7 MAR. 2022
STORIA DELL’ITALIANO
> Naturalmente ha delle ripercussioni molto forti su come l’italiano è oggi e su qual è
la sua grammatica.
➽ Possiamo parlare di italiano a tutto tondo (cioè un italiano parlato da tutto gli
italiani in tutti i contesti) solo a partire dalla fine degli anni ‘80 del secolo scorso.
> Una delle domande più difficili a cui rispondere è “quando nasce l’italiano?”,
perché abbiamo una tradizione pesantissima (es. Dante, Petrarca ecc.) → molte
volte Dante è stato definito il “padre della lingua italiana”, ma questo in realtà non è
proprio vero → infatti la lingua italiana così come la intendiamo oggi nasce molto
dopo, mentre dal latino abbiamo avuto vari volgari che hanno fatto parte di una
“repubblica federale” fino a tutto il ‘500 → non c’era un volgare che fosse realmente
preminente fino al 1300, quando per varie ragioni (non solo le tre corone ma anche il
prestigio di cui godeva in campo economico) il fiorentino è diventato un modello e
una lingua di prestigio, a cui spesso si faceva riferimento quando si doveva usare
una lingua che superasse i confini municipali → per questo motivo il fiorentino è
stato spesso usato da letterati e scrittori anche prima della questione della lingua
cinquecentesca → dunque i panni in Arno sono stati risciacquati ben prima di
Manzoni da altri personaggi:
● es. Ariosto nella terza versione dell’Orlando furioso passa dalla koinè
ferrarese al fiorentino trecentesco di stampo petrarchesco sulla scia di Pietro
Bembo;
● prima di lui Jacopo Sannazaro nell’Arcadia era passato dalla koinè
meridionale a una lingua ispirata al fiorentino trecentesco.
> Il fiorentino era stato lingua di prestigio soprattutto per le lingue di koinè, che si
sviluppano nel ‘400 a fronte di una situazione politica che cambia (dai singoli comuni
si passa a un assetto geo-politico basato sugli stati regionali con le varie signorie)
nelle varie regioni si sviluppano delle lingue di koinè:
❖ es. la koinè lombarda → si tratta di una lingua che si basa prevalentemente
sulle caratteristiche del milanese (in quanto Milano era la capitale del ducato),
il quale però viene in qualche modo stemperato → cioè vengono tolti i tratti
più tipicamente milanesi a vantaggio di quelli che sono più generalmente
lombardi → a fronte di questi tagli vengono effettuati anche degli inserti,
prelevandoli dalle lingue di prestigio, che nel ‘400 sono il latino (il quale
rimane sempre di sfondo ai processi di sviluppo dell’italiano) e il fiorentino
trecentesco.
> Questa cosa invece non succede nella repubblica di Firenze perché il fiorentino è
talmente forte che nel Granducato non abbiamo una lingua di koinè → però il
fiorentino trecentesco (una volta che Firenze diventa stato regionale) assume delle
caratteristiche provenienti dai volgari toscani occidentali (pisano) e orientali (aretino
e cortonese), che sono entrati nella sfera geo-politico-economica di Firenze.
> Fino a tutto il ‘500 il fiorentino si candida a svolgere un ruolo particolare ma ancora
non c’è una decisione netta in questo senso.
> Nel ‘500 si apre un problema → essendoci tanti volgari, quale dovrà ess. adottato
da uno scrittore che vuole scrivere un’opera che possa ess. letta in tutta Italia? →
questo problema sorge agli inizi del ‘500 in seguito ai cambiamenti nel processo di
stampa dei libri → si passa dalla tradizione amanuense a quella della stampa e il
processo produttivo spinge verso la produzione di molte copie che poi vengono
vendute.
- Ci si interroga dunque su quale lingua utilizzare per farsi comprendere dal maggior
numero di persone → nasce così la questione della lingua, il cui esito è il
compromesso che viene trovato di utilizzare come modello linguistico di riferimento
nazionale il fiorentino trecentesco → lo strumento che consente di diffondere questo
modello nella penisola italiana è il Vocabolario degli Accademici della Crusca del
1612, il quale è una vera e propria summa di quella lingua → chi vuole imparare e
scrivere con quella lingua trova tutte le informazioni necessarie in base al lessico
proprio nel vocabolario.
> Il fiorentino trecentesco diventa dunque il primo italiano standard → si tratta però di
uno standard un po’ particolare perché non è impiegato ovunque da tutte le persone
in tutte le situazioni comunicative ma è un modello linguistico utilizzato soltanto nella
lingua scritta, è una lingua di registro alto ed è ovviamente appannaggio dei ceti
sociali medio-alti.
- Dunque il primo italiano standard ha una capacità di movimento piuttosto limitata →
nell’oralità si continuano a usare i volgari, che però terminologicamente, nel
momento in cui esiste una lingua nazionale di riferimento, non vengono più chiamati
volgari ma “dialetti” → il cambio di terminologia è determinato dal tipo di rapporto col
sistema → quando si parla di volgare non c’è una lingua di riferimento nazionale,
mentre quando si parla di dialetto c’è una lingua di riferimento nazionale (chiamata
tecnicamente “lingua tetto”) sotto cui stanno le altre varietà (che prendono appunto il
nome di “dialetti”).
> La stragrande maggioranza della popolazione non conosce questo italiano e
continua a utilizzare il dialetto (anche perché è analfabeta e non sa scrivere) →
invece la rimanente e ristretta parte della popolazione usa il dialetto nell’oralità e in
molti altri tipi di comunicazione (anche scritti) ma usa l’italiano (così come codificato
dal Vocabolario degli Accademici della Crusca) quando scrive letteratura, quando
scrive ufficialmente ecc.
- Siamo dunque in una situazione di bilinguismo con diglossia → ossia ci sono due
lingue (= bilinguismo) ma solo pochi sono in grado di spostarsi dal dialetto all’italiano
(= diglossia) e lo fanno soltanto in certi determinati ambiti d’uso.
> Possiamo dunque dire che a partire dal 1612 esiste uno standard dell’italiano, che
però è limitato allo scritto di registro alto da parte dei ceti medio-alti.
- Nemmeno i fiorentini usano questa lingua in maniera del tutto naturale, in quanto la
lingua materna dei fiorentini è il fiorentino cinque-seicentesco, che ha subito vari
cambiamenti dovuti al passaggio di Firenze a stato regionale → dunque tutti più o
meno devono apprendere questa lingua attr. l’uso del vocabolario e delle
grammatiche:
➔ celebre esempio è quello di Cesare Alfieri → abbiamo alcune sue carte
manoscritte di esercitazione → cioè Alfieri si esercita per imparare questa
lingua, in quanto lui è piemontese e le sue lingue madri sono il dialetto
piemontese e il francese
> L’italiano è una lingua seconda che si deve imparare, fatto che condiziona
moltissimo la storia linguistica italiana fino a oggi → anche oggi per la maggior parte
degli italiani la lingua materna è il dialetto (soprattutto nelle classi sociali
medio-basse del meridione).
- I dati ci dicono che nel 1861 (al momento dell’Unità d’Italia) in Italia c’era il 20% di
alfabetizzati → dunque l’80% della popolazione era analfabeta e aveva contatti
pressoché nulli con l’italiano, in quanto l’italiano esisteva solo come lingua scritta.
- I dati sugli italofoni sono invece ricostruiti da degli studiosi → De Mauro stima che
in Italia nel 1861 gli italofoni erano il 2,5% della popolazione, mentre Castellani
sostiene il 10% → entrambi gli studiosi presuppongono che la stragrande
maggioranza di questi italofoni fosse in Toscana → come calcolavano questa
percentuale?
■ dividono gli italofoni in tre livelli → parlanti toscani, parlanti dell’Italia centrale,
parlanti nazionali;
■ per Castellani sono considerabili italofoni:
- i toscani a prescindere dal loro grado di istruzione (anche se non ce
l’hanno);
- i parlanti dell’Italia centrale con almeno istruzione elementare;
- i parlanti del resto d’Italia con istruzione elevata.
■ per De Mauro sono considerabili italofoni:
- i toscani con almeno il grado di istruzione elementare, poi concorda.
- Non si può dunque prescindere dal grado di istruzione per calcolare l’italofonia →
la capacità grammaticale di conoscenza e competenza della lingua italiana (per via
delle vicende storiche dell’italiano) è direttamente proporzionale al grado d’istruzione
(i toscani e in particolar modo i fiorentini partono avvantaggiati).
> Nel 1861 si comincia a dare delle indicazioni → il ministro Broglio nomina una
commissione con a capo Manzoni, il quale indica come modello di riferimento il
fiorentino ottocentesco contemporaneo, utilizzato dai conti fiorentini.
- Inoltre Manzoni e la commissione indicano due strumenti per diffondere questa
lingua → in primis la scuola, in secundis un vocabolario (Novo vocabolario della
lingua italiana secondo l’uso di Firenze, pubblicato da Broglio e Giorgini, genero di
Manzoni → il primo fascicolo di questo vocabolario dette il via a Graziadio Isaia
Ascoli per la contestazione della soluzione manzoniana).
> Il processo di italianizzazione è stato lungo e ci sono stati diversi fattori che hanno
portato all’unificazione linguistica nazionale → es. i processi migratori dalla
campagna alla città nella seconda metà dell’‘800, il servizio militare e le guerre,
l’emigrazione fuori dall’Italia (che ha fatto sì che si creasse una forma di
comunicazione sovraregionale) ecc.
- Ciò che è stato cruciale non è stata la scuola, perché fino a tutta la prima metà del
‘900 ci sono stati moltissimi casi di diserzione scolastica:
● fino agli anni ‘50 spesso gran parte dei bambini provenienti da famiglie
contadine non terminavano nemmeno le elementari;
● in Italia nel 1861 la scuola elementare (all’epoca di 4 anni) era gratuita ma
non obbligatoria grazie alla Legge Casati (1859 - ereditata dallo Stato Italiano
dallo Stato sabaudo) → il fatto che la scuola elementare fosse gratuita non
cambiava molto, in quanto in un’Italia basata sull’economia contadina i figli
erano funzionali all’economia domestica e dunque non venivano mandati a
scuola;
● Legge Coppino (1877) → le elementari vengono rese obbligatorie, ma
l’esenzione scolastica non veniva punita e rimarrà alta fino al secondo
dopoguerra;
● la scuola media è obbligatoria dal 1962.
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> Le lingue non sono monolitiche, cioè non hanno un’unica dimensione →
dell’italiano si sarebbe potuto pensare ciò soprattutto prima del 1980, cioè un italiano
compresso in uno spazio angusto, molto limitato → sicuramente non vale per
l’italiano di oggi.
> Le lingue hanno più dimensioni e ogni atto linguistico deve ess. collocato e tenere
conto di queste varie dimensioni → per rendere questo concetto, in linguistica è
stato coniato il termine di “spazio linguistico” → lo spazio è un luogo dove sono
posti degli oggetti → noi siamo abituati a spazi fisici bidimensionali o tridimensionali.
- Lo spazio linguistico è uno spazio che ha 5 dimensioni, le quali sono diacronia,
diatopia, diastratia, diamesia e diafasia → a ciascuna di queste dimensioni
corrispondono degli assi → ogni atto linguistico deve dunque avere una coordinata
in queste cinque dimensioni.
> Al giorno d’oggi tutti gli italiani sono più o meno in grado di muoversi sull’asse
diatopico, assumendo delle posizioni diverse.
- Le posizioni estreme di questo asse sono da una parte il dialetto, dall’altra l’italiano
standard → ciascun parlante italiano può stare su questi due estremi.
- Oltre alle due coordinate estremee ci sono due coordinate intermedie:
● una coordinata è più vicina al dialetto e si chiama “dialetto italianizzato” →
posso usare il dialetto con qualche contaminazione della lingua nazionale
standard → questi influssi sono non solo costrutti morfologici ma soprattutto
lessicali, cioè parole della lingua italiana che entrano nel dialetto;
● ancora più importante è la coordinata che si trova vicina all’italiano standard e
che prende il nome di “italiano regionale”.
> L’italiano regionale è forse a livello di oralità la coordinata diatopica più battuta →
sono infatti molto rari i casi in cui nell’oralità si ricorre all’italiano standard → spesso
almeno sul piano fonetico nell’oralità è difficile incontrare l’italiano standard reale →
questo vuol dire non solo che è difficile adeguarvisi ma anche che evidentemente
ormai è accettato e tollerato → l’italiano regionale dunque consente e comprende la
pronuncia con qualche coloritura regionale.
> Perché c’è tolleranza e non si insiste sulla correzione di questi fenomeni? →
perché in realtà il sistema fonologico dell’italiano così come è descritto nelle
grammatiche è un sistema astratto, creato a tavolino.
> Questa cosa è talmente innaturale che, in effetti, oggi a livello di studi linguistici
molti studiosi tendono a rinunciare a un sistema fonologico standard a vantaggio di
quello che si chiama “diasistema fonologico” → cioè un sistema che “tollera” delle
pronunce che sono largamente diffuse nella popolazione italiana e che soprattutto è
più elastico su alcuni punti critici (in particolare la distinzione tra “e aperta” ed “e
chiusa” e tra sibilante sonora e sorda intervocalica) (semmai riguarda ultimi 3 min.)
8 MAR. 2022
> La situazione linguistica odierna dell’italiano prevede una variabilità in diatopia (es.
caso dei film di Pieraccioni citato a lezione), naturalmente non in tutte ma in gran
parte delle situazioni della lingua viva.
- Si tratta di cose perfettamente percepibili e su cui si può giocare, per es. nelle
pubblicità o nei film, anche se nel cinema si tratta più di una necessità → la lingua
del cinema però non è sempre stata così → infatti nei film anteriori al 1980 si trova
solitamente una lingua standard, che difficilmente si allontana dalla lingua standard,
per cui è una lingua artificiale.
◾ Diastratia → variabilità in base allo strato sociale di provenienza del parlante e
quindi al suo grado di istruzione.
- Queste due dimensioni sono fortemente correlate tra loro → il grado di istruzione,
infatti, determina fortemente la competenza di italiano del parlante → quale che sia
la classe sociale di appartenenza, la completa acquisizione e il perfezionamento
delle strutture morfologiche della nostra lingua avviene a scuola e perciò è tanto
maggiore quanto maggiore è il grado di istruzione.
- Quello che fa la differenza è la competenza delle strutture grammaticali → per
alcuni la competenza delle strutture grammaticali (che normalmente si acquisisce
nella fase di apprendimento della lingua in età prescolare) avviene a scuola, perché
quello che si apprende in maniera naturale non è la lingua ma il dialetto o il dialetto
italianizzato o una forma di italiano regionale → naturalmente ci saranno casi in cui il
salto tra la lingua materna prescolare e l’italiano è minore e casi in cui è molto
massiccio.
- Questa è una situazione che in Italia era molto accentuata prima del 1980.
> Questo libro nasce a partire dall’iniziativa della scuola di Barbiana, dove
lavorava Don Milani e dove studiavano tutti i figli dei contadini del paese.
> Nel 1962 era stata promulgata una riforma che aveva reso obbligatoria la
scuola media in Italia, senza però preparare preventivamente la scuola media a
gestire quello che sarebbe successo, cioè a ricevere non più solo i ragazzi
provenienti dalle famiglie altolocate ma anche ragazzi provenienti dalle classi
sociali più umili → per questo motivo i primi anni della scuola media di questo
tipo furono un disastro perché accadeva che i ragazzi altolocati proseguivano
negli studi, mentre tutti gli altri venivano pluribocciati fino ad abbandonare gli
studi → il metodo di insegnamento faceva sì che questi ragazzi trovassero delle
grosse difficoltà nello studio della lingua e della letteratura (in quanto lo studio
della lingua era prevalentemente incentrato sulla letteratura).
> Questa lettera nasce dunque come una denuncia di questa situazione → i
ragazzi della scuola di Barbiana indirizzano la lettera a una professoressa delle
medie immaginaria lamentando il malfunzionamento della scuola media nei
confronti di una parte dei ragazzi.
> Queste pagine sono però importanti anche perché ci consentono di avere una
testimonianza piuttosto interessante di un fatto → intanto leggiamo:
«Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le
creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le
cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro1. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi.
Appartiene alla ditta.
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando
Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio “Non si dice lalla,
si dice aradio”.
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra
lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.
«Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua». L’ha detto la
Costituzione pensando a lui».
1
La cristallizzazione è effettivamente quello che fa la grammatica → la grammatica fa
una fotografia istantanea di quella che è una struttura linguistica in un dato momento e
la pone come norma (ma la lingua è un organismo vivo che si evolve nel tempo,
anche se con una certa lentezza - dipende dalla velocità con cui si evolvono le
necessità della società).
- Dati in seguito al
censimento del 2011.
> Per capire quali sono le implicazioni linguistiche nelle differenze tra parlato e
scritto, bisogna ragionare un momento su come avviene questa comunicazione,
ossia sul patto implicito tra emittente e ricevente:
● quando qualcuno scrive (e presuppone che il ricevente legga) dà per scontato
che chi legge avrà tutto il tempo per capire quello che c’è scritto → d’altra
parte chi legge si aspetta che lo scrivente gli consegni un testo corretto,
senza sbavature, perché ha avuto tutto il tempo di controllare la correttezza
del testo;
● questo non vuol dire che quando si parla siamo sgrammaticati e possiamo
dire le cose come vogliamo → no, però è chiaro che nell’oralità la forma di
controllo del parlante è minore rispetto a quella dello scrivente;
● il parlato si affida non soltanto allo stretto codice verbale (ossia la lingua nelle
sue principali componenti) ma anche ad altri componenti, che lo arricchisco-
no:
- es. componente sovrasegmentale = intonazione → può dare un signifi-
cato completamente diverso a ciò che stiamo dicendo → es. sarcasmo;
- vuol dire che queste componenti nella scrittura si perdono? → no, ci sono, ma
vengono recuperate nei modi e nei termini previsti dalla scrittura:
- es. per recuperare l’intonazione (come le altre componenti) si può ag-
giungere una descrizione → es. “... disse Marco con tono sarcastico”.
14 MAR. 2022
> Il “trasmesso” è quella parte delle varietà linguistiche che sono scritte non per ess.
lette ma per ess. ascoltate → sono dunque in una posizione mediana tra lo scritto e
il parlato faccia a faccia, in quanto hanno caratteristiche proprie dell’uno e dell’altro
ambito.
- In questo trasmesso (che si riferisce alla lingua del cinema, della radio e della
televisione) ci sono caratteristiche proprie della scrittura (es. il messaggio è da uno
per molti; non c’è un’interazione diretta - se non in casi eccezionali - con il pubblico)
e dell’oralità (es. condivisione in sincrono - anche se ormai esiste tutta una serie di
programmi registrati).
