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Amici Museo Civico Foggia

Unitre Foggia
Istituto del Nastro Azzurro
FIDAPA Foggia
A.N.S.I.

I nonni raccontano...
ricordi di guerra
Atti del convegno del 6 maggio 2019 in Foggia

Foggia - 2021

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In occasione delle numerose commemorazioni messe in
cantiere per ricordare il periodo dei disastrosi bombardamenti
aerei avvenuti nella città di Foggia nel corso dell’ultima guerra
mondiale, in particolare nei mesi di luglio e agosto dell’estate
dell’anno 1943, qualche anno fa, in qualità di vice sindaco e
assessore ai sevizi sociali, aderimmo all’iniziativa di ricordare
attraverso vari racconti, a volte diretti, ma anche indiretti, quei
terribili giorni.
Sofferenze, tragedie, episodi singolari, che rivivono nella
narrazione di pochi superstiti, oppure tramandati da padre in
figlio e, in collaborazione con alcuni sodalizi culturali, il 6
maggio del 2019 organizzammo un’interessante conferenza
presso il Centro Sociale Polivalente per Anziani N. Palmisano
di Foggia.
Il titolo della conferenza è identico a quello del presente
volume: I nonni raccontano...ricordi di guerra, la cui
pubblicazione rappresenta oggi una valida documentazione per
i posteri, affinché queste preziose testimonianze non vadano
perdute.

Erminia Roberto
già Vice Sindaco e
Assessore Servizi Sociali Comune di Foggia

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Varie sono state le manifestazioni, convegni, mostre, ecc.
realizzate per ricordare la tragedia dei bombardamenti aerei a
Foggia, in particolare, proprio nel 2019, questa Associazione
ha partecipato con piacere alla conferenza I nonni raccontano...
ricordi di guerra.
Questo volume, pertanto, dopo vari mesi di sospensione delle
attività dovuta alla diffusione del Covid19, rappresenta la
pubblicazione del frutto di alcune relazioni effettuate in
occasione di tale conferenza e di altri contributi pervenuti
successivamente.
Scritto a più mani, questo libro rappresenta una rara
documentazione, che va ad aggiungersi ai diversi documenti
relativi a questi giorni di dolore per la città di Foggia, di cui
parte dello stesso patrimonio museale andò perduto.
I bombardamenti, infatti, distrussero la sezione delle tradizioni
popolari del nostro Museo e per miracolo si salvò l’iscrizione e
l’antico arco superstite della reggia di Federico II di Svevia,
poi murati su una parete dello stesso Museo Civico.

Carmine de Leo
Presidente Amici Museo Civico Foggia

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Dopo molti anni, nonostante tutto, i ricordi dei funesti giorni
della guerra a Foggia sono ancora vivi nella memoria di alcuni
superstiti, o in quella tramandata oralmente a figli e nipoti.
Queste preziose testimonianze orali correvano, però, il rischio
concreto di andare perdute nell’oblio del tempo.
La pubblicazione presente, voluta fermamente dalla nostra
Associazione, raccoglie parte di questi ricordi terribili legati,
nel caso della città di Foggia, soprattutto ai bombardamenti
aerei che la colpirono nell’estate del 1943.
Partecipammo come Unitre alla conferenza tenutasi nel maggio
del 2019 presso il Centro per Anziani N. Palmisano, i cui atti
vedono oggi la luce per una migliore conservazione di queste
memorie storiche, affinché anche i più giovani e le nostre
generazioni future conoscano le tragedie di quei giorni passati
tra paure e speranze.

Giovanna Irmici
Presidente Unitre Foggia

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Come sezione di Foggia dell’Istituto del Nastro Azzurro, che
raccoglie i combattenti e decorati al valor militare, non
potevamo certamente far mancare, nel maggio di due anni fa, la
nostra partecipazione alla conferenza: I nonni raccontano ...
ricordi di guerra, svoltasi unitamente all’Assessorato ai
Servizi Sociali del Comune di Foggia e altri sodalizi, presso il
Centro per Anziani N. Palmisano.
Nell’occasione concorremmo con alcune testimonianze a
portare il nostro contributo alla conferenza, in particolare con
la relazione del pluridecorato colonnello Giovanni Corvino,
uno dei pochi superstiti foggiani che parteciparono
giovanissimi alla seconda guerra mondiale.
Con piacere oggi vediamo la luce di questa pubblicazione in
cui sono raccolti i contributi per una memoria scritta dei giorni
di guerra.

Lorenzo Brunetti
Consigliere Nazionale Istituto Nastro Azzurro

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Ricordare per non ricadere negli errori del passato, ricordare
per scrivere, affinché le memorie orali non vadano disperse,
questo lo scopo del convegno organizzato dall’Assessorato ai
Servizi Sociali nel 2019 a cui, unitamente ad altri sodalizi
culturali della città di Foggia, abbiamo voluto partecipare per
dare il nostro contributo come FIDAPA BPW Italy di Foggia.
Un’iniziativa lodevole che ci vede protagonisti con alcune
relazioni, memorie orali che diversamente correvano il rischio
di disperdersi tra le nebbie degli anni che passano.
Un ricordo di fatti vissuti in prima persona, oppure, a volte, i
tragici racconti riportati dai nostri genitori o dai nostri nonni.
Oggi, questo interessante volume vuole essere una
testimonianza dei terribili giorni della seconda guerra
mondiale, affinché anche le generazioni più giovani non
dimentichino gli orrori degli anni di guerra, una guerra vissuta
a Foggia soprattutto attraverso una serie di terribili
bombardamenti aerei che rasero quasi al suolo la città.

Lucia Brigida Paciello


past President FIDAPA BPW Italy – Foggia

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L’interessante tema trattato da questo volume pieno di tanti
ricordi diretti ed indiretti, decine di testimonianze che
recuperano la nostra memoria storica, ha stimolato la nostra
partecipazione all’iniziativa.
La nostra associazione, che rappresenta il più antico tra i
sodalizi fra sottufficiali italiani ha inteso, pertanto, dare
anch’essa una sua testimonianza sui terribili anni che hanno
caratterizzato l’evolversi della seconda guerra mondiale.
Questa specie di forum di ricordi non va disperso, la
pubblicazione degli atti del convegno I nonni
raccontano...ricordi di guerra rappresenta certamente un
tentativo ben riuscito di recupero della memoria storica
attraverso le relazioni dei nostri anziani.
Molti di essi hanno vissuto da protagonisti le vicende della
seconda guerra mondiale, vuoi come militari,vuoi come civili e
i loro racconti rappresentano sicuramente una preziosa
testimonianza che non andava dispersa.

Francesco Iudice
Presidente provinciale
A.N.S.I.

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Racconti e ricordi
tramandati o diretti

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Grazia Centra
Corri, ragazzo, corri, era il 22 luglio, un luglio di molti anni
prima, era quel luglio di morte del ‘43. Quel mattino Foggia
respirava libera, il fumo degli incendi dei giorni precedenti si
era dissolto e insieme al fumo se n’era andata anche quella
polvere acre che pizzicava il naso e faceva starnutire, sembrava
proprio un giorno di grazia e la gente si riversò fiduciosa nelle
strade.
Arrivò all’improvviso, a mattino inoltrato, quando nessuno più
se lo aspettava quell’assordante, frenetico scampanio di
campane, tutte le campane di Foggia scampanavano,
scampanavano, scampanavano e subito le strade, tutte le strade
della martoriata città rientrarono in guerra, nel cielo riarso,
anch’esso sorpreso, anch’esso incredulo, i bombardieri inglesi
col loro carico di morte e intorno la confusione demente, le
grida già note, ai rifugi, presto! Ai rifugi! si gridava da ogni
parte, la gente sciamava per le vie in tutte le direzioni, molti
correvano verso la Villa Comunale, due caccia sfuggiti alla
contraerea, si abbassarono, puntarono ta ta ta ta ta ta, poi si
allontanarono, si allontanò anche il rombo dei bombardieri e il
piccolo Piero, uno scricciolo di appena undici anni, lasciò il
portone dove aveva trovato riparo.
Piero, le braccine smilze, le gambucce tanto stecchinette da
muovere a pietà, il ciuffettino biondo che gli rubava gli occhi e
un faccino che aveva il colore livido della fame, ma nessuno ci
faceva caso, nessuno li trovava strani quel colore, quella
magrezza perché quelli erano gli anni dei viveri razionati, delle
luci oscurate, delle giacche rivoltate, dei pantaloni rattoppati,
delle scarpe di cartone sfondate, erano gli anni dello strazio,
dello sgomento, della vita allo sbaraglio.
Il piccolo Piero con i pugni stretti nelle tasche dei suoi
pantaloni adulti, vagava senza meta per le strade del centro,
guardandosi continuamente intorno. Si ritrovò inaspettatamente
in piazza Lanza e dopo un attimo di esitazione si avviò verso la
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Villa, ma con una lentezza insolita per lui, le colonne del
pronao erano mutilate, i cancelli divelti.
C’era un silenzio innaturale all’interno, un silenzio che sapeva
di abbandono, di vita intera che se ne andava. Era un silenzio
più devastante del ta ta ta delle mitragliatrici e del fragore delle
bombe. Poco lontano c’era il suo preside, giaceva bocconi,
colpito alla schiena, le braccia protese in avanti e una mano a
stringere il cordolo di un’aiuola di rossa salvia polverosa.
Si risente il rombo dei bombardieri e l’aria di nuovo si riempie
di fuoco, ma non di urla strazianti, perché la gente ormai ha
raggiunto i rifugi o è rimasta per via, il terrore fissato per
sempre nelle pupille dilatate, immobili.
Lui si tiene stretto con forza al tronco di un alberello stento.
Lia lo raggiunge e senza fermare la sua corsa verso la stazione
gli grida: Che fai Piero? Corri, ragazzo! Corri! e Piero
comincia a correre.
C’è la fontana al centro della piazza anch’essa mutilata,
senz’acqua, foglie umide, sporche sul fondo viscido, sulla
destra mucchi di macerie e c’è ancora il palazzo
dell’Acquedotto e quello dell’ufficio postale. Ha raggiunto il
lungo viale della stazione, si ferma, attimi di sbigottimento,
procede lento ora di traverso sempre più attento a dove mette i
piedi.
Di qua, di là, zigzag, zigzag. Inciampa, i vetri gli lacerano le
gambe, cade, si rialza, si trascina, si porta dietro scie
sanguinose, alza le mani a tapparsi le orecchie per non sentire i
lamenti dei feriti che implorano pietà.
Nessuno ferma la sua corsa per aiutarli, ognuno è preso dalla
pietà per sé stesso.
Frena l’istinto di andare rasente i muri, crolli improvvisi dai
palazzi sventrati dalle incursioni precedenti, fiamme e fumo da
quelli appena feriti. Fiamme e fumo a oscurare il sole.

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Questo racconto è conosciuto in Italia, ma anche all’estero, ove
per mezzo di riviste molto importanti è arrivato sino in
Argentina, Australia, Brasile, quindi è da considerarsi una voce
foggiana conosciuta nel mondo. 1

Alcuni relatori del convegno, da sinistra: il vice-sindaco e


assessore ai Servizi Sociali Erminia Roberto, la presidente
UNITRE Giovanna Irmici, il presidente Amici Museo Civico
Carmine de Leo e il consigliere nazionale Nastro Azzurro
Lorenzo Brunetti

Giovanni Corvino
Sono partito come volontario universitario all’età di 18 anni e
mezzo per cui mi fu data la possibilità di scegliere il corpo e
scelsi gli alpini.
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A questa ricostruzione della prof.ssa Grazia Centra è stato assegnato il
prestigioso premio La Libellula d’oro da un’associazione internazionale e
questo racconto è stato anche tradotto e diffuso in molti stati esteri.
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Pensavo di andare subito in guerra, ma una disposizione
ministeriale obbligava i volontari diplomati della classe ‘21 a
frequentare il corso di ufficiale.
Ho frequentato il corso nell’agosto del ‘41 tra Belluno, Aosta e
Avellino, il 15 febbraio ‘42 ero Sottotenente, assegnato a un
battaglione della Divisione Iulia, eravamo nella zona di
Gorizia, oggi Slovenia, infestata da partigiani slavi con i quali
abbiamo avuto degli scontri.
Nell’agosto ’42 compivo gli anni e sono partito per il fronte
russo, una durissima esperienza sul fiume Don: lavori di
fortificazione, ricoveri, pensando di trascorrere l’inverno, ma
nei primi di dicembre i russi sfondarono nell’ansa del Don e
avanzarono di circa 30 km, allora il nostro battaglione alpino fu
trasportato per fermare l’avanzata russa al famoso quadriglio
insanguinato, e, noi il giorno successivo lasciammo le rive del
Don per raggiungere con marce notturne, temperature glaciali -
sotto i 30 gradi- il quadriglio, dove i combattimenti erano
continui e furiosi, ma i russi non avanzarono, tutti gli attacchi
furono respinti e le perdite delle nostre vite enormi.
Nel combattimento del 21 dicembre a quota 205,6 fui colpito
da una pallottola al braccio sinistro per cui fui trasportato in
autoambulanza nell’ospedale di Rososcev e poi a quello di
Kargov (oggi in Ucraina) e rientrato in Italia per il mio
comportamento nell’azione, mi fu conferita la medaglia di
bronzo al Valor Militare.
Dopo la convalescenza di due mesi sono rientrato nel mio
reparto, ma era stato distrutto e mi vidi assegnare al nuovo
battaglione dislocato nella zona di Gorizia, oggi Slovenia, in
cui pullulavano partigiani slavi, i Titini, che già avevano
combattuto prima di partire per la Russia.
Il 25 luglio, caduta del fascismo, e l’8 settembre giorno
dell’armistizio li abbiamo trascorsi in quelle condizioni.

