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STORIA MODERNA
MANUALE PER L'UNIVERSITÀ
dinastia imperiale, poiché il titolare è scelto da sette "grandi elettori" (vescovi di Colonia, Magonza
e Treviri più quattro principi laici: re di Boemia, margravio del Brandeburgo, duca di Sassonia e
conte del Palatinato). Al trono sale Massimiliano I d'Asburgo (1493-1519), sposatosi con Maria di
Borgogna (1477), figlia ed erede di Carlo il Temerario. I suoi successi provengono dalle alleanze
matrimoniali con le monarchie spagnola e ungherese, assicurando ai nipoti Carlo e Ferdinando le
corone spagnola, fiamminga, imperiale, boema e ungherese.
Impero ottomano
L'interesse turco è assorbito quasi esclusivamente dall'avanzato settore militare. Nel 1453
Maometto II abbatte le mura di Costantinopoli ed entra nella basilica di Santa Sofia: da allora nel
Mediterraneo il confronto diretto è con i veneziani. Alla fine del XV secolo i turchi possiedono
l'Asia Minore, la Grecia e buona parte dei Balcani, fino ai confini con Ungheria e Valacchia (attuale
Romania); il sultano è formalmente l'unico uomo libero, gli altri sono suoi schiavi. La struttura
sociale segue un modello feudale: i guerrieri più valorosi sono ricompensanti con un possedimento
fondiario non trasmissibile denominato timar; essendo i turchi sunniti, essi non pretendono la
conversione dei popoli non sottomessi, ma il non musulmano paga più tasse.
L'epopea delle scoperte
L'Italia deve da secoli la sua ricchezza al monopolio del naturale collegamento fra le regioni del
nord e i terminal siriaci delle spezie; l'iniziativa esplorativa spetta alle regioni periferiche meno
fortunate, a cominciare dal Portogallo. L'esplorazione africana si completa solo nel XX secolo; al
contrario le Americhe vantano grandi fiumi navigabili (Mississippi-Missouri, Rio delle Amazzoni,
rio della Plata) che agevolano le rapide penetrazioni nelle zone più interne.
Cristoforo Colombo (1451-1506) propone nel 1484 al re del Portogallo l'impresa di raggiungere le
Indie navigando verso occidente, ottenendo un rifiuto. Lo accetta Isabella di Castiglia, moglie di
Ferdinando d'Aragona, nel 1492.
La raya e i portoghesi in Brasile
Dal 1493 papa Alessandro VI delimita le zone di influenza spagnola e portoghese tracciando
sull'Atlantico una raya, linea di demarcazione che passa a ovest delle isole del Capo Verde, fra
queste e le Bahamas; dopo una protesta i portoghesi ottengono uno spostamento della linea che
consenta loro il monopolio della navigazione africana lasciando agli spagnoli quella americana. Le
navi portoghesi raggiungono l'Africa sfruttando la corrente della Canarie per guadagnare tempo: nel
1500 Pedro Alvares Cabral incappa però in una tempesta e si ritrova in Brasile, scoprendolo nella
zona spettante al Portogallo. Nel 1502 Amerigo Vespucci, mercante-navigatore fiorentino al
servizio dei portoghesi, capisce che gli europei non sono giunti in Asia ma in nuovo continente: in
suo onore il Nuovo Mondo è chiamato America.
La comparsa degli inglesi: i Caboto
La monarchia francese di disinteressa delle nuove scoperte per motivi politici (l'espansione nella
penisola italiana) e religiosi (la paralisi dovuta alle guerre di religione). Nel 1497 re Enrico VII
Tudor concede a Giovanni Caboto di salpare verso le acque del nord America (a causa della raya
che impedisce esplorazioni altrove). Nel 1508 il figlio Sebastiano è il primo a superare il circolo
polare artico.
Le civiltà dell'America precolombiana e i conquistadores
In quello che è l'attuale Messico esistono due civiltà, avanzate ma prive della conoscenza di
strumenti come ruota e aratro: i maya a sud (Yucatan), gli aztechi a nord. I maya sono grandi
costruttori di città, ognuna delle quali forma un'autonoma entità politica; sono agricoltori e
coltivano il mais; la loro religione è pessimista, e prevede la distruzione di un quinto mondo, quello
attuale. La società azteca si articola in caste (guerriero, sacerdoti, mercanti) al cui vertice sta
l'imperatore: una forte coesione sociale individua il bene massimo nell'appartenenza alla comunità;
come i maya, gli aztechi credono nell'imminente fine del mondo. Nel 1519 sbarca qui Hernàn
Cortés che, con poco più di cinquecento uomini, travolge gli aztechi uccidendone l'imperatore
Montezuma e distruggendo la città Tenochtitlàn. L'impero inca (fra Perù e Bolivia) vede l'inca
(capo) discendere dal dio Sole ed essere una divinità; la società si fonda un comunismo dispotico in
cui nessuno può lavorare/oziare più del dovuto; come i maya gli inca sono grandi costruttori di città,
a cominciare dalla capitale Cuzco. Qui nel 1532 arriva Francisco Pizarro, che con trecento uomini
sconfigge un esercito di quarantamila guerrieri, uccide l'imperatore Atahualpa e saccheggia Cuzco.
Nel 1519 Ferdinando Magellano, sotto la corona spagnola, inizia la circumnavigazione del globo e
nel 1522 porta a compimento il sogno di Colombo raggiungendo l'Asia.
L'incontro-scontro fra Europa e America
Il processo di conquista avviene sotto la forma giuridica dell'encomienda, feudo concesso dalla
monarchia agli spagnoli recatisi nei nuovi possessi, per esercitarvi il mestiere delle armi o
dell’amministrazione. Gli encomenderos ottengono la tutela degli indigeni nella “signoria” e spesso
li sfruttano senza scrupoli: nel giro di ottant’anni i soli indios messicani calano di oltre venti
milioni. Il domenicano Bartolomé de Las Casas, vescovo di Chipias, è il primo a sancire leggi a
tutela degli indios (le Nuevas leyes del 1542). L’impero coloniale spagnolo si divide in due
viceregni: la Nuova Spagna (Messico e America centrale) e la Nuova Castiglia (dal Perù
all’Argentina). Nel 1542 si costituisce a Madrid il Consiglio delle Indie col compito di
sovraintendere al governo coloniale. Nel 1545 la scoperta di miniere d’argento in Perù alimenta il
flusso di metalli preziosi verso la Spagna. A partire dal XVII secolo prendono piede i primi
insediamenti francesi e inglese nel nord America, riproducendo la divisione tra un’Europa latino-
cattolica a sud e una sostanzialmente anglosassone e protestante a nord.
2 – L’età di Carlo V
La fine della “libertà” italica
La pace di Lodi (1454), cui aderiscono Milano, Venezia, lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli,
riconoscono e assicurano ai cinque maggiori Stati italiani il possesso dei loro territori e li impegna
al reciproco aiuto in presenza di attacchi esterni. Nel 1492 muoiono i due artefici fondamentali del
mantenimento di questa stabilità: Lorenzo de’ Medici e papa Innocenzo VIII.
L’impresa di Carlo VIII segna l’inizio delle guerre d’Italia. Nel 1495 si forma una lega antifrancese
fra Venezia, Milano, Firenze, lo Stato pontificio, la Spagna e l’impero. Dopo le vicende fiorentina e
napoletana (e il ritiro delle truppe), Carlo VIII trova un alleato in Venezia: nel 1499 occupa Milano
e nel 1500 Luigi XII, suo successore, conclude il Trattato di Granada con Ferdinando il Cattolico
spartendosi il regno di Napoli fra Francia e Spagna. La situazione di conflitto culmina nella
battaglia di Cerignola (1503) con la conquista spagnola dell’intero regno di Napoli (essa ha già
Sardegna e Sicilia). Il papa coinvolge nell’alleanza antifrancese anche spagnoli, svizzeri e impero
dando luogo nel 1511 alla Lega Santa. Si creano le condizioni per la restaurazione medicea con il
sostegno militare spagnolo contro la repubblica fiorentina che capitola nel 1512. L’ingresso diretto
della Confederazione elvetica nei conflitti della penisola porta all’occupazione di Milano: il ducato
è un elemento strategico per la conquista dell’egemonia italiana. Il re francese Francesco I (1515-
1547) organizza una spedizione con il consenso di Venezia e, nel 1515, si proclama duca di Milano
e sconfigge le truppe svizzere a Melegnano. La pace di Noyon (1516) sancisce un parziale
equilibrio basato sull’assegnazione del ducato di Milano alla Francia e del dominio spagnolo nel
regno di Napoli.
La concezione imperiale di Carlo V comprende la ricomposizione della cristianità all’insegna di una
monarchia universale basata su fede e giustizia. L’imperatore vuole ottenere Milano e il ducato di
Borgogna, ambedue rientranti nei confini imperiali. Uno schieramento favorevole all’imperatore si
compone del papa Adriano VI, il re Enrico VIII e la repubblica di Venezia. Nel 1521 i francesi
devono lasciare Milano dove torna Francesco Maria Sforza. Nel 1526 si forma la Lega di Cognac
fra Francia, Venezia e il nuovo papa Medici, Clemente VII (1523-1534). Nel 1527 circa dodicimila
lanzichenecchi (mercenari tedeschi al servizio di Carlo V) si abbandonano a un saccheggio di
Roma: il papa è costretto al rifugio presso Castel Sant’Angelo. L’episodio alimenta la propaganda
antipapale da parte dei protestanti; fra le prime conseguenze, a Firenze si ripristina la repubblica. I
membri della Lega di Cognac prendono atto della prevalenza imperiale: Clemente VII firma la pace
di Barcellona nel 1529 riconoscendo a Ferdinando d’Asburgo, fratello di Carlo V, la corona di
Boemia e di Ungheria (ottenute nel 1526). Francesco I firma la pace di Cambrai rinunciando ai
domini italiani ma mantenendo la Borgogna. Nel 1530 il papa incorona Carlo V, ottenendone il
consenso per ripristinare la signoria medicea; l’imperatore proclama Alessandro de’ Medici, nipote
del papa, duca della repubblica di Firenze. Dopo la morte di Francesco II (nel 1535) il ducato di
Milano ritorna nei domini imperiali. Fra il 1555 e il 1556 Carlo V fa una serie di abdicazioni: al
fratello Ferdinando I vanno i territori austriaci e le corone di Boemia e Ungheria (nel 1558 ottiene
anche l’elezione a imperatore); al primogenito Filippo II vanno tutti gli altri territori: i regni
spagnoli, i domini italiani, i Paesi Bassi, le colonie americane.
Carlo V e il suo impero
Carlo V eredita il complesso territoriale materno della monarchia dei Re Cattolici e quello paterno
dello stato borgognone e dell’arciducato di Austria. La Corona d’Aragona comprende l’Aragona, la
Catalogna e le isole Baleari. La Corona di Castiglia include a nord le regioni cantabriche (Galizia e
Asturie), il regno di Castiglia, l’Estremadura e, a sud, l’Andalusia e il regno di Granada. Dai due Re
Cattolici nasce Giovanna, erede della corona che nel 1496 sposa Filippo il Bello, figlio
dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo. Da questo matrimonio nascono quattro figlie, il futuro
Carlo V e suo fratello Ferdinando. Nel 1512 Ferdinando il Cattolico invade la Navarra annettendola
al regno di Castiglia. La restante parte dell’impero sopraggiunta a Carlo V è legata al ramo paterno
e al titolo di imperatore del “Sacro romano impero della nazione tedesca”. Massimiliano I
d’Asburgo, sposato nel 1477 con Maria di Borgogna, ha due figli: Filippo che sposa Giovanna,
figlia dei Re Cattolici, e Margherita che sposa Giovanni, unico figlio maschio dei sovrani di
Spagna. I possedimenti della casa d’Asburgo sono l’arciducato d’Austria, il ducato di Stiria, di
Carinzia e di Carnia e la contea del Tirolo. Con il matrimonio Massimiliano acquisisce la Borgogna
e la Franca Contea nonché l’Artois, le Fiandre, il Brabante e la contea del Lussemburgo.
Ferdinando il Cattolico muore nel 1516 e si apre una difficile successione (nei regni spagnoli anche
le donne hanno diritti legittimi). Nello stesso anno Carlo di Gand è proclamato re di Castiglia e
d’Aragona congiuntamente alla madre. Si formano due gruppi contrapposti per influenzare il
giovane Carlo: il partito filofrancese degli uomini della corte di Bruxelles, che cerca di mantenere
buoni rapporti con la Francia e di assicurarsi la neutralità inglese; e il partito spagnolo. Ritiratisi
dalla competizione sia il duca di Sassonia che Francesco I, Carlo è eletto imperatore nel 1519.
Partono le alleanze matrimoniali: nel 1520 il fratello Ferdinando sposa Anna, sorella del re Luigi
d’Ungheria, mentre questi sposa Maria, sorella dell’imperatore. A Ferdinando l’imperatore cede gli
Stati ereditari della casa d’Asburgo: Austria, Carinzia, Stiria e Tirolo. Nel 1521 l’imperatore
presiede per la prima volta la Dieta a Worms dove è ascoltato Lutero: il confronto fallisce e l’editto
di Worms (1521) lo condanna dal punto di vista dottrinario e civile.
Carlo V ha una visione messianica dell’impero: il suo progetto trova in Spagna un ambiente
favorevole anche grazie all’universalismo di Erasmo da Rotterdam (l’influenza erasmiana è
determinante sulla formazione del giovane Carlo). Nei quarantadue anni come re di Spagna, Carlo
ne trascorre solo sedici nei regni iberici: si producono così tensioni e conflitti che egli non è in
grado di controllare. Nel 1520 in molte città castigliane il patriziato urbano e fasce del ceto medio si
sollevano contro il popolo per difendere i propri antichi privilegi, minacciati dalla politica del
sovrano: la protesta si configura come movimento antisignorile (contro la grande nobiltà). La rivolta
delle comunidades, che nel 1520 costituiscono una junta santa, nel 1521 è repressa dall’esercito
reale. Nello stesso periodo nelle città di Valencia e Maiorca si produce un’altra rivolta – le
germanias – la cui sollevazione si esaurisce nel 1522 a causa di una dura repressione.
L’organizzazione dell’impero
Negli antichi regni spagnoli (Castiglia, Aragona, Navarra, Catalogna, Valencia), in quelli della linea
asburgica (Franca Contea), in quelli italiani (Sardegna, Sicilia, Napoli, Milano) e del Nuovo Mondo
(Nuova Spagna e Perù), Carlo V delega le sue funzioni a un viceré o a un governatore che
collaborano con le istituzioni locali garantendo continuità all’azione di governo. In Castiglia e nei
Paesi Bassi lo speciale rapporto dinastico sconsiglia tale nomina, per cui si adotta la reggenza:
quella di Castiglia funziona come un coordinamento di tutti i regni spagnoli (il regno è governato da
Adriano Florensz, precettore del giovane Carlo, e da membri della famiglia imperiale); anche i
Paesi Bassi sono governati da reggenti della famiglia imperiali, e successivamente come
rappresentante del sovrano è nominato un governatore.
Una minaccia costante è l’espansione ottomano nell’Europa orientale e nel Mediterraneo: nel 1512
il sultano Selim I (1512-1520) contiene l’avanzata persiana e negli anni seguenti sottomette Egitto e
Siria. Il figlio Solimano I il Magnifico (1520-1566) nel 1521 si spinge nei Balcani e conquista
Belgrado; nel 1522 espugna Rodi; intraprende poi una campagna militare in Ungheria avendo
successo nella battaglia di Mohács, in cui muoiono il re di Boemia e Ungheria Luigi II Jagellone. Il
fallimento dell’assedio di Vienna (1529) rassicura l’intera Europa. Alla morte di Luigi II si
intromette l’arciduca d’Austria Ferdinando, fratello di Carlo V: avendo egli sposato la sorella del
defunto re, rivendica il diritto di successione al trono ma non ottiene il consenso della nobiltà
magiara che designa in suo luogo Giovanni Zapolyai, il voivoda (prince elettivo) di Transilvania.
Questi ricorre all’aiuto di Solimano che nel 1532 compie scorribande in Austria e nel 1541
conquista Buda, la capitale ungherese, vanificando gli sforzi di Ferdinando. Per tutto il secolo i
litorali napoletani e siciliani sono esposti a offensive turco-barbaresche: in particolare l’emirato
musulmano di Algeri, retto dal 1518 da Kahir ad-Din detto Barbarossa, diventa la base dei più
insidiosi atti di pirateria nel Mediterraneo occidentale. Nel 1535 l’imperatore guida una vittoriosa
spedizione per la riconquista di Tunisi caduta in mano a Kahir ad-Din, ma la città è tenuta per poco
tempo. Fino alla battaglia di Lepanto (1571) è arduo contrastare la presenza ottomana nel
Mediterraneo. Importante il legame di vassallaggio riconosciuto nel 1458 da Ragusa (odierna
Dubrovnik) verso il sultano, che assicura esperienza marinara a scapito dei veneziani. I motivi della
lunga durata del dominio ottomano si rintracciano in: potenza militare; pragmatismo politico (lo
dimostra l’alleanza con la Francia contro V nel 1543 e la consapevolezza dell’inopportunità di
perseguire la sola contrapposizione con gli schieramenti europei); prelievo fiscale non vessatorio da
parte degli assegnatari delle terre di conquista; tolleranza religiosa in cambio di un tributo per fedi
non musulmane; assenza di servitù della gleba.
Carlo V è convinto che il governo imperiale sia imprescindibile da una omogeneità religiosa. Nel
1520 sono bruciati gli scritti luterani; nel 1521 la bolla Decet Romanum Pontificem scomunica
Lutero. L’imperatore fornisce garanzie al principe elettore di Sassonia Federico il Saggio, protettore
di Lutero, sullo svolgimento dell’interrogatorio alla Dieta di Worms: l’elettore di Sassonia trae
Lutero in salvo, dopo l’emissione del diritto che lo bandisce dall’impero, fingendo un rapimento.
Molti principi tedeschi aderiscono alla riforma luterana. Alla Dieta di Spira (1526) segue una fase di
parziale tolleranza per il fronte luterano. Alla Dieta di Augusta (1530) Melantone, il più stretto
collaboratore di Lutero, propone un testo che sia da base per un accordo coi cattolici: il disegno
fallisce. Carlo V intima ai protestanti una sottomissione invano, perché questi formano la Lega di
Smalcalda (1530). Nel 1541 Carlo V propone un dialogo, i colloqui tra teologici cattolici e
protestanti di Ratisbona. Alla fine si passa alle armi e l’imperatore vince a Mühlber (1547) sulle
truppe della Lega di Smalcalda. La pace di Augusta (1555) riconosce la legittimità della fede
protestante all’interno dell’impero in virtù del principio cuius regio eius religio, imponendo quindi
l’emigrazione di sudditi di fede diversa da quella del proprio sovrano. Il Concilio, a lungo
perseguito da Carlo V, inizia nel 1545 ma si conclude solo nel 1563.
cattolica, con metodi tanto violenti da meritarle il soprannome di “sanguinaria”, è a opera della
sorella Maria Tudor (1553-1558), figlia di Caterina d’Aragona e moglie del campione della
controriforma Filippo II di Spagna. L’assestamento dottrinario della chiesa anglicana si ha sotto il
regno di Elisabetta I (1558-1603) che con i trentanove articoli del 1571 accoglie i principi calvinisti
mantenendo la struttura episcopale e gli aspetti liturgici del cattolicesimo. Più radicale sul versante
calvinista è la riforma in Scozia a fine anni Cinquanta ad opera di John Knox, estensore della
Confessio stoica, approvata dal parlamento nel 1560. L’Irlanda invece rimane saldamente cattolica.
Riforma protestante ed eresie in Italia
La diffusione in Italia delle idee riformate passa attraverso varie fasi: l’appello teologico dei
predicatori (1518-1542), la proliferazione spontanea (1542-1555), la repressione (1555-1572),
l’estinzione (1572-1585). La data che segna una cesura e svela la drammaticità della visione della
cattolicità è il 1527, quella del “sacco di Roma” da parte dei lanzichenecchi imperiali, da molti
interpretato come punizione divina per la corruzione della curia. Il movimento valdese ha preso
origine alla fine del XII secolo dal mercante lionese Valdo, che incita alla lettura della Bibbia in
volgare e alla povertà apostolica: il movimento diventa autonomo rispetto alla Chiesa cattolica con
il sinodo di Chanforan (1532), nel quale si accettano le idee dei riformatori svizzeri dando vita a una
chiesa evangelica di tipo presbiteriano. Il Beneficio di Cristo (1543), stampato anonimo a Venezia, è
frutto di Juan de Valdés che nella Napoli degli anni Trenta trova ascolto nel mondo nobiliare. Il
testo ha una grande diffusione in tutta Italia. Nel 1542 papa Paolo III istituisce il Sant’Uffizio
dell’Inquisizione: prende avvio la fase di ripristino dell’ortodossia cattolica e si sviluppa il
fenomeno del nicodemismo, cioè l’adesione formale al cattolicesimo e il mantenimento interiore di
una religiosità più intima con velature riformate.
L’altro campo d’azione è l’educazione, con la fondazione di collegi (fra cui il Collegio Romano nel
1551 e quello di Messina nel 1548) dedicati all’educazione delle classi superiori.
Il concilio di Trento
Il papa Farnese Paolo III (1534-1549) riunisce a Trento i padri conciliari nel 1545: la scelta della
città, principato vescovile soggetto all’impero ma territorio geograficamente italiano, lancia un
segnale di apertura al mondo riformato. La storia del concilio si inserisce in quella dello scontro tra
l’impero e la Francia, della Lega cattolica contro gli Stati protestanti, della manovre filofrancesi di
Paolo III. I lavori del concilio (all’apertura con soli ventinove partecipanti), in tutto venticinque
sessioni, si svolgono in tre fasi: a Trento fino all’VIII sessione del 1547 (con la formalizzazione
della rottura definitiva con le posizioni riformate) e poi a Bologna, città papale, senza alcuna
sessione; di nuovo a Trento nel 1551 (sotto il papato di Giulio III, questa volta con più di un
centinaio di vescovi; i canoni condannano esplicitamente la consustanziazione luterana) con la XIII
sessione fino alla sospensione del 1522 (sospensione di due anni o almeno finché in Germania la
situazione bellica non si plachi per operare in sicurezza); infine ancora a Trento dal 1562 al 1563
(nel frattempo a Giulio III succede per poche settimane Marcello II ed è poi eletto papa Gian Pietro
Carafa col nome di Paolo IV: a lui corrisponde un irrigidimento dottrinale e un inasprimento delle
attività di repressione e di censura). Sotto Paolo IV riprendono i lavori nel 1562. Il quadro politico è
cambiato: la pace di Augusta ha stabilito il principio cuius regio eius religio, l’impero è nelle mani
di Ferdinando I, la Spagna di Filippo II è egemone in Italia e campione della controriforma, in
Francia si è aperta la stagione delle guerre fra cattolici e ugonotti. Si conferma la tradizionale
visione cattolica dell’investitura sacerdotale come sacramento (contro il “sacerdozio universale” dei
riformati), si vieta l’uso delle lingue volgari, si conserva il culto dei santi, si difende l’uso di
immagini e particolari indumenti rituali, si restringe l’uso di musica e canto. Nel 1563 si licenzia il
documento sul sacramento dell’ordine e sulla natura del sacerdozio e si attribuisce fondamento
divino alla struttura gerarchica della Chiesa. Il matrimonio pre-tridentino è un lungo processo anche
di anni con molti riti, fra cui è difficile distinguere il momento delle nozze: ora lo scambio
dell’anello e la benedizione del sacerdote suggellano il nuovo matrimonio. Le ultime due sedute
sono dedicate al nodo dottrinale del purgatorio (ammesso con prudenza) e al tema connesso delle
indulgenze (con altrettanta prudenza e moderazione), argomenti da cui ha preso avvia la protesta di
Martin Lutero.
