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Stefano Lanuzza. Storia della lingua italiana.

Collana IL SAPERE – Tascabili economici Newton – 1994

Premessa.

1. La libertà individuale nasce dall'esigenza di esprimere il pensiero e


si manifesta con la parola, questa facoltà esclusivamente umana. Le parole
nominano un agire rappresentato, una «sostanza» da cui scaturisce la lingua,
cioè un sistema comune di funzioni fonosimboliche che eleggono, interpretano
e organizzano la realtà.
Parola e lingua avviano la propria storia nel momento in cui si combinano
col segno grafico. L'uomo delle caverne, che traccia segni su una pietra per
ricordare il numero di animali uccisi nella caccia, inizia la testimonianza
della sua vicenda anche linguistica nel mondo. La scrittura ideografica o
dei geroglifici produce la scrittura fonetica o dei suoni, che diviene
sillabica e infine alfabetica.
Scopo di questo libro è una rapida ricostruzione di alcune fasi essenziali
della lingua italiana congiunte alla struttura delle parole, dalle origini
ai nostri giorni.
A differenza del suono non verbale, la parola è, al contempo, nelle sue
tre classi (sostantivo verbo aggettivo), modulo fonetico e rappresentazione
di significati. Se la storia della conoscenza è anche storia raccontata con
parole e queste sono prerogativa umana, la storia delle parole, che sono
sostanza della forma, è anche conoscenza dell'uomo. Come notava il barocco
Baltazar Gracián nel suo Oraculo manual y arte de prudencia (1647), «i
metalli si riconoscono dal suono, e gli uomini dalle parole».

2. Immagine concreta e vitale d'una società, la parola è la più evoluta


forma di comunicazione fra individui e quanto presiede alle attività umane
storicizzandole. Ogni azione dei soggetti si concreta, infatti, attraverso
la produzione e la trasmissione di significati verbali: allo stesso modo,
I'uomo s'ambienta nel mondo e nella storia mediante la lingua. Una storia
linguistica è perciò strettamente legata a quella del sistema naturale e
sociale in cui la parola si è evoluta. Allora, tracciare il profilo d'una
lingua - tanto letteraria quanto d'uso - sarà identificare un aspetto
rilevante delle vicissitudini della comunità che la parla e scrive.

3. Il movimento della nostra lingua è da inserire, con tutte le sue


particolarità, in una vera e propria storia italiana. Storia sostanziata,
altresì, dalle scienze della linguistica generale (dalla linguistica teorica
a quella testuale, alla psicolinguistica, alla dialettologia, alla
semiologia); e da specializzazioni quali la lessicologia, la fonologia, la
morfosintassi. In base a ciò, si può preliminarmente affermare che un campo
lessicale complesso come quello italiano fissa i propri temi ad altrettante
problematiche storico-sociali e culturali. Problematiche non ristrette
all'ipotesi d'una lingua «pura», perfetta o autosufficiente (nessuna lingua
lo è), ma consapevoli che ogni lingua è, in realtà, un insieme di lingue: è,
insomma, un polisistema fra le circa tremila lingue parlate nel mondo
dall'umanità che è solo una.

4. Va tenuto conto che solo da pochi decenni lo studio della lingua


italiana ha abbandonato un esclusivismo che, circoscrivendo la ricerca,
riproduceva esercizi monografici votati a specializzazioni escludenti la
condizione plurilinguistica dei parlanti.
Una decisa svolta metodologica si ha con I ' interazione fra elemento
linguistico e prospettive storiche, letterarie, sociali in cui si attuano
connessioni comparative con la realtà contemporanea. Una realtà dove la
lingua non è solo storiografia dell'uso verbale prevalente ma anche incontro
con gli idiomi regionali e periferici, ossia con le tradizioni della cultura
«orale».

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Sotto tale aspetto, la lingua parlata, al pari di quella scritta, in
Italia diviene partecipe d'una sincronia storica che, attraverso la
sociolinguistica e la stessa antropologia, include la dialettologia. Il che
implica una riconosciuta esigenza di comprendere nella storia linguistica
quella dei sistemi di vita della comunità nazionale: di conoscere, in-
terdisciplinariamente, i nessi della lingua normativa con la parola
del dialetto. In tali attinenze, la storia della lingua allarga il proprio
spazio conoscitivo al di là degli specialismi senza conoscenza fuori
di sé.
Ne deriverà la constatazione che lingua e parola, scrittura e parla-
to, pur nelle loro precipue attitudini, appartengono con pari dignità a
una generale funzione espressiva e comunicativa. Funzione culturale
che, recuperando il dialetto, fa della lingua italiana il luogo per di-
scemere una parte importante della nostra storia.

L'ltalia prelatina

Le scarse notizie sulla lingua prima dell'affermazione del latino


sono fomite da testimonianze epigrafiche (iscrizioni su pietra, creta,
cuoio, metallo) e da alcune «glosse» o spiegazioni pervenute dalla
tradizione letteraria antica. Troppo poco per individuare o anche solo
immaginare una qualche struttura dei linguaggi parlati all'epoca, ri-
masti perciò sepolti in una pressoché indifferenziata preistoria.
Malgrado ciò, non sono mancati studi su questo settore della lin-
guistica riguardante il substrato delle lingue preindoeuropee nella pe-
nisola. Fondati sulla toponomastica, ovvero sull'osservazione dei nomi
di circoscrizioni dell'area mediterranea, essi hanno individuato resi-
dui di antichissime scritture contrassegnanti zone geografiche, oggetti,
utensili, animali, piante, ecc. Tali dati sono dedotti, su diversi territo-
ri, da iscrizioni collocabili tra il VII e il v secolo a.C., quando Roma,
che sarà il centro d'irradiazione del latino, è ancora un piccolo nucleo
urbano e la sua lingua è niente più d'un pigolìo tra i colli Albani e la
parte a ovest del Tevere, nel ristretto Latium vetus (antico Lazio).
Quando, all'inizio del IV secolo a.C., nell'anno 390, è invasa dai
Galli di Brenno, Roma non ha nessun rilievo linguistico né una tradi-
zione di testi scritti.
La lingua dell'Italia del 390 può idealmente distinguersi in una
parte orientale, in cui sono preponderanti i frasari indoeuropei, e in
una occidentale, con prevalenza di idiomi non indoeuropei. Sono in-
doeuropei, oltre all'umbro, il latino e il siculo, parlati nella zona ro-
mana e nella Sicilia orientale; e poi l'osco, il volsco, il messapico, il
gallico e il veneto (o venetico). Sulle coste siciliane e in quelle del
Sud da Cuma a Rhegium, Croton, Tarentum si parla il greco dei colonizzatori.
Lingue non indoeuropee sono la retica (in terra atesina, con influs-
si etruschi), la ligure, I'etrusca (tratto dell'ltalia centrale tirrenica,
esteso al Lazio e in diramazioni della Campania), il piceno settentrio-
nale e meridionale (che nuovi studi accreditano, in parte, al gruppo
indoeuropeo), il sardo e le favelle della Sicilia occidentale intema.
Componendo un mosaico di lingue che, al pari dei parlanti, presenta
enommi diversità, si può tentare un assetto di riferimento. Vl si distinguo-
no l'idioma umbro, parlato nell'alta valle del Tevere e, nei centri abitati
dell'Appennino e dal Lazio all'Abruzzo fino alla Campania e alla Ca-
labria, I'osco: che, insieme all'umbro, ha molte somiglianze col lati-
no. Il gallico, diffuso nella Pianura padana e nell'Italia del Nord, è
parlato anche in Gallia, I'odiema Francia. Il veneto, proveniente dai
Balcani e attinente all'illirico, è diffuso nell'Italia nord-orientale.
Le lingue succitate, indoeuropee, hanno reciproche affinità e con-
tatti col latino. Le lingue parlate in Liguria e in Sardegna, col sostrato
etrusco in Toscana (la cui unica traccia rimane la trasfommazione del-
le consonanti sorde intervocaliche in aspirate: es. Ia h aspirata della
«gorgia toscana»), differiscono totalmente dal latino, dall'osco-um-

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bro, dal greco, dal gallico e dal veneto. Esse sono preindoeuropee,
più antiche delle indoeuropee.
Quando, tra il Ill e il I secolo a.C., Roma diviene, da piccola repub-
blica, potenza imperiale, i vinti colonizzati accolgono spontanea-
mente la lingua neolatina o romanza (appunto, la lingua discendente
da Roma: dalla locuzione romanice loqui parlare latino). Ed è alla
fine del I millennio a.C. che le parlate italiane completano il loro la-
borioso processo di indoeuropeizzazione.
L'apprendimento del latino è però differenziato in ciascuna zona e
i dialetti locali prendono a latinizzarsi in modo difforme, producendo
vocaboli che, prevalentemente coniati sul latino, vanno distinti dal la-
tino classico.
L'avanzata civiltà etrusca, invece, estranea a quella romana, trova-
tasi nella condizione di doversi esprimere nella lingua dei conquista-
tori, assorbe il latino perfettamente, abolendo via via il suo codice ori-
ginario.
I popoli più distanti da Roma, che imparano il latino dai soldati e
dai mercanti romani, parlano non nella fomma pura professata dagli
etruschi ma con l'accento dei propri idiomi.
Questa molteplice variazione del latino volgare orienterà la nasci-
ta dei dialetti regionali.

Il latino

Anticamente prende il nome di Latium vetus o antiquum il territo-


rio sulle rive a sud del Tevere e fino ad Anzio e Terracina, limitato a
Est dai monti della zona dei Volsci, dai colli Comicolani, Prenestini e
Lepini. In seguito, esso viene detto Latium adiectum (Lazio aggiun-
to) perché incluso tra l'Etruria a Nord, la Campania a Sud, la Sabina
a Est e il Sannio a Sud-Est.
La parola Latium deriva da latus, stante per «largo», «pianeggian-
te», chiaramente associabile al fatto che l'antico Lazio è situato nella
pianura della valle a sud del Tevere. Latini sono i popoli del Latium e
latina è la loro lingua: questa appartiene al nucleo linguistico com-
prendente il greco, I'indiano, I'iranico, I'ittito (Asia minore), il toca-
rico (Turkestan orientale), il celtico, I'albanese, I'armeno, le lingue
gemmaniche, baltiche e slave. Tale gruppo è detto indoeuropeo perché
esteso dall'India all'Europa e connotato da una comune genealogia,
ossia da un'origine che non significa somiglianza ma, in senso lato,
affinità.
Un'affinità ancora più stretta, dovuta alla stessa origine latina, ri-
scontriamo poi fra italiano, francese, spagnolo, portoghese, romeno.
Così come sono affini tra loro, per l'appartenenza al protoslavo, lin-
gue quali il russo, il polacco, lo slovacco, il cèco, il bulgaro, lo slove-
no, il macedone e il serbo-croato.
In base alla composizione dei vari lessici, oltre che per i ritrova-
menti archeologici, si è finito per stabilire una gravitazione dell'in-
doeuropeo nell'Europa centro-settentrionale.
Quando le conquiste di Roma s'allargano oltre le Alpi e il mare,
dalla Spagna- ad Occidente - alla Dacia - ad Oriente -, I'editto di
Caracalla del 212 d.C. concede la cittadinanza romana agli abitanti
dell'Impero, comprendente tutti i territori del Mediterraneo. Allora il
latino diviene la lingua della parte occidentale del Mediterraneo, men-
tre in quella orientale permane, col suo cospicuo retaggio culturale,
rispettato da Roma, la lingua greca. Si ha così un Impero che a Occi-
dente è di lingua latina e a Oriente è di lingua greca.
La romanizzazione non tocca le province gemmaniche e la parte
della Britannia per qualche tempo dominata da Roma, né permane
nell'Africa settentrionale che sarà occupata prima dalle tribù berbere
dell'entroterra africano e poi dagli Arabi.

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Se il latino è capito in tutto l'Impero, fuori del proprio territorio il
greco è conosciuto solo dalle classi colte. A sua volta, il latino presen-
ta due aspetti o «registri»: quello elegante, letterario, «testuale», «gre-
cizzato», in uso nell'aristocrazia urbana (latino perpolitus, urbanus,
togatus), e quello, più rozzo ma più vario, adoperato dal popolo (ru-
sticus, plebeius, cotidianus, vulgaris) e dai soldati (sermo militaris o
castrensis).
Caratteristiche del latino popolare sono una pronuncia imperfetta,
le anomalie nei costrutti della frase e grammaticali, i cambiamenti
fonetici, le innovazioni lessicali, le variazioni e stilizzazioni espres-
sive. E da tali novità, introdotte dal latino parlato nel latino classico,
che iniziano le conversioni e i graduali assorbimenti linguistici.
Dopo ciò, nelle parlate barbariche dell'Occidente latino finisce l'uni-
tà linguistica e nascono le lingue neolatine o romanze. Queste sono, con
l'italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, il ladino e il ro-
meno.
Da osservare che il latino, specialmente parlato, penetra maggior-
mente dove minore è la resistenza dei sostrati idiomatici dei popoli
conquistati da Roma e in minor misura dove non è riuscito a perrnea-
re il sostrato preesistente. E inoltre naturale che, per le diverse resi-
stenze di sostrato, il modulo latino usato in Italia non sia inteso in
Gallia e che quello qui adoperato non sia capito in Spagna o in Ro-
mania.

Origini della lingua italiana

1. Dalla latinità classica a quella popolare

Decade l'Impero romano d'Occidente (475) mentre sorge il cri-


stianesimo. Dopo la deposizione di Romolo Augustolo, il capo degli
Eruli, Odoacre, dà vita ai Regni barbarici e, nel 493, Teodorico fonda
il regno degli Ostrogoti sotto la sovranità dell'Impero d'Oriente. Nel
568 i Longobardi di Alboino conquistano l'Italia centro-settentrio-
nale, dopo avere sconfitto l'ultimo re dei Longobardi, Desiderio.
Dalla dissoluzione della civiltà latina e delle sue istituzioni si salva
la lingua, che per sopravvivere s'adatta, come ogni organismo vitale,
alle mutate condizioni. Essa cambia col cambiare delle idee, del pen-
siero, del comportamento dei parlanti. Non muore, ma si trasforma:
modulandosi in un codice che, evolvendosi e innovando, diverrà nei
secoli molto diverso dal latino. Tanto che questo, oggi, non può in-
tendersi se non studiandolo al pari d'una vera e propria lingua stra-
niera. Ciò che non accade con la lingua greca antica, comprensibile
con una certa facilità dai parlanti il greco moderno.
Dire allora che la nostra lingua affondi le proprie radici in quella
latina è un'affermazione facile ma imprecisa. Più propriamente, do-
vrebbe dirsi che l'italiano nasce non tanto dall'evoluzione, corTuzio-
ne o storpiatura del latino ma da una trasformazione a partire dal so-
nus del latino cosiddetto popolare, distinto da quello letterario. Una
trasformazione interagente coi dialetti e i modi di dire della penisola.
impregnati di latinità ma con autonomi contrassegni lessicali.
Più stabile, anche se popolarizzato nella grammatica e nella sintassi,
è il latino della religione cattolica: questa, associandolo al greco, ne fa
uso per diffondere la dottrina cristiana. Così, è dal punto di vista del
proprio pensiero che la Chiesa, erede dell'Impero, si fa promotrice della
conservazione e della trasmissione nel tempo della cultura e della lingua
classico-latina. Ciò farà poi rilevare allo storico Curtius che «le basi
della cultura occidentale sono l'antichità classica e il cristianesimo».
Due riferimenti significativi delle tendenze linguistiche dell'alto
Medioevo, epoca prima del Mille, distinta dalla successiva, detta
basso Medioevo, possono ravvisarsi in Boezio (480 ca.-526) e Cas-

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siodoro (490 ca.-575 ca.). Il primo, nel suo De consolatione philoso-
phiae, opera perdurata nel culto scolastico medioevale, guarda alla
classicità rigidamente unitaria degli auctores. Il secondo, pur con quello
stile letteratissimo che costituirà un modello per l'epistolografia e
l'eloquenza del Medioevo, nei Variarum libri Xll è più rivolto a una
comunicazione funzionale e pratica, adattata alle nuove artes umane.
Il tentativo della scuola Capitolina e di Carlomagno di ripristinare
la latinità col Capitolato del 789, che impone l'insegnamento della
grammatica (intesa come studio del latino), se non riesce a sostituire
il volgare ne ritarda, insieme alla Chiesa, I'evoluzione. Tale ritardo è
aggravato dalla polarizzazione tra latino colto e popolare, apparente-
mente estranei l'uno all'altro, che provoca alterazioni verbali e origi-
na neologismi.
Ne consegue quello che è stato chiamato un fenomeno di bilingui-
smo: per il quale, mentre la comunicazione è quella rustica, la lingua
usata dal ceto colto punta ad accostarsi al latino classico, modellato
sugli scrittori antichi (Cicerone, Cesare, Livio, ecc.).
Esemplificando, si potrebbe osservare che il latino classico sta a
quello rustico come l'italiano starà ai dialetti.
E, quella classica, una lingua fatta di proposizioni lunghe, dipen-
denti da una sola principale (costruzione ipotattica). Ma, dopo il se-
colo x, è un fatto che le parole dei volgari latini, nati dalla fase inter-
media fra il latino della romanità e il parlato (vocabula rustica, vul-
garia, sordida), prendano il sopravvento. Si afferma perciò la paratas-
si, con proposizioni brevi, unite parallelamente.
Che poi il toscano e in particolare il fiorentino abbiano una preva-
lenza sugli altri dialetti è per la loro posizione geografica, centrale
nella penisola, e perché essi hanno più di altri stretta attinenza con la
lingua della cultura, rimasta latina al fondamento. Infatti, anche dopo
il consolidamento del volgare italiano, sia in Italia sia in Europa, il la-
tino resta la norma della cultura dominante, adoperato nelle scienze,
nell'insegnamento e nella stessa letteratura.

2. Vicenda di parole

Accertata l'origine dell'italiano nel latino popolareggiante, elen-


cando alcune parole passate nel vocabolario italiano si rilevano talu-
ne concordanze o semiconcordanze. Dove il latino acredo dà acredi-
ne, aditare andare,flamma fiamma, adjutare aiutare, adpertinere ap-
partenere, tenere tenere, porta porta, terra terra, altus alto, amplare
ampliare, amare amare, batualia battaglia, belare belare, bucca bocca,
locale locale, burgus borgo, cambiare cambiare, caput capo, com-
binare combinare, cultellus coltello, deviare deviare,facere fare, rota
ruota, vacca vacca, aqua acqua, niger nero, discursus discorso, ebria-
cus ubriaco, metere mietere, exagium saggio, supra sopra, exradica-
re sradicare,falco falco, vates vate,fictus fitto, genuculum ginocchio,
jejunare digiunare, audire udire, lacte latte, mater madre, pater padre,
filius figlio, manducare mangiare, manus mano, tu tu, mensurare ml-
surare, ossum osso, pistare pestare, rancor rancore, palma palma, tec-
tum tetto, testa testa, proba proba, dormire dormire, sedere sedere,
mille mille, tarde tardi, quasi quasi.
Un ruolo importante nella trasfommazione dei sostantivi in italiano
svolgono i diminutivi latini, riferibili per lo più ad espressioni affet-
tivo-eufemistiche. Così axilla, diminutivo di ala, dà ascella; botellus dà
budello, cerebellus/cerebrum cervello, auricola/auris orecchia, anu-
lus/ano (nel senso di «cerchio») anello, glomulus/glomus gomitolo,
spatula/spata spalla, testulus/testa teschio, merula/merus («mero», nel
significato di «solo») merlo, piculus/picus picchio, avicellus/avis uc-
cello, sororcula/soror sorella, terebella/terebra trivella, variolus/varius
vaiuolo, cornicula/cornix comacchia, coronula/corona corolla, crancu-
lus/cancer granchio (oppure cancellum, significante «granchiolino»,

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ma anche «sbarra», riferito all'aspetto delle pinze del granchio), grati-
cula/cratis (grata) graticola, acucula/acus (ago) guglia, visculum/vi-
scum vischio, nebula/nubis nebbia, fratellus/frater fratello, cultel-
lus/culter coltello, ecc.
Per gli accrescitivi, il latino rustico conserva il suffisso -one e per
gli spregiativi i suffissi -aster e -aceus. Questi sono continuati dall'ita-
liano in parole come omone ragazzone, poetastro giovinastro, omac-
cio ragazzaccio. L'italiano formeràpoi anche altri suffissi in -otto (ra-
gazzotto), in -occio (fantoccio), in -ozzo (predicozzo), in -ucolo (poe-
tucolo), -àttolo (fiumiciattolo), -ònzolo (mediconzolo).
Tali esempi, tra i tanti possibili, valgano a spiegare mimeticamen-
te come non ci sia uno stacco netto fra le due lingue, ma una lenta
metamorfosi del latino in altre forme lessicali. Tale processo sarà da
definirefonetico (relativo ai suoni), morfologico (concemente le for-
me), lessicale (rapportato al senso e all'uso delle parole).
I mutamenti fonetici sono dati dal cambiamento degli accenti vo-
calici, che regolano il passaggio delle vocali del latino nella lingua
romanza. Il sistema vocalico tonico romano (di dieci vocali: cinque
«lunghe» e cinque «brevi») è il seguente: I (accento lungo: come dire
i+i: esso vuole il doppio del tempo che serve per pronunciare la i con
accento breve) e l, e, e, a, a, o, o, u, u. Nel latino popolare, la diffe-
renza vocalica è abolita: le vocali lunghe sono chiuse, le brevi aperte.
Vocali italiane: i, é, è, a, ò, ó, u. I ed e del latino mutuano la é in ita-
liano;la~diventaè;aea=a;o=o;oeu=ó;u=u.

ORIGINI DELLA LINGUA ITALIANA

Oltre agli aspetti fonetici della dittongazione (mel mielé, pedem


piede, homo uomo, vetat vieta, fo~cus fuoco, locus luogo, nurus nuo-
ra, ecc.), si hanno cambiamenti dal latino vlta (si legga viita) all'ita-
liano vita, dlcit dice, vllla villa, ml lle mille, rlga riga, ecc. E poi f
'de
fede, seta seta, dlctu detto, dlgitus dito, ecc. E nocte notte, voce voce,
ecc. Con la trasformazione di u in o: bucca bocca, bulla bolla...
Scompare la vocale greca y, che diviene i (lira, mirra, ecc.) o e (se-
sto), oppure o (greco crypta, lat. crupta, it. grotta). Il latino au diviene
in italiano o (causa cosa, fraude frode, auca oca).
Utili per l'osservazione della dinamica latino-italiano gli esiti fo-
netici da solidus a solido e soldo, vitium vizio vezzo, augustus augu-
sto agosto, nitidus nitido netto, cubitus cubito gomito, ecc.
Più d'una semplice curiosità costituiscono parole che, passando
dal latino parlato all'italiano, cambiano significato. Si prenda il caso
di captivus («prigioniero»), che assumendo il senso di malus dà «cat-
tivo»; di paganus («villico», «campagnolo» e poi «civile», «borghe-
se») che accoglie il significato di «non cristiano», «ateo»; di virtus
(«valore di guerriero») che diventa «virtù cristiana»; acer (acuto)
agro; bucca (guancia) bocca, gradus (gradino) grado, insignare (in-
cidere) insegnare, ecc.
Tra i lemmi del parlato latino che hanno preso diverso significato
nella nostra lingua: fanaticus (fanatico), che in latino significa «ap-
partenente al tempio»; profanus (profano) «chi sta davanti al tem-
pio»; egregius (egregio) «scelto dal gregge»; laetus (lieto) «cosparso
di letame»; pagina, stante in latino per «sezione di campo coltivato a
vigneto»; supplicare («piegare le ginocchia»); peccare, da pedlca
(trappola) e pedicare («cadere in trappola»)...
Altresì ha rilievo, negli spostamenti dal latino all'italiano, il siste-
ma delle consonanti. Mentre sono molte le parole latine che termina-
no in consonante, quelle italiane finiscono quasi tutte in vocale (fan-
no eccezione i monosillabi al, del, il, ad, per, non). Brevemente, ecco
alcuni passaggi di parole con finale consonantica che in italiano ter-
minano in vocale: actus atto, manus mano, tempus tempo, lectus let-

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to, vallus vaglio, somnus sonno, diurnum giomo, hibernum invemo,
arbor albero, basium bacio, proprium proprio, vitem vite, vulpem vol-
pe, bovem bue, selvaticum selvatico, regnum regno, capillum capello,
cibum cibo, ruptus rotto, robur rovere, iam già, ecc.

Trascorrendo, con la debita rapidità, a qualche aspetto morfologi-


co, si osservi, per la coniugazione dei verbi, che a differenza dell'ita-
liano, ricorrente a parole composte, il latino presenta, per tutti i tempi
attivi, voci semplici. Il verbo è la parte del discorso che, nella trasfor-
mazione romanza, si modifica maggiommente: si veda lo spostamen-
to dell'accento nei verbi ridere rìdere, mordere mordere, ardere àrdere,
respondere rispóndere, ecc. A differenza del latino, per coniu-
gare i tempi composti l'italiano adotta, nella coniugazione attiva, il
verbo avere: sì che l'infinito perfetto latino amavisse dà l'italiano ave-
re amato.
Nella coniugazione passiva, I'italiano ha il verbo ausiliare essere.
Per esempio, I'indicativo presente, in latino amor, in italiano è «sono
amato»; I'imperfetto amabar ero amato; il futuro amabo sarò amato,
ecc.
Nel volgare, si creano quattro tempi: il passato prossimo, il trapas-
sato remoto, il condizionale presente e il condizionale passaío.
Formato dall'ausiliare habere con l'infinito, il condizionale, sco-
nosciuto al latino, trae le sue forme utilizzando le persone del perfet-
to di avere unite all'infinito dei verbi. Così, le diverse persone del
perfetto sono: ebbi avesti ebbe avemmo aveste ebbero.
La fommazione della prima e seconda persona singolare e plurale
condizionale deriva dal perfetto antico di avere (ei esti emn10 es~e: da
cui, amerei ameresti ameremmo amereste). L'ausiliare a- ere, quale
affisso all'infinito, fa poi emergere come il verbo futuro amer d sia com-
posto da amare + ho; e così per le altre persone del futuro: flmel'ai =
amore + hai, amerà = amore + ha, ame7 emo = amore + abbiamo, ecc.
Alla proposizione oggettiva latina (con l'accusaíivo e l'infinito)
succede in italiano la proposizione dichiarativa preceduía dalla con-
giunzione che. Si ha perciò variazione sintattica: dove, poniamo, il
latino dico te amatum diviene dico che tu sei amato.
Circa i mutamenti lessicali, servano gli esempi dei íerrnini latini
classici equus, divenuto c aballus nel latino parlato e infine, in italia-
no, cavallo; vir homo uomo, osculum basium bacio...
Per quanto concerne i nomi, gli aggettivi e i pronomi, questi hanno
in latino una declinazione, ossia delle desinenze cui corrispondono
altrettanti complementi. Mentre in italiano le desinenze sono, di so-
lito, soltanto due: una al singolare e una al plurale. La parola ser v o,
che in latino ha otto desinenze (servus sen i se~o servum see ser-
vorum servis servos: il servo, del servo, al servo, il servo, oh servo,
dei servi, ai servi, i servi), in italiano ne ha due (servo servi). Cadute
le desinenze, I'italiano forma i complementi ricorrendo all'articolo e
alla preposizione.
L'articolo è una delle innovazioni che distinguono l'italiano e le
lingue romanze dal latino letterario. Ma da quello letterario soltanto:
perché, invece, nel latino parlato si usa, in funzione di articolo, il pro-
nome dimostrativo. A tale proposito, si veda la strofa in ottonari ri-
mati del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo): Dies irae,
dies illa,l solvet seclum in favillal teste David cum Sybilla («Giorno
dell'ira, quel giomo,/ il mondo si dissolverà in cenere/ I'hanno pre-
detto David e la Sibilla»). Dal significato latino di ille illa (quello
quella), il passaggio in italiano degli articoli il e la. E interessante
come, nel dialetto sardo, invece del pronome ille abbia funzione di
articolo il pronome ipse. Da cui l'articolo il divenuto su: su patre, su
prete, su pretore (il padre, il prete, il pretore).
Delle preposizioni latine, spariscono nel volgare italiano ab cis
erga ob prae propter. Rimangono ad a, ante anzi, circa circa, contra

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contro, cum con, de di, infra fra, iuxta giusto,perper,postpoi, secun-
dum secondo, super su, ultra oltre, versus verso.
Delle congiunzioni restano et e, nec ne, aut o, quam che, si se. Etsi
è sostituito da benché sebbene, ecc.; tamen pure però tuttavia; nam
perché poiché giacché; igitur donde, ergo perciò, propterea quindi,
ecc.
Non sono pochi gli elementi lessicali che, a testimonianza dei con-
tatti del mondo romano coi popoli del Mediterraneo, passano nel vol-
gare italiano attraverso l'etrusco, il greco, gemmanico, gallico, arabo,
spagnolo latinizzati; oltre a quelli di cui non si conosce appieno la ge-
nealogia.
Alcune centinaia sono le parole etrusche conosciute, tra cui histrio
istrione, taberna tavema, persona persona: nel senso originario di
«maschera», ecc.
Dal gallico si registrino alauda allodola, betulla betulla, carrus
carro, braca calzoni, lignage lignaggio, gonfanon gonfalone. Di de-
rivazione gallica sono inoltre astore, pensiero, veltro, levriero.
Di radice osco-umbra sono lemmi quali lingua lingua, bufalus bu-
falo, bas bue, lacrima lacrima. Molte le parole dal greco: accidia at-
timo borsa caravella olivo ostrica ampolla ciliegio mandorla dome-
nica cattolico baco riso zio golfo piano faro bestemmla scheggla
zappare salma bilancia borgo scavare benedizione prete papa pepe
senape ampolla seppia delfino carta pietra inchiostro cetra nervo
zampogna geloso colla borsa càntaro scheggia olio spada gesso po-
lipo prezzemolo aria grotta garofano negromante cocchiere coppa; e
poi chiesa basilica battesimo epifania monaco eremo eremlta chierl-
co angelo parola martire anatema esorcismo catechismo esercizio
diacono aristocrazia apostolo presbiterio diavolo evangelo episco-
pale. Dall'ebraico, attraverso il greco, derivano messia serafino che-
rubino sabato amen aUeluia osanna, ecc.
Dall'arabo abbiamo, anche attraverso la Spagna latinizzata: aran-
cio albicocco alchimia alcool alcova ambra assassino gelsomino ri-
camare scirocco sciroppo talismano zafferano cotone zenit libeccio
magazzino limone arsenale taccuino melanzana ammiraglio zucche-
ro alambicco giara zàgara cifra auge zibibbo, ecc.
Il lessico gemmanico, importante per la sua influenza sulle lingue
romanze, è presente nell'italiano con alcune centinaia di vocaboli.
L'invasione teutonica (popoli Eruli, Ostrogoti, Longobardi) dei terri-
tori romani nel v e VI secolo esercita in due secoli un'influenza rima-
sta estema alle parlate italiche, da cui viene assimilata: per esempio,
nel caso delle parole gotiche haban e arjan, divenute avere e arare.
Del gemmanico non rimangono nella nostra lingua grandi tracce;
tanto che la sua presenza in Italia è misurabile solo ricorrendo alla fo-
netica del gotico o tedesco antico. Vi sono casi in cui la voce latina si
connette alla gemmanica dando luogo a parole come guastare e qua-
drare, nate dalla fusione delle gotiche wastjan e watan con le latine
vastare e vadare. Sul latino prevale il tedesco antico in parole quali
tirare (dal gotico tairan, latino trahere), stormo (sturm, lat. turma),
arrostire (rostjan, lat. perustare), ecc.
Tra i vocaboli passati direttamente dal germanico all'italiano: he-
riberga albergo, helm elmo, strala strale, haakbus archibugio, scara
schiera, bara bara, krapfo grappa, haf gufo, latta latta, mark marca,
melm melma, shafe scaffale, triuwa tregua, scherzen scherzare, scran-
na scranna, sparwari sparviero, zupfen zuffa...

