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Facultade de Filoloxía

Departamento de Filoloxía Clásica, Francesa e Italiana e


Italiana

Storia della lingua


italiana
Benedict Buono

“Se pareba boves”... Mille anni di


lingua italiana

2019/2020
1
FACULTADE DE FILOLOXÍA. Departamento de Filoloxía Clásica, Francesa e Italiana

AUTORES: Benedict Buono


Edición electrónica. 2018

ADVERTENCIA LEGAL: Reservados todos os dereitos. Queda prohibida a duplicación total ou parcial
desta obra, en calquera forma ou por calquera medio (electrónico, mecánico, gravación, fotocopia ou
outros) sen consentimento expreso por escrito dos autores.

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INDICE

Presentazione 5

1. Cos'è la storia della lingua italiana?


1.1. Premessa 7
1.2. La formazione del toscano-fiorentino come lingua nazionale 12

2. Dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente al Mille: il problema delle


origini
2.1. Il contesto storico-sociale 17
2.2. Dal latino classico al latino volgare 21
2.3. Quando nasce una lingua: il problema delle ‘origini’ 24
2.4. Continuità nella diversità: il lessico 29
2.5. Dal latino al volgare: gli errori involontari nei documenti notarili 34

3. Le prime attestazioni scritte del volgare in Italia


3.1. L’indovinello veronese 36
3.2. L’iscrizione della catacomba di Commodilla 37
3.3. L’atto di nascita dell’italiano: il Placito Capuano del 960 39
3.4. L’iscrizione della basilica romana di San Clemente 44
3.5. I documenti notarili-giudiziari 47
3.7. I documenti religiosi: la Formula di Confessione umbra 50
3.8. La ‘Carta pisana’ di Filadelfia 52
3.9. Primi documenti letterari: i Ritmi e Quando eu stava in le tu’ catene 53

4. Il Duecento
4.1. Eventi politici: L’Italia dei Comuni 57
4.2. Il policentrismo linguistico del Duecento 61
4.3. La lingua della scuola poetica siciliana 64
4.4. Dante Alighieri 71

5. Il Trecento
5.1. Il contesto storico-sociale 83
5.2. La diffusione del toscano e le grandi trasformazioni del fiorentino tardo-
trecentesco 84
5.3. Francesco Petrarca 86
5.4. Giovanni Boccaccio 94
5.5. La fortuna delle Tre Corone 102

6. Il Quattrocento
6.1. Il contesto storico-sociale 107
6.2. La nascita della ‘questione della lingua’ 109
6.3. Formazione e sviluppo della koinè 111

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7. Il Cinquecento
7.1. Il contesto storico 119
7.2. Il dibattito sulla lingua 120
7.3. Il fiorentinismo arcaizzante: Fortunio e Bembo 121
7.4. La teoria cortigiana 126
7.5. La teoria toscanista e fiorentinista 131
7.6. L’Ercolano di Benedetto Varchi 135
7.7. Leonardo Salviati e il Vocabolario della Crusca 136

8. Il Seicento
8.1. Contesto storico 141
8.2. La poetica del barocco e il rinnovamento della lingua letteraria 143
8.3. Il linguaggio della scienza 148

9. Il Settecento
9.1. Il contesto storico 152
9.2. La reazione antibarocca 156
9.3. Prestigio e ruolo delle lingue d’Europa 158
9.4. Il francese come lingua-modello 160
9.5. L’influenza del francese 164

10. L’Ottocento
10.1. Contesto storico-sociale 168
10.2. “Questione della lingua” e prosa letteraria: Purismo, Neoclassicismo
e Neotoscanismo 172
10.3. Il modello manzoniano e la prassi correttoria dei “Promessi Sposi” 179
10.4. L’eredità manzoniana 185
10.5. Il rinnovamento della prosa: espressionismo e verismo 186
10.6. La lessicografia: dizionari generali, puristici, di sinonimi, metodici e
dialettali 188
10.7. Il vocabolario manzoniano e i dizionari dell’uso toscano 195
10.8. Effetti linguistici dell’unità politica: italofoni e dialettofoni 198
10.9. Scuola e analfabetismo 199
10.10. Altre cause dell’unificazione lingüística 201

11. Bibliografía 205

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PRESENTAZIONE

Le pagine che seguono vogliono offrire una panoramica generale sulla storia
della lingua italiana dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C.,
all’Unità d’Italia nel 1861. La trattazione esclude le fasi odierne della lingua, che
corrispondono più che altro a un esame sincronico, consapevoli che in questi ultimi
decenni, grazie anche alla velocità dei cambiamenti socio-economici e tecnologici,
sono avvenuti, e sono tuttora in corso, importanti mutamenti a livello linguistico
(basti pensare, ad esempio, alle conseguenze dell’immigrazione Sud-Nord, al
crescente uso, e abuso, di anglicismi nella lingua comune o al processo di
neostandardizzazione della lingua italiana). I problemi linguistici verranno
analizzati privilegiandone, come vedremo fra poco, la ‘prospettiva esterna’,
esaminando, cioè, i riflessi degli avvenimenti politico-sociali e culturali sulla lingua
italiana. Ogni sezione prevede pertanto un accenno, seppur sbrigativo, ai più
importanti fatti politico-sociali: il particolare sviluppo della storia politica italiana,
infatti, ha determinato fattori non indifferenti di disgregazione, frammentazione e
differenziazione interne, non riscontrabili in altri stati, caratterizzati invece da una
più o meno precoce unificazione politica e linguistica. Con lingua italiana si intende
infatti la varietà dialettale toscana di tipo fiorentino impostasi sulle altre per motivi
essenzialmente storico-letterari. Il plurisecolare frazionamento politico dell’Italia,
rispecchiando un corrispondente frazionamento linguistico, impedì che la
preminenza d’una parlata piuttosto di un altra avvenisse per ragioni politiche o
militari. Fu invece l'attività letteraria dei grandi scrittori, primi fra tutti Dante,
Petrarca e Boccaccio, unitamente alla posizione geografica favorevole e al precoce
sviluppo socio-economico della Toscana e di Firenze in particolare, a dilatarne
l’influenza oltre i limiti regionali e ad orientare la scelta di una lingua letteraria verso
di essa. Il fiorentino antico e scritto, dunque, quale si fissa attraverso le scritture
letterarie dei grandi autori trecenteschi, nel solco della prodigiosa fortuna di Firenze
borghese e mercantile nell’età comunale, codificato successivamente dalla
trattatistica grammaticale cinquecentesca, è il fondamento dell’italiano comune; si
può affermare, quindi, che la lingua comune e nazionale italiana è il fiorentino che si

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è affermato e imposto attraverso una serie complessa di vicende culturali e sociali
in Italia come lingua di tutta la nazione. Eppure, per secoli i dialetti (per usare un
termine impostosi nella storia linguistica italiana) hanno continuato a dominare il
campo della comunicazione orale quotidiana e nelle situazioni pratiche. In questo
panorama di instabile equilibrio, fatto di centro e di periferia, nasce e si sviluppa la
lingua italiana, obbligata a fare continuamente i conti anche con dominazioni
straniere, che, nel corso dei secoli, arricchirono e modificarono l’originario
patrimonio linguistico latino, impedendo altresì il riconoscimento ufficiale di
un’unica lingua.
Questo manuale è strutturato in capitoli che affrontano cronologicamente
alcuni degli aspetti più rilevanti del divenire storico della lingua italiana, preceduti
da un'introduzione che vuole delimitare i campi di ricerca e i tratti caratteristici di
tale materia. Lontano da qualsiasi pretesa di esaustività, si cercherà di spiegare in
modo facile ed accessibile (almeno, così si spera) una materia particolarmente
complessa, affrontando i problemi più importanti, su cui si potranno poi imbastire,
a lezione, discussioni più dettagliate e approfondite, a seconda della disponibilità di
tempo, dell’interesse o della ricettività del pubblico.

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1. COS'È LA STORIA DELLA LINGUA ITALIANA?

1.1. Premessa
“Che cosa si intenda per storia di una lingua in
generale, e per storia di una lingua particolare come
la latina o l’italiana, non è chiaro senz’altro” (G.
Devoto, 1951).

Le parole scelte come epigrafe, scritte dall’illustre linguista Giacomo Devoto,


dimostrano quale problema possa rappresentare il tentativo di definizione del
concetto di ‘storia della lingua’. È sempre difficile stabilire i limiti e le caratteristiche
specifiche di una disciplina universitaria, soprattutto quando tale materia si
compone, come vedremo di seguito, di più parti interagenti, che ne determinano una
struttura particolarmente complessa ed articolata. Sarà quindi utile passare in
rassegna le molteplici e diverse realizzazioni che il concetto di ‘storia della lingua’
ha avuto nel tempo e rifarne la storia fin dal suo apparire, qualificando le diverse
posizioni metodologiche nell’atto del loro realizzarsi. Diviene così possibile cogliere
le ambiguità, le contraddizioni, le difficoltà della ‘storia della lingua’ nel passato e
oggi, ricavandone una base concreta per avanzare nuove proposte per una
definizione, si spera, meno contraddittoria e operativamente valida. Oltretutto,
come si vedrà, la stessa categoria di ‘storia della lingua’ appare incerta ed opinabile,
e deve essere meglio definita rispetto a categorie come ‘grammatica storica’ e
‘linguistica diacronica’ o a quella, più generale, di ‘linguistica storica’; ne consegue
che un’impostazione del problema che non partisse dal basso potrebbe portare a
conclusioni gratuite o puramente terminologiche: chi si vuole dedicare allo studio
della ‘storia della lingua’ dovrà fare qualcosa di diverso da altri possibili tipi di
analisi diacroniche della lingua di cui ci si occupa.
La storia di una lingua si occupa di tutto il processo storico riguardante una
data lingua, sia questa viva o estinta. Nel caso dell’italiano, bisognerà prendere atto
che è nato dalla dissoluzione, durata lungo tempo, di un’altra lingua fino a
conquistare una fisionomia propria, e, anche se le prime attestazioni letterarie
risalgono al X e XI secolo, non si dovrà trascurare la tarda latinità, classica e
medievale, né dimenticare che sono sopravvissuti anche dei testi anteriori all’anno
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Mille, scritti in un idioma che non si sa bene definire più vicino al latino o a qualche
mezzo espressivo distinto da esso, anche se non facile a definirsi. Se ricordiamo poi
che l’Italia non è esistita come realtà politica autonoma fino al 1861 – con tutte le
inevitabili conseguenze sociolinguistiche–, considerando che siamo già entrati nel
XXI secolo, è intuitiva la varietà delle storie racchiuse in un intervallo di tempo così
lungo: tanto più che non c`è bisogno di aver fatto studi linguistici per sapere quanto
siano stati vitalmente diversificati in Italia, e in parte siano tutt’oggi, i dialetti, con le
loro vicende intrecciate strettamente all’italiano. Inoltre, gli studi moderni non si
accontentano di seguire gli sviluppi della lingua nel tempo e nello spazio, e a queste
due dimensioni aggiungono anche l’interesse per i fattori non linguistici che possano
essere posti in relazione sistematica con le variabili linguistiche, rivelandone lo
stretto collegamento: in verità, la frammentazione politica e geografica dell’Italia
rappresenta una dimensione insostituibile nella comprensione dei fattori di stabilità
o cambiamento dell’italiano.
Dire storia equivale poi a mettere l’accento sui fattori dinamici; ma gli
elementi di innovazione, per loro natura più vistosi delle permanenze, non si
possono misurare se non si conosce il sistema linguistico, sicché la storia non può
prescindere dalla descrizione della lingua in un periodo dato, attuale o remoto: sarà
quindi necessario applicare un esame sincronico alla lingua nelle sue differenti fasi
evolutive, isolandone così i tratti caratteristici di un’epoca determinata, i quali
verranno poi inseriti nell’ampio panorama della diacronia linguistica.
Bastano questi pochi cenni per dare un’idea di come siano differenziati e
complessi i problemi dei quali si occupa la storia della lingua, anche se non sempre
se ne occupa da sola, ma sarà proprio compito della storico della lingua offrire una
visione multilaterale e onnicomprensiva del fenomeno linguistico, nonché
recuperare le fasi anteriori della lingua, strumento indispensabile alla
comprensione delle molteplici forme e registri dell’italiano attuale.
La storia della lingua può essere studiata secondo due prospettive
complementari: quella esterna e quella interna. Una storia esterna, spesso
identificata come ‘storia della lingua’, esamina la lingua nel più ampio contesto della
storia sociale e culturale del popolo che la usa, cercando di offrirne una visione
possibilmente integrale, multilaterale, considerando anche le relazioni esistenti tra
questa lingua e le altre lingue e dialetti con cui i suoi utenti entrano in contatto.

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Secondo questa impostazione svolgono un ruolo cruciale i fattori esterni, culturali e
sociali: quindi non solo storia della grammatica intesa in senso largo, cioè accanto
alla fonetica e alla morfosintassi, anche l’evoluzione della grafia, della lingua
letteraria ed extraletteraria, della codificazione grammaticale (la “questione della
lingua”), dei rapporti extralinguistici e socio-linguistici, cioè dei rapporti con la
storia della società. La storia interna, detta anche ‘grammatica storica’, si occupa
invece dello studio dettagliato dell’evoluzione del sistema grammaticale e
fonologico della lingua: partendo da una lingua base (il latino, o meglio, il latino
“volgare” o “popolare”), ne fa dedurre le forme iniziali della nuova lingua (l’italiano)
e le mette a confronto con le forme dell’italiano d’oggi (o comunque moderno), ed
eventualmente anche con le forme dialettali, o con quelle delle lingue geneticamente
affini (quelle romanze), basandosi sui principi della linguistica comparata. Le due
prospettive non soltanto sono complementari, ma sono collegate in modo
inestricabile, soprattutto nel caso dell’italiano, perché le particolari condizioni
storiche, soprattutto la mancanza di un’unione politico-amministrativa, ne hanno
fortemente influenzato la diffusione e l’uso, con la conseguente creazione, in un
primo tempo, di centri di produzione culturale e linguistica differenziati, pur senza
impedire successivamente il riconoscimento di una varietà linguistica considerata
superiore, non tanto per motivi economico-politici, quanto prevalentemente
culturali. La storia esterna della lingua italiana ha profondi effetti sul suo sviluppo
strutturale: le due prospettive sono inseparabili, e qualsiasi tentativo di isolamento
delle due componenti darà luogo a una visione riduttiva e parziale del fenomeno
linguistico. Questa bipartizione, oggi comunemente accettata, è però il frutto di un
complesso dibattito a livello teorico, iniziato nell’Ottocento, e che ha avuto il merito
di determinare differenze specifiche e limiti dei due campi di ricerca. La storia della
lingua si distingue dunque dalla grammatica storica e da forme più sofisticate di
diacronia strutturale perché studia non il rapporto storico-evolutivo fra due stati di
lingua distanti nel tempo ma geneticamente collegati, quanto le vicende linguistiche
di una collettività in cui convivono, si sovrappongono, si integrano o si disintegrano
ed insieme mutano sistemi diversi. Compito della storia della lingua è di occuparsi
della dinamica di questa coesistenza, cioè dei modi, dei tempi, degli spazi
dell’organizzarsi o disorganizzarsi di sistemi coesistenti.

