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Corso di GRAMMATICA ITALIANA

1. LO SPAZIO LINGUISTICO E LA COMPETENZA LINGUISTICA

7 MAR. 2022
STORIA DELL’ITALIANO

> Naturalmente ha delle ripercussioni molto forti su come l’italiano è oggi e su qual è
la sua grammatica.

➽ Possiamo parlare di italiano a tutto tondo (cioè un italiano parlato da tutto gli
italiani in tutti i contesti) solo a partire dalla fine degli anni ‘80 del secolo scorso.

> Una delle domande più difficili a cui rispondere è “quando nasce l’italiano?”,
perché abbiamo una tradizione pesantissima (es. Dante, Petrarca ecc.) → molte
volte Dante è stato definito il “padre della lingua italiana”, ma questo in realtà non è
proprio vero → infatti la lingua italiana così come la intendiamo oggi nasce molto
dopo, mentre dal latino abbiamo avuto vari volgari che hanno fatto parte di una
“repubblica federale” fino a tutto il ‘500 → non c’era un volgare che fosse realmente
preminente fino al 1300, quando per varie ragioni (non solo le tre corone ma anche il
prestigio di cui godeva in campo economico) il fiorentino è diventato un modello e
una lingua di prestigio, a cui spesso si faceva riferimento quando si doveva usare
una lingua che superasse i confini municipali → per questo motivo il fiorentino è
stato spesso usato da letterati e scrittori anche prima della questione della lingua
cinquecentesca → dunque i panni in Arno sono stati risciacquati ben prima di
Manzoni da altri personaggi:
● es. Ariosto nella terza versione dell’Orlando furioso passa dalla koinè
ferrarese al fiorentino trecentesco di stampo petrarchesco sulla scia di Pietro
Bembo;
● prima di lui Jacopo Sannazaro nell’Arcadia era passato dalla koinè
meridionale a una lingua ispirata al fiorentino trecentesco.

> Il fiorentino era stato lingua di prestigio soprattutto per le lingue di koinè, che si
sviluppano nel ‘400 a fronte di una situazione politica che cambia (dai singoli comuni
si passa a un assetto geo-politico basato sugli stati regionali con le varie signorie)
nelle varie regioni si sviluppano delle lingue di koinè:
❖ es. la koinè lombarda → si tratta di una lingua che si basa prevalentemente
sulle caratteristiche del milanese (in quanto Milano era la capitale del ducato),
il quale però viene in qualche modo stemperato → cioè vengono tolti i tratti
più tipicamente milanesi a vantaggio di quelli che sono più generalmente
lombardi → a fronte di questi tagli vengono effettuati anche degli inserti,
prelevandoli dalle lingue di prestigio, che nel ‘400 sono il latino (il quale
rimane sempre di sfondo ai processi di sviluppo dell’italiano) e il fiorentino
trecentesco.

- Dunque vediamo che le lingue di koinè, quando vogliono superare i confini


strettamente municipali, assumono dei tratti, parole, movenze morfologiche e
sintattiche dal latino o dal fiorentino.

> Questa cosa invece non succede nella repubblica di Firenze perché il fiorentino è
talmente forte che nel Granducato non abbiamo una lingua di koinè → però il
fiorentino trecentesco (una volta che Firenze diventa stato regionale) assume delle
caratteristiche provenienti dai volgari toscani occidentali (pisano) e orientali (aretino
e cortonese), che sono entrati nella sfera geo-politico-economica di Firenze.

> Fino a tutto il ‘500 il fiorentino si candida a svolgere un ruolo particolare ma ancora
non c’è una decisione netta in questo senso.

> Nel ‘500 si apre un problema → essendoci tanti volgari, quale dovrà ess. adottato
da uno scrittore che vuole scrivere un’opera che possa ess. letta in tutta Italia? →
questo problema sorge agli inizi del ‘500 in seguito ai cambiamenti nel processo di
stampa dei libri → si passa dalla tradizione amanuense a quella della stampa e il
processo produttivo spinge verso la produzione di molte copie che poi vengono
vendute.
- Ci si interroga dunque su quale lingua utilizzare per farsi comprendere dal maggior
numero di persone → nasce così la questione della lingua, il cui esito è il
compromesso che viene trovato di utilizzare come modello linguistico di riferimento
nazionale il fiorentino trecentesco → lo strumento che consente di diffondere questo
modello nella penisola italiana è il Vocabolario degli Accademici della Crusca del
1612, il quale è una vera e propria summa di quella lingua → chi vuole imparare e
scrivere con quella lingua trova tutte le informazioni necessarie in base al lessico
proprio nel vocabolario.

> Il fiorentino trecentesco diventa dunque il primo italiano standard → si tratta però di
uno standard un po’ particolare perché non è impiegato ovunque da tutte le persone
in tutte le situazioni comunicative ma è un modello linguistico utilizzato soltanto nella
lingua scritta, è una lingua di registro alto ed è ovviamente appannaggio dei ceti
sociali medio-alti.
- Dunque il primo italiano standard ha una capacità di movimento piuttosto limitata →
nell’oralità si continuano a usare i volgari, che però terminologicamente, nel
momento in cui esiste una lingua nazionale di riferimento, non vengono più chiamati
volgari ma “dialetti” → il cambio di terminologia è determinato dal tipo di rapporto col
sistema → quando si parla di volgare non c’è una lingua di riferimento nazionale,
mentre quando si parla di dialetto c’è una lingua di riferimento nazionale (chiamata
tecnicamente “lingua tetto”) sotto cui stanno le altre varietà (che prendono appunto il
nome di “dialetti”).
> La stragrande maggioranza della popolazione non conosce questo italiano e
continua a utilizzare il dialetto (anche perché è analfabeta e non sa scrivere) →
invece la rimanente e ristretta parte della popolazione usa il dialetto nell’oralità e in
molti altri tipi di comunicazione (anche scritti) ma usa l’italiano (così come codificato
dal Vocabolario degli Accademici della Crusca) quando scrive letteratura, quando
scrive ufficialmente ecc.
- Siamo dunque in una situazione di bilinguismo con diglossia → ossia ci sono due
lingue (= bilinguismo) ma solo pochi sono in grado di spostarsi dal dialetto all’italiano
(= diglossia) e lo fanno soltanto in certi determinati ambiti d’uso.

> Possiamo dunque dire che a partire dal 1612 esiste uno standard dell’italiano, che
però è limitato allo scritto di registro alto da parte dei ceti medio-alti.
- Nemmeno i fiorentini usano questa lingua in maniera del tutto naturale, in quanto la
lingua materna dei fiorentini è il fiorentino cinque-seicentesco, che ha subito vari
cambiamenti dovuti al passaggio di Firenze a stato regionale → dunque tutti più o
meno devono apprendere questa lingua attr. l’uso del vocabolario e delle
grammatiche:
➔ celebre esempio è quello di Cesare Alfieri → abbiamo alcune sue carte
manoscritte di esercitazione → cioè Alfieri si esercita per imparare questa
lingua, in quanto lui è piemontese e le sue lingue madri sono il dialetto
piemontese e il francese

> L’italiano è una lingua seconda che si deve imparare, fatto che condiziona
moltissimo la storia linguistica italiana fino a oggi → anche oggi per la maggior parte
degli italiani la lingua materna è il dialetto (soprattutto nelle classi sociali
medio-basse del meridione).
- I dati ci dicono che nel 1861 (al momento dell’Unità d’Italia) in Italia c’era il 20% di
alfabetizzati → dunque l’80% della popolazione era analfabeta e aveva contatti
pressoché nulli con l’italiano, in quanto l’italiano esisteva solo come lingua scritta.
- I dati sugli italofoni sono invece ricostruiti da degli studiosi → De Mauro stima che
in Italia nel 1861 gli italofoni erano il 2,5% della popolazione, mentre Castellani
sostiene il 10% → entrambi gli studiosi presuppongono che la stragrande
maggioranza di questi italofoni fosse in Toscana → come calcolavano questa
percentuale?
■ dividono gli italofoni in tre livelli → parlanti toscani, parlanti dell’Italia centrale,
parlanti nazionali;
■ per Castellani sono considerabili italofoni:
- i toscani a prescindere dal loro grado di istruzione (anche se non ce
l’hanno);
- i parlanti dell’Italia centrale con almeno istruzione elementare;
- i parlanti del resto d’Italia con istruzione elevata.
■ per De Mauro sono considerabili italofoni:
- i toscani con almeno il grado di istruzione elementare, poi concorda.
- Non si può dunque prescindere dal grado di istruzione per calcolare l’italofonia →
la capacità grammaticale di conoscenza e competenza della lingua italiana (per via
delle vicende storiche dell’italiano) è direttamente proporzionale al grado d’istruzione
(i toscani e in particolar modo i fiorentini partono avvantaggiati).

> Nel 1861 si comincia a dare delle indicazioni → il ministro Broglio nomina una
commissione con a capo Manzoni, il quale indica come modello di riferimento il
fiorentino ottocentesco contemporaneo, utilizzato dai conti fiorentini.
- Inoltre Manzoni e la commissione indicano due strumenti per diffondere questa
lingua → in primis la scuola, in secundis un vocabolario (Novo vocabolario della
lingua italiana secondo l’uso di Firenze, pubblicato da Broglio e Giorgini, genero di
Manzoni → il primo fascicolo di questo vocabolario dette il via a Graziadio Isaia
Ascoli per la contestazione della soluzione manzoniana).

> Il processo di italianizzazione è stato lungo e ci sono stati diversi fattori che hanno
portato all’unificazione linguistica nazionale → es. i processi migratori dalla
campagna alla città nella seconda metà dell’‘800, il servizio militare e le guerre,
l’emigrazione fuori dall’Italia (che ha fatto sì che si creasse una forma di
comunicazione sovraregionale) ecc.
- Ciò che è stato cruciale non è stata la scuola, perché fino a tutta la prima metà del
‘900 ci sono stati moltissimi casi di diserzione scolastica:
● fino agli anni ‘50 spesso gran parte dei bambini provenienti da famiglie
contadine non terminavano nemmeno le elementari;
● in Italia nel 1861 la scuola elementare (all’epoca di 4 anni) era gratuita ma
non obbligatoria grazie alla Legge Casati (1859 - ereditata dallo Stato Italiano
dallo Stato sabaudo) → il fatto che la scuola elementare fosse gratuita non
cambiava molto, in quanto in un’Italia basata sull’economia contadina i figli
erano funzionali all’economia domestica e dunque non venivano mandati a
scuola;
● Legge Coppino (1877) → le elementari vengono rese obbligatorie, ma
l’esenzione scolastica non veniva punita e rimarrà alta fino al secondo
dopoguerra;
● la scuola media è obbligatoria dal 1962.

- Molto importanti sono stati i mezzi di comunicazione di massa → anche i giornali a


partire dalla seconda metà dell’‘800 ma soprattutto i mezzi di comunicazione orali,
come la radio (prima trasmissione radiofonica in Italia = 1924), il cinema (primo film
sonoro = 1930) e la televisione (prima trasmissione televisiva = 1954) → questi
mezzi hanno determinato uno scatto perché per sentire l’italiano non occorreva
saper leggere → fino a quando l’italiano era stato solo scritto, l’unico modo per
venirci in contatto era saper leggere, fatto che escludeva automaticamente tutti gli
analfabeti → invece la possibilità di incontrare l’italiano oralmente non escludeva gli
analfabeti e ha quindi permesso una diffusione maggiore → inoltre il fatto che le
emittenti televisive fossero di Stato ha fatto sì che fosse necessario porsi il problema
di quale lingua si dovesse utilizzare nell’italiano (questione della lingua orale) →
bisognava trovare una lingua che fosse comprensibile a tutti e che rispondesse a
delle caratteristiche standard.
- Dunque i mezzi di comunicazione orale hanno innescato una serie di processi che
poi hanno contribuito finalmente a far sì che l’italianizzazione dal punto di vista
linguistico fosse davvero totale, con una maturazione che è avvenuta alla fine degli
anni ‘70 → come data convenzionale si può indicare il 1980.
- Perché ci vogliono così tanti anni per giungere all’italianizzazione completa? → non
bastava che gli italiani fossero esposti all’italiano ma era necessario che questa
esposizione fosse capillare → l’esposizione è stata capillare in seguito al boom
economico, il quale ha creato un benessere tale che anche le classi sociali più basse
hanno potuto avere in casa apparecchi radiofonici e televisivi.
- Fino agli anni ‘80 il dialetto aveva un ruolo marginale e di emarginazione → chi
usava il dialetto in qualche modo certificava il suo status sociale basso e la sua
bassa istruzione.

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LE DIMENSIONI DELLE LINGUE

> Le lingue non sono monolitiche, cioè non hanno un’unica dimensione →
dell’italiano si sarebbe potuto pensare ciò soprattutto prima del 1980, cioè un italiano
compresso in uno spazio angusto, molto limitato → sicuramente non vale per
l’italiano di oggi.

> Le lingue hanno più dimensioni e ogni atto linguistico deve ess. collocato e tenere
conto di queste varie dimensioni → per rendere questo concetto, in linguistica è
stato coniato il termine di “spazio linguistico” → lo spazio è un luogo dove sono
posti degli oggetti → noi siamo abituati a spazi fisici bidimensionali o tridimensionali.
- Lo spazio linguistico è uno spazio che ha 5 dimensioni, le quali sono diacronia,
diatopia, diastratia, diamesia e diafasia → a ciascuna di queste dimensioni
corrispondono degli assi → ogni atto linguistico deve dunque avere una coordinata
in queste cinque dimensioni.

◾ Diacronia → è la dimensione che rende conto della variabilità linguistica nel


tempo.
- L’asse diacronico dell’italiano va dal 960 d.C. (data dei Placiti Capuani → sancisce
la nascita del volgare in quanto abbiamo la convivenza di latino e volgare) a oggi.
◾ Diatopia → variabilità della lingua in funzione dello spazio geografico → quindi
rende conto di tutte quelle differenze strutturali o lessicali che riguarda i parlanti in
relazione alla loro provenienza geografica.

- In Italia si tratta di una dimensione che ha un’importanza fondamentale, perché la


lingua italiana di ciascun parlante è fortemente legata alla sua provenienza
geografica → si può riconoscere la provenienza geografica di ogni parlante italiano
sulla base della sua pronuncia → se non ci si riesce vuol dire che il parlante si sta
sforzando di usare la pronuncia standard dell’italiano, la quale è una pronuncia
assolutamente artificiale e innaturale per qualsiasi parlante italiano.

> Al giorno d’oggi tutti gli italiani sono più o meno in grado di muoversi sull’asse
diatopico, assumendo delle posizioni diverse.
- Le posizioni estreme di questo asse sono da una parte il dialetto, dall’altra l’italiano
standard → ciascun parlante italiano può stare su questi due estremi.
- Oltre alle due coordinate estremee ci sono due coordinate intermedie:
● una coordinata è più vicina al dialetto e si chiama “dialetto italianizzato” →
posso usare il dialetto con qualche contaminazione della lingua nazionale
standard → questi influssi sono non solo costrutti morfologici ma soprattutto
lessicali, cioè parole della lingua italiana che entrano nel dialetto;
● ancora più importante è la coordinata che si trova vicina all’italiano standard e
che prende il nome di “italiano regionale”.

- Un parlante italiano oggi può scegliere autonomamente di posizionarsi in una di


queste quattro coordinate.

> L’italiano regionale è forse a livello di oralità la coordinata diatopica più battuta →
sono infatti molto rari i casi in cui nell’oralità si ricorre all’italiano standard → spesso
almeno sul piano fonetico nell’oralità è difficile incontrare l’italiano standard reale →
questo vuol dire non solo che è difficile adeguarvisi ma anche che evidentemente
ormai è accettato e tollerato → l’italiano regionale dunque consente e comprende la
pronuncia con qualche coloritura regionale.

> Perché c’è tolleranza e non si insiste sulla correzione di questi fenomeni? →
perché in realtà il sistema fonologico dell’italiano così come è descritto nelle
grammatiche è un sistema astratto, creato a tavolino.

> Quando è nato il problema di un sistema fonologico standard dell’italiano? → è


nato proprio quando ci sono state le prime trasmissioni radiofoniche e ci si è
interrogati prima di tutto su come pronunciare l’italiano in un’emittente radiofonica di
Stato.
- Essendo il fiorentino la base dell’italiano, inizialmente si pensò che la pronuncia
adatta per l’italiano standard fosse la pronuncia del fiorentino → però c’erano dei
piccoli problemi perché il fiorentino ha due punti critici → la pronuncia dell’occlusiva
velare intervocalica (anche in fonosintassi) (es. [buho], [la hasa] ecc. →
spirantizzazione) e la pronuncia dell’affricata palatale sorda e sonora intervocalica
(es. [la cena], [la giornata] ecc.) → questi tratti venivano sentiti come fortemente
locali nel resto d’Italia e quindi era inaccettabile come pronuncia standard.
- Ci si mosse dunque verso una soluzione di compromesso → nessuno mise in
dubbio che si dovesse utilizzare la pronuncia del fiorentino in tutto il resto, ma per
quei due punti sopracitati si decise di scegliere la pronuncia romana, che non
prevedeva nessuno dei due tratti, tanto che si parla di “fiorentino emendato” o
addirittura di “asse Roma-Firenze”.

> Questa cosa è talmente innaturale che, in effetti, oggi a livello di studi linguistici
molti studiosi tendono a rinunciare a un sistema fonologico standard a vantaggio di
quello che si chiama “diasistema fonologico” → cioè un sistema che “tollera” delle
pronunce che sono largamente diffuse nella popolazione italiana e che soprattutto è
più elastico su alcuni punti critici (in particolare la distinzione tra “e aperta” ed “e
chiusa” e tra sibilante sonora e sorda intervocalica) (semmai riguarda ultimi 3 min.)

8 MAR. 2022

> Un altro piano che è fortemente condizionato dall’eventuale coloritura regionale


rispetto all’italiano standard è il lessico → il lessico è naturalmente la parte più
superficiale di una lingua perciò è anche quella che più risente del contatto con altre
lingue.
- Il fatto che siano scambi di parole tra lingue o varietà linguistiche è una cosa
piuttosto naturale → invece la cosa preoccupante per un sistema linguistico è se le
pressioni o i prestiti sono a livello morfologico e sintattico, in quanto la sintassi è il
cuore di una lingua (semmai riguarda parte da min. 10 ca. a 21).

> La situazione linguistica odierna dell’italiano prevede una variabilità in diatopia (es.
caso dei film di Pieraccioni citato a lezione), naturalmente non in tutte ma in gran
parte delle situazioni della lingua viva.
- Si tratta di cose perfettamente percepibili e su cui si può giocare, per es. nelle
pubblicità o nei film, anche se nel cinema si tratta più di una necessità → la lingua
del cinema però non è sempre stata così → infatti nei film anteriori al 1980 si trova
solitamente una lingua standard, che difficilmente si allontana dalla lingua standard,
per cui è una lingua artificiale.
◾ Diastratia → variabilità in base allo strato sociale di provenienza del parlante e
quindi al suo grado di istruzione.
- Queste due dimensioni sono fortemente correlate tra loro → il grado di istruzione,
infatti, determina fortemente la competenza di italiano del parlante → quale che sia
la classe sociale di appartenenza, la completa acquisizione e il perfezionamento
delle strutture morfologiche della nostra lingua avviene a scuola e perciò è tanto
maggiore quanto maggiore è il grado di istruzione.
- Quello che fa la differenza è la competenza delle strutture grammaticali → per
alcuni la competenza delle strutture grammaticali (che normalmente si acquisisce
nella fase di apprendimento della lingua in età prescolare) avviene a scuola, perché
quello che si apprende in maniera naturale non è la lingua ma il dialetto o il dialetto
italianizzato o una forma di italiano regionale → naturalmente ci saranno casi in cui il
salto tra la lingua materna prescolare e l’italiano è minore e casi in cui è molto
massiccio.
- Questa è una situazione che in Italia era molto accentuata prima del 1980.

Lettera a una professoressa (1967)

> Questo libro nasce a partire dall’iniziativa della scuola di Barbiana, dove
lavorava Don Milani e dove studiavano tutti i figli dei contadini del paese.

> Nel 1962 era stata promulgata una riforma che aveva reso obbligatoria la
scuola media in Italia, senza però preparare preventivamente la scuola media a
gestire quello che sarebbe successo, cioè a ricevere non più solo i ragazzi
provenienti dalle famiglie altolocate ma anche ragazzi provenienti dalle classi
sociali più umili → per questo motivo i primi anni della scuola media di questo
tipo furono un disastro perché accadeva che i ragazzi altolocati proseguivano
negli studi, mentre tutti gli altri venivano pluribocciati fino ad abbandonare gli
studi → il metodo di insegnamento faceva sì che questi ragazzi trovassero delle
grosse difficoltà nello studio della lingua e della letteratura (in quanto lo studio
della lingua era prevalentemente incentrato sulla letteratura).

> Questa lettera nasce dunque come una denuncia di questa situazione → i
ragazzi della scuola di Barbiana indirizzano la lettera a una professoressa delle
medie immaginaria lamentando il malfunzionamento della scuola media nei
confronti di una parte dei ragazzi.

> Queste pagine sono però importanti anche perché ci consentono di avere una
testimonianza piuttosto interessante di un fatto → intanto leggiamo:
«Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le
creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le
cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro1. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi.
Appartiene alla ditta.
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando
Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio “Non si dice lalla,
si dice aradio”.
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra
lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.
«Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua». L’ha detto la
Costituzione pensando a lui».
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La cristallizzazione è effettivamente quello che fa la grammatica → la grammatica fa
una fotografia istantanea di quella che è una struttura linguistica in un dato momento e
la pone come norma (ma la lingua è un organismo vivo che si evolve nel tempo,
anche se con una certa lentezza - dipende dalla velocità con cui si evolvono le
necessità della società).

> Questa paginetta è una prova documentaria di un fatto molto importante → si


deve considerare che Firenze e la sua provincia (quindi anche le campagne)
sono sempre state considerata italofone a tutti gli effetti → allora ci si
aspetterebbe che nel 1967 a Firenze e nelle sue campagne si possa parlare di
italofonia completa e che non ci siano problemi linguistici derivanti
dall’appartenenza a una classe sociale piuttosto che a un’altra → invece da
questa lettera si vede che a Barbiana (a 20 km da Firenze) i figli dei contadini
hanno problemi linguistici, cioè di conoscenza del lessico e delle strutture
grammaticali dell’italiano → dunque negli anni ‘60 si trova una situazione in cui
ancora la stragrande maggioranza della popolazione in realtà non solo non è
italofona (e quindi non acquisisce come lingua madre l’italiano standard) ma
nella maggior parte dei casi acquisisce come lingua madre il dialetto → tutto
questo accade in una situazione in cui la scuola italiana (non solo media ma
anche elementare) non è pronta a gestire tale problema → i primi programmi
delle elementari che tengono conto che la maggior parte dei bambini sono
dialettofoni risalgono al 1985, mentre fino al 1977 le scuole medie non hanno
previsto per programma ministeriale che si insegnasse, oltre alla lingua
letteraria, una lingua di altri tipi (quando molti, una volta usciti dalla scuola
media, avrebbero abbandonato gli studi e non si sarebbero mai trovati di fronte
un testo letterario nella loro vita quotidiana).
> Nel 2005 Tullio De Mauro fece una dichiarazione che inquietò gli italiani e il
ministero dell’istruzione → basandosi sui dati del censimento ISTAT del 2001, De
Mauro affermò che in Italia c’erano 6 milioni di analfabeti → nella nota pubblicata
dall’ISTAT invece si spiega come gli analfabeti sarebbero stati 782.342.
- Oltre agli analfabeti, si trovano anche 5.200.000 alfabeti senza titolo di studio,
ossia quella generazione di persone che non hanno terminato la scuola elementare
→ ovviamente queste persone si trovano maggiormente nella fascia di età più alta,
in quanto questo fenomeno è terminato dopo gli anni ‘50, quando divenne
obbligatorio finire le elementari.
- Perché De Mauro considera anche questi ultimi come analfabeti? → perché in
effetti nel quadro desolante del grado di istruzione italiano, bisogna considerare
l’analfabetismo di ritorno → questo fenomeno presuppone che se una persona non
coltiva con continuità le abilità e le competenze acquisite a scuola per un periodo
almeno di 5-6 anni, progressivamente andrà a perdere tali competenze → De
Mauro dunque si riferiva proprio a questo discorso, considerando gli alfabeti privi di
titolo di studio come ormai ricondotti all’analfabetismo.

- Dati in seguito al
censimento del 2011.

- Per il 59% non si


supera la licenza
media.
- Ancora nel 2020 il 54% della popolazione non ha conseguito la maturità → questo
vuol dire che questa fetta di popolazione quasi certamente ha una competenza
limitata dell’italiano, anche perché è assai probabile che coloro che hanno acquisito
come lingua madre un italiano regionale abbiano proseguito gli studi, viceversa
coloro che hanno acquisito un dialetto li abbiano abbandonati prematuramente
(rientrando quindi in questa fetta di popolazione).
- Questa già complicata situazione viene complicata ancora di più
dall’analfabetismo di ritorno, che colpisce tutti coloro che non esercitano la propria
lingua → questo è emerso piuttosto chiaramente da quando esistono i social
media, che hanno reso possibile a tutti scrivere.

◾ Diamesia → variabilità in funzione del mezzo di comunicazione.


- L’asse diamesico ha come estremi lo scritto e il parlato faccia a faccia → è chiaro
che la lingua scritta è diversa da quella parlata → si tratta di varietà linguistiche
diverse che hanno appunto delle diversità che riguardano sia la struttura (es.
costrutti morfologici e sintattici) sia il lessico.

> Per capire quali sono le implicazioni linguistiche nelle differenze tra parlato e
scritto, bisogna ragionare un momento su come avviene questa comunicazione,
ossia sul patto implicito tra emittente e ricevente:
● quando qualcuno scrive (e presuppone che il ricevente legga) dà per scontato
che chi legge avrà tutto il tempo per capire quello che c’è scritto → d’altra
parte chi legge si aspetta che lo scrivente gli consegni un testo corretto,
senza sbavature, perché ha avuto tutto il tempo di controllare la correttezza
del testo;
● questo non vuol dire che quando si parla siamo sgrammaticati e possiamo
dire le cose come vogliamo → no, però è chiaro che nell’oralità la forma di
controllo del parlante è minore rispetto a quella dello scrivente;

● dunque il patto tra emittente e ricevente è completamente diverso a seconda


del punto dell’asse diamesico in cui mi trovo e in particolar modo è
completamente diverso tra scrivente-lettore e parlante-uditore → chi parla
faccia a faccia condivide con l’uditore lo spazio e il tempo, per cui la
comunicazione è sincrona, mentre lo scrivente non condivide lo spazio né sa
quando il lettore leggerà effettivamente il testo;

● sicuramente è diverso il modo in cui si articola la sintassi e il lessico utilizzato


in un testo scritto rispetto all’oralità → in un testo scritto si possono formare
frasi sintatticamente più complesse e usare un lessico più ricercato (perché il
lettore ha tutto il tempo di rileggere il testo per comprendere la sintassi e di
cercare le parole ignote nel dizionario), mentre come è impossibile creare
frasi troppo complesse nel parlato, così sarebbero complicate da
comprendere per l’uditore, e parimenti bisogna stare attenti al lessico
utilizzato in modo tale che sia comprensibile per l’uditore;

● il parlato si affida non soltanto allo stretto codice verbale (ossia la lingua nelle
sue principali componenti) ma anche ad altri componenti, che lo arricchisco-
no:
- es. componente sovrasegmentale = intonazione → può dare un signifi-
cato completamente diverso a ciò che stiamo dicendo → es. sarcasmo;
- vuol dire che queste componenti nella scrittura si perdono? → no, ci sono, ma
vengono recuperate nei modi e nei termini previsti dalla scrittura:
- es. per recuperare l’intonazione (come le altre componenti) si può ag-
giungere una descrizione → es. “... disse Marco con tono sarcastico”.

> Anche nell’asse diamesico ci sono delle coordinate intermedie:


- Un esempio è quello della lezione a scuola → si tratta sì di una comunicazione
orale ma è completamente asimmetrica a vantaggio del professore.

~ Un punto dell’asse diamesico piuttosto interessante è quello che riguarda la


lingua della televisione, la lingua del cinema e la lingua della radio → se si pensa
alla lingua di questi tre mezzi di comunicazione di massa ci si rende conto che, in
realtà, non siamo né nella situazione dello scritto né in quella del parlato faccia a
faccia → infatti sia la lingua del cinema sia quella della televisione sia quella della
radio nella maggior parte dei casi si basano su un testo scritto che però non deve
ess. letto ma ascoltato → si trovano quindi in una posizione intermedia in quanto
possiedono alcune caratteristiche della scrittura e altre dell’oralità → per es. non c’è
condivisione dello spazio e del tempo (tipico dello scritto) ma, siccome il testo non è
letto ma ascoltato, l’uditore non ha il tempo per approfondire la decodifica di ciò che
sta ascoltando (tipico dell’oralità) → il testo deve ess. dunque scritto concependolo
come se fosse parlato, in quanto viene fruito con l’ascolto secondo le modalità
tipiche dell’oralità → dunque la maggior parte di ciò che viene detto in televisione,
radio e cinema non è spontaneo ma precedentemente scritto.
- Per questa particolare varietà di lingua è stata coniata negli anni ‘80 da Francesco
Sabatini l’etichetta di “trasmesso trasmesso”, perché il canale è quello della
trasmissione → non è una fruzione per lettura o per condivisione dello spazio fisico
ma avviene attr. un canale (tv, cinema, radio) e che quindi vede le sue caratteristiche
morfologiche, sintattiche, lessicali, testuali* da questo aspetto di trasmissione.

* Spesso la grammatica si ferma al livello dell’analisi del periodo → i periodi però


non sono isolati e necessitano di ess. posti in un ordine che abbia senso → questo
riguarda appunto la linguistica testuale, che analizza quali sono i nessi e i rapporti tra
i vari periodi perché il testo sia coerente (per cui ha uno svolgimento logico) e coeso
(= i legami grammaticali tra i vari periodi sono funzionali a rendere la struttura logica
che si vuole rappresentare).
- Nei mezzi sopracitati (tv, radio e cinema) si è capito da molti anni che una tipologia
testuale fondamentale è quella del dialogo → es. un ascoltatore fatica ad ascoltare
una sola persona per un lasso di tempo lungo → allora in radio e tv si tende a
sfruttare molto il dialogo per tenere viva l’attenzione e l’interazione con l’ascoltatore
→ questa cosa è stata messa in evidenza nel 1954 da Gadda, autore di un testo in
cui si davano consigli su quale dovesse ess. la lingua radiofonica, dove insiste
moltissimo su questo aspetto del dialogo → in seguito a ciò negli ultimi anni sono
stati effettuati degli studi che hanno evidenziato come la maggior parte della lingua
radiofonica passi attr. il dialogo.

14 MAR. 2022

> Il “trasmesso” è quella parte delle varietà linguistiche che sono scritte non per ess.
lette ma per ess. ascoltate → sono dunque in una posizione mediana tra lo scritto e
il parlato faccia a faccia, in quanto hanno caratteristiche proprie dell’uno e dell’altro
ambito.
- In questo trasmesso (che si riferisce alla lingua del cinema, della radio e della
televisione) ci sono caratteristiche proprie della scrittura (es. il messaggio è da uno
per molti; non c’è un’interazione diretta - se non in casi eccezionali - con il pubblico)
e dell’oralità (es. condivisione in sincrono - anche se ormai esiste tutta una serie di
programmi registrati).
- Sul piano prettamente linguistico è chiaro che chi scrive un copione per un film o un
testo che dovrà ess. performato in televisione o in radio sta scrivendo ma il suo patto
con il ricevente è diverso rispetto a quello dell’autore di un’opera letteraria.

> L’etichetta di “trasmesso” è stata inventata negli anni ‘80 da Francesco Sabatini ed
è stata poi acquisita alla terminologia linguistica negli anni ‘90, quando, in un
convegno svoltosi all’Accademia della Crusca sulla lingua della radio, Sabatini fece
un intervento piuttosto circostanziato, in cui descrisse scientificamente tutte le
caratteristiche del trasmesso (il convegno si è tenuto nel 1994 ma le sue carte sono
state pubblicate nel 1997).

> L’etichetta di questa varietà linguistica non aveva fatto a tempo a stabilizzarsi che
si affacciava nello spazio linguistico italiano una varietà completamente nuova, che
aveva caratteristiche ancora diverse → era una varietà che si trovava sempre in
mezzo tra la scrittura e il parlato faccia a faccia (ossia aveva caratteristiche dell’una
e dell’altro) ma che non era riconducibile al trasmesso, almeno nella maniera in cui
era stato definito da Sabatini → si trattava però cmq di un trasmesso, nel senso che
pure questa varietà di lingua non veniva utilizzata direttamente tra le persone e non
viaggiava attr. la carta stampata ma attr. una tecnologia (esattamente come la radio,
il cinema e la televisione) → questa varietà, che appare alla fine degli anni ‘90, è
quella legata a chat, mail e sms → queste erano le tre categorie che alla fine degli
anni ‘90 stavano assumendo un ruolo piano piano sempre più importante nella
lingua dei parlanti.

- Il mondo della rete era ovviamente diverso da quello odierno → questi tre mezzi di
comunicazione erano molto più simili di quanto non siano oggi e avevano appunto
delle caratteristiche comuni → si trattava di un testo scritto ma che in realtà era un
parlato congelato → cioè è evidente che chi usa la chat sta parlando con un’altra
persona anche se le condizioni lo costringono a trasformare questo suo parlato in
scrittura (lo stesso avviene nella messaggistica istantanea).
- Questi messaggi però non corrispondono pienamente al parlato perché mancano di
tutte quelle informazioni che nell’oralità vengono date attr. altre strategie (es.
intonazione, postura, mimica facciale, gestualità ecc.) → proprio per questo è
accaduto che questo tipo di scrittura è stato pian piano potenziato da elementi che
restituiscono l’intonazione, la prossemica, i gesti ecc.
- Alla fine però non era un problema così nuovo, perché anche quando si scrive un
romanzo bisogna tenere conto dell’intonazione ecc. → appunto uno scrittore per
rendere conto dei tratti sovrasegmentali semplicemente li descrive, perché ha tutto il
tempo di allargarsi in una descrizione e il lettore ha tutto il tempo di leggerla.
- Ciò però non era possibile nelle chat, negli sms e nelle mail degli anni ‘90 →
subentrano allora nuove strategie → si cerca di rendere intonazione, prossemica,
postura ecc. prima con la punteggiatura utilizzata in maniera espressiva (es. ;-) =
emoticon), poi con le emoji.

