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Mecenati e pittori

L'arte e la società italiana nell'età barocca

Nel 1669, cinque anni dopo le sue amare lamentele sull'impossibilità di trovare un protettore a
Roma, Salvator Rosa scriveva al fedele e paziente Giambattista Ricciardi: «Lavori ne rifiuto ogni
giorno (e di conseguenza) da tutte le parti d'Europa». E veramente quel mecenatismo che i papi
trovavano sempre più difficile esercitare, a causa del catastrofico declino finanziario e politico di
Roma, si trasferiva fuori d'Italia e passava nelle mani di vari personaggi stranieri. In un tempo
relativamente breve questo intervento esterno arrestò il corso di una grave crisi che minacciava di
compromettere l'avvenire della pittura italiana e di avviare la penisola verso l'isolamento di uno
sterile provincialismo, anzi, invertì il processo. I grandi pittori italiani venivano ora richiesti più che
mai, e seppero presto trarre profitto dalla situazione. A Messina don Antonio Ruffo fu
profondamente mortificato quando, nel 1671, tentò di procurarsi un dipinto del veneziano Girolamo
Forabosco: si trattava di aspettare due anni e di pagare ottanta doppie per due «mezze figure». Era
inutile, gli dissero, chiedere opere meno care a un pittore della statura del Forabosco,
quotidianamente assillato dalle richieste dei più grandi principi europei, pronti a pagare qualsiasi
prezzo pur di avere la più piccola testa e convinti anzi, una volta accontentati, di essere stati fatti
oggetto di un favore personale...Ricatti di questo genere erano già abbastanza comuni ed alla fine
del secolo c'erano ben pochi artisti in Italia che non facessero assegnamento sui clienti stranieri per
una parte considerevole del loro lavoro; alcuni vivevano nella loro città natale e dipingevano per i
principi e i viceré di Germania e Spagna mentre altri trovavano più conveniente andare a vivere
direttamente all’estero.
Alcuni principi restavano delusi dal fatto di non riuscire, pur dopo ripetuti tentativi, ad attirare a sé
un determinato pittore; certi pittori, di meriti non inferiori, non erano in grado, nonostante la più
tenace adulazione, di suscitare nelle corti europee l'interesse necessario. Ma in generale la
situazione è abbastanza chiara: fino alla caduta dei Barberini le possibilità di operare a Roma erano
tante e talmente grandi che ben pochi governanti stranieri potevano competere con i papi; poi, con il
declino del mecenatismo papale, la situazione si rovesciò, e molti pittori si resero conto che ormai
le possibilità migliori erano all'estero.
Fin dal periodo dell'alto Rinascimento il predominio assoluto dell'arte italiana su quella degli altri
paesi era considerato fuori discussione. Per buona parte del Cinquecento regnanti come Francesco I,
Carlo V e Filippo II avevano speso somme enormi per acquistare dipinti, o direttamente dagli artisti
o per mezzo di agenti. Nessuno credeva ancora alla superiorità degli «antichi maestri», ma dopo la
morte di Tiziano e di Michelangelo si riconobbe comunemente che un periodo di grande creatività
era giunto alla fine, e le opere di questi artisti continuarono a essere venerate e avidamente ricercate
come fino ad allora era accaduto soltanto con Raffaello. Poi, all'inizio del Seicento, apparvero
all'orizzonte nuovi astri. “Alcuni hanno meravigliosamente progredito e migliorato nell'arte, —
scriveva il fiammingo Carel van Mander ad Amsterdam, — fra questi ve n'è uno chiamato Carracci,
il quale alloggia dall'illustre cardinale Farnese, dove egli ha eseguito diverse opere eccellenti,
specialmente una bella galleria, la quale è così squisitamente dipinta a fresco che si dice che tale
maniera supera quella di tutti gli altri maestri e che la sua bellezza non si può esprimere. Opera

anche un Michelangelo da Caravaggio, il quale, a Roma, fa delle cose meravigliose”.


Una sola potenza aveva radici tanto solide nella penisola da consentire ai suoi governanti di
rivaleggiare con i papi per avere alle proprie dipendenze i maggiori artisti italiani: Signori di
Milano e di Napoli, legati da rapporti di collaborazione economica con Genova e capaci,
periodicamente, di esercitare pressioni decisive sulla stessa Roma, gli spagnoli commissionavano
molte importanti opere agli artisti di queste quattro città. Essi erano attivi soprattutto a Napoli, dove
i viceré mantenevano una forma di governo tuttora nota per la sua caratteristica sintesi di sontuosità
e sfruttamento dei sudditi. In tali condizioni le arti figurative fiorirono come non mai poiché i
viceré, quasi senza eccezioni, si avvalsero di questi artisti per decorare chiese, palazzi e gallerie, e
al loro ritorno in Spagna portarono con sé grandi e importanti collezioni.
Un esempio notevole di tale fenomeno è la carriera di Manuel de Guzmán, conte di Monterrey, il
più importante mecenate spagnolo in Italia nella prima metà del secolo. Quest'uomo piccolo,
vanitoso e avido doveva la sua posizione al cognato, il conte duca di Olivares, favorito del re. A
Roma, dove accolse Velázquez nel 1630, Monterrey acquistò molti Tiziano e Raffaello, tra i quali
c'erano due opere di tale eccezionale importanza da essere per forza destinate al re: «Gli Andrii
(Baccanale)» e «L'offerta a Venere». Da ambasciatore era entrato in contatto anche con numerosi
pittori e scultori contemporanei, e quando fu trasferito a Napoli nel 1631 non volle interrompere tali
rapporti. La cosa, però, era meno facile di quanto si possa pensare; gli artisti napoletani erano infatti
ferocemente gelosi della concorrenza, intenzionati a ricorrere alla violenza pur d'imporre il loro
monopolio nelle commissioni locali (Quando, per esempio, nel 1631 Domenichino arrivò a Napoli
per dipingere degli affreschi nella cattedrale si vide costretto a chiedere la protezione del viceré e
Monterrey lo accontentò solo a condizione che l'artista rompesse il contratto con le autorità
ecclesiastiche e lavorasse per lui).
Durante tutto questo tempo anche il re di Spagna Filippo IV, il cui appetito per la pittura non era
affatto saziato da Rubens e da Velázquez, mostrò un profondo interesse per la scena romana.
Nel 16281'ambasciatore spagnolo a Roma commissionò a Guido Reni quella che fu una delle sue
più grandi, brillanti e romantiche composizioni, «Il ratto di Elena», che però, a causa di
complicazioni diplomatiche, non fu mai inviata a Madrid. In seguito, verso il 1636, un agente del re
negoziò la commissione di un complesso di oltre dodici grandi paesaggi, ognuno dei quali doveva
comprendere la figura di un eremita o di un anacoreta; tali opere erano destinate a decorare il
palazzo del Buen Retiro.
La ragione per la quale Filippo IV ritenne opportuno rivolgersi a Roma per tale incarico è chiara, il
tipo di composizione pittorica nella quale paesaggio e figure si equilibrano vicendevolmente nello
schema compositivo esprimendo un unico stato d'animo era stato creato a Venezia ai primi del
Cinquecento, e in seguito abbandonato, per poi riapparire a Roma circa un secolo dopo. Per quanto
l'impulso iniziale per questo risveglio si dovesse al classicista Annibale Carracci e a Domenichino,
il genere era stato arricchito dai contributi più pittoreschi e irrazionali degli artisti settentrionali, i
quali, tra il 1620 e il 1640, ne detennero praticamente il monopolio. Vi si dedicarono soprattutto il
giovane Claude Lorrain, alcuni fiamminghi, tra i quali il più notevole era probabilmente Jan Both,
e, in minor misura, Nicolas Poussin. Tutti questi pittori stavano appena iniziando a farsi un nome, e
fu proprio a loro che si rivolse in questa circostanza il re di Spagna. Non possiamo sapere con
certezza chi fosse direttamente responsabile di questa ambiziosa commissione, ma alcuni nomi
hanno attratto in particolare l'attenzione: Giovanni Battista Crescenzi, nato nel 1577, appartenente a
una nobile famiglia romana, suo fratello era cardinale ed entrambi non solo erano appassionati
collezionisti e amatori d'arte ma furono tra i primi a impiegare Claude Lorrain, facendogli eseguire
alcuni affreschi nel loro palazzo. E perciò perfettamente possibile che i paesaggi siano stati ordinati
o da lui personalmente, nel corso di un breve viaggio a Roma, o dal fratello Pietro Paolo, che vi
dimorava. Ma sappiamo anche che il marchese di Castel Rodrigo, ambasciatore spagnolo a Roma
tra il 1632 e il 1641, inviava in quel periodo quadri imballati a Madrid, ed essendo un importante
mecenate di Claude, era anche lui in una buona posizione per contattare gli artisti.
