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o della
pittura barocca
da
di Giuliano Briganti
Edizione di riferimento:
da: Giuliano Briganti, Pietro da Cortona o della pittura barocca, Firenze, Sansoni, 1962
Nel secondo decennio del Seicento si andava affermando in Roma una nuova maniera espressiva che difficilmente pu ricondursi allautorit di un solo artista
ma rivela piuttosto laspetto di un generale mutamento
nei modi del rappresentare. Una tendenza che univa
artisti di cultura diversa e che per la sua particolare
natura fa supporre che nuovi mezzi espressivi fossero
suggeriti loro dalle aspirazioni della societ nella quale
vivevano e dalla quale, per dirla brutalmente, erano
mantenuti, cio dalla classe dominante della societ contemporanea che gravitava intorno alla corte pontificia.
Un suggerimento quindi estraneo alla pratica dellarte,
ai termini di maniera e di realt, di disegno toscano
o di colorito veneziano, di imitazione dallantico o di
riproduzione del naturale, a quei termini insomma di
vita pittorica che avevano sino allora fornito argomento di discussioni, inimicizie e magari crisi di coscienze
nellambito degli studi dei pittori, delle accademie o dei
salotti dei nobili virtuosi poich rappresentavano la semplice configurazione intellettiva o se si vuole letteraria
di profondi mutamenti visivi. Non si trattava nemmeno di una teoria artistica. Anche quella ci fu, ma il suo
riflettersi in concrete manifestazioni formali non accadde che in un determinato settore della pittura e per
breve tempo, un episodio solamente anche se i suoi strascichi furono tanto pi lunghi, e noiosi, nella storiogra-
in San Francesco a Ripa, ove sempre la rappresentazione realistica di un fatto, in una sua pittoresca manifestazione popolare, a costituire il tema del dipinto. Ma
ecco che, proprio nel 1620, il Vouet sterza bruscamente verso una nuova e diversa maniera, licenziando la Vergine che appare a San Bruno destinata alla Certosa di San
Martino di Napoli. Che lintenzione sia nuova e diversa non c dubbio: se vi si pu ancora riconoscere il sedimento di uneducazione caravaggesca isolando qualche
pezzo, nella figura del Santo soprattutto, la luce al lampo
di magnesio che lo illumina crudamente tuttavia intesa, senza equivoci, come luce soprannaturale; dalla scena
ideata bandito ogni dato di ambiente naturale, ogni
aspetto di quotidiano e accidentale accadimento che il
caravaggismo anche in quegli anni avrebbe richiesto,
mentre le nuvole (lingrediente meno caravaggesco) che
invadono la scena, gli angeli, i cherubini fluttuanti nella
gloria celeste, lalone di luce che circonda lapparizione
della Vergine e del Fanciullo diventano i soli protagonisti s che appena ci si accorge come il luogo della scena
sia allaperto, un bosco forse dove il Santo stato folgorato dallimprovvisa apparizione. La composizione
soprattutto riflette una visione diversa e dimostra come
al caravaggismo si sia sostituito un nuovo ideale culturale, del tutto antagonistico; non infatti difficile riconoscere nella Vergine che appare a San Bruno uneco ben
distinta della Vergine che offre la pianeta a SantIdelfonso di uno dei sordini della Cappella Paolina in Santa
Maria Maggiore. Sia questaffresco tutto del Reni o,
come pi lecito supporre, in parte del Lanfranco,
cosa che per il momento non interessa, ch si vuole qui
porre laccento sul fatto di come il Vouet aderisse alla
separazione degli stili, scegliendo cio per una rappresentazione sacra quello che si pu chiamar di diritto lo
stile illustre col tributare un deliberato omaggio ad un
tipo di visione che, proprio nella Cappella Paolina, aveva
quale laltare parte integrante, il fastoso altare barocco ideato come un palcoscenico ricco e dorato, con la
scena elevata, pi alta degli spettatori, ove quanto accade non si svolge al loro livello, non un riflesso, trasposto in termini sacri, di una realt visiva conosciuta o
anche immaginata, ma soltanto un simbolo chiaro e tangibile che li sovrasta, lultimo appiglio del visibile alla
devozione popolare e, data la natura di quella devozione, il pi efficace. chiaro come la rappresentazione
miri ora soprattutto a colpire le reazioni sentimentali
dello spettatore: reazioni, sarei per dire, gi in precedenza calcolate perch, essendo comuni a tutti gli spettatori cos come allartista stesso, costituiscono i caratteri distinti di una determinata societ. Una tale teorica degli affetti che identificava comunicazione e persuasione fa supporre che lartista, in questo caso il Lanfranco, considerasse le sue facolt espressive in funzione della disposizione sentimentale, e in particolare religiosa, del pubblico al quale erano destinati i suoi dipinti ed solo sotto questo aspetto che va inteso il suggerimento della societ contemporanea, cio della classe
dominante, che mai come allora era stata sollecita di persuadere. Un suggerimento quindi che deve intendersi
piuttosto come uno spontaneo asservimento dellarte ai
fini del ceto colto dominante del cattolicesimo romano,
una vittoria di questo sulla libert dello spirito, s che il
modo di intendere la religione era ormai lo stesso sia
nella curia che negli studi e gli artisti lavevano assorbito con i pi elementari principi della loro educazione,
complementare e indissolubile dai princip generali della
cultura media seicentesca.
Questi elementi collocano la pala daltare del Lanfranco, nella vicenda della pittura del Seicento, in un
punto molto distante non solo dal caravaggismo (e sebbene tale affermazione sia cos evidente da parere superflua, si pone qui soltanto perch non pi di due anni
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Santa Teresa del Lanfranco apre chiaramente la via allarte sacra barocca quale si andr delineando appunto per
trionfare, poi, anche se con modi pittorici differenti e
per mezzo di nuovi artisti, nei decenni successivi. logico daltra parte che un modo diverso di immaginare, di
rappresentare, di comporre, portasse anche ad un modo
diverso di dipingere e che le opere successive del Lanfranco, le pi tarde soprattutto (perch cos come il
Vouet dopo il San Bruno non manc di tornare talvolta
su temi caravaggeschi, anche il Lanfranco, dopo il ritorno da Parma ritrov, a SantAgostino per esempio, il
romantico naturalismo degli anni giovanili), siano lindice di una crisi nella storia della pittura. Una crisi notevolmente importante e che ci riporta, ma con pi precisione, ad esemplificare una delle coppie di concetti del
Woelfflin. Ecco infatti un fare indubbiamente pi
affrettato, un pennelleggiare rapido, corsivo, talvolta
persino sciatto, che collega rapidamente la composizione cos spesso diagonale e di sottin su delle masse con
tratti lunghi a striscio, evitando di soffermarsi su particolari o di insistere su elementi naturalistici. Una pittura da nuvole o da apparizioni, fugace, mobile, illusiva.
Una luce che non mai la luce familiare dellalba, del
meriggio, della sera, ma che si affida alla trasfigurazione momentanea e irreale di una perturbazione metereologica per rappresentare una atmosfera soprannaturale e
piove obliqua sulle figure mettendone in rilievo rapidamente i tratti essenziali. Un modo per allontanarsi ancora di pi dalla concezione anatomica dellarte, dal culto
del disegno come conoscenza, e se a quel mondo conchiuso, seguace della norma, gi Caravaggio aveva inferto il pi valido colpo in nome dellapparenza reale delle
cose, lo si abbandonava ora, pi facilmente, in nome di
una loro apparenza irreale per la ricerca di una illusiva,
miracolistica trasfigurazione.
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ni di piccola nobilt e di qualche rendita o semplicemente borghesi che vivevano ai margini della corte pontificia, spesso segretari o bibliotecari di famiglie principesche, letterati quindi come principale occupazione.
