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RIASSUNTO “GIOVINEZZA DI REMBRANDT, LA

COMMITTENZA MENNONITA”

INTRODUZIONE

L’arte olandese del ‘600 non era un fenomeno unitario e omogeneo, divido in generi,
come la critica tradizionalista voleva far credere. Anche la committenza aveva molti
volti, e il Calvinismo non costituiva per i Paesi Bassi del Nord un quadro ideologico
totalizzante; vi erano settori minori ma importanti della vita culturale informati ad
idee della funzione dell’immagine in rapporto alla fede e alla grazia divina che ora ci
appaiono in sintonia con la Riforma Cattolica, movimento che puntava a un vero
rinnovamento spirituale, e che vedeva nell’arte uno strumento per entrare nelle
coscienze risvegliate, mentre si diffondeva il messaggio del pauperismo borromaico e
del naturalismo di Caravaggio.
C’è una fase della vita di Rembrandt felice negli esiti artistici e nella sfera privata.
Sono gli anni della giovinezza che coincidono con il trasferimento ad Amsterdam
(fine del 1631 o primi mesi del 1632) e si chiudono con la morte di Saskia
Uylenburg, la moglie immortalata in tanti radiosi ritratti, fra cui quelli in veste di
Flora (San Pietroburgo, Hermitage e Londra, National Gallery), citazione della Flora
di Tiziano.
Abbandonata Leida, dove gli studi presso la Scuola Latina lo avevano aperto
all’umanesimo, Rembrandt approda nel centro vitale delle 7 province unite (Olanda,
Zelanda, Utrecht, Frisia, Groninga, Gheldria, Over – Yssel) che la calvinista casa
d’Orange aveva saputo emancipare dal giogo della Spagna cattolica. Lì accadeva
qualcosa di nuovo: non più e non solo la finezza in punta di pennello dei
fijnschilders, non più e non solo le tele di piccola dimensione, ma la pittura di storia,
ossia grandi quadri con molte figure e contenuti complessi, colti in momenti salienti e
capaci di comunicare intensamente con l’osservatore.
Gli studi sono aumentati sempre di più, e negli ultimi anni, dopo il graduale lavoro
svolto dal 1968 in poi dal Rembrandt Research Project, sono state pubblicate le
ricerche di Simon Schama (1987 e 1999), di Svetlana Alpers (1983 e 1988) e la
monografia di Leonard Slatkes (1992) con una schedatura accurata delle opere certe.
Il RRP ha adottato un metodo tematico per i testi successivi. Ma 2 monumenti sono
costituiti da Cornelis Hofstede de Groot, Die Urkunden über Rembrandt, 1575 –
1721 del 1906 e da The Rembrandt Documents curato da Walter Strauss e Marjon
Van Der Meulen, uscito a New York nel 1979, con molti nuovi ritrovamenti: 2 testi
che ci fanno conoscere e osservare la vita artistica di Rembrandt, come essa si
innervava nella sua operosità quotidiana, come si nutriva del suo collezionismo
frenetico, testimoniato dall’inventario del 1656 pieno di dipinti, presunte opere di
Raffaello, Palma, Lelio Orsi, disegni di vari artisti fiamminghi e olandesi come
Brueghel il Vecchio, Luca di Leida, Pieter Lastman, Jan Lievens, Ferdinand Bol,
Rembrandt, del figlio Titus, incisioni di Dürer, o di italiani come Mantegna,
Tempesta, i Carracci, libri, cornici, globi terrestri, oggetti, abiti, pezzi antichi, un
antico Laocoonte, copie in gesso, medaglie, armi, elmetti, gorgiere in metallo, lance,
minerali, conchiglie, rami di corallo, esempi di calligrafia (forse del calligrafo
mennonita Lieven Willemsz. Van Copenol) e altri oggetti.
Anche dalle raccolte di documenti emergono i contatti frequenti dei pittori con
personaggi al di fuori del calvinismo diffuso nelle 7 province unite, dove ancora si
respiravano tracce dell’iconoclasmo, denunciate in dipinti di artisti dei Paesi Bassi
del sud rimasti sotto l’influenza della Spagna.
Figure di grande pensiero e rilievo attraversarono la vita di Rembrandt in modo
decisivo come Constantijn Huygens o Jan Six, gli stimoli culturali venivano afferrati
e tradotti in pittura dall’artista che voleva penetrare sempre di più a fondo le
espressioni esteriori, figurative, dei sentimenti e dell’animo umano per suggerire
pensieri ed emozioni.
Nei maggiori studi pubblicati manca, ad eccezione di Gary Schwartz, l’attenzione nei
confronti di ciò che nel 1686 ci riferisce Filippo Baldinucci, ossia l’adesione di
Rembrandt alla “Religione de’ Menisti”, ossia alla fede mennoita. È una
testimonianza concreta data da Eberhart Keilhau, detto Monsù Bernardo, l’artista
danese, di madre fiamminga, che, dopo il 1642, aveva lavorato nella officina di
Rembrandt per 2 anni, poi ne aveva trascorsi tre presso il mennoita Hendrick
Uylenburgh, e infine aveva aperto una sua bottega, con allievi, ad Amsterdam, prima
di andare in Italia, nel 1651 e offrire a Baldinucci le notizie che aveva. Dal 1642,
ossia dal trasferimento ad Amsterdam, la sua committenza viveva accanto al
calvinismo ufficiale e apparteneva a gruppi minoritari, spesso di connotazione
mennoita. Le minoranze religiose presenti nell’Olanda del secolo d’oro avevano,
verso la pittura e la scienza, un atteggiamento più curioso e elastico rispetto alle
maggioranze al potere e alimentavano un mercato dell’arte ricco e complesso, con le
impronte della modernità.

REMBRANDT A LEIDA

Gli anni e i luoghi in cui visse sono fondamentali per comprendere i percorsi
attraverso i quali la cultura europea mette in discussione la centralità di Roma e se ne
stacca, alimentando una sorta di amore – odio verso la Curia che era stato innescato
dalla riforma di Martin Lutero (1517) e che è alla base delle vicende storiche
successive.
L’età di Rembrandt vede formarsi una nuova struttura della bottega pittorica, un
diverso tipo di committenza, un diverso rapporto con il circuito artistico.
Il collezionismo assume caratteristiche nuove e diventa un fenomeno più
generalizzato, a cui attingono ceti emergenti che diventano importanti e traggono
linfa dalle attività mercantili delle grandi città del Nord Europa.
Nonostante l’impennata di studi, verificatasi negli ultimi anni, da un lato la revisione
delle attribuzioni svolta dal 1968 in poi dal Rembrandt Research Project (Corpus),
dall’altro le indagini volte a ricostruire le fonti religiose e le componenti storiche e
politiche della sua ispirazione, molti aspetti della figura di Rembrandt sono ancora da
scoprire.
Un catalogo di dipinti più ridotto, grazie alla selezione fatta dal lavoro di gruppo del
Corpus, ci mostra una nuova possibilità di lettura del percorso biografico, se
ammettiamo una rispondenza stretta e un intimo dialogo tra le tematiche figurative e
le tappe fondamentali dell’artista.
Rembrandt negli anni di Leida era legato all’ambiente dei Rimostranti, ossia ai
membri di un movimento che si era staccato dal Calvinismo olandese e che era nato
all’inizio del XVII sec. a Leida, città natale di Rembrandt; egli frequentava, aveva
come colleghi o come committenti e a volte ritraeva personaggi che aderivano alla
fede mennoita, ossia anabattista; non sono state oggetto di attenzione da parte degli
studiosi l’omogeneità e l’affinità tra questi due ambienti religiosi né la loro reciproca
funzionalità come strumenti interpretativi, per chiarire i contenuti di molte opere di
Rembrandt.