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Insomma, la storia della lingua non è solo grammatica storica, non è
nemmeno solo storia della lingua letteraria, né tantomeno solo storia culturale. In
realtà è possibile un approccio effettivo e concreto alla ‘storia della lingua italiana’,
e sarà attraverso un’analisi esaustiva di tutti i campi che la compongono: la
grammatica storica, che dovrà tenere conto anche degli ineludibili apporti esterni,
la storia della lingua letteraria, che non dovrà mai perdere di vista le infinite
realizzazioni a livello basso (come, ad esempio, la ‘lingua dei semicolti’) o intermedio
(cioè tutte le scriptae pratiche, burocratiche o cancelleresche che dir si voglia), la
storia della cultura, di cui però si devono privilegiare gli aspetti concretamente
riferibili alla diacronia linguistica. Sarà utile citare, a questo proposito, un esempio.
È risaputo che il dialetto romanesco medievale era profondamente diverso da quello
attuale per quanto riguarda la sua struttura fonomorfologica, in questo senso molto
più vicino a un dialetto meridionale, che a una varietà del tosco-fiorentino come è
quello attuale1. Apparentemente non ci sarebbero ragioni ‘interne’ così pressanti,
tali da giustificare un cambiamento così profondo dei tratti linguistici del
romanesco, se ci limitassimo a motivazioni puramente storico-grammaticali:
dovremo quindi ricorrere a fattori esterni, di tipo storico-culturale. Dal punto della
vista della quantità del materiale documentario, il Quattrocento è in assoluto, per il
Lazio, il periodo più fecondo del volgare romanesco, eppure proprio da questo
momento inizia un processo irreversibile di toscanizzazione, che avrà effetti
determinanti sulla struttura del romanesco. Infatti, in seguito al ritorno definitivo
del papato a Roma con Martino V (1420) e al declino del libero comune, si avvia il
processo di “smunicipalizzazione” della vita politica e sociale cittadina. Il potere
passa ai curiales, che per corrispondere ai bisogni di una realtà urbana degradata
ma in espansione, ai vasti e complessi rapporti d’affari dello Stato Pontificio, alla
stessa immagine internazionale della Santa Sede, preferiscono affidarsi al capitale
finanziario e all’iniziativa commerciale di Firenze. Alla metà del Quattrocento la
presenza di fiorentini nella polimorfa società romana è consistente e autorevole a
ogni livello, intellettuale, mercantile, artigianale. In ogni caso, in questo primo
periodo, la toscanizzazione interessa soprattutto la produzione scritta e formale di

1 Ci si riferisce soprattutto ai seguenti tratti linguistici: mancanza di dittongamento spontaneo in


sillaba libera di è, ò; mancanza di anafonesi; dittongamento metafonetico di è, ò toniche aperte per
effetto di -Ī, -Ŭ finali; l’evoluzione di B iniziale intervocalico a v, mentre si ha l’esito bb in posizione
rafforzata; la particolare morfologia nominale e verbale.
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una élite economica e politica: se ci si fermasse a un esame esclusivo delle
attestazioni ‘alte’, si potrebbero trarre delle conclusioni solo parzialmente
rispondenti alla situazione linguistica del momento. Occorre invece cercare nel
Cinquecento le ragioni che hanno fatto del dialetto originario uno strumento
inservibile per l’intera comunità. La “nazione” dei fiorentini, formatasi a Roma lungo
il XIV secolo, giunge al suo apogeo durante i due pontificati medicei, di Leone X
(1513-1521) e di Clemente VII (1523-1534): la toscanizzazione diviene un aspetto
fortemente simbolico della promozione sociale perseguita dai settori emergenti, che
danno al volgare romanesco una valutazione concordemente negativa. Ma non è
tutto. La toscanizzazione, o se si preferisce la “smeridionalizzazione”, dilaga dalla
lingua delle scritture e delle classi medio-alte al parlato di tutte le fasce sociali,
determinando nel giro di alcune generazioni un mutamento della posizione del
romanesco nel quadro dei dialetti italiani. Dal censimento eseguito pochi mesi prima
del ‘sacco di Roma’ (la preziosissima Descriptio Urbis della fine del 1526), si viene a
sapere che dei 54.000 abitanti dell’epoca, solo il 16,4 % era originario di Roma o del
Lazio: questa sproporzione favorevole ai non-romani dovette di certo portare al
superamento del particolarismo dialettale. E se non fosse bastato, con il sacco di
Roma del 1527 (e il massacro di migliaia di cittadini), e con la successiva
ripopolazione in larga parte allogena, si passò, intorno al 1550 a una popolazione
formata, con ogni probabilità, per un 75-80% da immigrati o figli di immigrati. Si
rafforza ulteriormente il primato centro-settentrionale, con una ripopolamento che
vede in prima linea la Toscana, che tra le varie regioni è la più rappresentata: il
numero dei toscani dovrebbe essere pressapoco pari a quello dei romani, il che
spiega anche il binomio toscanizzazione/ permanenza di tratti locali. Sarà utile
ricordare anche il caso del fiorentino argenteo. Sappiamo infatti che esistono delle
notevoli differenze fonomorfologiche fra il fiorentino aureo, cioè quello tramandato
dai testi delle ‘Tre Corone fiorentine”, e quello argenteo, cioè quello attestato in testi
letterari e no dal Quattrocento in poi. Il fiorentino quattro-cinquecentesco è
caratterizzato da una quantità di innovazioni che non sono state accolte dall’italiano
– che ha preso a modello la tradizione letteraria –, in quanto seguono una falsariga
particolaristica e centrifuga rispetto alla lingua comune che si stava elaborando.
Anche in questo caso non ci sarebbero evidenti motivi interni, tali da giustificarne
tale profondo rinnovamento: ci si dovrà riferire allora al mutato panorama socio-

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economico fiorentino a cavallo tra il Trecento e il Quattrocento. Nell’evoluzione
linguistica di Firenze s’intrecciano infatti, e in parte si confondono, più motivazioni.
La sua fortuna economica, che raggiunge il culmine nel Trecento, aveva attirato nella
città genti del contado e di altri centri toscani, così come le vicende politiche
promuovevano un più intenso contatto e un ricambio tra i diversi strati sociali. Il
clima di trasformazione sociale favorisce l’accettazione delle novità d’origine plebea
o esogena, e concorre come fattore coadiuvante l’aspetto formale che è proprio a
quasi tutte le innovazioni, cioè il loro minore costo ‘fonico’, da cui deriva un ritmo di
discorso tendenzialmente più spedito. Ancora una volta il cambiamento di numerosi
tratti fonomorfologici di una lingua è vincolato strettamente a una mutata
condizione storico-sociale. Si potrebbero enumerare altri esempi simili. Bisogna
quindi ribadire che un’analisi esclusivamente riferita ai tratti fonomorfologici non
potrebbe spiegare i profondi mutamenti occorsi nel panorama linguistico della
Roma quattro-cinquecentesca o nel fiorentino quattro-cinquecentesco: solo il
ricorso ad altri campi di ricerca sarà in grado di fornire una spiegazione se non
esaustiva, almeno coerente e plausibile. A questo proposito Alberto Vàrvaro ha
proposto una ‘ricetta’ per la storia della lingua, che potrebbe formularsi così: “una
sintesi selettiva di grammatica e lessicologia storiche (= storia interna) inserita e
distribuita in una cornice di informazioni sulle vicende della collettività dei parlanti,
o meglio di quelle vicende che abbiano diretto rilievo per la lingua (= storia esterna).
Come in tutte le ricette, è facile riscontrare un diverso modo di proporzionare gli
ingredienti, che è poi una manifestazione della più generale discussione e
divergenza di idee sull’importanza dei fattori interni o esterni alla lingua”.

1.2. La formazione del toscano-fiorentino come lingua nazionale


È cosa risaputa che la frammentazione politica e culturale ha favorito la
frammentazione linguistica dell’Italia. L’ascesa di centri di potere municipale
durante il Medio Evo, tendeva a conferire prestigio alla parlata delle rispettive città,
favorendo il fiorire di una letteratura prestigiosa nei rispettivi centri (si tratta del
cosiddetto ‘policentrismo linguistico’ dell’Italia medievale). Nella prima metà del
Duecento il fiorentino non si elevava ancora al di sopra degli altri volgari italiani, e
fino a quel momento non godeva ancora per nulla dell’importanza culturale che
aveva, come lingua letteraria, il siciliano, la cui influenza si era diffusa ben oltre il

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luogo di origine, oppure varietà non italoromanze, come il francese o il provenzale.
L’elemento primario che determinò la preminenza del fiorentino in Italia fu il fiorire
della cultura fiorentina, e in modo particolare il prestigio letterario delle Tre Corone
fiorentine, senza dimenticare però il rango di importante potenza commerciale
raggiunto da Firenze, che contribuì indubbiamente a promuovere e diffondere il
fiorentino. Prima del XV secolo non si può ancora parlare di “italiano antico”, ma di
“antico toscano” poiché il toscano non era universalmente accettato come lingua
italiana, anche se la percezione del prestigio e del primato del toscano è andata
diffondendosi sempre più già a partire dall’epoca di Dante. Comunque l’accettazione
del fiorentino come base della lingua italiana e la sua codificazione (produzione di
dizionari e grammatiche) avvennero molto più tardi. A partire dalla seconda metà
del Quattrocento, e soprattutto agli inizi del Cinquecento, si incominciò a ricercare
un volgare che potesse sostituire il latino come mezzo del discorso scritto colto (tale
dibattito prese il nome di questione della lingua e durò, sotto varie forme, fino a
Ottocento inoltrato). Finì per prevalere la tesi sostenuta da Pietro Bembo nelle Prose
della Volgar Lingua (Venezia, 1525), che proponeva il fiorentino, ma non nella forma
contemporanea (una lingua letteraria, infatti, non poteva essere troppo vicina al
parlato quotidiano), ma nella lingua letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio, che a
partire da questo momento venne adottato come lingua veicolare,
preminentemente scritta, degli Italiani. Trova così definitiva attuazione una
proposta che, diversamente da altre tesi formulate in varia sede e in tempi
successivi, prende atto di un patrimonio culturale e linguistico ormai consolidato e
sentito come comune almeno dai gruppi sociali più colti. Si ricordi, comunque, che
la supremazia culturale della Toscana era già ben affermata fin dal Trecento, tanto
che già in quel secolo, e ancor più in quelli successivi, al suo volgare guardavano tutti
gli altri volgari italiani come norma linguistica e come modello ideale di riferimento
per staccarsi dalla realtà municipale. Non solo, ma prima della definitiva
affermazione del volgare fiorentino come lingua italiana, la Toscana aveva già
condotto una colossale operazione di appropriazione culturale in quanto, con gli
interessi nutriti dalla sua classe dirigente per la produzione periferica (si pensi non
solo ai testi letterari, come quelli ben noti dei poeti siciliani, ma alle innumerevoli
opere minori di vario genere), l’aveva importata, toscanizzata nelle trascrizioni e
riesportata nelle altre regioni italiane. Già da tempo, cioè, la Toscana deteneva

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praticamente il monopolio della lettura e dell’informazione in Italia. Per altro verso,
fin dal Quattrocento si era diffusa in tutta Italia una lingua letteraria di base
fiorentina, ma che aveva acquisito caratteristiche generali “italiane”, non tipiche di
Firenze, e che all’occasione era capace di respingere ed espellere tratti
esclusivamente fiorentini (come il passaggio del tipo lo mi da a me lo da o il trionfo
della struttura non facendolo su non lo facendo). Tale processo era stato facilitato da
una generale “sprovincializzazione” linguistica delle cancellerie degli stati italiani
del tempo, con la conseguente, progressiva toscanizzazione dei ceti dirigenti. Si
aggiunga, infine, che il consenso intorno al toscano e l’accettazione della sua “norma”
erano stati anticipati e preparati, per così dire, dalle corrispondenti funzioni svolte
nei secoli precedenti dal latino. Già nella prima metà del XVI secolo infatti, vale a dire
nel momento in cui il Bembo formulava la sua proposta, il fiorentino trecentesco era
un codice (o sistema linguistico) esclusivamente scritto, ben differenziato dall’uso
parlato toscano e in grado di ereditare – grazie alla sua indiscutibile supremazia
letteraria – certi caratteri distintivi fondamentali del latino umanistico: l’eccellenza
formale e il principio della “imitazione” degli autori più illustri. Di conseguenza, il
repertorio linguistico italoromanzo subisce una profonda ristrutturazione: i volgari
diversi dal toscano (ogni regione ne possedeva), divenuti superflui, vengono
progressivamente abbandonati, mentre il precedente rapporto diafasico tra volgare
fiorentino e latino tende a scomparire nel senso che il secondo perde gradatamente
i domini d’uso e le funzioni tradizionali a vantaggio del primo. Il volgare fiorentino,
a sua volta, resta varietà diamesica, tendenzialmente diastratica e diafasica alta nei
confronti del toscano parlato da cui ha tratto origine, ma nello stesso tempo
ridefinisce, per così dire, il suo rapporto diamesico e diafasico con le restanti parlate
italoromanze in un’inedita contrapposizione fra norma (= lingua) e non-norma (=
varietà non toscane del repertorio); tra uso comune e uso locale o municipale; tra
gravità accademica e immediatezza espressiva; tra registro elevato e formale e
registro colloquiale o dimesso. Dunque, è proprio questa contrapposizione inedita
con la lingua comune italiana, e non più con il latino, a fare delle vecchie parlate, con
o senza tradizione scritta, dei dialetti nel senso oggi comunemente inteso. A partire
da quel momento storico, i dialetti diventano varietà eteronome aventi la lingua
come varietà autonoma di riferimento d’uso; fra questa e quelli viene a istituirsi un
rapporto che da una tendenziale diglossia condurrà a un tendenziale bilinguismo

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(concetto che esclude la sovrapposizione reciproca) o, più precisamente, a una
diffusa dilalia (cioè con parziale sovrapposizione nell’uso della lingua e del dialetto).
Durante i quattro secoli successivi il divario fra lingua letteraria dell’Italia e
lingua parlata degli italiani mostrò una tendenza ad allargarsi. Nell’Ottocento
l’italiano (letterario) era lontano dalla lingua quotidiana della maggior parte degli
italiani non solo in senso strutturale, ma anche dal punto di vista funzionale, in
quanto era rimasto troppo elevato rispetto alle esigenze della vita di tutti i giorni, e
non ben attrezzato per il parlare quotidiano. La percezione della grande distanza
linguistica tra la lingua letteraria e la lingua parlata dagli italiani, in particolare per
quanto riguarda il vocabolario, fu acutamente espressa nell’Ottocento dal milanese
Alessandro Manzoni, per il quale la questione della lingua non era più un dibattito
sulla lingua letteraria, ma sul modo migliore per estendere la conoscenza della
lingua italiana all’insieme del popolo italiano. Da qui viene la sua proposta, che
scelse il fiorentino parlato contemporaneo (nella sua varietà colta), non il fiorentino
letterario arcaizzante, come base della lingua nazionale, fornendo un esempio nella
sua edizione definitiva dei Promessi Sposi (1840). Il punto culminante di una vita di
riflessioni su questo problema fu la relazione, commissionata dal ministro della
Pubblica Istruzione e pubblicata nel 1868, sull’unità della lingua italiana e sui mezzi
per diffonderla, nella quale egli propose, tra l’altro, l’insegnamento del fiorentino
nelle scuole e la pubblicazione di un moderno dizionario fiorentino. Quando
quest’ultimo, palesemente fiorentino fin dalla prima parola del titolo, Novo
vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, iniziò ad apparire nel 1870,
suscitò una memorabile e acuta risposta da parte di uno studioso di storia linguistica
e di dialetti, Graziadio Isaia Ascoli, che sottolineò la poca praticità di una serie di
proposte di Manzoni, e soprattutto di quella volta a sostituire la tradizione letteraria
già esistente con una varietà di fiorentino, la cui struttura presentava molti elementi
poco noti alla grande maggioranza delle persone colte. Ascoli manifestò anche la sua
contrarietà riguardo all’imposizione di modelli linguistici inflessibili di questo tipo,
arcaici o moderni che fossero. Secondo lui, la base dell’italiano doveva essere la
lingua letteraria tradizionale, ma la sua evoluzione a lingua nazionale degli italiani
poteva essere solo il risultato di una accresciuta ed intensificata attività di
collaborazione intellettuale da parte degli italiani, condizione che egli considerava
ancora assente. L’unificazione politica contribuì a promuovere l’espansione

16
dell’italiano in due direzioni principali, pur con tutte le riserve suscitate da secoli di
divisioni regionali. La prima fu una direzione sociale: la lingua fu gradualmente
appresa dal popolo italiano nel suo insieme, grazie al ruolo svolto dalle migrazioni
interne, dal servizio militare, dal sistema scolastico e dai ‘mass-media’. Il secondo,
parallelo, tipo di espansione riguarda gli ambiti di discorso in cui è utilizzato
l’italiano, cioè il suo uso in una serie sempre più ampia di ambiti, nella conversazione
spontanea, nella vita militare, nella burocrazia, nell’amministrazione civile, e così
via. In ogni caso vale la pena di osservare che proprio il corso della storia politica
italiana, con la sua tarda unità, e la vicenda della lingua comune, che si affermò nel
paese assai in anticipo sull’unità politica, sono la prova più evidente che tutto si
potrà dire dell’italiano, lingua fino a ieri inadatta alla conversazione perché diffusa
in prevalenza attraverso il canale della scrittura, non però che esso sia frutto di
imposizione forzosa, di coercizione. Proprio il policentrismo italiano, con il
Piemonte artefice primo dell’unità e Firenze capitale linguistica, garantisce che a
Milano come a Palermo, a Roma come a Venezia, il fiorentino-italiano sia stato scelto
in assoluta libertà. In altre parole, se in Italia si affermò una lingua in assenza di una
struttura statale accentrata, ciò avvenne perché quella lingua poteva contare
unicamente sul proprio prestigio, sentito dalla coscienza comune già in una fase
aurorale (già prima del Trecento), e in seguito consolidatosi ampiamente. In verità,
toccherà ad altre nazioni favorire l’espansione linguistica entro i confini nazionali e
fuori di essi, come insegna la storia della Spagna – si ricordi il celebre motto di
Nebrija “siempre la lengua fue compañera del imperio” –, dell’Inghilterra o della
Russia. Il fiorentino, insomma, si diffuse senza “imperio”, né militare né politico, ed
ebbe nel Cinquecento e nell’Ottocento i suoi ‘campioni’ decisivi in due autori non
toscani, il veneziano Bembo e il milanese Manzoni.

