proposizione è da intendersi come
componente del periodo o della frase
complessa.

Guardandone la struttura dal punto di vista


delle relazioni sintagmatiche, la frase si
presenta come una sequenza governata dai
rapporti gerarchici che legano i suoi
componenti:

(D = determinativo, S = sostantivo, V = verbo)


(di Carlo potrebbe anche classificarsi come
SP)

Gli alberi rappresentano nelle immagini la


struttura gerarchica che governa i rapporti tra
tutti i componenti della frase.

Alcuni sintagmi possono contenerne altri:


mangia l’osso o ha visto poca gente per strada
sono sintagmi verbali che però contengono al
loro interno sintagmi nominali e
preposizionali.

I sintagmi che ne contengono altri al loro


interno sono sintagmi complessi, mentre i
sintagmi inclusi in sintagmi complessi sono
sintagmi incassati.
La struttura della frase però può essere
analizzata da altri punti di vista, individuando
al suo interno un nucleo cui si legano in
maniera forte alcuni elementi, mentre altri si
dispongono all’esterno.
La prospettiva da cui guardiamo alla frase è in
questo caso quella della grammatica
valenziale o struttura argomentale del
verbo.
Il nucleo della frase è costituito dal verbo e
dagli elementi necessari a completarne il
significato fino a formare una frase di senso
compiuto.
Gli elementi che completano il significato del
verbo sono detti argomenti e si comportano
come gli elementi chimici (caratterizzati dalla
valenza, cioè dalla capacità degli atomi di
combinarsi con altri atomi).
Anche gli argomenti hanno la capacità di
combinarsi con il verbo: da qui deriva la
definizione di grammatica valenziale.

Abbiamo
verbi zerovalenti che non richiedono
argomenti (piovere, nevicare);
verbi monovalenti che richiedono almeno il
soggetto e dunque un solo argomento (russare,
sospirare, ecc.);
verbi bivalenti che hanno bisogno di due
argomenti (con oggetto diretto: amare, vedere,
ecc., o con oggetto indiretto preceduto da
preposizione: credere); tra questi rientrano
anche i verbi copulativi che mettono in
relazione il soggetto con un altro elemento
(costituire, essere, sembrare);
verbi trivalenti che necessitano di un
soggetto, un oggetto e un complemento
indiretto (dare, dire ecc.).

Il verbo e gli argomenti sono il nucleo della


frase, la parte essenziale, come si diceva
perché abbia autonomia e senso compiuto.
Tutto ciò che si aggiunge al nucleo non è
indispensabile per l’autonomia della frase; si
tratta di elementi extranucleari, detti anche
circostanziali perché spesso spiegano le
circostanze in cui si svolge quanto descritto nel
nucleo.

Gli elementi circostanziali godono di


maggiore libertà di movimento nella frase.
Il soggetto di solito precede il verbo e l’oggetto
lo segue, mentre il complemento indiretto
segue l’oggetto.

Spostare i circostanziali comporta meno


problemi: possiamo dire
Giovanni ha regalato un orologio a sua madre
per Natale
ma anche per Natale Giovanni ha regalato un
orologio a sua madre.

Gli elementi circostanziali possono avere la


funzione di modificare il sintagma verbale o
tutta la frase:
1) Il padre di Luca è andato a Roma in
autobus
2) Il padre di Luca è andato a Roma in autobus
la settimana scorsa
In (1) in autobus aggiunge informazioni
sull’azione espressa dal verbo (come è
andato?), mentre in (2) la settimana scorsa dà
notizie sull’intero avvenimento (quando è
andato a Roma? Quando è successo?).

L’analisi della frase fondata sulla grammatica


valenziale consente di distinguere bene il
nucleo essenziale dal resto, dando ai
componenti della frase un ruolo specifico e
non collocandoli sullo stesso piano di
importanza.
Con l’analisi logica ogni componente è sullo
stesso piano:
in Giovanni ha dato un libro alla sorella la
settimana scorsa, l’analisi logica identifica un
complemento di termine e un complemento di
tempo mettendoli sullo stesso piano;
con la struttura argomentale sappiamo che alla
sorella appartiene al nucleo e la settimana
scorsa è esterno al nucleo.
Non sempre questa analisi funziona alla
perfezione.
In alcuni contesti il numero di valenze di un
verbo può variare: nella frase Luca mangia,
mangiare rimarrà monovalente;
uno stesso verbo può cambiare numero di
valenze in base al significato: piovere usato in
senso metaforico può apparire, per esempio,
nella frase piovono soldi.
Con alcuni verbi come mangiare, cantare,
leggere è più facile che uno degli argomenti sia
sottinteso, mentre con altri, come distruggere,
costruire, è più difficile. Dipende sempre dal
contesto.

Principali tipi di frase semplice


La frase verbale contiene un verbo in
funzione di predicato (Maria compra libri
usati).
La frase nominale è priva del verbo in
funzione di predicato (Incidente
sull’autostrada Roma-Firenze).
È usata soprattutto nel linguaggio
giornalistico, ma da qui si sta sempre più
diffondendo in altri generi di scrittura.
Il cosiddetto stile nominale si è anche
affermato fin dai primi del Novecento in molta
prosa letteraria.
La preferenza per gli elementi nominali
rispetto a quelli verbali è tipica dei linguaggi
specialistici e del parlato. Si assiste, infatti,
anche al fenomeno delle nominalizzazioni.
Le nominalizzazioni consistono soprattutto
nell’adoperare un nome in luogo del verbo per
esprimere un’azione. Esistono nomi, per lo più
deverbali (derivati da verbi con l’aggiunta di
un suffisso costituire > costituzione o anche
senza alcun suffisso verificare > verifica), che
sul piano semantico indicano un’azione:
Gli operai hanno demolito il muro > la
demolizione del muro da parte degli operai

In alcune costruzioni il significato che


potrebbe essere espresso da un solo verbo è
affidato a un sostantivo preceduto da un verbo
più generico sul piano semantico:
Il presidente ha dato lettura del nuovo
provvedimento.
Ho preso la decisione di non partire.
In questi casi le categorie di tempo, modo,
aspetto e persona sono affidate al verbo, ma
l’informazione semantica è demandata al
nome.

A volte la nominalizzazione condensa


un’intera frase e consente di racchiudere due
frasi in una:
Gli operai protestano perché gli stipendi sono
stati ridotti > Gli operai protestano per la
riduzione degli stipendi

Con la nominalizzazione si riduce il numero


delle frasi nel periodo, ma si perdono
informazioni su tempo, modo, aspetto e
persona: si costruiscono testi meno trasparenti,
che spesso possono più facilmente nascondere
l’agente:
Gli operai protestano perché il Consiglio
d’amministrazione ha ridotto gli stipendi
può diventare
Gli operai protestano per la riduzione degli
stipendi
con la cancellazione dell’agente. Lo stesso
risultato si può spesso ottenere con il passivo:
Gli operai protestano perché gli stipendi sono
stati ridotti.

La frase ellittica è diversa dalla frase


nominale, perché il verbo assente è in realtà
sottinteso e si ricava da una frase precedente:
Mario vorrebbe andare al mare, sua moglie in
montagna
Una frase può essere anche ellittica del
soggetto:
La popolazione è infuriata, vuole giustizia.

Le frasi enunciative: contengono


un’affermazione positiva (i giovani amano la
musica), negativa totale (i giovani non amano
la guerra), negativa parziale (non tutti i
giovani amano la musica).

Le frasi esclamative sono segnalate dal punto


esclamativo nello scritto e da un tono
discendente nel parlato. Sono verbali (come
passa il tempo!) o nominali (Che bello!).

Le frasi volitive esprimono comando (torna


presto), esortazione (state attenti),
concessione (fai con comodo), auspicio
(abbiate la fortuna che meritate!).

Le frasi interrogative dirette sono segnalate


dal punto interrogativo nello scritto da un tono
ascendente nell’oralità e possono essere
introdotte da un pronome/aggettivo/avverbio
interrogativo (chi viene a cena?).
Sul piano semantico abbiamo
interrogative totali: riguardano l’intera frase
e richiedono una risposta sì/no (Verrai a
cena?)
interrogative parziali: riguardano un solo
elemento (Che cosa vuoi per cena?).
Le interrogative retoriche hanno già una
risposta e non la richiedono veramente (non
vorrai comprare quel libro scadente?).

Principali tipi di frase complessa

La frase complessa (o periodo) è composta da


proposizioni legate tra loro in vario modo.

Il periodo può essere


monoproposizionale, composto cioè da una
sola proposizione e quindi coincidente con la
frase semplice
biproposizionale (il tipo più frequente nel
parlato e spesso anche nello scritto)
triproposizionale
pluriproposizionale (non si incontra quasi più
nella sintassi dell’italiano).

In ciascun periodo si distinguono proposizioni


principali o reggenti o sovraordinate e
proposizioni secondarie o dipendenti o
subordinate.

Le proposizioni nel periodo si legano per


coordinazione o paratassi e per
subordinazione o ipotassi.

La coordinazione può legare tra loro sia


principali sia subordinate:
Stamattina mi sono alzato (principale) e non
ho fatto colazione (frase principale, coordinata
alla precedente) perché avevo mal di stomaco
(subordinata) e non volevo peggiorare la
situazione (frase subordinata, coordinata alla
precedente).

La coordinazione può essere


sindetica, quando le frasi sono legate tra loro
da una congiunzione (Studia e si impegna);
polisindetica quando più frasi sono connesse
da più congiunzioni (Studia e si impegna, ma
va male a scuola);
asindetica quando si legano senza
congiunzioni e nello scritto sono separate da
segni interpuntivi (sono stanco, ho sonno,
vado a dormire). È detta anche
giustapposizione.

Con la paratassi le proposizioni si allineano


sullo stesso piano, senza esplicitare rapporti di
gerarchia o logico sintattici. Oggi tende a
prevalere sulla subordinazione, soprattutto nel
parlato.
Poiché sono stanco, preferisco tornare a casa.
Sono stanco e preferisco tornare a casa.
Sono stanco, preferisco tornare a casa.

Sul piano del contenuto e del significato non


c’è differenza fra le tre frasi, ma la connessione
diventa sempre meno esplicita.
La comprensione dell’informazione viene
affidata al testo invece che alla sintassi: nel
secondo e nel terzo enunciato, l’interlocutore
inferisce il rapporto logico tra le due
preposizioni.
La coordinazione ottenuta tramite la
congiunzione e è definita coordinazione
copulativa (mangio un dolce e guardo la
televisione).
La congiunzione e mette su un piano paritario
le due frasi (o gli elementi che collega), ma
può assumere, soprattutto nel parlato, valori
differenti (causale: ho mangiato troppo e sto
male; temporale: sono uscito e ho preso
l’autobus, ecc.).

Esistono però altri tipi di coordinazione:


avversativa (ma, però, tuttavia, ecc.): non
contraddice del tutto né nega l’affermazione
che precede ma esprime un contrasto parziale
(mangio il gelato ma vorrei anche la frutta);
sostitutiva (ma, bensì, invece, ecc.): esprime
un contrasto totale (non andrò a Roma, ma
resterò a casa);
disgiuntiva (o, oppure – e anche ovvero che
però può avere anche il significato di cioè):
segnala un’alternativa (resti a casa o vai a
teatro?);
esplicativa o dichiarativa (cioè, infatti, ecc.):
chiarisce e conferma (Paolo non c’era: infatti
mi aveva detto di non sentirsi bene);
conclusiva (quindi, dunque, ecc.): completa
anche in modo consequenziale (hai sbagliato
il compito: dunque non supererai l’esame);
correlativa (e… e, né… né, non solo… ma
(anche), tanto… quanto, ecc.): congiunge due
proposizioni tramite congiunzioni o locuzioni
congiuntive ripetute (non solo non studiano
ma perdono anche tempo e denaro).

Nella scrittura giornalistica, e da qui nell’uso


comune, si sta sempre più affermando una
cosiddetta coordinazione testuale.
Alle congiunzioni e e ma viene assegnata la
funzione di introdurre non proposizioni
all’interno di una frase complessa bensì
porzioni di testo, al punto che in più di un caso
la congiunzione ma perde il valore avversativo
o sostitutivo:
Grande folla oggi nelle vie del centro per gli
ultimi acquisti prima di Natale, negozi
finalmente affollati e locali pieni. Ma sentiamo
il servizio del nostro inviato…

Le frasi complesse possono comprendere più


proposizioni in rapporto di subordinazione,
costruendo subordinate di primo grado
(direttamente dipendenti dalla principale) e di
secondo grado (dipendenti dalle subordinate di
primo grado); entrambe possono anche essere
coordinate tra loro:
Ho detto a mio fratello che partirò domani e
andrò a Parigi (una principale e due
subordinate di primo grado coordinate tra
loro);
Ho detto a mio fratello che partirò domani
perché ho un impegno da cui non posso
liberarmi (una principale, una subordinata di
primo grado, una di secondo retta da quella di
primo grado e una di terzo retta dalla
subordinata di secondo grado).
Le proposizioni subordinate possono essere
esplicite, quando il verbo è di modo finito, e
implicite quando il verbo è un infinito, un
gerundio o un participio:
es. Non vorrei fare tardi;
appena uscita, l’ho vista;
lavorando così lentamente non finirò in tempo.

Nell’italiano contemporaneo le subordinate


implicite hanno lo stesso soggetto della
principale, tranne nel caso di alcune implicite
assolute (giunta la notte, tutti si ritirarono).
Nell’italiano antico erano invece possibili
subordinate implicite con soggetto diverso
dalla principale (cantando la principessa, il re
capì).
Principali tipi di subordinate

Completive oggettive e soggettive


Esistono subordinate che possono avere
funzione di soggetto e di oggetto e fanno parte
del “nucleo” della reggente, la completano:
L’insegnante ha ammesso che Giovanna è
brava
(la subordinata che Giovanna è brava
completa il nucleo del verbo ammettere con
funzione di oggetto).

