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DIALETTOLOGIA

Prof. Vincenzo Faraoni


Lettere Moderne
AA 2021-2022
Clara Meschini

Preliminari di metodo

Dialetto e Lingua

08 MARZO 2022

La dialettologia studia i dialetti, i quali rispetto alla lingua “non hanno una marina e un esercito”. Si tende a
pensare che il dialetto non abbia una grammatica, ma in realtà non è così. Il termine dialetto utilizzato disegna
una varietà linguistica non standardizzata, tendezialmente ristretta all’uso orale entro una comuniutà locale ed
esclusa dagli impieghi formali ed istituzionali che invece sono propri della lingua. Il dialetto possiede una sua
grammatica, ma molto spesso viene pensanto il contrario. Essa non viene studiata a scuola perché ufficialmente
non è riconosciuta come una lingua da parte delle istituzione di quel determinato paese. Un parlante napoletano,
per esempio, sarebbe in grado di riconoscere chi utilizza un termine napoletano in maniera errata. Ha
un’estensione più limitata rispetto a quello della lingua vera e propria. Il dialetto rispetto alla lingua è privo di
un riconoscimento ufficiale. Com’è noto, la specifica lingua è affidata all’italiano standard su base toscana,
assourto al rango di lingua nazionale in seguito a vicende storico – politiche – culturale fra i secoli XIV e XVI.
Dal Cinquecento e in particolare a partire dal prevalere della linea culturale rappresentata da Pietro Bembo e
della sua codificazione nelle Prose della volgar lingua (1525), nessuno in Italia ha dubitato dello status di
lingua del fiorentino, divenuto dapprima strumento di espressione scritta dei soli ceti intellettuali e per i soli usi
alti ed infine estosi, in fase postunitaria e soprattutto nel secondo Novecento, a tutte le fasce sociali come varietà
dell’uso quotidiano. Quest’ascesa di questo volgare toscano a rango di lingua ha avuto delle conseguenze, ha
fatto diventare dialetti municipali tutte le altre parlate. Le ha rese sul piano sociolinguistico del tutto
subalterne: il dialetto funge da varietà bassa il quale è subordinato all’Italiano di base toscana che invece è una
varietà alta. Per repertorio linguistico intendiamo l’insieme delle risorse linguistiche a disposizione di una
comunità linguistica o di un parlante. Nel primo caso, quando si fa riferimento ad una comunità linguista si parla
di repertorio comunitario mentre nel secondo caso di repertorio individuale. Il repertorio linguistico di
un parlante o di una comunità comprende una o più lingue o dialetti ciascuno dei quali costituito a sua volta da
un insieme di varietà diastratiche e diafasiche, la selezione di un codice rispetto all’alto è regolato dalla comuniutà.
Il passaggio tra dialetto e lingua non avviene in
maniera causale, succede solo nel romano e nel
toscano per ragioni storiche. Nel caso del
napoletano invece c’è una piena consapevolezza
del cambio di codice. Non si parla più di
continuum ma di discretum. Dalla suddetta
subalternità sociolinguistica che indubbiamente
c’è, la concezione popolare deduce spesso una
secondarietà storica e anche strutturale –
funzionale.

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• Subalternità storica: i dialetti vengono visti dal parlante come forme alterate e corrotte dell’italiano.
Ma sappiamo che ovviamente non è così perché sia l’italiano che i dialetti sono derivazioni dalla stessa
lingua madre [nel Quattrocento i dialetti sono tutti sullo stesso livello, non ce n’è uno che prevale rispetto
all’altro. Questo cambiamento ce l’abbiamo a partire, come abbiamo visto, dal Cinquecento].

• Subalternità strutturale – funzionale: è erroneo pensare che i dialetti non abbiano una
grammatica e che se ce l’hanno essa sia povera. Oppure che siano limitati lessicalmente cioè che non
hanno le parole utili per esprimere i concetti di uso quotidiano o che non consentano conversazioni di
alto livello. E’ quindi un errore di prospettiva. Nessuno impedisce di scrivere una grammatica di un
determinato paese [esistono grammatiche dialettali https://tempicorsica.com/] e di utilizzare un dialetto
per parlare di temi alti. E’ importante sottolineare che la differenza è di natura sociolinguistica
e non strutturale.

09 MARZO 2022

Il repertorio linguistico in Italia: fra dialetto e lingua

Dialetti romanzi primari: quelle varietà che con esso [italiano] stanno in rapporto di subordinazione
sociolinguistica e condividono con esso una medesima origine (latina): piemontese, emiliano, abruzzese,
salentino, sicialiano ecc. Lo potremmo definire un rapporto di sorellanza con l’italiano. Sono tutte varietà che
sul piano storico – genealogico si trovano sullo stesso livello in quanto hanno in comune la stessa lingua madre.

Dialetti secondari: quei dialetti insorti dalla differenziazione geografica di tale lingua anziché di una lingua
madre comune. Non è un rapporto di sorellanza ma si dovrebbe parlare di una vera e propria filiazione diretta.
Lo sono l’inglese americano e lo spagnolo parlato in America. Sono secondari rispetto all’italiano anche i
cosiddetti italiani regionali, quei tipi di italiano che variano su base geografia e che rispetto allo schema di
ieri si interpone tra dialetto locale e italiano regionale. .

Italini regionali: la loro nascita si deve ad un’azione di sostrato esercitata dei vari dialetti locali sull’italiano
quando questo veniva appreso da parlanti esclusivamente dialettofoni. Diffondendosi regionalmente ed essendo
parlato da persone che parlavano solo dialetto, esso inizia ad assimilare alcuni tratti dialettali, diventando un
ibrido. Dialettofono siciliano che impara l’italiano: fede verrà pronunciato fɜde (e aperta) la lingua viene adatta
al vocalismo del dialetto. Fenonome uguale dai cui nasce l’italienglish (“The” – anziché “de” lo pronunceremmo
“te”).

Repertorio linguistico italiano presenta una stratificazione su tre livelli (San Tommaso Agordino – Belluno):
• Italiano standard - [un wɔmo aveva due fiʎʎi |il pju ǧ̌ǧóvane disse al padre]
• Italiano regionale – [uŋ wɔmo aveva due fiǀʲi |il pju pik(k)olo a dɛt(t)o al suo papá]
• Dialetto regionale - [n ɔmo el g aveva do fjoi | el pju z̤oven ge a tiito al so papá]
• Dialetto locale – [an ɔm l a(v)él doi̯ fjoi | el pi ðoven al ge a dit a so pare]

Dialetto regionale: caratteristico solo di alcune regione d’Italia, si sviluppa quando in virtù del prestigio di
una singola varietà, tale varietà si diffonde in una regione più ampia affiancandosi ai dialetti locali,
influenzandoli e talvolta scalzandoli. Es. Veneziano in veneto in alcune aree friuliane.

Italiano regionale ≠ dialetto regionale (veneziano) osserviamo che viene meno il dittongo [wɔ] (omo e
non uom)o. Deaffricazione [dʒ] > [dz > [z], caduta di -e dopo (l, n, r) ([zoven]), critici soggetto el (non traducibile

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in italiano), il verbo di possesso del tipo averci (g aveva do fjoi – c’aveva due figli), articolo el, presenza del tipo
ci ha detto (vale gli ha detto, a lui [ge a dito]) con ci “clitico tuttofare”, possessivo so, numerale do e non due.
Tipo lessicale figliolo per indicare e disegnare la parola figlio (uso del diminutivo con valore neutro).

Italiano regionale ≠ italiano standard fenomeno tipico del settentrione ovvero lo scempiamento delle
doppie e assenza del raddoppiamento fonosintattico1 ricordo al passato prossimo anziché del remoto e ciò
influenza anche le varietà settentrionali. Selezione di un tipo lessicale diverso non più giovane, ma piccolo che è
più colloquiale.

Dialetto locale ≠ dialetto regionale: caduta delle vocali finali ≠ - a a prescindere dal tipo di consonante
che gli precede (ɔm, dit ðoven ma regolare pare) al contrario del Veneziano (controllare sopra). Così come
avviene in tutti i dialetti settentrionali chiamati gallo-italici ovvero quell’io che si trovano ad occidente nel
settentrione (il dialetto locale in questione pur essendo ad est si comporta come se fosse occidentale) C’è poi un
indebolimento di [v] nelle forme dell’imperfetto. Numerale doi, verbo di possesso del tipo avere, clitico soggetto
davanti a vocale diventa l e non el. E’ presente però “el pi ðoven” e non “l pi ðoven” questo perché evidentemente
a San Tomaso Agordino e in altri dialetti settentrionali il clitico soggetto è presente obligatoriamente per tutte le
persone mentre in altre varietà come ad esempio il veneziano e la koiné veneta di base veneziana non prevede
la presenza obligatoria del clitico soggetto nella terza persona.

Bilinguismo, diglossia e dilalia

I rapporti tra le varie tà del repertorio:


• Bilinguismo (sociale): quando in una comunità siano compresenti due lingue non differenziate
funzionalmente e perciò utilizzabili senza distinzione in qualunque contesto comunicativo.

• Diglossia: coesistenza di due varietà entro una stessa copmunità, ciascuno a con ruoli e funzioni definiti
e senza sovrapposizione funzionale. In Italia non c’è bilinguismo, ma non si può parlare nemmeno di
diglossia perché l’italiano NON VIENE utilizzato solo per contesti alti ma anche per contesti medio –
bassi, magari in famiglia. Il dialetto tende a regredire anche nei contesti bassi, mentre in passato era
l’unico codice disponibile.

Dilalia: la differenziazione funzionale vale solo per una delle due varietà; quindi una varietà (quella di minor
prestigio) viene usata solo nei contesti informali; l’altra può essere usata in tutti i contesti (anche quelli
informali). Sovrapposizione funzionali nei contesti bassi/informali.

La diglossia vale per alcune regioni ma non rappresenta la situazione più diffusa, che invece è quella definita da
Berruto: repertorio italo romanzo medio ovvero situazione di “bilinguismo endogeno (sul piano storico),

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Raddoppiamento fonosintattico: per spiegare questo concetto è necessario far ricordo alla nozione di assimilazione
consonantica. Nell’incontro di due consonanti non ammesse (o non più ammesse) da un dato sistema linguistico, la
reazione più frequente è l’assimilazione di una consonante all’altra, ovvero quel fenonomeno per il quale una delle due
consonanti “rende simile” a sé l’altra col risiultato di una sola consonante di grado intenso. Possono aversi due possibilità:
assimilazione di tipo progressivo e di tipo regressivo. Il raddoppiamento fonosintattico è una assimilazione regressiva
all’interno di frase.

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a bassa distanza strutturale (sul piano strettamente linguistico), con dilalia (sul piano sociolinguistico).
Si parla di bilinguismo endogeno in riferimento al fatto che di codici (lingua e dialetto) sono sorti internamente
alla comunità stessa dei parlanti e non è il risultato di invasioni / immigrazione ma si sono creati autonomamente
e spontaneamente. Quando si parla di bassa distanza strutturale sottolineano che le differenze trutturali tra lingua
e dialetto (fonetiche, morfologiche, sintattiche), data la comune origine del Latino, è inferiore a quella che si
osserva nei repertori [bilingui classici]. Invece quanto alla dilalia si sottolinea sul piano sociolinguistico che il
dominio di utilizzo di due codici non sono rigidamente compartimentati come invece capita nel regime della
diglossia.

Il repertorio linguistico degli italiani

La varietà linguistica: si intende l’importante carattere delle lingue di essere mutevoli e presentarsi sotto
forma diverse nei comportamenti dei parlanti. Presenta tre macrotipologie:
• Variazione interlinguistica
• Variazione intralinguistica (anche solo variazione) con riferimento ai fenomeni di variazione,
correlati in maniera non casuale con fatti latamente sociali, che permettono di distinguere, all’interno di
uno stesso sistema, diverse varietà.
• Variazione nel repertorio, con riferimento alla diversità dell’accesso dell’utilizzazione da parte dei
singoli parlanti delle lingue e varietà di lingua che lo costituiscono. Non tutte le lingue e le loro varietà
di lingue presenti entro una varietà linguistiche sono accessibili da tutti i parlanti.

Le dimensioni della variazione intralinguistica:


• Variazione diacronica (o diacronìa): nel tempo.
• Variazione diatopica (o diatopìa): area geografica in cui viene usata la lingua
• Variazione diastratica (o diastratìa): secondo la posizione sociale (in senso largo) del parlante (grado
d’istruzione, classe sociale, condizioni economiche, età, genere ecc.)
• Variazione diafasica (o diafasìa): legata al contesto comunicativo (in senso largo).
• Variazione diamesica (o diamesìa): legata al mezzo fisico della comunicazione (scritto, orale,
trasmesso).
Nella situazione italiana è praticamente impossibile riuscire a
separare la variazione diatopica da quella diastratica. Per esempio le
varietà native degli italiani, cioè le varietà di lingua che ciascun
parlante acquisisce nella socializzazione primaria, sono sempre
varietà socio-geografiche determinate. Si potrebbe sostenere che
esiste fra le dimensioni di variazione un rapporto tale che esse
agiscono l’una dentro l’altra. D’altro canto, ciò corrisponde a una
gerarchia sociolinguistica ben nota, secondo cui varietà ditopica
possono fungere da varietà diastratica, quella diastratica può fungere
da diafasica, diafasica può funzionare come una varietà diamesica
ma non viceversa.

Possibilità di collocare ogni produzione linguistica su ognuna delle quattro dimensioni di variazione
(intralinguistica).

Esempi rispetto al diasistema italiano:


• Praticamente io sto a cercà ’na sfittinzia:
• it. regionale di Roma in diatopia
• mediobasso in diastratia - basso in diafasia
• orale in diamesia
• Riprovevole:

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• neutraleindiatopia
• alto in diastratia
• medioalto in diafasia
• neutrale (?) in diamesia (non sarebbe ne tipico lo dello scritto, ne del parlato – il prof pensa che si più
facile trovarlo nello scritto piuttosto che nel parlato).

15 MARZO 2022

Le dimensioni delle variazione (intralinguistica) come coordinate tramite


cui dar conto delle subvarietà e quindi dell’architettura, dell’italiano
contemporaneo non si considera la variazione diatópica per semplificare.
Berutto ha affermato che questo schema vale per ogni area dove si parla
italiano, chiaramente in ognuno di questi punti avremo una
caratterizzazione anche regionale del mondo in cui ci si esprime entro
questo sistema. Sono state individuate, in questo modo, nove sotto-varietà
di italiano (detti anche addensamenti) che rappresentano i punti di
riferimento all’interno di continumm pluridimensionale dell’intera
gamma di variazione. Si parla di continuum perché non c’è una netta
differenziazione fra l’italiano formale aulico e quello tecnico-scientifico,
ci troviamo sempre all’interno dell’italiano e ogni tipo salendo somiglia
molto a ciò che precede e a ciò che segue. Ogni sub-varietà, pur
condividendo molti tratti con ciò che segue e con ciò che precede, si
caratterizza per avere tratti suoi specifici. Si differenziano dall’alto al
basso, da destra a sinistra e per obliquo (diastratia, diafasia e diamesia).
• Italiano standard letterario: è la vairetà soprattutto scritta
proposta dalle grammatiche con riferimento in particolare alla lingua letteraria, soprattutto quella dei
secoli scorsi [es. La informo che non potremo venire].
• Italiano neo – standard:importante perché è la varietà scritta e parlata dalle persone colte in
contesti anche di media e alta formalità, trovano spazio dei tratti (tipi di soprattutto del parlato) che in
passato erano già presenti in italiano ma che grammatiche avevano ignorato o censurato. Tutta via pichè
l’italiano nasce dalla veste letteraria delle tre corone, a partire da Bembo in poi sono stati ignorati. [es.
Le dico che non possiamo venire/ l’utilizzo di lui/lei/loro come soggetti e non più come oggetti diretti o
indiretti].
• Italiano aulico: varietà scritta o eventualmente parlata-scritta (orale ma basata su un testo scritto)
delle occasioni soletti e formali [es. Mi pregio di informarLa che la nostra venuta non rientra nell’ambito
del fattibile].
• Italiano tecnico scientifico: varietà soprattutto scritta ma in parte anche parlata in alcuni contesti
(università, aula di fisica ecc.) [es. Trasmettiamo a Lei destinatario l’informazione che la venuta di chi
sta parlando non avrà luogo].
• Italiano burocratico: varietà soprattutto scritta ma in parte anche parlata in ambito amministrativo
ufficiale [es. Vogliate prendere atto dell’impossibilità della venuta dei sottoscritti].
• Italiano parlato colloquiale: italiano della conversazione quotidiana non impegnata, quello che si
potrebbe parlare al bar [es. Sa(i), non possiamo venire].
• Italiano popolare regionale: fortemente marcato come basso in diastratia, varietà soprattutto parlata
ma in parte anche scritta dalle persone non istruite o poche istruite [es. Ci dico che non posiamo venire].
• Italiano informale trascurato: marcato basso in diastratia ma anche in diafasia, che si parla in
situazione di massima rilassatezza e in contesti del tutto informali [es.mica possiamo venire eh! (In
contesti del tutto informali)
• Italiano gergale: la lingua (o criptò lingua) dei gruppi che condividono particolari attività/esperienze.
[es. Ehi, apri ‘ste orecchie, col cavolo che ci trasbord].

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Non va dimenticato che nelle reali varietà d’uso della lingua spesso le varie dimensioni di intersecano , e le
relative varietà possono determinarsi contemporaneamente secondo più assi di variazione. Difficili da collocare,
anche se tecnicamente appartengono alla varietà diafasica, sono poi le varietà di lingua legate a movimenti
culturali, a mode, a costumi più o meno passeggeri.
Le dimensioni della variazione (intralinguistica) come coordinate tramite cui dar conto delle subvarietà, e quindi
dell’architettura, del dialetto. Gamma di variazione assai più ridotta, rispetto alla lingua, su ogni dimensione:
• In diatopia: localmente circoscritto
• In diastratia: usato perlopiù da persone di livello socioculturalmente basso o medio basso
• In diafasia: usato esclusivamente in contesti bassi/informali
• In diamesica: scarsamente impiegato nello scritto, impieghi quasi solo orali.

Ci sono quattro subvarietà contro le nove dell’italiano entro il dialetto (dal basso verso l’alto per qualità) e si parla
più di una differenza più diastratica che diatopica.
• Dialetto letterario
• Dialetto urbano
• Dialetto locale rustico
• Dialetto gergale

Eteronomia e lingua tetto

La gerarchizzazione esiste, presente in ogni comuniutà, si può definire anche in termine di autonomia (della
lingua) di contro a eteronomia (del dialetto): una varietà linguistica si dice autonoma quando i parlanti
riconoscono in essa stessa la sua propria norma, mentre si dice eteronoma rispetto ad un’altra varietà A quella
varietà B i cui parlanti riescono in A la norma cui B va riferita e/o si dovrebbe adeguare. Per quanto riguarda
l’eternomia lo si potrebbe definire una sorta di meccanismo psicologico per il quale se io rifletto metà
linguisticamente sull’italiano, non verrebbe da paragonare le strutture di esso a nessun’altra varietrà. Al contrario
invece del dialetto il quale, riflettendo sempre sotto il piano metalingüístico, verrebbe da paragonarlo all’Italiano.
E quando questo accade c’è una gerarchizzazione nel repertorio. Questa variertà A, autonoma e riconosciuta
come norma sovraordinata al dialetto, si definisce come lingua tetto (calco dal tedesco Dachsprache). Concetti
sociolinguistici con ricadute linguistiche che sono di due tipi: strutturali (dialetto muta verso la lingua) e
rispetto alla classificiazione dialettale. Data l’autonomia della lingua e l’etoronomia del dialetto è
inevitabile che si stabiliscano dei processi di standardizzazione (intesa qui come omologazione ad uno standard
già codificato, non come creazione di una norma) del dialetto. Un esempio è il caso del “il telefono” in italiano,
concetto nuovo che nei dialetti è entrato per il tramite linguistico dell’italiano [esempio sul libro]. Per quanto
riguarda l’aspetto della classificazione dialettale, il criterio della lingua tetto è stato adottato per decidere se un
dialetto strutturalmente vicino tanto all’italo – romanzo quanto a un’altra famiglia linguistica romanza vada scritto
all’uno o all’altra. Ad esempio il piemontese presenta caratteristiche che si avvicina tanto alla famiglia italo
romanza però assomiglia anche al francese, in casi del genere il fatto che la lingua tetto del piemontese sia
l’italiano spinge a considerarlo un dialetto italo romanzo e non galloromanzo.

Isoglosse, confini dialettali e continuum

Come si fa operativamente a capire che il dialetto x è diverso è quello da y? Individuando il tratto, il tipo di
valore che assume questo tratto in ogni punto del territorio, notando in quali verietà abbiamo uno stesso valore
e in quali varietà ne abbiamo un altro o altri. Il tratto, per esempio, in LUNAM del latino è la Ū (si guarda in
diacronica) e da essa vado a vedere che valore ha assunto in sincronia oggi sul territorio. Successivamente, dopo
esserci resi conto delle differenze, si riporta sul carta geografica questa differenze di valori rispetto allo stesso
tratto e così si ha possibilità di delineare il confine tra una prima area dove x ha il valore y e un area b dove lo
stesso tratto x ha volere z. Con il termine isoglossa si intende una linea (immaginaria) che divide due aree nelle
quali uno stesso tratto linguistico presenta due diversi valori. Questo termine viene coniato sul modello dei
termini meteorologici isotèrma, isbòora. Il padre della dialettologia Graziadio Isaia Ascolio impiegava isòfono

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per le isoglosse fonetiche – oggi isòfone – cui si aggiungono, in riferimento agli altri livelli strutturali, isòmorfa,
isolèssi, isòsema. In dialettologia è presente anche un’accezione leggermente diversa che identifica l’isoglossa
come “linea che unisce i punti estremi di un’area geografica caratterizzata dalla presenza di uno stesso fenomeno
linguistico”. Per stabilire le isologlosse si guardano i dizionari locali o gli atlantei linguistici (atlante italo –
svizzero) e nell’ osservarli si fa caso alla forma che hanno le parole italo romanze che in latino avevano unla Ū
e dove si presenta [y] e dove [u]. Ogni isologlossa rappresenta una differenziazione tra varietà, ogni volta che c’è
un’isoglossa c’è un confine linguistico: e quindi significa che due varietà si differenziano per almeno un tratto.
Se vi è addensamento di un numero rilevante di isoglosse, si è di fronte a un confine dialettale che separa
macroaree. Principali fascie di isoglosse: la Spezia – Rimini, che divide i dialetti settentrionali dal quelli
toscani da una parte e quelli mediani dall’altra e la Roma – Ancona, l’area mediana dai dialetti centro
meridionali. L’isoglossa è un concetto strutturale. Il fatto che ci siano delle coincidenze di confine nella zona
degli Appennini non è un caso.

16 MARZO 2022

La classificazione dialettale: come si stabilisce a quale gruppo appartiene un dialetto?


• Criteri interni (linguaggio – struttuali): condivisione di identici valori per ampio numero di tratti ma
non sono sempre sufficienti.
• Criteri esterni:
• Storico culturali (lingua tetto), uno dei più importanti
• Storico policiti (spostamenti di confini ecc.)
• Storico demografici (spostamenti di popolazioni, invasioni ecc.)
• Geografici: separazione geografica (ostacoli naturali) – discontinuità strutturale [sardo vs. Altri
sistemi (italo-) romanzi: piemontese e galloromanzo, toscano e sistemi galloitalici liguri e emiliani]

Il torinese per esempio è gallo o italo romanzo? Secondo il criterio interno: condivisione di valori per buon
numero di tratti con le altre varietà italo romanzo. Esistenenza di un continuum dialettale dalla Sicilia al
Piemonte, sorto per dialettizzazione primaria (sviluppo divergente del latino sull’interno territorio in questione).
Questo continuum è una condizione necessaria ma non sufficiente. Esso prosegue infatti oltre i confini italiani:
tutte le variertà romanze parlate nelle loro sedi storiche europee, escluso il rumeno, sono parte di un continuum
dialettale detto Romània continua. Tale continuum è insorto per dialettalizzazione primaria, ossia
per il graduale sviluppo divergente del latino sull’interno territorio in questione. A questo punto interviene il
criterio interno: la lingua tetto del torinese è l’italiano quindi esso appartiene all’italo-romanzo. La distinzione fra
i valori di un tratto linguistico, segnata sulla carta da un’isoglossa, si deve spesso al fatto che in una delle due aree
si è prodotto un mutamento linguistico.

Continuum dialettale: un territorio sul quale i dialetti evolutisi in loco a partire dal latino sono legati fra
loro da una “catena di intercomprensibilità”: presa ogni località X, i parlanti del dialetto locale capiscono quelli
della località immediatamente adiacenti, e viceversa.

Il mutamento linguistico come fattore di dialettalizzazione

Il mutamento linguistico il cui strumentario di metodo viene messo a punto negli anni 70 dell’800 a Lipsia
all’interno della Scuola Neogrammaticale e per questo prende il nome di metodo neogrammaticale:
• Ipotesi del lavoro: regolarità del mutamento (fonetico), se si produce in una data lingua, in un dato
momento colpisce tutte le parole presentanti le codinzioni appropriate:

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• -A- tonica (in sillaba aperta) si è palatalizzata2 > bolog. [ɛ]: PALAM > [pɛːla]
• LACUM > [lɛːg]
• IENUARIUM > [znɛːr]
• HOSPITALEM > [zbdɛːl]
• Eccezioni solo apparenti: si spiegano con fatti “interni”e “esterni” al sistema.
• Di tipo interno:
•interferenza di altri mutamenti: CLAMAT > [CHIAMAT] > bol.
[ʧaːma] e non *[ʧɛːma]. Ciò è avvenuto a causa di un altro mutamento perché
nel Settentrione, durante l’alto medioevo), una consonante bilabiale
intervocalica [-m-] > [mm] quindi CLAMAT > [camma] questo
raddoppiamento ha comportato la chiusura della sillaba tonica. Nei secoli
successivi al raddoppiamento di -m- si è verificato un altro fenonomeno ovvero
lo scempiamento delle intense FLAMMAM > [fjaːma], FACTAM > [faːta],
ecc. Quindi CLAMAT > [camma] > [caːma] > bol. [ʧaːma] è diventata in
questo modo perché evidentemente il fenomeno della palatalizzazione nel
frattempo si era concluso (Raddoppiamento, palatalizzazione e infine
scempiamento).
• cause di natura morfologica (ruolo dell’ analogia): VĬDEO > veggio
(esito regolare) perché il nesso [-DJ-] da come esito -gg- (pagina 71 del
Serianni). Vedo (analogia intraparadigm.), veggo (analogia extraparadig.), non
sono esiti fonetici regolari e sono sorte in analogia ad altre forme o interne al
paradigma di vedere o esterne. Vedo è nato in analogia alla seconda persona e
terza persona (ved-i/-e). Veggo è sorto anch’esso per analogia ma il modello
sono state altre prime persone presenti non nel paradigma di vedere, ma nelle
prime persone dei verbi -ngo.
• Di tipo esterno:
•persisto da altra lingua (a mutamento concluso): in sardo
logudurese. -TL-/-CL- (controllare questa cosa nel Marazzini/Serianni se non
se la si ricorda) > [ɣr] o [dʒ] o [ʒ], mai [tts] (z). Per esempio OC(U)LUM >
[oːɣru], [oːdʒu], [oːʒu]. Al contrario VET(U)LUM > [bettsu] (e non [beɣru],
[bedʒu], [beːʒu]) perché prestito dal pisano antico vecchio.
• Alla spiegazione per prestito è bene ricorrere solo in ultima istanza, dopo che ci si è accertati che le
altre spiegazioni di tipo interno non sono plausibili. Questo diversamente dal pregiudizio
popolare/prescentifico che tende a spiegare i fatti linguistici eccezionali con fatti esterni (storici). A
Taranto [mwertə] ‘morto’ ispanismo? No: [weccə] ‘occhio’, [pwertə] ‘porto’, [twestə] ‘tosto’ - Ŏ > [we] e
[tjembə] ‘tempo’ ispanismo? No: [djendə] ‘denti’, [jertə] ‘alto’ (lett. erto) - Ĕ > [je] (lo sono diventate in
contesto metafonetico).

Classificazione dialettale e mutamento linguistico

• Punto di vista interno (scuola neogramatticale ma anche da parte della lingüística strutturale del 900)
i mutamenti (fonetici) regolari producono differenze osservabili sul territorio, effettivamente si potrebbe
affermare che i confini esistono. [quello visto sopra]
• Punto di vista esterno (geo- e sociolinguistica ‘900): preponderanza dei “continua dialettali”, è
molto più ciò che accomuna pitturato che ciò che divide e impossibilità di fissare confini dialettali netti:
non esistono. Quest’impossibilità è teorizzata esplicitamente da Schuchardt.