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2. DALLA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE AL MILLE: IL PROBLEMA DELLE
ORIGINI

2.1. Il contesto storico-sociale


È noto che il 476 d.C. è solamente una data emblematica, scelta per segnare
la fine dell’Impero Romano d’Occidente, che nulla ha a che vedere con un processo
di dissoluzione politica, culturale e, in un’ultima analisi, linguistica, iniziato già
precedentemente. La riforma dioclezianea (284 d.C.) aveva cercato di ovviare ai
gravi convenienti derivanti dal centralismo politico (in sintesi, la difesa dei confini
esterni e i problemi di successione), con la ripartizione dell’Impero in quattro grandi
prefetture (Italia, Gallia, Illirico, Oriente), e l’instaurazione della ‘tetrarchia’.
Successivamente Costantino, con la fondazione di Costantinopoli (330), capitale
della parte orientale dell’Impero, accentua la frattura fra Occidente e Oriente.
Alla fine del IV sec. gli ultimi imperatori siedono sul trono senza autorità e vi
si reggono a stento, tra continue congiure di palazzo, quasi sempre organizzate da
generali barbari, comandanti dell’esercito imperiale. L’ultimo imperatore Romolo
Augustulo fu deposto da Odoacre, capo della guardia imperiale, composta in gran
parte da diverse etnie barbare (Eruli, Sciri, Rugi e Turcilingi), che assunse il governo
effettivo in qualità di patricius, dichiarando di volere governare in nome
dell’imperatore d’Oriente, Zenone.
A partire da questo momento si instaurarono in Italia una serie di regni, detti
‘romano-barbarici’: l’unità politica romana d’Occidente è rotta. Saranno invece i
rapporti ecclesiastici che mantengono una comune civiltà, seppure reinterpretata
secondo l’ottica cristiana.
Ben presto giunsero in Italia gli Ostrogoti, comandati da Teodorico e inviati
da Zenone; dopo l’assedio di Ravenna (493), durato tre anni, i Goti presero possesso
dell’Italia. Teodorico riconobbe alla sua gente il diritto di portare le armi, e di vivere
secondo le loro abitudini e i loro costumi, oltre a numerosi privilegi in campo
giuridico, mentre lasciò l’amministrazione civile nelle mani dei Romani. Si ricordi
che, in genere, i barbari non avevano una grande considerazione dei romani, basti
ricordare le glosse di Kassel (IX sec.), in cui si afferma: “Stulti sunt / romani /

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sapienti sunt / paioari (cioè i Bavaresi) / modica est / sapientia / in romanis / plus
habent / stultitia / quam sapientia”.
Le aspirazioni di riconquista delle regioni dell’antico Impero d’Occidente
portò l’imperatore Giustiniano (promotore, fra l’altro, del Corpus iuris civilis
Iustinianei del 534) a invadere l’Italia. Iniziarono così le sanguinosissime guerre
‘greco-gotiche’ (535-552), che si conclusero con la quasi totale distruzione dei goti
nella battaglia di Gualdo Tadino. L’Italia tornò a essere una provincia dell’Impero,
nella condizione della prefettura romana governata da Costantinopoli. I vent’anni di
guerra avevano prodotto uno stato di desolazione indescrivibile: carestie e
pestilenze avevano decimato la popolazione, i territori incolti si erano moltiplicati,
la piccola proprietà era sparita completamente. Questo è il periodo in cui vengono
meno gli ultimi resti della vecchia organizzazione municipale, salvo in poche città;
le curie cittadine scompaiono, si dissolve anche il senato romano. Ora più che mai il
personaggio più importante della città è il vescovo, con intorno a lui il clero della
chiesa cattedrale (o DOMU(M) > duomo) e delle parrocchie. In questo periodo la
grande proprietà agricola raggiunge il suo apice: nella decadenza della città, i centri
di vita economica sono rappresentati dalle ville o corti padronali che formano i centri
delle grandi tenute. Anche i diversi artigiani abbandonano le città e si stabiliscono
sui terreni dipendenti dalla corte: è il cosiddetto regime curtense.
Approfittando del temporaneo vuoto di potere creatosi dopo la morte di
Giustiniano, una nuova popolazione germanica si affaccia sull’Italia: quella dei
Longobardi. Capeggiati da Alboino, invadono la penisola nel 568, e ben presto
conquistano l’Italia del Nord. L’espansione longobarda, a scapito della dominazione
bizantina, continuò fino alla conquista della Tuscia (pressappoco l’attuale Toscana),
di parte della Campania (che dette poi vita al ‘Ducato di Benevento’), l’Abruzzo, parte
delle Marche, l’Umbria (chiamato poi ‘Ducato di Spoleto’), e Molise: nel 680
terminarono le guerre contro i bizantini, i quali mantennero il possesso su Venezia,
il cosiddetto esarcato (all’incirca l’attuale Emilia e Ravenna), la ‘Pentapoli’ (Ancona,
Fano, Pesaro, Senigallia e Rimini), il Ducato di Perugia, quello Romano e quello di
Napoli, la Calabria, la Puglia, la Sicilia e la Sardegna. L’Italia è spezzata in due
tronconi, come vedremo in seguito: un territorio occupato dai bizantini, o Romania,
e uno dominato dai barbari, o Longobardia. I Longobardi furono i primi a occupare
l’Italia come veri e propri conquistatori, senza aver cercato, direttamente o

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indirettamente, una legittimazione da parte dell’Impero bizantino: al posto del
dualismo interno romano-barbarico, subentra quello esterno bizantino-longobardo.
L’VIII secolo fu un periodo difficile per l’Impero Bizantino sia per le conquiste
musulmane che per il travaglio religioso che veniva dall’iconoclastismo, un
movimento riformatore sviluppatosi soprattutto nelle province dell’Asia Minore,
basato sul rifiuto del culto delle immagini sacre. Tale controversia portò ad un
aperto conflitto con il Papa, che aveva ormai assunto importanti prerogative
religiose e civili. Della situazione approfittò il re longobardo Astolfo che, nel 749,
occupò l’Esarcato e Ravenna, costringendo così il Papa Stefano II a chiedere
l’intervento del re dei Franchi Pipino, che assunse il titolo di ‘protettore’ della
Chiesa: giunge così in Italia un’altra stirpe di origine germanica, quella dei Franchi.
Dopo alterne lotte fra Franchi e Longobardi, durante le quali la Pentapoli e l’Esarcato
passarono alla Chiesa (nasceva così lo Stato Pontificio), si ebbe un ultimo tentativo
di rivalsa longobarda nel 771. Il re longobardo Desiderio, infatti, aveva cercato di
risolvere diplomaticamente i dissidi con il re franco Carlo, dandogli in sposa la figlia
Ermengarda, portando così una ventata di distensione fra le due Corone. Ben presto,
però, tornarono alla luce le antiche rivalità, e, nel 773, le truppe di Carlo giunsero a
Pavia e a Verona, che capitolarono solo alcuni mesi più tardi (774), mentre Desiderio
finì prigioniero in Francia (il nuovo nome dato alla Gallia in onore dei Franchi). Carlo
assunse il titolo di Rex Longobardorum. Si ricordi che, proprio su questo sfondo,
Alessandro Manzoni ambienterà una delle sue tragedie, l’Adelchi.
Dal VII secolo erano intanto iniziate le scorribande degli Arabi in Sicilia, che
culminano con lo sbarco del 13 luglio 827, e la successiva arabizzazione dell’isola da
parte dell’emirato tunisino, conclusasi nel 902 con la caduta di Taormina, ultimo
caposaldo bizantino. Solo verso il 1060 inizierà la crisi del potere musulmano, con
la formazione di numerosi staterelli autonomi spesso in lotta fra loro. Proprio in
seguito a uno di questi dissidi interni, viene richiesto l’intervento dei Normanni,
insediatisi in Calabria, i quali finiranno per conquistare l’isola, stabilendovi
l’organizzazione feudale, che caratterizzò a lungo l’organizzazione sociale della
Sicilia.
La notte di Natale dell’800, nella basilica di San Pietro a Roma, il re dei
Franchi, Carlo, venne incoronato imperatore da Papa Leone III, segnando la rinascita
dell’Impero Romano d’Occidente. Ricordiamo, durante il suo dominio, la rinascita

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culturale, che ebbe come centro vitale la Schola Palatina, un’istituzione sorta nel 782
per volontà dello stesso sovrano presso la corte ed alla quale fecero capo studiosi di
tutta l’Europa, tra i quali si distinsero il franco Eginardo, autore di una biografia di
Carlo, e il longobardo Paolo Diacono, autore di una Historia Longobardorum. Ma il
grande progetto di Carlo vacillò dopo la sua morte avvenuta nell’814, con le aspre
lotte iniziate dai suoi successori, che si conclusero solo nell’843 con il trattato di
Verdun, in virtù del quale l’Impero era diviso in tre parti: Italia e Lotaringia (a
Lotario), Germania (Ludovico) e Francia (a Carlo il Calvo). Bisogna sottolineare che
nell’842 Carlo e Ludovico si erano coalizzati, pronunciando un solenne giuramento:
quello di Strasburgo, considerato come il primo documento continuo, cioè formato
da interi periodi, redatto intenzionalmente in volgare (fu infatti riportato nella
Historia di Nitardo, giunta fino a noi in un manoscritto unico conservato oggi nella
Biblioteca Nazionale di Parigi, F.L. 9768). L’Europa stava entrando in una nuova
realtà storico-politica: il feudalesimo.
L’ultima parentesi di unità politica dell’Impero si ebbe con Carlo il Grosso,
dall’877 all’887, anno della sua deposizione, dopodiché seguì il definitivo
smembramento del paese in sei regni: la Francia, la Lorena, la Borgogna, la Provenza,
la Germania e, infine, l’Italia, di cui s’intende, naturalmente, quella parte che era
appartenuta all’Impero (dunque, senza Roma e tutto il Sud con le isole), in mano a
Berengario I, marchese del Friuli. Ben presto il trono d’Italia fu aspramente conteso
fra numerosi pretendenti, fino all’incoronazione di Ottone I di Sassonia nel 962, il
quale cercò di ripristinare l’antico potere imperiale, tentando di riunire l’antico
sacro Romano Impero Romano-Germanico, cosa che gli riuscì solo in parte,
ottenendo l’omaggio feudale da parte dei duchi di Benevento e di Capua, ultimi e
resistenti caposaldi della dinastia longobarda. Analoga fu la politica del figlio Ottone
II (973-983) e del nipote Ottone III , che non riuscirono ad avere la meglio né sui
musulmani vittoriosi in Calabria (battaglia di Stilo, 982), né sui feudatari tedeschi,
che riacquisirono l’antica potenza. Ultimo discendente della dinastia sassone fu
Enrico II, incoronato nel 1014, dopo aver avuto ragione su Arduino, marchese di
Ivrea, pretendente alla Corona d’Italia. Morto senza eredi, il trono passò a Corrado
il Salico, il quale estese anche ai piccoli vassalli il diritto di trasmettere la dignità di
feudatari ai propri eredi.

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Tuttavia i tempi stavano cambiando; e se in Germania l’assetto istituzionale
non doveva ancora subire grandi mutamenti, non era così in Italia, dove la vita delle
città non era mai del tutto tramontata ed ora accennava a riprendere vigore ed una
più larga fascia di cittadini si sentiva sempre più chiamata a partecipare attivamente
alla vita politica locale, ponendo così le premesse per il sorgere di una nuova
istituzione: quella del libero comune.
L’XI secolo fu infatti il secolo della ripresa, del risorgere e dello sviluppo dei
borghi, ove fiere e mercati sempre più frequenti erano il segno di un incremento
dell’attività commerciale che, per un numero sempre più crescente di individui, si
affiancò o sostituì l’attività puramente agricola. Fu dallo stretto legame fra questa
nuova classe sociale, né contadina, né intellettuale, né tantomeno feudale, ed il suo
definirsi borghese, perché viveva nel borgo, che in seguito si definì con questo
termine, indipendentemente da dove abitasse, quella classe che raggruppava in sé
tutte quelle persone che svolgevano professioni che non fossero il lavoro dei campi
o le attività intellettuali, pubbliche o militari. Anche le città ritrovavano nel palazzo
vescovile il centro del proprio risveglio, mentre una nuova istituzione si poneva al
centro della rinata economia: sorgevano infatti a Firenze le prime banche.
Ma la rinascita non era solo economica, bensì soprattutto culturale. Ad
Oxford, a Parigi e, in Italia, a Bologna, vennero fondate le prime università, legate a
una nuova esigenza di creare una cultura in qualche modo indipendente dalla
cultura clericale. Qui si riscopre il diritto romano, mentre la filosofia e la teologia
offrivano argomenti nuovi per approfondire discussioni, preparando la strada alla
grande rinascita del pensiero dei secoli successivi.