REMBRANDT E L’AMBIENTE DEI RIMOSTRANTI

Vi è un evento che darà una svolta decisiva alle vicende storico – politiche dei Paesi
Bassi e delle Fiandre, ossia la ribellione che inizia nel 1568 contro Filippo II e contro
la Spagna che dominava da molti decenni queste regioni, dando vita alla guerra degli
80 anni.
Nel 1585 la parte settentrionale dei Paesi Bassi forma una repubblica calvinista
indipendente, mentre il Sud resta cattolico e spagnolo.
Il Nord, diventato autonomo sul piano sia politico che religioso, si distinguerà, nel
volgere del 600, per la sua fioritura economica, per l’espansione della classe
borghese, per la libertà di culto e di stampa, per l’affluire di uomini di cultura.
La Scuola Latina di Leida, di cui Rembrandt fu allievo dal 1613 al 1620, nonché
l’Università, diventano un polo scientifico internazionale.
Vi troviamo umanisti come Petrus Scriverius (fig.1), autore dei versi che Rembrandt
inserisce nell’acquaforte raffigurante il Ritratto del predicatore Jan Cornelis
Sylvius (fig.2) o come Justus Lipsius (fig.3), il quale, prima di convertirsi al
Cattolicesimo con grande gioia della Curia Romana, e quindi di trasferirsi
nell’università di Lovanio (1591), soggiornò a Leida; questa città, all’inizio del 600,
fu teatro della disputa tra i teologi Arminio e Gomaro per quanto riguarda il libero
arbitrio: secondo Gomaro solo Dio decide se l’uomo debba essere salvato o dannato,
mentre per Arminio la salvezza del cristiano è resa possibile solo dalla moralità del
suo agire.
I Gomaristi, detti anche Controrimostranti, erano fedeli al Calvinismo più rigoroso,
che credeva nella predestinazione e concepiva la legge divina come qualcosa di
inappellabile.
Gli Arminiani, ossia i Rimostranti, credendo nel libero arbitrio, nell’efficacia del retto
operare dell’uomo per il riscatto del peccato originale e per la conquista della grazia
divina, vivevano il Calvinismo in modo più aperto e liberale, senza condividerne il
rigore che giungeva alla iconoclastia; questo era l’aspetto discriminante che faceva
degli Arminiani Rimostranti una committenza per gli artisti più feconda e articolata.
Erano trascorsi alcuni decenni dalla cosiddetta “guerra alle immagini”, conseguenza
del fanatismo calvinista che provocò, nella seconda metà del 500, la distruzione di
molte opere d’arte a soggetto religioso delle chiese dei Paesi Bassi; ma una volta che
si calmò la furia distruttrice, erano comunque ancora vivi i principi che l’avevano
ispirata.
La natura morta e i temi di vita quotidiana sono una conseguenza della forzosa
rimozione del sacro dalla espressione artistica, in ottemperanza ai dettati di Calvino.
Nelle prosperose regioni del Nord che si erano date una struttura politica confederale
per reagire agli spagnoli e scacciarli, si erano create due ideologie religiose;
spaccatura resa più profonda da importanti implicazioni storico – politiche.
I Rimostranti (che prendevano il nome dalle Rimostranze presentate agli Stati
d’Olanda nel 1610) volevano fare, delle province che si erano rese indipendenti dalla
Spagna (Olanda, Zelanda, Utrecht, Frisia, Groninga, Gheldria, Over – Yssel), una
confederazione rispettosa della autonomia decisionale di ciascuna di esse; i
Controrimostranti erano invece fautori di un forte potere centrale che doveva
egemonizzare le province libere.
Durante il Sinodo Calvinista di Dordrecht (1619) i Rimostranti furono espulsi dalla
chiesa in cui avveniva la riunione; il Sinodo decise di tradurre la Bibbia in olandese,
facendo sì che l’interpretazione delle Sacre Scritture spettasse alla coscienza del
singolo individuo.
La casa di Orange aveva ereditato da Guglielmo il Taciturno (1533 – 1584), che si
era messo a capo delle rivolte contro la Spagna, un ruolo egemone nei confronti dello
Stato che stava nascendo.
L’oscillare dell’atteggiamento politico – religioso dei discendenti di Guglielmo,
favorevoli ora al Calvinismo intransigente, ora a quello liberale, avrà importanti
ripercussioni sulla nascente società olandese e sulla sua vita artistica.
A Guglielmo il Taciturno succede Maurizio d’Orange (1567 – 1625) che epura dalla
pubblica amministrazione gli Arminiani e si schiera in favore dei Gomaristi.
Alla sua morte subentra Federico Enrico d’Orange (1584 – 1647) che allenta la
tensione nazionalistica, apre le porte della pubblica amministrazione a esponenti della
corrente rimostrante, ossia ai seguaci di Arminio, e crea un clima più aperto e
favorevole verso minoranze religiose come i Mennoniti o Anabattisti che con i
Rimostranti avevano affinità su questioni di fede fondamentali come la grazia divina
e il libero arbitrio.
Queste minoranze venivano così non solo tollerate, ma anche elevate a qualche
partecipazione nella gestione del potere pubblico. Ebbero peso forse,
nell’atteggiamento di Federico Enrico, le sue ascendenze familiari: da parte di madre
era pronipote di Gaspard de Coligny, massacrato per le sue idee religiose la notte di
San Bartolomeo, il 24 agosto 1572. Importante fu la moglie Amalia van Solms (1602
– 1675).
Significativa è la lettura degli orientamenti artistici di Amalia; oltre alla coppia di
ritratti, il suo e quello del consorte, commissionati a Gerrit van Honthorst (vedi il
ritratto di Federico Enrico del 1631 conservato all’Aia, Huis ten Bosch) (fig. 4) e a
Rembrandt (vedi il ritratto di Amalia van Solms del 1632, conservato a Parigi Musée
Jacquemart – André (fig. 5), è una spia del clima culturale di corte, la collezione di
dipinti che appartengono a Amalia e a Federico Enrico, orientata verso Jan Lievens, i
Caravaggisti di Utrecht.
Lo Stadhouder Federico Enrico aveva presso di sé, come segretario e consigliere in
materia artistica, Constantijn Huygens (1596 – 1687) che era anche un valente
compositore che, contro le ordinanze del Sinodo di Dordrecht, si batteva in favore
della musica d’organo nelle chiese: l’iconoclastia calvinista, oltre a vietare il culto
delle immagini religiose, proibiva la musica d’organo durante le funzioni sacre; il
predicatore Johan Jansz. Calckman tuonava contro la musica, usanza pagana, e citava
la condanna dei Salmi da parte di San Paolo; possiamo considerare una risposta
ufficiale in favore del canto e della musica nelle parrocchie il dipinto di Jacob
Gerritsz. Cuyp (Dordrecht 1594 – 1651/52) intitolato Federico Enrico come Davide
Trionfatore, 1630, conservato a ‘s – Hertogenbosch, Noordbrabants Museum (non
più nella Gemeentehuis) (fig. 6); esso celebra la vittoria della casa d’Orange dopo
l’assedio di ‘s – Hertogenbosch, nel Brabante del Nord, concluso nel 1629, e
raffigura lo Stadhouder circondato dall’allegoria delle sette province indipendenti;
una vecchia canta tenendo in mano il libro dei Salmi, mentre tre donne fanno musica
d’accompagnamento; i Rimostranti, i Calvinisti libertini e i Mennoniti negavano che i
credenti si dovessero assoggettare a un moralismo così rigido e mortificante, e si
aprivano verso tutte le forme d’arte, scienza e lettere che il crescente benessere del
paese offriva, in una fioritura favorita dall’affluire di uomini di cultura che in Olanda,
e, in particolare ad Amsterdam, trovavano libertà di espressione.
La figura di Constantijn Huygens è rappresentativa di questo clima
neorinascimentale.
Poeta, scrittore, musicista, padroneggiava il greco e il latino; era aperto verso tutte le
scienze, astronomia, fisica, teologia e filosofia, architettura e pittura; la sua
autobiografia è preziosa per la conoscenza del suo tempo; oltre a fornire notizie su di
lui e sulla sua famiglia, passa in rassegna gli uomini più importanti da lui incontrati;
la parte finale, dedicata agli artisti che conosceva, è importante soprattutto quando
Huygens scrive di “una coppia di nobili e giovani uomini di Leida”, ossia Rembrandt
van Rijn e Jan Lievens: abbiamo la sensazione di penetrare in modo diretto il gusto, il
dibattito artistico di quei luoghi e quegli anni.
Nella parte dedicata a Rembrandt è pregnante la descrizione del dipinto Giuda
pentito restituisce i trenta denari d’argento al capo dei sacerdoti e agli anziani, 1629
(fig. 7/8); esso è portato della facoltà di penetrare nel cuore degli argomenti e dei
personaggi per trarne l’essenza più profonda e per renderla evidente e percepibile;
questa virtù ha consentito al giovane olandese di superare gli antichi (Protogene,
Apelle, Parrasio) e di vincere il trofeo dell’eccellenza artistica sulla Grecia e
sull’Italia.
L’empatia fra l’artista e Huygens si rileva confrontando le parole dell’uno e dell’altro
che dice che nelle due opere che il principe Federico Enrico gli ha commissionato
(una con la sepoltura di Cristo e l’altra con la sua Resurrezione) e che lui ha eseguito
con cura, sono state rese le sue più profonde e naturali emozioni. E giustifica con ciò
la lunga permanenza nelle sue mani.
Siamo davanti all’unico caso in cui il pittore scrive entrando nel merito delle sue
motivazioni artistiche: il brano appartiene ad una lettera inviata il 12 gennaio 1639 a
Constantijn Huygens; la citazione da Huygens che precede è cronologicamente
anteriore, in quanto egli stese le sue memorie in latino a 33 anni, verso il 1629 o il
1630. Rembrandt cerca di andare verso le aspettative del segretario di Federico
Enrico e, indirettamente, della cerchia filo – rimostrante.

