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CAPITOLO 1: INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA LINGUISTICA ITALIANA

Colui che studia le variazioni, le caratteristiche, i differenti modi di produzione della lingua è il “linguista”.
Quest’ultimo, ha un aspetto “descrittivo”, ossia descrive le strutture linguistiche, e ciò che esiste per il
linguista è quello che producono i parlanti. A differenza della scuola che è “prescrittiva”, cioè è costituita
da norme rigide per indirizzare l’alunno. Esemplare, in questa direzione, è la polemica sollevata dal
pedagogista Don Lorenzo Milani, contro il metodo scolastico. La didattica era incentrata sull’emarginazione
dei ragazzi che usufruivano di un linguaggio carico di dialettismi, mentre valorizzava quegli alunni
provenienti da una contesto familiare, in luogo, socio-linguistico, differente dai cosiddetti “dialettofoni”.
Per insorgere alla crudeltà della suola pubblica, il pedagogista fonda una scuola, detta “Scuola di Barbania”,
che aveva il compito di tutelare l’identità culturale degli studenti facenti parte di tale istruzione.
Interessante in tal senso, per Don Milani, è la conoscenza della lingua, che permette ai membri delle classi
popolari di inserirsi alla pari nella società. La lingua deve essere il cuore della didattica e va valorizzata in
tutte le sue possibilità espressive. Per quanto riguarda la scrittura, è necessario «scrivere come si parla»,
perché le forme del linguaggio scritto servono molto spesso ad escludere, ai testi, una larga fascia sociale
che, pur essendo alfabetizzata, non è in grado di comprenderli.
ITALIANO, “FIGLIO” DEL LATINO
Comprese le varie prospettive linguistiche, vanno chiariti i concetti fondanti della lingua.
Partiamo col dire che l’italiano deriva, attraverso il fiorentino, dal latino. L’italiano ha caratteristiche
fonomorfologiche, cioè ha suoni e forme, che non troviamo nei dialetti, ma solo nel fiorentino. Una volta
definito questo, si pensi all’insieme lessicale dell’italiano, alcune di queste parole ha le stesse forme del
fiorentino, da ciò quindi possiamo dedurre che l’italiano proviene dal fiorentino. Un esempio che spiega
bene tale condizione, bisogna rifarsi a Dante, che alcune parole che usava, posseggono la forma con il
dittongo che ad oggi ritroviamo anche nella nostra lingua. Un altro esempio in tal senso, è il condizionale.
Esso poteva essere modulato in due forme, ma quella che a noi interessa era quella proposta dai fiorentini
in “ei” che si ritrova tutt’oggi in italiano. Parliamo appunto di una lingua che di base è fiorentina perché: nel
giro di 100 anni Firenze era influenzata dalla letteratura di Dante, Petrarca e Boccaccio. Questo avvenne
non solo per la forza della letteratura fiorentina, spinta dalla presenza delle 3 corone, ma anche per la forza
dei mercanti. Infatti Firenze possedeva una classe mercantile, il cui bisogno principale era quello di ricavare
un profitto dai proprio guadagni, e per farlo necessitava degli strumenti della scrittura. C’è anche da dire
però che tale classe mercantile però non era a conoscenza del latino. Dunque, in quest’ottica, Firenze ha
certamente una classe mercantile che richiedeva una letteratura in volgare e modelli comportamentali;
essendo una nuova classe sociale in ascesa non nobile, si domandava come poteva affermarsi nella società.
Proprio spinti da questa esigenza, volevano leggere di loro stessi, della loro ascesa sociale, ed è proprio per
questo che nell’opera di Boccaccio leggiamo di: truffe, preti che vogliono conquistare fanciulle, anzi
Boccaccio stesso è dissacrante verso il modello di letteratura religiosa (c’è una novella proprio dove una
donna chiede se potesse tradire il marito ad un’anziana signora, ed ella esordendo risponde di sbrigarsi,
prima di invecchiare e sarà pressoché impossibile.
Un altro esempio della parodia della letteratura religiosa, si scorge attraverso la figura di ser Ciappelletto
che muore “santo” pur non essendolo). Ritornando alla nozione di “italiano”, per la maggior parte dei
parlanti, l’italiano è la lingua materna; fanno eccezione coloro che, avendo appreso come prima lingua
materna un dialetto o un’altra lingua, imparano l’italiano in un secondo momento. Essa è adottata nella
quotidianità, spesso in combinazione con i dialetti. La sua storica convivenza con i dialetti è infatti
contrassegnata dalla tolleranza:la lingua che ad oggi viene identificata con il nome unitario di “italiano” è
caratterizzata da una grande oscillazione di usi possibili. Questo fenomeno è chiamato “variazione
linguistica” e contraddistingue le dinamiche di qualsiasi lingua adoperata in una comunità di parlanti. Gli usi
linguistici non sono regolati in modo rigido: attraverso la combinazione di regole e parole, il parlante può
intrattenere le sue interazioni comunicative. Le risorse linguistiche utilizzate, variano quando si parla o si
scrive in base alla situazione comunicativa. In Italia infatti, è ancora recente, l’espansione degli ambiti d’uso
della lingua nazionale. In tal senso, la diffusione dell’italiano come effettiva lingua materna si è compiuta
solo dopo l’Unità (1861). In precedenza, l’italiano era usato come lingua parlata da chi aveva uno stretto
contatto con la lingua letteraria.

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LE LINGUE ROMANZE
Si chiamano romanze tutte le lingue che derivano dal latino. Esse sono situate in uno “spazio linguistici”
denominato Rom(à)nia. In Italia non si parla solo l’italiano, ma anche i dialetti che, come questo, sono dette
lingue italo-romanze. Proprio per questo i dialetti vengono definiti “primari” perché discendono
direttamente dal latino. Se volessimo schematizzarle in un legame di parentela con l’italiano, e collocarle in
quest’ultimo, essi sarebbero i fratelli diretti dell’italiano. L’italiano si impone prima come lingua di cultura
grazie alle 3 corone e come lingue del nuovo stato italiano nel1861.
LE VARIABILI LINGUISTICHE
Come abbiamo già detto in precedenza, nella riflessione sulla lingua, appare centrale la percezione della
variabilità. Perciò in questo caso, è fondamentale descrivere la variazione linguistica nell’italiano e i cinque
parametri extralinguistici in base ai quali si adopera la lingua:
1. il canale (mezzo) usato per la comunicazione (variabile diamesica: dal greco “dia” attraverso,
“mesos” mezzo)
2. lo spazio (variabile diatopica, dal greco “dia” attraverso, “topos” luogo)
3. la situazione comunicativa (variabile diafasica, dal greco “dia” attraverso, “phasìs”voce, “phèmi”
dire)
4. il livello culturale dei parlanti (variabile diastatica, dal greco “dia” attraverso, “stratos” strato)
5. il tempo (variabile diacronica, dal greco “dia” attraverso, “cronos” tempo)
Semplificati gli elementi fondamentali dell’italiano, passiamo all’analisi dettagliata di ogni variazione
linguistica:
1. VARIAZIONE DIAMESICA
L’italiano può essere esposto alle differenze fra varietà parlate e scritte:una chiacchiera al bar, una riunione
di lavoro, sono attività che si compiono modulando, in modo più o meno consapevole, il proprio stile a
obiettivi, situazioni e contesti in situazioni comunicative diverse. Parliamo quindi di variazione “diamesica”,
quando la distinzione fra parlato e scritto è connessa alla capacità della lingua di variare al seconda del
canale (mezzo) mediante il quale sono veicolati i messaggi. La dimensione diamesica è costituita dal canale
che indica la via fisica di trasmissione del testo. Un canale può essere fonico-uditivo (qualcuno ascolta ciò
che qualcun altro dice) o mediante quello grafico-visivo (qualcuno legge ciò che qualcun altro ha scritto).
Questa distinzione fra parlato e scritto è in forte correlazione con il canale che adoperiamo e le strutture
linguistiche che scegliamo (strutture linguistiche che noi parlanti riteniamo più idonee). Dietro le nostre
scelte linguistiche, si cela un certo tipo di concezione, che noi idealizziamo, della lingua e dei suoi usi:
dinamica e processuale per il parlato, statica e fissa quella dello scritto (la metafora utilizzata dal linguista
Halliday:come una scena di un film per la forma parlata, come un quadro per la forma scritta). Ai due poli
dei canali linguistici, troviamo realizzazioni di parlato-parlato e di scritto-scritto, cioè usi linguistici che
valorizzano la specificità di un certo tipo di concezione e organizzazione strutturale e sono la
manifestazione prototipica; invece, tra i due poli individueremo una serie di possibilità intermedie.
Esistono, quindi, testi che esaltano al massimo grado le caratteristiche di uno dei due poli e altri che,
invece, si situano in un punto intermedio del continuum, partecipando delle caratteristiche dell’uno e
dell'altro.
Forma prototipica di parlato è la conversazione spontanea dedicata a temi vari e non fissi fra due
interlocutori che hanno rapporti informali: in un'interazione dialogica di questo tipo, le peculiarità del
parlato sono visibili. Per comprendere al meglio la differenza fra i canali citati in precedenza, il linguista
Gaetano Berruto ha proposto di semplificare la diamesia mediante un grafico:
• il canale è rappresentato dalla linea verticale, che va intesa come opposizione netta tra grafico e fonico;
• la concezione del testo è rappresentata dalla linea obliqua, che va considerata come un continuum che va
dal polo scritto-scritto al polo parlato-parlato;
• l'interattività è rappresentata dalla linea orizzontale, che individua un continuum ai cui due estremi vi
sono una bassa presenza e un'alta presenza d'interattività.
Secondo questo modello, le chat-line (definite “italiano convenzionato”) e le chat si collocano nel
quadrante grafico per questo riguarda il canale, verso il polo parlato per quanto concerne la concezione e,
infine, verso l'estremo dell'alta presenza, per quanto attiene all'interattività.

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Per quanto concerne il dialogo fra interlocutori, va sottolineato
che lo scambio dialogico in presenza, consente al parlante o all’ascoltatore di condividere la medesima
situazione ambientale e il contesto extralinguistico.
La condivisione della situazione comunicativa, si avvale di elementi deittici, cioè a quegli elementi linguistici
la cui interpretazione richiede il riferimento a elementi contestuali, come le coordinate spazio-temporali e il
ruolo dei partecipanti alla situazione discorsiva. A sua volta, il procedere sincronico delle fasi di produzione
e ricezione dei messaggi verbali fa sì che, emittente e ricevente, devono seguire lo scambio comunicativo
man mano che si svolge la sua enunciazione. Questa sincronicità verifica che il proprio interlocutore abbia
effettivamente compreso quanto gli è stato detto.
Una volta individuate queste tre macro-componenti, possiamo descrivere l’organizzazione sintattica del
parlato prototipico. Per cogliere le differenze fra i due tipi di organizzazione, precisiamo che vanno anche
presi in considerazione alcuni parametri situazionali che, nel complesso, determinano condizioni di
maggiore vicinanza o immediatezza comunicativa (nel parlato) o di distanza comunicativa
(nello scritto).
Infatti, richiamando il modello di Koch si può osservare che la forma prototipica di parlato si realizza in una
situazione comunicativa caratterizzata dal convergere di diverse caratteristiche: la dimensione dialogica
«faccia e faccia» la preferenza per temi personali e privati; la prossimità emotiva, oltre che fisica. Il parlato
prototipico è parlato è caratterizzato da libertà tematica, fluida e alternanza dei turni di dialogo. Secondo il
medesimo modello, le caratteristiche prototipiche dello scritto,emergono in situazioni di distanza
comunicativa: cioè, nel caso in cui si debba produrre un testo scritto monologico, destinato a una
comunicazione pubblica. Perciò lo scritto prototipico è contraddistinto da fissità tematica e salda
strutturazione tematica da emozionalità debole, assenza di cooperazione, comunicativa fra mittente e
destinarlo
2. VARIAZIONE DIAFASICA
Dopo aver descritto la variazione tra parlato e scritto bisogna comprendere che la lingua varia a seconda
delle situazioni comunicative: questa variabilità è detta “diafasia”. Per mettere a fuoco la dimensione
diafasica, dobbiamo valutare alcune situazioni e ambiti d’uso della lingua. Redigere una relazione di lavoro
è differente dallo scrivere un’e-mail ad un amico. Sebbene siano realizzate verso la comunicazione parlata,
un colloquio di lavoro, chiacchierare con un amico al bar, sono attività che richiedono una diversa
nobilitazioni delle risorse linguistiche che il parlante ha disposizione. Quando sosteniamo un colloquio di
lavoro, ci poniamo l'obiettivo di convincere il nostro interlocutore del fatto che abbiamo i requisiti richiesti
per un certo profilo professionale; inoltre, siamo consapevoli che lo scambio comunicativo non solo non è
salla pari», ma à anche orientato verso il polo della formalità; infine, ci aspettiamo di dover parlare di uno
specifico settore ciò è collegato a una precisa sfera di contenuti. Ben diversa è la situazione quando
conversiamo con un amico: probabilmente, abbiamo l'obiettivo di narrargli eventi e stati d'animo e di
condividere con lai le nostre esperienze; siamo «rilassati», anche dal punto di vista linguistico, perché la
conversazione si svolge in un clima informale e presuppone una relazione tra pari. Informalità e
Immediatezza comunicativa influiscono sulla scelta degli argomenti che affrontiamo, sul modo in cui li
presentiamo. In situazioni comunicative diverse scegliamo varietà situazionali diverse perché teniamo
conto di specifici fattori:
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• Carattere dell'interazione e il tipo di attività comunicativa: in relazione al tipo di attività,
cambiano le finalità dello scambio linguistico e l'intenzione comunicativa (persuadere, informare, ecc.);
• La relazione sociale e comunicativa di quanti partecipano allo scambio: a seconda dei ruoli e
della funzione lo scambio comunicativo è caratterizzato da va certo grado di formalità /informalità e di
distanza/immediatezza comunicativa;
• L’argomento del discorso: i contenuti intorno a cui ruota la lingua, fluiscono su come
selezioniamo parole e costrutti e li organizziamo in modo rispondente a specifici bisogni comunicativi, in
testi scritti e parlati. Per mostrare la ricchezza della variazione lessicale connessa all'uso di registri diversi,
riprendiamo un noto esempio fatto da Gaetano Berruto, relativo alle parole che designano in italiano
«l'atto di morire».
Lo studioso colloca le diverse espressioni in uno schema nel quale la variazione di registro è articolata lungo
tre assi, corrispondenti a tre possibili movimenti: dal polo volgare a quello solenne; dal polo informale a
quello formale; dal polo distemistico a quello eufemistico (cioè dall'impiego scherzoso di una parola che di
per sé avrebbe una connotazione negativa, all'uso di un'altra troppo cruda e sgradevole). In tal modo, la
variazione di registro è rappresentata come uno spazio pluridimensionale e continuo nel quale, ogni
movimento, sposta il registro più in alto o più in basso. Quindi, secondo Berruto, la variazione di registro è
rappresentabile come un continuum lungo il quale si riconoscono dei punti di riferimento. Questi punti
vengono designati con etichette grosso modo intercambiabili e quasi sinonimiche, per limitarci ai soli due
estremi, da mo lato si parla di registri formali, dall’altro, di registri informali. In forma abbreviata abbiamo:
polo formale e polo informale. Questi tipi di registri consentono di modulare l’italiano in modo efficace
rispetto alle caratteristiche delle situazioni. I registri informali soddisfano il bisogno quotidiano di
comunicare in modo tempestivo, a loro volta, i registri formali forniscono un ampio insieme di costruzioni e
parole attraverso le quali esprimere sfumature e dettagli, necessari nelle situazioni comunicative di
maggiore impegno sociale. Ora bisogna comprendere il ruolo delle varietà di afasiche negli usi linguistici
odierni. Partiamo dall’osservazione relativa al sentimento linguistico dei parlanti. Come abbiamo detto, a
seconda delle diverse situazioni in cui ci troviamo, adoperiamo uno specifico registro linguistico. Chi non
tiene in considerazione il contesto in cui si trova, tende ad assumere atteggiamenti opposti verso i possibili
usi della lingua: da un lato, utilizzano i registri informali, nello scritto e nel parlato, anche in contesti che
invece richiederebbero impieghi più formali; dall'altro, penalizzano i registri meno formali e li consideriamo
come usi poveri. Questo porta a quello che viene definito in linguistica “caos variazionale”: con questa
etichetta si è voluto mettere in evidenza che taluni scriventi meno esperti, tendono a mescolare registri
diversi o ad alternare parole, espressioni e costrutti che sul piano stilistico non sono solidali tra loro (cioè
non si abbinano bene tra di loro). Non per tutti, evidentemente, è possibile padroneggiare in modo
adeguato le varietà diafasiche dell'italiano.
3. VARIAZIONE DIATOPICA
Come in ogni lingua, anche l’italiano si modifica nello spazio geografico: parliamo di diatopia. Per fare un
esempio concreto della variazione diatopica, è facile capire che l’italiano parlato a Napoli è differente da
quello parlato a Torino. Percepiamo che in primo luogo cambiano le intonazioni (accento), la pronuncia dei
suoni, ma cambiano anche la morfologia (per esempio i pronomi, le desinenze dei verbi, ecc..), la sintassi
(cioè il modo di costruire le frasi mettendo in ordine le parole) e il lessico. Queste differenze dipendono dal
fatto che l'italiano parlato in una certa zona subisce molto spesso l'influenza dei dialetti. Nonostante le
differenze di tipo geografico, l’italiano è un a lingua stabile e uniforme nello scritto, ma quando viene
parlata acquista caratteristiche locali, perché in ogni area i parlanti trasferiscono nell’italiano qualcosa del
dialetto locale. L’italiano parlato ‘locale’ è denominato “italiano regionale”. Questo tipo di italiano è la
dimostrazione del fatto che l’italiano e i dialetti sono continuamente in contatto. Nella denominazione
italiano “regionale” si riferisce non alle regioni come entità amministrative, ma alle regioni come territorio
geografico. L'italiano locale o regionale, che contribuisce alla variabilità del quadro linguistico italiano,
racchiude un riferimento sia alla componente unitaria (l'italiano), sia alla molteplicità e alla variazione
geografica. Anche da questo punto di vista l'italiano regionale, in quanto varietà intermedia, non deve
essere confuso con il dialetto, in quanto sono diverse le loro origini: abbiamo visto, infatti, che il dialetto i
deriva dal latino (cioè, per così dire, è «figlio» del latino), mentre l'italiano regionale nasce dal contatto tra
l'italiano e il dialetto. La caratteristica più evidente dell'italiano parlato con caratteri locali è costituta

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dall'intonazione, cioè dal cosiddetto accento, che in genere viene notato dagli ascoltatori, un esempio può
essere il rafforzamento delle consonanti a inizio parola. Tra le componenti dell’italiano regionale vi è anche
l’uso di parole, espressioni o costituzioni originariamente dialettali. Tale concetto si estende anche per il
lessico. Queste parole, che sono capite solo in una certa area geografica, si chiamano regionalismi.
4. VARIAZIONE DIASTRATICA
Possiamo notare che alcuni si servono dell’italiano in forme semplificate e minime, altri utilizzano l’italiano
in modo vario e hanno a disposizione anche costrutti e parole peculiari degli usi scritti e più formali. Questa
differenza è correlata al diverso grado di acculturazione dei parlanti. Quindi si può dedurre che gli usi
linguistici variano anche in base al livello sociale. A questa variazione è denominata “diastratica”. Vi è una
differenzazione tra i parlanti colti, che sanno muoversi tra i diversi piani dell’italiano; al contrario, per
effetto di un’incompiuta competenza dell’italiano, le persone con un basso d’istruzione hanno scarsa
capacità di dominar la variazione interna all’italiano: la loro produzione linguistica è permeata dalle
caratteristiche tipiche del parlato spontaneo, ricco di parale derivanti dal dialetto. Fanno parte di questo
gruppo quelle persone che parlano/scrivono un italiano popolare, detto anche “italiano dei semicolti
Un ruolo non marginale lo svolge il lessico dialettale, che investe i costrutti italiani creando il cosiddetto
code mixing, cioè la commutazione involontaria dell’italiano al dialetto. Sono presenti le forme espressive
gergali, e le costruzioni con il verbo ‘fare’ 8fare una decisione, ‘decidere’). Ciò è indizio di una incompleta
alfabetizzazione. In questo caso va che tra il 1970-72, De Mauro e Cortelazzo, descrivono l’italiano in due
modi:
i due studiosi individuarono un nesso tra il “modo di esprimersi” e il basso livello di scolarizzazione.
a) De Mauro sottolinea che l’italiano popolare è la varietà di chi si muove verso l'italiano, cioè
l’obiettivo di possedere quella base linguistica che lo traghetta oltre il dialetto;
b) Cortelazzo pone in evidenza il legame col dialetto e il carattere imperfetto dell'italiano
diastraticamente basso.
A partire da queste definizioni è possibile soffermarsi su due aspetti che hanno animato il dibattito
sull’italiano popolare e ripercorrere la storia degli usi scritti e parlati dell’italiano. La prima
questione è relativa al rapporto tra l'italiano diastraticamente basso e la componente linguistica
locale (cioè l'elemento dialettale); la seconda riguarda il rapporto fra i modi di costruzione dei testi
scritti dei semicolti e la dimensione parlata. Nel dibattito sui testi prodotti in età postunitaria,
alcune caratteristiche sintattico-testuali della produzione diastraticamente bassa davano
l'impressione di una certa unitarietà e somiglianza degli usi bassi dell'italiano.
Tuttavia, guardando aspetti della fonetica e del lessico, l’italiano popolare sembra, piuttosto,
articolarsi in diversi tipi di italiano, condizionati dal dialetto e dal fondo linguistico locale. È stato
affermato che tanto più nel parlato, una varietà sociale bassa d'italiano si configura come un
italiano regionale basso, cioè come una varietà connotata in senso locale. Abbiamo sottolineano
che, nello scritto, le varietà dell'italiano basse sono caratterizzate da fenomeni legati alla sfera del
parlato e dell'oralità. Non va però dimenticato che l'uso scritto dei semicolti non è soltanto uno
spontaneo trasferimento di caratteristiche dal parlato allo scritto, ma il frutto di complesse
dinamiche attraverso cui scriventi per nulla esperti cercano di maneggiare il codice grafico e di
dominare le regole della scrittura. In un certo senso, possiamo dire che i semicolti attuano continui
e faticosi compromessi fra concezione scritta e orale del testo
5. VARIAZIONE DIACRONICA
Come tutte le lingue, l'italiano è soggetto al cambiamento. Infatti, le lingue sono uno strumento di
comunicazione fondato su una complessa serie di convenzioni. Queste convenzioni sono essenziali per il
buon esito della comunicazione e quindi devono essere stabili: ma non possono essere immobili. Infatti le
regole linguistiche sono sempre negoziabili e, quindi, modificabili o sostituibili in qualsiasi momento. La
comunità dei parlanti, quindi, riconfigura continuamente i suoi usi linguistici, per cause interne al sistema
(per esempio in base a principi di economia linguistica) o per ragioni esterne (come i fenomeni migratori o
una catastrofe naturale).
Il cambiamento linguistico avviene lentamente nel tempo, ma la conseguenze anche dal punto di vista
geografico, perché i suoi effetti provocano spesso disomogeneità linguistiche nello spazio. In alcune aree,
infatti, il cambiamento si diffonde più rapidamente rispetto ad altri luoghi con il passare del tempo le aree

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di conservazione si mescolano con quelle di innovazione e un territorio che in passato era omogeneo può
frammentarsi in modo molto complesso.
Inoltre, il cambiamento linguistico è difficilmente percepibile dai parlanti, che possono rilevare i
mutamenti, solo comparando diversi stadi temporali delle loro esperienze linguistiche. Per esempio, in
assenza di una specifica formazione scientifica un parlante invitato a dire che cosa sono i dialetti d'Italia
potrebbe definirli le lingue usate dalle persone anziane: sarebbe una illustrazione non banale, dal momento
che oggi i dialetti sono usati soprattutto da persone di una certa età; ma sarebbe anche un’affermazione
erronea, perché dovuta a una percezione parziale della situazione linguistica italiana. Il difetto di una
definizione di tal genere, risiede nella difficoltà che le persone hanno di percepire i cambiamenti che il
tempo induce negli usi linguistici di una comunità. Sebbene difficile da percepire, però il mutamento
linguistico è necessario, come diceva già Dante:
“Poiché l’uomo è un animale instabile e variabile, segue che la lingua non può essere durevole e uniforme,
non può non variare per distanze di spazio e di tempo”.

È importante ribadire che i cambiamenti, avvengono mentre la lingua viene «consegnata» alle generazioni
successive e quindi non si manifestano mai in tempi brevi ma sempre molto lentamente.
Anche per questo motivo non è facile accorgersi dei cambiamenti, poiché il cambiamento non avviene
bruscamente. Il passaggio dal latino alle lingue romanze è uno dei casi meglio documentati al mondo di
cambiamento di lingua, perché avvenne in epoca storica in un ambiente che ben conosceva gli usi della
scrittura. I filologi romanzi affermano che non è mai esistita una generazione di parlanti che, dato il
cambiamento linguistico in corso, non comprendeva i propri genitori. Infatti, il mutamento linguistico non
può essere tanto veloce da interrompere la capacità di comunicare tra generazioni vicine. Di norma, infatti,
in una lingua il cambiamento non si manifesta con una rigida successione di regole, ma come una
compresenza di usi in un regime di variazione linguistica, seguita da una successiva semplificazione.
Nella storia dell'italiano ci sono state moltissime innovazioni che si sono affiancate alle regole già esistenti
dopo aver convissuto anche molto a lungo, le nuove regole sono decadute o hanno sostituito le vecchie.
ALLOCUTIVI
Un esempio di cambiamento sono i pronomi allocutivi nell’italiano antico e nell’italiano moderno per
effetto di cambiamenti favoriti anche dalla contemporanea presenza di altre lingue. Per rivolgersi a un
interlocutore si usano i pronomi allocutivi di cortesia (situazioni formali) o altri, chiamati naturali (situazioni
informali). La scelta del pronome avviene non solo in base alla situazione comunicativa ma anche alla
relazione che c’è tra gli interlocutori.
Questi pronomi nel tempo sono cambiati poiché inizialmente vi era una preferenza del voi sul lei e poi nel
corso degli anno si è preferito il contrario.
Questo è avvenuto mediante la diffusione dello spagnolo, si diffuse il lei, che si è affiancato al voi nei
pronomi di cortesia. Il voi, tuttavia, è restato a lungo l’unico possibile pronome di cortesia e l’uso di
entrambi i pronomi (voi/lei) si è rafforzato durante il regime fascista anche se si mirava a cancellare la
forma spagnola (lei) per far diffondere la forma tradizionale.
CLITICI
In italiano quasi tutte le parole nella pronuncia sono dotate di accento tonico, solo alcuni monosillabi sono
privi di accento: perciò si pronunciano in una sola unità tonale insieme con la parola che segue o con quella
che precede, nel primo caso i monosillabi prendono il nome di proclitici, nell'altro caso prendono il nome di
enclitici.
a) Proclitici: un cane, mi pento, a casa;
b) Enclitici: prendilo, digli;
I clitici in italiano possono essere pronomi, preposizioni, congiunzioni e avverbi. I pronomi clitici sono
sempre vicini al verbo, infatti, il verbo può essere la parola ospite del pronome clitico. I clitici possono avere
forme alternative toniche o in alcuni casi possono acquisire l'accento. I clitici possono anche accumularsi
con una preposizione e un articolo determinativo, per esempio:
c) Ho rotto la copertina de il libro > del libro.
d) Ho comprato la custodia de gli occhiali > degli occhiali.
Se si accumulano dei pronomi, si formano delle sequenze di clitici:

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- Cumulo di enclitici: Hai studiato la prima guerra punica?
Parlamene (parla a me di questo).
- Cumulo di proclitici: Potrei fingere di essere ammalato. Ma me ne guardo bene! (tengo me stesso lontano
da ciò).
La posizione dei pronomi clitici rispetto al verbo, la possibilità di accumularsi e l'ordine in cui si presentano
nelle sequenze sono regolate da norme molto rigide: il primo caso vede una regola attiva in italiano antico
e non più vitale in italiano contemporaneo.
Oggi il clitico ne con valore partitivo non può unirsi a un clitico oggetto:
e) Magari lo facesse a me! Lo ripagherei bene di questo.
Invece è impossibile costruire una frase come:
f Magari lo facesse a me! La ne ripagherei bene.
La combinazione di ne con il clitico accusativo la è impossibile, ma non è sempre stato così: per esempio,
nei testi medievali fiorentini non vi era nessuna restrizione di questo tipo.
Un secondo esempio riguarda l'ordine che assumono i clitici nel caso in cui si possano accumulare
regolarmente. In questo caso, delle due possibilità realizzate in italiano antico solo una è sopravvissuta
oggi. Nell'italiano contemporaneo il pronome clitico dativo di I e II persona precede quello accusativo di III:
si dice me lo prendo, mentre è impossibile dire *io mi prendo,
Un'altra regola che è cambiata è quella dei clitici rispetto al verbo nell'italiano contemporaneo:

La legge Tobler-Mussafia è stata attiva per un lungo periodo fino al Quattrocento. In seguito, ha perso
vitalità. L'enclisi non è rimasta legata alla posizione del verbo all'interno della frase ma è stata adottata
secondo il gusto dello scrivente o in base alle tradizioni testuali. Il fenomeno, chiamato enclisi libera, ha
avuto una discreta vitalità in italiano nonostante le eccezioni che confermano che in italiano
contemporaneo con il verbo all'indicativo o al congiuntivo vige solo la regola della proclisi obbligatoria.
I cartelli vendesi e affittasi presentano forme che hanno un ordine cristallizzato dei costituenti. Infatti,
l'enclisi era normale in italiano antico e negli annunci economici poiché il costo è fissato contando le parole,
per cui vendesi villa è meno caro di si vende una villa.
Arriviamo al Novecento ed esaminiamo un uso espressivo del fenomeno. In Cenerentola, il film di Walt
Disney (Cinderella, 1950), il gran duca Monocolao deve comunicare al re che la promettente ragazza con cui
il giovane principe aveva ballato tutta la sera precedente, fino alla mezzanotte, era scomparsa nel nulla. Il
re è euforico perché si aspetta notizie positive per il suo giovane discendente; il granduca, quindi, teme che
dalla delusione per l'inattesa notizia possa scaturire un'irrefrenabile ira regale.
Quando il film Cenerentola fu doppiato in italiano nel 1967, bisognava riprodurre le condizioni dell'equivoca
risposta del duca e quindi si scelse il termine dileguossi, ovvero un arcaismo cioè un passato remoto con
eclissi del sì.
MONOCOLAO [rassegnato]: Sire, dileguossi. [facendo con la mano un gesto eloquente]
RE: Dileguossi? Strano titolo, ma se ci tenete ... capisce, si infuria e urla minaccioso] Cosa? Brutto...
Brutto...Traditore!
Riassumendo, la legge Tobler-Mussafia è una regola che obbliga all'enclisi pronominale in alcuni contesti ad
inizio di frase; la si osserva nei testi in italiano antico fino ai primi del Quattrocento.
Poi la regola viene eliminata; l'enclisi cessa di essere un obbligo nei contesti previsti dalla legge Tobler-
Mussaria e diventa un costrutto possibile in qualsiasi posizione, scelto per imitare la sintassi dei testi antichi
e quindi per dare pregio alla lingua.
Nell'italiano contemporaneo l'enclisi con l'indicativo o con il congiuntivo si usa solo in espressioni formulari,
che si sono cristallizzate nell'uso, o per ottenere particolari effetti negli ascoltatori o nei lettori.