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Palatalizzata/zione: mutamento della vocale -a- in vocali palatali [ɜ], [e], [i].

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Pur tenendo presente la validità di questo dubbio di metodo, la dialettologia non ha però rinunciato alla
classificazione e anche all’indicazione di confini motivati linguisticamente : idealmente un confine linguistico
dovrebbe corrispondere all’addensamento di un fascio di un numero consistente di isoglosse. Un esempio è la
linea La Spezia – Rimini, dove per un buon tratto corre lungo il crinale Appennino fra Emilia e Toscana e che
lascia a nord dialetti in cui cadono le vocali finale ≠ da [a], si sonorizzano le consonati sorde intervocaliche e si
scempiano le consonanti geminate, mentre a sud il toscano (quindi l’italiano standard) non ha subito nessuno di
questi mutamenti. Si nota però che in molti punti il fascio è slabbrato.

Fenomeni più importanti (cfr. oltre il § 6.1):


• Scempiamento delle consonanti intense;
• Lenizione delle occlusive sorde e di -s- (intervocálica);
• Apocope vocali diverse da -a;
• ecc.

Fascio in più punti assai slabbrato. La lenizione delle occlusive sorde:


• Isoglossa 1 (P > [v]) corre più a nord;
• Isoglossa 2 (T > [d]) corre più a sud;
• Isoglossa 3 (K > [g]) corre più a nord sul versante occidentale; più a sud su quello orientale.

Lo stesso fenomeno generale non si distribuisce sul territorio in maniera del tutto omogenea. Ciò ci fa capire
che il mutamento non procede solo nel tempo (come implica la visione neogrammaticale), ma anche nello
spazio e nel lessico (diffusione lessicale), dove viene raggiunto un punto, conquista porzioni più o meno
ampie del lessico sino, ma non necessariamente, a generalizzarsi (es. L’edizione di P, T, K in toscano, questo
fenomeno si verifica solo in un certo numero di voci ed è più diffusa nel toscano nord-occidentale durante il
medioevo). Procede anche nella comunità linguística, lungo gli assi diastratici e diafasici del repertorio.
Ciò ha portato ad una rilettura dei confini liguistici in chiave sociolinguistica. Lo stesso argomento era stato
sviluppato da Schuchardt (1870) e ancora prima da Biondinell (in riferimento ai dialetti italiani) che fruta i dialetti
settentrionali non scorgeva confini netti bensì zone di transizione interposte fra dialetti – urbani – dal profilo più
spiccato quali quelli di Milano e di Bergamo. Pur con tutte queste cautele si continua di fatto in dialettologia ad
utilizzare isoglosse, linee e confini come concetti operativi ai fini della classificazione e perchè ci aiutano a
descrivere la realtà. E’ da notare che alcune delle linee di discontinuità linguistica individuate sul campo dai
dialettologi si sono rivelate sovrapponibili a discontinuità di altra natura. Il crinale appenninico tosco – emiliano
della La Spezia – Rimini è uno dei 33 confini genetici individuati da Barbujani e Sokal (1990) entro l’area
europea. In 31 casi su 33 si ha una sovrapposizione fra confini linguistici/dialettali e confini genetici: in 22 di
questi 33 casi coincidono con barriere geografiche ma in altri 11 le cose non stanno così. Dunque, pur con la
consapevolezza che si tratta di approssimazioni, appare giustificato tracciare confini linguistici : rinunciare a farlo
impedirebbe di sottoporre i risultitati della classificazione lingüística alla discussione entro un contesto
interdisciplinare.

Lo studio dei dialetti italiani: metodi e stumenti

La discussione sul valore effettivo dell’isoglossa e dei confini dialettali ci introduce ai due diversi approcci con
cui si è mossa la dialettologia scientifica a partire dalla sua nascita fino ai giorni nostri: “interno” (mutam. nel
tempo) e “esterno” (mutam. nello spazio e nella società).

• L’approccio interno, strutturale per il quale la lingua (in senso largo)viene visto come sistema a sé
stante. Si descrivono le strutture della lingua in diacronia e in sincronia a prescindere da quello che
succede fuori dalla lingua. Si parla di linea immanentista e coloro che l’hanno inaugurata,
portandola fino ai giorni nostri, sono G.I. Ascoli, C. Salvioni, C. Merlo, F. de Saussure (in sincronia)
fino a M. Loporcaro. Con G. I. Ascoli e la scuola neogrammatica (fine ’800) i fatti linguistici strutturali,

9
in questa fase vengono considerati entro la dimensione temporale: descrizione del dialetto significa dare
conto del mondo in cui questa varietà si è sviluppa e differenziandosi. dal latino. In questa fase ,
fondamentali, furono i cosiddetti saggi ladini di Ascoli pubblicani nel primo numero dell’Archivio
Glottologico Italiano, importante anche per il proemio dove si parla della questione della lingua (scontro
con Manzoni). Questi saggi ladini descrivono i vari livelli di analisi (fonetica, morfologia, sintassi, lessico).
Nel descrivere i dialetti in questo modo crea regolarità del mutamento fonetico e lo scarso peso alla
variazione e agli agenti esterni alla lingua, non si insiste sulle singole eccezioni. A questa linea può essere
ascritto anche lo strutturalismo novecentesco (F. de Saussure) in cui c’è studio sincronico dei sistemi (a
prescindere dalla dimensione diacronica) e un cambio di prospettiva, ma non della visione di fondo: la
visione è sempre quella della lingua che si studia in quato tale a prescindere dai fatti esterni.
• L’approccio esterno, sociolinguistico: lingua come diasistema, cioè come insieme di realizzazioni
diverse. Linea antimmanentista inaugurata da H. Schuchardt, J. Schmidt, P. Meyer, B.
Terracini, W. Labov dove la lingua viene studiata guardando ciò che c’è fuori da essa e ciò che la
influenza. Secondo questo pensiero la visione sistemica non produrrebbe risultati aderenti alla realtà ma
soltanto qualcosa che si vede in linea teorica. Seguendo sempre questa linea di pensiero il mutamento
procede non solo nel tempo (possibilità di distinguere, nello spazio, fra dialetti che lo presentono e non
lo presentano), ma anche nello spazio (teoria delle onde) e si arriva a negare la possibilità di
individuare confini dialettali perché su base di ciò non c’è mai una totale sovrapposizione: per una serie
di isoglosse che ci consentono di individuare la distanza tra un dialetto e un altro quanto invece condivide
un dialetto e un altro. Se si aggiunge alla critica di Paul Mayer il motto di Schuchardt per cui la visione
immanente dei fatti linguistici proprioa dei neogrammaticale non è che un «abbagliante sofisma», si
hanno le linee guida del quadro ideologico entro il quale si è mossa la geolinguistica e sono state
concepite e realizzate le grandi imprese degli atlanti dialettali. Tutta via gli atlanti permettono la
visualizzazione spaziale delle isoglosse ma nega la rappresentazione concentra dei dialetti e
l’individualizzazione dei confini tra essi. Dunque i lavori sui dialetti italiani, a partire dall’Ottocento,
hanno preso da una lato la via proposta da Ascoli e dall’altra quella di Schuchardt.

22 MARZO 2022

A partire dal secondo 800, i prodotti dei due approccio allo studio dei dialetti italiani :
• Descrizione grammaticale, organizzata per livello strutturali (fonetica, morfologia, lessico; più tardi, in
fase novecentesca, sintassi). Modello: i saggi ladini di Ascoli.
• Ebalorazione degli atlanti linguistici. Modello: atlante linguistico della Francia.

Prodotto estremo della prospettiva geolinguistica è la


dialettometria, metodo per la misura (tramite formule
matematiche) e la cartografazione della distanza strutturarle fra
dialetti e che ha il suo principale esponente in Hans Goebl. Tratta i
dati linguistici che si ricavano dagli atlanti linguistici preesistenti (per
l’Italia l’AIS) tramite formule matematiche. La ricerca
dialettometriva crea nueve carte dove si misurano somiglianze e
differenze fra aree dialettali a partire da un punto di riferimento
predefinito che nel caso dell’ italo romanzo è Roma. Questa qui a
fianco è una carta di similarità dialettrometica basata sui dati
AIS, il cui grado di differenza tra il tipo romano e gli altri tipi dialettali
viene evidenziata da sei differenze marcate di colore. L’’area più
simile è quella al tipo romanesco è quella della Toscana centro-
occidentale in colore scuo insieme alto Lazio, Umbria e una parte
del centro delle Marche. Segue poi a livello cinque l’area mediana e
anche parte della toscana che mostra una buona vicinanza con il tipo
romanesco. Al livello uno si colloca il tipo franco provenzale e
romancio che presentano il livello di somiglianza più bassa. Approccio geolinguistico molto rigido, non a caso i

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dialettometri negano statuto di scientificità ad ogni considerazione della variazione dialettale che prescinda da
elaborazioni cartografiche sistematica come questa. I risultati degli studi dialettometrici sono interessanti e
rivelatori benchè resti un’aporia di fondo: la dialettometria si basa su una elaborazione sistematica però di input
asistematici: gli atlanti raccolgono atti di parole non di langue. Non forniscono analisi del sistema, inteso come
langue, delle singole varietà. Se ne deduce che, a rigore, la dialettometria misura distanze “strutturali” senza
passare per la razionalizzazione della struttura linguistica. In altre parole, essa individua e misura differenze
fonetiche, morfologiche, morfosintattiche tra i vari poligoni rappresentanti senzxa però prima aver tradotto in
langue i fatti di parole restituita dagli atlanti. Ad esempio il vocalismo finale siciliano a livello di langue è di tipo
trivocalico (tre fonemi a, i, u). Questi fonemi che tuttavia, o contestualmente o in variazione libera, possono
essere realizzati da parlanti anche con foni diversi da a, i e . Cane e Pane in siciliano diventerebbero Cani e Pani,
possono essere realizzati foneticamente a livello di parole dai singoli parlanti anche come cane e pane. Gli atlanti
riporteranno le risposte che il parlante a dato, per esempio è cane e pane ma poi aspetterà al lingüística, andando
sul campo, stabilire che le forme fonologiche di queste realizzazioni in realtà, a livello di langue, valgono altro.
E’ sulla rappresentazione fonologiche che si dovrebbero misurare distanze relative ai vocalismi finali delle diverse
variertà Italo romanze, e non sulle loro realizzazione fonetiche come invece prevede il metodo dialettometrico.
All’estremo opposto stanno studi come il recente Mancini e Savoia, opera che segue la linea “interna” dei
neogrammaticale e poi della lingüística strutturale novecentesca. Non si fa riferimento alla storia della regione e
non c’è una dimensione geografica, e con essa la cartografia) In posizione intermedia invece troviamo la
Grammatica storica di Rohlfs, opera di riferimento fondamentale per lo studio dei nostri dialetti.

Gli atlanti linguistici

Gli atlanti linguistici e dialettali, in entrambe le prospettive, restano il mezzo più utile per verificazione l’estinzione
dei valori assunti dai singoli tratti. Il primo progetto europeo si debe al dialettologo tedesco Georg Wenker, che
dal 1889 diede inizio ai lavori per lo Sprachatlas des deutschen Reiches, le inquiete si svolsero per posta
ma rimase però inedito. Per trovare il primo atlante redatto in base a inchieste dialettali sul campo dobbiamo
spostarci in ambito romanzo, dove lo svizzero – francese Jules Gilliéron progettò e diresse l’Atlas
linguistique de la France commissionando e le inchieste al suo collaboratore Edmond Edmot, che le
condusse in loco , intervistando di regola una persona per ogni punto (per un totale di 639 località), fra il 1897
e il 1901. La pubblicazione, in 1920 carte ripartite in 10 volumi, avvenne fra il 1902 e il 1910.

L’Atlante italo - svizzero

Karl Jaberg e Jakob Jud si ispirano a Jules Gilliéron, ideatore dell’ALF (Atlas linguistique de la France)
per la realizzazione dell’Atlante italo-svizzero. Il processo di progettazione ebbe inizio nel 1911 e aveva lo
scopo di realizzare un atlante linguistico che documentasse dal vivo la variazione dialettale italo-romanza.
Inizialmente questo atlante doveva toccare, oltre la Svizzera meridionale, l’Italia settentrionale sino alla linea
Livorno – Pesaro. Delle inchieste si occupò Paul Scheuermeier, iniziate nel 1919, successivamente furono
estese all’intera penisola: Scheuermeier arrivò sino a Roma, mentre dell’Italia meridionale, inclusa la Sicilia, si
occupò nel 1922 Gerhard Rohlfs e della Sardegna, a partire dal 1925, Max Leopold Wagner. Esso è composto
da otto volumi per un complessivo di 1705 carte, che apparverò fra il 1928 e il 1940, accompagnati da un volume
di indici indispensabile alla consultazione delle carte e preceduti da una monografia illustrativa. Le località
investigate furono 406, prescelte stabilendo sulla carta un reticolato geografico entro il quale un punto
corrisponde a una determinata estensione: per l’AIS 765 km2. Le 1705 carte dell’atlante rappresentano su una
cartina d’Italia, riportandole in corrispondenza ai 406 punti, le risposte fornite dagli informatori a ciascuna
domanda. Fondamentale non solo per gli studi prettamente strutturali (e ai fini della classificazione dialettale),
ma anche per gli studi omosiologici: dato un significato possiamo vedere in che modi questo viene espresso nei
vari punti linguistici selezionati per fare inquieta.

11
L’Atlante linguistico italiano (ALI)

L’AIS è attualmente l’unico atlante dialettale italiano completo. Successivamente sono usciti alcuni atlanti
regionali, mentre è ancora in corso di realizzazione un atlante nazionale di più ampio respiro che prende il nome
di Atlante linguistico italiano (ALI) progettato già nel secondo decennio del Novecento e diretto
inizialmente da Matteo Bartoli. Le inchieste iniziarono sotto la direzione di Bartoli e di Giulio Bertoni nel
1925. Il questionario contava oltre 7600 domande e i rilevanti furono condotti inizialmente da un solo
ricercatore, Ugo Pellis, fino al 1943 e poi nel 1964 da un gruppo di studiosi. A un settantennio dall’inizio delle
inchieste è stata avviata la pubblicazione con vol.I, uscito nel 1995, l’utilmo (il IX) nel 2018. L’ approccio è
strettamente lessicale in quanto vi si propongono parole e mai frasi o sintagmi come invece può succedere
nell’AIS.

Atlanti regionali e tematici

L’AIS (seguendo il criterio della lingua tetto) non includeva i dialetti italiani parlanti in Corsica che invece erano
stati investigsti, come appendice dell’ALF, dall’Atlas linguistique de la Corse di Gilliéron e Edmont. Dal
1924, Gino Bottiglioni condusse inchieste sul campo dal 1928 al 1932 d pubblicò i dieci volumi dell’ Atlante
linguistico-etnografico italiano della Corsica (ALEIC). Di mole più ridotta è il Nouvel atlas
linguistique et ethnographique de la Corse (NALC) pubblicato nel 1995 da Marie-José Dalbera-
Stefanaggi. L’Atlante storico-linguistico-etnografico friulano (ASLEF) è frutto del lavoro, iniziato
nel 1965, di un’équipe diretta da Giovan Battista Pellegrini. L’ultimo giunto sinora a compimento è
l’Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limitrofi (ALD) sotto la direzione di Hans
Goebl in tre volume nel 1998. E’ corredato anche di documentazione audio registrata su CD-ROM. La
documentazione audio fa partire anche del programma di altri atlanti tuttora in corso di realizzazione come
l’Atlante linguistico della Sicilia (ALS) diretto da Giovanni Ruffino. Definito al contempo dall’ambito
geografico e da quello strutturale è l’Atlante lessicale toscano (ALT) avviato da Gabriella Giacomelli.
D’impostazione etnografica è l’Atlante linguistico e etnografico del Piemonte Occidentale (ALEPO)
a cura di Tullio Telmon e Sabina Canobbio. Si registrano anche atlanti tematici, dedicati a singoli
componimenti di struttura. Tale è l’ Étude de géographie phonétique et de phonétique instruméntale
du sarde di Michele Contini. Un’impresa diversa dalle precedenti è l’Atlante Sintattico dell’Italia
Settentrionale (ASIS) poi diventando Atlante Sintattico d’Italia (ASIt), diretto a Padova da Paola Benicà
e Cecilia Poletto. Somo stati pubblicati a partire dal 1997 dei Quaderni di lavoro dell’ASIS . Consultabile in
rete è l’Atlante Sintattico della Calabria (AsiCa) diretto a Monaco da Thomas Krefeld. Infine l’archivio
sonoro, disponibile anch’esso in rete, il Vivaio Acustico delle Lingue e dei Dialetti d’Italia (VIVALDI)
creato presso l’Università Humboldt di Berlino.

Storia (e preistoria) dei dialetti italiani

12
L’origine della differenziazione dialettale: sostrati prelatini

I dialetti italini o meglio italo-romanzi sono il frutto di


continuazione ininterrotta del latino: sono dialetti
primari romanzi evolutisi gradualmente per mutamento
per mutamento regolare da dialetti secondari latini.
L’originale, la consistenza e l’esistenza stessa di questa
differenziazione regionale del latino sono state e sono
oggetto di discussione. E’ certa l’esistenza di tipi di latino
regionalmente differenziati durante l’epoca imperiale ed
è certa anche la consistenza di alcune di queste differenze
ma è meno chiara l’origine. Quando e perché si sono
prodotte queste differenze entro i latini che si parlava,
regionalmente, in area e area. La prima spiegazione che
è stata data per dar conto alle differenziazioni che
investivano i latini durante i secoli dell’età imperiale è la
così detta teoria del sostrato (ce ne sono anche altre).
Per sostrato linguistico intendiamo lo strato linguistico al
quale si è sovrapposto e sostituito, a seguito della
conquista del predomino politico e culturale di un altro
popolo, uno strato linguistico diverso, e che ha provocato
nella lingua sovrapposta si particolari cambiamenti
grammaticali e lessicali.degli esempi sono la gorgia
toscana, il passaggio di Ū nel dialetti gallo italici, o il
passaggio di -ND- in -NN- in area centro-meridionale (dall’alto Lazio fino alla Sicilia, [quanno] e non [quando]).
Gli effetti del sostrato sono i mutamenti indotti dalla lingua del gruppo politicamente sconfitto sulla lingua del
gruppo politicamente vincitore, quando i parlanti del primo idioma sono stretti o comunque preferiscono
imparare il secondo, abbandonando, entro qualche generazione, il proprio. Durante la fase di acquisizione vi è
il trasferimento nel secondo idioma di alcuni tratti (perlopiù “abitudini fonatorie” e tipi lessicali) del primo. Non
c’è dubbio che, quanto meno a livello lessicale, effetti di sostrato si siano prodotti e sono ancora oggi riscontrabili
nei dialetti. Sono tantissime le parole osa he, greche, celta, che pensate nei latini regionali all’atto della
romanizzazione sono giunte fino ai giorni nostri: ad esempio taberna e persona derivano dal latino TABERNAM
e PERSONAM ma questi tipi lessicali NON sono etimologicamente latini, ma sono voci originariamente
etrusche che per effetto del sostrato da prima nel lessico del latino regionale di Etruria, quindi poi nel latino di
Roma e poi fino ai giorni nostri. Per esempio le forme [ʎʎɛfa][ɟɛfa] che indicano la “zolla” di terra e che si
rivengono dal golfo di Taranto dalla Calabria al Salento, sono di origine di origine osca *GLEFA perché nel
latino era GLEBA. Più difficile è attribuire con certezze al sostrato pre latino e considerare quindi effetti di
sostrato le pucaliarità fonetiche, morfologiche o sintattiche di un dialetto cosa che in passata è stata fatta per
diversi fenomeni. Per riconoscere un effetto di sostrato da un mutamento interno al sistema e indipendente dal
contatto con altre varietà occorre accertare la presenza di tre prove:
• Prova corografica: è necessario accertare che vi sia sostanziale coincidenza nella diffusione geografica
delle due varietà in cui si osserva il fenomeno, la moderna e l’antica.
• Prova intrinseca: è necessario accertare che sul piano strutturale il fenomeno si manifesti nelle due
varietà (moderna e antica) in maniera simile cioè colpisca gli stessi tratti, produca gli stessi effetti, abbia
identici contesti di innesco ecc.
• Prova estrinseca: necessario accertare che il fenomeno in esame si rinvenga anche in altre varietà
moderne oltre a quella considerata, varietà in cui si possa ipotizzare la presenza della stessa lingua di
sostrato.
Nel lessico ordinario non mancano appelativi riconducibili a lingue prelatine e quindi si riconduce spesso alla
spiegazione per sostrato, ma ci si sofferma invece sull’aspetto fonologico e in generale sulla struttura grammaticale
, oggi si tende a ridimensionarionare fortemente l’effetto del sostrato. Alcuni presunti effetti di sostrato pre latino
sul livello fonetico:
• Palatalizzazione di Ū torni a nei dialetti gallo-italici (Ū>[y])

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• Palatalizzazione A tonica in sillaba aperta (A>ɛ]) in area emiliano-romagnola (e più a sud)
• Spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche in toscana (gorgia)
• Assmilazione del nesso -ND- > -nn- e -MB- > -mm- in area centromeridionale ([kwannɘ, cummə])
• Lenizione occlusive intervocaliche in area settentrionale
• Retroflessione dei nessi -LL- (>-[ɖɖ]-) e -TR- (>-[ʈr]-) in sardo, còrso e dialetti meridionali estremi

23 MARZO 2022

Al sostrato osco è stata attribuita l’assmilazione del nesso -ND- > -nn- e -MB- > -mm- del meridione perché l’osco
e il latino sono varietà che derivano dalla comune lingua madre indoeuropea, solo che il primo ha conservato il
nesso -ND-, il secondo invece no ([opzannam] vs. Operandam). Dato che in osco c’era questa tendenza si è
pensato che nel momento in cui le popolazione oscofono hanno iniziato ad impara il latino hanno trasportato
questo tratto nelle parlate latine che imperavano. In realtà le cose non stanno veramente così perché studi di
qualche decennio di Alberto Varvaro hanno mostrato che: innanzitutto traccie di questo fenomeno entro il latino
non ce ne sono. Le prime tracce risalgono al XIII, quindi molto tardi se si pensa che si sia prodotto con l’atto
della romanizzazione (primi secoli a.C) e a quest’altezza cronologia è attestato solamente nelle varietà
italoromanze centrali (a Roma e nell’attuale zona dell’Umbria che non hanno sostrato osco). Nell’area del
meridione è presente ma è palesemente in via di diffusione, dal “nord” questo fenomeno si sta estendendo
verso il sud. Raggiunge il cuore della zona oscofona soltanto tra il XV-XVI. Per quanto riguarda la retroflessione
dei nessi -LL- (>-[ɖɖ]-) e -TR- (>-[ʈr]-) era stato pensato un non meglio precisato sostrato meridionale che avrebbe
favorito questa pronuncia. Quest’ipotesi però va scartata per almeno due motivi: un motivo cronologico
documentario (non abbiamo tracce entro la fase latina attraversata da queste aree e addirittura le primissimi
attestazioni di questo fenomeno, per esempio in Sicilia, risalgono a non prima del XIV secolo) e uno
metodologico (non è opportuno ipotizzare effetti di sostrato in rifermenti a lingue di cui non sappiamo nulla).
Quanto alla gorgia nei dialetti toscani si è a lungo pensato che il fenomeno fosse dovuto al sostrato etrusco.
Innanzitutto per gorgia toscana intendiamo un processo allofonico (non fonologico) di indebolimento
delle occlusive sorde /k/,/p/, /t// in posizione debole (V_V, V_SV, V_r/l) e può succede anche in fonosintassi.
Eempi di fiorentino:

Posizione forte (post-cons, RF, iniz.


Posizione debole
assoluta)
[amiːho] ‘amico’
[ɛsko]
[ˈlaːhrima] ‘lacrima’,
[parko]
/k/ [la hlasse] ‘la classe’
[iɲ kaːsa],[a kkaːsa],[kaːsa]
[la haːsa] ‘la casa’
[koŋ kjaːve],[a kkjaːve],[kjaːve]
[la hjaːve] ‘la chiave]
[praːθo] ‘prato’,
[korto]
[pjɛːθra] ‘pietra’
[inˈtaːvola],[aˈttaːvola],[ˈtaːvola]
/t/ [la ˈθaːvola] ‘la tavola’
[per tɛrra],[a ttɛrra],[tɛrra]
[la θɛrra] ‘la terra’
[per ˈtre],[aˈttre],[tre]
[di θre] ‘di tre’ ≠
[luːɸo] ‘lupo’ [kompra]
[di ˈɸrɛndere] ‘di [per ˈprɛndere],[a ˈpprɛndere],
/p/
prendere’ [prɛndere]
[la ɸeːna] ‘la pena’ [in peːna],[fa ppeːna],[peːna]

Varianti (importante ricordare che la gorgia non ha identica diffusione in tutta la Toscana, preregotiva del
distretto di Firenze e dintorni):
• /k/ [luːkʰa ], [amiːχo] [amiːo] (Pisa, in riferimento all’ultima), anche [amiːko]*

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• /t/ [praːtʰo] anche [praːto]*
• /p/ [luːpʰo] anche [luːpo]*

*chi sta particolarmente attento al registro il fenomeno può anche non prodursi.

Per capire se si parla di sostrato etrusco bisogna capire se ci sono le tre prove. Secondo Clemente Merlo e
Arrigo Castellani ci sarebbero. Partendo la prova corografica il fenomeno si riscontra in un area presso modo
coincidente con l’area abitata dagli etruschi. Passando alla prova intrinseca, si nota che anche in etrusco vi erano
pronunce spirantizzate delle occlusive simili a quelle che si rinvengono per le occlusive in toscano e abbiamo
addirittura una prova grafica. L’alfabeto etrusco, mutuato da quello greco, mantengono i segni relativi alle
consonanti aspirate ɕ, θ, χ (chi, fi e teta - kʰ, tʰ, pʰ ) e se sono stati mantenuti evidentemente c’è un perché. Il
latino queste lettere non ha le mai recepite perché non ne ha mai avuto bisogno. Per quanto riguarda la prova
estrinseca essa non è facilmente accertabile perché non ci sono altre zone con cui fare il confronto, perché la
zona etrusca coincide con quella toscanofona. Quindi, la gorgia è un effetto del sostrato etrusco? E’ un fenomeno
già presente nel latino di Etruria di epoca repubblicana sviluppatosi all’atto della romanizzazione? La questione
è molto complessa. A questa situazione ci sono diverse obiezioni, le seguenti sono le principali:
• Come nel caso degli altri fenomeni, anche in questo caso è attestato piuttosto tardi. Soltanto nel 1525 in
riferimento all’indebolimento di /k/ in [h] nel “Il polito” di C. Tolomei. A partire dall’XVIII secolo per
/t/ in θ e /p/ in ɸ. Se Claudio Tolomei nel tar conto a questo fenomeno si limita a citare solo la
lanizzazione di /k/ e non degli altri due suoni evidentemente è perché a quell’altezza gli altri due suoni
non avevano subito il fenomeno.
• C’è anche una debolezza della prova intrinseca, tanto in riferimento agli effetti che produce il fenomeno
tanto in riferimento ai contesti entro cui si verifica. In etrusco non c’era la realizzazione fricativa di questi
suoni ma c’era il mantenimento del suono velare seguito da aspirazione, i risultati del fenomeno non
sono quindi identici. In oltre in etrusco l’ispirazione (kʰ, tʰ, pʰ) si producevano non soltanto nel contesto
intervocálico, ma anche in contesto post consonantico.