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Il battaglione, comunque, rimase intatto; dopo tre giorni di
marcia raggiungemmo Gorizia, ma il 12 settembre il
battaglione si sciolse come neve al sole.
Rimanemmo in pochi e raccogliemmo tutto il materiale
possibile e lo depositammo tutto al forte e poi ognuno di noi
prese la sua strada.
Gli alpini erano tutti della zona e raggiunsero le loro famiglie,
io, meridionale fui ospite qualche giorno del tenente della mia
compagnia e dopo alcuni giorni decisi di scendere al sud, non
avendo al nord alcun punto di riferimento e raggiunsi Ancona
dove fui bloccato dai tedeschi che mi fecero prigioniero e mi
portarono in una caserma dove vi erano oltre cento ufficiali
delle varie armi, marina ed esercito.
Da voci esterne venimmo a conoscenza che alla stazione di
Ancona partivano treni merci con militari italiani e diretti nei
lager in Germania.
Pensavo che la stessa sorte sarebbe toccata a noi. Riuscii a
evadere e raggiungere prima Pescara e poi Ortona a Mare, a
piedi attraversando campagne e la linea del fronte che divideva
l’Italia, il giorno 15 ottobre.
Raggiunta Foggia, mi sono presentato al Distretto Militare che
mi mandò a Bari, da Bari a Lecce, a Presicce dove era un
gruppo di alpini, ma dopo qualche giorno un fotogramma
chiedeva due ufficiali per un gruppo di alpini al comando del
Capitano Maiorca che pensava di organizzare un reparto
organico tra gli alpini per eventuali necessità.
Ci trasferimmo ad Alberobello e poi a Nardò dove ci unimmo
ad altri alpini raggiungemmo un battaglione alpino e una
batteria alpina al comando del Maggiore Alberto Briatore; era
nominato Reparto Battaglione Alpini Piemonte che fu trasferito
a Cisternino e dopo l’epurazione e l’allontanamento di
disfattisti, anarchici, estremisti, aumentati i viveri e
l’equipaggiamento iniziammo la preparazione per eventuali
necessità di impiego.
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I primi di marzo fu deciso che il battaglione sarebbe stato
impiegato nell’operazione di conquista di Monte Marrone,
montagna alta 1820 metri nella zona, la cui parete era ritenuta
inespugnabile, sia dagli americani che dai tedeschi che dall’alto
dominavano tutta la valle del Volturno.
Il 15 marzo rinunciammo alla valle del Volturno e il 31 marzo
scattò l’operazione che portò il battaglione sulla cima del
Monte Marrone, tra la meraviglia degli angloamericani, che
divenne la nostra abitazione la notte di Pasqua il 9-10 aprile per
la difesa della montagna dall’attacco in forza delle truppe
tedesche. Dopo tale successo, in un comunicato militare si
disse italiani in piedi, questa è l’aurora di un giorno migliore,
infatti gli angloamericani consentirono l’aumento del
contingente italiano chiamandolo Corpo Italiano di
Liberazione.
A fine maggio scattò l’offensiva, cadde Cassino e si aprì la
strada per Roma. In uno di questi combattimenti fui decorato di
una medaglia di bronzo al Valor Militare.
Tutto il contingente fu trasferito nel settore adriatico e nel mese
di giugno a L’Aquila e quindi ad Ascoli Piceno.
Il 20 luglio sono stato il primo italiano alla testa del mio
plotone a entrare a Jesi.
Poi i reparti italiani furono ritirati dal fronte, ampliati,
trasformati in gruppi da combattimento ben equipaggiati e nella
primavera del ‘45 reimpiegati per la liberazione, fino alla fine
del conflitto mondiale.
Il mio battaglione è partito dall’Italia in 1730: 737 sono i
caduti, 525 i feriti, 347 i prigionieri, in sostanza solo 121
persone sono rientrate in Italia senza nessuna scalfitura.

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Il pluridecorato colonnello Giovanni Corvino.

Antonio Mario De Giorgi


Pochi mesi fa, in Foggia, nell'attraversare Piazza Cavour, in
direzione del pronao antistante la villa comunale, notai una
grande folla di persone che cercavano, con spintoni, di entrare
in una sala (già sede dell'ATAF), sotto il porticato.
Incuriosito, mi portai lì vicino e vidi una targa sulla quale si
leggeva Museo '43.

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Vi entrai e, nel vedere molti reperti militari abbandonati
dagli alleati, ebbi rapidamente un sussulto e, come per
incanto, si risvegliarono in me le paure, le passioni, i ricordi
funesti dei quali, ancor oggi, è impossibile cancellarli dalla
memoria. Avevo esattamente 10 anni nel 1943.
Con l'entrata degli alleati in Foggia, nel settembre '43 la città
assunse aspetti radicalmente contrastanti: da un lato l'enorme
numero di palazzi diroccati, dappertutto cumuli di macerie,
nonché la precaria situazione in cui versava la popolazione;
dall'altro le truppe d'occupazione scorrazzavano per tutta la
città, a bordo di Trucks o Jeeps, lanciando caramelle, chewing
gum, burro, scatolette di corned-beef, meat vegetable-stew e
sigarette a profusione.
Gli ufficiali piloti americani (ancor meno gli inglesi) nelle
serate, usavano bussare ai portoni dei vari palazzi, con il
desiderio ed anche il bisogno di conoscere i cittadini e nel
frattempo di parlare con evidente commozione, dei lori
congiunti lontani. Erano rispettosi, ma bisognava farli entrare.
Da qui qualche episodio. Una sera, un tale capitano Enderson,
venne a trovarci in casa di amici della mia famiglia, dei quali
eravamo ospiti. L'ufficiale, durante la cena preparata da mia
madre, infervorato a discutere con me, balbettando l'italiano,
non si accorse che gli spaghetti, avvolti da lui con la forchetta
(in modo maldestro) erano arrivati sino al suo gomito,
imbrattando, in tal modo, la divisa militare. Disappunto? No!
Solo una fragorosa risata.
E che dire di un tenente (in altra serata) il quale ubriaco, si alzò
da tavola e andò verso una finestra dell'appartamento: scavalcò
il davanzale e giù dal 2° piano.
Poco dopo, risalì le scale e, scherzando, disse: Sorry!
Non è successo nulla!
Ancora, qualche sera dopo, (spesso, ripeto, facevano visita), un
alto ufficiale pilota americano, rivoltosi a noi in un italiano
possibile, disse domani mattina aprite i vetri dei balconi,
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poiché ci sarà un gran rumore di aerei diretti, a loro volta, per
una missione aerea.
Il giorno seguente si seppe essere stato uno tra i più tremendi
bombardamenti subiti dalla città di Berlino ad opera delle
fortezze volanti.
Abitavo in piazza Ugo Foscolo (allora via 1° Febbraio), quindi
molto vicino al Gino Lisa.
Comunque, talvolta si poteva godere di qualche momento di
spensieratezza passeggiando soprattutto per le vie centrali della
città, al suono proveniente dai numerosi bar-concerto, dal
momento che ogni bar ospitava un'orchestrina americana ed
anche italiana. Ed io, appassionato di musica, mi fermavo
rapito al suono del jazz di cui gli americani sono maestri.
Mio padre, di professione direttore d'orchestra, fu una sera
invitato da un colonnello inglese (il town-mayor, cioè il
Sindaco della città ) a dirigere un’orchestra nel Teatro Umberto
Giordano di Foggia: non dimenticherò mai quella gioia!
E quindi, tra lo scorrazzare dei trucks, dei Dodge, delle auto
della Red-Cross e delle jeeps della MILITARY-POLICE, mi
pareva di vivere in un mondo diverso.
I ricordi, le gioie ma anche i patimenti ritornano oggi
prepotentemente alla mia mente e, talvolta i miei nipoti mi
invitano a raccontare qualche vicenda da me vissuta in
quell'epoca ed io, cerco di accontentarli.
Ricordo le musiche e le canzoni eseguite nei vari caffè
Amapola, Cielito lindo, Polvere di stelle (Stardust), In the
Mood, ecc.... Arie indimenticabili eseguite in alcuni locali di
allora come il Norge, la pasticceria Famos, il Castle Club e
prima fra tutte la STANDA (oggi sede dei negozi della
Benetton).
E poi, per le strade, alcuni scugnizzi improvvisatisi lustrascarpe
(Sciu-scià), facevano brillare gli stivaletti (color amaranto)
degli ufficiali americani: il tutto per poche Am-lire (la moneta
di occupazione).
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In tali locali si tuffavano i piloti - imbottiti di whisky o birra, i
quali, rapiti dall'incalzante e fragoroso ritmo prodotto da
strumenti impazziti, cercavano di cancellare lo stress e
l'emozione accumulata nella missione aerea condotta poco
prima. Spero di aver fornito solo una pallida idea delle
condizioni e delle emozioni in cui si viveva in questa città,
popolata da gente martoriata ed esausta, ma animata da un
forte desiderio di rinascita.

Carmine de Leo
Storia del Crocifisso di mio nonno Michele, tra guerra ed
emigrazione
La storia dei tragici anni di guerra rivive attraverso le peripezie
di un oggetto testimone del tempo, un antico e pregevole
Crocifisso di legno del Settecento a grandezza umana. La
famiglia dove viveva, si fa per dire, questa sacra scultura, era
quella di Michele Venetucci, nonno materno dello scrivente,
residente a Foggia, ma originario di San Severo.
Il Crocifisso era stato acquistato a un’asta pubblica a Lanciano,
in Abruzzo, cittadina ove, verso il 1930, viveva Michele
Venetucci per ragioni di lavoro, impiegato presso il locale
Tribunale.
Appeso al muro della camera da letto, dopo alcuni anni a
Lanciano, il Crocifisso effettuò il suo primo trasferimento
lungo le vie dell’antica transumanza, dal montuoso Abruzzo
verso la pianura Dauna, in treno, avvolto, per proteggerlo, dal
panno rosso con cui veniva coperto durante il periodo della
Quaresima.
In treno, l’oggetto sacro fu posizionato in alto, nel portabagagli
dello scompartimento e sul sedile sottostante prese posto il
capo famiglia don Michele con il suo bel pizzetto.
Nel tragitto ecco il controllo del capotreno … biglietti, biglietti
signori!
Entrato nello scompartimento occupato da don Michele e il suo
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Crocifisso, il ferroviere, dopo un attimo di incredulità alla vista
della testa barbuta di Gesù, che gli scossoni del viaggio
avevano liberato dal panno rosso, esclamò: un Cristo in cielo
ed uno in terra! , associando la barbetta di Gesù al pizzetto di
don Michele.
Erano ormai i tristi anni della guerra e nessuno si risentì della
simpatica battuta; giunti a Foggia, come il solito, il Crocifisso
fu sistemato nella camera da letto di don Michele, ma ancora
per poco!
La guerra incalzava e nell’estate del 1943 Foggia subì terribili
bombardamenti aerei e la popolazione fuggì nei paesi e nelle
campagne limitrofe.
Fu così che la famiglia di don Michele dovette abbandonare il
suo appartamento nel palazzo dell’INCIS, ma prima depositò il
suo Crocifisso presso i frati francescani di Gesù e Maria, il cui
padre guardiano rilasciò una regolare ricevuta, andata poi
dispersa dagli eredi di don Michele.
I bombardamenti aerei sulla città di Foggia si intensificarono
nei mesi di luglio e agosto del 1943 e il palazzo del primo
INCIS fu colpito. Foggia era una città in macerie e solo dopo il
27 settembre, quando l’8^ Armata vi entrò da Via Bari, gli
sfollati rientrarono nella loro città.
Anche la famiglia di don Michele lasciò la masseria nei pressi
dell’Incoronata ove era rifugiata e, non trovando più alloggio a
Foggia, si sistemò momentaneamente a Lucera.
Prima di recarsi a Lucera, però, don Michele andò a riprendere
il suo Crocifisso dai frati di Gesù e Maria e così, su un carro
trainato da un ronzino sopravvissuto alla guerra, l’oggetto
sacro, perduto il pregiato panno rosso quaresimale e coperto
solo da un misero lenzuolo, insieme a qualche masserizia di
fortuna recuperata dalle macerie dell’appartamento, fu
trasferito a Lucera. Da questa cittadina, passata la bufera della
guerra, la famiglia di don Michele tornò definitivamente a San
Severo, suo paese di origine e qui lo scrivente, ricorda ancora il
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timore reverenziale che l’antico Crocifisso incuteva quando
entrava nella camera da letto di suo nonno materno Michele!

Un vecchio tavolo sottratto da mio nonno ai Tedeschi in fuga


Questa storia non è affatto una favola, ma è caratterizzata da
fatti e personaggi veri, da vicende realmente accadute durante
l’ultima guerra mondiale.
Il protagonista è un vecchio e massiccio tavolo di legno: u tavl
d’i Tedesc, il tavolo dei Tedeschi, la cui storia ha segnato quella
di alcune generazioni di una famiglia della nostra provincia.
Siamo nell’estate del terribile 1943, Foggia viene
massicciamente bombardata dalle forze alleate; dopo queste
spaventose devastazioni che la rasero al suolo, anche gli uffici
pubblici si trasferirono in provincia, mentre la popolazione
abbandonava la città e lunghe code di sfollati si dirigevano
verso i paesi del Subappennino, ma anche verso isolate
masserie del Tavoliere. In una di queste, situata nei pressi del
Santuario dell’Incoronata, si rifugiò la famiglia Venetucci,
padre, madre e una numerosa prole di varia età!
Purtroppo, non avendo altri riferimenti, parenti o amici, erano
stati costretti a trovare rifugio in quel luogo un po’ pericoloso,
perché non molto lontano dalla città, che ancora subiva
bombardamenti massicci dagli alleati.
Un altro pericolo, inoltre, era rappresentato dalla vicinanza
della masseria al bosco dell’Incoronata, perché intorno
all’omonimo Santuario, si erano accampate le truppe tedesche.
Accadeva, infatti, che qualcuno di questi soldati si spingeva
fino alle masserie vicine e allora tutte le ragazze si rifugiavano
in un piccolo locale sotterraneo, cui si accedeva da una botola
sotto il fienile, trattenendo respiri e starnuti e passando il tempo
a pregare.
I Tedeschi, verso la fine del mese di settembre del 1943,
occupata ormai Foggia dalle truppe anglo-americane,
sgombrarono il loro accampamento nel bosco dell’Incoronata,
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abbandonando molto del loro armamento e varie masserizie
che avevano rastrellato nei paesi della Capitanata.
I Venetucci erano venuti a conoscenza del fatto che il loro
appartamento presso i palazzi dell’INCIS, era andato distrutto
da una bomba, che aveva colpito un’ala dell’edificio; pertanto
avevano perduto ogni loro bene: mobili, abiti, corredi, utensili,
ecc, e la partenza dei Tedeschi diede loro una buona occasione
per cercare nell’accampamento dell’Incoronata, ormai deserto,
di recuperare qualche oggetto o mobile utile a sopravvivere.
Si recarono quindi con altri sfollati presso il bosco e, raccolte
alcune pentole e coperte, recuperarono anche un vecchio tavolo
di legno.
In seguito, essendosi trasferito il Tribunale di Foggia, ove
lavorava il capofamiglia don Michele, nella vicina Lucera, la
numerosa prole lo seguì insieme a quello che ormai era
chiamato u tavl d’i Tedesc.
Passarono gli anni, trasferitisi dapprima nuovamente a Foggia e
poi definitivamente a San Severo, loro paese di origine, il
vecchio tavolo dei Tedeschi, bontà della sua ottima qualità, fu
posto nella cucina della nuova casa e con questo nome, quasi
fosse un componente della famiglia, quasi avesse un’anima,
raccontò infinite volte alle frotte di nipoti, tra cui chi scrive, la
sua storia di guerra!