Solo un altro paese era in grado di competere con la Spagna nel richiedere l'opera degli artisti
italiani. Per tutto il corso del secolo i monarchi, gli uomini di Stato e i principi francesi tennero
almeno un occhio rivolto al Sud, ma l'estensione dei loro effettivi interventi nella vita artistica
italiana variava continuamente, a seconda degli indirizzi e degli sviluppi dell'intricata politica
internazionale. La rivendicazione di Enrico IV della sua supremazia attraverso grandi opere
architettoniche fu d'importanza rivoluzionaria e decisiva per l'intera storia di Parigi, trattandosi,
coscientemente o meno, di un programma essenzialmente «patriottico», eseguito quasi interamente
da artisti e artigiani francesi: era la prima grande impresa del genere che venisse portata a
compimento senza il contributo italiano o anche senza tener presente alcuno specifico modello
italiano. Una simile politica trovò giustificazione nel successo che le agevolò ma nel campo della
pittura condusse unicamente al provincialismo decorativo di alcuni tardi manieristi quali Toussaint
du Breuil e Ambroise Dubois. La moglie di Enrico, comunque, non dimenticava di essere una
Medici, e fu certamente per suo impulso che incominciò a farsi sentire a Parigi l'influsso italiano.
Gli storici concordano nell'affermare che Maria de' Medici arrivata a Parigi nel 1601, rimase
inorridita alla vista del Louvre che definì «più adatto come prigione che non come residenza di un
grande principe», e abitò per un certo tempo nello splendido palazzo dei Gondi, una famiglia
fiorentina che si era stabilita a Parigi una cinquantina d'anni prima. Nel 1604 Maria diede il suo
primo importante contributo alle arti convincendo lo zio, il granduca Ferdinando I, a commissionare
a Giambologna, maestro di Francavilla, una statua equestre di Enrico IV da collocare sul Pont Neuf,
appena costruito. La regina attendeva con estrema impazienza l'arrivo del monumento, giungendo
persino a chiedere a Ferdinando di smontare il suo monumento equestre e di mandarle almeno il
cavallo: spiegava che a lui non sarebbe certo mancato il tempo e la possibilità di sostituirlo con un
altro. Ovviamente tale richiesta non fu esaudita e il monumento, portato a termine da Pietro Tacca e
da Francavilla, arrivò a Parigi soltanto dieci anni dopo.Nel 1611 ordinò all'architetto Salomon de
Brosse di costruire un enorme palazzo al posto di quello che aveva acquistato dal duca del
Lussemburgo, e ancora una volta cercò l'ispirazione a Firenze, scrivendo alla granduchessa sua zia
di mandarle i disegni di Palazzo Pitti, sui quali sperava di poter basare la pianta del nuovo edificio.
In realtà le linee della nuova residenza furono assai diverse, e in ogni caso i lavori subirono un
arresto a causa della guerra civile nella quale Maria si trovò presto coinvolta.
Il toscano Orazio Gentileschi giunse a Parigi nel 1623, dopo essersi fatto precedere da un dipinto
inviato da Genova, ma rimase al servizio della regina meno di due anni, senza dubbio scoraggiato
dalle grandi accoglienze riservate a Rubens. In questo periodo, comunque, egli eseguì numerosi
dipinti, il cui influsso riappare nello stile di artisti diversi tra loro quali Louis Le Nain, Laurent de la
Hyre e Philippe de Champaigne. Tra le opere che gli commissionò Maria ne è rimasta soltanto una
sicura, che per altro rispecchia profondamente gli interessi della regina all'epoca: si tratta di un
grande dipinto allegorico raffigurante «La Pubblica Felicità che trionfa sui pericoli», una splendida
figura di donna che regge gli attributi della sovranità francese e guarda, ardita eppure serena, i
nembi tempestosi che si addensano su di lei.
Più o meno contemporaneamente Maria de' Medici si rivolgeva ai suoi vari parenti italiani
chiedendo che le procurassero dei quadri per decorare il Cabinet Doré del Luxembourg. Sperava di
ottenere sei tele dipinte da Domenico Passignano: le servivano «non piccoli piccoli, né meno grandi
grandi», e il soggetto le era indifferente. Però non tutti i progetti della regina madre erano destinati
a realizzarsi, verso la fine del 1625 era chiaro che non si sarebbe permesso a Rubens di portare a
termine la serie di dipinti che dovevano essere dedicati a Enrico IV nella seconda galleria del
Luxembourg, anche se il pittore aveva già eseguito molti dei bozzetti preliminari. Agli occhi di
Richelieu e di altri personaggi della corte egli s'identificava troppo con la causa spagnola, e così
Maria si rivolse di nuovo all'Italia, il cardinale Bernardino Spada che si occupava dei negoziati
raccomandò allora alla regina di assegnare la commissione a Guercino, che era più giovane e, per
temperamento, più incline al lavoro. Guercino si rifiutò di muoversi, e così la galleria rimase priva
di decorazione.
Maria de' Medici non era certamente la sola sovrana preoccupata di far valere il proprio prestigio
personale; nel 1624, mentre Rubens e Gentileschi lavoravano per lei a questo scopo, problemi non
differenti preoccupavano suo nipote Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova. Questi desiderava
ardentemente essere chiamato «Altezza» alla corte francese, e a tal proposito chiese consiglio al suo
ambasciatore a Parigi, il quale gli scrisse in risposta che dei dipinti per il nuovo palazzo avrebbero
costituito un dono adeguato. La cosa fece probabilmente piacere al duca, poiché anche lui, come
suo padre Vincenzo, era collezionista e appassionato amatore d'arte; molti tra i principali artisti
italiani avevano lavorato per lui, compreso quel pittore, piú di ogni altro delicato e gentile, che era
Domenico Fetti. Egli, perciò, propose di mandare dieci dipinti raffiguranti Apollo e le Muse, opere
che Giovanni Baglione aveva portato con sé da Roma alcuni anni prima: Maria fece solo sapere che
non desiderava che le Muse fossero «tout à fait nues, ni trop lascives», ma per il resto non si sa
nulla di come reagì al dono. Il fatto però attirò l'attenzione del cardinale Richelieu, il quale, seguito
presto da molti altri, si rivolse a Mantova per ottenerne tesori di importanza infinitamente maggiore
di quanto non fossero le tele del povero Baglione.Tuttavia Richelieu, sebbene fosse «le plus grand
ministre de la France et le plus illustre de ses amateurs», non ha un ruolo preminente in questa
storia; in Italia si servì di agenti di ogni genere per acquistare capolavori come i dipinti eseguiti da
Perugino, Mantegna, Costa e Correggio, artisti già morti da molto tempo. Per lo più i suoi rapporti
con artisti viventi si limitarono a pittori francesi e fiamminghi, quali Simon Vouet, Philippe de
Champaigne e Rubens, e anche quando si rivolse all'Italia lo fece dapprima per avere opere di un
altro francese, Nicolas Poussin, al quale nel 1635 commissionò quattro «Baccanali» e un «Trionfo
di Nettuno e Anfitrite». Poi, durante gli ultimi anni della sua vita, mutò improvvisamente politica e
si adoperò per attrarre a Parigi tutti gli artisti più in vista di là delle Alpi.
Non è difficile spiegare la ragione del voltafaccia di Richelieu: gli era probabilmente giunta voce
della fortuna eccezionale dei Barberini, che avevano fatto di Roma un monumento eterno della loro
gloria, e dovette rendersi conto che a Parigi non c'era nessun artista in grado di fare altrettanto. Per
di più il suo protetto italiano, Giulio Mazzarino, stava emergendo sulla scena politica francese, e per
tutto il 1639 Richelieu fece pressione per fargli avere il titolo cardinalizio, persuadendolo poi, negli
ultimi mesi di quello stesso anno, a stabilirsi in Francia. Mazzarino venne subito incaricato di
rappresentare gli interessi francesi al congresso di Colonia, e da quel momento dedicò la sua opera
esclusivamente alla corte francese. Dalla politica italiana di Richelieu emergono due altri risultati
positivi: per un verso il brillante incisore e disegnatore Stefano Della Bella, venuto in Francia al
seguito dell'ambasciatore fiorentino, si stabiliva a Parigi per una decina d'anni, trovandone
evidentemente l' atmosfera favorevole, e per l' altro, dopo molte preghiere, i Barberini si lasciavano
infine convincere a permettere a Bernini (e ai suoi allievi) di eseguire un busto del cardinale, il più
temibile e pericoloso tra i loro cosiddetti alleati. L'opera, che s'ispirò quasi certamente a un triplice
ritratto di Philippe de Champaigne, giunse a Parigi nell'agosto 1641 poco più di un anno prima della
morte del personaggio raffigurato.