- Sul piano prettamente linguistico è chiaro che chi scrive un copione per un film o un
testo che dovrà ess. performato in televisione o in radio sta scrivendo ma il suo patto
con il ricevente è diverso rispetto a quello dell’autore di un’opera letteraria.
> L’etichetta di “trasmesso” è stata inventata negli anni ‘80 da Francesco Sabatini ed
è stata poi acquisita alla terminologia linguistica negli anni ‘90, quando, in un
convegno svoltosi all’Accademia della Crusca sulla lingua della radio, Sabatini fece
un intervento piuttosto circostanziato, in cui descrisse scientificamente tutte le
caratteristiche del trasmesso (il convegno si è tenuto nel 1994 ma le sue carte sono
state pubblicate nel 1997).
> L’etichetta di questa varietà linguistica non aveva fatto a tempo a stabilizzarsi che
si affacciava nello spazio linguistico italiano una varietà completamente nuova, che
aveva caratteristiche ancora diverse → era una varietà che si trovava sempre in
mezzo tra la scrittura e il parlato faccia a faccia (ossia aveva caratteristiche dell’una
e dell’altro) ma che non era riconducibile al trasmesso, almeno nella maniera in cui
era stato definito da Sabatini → si trattava però cmq di un trasmesso, nel senso che
pure questa varietà di lingua non veniva utilizzata direttamente tra le persone e non
viaggiava attr. la carta stampata ma attr. una tecnologia (esattamente come la radio,
il cinema e la televisione) → questa varietà, che appare alla fine degli anni ‘90, è
quella legata a chat, mail e sms → queste erano le tre categorie che alla fine degli
anni ‘90 stavano assumendo un ruolo piano piano sempre più importante nella
lingua dei parlanti.
- Il mondo della rete era ovviamente diverso da quello odierno → questi tre mezzi di
comunicazione erano molto più simili di quanto non siano oggi e avevano appunto
delle caratteristiche comuni → si trattava di un testo scritto ma che in realtà era un
parlato congelato → cioè è evidente che chi usa la chat sta parlando con un’altra
persona anche se le condizioni lo costringono a trasformare questo suo parlato in
scrittura (lo stesso avviene nella messaggistica istantanea).
- Questi messaggi però non corrispondono pienamente al parlato perché mancano di
tutte quelle informazioni che nell’oralità vengono date attr. altre strategie (es.
intonazione, postura, mimica facciale, gestualità ecc.) → proprio per questo è
accaduto che questo tipo di scrittura è stato pian piano potenziato da elementi che
restituiscono l’intonazione, la prossemica, i gesti ecc.
- Alla fine però non era un problema così nuovo, perché anche quando si scrive un
romanzo bisogna tenere conto dell’intonazione ecc. → appunto uno scrittore per
rendere conto dei tratti sovrasegmentali semplicemente li descrive, perché ha tutto il
tempo di allargarsi in una descrizione e il lettore ha tutto il tempo di leggerla.
- Ciò però non era possibile nelle chat, negli sms e nelle mail degli anni ‘90 →
subentrano allora nuove strategie → si cerca di rendere intonazione, prossemica,
postura ecc. prima con la punteggiatura utilizzata in maniera espressiva (es. ;-) =
emoticon), poi con le emoji.
> Abbiamo dunque due varietà linguistiche complementari → la lingua del cinema,
della radio e della televisione è uno scritto pensato per ess. ascoltato ≠ invece la
lingua dei messaggi consiste in un parlato pensato per ess. letto → per questo
motivo è stata introdotta una nuova etichetta che consente di distinguere questi due
trasmessi → sulla scia della definizione di Sabatini, agli inizi del nuovo millennio
Paolo D’Achille ha coniato l’etichetta di “trasmesso scritto”.
> All’inizio dunque c’erano le chat, gli sms e le mail → la linguistica si è subito
buttata a capofitto a studiare queste varietà, che venivano sempre accomunate e di
cui si mettevano in evidenza delle caratteristiche che in quel momento erano
effettivamente piuttosto evidenti.
- Una di queste caratteristiche era la brevità, per ragioni sia di tempo sia di spazio →
oggi i messaggi su whatsapp sono illimitati ma negli anni ‘90 gli sms avevano una
lunghezza massima, a cui era associato un costo, per cui c’era bisogno di
risparmiare spazio → ma anche quando negli anni successivi è venuta meno questa
necessità, è stato cmq necessario risparmiare tempo, perché quando scriviamo un
messaggio abbiamo bisogno di scrivere rapidamente → per questo il trasmesso
scritto di quegli anni era fortemente caratterizzato dall’uso delle abbreviature, che
erano o tachigrafiche (ossia servivano per risparmiare tempo) o brachigrafiche (per
risparmiare spazio), ma in generale servivano a entrambi gli scopi.
- In realtà in quegli anni ci sono stati probabilmente alcuni problemi a mettere a
fuoco quali erano le caratteristiche vere e proprie della rete → la questione dell’ab-
breviatura infatti non è solo legata al mezzo ma è determinata anche dal fatto che
allora molto più di oggi questi strumenti erano utilizzati dai giovani e queste
caratteristiche attribuite al linguaggio della rete erano in realtà proprie del linguaggio
giovanile.
- Queste caratteristiche proprie della lingua giovanile sono state a lungo associate
alla lingua della rete in generale → in realtà queste caratteristiche sono riconducibili
solo ad alcune varietà della rete, ossia quelle che comportano questo tipo di
rapporto tra emittente e ricevente.
> Un discorso a parte lo merita la mail → agli inizi la mail era un tipo di testo molto
vicino agli sms e alle chat, perché all’epoca le mail erano utilizzate per comunicare a
distanza a costo zero rapidamente → a usare le mail erano soprattutto gli istituti di
ricerca e le multinazionali diffusi nelle varie parti del mondo.
- Si escogitò dunque il sistema delle emoticon → le prime due furono :-) (sorri-
so) e :-( (faccia triste) → queste emoticon venivano messe convenzionalmente
all’inizio delle mail aziendali per rendere subito l’idea del contesto in cui si
poneva la mail (approvazione o disapprovazione).
- Adesso invece le mail hanno sostituito in tutto e per tutto la posta tradizionale →
non è dunque possibile che tutte le mail siano scritte alla stessa maniera e il tipo di
scrittura dipende dal luogo dello spazio linguistico in cui ci si trova (= contesto comu-
nicativo).
◾ Diafasia → variabilità linguistica in relazione alla situazione comunicativa (il
destinatario è importante solo se chiarifica la situazione comunicativa ma non è di
per sé fondamentale).
> Sulle lingue speciali c’è stata un po’ di discussione e anche di confusione
negli ultimi anni.
- L’etichetta che usa il prof è stata messa a fuoco negli anni ‘90 ed è quella più
congrua → si parte da un’etichetta che accomuna le lingue settoriali e quelle
specialistiche (che hanno sicuramente delle cose in comune ma evidentemente
non sono la stessa cosa, data la grande incertezza terminologica):
● le lingue specialistiche sono quelle varietà di lingua relative a certi settori
scientifico-disciplinari o a certe professioni (es. medicina, finanza, archi-
tettura ecc.) → vengono chiamate “lingue specialistiche” perché sono uti-
lizzate da specialisti, si basano fortemente su terminologia condivisa e
sono varietà utilizzate sono tra addetti ai lavori;
- è ovvio che parte di questa terminologia specialistica è conosciuta anche
dalle persone comuni ed entra nella lingua comune (es. malattie) →
questo accade quando questi termini hanno un impatto sulla vita sociale;
● le lingue settoriali sono invece legate a dei settori (es. sport, critica
d’arte) → sono dunque tagliate più sull’argomento che sulla conoscenza
o sulla professione.
> L’esempio della critica d’arte può ess. utile per spiegare la differenza tra
lingua settoriale e lingua specialistica → il critico d’arte prende un codice (es. un
edificio, un quadro ecc.) e trasformarlo verbalmente con la lingua → per fare
questa operazione di traduzione il critico spesso usa delle parole in modo
improprio per spiegare ciò che vede → es. “grammatica del quadro” = le regole
che regolamentano il linguaggio della pittura → a questo punto l’espressione
“grammatica del quadro” diventa settoriale, perché in quel settore specifico si
forma questo concetto → non si tratta di lingua specialistica perché non nasce
necessariamente per dialogare tra addetti ai lavori ma per consentire una
trasmissione d’informazione.
Lingua vs linguaggio
> Spesso questi due termini vengono usati come sinonimi → la questione nasce
dal fatto che l’inglese “language” significa entrambe le cose → per questo
motivo in linguistica generale (che è fortemente basata su letteratura anglofona)
questa sovrapposizione avviene spesso.
Gergo
> Il “gergo” è una varietà linguistica (dunque sempre legata all’asse diafasico, in
quanto è legata al contesto comunicativo) che presuppone due aspetti:
1. chi usa il gergo appartiene a un certo gruppo sociale e usandolo vuole
ribadire la sua appartenenza a quel gruppo e …
2. … vuole escludere chi non vi appartiene (es. il gergo della malavita o
quello giovanile).
> “Tecnicismi collaterali” = tecnicismo utilizzato tra gli addetti ai lavori ma non
strettamente necessario, perché non ha quelle caratteristiche di univocità e di
chiarezza che lo rendono un tecnicismo.
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LA COMPETENZA LINGUISTICA
> Nello schema sono assenti la dimensione diacronica (perché prende in considera-
zione l’italiano contemporaneo → il tempo è una costante) e quella diatopica, perché
nel 1987 (anno in cui aveva proposto questo schema nel suo importantissimo libro
Sociologia dell’italiano contemporaneo) la diatopia non ha la funzione che ha nell’ita-
liano contemporaneo → sono passati pochi anni dal 1980 (data che convenzional-
mente indica la fine del lungo processo di italianizzazione), per cui la diatopia è an-
cora incerta e non ha ancora acquisito la capacità di bagaglio aggiuntivo del parlante
italiano ma siamo ancora in una situazione in cui andare dall’italiano standard all’ita-
liano regionale o al dialetto è ancora sentito come uscire dal contesto dell’italiano.
(1) Mi pregio informarLa che la nostra venuta non rientra nell’ambito del fattibile =
italiano formale aulico [7 nello schema].
> Che questa frase può ess. utilizzata solo nello scritto ce lo dice un indicatore
preciso, ossia il fatto che il rapporto di cortesia è realizzato attr. la maiuscola del
pronome enclitico → si tratta appunto del cosiddetto “pronome di cortesia”, che si
usa nello scritto e che consiste nella consuetudine di indicare con la lettera
maiuscola la persona a cui ci si sta rivolgendo.
> Berruto colloca questa frase nel punto estremo della diafasia, della diastratia e
della diamesia perché è ormai talmente limitato all’uso di certi gruppi da ess. quasi
confinante con il formalizzato.
(2) Trasmettiamo a Lei destinatario l’informazione che la venuta di chi sta parlando
non avrà luogo = italiano tecnico-scientifico (= italiano formalizzato) [8].
> Siamo ancora in un contesto scritto (come segnala la presenza del pronome di
cortesia), le parole usate sono molto tecniche e oggettive (es. trasmettere,
destinatario) e la sintassi è articolata nella direzione di un’oggettività massima.
(3) Vogliate prendere atto dell’impossibilità della venuta dei sottoscritti = italiano
burocratico [9].
> La presenza del termine sottoscritti è quasi una marca di certificazione della lingua
burocratica → anche nei moduli odierni si trova spesso la formula “Il/La sottoscritto/a
…”, che alla fine non è altro che un pleonasmo.
> La lingua burocratica è una varietà linguistica molto importante nella nostra storia
linguistica → negli ultimi anni si è combattuta moltissimo dal punto di vista normati-
vo, in quanto farraginosa e non chiara, spingendola verso la trasparenza → nono-
stante questo le caratteristiche della lingua burocratica e i suoi aspetti più negativi
sono ancora vivi (la presenza di sottoscritto è una spia piuttosto interessante).
- Questa varietà viene spesso chiamata in modo dispregiativo “burocratichese”.
* Questi termini infatti nel testo vengono sempre tradotti anche se non ce n’è un reale
bisogno → si tratta di tecnicismi collaterali.
> Calvino dice che questa lingua è diventata la lingua italiana di riferimento negli
anni ‘60 → in questi anni c’è una grande questione linguistica (tra i principali attori ci
sono Calvino e Pasolini) perché ancora manca un italiano standard nazionale.
15 MAR. 2022
> Una delle prime cose da notare negli esempi di Calvino è il numero di parole → la
deposizione reale è molto più breve rispetto alla sua traduzione in burocratichese da
parte del brigadiere.
- Questo fatto è esemplare perché si è a lungo ritenuto a torto che uno dei problemi
del burocratichese fosse l’eccessiva prolissità → in tutta quella serie di provvedimen-
ti (anche legislativi) e indicazioni che si sono susseguiti negli ultimi anni per approda-
re a una lingua amministrativa che fosse più trasparente e chiara si è insistito molto
sul discorso della brevità → a questo proposito, una legge recente stabilisce che le
sentenze non possano superare un certo numero di pagine.
- In realtà questo è un falso mito, perché non è vero che di per sé la brevità porta a
una maggiore chiarezza (il caso delle sentenze è piuttosto clamoroso perché
ovviamente non esiste una misura standard entro cui può stare una sentenza
giudiziaria a prescindere dal caso).
- Inoltre, se guardiamo bene la trasposizione del brigadiere, notiamo che il problema
non è tanto la sua lunghezza rispetto all’originale ma è (come dice lo stesso Calvino)
il «terrore semantico», cioè il fatto che ogni parola semplice (anche se utile) viene
trasformata in qualcosa di più ampolloso e pesante → è questo ciò che determina
non solo la lunghezza ma in primo luogo la poca chiarezza.
- Calvino definisce questa lingua come «antilingua», in quanto di fatto non esiste
nessuno che parli o scriva in questo modo.
> Queste sono dunque le caratteristiche principali della lingua burocratica, la quale
in realtà viene meno a quella che è la sua funzione primaria → la lingua burocratica
nasce nel momento in cui c’è l’esigenza di raggiungere tutti i cittadini dello stato.
- Questa nascita della lingua burocratica è anche il motivo per cui rimane così pervi-
cacemente nell’italiano → la lingua burocratica infatto è una delle prime varietà
dell’asse diafasico che si impongono a livello nazionale → il problema di scrivere
testi normativi e amministrativi che fossero comprensibili in tutta Italia è immediato
nel 1861 → questa lingua dunque cerca di diventare nazionale ispirandosi all’unico
modello di lingua possibile, ossia la lingua letteraria e di registro alto → non è
dunque un caso che Berruto nel suo schema ponga la lingua burocratica poco al di
sotto dell’italiano formale aulico e dell’italiano tecnico-scientifico.
(4) La informo che non potremo venire = italiano standard letterario [1].
> Nel 1987 l’italiano standard è un italiano che si è modellato prevalentemente sulla
lingua letteraria → questo ce lo dice molto bene Pasolini (Nuove questioni linguisti-
che, 1964).
> Nel corso degli anni ‘60 del ‘900 c’è una specie di questione della lingua → siamo
a un punto cruciale dell’evoluzione linguistica ma questa lingua non riesce a
decollare → siamo in un momento in cui da tanto tempo ci sono la radio, il cinema e
da una decina d’anni anche la televisione, però manca ancora un italiano standard
→ ci si interroga dunque su come uscire da questo problema e su come si stia
provando a farlo anche se in un modo che non piace (cfr. casi di Calvino, Pasolini e
Lettera a una professoressa).
> Pasolini scrive così nella pagina iniziale di Nuove questioni linguistiche:
«Per arrivare in concreto ad alcune conclusioni linguistiche che ho in mente,
sceglierò un punto di vista particolaristico: il rapporto tra gli scrittori e la koinè
italiana.
Che cos’è, prima di tutto, questa koinè? Non mancano le descrizioni puramente
linguistiche: l’ultima, «alla Bally», è dovuta a Cesare Segre, e a essa rinvio (e mi
riferisco). Si potrebbe comunque dire, intanto, che, all’occhio dello scrittore,
l’italiano medio si presenta come un’entità dualistica, una «santissima dualità»:
l’italiano strumentale e l’italiano letterario.
Questo implica un fatto che del resto è ben noto: in Italia non esiste una vera e
propria lingua italiana nazionale. Cosicché, se vogliamo ricercare una qualche
unità tra le due figure della dualità (lingua parlata, lingua letteraria), dobbiamo
cercarla al di fuori della lingua, nell’interno di quell’individuo storico che è
contemporaneamente utente di queste due lingue: che è uno, e storicamente
descrivibile in una unitaria totalità di esperienze. Tale individuo quale sede
spirituale o coabitazione della dualità, è il borghese o piccolo-borghese italiano,
con la sua esperienza storica e culturale, che è inutile qui definire: credo basti
semplicemente alludervi come a una comune conoscenza».
- Pasolini dunque dice chiaramente che esistono una lingua orale (che non è
nazionale ma che lui definisce di koinè ed è dunque frutto della esperienza specifica
degli individui che di volta in volta si costruiscono questa oralità dell’italiano) e uno
standard della lingua scritta, che è prevalentemente basata sulla lingua letteraria.
- Uno dei motivi per cui Pasolini scrive questo testo è perché teme che questo
processo sia alla fase finale → Pasolini vede che l’italiano a lui contemporaneo sta
scegliendo altri modelli, e in particolare la lingua tecnico-scientifica → tant’è vero che
queste riflessioni prendono spunto dal discorso di inaugurazione dell’autostrada del
sole pronunciato da Aldo Moro (che Pasolini cita nel testo), che appunto è farcito di
tecnicismi → Pasolini dunque riscontra in questa tendenza (che lui trova anche nella
lingua della televisione ecc.) una possibile virata dell’italiano standard verso l’imita-
zione della lingua non letteraria ma tecnico-scientifica.
> Queste due cose sono avvenute entrambe ma in modo diverso da come aveva
prefigurato Pasolini:
❖ in realtà il dialetto non è morto ma è morto nella forma in cui lo conosceva
Pasolini, cioè il dialetto utilizzato in diglossia con la lingua italiana (cioè usato
solo da una parte della popolazione in certi contesti) → il dialetto invece ha
recuperato una sua dimensione molto importante, perché si è trasformato nel
quadro linguistico italiano;
❖ la lingua tecnico-scientifica ha un suo ruolo importante → si è sviluppata
come varietà di italiano più recente ma non è certo diventata il modello
linguistico nazionale.