> Abbiamo dunque due varietà linguistiche complementari → la lingua del cinema,
della radio e della televisione è uno scritto pensato per ess. ascoltato ≠ invece la
lingua dei messaggi consiste in un parlato pensato per ess. letto → per questo
motivo è stata introdotta una nuova etichetta che consente di distinguere questi due
trasmessi → sulla scia della definizione di Sabatini, agli inizi del nuovo millennio
Paolo D’Achille ha coniato l’etichetta di “trasmesso scritto”.

Lingua di cinema, radio e televisione Lingua di chat, sms e mail


⬇ ⬇
Trasmesso orale Trasmesso scritto

> All’inizio dunque c’erano le chat, gli sms e le mail → la linguistica si è subito
buttata a capofitto a studiare queste varietà, che venivano sempre accomunate e di
cui si mettevano in evidenza delle caratteristiche che in quel momento erano
effettivamente piuttosto evidenti.
- Una di queste caratteristiche era la brevità, per ragioni sia di tempo sia di spazio →
oggi i messaggi su whatsapp sono illimitati ma negli anni ‘90 gli sms avevano una
lunghezza massima, a cui era associato un costo, per cui c’era bisogno di
risparmiare spazio → ma anche quando negli anni successivi è venuta meno questa
necessità, è stato cmq necessario risparmiare tempo, perché quando scriviamo un
messaggio abbiamo bisogno di scrivere rapidamente → per questo il trasmesso
scritto di quegli anni era fortemente caratterizzato dall’uso delle abbreviature, che
erano o tachigrafiche (ossia servivano per risparmiare tempo) o brachigrafiche (per
risparmiare spazio), ma in generale servivano a entrambi gli scopi.
- In realtà in quegli anni ci sono stati probabilmente alcuni problemi a mettere a
fuoco quali erano le caratteristiche vere e proprie della rete → la questione dell’ab-
breviatura infatti non è solo legata al mezzo ma è determinata anche dal fatto che
allora molto più di oggi questi strumenti erano utilizzati dai giovani e queste
caratteristiche attribuite al linguaggio della rete erano in realtà proprie del linguaggio
giovanile.
- Queste caratteristiche proprie della lingua giovanile sono state a lungo associate
alla lingua della rete in generale → in realtà queste caratteristiche sono riconducibili
solo ad alcune varietà della rete, ossia quelle che comportano questo tipo di
rapporto tra emittente e ricevente.

> Un discorso a parte lo merita la mail → agli inizi la mail era un tipo di testo molto
vicino agli sms e alle chat, perché all’epoca le mail erano utilizzate per comunicare a
distanza a costo zero rapidamente → a usare le mail erano soprattutto gli istituti di
ricerca e le multinazionali diffusi nelle varie parti del mondo.

- L’idea delle emoticon nasce proprio in un contesto aziendale e proprio in


relazione alle mail.

- In un’azienda accadeva che molte volte la comunicazione via mail generava


delle incomprensioni tali che portavano a errori e quindi a perdite elevate → per
es. non si capiva in maniera immediata dal testo della mail se si era d’accordo o
meno con una proposta o una decisione.

- Si escogitò dunque il sistema delle emoticon → le prime due furono :-) (sorri-
so) e :-( (faccia triste) → queste emoticon venivano messe convenzionalmente
all’inizio delle mail aziendali per rendere subito l’idea del contesto in cui si
poneva la mail (approvazione o disapprovazione).

- Adesso invece le mail hanno sostituito in tutto e per tutto la posta tradizionale →
non è dunque possibile che tutte le mail siano scritte alla stessa maniera e il tipo di
scrittura dipende dal luogo dello spazio linguistico in cui ci si trova (= contesto comu-
nicativo).
◾ Diafasia → variabilità linguistica in relazione alla situazione comunicativa (il
destinatario è importante solo se chiarifica la situazione comunicativa ma non è di
per sé fondamentale).

> La dimensione diafasica ha tre coordinate:


● informale; ● formale; ● formalizzato.

- Possiamo quindi introdurre il concetto e il termine tecnico di “registro”.

> Il registro formalizzato è quello delle lingue tecnico-specialistiche (es. linguistica).


- Una delle caratteristiche che caratterizzano maggiormente una lingua
tecnico-specialistica è la terminologia (oltre alla testualità) → “termine” è un iponimo
di “parola”.

es. “ape” è un iponimo di “insetto”, mentre “insetto” è un


iperonimo di “ape”

cioè l’ape è un particolare tipo di insetto

- Il termine è un particolare tipo di parola → è una parola che è stata funzionalizzata


all’interno di una lingua tecnico-specialistica per indicare un concetto o un oggetto
preciso in modo univoco → per le varietà tecnico-specialistiche è infatti fondamenta-
le che le parole abbiano un solo significato e che a quel significato corrisponda una
sola parola → questo è necessario per facilitare la comunicazione senza che ci
siano ambiguità.

> Il destinatario non è di per sé importante ma diventa rilevante se chiarisce la


situazione comunicativa:
● es. sono al bar con un mio amico e parliamo della partita → posso utilizzare
un registro informale;
● può però succedere che io e il mio amico dobbiamo comunicare nello specifi-
co delle nostre funzioni professionali → in questo caso la comunicazione è
basata su un registro formale;
● può anche succedere che io e il mio amico ci troviamo a parlare di un argo-
mento riguardante i nostri studi specialistici → in questo caso utilizzeremo
dunque un registro formalizzato.
Lingue speciali

> Sulle lingue speciali c’è stata un po’ di discussione e anche di confusione
negli ultimi anni.

> Per “lingue speciali” si intende l’insieme di lingue specialistiche e lingue


settoriali.
- C’è però una grande oscillazione nell’indicare queste varietà a seconda del
tempo in cui è stato scritto il saggio cui si fa riferimento.

- L’etichetta che usa il prof è stata messa a fuoco negli anni ‘90 ed è quella più
congrua → si parte da un’etichetta che accomuna le lingue settoriali e quelle
specialistiche (che hanno sicuramente delle cose in comune ma evidentemente
non sono la stessa cosa, data la grande incertezza terminologica):
● le lingue specialistiche sono quelle varietà di lingua relative a certi settori
scientifico-disciplinari o a certe professioni (es. medicina, finanza, archi-
tettura ecc.) → vengono chiamate “lingue specialistiche” perché sono uti-
lizzate da specialisti, si basano fortemente su terminologia condivisa e
sono varietà utilizzate sono tra addetti ai lavori;
- è ovvio che parte di questa terminologia specialistica è conosciuta anche
dalle persone comuni ed entra nella lingua comune (es. malattie) →
questo accade quando questi termini hanno un impatto sulla vita sociale;
● le lingue settoriali sono invece legate a dei settori (es. sport, critica
d’arte) → sono dunque tagliate più sull’argomento che sulla conoscenza
o sulla professione.

> L’esempio della critica d’arte può ess. utile per spiegare la differenza tra
lingua settoriale e lingua specialistica → il critico d’arte prende un codice (es. un
edificio, un quadro ecc.) e trasformarlo verbalmente con la lingua → per fare
questa operazione di traduzione il critico spesso usa delle parole in modo
improprio per spiegare ciò che vede → es. “grammatica del quadro” = le regole
che regolamentano il linguaggio della pittura → a questo punto l’espressione
“grammatica del quadro” diventa settoriale, perché in quel settore specifico si
forma questo concetto → non si tratta di lingua specialistica perché non nasce
necessariamente per dialogare tra addetti ai lavori ma per consentire una
trasmissione d’informazione.
Lingua vs linguaggio

> Spesso questi due termini vengono usati come sinonimi → la questione nasce
dal fatto che l’inglese “language” significa entrambe le cose → per questo
motivo in linguistica generale (che è fortemente basata su letteratura anglofona)
questa sovrapposizione avviene spesso.

> In realtà però “lingua” e “linguaggio” hanno sfumature di significato diverse:


- es. il “linguaggio” dell’architettura è quello delle forme degli edifici;
≠ la “lingua” dell’architettura è la lingua che si usa per parlare di
architettura, cioè è l’insieme di termini che definiscono gli elementi
architettonici e consentono agli architetti di parlare di architettura.

> Il “linguaggio” dunque è un insieme di codici, mentre la “lingua” è un codice


specifico (quello verbale).

Gergo

> Il “gergo” è una varietà linguistica (dunque sempre legata all’asse diafasico, in
quanto è legata al contesto comunicativo) che presuppone due aspetti:
1. chi usa il gergo appartiene a un certo gruppo sociale e usandolo vuole
ribadire la sua appartenenza a quel gruppo e …
2. … vuole escludere chi non vi appartiene (es. il gergo della malavita o
quello giovanile).

> Spesso le parole gergali entrano nella lingua comune.

> “Tecnicismi collaterali” = tecnicismo utilizzato tra gli addetti ai lavori ma non
strettamente necessario, perché non ha quelle caratteristiche di univocità e di
chiarezza che lo rendono un tecnicismo.

- Tipico esempio di tecnicismo collaterale è il verbo accusare in medicina → “I


pazienti accusano sintomi” è esattamente uguale a “I pazienti hanno sintomi”,
senza che si perda nessun tipo di informazione → il medico, se usa accusare,
lo fa un po’ per abitudine e un po’ forse per ribadire al gruppo dei medici (allora
scivola nella gergalità).

- Il luogo dove forse si vede maggiormente questo scivolamento (perché ha un


impatto più generale sui cittadini e anche perché è il luogo dove assolutamente
non dovrebbe succedere) è la lingua giudiziaria → la lingua giudiziaria è una
lingua settoriale, fatta di tecnicismi comprensibili agli addetti ai lavori ma per
sua natura deve ess. comprensibile ai più → se in questo caso scelgo di
utilizzare termini tecnici o strutture sintattiche e morfologiche tipiche della lingua
settoriale anche laddove in un contesto pubblico di comunicazione con non
addetti ai lavori diventano un ostacolo alla comunicazione, io sto scivolando
nella gergalità.

——————————————————————————————————

LA COMPETENZA LINGUISTICA

➽ La competenza linguistica è la capacità di sapersi muovere nello spazio


linguistico → cioè utilizzare le strutture grammaticali, lessico e tipologie testuali
corretti a seconda della coordinata diacronica, diatopica, diastratica, diamesica e
diafasica.
- Nel quadro dell’italiano contemporaneo in certi casi è difficile dare una netta
connotazione grammaticale senza specificare in quale punto dello spazio linguistico
ci si trova.

> La competenza può ess. passiva o attiva:


❖ hanno competenza passiva coloro che sono in grado di decodificare
correttamente la lingua a cui sono sottoposti → si può parlare più
specificatamente anche di competenza grammaticale (= sono in grado di
riconoscere le strutture sintattiche e la struttura morfologica delle parole) e di
competenza lessicale (= di una certa parola conosco il significato);
❖ non è detto che a questo tipo di competenza corrisponda la capacità di
utilizzare la lingua allo stesso modo = competenza attiva;
❖ es. è probabile che se in un testo incontro la parola stilobate capisco di cosa
si sta parlando grazie al contesto o a vecchie reminiscenze (= competenza
passiva) → non è però detto che nel momento in cui voglio indicare quell’ele-
mento architettonico mi venga in mente la parola stilobate (= competenza atti-
va).

➽ Schema di Berruto → Berruto prende un contenuto da trasmettere (ossia “dire a


qualcuno che non si può andare da lui”) e ci fa vedere come questo stesso contenu-
to si possa esprimere in nove modi diversi a seconda del punto dello spazio linguisti-
co in cui mi trovo.

> Nello schema sono assenti la dimensione diacronica (perché prende in considera-
zione l’italiano contemporaneo → il tempo è una costante) e quella diatopica, perché
nel 1987 (anno in cui aveva proposto questo schema nel suo importantissimo libro
Sociologia dell’italiano contemporaneo) la diatopia non ha la funzione che ha nell’ita-
liano contemporaneo → sono passati pochi anni dal 1980 (data che convenzional-
mente indica la fine del lungo processo di italianizzazione), per cui la diatopia è an-
cora incerta e non ha ancora acquisito la capacità di bagaglio aggiuntivo del parlante
italiano ma siamo ancora in una situazione in cui andare dall’italiano standard all’ita-
liano regionale o al dialetto è ancora sentito come uscire dal contesto dell’italiano.

(1) Mi pregio informarLa che la nostra venuta non rientra nell’ambito del fattibile =
italiano formale aulico [7 nello schema].

> Che questa frase può ess. utilizzata solo nello scritto ce lo dice un indicatore
preciso, ossia il fatto che il rapporto di cortesia è realizzato attr. la maiuscola del
pronome enclitico → si tratta appunto del cosiddetto “pronome di cortesia”, che si
usa nello scritto e che consiste nella consuetudine di indicare con la lettera
maiuscola la persona a cui ci si sta rivolgendo.

> Berruto colloca questa frase nel punto estremo della diafasia, della diastratia e
della diamesia perché è ormai talmente limitato all’uso di certi gruppi da ess. quasi
confinante con il formalizzato.
(2) Trasmettiamo a Lei destinatario l’informazione che la venuta di chi sta parlando
non avrà luogo = italiano tecnico-scientifico (= italiano formalizzato) [8].

> Siamo ancora in un contesto scritto (come segnala la presenza del pronome di
cortesia), le parole usate sono molto tecniche e oggettive (es. trasmettere,
destinatario) e la sintassi è articolata nella direzione di un’oggettività massima.

(3) Vogliate prendere atto dell’impossibilità della venuta dei sottoscritti = italiano
burocratico [9].

> La presenza del termine sottoscritti è quasi una marca di certificazione della lingua
burocratica → anche nei moduli odierni si trova spesso la formula “Il/La sottoscritto/a
…”, che alla fine non è altro che un pleonasmo.

> La lingua burocratica è una varietà linguistica molto importante nella nostra storia
linguistica → negli ultimi anni si è combattuta moltissimo dal punto di vista normati-
vo, in quanto farraginosa e non chiara, spingendola verso la trasparenza → nono-
stante questo le caratteristiche della lingua burocratica e i suoi aspetti più negativi
sono ancora vivi (la presenza di sottoscritto è una spia piuttosto interessante).
- Questa varietà viene spesso chiamata in modo dispregiativo “burocratichese”.

> Un esempio di burocratichese ce lo dà un famoso testo di Italo Calvino:


«Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L'interrogato, seduto davanti a
lui, risponde alle domande un po' balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha
da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: «Stamattina presto
andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti questi fiaschi di vino
dietro la cesta del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo
niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata». Impassibile, il brigadiere
batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: «Il sottoscritto essendosi recato
nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire
l’avviamento dell'impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel
rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante
al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato
l’asportazione di uno dei detti articoli nell'intento di consumarlo durante il
pranzo pomeridiano, non essendo a conoscenza dell'avvenuta effrazione
dell'esercizio soprastante».

Ogni giorno, soprattutto da cent'anni a questa parte, per un processo ormai


automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con
la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente.
Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione,
redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell'antilingua.
Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il «terrore
semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un
significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone» fossero parole oscene, come se
«andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi* [...].

Chi parla l'antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le


cose di cui parla [...]. La motivazione psicologica dell'antilingua è la mancanza
d'un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l'odio per se stessi. La lingua invece
vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza
esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua - l'italiano di
chi non sa dire «ho fatt» ma deve dire «ho effettuato» - la lingua viene uccisa».

* Questi termini infatti nel testo vengono sempre tradotti anche se non ce n’è un reale
bisogno → si tratta di tecnicismi collaterali.

> Calvino dice che questa lingua è diventata la lingua italiana di riferimento negli
anni ‘60 → in questi anni c’è una grande questione linguistica (tra i principali attori ci
sono Calvino e Pasolini) perché ancora manca un italiano standard nazionale.

15 MAR. 2022

> Una delle prime cose da notare negli esempi di Calvino è il numero di parole → la
deposizione reale è molto più breve rispetto alla sua traduzione in burocratichese da
parte del brigadiere.
- Questo fatto è esemplare perché si è a lungo ritenuto a torto che uno dei problemi
del burocratichese fosse l’eccessiva prolissità → in tutta quella serie di provvedimen-
ti (anche legislativi) e indicazioni che si sono susseguiti negli ultimi anni per approda-
re a una lingua amministrativa che fosse più trasparente e chiara si è insistito molto
sul discorso della brevità → a questo proposito, una legge recente stabilisce che le
sentenze non possano superare un certo numero di pagine.
- In realtà questo è un falso mito, perché non è vero che di per sé la brevità porta a
una maggiore chiarezza (il caso delle sentenze è piuttosto clamoroso perché
ovviamente non esiste una misura standard entro cui può stare una sentenza
giudiziaria a prescindere dal caso).
- Inoltre, se guardiamo bene la trasposizione del brigadiere, notiamo che il problema
non è tanto la sua lunghezza rispetto all’originale ma è (come dice lo stesso Calvino)
il «terrore semantico», cioè il fatto che ogni parola semplice (anche se utile) viene
trasformata in qualcosa di più ampolloso e pesante → è questo ciò che determina
non solo la lunghezza ma in primo luogo la poca chiarezza.
- Calvino definisce questa lingua come «antilingua», in quanto di fatto non esiste
nessuno che parli o scriva in questo modo.
> Queste sono dunque le caratteristiche principali della lingua burocratica, la quale
in realtà viene meno a quella che è la sua funzione primaria → la lingua burocratica
nasce nel momento in cui c’è l’esigenza di raggiungere tutti i cittadini dello stato.
- Questa nascita della lingua burocratica è anche il motivo per cui rimane così pervi-
cacemente nell’italiano → la lingua burocratica infatto è una delle prime varietà
dell’asse diafasico che si impongono a livello nazionale → il problema di scrivere
testi normativi e amministrativi che fossero comprensibili in tutta Italia è immediato
nel 1861 → questa lingua dunque cerca di diventare nazionale ispirandosi all’unico
modello di lingua possibile, ossia la lingua letteraria e di registro alto → non è
dunque un caso che Berruto nel suo schema ponga la lingua burocratica poco al di
sotto dell’italiano formale aulico e dell’italiano tecnico-scientifico.

(4) La informo che non potremo venire = italiano standard letterario [1].

> Nel 1987 l’italiano standard è un italiano che si è modellato prevalentemente sulla
lingua letteraria → questo ce lo dice molto bene Pasolini (Nuove questioni linguisti-
che, 1964).

> Nel corso degli anni ‘60 del ‘900 c’è una specie di questione della lingua → siamo
a un punto cruciale dell’evoluzione linguistica ma questa lingua non riesce a
decollare → siamo in un momento in cui da tanto tempo ci sono la radio, il cinema e
da una decina d’anni anche la televisione, però manca ancora un italiano standard
→ ci si interroga dunque su come uscire da questo problema e su come si stia
provando a farlo anche se in un modo che non piace (cfr. casi di Calvino, Pasolini e
Lettera a una professoressa).

> Pasolini scrive così nella pagina iniziale di Nuove questioni linguistiche:
«Per arrivare in concreto ad alcune conclusioni linguistiche che ho in mente,
sceglierò un punto di vista particolaristico: il rapporto tra gli scrittori e la koinè
italiana.
Che cos’è, prima di tutto, questa koinè? Non mancano le descrizioni puramente
linguistiche: l’ultima, «alla Bally», è dovuta a Cesare Segre, e a essa rinvio (e mi
riferisco). Si potrebbe comunque dire, intanto, che, all’occhio dello scrittore,
l’italiano medio si presenta come un’entità dualistica, una «santissima dualità»:
l’italiano strumentale e l’italiano letterario.
Questo implica un fatto che del resto è ben noto: in Italia non esiste una vera e
propria lingua italiana nazionale. Cosicché, se vogliamo ricercare una qualche
unità tra le due figure della dualità (lingua parlata, lingua letteraria), dobbiamo
cercarla al di fuori della lingua, nell’interno di quell’individuo storico che è
contemporaneamente utente di queste due lingue: che è uno, e storicamente
descrivibile in una unitaria totalità di esperienze. Tale individuo quale sede
spirituale o coabitazione della dualità, è il borghese o piccolo-borghese italiano,
con la sua esperienza storica e culturale, che è inutile qui definire: credo basti
semplicemente alludervi come a una comune conoscenza».

- Andando avanti si capisce che questo italiano strumentale è la lingua parlata.

- Pasolini dunque dice chiaramente che esistono una lingua orale (che non è
nazionale ma che lui definisce di koinè ed è dunque frutto della esperienza specifica
degli individui che di volta in volta si costruiscono questa oralità dell’italiano) e uno
standard della lingua scritta, che è prevalentemente basata sulla lingua letteraria.

- Uno dei motivi per cui Pasolini scrive questo testo è perché teme che questo
processo sia alla fase finale → Pasolini vede che l’italiano a lui contemporaneo sta
scegliendo altri modelli, e in particolare la lingua tecnico-scientifica → tant’è vero che
queste riflessioni prendono spunto dal discorso di inaugurazione dell’autostrada del
sole pronunciato da Aldo Moro (che Pasolini cita nel testo), che appunto è farcito di
tecnicismi → Pasolini dunque riscontra in questa tendenza (che lui trova anche nella
lingua della televisione ecc.) una possibile virata dell’italiano standard verso l’imita-
zione della lingua non letteraria ma tecnico-scientifica.

- L’altra cosa che Pasolini vede e teme è la scomparsa dei dialetti.

> Queste due cose sono avvenute entrambe ma in modo diverso da come aveva
prefigurato Pasolini:
❖ in realtà il dialetto non è morto ma è morto nella forma in cui lo conosceva
Pasolini, cioè il dialetto utilizzato in diglossia con la lingua italiana (cioè usato
solo da una parte della popolazione in certi contesti) → il dialetto invece ha
recuperato una sua dimensione molto importante, perché si è trasformato nel
quadro linguistico italiano;
❖ la lingua tecnico-scientifica ha un suo ruolo importante → si è sviluppata
come varietà di italiano più recente ma non è certo diventata il modello
linguistico nazionale.

(5) Le dico che non possiamo venire = italiano neo-standard [2].

> Le varietà (4) e (5) sono quelle che tutto sommato sono più vicine all’origine (in-
contro dei tre assi) → nello spazio linguistico stare vicino all’origine significa stare in
una zona più neutra, cioè che non è caratterizzata e che più o meno si può definire
“italiano” senza dover dare troppe specificazioni → è quindi normale che l’italiano
standard sia in questa zona e anzi in un mondo ideale dovrebbe stare proprio nel
mezzo → invece il nostro italiano standard è leggermente spostato verso l’alto (=
verso la formalità) e verso sinistra (= verso lo scritto) → questo non ci meraviglia
perché l’italiano standard all’epoca di Berruto è stato determinato, identificato e
utilizzato per secoli come lingua scritta di registro alto da parte dei ceti sociali alti.
> Quali sono le differenze tra queste due varietà?
➔ lessico → verbo (4) informare vs (5) dire:
- il verbo di (4) è più preciso perché dire è un iperonimo di informare →
dire è generico;
➔ tempo verbale → (4) futuro potremo vs (5) presente possiamo *.

* La frase (5) è grammaticalmente sbagliata → l’errore consiste proprio nell’uso del


presente al posto del futuro, perché secondo la grammatica se l’azione si svolge nel
futuro va espressa col futuro → però la frase Le dico che non possiamo venire è
cmq accettabile, anche in contesti formali.

- Perché questi errori (sia lessicale sia di tempo verbale) non stupiscono nessuno?
Perché la frase regge anche se grammaticalmente è sbagliata e imprecisa? →
perché in realtà tutte le informazioni che si perdono nel passaggio dallo standard al
neo-standard sono recuperabili implicitamente dal contesto → siccome sono in una
situazione in cui sto informando qualcuno che non andrò da lui e non sto facendo
una telecronaca, è chiaro che questo non potere andare da lui è proiettato nel futuro
e non c’è pericolo di ambiguità → quindi esprimere un’azione che si svolgerà nel
futuro con il presente non comporta nessuna perdita di informazione.

Che cos’è il neo-standard?

> Il neo-standard è una varietà dell’italiano che emerge in maniera piuttosto


pesante alla fine del processo di italianizzazione, cioè quando, dopo il 1980,
finalmente possiamo parlare di un italiano per tutti gli italiani.

> Tecnicamente possiamo al posto di potremo è un errore grammaticale →


allora perché non è sentito come tale? E perché negli anni ‘80 ci sono tre
studiosi che in fila (nel 1983 Mioni; nel 1985 Sabatini; nel 1987 Berruto) invece
che catalogare queste cose semplicemente come errori, le mettono sotto
osservazione (con approcci diversi → per Mioni è un italiano tendenziale; per
Sabatini è un italiano di uso medio; per Berruto è un neo-standard)? → perché i
tratti neo-standard hanno tre caratteristiche fondamentali:

1. La più importante è il fatto che l’italiano standard è caratterizzato da dei tratti


grammaticali (fonetici, morfologici, sintattici, lessicali) che sono molto frequenti
nella lingua italiana degli anni ‘80, cioè hanno un’altissima frequenza d’uso →
questo lo si vede dallo studio di corpora rappresentativi:
- si cominciano a realizzare corpora rappresentativi dell’italiano fin dagli
anni ‘70;
- il primo è il LIF = Lessico di frequenza dell’italiano → corpus
rappresentativo dell’italiano scritto;
- poi negli anni ‘90 viene alla luce un lessico di frequenza dell’italiano
parlato = LIP.

- Dunque con questi due strumenti abbiamo un quadro rappresentativo


dell’italiano.

- Cosa vuol dire che un corpus è rappresentativo? → vuol dire che vi sono
riuniti dentro dei testi che sono stati selezionati in maniera statistica per
rappresentare tutte le zone dello spazio linguistico → se questi corpora
rappresentano la lingua italiana nel suo complesso, i dati che vi si possono
estrapolare sono estensibili a tutta la lingua italiana:

- un esempio di tratto neo-standard è l’uso di lui come soggetto al posto di


egli → anche questo tecnicamente è un errore, perché secondo
grammatica lui deve ess. utilizzato solo come complemento;
- se però vado a vedere nei corpora mi rendo conto che l’uso di lui come
soggetto è particolarmente alto → posso allora dire che l’uso di lui come
soggetto è molto frequente nell’italiano.

- Dunque una delle caratteristiche fondamentali dei tratti neo-standard è che


sono molto frequenti nella lingua italiana a prescindere dalla diamesia → cioè
sono usati sia nello scritto sia nel trasmesso sia nel parlato.

- Inoltre questi tratti sono indipendenti dall’origine geografica del parlante, cioè
sono ugualmente diffusi in tutta Italia (non sono quindi di origine diatopica e
dialettale).

- Sono frequenti anche a prescindere dalla provenienza sociale dei parlanti →


cioè non sono usati soltanto da chi appartiene a una classe sociale bassa e ha
un basso grado di istruzione ma vengono usati trasversalmente su tutto l’asse
diastratico.

2. I tratti neo-standard sono presenti nella lingua italiana da sempre.

- Basti pensare al fatto che tra i tratti neo-standard va inclusa anche la


dislocazione a sinistra (= costruzione sintattica marcata, che sposta la posizione
di un elemento a sinistra della sua posizione naturale perché vi si vuole
focalizzare l’attenzione → es. Marco mangia la mela vs La mela la mangia
Marco) → la dislocazione a sinistra è presente nel primo testo che testimonia
l’italiano, ossia il Placito campano (dice che quelle terre le ha possedute il
monastero, non il monastero ha posseduto quelle terre), ed è presente anche in
Dante, Boccaccio, addirittura Petrarca e Manzoni.

- Questi tratti sono presenti anche nei più grandi autori della nostra letteratura,
perciò è difficile liquidarli come errori grammaticali.
- Casomai dovremmo domandarci come mai questi tratti non siano presenti
nella grammatica → la grammatica fotografa la struttura → dunque come mai
se questi tratti sono presenti nella struttura, la grammatica per secoli non li ha
mai fotografati?

- Questi tratti prescindono le dimensioni diastratica, diamesica, diatopica e


diacronica ma non sono invece indipendenti dalla dimensione diafasica → sono
tratti di un registro medio che nella nostra tradizione linguistica non è mai stato
codificato, perché il modello linguistico nazionale è sempre stato la lingua di
registro alto → per questo nelle grammatiche i tratti neo-standard non sono mai
stati considerati.

- A bandire lui come soggetto dalla grammatica è stato Bembo nel 1525 nelle
sue Prose della volgar lingua → evidentemente se ci si schiera contro vuol dire
che veniva usato → lo fa perché la sua idea di lingua è una lingua di registro
alto, mentre ritiene quel tratto proprio del registro medio-basso, che lui non
contempla all’interno delle sue opere (le quali hanno il compito di portarlo alla
fama eterna) → non è un caso che questo tratto sarà presente in Manzoni, il
quale ricerca continuamente il registro medio e la lingua della conversazione.

3. I tratti neo-standard corrispondono a delle semplificazioni della struttura che


non comportano danno.

- L’esempio di lui soggetto è emblematico → nella frase Lui mangia il fatto che il
pronome stia svolgendo la funzione di soggetto in prima battuta ce lo dice non
la forma lui al posto di egli ma la sua posizione, come per tutte le frasi:

- es. Marco ama Isabella → il fatto che Marco è il soggetto non è dovuto al
fatto che Marco ha una struttura morfologica particolare che gli dà la
funzione di soggetto (come accadeva per es. in latino) ma ce lo dice la
posizione.

- Quindi un italiano che sente Lui mangia può sì sconvolgersi del fatto che sia
stato usato lui al posto di egli ma non può non comprendere il significato della
frase → è dunque una semplificazione strutturale del sistema dei pronomi che
porta il pronome personale alla stregua dei sostantivi, che in effetti sostituisce
→ perché se nella grammatica italiana è la posizione che dice se un sostantivo
svolge la funzione di soggetto, complemento oggetto ecc., la stessa cosa in
teoria dovrebbe valere anche per i pronomi senza bisogno di marcare con una
diversa forma della parola la funzione di soggetto rispetto a quella di
complemento.

- Perché abbiamo egli e lui? → si tratta di un relitto etimologico del passaggio


dal latino all’italiano → addirittura mettere lui come soggetto al posto di egli è un
po’ come completare l’evoluzione dell’italiano dal latino, perché significa
sistematizzare quel trasferimento della funzione grammaticale dalla morfologia
(come era proprio delle declinazioni in latino) alla sintassi (posizione rispetto al
verbo) → in realtà si tratta di un cambiamento strutturale che non comporta
danno alla struttura, perché non mette in crisi il sistema morfologico dell’italiano
ma anzi lo semplifica rendendolo più omogeneo e uniforme → è per questo che
lui soggetto era presente già nei primi testi volgari, perché corrispondeva a
quella semplificazione dal sintetico all’analitico che è propria di tutte le
trasformazioni dal latino all’italiano.

> Dunque ciò che è riconducibile a queste tre caratteristiche fa parte dei tratti
neo-standard, i quali sono ricomparsi con forza nel momento in cui l’italiano è
diventato la lingua di tutti e che poi si sono stabilizzati nello standard attuale
della lingua italiana.

> Per capire quanto siano diverse le innovazioni generali dai tratti neo-standard
prendiamo un esempio speculare, cioè un cambiamento nella morfo-sintassi
che sicuramente non è neo-standard perché non ha nessuna delle tre
caratteristiche → si tratta dell’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo (e non
avversativo):

● innanzitutto non è presente nella nostra lingua nel tempo → è


un’innovazione;
● per quanto abbia una certa frequenza, è connotato sia diatopicamente sia
diastraticamente:
- si tratta di un uso che si sviluppa nel nord Italia, tra il Piemonte e la
Lombardia;
- è un costrutto che si sviluppa soprattutto in certe classi sociali alte;
● il piuttosto che con valore disgiuntivo sarebbe un cambiamento che porta
una opacizzazione della struttura linguistica e comporta un danno alla
struttura → noi infatti abbiamo una situazione in cui la funzione disgiuntiva
è svolta egregiamente già da parole come o, oppure, ovvero ecc. →
mettere accanto a queste piuttosto che significa semplicemente andare ad
ampliare una funzione che è già abbondantemente coperta;
- il problema principale è però l’uso tradizionale di piuttosto che → esso
indica una scelta (valore avversativo), non un’indifferenza:
- es. Mario preferisce andare a Roma piuttosto che a Bari → da
questa frase comprendo la scelta di Mario → ma se piuttosto che
avesse valore disgiuntivo, allora si creerebbe un’ambiguità tale che
non potrei comprendere se Mario ha una preferenza o meno;
- questo cambiamento comporterebbe dunque un danno alla struttura
perché creerebbe ambiguità laddove non c’era nessuna ambiguità → se
ciò accadesse, la lingua italiana dovrebbe trovare una soluzione per
colmare il vuoto che si è creato, come è successo già tante volte nella
nostra storia linguistica.

> L’italiano neo-standard dal 1987 è una varietà che ha una centralità nel nostro
sistema → non è un caso che Berruto lo ponga nell’ellisse centrale non-marcato e
vicino all’origine.
- Dagli anni ‘80 la grammatica si confronta continuamente con questi tratti neo-stan-
dard → Berruto li chiama così perché secondo lui potrebbero diventare lo standard
del domani, cioè potrebbero, nel corso dell’evoluzione della lingua, diventare essi
stessi standard ed ess. grammaticalizzati.

(6) sa, non possiamo venire = italiano parlato colloquiale [3].

> La sintassi si è sbriciolata, nel senso che è sparita l’oggettiva, che è diventata
implicita (ipotassi).

(7) ci dico che non potiamo venire = italiano (regionale) popolare [4].

> L’italiano popolare è l’italiano di coloro che non conoscono bene la lingua italiana e
la usano in maniera approssimativa (in quanto non conoscone bene le strutture
grammaticali e il lessico).

> ci dico tradisce un’origine dialettale → è un tipico costrutto dei dialetti meridionali
→ si tratta dunque di un parlante meridionale che trasferisce nella lingua italiana un
costrutto tipico del proprio dialetto.
- Chi lo fa è convinto di parlare italiano ma siccome non conosce bene le strutture
grammaticali domina male la gestione dell’italiano, per cui ricorre alla sua lingua
madre, introducendo nell’italiano un costrutto dialettale come se fosse italiano.

> L’altro grado di approssimazione è relativo a potiamo in luogo di possiamo →


questo accade perché evidentemente il parlante non domina bene la morfologia del
verbo potere, in quanto è un verbo irregolare e ha radici diverse (pot- e pos-).
- Potiamo nasce dal fatto che è stata applicata male la regola morfologica dei verbi
regolari a un verbo irregolare → amare > amiamo, leggere > leggiamo, potere >
potiamo → questo dimostra una scarsa conoscenza della morfologia verbale
(propria di chi ha imparato il dialetto come lingua madre, non ha potuto completare in
maniera proficua l’intero ciclo di studi, per cui non ha conseguito una piena
competenza e padronanza della lingua italiana e delle sue strutture grammaticali, si
esprime prevalentemente in dialetto e nel momento in cui si trova a esprimersi in
italiano, lo fa in questa maniera approssimativa).
> Non è detto che questa lingua sia informale perché chi la usa la usa sempre, sia
nel parlato che nello scritto.

