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„Presenze straniere: viaggi di opere, itinerari d’artisti nel Quattrocento“ in „La pittura in

Italia, Il Quattrocento“, vol. II, Electa, Milano 1986 e 1987

Presenze straniere:
viaggi di opere,
itinerari d’artisti
nel Quattrocento
di Enrico Castelnuovo
Storia dell’arte Einaudi 1
Edizione di riferimento:
in La pittura in Italia, Il Quattrocento, vol. II,
Electa, Milano 1986 e 1987
Per i primi decenni del Quattrocento il problema della
presenza di artisti e di opere straniere in centri italiani si
pone in modo non traumatico, all’interno di quell’ampia
circolazione, aperta a tanti diversi contri-buti, dell’arte
gotico-internazionale. La situazione subisce una
fondamentale svolta a partire dal decennio 1430-40
quando la fisionomia della pittura europea comincia a
trasformarsi in modo radicale in conseguen-za dello
stabilirsi di due centri innovatori situati l’uno a Sud
in Toscana, l’altro a Nord nelle Fiandre: di fron-te
alla diffusione di nuovi linguaggi prende lentamente a
declinare la poetica fondamentalmente unitaria del
gotico internazionale. La presenza di opere e di artisti
stranieri in Italia assumerà, da questo momento, un
nuovo significato permettendo l’instaurarsi di quella
feconda dialettica tra Mezzogiorno e Settentrione, tra
Italia e Fiandre che rimarrà per tutto il secolo
elemen-to costante. Stabilire un corretto bilancio di
questi rap-porti significherebbe fare la storia della
pittura europea

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del Quattrocento, un aspetto fondamentale del secolo


essendo proprio il dialogo tra i due centri che polariz-
zano le tendenze formali del tempo, che forniscono
sche-mi rappresentativi a tutta la pittura
dell’Occidente.
Parlare di dialogo tra due centri polarizzanti signifi-ca
schematizzare al massimo la situazione. In realtà le
congiunture furono le piú diverse, accanto a quelle italo-
fiamminghe, quelle italo-francesi, quelle italo-ger-
maniche e, particolarmente frequenti e costanti, quelle
italo-iberiche. E tuttavia, a partire dal 1440 circa, anche
nelle opere di pittori iberici, francesi o tedeschi il dia-
logo – quando esiste – si instaura sempre tra dati for-mali
risalenti in ultima analisi a matrici fiamminghe e ad altri
di origine italiana.
La diffusione del linguaggio fiammingo avvenne in un
primo tempo con maggiore rapidità e in un’area assai piú
ampia rispetto a quella in cui trovò ascolto il linguaggio
toscano. Tra lo stile «internazionale» dominante verso gli
anni trenta e il nuovo linguaggio di Robert Campin (il
cosiddetto «Maestro di Flémalle») Jan van Eyek e Roger
van der Weyden la cesura non era cosí forte come quella
esistente tra il medesimo stile «internazionale» e l’arte di
Masaccio, dell’Angelico, di Brunelleschi, del-l’Alberti,
di Donatello. D’altra parte il prestigio di cui godeva la
corte di Borgogna sul piano dei valori, della moda,
dello stile di vita era impareggiabile mentre la
posizione geografica delle Fiandre – i loro tradizionali
rapporti politici, economici e culturali con ampie aree
dell’Europa dalla Francia, all’Inghilterra, alla
Germania, alla Spagna – contribuí alla rapida
circolazione di modi e formule pittoriche. Le opere dei
grandi maestri del Nord rispondevano a certe attese, le
soddisfacevano, apparivano autentici capolavori della
tecnica pittorica con il loro modo inarrivabile di evocare
la realtà, di rendere le luci, i riflessi, l’epidermide
delle cose, con i loro miracolosi paesaggi lenticolari,
con le loro ammirevoli
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espressioni fisionomiche, la loro capacità di restituire