> Le varietà (4) e (5) sono quelle che tutto sommato sono più vicine all’origine (in-
contro dei tre assi) → nello spazio linguistico stare vicino all’origine significa stare in
una zona più neutra, cioè che non è caratterizzata e che più o meno si può definire
“italiano” senza dover dare troppe specificazioni → è quindi normale che l’italiano
standard sia in questa zona e anzi in un mondo ideale dovrebbe stare proprio nel
mezzo → invece il nostro italiano standard è leggermente spostato verso l’alto (=
verso la formalità) e verso sinistra (= verso lo scritto) → questo non ci meraviglia
perché l’italiano standard all’epoca di Berruto è stato determinato, identificato e
utilizzato per secoli come lingua scritta di registro alto da parte dei ceti sociali alti.
> Quali sono le differenze tra queste due varietà?
➔ lessico → verbo (4) informare vs (5) dire:
- il verbo di (4) è più preciso perché dire è un iperonimo di informare →
dire è generico;
➔ tempo verbale → (4) futuro potremo vs (5) presente possiamo *.
- Perché questi errori (sia lessicale sia di tempo verbale) non stupiscono nessuno?
Perché la frase regge anche se grammaticalmente è sbagliata e imprecisa? →
perché in realtà tutte le informazioni che si perdono nel passaggio dallo standard al
neo-standard sono recuperabili implicitamente dal contesto → siccome sono in una
situazione in cui sto informando qualcuno che non andrò da lui e non sto facendo
una telecronaca, è chiaro che questo non potere andare da lui è proiettato nel futuro
e non c’è pericolo di ambiguità → quindi esprimere un’azione che si svolgerà nel
futuro con il presente non comporta nessuna perdita di informazione.
- Cosa vuol dire che un corpus è rappresentativo? → vuol dire che vi sono
riuniti dentro dei testi che sono stati selezionati in maniera statistica per
rappresentare tutte le zone dello spazio linguistico → se questi corpora
rappresentano la lingua italiana nel suo complesso, i dati che vi si possono
estrapolare sono estensibili a tutta la lingua italiana:
- Inoltre questi tratti sono indipendenti dall’origine geografica del parlante, cioè
sono ugualmente diffusi in tutta Italia (non sono quindi di origine diatopica e
dialettale).
- Questi tratti sono presenti anche nei più grandi autori della nostra letteratura,
perciò è difficile liquidarli come errori grammaticali.
- Casomai dovremmo domandarci come mai questi tratti non siano presenti
nella grammatica → la grammatica fotografa la struttura → dunque come mai
se questi tratti sono presenti nella struttura, la grammatica per secoli non li ha
mai fotografati?
- A bandire lui come soggetto dalla grammatica è stato Bembo nel 1525 nelle
sue Prose della volgar lingua → evidentemente se ci si schiera contro vuol dire
che veniva usato → lo fa perché la sua idea di lingua è una lingua di registro
alto, mentre ritiene quel tratto proprio del registro medio-basso, che lui non
contempla all’interno delle sue opere (le quali hanno il compito di portarlo alla
fama eterna) → non è un caso che questo tratto sarà presente in Manzoni, il
quale ricerca continuamente il registro medio e la lingua della conversazione.
- L’esempio di lui soggetto è emblematico → nella frase Lui mangia il fatto che il
pronome stia svolgendo la funzione di soggetto in prima battuta ce lo dice non
la forma lui al posto di egli ma la sua posizione, come per tutte le frasi:
- es. Marco ama Isabella → il fatto che Marco è il soggetto non è dovuto al
fatto che Marco ha una struttura morfologica particolare che gli dà la
funzione di soggetto (come accadeva per es. in latino) ma ce lo dice la
posizione.
- Quindi un italiano che sente Lui mangia può sì sconvolgersi del fatto che sia
stato usato lui al posto di egli ma non può non comprendere il significato della
frase → è dunque una semplificazione strutturale del sistema dei pronomi che
porta il pronome personale alla stregua dei sostantivi, che in effetti sostituisce
→ perché se nella grammatica italiana è la posizione che dice se un sostantivo
svolge la funzione di soggetto, complemento oggetto ecc., la stessa cosa in
teoria dovrebbe valere anche per i pronomi senza bisogno di marcare con una
diversa forma della parola la funzione di soggetto rispetto a quella di
complemento.
> Dunque ciò che è riconducibile a queste tre caratteristiche fa parte dei tratti
neo-standard, i quali sono ricomparsi con forza nel momento in cui l’italiano è
diventato la lingua di tutti e che poi si sono stabilizzati nello standard attuale
della lingua italiana.
> Per capire quanto siano diverse le innovazioni generali dai tratti neo-standard
prendiamo un esempio speculare, cioè un cambiamento nella morfo-sintassi
che sicuramente non è neo-standard perché non ha nessuna delle tre
caratteristiche → si tratta dell’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo (e non
avversativo):
> L’italiano neo-standard dal 1987 è una varietà che ha una centralità nel nostro
sistema → non è un caso che Berruto lo ponga nell’ellisse centrale non-marcato e
vicino all’origine.
- Dagli anni ‘80 la grammatica si confronta continuamente con questi tratti neo-stan-
dard → Berruto li chiama così perché secondo lui potrebbero diventare lo standard
del domani, cioè potrebbero, nel corso dell’evoluzione della lingua, diventare essi
stessi standard ed ess. grammaticalizzati.
> La sintassi si è sbriciolata, nel senso che è sparita l’oggettiva, che è diventata
implicita (ipotassi).
(7) ci dico che non potiamo venire = italiano (regionale) popolare [4].
> L’italiano popolare è l’italiano di coloro che non conoscono bene la lingua italiana e
la usano in maniera approssimativa (in quanto non conoscone bene le strutture
grammaticali e il lessico).
> ci dico tradisce un’origine dialettale → è un tipico costrutto dei dialetti meridionali
→ si tratta dunque di un parlante meridionale che trasferisce nella lingua italiana un
costrutto tipico del proprio dialetto.
- Chi lo fa è convinto di parlare italiano ma siccome non conosce bene le strutture
grammaticali domina male la gestione dell’italiano, per cui ricorre alla sua lingua
madre, introducendo nell’italiano un costrutto dialettale come se fosse italiano.
> Siamo di fronte a un italiano decisamente informale, nella zona più bassa dell’asse
diafasico.
> L’andamento sintattico è molto trascurato e non tiene conto delle regole grammati-
cali e del registro → possiamo utilizzare una frase del genere al massimo per comu-
nicare con una persona con cui siamo in strettissima confidenza, anche se con il ri-
schio di sembrare inopportuni (il parlante sembra piuttosto seccato).
(9) ehi, apri ‘ste orecchie, col cavolo che ci si trasborda = italiano gergale [6].
➢ È evidente che a questo punto, partendo da questi esempi, capiamo bene quanto
sia fondamentale stare nella giusta coordinata dello spazio linguistico → infatti se è
evidente che non posso rivolgermi al presidente della Repubblica dicendo “ehi, apri
‘ste orecchie, col cavolo che ci si trasborda”, è altrettanto vero che sarebbe piuttosto
infelice rivolgersi a un gruppo di ragazzi in strada dicendo “mi pregio informarLa che
la nostra venuta non rientra nell’ambito del fattibile” → si tratta di due storture
paragonabili → tant’è vero che usare strutture linguistiche non adatte al contesto è
spesso utilizzato per suscitare ironia.
➽ Questi esempi di Berruto sono piuttosto datati rispetto a oggi → infatti se la lingua
italiana non è cambiata tanto dal ‘600 all’‘800, invece dal 1980 a oggi è cambiata
molto, soprattutto a causa del grande cambiamento storico che l’italiano è diventata
la lingua di tutti gli italiani e questo ha comportato delle dinamiche tali che certe
trasformazioni erano inevitabili.
> Sarà dunque utile osservare l’architettura dell’italiano contemporaneo (2010):
- Questo schema è apparso per la prima volta in un testo del 2011, anno del
centocinquantesimo dell’unità d’Italia → è stato quindi un momento di bilancio di
tante dinamiche sociali, politiche, economiche ecc. ma è stato anche un momento di
bilancio sulla lingua italiana.
- Basti pensare che negli anni ‘60 (a cento anni dall’unità) Calvino parlava
dell’antilingua, Pasolini diceva che non esisteva un italiano standard nazionale, la
scuola di Barbiava denunciava il fatto che pure i bambini fiorentini, se provenienti da
famiglie contadine, avevano difficoltà linguistiche ecc.
a) L’italiano è cambiato e Antonelli non può non tenere conto della diatopia e lo fa in
un modo particolare.
- Ci sono due scritte → una centrale in nero e una più piccola in grigio:
● la scritta in grigio indica lo spazio che sarebbe stato occupato dalla diatopia
nello schema di Berruto → ossia se avessimo voluto contare la diatopia nello
schema di Berruto, lo avremmo dovuto fare per tutte quelle varietà che
stavano in quel punto dello spazio linguistico (ossia solo per la lingua parlata);
● diatopia in nero al centro dello schema indica invece la posizione della
diatopia nell’italiano contemporaneo → cioè la diatopia non è più emarginata
nella zona della lingua parlata di registro informale delle classi basse ma
coinvolge ormai anche l’italiano scritto, trasmesso, di qualunque estrazione
sociale e in contesti diafasici variabili → Antonelli parla infatti di una “risalita
della diatopia”.
b) Alcune varietà linguistiche sono scomparse, altre sono comparse, altre ancora si
sono spostate nello spazio linguistico:
❖ l’italiano aulico formale e l’italiano tecnico-scientifico sono ancora presenti, in
una zona più o meno analoga allo schema di Berruto;
❖ è scomparso l’italiano burocratico → la sua zona è ora occupata da una
nuova varietà = l’italiano aziendale;
❖ è comparsa anche la nuova varietà dell’italiano digitato:
- essa ha una collocazione particolare nello spazio linguistico perché
diastraticamente è piuttosto elevata;
- diamesia = è più orientata sul parlato;
- diafasia = tra il formale e l’informale;
❖ un’altra varietà nuova è l’italiano regionale → si trova in una zona dello spazio
linguistico piuttosto vicina all’origine:
- non è molto distante dalla zona della formalità → si usa nei contesti
informali ma può anche allargarsi alla formalità;
- è una varietà utilizzata non solo dalle classi basse ma anche da quelle
medie;
- sta nel mezzo tra la scrittura e l’oralità;
❖ la varietà più vicina in assoluto all’origine è l’italiano parlato colloquiale;
❖ l’italiano informale-trascurato rimane sempre più legato al parlato però è
risalito in diastratia → questo è indicativo del fatto che l’italiano viene usato in
sempre maggiori situazioni comunicative → laddove nel 1987 si sarebbe
ricorsi al dialetto, oggi si ricorre più probabilmente all’italiano;
❖ altro dato importante è che l’italiano popolare (che nello schema di Berruto
occupava la posizione ora occupata dall’italiano regionale) è collocato
decisamente in basso, cioè:
- è tipico di persone provenienti dalle classi sociali basse con un grado
di istruzione basso;
- è relegato alle situazioni di massima informalità;
- è soprattutto proprio del parlato;
15 MAR. 2022
ITALIANO NEO-STANDARD
➢ Nel 1985 esce un articolo di Sabatini, intitolato L’«italiano dell’uso medio»: una
realtà tra le varietà linguistiche italiane → Sabatini individua 35 tratti neo-standard,
che lui chiama “italiano dell’uso medio”.
- Sabatini è il primo a rendere conto che questi tratti sono presenti nella nostra lingua
da sempre (questo è legato alla sua sensibilità di storico della lingua).
- Ma è anche il primo che mette a fuoco che questi tratti sono indipendenti dagli assi
diastratico, diatopico e diamesico (≠ Mioni) → invece è marcata una dipendenza
diafasica, cioè si tratta di tratti propri del registro medio → per questo preferisce
insistere nel caratterizzarli con l’etichetta “italiano dell’uso medio”.
➢ Sul tema ritorna Berruto nel 1987 in Socio linguistica dell’italiano contemporaneo,
dove identifica questi tratti come un neo-standard.
- Berruto parte da una situazione in cui, dagli anni ‘30 fino agli anni ‘80, ci sono dei
tratti standard e dei tratti sub-standard (ossia tratti che non sono grammaticali e che
si usano solo in certe circostanze) → nella situazione contemporanea a Berruto è
successo che questi due gruppi si sono avvicinati e si è creata un’intersezione, la
quale sta proprio nell’italiano neo-standard → quei tratti che hanno raggiunto una
tale frequenza d’uso, diffusione e distribuzione smettono di ess. sub-standard e
diventano neo-standard → neo-standard significa dunque che questi tratti si avviano
a diventare standard.
- Nel futuro Berruto si prefigura una situazione in cui i tratti neo-standard e l’italiano
standard vanno a coincidere, mentre intanto si preparano altri nuovi tratti sub-stan-
dard che in futuro riprodurranno il solito meccanismo.
- Berruto dunque pone l’accento sul fatto che questi tratti nel 1987 si prefigurano
come lo standard del futuro, motivo per cui usa l’etichetta “neo-standard”.
> Sabatini individua sette tratti neo-standard relativi alla fonologia e 28 relativi a mor-
fologia e sintassi → non è un caso che con i tratti neo-standard spesso entrino in
gioco settori critici del nostro sistema → i tratti neo-standard in qualche modo com-
pletano un’evoluzione, che è rimasta ferma per vari motivi in certi ambiti.
> Sigla [Pd’A] → significa che di questi tratti contrassegnati dalla sigla si è occupato
successivamente Paolo d’Achille nel 1990 nel volume Sintassi del parlato e
tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, in
cui d’Achille è andato a verificare la presenza di questi tratti in tutti i testi della storia
linguistica italiana dalle origini fino all’‘800 e ha trovato questi costrutti presenti in
tantissimi autori.
21 MAR. 2022
> I primi tratti che riguardano l’italiano neostandard sono di fonologia e sono 7 → è
evidente che vanno a toccare dei settori “critici”, che sono tali perché legati alla
particolare evoluzione dell’italiano a partire dal latino e su cui poi si è scelto in
qualche modo convenzionalmente una soluzione, che non è però del tutto naturale
→ infatti il sistema fonologico dell’italiano è una costruzione astratta, che
corrisponde soltanto all’inventario dei fonemi del toscano ma in molti casi più
specificatamente solo del fiorentino:
1. Uno dei settori tipici di crisi del sistema fonologico dell’italiano è la perdita di
distinzione tra le vocali chiuse e quelle aperte ([e] e [ε] - [o] e [ɔ]) → dal sistema
quantitativo del latino a cinque vocali si passa a un sistema a sette vocali, dove le
differenze fonologiche (cioè distintive) sono affidate non più alla quantità della vocale
ma al suo timbro.
- Il sistema fonico dell’italiano prevede dunque sette vocali:
● tre sono note già in latino e quindi non danno problemi nemmeno nella
restituzione grafica (perché esisteva già un grafema in latino che le
rappresentava) = la vocale centrale A e le vocali chiuse U (velare) e I
(palatale);
● il sistema delle semichiuse e delle semiaperte ha invece creato difficoltà al
sistema grafico, perché aveva esclusivamente un grafema per l’asse delle
velari (o) e uno per le palatali (e) → ma nel settore coperto da questi due
grafemi l’italiano in realtà prevede due fonemi ciascuno → dunque si è
utilizzato lo stesso grafema per indicare sia le semiaperte sia le semichiuse.
- I grafemi e e o sono dunque completamente ambigui → non c’è infatti un modo per
sapere, leggendo una parola, se quella parola si pronuncia con la e/o semiaperta o
la e/o semichiusa.
- Il fatto che si realizzi una semiaperta o una semichiusa non dipende dal valore
fonologico-distintivo (che è tipico del fiorentino) ma semplicemente della posizione
→ il tratto neo-standard è dunque proprio la tendenza alla perdita della distinzione
tra semiaperte e semichiuse.
- Sabatini precisa infatti che (nel 1985) «la distinzione secondo il modello toscano stenta
a entrare nell’uso anche delle persone molto colte».
- «sono rarissimi i casi di distinzione lessicale affidata esclusivamente all’opposizione nel
grado di apertura tra le due vocali» → ossia quasi sempre dal contesto si riesce a
capire se si tratta di una semiaperta o di una semichiusa ma la parola è cmq
disambiguabile → dunque in realtà i contesti in cui la distinzione fonologica è
davvero funzionale alla comprensione del testo sono molto limitati.
- Tutti questi fattori fanno sì che la perdita della distinzione tra semiaperta e
semichiusa crei una semplificazione del sistema senza comprometterlo.
es. PRATUM > prato (no sonorizzazione) ≠ STRATAM > strada (sonorizzazione)
- Ci sono varie spiegazioni del perché esista questa alternanza (c’è chi pensa a una
variante sociolinguistica di tipo diastratico, chi a influssi settentrionali ecc.) → fatto
sta però che in alcuni casi si ha la sonorizzazione in anltri no, tanto che in certi casi
avviene che ci siano delle coppie minime, cioè in cui la distinzione tra sorda e sonora
ha valore distintivo → si conclude dunque che si tratta di due fonemi distinti:
es. /fuso/ = oggetto per filare la lana vs /fuzo/ = participio passato di fondere
es. /Brindisi/ = città* vs /brindizi/ = alzare in alto il calice
* Siamo sicuri che nel caso di Brindisi la s è sorda perché la città si trova in Italia
meridionale, dove non è avvenuta la sonorizzazione.
- Questi due fonemi cmq sono un po’ critici, in quanto il loro statuto di fonema non è
particolarmente solido, proprio perché le coppie minime sono limitate e anche in quei
casi dal contesto si è sempre in grado di distinguere le due parole.
- Dunque i casi in qui c’è valore distintivo non sono numerosi + il fatto che questa
distinzione si perda non avrebbe un grosso impatto → la lingua tende naturalmente
a semplificarsi e dunque si va nella direzione della caduta di opposizione tra sibilante
sorda e sonora → tanto più che anche in questo caso siamo di fronte a una
situazione del tutto analoga alla precedente, ossia il grafema che rappresenta i due
fonemi è lo stesso → questo ha portato a trovarsi di fronte a pronunce che
arealmente sono distribuite in modo diverso a seconda della provenienza dei parlanti
→ in ogni caso si va verso la perdita di distinzione fonologica.
> In questo caso in realtà la tendenza è quella di andare verso la sibilante sonora →
ci sono vari studi recenti che dimostrano come si stia diffondendo l’uso della sibilante
sonora pure tra i parlanti toscani, soprattutto i giovani, e si sta diffondendo anche
nell’Italia meridionale.