Che tu sia coraggioso è chiaro a tutti


(la subordinata Che tu sia coraggioso assume
funzione di soggetto del periodo)

Queste frasi vengono anche chiamate


argomentali, perché si comportano come gli
argomenti del verbo della frase principale: che
Giovanna è brava si comporta come
argomento di ammettere (verbo bivalente),
come se fosse un’espansione dell’oggetto la
bravura di Giovanna;
che tu sia coraggioso è il soggetto che funge
da argomento di è chiaro, quasi espansione di
Il tuo coraggio.
Possono essere esplicite (introdotte dalla
congiunzione che; con verbo all’indicativo,
congiuntivo o condizionale):
Risulta che Marco è arrivato primo (sogg.) /
Dico che sta bene (ogg.)

Sembra che sia tutto a posto (sogg.) / Pensavo


che Francesco avesse studiato (ogg.)

Si sapeva che sarebbe andata così (sogg.) /


Credevamo che sareste arrivati domani (ogg.)

o implicite (introdotte dalla preposizione di o


senza preposizione e il verbo all’infinito):
Succede di star male (sogg.) / Credevo di
annegare (ogg.)

Interrogative indirette
Contengono un dubbio o esplicitano una
domanda contenuta nella reggente:
Mi chiedo che cosa pensi di me.
Si possono considerare una sottospecie delle
completive: si comportano come oggettive e
divengono argomento del verbo della
principale.
Sono però introdotte da diverse congiunzioni
di subordinazione (se, quando, come, perché,
che cosa...) e riferiscono un dubbio o una
domanda mentre le oggettive contengono
un’enunciazione.

Le interrogative indirette esplicite in un


registro informale possono servirsi
dell’indicativo e in un registro formale del
congiuntivo, preferibile quando la reggente è
negativa (non so se sia arrivato).
Le interrogative indirette implicite sono
costruite con l’infinito (mi chiedo se uscire o
restare) e i due soggetti, della reggente e della
subordinata, coincidono.

Le altre frasi subordinate non sono


argomentali (non argomentali) e svolgono lo
stesso ruolo degli elementi extranucleari:
consentono di specificare, cause, tempo,
circostanze e così via.
Causali
Esprimono la causa di una determinata azione
espressa nella reggente:
Non mangio perché non ho tanta fame.

Le causali esplicite sono costruite con


l’indicativo e, in alcuni casi, con il congiuntivo
e il condizionale.
Il congiuntivo, in particolare, compare quando
si tratta di una causa fittizia:
Non mangio non perché non abbia fame ma
perché non mi piace la minestra

Il condizionale in causali con intento


attenuativo e valore desiderativo, potenziale:
La chiamo perché vorrei parlarle della mia
attività.
Le proposizioni causali implicite sono
introdotte da per/a/con/per il fatto di + infinito
o sono costruite con il gerundio:
non torna per non soffrire;
avendo perduto al gioco non sa come arrivare
a fine mese.

Finali
Indicano lo scopo, il fine:
Sono uscito per cercare Mario;
ti pago affinché te ne vada.

Possono essere implicite (con l’infinito) o


esplicite (con il congiuntivo presente o
imperfetto), ma il costrutto implicito è oggi il
più utilizzato, soprattutto nella lingua parlata.

Consecutive

Indicano la conseguenza dell’azione della


reggente.
Esistono due tipi di costrutti consecutivi: con
un antecedente nella reggente, oppure
semplicemente introdotti da una congiunzione
o da una locuzione congiuntiva (tanto che, che,
sicché, ecc.):
Era così strana che tutti si giravano a
guardarla;
Non ho lavorato ieri, tanto che oggi mi trovo
in difficoltà.

Nella forma esplicita il verbo è all’indicativo o


(più raramente) al congiuntivo o al
condizionale:
Non era così lontano che non potesse sentire i
nostri discorsi;
Corri così veloce che chiunque si
arrenderebbe.
Nelle implicite il verbo è all’infinito:
è stato tanto sciocco da perdere tutto.

Ipotetiche
Indicano la condizione per cui accade o
potrebbe accadere l’azione espressa nella
principale.
La reggente (apodosi) e la subordinata
ipotetica (protasi) formano insieme il periodo
ipotetico.
Di solito la protasi, introdotta da congiunzioni
come se, qualora, nel caso che, ecc., precede
l’apodosi ma può avvenire anche il contrario:
Se tu fossi in casa, verrei;
Verrei, se tu fossi in casa.

Nel periodo ipotetico del primo tipo o della


realtà i fatti sono presentati come certi e si usa
l’indicativo in entrambe le proposizioni:

se parli ti ascolto

Nel periodo ipotetico del secondo tipo o della


possibilità i fatti sono presentati come possibili
e in quelli del terzo tipo o dell’irrealtà come
impossibili; si usano il congiuntivo nella
protasi e il condizionale nell’apodosi:
se ti riuscisse di venire, sarei contento;
se fossi ricco, comprerei una Ferrari.
Nel parlato molto informale si sta diffondendo
un periodo ipotetico con il doppio imperfetto
indicativo:
Se lo sapevo, non ci venivo.

La protasi può avere una costruzione implicita:

a saperlo sarei venuto;


lavorando guadagneresti di più;
una volta convinto, accetterebbe.

Concessive

Le concessive introducono un elemento di


rottura tra una causa e l’effetto supposto:
esprimono un fatto che si verifica nonostante
ciò che è espresso nella reggente.
Sono introdotte da congiunzioni come benché,
sebbene, nonostante, quantunque,
quand’anche seguite dal congiuntivo:
Benché sia anziano, non ha dolori di nessun
tipo;
anche se, con tutto che seguite dall’indicativo:
non verrà anche se ha promesso di farlo.

Possono essere implicite:


per quanto festeggiato, non era del tutto
contento;
pur essendo ricco, non compra niente;
per essere così giovane, se la cava bene

Temporali

Indicano la relazione di tempo sussistente tra


subordinata e reggente in un rapporto di
anteriorità, contemporaneità, posteriorità:
Prima di partire, chiamami;

Finché canterai ti starò ad ascoltare;


Potrai alzarti da tavola dopo che avrai finito
di mangiare.

Nelle temporali è più frequente l’indicativo. In


alcuni casi si usa il congiuntivo:
prima che piova chiudi le finestre;
soprattutto se il fatto è presentato come
ipotetico:
avrei suonato dopo che avessero fatto silenzio.
È possibile anche la costruzione implicita:
Prima di passare, telefonerò
Camminando, guardavo le vetrine
Una volta arrivati sul luogo, capiremo meglio
di cosa si tratta.

Relative
Le proposizioni relative non rientrano tra le
frasi non argomentali perché non si
comportano come le altre subordinate. Non si
comportano neppure come le frasi
argomentali, perché non sono argomenti del
verbo della reggente ma un’espansione
dell’antecedente cui il relativo si lega.

Danno informazioni su un determinato


elemento della reggente, detto antecedente o
testa:
Ho trovato un vestito che cercavo da tanto
tempo.

Le relative si distinguono in relative


restrittive e relative appositive: le prime
sono fondamentali a definire il significato
dell’antecedente e senza di esse la frase
rimarrebbe sospesa:
Prendi le cose di cui hai bisogno;
le seconde costituiscono un’aggiunta di cui la
frase reggente potrebbe fare a meno senza
perde il nucleo del suo significato:
Sono appena arrivati Mario e Giovanni, che
erano stati bloccati nel traffico
La virgola non separa mai le relative
restrittive.

Le relative esplicite sono introdotte da


pronomi relativi (che, cui, il quale ecc.) e da
congiunzioni relative (dove, ove, donde);
hanno il verbo all’indicativo o, per indicare un
fatto possibile, al congiuntivo o al
condizionale:
Devo restituire a Marco la cravatta che mi ha
prestato
Non trovo nessuno che abbia voglia di venire
al cinema
Quello è il posto dove mi sarei seduto
Le relative implicite sono introdotte da
pronomi relativi con funzione di complemento
indiretto (cui, a cui, con cui, di cui), da
congiunzioni relative oppure dalle
preposizioni a, da e hanno il verbo all’infinito:
non c’era nessuno a cui domandare
sei il primo a tentare questa impresa

LA SINTASSI MARCATA
L’italiano tende a costruire le frasi da sinistra:
pone ad apertura di frase un tema che di solito
o è stato già introdotto nel cotesto
precedente o è ricavabile dal contesto.
Spesso il tema è anche l’elemento dato o noto.
Al tema segue il rema, che predica qualcosa
sul tema, aggiungendo informazioni e che
spesso coincide con il nuovo.

Gli elementi che compongono le frasi, i


costituenti delle frasi, si presentano a volte in
un ordine diverso da quello di base soggetto –
verbo – oggetto (SVO).
Dislocazione a sinistra
Costruzione in cui un elemento diverso dal
soggetto svolge il ruolo di tema ed è posto
all’inizio dell’enunciato:
Giuseppe ha comprato il pane => Il pane l’ha
comprato Giuseppe

Uno dei costituenti della frase (il compl. ogg.),


che sul piano sintattico dovrebbe occupare la
posizione destra della frase, viene spostato a
sinistra del verbo.
Il costituente dislocato ha sul piano testuale
valore di tema e sul piano informativo di
elemento dato: risponde alla domanda alla
domanda Chi ha comprato il pane?
(la frase non marcata invece risponde alla
domanda Che cosa ha comprato Giuseppe?)

Quando un costituente è spostato dalla sua


posizione, collocato a sinistra, ripreso e
connesso al resto della frase da un pronome
atono o tramite ne, ci (rinvio anaforico) si ha
dislocazione a sinistra.
La dislocazione può interessare, oltre
all’oggetto, un complemento:
Di questo ne parleremo la prossima volta
A casa ci sto bene
oppure un’intera frase:
Che tu sia bravo lo abbiamo sempre saputo.

La dislocazione a sinistra è ormai da tempo


ammessa anche nello scritto, soprattutto nella
scrittura giornalistica, nei testi di ampia e
brillante divulgazione, nelle scritture
espositive. È meno consentita nella scrittura
scientifica, dove è possibile ottenere lo stesso
effetto di tematizzazione tramite il passivo.

Il pane l’ha comprato Giuseppe


> Il pane è stato comprato da Giuseppe

Dove rimane al primo posto non l’agente, ma


il soggetto grammaticale che funge da tema
dato. In entrambi i casi la frase risponde alla
domanda Chi ha comprato il pane?
In un testo scientifico in cui l’autore voglia
porre in evidenza il tema non potrà scrivere La
teoria della relatività l’ha elaborata Einstein,
ma otterrà lo stesso effetto ricorrendo al
passivo: La teoria della relatività è stata
elaborata da Einstein.

Tema sospeso
Due costrutti distinti sono posti nella stessa
frase; il primo dei due però rimane sospeso,
mentre il secondo completa il senso della frase
seguendo un diverso percorso sintattico.
Quando si lascia in sospeso il tema noto
dell’enunciato, introdotto a inizio di frase
come se dovesse svolgere il ruolo di soggetto,
si ha un tema sospeso:
Io, non mi piace per niente questa cosa.
Questa storia, non ci credo proprio.
Luigi, non voglio più avere a che fare con lui.
Dolci, ne ho mangiati abbastanza a Natale.

Il tema introdotto è sempre ripreso o da un


pronome o da un dimostrativo o da un altro
elemento e, pur non avendo una prosecuzione
sintattica, ha con il resto della frase una
prosecuzione semantica.
Il tema sospeso è solo del parlato, non è
ammesso nello scritto.

Dislocazione a destra
Quando l’oggetto, un complemento o un’intera
frase sono anticipati da un pronome atono si ha
dislocazione a destra:
Lo prendi un caffè?
Non gli ho detto niente a Giovanni.
Ne abbiamo parlato a sufficienza, di questo
argomento.
Ci torno sempre volentieri in questa città.

Lo sapevo che eri stato tu.

Il pronome che anticipa un costituente ha


valore cataforico.
Il clitico si riferisce a qualcosa che il parlante
considera già dato come tema del discorso,
quindi presente all’ascoltatore, e che viene poi
ripreso, esplicitato, al termine dell’enunciato,
tramite l’isolamento a destra dell’elemento
dislocato.
Con la dislocazione a destra si intende dare
rilievo al rema lasciando in secondo piano il
tema.

Topicalizzazione (o anteposizione)
contrastiva
Nel parlato possiamo dare enfasi all’elemento
nuovo anche con il tono della voce:
IL PANE ha comprato Mario.
In questo caso la frase può rispondere alla
domanda Che cosa ha comprato Mario? (e non
come nella dislocazione a sinistra Chi ha
comprato il pane?).
Si pone in evidenza il rema, coincidente con
l’informazione nuova (il pane) collocandolo a
sinistra, ma poiché in italiano non è possibile
anteporre l’oggetto senza riprenderlo con un
pronome, si ricorre a un innalzamento del tono
di voce.
Possiamo realizzare la stessa costruzione
anche con un complemento:

A GIOVANNI dovevi dare il libro.

Frase scissa
La focalizzazione di un elemento può avvenire
tramite la scissione della frase in due parti:
la prima trasmette il contenuto nuovo, il rema,
ed è costituita dal verbo essere e dall’elemento
focalizzato; la seconda contiene il già dato ed
è introdotta da un che di ripresa seguito dal
resto dell’informazione.
È Mario che è arrivato tardi.
È a lui che ha proposto una gita.
È qui che volevo venire.
È mettere in ordine la tua stanza che mi
affatica.
Se l’elemento focalizzato coincide con il
soggetto, si può costruire la frase scissa anche
con l’infinito preceduto da preposizione:
È stato Mario ad arrivare tardi.
È stato il ministro a rassegnare le dimissioni.
La frase scissa si incontra anche nello scritto,
soprattutto nella sua versione con l’infinito.
Nel parlato le frasi scisse possono avere
costruzioni differenti (frasi pseudo-scisse):

Chi non vuole venire è lui


Se ti dico questo è perché ti sono amico
Dove il verbo essere isola e introduce
l’elemento focalizzato.