Nel quadro della societ seicentesca essi si possono considerare gli esponenti della media cultura e rappresentano lanello di collegamento fra gli artisti e le grandi
famiglie dei committenti. Nutrivano per larte un amore
indubbio e costante, talvolta fanatico e paradossale, non
esente da lunatiche stranezze, ma sempre vivo perch
trovava modo di esprimersi praticamente in un continuo
rapporto con gli artisti e con le opere, il che li induceva
a preferire allattivit dello scrivere e del teorizzare
anche se talvolta scrissero e teorizzarono quella del
conoscere e del raccogliere. Furono infatti conoscitori,
fra i primi nel senso moderno della parola, e collezionisti indubbiamente specializzati, coi loro singolari musei
che erano il frutto tangibile di una appassionata e curiosa erudizione. Giano Nicio Eritreo nella sua Pinacoteca ce ne ha lasciato dei ritratti estremamente vivi che
ce li fa distinguere, per la loro particolare psicologia, fra
la folla di caratteri disordinati, squilibrati, pazzeschi, dei
letterati e dei filosofi che vivevano nelle stamberghe,
nelle suburre o nei palazzi della Roma seicentesca. Siano
essi personalit ben note come Giulio Mancini o Cassiano dal Pozzo, o meno note come Lelio Guidiccioni,
dilettante e poeta del seguito del cardinal Scipione
Borghese e poi del cardinal Antonio Barberini, amico dei
fratelli Sacchetti, che aveva in Piazza di Spagna dottissima libraria e bellissimi quadri, o Leonardo Agostini, antiquario senese, amico del cardinal Francesco
Barberini, pi tardi Antiquario Pontificio e Commissario delle Antichit di Roma e del Lazio e che
aveva un Museo vario di statue e marmi antichi in via
della Madonna di Costantinopoli, o Marzio Milesio
Sarazano e Ludovico Compagno li quali sapevano per
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lunga pratica dar giudizio dellanticaglie delle quali havevano in casa loro fatto un gran cumulo o Ferrante
Carlo, amico del Lanfranco, o Francesco Angeloni, collezionista di disegni di Annibale, tutti pateticamente si
affaccendavano intorno alle cose dellarte, coltivando
quasi senza eccezione un erudito amore per lantichit,
e mantenendo contemporaneamente un diretto rapporto di amicizia con gli artisti cui fornivano gli elementi
della loro cultura sia con la quotidiana frequentazione
sia con lo stimolo pratico costituito dai loro musei che
diventavano quasi insensibilmente le nuove accademie
del Seicento.
Erano invero musei particolari, che derivavano il loro
carattere da una ricerca di contenuti e non di forma e
che aspiravano alla funzione di repertori, assomigliandosi in qualche modo agli odierni musei didattici. Volevano essere il riflesso di determinate ricerche, il risultato
tangibile di uno specializzato interesse storico e culturale e rispecchiavano in questo il carattere sperimentale della nuova scienza naturale seicentesca. Si affiancavano infatti a quelle curiose raccolte di botanica, mineralogia e zoologia che riunivano gli esempi pi rari reperibili dei tre regni della natura, stanze gremite di ogni
curiosit ove cristalli di quarzo e blocchi di pietre dure
erano posati accanto a capricciose conchiglie gigantesche
portate da qualche missionario di ritorno dalle Indie
Orientali, fra gusci di testuggini, fossili e denti di narvalo, sotto limmobile navigazione aerea dei coccodrilli
impagliati appesi al soffitto. E soprattutto disegni o
tempere che riproducevano fenomeni fisici, animali rari,
costumi dissueti, fiori e piante, accanto a manoscritti di
segreti medicinali o industriali e via dicendo. Talvolta
linteresse artistico si accompagnava a quello scientifico
nella medesima persona di un collezionista, ed ecco quelle stesse stanze cariche di pittoresche suppellettili naturali animarsi per la presenza pi umana di quadri e di
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nio e agli inizi del terzo, quando, prima ancora dellarrivo a Roma del Poussin, conobbe Pietro da Cortona.
Pensieri come quello ora riportato ove chiara lallusione al Borromini e che denunciano piuttosto linterferenza del Dati e la cultura degli anni in cui il panegirico fu scritto sono certo posteriori a quel tempo e
riflettono un totale riconoscimento di ogni perfezione
nella regola classica, che induceva alla considerazione
pessimistica dei moderni rispetto agli antichi. Non era
certo quella la posizione del volonteroso commendatore: un sincero entusiasmo lo spingeva verso gli artisti moderni e labbrivo ideale alle sue ricerche sullantichit era dato dalla fiducia che la conoscenza degli antichi giovasse al moderni, non tanto come repertorio di
regole formali quanto come arricchimento ed elevazione della cultura dellartista per raggiungere quella sublimit di contenuti verso la quale la classe dirigente indirizzava la rappresentazione. Bisogna pensare che in quegli anni il Dal Pozzo era ancora fresco delle discussioni
con Alessandro Tassoni che gli avr sostenuto pi volte,
con argomenti estrosi e bizzarri, le tesi del libro X dei
suoi pensieri diversi, cio la superiorit degli ingegni
moderni sugli antichi; e se Cassiano si sar opposto pi
volte al suo vivace interlocutore rimproverandolo di una
cultura sullantichit del tutto approssimativa e dilettantesca, certamente condivideva con lui lentusiasmo
per il proprio tempo. Si aveva il coraggio, allora, di sentire la propria civilt come civilt esemplare accanto a
quella antica e non v dubbio che nella corte pontificia
a cominciare da Paolo V e soprattutto sotto Urbano
VIII, lassolutismo cominciasse a creare, nonostante le
diversit di struttura economica e politica, quella esaltazione di se stesso che caratterizz pi tardi la Francia
di Luigi XIV, che a sua volta limpose allEuropa.
Quando nelle sue case di via della Croce e poi di
SantAndrea della Valle, Cassiano dal Pozzo cominci
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In questo senso la figura di Cassiano dal Pozzo, persona prima del classicismo archeologico seicentesco,
attraverso i vitali rapporti che sempre mantenne con gli
artisti contemporanei assume una particolare importanza nello svolgimento delle arti figurative e non difficile ritrovarne un po ovunque i riflessi. Tra i primi cronologicamente sono quelli appunto che illuminano la
formazione mentale e stilistica di Pietro da Cortona, per
diffondersi poi, col trascorrer degli anni, e seguendo
quello sviluppo verso un puristico rigore formale cui si
fatto cenno, ad altre persone e altre tendenze. Per
restare al giovane Berrettini, basti pensare alle copie che
egli fece, con uno spirito suggerito sicuramente dagli
insegnamenti dellarcheologo piemontese, dai rilievi
della Colonna Traiana che restarono fondamentali sia
per la sua concezione compositiva sia per la determinazione dei tipi fisici dei suoi personaggi.
Era in tal modo, comunque, che lo spirito classico,
nella precisa accezione che andava assumendo in quegli
anni, si metteva al servigio delle aspirazioni idealizzanti e retoriche della societ, accompagnandosi, rendendosi anzi complementare, alla nuova propagandistica
psicologia religiosa e giustificando cos lunit di stile
delle varie rappresentazioni di quellet. Se non si considera la situazione della societ romana quale essa era
a cominciare dai primi decenni del Seicento, quando
paragonandosi a suo modo alla grandezza degli antichi
richiedeva che lesaltazione della sua struttura gerarchica e assolutista si rispecchiasse nelle rappresentazioni
dellarte, e se non si considera altres che essa era lontana dal possedere la solidit politica e il consenso di
quella francese del gran secolo ma ne condivideva soltanto, in anticipo, le aspirazioni e gli aspetti esteriori,
in altre parole la presunzione di grandezza, non sarebbe possibile rendersi conto delle vie per le quali la cultura classicheggiante era tratta al suo servizio e di come,
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anche per quel tramite, lesaltazione e la retorica barocca potessero risplendere in unepoca che sotto tanti
aspetti e in tanti campi del pensiero, della filosofia,
della scienza presenta il contrasto di una mentalit razionalistica, fornisce addirittura gli elementi primi di una
moderna razionalistica metodologia. Il fatto che nasceva in quegli anni unarte ufficiale, starei per dire unarte che aveva linvestitura dalla ragion di stato, che era
lespressione di una parte ben distinta della societ, la
quale esercitava funzioni storicamente molto meno
importanti di quello che volesse far presumere con lesaltazione del suo prestigio. Dal carattere particolare di
quella minoranza, dal suo ideale di vita, trae origine la
moda delle forme barocche e iperboliche, nonch la
spiegazione del radicale rifiuto del realistico e del quotidiano. E in tal ordine di fatti operava il classicismo seicentesco, collaborando alla ricerca di modi espressivi
adeguati e ad una adeguata sublimazione dei pensieri e
dei sentimenti, molto diverso quindi dalla pura imitazione formale dellantichit che il senso umanistico alimentava ancora nel secolo XVI.