La morte di Richelieu non mutava in alcun modo i progetti francesi e valse a spronare Mazzarino,
successore di Richelieu, verso mete più ambiziose. Agli inizi del 1644 il cardinale tentò di
convincere lo stesso Bernini di stabilirsi a Parigi offrendogli compensi altissimi; ma non tenne nel
debito conto l'opposizione di Urbano VIII, il quale, pur prossimo alla morte, esercitava ancora
sull'artista un'autorità assoluta: «egli [Bernini] era stato fatto per Roma, e Roma era fatta per lui», si
narra che gli dicesse: parole sufficienti a trattenere Bernini anche quando alla morte del suo
generoso signore seguirono tempi assai duri per lui.
E così i pur tenaci tentativi delle più potenti nazioni europee erano quasi completamente falliti di
fronte al fascino esercitato dai Barberini. Non molto dissimili furono i risultati ottenuti dagli inglesi,
quando provarono anche loro ad allettare i maggiori artisti italiani.
La grande passione per l'arte del conte di Arundel, di re Carlo I e di alcuni suoi cortigiani è talmente
nota che non occorre dilungarsi e altrettanto famosa è la storia dell'acquisto da parte del re della
collezione di dipinti del duca di Mantova e delle grandi ripercussioni che tale fatto ebbe sugli altri
regnanti d’Europa.
Carlo I e i suoi ministri stavano compiendo uno sforzo consapevole mirante a rompere la rigida
divisione che si era venuta a creare tra l'Inghilterra e Roma sin dai piú furibondi anni della
Controriforma; la stessa moglie del re, Enrichetta Maria, figlia di Enrico IV e Maria de' Medici, era
cattolica, le conversioni si succedevano con frequenza e le leggi penali al riguardo, sebbene ancora
in vigore, venivano applicate in modo molto meno rigoroso. Anche a Roma si tentò allo stesso modo
un riavvicinamento: gli inglesi potevano viaggiare senza timore dell'lnquisizione (erano anzi
caldamente accolti dal cardinale Barberini) e s'incoraggiarono i rapporti diplomatici. In seguito a
questa distensione politica si sviluppò una crescente ammirazione degli inglesi per la cultura italiana;
il nuovo umanesimo cattolico attirava molti tra coloro che avevano provato avversione di fronte
all'intransigenza dei cinquant'anni precedenti, e in ogni caso la nascita del mestiere di conoscitore
comportò di per sé una precisa distinzione tra meriti estetici e contenuto figurativo di un'opera d'arte.
Questa raffinatezza intellettuale era però tipica di una piccola élite privilegiata e, con il crescere
dell'opposizione puritana a corte, divenne sempre piú difficile conservarla. Il precario equilibrio si
ruppe infatti nel 1642, ma le tensioni non erano mancate sin dall'inizio, e non si può non tenerne
conto trattando della politica artistica di Carlo I.
Era da poco salito sul trono, nel 1625, quando tentò per la prima volta di attirare in Inghilterra un
artista italiano di gran nome. Dopo aver visto una «Semiramide» di Guercino, il re offrì al pittore
bolognese le condizioni più favorevoli a patto che venisse a stabilirsi presso la sua corte. Ma
sappiamo che Guercino «non volle accettar l'occasione, non volendo conversar con eretici, per non
contaminar la bontà de' suoi angelici costumi, ed anco per non esporsi a viaggio così disastroso, in
clima così lontano da' suoi»". Subito dopo, a quel che sembra, Carlo invitò in Inghilterra Francesco
Albani, scrivendogli una lettera di suo proprio pugno, non sappiamo se Albani si preoccupasse del
clima o degli eretici, fatto sta che rifiutò l'offerta. Il re non ebbe maggior successo con lo scultore
Pietro Tacca, che desiderava venisse a Londra «per fargli due cavalli»; infatti il granduca di Toscana
non volle concedere la sua autorizzazione. Tuttavia, con un po' di perseveranza, Carlo riuscì infine
nel suo intento di portare a corte un pittore e uno scultore, per quanto nessuno dei due fosse della
statura che egli aveva originalmente sperato.
Orazio Gentileschi stava già lavorando da qualche tempo a Parigi quando si lasciò convincere a
trasferirsi in Inghilterra, probabilmente alla fine del 1625. In Francia aveva cominciato a sottrarsi
alla forte influenza caravaggesca dei primi anni, ispirandosi a uno stile piú lieve, aperto e decorativo,
che in Inghilterra, dove fu accolto entusiasticamente dal re e dal duca di Buckingham, egli sviluppò
ulteriormente, per quanto nei dipinti di cavalletto continuasse a trattare soggetti biblici, resi con uno
stile narrativo intimo e privo di formalismi che non doveva urtare nessuno se non i protestanti più
fanatici.
Carlo I era altrettanto desideroso di avere al suo servizio uno scultore italiano, e finalmente, verso il
1635, i suoi tentativi furono coronati dal successo. Francesco Fanelli, «l'italiano da un occhio solo»,
era fiorentino e si era formato sulla scia del Giambologna, di Pietro Tacca e di Francavilla. Il suo
lavoro in Inghilterra si limitò quasi esclusivamente a bronzetti, quasi sempre cavalli e ritratti, che
parevano enfatizzare le passioni tradizionali della nazione. In realtà riflettevano gli interessi specifici
di uno dei principali mecenati di Fanelli, il duca di Newcastle, appassionato cavaliere e tutore di
Carlo, principe di Galles. Per lui e per la sua cerchia Fanelli saccheggiò sia la letteratura sacra sia la
profana alla ricerca di motivi che nobilitassero i suoi soggetti equestri.
La fama di Fanelli in Inghilterra era tale da indurre lord Arundel a progettare di servirsi di lui per la
sua tomba, mentre l'immaginazione del sovrano appariva protesa verso più esaltanti traguardi. Il re si
avvalse infatti di tutta la propria autorevolezza per far sì che i Barberini consentissero a Bernini di
scolpire personalmente il suo ritratto, e, facendo leva sulle speranze e i timori che il papa nutriva a
proposito dei cattolici inglesi, riuscì infine nel suo intento. Il busto, basato sul triplice ritratto di Van
Dyck, giunse in Inghilterra nel luglio del 1637 e Carlo I ne rimase deliziato (distrutto mezzo secolo
dopo in un incendio) riempendo Bernini di ricchi doni, progettando nel contempo di fargliene
eseguire un altro, questa volta della regina Enrichetta.
Comunque, prima del 1642, giunsero in Inghilterra dall'Italia molte opere d'arte contemporanea, ad
esempio il re commissionò un certo numero di dipinti ad Angelo Caroselli e il cardinale Barberini ne
inviò molti altri alla regina. Questa li teneva bene in vista nella sua cappella privata di Somerset
House, gesto particolarmente privo di tatto in un momento in cui già s' incominciava a mormorare
che il re si lasciasse abbindolare «dagli omaggi di quadri, idoli antichi e sciocchezze simili che
giungevano da Roma». Tuttavia, il più famoso di tutti i dipinti che il cardinale Barberini progettava
d'inviare alla regina probabilmente non arrivò mai in Inghilterra. Nel 1637 essa aveva sperato di
ottenere da Guido Reni un grande dipinto di soggetto mitologico per il soffitto della sua camera da
letto a Greenwich e chiese al cardinale di scegliere il soggetto adatto; dopo averle dapprima proposto
«Aurora e Cefalo», il cardinale decise poi per «Bacco e Arianna». Dovette però pentirsi della scelta
poiché, quando tre anni dopo il dipinto fu pronto, temette che «gli eretici» restassero scandalizzati
dalle «trop de beautez découvertes» che si vedevano nella trattazione «lasciva» del soggetto da parte
di Guido Reni. In effetti stava ormai per scoppiare la guerra civile, e il dipinto passò ben presto in
mani francesi. La commissione del busto della regina fu annullata, Fanelli si precipitò a Parigi, e
Gentileschi, all'incirca in quello stesso tempo, morì.
Gli anni Quaranta e Cinquanta del Seicento segnarono una svolta decisiva nella diffusione
all'estero dell'arte italiana. Nel 1644 morì Urbano VIII, poco dopo i suoi nipoti fuggirono da Roma
e venne così a mancare la più importante fonte di mecenatismo in Italia. A partire dallo stesso
anno la direzione degli affari francesi passava nelle mani di un amatore d'arte italiano di gusti
raffinati e di appetiti insaziabili. Nel 1648 la pace era ritornata in Germania e nell'Europa centrale
e, come conseguenza, la naturale ripresa dopo le devastazioni della guerra dei Trent'anni provocò
una nuova richiesta di prodotti dell'arte italiana proprio in un momento in cui l'Inghilterra,
sottomessa ai puritani, sembrava disinteressarsene. Se nel periodo precedentemente ricordato si
erano viste le potenze impegnate in una vana lotta per avere la loro parte nella meravigliosa
fioritura del barocco italiano, nel corso della seconda metà del secolo si assiste a un relativo
declino del talento e, contemporaneamente, ai tentativi dell'Italia d'inserirsi nel nuovo equilibrio
delle potenze europee. Ma ciò non fu subito evidente.