Si può avere anche il cosiddetto c'è


presentativo: c'è qualcuno che parla male di
te.
Una forma di scissione sempre più diffusa nel
parlato, ma da evitare nello scritto è anche una
costruzione come:

Mi riferisco a quelli che sono gli interessi dei


giovani in luogo di Mi riferisco agli interessi
dei giovani.
In questi casi l’elemento in comune con la
frase scissa è soprattutto la divisione in due
frasi di un unico contenuto informativo.

La topicalizzazione contrastiva e la frase scissa


sono dette costruzioni focalizzanti.
Sia le costruzioni tematizzanti sia quelle
focalizzanti fanno parte della sintassi marcata.
Con il termine marca in linguistica ci si
riferisce alla particolarità che distingue un
elemento dall’altro.

Quando parliamo di sintassi marcata, parliamo


di costruzioni in cui l’ordine base dell’italiano
SVO viene modificato. Ci si riferisce
principalmente allo spostamento nella frase
degli elementi nucleari (gli elementi
extranucleari possono disporsi con maggiore
libertà).
Le costruzioni marcate hanno quasi sempre un
valore pragmatico: tramite la diversa
collocazione dei costituenti della frase, infatti,
è possibile comunicare informazioni che
vanno al di là del significato letterale.

IL SOGGETTO NELLA FRASE

Il soggetto è l’elemento della frase più


strettamente legato al verbo. Di solito lo
precede, tranne in alcune strutture in cui
stabilmente lo segue come nel caso di è
successo qualcosa o è arrivato un acquazzone.

L’accordo del verbo nella persona, nel numero


e, con le forme composte con il participio,
anche nel genere è determinato dal soggetto.

L’italiano è una lingua che consente di non


esprimere il pronome soggetto. Tuttavia,
l’espressione del soggetto è obbligatoria
- nel caso in cui sia necessario distinguere tra
forme verbali uguali (penso che tu/lui sia
stanco);
- quando per focalizzazione, in funzione
pragmatica, lo posponiamo al verbo o lo
inseriamo in frasi scisse (lo faccio io; è lui che
piange);
- quando è sottolineato da un determinante
(loro tre non sanno da che parte andare; io che
sono la vittima devo sempre subire);
- quando si trova in correlazioni o disgiunzioni
(né tu né lui ve la cavate bene; o tu o lui dovete
uscire).

IL VERBO NELLA FRASE


Verbi inergativi e inaccusativi
Distinzione tra verbi transitivi (ammettono il
compl. ogg.) e intransitivi (non ammettono il
compl. ogg.).

I verbi intransitivi si possono suddividere in


due categorie: inaccusativi e inergativi.
I verbi inergativi, sul piano semantico,
esprimono
- azioni intenzionali (lavorare, passeggiare
ecc.)
- o azioni che non sempre sono sorvegliate
dalla nostra intenzione ma che sono
rappresentate nel loro divenire (dormire,
russare, ridere, respirare, ecc.).

Gli inaccusativi indicano perlopiù


- il rapido mutamento di uno stato che non è
determinato dall’intenzione del soggetto
(cadere, guarire, morire, ecc.);
- uno stato (stare, rimanere, ecc.);
- un cambiamento di posizione a seguito di un
moto direzionato (arrivare, entrare, ecc.);
- un avvenimento (accadere, succedere, ecc.).

L’italiano possiede, tra le lingue romanze, il


maggior numero di verbi inaccusativi.

Per distinguere i verbi inaccusativi dagli


inergativi si usano di solito alcuni test.
- La scelta dell’ausiliare: gli inergativi
ricorrono all’ausiliare avere (Mario ha
dormito bene);
gli inaccusativi a essere (Giovanni è caduto).
- La possibilità di pronominalizzare il
soggetto con il clitico ne: il soggetto dei verbi
inaccusativi può essere pronominalizzato con
il ne: arrivano parecchi spettatori > di
spettatori ne arrivano parecchi;
(non è possibile parecchi spettatori ridono >
*di spettatori ne ridono parecchi).

- La possibilità di costruzioni con il participio


assoluto, che riguarda solo i verbi
inaccusativi: arrivati gli amici, abbiamo
cominciato a cenare
(non è possibile *dormiti i bambini, siamo
usciti).
- L’uso aggettivale del participio che è
possibile solo per il participio dei verbi
inaccusativi: la ragazza sparita
all’improvviso; la pioggia arrivata all’inizio
dell’autunno. Dai verbi inergativi non
possiamo ricavare forme come *il marito
russato.
IL LESSICO

Il lessico non va confuso con il dizionario:


lessico = l’insieme delle parole di una lingua;
è un oggetto astratto (un insieme di parole e di
informazioni associate a queste parole,
immagazzinato nella nostra mente e descritto
nel dizionario)
dizionario= descrizione di questo insieme; è
un oggetto materiale (un libro o un testo
consultabile online);

La struttura del lessico non corrisponde alla


struttura del dizionario.
Il dizionario organizza le informazioni in base
alla leggibilità del testo, alle esigenze del
pubblico cui è destinato (comune per dizionari
dell’uso, specialistico per dizionari storici o
specialistici), alla natura specifica del
dizionario (etimologico, storico, ecc.).

Il dizionario monolingue, per esempio, segue


l’ordine alfabetico;
il lessico è organizzato per famiglie di parole
legate dalle forme (es. fiore, fiorellino,
rifiorire, ecc.; o sensazione, costruzione,
fissazione, ecc.), per campi semantici
(acquistare, comperare, vendere, trattare,
ecc.), per classi grammaticali (nomi, aggettivi,
verbi, ecc.).

Il dizionario in realtà non è la descrizione del


lessico, ma piuttosto un tentativo di
descrizione => esistono più dizionari di una
stessa lingua, che presentano il lessico secondo
aspetti diversi.
Rappresenta soltanto un repertorio
incompleto: è difficile stabilire il numero
esatto di parole che compongono una lingua.
D’altro canto la competenza lessicale dei
parlanti non è tale da contenere tutte le
informazioni trasmesse da un dizionario.
Analogamente al lessico e al dizionario
abbiamo le discipline rispettivamente della
lessicologia e della lessicografia.

Lessicologia: studia il lessico di una lingua per


individuare il modo in cui le parole, grazie al
loro significato, possono combinarsi o entrare
in relazione tra loro; studia la struttura e la
storia del lessico.

La lessicografia, d’altro canto, ha come scopo


principale la compilazione delle fonti
lessicografiche. È più applicativa e si occupa
di trovare i modi migliori per descrivere le
proprietà grammaticali e gli usi delle parole e
di cercare di presentare le informazioni nel
modo più utile per l’utente.

Il significato
Il lessico più di altre componenti della lingua
ha un rapporto evidente con la realtà
extralinguistica.
L’arbitrarietà del segno indica il rapporto
arbitrario tra il significato e il significante (la
‘faccia esterna’ del segno, la parola) e tra le
parole e le cose cui si riferiscono.

Ciò che le parole indicano è definito referente.


Il modo in cui nominiamo i referenti non ha
motivazioni precise, come dimostrano le
differenze tra le diverse lingue.
In una lingua una stessa parola può indicare
più cose: a glass e al suo plurale in italiano
corrispondono vetro, bicchiere, occhiali, ma
all’italiano tempo in inglese corrispondono
time, weather, tense.

Esistono nel lessico di una lingua parole


contenuto e parole funzione, per le quali si
parla anche di parole lessicali e parole
grammaticali.

Parole contenuto o lessicali comprendono le


categorie lessicali maggiori: nomi, verbi,
aggettivi e talvolta anche avverbi.
Parole funzione o grammaticali
comprendono le categorie lessicali minori,
pronomi, articoli, congiunzioni, preposizioni.

Le prime forniscono il contenuto, le seconde


svolgono delle funzioni, come quella di
chiarire le relazioni tra le parole che
introducono il contenuto.

Alle otto di mattina vado a lavoro in auto.


Se togliamo tutte le parole funzione, otteniamo
una sequenza come otto mattina vado lavoro
auto che è ancora in grado di trasmettere un
significato, anche se le relazioni tra gli
elementi sono offuscati.
Al contrario se togliamo tutte le parole
contenuto lasciando le parole funzione
otteniamo una sequenza che non esprime alcun
significato: alle di a in.
Il significato delle parole contenuto è chiamato
significato lessicale, quello delle parole
funzione significato grammaticale.

Le parole della prima classe hanno significato


da sole e sono autonome dal punto di vista
semantico, mentre le parole funzione
acquisiscono significato in relazione alle
parole contenuto cui si riferiscono.

Le parole contenuto costituiscono un insieme


aperto, nel quale in continuazione possono
entrare nuovi elementi e dal quale possono
uscire vecchi componenti;
Le parole funzione costituiscono un elenco
finito di parole.

Distinzione tra significato denotativo e


significato connotativo.
Il significato denotativo è la proprietà di una
parola di indicare genericamente l’intera
classe degli elementi che condividono le
proprietà dell’oggetto designato.
È di solito quello riconosciuto da tutta la
comunità linguistica (significato
enciclopedico).
Es. la parola cane denota genericamente tutti
gli elementi che appartengono al tipo «cane»
(quadrupede, mammifero, ecc.), tra i quali vi
sono tuttavia cani di diverso tipo e dimensione.

Il significato connotativo è rappresentato dalle


proprietà che possono aggiungersi al
significato denotativo e specificarlo. Possono,
per esempio, specificare l’atteggiamento del
parlante nei confronti del referente della
parola.
Es. mamma è connotato affettivamente rispetto
a madre che non è connotato.
Il significato connotativo esprime valori
affettivi, individuali, emotivi; possiede
sfumature psicologiche e, talvolta, valutative.

A volte si tratta di usi metaforici consolidati


nell’uso comune:
deserto come ‘luogo geografico che possiede
determinate caratteristiche’ è un significato
denotativo;
deserto come ‘solitudine’, ‘assenza totale di
ciò di cui abbiamo bisogno’, ecc. è un
significato connotativo.

Le relazioni di significato
In base al significato, i tipi di associazione tra
le parole possono essere:
- relazioni verticali o gerarchiche o di
inclusione, in cui un elemento è sovraordinato
all’altro (fiore, rosa);
- relazioni orizzontali o di equivalenza
(barriera/ostacolo);
- relazioni di opposizione (bello/brutto).

Esistono tuttavia molte associazioni che non


sono riconducibili a nessuno di questi tipi
(dormire/russare).
Inoltre le parole polisemiche attivano diverse
associazioni per ogni significato
(acceso/sbiadito per il colore, acceso/spento
per il lume, accesa/pacata per la discussione,
ecc.).

Iperonimia – iponimia
Per le relazioni gerarchiche o di inclusione
abbiamo l’iperonimia che lega due parole delle
quali l’una, l’iponimo, ha un significato più
specifico, l’altra, l’iperonimo, più generico.
Il significato dell’iponimo cioè è costituito dal
significato dell’iperonimo più qualche tratto
aggiuntivo:
fiore – rosa, giglio;
veicolo – automobile, autobus.

Sinonimia
La relazione di equivalenza è la sinonimia.
Genericamente i sinonimi sono due parole che
hanno lo stesso significato (miseria/povertà,
sasso/pietra).
Più esattamente la sinonimia dovrebbe essere
una relazione di perfetta equivalenza dei
significati tra due parole che possono essere
sostituite una all’altra senza che questo cambi
il significato della frase. In realtà raramente si
trovano parole che possano essere
perfettamente intercambiabili in tutti i contesti.
Più frequenti sono i casi di sinonimia parziale,
in cui due parole possono essere scambiate
soltanto in un contesto specifico:
es. biglietto può essere scambiato con
banconota in una frase come «un biglietto da
10 euro», ma non in «un biglietto del treno».
Molte parole non possono definirsi sinonimi
perché appartengono a registri diversi.

La sinonimia, dunque, è una relazione tra due


parole che in un dato contesto, e quindi in un
dato significato, possono essere sostituite una
all’altra senza che ciò abbia conseguenze
sull’interpretazione della frase.
In questo caso due parole sono sinonimi
quando possono essere intercambiabili in
almeno un contesto.

Antinomia
Nell’opposizione abbiamo coppie o serie di
termini che si oppongono in relazione a uno o
più aspetti del loro significato.
Abbiamo diversi tipi di relazione di
opposizione.
Opposizione polare: due antonimi sono agli
estremi, ai poli opposti di una scala possibile:
es. facile/difficile, bello/brutto, basso/alto,
pulire/sporcare.
Tra facile e difficile, bello e brutto ecc. ci sono
gradazioni intermedie e qualcosa può essere né
facile né difficile, né troppo bella né troppo
brutta ecc.
Opposizione binaria: si escludono a vicenda
(vivo/morto, promosso/bocciato); non sono
cioè su due poli opposti congiunti da
gradazioni intermedie, ma su due sezioni
totalmente separate.
Si parla anche di inversione per due termini
che esprimono la stessa relazione semantica
vista da due prospettive diverse:
comprare/vendere; marito/moglie;
dare/ricevere ecc.
I dizionari dell’italiano

L’italiano ha dizionari dell’uso, dizionari


storici e dizionari etimologici.

Un vocabolario storico si distingue perché,


oltre alle parole e alle definizioni, include
anche le citazioni d’autore; hanno una
funzione di documentazione utile per le
ricerche storiche e linguistiche.

Oggi il vocabolario storico di riferimento


dell’italiano è il GDLI, il Grande dizionario
della lingua italiana, iniziato da Salvatore
Battaglia nel 1961 e concluso nel 2002.

Nella redazione dei primi volumi del GDLI si


sono seguiti criteri tradizionali, ancora molto
legati alla lingua letteraria.
L’interesse è sempre rilevare l’uso di ogni
voce nelle fonti scritte, ma nel corso del tempo
ci sono stati alcuni aggiustamenti come:
- l’attenuazione del carattere marcatamente
letterario del vocabolario, che si è sempre più
caratterizzato come un’ampia raccolta della
lingua scritta nelle sue più diverse
realizzazioni;
- una maggiore ampiezza di voci scientifiche
(tecnicismi), che per loro natura sono prive di
esempi d’autore;
- un ampliamento delle fonti, che includono
anche saggi e quotidiani, e delle stesse fonti
letterarie che originariamente privilegiavano i
testi toscani;
- una maggiore apertura ai forestierismi sia
pure con molta cautela.