lo spessore e quasi la materia di un broccato, il brillio
di una pietra preziosa. Piú intellettuali erano i valori
che alcuni artisti toscani ricercavano, attraverso
l’adozione di un metodo scientifico quale quello
prospettico, attra-verso una riflessione sui modelli
dell’antichità e sul modo di renderli attuali. L’artista
toscano si accosta – nella sua ricerca di un nuovo metodo
scientifico di rap-presentazione dello spazio, nella sua
esplorazione anti-quaria, al matematico, al geometra,
all’umanista, l’arti-sta fiammingo, anche se la sua
posizione sociale è molto cresciuta e può essere ormai,
come avvenne a Van Eyck, un personaggio importante
della corte, resta, al limite, all’interno del mondo degli
artigiani sia pur di quelli di piú alto livello. Entro la fine
del secolo saranno i model-li italiani a prevalere, ma la
strada sarà lunga. Tanto piú significativo il seguire i
viaggi degli artisti e delle opere, gli incontri, le
riflessioni, i contatti, le influenze. Non esiste
praticamente nessun grande centro artistico in Italia
dove i modelli fiamminghi non siano arrivati e non
siano stati apprezzati, non si trattava necessariamente di
opere e di pittori provenienti dalle Fiandre, poteva trat-
tarsi di spagnoli, di tedeschi, di francesi che tuttavia ave-
vano come cultura di fondo una cultura fiamminga.
Accanto ai dipinti giunsero in misura ancora piú rile-
vante gli arazzi importati o eseguiti da maestri chiama-ti
dal Nord. Da Genova a Napoli, da Ferrara a Firenze,
da Urbino e da Pesaro a Roma, da Milano a Chieri,
da Pisa a Lucca, dalla Sicilia alla Sardegna pittori (e
opere) nordici sono presenti e ammirati, lasciano
tracce importanti, e ricevono, naturalmente, qualcosa
in cambio, un qualcosa che, in certi casi, darà luogo a
ibridazioni straordinarie: nel caso di Jean Fouquet e di
Michael Pacher a creazioni che sono tra le piú alte del
Quattro-cento europeo.

Napoli, Genova e Chieri sono tra i casi piú signifi-


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cativi, il primo addirittura esemplare per l’intreccio tra


avvenimenti politici ed artistici. L’ultimo angioino di
Napoli fu lo sfortunato (politicamente parlando) Rena-to,
un dinasta che tanto amava la pittura che, per quan-to il
caso sociologicamente parlando sia molto singola-re,
l’avrebbe praticata egli stesso sicché – secondo il
Summonte in una lettera scritta all’amatore veneto Marco
Antonio Michiel – avrebbe insegnato personal-mente a
Colantonio la tecnica dei pittori fiamminghi. È probabile
che la fama di grande artista di cui godette re Renato sia
stata un poco esagerata, certo è che accanto a lui, per
molti anni, sia in prigionia che a corte, visse e lavorò un
grandissimo pittore, che si vuole oggi identi-ficare in
Barthélemy Eyck, l’autore della splendida
Annunciazione di Aix-en-Provence, il magico miniatore
di un testo scritto dallo stesso sovrano nel 1457, il Cuer
d’Amor Epris, e che questo grande artista dovette,
accan-to al re, risiedere a Napoli tra il 1438 e il 1442 con
con-seguenze molto rilevanti sulla situazione della
cultura figurativa cittadina. Con la vittoria di Alfonso
d’Ara-gona l’atmosfera artistica napoletana non cambia
di molto. Il re chiama a Napoli un pittore catalano, Jaco-
mart Baço facendone il pittore di corte e commissio-
nandogli un retablo, oggi perduto, per una cappella della
chiesa di Santa Maria della Pace presso Poggioreale,
acquista nel 1445 un San Giorgio a cavallo di Jan van
Eyck, nel 1452, in occasione della visita dell’imperato-re
Federico III, sposato con Eleonora d’Aragona, nipo-te di
Alfonso, ordina in Fiandra arazzi con le storie di
Salomone e della regina di Saba e altri arazzi fiammin-
ghi acquista in seguito, tra cui quattro panni con Storie
della Passione di Cristo, di Van der Weyden ricordati
dal Facio e dal Summonte, viene poi in possesso intorno
al 1456 di una importantissima opera di Van Eyck, per-
duta ma descritta dal Facio, il trittico che era stato com-
missionato dal genovese Battista di Giorgio Lomellini,

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e annovera tra le sue opere piú care, secondo l’umani-sta


Pontano, una Sacra Famiglia sempre di Van Eyck.
Verso il 1456 il genovese Bartolomeo Facio, che a
Napoli era arrivato con un’ambasceria genovese nel 1444
in compagnia proprio del committente di Van Eyck,
Battista Lomellini, nella sua opera De Viris Illu-stribus
dedica due celebri passaggi a Jan Van Eyek «Nostri
saeculi pictorum princeps» e a Roger van der Weyden. Il
primo storiografo dei grandi pittori fiamminghi è
dunque un genovese, operante a Napoli nel-
l’ambiente di Alfonso di Aragona e anche questo
fatto, accanto alle vicende del trittico Lomellini,
mostra come le due grandi città mediterranee fossero
accomunate dall’interesse per la nuova pittura
fiamminga.