La palatalizzazione della Ū nei dialetti gallo-italici si è pensato che fosse un effetto del sostrato celtico e a favore
ci sono sia la provo corografica si quella estrinseca. Ascoli arrivò a parlare di questo esito in quest’area come la
più evidente delle spie del sostrato celtico all’origine delle varietà gallo-italiche. C’è sia la conferma della prima
prova che dalla seconda perché il fenomeno oggi lo si riscontra tanto nei dialetti italo-romanzi di tipo gallo-italico
ma anche in tutte le varietà gallo romanze (quelle della Francia), zone ambitate anticamente dalle popolazioni
celtofoni. Anche quella intrinseca è a favore, perché in bretone (varietà celta e oggi parlata in Bretagna) la Ū
indoeuropea è passata ad i (deve per forza aver conosciuto il passaggio intermedio di [y]). In realtà, nonostante
il soddisfacimento dei requisiti, è assai difficile che le cose stiano così. Innanzitutto, in francese antico (o meglio
dire nel latino volgare di Gallia) il fenomeno è documentato non prima del XVII secolo (ovviamente ci si
aspetterebbe di trovarlo prima visto la conquista di Giulio Cesare). C’era in celtico questo fenomeno? Va detto
innanzitutto che nelle iscrizioni galliche in lingua celtica NON c’è alcuna traccia di questo fenomeno, nemmeno
nel latino. Nel caso del bretone ha un peso relativo perché nonostante quanto precedentemente detto, questa è
una varietà celtica di tipo insulare cioè sviluppatasi in Britannia (storia medievale in questo caso aiuta) e giunta
in Gallia soltanto durante l’alto medioevo per immigrazione. Non abbiamo quindi nessuna prova che le
varietà continentali celtiche abbiano conosciuto il fenomeno. Il fenomeno della lenizione delle
occlusive intervocaliche in area settentrionale è un probabile effetto di sostrato sul livello fonetico. Si tende a
pensare che la maggior parte dei fenomeni che differenziano i dialetti italiani si sia prodotta durante i primi secoli
della romanizzazione o (nella maggior parte dei casi) durante il medioevo: o per sviluppo interno autonomo
oppure per effetto di fatti extralingüístico (avvenuti nel medioevo e quindi con riferimenti storici verificatesi in
quella fase). Durante il Medioevo, e in parte anche dopo, le varietà di lingua parlate nella penisola italiana
entrarono in contatto con numerose altre lingue parlate da altri popoli che, dopo il disfacimento dell’impero
romano, entrarono in Italia (storia medievale aiuta pt.2). Il contatto tra queste due tipologie di varietà produsse
effetti sulla varietà locali che sono oggi di due tipi:
• Adstrato: tipologia di mutamenti che due lingue a contatto, sul piano sociolingüista più o meno
paritario, inducono l’uno sull’altra, senza l’una soppianti l’altra.

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• Influsso del greco sul lessico latino (di cultura, ma non solo):
• Nella Roma arcaica: oleum, machina;
• Nel III secolo a.C: philosophia, idea, apotheca
• Nella lingua del cristianesimo (I secolo d.C): parabola, angelus.
• Prestiti lessicali tra lingue occidentali
• Superstrato: mutamenti indotti dalla lingua del gruppo politicamente egemone (‘vincitore’) sulla
lingua del gruppo politicamente assoggettato (‘sconfitto’)quando i parlanti primo idioma, quasi sempre
per ragioni di prestigio socioculturale, decidono di imparare il secondo abbandonando il proprio: è il
caso dei longobardi e, più in generale, delle popolazione che hanno domani torno aree del territorio
italo-romanzo (soprattutto goti, bizantini, franchi, arabi, angioini, spagnoli). Ciò ha porato a degli influssi
sul lessico:
• Germanismi (dialetto settentrionale e aree di domino longobardo): fianco, schiena, milza,
guancia, anca (parti del corpo); rocca, zolla, banco, albergo, fiasco ecc.
• Arabismi: albicocca. Ragazzo, zero, carciofo; meridione. ‘Tavuto’ ‘cassa da morto’ (rimasta
confinata nel dialetto) (< ar. tābūt ‘cassa di legno’), sic. cufuruna ‘tartaruga’ (<ar. magrebino
fakrūn(a)), zàgara ‘fiore di arancio’ ecc. (NB. Facchino non è un arabismo come si è a lungo
pensanto e dimostrato da Parenti. Nasce come nome proprio, un ipocorristico di Lanfranchino
< Franchino (fenomeno di semplificazione dell’area bresciana/bergamasca) > Fachino>
Facchino diventando nome comune e che indicano i bergaschi)
• Grecismi: salent. celòna ‘tartariga’, mess. cafàrru/casàrriu ‘quarta muta del baco da seta’ (< gr.
kafaròs ‘puro’=), mess. chjiuppu ‘omento del maiale’ (< nap. ant. e cal. picchiu < gr. [ɛˈpiploon];
contatto antico)

Ci sono stati però anche degli influssi a livello strutturale:


• Sviluppo del sistema pentavocalico tonico del siciliano, calabrese, centro meridionale e salentino contro
il sistema eptavocalico panromanzo (per influsso dei bizantini nel meridione)
• Sviluppo del fonema /h/ nel dialetto di Pantelleria (influsso del sistema arabo). Nell’italiano e nei suoi
dialetti (compresi quelli della Sicilia) le fricative post velari sorde [h], [χ] [ħ] presenti nei dialetti arabi se
giunte come prestiti nei dialetti italiani vengono adatti alla [k] = /k/. haršūf> carciofo. Nel dialetto di
Pantelleria, gli arabismi come hasìra/kasìra ‘zerbino’ possono essere pronunciante anche con la stessa
fricativa araba huhóla/kuróla. Questo però non vale per le parole di origine latina che presentano
occlusiva velare [/k]. Se nelle parole di origine latina la unica realizzazione è [k] mentre per quelle arabe
possiamo utilizzare anche il fono laringite, si può concludere che il fono /k/ è realizzazione del fonema
[k] (controllare quale perdentesi usare), gli altri non sono realizzazione del fonema [k].
• Fenomeno tipico del pantesco sempre per influsso dell’arabo, dove le forme del trapassato prossimo )
vengono realizzate secondo una struttura che prevede l’uso invariabile della III persona singolare
dell’imperfetto del verbo essere + coniugato il passato remoto del verbo portatore del significato. Nel
caso si dovesse dire per l’appunto “io avevo chiamato” bisognerebbe dire (tu) [ɛra ʃamasti], (inddu) [ɛra
fu mmalau̯] ‘era stato/a malato/a’.

29 MARZO 2022

Tra gli altri fattori extralinguistico, in questo caso di tipo storico-politico che hanno favorito la differenziazione
dialettale nel Medioevo:
• Presenza o anche l’assenza di vie di collegamento entro il territorio (il mutamento si sposta con i parlanti,
se quella zona è difficilmente raggiungibile impedisce o comunque non agisce le innovazioni linguistiche
es. come nel caso del sardo che è molto conservativo) oppure suddivisione in diocesi eredi dei municipia
romani ecc.

16
• Confini politici fra territori bizantini e longobardi:
• Limite meridionale della dittongazione metafonetica, assente in
aree meridionali estreme ma anche nella parte centro-meridione
perché rimaste sempre in mano ai bizantini
• Alla contrapposizione fra regno longobardo e bizantino è stata
attribuita anche la linea di discontinuità dialettale che taglia l’Emilia
raggiungendo l’Appenino al fiume Panaro dando la distinzione tra tipo
emiliano occidentale e tipo emiliano orientale, discontinuità che è
stata attribuita anche all’influsso del confine nord-ovest dello Stato
della Chiesa.

Dialetti italiani nella preistoria?

Il teorema di Alinei, contro l’idea dell’origine dei dialetti italo-romanzi a partire dalla diversificazione regionale
del latino. I dialetti italoromanzi non sarebbero lingue figlie del latino, prodottosi per dialettalizzazione primaria
nell’area romanizzata, bensì autonome varietà indoeurope (quindi sorelle del latino) entro un sottogruppo che
Alinei chiama “italide” (dovevnao essere molto simile al latino perché altrimenti oggi non ci sarebbero stati così
tanto somiglianza), esteso in età neolitica dall’Iberia all’Adriatico. Alinei che l’indoeuropeo sia stato importato in
Europa ben prima di quando si stia sostenuto, in seguito alla diaspora della specie Homo e che alla fine del
Paleolitico Superiore (dall’Africa,fra 33000 e 9000 a.C) i gruppi linguistici e linguemi (le lingue) europei erano
già nettamente separati, e nel Mesolitoco (9000 e 7000 a.C) e Neolitico (7000 e 5000 a.C) erano anche insediati
nelle loro sedi storiche e internamente frammentati. La formazione dei futuri dialetti (e quelli delle varietà
europee) risale già a questo periodo. Respinge quindi la tesi tradizionale che prevedeva le lingue europee giunte
in Europa per migrazione (dal Mar Nero) fra il VI- IV millennio a.C. Ovviamente le cose non stanno così e
questa tesi alineiana ha dei limiti:

Il caso di emiliano occidentale matsa “vomere dell’aratro” esito di *mattea, “bastone” voce della varietà
parlata in area emiliana almeno dal 5000 a.C, quando fu inventato il referente in questione, e che acquisì la
propria denominazione a partire dal nome con cui si indicava il bastone. Processo semantico che, secondo
Alinei, deve essersi prodotto all’invenzione del referente e chiama in causa il criterio dell’autodatazione
lessicale.

• Assenza di documentazione di varietà preistorica italiche affini al latino


• Anche da parte degli storici romani c’è silenzio circa eventuali popolazioni che parlavano lingue affini al
latino. Com’è possibile che mentre i romani conquistacvano territori non si accorgessero che tali
polazioni parlavano una lingua molto simile a loro? Se le cose stessero veramente così sarebbe molto
strano.
• Una denominazione dell’aratro motivata dal nome del bastone, in qualsiasi lingua prelatina, può essere
stata tradotta per calco, all’atto della romanizzazione, con un *mattea “bastone” disponibile nel lessico
latino.
• L’autodatazione lessicale così com’è inteso da Alinei, viola il principio (accertato) dell’autonomia del
significante rispetto al significato. Non va intesa come la intende Alinei, perché investe solo il significato
dei segni linguistici e non il significante che nel corso del tempo può modificarsi nella forma o essere
sostituito (proprio per il calco).

Preistoria dei dialetti italiani


Attualmente abbiamo visto tre punti di vista per quanto riguarda la nascita della differenziazione italo romanza
che però sono in contraddizione tra di loro o che invece vanno totalmente respinti. L’ultimo punto di vista non
è in contraddizione con quello della differenziazione nel Medioevo, ovvero la possibilità che in qualche modo

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alcuni mutamenti, che hanno condotto alla differenziazione odierna, si siano verificati entro la storia stessa del
latino. Rigettata la prospettiva vostra precedente, torniamo al quadro tradizionale ovvero quello che vede i dialetti
Italo-romanzi insorti per differenziazione diatopica progressiva del latino. Le cause possono essere per effetti,
presunti o reali, di sostrato e superstrato, ma anche per dinamiche interne al latino. Come ogni lingua anche il
latino era differenziato geograficamente e sociolinguistica mente. Sua questo ultimo fronte, le fonti latine
informano solo in maniera indiretta ed episodica su alcuni dettagli. Sappiamo ad esempio che il dittongo au
conosceva, a Roma, una variante diastratica mente bassa ō: Clodio era un nombile della gens Claudia, che,
passato alla parte plebea aveva modificato il nome adottando la variante socialmente bassa con ō. Questo è il
fenomeno per il quale sempre nel latino imperiale poi abbiamo avuto da FAUCEM > “foce”, da NON
confondere poi con un altro fenomeno per cui au rimasta stabile come variante alta del latino parlato poi, a
partire dall’VIII secolo a.C monottonga in una a aperta, AURUM > “oro” (fenomeno tardo). Tra le fonti
letterarie ve ne sono alcune che mettono in scena il parlare dei plebei come i liberti della Cena Trimalchionis
nel Satyricon di Petronio dove ricorrono moti tratti anticlassici che si imporranno in italiano e nelle lingue
romanze come ad esempio la sincope 3 in calda per cálida “calda”, balneus per balineum “bagno”. Per la
morfologia del verbo si osservano le avvisaglie dell’Elia zio e della flessione deponente4 loquore “parlare”,
loquis “parli” anziché loqui, loqueris. Quanto riguarda al lessico, abbondano parole ( come manducare
“mangiare”) che costituiranno innovazioni comuni a tutte o quasi le lingue romanze. Ma questo tipo di
documentazione non dice ancora nulla circa una possibile differenziazione geografica del latino, che certamente
doveva esistere. Il latino variava anche da un punto di vista diafasico e diamesia, per esempio Cicerone nelle
Epistolae ad familiares utilizzava un tipo di sintassi diversa da quella che troviamo nei tratti o nelle orazioni,
scrive “scribere ad meum fratrem” e non “meo fratre”. Troviamo ciò anche nelle iscrizioni e nei graffiti, nel CIL
(Corpus Inscriptionum latinarum). Nel graffito pompeiano (pittura murale anteriore al 79 d.C.; CIL IV, 1173):

QVISQVIS/AMAVALIA/PERIAQVIN/OSCIAMA[RE]/BIS[T]ANTIPE/RIAQVISQVISAMAREVOT
A
[Quisquis amat valeat, pereat qui nescit amare. Bis tanti pereat quisquis amare vetat ]

‘Chi ama stia bene, [e] muoia chi non sa amare. Due volte muoia chi vieta di amare’
Chi ha scritto un graffito del genere era verosimilmente una persona istruita, viene espressa un principio ben
diffuso della cultura epicurea che nell’area di Pompei sabbiamo essere premuniata ad Ercolano:
• Fenomeni:
• Caduta di -t finale;
• Passaggio di e atona prevocalica a <i> (cioè /j/);
• Ricostruzione di nescit in no(n) scit;
• Uso di votare, già attestato in latino arcaico, per vetare.

Documento fondamentale per la ricostruzione del latino volgare è l’Appendix Probi: lista di 227 parole non
corrispondenti, dal punto di vista della grafia, della fonomorfologia e del lessico, alla buona norma classica. ed
elencate dal maestro (in coda all’Appendice di un testo del grammatico Valerio Brobo, ma questo documento
NON È STATO SCRITTO DA LUI ) come tipici errori dei giovani scolari, i quali, come noto, riproducono nello
scritto tratti del parlato. Esempi: oculus non oclus (sincope vocale postonica); auris non oricla (< auricula; uso
del diminutivo in -ulus con valore della forma non alterata; AU > o; sincope vocale postonica). Le fonti latine ci
informano infatti sull’esistenza di “accenti dialettali”: ad esempio l’imperatore Settimio Severo, aveva un accetto
a africano dal quale non riuscì mai a liberarsi. Così come sappiamo che da Sant’Agostino, che non è più in
grado di riconoscere la diversa quantità delle vocali latine. Ma in che misure questi acccenti regionali prefigurino
la differenziazione (italo-)romanza successiva è oggetto di discussione. Abbiamo due punti di vista:
• Differenziazione geografica tarda:

3
Sincope:
Flessione depontente: si definiscono deponenti i verbi latini coniugati in forma passiva di significato attivo [Michele
4

Loporcaro, Profilo Linguistico dei dialetti italiani pg.49]

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• Vàrvaro variazione intralinguistica (anche diatopica) del latino c’era, ma priva di rapporti con la
successiva frammentazione della Romània.
• Loefstedt: differenziazione in dialetti latini (da cui poi i volgari romanzi) solo a partire dal VII-VIII
secolo, quando il latino non viene più imparato nativamente. Se ne conclude quindi che la
differenziazione regionale non è del latino ma delle varietà romanze. E’ però un punto di vista
facilmente attaccabile perché induce a pensare che non esistono diversi latini regionali e che le
differenziazione odierne si siano avute entro sistemi romanzi embrionali o comunque già nati.
Secondo questo punto di vista avremmo quindi avuto un latino uguale area per area fino al VI e poi
c’è stata una differenziazione immediata nel VII-VII secolo e questo ovviamente non è possibile.
• Differenziazione geografica incipiente già nel latino imperiale
• Herman: conduce uno studio sistematico fatto di tipo statistico sulle
epigrafi latine, si mette a notare le eventuali deviazioni ortografiche,
rispetto alla norma classica che si rivengono in questi epigrafi notando se
alcune deviazioni, presenti in una regione piuttosto che ad un’altra,
corrispondano a differenze che tutt’oggi riscontriamo e che caratterizzano
quell’area. Il metodo di analisi che Herman utilizza, per stabilire che
quella variazione ha un effettivo valore “linguistico” e che non è invece
un fatto extralingüístico, come abbiamo già detto è di tipo statistico per il
quale delle deviazioni della norma riscontrabili in un tratto hanno un
valore linguistico solo quando sono frequenti rispetto al totale degli errori
in un determinato ambito strutturale del sistema. Un esempio è il caso
che si rinviene negli epigrafi della Sardegna e Brutium ovvero l’assenza o
la confusione degli esiti di ʙ e v, oggi si sono fuse.

30 MARZO 2022

Oggi in Sardegna, ma anche in altre zone, si verifica il fenomeno del betacismo5. Herman riesce a stabilire che
questa confusione era già presente in periodo imperiale nella Sardegna e nel centro meridione, dimostra anche
che è la più frequente tra gli errori fonetici totali che investivano il consonatismo. Il fatto che quest’errore sia così
frequente ci fa capire che non è un errore di disattenzione del epifegrista ma c’è la rappresentazione di una
tendenza nel parlare. Il numero delle deviazione nel vocalismo è molto basso (10,5%), non ci fa pensare a fatti
linguistici ma ad errori [aggiungere foto]. Il sardo si carettizza per l’assenza di fusione timbriche delle vocali e ciò
spiega perché la percentuale sia così bassa. Per capire quali deviazione siano importanti e quali il metodo da
utilizzare è questo.

La classificazione dei dialetti d’Italia

Cenni di storia della questione

La moderna classificazione scientifica dei dialetti italiani inizia con l’articolo “L’Italia dialettale” di Ascoli, ma è
importante sottolineare che anche in passato ci sono state altre classificazione. Dante, nel “De Vulgari
Eloquentia” si considera come il primo trattato di dialettologia italiana che distingue le diverse varietà italiane in
14 tipi, sette a sinistra e sette a destra degli Appennini, distinzione quindi di tipo geografico e non linguistica: è
alla ricerca del volgare più bello, quello che meglio si presta ad usi letterarli e non solo.

5
Betacismo: confusione fonologica di b e v del latino e li fonde in un solo fonema.

19
Poi c’è la distinzione che fa Carl Ludwing Fernow, divisione principalmente geografica (appennini come linea
di confine), ma primi accenni a isoglosse linguistiche (presenza di [y] e [ø], assimilazione di -ND- > -nn). Al 1856
risale la classificazione di Bernardino Biondello che propone una divisione di tipo preistorico-geografico.
Distingue sei famiglie che sono individuate in base ai popoli che abitavano nella zona italica: cárnica, veneta,
gallo-italica, ligure, tosca-latina, sannitico-iapigia. Per la classificazione scientifica, come già detto, doppiamo
aspettare Ascoli che fa una distinzione su base storico geografiche ma soprattutto linguistiche (minore distanza
diacronica/sincronica del latino/toscano). Individua quattro gruppi:
• Il toscano, al livello strutturale, che si è allontana dal latino
• Dialetti che possono entrare a formare col toscano una speciale sistema di dialetti neolatini (si sono
allontanati leggermente di più dal latino e che sincronicamente non sono così distanti dal toscano e
sono veneziano, dialetti centro-meridionali, corso). Sono questi considerati italo-romanzi in senso
stretto.
• Dialetti che si distinguono dal sistema italiano vero e proprio, ma pur non entrano a far parte di
alcun sistema neo-latino estraneo all’Italia (gallo-italico e sardo). Le si potrebbe considerare varietà
romanze indipendenti, non appartengono all’italo-romanzo stretto ma nemmeno a quello gallo-
romanzo.
• Dialetti che dipendono, in maggiore o in minor misura, da sistemi neo-latini non peculiari all’Italia
(provenzale, franco-provenzale e ladino [retroromanzo]). Sono quelle più distanti, sia sotto l’aspetto
diacronico che sincronico.

Le classificazioni proposte successivamente (Bertoni, Merlo, Parlanèni, Devoto e Pellegrini) mantengono tutte,
oltre ovviamente al fondamento linguistico, la centralità del toscano divergendo però per quasi tutto il resto.
Merlo respinge l’idea che il gruppo veneto e gallo-italico appartenessero a famiglie differenti, la considera

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un’unica famiglia settentrionali. Sempre Merlo afferma che il sardo e il gallo-romanzo siano su due piani diversi,
dove il primo è più lontano dal toscano schierandosi con chi lo vede come un ramo autonomo della famiglia
romanza.

Ai margini dell’Italo-Romània: le varietà alloglotte

La posizione del ladino (intenso in senso largo, friulano, romancio


e ladino) si è molta discussa, si pensa davvero che sia una varietà
alloglotta cioè appartenente a un tipo diverso da quello italo-
romanzo? Con varietà alloglotta, quelle colonie linguistiche
strutturalmente non italo romanze (fonetico, morfologie e sintattico
non avvicinabili all’italo-romanzo), insorte o per migrazione o per
propagati i di altri sistemi sul territorio italiano. Non hanno come
lingua tetto l’italiano, e non vengono quindi considerate lingue italo-
romanze. Possiamo distinguerle in varietà non romanze o romanze
per tipologia, propaggine 6 e per isole linguistiche 7 . Sono
numerose le varietà alloglotte che lo Stato Italiano, grazie alla legge
482 del 1999, considera ufficialmente minoranze linguistiche. E’
importante sottolineare che però NON tutte le minoranze
linguistiche sono varietà alloglotte, il sardo per esempio viene
considerata come una minoranza linguistica ma non come varietà
alloglotta in quanto ha come lingua tetto l’italiano. Molto ben
rappresentata nel nord Italia sono le varietà tedesche, presenti sul
territorio italiano sia come propaggine che come isole linguistiche.
La comunità meglio rappresenta è quella dei dialetti tirolesi
presenti in Alto-Adige e che si parlano in Austria, quelli bavaresi che si parlano a Ruana e Gazza (in passato
anche in altri comuni), i dialetti walser in torno al Monterosa e i dialetti carinziani. Po ci sono le varietà
slovene (tra il confine del Friuli e Slovenia come propaggini). Spostandoci al sud troviamo le varietà croate
che si parlano in Molise, molti diffuse sono anche le varietà albanesi (centro-meridioni, dall’Abruzzo alla
Sicilia) e le varietà grecofone (Grecia Salentina e Corigliano d’Otranto). Ci sono poi varietà romanze che sono
varietà provenzali (occitano), franco provenzali e catalano. Quelle franco provenzali sono presenti
come propaggini e abbraccia la Valle D’Aosta fino all’alta Valle di Susa, da Chiamonte inizia l’area occitana che
si estende fino al Col di Tenda e a Limone Piemonte. Colonia provenzale in Italia Meridionale è Guardia
piemontese, in provincia di Cosenza. Franco-provenzali sono invece Faeto e Celle San Vito, nel Foggiano. Altra
colonia romanza è Alghero, ove si parla un dialetto calata lo come prodotto della conquista aragonese dell’isola,
purtroppo però ad oggi sono solo poche persone a parlarlo, principalmente anziani, e per lo più nel centro
storico.

La questione ladina

Il ladino, a seconda del punto di vista degli studiosi, ha uno statuto diverso. Definirlo una varietà alloglotta
significa che varietà come quelle friuliane o ladino dolomitiche fanno parte di un’unica famiglia (retroromanza).
Ascoli sosteneva l’estistenza dell’unità ladina, cioè di un sistema romanzo ladino (poi definito retoromanzo)
articolato in tre varietà geografiche discontinue:

6
Propaggine: si hanno quando aree linguistiche situate al di fuori del territorio nazionale si estendono in parte anche nei
confini italiani.
7
Isole linguistiche: varietà territorialmente assai circoscritte e a livello demgrafico piuttosto debole, numero limitato di
persone che parlano quella derminata lingua.

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• Friulano (Friuli)
• Ladino dolomitico (fra Veneto e Trentino Alto-Adige)
• Romancio (Canton Grigioni)

Queste varietà solo accomunate a livello strutturale dalla presenza di alcuni tratti che oggi hanno solo loro:
• Conservazione dei nessi di Consonante + L:
• friul. [klaːf] (< CLAVEM), [floːr] (< FLOREM)
• lad. (gard). [flɔk] (< FLOCCUM), [dlatʃa] (< GLACIEM)
• rom. (surs.) [ploːvɐr] (< PLOVERE), [ple] < (PLŪS)
• Conservazione di -S nella flessione verbale e nominale:
• friul. [tu tu dwuarmis] (< DORMIS), [maŋs] (< MANUS), [paris] (< PATRES)
• lad. (fas.) [tu te pau̯ ses] (< PAUSAS), [urɛjes] (< AURICULAS), [kuǝ̯ ges] (< b. lat. COCOS)
• rom. (surs.) [tu te pɔrtɐs] (< PORTAS), [cau̯ tʃɐs] (< CALCEAS)
• Conservazione delle forme nominativali EGO e TU nel sistema dei pronomi personali:
• friul. [jɔ], [tu]
• lad. (fas.) [ʤe] / [je], [tu]
• rom.(surs.) [iu̯], [te](<TŪ)
• Palatalizzazione di CA- e GA-
• friul. [caŋ] (< CANEM), [ɟai̯ ] (< GALLI)
• lad. (fas.) [cɛr] (< CARRUM), [ɟal] (< GALLUM)
• rom. (eng.) [can] (< CANEM), [ɟat] (< b.lat *GATTUM)

Ascoli, Merlo, ecc.: se esiste l’unità ladina – se esiste cioè, una famiglia autonoma retoro- manza – friulano e
ladino dolomitico, parlati in territorio italiano, sono da considerare varietà alloglotte. Quest’unità ladina però è
contestata da Pellegrini e altri studiosi, innanzitutto le famiglie linguistiche non in riferimento ai fatti linguistici di
conservazione quindi a ciò che i gruppi condividono, ma vengono considerati sulle innovazioni comuni. In ben
tre dei tratti citati non abbiamo innovazioni comuni che permettono di stabilire un’unità classificatoria distinta
indipendente dall’ italo-romanzo. Siamo invece difronte alla conservazioni, in aree periferiche, di tratti che in
fase medievale erano comuni anche ai dialetti settentrionali:
• venez. ant.: clave (<CLAVEM), blanca (BLANCAM); metis (<MITTIS), debis ‘devi’ (DEBES), es-tu
‘sei tu?’ (< ES TU?);
• sett. mediev.: continuatori regolari di EGO e TU presenti fino alla fase rinascimentale.

Innovazione apparente anche la palatalizzazione di CA- e GA-, insorta in gallo-romanzo nel V-VII sec., e
irradiatasi non solo lungo l’arco alpino, ma, in fase medievale, anche nell’Italia settentrionale cisalpina, da cui
poi è pian piano regredita, lasciando però attestazioni toponomastiche: alto Vicentino Chiampo (< CAMPUS),
(Ponte del) Chiastel (d’Isopo) < CASTELLUM. Quando parliamo dell’esito palatale retoromanzi/ladini di CA-
e GA-, parliamo di un accordo in conservazione (in passato era presente anche altrove). Non esiste unità ladina:
friulano e ladino dolomitico sono rappresentanti di «un tipo cisalpino in fasi assai arretrate» (Pellegrini 1973:74).

05 APRILE 2022

La “Carta dei dialetti d’Italia” di Giovan Battisti Pellegrini

La classificazione che oggi viene presa in considerazione è quella di Pellegrini, nonostante ci sia un’imprecisione
in riferimento i confini settentrionali dellì’area centro-meridionale. Come tutte le classificazioni moderne è
costruita sulla base utilizzando criteri esterni quanto criteri strutturali. A monte ci sono criteri esterni di natura
extralinquistici che sono utilizzi a definire che cosa considerare c cosa no in questa classificazione e circoscrivere
ciò che consideriamo talo romano e ciò che no. Il primo di questi due criniera esterni è di ordine politico, si
parla per l’appunto di “Carta dei dialetti di Italia” e non Italini e infatti Pellegrini decidi di limitare la ricerca dell’

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italo romanzo ai confini politici italini. Il secondo criterio è di ordine prettamente sociolinguistico, entro i
confini italiani sono classificate come italo romanzi solo i dialetti che a prescindere dalle loro caratteristiche
strutturali hanno per lingua tetto l’italiano. Per Pellegrini è italo romanzo solo le varietà che hanno come lingua
tetto l’italiano, si arriva così a definire che cos’è italo-romanzo e cosa quindi, entro i confini italiani, alloglotto.
Per la classificazione interna del quale, cioè per la suddivisione dell’ italo-romanzo in specifiche aree e subaeree
dialettali, ci si affida al criterio delle isoglosse. I principali gruppi italo-romanzi:
• Dialetti settentrionali (a nord della linea La Speizia – Rimini):
• Comprende il tipo gallo-italico (emiliano, romagnolo,
lombardo, ligure e colonie del sud dell’Italia
• Tipo veneto (comprese le aree ladinofone)
• Dialetti toscani
• Dialetti centromeridionali(grosso modo, a sud della linea
roma-Ancona):
• Dialetti mediani (in senso largo: include anche anche i
dialetti perimediani , zona di transizione [visione in realtà
scorretta])
• Dialetti alto-meridionali (o meridionali intermedi)
• Dialetti meridionali estremi
• Dialetti friulani
• Dialetti sardi

I primi tre rappresentano l’italo-romanzo in senso stretto, gli utili i due li consideriamo italo-romanzi per il
principio della ligua tetto. E’ escluso il dialetto corso (molto simile al toscano) per il criterio politico e per quello
della lingua tetto. Ci sono altre varietà che sono strutturalmente italoromanze che però non sono incluse nella
carta dei dialetti di pellegrini, come l’italiano che si parla in Svizzera o quelle in Istria che però rispettano il
criterio della lingua tetto ma non quello politico.