- Perché prevale la sonora invece che la sorda? → questo è dovuto al prestigio dei
dialetti settentrionali durante il boom economico del secondo dopoguerra → la
popolazione italiana è concentrata per quasi la metà nell’Italia settentrionale → è
dunque normale che gli usi settentrionali, nel caso di versioni alternative, diventino
prevalenti.
- Questo radd.fon. è un altro punto critico perché non viene visualizzato nella grafia,
mentre nell’italiano antico sì (tant’è vero che nei manoscritti anteriori alla stampa
spesso si trova il radd.fon. e nelle edizioni moderne si usa restituire lasciando il
raddoppiamento per testimoniare che chi ha scritto ha voluto marcare il radd.fon.) →
però nella grafia italiana standard il radd.fon. non viene rappresentato → questo
però ha contibuito a far sì che per quegli italiani per cui il radd. fon. non era naturale
si trovassero in difficoltà di fronte a un testo scritto.
- Nel passaggio dal latino all’italiano, una delle trasformazioni più importanti del
fiorentino è il cosiddetto “dittongamento spontaneo”, che riguarda le semiaperte (e di
pede e o di bono), le quali vanno incontro a dittongamento se in sillaba libera.
8. Gli aggettivi e pronomi dimostrativi codesto e gli avverbi di luogo costì e costà
sono ormai confinati nell’uso burocratico:
11. La forma pronominale dativale gli è di uso larghissimo con tutti i valori (= “a
lui”, “a lei”, “a loro”) → accade spesso che si usi gli dico al posto di le dico per riferirsi
a una donna e soprattutto sta scomparendo del tutto l’uso di loro, soprattutto nel
parlato (es. gli dico prevale su dico loro).
- Anche in questo caso il sistema non reagisce più di tanto perché c’è una semplifi-
cazione che non compromette e danneggia la struttura → siamo infatti sempre in
grado di capire se quel gli si riferisce a un uomo o a una donna o a un plurale.
- Sabatini analizza questo fenomeno anche in diacronia e sottolinea come esso sia
diffuso nella nostra storia linguistica e anche nella nostra storia letteraria recente →
in particolare dice «molti scrittori dei secoli XIV-XVI usarono liberamente la forma unica
gli e questa fu riammessa per il plurale (ma non per il femminile singolare e plurale) da
Manzoni. Scrittori più recenti hanno accolto ancora più largamente la forma gli».
12. Le forme lui, lei e loro in funzione di soggetto al posto di egli, ella, essa,
essi, esse, sono ormai la norma in ogni tipo di parlato e nelle scritture che
rispecchiano atti comunicativi reali.
«Le forme lui, lei e loro in funzione di soggetto cominciano a essere attestate con
una certa larghezza nel pieno sec. XIV (ma un esempio certo di loro è già in un
documento fiorentino del 1267) [...]. Tali forme furono condannate da Bembo
nelle Prose della volgar lingua nel 1525* e ciò ebbe effetto sulla lingua di molti
scrittori, ma non di tutti [...]. Dal secolo XVII in poi si assiste a una graduale
ascesa del sistema lui/lei/loro nella narrativa, con una decisa impennata dovuta
alle scelte di Manzoni».
* È proprio da qui che nasce l’indicazione grammaticale che tali forme non si
possono usare e poi è stata trasmessa in tutta la grammatografia successiva
13. Trovano buona accoglienza le forme dei dimostrativi questo e quello
rafforzate da qui e lì (es. quest’uomo qui, quella casa lì ecc.) → si tratta di un uso di
origine settentrionale ma che poi si diffonde in tutta Italia → è un tratto dalla grande
frequenza e che potrebbe addirittura diventare standard.
es. Condiscilo con dell’olio crudo invece di Condiscilo con olio crudo
15. Progressiva scomparsa della particella pronominale -vi in favore di -ci (es.
ci resto; ci metto; metterci; mettercelo ecc.)
- Nella frase Mario canta la focalizzazione è posta sul fatto che Mario sta cantando,
cioè l’elemento nuovo (del quale la frase ci informa) è che costa sta facendo Mario
→ se invece uso la frase Canta Mario, posponendo il soggetto al verbo, cambio il
valore informativo → in questo caso l’elemento nuovo è Mario e voglio dire che sta
cantando proprio lui.
- Questo costrutto è tipico dell’italiano neo-standard.
b) La frase segmentata, cioè con tematizzazione a destra o sinistra del dato noto:
c) Anacoluto → è come se mancasse una parte della frase ma in certi casi questa
mancanza è gestita dal sistema:
d) Frase scissa:
es. Mario canta (frase non-marcata)
vs È Mario che canta (focalizzazione su Mario)
- La risalita è molto più facile con i verbi modali (dovere, potere, volere, sapere), con
i verbi aspettuali (stare + gerundio, stare a, stare per, cominciare a, finire di) e con i
verbi andare e venire (quando il loro specifico significato è fortemente attenuato,
sicché essi formano un complesso unico col verbo che accompagnano) → es. Non
mi posso rassegnare; es. Non mi sta a sentire; es. Ce ne vogliamo andare ecc.
● che con valore temporale = equivalente a in cui, dal momento in cui, nel
momento in cui (uso abbastanza consolidato):
es. La sera che ti ho conosciuto = La sera in cui ti ho conosciuto
22 MAR. 2022
21. Tra che cosa, cosa e che nelle frasi interrogative (specialmente dirette) ha per-
duto terreno che cosa e si va affermando sempre più il semplice cosa (di prove-
nienza settentrionale), mentre il che (di provenienza meridionale) a livello nazionale
si è fissato più che altro in formule come Che so? (= “ad esempio, per così dire”),
Che dire? (= “difficile giudicare”), Di che si tratta?, Che importa? ecc.
es. Cosa stai facendo? prevale su Che cosa stai facendo? o Che stai facendo?
22. In funzione di aggettivo interrogativo che è molto più usato di quale:
es. Non so che progetti abbia invece di Non so quali progetti abbia
- Questa tendenza è anche più netta nelle frasi esclamative (tali usi sono già salda-
mente attestati nell’italiano antico):
23. Alcuni nessi relativi che, all’interno della frase, esprimono un legame dichiarati-
vo o causale, sono stati ridotti, con ellissi dell’elemento nominale:
24. L’uso parlato (che poi si è riversato anche nello scritto) ha portato a una note-
vole selezione (e quindi semplificazione) tra i tipi di congiunzione causale, finale
e interrogativa:
- Va tenuto presente tuttavia che nella lingua d’uso medio la relazione causale viene
più spesso espressa parattaticamente congiungendo le frasi con una e cosiddetta
“pragmatica” o “esplicativa”, in quanto spiega quella particolare relazione dal punto
di vista del locutore:
b. Per le finali, l’uso di affiché (che nelle descrizioni delle grammatiche primeggia) è
invece rarissimo → il costrutto finale esplicito nel parlato è introdotto da perché o, più
spesso, viene trasformato in costrutto implicito che incorpora un verbo causativo:
es. Siccome non si era fatto vivo, allora decidemmo di andarlo a trovare
- Molti sostengono che il congiuntivo stia morendo ma in realtà non sta morendo
affatto come si pensa → gli studi sulla lingua dei sistemi di comunicazione di massa
hanno dimostrato invece che il congiuntivo tiene moltissimo (soprattutto
nell’informazione).
- Inoltre non è che il congiuntivo stia sparendo in tutti i luoghi e in tutti i suoi usi ma
tende a ess. sostituito dal presente in alcuni contesti particolari → in particolare il
congiuntivo tende a cadere quando l’informazione data dal congiuntivo (aspettualità,
potenzialità) è già espressa dal verbo principale:
es. Credo che Luigi abbia perso i libri = Credo che Luigi ha perso i libri
- In questo caso non si perde nessuna informazione in quanto il fatto che Luigi possa
aver perso i libri o meno è già espresso di per sé dal verbo credere (di per sé il verbo
credere esprime potenzialità, una non certezza).
- In certi casi però anche questo è un uso che ha una sua stabilità storica → Sabatini
riporta esempi da Dante, Machiavelli e Manzoni.
- Questo è un tratto molto forte, che ha una sua naturalezza di applicazione e infatti
è spesso attestato nella nostra storia linguistica (Dante, Boccaccio, Manzoni).
es. La birra che ci siamo bevuti invece di La birra che ci siamo bevuta
29. È più accettata di un tempo la costruzione dei verbi con forma pronominale
per indicare una più forte partecipazione affettiva o di interesse → quest’uso
(detto “costruzione riflessiva apparente o di affetto”) è frequentissimo con i verbi
mangiare e bere (e loro sinonimi) e con altri che indicano azioni o atteggiamenti im-
plicanti effetti sulla persona del soggetto:
- Il primo tipo deriva più direttamente dall’uso parlato (anche se le singole locuzioni
sono di origine piuttosto colta), mentre il secondo nasce più propriamente nei lin-
guaggi tecnici → entrambi però sono ormai di largo impiego nell’uso parlato medio e
medioalto.
35. Vari elementi lessicali, che però svolgono per lo più tipiche funzioni sintat-
tiche, specialmente a livello testuale, possono caratterizzare la lingua media di-
stanziandola dallo standard ufficiale → sono nettamente dominanti nel parlato e
nella narrativa ma vengono accolti con facilità anche nella scrittura giornalistica e
perfino a livelli più alti → Sabatini ne dà un rapido elenco, affiancando tra parentesi
gli equivalenti più formali:
- solo che (/tuttavia, però). Es.: Capisco il tuo problema; solo che io non posso
farci niente (“... però io non posso farci niente).
> Sabatini tratta poi la parte riguardante il lessico (guarda direttamente il testo).
> Nella parte finale Sabatini mette in evidenza quali sono le caratteristiche di questi
tratti neo-standard (che lui chiama “dell’uso medio”) e poi chiude con il repertorio
delle varietà linguistiche in Italia (nel 1985):
- Secondo Sabatini le varietà nazionali nel 1985 sono ancora appannaggio solo delle
classi istruite.
- Sabatini riconduce l’italiano regionale delle classi istruite solo all’uso parlato, in
quanto presuppone che chi appartiene a una classe istruita quando scrive scriva in
un italiano standard o dell’uso medio → c’è sì l’italiano regionale ma a livello del
parlato.
- Le ultime varietà previste hanno una scansione diversa per le classi istruite e per
quelle popolari:
- per le classi popolari c’è un uso unificato, con informalità più accentuata per il
dialetto → sostanzialmente si riduce tutto al dialetto, il cui uso è destinato sia
al parlato che allo scritto;
- per le classi istruite possiamo prevedere diverse sotto-categorie → esse
possono ricorrere al dialetto regionale o provinciale o al dialetto locale quando
sono nel parlato di registro informale.
➢ Sintassi del parlato e tradizione scritta → Paolo D’Achille in quest’opera fa un
controllo sistematico e riporta autore per autore i dati quantitativi della presenza di
tratti dell’uso medio in questi scritti.
- Il prof riporta una pagina riguardante le occorrenze del che polivalente in Boccaccio:
➽ Per capire meglio l’impatto che ha avuto in passato e che ha nel presente il
problema dei tratti neo-standard dell’italiano analizziamo ora il caso dei doppiaggi
dei film e delle traduzioni di opere letterarie.
> Per noi è molto interessante andare a vedere i casi in cui un film è stato doppiato
più volte → che un film venga doppiato più volte è una cosa più frequente di quanto
si pensi, soprattutto se i film sono molto vecchi → i film vengono ridoppiati per varie
ragioni (la principale è che l’audio del primo doppiaggio si è rovinato e non è più
utilizzabile) → moltissimi film sono stati ridoppiati quando si sono diffusi i
videoregistratori e quando i film sono passati dalle sale cinematografiche alla
televisione → dunque soprattutto negli anni ‘70-‘80 (quando si è passati da una
riproduzione cinematografica a una più privata) molti film sono stati ridoppiati.
> Per noi è particolarmente interessante andare a vedere questi casi di ridoppiaggio
ed è ancora più interessante se il film nella lingua originale usava un registro medio
→ infatti in questo caso è interessante vedere come i doppiatori hanno restituito
quest’uso medio → ma nei fatti cosa verifichiamo?
> Per dare un esempio di questo il prof cita delle pagine tratte dall’articolo L’italiano
del doppiaggio di Nicoletta Maraschio (contenuto nel volume La lingua italiana in
movimento, 1982) → Maraschio, proprio perché utilizza il doppiaggio per far vedere
questo italiano in movimento, si sofferma anche su alcuni casi di ridoppiaggio.
- In particolare si sofferma sul caso del film Furia di Fritz Lang, di cui si ha un primo
doppiaggio nel 1936 e poi un secondo doppiaggio alla fine degli anni ‘70 (quando
appunto si comincia a pensare a una distribuzione del cinema di tipo diverso) →
sono poche battute ma ci si rende conto abbastanza bene delle differenze:
- Fino al 1980 il dialetto era entrato nel cinema ma in modi piuttosto particolari:
● come dialetto puro era entrato nell’immediato secondo dopoguerra nel cinema
neorealista (in film come Ladri di biciclette, La terra trema* e Paisà**) → poi le
esperienze di cinema dialettale puro si limitano a L’albero degli zoccoli di Olmi
(1978);
● per il resto il dialetto sì c’era nel cinema ma era un dialetto piuttosto
stigmatizzato:
- per es. se il film si svolgeva a Roma veniva inserito qualche tratto del
romanesco che però era compreso da tutti;
- poi c’erano altri personaggi tipizzati, come la donna dai facili costumi
con accento emiliano, il furbacchione con accento napoletano, il
personaggio ironico e sarcastico con accento fiorentino ecc.;
- si tratta dunque di strategie che danno sia un po’ di tipizzazione (che deriva
dal teatro) sia anche un po’ di verisimiglianza (perché in effetti è difficile fare
un film ambientato per es. a Roma con dei personaggi che parlano solo
italiano standard letterario) → in ogni caso non si può parlare di dialetto vero
e proprio;
● a partire dagli anni ‘80 invece il dialetto entra dentro → per es. Ricomincio da
tre di Troisi (1983) è stato uno shock per gli spettatori perché i primi minuti
sono completamente in napoletano stretto.
** Paisà ha avuto una fortuna diversa perché in qualche modo è più panitaliano → il
film parla della resistenza e segue l’avanzata degli Alleati dopo lo sbarco in Sicilia →
il film è composto da più episodi che si svolgono in luoghi diversi (Sicilia, Napoli,
Roma, Firenze, Italia settentrionale), per cui si trovano dialetti diversi.
- Ma se si vede questa variazione rispetto a uno stesso testo di partenza, allora non
è una questione di stile → il traduttore di un testo/copione ha l’obiettivo di ess.
massimamente rispettoso del testo di partenza → se di fronte a uno stesso testo di
partenza si hanno due comportamenti completamente diversi a distanza di 20-30
anni, questi atteggiamenti diversi non sono da attribuire a scelte personali ma sono
sintomo di cambiamenti del sistema → vuol dire che chi sta sforzandosi di riportare il
contenuto del film originario nel contesto in cui deve ess. fruito si rende conto che
linguisticamente quella traduzione fatta secondo l’italiano standard letterario non
funziona più.
- Chi scrive il doppiaggio dunque è costretto ad adeguare la lingua → questi adegua-
menti ci danno l’idea del cambiamento del sistema → questi cambiamenti non sono
più ascrivibili a scelte personali e stilistiche ma sono da attribuirsi al sistema (è pro-
prio il ridoppiaggio che ci consente di comprendere tutto questo).
- La stessa cosa si può notare esaminando casi di ritraduzione di testi letterari (sia-
mo nella stessa situazione del ridoppiaggio) → il lavoro del traduttore è quello di ri-
portare al contesto in cui la traduzione verrà fruita lo stesso contenuto presente nel
testo di partenza.
> Allora se si trovano delle differenze sostanziali tra una traduzione precedente e
una posteriore al 1980, queste differenze non sono legate a scelte stilistiche ma a
cambiamenti nel sistema.
> Vediamo ora alcuni casi salienti cominciando dal che polivalente:
a dor presente, a dor real, era que eli amara sublimemente uma mulher
● Puccini ‘53 → «il suo dolore presente e il suo dolore reale consistevano nell’aver
amato sublimemente una donna» → in questo caso è stato trasformato
completamente in modo da ess. ricondotto a un costrutto sintattico regolare di
tipo neo-standard letterario;
● Stegagno (‘51) e ‘92 → «il dolore presente, il dolore reale, era dovuto al fatto che
lui (egli)* aveva amato sublimemente una donna» → il che polivalente è stato
sciolto in un costrutto conforme all’italiano standard letterario (il quale esplicita
il nesso espresso dal che polivalente);
* passaggio da un tratto letterario standard (egli) a uno neo-standard (lui).
● C&P 2000 → «il dolore presente, il dolore reale, era che lui aveva amato
sublimemente una donna» → questa traduzione è la più rispettosa e fedele al
testo portoghese, perché mantiene lo stesso costrutto.
> Frasi marcate:
● Puccini ‘53 → «E, dalla stessa finestra del 214 conobbi, a mia volta, l’assistente»;
● Stegagno (‘51) e ‘92 → «E da quella stessa finestra del 214 io pure conobbi
l’assistente»;
● C&P 2000 → «E da quella medesima finestra del 214 lo conobbi anch’io, il
sorvegliante!» → di nuovo questa traduzione ricalca perfettamente il costrutto
del testo originale portoghese.
> Che cosa caratterizza le traduzioni di Puccini e Stegagno? → il fatto che nel
tradurre c’è quasi un imbarazzo ad allontanarsi dall’italiano standard letterario →
questo imbarazzo si sente perché ogniqualvolta c’è un costrutto sintattico che non è
previsto dalla grammatica e non è riconducibile allo standard letterario, questo
costrutto viene sostituito con uno che rientra nel sistema standard.
- Questo imbarazzo è così forte che a volte si allarga addirittura anche a zone che
non riguardano l’italiano neo-standard → prendiamo per es. il caso dell’enallage, che
non è un tratto neo-standard ma una semplice figura retorica (la quale prevede che
si trasferisca su un oggetto lo stato d’animo della persona che interagisce con
quest’oggetto) → Puccini e Stegagno normalizzano persino questa figura retorica:
> Questi esempi dunque sono importanti per capire come andare a vedere le
ritraduzioni ci aiuti a stabilire il grado di penetrazione dei tratti neo-standard nella
lingua italiana e anche le tappe di questa penetrazione (si vede bene come entrino
pian piano a partire dal 1980 e poi siano abbastanza consolidati nel 2000).
