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LA DAMA BOBA

Due sorelle, una sciocca e ricca (per il lascito di uno io), l’altra povera e dotta, sono corteggiate
da due cavalieri. Dopo una serie di intrighi ognuna riuscirà a convolare a giuste nozze, e la
sciocca avrà modo di dimostrare una acquisita saggezza, dovuta al più potente dei maestri,
Amore. Della “Dama boba” conserviamo l’autografo del 28 aprile 1613 e una stampa curata dallo
stesso Lope, del 1617. Una delle più interessanti analisi della piece la definisce proto- commedia
di figuron. La commedia di figuron fa parte della più ampia categoria “di cappa e spada”, che
finge di dipingere la vita di tutti i giorni, e che non casualmente deriva la sua identificazione
dall’indumentaria contemporanea (la cappa e la spada). I suoi nessi strutturali sono una serie di
giochi teatrali, di dialettiche dell’intreccio, in uno spazio scenico e uno argomentale ben
delimitati. Commedia urbana, e di Madrid nella sua quasi totalità, commedia “di dentro” (casa,
giardino, strada come spazio contenuto nella città); a questo dentro-famiglia i protagonisti
maschili arrivano o ritornano dopo lunghe assenze, e a questo dentro-famiglia vogliono
assimilarsi attraverso il matrimonio. Nel sotto-genere che ci interessa l’asse centrale della
rappresentazione è un personaggio grottesco, caricaturale, di solito proveniente dalla provincia
e che desidera integrarsi nell’ambiente della città attraverso un matrimonio. La sua aspirazione
però non potrà realizzarsi perché il figuron non riesce a evolversi e non riesce a impadronirsi del
linguaggio raffinato della capitale. La risata finale non ha valore normativo, ma terapeutico, serve
cioè ad allontanare dalla comunità lo stravagante, colui che non può o non sa inserirsi in una
società di cui gli spettatori riconoscono di far parte. Si tratta di un
sotto-genere che si svilupperà soprattutto dagli anni Venti in avanti, Lope ne diventa in qualche
modo anticipatore, anche se, rispetto a questo schema, La dama sciocca presenta notevoli
divergenze: la protagonista Finea, infatti, fa parte di un’agiata famiglia della capitale e la
conclusione della commedia sarà felice; se la fanciulla all’inizio è incapace, come ogni figuron
che si rispetti, di capire, è tuttavia dotata di una sua sana adesione alla vita, che potrà evolversi
verso “la luz del entendimiento”, che è l’amore (vv 830-31).  Lope scrive “La dama boba”
Quando scrive la commedia, nel 1613, Lope è arrivato a una piena consapevolezza teatrale che
gli permette di manovrare personaggi e situazioni, per ritagliare i testi addosso agli attori che
glieli commissionano: il manoscritto della Dama boba, ad esempio, reca tracce dell’assegnazione
delle parti, e fu Jeronima de Burgos, con la quale lo scrittore aveva avuto stretti rapporti, a
interpretare la dotta Nise; le altre parti sono destinate ad attori della sua stessa compagnia.
Come di consueto Lope struttura i tre atti intorno a sequenze sceniche, destinate a mettere a
fuoco personaggi e situazioni. Si veda il primo atto: si apre in una locanda sulla via da Toledo a
Madrid, sono addirittura i primi 4 versi a consegnare allo spettatore il luogo dove si svolge
l’azione, con un corredo di topoi a sottolineare la tradizionale scomodità delle posadas. Siamo
dunque “per strada, in una situazione “di transito”, aperta a sviluppi futuri: Lope utilizza così il
luogo teatrale rivestendolo di una forte
carica simbolica. Liseo parla con il servo Torino, che a sua volta gli offre da mangiare. Sembrano
chiacchere senza importanza, eppure hanno una funzione importantissima: servono a definite lo
status sociale di Liseo, cavalieri “cristiano vecchio”, senza presenza ebraiche o arabe nella propria
discendenza, dal momento che mangia carne di porco (vietata ai seguaci delle due religioni) e
definisce quello del maiale “hombre hidalgo”, cioè nobile e di antica prosapia. Serve poi a
connotare Liseo come virile e poco incline alle sdolcinatezze del fidanzamento (rifiuta dei
pasticcini e preferisce il formaggio); inoltre permette di introdurre il tema delle fanciulle di
Madrid, tanto raffinate e schizzinose da mangiare solo “zucchero, manna e sciroppo”. Infine,
Liseo chiarisce che ciò che lo attrae di più di Finea è la ricca dote. Il sopraggiungere di Leadro
permette una gustosa e rapida descrizione di Madrid, calderone in cui le pedine si confondono,
e di definire i caratteri delle due sorelle: se “Nise è una palma”, Finea “è una quercia” (vv. 122-
24). I primi dubbi si accendono in Liseo, così in soli 128 versi fulminanti Lope ha proposto la
situazione, che si svolgerà in due successivi segmenti del primo atto. L’azione si sposta ora a
Madrid, in casa di Ottavio, quella casa in cui Liseo aspira a entrare e dove agiscono le due
fanciulle. Lo spazio in cui da ora i personaggi si muovono sarà rarefatto fino allo stereotipo.