(*** L’umanista italiano Bartolomeo Facio, nel De


viris illustribus (1456), sottolinea infatti il virtuosismo
illusionistico del suo pennello, lenticolare nella
descrizione della materia fino a contraffarne la
natura e preciso nella rappresentazione della
lontananza più estrema.)
Esempi di altri artisti fiamminghi non dovettero
mancare e forse era ab antiquo nel Regno quella Morte
della Vergine di Petrus Christus, giunta al Museo di San
Diego in California dalla palermitana collezione Santo-
canale. Napoli poi restò un centro di straordinaria
importanza per i pittori spagnoli e qui devono essere
sbarcati, nell’ottavo decennio del secolo, pittori del cali-
bro di un Pedro Berruguete, poi operoso ad Urbino e
Bartolomé Bermejo di cui si conserva in Piemonte, ad
Acqui Terme, una splendida Madonna col Bambino,
centro di un trittico che dovette essere dipinto a Valen-za
intorno al 1482-84 con la collaborazione (nelle due ali) di
Rodrigo de Osona il Vecchio.
A Genova il canale di diffusione delle opere fiam-
minghe non fu quello aristocratico della corte e del
monarca, ma quello dei grandi banchieri e uomini di
affari operosi in Fiandra. Accanto a Lomellini è Miche-le
Giustiniani che fece dipingere con le sue armi il pic-colo
trittico di Van Eyck oggi a Dresda (1437). Di ori-gine
genovese, anche se appartenente a un ramo della famiglia
da tempo nel Nord, era quell’Anselme Adornes che
lasciò in testamento alle figlie due quadretti con le

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Stimmate di San Francesco di mano di Van Eyck, da


identificarsi probabilmente con i due esemplari, di
dimensioni un po’ diverse, di Torino e di Philadelphia.
Forse da Genova erano passate anche altre opere fiam-
minghe, come la Madonna di Van Eyck del 1433 di cui
è una replica la Madonna di Ince Hall (ora a Melbourne).
Sempre a Genova – lo ricorda Bartolomeo Facio – era una
«tabula praeinsignis» di Roger van der Weyden. Qui il
pavese Donato de’ Bardi, ove pure non si sia per-
sonalmente avventurato in un periplo nordico, dovette
avere la possibilità di studiare quelle opere che della sua
splendida Crocifissione di Savona fecero un’opera «piú
amica di Van Eyck e di Petrus Christus che di Masac-cio»
(Longhi). Donato dipinge la sua Crocifissione prima del
1451 l’anno in cui Giusto di Ravensburg, un pitto-re della
Germania meridionale profondamente toccato dai modi
fiamminghi, dipinge in Santa Maria di Castel-lo la sua
nordica Annunciazione fitta di particolari eyckiani. Piú
tardi arrivi di pittori tedeschi, e verso la fine del secolo,
frequenti invii di Fiandra (tra questi lo splendido trittico di
San Lorenzo alla Costa, presso Santa Margherita Ligure
che Andrea da Costa fece dipingere nel 1499 a Bruges da
un pittore che il Longhi suppose essere Quentin Metsys)
aggiorneranno la pittura geno-vese sulle ultime novità del
Settentrione.
A nord di Genova, a Chieri, nel cuore del Piemon-te,
grazie alla committenza dei Villa attivissimi finan-zieri e
uomini di affari stabiliti in Fiandra, la pittura di Rogier
van der Weyden era di casa. Era qui il trittico giovanile
che aveva al centro l’Annunciazione, oggi al Louvre (i
laterali con la Visitazione e un devoto in ora-zione sono
alla Galleria Sabauda a Torino), qui il tritti-co della
Crocifissione, leggermente posteriore (oggi nella
fondazione Abegg a Riggisberg presso Berna), qui anco-
ra, in una cappella della chiesa, oggi distrutta, di Sant’A-
gostino, il polittico con Storie di Giobbe (oggi al Wall-