L’ASINO ICONOCLASTA
Una testimonianza interessante del collezionismo seicentesco ci viene offerta da una
particolare tipologia di dipinti: quelli che raffigurano i cabinets d’amateur, ossia che
riproducono le collezioni d’arte, archeologia e curiosità naturali o scientifiche,
naturalia o artificialia, accumunate da un uomo appassionato e raffinato.
Più frequenti nelle Fiandre che nelle province nederlandesi, i cabinets ci permettono
di ricostruire numerose raccolte private, la loro genesi, le vicende di alcuni dipinti;
spesso l’autore era animato da intenzioni encomiastiche nei confronti del proprietari
di questi splendori artistici, e lo raffigurava al centro della sala, le cui pareti erano
coperte di quadri fino al soffitto, intento a parlare con nobili ospiti, in compagnia a
volte di una scimmietta, simbolo dell’arte, imitatrice della natura.
Ci sono alcuni documenti della pittura barocca in grado di testimoniare come lo
spettro dell’iconoclasmo che aveva travagliato i paesi nordici nella seconda metà del
500, non fosse ancora scomparso, e fosse diventato il simbolo dell’ignoranza e della
violenza ottusa che si oppone ai valori della cultura, della bellezza e della tolleranza
religiosa.
Vi è un’opera conservata a Monaco, di cui esiste una replica nella Galleria Nazionale
di Arte Antica, in Palazzo Barberini a Roma. (fig.9/10)
Entrambe databili verso il 1616 – 1618, in esse vediamo una sala piena di oggetti e
dipinti raffinati e preziosi; tre intenditori esaminano un quadro; nell’insieme si respira
un’atmosfera di serenità e pienezza; ma sulla destra, all’estremo, al di là di un arco,
sotto un portico che sembra aperto verso l’esterno, si intravede una scena
raccapricciante: uomini dalla testa d’asino, con bastoni e torce, si avventano su una
catasta di libri, sculture e varie opere d’arte distruggendole e incendiandole.
Queste visioni esprimono e evocano il perdurare di una spaccatura profonda delle
coscienze tra Fiandre e Paesi Bassi del Nord che si era consolidata e radicalizzata.
Nell’intento laudativo dell’artista verso gli amatori del bello, l’iconoclasmo, con una
sineddoche figurativa, diventa il simbolo dell’oscurantismo e della bestialità, quasi un
pullulare dell’inconscio che minaccia fuori dalla porta il mondo di bellezza e
equilibrio che il committente aiuta a creare.
È una situazione espressiva tipica dei territori filopapisti e filo spagnoli in cui viveva
il pittore, Frans Francken II (Anversa 1581- 1642).
Un altro esempio della rivelazione iconografica degli asini iconoclasti è il dipinto Gli
arciduchi Alberto ed Isabella in visita ad un collezionista (1615 – 1621, Baltimora,
Walters Art Gallery) (fig. 11/12); al centro della sala è poggiato un quadro contro una
sedia; in esso, uomini dalla testa d’asino, si accaniscono su libri e dipinti, in un
atteggiamento che per le nostre coscienze contemporanee evoca gli spettri nazisti e i
roghi della entartete Kunst, l’arte degenerata. In alto, al centro della parete, un dipinto
traccia un’allegoria salvifica: la pittura (ossia la donna con la maschera sulla spalla),
è difesa dall’ignoranza (con l’attributo delle orecchie d’asino) grazie all’intervento di
Minerva e della Fama.
L’autore (insieme a Jan Brueghel il Vecchio, con interventi di Hieronymus Francken
II e Frans Francken II) dell’opera, Adriaen van Stalbemt (1580 – 1662), nato ad
Anversa, dove sopravviveva il dominio spagnolo, era cresciuto in Zelanda, dove i
suoi genitori, appartenenti alla Chiesa riformata, si erano rifugiati per salvarsi dalle
persecuzioni.
Le lotte fratricide fra Cattolici e Protestanti, la ribellione alla Spagna, i
sommovimenti iconoclasti che avevano segnato la giovinezza di Van Stalbemt e della
sua generazione, avevano trovato una composizione con il trasferimento della corte in
Spagna; il governo illuminato degli arciduchi Alberto e Isabella avevano aperto un
periodo di benessere e tranquillità favorendo il ritorno di chi si era allontanato; Van
Stalbemt si stabilisce di nuovo ad Anversa nel 1610.
Si ricomponeva lentamente la situazione politica e religiosa, e l’immagine dell’asino
iconoclasta stava a significare una spaccatura culturale sempre meno appariscente,
ma profonda e compenetrata.
Secondo Hans Belting l’iconoclastia ha costituito, ogni volta che il destino si è
affacciato nella storia della religione e dell’arte (in periodo bizantino, nel secolo XIV)
una tabula rasa su cui è stata costruita la fase storica successiva; con la Riforma
Luterana e Calvinista che poneva la religione nella fede e nell’interiorità dell’uomo
più che in oggetti di culto e in usanze e pratiche esteriori, l’immagine cadeva nelle
mani degli iconoclasti che volevano distruggerla in quanto falso simulacro, ovvero
veniva consegnata ai collezionisti che ne neutralizzavano la valenza sacrale e ne
evidenziavano solo il valore di mercato come opera d’arte.
Quindi, secondo l’opera di Belting, dovremmo dare Rembrandt al mercato e
considerare le sue scelte formali e contenutistiche come regolate dalle leggi dello
scambio e dalle richieste della committenza.
Siamo quindi di fronte a uno dei settori specialistici della divisione in generi
dell’attività delle varie botteghe; e in effetti questo sembra lasciar intendere il lavoro
della mostra di Amsterdam (Berlino e Londra) del 1991.
Una parte della critica olandese non crede però in così rigide divisioni di competenze.
È il vasto settore dei pittori “di storia” e in particolare di storie bibliche, a confondere
gli schemi e a rompere i ranghi. È solo considerando Peter Lastman, Jan e Jacob
Pynas, Claes Cornelisz, Jan Tengnagel, François Venant, definiti prerembrandtisti
(fig. 13/14/15) e tutta l’area della fede rimostrante, mennonita e sefardita, non solo
come singolare committenza ma anche come impasto ideologico e fideistico, che
potremo capire Rembrandt e collocarlo nel suo contesto. Non si tratta solo di
sottolineare le derivazioni iconografiche di Rembrandt (fig.16) da Lastman, ma di
comprenderne i debiti verso la cultura pittorica italianizzante.
In alcune sue opere Rembrandt si è impegnato nella ricerca del valore sacrale
dell’arte e nel rapporto della religiosità con la società del suo tempo, secondo il
diffondersi della devotio moderna, per cui anche le storie bibliche sono evocate in
chiave attualizzante, per interpretare il presente.
Bisogna tenere presente un altro fattore che attraversa in senso trasversale le
minoranze religiose con cui Rembrandt convive; si tratta del Nicodemismo, ossia
della dissimulazione delle proprie idee, legittimata e resa necessaria dalle
persecuzioni a cui le sette ereticali (come i Mennoniti) erano state ed erano, anche se
in maniera incruenta, sottoposte.

LA PREDICA DI SAN GIOVANNI BATTISTA

Il grande filosofo e sociologo Georg Simmel paragonava le opere a tema religioso di


