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Società, Potere e Libertà

ISBN 978-88-548-9099-2
DOI 10.4399/97888548909925
pp. 63-99 (marzo 2016)


  

Forme di giustizia e dissenso religioso


in Calabria e in Sicilia nel XVI secolo






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Lo Stretto di Messina, nel corso dei secoli, ha unito e diviso le due
coste che vi si affacciano fungendo, talvolta, da muro invalicabile, da
confine netto e tangibile tra due mondi, due culture, due autorità poli-
tiche differenti, altre volte si è presentato come una superficie piatta e
facilmente percorribile tra due catene montuose appenniniche che si
fronteggiano e si scrutano da tempo immemore: i monti Peloritani a
ovest, dietro il porto di Messina, e l’Aspromonte a est, alle spalle della
costa calabrese.
Nel caso della storia religiosa di Calabria e Sicilia nel XVI secolo,
che è oggetto di questo contributo, questa lingua di mare si presenta, a
ben vedere, con entrambe le vesti di muro divisore e di luogo
d’incontro e di scambio. Se dal 1442, con la conquista di Napoli da
parte di Alfonso V d’Aragona, entrambe le sponde dello Stretto erano
saldamente in mano alla Corona d’Aragona prima e a quella di Spagna
poi,1 la destinazione amministrativa delle due aree fu ben diversa e
condizionò, sotto certi aspetti, gli sviluppi storici successivi. Al Regno
di Sicilia e al Regno di Napoli vennero assegnati due differenti gover-
natori, due viceré, ma soprattutto, per quel che attiene alle problemati-
che di natura religiosa, le due aree ebbero due modelli inquisitoriali

1
Com’è noto, l’unione personale delle corone di Castiglia e Aragona nelle figure dei con-
sorti Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona si tramutò in unione politica quando, alla
morte di quest’ultimo nel 1516, il nipote di costoro, Carlo d’Asburgo, ereditò entrambi i pos-
sedimenti divenendo Re di Spagna con il nome di Carlo I.

63
64 Vincenzo Tedesco

ben distinti: in Sicilia venne applicata l’Inquisizione spagnola, in Ca-


labria, di fatto, quella romana. Ogni considerazione di tipo storico-
religioso sul rapporto tra queste due aree in età moderna deve necessa-
riamente prendere le mosse da questa differenza, che non è di poco
conto.
La creazione di un organismo deputato alla lotta alle eresie è ricon-
ducibile agli anni ’30 del XIII secolo, in un contesto di diffusione di
numerose idee in contrapposizione più o meno netta con l’ortodossia
cattolica romana.2 La risposta delle autorità civili ed ecclesiastiche
non tardò troppo a verificarsi: Federico II di Svevia aveva profuso un
grande impegno nella lotta alle eresie, stabilendo che chiunque fosse
stato giudicato come eretico da un vescovo avrebbe dovuto «essere ar-
restato dalle autorità secolari e immediatamente condannato al rogo,
mentre i suoi beni sarebbero stati confiscati»;3 in questo modo il so-
vrano immetteva per la prima volta nella legislazione civile prospetti-
ve proprie del diritto canonico, ma il passo decisivo verso la creazione
di un modello inquisitoriale unico, regolato dalla più alta autorità spi-
rituale della cristianità cattolica, si deve all’iniziativa del pontefice
Gregorio IX che, nel 1231, promulgò una costituzione alla quale si af-
fiancò subito dopo uno statuto antiereticale firmato dal “senatore”
Annibaldo, capo del Comune di Roma. Entrambi i provvedimenti, nel
loro insieme, sono noti come Statuti della Santa Sede: nasceva così
l’Inquisizione pontificia, affidata, nella prassi, ai neonati ordini men-
dicanti che, percorrendo l’Europa in lungo e in largo, univano il com-
pito di predicare l’ortodossia cattolica alla ricerca sistematica degli
eretici.4
Nel corso dei secoli successivi il sistema inquisitorio venne perfe-
zionandosi, sia grazie all’intervento continuo dei pontefici che si ado-
perarono per delimitare sempre più nettamente le competenze dei tri-
2
Per una disamina delle eresie bassomedievali si veda, a titolo esemplificativo, G. G.
MERLO, Eretici ed eresie medievali, Il Mulino, Bologna 2011. Sugli avvii dell’Inquisizione
cfr. A. DEL COL, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori, Milano 2006 pp.
79 sgg.
3
F. CARDINI, M. MONTESANO, La lunga storia dell’Inquisizione. Luci e ombre della “leg-
genda nera”, Città Nuova, Roma 2005, p. 34.
4
Ibidem, pp. 34-36. Il negotium fidei era inizialmente riservato ai soli domenicani con la
bolla Ille humani generis (1232), ai quali in seguito venne affiancato l’ordine francescano. La
preferenza degli ordini mendicanti piuttosto che i vescovi e il clero secolare per lo svolgimen-
to diretto dell’inquisizione si spiega con la necessità di evitare casi di corruzione o di vendetta
derivati dall’affidamento di un compito così delicato a individui in rapporto molto stretto con
i fedeli delle proprie diocesi.
Forme di giustizia e dissenso religioso 65

bunali inquisitoriali e per regolare il loro funzionamento, sia per opera


degli stessi inquisitori che, dopo anni di esperienza, iniziarono a redi-
gere dei veri e propri manuali procedurali;5 in questo modo, le proce-
dure inquisitoriali assursero gradualmente a modello per la maggior
parte dei processi criminali.6
Con l’avvento dell’età moderna e la diffusione della Riforma prote-
stante si rese necessario un sostanziale ripensamento dell’intera strut-
tura inquisitoriale per adeguarla a un contesto radicalmente nuovo;
stava infatti gradualmente prendendo corpo uno scisma nella cristiani-
tà occidentale e le nuove idee protestanti stavano iniziando a diffon-
dersi ovunque, anche in Italia, luogo che, per la presenza dello Stato
della Chiesa, il pontefice sentiva di dover preservare nel cattolicesimo
dall’avanzare della «peste ereticale» luterana.7
Al moltiplicarsi dei segnali di diffusione delle idee riformate, il
pontefice Paolo III rispose con fermezza e, il 21 luglio 1542, emanò la
bolla Licet ab initio¸ con la quale venne creata la Sacra Congregazio-
ne della Romana e Universale Inquisizione: nasceva così la moderna
Inquisizione romana. Il documento, nato come provvedimento
d’urgenza e resosi necessario per il ritardo della convocazione del
Concilio a causa della guerra in corso tra l’imperatore Carlo V e il re
di Francia Francesco I, configura in realtà un organismo che avrebbe
avuto un ruolo preponderante nella lotta all’eresia nei secoli successi-

5
Tra i manuali di procedura inquisitoriale più celebri basti qui ricordare la Practica inqui-
sitionis hereticae pravitatis di Bernard Gui, scritta agli inizi del XIV secolo, e il Directorium
inquisitorum (1376 ca.) di Nicola Eymerich. Su entrambi cfr. ibidem, pp. 47-57.
6
Nella creazione di nuovi lineamenti di diritto, resa necessaria dalla lotta alle eresie, gli
“addetti ai lavori” ripresero, come di consueto, concetti giuridici propri delle epoche prece-
denti e, in particolare, si rifecero al diritto romano. Il segno forse più interessante di ripresa e
di adattamento del diritto romano al nuovo contesto è l’accostamento della pena riservata agli
eretici che non avessero abiurato (i “rei impenitenti”) e ai relapsi (ossia coloro che avessero
ritrattato una confessione o che, in generale, fossero ricaduti nell’eresia dopo il pentimento)
con il crimine di lesa maestà sancito dalla Lex Iulia de maiestate emanata nell’8 d.C. per vole-
re di Augusto. Cfr. Ibidem.
7
È quanto si legge in un breve di papa Paolo III Farnese diretto all’inquisitore di Ferrara
nel 1536, inviato in seguito a un avvenimento che aveva fatto scalpore: qualche mese prima,
durante le celebrazioni del venerdì santo, un tale «Gianetto cantore francese» non solo si era
rifiutato di adorare la croce, ma aveva intrapreso una discussione sulla fede in Cristo che ave-
va causato l’intervento del duca di Ferrara Ercole II e dell’inquisitore locale. Lo stupore era
grande perché, prima di allora, la Penisola era rimasta “incontaminata” e il fatto che Gianetto
appartenesse addirittura alla corte della duchessa di Ferrara Renata di Francia aveva portato su
quest’ultima l’occhio preoccupato e vigile delle autorità cattoliche. Su questo caso si veda A.
PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2012,
pp. 35-36.
66 Vincenzo Tedesco

vi.8 I compiti della Congregazione furono ampliati nel corso degli anni
e a essa, nel 1571, venne affiancata la Congregazione dell’Indice dei
Libri Proibiti, deputata al controllo e alla censura della stampa.9
L’Inquisizione romana, anche se fu il punto di riferimento per i si-
stemi di lotta all’eresia nell’Europa cattolica, non riuscì a operare di-
rettamente ovunque a causa del timore dei singoli stati di ingerenza
eccessiva della Santa Sede nei propri affari interni. Un caso emblema-
tico e per certi aspetti ambiguo è rappresentato dal Meridione
d’Italia.10 In Calabria, così come nelle altre parti del Regno di Napoli,
non venne mai impiantata l’Inquisizione spagnola per via della riotto-
sità degli abitanti, che fece naufragare i tentativi prima di Carlo V e
poi di Filippo II di importare il modello spagnolo nella grande città
partenopea e nel territorio da essa controllato. D’altro canto, le autori-
tà spagnole si opposero alla creazione di un tribunale del Sant’Uffizio,
per cui il sistema che si venne a concretizzare si trovò a essere incen-
trato sul ruolo preponderante dei vescovi delle singole diocesi, che
esprimevano da una lato un legame con le autorità e le famiglie locali,
dall’altro quello con la Chiesa di Roma dalla quale dipendevano. Co-
me osserva Adriano Prosperi:

anche se ci furono ancora tentativi di introdurre l’Inquisizione “al modo di


Spagna”, di fatto rimase in vigore un sistema complicato, in cui i vescovi

8
Ibidem, p. 38: «Una congregazione formata da sei cardinali riceveva dal papa il potere
pieno e senza limiti per affrontare la questione: nessun privilegio e nessun titolo ecclesiastico
dovevano più proteggere gli imputati. I cardinali dovevano poter svolgere la loro azione va-
lendosi di ogni mezzo, dal “braccio secolare” al supporto di inquisitori locali di loro nomina;
ai cardinali della congregazione – e soltanto ad essi – era riservato il diritto di assolvere e ri-
conciliare con la chiesa quegli eretici che, pentiti, volessero tornare al lume della verità».
9
Sull’ampliamento delle prerogative dell’Inquisizione e sull’attuazione delle stesse dopo
il 1542 si veda M. FIRPO, La presa di potere dell’Inquisizione romana (1550-1553), Laterza,
Roma-Bari 2014; Sull’Inquisizione in Italia A. DEL COL, L’Inquisizione in Italia, cit. e C. F.
BLACK, Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura, Carocci, Roma 2013 (ti-
tolo originale: The Italian Inquisition, Yale University Press, New Haven-London 2009).
10
Sull’Inquisizione nel Regno di Napoli è ancora utile la lettura di un importante saggio
di Luigi Amabile scritto più di un secolo fa [L. AMABILE, Il Santo Officio della Inquisizione in
Napoli, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1987 (I ed. Città di Castello 1892)]; per una disa-
mina delle conoscenze più recenti si vedano P. SCARAMELLA, Inquisizione, eresia e poteri
feudali nel Viceregno napoletano alla metà del Cinquecento, in M. SANGALLI, (a cura di), Per
il Cinquecento religioso italiano. Clero, cultura e società, 2 voll., Edizioni dell’Ateneo, Roma
2003, vol. II, pp. 513-521; C. F. BLACK, Storia dell’Inquisizione in Italia, cit., pp. 84-89 (edi-
zine originale pp. 41-45) e G. FONSECA, Napoli in Dizionario Storico dell’Inquisizione. Diret-
to da Adriano Prosperi, con la collaborazione di Vincenzo Lavenia e John Tedeschi, Edizioni
della Normale, Pisa 2010 (d’ora innanzi DSI), vol. II, pp. 1097-1099.
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agivano in materie inquisitoriali sotto il controllo e la direzione della congre-


gazione romana del Sant’Uffizio e con l’aiuto degli inquisitori nominati da
Roma. Il risultato fu che la lotta contro l’eresia non fu condotta
dall’Inquisizione spagnola ma dalle autorità ecclesiastiche ordinarie […] la
repressione dell’eresia fu affidata ai tribunali dei vescovi, stimolati e assistiti
dai poteri politici locali.11

La bolla Licet ab initio disponeva che la nuova Congregazione


avrebbe dovuto agire in tutti i paesi cattolici a esclusione della Spagna
giacché, all’epoca della sua emanazione, quest’ultima disponeva già
da tempo di un tribunale dell’Inquisizione a sé stante, dotato di una
larghissima autonomia nei confronti del papato romano. Nella peniso-
la iberica, infatti, l’istituzione di un apparato repressivo centralizzato
ed efficiente era stato il frutto della rottura della secolare convivenza
tra cristiani, ebrei e musulmani avvenuta nel corso del XV secolo a
causa di numerosi fattori: da un lato le apprensioni per l’avanzata tur-
ca nei Balcani, che aveva riacceso il timore nei confronti della religio-
ne islamica, aveva animato le ultime fasi della Reconquista e incrinato
i rapporti con la popolazione musulmana; dall’altro anche gli ebrei
che, cacciati dalla Francia e dall’Inghilterra, avevano trovato rifugio
nella penisola iberica nel corso dei secoli, erano diventati oggetto di
discriminazione. Nella nuova congiuntura storica, molti musulmani ed
ebrei decidevano di convertirsi al cattolicesimo: erano i conversos che,
nonostante l’adesione alla religione dominante, venivano guardati con
disprezzo e apostrofati come cristianos nuevos da coloro che vantava-
no la propria fede da generazioni (definendo se stessi, di contro, cri-
stianos viejos) e che temevano il dilagare del fenomeno di conversioni
solo formali e non veritiere.12 La conversione al cattolicesimo aveva,
in questo senso, un esito duplice: se da un lato il convertito, entrando a
far parte dell’Ecclesia Christi, poteva sperare in una modifica del pro-
prio status sociale e nella fine della discriminazione religiosa,
dall’altro questi entrava a pieno titolo nella giurisdizione inquisitoria-
le, deputata a verificare la rettitudine dei fedeli e abilitata a processare
e a infliggere pene in caso di comprovata eresia degli imputati. Si
giunse così al 1478, quando papa Sisto IV autorizzò i Re Cattolici di
Castiglia e Aragona a scegliere degli esperti in teologia e diritto per
verificare la fede dei conversos. Due anni dopo, nel 1480, nasceva il