2.2. Dal latino classico al latino volgare


Come tutti sanno, l'italiano deriva dal latino, secondo alcuni è lo stesso latino
del XXI secolo, che è andato trasformandosi di generazione in generazione. Il punto
di partenza non è il latino classico2, bensì un “latino volgare”, ossia una varietà

2 Gli storici della lingua e della letteratura latine distinguono almeno cinque varietà del latino:
- latino arcaico (dall’VIII secolo a.c. alla fine del II secolo d.c.: l’età di Plauto, Terenzio, Catone e
Lucilio); latino preclassico (dalla fine del II secolo a.c. alla prima metà del I sec. a.c.: l’età di Lucrezio,
Catullo e Cesare); latino classico (dalla seconda metà del I sec. a.c. alla morte di Augusto, avvenuta
nel 14 d.c.: l’età di Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio e Tito Livio); latino postclassico (dalla morte di
Augusto alla fine del II sec. d.c.: l’età di Seneca, Petronio, Marziale, Giovenale, Tacito, Plinio il Giovane,
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parlata, presumibilmente alquanto diversa da una regione dell'impero romano. In
apparenza non c'è discontinuità fra latino e italiano. In realtà le trasformazioni sono
profonde e investono la stessa tipologia delle due lingue. Latino e italiano sono
lingue flessive, nelle quali un morfema ci dà diverse informazioni grammaticali; in
italiano il morfema -i (ad esempio, in ragazzi) indica che la parola è maschile e
plurale; ma in latino la concentrazone di informazioni è maggiore: in puer-os, -os ci
dice non solo che è maschile e plurale, ma anche che si tratta di un accusativo, cioè
un complemento diretto. Per conseguenza l'ordine delle parole nella frase è
cambiato, siamo passati dall'ordine relativamente libero del latino (con la sequenza
prevalente S-O-V) a quello chiuso del volgare S-V-O: a fronte di Livia Marcum amat
(ma anche Marcum Livia amat), troviamo l'obbligato Livia ama Marco (in amore
l'ordine degli addendi non è indifferente...). Se volessimo mettere in evidenza
l'oggetto, dovremmo ricorrere a una frase marcata, come la frase scissa: È Marco che
Livia ama ( e non Guglielmo o Pietro). Le differenze linguistiche fra latino e italiano
investono l'intero edificio linguistico, a partire dalla fonetica. Ricordiamo qui
l'essenziale:
1. Il sistema vocalico tonico dell’italiano, del sardo e del siciliano.
Il sistema dell’italiano, così come quello delle altre lingue romanze, si è
formato dallo sviluppo del sistema vocalico latino. La lingua italiana ha un sistema
di sette vocali, perché é ed è costituiscono opposizione fonematica, cioè possono
distinguere due parole altrimenti identiche: pésca (‘atto del pescare’) - pèsca
(‘frutto’)3. Il latino aveva dieci vocali, distinguibili in cinque lunghe e cinque brevi,
cioè si distinguevano in base alla quantità4. La distinzione di lunghezza (o ‘quantità’)
svolgeva un ruolo fondamentale nel sistema vocalico e consonantico del latino, ed
erano numerose le coppie minime distinte soltanto dall’opposizione tra vocali
lunghe e brevi: PŎPULUS, ‘popolo’, vs. PŌPULUS, ‘pioppo’; FRĬCTUS, ‘strofinato’, vs.
FRĪCTUS, ‘fritto’; GRĂDUS, ‘il passo’, vs. GRĀDUS, ‘i passi’, ecc. Ad un certo punto,

Svetonio e Apuleio); latino tardo (dalla fine del II secolo d.c. all VII-VIII secolo d.c.: l’età di Ambrogio,
Damaso, Prudenzio, Girolamo, Agostino e Orosio).
3 Bisogna comunque ricordare che l’italiano regionale non-toscano annulla le differenze di pronuncia

tra vocali aperte e chiuse.


4 L’accento era proparossitono (cioè cadeva sulla terzultima sillaba di una parola di tre o più sillabe),

a meno che la penultima sillaba non fosse pesante (cioè contenesse una vocale lunga oppure una
vocale, lunga o breve, seguita da una consonante), nel qual caso l’accento era parossitono, cioè cadeva
sulla penultima sillaba della parola. La collocazione dell’accento in latino, dunque, era interamente
predicabile sulla base dell’informazione fonologica.
23
però — soprattutto quando il latino cominciò a estendersi in Europa e in Africa e si
sovrappose a lingue che, nel loro sistema vocalico, non conoscevano l’opposizione
fonematica fra vocali lunghe e brevi8 — la ‘quantità’ vocalica latina non fu più
avvertita, cessò di avere rilevanza, e si trasformò in ‘qualità’, con un corrispondente
aumento della gamma della qualità vocalica. Le vocali brevi del latino erano
pronunciate con un’articolazione più aperta delle corrispondenti vocali lunghe.
Questa pronuncia si accentuò, per cui i parlanti pronunciarono le lunghe come
strette e le brevi come aperte. Nel sistema vocalico che storicamente sta alla base di
quello italiano, le vocali brevi (ma non la A, che aveva un’apertura massima)
accentuarono questa distinzione di apertura in modo tale che, mentre la Ī e la Ū
lunghe conservarono la propria qualità, la Ĭ e la Ŭ brevi si aprirono in e e in o,
fondendosi così con gli esiti della Ē e della Ō lunghe del latino. La Ĕ e Ŏ invece
assunsero un’articolazione medio-bassa nelle sillabe toniche. Il risultato fu un
sistema a sette vocali che non solo si differenzia da quello di altre lingue romanze,
come il francese o lo spagnolo, ma si distacca da quello di determinate parlate
italiane, fra cui ricorderemo quello del sardo (Ī Ĭ > i; Ē Ĕ > e; Ā Ă > a; Ŏ Ō > o; Ŭ Ū >
u) e quello del siciliano (Ī Ĭ Ē > i; Ĕ > è; Ā Ă > a; Ŏ > ò; Ō Ŭ Ū > u). Il vocalismo tonico
è un elemento distintivo importante per stabilire la provenienza geografica di un
testo. Si osservi ancora che il toscano (e quindi l’italiano) non conosce le vocali
turbate (ö e ü), che si riscontrano in certe zone dell’Italia settentrionale, ad esempio
in Piemonte, Liguria e Lombardia, e che sono caratteristiche anche del francese.
Inoltre i dittonghi latini AE e OE si trasformarono rispettivamente in Ĕ breve e Ē
lunga già all’inizio dell’era volgare: LAETU(M) > lieto, POENA(M) > péna; il dittongo
AU resistette più a lungo, anche se i primi casi di monottongazione del tipo
CAUDA(M) > CODA si verificarono già in epoca classica. L’esito italiano di AU e ò,
come in AURU(M) > òro.
2) Le consonanti finali cadono, prima fra tutte la -M (del resto accadeva già nel latino
classico (nell'elogio funebre di Lucio Cornelio Scipione, che fu console nel 259 a.C. si
legge “cepit Corsica Aleriaque urbe”), più tardi la -s, che invece ha resistito nelle
lingue romanze occidentali (come in spagnolo, in francese fino al Bsso Medioevo, ma
si conserva nella grafia e nei casi di liaison, come in les hommes). La grande

8Dice infatti Sant’Agostino: “Afrae aures de correptione vocalium vel productione non iudicant” e
avverte che gli Africani confondevano facilmente ŏs ‘osso’ con ōs ‘bocca (En. In Psalm., 138, 20).
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maggioranza delle parole deriva dall'accusativo, che è l'unico caso che, per il
singolare, può dare ragione di tutti gli esiti italiani. Sicuri relitti del nominativo uomo
> HOMO, moglie > MULIER, sarto < SARTOR, re < REX.
3) Si produce una serie di decurtazioni fonetiche: l'aferesi (IBI > vi); la sincope (della
vocale postonica in proparossitona, come con il suffisso -ULUM/-ULAM in VETULUM
e SITULAM > vecchio e secchia).
4) Radicalmente ristrutturato il sistema verbale. Si perde il passivo organico a favore
del perifrastico (da AMOR a SUM AMATUS); i verbi irregolari scompaiono (IRE a
favore di AMBULARE/*AMBITARE > andare) o vengono regolarizzati (VOLO, VIS,
VOLUI, VELLE crea un paradigma modellato sulla 2ª coniugazione latina, favorito
dal perfetto VOLUI, accostato ai perfetti della 2ª coniugazione come HABUI: *VOLEO
> voglio; *VOLES > vuoli > vuogli > vuoi; *VOLERE > volere); si perde il futuro
organico sostituito da una perifrasi (CANTARE *AO invece di CANTABO); nasce un
modo verbale nuovo il condizionale, formato dalla perifrasi CANTARE *HEBUI nel
toscano, invece di CANTARE HABEBAT largamento diffuso altrove, ad esempio nella
penisola iberica.

2.3. Quando nasce una lingua: il problema delle “origini”


La genesi di una lingua è un fenomeno lungo e complesso. Nel caso del
passaggio dal latino alle lingue romanze, la trasformazione durò secoli, e si svolse
sul piano dell’oralità, visto che il latino continuò a mantenere il ruolo di lingua della
cultura e della scrittura. Nel corso del tempo, però, lo stesso latino cambiò, in parte
per l’ignoranza degli scriventi, oltre che per nuove abitudini ormai invalse. Si parla
di un ‘latino medievale’ come di un’entità specifica a sé stante, diversa dal ‘latino
classico’, e, naturalmente, diversa anche dal ‘latino volgare’. Vi fu dunque un lungo
lasso di tempo in cui la lingua volgare, formatasi dalla trasformazione del latino
volgare, esistette nell’uso, sulla bocca dei parlanti, ma ancora non venne utilizzata
per scrivere. In questa fase, interamente affidata all’oralità, non furono prodotti
documenti: manca dunque a noi posteri la possibilità di avere dei campioni di questa
lingua. Ad un certo punto, però, l’esistenza del volgare cominciò a farsi sentire,
almeno in maniera indiretta. La si avverte nel latino medievale, che lascia trapelare
in modo a volte evidentissimo i volgarismi, tanto che ci si accorge facilmente che chi
scriveva quel latino in realtà stava pensando in un’altra lingua, e si limitava non di

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rado a una traduzione superficiale. Perché si affermasse la dignità delle nuove
parlate romanze, dunque, era necessario che si accettasse di metterle per iscritto e
si prendesse l’abitudine di farlo sistematicamente. Il problema non era tanto
semplice, e non solo per ragioni puramente tecniche. Le ragioni tecniche discendono
dal fatto che non è facile scrivere una lingua che in precedenza è sempre stata orale,
e non ha tradizione di cultura alle proprie spalle. La resa grafica di certi suoni o
fonemi può creare seri problemi, e deve essere conquistata con approssimazione.
Mettere per iscritto una lingua orale è dunque un’operazione complessa, che implica
una scelta difficile, la quale può essere determinata solo da profonde ragioni di
ordine culturale. Se cercassimo queste ragioni, per i volgari italiani, dovremmo
orientarci verso il sec. XI: solo allora alcune scuole di scrittori scelsero la nuova
lingua in maniera motivata o sistematica, tenendo presente il modello di altre
letterature volgari, nate e sviluppatesi oltralpe. Se invece ci accontentiamo di
documenti più modesti, capaci di mostrare la presenza occasionale del volgare in
carte di uso pratico, in atti notarili, in graffiti murali, in elenchi di conti, in versicoli
di modesto valore, allora possiamo trovare qualche cosa anche prima di tale secolo.
La caratteristica dei documenti antichi del volgare è comunque la casualità:
casualità nella loro realizzazione, che è sempre dovuta a eventi accidentali, come il
ritrovamento fortuito. Oggi disponiamo di un corpus ben definito di antichi
documenti italiani, ma nulla esclude che altri possano aggiungersi a quelli noti: il
Conto navale pisano, non a caso, è saltato fuori fortunosamente negli anni '70 del
Novecento a Filadelfia, negli Stati Uniti, dove nessuno, di primo acchito, avrebbe
pensato di trovare qualche cosa del genere. Ogni nuova scoperta è un passo avanti,
che pur si colloca in quadro generale destinato a non mutare radicalmente. Eppure
le nuove testimonianze, anche quelle apparentemente piccole, aiutano a meglio
riflettere sul rapporto tra volgare e latino, tra lingua scritta e lingua parlata, o
mostrano l’antichità di certi fenomeni linguistici che ancor oggi sono vivi e vitali. La
prima testimonianza di uso consapevole del volgare a livello ufficiale è legata al
Concilio di Tours, voluto da Carlo Magno, tenutosi nell'anno 813, grazie al quale si
stabiliva che, mentre la liturgia rimaneva in latino, la predicazione doveva avvenire
in “rusticam romanam linguam (i volgari romanzi) aut thiotiscam (le lingue
germaniche)”: questa norma legittimiva, in sostanza, le lingue volgari,
modificandone quindi non la diffusione ma lo status. A qualche decennio più tardi

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risale il primo documento della lingua francese, i famosi Giuramenti di Strasburgo
dell’842. La situazione è ufficiale, e non lascia spazio a equivoci. Nella Historia di
Nitardo (morto nell’844, quindi contemporaneo agli eventi di cui parla), scritta in
latino, si legge che il 14 febbraio dell’842 Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, di
fronte ai loro eserciti, giurarono alleanza contro il fratello Lotario. Ludovico il
Germanico era sovrano di un territorio di lingua tedesca; Carlo il Calvo era sovrano
di un territorio galloromanzo. Ognuno dei due re giurò nella lingua dell’altro: Carlo
giurò in tedesco, Ludovico in francese; i capi dei eserciti, invece, giurarono nella
propria lingua. Lo storico Nitardo ci ha trasmesso le formule dei giuramenti: il
giuramento di Ludovico è quindi il più antico documento del francese. Come si vede,
l’intenzionalità nell’uso del volgare è in questo caso evidente, come dicevamo,
perché legata ad una situazione pubblica e ufficiale come un patto di alleanza tra due
sovrani. Se paragoniamo questo documento a quelli relativi al volgare italiano,
riscontriamo un’analogia e una sostanziale differenza: l’analogia sta nel fatto che
anche il cosiddetto ‘atto di nascita’ della lingua italiana, il Placito Capuano, è una
formula connessa a un giuramento; la profonda differenza sta nel fatto che il
documento italiano (più tardo di oltre un secolo) non si lega a un evento storico di
rilievo, ma nasce da una piccola controversia giudiziaria di portata locale. Il primo
documento dell’italiano è dunque in tono ‘minore’ rispetto a quello della lingua
francese. Si osservi che anche i più antichi documenti del provenzale sono
giuramenti (non processuali, ma di fedeltà, quelli di Guglielmo IV di Montpellier).
Ciò dimostra che, seppure con una certa casualità e con stento, il volgare comincia a
essere scritto intenzionalmente in circostanze che esigono l’uso di una ‘formula’, la
quale deve essere recitata e intesa in maniera univoca, per non dar luogo a equivoci
(ciò conferma, fra l’altro, che il latino era ormai sentito come una lingua morta).
Si tratta ora di chiedersi quando sia nato il volgare in Italia, cioè quando il
latino è diventato “qualcosa di nuevo” dando vita alle nuove forme linguistiche. Gli
studi degli ultimi decenni, arricchiti dagli apporti di discipline non esclusivamente
storico-linguistiche, come l’etnolinguistica e la sociolinguistica, affrontano da
prospettive differenti il problema del passaggio dal latino alle lingue romanze,
tralasciando in genere del tutto il latino volgare, attorno al quale sembra essersi
spenta per esaurimento interno ogni polemica. L’attenzione si è infatti spostata sulle
modalità del cosiddetto “passaggio alla scrittura”, o sulla consapevolezza linguistica

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dei parlanti, attingibile in forma indiziaria, per i secoli che precedono le prime
testimonianze romanze, e cioè in sostanza per l’età precarolingia, da testi latini in
cui sia possibile individuare una fenomenologia linguistica già tendenzialmente
romanza. Esemplificando qualche punto, ricorderemo che entro il IV o tutt’al più
entro il principio del V secolo era scomparsa la distinzione quantitativa del sistema
vocalico latino, cui si erano sostituite le differenze di timbro vocalico fra vocali
aperte e chiuse; la -M finale già dal I secolo d.C. era ammutolita, o perlomeno era
soggetta a un’articolazione estremamente debole; la confusione fra B e V è databile
al III secolo d.C., ma già dal I secolo a Pompei si trovano grafie come BIXIT per VIXIT
‘visse’ e SERBUS per SERVUS ‘servo’. È precoce (dal II secolo), a Roma, nell’Italia
centro-meridionale e in Africa la confusione, nelle grafie, fra DI + vocale, I + vocale e
GE, GI (per esempio: AIUTOR per ADIUTOR, ZACONUS per DIACONUS, GENUARIA
per IANUARIA); le palatali e le affricate prodotte dall’azione di una jod, come faccia
< *FACIA, per il lat. cl. FACIES, o piazza < PLATEA, fanno la loro comparsa a partire
dal II-III secolo, mentre è più tarda la palatalizzazione di [k] davanti a e, i, la cui
estensione sistematica non si è prodotta che dopo la caduta dell’Impero d’Occidente,
alla fine del V secolo. Passando alla morfologia del nome, le prime difficoltà
nell’identificazione dei casi si avvertono nelle province prima che a Roma, dove,
però, nel IV-V secolo si notano numerosi esempi di confusione fra i casi obliqui
(specialmente nelle iscrizioni cristiane), mentre, per l’Italia, lo scardinamento del
sistema casuale è più tardo, certamente posteriore al VI secolo. Quanto al verbo, i
cambiamenti più appariscenti, che riguardano la formazione di nuovi tempi verbali,
come il futuro dall’infinito + HABEO (porterò < PORTARE HABEO), il condizionale
perifrastico dall’infinito + HABUI (amerei < AMARE HABUI) o dall’infinito +
HABEBAM (amaria < AMARE HABEBAM), il passivo analitico (sono amato invece che
AMOR), i tempi passati formati con avere (ho amato dalla perifrasi AMATUM
HABEO), non si grammaticalizzano che dopo la caduta dell’Impero.
Ma come e quando mutano globalmente gli equilibri linguistici interni al
latino, così che si possa parlare di una pluralità di lingue nuove e non delle diverse
articolazioni di uno spazio linguistico ancora unitario? Se è indiscutibile che molti
dei cambiamenti che intervengono nelle lingue romanze sono già presenti, come
tendenze in atto, nel latino, e talvolta già nel latino arcaico, nel corso del VII e
dell’VIII secolo, dunque, il processo di disgregazione di un equilibrio linguistico che