(8) mica possiam venire, eh = italiano informale trascurato [5].

> Siamo di fronte a un italiano decisamente informale, nella zona più bassa dell’asse
diafasico.

> L’andamento sintattico è molto trascurato e non tiene conto delle regole grammati-
cali e del registro → possiamo utilizzare una frase del genere al massimo per comu-
nicare con una persona con cui siamo in strettissima confidenza, anche se con il ri-
schio di sembrare inopportuni (il parlante sembra piuttosto seccato).

(9) ehi, apri ‘ste orecchie, col cavolo che ci si trasborda = italiano gergale [6].

➢ È evidente che a questo punto, partendo da questi esempi, capiamo bene quanto
sia fondamentale stare nella giusta coordinata dello spazio linguistico → infatti se è
evidente che non posso rivolgermi al presidente della Repubblica dicendo “ehi, apri
‘ste orecchie, col cavolo che ci si trasborda”, è altrettanto vero che sarebbe piuttosto
infelice rivolgersi a un gruppo di ragazzi in strada dicendo “mi pregio informarLa che
la nostra venuta non rientra nell’ambito del fattibile” → si tratta di due storture
paragonabili → tant’è vero che usare strutture linguistiche non adatte al contesto è
spesso utilizzato per suscitare ironia.

➢ Dunque la competenza linguistica è la capacità di sapersi muovere nello spazio


linguistico ed è un contenitore che contiene al suo interno anche la competenza
grammaticale.

➽ Questi esempi di Berruto sono piuttosto datati rispetto a oggi → infatti se la lingua
italiana non è cambiata tanto dal ‘600 all’‘800, invece dal 1980 a oggi è cambiata
molto, soprattutto a causa del grande cambiamento storico che l’italiano è diventata
la lingua di tutti gli italiani e questo ha comportato delle dinamiche tali che certe
trasformazioni erano inevitabili.
> Sarà dunque utile osservare l’architettura dell’italiano contemporaneo (2010):

- Questo schema è simile a quello di Berruto ed è stato realizzato da Giuseppe


Antonelli, riferendosi all’italiano contemporaneo del 2010.

- Questo schema è apparso per la prima volta in un testo del 2011, anno del
centocinquantesimo dell’unità d’Italia → è stato quindi un momento di bilancio di
tante dinamiche sociali, politiche, economiche ecc. ma è stato anche un momento di
bilancio sulla lingua italiana.

- Basti pensare che negli anni ‘60 (a cento anni dall’unità) Calvino parlava
dell’antilingua, Pasolini diceva che non esisteva un italiano standard nazionale, la
scuola di Barbiava denunciava il fatto che pure i bambini fiorentini, se provenienti da
famiglie contadine, avevano difficoltà linguistiche ecc.

- Se i primi cento anni sono stati piuttosto fallimentari nell’acquisizione di una


completa italianizzazione, nei successivi cinquant’anni il salto è stato enorme →
infatti gli studi in quel periodo hanno evidenziato una lingua ormai matura, viva e
vitale.
> Antonelli dunque parte dallo stesso schema-base di Berruto perché, mettendoli a
confronto, si potessero evidenziare le differenze:

a) L’italiano è cambiato e Antonelli non può non tenere conto della diatopia e lo fa in
un modo particolare.
- Ci sono due scritte → una centrale in nero e una più piccola in grigio:
● la scritta in grigio indica lo spazio che sarebbe stato occupato dalla diatopia
nello schema di Berruto → ossia se avessimo voluto contare la diatopia nello
schema di Berruto, lo avremmo dovuto fare per tutte quelle varietà che
stavano in quel punto dello spazio linguistico (ossia solo per la lingua parlata);
● diatopia in nero al centro dello schema indica invece la posizione della
diatopia nell’italiano contemporaneo → cioè la diatopia non è più emarginata
nella zona della lingua parlata di registro informale delle classi basse ma
coinvolge ormai anche l’italiano scritto, trasmesso, di qualunque estrazione
sociale e in contesti diafasici variabili → Antonelli parla infatti di una “risalita
della diatopia”.

b) Alcune varietà linguistiche sono scomparse, altre sono comparse, altre ancora si
sono spostate nello spazio linguistico:
❖ l’italiano aulico formale e l’italiano tecnico-scientifico sono ancora presenti, in
una zona più o meno analoga allo schema di Berruto;
❖ è scomparso l’italiano burocratico → la sua zona è ora occupata da una
nuova varietà = l’italiano aziendale;
❖ è comparsa anche la nuova varietà dell’italiano digitato:
- essa ha una collocazione particolare nello spazio linguistico perché
diastraticamente è piuttosto elevata;
- diamesia = è più orientata sul parlato;
- diafasia = tra il formale e l’informale;
❖ un’altra varietà nuova è l’italiano regionale → si trova in una zona dello spazio
linguistico piuttosto vicina all’origine:
- non è molto distante dalla zona della formalità → si usa nei contesti
informali ma può anche allargarsi alla formalità;
- è una varietà utilizzata non solo dalle classi basse ma anche da quelle
medie;
- sta nel mezzo tra la scrittura e l’oralità;
❖ la varietà più vicina in assoluto all’origine è l’italiano parlato colloquiale;
❖ l’italiano informale-trascurato rimane sempre più legato al parlato però è
risalito in diastratia → questo è indicativo del fatto che l’italiano viene usato in
sempre maggiori situazioni comunicative → laddove nel 1987 si sarebbe
ricorsi al dialetto, oggi si ricorre più probabilmente all’italiano;
❖ altro dato importante è che l’italiano popolare (che nello schema di Berruto
occupava la posizione ora occupata dall’italiano regionale) è collocato
decisamente in basso, cioè:
- è tipico di persone provenienti dalle classi sociali basse con un grado
di istruzione basso;
- è relegato alle situazioni di massima informalità;
- è soprattutto proprio del parlato;

- Ci sono novità anche per quanto riguarda l’ellisse centrale:


❖ innanzitutto si è allargata → questo vuol dire che l’italiano non-marcato
occupa sempre maggiori zone dello spazio linguistico;
❖ l’italiano standard non è più letterario ma scolastico (cioè è l’italiano che si
insegna e si usa a scuola);
❖ italiano neo-standard giornalistico → non è l’italiano neo-standard di Berruto!
→ Antonelli si riferisce all’italiano che corrisponde a un buon articolo di
giornale secondo un’indicazione che è stata data da Luca Serianni (il quale ha
definito questo nuovo standard facendolo coincidere con la lingua utilizzata in
un buon articolo di giornale).

> Schema dell’architettura dell’italiano nel 2016 di Antonelli → ha un’unica differenza


rispetto a quello precedente → è sparito l’italiano digitato e al suo posto è comparso
l’e-taliano, che corrisponde all’italiano elettronico e ha cambiato posizione nello
spazio linguistico a seguito di un fatto piuttosto determinate nella storia della rete,
cioè il fatto che il web è diventato 2.0 e ha richiesto l’interazione con l’utente (è
l’utente stesso che fa i contenuti insieme a chi li propone) → si tratta quindi della rete
dei social e dei blog, dove con tecnologie piuttosto elementari chiunque può scrivere
sulla rete in maniera estemporanea → questo ha cambiato la fisionomia della rete
perché ha dato accesso a molte persone che prima non potevano accedervi (chi
voleva creare un sito doveva avere certe competenze e quindi un certo grado di
istruzione specifica).
- Questo ha fatto sì che l’e-taliano si sia caratterizzato in maniera diversa rispetto
all’italiano digitato di cui parlava lo stesso Antonelli nel 2010:
- si tratta di una lingua più tendente verso lo scritto;
- è scesa notevolmente in diastratia;
- in diafasia rimane più o meno la stessa;
- si è spostata più sullo scritto rispetto al parlato → inizialmente quasi tutta la
lingua della rete aveva delle caratteristiche vicine al parlato congelato →
progressivamente si sono infittite anche varietà più vicine alla scrittura (es. siti
ufficiali).
2. ITALIANO NEO-STANDARD

15 MAR. 2022
ITALIANO NEO-STANDARD

➢ Si comincia a parlare di questo tema negli anni ‘80 → il primo a occuparsene è


Mioni nel 1983.
- Mioni è un linguistica generale, per cui ha un occhio teso più alla struttura che agli
aspetti storici (su cui si soffermano ovviamente gli storici della lingua) → Mioni però
è il primo a focalizzare questo cambiamento.
- In Mioni però prevale ancora la considerazione che ci siano cmq dei forti legami sia
in diamesia sia in diastratia → cioè che questo italiano (che lui chiama “tendenziale”)
sia un italiano che in buona parte è legato al fatto che si è cominciato a utilizzare
l’italiano a livello orale (per cui alcuni tratti consolidati nell’oralità si sono trasferiti
nella scrittura) e che queste caratteristiche neo-standard siano delle inefficienze
grammaticali (molto vicine all’italiano popolare → l’ingresso di questi tratti sarebbe
legato al fatto che non si ha una perfetta conoscenza delle strutture grammaticali,
per cui si tende a una certa approssimazione, la quale riguarda tratti che sono
tollerati perché non inficiano né la comunicazione né l’efficienza della struttura e che
quindi piano piano si consolidano nell’uso e, secondo lui, potrebbero diventare
addirittura il nuovo standard).
- “Tendenziale” nasconde quindi due considerazioni:
1. il fatto che è tendente all’italiano (non è proprio italiano ma tende all’italiano);
2. tendenziale anche perché potrebbe indicare una tendenza di spostamento del
sistema da un assetto strutturale a un altro.

➢ Nel 1985 esce un articolo di Sabatini, intitolato L’«italiano dell’uso medio»: una
realtà tra le varietà linguistiche italiane → Sabatini individua 35 tratti neo-standard,
che lui chiama “italiano dell’uso medio”.
- Sabatini è il primo a rendere conto che questi tratti sono presenti nella nostra lingua
da sempre (questo è legato alla sua sensibilità di storico della lingua).
- Ma è anche il primo che mette a fuoco che questi tratti sono indipendenti dagli assi
diastratico, diatopico e diamesico (≠ Mioni) → invece è marcata una dipendenza
diafasica, cioè si tratta di tratti propri del registro medio → per questo preferisce
insistere nel caratterizzarli con l’etichetta “italiano dell’uso medio”.

➢ Sul tema ritorna Berruto nel 1987 in Socio linguistica dell’italiano contemporaneo,
dove identifica questi tratti come un neo-standard.
- Berruto parte da una situazione in cui, dagli anni ‘30 fino agli anni ‘80, ci sono dei
tratti standard e dei tratti sub-standard (ossia tratti che non sono grammaticali e che
si usano solo in certe circostanze) → nella situazione contemporanea a Berruto è
successo che questi due gruppi si sono avvicinati e si è creata un’intersezione, la
quale sta proprio nell’italiano neo-standard → quei tratti che hanno raggiunto una
tale frequenza d’uso, diffusione e distribuzione smettono di ess. sub-standard e
diventano neo-standard → neo-standard significa dunque che questi tratti si avviano
a diventare standard.
- Nel futuro Berruto si prefigura una situazione in cui i tratti neo-standard e l’italiano
standard vanno a coincidere, mentre intanto si preparano altri nuovi tratti sub-stan-
dard che in futuro riprodurranno il solito meccanismo.
- Berruto dunque pone l’accento sul fatto che questi tratti nel 1987 si prefigurano
come lo standard del futuro, motivo per cui usa l’etichetta “neo-standard”.

➽ Tratti dell’italiano dell’uso medio - Francesco Sabatini, L’«italiano dell’uso


medio»: una realtà tra le varietà linguistiche italiane (1985)

> Sabatini individua sette tratti neo-standard relativi alla fonologia e 28 relativi a mor-
fologia e sintassi → non è un caso che con i tratti neo-standard spesso entrino in
gioco settori critici del nostro sistema → i tratti neo-standard in qualche modo com-
pletano un’evoluzione, che è rimasta ferma per vari motivi in certi ambiti.

> Sigla [Pd’A] → significa che di questi tratti contrassegnati dalla sigla si è occupato
successivamente Paolo d’Achille nel 1990 nel volume Sintassi del parlato e
tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, in
cui d’Achille è andato a verificare la presenza di questi tratti in tutti i testi della storia
linguistica italiana dalle origini fino all’‘800 e ha trovato questi costrutti presenti in
tantissimi autori.

21 MAR. 2022

> I primi tratti che riguardano l’italiano neostandard sono di fonologia e sono 7 → è
evidente che vanno a toccare dei settori “critici”, che sono tali perché legati alla
particolare evoluzione dell’italiano a partire dal latino e su cui poi si è scelto in
qualche modo convenzionalmente una soluzione, che non è però del tutto naturale
→ infatti il sistema fonologico dell’italiano è una costruzione astratta, che
corrisponde soltanto all’inventario dei fonemi del toscano ma in molti casi più
specificatamente solo del fiorentino:

1. Uno dei settori tipici di crisi del sistema fonologico dell’italiano è la perdita di
distinzione tra le vocali chiuse e quelle aperte ([e] e [ε] - [o] e [ɔ]) → dal sistema
quantitativo del latino a cinque vocali si passa a un sistema a sette vocali, dove le
differenze fonologiche (cioè distintive) sono affidate non più alla quantità della vocale
ma al suo timbro.
- Il sistema fonico dell’italiano prevede dunque sette vocali:
● tre sono note già in latino e quindi non danno problemi nemmeno nella
restituzione grafica (perché esisteva già un grafema in latino che le
rappresentava) = la vocale centrale A e le vocali chiuse U (velare) e I
(palatale);
● il sistema delle semichiuse e delle semiaperte ha invece creato difficoltà al
sistema grafico, perché aveva esclusivamente un grafema per l’asse delle
velari (o) e uno per le palatali (e) → ma nel settore coperto da questi due
grafemi l’italiano in realtà prevede due fonemi ciascuno → dunque si è
utilizzato lo stesso grafema per indicare sia le semiaperte sia le semichiuse.

- I grafemi e e o sono dunque completamente ambigui → non c’è infatti un modo per
sapere, leggendo una parola, se quella parola si pronuncia con la e/o semiaperta o
la e/o semichiusa.

- Di fronte a questo grafema ambiguo i parlanti italiani reagiscono spontaneamente


in base al sistema fonologico della loro lingua madre (il dialetto) → questo è stato
vero soprattutto nel passato, quando l’unica forma di italiano standard era lo scritto e
non c’era un italiano standard orale che faceva sentire naturalmente le distinzioni →
dunque qualunque italiano che (dal 1612 in poi) si è trovato a leggere l’italiano, lo ha
fatto attribuendo a quella grafia il tipo di fonema che corrispondeva al proprio
sistema fonologico → questo ha portato a far sì che questo sistema fonologico
creato artificialmente non ha attecchito ancora in maniera naturale e tuttora anzi
prevale il sistema della pronuncia secondo l’uso regionale, tanto che molti linguisti
preferiscono oggi abbandonare l’idea di un sistema fonologico per abbracciare
quella di un diasistema fonologico.

- Nel momento in cui l’italiano è diventato lingua nazionale, è dunque diventato


naturale che si tendesse a perdere la distinzione tra vocali chiuse e aperte come
fonemi → cioè esistono sì una pronuncia semiaperta e una semichiusa, ma esse
non corrispondono veramente ai fonemi previsti dal sistema fonologico ma
corrispondono casomai a pronunce distribuzionali, cioè legate al contesto in cui sono
inseriti questi fonemi → diventano quindi non fonemi ma “allofoni”, cioè varianti
distribuzionali di un fonema all’interno di una parola.

- Il fatto che si realizzi una semiaperta o una semichiusa non dipende dal valore
fonologico-distintivo (che è tipico del fiorentino) ma semplicemente della posizione
→ il tratto neo-standard è dunque proprio la tendenza alla perdita della distinzione
tra semiaperte e semichiuse.

- Sabatini precisa infatti che (nel 1985) «la distinzione secondo il modello toscano stenta
a entrare nell’uso anche delle persone molto colte».
- «sono rarissimi i casi di distinzione lessicale affidata esclusivamente all’opposizione nel
grado di apertura tra le due vocali» → ossia quasi sempre dal contesto si riesce a
capire se si tratta di una semiaperta o di una semichiusa ma la parola è cmq
disambiguabile → dunque in realtà i contesti in cui la distinzione fonologica è
davvero funzionale alla comprensione del testo sono molto limitati.

- Tutti questi fattori fanno sì che la perdita della distinzione tra semiaperta e
semichiusa crei una semplificazione del sistema senza comprometterlo.

2. Perdita di distinzione tra sibilante sorda e sibilante sonora ([s] e [z]):

- Questa distinzione in latino non c’era, ma c’era esclusivamente la sibilante sorda →


quindi il latino aveva un unico grafema (lettera s) in quanto uno era il fonema che
doveva ess. rappresentato.

- Nel passaggio dal latino all’italiano si è formato un nuovo fonema = la sibilante


sonora → essa nasce da uno di quei processi di sonorizzazione intervocalica che
riguarda le occlusive velari e la sibilante sorda:
● quando sono in posizione intervocalica, le occlusive velari e la sibilante sorda
vanno incontro a sonorizzazione:
[c] > [g] - [t] > [d] - [p] > [b] - [s] > [z]

- La sonorizzazione è sistematica per i volgari settentrionali, è totalmente assente


nei volgari centro-meridionali ed è parziale nel toscano (e quindi nell’italiano) → è
parziale perché alcune parole vanno incontro a sonorizzazione mentre altre no:

es. PRATUM > prato (no sonorizzazione) ≠ STRATAM > strada (sonorizzazione)

- Ci sono varie spiegazioni del perché esista questa alternanza (c’è chi pensa a una
variante sociolinguistica di tipo diastratico, chi a influssi settentrionali ecc.) → fatto
sta però che in alcuni casi si ha la sonorizzazione in anltri no, tanto che in certi casi
avviene che ci siano delle coppie minime, cioè in cui la distinzione tra sorda e sonora
ha valore distintivo → si conclude dunque che si tratta di due fonemi distinti:

es. /fuso/ = oggetto per filare la lana vs /fuzo/ = participio passato di fondere
es. /Brindisi/ = città* vs /brindizi/ = alzare in alto il calice

* Siamo sicuri che nel caso di Brindisi la s è sorda perché la città si trova in Italia
meridionale, dove non è avvenuta la sonorizzazione.

- Questi due fonemi cmq sono un po’ critici, in quanto il loro statuto di fonema non è
particolarmente solido, proprio perché le coppie minime sono limitate e anche in quei
casi dal contesto si è sempre in grado di distinguere le due parole.
- Dunque i casi in qui c’è valore distintivo non sono numerosi + il fatto che questa
distinzione si perda non avrebbe un grosso impatto → la lingua tende naturalmente
a semplificarsi e dunque si va nella direzione della caduta di opposizione tra sibilante
sorda e sonora → tanto più che anche in questo caso siamo di fronte a una
situazione del tutto analoga alla precedente, ossia il grafema che rappresenta i due
fonemi è lo stesso → questo ha portato a trovarsi di fronte a pronunce che
arealmente sono distribuite in modo diverso a seconda della provenienza dei parlanti
→ in ogni caso si va verso la perdita di distinzione fonologica.

> In questo caso in realtà la tendenza è quella di andare verso la sibilante sonora →
ci sono vari studi recenti che dimostrano come si stia diffondendo l’uso della sibilante
sonora pure tra i parlanti toscani, soprattutto i giovani, e si sta diffondendo anche
nell’Italia meridionale.
- Perché prevale la sonora invece che la sorda? → questo è dovuto al prestigio dei
dialetti settentrionali durante il boom economico del secondo dopoguerra → la
popolazione italiana è concentrata per quasi la metà nell’Italia settentrionale → è
dunque normale che gli usi settentrionali, nel caso di versioni alternative, diventino
prevalenti.

3. Il raddoppiamento fonosintattico è poco avvertito:

- Il raddoppiamento fonosintattico è una caratteristica tipica del fiorentino e consiste


nel raddoppiamento delle consonanti che si ha in fonosintassi, cioè al di là dei confini
delle parole → in particolare dopo certe proposizioni si ha il raddoppiamento della
consonante iniziale della parola che segue:

es. Vado a casa → /vado a kkasa/, non /vado a kasa/

- Questo radd.fon. è un altro punto critico perché non viene visualizzato nella grafia,
mentre nell’italiano antico sì (tant’è vero che nei manoscritti anteriori alla stampa
spesso si trova il radd.fon. e nelle edizioni moderne si usa restituire lasciando il
raddoppiamento per testimoniare che chi ha scritto ha voluto marcare il radd.fon.) →
però nella grafia italiana standard il radd.fon. non viene rappresentato → questo
però ha contibuito a far sì che per quegli italiani per cui il radd. fon. non era naturale
si trovassero in difficoltà di fronte a un testo scritto.

- In sintesi il raddoppiamento fonosintattico:


● è assente nella pronuncia di tutti i settentrionali, dei sardi e degli aretino-corto-
nesi;
● nella pronuncia dei centro-meridionali non toscani è assente dopo da, come e
dove → sicché, per es., le pronunce da pparte mia, dove vvai, come vvuoi
sono sentite come regionalismi toscani.
- Quindi una parte molto consistente della popolazione italiana o non applica il radd.
fon. per niente o lo applica solo parzialmente → è dunque normale che il radd.fon.
vada incontro a una semplificazione.

4. La i prostetica davanti al nesso iniziale s + consonante, dopo una parola con


finale in consonante, è di uso raro, sia nel parlato che nello scritto (tratto che si è
andato perdendo già nel corso del ‘900) → resiste, come formula abbastanza
cristallizzata, la forma per iscritto, ma ormai non si incontrano praticamente più le
forme in Isvezia, in Isvizzera, in istrada, per isbaglio ecc.

5. La d eufonica viene limitata ai casi di incontro con la stessa vocale:

- La “d eufonica” è quella d che si mette accanto a una congiunzione o a una


proposizione nel caso in cui questa preceda parola iniziante per vocale → le forme
che conosciamo sono ad, ed e (molto raramente, pressoché scomparsa) od.

- Questa d si definisce “eufonica” perché serve a far transitare bene, mantenendo


chiara la preposizione o congiunzione di fronte alla parola che segue → senza la d
eufonica il rischio è che, di fronte all’incontro di due suoni uguali, si perda la propo-
sizione, che però è fondamentale sia espressa e chiarita in quanto svolge un ruolo
morfologico molto importante → per questo motivo si inserisce un suono consonanti-
co.

- La forma che si è standardizzata è quella di limitare l’uso delle forme ad e ed


soltanto ai casi di incontro con la stessa vocale:

es. Scrivo ad Anna vs Abito a Enna

- Questa distribuzione e uso della d eufonica coincide con la soluzione (funzionale


ed economica) proposta da Bruno Migliorini nel 1963.

6. L’elisione e il troncamento sono molto più rari:

- Tradizionalmente nell’italiano l’elisione e il troncamento sono molto più frequenti di


quanto non lo siano nell’uso dell’italiano neostandard → ormai usi del tipo l’armi, m’è
capitato, vengon detti ecc. sono sentiti come arcaizzanti, aulici e letterari.
7. La regola del “dittongo mobile” è sostituita da serie congelate:

- Nel passaggio dal latino all’italiano, una delle trasformazioni più importanti del
fiorentino è il cosiddetto “dittongamento spontaneo”, che riguarda le semiaperte (e di
pede e o di bono), le quali vanno incontro a dittongamento se in sillaba libera.

- Il dittongamento è definito “mobile” perché etimologicamente c’è soltanto se quelle


o ed e semiaperte sono toniche → ci sono però molti casi in cui parole che non
avrebbero il dittongo etimologicamente ma lo hanno per analogia (es. buonissimo,
che invece dovrebbe ess. bonissimo) (si tratta dunque di un dittongo non etimologico
ma analogico).

- L’omologazione tipica dell’italiano neo-standard è andata in alcuni casi verso la


forma dittongata (es. nuocere, mietere ecc.) in altri verso la forma monottongata (es.
arrotare).

> Passiamo ora ai tratti tipici di morfologia e sintassi.

8. Gli aggettivi e pronomi dimostrativi codesto e gli avverbi di luogo costì e costà
sono ormai confinati nell’uso burocratico:

- Codesto, secondo la grammatica standard, è scomparso → lo dicono i toscani in


maniera naturale, mentre nel resto d’Italia è sentito come o toscano o arcaico.

- In realtà codesto è parte integrante del sistema dei dimostrativi:


● questo indica qualcosa vicino a chi parla;
● quello indica qualcosa lontano da chi parla e chi ascolta;
● codesto indica qualcosa vicino a chi ascolta.

- La forma codesto però nell’italiano neo-standard si è persa completamente perché


è una semplificazione tollerabile da parte del sistema, in quanto la specificazione di
qualcosa vicino a chi ascolta può diventare superflua nel parlato → tant’è vero che
codesto viene utilizzato nell’italiano contemporaneo o come varietà diatopica dei par-
lanti toscani o come marca diacronica quando in un testo si vuole marcare l’arcaicità.

9. Diffusione delle forme aferetiche ‘sto e ‘sta → connotano ancora la lingua in


senso colloquiale ma sono certamente panitaliane → questo uso di ‘sto e ‘sta è
favorito dalla presenza delle forme perfettamente fuse, ormai consolidate nella
lingua standard, come stamani, stamattina, stasera, stanotte, stavolta.
10. Con funzione di neutro si usano decisamente questo (specialmente quando
non segue una relativa che specifichi) e quello → molto raro invece è l’uso di ciò.
- Anche il pronome neutro lo, che richiama un intero enunciato o un complemento
predicativo del soggetto o dell’oggetto, è di uso larghissimo.

11. La forma pronominale dativale gli è di uso larghissimo con tutti i valori (= “a
lui”, “a lei”, “a loro”) → accade spesso che si usi gli dico al posto di le dico per riferirsi
a una donna e soprattutto sta scomparendo del tutto l’uso di loro, soprattutto nel
parlato (es. gli dico prevale su dico loro).

- Anche in questo caso il sistema non reagisce più di tanto perché c’è una semplifi-
cazione che non compromette e danneggia la struttura → siamo infatti sempre in
grado di capire se quel gli si riferisce a un uomo o a una donna o a un plurale.

- Sabatini analizza questo fenomeno anche in diacronia e sottolinea come esso sia
diffuso nella nostra storia linguistica e anche nella nostra storia letteraria recente →
in particolare dice «molti scrittori dei secoli XIV-XVI usarono liberamente la forma unica
gli e questa fu riammessa per il plurale (ma non per il femminile singolare e plurale) da
Manzoni. Scrittori più recenti hanno accolto ancora più largamente la forma gli».

12. Le forme lui, lei e loro in funzione di soggetto al posto di egli, ella, essa,
essi, esse, sono ormai la norma in ogni tipo di parlato e nelle scritture che
rispecchiano atti comunicativi reali.

- Anche in questo caso Sabatini si sofferma per ribadire la presenza di questo


fenomeno nella nostra storia letteraria:

«Le forme lui, lei e loro in funzione di soggetto cominciano a essere attestate con
una certa larghezza nel pieno sec. XIV (ma un esempio certo di loro è già in un
documento fiorentino del 1267) [...]. Tali forme furono condannate da Bembo
nelle Prose della volgar lingua nel 1525* e ciò ebbe effetto sulla lingua di molti
scrittori, ma non di tutti [...]. Dal secolo XVII in poi si assiste a una graduale
ascesa del sistema lui/lei/loro nella narrativa, con una decisa impennata dovuta
alle scelte di Manzoni».

* È proprio da qui che nasce l’indicazione grammaticale che tali forme non si
possono usare e poi è stata trasmessa in tutta la grammatografia successiva
13. Trovano buona accoglienza le forme dei dimostrativi questo e quello
rafforzate da qui e lì (es. quest’uomo qui, quella casa lì ecc.) → si tratta di un uso di
origine settentrionale ma che poi si diffonde in tutta Italia → è un tratto dalla grande
frequenza e che potrebbe addirittura diventare standard.

14. La combinazione di una preposizione con l’articolo partitivo, sconsigliata


dalle grammatiche, è in realtà di uso frequentissimo proprio nella lingua media
(non in quella molto formale, né in quella regionale o popolare):

es. Condiscilo con dell’olio crudo invece di Condiscilo con olio crudo

15. Progressiva scomparsa della particella pronominale -vi in favore di -ci (es.
ci resto; ci metto; metterci; mettercelo ecc.)

16. Il cosiddetto “ci attualizzante” → ci ha originariamente valore di avverbio di


luogo ma in questo caso ha invece la funzione di rinforzo semantico e fonico alle
forme verbali (soprattutto essere e avere ma anche con altri verbi)

17. I costrutti marcati → esistono 4 casi di questo tipo:


a) la posposizione del soggetto al predicato;
b) la frase segmentata, cioè con tematizzazione a destra o a sinistra (già testi-
moniata nei Placiti Campani);
c) anacoluto;
d) frase “scissa” (o “spezzata”).

- Questa cosa è piuttosto strana perché (come vedremo quando parleremo di


sintassi) gli studi moderni orientano verso uno studio della sintassi che si basa su
quattro approcci diversi → approccio configurazionale; approccio delle funzioni
sintattiche; approccio semantico; approccio pragmatico-informativo → quest’ultimo
(che è tipico di tutte le lingue e di cui si parla in ogni grammatica) nell’italiano è
diventato un tratto neostandard → cioè la grammatica tradizionale dell’italiano ha
bandito dalla sua trattatazione tutta questa parte, che invece è parte integrante dello
studio e dell’insegnamento di una lingua → infatti, oltre alla struttura normale delle
frasi (frasi non-marcate), ci sono anche tutta una serie di tecniche grammaticali per
trasmettere informazioni diverse destrutturando la frase dal suo ordine naturale e
dandole un ordine diverso → tutto questo (che in realtà fa parte della grammatica
teorica) nell’italiano è diventato semplicemente tratto neo-standard e solo dal 1980 in
poi è recuperato anche a livello di descrizione grammaticale (questo non è strano
perché, come vedremo, i fenomeni di focalizzazione riguardano soprattutto
interazioni linguistiche che hanno a che fare più col registro medio che con quello
formale → è dunque normale che una grammatografia che si è sempre dedicata alla
descrizione di una lingua di registro alto abbia lasciato queste cose da parte)

a) Posposizione del soggetto al predicato:

- Nella frase Mario canta la focalizzazione è posta sul fatto che Mario sta cantando,
cioè l’elemento nuovo (del quale la frase ci informa) è che costa sta facendo Mario
→ se invece uso la frase Canta Mario, posponendo il soggetto al verbo, cambio il
valore informativo → in questo caso l’elemento nuovo è Mario e voglio dire che sta
cantando proprio lui.
- Questo costrutto è tipico dell’italiano neo-standard.

b) La frase segmentata, cioè con tematizzazione a destra o sinistra del dato noto:

es. Io ti ho dato i soldi (frase non-marata)


vs I soldi te li ho dati (focalizzazione sui soldi)

c) Anacoluto → è come se mancasse una parte della frase ma in certi casi questa
mancanza è gestita dal sistema:

es. Non ho detto nulla a Giorgio (frase non-marcata)


vs Giorgio, non gli ho detto nulla (anacoluto, focalizzazione su Giorgio)

d) Frase scissa:
es. Mario canta (frase non-marcata)
vs È Mario che canta (focalizzazione su Mario)

18. La risalita del pronome clitico → in presenza di un verbo cosiddetto “servile”, il


pronome clitico tende a “risalire”, cioè a passare da enclitico del verbo semantica-
mente più importante (ma dipendente) a proclitico del verbo servile (che è reggente):

es. L’anno scolastico si può dire ormai finito


invece di L’anno scolastico può dirsi ormai finito

- La risalita è molto più facile con i verbi modali (dovere, potere, volere, sapere), con
i verbi aspettuali (stare + gerundio, stare a, stare per, cominciare a, finire di) e con i
verbi andare e venire (quando il loro specifico significato è fortemente attenuato,
sicché essi formano un complesso unico col verbo che accompagnano) → es. Non
mi posso rassegnare; es. Non mi sta a sentire; es. Ce ne vogliamo andare ecc.

19. La stessa tendenza alla proclisi si manifesta per l’imperativo negativo:

es. Non ti muovere invece di Non muoverti


20. Il cosiddetto “che polivalente” → è il che che svolge una funzione che non è
tipica di quelle che conosciamo (non è esattamente un pronome relativo o una
congiunzione ma è qualcosa di ibrido) e ha più funzioni (per questo è definito
“polivalente”).
- Esso nasce da un pronome relativo quando ha significato di di cui, in cui, a cui.

- Ci sono vari tipi di che polivalente → i più importanti sono 4:

● che con valore temporale = equivalente a in cui, dal momento in cui, nel
momento in cui (uso abbastanza consolidato):
es. La sera che ti ho conosciuto = La sera in cui ti ho conosciuto

● che che congiunge le due parti di una frase scissa:


es. È Mario che mangia la mela
- anche in questo caso il che è polivalente perché va sciolto con una perifrasi:
= È Mario colui che mangia la mela

● che con apparente funzione di soggetto o oggetto, contraddetta da una suc-


cessiva forma pronominale che ha funzione di complemento indiretto:
es. La valigia che c’ho messo i libri = La valigia in cui ho messo i libri
(sembra un complemento diretto ma invece è indiretto)
- le grammatiche contemporanee hanno accettato questo uso con molta parsi-
monia, relegandolo a un uso di registro basso e della lingua colloquiale orale;

● che sostitutivo di una congiunzione più nettamente finale o consecutiva o


causale:
es. Vieni, che te lo spiego = Vieni, così te lo spiego

22 MAR. 2022

21. Tra che cosa, cosa e che nelle frasi interrogative (specialmente dirette) ha per-
duto terreno che cosa e si va affermando sempre più il semplice cosa (di prove-
nienza settentrionale), mentre il che (di provenienza meridionale) a livello nazionale
si è fissato più che altro in formule come Che so? (= “ad esempio, per così dire”),
Che dire? (= “difficile giudicare”), Di che si tratta?, Che importa? ecc.

es. Cosa stai facendo? prevale su Che cosa stai facendo? o Che stai facendo?
22. In funzione di aggettivo interrogativo che è molto più usato di quale:

es. Non so che progetti abbia invece di Non so quali progetti abbia

- Questa tendenza è anche più netta nelle frasi esclamative (tali usi sono già salda-
mente attestati nell’italiano antico):

es. Che gioia rivederti! invece di Quale gioia rivederti!