D’altronde i nomi stessi dei personaggi dimostrano questa intenzione dell’autore, dal momento
che non si chiamano Juan, Fernando, Maria o qualsiasi altro nome tipicamente spagnolo, ma
Liseo, Leandro, Laurencio, Duardo, Nise e Finea, nomi cari alla convenzione narrativa, spesso di
derivazione italiana. Nel nucleo scenico dal v.273 al v.634 le due fanciulle sono viste all’opera, e
sono proprio le azioni che svolgono sotto gli occhi degli spettatori a illustrare i loro mondi
contrapposti. La prima battuta che Nise pronuncia è: “Chi ti ha dato il libro?”, e poi di libri parla,
a cominciare da Eliodoro, riferimento obbligato per una persona di cultura nella Spagna dei
Secoli d’Oro. Ma Nise non si limita solo alla citazione, ma esamina l’artificio narrativa dell’inizio
in medias res e della differenza fra i vari tipi di prosa. Ed ecco che invece viene in scena Finea
con il suo maestro: in una specie di battute che dovevano suscitare le risa del pubblico, non solo
appare incapace di distinguere le lettere dell’alfabeto e di dirne il nome, ma non capisce
nemmeno che l’esclamazione di disperazione dell’uomo (“Bella bestia”, v.333) si riferisce a lei, e
pensa che “bestia” sia il nome della lettera che deve riconoscere. Quello che le interessa sono
invece gli avvenimenti semplici e domestici, come il parto di una gattina, che Lope fa raccontare
alla servetta Clara. L’esordio grandiloquente ha fatto pensare a una satira del gongorismo, che
forse sarà stata recepita dagli intellettuali della capitale, riuniti nella “tertulia”, il settore dei
corrales a loro riservato; gli altri spettatori avranno più semplicemente goduto
dell’antropomorfizzazione del mondo gattesco, tema che Lope riprenderà in anni successivi nel
poemetto burlesco “La Gatomaquia”. Ma ecco arrivare in scena i tre cavalieri Duardo, Feniso e
Laurencio, che sottopongono al giudizio raffinato di Nise un sonetto (La calidad elementar
resiste, vv 525-38). Inserimenti analoghi sono tutt’altro che infrequenti nel teatro di Lope, che
aveva proprio teorizzato la presenza della forma metrica nel tessuto drammatico, in funzione di
paura lirica. Qui, l’inserimento non è statico, ma funzionale all’aione: il sonetto parla infatti di
amore, dell’amore più alto, di matrice neo- platonica. La definizione dell’amore viene effettuata
proprio davanti a Nise, che tuttavia la respinge come incomprensibile, e da qui la necessità di
commento, effettuato da Duardo stesso, che chiarisca i termini filosofici (tra le altre cose, viene
illustrata la dottrina dei tre fuochi, definiti “elementare”, “celestiale” e “angelico”: se quello
terreno brucia, quello celeste verifica e quello superiore è infine puro amore). Se Nise chiude ora
la scena con la dichiarazione della propria incomprensione e l’esortazione a scrivere
chiaramente, il tema dell’amore come forza che infonde intelletto verrà teorizzato, addirittura da
Finea, nel terzo atto. Il sonetto serviva anche a dimostrare come Lope fosse in grado di scrivere
in maniera complessa e oscura: un’oscurità che non deriva dall’uso di cultismi o latinismi, quindi
non “di parole”, ma dovuta a “una profondità e difficoltà di pensiero”. Ma indubbiamente gioca
un ruolo fondamentale nella struttura della piece: se l’intelletto “freddo” di Nise non capisce
l’argomentazione sull’amore, la forza di sentire di Finea giungerà a rivestire la fanciulla di luce di
saggezza e a farla argomentare in prima persona: una specie di doppio percorso (chi non sente,
come Nise, non può comprendere, ma sentire, come accade a Finea, implica il comprendere).