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L'ultimo esempio riguarda un fattore di continuità tra l'italiano antico e l'italiano moderno: oggi, se il verbo
all'indicativo è preceduto da uno ausiliare, da fare o da lasciare, il clitico risale vicino a queste altre forme:
a) Le sigarette che ci hai offerto non le fumo.
b) Le sigarette che ci hai offerto non le ho fumate.
Questa regola vale anche per i verbi detti modali, come potere, dovere, sapere, volere, che però lasciano
intatta la possibilità di conservare il clitico vicino all'infinito del verbo:
e) Le sigarette che ci hai offerto non le voglio fumare.
f) Le sigarette che ci hai offerto non voglio fumarle.
Per questi motivi l'italiano è legato al fiorentino antico di cui abbiamo una continuità storica di alcune
caratteristiche tra fiorentino antico e italiano moderno.
CONCETTI CHIAVE
Una volta comprese le variabili linguistiche, è fondamentale chiarire alcuni concetti chiave:
 GRAMMATICALITÀ: la buona formazione dei costrutti linguistici. In italiano è grammaticale ciò che
risponde alle regole fonologiche, morfologiche e sintattiche, condivise e accettate dai parlanti. Se
consideriamo le regole della lingua osserviamo che alcune di queste sono utilizzate da tutti i
parlanti senza incertezza, come alternative solo potenziali e mai concretamente realizzate: si tratta,
quindi, di procedure regolate in modo non flessibile. Queste caratteristiche linguistiche sono gli
elementi invarianti dell’italiano. Queste caratteristiche linguistiche ci aiutano a descrivere quella
parte della grammatica che è priva di alternative, cioè quelle regole che non conoscono flessibilità,
e cooperano a definire ciò che si può considerare «non grammaticale» o «agrammaticale» in
italiano.
Per esempio, nella struttura sillabica di una parola si osserva un'alternanza di suoni aperti e chiusi, detta
scala di apertura, all'interno di una sillaba, il grado massimo di apertura si chiama nucleo.
In italiano il nucleo di una sillaba è sempre vocalico: esistono, quindi, sillabe formate solo da una vocale.
Poiché il nucleo sillabico in italiano non può essere consonantico, non sono realizzabili sillabe composte
solo da una consonante.
 CONCETTO D’ERRORE: Errore non sempre è un orrore, l’errore a volte può essere anche
innovazione se viene considerato una proposta, una scelta, fatta da un parlante e che se viene
ritenuta utile e quindi accettata dai parlanti diventa innovazione mentre se è solo lui a usarla e gli
altri non la utilizzano è errore.
 AGRAMMATICALITÀ: violazione delle regole di struttura dell’italiano: Questo porta a quello che il
linguista Francesco Sabatini denota come “depotenziamento della lingua”, poiché è l’uso corretto
che definisce una lingua viva e in movimento
 INDIVISIBILITÀ COSTIUTUENTE: indica quei blocchi grammaticali sintattici che non possono essere
spezzati
 SINCRONIA: studio e valutazione dei fatti linguistici considerati in un dato momento, analizzando i
suoi molteplici aspetti (a differenza della diacronia, che come abbiamo detto, studia l’evoluzione
della lingua, ossia il suo divenire nel corso del tempo)
 ACCETTABILITÀ LINGUISTICA:sono quei costrutti che i parlanti, pure se possono apparire
“grammaticalmente scorretti”, decidono di accettare: Questo meccanismo avviene perché noi
parlanti (nativi), potremmo provare una sorta di sensibilità sociale. Quando scegliamo di dire una
cosa, piuttosto che un’altra, in un determinato ambito, con una formulazione differente a quella
che sceglieremmo solitamente, marchiamo il contesto sociale. Tale concetto è noto come
“MARCA VARIAZIONALE”
Ad esempio “a me mi piace “è scorretto grammaticalmente ma è accettabile in determinati contesti, ad
esempio in un saggio la si potrebbe usare in modo ironico, in letteratura se parla un bambino la si può
usare. Come, ad esempio, fa Calvino, nel “Sentiero dei nidi di ragno”, quando scrive che a Pin quella cosa
“gli piace”, tuttavia Pin è un bambino.
LA NORMA
Bisogna saper distinguere tra gli usi italiani nei quali si manifesta la variazione linguistica e la norma, riduce
al minimo le oscillazioni tollerabili. Al suo interno è opportuno fare una distinzione tra la norma scolastica e
norma sociale dell’italiano.
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LA NORMA SCOLASTICA
È l’insegnamento della lingua impartito dalla scuola con l’obiettivo di alfabetizzare obbligatoriamente
tutti gli italiani. Attraverso la norma si offre un modello linguistico rigido e stabile, che viene proposto
come oggetto di imitazione e, come obiettivo del pieno apprendimento dell’italiano. Da qualche
decennio la norma scolastica è sottoposta all’azione e alla spinta innovatrice di forse diverse. Da un
lato, subisce l’influenza della gran varietà della gran varietà di usi concreti fatti dai parlanti. D’altro lato,
la norma è caratterizzata da una forte spinta che induce che tende a conservare regole appartenenti
alla tradizione letteraria e scritta, ma che sono percepite come marginali. L’insieme di queste forze
mette in crisi la norma scolastica e ne depotenzia il prestigio: per questo tutt’ora si parla di crisi della
norma.
LA NORMA SOCIALE
La norma sociale è fondata sugli usi dei parlanti: essa costituisce le scelte della maggioranza fatte dai
parlanti, in merito alle possibilità offerte dal sistema. Rispetto all’insieme delle regole possibili, questa
norma può cambiare nel tempo, nello spazio e in rapporto all’uso prevalente.
INTERAZIONE TRA LE DUE NORME
Norma scolastica e norma sociale non si identificano, ma si influenzano a vicenda. Per osservare gli
effetti di questa interazione, consideriamo il costrutto ipotetico dell'irrealtà. Secondo le grammatiche
scola-stiche, esso si forma unendo due frasi, l'una al congiuntivo piuccheperfetto (la subordinata, detta
protasi) e l'altra al condizionale passato (la principale, detta apodosi):
 Se tu avessi vinto la gara, ti avrebbero dato un premio.
In italiano è utilizzabile una forma alternativa a questa, costituita da due frasi all'imperfetto indicativo:
 Se vincevi la gara, ti davano un premio.
Tuttavia, il secondo costrutto è restato per lungo tempo fuori dalle prescrizioni della norma scolastica,
Solo di recente nelle grammatiche si legge che il costrutto ipotetico dell'irrealtà si può realizzare in tutti
e due i modi. Oggi, quindi, la norma scolastica si sta adeguando a quella sociale. Insomma, la scelta tra i
due costrutti per il periodo ipotetico dell'irrealtà, può essere dovuta a molti fattori: si conosce solo una
delle due regole; si vuole essere più o meno ambigui; si vuole essere più o meno formali.
Dall’interazione tra norma scolastica e sociale è possibile anche chiarire la nozione di errore. In italiano,
il parlante commette un errore linguistico quando, realizza una regola considerata inaccettabile dalla
maggior parte dei parlanti: per esempio, quando si adotta una pronuncia o giudicata scorretta, poiché
non sempre l'accettabilità della regola è condivisa senza discussioni.
Un altro giudizio va formulato, sul parlante che, tra le regole che conosce, sceglie quella che viene
giudicata inadeguata alla situazione comunicativa. In questo caso una valutazione sulla formula
corretto/scorretto appare eccessiva. Può capitare, che un comportamento linguisticamente Inadeguato
al contesto sia tenuto da un parlante che ha una conoscenza solo parziale delle regole disponibili nel
sistema; altre volte viene operata una scelta tra diverse opzioni, ma essa si rivela inadeguata per
incompetenza comunicativa del parlante. In tali casi parlare di scorrettezza può essere sproporzionato:
si tratta di comportamenti che possono essere corretti migliorando la conoscenza delle risorse messe a
disposizione dalla grammatica della lingua o rafforzando le competenze comunicative del parlante.
Quindi, è preferibile parlare di errore solo se si sta facendo riferimento alla norma scolastica. Un
atteggiamento eccessivamente censorio è stato notato più volte dagli studiosi di lingua. Nel
commentare il modo in cui alcuni insegnanti correggono i temi in classe. Luca Serianni ha osservato
anche una serie di interventi inopportuni, perché tesi a censurare costrutti del tutto accettabili, anche
se non i più adeguati a quei tipi di testi. Se si giudicano gli usi sempre secondo parametri polari, ha
come effetto la loro reductio ad unum: si finisce, cioè, con il censurare, anche forme e costrutti del
tutto accettabili nella maggior parte delle circostanze. La scelta deve essere guidata dalle convenzioni
sociali dall’esigenza di essere compresi dal proprio interlocutore.
Da quando l'Accademia della Crusca ha iniziato a pubblicare un periodico intitolato “La Crusca per voi”
e ha aperto uno spazio di Consulenza linguistica, sono state inviate migliaia di domande, in massima
parte impostate sulla questione: si può dire? si può scrivere?. Un esempio di domanda inviata è:

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“qual è il genere della parola «soprano», 'voce femminile dal registro più acuto?” Secondo la tradizione
il nome è maschile e gli aggettivi vanno accordati con la relativa marca di genere (questo uso della
lingua viene dalle classi di nomi in latino: o per i sostantivi/aggettivi maschili, a per quelli femminili).
La stranezza è che in questo modo si designa con un nome maschile una professione che viene svolta
solo da donne e gli italiani, hanno mostrato di non accettare tale consuetudine. Così vi è l'uso di non
dire solo il soprano, i soprani, ma anche la soprano, le soprano: anche perché, sono diventati numerosi
anche i nomi femminili invariabili in -o del tipo la/le radio, la/le moto, ecc.
Grazie alla moderna propensione a un uso consapevole della lingua e alla ristrutturazione del sistema
delle classi nominali, si è avuta, una mozione, cioè un cambio di genere, con la formazione di on
sostantivo femminile che non ha sostituito, ma si è affiancato a quello maschile. Molto spesso, quindi, i
parlanti restituiscono un'immagine della lingua che corrisponde alla tolleranza con cui li percepiscono.
L'uso di alcune regole periferiche di solito considerate inaccettabili dalla norma sociale, e giudicate
scorrette rispetto alla norma scolastica, può essere accettato e gradito grazie all'effetto espressivo che
esse possono trasmettere. Molti artisti adoperano queste risorse per ottenere effetti comici perfino
alcuni enunciati di persone poco colte possono essere involontariamente gradevoli e sono apprezzati
dal pubblico.
CASI PRESENTI NELLA NORMA, ELEMENTI VARIANTI E NON VARIANTI
ELEMENTI NON VARIANTI ad esempio articolo prima del nome, in altre lingue si può ma in italiano no,
regole diverse da questa sono ritenute errore o sgrammaticali.
ELEMENTI VARIABILI possono essere ad esempio la preposizione che cambia perché hanno lo stesso
significato ad esempio tra e fra.
VARIANTI SOCIO LINGUISTICAMENTE EQUIVALENTI come nel caso del tra e fra ma non ad esempio nel
caso del verbo che ha lo stesso significato ma viene usato in modalità diversa come chiamare e
telefonare, uno è transitivo l’altro intransitivo quindi hanno funzioni diverse.
CAPITOLO 2: BILINGUISMO,DIAGLOSSIA, DILALIA E ALTERNANZA DI CODICI
i parlanti possiedono un insieme di risorse linguistiche disponibili nella comunicazione parlata e in
quella scritta: a questo insieme si dà il nome di repertorio individuale. Oltre al repertorio individuale,
esiste Il repertorio comunitario, ossia l'insieme delle risorse linguistiche collettive proprio di uno
specifico momento storico. In riferimento alla comunità linguistica italiana, osserviamo che in Italia si
adoperano più lingue, accanto all'Italiano, sono usati anche i dialetti, le lingue delle cosiddette
comunità alloglotte, le lingue dei nomadi e quelle dei migranti. La presenza di lingue diverse all'interno
di una comunità, determina fenomeni di variazione interlinguistica e produce diverse manifestazioni di
bilinguismo. Nel caso in cui l'uso di due lingue sia diffuso all'interno di una medesima comunità si parla
di bilinguismo monocomunitario; si parla, invece, di bilinguismo bicomunitario quando, all'interno di
una comunità, si riconoscono due differenti sottogruppi che conoscono e usano una sola delle due
lingue.
In linea generale, osserviamo che in relazione al bilinguismo si distingue fra quello del singolo parente
(bilinguismo individuale) e quel lo di un'intera comunità linguistica (bilinguismo sociale). Con la nozione
di bilinguismo ci si riferisce ai casi in cui il parlante conosce e sa usate lingue diverse. A seconda della
situazione o dell'ambito comunicativo si può scegliere di usare l'una o l'altra delle lingue che conosce: a
questo fenomeno si da il nome di alternanza di codice. Questa alternanza di codici designa il passaggio
da una lingua a un'altra all'interno del discorso di uno stesso parlante. L’italiano può, dunque, essere
«commutato» con il dialetto all'interno delle singole produzioni linguistiche di un parlante. La
commutazione di codice può essere realizzata dal parlante con consapevolezza, o meno: ne primo caso
si parla di code-switching, nel secondo di code-mixing.
Il code-switching è usato da parlanti che consapevolmente sfruttano le risorse di un repertorio
plurilingue e usano la commutazione di codice per diverse finalità comunicative. Ad esempio, vi è la
possibilità di ridurre o aumentare la distanza comunicativa con il proprio interlocutore. Ad esempio, un
parlante che passi al dialetto, durante uno scambio dialogico con qualcuno che lo stia già usando,
realizza una mossa comunicativa che punta ad accorciare la distanza fra di loro. Mentre il code-mixing
ricorre, nella produzione verbale di quanti hanno un'imperfetta padronanza dell'italiano e, in un certo
senso, «sono a disagio» quando lo usano: questo accade, nel parlato o nello scritto, alle persone

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dialettofone con basso livello d'istruzione, o chi avendo una lingua materna diversa dall'italiano, non ne
ha ancora una solida e completa conoscenza.
Ritornando al concetto di “bilinguismo”, a livello di no'intera comunica, il bilinguismo implica la
disponibilità di due lingue che hanno tendenzialmente lo stesso prestigio e non sono differenziate
funzionalmente: cioè, che hanno le stesse possibilità o gli stessi domini d'uso. Nei casi di bilinguismo
entrambe le lingue sono “standardizzate ed elaborato”. Per dare conto del fatto che, all'interno di
situazioni di plurilinguismo, le lingue a disposizione dei parlarti possono non avere tutte le stesse
funzioni e gli stessi ambiti d'uso, dobbiamo porre una distinzione fra bilinguismo e diglossia (dal greco:
«due lingue»). Si definisce, diglossia la compresenza in una comunità linguistica di due (o più) lingue fra
cui esiste un rapporto gerarchico. Una è la lingua degli usi scritti e formali, appresa a scuola e oggetto di
insegnamento; l’altra la lingua degli usi parlati o informali, acquisita spontaneamente, come lingua
materna. Va sottolineato che la diglossia si caratterizza per la rigidità della specializzazione funzionale:
la varietà alta non viene impiegata negli scambi comunicativi informali e, a sua volta, la varietà bassa
non è usata negli scambi comunicativi formali. La situazione linguistica odierna, fra l'italiano e i dialetti
non vi è una situazione di diglossia: l’Italiano è a tutti gli effetti anche lingua della comunicazione
informale e spontanea e non è ristretto ai soli usi formali e scritti.
Semmai, con un termine coniato da Gaetano Berruto, si può dire che oggi fra italiano e dialetti esiste un
rapporto di dilalia. Con questa etichetta ci si riferisce al fatto che la varietà dell'uso formale, scritto
viene anche acquisita come lingua materna e impiegata nelle situazioni informali e nella conversazione
ordinaria. Potremmo dire, quindi, che l'italiano si è arricchito di varietà e usi quotidiani e informali che
in passato erano affidati prevalentemente ai dialetti.
LE LINGUE ALLOGLOTTE
In Italia, accanto alle varietà dell’italiano e ai dialetti, si parlano e si scrivono “altre lingue”, romanze e non
romanze: a questa situazione si fa riferimento utilizzando anche la nozione “alloglossia” o eteroglossia (dal
greco “allos” diversi, “heteros “ altro, ”glotta” lingua). Per cominciare a studiare il rapporto fra le lingue e
varietà nel repertorio, dobbiamo chiarire cosa si intende, in Italia, per “altre lingue” e per comunità di
parlanti “alloglotti”. In Valle D’Aosta i patois locali, le cosiddette varietà francoprovenzali, sono lingua
materna del 16% circa della popolazione, infatti, è più vicino al provenzale che all’italiano stesso. Mentre il
francese, insieme all’italiano, è lingua ufficiale degli usi pubblici istituzionali. Ci sono anche comunità
alloglotte che parlano in un’altra lingua rispetto a quella diffusa nei territori in cui si trovano a vivere. In una
specifica zona della Sardegna, ad esempio, si parla una varietà del catalano, in una zona specifica della
Campania si parla in albanese. L’Italia nello specifico è caratterizzata da molteplici casi di alloglossia.
IL MODELLO DI BERRUTO
Si definisce varietà linguistica “un insieme coerente di elementi (forme, strutture, tratti ecc..) che tendono a
presentarsi in concomitanza con determinati caratteri extralinguistici”. In parole povere, l’individuazione
delle varietà di una lingua si fonda sulla possibilità di associare tratti linguistici e tratti non linguistici. In
questa prospettiva, la lingua italiana può essere descritta come un fascio di varietà diverse. Se la lingua
italiana può essere vista come un fascio di varietà, è possibile rappresentare l’architettura variazionale
dell'italiano. Uno del primi e più noti di questi modelli, risale al 1987 e si deve a Gaetano Berruto. Nel
modello di Berruto sono presenti tre assi di variazione: dall'alto in basso è raffigurato l'asse della variazione
diastratica (in alto la varietà auliche e letterarie, in basso l’italiano popolare): da sinistra a destra è
raffigurato l'asse della variazione diamesica (a sinistra le varietà scritte, a destra le varietà parlate); infine,
con un asse obliquo che va dal quadrante in alto a sinistra, a quello posto in basso a destra è raffigurata la
variazione diafásica (in alto a sinistra sono rappresentati gli usi formali dell'italiano e in basso a destra quelli
informali). Resta, esclusa la dimensione della variazione diatopica: Berruto la considera, infatti, come una
dimensione sempre presente, e la pone sullo sfondo del suo modello.
Innanzitutto, notiamo che il quadrante in alto a sinistra ospita le varietà formali: l’italiano letterario, ma
anche l'italiano tecnico-scientifico e quello burocratico. Nel quadrante in basso a destra, sono riunite le
varietà sempre più connotate in senso informale e parlato, o quelle usate da persone con un basso livello
d'istruzione. Berruto pone nella zona contrale del suo modello due tipi varietà dell’italiano (quell'area che,
nella figura, è isolata mediante una forma ellittica). L'italiano standard (letterario) e l’italiano neostandard.

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LA VARIAZIONE INTER-INTRALINGUISTICA
Per variazione linguistica si intende l’importante carattere delle lingue di essere mutevoli e presentarsi
sotto forme diverse nei comportamenti dei parlanti. Le lingue e varietà di lingua presenti nel repertorio
di una comunità, non sono ugualmente a disposizione, né possedute nella stessa misura da tutti i
membri della comunità. La variazione si manifesta dunque nei comportamenti linguistici, non solo
nell’uso di forme diverse della lingua, ma anche attraverso l’accesso diversificato alle varietà di lingua e
la scelta della varietà da utilizzare in una certa interazione verbale (bilinguismo e diglossia;
commutazione di codice), che sono potentemente condizionate dalla fascia sociale di appartenenza del
parlante, dal suo grado di istruzione, dalle caratteristiche della comunità di cui esso è membro
(sociolinguistica). Si tratta di tre grandi aree – la variazione interlinguistica (differenza tra le lingue), la
variazione intralinguistica (differenziazione interna a una lingua), e la variazione nel repertorio – che
pongono questioni diverse e sono studiate secondo approcci diversi. Quando il termine variazione è
usato senza specificazioni, si intende per lo più la variazione intralinguistica. Poiché questa si coglie
appieno quando si guardi alla lingua calata negli usi sociali, essa è oggetto specifico di studio della
sociolinguistica; la stessa sociolinguistica è anche il terreno proprio di ricerca sulla variazione nel
repertorio. Riconosciuta da sempre, in particolare sotto l’aspetto della variazione dialettale, come una
delle caratteristiche empiriche evidenti della lingua e dei comportamenti linguistici, la variazione è stata
a lungo trascurata dalle correnti teoriche, di impostazione prima strutturalista e poi formalista,
dominanti nella linguistica, che la considerano per lo più non rilevante per la comprensione della
struttura e del funzionamento delle lingue, ed è diventata oggetto di studio significativo, anche dal
punto di vista teorico, solo negli ultimi decenni. Da un lato, è cresciuta l’attenzione per la variazione
interlinguistica, per effetto degli interessi convergenti sia della linguistica generativa sia della linguistica
funzionale e della tipologia linguistica a studiare ciò che vi è di uguale e ciò che vi è di diverso nelle
lingue, e quali sono i principi che regolano unitarietà e differenze e stabiliscono i confini entro cui i
sistemi linguistici possono configurarsi. La variazione interna è invece venuta in primo piano grazie alle
ricerche sociolinguistiche (sociolinguistica), in ragione del fatto che la gran parte dei fenomeni di
variazione che si constatano in una lingua è dotata di significato sociale, cioè correlata in maniera non
casuale con fatti più o meno sociali. Questo vale sia per la variazione a livelli alti, la macrovariazione,
come l’articolazione di una lingua invariata, o, a livelli più alti ancora, la variazione nel repertorio, sia
per la microvariazione, vale a dire la presenza di piccole di variazioni (in particolare, varianti di
pronunce) in una varietà di lingua. La variazione non va confusa col mutamento diacronico: i due
termini non sono sinonimi, in quanto il cambiamento implica il riferimento al trascorrere del tempo,
una modificazione lungo l’asse temporale, mentre variazione si riferisce generalmente alla sincronia.
Tra variazione e mutamento intercorrono peraltro rapporti molto stretti, in quanto i fenomeni di
mutamento linguistico sono spesso alimentati da fatti di variazione linguistica e il mutamento consiste
nella sostituzione durante un certo lasso di tempo di una variante con un’altra variante, attraverso una
fase in cui le diverse varianti coesistono e si distribuiscono secondo tendenze determinate da fattori
sociali (età, ceto dei parlanti, valore di prestigio o meno delle varianti, ecc.).
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ARCHITETTURA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO
Abbiamo l’italiano neo-standard ovvero l’italiano regionale colto-medio che subisce l’influenza della
norma sociale mentre l’italiano standard è influenzato dalla norma scolastica.
Più scendiamo più ci spostiamo verso le varietà periferiche appartenenti a coloro non mediamente colti
e individuiamo gli italiani gergale, regionali, trascurato ecc…
Berruto ha posto al centro l’italiano standard e neo-standard perché tutti abbiamo la possibilità di
parlare l’italiano standard mentre è più raro vedere varietà italiani tecnico scientifico, burocratico che
sono realtà periferiche e cioè di pochi.
Non ha usato italiano diatopico e diacronico perché l’italiano utilizzato nelle varie aree geografiche
viene considerato italiano regionale, popolare mentre la diacronica perché si considera l’italiano
contemporaneo.
Adesso stiamo vivendo un fenomeno di neo-standardizzazione cioè che l’italiano standard sta subendo
l’influenza dalla norma sociale e quindi dal neo-standard.
LA VARIETÀ DELL’ITALIANO: ITALIANO STANDARD
Con italiano standard (dal francese stendardo) si designa la varietà dell'italiano, dotata di maggiore
prestigio presso la comunità linguistica: essa è assunta come modello di riferimento che, per la sua
correttezza viene codificata e descritta dai manuali di grammatica. È fatta oggetto d'insegnamento in
ambito scolastico. L'italiano standard è il risultato di un lungo e complesso processo storico che la preso
l'avvio mediante il fiorentino letterario trecentesco (in particolar modo, quello delle tre Corone, ossia di
Dante, Boccaccio e Petrarca). Al termine di questo percorso, l’italiano standard di presenta come
fiorentino emendato, cioè un fiorentino privo di alcuni tratti, soprattutto relativi alla pronuncia e al
lessico, considerati come troppo tipici dell'uso fiorentino: è il caso della cosiddetta «gorgia toscana»,
cioè della spirantizzazione delle occlusive sorde. C’è da dire quindi che è facile usufruire dell’italiano
standard, per quanto riguarda lo scritto. Per quanto riguarda il parlato, non si riuscirà mai a parlare quel
tipo di italiano, poiché ciò che producono i parlanti è caratterizzato dal cosiddetto ‘accento’,
proveniente dal proprio dialetto d’origine.
A questo proposito, interessante è l’osservazione fatta dallo studioso Massimo Palermo, il quale
esordisce spiegando che lo standard è una realtà a cui, noi parlanti, auspichiamo, ma che in realtà non
è un qualcosa che nasce in maniera spontanea, anche perché l’italiano ha un sistema vocalico
composto da 7 foni. Questo quindi ne deduce che, per parlare un italiano corretto privo di accento,
dovremmo differenziare le varie vocali aperte da quelle chiuse . Infine possiamo quindi dire che: la
varietà riconosciuta dalla comunità linguistica perché ritenuta di maggiore prestigio è la varietà
standard dell'italiano che si usa ogni volta in cui la situazione comunicativa è formale (diafasia)
ITALIANO NEOSTANDARD
L'italiano neostandard, è l'italiano parlato realmente in tutta Italia nei punti in cui si discosta dalla
lingua delle grammatiche. Per esempio, nel parlato moderno il neostandard prevede la sostituzione dei
pronomi personali tonici soggetto tu, egli ed ella con, rispettivamente, te, lui e lei.
I DIALETTI E LE AREE DIALETTALI
Sia l’italiano, sia i dialetti parlati in Italia derivano dal latino e quindi si definiscono lingue o romanze o
neo latine. Il passaggio dal latino alle lingue romanze avviene verso il VI-VII secolo d. C ed è stato un
processo avvenuto troppo lentamente perché i parlanti lo percepissero, ma anche molto velocemente
rispetto al normale evolversi delle lingue. I dialetti parlati in Italia derivano dal latino, anche grazie alla
contiguità demografica nell'area romanza, le cui prove sono state raccolte e descritte dagli storici La
vita dei popoli europei ha conosciuto in quasi due millenni molte crisi e cambiamenti significativi ma
senza disconti-nuità, poiché le generazioni si sono succedute in modo ininterrotto. Naturalmente i
grandi spostamenti di popoli, le catastrofi ambientali e le guerre, le tradizioni religiose sono tutti fattori
che hanno inciso sulle lingue, i loro usi e le loro strutture. Ma solo in zone molto marginali dell'area
romanza si sono verificati fenomeni di morte di lingue, come, per esempio, nell’isola di Krk, sulla costa
dalmata, dove una volta si usava il veglioto, il cui ultimo parlante morì all'inizio del XX secolo.
Anche la linguistica storica ha saputo provare la relazione genetica che esiste tra il latino e quelle lingue
romanze Lo ha fatto utilizzando il metodo comparativo: le molte somiglianze che esistono tra le lingue
romanze si spiegano con un'origine comune. I mutamenti, soprattutto quelli relativi ai suoni, sono

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regolari, o ciò consente di ricostruire, la trafila del cambiamento anche avendo a disposizione una
documentazione parziale. La regolarità dei mutamenti si osserva nelle parole appartenenti ad ambiti
relativi alla vita quotidiana adoperate dai parlanti. Questo lessico si chiama di tradizione popolare ed è
il più adatto all'osservazione dei mutamenti linguistici nei dialetti; lo si distingue da quel lessico che
invece è usato dai parlanti ma è giunto nelle loro lingue in un secondo momento, o per tradizione dotta
(per esempio attraverso formule ricorrenti nella liturgia) o per prestito da altra lingua. Alcune regole di
cambiamento hanno interessato tutte le lingue romanze moderne, anche se in tempi differenti. Altre
regole si sono manifestate solo in alcune lingue e non in altre: per esempio in Italia meridionale tutti i
dialetti conservano la -a della desinenza della I persona dell'imperfetto indicativo latino, mentre i
dialetti della Toscana, e quindi anche l'italiano contemporaneo, l’hanno sostituita con -o, per analogia
con la I persona del presente indicativo.
STRUTTURA DEI DIALETTI
Quindi, dal punto di vista storico la situazione è abbastanza facilmente riassumibile: La loro storia
comincia con il crollo del prestigio del latino e il disfacimento delle sue strutture grammaticali, all'inizio
del V secolo, e dura ancora oggi. Dal punto di vista strutturale, i dialetti sono lingue come tutte le altre:
di essi, si può descrivere il repertorio dei fonemi, analizzare i foni, studiare la coniugazione verbale, il
sistema dei generi, proprio come si fa in qualsiasi altra lingua. Ed è possibile anche compilare vocabolari
che riportino il lessico di un dialetto, la fraseologia, i motti più diffusi. Per compilare la grammatica o il
vocabolario di un dialetto è necessario metterlo per iscritto. Questa circostanza costituisce una
difficoltà molto grande, perché, tradizionalmente, i dialetti vengono parlati e non scritti e quindi non
hanno una tradizione ortografica. I parlanti talvolta cercano di scrivere anche in dialetto, utilizzando
l'alfabeto che hanno imparato per scrivere in italiano, con risultati molto oscillanti e non sempre
soddisfacenti. Per superare queste difficoltà i linguisti usano:alfabeti chiamati alfabeti fonetici, nei quali
ad ogni segno: corrisponde un solo suono e ogni suono può essere rappresentato da un singolo segno:
in tal modo essi hanno la possibilità di dare una rappresentazione dei suoni dialettali. Di solito però i
dialetti vengono usati oralmente per scopi comunicativi e per trasmettere conoscenze legate alla
cultura popolare. Esempi di nozioni tradizionalmente espresse in dialetto e trasmesse alle successive
generazioni sono i proverbi, gli scongiuri, le formule di saluto.
Strutturalmente dotati di grammatica e lessico come una qualsiasi lingua, i dialetti possono essere usati
per dire qualsiasi cosa, per indicare ambiti d'uso, le circostanze della vita quotidiana, per esprimere
idee ed emozioni o anche per trasmettere conoscenze.
CLASSIFICAZIONE DEI DIALETTI
Tutti questi concetti, insieme con le regole della grammatica e il lessico, sono stati oggetto di studio
della dialettologia scientifica. I dialettologi si sono sforzati innanzitutto di classificare i dialetti, cioè di
ordinarli in base a dei parametri linguistici o extralinguistici. I metodi utilizzati e i risultati sono molto
differenziati. Si precisa che le descrizioni dei fenomeni che accomunano o distinguono i dialetti seguono
in genere l'ordine scelto de Graziadio Isaia Ascoli fondatore della dialettologia moderna. Le
classificazioni possono essere tra loro molto diverse nei risultati perché diversi sono i criteri adottati e
le caratteristiche linguistiche considerate. Per esempio, in passato ci si basava molto sulla selezione di
caratteristiche extralinguistiche, come le etnie, le storie nazionali, limiti tra Stati, i confini geografici,
oggi invece i dialettologi selezionano soprattutto tratti linguistici, diacronici o sincronici. La
classificazioni possono essere genetiche o tipologiche. Nel caso di classificazioni genetiche gli studiosi si
sforzano di osservare le somiglianze tra le lingue dovute a relazioni di parentela e cercano di ricostruire
i rapporti di filiazione nel tempo. Le classificazioni linguistiche basate su criteri genetici devono sempre
essere in grado di distinguere tra ciò che è affine per motivi di continuità linguistica e ciò che lo è,
invece, per motivi culturali.
D'altra parte, le classificazioni tipologiche, che si basano sulle differenze e le somiglianze tra i dialetti,
indipendentemente dai loro rapporti genealogici. Inoltre, sono utili anche a fare partizioni interne
all'area italiana. Tuttavia, dalle classificazioni tipologiche possono restare esclusi alcuni dialetti:
-i dialetti friulani,che hanno innovazioni estranee ai dialetti delle altre arre;
-i dialetti della Sardegna,con caratteristiche di mutamento specifiche;
-tutti i dialetti parlati in diverse località del Paese che non hanno origine romanza.

