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COMMITTENZA MENNONITA”
INTRODUZIONE
L’arte olandese del ‘600 non era un fenomeno unitario e omogeneo, divido in generi,
come la critica tradizionalista voleva far credere. Anche la committenza aveva molti
volti, e il Calvinismo non costituiva per i Paesi Bassi del Nord un quadro ideologico
totalizzante; vi erano settori minori ma importanti della vita culturale informati ad
idee della funzione dell’immagine in rapporto alla fede e alla grazia divina che ora ci
appaiono in sintonia con la Riforma Cattolica, movimento che puntava a un vero
rinnovamento spirituale, e che vedeva nell’arte uno strumento per entrare nelle
coscienze risvegliate, mentre si diffondeva il messaggio del pauperismo borromaico e
del naturalismo di Caravaggio.
C’è una fase della vita di Rembrandt felice negli esiti artistici e nella sfera privata.
Sono gli anni della giovinezza che coincidono con il trasferimento ad Amsterdam
(fine del 1631 o primi mesi del 1632) e si chiudono con la morte di Saskia
Uylenburg, la moglie immortalata in tanti radiosi ritratti, fra cui quelli in veste di
Flora (San Pietroburgo, Hermitage e Londra, National Gallery), citazione della Flora
di Tiziano.
Abbandonata Leida, dove gli studi presso la Scuola Latina lo avevano aperto
all’umanesimo, Rembrandt approda nel centro vitale delle 7 province unite (Olanda,
Zelanda, Utrecht, Frisia, Groninga, Gheldria, Over – Yssel) che la calvinista casa
d’Orange aveva saputo emancipare dal giogo della Spagna cattolica. Lì accadeva
qualcosa di nuovo: non più e non solo la finezza in punta di pennello dei
fijnschilders, non più e non solo le tele di piccola dimensione, ma la pittura di storia,
ossia grandi quadri con molte figure e contenuti complessi, colti in momenti salienti e
capaci di comunicare intensamente con l’osservatore.
Gli studi sono aumentati sempre di più, e negli ultimi anni, dopo il graduale lavoro
svolto dal 1968 in poi dal Rembrandt Research Project, sono state pubblicate le
ricerche di Simon Schama (1987 e 1999), di Svetlana Alpers (1983 e 1988) e la
monografia di Leonard Slatkes (1992) con una schedatura accurata delle opere certe.
Il RRP ha adottato un metodo tematico per i testi successivi. Ma 2 monumenti sono
costituiti da Cornelis Hofstede de Groot, Die Urkunden über Rembrandt, 1575 –
1721 del 1906 e da The Rembrandt Documents curato da Walter Strauss e Marjon
Van Der Meulen, uscito a New York nel 1979, con molti nuovi ritrovamenti: 2 testi
che ci fanno conoscere e osservare la vita artistica di Rembrandt, come essa si
innervava nella sua operosità quotidiana, come si nutriva del suo collezionismo
frenetico, testimoniato dall’inventario del 1656 pieno di dipinti, presunte opere di
Raffaello, Palma, Lelio Orsi, disegni di vari artisti fiamminghi e olandesi come
Brueghel il Vecchio, Luca di Leida, Pieter Lastman, Jan Lievens, Ferdinand Bol,
Rembrandt, del figlio Titus, incisioni di Dürer, o di italiani come Mantegna,
Tempesta, i Carracci, libri, cornici, globi terrestri, oggetti, abiti, pezzi antichi, un
antico Laocoonte, copie in gesso, medaglie, armi, elmetti, gorgiere in metallo, lance,
minerali, conchiglie, rami di corallo, esempi di calligrafia (forse del calligrafo
mennonita Lieven Willemsz. Van Copenol) e altri oggetti.
Anche dalle raccolte di documenti emergono i contatti frequenti dei pittori con
personaggi al di fuori del calvinismo diffuso nelle 7 province unite, dove ancora si
respiravano tracce dell’iconoclasmo, denunciate in dipinti di artisti dei Paesi Bassi
del sud rimasti sotto l’influenza della Spagna.