Papà ... hi John one cigarette ?


Dopo le distruzioni belliche, Foggia subì l’occupazione
militare da parte delle truppe alleate, che entrarono nella nostra
città verso la fine del mese di settembre del ’43.
Con l’insediamento di Americani e Inglesi, data la rilevante
importanza strategica della Capitanata, fu istituito un
governatorato militare, l’A.M.G.O.T., che, a partire dal 1943,
per qualche tempo amministrò Foggia e la sua provincia.
Queste truppe, soprattutto americane, divennero in quegli anni
una componente attiva della vita giornaliera: la lingua, alcuni
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prodotti alimentarti, nuovi sport e altro ancora entrarono in
parte nel quotidiano della città di Foggia.
Gli scugnizzi foggiani furono i maggiori sponsor di slang
americani e ogni giorno, come piccoli gruppi di rondini,
svolazzavano qua e là per la città semidistrutta, a seconda della
possibilità di recuperare un po’ di cibo o qualche sigaretta.
In particolare, tutto ciò che era collegato alle cigarettes, come
le chiamavano i militari, fu il maggior veicolo di slang tra
questi giovani scugnizzi; perché erano usate nella borsa nera
come merce di scambio, quasi fossero del denaro contante!
Fulcro dei contatti tra gli scugnizzi e le truppe alleate erano i
centri di aggregazione sociale dei militari, la Croce Rossa, i
Club dei reparti e la stazione ferroviaria, vivacizzata da un
notevole andirivieni di militari; infatti, seppur completamente
distrutta dai bombardamenti aerei del 1943, aveva ripreso con
vigore la sua funzione di nodo nevralgico delle comunicazioni
ferroviarie. I convogli di truppe alleate erano condotti dal
superstite personale civile italiano; in quei tempi erano ancora
in uso le locomotive e a furia di impalare il carbone nella
caldaia di queste macchine a vapore, i macchinisti e i fuochisti,
dopo lunghi viaggi di servizio, rientravano a Foggia nerissimi
in volto e con le mani piene di fuliggine. Questo loro
particolare aspetto, come mi ricordava mio padre, anche lui
macchinista, li faceva sembrare davvero dei militari alleati di
colore e pertanto diventavano oggetto di pressanti sfottò e
richieste da parte degli sfaccendati scugnizzi che ronzavano
presso la stazione ferroviaria.
Hi John, one cigarette? questa era la richiesta più frequente:
ciao Jhon, hai una sigaretta?
Un po’ con lo sfottò, un po’ perché i neri erano sempre più
prolifici nel regalare sigarette, il desiderio veniva spesso
esaudito! Terminata la guerra, partiti i militari, a Foggia nei
confronti degli scuri macchinisti e fuochisti, rimase il modo di
dire Hi Joh,n one cigarette? per prendere in giro questi
23
poveri ferrovieri ammantati della nera polvere del carbone.

Maurizio De Tullio
Volevo applaudire questa iniziativa perché ha il merito di far
parlare soprattutto i protagonisti e i testimoni.
Volevo solo precisare che l’iniziativa importante di precisare il
numero dei morti sotto i bombardamenti nel corso dell’ultima
guerra mondiale a Foggia, è stata presa dalla Biblioteca
Provinciale di Foggia, Magna Capitana, da sei anni, non per
sfatare il mito di quante persone morirono nel 1943, perché
furono comunque moltissime e su questo non ci sono dubbi,
ma per accertare il vero numero delle vittime e cercare di dare
loro un nome.
La nostra iniziativa che è partita dal vecchio direttore
Mercurio, era ed è infatti quella di dare un nome e un cognome
a tutte le vittime che è stato possibile recuperare in questo
nostro censimento.
Ovviamente solo alcune migliaia e la notizia bella che anticipo
è che, grazie a Dio, i morti dell’estate del ’43 furono molti, ma
molti di meno.
Questa è una bella notizia perché farci grandi con grandi
numeri non serve a nulla.
La cosa importante è però che l’obiettivo di questa nostra
ricerca è solo quello di dare un nome e un cognome a queste
vittime e abbiamo impiegato sei anni consultando tutti gli
archivi possibili e immaginabili, quindi chi vorrà, potrà
integrare questo nostro censimento, perché il nostro lavoro
verrà presentato sul sito internet della Biblioteca e sarà
utilizzabile da chiunque, sia per integrare i nomi che non
risultano e sia per correggere eventuali altri dati. Volevo anche
approfittare della presenza dell’assessore ai Servizi Sociali
Roberto per ricordare all’Amministrazione Comunale che da
un anno e mezzo abbiamo chiesto, come Biblioteca, la sua

24
partecipazione, per far sì che ci fosse una verifica finale a
questo lavoro di sei anni.
Abbiamo costituito un comitato che non è un comitato tecnico,
ma sono nove persone che dovranno valutare questo mio
lavoro, se questo censimento risponde a requisiti di correttezza
o meno. Abbiamo chiesto da un anno e mezzo che anche un
rappresentante del Comune di Foggia partecipasse a questo
Comitato, ma né il Sindaco, né l’assessore alla cultura, ci fanno
sapere questo nominativo.

Il folto pubblico partecipante al convegno I nonni raccontano...


ricordi di guerra, 6 maggio 2019, Centro Sociale Polivalente
per Anziani N. Palmisano.

25
Domenico di Conza
Una passeggiata in carrozzella, una di quelle carrozzelle che di
solito stazionavano in piazza XX Settembre o sul piazzale della
stazione ferroviaria è stato il mio primo impatto con la guerra
ed i bombardamenti a Foggia.
Frequentavo allora la scuola materna o asilo infantile delle
suore Marcelline a Foggia con una simpatica suora, suor
Francesca, che ricordo ancora molto bene perché ero tra i
bambini da Lei più seguiti.
In seguito poi ho saputo che aveva abbandonato i voti ed era
ritornata alla laicità.
Una passeggiata dicevo, la ricordo benissimo come fosse
avvenuta di recente: mia madre, infatti, al primo stormir di
fronda, ai primi avvisi di bombardamento uscì di casa e
fittò una carrozzella con cui, con poca roba raccolta in fretta,
insieme a mia sorella, me ed una cameriera, organizzò il ritorno
alla natia Orta Nova, alla casa dei nonni che poi era a fianco a
quella nostra lasciata vuota e che si riempiva soltanto per le
vacanze.
Non ricordo se nel breve viaggio ci fosse anche mio fratello
Ugo più grande di me, che era poi la ragione per cui ci
eravamo trasferiti da poco a Foggia, dovendo frequentare la
scuola media a Foggia, non essendoci all’epoca una scuola
media ad Orta Nova.
Papà invece era lontano, richiamato alle armi, capitano del
genio, si trovava in Sicilia dove a Catania comandava una
batteria antiaerea.
Ma procediamo con ordine. Dicevo del viaggio in carrozzella
che per me, bambino, fu una scoperta meravigliosa.
Non badavo, anzi mi stupivo della faccia tesa ed accigliata di
mia madre mentre ero tutto attratto dal percorso che lentamente
si snodava davanti ai miei occhi con il progredire del trotto del
cavallo rivelandomi un mondo nuovo ed affascinante.

26
L’arrivo ad Orta Nova fu festoso, i nonni ci accolsero con gioia
e mia madre trovò conforto tra le loro braccia raccontando
della decisione presa impaurita di sentirsi sola con tre bambini
nei bombardamenti che il continuo suono delle sirene
annunciavano come probabili.
Ad Orta Nova la vita con i nonni , zio Domenico e zia
Antonietta riprese tranquilla, solo che nella grande casa in cui
ritornavamo per le vacanze estive non c’erano mobili, ma
sacchi di grano e di farina , il fatto era che il contadino,
fittavolo di alcuni terreni della nostra famiglia, aveva
consentito di fornici grano necessario per noi tutti invece di
pagare il fitto stabilito, cosa che ci permise di avere a
disposizione sempre grano e farina che invece sul mercato
erano introvabili se non a prezzi esorbitanti di contrabbando.
Ora era tutto un via vai diverso tra macina del grano (di
contrabbando), farina da sistemare in casa dove giornalmente
con un capace tavoliere venivano confezionate con le mani dei
nonni per il pranzo quotidiano orecchiette e cecatelli .
Anche in tempi successivi in casa ho sentito parlare bene e
benedire quel contadino, ricordo anche il nome “Sgarro”di
Carapelle, che ci consentì di fornirci i mezzi di sussistenza
risparmiandoci le ristrettezze che le circostanze imponevano.
Ciò avveniva particolarmente quando in casa con il pane si
confezionava la pizza con il pomodoro che veniva cotta nel
forno comunale.
Ma le cose, così stabilizzate non durarono per lungo tempo.
Una notte fummo tutti svegliati da grida e schiamazzi,
scendemmo precipitosamente giù per le scale e nella strada si
presentò ai nostri occhi uno spettacolo di fuochi d’artificio,
solo che non erano fuochi di artificio ma bagliori di incendio.
stanno bombardando il bosco dell’Incoronata diceva la gente
gridando come impazzita mentre noi tutti in gruppo
nell’androne del portone con facce sgomente ed impaurite
passammo la notte anche dopo che i bagliori di fuoco erano
27
terminati. L’indomani consiglio di famiglia con papà che dalla
Sicilia era stato informato prontamente.
Papà da Catania ci scrive che ritiene Orta Nova non più un
luogo sicuro e ci avverte di avere scritto alla zia Tranquilla in
Abruzzo per chiedere ospitalità per noi per un dato periodo di
tempo in quanto poi si riteneva imminente uno sbarco in Sicilia
degli americani preceduto da bombardamenti anche in tutta la
Provincia di Foggia, ritenuta zona di smistamento e dotata di
numerosi aeroporti militari.
Contemporaneamente papà che aveva iniziato la sua carriera
civile di Segretario Comunale a Deliceto nei Monti Dauni , ci
avvertiva di avere contattato il farmacista del luogo
proprietario di numerosi appartamenti per un soggiorno
temporaneo.
La risposta più veloce venne da Deliceto e così con armi e
bagagli ci trasferimmo a Deliceto. La montagna mi affascinò
moltissimo.
La casa presa in affitto non era molto grande, eravamo in tanti,
il cibo non era abbondante come ad Orta Nova, ma si tirava
avanti soprattutto con i prodotti di carne suina perché in paese
erano praticati allevamenti familiari di maiali e galline
Ma ciò che per me fu più importante era che mi si permetteva
di poter uscire fuori di casa e scorazzare per il Paese anche con
piccole gite nei dintorni con amichetti conosciuti sul posto con
cui ci trattenevamo quasi tutto il giorno, cosa per me
assolutamente nuova abituato ad una quotidianità casalinga.
Avvertivo pertanto, senza saperlo, quel senso di libertà e
socializzazione che poi mi resterà per sempre e non capivo
invece il senso del provvisorio che dava fastidio alla mamma
ed ai nonni che spesso si lamentavano dei disagi.
Ricordo ancora, come fosse oggi, l’evento che mi è rimasto più
impresso nel soggiorno a Deliceto: quando vidi arrivare papà
mio a cavallo con altre due persone pure a cavallo, mi fecero

28
grande effetto vederli trottare per i sentieri della montagna con
stivaloni, ma senza divisa, da civili.
Era successo che la Sicilia era stata invasa dagli americani e la
batteria antiaerea di papà era stata abbandonata.
Era il momento più nero per il nostro esercito allo sbando e
papà ci aveva raggiunto a cavallo raccontando mille peripezie
che invece a me sembravano avventure meravigliose.
Ma ormai era settembre, l’otto di settembre, grandi feste in
paese, la guerra era finita con l’armistizio, la gente si
abbracciava e baciava per la strada e nella piazza grande del
paese. La gioia delle persone sembrava infinita ed il ritorno ad
Orta Nova fu deciso quasi subito.
N.B. da quanto sopra riportato si evince che non ho avuto né
cognizione e nemmeno sensazione di quello che la guerra era
stata: una terribile grande tragedia.
Nella mia mente di bambino sono rimasti impressi e ancora
oggi persistono tre momenti: il viaggio in carrozzella da
Foggia ad Orta Nova, la casa piena di sacchi di grano e di
farina invece che di mobili ed il soggiorno a Deliceto con la
scoperta della libertà e della socializzazione.
Ancora oggi ringrazio Iddio di avermi preservato dagli orrori e
dalle tragedie che via via crescendo ho appreso essere avvenuti
in Italia e in tutto il Mondo. VIVA LA PACE, VIVA LA
LIBERTA’

Antonio Garofalo
La mia guerra. Avevo nove anni.
Quando c’erano i bombardamenti noi giocavamo, arrivava
qualche aereo caccia e buttava i bigliettini e noi correvamo
dove andava il vento per prenderli e leggerli, dicevano
Allontanarsi dagli obiettivi, poi cominciava a suonare l’allarme
e ci riparavamo tutti giù a terra.