L’Indice dei libri proibiti e l’Inquisizione
La censura preventiva viene estesa all’intera cristianità dalla bolla Inter sollecitudines di Leone X
nel 1515, ma diventa pervasiva azione di repressione nella lotta alle idee ereticali. Nel 1542 è
istituita l’Inquisizione romana e negli anni seguenti appaiono i primi “indici” di libri probiti. Dopo
il Concilio, nel 1564 Pio IV pubblica l’indice tridentino, meno rigido e che avvia la pratica
dell’espurgazione (alcune opere sono consentite solo dopo “ripulitura”, come il Decameron). Papa
Pio V Ghislieri nel 1571 istituisce la Congregazione dell’Indice, abolita solo nel 1966 da Paolo VI.
Lo strumento principale della normalizzazione confessionale è il Sant’Uffizio dell’Inquisizione (o
Inquisizione romana), congregazione istituita da paolo III con la bolla Licet ab initio (1542): il
Sant’Uffizio diviene un centro di enorme potere in mano a sei soli cardinali, in grado di
condizionare perfino il papa quando non proveniente dai propri ranghi.
6 – L’età di Filippo II
Carlo V e la sua successione
Fra il 1555 e il 1556 a Bruxelles Carlo V fa una serie di abdicazioni: al figlio Filippo vanno i regni
spagnoli (Castiglia, Aragona, Catalogna, Valencia), le province italiane (Milano, Napoli, Sicilia,
Sardegna), la Franca Contea, i Paesi Bassi e i territori del Nuovo Mondo; al fratello Ferdinando il
titolo imperiale, i ducati austriaci (Stiria, Carinzia, Carniola, Tirolo), Boemia e Ungheria. Da allora i
due rami dinastici d’Asburgo acquistano una propria distinta fisionomia. La minaccia turca obbliga
tali rami a mantenere un costoso apparato difensivo alle frontiere. Nel 1557 Filippo II si trova
impossibilitato a pagare i debiti della corona ed è costretto a dichiarare bancarotta. La pace di
Cateau Cambrésis (155) chiude una lunga congiuntura di confronto politico e militare tra Asburgo e
Valois che si era aperta nel 1494 con la discesa di Carlo VIII in Italia: la Francia restituisce al duca
di Savoia i suoi stati e rinuncia a pretese su Napoli e Milano, ma conserva i tre vescovati di Metz,
Toul e Verdun nonché Calais, ultimo avamposto inglese in Francia; la corona spagnola, a garanzia
dei suoi domini, controlla lo Stato dei Presidi, piccola area strategica nell’Italia centrale.
L’impero spagnolo
L’espressione impero spagnolo e il titolo imperiale si riferiscono a un’area territoriale precisa e a
un’istituzione (il Sacro romano impero) cui l’aggettivo spagnolo è estraneo; nessun re di Spagna
dopo Carlo ha mai assunto la corona imperiale. Ma l’espressione vale come sinonimo di sistema
imperiale spagnolo (il titolo imperiale passa a Ferdinando, ma anche per Filippo si può parlare di
sistema imperiale): la nozione di sistema è da intendersi come complesso territoriale sovranazionale
che ha le sue fonti di legittimazione e riconosciute gerarchie di comando (non è quindi un modello
politico maturo). La dimensione imperiale non è in funzione di un’idea politica-religiosa forte ma al
servizio di una dinastia, gli Asburgo di Spagna, che si immedesima sempre più come la monarchia
cattolica per eccellenza. Questo sistema imperiale è marcato dal tentativo di trasformare i regni
iberici in una nazione, il cui punto di forza dev’essere la Castiglia. Il sistema imperiale spagnolo ha
questioni aperte: le più rilevanti sono il governo dei Paesi Bassi e il contenimento della potenza
turca nel Mediterraneo. Il giovane Filippo nel 1561 crea una capitale stabile trasformando Madrid,
piccolo centro castigliano, in una sontuosa capitale barocca dove trascorre la maggioranza degli
anni del suo lungo regno (1556-1598) trasmettendo l’immagine di un monarca coscienzioso,
prudente fino all’eccesso ma straordinariamente operoso.
I territori che compongono il sistema imperiale mantengono la propria distinta identità giuridica e
politica (come con Carlo V). Il sovrano risiede in Castiglia e nei territori periferici nomina un viceré
o governatore in sua rappresentanza. Sono di stretta competenza del sovrano decisioni come la
politica estera, i rapporti con la Chiesa di Roma, le decisioni in materia di guerra e pace, la nomina
agli uffici più importanti, l’esercizio della grazia imperiale. La politica di Filippo II è di non alterare
gli equilibri politici dei territori soggetti. Gli affari di stato e le maggiori questioni politiche,
economiche e amministrative passano all’esame dell’apparato polisinodiale (l’insieme dei vari
consigli, strutture collegiali che raccolgono gli elementi utili a una valutazione dei problemi e, su
richiesta del sovrano, esprimono il loro parere in una consulta poi inviata al re per la decisione
finale). Il sovrano si serve di juntas, commissioni formate da un numero assai più ristretto di
componenti. Importanza nell’età di Filippo II assumono gli uffici di segreteria e i loro titolari. I
segretari sono di due tipi: quelli addetti a un singolo consiglio o a una giunta e quelli privati del
sovrano (scelti direttamente da lui, lo aiutano nell’organizzazione del lavoro quotidiano). In ogni
regno periferico operano organi delegati dell’amministrazione centrale che assistono i viceré e i
governatori. Nelle città spagnole sono importanti le assemblee rappresentative (le cortes nei regni
spagnoli e i parlamenti in quelli italiani).
Lo scontro con i turchi
L’espansionismo turco (nella prima metà del secolo al suo limite, come l’impero spagnolo) si
sviluppa su una triplice direttiva di avanzamento: 1) quella continentale lungo i Balcani,
incorporando Serbia, Bosnia e Valacchia. Dal 1542 il regno ungherese è investito dalla spinta turca
e diviso in tre parti: quella occidentale controllata dagli Asburgo di Vienna; il principato di
Transilvania, Stato vassallo dei turchi; la parte meridionale diventa invece parte integrante
dell’impero ottomano. 2) Quella rivolta alla conquista delle isole del Mediterraneo orientale
progressivamente sottratte all’influenza commerciale genovese e veneziana; 3) quella
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dell’intensificarsi della guerra di corsa nel basso Mediterraneo appoggiandosi alle basi degli Stati
barbareschi africani e alla stessa Francia, dal 1536 discreta alleata dei turchi. La Spagna tenta di
contenere le incursioni turche nel Mediterraneo occupando città e piazzeforti lungo le coste
dell’Africa mediterranea. Con Carlo V, impegnato sui fronti bellici europei, si registrano sconfitte e
perdite: Gelves (1510), Vélez de la Gomera (1522), Algeri (1529). Nel 1535 Tunisi è conquistata
con una spedizione comandata dallo stesso imperatore, poi è persa e ripresa e infine occupata
definitivamente dai barbareschi nel 1574; Algeri resiste nel 1541 a Carlo V e resta barbaresca,
mentre Tripoli e Bugia sono riconquistate dalle flotte barbaresche. La corona spagnola negli anni
Sessanta adotta la strategia dei “presidi fissi”, rete di strutture difensive che permettono di
mobilitare rapidamente milizie territoriali per respingere gli attacchi. Nel 1570 i turchi attaccano
Cipro, l’avamposto veneziano più avanzato sul fronte orientale. Pio V spinge un’azione decisiva
contro l’antico nemico unendo le forze cristiane nella Lega Santa. Filippo II, impegnato sul fronte
dei Paesi Bassi, accetta di costruire l’alleanza: una flotta di duecentosette galere si scontra con la
potenza turca nella battaglia di Lepanto (1571) registrando una straordinaria vittoria. Due anni dopo
l’impero ottomano ricostruisce una flotta altrettanto grande e riprende le scorrerie nel Mediterraneo;
la vittoria inoltre non ha salvato Cipro, caduta prima dello scontro. Venezia, timorosa di garantire le
proprie rotte commerciale, conclude nel 1573 una pace separata con i turchi; la corona spagnola a
sua volta stipula nel 1578 una tregue che rinnoverà a ogni scadenza.
Le minoranze etniche e religiose in Spagna
Nel 1500 la popolazione moresca è costretta alla conversione forzata o all’emigrazione dalla
Spagna. Molti moriscos si danno alla macchia sulle montagne attorno Granada alimentando una
guerriglia. Nel 1561 il governo avvia una verifica dei titoli di proprietà delle terre granadine,
mettendo in difficoltà i moriscos che spesso non usano contratti e documenti scritti. Un altro
elemento che aggrava la situazione è il peso fiscale crescente la difficoltà frapposta all’industria
della seta in cui sono impiegati capitali e lavoratori della minoranza morisca. Nella regione di
Granada nel 1568 scoppia una rivolta rurale: nuclei di moriscos si ritirano nelle valli e nelle
montagne combattendo tramite imboscate e attacchi ai villaggio. Ala rivolta va spegnendosi nel
1570 a causa della mancata sollevazione della popolazione moresca cittadina e di una dura
repressione. Filippo II decide di disperdere le comunità moresche fuori dalla regione: il sovrano e il
consiglio decretano l’espulsione dei moriscos nel 1609 imbarcandoli per l’Africa. La regione
valenciana registra una perdita di popolazione del 25% e con essa la caduta della produzione
agricola. Un’altra minoranza perseguitata nella Spagna degli Asburgo sono gli ebrei, qui sottoposti
a controlli e vessazioni. Il Consiglio Supremo della Santa Inquisizione, creato dai Re cattolici nel
1483, è addetto a vigilare sui loro comportamenti. Dal 1493 un decreto di espulsione si abbatte su
chi resiste nell’antica fede giudaica. A partire dal 1541 in diverse città spagnole chi vuole accedere a
cariche pubbliche cittadine deve dimostrare lo “statuto di sangue”, ovvero l’assenza di sangue
ebraico.
Il Portogallo e il problema della successione
Oltre alle basi africane il Portogallo controlla anche il Brasile, il cui territorio è diviso in capitanie,
Territori disposti per cinquanta leghe lungo la linea di costa, ciascuna affidata a un capitano perché
vi operi la colonizzazione e ripartisca le terre tra i coloni. La terza direttrice della colonizzazione è
la rotta delle Indie, aperta nel 1498 da Vasco de Gama con la circumnavigazione dell’Africa. Il re
Giovanni II ha consolidato l’autorità della monarchia. La dinastia degli Aviz ha sempre cercato di
stringere saldi rapporti con la monarchia castigliana e nel Cinquecento persegue l’obiettivo con
strategie matrimoniali: nel 1519 il re portoghese Emanuele I sposa Eleonora, sorella di Carlo V; nel
1521 il suo successore Giovanni III sposa Caterina, sorella dell’imperatore; Carlo V nel 1526 sposa
Isabella di Portogallo da cui nasce Filippo II, che sposa di Maria di Portogallo; nel 1522 Giovanni,
fratello di Maria, sposa Giovanna, sorella di Filippo II, da cui nasce Sebastiano, futuro re del
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Portogallo. Sebastiano diventa regnante all’età adulta di quattordici anni (1568) e nel 1578, per
condurre una crociata sul suolo africano contro gli infedeli, sbarca sulla costa per attaccare il porto
marocchino di Larache, portando l’esercito alla sconfitta di Alcazarquivir e trovando la morte. Gli
succede l’anziano cardinale Enrico, di cui Sebastiano è nipote, ma questi muore nel 1580 aprendo la
lotta per la successione. La divisione tra i candidati portoghesi favorisce Filippo II che vanta diritti
legittimi essendo figlio di una principessa portoghese, avendo avuto come prima moglie una
principessa Aviz e per essere zio del defunto Sebastiano: nel 1580 l’esercito spagnolo entra in
Portogallo vincendo le truppe di don Antonio, priore di Crato, e raggiunge Madrid. Da allora fino al
1640 il Portogallo è unito alla Spagna, conservando tuttavia una notevole autonomia.
I conflitti tra Spagna e Inghilterra
Nel 1554 Maria Tudor, figlia di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona, sposa Filippo II. Nei quattro
del regno di Maria l’Inghilterra è coinvolta nella guerra tra Spagna. Con l’ascesa di Elisabetta I
(1558-1603) i rapporti tra Inghilterra e Spagna mutano: la regina invia sussidi ai protestanti francesi
e intanto sostiene i ribelli dei Paesi Bassi; Filippo II appoggia scopertamente i cattolici inglese. Nel
1569-70 la rottura fra le due professioni di fede è completa e papa Pio V scomunica Elisabetta,
sciogliendo i suoi sudditi dal vincolo di fedeltà alla corona. La regina autorizza la guerra di corsa
contro i galeoni spagnoli carichi di preziosi merci coloniali: nel 1587 Francis Drake attacca le navi
spagnole nel porto di Cadice. Intanto si incoraggiano le fondazioni di colonie sulla costa
nordorientale americana e negli anni 1583-84 si costituisce la prima di esse, Virginia (in onore di
Elisabetta I, la “regine vergine” che rifiuta il matrimonio). Filippo II e i suoi consiglieri passano
all’offensiva attaccando direttamente l’Inghilterra: è allestita l’Invincibile Armada (centosessanta
navi) che salpa da Lisbona (1588) verso l’Inghilterra; la sconfitta è totale. L’operazione condotta in
ripiego ha esito fallimentare perché la flotta olandese, alleata degli inglesi, riesce a bloccare il porto
di Sluys da cui dovrebbero partire i veterani spagnoli.
Il declino spagnolo
Il problema della monarchia cattolica è che le élite di quei territori non si riconoscono più in un
progetto comune che ne leghi l’identità al ruolo della monarchia. Durante il regno di Filippo II
(1598-1621) emerge il ruolo del valido, favorito del re e suo più intimo collaboratore, scelto sempre
nell’alta aristocrazia: lentamente questi svuota di poteri ministri, consiglieri e segretari, ottenendo
un mandato a trattare gli affari di stati. Dal 1598 questa funzione la ricopre il duca di Lerma. Il
valido diventa l’unico punto di riferimento per la gestione del patronage, l’accesso al re,
l’ottenimento di cariche ed uffici e la distribuzione della grazia reale. A conclusione di lunghe
trattative la Spagna firma una pace con l’Inghilterra (1604) e stipula una tregua di dodici anni con le
province olandesi (1609); nel 1617 Filippo III rinuncia ai suoi diritti sull’eredità degli Asburgo
d’Austria. Il paese necessita una pausa di respiro e il recupero di risorse materiali senza indirizzarle
sul fronte bellico. Alla fine del Cinquecento la Spagna è entrata in una congiuntura sfavorevole
segnata da un calo demografico legato a cicli epidemici: l’economia spagnola subisce una
destrutturazione. Pur avendo molte monete, il paese da un lato le utilizza in modo improduttivo
(cioè per pagare le spese belliche sui vari fronti in cui si impegna) e dall’altro esse sono impiegate
per comprare merci estere a un minor prezzo delle equivalenti prodotte in Spagna. Il sovrano è
costretto a firmare un decreto di sospensione di ogni pagamento, la quiebra, per ben nove volte dal
1557 al 1696.
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della nobiltà feudale e adotta una politica favorevole alla nascente borghesia mercantile. La politica
economica si sviluppa grazie alle compagnie commerciali dei merchant adventures (trafficanti privi
di basi commerciali consolidate) cui sono concessi privilegi e monopoli nelle nuove terre. Il
fenomeno delle “enclosures” mira a privatizzare le antiche proprietà comuni che fino ad ora hanno
permesso la realizzazione di una rete di meccanismi difensivi a tutela dei ceti deboli delle
campagne: i contadini sono progressivamente cacciati dai campi e alle coltivazioni cerealicole si
sostituiscono pascoli per ovini, la cui lana rende di più. A Enrico VII succede il figlio Enrico VIII
Tudor (1509-1547) che vuole divorziare da Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena. Il rifiuto
papale è politico e diplomatico: Caterina è zia dell’imperatore Carlo V, i cui lanzichenecchi nel
1527 hanno devastato Roma sperando di impiccare il pontefice; il divorzio potrebbe provocare
l’imperatore, in quei giorni ben vicino a Roma, nel Mezzogiorno d’Italia. Deluso Enrico VIII
proclama nel 1534 l’Atto di supremazia ponendosi a capo della Chiesa anglicana, e ottenendo così
la disponibilità di buona parte della proprietà ecclesiastica. Incamerati i beni del clero, sposa la
Bolena che fa decapitare nel 1536 per sposare Jane Seymour che muore di parto; nel 1540 sposa
Anna di Cléves, subito ripudiata e sostituita con Catharine Howard, giustiziata nel 1542 per sposare
l’anno dopo Catharine Parr che gli sopravvive solo perché lui muore pochi anni dopo.
Elisabetta I: sviluppo economico e consolidamento della potenza inglese
A Enrico VIII succede Edoardo VI (1547-1553), figlio del re e di Jane Seymour, che ha però vita
breve: gli succede la sorellastra Maria Tudor (1553-1558), rimasta fedele alla Chiesa di Roma.
Figlia primogenita di Enrico VIII e Caterina d’Aragona, Maria è per meta spagnola, e rafforza tale
legame sposando Filippo II (1554); ella cerca di imporre con la forza una restaurazione integrale del
cattolicesimo, e ciò le valse la taccia di Bloody Mary. Alla sua morte il trono passa a Elisabetta,
figlia del re Enrico e di Anna Bolena. Con Elisabetta I, (1558-1603), ultima esponente
dell’Inghilterra dei Tudor (1485-1603), l’anglicanesimo si afferma sempre più; sul piano dottrinale
si accetta sostanzialmente il calvinismo, ma su quello ecclesiastico si mantiene l’organizzazione
gerarchica episcopale: Elisabetta mira al titolo di capo della Chiesa, onde rafforzare il proprio
prestigio e realizzare una politica assolutistica. La dura repressione del cattolicesimo irlandese si
accompagna alla confisca delle terre migliori, distribuite a immigrati inglesi. I principali nemici
della regina sono cattolici: la cugina Maria, regina di Scozia e moglie di Francesco II di Francia,
costretta a lasciare il paese per l’opposizione della Kirk locale (la Chiesa nazionale scozzese),
rifugiatasi a Londra e giustiziata da Elisabetta dopo diciannove anni di prigionia, nel 1587; e Filippo
II, con cui il confronto porta al disastro dell’Invincibile Armada. Elisabetta dà impulso
all’espansione commerciale e coloniale del paese; a partire dalla guerra di Cipro (1573) navi inglesi
compaiono nel Mediterraneo, sino allora monopolio di turchi, veneziani, francesi e catalani. Essi
ottengono privilegi commerciali con l’impero ottomano e fanno del nuovo porto di Livorno il loro
emporio mediterraneo; la Levant Company fondata nel 1581 realizza profitti fino al 300% e
trent’anni dopo la sua fondazione nelle sole acque italiane dispone di venti navi. La compagnia
riesce a insediarsi nei porti spagnoli, fino a Siviglia, dove soppianta i mercati locali impadronendosi
dei circuiti economici. Il Portogallo, recuperata l’indipendenza dalla Spagna (1640), diventa una
sorta di protettorato inglese e all’inizio del XVIII secolo la conquista della rocca di Gibilterra
rappresenta il segno di questo successo. Nel 1584 Walter Raleigh fonda in America la Virginia.
L’ascesa dell’Olanda
Nel 1566 i Paesi Bassi, interessati dalla penetrazione del calvinismo, insorgono contro l’oppressiva
politica di Filippo II. Le province meridionali (attuali Belgio e Lussemburgo più le Fiandre e
l’Artois) sono di lingua francese e la loro forte aristocrazia terriera non aderisce mai al
protestantesimo; in quelle più a nord si parla un dialetto tedesco, l’olandese, e l’adesione popolare è
forte verso la propaganda calvinista e anabattista. Il generale Alessandro Farnese (lo stesso bloccato
dalle navi olandesi dopo la sconfitta dell’Invincibile Armada), inviato da Filippo II a sostituire il
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fratellastro don Giovanni d’Austria, facendo perno sulla disparità di religione fra cattolici del sud e
calvinisti del nord, nel 1579 riesce a spezzare l’Unione di Gand, che tre anni prima ha realizzato
l’unità degli insorti contro il comune avversario, e a riportare le province del sud all’obbedienza
spagnola. In risposta le regioni del nord si costituiscono in repubblica delle Sette Province Unite
(1579) sotto il comando dello stathouder (governatore militare) Guglielmo d’Orange il Taciturno,
ucciso nel 1584 da un fanatico dopo notevoli successi. La presa di Anversa effettuata dal Farnese
nel 1585 ha il solo effetto di trasferire la vita economica e commerciale dei Paesi Bassi ad
Amsterdam; sotto il figlio dello stathouder, Maurizio di Orange-Nassau e con l’appoggio della
regina Elisabetta, le Sette Province unite resistono agli attacchi spagnoli, giungendo alla tregua del
1609 (Madrid riconosce l’indipendenza dei Paesi Bassi solo nel 1648). L’Olanda è fra le Sette
Province la più vasta, ricca e dinamica, capace di uno straordinario sviluppo economico: ricerca del
profitto ed etica del lavoro convivono (ne sono un esempio i polder, terre paludose sottratte al mare
con ingegnosi sistemi di dighe e innovative macchine idrauliche).
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Cracovia) diventa il baluardo della controriforma cattolica grazie all’opera dei gesuiti, strappando il
paese al protestantesimo per legarlo definitivamente al cattolicesimo; sono i gesuiti a fare del paese
terra di missione inserendolo nell’orbita asburgico-romana. A consolidare il trionfo cattolico
contribuiscono i successi in politica estera, grazie alla convergenza tra corona e nobiltà dei magnati
che mettono i loro reggimenti a disposizione di Sigismondo III Wasa (1587-1632) che, salendo
anche sul trono di Svezia (1592), realizza una vera egemonia sul Baltico. Questa ha termine con la
separazione delle due corone verificatasi nel 1604.
La “Santa Russia” degli zar
Tutto inizia con la caduta di Costantinopoli a opera dei turchi nel 1453 e il matrimonio nel 1472
dell’ultima erede dell’impero bizantino, Sofia Paleologo, con il granduca di Mosca Ivan III (1462-
1505) che rivendica la dignità imperiale. Ma è un suo successore, Ivan IV il Terribile (1533-1584) a
cogliere i frutti di tale politica con l’incoronazione a zar (1547), accompagnata dall’introduzione
nella corte moscovita del fastoso cerimoniale bizantino, dall’applicazione della liturgia greco-
ortodossa nel campo ecclesiastico e dalla costruzione della chiesa di San Basilio nel Cremlino.
Grazie a queste strategie Mosca diventa la “Santa Mosca”, la terza Roma (Bisanzio la seconda). Nel
1589 è creato il patriarcato di Mosca, che rende la Chiesa russa “acefala”, cioè indipendente
dall’antico patriarcato costantinopolitano. Ivan IV è terribile sia contro i tradizionali nemici tartari
(cui strappa Kazan e Astrakan) sia contro i suoi boiari, nobili possessori di sterminate proprietà, cui
lo zar impone priorità assoluta distribuendone parte delle terre alla piccola nobiltà. Le fortune della
Russia sono inversamente proporzionali a quelle polacche: al temporaneo incremento di uno Stato
corrisponde un parallelo arretramento dell’altro nelle pianure dell’Ucraina e della Livonia. Alla
scomparsa per assassinio del principe Demetrio, figlio di Ivan il Terribile, sale al governo il boiaro
Boris Gudonov (1598-1605) che rivendica l’omicidio. Alla sua morte vari avventurieri si fanno
avanti a reclamare il posto di Demetrio, aprendo un periodo di lotte (l’“età dei torbidi”) chiusosi
solo nel 1613 con l’avvento della dinastia dei Romanov.