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raf-Richartz Museum di Colonia) opera di allievi di


Rogier, il «Maestro di Santa Caterina» e un suo colla-
boratore, commissionato da Claudio Villa e dalla moglie
Santina Solaro. L’intero Piemonte occidentale fu del
resto, come in questa stessa opera ha mostrato Riccar-do
Passoni, teatro per tutto il secolo di scambi e di incontri
assai intensi tra cultura figurativa fiamminga e franco-
fiamminga e cultura mediterranea. Lionese fu il pittore
dei Duchi Nicolas Robert e d’oltralpe scese pure Hans
Clemer (il «Maestro d’Elva») che lavorò nel Mar-chesato
di Saluzzo alla fine del Quattrocento; mentre ricchi
quanto significativi intrecci culturali si manife-stano
nell’opera di due grandi anonimi, operosi a Tori-no, ma
non solo qui, negli ultimi decenni del secolo: il «Maestro
della Trinità di Torino» e il «Maestro della Sant’Anna».

A Venezia e nel Veneto le note del Michiel certifi-


cano la presenza ad antiquo di opere fiamminghe, e la
splendida Crocifissione, quanto mai eyckiana, della Ca’
d’Oro, sembra aver avuto una grande importanza ed
influenza. Riflessi di questo dipinto, che doveva trovarsi
a Padova, si avvertono in opere che appartengono
all’ambiente squarcionesco ed arrivano fino all’area
umbro-marchigiana, al Boccati per esempio. Per Dome-
nico Veneziano l’aver potuto studiare nella sua città di
origine dei testi fiamminghi ha certo avuto una grande
importanza e di questo si rendeva conto il Vasari quan-do
gli attribuisce il merito di aver portato a Firenze il
segreto della pittura ad olio. Michiel segnala una sola pit-
tura di Van Eyck nel Veneto (una «caccia alla lontra»
nella casa del filosofo Leonico Tomeo a Padova), ma cita
esempi di Memling, di Van der Weyden, di Albert
Ouwater. Piú tardi, in Venetia città nobilissima France-
sco Sansovino ricorda in Santa Maria dei Servi una pala
«col Presepio e coi tre Magi» di Giovanni da Bruggia
(alias Jan van Eyck). La presenza di queste opere fu

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occasione di un altro grande incontro tra Nord e Sud il


cui protagonista fu Giovanni Bellini che mostra di
apprezzare Rogier e Jan van Eyck. La sua meditazione
sul linguaggio fiammingo, già presente fin dai trittici
della Carità, assume maggiore ampiezza sugli inizi del-
l’ottavo decennio del secolo, un momento in cui la rice-
zione degli esempi fiamminghi da parte degli artisti
veneziani è al suo punto massimo come si avverte nella
Natività di Maria di Bartolomeo Vivarini in Santa Maria
Formosa (1473) o nel ritrattino Fugger dello stesso
Belli-ni (1474). E di questi anni è la pala di Pesaro
dove Bel-lini adotta per la prima volta la tecnica ad olio e
che rap-presenta uno dei piú alti risultati di quel
colloquio tra Settentrione e Mezzogiorno che Bellini
proseguirà con aggiornamenti costanti in stupefacenti
capolavori. E in questo tempo (1476) Antonello da
Messina giunge a Venezia.
L’ambiente della corte milanese continuò, anche dopo
il declinare dello «stile internazionale» qui piú a lungo e
splendidamente sopravvissuto, ad essere aperto verso il
Nord. Emblematico è il caso di Zanetto Bugat-to che
Bianca Maria Sforza in persona invia a Bruxelles ad
istruirsi nella bottega di Rogier van der Weyden tra il
1460 e il 1463. Un fatto che ricorda il caso, avvenu-to
molti anni prima, del valenzano Lluis Dalmau invia-to
nel 1431 a Bruges per un soggiorno di studio, il cui
risultato, la Madonna dei Consiglieri del 1445 a Barcel-
lona, è uno dei quadri piú fiamminghi che siano stati ese-
guiti fuori dalle Fiandre.
Questi esempi, che potrebbero moltiplicarsi (di ana-
loghe testimonianze disponiamo per Napoli), mostrano
come un po’ dappertutto in Europa Bruges e Bruxelles
fossero considerate le capitali, le autentiche università
della pittura. È milanese anche un documento dell’11
marzo 1456 che parla della presenza nella città di un
Antonellus Sicilianus e di un Petrus de Burges. Per