29
Gli aerei passavano e si allontanavano, poi l’allarme e le donne
dicevano quella è la Madonna dei Sette Veli, qui a Foggia fa
sembrare tutto un lago, non si vede niente!.
Poi quando decisero di venire a bombardare Foggia, la città
s’incendiò a causa delle bombe.
C’è stato l’allarme, io ragazzino esco verso via Manzoni, c’era
un macello: cavalli a terra morti con le schegge, persone non ne
vidi, perché avevano lasciato gli animali ed erano scappate.
Poi andammo fuori, scappammo fuori per dormire nelle case
abbandonate: c’erano pulci e pidocchi. Andammo nella sede
dei Pepe, podestà di Foggia, che avevano una masseria grande
e lì stavamo bene, curavamo tutti gli animali, noi eravamo una
famiglia numerosa.
Presso questa masseria vennero poi i Tedeschi a mettere i
riflettori per le contraeree e da lì scappammo a un’altra
masseria presso Ordona; quando tornammo a Foggia a
prendere tutta la roba c’erano altri bombardamenti, di fronte a
casa c’era una bomba, c’erano due morti lì abbandonati che
andai a vedere poi ritornammo alla masseria e c’erano sempre i
Tedeschi che dopo l’armistizio ci dissero: voi vi siete arresi?
Ma noi la guerra la vinceremo! poi se ne andarono e dopo
vennero con aerei a mitragliare la masseria.
In seguito, la vita da ragazzino l’ho trascorsa a vendere le
sigarette in piazza Giordano, a vendere i meloni, lì c’erano i
campi di aviazione, ero ragazzino e camminavo in mezzo alla
pista, gli Americani mi vennero a prendere! melon, John!.
Un aneddoto: una volta andammo a spigolare il grano bruciato,
dietro al cimitero c’era un campo bruciato e mentre stavamo
raccogliendo, ecco l’allarme!
I bombardamenti proprio su Foggia ... non si è capito niente,
mia madre ... allungatevi a terra!
C’era la ferrovia lì vicino, tutta la famiglia allungata per terra.
Ad un certo punto ecco che una cavalletta si era ficcata nella
mia camicia!
30
Avevo otto anni! Piangevo, mia madre gridava, le schegge
arrivavano, si avvicinò mio padre allungò una mano e la
schiacciò dietro la schiena!
Quando stavamo rientrando a Foggia, la gente che
incontravamo diceva ... a Foggia non si capisce niente, tutto
bombardato.

Gaetana Anna Granitto Iudice


Si dice che quando scoppia una guerra, la prima vittima sia la
mente. La 2^ guerra mondiale di vittime ne ha fatte tante,
milioni e milioni, anche Foggia ha pagato il suo tributo di
sangue.
Tornando alle tante vittime occorre fare qualche precisazione.
La città di Foggia venne bombardata dagli Anglo-Americani
durante il 194 , allora l’Italia era ancora alleata dei Tedeschi e
quindi nemica degli Anglo-Americani a cui sciaguratamente
avevano dichiarato guerra.
I bombardamenti sulla città furono un atto di guerra e non delle
azioni volte a liberare il paese dall’occupazione tedesca. Dal
1943 a oggi sono passati tanti anni, io avevo 12 anni me li
ricordo quei terribili giorni, sono scolpiti nella mente e nel
cuore in modo indelebile.
A quell’epoca avevamo smesso da un pezzo di mettere le
bandierine sulle cartine geografiche per segnalare conquiste e
vittorie nei paesi nemici.
Iniziavamo a contare non solo i morti fra i soldati ma anche e
sempre più tra i civili.
Io ora ho ottantanove anni e ho ancora ben custoditi
nell’archivio della mia memoria i tristi ricordi della mia vita
vissuta durante la guerra che ha distrutto uomini e cose.
Ricordo un giorno di fine maggio quando le sirene suonavano
sempre più spesso, mia madre decise di metterci in salvo come
facevano altri fuggendo dalla città per cui noleggiò un taxi e lo
stipò con i nonni e noi 4 ragazzi, lei lo colmò con un po’ di
31
provviste, biancheria e la valigetta contenente un modesto
tesoro che ci avrebbe permesso di campare.
Non avevamo una meta precisa, ma andavamo verso la
stazione.
All’improvviso suonarono le sirene e l’autista conscio del
pericolo di avanzare perché il bersaglio era proprio la stazione
per il suo importante nodo ferroviario che rappresentava, girò
la macchina e ci riportò a casa ove consumato uno spuntino
fummo pronti per un altro tentativo di fuga.
Al piano delle fosse stazionavano gli autobus per i paesi vicini,
inutile dire che ci fu l’assalto, io entrai sul bus attraverso il
finestrino spinta da un carabiniere che era il marito della mia
balia.
Partimmo e a tarda sera arrivammo a San Marco in Lamis dove
alloggiammo in una soffitta sporca e piena di cimici.
All’indomani, noi ragazzi fummo sfamati e sistemati per il
meglio per dire, anche questo fu un dolore.
Un altro episodio da me vissuto quando mamma mi mandò al
suo ufficio per avvertire che non sarebbe andata perché era
arrivato il fratello in partenza per il fronte francese per salutare
i nonni che non avrebbe rivisto più, e mentre stavo tornando a
casa, iniziò a suonare l’allarme, io presi a correre ma mi ferii ai
piedi stavo quasi per arrivare quando un soldato tedesco mi
salvò spingendomi nel ricovero della Scuola Parisi, quando
cessò l’allarme e tornai a casa li trovai in lacrime, ma il
vedermi sana e salva li riempì di gioia.
I bombardamenti si intensificarono, si soffriva la fame e grazie
al piccolo tesoro della valigetta poté comperare farina,
zucchero olio e uova, tutto alla borsa nera che costituì una
vergogna per certa gente e per il paese, purtroppo c’era la
guerra e in quei momenti viene fuori il meglio e il peggio
dell’uomo.
Sempre per amore della verità bisogna dire che oltre all’odiosa
speculazione tipo borsa nera, Foggia fu umiliata anche dai
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saccheggi, persone senza scrupoli si aggiravano tra le macerie
o entravano nelle case momentaneamente abbandonate rubando
tutto ciò che potevano, accadde anche alla mia casa. Purtroppo
era la guerra, a volte non vorresti ricordare, ma la memoria ti
riporta tutto alla mente e come dice un grande scrittore e
storico l’unica medicina è la terapia dell’oblio.

Giovanna Irmici
Lo scorso anno presso il Centro Palmisano un incontro sul
tema Racconti di guerra ha visto partecipare e testimoniare, in
una sala affollatissima, più generazioni insieme: quella di chi la
guerra l'ha vissuta, quella di chi la ricorda direttamente o
indirettamente, e quella dei più giovani che né l'hanno vissuta
né la ricordano.
E proprio quest'ultima generazione ha più bisogno di non
dimenticare, di non seppellire nell'oblio della memoria la
sofferenza, lo strazio, l'orrore di ciò che la guerra comporta.
Io non ho vissuto la guerra.
Sono nata quando era terminata.
Ma poiché le guerre non finiscono con la firma di un armistizio
o di un trattato di pace, e gli anni '50, vissuti da me bambina,
sono stati ancora pieni di macerie materiali e morali, anch'io
ho il mio bagaglio di memorie.
Ho innanzitutto le testimonianze e i racconti dei parenti: il
trauma delle famiglie sfollate nei paesi vicini, nel Molise, in
Abruzzo.
La scheggia nel cranio di mio suocero che ha partecipato a tutti
e due i conflitti mondiali.
L'orrore nei suoi occhi per aver dormito un'intera notte accanto
al cadavere di un commilitone
Il terrore dei bombardamenti che hanno distrutto la casa dei
miei suoceri. L'affanno per alimentare i bambini. La scarsità di
cibo e di beni di prima necessità.
Ma possiedo anche un mio piccolo bagaglio memoriale, da cui
33
estraggo tre esperienze personali, tre indelebili drammatici
frammenti.

Il primo.
Quando ero bambina, su tutti i corridoi degli edifici scolastici,
sui muri degli ospedali e degli uffici pubblici, campeggiavano
enormi manifesti che rappresentavano persone deformi
afferrate da un'orribile mostruosa creatura da cui ci
raccomandavano di tenerci lontani.
Era la poliomelite. L'orribile mostro, l'antesignano di Kruger, il
personaggio creato dal cinema che ci terrorizza nel sonno: era
la polio (chiamata anche paralisi infantile) che negli anni '50
ha mietuto centinaia di migliaia di vittime innocenti in tutto il
mondo, soprattutto bambini e ragazzi.
Era lo strascico di anni di denutrizione, carenze igieniche,
insufficienze sanitarie.
Era lo scotto che ancora pagavamo alla guerra.
Per la strada e nelle aule scolastiche era frequente incontrare
bambini storpi o paralitici: ogni volta sentivo strizzarmi il
cuore.
La polio era un virus estremamente contagioso, una delle
malattie infantili più temute del XX secolo, sconfitta soltanto
dal vaccino realizzato nel 1950 e diffuso in tutto il mondo.
Quei manifesti li ho ancora negli occhi e popolano i miei
incubi notturni.

Un secondo flash memoriale.


A metà degli anni '50 mi trovavo ad Anzio, dove mio padre, la
cui madre - mia nonna- era di Roma, possedeva una villetta.
Lì trascorrevamo le vacanze estive.
Lì ritrovavo ogni anno i luoghi delle escursioni avventurose e
della spensieratezza.
Un pomeriggio, mentre giocavo in un boschetto insieme ad
altri bambini, scoprii sgomenta un grosso ordigno bellico.
34
Capii subito che era una bomba inesplosa, una delle tante
rimaste nelle campagne laziali, residuo dei combattimenti tra
gli alleati, sbarcati ad Anzio per invadere di sorpresa l'Italia e
sconfiggere i nemici, e le truppe tedesche.
Al centro della cittadina, sulla Riviera Mallozzi vicino al mare,
c'è oggi il monumento ad Angelita, la bimba di cinque anni
ferita dallo scoppio di una bomba e raccolta da due soldati
americani: è questa la vittima più giovane tra gli abitanti di
Anzio.
La statua in bronzo rappresenta una bambina esile e leggiadra,
con le braccia alzate al cielo circondata da gabbiani in volo.
Gridando spaventati chiedemmo aiuto e presto accorsero
polizia ed artificieri che provvidero a transennare la zona e a
far brillare l'ordigno.
Ricordo di aver vissuto quell'episodio, che poteva sfociare in
una tragedia, con un misto di eccitazione, curiosità,
incoscienza.
La pericolosità dell'evento solleticava il mio spirito di
avventura: mi sentivo protagonista di una storia, anzi della
Storia con la esse maiuscola.

Un terzo flash.
Una bambina dai riccioli biondi e grandi occhi azzurri.
La mia compagna di giochi durante le vacanze sul mare di
Anzio nei primi anni '50.
Si chiamava Lucia, che significa “baciata dalla luce”. E
davvero era piena di luce, di gioia di vivere.
Avevo pressappoco cinque anni quell'estate trascorsa in cerca
di lei. Introvabile.
Non mi arresi: volevo sapere dove era finita. Finalmente mia
zia mi confessò che una bomba le era scoppiata tra le mani
mentre giocava sul prato vicino casa e l'aveva ferita
gravemente.
Aveva perso gli occhi.
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Non più luce per lei.
Non sarebbe tornata più da me.
Addio Lucia, dai grandi occhi azzurri.
Addio, amata amica mia.
Fu il primo dolore cocente della mia vita.
Il senso di un vuoto, di un'ingiustizia, di un destino avverso.
In qualche modo, parziale, confuso, compresi la crudeltà della
guerra.