23. Alcuni nessi relativi che, all’interno della frase, esprimono un legame dichiarati-
vo o causale, sono stati ridotti, con ellissi dell’elemento nominale:

es. Tieni conto che col treno arriveresti troppo tardi


invece di Tieni conto del fatto che col treno arriveresti troppo tardi

24. L’uso parlato (che poi si è riversato anche nello scritto) ha portato a una note-
vole selezione (e quindi semplificazione) tra i tipi di congiunzione causale, finale
e interrogativa:

a. Per le causali che precedono la proposizione principale, parlando si dà netta pre-


valenza a siccome o dato che, rispetto a poiché o giacché:

es. Siccome fa molto freddo preferisco non uscire

- Va tenuto presente tuttavia che nella lingua d’uso medio la relazione causale viene
più spesso espressa parattaticamente congiungendo le frasi con una e cosiddetta
“pragmatica” o “esplicativa”, in quanto spiega quella particolare relazione dal punto
di vista del locutore:

es. Fa molto freddo e preferisco non uscire

b. Per le finali, l’uso di affiché (che nelle descrizioni delle grammatiche primeggia) è
invece rarissimo → il costrutto finale esplicito nel parlato è introdotto da perché o, più
spesso, viene trasformato in costrutto implicito che incorpora un verbo causativo:

es. Ti ho detto una bugia per non farti agitare


e non Ti ho detto una bugia affinché non ti agitassi

c. Nelle interrogative è molto frequente anche l’uso di come mai:

es. Come mai non sei uscito oggi?


25. L’avverbio allora con valore non temporale ma consecutivo ha un largo im-
piego, non soltanto come correlativo di una causale ma come elemento riassuntivo
e conclusivo che introduce o segue domande:

es. Siccome non si era fatto vivo, allora decidemmo di andarlo a trovare

26. Estensione dell’indicativo a zone che secondo la grammatica sono proprie


del congiuntivo:

- Molti sostengono che il congiuntivo stia morendo ma in realtà non sta morendo
affatto come si pensa → gli studi sulla lingua dei sistemi di comunicazione di massa
hanno dimostrato invece che il congiuntivo tiene moltissimo (soprattutto
nell’informazione).

- Inoltre non è che il congiuntivo stia sparendo in tutti i luoghi e in tutti i suoi usi ma
tende a ess. sostituito dal presente in alcuni contesti particolari → in particolare il
congiuntivo tende a cadere quando l’informazione data dal congiuntivo (aspettualità,
potenzialità) è già espressa dal verbo principale:

es. Credo che Luigi abbia perso i libri = Credo che Luigi ha perso i libri

- In questo caso non si perde nessuna informazione in quanto il fatto che Luigi possa
aver perso i libri o meno è già espresso di per sé dal verbo credere (di per sé il verbo
credere esprime potenzialità, una non certezza).

- Nelle ipotetiche dell’irrealtà il congiuntivo cede spesso il passo all’indicativo:

es. Se me lo dicevi ci pensavo io


anziché Se me lo avessi detto ci avrei pensato io

- In certi casi però anche questo è un uso che ha una sua stabilità storica → Sabatini
riporta esempi da Dante, Machiavelli e Manzoni.

27. La concordanza “a senso” → è un errore che accade abbastanza


spontaneamente, nei giornali si trova frequentemente → la concordanza “a senso”
consiste nella concordanza di alcune parti della frase non in base agli elementi della
frase ma in base alla logica e al senso → questo fenomeno accade quando il
soggetto è un nome che esprime una collettività (es. classe, folla, dozzina, quantità
ecc.), cioè parole che in realtà racchiudono più elementi → siccome la parola è
singolare il verbo dovrebbe ess. al singolare, ma in certi casi prevale l’idea che quel
singolare nasconde una pluralità e allora scatta un adeguamento sul plurale piuttosto
che sul singolare → soprattutto questo accade quando il collettivo è accompagnato
da un partitivo al plurale:
es. Una quantità di uccelli si alzarono in volo
invece di Una quantità di uccelli si alzò in volo

- Ma anche senza la successiva specificazione partitiva al plurale, il nome collettivo


a volte è seguito dal predicato al plurale:

es. La terza C vanno in gita a Venezia

- Questo è un tratto molto forte, che ha una sua naturalezza di applicazione e infatti
è spesso attestato nella nostra storia linguistica (Dante, Boccaccio, Manzoni).

28. La concordanza tra il participio passato e l’oggetto sotto forma di pronome


relativo antecedente è raramente rispettata → se il participio è accompagnato
dall’ausiliare avere, resta più spesso nella forma del maschile singolare:

es. I libri che ho letto invece di I libri che ho letti

- Se il participio è accompagnato dall’ausiliare essere (nelle costruzioni cosiddette “di


affetto”), il participio concorda piuttosto col soggetto, in genere e numero:

es. La birra che ci siamo bevuti invece di La birra che ci siamo bevuta

29. È più accettata di un tempo la costruzione dei verbi con forma pronominale
per indicare una più forte partecipazione affettiva o di interesse → quest’uso
(detto “costruzione riflessiva apparente o di affetto”) è frequentissimo con i verbi
mangiare e bere (e loro sinonimi) e con altri che indicano azioni o atteggiamenti im-
plicanti effetti sulla persona del soggetto:

es. Luca si è mangiato mezza torta

- Sembra un verbo riflessivo ma tecnicamente non lo è → è una costruzione che


indica una maggiore partecipazione affettiva o interesse.

30. Sono frequenti i costrutti sostanzialmente impersonali realizzati però me-


diante la terza persona plurale o il pronome indefinito uno o il tu generico:

es. Bussano alla porta = “qualcuno bussa alla porta”


es. Uno se ne sta per i fatti suoi eppure finisce nei guai
es. Tu credi di essere a posto e poi ti arrivano le seccature
31. L’uso di niente in funzone di aggettivo (già attestato in epoca antica) permette
di realizzare un tipo di espressione partitiva-negativa particolarmente efficace e di
largo impiego:
es. In questa marmellata niente conservanti

32. La formazione di nomi composti ottenuta grazie alla giustapposizione di


due sostantivi → questo fenomeno è già previsto e compendiato dalla grammatica
tradizionale ma a partire dagli anni ‘80 subisce un notevole aumento → questa
tendenza è oggi ancora più produttiva, anche per l’influsso dell’inglese, dove questo
costrutto di morfologia lessicale è ancora più diffuso e utilizzato.

- I due tipi di costrutto più diffusi sono:


a) il tipo treno lampo, marito modello, notizia bomba, mondo cane, nave
fantasma, cane poliziotto ecc. → il secondo sostantivo ha funzione di aggetti-
vo che determina il primo sostantivo (“treno veloce come un lampo” ecc.);
b) il tipo treno merci, uscita automezzi, fine mese, fine stagione, carro attrezzi,
scuola guida, sala parto ecc. → la giustapposizione dei due sostantivi in realtà
nasconde un nesso tra di loro che normalmente nella grammatica sarebbe
espresso da una proposizione (“treno per le merci” ecc.).

- Il primo tipo deriva più direttamente dall’uso parlato (anche se le singole locuzioni
sono di origine piuttosto colta), mentre il secondo nasce più propriamente nei lin-
guaggi tecnici → entrambi però sono ormai di largo impiego nell’uso parlato medio e
medioalto.

- In realtà questa giustapposizione (soprattutto il primo tipo) in parte, oltre che ad


avere influenze da altre lingue, ha avuto una grande espansione perché è un co-
strutto particolarmente usato nei giornali, nella tv e nella radio → è da lì che anche
ha avuto un grande input per aumentare la sua frequenza.

33. Nella sfera dei pronomi allocutivi di cortesia si è affermato decisamente,


per il singolare, Lei (praticato da una larghissima fascia di parlanti anche di scarsa
istruzione), mentre Ella è estremamente raro nel parlato e rintracciabile quasi soltan-
to nella comunicazione scritta molto formale.
- Per il plurale, nella stragrande maggioranza dei casi si usa Voi, mentre Loro è
decisamente formale
34. La ripetizione dello stesso sostantivo per rideterminare e quindi intensifi-
care il significato della parola:

es. Voglio un caffè caffè (ossia un caffè fatto a regola d’arte)

35. Vari elementi lessicali, che però svolgono per lo più tipiche funzioni sintat-
tiche, specialmente a livello testuale, possono caratterizzare la lingua media di-
stanziandola dallo standard ufficiale → sono nettamente dominanti nel parlato e
nella narrativa ma vengono accolti con facilità anche nella scrittura giornalistica e
perfino a livelli più alti → Sabatini ne dà un rapido elenco, affiancando tra parentesi
gli equivalenti più formali:

- solo che (/tuttavia, però). Es.: Capisco il tuo problema; solo che io non posso
farci niente (“... però io non posso farci niente).

> Sabatini tratta poi la parte riguardante il lessico (guarda direttamente il testo).
> Nella parte finale Sabatini mette in evidenza quali sono le caratteristiche di questi
tratti neo-standard (che lui chiama “dell’uso medio”) e poi chiude con il repertorio
delle varietà linguistiche in Italia (nel 1985):

- Secondo Sabatini le varietà nazionali nel 1985 sono ancora appannaggio solo delle
classi istruite.

- Sabatini riconduce l’italiano regionale delle classi istruite solo all’uso parlato, in
quanto presuppone che chi appartiene a una classe istruita quando scrive scriva in
un italiano standard o dell’uso medio → c’è sì l’italiano regionale ma a livello del
parlato.

- Le ultime varietà previste hanno una scansione diversa per le classi istruite e per
quelle popolari:
- per le classi popolari c’è un uso unificato, con informalità più accentuata per il
dialetto → sostanzialmente si riduce tutto al dialetto, il cui uso è destinato sia
al parlato che allo scritto;
- per le classi istruite possiamo prevedere diverse sotto-categorie → esse
possono ricorrere al dialetto regionale o provinciale o al dialetto locale quando
sono nel parlato di registro informale.
➢ Sintassi del parlato e tradizione scritta → Paolo D’Achille in quest’opera fa un
controllo sistematico e riporta autore per autore i dati quantitativi della presenza di
tratti dell’uso medio in questi scritti.
- Il prof riporta una pagina riguardante le occorrenze del che polivalente in Boccaccio:
➽ Per capire meglio l’impatto che ha avuto in passato e che ha nel presente il
problema dei tratti neo-standard dell’italiano analizziamo ora il caso dei doppiaggi
dei film e delle traduzioni di opere letterarie.

- Il cinema italiano è abbastanza caratteristico per il ricorso quasi sistematico al


doppiaggio dei film in lingua originale → nel resto del mondo non è così diffuso ma in
Italia c’è una scuola di doppiaggio di alta qualità → il cinema sonoro è nato e
cresciuto nel contesto particolare del regime fascista, dove tutto veniva tradotto
rigorosamente → dunque dopo circa dodici/tredici di tecniche messe appunto per il
doppiaggio, è un’abitudine che è rimasta consolidata.

> Per noi è molto interessante andare a vedere i casi in cui un film è stato doppiato
più volte → che un film venga doppiato più volte è una cosa più frequente di quanto
si pensi, soprattutto se i film sono molto vecchi → i film vengono ridoppiati per varie
ragioni (la principale è che l’audio del primo doppiaggio si è rovinato e non è più
utilizzabile) → moltissimi film sono stati ridoppiati quando si sono diffusi i
videoregistratori e quando i film sono passati dalle sale cinematografiche alla
televisione → dunque soprattutto negli anni ‘70-‘80 (quando si è passati da una
riproduzione cinematografica a una più privata) molti film sono stati ridoppiati.

> Per noi è particolarmente interessante andare a vedere questi casi di ridoppiaggio
ed è ancora più interessante se il film nella lingua originale usava un registro medio
→ infatti in questo caso è interessante vedere come i doppiatori hanno restituito
quest’uso medio → ma nei fatti cosa verifichiamo?

❖ prima del 1980 vediamo che di fronte ai tratti neostandard presenti


nell’originale, la reazione dei doppiatori è quella di ricostruire un andamento
sintattico regolare:
- es. se nella lingua originale c’è un che polivalente, sistematicamente si
ricostruisce la frase secondo la sintassi regolare;
- dunque tendenzialmente rispetto a un uso medio della lingua di partenza, la
reazione di chi scrive il testo doppiato è quella di andare nella direzione di uno
standard di tipo letterario;
❖ se il film viene ridoppiato dopo gli anni ‘80 i tratti neostandard vengono
recuperati → dunque il doppiaggio viene fatto sulla base dei tratti neostandard
dell’italiano che rispettano la lingua originale.

> Per dare un esempio di questo il prof cita delle pagine tratte dall’articolo L’italiano
del doppiaggio di Nicoletta Maraschio (contenuto nel volume La lingua italiana in
movimento, 1982) → Maraschio, proprio perché utilizza il doppiaggio per far vedere
questo italiano in movimento, si sofferma anche su alcuni casi di ridoppiaggio.
- In particolare si sofferma sul caso del film Furia di Fritz Lang, di cui si ha un primo
doppiaggio nel 1936 e poi un secondo doppiaggio alla fine degli anni ‘70 (quando
appunto si comincia a pensare a una distribuzione del cinema di tipo diverso) →
sono poche battute ma ci si rende conto abbastanza bene delle differenze:

- Questo è il primo doppiaggio → troviamo un italiano di registro alto in una


situazione piuttosto quotidiana.

- Qui la lingua è decisamente cambiata e si è spostata su un registro decisamente


medio (guarda anche le altre pagine presenti su moodle).

> Perché dunque è importante andare a vedere i ridoppiaggi e le ritraduzioni? → alla


fine avremmo potuto riscontrare questi tratti anche analizzando un film italiano
precedente al 1980 e uno posteriore → infatti nei film italiani precedenti al 1980 si
trova una lingua molto vicina all’italiano letterario ≠ mentre nei film posteriori al 1980
la lingua piano piano riflette la lingua parlata veramente dagli italiani, per cui
cominciano a esserci dentro i dialetti, gli italiani regionali ecc.

- Fino al 1980 il dialetto era entrato nel cinema ma in modi piuttosto particolari:
● come dialetto puro era entrato nell’immediato secondo dopoguerra nel cinema
neorealista (in film come Ladri di biciclette, La terra trema* e Paisà**) → poi le
esperienze di cinema dialettale puro si limitano a L’albero degli zoccoli di Olmi
(1978);
● per il resto il dialetto sì c’era nel cinema ma era un dialetto piuttosto
stigmatizzato:
- per es. se il film si svolgeva a Roma veniva inserito qualche tratto del
romanesco che però era compreso da tutti;
- poi c’erano altri personaggi tipizzati, come la donna dai facili costumi
con accento emiliano, il furbacchione con accento napoletano, il
personaggio ironico e sarcastico con accento fiorentino ecc.;
- si tratta dunque di strategie che danno sia un po’ di tipizzazione (che deriva
dal teatro) sia anche un po’ di verisimiglianza (perché in effetti è difficile fare
un film ambientato per es. a Roma con dei personaggi che parlano solo
italiano standard letterario) → in ogni caso non si può parlare di dialetto vero
e proprio;
● a partire dagli anni ‘80 invece il dialetto entra dentro → per es. Ricomincio da
tre di Troisi (1983) è stato uno shock per gli spettatori perché i primi minuti
sono completamente in napoletano stretto.

* Trattando la vicenda dei Malavoglia, il film è in dialetto siciliano → il film però fu un


flop dal punto di vista commerciale tale che furono costretti a doppiarlo in italiano.

** Paisà ha avuto una fortuna diversa perché in qualche modo è più panitaliano → il
film parla della resistenza e segue l’avanzata degli Alleati dopo lo sbarco in Sicilia →
il film è composto da più episodi che si svolgono in luoghi diversi (Sicilia, Napoli,
Roma, Firenze, Italia settentrionale), per cui si trovano dialetti diversi.

- La differenza tra la lingua di un film precedente e uno posteriore al 1980 è


attribuibile a scelte stilistiche di chi ha scritto il testo → dopo il 1980 si può scegliere
di scrivere il copione di un film utilizzando un italiano più letterario o neo-standard
ecc. → questo rientra nel repertorio che un parlante italiano dopo il 1980 ha a
disposizione.

- Ma se si vede questa variazione rispetto a uno stesso testo di partenza, allora non
è una questione di stile → il traduttore di un testo/copione ha l’obiettivo di ess.
massimamente rispettoso del testo di partenza → se di fronte a uno stesso testo di
partenza si hanno due comportamenti completamente diversi a distanza di 20-30
anni, questi atteggiamenti diversi non sono da attribuire a scelte personali ma sono
sintomo di cambiamenti del sistema → vuol dire che chi sta sforzandosi di riportare il
contenuto del film originario nel contesto in cui deve ess. fruito si rende conto che
linguisticamente quella traduzione fatta secondo l’italiano standard letterario non
funziona più.
- Chi scrive il doppiaggio dunque è costretto ad adeguare la lingua → questi adegua-
menti ci danno l’idea del cambiamento del sistema → questi cambiamenti non sono
più ascrivibili a scelte personali e stilistiche ma sono da attribuirsi al sistema (è pro-
prio il ridoppiaggio che ci consente di comprendere tutto questo).

- La stessa cosa si può notare esaminando casi di ritraduzione di testi letterari (sia-
mo nella stessa situazione del ridoppiaggio) → il lavoro del traduttore è quello di ri-
portare al contesto in cui la traduzione verrà fruita lo stesso contenuto presente nel
testo di partenza.

> Allora se si trovano delle differenze sostanziali tra una traduzione precedente e
una posteriore al 1980, queste differenze non sono legate a scelte stilistiche ma a
cambiamenti nel sistema.

➢ Stefania Stefanelli - Le traduzioni italiane di José Matias → relazione presentata


al Convegno internazionale "Il traduttore errante: figure, strumenti, orizzonti", Varsa-
via:

- È interessante il caso del racconto José Matias di Eça de Queiroz perché ne


abbiamo ben 4 traduzioni:
➔ la prima traduzione è di Luciana Stegagno Picchio (1951);
➔ la seconda traduzione è di Mario Puccini (1953);
➔ Stegagno Picchio rivede la sua traduzione nel 1992 (i cambiamenti rispetto
alla prima traduzione sono dunque particolarmente importanti);
➔ l’ultima traduzione è a cura di Davide Conrieri e Maria Abreu Pinto (2000).

> Vediamo ora alcuni casi salienti cominciando dal che polivalente:

a dor presente, a dor real, era que eli amara sublimemente uma mulher

● Puccini ‘53 → «il suo dolore presente e il suo dolore reale consistevano nell’aver
amato sublimemente una donna» → in questo caso è stato trasformato
completamente in modo da ess. ricondotto a un costrutto sintattico regolare di
tipo neo-standard letterario;
● Stegagno (‘51) e ‘92 → «il dolore presente, il dolore reale, era dovuto al fatto che
lui (egli)* aveva amato sublimemente una donna» → il che polivalente è stato
sciolto in un costrutto conforme all’italiano standard letterario (il quale esplicita
il nesso espresso dal che polivalente);
* passaggio da un tratto letterario standard (egli) a uno neo-standard (lui).
● C&P 2000 → «il dolore presente, il dolore reale, era che lui aveva amato
sublimemente una donna» → questa traduzione è la più rispettosa e fedele al
testo portoghese, perché mantiene lo stesso costrutto.
> Frasi marcate:

E dessa mesma janela do 214 o conheci eu também, o apontador!

● Puccini ‘53 → «E, dalla stessa finestra del 214 conobbi, a mia volta, l’assistente»;
● Stegagno (‘51) e ‘92 → «E da quella stessa finestra del 214 io pure conobbi
l’assistente»;
● C&P 2000 → «E da quella medesima finestra del 214 lo conobbi anch’io, il
sorvegliante!» → di nuovo questa traduzione ricalca perfettamente il costrutto
del testo originale portoghese.

> Che cosa caratterizza le traduzioni di Puccini e Stegagno? → il fatto che nel
tradurre c’è quasi un imbarazzo ad allontanarsi dall’italiano standard letterario →
questo imbarazzo si sente perché ogniqualvolta c’è un costrutto sintattico che non è
previsto dalla grammatica e non è riconducibile allo standard letterario, questo
costrutto viene sostituito con uno che rientra nel sistema standard.

- Questo imbarazzo è così forte che a volte si allarga addirittura anche a zone che
non riguardano l’italiano neo-standard → prendiamo per es. il caso dell’enallage, che
non è un tratto neo-standard ma una semplice figura retorica (la quale prevede che
si trasferisca su un oggetto lo stato d’animo della persona che interagisce con
quest’oggetto) → Puccini e Stegagno normalizzano persino questa figura retorica:

enrolando um cigarro distraído correndo em jorros desperados

● Puccini ‘53 → «e accendendo un si- ● Puccini ‘53 → «scorrevano a fiumi»;


garo con aria distratta»; ● Stegagno (‘51) e ‘92 → «correvano
● Stegagno (‘51) e ‘92 → «e, distrat- disperatamente a rivoli»;
to, si arrotolava una sigaretta»; ● C&P 2000 → «scorrevano in getti
● C&P 2000 → «arrotolando una siga- disperati».
retta distratta».

> Questi esempi dunque sono importanti per capire come andare a vedere le
ritraduzioni ci aiuti a stabilire il grado di penetrazione dei tratti neo-standard nella
lingua italiana e anche le tappe di questa penetrazione (si vede bene come entrino
pian piano a partire dal 1980 e poi siano abbastanza consolidati nel 2000).
28 MAR. 2022

RAPPORTO TRA NEO-STANDARD E GRAMMATICA

> Il prof dice di aver preso in considerazione quattro grammatiche, perché esse sono
rappresentative di quelle che sono le grammatiche che si possono trovare in
circolazione, sia come approccio (ogni grammatica ha un modello linguistico di
riferimento → tradizionale, generativo, valenziale) sia come uso (es. grammatiche di
riferimento, grammatiche scientifiche, grammatiche scolastiche ecc.).

> Per comprendere di che tipo di grammatica si sta parlando bisogna andare a vede-
re l’introduzione (dove l’autore può dare indicazioni sul proprio metodo) e l’indice
(perché da esso comprendiamo come è stata affrontata la trattazione grammaticale).

a) La prima grammatica di riferimento è una grammatica di tipo tradizionale →


L’Italiano di Luca Serianni (1997) → già dall’indice si vede come essa sia una
grammatica di tipo tradizionale → c’è un capitolo sulla grafia e la fonetica, uno
sull’analisi logica, capitoli specifici dedicati alle parti del discorso, due capitoli sulla
sintassi, uno di morfologia derivazionale.

- Questa grammatica è tutt’oggi molto importante e utilizzata in ambito di ricerca per-


ché:
● es. viene spesso citata all’interno del servizio di consulenza linguistica
dell’Accademia della Crusca;
● è pratica da consultare e facilmente accessibile;
● è una grammatica che è fatta da uno storico della lingua, per cui fa attenzione
anche alla dimensione diacronica → cioè descrive la grammatica di oggi ma
spesso ci sono delle note in corpo minore in cui si danno indicazioni sulle
possibili differenze delle strutture morfologiche o sintattiche nel passato.

➢ Capitolo Sintassi del periodo → paragrafo Altre subordinate introdotte da che:

«Oltre che per introdurre completive e dichiarative esplicite, il che - secondo un


grammatico ottocentesco la «principalissima tra le congiunzioni, a cagione dei
molti offici ch’ella esercita nel discorso» [Moise] - compare in diverse locuzioni
congiuntive, che esamineremo a suo luogo, e in due importanti tipi sintattici: la
frase scissa e la subordinazione generica».

- Serianni qui si riferisce alla frase scissa (che è un tratto neo-standard e prevede
l’uso di che con valore polivalente) e alla subordinazione generica (che è quella che
specificatamente riguarda le altre tre tipologie di che polivalente) → riguardo a
quest’ultima dice:
«Nell’italiano di registro colloquiale antico e moderno, ma con larghissime
attestazioni anche letterarie, si ricorre spesso a che per collegare una dipendente a
una subordinata (perlopiù con l’indicativo): si parla di che subordinante generico
o che polivalente.
Abbastanza spesso si istituisce tra le due proposizioni un evidente rapporto
causale: “copritevi, che fa freddo”; «La fatica ch’io duro è vana cosa / che più
ritorni quanto più ti scaccio» (Saba, Il canzoniere).
In altri casi sarebbe possibile cogliere un rapporto temporale (“vado a lavorare
che è ancora notte fonda”), finale («l’Emilia a volte mi chiamava dalle finestre,
dal terrazzo, che salissi, facessi, le portassi qualcosa» - Pavese, La luna e i falò),
consecutivo («è un funambolo, un equilibrista che quelli del circo di Pechino, al
confronto, risultano dei dilettanti» - Biagi sulla Repubblica*).
Ma il più delle volte il tentativo di catalogare secondo rigidi schemi
logico-grammaticali questa funzione di che è arbitrario.
Caratteristica la frequenza del che polivalente nel parlato dei Promessi sposi
(«ascoltatemi bene, che vedrò di farvela intendere») e nella prosa di Verga
(«intanto l’avvocato chiacchierava e chiacchierava che le parole andavano come
la carrucola di un pozzo» - I Malavoglia).
L’accettabilità di questo uso di che nella lingua scritta oscilla, non solo in base al
livello di lingua adoperato (sorvegliato o non sorvegliato), ma anche a seconda dei
vari costrutti. Il che temporale, per esempio, è appropriato anche in contesti
formali ed è anzi l’unica possibilità in frasi che indicano la durata di un’azione in
rapporto a una data unità di tempo (ora, giorno, anno ecc.): es. «è un’ora che ti
aspetto»».

* Facciamo presente che secondo Serianni quello di un buon articolo di giornale


costituirà il nuovo standard dell’italiano nel 2010.

- Dunque il quadro che ricostruisce Serianni non è così strutturato come quello di
Sabatini (il quale divide quattro tipologie ben precise) ma è pressoché
corrispondente a esso → la raccomandazione di Serianni è che il che polivalente
nella lingua scritta è oscillante ma cmq in relazione a un registro poco sorvegliato (=
registro medio-basso) → invece emerge piuttosto chiaramente che il che temporale
è di fatto accettato dalla grammatica, in quanto Serianni dice che è appropriato in
contesti formali e anzi è l’unica possibilità in frasi che indicano la durata di un’azione
(non ci sono alternative grammaticali standard a questo tipo di costrutto).

> Serianni torna a parlare del che polivalente all’interno della sezione Dubbi
linguistici nel Glossario di Patota:

«Nell’italiano colloquiale, antico e moderno, sono usuali preposizioni come


«Spicciati, che facciamo tardi», «Aspetta, che te lo dico», in cui il che fa le veci di
una specifica congiunzione causale o finale (= Spicciati, perché rischiamo di far
tardi; Aspetta, affinché te lo dica). Come risulta dal carattere artificioso delle
alternative proposte, nell’uso parlato - ossia nell’ambito in cui frasi del genere
sono effettivamente immaginabili e pronunciabili - il che polivalente è del tutto
normale1. Il che è normale anche nello scritto quando si adopera come pronome
relativo invariabile con valore temporale: es. “l’anno che ti ho conosciuto”
(altrettanto accettabile del più formale “l’anno in cui ti ho conosciuto”). Da
evitare invece, nello scritto ma anche nel parlato colloquiale, il che invariabile a
cui segua un pronome atono con funzione di complemento: es. “l’armadio *che ci
ho messo [in cui ho messo; che contiene] gli asciugamani”. Le eccezioni sono
possibili in contesti che arieggino l’immediatezza del parlato, ma vanno riservate
a chi abbia grande padronanza linguistica, come F. Ceccarelli, autore del seguente
esempio giornalistico: «non è mai bello vedere la fine politica di uno che bene o
male lo applaudivano quasi tutti» (La Stampa)».

1
Cioè le frasi di cui ha fatto esempio sono normali nel parlato (non nello scritto).

- La posizione di Serianni è chiara → nello scritto si può usare solo il che con valore
temporale, nel parlato si possono usare gli altri tipi tranne l’ultimo tipo, che non si
può usare né nello scritto né nel parlato.

> Quindi che cosa emerge da questa prima analisi? → che già negli anni ‘80 un
grammatico con un certo equilibrio, riguardo al che polivalente accetta alcune cose
(ponendole come grammatica) mentre ne rifiuta altre.

> Un’altra cosa evidente è che il grammatico moderno dopo gli anni ‘80 deve fare dei
distinguo nello spazio linguistico → sia nella trattazione grammatica vera e propria
sia nella sezione Dubbi linguistici, Serianni ha fatto coscientemente una distinzione
tra scritto e parlato (= distinzione grammaticale in base all’asse diamesico) e ha
anche avuto un’attenzione costante per il registro (registro alto e basso).

- Dunque quello che emerge è che, dopo che l’italiano è diventato la lingua di tutti e
si sta ristandardizzando in seguito ai grandi cambiamenti sociali (e la lingua italiana
ha ricevuto le istanze di queste trasformazioni), da questo momento in poi la
grammatica non può più ess. la grammatica del si può e non si può ma è la
grammatica che si ragiona su cosa si può fare e cosa no rapportando le indicazioni a
punti specifici dello spazio linguistico → la lingua non è monolitica, per cui la
grammatica ne tiene conto nel momento in cui ne detta le regole grammaticali → la
grammatica è un’istantanea della struttura linguistica in un dato momento, per cui di
fronte a una lingua che si è trasformata non può far altro che constatare le
caratteristiche della lingua.
b) La seconda grammatica che prendiamo in considerazione è Grammatica di
riferimento dell’italiano contemporaneo, Giuseppe Patota (2006) → il titolo è
abbastanza indicativo → questa grammatica si propone come grammatica di
riferimento dell’italiano contemporaneo → per cui ci si aspetta di trovare in questa
grammatica i tratti neo-standard che sono stati assimilati e assorbiti dal sistema.

- La trattazione del che polivalente è confinata in uno specchietto di approfondimento


relativo ai dubbi → in una grammatica che vuole fornire in maniera abbastanza
semplice le strutture grammaticali e linguistiche dell’italiano, quella del che
polivalente non è una trattazione specifica a sé ma ha un approffondimento in uno
specchietto che si chiama “I dubbi” → si chiama così perché di fronte a una
trattazione “normale” ci sono dei casi dell’uso che si distanziano un po’ e che
comportano dubbi e che quindi richiedono una risposta specifica:

«Un errore molto comune consiste nell’usare il pronome che il significato


richiede la forma cui. In questo caso si formulano frasi come: “La ragazza che ti
ho parlato”, o come: “La ragazza che le ho prestato i libri”. In entrambi questi
esempi abbiamo la forma del soggetto o del complemento oggetto (che) con la
funzione di un complemento indiretto (nel primo caso la forma richiesta è di cui;
nel secondo è a cui). Incoerenze di questo tipo vanno assolutamente evitate,
ricordando che, se il pronome relativo indica un complemento indiretto, la forma
da usare è cui, non che».

- Qui è importante sottolineare anche un altro aspetto → questa grammatica in prima


battuta nasce come grammatica di riferimento per gli stranieri, per cui è chiaro il
motivo per cui Patota è così rigido → quello che a lui preme è che si impari prima il
costrutto regolare, perché l’uso del che polivalente da parte di uno straniero
potrebbe ess. non una cifra stilistica o un posizionamento nello spazio linguistico ma
potrebbe ess. semplicemente una mancata acquisizione della regola grammaticale
→ perciò questa grammatica tende all’essenziale.

c) Le parole in primo piano di Daina-Properzi-Silvestrin → si tratta di una


grammatica di scuola superiore → di fatto essa sdogana l’uso del che polivalente
con valore temporale (si tratta dell’unico riferimento al che polivalente in tutta questa
grammatica).
d) Sistema e testo. Dalla grammatica valenziale all'esperienza dei testi di Fran-
cesco Sabatini - Carmela Camodeca - Cristiana De Santis (2011) → si tratta di una
grammatica scolastica ma in realtà è molto particolare.

- La sua particolarità si evince scorrendo l’indice (presente su moodle):


● innanzitutto si parte con una sezione intitolata Lingua, linguaggi e
comunicazione → essa comprende I linguaggi degli animali e i linguaggi
umani; La comunicazione; La lingua verbale e i suoi caratteri generali;
● poi c’è un capitolo dedicato a Le situazioni e gli scopi della comunicazione →
esso comprende Le varie lingue e i vari tipi di lingua; Gli scopi comunicativi e
le funzioni della lingua;
● poi c’è un capitolo dedicato alla Lingua parlata, scritta e “trasmessa”.

- Dunque prima di entrare nel pieno della descrizione delle strutture grammaticali, ci
sono cento pagine che introducono quello di cui abbiamo parlato finora nel corso →
si tratta di un’impostazione del tutto diversa dalle grammatiche tradizionali

> Poi si passa a parlare del sistema strutturale della lingua → bisogna però
premettere che questa grammatica è basata sulla grammatica valenziale → essa è
un modello che nasce in Francia ed è stato importato in Italia proprio da Sabatini →
essa vede la frase come un’espansione verbale → cioè, partendo dal presupposto
che nessun verbo completa da sé il suo significato se non con alcuni elementi,
prevede un sistema di saturazione del verbo attr. questi elementi, chiamati
“argomenti”:
- es. un verbo come correre non esprime il suo significato se non viene
esplicitato chi sta correndo → dunque correre è un verbo che ha
necessariamente bisogno di un argomento (il soggetto) per ess. completato
(tecnicamente si chiama “a valenza 1”);
- invece un verbo come amare, per completare il suo significato, presuppone
sempre un soggetto e un oggetto = verbo a valenza 2;
- un verbo come dare presuppone invece tre elementi, ossia un soggetto, un
oggetto e un ricevente.

- Tutto questo comporta un approccio alla grammatica del tutto diverso →


innanzitutto si tratta di un approccio che parte più dalla sintassi che dalle parti del
discorso, le quali anzi scompaiono del tutto.

- Si parte dapprimo dalla “frase nucleare” (= la frase che contiene il verbo e i suoi
argomenti”) → la frase nucleare può poi ess. espansa (= “circostanti”).
> Si passa poi al capitolo intitolato Verso il testo → questo vuol dire rendere conto di
tutta quella serie di strategie e funzioni che servono per mettere insieme i periodi →
la grammatica tradizionale dice come si fanno le frasi e poi come esse si combinano
fra di loro in periodi ma non ci dice mai chiaramente come i periodi vadano messi tra
di loro → questo pertiene alla cosiddetta “linguistica testuale”, la quale ci dà le
condizioni e le regole della coesione e coerenza testuale, che avviene attr. l’uso di
elementi grammaticali, su cui però di solito le grammatiche non si soffermano.

> Segue una parte dedicata al lessico, che è proprio una ricognizione sulle
caratteristiche del lessico da un punto di vista lessicografico.
- Solitamente si tende a tenere distinti grammatica e lessico → questo è infatti l’ap-
proccio convenzionale → però il lessico può anche entrare nelle cose di pertinenza
della grammatica → infatti Sabatini si sofferma qui a parlare di come è fatto il lessi-
co, dei prestiti, della formazione delle parole, dei linguaggi settoriali e speciali (socio-
linguistica) ecc.