Pietro da Cortona educ la propria immaginazione e
trov la via per esprimersi tra le circostanze ora accennate, e le considerazioni sin qui fatte di come linclinazione per larte e la maniera di concepire un quadro
sacro o profano andassero mutando dal tempo di Paolo
V in poi, si riferiscono in modo esemplare alla formazione del Berrettini quale ci manifestata dalle sue
prime opere.
Esse ci testimoniano una singolare aderenza a quellinsieme di fatti che costituiscono la fisionomia intellettuale della classe dominante romana, una risposta
adeguata alle sue aspirazioni. Cresciuto nella particolare atmosfera creata dal sentimento religioso di quellultimo atto della Controriforma, educato al nuovo gusto
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del classicismo, docilmente proclive a riconoscere i valori che si attribuiva lautorit costituita, il Berrettini non
tard ad affermarsi nellambiente di Cassiano dal Pozzo,
di casa Crescenzi, ove conobbe il Marino, e soprattutto presso i fratelli Sacchetti, i suoi effettivi mecenati,
che erano allora in piena ascesa sulla strada del potere
economico, sociale e politico.
Un gruppo notevole delle sue opere, che possono
datarsi con sicurezza prima del 1624, cio dipinte ancora sotto Paolo V e durante il triennale pontificato di
Gregorio XV, affermano chiaramente linizio di unespressione nuova, mostrandosi sostanzialmente diverse,
a prescindere da ogni considerazione qualitativa, dalle
manifestazioni artistiche contemporanee. Indirizziamo
il nostro esame ad una qualsiasi di esse, per esempio al
grande Sacrificio di Polissena dipinto per i Sacchetti, che
si pu datare, con presunzione di esattezza, in un tempo
molto vicino al 1620. Le considerazioni fatte sinora sui
limiti del realismo posti allarte trovano qui lesemplificazione dei loro precisi motivi. evidente, in un dipinto come questo, la consapevole intenzione di escludere
dalla scena ogni accenno ad una realt quotidiana, di
spogliare i personaggi di qualsiasi riferimento ad una
umanit reale. Un tale processo di separazione delle
immagini non solo dalle circostanze della vita giornaliera, ma anche da ogni rapporto con la individualit sentimentale dello spettatore, certamente nuovo per quegli anni. Negli stessi mesi forse in cui il Cortona consegnava il dipinto ai Sacchetti, Simon Vouet lavorava nel
suo studio intorno alle Tentazioni di San Francesco commessogli per una chiesa di Roma, San Lorenzo in Lucina, e immaginava la scena in un ambiente estremamente vissuto e reale, la camera da letto di un buio palazzotto romano ove un mozzicone scoppiettante di candela
posato su un tavolo illumina con bagliore discontinuo gli
stipiti in marmo della porta, la cornice del quadro alla
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lievi accenni, assumono laspetto fugace duna situazione visiva che tocca le corde pi individuali dellimmaginazione e della memoria.
Nel Sacrificio di Polissena invece la scena come isolata e in s conchiusa e non offre alcun riferimento allesperienza individuale dello spettatore, ne per via realistica ne per via sentimentale. I personaggi sono privi di
ogni attualit umana, gli stessi accenni a un ambiente
naturale, cio il luogo ove accade il fatto, fanno parte
di un repertorio appena variabile che decora ogni
quadro di questo periodo del Cortona: cipressi, templi,
arche, querce, obelischi. Alberi convenzionali, edifici
convenzionali, indispensabile e convenzionale cornice
alla scena, necessari solo a nobilitarla con gli attributi di
una convenuta e immobile classicit. In questa sublimit
chiusa e isolata si svolge la historia e i personaggi
anchessi vestiti dellimmutabile aspetto che conferito dagli attribuiti desunti dal classicismo, si atteggiano
nei gesti pi adatti al loro ruolo ed esprimono le loro
passioni. Neottolemo limmagine ideale del Re, Polissena quella della vittima innocente, spersonalizzati,
distanti da ogni modello vivente cos come lontana
dalla vita quotidiana la favola che rappresentano; il dolore della madre tragico e sublime e lo stesso carnefice
nel gesto di uccidere privo di ogni volgare truculenza. I personaggi indispensabili allazione, ministri,
familiari, sacerdoti, nei loro attribuiti desunti dal repertorio classico, sono egualmente impersonali e dignitosi,
sciolti dallimpaccio di ogni richiamo al presente perch
i sentimenti che agitano il presente sono al di sotto della
rappresentazione, non si convengono alla sua nobilt
esemplare e didattica che si svolge in unatmosfera assoluta, mitica, non determinabile sulla terra. La cornice
del quadro viene cos a identificarsi idealmente con i
limiti di un palcoscenico che separa la finzione dalla vita
e il rapporto tra la scena e chi guarda viene ad essere lo
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stesso, compositivamente e prospetticamente, che intercorrerebbe fra una scena teatrale e lo spettatore.
necessaria a questo proposito unosservazione sulla composizione e soprattutto sui suoi limiti, cio su quale sia
il suo rapporto spaziale con la cornice del quadro. In un
quadro caravaggesco il nero del fondo su cui campeggiano le figure inteso come uno spazio entro il quale
vive idealmente anche chi guarda il quadro, come se la
scena si svolgesse nella stessa stanza ove sono i riguardanti, s che la fonte luminosa che investe i personaggi,
rivelandoli contro quel fondo nero, quasi sempre
fuori del quadro in un immaginato spazio reale che
coinvolge attori e spettatori. La cornice che inquadra la
scena viene ad essere cos come idealmente abolita perch vuol coincidere, con le necessarie limitazioni, con
quella stessa del campo visivo di chi guarda. Lillusione
di un legame spaziale fra scena dipinta e realt esiste
anche nella cos detta corrente classicista seicentesca, e
i Carracci sin dal tempo degli affreschi nel palazzi Fava
e Magnani, usarono abbondantemente gli espedienti
della composizione trasversale cinquecentesca, trasferendola nella luce vera e nellambiente sempre individuato delle loro storie, per indicare una prospettiva
spaziale estranea alla cornice, una profondit nella quale
si snodava la rappresentazione prolungata idealmente
anche verso lo spettatore. La cornice non coincide mai
coi limiti spaziali del dipinto ma, per cos dire, ne taglia
la scena da uno spazio pi vasto e sfogato.
Qui invece nel Sacrificio di Polissena la composizione
in funzione dellazione principale, posta al centro, e
le figure, tutte in primo piano, come sul proscenio, si
dispongono su di un semicerchio appena accennato i cui
punti estremi laterali vengono a coincidere perfettamente con gli angoli inferiori della cornice del quadro.
Una composizione quindi estremamente semplice e frontale, che conchiude lazione in se stessa in uno spazio
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sfondo, che non indugia sullillusione visiva dei particolari, ma che si diffonde con la luce, imparzialmente,
per tutta la superficie del quadro, creando quella verisimiglianza atmosferica che era il vero segreto dei veneziani cos vanamente inseguito nei primi anni del Seicento. Anche in questo senso il Cortona afferma la sua
priorit per una strada che ebbe tanto sviluppo negli
anni seguenti del secolo; e anche per questo sar bene
seguirlo ancora una volta nel corso delle vicende dellarte contemporanea.