Il cardinale Mazzarino, che assunse il governo della Francia poco dopo la morte di Richelieu
avvenuta nel 1642, era nato quarant'anni prima a Pescina. Era stato educato dai Gesuiti a Roma, ed
era presto entrato al servizio dei Colonna, per i quali suo padre lavorava in qualità d'intendente.
Accompagnò Girolamo Colonna in Spagna, e in seguito fu capitano di un reggimento arruolato
dalla famiglia Colonna per riconquistare la Valtellina. In questa occasione la sua grande abilità
diplomatica attrasse l'attenzione di Giovanni Francesco Sacchetti, fratello di Giulio e di Marcello,
ed egli divenne presto un particolare protetto di quella potentissima famiglia. La sua posizione
risultò addirittura rafforzata grazie all'appoggio dei Bentivoglio e, con tali appoggi, egli non
poteva non riuscire.
Mazzarino era elegante, astuto e ambizioso, si muoveva nelle cerchie sociali più brillanti d’Europa
protetto dalle più grandi famiglie del tempo e si scelse come amante Leonora Baroni, la cantante il
cui favoloso successo inaugurò la lunga e frenetica tradizione del «divismo» operistico. Le
famiglie alle quali era più vicino, i Barberini, i Sacchetti e i Bentivoglio, praticavano tutte un
fervido mecenatismo, e fu senza dubbio in tale periodo che egli concepì la passione di
collezionista. Quel che non è chiaro è come e in che modo questa passione potesse esprimersi:
Mazzarino non era ancora ricco, per quanto risulti che i Bentivoglio gli prestassero del denaro e
fosse stato nominato canonico di San Giovanni in Laterano. Considerando tutto ciò è significativo
che il primo artista al quale pare che egli commissionasse dei dipinti fosse Poussin poiché la
nazionalità dell’artista era adatta a un committente che stava proprio allora incominciando a
mostrare le sue simpatie politiche; il prezzo era senza dubbio ragionevole, dato che Poussin non
era ancora famoso; l'artista, infine, non impegnato in commissioni ufficiali, era facilmente
avvicinabile nell'ambiente dei Barberini.
Poussin dipinse per Mazzarino due delle sue opere più incantevoli «L'ispirazione del poeta» e
«Diana ed Endimione» che, come le «poesie» di Giorgione e di Tiziano giovane, appaiono
immerse in un bagno di luce dorata, e sebbene il soggetto della prima non sia stato ancora ben
identificato, tutte e due s'ispirano ai poeti lirici dell'antichità e a quel mondo di fantastica
mitologia che tanto piaceva a Mazzarino. In seguito questi non s'interessò più alla carriera di
Poussin, tanto che molti anni dopo Loménie de Brienne, analizzando i gusti del cardinale, da
cortigiano intelligente, malizioso e qualche volta approssimativo qual era, gli poté rimproverare di
aver trascurato i dipinti della maturità dell'artista, più classici e severi.
Si è già detto che i primi tentativi di Mazzarino di attrarre in Francia artisti italiani quando
Urbano VIII era ancora in vita non ebbero successo. Non solo non riuscì a far ingrandire da
Bernini il palazzo che aveva acquistato a forza dal finanziere Jacques Tubeuf, ma in un primo
tempo non riuscì neanche a far venire a Parigi alcuni dei migliori musicisti e cantanti italiani,
compresa la sua antica amante, Leonora Baroni. Era tuttavia determinato a circondarsi di artisti
italiani di ogni genere, e per applicare questa linea di condotta guidò una campagna con la più
implacabile decisione e ingegnosità.
Il mutamento di regime a Roma gli diede la sua grande opportunità: agli inizi del 1646 Francesco
Barberini si sottrasse alle persecuzioni di Innocenzo X e si rifugiò a Parigi, cercando il sostegno
del suo antico protetto, Mazzarino. Intanto a Roma Giovan Francesco Romanelli, pittore favorito
del cardinale Barberini, cominciava a risentire delle prime fredde manifestazioni di noncuranza e
ostilità e la soluzione che si presentò fu assai semplice poiché qualche mese dopo Romanelli
stava già dipingendo l'appena costruita galleria superiore del palazzo di Mazzarino. Data la sua
dipendenza formale dal re Luigi XIV e dalla reggente Anna d'Austria, la sua glorificazione
personale era impensabile, e in ogni caso la lunga volta a botte della stretta galleria mal si
adattava a un grande affresco unitario simile a quello di Palazzo Barberini. Di fatto, Romanelli
suddivise la superficie in una serie di scomparti ovali, tondi, rettangolari e quadrati, separati tra
loro da cornici di stucco dorato. Le figure dipinte risultarono un po' languide nella loro
raffinatezza e forse contribuirono a condizionare il gusto francese.
Questi primi anni di governo di Mazzarino furono particolarmente importanti per la diffusione
dell'arte italiana. Oltre a dipinti, sculture e raffinati oggetti d'alto artigianato, arrivavano a Parigi
opere, balletti e scuole di ogni genere. Nel 1645 il duca di Parma mandò nella capitale francese
Giacomo Torelli, il più famoso scenografo italiano, e la bellezza dei suoi lavori, insieme
all'elaborazione di nuove tecniche da lui introdotte, attirò l'attenzione del pubblico molto più
delle opere per le quali le scenografie stesse erano state progettate.
La presa di potere di Mazzarino in Francia rafforzò il suo prestigio anche a Roma, nonostante
l'ostilità del papa. Poco dopo il 1644 egli acquistò il grande palazzo dei suoi antichi protettori, i
Bentivoglio, e progettò di metterlo a disposizione degli ospiti francesi illustri in visita alla città.
A partire dal 1649 notiamo una serie di straordinari mutamenti di fortuna nella sua posizione;
crisi, ritorno al potere seguito dall'esilio, improvvisi mutamenti di alleanze, la vendita della sua
biblioteca e la minaccia di dispersione delle sue collezioni… tutte cose che però non gli
impedirono di fare nuovi e importanti acquisti.
Nel 1653 difatti Mazzarino si ritrovò di nuovo saldamente in sella, e constatò che la maggior
parte dei suoi quadri era scampata alla minacciata dispersione. Fu subito redatto un inventario da
cui si può misurare quanto grande fosse stata la sua attività di collezionista e di mecenate nei
vent'anni precedenti. Possedeva circa cinquecento dipinti che, a parte alcune opere di antichi
maestri, erano quasi tutti di artisti da lui personalmente conosciuti durante gli anni giovanili
trascorsi in Italia. Spiccavano Guido Reni e Guercino tra i pittori del Seicento, ma non
mancavano opere di Pietro da Cortona e di Sacchi, tanto cari ai Barberini. A questi gusti egli
rimase fedele per tutta la vita, trascurando quasi completamente gli sviluppi della pittura italiana
quali si erano manifestati sin dal tempo della sua partenza da Roma, e i quadri che non fossero
dipinti a Roma o a Bologna. Neppure, ripresa finalmente l'attività di collezionista, egli mutò la
propria posizione: infatti fra tutte le opere che acquistò tra il 1653 e il 1661, anno della sua
morte, ce n'è una sola, un «Paesaggio con Apollo» di Salvator Rosa, dipinta da un artista che non
aveva conosciuto al tempo del suo soggiorno in Italia. Erano poi talmente numerosi i quadri
regalatigli da amici e clienti che non è sempre agevole rendersi conto dei suoi veri gusti in
un'indagine qualitativa e di contenuto, mentre da quelli che sappiamo con certezza essere stati
ordinati direttamente da lui risulta chiara la sua preferenza quasi esclusiva per i temi profani e
persino erotici. Le accuse dei suoi nemici a proposito di «lascives images», per quanto grottesche
possano sembrare riferite a Tiziano e a Correggio, non sono del tutto incomprensibili.
Quando Mazzarino rientrò a Parigi nel 1653, a Londra proseguiva la vendita dei dipinti di Carlo
I. Adesso egli era in una posizione molto migliore che non tre anni prima per fare acquisti
importanti. Grazie al suo ambasciatore, M. de Bordeaux, riuscì a comperare « Giove e Antiope»
di Correggio, la «Venere del Pardo» di Tiziano, il « San Michele» e il San Giorgio» di Raffaello
e numerosi Van Dyck, tra cui «I figli di Carlo 1».

In Francia, subito dopo essere giunto al potere, Luigi XIV, prese ad esaminare le proposte per la
costruzione del prospetto orientale del palazzo reale. Colbert era ostile a Le Vau, che era stato il
principale architetto di Mazzarino ma, dopo aver invano cercato di sostituirlo degnamente con un
altro architetto francese, fu costretto ad ammettere il proprio insuccesso e a guardare oltralpe.