L’Italia dialettale

I dialetti toscani

I dialetti toscani sono quelli che si sono meno allontanati dal latino e si
trovano a sud/sud-ovest della linea La Spezia-Rimini, confinano con i
dialetti settentrionali e quelli perimediani. La suddivisione interna dei
dialetti toscano consente di individuare cinque gruppi: fiorentino,
senese, toscano occidentale (pisano, livornese, lucchese), toscano
orientale (arentino, chiamiamolo) toscano meridionale
(grossetano, ammattino). Le descrizioni più articolate sono fornite da
Gianelli. La toscana linguistica non corrisponde con quella
amministrativa, quest’ultima comprende anche la Garfagnana o la zona
Massa, l’area settentrionale della provincia di Firenze che
linguisticamente non sono toscane ma gallo italiche (settentrionali). Analizziamo il toscano come dialetto, perché
l’Italiano nasce dalla codificazione del toscano trecentesco e successivamente questo dialetto ha continuato ad
evolversi per quanto riguarda alcuni tratti. I tratti toscani (o più precisamente fiorentini) confluiti in italiano sono
i seguenti:
• Anaforesi: si tratta di un innalzamento delle due vocali chiuse toniche /e/ e /o/, davanti a determinati
foni consonantici. E’ un fenomeno schiettamente toscano, più precisamente fiorentino, pratese,

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pistoiese, lucchese, pisano e volterrano. A) Si ha /i/ tonica da /e/ del latino volgare (in cui erano confluiti
Ē e Ĭ del latino classico) davanti a /ʎʎ/ e /ŋŋ/, purché proveniente dal latino classico classico -LJ- e -NJ-
: GRAMĬNEAM > gramégna > gramigna. Se /ŋŋ/ proviene da un nesso latino -GN-, l’anafonesi non si
produce. B) Si ha /i/ tonica de /e/ del latino volgare e /u/ e /o/ (Ō e Ŭ del latino classico) quando segue
o seguiva una nasale velare (/ŋ/), ossia davanti ai nessi -NG- -NK: LĬNGUAM > léngua > lingua.
• Trattamento di e protonica: una /e/ protonica del latino volgare (Ĕ,Ē,Ĭ) tende a chiuderasi in /i/ in
un’area che anticamente era limitata alla Toscana: DĔCEMBRE(M) > decembre > dicembre. Il
fenomeno avviene anche all’interno di frase, coinvolgendo i monosillabi dotati di un scarso corpo fonico
i quali tendono ad appoggiarsi alla parola seguente: DĒ ROMA > di Roma. Si parla in casi del genere
di protonia sintattitica. Ci sono però delle situazioni in cui tale fenomeno non si verifica: nelle parole
che nell’italiano antico avevano /i/ protonica e che hanno oggi /e/ per relativizzazione
d’età rinascimentale, es. felice (filice < FĒLICEM), nei latinismi (negozio < NĔGOTIUM) e
dove la /e/ protonica si conserva nei derivati per influsso della parola base, es. telaio (TĒLARIUM) per
influsso di tela.
• Nesso di R + “iod”: in Toscana e nelle aree limitrofe il nesso -RJ- ha perso la vibrante riducendosi al
solo “iod”: FŬRIAM > foia. Nella maggior parte degli altri dialetti italiano l’esito di -RJ- è /r/.
• ar ed er intertonici e postonici: nel fiorentino il gruppo -AR- in posizione intertònica (tra accento
principale e secondario) e postonica passa ad /er/: MARGARITA > margherita.
• L’articolo: è noto che il latino non possedeva articoli…
• […]

Ci sono però dei tratti che differenziano il toscano e l’italiano:


• Monottongazione di /wɔ/ (tra XVI e XVII sec., tratto rappresentanti nei Promessi Sposi di Manzoni)
• BONUM > buono > [bɔːno] ‘buono’,
• NOVUM > nuovo > [nɔːvo] ‘nuovo’
• HOMO > uomo > [ɔːmo] ‘uomo’
• Realizzazioni allofoniche di /tʃ/ (⇢ [tʃ] / [ʃ]) e /dʒ/ (⇢ [dʒ] / [ʒ]):

/tʃ/ /dʒ
[tʃ]: [tʃeːna], [kaltʃo], [a
Posizione forte [dʒ]: [dʒɛnte], [ˈpiandʒere], [a ddʒokare]
ttʃeːna]
Posizione debole [ʃ]: [paːʃe], [la ʃeːna] [ʒ]: [aʒiːre], [la ʒɛnte]

• Spirantizzazione delle occulusive sorte (“gorgia”)


• “Impopolarità” della prima persona plurale del presente indicativo: si preferisce per
esempio l’utilizzo di noi si va al posto di noi andiamo). L’AIS in riferimento alla carta “noi andiamo”
in toscana presenta questa formula e non quella che ci aspetteremmo ovvero “noi si va”. Il motivo di ciò
si deve probabilmente a chi ha raccolto tali dati, ovvero il raccoglitore (colui che ha fatto le inquiete), il
quale potrebbe non aver tenuto conto del continuum lingua-dialetto che caratterizza il repertorio
linguistico delle varietà toscane, che potrebbe aver condizionato la risposta dell’ informatore rispetto a
un input del, tipo “noi andiamo”.
• Perdità dell’opposizione casuale nei pronomi personali di II persona: presenta un sistema
bicasuale ovvero tu e te, così era anche per il toscano del XIII- XIV secolo, ma a partire dal XV secolo
si ha un’unica forma te per tutte le persone. Si può sentire anche il tipo te (tu) parli male dove il “tu”
non è una forma residenziale del soggetto ma è opzionale ed è il clitico soggetto.
• Clitico soggetto atoni: ci muoviamo tra la morfologia e sintassi, sono particella pro critiche (atone)
che accompagnano il verbo finito frapponendosi tra il soggetto e il verbo stesso. Vale per il distretto di

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Firenze: es. Te tu fai. Questo tratto è tipico dei dialetti settentrionali infatti è insorto a Firenze alla fine
del Medioevo per contatto.

I dialetti centromeridionali

Per Pellegrini i dialetti centromeridionali sono quelli a sud della provincia di Ancona e si
suddivisono in sottoclassi: dialetti mediani ( dai quali però andrebbero esclusi i
perimediani ovvero quelli che si trovano tra le due isoglosse), dialetti alto-meridionali
e dialetti meridionali estremi. Gli ultimi due vengono detti generalmente come
meridionali. C’è da fare però una correzione rispetto a ciò che propone Pellegrini, perché
lui considera nel centro meridione anche la zona perimediana che è in realtà una zona di transizione tra il
tipo mediano (in senso stretto), il tipo toscano e il tipo settentrionale. E’ un errore perché in questo modo non
da rilevanza ad un confine significativo dell’intera italo-romania. Comprende il Lazio nord-ovest del Tevere, la
zona di Perugia, l’Umbra nord-occidentale e l’Anconetano.

Perimediano Mediano Toscano Romagnolo


-ND-
-nn- [kwanno] -nn- [kwanno] -nd- [kwando] -nd- [kwand]
(QUANDO)
-U breve
-o [kampo] -u [kampu] -o [kampo] / [kamp]
(CAMPUM)
-À ɛ (perugino)
a [baːʃu] a [baːʃo] ɛ [bɛːʒ]
(BASILUM) [bɛːʒo]

Importante segnalare che entro i dialetti centromeridionali di un’area particolarmente conservativa tra Calabria
settentrionale e Basilicata meridionale che prende il nome di Area Lausberg, che prende il nome dallo
studioso che negli anni 20-30 del ‘900 fece inchieste in quest’area accorgendosi di caratteristiche molto
conservative delle parlate di queste zone: per esempio al contrario delle altre zone presenta un vocalismo tonico
di tipo sardo.

Vocalismi del centromeridione

Vocalismi tonici

Da questo punto di vista i dialetti centromeridionali sono molto particolari perché a distanza di pochi centinaia
di chilometri presentano un numero di vocalismi che non si rivengono nell’intera Ròmania. Il primo che
andiamo a descrivere e che è anche quello più diffuso è il tipo panromanzo, a sette timbri e identico a quello
del toscano (e dell’intera Ròmania tranne per il sardo e il rumeno) e quindi dell’italiano. È l’unico presente nei
dialetti mediani e alto-meridionali e si contraddistingue per le fusioni timbriche che hanno interessato la Ĭ e la Ē
dando una e chiusa e lo stesso avviene per la Ō e la Ŭ che hanno dato una o chiusa. A partire da questo sistema
ogni specifica varietà mediana e alto-meridionale può aver conosciuto delle variazioni, per esempio la metafonesi
ha fatto si che le vocali medi in presenza di determinati contesti si siano evolute è diventato altro, o dittongando
o innalzando. Vi è poi il tipo sicialiano che non è proprio solo dei dialetti siciliani, ma di tutti i dialetti
meridionali estremi (anche in Salento) e si caratterizza per essere pentavocalico (ĪĬĒ > i, Ĕ > ɛ, ĀĂ > a, Ŏ > ɔ,
ŌŬŪ > u). Si è molto discusso sull’ origine di questo tipo di vocalismo, si è discusso che a questo sistema

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pentavocalico si sia giunti per […] diretta a partire dal sistema a dieci fonemi del latino tramite fusione oppure si
è proposta la possibilità che questo sistema abbia avuto un origine secondaria ciò una evoluzione del sistema
panromanzo con le vocali medio alto, o chiusa ed e chiusa che si sono innalzate ad i ed u. La seconda possibilità
è quella verosimilmente più probabile, si dovrebbe ad un effetto di adstrato bizantino che avrebbe favorito il
passaggio dal vocalismo eptavocalico a pentavocalico. Sarebbe successo perché quando i bizantini conquistarono
la penisola italica, nelle aree meridionali estreme controllate appunto dai bizantini, si venne a creare la situazione
di bilinguismo perché da una parte vi era il latino volgare della Sicilia (il discorso vale anche per altre aree di
dominazione bizantina) ed erano per lo più i parlanti indigeni (non bizantini) a parlarlo e dall’altro il greco
bizantino, modello di prestigio e parlato dall’élite che governava l’isola. Presupponendo che i parlanti indigeni
avessero un vocalismo pararomanzo come suppone Franciulli e che quindi dicessero, per esempio
(CANDĒLAM )> [kandala] e non ancora kandila, ebbene il bilinguismo e il greco bizantino cui erano esposti e
che comunque a erano in grado di capire e parlare li induceva a concepire una corrispondenza tra le vocali
toniche di queste forme e le vocali latine del greco bizantino kandila e phounos corrispondenze rese ai parlanti
tanto più evidenti dati i numerosissimi prestiti latini e poi romanzi dal greco [?]. Gli indigeni protoromanzofoni
iniziarono a imitare il modello bizantino andando a sostituirtre le [e] con [i] e [o] con [u] dapprima nelle vocali
locali che come – [kandela] e [fornu] – avevano un corrispettivo in greco bizantino (non poche dati i tanti previsti
dal greco), poi sistematicamente nel resto del lessico. Nasce così il sistema pentavocalico di tipo sicialiano.

06 APRILE 2022

Nell’area Lausberg troviamo anche i tipi di vocalismo panromanzo e siciliano, ma conosce anche il vocalismo
sardo che è molto conservativo e non conosce fusioni timbriche, infatti i timbri del latino sono rimasti tali. Lo
troviamo a sud fiume Agri, tra Lucania e Calabria. Sempre in questa zona troviamo anche il vocalismo
asimmetrico simile a quello rumeno perché come esso la distribuzione degli esiti del ramo palatale non ricalca
quello del ramo velare (vocalismo di tipo sardo). Si parla a nord del fiume Agri e in Lucania settentrionale.
Successivamente abbiamo il vocalismo di transizione, in tedesco Randgebiet, che va dall’Adriatico allo Ionio
fino al Tirreno (fascia Brindisi, Ostuni, Taranto, Lucania orientale e settentrio- nale, provincia meridionale
Salerno, Vallo di Diano). [VANNO SAPUT BENE I VOCALISMI]

Vocalismi atoni finali

Il tipo meditano si caratterizza per essere molto conservativo e riguarda la sola area mediana (quindi non
quella perimediana perché essa non fa parte del centromeridione, e ha un vocalismo finale che coincide con
quello toscano quindi a quattro timbri I,E,A,O) e rispetto a quello toscano non ha conosciuto l’abbassamento di
-Ū in o chiusa ragione per cui in queste zone si dirà [kwanno] ma anche [filu].

-Ī -Ĭ -Ē -Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ -Ō -Ŭ -Ū
-i -e -a -o -u
[muːri] [voːtʃe] [teːla] [kwanno] [fiːlu] Ø
MŪRI VŌCE(M) TĒLA(M) QUANDO FĪLU(M)

C’è poi il tipo napoletano che è tipico di tutti i dialetti alto-meridionali (Puglia, Abruzzo, Molise). Si tratta di
un tipo fortemente innovativo che si caratterizza per la confluenza di tutti i timbri etimologici in un unico timbro
centralizzato, detto ə (Schwa) a questo timbro si è giunti gradualmente e non in unico colpo rispetto al tipo latino,
attraverso varie fasi di innovazioni:

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-Ī -Ĭ -Ē -Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ -Ō -Ŭ -Ū
-e
I FASE -i -a -o -u

II FASE -i -e -a -o

III FASE -ə -a -o Ø

IV FASE -ə -a -ə

V FASE -ə Ø

Queste fasi possono essere ricostruite attraverso le due prospettive tramite le quali opera la linguistica storica, la
prospettiva prospettiva e la prospettiva retrospettiva comparativa. La prima ricostruisce il mutamento
entro la varietà a partire dal momento in cui si verifica, secolo per secolo, fase per fase, fino ai giorni nostri,
osservando il mutamento nei testi. Gli studi di Formentin prima e di Barbato poi, sul napoletano medievale e
dei secoli successivi ci consente di vedere che il sistema rappresentato in III si formò tra il 1400 e il 1500 con la
confluenza in -ə delle palatali, al sistema in IV confluenza in -ə delle velari si giunsi fra il 1500 e il 1600 mentre
il più recente è la confluenza in -ə della -a, vocale che ha resistitò più a lungo. Questo stesso mutamento può
essere ricostruito anche con la seconda prospettiva, osservando non i dati dei secoli scorsi ma quelli odierni
ampliando il campo a più varietà. C’è un principio di base e cioè quando il mutamento relativo ad un tratto si
diffonde sul territorio irradiandosi da un punto, ci sono varietà che da questi mutamenti sono raggiunte e
recepiscono il mutamento, ce ne sono altre invece che non sono raggiunte da tale mutamento e quindi non lo
recepiscono. Queste varietà più conservative (non raggiunte dai mutamenti) mostrano oggi le fasi evolutive che
le varietà più innovative avevano conosciuto in passato e quindi i diversi valori che uno stesso tratto reca oggi in
vairetà diverse, ci consentono di ricostruire -tramite la loro osservazione e comparazione- la loro vicenda
evolutiva del tratto stesso. Ai valori attuali del tipo napoletano, il dialetto napoletano e quelli alto-meridionali,
sono giunti passando attraverso una serie di innovazioni, fasi che varietà più conservative tutt’oggi ci consentono
di osservare e per tanto di ricostruire. Per esempio. A partire dal sistema latino abbiamo avuto la fase I, che è
quella oggi documentata dal tipo mediano. Poi si è passati attraverso la fase due che è quella tutt’oggi documentata
e dove i dialetti toscani e perimediani si sono fermati. Non abbiamo varietà che oggi documentano la fase tre, ed
è stata ricostruita. Mentre la fase IV è riscontrabile nel dialetto di Ascoli Piceno, varietà altomeridionale che
conserva questo stadio perché non è mai stata raggiunta dall’ultimo innovamento del tipo napoletano. Quando
le due prospettive danno lo stesso risultato significa che la ricostruzione che si è fatta è corretta. I diversi valori
assunti da un tratto su un territorio più o meno ampio ci consentono di ricostruire la storia diacronica del tratto
stesso laddove ha conosciuto tutte le fasi evolutive. Poi c’è il vocalismo di tipo siciliano, tipico dell’intero
meridione estremo fatto eccezione per il Salento centrale (leccese) e nel cosentino che invece hanno un
vocalismo a quattro timbri dove la E latina è rimasta tale, al contrario di quello sicialiano che invece è a tre timbri

-Ī,-Ĭ -Ē,-Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ,-Ō -Ŭ (-Ū)


-i -a -u
[muːri] [vuːtʃi] [tiːla] [kwanːu] [fiːlu] Ø
MŪRI VŌCE(M) TĒLA(M) QUANDO FĪLU(M)

Metafonesi nel Centromeridione

La principale innovazione conosciuta in area mediana e alta-meridionale dal vocalismo tonico eptatimbrico(sette
timbri) che è per l’appunto il sistema di partenza (panromanzo) di queste varietà è la metafonesi: processo
assimilativo – a distanza e di tipo regressivo – per cui una vocale, in genere la tonica (con accento), assume in

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parte o in tutto tratti della vocale (o della semivocale) di una sillaba seguente (spesso la finale). I tre paramenti
sulla quale la metafonesi si applica:
• Le vocali che innescano la metafonesi sono i continuatori di -Ŭ e -Ī finali del latino volgare.
• Le vocali che invece sono colpite dalla metafonesi sono le vocali toniche medio basse (ɛ/ɔ) e medio alte
(e/o) sviluppatesi in latino volgare.
• Il tipo di effetto che la metafonesi ha prodotto su tali vocali medio alte e medio basse, effetto che a
seconda delle aree può essere dittongazione e/o innalzamento.

A seconda che si abbia dittongazione o innalzamento ci consente di distinguere due tipi di metafonesi, di tipo
sabino (detta anche laziale o ciociarecsca) tipica non solo nel lazio ma della maggior parte dei dialetti mediani. E
c’è il tipo napoletano, tipico dei dialetti alto-meridionali. Il primo tipo prevede che sia le vocali medio basse che
quelle medio altre si innalzano di un grado mentre il secondo tipo prevede che le medio alte si innalzino mentre
quelle medio basse dittongano.

T. SABINO LESSEMA -A -Ŭ -E (<-AE/-AS) -Ī


Ĕ>ɛ VĔT(U)LUM [vɛkkja] [vekkju] [vɛkːje] [vekki]

Ŏ>ɔ GRŎSSUM [grɔssa] [grossu] [grɔsse] [grossi]

ĬĒ>e NĬ(G)RUM [neːra] [niːru] [neːre] [niːri]

ŌŬ>o RŬSSUM [rossa] [russu] [rosse] [russi]

T. NAPOL. LESSEMA -A -Ŭ -E (<-AE/-AS) -Ī


Ĕ>ɛ VĔT(U)LUM [vɛkkjə] [vjekkjə] [vɛkkjə] [vjekkiə]
Ŏ>ɔ GRŎSSUM [grɔssə] [grwossə] [grɔssə] [grwossə]
ĬĒ>e NĬ(G)RUM [neːrə] [niːrə] [neːrə] [niːrə]
ŌŬ>o RŬSSUM [rossə] [russə] [rossə] [russə]

Sul piano strutturale è interessante notare come la metafonesi può veicolare, a seconda dei lessemi che ne sono
colpiti, funzioni morfologiche. Può veicolare valori relativi al genere in quanto le forme maschile presentano
metafonesi mentre quelle femminili non sono soggetti a tale fenomeno. Può trasmettere informazioni anche in
riferimento ai valori di numero, dove il plurale subisce metafonesi. Il limite meridionale della metafonesi è la
così detta linea Vibo Valentia – Stilo sul versante calabrese, mentre per quanto riguarda la possibilità di avere
dittongazione metafonetica sul versante pugliese-salentino c’è metafonesi sia di Ĕ sia di Ŏ fino al Salento centrale
e settentrionale, ma si deve tenere conto che la metafonesi con dittongazione di Ĕ può spingersi un po’ più su
arrivando fino a Gallipoli, non c’è invece a Leuca. E’ importante in area altomeridionale perché essendo
divenuto evanescente il vocalismo finale, la metafonesi diventa l’unico marcatore di genere in riferimento agli
aggetti di prima classe, di numero in riferimento a sostantivi di terza classe che hanno etimologicamente uscita
in -e. La metafonesi non può essere insorta per sopperire alle informazioni morfologiche non dava più il
vocalismo finale . Innanzitutto perché si è sviluppata anche dove il vocalismo finale ha tenuto, è da notare che
se si fosse sviluppata dopo lo scadimento delle vocali finale a schwa non dovremmo trovarla ovunque e non solo
dove ci sono vocali alte. (GUARDARE TABELLA SOTTO) Quelle toscane non dittongano perché c’è
metafonesi, ma accade quando si vengono trovare ɛ ed ɔ in sillaba aperta, l’altra differenza è anche l’effetto,
nell’area altomeridionale i dittongamenti sono chiusi in toscana sono aperti. Quelle evidenziate è l’atipica
manifestazione della metafonesi nel romanesco medievale il quale conosceva questo fenomeno ma soltanto in
riferimento al medio basse , mentre quello medi oalte non subivano conservazione comportandosi come le
medio altre toscane.

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Area mediana Area altomeridi. Area toscana [+ sill.
[+metafon.] [+metafon]. aperta]
Ĕ>ɛ e je jɛ
Ŏ>ɔ o wo wɔ
ĬĒ>e i e
ŌŬ>o u o

Quella della metafonesi delle medioalte in romanasco è una questione dibattuto, perché è vero che le medio
alte non conoscevano metafonesi ma allo stesso tempo sono stati trovati testi dove presentano qualche esempio
di metafonesi (entro condizioni strutturalmente definite)

ROM. MED. LESSEMA -A -Ŭ -E (<-AE/-AS) -Ī


Ĕ>ɛ VĔT(U)LUM [vɛkkja] [vjekkjo] [vɛkkje] [vjekki]
Ŏ>ɔ GRŎSSUM [grɔssa] [grwosso] [grɔsse] [grwossi]
ĬĒ>e NĬ(G)RUM [neːra] [neːro] [neːre] [neːri]
ŌŬ>o RŬSSUM [rossa] [rosso] [rosse] [rossi]

Consonantismo del centromeridione


Betacismo

Il primo tratto che presentiamo è betacismo che lo si presenta nella forma antica tutt’oggi abbastanza conservata
ma in alcune zone del centromeridione in regresso (si stanno ristabilendo forme toscane). E’ il fenomeno per il
quale -B e -V del latino si fondono in unicorno fonema -V realizzato allofonicamente come -B in posizione forte,
e come -V in posizione debole. Con posizione forte intendiamo pozione in cui i continuatori di -V e -B del latino
si viene a trovare come geminato (dovuto anche al raddoppiamento fonosintattico) oppure dopo consonante.
Mentre con posizione debole intentediamo posizione iniziale assoluta (consonante iniziale di parola che apre
l’enunciato) ma anche intervocálica, dopo /r/ (ILLAM) BARBAM > med. [(la) varva] Anche in contesto
fonosintattico. Oggi tendenza alla restituzione dell’opposizione tra /v/ e /b/ per imitazione del tosco-italiano il
quale le ha sempre distinte. Questo conguaglio in unico fonema già presente nel latino imperiale testimoniato
da Herman.

Latino -ND- > -nn-; latino -MB- > -mm-


Questi fenomeni di assimilazione progressiva sono tipici di quasi tutti i dialetti centromeridionali, tranne in
alcune aree: MŬNDU(M) (mondo) abbiamo in area med. [munnu], napoletano [munnə] e in siciliano [munnu]
mentre in PLŬMBU(M) (piombo) in area mediana abbiamo [pjummu], in napoletano [cummə] e in siciliano
[cummu]. Il primofenomeno parte dalla toscana meridionale e si ferma più o meno nella zona centrale della
Calabria e quella centrale del Salento, per poi ricomparire in Sicilia a sud del distretto di Messina così come poi
riapparire sempre nella zona del Salento che fa capo a Leuca. Il secondo fenomeno si sviluppa a partire dalla
linea Ancona-Roma per poi fermarsi poco più su rispetto al primo fenomeno nelle medesime aree esclusa la
Sicilia. I dialetti mediani con alcuni sconfinamenti altomediteranneli conoscono anche altro fenomeno (oltre a
quello di mb e nd), LD> [ll] es. CAL(I)DUM > [kallu] ( fino alla linea Cassino-Gargano). Tale fenomeno è
presente anche a Roma ma si limita esclusivamente al tipo lessicale “caldo” e ai derivati. Lo si potrebbe
giustificare come effetto di sostrato osco? La risposta è no (SPIEGAZIONE 23 MARZO).

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12 APRILE 2022

Esiti di DJ, GE,I, GJ, J > [j]

Esito comune in tutto il centro meridione dei nessi DJ, Ge,i, GJ, J > [j]
• DJ: *DIŎRNUM > med. [jornu] nap. [jwornə] sic. [jɔrnu]
• GE,I: GELARE > med. [jeˈla] nap. [jeˈla] sic. [jelaːri]
• GJ: PLAGIAM > med.ant. [pjajja] nap. [cajjə] cal. [prajja]
• J: IŎCUM> med. [joːku] nap. [jwoːkə] sic. [jɔːku]

Nella forma napoletana di “gelare” sembrerebbe mancare nella vocale finale la schwa, ma per far sì che ciò
accada la vocale deve essere atona e questa è tonica.

Esiti di nessi di CONS + J


Altro fenomeno comune investito i nessi di consonanti + j.
• PJ > [tʃ]: SAPIO> med.ant. [sattʃo] merid. (nap.) [sattʃə] sic. [sattʃu]
• SJ > [s]: CAMISIAM > med. ant. [kamiːsa] merid. (nap.) [kamiːsə] sic.[kamiːsa]
• CJ > [ts]: BRACHIUM > med.ant. [vrattsu] merid. [vrattsə] sic. [vrattsu]

La solidarietà oggi riguarda solo l’area meridionale (per l’alto meridione e per il meridione estremo), non più l’
area mediana che conosceva questi esiti nel medioevo e che oggi ha assunto valori tipici del toscano. Quando a
CJ > [tts] non investe gran parte dell’area campana, lo troviamo solo al sud della linea Eboli – Lucera. Il fatto
che in napoletano si dica “saccio” ci porta a chiederci come mai nei Placidi campani del 960 non abbiamo una
forma che continua il tipo SAPIO, ma abbiamo sao, continuare del latino volgare *SAO a sua volta insorta
analogicamente dal tipo AO (forma ridotta di HABEO). Anche il nostro “sto” non continua STO del latino ma
una forma analogica di STAO, e lo stesso vale per gli altri infiniti bisillabici. Il nostro “io so” continua la forma
stao, perché se continuasse SAPIO noi diremmo “io sapio”. Data la situazione attuale ci aspetteremmo di trovare
o una forma vicina al tipo SAPIO o una sua evoluzione cioè SACCIO, invece abbiamo SAO. Una delle ipotesi
che è stata a lungo proposta è quella di una forma interregionale, cioè che apparteneva al linguaggio giuridico
ma non alla lingua di quell’area. Un’altra ipotesi, sicuramente più plausibile, è quello dello spostamento della
“linea di confine” tra i continuare di SAO e di SAPIO più a nord rispetto a quando sono stati i scritti i placiti,
dove la forma SAPIO/SACCIO ha “mangiato” il terreno della forma SAO.

Manifestazioni del raddoppiamento fonosintattico (RF)

Manifestazione del raddoppiamento fonosintattico nei dialetti centromeridionali, un po’ simile ovunque. Si
applica quando in diacronia c’è una regolare assimilazione di consonante finale etimologia: AD ME > [a ‘mme].
Diversamente dal toscano, non conosce il raddoppiamento fonosintattico condizionato dall’accento, in
napoletano si avrà [vjerna ‘ri passatə] (non con due p) “venerdì passato”.