> Trattazione del che polivalente → Sabatini nel suo saggio del 1985 riguardo ai
tratti dell’uso medio dell’italiano aveva connotato questo fenomeno in maniera
diafasica → vediamo allora come si comporta nel momento in cui va a scrivere una
grammatica.
- Del che polivalente si parla non nel corpo della trattazione ma all’interno di uno
specchietto d’approfondimento (intitolato Nelle varietà dell’italiano):

«Nell’italiano parlato, e a volte anche scritto, si usa il semplice che col valore di a
cui, in cui, di cui, con cui: è il che polivalente, così chiamato perché può avere
molti valori. Lo troviamo in frasi come Questa è la valigia che ci ho messo la
biancheria; Ti presente l’amico che gli ho parlato di te. Sono costruzioni esistenti
da molti secoli (sono presenti in Dante, Petrarca e in tanti altri classici, antichi e
moderni, della nostra letteratura), ma che possono giustificarsi soltanto nel parlato
più sciolto o nella lingua della narrativa, quando questa vuole imitare il parlato.
Oggi nell’uso formale della nostra lingua non sono ammesse, salvo che con il
valore temporale (Il giorno che [= in cui] ti ho incontrato)».

- Si tratta dunque di un uso prevalente nel parlato, raramente nello scritto → si può
utilizzare solo nel parlato di registro basso e l’unico tipo ammesso è quello tempora-
le.
■ Qualche osservazione su lui in funzione di soggetto:

a. Nella grammatica di Serianni quando ci sono i paradigmi verbali viene utilizzato ri-
gorosamente egli ≠ per quanto riguarda invece le forme pronominali toniche in fun-
zione di soggetto, già Serianni ammette anche l’uso di lui e lei.

- Nella parte riguardo i Dubbi linguistici è presente uno specchietto riguardante i


pronomi personali di terza persona:

«L’alternativa tra egli e lui (e tra ella e lei) in funzione di soggetto è uno dei temi
storicamente più dibattuti dalla grammatica italiana, fin dal Cinquecento.
Oggi non possono esserci più dubbi sulla legittimità di usare lui come soggetto,
non solo nel registro colloquiale.
Schematizzando, possiamo dire che egli si adopera solo in funzione anaforica,
cioè quando serve per richiamare una persona di cui si sia parlato in precedenza
(come capita soprattutto nell’italiano scritto di tipo argomentativo; nel parlato, si
preferisce o omettere senz’altro il pronome o ripetere il nome già detto). Ad
esempio: Dopo la pace di Amiens, Napoleone si accinse a rafforzare il proprio
potere all’interno della Francia. Già forte dell’appoggio dell’esercito, egli [ma,
specie nel discorso orale, potremmo ripetere Napoleone o eliminare il pronome] si
adoperò a legare a sé la borghesia e il clero.
Il pronome lui si adopera invece per sottolineare un elemento della frase (Io vado
via, lui [= quanto a lui] non so)o quando contiene il dato nuovo dell’informazione
(e in tal caso è postposto al verbo: È stato lui!; o, se il verbo manca, all’elemento
nominale: Beato lui!).
Lei si adopera in tutti i casi in cui si adopererebbe il maschile; mentre, a differenza
di egli, ella è ormai rarissimo anche con valore anaforico».

- Dunque già con Serianni questo tratto è del tutto assimilato dalla grammatica.

b. Patota → nella Grammatica di riferimento della lingua italiana per stranieri nei
paradigmi verbali è sistematicamente usato lui al posto di egli → nel proseguio della
trattazione scrive:

«Egli è una forma propria della lingua scritta o di un parlato formale; lui si trova
in qualsiasi varietà di italiano: scritto e parlato, formale e informale. Egli può
essere riferito solo a una persona, lui a una persona (come accade quasi sempre) o
a un animale (ma accade molto raramente). Infine c’è il pronome esso, che può
riferirsi sia a un animale sia a una cosa. C’è da aggiungere, però, che nell’italiano
parlato esso quasi non si adopera: o si ripete il nome o si ricorre a quello, che non
è un pronome personale ma un pronome dimostrativo».
- Nella Grammatica di riferimento dell’italiano contemporaneo Patota nei paradigmi
verbali usa ancora lui e per quanto riguarda la terza persona singolare ribadisce le
stesse cose.

c. Sabatini (Sistema e testo) nei paradigmi verbali continua a usare tutti i pronomi
(egli, lui, ella, lei - un po’ come aveva fatto Serianni) → per quanto riguarda invece il
pronome tonico in funzione di soggetto si nota come egli di fatto scompaia e riman-
gano solo lui ed esso (lo stesso accade per il femminile).

> Potremmo fare questi esercizi anche sugli altri tratti neo-standard e verificare di
volta in volta i tratti che sono entrati nello standard e quelli che non sono entrati →
cmq l’italiano si è sicuramente riassestato su un nuovo standard a partire dagli anni
‘80 e di questo nuovo standard le grammatiche tengono ormai conto nelle loro tratta-
zioni.
3. STRUMENTI

4 APR. 2022
STRUMENTI

> Le grammatiche sono divise in due gruppi e hanno funzioni diverse a seconda che
siano descrittivo-sincroniche o scolastiche.

a) Grammatiche descrittivo-sincroniche → è una grammatica che descrive la


struttura linguistica dell’italiano attr. l’approccio del grammatico che la compila → il
modo in cui le informazioni si trovano è strettamente legato al modello linguistico di
riferimento dell’autore.

b) Grammatiche scolastiche (es. F. Sabatini, C. Camodeca, C. De Santis - Sistema


e testo. Dalla grammatica valenziale all’esperienza dei testi - 2011).

> Non è un caso che il prof ci abbia mostrato gli indici di alcune grammatiche →
infatti ci sono delle zone della grammatica che dicono in maniera abbastanza precisa
di fronte a quale tipo di grammatica ci si trova davanti → si tratta da una parte della
prefazione (dove generalmente l’autore dichiara i suoi intenti, spiega quali sono i
criteri che ha adottato → dunque da qui si può inferire tranquillamente qual è
l’impostazione di base della grammatica) ma soprattutto dall’altra dell’indice* (perché
è lì che ci si fa un’idea di quale sia il tracciato che il grammatico intende percorrere
per spiegare le strutture della lingua italiana).

* L’importanza dell’indice si può vedere benissimo nell’indice della grammatica di


Sabatini (Sistema e testo. Dalla grammatica valenziale all’esperienza dei testi) →
leggendo quest’indice ci si rende davvero conto di quale sia il tracciato che Sabatini
intende percorrere per spiegare le strutture della lingua italiana → si capisce che per
quella grammatica sono importanti non solo le categorie classiche (grafia, fonetica,
morfologia e sintassi) ma anche la linguistica testuale (cioè le regole grammaticali
che sottostanno alla confezione dei testi) → per Sabatini è importante non solo un
discorso dal punto di vista strutturale sulla langue ma anche un tipo di attenzione alla
parole (cioè come vengono realizzati gli enunciati a seconda del punto dello spazio
linguistico in cui ci si trova).

Langue Parole
⇩ ⇩
piano della struttura teorica della lingua realizzazione pratica della lingua
(quando la lingua viene usata nella
società dalle persone)
c) Banche dati a tema grammaticale:

> La fabbrica dell’italiano → è uno strumento importante perché serve per avere a
disposizione le informazioni su come sono fatte le grammatiche di cui parliamo attr.
proprio la prefazione e l’indice → in questo strumento troviamo appunto riprodotti
l’introduzione e l’indice delle varie grammatiche.

- La fabbrica dell’italiano è quella che si può definire una “biblioteca digitale parziale”
ma anche un “archivio digitale parziale” → una biblioteca digitale è una biblioteca
che contiene libri digitali → ci sono due modi di fare un libro digitale:
● riprodurre il libro fotograficamente (facsimili);
● riprodurre la versione elettronica del libro → questo consente non solo di
leggere il libro ma (siccome il testo è ridotto a caratteri alfanumerici) anche di
farci delle ricerche;
● una terza via è rappresentata dalle biblioteche digitali in cui le due cose
coesistono → cioè si fornisce sia la versione fotografica sia quella elettronica
del libro;

➔ es. di biblioteca digitale = Google libri → di alcuni libri si ha la versione


fotografica, di altri quella elettronica, di altri ancora entrambe;
- bisogna però andare molto cauti nell’utilizzare Google libri perché in realtà la
versione elettronica dei libri presenti è ottenuta un procedimento automatico
(chiamato OCR), che però non ha nessuna forma di controllo e a volte
commette degli errori → dunque i libri presenti su Google libri possono
contenere numerosi errori;
- inoltre le procedure OCR funzionano bene sui testi contemporanei ma
progressivamente funzionano sempre meno andando indietro nel tempo;

➔ altra biblioteca digitale di questo tipo è Archive, dove si trovano tantissimi libri
soprattutto antichi (in quanto spesso i testi contemporanei sono protetti da
copyright e dunque sono meno frequenti in questo tipo di biblioteche);

➔ naturalmente sono più frequenti le biblioteche digitali per facsimili perché il


costo di riproduzione è minore → sono però le biblioteche meno utili perché sì
sono utili in quanto consentono di leggere un libro in maniera digitale a
distanza (magari il libro si trova a Chicago) però non ci si possono fare delle
ricerche sopra.

- Le biblioteche digitali che si trovano oggi in circolazione sono delle biblioteche


digitali integrali, cioè propongono il libro in maniera integrale → una particolarità
invece de La fabbrica dell’italiano è il fatto che è una biblioteca parziale, cioè non
offre il libro interamente ma solo delle parti, perché questo strumento è piuttosto
anzianotto → è stato progettato e concepito tra il 1998 e il 2000 ed è stato pubblicato
nel 2000 (per cui è probabilmente la prima banca dati di questo tipo) → la sua
parzialità è dovuta al fatto che a quel tempo non c’era l’hardware che consentisse di
immagazzinare e gestire grosse masse di dati (es. le immagini, che erano molto
pesanti all’epoca).

- Questo progetto è composto da quattro sezioni:


❖ due sezioni (l’archivio storico e il lessico tecnico) sono legate alla
valorizzazione di materiale d’archivio;
❖ quelle che a noi interessano maggiormente sono però le prime due sezioni →
una è dedicata ai dizionari e l’altra alle grammatiche;

❖ che cosa è stato fatto nella sezione “Grammatiche”? → sono state prese tutte
le schede delle grammatiche possedute dalla biblioteca dell’Accademia della
Crusca e accanto a esse sono state caricate le immagini che riproducono le
introduzioni e gli indici → l’idea di fondo era che non si può far leggere
un’intera grammatica a distanza (in quanto non si hanno le risorse per
riprodurre tutte le parti), però posso fare in modo che chi vede la scheda
possa rendersi conto se quella è la grammatica che gli interessa o meno;

❖ lo stesso accade nella sezione “Dizionari” → di un dizionario vengono


riprodotti l’introduzione e le prime dieci pagine della lettera M, perché questo
significa consentire di fare un confronto tra i vari dizionari, perché guardando
le prime pagine della lettera M ci si rende conto di come è fatto il dizionario:
- guardando il lemmario innanzitutto ci si rende conto di qual è la
struttura della voce, cioè quali sono le cose che considera (es.
sillabazione, ambiti d’uso, etimologia, data di prima attestazione ecc.)
→ basta vedere una singola voce, perché poi le altre ripetono la
medesima struttura;
- dalle prime dieci pagine ci si rende conto anche della densità, cioè
quante parole il dizionario prende in considerazione;
- è stata scelta la lettera M perché è la più neutra, cioè non comincia con
preposizioni (≠ di una lettera come A per es.);

- per le grammatiche, oltre a fornire il frontespizio e l’indice, si riproduce


anche l’esemplificazione di una parte per vedere come vengono trattati
gli argomenti → la parte che è stata scelta è quella dei pronomi.

- Il limite di questo strumento per i nostri scopi è che, siccome questa banca dati è
stata licenziata nel 2000, la bibliografia si ferma al 2000.
> Biblioteca Digitale dell’Accademia della Crusca → in questo caso si tratta invece di
una biblioteca digitale integrale, per cui le opere sono riprodotte intergralmente.
- È una biblioteca digitale solo per immagini, per cui non è possibile fare ricerche se
non nella struttura (ossia i titoli dei capitoli e dei paragrafi).

- Anche in questo caso ci sono quattro sezioni:


● una è quella delle grammatiche italiane pubblicate dal XVI al XIX sec. → in
questa sezione vengono riprodotte integralmente quasi tutte le grammatiche
stampate dal ‘500 fino all’‘800;
● le altre sezioni sono dedicate a:
- i testi di discussione linguistica intorno alla polemica anti-Crusca;
- le edizioni non ufficiali del Vocabolario degli Accademici della Crusca*
(in modo da completare il quadro digitale delle edizioni ufficiali già
disponibili);
- la lessicografia ottocentesca (dove sono riprodotti integralmente tutti i
dizionari dell’‘800).

* Accanto alle cinque impressioni ufficiali del Vocabolario degli Accademici della
Crusca ci sono delle edizioni non ufficiali → cioè era abbastanza frequente
(soprattutto quando ancora non c’era uno stato unitario e non c’erano molte leggi
riguardanti il copyright) che si facessero delle edizioni pirata (di qualunque libro) →
un libro che usciva a Firenze poi veniva magari ristampato a Venezia, Torino e
Napoli senza che gli Accademici della Crusca venissero minimamente interpellati →
es. la Crusca Veronese di Cesari è una delle impressioni non ufficiali più famose.

a) Grammatiche descrittivo-sincroniche → descrivono la struttura della lingua e sono


utili per la consultazione:

➢ L. Serianni - Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria. Suoni,


forme, costrutti (1988) → si tratta di una grammatica di tipo tradizionale, però
è una grammatica che è particolarmente attenta in diacronia perché descrive
la struttura dell’italiano contemporaneo però poi spesso fa approfondimenti in
carattere minore che rendono conto di differenze morfologiche e sintattiche
che ci sono state in stadi cronologici dell’italiano precedenti;

➢ L. Renzi e G. Salvi - Grande grammatica italiana di consultazione → è proprio


uno di quei casi in cui il titolo è un po’ fuorviante, perché leggendo questo
titolo ci si aspetta di trovare una grammatica che si utilizza per la
consultazione (in caso di dubbio) → in realtà questa grammatica non è così
(quella di consultazione in questo senso è quella di Serianni) → si tratta infatti
di uno strumento di ricerca e di studio → l’approccio che ha è soprattutto
quello della grammatica generativa, perciò spesso i fenomeni vengono trattati
alla luce di dinamiche configurazionali → non è una grammatica che ci dà
delle risposte sulla parole ma ci dà risposte quasi esclusivamente sulla
langue;

➢ M. Dardano e P. Trifone - La lingua italiana (1989);


➢ G. Salvi e L. Vanelli - Nuova grammatica italiana (2004);

➢ G. Patota - Grammatica di riferimento dell’italiano contemporaneo (2006) → il


titolo è esemplificativo del fatto che il focus di questa grammatica è descrivere
l’italiano contemporaneo, magari con una maggiore attenzione verso quei
tratti innovativi che vanno grammaticalizzati;

➢ grammatiche di riferimento per stranieri:


- G. Patota - Grammatica di riferimento della lingua italiana per stranieri
(2003);
- P. Trifone e M. Palermo - Grammatica italiana di base (2000);

➢ Grammatica - consulente scientifico Giuseppe Antonelli → è l’unico strumento


sistematico che è disponibile in rete;
- si tratta di una grammatica in cui gli argomenti non vengono trattati e ordinati
secondo una struttura logica ma vengono ordinati alfabeticamente → cioè
abbiamo una sorta di dizionario enciclopedico della grammatica;
- questa grammatica è uscita prima a stampa nel 2012 e poi nel 2016 →
contestualmente alla seconda edizione, la Treccani ha reso disponibile
gratuitamente in rete l’edizione del 2012;
- spesso le voci presenti nella versione online non sono riconducibili alla tratta-
zione manualistica ma sono più orientate verso il sistema domanda-risposta

> Grammatica descrittivo-sincronica = vuol dire che descrive la lingua del momento
in cui si sta facendo la grammatica → però si può dare una descrizione sincronica
della lingua in un momento passato:
➢ es. G. Salvi e L. Renzi - Grammatica dell’italiano antico (2010) → grammatica
in cui si descrivono le strutture grammaticali dell’italiano antico.

b) Grammatiche scolastiche → si differenziano dalle prime in quanto il loro scopo è


quello di insegnare agli studenti nelle scuole:
➢ es. F. Sabatini, C. Camodeca e C. De Santis - Sistema e testo. Dalla gram-
matica valenziale all’esperienza dei testi (2011).

d) Dizionari di linguistica → quello più completo è il Dizionario di linguistica di L.


Beccaria (1994 e successive edizioni).
e) Strumenti enciclopedici:
● Enciclopedia dell’italiano, diretta da Raffaele Simone - Treccani (2010-11) →
strumento utilissimo e fondamentale per chi studia la linguistica italiana (in
sincronia e in diacronia) → quest’opera, uscita in due volumi, contiene voci
enciclopediche dedicate a fatti linguistici → per cui si trovano delle voci
enciclopediche dedicate ad argomenti grammaticali, altre riguardanti concetti
di sociolinguistiche, altre ancora relative alla storia della lingua italiana ecc.

f) Dizionari → siamo in un territorio di frontiera → il lessico tradizionalmente non è


posto nell’ambito degli studi grammaticali → si tende a escludere il lessico
dall’interesse della grammatica, che viene specificatamente dedicata all’analisi della
struttura, non tanto del lessico → alla grammatica interessa delle parole nell’ambito
della morfologia, ossia come si formano nuove parole.

> A noi interessano soprattutto i dizionari sincronici, cioè quelli che descrivono
l’italiano contemporaneo → al prof interessa dare informazioni di tipo pratico che
possono ess. utili per insegnare grammatica e anche per la nostra competenza in
base agli studi futuri.

Classificazione del lessico

> Per parlare di dizionari sincronici, prima è opportuno introdurre il concetto


della classificazione del lessico → le parole non sono uguali in relazione al
peso che hanno all’interno del sistema-lingua e in relazione a chi ne ha
competenza:

- es. la parola mangiare non ha lo stesso peso nella lingua della parola
stetoscopio → la parola mangiare è usata molto frequentemente e la
conoscono tutti necessariamente, mentre la parola stetoscopio è usata
molto meno e non in tutti i contesti in quanto è una parola specialistica,
fatto che la condiziona in diastratia (non tutti i parlanti sono capaci di
utilizzare stetoscopio in maniera attiva o passiva).

- Classificare il lessico significa attribuire delle categorie alle parole che sono
legate ai fattori che abbiamo indicato.

- Quando parliamo del lessico di una lingua (in questo caso dell’italiano
ovviamente) lo possiamo paragonare a una cipolla, la quale è composta da un
nucleo centrale e poi da degli strati:
● il nucleo del lessico è costituito dal cosiddetto “vocabolario di base”* →
esso è costituito da 6600 parole ed è a sua volta diviso in tre sottosezio-
ni:
- lessico di alto uso (AU) → circa 2600 parole;
- lessico di alta disponibilità (AD) → circa 1800 parole;
- lessico fondamentale (FO) → circa 2000 parole.

> Di queste tre sottosezioni la più importante è sicuramente quella del lessico
fondamentale → si tratta di parole che sono antropologicamente connotate,
ossia sono parole che in una società umana ci devono ess. necessariamente →
queste parole ci sono sempre in quanto indicano concetti, oggetti, rapporti ecc.
che solo per il fatto di ess. umani necessariamente ci sono → e in effetti
esistono parole per esprimere questi concetti in tutte le lingue del mondo in
sincronia (cioè attualmente parlate) ma anche in diacronia → sono parole del
tipo mangiare, dormire, bere, acqua, fuoco, madre, padre ecc., ossia concetti,
azioni e oggetti che tutti hanno bisogno di esprimere in qualunque tempo o
luogo ci si trovi → questi concetti, azioni, oggetti ecc. trovano dunque dei propri
significanti in ogni lingua ed essi prendono il nome di “lessico fondamentale”.

- Le 6600 parole del vocabolario di base da sole costituiscono il 96% di tutto ciò
che diciamo o scriviamo → il lessico fondamentale è così importante che da
solo costituisce il 90%.

- Il sistema De Mauro prevede che tutto il lessico dell’italiano è costituito da 330


mila lemmi → quindi, escludendo il vocabolario di base, le circa 315mila restanti
parole contribuiscono soltanto per il 4% (naturalmente sono importantissime
anche queste parole).

- Il lessico fondamentale è anche quello più stabile nella lingua in quanto espri-
me concetti che non cambiano nel tempo → le lingue cambiano in continuazio-
ne perché devono adeguarsi alle esigenze della società, ma certe cose come
mangiare, dormire e bere non cambiano, per cui è normale che rimanga costan-
te → tant’è vero che il lessico fondamentale dell’italiano è costituito da parole
che per la stragrandissima maggioranza provengono dal latino e non è un caso
che quasi tutto il lessico fondamentale dell’italiano sia entrato nell’italiano nel
‘200-‘300 e non è altrettanto strano che a sua volta le parole latine da cui deri-
vano le parole italiane del lessico fondamentale per la stragrande maggioranza
dei casi derivino dall’indoeuropeo e infine è significativo che il lessico fonda-
mentale sia quello del fiorentino trecentesco.

- Naturalmente il lessico fondamentale cambia con estrema lentezza.


> Lessico di alto uso = altre parole che vengono utilizzate con frequenza
molto elevata → questo è il settore che va più facilmente incontro a
modificazione, in quanto vi finiscono tutte quelle parole che vengono utilizzate
molto in un certo contesto storico-culturale.

- Il lessico di alto uso contribuisce da solo al 6% di ciò che diciamo e scriviamo.

> Lessico di alta disponibilità → è un settore abbastanza curioso → si tratta


di parole che non sono particolarmente frequenti ma, nonostante ciò, sono
sicuramente conosciute dai parlanti italiani a prescindere dal loro grado di
istruzione → es. forchetta, elefante, giraffa ecc.

- Questo settore ha una variabilità nel medio-periodo → non cambia facilmente


ma nel medio-periodo può cambiare in quanto, anche se legate ad attività
comuni, non sono parole del lessico fondamentale → il lessico di alta
disponibilità dunque cambia nel medio-periodo quando cambiano le abitudini.

> Perché è importante questo nucleo centrale del vocabolario di base? →


perché questa parte di lessico la conoscono tutti gli italiani → quasi sicuramente
tutti conoscono queste parole.

> Dopo il nucleo, il primo strato della cipolla-lessico è costituito dal lessico
comune → in questo caso siamo nell’ordine di grandezza di 50-60mila parole
→ questa oscillazione è dovuta al fatto che i sistemi di misurazione sono
diversi, quindi è meglio fornire numeri di grandezza anziché numeri fissi ma è
dovuta anche al fatto che il nostro punto di riferimento (Grande dizionario
italiano dell’uso) dà molta importanza alle parole polirematiche (perciò
l’oscillazione dei risultati è anche legata al fatto se si considerano soltanto le
monorematiche o anche le polirematiche).

- Queste parole sono quelle che si presuppongono conosciute da chi abbia un


grado di istruzione superiore (maturità).

> L’ultimo strato è costituito da una serie di categorie → quella più grande è il
lessico tecnico-specialistico (diviso nei suoi vari ambiti) → ci sono poi altre
categorie come il lessico aulico, il lessico dialettale, il lessico regionale, il
lessico popolare, il lessico gergale ecc.** → in questo caso siamo nell’ordine
delle 260 mila parole.
* Il prof precisa che le classificazioni non sono universali e univoche ma sono il
frutto di una ricerca → perciò quello proposto dal professore non è l’unico modo
di classificare il lessico, ma è solo quello che adesso va per la maggiore ed è
legato a Tullio De Mauro e al suo gruppo di ricerca → De Mauro è stato uno dei
primi a occuparsi di questo tema e soprattutto si è concentrato sullo studio del
vocabolario di base → questo modello di De Mauro è il modello che è applicato
al Grande Dizionario italiano dell’uso di De Mauro e al Nuovo De Mauro.

** Quando si dice dialettale, popolare, regionale e gergale non si intende il


dialetto, l’italiano popolare, l’italiano regionale o il gergo, ma si intendono parole
che nascono dal dialetto, dall’italiano popolare, regionale o gergale ma che poi
sono entrate nella lingua standard nazionale.

> Finora l’ottica che abbiamo considerato è quella della competenza (attiva e
passiva) → ma passiamo a quella specificatamente lessicale (cioè quella legata a
quanto lessico conosciamo) → essa com’è? un parlante italiano può avere una
competenza globalizzata di tutto quello che sta dentro questa cipolla? → no, non la
può avere:
● un parlante italiano con la licenza media ha una conoscenza certa del
vocabolario di base, una conoscenza di qualche parola del lessico comune
e di qualche parola del lessico specialistico;
● un parlante italiano col diploma superiore ha una conoscenza certa del
vocabolario di base, dovrebbe conoscere bene anche il lessico comune e
conosce anche qualche termine specialistico;
● e per quanto riguarda l’ultimo strato? → se mi laureo in chimica all’università
posso aggiungere al mio vocabolario quella fetta di lessico
tecnico-specialistico relativa alla chimica, ma ovviamente non conoscerò la
lingua specialistica di altri settori (es. finanza, architettura ecc.) → dunque
anche chi ha il massimo grado di istruzione non può conoscere tutto il
lessico → egli conoscerà il vocabolario di base, il lessico comune e alcune
zone del lessico specialistico.

> Questo discorso ha dei riflessi anche sul modo in cui si costruiscono i dizionari →
es. è vero che il lessico tecnico-specialistico è una terminologia destinata agli
addetti ai lavori, ma alcune di queste parole poi ricadono anche nella lingua
comune (es. si sa cosa sono una metastasi o una neoplasia anche se non si è
medici) → dunque la competenza lessicale di un parlante può ampliarsi (oltre che
nel suo settore specifico di sua competenza) anche in quella parte del lessico
tecnico-specialistico che ha influsso sulla vita di tutti i giorni → ma soprattutto è
importante che qualunque parlante abbia la possibilità di sapere il significato di
quelle parole → questa è dunque la differenza tra dizionari sincronici che
descrivono la lingua e che si chiamano “normativi” e i dizionari sincronici chiamati
“descrittivi”, i quali descrivono tutto il lessico e sono obbligati a dire a quale classe
di appartenenza appartengono le parole.

- Dunque un vocabolario qualunque:


❖ dovrà sicuramente includere tutte le parole appartenenti al vocabolario di
base;
❖ poi dovrà includere tutte le parole appartenenti al lessico comune;
❖ infine andrà a pescare nell’ultimo strato quelle parole che per varie ragioni
sono entrate nella lingua comune → non sono più utilizzate esclusivamente
dagli addetti ai lavori ma sono utilizzate anche nei giornali, nei mezzi di
comunicazione di massa ecc.

- Vocabolario di base + lessico comune = circa 70mila parole → i dizionari sincroni-


ci “normativi” possono ess. di 100mila/120mila parole → quello più ricco è lo Zinga-
relli, che contiene 142mila parole → dunque esso contiene varie parole apparte-
nenti all’ultimo strato ma necessariamente non tutte (mancano all’appello quasi
200mila parole).

- Perché il prof chiama questi dizionari “normativi”? → li chiama così perché,


facendo una selezione, anche se non nascono per dire quali parole si devono
utilizzare e quali no, di fatto lo fanno → perché è chiaro che chi va a consultare un
dizionario e trova una parola è più incoraggiato a usarla che se non la trova →
dunque non sono dizionari normativi di per sé (come invece è il Vocabolario degli
Accademici della Crusca) ma di fatto lo diventano.

- L’unico dizionario sincronico “descrittivo” è il GRADIT = Grande Dizionario Italiano


dell’Uso di T. De Mauro, che descrive tutto il lessico dell’italiano (quasi 330mila vo-
ci).
5 APR. 2022

➢ Dizionari sincronici:
➔ Grande Dizionario Italiano dell’Uso di De Mauro → è l’unico dizionario sincro-
nico descrittivo di cui attualmente disponiamo → esso ovviamente non riesce
a descrivere tutto il lessico nella sua interezza ma la sua impostazione lo
porta alla tendenza a descrivere tutto il lessico → dunque un dizionario
descrittivo fornisce l’ordine di grandezza del lessico di una lingua;
- questo dizionario esiste sia nel formato cartaceo che in quello elettronico, che
però non è disponibile in rete ma viene venduto assieme al formato cartaceo
sotto forma prima di CD e oggi di chiavetta USB;

- tre esempi di dizionari sincronici normativi:


➔ Lo Zingarelli 2021. Vocabolario della lingua italiana - a cura di M.
Cannella e B. Lazzarini;
➔ Il Sabatini-Coletti. Dizionario della lingua italiana 2008;
➔ Nuovo Devoto-Oli 2021 (a cura di Serianni e Trifone);

➔ Vocabolario Treccani on line → non è propriamente corrispondente a nessuna


di queste categorie → questo dizionario è però importante perché insieme alle
versioni elettroniche on line de Il Sabatini-Coletti (nel sito del Corriere della
Sera) e del Nuovo De Mauro (nel sito dell’Internazionale) sono i tre dizionari
in rete affidabili:
- quello presente sul Corriere della Sera è una versione elettronica par-
ziale e che si può consultare liberamente → consente di avere accesso
in rete al dizionario in modo tradizionale.

> Oltre a questi dizionari sincronici normativi, ce n’è un quarto → infatti anche il
dizionario Nuovo De Mauro Paravia (consultabile in rete) è un dizionario sincronico
normativo → di fatto si tratta di una versione ridotta del Grande Dizionario Italiano
dell’Uso → dunque dal suo dizionario sincronico descrittivo, De Mauro ha tratto
anche un dizionario normativo, operando una selezione sulla “cipolla” del lessico →
vi troviamo dunque il vocabolario di base, il lessico comune e una scelta dell’ultimo
strato che tenta di raccogliere quelle parole che dalle lingue speciali o settori di
nicchia sono entrate nella lingua comune.
- Nonostante il minor numero di parole però ha conservato le caratteristiche del
dizio- nario descrittivo nella struttura della voce → infatti (oltre alla categoria
grammaticale e alla definizione) troviamo sempre indicata la classe d’appartenenza
(chiamata an- che “marca d’uso”).
> Molta parte degli studi sul vocabolario di base e sulla classificazione del lessico
nasce proprio da De Mauro, il quale ha continuato per tutta la sua vita a cercare di
definire in maniera più precisa il vocabolario di base dell’italiano e lo ha fatto fino
all’ultimo → infatti il 23 dicembre 2016 (pochi giorni prima della sua morte) è stato
pubblicato sull’Internazione il Nuovo vocabolario di base della lingua italiana, che De
Mauro aveva messo a punto grazie allo studio su dei corpora assieme a Isabella
Chiari → si tratta quindi della versione più aggiornata del vocabolario di base rispetto
a quella che troviamo nel vocabolario on line.

■ Perché il prof ha scelto proprio questi tre dizionari?

> Sabatini-Coletti ha due caratteristiche interessanti rispetto a tutti gli altri dizionari
che sono legate alle specificità di Sabatini, ossia il fatto che Sabatini ha importato
in Italia il modello valenziale (basato sul discorso che il verbo da solo non basta e
per completare il suo significato ha bisogno di altri elementi e che a seconda di
quanti elementi ha bisogno perché il suo significato si completi viene categorizzato
in modo diverso) → il Sabatini-Coletti è appunto l’unico dizionario che riporta la
valenza dei verbi.

- Altra caratteristica importante → le parole lessicograficamente si dividono in due


gruppi → le parole piene (che hanno il significato legato a un’area semantica ben
precisa) e le parole vuote (che hanno un significato morfologico, legato alla funzio-
ne che svolgono all’interno della frase o del periodo).
- Normalmente queste parole vuote nei dizionari vengono liquidate abbastanza ra-
pidamente (es. di da si dice che è una preposizione e basta) → invece Il Sabati-
ni-Coletti si caratterizza per il fatto che ha delle note grammaticali molto complete
e organiche → es. di da, oltre alla definizione, viene data anche una piccola
trattazio- ne grammaticale → dunque non è soltanto un dizionario ma in parte
svolge anche la funzione di grammatica.

> Lo Zingarelli è importante perché ormai da molti anni ha aggiornamenti annuali


continui → ormai molti dizionari hanno aggiornamenti annuali continui perché con
l’avvento dell’informatica è diventato molto più semplice aggiornare i dizionari → la
Zanichelli però aveva preso questa abitudine già prima dell’avvento
dell’informatica → questa cosa è importante perché questi aggiornamenti annuali
permettono di monitorare l’evoluzione continua dell’italiano → l’uscita annuale dà
la possibilità di verificare quali parole nuove sono entrate e quali vecchie sono
eventualmente uscite dalla lingua d’uso italiana → è dunque uno strumento
importante perché consente di fare un lavoro di controllo continuo sull’evoluzione
del lessico dell’italiano.
> Le parole nuove hanno anche a che fare con la grammatica → quali sono i
modi con cui una lingua arricchisce il proprio lessico? → sostanzialmente sono
due i processi attr. i quali ciò si verifica → o le acquisisce da altre lingue (per
contatto) o le costruisce “in casa”:

❖ nel primo caso si parla di “forestierismi”, che possono entrare


nell’italiano in forma adattata (cioè vengono trasformati a livello
fonologico, grafico e morfologico per adattarli all’italiano) o possono ess.
non adattati (cioè entrano nell’italiano con lo stesso significante che
hanno nella lingua d’origine);
- mentre forestierismi sono sempre entrati nell’italiano nel corso della
storia in modo adattato (es. grattacielo < skyscraper), soprattutto dalla
seconda parte del ‘900 la stragrande maggioranza delle parole acquisite
da altre lingue non viene adattata (è il caso dei molti anglismi che
entrano nella nostra lingua contemporanea) → una delle ragioni per cui
oggi non c’è tempo per l’adattamento è la velocità con cui le parole si
radicano nella lingua → es. una delle obiezioni alla traduzione del
termine mouse era che si sarebbe confuso con l’animale → dunque il
fatto che in molti casi l’uso dell’anglismo e non del traducente consentiva
una differenziazione tecnica ha fatto sì che si tenda ad assumere
l’anglismo così com’è;
- cmq nella sua storia linguistica l’italiano ha avuto prestiti dalle lingue
germaniche (Goti, Longobardi e Franchi), dall’arabo, dal provenzale, dal
francese, dallo spagnolo ecc. → questa è dunque una strada per
arricchire il lessico di una lingua, è del tutto normale, rientra nei rapporti
di contatto tra le varie lingue e anzi è segno di vitalità, perché vuol dire
che la lingua soddisfa veramente le esigenze di comunicazione della
propria società;

❖ l’altro modo per arricchire il lessico è a partire da parole italiane che


vengono modificate per creare parole nuove, all’interno di tutta una serie
di processi che si devono ricondurre alla cosiddetta “morfologia
lessicale”, cioè l’insieme di regole grammaticali con le quali a partire da
una parola italiana se ne crea un’altra;
- se andiamo a controllare qual è l’origine delle parole italiane, notiamo
che oltre il 50% delle parole è di provenienza italiana → cioè oltre la me-
tà del lessico italiano proviene dal lessico italiano, che è stato modificato
attr. le regole della morfologia lessicale per costruire parole nuove;
- uno dei meccanismi più frequenti è la suffissazione → es. prendo una
parola, le aggiungo il suffisso -oso e ottengo necessariamente una
parola che per regola morfologica significa qualcosa che è relativo al
nome cui ho attaccato il suffisso;
- queste regole, in quanto sono morfologiche, sono trasparenti a chi è
competente della lingua → si possono dunque creare parole nuove che
sono comprensibili a tutti ma che sono effimere (es. sono presenti solo
all’interno di un romanzo), in quanto non sono destinate a entrare nella
lingua → il delicato compito del lessicografo è quello di capire la
differenza tra quelle parole che sono destinate a rimanere effimere e
quelle parole che invece possono diventare o sono diventate strutturali
nel sistema linguistico italiano:
- es. perprimere → parola inventata da Corrado Guzzanti in un suo
spettacolo → si tratta di un caso di retroformazione dall’aggettivo
perplesso, assumendo che esso fosse proprio il participio del
verbo perprimere → in questo caso il verbo perprimere si è
affermato perché andava a inserirsi in una casella scoperta del
lessico italiano).