Ma per ora il frammento si chiude con Nise che dichiara apertamente il proprio amore a
Laurencio, dandogli un biglietto e toccandogli la mano. Rimasto solo, Laurencio dubita,
versando la propria linea introspettiva in un altro sonetto (vv. 635-48), che inizia con
un’apostrofe al proprio pensiero, secondo un classico incipit di Lope: il tema della mancanza di
beni viene ripreso e ne scaturisce la decisione di corteggiare la ricca Finea, nonostante la sua
ignoranza. Il cambiamento repentino del cavaliere viene spiegato al servo, confidente e alter-
ego, con la metafora della lancetta che rapidamente di sposta sul quadrante: sia pure unica Nise,
come l’una segnata dall’orologio, Finea sarà tuttavia da paragonare alle dodici. Laurencio
preferisci quindi segnare questa “ora ricca e benedetta, più sicura e doviziosa”. Eccolo quindi
all’opera, a corteggiare Finea, che gli risponde dandogli dei consigli su come curare il
raffreddore. Finchè domanda “Cos’è l’amore?” (v. 769). Laurencio ripropone la teoria dell’amore
platonico come desiderio di bellezza, dell’innamoramento attraverso lo sguardo, dell’amore
come “luce dell’intelletto” di fronte allo scetticismo di Finea, che tuttavia comincia a interessarsi
all’argomento: “queste lezioni mi piacciono” (v.827). E nello sfondo della scena del
corteggiamento, anche il servo amoreggia con la servetta, con grotteschi riferimenti alla malattia
d’amore (vv. 808-26). I commenti delle due ragazze, una volta sole, non potrebbero essere più
significativi: prima l’amore è paragonato a uno spezzatino, con un richiamo a cibi ben concreti e
solidi, poi il corpo, nella sua interezza, è chiamato in causa direttamente: nel ritratto che Finea ha
ricevuto il promesso sposo è raffigurato fino alla cintura, e questa assenza della parte bassa la
inquieta molto. Attraverso lo scherzo e la pittura si insinua la suggestione di “un’assenza
indicibile” (“Si, ma dal giubbetto in giù non c’è più nulla”: vv.879-80).
Nell’ultima parte dell’atto (vv. 889-1062) arriva finalmente il promesso sposo Liseo, che, alla
visita alla fidanzata (Finea), vive come un incubo, e alle risposte rustiche e ottuse di Finea, che gli
propone la trippa, accetta unicamente un bicchiere d’acqua (ritorna il tema del cibo con i suoi
portati simbolici). Rimasto solo con il servo Torino, il cavaliere dichiara il suo interesse per Nise e
la repulsione a sposare Finea. Appare ora per la prima volta, in chiusura d’atto, il temo dello
specchio, teorizzato dal gracioso Torino: Nise è “riflesso” del piacere di Liseo; nel vederla egli
depone ogni ira, come il collerico si calma davanti al cristallo che raffigura “la sua ombra”. L’atto
si chiude quindi con una coppia ufficiale, Finea-Liseo, coppia apparente, ma rinnegata dal
cavaliere, che si sente attratto da Nise. Esiste poi una coppia nascosta, Nise- Laurencio,
anch’essa più apparente che reale, dal momento che lui agisce come elemento di disturbo della
prima coppia, corteggiando Finea, non insensibile a più concrete profferte.
L’inizio del secondo atto (vv. 1063-1364) parte da una posizione di stallo: dalle chiacchere di
Duardo, Laurencio e Feniso lo spettatore apprende che è passato un mese e Liseo ancora non
si è deciso a sposare Finea. Ora è Laurencio che in un pezzo di bravura fa le lodi dell’amore e
della sua forza civilizzatrice (vv. 1079-1126). Assistiamo poi ai complimenti che i cavalieri
porgono a Nise per la sua salute recuperata, mentre lei a parte rimprovera Laurencio il suo
cambiamento e il fatto di corteggiare la sorella. Liseo sorprende Laurencio nel momento in cui
tenta di trattenere Nise, e non appena la fanciulla esce, lo sfida a duello. Laurencio pensa che la
sfida abbia origine dal suo corteggiamento a Finea: niente di più probabile che da sciocca lo
abbia riferito al fidanzato. È una scena mossa, segnata da un gioco di entrate e uscite molto
vivace (come tutto il secondo atto): un’ombra di non detto aleggia tra i personaggi, il cui
comportamento è in contrasto con le intenzioni dichiarate. Entra ora in azione Finea (vv.