Figure di grande pensiero e rilievo attraversarono la vita di Rembrandt in modo
decisivo come Constantijn Huygens o Jan Six, gli stimoli culturali venivano afferrati
e tradotti in pittura dall’artista che voleva penetrare sempre di più a fondo le
espressioni esteriori, figurative, dei sentimenti e dell’animo umano per suggerire
pensieri ed emozioni.
Nei maggiori studi pubblicati manca, ad eccezione di Gary Schwartz, l’attenzione nei
confronti di ciò che nel 1686 ci riferisce Filippo Baldinucci, ossia l’adesione di
Rembrandt alla “Religione de’ Menisti”, ossia alla fede mennoita. È una
testimonianza concreta data da Eberhart Keilhau, detto Monsù Bernardo, l’artista
danese, di madre fiamminga, che, dopo il 1642, aveva lavorato nella officina di
Rembrandt per 2 anni, poi ne aveva trascorsi tre presso il mennoita Hendrick
Uylenburgh, e infine aveva aperto una sua bottega, con allievi, ad Amsterdam, prima
di andare in Italia, nel 1651 e offrire a Baldinucci le notizie che aveva. Dal 1642,
ossia dal trasferimento ad Amsterdam, la sua committenza viveva accanto al
calvinismo ufficiale e apparteneva a gruppi minoritari, spesso di connotazione
mennoita. Le minoranze religiose presenti nell’Olanda del secolo d’oro avevano,
verso la pittura e la scienza, un atteggiamento più curioso e elastico rispetto alle
maggioranze al potere e alimentavano un mercato dell’arte ricco e complesso, con le
impronte della modernità.
REMBRANDT A LEIDA
Gli anni e i luoghi in cui visse sono fondamentali per comprendere i percorsi
attraverso i quali la cultura europea mette in discussione la centralità di Roma e se ne
stacca, alimentando una sorta di amore – odio verso la Curia che era stato innescato
dalla riforma di Martin Lutero (1517) e che è alla base delle vicende storiche
successive.
L’età di Rembrandt vede formarsi una nuova struttura della bottega pittorica, un
diverso tipo di committenza, un diverso rapporto con il circuito artistico.
Il collezionismo assume caratteristiche nuove e diventa un fenomeno più
generalizzato, a cui attingono ceti emergenti che diventano importanti e traggono
linfa dalle attività mercantili delle grandi città del Nord Europa.
Nonostante l’impennata di studi, verificatasi negli ultimi anni, da un lato la revisione
delle attribuzioni svolta dal 1968 in poi dal Rembrandt Research Project (Corpus),
dall’altro le indagini volte a ricostruire le fonti religiose e le componenti storiche e
politiche della sua ispirazione, molti aspetti della figura di Rembrandt sono ancora da
scoprire.
Un catalogo di dipinti più ridotto, grazie alla selezione fatta dal lavoro di gruppo del
Corpus, ci mostra una nuova possibilità di lettura del percorso biografico, se
ammettiamo una rispondenza stretta e un intimo dialogo tra le tematiche figurative e
le tappe fondamentali dell’artista.
Rembrandt negli anni di Leida era legato all’ambiente dei Rimostranti, ossia ai
membri di un movimento che si era staccato dal Calvinismo olandese e che era nato
all’inizio del XVII sec. a Leida, città natale di Rembrandt; egli frequentava, aveva
come colleghi o come committenti e a volte ritraeva personaggi che aderivano alla
fede mennoita, ossia anabattista; non sono state oggetto di attenzione da parte degli
studiosi l’omogeneità e l’affinità tra questi due ambienti religiosi né la loro reciproca
funzionalità come strumenti interpretativi, per chiarire i contenuti di molte opere di
Rembrandt.
Vi è un evento che darà una svolta decisiva alle vicende storico – politiche dei Paesi
Bassi e delle Fiandre, ossia la ribellione che inizia nel 1568 contro Filippo II e contro
la Spagna che dominava da molti decenni queste regioni, dando vita alla guerra degli
80 anni.
Nel 1585 la parte settentrionale dei Paesi Bassi forma una repubblica calvinista
indipendente, mentre il Sud resta cattolico e spagnolo.
Il Nord, diventato autonomo sul piano sia politico che religioso, si distinguerà, nel
volgere del 600, per la sua fioritura economica, per l’espansione della classe
borghese, per la libertà di culto e di stampa, per l’affluire di uomini di cultura.