Morfologia e sintassi

Articolo determinativo maschile singolare

La forma dell’articolo determinato maschile singolare muove dal latino ILLUM, passato da dimostrativo ad
ariticolo. I continuatori di ILLUM nei dialetti che siamo analizzando possono essere solo di tipo forte ovvero

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uscenti in vocale (lo in Italiano) e mai di tipo debole, uscenti cioè in consonante (il). Nei dialetti centromeridionali
vi è solo una forma e non due come in italiano ed è sempre di tipo forte: ILLUM PEDEM “il piede” > med
(macerata) [ lu’ pɛ], nap. [o pɛːrə], palerm. [u pjɛːri]. Distribuzione contemporanea delle forme forti e deboli:
• Area centromeridionale: solo forme forti
• Area toscana: forme deboli e forme forti (a seconda della struttura della prima sillaba della parola
seguente: il davanti a cons. semplice e a nessi consonantici tautosillabici, lo altrove);
• Area settentrionale: solo forme deboli (eccetto Liguria che escono e alcuni dialetti lombardo-alpini).

La distribuzione odierna permette di ricostruire la storia del tratto stesso. Da ILLUM in prima istanza abbiamo
avuto una forma forte lo o lu. Le forme deboli come il, el, ul non nascono per apocope della sillaba finale ma
da evoluzione fonetiche delle forme forti. Davanti a parola terminante per vocale tendeva a ridurmi a [l],
successivamente ilò volgare ha sviluppato una vocale d’appoggio che serviva alla pronuncia. Non è quindi una
vocale etimologica e quindi cambia nei vari volgari antichi. In toscano viene utilizzata la [e] o la [i] (per il
fenomeno di chiusura di /e/protonica. Da questo possiamo dedurre che nella prima fase l’intera penisola
conosceva esclusivamente forme forti. Nella seconda fase ci sarà stata un’innovazione, cioè quello è successo in
toscana. Dalle forme forti in alcune varietà iniziano a svilupparsi le forme deboli, che inizialmente ,a,,affianca la
forma forte, arriva fino al toscano e non più a sud. Nella terza fase nel settentrione si passa da due forme a solo
la forma debole non l’eliminazione di quella forte, ciò però non accade nella toscana.

Espansione dei plurali in -a (< -A) e in -ora (< b.lat. -ORA)

• Plurali -a :
• asc. [piːrə / peːra] (NT) catanz. [muːru / muːra] (M) sic. [jɔrnu / jɔrna] (NT)
• asc. [miːlə / meːla] (NT) catanz. [cɔːvu / cɔːva] (M) sic. [furnu / furna] (M)
• Plurali in -ora (l’italiano antico conosceva i plurali in -ora, tra il 400 e il 500 li ha persi completamente e
oggi però sono molti diffusi in una grande parte dei dialetti centromeridionali):
• agn. [jenu̯occə / jenɔccərə] (NT) altam.:[ecc / ǿccərə] (M) [awʊkɛi̯t/awʊkatrə] (M)
• rom. ant. [pɛːko / ˈpɛːkora] (NT) [kɛip̯ / kaprə] (F) [mamm / ̍mammərə] (F)
• sic. [nɔːmu / nɔːmira] (NT). [kɛi̯s / kasrə] (F)
• sic. [kuːlu / kuːlira] (M)
E’ molto probabile in area mediana o altomeridionale che se un nome oggi presenta un plurale etimologicamente
riconducibile ad -a oppure ad -ora allora saranno nomi di genere neutro alternante. Possono essere assunti questi
plurali anche da nomi di genere maschile e anche da quelli femminili. Oggi questi plurali si rivengono nel centro
sud perlopiù in nomi appartenenti a classi flessive che in latino erano in genere neutro in -UM/A oppure in -
US/-ORA. Tuttavia si rinvengono questi plurali in -a/-ora in nomi etimologicamente derivati dalla II classe latina
quella dei maschile in -US del tipo OCULIS/OCULI, più raramente derivanti dalla I classe latina come
CASA/CASORA o più raramente i nomi di III classe che avevano il singolare etimologico in -e. Questi plurali
(in -a e in -ora) durante il latino tardo e poi durante il medioevo tutt’oggi in molte zone del centro sud sono stati
produttivi, sono stati assunti anche da nomi che in latino tardo non li avevan (plurali etimologici -AE o in -I).
Sempre rispetto al latino sono stati assunti anche da nomi semanticamente animati (quelli in genere neutro erano
semanticamente inanimenti) come ad esempio mamma o avvocato. In alcune varietà c’è la possibilità per uno
stesso lessema di presentanre due forme plurali se non addirittura tre. Una che continua regolarmente il tipo in
-i del latino e poi forme di pluraale in -a o in -ora o in entrambi i tipi: sg. [ru maroi̯tə] / pl. [rə maroi̯tə] pl. [lə
ˈmaretəra] (il dialetto è quello di annone). Non sempre i plurali sono in variazione libera. I plurali con i
continuatori in -i indicano solitamente valore quantitativo mentre le desinenze in -a e in -ora tendenzialmente
esprimono valori collettivi.

13 APRILE 2022

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Come già detto -ora era un tipo di plurale che non esisteva in latino classico, i neutri li avevano esclusivamente
in -a. Per capire la sua nascita bisogna partire da un plurale che presentava sia il segmento or che la desinenza a
in latino classico ovvero il tipo tempor-a. Come si può vedere dall’immagine a lato il confronto tra le forme flesse
per caso e per numero permette chiaramente di conoscere che segmento or di questo plurale in latino classico
era parte della radice e NON della desinenza, che per l’appunto era costituita dal morfema -a. In seguito
[dianalisi?] del segmento -or- come parte non più della radice ma della desinenza, da un certo momento in poi
i parlanti hanno riconosciuto come marca del plurale nominativo/accusativo non più semplicemente -a ma
l’intero segmento -ora. Ciò fu inevitabile nel momento in cui, durante i secoli della transizione, si passò dal
sistema pluiricasuale del latino a quello acasuale delle lingue romanze, questo comportò una semplice zio e del
paradigma per la quale il sistema mantenne solo la forma singolare tempu e la forma plurale temopora. Le forme
dei casi obliqui vennero meno. Dal confronto di queste due forme flesse non poteva che scaturire una dianalisi
[?] per la quale temp veniva considerata la radice e -u da una parte e -ora dall’altra le desinenze. Anche -us in
tempus in latino faceva parte della radice e non del lessema, è adisinenziale. La sibilante corrisponde
inogettivamente [?] alla vibrante che caratterizza l’uscita delle altre forme flesse dato che in latino arcaico anche
le altre forme flesse presentavano sibilante, che successivamente si è rotacizzata. Nella forma tempus non è
avvenuto perché non è in posizione intervocálica.

Sistema dei dimostrativi a tre gradi di vicinanza

Sistema dei dimostrativi che da conto a tutti e tre i gradi di vicinanza, ovviamente sul piano deittico [?] i tre gradi
di vicinanza ci sono sempre ma non è detto che vengano espressi da tre dimostrativi diversi. Per esempio
nell’italiano quello non toscano le forme sono due “questo” per il primo grado mentre “quello” per il secondo
e il terzo grado. In toscano invece le cose stanno diversamente. Con i tre gradi di vicinanza indentiamo la
possibilità di indicare con i dimostrativi referenti vicini a chi parla (questo), vicino a chi ascolta (codesto) e infine
c’è il terzo grado per quale ci riferiamo a qualcosa a che è distante sia da chi parla che da chi ascolta (quello).
Non si muovono dalle forme latine HIC, ISTE e ILLE (com’era in latino) ma da forme analitiche del latino
volgare univerbatesi che prevedono la presenza di un elemento rafforzativo cioè ECCUM + ISTUM per il primo
grado, + IPSUM per il secondo grado e + ILLUM per il terzo grado.
• Funzione pronominale: a differenza dei pronomi che hanno funzione aggettivale non sono mai
soggetti a fenomeni di erosione per esempio aferesi.
Mediana Altomeridione Meridione estremo
Macerata Molise Calabria meridionale
I gr. “Questo” m. kiʃtu/-i / f. keʃta/-e m. kiʃtə/-ə / f. keʃta/-ə m. kistu/-i / f. kesta/-i
II gr. “Codesto” m. kissu/-i / f. kessa/-e m. kissə/-ə / f. kessa/-ə m. kissu/-i / f. kessa/-i i
III gr. “Quello” m. killu/-i/ f. kella/-e m. killə/-ə / f. kella/-ə m. kiɖɖu/-i / f. keɖɖa/-i

• Funzione aggettivale: possono essere forme piene ma anche acereti che come in italiano “‘sta
penna” o “‘sto tavolo”. La pronuncia intensa della “l” nei dialetti mediani, in questo caso di Macerata,
permette di distinguere la forma del dimostrativo rispetto all’articolo “lu” scempio, e lo sto discorso vale
anche per il II grado.

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Meridione estremo
Mediana Altomeridione
Calabria
Macerata Molise
meridionale
I gr. “Questo” ʃtu/-i/-a/-e tau̯lu-i/-a/-e ʃtu/-ə/-a/-ə tau̯lə/-ə/a/-ə stu/-i/-a/-i muːlu/-i/-a/-e
II gr. “Codesto” ssu/-i/-a/-e tau̯lu-i/-a/-e ssu/-ə/-a/-ə tau̯lə/-ə/-a/-ə ssu/-i/-a/-i muːlu/-i/-a/-e
III gr. “Quello” llu/-i/-a/-e tau̯lu-i/-a/-e llu/-ə/-a/-ə tau̯lə/-ə/-a/-ə ɖɖu/-i/-a/-i muːlu/-i/-a/-e

Questa conservazione generale delle tre forme distinte che danno volto dei tre gradi la troviamo soltanto in area
mediana. In altrove, nel resto del meridione, è possibile alla riduzione di un sistema binario ovvero che due
forme danno conto dei tre grandi come è successo in italiano. Le cose stanno così in Puglia centrosettentrionale
o in Salento dove abbiamo una forma per i primi due gradi (EC)CU(M) ISTUM per il Salento e (EC)CU(M)
IPSU(M) per la Puglia, mentre per il terzo abbiamo continuatori di (EC)CU(M) ILLU(M). In Sicilia di un più
antico sistema tripartito ormai scomparso testimonia la variazione lobera che abbiamo entro il I grado tra [kistu]
e [kissu] (continuatori di ECCUM ISTUM E ECCUM IPSUM) mentre [kiɖɖu] per il II e III grado. Il sistema
attualmente descritto presenta due differenze con il sistema toscano: la prima è la differenza che abbiamo per la
forma del II grado che si muove da una base diversa. Perché se la base fosse stata (EC)CU(M) IPSU(M) in
toscano avremmo avuto “esso”, si è mosso da un’altra perifrasi che è (EC)CU(M) TI (B)I ISTU(M) “ecco a te
questo”. La seconda differenza invece investe il trattamento della labiovelare secondaria formatasi in latino tardo
in seguito all’univerbazione tra ECCUM + ISTUM + IPSUM + ILLUM. La labiovelare è il nesso “ kw”. L’altra
differenza, è il suo trattamento. Nel centro sud diversamente che in toscana la “w” del nesso “kw” è scomparsa
[kwesta >kesta], ciò si deve al fenomeno per il quale le labiovelari primarie (presenti cioè già nel latino classico)
se seguite da vocali diverse dalla A hanno perso l’elemento labiovelare. Il motivo per il quale questo fenomeno
non ha agito sulle labiovelari secondarie del toscano è legato ad una cronologia relativa, quando in toscano questo
fenomeno ha agito [kwe > ke], evidentemente la perifrasi non si era ancora venuta a creare. Nel centro sud
evidentemente quando la perifrasi ECCUM ISTAM da vita alla forma del tipo “[kwesta], il fenomeno per cui
[kw] + vocale diversa da A > [k] o non era ancora iniziato oppure era ancora attivo [?]

Marcamento preposizionale dell’oggetto diretto

Questo tratto noto anche come accusativo preposizionale, il tipo ho visto a tuo fratello, cioè il fatto per il quale
l’oggetto diretto se ha determinate caratteristiche di tipo semantico viene marcato dalla preposizione a. Il
parametro più importante di questo fenomeno è il grado di animatezza che presentano gli oggetti diretti: più alto
è il grado di animatezza del referente collegato all’oggetto diretto, più è possibile che esso sia marcato con
la preposizione a. Per misurare il grado animatezza viene utilizzata una scala messa appunto da Silverstein e
da Comrie:
• I livello: pronomi di I e II persona (me e te),
• II livello: pronomi di III persona (al singolare ma anche al plurale),
• III livello: sostantivi disegnanti essere umani
• III.a: antroponimi cioè i nomi propri di persona
• III.b: nomi di parentela
• III.c: nomi dei mestieri
• IV livello: sostantivi disegnati esseri animati non umani, cioè i nomi di animali
• V livello: sostanti inanimati
• V.a: nomi comuni di cosa

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• V.b: nomi di massa (per esempio il miele)
• V.c: astratti verbali (per esempio l’amore)
Il fenomeno non si verifica mai qualora il nome abbia referenti caratterizzati dal tirannò -animato. Non tutti i
dialetti però si comportano allo stesso modo, è possibile che alcuni dialetti entro questa scala disignino soltanto
nomi animati a livelli più alti ma non a quelli più bassi. E’ una scala implicazione, se questo fenomeno si verifica
per i nomi di mestiere sicuramente ce lo si avrà per tutto ciò che sta più in alto, quindi per il I, II e III livello,
ma non è detto che lo si avrà per i restanti livelli. Si tratta di una strategia pragmatica e il fatto che lo sia e che
non sia invece collegato ad altri fattori è dimostrato dal fatto che lo si trova in tante lingue del mondo molto
diverse tra loro. Per esempio se dipendesse da una struttura del latino, lo troveremmo soltanto nelle lingue
romanze ma per l’appunto non è così.

Formazione del condizionale

Detto che spesso viene espresso in condizionale, nel centromeridione, tramite le forme dell’imperfetto
congiuntivo si registrano però altri due tipi: quello sintetico soprattutto presente nell’altomeridione che muove
da forme sincopatiche dal piuccheperfetto indicativo: CANTA(VE)RAM > cantàra/cantèra (dall’Abruzzo alla
Calabria settentrionale). E un tipo di origine analitica, nasce dall’univerbazione di una perifrasi, INFINITO +
FORMA FLESSA DEL VERSO HABERE: CANTARE HABEBAB (si semplifica in EA) > sic.cantarìa, oggi
lo troviamo soprattutto in Sicilia, accanto alle forme del tipo cantassi, ma anche nell’alto Meridione anche se più
raramente.

Tratti subreali: dialetti meridionali

Esito di (-)PL-/(-)CL > [(c)c] e esito di (-)BJ-/(-)VJ >[(d)dg]

Partendo dal consonantismo notiamo che questi dialetti presantono lo stesso esito per i nessi di (-)PL- / (-)CL >
[(c)c]: PLUMBUM, PLANTAM, PLANGIT > nap. [cummə], [candə], [caɲɲə] sic. [cummu], [canta], [cantʃi] /
CLAVEM, CLARUM: >nap. [caːvə], [caːrə] sic. [caːvi], [caːru]. Una cosa simile accade per i nessi di (-)BJ- / (-
)VJ-: RABJAM > nap.[radʤə] sic. [radʤa] ≠ med. [rajja] ≠ tosc. [rabbja] / CAVEAM > nap.[kadʤə] sic. [kadʤa]
≠ med. [kajja] ≠ tosc. [gabbja].

Assenza del futuro si tentico romanzo

In quest’area il futuro si esprime attraverso una perifrasi formata dalla forma flessa del presente avere per
esempio “ho” + a/da + INFINITO del verbo portato di significato : bar. [ˈaɟɟə a kanˈda] (lett.) ‘ho a cantare’.
L’assenza del futuro sintetico romanzo “canterò non è ab origine, in passato il futuro del tipo “canterò” si era
sviluppato anche nel meridione e cioè è stato dimostrato in un saggio di Michele Loporcaro contro quella che
invece era la spiegazione vulgata di Rohlfs e cioè che il tipo sintentico “canterò” nel meridione non c’era mai
stato e le tracce che c’erano, sempre secondo Rohlfs, si spiegavano come toscanismi. Le cose non stacco così
perché nei testi antichi troviamo attestazioni del futuro sintentico “canterò” e queste antiche attestazioni per varie
ragioni non sono interpretabili come toscanismi. Il futuro sintentico si era sviluppato in modo autoctono anche
nei dialetti meridionali poi è regredito lasciando spazio al tipo analitico “ho a/da cantare”. La ragione per il quale
si può dire ciò non è legato solo ai testi antichi, ma anche a testi odierni dove si trova il futuro sintentico. A
Lucera e Cerignola, in provincia di Foggia, troviamo forme come [parlaraɟɟə] ‘parlerò’ (< *PARLARE +
HABEO) / [kandaraɟɟə] ‘canterò’ < (*CANTARE + HABEO). Ciò ci fa capire che questo fenomeno era molto
esteso e che nel momento dell’innovazione del futuro analitico esso non sia riuscito a raggiungere le aree più
laterali come quelle citate sopra.

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Tratti subreali: dialetti mediani e
altomeridionali

Vocalismo tonico, sonorizzazione delle occlusive postnasali e apocope


della desinenza dell’infinito

Presentano un vocalismo eptavocalico e come già precedentemente detto vi è la presenta di metafonesi con
qualche divergenza areale, quanto agli effetti per le vocali medio basse e convergenza areale, quanto agli effetti
per le vocali medioalte. Per quanto riguarda invece la sonorizazzione delle occlusive postnasali ovvero P, T e C
precedute da nasale (m/n) danno i nessi -nd-, -mb- e -ng-. La diffusione del fenomeno è tra linea Roma-Ancona,
non includendo quindi l’area perimediana, e l’area tarantina-dialetti Calabria settentrionale. Per quanto riguarda
la cronologia dei passaggi di -ND- > -nn- e -NT- > -nd-, si è verifato il primo rispetto al secondo. [aggiungere
pezzetto, ultimi 3 minuti lezione 13 aprile]. CANTARE > roman. [kanˈta] nap. e cal. sett. [kanˈda] ≠ cal.
c.merid./sic. [kantari] sal. [kantare]/[kantari].

20 APRILE 2022

Sistemi a quattro generi: neoneutro e neutro alternante

Presenza, in molti di questi dialetti, di un


sistema a quattro valori di genere: il maschile,
Classe flessiva
il femminile, il neo-neutro e il
neutroalternante, valori di genere che (paradigma del Esempi
continuano sul piano diacronico, anche se con numero)
alcune differenziazioni, il neutro latino.
Contro il topos che voleva la scomparsa del I -o/-i lo libro/ li libri
neutro durante la transizione tra il latino e le
lingue romanze è possibile dimostrare che i II -a/-i lo poeta/ li poeti
dialetti centromeridionali posseggono un lo fiore/ li fiori
sistema, in alcuni casi, non a due ma III -e/-i
addirittura a quattro generi. Si tratta di unicum la siepe/ le siepi
non soltanto a livello di lingue romanze, entro
le quali ci sono alcune variaetà come il IV -a/-e la casa/ le case
rumeno che ne ha tre, ma anche nelle lingue
indoeurope. È importante sottolineare sul V -o/-a lo uovo/ le uova
piano terminologico la differenza tra genere
VI -o/-ora lo prato/le pratora
e classe flessiva perché spesso vengono
confuse queste due categorie, la prima è di VII -e/-ora lo nome/ le nomora
natura morfosintattica mentre la
VIII -o/-e lo pomo/ le pome
seconda è di natura prettamente
morfologica. Con classe flessiva, nei termini IX -e/-a lo arnese/ le arnesa
di Mark Aronoff, individua insieme di lessemi
che si caratterizzano per rappresentare, tutti lo re/ li re
quanti, una stessa proprietà, ovvero presentare X invariabili
la città/ le città
tutti lo stesso paradigma. È così per esempio
che il verbo latino presentava quattro classi

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flessive, ed è per questa ragione che il verbo italiano presenta tre classi flessive. Ad esempio dormire, soffrire e
partire appartengono tutti alla stessa classe flessiva perché entro il paradigma presentano, le forme flesse di questi
verbi, dall’’indicativo fino al condizionale presentano tutte identiche uscite. Poiché nel nome italiano l’unica
categoria flessiva è il numero, che assume solo i due valori (singolare e plurale), le classi flessive dell’italiano
saranno definite come insiemi di lessemi che presentano la stessa coppia di desinenze per il singolare e il plurale.
Sulla base di questa definizione l’italiano antico (toscano medievale) era un sistema a dieci classi flessive,
caratterizzati ognuno dall’ avere un paradigma di numero diverso (TABELLA SOPRA). Non tutte queste classi
avevano la stessa consistenza a livello quantitativo, cioè non presentano lo stesso numero di lessemi. Le classi
VI,VII e IX presentano un numero di lessemi limitato a loro interno, si parla infatti di microclassi flessivi o
addirittura di mini micro classe. Più consistenti erano le classi V e VIII il che non toglie che tutte le classi
evidenziate, a partire dal trecento fino ai giorni nostri, hanno conosciuto un progressivo svuotamento dei lessemi
presenti al loro interno che sono stati riassorbiti
Classe flessiva Esempi Genere per metaplasmo nelle altre classi, in particolare
nella I classe. In virtù di questo svuotamento,
I lo libro/ li libri molte di questo classi nel passaggio dall’italiano
II - lo poeta/ li poeti antico all’italiano contemporaneo sono
I (maschile) scomparse e oggi permangono soltanto la classe V
o/-i
lo fiore/ li fiori e soltanto la VIII. Secondo la definzione di
III Hockett i valori di genere sono classi di sostantivi
che si individuano sulla base del comportamento
-a/- la siepe/ le siepi esibito dalla parole associate ai sostantivi. Per
II (femminile)
IV e la casa/ le case “comportamento” intendiamo il paradigma di
accordo. Per descrivere i valori di genere vengono
V lo uovo/ le uova distinti sulla base del paradigma di accordo che
ogni sostantivo, detto “controllore”, determina
VI lo prato/le sulle parole associate su questi sostantivi, detti
pratora “bersaglio”. Le parole che si associano ai sostantivi
VII -o/- lo nome/ le III (neutro e delle quali il sostantivo controlla il paradigma di
e nomora alternante) accordo, sono gli articoli, gli aggettivi. L’italiano
VIII lo pomo/ le antico era un sistema a tre valori di genere perché
pome tre erano i paradigmi di accordo.
IX lo arnese/ le • Classe flessive a genere nascosto:
arnesa
quando alcuni membri hanno valore di genere
-o/-
lo re/ li re I (maschile) maschile mentre altri di genere femminile
i
X • Classi flessive a genere manifesto:
-a/-
la città/ le città II (femminile) quando tutti i membri hanno tutti lo stesso valore
e
di genere

A rigore il
sistema dell’italiano contemporaneo è a tre valori di genere ma bisogna
fare delle precisazioni perché le classi flessive che in italiano antico
presentavano, come già detto, tre valori di genere da cinque sono diventate
oggi soltanto due, la classe V e la VIII. Sul piano strettamente quantitativo
queste classi che ancora oggi presentano generi neutro alteranti si sono
svuotate, soprattutto la classe V (prima 238 lessemi, dopo 20 lessemi) e ciò
non è sufficiente a definire l’italiano, confrontato con le altre lingue del
mondo, è un sistema a tre generi. La classe di genere neutro alternante è
una classe senza quorum e non è produttiva cioè non presenta un
numero di lessemi limitato ma che stanno, anzi sta diminuendo. Quindi
non è scorretto definire l’italiano come un sistema a due generi. Il dialetti
mediani e altomeridionale presentano come già anticipato un sistema a
quattro generi. Il neoneutro (III genere) o neutro di materia/massa possiamo individuarlo perché i nomi di massa
cioè quei nomi che hanno referenti di tipo non numerabile come “ferro” “pane” selezionano marche di accordo
proprie, distinte tanto da quelle del maschile quanto da quelle del femminile. La distinzione tra neoneutro (dei

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nomi di massa) e maschile e femminile ha origini nel sistema dell’articolo determinato singolare e si
manifesta in diversi modi a seconda delle varietà. Il neoneutro lo vediamo innanzitutto entro il sistema
dell’articolo ma è possibile, ma non frequente, trovare questa distinzione della marca da quelli del maschile e
del femminile anche negli aggettivi e nei pronomi.

Art. neutro Art. femminile


E
(<ILLOC) (<ILLAM)
Art. det.
[lu lupu] “il lupo”
area [lo pa] “il pane”
[lu kaːne] “il cane” [la vortsa] “la borsa”
[lo latte] “il latte”
mediana - [lu ferru] “il pezzo di [la vakka] “la vacca”
[lo ferru] “il ferro”
≠ ferro” ≠
o≠-u ≠ -a
Artr det. [o kaːnə] “il cane”
napoletano [o llattə] “il latte” [o vriːtə] “il pezzo di
[a vortsə] “la borsa”
[o bbriːtə] “il vetro” vetro”
o (+RF) ≠o [o ffjerrə] “il ferro” [o fjerrə] “il pezzo di
[a vakkə] “la vacca”
≠a ferro”

Il neutro alternante è tipico, come in italiano antico e in italiano contemporaneo, di tutti i sostantivi (che spesso
recano desinenze che continuano i plurali latini o volgar in -a/-ora) che selezionano paradigmi di accordo con
marca maschile al singolare e marca femmine al plurale. Il quorum nei dialetti mediani e alto meridionali c’è.

Maschile Femminile Traduzione


“il braccio/le breccia”
[u vrattʃu] [e vrattʃa]
Treia “l’uovo buono/ le uova
[l oːu voːnu] [l ɔːa vɔːne]
buone”
[ru mataːu̯nə] [lɘ maˈtoːu̯nə] “il mattone/ i mattoni”
Agnone [ru muloːi̯nə] [lɘ muˈleːnəra] “il mulino/i mulini”
[ru maroːi̯tə] [lə marəːtəra] “il marito/i mariti”

Oscillazione degli ausilioari essere (E) e avere (H) nei tempi composti

Ciò avviene secondo modalità diverse dall’italiano, alcune varietà:


• Presentano variazione libera in tutte le persone
• L’alternanza può dipendere dalla persona selezione dell’ausiliare avere quando abbiamo III persona
e invece abbiamo essere quando c’è la I o la II persona. Es. L’Aquila: [sɔ,ʃi, a, semo, sete, au ʃkrittu]

Persona I sg./pl II sg./pl III sg.pl

Ausiliare E H

• Può dipendere anche dal tipo di costrutto e di persona:


• A Morano Calabro,in provincia di Consenza i predicati transitivi e inergativi sono solo con avere
[nʊːjə ɛːmʊ / *sʊmmʊ fatəɣɛt asˈsɛ] “noi abbiamo lavorato tanto” (coincidono con l’italiano)

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• I predicati innacusativi presentano sia l’ausiliare essere che avere sia alla I che alla II persona
mentre l’ausiliare essere nelle III.

Transitivi Inergativi Inaccusativi

Persona I-III sg./pl III sg.pl II sg/pl III sg/pl.

Ausiliare H EH E

26 APRILE 2022

Ultimo tratto comune all’alto meridione e area mediana, proprio anche del Salento è la conservazione
dell’accordo principale ovvero la possibilità dei tempi di composti di queste varietà di avere conversazione
dell’accordo del participio, specialmente quando l’oggetto oggetto non è rappresentanti dal clitico. Parliamo del
tipo “ho pescati tre pesci”, presente anche nel toscano antico ma che l’italiano e il toscano attuale hanno perso
nel corso dei secoli. Nell’italiano standard dato un costrutto transitivo il participio non si accorda ne con il
soggetto ne con l’oggetto diretto ma esce di the folt al maschile singolare “abbiamo comprato e non comprate”.
Le cose non stanno così nelle zone che stiamo analizzando. L’oggetto diretto controlla ancora l’accordo del
participio, ad Ascoli Piceno per esempio per dire “ho scritto una cartolina” troviamo [ɛ ʃkritta/*ʃkrittə na
kartoliːna] (guardare il vocalismo di Ascoli Piceno, rispetto al napoletano conserva la vocale/guardare la
metafonesi di tipo napoletano tra l’uscita in maschile e quella al femminile). Altre caratteristiche largamente
diffuse nell’intero centro meridione la cui estensione supera i confine delle tre macroaree viste fino a questo
punto.