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si riconosce ancora come sostanzialmente latino diviene irreversibile. In questa fase
agli antichi centri del potere imperiale (Roma e Costantinopoli) si sostituiscono i
nuovi centri di potere (i regni romano-barbarici), alla dialettica politica e culturale
fra il centro e le province dell’Impero succede una diversa segmentazione delle sedi
istituzionali (l’Impero d’Oriente, il Papato, la pluralità dei regna germanici), alla
tradizionale scansione dei ceti dirigenti dell’occidente romano subentra una diversa
aristocrazia che fonda sulla forza la propria autorevolezza. Nel corso di questi secoli
si fa strada nei parlanti la consapevolezza di uno iato linguistico non più colmabile
fra livelli distinti di una lingua che era un tempo unica. Sono i secoli durante i quali
si assiste non solo a una progressiva riorganizzazione degli equilibri politici e sociali
vigenti nell’Europa occidentale, ma anche alla parcellizzazione dei luoghi deputati
alla trasmissione della cultura, a una progressiva ruralizzazione dell’economia, al
collasso progressivo delle tradizionali vie di comunicazione, alla rarefazione dei
centri urbani che investirà, seppure in forma più blanda, anche la penisola italiana.
In Italia una vera e propria frattura giunse più tardi che nelle restanti parti
dell’Impero, con l’avvento dei Longobardi. Con l’occupazione della dorsale
appenninica, fino alle propaggini meridionali costituite dai ducati di Benevento e di
Spoleto, con la fissazione dell’aula regia in una città, Pavia, strategicamente più
adatta di Roma a fungere da centro del nuovo regno, i Longobardi furono in realtà i
primi veri barbari con cui la penisola italiana si trovò a fare i conti. Non a caso si è
soliti far scaturire proprio dall’avvento dei Longobardi una importante divisione
dell’Italia in zone di differente influenza e cultura: un’Italia appenninica di tipo
longobardo, sede privilegiata dell’azione benedettina, e un’Italia costiera, legata al
mondo bizantino di lingua greca.
Solo con il rinascimento carolingio, cioè con la diffusione di testi latini purgati
e normalizzati, ci si rese conto dell’incolmabile distanza esistente fra latino classico
e volgare. Anche se oggi si tende a ridimensionare il ruolo svolto dalla rinascita
carolingia, di certo dovrà essere interpretata come una congiuntura che accelerò e
favorì il passaggio dei volgari alla scrittura. Anche la convivenza fra lingue romanze
e lingue non romanze in uno stesso territorio è stata indicata come un fattore
importante per l’affermarsi di una coscienza linguistica ‘volgare’, perché il confronto
deve aver favorito la presa d’atto dell’esistenza di varie realtà linguistiche di uguale
prestigio e, di contro, di una lingua della cultura, il latino, unitaria e universalmente

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comprensibile nello spazio geografico, ma non in quello sociale. Comunque
bisognerà sottolineare che, in Italia, le capitali culturali si mantennero a lungo nelle
diocesi e nei conventi, abbastanza validamente sì per conservare documenti e cimeli,
ma non al fine di consolidare, coordinare e uniformare le nascenti tradizioni
dialettali, ancora frantumate, ritardando, rispetto ad altri paesi, l’emancipazione del
volgare.

1.3. Continuità nella diversità: il lessico


Nel volgare altomedievale fu massiccio l’afflusso di voci provenienti dalle
lingue delle popolazioni – tribù germaniche, bizantini e arabi – stanziatesi in epoche
diverse nella penisola.
I grandi cambiamenti, comunque, non riguardarono solo l’ampliamento del
patrimonio lessicale grazie ai prestiti, ma interessarono anche l’originario nucleo
latino, che fu soggetto a profonde modificazioni semantiche. Lo stato di
disintegrazione in cui versava l’Italia del medioevo trova ampia testimonianza nei
dati linguistici. In linea generale il processo di frammentazione in senso dialettale
comincia a delinearsi nell’età tardoantica e deve aver raggiunto la fase più attiva nel
clima del particolarismo medievale. La fine dell’Impero romano d’Occidente, con lo
sfasciamento delle strutture amministrative e militari, il rapporto tra città e
campagna comincia ad assumere una dimensione nuova. Impoverite dalla
cessazione dei traffici a largo raggio, impoverite dai saccheggi e decimate dalle
epidemie, le città decadono e moltissime scompaiono; riescono a sopravvivere solo
le città che fungono da nodo stradale, fluviale, portuale o militare. Le città si
muniscono di mura onde difendersi dalle scorrerie, e quindi si isolano, la
popolazione urbana diminuisce bruscamente a causa delle epidemie e per l’esodo
della vecchia borghesia terriera. E pertanto i centri propulsori della vita economica
si trasferiscono nelle grandi proprietà terriere. La supremazia economica della
campagna si rispecchia significativamente in alcuni mutamenti semantici, che sono
orientati in due sensi:
1) una realtà contadina assume un valore più generico:
- CASA, originariamente abitazione del contadino o del pastore, viene a designare un
edificio qualsiasi (la prima testimonianza è del 491);

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- VILLA, che designava la fattoria con i suoi terreni e più tardi una residenza di tipo
rustico, acquista il valore di paese, e più tardi in Francia, intorno al 1000, ville
diventa sinonimo di cité (in Italia villaggio deriva probabilmente dal latino
medievale villagium, attestato nel 1235. Ricordiamo anche il derivato villano,
‘abitante della villa’, e il più tardo valore spregiativo).
- COHORTE antica designava lo spazio centrale della fattoria, circondata dalle
abitazioni e da altre costruzioni, dal sec. VI la parola viene a comprendere
l’abitazione del grande proprietario terriero, più tardi designa per analogia la
residenza del sovrano e il suo seguito.
2) un significato più lato è applicato per antonomasia a una realtà rustica:
- MASSA, originariamente ‘ammasso, mucchio’, viene ad indicare un complesso di
fondi con le costruzioni annesse, e quindi un grande patrimonio terriero
(innovazione tra i secoli IV e V), e allo stesso tempo la parola entra nella
nomenclatura toponomastica: Massa Carrara, Massa Fermana (AP), Massa Fiscaglia
(FE), Massa Lombarda (RA), Massa Lubrense (NA), ecc. Massarius era colui che
amministrava per conto del proprietario la proprietà, più tardo invece il derivato
massericius che darà poi vita a un concetto fondamentale dell’economia comunale,
la masserizia.
- PLEBS, dal latino paleocristiano che indica il ‘popolo di Dio’, passa a indicare un
distretto ecclesiastico che non è sede episcopale (documentato per la prima volta
nel Codice Diplomatico Longobardo, nell’anno 650). Da tale nuova accezione
nascono i toponimi comunissimi composti con pieve: Pieve d’ Alpago (BL); Pieve di
Cadore (BL), Pieve di Cento (BO), Pieve di Soligo (TV); Pieve Santo Stefano (AR), Pieve
Ligure (GE), ecc. Al Sud prevale invece il termine parrocchia.
- LABORARE si specializza nel senso di lavoro dei campi, da cui l’it. ant. lavoratore,
cioè attuale ‘contadino’, anche se con specifico riferimento alla coltivazione dei
cereali.
Inoltre, parallelamente, nascono parole nuove, che hanno importanza per
l’economia rurale, documentate in testi del sec. VI. Si tratta di campania , campicellus,
(via) capitanea (da cui deriva l’italiano cavedagna ‘viottolo campestre’ e capezzagna
‘estremo lembo del campo di solito lasciato incolto’), casale, cava , collina, flumicellus,
fontana , monticellus , planura , caricare , montania.

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La frammentazione dialettale si determina sul piano dello spazio, ma opera
anche in senso verticale, in relazione alla scala sociale. Infatti il grado di diversità
interna è più alto nei ceti popolari che nelle classi privilegiate: il grado massimo di
frammentazione si riscontra nella terminologia agricola. Silvio Pellegrini, ad
esempio, ha raccolto le varie denominazioni che si applicano o si applicavano alle
operazioni e agli strumenti agricoli nell’area italiana, deducendone un dato di
particolare interesse: infatti è estremamente elevato il numero di sinonimi
riscontrabili in questo campo (canale d’irrigazione, 40 sinonimi; zolla, 30; bica, 20,
ecc.). Ugualmente diversificata è la terminologia degli strumenti di lavoro e dei nomi
di mestieri. Se invece consideriamo significati che sono propri dello strato colto o da
esso si diffondono (es.: anima, leggere, legge, libro, persona, religione, scrivere), e più
generalmente i latinismi, non troveremo sinonimi. Insomma la differenziazione
interna raggiunge il massimo grado nell’Italia contadina e il punto minimo nell’Italia
dotta, che rimane tributaria della tradizione culturale latina.
La composizione multietnica dell’Italia altomedievale ebbe dirette
conseguenze sugli aggettivi riferiti alle diverse nazionalità, finendo per indicare
anche grandi zone di influenza, politica e linguistica, della penisola. In un paese
spaccato in quattro tronconi, due longobardi e due bizantini e privo di centri
commerciali di portata sovraregionale, il nome Italia non poteva simboleggiare una
realtà viva e operante. Comunque, prima di analizzare i nomi derivati dalle nuove
etnie, bisognerà ricordare le voci mutuate dal latino classico.
L’aggettivo romanus, derivato da Roma5, aveva in origine un valore etnico
(abitante di Roma) e uno politico (cioè ‘chi era in possesso della cittadinanza
romana’, come differenziazione dai Latini). Quando però il diritto di cittadinanza
romana, già esteso nel 49 a.C. alle città transpadane, con l’editto di Caracalla
(Constitutio Antoniniana) fu elargito a tutti i sudditi liberi dell’Impero (Ulpiano, Dig.
I, V, 17: In orbe romano qui sunt ex constitutione imperatoris Antonini cives effecti
sunt), romanus perdette il suo significato originario etnico, per conservare invece
quello politico. E se in un primo tempo Romani si opposero a Latini, con la
formazione ed estensione dell’Impero, Romani si oppose solo a Barbari. Nella parte

5 Si tratta di un gentilizio di origine etrusca, cioè Ruma. Secondo Servio (Ad. Aen. VIII, 63.90), Rumon
era l’antico nome del Tevere, e il ficus Ruminalis sarebbe stato l’albero di fichi sotto cui la lupa avrebbe
allattato Romolo e Remo.
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orientale dell’Impero, dove il latino non riuscì mai a soppiantare il greco, Romàioi
erano i Romani (romaistì lalèin = latine loqui), ma, dopo che Costantinopoli divenne
la capitale dell’Impero d’Oriente, il termine fu applicato anche ai Greci (qualche volta
si distinguevano i Romani Occidentali o più antichi da quelli Orientali, cioè gli
ellenofoni).
Al momento delle invasioni barbariche Romanus ha un valore politico e
linguistico allo stesso tempo; perderà il suo valore politico con l’instaurazione dei
regni romano-barbarici, assumendo un significato linguistico fortemente
spregiativo (i non barbari erano infatti chiamati Walha, cioè ‘inetti’). Su Romanus
viene coniata la forma Romania (costruita sul modello degli altri nomi di nazioni in
-ia: Gallia, Britannia, Germania, ecc.), che meglio si prestava all’uso quotidiano di
imperium romanum / orbis romanum, ed è opposto a Barbaria, cioè tutti i paesi
stranieri, eccetto l’Italia e la Grecia (Cicerone, De fin., II, 15, 49: A quo (philosopho)
non solum Graecia et Italia, sed etiam omnis Barbaria commota est), anche se in epoca
classica, e all’epoca delle invasioni, si riferì specialmente ai Germani.
Così nei tempi classici latine loqui equivaleva a romane loqui. In epoca arcaica
esisteva un altro aggettivo romanicus, cioè ‘fatto alla foggia romana’ (per es., aratra
romanica, olei romanici). Con il passare del tempo romanicus prese il posto di
romanus, così come romanice corrispose a romane. Si ricordi inoltre che nell’epoca
tardo imperiale romanice parabolare o fabulare significa parlare non in lingua
germanica: da questa forma si sono sviluppate le espressioni che indicano le nuove
lingue nate dal latino, fra le quali troviamo anche l’it. romanzo < franc. ant. romanz.
Durante l’epoca dei regni romano-barbarici in Occidente Romania indica
l’insieme di coloro che parlano romane o romanice e l’intera civiltà erede di romana.
Con la restaurazione del potere imperiale d’Oriente in Italia, e con le invasioni dei
Longobardi, Romania inizia ad indicare i territori occupati dagli eredi dell’Impero
romano, da cui è derivato il nome dell’attuale regione italiana, la Romagna – che
corrisponde grossomodo all’Esarcato dell’epoca –, mentre i territori occupati dai
Germani verranno chiamati Langobardia (da cui, in seguito, deriverà Lombardia).
Per lungo tempo l’Italia del Nord sarà chiamata Lombardia, e i suoi abitanti
Lombardi. Così non di rado Romania è opposta a Longobardia: Multae sunt, pro dolor!
in Romania atque Langobardia insidiae! (Thiettmari, Chron. VII, 3). Il termine

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Langobardia per indicare gran parte dell’Italia settentrionale e centro-meridionale
durerà fino alla costituzione del Regno d’Italia in epoca carolingia.
Italia è nome di tradizione classica, che designava in origine l’estremità
meridionale della Calabria, estesa, per alcuni geografi, fino a Taranto (Italia è nome
di origine osca: Viteliu ‘terra dei vitelli’, dall’umbro vitluf latino vitulus. Secondo
alcuni studiosi il nome Italia deriverebbe dal ‘totem’ venerato dagli antichi abitanti,
che avrebbe avuto forma di vitello. Secondo altri, invece, sarebbe il ‘paese della tribù
dei figli del toro’, *witaloi). Nel III sec. a.C. Il nome si estende fino alla catena alpina
con l’avanzarsi della conquista romana. La sanzione ufficiale del nome si ha con
Ottaviano nel 42 d. C., mentre l’unione amministrativa delle isole si ha con
Diocleziano. In seguito il suo nome decade in certi periodi storici, quando si vuole
indicare un organismo politico-amministrativo, sostituito da quello di alcuni grandi
regioni, come Lombardia, Romagna, Tuscia, Gotia, ecc. Nell’alto medioevo per molto
tempo Longobardia è sinonimo di Italia, e lo stesso nome, per le caratteristiche
fonetiche, deve essere una forma dotta, altrimenti avrebbe dato forme del tipo
Itaglia, Idalia, Talia, ecc. Il nome comunque non scompare ma viene riservato agli
intellettuali, che usano anche, per reminiscenze virgiliane, il termine Ausonia (cioè
la terra degli Ausoni, antichi abitanti che abitavano tra il Lazio meridionale e lo
stretto di Messina, di origine italica; gli scrittori greci indicavano con questo nome
l’Italia non greca), ma sappiamo bene che la cultura classica ebbe un’incidenza
superficiale sulla società del medioevo. In latino, comunque, non esisteva l'aggettivo
*italianus, ma erano invece presenti italus o italicus. Il derivato italiano nasce, a
quanto pare, verso la metà del Duecento, attestato in quattro passi del Trésor di
Brunetto Latini: nella traduzione toscana ytalien viene reso una volta italiano,
altrimenti d’Italia. Rimarrà comunque frequentissimo fino al ‘400 il più antico
derivato italico, che non è conforme alla morfologia volgare. Ed è di nuovo
significativo che italiano si configuri come esito dotto, dal momento che manca della
palatalizzazione della laterale, come in figlio. Il concetto di Italia comincia a
diffondersi quando la cultura si apre a un orizzonte sociale più vasto nell’età
comunale, ma rimarrà a lungo una nozione avulsa dalla realtà politica, culturale e
linguistica. Nella grande maggioranza dei testi del Due e Trecento, l’uso di Italia,
italiano, italico si conforma ai seguenti moduli: l’Italia del periodo romano; come

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espressione geografica; come contrasto rispetto a genti straniere; come
denominazione comprensiva delle singole genti italiane.