Per quanto riguarda le lingue antiche:


TLIO, Tesoro della lingua italiana delle
origini che arriva fino al 1375, data della morte
di Boccaccio.
Il TLIO è redatto a cura del Centro di ricerca
del CNR, l’Opera del vocabolario italiano
(OVI) che ha sede a Firenze, presso
l’Accademia della Crusca.
È consultabile al sito www.vocabolario.org

I vocabolari etimologici offrono, rispetto ai


dizionari storici, la prima attestazione di ogni
lemma, danno la genesi della parola in tutte le
possibili implicazioni con altre parole della
stessa lingua ed eventualmente di altre lingue
e ne seguono l’evoluzione semantica.

DEI, Dizionario etimologico dell’italiano, di


Carlo Battisti e Giovanni Alessio, Firenze,
Barbera, 1950--57;
DELI, Dizionario etimologico della lingua
italiana, stampato una prima volta a Bologna
da Zanichelli tra il 1979 e il 1988 in 5 volumi
e curato da Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli;
ristampato e rivisto nel 1999 a cura di Manlio
e Michele Cortelazzo con il titolo Il nuovo
etimologico, consultabile anche in CD--Rom.
LEI, Lessico etimologico italiano, fondato da
Max Pfister (Wiesbaden, Reichert, 1979 e
seguenti) che ha un’impostazione
monumentale. Si propone di raccogliere tutte
le attestazioni dell’italiano e dei suoi dialetti,
antichi e moderni, dalle origini fino a oggi.
Ciascuna voce è distinta in tre parti,
contrassegnate da numeri romani e
corrispondenti a una lettura etimologico-
storica ben precisa. Il numero I corrisponde
alle parole di trafila popolare, il II a quelle di
trafila dotta, il III ai prestiti di origine straniera.

Dizionari dell’uso:
GRADIT, Grande dizionario dell’uso di
Tullio De Mauro (Torino, Utet, 2000, con
supplementi di neologismi fino al 2008).
Comprende al suo interno il vocabolario di
base della lingua italiana, ovvero le circa 7000
parole che hanno maggiore frequenza d’uso.
Le voci che appartengono al Vocabolario di
base sono contraddistinte dalle marche d’uso:
FO: «fondamentali», le 1991 parole più usate
in assoluto (fare, cosa, amore, ecc.);
AU: «di alto uso», le 2750 parole molto usate
ma con ricorrenza minore delle precedenti;
AD: «di alta disponibilità», le 2337 parole
meno frequenti delle precedenti ma molto
usate nel parlato.
Un’edizione parziale del GRADIT si può
consultare al sito:
http://dizionario.internazionale.it

Gli altri dizionari dell’uso più frequentemente


adoperati e di riferimento sono: lo Zingarelli
(Bologna, Zanichelli) che viene aggiornato
ogni anno; il Devoto Oli (di Giacomo Devoto
e Gian Carlo Oli, Firenze, Le Monnier nella
nuova versione); il Sabatini Coletti di
Francesco Sabatini e Vittorio Coletti,
pubblicato con più editori; una delle edizioni è
consultabile gratuitamente on line:

http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/

Vocabolario Treccani e il portale Treccani,


dove è possibile reperire anche il dizionario dei
neologismi:
http://www.treccani.it/portale/opencms/Portal
e/homePage.html

http://www.treccani.it/lingua_italiana/neologi
smi/searchNeologismi.jsp

Le componenti del lessico italiano

parole di origine latina: hanno il ruolo più


importante
i prestiti dalle lingue straniere
neoformazioni che si possono ottenere per
derivazione o per composizione.
La maggioranza delle parole italiane proviene
dal latino volgare, dal latino parlato e quindi
dall’uso orale e non dallo scritto.
Per riuscire a riconoscere la trafila seguita
da una parola per giungere fino a noi è
molto più rilevante osservare il mutamento
fonetico che quello semantico.
Nel passaggio dal latino all’italiano si parla di
una doppia trafila, una dotta e una popolare
e così si parla di parole dotte o cultismi o anche
latinismi e di forme popolari.
Es. cavallo è una forma popolare, perché dal
lat. caballu(m) ha subito dei cambiamenti
fonetici, come la spirantizzazione della b.
Equino, equestre, equitazione sono invece
parole ancora legate alla forma classica. Sono
cultismi: non solo perché continuano la forma
latina classica, ma anche soprattutto perché
sono state introdotte nella lingua dai dotti,
attraverso la scrittura. Non sono arrivate per
trafila ininterrotta attraverso l’oralità, la lingua
parlata, ma sono state ripescate a tavolino.
Da auru(m) abbiamo avuto oro con chiusura
del dittongo, ma abbiamo l’aggettivo aureo,
occhio e oculare, oculista.

CABALLU(M) > cavallo -- trafila popolare


ma
equino, equestre (dalla base EQUUM) – trafila
dotta

AURU(M) > oro –trafila popolare ma

Aureo – trafila dotta

OCULU(M) > occhio ma


oculare, oculista – trafila dotta

Sono coniazioni dotte avvenute anche secoli


fa, ma altre si possono ancora coniare
soprattutto per i tecnicismi delle lingue
scientifiche.
Il fenomeno d’altro canto non sempre si spiega
con la coniazione dotta da parte degli
intellettuali:
es. rosa: dovrebbe aver dittongato come buona
o nuova, invece no.
Si può in questo caso ipotizzare che la parola
sia rimasta intatta perché è un portato della
tradizione poetica, una parola cioè sorvegliata
dalla comunità degli scrittori.
Miracolo, parola di uso comune e diffuso nella
religiosità popolare, non subisce gli stessi
mutamenti fonetici di occhio. C’è sempre una
componente di arbitrarietà.

Casi in cui dalla stessa base latina si sono avute


doppie forme, una popolare e una dotta, con
diversificazione semantica: allotropi:
da angŭstia > angoscia, e angustia, da plebe >
pieve e plebe.
La parola dotta è quella più vicina alla forma
latina e il criterio per definirla o per distinguere
l’allotropo dotto da quello popolare è solo
fonetico.

Gli allotropi sono dunque due forme, una dotta


e una popolare, derivate dalla stessa base latina
con diversificazione semantica:
ANGŬSTIAM > angustia
angoscia
VITIUM > vizio
vezzo
PENSIŎNE(M) > pensione
pigione
DĬSCUM > disco
desco
PLĔBE(M) > plebe
pieve

Le parole scomparse dall’uso sono dette


arcaismi. Alcuni arcaismi sono ormai del tutto
oscuri per i parlanti contemporanei, come per
esempio le parole abento “riposo, rifugio” (da
adventus) o forosetta “giovane e graziosa
contadina” (dim. di forese, lat. forensis).
Ci sono poi parole che si comprendono anche
se non si usano, di cui si ha cioè una
competenza passiva.
Es. arcaismi rimasti attivi fino al Novecento
grazie alla lingua conservativa della poesia
lirica: speme, desio, brando, ecc.
Giovanni Nencioni ha parlato per l’italiano di
«costanza dell’antico», cioè di una
compartecipazione tra le fasi più antiche e
quelle più moderne della sua storia linguistica
ignota a lingue come il francese o l’inglese.
Può anche accadere che parole morte tornino a
vivere grazie all’opera di scrittori arcaizzanti o
di orientamento puristico.
Lo storico piemontese Carlo Botta (1766-
-1838), per esempio, con la sua Storia della
guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti
d’America (1809) immise nuovamente
nell’uso parole ed espressioni che all’epoca
erano considerate arcaiche, come alla
spicciolata, andazzo, di straforo, fare
spallucce, ecc.

RINNOVAMENTO ESOGENO DEL


LESSICO (PRESTITI E CALCHI)

La lingua può incrementare il proprio lessico


attingendo a risorse esterne, per cui parliamo
in questi casi di rinnovamento esogeno.
l’italiano ha ricevuto numerosi apporti esterni
nel corso dei secoli:
greco nella tarda epoca imperiale
germanico, bizantino e arabo nell’Alto
Medioevo
galloromanzo (francese e provenzale) nel
Duecento
spagnolo nel Cinque e nel Seicento
francese tra Sette e Ottocento
inglese nel Novecento.

Il prestito linguistico è un fenomeno di


trasmissione culturale fra civiltà e gruppi
linguistici diversi. Riguarda interferenze sia tra
lingue nazionali, sia tra la lingua e il dialetto.
Tra le lingue da cui si ricavano i prestiti
bisognerebbe includere anche il latino, non per
le parole ereditate direttamente, fin dalle
origini, e divenute parole italiane, ma per le
formazioni colte che ancora oggi si attingono
a questo grande serbatoio.
Al latino ricorrono per esempio diversi
linguaggi specialistici, in particolare il
linguaggio del diritto (fattispecie, fraudolento,
interdizione, ecc.).
Possiamo parlare di
1. prestiti non integrati (detti anche prestiti
integrali o non adattati) quando si tende ad
accogliere l’elemento straniero senza
modificarlo (bar, sport, computer, ecc.);
2. prestiti integrati (detti anche prestiti
adattati) quando la parola straniera è adattata
al sistema grafico e fono--morfologico della
lingua di arrivo (bleu > blu, dollar > dollaro,
beefsteak > bistecca);
3. calchi di traduzione (detti anche calchi
strutturali o calchi sintattici) quando si forma
un nuovo composto con termini italiani,
traducendo letteralmente i singoli componenti
di una parola straniera, come grattacielo su
skyscraper, guerra fredda su cold war,
basketball > pallacanestro;
4. calchi semantici quando il significato di
una parola italiana preesistente si amplia
accogliendo anche il significato di una
corrispondente parola straniera.
Es. realizzare ‘capire’ sull’inglese to realize
(c’è anche una somiglianza fonica), stella
‘diva del cinema’ sull’inglese star.
Distinzione tra prestiti di necessità e prestiti
di lusso: i primi riguardano oggetti o concetti
sconosciuti alla comunità linguistica italiana e
sono quindi indispensabili per designare
l’elemento nuovo (es. patata);
i secondi sono indotti dalla moda o dal
prestigio che in alcune fasi storiche assumono
alcune lingue ma potrebbero essere sostituiti
da parole italiane: trend si sovrappone a
tendenza, baby sitter a bambinaia, ecc.

Prestiti arrivati all’italiano:


grecismi che si erano già acclimatati nel latino
d’età classica e postclassica, e da qui introdotti
nella nostra lingua a partire dai testi più
antichi:
es. nomi di oggetti quotidiani e domestici
(borsa, canestro, ecc.);
terminologia ittica (delfino, cefalo, ecc.);
termini di base della filosofia e delle scienze
dell’antichità (filosofia, retorica, aritmetica,
geometria, geografia, ecc.);
lingua dei cristiani (apostolo, battesimo,
martirio, ecc.).
Al greco bizantino risalgono voci comuni
(anguria, basilico, lastrico, ecc.)
voci marinaresche – spesso penetrate
attraverso Venezia e il suo territorio relative a
imbarcazioni (galea, gondola) o ad attrezzi e
operazioni marittime (molo, ormeggiare, ecc.).

Per i germanismi più antichi dobbiamo


distinguere gotismi, longobardismi e
franconismi.
All’elemento gotico appartengono termini
della vita militare (bando, elmo, guardia),
oltre che parole della vita quotidiana e dell’uso
domestico (nastro, fiasco, rocca, arredare).

Dalla dominazione longobarda entra il lascito


più consistente, in molti casi vivo ancora oggi:
bara, biacca, federa, ricco, russare, scaffale,
schermire, sguattero, balcone, zuffa,
strofinare, scranna, gruccia, parti del corpo
umano: schiena, stinco, milza, anca, guancia.

Per i franconismi il problema è più complesso:


i Franchi che arrivarono in Italia dalla Gallia,
dove si trovavano già stabilmente da due
secoli, dovevano essere bilingui, se non già
romanizzati: non è facile attribuire una parola
al franco o al galloromanzo o alla probabile
mediazione del latino medievale.

Arabismi (IX sec. conquista della Sicilia).


Nomi di prodotti agricoli o alimentari:
albicocca, arancio, limone, zucchero; lessico
scientifico: alchimia, algebra, agoritmo ecc.

Ispanismi (tra Cinque e Seicento): termini


legati alle relazioni sociali: brio, disinvoltura,
imbarazzo; lessico marinaresco: flotta, mozzo;
lessico militare: guerriglia, recluta,
squadriglia.
I francesismi penetrati nei nostri volgari già
nella prima età medievale. Molti termini sono
relativi all’organizzazione feudale: conte e
contea, cavaliere, cameriere «tesoriere»,
cugino (che oltre a essere un nome di parentela
valeva come titolo onorifico).
Un gran numero di francesismi arrivò
nell’italiano nel XVIII sec. Il periodo
rivoluzionario (1796-1799) e il quindicennio
napoleonico furono determinanti =>
francesisimi di ambito politico: coalizione,
comitato, democrazia, federalismo e
federazione, ghigliottina, giacobino,
rivoluzionare e rivoluzionario, sovversivo,
terrorismo e terrorista;
lessico militare e amministrativo: brigadiere,
burocrazia, funzionario, polizia, dimissione,
vidimare, ecc.

Anglicismi (dalla seconda metà del


Settecentoe soprattutto nel Novecento);
tecnologia: computer, mouse, monitor; settori
della comunicazione: jobs act, spending
review, welfare ecc.