3. Primi documenti del volgare

Gli elementi, pur frammentari, prima evidenziati spiegano la mo-


bilità che caratterizza il farsi della lingua italiana e il disfarsi di
quella
latina.

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Il lento distacco del neolatino dal latino si può considerare presso-
ché completo nell 'vIII secolo, come testimoniato da alcuni documen-
ti. I primi di essi sono rinvenuti in Francia, nel Canone del Concilio
di Tours dell'813 (che prescrive ai preti di usare nelle prediche non
più il latino ma la rustica romana lingua, cioè il volgare parlato dal
popolo: ciò non significa che l'unità latina non sia mantenuta per uso
privilegiato) e nei Giuramenti di Strasburgo (842). In questi, che
sono forse il più antico scritto della letteratura francese, si mescolano
francese, italiano e latino, per influsso del quale è assente l'articolo.
In Italia, le prime parole in volgare si trovano in una serie di iscri-
zioni. In una di queste, nel 392, si legge la parola pi~zinnina (piccini-
na) per indicare una fanciulla. In un'altra, del 404, per la parola latina
augustas, la colloquiale agustas. Tracce di parlato anche in diciture del
523 e 551, dove va scomparendo la sintassi latina, e in una Carta pi-
sana (730) che detta: De uno lato corre via publica...
Il volgare, che si sviluppa in modi di dire trasferiti nel tessuto ver-
bale latino, ha una sua cospicua espressione scritta in un codice oggi
conservato nella biblioteca Capitolare di Verona. Si tratta d'un indo-
vinello risalente all'inizio del Ix secolo: Se pareba boves, alba prata-
lia araba,/ et albo versorio teneba,/ et negro semen seminaba («Spin-
geva avanti i buoi, un campo bianco arava/ e un bianco aratro tene-
vaJ e seme nero seminava»). I buoi significherebbero le dita dello
scriba, il campo bianco è la pergamena, I'aratro è una bianca penna
d'oca, il nero seme è l'inchiostro.
La lingua di queste rime è stata letta come rustica e semipopolare,
oppure già appartenente al volgare nuovo. In tale ipotesi, si notino le
o (invece di um) alla finale delle parole albo versorio negro; la e (in-
vece di i) in negro; la caduta della t nei verbi rimanti pareba (neolo-
gismo, da parere: nel significato di «spingere», ancora oggi usato nel
Settentrione d'Italia. Così come il termine versòr, in uso nella Vene-
zia euganea), araba, teneba, nominaba. E inoltre assimilabile all'uso
volgare l'iniziale se invece di sibi.
Del principio del x secolo è il Glossario di Monza, 63 parole italia-
ne settentrionali (Italia padana) tradotte in greco.
Con la Carta capuana del marzo 960 si è in presenza, per la prima
volta, di una frase italiana, una testimonianza di giuramento formula-
ta da un giudice ai testimoni: Sao ko kelle terre per kellefini que ki
contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti («So che quelle
terre, con quei confini che qui si contengono, le possedette per tren-
t'anni la parte di San Benedetto»).
Si tratta della prima di quattro sentenze giudiziarie, emesse in Cam-
pania. Le altre tre sono sottoscritte, una a Sessa e due a Teano, nel 963.
Esse, riguardanti i beni di tre monasteri dipendenti da quello di Mon-
tecassino, prendono il nome di Placiti cassinesi (dal latino plàcitum,
parere, opinione). La loro lingua può definirsi «volgare illustre» per
i latinismifini (dafines confini), parte Sancti Benedicti e sao (forma
idiomatica non capuana, che sarebbe stata saccio o sacce, ma più set-
tentrionale). Ko è volgare campano, derivato da quod, così come kel-
le e ki (invece dei toscani quelle e qui). Su tali basi, va osservato che
alla frantumazione della latinità non corrispondono ancora spinte
verso una generale uniformità linguistica.
Nel 1030, i Normanni, originari della Scandinavia ma di lingua
francese, si stanziano nell'Italia meridionale (Aversa), prima d'ini-
ziare, nel 1061, la conquista della Sicilia, cui sarebbe seguita l'occu-
pazione della Calabria e della Puglia e l'incoronazione di Ruggero 11
di Altavilla ( 1130).
Dal 963 passerà più di un secolo prima di reperire altre fonti data-
bili. Nel 1084, a Roma, vengono trovate nella basilica di San Cle-
mente frasi, o contumelie, in un affresco di pittore ignoto dove un per-
sonaggio dice ai propri servi: Fili de le pute, traite!/ Gosmari, Alber-
tel, traite!/ Fàlite dereto co lo palo, Carvoncelle! («Figli di puttana,

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tirate!/ Gosmari, Albertello, tirate!/ Fagli dietro col bastone, Carbon-
cello! »).
Da registrare, poi, due Carte sarde nel 1086 ca., in cui si sente l'in-
fluenza del toscano; la Formula di confessione, risalente al periodo
dal 1040 al 1095, di un codice dell'abbazia di Sant'Eustizio vicino
Norcia, ora contenuta presso la Vallicelliana di Roma; le tre righe in
volgare (1087) della Postilla amiatina del notaio Rainerio su un atto
rogatorio scritto in latino per l'abbadia di San Salvatore (Monte
Amiata); una scritta del 1135 nel duomo di Ferrara; tre iscrizioni
(tra il secolo xl e il xII) in chiese di Vercelli e Ferrara; una Carta pi-
sana (xsecolo), ora presso la Free Library di Filadelfia; una Perga-
mena volterrana (1158) contenente due formule giudiziarie; la Carta
fabrianese del 1186 e il Ritmo laurenziano (fine XII secolo). Questo,
attribuito a un anonimo giullare e conservato in un codice della bi-
blioteca Laurenziana di Firenze, è forse la più antica poesia in volga-
re. Si tratta dell'elogio «cantilenato» a un vescovo cui si chiede il dono
d'un cavallo: Salva lo vescovo senato,/ lo mellior c'umque sia nato
[...] («Salva [o Dio] il vescovo assennatoJ il miglior che mai sia
nato»).

Nel 1162, Federico Barbarossa invade e rade al suolo Milano. Col-


locabile nel 1190 ca. è una poesia in dialetto genovese del provenzale
Raimbaut di Vaqueiras (italianizzato in Rambaldo), un poeta che in
seguito utilizza un mistilinguismo virtuosistico in cui coesistono, ol-
tre al provenzale, I'italiano settentrionale, il francese, il guascone e il
galego-portoghese. Del 1193, scritta nell'abbazia di Fiastra, I'epigra-
fe in volgare su un contratto notarile di vendita. Dello stesso anno è il
Ritmo bellunese, che celebra una vittoria militare sui Trevigiani. Una
postilla in volgare del notaio Gerardo di Pistoia attesta, nel 1195, una
restituzione di usura fatta dal tal Gradalone.
Della fine del xII secolo sono Ventidue sermoni in dialetto piemon-
tese; tre versi in italiano meridionale a conclusione di un Lamento di
Maria; un'Elegia in dialetto italiano centro-meridionale, scritta in
caratteri ebraici; un elenco dei beni della chiesa di Fondi; il Ri~mo
marchigiano sulla vita di Sant'Alessio; scritte in volgare calabrese su
una carta di Rossano; il Ritmo cassinese, con parole quali micata (dal
latino mica) briciola, manicate mangiate, bostra vostra, qualecum-
qua qualunque, e quelle in perfetto volgare amorose saporose purga-
ta preparata assimilate.
Dell'inizio del xIII secolo, le 189 quartine antifemminili dei Pro-
verbidefemenedianonimoveneto.Del 1211,1epartid'unregistrodi
banchieri fiorentini, dove, tra l'altro, si legge: A mesere Kancillieri
prestammo soldi IJ in sua mano: abiamo posto sotto sua rascione ove
die avire. A Manetto Passarimpetto prestammo soldi IJ in sua mano.
Aldobran, item ci die soldi xx levammo di ssua rascione ove die avire
per Bonaquida Forestani.
La prevalenza del volgare, ormai palese, assume un suo punto di
forza nel toscano e, particolarmente, nel fiorentino che, per la sua omo-
geneità espressiva, è il più prossimo al latino.

Cos 'è allora una lingua? «Una lingua - ha scritto un grande studioso
di lingue romanze, A. Brun - è un dialetto che ha avuto successo.»
Ma si ricerchino gli antefatti d'un tale successo...

Dal '200 al '300

1. Dal provenzale al Novellino

Il secolo Xlll segna in Italia, con ben due secoli di ritardo rispetto
alla Francia, I'inizio dell'affermazione del volgare: non solo tra il po-

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polo ma anche nella letteratura. Il ritardo è dovuto, prima di tutto, al
frazionamento nazionale, alla mancanza nel nostro paese di un'unità
politica e, di conseguenza, d'una lingua comune. Una seconda e non
meno rilevante ragione è il perdurare della tradizione letteraria clas-
sico-latina, sostenuta dai dotti e soprattutto dal ceto ecclesiastico. L
loro il rigido monopolio d'ogni campo culturale, dalle scienze alla
scrittura letteraria.
Mentre la lingua parlata segue la sua evoluzione naturale, quella
letteraria rimane privilegio di pochi. Un varco alla fruizione popola-
re della poesia viene aperto dai trovatori che, sulla scia di Rambaldo
di Vaqueiras, iniziano a operare sul territorio italiano, per lo più in
rappresentazioni di piazza, scrivendo e recitando le loro composizio-
ni in lingua d'oc.
Insieme alla langue d'oi?, quella d'oc è la lingua della letteratura
medioevale francese. La lingua d'oil, detta anche oitanica, è parlata
nella Francia centrosettentrionale; la lingua d'oc, o occitanica, pro-
fondamente latinizzata, è usata nella Francia meridionale e special-
mente in Provenza. I termini oi? e oc significano sì o, genericamente,
risposta affermativa, e derivano dal latino: oi? da hoc hille e oc da
hoc. Della lingua d'oi? fanno parte le opere classiche e quelle del ci-
clo carolingio e bretone. Classiche sono le opere su fatti e personaggi
dell'antichità; al ciclo carolingio appartengono i poemi epici che nar-
rano le imprese di Carlomagno e dei suoi paladini contro i Saraceni
(Chanson de geste: cfr. Chanson de Roland, 1080 ca.); del ciclo bre-
tone sono i poemi in versi e in prosa d' avventura, cavalleria e magia
(leggende di Tristano e Isotta, di re Artù e dei Cavalieri della Tavola
rotonda). La lingua d'oi? ha influenza in un settore ristretto della lin-
gua italiana, che si mescola col francese producendo una letteratura
detta franco-italiana (oppure franco-veneta). Deriva da questa il poe-
ma mistilingue Entrée d'Espagne di anonimo padovano, con l'ag-
giunta di 131 versi ad opera del poeta in lingua franco-italiana Nicco-
lò da Verona (XIV secolo).
Un'influenza maggiore, attraverso i poeti provenzali stanziati in Italia,
è invece esercitata sulla nostra letteratura (nonché sulla lirica
italiana dalla Scuola siciliana agli stilnovisti, a Petrarca), dalla secon-
da metà del XII secolo ai primi decenni del successivo, dalla langue
d ' oc delle parlate sud-orientali della Francia, ora assorbite dai dialet-
ti (patois). Tale influenza è attestata verso il 1240 da una grammatica
della lingua dei trovatori, Las razos de trobar del catalano Vidal, e
dalla grammatica, con rimario della lingua d'oc, Donats proensals
del provenzale Uc Faidit. Questi due libri hanno meritato una nuova
attenzione da parte degli studiosi che, attraverso un approfondi-
mento degli interscambi tra Andalusia arabizzata e Provenza, van-
no individuando un possibile influsso arabo sulla poesia dei trova-
tori. Del resto, non mancano nelle liriche arabe equivalenze metri-
che con le composizioni dei trovatori. Così come sono presenti cor-
rispondenze tra le teorie delfin'amor (amor cortese) trobadorico e
il senhal degli arabi che sostituisce il nome dell'amata con altro
nome. Lo stesso Dante sembra ricorrervi quando, per non rivelare il
nome di Beatrice, inventa la «donna dello schermo».
Usata nella poesia d'arnore e politico-satirica, la lingua d 'oc attua
una tecnica letteraria che s 'avvale di forme considerate talvolta oscu-
re (trobar clus: dove trobar significa comporre). I trovatori italiani
(tra cui il bolognese Buvalelli, i genovesi Cigala e Calvo, il mantova-
no Sordello da Goito), poeti in lingua d'oc - distinti dai trovieri (in
lingua d'oi?) -, che scrivono in provenzale, inventano i generi lettera-
ri della canzone, del serventese e del contrasto. Spianano inoltre la stra-
da a due testi in francese come il Trésor di Brunetto Latini, un poema
allegorico-didascalico-enciclopedico in oltre duemila settenari rima-
ti a coppia, e il Milione (o Livre des merveilles du monde), libro di
viaggi in Oriente scritto dal veneziano Marco Polo.

11
Il fenomeno dell'espressione in lingua francese va visto come un
tentativo d'interrompere la sclerotizzata continuità della tradizione
latina scritta. Allo stesso modo, un'alternativa al latino convenziona-
le va considerato il ricorso di Francesco d'Assisi al volgare umbro
nel Cantico delle creature (1225 ca.), salmo in prosa ritmica e rime
libere, con influenze toscane e latine.
Uno stretto legame con la lingua di Francesco, in cui è già manife-
sta la costruzione lessicale italiana, ha quella, linguisticamente più
complessa, di Iacopone da Todi. Nelle sue Laudi si ritrovano termini
latini acquisiti nell'italiano (angustiare appetire), latinismi (arbore
ludo transire), ibridismi latino-volgari (lengua renno), neologismi
(derenzione morganato decetto), coniazioni provenzali (amanza ami-
stanza dolzore fallanza piacenza), dialettismi toscani (entrasatto en-
camato), sostantivi aggettivati.
Minore risalto letterario e cospicuo valore innovativo nella nuova
lingua ha il Novellino (fine XIII secolo). Rispondendo al principio della
brevitas della retorica medioevale, esso nasce dal parlato, dalle
biografie (vidas) e dalle novelle in versi (novas) dei trovatori proven-
zali. Nella sua strutturazione ternaria del periodo (soggetto predicato
complemento) costituisce una solida base della tradizione prosastica.
Di esso si segnalano alcuni lemmi per evidenziare la mescolanza del-
le fonti lessicali: allettare adescare, apputidata puzzolente, attoscato
avvelenato, badalucchi baruffe, bellore bellezza, berbìci pecore, boce
voce, catuno ciascuno, commendare elogiare, cornille cornacchie,
donneare corteggiare, donno signore, dottanza paura,far lafica por-
re il pollice fra l'indice e il medio (in gesto sconcio, fatto stendendo
il braccio), feggia faccia, gabbo burla, giucolare giullare, pergamo
pulpito, putta meretrice"en niente, tortori torturatori, trescare balla-
re, uguanno quest'anno, verno inverno, ecc.
Nasconc in latino neologismi passati nel volgare: universitas uni-
versità, facultas facoltà, realis reale, sensualis sensuale, rector ret-
tore... Dal latino al volgare le parole apostulus apostolo, doctrina
dottrina, aeternus eterno, zodiacus zodiaco, cibus cibo, liber li-
bro, ecc. Penetrano nel volgare i gallicismi marciare assise vassal-
lo oste ostaggio cuscino gioiello mestiere preghiera omaggio de-
manio, ecc.

2. I Siciliani

Un'importanza considerevole nella formazione della nostra lin-


gua riveste la cosiddetta Scuola siciliana, sorta a Palermo presso la
Magna curia di Federico II di Svevia. Intanto Firenze, coi suoi mer-
canti e banchieri, s'avvia ad uscire dal suo isolamento e a diventare,
dopo la battaglia di Campaldino ( 1289), capitale economica europea.
Subentrata alla monarchia normanna, quella sveva dà un forte con-
tributo al distacco dal latino e alla nascita dell'italiano. La ragione di
ciò può in parte ricondursi alla politica, tenuto conto che Federico II,
imperatore ghibellino avverso alla Chiesa, individua nel latino la lin-
gua dei suoi avversari, che ne hanno fatto anche uno strumento di po-
tere. Egli stesso poeta, è molto favorevole all'instaurarsi d'una «scuo-
la» che, senza utilizzare la lingua d'oc, riprenda i contenuti proven-
zali della poesia d'amore riversandoli nel volgare siciliano. Così, dato
lo scarso rilievo della letteratura didascalica dei trovatori dell'Italia
settentrionale, è in Sicilia, in un'atmosfera laica di libertà e apertura
ai popoli e alle culture del mondo, che il volgare ha il suo primo cen-
tro propulsivo. Ne sono protagonisti, oltre a Federico - ricordato da
Dante, nel Convivio, come «ultimo imperadore de li Romani» -, alti
funzionari, taluni non siciliani, della corte sveva: Pier della Vigna,
Guido e Odo delle Colonne, Giacomino Pugliese, Rinaldo d'Aquino,
il figlio di Federico re Enzo e Iacopo da Lentini, cui è attribuita
l'invenzione del sonetto (dal provenzale sonet, «piccolo suono»), com-

12
posizione di quattordici versi endecasillabi variamente rimati, divisi in
due quartine e due terzine.
Tali autori sono i primi a elevare il volgare a valore d'arte. La pe-
culiarità dei poeti siciliani è nella loro valorizzazione d'un costume
letterario nuovo, capace di conferire dignità culturale anche al dialet-
to, «ripulendolo» da localismi e plebeismi.
Il modello da loro proposto, che sta alla base dello Stilnovismo, ha
subìto adattamenti all'uso toscano nei testi tramandati dai copisti.
Questi, per esempio, hanno trasformato aviri in avere, sirviri servire,
usu uso, amurusu amoroso, eu io, ca che.
Nel caso di alcuni frammenti di re Enzo si ha, nella trascrizione to-
scana, un completo stravolgimento lessicale. Come dimostra il cam-
biamento dei seguenti versi: La virtuti ch'illi avi/ d'alcirm'e guariri/
a la lingua dir nu l'auxu/ per gran timanza ch'azu nu li sdigni; che
diventano: La vertute ch'il'ave/d'ancidere me e guerire/a lingua dire
non l'auso/ per gran temenza ch'agio no la sdigni. Oppure i versi: Tut-
ti li pinsaminti/ chi 'I spirtu meu divisa/ sunu pen'e duluri; così co-
piati (e praticamente «tradotti»): Tutti quei pensamenti/ ca spirti mei
divisa,/ sono pene e dolore.
Per verificare la strutturale sicilianità degli scritti poetici della Ma-
gna curia, è allora opportuno esaminare un testo che ha conservato in
gran parte la sua coloritura originaria. Si tratta della canzone in anti-
co siciliano Pir meu cori alligrari del messinese Stefano Protonaro:
Pir meu cori alligrari,/ ki multu longiamenti/ senza alligranza e ioi
d'amuri è statu,/ mi ritornu in cantari/ ca forsi levimenti/ da dimu-
ranza turniria in usatu/ di lu troppu taciri: pressoché tutto, anche
nelle parti qui non riportate, di foggia siciliana. Vi si può riscontrare,
con
l'influsso trobadorico-provenzale (amistanza amistate drudo alli-
granza dimuranza pascore dimustranza simblanza, ecc.), una selva
di forme siciliane: cori ritornu forsi troppu cantari mustrari sirìa
(sarei) sempri pocu valuri cantau (cantò) diviria (dovrei) preju (gio-
ia) jujusu (gioioso) billizzi pinari amari miraturi (specchio) suffru
(soffro) unuri autru (altro), ecc. Si noti, nella finale delle parole, la
differenza vocalica dall'italiano.
Accanto al raffinato lessico dei poeti della corte federiciana, esiste
in Sicilia una poesia popolare che si esprime in ballate, cantàri e con-
trasti. L'espressione più nota è quella di Cielo d'Alcamo, autore del
contrasto (nel caso, una «tenzone» a due voci fra amanti) Rosa fresca
aulentissima, collocabile tra il 1231 e il 1250. Si tratta d'un gioco ver-
bale, davvero mirabile nella sua autonomia anticonvenzionale, mi-
mante la retorica persuasiva adoperata da un giullare per convincere
una ragazza a concederglisi (non mi difenno/ [...]/ a voi m'arrenno -
lei dice, infine). La lingua utilizzata è riconoscibile, a parte alcuni
adattamenti dei copisti, come dialetto di base messinese. Un dialetto
stilizzato e mescidato con quello di province dell'Italia meridionale,
col francese (gueri, mon peri, ecc.), col provenzale e con taluni etimi
arabo-ispanici.
La Sicilia rimarrà isolata dall'Italia dopo la pace di Caltabellotta
(1302), che sancirà un autonomo regno di Trinacria. Tale isolamento,
che riporterebbe a una situazione linguistica prefedericiana, sarebbe
dimostrato dall'interesse per un vocabolario latino-siciliano (Liber
Declari, 1348) di Angelo Senisio se non ci fosse, a testimonianza
d'una tradizione siciliana letteraria autonoma, unLibru de lu dialugu
de santi Gregoriu (XIV secolo).

3. Lingua della scuola toscana. Dolce stil novo. Prevalenza del


fiorentino

Nel 1250 muore l'imperatore ghibellino Federico II e, nel 1266, a


Benevento, suo figlio Manfredi cade in battaglia, sconfitto da Carlo

13
d'Angiò chiamato in Italia da papa Clemente IV.
Nel 1260 - anno della sconfitta a Montaperti dei guelfi a opera dei
ghibellini e dell'uscita in dialetto romanesco del Miracole de Roma,
rielaborato sui Mirabilia Urbis Romae -, era nato il movimento dei
Flagellanti, cui si deve un insolito genere di canti religiosi.
Dopo la caduta della Sicilia e del Meridione sotto il dominio an-
gioino, il primato del volgare comincia a passare alla Toscana. Firen-
ze è isolata ma non troppo lontana dal diventare, con Bologna, il cen-
tro più insigne della cultura italiana: nel quale si riprodurrà, sotto al-
tro segno, I'esempio additato da Federico II, che nel '400 avrà in Lo-
renzo de' Medici un pur minore epigono.
Dall'uso linguistico dei poeti siciliani giungono in continente, con
nuovi procedimenti stilistici e contenuti tematici, parole non più isti-
tuzionalizzate in uno schema e l'esigenza d'un uso vivo della lingua.
Nel prevalente bilinguismo, hanno entità le prove di Guido Faba di
neutralizzare la polarizzazione linguistica nell'idea d'una grammati-
ca del volgare, e di Guittone d'Arezzo.
Sull'esempio dei Siciliani, dai quali riprende le forme liriche e me-
triche, Guittone sperimenta un volgare riccamente ornato e attento
alla qualità estetica della parola. A una medesima tendenza sono as-
similabili il lucchese Orbicciani, il senese Folcacchiero, i pisani Ab-
bracciavacca e Dal Bagno, i fiorentini Dante da Maiano e Chiaro Da-
vanzati. E Davanzati che marca il passaggio fra il volgare letterario
guittoniano e lo Stilnovismo.
Il Dolce stil novo - così chiamato da Dante Alighieri nel Purgato-
rio (c. xxlv, v. 57) - nasce alla scuola del bolognese Guido Guiniz-
zelli, dapprima seguace di Guittone, e introduce il nuovo stile.
Cavalcanti, Lapo Gianni, Frescobaldi, Cino da Pistoia e lo stesso
Dante determinano le caratteristiche del Dolce stil novo. Dove dolce
sia inteso nel significato di gentile, delicato, melodico; stile nel senso
della peculiarità; novo perché diverso dalla poesia siciliana e guitto-
niana.
La concezione stilnovistica dell'amore ha un fondamento filosofi-
co nel pensiero di Platone e Tommaso d'Aquino e lo Stilnovismo ha
il suo caposcuola in Guinizzelli, la cui scrittura ha saputo rendere su-
perata quella dei predecessori. La sua canzone Al cor gentile rempai-
ra sempre Amore, composta di sei strofe, ciascuna di dieci versi en-
decasillabi e settenari, presenta emilianismi, francesismi, ispanismi,
latinismi, ma all'interno di un volgare inedito: limpido e specchiante.
In Cavalcanti, adepto - e perciò stilnovista anomalo - dell'aver-
roismo negatore dell'immortalità dell'anima, la poesia è anche una
realistica, fine psicologia dell'irrazionalità distruttiva dell'amore.
Persistono nei suoi testi provenzalismi, echi della rima siciliana, for-
me non dittongate (vène sostene core dole fòre loco foco).
Tipico degli stilnovisti è infine, oltre al teorizzare poetando e all'os-
sessiva metaforizzazione amorosa, la persistenza di parole connotan-
,i un sentimentalismo senza infingimenti: bella bellezza avenente ador-
nezze gioia madonna adorna amorosa amante amore preziosa genti-
le vertute diletto splendore pietate soffrire anima leggiadria piacer
riso pianto desiderosa sospir' cortesia doglia disio 'nnamora, ecc.
Durato dal 1280 al 1310 ca., lo Stimovismo si chiude con Dante, che
segna il mutamento di direzione della lingua italiana. Questa è ora
caratterizzata dalla trasformazione e realizzazione in volgare lettera-
rio dei dialetti, mancanti d'una tradizione culturale. E inoltre conce-
pita in senso unitario e come uno strumento operativo non solo per la
comunicazione orale ma anche per la concreta realizzazione di ope-
re. Così diventano echi sempre più lontani, relitti pressoché inutiliz-
zabili dalla nuova lingua, le parlate isolate e le esperienze letterarie
esterne al prevalente toscano. Pur non mancando, in ogni parte del
territorio italiano, realizzazioni che affermano ulteriormente il distac-
c~o dal latino e la crescita d'interesse per le parlate regionali e locali.

14
E questo, varcato l'anno 1300, dopo i Vespri siciliani del 1282, un
momento in cui il volgare ha un vocabolario assai esteso, forse non
inferiore alle quindicimila parole. Sono parole che sorte e trasforma-
te nel parlato e nella scrittura, infine pienamente significanti, contri-
buiscono a formare un vocabolario di sostantivi, aggettivi, verbi e
neoconiazioni che, anche coi numerosi latinismi, gallicismi, orientali-
smi, germanismi, ecc. si presenta quanto mai ricco e vario.
In mancanza di un'unità politica e sociale, è insomma lungo un
versante principalmente letterario che l'italiano va affermandosi quale
lingua comune. E certo non poteva essere altrimenti se, al pari di qualunque
altra attività umana, la letteratura può considerarsi non privi-
legio di pochi ma, con la lingua, uso di tutti. Se è vero, poi, che essa
nasce dalla prevalenza di un dialetto sugli altri, è anche vero che il fio-
rentino viene comunemente assunto e, infine, parlato e scritto: nel Me-
ridione perché sentito affine, nel Settentrione perché giudicato supe-
riore per qualità letteraria. Qualità esaltata da Dante, che ancora pro-
ietta la sua ombra su tutta la storia dell'italiano.

