nobile (hidalgo) della regione della Mancia appassionato a tal punto di libri di
cavalleria da intravedere solo in essi i valori e il senso autentico della vita.
Persa quindi la nozione della realtà a causa della lettura di questi testi, decide di
trasformarsi anche lui in cavaliere «errante» e di andare alla ricerca di avventure
eroiche. Lascia allora il villaggio d’origine e la sua condizione di modesto nobile,
annoiato ormai dai «momenti che stava senza far nulla (che erano i più
dell’anno)» [p.29].
Don Chisciotte prende poi un sacco di botte da alcuni mercanti toledani che egli
vorrebbe costringere a rendere omaggio all’impareggiabile bellezza di Dulcinea.
Infine, stremato e fuori di sé, è raccolto da un contadino del suo paese che lo
riporta a casa dove la nipote e la governante lo stavano aspettando con ansia.
Durante la notte, il curato e il barbiere fanno un rogo di libri trovati nella sua
biblioteca, responsabili della follia dell’amico, salvandone ben pochi. Ma questo
non basta a far cambiare idea al cavaliere della Mancia.
Una volta a casa Don Chisciotte cade preda di una forte febbre:
dopo sei giorni a letto il cavaliere errante si sveglia da un sonno di sei
ore invocando la propria morte e sostenendo di aver ritrovato il senno.
Don Chisciotte quindi si confessa e, poco dopo, muore.
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Un po’ di tempo fa viveva nell’entroterra caldo e arido della Spagna un piccolo proprietario
terriero di quelli così affezionati ai vecchi tempi dei cavalieri che continuava a conservare
lance ed elmi, scudi e insegne da cavaliere. Il suo nome era Chischiada o Chesada o
qualcosa del genere…
Con lui vivevano la devota nipote, una cameriera che provvedeva a tutto quel che era
necessario in casa, e un contadino che gli faceva anche da stalliere badando a quell’unico
ronzino – più che un cavallo – che era rimasto.
Nella sua enorme biblioteca passava intere giornate leggendo e rileggendo i suoi libri di
cavalieri, d’arme e d’eroi. Tanto che un giorno finì per confondere la realtà con la finzione
delle storie di cui si era nutrito.
In preda al delirio decise che dal quel giorno sarebbe stato un cavaliere, si diede nome di
Don Chisciotte della Mancia, che a gli sembrava suonasse molto bene.
Al suo cavallo, magro e indebolito dall’inattività diede il nome di Ronzinante che, gli parve,
elevasse il suo stato di ronzino a il più abile ronzino del mondo.
Viveva in paese una giovane contadinotta di cui si era da tempo invaghito, a lei diede il
nome di Dulcinea del Toboso, deciso a difenderla e onorarla, come fa ogni buon cavaliere con la
sua dama.
Senza dunque far parola a nessuno, una mattina prima del giorno, indossò una delle sue
misere armature, rattoppata con cartone, mise in testa l’elmo a cui aveva fatto una visiera
con uno scolapasta, acchiappò un’asta e salì in groppa a ronzinante.
Andò in giro per tutto il giorno e alla sera, stanco e spossato giunse nei pressi di un’osteria
che a lui parve essere un castello. Lì davanti vi era una carrozza con una giovane donna e la
sua dama di compagnia, che vedendo questo strano tipo con elmo e visiera, su un cavallo
mal concio entrarono a proteggersi nell’osteria. Proprio in quel momento un porcaro
suonò un corno per radunare i maiali. A Don Chisciotte sembrò che davanti al castello si
adunassero le guardie per dargli il ben venuto.
Sperando di poter essere investito ufficialmente come cavaliere, Don Chisciotte decide di
passare la notte vegliando davanti alla chiesetta del castello, che in verità non è altro che
un pozzo. Così finisce per cacciare via a colpi di lancia i pastori che si avvicinano al pozzo
per abbeverare le bestie. L’oste che don Chisciotte crede il castellano, ha capito che il tipo
non ci sta con la testa e lo convince a tornare a casa per procurarsi del denaro e uno
scudiero senza il quale non sarebbe stato riconosciuto come un vero cavaliere.
Tornato a casa stanco e ferito per una caduta da cavallo, la nipote, il prete e il barbiere lo
assistono e decidono di far murare la biblioteca, dicendogli che un mago per fargli dispetto
ha trasportato via l’intera stanza con dentro i libri. Allor quando si è ristabilito a Don
Chisciotte ritorna la fissazione di riprendere il suo viaggio eroico. Gli affiancano allora un
contadino, Sancho Panza con il suo asino. A lui Don Chisciotte promette che alla fine delle
loro avventure gli avrebbe donato un’intera isola.