1.4. Dal latino al volgare: gli errori involontari nei documenti notarili
Si è appena visto che la trasformazione dal latino all’italiano non ha una data,
è il punto d’arrivo di una storia senza iati, di un continuum di eventi che
continuamente ristrutturano il latino in una lingua di tipo moderno. Certamente a
partire dal sec. VI la distinzione tra latino e volgare è una realtà di fatto che si traduce
consapevolmente nell’uso linguistico differenziato. Nell’Alto Medioevo latino e
volgare sono due sfere autonome che interferiscono solo, in una fascia marginale. Il
vernacolo serviva alle esigenze del momento contingente, cioè al rapporto
colloquiale entro la famiglia e la comunità. Il latino era conforme al grado di cultura
del locutore, era prerogativa di una minoranza e assolveva agli interventi scritti o
anche orali, che trascendono il rapporto colloquiale tra i membri della comunità: ai
discorsi di tenore religioso, amministrativo, giuridico, letterario e alla
comunicazione interregionale e internazionale. Insomma l’uso linguistico era
regolato da un criterio funzionale. Ma poiché la stragrande maggioranza della
popolazione era analfabeta e quindi monolingue, solo la minoranza colta praticava
alternativamente i due codici. Per questa minoranza si parlerà di diglossia
consapevole, poiché l’uso dell’altro codice dipende dal tenore del discorso e dal
rapporto con l’interlocutore. Se la minoranza colta non avesse avuto coscienza della
diversità dei sistemi che impiegava, come avveniva nell’evo antico, si sarebbe creata
una lingua mista di volgare e latino, ma questa condizione non à documentata da
testi, né avvalorata dalla ricostruzione linguistica. I documentati altomedievali sono
sempre redatti in latino, un latino in cui affiorano frequentemente tratti isolati del
volgare, ma ciò non implica la volontà di applicare un codice più moderno: si tratta
semplicemente di errori di tipo scolastico derivanti dallo stato di degradazione
dell’insegnamento. Fa eccezione un certo numero di passi testuali che assumono
volutamente una struttura panromanza quando si tratti di liste di oggetti o di beni
che debbono essere comprensibili anche agli illetterati. Accanto al latino semplice
ma corretto di Paolo Diacono, o a quello più approssimativo dell’editto longobardo

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di Rotari, abbiamo il latino irriconoscibile di tante carte notarili. Questa
degenerazione non è però determinata da una progressiva affermazione del volgare,
ma è solo prova della scarsa conoscenza del latino. È questo il caso di una carta
pisana del 750, tratta dal Codice diplomatico longobardo, nella quale un certo Racolo
conferma la donazione dei suoi beni alla chiesa di S. Maria in Cascina. Non c’è alcun
tratto specificamente toscano o italiano in questo atto, c’è solo un latino non appreso
a scuola, poiché le regole di declinazione, coniugazione e concordanza sono violate
continuamente, è una sorta di lingua straniera raffazzonata in base alle formule
notarili. L’unico caso grammaticale che è trattato meno scorrettamente è il genitivo,
perché indica la relazione di possesso, elemento di importanza fondamentale nelle
scritture notarili. In un atto pisano del 730 si definisce così l’estensione di un
terreno: uno capite tenente in terra Chisoni et alium capite tenente in terra Ciulloni,
de uno latere corre via publica et de alium latere est terra Pisinnuli, plus menus
modior(um) dua et scaffilo. Anche in questo caso ci si dimentica delle corrette regole
di declinazione, coniugazione e concordanza. Non tutte le scritture latine sono
permeabili al volgare. Normalmente l’accoglimento di tratti volgari va addebitato a
carenze di cultura latina, quando, ad esempio, il notaio si lascia scappare parole
francamente italiane. In alcuni documenti notarili, invece, si nota un sensibile
divario tra le parti formulari, che sono stilate in un latino più o meno corretto, e
l’inventario di beni mobili o immobili su cui verte l’atto, che è redatto in lingua
volgareggiante. Il primo documento cui appartiene questo filone è un papiro
ravennate del 564. Nelle parti non formulari le strutture nominali si differenziano
soltanto nel singolare e nel plurale, e quindi si è perduta la declinazione: lucerna cum
catenula unixa aerea una ‘una lucerna con catenella annessa di bronzo’ [...] cocumella
cum manica ferrea vetere pensante libra una semis ‘una piccola cuccuma vecchia con
manico di ferro che pesa una libbra e mezzo’. In un atto di donazione lucano dell’823
troviamo questa descrizione: auru et argentu, et liista (fascia) de auro cum albe
(perle) seu cercelli (anelli) de auro et tonica contiata (tunica ornata) cum lista de
auro, feblatorio (indumento agganciato con fibbie) de auro [...], rame, aurecalco
(ottone), panni [...], jumente, cabali domiti, bobi (buoi), bacce (vacche), pecora, capre,
porci. Come si spiega questo inserimento del volgare? Di certo il notaio doveva
impiegare un linguaggio comprensibile agli interessati, in genere analfabeti, oppure
registra le informazioni date a viva voce dalle parti. Sta il fatto che il notaio era

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disponibile a recepire l’uso vivo, a prezzo di operare una frattura nella veste
linguistica del documento, e ciò è sintomo di un’adesione non puramente passiva
alla nuova realtà linguistica.

3. LE PRIME ATTESTAZIONI SCRITTE DEL VOLGARE IN ITALIA

3.1. L’indovinello veronese


Uno dei problemi che si devono affrontare esaminando gli antichi documenti
volgari è, in definitiva, la loro intenzionalità, che ci può far capire se ci troviamo di
fronte a un verso testo della nuova lingua. A volte non è facile fissare una
separazione tra il latino e il volgare, soprattutto quando il latino è modellato sul
volgare stesso, e rappresenta una sorta di ‘registro intermedio’. L’esame del
cosiddetto Indovinello veronese ci può aiutare a comprendere questa problematica.
Il testo ci è stato riportato in un codice scritto in Spagna all’inizio dell’VIII secolo e
approdato già in epoca antica a Verona dopo varie peregrinazioni; nel margine
superiore di un foglio sono state scritte due note in scrittura corsiva, risalenti al sec.
VIII o all’inizio del IX. La prima è in forma non latina: + se pareba boves alba pratalia
araba & albo versorio teneba & negro semen seminaba, mentre la seconda, una
formula di ringraziamento, è in latino corretto: + gratias tibi agimus omnip(oten)s
sempiterne de(eu)s. Le postille furono scoperte nel 1924, e subito ci si interrogò sul
significato della frase: in un primo momento vi fu chi, poiché si parlava di buoi e di
aratura, ravvisò un’antichissima cantilena di un bifolco. Più tardi Vincenzo De
Bartholomaeis, filologo e storico della letteratura, risolse il problema interpretativo
grazie all’aiuto imprevisto di una sua allieva, la quale si ricordò di un indovinello
popolare che aveva una grande somiglianza con il testo in questione, e suggerì al
maestro la soluzione dell’enigma: si sarebbe trattato in realtà di un indovinello che
alludeva all’atto di scrivere, simile a quello utilizzato da Giovanni Pascoli in una
poesia di Myriciae, Il piccolo aratore:

Scrive. . . (la nonna ammira): ara bel bello,


guida l'aratro con la mano lenta;
semina col suo piccolo marrello:
il campo è bianco, nera la sementa.

D'inverno egli ara: la sementa nera

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d'inverno spunta, sfronza a primavera;

fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo


rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.

Una volta individuato il significato generale del testo, restava da risolvere


l’interpretazione letterale, dal momento che non era chiaro il senso di tutte le parole,
a cominciare dal se pareba iniziale, interpretato variamente, vuoi come ‘spingeva
innanzi’ (in Veneto è ancora usato parare col valor di ‘spingere avanti i buoi
aggiogati’), vuoi come ‘somigliava’ o ‘appariva’, e persino, leggendolo tutto unito,
come ‘appaiava’. L’interpretazione del verbo condiziona la scelta del soggetto
sottinteso (cioè la soluzione dell’indovinello) dei quattro verbi della frase: sono stati
proposti ‘lo scrittore’, ‘la mano’, ‘le dita’, ‘la penna’. Il più probabile sarebbe ‘lo
scrittore’, il quale verrebbe dunque paragonato a un aratore che spinge innanzi i
buoi, arando campi bianchi (il foglio), reggendo un aratro bianco (la penna d’oca), e
seminando un seme nero (l’inchiostro). Ma il problema forse più importante è
ancora un altro: questo testo deve essere collocato fra i più antichi documenti del
volgare? Si tratta dunque di stabilire quale fosse la coscienza linguistica dello
scrivente, anche tenendo conto del fatto che l’indovinello è accompagnato da una
postilla scritta in latino corretto, il che sembrerebbe testimoniare che la postilla
‘volgare’ si distacca volutamente dal codice della prima annotazione. Non è provato
però che la mano che ha vergato le due postille sia la medesima, anzi autorevoli
interpreti lo escludono. Insomma, la postilla è stata giudicata variamente: come
esempio di volgare italiano, come ‘semivolgare’, e come vero e proprio ‘latino’
seppure scorretto. È comunque prendere atto della presenza di volgarismi, come se
invece di sibi, pareba invece di paraba (accanto agli imperfetti in -aba: araba,
seminaba), negro invece del lat. NIGRU(M). La parola versorio è volgare nel
significato (che è uguale al dialetto versor), ma latina nella forma. Detto questo, sarà
ben difficile attribuire il titolo di ‘primo documento della lingua italiana’ a un testo
così controverso, anche se l’operazione sarebbe affascinante, vista la sua antichità,
forse maggiore persino rispetto ai Giuramenti di Strasburgo.

3.2. L’iscrizione della catacomba di Commodilla


Anche se le più antiche attestazioni italiane di scritture volgari sono per la
maggior parte carte notarili, si registra un caso diverso e curioso, quello di
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un’iscrizione rinvenuta presso la catacomba romana di Commodilla, un anonimo
graffito tracciato sul muro della cappella dei Santi Felice e Adàutto. Fino ai
festeggiamenti millenari della Carta Capuana del 960, nessun filologo italiano o
romanzo era a conoscenza di più antichi documenti scritti della lingua italiana.
Francesco Sabatini, infatti, con un saggio apparso nel 1966, in cui analizza
l’iscrizione della catacomba di Commodilla, mette seriamente in dubbio il primato
del documento capuano.
La catacomba romana di Commodilla contiene una cappella nota col nome di
“basilichetta” o “cripta” dei Santi Felice e Adàutto. In tale cappella, sul lato sinistro
della più esterna di due fasce pittoriche che incorniciano un grande affresco (datato
con sicurezza tra il VI e il VII secolo) rappresentante la Vergine in trono col Bambino
affiancata dai due martiri, si legge l’iscrizione qui riportata, che occupa una
superficie di cm. 11x 6,5: NON DICERE ILLE SECRITE ABBOCE.
L’iscrizione fu segnalata per la prima volta dall’archeologo Orazio Marucchi,
che era stato il primo ad esplorare la “basilichetta” dopo la riscoperta della
catacomba, avvenuta nel 1903. L’iscrizione fu analizzata da un punto di vista
filologico solo nel 1966 da Francesco Sabatini (“Studi linguistici italiani”) in un
articolo preciso e documentato, nel quale si riesamina anche in modo esauriente il
problema della datazione. Abbiamo una datazione ante-quem: subito dopo il
saccheggio dei Saraceni (846 circa), il papa Leone IV fa togliere dalla catacomba le
reliquie dei due santi, fatto che segna l’abbandono della “basilichetta”. Dal punto di
vista paleografico il graffito “si qualifica come iscrizione di tipo lapidario con
caratteri misti, onciali e capitali, databile tra la fine del secolo VIII e la prima metà
del X, ma con indizi che trattengono nel pieno secolo IX”. Dal punto di vista storico-
liturgico, sembra potersi indicare la prima età carolingia come quella in cui s’è
diffusa a Roma la lettura silenziosa o a bassa voce le “orazioni segrete” della messa,
chiamate ancor oggi secrete.
L’esame linguistico metterebbe in luce, secondo Sabatini, almeno un
importante tratto oggettivo utile per la cronologia: la resa di e chiuso con i in
SECRITA, dove e chiuso romanzo deriva da E lungo latino, e forse in ILLE, dove però
si parte da I breve latino ed è quindi ipotizzabile anche il latinismo.
Per quanto riguarda un esame puntuale delle singole forme:

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1) NON DICERE. Il proibitivo singolare espresso mediante non+infinito è
proprio dell’italiano e di tutti i suoi dialetti. Si tratta di un tipo tardo del latino
volgare, ma sempre di notevole antichità, come dimostra la sua diffusione (rumeno,
retoromanzo e antico francese). Morfologicamente non c’è dubbio che dicere vada
considerato volgare a Roma, dove s’è usato in modo esclusivo per tutto il medioevo.
2) ILLE SECRITA. La i di secrita rappresenta un ipercorrettismo (dato che e
chiuso volgare deriva da I breve latino, si ripristina in modo erroneo la e con la i),
tipico dell’epoca carolingia in cui si vuole recuperare il patrimonio culturale e
linguistico latino. ILLE ha qui ormai funzione piena di articolo, ed è presente in
forma non aferetica, come spesso accade un po’ in tutta l’area italiana antica. Nel
nesso ille secrita si deve sicuramente vedere un plurale collettivo, del tipo eteroclito
piuttosto diffuso il braccio-le braccia, l’osso-le ossa, ecc., ampiamente attestato in
testi antichi romaneschi, mediani e toscani: si tratterebbe quindi di un “volgarismo
fortemente accentuato”.
3) A BBOCE. In un primo momento era stato scritto ABOCE, con intervalli
pressappoco uguali fra le lettere; poi è stata aggiunta una seconda B, più piccola, fra
quella preesistente e la O. Rispetto al latino AD VOCEM s’è avuta un’assimilazione di
AD + - (con  costrittivo bilabiale, proveniente da u consonantica) in abb-. Il
passaggio di DV a bb è normale anche all’interno della parola e caratterizza tutti i
dialetti centro-meridionali sotto la linea Roma-Ancona, il romanesco compreso.
L’aggiunta della seconda b registra e sottolinea un vero e proprio raddoppiamento
fonosintattico, fatto naturalmente insolito per il modello latino.
Concludendo, l’iscrizione è da considerarsi interamente volgare, ed attesta
un uso cosciente del volgare. Chi scriveva (“un religioso edotto degli usi liturgici più
accreditati”) era certo capace d’esprimersi in latino, ma ha preferito servirsi della
rustica romana lingua.