Orazio Li Destri Nicosia


Volavo nei cieli di Puglia sopra distese di ulivi contorti e un
mare azzurro e familiare che mi ricordava tanto la mia terra.
Ero comandante pilota della Regia Aeronautica Militare di
stanza in uno degli aeroporti del sud della Puglia nel
Raggruppamento caccia con equipaggi di scorta, ricognizione e
appoggio alle operazioni negli anni 1942-43.
Eravamo tanti giovani orgogliosi del nostro compito, forti della
nostra giovinezza e sicuri dalla rigida formazione militare che
ci aveva preparati a compiti rischiosi.
Per le azioni di ricognizione usavamo aerei più piccoli e veloci
che potevano evitare più facilmente di essere intercettati dal
nemico. Indossavamo tute, giubbotti e caschi di pelle,
occhialoni, eravamo riconoscibili e anche eleganti.
Eravamo belli!
Si era sempre in gruppo e tra noi giovani ci si scambiavano
informazioni e racconti sulle ultime missioni.
Con alcuni compagni si era creata una vera amicizia rafforzata
dal trovarsi spesso vicini nello spazio ridotto dell’abitacolo
dell’aereo militare in cui condividevamo comandi, sorrisi e
commenti.
Quando si volava per le ricognizioni sul territorio c’era spazio
per qualche piccola confidenza ma, in caso di attacchi da parte
del nemico si era con i nervi tesi e i muscoli in allerta perché ci

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si doveva difendere, si dovevano schivare i colpi avversari e
rispondere al fuoco.
Vivevamo nel vento e tra le nuvole e sentivamo il rombo forte
dei motori e le vibrazioni metalliche che ci stordivano e
isolavano dal resto del mondo.
La guerra vista dall’alto faceva meno impressione, era un punto
di vista più asettico, più impersonale.
Fu durante una delle tante missioni che improvvisamente ebbi
la testimonianza della brutalità e tragicità della guerra.
Eravamo in volo per una missione di ricognizione, cioè di
monitoraggio delle attività del nemico.
Insieme a me c’erano il mio secondo pilota, seduto accanto, e il
mitragliere, che prendeva posto alle nostre spalle, fummo
intercettati da una squadriglia di caccia nemici, della Raf
inglese; erano aerei Spitfire molto più agili del nostro e dotati
di un maggior armamento.
Dopo le prime manovre di allontanamento e di simulazione
cominciammo a sentire il crepitio dei colpi delle mitragliatrici
e il rumore metallico dei proiettili che colpivano la carlinga
dell’aereo.
Sono quelli dei momenti di massima concentrazione in cui si
perde il senso del tempo e del mondo, esiste solo l’aereo che
vibra e il rombo dei motori spinti al massimo sforzo.
Non sentivamo più i colpi che partivano dal nostro aereo, il
mitragliere era stato colpito quasi subito.
Non saprei dire quanto tempo durò l’attacco ma parlavo al mio
compagno al mio fianco e gli facevo domande.
Non udii più la sua voce. Lo vidi di schiena, piegato sulla
cloche come abbracciato ad un improbabile ancora di salvezza.
Mi lasciarono entrambi senza un grido, senza un lamento. Se
ne andarono in punta di piedi quasi a non volermi distrarre
dalla mia tensione alla guida dell’aereo.
L’aereo cominciò una discesa in picchiata, in una direzione
ormai quasi inevitabile di impatto.
37
Il caccia nemico abbandonò il nostro bersaglio considerandolo
abbattuto ma, con una manovra azzardata, riuscii a riprendere il
controllo dell’aereo e a toccare terra con il mio pesante carico
di vite perse.
Sono un sopravvissuto.
Sopravvissi a quella e a molte altre missioni, stessi timori,
stesse speranze, altri compagni e porto con me ricordi di vite
spezzate e di grandi dolori.
Questo il racconto che mi fece mio zio Turi un giorno di tanti
anni fa mentre ci godevamo un sole luminoso seduti su una
panchina della Villa Bellini di Catania.
I suoi ricordi riaffiorarono improvvisi e sentì l’impellenza della
testimonianza quando vedemmo vicino a noi dei bambini che
nascondendosi dietro gli alberi e i cespugli giocavano
rincorrendosi e puntandosi addosso dei fucili di plastica.
Negli anni della maturità, man mano che avanzava con l’età,
zio Turi parlava sempre meno delle esperienze di quel periodo
vissuto pienamente con il coraggio della gioventù.
Forse troppo dolorosi erano per lui i ricordi degli amici che lo
avevano lasciato tanto presto andando ad arricchire la fredda
contabilità di chi non faceva ritorno a casa.
Lo zio Turi è vissuto a lungo, si è spento qualche anno fa a 101
anni. Nel tempo di pace si è goduto il piacere e l’amore dei
figli e dei nipoti e della sua grande famiglia siciliana, mai
stanca di dimostragli affetto.

Luigi Alberto Malice


I bombardamenti di Foggia e dintorni del 1943 avvennero tra
maggio e settembre di quell'anno per opera dell'aviazione
Alleata su installazioni militari e logistiche, nel corso della
seconda guerra mondiale.
In effetti furono bombardati la stazione ferroviaria, l’aeroporto,
ecc.

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In tali occasioni ricordo che se gli allarmi ricadevano in orari
serali o notturni mia madre mi prendeva in braccio (avevo circa
5 anni) e avvolto in una coperta, andavamo, non in rifugi
sotterranei, ma in un pianterreno situato poco distante da casa
perché (sentivo dire) era lontano dai quadrivi che venivano
bombardati.
Cosa del tutto errata tanto è vero che, fortunatamente per noi,
successivamente proprio quello fu colpito.
Nel mese di luglio mio padre pensò di trasferirci prima a
Candela, era il 27, giorno del mio compleanno, e durante il
viaggio notturno dormimmo in una fattoria in modo arrangiato
simile agli attuali migranti.
Successivamente ci trasferimmo a Volturino. Qui fummo ospiti
di una famiglia di un vigile del fuoco di Foggia, dove mio
padre (Carmine Malice) svolgeva l’attività di Vice
comandante, perché aveva i requisiti e cioè: per essere stato in
Albania due anni come sottotenente richiamato alle armi e
aveva il diploma di perito industriale.
A Volturino si stava bene e ricordo alcuni episodi molto
particolari.
Il primo quello relativo ad un paio di scarpe nuove, fatte da un
calzolaio su misura, di tipo montanaro con la suola attrezzata di
cendrèlle (ved. Vocabolario Foggiano-Italiano di Mario Ricci)
con le quali me ne andavo passeggiando per il paese e che tale
passeggiata finì, senza danno, quando scivolai, per mancata
esperienza, lungo una tipica strada di paese fatta a gradini che
me li contai col sederino.
Il secondo è relativo alla ritirata dei Tedeschi, che occuparono
il paese, e lo controllavano con militari piazzati in vari punti
armati di mitragliatrici con supporto a tre piedi; una mattina
venne a piovere e un soldato tedesco si tolse gli abiti restando a
dorso nudo, forse per rinfrescarsi e poi si rivestì.
Il terzo è che quando i Tedeschi occuparono Volturino e
rastrellarono il paese per fare prigionieri, prima che ciò
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avvenisse, fu fatta nella catasta della legna per l’inverno una
nicchia nella quale si nascosero gli uomini, facendo credere che
in paese ci fossero solo vecchi, donne e bambini.
Cosa che riuscì.
La ritirata dei Tedeschi avvenne perché quando arrivarono, gli
alleati incominciarono un cannoneggiamento intenso, che
fortunatamente non fece vittime nella popolazione.
Il ritorno a Foggia avvenne tra novembre e dicembre, perché di
Volturino non ricordo giornate fredde di tipo invernali.
Gli alleati, come è noto, occuparono vari palazzi tra cui quello
degli uffici statali.
Noi ragazzi di piccola età giocavamo sui marciapiedi e anche
per le strade, dato che le auto erano rare e solo quelle dei
militari.
Quando ci intrattenevamo sul marciapiede del suddetto palazzo
e sul corso Giannone gli Americani si affacciavano a guardare
il passeggio, noi attiravamo la loro attenzione ci buttavano
caramelle e cioccolatini.
Anche se per l’età non capivamo bene, siamo stati testimoni
del vivere un dopo guerra tranquillo.
Le famiglie si industriavano ad organizzare attività di interesse
o necessità dei militari.
La mamma di un mio amico professoressa di taglio che
istruiva le ragazze a realizzare i modelli cartacei degli abiti, si
improvviso anche come lavanderia e modifica degli abiti.
Mio nonno materno, Alberto Testi, noto pittore foggiano con la
figlia Livia, anch’essa pittrice, in uno con mio padre, che si
dilettava con disegni realizzati con la tecnica della penna a
nero di seppia, misero su un’attività pittorica e sui giubbotti di
pelle dei piloti dell’aeronautica americana realizzavano veri
quadri ad olio con le più varie figure: immagini delle
fidanzate, stemmi, frasi ecc.
Quindi, lo studio pittorico di mio nonno diventò un circolo
frequentato dagli estimatori dell’arte.
40
Un giorno mio nonno, uomo di sani principi morali e politici,
era un vero socialista, ebbe un battibecco con un alto graduato
che per ripicca fece scrivere sul muro della porta del suo
studio, al numero 27 di corso Giannone of limits pensando di
arrecargli un danno economico.
Ma la cosa non andò cosi, perché il locale continuò a essere
regolarmente frequentato.
L’ultimo ricordo è quello delle famose carijòle (ved.
Vocabolario Foggiano-Italiano di Mario Ricci) costruite dai
ragazzi più grandi i quali si procuravano il materiale: legno e
rotelle (che in effetti erano dei cuscinetti a sfera trovati tra i
rottami presso l’aeroporto Gino Lisa) per realizzare una tavola
con due ruote dietro e avanti un asse di legno fissato con un
perno e avente una ruota che fungeva da sterzo.

Anna Mariella Clima


Anche la mia è una testimonianza personale. Avevo otto anni.
Quando il 22 luglio del ’43 c’è stato il bombardamento a
Foggia, già precedentemente abitavo al viale della stazione,
viale XXIV Maggio, a breve distanza dalla stazione ferroviaria
dove già alla fine di maggio ci sono state le prime incursioni,
però dopo, con la mia famiglia, mamma, fratellino e sorellina
c’eravamo spostati in via Isonzo dai nonni materni, perché
papà era sotto le armi.
Quindi anziché stare da soli, stavamo lì e quando suonava
l’allarme correvamo tutti quanti al rifugio. Il 22 luglio, i
bombardamenti, quindi spezzoni incendiari hanno creato un
incendio nel cortile per cui è stata chiusa la porta d’ingresso del
ricovero il cui accesso era dal cortile del palazzo e ci siamo
trovati chiusi in questo ricovero.
Ci siamo salvati perché i bombardamenti erano forti, ci sono
stati spostamenti d’aria, eravamo tutte donne e bambini.
Una delle zie aveva in braccio il mio fratellino, di meno di due
mesi perché era nato il 16 luglio, questo bambino viene
41
scaraventato per terra sotto i piedi della gente che non sapeva
dove andare.
Che fare? Mamma portava sempre con sé una borsa di quelle
simil pelle, la ricordo bene, ha preso delle garze, perché
portava dell’acqua, del disinfettante e ha cercato di pulire
questo bambino perché soffocava, il calcinaccio nelle prime vie
respiratorie ed è riuscita a liberarlo.
Per uscire da questo ricovero come dovevamo fare?
Qualcuno ci ha detto che c’era una parete molto sottile di
quelle fatte per creare questo ricovero sotterraneo e siamo
usciti in un locale dove attraverso una scala a chiocciola, siamo
saliti a livello stradale e di qui siamo usciti.
Ogni volta in cui passo da quelle strade alle spalle dell’accesso
quindi, sull’altra strada parallela, mi ricordo il tutto, lo rivedo,
lo rivivo regolarmente.
Dopodiché siamo usciti quindi dal ricovero, malandati,
affamati anche se mamma portava sempre qualche biscotto,
qualche tarallino, la sua borsa serviva per tutto e abbiamo
imboccato la strada per andare verso l’esterno della città.
Un fratello di mio padre che aveva la campagna in via Lucera
si è messo in movimento con un grosso carretto e venne in città
a chiedere a vedere che fine avevamo fatto e quindi siamo
andati prima in campagna.
Di là ci siamo spostati perché non potevamo stare abituati in
città, ad abitare in appartamenti con tutte le comodità, in
campagna dovevamo adattarci alla meglio e allora prima
abbiamo cercato una casa in affitto in un paese della provincia,
San Paolo di Civitate
Qui viveva una signora che viveva da sola, all’inizio è stata
brava, ci ha accolto con una certa affabilità, dopo non le
andava più bene, perché mamma aveva il bambino piccolo,
l’altra mia sorellina che aveva quattro anni, io ero la più
grande, di otto anni e allora siamo andati via e siamo andati
dalla famiglia di mia madre, i nonni materni, gli zii ecc.
42
Sono tornata successivamente e quelle sono state poi occasioni
per cui mio marito è venuto a Foggia.

Franco Maruotti
Spesso mio padre mi raccontava delle vicissitudini passate
durante i bombardamenti di Foggia nell’estate del 1943
quando, appena diciottenne, lavorava come avventizio nella
Ferrovia. Mi ha ricordato alcuni episodi drammatici che ha
vissuto nell’attacco aereo del 19 luglio di quel tragico anno. In
mattinata la giornata era piuttosto tranquilla, anche se c’era un
certo timore per possibili bombardamenti. Vi erano delle
persone che attendevano l’arrivo del treno: tra queste notò una
signora elegantemente vestita, con un vistoso anello al dito. Su
uno dei binari intravide anche un carro merci pieno di armi
scortato da un soldato tedesco. Quando suonò la sirena
dell’allarme mio padre fuggì dalla stazione e, attraverso i
binari, giunse al ponte di via Manfredonia per ripararsi sotto la
sua campata, come avevano già fatto tante altre persone. Il
ponte fu bombardato e lui si salvò fortunosamente, al contrario
di molti altri che persero la vita. Quando, dopo il disastro, tornò
alla stazione vide che era stata completamente distrutta e
scorse che da un mucchio di macerie proveniva un luccichio:
era la mano senza vita di quella signora con l’anello che aveva
incrociato poco prima. Poi si rese conto che anche il carro
merci pieno di munizioni era stato distrutto e che il soldato
tedesco giaceva esanime sotto di esso.
Inoltre in quella mattina suo padre (mio nonno Francesco)
durante l’attacco si trovava nei pressi della stazione e si salvò
miracolosamente perché una scheggia aveva colpito il suo
portafoglio nel taschino posteriore del pantalone,
distruggendolo senza trapassarlo. Fu tanta la paura che decise
di lasciare immediatamente l’impiego alla Cartiera per tornare
a Sant’Agata, il suo paese.

43
Quando, ad agosto, si verificò il secondo terrificante
bombardamento mio padre si trovava al Deposito ferroviario
(uno tra gli obiettivi possibili dei bombardieri); allora con
alcuni colleghi fuggì verso via Bari. Decisero di rifugiarsi in
una masseria portando con sé un’anguria, con la quale
contavano di resistere alla forte calura di quella giornata.
Mentre guadagnavano la strada per quel ricovero improvvisato
videro con terrore arrivare proprio da quella direzione gli aerei
alleati; ritennero allora di lasciare quella masseria per rifugiarsi
in un casolare più avanti. Grande fu lo spavento nel constatare -
alla fine di tutto - che quell’edificio che avevano abbandonato
era stato bombardato e distrutto completamente. L’avevano
scampata bella: quella decisione presa all’ultimo momento di
cambiare rifugio li aveva salvati.
Per tutto il restante periodo della guerra mio padre ha
continuato a lavorare in Ferrovia. Tuttavia da allora in poi, per
il pericolo di altri bombardamenti, il sabato e la domenica
preferì rifugiarsi in una campagna di alcuni cugini materni ad
Ascoli Satriano, che raggiungeva in bicicletta al termine
dell’ultima giornata di lavoro, per poi tornare con lo stesso
mezzo a Foggia il lunedì successivo.