Dopo una giornata di cammino, quando si fa viva la stanchezza, i due vedono in lontananza
dei mulini a vento. Don Chisciotte si convince che siano dei giganti e brandendo la sua
lancia si dirige contro di loro al galoppo. Si scaglia allora contro uno dei bracci del mulino
ne rompe la tela convinto di averlo così ferito, ma si incastra tra le pale e il turbinio
dell’ingranaggio lo disarciona e lo scaglia lontano a terra.
Sancho Panza lo soccorre e lo tranquillizza facendogli vedere che i giganti sono in realtà dei
mulini. Ma Don Chisciotte nella sua follia dice: «Le cose della guerra più di ogni altra sono
soggette a mutamenti in effetti io penso e sono sicuro che quel tal mago che mi rubò la stanza
dei libri ha cambiato questi giganti in mulino per farmi dispetto».
I due trascorrono la notte in un bosco e Don Chisciotte avverte Sancho che mai dovrà intervenire negli
scontri con altri cavalieri, ma solo se dovranno affrontare una banda di briganti o gente vile.
Il giorno dopo vedono in lontananza due frati a dorso di muli e subito dietro una carrozza con dentro
una donna. Don Chisciotte so convince che essi hanno rapito la donna e si scaglia contro di loro facendo
cadere uno dal mulo e mettendo in fuga l’altro. Si rivolge allora alla donna dicendole di averla salvata e
che deve andare dalla sua amata Dulcinea per raccontarle le gesta di Don Chisciotte. Le guardie che
erano con lei non intendendo cambiare il loro percorso.
Inizia una lotta con le guardie e Don Chisciotte ferito ad un orecchio inizia a combattere come un
forsennato sino a disarcionare una delle guardie per dargli il colpo di grazia, tutti allora lo fermano
implorando di salvare la vita della guardia. Don Chisciotte allora gli risparmia la vita facendogli
promettere che andranno da Dulcinea del Toboso per raccontare del suo eroismo…
Sancho, nella sua creduloneria, chiede a Don Chisciotte se con questa eroica battaglia abbia conquistato
qualche terra che possa dargli da governare. Ma Don Chisciotte lo ammonisce dicendogli che era stato
un gesto di lealtà verso la dama e contemporaneamente un’occasione per allenarsi.
Don Chisciotte si fa medicare la ferita all’orecchio con un balsamo composto di erbe dicendo a Sancho
che bastano due gocce per curarlo. Sancho si convince allora che potrà vendere il balsamo e diventare
ricco.
Sulla strada dei due si fanno incontro due greggi di pecore per separare le quali i pastori girano intorno
agitando i loro bastoni. Don Chisciotte è convinto che siano due eserciti in guerra ed è deciso a prendere
le difese del più debole. Ancora una volta si scaglia nella mischia finendo per essere travolto
dall’irruenza degli animali.
Alllontanate le greggi Don Chisciotte si rimette in piedi, sporco e malconcio: «Quel maligno
incantatore che mi perseguita ha mutato questo esercito in gregge. Ho bisogno del tuo
aiuto, Sancho, ho paura che mi manchino i denti…»
Vedi, Sancho, un uomo vale più di un altro solo se fa più di un altro. Le burrasche che
abbiamo passato stanno per finire e presto verrà il sereno. Il male e il bene non sono mai
duraturi, e siccome il male dura da molto tempo… il bene deve essere vicino. Perciò non
angustiarti per le disgrazie che mi capitano, visto che non capitano a te.»
Sancho allora lo rincuora «Adesso sì che potete dirvi di chiamarvi Don Chisciotte della
Mancha» e gli dà il soprannome de “il cavaliere dalla triste figura”.
DOPO I MULINI
«Viveva, non ha molto, in una terra della Mancia, che non voglio ricordare come si chiami, un idalgo di
quelli che tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, magro ronzino e cane da caccia.»
Di nome Chisciada o Chesada, viveva al modo dei grandi signori tanto da
consumare gran parte delle sue rendite. Insieme a lui la devota nipote,
una serva e un servitore che sapeva così bene sellare il cavallo come potare le viti.
Passava gran parte del suo tempo leggendo e rileggendo i suoi libri di
cavalieri, d’arme e d’eroi. Tanto un giorno finì per confondere la realtà
con la finzione delle storie di cui si era nutrito.