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quanto la cosa sia suggestiva è molto improbabile con-


cludere – come è stato ipotizzato – che un incontro debba
essere qui avvenuto tra Petrus Christus e Anto-nello da
Messina. Ma indiscutibili sono i documenti riguardanti
Zanetto Bugatto, come è da ricordare la presenza,
segnalata dal Michiel, di un ritratto di mano di Van Eyck
in casa Lampugnani e le significative men-zioni che di
Van Eyck e di Roger si incontrano nel trat-tato del
Filarete.
Milano assume poi un particolare ruolo (e questa volta
nella trasmissione di schemi italiani) per gli artisti
transalpini dopo l’arrivo di Bramante, è qui che deve
arrestarsi, verso il 1490-95 Juan de Borgoña che per il
Longhi fu il massimo tra gli italianizzanti spagnoli e che
in certe sue opere è molto prossimo allo Zenale. Cosí
molto devono alla cultura bramantesca milanese certi
pittori provenzali come il grande «Maestro di San Seba-
stiano» (probabile Josse Lieferinxe) senza che si possa
affermare per ora se questa lezione sia stata diretta –
attraverso un soggiorno –, per l’influenza del suo colla-
boratore piemontese Simondi, o per altri tramiti.
Ferrara è un’altra corte dell’Italia settentrionale dove
fiamminghi e transalpini sono all’onore. Sappiamo come
nel 1450 un Alfonso Spagnolo abbia lavorato nello stu-
diolo di Belfiore ricevendo un’alta retribuzione. Nello
stesso anno, o forse già in quello precedente, è possibi-le
che lo stesso Rogier van der Weyden fosse a Ferrara,
durante il suo viaggio in Italia in occasione dell’Anno
Santo. Di certo sappiamo quanto la pittura di Rogier
fosse cara a Lionello d’Este che, nel 1449, mostra all’u-
manista Ciriaco d’Ancona un trittico con la Deposizio-
ne e la Caduta, la stessa opera che nel 1456 verrà
descrit-ta da Bartolomeo Facio e che verisimilmente è
quella che viene pagata a Rogier nel 1450 via Bruges
attraverso Paolo Pozio, uomo d’affari italiano.
Si aggiunga poi che Rogier dipinse un ritratto di Fran-

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cesco d’Este il figlio naturale di Lionello (oggi al Metro-


politan Museum di New York) che era stato inviato in
giovane età, nel 1444, alla corte di Borgogna per esser-
vi educato. Un’altra prova di questo sguardo rivolto al
Nord è offerta dal Ritratto del buffone Gonella (oggi a
Vienna), celebre personaggio della corte di Niccolò II,
padre di Lionello, che Otto Paecht ha attribuito a Fou-
quet.
Anche nella corte che un ramo della famiglia Sforza
tenne a Pesaro le opere fiamminghe erano ricercate
appassionatamente. Alessandro Sforza torna nel 1458 da un
soggiorno in Borgogna e nelle Fiandre e probabil-mente
porta con sé opere che aveva commissionato a Van der
Weyden (sempre che alcune di queste non fossero state
precedentemente eseguite dall’artista durante una possibile
sosta a Pesaro del suo «iter italicum»). Tra que-ste è il
cosiddetto Trittico Sforza, oggi a Bruxelles ed altre oggi
perdute (un inventario del 1500 prova che Giovanni, nipote
di Alessandro possedeva ben tre qua-dri di «Ruzieri da
Burges»). Fu forse il gusto di Ales-sandro, che influí, su
quello di Federico da Montefeltro, a lui imparentato,
spingendolo a cercare nelle Fiandre un «maestro solenne»
(secondo l’espressione usata da Vespa-siano da Bisticci)
che fu trovato in Giusto de Gand (a Urbino nel 1473-74).
Ma in questa città l’interesse per le opere fiamminghe
doveva avere solide radici dato che
vi si trovava un fondamentale quadro di Van Eyck, quel
Bagno di donne, in possesso di Ottaviano Ubaldini
della Carda, nipote e consigliere di Federico, che il Facio
descrive con entusiasmo e che dovette essere una auten-
tica summa di raffinatezze ottiche. Accanto a Giusto di
Gand lavora ad Urbino Pedro Berruguete (nel 1477 un
documento accerta la presenza nella città di un pittore
Pietro spagnolo) la cui opera in sommo grado partecipa al
grande sforzo di sintesi formale su cui convergono i
massimi ingegni figurativi del tempo.