Di che natura, per un artista educato in Roma, poteva essere tra il secondo e il terzo decennio del Seicento
la propensione verso la pittura veneziana? necessaria
unosservazione preliminare: quanto prima si detto
della composizione in funzione di una sublimit
espressiva che era il risultato di un particolare atteggiamento mentale e di una particolare disciplina estetica,
di quella concezione cio di un rappresentare dissociato da ogni rapporto con la vita, non trova un letterale
appoggio nelle teorie del tempo e nellestetica corrente
dei committenti. Anzi, le lodi dei contemporanei di
fronte alle prime opere del Cortona si saranno fondate
quasi certamente su espressioni quali naturalezza,
verisimiglianza, evidenza della natura accompagnata dallo studio e simili. Pu sembrar quindi logica conseguenza che a quellempirica esigenza del verisimile, a
quella ricerca di unione tra composizione, disegno e
colorito riflessa, in quei medesimi anni, dalle considerazioni sulla pittura di un dilettante quale il Mancini
e che certamente, pi delle teorie sullimitazione ideale anticipate dallAgucchi, doveva essere la moneta
corrente negli studi e nelle accademie dei pittori in
Roma, dei toscani soprattutto, la pittura veneziana
offrisse il seducente appiglio della naturalezza. E se
ancora nel terzo decennio del Seicento un uomo di grande esperienza, come appunto il Mancini, non condan-
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nava i tardi manieristi tipo il DArpino con la decisione che fu invece dellAgucchi, ma si limitava, con bonario buon senso, ad accusarli di scarsa osservanza del
vero, logico pensare che un artista di una generazione
pi giovane e che non condivideva con lAgucchi lastratto entusiasmo per il classicismo del Domenichino
ed il caso di Pietro da Cortona sentisse maggiormente il vuoto di quella mancata osservanza del vero e
cercasse di ovviarvi in nome di una naturalezza che,
come abbiam visto, non poteva esser nemmeno il vero
di natura caravaggesco. Per dar vita e verisimiglianza a
quel mondo fittizio, a quel sublime teatro di affetti che
gli suggeriva la fantasia a soddisfazione di quelle istanze sociali cui si fatto cenno, la classica naturalezza
veneziana era il coefficiente ideale. certo questa una
constatazione a posteriori, che possiamo fare noi oggi,
ch le ragioni della propensione verso la pittura veneziana non si saranno configurate in tal modo nella mente
del Cortona. Penso invece di non discostarmi troppo dal
vero nellimmaginare i suoi pensieri in proposito, fin dal
tempo in cui frequentava laccademia in casa di Baccin
da Barga o prima ancora: quando, giovinetto, accompagnava il suo buon maestro Andrea Commodi a visitare
lo studio del Passignano e lo trovavano addosso alle
grandi tele destinate alla cappella Barberini di SantAndrea della Valle, intento a rabescare le sagome doro sul
bianco del damasco o a iridare le sete di qualche brivido di luce nella Presentazione al tempio; e mentre lavorava lo ascoltavano parlare, senza che per altro si
distraesse da quella sua meccanica applicazione, dellabilit di Paolo Veronese nel dipinger le stoffe e di come
le sue opere pi di altre lavessero sedotto al tempo del
suo viaggio nella Repubblica per la piacevolezza del
colorito e la nobilt dellinvenzione. Oppure in circostanze poco diverse avr pensato ancora ai veneziani
osservando i dipinti del Cigoli ove, oltre al consueto
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omaggio tessile a Paolo, un tentativo di fondere i colori nellatmosfera si risolveva spesso soltanto in un nebbioso sfumato. Vennero poi gli esempi pi decisivi e calzanti, le pi profonde emozioni. Erano le opere che
Annibale aveva lasciato in Roma, traduzioni lombarde
di pensieri veneziani che lo portarono a comprendere,
con mente pi aperta, ci di cui prima aveva solo sentito parlare: il paesaggio tizianesco, i problemi della trasparenza del lume naturale e della prospettiva aerea,
della verisimiglianza degli atteggiamenti, del calore vitale che limmediatezza degli impasti conferiva allincarnato e gli rendevano pi profittevole la suggestione dei
pochi originali allora visibili: un Tiziano (vero o falso)
o un Tintoretto o un Bassano sbirciato di straforo sulle
pareti di un salone, quando non si trattava di suggestione indiretta, quale ad esempio poteva giungergli da
qualche rametto dello Scarsellino che certamente gli
sar venuto tra le mani.
Ma non dimentichiamo che sin dal 1608, sul maggior
altare di una chiesa di Roma, tre grandi quadri additavano, a chi lintendesse, un nuovo modo dapprendere
la lezione di Venezia. Erano i Rubens della Chiesa
Nuova, ove la florida naturalezza di Paolo Veronese, la
sua felicit serena e maestosa, sbocciava inattesa nella
greve atmosfera dellagiografia contro riformista, germogliando con insospettata freschezza dai succhi pi
densi, direi sanguigni, celati sotto la verde scorza del
solido tronco fiammingo ed espandendosi con violenza
improvvisa per le grandi superfici dipinte. Nei quadri
laterali lo spazio sembra vibrare e dilatarsi per accogliere le gigantesche figure che lo occupano in tutti i sensi
con leloquenza solenne del loro gestire e sfogarsi poi
liberamente nella fuga prospettica della gloria angelica
centrale ove i raggi della luce divina, che partono da un
punto focale cos alto e lontano da suggerire una profondit infinita, irrompono per i fessi delle nubi e tra i corpi
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degli angeli in controluce, disposti in una vorticosa continuit. Un complesso come questo che, nel tempo, sta
esattamente a mezza strada fra il Paradiso di Tintoretto e la cupola di Lanfranco a SantAndrea della Valle,
verso il 1620, dopo circa 15 anni, era maturo per dare
i suoi frutti. Per il tramite di quella partecipazione vitale ad una felicit fisica, corporea, cos tangibile e illusiva, si intravvedeva il lato drammatico della visione luminosa veneziana tradotta nel linguaggio pi adatto agli
scopi spettacolari del cattolicesimo romano. Era un
esempio che rimase in serbo per molto tempo nellabside della chiesa dei Filippini, ma che cominci a fruttare in quegli anni, accendendo di suggestioni, facile
immaginarlo, la mente di giovani come il Bernini o il
Cortona o il Sacchi. Vera poi, s gi detto, lesempio,
pi vicino nel tempo, di un pittore lombardo, il Lanfranco, che certamente deve aggiungersi, come stimolo,
agli altri suggerimenti per una pittura libera, aerea, di
luminosit drammatica e spettacolare se non altro per
quella sua particolare e riconosciuta propensione a
dipinger glorie celesti. Senza contare che il Lanfranco stesso, rielaborando in senso moderno reminiscenze correggesche, indirizzava in quegli anni le sue
ricerche nella direzione che lavrebbe portato di l a
poco, tra il 25 e il 28, a concepire il vortice di nubi e
figure della cupola di SantAndrea della Valle, la prima
cupola barocca.
Del resto, anche nel nitido campo del classicismo cristiano, allombra delle candide bandiere del Reni e del
Domenichino, qualche fermento indicava come il vento
che andava raccogliendo allorizzonte le nuvole imminenti del Barocco gi si annunciasse penetrando tra quegli spalti ben muniti. Quasi insensibilmente cominciava
a toccare di un lieve brivido le superfici troppo terse, a
muover laria intorno alle forme statuarie, a scherzare
tra i morbidi capelli degli angeli, a scomporre le barbe
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moderno, molte volte grandioso; ma lurtava certamente il tono poco serio della rappresentazione, lo spirito
grottesco, scanzonato, irrispettoso addirittura, con cui
risolveva alcuni passi della narrazione.