Rembrandt al Paradiso dell’Orcagna e all’Assunta di Tiziano. I temi religiosi
affrontati ci guidano verso la sua committenza e verso il rapporto tra artista e
mecenate.
La Predica del Battista di Rembrandt (Berlino, Gemäldegalerie, 1634 – 1635) (fig.
17), un grande dipinto a monocromo, apre molti interrogativi. In esso una folla
eterogenea di figure, in buona parte attente, alcune distratte, circonda la figura del
Battista che, in piedi al sommo di un pendio digradante in un vasto paesaggio, porta
la mano sinistra al cuore e protende la destra in un gesto eloquente di accattivante
oratoria; i piedi nudi, il capo leggermente inarcato nella tensione della predica, egli è
investito frontalmente dalla luce del giorno che forma una losanga chiara, radente il
terreno e i corpi accasciati che si addensano intorno a lui.
L’atmosfera è di sospesa suggestione; tutti sembrano dipendere dalla sua parola,
tranne le due figure in piedi che gli voltano le spalle e che simboleggiano l’ipocrisia
farisaica e tranne i bimbi e i cani che nella fascia inferiore, del tutto in ombra, del
dipinto, hanno atteggiamenti imprudenti.
Lo sfondo è costituito da una città lontana e da archi con una cascata d’acqua; l’erma
alta come un obelisco (quindi le figure dei farisei) erano già presenti nell’Ecce Homo
in grisaille del 1634 (Londra, National Gallery) (fig. 18); il tipo di paesaggio più
latino che nordico, è quello che Pieter Lastman (1583 – 1633), maestro di Rembrandt,
riteneva adeguato per scene bibliche.
Il dover raffigurare una folla di personaggi immersi nella natura, offriva il destro
all’abilità del pittore di variare in molti modi la postura, le vesti, i gesti delle figure;
Cornelisz. Van Haarlem (1562 – 1638) nel dipingere La predica di San Giovanni
Battista (1602, Londra, National Gallery) (fig.19) aveva svolto il tema in modo
formale ed esteriore; Rembrandt invece sceglie di dare ad ogni comparsa del suo
dipinto corale l’espressione di un atteggiamento interiore, di un moto che è
dell’animo; la stesura monocroma della grisaille livella e rende uniforme il brulicare
esteriore delle vesti e dei corpi, tutti in posizioni incurvate, piene di tensione.
L’artista ricorreva a questa tecnica come stadio preparatorio per una incisione; qui
non c’è stato il passaggio ad una fase successiva, ma probabilmente l’artista ne era
intenzionato; egli ebbe dei ripensamenti in quanto ingrandì il dipinto finito, che
misurava 45 x 50 cm, aggiungendo in due tempi larghe strisce di tela nella parte
inferiore e sinistra. Oggi la tela è applicata su tavola e l’opera misura 62,7 x 81 cm.
Lo schizzo conservato al Louvre (fig. 20), molto probabilmente è stato disegnato
dall’autore per indicare come voleva fosse incorniciato il dipinto dopo averlo
ampliato; quest’ultimo era stato eseguito fra il 1634 e il 1635, e fu acquistato poi da
un personaggio in vista, di religione rimostrante (ritratto più volte da Rembrandt), Jan
Six, ma non prima del 1652, anno in cui venne redatto un accordo scritto che
riguardava questo dipinto e altri due.
Possiamo escludere che Jan Six fosse il committente, sappiamo solo che l’opera, a
distanza di 17 anni dalla sua esecuzione, era ancora in mano all’autore, e quindi
dobbiamo ricorrere a quanto conosciamo della situazione personale di Rembrandt nel
1634 – 1635.
È nel 1632 che si trasferisce ad Amsterdam, città dove le sette religiose, altrove
perseguitate, trovano maggiore libertà e dove si era creata una fiorente comunità di
religione mennonita. Ne facevano parte il pittore e il mercante d’arte Hendrick
Uylenburgh (1587 – 1661), dove l’artista abitava, restando lì anche dopo il
matrimonio con Saskia Uylenburgh, cugina di Hendrick, fino al 1635 inoltrato, anno
in cui i due sposi si trasferirono in una casa loro sulla Breestraet (la medesima
strada). Con questo sodalizio, Rembrandt riconferma la sua vocazione alla pittura “di
storia”, già manifestata scegliendo come primi maestri a Leida (1621 – 1623) Jacob
Isaacsz. Van Swanenburgh (1571 – 1638) e poi ad Amsterdam (1624) Pieter
Lastman; pittura “di storia” significava di soggetti biblici, mitologici, storici e
implicava anche un tipo di committenza alternativo al Calvinismo rigoroso.
Swanenburgh non può essere definito un pittore “locale”; un suo lungo soggiorno a
Napoli, la sua parentela con la famiglia Van Heemskerck, i soggetti delle opere
(visioni infernali, chimere e stregozzi, scene di storia antica, paesaggi e vedute) che ci
sono pervenute, ce ne mostrano la complessa cultura italianizzante; era sempre stato
considerato un cattolico; di recente, grazie alla pubblicazione della cronaca della
famiglia Van Heemskerck, è stato dimostrato che faceva parte della cerchia
rimostrante.
Hendrick Uylenburgh era nato a Cracovia da una famiglia di artisti originari della
Frisia, rifugiati in Polonia, dove la versione sociniana dell’Anabattismo era tollerata;
essi erano seguaci di Menno Simons (1496 – 1561), che era partito dalla Frisia per
diffondere le sue idee; nel 1620 l’amministrazione di Amsterdam iniziò ad essere
gestita da uomini favorevoli alla religione rimostrante e tolleranti verso le altre
minoranze religiose, fra cui la mennonita; nel 1625 Federico Enrico d’Orange (1584
– 1647), animato da simpatie per i Rimostranti, succedette al fratellastro Maurizi;
questo clima aveva favorito il ritorno degli olandesi, emigrati per sfuggire a
persecuzioni religiose, e aveva incrementato la comunità mennonita di Amsterdam.
Gli Uylenburgh appartenevano al clan mennonita del Waterland, non radicale e più
disposto a mescolarsi con gli Olandesi che avevano idee diverse.
Alcuni documenti ci mostrano Hendrick Uylenburgh attivo sia nella versione di
artista che in quella di mercante, inserito in un particolare gioco di denaro preso in
prestito e garantito da quadri.
Uylenburgh aveva creato una bottega importante e vasta, tanto che Filippo Baldinucci
(1624 – 1696) la definiva “la famosa Accademia di Eeulemborg”.
Per far funzionare la sua impresa aveva bisogno di denaro liquido; da documenti
notarili del 1640 si evince che alcuni Mennoniti di Amsterdam, nonché alcuni pittori,
come lo stesso Rembrandt, Claes Cornelisz. Moeyaert, Simon de Vlieger,
concedevano prestiti a Uylenburgh, ricevendo da lui una promessa di restituzione
avallata dal suo stock di dipinti.
Dalla collocazione nell’ambito di questo operoso gruppo familiare che aveva la
struttura della brotherhood e di cui risulta ben evidente la religiosità mennonita,
Rembrandt derivò una committenza e una produzione molto settoriale; possiamo
intuire in questo mondo olandese del primo Seicento, infatti, una divisione dei ruoli.
Mentre il Calvinismo intransigente era peculiare dello strato sociale più elevato,
detentore delle maggiori cariche pubbliche e dei settori più qualificati dell’economia
del paese, i Calvinisti libertini e i Mennoniti, i Cattolici, gli Ebrei, partecipavano alle
attività mercantili minori, secondarie e fiorenti; era questa la fascia sociale in cui
prosperavano la produzione e lo scambio delle opere d’arte; uno strumento prezioso
per ricostruire questo settore particolare della vita cittadina sono i sette volumi del
Künstler – Inventare di A. Bredius; da esso e dai documenti apparsi nel corso del 900
in Oud Holland, in Maandblad Amstelodamum, e in Jaarbock Amstelodamum, circa
la committenza d Rembrandt, sono stati dedotti molti collegamenti.
Da questi e da altri indizi, si ricava l’impressione che la bottega di Uylenburgh
ruotasse intorno alle invenzioni di Rembrandt e ne gestisse il mercato delle copie e
delle incisioni. Il gruppo delle grisailles a soggetto biblico era destinato a diventare
una serie di acqueforti adatte ad un’utenza interessata ai soggetti religiosi. Gli stessi
destinatari attendevano le incisioni – ritratto di importanti predicatori come Cornelis
Claesz. Anslo (1614), o come Jan Cornelis Sylvius (1646).
Gli anni intorno al 1635, in cui vengono eseguiti sia la Predica del Battista sia il
Ganimede, sono per Rembrandt quelli di più intensa e diretta frequentazione
dell’ambiente mennonita; questi contatti culmineranno nel doppio ritratto del pastore
mennonita Cornelis Claesz. Anslo (e di una figura femminile che gli studi hanno
puntualizzato esserne la moglie), una conferma dei rapporti esistenti fra il pittore e
una parte minoritaria ma importante della vita di Amsterdam. Membro di una ricca
famiglia che commerciavi tessuti all’estero e in patria, Cornelis Claesz. Anslo come
Hendrik Uylenburgh, apparteneva alla comunità del Waterland, ed era stato scelto
come predicatore nella cappella Grote Spijker, sul Singel. All’interno della realtà
anabattista, quella a cui apparteneva Anslo era la setta che si integrava meglio, senza
fondersi nella realtà calvinista.
Rembrandt lo ritrae anche in un’acquaforte firmata e datata 1641(fig. 21), preceduta
da due disegni preparatori (Londra, British Museum, a mezza figura come
l’acquaforte, e a Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques, coll. Edmond de
Rotschild, a figura intera, datati 1640) (fig. 22/23). L’incisione ci mostra l’uomo da
solo, seduto davanti ad un tavolo su cui poggiano due volumi, uno aperto davanti a
lui, l’altro sorretto dalla sua mano destra, che stringe uno stilo. Il gesto eloquente
della mano sinistra e lo sguardo penetrante rivolto ad un ascoltatore immaginario
creano un corto circuito fra la parola scritta e il pensiero che il predicatore esprime.
Alle sue spalle un muro spoglio e un chiodo disegnato a rilievo, in modo
illusionistico, stanno a significare che il quadro viene voltato e appoggiato alla parete,
con scritto sul dorso “Rembrandt f. 1641”, è stato staccato da quel chiodo. I versi di
Joost van den Vondel, anche lui anabattista, e considerato il più importante poeta del