4. Dante Alighieri

Agli inizi del secolo XIV, il più importante per l'evoluzione della
nostra lingua, Dante svolge alcune tesi linguistiche che rimarranno in
gran parte valide fino all' 800. E significativo che nel De vulgari elo-
quentia ( 1308 ca.) egli prenda posizione a favore del volgare (locutio
vulgaris) in quanto naturale (naturalis), variabile nel tempo e nel dire
dei parlanti. Esso - afferma il poeta - è più nobile (nobilior) del lati-
no, da considerare lingua artificialis. Ciò anche se prima, nel Convi-
vio (1307 ca.), identificava il latino con la grammatica giudi~andolo,
per la sua stabilità espressiva, superiore al volgare.
Il Convivio teorizza quattro sensi della scrittura: letterale, fissato
alle
parole, allegorico, che nasconde la verità con una «bella menzogna»;
morale o pedagogico; anagogico o sovrasenso, cioè metafisico.
Il capovolgimento del giudizio sul volgare non è da giudicare una
grave contraddizione quanto un esito degli approfondimenti di Dan-
te, autore bilingue, sull'uso del latino e del volgare.
Il De vulgari è scritto in latino per convincere i dotti delle qualità
del volgare da loro spregiato. Salvo la fantasticheria su un volgare
originario parlato da tutti e identificato nell'ebraico, Dante argomenta
l'ipotesi che, dopo la punizione divina contro la torre di Babele, si
siano formate tre grandi lingue: la greca, la germanica e la lingua eu-
ropea sud-occidentale. E da quest'ultima che nascono la lingua d 'oc,
la lingua d'oil e la lingua del sì, assimilata all'italiano, privilegiato
sul francese e sul provenzale. Egli passa poi alla divisione dei dialetti
italiani in quattordici gruppi distribuiti sui versanti tirrenico e adria-
tico. Per Dante, che, da poeta, utilizza criteri esclusivamente estetici,
nessuno di questi dialetti ha meriti di lingua letteraria. Sono pessimi
il marchigiano, lo spoletino e il romanesco, peggiore di tutti; non sono
buoni il milanese e il bergamasco, il friulano e l'istriano, il casentine-
se e il frattegiano, il genovese, il veneto e il sardo; né sono idonei i
dialetti meridionali, troppo barbari, il siciliano alla maniera di d'AI-
camo e il toscano. Resta valorizzato solo il bolognese per le femmi-
nee dolcezze attinte dalla favella di Imola e la garrulitatem derivata
dal modenese e ferrarese.
Dopodiché, classifica l'utilizzazione del volgare in tre figure:
I'illustre, relativo alla canzone e alla tragedia; il mezzano, per la bal-
lata e la commedia; I 'umile, adatto all'elegia. Poi si concentra solo sul-
lo stile tragico, escludendo l'elegiaco e il comico classificabili in un
volgare umile e mediocre.
L'attenzione di Dante converge sull'ideale letterario illustre, ricer-
cato non in una lingua precisa né in qualche mescolanza di lingue ma

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immaginato a fondamento d'un volgare «cardinale», «curiale», «au-
lico»: fatto per concentrare in sé i migliori esiti dei maggiori autori.
Un ideale letterario e non derivato dal parlato basso, quello espresso
da Dante. Un ideale fisso alla lirica, artisticamente alta, della Scuola
siciliana integrata dalla tradizione poetica duecentesca bolognese,
toscana e fiorentina. Ma che fisso non è del tutto tenendo conto che
Dante è per un volgare dulcius subtiliusque, per un uso illustre sia in
prosa sia in versi (Latium vulgare illustre tam prosayce quam metrice
decera proferri): per un'apertura ai vocabula nobilissima dominati
dalla serie amore donna letitia defesa donare...
Emerge la dantesca coscienza della funzione preminente degli
scrittori nella formazione di una lingua, dunque. Che poi Dante riman-
ga ligio alla teoresi contro la mescolanza degli stili è negato dalla sua
opera maggiore, la Divina Commedia (1304-'20 ca.), dove stili, ge-
neri e idiomi si mescolano incessantemente. Né Dante teme di con-
traddirsi quando, nella Commedia, in nome delle superiori esigenze
dell'opera utilizza parole in qualche caso deplorate nel De vulgari:
manichiamo introcque mamma babbo salute disio greggia cetra ter-
minommo corpo femmina...
Nel ritmo delle sempre serrate ed essenziali terzine della Comme-
dia, il codice è ora plebeo, ora sublime, filosofico, teologico, scienti-
fico. Parole in disuso, toscane e fiorentine, si mescolano con proven-
zalismi, coi dialetti e i gerghi i settentrionalismi e i meridionalismi
i latinismi (circa cinquecentoj, i gallicismi (alcune decine), i neologi-
smi via via coniati. Il tono è ora solenne ora colloquiale dolce o bef-
fardo e aspro, narrativo o didascalico, serio o grottesco, iirico o comi-
co. L'insieme lessicale è plastico, puntuale, sempre aderente alle cose,
nitido, quasi lapidario, con solide basi nel modello fiorentino. Ne
consegue un vocabolario imponente quanto stabile, del quale si ri-
portano qui alcune forme oscure, di antica derivazione o neologismi:
accaffare arraffare, accarnare accertare, accattare ricevere, acquista-
re, acceffare mordere, adduarsi accoppiarsi, adizzare incitare, ado-
nare abbattere, aggueffarsi raggrupparsi, alleluiare cantare alleluia,
arrostarsi dibattersi, avolterare adulterare, beninanza bontà, biscaz-
zare giocare,festinare affrettarsi,fiata volta,flaillo flauto, gualdana
scorreria, inluiarsi fondersi con lui: Dio, insuarsi elevarsi a Dio, lut-
tare piangere: da lutto, mergere piegare, nosco con noi, oblivione
oblio, oltracotato tracotante, paro.,~a parrocchia"obbio rosso, sitire
aver sete, tranare trasportare. E poi immiare intuare inleiarsi intre-
iarsi immillarsi insemprarsi imparadisare; e ingigliare rinvagnare
inurbarsi transumare appulcrare...
Multilingue e multistilistico, il volgare dantesco è la prova che non
esiste grande innovazione letteraria, con quanto questa implica in ter-
mini conoscitivi, senza un impegno sperimentale che sfrutti tutte le
possibilità linguistiche e pretenda il più ampio pubblico di lettori al-
tresì «parlanti». E allora per questa sua capacità di fissare una genea-
logia del linguaggio e di trasformare la tradizione in innovazione che
Dante si legittima «padre» dèlla lingua italiana.

5. Petrarca e Boccaccio

Dopo il riconoscimento del toscano come la più intelligibile fra le


lingue letterarie (Lingua tusca magis apta est ad literam sive litera-
turam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibi-
lis - fflerma Antonio da Tempo, padovano), è il fiorentino non mu-
nicipale di Dante che conclude la sotterranea guerra tra dialetti. Irra-
diante dal centro dell'Italia, il fiorentino ha assimilato il latino e
istituito la tradizione scritta intermunicipale fino ai nostri tempi.
Ferme restando le frammentazioni e differenze dialettofoniche fra
i parlanti.
Dopo gli inizi letterari, il volgare entra nelle scritture pubbliche,

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negli atti notarili e cancellereschi, prima come traduzione dei docu-
menti uff1ciali, redatti in latino, e più tardi a pieno diritto. Se può os-
servarsi che la toscanizzazione e fiorentinizzazione è completa nei
testi letterari, rimane tuttavia ne11a classe intellettuale l'incertezza
d'una scelta fra latino e volgare.
Questa condizione di ancora austero bilinguismo ha in Francesco
Petrarca il protagonista più tormentato. Al punto che, a differenza di
Dante che ha sentito l'urgenza d'una espressività nuova e calata nel
reale, Petrarca giunge alla scrittura in italiano - peraltro elevata, for-
se perfetta - quasi casualmente: magari per bisogno di emotiva co-
municazione più che per ragioni letterarie. Si può dire perciò che il
suo Canzoniere amoroso lo fa pervenire, attraverso il «cuore» - sia
pure saldamente controllato dalla ragione -, a un volgare che il suo
umanesimo intellettualistico e intransigente rifiuta d'accettare. La
sua prosa, privata e pubblica, resta ferma a un latino tecnico, lavorato
con classicissima, ciceroniana e virgiliana accuratezza retorica. Un la-
tino scolastico, senechiano e oraziano, riservato a pochi eletti, nemi-
co dei barbarismi utilizzati da Dante pur convinto di scrivere nel la-
tino delle scholae di morfologia classica. In tal senso, si ha con Pe-
trarca un rovesciamento del rapporto fra italiano e latino, con la ri-
proposizione del primato di quest'ultimo. Celebre e un po' sospetta la sua
dichiarazione su Dante, definito poeta ragguardevole ma trop-
po dedito al volgare e a un'opera che ha avuto - scrive Petrarca - solo
«I'applauso e gli schiamazzi dei tintori, degli osti, dei cardatori, e d'al-
tri la cui lode è un insulto [...,] poiché so quanto valga presso i dotti la
lode degli ignoranti» (traduzione dalle Prose).
Ma una cosa sono le teorie e.. .1' invidia, altro è la pratica. Di fatto,
Petrarca, spregioso della lingua dantesca, talvolta «li'oera» e «lasciva»,
rimane nella storia della lingua e della letteratura per il suo volgare
sobrio e illustre, d'arduo costrutto ma trasparente nel lessico, con
basi stilnovistiche toscane. Volgare come arte melodica della parola,
che ne esce unitaria e antisperimentale, più catafratta, se possibile, di
quella dantesca, e per intero letteraria.
Lo spigoloso, affemmativo, gotico Dante inventa le parole e il mol-
le, introverso, irresoluto Petrarca le sceglie calcolatamente. I due mo-
delli saranno poi posti in faziosa contrapposizione da non pochi po-
steri, increduli che la lingua sia «una» e la poesia pure.

Tra la spinta progressiva di Dante e le resistenze puristiche di Pe-


trarca si colloca Giovanni Boccaccio, tra quelli che hanno conosciuto
e potuto raccontare la «mortifera pestilenza» che nel 1348 colpì Fi-
renze e il suo contado. Adifferenza degli altri due, egli, autodidatta di
cultura classica, amico di Petrarca e ammiratore di Dante, per lo più
compone in una prosa che nel secolo XVI sarà esaltata dal conservato-
re Bembo. Questa, scritta in volgare, presenta, soprattutto nell'opera
minore, una pedissequa sintassi latina: decorativa, ridondante, invo-
luta, alessandrina.
Un parziale cambiamento avviene col Decamel one ( 1349-'51), pa-
rola derivata dal greco, significante «di dieci giomate»: cento novel-
le che, variando toni e stili, si rivolgono a un pubblico diverso da
quello feudale configurato da Dante; un pubblico prossimo all'Uma-
nesimo e identificabile nella classe nobiliare che cambia e nella nuo-
va borghesia del «popolo grasso» dei mercanti.
Il periodo altema analisi e sintesi, intonazione aristocratica e viva-
cità realistica, dramma e farsa. La lingua s'approssima al «fiorentin
volgare», secondo le intenzioni dello stesso autore: che ricorre anche
a latinismi, provenzalismi, fiorentinismi (bischero grifare troiate,
ecc.), gerghi settentrionali (utèl bèrgoli) e meridionali (giucare mo-
gliama mogliera moglieta menne gabbo guagnele), neologismi (ar-
tagoticamente imbardirsi merendarsi misleale misvenire moscoleato
pecoreccio picchiapetto pillincione scipapa strangugliare tututto).

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Caratteristiche le forme al plurale le veni, le spini, ecc.
La collocazione, alla maniera siciliana, del verbo a fine frase è un
altro aspetto del volgare latineggiante con cui Boccaccio, inauguran-
do e vincolando a sé i successivi modelli della prosa italiana, sancisce la
mai sanata frattura fra lingua letteraria e parlate dialetta'li. Oltre
a essere la misura di ciò, la prosa boccacciana, dal periodare spesso
intemminabile, pieno di minuzie analitiche, è un frutto dell'oratoria
latina, la più illustre e prolissa, lenta e perifrastica, elaborata da Cice-
rone nelle sue elocuzioni per incantare l'uditorio e fargli perdere di
vista l'oggetto in questione.
Pur in un contesto medioevale, il trionfale antropocentrismo uma-
nistico e rinascimentale non sono lontani.

6. Latino e volgare toscanizzato

Ricacciato dalla «gloria della lingua» dantesca nel ruolo di codice


teologico, filosofico e scientifico, il latino riprende quota grazie al-
I' ancora insufficiente autonomia del volgare toscano, che pure, nelle
Lettere di Caterina da Siena, propone aspetti straordinariamente fre-
schi, omologhi alla comunicazione orale.
Di non minore interesse linguistico sono anche i sonetti ludici del
senese Cecco Angiolieri, che utilizza un volgare aspro e violento, gio-
cato su parole incisive, di potente presa emozionale. La sua poetica
sulla «donna, la tavema, e il dado» dà luogo ai primi versi davvero
«maledetti» della poesia italiana: S'i' fosse foco arderei 'l mondo,/
s' i' fosse vento, lo tempesterei...
Si può definire, quello di Angiolieri, contemporaneo di Dante, un
lessico «imprecativo», con metafore polemiche, che, mentre par-
tecipano alla conoscenza degli schemi siciliani e stilnovistici, ne ri-
baltano gli assunti. Così Becchina, I'anti-Beatrice angiolieriana, è il
referente di una modemità che si esprime in modo teatrale, ossia con
parole eloquenti, iperboliche, irritate, dove il connotato orale, dalle
frequenti assonanze con quello siciliano, non esclude il volgare lette-
rario. Eccone alcune: abento quiete, adizza stizza, affogone boccone
di traverso, aggio (come nel dial. campano) ho, alleggia (come nel
dial. siciliano) allevia, avrìa (come nel dial. sic.) avrei, bretto misero,
cannamele (come nel sic.) canna da zucchero, chiù (dialetti mer.)
più, corcato (dial. mer.) coricato, crederìa (dial. sic.) crederei, cui
(dial. sic.) chi, dilicato (dial. sic.) delicato, dovrìa (dial. sic.) dovrei
dovrebbe, dunqua (dial. sic.) dunque,farìa (dial. sic.) farei farebbe,
gavazzatore gozzovigliatore, ha ha' hal hol c'è hai lo ha l'ho, mac-
cherella ruffiana, morditori pettegoli, morrìa (dial. sic.) morirei, nif-
fa schifiltosa, porìa (dial. sic.) potrei, putta puttana, ragghio (dial.
sic.) raglio, trasamo amo troppo, verrucolato tommentato, vorrìa (dial.
sic.) vorrei vorrebbe...

Il toscano s'espande anche in città culturalmente attive come Ve-


nezia, Padova, Ferrara e Milano. Nel Settentrione, aggiungono la vocale alla
consonante finale parole quali did o dit dito, porcèl porcello,
lus luce, chian can cane, cent cento, crèer creder credere, corp corpo,
ecc. Estemi al processo di toscanizzazione restano Piemonte e Ligu-
ria, chiusi all'interdialettalità.
A Roma si ha, nel 1360 ca., unata di Cola di Rienzo, seconda par-
te della Cronica. Nell'autore, prima supposto anonimo, recentemen-
te si è identificato Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, chierico, me-
dico e retore. Il lessico da lui utilizzato, un romanesco che stinge nel
toscano, sposta il baricentro della lingua letteraria romana verso Fi-
renze, staccandola dal romanesco medioevale.
Del 1387 è un Trattato di metrica, scritto in volgare da Gidino di
Sommacampagna. Anche in Centro-Italia e nel Meridione il volgare
toscanizzato, e in antagonismo col toscano, s'esprime nella poesia

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religiosa (Umbria e Abruzzo), nella terminologia mercantile e legale
(Marche), nella didattica e nelle scienze (regno di Napoli). Diffusa-
mente, compaiono sul territorio italiano parole toscane latinizzate
(inferno necessità ferire onorato) e neolatinismi (prolisso sofisti-
co girovago eunuco decimo sinistro autentico spurio invitto vene-
reo). Entrano nel volgare premeditare siccità frugale girovago
evaporare stirpe autentico atroce antropofago puerile, ecc. I sicilia-
ni parlano quello che chiamano il vulgari nostro siculo, alquanto sta-
bile anche se ghettizzato dall'incipiente restaurazione latina e classi-
ca, di cui è segnale la fondazione a Firenze, nel 1396, dell'insegna-
mento del greco.

Il «secolo senza poesia»

1. Lingua dell'Umanesimo

Alla fine del '300 e ancor più nel '400 (secolo xv) la situazione
politica italiana è regolata, a Nord e al Centro, dalle Signorie e dagli
Stati regionali e, a Sud, prima dagli Angioini e poi dalla monarchia
aragonese che salda la Sicilia con Napoli. L'aristocrazia e la nuova
borghesia assumono il potere e, con questo, torna in auge il latino.
A Firenze, grande centro commerciale, i letterati di corte disprez-
zano Dante perché «vulgarmente scrisse». E la Commedia? Sia data
«alli speziali per farne cartocci, o vero più tosto a li pizzicagnoli per
porvi dentro il pesce salato». Sostenuta anche in questi modi grosso-
lani, la problematica fra latino medioevale, latino umanistico-classi-
co e lingua volgare si risolve, nella prima parte del secolo, col suc-
cesso, in ambito letterario del latino classico, detto umanistico per
distinguerlo da quello scoiastico del Medioevo. Ne è autorevole ga-
rante Lorenzo Valla, storico, filosofo e filologo, teorico del ripristino
d'un latino storicamente stabilito e riattivato nell'arcaica humanitas.
Il progetto sotteso è un cenacolo di dotti cui spetterebbe il compito
d'interpretare la storia con la filologia e di esercitare la propria in-
fluenza su tutta la società.
Roma, Napoli e, di più, Firenze sono città ricche. Fattu~a, nell'ac-
cezione commerciale, è la parola «magica» della nuova realtà econo-
mica. Banchieri e mercanti, i «nuovi ricchi», nell'intento d'identifi-
carsi con la nobiltà, coi signori e i dignitari di corte ed ecclesiali, si
fanno anch'essi sostenitori dell'antica humanitas. In questa accolgo-
no i presupposti d'un nuovo tipo umano, fanaticamente dedito al cul-
to dei classici e contrapposto a quello «barbaro» del Medioevo.
Vorrebbero sapere scrivere in latino ma, ignorandolo, s'acconten-
tano di finanziare le accademie di dotti che lo scrivono (Accademia
romana di Pomponio Leto, Accademia pontaniana a Napoli del Pa-
normita, Accademia platonica fiorentina di Marsilio Ficino). Per es-
sere protagonisti nel recente fervore delle humanae litterae, s'impe-
gnano a favorire la scoperta di antichi codici, il ripristino di vecchie
biblioteche e la nascita di nuove; a sovvenzionare le arti, le scienze,
le tecniche e le ricerche archeologiche, epigrafiche, numismatiche.
Sorge così il mecenatismo (dal nome di Mecenate, I secolo a.C., con-
sigliere dell'imperatore Augusto, protettore degli artisti).
S'affermano la filologia - dal greco phi/ología: da philo (amore;
d a philéo amo) e logos (discorso) - e la moda del c lassicus e del c las-
sicus scriptor, imitatore dei latini.
Con l'avvento in Italia dei dotti greci dopo i concili di Costanza,
Basilea, Ferrara, Firenze (dal 1414 al 1439) e la caduta di Costanti-
nopoli (1453) in mano ai Turchi, ritornano, in traduzioni integrali,
Aristotele e Platone, Lucrezio, Quintiliano e Cicerone.
Ma la proposta di Valla, appoggiata dai filologi Barzizza e Poggio
Bracciolini, mette in evidenza l'insanabile contraddizione in cui si

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trovano gli intellettuali del tempo. Una contraddizione che li vede
chiusi in ristrette oligarchie, perciò ininfluenti e senza veri rapporti
con la gente rimasta estranea all'erudizione latineggiante e aperta,
piuttosto, alla pratica del volgare.
A impedire che l'Umanesimo si connoti in senso regressivo, non
mancano umanisti come Flavio Biondo nel 1435 e Leonardo Bruni
nel 1436. Questi si rivolgono ai dotti invitandoli a dare un contributo
per conferire dignità letteraria al volgare, il quale può assolvere la
propria funzione, beninteso letteraria, al pari del greco e del latino.
Anche un siciliano, Aurispa, dice d'avere scordato il proprio dialetto
e il greco per la dolcezza del toscano e del latino: Inter tam dulcis quales
fert Tuscia linguas/ dedidici Graecam, dedidici Siculam ( 1420)...
Per gli umanisti più aperti, la cultura classica non è alternativa al
volgare ma funge da impulso per potenziarne il vigore comunicativo.
Sono in tal senso decisive le tesi di Leon Battista Alberti, riferite a
una lingua fatta non per piacere a pochi ma per essere utile a molti.
Negli spazi lasciati liberi da una polemica che per mezzo secolo
ammutolisce i poeti e fa del '400 quello che è stato detto un «secolo
senza poesia» trascorrono, tra dialetto e volgare: una composizione
di Andrìa da Anfuso, catanese, sull'eruzione dell'Etna (1408); un
poema in dialetto piemontese, con francesismi, sulla presa di Panca-
lieri (1410); un glossario latino-bergamasco (1420 ca.) di Barzizza;
la raccolta di proverbi e parole fiorentine Pata~fio (1420 ca.); le pre-
diche in toscano (1427) di Bernardino da Siena; la conversazione
Della vita civile (1431-'32) di Matteo Palmieri; i quattro libri Della
famiglia (1433-'40 ca.) di Alberti.
Nel 1484 ca., tra le parole di gergo sono attestate, dallo Speculum
cerretanorum, le espressioni dei «cerretani» (vagabondi e mendican-
ti originari di Cerreto): brancose mani, calcosa strada, fogliosa bor-
sa, bazzano vino, fu~fa astuzia, ciospa nonna, beluarda pecora, scru-
fulante maiale, morfosa bocca, farfuso naso, stantiare schiantare
(morire), zana meretrice, bascire uccidere, ecc. Alla medesima epo-
ca risalgono i Motti e le facezie del Piovano Arlotto in fiorentino po-
polaresco.

2. Lingua e letteratura

La frattura fra un Umanesimo definibile classico, coi suoi canoni


imitativi e perfezionistici, e uno volgare può ravvisarsi a metà seco-
lo, quando letteratura e lingua toscana pervengono a una ineludibile
identificazione.
Gli stessi principi e le classi ricche trovano infine un loro vantag-
gio nel fatto che la lingua esca dalle corti e si diffonda nel popolo.
Decadono l'ottimismo trionfalistico del primo Umanesimo e il culto
della «virtù» umana, lasciando il posto a una riflessione critica che
coinvolge la vita, la realtà, la storia e perciò il linguaggio. L'esperien-
za e la conoscenza prendono allora a costituirsi nella lingua. Tutto
questo non semplifica ma rende più complesso il codice espressivo
umano.
Cambia la lingua, prima imbalsamata nella tradizione latina, invi-
gorendosi nell'uso volgare letterario. Lo testimoniano, prima, il Cer-
tame coronarico ( 1441), pubblico dibattito sulla poesia con letture di
versi in volgare tenute a Firenze; poi, ai maggiori livelli, autori come
Lorenzo de' Medici detto il Magnifico, Luigi Pulci, Matteo Maria
Boiardo, Angelo Poliziano, Iacopo Sannazaro.
Lorenzo è poeta realista e aristocratico, compositore di idilli rusti-
cani e poemi mitologici, canzoni e pastorali; nonché dei noti versi, in
perfetto volgare: «Quant'è bella giovinezza,/ che si fugge tuttavia!/
Chi vuol esser lieto, sia:/ di doman non c'è certezza». Per Lorenzo, la
lingua dev'essere versatile, «copiosa e abbondante», dolce e armoni-
ca, atta a scrivere «cose sottili e gravi necessarie alla vita umana»: e

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perciò massimamente diffusa tra i lettori.
Pulci è ispirato ai cantàri (dal verbo cantare) tratti dai cicli carolin-
gio e bretone, ma per parodiarli. Il suo maggior poema, il Morgante
(1478,1483), è ricco di plebeismi misti a forme classiche. Un ante-
fatto di quest'opera è nei sonetti caudati di Burchiello: caudati per-
ché al tradizionale sonetto di quattordici versi, con due quartine e due
terzine, è aggiunta una coda formata da una o più terzine, ciascuna
composta d'un settenario e due endecasillabi. Notevole è l'interesse
di Pulci per le parole gergali. Una lista di queste, scritte dallo stesso
autore, si trova nel codice Palatino 218 della biblioteca Nazionale di
Firenze. Eccone un estratto: carcose scarpe, ventosa finestra, grima
vecchia, prospere mutande, barleffo bocca, vergolosa lettera, penno-
si uccelli...
Boiardo, come Pulci, si collega all'epica medioevale. La sua opera
più importante, I'Orlando innamorato (1483-'95), fa riferimento al
ciclo bretone. La sua lingua è il volgare letterario settentrionale,
un emiliano illustre e duttile, attraversato da gallicismi e rivolto al to-
scano.
Poliziano, dal nome del suo paese (Mons Politianus), poeta in gre-
co, latino e in volgare, riecheggia Virgilio e Ovidio, Dante, gli stilno-
visti e Petrarca. Scarsi, nella sua scrittura, i calchi popolari: spennec-
chiare pecchia sfragella...
Sannazaro, napoletano, è il massimo scrittore in volgare del '400.
Ilsuoromanzo,Arcadia-compostodaunproemio,dodiciprose,do-
dici ecloghe e un congedo -, è la prima opera in una lingua appresa
sui classici latini, su Petrarca e Boccaccio, e reinventata con sfuma-
ture dialettali napoletane.

Nel 1470, dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili (1450


ca.), esce il Canzoniere di Petrarca, I'opera per secoli più letta e imi-
tata dai poeti, non solo in Italia. Seguono la stampa del Decamerone,
della Commedia e di molti altri libri di genere diverso, anche tecnici
e scientifici.
Il nuovo volgare è letterario più che popolaresco, ben poco o per
niente utilizzabile da strati di cittadini analfabeti, esclusi da ogni con-
tatto con la parola scritta. E il momento nel quale si decidono, nell'ul-
teriore disgregazione sociale, il distacco del popolo dal sapere e un
ghetto anche linguistico che permarrà fino all'800 inoltrato condan-
nando la società italiana a una strana schizofrenia: quella di praticare
una lingua volgare in due modi diversi, scritto e parlato, ciascuno pres-
soché ignorato dall'altro.
Il «secolo senza poesia» è anche il tempo della predicazione reli-
giosa in volgare, nelle chiese e nelle piazze, del pio Giovanni Domi-
nici, dello sferzante Savonarola, che nel 1498 morirà sul rogo, e di
Bernardino da Siena che sostiene l'esigenza d'un parlare «chiarozzo
chiarozzo». Tempo di canterini da strada, che si rappresentano in vol-
gare: segnalando, dalla loro relativa emarginazione, che la lingua
non sta nel chiuso delle corti ma all'aperto.
Del 1465 ca. è il Vocabolista di Pulci, raccolta di latinismi e parole
inusitate; del 1470 ca. sono le Facezie in ferrarese di Carbone e l'AI-
gorismus, un trattato di aritmetica in volgare meridionale. Nel 1471
escono a Venezia due edizioni della Bibbia in volgare, nel 1476 il No-
vellino di Masuccio Salernitano, racconti mistilingui in toscano-na-
poletano, e nel 1483 Le Porrettane, novelle in bolognese letterario di
Sabadino degli Arienti. Del 1490 ca. è La leggenda della beata Eu-
stochia, in messinese illustre. Nel 1493 ca. escono il De maiestate in
napoletano letterario di Giuniano Maio e le Rime fiorentine di Ber-
nardo Bellincioni. Poi la Summa arithmeticae ( 1494) in latino-italia-
no di Luca Pacioli; il curioso El secondo cantare dell'lndia (1494-
'95), sorta di catalogo in versi di mostruosità del fiorentino Giuliano
Dati, che descrive «ermafroditi», «huomini [...] cholla testa di cane»

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e senza bocca o senza testa («musteros»), «sciopedi» dai grandi pie-
di, «monoculi» con un occhio al centro della fronte, «cynocefali»
dalla testa canina; il Nuovo Receptario ( 1499) dei medici e spezia-
li fiorentini; I'edizione della prerinascimentale Hypnerotomachia
Poliphili (1499, ma composta trent'anni prima) del veneziano Fran-
cesco Colonna in volgare letterario padano con tracce latine e, in mi-
sura minore, venete. E un libro dalla lingua sfarzosa e sensuale, ricer-
catamente aggettivata (aureo solatiosa squammei lepida hlandula
morigerosa glauci leni niveo, ecc.) e sostantivata (pediculi spec ulo
pulchritudine membriculi capegli ocelli supercilii pettusculo corcu-
lo, ecc.). Per la sua mescidata ricchezza verbale, quella di Colonna è
l'opera maggiore fra le tante del filone goliardico e della scrittura
maccheronica, realistica e satirica iniziata alla fine del secolo. Una
scrittura asintattica, caratterizzata dal lessico ibrido, con storpiature
burlesche, caricaturali, insieme rustica e colta, che si fa gioco del par-
lare in gramuffa (grammatica latina).
Nell'Italia centrale si segnalano una Mesticanza in romanesco di
Petrone, carcerato viterbese, e, in Abruzzo, i dialettali Cantari di Brac-
cio. Nel Meridione i dialettali napoletani gliòmmeri (gomitoli, im-
brogli, frottole); la farsa Lo Magico di Caracciolo, in toscano con
dialettalismi napoletani (saglie sale: dal verbo salire, denocchii gi-
nocchi, capilli capelli, ecc.); il poema Istoria di li traslacioni di San-
t'Agata, d'autore siciliano.
Inoltre, nel prevalente uso toscano e fiorentino, si ha, con l'adozione di
latinismi acquisiti nel vocabolario italiano (ameno anelante
applaudire mutilo amatorio connubio insetto emolumento facezia
madido ilare obliterare trofeo...), quella degli idiomi gergali. E poi
l'apparizione di fenomeni minori come lui e lei soggettivati e dei
pronomi ella essa questa quella; il mi di conio dialettale settentriona-
le al posto di me; il ti per te; I'uso di quale invece di che; più molto
tanto in funzione intensiva prima d'un superlativo; il si aggiunto al
verbo (dicesi vedesi, ecc.). Nascono ancora nuovi termini nominanti
attività artistiche, musicali, tecniche, scientifiche, militari, marinare-
sche... Si hanno i suoni pruova prova, stiena schiena, truova rispuose
mimoria danaio sicondo, perdonalli perdonarli, pensalle pensarle; la
grafia gracia gratia grazia, solacevole socievole, longegno l'inge-
gno, co llui con lui; le forme uccidrò ucciderò,farnosi farsi, andassi-
mo andassono andassero, domestice domestica, frategli fratelli, agne-
gli agnelli; le nuove parole: catasto colonnello carciofo caviale stoc-
cafisso circonferenza diametro stampa informare, ecc.
Il secolo è in metamorfosi storica, mentre l'Italia, culturalmente
avanzata ma imbelle, nei primi decenni del '500 diventa campo di
battaglia per le due maggiori potenze europee, Francia e Spagna.