28 MAR. 2022
> Il prof dice di aver preso in considerazione quattro grammatiche, perché esse sono
rappresentative di quelle che sono le grammatiche che si possono trovare in
circolazione, sia come approccio (ogni grammatica ha un modello linguistico di
riferimento → tradizionale, generativo, valenziale) sia come uso (es. grammatiche di
riferimento, grammatiche scientifiche, grammatiche scolastiche ecc.).
> Per comprendere di che tipo di grammatica si sta parlando bisogna andare a vede-
re l’introduzione (dove l’autore può dare indicazioni sul proprio metodo) e l’indice
(perché da esso comprendiamo come è stata affrontata la trattazione grammaticale).
- Serianni qui si riferisce alla frase scissa (che è un tratto neo-standard e prevede
l’uso di che con valore polivalente) e alla subordinazione generica (che è quella che
specificatamente riguarda le altre tre tipologie di che polivalente) → riguardo a
quest’ultima dice:
«Nell’italiano di registro colloquiale antico e moderno, ma con larghissime
attestazioni anche letterarie, si ricorre spesso a che per collegare una dipendente a
una subordinata (perlopiù con l’indicativo): si parla di che subordinante generico
o che polivalente.
Abbastanza spesso si istituisce tra le due proposizioni un evidente rapporto
causale: “copritevi, che fa freddo”; «La fatica ch’io duro è vana cosa / che più
ritorni quanto più ti scaccio» (Saba, Il canzoniere).
In altri casi sarebbe possibile cogliere un rapporto temporale (“vado a lavorare
che è ancora notte fonda”), finale («l’Emilia a volte mi chiamava dalle finestre,
dal terrazzo, che salissi, facessi, le portassi qualcosa» - Pavese, La luna e i falò),
consecutivo («è un funambolo, un equilibrista che quelli del circo di Pechino, al
confronto, risultano dei dilettanti» - Biagi sulla Repubblica*).
Ma il più delle volte il tentativo di catalogare secondo rigidi schemi
logico-grammaticali questa funzione di che è arbitrario.
Caratteristica la frequenza del che polivalente nel parlato dei Promessi sposi
(«ascoltatemi bene, che vedrò di farvela intendere») e nella prosa di Verga
(«intanto l’avvocato chiacchierava e chiacchierava che le parole andavano come
la carrucola di un pozzo» - I Malavoglia).
L’accettabilità di questo uso di che nella lingua scritta oscilla, non solo in base al
livello di lingua adoperato (sorvegliato o non sorvegliato), ma anche a seconda dei
vari costrutti. Il che temporale, per esempio, è appropriato anche in contesti
formali ed è anzi l’unica possibilità in frasi che indicano la durata di un’azione in
rapporto a una data unità di tempo (ora, giorno, anno ecc.): es. «è un’ora che ti
aspetto»».
- Dunque il quadro che ricostruisce Serianni non è così strutturato come quello di
Sabatini (il quale divide quattro tipologie ben precise) ma è pressoché
corrispondente a esso → la raccomandazione di Serianni è che il che polivalente
nella lingua scritta è oscillante ma cmq in relazione a un registro poco sorvegliato (=
registro medio-basso) → invece emerge piuttosto chiaramente che il che temporale
è di fatto accettato dalla grammatica, in quanto Serianni dice che è appropriato in
contesti formali e anzi è l’unica possibilità in frasi che indicano la durata di un’azione
(non ci sono alternative grammaticali standard a questo tipo di costrutto).
> Serianni torna a parlare del che polivalente all’interno della sezione Dubbi
linguistici nel Glossario di Patota:
1
Cioè le frasi di cui ha fatto esempio sono normali nel parlato (non nello scritto).
- La posizione di Serianni è chiara → nello scritto si può usare solo il che con valore
temporale, nel parlato si possono usare gli altri tipi tranne l’ultimo tipo, che non si
può usare né nello scritto né nel parlato.
> Quindi che cosa emerge da questa prima analisi? → che già negli anni ‘80 un
grammatico con un certo equilibrio, riguardo al che polivalente accetta alcune cose
(ponendole come grammatica) mentre ne rifiuta altre.
> Un’altra cosa evidente è che il grammatico moderno dopo gli anni ‘80 deve fare dei
distinguo nello spazio linguistico → sia nella trattazione grammatica vera e propria
sia nella sezione Dubbi linguistici, Serianni ha fatto coscientemente una distinzione
tra scritto e parlato (= distinzione grammaticale in base all’asse diamesico) e ha
anche avuto un’attenzione costante per il registro (registro alto e basso).
- Dunque quello che emerge è che, dopo che l’italiano è diventato la lingua di tutti e
si sta ristandardizzando in seguito ai grandi cambiamenti sociali (e la lingua italiana
ha ricevuto le istanze di queste trasformazioni), da questo momento in poi la
grammatica non può più ess. la grammatica del si può e non si può ma è la
grammatica che si ragiona su cosa si può fare e cosa no rapportando le indicazioni a
punti specifici dello spazio linguistico → la lingua non è monolitica, per cui la
grammatica ne tiene conto nel momento in cui ne detta le regole grammaticali → la
grammatica è un’istantanea della struttura linguistica in un dato momento, per cui di
fronte a una lingua che si è trasformata non può far altro che constatare le
caratteristiche della lingua.
b) La seconda grammatica che prendiamo in considerazione è Grammatica di
riferimento dell’italiano contemporaneo, Giuseppe Patota (2006) → il titolo è
abbastanza indicativo → questa grammatica si propone come grammatica di
riferimento dell’italiano contemporaneo → per cui ci si aspetta di trovare in questa
grammatica i tratti neo-standard che sono stati assimilati e assorbiti dal sistema.
- Dunque prima di entrare nel pieno della descrizione delle strutture grammaticali, ci
sono cento pagine che introducono quello di cui abbiamo parlato finora nel corso →
si tratta di un’impostazione del tutto diversa dalle grammatiche tradizionali
> Poi si passa a parlare del sistema strutturale della lingua → bisogna però
premettere che questa grammatica è basata sulla grammatica valenziale → essa è
un modello che nasce in Francia ed è stato importato in Italia proprio da Sabatini →
essa vede la frase come un’espansione verbale → cioè, partendo dal presupposto
che nessun verbo completa da sé il suo significato se non con alcuni elementi,
prevede un sistema di saturazione del verbo attr. questi elementi, chiamati
“argomenti”:
- es. un verbo come correre non esprime il suo significato se non viene
esplicitato chi sta correndo → dunque correre è un verbo che ha
necessariamente bisogno di un argomento (il soggetto) per ess. completato
(tecnicamente si chiama “a valenza 1”);
- invece un verbo come amare, per completare il suo significato, presuppone
sempre un soggetto e un oggetto = verbo a valenza 2;
- un verbo come dare presuppone invece tre elementi, ossia un soggetto, un
oggetto e un ricevente.
- Si parte dapprimo dalla “frase nucleare” (= la frase che contiene il verbo e i suoi
argomenti”) → la frase nucleare può poi ess. espansa (= “circostanti”).
> Si passa poi al capitolo intitolato Verso il testo → questo vuol dire rendere conto di
tutta quella serie di strategie e funzioni che servono per mettere insieme i periodi →
la grammatica tradizionale dice come si fanno le frasi e poi come esse si combinano
fra di loro in periodi ma non ci dice mai chiaramente come i periodi vadano messi tra
di loro → questo pertiene alla cosiddetta “linguistica testuale”, la quale ci dà le
condizioni e le regole della coesione e coerenza testuale, che avviene attr. l’uso di
elementi grammaticali, su cui però di solito le grammatiche non si soffermano.
> Segue una parte dedicata al lessico, che è proprio una ricognizione sulle
caratteristiche del lessico da un punto di vista lessicografico.
- Solitamente si tende a tenere distinti grammatica e lessico → questo è infatti l’ap-
proccio convenzionale → però il lessico può anche entrare nelle cose di pertinenza
della grammatica → infatti Sabatini si sofferma qui a parlare di come è fatto il lessi-
co, dei prestiti, della formazione delle parole, dei linguaggi settoriali e speciali (socio-
linguistica) ecc.
> Trattazione del che polivalente → Sabatini nel suo saggio del 1985 riguardo ai
tratti dell’uso medio dell’italiano aveva connotato questo fenomeno in maniera
diafasica → vediamo allora come si comporta nel momento in cui va a scrivere una
grammatica.
- Del che polivalente si parla non nel corpo della trattazione ma all’interno di uno
specchietto d’approfondimento (intitolato Nelle varietà dell’italiano):
«Nell’italiano parlato, e a volte anche scritto, si usa il semplice che col valore di a
cui, in cui, di cui, con cui: è il che polivalente, così chiamato perché può avere
molti valori. Lo troviamo in frasi come Questa è la valigia che ci ho messo la
biancheria; Ti presente l’amico che gli ho parlato di te. Sono costruzioni esistenti
da molti secoli (sono presenti in Dante, Petrarca e in tanti altri classici, antichi e
moderni, della nostra letteratura), ma che possono giustificarsi soltanto nel parlato
più sciolto o nella lingua della narrativa, quando questa vuole imitare il parlato.
Oggi nell’uso formale della nostra lingua non sono ammesse, salvo che con il
valore temporale (Il giorno che [= in cui] ti ho incontrato)».
- Si tratta dunque di un uso prevalente nel parlato, raramente nello scritto → si può
utilizzare solo nel parlato di registro basso e l’unico tipo ammesso è quello tempora-
le.
■ Qualche osservazione su lui in funzione di soggetto:
a. Nella grammatica di Serianni quando ci sono i paradigmi verbali viene utilizzato ri-
gorosamente egli ≠ per quanto riguarda invece le forme pronominali toniche in fun-
zione di soggetto, già Serianni ammette anche l’uso di lui e lei.
«L’alternativa tra egli e lui (e tra ella e lei) in funzione di soggetto è uno dei temi
storicamente più dibattuti dalla grammatica italiana, fin dal Cinquecento.
Oggi non possono esserci più dubbi sulla legittimità di usare lui come soggetto,
non solo nel registro colloquiale.
Schematizzando, possiamo dire che egli si adopera solo in funzione anaforica,
cioè quando serve per richiamare una persona di cui si sia parlato in precedenza
(come capita soprattutto nell’italiano scritto di tipo argomentativo; nel parlato, si
preferisce o omettere senz’altro il pronome o ripetere il nome già detto). Ad
esempio: Dopo la pace di Amiens, Napoleone si accinse a rafforzare il proprio
potere all’interno della Francia. Già forte dell’appoggio dell’esercito, egli [ma,
specie nel discorso orale, potremmo ripetere Napoleone o eliminare il pronome] si
adoperò a legare a sé la borghesia e il clero.
Il pronome lui si adopera invece per sottolineare un elemento della frase (Io vado
via, lui [= quanto a lui] non so)o quando contiene il dato nuovo dell’informazione
(e in tal caso è postposto al verbo: È stato lui!; o, se il verbo manca, all’elemento
nominale: Beato lui!).
Lei si adopera in tutti i casi in cui si adopererebbe il maschile; mentre, a differenza
di egli, ella è ormai rarissimo anche con valore anaforico».
- Dunque già con Serianni questo tratto è del tutto assimilato dalla grammatica.
b. Patota → nella Grammatica di riferimento della lingua italiana per stranieri nei
paradigmi verbali è sistematicamente usato lui al posto di egli → nel proseguio della
trattazione scrive:
«Egli è una forma propria della lingua scritta o di un parlato formale; lui si trova
in qualsiasi varietà di italiano: scritto e parlato, formale e informale. Egli può
essere riferito solo a una persona, lui a una persona (come accade quasi sempre) o
a un animale (ma accade molto raramente). Infine c’è il pronome esso, che può
riferirsi sia a un animale sia a una cosa. C’è da aggiungere, però, che nell’italiano
parlato esso quasi non si adopera: o si ripete il nome o si ricorre a quello, che non
è un pronome personale ma un pronome dimostrativo».
- Nella Grammatica di riferimento dell’italiano contemporaneo Patota nei paradigmi
verbali usa ancora lui e per quanto riguarda la terza persona singolare ribadisce le
stesse cose.
c. Sabatini (Sistema e testo) nei paradigmi verbali continua a usare tutti i pronomi
(egli, lui, ella, lei - un po’ come aveva fatto Serianni) → per quanto riguarda invece il
pronome tonico in funzione di soggetto si nota come egli di fatto scompaia e riman-
gano solo lui ed esso (lo stesso accade per il femminile).
> Potremmo fare questi esercizi anche sugli altri tratti neo-standard e verificare di
volta in volta i tratti che sono entrati nello standard e quelli che non sono entrati →
cmq l’italiano si è sicuramente riassestato su un nuovo standard a partire dagli anni
‘80 e di questo nuovo standard le grammatiche tengono ormai conto nelle loro tratta-
zioni.
3. STRUMENTI
4 APR. 2022
STRUMENTI
> Le grammatiche sono divise in due gruppi e hanno funzioni diverse a seconda che
siano descrittivo-sincroniche o scolastiche.
> Non è un caso che il prof ci abbia mostrato gli indici di alcune grammatiche →
infatti ci sono delle zone della grammatica che dicono in maniera abbastanza precisa
di fronte a quale tipo di grammatica ci si trova davanti → si tratta da una parte della
prefazione (dove generalmente l’autore dichiara i suoi intenti, spiega quali sono i
criteri che ha adottato → dunque da qui si può inferire tranquillamente qual è
l’impostazione di base della grammatica) ma soprattutto dall’altra dell’indice* (perché
è lì che ci si fa un’idea di quale sia il tracciato che il grammatico intende percorrere
per spiegare le strutture della lingua italiana).
Langue Parole
⇩ ⇩
piano della struttura teorica della lingua realizzazione pratica della lingua
(quando la lingua viene usata nella
società dalle persone)
c) Banche dati a tema grammaticale:
> La fabbrica dell’italiano → è uno strumento importante perché serve per avere a
disposizione le informazioni su come sono fatte le grammatiche di cui parliamo attr.
proprio la prefazione e l’indice → in questo strumento troviamo appunto riprodotti
l’introduzione e l’indice delle varie grammatiche.
- La fabbrica dell’italiano è quella che si può definire una “biblioteca digitale parziale”
ma anche un “archivio digitale parziale” → una biblioteca digitale è una biblioteca
che contiene libri digitali → ci sono due modi di fare un libro digitale:
● riprodurre il libro fotograficamente (facsimili);
● riprodurre la versione elettronica del libro → questo consente non solo di
leggere il libro ma (siccome il testo è ridotto a caratteri alfanumerici) anche di
farci delle ricerche;
● una terza via è rappresentata dalle biblioteche digitali in cui le due cose
coesistono → cioè si fornisce sia la versione fotografica sia quella elettronica
del libro;
➔ altra biblioteca digitale di questo tipo è Archive, dove si trovano tantissimi libri
soprattutto antichi (in quanto spesso i testi contemporanei sono protetti da
copyright e dunque sono meno frequenti in questo tipo di biblioteche);
❖ che cosa è stato fatto nella sezione “Grammatiche”? → sono state prese tutte
le schede delle grammatiche possedute dalla biblioteca dell’Accademia della
Crusca e accanto a esse sono state caricate le immagini che riproducono le
introduzioni e gli indici → l’idea di fondo era che non si può far leggere
un’intera grammatica a distanza (in quanto non si hanno le risorse per
riprodurre tutte le parti), però posso fare in modo che chi vede la scheda
possa rendersi conto se quella è la grammatica che gli interessa o meno;
- Il limite di questo strumento per i nostri scopi è che, siccome questa banca dati è
stata licenziata nel 2000, la bibliografia si ferma al 2000.
> Biblioteca Digitale dell’Accademia della Crusca → in questo caso si tratta invece di
una biblioteca digitale integrale, per cui le opere sono riprodotte intergralmente.
- È una biblioteca digitale solo per immagini, per cui non è possibile fare ricerche se
non nella struttura (ossia i titoli dei capitoli e dei paragrafi).
* Accanto alle cinque impressioni ufficiali del Vocabolario degli Accademici della
Crusca ci sono delle edizioni non ufficiali → cioè era abbastanza frequente
(soprattutto quando ancora non c’era uno stato unitario e non c’erano molte leggi
riguardanti il copyright) che si facessero delle edizioni pirata (di qualunque libro) →
un libro che usciva a Firenze poi veniva magari ristampato a Venezia, Torino e
Napoli senza che gli Accademici della Crusca venissero minimamente interpellati →
es. la Crusca Veronese di Cesari è una delle impressioni non ufficiali più famose.
> Grammatica descrittivo-sincronica = vuol dire che descrive la lingua del momento
in cui si sta facendo la grammatica → però si può dare una descrizione sincronica
della lingua in un momento passato:
➢ es. G. Salvi e L. Renzi - Grammatica dell’italiano antico (2010) → grammatica
in cui si descrivono le strutture grammaticali dell’italiano antico.
> A noi interessano soprattutto i dizionari sincronici, cioè quelli che descrivono
l’italiano contemporaneo → al prof interessa dare informazioni di tipo pratico che
possono ess. utili per insegnare grammatica e anche per la nostra competenza in
base agli studi futuri.
- es. la parola mangiare non ha lo stesso peso nella lingua della parola
stetoscopio → la parola mangiare è usata molto frequentemente e la
conoscono tutti necessariamente, mentre la parola stetoscopio è usata
molto meno e non in tutti i contesti in quanto è una parola specialistica,
fatto che la condiziona in diastratia (non tutti i parlanti sono capaci di
utilizzare stetoscopio in maniera attiva o passiva).
- Classificare il lessico significa attribuire delle categorie alle parole che sono
legate ai fattori che abbiamo indicato.
- Quando parliamo del lessico di una lingua (in questo caso dell’italiano
ovviamente) lo possiamo paragonare a una cipolla, la quale è composta da un
nucleo centrale e poi da degli strati:
● il nucleo del lessico è costituito dal cosiddetto “vocabolario di base”* →
esso è costituito da 6600 parole ed è a sua volta diviso in tre sottosezio-
ni:
- lessico di alto uso (AU) → circa 2600 parole;
- lessico di alta disponibilità (AD) → circa 1800 parole;
- lessico fondamentale (FO) → circa 2000 parole.
> Di queste tre sottosezioni la più importante è sicuramente quella del lessico
fondamentale → si tratta di parole che sono antropologicamente connotate,
ossia sono parole che in una società umana ci devono ess. necessariamente →
queste parole ci sono sempre in quanto indicano concetti, oggetti, rapporti ecc.
che solo per il fatto di ess. umani necessariamente ci sono → e in effetti
esistono parole per esprimere questi concetti in tutte le lingue del mondo in
sincronia (cioè attualmente parlate) ma anche in diacronia → sono parole del
tipo mangiare, dormire, bere, acqua, fuoco, madre, padre ecc., ossia concetti,
azioni e oggetti che tutti hanno bisogno di esprimere in qualunque tempo o
luogo ci si trovi → questi concetti, azioni, oggetti ecc. trovano dunque dei propri
significanti in ogni lingua ed essi prendono il nome di “lessico fondamentale”.