Dapprima propose di sottoporre i disegni di Le Vau all'esame di alcuni tra i maggiori artisti
romani, ma in seguito andò oltre e chiese agli italiani di preparare essi stessi dei progetti. La
tragicommedia che ne derivò è stata trattata con abbondanza di particolari da molti scrittori, e qui
occorre esaminarne soltanto le grandi linee e il significato essenziale
Lo spirito nazionalistico in Francia era divenuto accesissimo e arrogante in seguito alla politica
patriottica priva di scrupoli di Richelieu e anche, paradossalmente, di Mazzarino, ma la crescente
ostilità francese nei confronti dell'arte italiana aveva un fondamento più solido rispetto a una
semplice suscettibilità nazionale. Ai progetti di Bernini, di Pietro da Cortona, di Carlo Rainaldi e
dello sconosciuto Candiani vennero mosse critiche precise e circostanziate: nessuno di questi
architetti aveva tenuto nel debito conto le condizioni francesi; tutti i progetti erano troppo
elaborati, troppo «barocchi», per il gusto del luogo. Il disegno di Pietro da Cortona «avait plutot
l'idée d'un temple que d'un palais»; quelli di Candiani erano «extravagants»; quelli di Rainaldi
«fort bizarres et n'avaient aucun goût de la belle et Simple architecture».
Soltanto Bernini fu sul punto d' imporre il suo gusto a Parigi, grazie all'appoggio diretto del re,
ma alla fine anch'egli dovette rinunciare. I suoi primi progetti erano stati respinti, dopo di che fu
invitato a esibirne altri e a venire a Parigi di persona a discutere il problema. Dopo un viaggio
trionfale attraverso le province, il 4 giugno 1665 Bernini fu portato al cospetto del re. Le sue
prime parole ebbero il tono giusto: «J'ai vu, Sire, les palais des empereurs et des papes et ceux
des princes souverains, qui se sont trouvés sur la route de Rome à Paris, mais il faut faire pour le
Roi de France, un Roi d'aujourd'hui, de plus grandes et magnifiques choses que tout cela. Qu'on
ne me parle de rien qui soit petit». Colbert certamente non vedeva le cose allo stesso modo. Egli
pure desiderava la grandiosità, ma, da buon amministratore, non poteva trascurare il problema
della spesa e della precisa disposizione delle sale. Bernini non collaborò in tal senso, anzi, non si
rese mai veramente conto di quella che era una differenza essenziale tra la monarchia francese e
il papato, a lui ben noto: nonostante la storia secolare dell'istituzione, ogni nuovo papa si
preoccupava soprattutto di eclissare il suo predecessore e di ricominciare tutto ex novo, mentre
un re francese succedeva sempre a un padre (e a un nonno) da lui riverito; perciò, non nutriva
l'ambizione di gettarne la memoria nell'oblio. Luigi tentò di spiegare a Bernini «qu'il avait
quelque affection de conserver ce qu'avaient fait ses prédecesseurs», ma l'architetto italiano
rimase sordo a tale suggerimento, e le sue proposte risultarono inesorabilmente nuove. In tal
modo l’astio pungente di cui era circondato a causa del disprezzo in cui teneva tutto ciò che era
francese poté tramutarsi in una opposizione ragionata. La corte era divisa in fazioni; il re
personalmente gli restò favorevole, ma a ottobre Bernini era già sulla via del ritorno in patria,
lasciando dietro di sé la diffusa (e corretta) opinione che i suoi progetti non sarebbero mai stati
eseguiti.
Durante il soggiorno parigino Bernini aveva dato una prova insuperabile del suo genio. Dopo
appena due o tre settimane aveva avuto l'incarico di scolpire un busto marmoreo del re, e in tale
occasione finalmente trovò un soggetto degno delle sue esaltate visioni della regalità. Per di piú
era la prima volta che aveva l'occasione di ritrarre un principe secolare dal vero, e poté quindi
cogliere quei tratti caratteristici che erano per lui tanto importanti, e allo stesso tempo creare
un'immagine idealizzata e solenne della monarchia assoluta al suo apogeo. Il busto da lui
scolpito nel 1665 si pone come la più poderosa testimonianza dell'assolutismo regio che mai sia
apparsa nelle arti figurative, e Luigi, impressionato, commissionò all'artista un monumento
equestre. Bernini vi si dedicò nei quattro anni successivi al suo ritorno a Roma, ma l'opera
giunse a Parigi soltanto nel 1684, qualche tempo dopo la sua morte. Il monumento di Bernini
non incontrò eccessivo favore: gli era stato detto di basarsi sulla sua statua di «Costantino» in
Vaticano, e ora questi echi di pretese ultramontane dovevano apparire stridenti e inopportuni;
sul piano puramente estetico, poi, si era ormai sviluppato un gusto indigeno cui ripugnava
l'esuberanza italiana. Luigi addirittura voleva fare a pezzi la statua, ma poi vi rinunciò,
limitandosi a esiliarla nell'angolo più remoto dei giardini di Versailles. Presto Girardon vi
eseguì i necessari ritocchi, trasformandola in una figura di Marco Curzio.
Nel frattempo, Maratta aveva avuto l'incarico di dipingere un grande «Apollo e Dafne», quadro
per il quale l'artista ricevette un ricco compenso oltre al titolo di «peintre du roi». Qualche anno
dopo il direttore dell'Accademia francese di Roma sondava le autorità in merito a un eventuale
trasferimento a Parigi del bolognese Carlo Cignani, autore di un paio di dipinti per il re.
Tuttavia, non si insistette troppo al riguardo, dato che il disegno di Cignani era considerato
troppo fiacco (ancora un altro esempio delle divergenze tra la pittura italiana e il piú rigoroso
gusto francese)

Più a Sud la situazione era complicata: Mattia Preti fece un ritratto allegorico del re
proponendosi di fargliene omaggio, ma allorché scoppiarono le ostilità tra Francia e Spagna, il
pittore si rese conto che la sua posizione a Malta rendeva molto imprudenti ciò e pensò bene di
vendere altrove il quadro
La Spagna, comunque, continuava a nutrire un vivace interesse per i pittori italiani e per le loro
opere. Su questo sfondo spiccano alcuni casi particolari: nel 1649 Velázquez s'imbarcò per il
suo secondo viaggio in Italia, uno dei suoi compiti era quello di acquistare dipinti e sculture per
il palazzo reale dell'Alcázar ed in quasi tutte le città visitate (ma specialmente a Venezia) cercò
o comperò dei quadri a tale scopo. Occorreva anche reperire un pittore vivente, ma qui
Velázquez non ebbe altrettanta fortuna. Gli era stato detto di tentare di convincere Pietro da
Cortona a seguirlo a Madrid, ma quando arrivò a Roma trovò l'artista troppo impegnato con gli
Oratoriani per potersi muovere. Così sulla via del ritorno si fermò a Modena e intavolò
trattative con Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli, ma nemmeno con questi fu
fortunato, e si vide così costretto a rientrare in Spagna con i bagagli pieni di opere di antichi
maestri ma senza un artista capace di fare rivivere in quel paese la pratica della pittura a fresco.
Ottenne migliori risultati con gli scultori: eseguirono infatti copie dall'antico e opere originali
per la collezione reale Giuliano Finelli, Alessandro Algardi e altri artisti meno noti di Roma e
di Napoli. Con il passare del tempo i suoi tentativi di convincere Colonna e Mitelli a trasferirsi
a Madrid furono coronati dal successo, e questi infatti vi giunsero entrambi nel 1658,
trovandovi lavoro costante.
Tra i viceré della seconda metà del Seicento, uno spicca su tutti sia per abilità politica sia per le
qualità di amatore d'arte e mecenate: Don Gaspar de Haro y Guzmán, noto in Italia come
marchese del Carpio. La sua giovinezza era stata abbastanza burrascosa, e aveva addirittura
trascorso due anni in prigione perché sospettato di aver preso parte a un attentato alla vita del
re, fin da allora aveva nutrito un grande amore per la pittura.
Del Carpio comperò, tra l'altro, due ritratti di Velázquez (dello stesso cardinale e di donna
Olimpia) e numerosi pezzi antichi, da cui propose di far trarre delle incisioni, era anche un
grande ammiratore di Bernini e ne possedeva una piccola riproduzione della Fontana dei
Quattro Fiumi di piazza Navona, che considerava il pezzo più bello della sua collezione e in
una visita alla bottega dello scultore riuscì ad acquistare dal figlio Domenico un disegno col suo
autoritratto.
A Napoli il marchese del Carpio proseguì la sua attività di collezionista e accrebbe il numero
dei suoi quadri da 1100 a 1800 affidandoli allo sconosciuto pittore senese Giuseppe Pinacci, che
si rivelò esperto restauratore. Il suo palazzo, colmo di capolavori e di splendidi mobili,
impressionava e stupiva perfino coloro che erano abituati al fasto di cui amavano circondarsi i
viceré.