La lingua della Rinascenza

1. Babele

L'Umanesimo rinascimentale va dalla fine del '400, che conclude


il Medioevo, alla prima metà del secolo XVL I suoi campi spaziano
dalla letteratura alle arti figurative, all'architettura, alla filosofia,
alle
scienze, alla politica, all'economia. In quest'epoca, la comunicazio-
ne è una babelica miscela di latino in ogni sfumatura e di volgare la-
tineggiante e popolare. Ai processi, giudici e legulei parlano in latino
e gli imputati in volgare. I filosofi, gli insegnanti e i medici adopera-
no esclusivamente il latino, diversamente da molti matematici, geo-
Iogi e mineralogisti. I pubblici oratori parlano quasi sempre l'italia-
no, ma criticati dai pedanti difensori dell'antica favella. Frattanto, in
un'Italia impoverita per la restrizione dei commerci, sempre più ri-

22
dotti a causa della pressione dei Turchi che bloccano alle Repubbli-
che marinare e ai mercanti le vie del Mediterraneo orientale, il domi-
nio spagnolo fa sentire i suoi effetti anche sulla lingua.
In Piemonte entrano i francesismi e a Venezia frammenti di parlate
turche, arabe, slave. Il Meridione è un crogiolo di latino, volgare to-
scano e idiomi regionali e provinciali. La maggior parte delle città
italiane registrano in latino i propri statuti. La Chiesa controriformi-
sta proibisce l'uso del volgare nella liturgia, arrivando nel 1557 a
divulgare il primo Indice dei libri proibiti e a vietare la lettura della
Bibbia in volgare.
In un'Italia disgregata e asservita allo straniero, è di alcuni scritto-
ri, ben prima che dei politici, I'intuizione, pur ancora vaga, che non
potrà esserci uno Stato unitario senza, prima, una lingua unica per tutti
gli italiani.
Nella corporazione dei dotti, che però non può dirsi unitaria, emer-
gono due correnti. La prima spinge per un ritorno all'indietro, al ras-
sicurante vocabolario e allo stile perfetto di Petrarca e Boccaccio,
escludendo Dante, la cui lingua continua ad essere giudicata priva di
«decoro». La seconda corrente è invece aperta all'uso del volgare.
Ne nasce un dibattito dai toni quanto mai accesi, che darà origine a
una secolare «questione della lingua».
Alla prima corrente appartiene una classe intellettuale esclusiva-
mente preoccupata di esercitare la propria influenza, lontana da ogni
impegno verso la collettività e attestata su un'idea imitativa e regres-
siva della lingua. Imitativa in quanto configura in Petrarca e Boccac-
cio i campioni di riferimento, gli assoluti garanti rispettivamente del-
la scrittura in poesia e di quella in prosa; regressiva perché postula un
ritorno all'inutilizzabile latino virgiliano e ciceroniano.
Massimo sostenitore di tali indirizzi, riportabili a intenti unica-
mente letterari e classici, platonici e intellettualistici, è il veneto Pie-
tro Bembo, che ritiene Dante un autore inservibile per avere adopera-
to parole «rozze», «immonde», «durissime». Nelle Prose della vol-
gar lingua (1525) - uscite dopo le meno famose ma forse più accet-
tabili Regoledellavolgarlingua( 1516)diGianfrancescoFortunio-,
Bembo sostiene un uso della tradizione linguistica riservato alla let-
teratura e da non mescolare col parlato. La sua teoria coinvolge, col
disdegno del volgare, un'idea di decoro che diviene precetto arcai-
cizzante, imposizione d'un fiorentino trecentesco ormai solo «men-
tale» e «scritto», curante della convenienza e dell'opportunità, piace-
vole e suadente.
In fondo, la proposta bembiana non è linguistica ma ideologica in
quanto respinge ogni innovazione prefigurando un'egemonia dei
dotti che - prescrive - «del popolo non fanno caso».
Le idee bembiane vengono spinte ad estreme conseguenze, nel se-
condo '500, da Leonardo Salviati che, a capo dell'Accademia della
Crusca nel 1583, s'adopera per l'affermazione d'un purismo che è
statica e incantata visione della parola. Vi è aprioristicamente stabili-
to quanto è poetico e letterario e ciò che non lo è, senza prospettive
diverse dalla compilazione e tesaurizzazione d'un lessico scelto,
scartante ogni altra forma non preventivamente sancita. Ne risulterà,
più tardi, quel Vocabolario della Crusca che, nel suo supponente e
quasi terroristico apriorismo esclusivistico, si farà deposito museale
di lemmi feticisticamente arrogati nella loro laconicità lapidaria, fran-
tumata dalla Storia.

Altra è la concezione di Niccolò Machiavelli, che nel Discorso o


dialogo intorno alla lingua (1524 ca.) tratta l'assetto «politico» del
linguaggio, posto in rapporto col problema della formazione dello
Stato nazionale. Con acume precorritore di quella che sarebbe stata
la posizione di Manzoni nell'800, Machiavelli ipotizza una lingua
italiana unificata nel parlato di Firenze. Ciò è giustificato dalla perfe-

23
zione strutturale conferita al fiorentino parlato dalle sue «Tre Coro-
ne», Petrarca, Boccaccio e soprattutto Dante, cui riuscì l'impresa di
assimilare ogni genere di parola al fiorentino, mobilitandolo e ren-
dendolo vivo. Tali idee Machiavelli le applica nel Principe (1513),
scritto in una prosa ricostruita sul parlato fiorentino anche gergale,
con residui latini (iusto populo miraculo, ecc.). Nel costrutto latineg-
giante, invece dell'italiano intransitivo utilizza il verbo riflessivo
(es.: partendomi); e poi sendo essendo, ruina rovina, infra fra, maxi-
me moltissimo, ecc.
Nell'opera teatrale e in poesia (cfr. Andrìa, La Mandragola, Cli-
zia, fino ai Decennali e ai Canti carnascialeschi), I'autore ricorre a
un lessico connotante la parlata e il carattere dei personaggi: accoc-
chiare danneggiare, aceggia beccaccia, adiacciare gelare, allotta al-
lora, allumare illuminare, anguinaia ernia, baccanella taverna, ba-
dalucco divertimento, berteggiare burlare, bezzicare piluccare, boc-
co («e' mi faceva bocchi», cfr. Clizia) smorfia, bolso gonfio, caca-
pensieri bighellone, cacastecchi ignorante, cicalare chiacchierare,
codrione culo, cotto ubriaco, cruciare tormentare, diaccio freddo,far-
netico concitazione, frappatore truffatore, ingrognare arrabbiarsi,
maghero magro, mastio maschio, moccicone babbeo,pappatore scroc-
cone, potta vagina, sbarbare sradicare, trecca fruttivendola, zanca
gamba, zugo sciocco...
Il fiorentinismo machiavelliano, difeso da Lodovico Martelli, è in
qualche modo contestato dal senese Claudio Tolomei, propenso al-
I'ipotesi d'una lingua non strettamente fiorentina ma, più general-
mente, toscana. Una tale posizione è comprensibile se si pensa che,
prima del fiorentino, il primato toscano era dei dialetti pisano e luc-
chese.
Un isolato, ma unico nel suo magistero burlesco, è Francesco Ber-
ni, che, senza ricercare programmaticamente una propria stilistica,
utilizza tutta la materia verbale di cui può disporre. Ne consta una
lingua mossa e iperbolica, minuziosa, polemica, aperta a ogni sugge-
stione lessicale. Le parole da lui privilegiate sono da ricondursi a una
pregressa «poetica della crudeltà», a un intento critico corrosivo. Si
pensi all'insofferente Sonetto contra la moglie, un rovesciamento d'ogni
stilnovismo, petrarchismo e «decoro» bembiano, e al ricorso,
nelle Rime in sonetti caudati e terzine, a un coriaceo vocabolario: can-
caro doglie, malfrancese, furfantaria trista puttane fwie mostri fot-
tuta foia puttanesco cesso cazzo morbo versiera mota orinale cana-
glia bordello boia scelerato sciagurato ipocrito disperato squartar
orrendo pitali impiastro fracida marcia fame letame bardassonacci,
ecc.
Di spirito bernesco sono le Lodi della fu~fanteria, reperibili nella
biblioteca Ambrosiana di Milano e attribuite a Jacopo Bonfadio. Il
documento, in volgare illustre, di possibile origine goliardica, è un
apologo della storia umana come storia della furfanteria: che spiega
come «chi non è stato, chi non è, chi non sarà furfante, non fu, né è,
né sarà, né possente, né ricco, né degno».
Giangiorgio Trissino, vicentino, muove dal dantesco De vulgari
eloquentia finendo con l'auspicare un volgare letterario costituito
prelevando il meglio dalle regioni della penisola. Ingenua o irreale la
proposta di Trissino, su cui facilmente prevarrà Bembo, quanto ec-
centrica quella di Vincenzo Colli, detto il Calmeta. Fatto salvo il prin-
cipio dell'uso fiorentino dettato da Petrarca e Boccaccio, egli propo-
ne la lingua della corte romana, quella dei papi Leone x e Clemen-
te VII, chiamata per questo «lingua cortigiana»: lingua integrante tut-
te le altre e che sia, essenzialmente, un florilegio di queste. Florilegio
che, in nome d'un ideale nemico degli idiotismi, sia indipendente dal
toscano.
Tali argomenti vengono corretti e assumono spessore concettuale
grazie al mantovano Baldesar Castiglione: infatti, nel Cortegiano

24
(1527), giudicando le parole di Boccaccio «disusate dalli medesimi
toscani», ipotizza una lingua che nasca non solo dal fiorentino ma
dalla «consuetudine del parlare dell'altre nobili città d'Italia» e arric-
chita da forestierismi.
Fa da contralto all'estetismo di Bembo e dello stesso Castiglione il
loro contemporaneo Pietro Aretino, la cui scrittura, assai variegata, è
di gran lunga inferiore al talento linguistico dell'autore, nemico d'o-
gni potere, sia imperiale sia papale, e dotato di grandi capacità d'in-
venzione satirica a effetto osceno o anche eversivo. La sua opera è
forse il repertorio più variopinto del turpiloquio cinquecentesco.
Persuasi che il modo migliore per individuare una lingua sia ve-
derne le parole, si riportano alcuni versi aretineschi rivolti ai poeti
dell'epoca: «Questi vostri sonetti fatti a cazzi/ sergenti de li culi e de
le potte,/ e che son fatti a culi a cazzi a potte,/ s'assomigliano a voi,
visi de cazzi». Un'invettiva dov 'è evidente la paradossale intenzione
moralistica, forse la più vera attitudine della parola aretinesca, nata
in un laboratorio linguistico che è luogo di rivolta e di reinvenzione
del mondo. Si veda, tratto dai Ragionamenti (1534-'39), un glossario
minimo delle coniazioni di Aretino: accasca succede, aggricciare
raffreddare, alfane donne alte e magre, anfusaglia canaglia, aschio
astio, bardassoni amanti, besso fesso, cacabaldole moine, chiotta
ferma, fecciosa sudicia, frapperie chiacchiere, indenaiato ricoperto,
invetriato impassibile, mastuzzicare tormentare, pacchio pasto,
pinchelloni sciocchi, pinco il pene, rincriccare spaurire, sbricca-
relli bricconi, soiata beffa, spigolistrarie pettegolezzi, zazeone stu-
pido...
Alla perdurante confusione sui modi di concepire la lingua si con-
trappone, con epicentro Venezia, l'esigenza d'ordine dei grammatici
e lessicografi. Del 1529 sono la Grammatichetta e i Dubbi gramma-
ticali di Trissino, cui seguono le Regole grammaticali (1545) di la-
como Gabriele, i Fondamenti del parlar toscano (1549) di Rinaldo
Corso, le Osservazioni della volgar lingua ( 1550) di Lodovico Dolce
e il De la lingua che si parla e scrive in Firenze (1552) del toscano
Giambullari. Nel 1562 esce a Venezia il vocabolario di sinonimi La
copia delle parole di Marinello.
Per contrastare la confusione dei linguaggi, si tende insomma a
stabilire autonome norme grammaticali, sintattiche, ortografiche e les-
sicali; a una revisione, elettivamente conforme al toscano letterario,
della lingua dalle origini.
Rappresentativa di tale esigenza è l'opera maggiore, 1'0rlando
Furioso, del massimo poeta del '500, l'emiliano Lodovico Ariosto.
Infarcito di padovano letterario e di latinismi nella prima edizione
(1516), il Furioso viene emendato nel 1521 e profondamente rivisto
in senso toscano nel 1532. Si ha la regolarizzazione di el il, li i, te ti,
x s, in lo nello, in la nella, de li degli, alli agli, annonzio annunzio,
mostrarò mostrerò, tràrro trassero, dreto dietro, avate avevate, intra-
re entrare, battizzare battezzare, ecc.

Un'ulteriore prova del successo del modulo toscano è la sua diffu-


sione in Europa. Al punto che, nel caso, non sono poche le parole ita-
liane francesizzate: macarons macaronique parfum balcon nulle
carton soldat mortadelle capucin piédestal artisan caporal colonel
tramontane caresse valise bulletin banque...
Per quanto concerne i suoni, sono sensibili le differenze fonetiche,
mai rifuse, tra Settentrione, Toscana e Meridione. Fra le opere di fo-
netica, da ricordare il De vocie di Leonardo da Vinci, uno studio di fi-
siologia fonatoria di estrema chiarezza. Anche nei frammenti del suo
Trattato di pittura, Leonardo riesce a foggiare una parola limpida ed
efficace, quasi precettistica nei suoi intenti tecnici e scientifici. Dai
suoi scritti di geniale «omo sanza lettere», i lemmi arritrosito ritorto,
bàlatri baratri, eclipsi eclissi, ene è, innorbito accecato, obsidione as-

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sedio, stracinate strascinate, stròlago astrologo.
In volgare illustre è la prosa del nobile vicentino Francesco Sforzi-
no da Carcano, falconiere autore di Tre libri de gli uccelli da rapina
( 1547). Sulle orme di Federico Il e Lorenzo de' Medici, Sforzino fis-
sa una terminologia descrittivavenatoria e veterinaria nonché il ger-
go tecnico-scientifico della falconeria in Italia: terzuolo per indicare
il maschio dell'astore, rapace di bosco, di un terzo più piccolo della
femmina; nidaso nidiaceo,filagna filo per l'addestramento del falco,
stramaccio posatoio, solutivi purghe, presa artiglio, strucciero falco-
niere...
Accanto all'affermazione dell'italiano aulico e restrittivo imposto
dal bembismo dominante, che ha un suo correttore nell'antipedanti-
smo e nel fiorentino illustre del Galateo (1558) di Giovanni Della
Casa, si delinea una tendenza alternativa. Questa è dapprima identi-
ficabile nell'uso vivo fiorentino del marchigiano-romano Annibal
Caro e nelle prove non grammaticalizzate di due autodidatti di genio.
Si tratta del matematico Nicolò Tartaglia, autore di una Nova Scien-
tia (1537), scritta in volgare, e dell'orafo e scultore, ma anche ladro e
assassino, Benvenuto Cellini, la cui autobiografica Vita, redatta nella
forma stessa del parlato, resta fuori d'ogni regolare struttura sintatti-
ca e d'ogni stabile grammatica.

2. Il dialetto

Conclusa l'opposizione fra latino e volgare e stabilito che la nuova


lingua è alfine il toscano, per la sua tradizione letteraria il più presti-
gioso d'Italia, restano, con la loro compressa esuberanza, le parlate
regionali e, negli strati più poveri delle popolazioni, quelle dialettali.
Queste, escluse dalla letteratura in lingua come il popolo da ogni pur
minimo benessere economico, si esprimono, in tutta la penisola e fino
alla Sicilia, nelle rappresentazioni teatrali.
La loro foggia è ora gergale, con l'uso di maschere prese dall'am-
biente contadino e dal sottoproletariato urbano, ora dialettale ma for-
malizzata e stilizzata su modelli letterari parodisticamente stravolti.
Così in Angelo Beolco detto Ruzzante, erede del poeta maccheroni-
co Tifi Odasi, padovano, autore della Macharonea (1490).
Da maccarone - lo «gnocco» della terminologia gastronomica po-
polare del Medioevo-, la letteratura maccheronica s'impone, alla
fine del '500, prima nella tradizione veneta. Essa attinge al latino e al
dialetto per esercizi di stile presto imitati da tutte le letterature euro-
pee. Ruzzante è scrittore in dialetto «pavano» di farse che calano le
proprie radici nell'oralità giullaresca traducendosi in burla, dramma
e tragedia.
Della stessa scuola è il mantovano Teofilo Folengo, che utilizza un
latino umanistico parodizzato, mestica di dialetto bresciano-lombardo-
emiliano e lemmi gergali e italioti: berteggiare bertonare calefare
trepare... Caratteristica della sua scrittura è l'elencazione sinoni-
mica, tecnica dell'accumulo praticata in Francia da Rabelais: smaz-
zolare tartassare tambussare bastonare tartufolare tracagnare...
Pregevoli, ancorà, i suoi esametri per cantare l'estetica bassa della
corporeità materialistica, l'invettiva erotica, il carnevale anarchico e
gaglioffo del suo dialetto latinizzato che conia, come nella Zanito-
nella delle Maccheronee (1540 ca.), neologismi in volgare: boazzis
boaccia (stallatico), spantegat spantegare (aprire), coconem cocòne
(tappo), squaquarare squaccherare (sporcare con la diarrea), smer-
golat smergolare (cantilenare), significagat significagare (rafforzati-
vo furbesco di significare), sturlat sturlare (spingere).
In volgare, con inserzione di due novelle in dialetto bergamasco e
padovano, sono Le piacevoli notti (1550-'53) di Giovan Francesco
Straparola, lombardo. Se ne enuclea un breve glossario: accorocciarsi
corrucciarsi, afforciarsi sforzarsi, apparare imparare, balcare vedere,

26
bastagio facchino, cifolare zufolare, diglottito inghiottito, doi due,
mancipio schiavo, ravogliamento (napoletanismo) aggrovigliatura
confusione, saporetto sugo, sforciare violentare, vergelato rigato, zam-
bra camera, zatta zampa.
Una babelica mistura dialettale sostanzia infine la commedia di
Giovan Battista Cini, La vedova (1569), con personaggi parlanti in
bergamasco, veneziano, napoletano e siciliano. Prevalgono il dialet-
to padano (angonia agonia, faglia covone, occato papero), il vene-
ziano (galozza zoccolo, santolo padrino, coppo - anche nel Meridio-
ne - tegola), il lombardo (sferlo ramo, arpice gancio), il marchigiano
(sgomberello contenitore), l'umbro (cerqua pentola, vettina recipien-
te), il napoletano (balice valigia, streppare strappare)...
I dialetti - dal greco diàlektos conversazione -, vitali fin dal Me-
dioevo, hanno raggiunto una loro forza espressiva e un'autonomia
che li rende diversi dalla lingua ufficiale e l'uno dall'altro.
All'inizio del xvl secolo, a Roma si parla un dialetto prossimo
alle parlate meridionali, che si toscanizza per la successiva influenza
fiorentina alla corte papale. I dialetti veneti, fino al '300 di conio lom-
bardo, vengono trasformati dall'influsso veneziano. La parte setten-
trionale, divisa da quella mediana dalla catena appenninica, compren-
de i dialetti piemontesi, liguri, lombardi emiliani e romagnoli. Gene-
ralmente, i dialetti settentrionali hanno in comune la caduta di alcune
vocali in fine di parola (es.fil filo) e un'accentuazione delle vocali nel-
la forma germanica (of oef uovo). Mentre il Centro Italia presenta una
certa uniformità col toscano, parte del Centro e il Meridione mostra-
no tre aree dialettali: la marchigiana dei dialetti a nord di Ancona, si-
mili ai romagnoli, e quella umbro-meridionale toscaneggiante, laziaie e
abruzzese; la campano-molisano-pugliese a Nord, che coinvolge una
porzione della Lucania; la salentina, calabrese e siciliana. A parte,
per il suo storico isolamento, è da considerare il sardo.

3. Verso il Barocco

Nella lingua del '500, si hanno le forme voi davi voi davate, equi-
vochi equivoci; e, nella grafia, pronuntia, vulgo, summo, suggetto, fa-
cultà; de di, dil del, el il, qualunche qualunque. Compaiono per la pri-
ma volta democrazia luterano protestante gesuita indifeso concerto
bravura bravata...
Il passaggio del volgare letterario dal '500 al '600 è marcato da Tor-
quato Tasso e Giordano Bruno.
Nella Gerusalemme liberata (1565-'75), Tasso si rifa agli ideali ca-
valleresco-cristiani e alla tradizione classica, agli stili «magnifico»,
«mediocre» e «umile» alternati agli stranierismi e all'intarsio delle
neoconiazioni.
Bruno, invece, esce dalla tradizione e inventa una filosofia della
lingua. Questa distingue fra «segni» e «verificazioni», «paroli» e «sen-
timenti»; fra linguaggio «naturale» e «morale», fra «legge» e «filo-
sofia», fra ciò che è «vero» e quanto è «metaforico». Suo scopo è fog-
giare una lingua opposta a quella irrigidita dei «grammatisti»: lingua
antipedantesca, non mistificante, partecipe del movimento della re-
altà e votata a «sincerità, simplicità, verità». Perciò «riformata» nel
senso d'un cambiamento sociale etico: cambiamento per il quale la
lingua e la verità, vista in tutte le sue sfaccettature e torsioni, coinci-
dono. S 'innesta qui il motivo barocco, da interpretare non in un senso
esteriore o decorativo come in molti casi s'è voluto fare, ma in quello
della complessità e profondità. In esso hanno parte, con la lingua, an-
che i dialetti, prima assunti col fine d'ironizzare in essi l'ignoranza
della plebe e ora resi parte vitale della stessa lingua. Si vedano le scel-
te lessicali, foneticamente dialettizzate e con ricorso al gioco analogico-
sinonirnico che Bruno esegue nel Candelaio (1582), commediapopola-
re: musso (voce dial. napolet~na) labbro, menchia (dial. siciliano e nap.)

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pene, saginato ingrassato, pappolata sciocchezza, griffe (francese grif-
fe) grinfie, bagassa (spagnolo bagarsa) bagascia, parpaglioni (fr. papil-
lons) farfalloni, scasciato (nap.) scassato, berte beffe, schiassi fracassi,
fanfalucco bugiardo, contubernio compagnia, obiurgazioni rimpro-
veri, bozzole storte, coquinario (fr. coquine piccante) cuoco, amasia
amante, spunzonava spronava, bardascio invertito, scarrupato (nap.) di-
roccato, morsello boccone, fornicario donnaiolo, spaccatornese (nap.)
avaro, coteconaccio (nap.) villanzone, candelaio pederasta...
E una tendenza alla proliferazione e centrifugazione della parola
all'ellissi, allo scarto dalla norma: all'invenzione e alla trasgressione
barocche.

La trasgressione linguistica

1. Il Barocco

Per le inquietudini e i fermenti storici e culturali che lo attraversa-


no, il XVIIè certo un secolo ben lontano dai precetti che il Vocabola-
rio degliAccademici della Crusca, stampato a Venezia nel 1612, pre-
tenderebbe d'imporre. Il Vocabolario, che contiene anche proverbi
latini, è ispirato da Salviati che restringe le stesse idee di Bembo in
un severo trecentismo fiorentinista.
Un'immediata reazione contro ogni ossequio alle regole dell'imi-
tazione trecentesca si ha con L'Anticrusca (1612) di Paolo Beni, che
rovescia il rapporto fra antichi e moderni affermando, col progresso
della società e dell'evoluzione artistica, la priorità dei moderni.
Lo stesso Alessandro Tassoni, accademico dellaCrusca, insorge con-
tro l'operato di Salviati e, nel capitolo Ix del suo Varietà di pensieli
( 1612), sostiene la superiorità della lingua moderna, la qualità della
scrittura di Tasso su quella di Boccaccio, la modernità delle parole
«che si favellino e scrivono al presente».
Il criterio adottato dal Vocabolario della Crusca è quello d'un con-
servativo e soffocante arcaismo, che include le parole degli autori
considerati «de' più famosi» del trecentesco «secolo aureo» e di quelli
del '500 rivolti a quel secolo. Vi sono aggiunte, in subordine, alcune
parole dell'uso illustre. Tasso è tra coloro che, dapprima esclusi per
le loro propensioni sperimentali, entreranno in successive edizioni
del Vocabolario (Venezia 1623, Firenze 1691).
Il conto col latino si chiude comunque a favore del volgare, mal-
grado le spinte cruscanti verso la codificazione e quelle, ancora più
arretrate, dell'immobilismo latineggiante che conserva il predo-
minio nelle istituzioni ecclesiastiche ed universitarie ai vertici del sa-
pere.
La «guerra della lingua» combattuta fra scrittori è forse il fermen-
to capitale in un paese umiliato, fino al 1714, dal secolare dominio di
un'aristocrazia spagnola raffinata, prevaricatrice, abile nell'irretire
nella propria sfera d'influenza la classe intellettuale italiana.
Nel 1620 esce a Roma un dizionario italiano-spagnolo redatto da
Lorenzo Franciosini. Solo a partire dal 1648, dopo la pace di Vestfa-
lia che ridimensiona la potenza degli spagnoli in Europa, la Spagna
allenterà la sua pressione politica in Italia, pur mantenendovi il do-
minio. Si calcola che dal 1551 al 1700 ci siano state circa 1200 tradu-
zioni dallo spagnolo all'italiano e più di 120 edizioni in lingua ispa-
nica.
La grafia dell'italiano mantiene, nel '600, la h in parole come homo
huovo huopo; coniugando il verbo avere, si scrive ò e à invece di ho
e ha. Si hanno inoltre theatro thesoro affetione gratia construttione
essercizio dimostrazzione incendij. Con le forme volsi volli, veddi
vidi, vadia vada, vadino vadano, bisogneria bisognerebbe, bifolci bi-
folchi, teologichi teologici; i superlativi da aggettivi: stessissimo ot-
timissime; superlativi da nomi: elefantissimo padronissimo...