L’italiano molto ha ricevuto, ma molto ha


anche dato. Le lingue europee (ed extra-
-europee) abbondano di italianismi,
specialmente nei campi in cui gli italiani si
sono storicamente affermati:
la musica: adagio, allegro, concerto, opera,
violino, violoncello;
l’architettura: balconata, facciata, loggia,
mezzanino, piedistallo;
l’arte: affresco, pittoresco;
la letteratura: madrigale, sonetto;
la cucina: maccheroni, mortadella, vermicelli,
cappuccino:
Nel Novecento il made in Italy ha esercitato
grande fascino all’estero influenzando i settori
della moda: in Finlandia troviamo profumerie
che si chiamano Senso, Finezza, Bellezza, in
Belgio negozi d’abbigliamento come
Creazione, Fascino, La Scala, e in Spagna
negozi di mobili come Nuova forma.
Gli apporti lessicali possono venire anche dai
dialetti.

Dal 1861 (unità politica dell’Italia) con la


progressiva italianizzazione, l’interscambio
italiano-dialetti aumenta per quantità e
capillarità di diffusione.
Nella seconda metà del Novecento hanno
contributo alla diffusione e allo scambio tra
lessico italiano e dialettale:
cinema e televisione;
l’emigrazione da Sud a Nord;
la sempre maggiore facilità di spostamenti, gli
scambi sempre più intensi e frequenti.

Il settore in cui più facilmente si possono


trovare prestiti dai dialetti è quello della
gastronomia.
Dal napoletano, ad esempio, abbiamo: babà,
calzone, mozzarella, pastiera, pizza,
sfogliatella, tarallo, vermicello.
Un gruppo di voci e locuzioni soprattutto di
gergo militare viene dal piemontese:
battere la fiacca, cicchetto, pelandrone.

Dalla Lombardia provengono: far ridere i


polli, mica male, tampinare “assillare”;
voci genericamente settentrionali: brufolo,
magone, sberla, pirla “sciocco, sprovveduto”,
sfiga e sfigato.

Al Veneto si devono termini del commercio e


dell’amministrazione: anagrafe, bancogiro,
catasto, scontrino;
della marineria: gondola, pontile, traghetto,
zattera.

La varietà romana è forse la più conosciuta


per le influenze del cinema e della televisione:
bagarino, fasullo, iella, pacchia “abbondanza,
vita comoda”, prendere fischi per fiaschi,
ragazzo/-a “fidanzato/-a”, tardona, tintarella,
ecc. e una serie di parole in--aro (benzinaro,
borgataro, casinaro, gattaro “chi dà da
mangiare ai gatti randagi”, usato di solito al
femminile, ecc.).

Spesso espressivo l’apporto napoletano:


ammanicato, bancarella, cafone, fesso,
iettatore e iettatura, patito “appassionato”,
scassato, sceneggiata, smammare, smorfia
“manuale per l’interpretazione dei sogni nel
gioco del Lotto”, scippo, ecc.
Per il tramite del napoletano passano molte
voci genericamente meridionali come
mannaggia o sfizioso.

Dal siciliano viene un gruppo di termini della


malavita (cosca, intrallazzo, mafia, omertà,
picciotto, pizzo) e della gastronomia (arancini,
cannoli, cassata).

Geosinonimi: sinonimi distribuiti sul territorio


italiano.
Si hanno geosinonimi quando lo stesso oggetto
è indicato con nomi diversi nelle varie regioni;
es. il frutto indicato in Toscana come
cocomero è l’anguria nelle regioni centro-
-settentrionali e il melone al Sud.

Il lessico di ogni lingua tuttavia si arricchisce


sempre di nuove parole, dette neologismi, da
non confondere con
gli occasionalismi, parole coniate a seguito di
avvenimenti particolari ma che non vivono più
di qualche mese o anno (es. nel linguaggio
politico).
Raccolte di neologismi: es. gli ultimi volumi
del GDLI e del GRADIT o i lavori di Giovanni
Adamo e Valeria Della Valle.

LE VARIETÀ LINGUISTICHE E LE
VARIETÀ DELL’ITALIANO

Le fondamentali dimensioni della variazione


sincronica di TUTTE le lingue sono costituite:
- dall’area geografica in cui la lingua è usata:
variazione diatopica;
- dallo strato o gruppo sociale cui
appartengono i parlanti (o più specificamente
dalla posizione che il parlante occupa nella
stratificazione sociale): variazione
diastratica;
- dalla situazione comunicativa nella quale si
usa la lingua: variazione diafasica;
- dal mezzo fisico-ambientale attraverso cui si
svolge la comunicazione, dal canale attraverso
cui la lingua è usata (scrittura o oralità):
variazione diamesica.
La variazione diamesica riguarda le varietà
dello scritto e del parlato, o anche dello scritto
trasmesso e del parlato trasmesso.

Per quanto riguarda la variazione diatopica, in


Italia l’influenza dei diversi dialetti sullo
standard ha dato vita agli italiani regionali.

La varietà diastratica bassa dell’italiano,


parlata e scritta da persone con un basso grado
di istruzione, è l’italiano popolare. Sono
varietà diastratiche anche quelle condizionate
dall’età (linguaggi giovanili) o
dall’appartenenza a gruppi sociali come la
malavita, gli emarginati ecc. (gerghi).
All’interno della variazione diafasica
distinguiamo tra registri (formali e informali)
e sottocodici o lingue speciali.

La variazione diacronica è invece legata al


tempo, che provoca mutamenti nelle lingue. I
mutamenti linguistici possono avvenire per
cause interne alla lingua, come la
grammaticalizzazione e la lessicalizzazione.

Con la grammaticalizzazione alcune parole


cambiano funzione grammaticale oppure
acquistano una funzione grammaticale che
prima non avevano:

es. il verbo venire in alcuni casi ha perso il suo


significato e ha preso le funzioni dell’ausiliare
essere per la costruzione del passivo:
forma attiva: gli studenti leggono il libro di
testo;
forma passiva con essere: il libro di testo è
letto dagli studenti;
forma passiva con venire: il libro viene letto
dagli studenti.

Con la lessicalizzazione alcune forme


grammaticali diventano parole nuove:
il participio presente cantante (‘che canta’) è
divenuto un sostantivo: il cantante;
la locuzione a fresco è diventato un sostantivo:
l’affresco;
la III persona del presente del verbo fare ha
assunto una funzione temporale:
poco fa, un anno fa;
la sequenza non so che è diventata un
sostantivo: un non so che.

I mutamenti linguistici possono avvenire


anche per cause esterne, come l’influenza di
altre lingue (prestiti come film, computer, ecc.)
o cambiamenti della società (per es. il pronome
di cortesia oggi usato è lei; il voi è scomparso
dallo standard, si usa solo nell’italiano
regionale meridionale).

NEOSTANDARD O STANDARD APERTO


A USI INNOVATIVI?

Sul piano grammaticale l’italiano standard si


va modificando per influenza della lingua
parlata, al punto che molti linguisti parlano di
un nuovo standard, detto appunto
“neostandard”.

La sua prima descrizione si ebbe negli anni


Ottanta del Novecento, quando si misero in
luce alcuni usi innovativi comuni a tutto il
paese. Si diedero definizioni come “italiano
dell’uso medio” (Sabatini), “italiano
tendenziale” (Mioni), “italiano neostandard”
(Berruto).

Il neostandard non investe il piano fonetico,


influenzato dall’elemento regionale, ma si
caratterizza sul piano grammaticale. È diffuso
nel parlato; nella scrittura è presente solo
nella scrittura informale o, per alcuni tratti, in
quella mediamente formale.

Si preferisce la definizione di
“neostandard” per la diffusa accettazione
da parte della comunità linguistica e per la
sua continuità dallo standard tradizionale e
di più alto prestigio.

Altri linguisti, tuttavia, preferiscono parlare di


uno standard aperto, in alcune situazioni
comunicative, a usi innovativi, senza
individuare una varietà diversa.
Non tutti i fenomeni del cosiddetto
neostandard, infatti, sono così estesi e non
tutti sono accolti allo stesso modo in tutte le
situazioni e in tutti i tipi di comunicazione.

In Italia, soprattutto nella seconda metà del XX


sec., trasformazioni sociali, politiche ed
economiche profonde hanno provocato anche
rapidi cambiamenti nella lingua.

Alcuni fenomeni un tempo considerati


inaccettabili ora sono del tutto usuali e accolti
soprattutto nel parlato, come
- il pronome obliquo di terza persona plurale
gli usato al posto di a loro: Ho incontrato gli
amici e gli ho detto di venire;
- l’uso del pronome soggetto di terza persona
lui, lei, loro, in luogo di egli, ella, essi, essa;
- la semplificazione dei dimostrativi (da tre
uscite a due): questo, per indicare persona o
oggetto vicina a parlante e ascoltatore, quello,
distante da entrambi, codesto, distante da chi
parla ma vicino a chi ascolta. Quest’ultimo
rimane soltanto nell’uso toscano e nella
scrittura burocratica;
- la particella ci ha ampiamente sostituito, in
funzione locativa, la forma più arcaica vi;
- il relativo che prevale nettamente su il quale,
la quale, ecc.
L’ITALIANO REGIONALE

Nell’italiano parlato la resa fonetica,


l’intonazione e il lessico possono arrivare a
essere molto influenzati dalla lingua locale;
nella scrittura i regionalismi incidono in
misura molto minore.

L’italiano regionale è, pertanto, una varietà


diatopica dell’italiano, che presenta differenze
fonetiche, tonetiche, sintattiche e lessicali.

La Toscana è la prima regione in cui, per la


particolare storia linguistica del paese, si
forma un italiano regionale; è unico per il
modo in cui si è formato: in continuità con
l’uso.

Anche il romanesco è un esempio di precoce


italiano regionale. Avvicinamento al toscano a
partire dal Cinquecento (conseguenza dello
spopolamento degli abitanti originari dopo il
sacco di Roma del 1527 e dell’influenza dei
papi fiorentini a partire dal XVI sec.).

Gli altri italiani regionali sono apparsi con più


forza dopo il 1861.

Ogni parlante della comunità italofona è in


grado di riconoscere se il suo interlocutore
proviene da un’area settentrionale, centrale o
meridionale. Più difficile è circoscrivere
l’esatta zona di provenienza del parlante.

Tratti che accomunano grandi aree:


es. nel Settentrione l’uso di tirare giù in luogo
di “abbassare”; sul piano fonetico, la tendenza
a scempiare le consonanti lunghe

nel Meridione il ricorso a tenere con il


significato di “avere” o a cercare nel senso di
“chiedere”; sul piano fonetico tendenza ad
allungare le b e le g intervocaliche
Ci sono anche tratti, soprattutto lessicali, che
aiutano a circoscrivere meglio le singole aree:

es. bigiare per “marinare la scuola” >


lombardo

solo più per “solo” > piemontese.

perciò per dire “sì” > siciliano

Più frequentemente è la fonetica che può


indirizzarci con maggiore precisione; va però
ricordato che caratteristiche fonetiche
regionali molto accentuate sono anche segnali
diastratici.

La nozione di dialetto italianizzato è molto


ampia e non priva di ambiguità. L’influsso del
dialetto sulle varietà dell’italiano e viceversa
può arrivare ad alti gradi di compenetrazione,
ma non dà luogo alla formazione di varietà
ibride, così fortemente miste da non riuscire
più a riconoscere se si tratti di dialetto o
italiano.

All’interno di una conversazione i parlanti


italiani possono passare non solo attraverso le
varietà del repertorio dell’italiano, ma anche
da quest’ultimo alle varietà del repertorio del
dialetto. La commutazione di codice può
essere rapida e continua.

Il fenomeno ha una larga accettazione sociale


e quindi i due codici, almeno in molti settori
della comunità, non sono in rapporto
conflittuale.

L’alternanza e la commistione di italiano e


dialetto nello stesso evento linguistico sono
una delle scelte a disposizione dei parlanti
italiani. Il discorso mistilingue può avere una
sua posizione all’interno del repertorio
linguistico, perché può essere una delle risorse
comunicative da usare in determinate
situazioni.
VARIETÀ DIAFASICHE

Determinate dalla situazione comunicativa,


costituita da vari fattori:

- contesto spazio-temporale
- interlocutori
- argomento
- chiave o tono del messaggio (serio,
scherzoso, trascurato…)
- intenzioni e scopi comunicativi
- regole di interazione e interpretazione
condivise dai membri di una comunità parlante

In base ai fattori situazionali che influiscono


sulla variazione linguistica, distinguiamo tra
registri e lingue speciali.

Registri: determinati dal grado di formalità


della comunicazione, dal ruolo degli
interlocutori, dal rapporto che intercorre tra
loro, dal grado di sorveglianza che esercita il
parlante su di sé;

lingue speciali: connesse all’argomento di cui


si parla, alla professione degli interlocutori e
alle finalità del messaggio.

REGISTRI

Si distinguono abitualmente registri alti e


formali, di media formalità e bassi e
informali.

I registri formali si caratterizzano per

- pronuncia lenta e accurata


- sintassi elaborata con maggior uso di
subordinate
- tendenza all’argomentazione
- pochi riferimenti al contesto (parlante,
situazione…)
- tendenza alla massima esplicitezza
- lessico ampio e ricercato

I registri informali si adoperano in situazioni


non ufficiali, nella conversazione quotidiana;
riguardano, in genere, le varietà parlate, ma
possono trovarsi anche in scritti informali,
come diari, lettere personali ecc.

Sono caratterizzati da
- spontaneità
- immediatezza
- lessico di uso comune e quotidiano; apertura
ai regionalismi
- genericismi (fatto, cosa, tizio…)
- termini abbreviati (tele, bici…)

Esempi di coppie di sinonimi o di duplici


espressioni attribuibili a uno standard neutro e
formale (a sinistra) o classificabili come
colloquialismi (destra):
schiaffo sberla
annoiarsi scocciarsi
averne abbastanza rompersi
mangiare molto abbuffarsi
azione meschina carognata

LINGUE SPECIALI / LINGUAGGI


SPECIALI

Sono contraddistinte da un lessico


specialistico funzionale alla trattazione di
argomenti specifici.

Si possono dividere in due gruppi:

- lingue specialistiche o sottocodici:


riguardano settori scientifici di alta
specializzazione (matematica, medicina,
economia, linguistica); il lessico è molto
specifico.
- lingue settoriali: riguardano ambiti di
comunicazione non specialistica (giornali,
politica, pubblicità); mon hanno un vero
lessico specialistico e attingono al vocabolario
della lingua comune e di altre lingue speciali.