11
A. PROSPERI, Tribunali della coscienza, cit., p. 74.
12
F. CARDINI, M. MONTESANO, La lunga storia dell’Inquisizione, cit., pp. 111-125.
68 Vincenzo Tedesco

tribunale spagnolo dell’Inquisizione, per il quale ai sovrani era con-


cesso di nominare i giudici.13
Il nuovo tribunale venne impiantato in Sicilia fin dal 1487, anche se
sarebbe stato reso operativo solo intorno all’anno 1500 e avrebbe ope-
rato fino al 1782 quando, sull’onda delle critiche mosse
dall’Illuminismo, sarebbe stato abolito dal Viceré Domenico Carac-
ciolo.14 Occorre qui fare una precisazione preliminare: l’Inquisizione
spagnola, in particolare nel caso siciliano, se per alcuni metodi si con-
figura come un ordinamento giuridico a sé stante15 e veniva recepita
dai contemporanei come ben diversa, per la sua maggiore rigidità, ri-
spetto a quella romana,16 non va considerata come assoluta, sciolta da
ogni legame con Roma: «l’analisi dei processi siciliani dimostra che
va sfatato il mito del tribunale inquisitoriale spagnolo come istituto
giuridico concorrente e antitetico al tribunale vescovile, del quale anzi
è supporto ed estensione».17 Del resto, poiché è normale che molti
concetti vengano ripresi dalla manualistica medievale, non ci si stupi-
sce troppo nel constatare la fama e l’influenza del Directorium inqui-

13
Ivi. Il compito di guidare il nuovo tribunale venne affidato al domenicano Tomás de
Torquemada, che venne nominato inquisitore generale nel 1483 e che portò avanti l’idea di
creare un’identità nazionale attraverso l’omogeneità religiosa; nel 1492, anno della presa di
Granada e della fine della Reconquista, gli ebrei vennero espulsi dalla Spagna e un decennio
dopo toccò ai mudéjares, i musulmani iberici, che scelsero in massa la conversione.
Sull’Inquisizione spagnola cfr. anche H. KAMEN, The Spanish Inquisition: A Historical Revi-
sion, Weidenfeld & Nicolson, London 1997 e C. F. BLACK, Storia dell’Inquisizione in Italia,
cit., pp. 39-41; edizione originale pp. 9-11.
14
Sull’Inquisizione spagnola in Sicilia, oltre a studi ormai classici come quelli di Henry
Charles Lea [di cui si veda L’Inquisizione spagnola nel Regno di Sicilia (a cura di Vittorio
Scuti Russi), Edizioni Scientifiche, Napoli 1995], Vito La Mantia (Origine e vicende
dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio, Palermo 1977), Carlo Alberto Garufi (Fatti e personaggi
dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio, Palermo 1978) ed E. William Monter (The Frontiers of
Heresy: The Spanish Inquisition from the Basque Lands to Sicily, Cambridge University
Press, Cambridge - New York 1990), si segnalano ora M. RIVERO RODRIGUEZ, Sicilia, in DSI
e M. S. MESSANA, Il Santo ufficio dell’Inquisizione. Sicilia 1500-1782, Istituto Poligrafico Eu-
ropeo, Palermo 2012. In Italia, la giurisdizione dell’Inquisizione spagnola venne estesa,
nell’anno fatale 1492, anche alla Sardegna (C. F. BLACK, Storia dell’Inquisizione in Italia, cit.,
pp. 93-99; edizione originale pp. 48-53).
15
Sembra piuttosto calzante, per descrivere le diverse formalizzazioni del sistema inquisi-
torio in Europa, l’utilizzo del concetto di “pluralità degli ordinamenti giuridici” ormai invalso
negli studi di diritto e proposto per la prima volta da Santi Romano in L’Ordinamento giuridi-
co. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Pisa 1918.
16
Cfr. A. PROSPERI, Tribunali della coscienza, cit., p. 70.
17
M. S. MESSANA, Il Santo ufficio dell’Inquisizione, cit., p. 24.
Forme di giustizia e dissenso religioso 69

sitorum del catalano Nicola Eymerich, non a caso rivisto e ampliato da


Francisco de la Peña nel 1578.18
Restano comunque da ricordare alcuni aspetti spettacolari che han-
no reso tristemente celebre l’Inquisizione spagnola anche in Sicilia, tra
cui spicca il modo con cui venivano pronunciate pubblicamente e so-
lennemente le sentenze degli inquisiti e rese esecutive le condanne: è
il famoso rito dell’Autodafé (letteralmente “atto di fede”),19 una gran-
diosa cerimonia pubblica di riconciliazione con Dio che la comunità
celebrava insieme ai condannati per reati religiosi.20
Non è possibile, perché trascenderebbe il compito di questo contri-
buto, analizzare gli atti degli Autodafé, che danno un’idea del variega-
to mondo delle eresie diffuse in Sicilia nella prima età moderna,21 ma
si cercherà di dare un’idea di come, nei fatti, la pluralità di ordinamen-
ti giuridici, per quanto riguarda il processo inquisitoriale, abbia potuto
sollevare interessanti questioni di competenza nella storia del processo
a un membro di una nobile famiglia feudale vissuto proprio nella città
di Messina, sul limes tra Inquisizione spagnola e Inquisizione romana:
Bartolomeo Spatafora.22
Proveniente da una nobile famiglia feudale siciliana, Bartolomeo
Spatafora nacque intorno al 1514 da Francesco Spatafora, barone di
Mazzarà, Venetico e San Martino, e Melchiorra Moncada. Essendo
secondogenito, dovette faticare per ritagliarsi un ruolo nella famiglia e
nella società, ma trovò l’appoggio materiale e spirituale degli zii pa-
18
Cfr. supra, n. 5.
19
Sugli Autodafé si vedano M. S. MESSANA, Il Santo ufficio dell’Inquisizione, cit. e, della
stessa autrice, la voce Autodafé in DSI. Alla spettacolarità dell’Autodafé pubblico si affianca
la possibilità, in casi di individui appartenenti a famiglie di un certo peso, di evitare la morti-
ficazione pubblica del reo celebrando degli Autodafé privati. M. S. MESSANA, Il Santo ufficio
dell’Inquisizione, cit., p. 60.
20
Ibidem, p. 58: «Nella Sicilia moderna, i banchetti offerti dall’Inquisizione in questa oc-
casione, la magnificenza della cerimonia, il concorso di tutta la cittadinanza chiamata a parte-
ciparvi come a un pellegrinaggio penitenziale è anche un formidabile strumento di potere in
mano agli inquisitori spagnoli».
21
Per questa analisi si rimanda a S. CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del
Cinquecento, Claudiana, Torino 1997, pp. 401-433 e passim.
22
Un importante lavoro sistematico su Bartolomeo Spatafora si deve a Salvatore Caponet-
to: Bartolomeo Spadafora e la riforma protestante in Sicilia nel secolo XVI, in «Rinascimen-
to», 7 (1956), pp. 219-341; il testo è stato in seguito inserito in S. CAPONETTO, Studi sulla Ri-
forma in Italia, Firenze 1987, pp. 15-139. L’autore ha affrontato il tema della Riforma in Sici-
lia e del caso Spatafora anche in ID., La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento,
Claudiana 1997. Sullo stesso caso e sulla storia della famiglia Spatafora si veda ora C. SALVO,
Dalla spada alla fede. Storia di una nobile famiglia feudale: gli Spatafora (secoli XIII-XVI),
Bonanno, Acireale-Roma 2009.
70 Vincenzo Tedesco

terni, Bartolomea e Giacomo (di quest’ultimo sposò la figlia primoge-


nita Violante nel 1541).23 Bartolomeo dovette dimostrarsi molto attivo
nella gestione degli affari di famiglia se, nel 1546, si recò a Ratisbona
per raggiungere Carlo V, che era impegnato nei colloqui tra cattolici e
protestanti, così da potergli sottoporre la controversia che verteva tra
la sua famiglia e le autorità civili del messinese per la concessione
dell’esercizio della giurisdizione civile sulla terra di Rometta, che era
collegato alla baronia di Venetico.24 Al rientro da questo viaggio sog-
giornò a Roma, dove fu ospite di Vittoria Colonna, marchesa di Pesca-
ra, che lo trattò «non da servitore […] ma da parente».25 La poetessa
romana era perfettamente inserita nel mondo intellettuale dell’epoca;
con lei si discuteva di questioni artistiche, religiose, letterarie e politi-
che26 per cui il contesto in cui visse in quel periodo Bartolomeo Spata-
fora rinvigorì l’interesse del nobile siciliano per la cultura classica,
che aveva già appreso fin da giovane, portandolo ad approfondire non
solo la conoscenza dei classici latini e greci, ma anche quella della
Bibbia.
Nell’anno successivo, il 1547, a Bartolomeo Spatafora cadde la
proverbiale tegola sulla testa: venne accusato di eresia dal tribunale
dell’Inquisizione in Sicilia, non si presentò al processo e fu condanna-
to in contumacia alla scomunica e alla confisca dei beni. Non è chiaro
se, al momento della notifica dell’accusa, era già rientrato o meno dal
soggiorno romano; esserne a conoscenza con certezza avrebbe consen-
tito un giudizio più preciso su questa prima fase delle disavventure del
nobile siciliano, poiché se fosse stato a Messina al momento
dell’accusa e fosse fuggito appena avutane la notizia, la contumacia
avrebbe avuto il senso di una ammissione di colpevolezza, altrimenti,
se avesse ricevuto la notizia dell’accusa di eresia mentre era ancora a

23
C. SALVO, Dalla spada alla fede, cit., pp. 152-153.
24
Ibidem, p. 154. Cfr. anche S. CAPONETTO, Studi sulla Riforma in Italia, cit., pp. 86 e
passim e ID., La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, cit., p, 408.
25
Così scriveva lo stesso Bartolomeo Spatafora al grande artista Michelangelo Buonarroti
nel 1560, quattordici anni dopo il suo soggiorno a casa di Vittoria Colonna. S. CAPONETTO,
Studi sulla Riforma in Italia, cit. p. 137.
26
Cfr. S. M. PAGANO, C. RANIERI, Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole,
Città del Vaticano, Archivio Vaticano, 1989. Su un caso di meditazione attraverso la contem-
plazione di immagini che unisce tre grandi figure dell’epoca alle quali si accenna, per svariate
ragioni, in questo contributo, ossia Vittoria Colonna, Bernardino Ochino e Michelangelo
Buonarroti, si veda A. PROSPERI, Tra mistici e pittori: Vittoria Colonna, in ID., Eresie e devo-
zioni. La religione italiana in età moderna, Vol. I. Eresie, Edizioni Storia e Letteratura, Roma
2010, pp. 175-189 (in part. pp. 186-189).
Forme di giustizia e dissenso religioso 71

Roma, la mancata presenza al processo avrebbe avuto un valore diffe-


rente.27
La questione su dove fosse Bartolomeo al momento dell’accusa as-
sume un valore ancora più significativo se si considerano gli sviluppi
successivi: alla fine dello stesso anno si mosse in sua difesa una sua
importante conoscenza romana: il cardinale Reginald Pole, che agì
tempestivamente.28 Alla fine del 1548 lo stesso pontefice Paolo III in-
tervenne avocando a sé la causa e creando una commissione apposita
composta dai cardinali Sfondrato, Cervini e dallo stesso Pole; «Barto-
lomeo ottenne, così, un breve assolutorio che, comunque, grazie ai po-
teri che spettavano al viceré in virtù dell’Apostolica Legazia non ven-
ne reso esecutivo in Sicilia dove il processo si concluse con la richie-
sta di bruciarlo in effigie».29
Questa delicatissima circostanza induce a riflettere sul contesto giu-
ridico del XVI secolo e apre importanti questioni di competenza e di
applicazione delle sentenze. Un suddito dell’imperatore Carlo V, nato
e residente in Sicilia nell’area che ricadeva sotto la giurisdizione
dell’Inquisizione spagnola, viene condannato dalla stessa alla scomu-
nica e al sequestro di tutti i beni, ma un’autorità più alta (dal punto di
vista delle questioni attinenti alla fede) si interpone allestendo un nuo-
vo processo e assolvendo l’imputato; questa seconda sentenza rimane
valida in tutti i luoghi in cui vige il sistema inquisitorio romano, ma
non in Sicilia, dove l’assoluzione viene respinta e si tiene fede al pro-
cesso già celebrato in sede locale in virtù delle concessioni fatte dai
pontefici ai sovrani siciliani prima, a quelli spagnoli poi. Una stratifi-
cazione secolare di concessioni e distinzioni di competenze trova qui
un emblematico punto di sfogo. Se, in virtù dell’Apostolica Legazia
(risalente all’epoca normanna), la Sicilia vantava una notevole auto-
nomia dalla sede apostolica sia in questioni politiche che religiose e se
dalla fine del XV secolo nell’isola era stato introdotto un tribunale
dell’Inquisizione facente capo ai sovrani di Spagna, d’altro canto le
autorità religiose che giudicavano la rettitudine dei fedeli delle proprie
27
Sul punto si veda C. SALVO, Dalla spada alla fede, cit., pp. 157-158.
28
Bartolomeo aveva conosciuto uno dei personaggi chiave del moto riformatore in seno al
cattolicesimo durante il suo soggiorno romano. Glielo aveva presentato il siciliano Giovanni
Antonio Buglio, barone del Burgio, come ricorderà nel 1567 un’altra personalità chiave del
periodo: Pietro Carnesecchi (cfr. ibidem, pp. 156-157; su Carnesecchi si veda A. ROTONDÒ,
CARNESECCHI, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani (d’ora in avanti DBI), vol. 20,
1977).
29
C. SALVO, Dalla spada alla fede, cit., pp. 158-159.
72 Vincenzo Tedesco