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Mentre cruscanti e anticruscanti s'attardano in polemiche lessico-
grafiche magari risolvibili col buon senso, si diffondono gli spagno-
lismi don signore signora signorino signorina. S'afferma definitiva-
mente il Lei, nato nel '500 in rapporto a Signoria Eccellenza Santità
Magnificenza. Si divulgano gli ispanismi cortigiani grandioso ba-
ciamano etichetta sfarzo brio complimento marsina mantiglia lindo
disinvolto parata posata tabacco sigaro... E piccaro piccaresco re-
cluta baccaM baule risacca lazzarone pastiglia caracollare sara-
banda...
E allora naturale che una filologia dello spirito barocco e della lin-
gua che lo sostanzia debba basarsi sulla cultura e sulla lingua spagno-
le. A partire dal significato della parola spagnola barrueco (porto-
ghese barroco, francese baroque), utilizzata solo verso la fine del '700
in senso negativo contro l'arte seicentesca, identificata con la crisi
politica e dei costumi del periodo che va dal tardo '500 all'ultimo
'600. Barocco quale riflesso d'un modo di concepire l'arte e la parola
non nei termini rassicuranti e armonici voluti dal Rinascimento e dal-
la classicità ma in maniera eccentrica, paradossale, ricca di trame e
risonanze psicologiche, proliferante nuovi tipi di pensiero e perciò di
lingua. Una lingua in movimento, policentrica, che infrange e mette
continuamente in discussione l'ordine costituito; accumula, sovrap-
pone, esaspera i particolari e le differenze. Lingua che sfugge alla pre-
scrizione per affermare un edonismo proteso verso una conoscenza
non delimitabile ma anelante all'infinito.
In tale prospettiva e a un elevato esito linguistico si colloca il fer-
rarese Daniello Bartoli con la sua prosa perfetta, che sarà ammirata
da Leopardi. Non c'è dubbio che, malgrado l'antiseicentismo del-
I'autore, si tratti d'una prosa prettamente barocca, libera, estrosa,
iperletteraria. Non è un caso che Bartoli, come fa nel suo Tratta-
todell'ortografiaitaliana( 1670),mostrilasuainsofferenzaperil
dogmatismo della Crusca. Grammaticalmente tradizionale, la lin-
gua di Bartoli, gesuita, si apre a un empirismo vocabolistico che è
quello della maggiore oratoria sacra del secolo. Oratoria descrittiva,
dove alla varietà lessicale s'accompagna il rigoglio di analogie, me-
tafore, variazioni sinonimiche e suffissali, antitesi, ossimori e anto-
nomasie.
Leopardi giudicherà lo stile di Bartoli, «tutto a risalti e rilievi», sen-
z'altro «un esempio dell'immensità e varietà della lingua italiana».

2. Galilei

L'«infinito» barocco è da Galileo Galilei scrutato e nominato non


col ristretto vocabolario della tradizione scientifica latina ma fog-
giando un volgare che rende di colpo vecchio il latino degli scienziati
fino al '600. La scelta galileiana dell'uso volgare nella scienza è in-
nanzi tutto polemica nei confronti del potere, che non risparmierà
allo scienziato tante persecuzioni.
Obiettivi di Galilei sono la chiarezza, la precisione, la divulgazio-
ne, il superamento delle pseudoverità e dell'equivoco pseudoscienti-
fico ammantato di tesi o ragionamenti privi di fondamento e dogma-
tici. Egli, riformatore della scienza e della lingua, s'adopera alla rico-
struzione formale e alla funzionalità delle parole, nell'intento di sot-
trarle alla pratica evasiva e antiscientifica che se ne fa. Per Galilei, le
parole della scienza devono aderire alla realtà delle cose e al loro sen-
so, mutando col divenire di ciò che nominano. C'è, in questo modo di
trattare la lingua, dove l'osservazione induce l'ipotesi e questa la spe-
rimentazione, un presupposto essenziale per l'oltrepassamento della
vecchia divisione tra Umanesimo e scienze.
Nel Saggiatore ( 1623), scritto in pregevole volgare, Galilei riesce
a mettere al centro del proprio discorso il problema del significato,
tecnicizzando parole prima trattate in funzione letteraria e adattando-

29
le alla comunicazione scientifica. Noti alcuni suoi neologismi (apo-
geo parallasse sesquilatero) e il suo impiego di candore non più nel
senso metaforico ma in quello di «luce lunare»; di pendolo, trasfor-
mato da aggettivo in nome indicante lo strumento per misurare il
tempo; di cannocchiale, che compone cannone con occhiale; di mo-
mento, usato in senso materiale; di ferragine per definire la limatura
di ferro; ecc. Per Galilei, il sole non è una sfera levigata: esso è pieno
di macchie solari; la luna non è il globo bianco ispiratore dei poeti
ma è piena di irregolarità montagnose, similmente alla Terra; la via
Lattea non è fatta di astri luminosi ma di agglomerati stellari; Giove
e gli altri corpi celesti non sono sagome lisce ruotanti nello spazio
bensì materia... L'animus barocco di Galilei è appunto in questa sua
febbrile ricerca di similitudini, analogie, corrispondenze che si per-
dono e si ritrovano nell'euritmia cangiante della materia e della pa-
rola.

3. Marino

Nello stesso anno del Saggiatore galileiano si pubblica a Parigi


l'Adone del napoletano Giambattista Marino, poema mitologico in
venti canti che è anche un'enciclopedia e uno «spettacolo» della pa-
rola barocca. Parola arguta, sfarzosa e virtuosistica, ma nello stesso
tempo, per la sua ricchezza e l'apertura, contrapposte alla selettività
del purismo, di straordinario interesse lessicale. Esaminato sotto tale
aspetto, il «marinismo», condannato dall'Arcadia e dal Romantici-
smo, è un fenomeno tra i più rilevanti della nostra lingua; che, con
Marino, esprime tutte le sue possibilità: I'enumerazione, le associa-
zioni e moltiplicazioni vocabolistiche, l'ossimoro (lascivamente one-
sta), la metafora, I'allegoria, la similitudine, il congegno delle aggetti-
vazioni, I'allitterazione, le endiadi sostantivali e aggettivali, la si-
neddoche (una voce pennuta, una piuma canora), la fonosemantica
(aspri-diaspri, voglio-invoglio), i giochi verbali, le antitesi, la visivi-
tà, I'anagramma... Entrano nella scrittura marinista il bestiario, I'er-
bario, il lapidario, un catalogo di meraviglie per affermare, con le termi-
nologie oniriche, simboliche, biologiche, quella poetica della «mera-
viglia» che è epifania della parola: «E del poeta il fin la meraviglia
[...:] chi non sa stupir, vada a la striglia».
Si vedano, coi ricorsi alle coppie avverbiali spagnolesche (parti-
colarmente nondimeno, chiara e apertamente), alle inversioni sintat-
tiche (nella suafilosofia, dell'uomo quando disse), al passato forte
(d'uso meridionale: cose da te dimostre), alle simmetrie sintattiche
(l'orofra'metalli, la porporafra'colori): gli usi di spagnolismi come
amariglia granadiglia colombeggiare porporeggiare; e di molce ad-
dolcisce accarezza, egro affflitto, algente fredda, luci occhi, folce ap-
poggia, inun nello stesso tempo, crome note musicali, inostra impor-
pora, sconcacato sconciato,fusetto pugnale, sfigliatura aborto, ramuf-
fola grammatica, dattoli datteri, impacchiucando imbrattando, gniffe
gnaffe sfregio, dilicatura eleganza,fuori del manico fuori luogo, me-
nante gazzettiere, spagnolata fanfaronata, pittima seccatore, asteri-
smi costellazioni, scarabombardone rumoroso, demogorgone demo-
ne, tarantara tromba, caranfole cavità, sterquilini letamai, lineatura
fisionomia disegno...

4. Basile e Tesauro

Nel 1630 esce, di Scaligeri della Fratta, un provinciale Discorso


qual prova che la favella naturale di Bologna precede ed eccede la
toscana in prosa e in rima. Del 1644 è il Rimario dello «stile subli-
me» di Fioretti e l 'Oracolo della lingua d'ltalia di Franzoni. Del 1647
è la rivolta napoletana di Masaniello, al grido di «viva il re di Spagna
e muoia il malgoverno»: ciò che conferma la popolarità della monar-

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chia spagnola anche presso il popolo.
Due esiti importanti della lingua seicentesca sono, nella tradizione
letteraria dialettale e orale, Lu cunto de li cunti overo lo trattenemien-
to de Peccerille (1634-'36), in napoletano, di Giambattista Basile e,
per la teoria linguistica del Barocco, il Cannocchiale aristotelico ( 1654)
del torinese Emanuele Tesauro, ideologo della parola «ingegnosa».
In quello che è un capolavoro della prosa napoletana, Basile sele-
ziona letterariamente la briosa terminologia del sottoproletariato, a
effetto comico e ironico: cunto racconto, tantillo tantino, ciernever-
nacchie raccozzascorregge, vrecciola sassolino, abbesuogno neces-
sità, peccerille bambini, pertuso buco, cecata cieca, cacciarrisse cac-
ciasse, nennillo ragazzino, chiuppo pioppo, preta pietra, fauza falsa,
chelleta quella, preiezza gioia, farfarello folletto, autra altra, chella
quella, tatanaro chiacchìerone...
Tesauro dà la definizione della lingua «ingegnosa» in tre parole-
chiave o figure retoriche, fra loro collegate: argutezza, metafora, me-
raviglia. L'argutezza è la capacità di creare analogie da cui nasce la
metafora che, per la sua qualità inventiva, è suscitatrice di meravi-
glia. Il fine è l'arricchimento di un lessico già interamente contenuto,
e mai del tutto espresso, dalla natura: biscolori bicolori, ignite infuo-
cato, geminata duplice, trecciera treccia... Per Tesauro, la parola è in-
somma «un emblema parlante e concettoso».
Prossimo alle tesi tesauriane è il friulano-romano Ludovico Lepo-
reo, inventore dei «leporeambi», strutture metriche con allitterazio-
ni, rime al mezzo, deformazioni parodistiche: «Come aringa fiam-
minga over saracca/ Amor mi sfuma e mi consuma e secca,/ e col dar-
do d'un guardo il cor mi stecca,/ e con la freccia sua mi sbreccia e
spacca» (saracca sardina; cui seguono guarnello vestito, tarocca la-
menta, mi sboricca mi rovina).

5. Dialetto e tradizione popolare

Va osservato che la stilistica barocca, che prevale nelle arti figura-


tive e nella musica, non riesce a travalicare un circuito letterario ari-
stocratico. Il suo autentico rapporto col parlato è stabilito piuttosto
nella letteratura per il popolo: che nel secolo ha, oltre a Basile, anche
importanti riferimenti in Giulio Cesare Croce, fabbro di San Giovan-
ni in Persiceto, scrittore e cantastorie in italiano e in bolognese; nel
milanese Carlo Maria Maggi e nell'aretino Francesco Redi, anticipa-
tori della cultura illuministica.
Croce è l'inventore di due personaggi tra i più incisivi della lette-
ratura popolare, Bertoldo e Bertoldino, rappresentanti anche due modi
d'essere del linguaggio. Il primo è saggio, il secondo sciocco: entram-
bi sono paradigmi di un'esistenza umana segnata dalla buffoneria,
dalla fatuità, dalla scioccherìa e dal rituale carnevalesco della stol-
tezza.
Il padano con cui Croce contamina i propri testi non è illustre ma
fissato alla tradizione orale. Esso presenta negoci negozi, roverso
rovescio, camiscia camicia, zeffo ceffo, ciufolare zufolare, strazzi strac-
ci, carroccia carrozza, loco luogo, pagliarizzo pagliericcio; e potresse-
ro potressimo farebbono saperete potiamo...
Una vera opzione trasgressiva per il dialetto lombardo contro la
lingua codificata è quella del teatro di Maggi, che dà l'avvio alla «li-
nea lombarda» illuministico-romantica proseguita da Parini, Porta,
Manzoni, Dossi e Gadda. La sua è una scelta di campo a favore d'una
ben determinata comunità sociale corrispondente ai milanesi che
parlano in dialetto o in un italiano milanesizzato. Si vedano i tipi pa-
der mader padre madre, legria allegria, pomm mela, scendera cene-
re, asnln asino, pensemm pensiamo, parpoeur quattrini, mà male, cà
casa, tavan sciocco, tribulerij pianto, reloeurij orologio... La comu-
nità dialettofona di Maggi s'esprime appunto nel meneghino (dal per-

31
sonaggio Meneghino creato dall'autore). Questo connota una classe
sociale rimasta estranea ai compromessi indotti dal dominio spagno-
lo a Milano in un ceto borghese corrotto e ignorante, fatto di giudici
compiacenti, legulei famelici, sbirri complici dei delinquenti e com-
mercianti disonesti.
Un caso linguistico forse non abbastanza indagato è quello costi-
tuito da Redi, medico, entomologo, poeta e lessicografo, autore d'un
prezioso vocabolario del parlato di Arezzo. Vocabolario ricavato al-
tresì dalle opere di scrittori aretini come Guittone, Guadagni, Sciarra
Geri, Nardi, Boccarini, Bandino, Pollastrino, ecc., oltre che dal noto
Bacco in Toscana ( 1685), ditirambo (greco dithyrambos, originario
eponimo di Dioniso) dello stesso Redi.
La fonetica delle forme dialettali registrate dall'autore ha un siste-
ma assai unitario: abadalillare temporeggiare, abalociare abborrac-
ciare, abl usticare abbrustolire, adruzzolare ruzzolare, baccina vitel-
la, balecenare balenare, baturlare tuonare, chiappola ingiuria, chia-
l~ello cl1iodo, hieppa paura. Nel Bacco in Toscana si hanno tonfani
bicchieri, -a/nl~el-lucc(7 pastrano, rematico minaccioso, ecc.
Del 1679 e 11 sa,~g,i(7 e 'l sunto della Favellatoria un'opera gram-
maticale dedicata a Redi. Dello stesso anno sono un iibro di Benedet-
to Menzini su l la Cost1 M-ione irregolare della lingua toscana e un Vo-
cabola) io fio1 e/1ti110-1 oma1lesco di anonimo. Del 1682 è la stampa a
Palermo della Prosodia italiana di Placido Spadafora.

6. Lingue della fantasia

Contrariamente a quanto preteso, piuttosto che giocoso e festevo-


le, il '600, secolo dello sviluppo del melodramma (gr. mélos, canto mu-
sica, e drama azione), è cupo, ambiguo e contraddittorio. Vi si parla
e scrive una lingua babelica, varia e molteplice come la stessa vita so-
ciale, inquieta e disgregata: lingua oltremodo fantasiosa e ricca di
possibilità di rinnovamento, non rinserrabile in un modello unitario
perché, dopo la liquidazione dell'aristotelismo e petrarchismo rina-
scimentale, adesso aperta a tutte le avventure culturali, compreso il
nascente giornalismo.
In questo clima si esprime la satira dell'epica cavalleresca del mo-
denese Tassoni e di Carlo de' Dottori, Ippolito Neri, Bartolomeo
Corsini, Lorenzo Lippi e Francesco Bracciolim.
In Tassoni, antipetrarchista autore della Secchia rapita (1630),
concentrato, in dodici canti in ottave, di fantasiosi gerghi, vernacoli e
riboboli, i campioni: orsicciati bruciacchiati, terziopelo velluto, tutto
ché benché,furno furono, serviziale clistere, ranno detersivo, orical-
chi trombe, instrutta istruita, triaca contravveleno, ambracane am-
bra grigia, sciorre sciogliere, gìan andavano, scalchi servi, butirro
burro, digesto registro, speme speranza...
In Neri: billère burle, sciarrate vanterie, covaccio covile, ver ver-
so; in Corsini: piva zampogna, cetera cetra, bericuocolaio dolciere,
bitocco bitorzolo; in Lippi: pina pigna, buffetto credenza, stidione schi-
dione; in Bracciolini: incontanente immediatamente, preste svelte,
filunguelli fringuelli.
Tra i dialettali, hanno rilievo linguistico i veneziani Busenello (ve-
doetta vedovella, gaveva aveva, sgrignetto sorrisino, osel uccello,
feu fai, steu stai, credel credetelo); Boschini (gh'è gli è, femo faccia-
mo, slonghè allungate); il precursore della poesia vernacola in roma-
nesco Giovanni Camillo Peresio (venneroli rivendugholi, scopettoli
spazzolini, vennea vendeva, scuffiotti cuffiette, pannispalli scialli,
pizzicarol pizzicagnolo, rescallar riscaldare); Giuseppe Bernen, ro-
mano, autore del Meo Patacca (1695) (brusciorno bruciarono, scar-
pinano camminano, cacafochi archibugi, tiritosto rissa, dereto die-
tro, scotolava scuoteva, zompi salti, cianche gambe, cianchetta sgam-
betto, gnucca testa, ciumachelli piccolini, foioselli rabbiosetti, busci

32
buchi); i napoletani Giulio Cesare Cortese e il misterioso Sgruttendio.
Cortese è l'autore della Vaiasseide (1615), poema delle serve (va-
iasse): prena incinta, trasesse entrasse, ninno nennella bambmo
bambina, preiato felice,forfecella forbicette, maríteto tuo manto, al-
lecordo ricordo, 'ncoppa su, tanno allora, porraie potrai, portaie por-
tò, ontaie unse...
Di Felippo Sgruttendio de Scafato non si sa niente. Qualcuno ha
creduto di ravvisarvi lo stesso Cortese, ma l'ipotesi sembra impropo-
nibile per motivi stilistici. Il nome di questo poeta della tradizione
orale è, chiaramente, un anagramma in senso osceno, rumoroso, fla-
tulento: Felippe peto, gruttare ruttare, Scafati località vesuviana am-
morbata da gas mefitici. La sua opera conosciuta è La tiorba a tacco-
ne ( 1646), grotteschi versi d' amore dedicati, certo per meschina ven-
detta d'amante deluso, a un'orribile Cecca che ha faccia tonna (tonda) e
colore del premmone (polmone) giacente da più d'un mese nella
vocciaria (macelleria). Alla bellezzetùdine di Cecca sono dedicati,
oltre che versi ironici e ribaldi, Li trivole pe la morte...
Tra altri, da citare il siciliano Paolo Maura: aceddu uccello, tràsiri
entrare, splinnenti splendente, lumiuna limoni, trunza torsoli; i fio-
rentini Jacopo Soldani (hocci ho lì, smacca umilia) e Pier Salvetti
(tratto colpo, stocco pugnale, mia miei).
Nella prosa satirica e popolare del tempo, emergono il vernacolo
erotico del calabrese Domenico Piro, detto Donnu Pantu, e la lingua di
protesta del napoletano Salvator Rosa, pittore e poeta che per le sue
invettive contro il potere sarà perseguitato dall'Inquisizione: turciman-
na ruffiana, bardasse prostitute, relasse stracche, gàngani gangheri...
Anima spagnolesca hanno i sette volumi, detti latrati, col titolo
Del cane di Diogene ( 1687- ' 89) del genovese Francesco Fulvio Fru-
goni, che ha compiuto gli studi in Spagna. Mescidatore e arabescato-
re di stili e lingue, allievo e amico di Tesauro, Frugoni dispiega un les-
sico d'intonazione dialettale su una base grammaticale classica, ric-
co di accrescitivi, iperboli, neologismi e giochi verbali, sinonimico,
antinormativo, dissacrante: misverrebbe svenirebbe, volaglie gruppo
di volatili, letteratàsini letterati asini, pimmea pigmea, zizzolardone
grassone, tetrichezza tetraggine. Ricorrenti, in formulazioni allegori-
che, gli zoologismi: scrofone alocco castrone caprio moflone gatto-
naccio basilisco aspido dipsade cerasta idro anfisibena scorzone
scarpione enidro volponcino sorco irco. O l'uso censorio di femmi-
niere, che è, via via, rondone d'ogni buca, moccolo d'ogni lanterna,
falcone d'ogni passera. E i vezzeggiativi derisori: morbidotto suc-
chiosotto pubertotto morbinosello sbarbatello balzanello. Coi verbi
neologizzanti: bambineggiare buffoneggiare tambureggiare cal-
deggiare grandeggiare lenonizzare gomor~izzare pedanteggiare. Gli
aggettivi tratti da sostantivi: gufeschi coticagnuti grugnesco facchi-
nesca zaffaranato capponesca pallorosi. E la neo-onomastica: Bam-
balio Pellicciacciaccio Asiniano Borboglio Valdrappaccio Miccio-
passero Gonnellastrio Furchinpalo Ciabattonio Sicomorone Tacca-
gnazzo Pederast1 io Stramboinone... Tutti esiti d'una lessicalizzazione
eminentemente «visiva», tipica dell'inventività orale, fatta altresì di
«arguzie figurate» secondo il dettato di Tesauro. E il carattere d'una
cultura barocca per la quale le cose sono parole, strette insieme in ana-
logie che fondono significato e significante.

7. La restaurazione arcadica

Non molto più di un'indignata protesta contro le trasgressioni lin-


guistiche del secolo va considerata l'Arcadia, fondata a Roma nel 1690
alla corte dell'ex regina Cristina di Svezia da un gruppo di letterati:
bucolici cantori del bosco ombroso e del dolce mormorio (Rolli), del
cocchio e dellefaci (Savioli), dei silvestri dumi e dell'usignoletto
(Vittorelli).

33
L'ideale linguistico dell'Accademia è di «esterminare il cattivo gu-
sto [...,] perseguitandolo ovunque si annidi». Gli arcadi, quasi sempre
scrittori di scarso valore, assumono un'onomastica mitizzante ispira-
ta alle pastorali greco-latine e imitano Virgilio e il poeta georgico gre-
co Teocrito. Portano la parrucca, il ventaglio, la crinolina, la tabac-
chiera, lo spadino, le scarpette con le fibbie luccicanti. Tutto questo,
al pari del loro linguaggio languido, pieno d'affettazione e luoghi co-
muni, fa parte di un costume definito Rococò. In esso c'è spazio per
un recupero della stilistica trecentesca e per una poetica dell'imita-
zione che si confonderanno, fino a sparire, nelle articolazioni lettera-
rie settecentesche.
L'Arcadia - che forse ha il suo unico poeta nel palermitano Gio-
vanni Meli - rimane schiacciata tra le riformulazioni seicentiste della
lingua, prossima a Tasso e a Marino, di Metastasio, autore di melo-
drammi, e il modello linguistico di Vico.

Il «secolo dei Lumi»

1. Nuove parole

L'inizio del '700 segna la fine del dominio spagnolo in Italia e l'av-
vento a Milano degli Austriaci, che vi rimarranno perun secolo e mez-
zo. I Borboni, di antica origine francese, dominano nel Meridione,
mentre i principi di Asburgo-Lorena sostituiscono a Firenze i deca-
duti Medici. In Sardegna, dove la lingua scritta è lo spagnolo, gover-
nano i Savoia. L'italiano è stabilmente diffuso in tutte le attività cul-
turali e amministrative del paese, ma parlato da ben pochi dei quasi
diciassette milioni di abitanti.
Crocevia della cultura europea, I'Italia subisce l'influenza anche
linguistica di Francia e Inghilterra. Dal francese, penetrano nel nostro
vocabolario: moda flanella fermentazione ghette bignè gattò ragù
raffinazione cotoletta zinco bretelle vanitoso bicicletta paesano ga-
rage ciniglia picchetto analisi caffè bomboniera liquore portamento
fricassea griglia comò toletta brillantina lillà montura cernierafi-
nezza condiscendenza abbordare. Con locuzioni quali buon tono, mano
d'opera, bello spirito, materie prime, punto di vista, colpo d'occhio,
colpo di mano, far la corte, dar le dimissioni, aver l'onore, ecc.
Dall'inglese entrano le parole costituzione intervista opposizione
milordo e miledi (le ultime due, poi cadute).
Mediante un filtro linguistico ora transnazionale passano, inoltre,
lemmi trasfusi dal latino: solvere loculo corolla pistillo prognosi oscil-
lare. E latinismi e grecismi attraverso il francese: coalizione duttile
emozione epoca belligerante... Dall'inglese: colonia sessione legi-
slatura esibizione imparziale, libero pensiero, senso comune, ecc.
Compaiono le forme opinione pubblica, economia politica, enci-
clopedico automaticofinanziario capitalista. Coi termini tecnico-
scientifici ostetricia scarlattina inoculazione microcosmo oculista
analisi magnetismo aeronautica. E, dalla seconda metà del secolo,
risorgimento...
La lingua italiana importa parole quali nickel e cobalto (dal tede-
sco), vampiro (dallo slavo), nababbo (dall'Oriente). Esportafiorino
(nome della moneta fiorentina, ora olandese) e, nel francese, inglese
e tedesco, villa dilettante influenza pittoresco pianoforte mandolino
villeggiatura grissini Sport (da disporto o diporto) pizza gondola
spaghetti risotto laguna espresso, e banca bancarotta tariffa, ecc.
Dal dialetto passano all'italiano malocchio e iettatura (dal napole-
tano), birichino (bolognese), calli (veneziano), pupazzo (romane-
sco); e, come neologismi o parole di nuovo significato: materialismo
fatalismofilantropo cosmopOlita patriottico despotismo editore sca-
fandro letterato parolaio economista cambiale ecc.

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Il '700 è, per l'Italia, un secolo di femmenti e incertezze ove s'inse-
risce la cultura d'oltralpe che già nel '600 aveva cominciato a eserci-
tare la sua influenza con Comeille e Racine, Molière e Bossuet. Le
traduzioni dal francese, mentre inducono l'esigenza d'una lingua che
sia espressione di «idee chiare e distinte» (Cartesio), presentano fati-
cosi calchi di parole (disabigliè regrettare delebrato mantò sucì ma-
demosellafisciù brelocco visaggio trumò burò...) e costrutti manie-
rati (malgrado di, con più diforza, vengo di dire, vengo difare, l'ope-
ra la più eccellente, ecc.).
Il mito purista dell'eleganza linguistica è così rivolto a un'esigen-
za di chiarezza in gran parte teorica e ancora estranea alle ragioni
d'una consonanza fra lingua parlata e scritta. Questo, malgrado una
sempre maggiore diffusione della cronaca giornalistica e dei linguaggi
dell'economia e della politica.
L'italiano s'impone nella letteratura, nella giurisprudenza e nella
municipalità; ma nella comunicazione quotidiana, anche presso la bor-
ghesia, prevalgono i dialetti, sola fonte di vitalità linguistica. Il solco
tra la lingua libresca e quella parlata s'approfondisce ulteriommente e,
in conclusione, si può osservare che l'italiano è usato solo dai toscani
e dalla classe colta. Una classe che s'avvale d'una lingua con radici
trecentesche, invariata, estranea a quell'uso parlato e in continuo moto
che ha cambiato completamente la lingua francese arcaica.
Il «secolo dei Lumi» vuole una lingua sostanziata dai fatti, dall'e-
sperienza, dalla ragione: lingua metaforizzata da parole come luce il-
luminazione illuminato illuminare, diffuse da giomali, opuscoli e
pubblicazioni d'ogni genere che avranno in Europa il loro massimo
compendio nei trentaquattro volumi dell'Encyclopédie ou diction-
naire raisonné des sciences, des arts et des métiers par une société de
gens des lettres (1751-'80) di D'Alembert e Diderot.

2. Vico

Una reazione all'influsso francese e all'assolutismo razionalista,


piuttosto che al barocco seicentesco, va ritenuto il fervore linguistico
che anima il napoletano Giambattista Vico. Egli teorizza una «lingua
mentale», cioè un modo d'immaginare, comune a tutti gli uomini. Ro-
vesciando la tradizione grammaticale, affemma poi la storicità dina-
mica della lingua e delinea i rapporti sociali da cui essa nasce ed
evolve.
L'uomo, cui è preclusa la conoscenza completa del mondo natura-
le, non può conoscere altro da quanto egli stesso ha fatto, ossia la pro-
pria storia, suo unico verum-factum e sua vera scienza. Nella Scienza
nuova ( 1725, 1730, 1744), VICO traccia tre frasi essenziali della storia
dell'uomo, che sono quelle del rapporto con le «cose», poi con le «pas-
sioni» e infine con la «lingua umana». Quest'ultima è, a sua volta, di-
visibile in tre lingue, corrispondenti a tre momenti del divenire stori-
co: «degli dèi, degli eroi, degli uomini». Dapprima, gli uomini «sen-
tono senza avvertire, dipoi avvertono con animo perturbato e com-
mosso, finalmente riflettono con mente pura».
Hanno importanza nel linguaggio vichiano i «corsi» e «ricorsi». Il
corso è quello della civiltà umana, ed è comune a tutte le «nazioni».
Esso passa attraverso tre età: età del senso (degli dèi), della fantasia
(degli eroi), della storia (degli uomini). Ma se dell'età della storia l'uo-
mo fa un uso errato e antisociale, accade il ritomo all'indietro: alla
«barbarie della riflessione» priva dell'antica generosità barbarica e
tuttavia in grado di ricostruirsi come ricorso, ovvero ritomo alle ori-
gini e, dunque, ripetizione.
Tra i corsi e i ricorsi, la dialettica del vero e del certo: dove lafilo-
logia, che studia il certo, s'incontra con lafilosofia, che s'occupa del
vero. Il certo interagisce con la storia, il vero con I ' insieme dei valori
che devono guidare la storia. La sintesi tra filologia e filosofia si ot-

35
tiene attraverso l'arte critica della parola.
Tra le parole-cardine di Vico: iconomica (per definire il govemo
familiare), imperi (i poteri govemativi), mercuriale (relativo alla me-
dicina ermetica), subbietti (sono intesi i «fatti»: come la lingua, le na-
zioni, I'organizzazione sociale, ecc.), diritto (civiltà), gesti, gerogli-
fici (diversamente dalle parole, sono, in sé, cose o nozioni), parlari
eroici (traslati, metonimie, metafore, ecc.: parlari accorciati, con-
trapposti al parlare convenzionale), conato (inteso moto, opposto al-
I'atarassia divina: esso è «proprio della libertà della mente» ed è gene-
rato dalle necessità umane), topica (s 'esprime quale fatto sensibile le-
gato alla fantasia e alla memoria).
Quanto s'impone, nel triadico sistema vichiano, è infine un'idea fon-
damentalmente estetica della lingua.