C’è uno scambio reciproco tra lingue


speciali e lingua comune. Molti tecnicismi
passano alla lingua comune soprattutto
attraverso i media.

Nel passaggio però perdono spesso la natura di


tecnicismi e si genericizzano (es. uso nella
lingua comune di un termine come paranoia,
ecc.).

Anche le lingue speciali traggono termini dal


lessico comune, facendogli però subire il
processo inverso. Si attribuisce un significato
specialistico a un termine di uso quotidiano (si
pensi a candela nella meccanica
automobilistica).
Spesso si parla anche di linguaggi speciali: i
linguaggi speciali infatti si servono anche del
linguaggio non verbale (simboli, grafici)
Es.
Linguaggio non verbale
BaO2 + H2SO4= BaSO4 + H2O2
Linguaggio verbale
Il perossido di bario combinato con l’acido
solforico dà solfato di bario e acqua
ossigenata;

Riformulazione divulgativa
L’acqua ossigenata si ottiene comunemente
combinando il perossido di bario, un composto
adoperato nell’industria come mezzo di
sbiancamento, con l’acido solforico, ossia con
il potentissimo acido corrosivo noto
popolarmente come vetriolo.

Caratteristiche del lessico specialistico:


- precisione
- oggettività
- denotatività
- monoreferenzialità (i tecnicismi si
riferiscono a un unico concetto o oggetto;
hanno un unico significato).

I suffissi di cui ci si serve per formare i


tecnicismi sono tendenzialmente specializzati
a designare un determinato senso:

es. in medicina: -ite forma parole che


designano un’infiammazione acuta (artrite);
-osi si lega a termini che indicano una
condizione patologica degenerativa (artrosi);

in chimica -ato è il suffisso dei termini che


designano i sali (bicarbonato);
-ico gli acidi (solforico).

I tecnicismi si possono ottenere per


rideterminazione del lessico comune
(assegnando cioè un significato specifico): es.
lavoro in fisica ‘grandezza associata a una
forza quando il punto di applicazione di questa
si sposta’.
Si hanno anche prestiti da lingue straniere,
come nel caso dell’informatica (software,
chip, ecc.), uso di acronimi (TAC “tomografia
assiale computerizzata”), grecismi (epatite),
latinismi (ictus).

Secondo la classificazione di Serianni:

Tecnicismi specifici:
Non possono essere sostituiti senza
compromettere il significato complessivo.

Noti a un ampio pubblico: stomatite (medico),


indulto (giuridico);
ristretti agli specialisti: crocidismo
(‘movimento involontario delle mani di malati
che in delirio o in agonia sembrano afferrare
piume sospese nell’aria’)
evizione (‘perdita totale o parziale dei diritti di
proprietà su un bene legittimamente
rivendicato da un terzo’).
Tecnicismi collaterali:
caratterizzano lo stile di un determinato
linguaggio ma non sono essenziali; potrebbero
essere sostituiti da forme condivise del
linguaggio comune.

Il paziente sente un forte dolore alla bocca


dello stomaco > Il paziente accusa vivo dolore
nella regione epigastrica

Caratteristiche sintattiche e testuali dei


linguaggi specialistici:

- uso quantitativamente maggiore di nomi che


di verbi
- verbi spesso usati in forme nominali
(soprattutto participio presente e passato:
accertati gli effetti espettoranti)
- uso frequente del passivo (sono qui delineati
gli obiettivi della ricerca) e di infiniti retti da
verbi modali (possono riscontrarsi) per
l’impossibilità di ricorrere a costrutti marcati e
per cancellare l’agente
- uso di forme impersonali (si procederà
all’analisi dei referti) e di riferimenti in terza
persona a chi parla o scrive (chi vi parla ha
potuto osservare…; chi scrive ha già
affermato…) per tendenza a cancellare
l’emittente e conferire rigore e oggettività al
contenuto.

Effetti collaterali. Dopo somministrazione


orale di claritromicina, in studi clinici condotti
su pazienti adulti sono stati riportati alcuni
disturbi gastro-intestinali (es. nausea, dolore
addominale, vomito e diarrea), cefalea e
alterazioni del gusto. Come con gli altri
macrolidi, anche con l’uso di claritromicina
sono possibili disfunzioni epatiche con
aumento delle transaminasi, sofferenza
epatocellulare e/o epatite colostatica con o
senza ittero. Dette manifestazioni possono
essere anche severe ma reversibili con la
sospensione del trattamento. Sono stati
segnalati rarissimi casi di insufficienza epatica
con esito fatale; quando ciò si è verificato, era
associato a gravi patologie preesistenti e/o
trattamenti concomitanti […]

VARIETÀ DIASTRATICHE

Sono legate alla posizione che occupa il


parlante nella struttura sociale e sono
determinate da diversi fattori sociali:

- lo strato sociale e il livello di istruzione, alla


base delle differenze tra italiano colto (varietà
delle classi istruite) e italiano popolare (varietà
delle classi con basso livello di istruzione)

- fattori demografici come l’età (linguaggi


giovanili)

- l’appartenenza a un gruppo o a una


categoria particolare (varietà gergali).

ITALIANO POPOLARE
Varietà caratterizzata da tratti considerati
devianti, esclusi dall’accettazione comune.

Le prime considerazioni sull’italiano popolare


furono fatte da Leo Spitzer sulle lettere dei
soldati italiani, prigionieri di guerra.

Il primo studio sistematico fu pubblicato da


Manlio Cortelazzo nel 1972.

I primi studi su questa varietà ritenevano che


l’italiano popolare fosse nato negli anni
successivi all’Unità d’Italia.
Un’alfabetizzazione incompleta e una scarsa
competenza nella lingua appresa producevano
testi di italiano popolare.

Francesco Bruni, però, nel 1984 ha


evidenziato, già in testi dell’antichità, la
presenza di molti tratti linguistici che
caratterizzano le scritture di italiano popolare.
L’italiano popolare oggi è anche e soprattutto
una varietà parlata che presenta tracce
regionali più evidenti rispetto ai testi scritti, in
particolare nella fonetica e nel lessico.

L’influenza della componente geografica è


tanto più alta quanto più basso è il livello
sociale dei parlanti.

L’italiano popolare si caratterizza per

- semplificazioni di nessi consonantici difficili


(es. tecnico > tennico; psicologo >
pissicologo)

- agglutinazioni e deglutinazioni nella scrittura


(l’aradio per “la radio”, in cinta “incinta”)

- problemi nella resa grafica di digrammi e


trigrammi e nell’uso di h e q (anno “hanno”,
quore “cuore”, aglo “aglio”)

- ipercorrettismi (agiornare per aggiornare)


- uso scorretto di maiuscole e punteggiatura

- riduzioni di forme di un paradigma (pronomi


di terza persona gli, le, loro tutti ridotti a ci)

- estensioni, devianze, semplificazioni della


morfologia nominale e verbale (gli analisi, la
moglia, potiamo “possiamo”, sta fando “sta
facendo”)

- scambio di ausiliari (ho arrivato)

- periodo ipotetico con doppio congiuntivo o


doppio condizionale (se avessi tempo facessi il
lavoro; se avrei tempo farei il lavoro)

- scambio di articoli (il zio, un sconto)

- comparativi analogici (più migliore)


- scambio di reggenze e preposizioni e cumulo
di preposizioni (la telefono; smetto a lavorare;
scrivo da sul treno)
- uso di un solo elemento con funzioni
molteplici (che polivalente)

- accentuazione di sintassi marcata e


concordanza a senso (es. la gente dicevano)

- riduzione nell’uso del lessico, con frequente


ricorso a termini generici

- paretimologie (celibe per “celebre”, incollare


per “accollare”, tintura di odio per “tintura di
iodio”)

- scambio di suffissi (apprensione per


“apprendimento”, adottamento per
“adozione”)

- interferenza del dialetto nella fonetica e nel


lessico (imparare per “insegnare”, faticare per
“lavorare”)
- testualità della scrittura simile al parlato con
allineamento paratattico di frasi uguali,
cambiamenti improvvisi di argomento e
soggetto, interruzioni, ripetizioni, prevalenza
di discorso diretto su indiretto ecc.

GERGHI

I gerghi storici sono varietà linguistiche


adoperate da gruppi sociali (malviventi,
drogati, ambulanti, mendicanti, vagabondi)
che si caratterizzano per marginalità
socioeconomica e vagabondaggio.

I gerghi transitori sono usati da gruppi che


temporaneamente fanno vita in comune, in
qualche caso anche separata dal resto della
società (militari, studenti, carcerati).
Il gergo è usato per un bisogno di affermare
la propria appartenenza a un gruppo e la
contrapposizione al mondo esterno. È un
segno di identità e riconoscimento del
gruppo.

Non è vero che si tratti di una lingua


segreta: il gergo è adoperato, solo all’interno
del gruppo stesso e non in presenza degli
estranei.
La funzione di codice segreto è occasionale
e secondaria rispetto a quello di
identificazione socioculturale e psicologica.

Presenza di un lessico specifico, coniato


appositamente e compreso solo dai
partecipanti al gruppo.

Alcune parole possono talvolta entrare nella


lingua comune; es. bidone, pacco “truffa,
imbroglio, fregatura”, erba “marijuana”.

I procedimenti di formazione del lessico


gergale possono ricorrere

- ad abbreviazioni (pula “polizia”)


- a suffissi particolari (fangose “scarpe”,
rufaldo “ladro”)

- parole inizianti con n o s per esprimere


negazione o affermazione (nisba, nit, sibo…)

- metafore (neve “cocaina”)

-prestiti da dialetti e lingue straniere con uso


traslato

LINGUAGGIO GIOVANILE

Gli usi linguistici dei giovani sono


generalmente più innovativi di quelli degli
adulti.
Le varietà giovanili si intrecciano con quelle
connesse alla provenienza sociale e al grado di
istruzione.
La fascia d’età dei parlanti giovani è di solito
quella compresa più o meno tra gli undici e i
diciannove anni.

Il linguaggio giovanile è una varietà sociale


(diastratica) perché è legata al fattore
demografico della fascia d’età, ma è anche
una varietà diafasica perché i giovani se ne
servono solo in determinate situazioni.

È soprattutto una varietà parlata, ma può


essere adoperata in scritti privati (lettere,
diari, graffiti ecc.) e in scrittura trasmessa
come le chat.

Funzioni: affermare l’identità del gruppo


(come per i gerghi); funzione ludica e
scherzosa; affermare la propria autonomia
e creatività rispetto al mondo degli adulti.
Gli studi sul linguaggio giovanile in Italia
connettono la sua data di nascita al
diffondersi della lingua nazionale e al
retrocedere dei dialetti.
Il linguaggio giovanile aiuta a sostituire le
funzioni di espressività e affettività dei dialetti
=> linguaggi giovanili sono più diffusi
laddove il dialetto è meno utilizzato

Caratteristiche:
si esalta l’informalità e l’espressività; sul piano
lessicale si caratterizza per

- colloquialismi molto informali: essere nel


pallone, megagalattico, casinaro

- regionalismi e dialettismi: tosa, racchia

- tecnicismi deformati o con genericizzazione


del significato o uso traslato: schizzato, arterio
‘persona di mentalità sorpassata’
- espressioni gergali: cuccare “conquistare una
ragazza”

- espressioni tratte da canzoni, pubblicità,


programmi tv
- forestierismi soprattutto con funzione ludica:
es. vamos.

Nella resa fonetica spesso i linguaggi giovanili


presentano deformazioni, allungamenti
vocalici, velocità nell’eloquio.

VARIAZIONE DIAMESICA

Le differenze essenziali tra scritto e parlato


sono riconducibili
al grado di pianificazione del discorso,
massimo nello scritto e minimo nel parlato;
al modo pragmatico di organizzare il testo,
facendo prevalere le esigenze della semantica
su quelle della forma corretta e
dell’esplicitazione sintattica.

Non dobbiamo dare giudizi di valore sul


parlato o sullo scritto. Sono strumenti adeguati
a situazioni comunicative differenti.
Elementi che influiscono sul parlato:
- mezzo fonico-acustico
- contesto comune di enunciazione
- compresenza di parlante e interlocutore

Il mezzo fonico-acustico condiziona la


linearità (segue la catena fonica) e
l’immediatezza del parlato (comunicazione e
ricezione avvengono immediatamente e
contemporaneamente).
Ricevente ed emittente si scambiano
continuamente i ruoli.
>>
Tratti minori che caratterizzano il parlato:

In rapporto al mezzo fonico-acustico:


- scarsa possibilità di pianificazione => diversa
strutturazione sintattica e testuale

- impossibilità di cancellazione =>


autocorrezioni, modulazioni
- non permanenza => tendenza alla
ridondanza, ripetizioni

- incidenza di intonazione e prosodia.

In rapporto al contesto di enunciazione


comune:
- ricorso a mezzi non linguistici

- rinvio al contesto => frequente uso di deittici

In rapporto alla compresenza degli


interlocutori:
- coinvolgimento, funzione fàtica => fatismi e
altri meccanismi di modulazione

- possibilità di ripetere il già detto =>


ripetizioni, frequenti interruzioni

- conoscenze condivise => implicitezza


ALCUNI TRATTI FONETICI DEL
PARLATO ITALIANO

- Elisioni: es. l’informazione; c’interessa

- Fenomeni di «allegro»:
aferesi vocaliche: ʼnsomma, ʼnvece, e
sillabiche: ʼsto;
apocopi sillabiche connotate regionalmente:
vie’ qua, sapé, ma’ (“mamma”), dottò;
riduzioni della parola: ʼgiorno, ʼsera;

- Variazioni o allungamenti nel timbro


vocalico: na! (“no particolarmente deciso”),
see! (“sì come falso assenso”)

- Metatesi provocate da nessi vocalici o


consonantici difficili: es. interpetrare invece
di interpretare, areoporto invece di aeroporto,
metereologo invece di meteorologo;
- Paretimologie: innestare per innescare,
esaudiente per esauriente (hanno anche valore
diastratico)

LA SINTASSI DEL PARLATO

- Frequenti costruzioni marcate


(dislocazioni, topicalizzazione contrastiva,
tema sospeso, frasi scisse, costruzioni con il
c’è presentativo: c’è qualcuno che parla male
di te)
- Concordanze a senso: la maggioranza dei
giovani intervenuti erano stranieri

con verbo singolare prima di soggetti plurali:


non c’era tante comodità come oggi;

mancati accordi di genere e numero anche per


attrazione di elementi interposti: l’importanza
dell’argomento è stato adeguatamente
sottolineato.
- Prevalenza di paratassi
con congiunzioni e, ma, però…
per giustapposizione: passo da casa, mangio
un boccone, ritorno.