Fin da quand'era ancora a Roma, Del Carpio aveva tentato di persuadere diversi pittori, e
particolarmente Giacinto Calandrucci e Niccolò Berrettoni, ad andare a lavorare a Madrid per il
re ma fu solo nel 1692 che un artista italiano di fama si decise a partire per la Spagna, per
quanto così numerosi fossero i quadri italiani che stavano giungendo all'Alcazar. Quell’anno,
infatti, Luca Giordano affrontava il viaggio che l'avrebbe trattenuto in Spagna per dieci anni. Il
re lo accolse con entusiasmo e generosità, ed egli, da parte sua, introdusse nei molti palazzi e
chiese da lui elegantemente decorati un genere di pittura che in Spagna mancava
completamente: uno stile pittoresco, esuberante, facile, forse, ma reso con meravigliosa abilità e
ricco d'invenzioni derivate da tutti i maestri barocchi, e tuttavia con una nota personale di
ariosità e fantasia. Questo va considerato, sotto tutti i punti di vista, il più fruttuoso soggiorno
all'estero di un pittore italiano in tutto il Seicento: la vivacità d'ingegno di Giordano abbagliò gli
spagnoli, inducendoli in seguito ad avvalersi dei servigi di due pittori decorativi quali Corrado

Giaquinto e Tiepolo, mentre il suo influsso, per quanto sul momento sembrasse indebolire
alcuni pittori locali già di per sé deboli, sarebbe stato molto più tardi assorbito con profitto dal
giovane Goya.
Gli anni trascorsi a Madrid non furono meno importanti per lo stesso Giordano, poiché, a
differenza di quanto aveva fatto una generazione prima Bernini a Parigi, egli non era meno
disposto ad apprendere che a insegnare. Già fervente ammiratore dell'arte veneta, trovò nei
palazzi reali una raccolta di opere di Tiziano che non aveva eguali in tutto il mondo, sia per
quantità che per qualità, e finì con il lasciar cadere buona parte delle tracce in lui ancora
presenti della sua più scura maniera napoletana.
Eseguì copie da Rubens e si accattivò le simpatie degli spagnoli con la sua stima sincera per
Velázquez. Quando tornò in Italia gli restavano da vivere appena due anni, ma anche in questo
periodo dimostrò di essere, all'età di settant'anni, il più «avanzato» pittore del suo tempo.
Nonostante la notevole influenza esercitata sugli artisti italiani dalla Spagna, e anche dalla
Francia, sul finire del secolo i veri successori dei grandi mecenati italiani si trovarono sempre
piú nel Sacro Romano Impero e in Inghilterra.
La guerra dei Trent'anni aveva devastato quasi tutta l'Europa centrale, ma Vienna, la capitale
degli Asburgo, per quanto avesse subito persino la minaccia di un'occupazione militare, nel
1648 poté riemergere illesa, se pur grandemente impoverita. Le collezioni reali, tuttavia, erano
state portate a Praga e qui saccheggiate dalle truppe svedesi a vantaggio della regina Cristina.
Quasi subito le conseguenze di tale disastro furono mitigate grazie al ritorno dai Paesi Bassi,
dove era stato governatore, dell'arciduca Leopoldo Guglielmo con i quadri meravigliosi là
acquistati, alcuni dei quali provenienti dalla galleria di Carlo I. L'arciduca amava
particolarmente i pittori veneti dei primi del Cinquecento, e non a caso tra i contemporanei a lui
più cari vi era Pietro Della Vecchia, famoso tra l'altro per i suoi falsi Giorgione. Egli convinse
poi il più fortunato pittore veneto del momento, Pietro Liberi, a recarsi a Vienna nel 1658;
l'artista vi rimase un anno, durante il quale dipinse numerosi quadri ricevendone in cambio il
titolo di conte palatino. Morendo, nel 1662, l'arciduca lasciò tutti i suoi beni al nipote,
l'imperatore Leopoldo I.
Egli, che regnò dal 1658 al 1705, fu un mecenate entusiasta ma incostante, e, come i suoi
predecessori, giudicò naturale cercare i suoi artisti in Italia. Suo padre aveva chiamato a Vienna
l'architetto Lodovico Ottavio Burnacini, e a lui Leopoldo ordinò una nuova ala del palazzo reale
oltre a quella che sarebbe stata una delle più splendide serie di scenari teatrali mai viste
nell'Europa centrale.
Un'altra dinastia che si riprese con una certa rapidità dai disagi della guerra dei Trent'anni fu
quella dei Wittelsbach di Monaco di Baviera. La loro posizione si era molto rafforzata con la
pace di Westfalia e quando, nel 1652, l'elettore Ferdinando Maria sposò Enrichetta Adelaide di
Savoia, essi si trovarono alleati alla più astuta famiglia regnante d'Europa. Ma Enrichetta
Adelaide era anche una grande appassionata d'arte, e si circondò di una corte di pittori e
architetti italiani. Non riuscì però a chiamare a sé Guarino Guarini, mentre nel 1662 giunse a
Monaco l'architetto bolognese Agostino Barelli, che vi costruì una chiesa per i Teatini basata
sul prototipo romano di Sant'Andrea della Valle, nonché il corpo centrale del palazzo reale di
Nymphenburg. Barelli fu seguito da un architetto di assai maggiore versatilità, Enrico Zuccalli,
il quale, alle dipendenze del nuovo elettore Massimiliano Emanuele, ebbe l'incarico nel 1712 di
costruire una «Versailles» a Schleißheim. Numerosi pittori italiani, tra i quali i più noti sono
Pietro Liberi, Antonio Triva e Pietro Bellotti, lavorarono inoltre a Monaco negli anni successivi
alla fine della guerra dei Trent' anni.
Il mecenatismo tedesco divenne presto tanto esteso e importante da non consentire qui se non
una breve illustrazione del suo campo d'azione e delle sue conseguenze in Italia, dove fu senza
dubbio determinante per l'esistenza stessa della pittura. Soprattutto tre città, Roma, Bologna e
Venezia, risentirono gli effetti di questa nuova domanda, ma in tutta la penisola c'erano pittori
che dedicavano con crescente frequenza le loro opere ai principi tedeschi, in taluni casi, anzi,
lavorando quasi esclusivamente per loro. La famiglia Liechtenstein, che si era grandemente
arricchita grazie alle espropriazioni successive alle sconfitte dei protestanti nei domini degli
Asburgo, fece eseguire in una sola occasione ben quarantadue dipinti a un unico pittore, il
bolognese Marcantonio Franceschini. A Pommersfelden, in Franconia, la famiglia Schönborn
commissionava dipinti ai pittori veneziani Antonio Balestra e Gregorio Lazzarini, ai romani
Carlo Maratta, Benedetto Luti e Francesco Trevisani, ai napoletani Luca Giordano e Francesco
Solimena e al bolognese Carlo Cignani.
Insieme al denaro, alle catene d'oro e ai titoli che si riversarono su di loro, questi pittori si
trovarono a dover affrontare nuovi problemi. I loro committenti erano ancora in gran parte
cattolici, e perciò gli artisti poterono continuare a dipingere grandi pale d'altare e quadri di
soggetto sacro; tuttavia la mancanza di rapporti diretti con i clienti tedeschi diede loro nuove
responsabilità. «Toccante il sogietto - scriveva a Franceschini Giovanni Adamo del
Liechtenstein in una tipica lettera- mi rimetto al vostro bon gusto, forse non sarebbe male una
Flora con alcuni putti o una Aurora, o una figura rappresentante la primavera, finalmente
qualche cosa che allude ai giardini».
Senza dubbio uno studio approfondito e completo dell'argomento metterebbe in luce l'esistenza
di innumerevoli sfumature di gusto tra i vari principi tedeschi e dimostrerebbe che alcuni erano
molto piú raffinati di altri; ma da un esame superficiale come il nostro risalta soltanto evidente
un interesse pronunciato per l'elemento erotico. Il nudo femminile ebbe, tra gli ultimi decenni
del Seicento e i primi del Settecento, un'importanza mai raggiunta né prima né dopo di allora
nella pittura italiana. Un artista, in particolare, dedicò la maggior parte della sua carriera a
soddisfare questa domanda: Guido Cagnacci, romagnolo d'origine, trasferitosi poi a Venezia,
venne chiamato nel 1657 a Vienna, dove dipinse una serie di Cleopatre e di Lucrezie i cui corpi
virginali e immaturi, sottoposti a oltraggi di vario genere, aggiungono una nota di sofisticata
perversione a quello che per lungo tempo era stato un repertorio familiare.