La Scuola Latina di Leida, di cui Rembrandt fu allievo dal 1613 al 1620, nonché
l’Università, diventano un polo scientifico internazionale.
Vi troviamo umanisti come Petrus Scriverius (fig.1), autore dei versi che Rembrandt
inserisce nell’acquaforte raffigurante il Ritratto del predicatore Jan Cornelis
Sylvius (fig.2) o come Justus Lipsius (fig.3), il quale, prima di convertirsi al
Cattolicesimo con grande gioia della Curia Romana, e quindi di trasferirsi
nell’università di Lovanio (1591), soggiornò a Leida; questa città, all’inizio del 600,
fu teatro della disputa tra i teologi Arminio e Gomaro per quanto riguarda il libero
arbitrio: secondo Gomaro solo Dio decide se l’uomo debba essere salvato o dannato,
mentre per Arminio la salvezza del cristiano è resa possibile solo dalla moralità del
suo agire.
I Gomaristi, detti anche Controrimostranti, erano fedeli al Calvinismo più rigoroso,
che credeva nella predestinazione e concepiva la legge divina come qualcosa di
inappellabile.
Gli Arminiani, ossia i Rimostranti, credendo nel libero arbitrio, nell’efficacia del retto
operare dell’uomo per il riscatto del peccato originale e per la conquista della grazia
divina, vivevano il Calvinismo in modo più aperto e liberale, senza condividerne il
rigore che giungeva alla iconoclastia; questo era l’aspetto discriminante che faceva
degli Arminiani Rimostranti una committenza per gli artisti più feconda e articolata.
Erano trascorsi alcuni decenni dalla cosiddetta “guerra alle immagini”, conseguenza
del fanatismo calvinista che provocò, nella seconda metà del 500, la distruzione di
molte opere d’arte a soggetto religioso delle chiese dei Paesi Bassi; ma una volta che
si calmò la furia distruttrice, erano comunque ancora vivi i principi che l’avevano
ispirata.
La natura morta e i temi di vita quotidiana sono una conseguenza della forzosa
rimozione del sacro dalla espressione artistica, in ottemperanza ai dettati di Calvino.
Nelle prosperose regioni del Nord che si erano date una struttura politica confederale
per reagire agli spagnoli e scacciarli, si erano create due ideologie religiose;
spaccatura resa più profonda da importanti implicazioni storico – politiche.
I Rimostranti (che prendevano il nome dalle Rimostranze presentate agli Stati
d’Olanda nel 1610) volevano fare, delle province che si erano rese indipendenti dalla
Spagna (Olanda, Zelanda, Utrecht, Frisia, Groninga, Gheldria, Over – Yssel), una
confederazione rispettosa della autonomia decisionale di ciascuna di esse; i
Controrimostranti erano invece fautori di un forte potere centrale che doveva
egemonizzare le province libere.
Durante il Sinodo Calvinista di Dordrecht (1619) i Rimostranti furono espulsi dalla
chiesa in cui avveniva la riunione; il Sinodo decise di tradurre la Bibbia in olandese,
facendo sì che l’interpretazione delle Sacre Scritture spettasse alla coscienza del
singolo individuo.
La casa di Orange aveva ereditato da Guglielmo il Taciturno (1533 – 1584), che si
era messo a capo delle rivolte contro la Spagna, un ruolo egemone nei confronti dello
Stato che stava nascendo.
L’oscillare dell’atteggiamento politico – religioso dei discendenti di Guglielmo,
favorevoli ora al Calvinismo intransigente, ora a quello liberale, avrà importanti
ripercussioni sulla nascente società olandese e sulla sua vita artistica.
A Guglielmo il Taciturno succede Maurizio d’Orange (1567 – 1625) che epura dalla
pubblica amministrazione gli Arminiani e si schiera in favore dei Gomaristi.
Alla sua morte subentra Federico Enrico d’Orange (1584 – 1647) che allenta la
tensione nazionalistica, apre le porte della pubblica amministrazione a esponenti della
corrente rimostrante, ossia ai seguaci di Arminio, e crea un clima più aperto e
favorevole verso minoranze religiose come i Mennoniti o Anabattisti che con i
Rimostranti avevano affinità su questioni di fede fondamentali come la grazia divina
e il libero arbitrio.