Passavano cos gli anni del breve regno del vecchio
pontefice bolognese e legemonia dellavido Cardinale
Nepote, passava il momento di fortuna insperata del
buon Domenichino, della quale era artefice soprattutto
lAgucchi, segretario di stato e ritenuto non a torto dallambasciatore veneto il principal ministro che oggid
si trovi in palazzo; passava lultima ondata dinfatuazione per i bolognesi e con essa quel momento di entusiasmo retrospettivo, astratto e libresco, cristallizzato
entro la teoria accademica del bello ideale. Artisti pi
giovani, e fra essi Pietro da Cortona, prendevano chiaramente partito per una nuova espressione annunciandola, decisamente, con nuove opere. Intorno al 1620
Gian Lorenzo Bernini collocava nel giardino di villa
Montalto, pel cardinal Alessandro Peretti, il gruppo stupendo di Nettuno e Tritone (oggi al Victoria and Albert
Museum di Londra) investito in pieno da un vento marino che sembra spazzare ogni indugio di preziosa ricerca alessandrina, di cesellato verismo. Lo scultore, poco
pi che ventenne, andava gi concludendo la ricca e
compiuta esperienza dei suoi anni giovanili, che eccezionali doti di natura e studio incredibile avevano condotto al termine pi alto della perfezione tecnica, tale
che chiunque avrebbe considerato il punto di arrivo di
tutta una vita. Tra gli alberi ormai secolari di villa Montalto sul mobile riflesso duna fontana, la figura di Nettuno che scavalca Tritone animata da una vita partecipe della natura circostante; la superficie marmorea
vibra a contatto dellatmosfera e sembra respirare attraverso la scabra porosit; le forme, come investite dal
vento dellaperto mare, sono segnate con ombre improvvise ed essenziali; gli occhi, aggrottati dalla gran luce,
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sono due segni neri sotto le sopracciglia intrise di spruzzi salmastri, i capelli e la barba una massa appena accennata scomposta dal vento. Si concluderanno poi nel giro
brevissimo di anni, se non di mesi, le ricerche preziose
nelle stanze del casino campestre del Cardinal Scipione
Borghese, ove la fredda materia del marmo statuario
trasfigurata dalla tecnica perfetta che illude nella soda
elasticit delle carni, nella morbidezza dei capelli, nella
frusciante freschezza delle foglie, persino nella trasparenza delle lacrime; ma quella prima esperienza di scultura en plein air affrontata con tanta geniale consapevolezza della destinazione sar certo fondamentale e non
tarder a dare i pi fantastici frutti.
Un altro artista della nuova generazione, Andrea Sacchi, comincia, sotto il pontificato di Gregorio, a dar
prove di s dipingendo, poco dopo il 22, la pala per
SantIsidoro, ove mostra di guardar Lanfranco pi dei
bolognesi, ma soprattutto di esser conscio della nuova
tendenza neo-veneziana, per quella semplicit tizianesca
di partiture tonali che infondono un tono vibrato e
caldo al dipinto ed animano del bagliore dorato di un
tardo tramonto estivo la consueta atmosfera crepuscolare, che si indugia allorizzonte secondo i canoni bolognesi. Di Pietro da Cortona e del suo apporto nellambito della nuova generazione s gi detto e ci baster
a dare un quadro di come s configurasse lo schieramento
delle forze pi giovani negli anni tra il 20 e il 21. E tra
laltro, fenomeno conseguente e secondario, a renderci
noto il nuovo aspetto di cui si vestiva lo spirito classicista. Dico questo perch soltanto la conoscenza dellatmosfera in cui sbocciava in quegli anni una nuova
cultura figurativa pu darci pienamente ragione delle
origini di quel classicismo seicentesco quale nel corso del
secolo si impersona soprattutto nella figura del Poussin.
E in questo caso, a parte la componente gi nota del
neo-venezianesimo e lapporto dei Baccanali tizianeschi,
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architettonico del Bernini che nel 26 collocava sullaltare la florida statua della Santa atteggiata in lieve deliquio, la sua prima importante commissione per unopera religiosa, erano tutti elementi che ponevano il Berrettini in una posizione di primissimo piano fra i pittori contemporanei.
Aveva legato il suo nome a quello del Bernini come
esponente, in pittura, della nuova tendenza appoggiata
dal Pontefice e la stima e i consensi che ne derivavano
lo inducevano a guardare con fiduciosa certezza verso
lavvenire. Era giunto il suo momento, e se considerava quanto andava accadendo in Roma in quegli anni
non mancava di rendersi conto di essere in una posizione estremamente vantaggiosa, anche nei confronti di
artisti pur tanto superiori a lui in fama per i molti successi conseguiti durante i regni dei precedenti pontefici. Vedeva giungere alla Trinit dei Pellegrini, da Bologna, la grande pala daltare del famosissimo Guido commessa ancora da Ludovico Ludovisi, assisteva al discoprirsi, in SantAndrea della Valle, dei peducci con gli
apostoli del Domenichino, ma riteneva quelle opere
superate oramai per i nuovi compiti e sentiva di poter
fare qualcosa di pi moderno, di pi adatto ad accendere lammirazione dei committenti. Poteva anche
ritornare il Reni in persona, come ritorn infatti nel 27
per la quarta volta, ma sapeva che non avrebbe pi trovato un ambiente adatto per lui, ed indovinava, ch in
quel suo soggiorno Guido pat non poche amarezze.
Era il momento degli artisti pi giovani e Urbano VIII
pensando a riprendere, con grandiosi progetti, i lavori
in San Pietro, allogava al Bernini appena venticinquenne il gigantesco Baldacchino, deliberava di decorare le nicchie dei piloni e di sistemare nuovi altari.
Molti lavori si annunciavano: fra laltro i Barberini avevano comprato proprio in quegli anni (precisamente nel
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cessive che giungono sino a un quarto piano di lontananza, non v pi traccia di simmetria nel raggruppamento delle figure che sono disposte secondo un andamento centrifugo, estremamente movimentato e del
tutto nuovo. Lapparente disordine per sapientemente calcolato e segue allevidenza lo schema compositivo di una diagonale che occupa circa un terzo del
dipinto, formata dai due gruppi in primo piano a destra
(si veda il pentimento del braccio della donna sollevata
dal guerriero, corretto per accompagnarne landamento
e sottolineato dalle figure del secondo piano), andamento equilibrato, a sinistra, dal gruppo verticale del
rapitore e della rapita, accentuato a sua volta dalle colonne del tempio. Una siffatta composizione asimmetrica,
che rivela alla sua origine una idea immediata, iniziale
(quasi di abbozzo) e si propaga, di conseguenza, sulla
superficie della tela in un susseguirsi rapidamente accennato di macchie di luce e di zone dombra, quasi seguendo di volta in volta limpulso di una spontanea ispirazione e che daltra parte si avvale di calcolatissimi espedienti e di tutto lausilio della cultura classica, dichiara
evidentemente un contrasto, una sorta di intima contraddizione. S che vien fatto di guardare questo quadro
da due punti di vista diversi: o incantati dal suo primo
aspetto di turbinoso movimento e di atmosferica vibrazione, da quelle figure agitate che vivono nellatmosfera, immerse nella luce irrequieta che irrompe dalla macchina teatrale delle nubi e investe le fronde del bosco
che sembrano agitarsi al vento riflettendo una mobile
ombra sul terreno e sulle architetture circostanti; oppure ammirati dagli studiosi accorgimenti compositivi, dal
profondo substrato culturale che traspare ovunque dalla
sostanza figurativa e che si rivela, nei tre gruppi in
primo piano, atteggiati in quelle pose bloccate ormai
nella nostra memoria dalleterna vicenda del classicismo
italiano che va dalle statue romane a Raffaello, a Tizia-
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no, fino ai Carracci, s che a fatica ormai ne ricuperiamo lorigine intuendole soltanto come punto di arrivo di
un lungo e coltivato cammino. nel contrasto di questi due elementi uno degli aspetti principali del Barocco figurativo e ritengo che sotto questo aspetto il Ratto
delle Sabine possa considerarsi unopera chiave.