barocco olandese, scritti sia sul margine del passepartout del terzo stato di questa
incisione, sia al bordo di uno dei due disegni preparatori, dicono “Chi vuol vedere
Anslo, deve ascoltarlo”, la voce è più importante dell’immagine; è questo il senso del
quadro voltato verso il muro: ci lascia intendere che la figura riprodotta è secondaria
rispetto all’eloquenza del predicatore, simboleggiata dal gesto della mano, di cui
vediamo il palmo suadente, rivolto per catturare l’attenzione dei suoi seguaci sui
contenuti dei volumi sacri che ha davanti. L’incisione descrive l’abito bordato di
pelliccia che indossa Anslo, il cappello largo, il colletto bianco tipico dei mennoniti,
il senso di agiatezza che essa ci comunica si accentua davanti al dipinto firmato da
Rembrandt 1641, conservato a Berlino, Gemäldegalerie (fig. 24). L’interno
domestico confortevole lì raffigurato è fondato su tre elementi chiave: il viso
dell’uomo con la bocca socchiusa nell’atto di parlare, il gesto persuasivo della mano,
illuminata da una luce che sembra nascere dai libri sacri ammucchiati sul tavolo, e si
riflette nel volto della moglie che sembra ascoltare attentamente. Il realismo di
Rembrandt si concentra sulla rappresentazione dei pensieri e dei sentimenti. Sul
tavolo vi è un tappeto e un candeliere a due bracci con una sola candela.
Gli anni della committenza mennonita sono i più felici per l’artista e corrispondono a
quelli del matrimonio celebrato il 22 giugno 1634 con Saskia Uylenburgh che morirà
il 14 giugno 1642, alcuni mesi dopo la nascita e il battesimo del figlio Titus. Dopo
questa data si affievoliscono le tracce del rapporto con Hendrik Uylenburgh.
Importante è anche la collaborazione con Govaert Flinck (1615 – 1660), il quale,
figlio di genitori mennoniti, dopo un apprendistato presso il pittore Lambert Jacobsz.
(1598 – 1636), anch’egli mennonita, si installa presso Uylenburgh, e per qualche
tempo si dedica anche a copie da opere di Rembrandt; la significativa biografia di
Flinck è stata ricostruita ed è certo che egli raggiunse la maggiore intimità di lavoro
con il maestro proprio nel 1634 – 1635; il suo ruolo era di jonggezel, ossia più di
collaboratore che allievo, ed essendo un altro ospite di casa Uylenburgh, la
quotidiana vicinanza ci ha dato una coppia di ritratti con Rembrandt e Saskia vestiti
da pastore (Amsterdam, Rijksmuseum) (fig. 25) e da pastorella (Braunschweig,
Herzog Anton Ulrich – Museum) (fig. 26).
Le tappe successive della sua carriera, gli incarichi ricevuti da Amalia van Solms, la
Allegoria in memoria di Federico Enrico d’Orange (1656, Amsterdam,
Rijksmuseum), i rapporti con il poeta Joost van den Vondel (1587 – 1679, di famiglia
anabattista), il ciclo, di ispirazione nazionalistica, sulla Rivolta dei Batavi contro i
Romani, incompiuto a causa della sua morte e il cui completamento fu affidato a
Rembrandt stesso, ci dimostrano la consonanza fra i due.
Filippo Baldinucci, che impernia le sue notizie su Rembrandt proprio sul periodo
1632 – 1642 (anno della Ronda di notte), indica come allievi dell’artista solo Govaer
Flinck e Gerrit Dou.
Gli autori del Corpus sono riusciti, unendo la nuova documentazione alle notizie
degli studiosi precedenti, a individuare i committenti di buona parte dei quadri di
Rembrandt.
Ci sono però alcuni vuoti per opere importanti, anteriori al 1642 che sono spiegabili
solo analizzando il rapporto di confraternita dell’artista con Hendrik Uylenburgh.
Il periodo più pregnante della produzione di Rembrandt è il decennio che segue al
trasferimento da Leida (1632).
Filippo Baldinucci ci dà di Rembrandt un’immagine la cui importanza e attendibilità
non sono state molto valutate.
Lo storico aveva una fonte diretta nella persona di Eberhart Keilhau, noto come
Monsù Bernardo (Elsinore 1624 – Roma 1687), un pittore di nazionalità danese,
figlio di “donna fiamminga”, giunto in Italia dopo essere stato due anni (1642 – 1644)
nello studio di Rembrandt ad Amsterdam, sotto la protezione di alcuni parenti della
madre; poi tre anni (1644 – 1647) nell’Accademia di Eeulemborg (ossia di Hendrik
Uylenburgh), non tralasciando però del tutto la scuola di Rembrandt e infine aprì casa
e scuola ad Amsterdam portandosi dietro giovani scolari fino al 1651, anno in cui
partì per l’Italia.
Scrive lo storico su Rembrandt: “Professava a quel tempo la religione dei Menisti
(falsa) che è contraria a quella di Calvino perché si battezzano a 30 anno. Non
eleggono predicanti letterati, ma usano per quest’ufficio uomini di vile condizione,
purchè siano da loro stimati (Galantuomini e Giusti). Questo pittore e intagliatore fu
molto diverso dagli altri sia per il modo in cui governò sé stesso, sia nel modo di
dipingere, alquanto stravagante. Visitava spesso luoghi di pubblici incanti dove
raccoglieva abiti vecchi e non più usati, purché fossero bizzarri e pittoreschi e tutto
ciò che era pieno di immondizia lo metteva nelle mura del suo studio tra le armi
antiche e moderne, frecce, alabarde, daghe, sciable, coltelli, tantissimi disegni,
stampe, medaglie e tutto ciò che credeva potesse servire ad un pittore. Non sappiamo
se perseverava in quella religione.
La definizione di “Menista”, ossia di “Mennonita” ci colpisce ancora. Questa setta
religiosa aveva fatto rinascere nell’Olanda del ‘500 l’eresia anabattista, repressa
precedentemente.
La caratteristica più importante degli Anabattisti, ma anche dei Mennoniti, è la
somministrazione del battesimo in età adulta (a 30 anni) a coronamento di un’ascesi e
di una purificazione interiori, conseguenti ad un agire secondo morale, frutto del
libero arbitrio; secondo loro il battesimo è un atto di fede che può essere compiuto
consapevolmente solo dall’adulto e non dal bambino (fig. 27/28).
C’è un’opera di Rembrandt che centra il tema del battesimo dell’adulto come catarsi
salvifica dopo la conversione: Il Battesimo dell’Eunuco (1626, Utrecht,
Rijksmuseum, Het Catharijneconvent, fig. 29) che ricalca l’opera di Pieter Kunsthalle
con lo stesso titolo e soggetto (1623, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle, fig. 30).
L’episodio è tratto dagli Atti degli Apostoli (8: 26 – 40); Filippo, inviato dall’angelo
del Signore sulla strada da Gerusalemme a Gaza, incontra un Eunuco, alto ufficiale
della regina di Etiopia, che sta leggendo un passo del profeta Isaia (il libro nel quadro
è aperto); grazie alla spiegazione che gli offre Filippo, l’Eunuco comprende che il
testo annuncia il sacrificio di Cristo; si converte e chiede di essere battezzato.
Punti chiave dei conflitti teoretici sono quindi riassunti in una sola immagine da
Rembrandt: l’importanza di una guida interpretativa nella lettura delle Sacre
Scritture, la necessità di una consapevole adesione al sacramento del Battesimo, e la
sua efficacia per la rinascita interiore del cristiano.
Accanto a questo sacramento gli Anabattisti conservano la Cena, attribuendole un
carattere commemorativo: un pasto comune e semplice viene elevato alla dignità
dell’Ultima Cena di Cristo. Concetti che potremo usare per interpretare alcune
pseudo nature morte del 600 Olandese che ci presentano, in primo piano, una tavola
imbandita e nello sfondo Cristo che parla con Marta e Maria (fig. 31); nel constatare
in alcuni la tendenza ad elevare il quotidiano a simbolo del sacro, dobbiamo ritenere
che alcuni comportamenti religiosi arrivano a penetrare il mondo espressivo degli
artisti e soprattutto di quelli che operano in una società prevalentemente calvinista
dove era vietata, o non incoraggiata, la raffigurazione sacrale.
Il movimento mennonita si diffuse molto in Olanda e prese il nome da Menno
Simons che era su posizioni più moderate se confrontate con l’estremismo di
Giovanni di Leida; lentamente ottenne esso libertà di culto e riconoscimento ufficiale;
rispetto all’Anabattismo, di cui era una derivazione, si caratterizzò per l’intonazione
meno rivoluzionaria non solo nel senso di Nicodemismo, ossia di dissimulazione
prudente delle proprie idee, quanto come profonda interiorizzazione della fede,
fondata sull’individualità; volevano ripristinare la cristianità del tempo degli apostoli
e affermare il messaggio d’amore del Sermone della Montagna.
Alla fine del 500 i Mennoniti, benché pacifisti, contribuirono a finanziare Guglielmo
d’Orange e la sua lotta per liberare le province ribelli dei Paesi Bassi dalla
dominazione spagnola; questo permise loro di assumere un peso politico e qualche
incarico nella magistratura.
Gli strati sociali coinvolti erano solo quelli intermedi; la religione mennonita non si
diffuse nelle classi alte della nobiltà e neppure nel ceto popolare.
Predica di San Giovanni Battista.
Si tratta del profeta che battezzò, nelle acque del Giordano, Cristo a 30 anni e da lui
trae il suo nome l’Anabattismo. Alla scena del Battesimo di Cristo, Rembrandt,
dedicò un famoso disegno (Berlino, Kupferstichkabinett der Staatliche Kunst –
sammlungen, fig. 32).
Il carattere messianico della sua predicazione offriva il destro ad
un’autoidentificazione da parte di minoranze religiose che non avevano un edificio in
cui riunirsi e contrari a trovare il proprio luogo di culto all’aperto, sotto gli alberi di
una foresta, e a darsi liberamente i propri sacerdoti; per i Mennoniti (già Baldinucci
lo nota), non vi erano gerarchie prefissate; qualsiasi fedele poteva diventare ministro
del culto.
L’iconografia della Predica ha in Olanda vari precedenti, fra cui il più vicino a
Rembrandt è quello del suo maestro Lastman (fig. 33), e il più noto è il dipinto di
Pieter Brueghel il Vecchio (1566) conservato a Budapest, Szépmüvészeti Múzeum
(Fig. 34). Esso, correlato da alcuni studiosi all’ambigua posizione eterodossa di
Brueghel nei confronti del Calvinismo, costituì forse un modello per Rembrandt (che