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ANALISI E STUDI CONDOTTI SUI DIALETTI
Per quanto riguarda lo studio di questi, essi vengono studiati nella prospettiva sincronica (studio
contemporaneo, cioè che tende a prendere in analisi gli aspetti contemporanei).
La dialettologia viene studiata mediante la sincronia, perché i linguisti, in tal senso, interpellano
direttamente le persone: viene fatta quindi, un’indagine sui parlanti basata sulla variazione diatopica.
Per studiare i dialetti bisogna capire le variabile, presenti in un medesimo territorio.
I dialetti cambiano e li studiamo nella dimensione geografica. In Italia, ad esempio, vi sono grandi aree,
in cui la situazione si presenta un’omogeneità. Queste aree, che sembrano apparentemente compatte,
in realtà sono articolate al proprio interno. Per comprendere la varietà dei dialetti, bisogna interpellare
la carta dei dialetti italiani, inventata nel 1977 dal linguista Gian Battista Pellegrini. È una carta
descrittiva, che ci aiuta a comprendere, a colpo d’occhio, le differenze presenti nelle varie regioni.
Distingue 5 aree dialettali , e poi suddivide ogni area in sub aree.
- I dialetti settentrionali, in giallo
- i dialetti friulani ,in ocra
- i dialetti toscani virgola in verde
- i dialetti centro meridionali, distinti in area mediana, meridionale intermedia e meridionale esterna,
rispettivamente in rosa, lilla e viola
- i dialetti sardi , in due tonalità di marrone.
Alle varietà di confine Sono attribuiti altri colori.
Queste aree dialettali si distinguono soprattutto per determinati fenomeni legali al modo di parlare:
dialetti settentrionali
-sonorozzazione delle occlusive sorde, quindi invece di dire “ortica”, dicono “ortiga”, alle volte vi è
direttamente la caduta di quest’ultima “ortìa” (ortica)
-apocope: ossia la caduta delle vocali non accentate diversamente da “a”, ad esempio “cane” diventa
“can”
DIALETTI TOSCANI
-gorgia fiorentina: spirantizzazione dell’occlusive sorde, “amico” diventa “amiho”
-dittongamento spontaneo o toscano: ossia il dittongamento della “e” e della “o” toniche in sillaba
aperta, trasformando ad esempio parole come “piede e buono” in “pede e bono”
-anafonesi: il passaggio della “e” in “i” e della “o” in “u”, trasformando parole come “fongo=fungo”,
“fameglia=famiglia”
DIALETTI MERIDIONALI
-betacismo: raddoppiamento dell’occlusiva bilabiale sonora, ad esempio davanti alla preoposizione
semplice “a”, ad esempio come accade nel graffito di comodilla “a bboce”
che in posizione debole o intervocalica, cioè in mezzo a due vocali, non viene articolata come occlusiva
bilabiale, bensì come fricativa, consentendo il passaggio dell’aria
-metafonesi: si trova molto nel dialetto napoletano, dove la O diventa U, rossum-russ
Mentre la E diventa I, teco-tico
La e aperta diventa ie, ad esempio:tempum-tiemp
La o aperta diventa uo, ad esempio grossum-gruoss
Il passaggio dalla o alla u ci fa capire se un nome è maschile o femminile: ruoss (maschio) rossa
(femmina
Questa piccola guida alle isoglosse tracciate da Pellegrini nella sua carta è funzionale ad avere un’idea
attendibile della geografia delle aree dialettali italiane. Dalla carta di Pellegrini appare un’Italia
dialettale e linguisticamente molto frammentata. In alcuni casi i confini tra aree sono molto netti e
pronunciati altre volte discutibili . Le isoglosse devono essere considerate come dei segnali di
transizione.
Venne realizzata sulla base di indagini linguistiche, fatte pochi anni dopo la fine della II guerra
mondiale.
Pellegrini adotta la denominazione d’insieme di dialetti , ma proprio per evitare equivoci sulle loro
origini, la sua rappresentazione è denominata a carta dei dialetti d’Italia, con una specificazione
(d’Italia),che si riferisce solo a una collocazione geografica. Vale a dire che a giusta ragione sono d’Italia

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sia i dialetti romanzi sia le varietà alloglotte. Tali tipi di indagini vennero compiute anche da un gruppo
di studiosi, Karl Jaberg e Jakob Jud, partendo dall’analisi sul campo, di territori quali svizzeri e italiani,
costituendo così un atlante, conosciuto come “Atlante italo-svizzero” (AIS).
Molto complicato può essere il trattamento di aree e comunità che, sono esterne al territorio
nazionale: in Corsica i dialetti sono di tipo toscano con forti influenze genovesi ; in molte città
dell’America del Sud vi sono grandi comunità di italiani emigrati che conservano un buon uso dei
dialetti originari.
Una descrizione tipologica dei dialetti d’Italia non potrebbe evitare di includere nella propria
trattazione anche queste comunità;tuttavia questi gruppi usano il francese o il croato o il portoghese
come lingua delle istituzioni e nessuno di loro usa l’italiano.
Una classificazione solo topologica, infine, dovrebbe fondarsi su un’amplissima selezione di tratti
linguistici virgola in modo da fornire un risultato più vicino alla realtà. È quanto fecero Giovan Battista
Pellegrini e poi Giuseppe Francescato che compararono in modo binario alcuni dialetti d’Italia e altre
lingue romanze per misurarne il livello di differenziazione.
Anche Giacomo Devoto nello stesso anno di Pellegrini pubblicò una classificazione di dialetti d’Italia
fondata sulla misurazione quantitativa dei dati. Lo studioso non misurava le divergenze reciproche tra i
dialetti ma il livello di alterazione del singolo idioma regionale rispetto al latino.
Devoto conseguì risultati non dissimili da quelli che il fondatore della dialettologia moderna aveva
fissato in un articolo intitolato l’Italia dialettale.
Qui Ascoli aveva tracciato la prima partizione scientifica dei dialetti della nostra penisola. Secondo egli il
cambiamento linguistico avviene in tutti i livelli dei singoli sistemi linguistici in uso presso i parlanti
secondo processi regolari ,osservabili o ricostruibili. Questo comporta due effetti: innanzitutto si
formano aree in cui i dialetti condividono lo stesso cambiamento e che confinano con
•aree in cui il cambiamento non c'è stato in cui il confine tra queste aree si traccia con una linea
chiamata ISOGLOSSA.
• Inoltre, si formano aree i cui dialetti condividono la conservazione e di molti tratti oppure sono giunti
al medesimo stadio di cambiamento: queste sono le aree dialettali.
Secondo Ascoli, in Italia non ci sono grandi contrasti idiomatici, perché tutti i dialetti italiani derivano
dal latino. Il punto di partenza che bisogna prendere in considerazione per ricostruire il processo di
sviluppo delle forme dialettali moderne è quindi il latino.
Secondo Ascoli vi sono così:
1. Dialetti,che dipendono da sistemi neo-latini che non sono peculiari all'italia. Essi sono i dialetti
provenzali e franco-provenzali.
2. Dialetti che si distaccato dal sistema italiano vero e proprio. Si tratta dei dialetti cosiddetto “Gallo
italici”, suddivisi in ligure, pedemontano, lombardo ed emiliano .
3. Dialetti che si scostano dal tipo e schiettamente italiano o toscano, cioè il veneziano, il corso e quelli
della terraferma napoletana.
4. Il toscano o l’Italiano per l’eccellenza.
Ascoli ha stabilito innanzitutto il metodo di tracciare le isoglossie per delimitare l’area di estinzione
dallo stadio o dall’esito raggiunto da un cambiamento linguistico,poi ha descritto il ruolo privilegiato del
fiorentino tra i dialetti che derivano dal latino, per la conservazione di molte caratteristiche fonologiche
morfologiche ; in questo modo il fiorentino è considerato l’esemplare tipico dell’italianità linguistica.
Bisogna dire anche che talvolta i cambiamenti linguistici non si lasciano spiegare in base alle regole
conosciute dall'evoluzione. In alcuni casi può essere utile ricorrere alla teoria del sostrato e spiegare
alcune innovazioni moderne come diretta evoluzione del latino. Il mondo romano era sostanzialmente
latinofono. Il latino veniva utilizzato per molti usi, ufficiali, formali e informali in tutta l’area romana.
Eppure anche il latino, come tutte le lingue, era sottoposto alla variazione negli usi e nelle funzioni, tra i
parlanti appartenenti a diversi strati sociali o di diversa provenienza.
La teoria del sostrato fu formalizzata nel 1881 da Ascoli , che la ideò avvalendosi della sua pratica con le
lingue celtiche appunto queste lingue hanno coperto un’area della penisola iberica occidentale, le isole
della Gran Bretagna e in parte anche l’Italia settentrionale escluso il veneto. In alcune aree come in
Francia in Italia settentrionale, le popolazioni celtiche sono state latinizzate.

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Ascoli osservò che era possibile provare che un certo fenomeno si manifestava solo in un’area perché
dipendeva dal modo in cui il latino era stato utilizzato da una popolazione. Un’ipotesi che intende
spiegare con ragione di sostrato un dato linguistico moderno deve essere capaci di osservare la
presenza dello stesso fenomeno di odierno anche in altre parlate che si sono sovrapposte allo stesso
sostrato , in modo da poter vantare anche una terza prova, detta estrinseca. L’esempio portato da
Ascoli è stato molto ridiscussa ma l’applicazione generale della teoria del sostrato ha avuto grande
successo soprattutto nella prima metà del ventesimo secolo. Clemente Merlo, fondatore di una rivista
intitolata L’Italia dialettale , l'ha utilizzo anche per la sua classificazione dei dialetti italiani , che nei
risultati si differenzia da quella di Ascoli soprattutto per la posizione del Veneto.
Oggi gli interessi per le teorie sostratiche sono scemati . Ad esse si ricorre soprattutto per la
ricostruzione della storia del lessico. Il modo simile si utilizza il concetto di superstrato (lo strato
linguistico che si sovrappone a un altro, influenzandolo, ma senza sopraffarlo). Il riconoscimento del
superstrato dipende da vari fattori, soprattutto di tipo geografico. Un arabismo in un dialetto siciliano o
un longobardismo in un dialetto dell’Italia centrale settentrionale.
Una parola di superstrato può diffondersi anche molto lontano dal luogo di origine. In ogni caso,
sostrato e superstrato presuppongono situazioni di plurilinguismo. Oggi, quando si parla di dialetti
d’Italia si fa riferimento a un’area linguistica Italo romanza. Tuttavia, l’italiano non viene valutato più
come un tipo linguistico esemplare per le strutture. Infatti, chi si pone l’obiettivo di classificare dialetti
intende individuare l’oggetto della propria ricerca. Chi voglia classificare i dialetti italiani deve prima di
tutto chiedersi quali essi siano e come possono essere segnati i confini con i dialetti italiani. Esiste un
fenomeno noto ai dialettologia che si chiama continuità geografica dei dialetti. È quasi impossibile
trovare un dialettofono che affermi di non essere capace di comunicare con lui perché è impossibilitato
a comprenderne il dialetto. Le lingue di località molto vicine differiscono per pochi fenomeni. Se le
distanze aumentano le differenze invece si fanno più marcate.
In pratica sono dialetti Italo romanzi quelli utilizzati da parlanti che vivono nella comunità caratterizzata
dall'uso dell'italiano come lingua della vita di ogni giorno e delle istituzioni. Tutto
ciò che è fuori dalle frontiere nazionali non è classificabile come dialetto Italo romanzo, sono invece
dialetti d’Italia tutte le lingue locali.
LE DIFFERENZE INTERNE DEI DIALETTI
Siamo partiti col dire che i dialetti derivano dal latino. Se il latino fosse unitario e omogeneo i dialetti
sarebbero uguali tra di loro. Il latino che noi conosciamo, è un latino ricostruito, prendendo in esame le
opere di grandi autori latini, questo per quanto riguarda la lingua scritta che, come sappiamo, tra la
lingua parlata e lingua scritta, agisce una variante diamesica. La lingua parlata, differentemente da
quella scritta, era differente e differenziata da luogo a luogo. Sul latino hanno agito non solo influenze
dettata dalla variabile geografica, ma anche dalla presenza di lingue di sostrato (è una lingua non più
parlata su un territorio che però prima di sparire ha influenzato quella da cui è stata soppiantata). Tutte
queste variabilità, portano l’affermarsi di alcune di queste caratteristiche che influenzano, in parte,
alcuni dialetti. Sappiamo bene, inoltre, che le lingue romanze derivano sempre dal latino, ma c’è da dire
che anche in queste, vi era una variazione sul piano fonetico. Questo avveniva anche nel latino; un
esempio in tal senso può essere la “M” finale di alcune parole che, nel parlato, andava sempre più
scemando, per la spontaneità e la repentinità della comunicazione parlata. Forse però tale
caratteristica persisteva già a Roma.
Quando si dice che una parola veniva pronunciata diversamente, si intende che erano presenti delle
varianti inerenti alla pronuncia. La variante diacronica della pronuncia linguistica, viene studiata da quella
disciplina definita “linguistica storica”, muovendosi, in tal senso, dal punto di partenza (il latino), fino al
punto d’arrivo (lingue romanze). Tale disciplina quindi, studia il continuum variazionale intermedio tra
questi due poli. Tuttavia, non si può prevedere l’entrata in uso di alcuni termini. I parlanti che vivono in
Italia, usano diverse varietà di italiano; essi usano anche i dialetti.
I DIALETTI ITALIANI
Come abbiamo potuto notare, i dialetti sono vere e proprie lingue. Essi derivano in gran parte da quel
latino, che aveva perso la sua unitarietà a seguito della disgregazione dell’Impero Romano. Questa
situazione, del resto, la si ritrova anche in passato:ad esempio, Sant’Agostino, che era africano, non riusciva

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a capire la differenza tra “os” bocca e “os” osso (infatti per differenziare le due parole, si iniziò ad usare la
variante “bucca”, per indicare la bocca). Livio invece, viene preso in giro per il suo accento padovano. Dopo
il crollo dell’Impero, nell’italiano si configura una straordinaria varietà linguistica: toscano, centro
meridionale, sardo, settentrionale e friulano(queste sono le cinque varietà dell’italiano). L’italiano standard
quindi sarà quello in cui non si avvertirà l’influsso dei dialetti, ma sarà quello che verrà messo per iscritto.
Nel corso della storia, infatti, il prestigio di una di queste lingue diventerà maggiore, e si tratta proprio del
fiorentino.
ALLONTANAMENTO DAL DIALETTO
Tuttavia è evidente che il quadro d’insieme appare cambiato . La grande maggioranza degli italiani
all’inizio del secolo scorso, aveva appreso il dialetto in famiglia come prima lingua e aveva continuato
ad usarlo. Nella seconda metà del secolo scorso molte cose sono cambiate ancora, a cominciare dal
fatto che la percentuale degli italiani addetti all’agricoltura si è ridotta a meno del 4%. In un certo senso
la crisi dei dialetti italiani si collega alla crisi del mondo agricolo tradizionale: chi lavora nell’agricoltura
tende a vivere stabilmente. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia riconosce negli anni 50 e negli
anni 60 periodo positivo, quello del cosiddetto boom economico:cinema ,radio, automobili
(ecc)entrano a far parte della vita quotidiana delle famiglie , che sempre più spesso si spostano per
lavoro verso le città. L’allontanamento delle abitudini tradizionali e da paesi d'origine provoca in molte
famiglie anche l'allontanamento dal dialetto. Alcuni li tengono che la crisi dei dialetti dipenda soltanto
dal fatto che nella scuola italiana dopo l’unità è stato insegnato l’italiano. Ma dal 1861 fino all’incirca
alla metà del secolo scorso, il dialetto è stato ancora a lungo abitualmente parlato anche dalle
generazioni di italiani che avevano già conseguito la scuola. Le nuove condizioni che hanno determinato
una crisi dei dialetti ,sono invece da ricercare nelle novità di tipo economico e sociale abbinate alle
diverse abitudini di vita e allo spostamento stabile verso le città lontane dai luoghi di origine. La
fondatezza di questa spiegazione è dimostrata dal fatto che i dialetti sono ancora parlati in maniera
consistente da persone appartenenti a famiglie residenti stabilmente nello stesso luogo da generazioni
e ciò accade in genere nei piccoli centri italiani.
IL SISTEMA VOCALICO
Per comprendere le variabilità dialettali, bisogna studiare le vocali. Queste sono diverse da luogo a
luogo e, tale differenza è dettato dal passaggio dell’aria e dalla posizione della lingua. Le vocali sono
caratterizzate dalla lunghezza e dalla brevità della pronuncia. La lunghezza di queste portano ad un
differente significato delle parole.

tratto lungo
u tratto breve

(la “A” viene scritta una volta sola, poiché si trova al centro del sistema)
Il sistema vocalico latino è costituito da 10 vocali
__ u
La combo I E, articolate come e (breve)
__ u
O U: articolate come o (breve)

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 Quando la “E” è aperta e tonica e si trova in una sillaba aperta, diventa lo iato:iè
 Quando la “O” è aperta, tonica e si trova in sillaba aperta, diventa: uò

In italiano, in realtà, le vocali sono 7 se si contano “e” aperta e chiusa e “o” aperta e chiusa (Vocalismo
Romanzo).
Ci sono però dei dialetti in cui il sistema vocalico è composto da 5 vocali (VOCALISMO PENTAVOCALICO)
come il Sardo: si perde l’opposizione tra breve e lunga. Questo sistema vocalico è presente anche in
Calabria e in Basilicata. Quest’area, che comprende i due territori appena citati, è definita “area Lausberg”,
poiché definita da un linguista tedesco.

Quello siciliano, invece, è un mix con il sistema vocalico italiano. Tale sistema vocalico è presente in gran
parte nel dialetto campano.
Esiste anche il vocalismo misto: tra romanzo e sardo.

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Torniamo alla carta si studia la presenza o l’assenza di alcune caratteristiche. A partire dall’Atlantico
Italo-Svizzero, alcuni studiosi si recarono nei territori come: la Sicilia e la Sardegna. Questi svolgevano
inchieste in diversi paesi e, studiando l’Atlantico, si aveva un elenco di caratteristiche che, sommate fra
loro, si riusciva ad ottenere zone geografiche delineate tra loro da una ISOGLOSSIA (linea che unisce i punti
delle stesse caratteristiche).
Infine c’è la necessità di chiarire che i dialetti italiani sono “sistemi autonomi fra loro”, e che il dialetto NON
è un gergo: questo perché il gergo è un modo di comunicazione di un gruppo di parlanti che non vuole farsi
comprendere dagli altri (codice criptico).
Questa connotazione di gergo è differente anche dal concetto di “italiano meridionale”, il quale avverte
l’influenza dialettale.
NOZIONE DI LINGUA DELLE MINORANZE
Il concetto di alloglossia si sovrappone con quello di lingua delle minoranze: con minoranza linguistica si
intende un gruppo della popolazione che è insediato in modo compatto sul territorio nazionale e parla una
lingua alloglotta. Per comprendere che cosa sia una minoranza linguistica, va evidenziato il rapporto fra il
concetto linguistico di minoranza e la tutela giuridica delle minoranze. Secondo Videsott si possono
prendere in considerazione quattro parametri:
1. La minoranza è insediata sul territorio di uno Stato in modo compatto o più diffuso.
2. La minoranza è numericamente inferiore rispetto al resto della popolazione di quello Stato
3. I membri della minoranza parlano una lingua che differisce da quella del resto della popolazione
4. I membri della minoranza sono cittadini di quello Stato, e mostrano un “senso di solidarietà” verso
la loro lingua, le loro tradizione e la loro cultura.
Sono definite minoranze linguistiche storiche quelle autoctone, o quelle frutto di antiche migrazioni sul
territorio italiano che hanno determinato cambiamenti nei confini fra l’Italia e altri stati. Le osservazioni di
Telmon, riguardo alle minoranze linguistiche, ci mostrano diversi aspetti: il concetto di minoranza implica il
rapporto tra la lingua nazionale e un’altra lingua. Quest’ultima, a sua volta, può essere in relazione con una
lingua di una nazione diversa da quella in cui vive la minoranza. L’osservazione linguistica fa notare però
che le minoranze usano una varietà non standard delle lingue di riferimento. Osservando la carta delle
minoranze linguistiche possiamo precisare che vi sono minoranze caratterizza teda una posizione di
confine, dette appunto “minoranze di confine” (ad esempio le varietà slovene sul confine Friuli-Venezia-
Giulia, e Repubblica di Slovenia), e altre che invece non lo sono (ad esempio l’alguarès in Sardegna). Come
mostrano tali varietà, possono avere come riferimento una lingua diversa dall’italiano. Inoltre, si può
notare che nelle riflessioni sulla nozione di minoranza linguistica, entrano in gioco anche considerazioni
extralinguistiche, nonché la stessa autovalutazione e auto percezione delle comunità dei parlanti. Ad
esempio, le varietà friulane e sarde sono incluse ai margini del sistema linguistico italo-romanzo da
Pellegrini, per le loro specificità tipologiche, e sono elencate tra e lingue di minoranza, soprattutto per
valutazioni di tipo storico culturale. In sintesi, si aggiungono sotto il profilo di tutela giuridica anche il ladino,
friulano e sardo. Infine osserviamo che tra le lingue delle minoranze vi sono poi delle minoranze legate
all’uso parlato e scritto: lo scritto non è presente in tutte le lingue di minoranza: questo perché la messa
per iscritto delle lingue minoritarie implica problemi di codificazione della grafia.

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Se invece adottassimo un punto di vista strettamente linguistico, potremmo osservare che per il
dialettologo la minoranza linguistica può essere identificata in qualsiasi lingua, diversa da quella ufficiale e
nazionale: così si potrebbe arrivare a contare in Italia tante minoranze, quante sono le comunità
linguistiche che parlano varietà diverse dell’italiano, includendo nella nozione di lingua di minoranza tutti i
dialetti usati in Italia. In effetti, alcuni studiosi hanno parlato, per i dialetti italo-romanzi, di alloglossia
interna: volendo sottolineare che, accanto all’italiano, lingua nazionale e comune, si estende uno spazio
linguistico il cui “plurilinguismo” è dato anche dalla vitalità dei dialetti che non hanno il riconoscimento
giuridico di lingue di minoranza.
LA TUTELA GIURIDICA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE
Il riconoscimento giuridico è di fondamentale importanza: attraverso questo riconoscimento, le lingue delle
minoranze ottengono una condizione di effettiva parità formale e istituzionale con la lingua del Paese. In
prima battuta, va chiarito gli articoli 3 e 6 della Costituzione Italiana, che sanciscono l'uguaglianza dei
cittadini anche dal punto di vista linguistico. "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche (art. 3)
"La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche” (art. 6). Va anche ricordato che risale
al 2006 la proposta, avanzata dall'Accademia della Crusca al Parlamento, di modificare l'art. 12 della
Costituzione inserendo il riconoscimento dell'italiano quale lingua ufficiale della Repubblica Italiana. Tale
richiesta è dovuta a una sorta di emergenza che nasce da una serie di dibattiti sostenuti per la scena
politica italiana. All'interno della proposta è fornito anche una distinzione fra le parlate alloglotte. La
proposta si caratterizza, quindi, per la scelta di riservare il termine alloglotte, e di considerare le varietà le
vere e proprie minoranze linguistiche storiche presenti nel nostro Paese», distinguendole dalle varietà del
ladino, del friulano e del sardo. La tutela delle lingue delle minoranze prevede nei comuni interessati,
accanto all'italiano, vi è l’uso della lingua minoritaria nelle attività istituzionali e pubbliche, negli organi
amministrativi, nelle attività scolastiche, la possibilità di istituire corsi di lingua e cultura e di ricerca sulle
tradizioni linguistiche e culturali della comunità minoritaria.
I comuni possono anche adottare o ripristinare i toponimi locali, i cittadini i cui nomi e cognomi siano stati
modificati prima dell'entrata in vigore della legge hanno diritto a chiedere di ripristinare il loro nome nella
lingua della minoranza di appartenenza, con validità anche per i discendenti. Questa possibilità concessa
intende risarcire le minoranze linguistiche per la forzata italianizzazione degli anni del fascismo: quando, in
particolare, fu imposto un adattamento allo standard grafico-fonetico dell'italiano ai cognomi che venivano
valutati come esotici, talvolta solo sulla base di una terminazione consonantica, anche in assenza di un
riferimento a minoranze, come nel caso di Rascel e Bernard trasformati in Rascele e Bernari.

VARIETÀ NON ROMANZE


Sul territorio italiano sono presenti diverse varietà del tedesco, che indicano popolazioni germaniche,
dislocate lungo l'arco alpino, con tradizioni, storia e varietà linguistica differenti; si indica come tedesca la
minoranza germanofona dell'Alto Adige.
Tra le parlate alloglotte non romanze si collocano, quindi, le varietà di tedesco parlate in Alto
Adige/Sudtirol. Altre lingue di minoranza di origine germanica risalgono movimenti migratori medievali che
interessano aree del Trentino, del Veneto e del Friuli. Fra XII e il XIII secolo, infatti, si formano comunità che
parlavano un dialetto bavarese arcaico: chiamata cimbro. Il cimbro si è sgretolato progressivamente, infatti
ad oggi, è definito môcheno la varietà del bavarese antico introdotta nel Duecento nella Val Fersina
(Trentino).
Quanto al Piemonte e alla Valle d'Aosta, in alcuni dei loro comuni, si parla il walser: una varietà dovuta a
spostamenti e migrazioni di coloni che si mossero dalla Svizzera meridionale. A Gorizia e Trieste lo sloveno
è parlato nei centri urbani per effetto dei legami economici e delle relazioni commerciali instaurate sin
dall'Ottocento.
Una minoranza di lingua croata è presente in Molise dal
Quattrocento, quando i croati fondarono numerose comunità sia per sfuggire agli effetti della conquista
ottomana (cioè turca) della Croazia, sia perché attratti dai privilegi economici concessi dai re del Regno di
Napoli. Esistono poi anche varietà alloglotte non romanze di origine albanese sono diffuse in Sicilia e in

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Abruzzo e include, anche la Campania, la Puglia e la Calabria. Dialetti greci in Italia sono adoperati da circa
12.000 persone in due zone del Sud Italia: è denominata grico la varietà parlata nella cosiddetta Grecia
Salentina; il grecanico è la varietà parlata nella Bovesia, l'area calabrese posta alle pendici dell'Aspromonte.
VARIETÀ ROMANZE
Abbiamo le varietà franco-provenzali parlate in Valle d’Aosta. Queste varietà sono la continuazione
autoctona di un antico tipo linguistico della Gallia. Questa varietà viene chiamata dagli stessi parlanti
"provenzale". Oltre all'italiano e alle varietà franco-provenzali, in Valle d'Aosta si adopera anche il francese:
più esattamente, il francese è una delle due lingue ufficiali della Valle d'Aosta accanto all'italiano. Va
ribadito che esiste una differenza significativa fra la trasmissione del francese come lingua materna e la
competenza del francese in Valle d'Aosta: quest'ultima è frutto dell'apprendimento tramite l'insegnamento
scolastico ed è rafforzata dall'uso ufficiale del francese in ambito istituzionale e amministrativo.
La Sardegna include isole linguistiche di comunità che parlano anche varietà alloglotte romanze. Parlato ad
Alghero, in provincia di Sassari, l'alguerês appartiene al gruppo dialettale orientale del catalana, sebbene
l'alguerès venga talora usato nello scritto, per gli usi formali scritti si adotta prevalentemente il catalano
standard: quest'ultimo è quindi usato nell'insegnamento e destinato alle pubblicazioni locali. La presenza di
una minoranza che usa ad Alghero un dialetto catalano si deve alla conquista della città da parte del re
Pietro d'Aragona nel 1354 e alla sua decisione di ripopolare città con coloni della Catalogna e delle isole
Baleari.
VARIETÀ DEL LADINO, DEL FRIULANO E DEL SARDO
Nella questione ladina, da oltre un secolo, i linguisti discutono se il ladino sia da considerare una lingua
autonoma o una varietà arcaica dell'area italiana settentrionale. Delle comunità ladine nella regione
autonoma del Trentino-Alto Adige, riguarda sia i numerosi comuni della provincia di Belluno, nel Veneto, sia
i comuni del Trentino.
Le varietà del friulano sono diffuse in alcuni comuni in provincia di Udine, Gorizia e Pordenone. L'area
friulana presenta una sua variazione interna che marca una divisione fra zone: inlfatti, il fiume Tagliamento
separa le varietà al Nord, quelle occidentali a Ovest e quelle centro-orientali a Est.
Notevole è la letteratura in friulano, che ha contribuito a stabilizzare una lingua letteraria. Le le varietà
sarde sono quattro al Centro-Nord vi sono i dialetti logudorese, a Sud quelli campidanesi, e all'estremo
Nord della Sardegna, a Nord- Est a Nord-Ovest. I sardi sono la più numerosa minoranza linguistica dello
Stato italiano. Storicamente, il logudorese e il campidanese sono stati modelli di prestigio adoperati anche
nella lingua scritta in ambito istituzionale.
MINORANZE DIFFUSE NON TUTELATE E NUOVE COMUNITÀ LINGUISTICHE
Si definisce minoranza diffusa la comunità dei Sinti e dei Rom, presente in Italia sin dal XV secolo. Le varietà
parlate dai Rom non sono tutelate dalle leggi nel nostro Paese: queste varietà sono riconducibili al
romanés, ovvero una lingua che comprende delle varietà linguistiche dialettali.
Consideriamo, inoltre, come minoranze non territorializzate e non tutelate due comunità religiose: la
comunità ebraica e la comunità armena. Vanno prese in considerazione anche la lingua portate in Italia dai
migranti, che possono essere distinte in lingue immigrate a lingue degli immigrati.
Sono definite lingue immigrate l'insieme delle lingue attivamente usate nella comunicazione nelle rispettive
comunità migranti; esse si radicano nello spazio linguistico della comunità ospitante e producono materiali
affidati allo scritto: dalle insegne ai volantini, sino a testi letterari. Mentre con lingue degli immigrati si
intendono, quelle lingue non radicate nel territorio locale ma che comunque circolano nello spazio
linguistico, per esempio per la presenza temporanea di gruppi di parlanti Nel complesso, la presenza di
migranti nello spazio linguistico italiano ha determinato un plurilinguismo esogeno (insieme delle longue
storiche), che si affianca al plurilinguismo endogeno (insieme delle lingue che entrano nel nostro spazio
linguistico, considerando non solo quelle europee), dato dalla compresenza di una grande varietà di dialetti
e lingue di minoranza: è significativo che questo plurilinguismo esogeno porti l'italiano in contatto con
lingue nuove, ad esempio con alcuni dialetti africani. I nuovi immigrati sono quasi sempre molto motivati ad
apprendere e usare l'italiano: la lingua nazionale è per loro strumento di integrazione sociale, tanto più che
la loro esperienza va nella direzione incontro con un'altra cultura.
In più c’è da dire, parlando di minoranze linguistiche in generale, che è stato riconosciuto un patrimonio
immateriale: ossia l’insieme linguistico delle tradizioni.