Per stabilire con maggiore esattezza i nessi del cammino del Berrettini va aggiunta qui unosservazione che
sar utile altres a comprendere un altro aspetto dellimmaginazione figurativa quale si configurava in quegli anni, intimamente legato a quel mutamento di visione che ebbe luogo nel secondo decennio del secolo e di
cui si fatto cenno in alcune pagine precedenti, soprattutto a proposito del Lanfranco dopo il suo ritorno a
Roma. Unosservazione che tocca le opere di destinazione sacra dipinte dal Cortona dopo gli affreschi di
Santa Bibiana e, pi precisamente, i quadri daltare.
Tra questi ritengo debba considerarsi il pi antico La
Vergine cui San Bernardo offre il libro della regola, gi nella
collezione Barberini, che alcune considerazioni mi fanno
ritenere dipinto verso la fine dellanno 1626. Vi riconosciamo la ben nota composizione diagonale, con la
Vergine in alto a sinistra, in una gloria celeste, e il Santo
inginocchiato in basso a destra, in un rapporto iconografico ormai codificato da pi di un decennio e che
abbiamo analizzato nelle sue ragioni: una formula quindi nettamente lanfranchiana anche se declinata in modi
pittorici appena diversi, e da porre in stretto rapporto
con quella adottata dal Vouet nel 20 per il dipinto della
Sala del Capitolo della Certosa di San Martino. Ma
senza dubbio il Cortona non tard ad accorgersi che una
siffatta composizione, che pur corrispondeva cos bene
agli scopi della nuova iconografia religiosa, rischiava di
divenire appunto una formula e si affrett quindi ad
abbandonarla, spinto dal fermento di nuove idee, dalla
fresca atmosfera di entusiasmo inventivo e di proficue
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Cortona sono consoni al nuovo spirito della societ cattolica romana di quegli anni. Che ubbidiva ad una regola sempre meno severa, sostituendo ogni giorno di pi
alle abitudini contratte durante gli anni ormai lontani
delle lotte religiose e dei fermenti spirituali, quelle imposte da ben pi terrene aspirazioni, soprattutto dalla presunzione di grandezza conferita dai temporali poteri. Si
aggiunga che da anni ormai quella societ andava coltivando, in una sorta di neo-umanesimo, lo spirito del
classicismo, ritrovando il sapore pagano e imperiale di
Roma; che gli artisti, da parte loro, avevano scoperto,
nellambito di quello stesso spirito, il pi sereno classicismo cinquecentesco della pittura veneziana, e ci renderemo allora pienamente conto di come Pietro da Cortona rinnovasse, in queste pale daltare, nel pi sensibile
adeguamento ai nuovi orientamenti, liconografia religiosa. Sar utile, cos, a riprova del carattere generale di
una tale tendenza, individuare un parallelo di quello
svolgimento in un pittore di pochi anni pi giovane del
Cortona e che mosse i suoi primi passi nellambito dello
stesso ambiente culturale: Andrea Sacchi. Seguirlo cio
dalla sua prima pala daltare, il lanfranchiano SantIsidoro dipinto per lomonima chiesa romana poco dopo il
1622, modulato sul profilo della nota formula diagonale dellapparizione, sino al Miracolo di San Gregorio
Magno, dipinto circa il 1627 per la Basilica Vaticana, di
una composizione tutta nuova e complessa, indubbiamente dinamica. Insinuandosi nel vuoto che divide il
gruppo degli assistenti sbigottiti da quello del Santo e
dei due diaconi, un fascio di luce la traversa diagonalmente, ma nel senso della profondit, e irrompe sui
bianchi frangenti della sottana di Gregorio, abbaglia
loro sui ricami della pianeta e fa brillare il sangue vermiglio sulla candida spuma della pezzuola. Il punto di
orizzonte bassissimo, calcolato secondo la nuova concezione dellaltare-palcoscenico, e lincombere in primis-
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to da quel parallelo col teatro cui ci ha cos spesso portato il discorso nel tentativo di spiegarne la reale essenza. Fermarsi tuttavia alla logica apparente di una simile affermazione non varrebbe che a portare sbiaditi argomenti allimmagine pi sfocata e convenzionale del
nostro Seicento: quellimmagine moralistica e risorgimentale del Seicento seicentista. Varrebbe anzi a corredarla del pi valido argomento negativo. Un rapporto
invece tra il Barocco e la natura ci fu e come negarlo?
fu un rapporto nuovo e vitale. Se sostituiamo al termine di natura quello, pi consono ma non contrastante, di spettacolo naturale, ecco che saremo indotti ad
ammettere, pi facilmente, che fra questo e lispirazione degli artisti barocchi corre un legame diretto, continuo, imprescindibile. Lo schiudersi di nuovi orizzonti
alla mente delluomo, quel capovolgersi della concezione del mondo quale si andava attuando da tempo ormai
e ribadendo luminosamente in quegli anni nellambito
del pi moderno pensiero seicentesco trova, senza dubbio, un riflesso diffuso nella visione artistica e, in fondo,
sono proprio gli artisti barocchi, in quel succedersi cronologico del modo di rappresentare che abbiamo seguito dal secondo decennio sino alle pi esplicite affermazioni intorno al 30, che danno a modo loro, e magari
con fini diversi, la pi aggiornata interpretazione visiva
di quella nuova apertura mentale. Considerando le opere
di Pietro da Cortona giunto alla maturit dei trentanni, quelle del pi geniale e precoce Bernini o di altri che,
al loro seguito, vissero nello stesso clima di cultura, dobbiamo renderci ragione come fra il terzo e il quarto
decennio del Seicento il rapporto con la natura trov
una situazione molto precisa nella loro coscienza di artisti. La natura uno spettacolo e loro sono gli spettatori: una visione circostante, continua, mutabile, infinita;
inafferrabile nei particolari ma da contemplarsi nel suo
insieme, con locchio che spazia nellatmosfera, cerca il
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pi lontano orizzonte sino a perdersi nelle ultime prospettive luminose delle nubi e del cielo. Uno spettacolo
che le nuove scoperte del secolo educavano, sia pure
indirettamente o inconsciamente, a vedere in modo del
tutto diverso da quello delle generazioni dartisti che li
avevano preceduti. Educavano ad affrontarlo con atteggiamento mutato che li allontanava sempre pi dallattenta e assorta osservazione particolare per avvicinarli
alla visione generale, allimmediata percezione del fenomeno. Una concezione della natura come azione, come
spettacolo in movimento. Chi non ricorda le geniali
intuizioni del Bernini, a proposito di una statua, sulla
diversit di fattura e di proporzioni da concedere, per
esempio, alla mano immaginata in movimento e circondata dallaria nei confronti di quella ferma, scolpita
come un altorilievo tra le pieghe di un panneggio? O il
suo modo di avvicinarsi alla vivente realt individuale
di un uomo, in tema di un ritratto, studiandolo prima
in movimento, nella piena naturalezza del suo agire, o
disegnandolo di schiena, immobile nel suo atteggiamento pi vero e momentaneo derivatogli dallabitudinario e personale rilassamento dei muscoli? Non pi
quindi natura come umanit, ma umanit come natura,
il che rivela chiaramente, nelle arti figurative, un parallelo a quello spostarsi dellinteresse, sul campo del pensiero, dalluomo verso linfinito. Nel decenni precedenti, appena allinizio del secolo, quella rivoluzionaria attitudine mentale aveva trovato in pittura unaltissima
espressione che aveva alimentato, in modi del tutto
diversi, la propria ispirazione ai suggerimenti del mondo
circostante. La coscienza della destituzione delluomo
dal trono rinascimentale che lo aveva posto al centro delluniverso, aveva determinato una crisi, drammatica e
amara, e quella realt naturale cui luomo sera rivelato
sottoposto fu guardata con occhi nuovi ma soprattutto
in relazione alluomo, su di lui riflessa e a lui vicina. Di
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qui lispirazione umana, sarei per dire sociale, del Caravaggio. Ma solo ventanni pi tardi quel rapporto dialettico natura-uomo affrontato dalla mente profonda
dellartista lombardo ha esaurito in Roma, teatro principale delle sue azioni, lardua tensione dei propri argomenti e, in un clima schivo di conflitti morali, la visione and sensibilmente mutando, dilatandosi e stemperandosi nel campo pi vasto dello sguardo, come per una
lunga carrellata alla rovescia, s che accadde di veder
luomo nella natura, assorbito da essa, come risucchiato da un vortice vibrante di luminose circostanze.