1365-1580), in una scena parallela a quella del primo atto, in cui si assiste a un’altra lezione, di
ballo. Poi, nelle sue chiacchere con Clara, si mette in luce una nuova assennatezza: gli uomini
cercano nelle donne, con tanto impegno, la costola utilizzata da Dio per creare la loro
compagna. Clara racconta la misera fine che ha fatto un biglietto datole da Laurencio,
semibruciato per una sua disattenzione (obbligato il richiamo al fuoco, che si appicca alla
stoppa della donna). Finea, poco esperta in lettura, se lo fa leggere dal padre. Ottavio
rabbrividisce per la sventatezza ingenua della figlia e comincia a farle la morale, quando
sopraggiunge il servo di Liseo con la novità del duello. Ottavio si precipita per tentare di
impedirlo. Finea ora teorizza sull’amore come riflesso dell’altro, specchio della propria
immagine, e il simbolo comincia dunque a costituirsi come uno dei motivi conduttori della
commedia. La servetta conclude: “Sembra cambiata in un’altra”, e il nucleo scenico si chiude
addirittura con un gioco di parole (“anche se temo in cuor mio che scorderò di scordarlo”: vv.
1579-80). Con un repentino cambiamento di luogo la scena si sposta al terreno retrostante il
convento degli Agostiniani, dove si sta per svolgere il duello tra Laurencio e Liseo. Il primo
confessa di essere interessato a Finea, e questo tranquillizza Liseo, sempre più innamorato di
Nise: i due promettono di aiutarsi a conquistare ciascuno la propria bella e lo sbalordito Ottavio
non può che constatare il bell’accordo tra i due. Questo frammento di svolge in endecasillabo,
sia per la gravità del momento, che sfiora il confronto, sia perché agisce Ottavio: la sua entrata
in scena, infatti, è quasi sempre marcata dal metro nobile di origine italiana e dotta. Questo è il
primo di una sequenza di scambi a due, in cui la dinamica delle coppie tende a strutturarsi
attraverso una serie di patti. Nonostante il cambiamento di luogo (si ritorna alla casa di
Ottavio), il confronto continua con il colloquio tra Nise e Finea (vv.
1668-1706), che è tanto cambiata da tener testa alla sorella; magari non è in grado di capire
l’allusione ai fiori di anacardio come potenziatori della memoria, ma può effettuare un gioco di
parole (prenda, empenar, desempenar). Di fronte alle proteste di Nise, che rivendica per sé
Laurencio, Finea decide generosamente di lasciarglielo e nel successivo confronto con lui gli
chiede di “togliere di occhi” dai suoi e di non abbracciarla. Il che permette una divertente
scenetta con Laurencio: egli finge di togliere con un fazzoletto i sui occhi dagli occhi di Finea e la
“disabbraccia” abbracciandola di nuovo (vv. 1707-64). Però, mentre la sopraggiunta Nise e
Laurencio si appartano, Finea incomincia a sentire i morsi della gelosia. Esce Ottavio e rientra
Laurencio, mentre l’endecasillabo lascia il posto di nuovo alle redondillas. Finea domanda al
giovane di guarirla dalla gelosia, ed egli ne approfitta per farsi dare davanti a Duardo e Feniso
promessa di matrimonio; esce poi con loro per formalizzare l’accordo di fronte a un notaio (vv.