Altre caratteristiche diffuse

Di natura sintattica è la posposizione dell’aggettivo possessivo al nome “l’amico mio” rispetto al “mio
amico”dell’italiano standard che si presenta in tutto il centromeridione con esclusione della Sicilia
comprendendo quanto al meridione estremo tanto la Calabria centromeridionale quanto al Salento. A Catanzaro
[u libbru mɛːu] laddove in Sicilia abbiamo per il tipo “mio padre” [mɛ paːʈʂi] (e non *[paːʈʂi mɛu]) Particolare è
il caso del romanesco che data la sua storia si tratta di una varietà centromeridionale durante il medioevo e che
però tra il quattrocento e il cinquento si è fortemente toscanizzata, conosce entrambi i tipi ma non ricorrono in
variazione libera ma in distribuzione complementare: sia anteposizione del possessivo come in toscano e in
siciliano davanti a nomi di parentela mentre si ha posizione in tutti gli altri casi. La stessa sezione geografica ha
un altro tratto, a questo appena descritto, collegato. Abbiamo detto che in queste varietà l’aggettivo possessivo in
contesti non marcati viene posposto al nome, ciò in determinate condizioni il possessivo si riduce ad una forma
ridotta atona che in quanto tale si aggancia in eclesi al sostantivo a cui è riferita. Le condizioni che permette ciò
sono:
• I sostantivi che possono avere l’enclasi devono essere singemionimi [?], anche se non è detto che tutti
lo abbiano. Il fenomeno si può avere meno regolarmente anche su altri sostantivi come “casa, padrone”
• Quanto ai possessivi interessati il fenomeno, cioè la forma enclitica del possessivo si ha regolarmente
quando è di I o di II persona singolare. L’enclasi del possessivo è meno sistematica se non rara quando
il possessivo è riferito alla III singolare e alle altre persone plurali.

Tratti subreali del meridione estremo

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Esito retroflesso di -LL- intenso e del nesso —(S)TR-

Concludiamo la descrizione dei dialetti centro meridionali con alcuni tratti che si rinvengono sono in una delle
subaree che abbiamo visto (mediana, altomeridionale e meridione estremo), ovvero l’area del meridione
estremo. Il fenomeno è l’esito retroflesso di-LL- intensa e del nesso –(S)TR- (presente nell’italiano
regionale di Sicilia, Calabria e Salernto ma non in quello settentrionale e in quanto tale oltre che per la sua forza
espressiva è regolarmente rappresentanto nel parlato finnico di personaggi proveniente in queste aree (tipo le
fiction ambientante in Sicilia)). E’ presente in parole come CABALLUM > [kavaɖɖu] ‘cavallo’ e PATREM >
[paːʈʂi] ‘padre’. Possibili varianti con affricata [ɖɖʐ] ([iɖɖʐu] a Cosenza, Lecce, ecc.) e, talvolta, in area alto-merid.
(dialetti pugliesi e molisani) [dd] (bar. [kavaddə]; per influsso del tipo nap. che non conosceva pronunce
retroflesse). Per quanto riguarda l’altro nesso, nel caso in cui sia preceduto da una sibilante essa si palatizza
NOSTRUM > sic. [nɔʃʈʂu]. Quest’esito specifico [ʃʈʂ] piuttosto complesso sul piano fonotattico può conoscere
una risoluzione in sibilante palatale dovuta ad assimilazione regressiva ed ecco così che per esempio a Lecce si
avrà [nɛʃʃu] ‘nostro’. Queste pronunce sono state a lungo ritenuto un effetto di sostrato di una non meglio
precisata varietà mediterranea preindoeuropea, quest’ipotesi sostenuta nel ‘900 da Merlo e Millardet viene oggi
respinta. Ciò viene fatto non solo sul piano cronologico non si deve «indulgere nel riportare a un sostrato –
spesso oltretutto poco o punto noto – quel che non si riesce a spiegare in altro modo». (Paolo Di Giovine) ma
soprattutto perché sul piano documentario di queste pronunce retroflesse, le prime testimonianze scritte come
dimostrato da Caracausi risalgono a non prima del XIV secolo.

Conservazione di -S e -T nella morfologia verble

Questo fenomeno viene rinvenuto nell’area lausberg che costituisce dentro l’alto meridione un sottotipo del
gruppo lucano. All’intero di questa zona come già detto troviamo il vocalismo sardo che è un tipo di vocalismo
molto conservativo, un altro fenomeno che accomuna a quest’area con la Sardegna ed è la conservazione di
-S e di -T finali nella flessione verbale, tali consonanti in latino marcavano le uscite di seconda e terza
persona della morfologia verbale: TĔNES > [ˈtɛːnisi] ‘(tu) tieni / TĔNET > [ˈtɛːniti] ‘(lui) tiene’. La conservazione
della -S ha determinato un altro fenomeno vale a dire lo sviluppo di vocali epitetiche che si caratterizzano per
avere lo stesso timbro (che è casuale) della vocale che precede la consonante preservata. Di questa conservazione
recano tracce anche in Calabria settentrionale, per esempio a Diamante troviamo CANTAS > [ˈkandəsə] ‘(tu)
canti’, invece in CANTAS > [ˈkandəsə] ‘(tu) canti’ la -T finale invece è caduta. La presenza soggiacente di questa
-T non più realizzzata reca però traccia nel raddoppiamento fonosintattico che i verbi di terza persona singolare
etimologicamente uscenti in -T innescano sulla consonante iniziale della parola successiva: [ˈkandə ttandə kɔːsə]
‘(lui) canta tante cose’.

Passato remoto e passato prossimo

Concludiamo la rassegna dei dialetti centromeridionali approfondendo l’alternanza tra le forme del
passato prossimo e il passato remoto che si conserva ad esempio nell’alto meridione ma vaiolando precise
funzioni aspettali. L’aspetto è una caratteristica del verbo che fornisce informazioni non sul quando ma bensì sul
come l’azione si svolge. Esso pèò essere o di tipo perfettivo o imperfettivo dove il primo si caratterizza per
esprimere il processo indicato dal verbo nella sua globalità considerandone quindi anche il punto finale. Nell’alto
meridione il passato prossimo e il passato remoto hanno solo una funzionale aspettalmente di tipo perfettivo che
può essere a sua volta o di tipo compiuto (passato prossimo) o di tipo aoristico (passato remoto). La funzione
perfettiva compiuta indica la permanenza rispetto ad un riferimento temporale stabilito del risultato di un evento
che si è compiuto prima (l’azione svolta nel passato ha dei risvolti nel presente), in napoletano per esempio
avremmo [stammatiːnəadʤəmaɲɲatəbbwoːnə] ‘stamattina ho mangiato bene’. La funziona perfettiva aoristica
indica un’azione svoltasi nel passato colta nel suo singolo manifestarsi e che quindi non ha nessun legame nel
con il primo ne con il dopo [ajeːrəmaɲɲajəmalamɛndə] ‘ieri ho mangiato bene’. Questo sistema di alternanza è

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oggi ben conservato solo nei centri minori, perché quelli maggiori esposti alla pressione dello standard il passato
prossimo, soprattutto se l’azione del verbo si è verificata in un tempo non distante dal momento dell’
enunciazione, in questi casi tende ad essere usato a prescindere dai valori aspettali che caratterizzano l’azione
stessa. Nel meridione estremo, fatta eccezione per il Salento, è da sfatare l’area che in quest’area non vi siai il
passato prossimo, non è vero che è scomparso e che per le funzioni apsettalmente perfettiva si impighi
esclusivamente il passato remoto. Quello che è vero è che il passato remoto ha conosciuto una forte espansione
funzionale ed il passato prossimo continua ad essere utilizzato con valore durativo-iterativo per indicare eventi
ripetuti e rilevanti nel momento in cui si parla: “l’amu circatu tutta a matinata” ‘l’abbiamo cercato tutta la mattina’
detto in mattinata) vs. u c ircammu tutta a matinata vs. ‘lo cercammo tutta la mattina’ (detto la sera). In Siciliano
l’ausiliare del passato prossimo è sempre avere: “Killi chi avianu intratu a la chitati”.

I dialetti settentrionali

Con i dialetti settentrionali intendiamo le varietà italo-romanze, escluse il frulliamo, che si evolvono al nor del
fascio La Spezia -Rimini, il confine più importante della Romània perché non solo distingue i dialetti
settentrionali da quelli centromeridionali e toscani, ma soprattutto perché divide la Romània occidentale da
quella orientale. Le varietà italiane (settentrionali) e con esse quelle della Romània occidentale conoscono la
lenizione delle occlusive sorde intervocaliche (sonorizzazione/spiranrizzazione/caduta) RŎTAM > mil.
[røːda] ‘ruota’ > fr. roue. Altro fenomeno che questa volta riguarda anche il rumeno, è determinazione delle
consonanti doppie latine (primarie e secondarie): CABALLUM > ven. cavalo ‘cavallo’, SEPTEM > gen., ven.
[ˈsɛte] ‘sette’. Vi è poi la presenza in antico della -S finale (della morfologia nominale e verbale), oggi nelle varietà
italiane settentrionale è residuo: fr.ant.chievre[s], sp. e port. Cabras (<CAPRAS); piem. [(i)tlazˈfam]‘haifame’,
[(i)tˈsaz]‘sai’, [(i)ttruveˈraz] ‘troverai’; venez. [vuztu]? ‘vuoitu?’, [sistu]? ‘seitu?’ (solo nella forma interrogativa –
fenomeno di natura sintattica, il pronome nelle forme interrogative viene posposto in queste varietà e in fare ciò
si è legato come clitico alla forma del verbo. Ma nel momento in cui si salda in maniera al verbo, preserva la -S
che non si troverà più alla fine e non subirà alcun processo di indebolimento).

27 APRILE 2022

I dialetti settentrionali si suddividono in :


• Dialetti gallo-italici (piemontesi, lombardi, emiliani, romagnoli e più autonomo, il ligure)
• Dialetti veneti (ladino come appendice del tipo veneto)
Tra i due tipi vi sono però delle differenze:
• Presenza vs. assenza di vocali turbate: lomb. lüna e röda vs. ven. luna e ròda.
• Presenza vs. assenza di quantità vocaliche distintiva: crem. [tyːs] ‘tosato’ ≠ crem. [tys] ‘tosse’
• Caduta vs. conservazione (con restrizioni) delle vocali finali diverse da -a
• Caduta (o indebolimento) vs. tenuta del vocalismo atono non finale (emil. tlèr vs. ven. telaro <
TELARIUM)
Il ligure occupa una posizione più autonoma entro il gruppo gallo-italico perché è una varietà più conservativa e
meno esposto ai fenomeni innovativi che si sono prodotti nell’area galloitalica e che poi hanno raggiunto le aree
più laterali.
• Conserva, senza restrizioni, le vocali finali diverse da -a: [veːʤu] ‘vecchio’, [bɛlu] ‘bello’,
[taːtsu] ‘taccio’, [tʃaŋtse] ‘piangere’, [fɔrti] ‘forti’
• presenza esclusiva – per conservazione – dell’articolo forte (articolo con vocale finale, al
settentrione articoli con forma debole cioè con consonante finale
La motivazione per il quale il dialetto ligure è così conservativo è perché non solo è una zona molto laterale ma
anche perché è una varietà geograficamente isolata, data la barriera costruita dall’ appenino ligure e dalle
alpi. Si differenzia poi per delle innovazioni che ha avuto:

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• Esito palatalizzato non solo dei nessi (-)CL- e (-)GL- ma anche dei nessi (-)PL-, (-
)BL- e (-)FL- : PLUMA > [tʃyma] ‘piuma’ /germ. BLANK > [ʤaŋku] ‘bianco’/ FLATUM > [ʃou̯]
‘fiato’
• Dileguo di -R- primario (già in latino) e secondario (latino volgare o successivamente) (per
rotacismo da -L-, ma non da degeminazione -RR-):
• FLOREM > [fjoːre] > [fjoːɹe] > [ʃuːe] > gen. [ʃuː] ‘fiore’;
• PATREM > intemelio [pai̯ɹe] > gen. [pwɛː];
• MATREM > intemelio [mai̯ɹe]> gen. [mwɛː];
• ALA(M) > [aːra] > intemelio [aːɹa] > gen. [aː] ‘ala’;
• MULUM > [myːru] > intemelio [myːɹu] > gen. [myː]; - vs. CARRUM > [kaːru].

La cronologia di questi fenomeni è rotacismo di -vLv-, il dileguo che ha fatto si che sia la r primaria di FLOREM
che la r secondaria di ALA(M) scomparissero e poi per ultimo si è prodotta la degeminazione (fenomeno
piuttosto tardo) e se così non fosse stato non avrebbero avuto [kaːru] ma [kaːu].

Tratti comuni all’intero raggruppamento

Fonetica - fenomeni metafonetici

Il fenomeno è innescato soprattutto dai continuatori di -Ī (residualmente, in aree isolate o laterali, anche da -Ŭ),
le vocali colpite sono tutte quelle non alte, quindi anche -a può conoscere metafonesi. Al contrario della
metafonesi del centromeridione non presenta dittongazione ma si ha innalzamento e/o palatalizzazione della
vocale tonica. La fenomenología della metafonesi è in regresso, un esempio è il caso milanese che conosceva
metafonesi ala fine del XIX: [kavel] /pl. [kaˈvii̯ ] mentre nel milanese del XX ovvero quello attuale questo plurale
non è più soggetto a metafonesi e troviamo infatti [kaˈvɛj] “capello/-i”. Assente oggi a Padova, dove era ancora
attestata popolarmente e nella campagna circostante all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso.

Dialetto Singolare Plurale Traduzione

[tozo] [tuzi] “Ragazzo/-i”


[seko] [siki] “Secco/-chi”
Vento (polesano)
[fjore] [fjuri] “Fiore/-i”
[novo] [nuvi] “Nuovo/-i”
da -Ī

Alto Verbano [kɔrp] [kørp] “Corpo/-i”


(Verbano) [sas] [sɛs] “Sasso/-i”

Valle Anzasca (arco [jøːk] [jøːk]


“Gioco/-i”
da -Ŭ alpino) (Val [tørt] [tørt]
“Torto/-i”
d’Ossola) [ørp] [ørp]
“Orbo/-i”

Degenaminazione consonantica (e assenza del RF)

41
Tutte le consonanti primarie e secondarie nei dialetti settentrionali così come nel resto della Romània occidentale
conoscono appunto questo fenomeno.
• /pp/ > /p/: STUPPAM > tic. [ʃtopa] ‘stoppa’;
• /tt/ > /t/: GATTAM > tic. [gata] ‘gatta’
• /kk/ >/k/: VACCAM>tic.[ˈvaka]‘vacca’
I dialetti settentrionali non conoscono raddoppiamento fonosintattico: it. stand. [ˈio ɔ ttre ˈkkaːni] ≠ tic. [mi (a)
g ɔ tri ˈkaŋ] ‘io ho tre cani’

Lenizione intervocálica delle occlusive e della sibilante

Questo indebolimento può manifestarsi in vari modi, le occlusive sorde e la sibilante sonorizzano e nel caso
della labiale spirantizzano (p diventa v):
• Dialetto altocinese:
• p/ > /v/: SAPERE > *[sabere] > tic. [saˈve] ‘sapere’
• /t/ > /d/: CATENAM > tic. [kadena] ‘catena’
• /k/ > /g/: FORMICAM > tic. [furmiga] ‘formica’
• /s/ > /z/: CASAM > ven. [kaza].
In alcune varietà abbiamo avuto il dileguo o nel caso della spirantizzazione (di/b/) delle occlusive sonore:
• /b/ > /v/: CABALLAM > tic. [kavala] ‘cavalla’
• /d/ > Ø: CAUDAM > tic. [koa] ‘coda’
• /g/ > Ø: STRIGAM > tic. [ʃtria] ‘strega

Il fenomeno della lenizione e quello della degeminazione si sono svolti in una determina cronologia che può
essere ricostruita utilizzando tanto una prospettiva prospettica quanto una prospettiva retrospettiva. Si è verificata
prima il dileguo, poi la sonorizzazione e infine la degeminazione. Se la sonorizzazione si fosse verificata prima
del dileguo, dato che da CAUDAM abbiamo avuto [koa], allora avrebbemmo dovuto avere [kaena] cosa che
invece non è successa e perciò il fenomeno del passaggio da /t/ a /d/ si sarebbe verificato quando il dileguo della
d primaria si era già concluso. La serie labiale ha un‘ altra storia, infatti il primo elemento a modificarsi è stato,
un po’ in tutto il settentrione, /p/ sorda scempia infatti testi moderni ci inducono a pensare che prima ci sia stata
la sonorizzazione della /p/ (SAPERE > sabere), poi spirantizzazione con tutte le sonore (b) primarie e secondarie
e a fenomeno concluso si è prodotta la degenerazione.

Palatalizzazione dei nessi (-)CL- (/-TL—), GL-

Per quanto riguarda il nesso il -CL-, sia primario che secondario,


dobbiamo considerare anche il nesso -TL- perché è un nesso che nel
latino non esisteva e che si viene a formare nel latino volgare nel
momento in cui in parole come VET(U)LUM la u postonica cade
lasciando quindi il nesso -TL- che un nesso scarsamente […]
fonosintatticamente in latino volgare e diventa quindi -CL-. Ci sono
varietà che conservano il nesso -CL-/GL- [kl]/[gl], altre mostrano il
passaggio successivo ovvero il valore palatizzato [c]/[ɟ] e
successivamente altre varietà dove i due nessi diventano affricate post-alveorali rispettivamente sorda e sonora
[tʃ]/[dʒ]. Gli esiti più conservativi li troveremo in aree periferiche o isolate mentre quelli innovativi nelle restante
aree settentrionali che sono anche quelli più diffusi. Nei dialetti settentrionali manca il passaggio intermedio tra
il nesso -CL- e [c], ovvero una fase intermedia in cui troviamo occlusiva velare sorda/sonora + iod che invece è
rappresentata dall’italiano. (IMPORTANTE LA FOTO PRESENTE NON C’ENTRA UN CAZZO CON IL
CONTESTO SERVIVA SOLO A FAR RIEMPIRE LO SPAZIO)

42
Esiti residuali (conservativi: aree periferiche Esiti più diffusi
e isolate) Alpi e Appennini (innovativi)

[tʃ]- (> -[dʒ]-


(*-)[kl]-/[gl]- (-)[c]-/[ɟ]
)/[ dʒ]

Lig., lomb [tʃaˈma],


CLAMARE Bregagl.[klaˈmɛr] Lizz. [camma] venez. [tʃaˈmar]
(<CLAMAT)
CLAVEM Valtellina [klɛf] > Lomb. e piem. [tʃaf],
> >
Collogna (RE) [cava] ven. [tʃave]

OC(U)LUM Mil. [œtʃ], venez.


Nessuna varietà che [ɔtʃo], lig. [œdʒu]
Mesolc. [ec]
> conserva il nesso > >
VET(U)LU originario Tic. [vetʃ], venez.
Val Calanca [vec]
M [vɛtʃo]

GLAREAM piem. e ven. [dʒara],


> Bregagl. [glɛi̯ rɐ] > lizz. [ɟaːra] >
Sabbiolina lomb. e emil. [dʒɛra

Esiti di consonante velare + vocale palatale


Ì
Esiti conservativi (anche ma non solo aree
Esiti innovativi
laterali e/o isolate)

[tʃ] [ts] [s]

lomb. (tic.) [tʃent] ‘cento’ venez. [sento]


(-)Ce/i lunig. [tsɛnto]
lomb. (tic.) [tʃena] ‘cena’ gen. [sɛːŋa]
lunig. [tsɛna] >
> >

[dʒ] [dz] [z]

lomb. [dʒeˈnøtʃ] venez. [zenɔtʃo]


(-)Ge/i lunig. [dzənɔco]
‘ginocchio’ gen. [zeːna] ‘Genova’
> > >

(-)CE/I- > [tʃ] (palatalizzazione) > [k] (assibilazione) > [s](deaffricazione)


(-)GE/I- > [dʒ] (palatalizzazione) > [dz] (assibilazione) > [z] (deaffricazione)

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Morfología e sintassi

Articolo determinativo maschile singolare

Nei dialetti settentrionali l’articolo determinativo maschile singolare recano forme di tipo perlopiù debole ovvero
uscente in consonate. Sono di tipo innovativo), con diverse vocali prostetiche che procedono la consonante finale
e generalmente è una laterale (a meno che non ci siano stati fenomeni di rotacismo):
• mil. [el ˈkãː],
• ven. [el ˈkan]
• berg. [ul ˈka]
• bologn. [al ˈkæŋ]
• tic. [al ˈkan]
Come si è già detto ci sono però delle zone, per lo più isolate o laterali, che conservano invece l’articolo di tipo
forte:
• In ligure: genov.[uˈkæŋ]
Ma abbiamo anche delle zone dove c’è compresenza sia del tipo forte che del tipo debole:
• In alcuni dialetti lomb.-alpini (Cavergno, Val Maggia). Questa compresenza simile a quella che abbiamo
nel toscano contemporaneo si manifesta a livello di distruzione allomorfica diversamente rispetto al
toscano contemporaneo. Si manifesta secondo le modalità con il quale si manifestava in toscano antico
(forma debole quando l’articolo segue una parola che finisce per vocale, in tutti gli altri contesti forma
forte: entro frase dopo parola che termina in consonate, in posizione iniziale assoluta).: [lu ˈfeɲ] ≠ [a ˈtɔ
el ˈfeɲ] ‘il fieno’ ≠ ‘a prendere il fieno’

03 MAGGIO 2022

Scomparsa generale del passato remoto

Tutti i dialetti settentrionali, a partire dal secolo scorso, hanno conosciuto la progressiva scomparsa del passato
remoto a favore dell’impiego esclusivo del passato prossimo per tutte le funzioni.

Perdita dell’opposizione casuale nei pronomi personali di I e II persona

Oggi per i pronomi personali di I e II persona abbiamo un’unica forma diversa da quella etimologica
per tutte le funzioni. Non continua EGO e TU (forma nominale) e ciò non è banale perché l‘ italiano conserva
un sistema a due forme per la I e la II persona. Continua o la forma ME origine accusativale o la forma MIHI
(dativale) in alcuni dialetti o la forma MIHI in altri. La stessa cosa vale per seconda persona che continua la base
accusativabile TE o la base dativale TIBI. Per esempio nell’emiliano troviamo me e te che continuano le basi
accusativabile mentre nel ligure le forme latine dativali. Da questo mutamento è toccato in parte anche il distretto
fiorentino perché a Firenze in riferimento alla seconda persona persona abbiamo un’unica forma per tutte le
funzioni ovvero te.

Sviluppo dei clitico soggetti

Non dobbiamo personare che dei continuare di EGO e TU non ci sia più traccia perché restano nel sistema con
una funzione diversa ovvero di clitico soggetto. Tratto tipico, anche se con manifestazioni diverse, di tutti i
dialetti settentrionali, sviluppati per […] di forme soggettive tra il XV secolo e il XVI. I clitico soggetto sono

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particelle proclitiche che accompagnano il verbo finito frapponentesi fra il soggetto vero e proprio e il verbo
stesso. Presentano paradigmi diversi a seconda delle varietà:

Nel caso di a non è solo enclitico di prima persona singolare ma anche della prima e della seconda plurale. La
presenza del CS è generalmente obbligatoria in tutte le persone anche se ci sono varietà in cui il clitico emerge
soltanto in alcune persone. Nel bellinzonese non è obbligatoria l’espressione del clitico di prima persona
singolare mentre invece in tutte le altre persone è obbligatorio. Nel dialetto di Cavareno il clitico soggetto lo
troviamo soltanto nelle terze persone singolare e plurale.

Tratti subareali
Le isoglosse dei due esiti Ŏ > [ø] e Ū > [y] sono quasi del tutto identiche quanto al percorso del territorio e
costituiscono il confine orientale e meridionale del fenomeno. Presentano vocali turbate tutti i dialetti gallo-italici
tranne quelli emiliano orientale, parte quelli occidentali e poi il romagnolo. Parma è un caso particolare perché
conosce il primo fenomeno ma non il secondo.
• Passaggio di Ŏ > [ø] (in sillaba aperta, talvolta per metafonesi)
• lig. [røːda] “ruota” ≠ ven.[rɔda], [fɔgo], [nɔva]
• piem.(canav.) [fɔs]/[føs] “fosse/-i”
• lomb. occ. [føk] “fuoco”
• lomb. occ. [nøːva] “nuova”
• emil.oc.parm. [nøːv], [røːda] “nuovo”, “ruota” ≠ emil.oc. (regg.) e or. [noːv], [roːda]
• Passaggio di Ū > [y] ([ø])
• lig., piem. [lyːŋa], [bryt], [bryna] ≠ b. ven. [luna], [bruto], [duro]
• lomb. occ. [lyːna], [bryt]
• lomb. or. [lyːna], [brøt]
• emil.oc. [lyːna], [dyːr] ≠ b. emil.oc. (parm., regg.) e or., romag. [luna], [duːr]

Come si è già detto si è ipotizzato che ciò sia dovuto al sostrato celtico ma ci sono degli elementi a favore e degli
elementi a sfavore:
• Prova corografica ed estrinsecapr: pesenza del fenomeno in areagallo-italica e gallo-romanza, in territori,
cioè, che prima della conquista romana erano abitati da popolazioni di lingua celtica;
• Prova intrinseca: indoeur.Ū>*[y]>[i] in bretone (varietà celtica).
• Prime attestazione del fenomeno nel b.lat. di Gallia (/protofranc.) non prima del VII sec.d.C.;
• Nessuna traccia di palatalizzazione di Ū indoeuropea nelle iscrizioni galliche (di lingua celtica)
• Scarso peso dell’esempio bretone: il bretone è celtico insulare (sviluppatosi in Britannia) reimportato in
Gallia durante l’alto Medioevo.

Palatalizzazione di A tonica in sillaba aperta

La A tonica del latino classico se in sillaba aperta ha conosciuto il fenomeno di palatalizzazione per cui sono
diventate delle e aperte riguarda buona parte dell’Emilia Romagna anche se sconfina in area perimediana e in
area toscana: NASUM > bologn. [nɛːz] LACUM > bologn. [lɛːg] PLAGAM > bologn. [pjɛːga], il fenomeno non

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si presenta invece in parole come SPALLAM > bologn. [spaːla] perché le sillabe erano chiuse, invece oggi sono
aperte perché c’è stata la degeminazione. Il fenomeno non c’è nemmeno in CLAMAT > bologn. [tʃaːma]
(guardare pagina 8 per la spiegazione). Fenomeno possibile, entro certe condizioni, anche in altre aree gallo-
italiche(mai in veneto); in lombardo alpino, condizione di tipo fonetico, slittamento a occlusiva palatale di k
velare (al confine con un’altra area Romancia, in romancio innovazione per cui [ka] e [ga] diventa [chia] e [ghia],
per sconfinamento anche nella zona lombardo alpina) la presenza di chia ha favorito la palatalizzazione anche
di A facendola diventare una vocale palatale. Il fenomeno si ha anche in piemontese restrizioni di tipo
morfologico VOLARE > vule, A tonica (vocale tematica di ARE) si palatalizza e stesso fenomeno per la A del
suffisso -ARIUM soprattutto presente nei nomi di mestiere MINUTARIUM> minyzje “falegname”

Sviluppo di una nuova quantità vocalica distintiva

Sviluppo di una nuova quantità vocalica distintiva smette di essere regolata allofonicamente come nel latino
volgare e riprende ad essere distintiva, differenza di lunghezza della vocale tonica possa dar vita a coppie minime
(test per capire se un elemento fonetico ha anche valore fonologico) nei gallo-italici: in milanese [kaːl] ‘calo’ ≠
[kal] ‘callo’. Non si ha nei proparossitoni dove la vocale è quasi ovunque breve perché ha subito il fenomeno
conosciuto accorciamento compensativo, fenomeno per il quale più sillabe vi sono dopo la vocale tonica
più la durata di questa [vocale tonica] si accorcerà. Dove la a di “navigano” per quanto più lunga di una a in
sillaba chiusa di canto sarà più breve della a di cane, più materiale c’è dopo la sillaba tonica più la vocale sarà
pronunciata più corta: mil.[ˈpegura](<PECORA) e non [ˈpeːgura]. Fanno eccezione da questo punto di vista i
dialetti emiliani. Origine del ritorno della quantità vocalica si deve alla fonologizzazione dell’allungamento
vocalico in sillaba aperta (ASA) – in principio contestuale e quindi allofonico - sviluppatosi in latino volgare. N.B.
Nel latino volgare la quantità vocalica non ha valore distintivo come in latino classico. Più in generale essendo
fonologica la presenza di vocali lunghi o brevi in una parola non era in alcun modo condizionata dai contesti.
Nel latino volgare le cose cambiano, la quantità vocalica smette di essere distintiva, ma non scompare: lunghi e
breve continuano ad esistere ma pertengono soltanto a livello fonetico e sono regolate allofonicamente: [paːla]
(< PALAM) ≠ [palla] (< long. palla). Questo è rimasto così nel latino volgare e nei dialetti NON gallo-italici dove
quest’alternanza di natura allofonicamente si è risonorizzata. Questo è accaduto perché sono stati determinanti
i mutamenti che investirono, semplificandoli, i sistemi del consonantismo come lo scempiamento e del
vocalismo finale in particolare della caduta delle vocali di finali diverse da -a, per questo è possibile che parole
prima diverse diventino identiche per tutto tranne che per la lunghezza vocalica che si sfrutta per marcare la
differenza tra le parole tornando ad individuare coppie minime.