Paragonati al ritmo vertiginoso delle commissioni provenienti dai paesi germanici, i rapporti
dell'Inghilterra con l'arte italiana furono nella seconda metà del Seicento quasi trascurabili, ma
occorre ugualmente parlarne in breve, data la grande importanza che essi avrebbero assunto nel
secolo successivo. Dopo essere salito al trono nel 1660, Carlo II tentò di rientrare in possesso di
quei quadri del padre che ancora erano recuperabili, spinto più da pietà filiale che dall'amore per
la pittura. Egli non dimostrò infatti alcun interesse per l'arte italiana contemporanea, e quando
intorno al 1675 il pittore Antonio Verrio entrò al suo servizio, se ne servì con poco buonsenso.
Verrio, come prima di lui Gentileschi, giunse in Inghilterra da Parigi, ma era nato a Lecce e
amava dirsi napoletano. Analogamente agli altri artisti impiegati da Le Brun a Versailles, era
stato costretto a perdere, più che a sviluppare, uno stile personale, ma nel suo caso il
procedimento non aveva certo presentato particolari difficoltà. Si lasciò poi convincere
dall'ambasciatore a partire per l'Inghilterra, e verso il 1675 lord Arlington, il suo primo
committente inglese, lo presentò al re. Il suo primo dipinto per il sovrano, un «Trionfo del mare
con il ritratto di Carlo II», era adulatorio per quanto non troppo pertinente a quello che era stato
il regno di Carlo II fino a quel momento, e da allora in poi l'artista si trovò impegnato a eseguire
a Windsor una serie di affreschi illustranti le teorie estremistiche dell'assolutismo degli ultimi
Stuart. Quanto alla possibilità di trovare realizzazione, queste teorie ricordavano le
rivendicazioni di Carlo I quanto l'arte di Verrio ricordava quella di Rubens.
Comunque, Verrio, basandosi su ciò che aveva imparato in Francia, introdusse tardivamente in
Inghilterra un tipo di decorazione barocca mai visto prima: ricoprì interi soffitti di affreschi
illusionistici, creando l'impressione che al di sopra delle pareti vi fosse il cielo. I risultati erano
mediocri, ma portarono l'Inghilterra in linea con i più recenti sviluppi della pittura europea.
Un altro italiano che si recò in Inghilterra quasi contemporaneamente a Verrio fu il bolognese
Benedetto Gennari, nipote di Guercino, che cinquant'anni prima aveva rifiutato le offerte di
Carlo I, che passato oltremanica, si vide offrire un assegno annuo di cinquecento sterline e si
trovò sovraccarico da parte del re e della regina tanto da potere a stento soddisfare le richieste
degli altri committenti.
Ma la cosa non durò a lungo, e nel 1688 Gennari si vide costretto a lasciare «quel funesto paese»
e a tornare in Francia e infine in Italia. All'estero aveva acquisito un nuovo stile, «e quello che
maggior maraviglia facea, si era il vedere con qual verità e studio fossero espressi i ricchi
ornamenti di quei personaggi reali».
Verrio, più astutamente, lasciò la corte con la sua carrozza e tutti i suoi cavalli, le sue provviste
di parmigiano, mortadelle, olive per andare a lavorare per qualche tempo nei castelli delle grandi
famiglie. Verso la fine del secolo lo ritroviamo alle dipendenze del nuovo regime, per il quale
raffigurò, a Hampton Court, in un complesso affresco allegorico ispirato agli scritti di Giuliano
l'Apostata, il trionfo di Guglielmo III sulle potenze cattoliche guidate dai francesi.
Anche in un'epoca abituata a frequenti mutamenti di fedeltà, la sua carriera appare veramente
degna di nota: nel giro di poco più d'una generazione, Verrio aveva messo la sua arte al servizio
prima di Luigi XIV e poi del suo peggior nemico, Guglielmo III; aveva eseguito dipinti con i
programmi più cattolici e altri con i piú anticattolici che si fossero mai visti in Inghilterra, aveva
accettato di ritrarre il primo conte di Shaftesbury travestito da «Fazione» e in seguito non aveva
disdegnato il consiglio datogli dal nipote di questi, il terzo conte, di raffigurare le virtù del
protestantesimo.
Ma alla fine dei conti il mecenatismo della famiglia reale si dimostrò di scarsa importanza in
confronto con quello dei sempre più numerosi viaggiatori attratti in Italia nella seconda metà del
Seicento: due personaggi si misero particolarmente in luce per il loro largo mecenatismo nei
confronti di artisti italiani.
Il primo fu sir Thomas Isham, un giovane gentiluomo del Northamptonshire che lasciò
l'Inghilterra nell'ottobre 1676 e trascorse quasi diciotto mesi in Italia, visitando, accompagnato
dal suo istitutore, tutte le città più importanti. Per quanto si dimostrasse soprattutto un generoso e
ardente donnaiolo, ricoprendosi perciò di debiti, trovò anche il tempo e il modo di comperare un
certo numero di dipinti di autori contemporanei, consigliato soprattutto da un prete licenzioso di
nome Buno Talbot. Commissionò a Roma tutte le opere che riportò in Inghilterra: a parte alcune
copie da Raffaello, Guido Reni, Poussin, Pietro da Cortona e altri, si trattava di soggetti
mitologici di Lodovico Gimignani, Giacinto Brandi e Filippo Lauri, e di un suo ritratto eseguito
da Carlo Maratta.
John Cecil, quinto conte di Exeter, fu un collezionista e mecenate assai piú impor tante. Questi fu
in Italia in due diverse occasioni tra il 1680 e il 1685, e di nuovo nel 1699, e commissionò dipinti
in tutte le città visitate. A Firenze ne richiese nove a Carlo Dolci e quindici a Luca Giordano, in
quel periodo impegnato negli affreschi di Palazzo Riccardi. Questi due artisti, le cui qualità
erano completamente opposte (misurato e dolce alla maniera dei primitivi l'uno, di ostentato
virtuosismo l'altro) erano a quel che sembra i suoi pupilli, e il fatto in sé ci dice molto sul largo
respiro (o sull'incoerenza) dei suoi gusti. In effetti lord Exeter, venendo da un'Inghilterra ancora
in gran parte priva di opere di pittura italiana, si mostrava desideroso di fare ogni tipo di
esperienza estetica. A Venezia comperò quadri di Liberi; a Bologna, di Lorenzo Pasinelli; a
Genova, di Piola, di Assereto e di Valerio Castelli; a Roma, di Maratta, di Brandi, di Gaulli e di
Calandrucci; a Napoli una serie di nature morte di Giuseppe Recco e undici dipinti di soggetto
religioso e mitologico di Francesco Di Maria. Prima di allora nessun inglese aveva mai
acquistato tanti e così importanti dipinti italiani di artisti viventi e pochi in seguito avrebbero
fatto altrettanto. Lord Exeter inoltre convinse lo scultore italo-francese Pierre Monnot a
realizzare il suo monumento funebre.
L' attività di collezionista di lord Exeter fu importantissima per gli inglesi. Sappiamo che egli
presentò Carlo Maratta a numerosi membri della nobiltà, e ciò accadde non molto tempo prima
che le biografie italiane incominciassero a narrare vivacemente come i «milordi» inglesi
visitassero continuamente le botteghe degli artisti, pagassero prezzi favolosi e invitassero artisti
di ogni parte d'Italia ad andarsi a stabilire in Inghilterra. Fu proprio questo indiscriminato
entusiasmo a dar vita alle teorizzazioni di Anthony Ashley-Cooper, terzo conte di Shaftesbury,
l'esteta di gran lunga più raffinato del tempo in Inghilterra. Più di ogni altro egli incoraggiò e
promosse il mecenatismo inglese, pur rendendosi conto che la scelta degli artisti e dei soggetti
doveva essere piú ponderata che in precedenza.
I suoi contatti personali con l'arte italiana erano stati intensi ma non sempre fortunati, aveva
visitato l'Italia nel 1686 all'età di quindici anni ma sebbene «avesse acquistato una grande
conoscenza delle belle arti» non si sa niente di preciso al riguardo. In seguito, in qualità di
fervente intellettuale Whig con profonde simpatie per l'Olanda e ostile alla Francia, con ogni
probabilità aveva contribuito alla preparazione dei soggetti per gli affreschi di Verrio a Hampton
Court, pieni di colte allusioni alla politica di Guglielmo III. Nel 1699 mandò a Roma il ritrattista
John Closterman allo scopo di cercarvi uno scultore che fosse in grado di eseguire per lui un
ciclo di «Virtú», un soggetto caratteristico in un allievo di Locke e dei platonici di Cambridge.
Closterman gli inviò dei disegni raffiguranti la «Prudenza» e la «Giustizia» di Domenico Guidi,
accompagnandoli con una lettera in cui lo scoraggiava dall'impresa, e di cui il conte dovette
tener debito conto poiché del progetto non si fece più nulla. Contemporaneamente Closterman,
che già aveva eseguito un ritratto del suo protettore in abbigliamento classico con volumi di
Platone e Senofonte a lato, gli suggeriva di fornire lui stesso istruzioni particolareggiate agli
artisti che si proponeva di impiegare in futuro.