Massimo Mazza
Diego de Mita, medico soccorritore durante i bombardamenti
a Foggia.
L'invito a partecipare alla bella iniziativa I nonni raccontano
mi fa pensare alle riunioni di famiglia dinanzi al braciere con
storie e storielle fra una caldarrosta e una patata sui carboni
ardenti, complice anche l'assenza della televisione in quei primi
anni '50. Certamente non sono venuto meno anch'io a quella
tradizione che mi arricchiva nella formazione del carattere di
adolescente, anche se a questo focolare domestico non
partecipava mio nonno, Diego de Mita, nato a Foggia il primo
gennaio 1893, di professione medico condotto, in una città ove
44
all'epoca scarseggiavano i medici e che lo vedeva impegnato
dall'alba al tramonto nella cura e nell'assistenza di tanti,
tantissimi cittadini.
Mio nonno, quindi, non mi raccontava fiabe o storielle, ma
esperienze di vita vissuta ed in particolare, stante anche la mia
curiosità di adolescente, fatti tragici avvenuti durante la
seconda guerra mondiale che lo hanno visto, suo malgrado,
protagonista nella sua veste di brillante e generoso medico
soccorritore.
Nel 1943, mi raccontava nonno Diego, non solo il “Gino Lisa”
di Foggia era il più importante scalo aereo dell’Italia
Meridionale, ma la strategica posizione geografica della città le
consentiva di avere anche diversi aeroporti militari. Il
capoluogo dauno, peraltro, oltre ad essere fra i nodi ferroviari
più importanti del Paese, ospitava anche alcune industrie
chimiche collegate con un tunnel alla Cartiera, tutti elementi
determinanti questi che portarono gli alleati alla decisione di
bombardarla per colpire la residua presenza di tedeschi e nello
stesso tempo per agevolare il compito delle truppe americane
sbarcate in Sicilia. Foggia con Cassino fu la città più
bombardata con oltre 20.000 vittime, delle quali diverse
centinaia decedute nella giornata del 22 luglio nei
sottopassaggi della stazione, ove si erano rifugiati innocenti ed
indifesi cittadini e ferrovieri per evitare i bombardieri Anglo-
Americani. La cattiva sorte volle che un treno-cisterna venne
bombardato e il liquido infiammabile invase il sottopassaggio
dopo essersi incendiato. Fu un massacro. Nei giorni seguenti
centinaia di aerei calarono sulla città, oscurandola, provocando
morte e distruzione in particolare dal viale della stazione alla
villa comunale, ove persero la vita anche tante donne e bambini
inermi.
Il nonno impegnato tra le macerie a soccorrere i feriti, alla
presenza delle fortezze volanti che radevano quasi il suolo, si

45
fingeva morto, per non essere colpito, tra polvere, vittime e
rumore assordante di motori e sirene.
Il dott. Diego de Mita era schivo di onori ed elogi, con il suo
volto crucciato e preoccupato per gli eventi bellici, incorniciato
dai suoi immancabili occhialini di acciaio, pieno di attenzioni e
premure per il prossimo, in una città martoriata, quale Foggia,
non mancava di andare in soccorso ai tanti feriti, tanti
indigenti, con uno zaino militare sulle spalle contenente
qualche medicinale, alcune siringhe e un disinfettante.
Mi preme rimarcare, al di là dei suoi coinvolgimenti
professionali, che nei momenti di quiete e relax era allegro, gli
piaceva ascoltare le canzoni della sua gioventù, assistere in TV
alle esibizioni dei grandi del teatro italiano, quali Govi,
Eduardo e Peppino e non gli mancavano le battute, di quelle
intelligenti, coinvolgenti.
Ho vissuto con il nonno fin quasi alla maggiore età e tra i tanti
racconti, oltre alle attenzioni e all'affetto nei miei confronti,
ricordo che mi aiutava a svolgere le versioni di latino e greco.
Era stato uno studente-modello al Liceo V. Lanza di Foggia e
si era laureato in Medicina e Chirurgia con il massimo dei voti
all'Università degli Studi di Napoli.
La mattina, il nonno, apriva lo studio, coincidente con la sua
grande abitazione, alle 6,30 perché tanti erano i suoi pazienti e
ricordo che spesso entrava in cucina per far bollire le siringhe.
Faceva punture a tutti coloro che ne avessero bisogno. Il dott.
de Mita era in grado di far partorire, di fare piccoli-medi
interventi, di intervenire per traumi e fratture e mettere punti di
sutura a ferite anche vaste. Ricordo che soccorse nel suo studio
un tipografo con una mano fratturata incagliata in qualche
macchinario e un salumiere che aveva una profonda ferita da
taglio causata da una affettatrice. Il nonno era anche medico
curante della famiglia di Adriano Celentano e mi ricordava, -
vedendolo in TV mentre cantava 24mila baci (1961), - che, da
bambino, in estate frequentava il suo studio, mano nella mano,
46
con suo nonno. I genitori del molleggiato erano originari di
Foggia, il fratello maggiore era nato a Foggia ed Adriano solo
per un contrattempo non ha avuto i natali nella nostra città, dal
momento che, si sa, come costume, le mamme emigrate
tornavano nei luoghi natìi per partorire. Come è noto Adriano
non ha mancato di omaggiare la città natale dei suoi genitori
con il testo della canzone Che t'aggja dì in dialetto foggiano,
interpretata magistralmente con la grande Mina.
Raramente da ragazzini vedevamo in giro ambulanze della
Croce Rossa e allorché ne notavamo alcune in città, io, i miei
fratelli e cugini pensavamo si trattasse di un ferito grave o
moribondo, dal momento che sarebbe andato nello studio del
nonno per piccoli-medi interventi, traumi e/o ferite da taglio.
Ai tanti fatti ed aneddoti raccontati dal nonno sono seguiti
encomi, premiazioni e dediche a imperitura memoria. Gli
Amici della Domenica, un gruppo creato su facebook dal dott.
Salvatore Onorati ed altri benemeriti, hanno dedicato al dott.
Diego de Mita una stele nella villa comunale unitamente a
padre Odorico Tempesta, altro eroe di quei terribili
bombardamenti. Nell'occasione, il 22 luglio 2011, durante la
cerimonia fui tra i relatori nel ricordare il nonno. Inaugurò le
due stele l'allora Sindaco di Foggia, ing. Giovanni Mongelli,
mettendo in risalto la grande abnegazione e lo sprezzo del
pericolo del de Mita e del Tempesta. Non finirò mai di
ringraziare Gli Amici della Domenica ed in particolare il dott.
Onorati, allora Presidente dell'Ordine dei Medici, per la nobile
iniziativa intrapresa.
A corollario dei suoi racconti orali, per avere un'idea
dell'impegno del nonno nella sua professione, ritengo
opportuno elencare tutta la sua attività: Medico condotto,
Medico di famiglia, Medico del Centro di Igiene, Medico delle
Ferrovie, Medico delle Carceri, Medico dei Vigili del Fuoco,
Medico dell'INADEL, Medico dell'Istituto per anziani Maria

47
Grazia Barone, suo malgrado anche Medico delle Case di
tolleranza, allora previste e regolate per legge.
Mi piace ricordare anche che ben tre nipoti hanno seguito le
sue orme nel settore sanitario. Alfonso Mazza, otorino, già
dirigente medico presso gli Ospedali Riuniti e già Presidente
dell'Ordine dei Medici; Rosario de Mita, dirigente ortopedico
presso gli Ospedali della Capitanata e Mariapia de Mita,
medico di pronto intervento della sanità foggiana.
Sin da piccolo mi ha inculcato l'interesse per lo sport,
seguivamo insieme olimpiadi, calcio, basket, ciclismo e
pugilato, ma soprattutto il nostro Foggia. Ad otto anni mi portò
allo stadio Pino Zaccheria per la prima volta ed a Firenze nel
1964 ad assistere alla prima partita dei rosso-neri in Serie A.
Ed è il caso di sottolineare che nel centenario della gloriosa
storia agonistica (1920-2020) del Foggia calcio, il collega ed
amico Geppe Inserra, che ringrazio, mi ha fatto sapere che mio
nonno era stato tra i Padri Fondatori e finanziatori della società
calcistica del Foggia, prima della seconda guerra, come risulta
da una pregevole opera in sette volumi: Il pallone d'oro, storia
enciclopedica del mondo del calcio, voll.7, Milano, Perna
editore, 1968.
Diego de Mita fu anche filantropo, nel 1923 contribuì ad una
raccolta a favore delle famiglie degli studenti caduti in guerra e
nel 1928, quale Presidente del Velo Club Foggia, fu tra gli
organizzatori dell'arrivo della tappa del Giro d'Italia a Foggia,
finanziandola, un evento diventato ormai raro per la nostra
città.
Al nonno piaceva il buon vino ma era parco e lo sorseggiava
nelle giuste dosi; a noi giovani raccomandava di bere un buon
bicchiere di vino rosso al giorno per le sue grandi qualità, dal
momento che, come si sa, è un ottimo alleato per il cuore e per
l’apparato cardiocircolatorio; inoltre, ci spiegava, è antistress e
antinfiammatorio e favorisce anche l’abbassamento del
colesterolo cosiddetto cattivo (LDL).
48
Il nonno non partecipava alla vita attiva della politica, ma
seguiva le sorti socio-economiche del Paese e in alcune
circostanze mi portava in piazza ad ascoltare i comizi per farmi
avere un'idea imparziale dei partiti e della varie ideologie
proprie di una società pluralistica, senza coinvolgimenti di
parte. Ebbene, qui mi viene in mente un aneddoto, mentre
eravamo in piazza, in prima fila, la gente comune in attesa
dell'oratore iniziava ad osannarlo: W il dottor de Mita, W il
dottor de Mita per coinvolgerlo nell'agone politico dall'alto
della grande stima che aveva in città. Il nonno in tutta la sua
modestia invitava i presenti, anche con una smorfia contrariata,
a riprendere la giusta condotta nel contesto in cui eravamo.
Il dott. Diego de Mita venne a mancare il 27 maggio 1966,
all'età di 73 anni, fu una giornata di lutto cittadino dal momento
che tanta parte della popolazione partecipò ai funerali con
grande commozione e stima; nel ricordare quei momenti
dolorosi mi viene in mente anche che, al momento delle
esequie in via de Mita, ove il nonno aveva lo studio e
l'abitazione, su corso Vittorio Emanuele sfrecciarono i mezzi
dei pompieri con il sibilo delle sirene in segno dell'estremo
saluto ad un grande uomo amato da tutti.
Posso concludere con orgoglio che, oltre alla presenza costante
di mio padre nel forgiarmi nel carattere e nella professione di
giornalista, larga parte della mia formazione nel contesto
culturale, sociale e umano la devo proprio a mio nonno, un
personaggio storico che ha lasciato una traccia indelebile nella
città; in tanti, fra i più anziani, mi ricordano le sue opere di
grande medico, uomo capace, generoso, sensibile e schivo di
onori.
Infine, ecco una parte delle testimonianze ed elogi sui social,
mass media e pubblicazioni sull'attività medica del nonno che
danno più forza e consistenza alla mia narrazione sulla sua
grande professionalità e generosità in una rielaborazione
fedele:
49
Giuseppe Messina dal libro: Papaveri rossi. Il soffio caldo del
favonio
Il dottor Diego de Mita era persona amabilissima, disponibile
a qualunque ora del giorno e della notte. Piccolo e minuto
l'avevano soprannominato con un vezzeggiativo -il
medichicchio-, nome che contrastava con la grande bravura e
l'umanità che lo portavano a prodigarsi sempre e a rifiutare,
spesso, il giusto onorario. Quel soprannome del tutto
affettuoso, l'aveva conquistato durante i bombardamenti
quando accorreva per ogni dove, nei vari quartieri della città a
soccorrere feriti e moribondi: pantaloni neri, impolverati e una
camicia bianca con le maniche rimboccate, macchiata di
sangue. Infaticabile, giorno e notte a guidare i barellieri nei
ricoveri improvvisati e a saccheggiare le poche farmacie
ancora rimaste in piedi.
Qualche anno dopo aveva curato tutti noi dal morbillo e le mie
sorelle dal tifo, quando questo aveva investito tutta la città per
mesi interi, provocando un'alta mortalità fra i meno fortunati;
adorato da tutti, lo si vedeva spostarsi, senza un minuto di
tregua, di casa in casa, nei quartieri settecenteschi degli
scopari, dei caprari, dei carpentieri intorno alla Chiesa di San
Francesco Saverio, del Carmine, di San Pasquale e della
Cattedrale, accorrendo ovunque ci fosse bisogno di cure e di
controlli, con la valigetta nera, che cominciava a denunciare i
segni dell'uso e del tempo ...
Giuseppe Messina Mi dispiace moltissimo di non essere stato
presente all'inaugurazione delle stele. Avrei voluto portare la
mia testimonianza vissuta; l'ho visto soccorrere più di una
volta i feriti e le ferite dei bombardamenti, curare i poveri senz'
altro compenso che la gioia di guarire. Fu medico
indimenticabile della mia famiglia; amico di mio nonno
Giovanni. Mi resta la gioia di averlo ricordato, dedicandogli
alcune pagine, nel mio libro.
Vincenzo Mele dal Notiziario Lions Club di Foggia 1994
50
Voglio ricordare la figura di un collega eroico il dott. Diego de
Mita, abitava nell'omonima breve viuzza che costeggia un'ala
del Banco di Napoli ed era medico condotto. Quando tutta la
città martoriata si spopolò, quando la gente cercò rifugio
altrove, non tutti lasciarono le case semidistrutte, le vie ridotte
ad ammassi di macerie, il pericolo sempre incombente di
nuove stragi. Molti, i più poveri, non avevano dove andare e
rimasero con il loro carico di sofferenze e di privazioni ad
attendere un miracolo che li salvasse e la pietosa morte che
cancellasse i loro dolori. Non un solo giorno il dottor de Mita
mancò di accorrere in soccorso di quei poveri; con uno zaino
militare sulle spalle, riempito di pochi medicinali che riusciva
a procurarsi, qualche siringa ed ago e qualche straccio per le
medicazioni; di giorno e spesso anche di notte usciva di casa,
superava cumuli di macerie ed andava dai suoi malati a
portare il conforto dei pochi farmaci rimastigli e del suo
grande cuore. E così per mesi e mesi, senza mai fermarsi,
senza chiedere nulla per sè. Insomma un medico di altri tempi,
schivo di onorificenze che aveva alto il senso del dovere
rischiando la vita nei tragici eventi bellici che colpirono
Foggia.
Una nota del Gruppo gli Amici della Domenica pubblicata su
Today il 22 luglio 2011
Durante i giorni dell’orrore dei bombardamenti e dei corpi
straziati per le strade, la comunità di allora non si arrese e si
strinse intorno ad alcune figure che resero possibile la
resistenza allo scoramento paralizzante del dolore. Il Gruppo
Amici della Domenica ha trovato tra gli eroi di quei giorni due
figure da onorare per ricordare tutti quegli uomini e quelle
donne che in quei giorni drammatici dimostrarono che l’idea
di comunità non può e non deve morire durante i momenti di
difficoltà, anzi devono essere quei momenti a ricreare identità
e con essa la voglia di essere corpo unico nella collettività.