Vocalismi

Vocalismi atoni finali

Il tipo gallo-italico non comprende quello ligure e si caratterizza per rappresentare vocali finali che sono
sempre cadute tranne per i continuatori di -a. Il caso di Piandelangotti (sull’ Appennino modenese) dove -a la
finale conservata mentre le altre sono passate a ə (molto simile all’ascolano).

-Ī -Ĭ -Ē -Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ -Ō -Ŭ -Ū
-Ø -a -Ø
MORTUI NEVEM LANAM QUANDO BRACHIUM Ø
[mɔrt] [neːf] [laːna]/lɛːna] [kwand] [braʃ]

46
Il tipo ligure:

-Ī -Ĭ -Ē -Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ -Ō -Ŭ -Ū
-i -e -a -u

MORTUI NEVEM LANAM TACEO BRACHIUM Ø

[mɔrit] [nei̯ve] [laːna] [taːtʃu] [braːsu]

Il tipo veneto con riferimento alla zona centrale e lagunare, escluso invece la regione feltrino-bellunese

-Ī -Ĭ -Ē -Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ -Ō -Ŭ -Ū
-i -e -a -u

MORTUI NEVEM LANAM QUANDO BRACHIUM


Ø

[mɔrti] [neve] [lana] [quando [braso]

E’ simile al toscano ma rispetto ad esso da la possibilità di acope di alcuni vocali date determinate situazioni. In
particolare cade la /e/ dopo /n/, /l/e /r/ esclusa la /m/ che però devono essere scempie: CANEM > [kaŋ], MALE
> [mal], *COREM > [kwɔr] / [kɔr]. Può cadere anche la /o/ ma solo dopo /n/scempia: FENUM > [feŋ] ‘fieno’.
Se sono intensi il fenomeno non si verifica: PANNUM > [pano], MILLE > [ˈmie]. La conservazione della
/o/finale di [pano] e della e in [mie] si deve alla presenza della consonante intensa etimologica. Anticamente la
zone dell’apocope delle vocali diverse da -a era più estesa perché ciò si aveva anche in area trevigiana e in generale
era possibile nell’intero alto veneto. La restituzione di queste vocali in area trevigiana dev’essere partita dai grandi
centri come Treviso e si dovrà all’influenza del veneziano che conosce apocope.

Vocalismi atoni non finali

Il tipo veneto conserva tutte le vocali atone non finali, invece il vocalismo protonico (emil.: [stmeːna] ‘settimana’,
bol.: [zbdɛl] ‘ospedale’), e postonico ( CUBĬTUM ‘gomito’ > romagn. [gont], mil. [gumde] vs. ven. [ˈgomedo])
soprattutto in riferimento alle varietà emiliano romagnole e in minor misura anche le altre cadono.

Esito del nesso -CT-

Il nesso -CT- ha due distinte trafile:


• -[i̯t]- > -[tʃ]- [dialetti liguri, piem. e lomb.]
• -[tt]- > -[t]- [dialetti veneti, emil. e romagnoli]

Esito del nesso -L-/-R- (rotacismo “ligure” e rotacismo “ambrosiano”

• Dialetti lomb. occid. (aree conservative): passaggio a vibrante di -L- intervocalica (rotacismo
“ambrosiano”): PULĬCEM > [pyrɛs] ‘pulce’ GULAM > [goːra] ‘gola’ PALAM > [paːra] ‘pala’
• Dialetti liguri: dileguo di -R- primario e secondario (< -L- per rotacismo “ligure”);
• -L- > -[l]- > -[r]-> [ɹ] > Ø: ALA(M)>[aːla]>[aːra]>intemelio[aːɹa]>gen.[aː] ‘ala’
• -R- > -[r]- [ɹ] > Ø: FLOREM > [fjoːre] > [fjoːɹe] > [ʃuːe] > gen. [ʃuː]
04 MAGGIO 2022

47
Dialetti sardi

La romanizzazione della Sardegna è avvenuta a partire dal 238


a.C (ma avanzò molto lentamente) quando l’isola al termine della
prima guerra punica passò sotto il dominio dei romani. Subisce
un sostanziale isolamento a partire dal V secolo d.C, dal 456 al
534 finì sotto il controllo di vandali e dal 534 entrò a far parte
della sfera politica bizantina. Le vicende in questo periodo
spiegano l’esito conservativo del sardo che era poco esposto alle
innovazioni linguistiche protettosi nella penisola a partire dalla
fine dell’epoca repubblicana e poi nei secoli successivi. Nel XI e
XII secolo si vengono a creare i quattro giudicati, ovvero quattro
regni (Torres, Arborea, Cagliari, Gallura) e iniziammo ad avere i
primi documenti giuridici in sardo che sono la “carta di
Nicita 8” dal nome dello scrivano che l’ha redatta e risale al 1064-
65 ed è il primo documento in volgare sardo, documento molto
antico e prodotto un secolo dopo i “placidi campani”. In questa
carta viene descritto un atto di donazione del giudice del
giudicato di Torres, Barisone I di Torres all’abbate Desiderio di
Montecassino di una vasta area intorno a Siligo e di alcune chiese,
lo scopo era formare un monastero. Risale invece al XIV secolo
un’altra carta famosa la “carta de Logu ” , raccolta di leggi nella varietà alabórense destinata ai quattro regni.
9

In questi secoli (XI- XIII) la Sardegna subisce l’influenza linguistica delle repubbliche marinare di Pisa e Genova,
ed è qui che si inizia una parziale toscanizzazione, di alcune aree, come quella campidanese ma non quella
sassarese e gallinese che si trovano più a nord dell’isola e più esposte all’influenza pisana. Al 1324 risale la
conquista militare dell’isola da parte degli aragonesi e nasce così il
regno di Sardegna, anche se in realtà dal punto di vista
amministrativo-burocratico nasce già nel 1297 quando il papa lo
fondava e lo donava in perpetuo (?) agli aragonesi. Inizia una fase di
bilinguismo sardo-catalano, che diviene di tipo sardoò-spagnolo a
partire dalla fine del XIV secolo quando l’isola inizia a subire
l’influenza di tipo castigliano, ed è questa la fase importante perché
spiega come mai nel sardo ci sia un lessico di origine ibero-romanza
e addirittura una colonia di tipo catalano, Alghero. Altra data
importante è il 1720, dove viene sancito con il “trattato dell’Aia”
il passaggio del Regno ai Savoia e nel 1861 un’ulteriore confluenza
con il passaggio nel Regno d’Italia. In questi secoli finì il bilinguismo
e iniziò il contatto sempre più stretto con l’italiano, con ripercussioni
sul piano lessicale e meno su quello strutturale. Le principali
subvarietà del sardo sono: la varietà logudurese che è anche quella
più conservativa e che si parla nella zona centro-settentrionale
dell’isola, a questo tipo viene solitamente ascritto anche il tipo
nuorese. Poi c’è il campidanese che si parla al sud dell’isola e
insieme al primo costituiscono il sardo propriamente detto. Le altre
due, ovvero il tipo gallese e sassarese che si parla rispettivamente al nord est e al nord ovest dell’isola è stato
fortemente toscanizzato e dove il primo è molto simile al còrso. E’ importante sottolineare l’esistenza di un

8
La carta di Nicita: https://it.wikipedia.org/wiki/Carta_di_Nicita
9
La carta de Logu: https://it.wikipedia.org/wiki/Carta_de_Logu

48
significativo fascio di isoglosse che separa il tipo logodurese e campidanese, che genera un’interessante area di
transizione tra i due tipi. E’ possibile trovare in uno stesso punto linguistico tratti con valore solo di uno o
dell’altro, e invece uno stesso tratto in una parola può avere valore logudurese o valore campidinese, dove da
una parte è conservativo e dall’altra innovativo. Sono presenti poi altre varietà, il catalano ad Alghero che però
lo parlano soltanto gli anziani e soltanto entro il centro storico, il tabarchino che è una varietà parlata dai
pescatori di Pegli che nel ‘500 si spostarono a Tabarka, in Tunisia, e da lì nel 1738 si spostarono a Carloforte,
nell’isola di San Pietro e a Calasetta nell’isola di Sant’antioco.

Sardo logudorese

Fonetica - vocalismo tonici del sardo e gli innalzamenti metafonetici

-Ī -Ĭ -Ē -Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ -Ō -Ŭ -Ū

SŌLAM >
VĔNIO >
[sɔːla] NŎVAM
VĪNEAM > [bindza] [bɛndzɔ] PĀNEM MŪROS > [muːrɔzɔ]
> [nɔːa]
NĬVEM > [niːɛ] TĒLAM > [tɛːla] >[paːnɛ] BŬCCAM > [bukka]
NŎVUM >
TĒLUM > [teːlu]
[noːu]

/ɛ/ /ɔ/
/i/ /a/ /u/
[ɛ]/[e]* [ɔ]/[o]*

Anche l’area lausberg, come già detto è un’area fortemente conservativa e presenta vocalismo di tipo logudurese
ed è conservativo perché si caratterizza, rispetto al latino e a tutti gli altri vocalismi esaminati fin qui, per non
fusioni timbriche. L’esito dei timbri medi sul piano fonologico è medio basso infatti abbiamo delle vocali
medio aperte, abbiamo quindi un sistema pentavocalico. Il risalutato finale è simile a quello siciliano ma ci si
arriva con modalità diverse, etimologicamente le innovazioni non sono le stesse e il siciliano ha conosciuto fusioni
timbriche.. Sul piano fonetico abbiamo timbri medio alti e medio bassi ([e]/[o]) questo perché i fonemi medio
bassi possono essere realizzati allofonicamente anche come medio alti, in dipendenza dal contesto. Il contesto è
quello metafonetico, se ci sono le condizioni per averlo (banalmente presenza di vocali alte), i fonemi aperti sono
realizzati foneticamente come medio alti altrimentin se non ci sono le condizioni sono realizzati come medio
bassi. La metafonesi si manifesta esclusivamente per innalzamento e non per dittongazione. L’innalzamento
accade quando dopo la sillaba tonica ricorrono vocali ma anche semivocali o semiconsonanti alte del tipo [u] e
[i] ma anche la [j]. Queste vocali possono innescare metafonesi anche quando la sillaba in cui ricadela non è
ultima ma è generalmente una postonica non finale.
• Esempi con innesco da vocale alta posttonica finale:
• NŎVUM > [nɔːu] > [noːu] vs. NŎVAM > [nɔːa]
• VĒRUM > [bɛːru] > [beːru] vs. VĒRAM > [bɛːra]
• Esempi con innesco da vocali (più semivocali e semiconsonanti) alte postoniche non finali:
• PĔRSĬCUM > [ˈpɛssiɣɛ] > [ˈpessiɣɛ]
• MĔDICUM > [ˈmɛi̯ ɣu] > [ˈmei̯ ɣu]
• HISTŎRIAM > [istɔːrja] > [istoːrja] - metafonesi innescata da -i̯ - e -j-

Vocalismi atoni (finali)

49
Il sistema atono logudurese è identico a quello tonico (quindi vocali mediobasse), quindi pentavocalico. Tale
sistema era tipico anche del campidanese che però poi si è innovato perché muovendo da quello logudorese ha
conosciuto degli innalzamenti delle vocali mediobasse che hanno condotto ad un sistema trivocalico simile a
quello riscontrato nel tipo siciliano (il seguente vocalismo è il tipo campidanese):

-Ī,-Ĭ -Ē,-Ĕ -Ā,-Ă -Ŏ,-Ō -Ŭ (-Ū)


-i -a -u Ø

Il logodurese a differenza dalle altre varietà dell’ italiane e italoromanze può conoscere vocali aperte in posizione
atone, laddovè invece nelle altre varietà ciò non accade.

Epitesi e prostesi vocaliche

Le epitesi vocaliche si possono avere dopo la -S e la -T prepausali, che nella flessione nominale e verbale si
mantiene (lo si trova spiegato più dettagliatamente nel consonantisimo). Sono possibili anche le prostesi
vocaliche che si ha in maniera abbastanza sistematica quando [i]- si trovava davanti a /s/- + consonante: SCIT >
[ˈiskiːði] ‘(egli) sa’ vs. camp. [ʃʃiːði]. Il sardo ha mantenuto tipi lessicali comuni dal latino classico come SCIRE
inteso come “sapere, conoscere” che invece nel latino volgare del continente sono stati sostituiti da altre voci,
nella penisola italica in latino volga la forma del latino classico SCIRE ha ceduto il passo al vero “sapere” che in
latino classico significava “avere sapore” ed è passato ad “avere senno” e di conseguenza a “conoscere”.
Quest’innovazione il sardo non l’ha mai conosciuta.

Conservazione (vs. palatizzazione) delle occlusive velari sorde e sonore


davanti a vocale antieriore

Questo fenomeno rappresenta un tratto tipico del logudorese:


• (-)CE/I- > [ke/i]: CENTUM > [kentu] (la e è aperta perché vi è metafonesi innescata dalla u finale),
VŌCEM > [bɔːɣɛ], PĬSCEM > [piskɛ];
• (-)GE/I- > [ge/i]: GELARE > [gɛˈlaːrɛ], GYRARE >[giraːrɛ].

Invece, esattamente come – quasi- in tutte le altre varietà, nel campinadese vi è la palatizzazione: VŌCEM >
[bɔːʒi], PĬSCEM > [piʃʃi], ecc. Tuttavia la possibilità del mantenimento delle velari è possibile anche se
residualmente. Questo tipo di innovazione risale al tardo Medioevo prodottosi verosimilmente per influsso del
toscano, in una carta del 1089 si ha – per esempio – ancora in campidanese la forma «ίoύdiκi» ‘monarca’ (lett.
‘giudice’; in riferimento a Orzocco-Torchitorio). Ancora oggi è possibile avere il mantenimento della velare in
tipi lessicali che non ha una corrispondenza toscana e sulla quale per tanto non si è potuta esercitare nel sardo
l’influenza del toscano stesso: per esempio la forma “ίoύdiκi” può diventare appunto “giudice” perché in toscano
esiste tale forma ma se durante l’interferenza, il toscano non presenta tipi lessicali che possono esercitare
un’influenza sul lessico in uso in sardo ecco qui che il fenomeno di palatalizzazione fa più fatica a realizzarsi. Ed
è questo il caso della forma sarda con la quale si indica “più rapido” ovvero i continuatori del tipo latino
CITI(US) che hanno dato in campidanese il tipo [kittsi] e non appunto [dʒttsi] e dove in logudorese abbiamo
[kittɔ]. Nell’area di transizione tra logudorese e campidanese si caratterizza per la possibile compresenza dei due
esiti a seconda dei tipi lessicali. E’ il caso di Tonara, dove a nord c’è la conservazione del tratto e al sud invece
c’è l’innovazione ed essa infatti presenta entrambi i valori:
• Palatalizzazione in :
• [ʤeːlu] ‘gelo’ [ʤɛːna] ‘cena’, [pradʤɛðɛ] (‘piace’ < PLACET), ecc.;
• Conservazzione in:
• [kiːða] ‘settimana’ (< (AC)CĪTA), [dɛːɣɛ] ‘dieci’ (< DECEM), [piskɛ] (< PISCEM).

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Betacismo sardo

Si caratterizza per il conguaglio in un unico fonema di (-)B- e /(-)V- del latino realizzato nel logudorese come:

(-)B- (-)V-

-[V]- > ∅ in posiz. V_V: FABAM > [faːa] NIVEM > [niːɛ]
(anche in fonosintassi) IPSAM BUCCAM > [sa ˈukka] IPSUM VINUM > [su ˈiːnu]

VINUM > [biːnu]


[b(b)]- negli altri casi BUCCAM > [bukka]
VINEAM > [bindza]

Sono simili ma non uguali rispetto al betacismo del tipo centromeridionale, la differenza riguarda innanzitutto i
contesti: la posizione debole è soltanto quella intervocálica laddove nel centromeridione consideravamo debole
anche la condizione vocale assoluta. Quanto alla realizzazione specifica la differenziazione sta nel fatto che è
vero che prima la –[v]- in posizione intervocálica in prima istanza viene realizzato ma poi dilegua. Il conguaglio
in unico fonema con realizzazione libere (non ancora allofoniche) si era verificato già nel latino imperiale come
dimostrato da Herman.

Lenizione intervocálica delle occlusive e della sibilante (anche in FS)

• Sonorizzazione e spirantizzazione delle occlusive sorde e della sibilante (solo sonorizzazione per la
sibilante) (esempi logudoresi):
• P > [β]: NĔPŌTEM > [nɛβɔːðɛ] IPSAM PACEM > [sa βaːɣɛ] vs. PACEM > [paːɣɛ]
• T > [ð]: VITAM > [biːða] IPSAM TERRAM > [sa ðɛrra] vs. TERRAM > [tɛrra]
• K > [ɣ]: MĔDICUM > [mei̯ ɣu] IPSUM CAMPUM > [su ɣampu] vs. CAMPUM > [kampu]
• S > [z]: NASUM > [naːzu] IPSUM SOLEM > [su zɔːlɛ] vs. SOLEM > [sɔːlɛ]
• Dileguo delle occlusive sonore (esempi logudoresi):
• B/V > ∅:
• FABAM > [faːa] IPSAM BUCCAM > [sa ˈukka] vs. BUCCAM > [bukka]
• NĬVEM > [niːɛ]IPSUM VĪNUM > [su ˈiːnu] vs. VĪNUM > [biːnu]
• D > ∅: CAUDAM > [kɔːa]abl. IPSA DŎMO > [sa ˈɔːmɔ] vs. abl. DŎMO > [dɔːmɔ]
• G > ∅: LIGARE > [liˈaːrɛ] IPSUM *GATTUM > [su ˈattu] vs. *GATTUM > [gattu]

Lenizione sotto alcuni aspetti simile a quella setttentrionale e per altri versi simile a quello
toscano/perimediano/mediano. Assomiglia a quello settentrionale perché le sonore dileguano però attenzione
perché questo fenomeno non si verifica in fonosintassi mentre nel sardo si. In parte assomiglia a quello toscano,
in particolare alla gorgia, perché anche in sardo la lenizione si verifica in fonosintassi mentre è peculiare soltanto
al sardo la concomitanza tanto della sonorizzazione quanto della spirantazzione delle sorde. Il primo fenomeno
a verificarsi è il dileguo.
La pronuncia intensa delle occlusive sorde (vale anche per le parole) V_V nell’italiano regionale della Sardegna:
• it. /p/ > it.reg.sd. [pp]: nipote > [nippɔttɛ] ‘nipote’ la pace >[la ppaːʧɛ]
• it. /t/ > it.reg.sd. [tt]: vita > [vvitta] ‘vita’ la terra > [la ttɛrra]
• it. /k/ > it.reg.sd. [kk]: medico > [ˈmeddikkɔ] ‘medico’ da campo [da kkampɔ]
La motivazione è legata, come già detto, al fatto che il sardo non conosce la presenza di [p, t, k] scempie
intervocaliche che invece sono presenti in italiano e cercherà quindi di adattare alle realizzazioni [p,t,k] assenti
in sardo alle realizzazioni dialettali isolane più simili a parità di contesto, vale a dire [pp, tt, kk]: CAPPAM >
[kappa] ‘cappa; mantello’ *GATTUM > [gattu] ‘gatto’ BUCCAM > [bukka] ‘bocca’

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Conservazione di -S e -T nella flessione nominale e verbale e
fenomeni collegati

Il sardo manutiene la sibilante finale nella flessione nominale con riferimento ai plurali che il sardo forma
sigmaticamente e nei neutri etimologi singolari in sibilante. E manutiene la -s quanto la -t nella flessione verbale:
• SŎNAS /sɔnas/ [ˈsɔːnaza]
• SŎNAT /sɔnat/ [ˈsɔːnaða]
• MŪROS/murɔs/ [ˈmuːrɔzɔ]
• TĔMPUS/tɛmpus/ [ˈtempuzu] (sg.)
• *TĔMPOS /tɛmpɔs/ [ˈtɛmpɔzɔ] (pl.)

Questo mantenimento di -S e di -T finale ha prodotto altri fenomeni, caratteristici anche in area lausberg. Il
primo fenomeno è condiviso anche da tale area e cioè in posizione prepausale abbiamo l’epitesi di una vocale
che si caratterizza per diventare un timbro identico alla vocale che procede la consonante finale. Diversamente
dall’area lausberg la vocale epitetica ha sviluppato un contesto intervocálico e applicazione dei fenomeni lenitivi.
Quando queste consonanti finali ricorrono in fonosintassi e in particolarte quando si trovano davanti a parole
che iniziano anch’esse in consonante subiscono altri fenomeni non sistematici in questo caso. Quando si ha una
parola che esce in in -t finale essa viene assimilata alla conosonante iniziale della parola seguente: log.[trɛβaʎʎa
ppaːɣu]‘lavorapoco’. La sibilante non si assimila bensì viene realizzata allofonicamente, cioè a seconda del tipo
di consonante successiva, in altri modi: Ploaghe/sasvɛnas/=[sajvɛːnaza]‘levene’.

Presenza delle consonanti retroflesse

Sviluppo soprattutto del tipo -LL- > -[ɖɖ]- :


• VILLAM >[biɖɖa]
• VALLEM >[baɖɖɛ]
• PĔLLEM >[pɛɖɖɛ]
• *CIPŬLLAM >[kiβuɖɖa]

10 MAGGIO 2022
MAGGIO 2022

Morfologia, morfosintassi, sintassi, lessico

Formazione sigmatica del plurale

Fenomeno assai importante perché dimostra quanto il sardo abbia poco a che fare con il tipo italoromanzo in
senso stretto, perché il sardo non forma il plurale tramite alternanze vocaliche come capità negli altri dialetti. Ma
lo forma sigmaticamente esattamente come capita nelle altre varietà romanze occidentale. Le opposizioni di
numero sono segnalate per lo più tramite sibilante che ha di origine accusativale:
• sg. [tɛːla] / pl. /tɛlas/ [ˈtɛːlaza] (< TĒLAS)
• sg. [muːru] / pl. /murɔs/ [ˈmuːrɔzɔ] (< MŪROS)
• sg. [kaːnɛ] / pl. /kanɛs/ [ˈkaːnɛzɛ] (< CANES)

Talvoltal’opposizione può essere ancora veicolata da alternanze vocaliche, per esempio: nomi come
TEMPUS/*TEMPOS che ha sostituito in latino TEMPORA e quindi sg. [tempuzu] / pl. [tɛmpɔzɔ].

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Articolo determinativo da IPSUM

Il sardo, insieme a qualche dialetto delle Baleari, è l’unica varietà romanza che per l’articolo determinativo
muove da IPSUM e non da ILLUM (questo vale anche per il campidanese e sono forme a feriti che – caduta di
IP)

Singolare Plurale

IPSUM > su [su ˈattu] IPSOS > sòs [sɔs ˈgattɔzɔ]


Maschile
‘il gatto’ ‘i gatti’
IPSAM > sa [sa ɣiˈβuɖɖa] IPSAS > sas [sas kiˈβuɖɖaza]
Femminile
‘la cipolla’ ‘le cipolle’

Formazione analitica del condizionale e del futuro

Il condizionale e il futuro in sardo si formano tramite perifrasi. Nel primo è formata da IMPERFETTO “dovere”
+ INFINITO: DEBEBAT FACERE > [ˈdia ˈffaːɣɛrɛ] ‘farebbe’/ DEBEBAT CANTARE > [ˈdia kkantaːrɛ]
‘canterebbe’. Mentre il futuro tramite la perifrasi formata da PRESENTE “avere” + PREPOSIZIONE “a” +
INFINITO: HABET AD FACERE > *AT AD FACERE > [ˈað a ˈffaːɣɛrɛ] ‘farà’ / HABET AD CANTARE >
*AT AD CANTARE > [ˈað a kkantaːrɛ] ‘canterà’.

Sistema dei pronomi personali tornici di I e II persona

Tratto estremamente conservativo perché il sardo contiene un opposizione pluricausale e non binaria come in
italiano ne tanto meno acasuale come nei dialetti settentrionali.

OI (altre
OD e OI (termine) OI (comitativo)
funzioni con le
Soggetto (con la la (Con la
altre
preposizione a) preposizione con)
preposizioni)

[ku ˈmmeːɣuzu]
I persona [(d)ɛɔ] ‘io’ [a ˈmmiɛ] ‘a me’ [pɔ ˈmɛ] ‘per me’
‘con me’

[kun ˈteːɣuzu] ‘con


II persona [tuɛ] ‘tu’ [a ˈttiɛ] ‘a te’ [pɔ ˈðɛ] ‘per te’
te’

Marcamento preposizionale dell’oggetto

Il sardo conosce come gli altri dialetti centromeridionali il marcamento dell’oggetto diretto del tipo “ho visto a
tuo fratello”. Come già visto che se c’è marcamento questo fenomeno sicuramente investirà i pronomi di prima
e seconda persona che sono i più alti nella scala di animatezza. Questo fenomeno è condizionato da parametri

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semantici, in particolare appunto l’animatezza. Il confine delle manifestazione del fenomeno cambia da area ad
area (la scala è implicazionale e non può investire i soggetti inanitimati). Il fenomeno è obbligatorio per
pronomi personali, antroponimi, nomi di parentela che però devono essere privi di articoli:
[appɔ ʒamaːðu a ttiɛ / a issɛ / a bboizi / a ffrantsisku / a bbabbu] ‘ho chiamato te/lui/voi/Francesco/papà’.
E’ oscillante a seconda delle varietà nei sintagmi nominali definiti designanti essere umani: Nuoro - sun muttinde
assu duttore “stanno chiamando il (lett. ‘al’) dottore” vs. Bonorva: [appɔ iːðu zu ðuttɔːrɛ] “ho visto il dottore”.
Non si ha con i sintagmin nominali indefiniti disegnanti essere umani e nemmeno con i nomi meno umani “Ho
visto un uomo” e non “Ho visto a un uomo”.

Note di lessico

Conservazione degli strati più antichi del lessico latino: presenza in sardo di tipi lessicali che nel latino volgare di
altre aree sono stati sostituiti da altri lessemi.
• SCIRE > [iskiːrɛ]
• PORCUM APRUM > [polkraːβu] ‘cinghiale’ (unica forma romanza che continua il lat. APER!)
• MAGNUM > [mannu] ‘grande’
• IANUAM > [janna] / [ʤanna] ‘porta’
• DOMO (abl.) > [dɔːmɔ] ‘casa’

Dialetti Friulani

L’inclusione di questo dialetto è dovuto al criterio della lingua


tetto perché ci troviamo di fronte ad un gruppo di varietà
autonomo, non ascrivibile ne al gruppo italoromanzo settentrionale
ne al ramo orientale della presunta famiglia ladina o detta anche
retoromanza. Le cose stanno realmente così? Si e no perché il
friulano presenta diversi tratti autonomi ma possiede anche una
serie di tratti che condivide sia con le varietà italoromanze
settentrionali, in particolare la presenza di qualtà vocalica distintiva,
sia alcuni che convive con la famiglia retoromanza. E’ molto
autonomo sul piano lessicale, l’individualità di questa varietà
è garantito soprattutto da questo. Presenta anch’esso tratti
conservativi in quanto zona isolata soprattutto per le zone alpine e
laterale e quindi le innovazioni non sempre hanno raggiunto
quest’area. I principali gruppi friulani sono: il friuliano centrale
(o centro-orientale) gruppo che include Udine su cui si basa il
friuliano comune intesa come varietà italiana e riconosciuta
dallo statuto italiano (considerata minoranza linguistica riconosciuta). Poi c’è il tipo càrnico o
settentrionale che è anche il tipo più conservativo. Infine c’è il tipo occidentale che è anche quello più
innovativo dovuto soprattutto al contatto con il veneto. Nel Friuli Venezia Giulia ci sono anche altre varietà a
partire proprio dal veneto che si parla nella zona lagunare (zona in cui Venezia esercitava il suo esercizio
marittimo), in quella occidentale e nel dialetto urbano di Udine e Gorizia. Si parla in veneziano perché
queste città erano significative dal punto di vista politico ed economico e c’era interazione maggiore con il mondo
veneto e veneziano e gli abitanti di questa area subivano il prestigio della varietà veneziana ed iniziarono ad
imitarlo. Si parla anche sloveno, nel confine orientale ed è un esempio di propaggine e inoltre si parla anche
tedesco in una serie di isole linguistiche che si trovano lungo il versante orientale.