Vennero ad essere diverse, cos, le fonti di ispirazione,
che si cercarono al di l degli interni che limitavano e
concentravano il problema della realt rappresentata, ma
nellaspetto pi vario e distraente della natura-spettacolo, in prospettive aeree, libere e sfogate. il cielo
forse, il cielo dei drammatici tramonti romani, col fastoso corteggio delle nuvole trafitte dai raggi di un sole
trionfante (quel sole che non a caso fu nello stesso secolo eletto a simbolo di regale potenza) che offre le pi suggestive e dirette ispirazioni agli artisti barocchi. La cattedra di San Pietro non concepita forse come un paesaggio di nuvole contro il sole? Molti sono i suggerimenti che la natura, cos contemplata, offre agli artisti
della generazione romana del 30 e sarebbe proficuo,
sotto questo aspetto, raccogliere gli esempi pi adatti per
unantologia del naturalismo universale del Barocco. Il
risultato sar senza dubbio illuminante ma devo ammettere che a voler scegliere solo i raggiungimenti pi diretti di una siffatta ispirazione naturale bisognerebbe, nel
pi dei casi, isolare frammenti, squarci, spiragli, ricercati nelle parti secondarie di turbinose composizioni,
ricorrere, in altre parole, al solito lavoro di forbici sulle
fotografie. Perch il naturalismo barocco ebbe il grave
limite di non essere appieno conscio di se stesso e delle
proprie possibilit. Le grandi risorse di una visione aper-
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ta sulla mutevole mobilit della natura furono sacrificate, dagli artisti del Barocco romano, agli idoli pi caduchi del proprio tempo, allallegorico simbolismo politico, alla propaganda cattolica e soprattutto al classicismo,
leterna remora della cultura italiana. Fuori dItalia altri
artisti, negli anni immediatamente successivi, seppero
trar profitto, in ben diversa misura, di quella viva e
moderna visione del mondo che confondeva uomini e
cose nel seno palpitante della natura, nella luminosa
vibrazione dellatmosfera. Ma anche senza ricorrere ai
grandi spiriti del Seicento europeo a Roma stessa, in cronologico parallelo col Barocco, artisti di minor fama e
spesso di assai minor temperamento seppero, forse perch stranieri e reietti dalle accademie, fissare con pi
determinazione il loro sguardo su quella stessa natura e
trasmettercene unimmagine indimenticata. Alludo,
naturalmente, a Claudio Lorenese e anche a qualche
brano dei modesti paesisti italianizzanti. Un dialogo
diretto con la natura-spettacolo, lattingere alle sue fonti
immediate, accadde raramente agli artisti del 30, ai pittori soprattutto, che pi avrebbero potuto approfittarne. Ma il punto fondamentale per la comprensione della
pittura barocca consiste proprio nellammettere che la
visione di quegli artisti, anche dove meno palesemente
ricorreva alle fonti di natura, anche nelle sue pi irreali e macchinose immaginazioni, era del tutto determinata
dal preciso sentimento di una natura universale nella
quale luomo stesso era assorbito. Un reale rapporto con
la natura dunque e nuovo e vitale come allinizio dicevo, anche se situato nelle zone meno affioranti della
coscienza, che ci d ragione non solo del modo di rappresentare ma anche della tecnica pittorica barocca. Poich quel sentimento era indissolubilmente intrecciato ad
altri, di specie e di origine ben diverse, che gli artisti
avevano egualmente assorbito dal loro tempo. Era presente, alle origini pi segrete della loro immaginazione
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visiva, a determinare quelle invenzioni che altri moventi inducevano appunto a concepire; legandosi quindi
indissolubilmente, positivo e moderno sentimento della
natura, al pi caduchi e negativi atteggiamenti del secolo, s da rendere quasi sempre inutile il nostro tentativo di separarlo da quelli, nei risultati. Tale equilibrio di
forze contraddittorie costituisce il limite della generazione romana del 30 nei confronti dei maggiori artisti
del Seicento europeo, che, come il Velzquez per fare un
solo esempio, seppero limitare la pomposa soprastruttura
sociale seicentesca a un puro dato accidentale e visivo
confondendola nella luminosa e mobile realt del vero
di natura.
Queste considerazioni sono, a mio avviso, la premessa pi adatta alla lettura delle opere maggiori di Pietro da Cortona che iniziano dal quarto decennio dei
secolo: laffresco della volta Barberini e quelli fiorentini della camera della Stufa e delle stanze dei Pianeti a
palazzo Pitti. Sono esse a darci la vera misura della
nuova espressione figurativa che fra i caratteri pi intimamente connessi alla sua natura aveva quello di richiedere complessit di temi da illustrare e grandi spazi con
cui cimentarsi. Quella fiducia assoluta, tutta seicentesca,
nelle risorse dellingegno, quasi metafisica e orgogliosa
sublimazione della padronanza dei mezzi espressivi e
degli accorgimenti del mestiere, quel pretendere, in altre
parole, di saper la regola di romper le regole pi conosciute con qualcosa di nuovo e stupefacente, costituiva
senza dubbio una sorta di carica vitale, una sicura riserva di energia che stimolava le forze dellintelletto di
fronte ai problemi pi ardui e alle soluzioni pi difficili. Anche in questo Pietro da Cortona era un vero figlio
del secolo e quando, un giorno qualsiasi dellanno 1630,
spinse per la prima volta i suoi passi nel vuoto sonoro
del gigantesco salone del palazzo Barberini alle Quattro
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Fontane, appena abbandonato dai muratori, dai capimastri e dagli scalpellini, alzando gli occhi allenorme
curvatura del soffitto senti certamente lo stimolo di
mille idee sopraffare in lui il naturale timore della difficolt dellimpresa. Non si parlava ancora, in quellanno, di affidargli il lavoro se non forse per propositi vaghi
che dimostravano come quellidea si andasse facendo
strada nella mente di alcuni suoi protettori, eppure
penso che Pietro non dubit un solo momento di essere lunica persona in Roma capace a riempire quel grande spazio bianco con invenzioni adeguate alla sua
vastit, allimportanza della nuova fabbrica cui lavorava il Bernini, allautorit e alla potenza della famiglia
committente. Era una fiducia che si basava su pi di
dieci anni ormai di operosit, in conseguente sviluppo
verso idee pi grandiose che lavevano portato dagli
affreschi a palazzo Mattei a quelli poco posteriori di
Santa Bibiana e ad altre opere ancora nelle quali aveva
dimostrato di saper trovare nuove regole alla composizione e allinvenzione, atte soprattutto a mutar radicalmente i princip della poetica decorativa. Sotto questaspetto, che vorrei dire dellimmaginazione compositiva, gli affreschi finiti lanno prima nella villa dei Sacchetti a Castel Fusano doveva considerarli poco pi che
un divertimento, una serie di fresche e corsive invenzioni per una lieta dimora campestre; ma proprio nel 30
era stata issata solennemente su di un altare di San Pietro, nella Cappella del Sacramento, lenorme pala che
era la sua ultima opera di grande impegno (considerando soprattutto la destinazione, la pi ambita, e il fatto
di sostituirsi in una commissione al famosissimo Guido
Reni), grandiosa macchina di nuvole e di angeli in ritmo
maestoso a incoronare la visione della celeste Trinit.