51
Sono quelli i momenti in cui l’individuo diventa persona tra ed
insieme ad altre persone. In quei giorni la carità cristiana, il
senso forte della solidarietà tra gli uomini e il senso del
dovere, valori fondanti della nostra comunità, spinsero uomini
e donne ad aiutare chi era sotto le macerie, ognuno per come
sapeva e poteva, per recuperare corpi martoriati o vite ancora
da salvare. Impossibile ricordare i nomi di tutti, per cui il
GADD ha pensato di ricordare due uomini simbolo di quelle
giornate: il frate minore padre Odorico Tempesta, simbolo
della carità cristiana e il medico Dott. Diego de Mita, simbolo
della solidarietà laica e del senso del dovere e del rispetto di
un giuramento fatto, quello di Ippocrate.
Flora Bozza in: Foggia in Guerra altervista.org › wordpress,
luglio 2011: Unico medico condotto di Foggia nella
sanguinosa estate 1943, si prodigò nel soccorrere i feriti fra le
macerie e nell’aiutare a seppellire dignitosamente le migliaia
di vittime. In più di un’occasione, unitamente a Padre
Tempesta, si finse morto, accovacciandosi tra i cadaveri,
mentre gli aerei da mitragliamento, volando raso terra,
miravano gli obiettivi civili a vista.
E’ stato insignito di medaglia d’oro con pergamena, insieme a
tutti quelli che si prodigarono nel prestare soccorso ai feriti,
dall’Amministrazione comunale guidata dall’allora sindaco
Graziani. Era il classico medico di un tempo. Nel suo
ambulatorio, infatti, interveniva con punti di sutura, gesso,
piccoli interventi chirurgici, parti ed in assenza di diagnostica
curava i pazienti in maniera efficace, al tal punto da essere
denominato il 'medico della polmonite'.
Alfonso De Santis, nel suo libro Foggia città martire ricorda: il
dott. de Mita come un vero eroe, che con sprezzo del pericolo
ed alto senso del dovere, soccorreva decine e decine di feriti,
celandosi, all'occorrenza, anche tra i cadaveri mentre le
fortezze volanti, radendo il suolo, continuavano a bombardare
a tappeto la città, lasciandosi alle spalle distruzione e morte.
52
Franco Galasso, nella sua pubblicazione: Foggia dopo la
guerra:
Foggia divenne una città morta, il capoluogo era oramai
distrutto per i suoi due terzi e le sedi delle principali Istituzioni
furono trasferite in provincia. Anche la Icona della Madonna
dei Sette Veli fu trasferita a San Marco in Lamis. Accorata e
realistica fu la lettera che monsignor Fortunato Maria Farina
scrisse a Papa Pio XII con una dettagliata e drammatica
relazione sulla situazione della città dopo i bombardamenti.
Meritano un ricordo, inoltre, i tanti che si prodigarono per
soccorrere i feriti, per seppellire i morti. Don Renato Luisi fu
tra i più attivi in questa opera di misericordia, insieme al
francescano Padre Tempesta e al dott. Diego De Mita, eroico
medico condotto che rimase vicino ai suoi concittadini in
occasione di tutte le incursioni aeree.
de Mita Rosario: Orgoglioso di aver avuto un nonno che a
distanza di cinquant'anni tutti ricordano ed ancora più fiero
per avere seguito la sua professione.
Lucia Matrella: Massimo, una grande, edificante e cara figura
del passato... indimenticabile.
Maria Rosaria Matrella: Persona di straordinaria umanità.
Sono orgogliosa del fatto che mio padre e mia madre lo
elessero come medico di famiglia!
Marcello Ariano: Una persona meritevole di ricordo e di
essere additata come esempio di autentica umanità e di alto
valore professionale.
Flora D'Antonio: Quanta emozione rivedere sui social la foto
del medico di famiglia, il dottor Diego de Mita, ero una bimba
e lo vedevo spesso venire da mia nonna e da mia zia Loretta.
Grande medico. Mi ha operato in casa avevo una ghiandola
salivare ingrossata, mi ha fatto un taglio che non è venuto in
avanti sulla guancia quando sono cresciuta ed è ancora là... è
una circostanza che non cancellerò mai ....

53
Ricordo una volta avevo 10 anni, mi mandarono a casa del
dottore all'ora di pranzo, perché mia nonna Vincenza
D'Antuono, stava male; ricordo come se fosse ora, lasciò il
pranzo e venne con me dalla nonna. Medici come lui non ce ne
sono più non ha mai fatto attendere chi stava male. Grazie di
cuore generoso dottore!
Potito Chiummarulo: Una pagina della storia del '43 dedicata
al dott. Diego de Mita, medico condotto al tempo della guerra
che si distinse nel porgere i soccorsi alle vittime dei
bombardamenti, uno dei due eroi al quale è stata dedicata la
memoria di una delle due stele nella villa comunale. L'altra
nobile figura quella di Padre Odorico Tempesta.

Il dottor Diego de Mita.

54
Santa Picazio
Era I'angolo a sinistra quello preferito. Arrivava di solito verso
il tramonto.
Scendeva in picchiata, invisibile fino ad un attimo prima.
Noi lo aspettavamo, abituati ormai alle sue soste sul nostro
balcone.
Si fermava prima sulla ringhiera, come a riprendere fiato; poi
volgeva velocemente il capo da una parte e poi dall'altra, come
per controllare la situazione, ed infine scendeva sul pavimento,
dove si fermava ritraendo le ali in posizione di riposo.
Non eravamo sicuri che si trattasse sempre dello stesso
colombo, ma il fatto che fosse così abitudinario ci aveva
convinti, tanto che gli avevamo dato un nome.
II nostro colombo viaggiatore si chiamava Orazio. Puntuale,
come il suo arrivo, era la partenza. Ripartiva all'alba.
La sua partenza era tanto silenziosa e riservata che non
eravamo mai riusciti a scoprirla.
Veramente chi avrebbe potuto scoprirlo era solo la mia
mamma.
Lei era l'unica che si svegliava presto per accendere il
caminetto, preparare la colazione e qualche dolcetto per noi
bimbi.
Infatti gli unici dolcetti erano quelli preparati in casa, non
c'erano BAR o pasticcerie.
Ma, forse, proprio queste faccende la distraevano dal curiosare
circa le manovre di volo di Orazio.
Sul balcone non mancava mai la ciotolina piena d'acqua ed un
pugnetto di briccioline per offrire al passeggero volante
l'opportunit° di recuperare energie.
La scelta del nostro balcone, non credo fosse casuale. La nostra
casa, la più alta del paese, terminava con una soffitta affiancata
da un ampio terrazzo, tanto da essere scelta come base militare,
dove per molti mesi i militari avevano impiantato una stazione
di controllo.
55
Eravamo negli anni della seconda guerra mondiale. Difficile
pensare che il nostro piccione non ne fosse al corrente.
Non ci spegavamo, infatti, come un piccione potesse conoscere
così bene il percorso da compiere. Chi spediva I messaggi? Chi
avrebbe dovuto riceverli?
Le domande che ci rivolgevamo erano sempre tante, e la
curiosità cresceva ogni giorno di più. Cresceva tanto da
diventare il nostro argomento fisso a cena.
II desiderio di sapere era motto forte. Ci chiedevamo tutti cosa
poteva esserci scritto in quel rotolino di carta legato alla
zampina con un filo di seta!
Una curiosità destinata a non essere soddisfatta. II nostro
agente segreto doveva aver superato un severa selezione,
sentenziava il nonno sollevando un sopracciglio per dare
importanza al suo pensiero.
Sembrava, infatti, che in quella testolina fosse racchiuso un
cervello da stratega.
Nessuno sarebbe mai riuscito ad afferrarlo. Credo che avesse
scelto di fermarsi sul nostro balcone non solo per il riferimento
militare, ma soprattutto perche aveva capito che da noi non
aveva nulla da temere; sembrava che avesse imparato anche la
nostralingua. Quella presunta fiducia nei nostri confronti non
poteva essere tradita!
A volte, osservandolo attraverso i vetri, dietro ad una tenda a
trama larga, senza essere visti, ci scambiavamo le ipotesi più
strane sul contenuto del messaggio.
Ma tutti ormai eravamo rassegnati ad ignorarlo. II divieto di
indagare oltre arrivava dalla mamma che ci spiegava con
convinzione ed autorevolezza che non dovevamo più farci
domande, che non erano fatti nostri, che non si poteva tradire la
fiducia del colombo e che interrompere lo scambio di quei
messaggi avrebbe rappresentato una grave responsabilità. E
una sera aggiunse: Se si trattasse di un messaggio di pace? No,
no, l'argomento è chiuso, il messaggio deve rimanere dov'e!
56
L'ultimo passaggio di Orazio avvenne a guerra finita. Per
qualche giorno non si fece vedere. Ma, proprio quando
pensavamo di non rivederlo più, raggiunse il nostro balcone
come sempre.
Non proprio come sempre, ci accorgemmo subito che qualcosa
non andava; sembrava confuso. Era ferito! Sanguinava da
un'ala. Dopo aver tentato ripetutamente di poggiarsi sul bordo
della ciotolina, stramazzò a terra con le zampine verso l'alto.
Muti, avevamo tutti un nodo in gola. Chi lo aveva ferito?
Perche? Restammo immobili mentre la nonna gli si avvicinava
lentamente. Dopo averlo sollevato delicatamente, lo tenne per
un po' fra le mani mentre la testolina del colombo ciondolava
inerme.
Poi, accarezzandolo piano, sentenziò che la povera bestiola
aveva compiuto uno sforzo enorme pur di arrivare fino al
nostro balcone; forse desiderava lasciare a noi il suo ultimo
messaggio.
Con estrema delicatezza la nonna sfilò il rotolino dalla
zampina. Lo srotolò in un silenzio incredibile.
Poi, sollevando lo sguardo ci osservò senza dire una parola.
Tutti a guardare quel foglietto di carta; provò a leggerlo, ma il
messaggio era in codice; incomprensibile per noi tutti!
Ci guardammo per un attimo, cercando di darci una risposta.
Una risposta che non venne.
La sera, a cena, eravamo tutti un po' tristi e delusi pensando
alla traduzione impossibile di quell'ultimo messaggio; ci
convincemmo che anche tutti gli altri dovevano essere in
codice. Certamente lo erano tutti quelli che Orazio aveva
portato faticosamente a destinazione.
Sistemammo il nostro piccolo grande amico in una scatola di
cartone e lo consegnammo alla terra che ricopriva le radici di
un carrubbo. Grazie Orazio.

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Antonia Rizzi
Una bella storia di solidarietà e gratitudine dopo l’8 settembre
1943.
Sono nata nel giugno del 1943 e quindi non ho ricordi
personali del periodo della guerra.
Ma sono testimone di una bella storia di solidarietà e
gratitudine.
Dopo l’8 settembre 1943, quindi a pochi mesi dalla mia
nascita, nella casa dei miei nonni, che comprendeva anche
l’abitazione della mia famiglia, furono accolti, rifocillati e
nascosti fino a che - le cose non si calmarono- due ufficiali
italiani.
Utilizzarono i vestiti di mio padre e furono ospitati con la
cordialità e la generosità che il periodo poteva permettere.
Con uno dei due, medico pugliese, i rapporti si interruppero
velocemente, con l’altro, avvocato siciliano, il legame è stato
coltivato nel tempo: c’è stato scambio di saluti, auguri, notizie
e da parte dell’avvocato l’invio di regali (banane, carrettino
siciliano, marsala, frutti di pasta di mandorle).
Negli anni ottanta io vado in Sicilia come turista, e mio padre
mi fa promettere accoratamente che avrei contattato l’avvocato.
Io ero, per la verità, scettica, anzi ero sicura che non ci sarebbe
stato alcun incontro.
Ma avevo promesso e, un po’ malvolentieri, ho telefonato.
Ma le parole di quella telefonata le ho impresse nella memoria,
perché ero pronta ad una risposta vaga e nebulosa.
Pronto, sono....., la figlia di......
Riposta quasi urlata: la bambina.
Ci siamo visti, ho passato una mezza giornata con l’avvocato
ormai avanti negli anni e quasi cieco per un glaucoma, e la
tenerissima moglie.
Ho mangiato la brioche col gelato, la granita di arance e fatto il
giro dei suoi amici.