- Le 6600 parole del vocabolario di base da sole costituiscono il 96% di tutto ciò
che diciamo o scriviamo → il lessico fondamentale è così importante che da
solo costituisce il 90%.
- Il lessico fondamentale è anche quello più stabile nella lingua in quanto espri-
me concetti che non cambiano nel tempo → le lingue cambiano in continuazio-
ne perché devono adeguarsi alle esigenze della società, ma certe cose come
mangiare, dormire e bere non cambiano, per cui è normale che rimanga costan-
te → tant’è vero che il lessico fondamentale dell’italiano è costituito da parole
che per la stragrandissima maggioranza provengono dal latino e non è un caso
che quasi tutto il lessico fondamentale dell’italiano sia entrato nell’italiano nel
‘200-‘300 e non è altrettanto strano che a sua volta le parole latine da cui deri-
vano le parole italiane del lessico fondamentale per la stragrande maggioranza
dei casi derivino dall’indoeuropeo e infine è significativo che il lessico fonda-
mentale sia quello del fiorentino trecentesco.
> Dopo il nucleo, il primo strato della cipolla-lessico è costituito dal lessico
comune → in questo caso siamo nell’ordine di grandezza di 50-60mila parole
→ questa oscillazione è dovuta al fatto che i sistemi di misurazione sono
diversi, quindi è meglio fornire numeri di grandezza anziché numeri fissi ma è
dovuta anche al fatto che il nostro punto di riferimento (Grande dizionario
italiano dell’uso) dà molta importanza alle parole polirematiche (perciò
l’oscillazione dei risultati è anche legata al fatto se si considerano soltanto le
monorematiche o anche le polirematiche).
> L’ultimo strato è costituito da una serie di categorie → quella più grande è il
lessico tecnico-specialistico (diviso nei suoi vari ambiti) → ci sono poi altre
categorie come il lessico aulico, il lessico dialettale, il lessico regionale, il
lessico popolare, il lessico gergale ecc.** → in questo caso siamo nell’ordine
delle 260 mila parole.
* Il prof precisa che le classificazioni non sono universali e univoche ma sono il
frutto di una ricerca → perciò quello proposto dal professore non è l’unico modo
di classificare il lessico, ma è solo quello che adesso va per la maggiore ed è
legato a Tullio De Mauro e al suo gruppo di ricerca → De Mauro è stato uno dei
primi a occuparsi di questo tema e soprattutto si è concentrato sullo studio del
vocabolario di base → questo modello di De Mauro è il modello che è applicato
al Grande Dizionario italiano dell’uso di De Mauro e al Nuovo De Mauro.
> Finora l’ottica che abbiamo considerato è quella della competenza (attiva e
passiva) → ma passiamo a quella specificatamente lessicale (cioè quella legata a
quanto lessico conosciamo) → essa com’è? un parlante italiano può avere una
competenza globalizzata di tutto quello che sta dentro questa cipolla? → no, non la
può avere:
● un parlante italiano con la licenza media ha una conoscenza certa del
vocabolario di base, una conoscenza di qualche parola del lessico comune
e di qualche parola del lessico specialistico;
● un parlante italiano col diploma superiore ha una conoscenza certa del
vocabolario di base, dovrebbe conoscere bene anche il lessico comune e
conosce anche qualche termine specialistico;
● e per quanto riguarda l’ultimo strato? → se mi laureo in chimica all’università
posso aggiungere al mio vocabolario quella fetta di lessico
tecnico-specialistico relativa alla chimica, ma ovviamente non conoscerò la
lingua specialistica di altri settori (es. finanza, architettura ecc.) → dunque
anche chi ha il massimo grado di istruzione non può conoscere tutto il
lessico → egli conoscerà il vocabolario di base, il lessico comune e alcune
zone del lessico specialistico.
> Questo discorso ha dei riflessi anche sul modo in cui si costruiscono i dizionari →
es. è vero che il lessico tecnico-specialistico è una terminologia destinata agli
addetti ai lavori, ma alcune di queste parole poi ricadono anche nella lingua
comune (es. si sa cosa sono una metastasi o una neoplasia anche se non si è
medici) → dunque la competenza lessicale di un parlante può ampliarsi (oltre che
nel suo settore specifico di sua competenza) anche in quella parte del lessico
tecnico-specialistico che ha influsso sulla vita di tutti i giorni → ma soprattutto è
importante che qualunque parlante abbia la possibilità di sapere il significato di
quelle parole → questa è dunque la differenza tra dizionari sincronici che
descrivono la lingua e che si chiamano “normativi” e i dizionari sincronici chiamati
“descrittivi”, i quali descrivono tutto il lessico e sono obbligati a dire a quale classe
di appartenenza appartengono le parole.
➢ Dizionari sincronici:
➔ Grande Dizionario Italiano dell’Uso di De Mauro → è l’unico dizionario sincro-
nico descrittivo di cui attualmente disponiamo → esso ovviamente non riesce
a descrivere tutto il lessico nella sua interezza ma la sua impostazione lo
porta alla tendenza a descrivere tutto il lessico → dunque un dizionario
descrittivo fornisce l’ordine di grandezza del lessico di una lingua;
- questo dizionario esiste sia nel formato cartaceo che in quello elettronico, che
però non è disponibile in rete ma viene venduto assieme al formato cartaceo
sotto forma prima di CD e oggi di chiavetta USB;
> Oltre a questi dizionari sincronici normativi, ce n’è un quarto → infatti anche il
dizionario Nuovo De Mauro Paravia (consultabile in rete) è un dizionario sincronico
normativo → di fatto si tratta di una versione ridotta del Grande Dizionario Italiano
dell’Uso → dunque dal suo dizionario sincronico descrittivo, De Mauro ha tratto
anche un dizionario normativo, operando una selezione sulla “cipolla” del lessico →
vi troviamo dunque il vocabolario di base, il lessico comune e una scelta dell’ultimo
strato che tenta di raccogliere quelle parole che dalle lingue speciali o settori di
nicchia sono entrate nella lingua comune.
- Nonostante il minor numero di parole però ha conservato le caratteristiche del
dizio- nario descrittivo nella struttura della voce → infatti (oltre alla categoria
grammaticale e alla definizione) troviamo sempre indicata la classe d’appartenenza
(chiamata an- che “marca d’uso”).
> Molta parte degli studi sul vocabolario di base e sulla classificazione del lessico
nasce proprio da De Mauro, il quale ha continuato per tutta la sua vita a cercare di
definire in maniera più precisa il vocabolario di base dell’italiano e lo ha fatto fino
all’ultimo → infatti il 23 dicembre 2016 (pochi giorni prima della sua morte) è stato
pubblicato sull’Internazione il Nuovo vocabolario di base della lingua italiana, che De
Mauro aveva messo a punto grazie allo studio su dei corpora assieme a Isabella
Chiari → si tratta quindi della versione più aggiornata del vocabolario di base rispetto
a quella che troviamo nel vocabolario on line.
> Sabatini-Coletti ha due caratteristiche interessanti rispetto a tutti gli altri dizionari
che sono legate alle specificità di Sabatini, ossia il fatto che Sabatini ha importato
in Italia il modello valenziale (basato sul discorso che il verbo da solo non basta e
per completare il suo significato ha bisogno di altri elementi e che a seconda di
quanti elementi ha bisogno perché il suo significato si completi viene categorizzato
in modo diverso) → il Sabatini-Coletti è appunto l’unico dizionario che riporta la
valenza dei verbi.
● il testo elettronico può ess. interrogato anche liberamente (in quanto il dizio-
nario è un corpus rappresentativo dell’italiano);
> Queste procedure informatiche che ci consentono di fare queste ricerche sui
dizionari elettronici non sono le edizioni elettroniche consultabili liberamente sul
web → quest’ultime infatti consentono solo una ricerca di tipo tradizionale
- Tra i campi che i dizionari sincronici prendono in considerazione spesso c’è anche
la pronuncia (che in italiano serve soprattutto per rendere conto di tutte quelle zone
del sistema fonologico dell’italiano che creano dubbi alla maggior parte degli italiani)
→ laddove c’è una discrepanza tra grafia e fonetica è opportuno dare l’indicazione
della pronuncia corretta.
5 APR. 2022
RAPPORTO TRA GRAFIA E FONETICA
> La parte importante di questo schema sono le linee che collegano i fonemi ai
grafemi → questo perché il sistema grafico in una lingua naturale non è mai
caratterizzato in un rapporto uno a uno (segno-fonema), cioè non c’è mai un sistema
grafico in cui a ogni fonema corrisponde uno e un solo segno → questo succede
solo nell’alfabeto fonetico internazionale, che è stato creato appositamente a
tavolino per svolgere questo scopo (ossia che tutti i foni presenti in tutte le lingue
della terra fossero rappresentati da un simbolo univoco).
> Come mai questo non accade nelle lingue naturali? → prendiamo come esempio
le lingue romanze → esse hanno ereditato il loro sistema grafico dal sistema grafico
latino → però nel passaggio dal latino alle lingue romanze sono comparsi fonemi
nuovi (e ne sono scomparsi altri) → perciò è chiaro che le lingue romanze abbiano
trovato delle difficoltà nel rappresentare questi nuovi fonemi, perché non avevano
dei grafemi derivati dal latino e dovevano in qualche modo inventarli.
> Che il sistema italiano non sia univoco, in cui le lettere corrispondono ai fonemi, ce
lo dice un dato piuttosto elementare → ossia le lettere dell’alfabeto italiano sono 21 e
i fonemi sono 30, per cui necessariamente non ci può ess. una corrispondenza uno
a uno.
- Se però andiamo a vedere l’evoluzione del repertorio dei fonemi dal latino
all’italiano, ci accorgiamo che ci sono fonemi nuovi e che quindi non erano
rappresentati nel sistema grafico latino → quali sono questi fonemi nuovi? → tutte le
affricate (in latino non esistevano), le palatali (nasale, laterale, sibilante e affricata),
la sibilante sonora e la fricativa labiodentale sonora → sono dunque nove fonemi
nuovi che in qualche modo devono ess. rappresentati.
- Per quanto riguarda le vocali il sistema latino era già ambiguo di per sé, perché
prevedeva 10 vocali (5 lunghe e 5 brevi) ma solo 5 grafemi per rappresentarle →
nell’italiano siamo passati a 7 vocali ma con sempre 5 grafemi per rappresentarle.
> Quali sono le diffrazioni da segnalare?
❖ l’unico fonema che non ci dà problemi è la vocale centrale (a), che è rappre-
sentata univocamente dalla lettera A;
es. CASAM > casa COSAM > cosa CAENAM > cena
- Da questi esempi vediamo come quella lettera C che in latino indicava sempre
un’occlusiva velare, in italiano davanti ad A, O e U continua a indicare un’occlusiva
velare, ma davanti a E e a I (siccome palatalizza) indica un’affricata palatale.
- A questo punto però si ha bisogno di un segno grafico che indichi l’occlusiva velare
davanti a E e a I e un segno grafico che indichi la palatale davanti ad A, O e U → si
introduce quindi il digramma gh per la velare e il digramma gi per la palatale.
21 APR. 2022
MORFOLOGIA
> La morfologia si occupa della forma delle parole, che investe due ambiti importanti
→ cioè quello di dare delle informazioni di tipo morfo-sintattico o quello di dare
informazioni a livello semantico per costruire nuove parole.
> In realtà questa definizione si attaglia bene con l’inglese, dove morfema coincide
quasi sempre con l’elemento concreto, cioè la parola → parola è un termine che in
linguistica tecnicamente è molto difficile da afferrare → praticamente ogni linguista
ha dato una definizione diversa di parola → per l’inglese invece il morfema coincide
quasi sempre con la parola ≠ in italiano invece no, perché in italiano non possiamo
dire pragmaticamente che l’unità minima dotata di significato è realmente un
morfema, perché in italiano è praticamente sempre l’unità di due morfemi.
- Volendo azzardare una definizione di parola, potremmo definirla come “la minima
combinazione di morfemi dotata di significato”.
> Ci sono vari tipi di morfemi e si classificano in base a due approcci → uno è quello
“funzionale”, l’altro è quello “posizionale”.
- Su questa parola di partenza si può agire in vari modi → per es. (come per il caso
di dentale) si può ottenere sociale → questo ci dice che il morfema derivazionale sta
sempre tra il morfema lessicale e quello flessionale, che è sempre in ultima
posizione → questo non ci stupisce perché, mentre il morfema lessicale va a
modificare il significato della parola, quello grammaticale va semplicemente a
modificare la sua funzione all’interno della frase.
- I morfemi derivazionali sono incrementabili, cioè via via posso aggiungere nuovi
morfemi lessicali per ottenere nuove parole con diversi significati (ovviamente questo
non avviene a caso ma ci sono delle regole ben precise).
- In questo schema però si vede bene anche come ci siano altri modi di creare
parole nuove → per es. in certi casi i morfemi derivazionali possono anche stare
prima del morfema lessicale (es. consocio o associare).
> A questo punto è opportuno introdurre un’ulteriore distinzione dei morfemi → i
morfemi possono ess. anche indicati in base alla posizione → per i morfemi
derivazionali si parla di suffissi (se seguono il morfema lessicale) e prefissi (se lo
precedono).
> Nello schema non ci sono solo meccanismi che coinvolgono morfemi derivazionali
→ es. nazionalsocialismo è una derivazione che non ha a che fare con i morfemi
derivazionali → in questo caso abbiamo l’unione di due parole (nazionale e
socialismo).
- Lo stesso vale per la parola sociologia, in cui però non abbiamo l’unione di due
parole (come nel caso precedente) → qui socio assume un valore particolare →
infatti ha funzione di prefisso ma è un prefisso che ha un suo significato autonomo
→ ugualmente vale per il suffisso logia → in questi casi, quando i suffissi e i prefissi
possiedono anche un valore semantico, si parla di suffissoidi e prefissoidi.
➽ Passiamo ora alla morfologia lessicale vera e propria → cioè quali sono le
regole che ci consentono di formare nuove parole.
> In una lingua entrano parole nuove sostanzialmente attr. due processi → o per
prestito da altre lingue o per formazione a partire da materiale italiano → in generale
a questi due serbatoi si aggiunge storicamente anche tutta quella serie di parole che
sono entrate nell’italiano a partire dal latino per via popolare (trasformazione del
latino volgare nelle varie lingue romanze) → quest’ultimo processo però è stato solo
iniziale e a un certo punto si è interrotto → invece la linea del prestito e della nuova
formazione di parole sulla base di materiale italiano continua a ess. operativa.
> I processi di formazione delle parole sono raggruppabili in quattro grandi categorie:
- Dunque dal prefisso a- ottengo un nome (se avevo un nome) o un aggettivo (se
avevo un aggettivo) → dunque si rimane nella stessa classe di appartenenza → per
es. si dice che amorale è un aggettivo prefissato deaggettivale:
- aggettivo = categoria di arrivo;
- prefissato = tipo di derivazione utilizzato;
- deaggettivale = proviene da un aggettivo.
- Tutte le parole ottenute con questi processi sono identificate da queste tre
coordinate:
● da dove partono → es. nome, aggettivo, verbo ecc.;
● con quale processo → es. prefissato, suffissato ecc.;
● dove arrivano → es. deaggettivale, denominale ecc.
> Non è infrequente che i prefissi e i suffissi siano ambigui, cioè abbiano più
significati → es. anti- ha valore:
- locativo = prima nel senso del luogo → es. antiorario;
- temporale = prima nel senso del tempo → es. antipasto;
- negativo → es. anticostituzionale.
- Uno dei composti storici, presente nell’italiano fin dalle origini e molto produttivo, è
il cosiddetto “composto imperativale” → consiste in un verbo a cui si aggiunge un
nome → es. portabandiera, scolapasta ecc.
- Quando queste parole composte sono in via di formazione in generale c’è una fase
di assestamento → c’è una fase in cui si è indecisi su come considerarle (vengono
prima scritte staccate, poi vengono scritte con la linetta ecc.) finché raggiungono il
loro stato di univerbazione, cioè vengono considerate come parola unica → alcune
diventano univerbate, altre rimangono separate.
- Nel caso in cui la testa sia individuabile si parla di “composti endocentrici”, mentre
se non è individuabile si parla di “composti esocentrici”.
3) Unità lessicali superiori → in questo caso c’è un problema di terminologia,
perché vengono indicate in molti modi → es. “plurilessematiche”, “polirematiche”
(etichetta utilizzata da De Mauro nel GRADIT) → in ogni caso si tratta di un lessema
composto da più parole → es. casco blu e ferro da stiro.
4) Riduzione → consiste nelle sigle, acronimi e abbreviazioni (es. uni, auto, bici).
——————————————————————————————————
SINTASSI
> In un approccio moderno allo studio della sintassi bisogna prevedere almeno 4
approcci per lo studio della sintassi → oggi come oggi non è possibile affrontare lo
studio della sintassi senza prevedere approcci diversi, che ci danno informazioni
diverse ma ugualmente importanti → gli approcci sono:
1. approccio configurazionale; 3. approccio semantico;
2. appr. delle funzioni sintattiche; 4. appr. pragmatico-informativo.
> A noi però interessa più l’aspetto generativo, cioè andare a vedere l’analisi
configurazionale che deriva da questo approccio → Chomsky infatti introduce
l’importante elemento della “profondità” nell’analisi in costituenti sintagmatici attr. uno
strumento importante, il cosiddetto “indicatore sintagmatico”, che altro non è che un
diagramma ad albero:
- Si parte dalla frase Anna canta una canzone alla piccola Teresa e si cerca di capire
qual è la struttura configurazionale che sottosta a questa frase.
- Il diagramma è fatto in questo modo → si parte dalla frase e poi si analizzano tutti i
possibili sintagmi che ci sono all’interno della frase in maniera profonda.
- I sintagmi non sono di molti tipi → abbiamo:
● sintagma nominale → sintagma in cui la base di partenza è il nome;
● sintagma verbale;
● sintagma preposizionale;
● sintagma avverbiale.
- Questo indicatore sintagmatico funziona non solo con questa frase ma anche con
altre entrate lessicali → il fulcro dell’analisi configurazionale sono dunque i due livelli
centrali, ossia quello dei sintagmi e quello di come sono fatti a loro volta i sintagmi.
- L’indicatore sintagmatico ci dà una struttura che in realtà poi può far generare n
frasi → dunque da un lato esso ci serve come strumento di analisi della frase,
dall’altro è uno strumento per generare sempre nuove frasi.