> Nuovo Devoto-Oli → il vecchio Devoto-Oli è stato il primo dizionario italiano a


ess. digitalizzato nel 1994 (è uno dei primi dizionari elettronici del mondo) → cioè è
stata presa la versione cartacea ed è stata trasformata in versione elettronica →
questa operazione deve far riflettere perché non è stata fatta da degli istituti di
ricerca ma da una ditta informatica privata, che evidentemente ha intravisto
nell’operazione di digitalizzazione di un vocabolario cartaceo una occasione di
guadagno → quali sono i vantaggi principali di un dizionario elettronico? (non
c’entrano niente la velocità di consultazione e al fatto che prende meno spazio) →
da un lato un dizionario elettronico può ess. aggiornato più facilmente → ma
guardando dal punto di vista del “consumatore”, quali sono i vantaggi principali?

● innanzitutto la voce di un dizionario è sostanzialmente una scheda di un


database → una volta stabilita la struttura della scheda (es. lemma,
categoria grammaticale, definizione, sillabazione ecc.), tutte le voci hanno
quella struttura;
- di fatto dunque il dizionario è un database → però cosa succede ai
database se non sono elettronici ma cartacei? → accade che perdono gran
parte della loro potenza e del loro potenziale perché è necessaria una
scheda per ogni ambito diverso di ricerca (es. titolo di un’opera, autore,
anno, editore) e quindi in passato si dovevano avere schedari duplicati,
triplicati ecc. → non è dunque un caso che quando sono stati inventati i
database elettronici le biblioteche siano state tra i primi istituti che si sono
buttate in modo deciso sull’acquisizione informatica dei dati → nel momento
in cui si trasformano le schede cartacee in schede elettroniche, l’ordine non
è più importante perché è la procedura informatiche che le ordina in base
alla mia richiesta;
- per il dizionario vale la stessa identica cosa → finché il dizionario è cartaceo
si è costretti a scegliere un ordine, che rimane tale → in realtà l’ordine dei
dizionari non è sempre stato quello alfabetico ma esistevano anche i
dizionari metodici nel ‘500 e nell’‘800 → infine ha prevalso l’ordine
alfabetico (scelto dall’Accademia della Crusca e che poi ha condizionato
tutti i dizionari successivi) perché era il metodo di ordinamento più
funzionale allo scopo dello strumento, ossia dare informazioni sulla parola
→ solo che la stampa cartacea congela le schede in quell’ordine stabilito e
non consente poi di smontarle e di riordinarle in base ad altri ordini;
- nel momento in cui, invece, metto le schede del dizionario in un sistema
informatico, posso fare tutte le operazioni che mi servono;

● il testo elettronico può ess. interrogato anche liberamente (in quanto il dizio-
nario è un corpus rappresentativo dell’italiano);

● concetto di “circolarità” dei dizionari → i dizionari si dicono “circolari” se qua-


lunque parola venga utilizzata nelle varie definizioni è definita a sua volta;
- es. di dizionario non circolare è il Vocabolario degli Accademici della Crusca
del 1612 → infatti esso descrive la lingua del ‘300 utilizzando però la lingua
del ‘500, per cui è chiaro che non tutte le parole utilizzate nelle definizioni
sono a loro volta definite;
- nonostante questa sia una caratteristica necessaria, non è stato possibile
realizzarla fin tanto che i dizionari non sono stati costruiti elettronicamente,
perché solo facendo controlli con procedure informatiche è possibile
verificare la circolarità → è molto facile perché basta stilare una lista delle
parole presenti nel dizionario e verificare se a ognuna di esse corrisponde
una definizione → questa è una caratteristica non dei dizionari elettronici
provenienti da una versione cartacea presistente ma dei dizionari elettronici
concepiti in partenza come tali;

● la quarta caratteristica è legata a una particolarità dei dizionari che il prof


defiisce “un po’ diabolica” → infatti il dizionario, per come funziona,
favorisce chi conosce meglio l’italiano e svantaggia chi lo conosce peggio
→ questo è paradossale perché è chi conosce meno l’italiano che ne
avrebbe più bisogno;
- questa caratteristica consiste nel fatto che nel dizionario al lemma vengono
associate solo alcune forme, convenzionalmente scelte → es. maschile sin-
golare per gli aggettivi, il singolare per i sostantivi e l’infinito per i verbi →
dal momento che però le parole nei testi o nel parlato sono quasi sempre
coniugate e declinate, bisogna sempre ricostruire la forma di partenza per
andare a cercarla nel dizionario (es. esatto = participio passato di esigere)
→ questa operazione comporta delle competenze morfologiche e
grammaticali precise;
- il dizionario elettronico risolve anche questo tipo di problema, perché vi si
possono cercare le forme flesse ed è proprio lo stesso dizionario elettronico
che a partire dalle forme flesse ricostruisce il lemma di partenza;

● le ricerche si possono fare anche all’interno di specifici campi → questo


con- sente di fare un’operazione inversa a quella tradizionale → es. si può
risalire dal significato al nome (e non dal nome al significato come si fa di
solito) (questo è molto comodo se conosco la definizione di una parola ma
non la parola stessa → a partire dalla definizione, il dizionario elettronico
restituisce la parola corrispondente).

- Il Devoto-Oli elettronico risponde a quattro di queste caratteristiche (non può


rispondere alla circolarità in quanto nasce come dizionario cartaceo) → il primo
dizionario elettronico che soddisfa tutte e cinque queste caratteristiche è proprio Il
Sabatini-Coletti (1997), tanto che la sua prima edizione si chiamava Dizionario
Italiano Sabatini-Coletti (DISC), che venne venduta in edicola su CD-ROM.
- Il secondo dizionario concepito come elettronico è il Palazzi-Folena, mentre il
terzo è proprio il Grande Dizionario Italiano dell’Uso di De Mauro.

> Queste procedure informatiche che ci consentono di fare queste ricerche sui
dizionari elettronici non sono le edizioni elettroniche consultabili liberamente sul
web → quest’ultime infatti consentono solo una ricerca di tipo tradizionale

➢ Dizionari di ortografia e di pronuncia:

- Tra i campi che i dizionari sincronici prendono in considerazione spesso c’è anche
la pronuncia (che in italiano serve soprattutto per rendere conto di tutte quelle zone
del sistema fonologico dell’italiano che creano dubbi alla maggior parte degli italiani)
→ laddove c’è una discrepanza tra grafia e fonetica è opportuno dare l’indicazione
della pronuncia corretta.

- I dizionari di ortografia e di pronuncia di riferimento in circolazione sono:


➔ DOP = Dizionario di ortografia e di pronunzia - a cura di B. Migliorini, C.
Tagliavini e P. Fiorelli (1° ed. 1969; 2° ed. 2010) (consultabile in rete);
- il DOP è il pronipote del Dizionario di ortografia e di pronuncia fatto nel 1939
(il quale stabiliva la regola del “fiorentino emendato” → è dunque un dizionario
che è più legato al sistema fonologico standard tradizionale;
- è uno strumento che è pensato per i professionisti → non a caso l’editore
della prima edizione è RAI-ERI, ossia la casa editrice della Rai ed è sempre
rimasto legato all’edizione della Rai, anche quando è diventato consultabile
online → è dunque uno strumento dedicato anche a dei non specialisti
linguisti ma per specialisti della radio, del cinema ecc. → questo comporta
che le pronunce non vengono indicate col tradizionale alfabeto fonetico
internazionale ma con un sistema di accenti e indicazioni particolari dichiarate
in legende all’inizio del dizionario;
- il problema di una pronuncia che fosse espressa in modo non specialistico
per la maggior parte dei consultatori è stato risolto con la versione elettronica
web, la quale fornisce la pronuncia anche in file audio;

➔ DiPI = Dizionario di Pronuncia Italiana - L. Canepàri (1999) (consultabile in


rete);
- interessante del DiPI è il fatto che è lo strumento di riferimento per il
diasistema fonologico dell’italiano → cioè non vengono date pronunce secche
secondo il modello del fiorentino emendato ma vengono indicate le pronunce
anche in base alla collocazione nello spazio linguistico del parlante → il DiPI
distingue appunto tra:

g) Corpora = raccolte di testi rappresentativi dell’italiano → ormai sono alla base di


tutti gli studi grammaticali, lessicali ecc. e anche alla base dei dizionari.
- Per una rassegna ragionata sui corpora si consiglia Introduzione ai corpora
dell’italiano di E. Cresti e A. Panunzi (2013).
4. FONETICA E FONOLOGIA

5 APR. 2022
RAPPORTO TRA GRAFIA E FONETICA
> La parte importante di questo schema sono le linee che collegano i fonemi ai
grafemi → questo perché il sistema grafico in una lingua naturale non è mai
caratterizzato in un rapporto uno a uno (segno-fonema), cioè non c’è mai un sistema
grafico in cui a ogni fonema corrisponde uno e un solo segno → questo succede
solo nell’alfabeto fonetico internazionale, che è stato creato appositamente a
tavolino per svolgere questo scopo (ossia che tutti i foni presenti in tutte le lingue
della terra fossero rappresentati da un simbolo univoco).

> Come mai questo non accade nelle lingue naturali? → prendiamo come esempio
le lingue romanze → esse hanno ereditato il loro sistema grafico dal sistema grafico
latino → però nel passaggio dal latino alle lingue romanze sono comparsi fonemi
nuovi (e ne sono scomparsi altri) → perciò è chiaro che le lingue romanze abbiano
trovato delle difficoltà nel rappresentare questi nuovi fonemi, perché non avevano
dei grafemi derivati dal latino e dovevano in qualche modo inventarli.

> Quindi cosa caratterizza tutte le lingue del mondo?


● in primo luogo che c’è un assestamento grafico;
● poi il fatto che ogni lingua reagisce alle novità attr. dei meccanismi generali:
- o un segno finisce per ess. ambiguo, cioè indica più fonemi;
- o si reagisce prendendo un segno o una lettera da un altro alfabeto;
- o lo si indica mettendo insieme più segni dell’alfabeto precedente (cre-
ando così quelli che si chiamano “digrammi” o “trigrammi”).

> Che il sistema italiano non sia univoco, in cui le lettere corrispondono ai fonemi, ce
lo dice un dato piuttosto elementare → ossia le lettere dell’alfabeto italiano sono 21 e
i fonemi sono 30, per cui necessariamente non ci può ess. una corrispondenza uno
a uno.
- Se però andiamo a vedere l’evoluzione del repertorio dei fonemi dal latino
all’italiano, ci accorgiamo che ci sono fonemi nuovi e che quindi non erano
rappresentati nel sistema grafico latino → quali sono questi fonemi nuovi? → tutte le
affricate (in latino non esistevano), le palatali (nasale, laterale, sibilante e affricata),
la sibilante sonora e la fricativa labiodentale sonora → sono dunque nove fonemi
nuovi che in qualche modo devono ess. rappresentati.
- Per quanto riguarda le vocali il sistema latino era già ambiguo di per sé, perché
prevedeva 10 vocali (5 lunghe e 5 brevi) ma solo 5 grafemi per rappresentarle →
nell’italiano siamo passati a 7 vocali ma con sempre 5 grafemi per rappresentarle.
> Quali sono le diffrazioni da segnalare?
❖ l’unico fonema che non ci dà problemi è la vocale centrale (a), che è rappre-
sentata univocamente dalla lettera A;

❖ invece i grafemi E, I, O e U sono tutti ambigui, perche tutti e quattro indicano


due fonemi diversi → però hanno livelli di ambiguità diversi:
- infatti per U e per I in realtà si è sempre in grado di ricostruire conte-
stualmente se si tratta di una vocale o di una semiconsonante;
- invece i grafemi O ed E sono realmente ambigui → es. se trovo scritto
botte non sono in grado di capire di che fonema si tratti a meno che
non lo deduca dal contesto → questo è appunto all’origine di tutti quei
problemi che si hanno a livello fonologico nelle varietà dell’italiano, per
cui ogni parlante tende a pronunciare in base al timbro che ha la
vocale nel sistema fonologico del dialetto di partenza.

- Le cose si complicano nel sistema consonantico:


➔ ci sono casi in cui si ha una corrispondenza univoca tra grafema e fonema →
non è un caso che siano i fonemi che erano presenti in latino, che si sono
mantenuti nell’italiano e che erano presenti addirittura già nell’indoeuropeo →
si tratta delle occlusive labiali, bilabiali, dentali e velari → questi sono i fonemi
più diffusi in tutte le lingue del mondo in sincronia e diacronia e sono anche i
fonemi più facili da realizzare, tanto che non è un caso che sono i fonemi che
i bambini imparano per primi;
- sono poi univoci le nasali (dentale e bilabiale) e altri fonemi (come la nasale
palatale, la sibilante palatale e la laterale palatale) che però, pur essendo
univoci, offrono altri tipi di problematiche;

➔ in alcuni casi la nostra grafia ha invece scelto la strategia dell’ambiguità:


- sibilante alveolare sorda e sonora (indicata dall’unico grafema S);
- affricata alveolare sorda e sonora (rappresentata da Z → grafema
recu- perato dall’alfabeto greco).

> In generale come ha reagito la grafia dell’italiano di fronte a fonemi nuovi?


● o recuperando la lettera da un’altro alfabeto;
● o con la strada dell’ambiguità (cioè conservando il fonema latino e conferen-
dogli un doppio valore);
● o usando la strategia di unire due o tre lettere che insieme formano un’unità
grafica che corrisponde a un certo fonema (es. gn, sc, sci, gl, gli).
> Decisamente più complicata la situazione dell’occlusiva velare sorda e sonora e
dell’affricata palatale sorda e sonora (che sono collegate tra di loro) → sono casi
diversi da quelli incontrati finora perché non si tratta di un grafema che rappresenta
più fonemi ma di un fonema che è rappresentato da più grafemi → questa situazione
è legata al fenomeno di palatalizzazione dell’occlusiva precedente vocale palatale:

es. CASAM > casa COSAM > cosa CAENAM > cena

- Da questi esempi vediamo come quella lettera C che in latino indicava sempre
un’occlusiva velare, in italiano davanti ad A, O e U continua a indicare un’occlusiva
velare, ma davanti a E e a I (siccome palatalizza) indica un’affricata palatale.

- A questo punto però si ha bisogno di un segno grafico che indichi l’occlusiva velare
davanti a E e a I e un segno grafico che indichi la palatale davanti ad A, O e U → si
introduce quindi il digramma gh per la velare e il digramma gi per la palatale.

- L’occlusiva velare sorda ha la complicazione che abbiamo addirittura tre grafemi →


infatti si ha:
● c davanti ad A, O, U;
● digramma ch davanti a E e I;
● si aggiunge in certi casi la lettera q → es. quadro vs cuore → la presenza di q
o c dipende dalla base etimologica di partenza della parola latina (non c’è
nessuna ragione fonologica o fonetica, motivo che giustifica i numerosi errori
ricorrenti tra i bambini o gli stranieri).
5. MORFOLOGIA E SINTASSI

21 APR. 2022
MORFOLOGIA

> La morfologia si occupa della forma delle parole, che investe due ambiti importanti
→ cioè quello di dare delle informazioni di tipo morfo-sintattico o quello di dare
informazioni a livello semantico per costruire nuove parole.

➢ Partiamo da una definizione linguistico-scientifica → la morfologia ha come ogget-


to di studio principale i morfemi → il morfema è l’unità minima della prima articolazio-
ne*.

* La lingua umana ha una doppia articolazione, che la rende particolar-


mente potente come strumento di comunicazione:
● gli elementi normali sono gli enunciati (le frasi);
● se si scompone ai minimi termini un enunciato, l’elemento minimo
sarà il morfema.

- Dunque il morfema è l’elemento minimo dotato di un significato, che a sua volta


però (e questa è una caratteristica molto particolare del linguaggio umano) può ess.
scomposto ulteriormente in elementi minimi, che non hanno significato ma hanno
valore distintivo → questi secondi elementi minimi sono i fonemi → la seconda
articolazione dunque riguarda la fonetica e la fonologia.

> Si tratta dunque di uno strumento estremamente potente:


● innanzitutto perché ci sono molti foni e ciascuna lingua sceglie un sottoinsie-
me di foni che utilizza come fonemi, attribuendogli valore distintivo;
● questi fonemi possono ess. combinati tra di loro, dando origine a infinite unità
= i morfemi (insieme aperto);
● questi morfemi possono ess. combinati a loro volta tra di loro per formare le
frasi (con possibilità potenzialmente infinite).

> In realtà questa definizione si attaglia bene con l’inglese, dove morfema coincide
quasi sempre con l’elemento concreto, cioè la parola → parola è un termine che in
linguistica tecnicamente è molto difficile da afferrare → praticamente ogni linguista
ha dato una definizione diversa di parola → per l’inglese invece il morfema coincide
quasi sempre con la parola ≠ in italiano invece no, perché in italiano non possiamo
dire pragmaticamente che l’unità minima dotata di significato è realmente un
morfema, perché in italiano è praticamente sempre l’unità di due morfemi.

- Volendo azzardare una definizione di parola, potremmo definirla come “la minima
combinazione di morfemi dotata di significato”.
> Ci sono vari tipi di morfemi e si classificano in base a due approcci → uno è quello
“funzionale”, l’altro è quello “posizionale”.

- Da un punto di vista funzionale abbiamo due tipi di morfemi:


❖ morfema lessicale → il suo significato è quello cui riconosciamo il valore
semantico;
❖ morfema grammaticale → il suo significato è di tipo grammaticale → cioè ai
morfemi grammaticali sono assegnate delle funzioni grammaticali precise,
che hanno un significato non lessicale ma grammaticale.

- es. parola dente → è costituita da due morfemi:


● dent → è l’elemento che ci dà l’area semantica → ci dice che si tratta appunto
dei denti;
● e → ci dice che la parola in questione è un maschile singolare;
≠ si contrappone dunque alla parola denti, in cui allo stesso morfema dent è
associato il morfema grammaticale i, che denota il plurale;

➔ dunque dent è un morfema lessicale, mentre e e i sono morfemi grammaticali.

- es. parola dentale → vedo che è stato inserito un elemento in più:


● e è il solito morfema grammaticale di prima, che ci dice che si tratta di un
maschile singolare;
● il morfema al ci dice invece che si tratta di un aggettivo derivato dalla parola
dente e che si riferisce a essa;

➔ i morfemi al ed e sono entrambi grammaticali, ma il morfema al è un morfema


derivazionale mentre e è un morfema flessionale.

Morfemi derivazionali Morfemi flessionali


↓ ↓
ci danno delle indicazioni su come il loro significato è quello di indicare
formare nuove parole (in base a se si tratta di un maschile/femminile,
regole precise, che cambiano da di un singolare/plurale, di un
lingua a lingua e che fanno parte del superlativo, di un futuro ecc.
bagaglio di competenze linguistiche
di un parlante).
> es. di partenza = parola socio → formata dal morfema lessicale (o radice) soci e
dal morfema grammaticale o.

- Su questa parola di partenza si può agire in vari modi → per es. (come per il caso
di dentale) si può ottenere sociale → questo ci dice che il morfema derivazionale sta
sempre tra il morfema lessicale e quello flessionale, che è sempre in ultima
posizione → questo non ci stupisce perché, mentre il morfema lessicale va a
modificare il significato della parola, quello grammaticale va semplicemente a
modificare la sua funzione all’interno della frase.

- I morfemi derivazionali sono incrementabili, cioè via via posso aggiungere nuovi
morfemi lessicali per ottenere nuove parole con diversi significati (ovviamente questo
non avviene a caso ma ci sono delle regole ben precise).

- Partendo dal morfema lessicale, non solo posso aggiungere un morferma


derivazionale e uno flessionale (es. sociale) ma posso anche aggiungere un ulteriore
morfema derivazionale x (es. socializzare) e così via (es. socializzazione).

- Questo schema fa vedere quanto sia produttivo questo tipo di meccanismo → si


nota come in tutti questi casi ci sia un meccanismo di aggiunta di vari morfemi
derivazionali.

- In questo schema però si vede bene anche come ci siano altri modi di creare
parole nuove → per es. in certi casi i morfemi derivazionali possono anche stare
prima del morfema lessicale (es. consocio o associare).
> A questo punto è opportuno introdurre un’ulteriore distinzione dei morfemi → i
morfemi possono ess. anche indicati in base alla posizione → per i morfemi
derivazionali si parla di suffissi (se seguono il morfema lessicale) e prefissi (se lo
precedono).

- In realtà questa è la situazione dell’italiano, perché i morfemi derivazionali in


generale prevedono anche altri tipi di morfemi → in generale si parla di affissazione
e dentro di essa stanno i prefissi e i suffissi ma anche gli infissi e i circonfissi (che
però in italiano non esistono).

> Nello schema non ci sono solo meccanismi che coinvolgono morfemi derivazionali
→ es. nazionalsocialismo è una derivazione che non ha a che fare con i morfemi
derivazionali → in questo caso abbiamo l’unione di due parole (nazionale e
socialismo).

- Lo stesso vale per la parola sociologia, in cui però non abbiamo l’unione di due
parole (come nel caso precedente) → qui socio assume un valore particolare →
infatti ha funzione di prefisso ma è un prefisso che ha un suo significato autonomo
→ ugualmente vale per il suffisso logia → in questi casi, quando i suffissi e i prefissi
possiedono anche un valore semantico, si parla di suffissoidi e prefissoidi.

➽ Passiamo ora alla morfologia lessicale vera e propria → cioè quali sono le
regole che ci consentono di formare nuove parole.

> In una lingua entrano parole nuove sostanzialmente attr. due processi → o per
prestito da altre lingue o per formazione a partire da materiale italiano → in generale
a questi due serbatoi si aggiunge storicamente anche tutta quella serie di parole che
sono entrate nell’italiano a partire dal latino per via popolare (trasformazione del
latino volgare nelle varie lingue romanze) → quest’ultimo processo però è stato solo
iniziale e a un certo punto si è interrotto → invece la linea del prestito e della nuova
formazione di parole sulla base di materiale italiano continua a ess. operativa.

- Si tende a sottovalutare la formazione delle parole, ma in realtà è molto importante


sotto diversi punti di vista → innanzitutto per la sua importanza nel lessico italiano →
infatti oltre il 50% delle parole italiane deriva dall’italiano stesso attr. processi di
morfologia lessicale → questa è una virtù importante di tutte le lingue, cioè il fatto
che si possono creare parole nuove combinando gli elementi tra di loro →
naturalmente questa combinazione non può ess. libera ma servono delle regole →
non si possono combinare gli elementi casualmente, perché la lingua è convenzione
e bisogna ess. tutti d’accordo che se combino certi elementi in un certo modo
ottengo un certo signficato → questa formazione è importante anche perché ci
consente di creare parole nuove che magari hanno una funzione effimera, cioè
servono solo in un determinato contesto → magari non finiscono nel dizionario ma in
quel contesto sono utili e il fatto che sono create in base a regole condivise e
stabilite dal sistema linguistico ne consentono la comprensione da parte di tutti.

> I processi di formazione delle parole sono raggruppabili in quattro grandi categorie:

1) La prima è la derivazione → utilizzo di affissi (prefissi e suffissi).

> Come funziona un prefisso?


● un prefisso ha un significato → es. a- ha un significato negativo, di contrarietà
e di privazione;
● poi ha una sua sintassi → es. a- si aggiunge solo a nomi (es. asimmetria) e
aggettivi (es. amorale).

- Dunque dal prefisso a- ottengo un nome (se avevo un nome) o un aggettivo (se
avevo un aggettivo) → dunque si rimane nella stessa classe di appartenenza → per
es. si dice che amorale è un aggettivo prefissato deaggettivale:
- aggettivo = categoria di arrivo;
- prefissato = tipo di derivazione utilizzato;
- deaggettivale = proviene da un aggettivo.

- Tutte le parole ottenute con questi processi sono identificate da queste tre
coordinate:
● da dove partono → es. nome, aggettivo, verbo ecc.;
● con quale processo → es. prefissato, suffissato ecc.;
● dove arrivano → es. deaggettivale, denominale ecc.

> Non è infrequente che i prefissi e i suffissi siano ambigui, cioè abbiano più
significati → es. anti- ha valore:
- locativo = prima nel senso del luogo → es. antiorario;
- temporale = prima nel senso del tempo → es. antipasto;
- negativo → es. anticostituzionale.

> Il meccanismo di formazione per derivazione assolutamente più produttivo non è la


prefissazione ma la suffissazione. …

> Un altro modo di formare parole per derivazione è la cosiddetta conversione →


consiste nel prendere una parola e cambiarle classe → es. si trasforma un verbo in
sostantivo (es. sapere > il sapere).
2) Composizione (cioè le parole composte) → consiste nella giustapposizione di
due parole fra loro → è importante che le due parole mantengano il significato che
avrebbero come parole autonome.

- Uno dei composti storici, presente nell’italiano fin dalle origini e molto produttivo, è
il cosiddetto “composto imperativale” → consiste in un verbo a cui si aggiunge un
nome → es. portabandiera, scolapasta ecc.

- Negli ultimi tempi è aumentato il ricorso alla formazione di parole composte → lo si


è visto anche tra i tratti dell’uso medio neo-standard indicati da Sabatini.

- Si possono ottenere parole composte unendo:


● due nomi → es. pescespada;
● un nome e un aggettivo → es. camera-oscura;
● un aggettivo e un nome → es. gentiluomo;
● un verbo e un nome (composto imperativale) → es. scolapasta;
● due verbi → es. bagnasciuga;
● una preposizione e un nome → es. sottopassaggio;
● un verbo e un avverbio → es. buttafuori;
● due aggettivi → es. pianoforte.

- Quando queste parole composte sono in via di formazione in generale c’è una fase
di assestamento → c’è una fase in cui si è indecisi su come considerarle (vengono
prima scritte staccate, poi vengono scritte con la linetta ecc.) finché raggiungono il
loro stato di univerbazione, cioè vengono considerate come parola unica → alcune
diventano univerbate, altre rimangono separate.

> Importante da sottolineare è il concetto di “testa” → nelle due parole che


compongono una parola composta c’è sempre una testa (è la parola principale) → la
testa è quella che dà l’indicazione dell’oggetto → es. in pescespada la testa è pesce
(perché si tratta di un pesce con una protuberanza, non di una spada a forma di
pesce).

- Non sempre è possibile individuare la testa → es. in bagnasciuge e agrodolce è


impossibile individuare la testa.

- Nel caso in cui la testa sia individuabile si parla di “composti endocentrici”, mentre
se non è individuabile si parla di “composti esocentrici”.
3) Unità lessicali superiori → in questo caso c’è un problema di terminologia,
perché vengono indicate in molti modi → es. “plurilessematiche”, “polirematiche”
(etichetta utilizzata da De Mauro nel GRADIT) → in ogni caso si tratta di un lessema
composto da più parole → es. casco blu e ferro da stiro.

- Perché sono differenti dalle parole composte?


● in pescespada le parole che compongono la parola continuano ad avere il
loro significato → dunque posso sempre ricostruire sulla base dei significati di
partenza delle parole qual è il significato della parola composta;
● nelle unità lessicali superiori questo non accade assolutamente → il significa-
to dell’unità lessicale non ha nulla (o poco) a che vedere con le parole di par-
tenza:
- es. ferro da stiro → letteralmente, se fosse una parola composta,
significherebbe “un qualunque ferro con cui stirare”, che è quello che
inizialmente era → oggi però indica l’elettrodomestico;
- es. casco blu indica il soldato dell’ONU (sineddoche = una parte per il
tutto).

4) Riduzione → consiste nelle sigle, acronimi e abbreviazioni (es. uni, auto, bici).

> Rientrano nel processo di riduzione anche le cosiddette “parole macedonia” =


composizione di due parole abbreviate → es. cantautore, cartoleria.

> Infine ci sono anche le cosiddette “retroformazioni” → parole che si ricostruiscono


perché si pensa possano ess. la base di partenza di altre parole conosciute:
es. da perquisizione si ricostruisce perquisire

è sostanzialmente un processo di derivazione al contrario.

——————————————————————————————————
SINTASSI

> In un approccio moderno allo studio della sintassi bisogna prevedere almeno 4
approcci per lo studio della sintassi → oggi come oggi non è possibile affrontare lo
studio della sintassi senza prevedere approcci diversi, che ci danno informazioni
diverse ma ugualmente importanti → gli approcci sono:
1. approccio configurazionale; 3. approccio semantico;
2. appr. delle funzioni sintattiche; 4. appr. pragmatico-informativo.

4) Approccio pragmatico-informativo → è quello che si occupa di quelle strategie


da utilizzare nella frase per dare indicazioni di focalizzazione e messa in rilievo →
cioè è quella parte dell’approccio sintattico che si occupa di come una frase
non-marcata (che trasmette un contenuto neutro) possa ess. gestita per dare delle
informazioni (informativo) o per avere degli scopi pratici (pragmatico).

- Hanno dunque a che fare con l’approccio pragmatico-informativo le indicazioni


legate all’esclamazione, all’interrogazione, alle frasi imperative e dichiarative ma
soprattutto gli elementi di focalizzazione, cioè strutture che consentono di mettere a
fuoco alcuni elementi piuttosto che altri (es. dislocazione a destra/sinistra, frase
scissa ecc.).

- La cosa strana e interessante (e che ci deve far riflettere sulle particolarità


strutturali che la nostra lingua ha avuto per secoli) è che quella che è una normale
strategia delle lingue (tanto da ess. un tipo di approccio di studio sintattico),
nell’italiano non solo è stata trascurata completamente dalla grammatica ma è
emersa solo come tratto neo-standard → è chiaro che un tratto neo-standard così
poi si è consolidato, in quanto risponde a un’esigenza generale (per es. la
focalizzazione è un elemento fondamentale, presente in tutte le lingue).

3) Approccio semantico (libro) → si tratta di classificare gli elementi della frase in


funzione del ruolo semantico che hanno → si introducono quindi categorie come
“agente”, “paziente”, “sperimentatore”, “beneficiario”, “strumento”, “destinazione” ecc.
1) Approccio configurazionale → ha le sue origini nello strutturalismo americano,
in particolar modo Bloomfield, che introduce nell’analisi della frase il concetto di
“costituente immediato” → ossia proviamo a individuare via via quali sono gli
elementi che costituiscono una frase (a prescindere dalla funzione sintattica che
hanno).

- Bloomfield mette subito in evidenza che le frasi generalmente sono sempre


composte da due elementi centrali → la prima fase di scomposizione di una frase in
una qualsiasi lingua naturale è sempre bipartita → elementi che riguardano il
soggetto ed elementi che riguardano il verbo → es. Giovanni corre → se invece la
frase fosse più complessa, potrei andare a scorporarla per individuare gli elementi
del costituente immediato legati al soggetto e quelli legati al verbo:
● es. Giovanni mangia la mela → quali sono i due elementi costitutivi? → sono
Giovanni mangia da una parte e la mela dall’altra? o Giovanni da una parte e
mangia la mela dall’altra?
● secondo Bloomfield ci si deve muovere nell’ottica della “maggiore resa
sostitutiva”:
- cioè se si dividono Giovanni mangia e la mela, le frasi che posso
ottenere sono in un numero limitato rispetto all’altra combinazione →
perché con Giovanni mangia posso mettere la carne, un’arancia, la
verdura ecc., però il numero di frasi sarà limitato all’azione del
mangiare;
- se invece si dividono Giovanni e mangia la mela, al posto di
quest’ultimo posso mettere corre nel prato, legge un libro, ecc., dunque
un’infinità di frasi;
- dunque la maggiore resa sostitutiva consiste nello spacchettare da una
parte Giovanni e dall’altra mangia la mela, che a sua volta è composto
da due elementi → si arriva così a una scomposizione in componenti
immediati.

➢ Il passo successivo di questo approccio è costituito dall’analisi secondo la


grammatica generativa (cioè la grammatica di Chomsky) → essa si chiama così
perché ha come obiettivo quello di trovare le regole per generare le frasi → quindi
nell’approccio di Chomsky non è tanto importante stabilire se c’è il soggetto, il
complemento oggetto ecc. ma è stabilire quali sono le regole che ci consentono di
generare una frase.

- Partendo dal presupposto di Bloomfield, anche secondo Chomsky la frase è


sempre composta da due elementi → in questo caso Chomsky parla di sintagma
nominale e di sintagma verbale → dunque ogni frase comincia con un sintagna
nominale e un sintagma verbale, i quali poi possono ess. strutturati a loro volta.
- L’obiettivo dunque è quello di indivuare delle regole che consentano di costituire
delle frasi grammaticali, cioè di combinare questi elementi in modo tale che si
generino delle frasi corrette dal punto di vista grammaticale.

- Le regole che consentono di costruire le frasi sono talmente complesse (perché si


pensa a un modello generale che riguarda tutte le lingue del mondo, però poi
ciascuna lingua ha delle sotto-regole molto complesse) e il tempo di acquisizione
della lingua madre da parte degli esseri umani è talmente breve che secondo i
generativisti comportano una sorta di innatismo → cioè le regole fondamentali
(quelle che stanno alla base di tutte le lingue naturali) in realtà le possediamo fin
dalla nascita → il processo di acquisizione consiste dunque nell’affinare queste
regole generali in funzione delle lingue che si stanno apprendendo → è per questo
che un bambino riesce a costruire frasi grammaticali piuttosto rapidamente.