Una fiducia quindi giustificata dallaver trovato una
strada, nuova e promettente, e che manc certamente al
modesto e lunatico Camassei, che pare fosse stato per
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primo incaricato del lavoro della volta. Fu proprio quella fiducia a comunicarsi ai committenti i quali, va a loro
onore, non tardarono a rendersi conto della differenza
dei due artisti e affidarono il compito a Pietro da Cortona.
sempre difficile, per non dire impossibile, recuperare tutta la storia di unopera, che come dire seguirla dal suo primo nascere nella mente dellartista sino alla
sua ultima, definitiva configurazione. Difficile anche se
si tratta di unopera cos complessa come il soffitto Barberini la cui esecuzione richiese sette anni di tempo
ripercorrerne il cammino del concepimento, che fu certo
lungo e laborioso e che rifletteva quindi successivi stadi
di idee, progetti, risoluzioni e lavvicendarsi di relazioni variamente approfondite e dialetticamente esasperate con la cultura pittorica contemporanea e degli anni
precedenti; soprattutto difficile in questo caso, ove non
ci soccorrono disegni preparatori, studi, bozzetti e nemmeno lettere dellartista. Quanto sappiamo che la volta
fu portata a termine dai muratori fra la fine del 1629 e
il principio del 30, che nellautunno del 31 si cominci a costruirvi i ponti per chi doveva dipingerla, che nel
luglio del 32 i ponti erano finiti e che al principio del
33 Pietro da Cortona era gi al lavoro. Non credo
occorressero quei tre lunghi anni di tempo per passare
la commissione dal Camassei al Cortona: essi furono
impiegati piuttosto, se non tutti uno e mezzo almeno, e
cio dal 31, anno in cui suppongo la commissione tocc
al Berrettini, a immaginare figurativamente il macchinoso soggetto di Francesco Bracciolini, a tradurne in termini visivi le complicate, apologetiche allegorie. E fu
soprattutto lavoro preliminare del Cortona. Quali idee,
in quella contingenza, gli si affollassero nella testa, come
le eliminasse via via e le adoperasse al concepimento dellidea finale, quali fossero, durante questo primo lavoro di immaginazione, i suoi pensieri, il suo stato dani-
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di ombre trasparenti e leggere; qua e l coperta dallagglomerarsi denso delle nubi ed spezzata, quasi
distrutta, in un punto ove sembra sgretolarsi sotto il
peso del gruppo che la sovrasta. A sedici sono ridotte le
figure delle statue, e raggruppate nei quattro angoli, e a
quattro, e sempre negli angoli, i finti medaglioni in bassorilievo. A differenza della Galleria, ove le singole storie erano isolate nei quadri riportati e lillusione, o
meglio linganno del vero si limitava alle complesse figurazioni della cornice, cio al finto, qui tutto ci che
immaginato come finto contenuto nei limiti della
cornice marmorea mentre il resto immaginato come
vero, come scrosciante apparizione: cielo, nuvole,
rocce, fiamme, alberi, fontane e la folla innumerevole
delle figure che scavalcano la cornice, le sono intorno,
dietro, davanti, linvadono da ogni parte. Le stesse
scene, a se stanti per soggetto, che utilizzano le quattro
parti curve della volta, sotto laerea cornice, non sono
da questa isolate ma comunicano con la parte centrale
in una indubbia unit atmosferica, ch il cielo lo stesso in tutta la volta e la cornice interrotta da gruppi di
figure che si frappongono in uno spazio ideale fra essa
e lo spettatore conferendo unione compositiva e un legame continuo, contrario ad ogni prefisso schema architettonico, che percorre le cinque parti in cui la cornice
divide laffresco.
Nonostante quindi la molteplicit degli episodi che
del resto sono collegati fra loro con ingegnosa invenzione letteraria per confluire nellapoteosi centrale
laffresco concepito come una visione unitaria e si
attiene cos ad una sorta di unit di tempo e di spazio.
concepito cio, prima dogni cosa, per essere abbracciato da un solo sguardo e a quello esprimere immediatamente il senso compiuto e unitario della sua invenzione e del suo significato. A ci contribuisce soprattutto la composizione, a gruppi collegati fra loro e distri-
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quali comp per accontentare il Granduca due delle storie della Stanza della Stufa, lEt dellOro e dellArgento. Sono queste due storie talmente vicine alle parti
pi belle dellaffresco Barberini e, se si vuole, anche nel
senso neoveneziano, da rendere del tutto ingiustificata
lidea che il posteriore soggiorno a Venezia fu unesperienza fondamentale per lartista e tale da influire sul
corso del suo stile. Per di pi fu un soggiorno brevissimo: due settimane se non meno di un piovoso novembre, con le chiese buie e una gran furia nel cuore di tornarsene a casa.
Oltre questa assenza di poco pi di sei mesi per un
viaggio cui non trovo altra spiegazione che il bisogno di
cambiar aria, di riposare le proprie idee allontanandole
per qualche tempo dal luogo del loro continuo esercizio,
non molte sono le ragioni forniteci dai documenti al
ritardo di compiere lopera. Il primo del febbraio del
1633 e ce lo indica a dipingere sotto la volta; il che vuol
dire che in quellanno tutto il lavoro preliminare di
studi, di progetti, di cartoni per la parte generale, cio
per linsieme della composizione, era gi fatto. E avr
occupato gran parte, immagino, dellanno precedente,
che fu infatti un anno per altri aspetti quasi vuoto di
opere.
Per tutto il 33 si susseguono documenti di pagamento e penso che lartista interrompesse i lavori verso
la fine dellanno per contentare i padri dellOratorio e
dipingere laffresco nella volta della sagrestia della Chiesa Nuova, che gli fu pagato allinizio dellanno successivo. Pur nella sua magnifica invenzione questaffresco
a confrontarlo con le parti artisticamente pi alte del
soffitto Barberini, mostra quasi una certa durezza, una
forma appena pi chiusa, una pittura pi insistita, come
se in quel tempo linevitabile esperienza verso una pittura pi libera e aerea che matur certamente proprio
sui problemi della volta Barberini non fosse ancora giun-
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occhi si colora vagamente di nostalgia, di patetico richiamo ad un bene ormai perduto. Vorrei scorgervi come un
accenno appena incipiente di disagio e di crisi, di mancata adesione agli idoli pi vistosi del proprio tempo, e
in un momento in cui gli artisti italiani, e in particolare il Cortona e il Bernini, gli incontrastati leaders dellespressione pi ammirata e moderna, si sentivano ancora superiori ad ogni altro in Europa, in un momento cio
in cui, sul precipizio di quella nostra decadenza civile, morale ed artistica che far versar tanto inchiostro
ai secoli futuri, si ammirava ancora la capacit, la dottrina, la destrezza italiana, in tutte le pratiche e in tutte
le arti. E accenno qui a quel disagio incipiente non tanto
a proposito del Sacchi, legato cos indissolubilmente per
altre vie al movimento barocco, quanto per individuare
nel sentimento che spingeva gli uomini del Seicento
verso il classicismo anche una radice pi inquieta e
nostalgica, quasi una lunatica e insoddisfatta ricerca di
isolamento, una zona preromantica di accese immaginazioni. Ci non tocca naturalmente il Cortona, ma ben
saddice ad un transfuga della sua scuola, Pietro Testa,
che dopo aver collaborato con lui per tutto il terzo
decennio non tard ad abbandonare i suoi insegnamenti per tuffarsi, con una sorta di maniaca e cupa determinazione, entro il nudo mondo di una fredda classicit
ben rivelatoci dalle sue singolari acqueforti, ravvivate
tuttavia dallestro bizzarro di fantastiche invenzioni. A
ci lo spingevano soprattutto gli spropositati studi sullantichit intrapresi a servizio di Cassiano dal Pozzo,
temperamento tuttaltro che nostalgico e inquieto, ma
che con positiva pesantezza piemontese andava inaugurando in quegli anni una scienza che ebbe poi, nei tempi
propriamente romantici, il pi forte impulso: larcheologia. E che nellambiente di casa Dal Pozzo si collaborasse ad ogni modo ad allontanarsi dal movimento barocco, dopo quel primo momento che vorrei chiamar cor-
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