- Qui il problema è legato a dove sta Lunedì → esso è legato al sintagma nominale o
al sintagma verbale? → in realtà non è legato né all’uno né all’altro ma all’intera
frase → questo ce lo dice il fatto che Lunedì può ess. spostato in qualunque punto
della frase → quindi Lunedì va riferito all’intera frase.
> Si usa la convenzione di mettere un apice (’) quando gli elementi sono ricorsivi
all’interno della gerarchia del testo:
- Siccome la frase compare a vari livelli della struttura, via via che si sale di livello si
aggiunge un apice, appunto per segnalare il livello della frase.
- Questo tipo di analisi logica però è molto legato a elementi interpretativi → es.
alcuni complementi possono ess. ambigui oppure non tutte le grammatiche riportano
lo stesso numero di complementi → sono tutte classificazioni legate a
un’interpretazione logica più che a un’analisi della funzione specifica.
- Lo stesso vale anche per l’analisi del periodo → al di là delle soggettive, oggettive
e relative, a volte gli altri tipi di proposizione sono di difficile interpretazione → questo
lo vediamo soprattutto nei casi in cui le proposizioni sono implicite, dove a partire dal
gerundio o dall’infinito bisogna interpretare quale sia la frase esplicita di partenza e
si può cadere nell’ambiguità.
* Una delle cose importanti della grammatica valenziale è che possiamo togliere
l’etichetta di “oggetto diretto” → ci interessa solo che ci sia un arg.1 e un arg.2, non
importa come si chiamano nella grammatica generativa.
- Tra l’altro ci sono verbi bivalenti in cui non c’è un oggetto diretto come secondo
argomento, ma ce n’è uno indiretto.
> Dunque uno dei punti di forza di questo approccio è proprio quello di svincolarsi
dall’analisi logica e va a vedere quali sono gli elementi fondamentali della frase e in
che modo essi sono fondamentali.
> Un verbo con i propri argomenti costituisce la frase nucleare → la frase nucleare
può ess. espansa ulteriormente:
- Alla frase nucleare si possono aggiungere dei circostanti → sono tutti elementi che
non servono a completare il significato del verbo ma solo per ampliare il contenuto
del messaggio.
- Non è detto che gli argomenti siano dei sintagmi → un esempio tipico di argomento
frasale è quello della completiva (nel caso sotto completiva oggettiva):
- Il verbo affermare è bivalente → necessita del soggetto che afferma e della cosa
affermata, la quale però può anche ess. espressa da una frase.
6. STORIA DELLA GRAMMATICA
20 APR. 2022
STORIA DELLA GRAMMATICA
> Vedere come sono cambiate le grammatiche nel corso del tempo consente di ve-
dere non soltanto l’evoluzione del pensiero dei grammatici ma anche come è cam-
biata la descrizione delle parti del discorso → es. la suddivisione dell’italiano in nove
parti del discorso risale al ‘500-‘600 e attinge a sua volta dalla grammatica latina.
- Dal 1908 in poi però ci sono stati molti nuovi studi e infatti uno dei nuovi testi di
riferimento è la Breve storia della grammatica italiana di Simone Fornara (1° ed.
2005; 2° ed. 2019).
- La prima cosa che uno studioso di storia della grammatica deve fare è selezionare
il corpus grammaticale (= la raccolta delle opere grammaticali) → questo a seconda
del tipo di studio che si vuole fare → per es. si può raccogliere un corpus di
grammatiche in diacronia (da un certo periodo a un altro) oppure ci si può
concentrare anche solo su un secolo → una volta stabilito il metodo si può iniziare la
raccolta.
➢ La prima grammatica considerata dalla prof è la Grammatichetta vaticana di Leon
Battista Alberti (1437-41) → nonostante sia una grammatica del ‘400, la prof l’ha
fatta rientrare tra le grammatiche del ‘500 perché, anche se nel corso del ‘500
questa grammatica non ha successo e non ha circolazione, in realtà nel corso dei
secoli successivi (soprattutto nel ‘900) è stata scoperta la sua importanza e quindi
oggi non si può fare uno studio sulle grammatiche senza considerare la grammatica
di Alberti.
- La differenza tra la grammatica di Alberti e quelle del ‘500 sta nel fatto che non ha
un editore in quanto ancora la stampa non era stata inventata, per cui si tratta di una
grammatica manoscritta e lo rimane per moltissimo tempo → infatti la grammatica di
Alberti non ha circolazione non solo nel ‘500 ma nemmeno nel ‘600 e nel ‘700
perché viene riscoperta nel 1850 e viene pubblicata per la prima volta nel 1908,
stesso anno di pubblicazione della Storia della grammatica di Trabalza → in
appendice alla Storia della grammatica c’è proprio l’opera di Alberti, che però viene
pubblicata senza che Trabalza stabilisca la paternità dell’opera, la quale infatti viene
stabilità solo a metà degli anni ‘60 da parte dello studioso di riferimento di Alberti,
ossia Greison.
- Come succede anche per tanti altri grammatici successivi, quest’opera prende
avvio proprio dalle osservazioni di Fortunio sui testi trecenteschi → questo è spesso
il metodo usato dai grammatici del ‘500 → cioè si parte dai testi letterari del
fiorentino del ‘300 (in particolare le tre corone) e si ricavano le regole a partire dalle
osservazioni marginali ai testi → infatti per questo spesso anche i titoli sono
abbastanza simili (Regole grammaticali, Avvertimenti, Fondamenti ecc.) → dunque
quello che possiamo dire dei primi grammatici del ‘500 è che la grammaticografia
(cioè lo scrivere le grammatiche) nasce senz’altro al servizio della letteratura e dei
letterati, che, in qualche modo spesso insicuri della propria competenza di lingua
(perché magari non erano toscani o fiorentini), hanno bisogno di strumenti di
riferimento → tutto quello che riguarda la lingua (e quindi anche la grammatica) fino
all’Unità d’Italia riguarda anche la letteratura.
> Quali opere fanno parte di questo filone? → quelle opere che nel loro titolo fanno
chiaro riferimento ai tre autori fiorentini → es. Le tre fontane di Liburnio.
- Opere come queste (come Le tre fontane o, ancora più chiaramente, Vocabolario,
Grammatica e Ortografia della lingua volgare di Accarisio) hanno una parte riguar-
dante le regole grammaticali e una parte più lessicografica (simile a un vocabolario).
- In queste grammatiche non è sempre facile stabilire il confine tra il vocabolario e la
grammatica → infatti sono delle parti spesso molto legate tra di loro → su questo
aspetto si è soffermata molto la studiosa Valeria Della Valle in un suo studio sui
dizionari → Della Valle fa vedere come in queste prime grammatiche del ‘500 non ci
sia una netta distinzione tra vocabolario e grammatica, perché anche dentro questi
elenchi di parole ci sono delle regole.
- Il 1525 dunque è un anno di svolta sia per la questione della lingua sia per la storia
della grammatica, anche se questa stessa impostazione l’aveva data già nel 1516
Fortunio → infatti proprio per questo si parla di “linea Fortunio-Bembo”, perché
Fortunio anticipa le teorie di Bembo di quasi dieci anni.
> Prose della volgar lingua non ha una struttura tipicamente grammaticale (ossia
un’impostazione schematica) ma ha forma dialogica → è composta da tre libri e il
terzo libro è considerato la parte più propriamente grammaticale, perché lì sono
espresse (seppur sempre in forma dialogica) le regole grammaticali → le regole si
deducono dalle domande e dalle risposte.
- Bembo in questo terzo libro (come in una vera grammatica) prende in considerazio-
ne le parti del discorso, usa una terminologia grammaticale che in qualche modo si
distacca dalla tradizione latina (perché nella maggior parte dei casi le grammatiche
del ‘500 - come quella di Fortunio - si rifanno alla terminologia grammaticale latina)
→ Bembo cerca di allontanarsi dal modello latino inventando delle nuove etichette e
termini grammaticali che potessero ess. propri del volgare e non del latino.
- Indipendentemente da questo, le regole che Bembo fornisce vengono individuate in
base all’uso letterario trecentesco → i modelli principali sono Petrarca e Boccaccio
ma in realtà si trovano anche esempi tratti da molti altri autori di tutto il ‘300, perché
nel momento in cui deve descrivere le strutture grammaticali allarga il suo modello.
- Qual è il limite della struttura dialogica? → non avendo una struttura schematica,
non sono facilmente individuabili le parti del discorso → nelle grammatiche con
un’impostazione tradizionale la prima informazione che si dà è quella relativa al
numero di parti del discorso ≠ invece Bembo non fornisce questa indicazione e allora
è possibile individuare le categorie che prende o meno in considerazione a seconda
dell’argomento.
> I luoghi di pubblicazione escludono per lo più Firenze → essa compare come
luogo di pubblicazione solo nel 1551, con Della lingua che si parla e si scrive in
Firenze (Regole della lingua fiorentina) di Giambullari → si tratta della prima
grammatica stampata a Firenze.
- Dunque nella storia della grammatica nel ‘500 possiamo senz’altro notare un ritar-
do della città di Firenze nella pubblicazione delle grammatiche → come possiamo
spiegarci ciò? → questo è dovuto a un dibattito alla metà del ‘500 sulla possibilità o
meno di scrivere una grammatica → cioè a un certo punto alcuni letterati fiorentini si
chiedono “è possibile fermare e fissare la lingua, che una cosa naturale e che
cambia nel corso del tempo, in una grammatica?” → questo dibattito avviene
all’interno dell’Accademia fiorentina, che a un certo punto sotto Cosimo de’ Medici
diventa un vero e proprio organo di stato, perché Cosimo cerca di rafforzare la
politica fiorentina anche attr. la politica linguistica → allora Cosimo chiede
all’Accademia di scrivere una grammatica ufficiale del fiorentino, che però non verrà
mai pubblicata → dunque la grammatica più vicina a questo ambiente fiorentino è
proprio quella di Giambullari, uno dei principali esponenti del fiorentinismo, altro
filone importante all’interno della questione della lingua del ‘500.
* Stretto rapporto che secondo i fiorentinisti (ma anche secondo tutti i grammatici)
c’è tra lingua scritta e lingua parlata → per l’appunto un filo comune nella storia della
grammatica del ‘500 è una sorta di continuità tra la lingua scritta del ‘300 e la lingua
parlata del ‘500 → anche alla fine del ‘500 con l’opera di Salviati (Avvertimenti della
lingua sopra il Decamerone) si tornerà sempre su quest’aspetto, cioè su una sorta di
continuità e stretto rapporto tra scritto trecentesco e lingua parlata nel ‘500.
> Dunque l’opera di Giambullari è interessante sia per questo esplicito rapporto tra
scritto e parlato sia perché è la prima grammatica stampata a Firenze → in generale,
dopo Giambullari, non ci saranno tante grammatiche pubblicate a Firenze → ci
saranno L’Ercolano di Varchi e gli Avvertimenti di Salviati, però poi la prima vera
grammatica pubblicata a Firenze arriverà solo nel 1643 con l’opera di Buonmattei
(Della lingua toscana) → però mentre le opere di Salviati e Varchi danno
informazioni di tipo grammaticale ma non nascono propriamente come delle
grammatiche, quella di Buonmattei sì.
** In storia della lingua si parla in questo caso di “teoria cortigiana” o “teoria italiana”
≠ invece in storia della grammatica per questo filone si parla di “linea classificatoria”,
perché non ci interessa il modello linguistico ma vedere come vengono strutturate le
grammatiche → appunto un aspetto importante di questi grammatici è un tipo di
impostazione classificatorio, cioè molto schematico → a differenza delle
grammatiche di impostazione fortunio-bembiana (in cui o c’è la forma dialogica o non
è sempre facile individuare la distinzione tra vocabolario e grammatica), la linea
classificatoria prevede invece una struttura molto schematica dell’opera, per cui
(come in una grammatica contemporanea) si riesce subito a individuare quali sono le
parti del discorso anche soltanto visivamente e la trattazione è abbastanza
schematica, per cui l’opera risulta anche breve.
- Siamo agli inizi del ‘500, tra gli anni ‘20 e i ‘30 (Dubbi linguistici, 1526 e
Grammatichetta, 1529) → questo coincide con la linea all’interno della storia della
lingua, perché la teoria cortigiana è la prima che cade e ad avere meno fortuna →
questo perché nel 1527 c’è il sacco di Roma, che era la città di riferimento della
teoria cortigiana (in quanto corte papale) → con il crollo della città e della teoria
linguistica, questo filone grammaticale di conseguenza si ferma più o meno nei soliti
anni.
- Nonostante tutto, anche se questa teoria è la prima a crollare, ci sono cmq degli
strascichi negli anni ‘50 → es. Le osservazioni grammaticali e poetiche della lingua
italiana di Matteo di San Martino (1555) è una grammatica che in qualche modo
risente delle posizioni di Trissino → nella prefazione dell’opera si fa riferimento alle
teorie di Trissino ma in realtà il contenuto dell’opera è molto vicino alla lingua delle
tre corone e quindi al modello bembiano.
> De’ commentarii della lingua italiana di Ruscelli (Venezia, 1581) → si tratta di una
grammatica che non si sofferma solo su questioni di tipo grammaticale e morfologico
ma anche su questioni di tipo retorico → l’impostazione è sempre un po’ quella tipica
della linea Fortunio-Bembo.
> In questi stessi anni di Ruscelli escono anche gli Avvertimenti della lingua sopra il
Decamerone di Salviati (1586) → il titolo completo è Del secondo volume degli
avvertimenti della lingua sopra il Decamerone → questo implica che ci sia anche un
primo volume, che viene pubblicato a Venezia nel 1584, e due anni dopo presso i
Giunti a Firenze viene stampato anche il secondo volume.
- La prof segnala nella lista solo il secondo volume perché esso contiene la parte più
strettamente grammaticale → Salviati nell’introduzione dice di non voler scrivere una
grammatica ma di voler soltanto fornire alcuni avvertimenti (appunto), cioè alcune
indicazioni sulla lingua ma in particolare sulla lingua del Decameron.
* Quest’ultimo sarà un tema importante nelle grammatiche di tutto il ‘500 perché sarà
la parte del discorso nuova, introdotta nel volgare, e quindi, essendo una parte del
discorso nuova, c’è anche una parte della grammatica nuova da costruire, perché
nelle grammatiche latine non esiste un capitolo sull’articolo → i grammatici del ‘500
si muoveranno in direzioni diverse:
➔ alcuni grammatici, per avvicinarsi alla tradizione latina, non considereranno
l’articolo tra le parti del discorso;
➔ altri grammatici lo prenderanno in esame in quanto elemento nuovo ma, per
non allontanarsi troppo dalla tradizione, non lo metteranno come capitolo a
parte della grammatica ma per es. sotto il capitolo del pronome;
➔ altri ancora considereranno l’articolo in un capitolo a sé stante → Salviati è
uno di questi.
> Tutto quello che troviamo nelle grammatiche del ‘500 (da Fortunio fino a Salviati)
sono soprattutto indicazioni di tipo grafico, ortografico e soprattutto morfologico →
cioè l’attenzione è soprattutto sulle parti del discorso, mentre una parte che rimane
non trattata è la quella della sintassi → i grammatici del ‘500 non si interessano di
questioni sintattiche ma soprattutto di questioni morfologiche.
- L’unica grammatica del ‘500 che si sofferma su questioni di tipo sintattico è quella
di Giambullari → bisognerà aspettare il ‘700 per avere una trattazione esaustiva
della sintassi con la grammatica di Soave, uno dei più importanti grammatici della
fine del ‘700.
➢ Salviati chiude la questione della lingua del ‘500 e ispira con la sua teoria il Voca-
bolario degli Accademici della Crusca → quindi il ‘600 si apre con la pubblicazione
della prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612), che diffonde per la prima
volta un modello di lingua scritta di tipo nazionale.
> Oltre a questa pubblicazione però ci sono altri eventi importanti nel ‘600 → dal
punto di vista della storia della grammatica un momento fondamentale è rappresen-
tato dalla pubblicazione nel 1643 a Firenze della grammatica di Benedetto Buonmat-
tei, Della lingua toscana → dopo tanto tempo (dalla grammatica di Giambullari) si
torna a pubblicare a Firenze un’opera che nasce come vera e propria grammatica.
- Quella di Buonmattei è una grammatica di riferimento per vari motivi:
● innanzitutto perché presenta una trattazione delle parti del discorso molto
estesa → B. è il grammatico che considera il maggior numero di parti del di-
scorso (ben dodici);
● l’aspetto più importante però è il metodo usato da B. in questa grammatica →
già dall’introduzione esplicita come il suo modello linguistico di riferimento sia
il fiorentino del ‘300, con ovviamente un’apertura alla lingua contemporanea
→ però le grammatiche a cui fa riferimento sono quelle di Salviati e di Bembo
→ ma l’operazione attuata da B. non è semplicemente prendere la trattazione
di Bembo o di Salviati e di copiarla o farla simile, ma trae le regole seguendo
le indicazioni di questi grammatici in maniera ragionevole → cioè B. riflette su
quali sono gli aspetti importanti da considerare, dà una motivazione per
questo e a questo punto si rifa a Bembo o a Salviati, non limitandosi però a
copiare passivamente le regole ma motivando le sue scelte → per questo
motivo Patota, nei suoi Percorsi grammaticali, parla di una “grammatica
ragionevole”, proprio per il metodo usato da B., basato sulla riflessione.
> Ci sono altre grammatiche, oltre a quella di Buonmattei, che presentano un’impo-
stazione tradizionale e che si rifanno al modello di Bembo → es. le grammatiche
pubblicate all’inizio del secolo:
- Trattato della lingua di Pergamini (Venezia, 1613);
- Compendio d’avvertimenti di ben parlar volgare di Ceci (Venezia, 1618).
> La storia della grammatica riflette un po’ quello che accade a livello storico-lingui-
stico → quando esce il Vocabolario della Crusca, vengono scritte anche delle opere
di critica nei suoi confronti, alcune anche in polemica → questo accade anche dal
punto di vista grammaticale → cioè il Vocabolario della Crusca ha un’importanza tale
che, pur essendo un vocabolario, le critiche nei suoi confronti si risentono anche dal
punto di vista grammaticale → infatti vengono pubblicate alcune grammatiche che
sono considerate in polemica proprio con il modello linguistico della Crusca → es.
Del torto e ‘l diritto del non si può di Bartoli (1655) → questa è la grammatica che
critica l’impostazione linguistica della Crusca.