Queste minoranze venivano così non solo tollerate, ma anche elevate a qualche
partecipazione nella gestione del potere pubblico. Ebbero peso forse,
nell’atteggiamento di Federico Enrico, le sue ascendenze familiari: da parte di madre
era pronipote di Gaspard de Coligny, massacrato per le sue idee religiose la notte di
San Bartolomeo, il 24 agosto 1572. Importante fu la moglie Amalia van Solms (1602
– 1675).
Significativa è la lettura degli orientamenti artistici di Amalia; oltre alla coppia di
ritratti, il suo e quello del consorte, commissionati a Gerrit van Honthorst (vedi il
ritratto di Federico Enrico del 1631 conservato all’Aia, Huis ten Bosch) (fig. 4) e a
Rembrandt (vedi il ritratto di Amalia van Solms del 1632, conservato a Parigi Musée
Jacquemart – André (fig. 5), è una spia del clima culturale di corte, la collezione di
dipinti che appartengono a Amalia e a Federico Enrico, orientata verso Jan Lievens, i
Caravaggisti di Utrecht.
Lo Stadhouder Federico Enrico aveva presso di sé, come segretario e consigliere in
materia artistica, Constantijn Huygens (1596 – 1687) che era anche un valente
compositore che, contro le ordinanze del Sinodo di Dordrecht, si batteva in favore
della musica d’organo nelle chiese: l’iconoclastia calvinista, oltre a vietare il culto
delle immagini religiose, proibiva la musica d’organo durante le funzioni sacre; il
predicatore Johan Jansz. Calckman tuonava contro la musica, usanza pagana, e citava
la condanna dei Salmi da parte di San Paolo; possiamo considerare una risposta
ufficiale in favore del canto e della musica nelle parrocchie il dipinto di Jacob
Gerritsz. Cuyp (Dordrecht 1594 – 1651/52) intitolato Federico Enrico come Davide
Trionfatore, 1630, conservato a ‘s – Hertogenbosch, Noordbrabants Museum (non
più nella Gemeentehuis) (fig. 6); esso celebra la vittoria della casa d’Orange dopo
l’assedio di ‘s – Hertogenbosch, nel Brabante del Nord, concluso nel 1629, e
raffigura lo Stadhouder circondato dall’allegoria delle sette province indipendenti;
una vecchia canta tenendo in mano il libro dei Salmi, mentre tre donne fanno musica
d’accompagnamento; i Rimostranti, i Calvinisti libertini e i Mennoniti negavano che i
credenti si dovessero assoggettare a un moralismo così rigido e mortificante, e si
aprivano verso tutte le forme d’arte, scienza e lettere che il crescente benessere del
paese offriva, in una fioritura favorita dall’affluire di uomini di cultura che in Olanda,
e, in particolare ad Amsterdam, trovavano libertà di espressione.
La figura di Constantijn Huygens è rappresentativa di questo clima
neorinascimentale.
Poeta, scrittore, musicista, padroneggiava il greco e il latino; era aperto verso tutte le
scienze, astronomia, fisica, teologia e filosofia, architettura e pittura; la sua
autobiografia è preziosa per la conoscenza del suo tempo; oltre a fornire notizie su di
lui e sulla sua famiglia, passa in rassegna gli uomini più importanti da lui incontrati;
la parte finale, dedicata agli artisti che conosceva, è importante soprattutto quando
Huygens scrive di “una coppia di nobili e giovani uomini di Leida”, ossia Rembrandt
van Rijn e Jan Lievens: abbiamo la sensazione di penetrare in modo diretto il gusto, il
dibattito artistico di quei luoghi e quegli anni.
Nella parte dedicata a Rembrandt è pregnante la descrizione del dipinto Giuda
pentito restituisce i trenta denari d’argento al capo dei sacerdoti e agli anziani, 1629
(fig. 7/8); esso è portato della facoltà di penetrare nel cuore degli argomenti e dei
personaggi per trarne l’essenza più profonda e per renderla evidente e percepibile;
questa virtù ha consentito al giovane olandese di superare gli antichi (Protogene,
Apelle, Parrasio) e di vincere il trofeo dell’eccellenza artistica sulla Grecia e
sull’Italia.