> A noi però interessa più l’aspetto generativo, cioè andare a vedere l’analisi
configurazionale che deriva da questo approccio → Chomsky infatti introduce
l’importante elemento della “profondità” nell’analisi in costituenti sintagmatici attr. uno
strumento importante, il cosiddetto “indicatore sintagmatico”, che altro non è che un
diagramma ad albero:

- Si parte dalla frase Anna canta una canzone alla piccola Teresa e si cerca di capire
qual è la struttura configurazionale che sottosta a questa frase.

- Il diagramma è fatto in questo modo → si parte dalla frase e poi si analizzano tutti i
possibili sintagmi che ci sono all’interno della frase in maniera profonda.
- I sintagmi non sono di molti tipi → abbiamo:
● sintagma nominale → sintagma in cui la base di partenza è il nome;
● sintagma verbale;
● sintagma preposizionale;
● sintagma avverbiale.

- L’indicatore sintagmatico ha quattro livelli:


1. il primo livello è la frase; 3. terzo livello → le classi → esse
sono un po’ diverse dalle parti
2. secondo livello → i sintagmi; del discorso tradizionale;
4. quarto liv. → le entrate lessicali.

- Questo indicatore sintagmatico funziona non solo con questa frase ma anche con
altre entrate lessicali → il fulcro dell’analisi configurazionale sono dunque i due livelli
centrali, ossia quello dei sintagmi e quello di come sono fatti a loro volta i sintagmi.

- L’indicatore sintagmatico ci dà una struttura che in realtà poi può far generare n
frasi → dunque da un lato esso ci serve come strumento di analisi della frase,
dall’altro è uno strumento per generare sempre nuove frasi.

- Da un punto di vista configurazionale, questo tipo di analisi non fa mai riferimento


al soggetto, al verbo ecc. → non sono importanti le funzioni di queste parti → ciò che
importa sono i rapporti tra le parti e l’indicatore sintagmatico ci dà le regole con cui si
incastrano tra di loro gli elementi che costituiscono una frase.

- Ci sono altre due cose da sottolineare riguardo agli indicatori sintagmatici:


● innanzitutto un indicatore sintagmatico funziona sempre in maniera bipartita
→ c’è il “nodo” e da esso partono sempre due elementi;
● l’altra cosa è il fatto che i sintagmi possono ess. ripetuti.

- La categoria grammaticale indispensabile (cioè senza la quale il sintagma non


esisterebbe) si chiama “testa” (es. un cane) → naturalmente la testa può stare da
sola (es. Anna canta canzoni) ma non si può mai avere una da sola.
> es. Lunedì mio cugino arriverà dagli Stati Uniti.

- Qui il problema è legato a dove sta Lunedì → esso è legato al sintagma nominale o
al sintagma verbale? → in realtà non è legato né all’uno né all’altro ma all’intera
frase → questo ce lo dice il fatto che Lunedì può ess. spostato in qualunque punto
della frase → quindi Lunedì va riferito all’intera frase.

> Si usa la convenzione di mettere un apice (’) quando gli elementi sono ricorsivi
all’interno della gerarchia del testo:
- Siccome la frase compare a vari livelli della struttura, via via che si sale di livello si
aggiunge un apice, appunto per segnalare il livello della frase.

2) Approccio delle funzioni sintattiche → è legato a quella che normalmente si


considera grammatica, cioè lo studio di quali funzioni sintattiche hanno gli elementi
all’interno della frase → l’approccio tradizionale è quello dell’analisi logica per quanto
riguarda la frase e quello dell’analisi del periodo per quanto riguarda il periodo.

- Questo tipo di analisi logica però è molto legato a elementi interpretativi → es.
alcuni complementi possono ess. ambigui oppure non tutte le grammatiche riportano
lo stesso numero di complementi → sono tutte classificazioni legate a
un’interpretazione logica più che a un’analisi della funzione specifica.

- Lo stesso vale anche per l’analisi del periodo → al di là delle soggettive, oggettive
e relative, a volte gli altri tipi di proposizione sono di difficile interpretazione → questo
lo vediamo soprattutto nei casi in cui le proposizioni sono implicite, dove a partire dal
gerundio o dall’infinito bisogna interpretare quale sia la frase esplicita di partenza e
si può cadere nell’ambiguità.

> Dunque, in definitiva, il problema dell’approccio delle funzioni sintattiche era


trovare un modo che svincolasse da questo tipo di pendenza logica e di contenuto
→ di recente è appunto entrato in funzione in maniera abbasta precisa (almeno tra i
ricercatori ma sempre di più anche nella scuola) il modello della grammatica
valenziale → questa teoria è stata inventata dallo studioso francese Tesnière molto
tempo fa ma in Italia è entrata piuttosto recentemente grazie al lavoro di Sabatini,
che l’ha portata nelle scuole e nelle sue ricerche scientifiche.

- Perché si parla di “valenza”? → il riferimento è alla chimica e in particolare alla


struttura degli atomi → l’atomo è composto da elettroni, protoni ed elettroni → questi
ultimi stanno in orbita e girano attorno al nucleo, distribuendosi attorno a esso, non
in maniera casuale ma in base a delle orbite, le quali tendono a ess. regolari, cioè
contengono la prima due elettroni e le successive otto → gli atomi che hanno due
elettroni saranno stabili in quanto hanno la prima orbita occupata → mentre un
atomo che ha tre elettroni sarà instabile perché, mentre la prima orbita sarà saturata,
la seconda orbita avrà ben sette caselle libere → gli atomi dunque tendono ad
aggregarsi tra di loro in maniera da saturare le loro orbite e in particolare l’ultima,
che non a caso si chiama “orbita di valenza”, perché è quella che può non ess.
satura.
> Anche la grammatica valenziale mette al centro il verbo (come la grammatica
generativa) ma lo fa in maniera ribaltata → infatti non è il verbo che sta al centro
della frase ma è la frase che sta al centro del verbo → il verbo, come tale, ha
bisogno di altri elementi per completare il proprio singificato → poi ci sono altri
elementi che completano ulteriormente la frase ma ci sono degli elementi che
servono al verbo per completare il proprio significato (esattamente come negli atomi)
→ a seconda di quanti sono gli elementi che servono al verbo per saturare il proprio
significato si parla di una categorizzazione in zero, una, due, tre o quattro valenze:

❖ verbi zerovalenti → basta il verbo di per sé senza argomenti → si tratta per lo


più dei verbi metereologici (che nella grammatica tradizionale si chiamano
“impersonali”):
es. Piove

❖ verbi monovalenti → necessitano di un argomento per ess. saturati → ossia


necessitano che sia espresso colui che svolge l’azione:
es. Mario cammina
- senza questo argomento il verbo non è completo → e anche se è vero che è
tollerabile e accettata in italiano una frase tipo Cammina, vuol dire che il
contesto mi consente di ricostruire chi è che cammina

❖ verbi bivalenti → necessitano di due argomenti per completare il loro significa-


to:
es. Mario (arg.1)* lava la macchina (arg.2)*

❖ verbi trivalenti → necessitano di tre argomenti:


es. Mario dà la penna a Luigi

❖ verbi quadrivalenti → necessitano di quattro argomenti:


es. Mario traduce la versione dal latino all’italiano

* Una delle cose importanti della grammatica valenziale è che possiamo togliere
l’etichetta di “oggetto diretto” → ci interessa solo che ci sia un arg.1 e un arg.2, non
importa come si chiamano nella grammatica generativa.
- Tra l’altro ci sono verbi bivalenti in cui non c’è un oggetto diretto come secondo
argomento, ma ce n’è uno indiretto.

> Dunque uno dei punti di forza di questo approccio è proprio quello di svincolarsi
dall’analisi logica e va a vedere quali sono gli elementi fondamentali della frase e in
che modo essi sono fondamentali.
> Un verbo con i propri argomenti costituisce la frase nucleare → la frase nucleare
può ess. espansa ulteriormente:

- Alla frase nucleare si possono aggiungere dei circostanti → sono tutti elementi che
non servono a completare il significato del verbo ma solo per ampliare il contenuto
del messaggio.

- Non è detto che gli argomenti siano dei sintagmi → un esempio tipico di argomento
frasale è quello della completiva (nel caso sotto completiva oggettiva):

- Il verbo affermare è bivalente → necessita del soggetto che afferma e della cosa
affermata, la quale però può anche ess. espressa da una frase.
6. STORIA DELLA GRAMMATICA

20 APR. 2022
STORIA DELLA GRAMMATICA

> Vedere come sono cambiate le grammatiche nel corso del tempo consente di ve-
dere non soltanto l’evoluzione del pensiero dei grammatici ma anche come è cam-
biata la descrizione delle parti del discorso → es. la suddivisione dell’italiano in nove
parti del discorso risale al ‘500-‘600 e attinge a sua volta dalla grammatica latina.

> Quando si parla di storia della grammatica senz’altro il testo di riferimento è la


Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza (pubblicato per la prima volta nel
1908 e poi ristampato, senza troppe modifiche, nel 1963) → la cosa interessante
dello studio di Trabalza è che si tratta di un excursus dal ‘500 fino agli inizi del ‘900
sull’evoluzione dello strumento-grammatica (cioè del testo grammaticale).

- Dal 1908 in poi però ci sono stati molti nuovi studi e infatti uno dei nuovi testi di
riferimento è la Breve storia della grammatica italiana di Simone Fornara (1° ed.
2005; 2° ed. 2019).

- Altre monografie di storia della grammatica riguardano anche argomenti specifici →


es. grammatiche di italiano per stranieri, la sintassi nelle grammatiche ecc.

- Però se vogliamo soffermarci sugli studi che più in diacronia prendono in


considerazione la storia della grammatica:
● il punto di riferimento principale resta Trabalza;
● poi nel 1998 Ilaria Bonomi pubblica La grammatografia italiana attraverso i
secoli → con la stessa impostazione per secoli usata da Trabalza, Bonomi
ripercorre la storia della grammatica;
● Breve storia della grammatica italiana di Fornara;
● Storia dell’italiano scritto. IV. Grammatiche - Antonelli, Motolese, Tomasin →
testo recente che fa un po’ il punto sia sugli studi che sono stati pubblicati
sulla storia della grammatica sia su come è cambiata la storia della
grammatica nel corso del tempo → si tratta di una storia dell’italiano scritto
che ha altri tre volumi riguardanti altri tre argomenti, mentre il quarto volume è
dedicato nello specifico alle grammatiche → qui nei vari capitoli (scritti da
diversi autori) si ripercorre la storia della grammatica da vari punti di vista (per
tipologia grammaticale, per parti del discorso, per destinatari) →
l’impostazione dunque non è per secoli ma per argomenti;
● I percorsi grammaticali - G. Patota (contenuto nel primo volume de La storia
della lingua italiana di Einaudi, a cura di Serianni e Trifone) → non è una
monografia ma un articolo molto ampio, fondamentale negli studi della storia
della grammatica → con una prospettiva diacronica, Patota ricostruisce come
sono cambiati nei secoli gli strumenti grammaticali;
● Storia delle grammatiche - Teresa Poggisalani (1988) → anche se è un
contributo abbastanza breve (si tratta infatti di un articolo), però fa il punto
sugli studi usciti fino a quel momento;
● infine abbiamo le bache dati:
- Biblioteca digitale dell’Accademia della Crusca*;
- Fabbrica dell’italiano, sezione “Grammatiche”**;
- Le Cinquecentine della Crusca (= i testi pubblicati nel ‘500-‘600);
- sono però i primi due a ess. gli strumenti più utili allo studio della storia
della grammatica.

* Che grammatiche troviamo nella Biblioteca digitale dell’Accademia della Crusca?


→ troviamo le grammatiche più importanti pubblicate tra il ‘500 e la fine dell’‘800 →
ma come si possono leggere e interrogare queste opere? → come in una vera e
propria biblioteca digitale, è possibile sfogliare le immagini dell’opera, che è stata
digitalizzata → il limite sta nel fatto che non si possono fare ricerche sul testo in
quanto ne si hanno solo le immagini → si possono fare ricerche solo all’interno di
alcune parti che sono state trasformate in formato elettronico (soprattutto si tratta dei
titoli dei capitoli e dei paragrafi).

** La fabbrica dell’italiano è un altro strumento dell’Accademia della Crusca, in cui


non ci sono soltanto le grammatiche ma c’è anche una sezione dedicata ai dizionari,
una alla terminologia tecnica, una all’archivio.
- Qual è la differenza con la Biblioteca digitale → le grammatiche non sono riportate
integralmente ma soltanto in alcune parti (es. prefazione, frontespizio, indice, il
capitolo sui pronomi) → tutte le opere però presentano delle schede in cui si
presenta l’opera in generale, gli studi di riferimento e tutte le edizioni dell’opera.

➽ Quando studiamo la storia della grammatica dobbiamo prima trovare un metodo


→ studiare la storia della grammatica significa prendere in considerazione un
numero abbastanza considerevole di grammatiche e metterle a confronto.

- La prima cosa che uno studioso di storia della grammatica deve fare è selezionare
il corpus grammaticale (= la raccolta delle opere grammaticali) → questo a seconda
del tipo di studio che si vuole fare → per es. si può raccogliere un corpus di
grammatiche in diacronia (da un certo periodo a un altro) oppure ci si può
concentrare anche solo su un secolo → una volta stabilito il metodo si può iniziare la
raccolta.
➢ La prima grammatica considerata dalla prof è la Grammatichetta vaticana di Leon
Battista Alberti (1437-41) → nonostante sia una grammatica del ‘400, la prof l’ha
fatta rientrare tra le grammatiche del ‘500 perché, anche se nel corso del ‘500
questa grammatica non ha successo e non ha circolazione, in realtà nel corso dei
secoli successivi (soprattutto nel ‘900) è stata scoperta la sua importanza e quindi
oggi non si può fare uno studio sulle grammatiche senza considerare la grammatica
di Alberti.

- La differenza tra la grammatica di Alberti e quelle del ‘500 sta nel fatto che non ha
un editore in quanto ancora la stampa non era stata inventata, per cui si tratta di una
grammatica manoscritta e lo rimane per moltissimo tempo → infatti la grammatica di
Alberti non ha circolazione non solo nel ‘500 ma nemmeno nel ‘600 e nel ‘700
perché viene riscoperta nel 1850 e viene pubblicata per la prima volta nel 1908,
stesso anno di pubblicazione della Storia della grammatica di Trabalza → in
appendice alla Storia della grammatica c’è proprio l’opera di Alberti, che però viene
pubblicata senza che Trabalza stabilisca la paternità dell’opera, la quale infatti viene
stabilità solo a metà degli anni ‘60 da parte dello studioso di riferimento di Alberti,
ossia Greison.

- Perché è importante la Grammatichetta vaticana? → non solo perché di fatto è la


prima grammatica ma anche perché è la prima grammatica sincronica → nel corso
del ‘500 infatti non verranno pubblicate grammatiche sincroniche (= cioè che
descrivono la lingua in uso in quel momento) ma quasi tutte le grammatiche
pubblicate nel ‘500 descriveranno la lingua del ‘300 (in particolare il fiorentino) →
allora quella di Alberti è senz’altro la prima grammatica sincronica, in quanto egli
descrive il fiorentino del ‘400.
- Inoltre questa grammatica è importante anche per il fatto che Alberti rende conto
del problema (di cui poi si renderanno conto anche alti autori successivi) della
mancanza di corrispondenza tra il sistema grafico e il sistema fonetico-fonologico del
volgare.
- Inoltre questa grammatica è un’importante testimonianza della lingua del ‘400.

➢ La prima grammatica a stampa invece è quella di Fortunio → Regole gramma-


ticali della volgar lingua, Ancona, 1516.
- Grammatica articolata in due libri → uno dedicato alla morfologia mentre l’altro è
dedicato all’orografia.

- Come succede anche per tanti altri grammatici successivi, quest’opera prende
avvio proprio dalle osservazioni di Fortunio sui testi trecenteschi → questo è spesso
il metodo usato dai grammatici del ‘500 → cioè si parte dai testi letterari del
fiorentino del ‘300 (in particolare le tre corone) e si ricavano le regole a partire dalle
osservazioni marginali ai testi → infatti per questo spesso anche i titoli sono
abbastanza simili (Regole grammaticali, Avvertimenti, Fondamenti ecc.) → dunque
quello che possiamo dire dei primi grammatici del ‘500 è che la grammaticografia
(cioè lo scrivere le grammatiche) nasce senz’altro al servizio della letteratura e dei
letterati, che, in qualche modo spesso insicuri della propria competenza di lingua
(perché magari non erano toscani o fiorentini), hanno bisogno di strumenti di
riferimento → tutto quello che riguarda la lingua (e quindi anche la grammatica) fino
all’Unità d’Italia riguarda anche la letteratura.

- La lingua descritta da Fortunio è il fiorentino trecentesco (come la maggior parte


delle grammatiche del ‘500) → non a caso Fornara nel suo manuale parla proprio di
una linea denominata “Fortunio-Bembo”, la quale (iniziata da Fortunio e portata al
successo da Bembo) prevede il fiorentino trecentesco delle tre corone come modello
linguistico, motivo per cui anche le grammatiche devono descrivere questo tipo di
lingua.

> Quali opere fanno parte di questo filone? → quelle opere che nel loro titolo fanno
chiaro riferimento ai tre autori fiorentini → es. Le tre fontane di Liburnio.
- Opere come queste (come Le tre fontane o, ancora più chiaramente, Vocabolario,
Grammatica e Ortografia della lingua volgare di Accarisio) hanno una parte riguar-
dante le regole grammaticali e una parte più lessicografica (simile a un vocabolario).
- In queste grammatiche non è sempre facile stabilire il confine tra il vocabolario e la
grammatica → infatti sono delle parti spesso molto legate tra di loro → su questo
aspetto si è soffermata molto la studiosa Valeria Della Valle in un suo studio sui
dizionari → Della Valle fa vedere come in queste prime grammatiche del ‘500 non ci
sia una netta distinzione tra vocabolario e grammatica, perché anche dentro questi
elenchi di parole ci sono delle regole.

➢ La grammatica di riferimento del ‘500 è sicuramente Prose della volgar lingua di


Bembo, pubblicata a Venezia nel 1525.

- Prose di Bembo è per noi non solo un’opera di impostazione grammaticale ma è


soprattutto l’opera di riferimento per la questione della lingua cinquecentesca → nel
‘500 il legame tra grammatica e questione della lingua è molto stretto, perché
ovviamente le grammatiche risentono della questione della lingua → per cui i filoni
che si possono individuare nella storia della grammatica del ‘500 corrispondono ai
filoni della questione della lingua a loro contemporanea.

- Come nasce la questione della lingua? → innanzitutto un fenomeno importante fu


l’invenzione della stampa, che porta a una grandissima diffusione dei testi in volgare
→ si arriva quindi agli inizi del ‘500 che il volgare ormai ha raggiunto un successo
tale per cui il dubbio dei letterati non è più se usare il volgare o il latino ma quale tipo
di volgare usare → ecco che da qui nasce un dibattito, con varie posizioni.
- Sono tre le posizioni importanti nel dibattito sulla lingua nel ‘500:
❖ Bembo → imitazione dei classici fiorentini del ‘300, in particolare Boccaccio
per la prosa e Petrarca per la poesia*;
❖ i fiorentinisti → letterati che prevedono come modello linguistico il fiorentino
contemporaneo (cfr. Giambullari);
❖ teoria cortigiana → il principale esponente è Giangiorgio Trissino (Grammati-
chetta, 1529 e Dubbi grammaticali)**.

* Da questo punto di vista, le grammatiche riprendono questa teoria e quindi, quando


nel 1525 esce Prose di Bembo, seguiranno tante altre grammatiche con questa
impostazione (ossia aventi come modello il fiorentino letterario trecentesco).

- Il 1525 dunque è un anno di svolta sia per la questione della lingua sia per la storia
della grammatica, anche se questa stessa impostazione l’aveva data già nel 1516
Fortunio → infatti proprio per questo si parla di “linea Fortunio-Bembo”, perché
Fortunio anticipa le teorie di Bembo di quasi dieci anni.

> Prose della volgar lingua non ha una struttura tipicamente grammaticale (ossia
un’impostazione schematica) ma ha forma dialogica → è composta da tre libri e il
terzo libro è considerato la parte più propriamente grammaticale, perché lì sono
espresse (seppur sempre in forma dialogica) le regole grammaticali → le regole si
deducono dalle domande e dalle risposte.
- Bembo in questo terzo libro (come in una vera grammatica) prende in considerazio-
ne le parti del discorso, usa una terminologia grammaticale che in qualche modo si
distacca dalla tradizione latina (perché nella maggior parte dei casi le grammatiche
del ‘500 - come quella di Fortunio - si rifanno alla terminologia grammaticale latina)
→ Bembo cerca di allontanarsi dal modello latino inventando delle nuove etichette e
termini grammaticali che potessero ess. propri del volgare e non del latino.
- Indipendentemente da questo, le regole che Bembo fornisce vengono individuate in
base all’uso letterario trecentesco → i modelli principali sono Petrarca e Boccaccio
ma in realtà si trovano anche esempi tratti da molti altri autori di tutto il ‘300, perché
nel momento in cui deve descrivere le strutture grammaticali allarga il suo modello.

- Qual è il limite della struttura dialogica? → non avendo una struttura schematica,
non sono facilmente individuabili le parti del discorso → nelle grammatiche con
un’impostazione tradizionale la prima informazione che si dà è quella relativa al
numero di parti del discorso ≠ invece Bembo non fornisce questa indicazione e allora
è possibile individuare le categorie che prende o meno in considerazione a seconda
dell’argomento.

> Una grammatica importante di impostazione bembiana e che ha molto successo


nel corso del ‘500 è Fondamenti del parlar toscano di Rinaldo Corso (1550),
importante grammatico cinquecentesco → la lingua descritta è il fiorentino del ‘300
però la forma non è dialogica ma tradizionale, con una suddivisione per parti del
discorso → tra le parti del discorso considerate da Corso, oltre al nome, al verbo,
all’articolo ecc., egli dà molta importanza anche alla preposizione, cosa non molto
tipica nel ‘500 (solitamente i grammatici cinquecenteschi si soffermano su nome,
verbo e soprattutto sulla questione dell’articolo).

> Altra grammatica di impostazione bembiana è I quattro libri delle osservazioni di


Lodovico Dolce (Venezia, 1562) → insieme a quella di Corso, è la grammatica più
importante del filone bembiano.

> I luoghi di pubblicazione escludono per lo più Firenze → essa compare come
luogo di pubblicazione solo nel 1551, con Della lingua che si parla e si scrive in
Firenze (Regole della lingua fiorentina) di Giambullari → si tratta della prima
grammatica stampata a Firenze.
- Dunque nella storia della grammatica nel ‘500 possiamo senz’altro notare un ritar-
do della città di Firenze nella pubblicazione delle grammatiche → come possiamo
spiegarci ciò? → questo è dovuto a un dibattito alla metà del ‘500 sulla possibilità o
meno di scrivere una grammatica → cioè a un certo punto alcuni letterati fiorentini si
chiedono “è possibile fermare e fissare la lingua, che una cosa naturale e che
cambia nel corso del tempo, in una grammatica?” → questo dibattito avviene
all’interno dell’Accademia fiorentina, che a un certo punto sotto Cosimo de’ Medici
diventa un vero e proprio organo di stato, perché Cosimo cerca di rafforzare la
politica fiorentina anche attr. la politica linguistica → allora Cosimo chiede
all’Accademia di scrivere una grammatica ufficiale del fiorentino, che però non verrà
mai pubblicata → dunque la grammatica più vicina a questo ambiente fiorentino è
proprio quella di Giambullari, uno dei principali esponenti del fiorentinismo, altro
filone importante all’interno della questione della lingua del ‘500.

- La grammatica di Giambullari ha un doppio titolo perché egli la dà in dono a


Francesco de’ Medici con il titolo Regole della lingua fiorentina → sappiamo però da
altre fonti e testimoni dell’opera che essa inizialmente doveva intitolarsi De la lingua
che si parla e scrive in Firenze:
● il primo titolo è molto in linea con tutto quello che abbiamo visto finora;
● perché invece il secondo titolo è differente e interessante nel ‘500? → perché
per la prima volta si fa emergere chiaramente in modo esplicito il ruolo della
lingua parlata*.

* Stretto rapporto che secondo i fiorentinisti (ma anche secondo tutti i grammatici)
c’è tra lingua scritta e lingua parlata → per l’appunto un filo comune nella storia della
grammatica del ‘500 è una sorta di continuità tra la lingua scritta del ‘300 e la lingua
parlata del ‘500 → anche alla fine del ‘500 con l’opera di Salviati (Avvertimenti della
lingua sopra il Decamerone) si tornerà sempre su quest’aspetto, cioè su una sorta di
continuità e stretto rapporto tra scritto trecentesco e lingua parlata nel ‘500.
> Dunque l’opera di Giambullari è interessante sia per questo esplicito rapporto tra
scritto e parlato sia perché è la prima grammatica stampata a Firenze → in generale,
dopo Giambullari, non ci saranno tante grammatiche pubblicate a Firenze → ci
saranno L’Ercolano di Varchi e gli Avvertimenti di Salviati, però poi la prima vera
grammatica pubblicata a Firenze arriverà solo nel 1643 con l’opera di Buonmattei
(Della lingua toscana) → però mentre le opere di Salviati e Varchi danno
informazioni di tipo grammaticale ma non nascono propriamente come delle
grammatiche, quella di Buonmattei sì.

** In storia della lingua si parla in questo caso di “teoria cortigiana” o “teoria italiana”
≠ invece in storia della grammatica per questo filone si parla di “linea classificatoria”,
perché non ci interessa il modello linguistico ma vedere come vengono strutturate le
grammatiche → appunto un aspetto importante di questi grammatici è un tipo di
impostazione classificatorio, cioè molto schematico → a differenza delle
grammatiche di impostazione fortunio-bembiana (in cui o c’è la forma dialogica o non
è sempre facile individuare la distinzione tra vocabolario e grammatica), la linea
classificatoria prevede invece una struttura molto schematica dell’opera, per cui
(come in una grammatica contemporanea) si riesce subito a individuare quali sono le
parti del discorso anche soltanto visivamente e la trattazione è abbastanza
schematica, per cui l’opera risulta anche breve.

- Siamo agli inizi del ‘500, tra gli anni ‘20 e i ‘30 (Dubbi linguistici, 1526 e
Grammatichetta, 1529) → questo coincide con la linea all’interno della storia della
lingua, perché la teoria cortigiana è la prima che cade e ad avere meno fortuna →
questo perché nel 1527 c’è il sacco di Roma, che era la città di riferimento della
teoria cortigiana (in quanto corte papale) → con il crollo della città e della teoria
linguistica, questo filone grammaticale di conseguenza si ferma più o meno nei soliti
anni.

- Nonostante tutto, anche se questa teoria è la prima a crollare, ci sono cmq degli
strascichi negli anni ‘50 → es. Le osservazioni grammaticali e poetiche della lingua
italiana di Matteo di San Martino (1555) è una grammatica che in qualche modo
risente delle posizioni di Trissino → nella prefazione dell’opera si fa riferimento alle
teorie di Trissino ma in realtà il contenuto dell’opera è molto vicino alla lingua delle
tre corone e quindi al modello bembiano.

> Un momento di svolta nella questione della lingua è senz’altro la pubblicazione de


L’Ercolano di Varchi o cmq la diffusione del pensiero di Varchi a Firenze → Varchi è
allievo di Bembo e fa conoscere le sue Prose a Firenze → ma Varchi è convinto
anche dell’importanza del parlato del ‘500, che deve ess. cmq un parlato colto, in
continuità con la lingua scritta del ‘300.
- Varchi dunque è una figura importante, senza la quale non comprenderemmo la
soluzione della questione della lingua → essa finisce agli inizi del secolo successivo
con il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) e con il pensiero di Salviati
→ la questione della lingua finisce con un allargamento del modello linguistico di
Bembo anche a tutti gli autori minori del ‘300.
- Varchi è senz’altro una figura fondamentale e di riferimento in questo → è allievo di
Bembo e maestro di Salviati → quindi questa sorta di continuità (che ritroviamo
anche in Salviati) tra il parlato del ‘500 e lo scritto del ‘300 si deve proprio a Varchi.

- L’Ercolano non è propriamente una grammatica → viene pubblicato postumo nel


1570 presso i Giunti a Firenze → nuovamente nel botta e risposta all’interno del
dialogo troviamo le regole grammaticali → Varchi si sofferma su questioni riguardanti
il verbo, la morfologia nominale ma non ci sono capitoli dedicati a questo.

> De’ commentarii della lingua italiana di Ruscelli (Venezia, 1581) → si tratta di una
grammatica che non si sofferma solo su questioni di tipo grammaticale e morfologico
ma anche su questioni di tipo retorico → l’impostazione è sempre un po’ quella tipica
della linea Fortunio-Bembo.

> In questi stessi anni di Ruscelli escono anche gli Avvertimenti della lingua sopra il
Decamerone di Salviati (1586) → il titolo completo è Del secondo volume degli
avvertimenti della lingua sopra il Decamerone → questo implica che ci sia anche un
primo volume, che viene pubblicato a Venezia nel 1584, e due anni dopo presso i
Giunti a Firenze viene stampato anche il secondo volume.

- La prof segnala nella lista solo il secondo volume perché esso contiene la parte più
strettamente grammaticale → Salviati nell’introduzione dice di non voler scrivere una
grammatica ma di voler soltanto fornire alcuni avvertimenti (appunto), cioè alcune
indicazioni sulla lingua ma in particolare sulla lingua del Decameron.

- Quest’opera fa riferimento a un’operazione che Salviati aveva fatto nel 1582 di


rassettatura del Decameron → il Decameron nel ‘500 per le tematiche affrontate, per
le critiche nei confronti della Chiesa, per i riferimenti alla sessualità ecc., viene
messo all’indice dei libri proibiti e quindi non può circolare → però è cmq il modello di
riferimento proposto da Bembo per quanto riguarda la prosa → dunque si propone
un modello linguistico che però non può circolare → allora qual è la soluzione? →
quella di rassettare (cioè di riscrivere) il Decameron tagliandone le parti che non
potevano circolare → per fare questo però sono necessarie delle competenze di tipo
filologico, perché Salviati prende le varie copie del testo a disposizione e le
confronta, facendo le sue scelte linguistiche come in un’edizione critica moderna → il
commento alle sue scelte linguistiche nell’opera di rassettatura del Decameron è
contenuto appunto negli Avvertimenti:
● il primo volume è un commento alle scelte filologiche e linguistiche del suo
Decameron dal punto di vista ortografico e fonetico;
● il secondo volume, invece, è sempre una riflessione che parte dalle sue scelte
linguistiche ma sono riflessioni di tipo grammaticale, perché Salviati prende in
esame soltanto alcune parti del discorso (lo dice lui stesso) → queste parti del
discorso sono il nome, la preposizione e l’articolo*

* Quest’ultimo sarà un tema importante nelle grammatiche di tutto il ‘500 perché sarà
la parte del discorso nuova, introdotta nel volgare, e quindi, essendo una parte del
discorso nuova, c’è anche una parte della grammatica nuova da costruire, perché
nelle grammatiche latine non esiste un capitolo sull’articolo → i grammatici del ‘500
si muoveranno in direzioni diverse:
➔ alcuni grammatici, per avvicinarsi alla tradizione latina, non considereranno
l’articolo tra le parti del discorso;
➔ altri grammatici lo prenderanno in esame in quanto elemento nuovo ma, per
non allontanarsi troppo dalla tradizione, non lo metteranno come capitolo a
parte della grammatica ma per es. sotto il capitolo del pronome;
➔ altri ancora considereranno l’articolo in un capitolo a sé stante → Salviati è
uno di questi.

> Tutto quello che troviamo nelle grammatiche del ‘500 (da Fortunio fino a Salviati)
sono soprattutto indicazioni di tipo grafico, ortografico e soprattutto morfologico →
cioè l’attenzione è soprattutto sulle parti del discorso, mentre una parte che rimane
non trattata è la quella della sintassi → i grammatici del ‘500 non si interessano di
questioni sintattiche ma soprattutto di questioni morfologiche.
- L’unica grammatica del ‘500 che si sofferma su questioni di tipo sintattico è quella
di Giambullari → bisognerà aspettare il ‘700 per avere una trattazione esaustiva
della sintassi con la grammatica di Soave, uno dei più importanti grammatici della
fine del ‘700.

➢ Salviati chiude la questione della lingua del ‘500 e ispira con la sua teoria il Voca-
bolario degli Accademici della Crusca → quindi il ‘600 si apre con la pubblicazione
della prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612), che diffonde per la prima
volta un modello di lingua scritta di tipo nazionale.

> Oltre a questa pubblicazione però ci sono altri eventi importanti nel ‘600 → dal
punto di vista della storia della grammatica un momento fondamentale è rappresen-
tato dalla pubblicazione nel 1643 a Firenze della grammatica di Benedetto Buonmat-
tei, Della lingua toscana → dopo tanto tempo (dalla grammatica di Giambullari) si
torna a pubblicare a Firenze un’opera che nasce come vera e propria grammatica.
- Quella di Buonmattei è una grammatica di riferimento per vari motivi:
● innanzitutto perché presenta una trattazione delle parti del discorso molto
estesa → B. è il grammatico che considera il maggior numero di parti del di-
scorso (ben dodici);
● l’aspetto più importante però è il metodo usato da B. in questa grammatica →
già dall’introduzione esplicita come il suo modello linguistico di riferimento sia
il fiorentino del ‘300, con ovviamente un’apertura alla lingua contemporanea
→ però le grammatiche a cui fa riferimento sono quelle di Salviati e di Bembo
→ ma l’operazione attuata da B. non è semplicemente prendere la trattazione
di Bembo o di Salviati e di copiarla o farla simile, ma trae le regole seguendo
le indicazioni di questi grammatici in maniera ragionevole → cioè B. riflette su
quali sono gli aspetti importanti da considerare, dà una motivazione per
questo e a questo punto si rifa a Bembo o a Salviati, non limitandosi però a
copiare passivamente le regole ma motivando le sue scelte → per questo
motivo Patota, nei suoi Percorsi grammaticali, parla di una “grammatica
ragionevole”, proprio per il metodo usato da B., basato sulla riflessione.

> Ci sono altre grammatiche, oltre a quella di Buonmattei, che presentano un’impo-
stazione tradizionale e che si rifanno al modello di Bembo → es. le grammatiche
pubblicate all’inizio del secolo:
- Trattato della lingua di Pergamini (Venezia, 1613);
- Compendio d’avvertimenti di ben parlar volgare di Ceci (Venezia, 1618).