diocesi riconoscevano, in materia, la superiorità indiscussa del ponte-


fice romano. Si potrebbe, infine, osservare come le concessioni fatte
dai pontefici ai poteri secolari durante il basso medioevo abbiano, in
questo caso, posto un limite alla loro stessa autorità, tanto da mettere
in dubbio la liceità del riesame del caso Spatafora e della sua assolu-
zione.
Gli eventi successivi sono ancora più interessanti: non potendo
rientrare in Sicilia, Bartolomeo si rivolse a Venezia. Con la Serenissi-
ma vi era un legame particolare, perché da tempo la sua famiglia rico-
priva dei ruoli di rilievo: lo zio (nonché suocero) era console generale
dei veneziani in Sicilia e nella città lagunare poté far valere, inoltre, il
diritto di nobiltà in quanto discendente di Francesco Spatafora.30 Da
Venezia, Bartolomeo Spatafora si adoperò per poter rientrare in Sici-
lia. Per superare l’ostilità del viceré don Giovanni de Vega si mobilitò
quasi sicuramente la zia paterna, Bartolomea, che indusse addirittura il
capo della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola, a scrivere una lette-
ra a Gerolamo Domenech, padre spirituale della famiglia Vega, per in-
formarsi e avere a cuore la causa del nipote; tuttavia, neanche questa
intercessione andò a buon fine, per cui Bartolomeo si risolse ad agire
per altre vie.
Sia la Repubblica di Venezia, sia lo stesso esule si adoperarono af-
finché il caso venisse sottoposto al giudizio dell’imperatore Carlo V,
sperando, se non nella grazia, almeno nella concessione di un salva-
condotto per rientrare in Sicilia a curare gli affari di famiglia. La si-
tuazione sembrò sbloccarsi inaspettatamente solo il 10 febbraio 1555
quando proprio l’intransigente viceré spagnolo in Sicilia, in rotta con
l’inquisitore siciliano, propose a Carlo V di far riesaminare il caso dal
Supremo Consiglio della Monarchia;31 infine, «il 13 maggio del ’55
l’imperatore dava ordine di richiamare in patria l’esule, di perdonarlo
e di togliergli la confisca dei beni».32
La situazione sembrava aver preso la via della conclusione quando,
inaspettatamente, i ritardi nella discussione e nella risoluzione del caso
portarono a uno stravolgimento delle circostanze: dieci giorni dopo
l’ordine di annullamento dell’esilio emanato da Carlo V era salito al

30
S. CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, cit., p. 409.
31
La lettera di Juan de Vega a Carlo V (Palermo?, 10 febbraio 1555), custodita presso
l’Archivio general de España (Estado, leg. 1123, fol. 8) è riportata in S. CAPONETTO. Studi
sulla Riforma in Italia, cit., p. 135 doc. 8.
32
S. CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, cit., p. 411.
Forme di giustizia e dissenso religioso 73

soglio pontificio Paolo IV Carafa, che era filo francese e avverso,


quindi, alla monarchia spagnola; inoltre, nel gennaio del 1556 lo stes-
so Carlo V abdicò in favore di Filippo II. Si erano creati i presupposti
per una nuova fase di ostilità tra la Corona di Spagna e il papato ro-
mano e Bartolomeo Spatafora venne travolto in pieno dagli eventi: al-
la fine di agosto del 1556 fu arrestato a Venezia per ordine di Paolo IV
e condotto a Roma come prigioniero. La sua situazione era stata stra-
volta.
Bartolomeo rimase per tre anni prigioniero nelle carceri di Ripetta e
ne uscì solo alla morte del pontefice quando il popolo romano, alla no-
tizia della morte del papa, insorse e assalì le carceri liberando i prigio-
nieri. Fuggito così rocambolescamente da Roma, Bartolomeo prese fi-
nalmente la via del sud, facendo tappa a Napoli presso Giulia Gonzaga
e raggiungendo lo Stretto di Messina nel novembre di quello stesso
anno. A Scilla, dalla quale poteva ammirare finalmente la sua città na-
tìa al di là del mare, rimase qualche mese prima di attraversare lo
Stretto e approdare in Sicilia, giungendovi poco prima che si conclu-
desse il processo alla sorella Mattia.33 Gli ultimi anni di vita di Barto-
lomeo Spatafora furono anni dedicati al ripristino del prestigio e alla
ricostruzione del patrimonio familiare; morì, infine, per cause naturali
nel 1566.
Il caso Spatafora, qui brevemente riassunto per la sua importanza ai
fini di uno studio della lotta all’eresia in Italia nel XVI secolo, lascia
trasparire i limiti dell’attualizzazione della prassi inquisitoriale; infatti,
laddove il processo assume un valore prettamente politico, la giustizia
cede il passo all’importanza e ai movimenti delle parti in causa e si af-
fida all’evolversi degli eventi piuttosto che al rispetto rigoroso della
prassi giudiziaria; la sfaccettatura di competenze e prerogative contri-
buisce, infine, a rendere più complesso e sfumato il quadro entro il
quale sarebbe dovuta essere svolta la lotta all’eresia.
Il caso appena delineato, nonostante la sua tortuosità, si concluse
con il ritorno a casa dell’imputato, ma occorre ricordare come il pano-
rama della diffusione della Riforma in Sicilia e in Calabria offra situa-
zioni dall’esito ben differente; se, infatti, la maturazione di convinzio-
ni che le autorità avrebbero giudicato come eretiche dava ai sospettati
soltanto due alternative: la fuga o il processo, che avrebbe potuto con-

33
C. A. GARUFI, Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio, Palermo 1978, p.
34.
74 Vincenzo Tedesco

durre alla morte, vi furono addirittura casi in cui non avvenne nulla di
tutto questo e intere comunità vennero sterminate sommariamente,
senza che per ognuno dei sospetti venisse celebrato alcun processo.
Si procederà ora a ricostruire, senza alcuna ambizione di comple-
tezza, alcuni tra i casi più celebri di adesione alla Riforma prima in Si-
cilia e poi in Calabria, per poi concludere analizzandone le analogie e
le differenze e tracciando un quadro della situazione religiosa nel XVI
secolo a cavallo tra le due sponde dello Stretto di Messina.

6*03.).).++86.21*)*//&.+250& .(./.&*.(./.&

«Non attendete a quel che sta di fuori, ma prima riformate in vostri
cuori» aveva scritto Francesco Berni, da buon osservatore della cultu-
ra italiana cinquecentesca, nel suo rifacimento dell’Orlando innamo-
rato di Matteo Maria Boiardo.34 In effetti, non dovettero essere pochi
coloro che in tutt’Italia si aprirono all’idea di una riforma interiore, ma
poterli identificare tutti è, per lo storico, impossibile a causa della
stessa intrinseca natura dell’adesione alle aspirazioni a una riforma re-
ligiosa; laddove le idee restano tali, rifugiate nelle coscienze senza la-
sciare traccia esteriore, lo storico trova il suo limite più lampante. La
difficoltà di comprendere appieno l’effettiva efficacia della penetra-
zione di idee di riforma (non è possibile capire realmente quanti aves-
sero “riformato i propri cuori”) appare particolarmente evidente in Si-
cilia, dove l’opprimente Inquisizione spagnola aveva fatto scendere
come una cappa di timore su tutta l’isola. Discutere di questioni così
delicate necessitava di grande cautela, anche se l’interlocutore era un
amico fidato; tuttavia anche in Sicilia vi furono importanti segni di
penetrazione di queste nuove convinzioni religiose, introdotte da pre-
dicatori, commercianti e semplici individui portatori di libri proibiti e
di quelle idee la cui diffusione l’Inquisizione faceva di tutto per stron-
care.
In Sicilia ebbe una certa diffusione il valdesianismo e non poteva
essere altrimenti, visti gli stretti legami con Napoli, dove si era diffuso
un profondo spiritualismo portato avanti da Juan de Valdés, che influì

34
Orlando innamorato composto già dal sig. Matteo Maria Bojardo, conte di Scandiano,
ed ora rifatto tutto di nuovo da m. Francesco Berni, Firenze 1725, Libro I, Canto XX, strofa
5, p. 104 (I ed. Milano 1542).
Forme di giustizia e dissenso religioso 75

su molti personaggi di spicco della cultura dell’epoca; tra questi vi fu


anche il noto predicatore senese Bernardino Ochino, allora Vicario
Generale dell’Ordine dei Cappuccini, che predicò a Messina e tenne
un quaresimale a Palermo nel 1540, due anni prima di fuggire
dall’Italia e recarsi a Ginevra tra lo sgomento generale.35 Una testimo-
nianza particolarmente interessante della diffusione di idee riformate
in Sicilia è data dalla deposizione dell’avvocato veneziano Giulio Ba-
salù all’Inquisizione veneta nel 1555, dalla quale si ricava la capillari-
tà della diffusione della Riforma sull’isola e la presenza, nella stessa,
anche di personalità di grande rilievo.36 Quando fu a Napoli, intorno
alla metà del XVI secolo, Basalù entrò in contatto con il circolo valde-
siano e in particolare con Juan de Villafranca, discepolo di Juan de
Valdes;37 qui fece numerose conoscenze e discusse di questioni reli-
giose anche con personaggi siciliani, ossia «due giuristi di Palermo,
Filippo de Micheli e Giovanni Antonio Cannizu, processati per lutera-
nesimo nel ’47, il poeta messinese Giulio Cesare Pascali e Ludovico
Manna, esuli poi a Ginevra»;38 se queste personalità laiche mostrano
l’interesse diffuso verso la Riforma, un altro incontro, avvenuto a Pa-
lermo tra il 1537 e il 1543, suscita maggiore attenzione, ossia quello
con Benedetto Fontanini, il benedettino autore del Beneficio di Cristo;
con lui, alla presenza di altri monaci dello stesso ordine, Giulio Basalù
aveva intrattenuto delle discussioni dalle quali aveva ricavato la con-
vinzione che don Benedetto «seguisse la dottrina della giustificazione
per fede e negasse “li sacramenti e la messa”».39
L’accenno a Benedetto Fontanini e all’Ordine benedettino non è
casuale e anzi introduce un aspetto interessante, ossia il ruolo dei be-

35
Sia su Juan de Valdés e sul suo circolo napoletano che su Bernardino Ochino (al secolo
Bernardino Tommassini) cfr. DSI; sullo spiritualismo valdesiano si rimanda a M. FIRPO, Ri-
forma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 115-
127; sull’influenza del valdesianismo in Sicilia e sul ruolo di Bernardino Ochino nella diffu-
sione della giustificazione per sola fede cfr. S. CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia
del Cinquecento, cit., p. 401.
36
Sulla figura di Giulio Basalù (o Besalù) e sulla sua deposizione al Tribunale veneto del
Sant’Uffizio cfr. in particolare A. STELLA, Dall’anabattismo al socinianesimo nel Cinquecen-
to veneto, Liviana, Padova 1967, ID., Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo,
Liviana, Padova 1969 e il più recente L. ADDANTE, Eretici e libertini nel Cinquecento italia-
no, Laterza, Roma-Bari 2010.
37
L. ADDANTE, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, cit., pp. 28-29 e passim.
38
S. CAPONETTO, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, cit., p. 402.
39
A. PROSPERI, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Fel-
trinelli, Milano 2011, p. 59.
76 Vincenzo Tedesco

nedettini nella ricezione e nella rielaborazione delle opere e dei con-


cetti della Riforma protestante in Italia e, in particolare, in Sicilia. Il
peso della difesa dell’ortodossia dal diffondersi dell’eresia, che rica-
deva in forme diverse sui domenicani e sui francescani, non gravava
affatto sui benedettini, che anzi erano liberi di leggere e di dialogare
sugli argomenti più disparati, anche quelli più delicati per la religiosità
del tempo. Probabilmente è per questo motivo che proprio da questo
ordine monastico giunsero gli apporti più originali ai dibattiti su alcuni
temi chiave del tempo, come il ruolo della confessione e quello della
morte di Gesù Cristo sulla croce.40
Nato a Mantova sullo scorcio del XV secolo, Benedetto Fontanini
venne trasferito al monastero di San Niccolò l’Arena, che allora era si-
to nei pressi di Nicolosi, ma che successivamente venne spostato nella
vicina Catania; dalla Pianura Padana era giunto alle pendici dell’Etna
alla fine del 1537 e lì rimase per alcuni anni, almeno fino al 1543.41 In
questo periodo compose una delle opere più celebri dell’epoca (non-
ché delle più discusse dalla storiografia della seconda metà del XX se-
colo), ossia il già accennato Trattato utilissimo del beneficio di Giesù
Cristo crocifisso verso i cristiani.42 Che fosse un’opera capace di in-
curiosire un vastissimo numero di lettori si percepì fin dal titolo, che
per la sua capacità dirompente di comunicare con semplicità il noccio-
lo della questione trattata «fu un vero colpo di genio»,43 giacché ri-
mandava all’efficacia del sacrificio di Cristo come dono, beneficio, in
grado di rimediare a tutti i peccati del genere umano. Tuttavia, il trat-
tatello non venne pubblicato in Sicilia dal suo autore, ma a Venezia,
nel 1543, dall’umanista Marcantonio Flaminio, che ne rimaneggiò il