L’empatia fra l’artista e Huygens si rileva confrontando le parole dell’uno e dell’altro
che dice che nelle due opere che il principe Federico Enrico gli ha commissionato
(una con la sepoltura di Cristo e l’altra con la sua Resurrezione) e che lui ha eseguito
con cura, sono state rese le sue più profonde e naturali emozioni. E giustifica con ciò
la lunga permanenza nelle sue mani.
Siamo davanti all’unico caso in cui il pittore scrive entrando nel merito delle sue
motivazioni artistiche: il brano appartiene ad una lettera inviata il 12 gennaio 1639 a
Constantijn Huygens; la citazione da Huygens che precede è cronologicamente
anteriore, in quanto egli stese le sue memorie in latino a 33 anni, verso il 1629 o il
1630. Rembrandt cerca di andare verso le aspettative del segretario di Federico
Enrico e, indirettamente, della cerchia filo – rimostrante.
L’ASINO ICONOCLASTA
Una testimonianza interessante del collezionismo seicentesco ci viene offerta da una
particolare tipologia di dipinti: quelli che raffigurano i cabinets d’amateur, ossia che
riproducono le collezioni d’arte, archeologia e curiosità naturali o scientifiche,
naturalia o artificialia, accumunate da un uomo appassionato e raffinato.
Più frequenti nelle Fiandre che nelle province nederlandesi, i cabinets ci permettono
di ricostruire numerose raccolte private, la loro genesi, le vicende di alcuni dipinti;
spesso l’autore era animato da intenzioni encomiastiche nei confronti del proprietari
di questi splendori artistici, e lo raffigurava al centro della sala, le cui pareti erano
coperte di quadri fino al soffitto, intento a parlare con nobili ospiti, in compagnia a
volte di una scimmietta, simbolo dell’arte, imitatrice della natura.
Ci sono alcuni documenti della pittura barocca in grado di testimoniare come lo
spettro dell’iconoclasmo che aveva travagliato i paesi nordici nella seconda metà del
500, non fosse ancora scomparso, e fosse diventato il simbolo dell’ignoranza e della
violenza ottusa che si oppone ai valori della cultura, della bellezza e della tolleranza
religiosa.
Vi è un’opera conservata a Monaco, di cui esiste una replica nella Galleria Nazionale
di Arte Antica, in Palazzo Barberini a Roma. (fig.9/10)
Entrambe databili verso il 1616 – 1618, in esse vediamo una sala piena di oggetti e
dipinti raffinati e preziosi; tre intenditori esaminano un quadro; nell’insieme si respira
un’atmosfera di serenità e pienezza; ma sulla destra, all’estremo, al di là di un arco,
sotto un portico che sembra aperto verso l’esterno, si intravede una scena
raccapricciante: uomini dalla testa d’asino, con bastoni e torce, si avventano su una
catasta di libri, sculture e varie opere d’arte distruggendole e incendiandole.
Queste visioni esprimono e evocano il perdurare di una spaccatura profonda delle
coscienze tra Fiandre e Paesi Bassi del Nord che si era consolidata e radicalizzata.
Nell’intento laudativo dell’artista verso gli amatori del bello, l’iconoclasmo, con una
sineddoche figurativa, diventa il simbolo dell’oscurantismo e della bestialità, quasi un
pullulare dell’inconscio che minaccia fuori dalla porta il mondo di bellezza e
equilibrio che il committente aiuta a creare.
È una situazione espressiva tipica dei territori filopapisti e filo spagnoli in cui viveva
il pittore, Frans Francken II (Anversa 1581- 1642).