aveva un libro di incisioni di Brueghel il Vecchio, come sappiamo dall’inventario dei
suoi beni redatto il 25 – 26 luglio 1656 nella casa di Breestraet) anche nelle
intenzioni. Le analogie sono costituite dall’articolazione complessiva, dalla figura
dell’uomo arrampicato sull’albero, e dalla presenza dell’autoritratto dell’autore; in
Brueghel vi è il tema della mescolanza delle varie etnie che verrà sviluppato in chiave
di grandioso ecumenismo nel dipinto rembrandtiano, in cui si distinguono un indiano,
un cinese, un negro, un turco, messi lì per far pensare che il messaggio verbale della
predica supera i confini linguistici e geografici. Si avverte tutta la forza attualizzante
della pittura di Rembrandt, molto intensa nei dipinti a soggetto biblico (Fig. 35,
particolare della Fig. 17, Rembrandt, Predica del Battista, Berlino. La parte centrale
luminosa del dipinto) a confronto con la tavola di Cebete, Fig. 36). Le componenti
autobiografiche dell’opera, la presenza, tra le figure più vicine al Battista, della madre
e del padre dell’artista, riconoscibili attraverso un confronto con i ritratti e il viso di
Rembrandt, sono state sempre ammesse dagli studiosi, ma mai rapportate a
un’adesione alla fede mennonita; questo si può spiegare con il fatto che solo di
recente le notizie a carattere storico sul contesto sociale e religioso dell’artista sono
iniziate ad essere prese in considerazione e ad essere riunite.
La circolarità a chiocciola nella disposizione delle figure, i bambini e i cani che
compiono gesti inconsulti, quasi cancellati dalla penombra, che si agitano nella parte
inferiore del quadro non toccata dalla luce della Grazia che emana dal Battista, la
tensione allegorica complessiva, si possono spiegare se confrontati con la Tavola di
Cebete dipinta dal primo maestro di Jan Lievens, Joris van Schooten (1578 ca. –
1652/53) nel 1624 ed esposta nella sala del Municipio di Leida, si tratta di uno dei
tentativi di illustrare pittoricamente un topos della classicità. La Cebetis Tebani
Tabula era un paradigma della vita dell’uomo e della sua ascesi progressiva verso la
sapienza; dalle mura della città di Dio sono esclusi i bambini non ancora in grado di
prendere coscienza della loro interiorità, intenti in giochi futili; cavalcano un bastone,
brandiscono una girandola, tirano le briglie, giocano con un uccellino, fanno le bolle
di sapone (simbolo di vanitas); atti comunque non del tutto negativi se confrontati
con quelli degli adulti che si affaccendano male, banchettano, si lasciano attrarre da
cattivi obiettivi, sovrastati dalla figura nuda di Fortuna che getta monete mentre una
figura cristologica indica la porta d’ingresso alla città santa e alla collina rocciosa sul
cui culmine sta la vera conoscenza. In ombra, sotto la porta stretta, una donna vieta
l’ingresso ai più giovani con il dito alzato.
Esistono varie rese pittoriche della Tavola di Cebete; basti ricordare quella di
Giovanni Soens, dipinta per Ranuccio Farnese (1587, Napoli, Museo di
Capodimonte, fig. 37), e usata da Maurizio Calvesi per decifrare l’iconografia della
Camera della Badessa di Correggio.
Calvesi scrive che la Cebetis Tabula (Tavola di Cebete, filosofo greco), opera che fu
tradotta in latino alla fine del 400, contiene la spiegazione di un dipinto immaginario
allegorico che riguarda la vita dell’uomo. All’interno di una cittadella è raffigurato
l’itinerario della vita umana, insidiata da falsi obbiettivi. All’ingresso vi è la
spregevole Fortuna; al sommo e al centro siede la figura opposta, la “Vera
Disciplina” dispensatrice di Sapienza. I doni offerti dalla Fortuna sono da disprezzare
(piaceri, ricchezze, onori); quelli della Sapienza (le virtù, la castità) sono i beni che
conducono alla felicità. I putti rappresentano quelli che Cebete chiama gli
“Inconsulti”, coloro che sono alle soglie della cittadella della vita presidiata dalla
Fortuna e devono ancora entrarci per essere orientati verso il retto cammino. Sia
fisicamente che moralmente sono immaturi e versano nell’errore; pensano che i veri
beni siano quelli dispensati dalla Fortuna. Sono preda della lussuria e di ogni
bizzarria; sono senza consapevolezza e si agitano senza senso. Alcuni sembrano
infelici con le mani alzate, altri felici. Quelli felici hanno ricevuto dalla Fortuna che
ha tolto, invece, agli infelici. Ma sia la gioia che la tristezza sono entrambe insensate.
Nelle traduzioni pittoriche rinascimentali della Cebetis Tabula, gli “Inconsulti” sono
rappresentati come putti che giocano, gioiscono facendo musica e chiasso, o si
disperano. La Cebetis Tabula fu raffigurata a Parma dal fiammingo Giovanni Soens,
in un dipinto del 1580. Nella turba dei putti “inconsulti” in primo piano (alcuni nudi
fuori dalla porta, altri vestiti, dentro il muro di cinta, davanti al simulacro della
Fortuna) riconosciamo gesti e azioni presenti nella volta del Correggio, a riprova
della sua pertinenza a questo tema. I putti della Tabula giocano, si abbracciano e si
abbandonano, come quelli del Correggio, ad atteggiamenti scomposti; alcuni giocano
con una rondine, simbolo di felicità passeggera, altri sono paragonati ai cani che
seguono la Fortuna e compaiono al suo fianco o a fianco della Seduzione.
La versione seicentesca della Tavola di Cebete, opera di Joris van Schooten, è
calzante a quanto qui si vuole dimostrare, non solo per i motivi iconografici e
iconologici, ma anche per i legami oggettivi che possono confermare una conoscenza
dell’opera da parte di Rembrandt.
Van Schooten era stato, prima di Lastman, il maestro di Jan Lievens; anzi, secondo
Arnold Houbraken che riporta la notizia, in realtà poi messa in dubbio da Simon van
Leeuwen nella sua Breve descrizione di Leida, Joris van Schooten sarebbe stato
maestro anche di Rembrandt, non solo di Lievens. Inoltre l’opera, di notevoli
dimensioni (127 x 207 cm), era stata commissionata dalla Giunta Municipale di
Leida, che la donò alla Scuola Latina, di cui Rembrandt era stato allievo, e dove la
portata morale e didascalica della Tavola di Cebete poteva essere apprezzata dagli
uomini di cultura. L’interesse verso la concezione della vita umana come viaggio
sapienziale era stato manifestato già prima da Jan van der Noot (Anversa 1539 –
1595), il quale intorno al 1572 aveva scritto una versione in olandese del Sogno di
Polifilo di Francesco Colonna che è in parte fondato sulla Tavola di Cebete.
Giovanna Capitelli ha rilevato, in un suo scritto, la dipendenza del bambino che gioca
con l’uccellino presente in un olio di Gerrit Dou (allievo e collaboratore di
Rembrandt) dal particolare corrispondente nel dipinto di Van Schooten. Ciò dimostra
ancora una volta la conoscenza dell’opera di quest’ultimo nella cerchia di Rembrandt.
Il confronto fra la Tavola di Cebete e la Predica di Giovanni Battista è l’unico modo
per spiegare in quest’ultima l’evocazione della sfera istintuale e animalesca della vita
umana, ossia la presenza dei cani che lottano e che si montano e dei bambini nella
zona d’ombra posta nella parte bassa del quadro, presenza che è già stata considerata
dagli storici contemporanei come provocatoria; infatti Samuel van Hoogstraten
depreca che Rembrandt (già suo maestro) non avesse a cuore le regole del decoro,
imposte dal soggetto sacro: c’è anche un cane che monta una cagna.
La fonte da cui l’artista trae sia i due cani che si azzuffano, sia l’immagine in cui i
due cani si accoppiano, è l’italiano Antonio Tempesta.
È un’incisione che raffigura in primo piano due cani che lottano, e sullo sfondo un
cane che monta una cagna. Una singolare citazione ci dà l’ennesima conferma
dell’interesse del pittore nederlandese verso l’Italia: egli non volle fare un viaggio a
Roma, ma portò l’Italia dentro al suo studio. E infatti, già nell’inventario dei beni di
Rembrandt redatto il 25 e 26 luglio 1656, a cura della Desolate Boedelskamer, a
causa dei debiti del pittore, alla sua presenza, nella sua casa, troviamo, oltre a raccolte
di incisioni di Mantegna, da Raffaello, o dei Carracci, un libro di incisioni di
Tempesta dove era compresa la serie sugli animali, dato che da questa è dedotta
l’incisione di Rembrandt della Caccia al leone.
Nella Tavola di Cebete come nella Predica di Giovanni Battista è raffigurata una
particolare sintesi della vita dell’uomo.
La parte bassa e oscura è una specie di limbo, senza la luce della Grazia, in cui sono i
bambini che, come gli animali, non prendono coscienza di ciò che accade nella parte
alta del quadro, né possono partecipare alla vita spirituale della comunità perché
secondo quanto vuole l’Anabattismo, non sono ancora ammessi al battesimo.
Quanto alla presenza nei ritratti dello stesso Rembrandt e dei suoi genitori nel gruppo
di personaggi che si accalcano attorno a San Giovanni Battista, oltre a trovare in essa
giustificazione per la tesi della personale adesione di Rembrandt alle idee mennonite
in un momento della sua vita in cui era circondato da membri di questa comunità
religiosa, dobbiamo interpretarla come una manifestazione della “Devotio Moderna”;
altri due sono i dipinti in cui l’artista mette il proprio ritratto: La lapidazione di Santo
Stefano (1625, Lione, Musée des Beaux – Arts, fig. 43) simbolo delle persecuzioni di
cui erano fatti oggetto i Rimostranti, e L’erezione della croce (1633 ca., Bayerische
Staatsgemäldesammlungen, fig. 44; fig. 45) che fa parte del ciclo cristologico che gli
era stato commissionato da Federico Enrico; e dato il tema, l’inserimento in essi
dell’autoritratto equivale ad un atto di accettazione sulle proprie spalle di una parte
delle colpe dell’uomo. Per Rembrandt la pittura è stata la sfera polemica
d’espressione della coscienza individuale e delle convinzioni morali, con i mezzi
propri dell’artista.