3.3. L’atto di nascita dell’italiano: il Placito Capuano del 960


Risale al marzo 960 l’esempio più antico d’una contrapposizione netta fra
latino e volgare all’interno di uno stesso documento. Tale gruppo di documenti gode
del privilegio di essere comunemente considerato l’”atto di nascita” della lingua
italiana, anche perché si tratta di un documento ‘ufficiale’, in quanto verbale di un
processo.

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In quell’anno e in quel mese, a Capua, venivano dinanzi al giudice Arechisi
l’abate di Montecassino, Aligerno, coll’avvocato del suo monastero, e un privato di
nome Rodelgrimo, figlio del fu Lupo, nato ad Aquino. Rodelgrimo mostrava un
promemoria in cui si descrivevano alcune terre ch’egli diceva appartenergli per
eredità: rispondeva Aligerno che quelle terre erano invece del monastero, che le
aveva possedute per trent’anni (rivendicando così il diritto di usucapione, cioè il
modo di acquisto della proprietà o degli altri diritti reali per effetto del possesso
protratto per un certo tempo). Udito ciò, Arechisi chiedeva se Rodelgrimo avesse
documenti o altri mezzi di prova; e avutane risposta negativa, ordinava che
Rodelgrimo e l’abate Aligerno tornassero da lui entro un determinato giorno, il
secondo insieme con tre testimoni che ad uno ad uno, e tenendo in mano un
promemoria, dicessero: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni
le possette parte Sancti Benedicti” (‘So che quelle terre, entro quei confini di cui si
parla, le possedette trent’anni il monastero di San Benedetto’).
Il giorno fissato i contendenti si ripresentarono ad Arechisi, e i tre testimoni
del monaco (mari, chierico e monaco; Teodemondo, diacono e monaco; Gariperto,
chierico e notaio) pronunciano, ad uno ad uno, la predetta formula e poi giurano sui
Vangeli. Rodelgrimo rinuncia ad ogni pretesa e riconosce i diritti del monastero.
La formula non è isolata. In altre tre carte, date la prima a Sessa Aurunca (in
provincia di CE) nel marzo 963, la seconda e la terza a Teano nel luglio e nell’ottobre
dello stesso anno, e riguardanti beni di monasteri che dipendevano da
Montecassino, si trovano formule in volgare simili a quelle del placito di Capua.
2) Placito di Sessa, marzo 963. Davanti al giudice Maraldo si presentano
Gaido, abate del monastero di San Salvatore, e Gualfrid. Gualfrid sostiene di aver
diritto a certe terre da lui occupate, perché le ha avute in eredità dai genitori. Ma
Gaido è in possesso di due carte notarili dalle quali risulta che le terre sono state in
parte vendute e in parte donate al monastero da un certo Pergoaldo. Rimane da
provare che Pergoaldo ne era il legittimo proprietario, e questo s’ottiene attraverso
il giuramento di tre testimoni, che dicono: “Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe
monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette” (‘So che quelle
terre, entro quei confini che ti mostrai, di cui si parla qui, furono di Pergoaldo, e
trent’anni le possedette’).

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Nelle tre ripetizioni dei testimoni si ha kella terra invece di kelle terre, e
conteno invece di contene.
3) “Memoratorium” di Teano, 26 luglio 963. Giovanni, preposito e custode del
monastero femminile di Santa Maria di Cengla, fa memoria di quanto è avvenuto in
una controversia con tre privati, svoltasi davanti allo stesso giudice Bisanzio, che ora
controfirma il documento. I tre privati (Leocaro, Abalsamo e Donnello)
rivendicavano la proprietà d’un appezzamento situato nel territorio di Teano,
asserendo d’averlo avuto in eredità dai propri genitori. Davanti al giudice essi hanno
accettato che il privilegio e l’onere della prova spettino al preposito Giovanni, il
quale pronuncerà la formula seguente, convalidandola poi col giuramento: “Kella
terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la posset parte
sancte Marie” (‘Quella terra, entro i confini che vi mostrai, è di Santa Maria, e
trent’anni la possedette il monastero di Santa Maria’).
4) Placito di Teano, ottobre 963. Come nell’atto precedente, davanti al giudice
Bisanzio compare il preposito Giovanni, che questa volta deve fronteggiare le
pretese del conte Atenolfo di Teano. Egli è in grado di provare il possesso
trentennale delle terre di cui si discute mediante il giuramento di tre testi. Anche in
questo caso la parte laica, non potendo produrre prove a sostegno delle proprie
asserzioni, soccombe. La formula del giuramento ricorre quattro volte senza
variazioni: “Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni
la posset parte sancte Marie” (‘So che quelle terre, entro quei confini che ti mostrai,
trent’anni le possedette il monastero di Santa Maria’).
I tre placiti furono pubblicati nel 1734 dall’abate benedettino Erasmo Gàttola,
che mise in risalto l’uso del volgare nelle formule. Molto più recente, invece, la
scoperta del memoratorio di Teano, che è stato segnalato per la prima volta
all’attenzione degli studiosi da Francesco d’Ovidio nel 1896.
Si è discusso sul carattere reale o fittizio delle controversie a cui si riferiscono
i placiti e il memoratorio. Soprattutto sorprende che, mentre i religiosi scendono in
campo provvisti di prove e testi, gli avversari dei monasteri siano sprovvisti del tutto
di qualsiasi arma, dimostrando inoltre una remissività sconcertante. E’ legittimo
pensare quindi che le cause non siano nate da una reale contestazione, ma che siano
invece cause fittizie, montate allo scopo di ottenere una precisa dichiarazione
giudiziaria, che sancisse in modo ufficiale il possesso delle terre in questione.

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Argomenti contrari a tale ipotesi sono: l’offensiva generale laica contro
Montecassino che si scatena proprio in questo periodo; il fatto che i laici non abbiano
addotto prove non è determinante (da sempre cause intraprese vengono poi
abbandonate al momento del giudizio); il monastero non aveva bisogno di
riconfermare proprietà già proclamate in diplomi emessi dai principi di Capua e
Benevento e dai re d’Italia pochi anni prima del 960; in due “memoratoria” del 977
e 978 è il monastero a dichiararsi sfornito di testimoni e ad accettare le
testimonianze a favore dell’avversario.
Per quanto riguarda l’aspetto linguistico, si può osservare quanto segue:
Latinismi: La grafia è chiaramente latineggiante. Tali sono senza dubbio i
sintagmi composti con parte (parte Sancti Benedicti, parte Sancte Marie) e i genitivi
d’appartenenza retti dal verbo essere (Pergoaldi foro, Sancte Marie è).
Verosimilmente i secondi sono tecnicismi giuridici, filtrati dal dibattito orale latino
al dibattito in volgare. Ricordiamo inoltre che la grande maggioranza dei cognomi
italiani in -i rappresenta un originario patronimico cristallizzato. La mancanza di
articolo in parte si spiega col fatto che l’intero sintagma è un latinismo notarile, che
naturalmente rifiuta l’articolo, la cui presenza avrebbe reso ibrida la struttura stessa
della locuzione. Quanto a fini, femminile plurale nel senso di ‘limiti di proprietà’, non
si tratta di un latinismo, ma d’una forma locale conservata proprio nella zona che ci
riguarda in quel particolare significato rustico.
Per quanto riguarda gli italianismi si devono mettere in risalto i seguenti
tratti:
sao: forma analogica rifatta sulla seconda persona *sas, dovuta a sua volta
all’influsso di *as (forma latina volgare accorciata in luogo del classico HABES). Si
tratta di una formazione della tarda latinità, comune nell’Italia mediana e
meridionale, che deve essere entrata nelle formule testimoniali di tale zona
abbastanza per tempo, mantenendovisi a lungo per lo spiccato carattere
conservativo del linguaggio giuridico. Oggi nell’Italia meridionale e in Sicilia
abbiamo sacce, sacciu alla prima persona, sai (occasionalmente sa), sape, sapi alla
terza.
Nel novero degli italianismi potrebbero rientrare anche la, le e ki (in luogo di
a, e, ka/akkà); tali forme sono presenti nei testi campani dei secoli XIII e XIV, e ancor
oggi, in una località della Campania centrale si usa ki.

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Quanto a per, l’ipotesi più probabile è che si tratti di latinismo grafico (invece
dell’indigeno pe), con r che assolve tuttavia una funzione, quella di rappresentare il
raddoppiamento della consonante iniziale seguente (pe kkelle fini).
Sono numerosi quindi i latinismi, come d’altronde suggerisce l’ambito
cancelleresco di composizione dei testi.
ko: nesso dichiarativo < QUOD, oggi ku, oggi in recessione rispetto alla forma
comune dell’Italia meridionale ca < QUIA.
kelle: con riduzione di ku a k, tipica dei dialetti meridionali.
ki: da (EC)CU(M) HIC > kui > ki.
contene: ha un valore impersonale, e que è il suo complemento oggetto. La
frase que ki contene va tradotta in “di cui si parla qui” oppure “che qui dice”, cioè
“entro i confini che qui dice”. Continet infatti in latino medievale, nel senso di
tecnicismo giuridico, è “dice”, “sta scritto”, “si legge”, e non “si contiene”.
le possette: costrutto prolettico con ripresa mediante il pronome. Da
*POSSEDUIT sarà venuto regolarmente un possedde, in cui la desinenza -ette avrà
preso il posto di -edde per influsso di stette *STETUIT.
parte: va qui inteso non tanto come “parte in causa”, quanto piuttosto come
“possesso, dominio”, cioè parte Sancti Benedicti corrisponde a “monastero di San
Benedetto” come entità patrimoniale.
Per quanto riguarda le altre formule, sottolineiamo i seguenti tratti:
sao cco: dopo sao non ci aspetteremmo, in linea di massima, il
raddoppiamento. Una consonante finale si ha però nella 3ª persona *SAT: per
influsso di sa kko si può essere detto sao kko.
tebe / bobe: rispettivamente da TIBI e VOBIS. La -e di bobe è da attribuirsi ad
analogia colla forma del singolare. Pronuncia ke ttee o ke tteve, ke bboe o ke bbove
(In Italia meridionale troviamo il fenomeno del betacismo: b è pronunciato col
valore di b, cioè bilabiale, in posizione forte, cioè all’inizio, mentre col valore di ,
fricativa bilabiale sonora, o v, labiodentale, in posizione intervocalica).
foro e conteno: nei dialetti della zona di Napoli, a differenza di quanto accade
in quelli dell’Italia mediana sotto la linea Roma-Ancona, non si ha né chiusura
metafonetica di e/o toniche chiuse, né dittongamento fonetico di e/o aperte toniche
nelle forme di terza persona plurale.

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posset: è probabile che s’abbia qui un ipercorrettismo dovuto alla pronuncia
ètte del latino et: se scrivendo et si pronunciava ette, nello stesso modo la parola
volgare possètte poteva essere scritta posset.

3.4. L’iscrizione della basilica romana di San Clemente


Benché decisamente più tarda, questa iscrizione è simile al graffito della
catacomba di Commodilla per il fatto di essere anch’essa ‘romana’, e per la sua
natura ‘murale’. Tuttavia, mentre il graffito della catacomba di Commodilla è frutto
di una certa casualità, in quanto è stato aggiunto in forma parassitaria e posticcia
sopra l’intonaco preesistente, l’iscrizione della basilica di San Clemente rientra
invece in un progetto grafico ben più complesso: si tratta di un affresco in cui parole
latine e in volgare sono state dipinte fin dall’inizio accanto ai personaggi
rappresentati, per identificarli e per mostrare il loro ruolo nella storia narrata.
Nella parte inferiore d’un affresco fatto eseguire alla fine del secolo XI (infatti
il muro su cui si trova l’affresco fu eretto a sostegno della basilica dopo che questa
era stata devastata dalle soldatesche di Roberto il Guiscardo nel 1084, all’incirca ai
tempi del papa Pasquale II, 1099-1118) su un muro della basilica sotterranea di San
Clemente, è raffigurato l’episodio in cui, secondo la Passio sancti Clementis (testo
sicuramente anteriore al sec. VI), il patrizio Sisinnio ordina invano ai servi di
prendere e legare il santo, da lui creduto un mago. Così dice la Passio (traduzione di
Roncaglia): “Sisinnio ... diede ordine ai suoi servi d’arrestare il vescovo Clemente ...
E quelli cui aveva comandato d’arrestare Clemente, sembrava loro di tenerlo stretto
e di trascinarlo; ma in realtà legavano e trascinavano colonne, ora dall’interno
all’esterno, ora dall’esterno all’interno. E anche a Sisinnio sembrava la stessa cosa:
che tenessero legato e trascinassero San Clemente”. Nell’affresco si vedono tre servi
che s’affannano a trascinare una colonna posta davanti a due archi; quello più a
sinistra la solleva facendo forza con un palo; gli altri due, tenendo la testa rivolta
all’indietro verso il compagno, la tirano con una corda. Il dipinto fu riportato alla
luce nel 1861, ed è tuttora visibile nella basilica sotterranea di San Clemente a Roma.
Le parole che illustrano la scena sono state purtroppo ritoccate durante un
restauro dell’affresco negli anni 60’, basandosi su un acquerello ottocentesco di

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dubbia esattezza, il che ha provocato divergenze nella ristabilire la lezione primitiva
(là dove è intervenuto il restauratore). Sul rapporto tra le frasi e i personaggi
rappresentati nell’affresco sono state espresse opinioni diverse, ed anche per la
lettura di certe parti dell’iscrizione oggi scarsamente visibili, o che hanno subito
ritocchi nel corso dei restauri. Va osservato che lo stato attuale di conservazione di
questa preziosa testimonianza di volgare romanesco del sec. XI è pessimo, anche per
l’umidità della basilica sotterranea. Le scritte si leggono in questa sequenza:

A: FALITE DERETO/CO LO PALO/CARVON/CELLE


B: D/U/R/I/TIAM COR/DIS/V(EST)/RIS
C: S/A/X/A/TRAERE/MERUI/S/TIS
D: ALBERTEL/TRAI<TE>
E: GOS/MARI.
F: SISIN/IUM
G: FILI/DELE/P/U/T/E/TRA/I/TE

Disponiamo di copie dell’affresco fatte in tempi più vicini alla sua scoperta,
quando la conservazione era migliore. Purtroppo la più antica di queste copie,
realizzata dal pittore Guglielmo Ewing, non risulta molto fedele all’originale, ed è
quindi da considerare inaffidabile. Merita invece fiducia un acquerello pubblicato da
Joseph Wilpert, che è stato utilizzato dagli studiosi per l’esatta trascrizione del testo,
trascrizione sulla quale, comunque, non c’è unanime consenso. Il principale punto
in discussione è la dicitura D dello schema, in cui alcuni leggono il plurale traite, altri,
per contro, trai, singolare, senza le ultime due lettere, del resto oggi non più visibili
(per questo sono state poste entro parentesi uncinate). La lettura trai o traite,
inoltre, condiziona l’attribuzione della battuta, collegandosi allo spinoso problema
del nesso tra le parole in volgare e i personaggi in scena (il problema è insomma il
seguente: chi sta parlando? a chi sta parlando?). Sono state avanzate a questo
proposito varie interpretazioni. Qualcuno ritiene che tutte le battute in volgare siano
pronunciate da Sisinnio; in questo caso i nomi di Albertel e Gosmari non sarebbero
semplici didascalie per identificare il personaggio dipinto (come è invece la scritta
Sisinnium), ma farebbero parte della battuta. La lettura andrebbe da destra a
sinistra. Sisinnio parla, e dice: “Fili de le pute, tràite! Gosmari, Albertel, tràite! Falite
de reto colo palo, Carvoncellelle!”; altri ritengono che Sisinnio pronunci solo la
battuta “Fili de le pute, tràite” (oppure questa battuta, più “Gosmari, Albertel, tràite),
e che il resto sia detto dai servi; ma vi è dissenso tra gli studiosi sull’attribuzione di