3. Polemiche linguistiche

Per una lingua non estetica ma funzionale è il filologo e storico


modenese Ludovico Antonio Muratori. Per ragioni di utilità, egli è
favorevole al travaso della temminologia francese nell'italiano ma an-
che convinto che la lingua italiana non sia «inferiore alla francese
anzi può facilmente provarsi superiore». La sua attenzione è volta alle
attinenze fra lingua e società, fra lingua istituita e sviluppo lessicale.
Inoltre egli pensa a un uso temminologico esatto e al recupero di una
tradizione toscana aperta alla modemità e al principio della «chiarez-
za» cartesiana.
Affiancato alle opinioni di Muratori è Lorenzo Magalotti, scien-
ziato e letterato romano, giudicato, per la sua apertura ai francesismi,
un «corruttore» della lingua italiana. Invece, I'intento di Magalotti è
quello di teorizzare una lingua illuministica, comunicativa più che
espressiva, geometricamente delineata sulla corrispondenza fra idee,
parole e cose.

Nel 1717 esce l'anticruschista Vocabolario cateriniano di Girola-


mo Gigli e, dal 1729 al 1738, I'edizione completa in sei volumi del
Vocabolario degli Accademici della Crusca.
Singolare è l'onomastica che i Cruscanti si sono scelti già dalla
fine del '500. Il rettore dell'Accademia è detto Arciconsole, l'acca-
demico più anziano Castaldo, il più giovane Massaio. I soprannomi
degli accademici vengono dedotti da quanto conceme, con la crusca,
il grano e il pane. Ci sono il cruschista Gramolato, il Macerato e il
Sollo, I 'lntriso, I'lnsaccato e l 'lnferigno, il Trito, I'lnfarinato e l
'Ari-
do. Il contenitore dei libri in lettura è chiamato tramoggia, gli scaffali
sono detti frulloni, le raccolte di giudizi sulle opere esaminate si di-
conofiore, stiacciato, farina. Le sedie della sala di riunione hanno
fomna di cesta per il pane, con spalliere fatte a pala di fomo. La cat-
tedra prende il nome di bugnola, I'uma per le votazioni tafferia; e
sono chiamati roste i ventagli usati dagli accademici durante le sedu-
te estive.
Sembrerebbe, quella cruschista, quasi una confratemita di buon-
temponi, che però diviene arcigna quando si tratta di cernere il «più
bel fiore» della lingua italiana.

Al Vocabolario segue un compendio dello stesso nel 1739, pronta-


mente doppiato dalla commedia satirica di Francesco Arizzi 11 To-
scanismo e la Crusca o sia 11 Cruscante impazzito (1739) e dalla cri-
tica La Crusca in esame (1740) di Carlo Antonio Donadoni. Fino,
piùtardi,allapolemica RinunziaalVocabolariodellaCrusca( 1764)
del milanese Alessandro Verri, tra i fondatori della celebre rivista 11
Caffè.
Il documento è interessante per il suo illuminismo integMIe, con-

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trario a una lingua per ceti privilegiati e a un fommalismo troppo stac-
cato dai moti della cultura e della società. La critica di Verri investe,
oltre al cruschismo, tutta la storia della lingua italiana, irrazionalmente
conservatrice e chiusa a quelle influenze culturali, quindi linguisti-
che, che la ragione non può ignorare. «Nessuna legge - affemma Verri
- ci obbliga a venerare gli oracoli della Crusca o parlare soltanto con
quelle parole che si stimò bene di racchiudervi.» Perciò, «se analiz-
zando le parole Francesi, Tedesche, Inglesi, Turche, Greche, Arabe,
Sclavone, noi potremmo rendere meglio le nostre idee, non ci aster-
remo di farlo». Anche perché «se il Mondo fosse sempre stato rego-
lato dai Grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl'ingegni, e
le scienze che non avremmo tuttora né case né morbide coltri, né
carrozze, né quant'altri beni mai ci procacciò i'industria, e le medita-
zioni degli uomini». Così, «protestiamo che useremo ne' fogli nostri
di quella lingua che s'intende degli uomini colti da Reggio di Cala-
bria alle Alpi: tali sono i confini che vi fissiamo, con ampia facoltà di
volar talora al di là del mare, e dai monti a prendere il buono in ogni
dove».
Postulando che «le parole servono alle idee, ma non le idee alle pa-
role», Verri tralascia ogni estetica della parola («la prima, la vera bel-
lezza d'un temmine è la convenienza») e ne affemma la relatività («un
vocabolo unico e proprio è sempre bello finché non se ne trova un al-
tro più acconcio»).
A Verri fa da contrappunto Giuseppe Baretti con la sua Frusta let-
teraria, rivista veneziana tra le più importanti del '700. Ma, pur cri-
ticando gli scrittori del Caffè accusati di favorire un gratuito imbar-
barimento della lingua, non rispammia gli ambienti della Crusca, visti
come centri di potere e di corrotto immobilismo. Vicino alla corrente
sensista dell'llluminismo, Baretti enuncia un ideale di lingua chiara,
toscana ma non necessariamente fiorentineggiante, non distaccata
dal parlato e rivolta a una ricerca di corrispondenze fra scritturae
volgare.
Una precisazione più convincente in tal senso si ha col veneto Mel-
chiorre Cesarotti (cfr. Saggio sulla lingua italiana, 1785; poi Saggio
sullafilosofia delle lingue, 1800). Sostenitore delle traduzioni dalle
lingue straniere, Cesarotti è per una conoscenza di tutti gli idiomi pos-
sibili. Anche se imperfetti, essi hanno pari dignità e, confrontandosi,
possono produrre cambiamenti e miglioramenti reciproci. La lingua
non può essere imposta da un «tribunal dei grammatici» o da qualsi-
voglia «privata o pubblica autorità» perché essa nasce dalla libertà e
dal consenso della maggioranza dei parlanti. Questi non si basano su
precetti, bensì su tre princìpi: I'uso parlato; I'esempio, proveniente
dagli scrittori, che comunque «non fanno legge»; la ragione, che per
Cesarotti rimane quella illuministica, la quale può «ben giudicare del-
I'uso e dell'esempio».
Su posizioni nazionalistiche, ma sintomatiche dell'idea indipen-
dentista e risorgimentale propagata nella classe dirigente piemontese
che assurnerà il governo dell'Italia dopo l'Unità, è Gianfrancesco Ga-
leani-Napione (cfr. Dell'uso e dei pregi della lingua italiana, 1791-
'92). A differenza di Carlo e Gaspare Gozzi, isolati nell'Accademia
veneziana dei Granelleschi in difesa del purismo e nemici della «gal-
lomania», Galeani-Napione è per un'integrità «politica» della lin-
gua: da salvaguardare sopranutto difendendo il territorio italiano
dalle pressioni straniere. La sua ideologia di lingua «patria» va allora
vista nell'ambito del nascente sentimento di liberazione serpeggian-
te in Italia contro l'oppressore.

4. Da Goldoni a Parini e Alfieri

Estranea alla politica ma certo critica verso la decadente classe pa-


trizia è la lingua teatrale in veneziano, lombardo, italiano e francese

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di Carlo Goldoni. Attento alle possibilità espressivo-comunicativo-
spettacolari del dialetto, diversamente da altri autori che adattano il
dialetto alla lingua, Goldoni opera al contrario, adeguando l'italiano
alle esigenze del parlato comune. In ciò fedele al suo principio che il
teatro sia «una imitazione delle persone che parlano, più di quelle che
scnvono».
Il procedimento goldoniano, opposto, per esempio, a quello del poeta
Meli che italianizza il dialetto siciliano, non differisce molto da quel-
lo che sarà poi seguìto da Verga nella sua narrativa in italiano parlato,
e perciò con struttura dialettale.
Nel 1754 iniziano all'università di Napoli le prime lezioni di eco-
nomia politica tenute in italiano da Antonio Genovesi. Nel 1759 Ono-
frio Branca pubblica a Milano un Dialogo della lingua toscana, cui
seguono Dei delitti e delle pene ( 1764) di Cesare Beccaria, innovato-
re della lingua giuridica; il glossario di anonimo Kaccolta di voci ro-
mane e marchiane ( 1768); una Grammatica ragionata ( 1770) di Fran-
cesco Soave; una Storia della letteratura italiana (1772-'82) di Ge-
rolamo Tiraboschi; i dialoghi Della lingua toscana ( 1777) di Gerola-
mo Rosasco; il trattato Del dialetto napoletano ( 1779) di Ferdinando
Galiani.

Nel 1783, il granduca Pietro Leopoldo ordina la soppressione del-


I'Accademia della Crusca, che viene fusa con l'Accademia Fioren-
tina.
Un suggello alla vicenda linguistica settecentesca è posto dall'o-
pera di Giuseppe Parini, che chiude idealmente il secolo, e da Vitto-
rio Alfieri, annunciante la sensibilità romantica ottocentesca. Parini,
che dichiara la lingua italiana «della natura di quelle che chiamansi
morte», scrive: non gisti non andasti, teme timori, piato litigio, vegli
vecchi, speglio specchio, zendado velo, mugon muggiscono, isti an-
dasti, alt~ice produttrice, itene andate,paro coppia, patulo ampio, usciò
uscì, scutica frusta...
Alfieri, che nel 1766 decide di dedicarsi «a parlare, udire, pensare
e sognare in toscano», è il più inventivo autore di neologismi del suo
tempo. Sono rimasti noti: disinventore odiosamata immilanarsi di-
svallarsi disaccentati genuflessioncelle sesquiplebe repubblichino
misogallo vocaboliera spiemontizzarsi disferocire giovesco berli-
nale cardinalume tragediabile, ecc.; e costrutti come uomo visi-
tante riverenziante piaggiante in Roma o religion di ragion sreligio-
nata...

Il secolo della prosa

1. La lingua del Romanticismo

L'Illuminismo che ha preparato la Rivoluzione francese (1789) è


anche l'anima culturale della rivolta che porterà alla proclamazione
del Regno d'Italia (1861). L'epoca che precede il Risorgimento è tra
le più esaltanti della storia italiana, segnata da grandi fermenti politi-
ci e culturali: in particolare, dal sentimento di un'unità linguistica non
separabile da quello dell'unità politica per uno Stato nazionale e in-
dipendente.
L'800 conserva forme quali tenghiamo teniamo, sciorre scioglie-
re, appo presso, contra contro,fuora fuori, vidimo vedemmo, ecc.; la
grafia publico diriggere aqqua catolico millione, franco bollo... Si
stabilizzano federazione comunista socialista reduce rivoluzionario
civismo costituente emigrato cravatta locomotiva economizzare mo-
no~olizzare traslocare postale mozione inesatto, ecc.
E insieme all'idea risorgimentale che va considerato il Romantici-
smo italiano, assai diverso da quello tedesco sorto alla fine del XVIII

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secolo. In Germania romantisch, dal sostantivo Romantik, si co-
niuga con la fase storica romanza, cioè medioevale. In Inghilterra,
nel xvIIsecolo, romantic (da romance) era sinonimo di stravagan-
te, fantasioso, pittoresco: divenendo poi corrispettivo di medioevale o
gotico, sempre in contrapposizione a classico. In Francia, nel seco-
lo XVIII, romantique equivale a malinconico, appassionato, senti-
mentale.
Dal 1797 al 1805 esce il Dizionario universale critico, enciclope-
dico di Francesco Alberti e, nel 1808, la difesa puristica Dissertazio-
ne sopra lo stato presente della lingua italiana di Cesari. Nel 1811,
Napoleone ripristina l'Accademia della Crusca. Nel 1816, circola una
bizzarra Verbisesquipedaliomania di Tommaso Grossi. Degli anni 1817-
'24 è la Proposta di alcune aggiunte e correzioni al Vocabolario del-
la Crusca di Monti e del 1825, a Napoli, I'inizio della Scuola puristi-
ca di Basilio Puoti. Degli anni 1830-'32 è il monumentale Dizionario
dei sinonimi di Nicolò Tommaseo, cui seguono il Vocabolario dome-
stico napoletano e toscano, ostile ai dialettismi, di Puoti; I'Analisi cri-
tica dei verbi italiani ( 1843) di Vincenzo Nannucci; sette fascicoli del-
la quinta edizione del Vocabolario della Crusca (1843-'52), I'inno
Fratelli d'ltalia (1847) di Goffredo Mameli...

L'eterna «questione della lingua» - con protagonisti attardati come


Vincenzo Monti, fautore d'un italiano dotto escludente il parlato, e
Antonio Cesari, purista nostalgico del '300 quando tutti «parlavano e
scrivevano bene» - sembra trovare una risoluzione con Alessandro
Manzoni. Risoluzione linguistica (Manzoni trasforma l'italiano da
lingua di tradizione in lingua viva), non meno che storica e politica se
si considera che la proposta unificatrice dello scrittore è parallela al
processo sociale verso lo Stato unitario. Uno Stato dove, al supera-
mento delle differenze fra lingua scritta e lingua parlata, siano sottesi
nuovi rapporti fra civiltà e popolo-nazione. Questo tema ha a che ve-
dere con la cultura romantica europea che, nell'800, consolida il
principio del legame fra lingua e Stato nazionale.
Al centro della sua opera maggiore, I promessi sposi (edizione de-
finitiva 1840-'42: che presenta diverse centinaia di variazioni, in les-
sico fiorentino, delle stesure del 1823 e del 1 827), deliberatamente de-
stinata a un vasto pubblico, Manzoni elegge a protagonista il ceto po-
polare. Un ceto che, privo dell'unità linguistica, I'autore fa parlare
nell'unico dialetto riconosciuto come letterariamente nazionale: il
fiorentino.
Per Manzoni, la lingua italiana «è in Firenze, come la lingua latina
era in Roma, come la francese è in Parigi». Su tale ipotesi, egli deter-
mina la sua ricerca d'una lingua per gli italiani: «Cercando la lingua
italiana - scrive - io mi propongo di cercar altro che il mezzo di in-
tendersi italiani con italiani». Nel fiorentino, parlato allo stesso modo
dal popolo, dalla borghesia e dagli stessi letterati, Manzoni ravvisa
con l'identità o equivalenza funzionale fra dialetto e lingua, un mo-
dello adottabile da tutti gli Italiani.

C'è, alla base dell'idea dello scrittore, che illuministicamente non


crede all'autonomia della parola e tanto meno a una innata arbitrarie-
tà del segno linguistico, la convinzione che le parole siano specchio
della realtà e veicoli di contenuti uguali per tutti. Supponendo, inol-
tre, una sorta di sovrapponibilità fra scrittura e parlato, Manzoni cri-
tica il ricorso ai sinonimi, alle connotazioni dialettali, alla pluriver-
balità e alle variabili lessicali.
Le sue proposte hanno successo, tanto che, nel 1868, il ministro
della Pubblica istruzione Broglio nomina una commissione, presiedu-
ta dallo stesso Manzoni, che sceglierà come lingua nazionale il fio-
rentino. Il primo atto della commissione è la stampa, nel 1870, del Nòvo
vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di Firenze. L'accen-

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to sulla parola nòvo, eliminando il dittongo uò, è già un segnale del-
l'intento di forrnalizzazione anche fonetica della lingua. Ma questa
rimarrà solo nell'uso fiorentino, al pari della pronuncia aspirata di h p t
e di c e g tra vocali.

Non è tanto sull'idea di unità linguistica e sull'uso storico, ma su


quello norrnativo del fiorentino che il glottologo lombardo Graziadio
Isaia Ascoli (cfr. Lettere glottologiche, 1887) innesta la sua polemica
contro l'ideale di un'egemonia della lingua di Firenze. Ascoli ravvi-
sa nell'ipotesi fiorentinista un rinnovato purismo imitativo e, se am-
mette l'importanza di Firenze per una prima parte della storia lingui-
stica italiana, ne contesta il primato nella contemporaneità. Firenze
non è più, da tempo, il centro culturale della nazione, e non è certo da
paragonare - come fa Manzoni - a Parigi che è catalizzatrice dell'e-
conomia, della politica e di tutta la cultura francese. Altre città italia-
ne sono importanti almeno quanto Firenze e certo non più di Roma,
capitale del Regno ( 1870). Né è sostenibile la tesi che il dialetto fio-
rentino ottocentesco sia ancora quello dei grandi scrittori del '300.
Del resto, già dal secolo XVI l'italiano era lingua stabile e sovraregio-
nale, con una struttura lessicale definita. Non è allora proponibile in
modi tassativi, dopo secoli, la sostituzione del molteplice patrimonio
linguistico, che coinvolge storia e cultura, con un solo dialetto, sia
pure illustre. Una tale pratica contrasterebbe, inoltre, con le esigenze
dei lessici delle scienze e con la stessa scienza linguistica, per la qua-
le ogni lingua di cultura è degna di studio autonomo.
Di Manzoni viene infine criticato un particolarismo che, se può
dare risultati letterari notevoli com'è avvenuto coi Promessi sposi,
può creare la moda nefasta degli imitatori. Allora è con un atteggia-
mento liberista, aperto ai parlanti di tutta la nazione, protagonisti e
non eterodiretti, che può nascere una vera unità della lingua. Si tratta
di un'unità nella molteplicità, utile a evitare il decadimento di un idio-
ma verso formule stereotipate che impoveriscono e banalizzano il
linguaggio. Risalta, qui, come il populismo anche cattolico di Man-
zoni sia cosa diversa dal progressismo illuministico di Ascoli.
Resta da osservare come, se è vero che l'italiano include molte voci
non fiorentine in grado d'arricchire la lingua comune, sia anche vero
che la lingua italiana abbia una grammatica e una fonetica fioren-
tine.
Mediatore tra le posizioni di Manzoni e Ascoli è il filologo abruzzese
Francesco D'Ovidio che, pur distinguendo le diversità tra il fiorentino
del '300 e l'italiano dell'800, ritiene che l'uso della lingua debba essere
libero senza per questo dovere rinunciare al prototipo fiorentino.

2. Manzoniani e antimanzoniani

Rilievo nel dibattito sulla questione linguistica hanno, nel corso


dell'800, anche le posizioni di Giosue Carducci e Luigi Settembrini,
antimanzoniani; di Edmondo De Amicis, dell'antiromantico Carlo Catta-
neo, oltre che, all'inizio del secolo, di Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi.
L'antimanzonismo carducciano è rivolto a quel movimento epigo-
nale liquidato come «manzonismo degli stenterelli» ed è altresì vin-
colato al culto d'un classicismo aristocratico che nega l'esigenza del-
I'istruzione per tutti.
Convinto, al pari di Manzoni, che lo studio della lingua sia la «pri-
ma manifestazione del sentimento nazionale», Settembrini diversifi-
ca le sue posizioni quando, anticipando le idee di Ascoli, addita l'im-
portanza d'una lingua civile parlata da tutti.
Manzoniano è De Amicis, autore d'una narrazione come Cuore
(1886) di cui, se non il facile contenuto, è valorizzabile la precisione
di scrittura conferrnata anche nel saggio L'idioma gentile (1906).
Vicina a quella di De Amicis è la lingua «disaggettivata» del fio-

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rentino Carlo Collodi, autore di Pinocchio ( 1880), libro-contenitore
di enigmi e allegorie, bestiario morale attraversato da un lungo naso
di legno indicante le «menzogne» delle parole.
Cattaneo, politico e storico, autore del Principio istorico delle lin-
gue europee ( 1841), capo della rivolta delle Cinque giornate di Milano
( 1848), elabora una tesi prettamen~e storicistica della lingua. Ponen-
do l'accento sull'influenza delle parlate prelatine nei dialetti italiani
egli precisa la teoria del sostrato, cioè delle influenze e connessioni
fra antichi e nuovi idiomi, basilare per gli studi linguistici e dialetto-
logici.
Per Foscolo, il sistema verbale è un fatto sociale e politico. Quello
fiorentino, in particolare, nasce da una miracolosa arrnonia che trae
la sua linfa da un'epoca di grande libertà intellettuale, perciò capace
di foggiare una lingua libera. Tale lingua- scrive l'autore in un arti-
colo pubblicato durante l'esilio inglese ( 1816-'27), Origin and vicis-
situdes of the italian language - fu poi «ridotta entro le leggi che ve-
nivano discusse e stabilite da cardinali grammatici, da università di
pedanti e da principi che presiedevano ad accademie stipendiate -
stipendiate a compilare un vocabolario che avesse da quindi in poi la
forza e l'autorità di un codice di leggi».
Leopardi, dopo una qualche concessione al purismo, si sofferma sul
ruolo della cultura e della lingua italiane dal '300 al '500, quando esse
presiedevano a «tutte quasi le discipline che si conobbero in quei tem-
pi». Conscio, poi, dei pericoli di anacronismo e provincialismo d'o-
gni precettistica, sostiene l'esigenza d'una lingua che, senza troppo in-
dulgere all'esotismo, sia comunque aperta e partecipe al progresso
culturale, segnalato anche da parole «che tutto il mondo intende, tut-
to il mondo adopera in una stessa e precisa significazione»: genio sen-
timentale dispotismo analisi analizzare demagogo fanatismo origi-
nalità...
Per Leopardi, che ha in Vico un intelletto vicino e fraterno, «la sto-
ria delle lingue è la storia della mente umana» e «una lingua non si
forma né stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura». Sulla
questione se Firenze e la Toscana debbano, per antichi meriti lettera-
ri, considerarsi ancora centro della lingua italiana, nota che «la lin-
gua presente essendo moderna dev'essere determinata non dalla let-
teratura antica, cioè da quella che la determinò, ma da una che attual-
mente la determini, cioè da una letteratura moderna». Perché, crede-
re l'antica lingua l'unica possibile «è lo stesso che dire che gl'italiani
debbano scrivere in lingua antica e morta, (giacché la letteratura to-
scana è morta)».

A un filone antifiorentinesco e perciò, salvo qualche eccezione,


antimanzoniano sono riportabili, con le dinamiche dialettali del mi-
lanese Carlo Porta e del romano Giuseppe Gioacchino Belli, il movi-
mento anticonformista e irregolare di fine secolo della Scapigliatura
milanese, piemontese e genovese, cui è assimilabile il napoletano Vit-
torio Imbriani.
In Porta, il dialetto letterario nasce dalla convinzione romantica e
anticlassicista che la poesia non può avere codici prefissati. La sua op-
zione dialettale è, oltre che estetica, politica; e cerca interlocutori tra
le classi popolari ignorate dalla letteratura ufficiale. Peraltro, il ver-
nacolo da lui adoperato s'avvale di presupposti colti modulati dalla
satira e dall'ironia popolaresca. Si osservi l'interpretazione vemaco-
lare del celebre «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:/ quel giomo più
non vi leggemmo avante»: Ah liber porch,fioeul d'ona baltrocca!/
Tira giò galiott che te see bravo:/ per tutt quell dì gh'emm miss el
segn, e s'ciavo!
Allo stesso modo Belli, il cui sonetto dialettale spiega bene l'affi-
nità fonologica del dialetto romanesco col fiorentino. E un'affinità
che non viene da molto lontano, pensando che, nel '300, il romane-

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sco era più simile ai dialetti meridionali. Il suo processo di toscaniz-
zazione avverrà a partire dall'epoca dei Medici, vicini alla corte pon-
tificia. Questa, per ragioni amministrative e per estendere il suo pote-
re in Italia, adottò il fiorentino, presto diffuso negli strati popolari ro-
mani.
La posizione prevalente della Chiesa sulla lingua dello Stato uni-
tario è selettiva, come adombrato nel 1858 da un fascicolo della Ci-
viltà cattolica, rivista gesuita. Non si deve - vi si sostiene - «lavar la
testa all'asino»; e non si può credere di poter portare a scuola, coi
«giovinetti di civil condizione», anche «gli zotici contadinelli, i gar-
zonetti di bottega, i monelli di strada»...
Si hanno in Belli le voci furbesco-vemacolari zàntolo padrino,
tata papà, mene me, daje dargli, inciciature amplessi, ritonno roton-
do, agnede andai, zu' suo, bùcio buco, tonno tondognisuno nessuno,
morze morì, ecchelo eccolo, tratanto frattanto, tomo furbo, gabbiano
sciocco, uccello organo genitale maschile, sorca organo genitale fem-
minile,fregà far l'amore, ricama~a raffinata, callo caldo, cana cru-
dele...

3. La lingua «scapigliata»

Tra i maggiori «scapigliati», che fanno da raccordo tra Romantici-


smo e Decadentismo, particolare rilievo linguistico hanno le opere
del piemontese Giovanni Faldella, del milanese Carlo Dossi e di Im-
briani. I procedimenti dei tre scrittori, che adoperano una lingua me-
scidata, attuano un completo stravolgimento dei dettami manzoniani
e dello stesso romanzo di consumo.
In Faldella, un Folengo ottocentesco, prevalgono parodie della lin-
gua colta eseguite mediante intrusioni dialettali piemontesi integrali
(vergougnous grugn gargagnan vardè, fieul d' Cain, fratel d' Caif-
fas); dialettalismi (baulo stagno, buschette pagliuzze, lurchi golosi);
latinismi (centimane comburente eslege curule libito lucratici nu-
benda omninamente sonito soperna); clausole latine (incredibile dic -
tu, mutatis mutandis, perinde ac cadal~er, sine ictu); goliardismi lati-
neggianti (si passus, passus; si non passus, andabo a spassus, piglia-
bo u~-orem et coglionabo professorem); grecismi (apata misoneismo
eclampsi); tecnicismi e lemmi scientifici (emiplegia monolito anti-
settica eterizzata gangliiflebotomo specola cellulare); aperture alle
neoformazioni (confusionismo misoneismo battifolli masticafavefem-
minismo trasformismo f glicida occhialineggia baronificata scantuf-
fiavano); onomatopee (gnaulati squacquerare, sciò! sciò!, pin pan
pun! plin! poun! tratatrac); dinamizzazioni assonanzate dei costrutti
(bellezze insidiose insidiate, le spericolate e le pericolanti, fiso e
fuso, gioviali e badiali, socialismo dissocievole, foga di una fuga, la-
crime d'amanti non sono diamanti). Con un'infinità quasi collezioni-
stica di neoconiazioni: arroncigliato ascosaglie attrappare buccica-
ta cocchiume cuticagna galloria ismorbarsi mutria niffolo pove-
raglia rinvecchignita inorecchito sbiobbo sgoverno spettoracciata
vagolato tralunata.
L'individualismo linguaiolo di Faldella si ripete con Dossi che me-
scola milanese e toscano popolare, aggiungendo alla ricerca e alla
scelta della parola un culto parossistico dell'ortografia. Si osservino,
a tale proposito, pur all'intemo di figure e costruzioni di alta lettera-
rietà, talune accentazioni sempre superflue: sèmplice fantasìa èbbero
sècolo uòmini scrìvere primìssime quà trè suòi òttima, ecc. ecc. L'a-
nafora, l'enumerazione sinonimica, la ripetizione, le figure etimolo-
giche govemano la scrittura di Dossi, un autore che fa del suo lavorìo
linguistico lo specchio della crisi permanente d'ogni predetemminato
o prevedibile organismo romanzesco.
Un rilievo particolare ha la ricerca verbale, iperespressiva e anti-
classica, di Imbriani. Combinando piani linguistici colti e vernacola-

42
ri, satira e tragedia, lo scrittore stravolge l'armonica linearità manzo-
niana aprendo la lingua a un'avventura sperimentale che sarà ripresa
nel '900 da autori come Gadda e D'Arrigo.
Ironico avversario del purismo, del monolinguismo e degli schiz-
zinosi spregiatori dei neologismi (i neologismofobi), Imbriani attesta
la sua predilezione per i dialetti: «Fo buon viso a qualunque temmine
dei dialetti che importi una nuova distinzione e più minuta».
Ma la sua - sostiene - è «una nuova lingua e mescidata», scritta in
un «gergo qualunque, né napoletanesco, né toscano». Vl prevalgono
i verbi denominali (iconoclasteggiasse tantaleggiò taumaturgheggi
torquemadeggiare minotaurizzato), le alterazioni (giornalucolo gior-
nalucolaccio ineziucola trionfuccio traduzionacce pinzocheraccia
sonettucolo universitaducola letteratucolo romanzucoli contessuco-
la drammonzolo versucciattoll~, i vemacoli (cazzica! acculattasse spa-
paranzano), gli scioglilingua (Scaricabarilopoli, scaricabarilese, sca-
ricabarilopolitani), le fantasie onomastiche (Pizzadargento Chiap-
panuvole Fumincervello Sgrillo Impagliaccio Scaricabarili Bello-
buono Lesina Gallifuoco Sennaccheribbo Cimadibue Demogorgone),
gli stranierismi (crascià digiunè ponce azafatta); e moltissimi neolo-
gismi da suffissi e prefissi.
C ' è in Imbriani, con la coscienza della separazione fra lingua lettera-
ria e popolare, fra letteratura e vita, il tentativo di fondere i piani, di
connettere lingua nazionale e dialetti. La storia della lingua si identi-
fica allora con la storia della letteratura; che esiste in quanto è, innan-
zitutto, lingua. Una lingua che Imbriani trasfomma profondamente per
non asservirla alla «grammaticolatria», per liberarla nel dialetto visto
come radice degli idiomi del popolo italiano tutto e come «prosa del-
la vita». Quanto alla letteratura tradizionale, questa è per l'autore
troppo «sublime», troppo «su' trampoli», senza «grazia a barzelletta-
re»: non ci si può esprimere bene «in una lingua che non è viva nel-
I 'animo tuo, che devi imparacchiare nella pozzanghera d'un vocabo-
lario».