GANIMEDE

Il quadro che raffigura Ganimede Ganimede rapito in cielo da Giove tramutatosi in


aquila, conservato a Dresda, Staatliche Kunstsammlungen Dresden, Gemäldegalerie
Alte Meister (Fig. 46), reca la data 1635 e la firma di Rembrandt ft (ossia fecit).
È un olio su tela che misura 177 x 129 cm; gli studiosi sostengono che non abbiamo
su di esso nessun documento fino al 26 aprile 1716, data in cui fu messo all’asta ad
Amsterdam; il rendiconto della vendita dice: “L’aquila che solleva Ganimede, a
grandezza naturale, dipinto da Rembrandt van Ryn, alto 6 piedi e largo 4 piedi e
mezzo, acquistato per 175 fiorini.”
Mancano notizie sulla committenza. Nel rigo dell’inventario delle proprietà di
Rembrandt redatto nel 1656 che dice “Un bambino che urina”, non c’è il riferimento
al Ratto di Ganimede; dunque, nel 1656 la tela forse era ancora di proprietà
dell’autore, così come altre opere che facevano parte dello stock appartenente agli
anni passati nella casa di Uylenburgh, nella brotherhood mennonita.
Il mito greco (Omero) passato nella latinità (Virgilio, Eneide; Ovidio, Metamorfosi)
ci riferisce di un adolescente bellissimo e di stirpe regale in quanto figlio di Tros,
sovrano di Troia, e di Calliroe sua sposa, che Giove volle fare suo, trasportandolo
nell’Olimpo, dove divenne coppiere degli dei.
Karel van Mander (1548 – 1606), autore la cui importanza indicava una lettura della
vicenda più spirituale che carnale.
Nella sua opera di commento alle Metamorfosi di Ovidio sottotitolata d’Wtleg –
ghinghe op den Metamorphoseon Pub. Ovidij Nasonis, e pubblicata nel 1604, quindi
circa 30 anni prima che Rembrandt ponesse mano a questo quadro, egli aggiorna la
trama ovidiana secondo la chiave evemeristica maturata nei circoli neoplatonici
rinascimentali.
Egli dice che Ganimede simboleggia l’anima umana la quale, se pura, vuole
ricongiungersi a Dio.
In piena analogia con quanto scriveva Van Mander si è mossa l’analisi del dipinto di
Rembrandt proposta nel 1977 da Margarita Russell, la quale ritiene sublimato il dato
di partenza, ossia il mito greco dell’amore omosessuale, in favore di una versione
spiritualizzata e proiettata verso l’umanesimo cristiano.
Manca l’attenzione alla traduzione figurativa del mito di Ganimede.
Persiste negli storici dell’arte la reticenza nel riconoscere in Rembrandt un interesse
verso l’arte italiana; è anche vero che egli, nonostante le esortazioni di Constantijn
Huygens, non volle mai compiere un viaggio formativo in Italia, obbligatorio per gli
artisti nordici, ma leggendo gli inventari delle collezioni di Rembrandt ci accorgiamo
di quanto fosse aggiornato sulla cultura artistica mediterranea, grazie soprattutto alle
incisioni tratte dai dipinti dei grandi maestri: il gruppo di incisioni e disegni che
Rembrandt ha dedicato al tema di Giove e Antiope è derivato da Correggio e dai
Carracci.
Per quanto riguarda la leggenda del coppiere degli dei e la sua fortuna dobbiamo
ricordare prima di tutto ricordare Correggio (1489 – 1534) e la sua serie degli amori
di Giove, commissionata dal duca Federico Il Gonzaga (1530 – 1532) e destinata ad
essere un dono per Carlo V in occasione della sua incoronazione a Bologna; del
gruppo di dipinti che comprende anche la Danae, la Leda e Io, il Ganimede era ancor
più famoso fuori d’Italia in quanto pare si trovasse nella collezione dell’ex favorito
reale Perez, e l’avrebbe visto presso di lui nel 1585 l’ambasciatore di Rodolfo II in
Spagna.
Una testimonianza dell’interesse nel Nord Europa per il tema di Ganimede ci viene
offerta da un dipinto di David Teniers II (1610 – 1690) raffigurante L’arciduca
Leopoldo Guglielmo nella sua Galleria di Bruxelles con la Madonna delle ciliegie di
Tiziano, conservato a Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen (fig. 47; fig.
48); è un altro esempio di theatrum pictorium, ovvero della rappresentazione delle
opere d’arte raccolte in un cabinet d’amateur, databile verso il decennio 1650 – 1660;
nella parte in alto a destra della parete si vede un Ganimede rapito dall’aquila che
riproduce il disegno di Michelangelo per Tommaso de’ Cavalieri (1632) in cui
l’aquila che ha afferrato da dietro il giovane Ganimede si alza in volo serrandogli le
gambe con gli artigli (Michelangelo, disegno conservato al Fogg Art Museum,
Cambridge, Mass., Fig. 49); nonostante la dimensione miniaturizzata, sulla cornice
del dipinto nel dipinto si legge M. Buonarotta, versione imprecisa del nome di
Michelangelo Buonarroti; l’iconografia del ratto michelangiolesco aveva avuto larga
circolazione in Europa attraverso le incisioni di traduzione eseguite da Nicolas
Beatrizet (Luneville ca. 1515 – Roma 1565, Fig. 50), o da Giulio Bonasone (Bologna
1498 – 1580); quanto a Rembrandt, sappiamo che aveva un libro di opere di
Michelangelo e un altro con disegni erotici di Giulio Bonasone; fra essi era compreso
il Ganimede di Michelangelo.
Caratteristica comune alle diverse versioni è il tipo fisico di Ganimede, visto come un
giovane Apollo con il corpo nudo e perfetto, secondo il canone greco della bellezza
adolescenziale.
Ma oltre a Bonasone, c’è un altro artista di ambito michelangiolesco che ha trattato il
tema di Ganimede e che per varie vicende poteva essere conosciuto a Rembrandt. Si
tratta di Battista Franco, che nel cielo della Battaglia di Montemurlo (conservato a
Firenze, Galleria Palatina, fig. 51; fig. 52) pone, come un’apparizione, l’aquila che
rapisce il giovane.
Il pittore, in occasione dell’ingresso di Carlo V a Roma (1536) aveva ricevuto
l’incarico di allestire degli apparati festivi con Maarten van Heemskerck; il
vedutismo di quest’ultimo aveva influenzato Battista Franco nel modo di
rappresentare paesaggi e rovine di Roma come sfondo dei suoi dipinti; l’italiano
influenzò gli artisti del nord con la sua attività incisoria che penetrò il mercato
olandese anche grazie all’amico e collaboratore Van Heemskerck che, con il suo
bagaglio italianizzante, sarà noto a Rembrandt attraverso il suo primo maestro, Jacob
van Swanenburgh (parente degli Heemskerck). Nella collezione di Rembrandt vi era
un volume di incisioni di Heemskerck.
Infatti nel dipinto a olio L’angelo si diparte da Tobia (Parigi, Louvre, fig. 53),
Rembrandt ricalca una incisione di Maarten van Heemskerck che ha lo stesso
soggetto. (Fig. 54). L’angelo si alza in volo con le ali e le braccia spalancate ed è
visto di spalle; la versione manierista della plasticità michelangiolesca che ci viene
offerta dall’incisione di Heemskerck, trova nell’opera di Rembrandt una replica,
trasfigurata dalla luce, ma fedele nel disegno. Il quadro è del 1637, quindi successivo
di soli due anni al Ratto di Ganimede; un indizio che finora è sfuggito agli studiosi,
lega tra loro i due dipinti e entrambi all’ambiente italiano, la cui importanza per
Rembrandt viene negata dagli studiosi. Un cagnolino che si acquatta spaventato e che
alza il muso per abbaiare verso l’inaspettata apparizione è inserito da Rembrandt
nella parte inferiore del dipinto del Louvre: questo particolare (insolito per la
tipologia figurativa dell’angelo che si diparte da Tobia e non presente nell’incisione
di Heemskerck) è estrapolato dall’iconografia di Ganimede, infatti, sia nell’opera di
Correggio, sia nel disegno di Michelangelo per Tommaso de’ Cavalieri, sia nella
replica a bulino di Nicolas Beatrizet, ovvero di Giulio Bonasone, vediamo un cane
che ulula spaventato verso l’aquila; lo ritroviamo nell’emblema di Andrea Alciati, in
cui Ganimede siede in groppa all’aquila abbracciandole il collo lietamente, in
contrasto con la disperazione del cane fedele, non in grado di capire che sta
avvenendo un miracolo; miracolo in quanto sublime ricongiungimento e per questo
l’emblema recita in deo laetandum, ossia anche Alciati si fa interprete della versione
neoplatonica del mito.
A riprova che il cane che abbaia sia stato estrapolato dall’iconografia di Ganimede e
che, in area olandese, esso venisse quasi automaticamente ricondotto a come i maestri
italiani avevano raffigurato l’aquila che rapisce il fanciullo, bisogna prendere in
considerazione un quadro di alcuni anni più tardi di Pieter de Hooch (1629 – post
1683), conservato a Lisbona nel Museu Nacional de Arte Antiga (fig. 56); in una sala
di una casa di piacere un uomo suona il violino mentre due coppie raccolte intorno ad
un tavolo brindano e amoreggiano; sulla parete, sopra il camino, alle loro spalle, è