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La presenza ad Urbino di pittori transalpini quali


Pedro Berruguete e Giusto di Gand propone un punto
centrale del rapporto tra l’Italia e i pittori stranieri, quello
del viaggio in Italia. In molti casi, si è visto, sono le
opere nordiche a varcare le Alpi o piuttosto a giun-gere
per nave nella penisola. Ma in altri sono i pittori stessi a
muoversi. Uno dei casi piú precoci di intelli-genza con la
nuova pittura italiana è quello di un por-toghese,
Giovanni Consalvo, discepolo dell’Angelico in San
Marco nel 1435 e autore verso il 1438 del ciclo di
affreschi che decora le pareti del Chiostro degli Aranci
della Badia Fiorentina, un artista che apre gli occhi su
quanto vede a Firenze attorno a lui e sperimenta la nuova
pittura prospettica. Un altro caso, il piú grande e di
maggiori conseguenze, è quello di Jean Fouquet; due
autori italiani: il Filarete nel suo trattato di archi-tettura
scritta attorno al 1462 e l’umanista fiorentino Florio in
una lettera da Tours del 1478 attestano come a Roma egli
abbia dipinto su una tela un ritratto di papa Eugenio IV
(morto nel 1447) con due suoi familiari che venne
collocato in Santa Maria sopra Minerva. L’ope-ra
dovette, per i suoi caratteri realistici e nuovi, colpi-re
molto i contemporanei, trattandosi di un ritratto
complesso, di tre quarti, con diversi personaggi; tale era
la sua singolarità che fu addirittura in grado di influen-
zare piú tardi il Ritratto di Leone X e di due suoi
fami-liari di Raffaello. È certo che Fouquet si spinse a
Firen-ze e a Ferrara, se non a Napoli e delle riflessioni
che poté fare sulla nuova pittura prospettica e sulle forme
antichizzanti che veniva assumendo l’architettura le
tracce sono evidenti nel superbo dittico di Etienne Che-
valier, un tempo a Melun e ora diviso tra Berlino ed
Anversa, e nelle miniature con cui illustrò, nel sesto
decennio del secolo, un libro d’ore per il medesimo
committente. Attraverso la comprensione dell’arte
toscana Fouquet riesce ad equilibrare e a trasformare le

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influenze fiamminghe e trova una nuova via per espri-


mere quel suo senso del volume possentemente sculto-
reo che lo apparenta alla grande tradizione plastica fran-
cese. Pochi anni dopo Fouquet, intorno al 1450,
Rogier van der Weyden scende in Italia. Il suo nome è
notissimo e le sue opere sono da tempo ricercate nelle
corti della penisola; tra i banchieri e gli uomini
d’affari italiani ha degli ammiratori incondizionati.
Durante il viaggio esegue, con molta probabilità alcune
opere che presentano elementi improntati all’arte italiana,
tutta-via meno evidenti e deflagranti di quelli avvertibili
in Fouquet. La Lamentazione sul Cristo, oggi agli
Uffizi, testimonia con certezza della conoscenza che il
fiam-mingo ebbe della pittura dell’Angelico in quanto il
qua-dro si riferisce esplicitamente a una composizione
del pittore fiorentino databile intorno al 1440 ed oggi a
Monaco di Baviera. È possibile che – come ha suggeri-to
Aby Warburg – il quadro risultasse già in un inven-tario
di Lorenzo de’ Medici del 1492. Altra opera ese-guita
durante il soggiorno italiano, o che almeno ne reca le
tracce, è la cosiddetta Madonna Medici, acqui-stata
nell’Ottocento a Pisa e oggi a Francoforte. La presenza
del giglio fiorentino e dei santi dottori Cosma e Damiano
ha fatto pensare che la commissione ne fosse venuta dai
Medici, l’impaginazione dell’immagine e lo spazioso
zoccolo poligonale su cui posano i sacri perso-naggi
confermano il carattere italianeggiante dell’opera. Ma per
Van der Weyden il viaggio in Italia non fu cosí
traumatico come lo era stato per Fouquet e non com-
portò certo un mutamento radicale nella sua pittura.
Un caso invece analogo a quello del Fouquet, in cui la
conoscenza di opere italiane ebbe effetti tali da pro-durre
un tentativo di sintesi e di fondazione di un nuovo
linguaggio fu quello del tirolese Michael Pacher, sommo
scultore e pittore che, grazie a un soggiorno padovano
non documentato, ma che le sue opere provano con cer-