> La storia della grammatica riflette un po’ quello che accade a livello storico-lingui-
stico → quando esce il Vocabolario della Crusca, vengono scritte anche delle opere
di critica nei suoi confronti, alcune anche in polemica → questo accade anche dal
punto di vista grammaticale → cioè il Vocabolario della Crusca ha un’importanza tale
che, pur essendo un vocabolario, le critiche nei suoi confronti si risentono anche dal
punto di vista grammaticale → infatti vengono pubblicate alcune grammatiche che
sono considerate in polemica proprio con il modello linguistico della Crusca → es.
Del torto e ‘l diritto del non si può di Bartoli (1655) → questa è la grammatica che
critica l’impostazione linguistica della Crusca.

- Qual è la critica portata da Bartoli? → la critica fatta al Vocabolario della Crusca è


quella di presentare un modello linguistico arcaico rispetto ai tempi contemporanei e
Bartoli lo fa anche da un punto di vista grammaticale → cioè la critica portata da
Bartoli è che la Crusca sceglie cosa è giusto e cosa è sbagliato soltanto a partire
dall’uso fiorentino trecentesco → la critica non è soltanto al Vocabolario ma anche
per es. a Salviati, la cui opera (gli Avvertimenti) sono la base teorica del Vocabolario.
> Poi però il secolo scorre con grammatiche di impostazione piuttosto tradizionale →
a esclusione delle grammatiche di Bartoli e Buonmattei, il resto delle grammatiche è
di tipo tradizionale e si rifa alla linea Fortunio-Bembo.

➢ Con il ‘700 invece cambia qualcosa → con il ‘700 infatti comincia un nuovo filone
della storia della grammatica, chiamato “grammatica didattica” → vengono scritte per
la prima volta in modo sistematico grammatiche a uso didattico.

- È più corretto parlare di “grammatiche didattiche” più che di “grammatiche scolasti-


che” perché queste grammatiche settecentesche sono sì destinate all’insegnamento
ma i destinatari sono persone che hanno già un certo grado di istruzione (sanno leg-
gere e scrivere) → invece le grammatiche propriamente scolastiche (diciamo “ele-
mentari”) ci saranno soprattutto nell’‘800 e in particolare dopo l’Unità d’Italia, quando
la questione della lingua e la riflessione su di essa non interessano più soltanto gli
scrittori e i letterati ma tutta la popolazione → la questione della lingua diventa così
una questione sociale e allora cominciano a ess. pubblicate grammatiche propria-
mente scolastiche.

- Chi sono i destinatari di queste grammatiche settecentesche?


● es. i destinatari di Gigli (che scrive Regole per la toscana favella e Lezioni di
lingua toscana - anni ‘20) sono gli studenti, soprattutto stranieri, della cattedra
di Toscana favella (= di italiano) dell’università di Siena;
- queste due opere (in particolare le Lezioni) sono interessanti perché l’approc-
cio didattico viene fuori bene, perché Gigli inserisce per la prima volta nella
grammatica gli esercizi → l’approccio didattico dunque consiste in una prima
parte con le regole grammaticali e poi un’ultima parte con gli esercizi → oltre
agli esercizi, ci sono anche degli specchietti riassuntivi, dove vengono
riportate le forme corrette e quelle sbagliate e anche alcuni contesti d’uso
della parola (es. uso poetico, uso in prosa, lingua parlata) → c’è dunque una
particolare attenzione anche per i vari tipi di lingua e soprattutto per i registri;
- l’impostazione della grammatica è cmq di tipo tradizionale, con una
terminologia grammaticale molto vicina alla tradizione latina (come anche
tutte le grammatiche dell’‘800);

● Regole ed osservazioni della lingua toscana di Corticelli (Bologna, 1745) →


grammatica didattica dedicata agli studenti del seminario di Bologna;
- nell’introduzione Corticelli spiega il titolo → infatti secondo lui c’è una prima
parte della grammatica che deve ess. dedicata alla “regola” e poi una
seconda parte dedicata alle “osservazioni”, cioè riflessioni che spieghino
meglio la regola;
- un aspetto che Corticelli tiene di conto, seppur in maniera abbastanza rudi-
mentale, è quello sintattico (non quanto successivamente farà Soave);
- Corticelli si sofferma molto anche sulle eccezioni della lingua → tutti i
grammatici considerano le eccezioni un problema della grammatica → nel
‘500 spesso i grammatici aggirano la questione delle eccezioni → Corticelli
invece ne tiene di conto, a conferma di una progressiva importanza che viene
data (a partire dal ‘600 ma soprattutto dal ‘700) all’aspetto della variabilità
linguistica, cioè al fatto di poter avere più modi di dire la stessa cosa.

> L’altro grande approccio che si diffonde a partire dalla seconda parte del ‘700 e
che poi continuerà nell’‘800 è il filone delle “grammatiche ragionate”, il cui massimo
esponente è Soave, che a Parma nel 1771 pubblica la Grammatica ragionata della
lingua italiana.

- Questo filone deriva da una riflessione linguistico-filosofica che nasce alla metà del
‘600 in Francia a partire dalla riflessione del centro di Port-Royal → la riflessione di
questi grammatici porta alla pubblicazione nel 1660 di una grammatica generale e
ragionata (in Italia questa impostazione arriva quasi un secolo dopo) → cosa
vogliono dire questi due aggettivi?
❖ “generale” perché, secondo questi studiosi, la grammatica deve descrivere le
proprietà comuni a tutte le lingue (proprietà comuni che poi ciasuna lingua
declinerà in modo diverso a seconda delle proprie strutture linguistiche);
❖ “ragionata” perché si cercano e si individuano i modi in cui la ragione si riflette
nella lingua → la lingua infatti è l’espressione della ragione e del pensiero → il
modello filosofico-culturale di riferimento è l’Illuminismo.

- Questa impostazione grammaticale arriva verso la fine del ‘700 e la sua opera più
importante è sicuramente quella di Soave, che nel titolo fa proprio riferimento alla
ragione e al fatto che la grammatica è ragionata perché la lingua è l’espressione
della ragione.

> Soave però è anche autore di una grammatica didattica → già nell’introduzione
alla Grammatica ragionata Soave parlava dell’importanza dell’aspetto didattico →
infatti nel 1788 a Milano pubblica proprio una grammatica didattica, intitolata
Elementi della lingua italiana ad uso delle scuole.
- Il tipo di lingua descritto da Soave è molto tradizionale ma l’impostazione da lui
usata è completamente nuova e teorica, differente rispetto alle grammatiche
precedenti → per questo motivo viene generalmente considerata dagli studiosi la
prima grammatica moderna dell’italiano.
- Non sempre è però stata compresa nel corso del tempo → per es. delle critiche
feroci a questa grammatica furono fatte proprio da Trabalza nella sua Storia della
grammatica, non comprendendo forse ancora l’importanza di questa grammatica a
livello teorico e sottovalutandola un po’ → però poi nel corso del ‘900, anche grazie
ai nuovi studi dal punto di vista storico-linguistico, si è fatto ben emergere il ruolo
fondamentale che dal ‘700 in poi la grammatica di Soave ha avuto.
> Con Soave si chiude la storia della grammatica del ‘700 e si apre poi invece quella
dell’‘800.

22 APR. 2022

➢ Passando all’‘800, le grammatiche che vengono scritte nella prima metà del
secolo sono non solo grammatiche che risentono ancora dell’influenza
dell’Illuminismo e anche del filone della grammatica ragionata ma soprattutto il filone
più importante di grammatiche in questo periodo è quello delle “grammatiche
puristiche” → avevamo visto che nel ‘500 le grammatiche riflettevano in qualche
modo il dibattito linguistico che interessava i letterati → lo stesso accade nell’‘800 →
non è un caso che un filone importante di grammatiche agli inizi del secolo sia
appunto quello del purismo, perché anche nel dibattito linguistico degli inizi dell’‘800
un filone di pensiero è proprio quello del purismo.

> Come sono fatte le grammatiche puristiche? → sono delle grammatiche impostate
in maniera tradizionale, in forma anche molto schematica, perché si dà importanza
soprattutto all’aspetto didattico (per cui queste grammatiche vengono usate anche
nelle scuole) → però presentano un modello linguistico e grammaticale arcaico,
perché (proprio come in letteratura) anche la grammatica descrive il fiorentino
trecentesco secondo il modello di Salviati (ossia non limitato alle tre corone ma
ampliato a tutti gli autori minori).

> La grammatica più importante del filone del purismo è quella di Puoti (Regole
elementari della lingua italiana - 1847) → egli è il capofila del purismo per quanto
riguarda la grammatica.
- Già dal titolo dell’opera si capisce chi siano i destinatari → Puoti è un maestro,
perciò la sua grammatica è destinata alla didattica.

> È proprio già agli inizi dell’‘800 che l’aspetto didattico comincia a diventare sempre
più importante → veniamo dal ‘700, in cui un importante filone di grammatiche è
proprio quello delle grammatiche didattiche, che però sono destinate a persone che
hanno già un certo grado di istruzione → agli inizi dell’‘800 questo aspetto si rafforza
sempre di più e si va verso una didattica per la scuola, per cui le grammatiche
diventano piano piano grammatiche scolastiche elementari → ovviamente il trionfo di
questa grammatica elementare ci sarà nella seconda parte dell’‘800 dopo l’Unità
d’Italia → non a caso gli studiosi (in particolare Carlo Marazzini) parlano, per questa
prima parte del secolo, di “trionfo della funzione didattica” → più o meno quasi tutte
queste grammatiche (eccetto quelle ragionate ovviamente) hanno un’impostazione
scolastica.
> Quali sono altre grammatiche importanti dell’‘800?
❖ Introduzione alla grammatica italiana di Gherardini (1825);
❖ Grammatica della lingua italiana di Ambrosoli (Milano, 1829)
❖ Principi di grammatica di Lambruschini (1861).

- Queste tre sono grammatiche che stanno un po’ a metà tra la norma (descrizione
normativa) e la ragione → dunque si dà molta importanza alla norma (in linea con le
grammatiche scolastiche) ma ancora si risente dell’impostazione ragionata.

> Altra grammatica importante è Grammatica della lingua italiana di Moise (1° ed.
1877 - 2° ed. ampliata 1878) → siamo pochi anni dopo l’Unità d’Italia, che si rivela
ess. un evento importante anche per le grammatiche, perché ne cambia un po’
l’impostazione → infatti Moise già nell’introduzione dedica quest’opera agli “studiosi
giovinetti” → dunque l’aspetto didattico diventa sempre più importante, soprattutto
dopo l’Unità.

- Anche se la seconda edizione è ampliata, in realtà è semplificata → proprio perché


l’aspetto didattico è rilevante, è necessaria una sempre maggiore chiarezza e
(dunque) semplificazione → in generale queste grammatiche hanno lo scopo di
facilitare l’apprendimento della lingua, per cui l’impostazione deve ess. chiara,
schematica e di facile comprensione.

- Oltre che sull’aspetto didattico, Moise si sofferma anche sulla riflessione teorica →
infatti Moise intende fare una grammatica sia didattica sia con un’impostazione di
tipo filosofico, perché vuole dimostrare che oltre le regole c’è una teoria → si torna
nuovamente a quel filone di grammatiche che si pongono tra norma e ragione.

> Grammatica italiana dell’uso moderno di Fornaciari (1879 - 1882) → grammatica


interessante perché Fornaciari presenta un modello di lingua in cui c’è un certo
bilanciamento tra uso antico (per cui viene descritta la lingua antica) e uso vivo della
lingua (ovviamente del fiorentino).

- Un aspetto interessante di questa grammatica è che nella prima parte Fornaciari si


sofferma su una riflessione di tipo storico → cioè fa un po’ il punto della situazione ri-
guardo a come sono cambiate le grammatiche fino a quel momento → ripercorrendo
la storia delle grammatiche, Fornaciari individua tre filoni di grammatiche:

● un primo filone e quindi un primo periodo → le origini → da Fortunio (1516)


fino a Buonmattei (metà ‘600);
- queste grammatiche sono caratterizzate (secondo Fornaciari) da un forte
rapporto con la tradizione latina → i grammatici del ‘500 e del ‘600 adottano
sia la terminologia sia le categorie descritte dai grammatici latini;
● secondo filone → da Buonmattei fino a Corticelli (metà ‘700) → questi cento
anni sono caratterizzati (secondo Fornaciari) da una messa a punto di un
metodo più sistematico e che sta diventando piano piano più scientifico;

➢ il modello linguistico descritto in questi primi due filoni però è sempre il


fiorentino trecentesco;

● terzo filone → da Corticelli fino a Moise → Fornaciari nota un allargamento


del modello → infatti si descrive non solo la lingua del ‘300 ma anche la lingua
più contemporanea.

- Perché Fornaciari fa questa rassegna? → per dimostrare la continuità che l’italiano


(e quindi anche la sua grammatica) ha avuto nel corso del tempo → cioè, nonostan-
te l’evoluzione c’è sempre una sorta di filo rosso che non si interrompe mai → que-
sta continuità è portata nell’italiano dal ruolo svolto dalla letteratura come modello
normativo → cioè a partire dal ‘500 si descrive un modello linguistico trecentesco e
nel ‘600 e ‘700 si continua a descriverlo, creando così questa continuità.

> Altre due grammatiche di fine ‘800:


- Grammatica della lingua italiana di Petrocchi (1887);
- Grammatica italiana di Morandi e Cappuccini (1894).

> Un momento importante anche nella storia della grammatica dell’‘800 è senz’altro
la pubblicazione dei Promessi sposi e quindi la riflessione linguistica manzoniana →
infatti un filone della questione della lingua dell’‘800 è proprio rappresentato dalla
riflessione linguistica manzoniana e dall’idea manzoniana di lingua.

- Manzoni nella seconda edizione dei Promessi sposi propone come modello lingui-
stico il fiorentino parlato a Firenze dalla borghesia ottocentesca → questo modello
ha un impatto talmente importante che si risente anche nella grammatica → infatti
molte grammatiche presenteranno proprio questa impostazione manzoniana:

● es. Grammatica della lingua italiana di Petrocchi → al suo interno non ci sono
esempi letterari antichi → il modello è il fiorentino dell’uso contemporaneo e i
pochi esempi letterari sono tratti dai Promessi sposi;

● anche Grammatica italiana di Morandi-Cappuccini è una grammatica di stam-


po manzoniano → si descrive la lingua dell’uso contemporanea ma in modo
molto moderato.

- L’‘800 dunque si chiude con il filone delle grammatiche sincroniche.


➢ Cosa succede agli inizi del ‘900? → si nota una scarsa produzione di grammati-
che, perché il pensiero di riferimento è quello di Croce, che considera la grammatica
come qualcosa di meno rilevante rispetto ad altri aspetti come la letteratura → la di-
sciplina della grammatica e della grammaticografia viene tenuta in secondo piano.

> Grammatica italiana ad uso delle scuole di Goidanich (1918) → già dal titolo ca-
piamo che si tratta di una grammatica didattica, però caratterizzata da un atteggia-
mento scientifico → infatti secondo Goidanich è necessario non solo fornire le regole
della lingua ma anche soffermarsi su alcuni casi più problematici (che creano dubbi
linguistici) per capire quali sono i problemi che stanno dietro a questi dubbi → non
solo fornire al lettore la regola ma far capire perché quel dato caso crea dei dubbi,
perché molto spesso il dubbio linguistico è portato dalla storia particolare che quel
caso ha avuto nella storia dell’italiano → aspetto didattico + riflessione su certi
aspetti grammaticali.

> Guida alla grammatica italiana di Panzini (1932).

> La lingua nazionale. Avviamento allo studio della grammatica e del lessico italiano
per la scuola media di Migliorini (1941) → egli sostiene che senz’altro bisogna stu-
diare la grammatica, nel senso di studiare le nozioni e le regole → ma, oltre allo stu-
dio della grammatica, deve esserci anche lo studio della lingua → bisogna dunque
dedicare molta attenzione e tempo non solo alla regola ma anche all’aspetto pratico
e all’esercitazione.
- Non a caso l’impostazione di questa grammatica è abbastanza singolare → infatti
non si apre con le regole ma con gli esercizi, proprio perché si vuol far capire che lo
studio della grammatica e lo studio della lingua nel senso di pratica della lingua
devono andare di pari passo.

> Grammatica italiana di Devoto (1962) → probabilmente questa grammatica è più


difficile rispetto alle altre perché ha un’impostazione più scientifica e perché descrive
lo stretto rapporto tra latino e italiano.
- Una sorta di continuità con la grammatica di Migliorini è di nuovo la presenza degli
esercizi → questi grammatici vogliono dimostrare l’importanza della pratica linguisti-
ca → non è necessario solo imparare una regola ma anche saperla applicare, cosa
che si può raggiungere attr. la pratica.

> In generali gli anni ‘40 del ‘900 sono anni in cui si rivede la grammatica proprio
nella direzione dello studio linguistico che va di pari passo con lo studio della gram-
matica → poi la vera revisione della grammatica si avrà soprattutto negli anni ‘70 con
le riflessioni di Tullio De Mauro.
> La prof cita solo poche grammatiche per far capire come la prima parte del ‘900 sia
un momento in cui si pubblicano poche grammatiche proprio per questa impostazio-
ne portata dal pensiero filosofico di Croce.

- Non vengono pubblicate molte grammatiche ma nel 1908 viene pubblicata la prima
storia della grammatica italiana da parte di Trabalza → ovviamente egli risente un
po’ del diffuso spirito crociano però la sua storia della grammatica è considerata an-
cora oggi dagli studiosi come un punto di partenza.

——————————————————————————————————

LA STORIA DELLE CATEGORIE GRAMMATICALI


dal Cinquecento al Novecento

> Cosa sono le categorie grammaticali? → sono quelle che tradizionalmente si chia-
mano “parti del discorso” (es. nome, verbo, aggettivo ecc.).

> Il punto di partenza per fare una storia delle categorie dalle origini (metà ‘400 /
‘500) fino a oggi è ovviamente il rapporto con la tradizione grammaticale latina → i
grammatici volgari del ‘500 riprendono la classificazione delle parti del discorso che
si trova già nelle grammatiche del latino.

La tradizione grammaticale latina

> Alcuni grammatici come modello → Donato, Carisio, Diomede, Probo → que-
sti sono alcuni grammatici latini che i grammatici del ‘500 (ma anche dei secoli
successivi) tengono ben presente e conoscono.

> La tradizione grammaticale latina prevede otto parti del discorso:


1. nome; 5. preposizione;
2. verbo; 6. avverbio;
3. participio; 7. congiunzione;
4. pronome; 8. interiezione.

- Cosa c’è di particolare in questo elenco?


● innanzitutto il participio che viene staccato dal verbo;
● poi ovviamente manca l’articolo*.

* L’assenza dell’articolo è un aspetto davvero importante, in particolare in quelle


del ‘500, tant’è che Trabalza parla della categoria articolo come del cavallo di
battaglia delle grammatiche del ‘500, perché proprio la presenza o assenza
dell’articolo come categoria nelle grammatiche del ‘500 permette di evidenziare
il rapporto di continuità o discontinuità che questi grammatici instaurano con la
tradizione latina.
Le grammatiche del Cinquecento

> Alberti dichiara sette parti del discorso → nome, pronome, verbo, preposizio-
ne, avverbio, interiezione e congiunzione → dunque non pone l’articolo come
parte del discorso a sé ma sappiamo bene che in realtà nella sua grammatica
egli si occupa dell’articolo (la forma el del fiorentino quattrocentesco).

> Dunque qual è un primo atteggiamento che possiamo riscontrare in questi


grammatici? → è quello di non concedere autonomia come parte del discorso
all’articolo ma cmq di descriverlo.
- Perché non viene data autonomia all’articolo? → perché così non ci si
distacca troppo dalla tradizione latina ma si sente come sbagliato il non
descrivere l’articolo, perché è una parte importante e strutturale della lingua
volgare.

> Fortunio addirittura pone solo quattro parti del discorso → nome, pronome,
verbo e avverbio → questo sia perché ci sono solo due libri (il primo dedicato
all’ortografia e il secondo alla morfologia) sia soprattutto perché si ha una
notevole ricchezza di esempi → maggiore attenzione per l’aspetto descrittivo
piuttosto che per l’elenco delle parti del discorso.

> Trissino e Corso → hanno impostazioni differenti (Trissino appartiene alla


cosiddetta “linea classificatoria” vs Corso è più vicino all’impostazione di
Bembo) ma entrambi pongono tra le parti del discorso anche l’articolo → si
arriva così alle otto parti del discorso.

> Questo sarà poi l’atteggiamento predominante nel corso del secolo → ci
saranno quasi sempre otto parti del discorso e l’articolo (soprattutto dalla
seconda metà del ‘500) sarà inserito come parte a sé → e anche se non si
trova descritto in un capitolo a parte (come succede nelle grammatiche di Dolce
e di Ruscelli - seconda metà del ‘500), senz’altro sotto il capitolo del pronome
sarà rintracciabile la descrizione dell’articolo.

> Con Giambullari si arriva a nove parti del discorso e con Salviati addirittura a
dieci (nella grammatica didattica Regole della toscana favella).

> In questo elenco però manca sempre una parte del discorso, ossia
l’aggettivo → questo accade perché esso era assente già nella tradizione
latina → secondo la grammatica latina (concetto ripreso anche dai grammatici
del ‘500) esiste una macrocategoria (quella del “nome”), la quale si suddivide
poi nelle due sottocategorie di “sostantivo” e “aggettivo”.
- Nel ‘500 dunque si sottolinea il fatto che l’aggettivo non ha una forte
autonomia sintattica ma dipende sempre dal nome → a causa di questa
influenza fino per lo meno alla metà dell’‘800 l’aggettivo non sarà considerato
una parte del discorso a sé (comincia a vedersi con Fornaciari).

➢ La riflessione sul mettere l’articolo come parte del discorso a sé ovviamente inte-
ressa le grammatiche → allora ci sono dei grammatici (come Salviati) che non solo
si limitano a descrivere l’articolo, ma si soffermano anche su quale posizione all’in-
terno della grammatica deve avere il capitolo sull’articolo.

> Salviati negli Avvertimenti dice:


«Noi, [...] poiché l’articolo senza ‘l nome non si può reggere, [...] ed il nome per
lo contrario senza l’articolo può sostenersi, [...] appresso a quel del nome,
soggiugneremo il trattato. Ma avrebbe voluto l’Autor* della Giunta che prima che
dell’articolo avesse il Bembo nelle sue Prose ragionato del vicenome, posciaché ‘l
nostro toscano articolo del latino pronome, secondoché pare a lui, è formato [...]».

* Si tratta del grammatico Castelvetro, che scrive un commento alle Prose di Bembo,
intitolato Giunta alle Prose di Monsignor Pietro Bembo.

- Salviati in sostanza dice che siccome l’articolo non può stare senza il nome, mentre
il nome può stare senza l’articolo (ha una maggiore autonomia sintattica), allora trat-
terà dell’articolo dopo il nome → lo mette dopo perché l’articolo dipende sintattica-
mente dal nome.

- Poi Salviati fa riferimento a una polemica (è tipico dei grammatici del ‘500 citarsi a
vicenda o citare altri autori) → Castelvetro critica Bembo per il fatto di non essersi
soffermato abbastanza sul rapporto tra articolo e “vicenome”, ossia il pronome →
l’errore di Bembo è stato di aver parlato prima dell’articolo e dopo del pronome.

> Si comincia a vedere anche la terminologia usata dai grammatici → questa


terminologia di Salviati è molto vicina a quella latina → perché egli parla di vicenome
e non di pronome? → perché riprende la terminologia usata da Bembo nelle Prose,
la cui particolarità sta nel fatto di distaccarsi dalla terminologia tradizionale latina e di
formare una propria terminologia volgare:
- es. al posto di “singolare” e “plurale”, Bembo e molti altri grammatici (tra cui
Salviati) parlano di “numero del meno” e “numero del più”, proprio per
distaccarsi dalla tradizione grammaticale latina.
Le grammatiche tra Seicento e Settecento

> Buonmattei è il grammatico che pone il maggior numero di parti del discorso
→ sono addirittura dodici → questo perché considera come parte del discorso a
sé il “segnacaso”*, l’articolo, il participio, il gerundio e il ripieno (ossia particelle
riempitive).

* Categoria corrispondente sostanzialmente alla preposizione → ma i grammati-


ci del ‘500 distinguono a volte la preposizione dal “segno di caso”, perché se-
condo essi le tre preposizioni di, a, da ancora nel volgare sono non soltanto
delle preposizioni ma sono il residuo dei casi latini → dunque in certi particolari
contesti prendono il nome di “segnacaso”.

> Grammatici del ‘600/‘700 come Pergamini e Gigli pongono l’articolo come
parte del discorso a sé.

> Corticelli → pur dando una certa importanza all’aspetto sintattico, nella sua
grammatica non elenca esplicitamente l’articolo tra le parti del discorso.

Le grammatiche dell’Ottocento

> Ambrosoli non pone l’articolo tra le parti del discorso ≠ invece Gherardini,
Morandi-Cappuccini e Fornaciari sì, arrivando così a nove parti del discorso →
infatti la grammatica tradizionale di oggi presenta appunto nove parti del
discorso → dunque è soprattutto grazie alle grammatiche di fine ‘800 che si
arriva alla classificazione tradizionale contemporanea.

> Caleffi (grammatico del primo ‘800), Grammatica della lingua italiana →
citazione importante perché è lo spunto per una riflessione:
«Alcuni moderni grammatici sònosi avvisati [hanno deciso] di porre l’articolo
nel novero delle parti del discorso, il che è tanto assurdo quanto se tra le stesse
parti si volesse dar posto alle vocali [...]. L’articolo nulla da sé significa, egli è
un mero segno [...]».

- Qual è dunque l’atteggiamento di quei grammatici dell’‘800 (come Caleffi e


Ambrosoli) che non pongono l’articolo tra le parti del discorso? → questo fatto
non è più (come nel ‘500) considerabile come volontà di stare il più possibile
aderente alla grammatica latina, ma la motivazione che muove questi gram-
matici ottocenteschi è una motivazione di tipo sintattico e anche di tipo semanti-
co.
> Dunque vediamo due atteggiamenti differenti:
● nell’‘800 l’assenza dell’articolo tra le parti del discorso è attribuibile a questo
fatto (ossia a motivazioni sintattiche e semantiche);
● nel ‘500 invece la questione non è così scientifica ma riguarda soprattutto
l’avvicinamento o l’allontanamento dalla tradizione grammaticale latina.

La definizione di “articolo”

> Un aspetto che fin dal ‘500 viene molto messo in evidenza dalle grammatiche
è la definizione di articolo → cioè non ci si limita solamente a elencare l’articolo,
a porlo tra le parti del discorso o a dire quali sono le forme di articolo e la
distribuzione che hanno all’interno del contesto linguistico, ma ci si sofferma
anche sulla definizione, proprio perché è una parte del discorso nuova
dell’italiano rispetto al latino.

> Partiamo dalla definizione di articolo data da Salviati negli Avvertimenti:


«L’articolo è parola, la quale non aggiunta a voce di nome sustantivo o a voce che
stia come nome sustantivo, niente non significa e non ha luogo nel favellare, ma a
cotal nome o a cotal voce è atta nata ad aggiugnersi e a significare insieme con
esso loro e la sua natural sedia è davanti al predetto nome o alla predetta voce
senza tramezzo niuno».

“L’articolo è una parola che se non viene aggiunta a un sostantivo o a una voce che ha
funzione di sostantivo non vuol dire nulla, non ha un significato proprio e non può stare
nel discorso, ma l’articolo è nato per aggiungersi al nome o a quella voce e il suo
significato è dato dalla sua unione con il nome o con quella voce e la sua posizione è
prima del nome o di quella voce senza niente in mezzo”.

- Dunque, anche se in maniera molto rudimentale, si comincia a dare una


definizione anche sintattica dell’articolo.

> Ceci, Compendio d’avvertimenti (‘600):


«Articolo dunque (secondo la difinitione d’alcuni), è parola che niente non
significa e non ha luogo nel favellare; se non è aggiunta a voce di nome
sostantivo, o voce che si stia come nome sostantivo: ma è nata ad eggiugnersi con
esso, et aggiunta è atta a significare insieme con esso lui. La sua natural sedia è di
stare davanti alla voce del predetto nome sostentativo senza tramezzo niuno».

- Qui si vede bene l’atteggiamento dei grammatici → non vengono dichiarati i


riferimenti in maniera esplicita, però Ceci riprende chiaramente la definizione di
Salviati.
L’articolo indeterminativo

> Finora abbiamo sempre parlato di articolo riferendoci sempre a il, ma non ci
siamo mai soffermati sulla distinzione tra determinativo e indeterminativo →
abbiamo sempre parlato di questo argomento come “articolo” in generale →
questo perché fino alla fine del ‘500 quando si parla di articolo si sottintende
che si tratti dell’articolo determinativo, l’unica forma di articolo esistente
secondo i grammatici.

> L’articolo indeterminativo non viene considerato nelle grammatiche del ‘500 e
anche del ‘600 → soltanto alla fine del ‘500 Salviati descrive la forma uno, una
non definendola come articolo indeterminativo ma come una forma che si
accompagna al nome ma che è anche molto simile, dal punto di vista della
funzione, all’articolo.

- Perché non chiama uno, una “articolo”? → probabilmente per non allontanarsi
troppo dalla tradizione grammaticale del ‘500 → nelle grammatiche del ‘500 e
‘600 le forme uno e una vengono descritte solo come numerali, mentre nel
capitolo sugli articoli si trovano solo il, lo, la.

- Salviati negli Avvertimenti (1586) è il primo grammatico a distinguere una for-


ma uno, una che non è numerale ma che si avvicina all’articolo dal punto di vi-
sta funzionale:
«Dal nome, nell’opera del sentimento, tuttoché nome sia anch’ella1, è forse da
distinguere una certa parte del favellare, che accompagnanome in questi libri ci
piace di nominarla: posciaché proprio titolo non l’è ancora, che noi sappiamo,
stato dato nel volgar nostro2 [...]. Ed è questa, che noi diciamo, la voce uno o una,
quando non come numerale, ma per una cotale accompagnatura si mette davanti a
nome [...]. [...] l’esser posto il Nome con quella aggiunta, eziandio alcuna forza
porta nel sentimento, a quella dell’articolo non intutto dissomigliante [...]».
1
Salviati parla di questa forma nel capitolo sul nome e dice che dal punto di vista del
sentimento (cioè del significato) vuol dire qualcos’altro ma forse è un nome.

2
“Si potrebbe distinguere una parte del discorso che a me piace chiamare in questi libri
accompagnanome: perché una propria definizione non è stata ancora data, che io
sappia, nella lingua volgare”.

- Che cos’è dunque l’accompagnanome? → sono “le forme uno e una quando
non sono dei numerali ma stanno davanti a un nome con un valore non molto
diverso da quello dell’articolo”.

- Salviati riporta poi degli esempi → gli Avvertimenti sono un commento


all’edizione rassettata del Decameron e il commento linguistico viene fatto
anche commentando le diverse varianti presenti nelle diverse copie del
Decameron che sono state analizzate e confrontate → Salviati riporta alllra due
esempi:
● «Dimorò nell’oste per buono spazio a guisa del ragazzo: se [...] avesse detto il
Boccaccio, n’avrebbe disegnato uno, non solamente da chi lo nomina, ma
conosciuto ancora spezialmente da chi sente nomarlo» → cioè se Boccaccio
avesse scritto a guisa del ragazzo il messaggio sarebbe stato che
questo ragazzo è conosciuto sia da chi parla sia da chi ascolta →
questo è proprio il valore di elemento noto portato dall’articolo
determinativo;

● «Dimorò nell’oste per buono spazio a guisa d’un ragazzo: mostra che chi lo
nomina abbia nell’animo sembianza d’un particolar ragazzo, tuttavia che
l’uditore non sappia egli già quale» → in questo caso a guisa d’un ragazzo
non è un elemento noto e condiviso ma è un elemento nuovo → questo
è appunto il valore portato dall’articolo indeterminativo.

- Quindi sia nella definizione ma soprattutto nel confronto tra gli esempi, Salviati
fa vedere le due diverse funzioni svolte dall’articolo determinativo e
indeterminativo.

> Questa definizione, per quanto sia moderna, non viene però considerata nelle
grammatiche successive e l’articolo indeterminativo non verrà nemmeno preso
in considerazione da Buonmattei (autore della più importante grammatica del
‘600) → anzi egli parlerà male dell’accompagnanome e dirà che Salviati ha
sbagliato a descrivere questo elemento, perché secondo lui non ha nessun
significato o valore.

> Si dovrà aspettare la grammatica di Soave (fine ‘700) per avere la prima
descrizione di articolo indeterminativo (dal ‘500) → l’articolo indeterminativo
sarà ben descritto da Soave non nella sua grammatica ragionata ma nella
grammatica didattica (Elementi della lingua italiana - 1788), dove uno e una
saranno descritti proprio come forme di articolo indeterminativo.

> Dopo Soave, l’atteggiamento dei grammatici dell’‘800 è abbastanza oscillan-


te:
● alcuni considerano la forma uno, una come articolo, per cui descrivono
l’articolo sia determinativo sia indeterminativo;
● altri invece non la considerano come articolo.

- es. Gherardini, Introduzione alla grammatica:


«La necessità di chiamare determinativi gli articoli il, lo, i [...] nasce da ciò che
v’è un altro articolo, del quale si fa usoa allorché si vuole accennare una cosa
senza determinarla precisamente, e che perciò si chiama indeterminativo».

- es. nella grammatica di Moise non si parla di determinativo e indeterminativo


ma di distintivo e indistintivo:
«La somiglianza di costruzione che l’indistintivo uno col distintivo il o lo, fu
cagione che egli si desse la denominazione d’articolo, denominazione che, come
abbiam detto altrove, fu dagli antichi attribuita a il o lo. Per indicare poi il loro
diverso officio, si dissero, questo articolo determinativo, e quello articolo
indeterminativo, denominazioni tutte e due assai male applicate e però da scartare
[...]».

- L’aspetto interessante è che, sulla scia di quanto aveva detto anche


Gherardini, c’è una forma (il) che tradizionalmente già dalla grammatica antica
viene chiamata “articolo”, ma, esistento anche una forma uno, è necessario
distinguere tra determinativo e indeterminativo.

> Con le grammatiche del ‘900 si arriva alla presenza costante dell’articolo inde-
terminativo (la cui presenza dunque si assesta verso la fine dell’‘800).

> Riguardo a questo argomento possiamo fare delle ricerche grazie agli stru-
menti digitali che abbiamo a disposizione (es. Biblioteca digitale dell’Accademia
della Crusca o la Fabbrica dell’italiano) e vedere come ne parlano i vari gram-
matici.

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