1831-1908). Ottavio rientra rimproverando Nise di essersi intrattenuta con Laurencio in un
colloquio privato. Ma mentre Ottavio fa la morale a Nise, ecco che viene a sapere che Finea ha
dato parola a Laurencio davanti a testimoni di diventare sua sposa; così esce per cercare un
notaio che finalmente accasi la più ingovernabile sciocca con Liseo. Ma sopraggiunge proprio
Liseo, che domanda a Nise se Laurencio si è fatto interprete presso di lei dei sentimenti d’amore
che egli prova; Nise trasecola e, visto che arriva in scena Laurencio, gli dirige affettuosi
complimenti fingendo di parlare a Liseo (vv. 1991- 2032). Il secondo atto si chiude quindi al
massimo della confusione: la coppia Finea-Laurencio appare giàassestata, anche se ci sono molti
ostacoli contro: la parola di matrimonio che il padre ha dato a Liseo e che intende far rispettare,
e Nise, decisa a sposare il suo Laurencio, tanto che gli reitera le sue profferte, fingendo di
porgerle a Liseo. Ma i due cavalieri perseguono ciascuno il suo scopo: si tratta ora di ingannare
Nise, “perché ingannare un astuto è la vittoria più grande” (vv. 2031-32). Il primo nucleo del
terzo atto ci presenta una Finea ormai saggia, che in un articolato soliloquio in decimas riflette
sull’amore e sui suoi effetti civilizzatori (vv. 2032-72). Intanto Ottavio conversa con l’amico
Miseno, e lo mette a parte del suo desiderio di accasare anche Nise, troppo persa dietro la
poesia. Il padre stila un elenco delle frequentazioni della bas bleu, antologia di belle lettere
seicentesche, dove Lope indulge a ben 3 autocitazioni. Come si vede dal passo, Lope considera
lettura fondamentali di una dama à la page la prosa della novela bizantina, quella del romanzo
pastorale (La Galatea di Cervantes) e della picaresca (il Guzman di Aleman); nella poesia
figurano, accanto a autori noti, anche amici di Lope, oggi molto meno conosciuti, nè mancano
commedie (Guillen de Castro). Si esaminano anche le autocitazioni: le Rimas (1604), El peregrino
en su patria (1604), Los pastores de Belen (1612); Lope rimanda a una stampa dell’anno
anteriore, nel caso dei Pastori, o richiama due suoi testi che egli considera fondamentali. Il
frammento si chiude con il richiamo al Don Chisciotte, ormai classico della letteratura comica:
Nise, con le sue stramberie libresche, potrà diventare “una Don Chisciotte femmina, che farà
ridere il mondo” (vv. 2147- 48). Liseo tenta di conquistare Nise e ne ottiene solo ripulse; ma è il
momento del riconoscimento pubblico della nuova grazia di Finea, che danza insieme alla sorella
con eleganza e garbo (vv. 2210-2326), con un parallelismo positivo con le lezioni fallite nel primo
e secondo atto; e ancor più se si tiene conto delle parole della canzone che accompagna il ballo:
la satira dei nuovi ricchi che ritornano dalle Americhe e che trovano subito dame disposte ad
amarli in virtù del denaro accumulato. Il desiderio smodato di denaro, specie se distorce i
sentimenti nobili dell’amore, viene così stigmatizzato. Scena fondamentale, tant’è vero che dopo
Liseo decide di lasciar perdere Nise e affrettare le nozze con Finea. Laurencio ne viene informato
e se e dispera: è stato il suo amore a produrre il cambiamento e ora la “nuova” Finea sarà premio
di Liseo. La ex-sciocca argomenta ora con finezza sull’amore come specchio, tema che si era già
presentato e che ora viene ripreso e sviluppato (vv. 2411-14). Laurencio risponde che tanta
eleganza è addirittura eccessiva per una brava moglie, che deve solo saper reggere la propria
casa e tacere (perle antifemministe). Ma Finea è diventata tanto saggia che potrà addirittura
fingere la propria sciocchezza per far disinnamorare Liseo. D’altro canto (ennesimo luogo
comune) le donne sono tanto abili che sanno simulare ancora prima di essere nate. E difatti:
Liseo di fronte alle finte sciocchezze di Finea (notevole il passo sulle “anime” e il timore che lei
dice di provare per questa astrazione: vv.2575-2611) cambia di nuovo parere: “torno da Nise”
(v.2597). appena uscito di scena, Finea recupera la sua intelligenza, sottolineando quanto è
ormai penoso per lei simulare una stoltezza che ormai le è estranea. Ancora un confronto
Nise-Laurencio, con Finea che passa a comando dalla saggezza alla sciocchezza contraffatta.
Certo è che questi suoi cambiamenti sono meno violenti di quelli dei due cavalieri, e non a caso
ricorda quelli della luna. La luna, richiamo obbligato per ogni follia che si rispetto, in questa
follia falsa, diventa pretesto per una disquisizione molto più sagace di quel che sembri (vv.