40
Ibidem. Sul ruolo, sulla cultura e sul contributo dei benedettini nella prima età moderna
cfr. in particolare le pp. 28-32, 36-37 e 42-43.
41
Per spiegare le ragioni che portarono Benedetto Fontanini da Mantova a Catania occor-
re ricordare una consuetudine benedettina dell’epoca cfr. Ibidem, p. 30: «A partire dal 1444
ogni anno vennero attuati spostamenti sistematici di uomini tra i vari conventi: queste “muta-
tiones fratrum”, come furono chiamate, erano destinate a far circolare i monaci più dotti tra le
varie sedi, allo scopo di insegnare agli altri».
42
Il nome dell’autore rimase celato per molto tempo e neppure l’inquisizione riuscì a
identificare in Benedetto Fontanini lo scrittore del Beneficio di Cristo; solo in tempi recenti,
dopo una meticolosa opera di ricerca, si è riusciti a identificare nel benedettino modenese
l’autore dell’opera (cfr. C. GINZBURG, Due note sul profetismo cinquecentesco, in «Rivista
storica italiana», 1 (1966), pp. 184-227).
43
A. PROSPERI, L’eresia del Libro Grande, cit., p. 48.
Forme di giustizia e dissenso religioso 77

testo.44 Anche a fronte di questa considerazione, oltre che per necessi-


tà di sintesi, non è il caso di dilungarsi troppo sulla miriade di questio-
ni che ruotano attorno al Beneficio di Cristo, ma occorre soffermarsi
sulla constatazione del luogo nel quale prese forma un’opera tanto av-
versata da Roma che, a più di vent’anni dalla prima stesura, gli inqui-
sitori romani chiedevano al protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi
«quis fuit autor libri “Beneficii Christi”».45 Il luogo, come si è detto,
era un monastero benedettino del catanese che nel 1506 era entrato a
far parte della congregazione cassinese,46 lo stesso in cui tre anni pri-
ma dell’arrivo di Benedetto Fontanini aveva preso i voti Giorgio Rioli,
un ragazzino di almeno 16 anni, nato intorno al 1517 nella vicina San
Pietro Clarenza, che in seguito avrebbe fatto molto parlare di sé.
All’adolescente le discussioni con quel monaco venuto dal nord
dovettero destare un grande interesse e Giorgio, che assistette alla
creazione del Beneficio e fu uno dei primi lettori, ne rimase certamen-
te colpito. Il rapporto tra i due, nato in quel frangente, sarebbe stato
fondamentale per la formazione culturale e la diffusione degli scritti
del giovane siciliano (che pare fosse «ignorantissimo di lettere huma-
ne»),47 tanto che «don Benedetto “tradusse i libri di Giorgio dalla lin-
gua siciliana in buona lingua italiana”».48
L’importanza della figura di Giorgio Rioli si deve non tanto alla
sua formazione siciliana, quanto alle vicende successive della sua vita,
che lo portarono al nord della penisola, dove fu noto non con il pro-
prio cognome secolare ma, quasi a rimarcare la sua provenienza insu-
lare, come Giorgio “Siculo”.
La prima notizia che riporta l’emergere della figura di Giorgio Si-
culo fu un contributo da lui stilato per Luciano degli Ottoni per una
delle discussioni conciliari più scottanti, ossia quella sulla giustifica-
zione (in che modo un cristiano, peccatore per natura, poteva apparire
“giusto” agli occhi di Dio?), che da quarant’anni costituiva il punto di
maggior distacco con i protestanti. Questi ultimi, partendo dall’esegesi
della I Lettera di Paolo ai Romani, affermavano la giustificazione per
44
Su Marcantonio Flaminio, oltre che l’inesauribile Ibidem, cfr. A. FERRI, Flaminio, Mar-
cantonio, in DSI e G. CARAVALE, Marcantonio Flaminio, in M. BIAGIONI, M. DUNI, L. FELICI,
Fratelli d’Italia. Riformatori italiani nel Cinquecento, Claudiana, Torino 2011.
45
A. PROSPERI, L’eresia del Libro Grande, cit., p. 46.
46
Sulla congregazione cassinese e la sua ramificazione in Sicilia cfr. V. LAVENIA, Giorgio
Siculo, in M. BIAGIONI, M. DUNI, L. FELICI, Fratelli d’Italia, cit., pp. 111-112.
47
Ibidem, p. 114.
48
A. PROSPERI, L’eresia del Libro Grande, cit., p. 63.
78 Vincenzo Tedesco

sola fede, mentre da parte cattolica si ricordava il valore delle opere


per raggiungere la salvezza. Tra questi due estremi, in un periodo di
incertezza dottrinale come fu quello che precedette i decreti tridentini,
si formarono diverse opinioni più conciliatrici o comunque distanti dal
linguaggio teologico dominante: è il caso dei benedettini della con-
gregazione cassinese.49
Al Concilio di Trento (1545-1563) quella della giustificazione fu la
tematica teologica di maggior rilievo, tanto che venne discussa subito.
Luciano degli Ottoni, il più anziano tra i rappresentanti della congre-
gazione cassinese al Concilio, chiese a Giorgio Siculo, come si è det-
to, di stilare un contributo sul tema della giustificazione e quest’ultimo
rispose con una lunga lettera (definita dallo stesso Luciano degli Otto-
ni un “trattato de iustificatione”)50 nella quale vennero delineati alcuni
aspetti chiave del pensiero del monaco siciliano: riprendendo il Bene-
ficio di Cristo, il Siculo affermava che il sacrificio di Cristo sulla cro-
ce ha proclamato una salvezza alla portata di tutti gli uomini; a fronte
di questa elezione gratuita, se l’uomo cade nel peccato deve solo a se
stesso la sua condanna, giacché è in grado di discernere il bene dal
male per via del peccato originale. Un punto per certi aspetti stupefa-
cente è l’affermazione di Giorgio Rioli secondo cui il messaggio da
lui inviato è frutto di un rapporto privilegiato con Cristo stesso, il qua-
le lo avrebbe comunicato direttamente al monaco siciliano affinché
potesse rivelarlo ai padri conciliari di Trento; per questo motivo egli si
recò a Riva di Trento per essere ascoltato, ma le cose sarebbero andate
diversamente dalle sue aspettative, poiché il Concilio sarebbe stato
spostato a Bologna, dove si sarebbe poi interrotto fino alla riapertura
del 1551.
A Riva di Trento Giorgio Siculo rimase qualche anno e, forse nel
1550, ebbe modo di celebrare un intero quaresimale, riscuotendo un
notevole successo nonostante fosse con ogni probabilità la sua prima
esperienza da capo di una comunità religiosa non monastica.51 La
permanenza sul lago di Garda lasciò il segno sia nel predicatore sici-
liano che nella comunità cittadina e a essa dedicò da Bologna, in quel-

49
Ibidem, p. 79.
50
Così scriveva Luciano degli Ottoni a Ercole Gonzaga il 6 dicembre 1550; la lettera è
stata edita per la prima volta in C. GINZBURG, A. PROSPERI, Le due redazioni del “Beneficio di
Cristo”, in A. ROTONDÒ (a cura di), Eresia e riforma dell’italia del Cinquecento, Miscellanea
I, Firenze-Chicago 1974, pp. 202 sgg.
51
A. PROSPERI, L’eresia del Libro Grande, cit., p. 132.
Forme di giustizia e dissenso religioso 79

lo stesso anno, una delle sue opere principali: l’Epistola alli cittadini
di Riva di Trento, che ottenne l’imprimatur da parte del teologo do-
menicano Reginaldo de’Nerli. Nel testo il Siculo, muovendo dalla tra-
gica vicenda che aveva visto coinvolto Francesco Spiera,52 giungeva a
negare la dottrina protestante della predestinazione, «responsabile del-
la disperazione in cui era caduto Spiera e negatrice della misericordia
e del dono divino dell’immortalità per quanti rifiutavano il peccato»;53
un altro punto fondamentale dell’Epistola era l’affermazione della li-
ceità della dissimulazione religiosa in un contesto “ostile”: a quelli che
avevano aderito alla Riforma in Italia e lo celavano per timore
dell’Inquisizione, che Calvino nel 1544 aveva definito sprezzantemen-
te “nicodemiti” e che la propaganda protestante, sull’onda del caso
Spiera, esortava a uscire allo scoperto, Giorgio Siculo proponeva
un’alternativa: pazientare e dissimulare il proprio credo nell’attesa
dell’avvento di un secondo annuncio divino di cui egli stesso si faceva
portavoce. Su questi temi (in particolare su quello della predestinazio-
ne) tornò con uno scritto immediatamente successivo, una Esposizione
[…] nel nono decimo et undecimo capo della Epistola di san Paolo al-
li Romani, pubblicato anch’esso a Bologna dallo stesso editore nello
stesso anno 1550.
Di certo Giorgio Rioli ebbe molti sostenitori, anche più anziani di
lui, e proprio nella cella di uno di questi, il già citato Benedetto Fonta-
nini autore del Beneficio di Cristo, sarebbe stata scovata l’opera mag-
giore del Siculo: un testo segreto, continuamente rimaneggiato, nel
quale l’autore esponeva le sue dottrine più audaci; noto ai seguaci co-
me il Libro Grande, aveva per titolo Della verità christiana et dottrina
apostolica rivelata dal nostro signor Giesù Cristo al servo suo Geor-

52
Il caso di Francesco Spiera è uno dei più tragici della storia religiosa cinquecentesca.
L’uomo, un giureconsulto di Cittadella, nel 1547 venne denunciato e processato per eresia
dall’Inquisizione di Venezia; all’inizio negò, ma poco dopo cedette e abiurò, ricongiungendo-
si con la famiglia; rientrando a casa, però, venne colpito dallo sconforto di aver peccato contro
lo Spirito Santo rinnegando la propria fede; questo era, nell’orizzonte culturale dell’epoca, un
peccato irremissibile. Difficile, per un uomo del terzo millennio, potersi immedesimare nei
pensieri di Francesco Spiera che, convintosi di essere già con l’anima all’inferno, decise di far
morire anche il corpo. Nonostante i tentativi dei familiari di farlo mangiare e di evitargli la
morte, Spiera si lasciò morire, spirando il 27 dicembre del 1548, a sei mesi dall’abiura solen-
ne. Sul caso Spiera si rimanda, sinteticamente, ai già citati S. CAPONETTO, La Riforma prote-
stante nell’Italia del Cinquecento, cit., pp. 63-64 e A. PROSPERI, L’eresia del Libro Grande,
cit., pp. 102-122.
53
V. LAVENIA, Giorgio Siculo, in M. BIAGIONI, M. DUNI, L. FELICI, Fratelli d’Italia, cit.,
p. 115.
80 Vincenzo Tedesco

gio Siculo della Terra di San Pietro. Dell’opera non ci resta nessuna
copia perché ben presto la dottrina eterodossa del Siculo venne allo
scoperto ed egli stesso fu arrestato a Ferrara nel settembre del 1550; le
copie furono tutte distrutte e all’autore si palesò la scelta tra l’abiura e
la condanna a morte. Scelse l’abiura, che avrebbe dovuto pronunciare
il lunedì di Pasqua del 1551 nella chiesa di San Domenico a Ferrara,
ma qui avvenne il colpo di scena: Giorgio Siculo, teorico della dissi-
mulazione del credo e della paziente sopportazione silenziosa, nella
chiesa gremita di fedeli «fece ciò che Francesco Spiera aveva rimpian-
to fino alla morte di non essere riuscito a fare: resistette, non abiu-
rò».54 Persistendo così clamorosamente nell’eresia, Rioli firmò la sua
condanna a morte: venne immediatamente incarcerato e poi strangola-
to di notte quasi due mesi dopo, il 23 maggio, nella sua cella.
Nelle stesse zone in cui si trovò a operare Giorgio Rioli, qualche
anno prima aveva svolto la sua predicazione un altro noto siciliano
che nel XVI secolo fece una grande opera di proselitismo, divenendo
un punto di riferimento per molti “eretici” italiani; l’uomo in questio-
ne, Paolo Ricci, noto in Emilia come Lisia Fileno e poi, una volta fug-
gito in Valtellina, come Camillo Renato, fu un grande maestro di ere-
sie radicali.55
Nacque all’inizio del XVI secolo in Sicilia, probabilmente a Paler-
mo, ed entrò nell’ordine francescano, divenendo in seguito sacerdote e
maestro di teologia,56 ma della sua formazione e della sua vita in Sici-
lia sappiamo ben poco; la sua storia, allo stato attuale delle nostre co-
noscenze, comincia nel nord Italia. Apparso prima a Padova, poi a
Venezia, dove venne denunciato e processato per eresia negli anni ’20
del XVI secolo (fu assolto, un caso raro),57 fece perdere le sue tracce
per diversi anni fino al 1538 quando, verso la fine dell’anno, apparve a

54
A. PROSPERI, L’eresia del Libro Grande, cit., p. 233.
55
Un uomo che si faceva volutamente conoscere con diversi nomi e lasciava a volte trac-
ce decisamente sfuggenti ed evanescenti, ovviamente, in un primo tempo veniva confuso e i
suoi nomi non erano ricondotti tutti alla stessa persona. Se la corrispondenza di Paolo Ricci e
Lisia Fileno a un’unica persona era nota già ai contemporanei [A. ROTONDÒ (a cura di), C.
RENATO, Opere. Documenti e testimonianze, Sansoni, Firenze 1968, p. 311], l’ipotesi secondo
la quale Lisia Fileno e Camillo Renato fossero in realtà lo stesso individuo venne avanzata per
la prima volta solo nel XX secolo da Frederic Church in The Italian Reformers, 1534-1564,
1932, tradotto in italiano da Delio Cantimori, e fu confermata poi da Alfredo Casadei nel sag-
gio Lisia Fileno e Camillo Renato, in «Religio», 15 (1939), pp. 356-440.
56
G. DALL’OLIO, Renato, Camillo (Lisia Fileno, Paolo Ricci), in DSI, p. 1312.
57
Ibidem.
Forme di giustizia e dissenso religioso 81

Bologna, non più in veste di monaco, ma di “apostata”.58 Giunto nella


città emiliana per motivi di studio, Lisia Fileno (così si fece chiamare
in quel frangente) si dimostrò un predicatore poliedrico, riuscendo a
inserirsi perfettamente nel tessuto sociale senza far distinzioni di ceto;
lo troviamo sia in stretto contatto con l’ambiente intellettuale e nobi-
liare, sia con gli altri strati meno colti, ma comunque desiderosi di ap-
prendere.59 I discorsi e gli insegnamenti di Fileno a Bologna furono
certo arditi tanto che, dopo circa due anni dal suo arrivo nella città, a
causa di un’aperta contestazione durante un quaresimale tenuto da un
agostiniano napoletano (che di rimando lo accusò di eresia) e le con-
seguenti tensioni generate dall’accaduto, si decise a fuggire per evitare
un’azione inquisitoria a suo danno.
Paolo Ricci giunse così a Modena, dove riprese la sua attività di
proselitismo e generò anche qui le apprensioni delle autorità e del
mondo cattolico, poiché il «zizaniae seminator» coinvolgeva «non so-
lum homines cuiuscumque conditionis, docti et indocti et ignari litera-
rum, sed et mulieres, ubicumque occasio dabatur, in plateis, in
apothecis, in ecclesiis»60 e la sua predicazione non si limitava alla sola
area urbana ma, caso rarissimo per l’epoca che denota la volontà sin-
golare del predicatore di diffondere le proprie idee di riforma a tutta la
popolazione italiana, andava anche per le campagne «suvertendo li
villani».61 La sua predicazione nel modenese dovette essere davvero
spinta e per nulla celata se, soltanto a pochi mesi dal suo arrivo nella
zona, venne catturato e incarcerato dagli agenti del duca Ercole II
d’Este su richiesta dell’Inquisitore bolognese per poi essere condanna-
to (il 23 dicembre dello stesso anno 1540) all’abiura e al carcere per-
petuo.62