➢ Con il ‘700 invece cambia qualcosa → con il ‘700 infatti comincia un nuovo filone
della storia della grammatica, chiamato “grammatica didattica” → vengono scritte per
la prima volta in modo sistematico grammatiche a uso didattico.
> L’altro grande approccio che si diffonde a partire dalla seconda parte del ‘700 e
che poi continuerà nell’‘800 è il filone delle “grammatiche ragionate”, il cui massimo
esponente è Soave, che a Parma nel 1771 pubblica la Grammatica ragionata della
lingua italiana.
- Questo filone deriva da una riflessione linguistico-filosofica che nasce alla metà del
‘600 in Francia a partire dalla riflessione del centro di Port-Royal → la riflessione di
questi grammatici porta alla pubblicazione nel 1660 di una grammatica generale e
ragionata (in Italia questa impostazione arriva quasi un secolo dopo) → cosa
vogliono dire questi due aggettivi?
❖ “generale” perché, secondo questi studiosi, la grammatica deve descrivere le
proprietà comuni a tutte le lingue (proprietà comuni che poi ciasuna lingua
declinerà in modo diverso a seconda delle proprie strutture linguistiche);
❖ “ragionata” perché si cercano e si individuano i modi in cui la ragione si riflette
nella lingua → la lingua infatti è l’espressione della ragione e del pensiero → il
modello filosofico-culturale di riferimento è l’Illuminismo.
- Questa impostazione grammaticale arriva verso la fine del ‘700 e la sua opera più
importante è sicuramente quella di Soave, che nel titolo fa proprio riferimento alla
ragione e al fatto che la grammatica è ragionata perché la lingua è l’espressione
della ragione.
> Soave però è anche autore di una grammatica didattica → già nell’introduzione
alla Grammatica ragionata Soave parlava dell’importanza dell’aspetto didattico →
infatti nel 1788 a Milano pubblica proprio una grammatica didattica, intitolata
Elementi della lingua italiana ad uso delle scuole.
- Il tipo di lingua descritto da Soave è molto tradizionale ma l’impostazione da lui
usata è completamente nuova e teorica, differente rispetto alle grammatiche
precedenti → per questo motivo viene generalmente considerata dagli studiosi la
prima grammatica moderna dell’italiano.
- Non sempre è però stata compresa nel corso del tempo → per es. delle critiche
feroci a questa grammatica furono fatte proprio da Trabalza nella sua Storia della
grammatica, non comprendendo forse ancora l’importanza di questa grammatica a
livello teorico e sottovalutandola un po’ → però poi nel corso del ‘900, anche grazie
ai nuovi studi dal punto di vista storico-linguistico, si è fatto ben emergere il ruolo
fondamentale che dal ‘700 in poi la grammatica di Soave ha avuto.
> Con Soave si chiude la storia della grammatica del ‘700 e si apre poi invece quella
dell’‘800.
22 APR. 2022
➢ Passando all’‘800, le grammatiche che vengono scritte nella prima metà del
secolo sono non solo grammatiche che risentono ancora dell’influenza
dell’Illuminismo e anche del filone della grammatica ragionata ma soprattutto il filone
più importante di grammatiche in questo periodo è quello delle “grammatiche
puristiche” → avevamo visto che nel ‘500 le grammatiche riflettevano in qualche
modo il dibattito linguistico che interessava i letterati → lo stesso accade nell’‘800 →
non è un caso che un filone importante di grammatiche agli inizi del secolo sia
appunto quello del purismo, perché anche nel dibattito linguistico degli inizi dell’‘800
un filone di pensiero è proprio quello del purismo.
> Come sono fatte le grammatiche puristiche? → sono delle grammatiche impostate
in maniera tradizionale, in forma anche molto schematica, perché si dà importanza
soprattutto all’aspetto didattico (per cui queste grammatiche vengono usate anche
nelle scuole) → però presentano un modello linguistico e grammaticale arcaico,
perché (proprio come in letteratura) anche la grammatica descrive il fiorentino
trecentesco secondo il modello di Salviati (ossia non limitato alle tre corone ma
ampliato a tutti gli autori minori).
> La grammatica più importante del filone del purismo è quella di Puoti (Regole
elementari della lingua italiana - 1847) → egli è il capofila del purismo per quanto
riguarda la grammatica.
- Già dal titolo dell’opera si capisce chi siano i destinatari → Puoti è un maestro,
perciò la sua grammatica è destinata alla didattica.
> È proprio già agli inizi dell’‘800 che l’aspetto didattico comincia a diventare sempre
più importante → veniamo dal ‘700, in cui un importante filone di grammatiche è
proprio quello delle grammatiche didattiche, che però sono destinate a persone che
hanno già un certo grado di istruzione → agli inizi dell’‘800 questo aspetto si rafforza
sempre di più e si va verso una didattica per la scuola, per cui le grammatiche
diventano piano piano grammatiche scolastiche elementari → ovviamente il trionfo di
questa grammatica elementare ci sarà nella seconda parte dell’‘800 dopo l’Unità
d’Italia → non a caso gli studiosi (in particolare Carlo Marazzini) parlano, per questa
prima parte del secolo, di “trionfo della funzione didattica” → più o meno quasi tutte
queste grammatiche (eccetto quelle ragionate ovviamente) hanno un’impostazione
scolastica.
> Quali sono altre grammatiche importanti dell’‘800?
❖ Introduzione alla grammatica italiana di Gherardini (1825);
❖ Grammatica della lingua italiana di Ambrosoli (Milano, 1829)
❖ Principi di grammatica di Lambruschini (1861).
- Queste tre sono grammatiche che stanno un po’ a metà tra la norma (descrizione
normativa) e la ragione → dunque si dà molta importanza alla norma (in linea con le
grammatiche scolastiche) ma ancora si risente dell’impostazione ragionata.
> Altra grammatica importante è Grammatica della lingua italiana di Moise (1° ed.
1877 - 2° ed. ampliata 1878) → siamo pochi anni dopo l’Unità d’Italia, che si rivela
ess. un evento importante anche per le grammatiche, perché ne cambia un po’
l’impostazione → infatti Moise già nell’introduzione dedica quest’opera agli “studiosi
giovinetti” → dunque l’aspetto didattico diventa sempre più importante, soprattutto
dopo l’Unità.
- Oltre che sull’aspetto didattico, Moise si sofferma anche sulla riflessione teorica →
infatti Moise intende fare una grammatica sia didattica sia con un’impostazione di
tipo filosofico, perché vuole dimostrare che oltre le regole c’è una teoria → si torna
nuovamente a quel filone di grammatiche che si pongono tra norma e ragione.
> Un momento importante anche nella storia della grammatica dell’‘800 è senz’altro
la pubblicazione dei Promessi sposi e quindi la riflessione linguistica manzoniana →
infatti un filone della questione della lingua dell’‘800 è proprio rappresentato dalla
riflessione linguistica manzoniana e dall’idea manzoniana di lingua.
- Manzoni nella seconda edizione dei Promessi sposi propone come modello lingui-
stico il fiorentino parlato a Firenze dalla borghesia ottocentesca → questo modello
ha un impatto talmente importante che si risente anche nella grammatica → infatti
molte grammatiche presenteranno proprio questa impostazione manzoniana:
● es. Grammatica della lingua italiana di Petrocchi → al suo interno non ci sono
esempi letterari antichi → il modello è il fiorentino dell’uso contemporaneo e i
pochi esempi letterari sono tratti dai Promessi sposi;
> Grammatica italiana ad uso delle scuole di Goidanich (1918) → già dal titolo ca-
piamo che si tratta di una grammatica didattica, però caratterizzata da un atteggia-
mento scientifico → infatti secondo Goidanich è necessario non solo fornire le regole
della lingua ma anche soffermarsi su alcuni casi più problematici (che creano dubbi
linguistici) per capire quali sono i problemi che stanno dietro a questi dubbi → non
solo fornire al lettore la regola ma far capire perché quel dato caso crea dei dubbi,
perché molto spesso il dubbio linguistico è portato dalla storia particolare che quel
caso ha avuto nella storia dell’italiano → aspetto didattico + riflessione su certi
aspetti grammaticali.
> La lingua nazionale. Avviamento allo studio della grammatica e del lessico italiano
per la scuola media di Migliorini (1941) → egli sostiene che senz’altro bisogna stu-
diare la grammatica, nel senso di studiare le nozioni e le regole → ma, oltre allo stu-
dio della grammatica, deve esserci anche lo studio della lingua → bisogna dunque
dedicare molta attenzione e tempo non solo alla regola ma anche all’aspetto pratico
e all’esercitazione.
- Non a caso l’impostazione di questa grammatica è abbastanza singolare → infatti
non si apre con le regole ma con gli esercizi, proprio perché si vuol far capire che lo
studio della grammatica e lo studio della lingua nel senso di pratica della lingua
devono andare di pari passo.
> In generali gli anni ‘40 del ‘900 sono anni in cui si rivede la grammatica proprio
nella direzione dello studio linguistico che va di pari passo con lo studio della gram-
matica → poi la vera revisione della grammatica si avrà soprattutto negli anni ‘70 con
le riflessioni di Tullio De Mauro.
> La prof cita solo poche grammatiche per far capire come la prima parte del ‘900 sia
un momento in cui si pubblicano poche grammatiche proprio per questa impostazio-
ne portata dal pensiero filosofico di Croce.
- Non vengono pubblicate molte grammatiche ma nel 1908 viene pubblicata la prima
storia della grammatica italiana da parte di Trabalza → ovviamente egli risente un
po’ del diffuso spirito crociano però la sua storia della grammatica è considerata an-
cora oggi dagli studiosi come un punto di partenza.
——————————————————————————————————
> Cosa sono le categorie grammaticali? → sono quelle che tradizionalmente si chia-
mano “parti del discorso” (es. nome, verbo, aggettivo ecc.).
> Il punto di partenza per fare una storia delle categorie dalle origini (metà ‘400 /
‘500) fino a oggi è ovviamente il rapporto con la tradizione grammaticale latina → i
grammatici volgari del ‘500 riprendono la classificazione delle parti del discorso che
si trova già nelle grammatiche del latino.
> Alcuni grammatici come modello → Donato, Carisio, Diomede, Probo → que-
sti sono alcuni grammatici latini che i grammatici del ‘500 (ma anche dei secoli
successivi) tengono ben presente e conoscono.
> Alberti dichiara sette parti del discorso → nome, pronome, verbo, preposizio-
ne, avverbio, interiezione e congiunzione → dunque non pone l’articolo come
parte del discorso a sé ma sappiamo bene che in realtà nella sua grammatica
egli si occupa dell’articolo (la forma el del fiorentino quattrocentesco).
> Fortunio addirittura pone solo quattro parti del discorso → nome, pronome,
verbo e avverbio → questo sia perché ci sono solo due libri (il primo dedicato
all’ortografia e il secondo alla morfologia) sia soprattutto perché si ha una
notevole ricchezza di esempi → maggiore attenzione per l’aspetto descrittivo
piuttosto che per l’elenco delle parti del discorso.
> Questo sarà poi l’atteggiamento predominante nel corso del secolo → ci
saranno quasi sempre otto parti del discorso e l’articolo (soprattutto dalla
seconda metà del ‘500) sarà inserito come parte a sé → e anche se non si
trova descritto in un capitolo a parte (come succede nelle grammatiche di Dolce
e di Ruscelli - seconda metà del ‘500), senz’altro sotto il capitolo del pronome
sarà rintracciabile la descrizione dell’articolo.
> Con Giambullari si arriva a nove parti del discorso e con Salviati addirittura a
dieci (nella grammatica didattica Regole della toscana favella).
> In questo elenco però manca sempre una parte del discorso, ossia
l’aggettivo → questo accade perché esso era assente già nella tradizione
latina → secondo la grammatica latina (concetto ripreso anche dai grammatici
del ‘500) esiste una macrocategoria (quella del “nome”), la quale si suddivide
poi nelle due sottocategorie di “sostantivo” e “aggettivo”.
- Nel ‘500 dunque si sottolinea il fatto che l’aggettivo non ha una forte
autonomia sintattica ma dipende sempre dal nome → a causa di questa
influenza fino per lo meno alla metà dell’‘800 l’aggettivo non sarà considerato
una parte del discorso a sé (comincia a vedersi con Fornaciari).
➢ La riflessione sul mettere l’articolo come parte del discorso a sé ovviamente inte-
ressa le grammatiche → allora ci sono dei grammatici (come Salviati) che non solo
si limitano a descrivere l’articolo, ma si soffermano anche su quale posizione all’in-
terno della grammatica deve avere il capitolo sull’articolo.
* Si tratta del grammatico Castelvetro, che scrive un commento alle Prose di Bembo,
intitolato Giunta alle Prose di Monsignor Pietro Bembo.
- Salviati in sostanza dice che siccome l’articolo non può stare senza il nome, mentre
il nome può stare senza l’articolo (ha una maggiore autonomia sintattica), allora trat-
terà dell’articolo dopo il nome → lo mette dopo perché l’articolo dipende sintattica-
mente dal nome.
- Poi Salviati fa riferimento a una polemica (è tipico dei grammatici del ‘500 citarsi a
vicenda o citare altri autori) → Castelvetro critica Bembo per il fatto di non essersi
soffermato abbastanza sul rapporto tra articolo e “vicenome”, ossia il pronome →
l’errore di Bembo è stato di aver parlato prima dell’articolo e dopo del pronome.
> Buonmattei è il grammatico che pone il maggior numero di parti del discorso
→ sono addirittura dodici → questo perché considera come parte del discorso a
sé il “segnacaso”*, l’articolo, il participio, il gerundio e il ripieno (ossia particelle
riempitive).
> Grammatici del ‘600/‘700 come Pergamini e Gigli pongono l’articolo come
parte del discorso a sé.
> Corticelli → pur dando una certa importanza all’aspetto sintattico, nella sua
grammatica non elenca esplicitamente l’articolo tra le parti del discorso.
Le grammatiche dell’Ottocento
> Ambrosoli non pone l’articolo tra le parti del discorso ≠ invece Gherardini,
Morandi-Cappuccini e Fornaciari sì, arrivando così a nove parti del discorso →
infatti la grammatica tradizionale di oggi presenta appunto nove parti del
discorso → dunque è soprattutto grazie alle grammatiche di fine ‘800 che si
arriva alla classificazione tradizionale contemporanea.
> Caleffi (grammatico del primo ‘800), Grammatica della lingua italiana →
citazione importante perché è lo spunto per una riflessione:
«Alcuni moderni grammatici sònosi avvisati [hanno deciso] di porre l’articolo
nel novero delle parti del discorso, il che è tanto assurdo quanto se tra le stesse
parti si volesse dar posto alle vocali [...]. L’articolo nulla da sé significa, egli è
un mero segno [...]».
La definizione di “articolo”
> Un aspetto che fin dal ‘500 viene molto messo in evidenza dalle grammatiche
è la definizione di articolo → cioè non ci si limita solamente a elencare l’articolo,
a porlo tra le parti del discorso o a dire quali sono le forme di articolo e la
distribuzione che hanno all’interno del contesto linguistico, ma ci si sofferma
anche sulla definizione, proprio perché è una parte del discorso nuova
dell’italiano rispetto al latino.
“L’articolo è una parola che se non viene aggiunta a un sostantivo o a una voce che ha
funzione di sostantivo non vuol dire nulla, non ha un significato proprio e non può stare
nel discorso, ma l’articolo è nato per aggiungersi al nome o a quella voce e il suo
significato è dato dalla sua unione con il nome o con quella voce e la sua posizione è
prima del nome o di quella voce senza niente in mezzo”.
> Finora abbiamo sempre parlato di articolo riferendoci sempre a il, ma non ci
siamo mai soffermati sulla distinzione tra determinativo e indeterminativo →
abbiamo sempre parlato di questo argomento come “articolo” in generale →
questo perché fino alla fine del ‘500 quando si parla di articolo si sottintende
che si tratti dell’articolo determinativo, l’unica forma di articolo esistente
secondo i grammatici.
> L’articolo indeterminativo non viene considerato nelle grammatiche del ‘500 e
anche del ‘600 → soltanto alla fine del ‘500 Salviati descrive la forma uno, una
non definendola come articolo indeterminativo ma come una forma che si
accompagna al nome ma che è anche molto simile, dal punto di vista della
funzione, all’articolo.
- Perché non chiama uno, una “articolo”? → probabilmente per non allontanarsi
troppo dalla tradizione grammaticale del ‘500 → nelle grammatiche del ‘500 e
‘600 le forme uno e una vengono descritte solo come numerali, mentre nel
capitolo sugli articoli si trovano solo il, lo, la.
2
“Si potrebbe distinguere una parte del discorso che a me piace chiamare in questi libri
accompagnanome: perché una propria definizione non è stata ancora data, che io
sappia, nella lingua volgare”.
- Che cos’è dunque l’accompagnanome? → sono “le forme uno e una quando
non sono dei numerali ma stanno davanti a un nome con un valore non molto
diverso da quello dell’articolo”.
● «Dimorò nell’oste per buono spazio a guisa d’un ragazzo: mostra che chi lo
nomina abbia nell’animo sembianza d’un particolar ragazzo, tuttavia che
l’uditore non sappia egli già quale» → in questo caso a guisa d’un ragazzo
non è un elemento noto e condiviso ma è un elemento nuovo → questo
è appunto il valore portato dall’articolo indeterminativo.
- Quindi sia nella definizione ma soprattutto nel confronto tra gli esempi, Salviati
fa vedere le due diverse funzioni svolte dall’articolo determinativo e
indeterminativo.
> Questa definizione, per quanto sia moderna, non viene però considerata nelle
grammatiche successive e l’articolo indeterminativo non verrà nemmeno preso
in considerazione da Buonmattei (autore della più importante grammatica del
‘600) → anzi egli parlerà male dell’accompagnanome e dirà che Salviati ha
sbagliato a descrivere questo elemento, perché secondo lui non ha nessun
significato o valore.
> Si dovrà aspettare la grammatica di Soave (fine ‘700) per avere la prima
descrizione di articolo indeterminativo (dal ‘500) → l’articolo indeterminativo
sarà ben descritto da Soave non nella sua grammatica ragionata ma nella
grammatica didattica (Elementi della lingua italiana - 1788), dove uno e una
saranno descritti proprio come forme di articolo indeterminativo.
> Con le grammatiche del ‘900 si arriva alla presenza costante dell’articolo inde-
terminativo (la cui presenza dunque si assesta verso la fine dell’‘800).
> Riguardo a questo argomento possiamo fare delle ricerche grazie agli stru-
menti digitali che abbiamo a disposizione (es. Biblioteca digitale dell’Accademia
della Crusca o la Fabbrica dell’italiano) e vedere come ne parlano i vari gram-
matici.