I turchi nei Balcani
Nel Mediterraneo orientale l’espansionismo turco registra successi grazie al sultano Selim I con la
conquista della Siria e dell’Egitto (1517), con la conseguente tutela della Mecca e Medina. Suo
figlio Solimano il Magnifico (1502-1566) strappa Rodi ai cavalieri gerosolimitani, sbaraglia nei
Balcani (a Mohàcs, 1526) l’esercito ungheresi e giunge a minacciare la stessa Vienna. Solimano è
un grande capo militare e un colto mecenate che promuove scienze e arti, realizzando opere
architettoniche: sotto di lui l’impero islamico giunge alla massima espressione geografico-
territoriale e culturale, mentre Istanbul diventa una metropoli cosmopolita, punto d’incontro fra la
cultura occidentale e quella arabo-persiana. Altro elemento strategico per il successo ottomano è la
realizzazione di una ramificata rete spionistica che si appoggia sui loro mercanti, presenti in quasi
tutti i porti del Mediterraneo. La dominazione ottomana nei Balcani si protrae dalla battaglia del
Kossovo (1389) al trattato di Berlino (1878): i Balcani dal punto di vista geopolitico fondamentali,
poiché grazie a essi i turchi riescono per due volte (1529 e 1683) ad assediare Vienna. Nei Balcani
gli ottomani si insediano stabil ente in Transilvania, Ungheria e Bosnia, mentre la Slovenia e la
Carinzia asburgiche diventano paesi di frontiera con l’impero germanico. La repubblica di Venezia
controlla la Dalmazia, alcuni porti albanesi, le isole ionie, Creta e, fino al 1570, Cipro. I turchi non
si impadroniscono mai della Dalmazia ma pongono piede stabile in Albania e nella Bosnia
Erzegovina. La Slovenia cattolica a nord fa parte degli Stati ereditari asburgici e pertanto è in parte
influenzata dalla mentalità mitteleuropea attraverso l’amministrazione arciducale. Questo triplice
confine veneto-turco-austriaco segna per secoli uno spartiacque politico, etnico, religioso e
culturale. L’organizzazione amministrativa ottomana è in buona parte basata sul timàr, feudo che il
Gran Signore concede ai generali più coraggiosi e ai ministri più meritevoli; non essendo il timàr
trasmissibile agli eredi (i turchi non hanno una classe nobiliare), il beneficiario non vi investe
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capitali ma sfrutta la terra donde il progressivo deterioramento del terreno che genera il paesaggio
sterile e brullo dell’area balcanica odierna.
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10 – Stato e società
Una “crisi generale”?
In Inghilterra e in Spagna si sviluppa l’arbitrismo, genere di letteratura economica, che analizza e
suggerisce rimedi economici e proposte politiche per far fronte alle difficoltà che attraversa
l’impero. Al centro delle tensioni è la perdita progressiva di funzioni politiche delle istituzioni
rappresentative: in Francia gli Stati generali si tengono per l’ultima volta nel 1614-15, il Parlamento
napoletano celebra le ultime sedute nel 1642 e le stesse Cortes di Castiglia non sono più convocate
dopo il 1665. Nelle società europee il rafforzamento del potere dei sovrani alimenta un’inquietudine
nella nobiltà e tra la nobiltà e i gruppi emergenti di estrazione non nobiliare. I mutamenti sono
considerati pericolosi, e la cultura politica di inizio secolo invita i governanti a non introdurre novità
nella conduzione degli affari politici. La “crisi” si estende al settore agricolo, industriale, al
commercio, al credito, alla demografia. La crisi degli anni Venti del Seicento (Ruggiero Romano ne
fissa i termini temporali nell’arco 1619-1622) si presenta come una svolta nella vita delle società
europee stabilendo nuove gerarchie tra le nazioni: nel 1619 i meccanismi dello sviluppo economico
cinquecentesco hanno raggiunto il limite delle loro potenzialità. Il XVI secolo è segnato da un
generale sviluppo economico, portato all’espansione dell’agricoltura, che ha permesso lo slancio
commerciale e industriale; con il Seicento viene meno il sostegno dell’agricoltura ai settori
commerciale e industriale, che si mantengono ancora per un ventennio, per poi perdere la loro forza
d’accelerazione dopo il 1620. Il Seicento appare caratterizzato da una stagnazione che investe
l’insieme dell’economia e alla quale sfuggono Olanda e parzialmente Inghilterra.
La popolazione
Mentre l’Europa centro-settentrionale mantiene tassi di crescita elevati, quella mediterranea accusa
una contrazione pronunciata e ne escono penalizzati gli Stati italiani e i regni iberici. Le ragioni del
rallentamento demografico sono diverse e si sovrappongono determinando una caduta non
recuperabile dell’economia (è il caso della Spagna): 1) la frequenza degli eventi bellici, dalla guerra
dei Trent’anni (1618-48) a quella di devoluzione contro la Spagna (1667-68); alle perdite umane si
aggiungono danni alle campagne con l’abbandono di numerose aree rurali, senza contare la
sottrazione di capitali ai settori produttivi; 2) le precarie condizioni sanitarie in città e in campagna;
le epidemie (peste, vaiolo, tifo petecchiale, colera) si manifestano con regolarità; 3) il ripetersi delle
crisi di sussistenza. In presenza di raccolti cattivi e ripetuti è impossibile rinnovare le scorte; nella
forbice fra minore offerta e domanda costante, i prezzi dei cereali si rialzano e chi non può
permettersi pane e farina è esposto alla fame a un indebolimento nei confronti delle malattie.
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L’agricoltura
Nelle aree mediterranee, come in Inghilterra, un aspetto critico è il difficile rapporto tra coltivazioni
e allevamento, senza trovare un ragionevole punto di equilibrio fra i due: ampie superfici di terra
sono assai poco sfruttate. Agli inizi del secolo alla crescente domanda di beni agricoli (specie
cereali) vi sono due risposte: 1) alcuni operatori commerciali si rivolgono alle pianure dell’est
europeo (specie la Polonia) ampliando le superfici coltivate, sfruttate con metodi tradizionali, e
valorizzando l’apporto del fattore umano il cui costo è conveniente. Questa pratica si accompagna
all’ampliamento dei poteri signorili sui contadini: alcuni storici parlano di “rifeudalizzazione”, a
significare il rafforzamento di privilegi e poteri potestativi che vecchia e nuova nobiltà
riconquistano nella gestione della proprietà della terra; 2) una risposta l’offre il “sistema intensivo”,
sfruttamento più razionale delle risorse agrarie basato su elementi come: la progressiva scomparsa
del maggese nelle rotazioni agrarie e alternanza di leguminose con cereali; l’aumento della
superficie concimata; l’adozione di una serie di aratri leggeri e altri nuovi strumenti agricoli;
l’introduzione di nuove colture come il luppolo e la barbabietola e di alcune più industriali come il
lino e il tabacco; il grande sviluppo dell’orticoltura nelle aree prossime alla città. La privatizzazione
di molti terreni comuni – aree demaniali della comunità – rendono precaria la vita rurale. Tre aree
presentano tre diversi regimi alimentari: 1) l’area dell’Europa nord-occidentale e centrale
(Inghilterra, Paesi Bassi, Scandinavia, Francia settentrionale, paesi tedeschi) dove il consumo di
carne e pesce è maggiore, integrato poi da cereali misti, patate, grassi animali e alcolici; 2) la zona
dell’Europa meridionale (paesi iberici, Francia meridionale, Italia) con bassi consumi di carne e
pesce, buona presenza di cereali e verdure, grassi vegetali e largo consumo di vino; 3) l’area
dell’Europa orientale (Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Russa) con limitati consumi di carne
e pesce, elevati consumi di cereali misti, pochi grassi animali e largo uso di birra e alcolici.
Le manifatture
Si ridimensionano progressivamente alcuni settori industriali, specie le manifatture tessili. Il
tracollo industriale colpisce per prima la penisola italiana, specie le città dell’Italia centro-
settentrionale. L’industria della seta registra da un lato la crisi delle tradizionali industrie urbane
(Genova, Milano, Verona, Lucca) ma anche una tenuta della produzione di materia grezza. La crisi
colpisce quindi il settore più vivace dell’economia italiana (le manifatture tessili producono prodotti
di elevato valore intrinseco). In Spagna la caduta del lanificio è più veloce rispetto al declino lento
dell’industria della seta. Stesso destino per le città industriali francesi. Il sistema industriale
dell’Europa centro-settentrionale regge meglio i contraccolpi della crisi. Mentre le province
meridionali dei Paesi Bassi (ancora sotto la Spagna) rimangono ai margini dello sviluppo
industriale, nelle province olandesi si sviluppano le “new draperies”, ovvero la produzione di panni
di lana di modesta qualità: l’industria della seta olandese riesce a concorrere con quella italiana.
Anche l’Inghilterra esce indenne dalla crisi seicentesca, superando la crisi dell’industria
manifatturiera con l’adozione di un modello simile alle “new draperies” e dalla metà del secolo
l’esportazione dei panni lana inglese compete con la produzione olandese.
Gli scambi commerciali
Il commercio a grande distanza aumenta i volumi delle merci trasportate e il loro valore dal
secondo-terzo decennio, ma rimane fino a fine secolo una quota minoritaria degli scambi
commerciali. La Spagna non sviluppa in modo significativo il commercio con le colonie americane
che dimostra la capacità di autosufficienza. Anche il Portogallo ha perso gran parte della capacità di
controllare rotte e flussi del commercio internazionale. I mercati entrano in stagnazione nella
Spagna degli Asburgo, in Lombardia e nel regno di Napoli. Le merci viaggiano ancora via mare e la
geografia portuale non è molto cambiata (entrano in scena Amsterdam, Livorno e Ancona). Si va
affermando la navigazione a vela, e la marina olandese prevale sulle altre: gli olandesi
monopolizzano il commercio del Baltico e sono ormai entrati nel Mediterraneo. La concorrenza tra
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Olanda e Inghilterra è inevitabile e quest’ultima emana due decreti, gli Atti di Navigazione (1651 e
1660) per riservare il commercio marittimo con le colonie solo agli operatori inglesi e impedendo
l’accesso nei porti inglese alle navi olandesi: il prevedibile conflitto fra le due nazioni si svolge dal
1652 al 1674 chiudendosi con la vittoria inglese. L’aumento dei prezzi continua fino al terzo
decennio, si stabilizza fino agli anni Ottanta e si rialza nell’ultimo decennio: i rialzi sono legati al
cattivo raccolto di singole annate e alla debolezza delle monete locali che perdono valore nei
rapporti di cambio. Le esigenze di tutelare gli interessi nazionali sono rappresentate dal
“mercantilismo”, insieme di pratiche economiche orientate al pragmatismo, che influenza interventi
e atti legislativi da parte dei governi insistendo sui seguenti punti: necessità di costante crescita
demografica, necessità che uno Stato disponga di metalli preziosi, sistema di dazi e imposte che
renda sconveniente l’esportazione di materie prime e che impedisca l’importazione di prodotti
lavorati, necessità che lo Stato intervenga direttamente nell’economia (la Francia di Luigi XIV con
la guida del controllore delle finanze Colbert è il paese che li segue più coerentemente, costituendo
la Compagnia delle Indie Orientali e la Compagnia per le Indie Occidentali nel 1667 e la
Compagnia del Levante poi). L’Inghilterra costituisce la Levant Company (1581) e la Compagnia
delle Indie Orientali (1600); l’Olanda ne costituisce una simile nel 1621, la Compagnia delle Indie
occidentali. Queste compagnie sono vere e proprie società per azioni, aperte alla partecipazione
privata incentivata con la distribuzione di dividendi annuali, per molti anni molto elevati.
Finanza e credito
Le necessità della vita economica determinano la creazione di due distinti circuiti: il primo è il
circuito della domanda monetaria sollecitato dallo Stato, dalle case regnanti per mantenere le loro
corti, da una nobiltà con livelli di spesa sempre maggiori, dagli operatori economici che per
produrre devono disporre di denaro liquido, dai mercanti per le transazioni commerciali, dai
consumatori privati; il secondo è il circuito dell’offerta monetaria, di coloro cioè che dispongono di
capitali liquidi e valutano a quali condizioni conviene soddisfare le esigenze di chi domanda denaro.
Anche i poteri pubblici – Stato e città – svolgono attività finanziaria: nell’età moderna lo Stato
preleva parte della ricchezza e del redditto cittadino offrendo in cambio ben poco e, per evitare
resistenze e tensioni, si privilegiano le imposte indirette (forme di prelievo fiscale che colpiscono
tanto le attività di trasformazione e lavorazione dei prodotti che i consumi privati). Fin dalla metà
del XVI secolo il prelievo fiscale è aumentato notevolmente ma sembra intollerabile perché
sostenuto da un trend economico espansivo. Il sovrano deve ricorre a prestiti negli ultimi decenni
perché il prelievo non copre le uscite: questa politica di indebolimento accomuna tutti gli Stati
dell’età moderna. Gli Stati nazionali del Cinquecento nascono e si sviluppano sotto il peso di un
indebitamento crescente che ne limita autonomia e movimenti. Dalla metà del Cinquecento i
banchieri tedeschi passano il testimone a quelli genovesi che dominano il mercato almeno fino al
1630, quando sono sostituiti in larga parte da un gruppo di banchieri portoghesi di origine ebraica
che operano fino a tutta la metà del secolo. La chiave di volta che assicura il funzionamento
regolare del circuito è il sistema delle “fiere di pagamenti”. Nel 1609 sorge la Banca di Amsterdam,
che pratica sia deposito che cambi. Un altro strumento che consolida il luogo di Amsterdam è la
creazione di una Borsa, dove dal 1631 si riuniscono i mercanti per contrattare compravendita di
merci e concludere affari, fissare i prezzi di noli e assicurazioni, compiere operazioni di cambio e
trattare titoli di stato.
Rivolte e insurrezioni
La difficile congiuntura economica accentua le tensioni politiche e sociali: vi sono diverse tipologie
di rivolte: quelle che conducono a grandi rivoluzioni costituzionali, cambiando l’identità politica di
un paese (è il caso inglese e portoghese); le rivolte nazionali di durata più o meno lunga tra forze
interne a un singolo paese e che hanno a oggetto lo spazio e la gestione del potere (è il caso francese
delle due “fronde” tra il 1648-1653); le rivolte regionali che mirano a costruire nuove identità
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politiche (è il caso della Catalogna e del regno di Napoli); le rivolte contadine; le rivolte urbane che,
nate come ribellioni all’aumento della pressione fiscale, sono espressioni del gioco delle fazioni e
dei mutamenti degli equilibri sociali interni al mondo cittadino.
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risorse si incrina agli inizi del secolo per la crescita demografica troppo rapida: l’incapacità del
sistema di accrescere la produzione (la crisi si manifesta con ripetuti raccolti cattivi fino a diventare
una vera e propria carestia) genera un aumento dei prezzi; si registra la caduta della produzione
industriale e dell’occupazione (con cadute produttive tra il 60% e il 90%) e anche nel settore del
commercio e della distribuzione delle merci si assiste a un calo della presenza degli operatori nella
penisola. Il declino economico italiano si avvia a fine Cinquecento ma si palesa lentamente,
evidenziandosi nei decenni 1620-50. Nelle aree del centro-nord ascende la mezzadria e si registra
uno sviluppo dell’allevamento del bestiame e un’adozione dei prati irrigui (da cui raccogliere piante
foraggere indispensabili per il nutrimento dei capi di bestiame).
L’organizzazione sociale
La concezione della società è gerarchizzata, con uno stile di vita orientato dai valori aristocratici: le
attività meccaniche sono considerate disonorevoli. La Chiesa gioca un ruolo decisivo: i nuovi ordini
regolari sorti a cavallo della controriforma (come gesuiti, cappuccini, teatini, somaschi) tentano di
monopolizzare l’istruzione e le forme dell’associazionismo religioso. L’alleanza tra la chiesa e i ceti
privilegiati è totale, anche in ragione delle opportunità offerte dalla prima alla soluzione
dell’organizzazione familiare della nobiltà: la chiesa diventa dunque un collante dell’identità
italiana. Gli appartenenti al mondo ecclesiastico sono privilegiati perché esenti dalla tassazione
ordinaria e sottratti alla giurisdizione civile e penale, godendo chiese e conventi del privilegio
dell’extraterritorialità.
L’Italia sotto l’influenza spagnola
La monarchia spagnola controlla quattro aree importanti: ducato di Milano, regno di Napoli, regno
di Sicilia, regno di Sardegna. La corona spagnola opera pochi mutamenti nelle istituzioni di
governo, lasciando che i ceti dirigenti locali occupino la gran parte degli uffici del governo centrale.
Lo stesso delegato del sovrano (governatore a Milano, viceré altrove) non può esercitare i suoi ampi
poteri senza la partecipazione agli atti di governo dei consiglieri indigeni. Il controllo del territorio
si basa sulla collaborazione con i ceti privilegiati anziché su una massiccia presenza militare.
Ducato di Milano
Entrato nella comunità imperiale spagnola alla morte senza eredi del duca Francesco II Sforza, il
ducato di Milano vede la definizione del proprio assetto politico-istituzionale solo nel 1542 con le
Nuove Costituzioni. Al vertice del governo è il governatore, quasi sempre spagnolo ma talvolta
italiano; massimo organo di governo è il Senato, composto dal presidente e quattordici senatori (dei
quali sono un quarto sono stati, nel tempo, spagnoli), che non è solo un organo politico ma ha
attribuzione giudiziarie e competenza sulla concessione delle grazie; la sua maggiore prerogativa è
il diritto di interinazione (potere di convalidare gli atti regi o di opporsi se questi sono in contrasto
con leggi del ducato). La gestione del patrimonio e della fiscalità è affidata al Magistrato ordinario e
al Magistrato straordinario (che si occupa del controllo dei feudi). Si consolida anche il Consiglio
segreto, organo politico consultivo del quale fanno parte le maggiori cariche dello Stato. Altri due
livelli dell’amministrazione lombarda sono il governo della capitale e quello delle altre otto
maggiori città lombarde, e la rete non ampia degli uffici periferici che operano nelle città ma
dipendono dal governo centrale milanese. Il patriziato cittadino monopolizza le cariche pubbliche.
La concessione feudale non consegna al beneficiato grandi poteri giurisdizionali o maggiori
opportunità di sfruttamento dei vassalli (come nel Mezzogiorno), non trasformandosi quindi in un
moltiplicatore di risorse per il feudatario. Ogni città estende la sua egemonia (privilegi
giurisdizionali e fiscali) sulle comunità del proprio contado; esse nominano un proprio oratore,
presso il governo a Milano, che faccia valere ragioni e interessi dei ceti urbani. Rilevante il ruolo
della chiesa locale, affidata alle cure pastorali di Carlo e poi di Federico Borromeo che instaurano
un confronto duro coi governatori in merito ai rapporti fra la giurisdizione ecclesiastica e quella
regia: nel 1615 si firma un accordo favorevole per la Chiesa milanese.
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Regno di Napoli
La conquista del regno avviene nel 1502; fino al 1642 si riunisce ogni due anni il Parlamento
generale, un’assemblea poco rappresentativa degli interessi generali, che vota gli aiuti finanziari al
sovrano in cambio di capitoli e privilegi. L’amministrazione centrale è completata dal Sacro Regio
Consiglio e dalla Camera della Sommaria. L’apparato del governo centrale è integrato con una serie
numerosa di uffici tecnici di natura finanziaria e militare; debole l’amministrazione periferica,
affidata all’Udienza, organo di gestione politico-amministrativa. La nobiltà è il gruppo socialmente
più rilevante. I poteri che accompagnano la concessione feudale attribuiscono al feudatario la
nomina di giudici e ufficiali, la giurisdizione civile e criminale, la remissione discrezionale dei
delitti, l’esercito di funzioni di polizia, i diritti d’uso di alcune risorse delle comunità: nelle
campagne la feudalità manifesta un’impressionante forza espansiva, obbligando i contadini a
prestazioni fuori dai patti contrattuali e a pesanti vessazioni. Nel regno napoletano il patriziato non
monopolizza le cariche pubbliche: la corte di Madrid costruisce un privilegiato rapporto con il
gruppo dei togati, gruppo sociale di estrazione non aristocratica, che nel corso tempo ha consolidato
una personale fortuna economica. Pur essendo evidente l’inversione della congiuntura economica, il
governo spagnolo accentua la pressione fiscale determinando un collasso delle strutture produttive
del regno. I cittadini napoletani, grazie a privilegi antichi, sono esentati dal pagamento di molte
imposte e ciò determina grandi flussi migratori verso la capitale che alla vigilia della peste del 1656
conta quasi quattrocento mila abitanti. Nel Mezzogiorno la Chiesa ha uno spazio privilegiato con
ben centoquarantotto diocesi: la proprietà ecclesiastica supera sia il patrimonio dell’aristocrazia che
quello della borghesia.
Regno di Sicilia
La Sicilia è incorporata alla corona aragonese dal XV secolo. Alcuni privilegi sono la nazionalità
degli uffici: solo i siciliani possono ricoprire cariche di titolari negli uffici politici e amministrativi;
sull’osservanza di tali privilegi vigila l’antico Parlamento composto da tre “bracci” (feudale,
ecclesiastico, demaniale). Anche qui il governo spagnolo non opera molti cambiamenti nelle
istituzioni centrali. La struttura istituzionale si organizza in organi collegiali, ciascuno con un
presidente, consigliere e uffici minori. La giurisdizione civile e penale è affidata alla Gran Corte
contro le cui sentenze ci si può appellare al Tribunale del Concistoro. Il Tribunale del Real
Patrimonio, in stretta relazione con la Tesoreria Generale e con il Conservatore, si occupa
dell’amministrazione economica e finanziaria. I giudici del Tribunale dell’Inquisizione sono
nominati direttamente dal sovrano. Il Giudice della Monarchia decide infine delle causa d’appello
nelle quali sono coinvolti gli ecclesiastici. Manca un organo di natura politica come il Senato
milanese o il Collaterale napoletano. Il Sacro Consiglio, organo politico di natura consultiva, si
forma solo nella seconda metà del Cinquecento. Sul territorio insistono i poteri estesi della
feudalità, ampliata nel 1610 con la concessione da parte del sovrano del pieno esercizio della
giurisdizione civile e criminale: a fronte di questa feudalità resistono quarantaquattro città fra cui
Palermo e Messina che si contendono il titolo di capitale del regno. Un gruppo sociale forte è
costituito dal ceto ecclesiastico. Le due produzioni che alimentano il fortunato sistema economico
siciliano sono i cereali e la seta.
Regno di Sardegna
La Sardegna è incorporata all’inizio del XV secolo nel regno d’Aragona, pur mantenendo un forte
legame con la Catalogna. Il suo Parlamento è il luogo privilegiato del confronto tra il viceré e le
élite locali. L’isola è povera di risorse, con un sistema economico le cui produzioni di basi
(cerealicoltura e allevamento ovino) sostengono appena la domanda interna. A lato del viceré opera
un’amministrazione basata sull’Udienza reale, istituita nel 1564, la Cancelleria diretta da un
reggente, l’ufficio del Procuratore e quello del Controllore. Le pratiche amministrative relative
all’amministrazione sono inviate al Consiglio d’Aragona, a testimonianza di una tradizione di
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gestione politica che si è ormai consolidata nel tempo e di una relazione identitaria forte che lega
l’isola all’Aragona.
Gli Stati italiani indipendenti
La definizione di “Stato indipendente” deve mettere in conto i rapporti di forza stabilitisi nella
penisola italiana, che non possono prescindere dal ruolo egemone della Spagna. L’indipendenza è
relativa all’esercizio della sovranità che si realizza sul proprio territorio ma che è certamente più
limitata sul piano internazionale, di cui i principi regnanti italiani sono ben consapevoli. Gli Stati
che riescono a difendere la loro forma repubblicana sono Genova, Venezia e Lucca.