58
G. DALL’OLIO, Eretici e Inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Istituto per la Storia
di Bologna, Bologna 1999, p. 101.
59
Ibidem, p. 102: «Oltre ai nobili, egli avrebbe ricordato un notaio, gruppi di “scholares”
dello Studio cittadino, ma anche uomini e donne qualificati come “rudes”».
60
A. ROTONDÒ (a cura di), C. RENATO, Opere. Documenti e testimonianze, cit., pp. 193-
194.
61
Ibidem, p. 170. Occorre precisare, per cogliere la straordinarietà della predicazione di
Paolo Ricci, che la diffusione della Riforma in Italia fu qualcosa di prettamente urbano; le
campagne, tranne singoli casi come quello in questione, rimasero estranee alla predicazione
delle idee della Riforma, perpetrando saldamente i propri culti religiosi tradizionali.
62
G. DALL’OLIO, Eretici e Inquisitori nella Bologna del Cinquecento, cit., p. 106: «La pe-
na, apparentemente durissima, era stata in realtà mitigata dal duca; come mostrano i suoi in-
terrogatori, infatti, l’ex-frate siciliano, anziché assumere un atteggiamento remissivo, aveva
continuato a difendere le proprie posizioni, usando coi suoi giudici lo stesso tono aperto e
82 Vincenzo Tedesco

Avrebbe dovuto scontare la pena nelle carceri di Bologna, dove


venne trasferito nel mese di maggio dell’anno successivo, ma inaspet-
tatamente riuscì a fuggire, riparando poi nei Grigioni, dove si fece co-
noscere come Camillo “Renato” (ossia “il rinato”, volendo simboleg-
giare così l’inizio di una nuova vita).63
Anche se emigrato nei Grigioni, Paolo Ricci non dimenticò mai
l’Italia e non venne dimenticato da chi era entrato in contatto diretto o
indiretto con le sue idee, tanto che il senese Lelio Sozzini, affascinato
dalle idee dell’ex-francescano, si adoperò molto per la diffusione delle
opere più ardite di Renato in Italia, specialmente a Bologna.64 Di que-
ste opere, una in particolare merita un approfondimento: il Trattato
del battesimo e della santa cena (1547)65 in cui Renato, scrivendo si-
gnificativamente in italiano (cosa rara per gli scritti teologici
dell’epoca, ma che fa riflettere sulla reale intenzione di diffondere il
libro anche tra gli italiani che non erano in grado di leggere il latino),
affronta il tema spinoso dei due sacramenti innanzi tutto dal punto di
vista filologico-scritturale, per concludere che essi non siano «suggelli
confermativi né certificativi» e che abbiano una valenza esclusiva-
mente in rapporto alla comunità che celebra il rito, non tanto per il fe-
dele che, battezzandosi o prendendo l’eucarestia, è l’attore principale,
in quanto «il fine del battesimo e della cena sia più presto per certifi-
car gli altri del stato, dignità, felicità, grado, animo, affezione, servitù
e professione del battezzato e cenante, che per confermarsi lor mede-
simi di quello di che sono certi e sicuri, che li fa atti e idonei di essere
ammesso e all’uno e all’altra»;66 un’altra teoria abbastanza audace era

problematico che caratterizzava il suo insegnamento e rientrando perciò nella categoria giuri-
dica dell’”impenitenza”, che esigeva una condanna a morte».
63
Occorre qui precisare una lacuna nelle fonti superstiti che riguarda la fuga di Paolo Ric-
ci dall’Italia: «nessun documento indica la data esatta e le circostanze in cui il Renato si rifu-
giò nei Grigioni» [A. ROTONDÒ (a cura di), C. RENATO, Opere. Documenti e testimonianze,
cit., p. 316].
64
Cfr. A. ROTONDÒ (a cura di) Lelio Sozzini. Opere, Leo S. Olschki editore, Firenze 1986,
p. 35.
65
Il testo del Trattato di Camillo Renato, edito già in Trattato del battesimo e della santa
cena, a cura di Antonio Rotondò, in «Rinascimento», a. 15, dicembre 1964, pp. 341-362, è
stato successivamente ripubblicato dallo stesso autore nel fondamentale C. RENATO, Opere.
Documenti e testimonianze, cit., pp. 91-108.
66
Renato chiarifica meglio in seguito che «il battesimo non è ordinato per accertare né per
confirmare colui che lo riceve, ma bene per mostrare alli circonstanti esternamente quel che
egli prima ha ricevuto da Dio per Giesù Cristo, e che è certissimo di averlo ricevuto. […] La
cena che noi faciamo per ordinazione di Cristo non è in confirmare la promessa della nova vo-
luntà di Dio, ma a memorare e annonziare la esecuzione di quella volontà fatta per Giesù Cri-
Forme di giustizia e dissenso religioso 83

quella del sonno delle anime dopo la morte «con il finale annichila-
mento di quelle dei malvagi e il risveglio dei giusti».67
Si è detto che Camillo Renato non dimenticò l’Italia e infatti vi tor-
nò altre volte finché, nel 1552, non venne arrestato dall’Inquisizione
di Bergamo. Finito di nuovo in carcere a distanza di undici anni
dall’esperienza emiliana di Ferrara e Bologna, anche questa volta riu-
scì a cavarsela perché le autorità veneziane di Bergamo lo rilasciarono
«preoccupati delle minacce di rappresaglia delle autorità grigionesi sui
sudditi cattolici veneziani residenti nei loro territori».68 Da questo
momento in poi sappiamo poco o nulla dei suoi spostamenti, ma cer-
tamente continuò la sua attività nei Grigioni fino alla morte, avvenuta
intorno al 1575 a più di 1000 kilometri dal luogo in cui era nato circa
settantacinque anni prima.
La ricostruzione di alcuni eventi fondamentali per delineare
l’influenza della Riforma in Sicilia e la sintesi delle vicende di alcuni
individui nati sull’isola ma celebri altrove, come Paolo Ricci e Gior-
gio Rioli, che per la natura di questo contributo si è scelto di riepiloga-
re brevemente fornendo un taglio prettamente biografico, sono utili
per comprendere un nodo interpretativo fondamentale per uno studio
sulla religiosità eterodossa nella Sicilia cinquecentesca che forse meri-
terebbe una messa a fuoco maggiore da parte della storiografia: in Si-
cilia le idee della Riforma arrivarono nonostante la vigilanza
dell’Inquisizione spagnola, ma proprio a causa di essa non poterono
impiantarsi stabilmente; tuttavia, coloro che entrarono in contatto con
gli ambienti della Riforma non si limitarono soltanto a una ricezione
passiva, ma talvolta rielaborarono in maniera decisamente originale
quei concetti che avevano stimolato le menti più fervide e, poiché in
Sicilia non era possibile diffondere il nuovo messaggio, emigrarono,
contribuendo in maniera non secondaria alla diffusione di dottrine an-

sto, come anche la pasca e il mangiare l’agnello non era se non memoria della passata e fatta
liberazione da Egitto, non per certificare o confirmare coloro che mangiavano, che ne erano
certissimi, ma più tosto gli altri» (ibidem). Per una analisi del trattatello di Renato e della sua
attività nei Grigioni cfr. anche A. PROSPERI (a cura di), D. CANTIMORI, Eretici italiani del
Cinquecento e Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Einaudi, Torino 2009
(I. Ed., Sansoni, Firenze 1939), pp. 82-102.
67
M. BIAGIONI, L. FELICI, La Riforma radicale nell’Europa del Cinquecento, Laterza,
Roma-Bari 2012, p. 79.
68
G. DALL’OLIO, Renato, Camillo (Lisia Fileno, Paolo Ricci), in DSI, p. 1312.
84 Vincenzo Tedesco

che radicali nel nord Italia e in Svizzera.69 Occorre quindi guardare


all’isola mediterranea in una duplice prospettiva: vi fu una Riforma in
Sicilia, che venne repressa abilmente dalle autorità, e una Riforma
dalla Sicilia che, stimolata da apporti esterni di individui come Ber-
nardino Ochino, i valdesiani, Benedetto Fontanini, ebbe modo di tro-
vare sbocchi importanti ben oltre lo Stretto di Messina.

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Il vento della Riforma, giungendo dal nord, raggiunse anche la
sponda calabrese dello Stretto, diffondendosi e interagendo con un
contesto per certi aspetti molto differente da quello siciliano, poiché il
sistema di repressione dell’eresia era giuridicamente differente.70
Approcciandosi alla rievocazione delle maggiori esperienze di Ri-
forma in Calabria si notano alcuni particolari che è bene chiarire prima
di addentrarsi nell’argomento, ossia la minor quantità di studi settoria-
li rispetto al caso siciliano e la preminenza della Calabria Citeriore
nelle ricostruzioni storiografiche; alla prima osservazione fa eccezione
la mole di studi su alcuni casi particolarmente importanti come la re-
pressione dei valdesi nel cosentino mentre, per quanto concerne la se-
conda, è difficile ricondurre la questione a una singola causa (quale
può essere la conservazione dei documenti), ma è un dato oggettivo
che le notizie sull’adesione a idee riformate nella Calabria Ulteriore
siano particolarmente scarse.71 Pur confidando che da un maggiore in-
69
Ovviamente, sarebbe eccessivo attribuire a Paolo Ricci e a Giorgio Rioli una prepara-
zione culturale maturata esclusivamente in Sicilia e dalle stesse fonti si ricava che molti con-
cetti particolarmente audaci maturarono al nord grazie ai contatti con altri gruppi ereticali, ma
le prime esperienze di vita monastica avvennero nella Sicilia spagnola. Anche se non si sa
nulla della vita dell’allora monaco francescano Paolo Ricci prima del suo spostamento a Pa-
dova «per ragioni di studio» (ivi), è chiaro come il primo approccio alla Riforma per Giorgio
Rioli avvenne proprio alle pendici dell’Etna, nel monastero di San Niccolò l’Arena, come si è
già avuto modo di sottolineare.
70
Supra, par. I.
71
Tra le eccezioni, si possono annoverare Girolamo Bussale (per il quale cfr. infra) e una
testimonianza di Scipione Lentolo (1525-1599), che ricorda di «un giovane di Santagata (la
qual è una terra posta all’estremo di Calabria verso Sicilia, ove sono molti fedeli)» (S. LENTO-
LO, Historia delle grandi e crudeli persecuzioni fatte ai tempi nostri, edita da T. GAY, Tipo-
grafia Alpina, Torre Pellice 1906, p. 234). Non vi sono notizie di questo gruppo di fedeli a
Sant’Agata di Bianco nel reggino, ossia il luogo che sembra suggerire la descrizione fatta da
Lentolo che, specificando che la zona sarebbe posta vicino allo Stretto di Messina, esclude
Forme di giustizia e dissenso religioso 85

teresse verso la storia della diffusione della Riforma in Calabria pos-


sano derivare numerosi apporti capaci di colmare almeno in parte le
diverse lacune attuali, è tuttavia possibile tentare di abbozzare un qua-
dro d’insieme a partire da alcuni casi emblematici, seguendo la proce-
dura adottata anche in precedenza.
Si è scritto poc’anzi che uno degli argomenti più studiati è quello
dei valdesi in Calabria e non potrebbe essere diversamente, per la sua
importanza che trascende di molto la storia locale.72 I valdesi, infatti,
costituivano una enclave insediatasi in Calabria, in particolare nei cen-
tri di Guardia (oggi Guardia Piemontese), San Sisto e Montalto, in di-
verse ondate migratorie lungo il corso del basso Medioevo e, nono-
stante l’alterità culturale e religiosa (quest’ultima veniva sapientemen-
te celata), erano riusciti a inserirsi molto bene nel contesto locale,
stringendo ottimi rapporti anche con i propri signori feudali.73 Nel
corso del XVI secolo, però, l’irrompere della Riforma protestante sul-
lo scenario europeo mise anche i valdesi di fronte a una scelta: acco-
starsi alle idee dei riformatori, stravolgendo una teologia e una prassi
religiosa e liturgica consolidata oppure perseverare nella conservazio-
ne di una religiosità semplice, frutto di una storia ormai plurisecolare?
Il dilemma era grande e avrebbe condizionato per sempre la storia dei
valdesi, per cui era necessario che la decisione venisse presa dal mag-
gior numero di fedeli possibile e che, nella scelta, avesse potuto dare il
proprio parere tutta la diaspora europea. Dopo i primi contatti e le
prime riunioni, i rappresentanti del valdismo si riunirono a Chanforan

che si faccia riferimento a Sant’Agata d’Esaro nel cosentino. Sulla vita di Scipione Lentolo,
sulle sue opere e sulla sua adesione alla Riforma si veda E. FIUME, Scipione Lentolo, in M.
BIAGIONI, M. DUNI, L. FELICI, Fratelli d’Italia, cit., pp. 79-85.
72
Gli studi sulla presenza dei valdesi in Calabria sono moltissimi. Per citarne alcuni tra i
più recenti: R. CIACCIO, A. TORTORA, Valdismo mediterraneo. Tra centro e periferia: sulla
storia moderna dei valdesi di Calabria, ViVa Liber, Nocera Inferiore-Salerno 2013; R. CIAC-
CIO, «L’inferno è dirupato». I valdesi di Calabria tra resistenza e repressione, Zamorani, To-
rino 2014; L. INTRIERI, L’Inquisizione in Diocesi di Cosenza dal 1593 al 1696: Guardia, San
Sisto e Baccarizzo di Montalto, Falco, Cosenza 2013; S. PEYRONEL RAMBALDI, M. FRATINI,
1561. I valdesi tra resistenza e sterminio: In Piemonte e in Calabria, Claudiana, Torino 2011;
P. SCARAMELLA, L’Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria (1554-1703), Editoriale
Scientifica, Napoli 1999; A. TORTORA, Presenze valdesi nel mezzogiorno d’Italia (secoli XV-
XVII), Laveglia, Salerno 2004; ID. (a cura di), Valdesi nel Mediterraneo. Tra Medioevo e pri-
ma età moderna, Carocci, Roma 2009; ID., M. FRATINI (a cura di), Valdesi. Da Monteleone di
Puglia a Guardia Piemontese. Direzioni di ricerca storica tra Medioevo ed Età Moderna,
Gaia, Angri-Salerno 2009; V. TEDESCO, Storia dei valdesi in Calabria. Tra basso Medioevo e
prima età moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015.
73
V. TEDESCO, Storia dei valdesi in Calabria, cit., pp. 23-42.
86 Vincenzo Tedesco