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tezza, tentò – con supremi risultati – di coniugare e di far


convergere nella sua pittura tratti nordici e medi-terranei.

I casi di Van der Weyden e di Fouquet, come quelli di


Jacomart Baço, di Alonso Berruguete, di Giusto da Gand
e di tanti altri sono quelli di pittori la cui presen-za fisica
è documentata in Italia al di là di quella per opere. Nel
caso di Pacher la testimonianza delle opere
è inconfutabile. Ma molti furono i pittori nordici che
della pittura italiana furono amici e con l’Italia intrat-
tennero sottili intelligenze non sappiamo se occasiona-te
da viaggi e da quali altri tramiti, da Konrad Witz a Petrus
Christus, da Enguerrand Quarton a tanti maestri anonimi
della Germania meridionale, dal bavarese «Maestro delle
tavole Polling» al salisburghese «Mae-stro di Sankt
Leonhard di Tamsweg», sí che troppo lungo sarebbe un
regesto delle congiunture. Sarà piut-tosto il caso di
concludere accennando alla presenza di opere e artisti
nordici nella città che fu il centro della nuova pittura
italiana, Firenze. Si è già parlato dell’at-tività di
Giovanni di Consalvo, dell’arrivo di Fouquet e di quello
di Van der Weyden. Una decina d’anni dopo il passaggio
di questi un grande trittico di Nicolas Fro-ment, pittore
verisimilmente originario della Francia del Nord e poi
operoso in Provenza, viene donato a Cosimo de’ Medici
da Francesco Coppini di Prato, lega-to in Fiandra nel
1460-61. L’opera, datata 18 maggio 1461, fu lasciata poi
da Cosimo al convento francesca-no di San Francesco al
Bosco, nel Mugello, da lui fon-dato, e si trova oggi agli
Uffizi. Non fu eseguita a Firen-ze come si è lungamente
creduto, ma nelle Fiandre, il che non toglie però che il
suo autore sia stato in Italia come fa presumere
un’immagine del capo di Sant’Ana-stasio, da lui dipinta
per l’abbazia delle Tre Fontane presso Roma. Nel 1473
Firenze avrebbe vantato un altro gioiello fiammingo, il
trittico del Giudizio Finale di

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Memling, commissionato a Bruges dal banchiere Ange-lo


Tani, se la nave che lo trasportava non fosse stata sac-
cheggiata da pirati baltici che consegnarono l’opera a un
gruppo di armatori di Danzica, città dove tuttora si trova.
Altre opere di Memling erano però visibili in Santa Maria
Nuova, la tavola con storie della Passione dipinta,
secondo il Vasari, per i Portinari (oggi alla Gal-leria
Sabauda a Torino) e un piccolo dittico oggi agli Uffizi.
Ma il piú importante arrivo fiammingo a Firen-ze fu il
trittico, ancora una volta dipinto per i Portina-ri, di Hugo
van der Goes che compiuto tra 1476 e ’78 fu collocato
nel 1483 in Sant’Egidio. Oltre le opere visibili nelle
chiese molte erano poi quelle raccolte nei palazzi privati,
in primis presso i Medici che verisimil-mente
possedevano lo splendido ritratto muliebre di Petrus
Christus, oggi a Berlino, e il San Girolamo dipin-to da
Van Eyck e terminato da Petrus Christus nel 1442 per il
cardinale Albergati, oggi a Detroit. Accanto a Firenze,
Pisa e Lucca ricevono opere fiamminghe. La cosiddetta
Madonna Lucca di Van Eyck (oggi a Fran-coforte, ma
proveniente da una collezione lucchese) fu certo portata
in patria da un membro della numerosa colonia lucchese
a Bruges (di cui facevano parte anche gli Arnolfini, i
celebri committenti di Van Eyck) e trit-tici fiamminghi,
come quello che F. Bologna ha attri-buito al «Maestro
della Santa Godelieve» e che giunse al Museo di San
Matteo dalla chiesa di San Giovanni alla Vena, si
vedevano anche a Pisa. In un caso, quello di un’opera di
un maestro fiammingheggiante, proba-bilmente
spagnolo, una grande tavola fu trasformata in trittico con
l’aggiunta di due ali dipinte da un maestro pisano (Pisa,
Museo di San Matteo).
I pittori fiorentini della seconda metà del Quattro-
cento accettarono spunti, formule, suggerimenti in gran
numero dalle opere fiamminghe presenti in città, tutta-via
gli elementi assorbiti rimasero piú in superficie e non