Repubblica genovese
Genova mantiene incerto possesso della Corsica fino al 1768. La repubblica persegue una politica
che garantisca lo spazio di azione dei suoi operatori economici; il territorio ligure non soddisfa la
domanda del fabbisogno alimentare e gli operatori commerciali devono importare cereali e altre
derrate alimentare. Altrettanto accade nel settore industriale con le importazioni di materia prima (è
il caso della seta grezza). Gli operatori finanziari creano una vasta rete sui mercati europei
impegnandosi nel drenare capitali prestati poi ai sovrani spagnoli: tra la metà del Cinquecento e la
metà del Seicento i genovesi controllano il mercato dei capitali al servizio della corona spagnola (si
parla di “repubblica internazionale del denaro”). La fedeltà alla Spagna si mantiene fino a tutto il
XVII secolo. Il sistema politico genovese si struttura in magistrature collegiali controllate dalla
nobiltà cittadina da cui sono tratti i membri del Maggior Consiglio che elegge tutte le magistrature
della repubblica. L’esercizio della giustizia è demandato alla “rota civile” e alla “rota criminale”,
sulle cui attività vigilano i Supremi Sindacatori e su questi un Consiglio Minore.
Ducato di Savoia
Il ducato di Savoia dalla metà del Cinquecento è fedele alleato della corona spagnola. Il territorio si
compone della contea di Nizza, della Savoia, del ducato di Aosta e del Piemonte, mentre Oneglia
assicura lo sbocco sul mar Ligure. Il sovrano è assistito da un Consiglio di Stato, un Consiglio delle
finanze e due Camere dei conti per l’attività economica e finanziaria. Dalla fine del Cinquecento
emerge una nuova nobiltà di servizio di origini mercantili. Modesti i tentativi di espansione
territoriale, che falliscono nel recupero di Ginevra ma permettono la riconquista di Saluzzo. Alla
morte di Vittorio Amedeo I nel 1637 il paese è dilaniato da contrasti per la successione, appianati
solo con l’ascesa al trono di Carlo Emanuele II (1663-75), con cui si pongono le basi di un
programma di riforme realizzate poi da Vittorio Amedeo II (1675-1730).
Repubblica di Venezia
Tra gli anni Sessanta del Cinquecento e i Sessanta del Seicento Venezia perde i possedimenti e le
colonie lungo il mar Ionio e le isole greche sotto la la pressione dell’impero turco. Sul fronte
europeo la repubblica cerca di mantenere una sua equidistanza dalle maggiori potenze. I rapporti
con la Chiesa di Roma sono tesi per la libertà di espressione concessa ai veneziani: nel 1605 Roma
chiede la consegna di due ecclesiastici arrestati per sottrarli alla giurisdizione veneziana e, alle
resistenze, il papa scomunica l’intero governo. Il frate servita Paolo Sarpi argomenta contro
l’interdetto incoraggiando il clero veneziano a resistere contro Roma: il conflitto si chiude con un
compromesso che fa salve le ragioni politiche della repubblica. Si registra un lento ma progressivo
declino delle attività produttive, commerciali e nello stesso armamento navale: ai motivi economici
si accompagna la complessità di un sistema politico articolato in un numero enorme di magistrature
e uffici gestiti da un’oligarchia patrizia che non consente ai non nobili di ascendere alla
magistrature. Si consolida un immobilismo incapace di raccogliere le ansie di rinnovamento.
Granducato di Toscana
Il Granducato di Toscana passa dall’assetto repubblicano al principato tra il 1530 e il 1561:
l’avvento della dinastia medicea risale alla caduta della repubblica (1527-1530) a opera di Clemente
VII (Giulio de’ Medici) che ha stretto con l’imperatore il trattato di Barcellona (1529). Dopo
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l’assedio a Firenze (1530) a opera di truppe congiunte di imperiali e pontifici, nel 1531 Alessandro
de’ Medici assume il potere e nel 1536 sposa Margherita, figlia di Carlo V, ma è ucciso a tradimento
nel 1537 dal cugino Lorenzino cui succede Cosimo. L’asse tra la Toscana medicea e gli Asburgo di
Spagna si consolida nel 1539 con il matrimonio di Cosimo con Eleonora figlia di don Pedro de
Toledo viceré di Napoli. Tra il 1552 e il 1555 una guerra porta all’annessione dell’antica repubblica
di Siena. Le strutture e l’apparato esecutivo sono affidati a persone di stretta fiducia del principe,
nelle cariche pubbliche e nelle magistrature collegiali si dà spazio a membri del patriziato cittadino
che si trasforma nel tempo in una nobiltà di servizio. Anche l’economia toscana subisce una crisi
pesante nel Seicento: le manifatture sono in situazione drammatica e il settore delle attività
finanziarie mostra segni di depressione.
Stato pontificio
Lo Stato pontificio annette Ferrara (1598) e il ducato di Urbino (1631), arrivando a comprendere
otto province: Bologna, Romagna, Ferrara, Marca di Ancona, Umbria, Patrimonio, Campagna e
Marittima, ognuna governata da cardinali legati o da governatori, ciascuno dei quali circondato da
un apparato curiale di consiglieri, magistrati e giuristi. Lo Stato pontificio è una sorta di monarchia
elettiva: il pontefice ha tutti i poteri di un sovrano ma non può trasmettere la successione, affidata e
decisa alla sua morte da un collegio di cardinali chiusi in conclave. In realtà è la curia, il complesso
delle congregazioni e degli uffici di cui si circonda il papa, ad amministrare le risorse economiche e
le decisioni politiche (al papa spetta insomma solo la cura spirituale). Grande importanza acquisisce
la Camera Apostolica che cura la gestione economica e da cui dipendono gli organi tecnici addetti
alla movimentazione delle entrate fiscali. I patriziati delle città, cui è affidata la cura dei consigli
civici, sono essenziali per garantire il consenso e assicurare la quiete urbana. Il sistema economico
non mostra segni di dinamicità e ne corso del Seicento è coinvolto nella medesima congiuntura che
attanaglia gli altri Stati italiani; più vivaci sono le attività commerciali sul versante adriatico che
vedono come punto di riferimento il porto di Ancona, nel Settecento di notevoli dimensioni.
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celebrare il culto nei sobborghi di due città per ogni governatorato del regno. Nel 1572 nel
Consiglio del re si discute la proposta di Coligny di intervento a favore dei ribelli olandesi, ma la
paura di riaprire la guerra con la Spagna blocca l’iniziativa. Nella notte di san Bartolomeo (23/24
agosto), quando a Parigi si festeggia il matrimonio del Borbone con la sorella del re Margherita,
l’assassinio di Coligny a opera di scherani del duca di Guisa dà inizio alla strage degli ugonotti,
estesa a tutta la Francia. Enrico di Borbone, prigioniero al Louvre, abiura il calvinismo e lo stesso è
costretto a fare il cugino Enrico di Condé. Inizia la quarta guerra, finita nel 1573 quando il fratello
del re, Enrico, è scelto come re di Polonia e la monarchia francese deve mostrare in Europa un volto
più tollerante. Le ostilità riprendono e proseguono anche sotto Enrico III (1575-1589), rientrato
dalla Polonia per succedere al fratello morto nel 1574: la pace del 1576 concede agli ugonotti più
ampia libertà di culto e otto piazzeforti. L’ottava guerra si apre nel 1585 ed è nota come la “guerra
dei tre Enrichi”: Enrico III di Valois, il re; Enrico di Guisa, capo della lega cattolica; Enrico di
Navarra, il Borbone, che capeggia gli ugonotti e che in linea ereditaria è destinato al trono di
Francia. Nel 1588 il Guisa, vincitore in uno scontro con gli ugonotti entra a Parigi la cui
popolazione è spinta alla “giornata delle barricate”; il re è costretto alla fuga, licenza tutti i ministri,
fa uccidere il duca di Guisa e il cardinale suo fratello. Poco dopo muore Caterina de’ Medici. La
Sorbona scioglie i sudditi dall’obbedienza al re assassino che intanto si accorda col Borbone
venendo per questo scomunicato dal papa Sisto V. Nel 1589 un monaco domenicano lo ferisce a
morte. Il Borbone ne raccoglie l’eredità come Enrico IV (primo sovrano della nuova dinastia) e
firma una dichiarazione impegnandosi a mantenere nel regno la religione cattolica. Ma la guerra
continua: le forze cattoliche contano sulla ribellione di Parigi e sull’arrivo delle truppe spagnole di
Alessandro Farnese di stanza nei Paesi Bassi. Una serie di vittorie militari, l’elezione al soglio
pontificio del filofrancese Clemente VIII e la nuova conversione di Borbone al cattolicesimo (1593)
avviano a soluzione il trentennio di guerre religiose. Nel 1594 Enrico IV è consacrato nella
cattedrale di Chartres, in seguito dichiara guerra alla Spagna venendo incontro al sentimento papale
e al suo interesse per la conquista di Ferrara, e papa Clemente nel 1595 lo assolve dalla scomunica:
la guerra volge a suo favore, costringendo la Spagna alla pace di Vervin (1598). Poco prima Enrico
IV firma l’editto di Nantes, l’atto di tolleranza che chiude la stagione delle guerre di religione in
nome di una convivenza con pari diritti (nel frattempo i fedeli ugonotti sono stati dimezzati).
Enrico IV e Sully
Per Enrico IV (1589-1610) inizia una duplice fase di ricostruzione: dell’autorità regale e
dell’economia e della società francese. L’ugonotto Maximilien de Béthune duca di Sully (1560-
1641), soprintendente alle finanze, introduce la paulette (1604) rendendo ereditari i principali uffici
pubblici veniali, favorendo così la formazione di un nuovo ceto dirigente, la nobiltà di toga. L’opera
di Sully si concentra primariamente sul rilancio agricolo con la liberalizzazione del commercio dei
cereali e la costruzione di strade e canali. Al momento della sua uscita di scena (1611) per i contrasti
con la regina vedova Maria de’ Medici, Sully lascia le casse dello Stato con un piccolo tesoro.
Il trattato di Lione (1601) pone fine allo scontro con il Piemonte, staccando dalla Spagna e attirando
nell’orbita francese Carlo Emanuele I di Savoia: Enrico IV concede al duca il marchesato di
Saluzzo e in cambio ottiene la Bresse e il Bugery al confine con la Savoia. Nel 1610 sta preparando
un intervento armato contro gli Asburgo di Spagna e Austria ma viene ucciso da un frate fanatico.
Luigi XIII, Maria de’ Medici e l’ascesa di Richelieu
Alla morte del padre, Luigi XIII non ha ancora nove anni e la reggenza è affidata alla madre Maria
de’ Medici (1573-1642), figlia del granduca Francesco I. La reggenza dura fino al 1617 passando
attraverso diverse fasi: l’emarginazione da parte del figlio, il recupero di un ruolo di governo negli
anni Venti, il definitivo esilio dal 1631. Richelieu inizia con lei il servizio ministeriale e, ottenuto
grazie a lei il cappello cardinalizio, è per un ventennio al vertice della Francia. Maria è la madre di
quattro sovrani: la figlia Elisabetta sposa Filippo IV di Spagna, Maria Cristina Vittorio Amedeo I di
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Savoia, Enrichetta Anna Carlo I d’Inghilterra. La Medici avvia una politica di sudditanza alla
Spagna, conclude (1615) il matrimonio di Luigi con Anna d’Austria, figlia di Filippo III. Le grandi
casate chiedono la convocazione degli Stati generali del regno, riunitisi nel 1614-15 senza risultati.
Nel 1616 Maria affida le redini del governo a Concino Concini, fiorentino venuto a Parigi al suo
seguito. La misura è colma: nel 1617 Luigi XIII fa uccidere Concini ed esilia la madre, ne allontana
il protetto Richelieu e prende direttamente il potere. Luigi si affida in successione a tre ministri
favoriti tornando a una politica estera antiasburgica e avviando un’azione filocattolica che spaventa
gli ugonotti. Nel 1622, anche grazie alla mediazione di Richelieu, si riappacifica con la madre: è la
stagione della sinergia fra la regina madre e il neocardinale, che dal 1624 è ammesso al consiglio
del re e poi nominato primo ministro. Richelieu preferisce una presenza internazionale attiva e
aggressiva, di contrapposizione all’espansionismo asburgico, pur aumentando la pressione fiscale
interna. La rottura definitiva fra Luigi XIII e la madre (e la madre e il cardinale) avviene nella
cosiddetta “giornata degli ingannati” (1630): di fronte all’alternativa posta dalla Medici, o lei o il
primo ministro, il re sceglie il cardinale, il cui potere diventa allora pressoché assoluto. Sul piano
interno Richelieu rafforza il potere monarchico sottomettendo l’alta nobiltà e sconfiggendo le trame
del fratello minore Gaston. Pur lasciando libertà di culto agli ugonotti ne colpisce il ruolo politico e
militare smantellando La Rochelle nel 1628. Reagisce con successo alle rivolte popolari antifiscali
(1625, 1635-36, 1640). Lo strumento vincente è l’intendente di giustizia, di polizia e finanza, una
generalizzazione e un rafforzamento dei compiti rispetto alla figura del “commissario” istituita da
Enrico IV, una vera e propria cinghia di trasmissione della volontà sovrana nelle province: la figura
chiave dell’azione assolutistica del Re Sole. In politica estera la scelta è antiasburgica, e culmina
con l’impegno diretto, vittorioso, nella fase finale della guerra dei Trent’anni. Vanno in questa
direzione l’invasione della Valtellina (1624), la riconquista della fortezza di Pinerolo (1631),
l’affermazione della successione dei Gonzaga Nevers al ducato di Mantova (1631). In campo
economico si potenzia la marina da guerra e si costituiscono campagne commerciali che gettano le
basi per l’impero coloniale in Canada, nelle Antinelle, Senegal e Madagascar. Richelieu potenzia
l’università della Sorbona e fonda l’Accademia di Francia (1635). Alla morte (1642) gli succede
l’italiano Giulio Mazzarino, da lui preparato fino all’ottenimento del cappello cardinalizio (1641).
Luigi XIII muore nel 1643.
La Francia del cardinale Mazzarino e della Fronda
Frutto del matrimonio (1615) con Anna d’Austria, Luigi XIV nasce nel 1638 e sale al trono a soli
quattro anni; la reggenza è affidata alla madre coi più ampi poteri. Anna d’Asburgo, detta Anna
d’Austria (1601-1666) è figlia di Filippo III di Spagna; al suo fianco sceglie il cardinale Mazzarino
che di Richelieu eredita la visione sia in politica estera (con la felice gestione della fine della guerra
dei Trent’anni) che in quella interna (prosegue la linea accentratrice realizzata con la lotta alla
grande nobiltà e l’elevata pressione fiscale). Nel ventennio di permanenza (1642-1661) si colloca il
periodo (1648-1653) delle guerre civili della Fronda che travolgono Mazzarino costringendolo ad
abbandonare Parigi e all’esilio a Colonia. La Fronda si distingue in due fasi: la Fronda parlamentare
(1648-49) e la Fronda dei principi (1650-53), entrambe con una forte e disordinata partecipazione
dei ceti più bassi della popolazione parigina, esasperati dalla pressione fiscale. Il malcontento del
ceto burocratico raggiunge il culmine coinvolgendo il parlamento. Lo scontro tra reggenza e
parlamento di Parigi (una corte di giustizia) assume la forma di un vero indirizzo politico
alternativo con la presentazione di una serie di rivendicazioni. Mazzarino fa arrestare il capo
dell’opposizione Broussel ma la pressione del parlamento lo costringe a liberarlo: il popolo di Parigi
scende in piazza con le barricate, ormai fuori controllo; nel 1649 un passio indietro della reggenza
(ammonita dagli esiti della rivoluzione inglese) permette la firma di una pace. Allora si accende la
Fronda dei principi capitanata da Luigi II di Borbone principe di Condé, che accusa Mazzarino di
una gestione tirannica del potere. Nel 1651 il parlamento chiede la destituzione di Mazzarino. Anna
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e il piccolo re fuggono da Parigi e il cardinale si rifugia a Colonia, da dove organizza la lotta armata
contro i principi frondisti: la divisione interna dei rivoltosi e la vittoria sotto le mura di Parigi
(1652) delle truppe leali al re pongono fine alla Fronda. Anna, Luigi e Mazzarino rientrano a Parigi
dove nel 1654 si tiene la cerimonia di consacrazione di Luigi XIV, della cui formazione si occupa
personalmente il cardinale. Negli ultimi otto anni del suo governo Mazzarino affronta la questione
del nascente movimento giansenista ispirato all’opera del vescovo di Ypres Giansenio, il cui
Augustinus (1640) è subito condannato dall’Inquisizione. La dialettica tra potere sovrano, corrente
giansenista e chiesa “gallicana” (la chiesa francese) attraversa la storia francese fino al Settecento.
La presa di potere di Luigi XIV
Mazzarino muore nel 1661; Luigi XIV comunica che non ci sarà più un primo ministro e intende
prendere personalmente ogni decisione: inizia così la stagione dell’assolutismo. Versailles, costruita
nel 1624 come padiglione di caccia e luogo di ritiro, diventa ora modello (architettonico e di
esercizio della sovranità) per l’intera Europa barocca. Dal 1682 la reggia diviene ufficialmente la
sede della corte e del governo, la “gabbia dorata” per la nobiltà. Consapevole della forza
dell’apparenza, Luigi XIV diventa l’inventore e l’attento gestore del proprio mito. La volontà di
concentrare tutto il potere nella sua persona incontra impedimenti: nel campo del diritto, in Francia
convivono ancora elementi di diritto consuetudinario nelle province settentrionali col diritto romano
saldamente vigente nel Mezzogiorno, senza considerare il diritto canonico; sul piano istituzionale,
vi è l’importante ruolo del Consiglio, articolato in diversi organismi. La scelta dei ministri e dei
collaboratori comporta la nomina di persone di origini non nobili, che tutto devono al sovrano e che
non possono avere ambiziosi progetti: grandi prelati, alta nobiltà e principi di sangue, inclusi i
parenti più prossimi, sono così esclusi dai ruoli del governo e dalla partecipazione ai consigli.
Memore degli avvenimenti della Fronda, il re impone loro la registrazione delle leggi prima di
potersi avvalere della tradizione prerogativa della rimostranza. La figura dell’intendente acquista
caratteristiche nuove: come amministratore delle généralités (la trentina di province) i suoi poteri
spaziano dalla giustizia alla fiscalità, dai lavori pubblici al supporto militare e la durata in carica si
allunga tanto da farne la struttura portante dello Stato. La nomina è direttamente nelle mani del re:
gli intendenti divengono catena di trasmissione della volontà sovrana nelle province. La trama
amministrativa si costituisce in tutti i detentori degli uffici e cariche venali, circa quarantamila
officiers che vi trovano ruolo di ascensione ai ranghi della nobiltà di toga e servizio che
strumentalmente (contro l’antica nobiltà feudale) Luigi potenzia. Il suo sforzo assolutistico è
l’estrema interpretazione sia della tradizione teorica della sovranità di origine divina sia della
pratica istituzionale già avviata da Luigi XIII e Richelieu.
La politica economica di Colbert
La Francia del Seicento è il regno più popoloso d’Italia (venti milioni di anime). Le casse dello
Stato sono vuote (Mazzarino si è preoccupato solo di arricchimenti privati). Luigi XIV crea una
speciale camera di giustizia per perseguire gli illeciti arricchimenti di appaltatori delle tasse e
finanzieri con confische e multe: migliora così il bilancio statale fino al pareggio a inizio anni
Settanta permettendo la riduzione sensibile dell’odiata taglia, l’imposta diretta che grava
pesantemente sui ceti più bassi. Ad attuare gli interventi è il nuovo ministro delle finanze Jean-
Baptiste Colbert, già amministratore dei beni privati di Mazzarino e poi membro del consiglio delle
finanze (1661), controllore generale (1665), segretario di stato (1668), ministro della marina (1669).
Per lui il risanamento finanziario è la condizione per un massiccio intervento statale, diretto e
indiretto, nell’economia (nel frattempo il settore agricolo ristagna). Da campione di una politica che
ha preso da lui il nome di “colbertismo”, Colbert dedica le sue attenzioni alla produzione
manifatturiera con: una politica protezionistica che penalizza l’esportazione di materie prime e
favorisce quella dei prodotti finiti; un investimento statale con la creazione di manifatture regie e
incentivi all’imprenditoria privata; un controllo della qualità dei prodotti con l’arrivo in Francia di
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suoi generali in Renania e Vestfalia. Nel 1632 Gustavo Adolfo entra a Monaco da cui Massimiliano
è costretto a fuggire. L’imperatore è costretto a richiamare in servizio il Wallenstein: lo scontro
decisivo avviene a Lützen (vicino Lipsia, 1632) da cui l’esercito svedese esce vincitore, anche se il
sovrano trova la morte in un attacco isolato. Wallenstein, ritiratosi in Boemia, è sospettato di scarsa
fedeltà e fatto assassinare dall’imperatore nel 1634. Nella battaglia di Nördlingein (1634) le forze
svedesi e riformate sono sconfitte aprendo le porte alla pace di Praga (1635), cui aderiscono quasi
tutti i ceti imperiali e che assicura il mantenimento della costituzione territoriale e la legittimità dei
principi: ne rimane fuori il Palatinato.
La fase Francese e la fine della guerra: le paci di Vestfalia e dei Pirenei
Poco prima della pace di Praga (1635) Richelieu dichiara guerra alla Spagna; la vittoria a Rocroi del
principe di Condé nel 1643 apre la strada agli accordi di pace ma i combattimenti proseguono fino
alla vigilia delle firme di Münster e Osnabrück (ai danni della Baviera di Massimiliano
Wittelsbach). Nel 1645 per poco gli svedesi non entrano a Vienna, difesa dall’imperatore
Ferdinando III (1637-57) grazie a un accordo separato con la Sassonia e alla pace con l’Ungheria
cui l’impero riconosce i diritti cetuali e le libertà religiose. Infine cade Praga. I trattati firmati nelle
due città della Vestfalia (1648) chiudono la guerra dei Trent’anni (rimane lo stato di ostilità tra
Francia, alle prese con la Fronda, e Spagna, chiuso con la pace dei Pirenei nel 1659). È il trionfo
dell’“arte della pace”, l’atto fondativo della diplomazia moderna. Con le paci di Vestfalia tramonta
definitivamente l’idea universalistica dell’impero e si afferma quella di un impero-Stato di carattere
cetuale che fornisca garanzie essenziali al nuovo equilibrio: potere non assoluto dell’imperatore,
tolleranza religiosa, autonomia e sovranità (anche in politica estera) dei ceti ma senza distruggere
l’unità imperiale, garanzia di sopravvivenza dei piccoli ceti contro possibili tentativi di annessione
delle realtà statuali maggiori. Il credo calvinista è riconosciuto come terza confessionale ufficiale
dell’impero al pari di cattolicesimo e luteranesimo. Ferdinando III è riconosciuto re di Boemia e il
regno entra definitivamente nell’orbita cattolica. La Francia ottiene la sovranità su Metz, Toul,
Verdun e l’Alsazia; più ampi territori riconosciuto alla Svezia. I Cantoni Svizzeri e le Province
Unite sono ufficialmente riconosciuti come Stati sovrani; queste ultime anche dalla Spagna.
I paesi baltici tra Sei e Settecento
A Cristiano IV di Danimarca succede il figlio minore Federico III (1648-1670), vescovo di Brema,
che invano tenta di resistere agli attacchi della Svezia con cui è costretto alla pace nel 1658 e, con
condizioni meno sfavorevoli, nel 1660. In politica interna è fautore dell’assolutismo e rende la
monarchia ereditaria (Lex regia, 1665): la svolta assolutistica e lo sviluppo di una burocrazia
centralizzata si accompagnano a un rafforzamento della grande aristocrazia terriera.