in Val d’Angrogna nel 1532; fu una grande assemblea, segno


dell’importanza storica della decisione da prendere. Alla fine la tenta-
zione di accostarsi alla Riforma (quella calvinista delle chiese svizze-
re, non quella luterana) ebbe la meglio, ma la ricezione delle novità
tardò quasi una generazione a essere accettata da tutti i valdesi sparsi
per l’Europa, ed è concepibile, se si considera che l’adesione implica-
va uno stravolgimento profondo della teologia, dell’organizzazione
gerarchica della Chiesa e della prassi religiosa.
Nel caso dei valdesi in Calabria, un punto in particolare avrebbe
messo in serio pericolo la stessa esistenza della comunità:
l’esteriorizzazione del culto, la pubblicità del rito e dell’appartenenza
non più a una eresia medievale che aveva il sapore di questioni antiche
e quasi dimenticate dall’uomo medio locale, ma a una confessione la
cui “pericolosità” era sentita come attualissima nel suo porsi in netta
antitesi con la Chiesa romana.
Per questo motivo, quando il ministro Stefano Negrino74 propose ai
valdesi di Calabria di abbandonare ogni dissimulazione, all’inizio do-
vette esserci qualche titubanza, per cui si ritenne necessaria la richiesta
di un uomo dotto e infervorato, capace di svolgere una grande opera di
predicazione delle nuove dottrine e portare a compimento il passaggio
al calvinismo. Giunse così, nella primavera del 1559 su richiesta dei
valdesi di Calabria, il predicatore calvinista Gian Luigi Pascale di Cu-
neo, il quale si mise subito all’opera e in breve tempo, con la sua viva-
ce ed efficace predicazione, riuscì a raggiungere il cuore della maggior
parte dei valdesi.75
Il culto pubblico, tuttavia, attirò l’attenzione della signoria locale
degli Spinelli che fino ad allora (caso più unico che raro nel panorama
della diaspora valdese) aveva nutrito una grande simpatia per quella
popolazione di lingua occitana, tanto da farsi portavoce di una suppli-
ca nei confronti dell’autorità vicereale a fronte di un aumento
dell’imposizione fiscale.76 In quel frangente, però, Salvatore Spinelli

74
Su Stefano Negrino si veda A. TORTORA, Un barba e un ministro tra i Valdesi del Mez-
zogiorno d’Italia al tempo di Calvino, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», n. s., 2,
(2011),pp. 79-100.
75
Inizialmente Pascale era affiancato, nel suo ruolo di predicatore, da Giacomo Bonelli
che, dopo poco tempo, si spostò prima in Puglia e poi a Messina, dove venne catturato
dall’Inquisizione spagnola; venne infine arso sul rogo a Palermo il 18 febbraio 1560 (cfr. D.
JAHIER, I Calabro-Valdesi. Le colonie valdesi in Calabria nel secolo XVI, Società di Storia
Valdese, Torre Pellice 1929).
76
Cfr. V. TEDESCO, Storia dei valdesi in Calabria, cit., pp. 35-41.
Forme di giustizia e dissenso religioso 87

non avrebbe potuto correre il rischio di attirare sui suoi territori


l’occhio dell’Inquisizione e si risolse a prendere la situazione di petto,
facendo imprigionare Pascale il 2 maggio 1559, a poco più di un mese
dall’inizio della sua predicazione.77 Mentre il predicatore calvinista
era incarcerato nel castello di Fuscaldo, si verificò un evento significa-
tivo che sancì la rottura dei rapporti tra i valdesi e il proprio feudatario
e contribuì a catalizzare l’attenzione delle autorità sugli eventi in corso
in Calabria: gli “ultramontani” (così venivano chiamati in valdesi in
Calabria), reputando ingiusto il comportamento del nobile calabrese,
lo denunciarono alla Corte di Napoli; Spinelli, irritatissimo, reagì im-
mediatamente accusando i suoi stessi sudditi di eresia al viceré.
Da quel momento, il “caso Pascale” divenne in breve tempo un af-
fare troppo importante per essere discusso in ambito strettamente loca-
le, per cui il predicatore, assieme ad alcuni compagni, venne trasferito
da Fuscaldo alle carceri del castello di Cosenza, dove rimase fino al
15 aprile 1560. Essendo un «luterano convinto», seminatore
dell’eresia tra le popolazioni, il suo caso attirò rapidamente l’interesse
del Sant’Uffizio romano, che ottenne di poterlo processare:78 partito
da Cosenza il 15 aprile, giunse a Roma esattamente il mese successi-
vo, dopo una sosta a Napoli. Nell’Urbe si celebrò il processo, del qua-
le siamo all’oscuro, ma il fatto che, nonostante un vano tentativo di in-
tercessione da parte del fratello Gian Bartolomeo, venne condannato
al rogo (eseguito il 16 settembre 1560 a Castel Sant’Angelo) implica
di per sé che venne trovato colpevole di eresia e che non volle abiura-
re.
Le vicende di Gian Luigi Pascale e il suo rogo pubblico acuirono
l’interesse dell’Inquisizione romana per la situazione calabrese. Non
che gli inquisitori non ne fossero stati informati in precedenza,
tutt’altro: ci aveva pensato in tempi ancora poco sospetti fra’ Giovanni
da Fiumefreddo il quale, processato per eresia, abiurò nel 1554, dive-
nendo da quel momento «uno dei più accaniti avversari degli ultra-
montani di Calabria».79 Sappiamo che già nel 1558 fra’ Giovanni, en-

77
Ibidem, pp. 62-63.
78
Fin dalla prigionia a Fuscaldo fu chiaro che il caso sarebbe stato discusso a Roma, co-
me si evince da una testimonianza dello stesso Pascale, che ricorda come un familiare di Sal-
vatore Spinelli gli avesse confidato che non era più in loro potere ridargli la libertà e che pri-
ma o poi sarebbe stato inviato a Roma (ivi).
79
P. SCARAMELLA, L’Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria (1554-1703), Editoriale
Scientifica, Napoli 1999, p. 19.
88 Vincenzo Tedesco

trato nell’ordine dei Minimi di San Francesco da Paola, inviò diverse


lettere al cardinale Michele Ghislieri segnalando la presenza degli ere-
tici di fede valdese.80
Il cardinale Ghislieri, che nel 1566 sarebbe divenuto papa con il
nome di Pio V ma che allora rappresentava il vertice più alto
dell’Inquisizione romana, era dunque ben informato quando, a due
mesi dal rogo di Pascale, decise di inviare in Calabria l’inquisitore
domenicano Valerio Malvicino. Quest’ultimo, dopo una ricognizione
nei luoghi di maggiore presenza valdese che servì ad accertare la dif-
fusione dell’eresia, passò dopo qualche mese alle maniere forti, inti-
mando l’abiura e minacciando l’uso della tortura e la condanna a mor-
te per gli impenitenti. Invero, anche chi avesse scelto l’abiura (e vi fu
chi lo fece) avrebbe ricevuto una pena: sarebbe stato condannato alla
sopportazione del cosiddetto abitello, «due strisce di tessuto giallo con
una croce rossa al centro che ricadevano sul petto e sulle spalle di co-
loro che, in questo modo, erano riconoscibili da tutti in quanto eretici
e apostati»81 e sarebbe stato sottoposto a un continuo controllo da par-
te delle autorità.
Alcuni di coloro che scelsero di non abiurare, non potendo rimane-
re nelle proprie case a causa della crescita delle tensioni con
l’Inquisizione, si rintanarono nei boschi dove, braccati dalle autorità,
palesarono talvolta dei comportamenti particolarmente aggressivi,
come avvenne nel caso dell’uccisione del barone di Castagneto e di
alcuni tra i soldati del suo seguito, che erano stati inviati per snidare
«gl’inimici della fede».82
L’uccisione del barone di Castagneto costituiva un esplicito atto di
resistenza alle autorità vicereali di cui egli era espressione, per cui
venne inviato in Calabria un contingente guidato da Marino Caraccio-
lo, marchese di Bucchianico, e vennero poste delle taglie sui valdesi.
La repressione del valdismo prendeva dunque i connotati di un’azione
svolta in modo congiunto dalle autorità civili e da quelle ecclesiasti-
che, cosa che del resto è in linea con la gestione del controllo e della

80
Le lettere in questione sono state edite in L. INTRIERI, La strage dei valdesi di San Sisto
e di Guardia nelle lettere al Sant’Uffizio, in «Rivista Storica Calabrese», 1-2 (1999), pp. 185-
222.
81
V. TEDESCO, Storia dei valdesi in Calabria, cit., p. 66.
82
Ibidem, pp.66-67.
Forme di giustizia e dissenso religioso 89

repressione delle dissidenze religiose nel Regno di Napoli che è stata


brevemente descritta in precedenza.83
Si era allora in una congiuntura storica particolare: il grande impero
di Carlo V non esisteva più, il sovrano aveva abdicato dividendo gli
immensi possedimenti tra il figlio Filippo e il fratello Ferdinando e, ri-
tiratosi a vita privata, era deceduto il 21 settembre 1558; la pace di Ca-
teau-Cambrésis (1559) aveva posto fine, per il momento, al conflitto
tra gli stati europei e in particolare a quello tra gli Asburgo e la Fran-
cia, permettendo ai sovrani di rivolgere le loro attenzioni agli affari in-
terni dei rispettivi stati; infine, la questione religiosa, che nel Sacro
Romano Impero Germanico era stata risolta con la Pace di Augusta
del 1555 (grazie alla quale era stato sancito definitivamente il princi-
pio cuius regio eius religio), nell’Italia cattolica era ancora aperta a
causa del ritardo ormai più che decennale della conclusione dei lavori
del Concilio di Trento. Fu proprio in questa fase di ultime incertezze
(il concilio si sarebbe concluso nel 1563) che si inserì la repressione
della comunità valdese in Calabria e fu un emblematico monito, un
segno ben visibile che ormai l’irrigidimento dottrinale e l’edificazione
di barriere religiose sempre più alte sarebbe stato lo sbocco della reli-
giosità cinquecentesca: fu con la repressione dell’eresia valdese nel
meridione d’Italia che si palesò una volta per tutte la svolta marcata-
mente controriformistica del mondo cattolico.
La repressione fu cruenta, un gran numero di valdesi perse la vita e
non ci fu pietà neanche per i morti perché «le loro ossa furono dissep-
pellite e disperse».84 Fu una strage dalla quale si salvarono in pochi;
oltre agli abiurati, condannati a usare l’abitello, vi fu anche chi riuscì a
fuggire e, seguendo il consiglio che era stato dato ai valdesi circa cin-
que anni prima dal barba Gilles de Gilles,85 andò a rifugiarsi per lo
più lontano, al nord, rinvigorendo le comunità valdesi in Piemonte o il
cosiddetto «rifugio italiano» in Svizzera.
Ritorna così un tema ricorrente, quello dell’emigrazione pro reli-
gionis causa. Molti “eretici”, a causa dell’oppressione esercitata
83
Supra, par. I.
84
A. PROSPERI, Tribunali della coscienza, cit., pp. 5-15.
85
Cfr. P. GILLES, Histoire ecclésiastique des églises vaudoises de l’an 1160 au 1643,
Ginevra 1644, pp. 21-22. Il barba era una figura chiave del valdismo pre-riformato e aveva il
duplice ruolo di ministro del culto e di trasmettitore di notizie da un lato all’altro della diaspo-
ra valdese europea, in quanto i barba percorrevano lunghissime distanze viaggiando in coppia
tra una comunità e l’altra; a questo proposito si veda V. TEDESCO, Storia dei valdesi in Cala-
bria, cit., pp. 46-48.
90 Vincenzo Tedesco

dall’Inquisizione, fuggirono verso nord, ossia verso quelle terre dalle


quali provenivano le idee che avevano rapito i loro cuori e non furono
i soli valdesi a fuggire dalla Calabria giacché, se la strage del 1561 fu
la più cruenta e la più nota, anche per altri individui non valdesi la fu-
ga si rese necessaria. Sono casi abbastanza analoghi a quelli dei sici-
liani Paolo Ricci e Giorgio Rioli, sia perché anche di costoro si sa po-
co o nulla della loro vita nei rispettivi luoghi di provenienza, sia per la
constatazione che anche in questi casi siamo di fronte a posizioni teo-
logiche estremamente radicali.
Poche notizie si hanno, per esempio, di quel Francesco Calabrese
altrimenti noto come Francesco Renato, per il quale significativamen-
te è stata ipotizzata una scelta identica a quella fatta da Paolo Ricci di
enfatizzare la “rinascita” avvenuta con la conversione dando a se stes-
so l’appellativo di “rinato”.86 Anche Francesco, nato a Crotone, era
stato un monaco, nello specifico un cappuccino, e doveva aver rag-
giunto un certo prestigio se venne eletto Vicario provinciale al capito-
lo dei cappuccini milanesi del 1542;87 aveva inoltre stretto rapporti
molto intensi con un altro personaggio noto dello stesso ordine: Ber-
nardino Ochino. Quando costui fuggì dall’Italia, nello stesso 1542,
don Francesco tentò vanamente di adoperarsi affinché il predicatore
senese potesse rientrare in Italia e anzi, constatata l’impossibilità del
ritorno di Ochino, poco più tardi lo seguì abbandonando l’Ordine dei
cappuccini ed espatriando a sua volta.
Divenuto pastore della comunità di Vettan, rivelò presto le sue ten-
denze particolarmente radicali affermando, in linea con gli orienta-
menti anabattisti, che «infantes non esse baptizandos» e, avvicinando-
si significativamente alle idee che Paolo Ricci diffondeva in quegli
stessi anni, che le anime, dopo la morte, dormissero fino al giorno del
giudizio. A causa di queste sue esternazioni eccessivamente radicali
sia per i cattolici che per i protestanti, venne convocato a una disputa
pubblica a Süss e successivamente espulso dai Grigioni.88 Caso inte-
ressante, dovendo andar via dai Grigioni, Francesco decise di rientrare
nel Regno di Napoli, in particolare nella sua capitale, dove divenne in