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Il farmacista, il barista e tutti quelli che lo salutavano
incontrandolo furono costretti a parlare con la bambina, perché
a tutti aveva raccontato la sua storia.
Mi sono sentita accolta, coccolata, festeggiata, ma non avevo
alcun merito; il merito era della solidarietà dei miei familiari e
della gratitudine dell’avvocato.
Comunque è stata un’esperienza emozionante.

Cristina Trifiletti
Mi chiedono con quali ricordi del periodo bellico, posso
contribuire ad arricchire la conoscenza di quella terribile
stagione.
E subito ritorna l'angoscia provocata dal rombo degli aerei
americani, nel cielo di Sant'Agata di Puglia.
Oramai eravamo esperti, e sapevamo che erano diretti a
Foggia.
In quel periodo, noi ragazzi, fummo inviati in quel paese, ospiti
di zia Ermelinda, sorella di nostra madre, mentre i nostri
genitori e la zia Aurelia, rimasero a Foggia.
Per cui, quando nel silenzio del paese si avvertiva il rumore
cupo e ininterrotto di quegli aerei, si sapeva che avrebbero
arrecato altri lutti e altre distruzioni.
Da Sant'Agata si vedeva anche l'intensa luce del razzi che
illuminavano Foggia per meglio distruggerla.
Nostro padre, Ernesto, che alla fine rimase solo a Foggia,
dormiva alla masseria Castiglione, sul tratturo omonimo, ospite
di un suo vecchio fattore.
E di giorno, col calesse, veniva in città per verificare se i ladri
avessero approfittato delle circostanze a loro favorevoli per
completare l'opera.
Pertanto non evitò un solo bombardamento e l'unica volta che
decise di rimanere a casa per la notte, la sua decisione venne
premiata da quello notturno, che si rivelò il piu feroce.

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Nei suoi andirivieni riuscì a sventare un furto in corso presso la
gioielleria Ritucci, di fronte all'ex Credito Italiano, e,
chiamando tempestivamente i Vigili del Fuoco, per evitare che
un’incendio nel palazzo Sipari, seguito ad un bombardamento,
si comunicasse al nostro.
In effetti papà non amava intrattenere noi ragazzi, sulle brutture
a cui, necessariamente, aveva assistito.

Lucia Rosaria Trifiletti


Ricordo n.1
Nel 1943 ero una ragazza di 14 anni e ricordo benissimo
quel terribile periodo a Foggia.
Sotto il palazzo in via Le Maestre n.100, dove abitavo con la
mia famiglia (Mario Trifiletti e Carmela Palladino i miei
genitori e i miei fratelli Maria Teresa, Giorgio, Guido e
Annarita di poco più di un anno), c'erano delle grotte che
furono dichiarate agibili come ricovero in caso di
bombardamenti.
Quando suonava l'allarme di avviso dell'imminente arrivo
degli aerei alleati correvamo tutti a ripararci. In una di
queste occasioni notai che un soldato tedesco dalla chioma
bionda correva e si riparava nel rifugio del palazzo accanto.
La discesa delle numerose scale diventava caotica perché
tutti avevano paura e si verificavano a volte delle cadute di
persone anziane e in quelle occasione qualcuno cercava di
liberare il passaggio tirando per i piedi i malcapitati.
Arrivarono così le bombe ed una colpì proprio il palazzo
accanto per cui a noi sembrò che cadesse la nostra casa,
tutti pregavano recitando ad alta voce specialmente l'Ave
Maria.
Dopo momenti di terrore arrivò il suono della sirena che
avvertiva della fine del bombardamento, lentamente e con
grande paura noi tutti risalimmo le famose scale, questa
volta lentamente.
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Una volta usciti fuori ci accorgemmo che il palazzo
adiacente il nostro era stato colpito in pieno.
Tutti ci guardavamo intorno spaventati e desolati
quando, ad un certo punto, una persona tirò fuori dalle
macerie, prendendola dai capelli la testa del soldato
tedesco dai capelli biondi, mentre in un angolo del pavimento
di una stanza di ciò che restava del palazzo c'era il famoso
pianoforte della famiglia Cirulli, che qualche volta avevo
strimpellato con la mia amica Lina.

Ricordo n.2
In un'altra occasione ricordo che il suono dell'allarme arrivò
quando la fedele governante di casa, Ripalta, stava versando i
maccheroni pronti nello scolapasta; Ripalta aveva il terrore
dei bombardamenti per cui lasciò all'istante la cucina per
rifugiarsi nei ricoveri sotto il palazzo. Io trovavo pronta
vicino alla porta di ingresso la mia sorellina Annarita che
stringendo la sua bambola più cara aspettava che io la
prendessi in braccio per scappare.
Una volta terminati i bombardamenti come al solito
rientrammo in casa ancora impauriti.
Ripalta andò subito vicino al lavandino della cucina per
terminare la preparazione del pranzo, subito però si
accorse che erano caduti dei,calcinacci dal soffitto che
avevano "condito" la pasta.
Ricordo che mio padre la rimproverò aspramente perché
non era stata attenta, Ripalta con il suo tono pratico
abituale rispose a mio padre di non preoccuparsi perché
avrebbe lavato la pasta sotto l'acqua corrente.
Così potemmo sederci a tavola e pranzare.

Ricordo n.3
Quando diventò troppo pericoloso restare a Foggia, mio
padre decise di portare a Cerignola tutta la famiglia, a casa
61
dei nonni materni; li in paese la situazione era più
tranquilla.
Il viaggio era particolarmente difficile mancando un
servizio pubblico regolare di cui usufruire.
Si presentarono varie occasioni: mia madre affidò, con
grandissima preoccupazione e sensi di colpa, mia sorella
Maria Teresa che allora aveva 17 anni e la piccola
Annarita ad un soldato tedesco con il sidecar, con loro
viaggiava in una borsa di tela la preziosa gallina viva che
assicurava l'uovo fresco per la bambina.
Mio padre e mio fratello Giorgio si avviarono con le
biciclette, mentre io, mia madre, Guido e Ripalta
trovammo fortunosamente posto su un camion che andava
verso Bari.
Arrivati a Cerignola trovammo con grande sollievo Maria
Teresa, la piccola e la gallina viva e vegeta.
Mia sorella Maria Teresa ci raccontò che il soldato
tedesco durante il viaggio, mostrando grande sensibilità,
si era privato della sua sciarpa per coprire meglio
Annarita piccola in modo da proteggerla dal vento.
Tutti noi figli fummo accolti dai nonni con grande affetto e
sistemati dai vari zii, mentre i miei genitori e Annarita
restarono a casa dei nonni.
In questo modo ci furono risparmiati i successivi
bombardamenti.

Antonia Torchella

Guerra ... Anfiteatri morenici


Potrebbe scalfirsi quel nucleo eburneo
nicchia glaciale in fondo al cuore dell’uomo?
Non sa più donare la sua linfa innovatrice
ormai lontano dalla compassione per l’altro
intensamente occupato nella costruzione
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di un personale seracco.
L’umanità, l’ansiosa ricerca, l’interrotto viaggio.
Le passioni? In quale milieu? Il cuore dell’uomo?
O solo pietrisco come negli anfiteatri morenici?
Dio negli occhi dei Popoli straziati
nella disperazione di chi non bacerà la sua terra.
Come rinverdire i deserti interiori ?
Dov’è la madre che con l’abbraccio accoglie?
Le lacrime di chi è stato spogliato della propria umanità
laveranno le brutture di chi ha svenduto anche l’ anima
passo dopo passo l’umile voce si farà sovrumana
scioglierà il miserabile egoismo in un infinito cielo aperto.

La vita di un sedicenne per placare la follia sanguinaria dei


Tedeschi in ritirata.
Candela, 26 settembre 1943.

Freddo, bestiale e pur cosciente il bruto


la sinistra arma imbracciò di nuovo,
sei colpi fé partire il miserabile,
la raffica sicura per colpirti.
In me la sento ancor per te fatale!
Vid’io te, figlio, vacillar smarrito
serrarti al cor le mani con gli occhi al cielo
e barcollando incespicar sui sassi
e poi di schianto al suol precipitare.

Sono le parole di un padre, il dott. Luigi Miccoli che piange il


figlio giovinetto assassinato per mano della feroce follia dei
Tedeschi in ritirata.
Candela, una cittadina dei Monti Dauni, un luogo come tanti
altri lontani dai fragori assordanti della guerra.
Su queste colline avevano trovato rifugio cittadini foggiani
dopo il bombardamento della città, qui tutti credevano di essere
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al sicuro dai selvaggi combattimenti e dalla brutalità dei nostri
nemici.
Qualcuno, ancora oggi, racconta che i bimbi giocavano nelle
piazzette anche se lo sguardo delle mamme e di tutte le donne
del paese restava vigile.
La mattina del 26 settembre reparti della prima divisione di
paracadutisti tedeschi erano giunti a Candela sulla via della
ritirata. Il momento divenne importante, tristemente
importante: la popolazione fu spaventata e minacciata; la
piazza divenne deserta, la gente preoccupata scompariva al
rumore dei passi ferrati dei soldati tedeschi: un’eco sinistra
nell’aria piena di sole.
I tedeschi da qualche ora erano diventati padroni della cittadina
e della vita di ognuno; avevano occupato case e rastrellato ogni
bene.
Per dare una larvata sembianza di legalità al saccheggio e alle
ruberie fecero credere di mettersi a difesa della collina di San
Rocco in attesa di un presunto attacco delle forze alleate in
avanzata.
La casa del dott. Miccoli, situata sotto la collina e all’ingresso
del paese, era sembrata loro adatta ad ospitarli e quindi vi
avevano installato la sede del Comando. Ai proprietari, il
dottor Miccoli e la sua famiglia non era stato consentito il
benché minimo cenno di rifiuto.
Un sottotenente di nome Vinser, dagli occhi chiari e duri,
aveva ordinato di sgomberare la casa entro cinque minuti
altrimenti - Kaput –
La famiglia con tanti bimbi fu atterrita; iniziò il triste e
precipitoso esodo trovando riparo nella casa dei nonni.
Mentre si cercava di rimediare alla meglio quell’improvviso e
doloroso disagio, la mamma si rese conto di non aver preso la
farina lattea e il biberon per la sua bimba di soli otto mesi.
Padre e madre decisero di tornare a casa sicuri che avrebbero
trovato un minimo di umanità, Sabino, il loro figlio
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primogenito li accompagnò, temendo il pericolo e voleva
difendere i suoi genitori.
Arrivarono affannati non per la strada fatta ma, per il timore di
quello che sarebbe potuto essere.
La casa sembrava deserta, le frondose querce nascondevano
ogni sinistra figura.
Sabino al di là del muretto che circondava la villa, insisté nel
chiamare.
Ed ecco aprirsi una finestra, ove si intravide il volto duro del
sottotenente Vinser.
Per pietà grida Sabino lasciateci prendere il latte per la mia
sorellina… Senza una parola, senza un perché, il tedesco
imbraccia un fucile mitragliatore e lo punta contro i due,
facendo partire il colpo.
Terrorizzato il ragazzo alza le braccia, cerca di fare scudo alla
mamma e grida: non sparate, per l’amore di Dio, non sparate!
Ce ne andiamo subito…
Il volto del barbaro si fa più arcigno, incattivito per aver
mancato il colpo.
Punta di nuovo l’arma e,con spietata freddezza, dalla distanza
di sei metri lascia partire una raffica che colpisce al petto il
fanciullo indifeso.
Sabino si abbatte di schianto; i genitori esterrefatti gridano
Perché, perché ?
Il corpo dell’adolescente colpito in pieno viene trasporto con
immenso dolore nella casa dei nonni.
Un soldato tedesco a quel punto presta il suo aiuto, sembra un
gesto di umanità, ma quando i genitori ricomporranno le
giovani e generose spoglie di Sabino, si accorgeranno che
durante il trasporto, il tedesco ha sottratto l’orologio dal polso
del ragazzo.
Nella notte, dalla casa dove i tedeschi bivaccano, si levavano
canti e risa, quasi a festeggiare l’atroce delitto.

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Nel paese regna il silenzio. La commozione ha colpito tutti e
una domanda strazia il cuore e la mente.
Era solo un ragazzo, quale pericolo poteva rappresentare per
soldati crudeli e sanguinari, armati fino ai denti?
Sabino era a casa dei nonni con tutta la famiglia: i genitori, i
fratelli, le sorelle, i nonni e qualche cittadino coraggioso che
voleva abbracciare il ragazzo ed essere vicino ai suoi cari.
Nonno Vincenzo, l’aveva visto passare un istante prima
esuberante, pieno di vitalità lo aveva salutato sorridendo.
Ora lo vede sanguinante, privo di vita; le lacrime straziano i
suoi tardi, deboli anni e non riesce a contenere l’immenso
vuoto che lascia a lui, a tutti.
Rivede il suo sorriso franco e buono in cui era tutta la sua
anima di adolescente di fronte a quei bruti, ai quali si era
rivolto fiducioso per chiedere un piccolo gesto di umanità per
la sorellina di pochi mesi.
Sul luogo del feroce delitto è stata innalzata un’ara, perché
Sabino Miccoli possa essere esempio di virtù civili e il suo
ricordo resti vivo nel cuore dei cittadini e nella storia di
Candela.
Ringrazio Ettore Favatà, Presidente della sezione di Candela
dell’Associazione Combattenti e Reduci.

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Indice

Presentazioni..........................................................................p.3

Racconti e ricordi tramandati e diretti..................................p.11

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Si ringrazia Erminia Roberto, all’epoca del convegno Vice-
Sindaco e Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Foggia,
per aver messo a disposizione la sala convegni del Centro
Polivalente per Anziani N. Palmisano e i soci Giuliana
Macchia, Francesca Obbedio e Stefano de Vito del Gruppo
Giovani dell’Associazione Amici del Museo Civico di Foggia
per la collaborazione tecnica, in particolare la socia Giuliana
Macchia anche per il servizio fotografico e la consulenza
editoriale.

Editore Associazione culturale Mitico Channel


miticochannel@gmail.com
per conto dell’Associazione Amici del Museo Civico di Foggia
tutti i diritti riservati

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