In Svezia, Gustavo II Adolfo si rivela accorto politico rendendo più funzionale l’organizzazione
statale con la trasformazione del ruolo dell’aristocrazia: da ceto spesso in opposizione con il
monarca a intelaiatura fondamentale della pubblica amministrazione. Il Consiglio di Stato diventa
un organo permanente consentendo ad Axel Oxenstierna, cancelliere del regno e capo della
reggenza, di mantenere la pace interna durante la minorità della regina Cristina che, raggiunta la
maggiore età (1644), comincia a occuparsi degli affari decidendo però presto di abdicare (1654) per
la conversione al cattolicesimo e l’imminente trasferimento a Roma per coltivare interessi letterari e
filosofici. Le succede il cugino Carlo X Gustavo (1654-1660) che riapre la guerra con la Polonia
(prima guerra del Nord, 1655-1660) vincendo, con l’aiuto del Brandeburgo, una battaglia presso
Varsavia e sconfiggendo la Danimarca, intervenuta a sostegno dei polacchi. La pace di Roskilde
(1658) gli frutta la Scania ma l’intervento del nuovo imperatore Leopoldo I costringono il
successore, Carlo XI, alla pace definitiva (1660) mantenendosi onorevole per la Svezia aiutata dalla
Francia di Mazzarino. Il piccolo Carlo XI (1660-1697) esce di tutela nel 1672 e si dedica al
risanamento dello Stato: sul modello dell’assolutismo di Luigi XIV organizza accuratamente
l’esercito, promulga un nuovo codice di leggi, riordina la chiesa luterana e ricorre alle Reduktionen,
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rivendicazioni di beni demaniali alienati (1680), costringendo la nobiltà a restituire alla corona tutti
i beni ottenuti durante il secolo per donazione o acquisto.
L’ascesa di una nuova potenza: dall’elettorato di Brandeburgo al regno di Prussia
L’elettorato del Brandeburgo è uno dei più vasti Stati dell’impero, ma è una regione povera con
risorse limitate e città piccole; il principe elettore è considerato solo un primus inter pares dalla
nobiltà. Giovanni Sigismondo (1608-1619) sposa Anna, figlia del duca di Prussia Alberto II
Hohenzollern del ramo di Franconia e di Maria Eleonora di Kleve-Jülich-Berg: alla morte della
suocera (1608) ne rivendica l’eredità; il Brandeburgo ottiene solo, nel 1614, il ducato di Kleve al
confine con i Paesi Bassi e le contee di Mark e Ravensberg. Più diretta l’eredità della Prussia (la
Prussia orientale) alla morte del suocero (1618). Il successore, Federico Guglielmo (1640-1688),
detto il Grande Elettore, dalla pace di Vestfalia ottiene la ricomposizione del territorio e la
Pomerania orientale; nel 1666 la definitiva assegnazione dei piccoli ma strategici Stati ereditati. Di
religione calvinista, mentre Pomerania e Prussia sono luterane, suo grande merito è di unirle
politicamente e socialmente in uno Stato unico attraverso un radicale processo di accentramento
burocratico e amministrativo: introduzione dell’imposta sui consumi nelle città, istituzione del
commissariato generale per la guerra e di un corpo di zelanti e spietati funzionari addetti alle
riscossioni senza che nessuno sia più esentato. Sul modello di Colbert Federico Guglielmo finanzia
le manifatture; nel 1685 (anno della revoca dell’editto di Nantes) promulga una legge apposita per
attirare gli esperti artigiani ugonotti in fuga dalla Francia del Re Sole. Nel 1682 il Grande Elettore
costituisce la Compagnia per l’Africa, appronta poi una piccola flotta da guerra e fonda perfino una
colonia in Costa d’Oro per speculare sulla tratta degli schiavi (il nipote Federico Gugliemo I nel
1717 la vende alle Compagnia delle Indie Occidentali dell’Olanda proprio per l’osteggiamento
olandese). In politica estera Federico Guglielmo muta spesso alleanza: da quella con la Francia al
patto segreto con l’imperatore Leopoldo dopo la revoca dell’editto di Nantes. Per la riforma
dell’esercito il modello è la Svezia (Federico Guglielmo è nipote di Gustavo Adolfo): l’ossatura
militare è costituita dalla nobiltà terriera della Prussia, gli Junker, dalle cui fila provengono quasi
tutti gli ufficiali, status che gode di grande apprezzamento sociale. Il figlio Federico II (1688-1713)
prosegue in politica interna il disegno di centralizzazione del padre facendo perno sul Brandeburgo,
stato centrale. In politica estera, in cambio del sostegno promesso dall’imperatore nella guerra di
successione spagnola, con il consenso non entusiastico di Leopoldo I, nel 1701 l’Elettore si
proclama Federico I “re di Prussia”. A conferma della centralità del Brandeburgo Berlino diviene
ufficialmente capitale ed è arricchita di palazzi e istituzioni culturali (nel 1694 Federico ha fondato
l’Università di Halle, culla dell’Illuminismo tedesco).
15 – L’Europa orientale
L’impero ottomano: le guerre con la Persia, con Venezia, con gli Asburgo
Subito dopo la battaglia di Lepanto (1571) Spagna e Turchia si disinteressano del Mediterraneo, con
conseguenze positive per i paesi europei: l’impero spagnolo si concentra sui suoi interesse atlantici
e gli ottomani si rivolgono al secolare nemico persiano, che ha trovato un’abile guida nello shah
Abbas I e contende ai turchi il controllo dell’area di Bagdad e dell’Armenia. Alla fine (1639) la
vittoria tocca agli ottomani che possono volgersi ancora verso occidente, contro Vienna e gli
Asburgo. La Serenissima e la Turchia proseguono gli scambi commerciali nelle acque mediterranee
grazie alla neutrale repubblica-cuscinetto di Ragusa (attuale Dubrovnik). Dopo un lungo periodo di
pace che dura dal 1573 i turchi investono Creta (1645), isola veneziana posta fra tre continenti
(Europa, Asia, Africa). La guerra si protrae per venticinque anni (Venezia combatte da sola), fino
all’attacco verso Costantinopoli: per due volte (1656 e 1657) le squadre veneziane violano gli
Stretti, ma non superano i forti sui Dardanelli; stremata Venezia chiede la pace (1669) e Creta
diventa ottomana, tranne le basi navali di Suda e Spinalonga. Il versante turco ha una svolta con
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l’avvento al potere del visir Mehemed Köprülü che organizza finanze ed esercito rovesciando poi
sull’Ungheria un esercito che nel 1663 giunge a minacciare Vienna; l’anno dopo è però fermato
nella battaglia di San Gottardo, fra Stiria e Ungheria, dalle truppe imperiali. L’impero turco versa in
una crisi ancora latente: conosce il feudo nella sola forma vitalizia del timar con i problemi già
illustrati; il progressivo affermarsi del commercio atlantico ha indebolito le tradizionali rotte
mediterranee e quindi i proventi turchi, donde un inasprimento fiscale; il rituale di corte, fatto di
intrighi, lusso e depravazione, ha a poco a poco minato l’antica severità dei costumi ottomani.
Nuove pulsioni antagoniste seguono però l’indebolirsi dell’organismo statale. L’obiettivo principale
è fronteggiare le finanze disastrate dell’impero; donde la continua ricerca di nuove province da
annettere per rivitalizzare Istanbul, coi suoi seicento mila abitanti il più grande mercato del
Mediterranepo.
L’assedio di Vienna e l’effimera riscossa veneziana
Il 1683 segna un punto importante nei rapporti fra Europa e impero ottomano: i turchi volgono ora
le armate contro gli Asburgo, assediando Vienna e costringendo l’imperatore a rifugiarsi in Tirolo:
in quest’occasione la salvezza giunge dalla Polonia, anch’essa minacciata dai turchi. Il re polacco
Giovanni Sobieski (1674-1696) sbaraglia gli avversari nelle alture del Kahlenberg (1683); la
sconfitta ottomana si trasforma in disfatta, mentre al successo cristiano tiene dietro la costituzione
di una “Santa lega” tra Austria, Polonia, Venezia e Russia. Il sultano è costretto a piegarsi alla pace
di Karlowitz (1699) che conferma alla Serenissima il possesso della Morea, riconosce ai russi la
conquista di Azov sul Mar Nero, ai polacchi dell’Ucraina, agli Asburgo l’Ungheria e la
Transilvania. Per la prima volta lo Stato ottomano firma una pace senza conquiste, segnando d’ora
in poi la sua storia con un continuo arretramento territoriale (fino alla scomparsa del sultanato dopo
la Prima Guerra Mondiale). Venezia nel 1684 scende a fianco dell’Austria per riprendersi Creta,
inutilmente: ma il Peloponneso diventa veneziano (anche se solo per una trentina d’anni). Con la
pace di Passarowitz (1718) si pone fine a un nuovo conflitto turco-veneto, facendo rientrare il
Peloponneso nei possedimenti ottomani.
Il tramonto della Polonia
Dal punto di vista economico e sociale, la persistenza del fenomeno feudale rappresenta il limite
principale dell’organizzazione polacca. Come nell’Europa orientale tutta, la “rivoluzione dei prezzi”
ha premiato il potere nobiliare che ha mantenuto saldo il controllo della terra. L’estinzione degli
Jagelloni ha trasformato la “repubblica di Polonia” da monarchia ereditaria in elettiva, con sovrani
estranei al paese non di rado scelti tra altre case regnanti; pertanto il potere decisionale si restringe
nelle mani della Dieta, dove i nobili esercitando il “liberum veto” possono bloccare qualsiasi
iniziativa di leggi, donde una paralisi decisionale. La Polonia (che comprende anche la Lituania)
approfitta della crisi della Russia lacerata dall’“età dei torbidi” (1605-1618) per annettersi i vasti
territori dei cosacchi e battere altri temibili avversari come i turchi e gli svedesi. Questa politica
aggressiva termina quando i cosacchi ortodossi si pongono sotto la sovranità dello zar moscovita
piuttosto che accettare il re cattolico di Cracovia; la Polonia perde così l’Ucraina mentre la Svezia, a
sua volta intervenuta nel conflitto russo-polacco, si annette la Livonia, sul Baltico: la nuova realtà
politico-geografica è sancita dalle paci di Oliva, presso Danzica, che nel 1660 avvia a pacificazione
la tormentata area baltica, e di Andrussovo, dove nel 1667 si regolano le pendenze russo-polacche.
Queste perdite si sommano a una grave crisi economica, indiretta conseguenza della guerra dei
Trent’anni che ha lasciato stremata la Germania che non importa più i cereali polacchi.
Una nuova presenza: la Russia di Pietro il Grande
Dopo una serie di lotte per il potere (“l’età dei torbidi”) nel 1613 il titolo di zar è assunto da
Michele Romanov, capostipite della dinastia regnante fino alla rivoluzione bolscevica (1917).
Appoggiandosi al potente clero ortodosso e alla nobiltà feudale dei boiari, detentori d’immensi
latifondi, Michele Romanov (1613-1645) e poi suo figlio Alessio (1645-1676) impongono la loro
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autorità assoluta dando avvio a una sorta di esercizio del potere: nel 1666 Alessio ottiene dal
concilio ortodosso il riconoscimento del primato dell’autorità imperiale su quella ecclesiastica,
lasciando in cambio mano libera al clero e alla nobiltà verso i loro contadini, riducendone la
condizione a quella di servi della gleba. Con la presa al potere da parte dello zar Pietro I Romanov il
Grande (1689-1725) la Russia si affaccia sempre più nello scenario europeo tessendo legami,
rapporti e scambi politici, culturali ed economici. Divenuto zar, Pietro il grande compie un viaggio
d’istruzione all’estero fra Germania, Olanda, Inghilterra e Austria: impadronitosi dei rudimenti della
scienza occidentale, rientra in patria con una schiera di tecnici europei e, domata con durezza la
rivolta degli Strelzy (la propria guardia) scoppiata durante la sua assenza, si applica a riformare la
Russia europeizzandola. Ripudia la moglie, restia all’abbandono dei tradizionali costumi, e fa
uccidere l’unico suo figlio, lo zarevic Alessio, perché contrario alle riforme; riforma il calendario
facendolo iniziare dal primo gennaio, obbliga i boiari ad adottare abiti di foggia europea e a tagliarsi
la barba; divide il paese in governatori e forma una nobiltà di servizio, sanzionata dalla “Tavola dei
ranghi” che stabilisce una corrispondenza fra servizio statale e grado nobiliare; per istruire i boiari
crea scuole e accademie; dà incentivi per recarsi all’estero. In campo politico-militare i risultati di
queste riforme si colgono nella battaglia di Poltava (1709) in cui i russi piegano la potenza svedese,
e nel proseguimento dell’espansione verso la Siberia. Coronamento ed emblema dell’attività
riformatrice del sovrano è la creazione della nuova capitale, San Pietroburgo, sorta in riva al Baltico
(1703) a opera di architetti italiani.
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un matrimonio fra Carlo e una principessa spagnola, senza successo, ripiegando sul matrimonio con
Enrichetta, sorella del re di Francia (1625, matrimonio peraltro impopolare perché Enrichetta è
cattolica); nello stesso anno Giacomo muore. In cambio dei sussidi richiesti nel 1628 la Camera dei
Comuni chiede al sovrano di firmare una Petition of rights in cui si proibiscono prestiti forzosi o
altre forme di tassazione senza l’approvazione del Parlamento: il processo è interrotto dalla morte
del ministro, il duca di Buckingham, assassinato da un fanatico puritano. Carlo porta avanti la
politica assolutistica sciogliendo il Parlamento (1629) senza l’intenzione di riconvocarlo; egli vuole
imporre la chiesa anglicana sia alle frange puritane sia ai calvinisti scozzesi, servendosi del vescovo
William Laud, autore di una nuova liturgia. Nominato vescovo di Canterbury e primate
d’Inghilterra (1633), Laud consiglia al re di ricorrere alla forza contro i renitenti scozzesi ottenendo
come risultato la fusione del contrasto nazionale e religioso: nel 1639 è la guerra.
La guerra civile, la rivoluzione, il regicidio
La guerra contro gli scozzesi necessita di denaro: Carlo ricorre al Parlamento. Sono undici anni
(1629-1640) che il re governa senza di esso, con l’aiuto di Laud e del nuovo ministro, conte di
Strafford. Il Parlamento appena riunito fa giustiziare entrambi, Strafford nel 1641 e Laud nel 1645.
L’assemblea è sciolta (si parla di Corto Parlamento) favorendo l’azione degli scozzesi che
sconfiggono le truppe di Carlo e invadono il nord Inghilterra. Una nuova convocazione del
Parlamento – il Lungo Parlamento (1640-1653) – ingiunge alla corona l’obbligo di riunirlo almeno
ogni tre anni: il re deve approvare lo smantellamento di gran parte dell’apparato repressivo del
governo (il primo passo è la liberalizzazione della stampa). Nel 1641 gli irlandesi, che a opera degli
Stuart hanno perso molte terre, insorgono facendo strage di inglesi. Carlo entra nel Parlamento in
subbuglio con i suoi soldati per arrestare o capi dell’opposizione ma è travolto dalla reazione
dell’assemblea: fugge a York e nel 1642 inizia la guerra civile (solo civile, non sociale). Puritani e
ceti mercantili e artigiani si schierano col Parlamento, cattolici e nobiltà col sovrano (ma ci sono
tutti i ceti sociali da ambo le parti): l’esercito parlamentare parte in svantaggio. Nel 1644
un’alleanza con gli scozzesi permette all’esercito del Parlamento di vincere una battaglia in cui si
mette in luce Oliver Cromwell (1599-1658), comandante di uno squadrone di cavalleria e vero
artefice della vittoria. Questo insolito esercito detto New model army (di cui fa parte qualunque ceto
sociale in virtù di un’unione ideologica e religiosa) batte i cavalieri del re (Naseby 1645, Preston
1648): Carlo ripara in Scozia ma è consegnato al Parlamento. Che è diviso fra puritani e
presbiteriani; nell’esercito si affermano tendenze radicaleggianti (i levellers, fautori di una sorta di
democrazia popolare). Cromwell sblocca la situazione epurando Parlamento ed esercito grazie cui
ristabilisce un equilibrio in ambedue. Carlo Stuart è processato e condannato a morte a Londra
(1649).
L’Inghilterra di Cromwell
Si apre la stagione della dittatura, la prima dell’Europa moderna. Il Lungo Parlamento proclama la
repubblica (Commonwealth) e l’ordine è riportato dal nuovo centro di gravità, l’esercito. Cromwell
ha tre obiettivi: liquidare l’opposizione parlamentare; placare la marea montante di una possibile
rivoluzione sociale (facendo arrestare gli esponenti più radicali dei levellers e dei quaccheri,
pacifisti non violenti contrari alle gerarchie sociali); intraprendere iniziative militare contro scozzesi
e irlandesi (l’Irlanda è devastata e ridotta alla fame). Il primo punto affrontato è il consolidamento
del potere della gentry, la piccola nobiltà rurale da cui Cromwell stesso proviene, attraverso
provvedimenti fiscali ed economici fra cui incentivi al commercio marittimo: tramite l’Atto di
navigazione (1651) che riservando al naviglio inglese il commercio estero porta alle tre guerre con
l’Olanda (1652-54, 1664-67, 1672-74) che alla fine deve sottostare alle clausole dell’Atto. Il titolo
di Lord Protettore d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, conferito a Cronwell nel 1653, gli riconosce
poteri dittatoriali che esercita fino alla morte. Un anno dopo, in Parlamento, si assiste all’esplicita
sanzione del diritto alla proprietà privata e al riconoscimento della tradizionale articolazione
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sociale, donando finalmente al paese sicurezza e tranquillità e salvaguardando alcune conquiste del
periodo come l’idea dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, una parziale libertà religiosa, di
pensiero e di espressione, il diritto di prendere parte al dibattito politico, il rispetto di talune
fondamentali garanzie individuali.
La restaurazione stuardista e la “rivoluzione gloriosa”
Nel 1658 Cromwell emana un provvedimento che prevede la trasmissione del potere al figlio
Richard che però vi rinuncia dopo otto mesi. Di ciò approfitta il generale George Monk che scende
dalla Scozia e impone la restaurazione monarchica nella persona di Carlo II (1660-1685), figlio
dello sventurato Carlo I, già da tempo riconosciuto re degli scozzesi. Il Parlamento riserva al re solo
il controllo delle forze armate e la gestione della politica estera. Presto ricompaiono i vecchi
problemi degli Stuart: corte incline a lusso e corruzione, aspirazioni assolutistiche, tendenze
filocattoliche. A questi problemi si sommano la peste, l’incendio che devasta Londra, la seconda
guerra con l’Olanda (1664-67). I rapporti fra sovrano e Parlamento si fanno tesi, col re che cerca di
assicurarsi un legame con la Francia (sua madre Enrichetta è la zia di Luigi XIV). Dal 1662 Carlo
vende il Dunkerque, possedimento inglese in terra francese, e col trattato di Dover (1670) conclude
un’alleanza con la Francia in funzione antiolandese (accetta una pensione dal re francese,
divenendone di fatto tributario). Dal 1678, quando emerge una congiura contro Carlo II, i partigiani
del re cominciano a essere chiamati tories, i suoi avversari whigs; nascono le due storiche correnti
che dominano il Parlamento fino alla metà del XIX secolo: il partito tores rappresenta le tendenze
filomonarchiche e conservatrici della nobiltà e dell’alto clero, e i whigs il primato del Parlamento
nel suo ruolo di controllo e garanzia delle istanze liberali della borghesia artigianale e mercantile. Il
Parlamento nel 1679 emana l’Habeas corpus, legge che stabilisce che nessun cittadino può essere
detenuto né arrestate senza un regolare processo motivato (tutto il contrario dell’arbitrario
dispotismo francese). Carlo II muore sul trono nel 1685 senza eredi: la successione tocca al fratello
Giacomo II (1685-1688), cattolico marito della cattolica Maria Beatrice d’Este. Le loro due figlie
sposano principi protestanti: Maria Guglielmo III d’Orange, stadhouder d’Olanda e Anna giorgio di
Danimarca. Gli Stuart rappresentano l’assolutismo e la fedeltà alla Santa Sede (e nel frattempo
Luigi XIV revoca l’editto di Nantes). La maggioranza dei capi politici del Parlamento rivolge un
appello al genere protestante del re, Guglielmo d’Orange, perché intervenga in difesa dei diritti
della moglie: nel 1688 egli sbarca in Inghilterra accolto trionfalmente; Giacomo non oppone
resistenza e fugge presso Luigi XIV mentre il Parlamento dichiara vacante il trono escludendone in
perpetuo la linea cattolica degli Stuart. La seconda rivoluzione inglese, detta “gloriosa” perché
pacifica, segna il sorgere del costituzionalismo moderno che individua nella nazione la fonte della
sovranità: i nuovi re Maria e Guglielmo III prima dell’incoronazione devono giurare l’osservanza
del Bill of rights (1689) che prevede alcune prerogative fondamentali nell’autonomia del
Parlamento soprattutto nei confronti del re, la cui autorità è limitata senza il consenso del primo; si
sanciscono inoltre prerogative come la libertà di parola e di discussione in Parlamento.
L’anomalia olandese e il Regno uniti dagli Orange agli Hannover
Con la scelta di Guglielmo III d’Orange l’Inghilterra è spinta all’alleanza con la repubblica
olandese, un’anomalia nell’Europa seicentesca. L’Olanda, dopo il riconoscimento dell’indipendenza
con la pace di Westfalia (1648) conosce una straordinaria fioritura economica (nel Seicento è il
paese più ricco del mondo) e artistica. Il patriziato dei reggenti continua a mantenere le posizioni
chiave nella società dei Paesi Bassi. In un’Europa di monarchia le repubbliche (Olanda, Svizzera,
Venezia, Genova, Lucca, Ragusa) devono essere limitate territorialmente (come le pòleis greche) e
aliene da velleità espansionistiche. Nel 1688-89 l’Inghilterra si allinea dal punto di vista politico-
costituzionale al nemico di ieri, l’Olanda. Re è l’esponente di una piccola repubblica, che accetta le
regole costituzionali del Bill of rights e fa suo quel modello di sviluppo. Maria Stuart e Guglielmo
d’Orange non hanno figli, per cui alla loro morte il trono passa alla sorella di Maria, Anna (1702-
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1714), moglie di Giorgio di Danimarca e quindi imparentata con molti principi tedeschi. Nel suo
regno l’Inghilterra è coinvolta nella guerra di successione spagnola (1701-13) che le frutta
Gibilterra e Minorca nel Mediterraneo, la baia di Hudson e Terranova nell’America del nord; nel
1707 si realizza l’unione di Inghilterra e Scozia in un solo regno, la Gran Bretagna. Quando Anna
muore senza eredi (1714), il Parlamento offre la corona a un altro discendente protestante degli
Stuart, Giorgio I elettore di Hannover (1714-1727). L’attuale casa reale britannica discende da
questa dinastia tedesca.
17 – Le guerre dinastiche
Natura e peculiarità dei conflitti settecenteschi
Le guerre che sottendono il periodo 1701-48 dipendono solo da esigenze di prestigio dinastico che
non escono dal chiuso recinto delle corti. Le motivazioni caratterizzano la natura di tali guerre:
l’obiettivo non è l’annientamento dell’avversario ma la revisione dei confini nei territori e la
successione. I sudditi rimangono estranei ai conflitti, combattuti da soldati di professioni. Gli
ammiragli hanno l’ordine di evitare il più possibile lo scontro diretto e di conservare intatta la flotta.
Lo Stato seicentesco, sul modello della Francia del Re Sole, è prevalentemente uno stato etico dove
l’uomo è un suddito legato ai doveri della coscienza, morale religiosa e obbedienza al principe;
questa idea di Stato va mutando in direzione di uno Stato di diritto il cui suddito diventerà cittadino
grazie al diritto di espressione, di fede religiosa, di coscienza, di associazione, come le rivoluzioni
di fine secolo (americana e francese) sanciranno. Due modelli così distanti, rappresentati anche dal
Barocco da cui si parte e dall’Illuminismo che prepara il grande rinnovamento, vedono in mezzo
una grande pausa di silenzio riflessivo nota come “crisi della coscienza europea” (Hazard).
La guerra di successione spagnola
Alla morte senza eredi del re di Spagna Carlo II (1700) vengono fatte rivendicazioni dagli Asburgo
di Vienna e dal re di Francia. Carlo II è un Asburgo, pertanto gli Asburgo di Vienna reclamano il
diritto a succedere sul trono di Madrid nella figura del figlio minore dell’imperatore, l’arciduca
Carlo; la sorella del defunto re ha sposato Luigi XIV che vuole a sua volta avanzare la candidatura.