4. Giusti e Verga

Un accademico della Crusca, alla quale non ha mai dato la sua colla-
borazione attiva, è il toscano Giuseppe Giusti, contrario al «gergo fur-
besco», considerato «lingua bara». Tuttavia la sua lingua è quanto di
più congeniale al vernacolo toscano antilibresco possa immaginarsi.
«Quei pochi versi che ho scritto - ricorda - me li ha insegnati più la
pratica degli uomini che lo studio: i miei veri maestri di rettorica non
gli ho trovati a scuola, ma qua e là per via, per i caffè, per le conver-
sazioni.» I suoi versi, rivoluzionari e libertari, prorompentemente po-
litici e morali, sono attacchi sferzanti contro i vizi della borghesia del
tempo, la boria degli arricchiti e la corruzione del clero e dei politici.
La sua lingua, semplice, chiara e «parlata» pur nel suo laborioso vir-
tuosismo, farà dire a De Sanctis che, con Giusti, paragonato a un «Pa-
rini tradotto dal popolino [...], Firenze riacquistava il suo posto nella
letteratura italiana».
Nel lessico giustiano, i toscanismi e fiorentinismi: barellare tenten-
nare, barlacchio uovo marcio, brodaio ghiottone, birba birbone, cia-
no uomo di basso ceto, corbello sciocco,frugnolo lanterna, grullo sce-
mo, miccino avaro, passeraio gruppo di donne pettegole, quattrinaio
riccone, rigiro imbroglio, ristacciare ridiscutere, sbirbarsela diver-
tirsi, sbrancicato cincischiato, sbrendolo strappo, sbricio povero, sce-
da smorfia...
Il lungo dibattito sulla lingua, che ha prodotto una messe di gram-
matiche e dizionari, compresi quelli domestici, economici, botanici,
militari, delle arti e dei mestieri, ecc., ha il suo suggello nel Nuovo Di-
zionario della lingua italiana (1861) a cura di Tommaseo. Seguono
la promulgazione del Codice civile ( 1865), la Storia della letteratura

43
italiana (1868-'71) di Francesco De Sanctis, il famoso Vocabolario del-
la lingua parlata (1875) di Rigutini e Fanfani, il Codice penale (1889).
Nel 1881,GiovanniVergapubblica IMalavoglia, checoronailsu-
peramento del manzonismo, e, nel 1891, esce Myricae di Giovanni
Pascoli, che conclude e trasvaluta il vecchio schema aulico della lin-
gua poetica.
Grandissima è l'innovazione linguistica di Verga, superiore a quella
di Manzoni se si pensa che, mentre il milanese usa una lingua e una
sintassi già «fatte» e collaudate, lo scrittore siciliano inventa, oltre a
un'epica sconosciuta alla prosa italiana, una sintassi altrettanto ine-
dita. La pagina scritta non è più, per Verga, il luogo di distanziamento
dall'oralità e di fruizione isolata del pensiero. La lingua non è «lin-
gua d'autore» bensì dei personaggi, che l'adattano alla propria sin-
tassi; e la narTazione non ha il punto di vista dell'uno che scrive ma
dei molti che parlano. Perciò il parlato non è strettamente siciliano,
facilmente assimilabile al folclore, all'etnologia e alla sociologia: ma
italiano. Un italiano colorato non tanto da una specificità dialettale (i
sicilianismi sono in Verga rarissimi), ma proprio dalla parola dei par-
lanti: parola oggettiva e sliricizzata, il cui assunto non è retorico ma
puntualmente linguistico, insieme umile, popolare, colto, mai inte-
riorizzato. Con Verga, inizia uno «scrivere parlato» e sulla base del vero
(da cui la corrente del Verismo, di cui lo scrittore è un protagonista),
dove l'opera resta impersonale, autonoma dalla soggettività di chi
scrive. Non si può leggere il Verga delle opere maggiori se non per-
cependone la viva attenzione al discorso orale e l'assoluta libertà da
pregiudizi aulici.

L' Unità d'Italia e i dialetti

1. Italiani e analfabetismo

Nel 1861 I'Italia è libera e con circa 1'80% della popolazione anal-
fabeta. Nella restante percentuale, molti non analfabeti non sanno
leggere o scrivere se non poco più della propria firma. Nel 1870, il
60% degli individui in età scolare rifugge dall'obbligo scolastico. Del
resto, lo stesso insegnamento elementare è impartito prevalentemen-
te in dialetto, specie nelle campagne, da maestri poco alfabetizzati e
provvisti di scarsi rudimenti grammaticali.
L'italiano è così riserva dei pochi che possono proseguire gli studi,
ovvero meno del nove per mille dei soggetti tra gli undici e i diciotto
anni. Insomma, escludendo i toscani, i romani e gli alfabetizzati, si
calcola che al tempo dell'Unità parlino l'italiano non più di 700.000
persone: a fronte di circa venticinque milioni di abitanti. Tale condi-
zione migliora anche per il servizio militare obbligatorio, che causa il
trasferimento dei giovani di leva in tutto il territorio italiano, e per le
migrazioni interne dovute allo sviluppo dell'industria e della buro-
crazia statale.
Nel primo decennio del '900, la percentuale degli analfabeti è ri-
dotta al 38% circa. Nel passaggio tra i due secoli, per i parlanti solo il
dialetto, comunicare tra città e paesi di una stessa regione è ancora
difficile a causa delle varietà vernacolari. Succede che i torinesi non
capiscano gli abitanti dei centri del Gran Paradiso e che i milanesi non
intendano i bergamaschi. Comunicare fra italiani di regioni lontane è
allora, in mancanza d'una lingua nazionale, impossibile.

2. Mappa dei dialetti italiani

L'Italia è la nazione che, tenuto conto della sua superficie, ha più


dialetti. Questa varietà è quella stessa della storia italiana. I sistemi
dialettali italiani sono così riassumibili:franco-provenzale (in Val

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d'Aosta e Piemonte); provenzale (Piemonte occidentale); gallo-ita-
lico: ligure, alto e basso piemontese, lombardo (occidentale, orienta-
le, alpino, novarese, trentino occ., Iadino) ed emiliano (occ., or., man-
tovano, vogherese-pavese, lunigiano, romagnolo, marchigiano sett.);
veneto (lagunare, meridionale, centro-sett., veronese, triestino-giu-
liano, trentino or., ladino-veneto); ladino (atesino, cadorino);friula-
no (centro-or., sudtirolese occ. e or., pustero); sloveno (zegliano di
Val Canale, resiano, Valle della Torre e del Natisone, carsico); tosca-
no (fiorentino, senese, occidentale: pisano-livornese-elbano, pistoie-
se, lucchese; aretino, grossetano-amiatino, apuano); mediano (mar-
chigiano centrale: anconitano, maceratese; umbro: sett., mer. occ. e vi-
terbese, mer. or.; laziale: centro sett., romanesco; cicolano-reatino-aqui-
lano); meridionale intermedio (marchigiano mer.-abruzzese: mer.,
teramano, abruzzese or. adriatico e occ.; molisano; pugliese: dauno-
appenninico, garganico, apulo barese; laziale mer. e campano: lazia-
le mer., napoletano, irpino, cilentano; lucano-calabrese sett.: lucano
nord occ., nord or., centrale, lucano, calabrese, calabrese sett.); meri-
dionale estremo (salentino, calabrese centro mer., siciliano: occ.,
centr., sud or., messinese, eoliano, isola di Pantelleria); lugudorese
(nuorese, lugudorese sett., barbaricino); campidanese; sassarese-gal-
lurese.
«Isole» linguistiche di dialetti allogeni si hanno al confine con la
Jugoslavia (dialetto sloveno); in minoranze serbo-croate del Molise,
greche nella Calabria mer. (Bova, Gallicianò, Amendolea, Condofu-
ri, Roghudi, Roccaforte) e nel Salento (Castrignano, Corigliano, Cali-
mera, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Stematia, Zollino);
albanesi in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria
(Spezzano, Vaccar~zzo) e Sicilia (Piana degli Albanesi).
Idiomi non romanzi si parlano ad Alghero (catalano); in provincia
di Foggia, a Faeto e Celle (franco-provenzale); in provincia di Co-
senza, a Guardia Piemontese (provenzale); in alcune zone dell'Italia
settentrionale (tedesco).
In Sicilia, permangono le colonie gallo-italiche di San Fratello, No-
vara, Sperlinga, Randazzo, Nicosia, Francavilla; e, in Basilicata, quel-
le di Tito, Picerno, Pignola e un settore di Potenza.

A tali minoranze s'aggiungono quelle di più recente acquisizione,


stimabili in oltre mezzo milione di individui residenti sul territorio
italiano: arabi, somali, marocchini, tunisini, slavi...
La salvaguardia delle minoranze è stabilita dall'articolo 6 della Co-
stituzione italiana e una legge approvata dal governo italiano nel 1992
disciplina la tutela degli idiomi di origine straniera.

3. Dal dialetto alla lingua al dialetto

In generale, fra i grandi gruppi dialettali del settentrione d'Italia e


quelli centrali e meridionali non esistono elementi in comune e la li-
nea ideale che li attraversa si separa, per così dire, in due segmenti di-
stinti.
In Friuli, accendere si dice inlpià e in Sicilia addumàri; in Piemon-
te bilancia è ascandàgl e in Sardegna, che per il suo distacco geopo-
litico conserva una base latina, si dice stadea (romano stadera); in
Emilia Romagna, avaro è intiriscè e in Puglia e Calabria pírchiu, in
Piemonte varùn e nel Lazio sèneco; in Lombardia, moglie è dóna e in
Basilicata migghièra; in Trentino, nebbia si dice mòza e in Campania
nèglia; in Lombardia, paura è fuffa, in Sicilia scàntu, in Val d'Aosta
puéra e in Abruzzo pahùre; in Liguria padre è pòe e in Molise attàna;
in Toscana pigro è bighellone, in Lombardiafanigutùn, in Umbria pì-
r ido e in Sardegna assesuiàdu; in Emilia Romagna ragazzo è burdèl,
in Sicilia carùsu, ecc.
Nel 1870, Vittorio Emanuele II, re d'Italia, visita il paese ma non

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ne conosce la lingua: egli sa parlare solo il francese e il dialetto pie-
montese. Per converso, la maggioranza del popolo non comprende la
lingua delle autorità, non sa scrivere né leggere. Perciò non capisce i
testi delle leggi, le sentenze dei tribunali, gli atti amministrativi. Ca-
pita allora che la lingua venga utilizzata da tanti Azzeccagarbugli di
manzoniana memoria per confondere i poveri e gli umili che, per il
fatto stesso di parlare solo il dialetto, sono considerati degli inferiori.
Questi, a loro volta, ricorrono alle parlate gergali per non farsi capire
dalle classi colte.
Nel complesso, non si capisce che sia la lingua sia i dialetti hanno
uguale importanza facendo parte, entrambi, d'una società che non
può prescinderne senza rimuovere o soffocare la propria origine cul-
turale. Lingua è l'italiano e lingua sono i dialetti: il primo serve per la
comunicazione «culturale», i secondi per quella «naturale». Entram-
bi, si fondono nel processo comunicativo che accompagna la storia
del popolo italiano.

Nel 1910, la metà dei lavoratori italiani è formata da contadini che


parlano l'idioma delle loro campagne ma hanno in comune la stessa
cultura agricola. Durante la guerra del 1915-' 18, nelle trincee, il gio-
vane bracciante siciliano impara le parole del giovane contadino pie-
montese e questi del pugliese, e il veneto del lucano, e questi del ligu-
re, e viceversa; e tutti, per intendersi, si sforzano di parlare anche la
comune lingua italiana.
Esempi di un italiano ancora informe si trovano nelle lettere dei
soldati ai farniliari. La loro fatica di scrivere non è diversa da quella
di chi, nel Medioevo, tentava di dare forma scritta a una lingua nuo-
va e non ancora grammaticalizzata: Quele giorno fui il mio desdino
Cafui ferito ale Campe alpeto ala mana sinistra efui fato prigioniero
percio io nonti fece larisposta madonna mia salvati esperiamo idio
una santa pace...; lo vengo ascrive questa mia lettera perfarti Sapere
lottemo stato del mia buona Salute che io e gli mio Compagno stanno
molto bene e acosi io spero anche di voi...
Così invece scrive il giovane ufficiale, tale perché appartenente al
ceto colto: Quanto a me di salute sto bene: riguardo al morale, pensa
un po' tu come possa essere il morale di un povero esiliato lontano da
tutti e da tutto, nulla sapendo mai della patria, dei parenti, degli
amici. . .
In tempi più recenti, maturata una coscienza dell'italiano impli-
cante un'idea di promozione sociale, si assiste a una fuga dai dialetti,
sempre più ghettizzati e subalterni. Tanto che, ben più che nei secoli
passati, il dialetto, sempre meno parlato dalle masse, paradossalmen-
te assume un'impronta in gran parte letteraria.

Lingua italiana del '900

1. Lessico del fascismo

All'inizio del secolo e tra le due guerre, la controversia linguistica


ha tra i suoi orientamenti l'«individualismo» linguistico di Gabriele
D'Annunzio e Benedetto Croce, la lingua «nazional-popolare» teo-
rizzata da Antonio Gramsci, il Futurismo e il lessico del fascismo dal-
la nascita della dittatura (1925) alla fucilazione di Mussolini (1945).
Escono ll Fuoco (1900) di D'Annunzio, I'Estetica come scienza
dell'espressione e linguistica generale (1902) di Croce, che nel 1903
fonda la rivista La Critica, e il Manifesto futurista ( 1909) di Filippo
Tommaso Marinetti: «Bisogna distruggere la sintassi disponendo i
sostantivi a caso, come nascono. Si deve usare il verbo all'infinito
[...]. Si deve abolire l'aggettivo [...,] I'avverbio [...,] anche la punteg-
giatura [...] . Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzio-

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ni si impiegheranno i segni della matematica [...]. Facciamo corag-
giosamente il brutto in letteratura, e uccidiamo dovunque la solenni-
tà [...]. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà!».

Il Futurismo ha influenza sulla pittura, meno sulla letteratura e ben


poco sul parlato. Ma tocca il linguaggio del fascismo, col quale s'identi-
fica nel 1926 e a cui presta lo slogan Marciare non marcire.
Nei primi decenni del secolo, la condizione dell'Italia è delle più
drammatiche: la produzione alimentare è insufficiente, I'industria è
in crisi, la disoccupazione dilaga, la democrazia vacilla.
Nel 1922, anno della marcia su Roma, viene stampato il Vocabola-
rio della lingua italiana di Zingarelli. Il 1923 vede la sospensione
dell'attività dell'Accademia della Crusca e la Riforma scolastica di
Gentile, che ridimensiona il ruolo della grammatica nei programmi sco-
lastici e, contro le stesse opinioni fasciste, afferma il ruolo positivo dei
dialetti. Nello stesso anno, un decreto ordina la tassazione per le scritte
in lingua straniera sulle insegne e le vetrine dei negozi, finché un altro
decreto, nel 1926, ne vieta l'uso. Quanto ai dialetti, il fascismo li
esclude
dalla scuola: almeno per legge, perché, data la manchevole italianizza-
zione del paese, essi continuano a essere utilizzati da maestri e alunni.
Assunto il potere nel 1925, in breve il fascismo scioglie con la vio-
lenza ogni organismo democratico e, in omaggio a un'autarchia
anche neopuristico-classica, impone la sua retorica verbosa. Una
retorica che fa leva sull'impressionabilità delle masse e s'impone nei
comportamenti sociali. Nei rapporti interpersonali, s'abolisce l'uso
del Lei a favore del Voi; poi, riprendendo parole della romanità, le
formazioni squadriste e militari sono chiamate milizie centurie le-
gioni coorti manipoli: comandate da centurioni, seniori e consoli.
Nel 1940, viene proibito con decreti-legge, circolari e disposizioni
ministeriali - pena «I'arresto fino a sei mesi o ammenda fino a lire
5000» - I'uso dei forestierismi. Così si pretende di italianizzare paro-
le come bar in barro, bidet in bidetto, champagne sciampagnia,
cognac arzente, cocktail zozza, alcool àlcole, cabaret taverna, luna
park parco delle meraviglie.
Si impone l'italofonia in Alto Adige, si manipolano i dizionari, si
tracciano sui muri delle case le frasi assertorie e perentorie del duce:
al cui eloquio sono innanzi tutto cari gli epiteti. Chi è l'avversario del
fascismo? Il microcefalo, il microcerebrale, ilfesso; e il riformaiolo
antiguerraiolo schedaiolo tendenzaiolo antipatriota e borghesoide.
Le parole del duce? Sono sempre vibrate e vibranti. Così i discorsi. E
la vibrazione? Formidabile. I gagliardetti? Gloriosi. Il sangue puris-
simo, le frontiere sacre, il popolo nobile, il destino immenso, la devo-
zione assoluta, il dovere religioso, la base granitica, il bastone no-
doso, la vita vissuta, il fascistafervente. Tutto questo, sempre neces-
sariamente e irriducibilmente, inflessibilmente e inesorabilmente; e
deliberatamente altamente fortemente enormemente marzialmente
energicamente fermissimamente. Perché? Non c'è un perché quando
ciò che conta è credere, obbedire, combattere...
Riflettendo sul fatto che, durante il fascismo e fino alla costituzio-
ne della Repubblica ( 1947), per più di quattro quinti della popolazio-
ne italiana il dialetto è la lingua d'uso, si può credere che la funzione
linguistica del regime abbia una presa solo «suggestiva». Una presa
che non stabilisce vere attinenze tra significanti e significati ed è fatta
solo per suscitare un consenso acritico, emotivo e bellicista.

2. D'Annunzio, Croce, Gramsci

Pur ponendosi ad alti livelli estetici, non estranea alla grandilo-


quenza fascista è la lingua di D'Annunzio: evocante, sovradetermi-
nata, preziosistica, individualistica. Spregiatore della lingua usuale,

47
D'Annunzio, che ha già decantato l'interventismo e i massacri della
Grande guerra del '15-'18, si vanta d'usare ben quarantamila parole
contro le appena diciassettemila adoperate da Dante. Il suo lessico,
che pure risente di orpelli e cattivo gusto, è tuttavia, per la sua musi-
calità e per le attitudini sperimentali, retaggio di tanta parte della let-
teratura italiana novecentesca. Lessico che, in nome dell'autonomia,
causa una rottura ancora insanata tra parola e fruizione di questa.
Una fruizione che si riduce al dato ornamentale, a effetti di lontanan-
za dalla realtà, a fughe in un sublime seducente dove la parola vuole
nominare soprattutto se stessa. Non si dà così invenzione e conoscen-
za delle cose ma una loro tornita verbalizzazione: livellata pur nella
sua irrequietezza, traslata in un'intercambiabilità per cui il reale resta
inerte pretesto, occasione perché la parola si manifesti in una cristal-
lizzata autosufficienza. Un'autosufficienza di oggetto che non espri-
me se non se stesso, di simbolo feticista e presto archeologico, di ve-
getale lussureggiante e immobile: gualchiera alido monne scempie
levame dolco corimbi barzoi giaggiuoli asfodeli cànove fondime
strame pirrica sovattolo robbia peoti béveri anadiomene serpillofla-
gioletto labe bacìo mislèa palischermo callipigie callaia pacciame
nembo bùccina lizza alloro falasco fanni mirti agresto prata erbida
nenùfara venusto, ecc. ecc.

Ben diverso è l'atteggiamento di Croce, teorico dell'identità fra


contenuto e forma, che, dichiarando la libertà creativa della parola,
vera fonte della fantasia e della poesia, nega qualunque potere
normativo della lingua. Per il più influente intellettuale italiano
del secolo, «il linguaggio è perfetta creazione. Le sempre nuove
impressioni danno luoga mutamenti continui di suoni e signifi-
cati, e quindi a sempre nuove espressioni. Cercare la lingua modello,
dunque, è cercare la immobilità del moto». L'aristocratico Croce, il cui
individualismo estetico esclude gli aspetti sociali del linguag-
gio, non disdegna così d'opporsi a qualunque programma di lingua
illustre imposto ai parlanti, cui riconosce ogni libertà espressiva e co-
municativa. C'è, almeno in questo, un'anticipazione dei temi gram-
sclani.
La riflessione gramsciana riguarda la lingua vista nel suo svolgi-
mento storico e nelle sue trasformazioni, parallele ai mutamenti della
società. Gramsci muove dalle considerazioni di Ascoli relative alla
tesi monolinguistica di Manzoni e, d'accordo col primo, considera
l'impossibilità d'imporre artificialmente una lingua nazionale non
scaturente dallo scambio «tra le varie parti della nazione». Per Gram-
sci - che nella questiOne della lingua vede un tentativo di lotta politi-
ca dei gruppi dirigenti per organizzare di volta in volta la propria ege-
monia culturale sulle masse -, il linguaggio non si esaurisce in un in-
sieme di segni ma nasce dall'attività individuale dei parlanti: «Il fatto
"linguaggio" è in realtà una molteplicità di fatti più o meno organica-
mente coerenti e coordinati: al limite si può dire che ogni essere par-
lante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di
pensare e di sentire».
La salvaguardia dell'individualità è in Gramsci supportata dall'a-
nalisi dei rapporti di classe e delle implicazioni politiche ed egemo-
niche che attraversano la lingua.
Ma, per Gramsci, la difesa dei parlanti non è necessariamente col-
legata a quella del dialetto. Questo è, infatti, in una società divisa in
classi e in un mondo da cambiare, visto come un ghetto nel quale gli
analfabeti sono costretti a esaurire la loro vita di relazione. Egli è
inoltre dell'avviso che la lingua unica sia «una preoccupazione CO-
smopolitica, non internazionale, di borghesi che viaggiano per affari
o per divertimento». Costoro vogliono soltanto «suscitare artificial-
mente una lingua irrigidita», pensando che questa sia «in sé e per sé
espressione di bellezza più che strumento di comunicazione». Preoc-

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cupazione di chi vede la lingua «posta nel tempo e nello spazio» qua-
si fosse un oggetto puramente estetico da contemplare. Ma non la lin-
gua, in sé, è «bella»: essa può esserlo nei «capolavori poetici, e la bel-
lezza loro consiste nell'esprimere adeguatamente il mondo interiore
dello scrittore». L'evoluzione d'una lingua avviene «solo dal basso
in alto; i libri poco influiscono sui cambiamenti delle parlate: i libri
fanno opera di regolarizzazione, di conservazione delle forme lingui-
stiche».
La lingua sorge allora dai popoli che entrano nella storia immetten-
dovi i loro usi, costumi e bisogni, così invisi ai grammatici che, per la
preservazione dei loro privilegi anche culturali, hanno creduto di po-
ter fissare delle forme chiuse. Per tali ragioni, I'Umanesimo e il Ri-
nascimento furono «essenzialmente reazionari dal punto di vista na-
zionale popolare e progressivi come espressione dello sviluppo cul-
turale dei gruppi intellettuali italiani e europei». Similmente, la que-
stione linguistica del '700 e dell'800 risorgimentale è vista come un
modo di «conservare e anzi di rafforzare un ceto intellettuale unita-
rio», identificato con quello dirigente.

3. Interdialetto e bilinguismo

La fine della guerra porta alla rinascita economica del paese e al


progresso industriale nell'Italia del Nord, realizzato in massima par-
te col lavoro dei milioni di immigrati dalle campagne e dai paesi del
Sud, ora concentrati nei centri industriali.
In breve, le grandi città triplicano la loro popolazione: avviene, pri-
ma, un mescolamento dei dialetti con fenomeni di «interdialetto» e poi
l'abbandono graduale di questo per la lingua nazionale, sia pure pra-
ticata con inflessioni e storpiature regionali e provinciali. I figli nati
dalle unioni fra soggetti di varie regioni non parlano il dialetto dei
loro genitori. Gli individui dei ceti più poveri ed emarginati, rimasti
nella propria terra, sentono, con la propria subalternità sociale, la di-
scriminazione che li coinvolge insieme al loro dialetto. Si produce un
nuovo bilinguismo che, tra italofonia e dialettalità, permette ai par-
lanti di esprimersi in contesti diversi e in una lingua non ancora stan-
dardizzata come sarebbe avvenuto in seguito per l'influenza delle
comunicazioni di massa: giornali, radio, spettacoli, cinema, televisio-
ne (dagli anni '50).
Negli anni '60, dopo l'estensione dell'obbligo alla scuola media
( 1963), gli analfabeti in Italia sono al di sotto del 10. Essi rappresen-
tano una fascia della popolazione esclusivamente .~ialettofona, che
vive con gravi problemi sociali e umani il dramma dell'isolamento. I
parlanti bilingui hanno una pratica insieme attiva e passiva della lin-
gua; i parlanti solo italofoni sono una minima parte e hanno col dia-
letto una consuetudine per lo più passiva.
Se le opposizioni lessicali si riducono, portando a termine il corso
unificatore del lessico, permangono quelle fonologiche: le differenze
traeedolarghe(è,ò)etraeedostrette(é,ó),sezsordeedsezso-
nore. Tali differenze, percepite in Toscana, lo sono assai meno nel-
le altre regioni. Così non c'è, nella lingua italiana, una norma fono-
logica.
Nella grafia permangono le variabilifigliolo e figliuolo, adùlo àdu-
lo, infocato infuocato, zaffìro zàff1ro, gioco giuoco, sarcofaghi sarco-
fagi, strascichi strascici, ha e è piovuto, uténsile utensìle, rocce roc-
cie, effige effigie, spagnolo spagnuolo, chirurghi chirurgi, stomaci sto-
machi, intero intiero, diede dette, parroci parrochi, alchimìa alchì-
mia, problematizzare problematicizzare problemizzare...
Dai dialetti,Smigrano» nell'italiano parole siciliane (zagara pic-
ciotto mafia faraglione), piemontesi (ramazza gianduiotto arran-
giarsi bocciare), lombarde (balera barbone spumone lavello panet-
tone guardina), venete (baita bragozzo), romanesche (abbuffarsi bu-

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rino iella caciara borgata pizzardone pignolo abbacchio spaghetta-
ta fasullo sbafo lagna fattacci), napoletane (vongole mozzarella ca-
morra pizza fesso basso guaglione scugnizzo scocciare rettifilo), sar-
de (orbace nuraghi).