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Infine c’è bisogno di aggiungere e appuntare io concetto di “idioletto”, nel quale ognuno di noi ha una
propria lingua, che altro non è il frutto di altre minoranze linguistiche.
IL POLITICAMENTE CORRETTO
Con politicamente corretto si intende quell'atteggiamento che, per iniziativa di un gruppo sociale e sotto la
pressione dell'opinione pubblica, spinge ad adottare una forma linguistica alternativa a quella corrente.
Questo è un cambiamento linguistico di natura ideologica, nato dall'intenzione di usare la lingua con
consapevolezza metalinguistica e perseguendo innanzitutto scopi politici improntati all'inclusione e al
rispetto.
C'è anche chi si oppone al politicamente corretto, definendolo una forma di restrizione delle libertà
individuali, e, in effetti, vi sono alcune insidie culturali: dal punto di vista puramente linguistico, il termine
nuovo ha bisogno di tempo per ambientarsi nel lessico italiano e talvolta risulta anche ambiguo (nero sia
per persone di colore, sia per persone di destra), vi è poi chi non riesce ad adeguarsi al cambiamento o viola
le leggi inconsapevolmente, o ancora il fatto che ricorrere ad eufemismi al posto di parole considerate
"scorrette" spesso non fa che sottolineare in maniera più acuta le diversità, dimostrando di nasconderle
come realtà sgradevoli
Qualsiasi sia il giudizio posto al politicamente corretto, bisogna innanzitutto ricordare che le parole sono
importanti e ognuno di noi è responsabile di ciò che dice e scrive.
IL SESSISMO NELLA LINGUA
La concezione sociale e la codifica linguistica del «genero» hanno provocato ampie discussioni e polemiche.
È facile constatare che talvolta il genere grammaticale rispecchia il genere sessuale dei referenti: può
succedere nei pronomi, in alcuni nomi che si distinguono nel morfema lessicale (marito e moglie) o in
quello desinenziale (suocero e suocera). Tuttavia, è vero anche il contrario: il geriere grammaticale può non
rispecchiare il genere sessuale del referente. Dunque, la mancata corrispondenza del genere del nome con
il sesso del referente può essere considerata un fatto normale e, inoltre, variabile nel tempo.
Del resto, è noto che diverse lingue, possono codificare in modo diverso il gemere dei nomi e quello degli
aggettivi: il latino, per esempio, aveva per gli aggettivi un sistema a tre generi: maschile, femminile e
neutro: l'italiano ha eliminato quest'ultimo. D'altra parte è ben noto che la lingua codifica le categorie della
re. altà che in una comunità sono considerate rilevanti. Tra le questioni linguistiche legate al genere in
italiano ci sono il maschile generico, per cui esiste il Consiglio dei ministri, nominato così nonostante la
presenza di alcune donne; o la servitù grammaticale nell'accordo del verbo e nelle proforme, come in
«Mario e Paola sono stati Intervistati in TV». Uno dei casi più discussi è la mozione, cioè il passaggio di
genere nei nomi che indicano professioni. I nomi di molti mestieri hanno selezionato il genere
grammaticale corrispondente al sesso delle persone che svolgevano una determinata mansione o
professione. C’è anche da dire che gran parte dei nomi della seconda classe in -o hanno trovato un
corrispondente femminile in -a, anche se à ancora raro sentir nominare una idraulica o una facchina.
Di solito, sebbene non ci siano difficoltà morfologiche a formare parole come “il governante” o “la notaia”,
è facile constatare che, di fronte a tali adattamenti, ci sia una resistenza da parte dei parlanti, che tendono
a respingere tali usi o perché semplicemente non ci sono abituati, e giudicano neutrali le formi maschili e/o
«scialbe» le forme femminili. Ciò dimostra che il «sessismo» non è una componente del sistema linguistico,
ma è una manifestazione dei pregiudizi, degli stereotipi che condizionano l'uso della lingua. Nel 1993, il
Dipartimento per la funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pubblicato il noto
Codice delle comunicazioni scritte nel quale, ad esempio, il paragrafo 4 era dedicato proprio all'uso non
discriminatorio e non sessista della lingua italiana.
Ad alcune riflessioni si faceva seguire un breve elenco di raccomandazioni, applicate nelle proposte di
riscrittura. Infine, nei dibattiti, vi è chi fa prevalere riflessioni extralinguistiche, rivendicando il diritto delle
donne a non restare nascoste «dentro» i sostantivi maschili, e chi invece persiste nel vedere nell'accordo di
genere prevalentemente un meccanismo di coesione morfosintattica. Sembra chiaro che tutte le
componenti della categoria di genere vanno prese in considerazione per riflettere sugli usi linguistici della
comunità.
NEGRI E NERI
Un caso particolarmente significativo di “politicamente corretto” è quello che ha messo ai margini del
sistema la parola negro.

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In italiano, fino agli anni Ottanta del Novecento la persona di colore è stata nominata con i sostantivi negro
e negra. A cominciare dagli anni Settanta si sono manifestate alcune limitazioni all'uso di questa parole, a
imitazione delle restrizioni che nell’inglese d’America hanno colpito l'uso di nigger, sostituito da altri
termini come negro, black e afroamericano.
In Italia, sono stati soprattutto i traduttori a trovarsi in difficoltà di fronte alla necessità di riportare parole
americane non riducibili a un solo sostituente e a causa dell'esigenza di avere a disposizione non solo un
termine neutro ma anche una parola usata allo scopo di denigrare o insultare. Col tempo, anche i sociologi,
i giornalisti e poi le persone comuni hanno manifestato l'opportunità di differenziare gli usi. Perciò «di
recente negro di razza nera è stato proscritto, come denigratorio. Dal punto di vista esclusivamente
linguistico, la scelta di solidarietà dei traduttori ha avuto in italiano effetti di cortocircuito, introducendo
una connotazione positiva assoluta per la parola nero in un solo campo semantico, il tipo umano
caratterizzato da pelle scura, contro gli innumerevoli ambiti in cui nero è brutto, malvagio, avverso.
La resistenza a nero per dire «negro» senza alcuna marcatezza negativa è dovuta a questi fattori:
- i cambiamenti della norma sono caratterizzati da una congenita lentezza;
- i comportamenti linguistici politicamente controllati suscitano un diffuso scetticismo;
- solo negro è produttivo in senso razziale; infatti, si dice negritudine, non *neritudine;
- alcuni italiani regionali sono restii ad appiattirsi sul tipo dialettale nero e premono contro il cambiamento;
- paradigmaticamente, la parola nero ha in italiano una connotazione negativa.
Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento, pertanto, nero e negro hanno assunto una
specializzazione inedita per il passato, aprendo molte questioni nella politica e nella linguistica, soprattutto
quando testi in italiano derivavano da testi scritti in inglese, cioè nelle traduzioni di opere letterarie o dei
dialoghi di film e serie televisive. Per riflettere sulla diacronia degli usi e le oscillazioni nell'adattarsi alle
prescrizioni del «politicamente corretto», osserviamo i termini riferiti a persone di colore ne Il buio oltre la
siepe di Harper Lee. Nella versione originale vi è un uso consapevole dei nomi per indicare le persone di
colore: vengono adoperati termini neutri e puramente descrittivi, ma nelle traduzioni vengono mostrate
delle incongruenze: si trova, infatti, nero, sebbene nell’originale si usa nigger.
Con il politicamente corretto, in conclusione, negro non è più utilizzabile in diversi testi di diversa funzione,
ma è un termine il cui significato è dato a priori, indipendentemente dal contesto in cui è adoperato.
Tuttavia, in ogni parola della lingua resta un'indeterminatezza semantica che viene colmata solo quando si
realizza un atto comunicativo ben riuscito.

CAPITOLO 3: L’ITALIANO E LE ARTI


L'italiano per la musica, il teatro ed il cinema presenta un'importante caratteristica: il fatto che il testo
scritto sia destinato alla fruizione mediante l'ascolto e la visione (il canale grafico-visivo compenetra con
quello fonico-uditivo). Il tutto è parte di un sistema semiotico complesso e articolato di cui la parola scritta
è solo una delle componenti: infatti per significazione complessiva si guarda sia al parlato teatrale /
musicale / cinematografico, sia ad altri elementi non verbali, come l'allestimento scenico, le immagini, la
musica, gli effetti sonori, la componente mimica-gestuale, ecc
Opera, canzone, teatro e cinema affrontano due macro questioni, spesso dandosi risposte diverse, connessi
alla specificità dei quattro differenti ambiti. Queste questioni sono: il rapporto tra componente verbale e
componenti non verbali e i modi di ricreazione e simulazione del parlato.
Va ricordato che questi generi avevano l'esigenza di rivolgersi a un pubblico ampio e vario, e infatti hanno
contribuito a plasmare una lingua per il pubblico, introducendo in alcuni casi tradizioni e linguaggi letterari
(opera lirica) e in altri forme di media e bassa colloquialità
(opere cinematografiche).
L'italiano nelle arti è dunque molto legato all' "identità italiana", e le forme di opera, teatro e cinema hanno
significativamente contribuito a diffondere l'italiano nel mondo.
ITALIANO E OPERA LIRICA
L'italiano è stato considerato per molti secoli la lingua per la musica, poiché in tutta Europa avevano avuto
molto successo le opere liriche e i melodrammi italiani, sia producendo italianismi in tutto il mondo (bravo,
baritono, tenore, soprano, opera) sia avviando - accanto alla fruizione dell'opera italiana nelle corti europee

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- anche una produzione settecentesca straniera secondo lo stile italiano; per quanto riguarda la cultura
oltreoceano, invece, la lirica italiana diventerà centrale solo a partire dal secondo Ottocento
Opera: rappresentazione teatrale di un testo cantato e accompagnato da musica;
Melodramma: sia sinonimo di "opera" sia "testo poetico per la musica";
Libretto: sia per il testo destinato ad essere messo in musica e cantato, sia per l'oggetto che conteneva
suddetto testo. II libretto può essere considerato a tutti gli effetti un genere letterario dedicato
all'esecuzione scenica e alla lettura da parte degli spettatori per fruire al meglio dell'ascolto dell'opera.
L'italiano dei libretti era una lingua dalla forma aulica e anti-reale (imperativo tragico con particella
pronominale in posizione proclitica "tu lo calma", "mi perdona"; uso di verbi pronominali; aulicismi
arcaizzanti come "alma" per "anima", "speme"
per "speranza").
Per queste diverse scelte stilistiche e lessicali, il parlato operistico è stato considerato una sorta di "parlato
inverosimile", spesso anche criticato. La stessa parola "melodrammatico" ha in sé diverse accezioni
negative come: eccessivo, strappalacrime, di facile sentimentalismo
Queste critiche al parlato operistico si sono fatte aspre tra gli intellettuali illuministici e
romantici. fino ad arrivare al Novecento.
LE ORIGINI
Tra Cinquecento e Seicento - recitar cantando, ossia la poesia musicata dei secoli precedenti accompagnata
dal suono, pratica nata intorno alle città di Eirenze e Venezia, con la dittusione di due generi: opera comica
e seria. Massimo esponente: Pietro Metastasio.
che trova un equilibrio tra la componente poetica tradizionale e i tratti più correnti.
A Firenze nasce l'Opera di Corte con la Camerata de' Bardi - poesia che ricalca eventi di corte o eventi
celebrativi, destinata a un pubblico ristretto di privilegiati. Lingua raffinata e aulica della tradizione poetica;
A Venezia - sviluppatasi negli ambienti teatrali cittadini, è una rappresentazione operistica per un pubblico
pagante di uomini della media-alta società. La lingua è barocca, aperta alle componenti comiche e ai tratti
d'uso quotidiano
Nata come intermezzo tra gli atti delle opere serie, il genere comico veneziano ha massimo esponente in
Carlo Goldoni, che intreccia registro alto e registro basso, in favore del plurilinguismo: ogni personaggio,
infatti, ha caratteri linguistici ben definiti, per esempio battute in dialetto da parte di personaggi più "bassi"
e un linguaggio poetico per gli aristocratici, ma è presente anche il latino, il francese, il tedesco, ecc.;
- A Napoli - la commedeja pe mmuseca, un'opera comica con un linguaggio molto quotidiano e basso,
infatti è composta inizialmente in dialetto e solo in seguito viene italianizzata per favorirne la circolazione
anche nei teatri non locali. Il passaggio tra l'opera settecentesca e quella ottocentesca è segnata da Lorenzo
Da Ponte, che supera gli stereotipi dei personaggi e li rappresenta con maggiore complessità, a ciò si
accompagna un linguaggio multiforme rapportato all'interlocutore e alla situazione comunicativa.
L'OTTOCENTO
Nel corso dell'Ottocento romantico si attenuano le distinzione di genere tra l'opera comica e quella seria.
Per esempio ora l'opera seria non tratta più di argomenti mitologici e classici, ma si sposta anch'essa verso
libretti basati su vicende amorose, patriottiche e storiche, prima destinate quasi unicamente al genere
comico.
Nell'Ottocento opere tratte dai romanzi, principalmente quelli romantici.
Altra differenza tra il Settecento e l'Ottocento è la lingua di grande tradizione letteraria e poetica legata a
intonazioni, accenti e sintassi che mimano il parlato.
Altra caratteristica è il rapporto tra musicisti e librettisti, in quanto ora i musicisti (come Verdi e Puccini)
intervengono nella composizione dei libretti con i librettisti, data la nuova maturità di pensiero che vede
testo e musica intimamente uniti nell'opera scenica
Esempio di tutte queste caratteristiche è Francesco Maria Piave, che scrisse per Verdi
"Macbeth" (1847) in cui riadatta il dramma di Shakespeare tanto amato da Verdi. Nell'opera, il grottesco e
il comico convivono con il tragico e lo esaltano per contrasto. La lingua, pur avendo ancora tratti letterari e
poetici, riflette le diverse ambientazioni storiche e sociali dell'opera.

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Verso la fine dell'Ottocento assistiamo alla diffusione del verismo operistico, che riprende a sua volta il
verismo letterario. L'opera che prenderemo ad esempio per spiegare questo periodo, infatti, è la Cavalleria
rusticana di Pietro Mascagni, ossia una riadattazione dell'omonima novella verista di Giovanni Verga.
Questa è ambientata in Sicilia e si assiste fin da subito alla presenza di elementi realistici e dialettali legati a
loro volta con quelli più alti e letterari, vi è dunque compresenza di alto e basso, tragico e grottesco,
tradizione e innovazione.
Novecento
Evoluzione moderna e crisi del genere operistico rappresentate dai lavori di Giacomo Puccini
- proprio mentre i libretti stanno iniziando a trovare nuove modalità espressive e autonome, caratterizzate
da una più complessa modernità di linguaggio, Puccini ristabilisce quella linea di "prima la musica, dopo le
parole".
Negli anni venti del Novecento - forma poetica sostituita da unità narrative in prosa con porzioni testuali in
lingue diverse. Massimo esponente: Sanguineti che mescola italiano, francese e inglese.
Oggi - opera lirica lontana dal mondo moderno, ma alcune espressioni sono entrate nell'uso comune
(Figaro qui Figaro là, all'alba vincerò, ecc.)
ITALIANO E CANZONI
L'italiano della canzoni non è altro che una "lingua verosimile" rielaborata dagli autori, più vicina alla norma
della lingua "vera" che a quella scolastica. Le canzoni si diffondevano in piazza, nel teatro e nei salotti.
Importante è, nel Primo Novecento, la nascita della fonografia, che permise di registrare le opere su dischi
o cilindri.
Canzoni patriottiche - tra Ottocento e Novecento, spinte da quei sentimenti patriottici nati negli anni del
Risorgimento, dell'Unità, della Grande Guerra e della Resistenza. Queste canzoni venivano diffuse nelle
città e nelle campagne, in tutti gli strati sociali, destinate a un canto collettivo (Inno di Mameli).
Canzoni di emigrazione - Cantare l'emigrazione aveva un valore evocativo ed emozionale, una sorta di
riavvicinamento alla madre patria, per questo motivo queste canzoni erano in dialetto.
Canzoni di guerra - Cantare di guerra, come per esempio durante la Prima Guerra Mondiale, dove si cantava
per resistere alla trincea, un processo che, oltretutto, favori 'italianizzazione dei militari; Cantare per la
guerra, come avviene nel Ventennio Fascista, poiché la canzoni sono controllate dal regime e usate come
mezzo di propaganda; Cantare contro la guerra, come avviene nella Seconda Guerra Mondiale con i canti
partigiani della Resistenza (Bella ciao).
Canzoni napoletane - Tra Settecento e Ottocento, una canzone che mescola parole e musica, trovando un
equilibrio musicale fino ad ora esplorato solo in ambito operistico. La stagione d'oro avviene nel 1880 con la
diffusione e la stampa delle copielle e la rete di caffè, ristoranti e feste dove si faceva musica (festa di
Piedigotta: Te voglio bene assaje). Si diffonde all'estero grazie a Enrico Caruso, cantante lirico tenore, e
Renato Carosone, pianista che mescola conoscenze afroamericane con quelle napoletane (Tu vuò fà
l'americano). Verso il 1980 si diffonde la musica neomelodica, una musica di tradizione napoletana che
scrive storie di cronaca realmente accadute e del disagio sociale.
Canzoni odierne - Tra anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la canzone italiana entra in contatto con
quella straniera, francese, inglese e americana (jazz, rock n' roll, ecc.)
Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, presentata a Sanremo nel 1958, è la canzone spartiacque tra
la vecchia tradizione e la nuova canzone. Si passa infatti dalla stagione dei parolieri a quella dei cantautori,
figure che sommano i ruoli di musicista, paroliere e interprete. L'italiano della canzone cantautorale è volta
al parlato, un italiano medio plurilinguista, citazionista, dotto, ma anche neodialettale (Fabrizio de Andre').
Diventerà poi dialettale con altri autori, come Pino Daniele.
Vediamo dunque che l'italiano delle canzoni si muove tra trasgressione e tradizione, i vari generi delle
canzoni si specializzano per diventare voce dell'italiano medio informale (musica leggera, pop), italiano più
alto dal lessico vario e letterario (indie), italiano macchiato da anglicismi, parole substandard e parole
specialistiche alla moda nel linguaggio dei new media (rap, musiche nonsense).
ITALIANO E TEATRO
Il teatro è caratterizzato da una testualità complessa: infatti al drammaturgo sta la scrittura del testo e agli
attori la voce e il corpo sul palcoscenico. Questo tipo di parlato-recitato non è né un parlato spontaneo
(parlato-parlato) né un parlato programmato (parlato-scritto); è infatti uno scritto per essere detto come se

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non fosse scritto, il cui testo di riferimento è appunto il copione e la cui fruizione è data da una ricezione
plurisensoriale di parole, suoni, mimica facciale, gesti, movimenti, interazioni e contesti scenografici.
Dunque testo teatrale si presenta come un dialogo dalla struttura sintattico-testuale che ricrea quella del
parlato. L'espressione linguistica, infatti, è uno degli strumenti attraverso cui definire il carattere e le
sfumature psicologiche di ciascun personaggio nelle diverse situazioni comunicative. Essendo il teatro
destinato a un pubblico vario, l'italiano teatrale doveva essere di grande comprensibilità, infatti si viene a
creare una lingua che può essere fruita da tutti, sia il popolo colto che quello scarsamente alfabetizzato.
TEATRO PREUNITARIO:
La Cassaria di Ludovico Ariosto fu la prima commedia del teatro moderno italiano, scritta in endecasillabo
sdrucciolo, cioè uno strumento espressivo intermedio fra il genere epico-lirico della tradizione italiana e la
prosa del parlato quotidiano
L'uso linguistico era fluido e naturale.
Con Niccolò Machiavelli abbiamo una rappresentazione viva ed espressiva di ambienti e personaggi di
levatura sociale diversa.
Con Angelo Beolco il Ruzzante abbiamo un teatro dialettale e fiorentino letterato, basato sul modello di
lingua di Petrarca e Boccaccio.
Con la Commedia dell'Arte abbiamo i una recitazione improvvisata basata sui canovacci e l'uso delle
maschere, che determinano caratteri stabili e riconoscibili per l'associazione ad ognuno di loro di un
determinato dialetto (Dottore bolognese, Pulcinella napoletano, ecc.) I comici dell'Arte giravano in tutta
Italia, mediatori fra cultura alta e bassa, in quanto nel loro teatro erano presenti anche elementi del lessico
provenienti dalla tradizione petrarchesca e
Con Carlo Goldoni abbiamo il superamento della Commedia dell'Arte, con l'abbandono sia delle maschere
che del canovaccio: ora abbiamo un copione con una fluida interazione tra italiano e dialetti, forme colte e
familiari, una vera e propria lingua della comunicazione che aiuta a realizzare una rappresentazione
realistica delle situazioni in cui si muovono i personaggi.
TEATRO POSTUNITARIO:
Il teatro di fine Ottocento vede un'intensa stagione di sperimentalismo: viene portato in scena un italiano
caratterizzato da modalità dialogiche informali, in linea con il nuovo realismo borghese. Si rafforza la ricerca
di una lingua comune e unitaria, e allo stesso tempo aperta agli usi del parlato: una terza via tra l'italiano
della tradizione italiana e il dialetto
Con Giovanni Verga, abbiamo una lingua duttile e verista, un italiano dosato con elementi siciliani che
rendono credibile 'ambientazione siciliana ma non intaccano la comprensibilità del testo per il pubblico
nazionale. Grandissima caratteristica della produzione verghiana è quella dimensione sintattica e testuale
ricca di fenomeni del parlato: riformulazioni, false partenze, frasi segmentate, balbetti, che polivalente. in
sostanza siamo di fronte a un italiano regionale.
TEATRO NOVECENTESCO:
Luigi Pirandello cercò di modellare un efficace parlato-recitato sulla base dell'italiano medio, di sintassi
dialogica su cui far rimbalzare i temi del discorso. I segni di punteggiatura e i fenomeni di movimentazione
sintattica (come la dislocazione) servono a scandire il farsi del pensiero e dei movimenti psicologici del
personaggio.
Eduardo De Filippo - superamento della bipolarità lingua-dialetto attraverso l'uso di forme italiane e
regionali di più larga comprensibilità, al posto di forme dialettali poco comprensibili
al pubblico.
Dario Fo - plurilinguismo come base espressiva, in particolare italiano di tipo lombardo con elementi tipici
contemporanei. Importante il suo grammelot, un linguaggio di invenzione il cui senso è dato dalla
commistione di suoni e gestualità.
Negli ultimi anni del Novecento - un teatro di narrazione fondato sull'uso dell'italiano regionale,
principalmente con solo un attore in scena che recita un testo. Riappropriamento del dialetto attraverso il
dialetto teatrale.

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ITALIANO E CINEMA
Nel corso della sua storia, il parlato filmico è stato caratterizzato da una tendenza alla sempliticazione, ed e
stato in grado di rappresentare e portare sul grande schermo situazioni comunicative, personaggi e contesti
dell'Italia del Novecento, diffondendo tra le persone un italiano composito.
Cinematografo: metodo di proiezione messo a punto dai fratelli Lumière, arte e industria che realizzano
film, aggettivo per ciò che è relativo al cinema; Cinema: arte e tecnica della cinematografia, industria
cinematografica, edificio in cui proiettano i film: Film: pellicola.
singole opere cinematografiche,.
Gli albori del cinema - cinema muto del 1895, caratterizzati da didascalie narrative, locutive e tematiche.
Considerato il forte analfabetismo, le didascalie venivano spesso lette da attori in sala o dietro le schermo
Dagli anni '10 del '900 - narratori e romanzieri collaborano nella produzione di film e nella scrittura
aldidascalie, ne conseguono didascalie al elevato grado al letterarietà auliche. Si consolidano forme di un
manierato lessico amoroso, ricalcate dai romanzi d'appendice.
Contemporaneamente
- in altri tipi di film, per ottenere una maggiore
caratterizzazione linguistica, si usa un italiano più realistico, una varietà più colloquiale spesso anche con
parole e frasi in dialetto, volti a rappresentare una storia di vita. Questo genere di film è molto comune
nelle produzioni napoletane destinate al pubblico di emigrati oltreoceano.
Nei film stranieri - si affida la traduzione e l'adattamento delle didascalie ad un adattatore, il cui compito
era di riscrivere e spesso censurare certi contenuti.
Quando il cinema muto italiano inizia a perdere prestigio al subentrare di quello muto americano, la
cinematografia italiana viene rilanciata dal passaggio al film sonoro
Importante fu la questione per la lingua: all'inizio infatti i dialoghi ricalcavano lo stile manierato delle
didascalie, dopodiche, con il film di Camerini "Gli uomini, che mascalzoni" del 1932, iniziamo a vedere una
prima apertura agli usi reali e colloquiali dell'italiano e dei dialetti. Questo film si pone in quella stagione
degli anni Trenta e Quaranta detta del cinema dei "telefoni bianchi" in contrapposizione con i telefoni neri
degli uffici, i telefoni bianchi erano il simbolo nella nuova società italiana della borghesia capitalistica.
In questi anni, la lingua del cinema è influenzata dal fascismo, che spinge verso un italiano rigido e
normativo, con toni aulici e sostenuti adatti alla propaganda di regime.
Nel secondo dopoguerra - vediamo una maggiore apertura verso forme del parlato colloquiale e dialettale:
si apre la stagione neorealista, che si ramifica in due corna. La prima vede un neorealismo impegnato,
incentrato sulle situazioni negli anni della guerra e della Resistenza, e dunque anche una commistione con
lingue straniere; l'altra corna è quella del neorealismo rosa, un cinema di evasione e di commedie brillanti,
volte a fuggire dal ricordo degli anni tragici del conflitto.
Caratteristiche di questo tipo di cinema sono le riprese in estremo, con l'utilizzo di attori non professionisti
presi dalla strada, a cui affiancano dei doppiatori (Roma città aperta di Roberto Rossellini). Inoltre sono
presenti anche degli stereotipi linguistici, come era già avvenuto con la Commedia dell'Arte, volte creare
una corrispondenza tra un certo dialetto e un certo mestiere o carattere (napoletano imbroglione, milanese
affarista, ecc.) Sempre nel secondo dopoguerra - in contemporanea col neorealismo e quasi in contrasto
con esso si creano i film di genere melodrammatico o melò, ispirate alle trame dei romanzi di appendice,
film leggeri e di svago. Ricordiamo per esempio Toto', la cui tecnica recitativa "all'improvvisa" era spesso
destinata a quella dissacrazione linguistica del linguaggio pomposo e aulico del cinema del regime fascista.
Tutto questo trasmesso contribuisce alla diffusione dell'italiano medio e riduce le forme di censura degli usi
regionali e locali. Ricordiamo per esempio che Roma, in quegli anni, è capitale del cinema, e dunque a
questo ruolo si deve la prevalenza nel romanesco nei film.
Nel 1960 - due tipologie di film: film impegnati e film di genere, caratterizzati da una medietà linguistica che
consentiva facilmente di muoversi tra i dialetti e le lingue straniere senza problemi di comprensione da
parte delle platee. Ricordiamo per esempio Federico Fellini (realismo onirico, un realismo deformato
dall'espressionismo e dal grottesco. Il tutto caratterizzato dal plurilinguismo).
Nel 1970 - spettatori compiutamente italofoni, che dunque riconoscono e accettano i dialetti come marca
di appartenenza culturale e sentimentale o anche solo per radicare in particolari territori i racconti di certi
spaccati sociali. Importante la nuova generazione di comici (Benigni, Verdone e Troisi) per il rinnovamento

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dei modi espressivi. Importante anche la minore pressione della censura, che ora permette il registro
disfemico (parolacce).
Nel 2000-2010 - maggiore varietà di forme e contenuti (non solo due tipologie di film) e ricorso sempre più
frequente alle lingue straniere e ai dialetti.
DOPPIAGGIO: grande tradizione a partire dal 1932. In particolare era vietato dal regime fascista la
riproduzione di film in lingua straniera, che dovevano dunque essere ridoppiati. II doppiaggio di questi anni
viene chiamato burlescamente doppiaggese per la sua artificiosità e rigido manierismo, che almeno ebbe
una ricaduta didattica, istruendo il pubblico italiano su un modello di italiano parlato formale.
Nei decenni successivi si cercò una maggiore naturalezza, anche andando incontro ad usi e forme più
dialettali della parola (II Padrino).
Il calco lessicale e semantico sono stati quei calchi rispettivamente di "parole italiane simili a quelle
straniere ma con significati diverse", e di "quelle che assumono un nuovo significato a partire da quello
inglese", nati per sincronizzare i movimenti labiali dell'autore con quelli del doppiatore, e il cui risultato è
stato la stabilizzazione di fraseggi provenienti dall'inglese nell'italiano contemporaneo ("dacci un taglio"
cioè "cut it off" invece di "smettila").
CAPITOLO 4: L'ITALIANO E LA RADIO
La radio ha sempre avuto un ruolo fondamentale, e in base agli orientamenti linguistici e alle tipologie di
trasmissione, possiamo dividere la storia della radio in tre momenti precisi
- Dal 1924 alla fine del fascismo con un italiano aderente alla norma
• Dagli anni del dopoguerra al 1976 anno della riforma della RAI (radio audizioni Italia, dal 1954
Radiotelevisione Italiana) e della nascita delle emittenti private, che accoglie un italiano medio e forme
regionali fino alla contemporaneità caratterizzato dall'iperparlato
Dal 6 ottobre 1924 sotto ('URI (Unione Radiofonica Italiana) la radio comincia a diffondere. sotto lo stretto
controllo del governo, comunicati ufficiali e notizie giornalistiche.
Nel 1928 succede l'EIAR (Ente Italiano per la Audizioni Radiofoniche) e da questo momento la parola
"ascolto" e l'espressione "mettersi all'ascolto" significavano ascoltare la radio". Un ascolto che divenne
obbligatorio, in particolar modo per i comunicati politici (Benito Mussolini, Guerra in Etiopia, 2 ottobre
1935). Le trasmissione iniziano ad avere finalità educative e quindi adoperano un modello linguistico nella
norma.
Tra il 1938-1939 l'EIAR in collaborazione con il Ministero dell'educazione nazionale e con l'Accademia
d'Italia, la quale nel mentre aveva vietato la terminologia settoriale prevalentemente inglese, e aveva
provveduto a traduzioni o adattamenti dei termini (evanescenza=fading, annunziatore=speaker,
spina=jack); trasmisero un corso sulla
Lingua Italiana.
Con lo stesso intento, Bertoni e Ugolini pubblicano un Prontuario di pronunzia e ortografia
(1939), avente come modello_ la pronuncia Roma-Firenze con inclinazione verso il polo
Negli anni Trenta, si diffonde un modello di italiano di maggiore efficacia comunicativa (brevità, chiarezza,
aggettivi icastici, memorabili). Esempio ne è il Manifesto della Radio (1931 e 1933) di Marinetti. In questi
anni nascono nuovi generi radiofonici: giornale radio.
radiodramma,varietà, radiocronaca sportiva.
Durante la guerra la radio diviene un mezzo per soddisfare il bisogno di notizie estere.
Si ascoltano emittenti straniere come Radio Londra, per scoprire le notizie nascoste dal regime fascista.
Dal 1944, con la fine del Fascismo, si abbandonano i canoni linguistici imposti da quest'ultimo, rendendo la
radio accessibile a una più vasta gamma di ascoltatori.
Aumentano i programmi di intrattenimento e varietà, i quiz guadagnano un grande successo.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta le trasmissioni facevano ricorso a letture ad alta voce dei testi e alla
recitazione di quest'ultimi. Da questo momento la pronuncia standard diviene un requisito necessario e
qualificante per i conduttori e i giornalisti..
Tra gli anni Sessanta e Settanta l'invenzione dei Transistor portatili rendono la radio uno strumento
accessibile a tutti. Aumentano i programmi di intrattenimento tra i quali quelli di musica leggera, italiana e
straniera. Il parlato si apre a moduli meno formali e più vicini all'uso medio, accogliendo neologismi e
parole straniere. Nascono i primi DJ (disc jockey).