Nel suo testamento Carlo II designa quale erede il nipote del Re Sole, Filippo d’Angiò, prontamente
insediato a Madrid col nome di Filippo V. Il duello si restringe tra gli Asburgo e i Borbone. Con la
candidatura del nipote, Luigi XIV mira a sopprimere i Pirenei e con essi le Alpi, conquistando i
domini spagnoli d’Italia. Come l’Occidente fa capo a Parigi, così la Mitteleuropa si collega a
Vienna (gli Asburgo sono pur sempre titolari del Sacro romano impero). Se con Leopoldo II (1658-
1705) la politica asburgica ha privilegiato la difesa contro la minaccia ottomana, il figlio Giuseppe I
(1705-11) apre una fase di ambizioni e speranze, contando anche sul condottiero Eugenio di Savoia.
La guerra scoppia nel 1701: da un lato Inghilterra e impero, dall’altro Francia e Spagna. Luigi XIV
punta a Vienna ma manca il bersaglio e gli imperiali ottengono una vittoria decisiva a Torino
(1706). La morte precoce dell’imperatore Giuseppe I (1711) toglie alla guerra le sue ragioni: questa
infatti è scoppiata per salvare l’equilibrio compromesso dal fatto che non esistono più Pirenei tra
Francia e Spagna; ma adesso la vittoria asburgica prevede la successione a Giuseppe I del fratello
l’arciduca Carlo. Il timore che l’impero disponga anche della corona spagnola, tornando ai fasti di
Carlo V, conduce ai trattati di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714) che pongono fine alla guerra con le
seguenti spartizioni territoriali:
- Filippo V è riconosciuto re di Spagna, la quale cede Gibilterra e Minorca (nelle Baleari)
all’Inghilterra che ottiene l’asiento, monopolio del commercio degli schiavi nelle colonie spagnole.
Madrid cede a Vienna Paesi Bassi, ducato di Milano, Stato dei Presìdi, regni di Napoli e Sardegna,
mentre la Sicilia passa a Vittorio Amedeo II di Savoia col titolo regio;
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omonimo del defunto sovrano, il futuro Federico Augusto III (1733-1763). È la guerra che vede da
un lato le due corti borboniche di Parigi e di Vienna, cui si unisce poi il re di Sardegna Carlo
Emanuele III (1730-1773), dall’altro Austria e Prussia. Teatro delle operazioni è l’Italia. Il conflitto
volge subito a favore di Luigi XV: un esercito franco-sardo occupa Parma e la Lombardia mentre
gli spagnoli conquistano Sicilia e il Napoletano. A questo punto l’Inghilterra minaccia di schierarsi
con gli austro-russi e si viene così alla pace di Vienna (1738) dove i popoli sono merce di scambio:
- il trono polacco va al candidato austriaco, Federico Augusto III di Sassonia;
- il candidato francese, Stanislao Leczynski, ottiene il ducato di Lorena, con la clausola che alla sua
morte questo passerà alla Francia;
- il duca di Lorena, Francesco Stefano, marito della futura imperatrice Maria Teresa d’Asburgo,
diventa granduca di Toscana (inizia in Toscana la dinastia degli Asburgo-Lorena);
- Carlo Emanuele III di Savoia guadagna Novara e Tortona;
- Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, diventa re di Napoli e di
Sicilia (si instaura la dinastia borbonica);
- l’Austria perde il Mezzogiorno italiano ma conserva Lombardia e ottiene ducato di Parma, dove si
è estinta la dinastia Farnese.
La guerra di successione austriaca e l’assetto territoriale della Penisola dopo Aquisgrana
Dopo neanche due anni dalla fine della guerra di successione polacca, si apre quella per la
successione austriaca; nel frattempo si svolgono due guerre, una nell’oriente europeo l’altra
nell’Atlantico. La prima insorge nel 1736 fra Turchia e Russia, capitolo iniziale di una serie di
conflitti scoppiati poi nei secoli XVIII e XIX. La Russia, spalleggiata dall’Austria, riconquista Azov
(in Crimea); l’impero ottomano riceve aiuto diplomatico dalla Francia con l’invio di istruttori,
tecnici, ufficiali. L’esercito della Sublime Porta ne esce trasformato in un moderno e organizzato
strumento di guerra: i turchi, vittoriosi sugli austriaci, impongono la pace di Belgrado (1740) che
consente loro di recuperare la Valacchia e i territori serbi ceduti a Passarowitz (1718). I confini
orientali dello Stato asburgico si stabilizzano così lungo il Danubio e resteranno immutati per un
secolo e mezzo, sino all’occupazione austriaca della Bosnia (1878). La Russia si accontenta di
qualche piccolo vantaggio territoriale in Crimea; la Francia ottiene il protettorato sugli istituti
cattolici della Terrasanta e strappa al sultano la concessione di privilegi che assicurano ai suoi
mercanti e impresari il predominio commerciale del Levante. Alla guerra austro-russa contro
l’impero ottomano (1736-40) si sovrappone il conflitto anglo-spagnolo (1739-42), la “guerra
dell’orecchio di Jenkins” (i guasti causati dall’interferenza britannica nei rapporti fra la madrepatria
e le colonie spagnole causano l’intercettamento delle navi inglesi: durante una perquisizione si
viene alle mani e un marinaio spagnolo taglia l’orecchio al comandante Jenkins; l’opinione pubblica
spinge Robert Walpole, primo ministro britannico, a dichiarare guerra e far vela verso le Americhe).
Il conflitto si esaurisce per inerzia risolvendosi nella più vasta deflagrazione che coinvolge l’Europa
nella guerra di successione austriaca, scoppiata nel 1740.
Nel 1740 muore l’imperatore Carlo VI (1711-40) la cui primogenita Maria Teresa è andata sposa a
Francesco Stefano di Lorena. Nel 1713 in base alla legge salica Carlo VI ha emanato la
Prammatica Sanzione, estendendo alle femmine il diritto alla corona imperiale. Morto l’imperatore,
nessuno Stato europeo – pur concordi con l’iniziativa – tiene fede all’impegno. L’elemento
principale e più dinamico della coalizione antiasburgica è il nuovo re di Prussia, Federico II (1740-
1786) che con un’autentica aggressione batte le truppe imperiali, invade e si annette la Slesia. Il suo
esempio è subito imitato e un esercito franco-bavarese scatena una vittoriosa offensiva giungendo
fino alla Boemia; Maria Teresa si rifugia in Ungheria e l’Inghilterra interviene a impedire il tracollo
dell’impero. Si schiera con l’Austria anche il re di Sardegna Carlo Emanuele III, fino ad allora
alleato di Luigi XV e Filippo V. L’intervento sabaudo è decisivo nel settore italiano; dopo la firma
di una pace separata con la Prussia (cui cede la Slesia), Maria Teresa invia truppe in Italia e occupa
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Genova (1746) mentre i piemontesi sconfiggono l’esercito francese vicino a Torino. Nel 1746 esce
di scena la Prussia e scompare Filippo V. Si stipula la pace di Aquisgrana (1748) che prevede:
- conferma della Prammatica Sanzione e riconoscimento della coppia imperiale Maria Teresa
d’Asburgo e Francesco Stefano di Lorena;
- cessione, da parte austriaca, della Slesia a Federico II di Prussia;
- cessione, da parte austriaca, di Voghera e Vigevano a Carlo Emanuele III di Savoia;
- cessione, da parte austriaca, del ducato di Parma al figlio del re di Spagna, don Filippo.
Si chiude dopo quasi cinquant’anni il duello che ha contrapposto gli Asburgo ai Borbone per
l’egemonia continentale: iniziato col fallimento asburgico di ricostituire la monarchia universale di
Carlo V, si chiude col fallimento borbonico di eliminare dalla carte la potenza asburgica. Il principio
dell’equilibrio si afferma ancora una volta come l’anima della politica internazionale. In Italia gli
Asburgo conservano il Milanese e la Toscana, legata a Vienna attraverso il granduca Francesco
Stefano di Lorena, marito dell’imperatrice Maria Teresa. Alla morte del granduca (1765) a Firenze
subentra Pietro Leopoldo, uno dei sedici figli. I Borbone, invece, compiono un passo in avanti con
la sistemazione dell’infante Filippo nel ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. Luigi XV consegue
un brillante successo familiare: ora i Borbone regnano a Parigi, Madrid, Napoli e Parma,
l’originario nucleo francese si è propagato alla Spagna e all’Italia. Lo Stato della Chiesa,
praticamente disarmato, è impotente a far rispettare l’inviolabilità dei suoi confini: i papi della
prima metà del secolo possono dirsi preparati, onesti e responsabili, a differenza dei pontefici
corrotti del secolo precedente, ma non possiedono più forza né autorevolezza.
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La curiosità nei confronti del diverso da sé e dalla propria cultura (che negli antichi regime è anche
la donna) è una delle caratteristiche fondamentali del pensiero illuministico: la riflessione sul
viaggio, la diversità di genere e la sessualità attraversa tutto il secolo.
L’opera pedagogica per eccellenza, l’Emilio (1762) di Rosseau, prevede la centralità e il rispetto del
fanciullo, l’interesse come molla di apprendimento, l’educazione del sentimento attraverso il
contatto con la natura e il lavoro manuale.
Nel corso del secolo si intrecciano tre filoni culturali: quello trionfante dell’Illuminismo che permea
di sé l’intero arco del sapere; una linea conservatrice e reazionaria che ai principi dei Lumi si
oppone in nome dei valori tradizionali; il filone preromantico, dal duplice e contraddittorio valore,
rivoluzionario rispetto alla posizione tradizionale ma “reazionario” verso l’Illuminismo. Il secolo
vede il passaggio dal Barocco al più leggero Rococò, ma conosce anche il gusto neoclassico.
Una cronologia dell’Illuminismo
L’Illuminismo si distingue in tre fasi:
- fase delimitata dalle paci che chiudono le guerre di successione spagnola e austriaca (Utrecht 1713
e Aquisgrana 1748) che vede in Inghilterra la nascita del giornalismo e del romanzo e in Francia
l’esordio di Voltaire e i contributi di Montesquieu; è la fase della prima grande diffusione della
massoneria (e della sua prima condanna con la bolla In eminenti di Clemente XII);
- periodo (politicamente dominato da Federico II di Prussia, Maria Teresa d’Austria e Caterina II di
Russia e dalla rivoluzione americana) della “primavera dei Lumi”: è l’illuminismo maturo,
delimitato dalla conclusione dell’Encyclopédie (1772), gli anni del più fecondo rapporto fra
Illuminismo e assolutismo, dell’allontanamento fino allo scioglimento della Compagnia di Gesù
(1773), i decenni delle riforme;
- il “tardo Illuminismo” (la seconda generazione di illuministi si esaurisce negli anni Ottanta): si
aggravano i problemi politici, economici e sociali che porteranno alla Rivoluzione francese.
Il pensiero economico illuministico
Nasce l’economia politica come scienza autonoma con l’affermazione della scuola fisiocratica e con
la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Si è affermata l’idea che il processo economico sia
governato da “leggi naturali” e possa essere oggetto di analisi scientifica. L’analisi dei fisiocrati
comporta due ricadute significative: il libero commercio con l’abolizione di dazi, gabelle, privilegi
e monopoli; l’imposta unica, da applicare sulla terra (la fisiocrazia si sviluppa quasi esclusivamente
in Francia). Adam Smith pone il lavoro (non più la terra) al centro del modello economico: è
l’aumento della produttività che produce l’avanzamento dell’economia e della società; in questo
quadro si colloca l’innovazione tecnologica, fondamentale per l’espansione del sistema. La sfera
della produzione genera la divisione della società; il valore dei beni si compone di tre elementi:
salari, rendita e profitti, cui è riconducibile ogni reddito e che individuano tre classi sociali.
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1781 l’imperatore emana l’Editto di tolleranza con cui concede libertà di culto a tutte le confessioni
cristiane a attenua la legislazione restrittiva verso gli ebrei; riduce i conventi e sopprime gli ordini
contemplativi, premesse per creare una Chiesa nazionale poggiante su un clero istruito e fedele allo
Stato: è il giurisdizionalismo, ossia la rivendicazione da parte dello Stato di una quantità di funzione
delegate alla Chiesa; nella Messa il tedesco sostituisce il latino e vaste proprietà fondiarie sono
confiscate. Nei Paesi Bassi (la cui identità è fedele al cattolicesimo e alla monarchia asburgica)
scoppia una rivolta contro la politica accentratrice di Vienna; nel 1789 insorgono Belgio e Ungheria,
sicché il nuovo imperatore Leopoldo II (1790-1792), succeduto al fratello Giuseppe, deve revocare
la maggior parte delle riforme.
Proprio Leopoldo II è stato granduca di Toscana come Pietro Leopolod (1765-1790), portando il
riformismo illuminato alla sua massima espressione sia in Italia che fuori: la sua Toscana è il punto
più alto dell’assolutismo asburgico per quanto riguarda il conseguimento del bene pubblico. La
Lombardia austriaca ne è stata il campo di prova: dopo aver riformato l’istruzione pubblica e la
censura, aboliti il foro ecclesiastico e l’Inquisizione, dimezzato il numero dei religiosi e portato a
compimento il catasto, Maria Teresa ci pone sopra un’imposta del 2%. Rendendo una buona
campagna dell’epoca il 4%, il governo favorisce l’allevamento, vero indice della ricchezza rurale.
La nobiltà parassitaria e riottosa ad aprirsi al nuovo si lamenta, ma il catasto è lo snodo strutturale
che nei fatti fornisce il maggiore impulso all’economia lombarda. Il processo di razionalizzazione
del figlio Giuseppe comporta l’abolizione di qualsiasi giurisdizione, la semplificazione della
macchina giudiziaria, la soppressione di antiche magistrature sino ad allora roccaforte della nobiltà
locale (il Senato); nel 1786 sono abolite tutte le corporazioni, i privilegi nobiliari ed ecclesiastici;
sono soppresse le province e il ducato milanese è diviso in otto circoscrizioni rette da altrettante
Intendenze. L’offensiva statale colpisce soprattutto il clero e qui Giuseppe II trova appoggio nella
massoneria e nel movimento giansenista. Il prezzo dell’opera immane è rappresentato dal divorzio
tra la Lombardia e il dominatore austriaco: troppi gli interessi colpiti, troppe le dignità umiliate. La
situazione della Toscana di Pietro Leopoldo è diversa dalla Lombardia: Milano fa parte dei domini
asburgici, mentre il granducato costituisce uno Stato a sé stante. Le riforme ricalcano quelle
lombarde: nuova struttura di governo, abolizione delle corporazioni, della servitù contadina, della
tortura, della pena di morte, migliore distribuzione dei pesi fiscali, rimozione delle barriere
doganali: più libertà economica e garanzie giuridiche. Fra il 1786 e il 1789, coadiuvato da
funzionari di alta levatura, Pietro Leopoldo procede alla concessione delle proprietà demaniali nella
Maremma ai contadini, creando un ceto di piccoli proprietari; il granduca vara una riforma del clero
secondo l’impronta giansenista. Nel 1786 convoca a Pistoia un sinodo dei vescovi toscani per
promuovere una Chiesa nazionale sull’esempio di quella gallicana, da cui la sostituzione
dell’italiano al latino nella Messa e la guerra aperta al culto delle reliquie. L’iniziativa deve essere
seguita da una riforma costituzionale che non trova applicazione: le proteste di Pio VI e la
resistenza del clero fanno esplodere antichi sentimenti popolari e a Pietro Leopoldo non resta che
prendere atto del fallimento. Nel 1790 lascia la Toscana dopo venticinque anni di regno per
succedere al fratello sul trono imperiale.
Il riformismo borbonico
Nei paesi dominati dalle corti borboniche (Francia, Spagna, Napoli, Parma) il riformismo si
presenta con caratteristiche più sfumate, procedendo non già sulla scorta di un programma
razionalmente concepito e pianificato ma sollecitato da esigenze pratiche, sulla scia di problemi
contingenti. Il punto di partenza del riformismo borbonico è il “Patto di famiglia” (1761) che stringe
in alleanza le quattro corti borboniche europee: Parigi, Madrid, Napoli e Parma.
La Francia sul piano del rinnovamento fa ben poco: il corrotto Luigi XV (1715-1774) lascia
governare il reggente Filippo d’Orléans prima e, alla maggiore età, le sue amanti, sicché sotto il suo
regno si procede solo all’espulsione dei gesuiti (1764) e alla soppressione di numerose istituzioni
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monastiche (dal 1766). Il vero problema del paese è il dissesto finanziario originato dalle incessanti
guerre e dalle enormi spese per il mantenimento della corte. L’aspetto negativo è la questione
finanziaria, data la cronica incapacità di sottoporre a tassazioni nobili e clero; quando il successore
di Luigi XV, il nipote Luigi XVI (1774-1792) cerca di imporle, tutti i suoi ministri sono costretti a
dimettersi a causa dell’opposizione dei ceti privilegiati. Non resta che colpire la proprietà
ecclesiastica, e in particolare nella lotta contro la Compagnia di Gesù v’è una montante campagna
di stampa che la addita come roccaforte dell’oscurantismo, del conformismo, della superstizione. Il
processo prende le mosse dal Portogallo dove, per ricostruire Lisbona dopo il maremoto (1755), lo
scialbo sovrano Giuseppe I (1750-1777) trova nel marchese di Pombal l’interprete di una politica
attiva: questi fa espellere i gesuiti dal regno e ne incamera le ingenti ricchezze (1759). L’esempio
portoghese è presto seguito dalle corti borboniche: Francia (1764), Spagna e Napoli (1767), Parma
(1768).
In Spagna, accanto alla polemica antigesuitica, Carlo III di Borbone (1759-1788), già re di Napoli
(1734-1759), in cui ha realizzato solo in campo artistico, vara un processo di ammodernamento
dell’antiquata amministrazione. Dopo la sua partenza per Madrid e l’ascesa al trono del figlio
Ferdinando IV (1759-1825), il regno di Napoli inizia a essere riformato grazie alla consorte Maria
Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella dell’imperatore Giuseppe II, che sostituisce
l’influenza asburgica a quella spagnola facendo leva sulla massoneria e su una pattuglia di uomini
di cultura. Maria Carolina espelle i gesuiti riorganizzando l’educazione scolastica, abolisce il
vincolo di vassallaggio nei confronti della Santa Sede, limita la proprietà ecclesiastica cercando di
favorire l’agricoltura della Basilicata e delle Puglie; semplifica il sistema doganale. La punta più
avanzata del riformismo meridionale si ha in Sicilia, dove la potenza feudale è duramente
contrastata dall’illuminata azione del viceré Domenico Caracciolo (1781-1786).
Se a Napoli non si esce dai limiti del giurisdizionalismo, le cose vanno similmente anche nell’altra
corte borbonica, il piccolo ducato di Parma e Piacenza. Qui regna un altro figlio di Elisabetta
Farsene, Filippo di Borbone (1748-1765) che ha sposato una figlia di Luigi XV. Significativa qui la
figura del primo ministro del ducato, il francese Guglielmo du Tillot. Essendo il ducato formale
feudo della Chiesa ed essendo la proprietà ecclesiastica predominante, du Tillot cerca di mettere
ordine nel caos delle esenzioni fiscali e dell’organizzazione amministrativa, ma non riesce a varare
la grande impresa del catasto e i suoi provvedimenti si limitano all’abolizione dei gesuiti e la
conseguente avocazione allo Stato delle scuole dei Padri. Du Tillot è costretto a lasciare il paese nel
1711 inm seguito alle pressioni esercitate sul nuovo duca, Ferdinando di Borbone (1765-1802) dalla
consorte Maria Amalia, figlia di Maria Teresa d’Asburgo.
La situazione nei “vecchi” Stati: Genova, Venezia, Roma
Nello Stato sabaudo, a Carlo Emanuele III (1730-1773) succede il figlio Vittorio Amedeo III (1773-
1796), refrattario all’esercizio del comando. Anche gli altri Stati “vecchi”, che non hanno cioè
conosciuto l’apporto di una nuova dinastia, presentano modesti cambiamenti.
Satellite politico della Francia, Genova ne subisce anche la forza d’attrazione culturale: qui i “lumi”
sono ben conosciuti. La presenza degli operatori finanziari liguri sui mercati internazionali trova
ancora spazio, ma politicamente la Repubblica è niente, come dimostra la cessione della Corsica
alla Francia nel 1768.
L’altra antica repubblica, Venezia, si rifugia nella neutralità. Non mancano riforme di stampo
illuministico, specie nel settore culturale ed economico. La spoliazione dei beni ecclesiastici
consente di reperire risorse, ma il vero problema della Serenissima è politico, è l’arcaicità della sua
costituzione di città-Stato che paralizza ogni disegno organico.
Il ducato di Modena offre qualche segno di intraprendenza economica, specie in campo agricolo,
grazie alla politica filoasburgica con Francesco III (1737-80) ed Ercole Rinaldo III (1780-96).
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Il contrasto tra vecchio e nuovo si manifesta a Roma. La politica pontificia è inquinata da una sorta
di rassegnazione: un gesto di fierezza è la soppressione della Compagnia di Gesù, decisa da
Clemente XIV (1773). La natura teocratica della Santa Sede paralizza le timide velleità riformatrici
in politica interna; le uniche riforme le realizza Pio VI: abolizione delle dogane interne con la
conseguente libera circolazione delle merci e bonifica delle paludi interne, peraltro a beneficio di
pochi latifondisti.
L’assolutismo prussiano
Federico II (1740-1786) eredita dal padre una Prussia discontinua; strappa la Slesia agli Asburgo
(1748) e, fra il 1756 e il 1763, sa resistere, senza alcun alleato, alla formidabile coalizione di
Austria, Francia e Russia. Quando tutte le potenze borboniche cacciano i gesuiti lui, ufficialmente
calvinista in realtà ateo e massone, li accoglie come insegnanti nelle sue scuole. Nel 1763 è il primo
in Europa a rendere obbligatoria l’istruzione elementare. Favorisce la libertà di stampa, abolisce la
tortura e la pena di morte, incentiva il commercio, l’industria e la colonizzazione delle province
orientali, ma soprattutto crea una burocrazia efficiente, di cui egli stessi si considera il primo
funzionario. Per far ciò si appoggia alla nobiltà (gli junkers). Rifonda l’Accademia delle Scienze di
Berlino e scrive l’Antimachiavelli, trattato politico in cui critica la ragion di Stato da cui trae
quotidiana ispirazione. La Prussia di Federico II nel 1786, all’indomani della sua morte), è
raddoppiata territorialmente: all’acquisto della Slesia si somma quello della Prussia occidentale
tranne Danzica, avvenuto nel corso della prima spartizione della Polonia.
La Russia di Caterina II
A Pietro III zar di Russia, vittima di una congiura di palazzo, succede la moglie Sofia di Anhalt,
tedesca, con il nome di Caterina II (1762-1796). La zarina riprende il programma di
modernizzazione interrotto con la morte di Pietro il Grande (1725). Caterina confisca i beni di metà
dei monasteri esistenti (1764) per la costruzione di un buon numero di scuole. Vara un progetto di
rinnovamento dei principali settori della società russa chiamando a raccolta oltre cinquecento
delegati in una sorta di assise costituente, la Semiramide del Nord (1767). La Russia è un paese
immenso e privo di ceti intermedi, di quella borghesia che rappresenta il raccordo collettivo e nerbo
dell’economia: così Caterina illude senza realizzare molto. Si possono ricordare la colonizzazione
(forzata) dell’Ucraina, la riforma amministrativa che divide il paese in cinquanta governatori;
rimane invece il giogo dei contadini che vedono inasprirsi il potere signorile, donde endemiche
rivolte rurali puntualmente seguite da feroci repressioni.