- Caratteri prevalenti dell’ipotassi:


le subordinate tendono a collocarsi dopo la
principale (con l’eccezione di ipotetiche e
causali);
le congiunzioni subordinanti sono
qualitativamente e quantitativamente diverse:
per le causali invece di poiché, giacché si ha
siccome o locuzioni formate con che (dato che,
visto che, dal momento che); per altre
dipendenti si ha basta che, una volta che;

le subordinate implicite sono perlopiù


infinitive;

la subordinata più diffusa è la relativa; sono


assenti il/la quale e prevale che
- Il che indeclinato, che ha rilevanza
diastratica o segnala una varietà diafasica
molto trascurata: una signora che conosco il
marito
(con ripresa) un fatto che ne hanno parlato in
televisione; un posto che ci vado volentieri
molto meno connotato e più diffuso il che
indeclinato con valore temporale: la sera che
ci siamo incontrati
- Che polivalente, subordinante generico:
copriti che fa freddo

LESSICO DEL PARLATO

- Termini generici di alta frequenza:


cosa, roba, affare, tipo, fatto, fare (che cambia
significato con il complemento oggetto, farsi
una macchina; in luogo talvolta di un unico
verbo, farsi la barba “radersi”)

- Perifrasi:
quello della luce (“elettricista”)
- Parole alterate:
cosine, firmetta, famona, partaccia, attimino
(anche senza riferimento al tempo: una
situazione un attimimo più critica)

- Superlativi con valore espressivo:


hai ragionissima

- Espressioni con valore superlativo spesso


marcate regionalmente:
un sacco bello, una boiata pazzesca, un freddo
della madonna, un casino di gente
- Disfemismi (es. il mio vecchio per “mio
padre”)

SEGNALI DISCORSIVI

Costituiti da elementi linguistici (parole,


sintagmi, brevi frasi) che hanno funzione
pragmatica. Non trasmettono contenuto
informativo, ma assumono funzioni diverse in
base al contesto in cui sono prodotti.

Varie funzioni:
- demarcativi per inizio e fine discorso o
presa di turno:
di apertura: allora, ecco, beh, dunque, cioè,
niente, comunque; di chiusura: ecco, chiaro,
no?, basta, insomma;

- segnali fatici per sollecitare assenso o


partecipazione:
guarda, senti, vedi, sai, dai, scusa, figurati,
vero?, ho reso l’idea?; anche da parte di chi
ascolta: davvero?, ma guarda!, hai capito!,
già;

- particelle modali
per attenuare: praticamente, in pratica, mi
sembra, diciamo, per dire, voglio dire, come
dire?, una specie di, tra virgolette; per
enfatizzare: veramente, davvero, proprio, ti
dico.
Per quanto riguarda la morfologia, nel parlato
si ha una generale semplificazione. I tratti più
innovativi coincidono con quelli del cosiddetto
italiano neostandard.

CARATTERI DELLO SCRITTO

La funzione principale della lingua scritta è


quella di mantenere nel tempo e nello spazio il
messaggio verbale (fissare le leggi, garantire il
rispetto degli accordi, conservare e trasmettere
la conoscenza, soprattutto storica e
scientifica).

Il testo scritto nella sua interezza rimane sotto


gli occhi di chi legge. Non può contare sul
supporto dell’intonazione e dei gesti.

Produzione e ricezione del testo scritto non


sono simultanee. Chi scrive ha il tempo di
pianificare e di correggere, offrendo al lettore
solo il testo definitivo. Chi legge può ritornare
sul testo tutte le volte che vuole.

Emittente e destinatario non condividono la


stessa situazione e ciò impone nella scrittura
una maggiore esplicitezza, un uso minore di
deittici e l’assenza di segnali fàtici.

Lo scritto dura più a lungo nel tempo ed è


dunque più soggetto a valutazioni sociali. Chi
scrive tende ad adoperare una varietà
linguistica più elevata e a rispettare la norma.
Il testo scritto presenta un’organizzazione più
regolare della sintassi e si serve con più
frequenza della subordinazione.
Il lessico dello scritto è più ampio.

L’assenza dell’emittente riduce il grado di


coinvolgimento ed emotività e ciò rende lo
scritto tendenzialmente più oggettivo.
Nella grafie sono in atto alcune tendenze che
tuttavia non riguardano tutti i tipi di testo:

Recupero di k: nelle scritture commerciali,


negli scritti giovanili (okkupazione);

Definitiva affermazione delle forme


univerbate: soprattutto, invece, peraltro,
pressoché, nonostante, ciononostante,
perlopiù, ecc.

Accento grafico:

stabilizzata la differenza tra è per il verbo,


cioè, ahimè (timbro aperto – accento grave) e
perché, affinché, ecc. (timbro chiuso accento
acuto);

Sempre oscillante l'uso delle maiuscole: in


regresso grafie come Stato, Paese, S. per Santo
(tranne che per luoghi ed edifici religiosi);
Sempre più diffuse le sigle ormai senza punti:
Cgil piuttosto che C.G.I.L. e le abbreviazioni,
soprattutto in scritture burocratiche, sig., dott.,
pp. o pagg.

Riduzione di elisioni e apocopi:


ci interessa prevale su c'interessa e viene fatto
su vien fatto;

l'articolo lo con le rispettive preposizioni


articolate e i dimostrativi questo e quello sono
sistematicamente elisi davanti a vocale:
l'ultimo film, il freddo dell'inverno,
quell'individuo, ma al femminile l'elisione è
generalizzata solo davanti alla a: l'antenna ma
della iscrizione, anche per l'indeterminativo
una: una università meridionale;

Riduzione della d eufonica per evitare uno


iato:
ad, ed prevalgono solo davanti a parola
iniziante per la stessa vocale: ad amico ma a
una, o in pochi altri casi fissi: ad esempio, ad
essi. Un tempo si adoperava anche od, ora
molto raro e arcaico.

La i prostetica sopravvive solo in per iscritto.

In espansione le virgolette per conferire


significati particolari ad alcune parole.

Forme verbali nell'italiano scritto

L'italiano scritto utilizza tutte le forme verbali


disponibili in base al tempo, al modo,
all'aspetto. Nello scritto è più alto il rispetto
delle norme che regolano la morfologia
dell’italiano.

Futuro
può assumere valore di dovere in testi
normativi: si recheranno ‘dovranno recarsi’;
in testi narrativi può essere riferito a eventi
passati, posteriori a quelli indicati dal presente
storico o dal passato: Un cambio di rotta si
verificherà con l'avvento della repubblica.

Imperfetto:
in testi narrativi può assumere valore
perfettivo indicando eventi puntuali: In
quell'anno Dante nasceva a Firenze.

È ben conservata nello scritto la distinzione tra


passato prossimo e passato remoto.

Congiuntivo:
usato in molte proposizioni dipendenti, nelle
completive (penso che i fatti si siano svolti in
questo modo), nelle interrogative indirette
(non sapeva chi fosse arrivato), nelle relative
restrittive (cerco un collaboratore che conosca
bene la situazione).

Condizionale:
si caratterizza nella prosa giornalistica come
tipico delle notizie riportate da altri (di
dissociazione): l'indiziato sarebbe stato visto
presso la casa.

Passivo:

molto più frequente che nel parlato (è stato


detto dai partecipanti al colloquio che la
situazione è difficile);

si usa anche venire (più burocratico ma in


estensione) in luogo di essere (il contributo
viene devoluto a favore dei disoccupati);

è diffuso anche il si passivante: si vendono solo


i giornali scandalistici.

SINTASSI DELLA FRASE NELLO


SCRITTO
La struttura non marcata SVO è più frequente
che nel parlato, ma sono possibili inversioni
(ottimo intervento ha fatto il presidente ieri
alla Camera).

Sono ammesse solo le dislocazioni a sinistra,


ma perdono la loro marcatezza e sono molto
meno frequenti rispetto al parlato. La ripresa
pronominale del resto si è quasi
grammaticalizzata con i partitivi (di proposte
ne sono state fatte tante).

Tendono a essere sempre più accolti alcuni tipi


di frase scissa: è a Parigi che si verifica
l'avvenimento culturale più importante del
secolo.
Al posto del che + tempo finito si trova spesso
a + infinito, possibile anche in posizione
iniziale: a prendere l'iniziativa è stato il capo
del governo.
Gli accordi sintattici sono obbligatori, ma
prende piede la concordanza a senso in
presenza di partitivo (la maggior parte delle
opere sono conservate).

Una tendenza recente antepone gli aggettivi ai


sostantivi cui si riferiscono (segna un
andamento sostenuto, enfatico, ecc.:
l’incredibile avventura, l’agghiacciante
esperienza).

Soprattutto nella scrittura giornalistica si


estende lo stile nominale con tendenza a
costruire enunciati privi di verbo o in cui gli
elementi nominali sono predominanti.

SINTASSI DEL PERIODO NELLO


SCRITTO

C’è preferenza per la subordinazione sia


perché si sfruttano le caratteristiche del mezzo
che consente di avere sotto gli occhi l'intero
testo, sia per scelta stilistica ispirata alla
tradizione classica.

FONETICA DELL’ITALIANO

FONETICA: scienza che studia i suoni (foni)


linguistici prodotti tramite l’apparato fonatorio
(polmoni, bronchi, trachea, laringe, cavità
della bocca, cavità nasale).

Pochi foni si combinano in modi molteplici


formando un altissimo numero di parole
(linguaggio verbale). Nessuna lingua utilizza
tutti i foni possibili per formare parole.

Se nel passaggio dell’aria dalla laringe le corde


vocali vibrano => suoni sonori
Se nel passaggio dell’aria dalla laringe le corde
vocali non si muovono => suoni sordi
Se l’aria passa attraverso le cavità nasali =>
suoni nasali (solo [m], [n], [ɲ])
Se l’aria esce solo attraverso la bocca => suoni
orali

Se l’aria non trova ostacoli nel suo percorso


verso l’esterno => produciamo vocali (solo
sonore, in quanto vi è sempre vibrazione delle
corde vocali).

Se l’aria incontra ostacoli nel suo passaggio =>


produciamo consonanti (sorde o sonore).

Le semiconsonanti o semivocali sono suoni


intermedi, prodotti quasi come le vocali ma
con durata più breve per il sopraggiungere di
un ostacolo (i, u – [j], [w] in trascrizione
fonetica – non accentate seguite o precedute da
un’altra vocale es. ieri, uomo, daino).
Vengono anche definite approssimanti.

La fonetica studia l’articolazione fisica dei


suoni.
FONOLOGIA: scienza che studia i fonemi

Fono: il suono fisicamente prodotto dal


parlante.
Fonema: la rappresentazione mentale di un
fono che ha funzione distintiva, cioè consente
di distinguere il significato di una parola
dall’altra.

La funzione distintiva dei fonemi è


testimoniata dalla presenza di coppie minime,
cioè coppie di parole che si distinguono per un
unico elemento: rata/rada, patto/matto,
pazzo/pozzo…

Se in una parola, sostituendo un fono con un


altro, si ottiene un’altra parola di senso
compiuto, siamo di fronte a due fonemi (prova
di commutazione) e a una distinzione
fonologica.
Il fono si rappresenta tra parentesi quadre [ʎ],
il fonema tra barre oblique /ʎ/

Il più diffuso sistema di trascrizione di foni e


fonemi è l’IPA (International Phonetic
Association).

Realizzazioni diverse dello stesso fonema si


dicono allòfoni
(variazioni personali, geografiche, sociali,
oppure variazioni di suono condizionate dal
contesto fonetico).

I foni sono elementi della comunicazione


orale. Da secoli gli uomini li fissano sulla carta
attraverso segni grafici
=> grafemi: segni grafici, rappresentazione
grafica dei fonemi.

Lo studio di grafemi e segni paragrafematici


(apostrofi, accenti, interpunzione…) adoperati
nella scrittura è detto grafematica.
Il segno grafico non va confuso con il suono.
Non sempre esiste corrispondenza tra il fono e
la sua realizzazione grafica:

es. l’occlusiva velare può essere rappresentata


dal digramma <ch> in chilo o da <c> in cane:
stesso fonema reso in modi diversi;
oppure segni grafici che non si realizzano nella
fonetica: si pensi al valore diacritico della i in
parole come giallo o ciondolo.

VOCALISMO

Vocalismo tonico dell’italiano formato da 7


vocali.

In base alla posizione della lingua:


- vocale centrale, di massima apertura: /a/ (la
lingua si appiattisce sul pavimento della
bocca);
- vocali palatali o anteriori: /ɛ/, /e/, /i/ (la
lingua si sposta in avanti, in corrispondenza
del palato duro);
- vocali velari o posteriori: /ɔ/, /o/, /u/ (la
lingua arretra, in corrispondenza del velo
palatino); richiedono anche la protrusione
delle labbra (arrotondamento e
avanzamento) per questo sono anche dette
vocali labiali (o arrotondate).

In base all’altezza della lingua:


- /i/, /u/: vocali alte
- /e/, /o/: vocali medio-alte
- /ɛ/,/ɔ/: vocali medio-basse
- /a/: vocale bassa

Esempi di coppie minime che provano che


l’opposizione tra /ɛ/≈/e/ e tra ɔ/≈/o/ ha valore
fonologico:

bɔtte (‘percosse’) - botte (‘recipiente per il


vino’)
pɛsca (‘frutto’) - pesca (‘attività del pescare’)
Talvolta la distinzione si può segnare
graficamente tramite l’accento: acuto per la
vocale chiusa (é), grave per la vocale aperta
(è).