4. Dialetto letterario

Il passaggio dal dialetto alla lingua, oltre a determinare la promo-


zione delle parlate regionali, favorisce il sorgere d'una lingua lettera-
ria a coloritura dialettale oppure integralmente vernacola e letteraria-
mente designata. E una condizione in cui il dialetto assume un presti-
gio di lingua elitaria e iniziatica, venendo paradossalmente a ripro-
durre, quasi, nei confronti della lingua italiana, le discriminazioni prima
operate da questa verso i vernacoli. Passa insomma l'idea che l'ita-
liano, ormai fatto per la prosa comunicativa, non sia più consono alla
poesia, che può conservare uno sbocco solo nel dialetto. Sbocco nel
quale la nuova poesia dialettale non è di necessità poesia popolare.
Così il dialetto, prima «parola della bocca», diviene raffinata «parola
della penna».
E il caso, fin dal primo '900, della poesia in napoletano di Salvato-
re Di Giacomo, funzionario della biblioteca Nazionale di Napoli, au-
tore di testi dove il dialetto è in perfetta simmetria con la lingua, che
attinge non alla tradizione popolare ma a quella letteraria europea del-
1'800 (Verismo e Simbolismo). Di Giacomo è anche l'esempio di un
poeta in dialetto che, a differenza dei dialettali del passato legati ai
vernacoli della tradizione regionale e locale, si propone in stretta ana-
logia con la letterarietà.
Ciò vale anche per il triestino Virgilio Giotti, che dopo avere esor-
dito in lingua passa al dialetto; per il milanese Delio Tessa, il romano
Trilussa, I'aostana Eugenia Martinet e Giacomo Noventa, veneto,
autore di poesie in dialetto veneziano composte oralmente, trascritte
da amici e familiari e tradotte in lingua dallo stesso autore; per Gino
Piva, nato a Milano e poeta in dialetto del basso Veneto; per Biagio
Marin, di Grado, nel cui gradese medioevale è presente l'influsso della
poesia tedesca.
Sempre più allora, il dialetto abbandona la sua tipicità per eleg-
gersi a nuova lingua letteraria. Ciò è accentuato dal piemontese Pinin
Pacòt, che chiama il proprio dialetto «lingua piemontese», dotata a
sua volta di «un dialetto corrispondente, e tanti sottodialetti». Siamo
in pieno elitarismo dialettale, prefigurato da ulteriori gerarchizzazioni
della lingua che prevederebbero perfino un «dialetto del dialetto».
Più prossimi all'idioma popolareggiante sono il campano Raffaele
Viviani, il romagnolo Aldo Spallicci, il calabrese Michele Pane, i si-
ciliani Vann'Antò e Nino Pino, che tentano una riproposizione di motti
del sottoproletariato.
Escono il Dizionario etimologico italiano (1950-'57) di Battisti-
Alessio e, negli anni 1966- '69, la traduzione della Grammatica stori-
ca della lingua italiana e dei suoi dialetti (edizione tedesca 1949-'54)
di Rohlfs. Nel 1964 si ha una ripresa dell 'attività dell'Accademia della
Crusca e, nel 1965, nella liturgia ecclesiastica, la definitiva sostitu-
zione del latino con l'italiano.
L'idea del dialetto come «lingua della poesia» continua nel secon-
do '900 ma interagendo sempre più con l'italiano, tanto che vernaco-
lo e lingua diventano, nel movimento della letterarietà, due forme par-
tecipi della stessa condizione storica.
A un idioma senza tipicità dialettale ma pertinente a quello ampia-
mente letterario appartengono i testi friulani di Pier Paolo Pasolini,
quelli romagnoli di Tonino Guerra e Raffaele Baldini, dei siciliani
Calì, Buttitta, Andrea Genovese e Nino De Vita, del milanese Calza-
vara e del milanese immigrato Loi, del calabrese Maffia, del triestino
Cergoly, del marchigiano Scataglini, dei sardi Delogu e Masala, del

50
campano A. Serrao, dell'abruzzese Civitareale, del veneto Ruffato,
del pugliese Angiuli, ecc.
Casi a parte costituiscono il dialetto lucano di Tursi adoperato da
Albino Pierro e il dialetto della Sicilia orientale di Mario Grasso. In
Pier-
ro c'è un uso rigoroso della grafia vemacolare che conserva la s e la
t del latino: chiangese piangi, sèntese senti, ' nfòllete infittisce, sciòl-
lete crollate.
In Grasso, autore di un Vocabolario siciliano (1989) che coniuga
nel «canzoniere» una serie di vocaboli - da abbagnu lubrificazione a
zzurru ruvido -, c'è l'intento di stabilizzare l'ortografia del suo dia-
letto. Un dialetto ricco di aff1nità e corrispondenze sonore costanti,
non lontano dalle musicalità della Scuola siciliana medioevale e da
Cielo d'Alcamo. Di suo il poeta opera una scelta lessicale «forte»,
degna d'un rapsodo tragico: accupari soffocare, sorti sorte, morti
morte,fami fame, focu fuoco, sangu sangue, accavàlliti àrmati, ac-
cùra attento, l ilenu veleno, 'mpazzutu impazzito, astìma maledizio-
ne, auru agro, trìulu singhiozzo, ddànnificu nocivo, picciu malaugu-
rio, salafizzio scorpione, zotta frusta... Anche nella Lingua delle ma-
d7 i ( 1994) c'è il tentativo di Grasso, che nel 1990 ha anche tradotto in
siciliano il Pinocchio di Collodi, di rivisitare, attraverso i proverbi,
I'antica lingua critica del popolo siciliano: Si vasunu mani ca si miri-
tirassiru tagghiati «Si baciano mani che meriterebbero essere taglia-
te»; 'U sangu si mastica ma non s'agghiutti «Il sangue viene masti-
cato ma non inghiottito»; Santa libbirtà e mangiàri ariddi «Santa li-
bertà e cibarsi di grilli».

Il fatto più nuovo della lingua letteraria dal secondo '800 al '900 è
l'affermazione dei dialetti divenuti essi stessi lingua. Si ripetono al-
lora nel nostro secolo le stesse condizioni che, alla fine del '500, pre-
paravano la nascita della nuova lingua italiana scritta?
A questo fa eccezione Italo Svevo, autore d'una prosa spoglia e di-
messa, senza coloriture vernacolari. Una sorta di dialetto «mimeti-
co» è invece ravvisabile in tante opere di scrittori quali, per citarne
alcuni, Deledda, Silone, Alvaro, Pavese, Bemari, Pratolini,1ttorini,
Brancati, Morante, Moravia, Rea, La Capria, V1ani, Bianciardi, Zoi. Si
hanno intrusioni vernacolari in Pirandello (borbogliare granfie smo-
bicare quaglio grufare); nel senese Tozzi (desinare scricchiare esci-
re strenfiando impippiato leticare racchettò cirindello lezzone stro-
sciando gorate barellando); nel calabrese Strati (manicole racina
bùmbula tambuto bicchierijare imprezisata stutare gnagnero paffia
zirripiare carnizzaro 'ndrina indrangheta mustazzo stratioi cotraro
catrica cuccuvaia vaiazza); nel siciliano Denti di Pirajno (allurdàri
annacàri armàli ascùta babbalùci babbiàri cràsta fàuzufitùsu fùn-
cia jimmurutu mussu parrìnu sticchiu vastàsu vorria); nel toscano
Bilenchi (strusciandole rawolte); nel veneto di Malo, Meneghello
(basavéjo incatéjo branchinèla potàcio ba~òcio spuàcio pastròcio
simiòto sgnicaménto marugolotto sgaritolo lumèga càmare spissa
stravissio bòcia); in Carmine Abate, di Carfizzi, centro di lingua al-
banese in Calabria, il quale inserisce nei suoi testi italiani una serie di
termini in arberesh albanese (pra poi, duako bisaccia, shkreti occhi,
,ciòt stupido, bushtra feroce)...

5. Dialetto e italiano

Dopo gli anni '50, avviene una progressiva spezzettazione lingui-


stica: da una parte c'è l'antiparlato (che è anche l'antiscrittura e l'an-
tiletteratura), ossia l'istituto normativo, municipalistico e convenzio-
nale dei codici burocratici, commerciali e scientifici che cerca una
pseudounificazione tutta sovrastrutturale e angustamente dimensio-
nata; all'opposto, permane una «superlingua» puristica, fatua e deco-

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rativa, chiusa nelle istituzioni culturali e incongruamente libresca, in
cui la parola si reifica senza riuscire ad assumere identità. Nel mezzo,
la terra di tutti e di nessuno dei dialetti divenuti lingua.
Il dialetto si fa lingua di cultura in un frangente storico che vede la
fine della civiltà rurale, I'afferrnazione dell'industrialismo neocapi-
talista (che ha i suoi maggiori riferimenti linguistico-letterari e con-
testativi in Volponi e Balestrini) e, dopo gli anni '60, dell'inurbazio-
ne e dell'esplosione consumistica.
E in tale corso che si collocano i libri in romanesco sottoproletario
di Pasolini Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) e le tesi
della Lettera a una professoressa (1967) del priore di Barbiana Lo-
renzo Milani.
Milani propugna una rinnovata questione linguistica denuncian-
do il carattere selettivo della scuola che s'avvale della lingua colta
per allontanare i poveri e impedire la realizzazione d'una vera demo-
crazia. «Le lingue - osserva Milani - le creano i poveri e poi seguita-
no a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano» con la gramma-
tica. Occorre allora, poiché «è la lingua che fa uguali» gli individui,
un insegnamento non strumentale ma reale, in cui predomini non la
pedagogia grammaticale ma l'educazione a «esprimersi e a intendere
l'espressione altrui». Per questo «non basta certo l'italiano, che nel
mondo non conta nulla. Gli uomini hanno bisogno d'amarsi anche al
di là delle frontiere. Dunque bisogna studiare molte lingue e tutte
vive».
Per Pasolini, I'italiano è «una lingua non, o imperfettamente, na-
zionale, che copre un corpo storico-sociale frammentario». Tale co-
pertura linguistica serve a celare «una realtà frammentaria e quindi
non nazionale». Lingua letteraria e lingua pratica sono, a loro volta,
non espressione del reale autentico ma applicazioni su questo. Se espri-
mono una realtà, questa è solo storica, coincidente con quella della
borghesia italiana che dall'unità d'Italia «non ha saputo identificarsi
con l'intera società italiana» ma ha dato nome solo ai propri privile-
gi, abitudini e mistificazioni.
Pasolini, che scrive nel romanesco dei «borgatari» riflettendo in
questi le devastazioni della capitale burocratica, sceglie una lingua
popolare e schietta, alternativa a quella della borghesia. E una lingua
estranea alle norme d'una civiltà tecnologica aridamente monolin-
guistica che, mentre distrugge la natura, impoverisce anche le espres-
sioni vitali del popolo.
A Pasolini - che ritiene la lingua nazionale sloganistica e tecniciz-
zata, fatta solo per comunicare dati, incanalare i bisogni e omologare
gli individui in un chiuso circuito consumistico -, Vittorini fa consi-
derare l'esistenza del nuovo linguaggio operaio sorto dalla civiltà in-
dustriale. Linguaggio chiaro, attinente alle cose, acconcio a nuovi
orientamenti politici e culturali e, in definitiva, a «giudicare il mon-
do».
Il «quadro linguistico mondiale» è, appunto, ciò cui fa riferimento
anche uno scrittore come Italo Calvino che, nella sua carriera, ha spe-
rimentato diversi stili, dal neorealistico al metafisico. Posto che non
si dà una «lingua che non possa dirsi perfettamente funzionale rispet-
to alle esigenze della civiltà moderna», Calvino rilancia il problema
del rapporto fra scrittori e lettori, fra i linguaggi della scienza e della
politica con la vita sociale. Importante è altresì la traduzione di libri
stranieri, giudicato che la «grande duttilità dell'italiano [...] perrnette
di tradurre dalle altre lingue un pochino meglio di quanto non sia pos-
sibile in nessun'altra lingua».
Alieno alla discussione politica sul linguaggio rimane Carlo Emi-
lio Gadda, che sulla lingua ha però idee molto precise: «E supersti-
zione romantica [...] il darci a credere che la lingua nasca o debba na-
scere soltanto dal popolo. Nasce dal popolo come nasce anche dai ca-
valli, che col loro verso ci hanno suggerito il nitrire, e i cani guaiolare

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e uggiolare». Egli non si pone quesiti puristici né comunicativi, ma
esclusivamente espressivi, per i quali trova lecita la massima libertà
plurilinguistica: «I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per
cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni [...] e
tutti i sinonimi [...]. Non esistono il troppo né il vano, per una lingua».
In Gadda s'annulla perciò ogni precettistica della lingua. In un ro-
manzo come Quer pasticciaccio brutto de l~a Merulana ( 1957), come
in tutti i suoi libri, egli mescola ogni risorsa verbale, ogni lingua. Ger-
galità mirabolanti, cultismi, tecnicismi, latinismi, stranierismi, ono-
matopee espressionistiche e lo stesso italiano aulico a partire dalle
origini si mescolano in un fiammeggiante caleidoscopio di dialet-
ti: il milanese nell'Adalgisa (1944), il milanese fiorentineggiante, il
napoletano e lo spagnolo nella Cognizione del dolore (1963), il ro-
manesco-molisano, il veneto e il napoletano nel Pasticciaccio, il ver-
nacolo fiorentino in Eros e Priapo ( 1967). Ciò che farà notare a un fi-
lologo come Contini che la nostra è «I'unica grande letteratura nazio-
nale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibil-
mente corpo col restante patrimonio».
Lingua di un'epica atemporale, senza storia né geografia fisse, quel-
la gaddiana: nomadica, irrispettosa, aggressiva, ipersensibilizzata,
deformante, polemica verso la società costituita; e sempre arbitraria,
immaginaria, a più registri, angosciata e senza certezze né verità. Di-
versa da quella dei Fenoglio, Testori o Mastronardi, il cui dialettalismo
è stabilizzato, come in Porta e Belli, su un'identificabile realtà sociale.
Fuori degli aperti contesti rivendicati da Gadda, la lingua italiana è
«prosa d'arte» (Cecchi, Barilli, Antonio Baldini), Crepuscolarismo
(Gozzano, Govoni, Moretti, Corazzini), Simbolismo e Metafisica
(Campana, Bontempelli, Savinio, Paola Masino, Landolfi), Ermeti-
smo (Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi), Neoavanguardia (Pizzu-
to, Manganelli, Sanguineti, Arbasino, Giuliani, Edoardo Cacciatore)...

6. Postgaddiani

Sulla scia di quella che Contini ha chiamato l'«etema funzione Gad-


da», perdurano la satira gergale di Silvano Ambrogi, la combinatoria
ludica di Gianni Toti, la ricerca di fusione fra dialetto e racconto sto-
rico di Vincenzo Consolo e di Stefano D'Arrigo.
Di Ambrogi è particolare la lingua del romanzo Pottapia (1970)
che, celebrando ironicamente il Centenario della presa di Porta Pia
Roma capitale e la Patria unita, coglie 1' occasione, satireggiando le
convenzioni storiche e linguistiche, per dissacrare una classe dirigente
fallimentare. E degno d'attenzione, nell'autore, il superamento degli
aspetti normativi per una soluzione di «scrittura parlata», armonizzata
nell'idioma toscaneggiante e romaneggiante, tutta esclamativa e im-
precativa con variazioni minime: ziolaio ziolibero ziolupo gaglioffoli
tiè ziorospo zioladro ziofalco ziopadella bischeracciofiataccina sbur-
gliocchera ziozappa topardine ziogrillo zeppata tentennone ziopaio-
lo gigliolo...
Di Toti è preminente una lingua giocata su neologismi destrutturanti
generati da commistioni e scilinguagnoli: bismarkxeggiando phal-
lopsophiologie misumanizzato coeccitazione etotilizzarsi erotìdidie
endoguerriglieri sinusias~ica farfallàntropa caosàgrafo antautolo-
gìa poeteoremi ignotizia manoscrivibile illettura agilitazione para-
bulìa rialtruirmi epigramméma misteresiarcagogicamente tachita-
natotismo tricavandominopropene...
Quello di Consolo è un lessico che esprime lo scopo di svolgere
letterariamente la dialettica dei rapporti fra lingua e Storia vista come
«una scrittura continua di privilegiati». E proprio in siffatta connes-
sione della lingua con la Storia, presente anche in D'Arrigo ed estra-
nea a Gadda, che la «funzione Gadda» cessa la sua influenza.
Nel Sorriso dell' ignoto marinaio ( 1976), Consolo mescida il dia-

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letto siciliano con schegge di gallo-romanzo e con un italiano illustre.
Si conserva così un sapore lessicale antiquario che richiama costrutti
latini e ritmi arcaici: anciove acciughe, baglio cortile, birritta berret-
to, abbanniò bandì, crozze teschi, garruso omosessuale, gistre ceste,
sipàla siepe, vanella vicolo, viòlo viottolo, panari panieri, làstime la-
menti, potìa bottega, rizze reti, santiare bestemmiare.
In un altro libro di Consolo, Retablo (1987), si hanno i lemmi: cascia
cassa, dìa dea, arrere indietro, latrona ladroni, matrazza matrigna,
cianciàne campane, luponario lupo mannaro, lasciasse lasci, lippo
muschio, tinta malvagia.
Un lessico dove la «funzione Gadda» viene assorbita da un perfet-
to equilibrio fra storia e dialetto è quello di Horcynus Orca ( 1975) di
D'Arrigo. Si tratta d'un vasto romanzo dove il parlato dell'area dello
Scilla e Cariddi (quella che, dalla Sicilia, s'estende attraverso lo Stret-
to di Messina nella Calabria meridionale) si concerta con l'italiano.
Il siciliano attivato dall'autore - che ricorre alla trascrizione ver-
nacolare solo di fronte a esigenze espressive insoddisfatte dalla lin-
gua - ha una dinamica assai prossima a quella italiana non toscaniz-
zata. Per questo codice siciliano si può ipotizzare, vista la sua ricchez-
za di elementi latini, ellenofoni, bizantini, arabi, spagnoli, gallo-itali-
ci e gallo-romanzi, una completezza semantica che già dal periodo
posteriore ai Vespri l'ha sottratto alla toscanizzazione completa. Se
ne ricava che, in ambito diverso, la dialettalità darrighiana è ciò che
i volgarismi e l'invenzione della sintassi da parte di Dante hanno rap-
presentato per la Commedia: e che, in generale, usare compiutamen-
te un idioma significa scriverlo anche nei suoi molteplici registri dia-
cronici.
In particolare, D'Arrigo fa vedere, al pari di Gadda, che una lingua
«assoluta» non esiste e che l'eterna polemica fra cruscai e anticruscai
non ha molte ragioni d'essere.
Un glossario darrighiano, che richiederebbe un cospicuo volume,
non è qui possibile. In esso dovrebbero accogliersi voci desuete e di
nuovo conio, con dialettalismi ambientali, ampliamenti suff1ssali, neo-
formazioni popolaresche e colte, metaforizzazioni, cromatismi, tec-
nicismi marinari: tutte quelle figure di parola che concorrono alla na-
scita d'una lingua.

7. Lingua contemporanea

La lingua italiana, passata - non indenne - attraverso il «burocra-


tese», il «sindacalese», il «sinistrese», il «destrese», e che concentra
usi, modi, gerghi, dialetti, stranierismi e neologismi, è oggi assunta
come qualcosa di scontato e acritico. Essa è anche il riflesso di rime-
scolamenti storici e socioculturali che, lenti fino ad alcuni anni fa, si
fanno sempre più veloci e convulsi.
Vi è la tendenza all'affermazione dei linguaggi omologativi dei
media, degli slogan e dei luoghi comuni; a una costante diminuzione
delle parlate dialettali, che fino a trent'anni fa erano anche dei non dia-
lettofoni, alfine immobilizzate nella letterarietà; all'interferenza schiac-
ciante dell'inglese (tra i termini usuali: cast sketch slip trench jazz
hobby shorts nylon barman camping lift look wafer beauty-case blue-
jeans montgomery topless, fair play, show strip-tease night guar-
drail leasing test partner baby-sitter killer playboy austerity sponso1
remainde/ self-service supermal*et part-time boiler pop-art sit-in
racket leadership relax stress holding trust backg1l)und establishment
¨ esca/ation, ecc.).
S'aggiungano i linguaggi cosiddetti «settoriali»: quello sportivo,
tutto aggettivi e sostantivi aggettivanti, che ha avuto il suo massimo
creatore di neologismi in Gianni Brera (abatino omarino difensivista
lungagnone frillo margniffone bipallici ciolla uccellano traccheggia-
no sgrugnano), attinge all'inglese (assist antidoping cross bomber

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liftato stopper derby goleador jolly forcing sprint corner goal takle
play-maker dribbling slalom drive) e utilizza iperboli quali favoloso
micidiale sensazionale fenomenale miracoloso prodigioso strepito-
so); quello politico (coalizione ammucchiata governo-ombra emen-
damento spoglio ineleggibilità preambolo ballottaggio aperturisti in-
sabbiare garantismo ingovernabilità centrismo proporzionale mag-
gioritaria quorum trasparenza massimalismo stabilità partitocrazia
sfascista leghista); radiotelevisivo (cameraman teleromanzo canale
mixer monitor telefilm telenovela applausometro); pubblicitario (super-
concentrato supersgrassante mangiasporco amarevole uvamaro bio-
degradabile rubachili extralungo sottovuoto pienaroma grappuva
digestimola purgamaro); tecnico-scientifico (timer computer pace-
maker virus hi-fi elettrocardiogramma elettrotreno by-pass metal-
lizzare prostaglandina ciclotrone sincrotrone tecnotronica laser); gior-
nalistico, che registra una lingua media e di «corrispondenza»: un
«parlato scritto» che riprende e stilizza tutti gli altri linguaggi (multi-
mediale, mani pulite, avviso di garanzia, pentitismo riciclaggio celo-
durismo craxismo berlusconismo addizionale antimafia partitissima
pattista piovra sottogoverno postmoderno finalissima, fondi neri,
monoreddito, ecc.).

8. Gerghi

Tra le parole «interdette», non più extralinguistiche e certo psico-


linguistiche, quelle del turpiloquio, varietà gergale non disdegnata
nemmeno dal papa Benedetto XIV, che, rimproverato di ripetere trop-
po spesso una parola «sporca», sbraitava: «Cazzo! Cazzo! Lo ripete-
rò finché non sarà più sporca!».
Si citino, con l'interiezione vaffanculo esprimente sdegno, disprez-
zo e distacco, i ricorrenti cazzata stronzata coglione coglionare put-
tana puttanata ricchionefinocchio, ecc., termini adoperati come in-
solenze.
La storia d'una lingua è anche storia di gerghi (antico italiano: ger-
gone; poi detto anche baccaglio amaro giammuffa; francese jargon,
spagnolo girgonz, portoghese girigonza) che, adoperati nella quoti-
dianità, possono passare nella scrittura fino a entrare in certi generi
letterari. Si pensi all'uso che lo scrittore francese Céline ha fatto del-
I'argot, da lui dichiarato «lingua dell'odio». In Italia, dove sono pre-
senti fenomeni di letteratura gergale «sommersa», si ricordino il ger-
go «sessuale» di Porci con le ali (1976) di Marco Lombardo Radice
e Lidia Ravera e la sceneggiatura del film in gergo punk, La ragazza
di via Millelire (1981) di Gianni Serra e Tomaso Sherman: cacabic-
chieri carabinieri, cacciare rubare, cago paura, cicamelo succhiame-
lo, dioffa (concentrazione del dialettale piemontese diu fauss) dio
falso, gaggio tonto, imbarcarsi innamorarsi, picci soldi, purpo inver-
tito, ricottaro protettore, ruscare sfacchinare...
I gerghi, di cui l'italiano è ricco quanto lo spagnolo e il francese,
sono linguaggi fortemente espressivi, fatti per comunicare oralmen-
te. Essi non si elaborano nella tradizione colta ma nella precaria «arte
dell'arrangiarsi», al pari dei proverbi popolari e delle formule argute
rispecchianti la diff1cile vita dei poveri.
Il gergo, che originariamente è stato un codice di comunicazione
esclusivo di ristretti gruppi, percorre le varie fasi del parlato prima di
pervenire alla scrittura. Esso serve all'arricchimento dell'immagine
fonica che la lingua di cultura non sempre può soddisfare: ed anche a
esprimere, in un codice a volte effimero, le trasformazioni e le conta-
minazioni che la lingua predominante subisce nel tempo.
Emerso come tipo «espressivistico» avulso dal comunicare usuale
ed emblematizzato in una dimensione spaziale ristretta, il gergo può
avere una sua pur fragile formalizzazione. Portato nella lingua, esso
estende la comunicazione e il pensiero discorsivo contribuendo a quel-

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la creatività linguistica da Vico chiamata «logica poetica».
La lingua gergale è sempre «parlata» e, in un primo momento, li-
bera dall'argomentazione scritta. Ne fanno parte parole che, invise ai
puristi, possono stabilizzarsi o meno nella comunicazione prima solo
verbale e poi anche scritta. Se ne citano alcune, prese dal linguaggio
giovanile: gufare ridere, lecchino adulatore, truzzo cafone, tosto for-
te, pompato megalomane,figo togo bello, ciula sciocco, ingrifato ec-
citato, alluzzare arrapare eccitare, banfare parlare, criccare morire,
figata piacevolezza, fattòne tossico fricchettone drogato, imbranato
impacciato, lumare guardare, ciospo brutto, pocce zugli seni, sputta-
nare svergognare, sfiga sfortuna...

Più ermetici i gerghi «separati», cioè appartenenti a speciali grup-


pi di parlanti. Anche in riferimento alla diffusione nel nostro paese
del fenomeno mafioso, è interessante vedere quale ne sia il gergo in
questa fine di millennio. La parola uccidere, per esempio, ha un'im-
pressionante varietà di espressioni: astutàri spegnere, attumuliàri sep-
pellire, 'ncasciàri chiudere nella cassa da morto, addummìsciri ad-
dormentare, aggiuccàri piegare, asciucà)i asciugare.
Il capo cosca è detto boss e, salendo di grado, papa e mammasan-
tissima (nel senso di venerabile come la madonna). Il comitato dei
capi è chiamato cupola, il poliziotto brìgghiu birillo, I' arma da fuoco
cannìla candela, il giudice prisintùsu presuntuoso, il carcere simina-
riu, la carcerazione villiggiatura, il coltello zaccagnu, I'avvocato
parrassài chiacchierone. Sfregiare è detto sfruzzunàri, brutto stréu-
su, informatore basante, denaro pìcciuli, I'uomo da poco quacqua-
racquà...
Al gergo della malavita sono poi attribuibili talune parole di varia
estrazione regionale: puncicare accoltellare, iscrompidu assassinato,
scapuzzador assassino, bacaiador avvocato, ruffante borsaiolo, ca-
schè borseggio, caramba carabiniere, buiosa cella, nuffia cocaina,
'nnucenti condannato, spaccamerde coraggioso, lubinare derubare,
babelino dialetto, streppa droga, vitella ergastolo, beccapappa furto,
balaustrista ladro, camusa morte, paperagian pene, berta pistola,
pula polizia, portaloch portafoglio, bardascia prostituta, ciffàda re-
furtiva, cuccare rubare, cravattaro usuraio...

Alla fine del millennio

Duemila sono gli anni di storia della lingua italiana. Storia: dal greco
historía, ricerca; lingua: dal latino lingua, rumeno limba, provenzale
lengua lenga, francese langue, spagnolo lengua, portoghese lingua lingoa;
italiana: dal latino italicus e italus. Da Vitlo, nome di una tribù della
Calabria preistorica, adoratrice di un vitello. Il termine, diffuso poi
verso il Nord, ha infine connotato tutta l'Italia. L'interme diazione del
greco nella parola Vitlo, assorbita dal latino, ha abolito la lettera V
iniziale.

Al termine dell'impero romano, nasceva, sulla base del latino popolare, la


nuova lingua romanza. Ciò, mentre a Roma subentravano nuovi centri culturali
e linguistici che, anche per l'influsso del sostrato prelatino, tendevano a
incrinare la tradizione latina. Alle spinte disgregatrici s 'oppose, a
partire dal '200, un volgare illustre, individuato nel fiorentino, che
divenne il lessico uff1ciale di base: dapprima scritto e, attraverso i
secoli, anche parlato.

Alla fine del secondo millennio, oggi, non esiste una lingua-modello ma
una sorta di italiano «collettivo», composto di parole riflettenti una
realtà ricavata per intero dalla cronaca. Si dice tangentopoli a esprimere
l'illegalità diffusa nelle attività economiche svolte anche ricorrendo al

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versamento di una tangente per ottenere un vantaggio; si chiama vu' cumprà
il venditore ambulante africano che spaccia la sua merce. Ammanicato è il
raccomandato di ferro, bancomat il servizio bancario di cassa continua cui
s'accede con una tessera magnetica; immunodeficienza è l'incapacità
dell'organismo umano di difendersi dall'Aids, «peste del 2000»; jeanserìa è
il negozio di jeans; paninotèca è il locale di vendita di panini imbottiti,
tramezzini e «pizza a taglio»; scazzo è il diverbio... E chi si meraviglia
esclama ops!
Nemmeno esiste, fuori della migliore letterarietà e delle resistenze
critiche a un lessico sempre più appiattito, una lingua ricreata
individualmente. Prevale, con la nota caduta del congiuntivo e il dilagante
indicativo, un frasario formulaico e pratico che s'avvale di parole
massificate e di una sintassi spesso distorta, carica di termini
preconfezionati e monotonamente ripetitivi.
Ciò evidenzia una perdita di contatto coi testi letterari, sostituiti
dalle comunicazioni di massa, dai linguaggi di settore e dagli automatismi
da importazione (deregulation auditing audience,fiscal drag, management
lobby trend, free lance, spot...).
Lo scambio fra lingua e dialetto, entrambi imbastarditi dalla reciproca
influenza, produce, nell'uso medio, anacoluti, desemantizzazioni e pleonasmi
privi di varietà linguistica e di elaborazione cognitiva.
Né l'istruzione scolastica sembra produrre effetti contrari a simile
tendenza. Eppure, su circa 60 milioni di italiani, 45 milioni sanno
l'italiano e 25 milioni anche un dialetto.
Dopo secoli di dibattito liguistico, non è un risultato consolante quello
che sembra portare verso un'italofonia dispersa in una Babele iperinformata
di esperanti e sottolingue governati dalla pubblicità televisiva e dal
consumo commerciale, senza reali strutture di lingua e stile.
Preoccuparsi di tutto questo? Ci si consoli con l'inglese no problem non
c'è problema, formula d'un troppo profuso ottimismo italico.
E anche a causa di ciò che la lingua letteraria italiana s'avvia a
diventare reperto per filologi, lingua morta?
L'anglicizzazione, sovrapposta all'italiano, sembra allora dare ragione a
quel sociologo convinto che la nostra possa ormai ridursi a lingua per
pochi: perché, tanto, per buone ragioni «pratiche», presto tutti quanti
parleremo e leggeremo solo in inglese.
Ma, al di fuori d'ogni aulica e romantica idea d'autarchia linguistica,
non si era premesso che una lingua è anche libertà? Un populu/diventa poviru
e servu/ quannu ci arrobbanu a lingua (I. Buttitta).
«Un popolo/ diventa povero e servo/ quando gli rubano la lingua.»

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