L’illuminismo senza riforme: l’Inghilterra
I paesi meno toccati dall’ondata riformatrice sono l’Inghilterra, madre conosciuta dell’Illuminismo,
e la Francia, che ne è il laboratorio. La causa dell’assenza della Gran Bretagna si ritrova
nell’esperienza maturata nelle precedenti rivoluzioni: l’Inghilterra ha decapitato il proprio re (1649)
e ha chiamato al trono un principe di una repubblica borghese come l’Olanda (Guglielmo d’Orange,
1688). Molte delle aspirazioni che animano i philosophes sono già recepite nell’Habeas corpus
(1679) e nel Bill of rights (1689): l’Inghilterra è forse il solo paese europeo con uno stretto rapporto
fra governanti e governati. Manca inoltre la burocrazia: l’amministrazione, a cominciare dalla
giustizia, è delegata alla gentry, piccola nobiltà di campagna. Questa peculiarità tutta inglese
significa la mancata realizzazione di uno Stato-macchina impersonale quale in Europa l’assolutismo
illuminato configura. Tale processo è facilitato dalla presenza di sovrani da altri paesi, estranei agli
intrighi di corte; sono due tedeschi: Giorgio I (1714-27) viene dall’Hannover e non conosce
l’inglese, suo figlio Giorgio II (1727-60) arriva a Londra trentenne e rimane di cultura tedesca; la
conduzione politica del regno è lasciata a Parlamento e primo ministro. Giorgio III (1760-1820)
vuole ridare prestigio alla corona proprio mentre si diffonde la protesta contro la rete di corruzione
che inquina il sistema elettorale. Ciononostante l’Inghilterra settecentesca è il paese più ricco e
vitale dell’Europa, con un impero che si estende su tutti i continenti. La scomparsa delle epidemie
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aumenta la popolazione da sei a dieci milioni di anime. Dopo il 1745 quasi la metà del naviglio
britannico è impegnato nel commercio con l’altra sponda dell’Atlantico. Il paese è al centro di uno
sviluppo economico impetuoso innestato da vari concause: grandi migrazioni, intensità di traffici,
innovazioni agronomiche, nascita dell’industria potentemente incentivata dalle invenzioni.
Paesi ai margini: Svezia, Polonia, impero ottomano
Nel 1722 il nuovo re di Svezia, Gustavo III (1771-1792), procede a una sorta di colpo di stato che
gli permette di governare con aumentati poteri. Le riforme che attua prevedono maggiore libertà di
commercio, abolizione della tortura e della censura sulla stampa. Egli è però assassinato da una
congiura di palazzo mentre sta meditando un intervento armato contro la Francia rivoluzionaria.
Il progressivo emergere della potenzia prussiana, austriaca e russa rende sempre più evidente, per
contrasto, l’intrinseca debolezza del regno di Polonia, regno-repubblica che l’esercizio del liberum
veto porta dritto alla paralisi. Nel 1763 Federico Augusto III muore lasciando il paese in balìa di un
interregno segnato dalle ingerenze delle corti straniere. L’anno dopo Stanislao Poniatowski (1764-
95) è eletto al trono, favorito della zarina Caterina II. Invano tenta di modificare quella costituzione
che prevedendo un re elettivo ne fa una sorta di presidente a vita, incontrando l’opposizione
nobiliare. A Poniatowski non resta che assistere alla scomparsa del proprio regno, smembrato in tre
riprese: nel 1772, 1793 e 1795. Beneficiari dell’operazione sono Russia (che si annette Lituania,
Volinia e Podolia), Prussia (che si prende Danzica e Varsavia) e Austria (che ottiene la Galizia). La
Polonia scompare dalla carta geografica (vi ricompare nel 1919 dopo la Prima Guerra Mondiale).
Anche l’impero ottomano attraversa una profonda crisi, la seconda metà del secolo è scandita da
continue guerre con Austria e Russia ed è un susseguirsi di sconfitte: nel 1774 col trattato di Cuciuk
Kainargi la Russia si annette la Crimea; nel 1775 l’Austria si prende la Bucovina, nei Carpazi;
quindi ancora guerra con Mosca: il collasso dell’impero ottomano è evitato grazie agli aiuti militari
e diplomatici della Francia, timorosa di un’eccessiva ingerenza russa fra le popolazioni ortodosse
dei Balcani e della Grecia. L’area balcanica vive in endemico ritardo, con un’agricoltura arretrata e
una struttura amministrativa precaria e limitata a pochi centri urbani.
20 – Questioni europee e conflitti coloniali: la guerra dei Sette anni e quella per
l’indipendenza americana
Le colonie francesi e inglesi in America e in India. L’Australia
Le colonie diventano ora non solo serbatoi di metalli preziosi ma anche derrate e altri prodotti
(cotone, zucchero, tabacco, caffè, cacao, schiavi) destinati al circuito mercantile. La nuova
competizione, ormai su scala globale, conduce a uno scontro fra Gran Bretagna e Francia, il cui
impero coloniale è a contatto con quello britannico in America (Canada, Antille) e in India (Golfo
del Bengala). Il continente nord-americano si presenta così: a sud Messico e Florida appartengono
alla Spagna; la costa atlantica fra Georgia e il Maine, con New York e Boston, è inglese; il resto
spetta alla corona francese. Per i francesi importanti sono le isole caraibiche, perché forniscono
prodotti di lusso e per il loro più facile accesso. Al Nord la loro presenza è limitata a poco
commercio con gli indiani, alla caccia e alla pesca. Gli insediamenti britannici sono molto più
popolati: i coloni in America vogliono rifarsi una vita, coltivano la terra e sui porti esercitano il
commercio, senza svolgere opere di evangelizzazione dei nativi. Il contrasto tra Francia e
Inghilterra si ripropone anche in India. Perno delle attività sono le due entità commerciali, la
Compagnie des Indes e la East India Company, che ricavano profitti dall’importazione di cotone e
spezie. Alla fine degli anni Quaranta Dupleix, nuovo governatore della Compagnie, instaura stretti
rapporti coi sovrani locali realizzando una penetrazione economico-militare francese verso i paesi
interni, ripercuotendosi ciò sugli equilibri con gli insediamenti inglesi: si viene alla guerra (non
dichiarata) tra i francesi di Dupleix e gli inglesi del governatore Clive che ha la meglio con la
conquista di Calcutta (1757) e quella del Bengala, costituendo la premessa dell’egemonia britannica
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francese (ovvero tutta l’America del nord, 1763). I coloni, finalmente liberi dalla paura dei francesi,
non ritengono più necessaria la protezione della madrepatria. Da un lato vi sono le colonie “regie”,
dipendenti direttamente dalla corona inglese, dall’altro quelle “di proprietà”, nate da concessioni di
tipo feudale volute dal re a favore di singoli beneficiari. Nel nord America il feudalesimo non
attecchisce mai: è un paese caratterizzato da forte mobilità sociale, anche a causa della presenza
psicologica della “frontiera”. Nella zona settentrionale, al confine col Canada, vi sono gli
insediamenti puritani della “New England” (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island e New
Hampshire), i cui abitanti sono piccoli proprietari terrieri; a sud, verso la Florida, Georgia, Virginia,
le due Caroline, Maryland e Delaware sono segnate dal latifondo e vi si coltivano tabacco, cotone e
caffè per mezzo degli schiavi; al centro (New York, New Jersey, Pennsylvania) economia e società
fanno propri i caratteri delle colonie del nord con una decisiva prevalenza dell’interscambio
commerciale con l’Inghilterra e del contrabbando con le Antille spagnole e francesi. Dopo la
vittoria sui franco-ispani il primo ministro, lord Grenville, innalza le imposte e proibisce la
colonizzazione dei territori oltre i monti Appalachi per evitare conflitti con gli indigeni (questa
disposizione viene sistematicamente violata). Gli “americani” iniziano a sollevare il principio della
no taxation without representation (nel Parlamento londinese). In pochi anni nei territori della costa
atlantica l’autorità dei governatori è contestata come illegale e sostituita da assemblee locali, mentre
i funzionari regi sono boicottati. Nel 1770 il Parlamento revoca i provvedimenti tranne la tassa sul
tè: gli americani rispondono col Tea party di Boston (1773) gettando carico di tè inglese a mare. Nel
1774 re Giorgio dichiara ribelli le colonie e si giunge allo scontro armato di Lexington (1775): a
fine anno il governo inglese decreta il blocco navale delle tredici colonie. È la guerra. Gli insordi
affidano il comando dei volontari a George Washington (1732-1799) mentre il Congresso
continentale, riunitosi a Filadelfia, approva una Dichiarazione d’indipendenza (1776) stilata da
Thomas Jefferson, con cui le colonie si proclamano “Stati liberi e indipendenti”: il documento è un
ragionamento serrato, semplice e chiaro, di evidente matrice illuministica con qualche influenza
massonica. Tuttavia la vittoria dei coloni si deve al determinante ingresso di Francia e Spagna
(dovuto all’opera diplomatica del tipografo bostoniano Benjamin Franklin).
L’intervento franco-spagnolo e la conclusione della guerra
Nel 1778 la Francia interviene a favore degli insorti, anticipando di un anno la Spagna. Il movente
principale è la rivincita nei confronti dello scacco subito quindici anni prima con la guerra dei Sette
anni. Nel 1781 le truppe britanniche di Cornwallis si arrendono a quelle di Washington e
Rochambeau (francese) in Virginia. La pace è firmata a Versailles (1783): le tredici colonie vedono
riconosciuta la loro indipendenza e ottengono l’immensa regione fino al Mississipi; la Francia
riottiene il Senegal e qualche isola nelle Antille, la Spagna Minorca e la Florida, ma non l’agognata
Gibilterra (tuttora inglese). Per la Francia è uno tremendo scacco. Acquisita l’idea
dell’indipendenza, fra Inghilterra ed ex coloni scatta una sorta di naturale tacita solidarietà.
La nascita degli Stati Uniti d’America e il loro assetto politico
La rivolta vittoriosa delle colonie americane è percepita in Europa come una particolarità tutta
britannica, vista come difficilmente esportabile nel vecchio continente. Alcune importanti divisioni
rimangono. Gli ex coloni sono divisi fra loro dal punto di vista religioso, etnico e politico: dal
conflitto sono sorti tredici Stati indipendenti e sovrani, ognuno con le sue prerogative, leggi,
tribunali e monete (solo nel 1793 si adotta come divisa comune il dollaro); l’anelito alla libertà è
riservato ai bianchi, la Dichiarazione non parla di uomini di pelle rossa o nera. Nascono così due
formazioni politiche: i federalisti, guidati da Hamilton, favorevoli a un potere centrale forte da
realizzarsi mediante delega di parte di sovranità da parte dei singoli Stati; e i repubblicani (non
l’odierno partito negli USA) che con Thomas Jefferson vagheggiano una concezione arcaica della
società, costituita da piccole comunità rurali nell’ambito di Stati indipendenti. I federalisti sono la
maggioranza a nord, i repubblicani a sud. Prevale la prima linea (Convenzione di Filadelfia, 1787)
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sancita dall’elezione del primo presidente degli Stati Uniti d’America in George Washington, l’eroe
della guerra d’indipendenza, che assume il potere nel 1789. La nuova costituzione realizza la
tripartizione dei poteri di Montesquieu, con un presidente a capo dell’esecutivo, un Congresso
depositario del potere legislativo e articolato in una Camera dei rappresentanti con membri eletti
proporzionalmente al numero degli abitanti dei singoli Stati, e un Senato che invia al Congresso due
esponenti per Stato, indipendentemente dalla sua popolazione; il potere giudiziario è delegato alla
Corte suprema, chiamata anche a decidere sulla costituzionalità delle leggi. Il presidente dura in
carica quattro anni ed è dotato di forti poteri, può scegliere i ministri ed è capo delle forze armate: il
presidente degli Stati Uniti finisce per ritrovarsi dotato di poteri addirittura superiori a quelli del re
d’Inghilterra. L’esempio politico che il mondo offre nei secoli XVIII e XIX è quello della struttura
coloniale, mentre i tredici Stati “fondatori” elargiscono ai nuovi territori le stesse prerogative che si
sono conquistati attraverso una dura guerra.
21 – La Rivoluzione francese
La fine dell’antico regime e gli albori della contemporaneità
Nel 1788 Luigi XVI convoca gli Stati generali per l’anno successivo; il 1799 un colpo di stato porta
al potere Napoleone. «Il risultato più importante della Rivoluzione francese fu il costituirsi di una
cultura politica completamente nuova» (Hunt): regole istituzionali (elezioni e rappresentanza),
strumenti (partiti, opinione pubblica, mezzi di propaganda, violenza), aspetti simbolici (retorica,
gesti, rituali, abbigliamenti, feste) fanno del decennio della Rivoluzione il primo esempio compiuto
di modalità di partecipazione di strati sempre più vasti e differenziati di popolazione che rimangono
validi ancor oggi.
Gli Stati generali
Il regno di Luigi XVI (1774-93) è iniziato in una fase difficile dell’economia francese e di
malessere popolare per l’aumento dei prezzi e la pressione fiscale. Jacques Turgot (1727-81),
controllore generale delle finanze dal 1774, fa la scelta di stampo fisiocratico di decretare la libertà
di commercio dei grani e delle farine all’interno del regno e la libertà di importazione e di spostare
sulla rendita agraria la tassazione, provocando tale risentimento sia popolare sia della nobiltà agraria
che la sua esperienza ministeriale si chiude due anni dopo. Lo sostituisce il banchiere ginevrino
Jacques Necker (1732-1804) che cerca di tagliare pesantemente le spese pubbliche con l’abolizione
di molti uffici superflui e riportando nella gestione diretta dello Stato le imposte sui consumi; fa
ricorso massiccio al credito caricando l’amministrazione di interessi passivi: il sui licenziamento
(1781) è dovuto all’inusuale pubblicazione del bilancio statale, con la rivelazione delle pensioni e
dei privilegi dei nobili. Il nuovo controllore generale, Charles-Alexandre de Calonne, prospetta al re
una soluzione radicale: una nuova imposta fondiaria, proporzionale alla rendita, per cui non siano
previste esenzioni nobiliari. La convocazione di un’assemblea di notabili fa di questa élite la
colonna portante della svolta: il tentativo fallisce perché i notabili convocati da Luigi XVI (1787)
respingono il progetto. Calonne è sostituito da Étienne-Charles Loménie de Brienne, arcivescovo di
Tolosa, ma neppure lui riesce a far approvare la cosiddetta “sovvenzione territoriale”.
Assieme alle sue dimissioni e al richiamo in servizio di Necker il re annuncia nel 1788 la
convocazione degli Stati generali. Emerge la richiesta di valorizzazione delle assemblee elettive con
poteri reali nei confronti della monarchia; il Terzo stato chiede uguaglianza giuridica, abolizione dei
privilegi e della venalità delle cariche con il riconoscimento del principio del merito individuale. Il
5 maggio 1789 si riuniscono a Versailles gli Stati generali ma rimane aperto il problema della
modalità di votazione: per ordini (con Terzo stato destinato all’ininfluenza) o per teste. Il 17 giugno
il Terzo stato si riunisce con il nome di Assemblea nazionale e i deputati giurano di non separarsi
più fino all’adozione di una Costituzione. Con l’adesione della nobiltà (9 luglio) l’assemblea prende
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“destra” e “sinistra” non è un anacronismo, fa riferimento alla disposizione dei deputati nell’aula). Il
disagio economico fa intanto crescere le agitazioni popolari. Sul versante internazionale si
appuntano le strategie, opposte nei fini ma convergenti nella scelta tattica, del re e dei Girondini
(sostenuti anche da La Fayette): l’entrata in guerra contro Austria e Prussia. Il re (da quella che
ritiene un’inevitabile sconfitta) cerca di ottenere col consenso straniero il ripristino
dell’assolutismo; dalla mobilitazione popolare, i Girondini pensano di rafforzare le ragioni della
Rivoluzione e contemporaneamente di allentare le pericolose tensioni sociali interne; fermamente
contrari alla guerra sono i Giacobini di Robespierre, che puntano a rafforzare l’azione popolare in
campo politico e sociale. Il 20 aprile 1792 la guerra è dichiarata e si apre con una serie di rovesci
francesi (è appena morto Leopoldo II e imperatore sta per essere incoronato Francesco II, il nipote
di Maria Antonietta, moglie del re: il re è sospettato di intelligenza con il nemico). Guidate dai
Giacobini, il 10 agosto 1792 le sezioni di Parigi insorgono, costituiscono una nuova municipalità
rivoluzionaria, prendono d’assalto Le Tuileries: il re si rifugia presso l’Assemblea legislativa che
vota la sua sospensione e lo imprigiona. Viene convocata una nuova assemblea: la Convenzione.
L’abolizione della monarchia, la Repubblica in armi, il Terrore
Le elezioni si svolgono in una clima di tensione; l’avanzata delle truppe nemiche, che minacciano la
stessa Parigi, le stragi di nobili e di detenuti ad opera dei sanculotti (né nobili né ricchi) esasperati,
l’istituzione da parte del Comune di un tribunale rivoluzionario e la soppressione della libertà di
stampa. Al voto i Girondini hanno la maggioranza relativa con circa 200 rappresentanti, ma il
gruppo dei Montagnardi (sostenuto da Giacobini, Cordiglieri, Comune e sanculotti) è numeroso e
aggressivo; c’è poi l’indefinita Palude. La Convenzione si insedia il 20 settembre 1792, proprio
mentre giunge la notizia della vittoria sui Prussiani a Valmy; il 21 decreta all’unanimità la
decadenza della monarchia e dal 22 settembre prende avvio la Repubblica, «una e indivisibile» con
impostazione centralistica, opposta al modello federalista degli Stati Uniti. Dal dicembre prende
avvio il processo al re. La scoperta di documenti a prova dell’intesa col nemico porta alla condanna
per altro tradimento: Luigi XVI sale sulla ghigliottina il 21 gennaio 1793 (la regina Maria
Antonietta subisce la stessa sorte il successivo 16 ottobre).
L’esecuzione del re accentua l’ostilità delle potenze straniere, anche perché dopo clamorose vittorie
contro gli austriaci (9 novembre 1792) la Francia ha conquistato il Belgio. Liberté, égalité,
fraternité: il motto della rivoluzione diventa il supporto della guerra rivoluzionaria della Repubblica
contro le maggiori potenze europee. Il 1° febbraio 1793 la Convenzione dichiara guerra a Gran
Bretagna e Olanda, il 7 marzo alla Spagna. La rottura con la Santa Sede è diventata definitiva con
l’uccisione a Roma del segretario dell’ambasciata francese Hugo de Bassville a opera di una folla
aizzata contro i principi della rivoluzione. Attorno all’Inghilterra si allarga la coalizione antifrancese
(“Prima coalizione”) con l’adesione del regno di Napoli di Ferdinando IV, del regno di Sardegna,
del Portogallo, della Russia; anche Toscana e Repubblica di Venezia rompono le relazioni
diplomatiche con la Francia. L’esercito rivoluzionario va incontro a una serie di rovesci; lo stesso
generale, filomonarchico, tradisce e passa all’Austria (4 aprile). Nel marzo è scoppiata in Vandea –
contro la leva obbligatoria e in difesa della religione tradizionale – il moto contadino
controrivoluzionario, presto represso.
A Parigi, nella primavera del ‘93, sono in corso agitazioni contro il carovita. La Convenzione
reagisce istituendo un tribunale rivoluzionario contro i sospetti e forma poi il Comitato di salute
pubblica (6 aprile) per vigilare sull’azione dell’esecutivo; il 4 maggio si vota il calmiere
(“maximum”) che stabilisce i prezzi dei grani per ciascun dipartimento. Si fanno sempre più
irresistibili le richieste estremistiche di misure spietate contro aristocratici e “affamatori del popolo”
da parte di sanculotti e cordiglieri, guidati da Hébert. Una nuova costituzione (25 giugno 1793) di
carattere democratico incorpora i principi dichiarati nell’agosto dell’89 aggiungendo il diritto alla
sussistenza, al lavoro, all’istruzione e all’insurrezione. Approvata da un plebiscito, la costituzione
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non entra mai in vigore. Il Comitato di salute pubblica fino al luglio ‘94 esercita una sorta di
dittatura: il 5 settembre 1793 viene messo «all’ordine del giorno il terrore» e la ghigliottina prende a
funzionare a ritmi serrati contro i “nemici del popolo” e i sospetti (177 esecuzioni tra ottobre e
dicembre, fra cui quella della regina Maria Antonietta, 16 ottobre). Questo è il momento
dell’introduzione del sistema metrico decimale con l’abolizione delle tradizionali unità di misura e
della riforma del calendario: l’anno I inizia dal 22 settembre 1792, proclamazione della Repubblica.
All’inizio del 1794 Robespierre, l’incorruttibile, domina la situazione e lancia un duplice attacco:
contro la sinistra di Hébert e contro i cosiddetti indulgenti di Danton. Per Hébert e il gruppo a lui
più vicino, dopo un processo sommario scatta la ghigliottina (24 marzo); stessa sorte per Danton. Il
trionfo politico di Robespierre si converte presto nel suo indebolimento sociale (la perdita del
sostegno dei sanculotti) e anche l’imposizione del culto dell’«Ente supremo» gli attira ulteriori
inimicizie. Il Terrore si intensifica: le esecuzioni causano circa 50.000 vittime.
La svolta del Termidoro, il Direttorio, il colpo di stato del Fruttidoro
Il 9 termidoro (27 luglio) 1794 un complotto interno al Comitato di salute pubblica porta all’arresto
di Robespierre, ghigliottinato il giorno dopo. I giacobini sono eliminati dai comitati di governo, i
loro club chiusi. Un senso di sollievo pervade la Francia e in alcune province vi è un’ondata di
“terrore bianco” controrivoluzionario. La svolta termidoriana pone le basi per il ritorno in sicurezza
del territorio nazionale e delle conquiste in Belgio, Olanda e Catalogna; una serie di accordi di
tregua vengono firmati, a cominciare da quello con la Prussia, impegnata in Polonia, con l’Olanda e
con la Spagna, mentre non giungono a conclusione quelle con l’Austria (per la questione dei Paesi
Bassi). I cattivi raccolti e le speculazioni fanno aumentare i prezzi dei generi di prima necessità: i
sanculotti invadono l’aula della Convenzione (20 maggio 1795) invocando «pane e la costituzione
del 1793» ma sono respinti senza ottenere risultati, anzi le sezioni parigine vengono disarmate e la
capitale affidata all’esercito. La Costituzione dell’anno III – adottata il 22 agosto – segna una
conferma dei diritti dell’89 ma un passo indietro rispetto al taglio democratico del ‘91: essa prevede
un diritto di voto su base censitaria con l’obbligo di scegliere due terzi dei 750 deputati delle
camere (dei Cinquecento e degli Anziani) tra i membri della Convenzione. Sul totale dei rapporti di
forza i deputati monarchici sono 158, i repubblicani 305 e i termidoriani, i più attivi e organizzati,
226. Il potere esecutivo è posto nelle mani del Direttorio di cinque membri (tra cui Barras, Carno e
Reubell). A sostegno del Direttorio ci sono le forze moderate e i borghesi della repubblica, fra cui
molti proprietari, finanzieri, imprenditori, fornitori dell’esercito e truppe regolari. La Convenzione
si scioglie il 26 ottobre, sostituita dalle nuove camere, e nei giorni successivi si insedia il Direttorio
(il 5 ottobre Napoleone Bonaparte, per ordine di Barras, ha difeso la Convenzione schiacciando
militarmente la sollevazione realista di Parigi). Si scopre, il 10 maggio 1795, la Congiura degli
eguali, organizzata da alcuni montagnardi, che prevede l’abolizione della proprietà privata e una
sorta di utopico “comunismo della distribuzione”, mantenendo le regole corporative di produzione.