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Si iniziano a leggere lettere e telefonate indirette facendo si che il pubblico entra in radio.
La prima trasmissione fu Chiamata Roma 3131. In questo periodo c'è anche l'ingresso delle emittenti
straniere come Radio Montecarlo. Le guali sono favorevoli al "microfono aperto".
A partire dagli anni 70, le radio si dividono
- radio palinsesto, nelle quali c'è una sequenza settimanale di programmi distinti per fascia oraria e
pubblico di riferimento, con generi misti. Il parlato è medio-alto, ed è flessibile in base alle trasmissioni.
-radio di flusso, alle quali appartengono le radio musicali, hanno una struttura circolare che viene ripetuta
nell'arco di una stessa giornata, con una pianificazione di musica, pubblicità e informazioni. La figura chiave
è il DJ. Nel parlato si valorizzano la vocalità, la velocità, il ritmo e gli elemento sonori e musicali, ovvero gli
aspetti espressivi del linguaggio.
Ma è proprio per le sue caratteristiche, che la radio flusso è diventata il modello per la radio palinsesto.
A partire dagli anni delle radio libere, lo stile del parlato diviene informale: compito dello speaker è quello
di riuscire a mantenere l'attenzione dell'ascoltatore, ma ciò non significa che il parlato non vari. Molte volte
si fa ricorso al dialogo, più o meno fittizio, in cui il conduttore si rivolge agli ascoltatori e sollecita le risposte
alle sue domande. Ma questo rappresenta uno "specchio infedele del parlato spontaneo", in quanto non
solo riproduce le varietà realmente usate, ma a volte mescola e, in parte, deforma a causa dell'effetto
programmato dei testi.
Oggigiorno si è sviluppata la social-radio, ovvero un ibrido tra la radio tradizionale e la sua corrispondente
digitale.
II lessico della radio è formato da neologismi, forestierismi, frasi fatte, stereotipi.
L'ITALIANO E LA TELEVISIONE
Il trasmesso della televisione, nel quadro della comunicazione contemporanea, è uno tra i mezzi di
comunicazione di massa che ha contribuito a consolidare lo spazio linguistico
Nazionale. Le sue trasmissioni hanno avvio nel gennaio del 1954, e hanno rappresentato un punto di
riferimento per un uso sorvegliato della lingua, lasciando comunque spazio a varietà più informali. Anche se
per le scelte di stili linguistici di alcuni programmi la televisione è stata considerata una "cattiva maestra'
La linguistica dei primi anni 20 (1954-1976), detta paleotelevisione (distinzione offerta da Umberto Eco,)
era un modello di riferimento, nonché di scuola, di lingua indiretta. Infatti si diffuse sul territorio la sua
attenzione, inizialmente pedagogica, con lo scopo di educare, informare e intrattenere
(BBC).
Come per la radio, i conduttori e gli annunciatori venivano formati con corsi di dizione che miravano
insegnare la pronuncia standard di base. Nel 1951 ha contribuito
in mare
efficace all'alfabetizzazione e all'istruzione. L'italiano realmente parlato nel paese, fa il suo ingresso in
televisione per effetto di due fenomeni: la partecipazione del pubblico e quiz e l'introduzione di
trasmissioni estere di larga popolarità.
La televisione è riuscita anche a rendere il teatro a disposizione di tutti gli italiani, con il cosiddetto
teleteatro (Eduardo De Filippi), ed è riuscita a diffondere alcuni grandi capolavori della letteratura
attraverso la riduzione in sceneggiati.
Le trasmissioni per i ragazzi tendevano a mostrare un lessico di italiano e a costruire una testualità del
registro brillante e dal tono affidabile, anche se oggi i ragazzi non gradiscono più la televisione, perché
orientati verso una televisione personalizzata e canali internet.
Con la riforma della RAI nel 1976, le televisione locali mirano da usi linguistici più marcati in diatopia.
Negli anni 80, si registra un grande successo dovuto alle telenovelas e alle soap opera straniere, anche se il
loro linguaggio non era sempre accurato per effetto delle traduzioni. rendendolo inverosimile rispetto alle
situazioni comunicative rappresentate. Cosi prende avvio un autonoma produzione di fiction, ed e proprio
grazie a queste ultime che in televisione vengono riprodotti i dialetti, che divenendo una forma intelligente
di ricreazione artistica. Cosicché l'italiano dell'uso medio trionfi sulle altre varietà dell'italiano televisivo.
Prevalgono così forme e generi ibridi, anche se il telegiornale rimane la forma più stabile e conservativa del
linguaggio. Spicca la figura dell'opinionista: ovvero una persona non necessariamente colta in un campo del
sapere o professionale, che viene chiamato ad esprimere le sue opinioni a commentare gli eventi e gli
accadimenti interni ad un programma.

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Sotto quest'ottica, questi aspetti si ricollegano a un autoreferenzialità del medium televisivo: è la
televisione e sceglie i propri contenuti, parla di se stessa ed elegge se stessa a oggetto di
commercializzazione di fatto, amplificano il suo ruolo e sostituendosi al mondo esterno (metatv). II lessico
televisivo è legato alle trasmissioni, e in base a ciò possiamo avere un linguaggio specialistico della
televisione italiana teletrasmessa che possa assolvere a più funzioni.
CAPITOLO 5: L’ITALIANO PER LE ISTITUZIONI
Con italiano della burocrazia e dell'amministrazione si identifica lo stile e il registro nel quale è redatto il
diversificato ventaglio di testi scritti, cui è affidata la comunicazione tra istituzioni e cittadini.
Esso costituisce un modello prestigioso di italiano formale, caratterizzato da una
sovrabbondanza di tecnicismi lessicali. scelte lessicali ricercate anche quando non ve ne e la necessità
(tecnicismi collaterali), ridefinizioni in senso eufemico ("collaboratore scolastico" per "bidello"),
terminologia rivista secondo i termini del politicamente corretto ("diversamente abile" per "disabile"),
sostantivazione dell'aggettivo, nominalizzazione del verbo, uso di forme impersonali e passive per
contribuire alla spersonalizzazione del testo, arcaismi e dagli anni
Novanta anche anglicismi secondo il modello delle lingue aziendali.
I testi di ambito burocratico amministrativo sono dunque testi mediamente o molto vincolanti, cioè sono
caratterizzati da una rigida codificazione che serve proprio a sottrarre spazio ad interpretazioni arbitrarie.
Rapporto linguaggio burocratico e linguaggio giuridico: hanno entrambi la comune lontananza dalla lingua
parlata e scritta di uso comune, tuttavia il linguaggio giuridico è espressione del legislatore e del giudice,
mentre quello burocratico amministrativo è il frutto della prassi amministrativa, ed è proprio quest ultimo a
creare un ponte tra la norma giuridica e la sua concreta realizzazione.
STORIA DELL'ITALIANO BUROCRATICO
Nasce in seguito all'Unità d'Italia (1861), dato proprio dalla necessaria collaborazione tra funzionari che
hanno dunque la necessità di adoperare una lingua comune. Essendo che i funzionari erano tenuti a
trasferirsi nelle varie regioni, vediamo avvenire uno scambio di terminologie locali che entrano nel modello
dell'italiano burocratico.
Tuttavia le origini dell'italiano burocratico risalgono al latino, in quanto spesso, non disponendo l'italiano di
un lessico specialistico, si ricorreva al latino (mistilinguismo giuridico).
Altro contributo è dato dal francese, considerata la lingua che, grazie al rinnovamento intellettuale
presentato nell'Illuminismo, era in grado di esprimere concetti legati all'amministrazione statale. In misura
minore e in tempi più moderni, vediamo anche influenze di altre lingue come l'inglese
Fin da subito emergono ostilità legate all'italiano burocratico-amministrativo, dovute soprattutto al fatto
che la lingua non fosse comprensibile ai cittadini e, anzi, creasse una cortina tra l'individuo e le istituzioni.
Tutt'oggi sussiste questo problema di scarsa comprensibilità, tant'è che questo linguaggio viene
stigmatizzato e chiamato "burocratese", appunto per criticare la sua inutile complessità, il lessico obsoleto
e la sintassi involuta.
Per anni si è parlato di semplificazione del linguaggio amministrativo attraverso i criteri di chiarezza,
precisione, uniformità (riconoscere senza equivoci quando ci si riferisce allo stesso argomento), semplicità
ed economia.
CAPITOLO 6: COERENZA E COESIONE DI UN TESTO
il testo è quell'entità che ci permette di saldare la dimensione cognitiva e ideativa del linguaggio con quella
comunicativa e sociale. Non a caso, per descrivere la natura e l'organizzazione del testo, si prendono in
considerazione fattori eterogenei che riguardano sia la grammatica della lingua, sia aspetti cognitivi, sociali,
culturali. Questi fattori possono essere ricondotti a tre diversi ambiti: quello grammaticale, quello testuale
e quello situazionale o contestuale. Possiamo dire che con la nozione di testo si designa l'unità di
riferimento della comunicazione linguistica, costituita da uno o più enunciati il testo è, quindi, un'entità
dotata di senso che, permette di soddisfare un obiettivo comunicativo. Il termine italiano testo deriva dal
latino TEXTUS «(in) tessuto», participio passato del verbo TEXERE («tessere»), L'uso metaforico del termine
risale al retore Quintiliano. Come accade per un tessuto, infatti, anche di un testo si descrivono l'intreccio,
la trama. Al medesimo campo semantico si ricorre anche quando si dice che si è perso (o si segue) il filo di
un discorso. La percezione di una dimensione testuale emerge in tante valutazioni metalinguistiche fatte
anche nel linguaggio comune e nella nostra esperienza quotidiana. Ogni qual volta definiamo un testo

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senza capo né coda, stiamo segnalando a un interlocutore che non ritroviamo in un testo ciò che ci
saremmo aspettati: l'unità, la continuità e la progressività dei contenuti e del senso. In un testo ci
aspettiamo di trovare anche una certa compattezza, data dai collegamenti e dalle connessioni tra le sue
parti. Queste due proprietà hanno un nome: la prima è la coerenza, la seconda è la coesione.
Coerenza e coesione non sono sullo stesso piano: la coerenza è sovraordinata rispetto a tutte le altre
proprietà del testo (cioè è da considerare indispensabile e fondamentale), mentre la coesione è una
proprietà sì tipica dei testi, ma non necessaria. Possiamo quindi sintetizzare questa differenza dicendo che:
la coerenza costituisce la quidditas di un testo (dal latino quid «che cosa?»), ovvero la sua componente
sostanziale (essa, quindi, è ciò che fa di una sequenza di enunciati un testo); la coesione e le altre proprietà,
invece, individuano la qualitas di un testo: permettono di riconoscere i connotati e le caratteristiche di un
testo, senza però esserne «condizioni di esistenza necessarie e sufficienti».
Il testo è un'entità semantica e pragmatica, cioè dotata di senso e di un obiettivo comunicativo globale.
Questa definizione consente di mettere in evidenza due aspetti. Il primo è che il senso globale di un testo si
sviluppa progressivamente grazie all'intreccio tra: (1.) i valori e i significati esplicitamente codificati
linguisticamente;
(2.) i contenuti impliciti;
(3.) le informazioni che si ricavano dal contesto (informazioni contestuali). Il secondo è che questo intreccio
serve a veicolare significati fra un emittente e un ricevente: come è attraverso testi che emittenti e
riceventi si scambiano conoscenze e informazioni, perché è attraverso testi che si dà forma a contenuti
ideativi e intellettuali.
È necessario approfondire ancora due aspetti che riguardano il termine e il concetto di testo nel loro
impiego in senso tecnico. Una prima precisazione va fatta in relazione alla lunghezza del testo. Infatti,
«l'essere testo» non dipende dall’estensione, che può oscillare entro una gamma che va dal singolo
enunciato, anche di una sola parola, a centinaia di pagine raccolte in più volumi.
In una battuta, riecheggia una considerazione di Halliday, “l'essere testo
non è questione di grandezza e di taglia”. Ciò che a noi tocca stabilire, sono le competenze necessarie per
produrre testi così diversi. Un secondo approfondimento tocca la variazione diamesica. Le caratteristiche
relative ai modi in cui i testi sono costruiti in modo coerente e coeso, si riferiscono alla produzione che
tende verso il polo dello scritto-scritto.
Le osservazioni relative allo sviluppo dei tenni e al ruolo dell'implicito saranno svolte avendo come punto di
osservazione e di riferimento il testo scritto (scritto): cioè un testo che «ci permette in ogni momento una
visione panoramica dell'edificio testuale», perché non è condizionato dal «filo lineare e unidimensionale del
tempo», come invece accade nel parlato-parlato.
Il parlato prototipico ha una sua peculiare organizzazione testuale adatta al canale fonico-acustico e alle
condizioni in cui avviene la comunicazione a voce. La diversa organizzazione testuale del parlato-parlato
rispetto allo scritto-scritto non significa affatto che il parlato manchi di coerenza logica: in una
conversazione i temi possono susseguirsi e intrecciarsi in modo imprevedibile e dinamico, ma non in modo
illogico. Insomma, nel parlato prototipico si sfrutta la compresenza e la prossimità di parlante e ascoltatore,
ma ciò non implica che, nell'insieme degli enunciati, non sia riconoscibile un obiettivo comunicativo globale
di fondo. Nel parlato la coerenza è il risultato di un lavoro interpretativo altamente dinamico, al quale
arriva un destinatario «cooperativo», disposto a riconoscere i rapporti fra i singoli enunciati e a costruire un
campo di interpretazione adeguato, cioè, a individuare «una struttura capace di mettere insieme i
frammenti sparsi in vista di uno scopo comunicativo unitario.
DIFFERENZA TRA DISCORSO E TESTO
Discorso e testo sono due termini tanto importanti quanto polisemici, perché dotati di alcune
sovrapposizioni che è opportuno disambiguare.
Nel linguaggio comune discorso e testo mostrano un legame con l'idea di lingua «in atto e in uso». Per
ragioni di tradizione storica, negli studi linguisti la nozione di discorso è legata all'oralità e quella di testo
allo scritto.
Quanto alla nozione di discorso è un’analisi che si basa sul livello di astrazione da i foni, alle parole fino ad
arrivare alle parole. Un utile punto di partenza può essere il richiamo del padre della moderna linguistica il

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ginevrino Ferdinand de Saussure. Sotto l'etichetta di discorso lo studioso inserisce, ciò che i singoli individui
fanno ogni qual volta si servono di una lingua per comunicare:
“L'obiettivo della linguistica del testo [-] consiste nella definizione della struttura semantica del testo e delle
sue manifestazioni più caratte-ristiche, privilegiando le forme scritte monologiche”.
Come mostra Ferrari, la differenza tra testo e discorso riguarda il livello di analisi o il ruolo degli elementi
extralinguistici.
Il livello testuale è quello relativo alla texture, cioè la componente semantico-linguistica del testo; la
texture dello scritto-scritto è l'oggetto di studio della linguistica testuale, mentre il parlato spontaneo e la
conversazione, rientrano negli interessi dell’analisi conversazionale. In sintesi la texture è la componente
testuale, cioè logico-semantica, del discorso. La nozione di testo si riferisce tendenzialmente solo alla
produzione scritte, mentre quella di discorso è adoperata solo per la produzione parlata e, in particolar
modo, per la conversazione spontanea. Questo uso è invalso perché anche le produzioni di parlato-parlato
hanno una loro dimensione testuale, naturalmente diversa da quella dello scritto-scritto. Un testo viene
adoperato come termine generale per individuare sia il «prodotto», sia il «processo», visti in rapporto ai
fattori extralinguistici che collaborano a determinare la significatività comunicativa dei testi. Usando in
questo modo la nozione di testo, quella di discorso viene impiegata in modo «mirato», per «dar riferimento
specifico alla dimensione interattiva» e processuale di un evento comunicativo.
Da oggi quindi useremo la parola testo come termine generale per tutte le produzioni realizzabili lungo il
continuum della dimensione diamesica, indipendentemente dal fatto che un testo sia veicolato mediante il
canale fonico-uditivo o quello grafico-visivo e sia caratterizzato da una concezione e organizzazione
strutturale più legata al polo del parlato-parlato o a quello dello scritto-scritto.
ALTRE CINQUE CONDIZIONI DEL PROCESSO COMUNICATIVO
Accanto a coerenza e coesione, possono essere individuate altre cinque condizioni senza le quali il processo
comunicativo fallisce o si realizza in modo parziale e insoddisfacente:
1. Intenzionalità
Emittente/Produttore, è la proprietà di un testo di possedere un fine e un obiettivo comunicativo globale
che l'emittente vuole far cogliere e riconoscere al destinatario.
2. Accettabilità
Destinatario/Interpretante, risiede nella volontà del destinatario di un testo di accettare lo scambio
comunicativo e di compiere la sforzo Interpretativo necessario per comprendere.
3. Informatività
Conoscenze fornite dal testo, è la proprietà del testo di modificare e aumentare le conoscenze del
destinatario.
4. Situazionalità
Contesto e situazione specifica, La Situazionalità è la proprietà del testo di essere adeguato alla situazione
comunicativa in cui viene usato.
5. Intertestualità
Altri testi, individua il tipo di dialogo e di relazione, citativa o allusiva, che ogni testo intrattiene con altri
testi, del medesimo produttore o di alti.
5b. Quintitas testuale, il testo deve essere coerente con gli elementi costituenti quest’ultimo.
Le attività di produzione a interpretazione sono regolate de tre principi: l'efficacia, l'efficienze e
l'appropriatezza (che deve tener conto degli interlocutori). Un testo è tanto più efficace quanto più produce
conseguenze emotive e cognitive sui destinatari, sarà, inoltre, tanto più efficiente quanto minore è lo sforzo
cognitivo richiesto al destinatario per comprenderlo. Se l'efficacia misura la capacità di un testo di produrre
conseguenze, mentre l'efficienza riguarda «la quantità e qualità dello sforzo che il destinatario deve
compiere per comprendere, è evidente che esse operano in direzioni opposte e devono raggiungere un
punto di equilibrio.
CAPITOLO 7: COERENZA E COESIONE
Nozione di coerenza:
Il termine coerenza ha due diverse accezioni. Nel senso comune, il termine coerenza è inteso soprattutto
come non contraddittorietà e assenza di conflitto fra concetti (in inglese si usa, in questo caso, consistency).

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Come consistency, la coerenza si fonda su un sistema di criteri che sono indipendenti dal singolo testo,
perché tendenzialmente stabili nel tempo: la consistency deriva da quella “grammatica dei concetti” che è
alla base della nostra visione del mondo. Veniamo così al secondo impiego del concetto di coerenza (per il
quale, in inglese, si parla di coherence): quello di coerenza testuale, In questo caso, la coerenza è data dalla
riconoscibilità di uno specifico progetto comunicativo, contingente al singolo testo: un testo è coerente se
gli enunciati che lo compongono, in modo progressivo, costruiscono un messaggio complessivamente
unitario. Se la consistency è un concetto definito in negativo, come assenza di contraddizioni, la coerenza
testuale è invece definibile in positivo: cioè, come «una proprietà positiva» della relazione tra i contenuti
degli enunciati e il testo che li accoglie. In definitiva, in un testo, la coerenza testuale si fonda sulla capacità
di “sviluppare un progetto comunicativo, articolandolo in un numero indefinito di enunciati” che
collaborano allo scopo di costruire un messaggio unitario e adeguato a un contesto. Si danno anche casi in
cui i testi sono costruiti sfruttando la contraddittorietà dei concetti e il non-sense, oppure attraverso il
montaggio di sequenze testuali che, non collaborano a costruire un senso complessivo unitario: si tratta di
testi che vogliono apparire illogici. Dinanzi a testi così costruiti, il lettore è chiamato a cooperare e compiere
uno sforzo per individuare una chiave interpretativa. Soffermiamoci su un possibile caso di sequenze tratte
da raccolte di testi riconducibili all'ambito poetico-letterario che adopera le tecniche del collage, del cut up,
dell'eavesdropping (lett. «l'ascoltare di nascosto», in riferimento a sequenze di enunciati o parole accostate
secondo una modalità di montaggio che imita l’ascolto casuale di conversazioni per strada). Dinanzi a casi
come questi, il lettore sa di essere davanti a un testo letterario scritto da un poeta (o da ano scrittore di
racconti): perciò, può ragionevolmente ritenere che l'incoerenza aia stata intenzionalmente scelta «per
ottenere specifici effetti interpretativi». Inoltre, chi legge è sollecitato dal fatto che le singole sequenze
sono parte di un «testo più grande» (cioè di un macrotesto) che le accoglie e ne orienta l'interpretazione
complessiva. Infatti, è anche il modo in cui sono montate le sequenze dà l’impressione che siano costruiti in
modo da sembrare estratte, in modo casuale. Ora ci interessa mettere a fuoco un aspetto più generale, che
vale per tutti i testi: giocano un ruolo cruciale il patto comunicativo e interpretativo fra il mittente e i
destinatari. Se la coerenza non è intrinsecamente contenuta nelle singole espressioni che compongono il
testo, ma emerge man mano che si riconosce in un testo un progetto comunicativo globale, ciò significa che
la coerenza è un principio che guida l'attività interpretativa del ricevente.
Inoltre, in quanto principio che guida l'interpretazione, la coerenza va intesa come una proprietà graduale.
nozione di coesione
Abbiamo individuato tre proprietà che si riconoscono in un testo coerente: unitarietà, la progressione e la
continuità. L'unitarietà assicura che nel testo esista un nucleo di senso fondamentale; a loro volta, con la
loro presenza, la progressione e la continuità permettono al testo di svilupparsi senza che vi sia una
ripetitività dei contenuti o, al contrario, un loro eccessivo sfilacciamento. Ora possiamo aggiungere che
ciascun testo possiede una sua peculiare architettura semantica proprio grazie a queste tre proprietà, che si
articolano in tre piani di organizzazione: quello referenziale, quello logico-semantico, quello enunciativo. In
particolare, progressione e continuità possono essere sostenute da dispositivi linguistici che riflettono i
rapporti e i collegamenti fra le diverse parti del testo. A questo concetto diamo il nome di coesione. I
dispositivi coesivi si dispongono e operano a tutti i livelli linguistici.
I DISPOSITIVI ANAFORICI
Un primo piano della coesione è quello referenziale: all’interno di questo piano l’unità e la continuità del
testo avvengono grazie ai dispositivi anaforici.
Un referente testuale può essere ripreso mediante vari tipi di anafore (dal greco “anà” sopra e “phèrein”
portare). Notiamo che un sintagma nominale, come ad esempio “la madre”, instaura a sua volta un
referente testuale. Una volta instaurato questo referente è ripreso in modi diversi: più volte attraverso il
“soggetto zero”, e in casi mediante la forma del pronome personale di III persona. Le anafore sono
organizzate in tre diverse catene anaforiche: ciascuna di esse ha un elemento iniziale che è chiamato
antecedente o punto d’attacco, e diverse forme di ripresa dette “proforme”. Con anafora si designa
un’espressione del testo che, per essere interpretata, richiede un rinvio ad un elemento che compare nella
porzione di testo precedente.

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CATAFORA
Denominiamo “catafora” (dal greco”katà” sotto, “phèrein” portare) le espressioni linguistiche la cui
interpretazione si risolve nel contesto seguente. L’uno (anafore) instituisce un rinvio ad un punto d’attacco
nel contesto precedente, l’altro in quello seguente. Tuttavia, anafora e catafora sono sensibilmente diverse.
Infatti la prima è fondamentale per il testo per assicurargli continuità e unitarietà. L’altra è un
procedimento marcato, poiché costringe a sospendere l’interpretazione del testo.
GLI INCAPSULATORI ANAFORICI E CATAFORICI
Esiste un particolare tipo di meccanismo anaforico affidato ai cosiddetti “incapsulatori anaforici e
cataforici”. Si tratta di un dispositivo che si serve sia di elementi del lessico sia di elementi grammaticali.
Essi si riferiscono al contenuto di uno o più enunciati e di sequenze più o meno ampie del cotesto. Gli
incapsulatori servono a riprendere o anticipare un processo. Gli incapsulatori possono essere usati anche
all’interno di un dispositivo cataforico. In questo caso il movimento in avanti crea una sospensione e genera
un effetto di attesa e curiosità. Ad essi sono affidate un’interpretazione e una valutazione che esprimono il
punto di vista dell’istanza enunciativa del testo su quanto procede e segue: si pensi, ad esempio, a
incapsulatori molto usati nel linguaggio giornalistico come: “inaspettata decisione” o “terribile disgrazia”.
Abbiamo osservato che elementi anaforici e cataforici riferiti a un medesimo referente costituiscono catene
anaforiche e cataforiche. Più un testo è ampio e articolato più numerose sono le sue catena.
I VARI TIPI DI ANAFORE
Le anafore sono generalmente distinte in tre grandi gruppi:
1. Per ripetizione
2. Per sostituzione
3. Per contiguità di significato
Questa distinzione si intreccia con quella di anafore con coreferenza, totale o parziale, e anafore associative
e non coreferenziali. .
ANAFORE ASSOCIATIVE i linguisti considerano un meccanismo anaforico quello per il quale se introduco un
referente, possono parlare di una delle sue componenti come se fosse una cosa già nota es. Ieri l’Argentina
è scesa in campo permette di dire il calciatore ha tirato in rete, questo meccanismo, chiamato frame, con
cui si può andare più veloce nel presentare gli elementi della scena, perchè si tiene già conto che nel
contesto del calcio la rete è diversa da quella dei pescatori.
ANAFORA COREFERENZIALE
Cioè quel tipo di anafora in cui gli elementi anaforici rinviano ad un elemento testuale introdotto nel
cotesto precedente con cui sussiste un’identità referenziale.
 ANAFORE PER RIPETIZIONE: il meccanismo della ripetizione viene sfruttato quando il punto
d’attacco e l’espressione anaforica coincidono lessicalmente
 ANAFORE PER SOSTITUZIONE: il meccanismo di sostituzione è sfruttato ogni qual volta che la
ripresa anaforica avviene con un’espressione linguistica diversa da quella antecedente. In questi
casi il soggetto zero è possibile adoperarlo nel momento in cui non generi ambiguità e confusione
in chi legge o ascolta un testo. Confusione e ambiguità possono sorgere per esempio se
l’antecedente è troppo distante e poco accessibile, in quel caso si parla di “interferenza
referenziale”.
 ANAFORA LESSICALE, la sostituzione di una parola con’un altra attraverso i sinonimi. Del resto a
volte tra i sinonimi c’è una differenza ad esempio weekend e fine settimana, nella parola week end
c’è un prestito non adattato, cioè l’italiano se lo è preso così come stava nell’altra lingua. I prestiti
sono le parole di un’altra lingua che entrano stabilmente nella lingua italiana. I prestiti effimeri è
quando c’è una moda linguistica. I prestiti si distinguono in interni (dialettalismi o dialettismi
dell’italiano, parole entrate stabilmente nell’italiano) ed esterni.
 ANAFORE VALUTATIVE ED EMPATICHE, sistema per il qaule vengono usati degli aggettivi non
neutri, ma che anzi esprimono un giudizio. Ad esempio, “mia madre, ogni sera torna tardi da lavoro
e non solo deve preoccuparsi di svolgere le varie mansioni di donna di casa, me deve anche badare
a noi. La poverina…”.
 ANAFORE PRAGMATICHE, viene usata per riferirsi ad elementi del cotesto, usufruendo di
espressioni della propria enciclopedia (ovvero quel sistema che fa riferimento all’insieme delle
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conoscenze del mondo circostante che una persona possiede). Ad esempio ci ritroviamo dinanzi ad
un testo che parla di Enzo Fearrari, creatore della macchina Ferrari. Viene poi utilizzata
l’espressione “le rosse di Maranello” che rinvia all’elemento prima utilizzato, magari “la ferrari”,
che può essere riconosciuto solo da chi comunque ha informazioni inerenti a questo tipo di
argomenti. C’è da dire che però a questo riguardo che le conoscenze enciclopediche su cui si basa
l’anafora non devono essere necessariamente già in possesso del destinatario affinché
l’interpretazione del testo sia per lui possibile. Al contrario, proprio i dispositivi anaforici possono
essere uno strumento attraverso il quale le conoscenze del lettore/ascoltatore vengono
progressivamente ampliate.
La sostituzione può avvenire anche servendosi di costituenti con un elemento lessicale, cioè con
parole semanticamente piene (in genere sinonimi, iperonimi e iponimi). Per i sinonimi abbiamo
delle relazioni di sinonimia, ovvero usare un vocabolo simile per richiamare un altro usato
antecedentemente. Esempio: velivolo per aereo. Per gli iperonimi e iponimi, invece abbiamo le
relazioni di iperonimia e iponimia, cioè la relazione fra due termini dei quali l’uno, l’iperonimo, ha
un’estensione semantica maggiore dell’altro, l’iponimo, e dunque lo contiene. Esempio: iponimo
madre e padre, iperonimo genitori.
PIENEZZA SEMANTICA E AUTONOMIA REFERENZIALE DELLE ANFORE
Nei casi di anafore prive di corpo fonico e di anafore pronominali siamo dinanzi a sostituti
semanticamente vuoti, che hanno bisogno dell’antecedente per riempirsi di un contenuto
semantico e per trovare una referenza : queste anafore sono sia semanticamente, sia
preferenzialmente indipendenti dell’antecedente. A loro volta, i sostituti lessicali sono
semanticamente pieni: quindi essi non solo rinviano a un referente testuale che mantengono attivo
nella memoria del lettore, ma ne offrono anche un arricchimento semantico e/o pragmatico,
aggiungendo tratti denotativi o connotativi. I sintagmi nominali anaforici sono quindi
semanticamente pieni, ma referenzialmente sono dipendenti dall’antecednte. Vi sono poi anche
sostituti lessicali che sono sia semanticamente autonomi, sia referenzialmemente autonomi,
perché designano “da soli” la stessa identità già introdotta dall’antecedente.
LA PSEUDOREFERENZIALITÀ
Precisiamo che non sempre le anafore grammaticali instaurano un rapporto di identità referenziale
con il punto d’attacco. In alcuni casi infatti, il rapporto fra antecedente ed elemento di rinvio è
meno canonico. La coreferenza può essere parziale o può non sussistere identità referenziale fra
punto d’attacco e forma di ripresa. In questi casi si parla di pseudoreferenzialità. Quindi si parla di
un qualcosa (tema o Type) e poi andando avanti col testo le forme anaforiche “ne-un’altra-un altro”
consentono di evocare rispettivamente il tipo di oggetto che il narratore-protagonista decide di
adoperare (Type), e il nuovo singolo oggetto che viene effettivamente adoperato (un altro e
diverso specifico token, del type).
In sintesi quindi si definisce con referenziale quel tipo di relazione anaforica in cui l'elemento di
ripresa rinvia a uno specifico referente già introdotto da un'espressione antecedente con cui
sussiste identità referenziale, possono essere definiti pseudoreferenziali i dispositivi anaforici in cui
fra l’elemento anaforico e il punto d'attacco non vi è coreferenzialità, ma, ad esempio, un legame
che chiama in causa solo la forma dell’elemento precedente. Mentre si considerano associative
quelle anafore in cui non vi è identità referenziale fra il punto d'attacco e gli elementi di rinvio e
questi ultimi sono indirettamente generati dal cotesto su base lessicale, testuale o enciclopedica.
CATENE ANAFORICHE
Va però precisato che la scelta di un'anafora più povera e leggera o, al contrario, più pesante e
semanticamente ricca non dipende solo dalla mera distanza fra l'elemento anaforico e
l'antecedente che deve essere ripreso. Piuttosto, la scelta del tipo di anafora si fonda sul grado di
attivazione di un referente testuale. Infatti, quanto più un referente testuale è saliente per il
lettore, cioè presente e attivo nella sua memoria, tanto pin l'anafora può essere leggera. Se, invece,
un referente è semi-attivo, cioè ricavabile o per inferenza o dalla memoria testuale relativa a
quanto è stato da poco evocato nel cotesto precedente, allora l’anafora sarà più ricca. Infine,
quando un referente non è attivo, sono necessarie anafore pesanti e semanticamente ricche.