Ciò divenne possibile quando, nel 1711, lord Shaftesbury fu costretto a ritirarsi a Napoli per
ragioni di salute. Qui frequentò i circoli intellettuali, comprò tele per gli amici inglesi e decise
finalmente di mettere in pratica le sue idee in campo estetico. Scelse per il suo esperimento il
pittore Paolo De Matteis, al quale diede indicazioni precise per un quadro raffigurante «Ercole al
bivio tra il Vizio e la Virtù». Lo sconcertato artista si sentì semplicemente chiedere di rendere
sulla tela tutte le implicazioni figurative e filosofiche contenute nel tema, dato che «ciò che è
meramente naturale deve rendere omaggio a ciò che è storico e moral, niente è fatale alla pittura
come all'architettura e alle altre arti quanto questa falsa attrattiva che è governata più da ciò che
colpisce immediatamente i sensi che non da ciò che piace alla mente indirettamente e per via di
riflessione, soddisfacendo il pensiero e la ragione». Le nobili idee di lord Shaftesbury e la sua
concezione dell'artista come esecutore meccanico non erano nuove, ma raramente erano state
applicate con tanto rigore. E neppure si può dire che l'opera che ne risultò tradisse il complesso
pensiero che ne era alla radice: per quanto le sue idee fossero destinate a suscitare molto maggior
interesse nei teorici che non negli artisti, egli rimase soddisfatto del risultato, e ordinò a De
Matteis un altro, commovente dipinto.
Fortunatamente lord Shaftesbury poté offrire all'Inghilterra molto di più di queste concezioni
destinate a mostrarsi sterili sul piano pratico. Fu uno dei primi a mettere in risalto il contributo
che l'arte può dare al progresso della civiltà (per quanto poi giungesse a dire, con minor
fondamento, che una buona società non può non dar vita a una buona arte), e certi suoi scritti
dimostrano come non fosse affatto sordo al fascino più immediato ed evidente della pittura. Per
quanto gli inglesi ben presto dimostrassero una decisa preferenza nazionale per il ritratto, le
vedute e i paesaggi a spese delle «istoric» da lui raccomandate, l'intensificarsi nel Settecento
della passione per l'arte in Inghilterra è dovuta in qualche misura al suo esempio e alle sue
raccomandazioni.
Le condizioni del mecenatismo artistico in Italia erano totalmente mutate nella seconda metà del
Seicento. I pittori erano costretti a guardare al Nord anziché a Roma, mentre diveniva evidente
che il declinante prestigio dei papi aveva condotto, per uno strano paradosso, proprio
all’italianizzazione dell’arte europea.
L'arte romana, rappresentata soprattutto da Carlo Maratta, continuava naturalmente a godere di
grande fama, ma non era più la sola, dato che ormai gli aspiranti collezionisti inglesi e tedeschi
potevano (e spesso così facevano) rivolgersi anche a Bologna, a Venezia e a Napoli. Gli artisti
di queste città riuscirono a incrinare le barriere dei rigidi regimi sotto i quali vivevano inviando
le loro opere nelle lontanissime Londra, Parigi, Vienna, Monaco, Stoccolma e Madrid.
Tra la fine del Seicento e i primi del Settecento l'isolamento si ruppe ulteriormente, quando
alcune complicate vicende belliche riportarono l'Italia al centro della politica internazionale
spezzando uno status quo che era rimasto in gran parte inalterato per quasi centocinquant' anni.
Nel 1683 Vienna fu salvata dalla minaccia turca, e l'anno seguente Venezia entrava nella Lega
Santa con il Sacro Romano Impero e con il re di Polonia. Poi venne la guerra di successione
spagnola. Vittorio Amedeo di Savoia si liberò della tutela di Luigi XIV e, dopo una serie di
tortuose manovre, emerse alla fine come il più importante sovrano indipendente in Italia. Gli
austriaci conquistarono la Lombardia e presero Napoli agli spagnoli. Questi cambiamenti, che
furono ratificati dai trattati di Utrecht e di Rastatt del 1713 e del 1714, si ripercossero sul
mecenatismo dell'arte italiana.
I comandanti militari di tutte le parti belligeranti colsero le fuggevoli occasioni che si
presentavano loro tra una campagna e l'altra per commissionare opere ai maestri locali, e furono
serviti con lodevole imparzialità dagli artisti di molte città. Per esempio l’ammiraglio
Pekemburgh che giunse a Genova un po' prima del 1703 con una squadra navale inglese e
commissionò un busto allo scultore genovese Domenico Parodi; o il maresciallo francese de
Noailles che, arrivato poco dopo nella stessa città, ebbe più fortuna, riuscendo a convincere
Gregorio De Ferrari a seguirlo a Marsiglia per eseguirvi per lui alcuni dipinti o il duca d'Estrées,
che visitò Napoli con Filippo V, candidato francese al trono di Spagna, e rimase tanto colpito da
Paolo De Matteis da portarlo con sé a Parigi, dove lo fece conoscere a numerosi nobili e
banchieri influenti. Questa fu un'occasione molto importante, in quanto suscitò l'interesse per la
pittura contemporanea italiana in alcuni giovani appassionati che cominciavano a dar segni di
stanchezza per lo stile «ufficiale» di Versailles. De Matteis era appena tornato a Napoli quando
la città fu espugnata dalle forze avversarie, ed egli si vide costretto a lavorare per l’ammiraglio
inglese «Binchs» e per il comandante austriaco conte Daun, che l'aveva conquistata.
Daun, che nel 1707 fu nominato primo viceré sotto il nuovo dominio austriaco, rivaleggiò
degnamente con i suoi predecessori spagnoli nel mecenatismo dell'arte italiana.
Il principe Eugenio fu il più grande e prestigioso mecenate privato d'Europa e le sue residenze
viennesi come il Palazzo d'Inverno e i due Belvedere sono testimonianze splendide della sua
passione per l'architettura. La sua raccolta di dipinti è andata purtroppo dispersa, ma è ancora
famosa per la qualità eccezionale dei primitivi fiamminghi in essa contenuti; presso gli italiani del
suo tempo Eugenio era famoso come protettor liberale, e amatore al sommo delle belle arti, e delle
nostre principalmente. Giusto riconoscimento, dato l'appoggio munifico riservato agli scultori e ai
pittori italiani. Vennero dall'Italia per dipingere affreschi nei due Belvedere Louis Dorigny,
Chiarini, Gaetano Fanti, Carlo Carlone e altri; Lorenzo Mattielli e Domenico Antonio Parodi
scolpirono statue per il salone e per i giardini; Solimena inviò pale d'altare per la cappella. Nella
galleria c'erano dipinti di Crespi, del quale Eugenio si servì per cinque anni, di Dal Sole e di molti
altri pittori bolognesi, dei napoletani Giacomo Del Po e Solimena e del bergamasco Vittore
Ghislandi. Dalle testimonianze e dagli inventari che ci sono rimasti si riporta l'impressione che i
soggetti da lui più amati fosse ro quelli derivati dai poeti antichi, specialmente da Virgilio, che egli
fece addirittura «ritrarre», ln atto di scrivere l' Eneide, per mano del bolognese Giacomo Antonio
Boni. Eugenio prediligeva soprattutto la pittura fastosa e imponente e, anche se visse fino al 1736,
non mostrò mai alcun interesse per la più leggera maniera dei veneziani, molti dei quali lavoravano
a Vienna per altri committenti.

Un altro Stato continentale riemerse trasformato dalla guerra di successione spagnola, quello dei
Savoia, e anche qui la vittoria fu accompagnata da una splendida fioritura delle arti.
L'architettura a Torino, per la maggior parte del Seicento, aveva avuto un importante ruolo europeo,
ma il mecenatismo nel campo della pittura non si era quasi mai elevato al di sopra della mediocrità
provinciale. I talenti locali erano rari, ma a volte impressionanti, e i tentativi di attirare artisti da
altre città si erano risolti in una serie ininterrotta di fallimenti. Tutti i pittori interpellati avevano
rifiutato di affrontare il viaggio al Nord, e i vari duchi succedutisi sul trono, per altro più abituati ad
andare a caccia e a compiere imprese belliche che non ad apprezzare le arti, in genere parevano
rassegnati di fronte alla realtà dei fatti. Ma ora, nel momento del trionfo, Vittorio Amedeo fu
capace, con l'aiuto del suo consulente artistico Filippo Juvarra, di cambiare le cose. Nel mettere in
pratica tale politica era stato preceduto da numerose altre città prive di tradizioni artistiche, alle
quali ora dobbiamo perciò volgere l'attenzione per poter comprendere pienamente l'importanza del
fenomeno nelle sue origini e nei suoi sviluppi successivi.

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