appeso un dipinto con Ganimede bambino rapito dall’aquila; nel lato destro della
stanza, sul pavimento, sta un cagnolino che alza il muso verso il quadro nell’atto di
abbaiare alla scena inconsueta.
Il dipinto sopra il camino riproduce un’opera di Karel van Mander III (1600 – 1672),
un discendente dello scrittore; perduto, esso ci è noto attraverso un’incisione (fig. 57)
di Albert Haelwegh (1610 – 1675) (che pone sullo sfondo gli dei dell’Olimpo, e in
primo piano una pianta spinosa, simbolo dell’ascesi), quindi attraverso il quadro di
De Hooch; da queste due repliche ricaviamo che l’opera perduta era quasi identica al
capolavoro che Rembrandt eseguì nel 1635, che Karel van Mander III potrebbe aver
visto in quanto fece un viaggio ad Amsterdam, lasciando la Danimarca dove
soggiornava, intorno al 1635; unica differenza rispetto al Ganimede di Rembrandt, il
bambino stringe nella mano sinistra un pomo e non le ciliegie, e un pomo (forse
allude al peccato originale) è sul tavolo, davanti alla coppia che amoreggia.
Per gli artisti della scuola di Delft, come Vermeer o De Hooch che ne fece
brevemente parte, il dipinto nel dipinto serviva a caratterizzare un interno domestico
e a tessere una trama delicata di sottili allusioni morali non estranee a quelle che
avvertiamo in alcune opere di Rembrandt.
De Hooch, infatti, aggiungendo in “fuori campo” il cagnolino che sta sul pavimento
della stanza e che alza il muso per abbaiare verso il dipinto che è sopra il camino,
quasi fosse spaventato alla vista del rapace che appare sulla tela, ci mostra di
conoscere bene come gli italiani (Michelangelo, Bonasone, Correggio, Alciati)
avevano sempre raffigurato la scena di Ganimede e di sapere che nella versione
rembrandtiana mancava un particolare importante.
Perché Rembrandt, al corrente della tradizione figurativa e letteraria, che fa di
Ganimede un giovane bellissimo con atteggiamento sereno e apollineo, sceglie non
solo di distaccarsene, ma anche di rompere con essa raffigurandolo, per la prima
volta, come un bambino piangente, con il viso contratto in una smorfia di spavento?
Questa domanda, nonostante i contributi di Tümpel, non ha ancora avuto una risposta
soddisfacente.
Margarita Russell tenta di darla in un articolo assimilando il dipinto conservato a
Dresda ai cinque ritratti eseguiti da Nicolaes Maes nel 1670 che, possiamo definire
dei “santini” alla memoria di infanti della famiglia Ruytenbeeck, morti in tenera età.
Si può usare un dipinto più tardo per ricostruire le intenzioni di un’opera anteriore,
soprattutto in un mondo spazialmente circoscritto come quello olandese, ma bisogna
tener conto che quando un artista minore fa uso e consumo dell’invenzione di un
grande artista precedente tende a dare, dell’idea di partenza, una versione
semplificata, e infatti l’interpretazione della Russell, attraverso un diretto paragone
con Maes, scade in una ermeneutica riduttiva che toglie respiro all’opera
rembrandtiana.
Alla fine, emerge come gli studiosi più avvertiti sentano che il punto chiave su cui
dedicarsi sia l’età infantile del soggetto, il suo pianto accorato, il suo scalciare
disperato; il bambino piange non perché gli è negato di godere oltre della sua vita
terrena, ma perché qualcosa in lui gli fa capire che viene privato, lasciando
precocemente il mondo, della possibilità di meritare, raggiunta l’età adulta, la grazia
divina attraverso le sue opere future.
Omettendo nella versione definitiva le figure dei genitori che erano presenti nel
disegno preparatorio, conservato a Dresda, Kupferstichkabinett der Staatliche
Kunstsammlungen, l’artista volle accentuare il carattere intimo e universale
dell’episodio.
Che il bambino non sia felice di salire in cielo, lo mostrano le sopracciglia aggrottate,
il volto increspato e il naso arricciato in una smorfia di paura; l’aquila tiene le sue
ricche vesti (con cui Rembrandt sottolinea le nobili origini di Ganimede), saldamente
nel becco e lo trascina in alto mentre il piccolo Ganimede, con il braccio destro, cerca
invano di respingere il rapace.
La lettura più convincente di questa ripulsa la possiamo effettuare inquadrando le
intenzioni dell’artista, o del committente, nella religiosità mennonita, ossia
dell’Anabattismo olandese che considerava il bambino immaturo e impreparato per
entrare in diretto contatto con Dio.
Gli Anabattisti riservano il sacramento del Battesimo agli adulti, che entrano così a
far parte pienamente della comunità dei fedeli; il bambino, nel lasciare precocemente
la terra, perde ogni opportunità di quel riscatto, conquistato grazie al sacrificio di
Cristo, di cui sono simbolo le ciliegie rosse, strette invano nella mano sinistra.
È questo sottinteso, comprensibile per i committenti, in anni in cui il dibattito sul
tema della grazia divina spaccava in due l’Europa, a caricare il dipinto di una
tensione di idee e sentimenti.
Questa minoranza religiosa era solidale con quella dei Rimostranti e costituivano una
committenza più sostanziosa e motivante per gli artisti.
I nessi fra Uylenburgh e i suoi amici e protettori sono interessanti; un filo conduttore,
costituito dagli interessi religiosi e artistici, ci porta agli amici dell’umanista libertino
Justus Lipsius (1547 – 1606), ossia a personaggi come gli Hooft o i De Graeff che,
oltre ad essere protettori dei Mennoniti, si dilettavano per inventare una macchina del
moto perpetuo: ulteriore conferma che gli interessi scientisti coincidevano con i
gruppi esterni al Calvinismo rigoroso.
Della famiglia artistica, egemonizzata da Hendrick Uylenburgh per le sue doti
commerciali, e da Rembrandt per la sua statura creativa, facevano parte altri
collaboratori fra cui Govaert Flinck che era di genitori mennoniti, allievo del pittore
mennonita Lambert Jacobsz., e mennonita egli stesso. Quando Lambert Jacobsz.
Morì, nel 1636, possedeva un dipinto originale e sei copie di Rembrandt.
La copia del Sacrificio di Isacco conservata a Monaco, Alte Pinakothek (fig. 59),
potrebbe essere stata eseguita da Govaert Flinck o da Ferdinand Bol con, come dice
un’annotazione sul quadro, ritocchi di mano di Rembrandt e con varianti rispetto
all’originale conservato a San Pietroburgo, Hermitage, che il Corpus attribuisce a
Rembrandt (fig.60). La scelta di questa iconografia, già trattata da Pieter Lastman (Il
sacrificio di Isacco, Amsterdam, Museum Het Rembrandthuis, fig. 58), va correlata
alla visione mennonita del Dio buono e misericordioso, opposta a quella inflessibile
dei Calvinisti; l’intervento dell’angelo, infatti, impedisce che si compia il sacrificio di
Isacco: traendo le conclusioni su quale potesse essere la committenza, l’attribuzione a
Flinck diventa più sostenibile di quella a Ferdinand Bol.
L’ipotesi che il Ratto di Ganimede sia da riferire a un committente mennonita trova
qualche conforto anche in elementi di riscontro relativi a opere coeve.
Il dipinto L’angelo si diparte da Tobia, in cui Rembrandt inserisce il cane che abbaia,
tratto dall’iconografia italiana del Ganimede, non poteva avere un destinatario
appartenente al Calvinismo ufficiale; infatti il libro di Tobia, da cui l’episodio è tolto,
è una parte del Vecchio Testamento che i cultori della versione di Stato della Bibbia
apocrifa, a cui invece i Mennoniti, al contrario dei Calvinisti, prestavano fede come
parte integrante delle Sacre Scritture.
Dice la leggenda che, reso immortale da Giove, Ganimede venne poi trasformato
nella costellazione dell’Acquario; secondo Margarita Russell è a questo esito ultimo
della vicenda mitica che Rembrandt allude raffigurando il fanciullo nell’atto di
urinare; in effetti alla urina puerorum noi possiamo attribuire un significato
alchemico; gli autori del Corpus non condividono la tesi della Russell, ma vedono
una conferma alla interpretazione astrologica nel disegno conservato a Dresda,
Kupferstichkabinett der Staatliche Kunstsammlungen (fig. 61); si tratta di uno dei
pochi casi di schizzo di Rembrandt preparatorio e ci mostra i genitori con il volto
proteso verso il figlio in atteggiamento concitato; la donna alza le braccia come in un
gesto di invocazione, mentre l’uomo rivolge verso il cielo un cannocchiale a
conferma della componente astronomica della vicenda.
Siamo in un’epoca scientista, ossia quando vengono scoperti nuovi strumenti ottici.
L’interesse per le scoperte scientifiche è più vivo nella cerchia dei Rimostranti e delle
altre minoranze religiose, come i Mennoniti.

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