Babeuf e gli altri capi della congiura sono ghigliottinati. Nel febbraio 1797 crolla definitivamente il
sistema degli assegnati e si torna alla prevalenza della moneta metallica: le classi popolari e i ceti a
reddito fisso pagano pesantemente l’inflazione. Le elezioni del marzo ‘97 per il rinnovo di un terzo
delle camere segnano un trionfo dei monarchici. La maggioranza del Direttorio, sotto la guida di
Barras, con l’aiuto dei generali repubblicani realizza un colpo di stato (17 fruttidoro, 4 settembre):
Parigi è occupata dall’esercito, i risultati delle elezioni sono annullati e nel maggio dell’anno
seguente i deputati monarchici più estremisti sono destituiti. La Repubblica è salva, ma sempre più
nelle mani delle forze militari.
La conduzione della guerra, la campagna d’Italia e il triennio rivoluzionario
Agli inizi del 1796 l’Austria e il regno di Sardegna rimangono le potenze più direttamente
impegnate contro la Francia rivoluzionaria, mentre l’Inghilterra è più defilata. Si decide una duplice
spedizione militare: in territorio tedesco e in territorio italiano (qui con la piccola e mal
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equipaggiata armata agli ordini del generale Napoleone Bonaparte, 2 marzo 1796). Bonaparte in tre
giorni sconfigge i piemontesi a Montenotte e Dego e gli austriaci a Millesimo. Poi ancora i
piemontesi a Mondovì costringendo Vittorio Amedeo III all’armistizio di Cherasco (28 aprile) e alla
pace di Parigi (15 maggio) che conferma il possesso francese di Savoia e Nizza. Il 15 maggio
Napoleone entra trionfalmente a Milano: il 2 febbraio 1797 prende anche Mantova. Il papa Pio VI è
costretto a firmare la pace di Tolentino (19 febbraio) con la quale paga un pesante contributo
finanziario, rinuncia ai diritti di Avignone e del contado Venassino, perde le tre delegazioni della
Romagna e accetta l’occupazione di Ancona. Nel marzo Napoleone valica le Alpi e giunge a cento
chilometri da Vienna: l’Austria è costretta a firmare i preliminari di Leoben (17 aprile) poi
perfezionati nel trattato di Campoformio (17 ottobre 1797): la millenaria Repubblica di Venezia è
ceduta agli austriaci che perdono definitivamente Belgio e Lombarda a vantaggio della Francia.
L’arrivo dell’armata napoleonica apre per l’Italia il triennio rivoluzionario. Napoleone fa leva sui
malesseri generati da un antico regime ormai agonizzante e sulle istanze di rinnovamento radicale
che cominciano a prendere corpo: nel dicembre 1796 viene creata in Emilia la Repubblica
cispadana; nel giugno 1797 si formano la Repubblica ligure e, sui territori occupati della
Lombardia, la Repubblica cisalpina. Quando le truppe entrano a Roma (febbraio 1798) proclamano
la Repubblica romana, depongono Pio VI deportando in Toscana e poi in Francia dove muore
prigioniero l’anno dopo. Nel novembre ‘98 Ferdinando IV e Maria Carolina, spinti dagli Inglesi,
inviano truppe contro la Repubblica romana ma l’esercito borbonico viene sconfitto; a Napoli si
forma la Repubblica Napoletana o Partenopea (23 gennaio 1799). Nei primi mesi del ‘99 il
Piemonte viene annesso alla Francia e la Toscana (Granducato e Repubblica di Lucca) è occupata
dalle truppe francesi. Le costituzioni delle repubbliche italiane, chiamate in seguito “giacobine”,
sono modellate su quella francese del 1795. La Francia preferisce appoggiarsi alla vecchia nobiltà e
alla borghesia moderata, e le repubbliche non sono mai davvero indipendenti a causa dell’eccessiva
ingerenza francese nelle nomine e decisioni importanti. Moti legittimisti e “sanfedisti” (in difesa
della religione tradizionale), le cosiddette insorgenze, si verificano nella penisola; con la vittoria di
Napoleone a Marengo (14 giugno 1800) le forze francesi hanno rapidamente ragione delle
insorgenze e riprendono il controllo dell’Italia. Ma nella primavera e nell’estate del ‘99 le
Repubbliche giacobine sono cadute scontando la loro grande fragilità.
La spedizione in Egitto e il colpo di stato del 18 brumaio
Napoleone, rientrato a Parigi dopo i trionfi italiani, prende atto dell’impossibilità di un attacco
diretto all’Inghilterra e propone la spedizione in Egitto allo scopo di minacciare i possedimenti
inglesi in India. In segreto il 19 maggio 1798 parte da Tolone una forte squadra navale: conquistata
Malta la flotta sbarca Bonaparte ad Alessandria dirigendosi poi nell’Egeo. Il generale sconfigge
l’esercito mamelucco alle Piramidi e conquista il Cairo (21 luglio) per dirigersi poi verso la Siria. Il
1° agosto l’arrivo inaspettato di una flotta inglese sorprende la marina francese nella rada di Abukir,
affondandone quasi tutte le navi. Allarmato dalla guerra scoppiata in Europa, alla fine di agosto
1799, dopo aver sconfitto le truppe turche in Siria, Bonaparte abbandona l’armata e si imbarca per
la Francia. Nel dicembre 17989 il nuovo zar Paolo I (1796-1801) ha accolto l’invito inglese e
aderito alla “seconda coalizione”, assieme ad Austria e Turchia (intanto sul territorio francese
l’azione del Direttorio è sempre più osteggiata).
All’alba del 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799) Siéyes (Direttorio) convoca Anziani e
Cinquecento e, col pretesto del pericolo di un complotto monarchico, convince i consigli a spostarsi
a Saint-Cloud scortati dall’esercito. Il colpo di stato riesce e prende perfino una forma legale in una
seduta organizzata la sera del 19 brumaio: il Direttorio viene abolito, così come le due assemblee;
tutto il potere è demandato ai tre Consoli Siéyes, Ducos e Napoleone Bonaparte. La costituzione
(dell’anno VIII) approvata un mese dopo conferma l’architettura istituzionale e nomina «“primo
console” il cittadino Bonaparte» con poteri quasi assoluti; secondo e terzo console sono Jean-
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Jacques-Regis de Cambacérès, che avrà parte nella stesura del codice civile, e Charles-François
Lebrun, poi governatore della Liguria e responsabile dell’annessione dell’ex regno d’Olanda.
22 – L’Europa di Napoleone
Napoleone, figlio della Rivoluzione e imperatore
Napoleone, di origini italiane, nasce in Corsica (1769). La nascita del Direttorio, l’amicizia e la
protezione di Barras ne segnano l’avvio dell’ascesa. Nel 1796 sposa la creola Joséphine Tascher de
la Pagerie e ottiene la nomina a comandante generale dell’armata d’Italia. «Napoleone fu figlio
della Rivoluzione, […] da essa ricevette in eredità lo strumento dei suoi trionfi, l’esercito»
(Criscuolo).
Il Consolato: accentramento del potere, stabilità sociale, pacificazione internazionale
Coadiuvato da un organismo tecnico di sua nomina, il Consiglio di Stato, il primo console gode
anche del diritto di proporre leggi. Tre assemblee sono deputate alla loro approvazione: il Tribunato
le discute, il Corpo legislativo le vota, il Senato ne controlla la costituzionalità. Prende forma un
governo personale e dittatoriale che trova giustificazione teorica nella riflessione di un gruppo di
idéologues tardo illuministi, e ricava sostegno sociale dal plebiscito. Quello del 1802 acclama
Napoleone console a vita; intanto il Senato approva una modifica costituzionale che conferisce al
primo console il potere di designare il proprio successore. Napoleone impone stretti controlli sulla
stampa e sulla vita culturale con l’allontanamento di figure come la figlia di Necker, Madame de
Staël. Una congiura monarchica appoggiata dall’Inghilterra è sventata (1804) e fornisce l’occasione
per un’azione repressiva: viene rapito e ucciso il duca di Enghien dei Borboe-Condé, emigrato nel
neutrale Baden ed estraneo alla congiura. La riforma amministrativa si fonda sulla figura chiave del
prefetto, rappresentante del governo nei singoli dipartimenti, che risponde direttamente al primo
console e ha la funzione politica di controllare le possibili opposizioni. Al rafforzamento dello Stato
centrale contribuisce lo sviluppo di una potente burocrazia; sono istituiti i licei (ridimensionando
così la propensione verso l’insegnamento scientifico e tecnico che ha caratterizzato le scuole della
Convenzione, creando un’istituzione giunta fino a noi). La riscossione dei tributi affidata ai
funzionari statali favorisce il raggiungimento del pareggio di bilancio (1802); il sistema monetario
si assesta con la creazione della Banca di Francia (1800) e la coniazione del “Franco germinale”
(1803). Sul piano militare Napoleone apre la strada alla pace con l’Austria (Luneville 1801)
costretta a riconoscere la Repubblica cisalpina e a cedere definitivamente i territori della riva
sinistra del Reno; sono annessi Piemonte, Parma e Piaceza, l’Elba, Piombino e viene creato in
Toscana il Regno d’Etruria; la Cisalpina viene trasformata nella Repubblica italiana (1802) con
presidente lo stesso Bonaparte. Il cambio di governo in Inghilterra, con le dimissioni del primo
ministro William Pitt il Giovane, apre la strada della pace: il trattato di Amiens (1802) prevede il
riconoscimento inglese delle conquiste di Napoleone in Europa, la restituzione da parte della
Francai dell’Egitto all’impero ottomano e, da parte inglese, la riconsegna di Malta ai cavalieri
dell’ordine di san Giovanni. Nel 1801 si raggiunge un concordato con la Santa Sede sotto il nuovo
papa Pio VII: le diocesi sono ridotte di numero, i vescovi sono proposti dal Primo Console e
consacrati dal pontefice, e hanno la facoltà di nominare i parroci, il clero riceve lo stipendio dallo
Stato mentre la Chiesa rinuncia ai beni ecclesiastici alienati. Il codice civile (1804), come i
successivi codici napoleonici (di commercio nel 1807, penale e di procedura civile e penale nel
1810) disciplina per la prima volta in modo organico tutti i settori del diritto civile sulla base dei
principi e delle conquiste dell’89: abolizione dei diritti feudali, libertà civili, difesa della proprietà.
Si mantiene il divorzio e si aboliscono i privilegi della primogenitura sulla linea del pensiero
economico di stampo liberistico affermatosi alla fine del XVIII secolo. La patria potestà del codice
napoleone fornisce poteri al pater familias tali renderlo un piccolo “primo console” in miniatura.
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Napoleone). La Spagna è persa anche dal punto di vista militare dopo che la Costituzione di tipo
liberale votata dalle Cortes a Cadice (1812) ha dato un segnale forte in direzione della monarchia
costituzionale e del riconoscimento del cattolicesimo come religione di stato. Protetta
dall’Inghilterra, anche la Sicilia ha approvato un’analoga costituzione sorretta dagli ideali di libertà
e indipendenza (propri della Rivoluzione). Sul fronte russo il giovane zar Alessandro I (1801-25) ha
ripreso una politica espansionistica dal 1809 con la conquista di Finlandia e l’annessione di
Georgia, Bessarabia e Azerbaigian a spese della Turchia. Nel 1812 Russia e Svezia firmano un
trattato di alleanza. Napoleone concentra allora sull’Oder e sulla Vistola un esercito fornito per metà
anche dalle alleata Austria e Prussia. La “grande armata” inizia l’invasione della Russia. La
strategia russa di rifiutare lo scontro aperto creando attorno a Napoleone terra bruciata si rivela
vincente: la grande armata avanza con difficoltà crescenti nei rifornimenti. Il primo vero scontro
campale è quello di Borodino, alle porte di Mosca: la vittoria apre all’armata francese la via del
Cremlino ma un vasto incendio, che distrugge i magazzini dei rifornimenti, costringe Napoleone
alla ritirata; l’inverno russo, la campagna devastata e gli attacchi improvvisi dei cosacchi decimano
l’esercito napoleonico. Quando, nel 1813, lasciata la grande armata nella tragica ritirata, Napoleone
rientra a Parigi, deve affrontare una situazione europea in rapido mutamento. Federico Guglielmo di
Prussia si allea con lo zar e proclama la «guerra di liberazione», la Spagna è ormai persa, l’Austria
entra nella sesta coalizione con Inghilterra, Russia, Prussia e Svezia. Napoleone rientra in Germania
vincendo le prime scaramucce ma la battaglia finale, la sanguinosa “battaglia delle nazioni” si
svolge vicino a Lipsia (1813) e lo vede duramente sconfitto, anche per il passaggio dalla parte del
nemico della Baviera e delle truppe della Sassonia e del Württemberg. Olanda e Svizzera si sono
ribellate mentre, in Italia, il viceré Eugenio è costretto a ritirarsi premuto dall’avanzata di un
esercito austriaco, e lo stesso re di Napoli Gioacchino Murat tratta con l’Austria e aiuta gli alleati
contro il Regno d’Italia. Appreso che il Congresso di Vienna è orientato a ripristinare sul trono di
Napoli Ferdinando IV, Murat dichiara addirittura guerra all’Austria e col proclama di Rimini (1815)
cerca inutilmente di raccogliere attorno a sé gli Italiana promettendo unità e indipendenza. Sconfitto
dagli Austriaci a Tolentino si rifugia in Corsica da cui organizza una spedizione alla conquista del
Reno, ma è catturato e fucilato dalle truppe borboniche. Nel 1814 la Francia è ormai del tutto
isolata. Le forze inglesi di Wellington, l’armata austriaca di Schwarzenberg e quella prussiana di
Blücher sono in grado di marciare su Parigi. Il proclama del 1813 richiede alla nazione francese di
separarsi dal destino di Napoleone; lo stesso corpo legislativo vota una mozione che impegna
Napoleone a continuare la guerra solo per la difesa della nazione. Ma l’imperatore rifiuta tentando
l’ultima impresa. Lo zar Alessandro I e il re di Prussia Federico Guglielmo III entrano a Parigi
(1814) alla testa delle truppe austriache mentre Napoleone difende Fontainebleau dove intende
resistere. Il Senato decreta la sua decadenza e lo stesso imperatore è convinto ad abdicare in favore
del figlio. Il Senato richiama sul trono un Borbone, Luigi XVIII, fratello del re ghigliottinato dalla
Rivoluzione, e propone una costituzione simile a quella del 1791 mirando a instaurare una
monarchia parlamentare. Ma il re sceglie la strada della “graziosa concessione” di una costituzione
che non incrini il potere regalo. Il trattato di Fontainebleau concede a Napoleone l’isola d’Elba e per
la moglie e il figlio la sovranità del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. Comincia subito il
rientro dei “legittimi sovrani”: papa Pio VIII rientra a Roma e in possesso dei suoi Stati; si
ricostituisce la Repubblica di Ginevra; Ferdinando VII torna sul trono di Spagna; gli Orange
prendono possesso del Regno dei Paesi Bassi; Vittorio Emanuele I siede di nuovo a Torino e
Ferdinando III a Firenze. Napoleone fugge dall’esilio elbano e sbarca in Costa Azzurra: entra a
Parigi mentre Luigi XVIII fugge in Belgio. Con un esercito limitato entra in Belgio, sconfigge i
prussiani di Blücher a Ligny e lancia al loro inseguimento Grouchy, mentre attacca Wellington nella
piana di Waterloo. Le truppe di Blücher, sfuggite all’inseguimento francese, giungono a rompere
l’equilibrio e Napoleone subisce la sua ultima sconfitta: 18 giugno 1815. Rientrato a Parigi, di
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fronte all’ostilità della Camera dei rappresentanti, abdica in favore del figlio. Per il suo esilio si
sceglie l’isola di Sant’Elena: vi sbarca nel 1815 e vi muore nel 1821.
23 – Verso il Risorgimento
Il Congresso di Vienna e il nuovo assetto politico dell’Europa (1815)
Nel 1814 si apre a Vienna un convegno internazionale, che dura fino al 1815, per ridisegnare la
carta politica dell’Europa: si torna al 1789, gli antichi sovrani sono ripristinati sulla base del
principio di legittimità. I negoziati sono condotti dalle potenze vincitrici: Gran Bretagna, Russia,
Prussia e Austria. Il ministro degli Esteri austriaco, il principe di Metternich, e quello inglese, sono
determinanti nelle trattative diplomatiche, nelle quali si inserisce il rappresentante francese
Talleyrand (vescovo al tempo dell’ancien régime, esponente dell’Assemblea Nazionale del 1790 e
poi ministro degli Esteri dal Direttorio a Luigi XVIII) che riesce a separare la responsabilità della
Francia dai diritti dei Borbone, prestandoli come vittime dei soprusi rivoluzionari. Il Congresso (cui
va ascritto il merito dell’abolizione della tratta degli schiavi) si basa su tre principi:
- legittimità, ossia pieno riconoscimento dei diritti delle dinastie spodestate da Napoleone;
- equilibrio internazionale, sostenuto in particolare dalla Gran Bretagna;
- intervento, ossia facoltà delle grandi potenze di intervenire ovunque si verifichino nuovi tentativi
rivoluzionari.
L’ultimo punto non è accolto dalla Gran Bretagna, ma è sancito dalla Santa Alleanza (1815) fra
Prussia, Russia e Austria, impegnate a una mutua collaborazione (ispiratore del provvedimento è lo
zar Alessandro). La Russia conserva Finlandia e attuale Moldavia, la Polonia è costituita in regno
formalmente autonomo ma unito alla corona dello zar Alessandro I. La Prussia ottiene la Pomerania
già svedese e la Vestfalia, a ridosso del Belgio. Gli Stati tedeschi (39) sono uniti nella
Confederazione germanica sotto la presidenza dell’Austria che riacquista tutti i territori perduti e
cede all’Olanda il Belgio ottenendo in cambio i territori dell’ex repubblica di Venezia, che, uniti alla
Lombardia, danno vita al regno Lombardo-Veneto. La Gran Bretagna riacquista la corona di
Hannover, mantiene il possesso di Malta e delle isole ioniche nel Mediterraneo, della colonia del
capo di Buona Speranza, dell’isola di Ceylon e delle Antille. La Francia conserva l’integrità
territoriale nei confini del 1789, compresa la Corsica. Il regno di Sardegna ottiene nuovamente
Nizza e Savoia e acquista il territorio della repubblica di Genova. Alla Santa Sede è restituito lo
Stato pontificio, ma cede Avignone alla Francia. Maria Luisa d’Asburgo, moglie di Napoleone,
conserva il ducato di Parma e Piacenza, mentre quello di Modena e Reggio è dato a Francesco IV
d’Asburgo-Este. Ferdinando IV di Borbone unifica i regni di Napoli e Sicilia nel regno delle Due
Sicilie diventando Ferdinando I. Sul trono di Spagna torna Ferdinando VII di Borbone mentre su
quello di Portogallo rientra Giovanni VI di Braganza.
Un nuovo clima ideologico e l’anomalia inglese
Il Congresso di Vienna apre il periodo della “Restaurazione”. Nate come reazione al dispotismo
napoleonico, si diffondono rapidamente varie società segrete, derivate in parte dalla massoneria, con
una struttura basata su una gerarchia che impedisce agli affiliati di sapere chi siano i loro capi. La
più nota di queste società è la Carboneria (la cui base ideologica è richiesta costituzionale e di
unità). Se Francia e Inghilterra hanno da tempo conseguito l’unità politica, la questione è da
risolversi per il mondo tedesco e per il caso italiano, dove alla disgregazione politica si somma il
problema dell’indipendenza dallo straniero, dal momento che il Lombardo-Veneto fa parte dei
domini asburgici. Il concentrato di potere della Santa Alleanza viene progressivamente eroso da due
fenomeni: Napoleone è trasformato in simbolo di libertà in tutta Europa e ne deriva che gli eserciti
diventano focolai liberali; l’opposizione inglese è il secondo elemento, la cui tradizione
costituzionale non può convivere col messaggio reazionario insito nella Santa Alleanza.
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Il conflitto anglo-americano si protrae dal 1812 al 1814 e in quest’anno gli inglesi raggiungono
Washington e bruciano la residenza presidenziale (che poi è dipinta di bianco e chiamata Casa
Bianca). Il debito pubblico britannico – la Gran Bretagna è uscita economicamente debilitata dalle
ultime stagioni di conflitti europei – tocca livelli insostenibili, mentre industria e commercio hanno
sofferto le conseguenze del blocco continentale. Il governo tory reprime una rivolta operaia di
impronta luddista (1819), poi dallo stesso partito emergono figure che favoriscono una politica
riformatrice. Negli anni Venti si susseguono provvedimenti a favore del ribasso del prezzo dei grani,
l’approvazione di una legge che concede agli operai di scioperare e costituire sindacati;
l’attenuazione delle misure contro i cattolici che sfocia nell’Atto di emancipazione (1829) grazie cui
essi riacquistano diritti politici e civili; si vara una riforma elettorale (1832). La Gran Bretagna
sostiene i greci nella lotta contro i turchi che porta alla dichiarazione d’indipendenza dell’antica
Ellade (1822), nel congresso di Epidauro.
I moti del 1820-21 in Spagna e in Italia
Contro la sempre più manifesta dittatura napoleonica, l’Inghilterra ha imposto ai sovrani che
protegge di mostrare ai popoli un volto rassicurante: ecco allora la costituzione varata in Sicilia, che
stabilisce l’abolizione della feudalità; e quella di Cadice, nel sud della Spagna.
Cadice insorge
Ferdinando VII, rientrato a Madrid (1815), ha abolito la costituzione del 1812 e instaurato un
regime oscurantista. Nel 1820 un contingente di truppe stanziato nel porto di Cadice si ammutina:
Ferdinando VII invia le truppe, ma queste solidarizzano con gli sorti e il re è costretto al ripristino
della costituzione del 1812. Il popolo qui rimane assente, l’iniziativa è tutta dell’esercito (si tratta di
un pronunciamento militare), costituito da uomini che, battendosi in tutta Europa, hanno sviluppato
una coscienza. Tuttavia a sopire il malessere non basta la costituzione: la protesta si amplia e il re si
appella alla Santa Alleanza. Metternich suggerisce alle potenze convenute di deliberare l’intervento
armato, affidando a Parigi il compito della repressione. Così cade il Trocadero (1823), fortezza che
difendeva Cadice, ultimo baluardo del governo costituzionale.
Insorge anche Napoli
Ci sono due Ferdinando in Europa, ed entrambi devono affrontare lo stesso pericolo: il VII fa i conti
con l’insurrezione di Cadice, il I con quella di Nola. Nel 1820 la guarnigione campana si ribella a
opera di due ufficiali carbonari e la rivolta si estende rapidamente costringendo Ferdinando a
proclamare una costituzione sul modello di quella spagnola. Poco dopo insorge anche Palermo, che
mira però soprattutto alla separazione della Sicilia dal regno di Napoli; al contrasto fra isola e
continente si aggiunge quello interno fra la moderata e filoborbonica Messina e Palermo, roccaforte
del feudalesimo baronale; Ferdinando invia nell’isola una spedizione militare che in breve ha
ragione degli insorti. Metternich, temendo un contagio rivoluzionario nel Lombardo-Veneto,
organizza a Lubiana (Slovenia) un convegno della Santa Alleanza (1821) in cui Ferdinando chiede
l’aiuto austriaco: le truppe di Metternich battono così quelle napoletane a Rieti e ad Antrodoco, in
Abruzzo, entrando nella capitale nel 1821. Ripreso il potere, Ferdinando I abolisce la costituzione e
condanna a morte i due promotori della rivolta.
Poi è la volta di Torino
Nel 1821 insorge Torino. Nel regno di Sardegna, Vittorio Emanuele I ha rimesso in vigore le
vecchie leggi e richiamato in servizio i funzionari del 1798 e abdica in favore del fratello Carlo
Felice che però in quei giorni è a Modena. Carlo Alberto (1798-1849) del ramo dei Savoia-
Carignano, nominato reggente, concede la costituzione a condizione che sia approvata dal nuovo
sovrano, il quale rifiuta e intima al giovane di lasciare Torino e spostarsi a Novara, dove stanno i
reparti fedeli alla corona: Carlo Alberto obbedisce. I moti del ‘21 sono spenti dai reggimenti sabaudi
che disperdono le truppe del governo costituzionale.
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