86
L. ADDANTE, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, cit., pp. 176-177 n. 175.
87
Ibidem, p. 81. In M. BIAGIONI, L. FELICI, La Riforma radicale nell’Europa del Cinque-
cento, cit., pp. 79-80 si trova scritto, invece, che Francesco Calabrese era stato Vicario gene-
rale dell’Ordine.
88
Ivi. Sulla disputa di Süss cfr. anche D. CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, cit.,
pp. 63-64.
Forme di giustizia e dissenso religioso 91

poco tempo un leader del gruppo valdesiano, soprattutto dopo la mor-


te di Juan de Villafranca,89 e radicalizzò ancor di più le proprie cre-
denze, svalutando la divinità di Cristo e la verità del Nuovo Testamen-
to. Il suo radicalismo si rifletté sull’intero circolo valdesiano, dove
«insegnò altresì una nozione cristologica e scritturistica divergente da
quella del valdesianesimo originario, impregnata di influssi ebraici e
islamici».90 Tra il 1546 e il 1547 Francesco Calabrese, assieme ad al-
cuni compagni, partì da Napoli diretto a Venezia, probabilmente per
sfuggire alla repressione antiereticale; durante il tragitto, però, venne
arrestato: è l’ultima traccia lasciata dall’ex cappuccino calabrese, da
allora non si hanno più sue notizie.
Nel frattempo, però, nell’ambiente valdesiano stava emergendo la
figura di un altro personaggio di origini calabresi, ma proveniente da
una famiglia di marranos, ossia di quegli ebrei spagnoli che si erano
convertiti al cattolicesimo prima dell’espulsione dalla penisola iberica
del 1492: Girolamo Bussale, parente di Giulio Basalù, altro eretico di
spicco nel panorama italiano Cinquecentesco.91 Il padre di costui era
stato luogotenente del tesoriere regio della Calabria Ultra tra il 1520 e
il 1522, poi si era trasferito a Napoli. Anche Girolamo, come France-
sco Calabrese e tanti altri che nel corso della vita sarebbero divenuti
“eretici”, era stato avviato alla carriera monastica: assieme al fratello
Prospero entrò nell’Ordine di San Basilio, ottenendo in Calabria risul-
tati tutt’altro che insignificanti.92
In seguito anche Girolamo Bussale andò al nord, nel Triveneto,
come Giorgio Siculo e Camillo Renato e, come quest’ultimo (e nello
stesso anno 1538!),93 si recò per motivi di studio a Padova. Sembra
89
Sul circolo valdesiano di Napoli e sulla figura di Juan de Villafranca cfr. supra, par. II.
90
M. BIAGIONI, L. FELICI, La Riforma radicale nell’Europa del Cinquecento, cit., p. 80.
91
Sulla parentela tra i due si veda L. ADDANTE, Eretici e libertini nel Cinquecento italia-
no, cit., p. 175 n. 161.
92
ibidem, p. 78: «Nel 1529, ancora minorenne, Girolamo ottenne la commenda
dell’abbazia calabrese di Sant’Onofrio, nella diocesi di Mileto, su indicazione del cardinale
Andrea de Valle […] sempre grazie al cardinale, l’abate venne in possesso del decanato di
una “ecclesia Cotronensis” i cui frutti […] il cardinale riservò a sé. Morto quest’ultimo, Busa-
le non cessò di cumulare benefici e anzi riuscì a far inserire nel gioco anche suo fratello: nel
1535 cedette a Prospero l’abbazia di Sant’Onofrio, per ottenere l’anno dopo una pensione an-
nua sulla parrocchia di San Nicola in diocesi di Nicastro e, nel 1538, due nuove abbazie poste
nella diocesi di Mileto: San Lorenzo d’Arena e San Costantino de Panaìa».
93
Il fatto che sia Paolo Ricci che Girolamo Bussale si recarono a Padova nel 1538 per
studiare potrebbe suggerire un legame suggestivo tra i due, del quale però non sembra essere
rimasta traccia. Certa è l’attrazione dello Stato da Tera, ossia i domini veneziani sulla terra-
ferma, per chi in Italia era stato attratto dalla Riforma, perché l’autonomia della Serenissima e
92 Vincenzo Tedesco

che sia stato proprio l’ambiente patavino a portarlo sulla strada della
giustificazione per sola fede e a stimolarlo a fare proselitismo (il pri-
mo ad abbracciare le sue idee fu il parente Giulio Basalù). L’incontro
con la Riforma radicale veneta non solo ebbe un’importanza fonda-
mentale per Bussale, ma fu il primo passo per l’inizio dei contatti tra il
circolo valdesiano che operava a Napoli e la Riforma radicale in Ve-
neto: il monaco calabrese, infatti, oltre a intraprendere una graduale
rinuncia ai privilegi ecclesiastici di cui godeva (della quale beneficiò il
fratello Prospero), recatosi a Napoli, entrò anch’egli in contatto con
Juan de Villafranca e con i valdesiani napoletani e, dopo la morte di
quest’ultimo e di Francesco Calabrese, divenne una sorta di leader del
movimento, intensificò i contatti tra nord e sud della penisola e tentò
di importare nella teologia anabattista veneta dei concetti tipicamente
antitrinitari.94 Le tracce di Girolamo Bussale si perdono nel 1551,
quando, rientrato da Padova a Napoli e resosi conto che le maglie
dell’Inquisizione andavano stringendosi, si imbarcò per raggiungere
dei parenti ad Alessandria d’Egitto per poi vivere gli ultimi anni a
Damasco, traendo sostentamento dall’attività di sarto.95
Il panorama calabrese offre, nel XVI secolo, una grande varietà di
esperienze religiose più o meno tollerate in base alla congiuntura sto-
rica. Si è visto come un’intera comunità di valdesi fosse riuscita a vi-
vere e convivere con la popolazione autoctona fino alla metà del seco-
lo, quando tutta una serie di fattori che contribuirono a un mutamento
di clima diede luogo a uno dei più gravi episodi di intolleranza religio-
sa; si è visto anche come singole personalità, per lo più provenienti
dall’ambiente monastico, contribuirono allo sviluppo della riforma ra-
dicale sia a Napoli che nel nord Italia; a questo si aggiunga, per deli-
neare meglio un contesto particolarmente sfaccettato, la presenza se-
colare in Calabria di popolazioni ebraiche (rinvigorita nel 1492 dalla
loro espulsione dalla Spagna ma stroncata diciotto anni dopo, nel
1510, dalla loro espulsione anche dal Regno di Napoli) e
l’immigrazione di popolazioni albanesi di rito greco-bizantino che nel
corso del basso Medioevo erano fuggite dinnanzi all’avanzata turca

la sua posizione geopolitica ne facevano un luogo adatto alla diffusione anche delle idee più
radicali. Sul punto si vedano in particolare gli studi di Aldo Stella già citati alla nota 36.
94
L. ADDANTE, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, cit., pp. 78-80; 86-128.
95
Ibidem, pp. 77; 173 n. 150.
Forme di giustizia e dissenso religioso 93

nei Balcani.96 Era dunque un ambiente poliedrico, oltre che marginale


rispetto alle capitali amministrative spagnole, e questo avrebbe potuto
stimolare facilmente il dialogo e il fiorire di idee particolarmente ardi-
te.
Per concludere il quadro della religiosità in Calabria nel XVI seco-
lo non resta che trattare un ultimo tema, quello della filosofia. Può
sorgere spontaneo il dubbio se la filosofia possa rientrare a pieno tito-
lo in una ricostruzione di questo tipo e quali possano essere i suoi rap-
porti con la religione, ma questi dubbi potrebbero facilmente essere
fugati ricordando che, dopo la fine del Concilio di Trento, la defini-
zione sempre più puntuale delle competenze del Sant’Uffizio e la
creazione dell’Indice dei libri proibiti,97 l’impianto controriformistico
della Chiesa cattolica portò alla repressione di ogni tipo di dissenso e
di arditezza di pensiero, per cui anche la filosofia (che dal Rinasci-
mento in poi risulta sempre più distante dalla scolastica medievale) in
età moderna dovette fare i conti con la censura e l’impianto repressivo
inquisitoriale.98 D’altronde, una certa commistione tra filosofia e dis-
senso religioso a volte si verificò, come nel caso di Agostino Doni,
medico e filosofo cosentino, la cui vita sembra intrecciarsi con tutti i
temi precedentemente trattati.
Come ricorda lui stesso in una lettera del 1580, pare che, ancora
giovanissimo, fosse stato detenuto per ben cinque anni nelle carceri
dell’Inquisizione.99 Questa circostanza, abbastanza inusuale per un
adolescente, ha fatto pensare che possa essere collegata alla repressio-
ne del valdismo in Calabria del 1561, di cui si è detto, per cui si è de-
dotto che Agostino Doni sarebbe nato intorno agli anni ’40 del seco-
lo100 Sui motivi dell’incarcerazione e dei primi problemi con
l’Inquisizione fanno luce alcune lettere inviate, tra l’aprile e l’ottobre
del 1568, dall’arcivescovo di Cosenza, Tommaso Telesio (fratello del
96
Sulla presenza ebraica in Calabria cfr. O. DITO, La storia calabrese e la dimora degli
ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI. Nuovo contributo per la sto-
ria della questione meridionale, Brenner, Cosenza 1979; per quanto concerne l’arrivo delle
popolazioni albanesi dall’est europeo cfr. invece C. ROTELLI (a cura di), Gli albanesi in Cala-
bria. Secoli XV-XVIII, Orizzonti Meridionali, Cosenza 1988.
97
Cfr. supra, par. I.
98
Sull’atteggiamento dell’Inquisizione nei confronti della filosofia: A. DEL COL,
L’Inquisizione in Italia, cit., pp. 542-557.
99
A. ROTONDÒ, Studi di storia ereticale del Cinquecento, Leo Olschki, Firenze 2008, vol.
I., p. 762.
100
Il collegamento con la strage dei valdesi è stato ipotizzato per la prima volta da Luigi
De Franco e successivamente accolto in A. ROTONDÒ, DONI, Anostino, in DBI, vol. 41, 1992.
94 Vincenzo Tedesco

filosofo Bernardino), al cardinale inquisitore Scipione Rebiba, che at-


testano l’esternazione, da parte del giovane, di dubbi sull’immortalità
dell’anima, la sua confessione sotto tortura e la successiva abiura.101
Inoltre, dopo la scarcerazione seguì il percorso classico degli emi-
grati pro religionis causa: dopo un periodo di studi compiuti proba-
bilmente a Padova o a Ferrara, fuggì dall’Italia, giungendo a Basilea
negli ultimi mesi del 1579.102 Ciò che lo distingue dagli altri emigrati
presi in esame è il suo grande interesse verso la filosofia della natura,
per il quale venne accostato a un filosofo cosentino ben più celebre di
lui: Bernardino Telesio.103 Ora, se i termini del rapporto tra i due sono
ancora dibattuti, è concepibile ritenere che nella prima formazione di
Doni a Cosenza, quando per la prima volta si fece vivo in lui
l’interesse per la filosofia naturale, fosse entrato in contatto con
l’Accademia Cosentina e con Bernardino Telesio che, nel 1565, aveva
dato alle stampe i primi due libri della sua opera maggiore, il De natu-
ra iuxta propria principia,104 imponendosi come il maggior filosofo
naturalista dell’epoca.
Il pensiero filosofico di Doni prese corpo a Basilea dove, dopo aver
conseguito un dottorato in medicina nel 1580, diede alle stampe la sua
opera principale, il cui titolo per esteso è De natura hominis libri duo,
in quibus discussa tum medicorum tum philosophorum antea probatis-
simorum caligine, tandem quid sit homo naturali ratione ostenditur
(Basilea, 1581): nell’opera, dopo aver affermato la superiorità
dell’osservazione empirica dei dati forniti dalla natura, muove una cri-
tica serrata alla fisica classica tramandata nel pensiero occidentale dal-
le opere di Platone, Aristotele, Ippocrate e Galeno.105 Il trattato venne
101
M. VALENTE, Libertas philosophandi: Agostino Doni da Cosenza a Cracovia, in «Ar-
chivio storico per la Calabria e la Lucania», 69 (2002), pp. 121-122, 130-131.
102
A Basilea trovò una sistemazione fin troppo simile a quella di molti rifugiati italiani:
venne ospitato in casa dell’esule romano Francesco Betti e trovò lavoro presso la stamperia di
Pietro Perna (Ivi).
103
Sul rapporto di discepolato tra Telesio e Doni persistono alcuni dubbi inerenti al con-
tenuto delle opere di quest’ultimo. Se Francesco Bacone scrisse esplicitamente «Bernardinus
Telesius et discipulus eius Augustinus Donius» (F. BACONE, De dignitate et aumenti scien-
tiarum, IV, 3) e sicuramente molti contemporanei convennero con il giudizio del filosofo in-
glese, Luigi De Franco ha notato che «in realtà, pur nella comune trattazione di una filosofia
prettamente naturalistica, i due pensatori sono su due posizioni del tutto diverse e contrastanti,
e nulla hanno in comune se non il fatto di essere ambedue cosentini e di occuparsi di filosofia
naturale» (L. DE FRANCO, Introduzione a Bernardino Telesio, Rubbettino, Soveria Mannelli
1995, p. 387).
104
B. TELESIO, La natura secondo i suoi princìpi, Bompiani, Milano 2009.
105
A. ROTONDÒ, DONI, Anostino, in DBI, vol. 41, 1992, pp. 154-158.
Forme di giustizia e dissenso religioso 95

dedicato, significativamente, al re di Polonia Stefano Bàthory (1533-


1586) e proprio in quello stesso anno, essendo diventato scottante il
suolo della Svizzera a causa dell’audacia delle sue idee, Agostino Do-
ni fuggì in direzione nord-est. Dell’ultima parte della sua vita sappia-
mo ben poco: giunto a Breslavia «quasi nudo, senza danaro e senza
lettere commendatizie»,106 dopo una breve tappa presso il diplomatico
imperiale Andrea Dudith-Sbardellati, ripartì in direzione Cracovia,
dove si stabilì definitivamente. Qui, stando alla testimonianza del
nunzio apostolico in Polonia Alberto Bolognetti, «ebbe aspre contro-
versie di natura religiosa […] con l’esule Gian Michele Bruto. Allo
stesso Bolognetti risalgono le ultime notizie, non controllabili sul Do-
ni: la sua riconversione al cattolicesimo, il suo servizio di medico
presso il vescovo di Cracovia Piotr Miszkowski, la voce che il Doni
fosse stato fatto assassinare da Fausto Sozzini, la sua partenza da Cra-
covia per destinazione ignota».107
Dopo la repressione del valdismo in Calabria e l’emigrazione dei
pensatori più arditi, l’occhio ormai vigile dell’Inquisizione locale si
rivolse alla filosofia. Di questo mutamento di atteggiamento nei con-
fronti del libero pensiero filosofico è emblema la travagliata vicenda
della condanna degli scritti di Bernardino Telesio. Il celebre filosofo
naturalista, infatti, aveva sempre sottoposto i suoi scritti alla revisione
ecclesiastica, ottenendo sempre un parere di conformità ai dettami del-
la religione cattolica, ma già nel corso della sua vita aveva ricevuto
accuse di natura non solo filosofica,108 ma anche religiosa, come è di-
mostrato da una lettera inviata dallo stesso Telesio al cardinale Flavio
Orsini il 28 aprile 1570, scritta per difendersi da attacchi provenienti
non da una città lontana, ma dalla sua stessa città natale:

106
Ivi.
107
Ivi (corsivi dell’autore). Le notizie su Agostino Doni che, come si è potuto constatare,
sono fin troppo vaghe dopo il suo trasferimento in Polonia. e terminano il 23 aprile 1583,
quando viene menzionato per l’ultima volta dal nunzio Bolognetti. Sulla notizia della ricon-
versione di Doni al cattolicesimo è stato rinvenuto da Michaela Valente un riscontro tra le car-
te dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (ACDF, St. St. P4 b, 1583, f.
00): «una nota nel verbale della riunione del Sant’Uffizio del 10 febbraio 1583 testimonia la
convocazione di Doni dinnanzi ai cardinali inquisitori che presumibilmente intendevano veri-
ficare la sincerità della conversione al cattolicesimo» (M. VALENTE, Libertas philosophandi,
cit., p. 128).
108
Il grande avversario della filosofia telesiana era l’aristotelismo, che tanto era stato av-
versato dal filosofo cosentino e della sua cerchia.
96 Vincenzo Tedesco

Io credevo che se pur la mia innocentia non bastasse à farmi vivere quieto, lo
dovesser poter far le tante tribolationi e miserie, che ho patito, poi ch’erano
tali, che mi dovevano trovar compassione appresso qualsivoglia animo fiero,
et nemico. Credevo anche che in Cosenza non ci fossero occhi tanto acuti,
che quelli miei errori quali non sono stati visti in Roma, ne per il resto
dell’Italia, fosser visti in Cosenza. Ma vedo mi son ingannato, che ‘l
r(everen)do m(onsignor) Gio:battista di Benedetti mi dice esser stato avverti-
to in Cosenza, che nell’opera mia stampata già cinqu’anni in Roma con licen-
tia del padre Luccatello ci son altre propositioni contra la religione.109

Telesio in vita si seppe difendere dalle accuse mosse alle sue opere,
anche grazie alle protezioni importanti che poteva vantare: il «padre
Luccatello» citato nella lettera, per esempio, è il padre domenicano
Eustachio Locatelli, confessore di quel famoso Michele Ghislieri sali-
to al soglio pontificio nel 1566 con il nome di Pio V. Con la morte del
filosofo consentino, però, la situazione mutò rapidamente fino a porta-
re, nel 1596, a otto anni dalla sua scomparsa, all’inserimento
nell’Index librorum prohibitorum di ben tre sue opere: il suo trattato
più importante, ossia il De rerum natura iuxta propria principia e altri
due opuscoli, pubblicati postumi, dal titolo De somno e Quod animal
universum ab unica animae substantia gubernatur. Contra Ga-
lenum.110
Un ulteriore esempio di questo inasprirsi dell’atteggiamento delle
autorità religiose nei confronti della filosofia telesiana è dato dal pri-
mo processo subito da un suo giovane seguace proveniente da Stilo,
nella Calabria Ulteriore, dove era nato nel 1568: Campanella, che era
stato battezzato con il nome di Giovan Domenico, era entrato
nell’Ordine domenicano e aveva mutato il nome in Tommaso.111 Dopo
la morte di Telesio, Campanella aveva scritto la sua prima opera, la
109
L. DE FRANCO, Introduzione a Bernardino Telesio, cit., p. 66. La lettera è stata edita
per la prima volta in G. DE MIRANDA, Una lettera inedita di Telesio al Cardinale Flavio Orsi-
ni, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 3 (1993), pp. 361-375.
110
Sulle vicende che portarono alla messa all’indice delle opere telesiane, qui soltanto ac-
cennate, cfr. L. DE FRANCO, Introduzione a Bernardino Telesio, cit., pp. 65-79 e V. NAPOLIL-
LO, Bernardino Telesio filosofo e poeta. La natura e l’Inquisizione, Orizzonti Meridionali,
Cosenza 2010, pp. 45-54.
111
La notizia è ripresa da L. FIRPO, CAMPANELLA, Tommaso, in DBI, vol. 17, 1974, pp.
372-401. Sulla figura di Tommaso Campanella e sulle sue numerose vicissitudini con
l’Inquisizione si vedano anche: C. F. BLACK, Storia dell’Inquisizione in Italia, cit., pp. 281-
282 (edizione originale p. 186); A. DEL COL, L’Inquisizione in Italia, cit., pp. 548-551; V.
FRAJESE, Profezia e machiavellismo. Il giovane Campanella, Carocci, Roma 2002; ID., Cam-
panella, Tommaso, in DSI, vol. I, pp. 250-252 e, soprattutto, L. FIRPO, I processi di Tommaso
Campanella, ed. Eugenio Canone, Salerno, Roma 1998.
Forme di giustizia e dissenso religioso 97

Philosophia sensibus demonstrata (1591), proprio per prendere le di-


fese del “maestro” dagli attacchi del giurista napoletano Gian Antonio
Marta, che nel 1587 aveva pubblicato il Pugnaculum Aristotelis ad-
versus principia Bernardini Telesii.112
Le simpatie per la filosofia di Telesio portarono Campanella, a
neanche un anno dalla pubblicazione della sua prima opera, alla sua
prima incarcerazione e al suo primo processo, durante il quale venne
condannato ad abbandonare Telesio e a riaccostarsi alla dottrina di
Tommaso d’Aquino. In seguito il pensatore calabrese, tuttavia, non ri-
spettò la sentenza di condanna e fuggì a Padova, dove rimase tra il
1593 e il 1594; del successivo, ulteriore arresto e delle torture subite,
del suo rilascio e del rientro a Stilo nel 1598 e di tutte le sue travaglia-
te vicende con l’Inquisizione romana, che lo sottopose perfino a ben
trentasei ore di tortura «della veglia» per verificarne lo stato di infer-
mità mentale,113 non si tratterà in questo contributo perché è una storia
che porta direttamente al XVII secolo, ma basti qui constatare come
quella del 1592 fu una condanna per nulla fisica, ma che mirava
all’intimo della coscienza. Condannare le idee, le posizioni di un uo-
mo, la sua preferenza per un tipo di pensiero piuttosto che un altro;
condannare a non confidare più in una filosofia, quella telesiana, che
non era ancora stata bandita, ma che era oggetto di critiche, e costrin-
gere a ritenere più corretto il pensiero di Tommaso d’Aquino, il Dotto-
re Angelico dall’indubbia ortodossia: è da queste sentenze che viene
percepito il significato ultimo dell’azione inquisitoriale, da casi come
quello di Campanella viene alla luce il punto di arrivo di un secolo di
tensioni religiose in Europa.114

112
Campanella non conobbe direttamente Telesio, che morì quando il filosofo di Stilo non
aveva ancora compiuto vent’anni. Assistette però al suo funerale, lasciandone una vivida te-
stimonianza: «e dato che mentre mi trovavo colà (cioè a Cosenza) il sommo Telesio morì, non
mi fu possibile ascoltare da lui le sue dottrine né di vederlo vivo, ma solo da morto, quando
già era stato portato in chiesa; e lì, scoprendo il suo volto, potei ammirarlo ed al suo tumulo
affissi parecchi versi che di lui cantavano» (T. CAMPANELLA, La filosofia che i sensi ci addi-
tano, Introduzione, traduzione e note di L. DE FRANCO, prefazione di L. FIRPO, Libreria Scien-
tifica Editrice, Napoli 1974, p. 13); sulla polemica antitelesiana di Marta cfr. L. DE FRANCO,
Introduzione a Bernardino Telesio, cit., pp. 57, 73.
113
Su queste vicende si rimanda ai testi citati alla nota 111.
114
È d’obbligo qui il riferimento all’importante opera (peraltro già citata in altri contesti)
A. PROSPERI, Tribunali della coscienza, cit., e non è un caso che il titolo sia stato suggerito
all’autore proprio «dalla memoria involontaria» di un’opera di Tommaso Campanella, il quale
aveva definito i luoghi della confessione, appunto «li tribunali de la conscienza» (Prefazione
all’edizione del 2009, pp. XI-XII; il testo di Campanella è in G. ERNST (a cura di), T. CAMPA-
98 Vincenzo Tedesco

66*59&:.21.(21(/86.9*

Dopo aver chiarito il quadro giuridico al quale era legata la repres-
sione del dissenso religioso in Sicilia e in Calabria, analizzandone le
affinità e le diversità, e dopo aver tracciato per grandi linee alcune tra
le maggiori esperienze religiose “eterodosse” che hanno riguardato in
tutto o in parte la storia di queste due regioni poste all’estremità meri-
dionale dell’Italia, è giunto ora il momento di tirare le somme.
In Sicilia la pressione di un tribunale inquisitoriale sempre vigile e
attento, già perfettamente in funzione prima ancora dell’avvio dello
scisma luterano, non ha creato i presupposti per la formazione di co-
munità stabili di individui non aderenti alla fede cattolica dominante e
quelle già insediatesi prima dell’instaurarsi dell’Inquisizione spagnola,
come l’importante presenza ebraica, vennero espulse all’inizio dell’età
moderna in nome dell’omogeneità religiosa. Le idee della Riforma
protestante, tuttavia, riuscirono a penetrare nell’isola a causa della dif-
ficoltà intrinseca di tenere sotto controllo ogni via d’accesso e fecero
diversi proseliti; alcuni individui vennero prontamente catturati e pro-
cessati e vi fu chi venne condannato al rogo dopo la solenne cerimonia
dell’Autodafé, altri, che pure ebbero salva la vita, finirono imbrigliati
tra le fitte maglie della giustizia inquisitoriale, come dimostra perfet-
tamente il caso Spatafora; infine, alcuni pensatori siciliani come Paolo
Ricci e Giorgio Rioli, emigrati altrove, dove la repressione era (alme-
no inizialmente) meno accanita, contribuirono notevolmente allo svi-
luppo e alla diffusione di idee particolarmente radicali.
In Calabria, invece, un sistema più blando aveva permesso
l’insediamento di diverse comunità come quella ebraica, quella alba-
nese di rito greco-bizantino115 e quella valdese di lingua occitana, che

NELLA, L'ateismo trionfato, ovvero riconoscimento filosofico della religione universale contra
l'antichristianesimo macchiavellesco, Edizioni della Normale, Pisa 2004, vol. I, p. 114.
115
La presenza albanese, qui citata per completare il quadro della società calabrese
all’alba dell’età moderna, costituisce in effetti un caso a sé. È noto che popolazioni greco-
albanesi, in fuga dall’espansione ottomana, si stanziarono non solo in Calabria, ma anche in
Sicilia (vi è tutt’oggi una comunità arbëreshë vicino Palermo, nella località denominata, ap-
punto, Piana degli Albanesi); questa permanenza, tuttavia, ebbe esiti ben diversi rispetto a
quelli delle altre minoranze etnico-religiose. Nonostante alcune iniziative che portarono
all’assorbimento nell’area cattolica di queste popolazioni, come il breve che Paolo IV inviò
nel 1556 ai vescovi di Calabria e di Puglia, chiedendo loro di procedere «contra errores grae-
corum», o come la creazione di una Congregazione per la riforma dei greci esistenti in Italia
e dei monaci e dei monasteri dell’ordine di San Basilio, che operò dal 1573 al 1596, gli alba-
nesi riuscirono a mantenere nei secoli una propria identità culturale fondata sul rito greco-
Forme di giustizia e dissenso religioso 99

riuscirono a convivere proficuamente con la popolazione autoctona.


Dopo l’espulsione degli ebrei dal Regno di Napoli nel 1510, fu pro-
prio la truce repressione del gruppo etnico-religioso valdese del 1561
a divenire l’emblema del mutamento di clima in senso repressivo che
caratterizzò la svolta controriformistica della Chiesa cattolica e degli
stati secolari legati a essa. Di questo nuovo contesto patì le conse-
guenze anche il libero pensiero filosofico che, dopo la fine del timore
per la diffusione della “peste luterana”, a partire dagli ultimi anni del
XVI secolo entrò tra le mire degli inquisitori, sempre più desiderosi di
mantenere una completa rettitudine di pensiero a scapito delle più ar-
dite intuizioni nei più svariati campi del sapere.
Infine, un dato interessante che accomuna la Calabria Citra, la Ca-
labria Ultra e la Sicilia è l’emigrazione pro religionis causa. Lungo
tutto l’arco del secolo diversi individui scelsero di emigrare verso
nord: se dalla Sicilia partirono Camillo Renato e Giorgio Siculo, an-
che la Calabria ebbe i suoi emigrati, tra cui spiccano le figure di Fran-
cesco Calabrese, Girolamo Bussale e Agostino Doni. Sono esempi tra
i più vari di una particolare “fuga di cervelli” e le singole esperienze
presentano talora aspetti comuni, talora molto diversi, ma raffigurano
comunque delle immagini di un mondo complesso che vede il pro-
gressivo delinearsi di uno scenario di intolleranza religiosa che non la-
scia spazio a forme minoritarie di pensiero.

bizantino. Sul punto si vedano P. SCARAMELLA, L’Inquisizione romana e i Valdesi di Cala-


bria, cit., pp. 23-25 e A. DEL COL, L’Inquisizione in Italia, cit., pp. 522-523.

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