La distinzione tra apertura e chiusura delle


vocali medie si avverte soltanto quando sono
accentate (toniche); se sono atone la
distinzione si annulla e i suoni vocalici si
riducono a cinque.

IATO
Determinato dall’incontro di due vocali
appartenenti a sillabe diverse: pa-e-se, le-o-ne,
bo-a-to, ma-e-stro, a-te-o…

Lo iato si verifica:
- quando si incontrano vocali diverse da i, u:
be-a-to, e-ro-e;
- quando una delle due vocali è una i o una u
colpite da accento: mì-o, ci-go-lì-o, bù-e, pa-
ù-ra;
- nelle composizioni: riavere (= avere di
nuovo), suesposto (= esposto sopra), triangolo
(= poligono con tre angoli) ecc.

Quando l’incontro tra le vocali di due sillabe


distinte è determinato dalla successione di due
parole diverse (la entrata, lo impero) per
evitare lo iato spesso cade la vocale finale della
prima parola (l’entrata, l’impero) => elisione.

DITTONGO
È una sequenza di due vocali che appartengono
alla stessa sillaba: chio-do, cau-sa ecc.
Uno solo di questi due foni è una vocale a tutti
gli effetti.

Semivocali o semiconsonanti: /j/ palatale


(iod), /w/ velare (vau); resa grafica: <i>, <u>.
Si pronunciano come le vocali /i/, /u/ ma hanno
una durata più breve: l’impressione è di un
suono intermedio tra la vocale e la consonante
=> approssimanti.

Questi due foni possono comparire solo prima


o dopo una vocale appartenente alla stessa
sillaba:
- se compaiono prima formano un dittongo
ascendente (la sonorità aumenta passando dal
primo al secondo elemento): fiato, piede, fiore,
buono, questo ecc.;
- se compaiono dopo formano un dittongo
discendente (l’intensità del suono
diminuisce): andrei, noi, causa ecc.

Restrizioni nella distribuzione dei suoni:


- /j/ non può co-occorrere con /i/;
- /w/ non può co-occorrere con /u/;
- /u/ ricorre in fine di parola solo se tonica (più,
tribù ecc.)
- la o in fine di parola è sempre aperta /ɔ/: però,
andò ecc.
In sede atona le vocali si riducono a cinque
(non si hanno le due vocali aperte [ɛ], [ɔ]).

CONSONANTI

Luogo di articolazione
Modo di Labial Labioden Dental Alveolar Palatal Velar
articolaz. i s.da t i i i i
s.ra s.da s.ra s.da s.da s.ra s.da s.da
s.ra s.ra s.ra
Occlusiv p b t d k g
e
Nasali n ɲ
m
Laterali l
ʎ
Vibranti r
Fricative f v s z ʃ
Affricate ts dz ʧ ʤ

In base al modo di articolazione:


Occlusive: il canale espiratorio si chiude
completamente:
- orali: /p, b, t, d, k, g/;
- nasali (l’aria fuoriesce dalla bocca e dal
naso): /m, n, ɲ/
Costrittive: chiusura parziale del canale
espiratorio:
- fricative: gli articolatori si avvicinano e si
produce una frizione (/f, v, s, z, ʃ/);
- vibranti: vibrazione della lingua (/r/);
- laterali: passaggio dell’aria ai lati della lingua
(/l, ʎ/);

- Affricate: c’è un’occlusione e poi un


restringimento (/ts, dz, ʧ, ʤ/).

In base al luogo di articolazione:


- Labiali: c’è chiusura delle labbra (/p, b, m/);
- Labiodentali: contatto di denti e labbro
inferiore (/f, v/);
- Dentali: punta della lingua contro i denti (/t,
d, n/);
- Alveolari: punta della lingua contro gli
alveoli (/l, r, s, z, ts, dz/);
- Palatali: dorso della lingua contro il palato
anteriore (/ʎ, ʃ, ɲ, ʧ, ʤ/);
- Velari: dorso della lingua contro il velo (/k,
g/).
Vibrazione o meno delle corde vocali:
- consonanti sonore
- consonanti sorde

Alcune denominazioni abbreviate:


s: sibilante sorda
z: sibilante sonora
ʃ: sibilante palatale

Discrepanze tra grafia e fonetica:

/k/ = tre grafie differenti:


- <c> davanti ad a, o, u: casa, corso,
custode…;
- <ch> davanti a vocale palatale e, i: china,
che…;
- <q> in alcuni casi se seguita da
semiconsonante /w/: quando, quale…, ma
cuore, cuoco…

/g/ = due grafie:


- <g> davanti ad a, o, u opp. semiconsonante
/w/: gara, gonna, gusto, guanto…;
- <gh> davanti a vocale palatale e, i: ghiro,
ghepardo…

/ʧ/ = due rese grafiche:


- c davanti ad e, i: cena, cinema;
- ci davanti ad a, o, u: cialda, ciò, piaciuto (la
i ha solo valore diacritico: non viene
pronunciata /'ʧalda/).

/ʤ/ = due rese grafiche:


- <g> davanti alle vocali palatali e, i: gesto,
giro;
- <gi> davanti ad a, o, u: giacca, gioco, giusto
(la i ha solo valore diacritico: non viene
pronunciata /'ʤɔko/).

/ts/ e /dz/ = un solo grafema: <z>


- /ts/ = <z> sorda: es. zampa;
- /dz/ = <z> sonora: es. orzo;
(la sonorità della z non è prevedibile).

/s/ e /z/ = un solo grafema: <s>


- /s/ = <s> sorda: es. sale, addensare, scudo,
sparo;
- /z/ = <s> sonora: es. sbadiglio, sdentato;
(a inizio parola, se seguita da vocale, e in
posizione postconsonantica la s è sorda; in
posizione preconsonantica la s si assimila alla
consonante che segue).

/ɲ/ = <gn>: legno;

/ʎ/ = <gl> davanti ad i: gli, figli;


<gli> davanti alle altre vocali: aglio, foglia…
(la i ha valore diacritico: /'aʎʎo/).

/ʃ/ = <sc> davanti alle vocali palatali e, i:


scena, lascivo…;
<sci> davanti alle altre vocali: sciame,
sciupo…
(la i ha valore diacritico: /'ʃame/).

Le consonanti /ɲ, ʎ, ʃ, ts, dz/ in posizione


intervocalica sono sempre doppie, anche se
questo grado di intensità non sempre è
rappresentato graficamente:
mezzo /'mɛddzo/ azoto /ad'dzɔto/
pizza /'pittsa/ azione /at'tsjone/
legno /'leɲɲo/
figlio /'fiʎʎo/
guscio /'guʃʃo/

Allofoni: variazioni di suono che non hanno


valore fonologico. Variazioni condizionate dal
contesto fonetico:

parziale assimilazione delle consonanti nasali


alla consonante seguente:
- la nasale dentale /n/ > [ŋ] nasale velare se
seguita da velare sorda o sonora (panca,
fango…)
- /n/ > [ɱ] nasale labiodentale se seguita da
labiodentale sorda o sonora (convenzione,
infantile).

Lunghezza consonantica: tratto fonologico


tipico dell’italiano; ha valore distintivo:
pala/palla; cane/canne; fato/fatto.

LA SILLABA

Elemento essenziale della sillaba è il nucleo,


sempre costituito da una vocale; può essere
preceduto da un attacco (ciò che si trova a
sinistra: pa-ne) e seguito da una coda (solo
nelle sillabe chiuse: tut-to).

In italiano si possono avere sillabe costituite da


una sola vocale: a-ni-ma.

Le sillabe sono aperte (o libere) quando


finiscono per vocale e chiuse (o implicate)
quando è presente la coda e si chiudono quindi
in consonante:

sillaba aperta: ma-no


sillaba chiusa: can-to

Le sillabe libere, uscenti in vocale, possono


essere costituite da
V: o-ro
CV: ma-no
CCV: tre-no
CCCV: stra-da

Le sillabe implicate consistono di


VC: al-to
CVC: sal-to
CCVC: stal-la
CCCVC: spran-ga

L’ACCENTO

Consiste nel far sentire con più forza una


sillaba sulle altre o, più esattamente, il nucleo
della sillaba.

L’accento italiano è intensivo: il nucleo è


articolato con più forza.

L’italiano ha un accento mobile, la cui


posizione è impredicibile.
Ha valore fonologico:
rètina / retìna, àncora / ancóra, sùbito / subìto
ecc.

- Parole tronche o ossitone: accento


sull’ultima sillaba: cantò
- piane o parossitone: accento sulla penultima
sillaba: tàna
- sdrucciole o proparossitone: accento sulla
terzultima sillaba: tàvolo
- bisdrucciole: accento sulla quartultima
sillaba: dèlegano

RADDOPPIAMENTO FONOSINTATTICO

Fenomeno che si produce nell’àmbito della


frase. Nella realizzazione della catena parlata
talvolta una parola che termina per vocale
allunga la consonante della parola che segue.
La grafia non registra il fenomeno, se non in
parole univerbate come soprattutto, appena,
cosiddetto, eccome, sennò ecc.

Il raddoppiamento fonosintattico si verifica:


- dopo qualunque parola tronca (terminante
per vocale accentata): comprò tutto; andò via;
perché tu e non lui….;
- dopo monosillabi forti: tutte le forme con
accento grafico (è, già, dà, né, può ecc.) e le
seguenti forme non accentate: a, che, chi, da,
do, e, fa, fo, fra, fu, gru, ha, ho, ma, me, mo’
(nella locuz. a mo’ di), no, o, qua, qui, re, sa,
se, so, sta, sto, su, te (tonico), tra, tre, tu, va,
vo;
- dopo quattro parole piane: come, dove,
sopra, qualche.

Si spiega storicamente come un fenomeno di


assimilazione regressiva: la consonante finale
della prima parola si assimila alla consonante
iniziale della parola successiva,
determinandone la pronuncia intensa:
TRES CANES > tre ccani
AD VALLEM > a vvalle
AD VENIRE > avvenire
DIC TU > di’ ttu
PLUS PANEM > più ppane

ELISIONE

Cancellazione di una vocale atona in fine di


parola, quando questa è seguita da una parola
iniziante per vocale. Il fenomeno ha luogo solo
al confine di parola (fa parte della fonetica
sintattica). La cancellazione della vocale atona
finale serve a rendere più fluida l’articolazione
dei suoni e a evitare lo iato.

L’eliminazione della vocale per elisione nella


grafia è segnalata dall’apostrofo: l’amica,
un’altra, senz’altro…

PROSTESI
Aggiunta di un corpo fonico all’inizio di parola
(per agevolare la pronuncia): per iscritto.
Fenomeno in forte declino nell’italiano attuale.

EPENTESI

Aggiunta di un corpo fonico all’interno di una


parola. L’italiano ha conosciuto una epentesi
consonantica e una epentesi vocalica.

Epentesi consonantica:

lat. MANUALEM > manoale > manovale


GENUAM > Genoa > Genova

Epentesi vocalica:

lat. eccles. BAPTISMUM > bettesmo >


battesimo.

EPITESI
Aggiunta di un corpo fonico alla fine di una
parola. Fenomeno diffuso soprattutto
nell’italiano antico, in parole che avevano
originariamente una finale consonantica e
nelle parole tronche:

es. con nomi propri non latini: David >


Davide, Minos > Minosse…

con parole tronche:


più > piùe
virtù > virtùe
trovò > trovòe
sa > sàe

In dialetti centromeridionali antichi e moderni:


sì > sine
no > none

AFERESI

Caduta di un corpo fonico all’inizio di una


parola. Oggi è un tratto caratteristico del
parlato, soprattutto nei registri trascurati o
informali, e nel parlato regionale o popolare.
L’aferesi riguarda più frequentemente la
vocale atona iniziale delle parole, soprattutto
negli articoli e quando precedono un nesso
nasale + consonante (aferesi vocalica):

come stai? ’nsomma


t’ho aspettato tutto ’l tempo

Aferesi sillabica: caduta della sillaba iniziale;


nel parlato contemporaneo di registro
informale è frequente l’aferesi sillabica del
dimostrativo:
questo > sto
questa > sta
questi > sti
queste > ste
tutte ’ste storie m’hanno scocciato.

L’aferesi si è da tempo stabilizzata in


stamattina, stasera, stanotte, stavolta.
SINCOPE

Caduta di un corpo fonico all’interno di parola


(non investe mai una sillaba accentata, ma
sempre una sillaba non accentata):

Lat. CALIDUM > caldo


Lat. VIRIDEM > verde
VANITARE > vantare

APOCOPE
Caduta di un corpo fonico in fine di parola:

apocope vocalica se a cadere è una vocale;


può essere obbligatoria: buon giorno, buon
viaggio, signor Mario
o facoltativa: amor mio, bicchier d’acqua,
ancor più…

Perché l’apocope vocalica si verifichi


- la vocale finale deve essere preceduta da l, r,
n (es. fil di ferro; dir ‘dire’, son ‘sono’)
- deve essere vocale diversa da a, tranne che
per le parole in –ora (suor Maria, ancor più…)
- le vocali finali –e, –i non devono indicare
plurale;
- la parola non deve trovarsi in fine di frase.

Si tratta, tuttavia, di un fenomeno


impredicibile: secondo le regole precedenti la
sequenza car padre sarebbe ammessa, eppure
non si produce.

Apocope sillabica se a cadere è una sillaba;


nell’italiano contemporaneo sopravvive solo
in gran, san, bel (gran caldo, san Gennaro, bel
ragazzo) e nelle preposizioni articolate
(del/dello, al/allo…).

Attenzione: qual è è un’apocope, per questo


non si apostrofa (così come qual era). La
caduta della vocale in quale infatti può
avvenire anche davanti a consonante (qual
buon vento). Allo stesso modo si comportano
tal o buon (è un buon amico).

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