2537-47). Dopo la dichiarazione di Finea “quiero desquitarme de ser boba” (vv.2628-29) si entra
nella parte finale della commedia (vv.2630-3184). Il labirinto delle apparenze e dei cambiamenti
è retto dalle vertiginose e continue uscite dei personaggi. Ancora Nise spia i complimenti di
Finea e Laurencio (vv.2630-76); Finea, che se ne accorge, finge di nuovo la sua candidezza,
mentre la sorella sciorina un superbo pezzo sulle anime. Il falso e il vero si confondono, davanti
a Feiso e Duardo in funzione di testimoni. Nise esorta il padre a bandire Laurencio dalla casa
(vv.2744-46). Detto fatto, Ottavio mette alla porta il cavalieri, nonostante questi dichiari di
essersi sposato con Finea; ma sarà proprio la ex-sciocca a trovare il rimedio: visto che a
Laurencio è stato imposto di non tornare più a casa, vi rimanga, sarà nascosto in soffitta e al
padre Finea dichiara che non metterà più piede in città e che è partito per Toledo, e da ora in
poi lei stessa si nasconderà in soffitta non appena vedrà degli uomini. Infatti, all’arrivo di Liseo si
allontana: agli occhi del padre e di Liseo sembra un comportamento stravagante, allo spettatore
si rivela come strategia consapevole.
Liseo rompe il patto matrimoniale appena stipulato, di fronte alla nuova idiozia in cui Finea
sembra caduta (vv.2879- 2930), mentre Finea e Clara fanno le lodi della soffitta, cioè del luogo
appartato e solitario dove la vera saggezza trova il suo naturale ricovero (non senza allusioni ad
avvenimenti contemporanei, ormai perduti per il lettore di oggi, ma godibili per lo spettatore
del tempo). Finea scappa, ovviamente, verso la soffitta all’avvicinarsi del padre e dei cavalieri,
dove si nasconde Laurencio. Ma sul punto di allontanarsi definitivamente anche Liseo, Nise cede
al suo corteggiamento (vv.3027-72) e contemporaneamente l’inganno di Finea viene svelato
(gioco di parole con “Toledo”), le proteste e le grida di Ottavio di fronte alla scostumatezza della
figlia sono una mera obbedienza alle convenzioni: il padre sarà ben contento
dell’accomodamento finale con doppio matrimonio. Anzi, con un matrimonio quadruplo, perché
anche i servitori delle due coppie di sposeranno tra loro. Commedia dunque solo in apparenza
superficiale e brillante, poiché la “sciocca” non ha solo imparato a leggere, a esprimersi
correttamente o a danzare, ma dimostra di essersi ben impadronita dei meccanismi del raggiro
e dell’inganno. Finea è diventata per davvero specchio di Laurencio, non solo riflettendone
innamorata l’immagine, ma adottando le sue tattiche ingannevoli, mezzi di convivenza civile di
cui viene svelato l’implicito valore negativo (vv.2975-78). Dove, come si vede, il tema dello
specchio si unisce a quello dell’inganno.
Nel matrimonio, dice Lope de Vega, ciascuno cerca ciò che gli manca, tuttavia nessun uomo
ammetterebbe mai di essere privo di intelligenza. E dunque in quali arti deve eccellere una dama
spagnola del xvii secolo se vuole trovare marito? Le giova davvero conoscere filosofi e poeti o
non è piuttosto favorita dal destino se confonde addirittura le lettere dell'alfabeto? Delle due
sorelle protagoniste della commedia, Nise, povera e dotta, ha riempito la casa di libri e rischia il
ridicolo come un Don Chisciotte femmina; Finea, sciocca e ricca, è così refrattaria al sapere da
mettere in crisi anche il più accomodante dei suoi pretendenti. Ma il gioco delle parti viene
sconvolto da chi si sottrae a ogni calcolata lungimiranza: Amore, il più efficace dei maestri,
finisce per addomesticare nel migliore dei modi uomini e donne e la ex-sciocca Finea avrà modo
di dimostrare una acquisita saggezza sciogliendo l'intreccio in una giusta miscela di ragione e
passione. Commedia d'intreccio e mossa, La dama sciocca si apre verso nodi problematici e
motivi di interesse di vasta portata: la serie di riflessioni sul tipo di istruzione da dare alle donne;
la presenza di un sonetto autocommentato dall'autore dove viene tracciato l'elogio dell'amor
platonico e che attesta la conoscenza di Lope della filosofia e letteratura italiana; l'esistenza di
due redazioni della commedia sostanzialmente dissimili che mettono a fuoco le strategie
editoriali cui il «Fénix de los ingenios» sottometteva i propri testi passando dal palcoscenico alla
diffusione a stampa.

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