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PROGRESSIONE TOPICALE
Si parla di progressione topicale, quando ci si riferisce al modo in cui, all'interno dell'architettura
topicalenel testi del testo, sono organizzate le informazioni attinenti a uno specifico referente che è
detto Topic: ovvero quel referente sul quale gli enunciati forniscono informazioni. Topic (o
Tema)/Comment (o Rema): essa consente di riconoscere ciò di cui si «parla» (il Topic) e ciò che
viene detto sul Topic, cioè il Comident (ma possono esservi anche enunciati privi di Topic, detti
rematici, cioè costituti solo dal Comment o Rema).
Appuntato questo c’è bisogno di dire che esistono cinque tipi principali di progressione topicale.
1. Con topic costante: si ha una progressione costante quando il topic di un enuciato viene
mantenuto per più enuciati,ciascuno dei quali aggiunge una predicazione sul topic.
( Lo zolfo [topic] è molto diffuso in natura ,sia allo stato libero sia combinato con altri elementi. Si
trova [sogg.sott. Topic] nei minerali e nelle acque ma anche negli organismi viventi. Allo stato pure
[sogg.sott. topic] è di colore giallo citrino, molto infiammabile.)
Per scomposizione da un topic [costante associativa]: Si ha una progressione per scomposizione da
un Ipertema quando un singolo topic è scomposto nei singoli Sottotopic che lo
compongono,ciascuno dei quali diviene il topic degli enunciati successivi. Si parla in questo caso
anche di progressione costante associativa
(Il gatto di Maria (ipertema) è particolarmente bello: gli occhi [topic] sono vispi e verdi,il pelo
[topic] è grigio e lucido,le zampe [topic] sono sottili.)
2. Con topic lineare (diretta): Si ha una progressione lineare quando il topic di un enuciato
riprende uno o più referenti introdotti all’interno di un comment precedente.
(Mio padre [topic] ,ormai in pensione,ha affittato un giardino;il giardino [topic] è popolato da gatti;i
gatti [topic] ricevono cure da una signora che abita a pochi passi..)
3. Per scomposizione da un Comment (lineare associativa): Sia una progressione per
scomposizione da un ipertema quando un singolo comment è scomposto e produce per
contiguità e associazione semantica referenti con funzione di topic negli enunciati successivi.Si
può parlare anche di progression lineare associativa.
(sorprendendo tutti,per il suo compleanno, mia sorella [topic] ha chiesto e ricevuto dai suoi amici
due animali domestici: dopo un mese,il gatto [topic] è un ottimo coinquilino:;il came [topic] le da
un senso di calore quando torna da lavoro.)
4. Con Topic globale: Quando un topic presenta come referente l'intero contenuto di uno o più
enunciati precedenti come accade con gli incapsulatori. La progressione con topic globale può
essere sia diretta sia associativa.
(Mario ha seguito tutte le esercitazioni e lezioni del corso di storia. Questa scelta [topic
riassuntivo di enunciato] si rivelerà fruttuosa])
5. A salti: Quando ogni singolo enunciato presenta un topic diverso da quello dell'enunciato
precedente.
(un giovane re [topic] trascorreva le sue giornate Osservando le persone che camminavano nella
piazza su cui affacciava la sua finestra. Una principessa di una contrada lontana [topic] giunse in
piazza. Un anziano consigliere [topic] fu informato dell’arrivo della giovane e penso di suggerire al
sovrano di invitarla a palazzo. )
LA DEIESSI
La deissi è un fenomeno che stabilisce un punto di contatto fra testo e contesto e che “apre” il
testo al contesto. Con il termine deissi si designa, infatti, il ricorso a quegli elementi linguistici che
rinviano alla realtà extralinguistica possono essere interpretati solo facendo riferimento ai fattori
contestuali di una specifica situazione comunicativa: gli elementi deittici (pronomi, avverbi, verbi).
Gli elementi deittici funzionano come indici capaci di identificare e fare riferimento ai partecipanti
di uno scambio comunicativo, a oggetti e persone presenti nello spazio da loro condiviso, oltre che
al tempo e al luogo in cui si svolge l'atto comunicativo. Va sottolineato però che sono definiti
deittici di persona i pronomi personali impiegati in riferimento agli interlocutori e alle persone che
partecipano a uno scambio comunicativo. Va a questo punto evidenziata una differenza tra le
prime due persone (io-tu) e la terza (egli ella- essi-essa-esso) persona: definita, infatti, non-persona

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dal linguista francese Émile Benveniste. Mentre io e tu hanno solo un uso deit-tico (e sono, quindi,
intrinsecamente deittica), i pronomi lui/lei a loro ammettono sia un uso deittico, sia un uso
anaforico (e non sono, quindi, intrinsecamente deittici). Nel primo caso i pronomi di terza si
riferisco non a qualunque persona (o cosa) che, non coincide né con chi parla né con chi ascolta, ma
è presente in un certo contesto situazionale, come nell'esempio:
A [rivolgendosi a B]: Si sta facendo tardi per lo spettacolo delle otto!
B [indicando ad A una terza persona che è appena giunta]: Non sono stata io a far tardi: rimprovera
lui. Nel secondo caso, invece, sono usati per realizzare atti di rinvio e non di riferimento: cioè, per
designare una persona, una cosa o un fatto assenti nella situazione comunicativa, ma già evocati e
nominati nel corso dello scambio dialogico:
A [rivolgendosi a B]: Quando al festival di poesia vedrai Tommaso chiedigli se può darmi una mano.
Lui saprà sicuramente consigliarmi bene.
Accanto alla deissi personale, vanno menzionate anche la deissi spaziale e temporale. Infatti, gli
avverbi spaziali (qui, qua, Iì, là, ecc.), i dimostrativi (questo e quello) e verbi come “venire e andare”
funzionano come deittici spaziali: essi, cioè, ancorano quanto si dice al qui di una specifica
situazione comunicativa, all'interno della quale persone e oggetti sono vicini o lontani rispetto al
parlante. In particolare, in riferimento ai dimostrativi, il prossimale “questo” indica vicinanza al
parlante, il distale “quello” segnala lontananza dal parlante. Ricordiamo che i dimostrativi hanno sia
un impiego deittico, sia un uso anaforico; mentre gli avverbi spaziali sono intrinsecamente deittici.
A loro volta, hanno la funzione di deittici temporali gli avverbi e la locuzioni temporali gli aggettivi
con valore temporale, e i tempi verbali: questi elementi linguistici sono cioè usati per ancorare
quanto si dice al momento in cui avviene l'atto di enunciazione, cioè al momento presente del
parlante e dell'ascoltatore. Infine segnaliamo altri fenomeni che vengono ricondotti all'ambito della
deissi: le cosiddette deissi sociale e deissi testuale.
La prima può essere considerata un sottotipo della deissi personale, poiché permette di riconoscere
e classificare il tipo di rapporto sociale che lega i partecipanti a uno scambio comunicativo. La
nozione di deissi testuale si impiega per designare il meccanismo in virtù del quale un elemento
linguistico individua e fa riferimento a una porzione del testo coincidente, precedente o successiva
rispetto a quella che il destinatario sta leggendo o ascoltando.
Un esempio può essere quando nel manuale troviamo espressione del tipo:”Come abbiamo
visto/ora vediamo/vedremo in seguito”, è così via.
IL TESTO LETTERARIO, DIFFERENZA FRA SCRITTO E PARLATO
Partiamo col dire che il linguista testuale è colui che spiega quali sono le proprietà per far sì che i testi
funzionino. Bisogna comprendere che in questa prospettiva non si fa distinzione fra scritto e parlato, poiché
questo è legato ad un’esecuzione non permanente. C’è anche da dire che il parlato è
- multimodale, non è solo “ascoltare-parlare”, ma è anche visivo, mimico-gestuale.
-Esso si basa su “la vaghezza linguistica”, concentrata su una comunicazione comune;
- inoltre vi è un’interazione dialogica che può essere fonico-acustico e grafico-visivo, fra due o più persone,
il cosiddetto “feedback”. In più il parlato è caratterizzato da “multitopic”, (le variazioni di discorso), infatti
esistono proprio generi letterari che si costruiscono sulla forma tipica del parlato.
Il testo scritto e quello parlato si differenzia su due livelli
 Sul mezzo, differenza netta, o scrivo o parlo
 Concezione del testo: come progettare il testo
Per comprendere tale concetto, bisogna fare riferimento ai due estremi della diamesia:
scritto-scritto, ogni varietà della scrittura
parlato-parlato, una dialogicità estremamente informale (la comunicazione spontanea)
A questo punto vi è la necessità di fare riferimento al linguista Pino De Mauro, il quale dice che il parlato,
non è scialbo, anzi, servono entrambi e questi due sono gli eccessi delle risorse che usufruiamo nella nostra
quotidianità. Tra questi due poli, come abbiamo detto in precedenza, esiste un continuum di punti
intermedi, come ad esempio, la spiegazione di una lezione (parlato pianificato), o la chat whatsapp
(costruita sulla base della conversazione orale).

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Detto questo, bisogna appuntare però che: non esiste un primato della scrittura sul parlato, bensì si può
dire che il parlato abbia un primato nelle lingue della storia dell’uomo, poiché quest’ultimo ha imparato
prima a parlare.
De Mauro approfondisce la nozione diamesica, spiegando che è possibile sfruttare la lingua in tutte le sue
risorse, facendo comunque attenzione alla distinzione fra scritto, nel quale puoi spaziare a livello lessicale-
strutturale , mentre nel parlato vi è una riduzione delle scelte lessicali; in più lo scritto è caratterizzato da
una precisione maggiore che il parlato prototipico non possiede.
Lo scritto può essere:
- formale
- scritto per essere detto
- scritto per essere recitato; Il teatro ha sempre usato una lingua che di fatto simula il
parlato, in particolare la commedia già dal Rinascimento con Goldoni presenta una lingua che deve
sembrare credibile.
Nella programmazione di un testo esistono due tipi di coordinazioni:
 Asindetica, senza uso delle congiunzioni
 Sindetica, uso frequente delle congiunzioni
Un’altra differenza fondamentale tra scritto e il parlato è: l’uso frequente della paratassi (nel parlato), cioè
le frasi sono coordinate tutte sullo stesso piano, anche frasi che magari non hanno la stessa importanza a
livello significativo. Un esempio lampante lo ritroviamo nel medioevo,tramite i volgarizzatori, che ne
facevano un uso frequente e smisurato.
Nello scritto invece abbiamo l’uso delle subordinate, ma se ne si fa un uso eccessivo ci ritroviamo davanti
ad un caso di “ipotassi”.
Su certi aspetti è più complesso lo scritto può sembrare più complesso, soprattutto nella ricerca di lessici
nuovi e non ripetitivi; ma c’è da dire che anche l’oralità non è da meno. Per esempio leggendo situazioni di
tipo dialogiche, è quasi impercettibile riconoscere cose e fatti che vengono sottointesi.
TRE PROPRIETÀ A STRETTO CONTATTO CON LA COERENZA E LA COESIONE
Ogni testo può essere interpretato se c’è un patto tra il lettore e colui che l’ha prodotto. Un patto che è la
capacità del lettore di cercare la coerenza all’interno del testo, quindi egli deve avere quello che viene
definito un sistema di istruzioni, che gli consiglia come leggere un testo e come interpretarlo, soprattutto
quando si trova davanti ad un testo letterario. Esso, a differenza di un testo pratico, potrebbe violare il
patto con il lettore, perché ci aspettiamo che sia il più referenziale possibile. A questo punto, ogni lettore
cerca di comprenderne il senso globale del testo, quindi di trovarne la coerenza. Questo avviene mediante
tre proprietà:
1. Unitarietà
2. Continuità
3. Progressione

C’è da dire che: un testo “continuo”, parla della stessa cosa, mentre un testo “progressivo”, aggiunge altri
argomenti a quello che è il tema principale del testo. Però troppa continuità c’è il rischio che il lettore
potrebbe annoiarsi, al contrario, troppa progressione, quindi troppa velocità nell’alternare nuovi
argomenti, creerebbe confusione nel lettore. Queste tre proprietà sono legate ai concetti di coerenza e
coesione, ma anche al concetto di appropriatezza, perché una quantità e una qualità dello sforzo cognitivo,
dipende da una serie di parametri che hanno a che fare con il lettore, quindi cambiando il lettore, cambia il
modo in cui le informazioni sono date in modo da rendere quei contenuti, come si dice in linguistica, “al più
basso costo cognitivo”.
Un atro concetto fondamentale, che lavora con la coerenza, è la “continuità referenziale”, ovvero il modo in
cui viene sviluppato il testo. Tutti i piani di un testo, lavorano a stretto contatto con la coerenza: esempio,
paragrafatura, ovvero la segmentazione di un testo). Essa si trova anche nel piano semantico, cioè nelle
relazioni non necessariamente visibile, ma esistenti all’interno di un testo.
ES: Piove, prendi l’ombrello (causa-effetto), la domanda non è espressa esplicitamente, ovvero non vi è
alcun segno che mi esplica che vi è una relazione di causa-effetto, però, seppur non visibile, essa esiste.

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Un'altra parte fondamentale di un testo, sono i connettivi, ovvero quei “tasselli” che connettono due o più
enunciati, fanno parte di quelle relazioni semantiche definite espliciti. Essi sono una classe mista, che nella
quale contengono locuzioni, congiunzioni, ecc.. e sono molto più raffinati concettualmente (possono
contenere, congiunzioni, tempi verbali, anafore:meccanismo in cui data una concezione del mondo, essa
viene riportata nel testo).
CAPITOLO 8: COMPRENDERE I TESTI
Nei testi si codificano dei contenuti che servono a trasmettere messaggi e intenzioni comunicative del
mittente: da una parte, c'è chi costruisce un testo e lo codifica in modo da ottenere i risultati che si è
prefissato (intenzionalità); dall'altra parte, in chi ne usufruisce esiste una disponibilità di cercare un
significato complessivo: si tratta di ciò che definiamo accettabilità.
Quindi sia l'emittente che il ricevente sono consapevoli di dover creare un vero e proprio "patto
comunicativo" per comprendere i testi, il ricevente è costretto a fare ricorso ad una serie di risorse: alcune
risorse sono di tipo fisiologico, come la vista e l'udito; altre sono di tipo linguistico, e riguardano le strutture
della lingua e del lessico (la grammatica), le regole di codifica di un testo la testualità), il modo di usare il
linguaggio verbale in determinati contesti (la pragmatica). Ed altre risorse di tipo cognitivo e di tipo
culturale. Nel testo deve essere ricostruibile il contesto comunicativo: il contesto arricchisce e completa il
significato del testo.
LA COMPRENSIONE DEL TESTO
La comprensione si compie attraverso la lettura, e poi in un processo di azioni interpretative, durante le
quali le nuove acquisizioni si integrano con le precedenti: il ricevente collega gli enunciati costruendo il
senso complessivo del testo, e poi il senso del testo viene aggiornato progressivamente.
I TIPI ILLOCUTIVI
Gli enunciati che compongono un testo hanno una propria forza illocutiva, cioè manifestano quale azione (o
atto illocutivo) l'emittente intende compiere. Possiamo distinguere cinque tipi illocutivi:
• Verdettivo, per esprimere un giudizio o una valutazione;
• Esercitivo, per impiegare l'autorità;
• Commissivo, per assumere un impegno;
• Comportativo, per rispondere a un'aspettativa sociale;
• Espositivo, per indicare non un atto ma il valore che ha l'enunciato che si sta formulando.
I tipi ilocutivi sono realizzati felicemente solo se la comunicazione avviene con successo. Per felicità
dell'atto illocutivo devono essere soddisfatte alcune condizioni: l'effetto che provocano devono
Corrispondere alle intenzioni del parlante e devono essere codificate con mezzi linguistici e con linguaggi
adeguati.
Ad esempio, nel tipo illocutivo rientra il saluto: corrisponde all'idea che l'incontro tra conoscenti vada
verbalizzato attraverso espressioni appropriate alle situazioni e all'interlocutore. Quindi, il valore illocutivo,
si struttura anche in altre caratteristiche, di tipo pragmatico, cioe legate alla concreta interazione
comunicativa. Quando l'enunciato ha un valore ambiguo, anche l'interpretazione diventa incerta.
LE INFERENZE
Per far sì che un testo venga compreso nella sua totale funzionalità, vi è il bisogna di ridurre il più possibile
gli equivoci. Questi vengono definiti in linguistica con il nome di “inferenze”. In ogni tipo di comunicazione,
è necessario lasciare alcuni concetti inespressi, per ragioni “economiche”. Infatti, potendo contare sulla
collaborazione del destinatario, l’emittente non è costretto ad includere nel suo testo, tutta una serie di
dettagli la cui conoscenza è importante, ma può essere lasciata implicita perché recuperabile dl ricevente
senza sforzi eccessivi. Quindi, non è necessario rendere esplicite nozioni che si ritengono
enciclopedicamente condivise, o forme che linguisticamente possono essere taciute, e infine neppure
caratteristiche del messaggio sono desumibili dalla situazione comunicativa. Quando da u n enunciato
ricaviamo delle conseguenze non esplicite, si dice che facciamo

delle inferenze. Esse sono molto importanti dal punto di vista logico: infatti, e domande di alcuni testi sono
compilate in modo tale che è possibile rispondere correttamente solo compiendo delle inferenze. Dal
punto di vista testuale. L’elaborazione delle inferenze tratte dagli enunciati che formano un testo e, la loro
continua verifica, rientrano tra gli elementi che costituiscono le comprensioni del testo. Alcune inferenze

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sono deducibili obbligatoriamente, altre no. Es: se si trova un cartello con su scritto “CHIUSO PER LUTTO”,
su una saracinesca di un negozio, un’inferenza non obbligatoria sarà quella di pensare che il negozio sarà
aperto il giorno successivo: ma non c’è nulla che confermi quella che resta solo un’ipotesi. Invece, se a uno
sportello che prevede dei servizi a pagamento viene esposto un cartello “No Bancomat”, l’inferenza
obbligatoria sarà che è possibile solo il pagamento in contanti.
INFERENZE PRAGMATICHE
Essa avviene quando l’enciclopedia del mondo (ossia: l’insieme delle conoscenze che noi abbiamo del
mondo) di una persona è asimmetrica rispetto a quella del suo interlocutore. GLI IMPLICITI
È l’inferenza di un implicito che può avvenire anche in un enunciato complesso. Esse non sono sempre vere
e possono essere annullate dalla negazione, “sentivo freddo non ho trovato il plaid”.
Implicazione convenzionale: ad esempio, non sentivo freddo e non ho trovato il plaid Implicazione non
convenzionale: ad esempio, ieri non ho fatto la messa in piega, era lunedì Questa implicazione è vera se si
abita in luogo in cui il lunedì i parrucchieri sono chiusi. Implicature conversazionali: spiegano le dinamiche
attestate in una conversazione: ogni conversazione ha dette regole dette “massime conversazionali”. Esse
sono quattro:
1 Quantità
2 Qualità
3 Relazione
4 Modo: che riguarda non quello che si dice, ma come si dice
LE PRESUPPOSIZIONI
Tra gli impliciti che fanno parte del testo vi sono le presupposizioni: esse sono particolari tipi di inferenze
che si compiono su quanto è espresso dall'emittente e che consentono di mente dedurre l'esistenza di cose
o di fatti non nominati in modo esplicito ma chi parla ritiene che il ricevente condivida con lui le stesse
presupposizioni. A livello lessicale sono un ottimo esempio i verbi che indicano una discontinuità, come
smettere. Ad esempio, se un tale afferma che nel 2017 ha smesso di fumare, chi lo ascolta presuppone che
il tale abbia fumato nel passato.
Anche i verbi iterativi (ritornare) e quelli fattivi (rimpiangere) generano presupposizioni. Anche il contesto
può aiutare ad attivare presupposizioni, questo può essere una strategia molto efficace per
scopi persuasivi, ad esempio se un politico afferma di non voler smettere di pensare al bene delle
istituzioni, fa credere che quello sia stato da molto l'obiettivo delle sue azioni, e seppure qualcuno
obbietterà in questo modo non negherà, ma anzi, consoliderà l'opinione che, almeno nel passato, quel
politico abbia avuto comportamenti virtuosi nei confronti dello Stato e degli elettori.
CORNICI E COPIONI
Il recupero di nozioni implicite in un testo può essere favorito da diverse circostanze comunicative,
testuali o linguistiche: le cornici e i copioni. La comprensione di un testo avviene attraverso la
condivisione di schemi cognitivi detti cornici: ovvero, a una particolare situazione ricolleghiamo dei
concetti. Per esempio, se tutti condividiamo la conoscenza dell'argomento di cui si parla non ci sarà il
rischio di ambiguità e gli attori della comunicazione non dovranno sforzarsi per capire il lessico
adoperato;
Tra i fattori che facilitano l'attivazione delle inferenze da parte del ricevente. Si elencano anche i copioni,
ovvero sequenze di eventi in circostanze ripetitive. Essi sono dei veri e propri subsistemi comunicativi che
prevedono scelte linguistiche.
Tipici copioni sono il saluto e il commiato, che i e. comportano la selezione di un pronome allocutivo e di
formule adeguate all'interlocutore.
REFERENTI IMPLICITI: ANAFORE
Possiamo osservare che i costituenti sono adatti a ricoprire la funzione di tema in un testo: questa
caratteristica si chiama inerenza tematica non contestuale dei costituenti. Un sostantivo che sia soggetto e
agente dell'azione indicata dal verbo si dice che ha molta salienza e può svolgere il ruolo di Tema del testo;
talvolta, non è necessario che vi sia un elemento che riprende esplicitamente il costituente: in questo caso
si parla di ellissi anaforica e di anafora zero.
All'interno di un testo, gruppi di enunciati possono avere continuità tematica ed essere costruiti in modo
che un referente abbia prominenza sugli altri e venga ripetuto attraverso l'anafora, con diverse modalità di

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ripresa. Come abbiamo visto, in base a un indice scalare, ci sono i sostituenti leggeri, come i pronomi clitici,
e quelli pesanti, come un sintagma nominale pieno o una perifrasi; si avrà così un'anafora con un grado di
coesione debole o forte, a seconda della natura del sostituente.
Le regole dell'anafora ci indicano quando in un testo non è necessaria la ripetizione di un costituente
nominale e quali sono i modi più efficaci per la ripresa di un costituente nominale.
INTERPRETARE LE ANAFORE VALUTATIVE
Alcune anafore sono difficili da decodificare: la ripresa di un referente testuale può avvenire attraverso
un'anafora descrittiva (vescovo di Roma per papa) o con un'anafora valutativa (feroce dittatore per Hitler).
In questi casi, per decodificare l'anafora, il ricevente deve aver ben presenti nella sua enciclopedia
informazioni e nozioni extralinguistiche mancano, l’anafora risulterà opaca.
In un testo il procedimento di decodifica di un axionimo (nome che esprime già in sé un giudizio o una
valutazione) può apparire all'inizio scontato e poi man mano accumulare nuova significatività. Prendiamo
come esempio la lunga storia della monaca di Monza tratta dai promessi sposi. Qui viene usato l'axionimo
di "poveretta" ed un'efficace ripresa di Gertrude. Gli axionimi sono molto importanti perché sono usati per
trasmettere opinioni senza che questo obiettivo sia dichiarato esplicitamente.
ALTRI ESEMPI SUL FUNZIONAMENTO DELLE ANAFORE
Non tutte le forme di ripresa sono uguali. Alcune possono riprendere solo referenti presenti che sono stati
esplicitati nel testo: il pronome può riprendere costituenti espliciti e salienti; il dimostrativo può riprendere
costituenti espliciti e prossimi; invece, un sintagma nominale può riprendere referenti impliciti.
LA RIFORMULAZIONE
Con riformulazione si designano le procedure di rielaborazione che si attuano all'interno di un testo in
modo da rendere efficace la comunicazione, rimuovendo gli ostacoli e i problemi. In genere, è lo stesso
emittente a riformulare (auto-riformulazione), ma soprattutto durante una conversazione è frequente che
l'interlocutore dica in modo diverso ciò che ha ascoltato: in questo caso si parla di etero-riformulazione. Le
operazioni che si compiono per ottenere una riformulazione sono la sostituzione o la cancellazione.
La riformulazione è in genere marcata da un elemento introduttore, detto connettivo di riformulazione: ad
esempio, connettivi come
cioè, sarebbe a dire, ossia, ovvero.
In alternativa, può essere utile elaborare una formulazione che indichi la corretta interpretazione di un
enunciato mostrandone una conseguenza: del tipo insomma o in ogni caso o quindi.
Il vero obiettivo della riformulazione è di dare una definizione soddisfacente attraverso riformulazioni che
correggono o integrano una parte dell'enunciato.
LA PARAFRASI
Per parafrasi intendiamo un tipo di riformulazione che ha come oggetto un testo o una sua porzione (T) e lo
trasforma in un altro testo (T1). Lo scopo principale della parafrasi è la semplificazione linguistica. Una
corretta parafrasi presuppone la comprensione del testo di partenza, ma talvolta può essere utile svolgere
il processo della parafrasi per poter comprendere un testo "difficile". Il testo (T1) sarà scritto, quindi, in una
varietà di italiano media, con un lessico di facile accesso, L'autonomia di T1 rispetto a T deve essere
completa, cosi che l'efficacia di una parafrasi possa essere giudicata leggendo il solo T1.
La parafrasi è un’importante attività scolastica, perché considerata utile per la comprensione di testi
letterari, in particolare quelli poetici. La parafrasi scolastica e molto spesso una versione in prosa, cioè una
semplificazione sintattica di un testo in versi attraverso la prosa, e ha come oggetto quello di sostituire con
altre parole il lessico del testo antico.
IL RIASSUNTO
Un'altra forma di rielaborazione è il riassunto, cioè la sintesi del contenuto di un testo. La sintesi di un testo
consiste nella riduzione della sua estensione mettendo in maggior evidenza informazioni principali. Infatti,
nel compilare il riassunto si deve innanzitutto cancellare una parte del testo, rielaborando il sistema di
anafore, soprattutto attraverso l'uso di incapsulatori, oppure adoperando iperonimi o generalizzazioni. Un
riassunto efficace implica che il testo di partenza sia stato compreso completamente, In molte grammatiche
italiane è frequente l'utilizzo di alcuni requisiti necessari, come l'individuazione delle cinque W (who, what,
when, where, why), in modo da raccogliere dal testo tutto ciò che è pertinente.

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L'argomento principale si può trovare all'inizio del testo o al suo interno: talvolta, infatti, l'argomento
principale è codificato in forma di titolo, esso può quindi orientare il lettore sui principali aspetti del testo.
Le unità comunicative sono parti del testo che hanno senso anche se vengono isolate dal resto del testo:
sono enunciati organizzati che hanno una determinata funzione testuale (descrizione, narrazione) o
metatestuale (citazione, riformulazione). Inoltre, le unità comunicative sono collegate tra di loro attraverso
i connettivi (modo esplicito) o in modo implicito, cioè che deve essere ricostruito da un ricevente. Non tutti
i tipi di testi sono adatti ad essere riassunti: per esempio non lo sono le poesie CAPITOLO 9: PRINCIPALI
CLASSIFICAZIONI DEI TIPI TESTUALI E LA CAPACITÀ DI UN TESTO DI ESSERE ESPLICITO
I testi possono essere classificati e ricondotti a dei tipi o dei generi. Per esempio, appartengono a tipi e
generi testuali diversi la scheda descrittiva di un reperto archeologico, la recensione di un film, le istruzioni
di un elettrodomestico. Tutti questi testi sono fra loro diversi per gli obiettivi che si pongono e per le
differenti operazioni cognitive che attivano in chi li produce e che richiedono a chi ne fruisce.
Le differenze fra i testi possono essere colte in base ad altri parametri, sui quali si fondano le quattro
tassonomie attraverso le quali ci si può muovere all’interno dell’universo testuale:
1. I'utilizzo di uno specifico canale e il continuum diamesico che si distende fra il parlato-parlato e lo scritto-
scritto:

Come abbiamo visto la diamesia incide anche sui modi di elaborazione e organizzazione strutturale dei
testi. In relazione all'aspetto mediale, si distingue fra testi veicolati attraverso il canale fonico-acustico e
tosti affidati al canale grafico. visivo; in relazione alla dimensione concezionale, la distinzione è posta fra
parlato e scritto. Come abbiamo evidenziato, la concezione e i modi di organizzazione dei testi si articolano
lungo un continuum di possibilità e configurazioni, ai cui due estremi si collocato il parlato-parlato e lo
scritto-scritto. Tra questi due poli esiste una serie di realizzazioni intermedie che variamente mescolano le
peculiarità dei diversi canali e dei differenti modi di concepire i testi.
2. l'autonomia del testo o il suo grado di rielaborazione a pratico da altri testi preesistenti; L’attività di
comprensione dei testi e quella di produzione sono
strettamente collegate, al fine di promuovere una generale riflessione sul nesso che lega. Pertanto, in
questa classificazione è posta una fondamentale distinzione fra testi autonomi e testi che rielaborano altri
testi.
La prima classe include tutti quei testi la cui produzione non dipende dall'esistenza di un altro testo
precedente e anteriore. I testi autonomi «sono caratterizzati dal fatto che scrittura e formarsi del pensiero
(euresi)
sono strettamente legati» La seconda classe, invece, include quei testi che si basano sulla rielaborazione e
la modifica di un testo preesistente.
3o il patto comunicativo che il mittente istituisce con i suoi destinatari:
In base a questo modello, si riconoscono interpretativo diversi gradi di rigidità nel patto comunicativo (o
vincolo interpretativo)
che lega emittente e destinatario. In tal modo diviene possibile distinguere fra testi altamente vincolanti (o
rigidi), testi mediamente vincolanti (o semirigidi), e testi poco vincolanti (o elastici).
Bisogna comprendere che il lettore fa molto più fatica quando viene meno l’esplicitezza di un testo. Questo
accade perché, secondo Sabatini, quando noi scriviamo un testo, noi facciamo un patto comunicativo con il
destinatario, tale patto spiega quanto noi vogliamo essere precisi nell’interpretazione, o quanto noi
vogliamo essere vaghi.
4o tassonomia sarebbe il parametro cognitivo, ovvero il messaggio comunicativo del testo. In base a questo
parametro si classificano i tipi di testi:
-argomentativo: lo sviluppo di un argomentazione personale inerente alla traccia di riferimento
(l’argomento sarebbe il topic)
-descrittivo: affermare la descrizione della realtà secondo la visione di tipo oggettivo o soggettivo
-narrativo: lo sviluppo di avvenimenti narrati realistici o fantastici
-espositivo : esposizione di un argomento attraverso quello che è un linguaggio specifico della lingua
RIGIDITÀ ED ELASTICITÀ DI UN TESTO