Un altro esempio della rivelazione iconografica degli asini iconoclasti è il dipinto Gli
arciduchi Alberto ed Isabella in visita ad un collezionista (1615 – 1621, Baltimora,
Walters Art Gallery) (fig. 11/12); al centro della sala è poggiato un quadro contro una
sedia; in esso, uomini dalla testa d’asino, si accaniscono su libri e dipinti, in un
atteggiamento che per le nostre coscienze contemporanee evoca gli spettri nazisti e i
roghi della entartete Kunst, l’arte degenerata. In alto, al centro della parete, un dipinto
traccia un’allegoria salvifica: la pittura (ossia la donna con la maschera sulla spalla),
è difesa dall’ignoranza (con l’attributo delle orecchie d’asino) grazie all’intervento di
Minerva e della Fama.
L’autore (insieme a Jan Brueghel il Vecchio, con interventi di Hieronymus Francken
II e Frans Francken II) dell’opera, Adriaen van Stalbemt (1580 – 1662), nato ad
Anversa, dove sopravviveva il dominio spagnolo, era cresciuto in Zelanda, dove i
suoi genitori, appartenenti alla Chiesa riformata, si erano rifugiati per salvarsi dalle
persecuzioni.
Le lotte fratricide fra Cattolici e Protestanti, la ribellione alla Spagna, i
sommovimenti iconoclasti che avevano segnato la giovinezza di Van Stalbemt e della
sua generazione, avevano trovato una composizione con il trasferimento della corte in
Spagna; il governo illuminato degli arciduchi Alberto e Isabella avevano aperto un
periodo di benessere e tranquillità favorendo il ritorno di chi si era allontanato; Van
Stalbemt si stabilisce di nuovo ad Anversa nel 1610.
Si ricomponeva lentamente la situazione politica e religiosa, e l’immagine dell’asino
iconoclasta stava a significare una spaccatura culturale sempre meno appariscente,
ma profonda e compenetrata.
Secondo Hans Belting l’iconoclastia ha costituito, ogni volta che il destino si è
affacciato nella storia della religione e dell’arte (in periodo bizantino, nel secolo XIV)
una tabula rasa su cui è stata costruita la fase storica successiva; con la Riforma
Luterana e Calvinista che poneva la religione nella fede e nell’interiorità dell’uomo
più che in oggetti di culto e in usanze e pratiche esteriori, l’immagine cadeva nelle
mani degli iconoclasti che volevano distruggerla in quanto falso simulacro, ovvero
veniva consegnata ai collezionisti che ne neutralizzavano la valenza sacrale e ne
evidenziavano solo il valore di mercato come opera d’arte.
Quindi, secondo l’opera di Belting, dovremmo dare Rembrandt al mercato e
considerare le sue scelte formali e contenutistiche come regolate dalle leggi dello
scambio e dalle richieste della committenza.
Siamo quindi di fronte a uno dei settori specialistici della divisione in generi
dell’attività delle varie botteghe; e in effetti questo sembra lasciar intendere il lavoro
della mostra di Amsterdam (Berlino e Londra) del 1991.
Una parte della critica olandese non crede però in così rigide divisioni di competenze.
È il vasto settore dei pittori “di storia” e in particolare di storie bibliche, a confondere
gli schemi e a rompere i ranghi. È solo considerando Peter Lastman, Jan e Jacob
Pynas, Claes Cornelisz, Jan Tengnagel, François Venant, definiti prerembrandtisti
(fig. 13/14/15) e tutta l’area della fede rimostrante, mennonita e sefardita, non solo
come singolare committenza ma anche come impasto ideologico e fideistico, che
potremo capire Rembrandt e collocarlo nel suo contesto. Non si tratta solo di
sottolineare le derivazioni iconografiche di Rembrandt (fig.16) da Lastman, ma di
comprenderne i debiti verso la cultura pittorica italianizzante.
In alcune sue opere Rembrandt si è impegnato nella ricerca del valore sacrale
dell’arte e nel rapporto della religiosità con la società del suo tempo, secondo il
diffondersi della devotio moderna, per cui anche le storie bibliche sono evocate in
chiave attualizzante, per interpretare il presente.
Bisogna tenere presente un altro fattore che attraversa in senso trasversale le
minoranze religiose con cui Rembrandt convive; si tratta del Nicodemismo, ossia
della dissimulazione delle proprie idee, legittimata e resa necessaria dalle
persecuzioni a cui le sette ereticali (come i Mennoniti) erano state ed erano, anche se
in maniera incruenta, sottoposte.
GANIMEDE