Storia dell’arte Einaudi 18


Enrico Castelnuovo - Presenze straniere: viaggi di opere, itinerari d’artisti

si verificò, in questo momento di filofiamminghismo


acuto, un confronto tanto dialettico, complesso e sostan-
ziale come era avvenuto per un Domenico Veneziano
prima, quindi per Piero della Francesca, per Giovanni
Bellini, per Antonello. Andava mutando d’altra parte,
con il finir del secolo, l’atteggiamento generale dei pit-
tori transalpini verso l’Italia dove essi giungono ora
espressamente a cercare esempi e lezioni. Il primo viag-
gio di Dürer a Venezia nel 1494 è proprio un viaggio di
apprendistato, molto diverso da quello del 1450 di Rogier
van der Weyden a Roma, Firenze, Ferrara. E di come la
situazione italiana fosse estremamente piú avan-zata e di
come il pittore, grazie alla stessa impostazione
intellettuale della propria attività, all’immagine che di lui
e del suo ruolo si aveva, occupasse nella società un posto
diverso da quanto altrove avveniva, Dürer pren-de
coscienza durante il suo secondo viaggio in Italia,
quando nel 1506 scrive da Venezia all’amico Pirkhei-
mer: «Qui sono un signore; in patria nient’altro che un
parassita».

Solo qualche indicazione potrà essere data qui della


vastissima bibliografia sull’argomento:
Aby Warburg, Arte fiamminga e primo Rinascimento
fiorentino (1902) in A. Warburg, La Rinascita degli Dei
antichi, Firenze 1966, pp. 147 e sgg.; Mostra d’arte fiam-
minga e olandese del secolo XV e XVI, catalogo a cura di
C.L. Ragghianti, Firenze 1948; Erwin Panofsky, Early
Netherlandish Painting, Cambridge (Mass.) 1953; R.
Weiss, Jan van Eyck and the Italians, in «Italians Stu-
dies» 1956; Michael Baxandall, Bartholomeus Facius on
Painting, in «Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes» XXVII, 1964; E. Castelnuovo, Prospettiva
italiana e microcosmo fiammingo, Milano 1966; G.
Mulazzani, Observations on the Sforza Triptych in the

Storia dell’arte Einaudi 19


Enrico Castelnuovo - Presenze straniere: viaggi di opere, itinerari d’artisti

Brussels Museum in «The Burlington Magazine»,


CXIII, 1971; C. Sterling, Le Maître de la Trinité de
Turin, Étu-des Savoyardes II in «L’Oeil» 215, 1972;
M. Davies, Roger van der Weyden, Milano s.d.
Ferdinando Bologna, Napoli e le rotte mediterranee
della pittura, Napoli 1977; Otto Paecht, Die Autorschaft
des Gonella-Bildnisses, in «Jahrbuch der Kunsthistori-
schen Samml. in Wien» LXXIV, 1978; Roberto Longhi,
‘Arte italiana e arte tedesca’ con altre congiunture fra
Ita-lia ed Europa, 1939-1969, Firenze 1979; Fiorella
Sric-chia-Santoro, Arte italiana e arte straniera in Storia
del-l’Arte Italiana, vol. III, Torino 1979 pp. 69 sgg.; Liana
Castelfranchi-Vegas, Italia e Fiandra nella pittura del
Quattrocento, Milano 1983; Michel Laclotte, Dominique
Thiebaut, L’École d’Avignon, Paris 1983; Fiorella Sric-
chia-Santoro, Antonello in Europa, Milano 1986.

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