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Chi produce un testo (cioè l'emittente) seleziona e organizza i suoi contenuti in modi diversi a seconda del
margine di libertà che intende lasciano all'interpretazione del destinatario. Infatti, nei testi altamente
vincolanti, l'emittente restringe al massimo la libertà interpretativa del destinatario e tende a garantire al
testo un'interpretazione rigida evitando di ricorrere al fenomeno dell'implicitezza, ad esempio, nel caso dei
testi legislativi. Nei testi mediamente vincolanti, invece, la volontà dell'emittente che il destinatario
aderisca alla sua interpretazione è mitigata dalla necessità di garantire un graduale passaggio dalle
conoscenze già possedute verso quelle che vengono presentate nel testo: questo accade, per esempio, nei
manuali di studio o nelle lezioni scolastiche. Infine, sono poco vincolanti tutti quei testi in cui, al contrario di
quanto visto, l'emittente permette al destinatario di avere un ruolo molto attivo nella costruzione di
proposte interpretative sul significato globale del testo. I testi poetici sono un buon esempio. La proposta di
Sabatini è ricca di implicazioni didattiche, soprattutto perché punta a individuare una stabile correlazione
fra ciascun patto interpretativo e alcune caratteristiche linguistiche dei testi, fra le quali svolge un ruolo
importante il ricorso o meno all’implicitezza, che influisce su altre strategie testuali e caratteristiche
sintattico-testuali:l'impiego dei connettivi, la struttura della frase. Sabatini, Infatti, individua una serie di
tratti (sia macrotestuali, aia microtestuali e sintattici) che presentano significative differenze fra i testi
molto, mediamente e poco vincolanti. Per illustrare in modo analitico almeno una di queste differenze,
mettiamo a confronto un testo fortemente vincolante un testo poco vincolante. I due testi mostrano un
funzionamento opposto rispetto alla possibilità di rendere esplicite o meno le relazioni sintattico-
semantiche.
FELICITÀ COMUNICATIVA
C’è da dire anche oltre al patto narrativo, il lettore tende a cooperare. Quindi tale meccanismo di
cooperazione rientra in quella proprietà che in pragmatica è definita: Felicità comunicativa. Noi tendiamo a
pensare che le persone ci rispondano in maniera spontanea, senza sotterfugi, nel senso di economicità
della lingua. Quando questo non avviene, quando ci viene raccontata una menzogna, essa crea una
dissonanza cognitiva, ovvero vi è uno squilibrio del rapporto cooperativo.
UNIVERSO DEL DISCORSO, ETERNIZZAZIONE DI PAROLE, in base a chi le diciamo. Raffaella Scarpa linguista
italiana ha scritto un libro in merito a ciò; L’abusante pensa in modo figurale, tipo chi dice vicino a queste
persone ‘TI AMERO PER SEMPRE’, per loro non ci sarà motivo per il quale si possano lasciare, ed è per
questo che cercherà in tutti i modi di bloccare qualsiasi distacco da se stesso, anche prendendo in
considerazione l’uccisione di quella persona, abbiamo quindi una MANIPOLAZIONE DEL SOGGETTO, far
capire all’altro che solo noi possiamo fare qualcosa per lui, anche dire ‘puoi contare solo su di me’, pensare
di interpretare il mondo dell’altra persona in modo migliore rispetto ad essa stessa, quindi, se solo essa
prova ad uscire fuori da questo pensiero succede quello che poi è l’abuso. Alcune frasi sono bellissime da
dire ma in realtà nella parte letterale non è cosi;
Per sempre, mai, non si dovrebbero mai usare. Non sapendo la reale funzione.
TIPI TESTUALI E GENERI
In base alla funzione cognitiva prevalente i testi sono divisi in cinque tipi fondamentali: descrittivi,
informativo-espositivi, narrativi, argomentativi, prescrittivi.
Mentre i tipi testuali sono tendenzialmente universali, i generi testuali sono soggetti a variazione storica e
risentono dei gusti e delle convenzioni culturali.
in un testo possiamo riconoscere un’operazione cognitivo-discorsiva attivata in modo prevalente (un
macro-atto): descrivere, esporre, narrare. Allo stesso tempo, un testo può presentare al suo interno singole
porzioni testuali che realizzano dei micro-atti.
Sabatini spiega inoltre che se riusciamo a comprendere la differenza di questi due poli, solo allora
potremmo capire la varietà dei generi letterari che si collocano come punti intermedi che caratterizzano
questo continuum.
IL TESTO DESCRITTIVO
I testi descrittivi sono il risultato di un macro-atto linguistico di descrizione, che consiste nel costruire un
equivalente linguistico di una porzione di mondo.
Alla base dell’atto, si possono isolare quattro operazioni concettuali fondamentali:
1 L’individuazione e la scelta di un’identità da descrivere
2 La selezione delle proprietà che si considerano rilevanti

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3 L’Individuazione, l’isolamento e la nominazione di singole sotto-parti e di sotto-oggetti descrittivi
4 La scelta di un ordine e di una gerarchia secondo cui presentare le proprietà selezionate: ad esempio, nel
caso di un monumento, dall’esterno verso l’interno.
Per quanto riguarda il tipo di progressione topicale, si sceglie spesso la progressione topicale costante: il
topic resta costante e le proprietà che gli vengono attribuite sono nei comment degli enunciati. A ciò si
accompagna la predilezione per alcuni andamenti testuali e alcune strutture sintattiche-informative, come
lo stile nominale (cioè la successione di frasi prive di verbo). E le strutture ad elenco. Inoltre, in virtù della
condizione di atemporalità che caratterizza le descrizioni i tempi verbali sono imperfetti e continui.
Possiamo poi fare una distinzione tra descrizioni oggettive e descrizione soggettive, al primo gruppo
appartengono, ad esempio, i testi scientifici in cui la descrizione necessita di uniformità e
standardizzazione. La struttura macro-testuale di questo tipo di testi è rigida. Un esempio di descrizioni
soggettive sono i testi in cui l’autore offre una descrizione di sé stesso.
I TESTI ESPOSITIVI
I testi espositivi sono il risultato di un macro-atto linguistico che si pone l’obiettivo di trasmettere un
sapere, esponendo gli elementi costitutivi dei concetti illustrando la nozione ad un destinatario.
I testi espositivi possono essere sia orali che scritti e possono essere destinati a destinatari più o meno colti
e ciò ne determina la complessità e la densità di informazioni.
Nei testi espositivi chi scrive è molto attento all’architettura logico-semantica, alla progressione topicale,
così come all’articolazione del rapporto fra noto e nuovo.
Inoltre, in questi testi è molto presente una divisione paragrafematica (elenchi numerati) e sono privilegiati
alcuni movimenti logici tipo il movimento di motivazione tramite i connettivi perché, infatti, siccome, ecc...
Sono molto utilizzati i movimenti di esemplificazione (ad esempio), di riformulazione (ovvero, ossia) e di
specificazione (più precisamente).
IL TESTO NARRATIVO
I testi narrativi sono il risultato di un macro-atto di narrazione: l’obiettivo fondamentale è quello di
presentare un evento o più eventi tra loro collegati. Tra i generi narrativi d’invenzione vi sono le fiabe e le
favole, le diverse forme del racconto breve (come la novella), i romanzi e anche i testi in versi come i poemi
epici e cavallereschi. Al genere narrativo sono anche legati testi la cui narrazione abbia un fondo di verità
(come i racconti storici, le cronache, le biografie). Esistono quattro proprietà fondamentali che un testo
deve possedere per essere considerato narrativo:
1 Rappresentare una serie di eventi fra loro connessi temporalmente e causalmente
2 Avere un protagonista animato
3 Introdurre un qualche tipo di evento scatenante che metta in crisi un ordine stabilito e spinga il
protagonista all’azione
4 Presentare azioni dirette a un obiettivo e alla risoluzione di un problema
Il primo aspetto da prendere in considerazione riguarda la selezione degli eventi: una narrazione comporta
sempre una scelta tra ciò che viene raccontato e ciò che viene omesso; a questo riguardo si parla di ellissi
narrativa per i casi in cui alcuni eventi vengono omessi dalla narrazione. In secondo luogo, va considerato se
gli eventi sono narrati in modo analitico o sintetico-riassuntivo: questo parametro di regolazione si chiama
distanza. Le scelte che il narratore compie sulla selezione degli eventi e alla distanza hanno effetti sulla
velocità. La velocità è data dal rapporto tra il tempo della storia (tempo degli avvenimenti narrati) e il
tempo del racconto (tempo di lettura o di esecuzione della sequenza narrativa).

In base alla velocità vengono individuate alcune possibilità principali: l’ellissi, il sommario, la pausa (tipica
della descrizione), la scena. Nell’ellissi il tempo della storia è molto maggiore del tempo del racconto; il
racconto si limita a segnalare che il tempo della storia è trascorso, ma nasconde al lettore ciò che è
accaduto in quel tempo. Anche nel sommario il tempo della storia è maggiore del tempo del racconto: gli
eventi che si distendono su un arco temporale vasto vengono compendiati in poche righe. Al contrario, nel
caso della pausa: lo scorrimento degli eventi si blocca, a vantaggio dello svolgimento di una parte
descrittiva del racconto. Infine, il termine scena designa le parti mimetiche del testo, ovvero quelle in
discorso diretto. Qui vi è un rapporto pari tra tempo della storia e tempo del racconto, vi è quasi una
perfetta coincidenza tra i due.

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Un altro parametro per la descrizione del testo narrativo riguarda l’ordine in cui sono presentati gli eventi
del mondo narrato. Quando nel testo il racconto rispecchia l’ordine cronologico dei fatti, vi è omologia tra
la fabula e l’intreccio. Con il termine fabula si designa l’insieme degli accadimenti proprio nel mondo
raccontato nel loro logico rapporto causale e nel loro ordine temporale; con il termine intreccio si indica la
successione con cui gli eventi sono presentati nel testo. Se non vi è omologia fra fabula e intreccio, significa
che nel testo sono state introdotte delle anacronie (alterazioni dell’ordine causale e temporale degli
eventi).
Nell’intreccio può esservi l’anticipazione di eventi futuri (prolessi/flashforward) o la posticipazione di eventi
precedenti (analessi/flashback). I due ultimi parametri fondamentali sono il modo e la voce. Col primo
termine si individuano il punto di vista la prospettiva a partire dai quali gli eventi sono narrati. La voce è un
termine che rimanda alla distanza enunciativa. Per quanto riguarda la focalizzazione del modo narrativo, si
distingue tra focalizzazione zero, focalizzazione interna e focalizzazione esterna. Nel primo caso, il racconto
è costruito secondo un punto di vista che ha più informazioni di tutti i personaggi; nel caso della
focalizzazione interna, il punto di vista coincide con quello di un personaggio specifico; infine, nel caso di
focalizzazione esterna, il testo è costruito in modo di fornire meno informazioni di quante ne posseggono i
personaggi. Per quanto riguarda la voce sono due i parametri da intersecare: il primo riguarda il livello al
quale si colloca il narratore e il suo carattere esterno (narratore di primo grado) o interno (narratore di
secondo grado) rispetto agli eventi del mondo narrato; il secondo parametro consente di stabilire se
narratore racconta una storia propria (narratore omodiegetico) o altrui (narratore eterodiegetico). Nei testi
narrativi si ricorre spesso a indicatori espliciti di temporalità, soprattutto connettivi e complementi
circostanziali di tempo. Molto presente è la prevalenza dei tempi narrativi (presente, passato prossimo,
futuro) rispetto ai tempi commentativi (imperfetto, passato remoto, condizionali).
TESTI ARGOMENTATIVI
I testi argomentativi sono il risultato di un macro-atto che presuppone un ragionamento e si propone come
fine la dimostrazione o la persuasione circa la validità di una tesi, attraverso la scelta, la disposizione e la
formulazione di specifici argomenti. I testi argomentativi possono essere ricondotti a due tipi: il testo
dimostrativo e quello persuasivo.
Un testo dimostrativo si fonda su premesse certe per giungere a conclusioni che si presentano come vere;
un testo persuasivo si fonda su premesse la cui validità è contingente e arriva a conclusioni verosimili e
probabili.
La struttura portante del testo è la rigidità che si basa a sua volta su tre elementi:
1 Opinione (tema o la tesi generale che si intende sostenere).
2 Argomento (l’argomento è costituito dall’insieme delle prove a favore del tema).
3 Regola Generale (garanzia su cui viene giustificata la relazione tra opinione e argomento).

E’ molto importante l’ordine con cui vengono disposti gli argomenti, esistono due ordini principali: climax,
dove si sceglie un ordine con andamento in crescendo; anticlimax, dove si segue un ordine decrescente.
TESTO PRESCRITTIVO
I testi prescrittivi sono il risultato di un macro-atto linguistico mediante cui si ordina e prescrive. L’obiettivo
prevalente è quello di regolamentare un comportamento immediato o futuro dell’emittente attraverso
l’enunciazione di obblighi, divieti o istruzioni, è molto comune l’uso di tecnicismi. Uno degli aspetti più
caratterizzanti di questi testi è quello connesso al fatto che essi realizzano allocutivi di tipo direttivo e molto
importante e presente è anche la progressione del Topic e dell’articolazione Topic-Comment.
UN CASO DI TESTO LETTERARIO MISTO
Il testo letterario misto, è un caso che mostra come i procedimenti e le caratteristiche linguistiche di alcuni
tipi testuali possono essere sfruttate nella prosa d’autore del Novecento. Prendiamo come esempio l brano
“Domum servavit”, un testo di carattere espositivo-descrittivo dello scrittore Primo Levi. Levi chiarisce la
storia dell’uso di una resina naturale, la gommalacca, e illustra alcune procedure della sua lavorazione.
L’obiettivo di esporre in modo limpido i modi in cui si raffina la gommalacca, non impedisce allo scrittore di
inserire nel testo sia elementi descrittivi, sia piccoli nuclei di riflessione dal sapore saggistico. L’esposizione
procede attraverso brevi frasi collegate per lo più asindeticamente (cioè senza congiunzioni), mediante le
quali sono illustrate le qualità della gommalacca. La serie di aggettivi individuano le qualità chimico-fisiche

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del materiale, che diventano proprietà via via sempre più riconoscibili anche per un osservatore comune.
Viene poi fatta seguire un’ultima proprietà che viene definita mediante una coppia di aggettivi, che sollecita
la curiosità dello lettore. Potremmo dire che Levi ci consente di vedere la gommalacca due volte: attraverso
le sue lenti da chimico, e attraverso la sua creatività di scrittore, sensibile alla forza di metafore basate su
oggetti del mondo quotidiano e dunque, accessibili ad un lettore che sia sprovvisto di nozioni specialistiche.
CAPITOLO 10:
IL NOME
Il nome è una parte del discorso che in italiano flette per il numero, al singolare e al plurale e per il genere.
Il genere è lessicalizzato, cioè inerente al nome. In base alla flessione del numero, in italiano si distinguono
più classi di nomi.
GLI AGGETTIVI
Gli aggettivi sono utilizzati per esprimere concetti scalari, cioè graduabili. Quindi gli aggettivi possono
modificarsi per esprimere diversi gradi. La gradualità dell’aggettivo si può ottenere in modi diversi: o con un
morfema lessicale che porta con sé l’informazione relativa al grado (più= comparativo; molto =superlativo
assoluto; il più= superlativo relativo); o combinando il morfema lessicale dell’aggettivo con un morfema
grammaticale (alt+ issim+ o= altissimo); oppure sostituendo l’intero morfema lessicale (lessicale= più alto).
Gli articoli determinativi in italiano invece hanno una flessione per genere e numero.
I PRONOMI
I pronomi personali in italiano variano in base alle sei persone, tre persone singolari e tre plurali; si
distinguono due serie di pronomi, quelli tonici e quelli clitici. I tonici possono essere soggetto o oggetto, i
clitici oggetto diretto o indiretto. Il pronome soggetto in italiano può essere solo tonico perché non
esistono forme clitiche soggetto.
IL VERBO
I verbi regolari italiani si classificano in quattro coniugazioni.
Si parla di aspetto dei verbi quando si fa riferimento alla durata dell'evento che viene espresso dal verbo
nel testo. Si distingue tra aspetto perfettivo, quando l'azione viene considerata conclusa, e imperfettivo,
quando non si determina il prolungamento dell'azione.
In primo luogo, l'aspetto perfettivo può essere espresso dal tempo, per esempio il passato remoto.
L'aspetto imperfettivo, invece, da un imperfetto. L'aspetto imperfettivo può essere ulteriormente
classificato in progressivo, abituale e continuo, ma molto spesso per individuare questi particolari aspetti
dello svolgimento dell'evento espresso dal verbo è necessaria la conoscenza del contesto comunicativo e
delle intenzioni del parlante. Dato che l'aspetto si misura sulla durata dell'evento espresso dal verbo, i
complementi di tempo sono compatibili con l'uno o l’altro dei due aspetti, per esempio, un complemento di
tempo continuato è incompatibile con un verbo che indica un evento di aspetto perfettivo.
L'azione è lessicalizzata, cioè legata al significato dei verbi. Si accenna qui all'azione dei verbi perché
anch'essa riguarda la struttura temporale degli eventi indicati dai verbo. In base alla durata i verbi possono
essere durativi, se descrivono una situazione che si protrae nel tempo, o non durativi, se invece la
situazione ha un culmine. Altro parametro è la telicità, che è presente nei verbi le cui azioni raggiungono
obbligatoriamente una conclusione: essi sono trasformativi, se non-durativi, e risultativi, se durativi.
In base alla dinamicità, i verbi possono indicare azioni che introducono o meno dei cambiamenti nello stato
di cose. Tutti i verbi durativi indicano azioni dinamiche, ma se non sono telici si chiamano puntuali.
• I verbi non durativi che non sono dinamici e nemmeno telici, si chiamano stativi
• quelli dinamici ma non telici sono i continuativi
•quelli telici e dinamici sono i risultativi. Non esistono verbi durativi telici ma non dinamici né verbi non
durativi non dinamici.
a) Verbi durativi
1. Stativi (non dinamici né telici): possedere, somigliare; sopportano male le perifrasi progressive e il modo
imperativo.
2. Continuativi (dinamici ma non telici): dormire, scrivere, indicano un processo indefinito.
3. Risultativi (dinamici e telici): rompere, cadere; indicano un processo definito.
b) Verbi non durativi
1. Trasformativi (dinamici e telici): svegliarsi, fermarsi.

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2. Puntuali (dinamici ma non telici): incontrare, spaventarsi; di norma non si trovano in perifrasi con
«iniziare a».

SINTASSI
La sintassi è lo studio della combinazione delle parole di una frase. C’è da dire che però è scorretto dire che
sono parole che si combinano, ma sono più mattoncini. I costituenti della frase, quindi gli elementi che la
costituiscono, prendono il nome di sintagmi. Più esattamente i sintagmi soni combinazioni di lessemi.
Un esempio potrebbe essere:
“Valeria mangia la torta con gusto”
Valeria: soggetto
Mangia: p. v.
La torta: comp. Ogg.
Con gusto: comp. di modo
La torta e con gusto, nella sintassi prendono il nome di sintagma nominale (la torta), e sintagma
preposizionale (con gusto)
CLASSIFICAZIONE DEI SINTAGMI
I sintagmi, bisogna specificare, che non sono tutti dello stesso tipo. Infatti hanno una struttura gerarchica
interna. Si definisce “testa” del sintagma, l’elemento obbligatorio che controlla e governa gli altri elementi
accessori che costituiscono il sintagma: è la “testa” che dà il nome al sintagma e assegna le funzioni
sintattiche. Gli elementi che accompagnano la tesi si chiamano “modificatori”. Possiamo avere:
 Sintagma Nominale (S.N), che ha come testa un nome
 Sintagma Avverbiale (S.Avv), che ha come testa un avverbio
 Sintagma Aggettivale (S.Agg), che come testa un aggettivo
 Sintagma Verbale (S.V), che ha come testa un verbo
 Sintagma Proposizionale (S.P), che ha come testa una preposizione
Per riconoscere un sintagma, è necessario che posseggano determinate proprietà. Per comprendere se ne
sono in possesso vi è il bisogno che questi superino delle prove, in questi casi, vengono definite “test di
costituenza”. Esse sono:
1. Coesione interna e insensibilità di altro materiale linguistico: si può parlare di sintagmi in essi non è
possibile inserire altro materiale linguistico. Ciò significa che esso non può essere spezzato per
introdurre altri elementi
2. Spostabilità: si può parlare di sintagmi, quando questo si sposta in blocco. Questo permette che i
sintagmi siano spostabili in differenti punti della frase , ma devono farlo insieme
3. Isolamento: èsi parla di un sintagma quando può essere enunciata da sola. Cioè quando costituisce
la risposta di una domanda. Esempio; Cosa fa Valeria? Mangia la torta, come la mangia? Con gusto.
4. Sostituibilità, e coordinabilità tramite una proforma: un sintagma di un certo tipo può essere
coordinato solo con un altro dello stesso tipo. Ad esempio il sintagma nominale "la torta" si può
sostituire con un pronome. Anche"Valeria" si può sostituire con "lei". In questi caso, ciò che si usa
quando si sostituisce un determinato sintagma, si chiama proforma.
Anche "Valeria" si può sostituire con "lei". In questi caso, ciò che si usa quando si sostituisce un
determinato sintagma, si chiama proforma.
Quando invece si sposta il sintagma "la torta" ad inizio frase, essa diventa marcata, abbiamo quindi
una dislocazione a sinistra.
LA TORTA, Valeria mangia con gusto. Quando si sposta un complemento oggetto a sinistra, l'uso, in
genere, è contrastivo.
''hai presa tu la penna"
"la penna l'ha presa lei"
"lei l'ha presa"
In questo caso la scena è sempre la stessa, IL CONTENUTO PREPOSIZIONALE È LO STESSO, cambia
solo la sintassi o il dinamismo enunciativo, perché se dico, facendo un altro esempio:
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Carla mangia la mela
In caso voglio che ella sia soggetto, che in linguistica si definisce tema dell’argomento, ma se invece
voglio parlare della mela, non possiamo più parlare di Carla, perché Carla non è più nel tema, ma
potremmo rispondere mi dispiace, ma Carla l’ha mangiato.

LA VALENZA VERBALE
Una frase può essere descritta come una costruzione che comprende un nucleo (la cosiddetta frase
nucleare), intorno al quale si dispongono strati più esterni che svolgono diverse funzioni. La frase
nucleare è composta dal verbo e dai suoi argomenti. Cominciamo col precisare che al centro della
struttura nucleare della frase si trova il verbo. Ora bisogna fare una distinzione fra i diversi tipi di verbi
che, insieme agli argomenti, realizzano la struttura della nucleare.
Abbiamo i verbi predicativi che sono verbi i quali hanno un significato lessicale pieno e sono in grado di
descrivere e articolare uno stato di cose un evento: nevicare, sbadigliare. In aggiunta vi sono verbi non
predicativi: si tratta di quei verbi del contenuto lessicale leggero, che si appoggiano ad altri verbi:
dovere, potere ecc.
Per descrivere la relazione fra verbo e argomenti si adopera il concetto di valenza. Il verbo possiede una
valenza e, in base alla sua valenza, seleziona un certo numero di argomenti. Quindi gli elementi
obbligatori all'interno di una frase sono gli argomenti del verbo.
Prima di dire questo bisogna capire però che gli enunciati, che sono unità comunicative, si possono
manipolare, ad esempio in: “Valeria mangia la torta con gusto”, “con gusto” è periferico rispetto al
nucleo, quindi si può spostare più agevolmente; mentre il resto della frase è parte del nucleo, perciò ci
sono più difficoltà a spostarlo.
Detto questo vengono riconosciuto al massimo quattro argomenti:
zerovalenti, non hanno bisogno di alcun tipo di estensione, poiché già da soli formano una frase
nucleare
Esempio: “Piove”, “tuona”, il verbo basta a se stesso, verbi zerovalenti
monovalenti, hanno un solo argomento, “Valeria dorme”
bivalenti, hanno due argomenti che nei ruoli semantici si distribuiscono in modo diverso fra
Soggetto/Oggetto , Soggetto Agente/Oggetto paziente
“Valeria mangia la torta”
Trivalenti, tre argomenti che hanno diversi ruoli “Valeria è andata a Milano”
E infine i tetravalenti “Valeria regalo un libro alla nipotina”.
Questo aspetto indica gli elementi che dipendono dal verbo; quindi si può dire che la valenza è una
relazione ad -n- posti che un verbo richiede.
Infine, va segnalato che vi sono alcuni verbi che hanno una struttura bivalente transitiva e una struttura
monovalente intransitiva. In questi casi l'elemento che riveste il ruolo di Oggetto diretto dell'uso
transitivo del verbo coincide con quello che riveste il ruolo di Soggetto dell'uso intransitivo dello stesso
verbo.
I verbi intransitivi, appartengono a un gruppo più ampio di verbi (che include anche verbi riflessivi): gli
inaccusativi
Questi verbi si riconoscono per alcune proprietà:
1 hanno l'ausiliare essere (mentre altri intransitivi, per esempio camminare, dormire, hanno come
ausiliare avere);
2. ammettono la ripresa con un ne partitivo (per quanto riguarda le na-vi, ne sono affondate molte,
mentre è agrammaticale ne hanno dormite molte);
3. il participio di un verbo inaccusativo può apparire in una costruzione assoluta (affondate le navi, i
pirati si allontanarono), mentre non è possibile una costruzione come: dormito Giovanni, ha preparato
il caffè.
Il nesso fra la struttura della frase nucleare e la valenza dei verbi può essere ben colto attraverso
rappresentazioni grafiche che tengano conto delle relazioni argomentali dei verbi. Rappresentazioni di
questo tipo sono state proposte da Francesco Sabatini.

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Poi abbiamo ad esempio il verbo"piacere" è un verbo bivalente, in quanto ha bisogno di un soggetto e
di un esperiente.
Mentre il verbo dare, a differenze del verbo dormire, è trivalente, quindi è costituito da altri due
sintagmi, poiché il soggetto che compie l’azione, DÀ QUALCOSA A QUALCUNO.
In questo caso, c’è da dire che all'interno delle caselle sintattiche ci sono dei ruoli. Chi riceve un
vantaggio dall'azione si chiama "beneficiario", ossi agente oggetto e beneficiario.
Invece il soggetto è l'agente, cioè qualcuno che compie un'azione; il soggetto è il primo argomento del
verbo
Esempio: il gatto mangia il topo
al passivo:
il topo è mangiato dal gatto
il gatto è l'agente, mentre il topo è oggetto paziente sia quando è complemento della frase attiva, sia
nella frase passiva.
Ci sono casi in cui però il soggetto compie l'azione quando si tratta di un verbo transitivo attivo, in una
frase come:
"maria si adira" il soggetto è un esperiente.
Il secondo ruolo è il paziente o tema.
"i ragazzi studiano linguistica italiana"->
linguistica italiana è un tema, è argomento della frase, mentre:
"l'assassino uccide la vittima" la vittima è paziente in quanto subisce l'azione.
Esistono anche degli elementi che allargano il nucleo, strutturando quindi la frase a “buccia di cipolla”.
La parte più esterna è quella extranucleare, mentre poi abbiamo i circostanti che sono elementi
aggiunti vidi vario tipo, esterni al nucleo. Possono essere omessi senza rendere però la frase
agrammaticale.
Poi ci sono le “espansioni”, che sono gli elementi che nella frase si affiancano al nucleo e ai suoi
circostanti.
REGOLE DI BUONA COSTRUZIONE
La frase non è solo un qualcosa di dotato di senso compiuto, è più un’unità in cui sono vigenti delle
regole delle regole di costruzione. Le regole sintattiche sono abbastanza ferree: si parte al verbo, come
abbiamo visto, deve avere un certo numero di argomenti; in prima battuta, ciò che definisce la frase
sono le regole:
Regola dell’accordo: ci spiega perché un soggetto singolare femminile richieda un verbo singolare,
sarebbe agrammaticale se noi dicessimo “Valeria dormono”. In questo caso il verbo deve essere
coniugato alla terza persona singolare. Si parla di una grammatica universale, costituita da un insieme
di regole che già conosciamo spontaneamente. La frase quindi è un insieme di combinazioni di
costituenti che devono rispettare le regole di buona formazione, questo vuol dire che quando
formuliamo una frase, deve concordare con tutti gli elementi, quindi se noi diciamo ad esempio:
“L’aquila parla“ “Luca dorme il divano”, la prima non è convincente dal punto di vista semantico, ma nel
momento in cui creiamo un contesto surreale, tipo una favola, è accettabile.
La seconda, invece, il problema è sintattico in quanto il verbo è monovalente.
TIPI DI FRASI
Nella riflessione linguistica la nozione di tipo di frase viene utilizzata per individuare un insieme di
proprietà distintive e classificatorie della frase. Attraverso di essa, infatti, possono essere individuati
cinque parametri che consentono di distinguere fra diversi sottotipi di frasi: la modalità, la polarità, la
diatesi, la gerarchia e la marcatezza sintattico-informativa.
Con modalità ci si riferisce all'atteggiamento del parlante verso il contenuto semantico che sta
veicolando e si descrive l'azione che il parlante sta compiendo con il suo atto linguistico. Es: frase
interrogativa diretta (Come stai?); frase esclamativa (Che bella giornata!); frase ottativa= esprime un
augurio o auspicio
(Speriamo vada tutto bene!).
La polarità può essere negativa o affermativa. Il valore negativo è realizzato dalla negazione che in
italiano è espressa soprattutto tramite l'avverbio non. Possono svolgere la funzione di negazione

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elementi come la forma “No”(forma olofrastica). Dire che “No” è la risposta olofrastica ad una
domanda polare, significa che “no” vale come un’intera frase che nega il contenuto della domanda a cui
risponde.
Il quarto parametro è quello legato alla gerarchia delle frasi, che riconnette la distinzione fra frasi
principali e frasi subordinate.
L'ultimo parametro è quello della marcatezza. Il concetto di marcatezza tocca diversi livelli dell'analisi
linguistica.
Relativamente al piano sintattico e pragmatico, si considerano marcate quelle frasi che presentano un
ordine non basico dei costituenti che formano il nucleo e che non mostrano un ordine S-V-O (soggetto-
verbo-oggetto)
DIATESI
La diatesi fa riferimento alla forma attiva o passiva del predicato e alla correlazione che esiste fra le
funzioni sintattiche di una frase e i ruoli semantici richiesti da verbo. La diatesi della frase è attiva,
quando il verbo è di forma attiva e il soggetto, dal punto di vista semantico, assume tipicamente il ruolo
di agente e di espediente.
La diatesi è passiva quando il verbo è di forma passiva e il soggetto assume il ruolo di paziente o tema.
MARCATEZZA
Si considerano marcati tutti gli elementi, che presentano una marca che le differenzia da quelli
considerati normali dal punto di vista quantitativo o qualitativo. Perché una struttura di una frase possa
essere considerata marcata, è necessario che sia possibile scegliere fra un ordine canonico e uno meno
canonico. Una frase quanto buono è il gelato! non viene considerata marcata ,sebbene abbia il
soggetto in posizione postverbale.
DISLOCAZIONE A SINISTRA
Come abbiamo detto, solo gli elementi più esterni si possono spostare e lo spostamento costituisce una
scelta stilistica; nel momento in cui si sposta un qualcosa a sinistra, le si dà maggiore risalto, in quanto
quella iniziale dovrebbe essere la posizione del soggetto. Questo meccanismo linguistico è detto:
dislocazione a sinistra.
Essa è una struttura marcata in cui un costituente, ovvero penna, viene spostato a sinistra nella
posizione canonica del soggetto, senza diventare soggetto e viene ripreso da un elemento che viene
definito pronome clitico.
È una struttura antichissima, infatti la troviamo anche nel Placito (kelle terre.. santi benedicti).
Possiamo usare la dislocazione a sinistra quando riteniamo che sia funzionale a quello che vogliamo
dire, certamente è una struttura arcaica, infatti autori del passato, come Machiavelli, l’hanno usata.
Esempio: La mela l’ha mangiata Carla.
è una dislocazione a sinistra perché c’è quel pronome clitico (detto clitico di ripresa) “la” che riprende il
tema.
Dal punto di vista informativo, il costituente dislocato svolge la funzione di topic, cioè di un elemento di
cui si parla e sul quale si danno informazioni. Sempre in una prospettiva informativa, riconosciamo nella
seconda parte il comment, ossia ciò che si afferma al riguardo del topic. Possiamo dire che la
dislocazione a sinistra serve a rendere topic un elemento diverso dal soggetto.
DISLOCAZIONE A DESTRA
Definiamo, invece, dislocazione a destra la struttura in cui un costituente diverso dal soggetto è isolato
a destra ed è anticipato da un pronome clitico cataforico. Nel parlato il costituente dislocato è
preceduto da una pausa che lo precede mentre nello scritto una virgola segnala la natura di costituente
dislocato.
Esempio: “La mangio il sabato sera, la pizza”
Come la dislocazione a sinistra, anche la dislocazione a destra assegna al costituente dislocato la
funzione di topic. Ad esempio, se ci spostiamo nell'ambito dei testi che puntano a ricreare
caratteristiche del parlato - parlato, è interessante notare il frequente ricorso della dislocazione a
destra nei malavoglia Di Giovanni Verga. Una struttura simile alla dislocazione a sinistra e il cosiddetto
tema sospeso. A differenza della dislocazione, però, il costituente spostato a sinistra può essere ripreso
sia da un clitico anaforico sia da un pronome tonico, e non è preceduto dalla preposizione. L'elemento