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Caratteristiche
Tratti condivisi con la famiglia reto-romanza

• Conservazione dei nessi di consonante +L: [klaːf] (< CLAVEM), [floːr] (< FLOREM).
• Conservazione di -S nella flessione verbale e nominale: [tu tu dwuarmis] (< DORMIS),
[maŋs] (< MANUS), [paris] (< PATRES).
• Conservazione delle forme nominativali EGO e TU nel sistema dei pronomi personali:
[jɔ], [tu], nel resto del settentrione sono stati rifunzionati come clitico soggetto.
• Palatalizzazione di CA- e GA-: [caŋ] (< CANEM), [ɟai̯ ] (< GALLI).

Tratti condivisi con le varietà italo-romanze settentrionali

• Condivisi con l’intero gruppo settentrionale:


• Degeminazione delle consonanti intense: [gɔte] ‘goccia’ (< GUTTAM), [base] (< b.lat.
BASSAM).
• Lenizione delle occlusive intervocaliche: [dade] ‘data’ (< DATAM), [skove] ‘scopa’ (<
SCOPAM).
• Sviluppo dei clitico soggetto: [jɔ o sint], [tu tu sintis], [lui̯ al sint] ‘io sento, tu senti, lui sente’.
• Condivi solo con il gruppo gallo-italico:
• Apocope delle vocali finali diverse da -A: [nɔt] (< NOCTEM), [vas] (< VASUM), [lof] (<
LŬPUM).
• Desonorizzazione consonantica in seguito a tale apocope: [mːut] (< MODO), [bruːt]
‘brodo’ (< germ. brod), [fuk] (< *fogo < FOCUM).
• Rifonologizzazione della quantità vocalica distintiva (ma non più in goriziano): [tɔs]
‘tosse’ (< TUSSIM) ≠ [tɔːs] ‘tue’ (< TUAS) [brut] ‘brutto’ (< BRUTUM) ≠ [bruːt] ‘brodo’ (<
germ. brod).

Tratti tipicamente friulani (caratterizzanti): fonetica

• Innalzamento di -A > e: [gɔte] (< GUTTAM), [base] (< b.lat. BASSAM)


• Dittongazione (spontanea, non influenzata dal contesto metafonetico) di Ĕ e Ŏ sia in
sillaba aperta (come in toscano) sia in sillaba chiusa:

Ĕ SILLABA APERTA Ĕ SILLABA CHIUSA Ŏ SILLABA APERTA Ŏ SILLABA CHIUSA


[je] [ja] [we] [wa]
PĔTRAM > [pjere] PĔRDERE > [pjardi] SCŎLAM > [skwele] ŎRPHANUM > [warfiŋ]

• Conservazione del nesso -RJ-: [panarje] (< PANARIAM) (nessun’altra variertà conversa il nesso
perché nel resto d’Italia non succede, o -J o -R).

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• Semplificazione in [l] dei nessi -CL- e -GL-: [soreli] ‘sole’ (< SOLIC(Ŭ)LUM) [ʤenoli]
‘ginocchio’ (GENUC(Ŭ)LUM), il nesso -CL- a differenza di quanto successo nel resto dell’ italo romanzo
non si è palatalizzato quindi non è diventato una -CJ- ma ha subito un’assimilazione regresivva -CL- > -
LL- > -L-.
• Inserimento di consonante occlusiva omorganiza dopo nasale finale: HOMO > [OM]>
[omp], PLANUM > [plaŋ] > [plaŋk].

Tratti tipicamente friulani (caratterizzanti): morofologia

• Formazione sincronica del plurale:


• Plurali stigmatici per nomi di I classe: [pwarta/pwartis] “porta/-e”
• Formazione del plurale di II (lupo) e III classe (cane) secondo duplice strategia:
• Plurale stigmatico (in -s) se la forma singolare termina o in -r o in
consonante non coronale (ovvero non articolata con la parte anteriore
flessibile della lingua): [fu:k]/[fu:ks] ‘fuoco/fuochi’, [kwuarp]/[kwuarps]
‘corpo/corpi’, [arma:r]/[arma:rs] ‘arma- dio/armadi’, [lo:f]/[lo:fs] ‘lupo/lupi’,
[pra:t]/[pra:ts] ‘prato/prati’, [plomp]/[plomps] ‘piombo/piombi’, [floːr]/ [flors]
‘fiore/fiori’, ecc.
• Plurali con palatalizzazione della consonante finale della forma
singolare in tutti gli altri casi (cioè consonanti [+ coronale], eccetto la
-r): [dut]/[duc] ‘tutto/tutti’, [kest]/[kesc] ‘questo/questi’, [ros]/[roʃ] ‘rosso/rossi’,
[na:s]/[na:ʃ] ‘naso/nasi’, [bon]/[boɲ] ‘buono/buoni’, [an]/[aɲ] ‘anno/anni’, [cavàl]/[cavàj]
‘cavallo/cavalli’, [bjel]/[bjej] ‘bello/belli’, ecc.
• Ragioni diacroniche della duplice strategia nei nomi di II classe: plurali stigmatici
continuano desinenze stigmatico-accusativali (in -OS), quelli palatalizzati (quelli vocalici)
continuano desinenze vocalico-nominativali (in -I), le quali hanno provocato la palatalizzazione
della consonante precedente.
• Pronomi personali: opposizione tricasuale (e non binaria come in italiano).

Oggetto indiretto Oggetto diretto e altre


Soggetto
(funzioni dativali) funzioni oblique

I persona [jɔ] ‘io’ [a mi] ‘a me’ [me] ‘me’

II persona [tu] ‘tu’ [a ti] ‘a te’ [te] ‘te’

• Morfologia verbale:
• I persona plurale del presente indicativo in -[iŋ]: [o canˈtiŋ] / [o senˈtiŋ] ‘noi
cantiamo / sentiamo’
• III persona singolare ≠ III persona plurale: [al cante], [al dwarm] canta’ ‘dorme’ ≠ [a
cantiŋ], [a dwarmiŋ] ‘cantano’ ‘dormono’ tale fenomeno accade anche per buona parte delle
varietà che si trovano lungo l’Adriatico, vale anche per le Marche.
17 MAGGIO 2022
MAGGIO 2022

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Il dialetto nella società italiana: passato,
presente e futuro

La perdita del dialetto

Il quadro strutturale dell’Italia dialettale (capp. 3-8) è, da un punto di vista “sociolinguistico”, fortemente
idealizzato: «la visione idealizzata considera la carta dialettale d’Italia come mo- saico di tipi strutturali varianti
gradualmente nello spazio, risultato di una frammentazione progressiva e stabile del latino della penisola»
(Loporcaro 2013: 176). L’ idea che forse ci siamo fatti è quella di trovare situazioni perfettamente diglossiche,
andando da nord a sud dell’Italia e da est ad ovest, dove è legittimo attendersi che tutti parlino nei contesti
informarli dialetti regolarmente caratterizzati da tutti i fenomeni descritti area per area. Però attenzione, perché
le cose in passato sono state così e non c’è dubbio ma in riferito alla situazione attuale bisogna tener conto
dell’azione sul lungo, medio e breve periodo di una serie di forze centripete che hanno teso
all’omogeneizzazione. Hanno fatto si che verificasse un progressivo avvicinamento dei dialetti locali ad una
varietà di riferimento e questo è avvenuto:
• Su scala regionale (ess.: secolare venezianizzazione dei dialetti dell’entroterra veneto;
napoletanizzazione postunitaria dei dialetti campani, il napoletano è diventato di riferimento anche per
gli altri dialetti campani)
• Su scala “nazionale”: nel ’900 progressivo e rapido avvicinamento allo standard che porta alla
nascita degli italiani regionali e dall’altra il cosiddetto dialetto italianizzato, progressivo e rapido
avvicinamento allo standard dei dialetti e abbandonano caratteristiche tradizionali locali.

Per quanto riguarda il dialetto italianizzato, questo fenomeno lo si potrebbe considerare come un mutamento
linguistico interno al dialetto verificatosi per contatto del dialetto con l’italiano oppure potrebbe essere analizzato
come un vero e proprio cambio di lingua che sono comunque due cose diverse. Nel primo caso intendiamo
che i tratti di una varietà conoscono una modificazione dei valori dovuti non a cause interne ma per l’appunto
dovute al contatto. Mentre con il secondo intendiamo: «l’abbandono in toto da parte di una comunità di un
codice linguistico e l’adozione di un altro, conseguente a una fase di bilinguismo» (Loporcaro 2013: 177; si pensi
al caso dell’adozione del latino da parte delle popolazioni non latinofone che vennero assoggettate dai romani».
Si tratta di un processo (sociale) di sostituzione di un codice a un altro, esterno alla struttura linguistica (≠ dal
mutamento linguistico che è invece un processo linguistico interno). E’ difficile esprimersi da situazione a
situazione, non è sempre facile ma indubbiamente ciò che è certo che in molte realtà italiane, entro il repertorio,
è quasi impossibile ormai operare una separazione netta, fra italiano e dialetto. Negli enunciati reali nella
maggior parte dei parlanti è difficile dire dove inizia l’italiano e dove finisca il dialetto un esempio è il caso di
Napoli, analizzato da Vàrvaro:
• siamo venuti a casa di mia madre
• siamǝ venutǝ a casa di mia madrǝ
• siammǝ vinutǝ a casa di mammà
• simmǝ vinutǝ addò mammà

Nelle situazioni di bassa formalità queste sono tutte realizzazioni possibili da parte di un parlante. Oltre a ciò
l’esito di questi processi può in qualche modo essere immaginato grazie anche a qualcosa che è successo nel
passato in riferimento ad una varietà in particolare: è il caso del romanesco che rappresenta una situazione
emblematica delle conseguenze a cui conduce la competrazione tra lingua e dialetto perché è avvenuto tra ’400
e ’500 ha conosciuto con grande anticipo quel processo di avvicinamento al tosco-italiano che i dialetti Italo-
romanzi hanno iniziato a conoscere solo a partire dal ‘900. Il romanesco ci permette di capire cosa succederò ai
dialetti italoromanzi odierni dato che il processo che i dialetti italoromanzo stanno conoscendo il romanesco l’ha
conosciuto secoli fa.

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• Anonimo romano, Cronica (seconda metà XIV secolo), cap. XXVIII (ed. G. Porta 1979) Non
fuoro tutti li rioni, salvo quelli li quali ditti soco. Curzero allo palazzo de Campituoglio. Allora se aionze
lo moito puopolo, uomini e femine e zitielli (bambini). Iettavano prete; faco strepito e romore;
intorniano lo palazzo da onne lato, dereto e denanti, dicenno: «Mora lo traditore che hao fatta la gabella,
mora». Terribile ène loro furore. A queste cose lo tribuno (Cola di Rienzi) reparo non fece. Non sonao
la campana, non se guar nìo de iente. Anco da prima diceva: «Essi dico: ‘Viva lo puopolo’, e anco noi
lo dicemo. Noi per aizare lo puopolo qui simo [...]».
• Giuseppe G. Belli, Sonetti (ed. Teodonio 1998): Li soprani der Monno vecchio (1832)
C’era una vorta un Re cche ddar palazzo ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
mannò ffora a li popoli st’editto: Chi abbita a sto monno senza er titolo
«Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo, o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto. quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto: Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo: interroganno tutti in zur tenore;
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo. e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».

Rappresentano due fasi sincroniche del romanesco e la loro lettura ci mostra subito quanto sia cambiato il
romanesco medievale da quello dell’800, differenza più ampia di quella che separa fasi sincroniche diverse di
altri dialetti. Il primo testo dove troviamo un romanesco di I fase è di tipo centromeridionale, non così
dissimile dal napoletano. Mentre quello dell’800 che invece è di II fase è una varietà fortemente
toscanizzata.
• Fra gli elementi di discontinuità:
I. puopolo, uomini, campituoglio vs. popolo, fòra ‘fuori’, pò ‘può’
II. prete, zitielli vs. sete (ma piede, pietra, zitella, ecc.)
III. non, romore vs. nun, curriero
IV. moito, aizare vs. vorta, dar, er, zur ‘sur’, ecc.
V. gabella, tribuno, terribile vs.robba, abbita, vassalli bbuggiaroni
VI. ène vs. è, po’
VII. aizare vs.impiccà, avé
VIII. lo tribuno, lo traditore vs.lo storto, er dritto, er mazzo, er titolo
IX. sonao, guarnìo (< -AV(I)T, -IV(I)T) vs.mannò, annò
X. curzero vs. arisposeno
XI. iettavano, aionze, iente vs. per es. gettaveno, aggiunze, gente
XII. soco ‘sono’, faco ‘fanno’, dico ‘dicono’ vs. per es. so’, fanno, dicheno/-ono
XIII. dicemo vs. dimo (ma anche discemo)
XIV. hao ‘ha’ (< HABET) vs. (c’)ha
• Fra gli elementi di continuità
I. dicenno = annò, mannò, venneve, interroganno ecc.
II. de Campituoglio, se aionze, se guarniò = dde Papa, dde Re, ve strapazzo ecc.
III. per es. pozzo = pozzo (ma oggi posso)
IV. curzero, aionze = nun zete, in zur

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Il romanesco di prima fase conosce il dittongamento metafonetico delle mediobasse, mentre il romanesco di
seconda fase non ne conosce di nessun tipo perché come in toscano tutte le forme -wo- si sono monottongate
(I). Il primo tipo conosce dittongamento metafonetico anche per la palatale e non soltanto della velare, il
romanesco di seconda fase conosce dittongazione della -e secondo il tipo toscano quindi in sillaba aperta, e
non conosce più il dittongamento metafonetico. Fa eccezione il caso sete dove non si applica il dittongamento
toscano in romanesco (II). Quello di prima fase non conosceva l’innalzamento della O protonica in -U-,
mentre la seconda fa si (III). Ancora il romanesco di prima fase conosceva un fenomeno tra 400/500 ovvero
la iotizzazione della -l- preconsonantica, che diventa -jod. Nel romanesco di seconda fase la -l- viene
restituita e rotacizza in -r (IV). Quello di prima fase conoscono betacismo, mentre quello di seconda fase
conosce solo la b intensa in contesto postvocalico (V). Il romanesco di prima fase non tollera l’ossitonia e
aggiunge alle parole uscenti in vocali toniche una particilla epiteti a ne. Nel seconda fase il fenomeno è molto
più limitato nell’800 (in Belli non compare) e nel 900 scompare (VI). Nel romanesco di primo tipo troviamo
forme piene dell’infinito senz’apocope della desinenza finale mentre nel secondo tipo abbiamo l’apocope
della vocale della sillaba finale (VII). Il romanesco di primo tipo come tutte le varietà centromeridionale
conosceva esclusivamente la forma forte mentre il romanesco di seconda fase conosce la compresenza di
forma debole e forma forte (VIII). Le forme dell’infinito usciamo in -o, in particolare -ao,eo,io,, il romanesco
di secondo tipo conosce forme di tipo tosco-italiano (IX). Curzero con uscita in -ero com’è tutto oggi
possibile, ma il romanesco di secondo tipo conosceva anche una frase in -eno (X). (XI) L’evoluzione del
nesso -GE/GI come nei dialetti centromeridionali in -j, mentre nel secondo tipo abbiamo l’esito toscano.
Negli ultimi tre esempi, nel romanesco di secondo tipo troviamo tutti esiti italotoscani (XII, XIII e XIV). Ci
sono anche elementi di continuità tra i due tipi, infatti il romanesco ha conservato nel corso dei secoli il
passaggio di -ND- > -nn- tipico dei dialetti centromeridionali. Così come non si è imposta la chiusura delle
vocali protoniche in fonosintassi […]

Da questo punto di vista «la [...] toscanizzazione ha trasformato [...] il romanesco (parlato, non solo scritto) già a
partire dal ’400, secolo in cui degli altri volgari municipali entrava in crisi, sotto l’influsso del toscano,
prevalentemente l’espressione scritta (i processi di toscanizzazione e meridionalizzazione hanno determinato che
già a partire dal ’400 il romanesco entrasse in crisi e iniziasse a mutare considerevolmente per influenza del
toscano non soltanto la formas scritta come stava accadendo un po’ in tutta le penisola. A Roma oltre che a
livello scritto, l’avvicinamento al toscano avveniva anche in riferimento al parlato). Per questo nel caso del
romanesco, unico fra i dialetti italiani, si suole distinguere (con termini proposti da Francesco Ugolini) un dialetto
di I e uno di II fase, l’uno a monte e l’altro a valle della toscanizzazione. Si può dunque ben dire che il romanesco
si trova all’avanguardia di un processo di standardizzazione progressiva per contatto che le altre parlate d’Italia
hanno subìto molto più tardi o stanno subendo solo ora, a diversi secoli di distanza» (Loporcaro, Faraoni e Di
Pretoro 2012: VII). Il mutamento per contatto, quasi un vero e proprio cambio di lingua, si deve alla storia
politica e demografica di Roma, soprattutto tra ’400 e ’500:
• Classe dirigente sovraregionale (corti papali), in stretto rapporto con la Toscana
• Meta a più riprese di immigrazione (soprattutto dalla Toscana e dal resto Italia)
• Duplice shock demografico nel ‘500:
• Sacco di Roma (1527), si passò da 54.000 a 33.000 abitanti
• Repentino ripopolamento, 100.000 abitanti a fine secolo. Sappiamo grazie a dei censimenti che
sono stati fatti che a questo episodio contribuiscono persone che arrivano dal centro-nord e
soprattutto dalla toscana. Il dialetto dell’origine cede progressivamente il posto ad una nuova
varietà dialettale fortemente toscanizzata e che in virtùù di questi fatti quella che era una varietà
di tipico centromeridionale diventa una sorta di “varietà bassa” dell’italiano. Si viene a creare
una sorta di continuum.

Come stanno le cose quanto a rapporto lingua-dialetto nei secoli scorsi? Possiamo analizzare
sociolinguisticamente la storia del rapporto lingua-dialetto in area italiana a livello storico:
• I Fase di diglossia senza bilinguismo (comunità con forti disparità sociali, nelle quali molti parlanti
non hanno accesso alla lingua A). Definita da Mioni.
• Situazione della società italiana preunitaria: rigida distinzione dei domini d’uso fra italiano e
dialetto e una larga maggioranza di persone esclusivamente dialettofone.

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• II Fase di bilinguismo e diglossia: tutta la comunità padroneggia entrambe le lingue ma le usa in
modo funzionalmente differenziato (questa è la definizione data da Mioni, ma Berruto parla solo di
diglossia)
• Situazione che si ha negli anni ’70 del ’900 nelle regioni in cui il dialetto mostrava maggiore
vitalità (Veneto, Friuli, Sicilia, ecc.).
• III Fase di bilinguismo senza diglossia (fasi transitorie durante le quali vige incertezza circa l’uso
delle lingue; fasi di solito seguite dalla sopraffazione di una lingua sull’altra). Definizione sempre data da
Mioni.
• Situazione oggi prevalente nella maggior parte del territorio italiano: si ha (ancora) una cono-
scenza diffusa del codice dialetto ma, scomparsa la distinzione dei domini d’uso, ogni singolo
parlante se ne serve all’interno di un contesto sempre più marcatamente italofono, in enunciati
che presentano commutazione (o mescolanza) di codice fra dialetto e italiano. Nei termini
di Berruto è il famoso bilinguismo con dilalia.

La commutazione può essere di tipo: interfrasale (code switching) quando il passaggio da un codice all’altro
si verifica al confine di frase/enunciato per esempio: [in ˈkø mi a ˈmandʒi al ˈbrøːt], hai capito?, dove la prima
parte è in dialetto mentre la seconda in italiano. Oppure può essere intrafrasale (code mixing) e il passaggio
da un codice all’altro avviene all’interno di frase e anche entro sintagma [in ˈkø mi a ˈmandʒo al ˈbrøːt], dove la
parte iniziale e la parte finale è in dialetto mentre quella centrale in italiano. In ogni caso in maniera generale la
commutazione può essere:
• Di tipo referenziale: passaggio da un codice (dialetto) all’altro (it. standard o it. regionale) in seguito
a ridefinizione del contesto comunicativo (cambio di argomento, arrivo di un terzo parlante, ecc.);
normale in situazione di bilinguismo e diglossia.
• Di tipo metaforico: si ricorre al dialetto a prescindere dal contesto comunicativo, ma solo per
“coloritura stilistica” di produzioni assestate regolarmente sull’italiano; normale in situazione di
bilinguismo senza diglossia. Prefigura il cambio di lingua!

Cambio di lingua: conferme anche di tipo statistico forniti dai dati ISTAT 2002:
• Italofonia in costante aumento rispetto alla dialettofonia in costante diminuzione:
• Uso esclusivo del dialetto: dall’11,3% (1992) al 6% (2002) non è un male, significa che il numero
di persone in grado di fornirsi soltanto del dialetto è diminuito.
• Uso escluso dell’italiano, anche in famiglia: il 53,7% dei giovani fra i 15 e i 24 anni
• Uso sia dell’italiano sia del dialetto: 56,1% dell’intera popolazione
• Progressiva circoscrizione degli ambiti d’uso del dialetto:
• Dialetto si usa perlopiù solo in famiglia e solo nel dialogo fra (o con) gli anziani
• In calo anche l’uso in famiglia: dal 78,7% (1997) al 69,6% (2002) nei piccoli centri, 38,9% nei
centri urbani più grandi.

Cambio di lingua: conferme anche di tipo statistico forniti dai dati ISTAT 2006.
• Uso esclusivo dell’italiano, anche in famiglia: il 58,4% dei giovani con meno di 24 anni.
• «Si delinea dunque uno scenario ineluttabile per il prossimo futuro» (Loporcaro 2013: 181).

Virtualità della descrizione strutturale dei capp. 3-8: non si sono specificate le differenze di vitalità dei sistemi
analizzati, in alcuni casi già in via di estinzione.

Sdialettalizzazione e riduzione della diversità culturale

Dialetto ancora presente (quelli scomparsi sono pochi) ma è in corso un rapido processo di sdialettizzazione,
simile a quello conosciuto, per esempio, dalla Francia nei secoli scorsi, che ha condotto all’estinzione dei dialetti.

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Il caso francese: sostituzione delle varietà locali ( patois) con la varietà di Parigi ciò non è casuale ed è dovuto alla
storia particolare della Francia:
• La rapida unità politica (già durante il Medioevo) e la visione centralista che tradizionalmente ha
accompagnato i governi di quella nazione ha fatto si che si avviassero dinamiche di accentramento
politico-economico a cui hanno fatto di conseguenza dinamiche di accentramento linguistico.
• Durante il decennio rivoluzionario (fine XVIII sec.): sdialettalizzazione perseguita attiva mente, come
parte di un progetto più ampio di ingegneria sociale.
• Henri-Baptiste Grégoire (1794): Rapport sur la nécessité et les moyens d’anéantir les patois et
d’universaliser l’usage de la langue française.

Clima culturale del ’700 e dell’800:


• Illuminismo: annientamento dei dialetti necessario per la diffusione del francese (e con esso
dell’alfabetizzazione) fra il popolo.
• Romanticismo: a un popolo corrisponde una e una sola lingua.

La situazione italiana nel 1861: analfabetismo diffuso (almeno un 78% della popolazione) e necessità di giungere
rapidamente a una lingua condivisa. E il modello che venne proposto e che venne scelto fu il modello francese:
l’acculturazione “rapida” del popolo passò per lo sradicamento delle culture popolari e della loro manifestazione
linguistica, cioè il dialetto. Alessandro Manzoni si fece (Dell’unita della lingua e dei mezzi di diffonderla e scrisse
la famosa “Relazione” al ministro Broglio del febbraio 1868) interprete del pensiero maggioritario quanto a
politica linguistica nazionale.

Alessandro Manzoni e la soluzione “fiorentina” alla questione della lingua italiana.


• Imposizione del modello normativo fiorentino, da introdurre nella scolarizzazione primaria.
• Eliminazione dei dialetti:
• «Una nazione dove siano in vigore vari idiomi, e la quale aspiri ad avere una lingua in comune,
trova naturalmente in questa varietà un primo e potente ostacolo al suo intento. In astratto, il
modo di superare un tale ostacolo è ovvio ed evidente: sostituire a que’ diversi mezzi di
comunicazione d’idee un mezzo unico» (Dell’Unita..., in Stella e Vitale 2000a: 47).
• Necessaria «una lingua [il fiorentino dell’uso colto] atta a combatterli, col mezzo unicamente
efficace, che è quello di prestare il servizio che essi prestano» (ivi, p. 66).
• «La qual lingua, perconseguenza, se ha da farl’effetto, l’ufizio che i dialetti fanno, tanto da potere
essere utilmente sostituita ad essi, dee avere le qualità, le virtù, l’efficienza, dirò così, dei dialetti
medesimi. Ché i dialetti (ai quali nessuno più di noi desidera che si faccia) sono però cose in sé
buone assai, cose eccellenti: hanno tutti di necessità ciò che ci vuole a produrre l’effetto che
realmente producono, cioè una continua e piena e regolata con- versazione umana» (A.
Manzoni, Sentir Messa, in Stella e Vitale 2000b: I, 190)

Graziadio Isaia Ascoli e la soluzione del plurilinguismo.


• Le critiche a Manzoni (Proemio all’«Archivio glottologico italiano», 1873a):
• Difficile applicabilità strutturale del modello fiorentino nel resto della nazione italiana da parte
di chi non parlava fiorentino, che non coincideva più nell’800 con l’italiano nato dal toscano
letterario del trecento attraverso la codificazione cinquecentesca perché nel frattempo il
fiorentino ottocentesco si era distanziato da quello trecentesco. Il quale era quello da cui è nato
l’italiano comune regolato dalla letteratura e dagli usi ufficiali fin lì impiegati (esempio: novo vs.
nuovo)
• Inapplicabilità del modello francese (una sola norma imposta dall’alto) in area italiana perché
l’Italia aveva una storia completamente diversa da quella della Francia.
La soluzione ascoliana:
• Innalzamento della cultura per favorire l’integrazione della nuova comunità nazionale e solo
successivamente, in maniera ovviamente lenta, si sarebbe riusciti ad arrivvare all’unificazione
limnguistica. Questa però non doveva assolutamente passare per lo sradicamento dei dialetti che Ascoli
NON VEDE ASSOLUTAMENTE come un ostacolo, anzi sottolinea l’importanza e la potenzialità, per lo

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sviluppo cognitivo culturale degli italiani da formarsi di un bilinguismo generalizzato: «condizione
privilegiata, nell’ordine dell’intelligenza, questa dei figliuoli bilingui» (Ascoli 1873a: XXVIII). Ascoli
dimostra di essere avanti con i tempi perché il saper controllare più codici da parte di un parlante porti
notevoli vantaggi a livello cognitivo è un’acquisizione a cui arriverà soltanto la psicolinguistica
novecentesca. Ascoli guardava al modello “tedesco” di unificazione linguistica: la diffusione della
Bibbia, che andava letta e interpretata dal singolo fedele nella visione protestante, contribuì
all’alfabetizzazione di un gran numero di masse che pertò ad un innalzamento della cultura e di
conseguenza all’unità linguistica che in Germania e così come nella Svizzera tedesca è all’insegna del
plurilinguismo, tipo di unità dove accanto alla varietà standard si accompagno le varietà usate per contesti
informali (modello plurilingue in regime diglossico)

Vittoria della linea manzoniana, quantomeno in riferimento alla pars destruens10:


• Rapida sdialettizzazione e di conseguenza diffusione di una lingua comune;
• Il processo di sdialettalizzazione è stato fortemente voluto e perseguito soprattutto in sede scolastica, ed
è stato salutato quasi universalmente come se fosse necessario e naturale effetto collaterale
dell’espansione dell’italiano.

Pianificazione linguistica dell’Italia postunitaria: una sola lingua; dialetti


come ostacolo.
• Le istituzioni (la scuola soprattutto) hanno inculcato nelle classi
popolari la vergogna sociale nei confronti di quella che per secoli
era stata per esse la prima (e unica) lingua: il dialetto, bollato
come strumento linguistico socialmente e culturalmente
impresentabile.
• Interruzione nelle famiglie italiane, durante il ’900, della
trasmissione verticale (cioè smettere di parlare dialetto).

10
Para destruens: Pars destruens / pars construens è un'espressione latina comune per le diverse parti di un argomento
. La parte negativa in cui l'autore critica i fondamenti di un'idea è la pars destruens . La parte positiva che indica la propria
posizione, supportata da argomenti , è la pars construens .

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