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dislocato è un sintagma nominale, come un nome e/o un pronome tonico. Una lunga tradizione
grammaticale ha per secoli stigmatizzato l'impiego nello scritto delle dislocazioni e del tema sospeso,
giudicandoli sgrammaticature inaccettabili. Invece però la teoria linguistica odierna ci ha insegnato a
riconoscere nelle dislocazioni e nel tema sospeso delle strutture marcate. Dislocazioni e temi sospesi
sono attestati lungo tutto il corso della nostra storia linguistica, sia dal più antico testo in volgare, come
il placito Capuano, risalente al 960 d.C., E adoperati da Boccaccio a Manzoni, Verga e Calvino.
TOPIC E COMMENT
Ogni enunciato ha un dinamismo comunicativo che lo divide in due parti:
parte topic
parte comment
Quando si struttura una frase, prima si intromise l’argomento, ovvero il topic, e poi vengono introdotte
le informazioni al riguardo, il comment, ossia ’elemento che mi dà l’informazione.
Es. “la lezione non l’ho capita”
il topic è la lezione,
l'informazione è che “non l’hai capita”. A volte si risponde direttamente con il comment, come ad
esempio:”nemmeno io”.
Di solito nel topic c’è quello che viene comunemente chiamato “soggetto”. Se voglio portare al posto
del topic, un elemento diverso dal soggetto: o uso il passivo (la mela è mangiata da carla), o uso la
dislocazione a sinistra (la mela l’ha mangiata Carla).
TEMA SOSPESO
si ha quando abbiamo una rottura della frase, in cui un elemento rimane solo, senza alcun tipo di senso.
Gli INGLESI LO CHIAMANO HANDING TOPIC
Esempio: A MARIA LE DO UN LIBRO,
IO DO UN LIBRO A MARIA
MARIA È IL TOPIC, SENZA NIENTE è una struttura ANACOLUTO, CHE NON FUNZIONA, si usa nel parlato.
Ovviamente se parliamo di un complemento oggetto non c’è un problema se il tema è sospeso, ce ne
accorgiamo perché ci vorrebbe la preposizione che sparisce, se tolgo la preposizione creo il tema
sospeso.
FRASE SCISSA
Questo tipo di frase mette in evidenza un nuovo elemento/soggetto, che viene poi ripreso da quello
noto ad esempio:
-“hai rotto tu il cellulare?”
-“no no è stato Mario”
FRASE PSEUDOSCISSA
Simile alla frase scissa è la pseudoscissa. Essa è costituita da una prima parte che introduce una
subordinata e da una seconda parte costituita dalla principale e dal verbo essere.
1. Chi andrà a Parigi è Carla
2. Quelli che hanno rivelato tutto a nostra madre, sono loro
FRASE PRESENTATIVA
C’è da dire che possono essere strutturati degli enunciati senza parte topic, con solo comment. Si tratta
di una struttura presentativa in cui x e x sono soggetti completamente nuovi.
PIANO REFERENZIALE
Sul piano della testualità figurano due aspetti, coerenza e coesione.
Riguardo alla coesione si evidenziano due livelli, semantico ed enunciativo. Quindi il testo è un'unità
comunicativa formata da più enunciati.
Abbiamo esplicitato che il testo è fatto di coesione, ossia è una superficie che rende il testo tale. Il testo
a sua volta è caratterizzato da 3 piani che collaborano alla coesione del testo:
1. Piano referenziale; ha a che vedere con i referenti del testo. Il referente del testo è qualunque entità
astratta o concreta che si trova al suo interno. Un esempio potrebbe essere: “la casa è in montagna”,
montagna è un referente. Il modo in cui si mantiene la continuità del referente non è caotico. C’è un
modo in cui parliamo delle cose che ubbidisce ad un principio chiamato “grado di attivazione del
referente” (vuol dire che se ti sto parlando di un argomento, invece di essere ripetitivo, potrei usare

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sintagmi del tipo “quindi è importante” e attraverso “il quindi” non ripeti il soggetto). Se invece cambio
il topic, per non confondersi, bisogna specificare il soggetto altrimenti non si comprende di cosa si stia
parlando. Il topic è ciò di cui si parla, l’argomento, talvolta si chiama anche tema.
2. Piano logico semantico; il modo in cui si decide di esprimere le relazione semantica, ossia: i
connettivi usati, la subordinazione, la coordinazione. Es: Oggi piove, oppure potrei dire: “tuttavia oggi
piove”
3. Piano enunciativo; tutte le volte in cui si decide chi parla con il discorso diretto o indiretto. In più il
livello enunciativo è quello che spiega perché nelle lingue parlate si possono avere delle strutture
marcate, dislocazioni, che marcano ciò di cui si parla. Esempio: “Luca ha messo il cappotto” -messo-
significa indossare, verbo bivalente. “Luca ha messo la borraccia nello zaino”, in questo caso è
trivalente.
MORFEMA
Oggetto di studio della morfologia, è la minima unità linguistica dotata sia di una componente formale
(significante), sia di una componente semantica (significato). In italiano sono morfemi sia la radice di un
verbo, come legg-, sia la desinenza dell'infinito. Il morfema collegato alla radice trasporta un significato
lessicale e si chiama perciò morfema lessicale; il secondo tipo di morfema legato alla desinenza, trasporta
un significato grammaticale, e si chiama mortema flessivo.
L'italiano segue queste regole di combinazione dei morfemi perché è una lingua flessiva, per questo motivo
tende a combinare i morfemi in unità più grandi che si chiamano parole. La forma-tipo della parola è il
lessema. In italiano è frequente osservare che un morfema lessicale nel suo paradigma si articola in diverse
forme, che possiamo considerare diverse varianti, dette allomorfi.
IL LESSICO
È il repertorio delle parole i una lingua. La nozione di parola è problematica: nella scrittura le parole sono
isolate tra spazi bianchi. Il termine che la linguistica adopera però al posto di parola è: il lessema. Esso è
un’unità lessicale che fa sistema con tutti gli altri lessemi della lingua che può manifestarsi in più forme, in
classi, paradigmi e sintassi.
Il lessico è il repertorio delle parole della lingua
Il lessema è l'unità lessicale dotata di senso (parola)
Il lemma è un'unità stilizzata della parola, le quali si trovano ad esempio nei vocabolari.
I TOPONIM I E GLI ANTROPONIMI
I toponimi e gli antroponimi, cioè i nomi di luogo e i nomi di persona, appaiono nei dizionari enciclopedici,
ma non nei vocabolari, perché non vengono usati per il significato che hanno perché si riferiscono a singoli
referenti specifici (o a classi di referenti). Infatti, nomi di persona come Luca o Andrea, o nomi di luogo
come Salerno o Torino non possono essere definiti ma solo descritti, perché non rinviano a dei significati.
Perciò, il fatto che il significato dei nomi propri non venga considerato dai parlanti pertinente al loro uso
non comporta che i nomi propri non abbiano un significato originario: in origine antroponimi e toponimi,
erano termini inseriti nel sistema lessicale della lingua.
LA POLISEMIA
La polisemia, cioè la pluralità dei significati di un lemma, è la normalità nel lessico comune, mentre è poco
frequente nei tecnicismi.
Nel lessico comune sono sempre possibili estensioni di significato, Per esempio, casa può significare 1.
«edificio», 2, «abitazione», 3. famiglia», 4, «suddivisione del cielo astrologico in corrispondenza dei segni
dello zodiaco»,
Quest'ultimo significato è specifico del lessico dell'astrologia e costituisce un tecnicismo semantico, cioè un
significato proprio di un tipo di linguaggio adoperato da specialisti per trattare argomenti.
MARCHE D’USO
Le parole sono contrassegnati da etichette (o marche d'uso) particolari nei vocabolari, per indicare l'ambito
in cui sono usati. oltre alla sigla TS (tecnico-specialistico), ci sono marche legate alla frequenza con cui le
parole vengono adoperate; quelle fondamentali (FO), quelle di alta disponibilità (AD), i vocaboli di basso
uso (BU).
INDICATORI DI REGISTRO

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Oltre alle marche d'uso ci sono anche gli indicatori di registro: una parola può essere adoperata secondo
un'accezione scherzosa (marmocchio «bambino»); può essere uno stereotipo (terrone «persona
proveniente dal sud»); può avere un uso figurato o esteso, attraverso metafore o altre figure retoriche: per
esempio l'aggettivo caldo ha accezione figurata se significa «che si appassiona facilmente» (temperamento
caldo)
I PRESTITI
sono le parole di un’altra lingua che entrano stabilmente nella lingua italiana. Questi possono essere
adattati( nella parola weekend c’è un prestito non adattato, cioè l’italiano se lo è preso così come stava
nell’altra lingua) e non adattati, effimeri ( quando c’è una moda linguistica). . I prestiti si distinguono poi in
interni ed esterni. I prestiti esterni (che derivano dalle lingue straniere) possono essere:
• prestiti di lusso si hanno quando a parole già esistenti ne vengono affiancate altre (baby sitter,
weekend). Con il prestito di lusso il parlante si orienta tra due sinonimi, uno italiano e uno inglese
• prestiti di necessità; quando una parola della lingua straniera entra perché c’era un buco nella lingua
• calco linguistico si ha quando prendo una parola di un’altra lingua ma conservo nel calco una
caratteristica che riguarda la lingua da cui l’ho preso. Ad es. ferrovia, c’è un calco sintattico perché lo
stesso suono è presente nel tedesco. Un altro tipo di calco è quello semantico, quando prendo una
parola dell’italiano che già esiste e comincio a darle un significato che non aveva ad es. è una stella, è il
calco semantico da “star”, anche dire stella per dire diva è un calco semantico. Un altro calco semantico
è quello dove si usano parole in italiano con il significato che hanno in inglese.
• anglicismo si verifica quando una parola straniera entra nel lessico e viene acclimatata. L’eccesso di
anglicismi cambia l’italiano? No perché non necessariamente intacca la struttura morfologica della
lingua.
I prestiti interni sono:
• i dialettismi come pizza, mafia.
I dialettismi non vanno confusi con i regionalismi presenti solo in una certa area geografica.
• la sinonimia su base geografica, si usa quando l’italiano non è arrivato a formulare una forma
canonica per tutta la penisola. Giocattolo è la forma settentrionale che si distingue da balocco. I
geosinonimi sono sinonimi su base geografia, parole diverse nella forma che usiamo per indicare le
stesse cose. Quindi l’oggetto x si chiamerà gruccia in una regione e stampella in un’altra.
• geomonimi parole uguale nella forma che cambiando area dell’Italia significano cose diverse
(temperino in alcune aree è un coltello in altre è usato per temperare le matite) (attaccapanni per
alcuni posti è una gruccia per altri è un posto in cui attaccare i cappotti). La geomonimia significa che
abbiamo la stessa forma che prende un significato diverso nelle aree. (Se chiediamo il cornetto a Napoli
otteniamo una cosa se lo chiediamo a Milano ne otteniamo un’altra)
regionalismi parole a circolazione geografica limitata, la varietà diatopica dell’italiano regionale ha un
suo lessico che è diffuso in quella determinata regione. Esempio: toso, chiattillo, perché se lo si dice a
Milano non viene compreso dato che è usato solo in Campania. Oppure “fare filone” è un regionalismo
perché nelle varie aree si dice in modo diverso.
GLI ESOTISMI
Il lessico è soggetto alla pressione delle lingue straniere. Nei dizionari, i cosiddetti esotismi, sono i
primo termini che provengono da una lingua straniera e hanno un adattamento minimo alle strutture
dell'italiano, ma il loro status risulta evidente anche da indizi, come la trascrizione fonetica.
Questa consuetudine ha il pregio di presentare come anomale le grafie non italiane, come la "u" di
computer [kom'pjuter] e le "a " di airbag [er'b3g].
L’ETIMOLOGIA
Le parole dell’italiano derivano dal latino volgare e sono parole di continuità interrotta. Queste parole
non vanno confuse con le parole colte (latinismi) che sono entrate come recupero di parole presenti nel
latino parlato (orecchio, orecla). Per capire la differenza tra parole colte e parole di continuità
interrotta introduciamo il concetto di allotropia, cioè a partire da una medesima base latina si hanno
parole di tradizione ininterrotta che derivano dal latino popolare, privo di discontinuità temporale tra
vizio e vezzo vizio è l’espressione popolare che si è modificata (popolari). In italiano da florem latino

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abbiamo fiore perché le parole col nesso latino con l tendono a diventare i. Fiore è la parola di
tradizione ininterrotta e floreale è la parola colta.
L’ALLOTROPIA
è un insieme di parole che derivano dalla medesima matrice, per via dotta o popolare, ed ognuna si
specializza poi con un proprio significato. Poiché spesso le voci allotrope sono due (una di trafila dotta e
un'altra di trafila popolare), si parla anche di doppietti. Es: da vitium derivano vizio (cattiva abitudine) e
vezzo (abitudine, modo abituale). TRAFILA DOTTA= Parole che non sono sempre state usate a livello
popolare e hanno conosciuto una discontinuità di uso; quindi, nel tempo non sono state più usate.
Queste parole, dopo secoli di silenzio, sono state recuperate dal latino per via dotta. TRAFILA
POPOLARE= Parole che non sono mai uscite dall'uso e nel loro passaggio dal latino all'italiano formano
una tradizione popolare che è priva di discontinuità temporale: queste parole non smettono mai di
essere usate nel tempo.

IL REPERTORIO LINGUISTICO
L’italiano, i dialetti e le lingue alloglotte costituiscono il cosiddetto “repertorio linguistico”. Questo
repertorio è ordinato e, ciò che differenzia queste varietà, costituenti tale insieme, non è di tipo linguistica,
ma sociolinguistica, poiché una di queste lingue è diventata più prestigiosa delle altre(ci sono degli ambiti
comunicativi ufficiali in cui usiamo l'italiano come la scuola, il Parlamento, le leggi). Questo perché il
fiorentino diventando lingua di prestigio perché usata come lingua della letteratura, ha dato in seguito vita
all’italiano, la quale è diventata lingua nazionale. In sintesi: una è diventata la lingua di cultura, le altre sono
rimaste dialetti. Tutto sommato, seppur l’italiano deriva dal fiorentino, potremmo dire che tutti i fiorentini
parlano la lingua standard. In realtà non è effettivamente così, questo perché vi è comunque l’influenza
dell’accento fiorentino (come la gorgia).
LA FONETICA
è la disciplina che studia i suoni di tutte le lingue del mondo, gli uomini producono suoni linguistici
attraverso un processo che si chiama fonazione, il che richiede l’interesse di alcuni organi fonatori, ovvero: i
polmoni, la trachea, la laringe, la faringe, il palato, la lingua, le labbra e la cavità nasale. I suoni delle lingue
a loro modo si distinguono poi in due grandi categorie, vocali e consonantici; le consonantici vengono
definite dal modo in cui vengono articolate, il tratto fonatorio e l’organo fonatorio. Le vocali invece
vengono classificate in base alla posizione della lingua e dall’atteggiamento delle labbra. Attenzione
bisogna però chiarire che la fonetica e la fonologia sono due cose distinte: la fonetica studia il suono da un
punto di vista fisico dell’apparato fonatorio.
LA FONOLOGIA
Studia la relazione tra i suoni e come varia il significato quando uno di questi cambia.
Questi suoni vengono definiti “fonemi”, cioè l'unità fonologica minima di un sistema linguistico, dotata di
capacità oppositiva rispetto ad altre unità, al cui cambiamento corrisponde un cambiamento di significato
(per es. C ara, G ara).
Si dice che i suoni sono fonemi, quando possono creare:
 La coppia minima, produce differenza di significato tra due parole uguali che vengono distinte però,
mediante la sostituzione di un fono, però nella medesima posizione: venti (il numero) vεnti (il soffio
d’aria, nanna, panna, gnocco, cocco).
Per comprendere a pieno questo concetto c’è bisogno di usufruire della prova di commutazione:
se, all'interno di una lingua, sostituiamo un fono di una parola con un altro fono e si ha come effetto la
trasformazione di questa parola in un'altra, cioè il mutamento del suo significato, allora i due foni hanno
funzione distintiva e vengono considerati fonemi. Questa è la cosiddetta prova di commutazione.
Poi abbiamo i:
 Grafemi, le lettere
 Allofoni (dal greco “allos” altro, “fonos” suono), variante di suoni che non producono differenze di
significato, variante combinatoria, oppure esistono gli allofoni liberi: ma|r|e e ma|R|e (|R|
sarebbe la cosiddetta “r moscia”), non produce una differenza, bensì i parlanti decidono di usare
una al posto di un’altra, non creando alcun tipo di disordine.

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INVENTARIO FONEMATICO
L’italiano, come ogni lingua, vista le presenza di molteplici suoni, sceglie una proprio cassettina di “suoni”
(foni), definita in linguistica “inventario fonematico”.
ALFABETO FONETICO INTERNAZIONALE
Per comprendere la differenza dei foni di una lingua, soprattutto per quanto riguarda la loro trascrizione si
fa riferimento all’alfabeto fonetico internazionale. È un alfabeto, sviluppato durante il 19° secolo che
permette di trascrivere foneticamente il linguaggio. Ciò significa che ad ogni suono corrisponde un solo
simbolo, e viceversa. Conoscere il simbolo ti aiuta a comprendere come pronunciare il suono al quale è
associato, Questo alfabeto fonetico è composto principalmente da lettere latine e greche, e viene rivisto
continuamente per renderlo utilizzabile dagli studenti di qualsiasi lingua. È detto sistema alfabetico
fonetico internazionale, proprio perché è utilizzato e conosciuto come metodo standard per imparare la
pronuncia dei suoni nelle diverse lingue.
L’alfabeto fonetico serve a dare una rappresentazione grafica al suono, in modo che sia più facile imparare
come esprimerlo vocalmente. L’obiettivo di tale sistema è quindi quello di associare in modo univoco un
solo segno grafico ad ogni fono, in modo che non si crei ambiguità.
LA TRASCRIZIONE DEI FONI
La prima cosa da sapere è che la trascrizione fonetica si fa sempre utilizzando le parentesi quadre. La
seconda è che la posizione dell’accento dovrà essere indicata con un trattino prima della sillaba tonica
(quella che necessita di maggiore voce).
LA CLASSIFICAZIONE DELLE CONSONANTI ALL’INTERNO DELL’IPA
Per leggere le consonanti con l’alfabeto fonetico è importante conoscere il punto di articolazione, quindi in
quale luogo della cavità orale si “attiva” quel suono. I suoni si classificano guardando 4 parametri:
1. Se esiste un ostacolo (occlusione), se esiste allora parliamo di consonanti, al contrario di vocali
2. Se le corde vocali (o meglio le “pliche) vibrano o meno. Se vibrano abbiamo una consonante
sonora, al contrario sorda.
3. Se l’aria passa o meno per il naso. In quel caso abbiamo foni nasali. In italiano fanno parte di questi
solo le consonanti, poiché non esistono vocali nasali (se non per alcuni dialetti, o per il francese).
Nel caso in cui l’aria non passi attraverso il naso, si tratta di “oralità”
4. Modo e luogo di articolazione. Queste dove si articolano all’interno della cavità orale
LE POSIZIONI DELLA LINGUA
Abbiamo 5 posizioni:
 Bilabiale (es:p)
 Dentale (es:d), detta anche alveolare o paradentale
 Palatale (es:sc)
 Velare (es:g)
 Labiodentale (es:v)

L’ARTICOLAZIONE DEI FONI NELLA CAVITÀ


Le consonanti sono quei foni che vengono articolati in modo tale che l’aria incontri sempre un ostacolo
lungo il suo percorso.
Tale ostacolo è definito occlusione, che può essere totale o parziale.

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C’è da dire che le occlusive sono presenti in ogni lingua del mondo, poiché hanno una loro centralità di
suono. Quando infatti c sono soggetti che soffrono di afasia, questi suoni sono gli ultimi a scomparire,
poiché i più facili, ed in più sono quelli che vengono appresi fin da piccoli.
Esistono ben 6 modi di articolare i foni
1. PLOSIVE, quando nel pronunciare le consonanti, s’incontra una totale chiusura del cavo orale,
che genera un’esplosione

Soluzioni grafematiche di [k]


[k: <c> <ch> <q>
1) <> di solito prima di [a], [a], [o], [u]
2) <ch> di solito prima di [E], [e], [i], [i] (es.chiesa ['kjEsa])
3) <q> di solito prima di [w] (es. quando'kwando]; eccez. es. cuore)
N.B: in particolar modo P,B sono simili perché entrambe articolate sulle labbra (labiali), sono
entrambe occlusive ed è per questo che sono considerati foni completi. L’unica cosa che li
differenzia è il tratto della sordità-sonorità (P sorda, B sonora)

2. NASALI, anche queste subiscono lo stesso processo, con la differenza che l’aria passa
attraverso il naso

Questo avviene perché se ho una labiodentale o una velare, la nasale si coarti cola al fono che sussegue. In
sintesi significa che la lingua non si trova dove dovrebbe stare (es: nave=dentale) , bensì segue la posizone
della lingua della consonante che segue (es: angoscia=velare). I processi di articolazione dei foni sono
effetto di un complesso di movimenti coordinati degli organi fonatori, durante i quali si cerca di
economizzare gli sforzi senza sacrificare il buon esito della comunicazione.
Il fonema /n/ ha diverse realizzazioni:

1) davanti a [f] e [v] ha una realizzazione labiodentale: es. panfilo [pa filo]

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n
2) davanti a [k] e [g] ha una realizzazione velare: es.banco [ba ko]
3) Quando la nasale palatale [n] ricorre in posizione intervocalica, sia all'interno di parola che all'incontro
tra parole, nella dizione standard
dell'italiano è sempre lungo:
<bagno> [ba ᶯᶯo]
3. FRICATIVE PALETALI, avvicinamento senza contatto di due organi articolatori, dove l’aria
continua a passare per la presenza di una piccola fessura non chiusa del tutto. Vi è quindi un
restringimento, cioè una frizione continua

A proposito dei suono come “sc-sci” (definiti digrammi e trigrammi), la loro trascrizione con due o tre
lettere, va a rappresentare un solo suono, detti anche “grafemi doppi” (es: sciame).
Al grafema <s> corrispondono due fonemi:
1) s/ sorda
2) /z/ sonora
Si tratta di una coppia a scarso rendimento funzionale, cioè con poche coppie minime:
‹fuso> ('fuso] sost. e ['fuzo] p.p. 'fondere'
«chiese> ['ki&se] verbo e ['kj&ze] sost. pl. 'chiesa'

4. AFFRICATE, ottenute da una parte occlusiva e una fricata

Al grafema <z> corrispondono due fonemi:


1) /ts/
2) /dz/
Si tratta di una coppia a scarso rendimento funzionale, cioè con poche coppie minime:
<razza> [’rattsa] ‘specie’ e [’raddza] ‘pesce’

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• Quando [ts] e [dz] ricorrono in posizione intervocalica, sia all’interno di parola che all’incontro tra parole,
nella dizione standard dell’italiano sono sempre lunghi:
<stazione> [statˈtsjone]
Questi suoni nel latino colto non esistevano, per questo motivo vengono scritte così. Quindi per
comprendere come sono entrate nella lingua bisogna vedere i toponimi. Infatti negli scritti antichi, per
trascrivere le affricate, usavano alcuni dei simboli riportati in tabella, poiché il grafema z, è del tutto nuovo.
In più c’e da dire che questi suoni, in italiano, hanno una peculiare difficoltà, non solo nella pronuncia, ma
anche dal passaggio dal latino al volgare.
5. LIQUIDE
L, R questo vengono chiamate così perché nel pronunciarle sembrano sciogliersi

Quando [λ] ricorre in posizione intervocalica, sia all'interno di parola che all'incontro tra
parole, nella dizione standard dell'italiano è sempre lungo, tranne nel caso del pronome <gli>
in enclisi nelle parole sdrucciole
‹figlio> [fiλλo] ma <parlagli> ['parlaλi]
6. APPROSSIMANTI, suono a metà tra vocale e consonante. Usato molto nei dittonghi, infatti
l’elemento iniziale del dittongo è un’approssimante
Il dittongo è detto ascendente quando /j/ e /w/ precedono la vocale: ieri ['je:ri], piede ['pjede]
uovo ['wa:vo], duomo ['dwo:mo].
Il dittongo è detto discendente quando /j/ e /w/ seguono la vocale. Nei dittonghi discendenti
la /j/ e la /w/ vengono indicate come semivocali.
le lettere diacritiche
H, quando si scrive una parola con l’alfabeto IPA, questa NON viene trascritta
I, in questo caso si usa j
Questo alfabeto serve per chi non conosce la lingua, e vuole imparare la pronuncia di questa.
N.B:quando il fono è intervocalico, il grafema dell’IPA si scrive due volte
LA PRONUNCIA VOCALICA
Per sapere come pronunciare le vocali invece si può utilizzare il trapezio vocalico, che contiene tutt’e 7 le
vocali.

Alte

Medio-alte

Medio basse

Basse

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Le vocali vengono rappresentate all’interno di un trapezio che semplifica lo spazio della bocca in cui
vengono articolate (partendo dal palato al velo,stringendo poi in basso). Esse si classificano in base alla
posizione della lingua:
-La a è definita come vocale CENTRALE BASSA
(la lingua spinge sul palato molle = in basso).
-La e (aperta) è una vocale ANTERIORE MEDIO-BASSA (o SEMI-APERTA).
-La e (chiusa) è una vocale ANTERIORE MEDIO-ALTA (o SEMI-CHIUSA).
-La i è una vocale ANTERIORE ALTA (o CHIUSA) (la lingua va verso il palato duro = in alto).
-La o (aperta) è una vocale POSTERIORE MEDIO-BASSA (o SEMI-APERTA).
-La o (chiusa) è una vocale POSTERIORE MEDIO-ALTA (o SEMI-CHIUSA).
-La u è una vocale POSTERIORE ALTA (o CHIUSA) (la lingua va verso il palato duro = in alto).
L’ultima caratteristica dei suoni vocalici è la posizione delle lebbra, se sono arrotondate o meno. Si ha una
vocale aprocheila, cioè pronunciata con le labbra rilassate e distese.
Può sembrare alquanto ambiguo dato che: anche se siamo abituati a pensare che le vocali siano cinque
(a,e,i,o,u) è importante notare che sia la E che la O possono essere aperte o chiuse. Quindi la E aperta si
scriverà [ɛ], mentre chiusa la scriverai in questo modo [e].
La lettera O invece, se aperta diventa [ɔ], se chiusa [o].
Quindi in sintesi, se le vocali si trovano in posizione tonica, cioè accentate, si parla di 7 vocali, al contrario 5.
Le vocali, al contrario delle consonanti sono tutte sonore, non esistono vocali sorde.
Come abbiamo detto, un suono si può rappresentare nelle lingue in modi diversi e, nella stessa lingua, un
suono può avere varie realizzazioni grafiche, ossia un fono si può scrivere in modi diversi.
Ad esempio: "c"- "ch"- "K"-"q'.
Se decidessimo di utilizzare tra queste varietà, uno e un solo grafema, nello scritto, sarebbe vantaggioso:
perché meno dispendioso e più economico. C’è da dire però che, l’impiego di queste varietà, ovvero
un’esemplificazione del parlato, porta ad un meccanismo che in linguistica viene definito “economicità
della lingua”. Un esempio potrebbe essere usare il pronome “gli dico” per sostituire le forme “le dico” (al
femminile) “dico loro” (plurale). Per quanto possa essere meno dispendioso e più facile, tuttavia
un'eccessiva riduzione di uno sforzo cognitivo, induce ad un disordine generale, perché disperse delle
informazioni importanti.
Se è così, perché vi è una vasta gamma di varietà grafiche?
Questo avviene perché dietro le grafie c'è la storia della lingua, se quella parola ha una specifica storia, il
sistema ne tiene conto. Bisogna comprendere la storicità e la convenzionalità delle grafie.
Esempio: le parole in ambito politico, tipiche dei partiti politici di sinistra, usano la K, al posto della C.
II sistema grafico è molto stabile, è molto difficile cambiarlo perché si tramanda per iscritto.
LA GRAFIA
I segni della scrittura sono chiamati grafi, un grafo con le stesse proprietà è chiamato grafema. Nell'italiano
contemporaneo esistono anche i digrafemi e trigrafemi: questi sono gruppi di più lettere che corrispondono
ad un solo suono (gn, gli). Varianti grafiche equivalenti sono dette allografi. Ad esempio, un allografo raro di
è , che induce al dubbio linguistico: si scrive ingegnere o ingegniere?
Nell'italiano contemporaneo esiste una regola di variazione della lunghezza della consonante iniziale di
parola, chiamata raddoppiamento fonosintattico: la consonante della parola successiva si allunga dopo una
parola con accento tonico sull'ultima sillaba, dopo i monosillabici forti, con i nomi delle lettere dell'alfabeto,
e infine dopo come, dove, sopra. Per questo si dice si dice: , , ecc. Questa regola di pronuncia, che gli italiani
applicano con alcune variazioni regionali, non comportano variazioni sulla scrittura. La rappresentazione
grafica di questo raddoppiamento fonetico avviene solo in caso di univerbazione:
sopra tutto diventa soprattutto.
CAPITOLO 11: LE GRAMMATICHE
Col termine grammatica ci si riferisce all’insieme delle regole della lingua, alla descrizione di tali regole
e al loro funzionamento e al libro in cui viene fornita tale descrizione. Si dividono in sincroniche e
diacroniche: le prime descrivono la lingua come si presenta in un determinato periodo storico; le
seconde, invece, descrivono lo sviluppo diacronico della lingua. Esistono poi: le grammatiche

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descrittive, le quali illustrano gli usi reali della lingua; le grammatiche storiche che illustrano la storia
interna di una lingua. I dizionari
I dizionari spiegano il significato delle parole (dizionari monolingui) oppure ne presentano la traduzione
in un’altra lingua (dizionari bilingui). Esistono 4 principali categorie di dizionari: i dizionari dell’uso, i
dizionari storici, dizionari etimologici e i dizionari dialettali. Il dizionario dell’uso raccoglie il lessico in
uso nell’italiano contemporaneo. Accanto al lemma questo presentano la divisione in sillabe o la
trascrizione fonetica. Il dizionario storico raccoglie tutto il lessico documentato nella storia di una lingua
e per ciascun lemma presenta ampie documentazioni e i significati in diacronia. La ricerca di una parola
in un vocabolario storico permette di ricostruire in lo sviluppo formale e semantico: in questo modo è
possibile delineare una storia della parola. Il dizionario storico di riferimento per ricerche di tipo
storicolinguistico è il GRANDE DIZIONARIO DELLA LINGUA ITALIANA (GDLI), un’opera monumentale in
21 volumi, fondata e realizzata da Salvatore Battaglia. Per lo studio storico del lessico si dispone del
Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), è questo il primo vocabolario storico pubblicato
direttamente in rete, fondato da Pietro Beltrami. I dizionari Etimologici raccolgono il lessico di una
lingua e di ciascuna parola indica l’etimo, inteso come origine o storia della parola. Il più importante
dizionario etimologico è il Deli, il quale presenta per ogni parola la sua etimologia e il suo sviluppo
diacronico. I dizionari dialettali hanno la funzione di far riconoscere il significato di una parola o una
locuzione appartenente ad un determinato dialetto. Esistono poi gli Atlanti Linguistici, degli strumenti
preziosi per studi dialettologici o per indagini sulla variazione linguistica in diatopia. L’atlante è una
raccolta di carte linguistiche che riportano le trascrizioni delle diverse parole o forme con cui si esprime
un concetto.

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