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queste o quelle parole a questo o a quel servo. Per citarne solo due, potrebbe essere
ad esempio il solo Gosmari a parlare, rivolgendosi a Carboncello e ad Albertello,
oppure parlerebbero sia Carboncello, rivolto ai compagni (“Albertel, Gosmari,
tràite”), che Albertel e Gosmari, rivolti a Carboncello (“Falite dereto colo palo,
Carvoncelle”). Il problema nasce dal fatto che, a differenza del moderno ‘fumetto’, in
questa realizzazione antica del rapporto figura/parola non è stabilito in maniera
chiara dove debbano stare le parole rispetto al personaggio che le pronuncia. Si
osservi ad esempio come la didascalia A sia stata dipinta sopra Carboncello, che
sicuramente non la pronuncia. La posizione si giustifica con l’ottica inversa rispetto
a quella del moderno fumetto: la didascalia sta lì perché si riferisce a quel
personaggio, trattandosi di un messaggio a lui diretto. La didascalia G, invece,
adottando altro criterio, è stata posta dal pittore accanto a Sisinnio, cioè accanto al
personaggio che pronuncia la battuta.
Comunque si ricostruisca il testo, legando le parole all’uno o all’altro(in effetti
l’affresco ha l’andamento di una scena teatrale), resta pur sempre il fondamentale
contrasto tra il latino ‘nobile’ e il volgare plebeo, in un accostamento che spicca
straordinariamente, e che rivela in chi ha ideato la composizione un atteggiamento
consciamente ispirato a una volontà stilistica. Quanto alla lingua dell’iscrizione, si
potrà osservare quanto segue:
Riguardo alla grafia si dovrà avvertire che il gruppo -li di fili vale già come
gruppo palatale (nel latino volgare questo fenomeno si verifica già nel III secolo).
L’ulteriore palatalizzazione in ii semiconsonantico che caratterizza il romanesco
moderno non doveva ancora essere avvenuta a quei tempi: per lo meno, non se ne
trovano tracce nei testi del XIII-XIV secolo.
Diverso il caso di falite, in cui -li- corrisponde a (IL)LI. Le letture possibili
sono: fàlite (supponendo uno scempiamento di -ll- simile a quello delle preposizioni
articolate, da attribuirsi al loro uso protonico), fàglite.
Per la fonetica si registrano i seguenti tratti:
a) conservazione di e tonica aperta in dereto da DE RETRO (il dittongamento
nei testi medievali romaneschi è esclusivamente di tipo metafonetico), e quella della
e atona nella stessa parola come pure nel te di falite (e protonica e postonica non
finale del latino volgare tende a diventare i solo in Toscana, tranne nell’aretino, a
Orvieto e Viterbo);

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b) il passaggio di -RB- a rv, tipico del romanesco antico;
c) lo scempiamento della l nelle preposizioni articolate seguite da
consonante, conforme a quella che è la regola anche per il romanesco recente;
d) l’apocope della sillaba in Albertello davanti ad altra parola con inizio
consonantico;
e) la caduta della seconda r di DE RETRO per dissimilazione dalla prima
(nell’italiano dietro invece s’è persa la prima r: dretro, drietro, dietro).
In quanto alle singole forme:
a) Falite: cioè “fagliti”;
b) tràite: dal latino volgare *TRAGITE (*TRAGERE invece di TRAHERE per
probabile influsso di AGERE): la g davanti a vocale palatale dà i semivocalica, già in
epoca imperiale, e il dittongo ai si conserva;
c) pute: si leggeva probabilmente con t intensa (nei testi antichi italiani non è
raro trovare occlusive o affricate palatali di grado forte scritte colla scempia,
probabilmente perché i modelli latini con doppia scarseggiavano: è raro invece che
si scrivano scempie le liquide e le nasali). La parola deriverà da *PUTTUS, variante
di PUTUS, cioè “bambino”.
Per gli antroponimi:
a) Albertello è di origine franca (ADALBERHT, “nobile, splendido”), provvisto
del suffisso diminutivo -ello, d’origine latina.
b) Gosmari è forse un derivato del greco Kosmas, attraverso il suffisso -ARIUS
modificato per influsso del suffisso germanico -ARI, o forse deriva dal longobardo
GAUSEMAR.
c) Carvoncello, da CARBO, cioè “Carbone”, è nome latino attestato sin dal 178
a.C. e ben vivo nei secoli XI e XII nella regione di Roma e un po’ in tutta l’Italia;
Carboncello è un derivato ugualmente attestato (“Carboncellus filius Senioricti” e
“Carboncellus filius Petri”), con -e finale per assimilazione della vocale finale alla
tonica nella terminazione diminutivale.

3.5. I documenti notarili-giudiziari


Si è visto precedentemente che un buon numero dei più antichi documenti
italiani è dovuto alla penna di notai. Del resto, anche il Placito Capuano è stato scritto
proprio da un notaio, incaricato dal giudice della verbalizzazione processuale. I notai

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erano la categoria sociale che aveva più frequentemente occasione di usare la
scrittura, e proprio per le loro funzioni erano quotidianamente impegnati in un
lavoro di transcodificazione dalla lingua quotidiana alla formalizzazione giuridica
del latino. Non è strano, quindi, che proprio gli appartenenti a questa categoria
fossero tra i primi a lasciare spazio, più o meno volontariamente, alla nuova lingua
viva, al volgare, che, del resto, per distrazione o ignoranza, finiva per affiorare non
di rado anche nel loro modesto latino, un latino che sovente non è altro che un
volgare superficialmente travestito. Lo storico della lingua, però, non può collocare
tra i primi documenti dell’italiano le infiltrazioni di volgare in testi che aspirano ad
essere latini, cioè che, nell’intenzione dello scrivente, hanno abito latino. Occorre che
vi sia da parte dello scrivente stesso una reale intenzionalità nell’uso della nuova
lingua, verificabile al di là di ogni dubbio, magari proprio attraverso il confronto
diretto tra i due codici linguistici diversi e contrastanti, come accade, si è visto,
nell’iscrizione della basilica di San Clemente e nel Placito Capuano. I documenti che
verranno esaminati di seguito si caratterizzano per una sicura presenza di elementi
volgari, coesistenti in vario modo con la scrittura latina.
LA POSTILLA AMIATINA. Oltre che nel corpo vero e proprio dei documenti
notarili, il volgare può affiorare in forma di postilla, cioè in forma di testo aggiunto
al rogito vero e proprio. La cosa non è strana, e rientra anzi in una consuetudine.
Vedremo anche in seguito che il notaio medievale ebbe spesso l’abitudine di inserire
nelle scritture della sua professione testi diversi, con una certa liberta e fantasia: i
notai bolognesi dell’età di Dante, ad esempio, usarono scrivere dei versi per
riempire gli spazi bianchi dei loro registri. Altre volte il notaio aggiungeva commenti
o osservazioni personali. È quanto accade nella cosiddetta ‘Postilla amiatina’. Nel
gennaio 1087 i coniugi Micciarello e Gualdrada donavano tutti i loro beni all’abbazia
di san Salvatore di Montamiata. Il notaio Rainerio, estensore dell’atto in lingua latina
(su di una pergamena che oggi si conserva nell’ Archivio di Stato di Siena), vi ha
aggiunto alla fine la seguente postilla di due righi in cui si possono riconoscere tre
versi: ista car(tula) est de caput coctu ille adiuvet de illu rebottu q(ui) mal co(n)siliu
li mise in corpu.
Il testo viene pubblicato per la prima volta nel 1909 da Pier Silverio Leicht.
Angelo Monteverdi (1939) ricostruisce così i versi, ottenendone tre novenari:
Esta carta è de capu cottu

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E ll’aiuti dellu rebottu
Chi mal consigliu i mise in corpu

Ruggero Maria Ruggieri (1943), invece, restituisce così i versi, riconoscendo


degli endecasillabi:
Ísta / cártula / ést de / Cáput / coctu;
ílle / ádiuvet / dé il/lú re/bóttu
quí mal/ cónsili/ú li / míse in / córpu.

‘Questa carta è di Capocotto (soprannome di Micciarello, cioè “Testadura”)


ed Egli (Iddio) gli dia aiuto contro il Maligno, che un mal consiglio gli mise in corpo
(perché lo istigò a peccare”)’.
Il tratto più notevole dal punto di vista linguistico è la conservazione della u
finale, sconosciuto in Toscana, ma tuttora caratteristico del territorio amiatino.
Capocotto: è un soprannome (oggi diremmo ‘Testadura’ o ‘Capotosto’),
attualmente attestato nei cognomi del tipo Capocotti, Capograssi, Capoduro, ecc.
ribottu: frc. ant. ribaud, oggi ribaldo. Leicht lo aveva interpretato come
‘ribotta, crapula’, cioè il donatore avrebbe dilapidato i suoi averi gozzovigliando. Più
recentemente è stata avanzata l’interpretazione (L. Cocito) che il termine alluda al
Diavolo, tesi oggi generalmente accettata.
LA TESTIMONIANZA DI TRAVALE. Sempre al gruppo delle carte giudiziarie
appartengono due pergamene del 1158 conservate nell’Archivio vescovile di
Volterra. Nella seconda parte di una di queste pergamene un certo giudice Balduino
ha raccolto le testimonianze di sei boni homines di Travale (località oggi in provincia
di Grosseto) a proposito dell’appartenenza di certi casali, e proprio nella sintesi di
quanto hanno detto i testimoni affiora il volgare, nel bel mezzo del testo latino,
specialmente là dove vengono riportate in maniera più fedele le parole di alcuni dei
boni homines, in forma di vera e propria citazione. In particolare, ricorrono alcune
frasi di senso compiuto. Dice il secondo testimone: “Io de presi pane e vino p(er) li
maccioni a T(r)avale” (‘Io presi di là pane e vino per i muratori a Travale’). Il sesto
testimone racconta di un certo Manfredo, che, dovendo fare la guardia alle mura di
Travale, così si comportò: “Sero ascendit murum et dixit: Guaita guaita male; non
mangiai ma mezo pane. Et ob id remissum fuit sibi servitium, et amplius no(n) torno
mai a far guaita...” (‘La sera salì sulle mura e disse: la guardia, fa male la guardia,
perché non mangiai mai altro che mezzo pane. E a causa di ciò gli fu condonato il

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servizio, e in seguito non torno mai a far la guardia’; il senso è insomma: fa male la
guardia chi, come me, non ha mangiato abbastanza, non ha mangiato nulla più di
mezzo pane). Come si vede, latino e volgare si alternano senza una ragione
apparente, ma il volgare è preferito là dove viene introdotto. Per quanto riguarda la
lingua, sono da sottolineare i due germanismi guaita ‘sentinella’(< franco *WAHTA,
tedesco WACHT, it. ant. guatare) e maccioni ‘muratori’ (< germ. *MAKJO < *MAKŌN,
‘fare’, si pensi all’inglese to make); fra il volgarismi mascia ‘casa colonica con podere
annesso’, mangiai (prima attestazione di questo gallicismo, invece della forma
indigena manicare o manducare), de ‘ne’ (< INDE).

3.7. I documenti religiosi: la “Formula di Confessione umbra”


Al filone religioso potrebbero essere ricondotti anche due documenti tra i più
antichi, di cui si è già parlato, caratterizzati da un comune carattere ‘murale’: il
graffito della catacomba di Commodilla e l’iscrizione della basilica di San Clemente.
In effetti entrambi sono nati in ambienti adibiti al culto, e si legano a tematiche
religiose. Tratteremo però ora di un documento religioso che non è stato graffito né
dipinto sull’intonaco dei muri. La formula fu scoperta verso il 1880 da Gustav Löwe
nel codice B63 della Biblioteca Vallicelliana di Roma, e pubblicata nell’”Archivio
glottologico italiano” con note linguistiche di Giovanni Flechia. Il testo fu ripreso nel
1936 (padre gesuita Pirri, precisazioni cronologiche) e nel 1964 (Ricarda Liver).
Il Codice contiene svariati opuscoli di argomento canonico, morale, filosofico,
liturgico ed anche lessicale. La parte più antica è formata da un codicetto liturgico
su palinsesto, tutto d’una medesima mano, che contiene un breviario monastico, con
calendario e sacramentario. La prosa volgare che ci interessa si trova appunto in
questa parte del codice, inserita nelle formule sacramentali del rito penitenziale. Il
codice appartenne ai monaci del monastero di San Eutizio, situato nelle vicinanze di
Norcia, in Umbria.
Per quanto riguarda la datazione, si ritiene che sia stato composto tra il 1037
(anno in cui fu permesso il culto di San Romualdo, nominato nelle Litaniae del codice
stesso) e il 1080 (su questa data si potrebbe obiettare che nella Formula è
menzionata la santa treva – cioè la proibizione di assalire il proprio nemico, di
offendere un monaco o frate inerme, o di ritorno dalla chiesa, dall’ora nona del
sabato alla prima del lunedì per rispettare il giorno del Signore, proibizione che poi

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si estese a tutto il periodo della Quaresima o dell’Avvento – emanata nel 1095 da
Urbano II nel concilio di Clermont. In realtà l’istituto era già molto diffuso: fin dal
1041 l’alto clero di Provenza e l’abate di Cluny avevano rivolto un appello ai vescovi
italiani perché ricevessero e facessero osservare tale tregua. Inoltre il fatto che la
Formula s’usino le parole noll’observai sì ccomo promisi fa supporre che
l’obbligazione all’osservanza derivasse non da un precetto, ma da una promessa).
L’esame linguistico rivela dettagli interessanti sui tratti fonomorfologici e
sintattici dell’area in cui fu redatto questo documento, forse uno dei primi a fornirci
un testo volgare di dimensioni così estese.
Norcia si trova nella zona metafonetica dell’Umbria, e il testo offre
puntualmente la metafonesi in tutti i casi possibili, tranne in feci, che andrà
considerato come latinismo: dibbi, nui, puseru, prisu.
La conservazione della -u nella Formula è regolarissima, naturalmente là
dove ce ne sono i presupposti. La M finale, caduta in latino già dal III-II secolo avanti
Cristo (al più tardi), ha provocato o potuto provocare un allungamento di compenso
della vocale precedente. A causa di tale fenomeno in determinate aree della Romania
(e principalmente in larga parte dell’Italia centrale e in tutta l’Italia meridionale) la
U breve della desinenza -UM (e della breve seguita da N, desinenza -UNT) s’è
trasformata in U lunga, che è ovviamente rimasta intatta. Quindi MURUM > muru,
DIXERUNT > disseru. Quando la consonante seguente è diversa, la U breve della
sillaba finale s’apre regolarmente in o: (IL)LUD > lo. Di qui la distinzione dei dialetti
centro-meridionali sotto la linea Roma-Ancona tra pronomi maschili (in -u) e
pronomi neutri (in -o). Nei monosillabi la nasale finale cade solo molto più tardi, in
epoca romanza: ciò spiega perché si abbia so “sono” e non su.
Oggi il dialetto di Norcia presenta il dittongamento metafonetico di e aperta
e o aperta (es.: muorti; vieccu; dienti; piettu; cuollu; ecc.), ma nella Formula non
rinveniamo tracce di dittonghi. Forse all’epoca prevaleva la cosiddetta “metafonesi
sabina” o “ciociaresca”, cioè il fenomeno per cui e/o aperte del latino volgare in
posizione metafonetica corrispondono a e/o chiuse. La compresenza di ie ed e
chiusa, uo e o chiusa nelle stesse regioni induce a ritenere probabile che la
“metafonesi ciociaresca” non sia uno sviluppo autonomo rispetto al dittongamento
metafonetico, ma ne rappresenti semplicemente la fase ulteriore (ie aperta > ie
chiusa > e chiusa; uo aperta, uo chiusa, o chiusa).

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Le e/o toniche in iato dinanzi ad a/e/o si chiudono sempre in i/u come in
toscano. Diverso il caso dei maschili: sulle e/o brevi del latino seguite da -i/-u ha
agito la metafonesi, portando probabilmente a un dittongamento in ie/uo poi ridotti
a e/o chiuse.
L’esito di -BI- è iod espresso mediante i o anche, davanti vocale palatale,
mediante g: aia/age.
La U semiconsonantica scompare in HABUI, DEBUI > abbi, debbi. Le
consonanti protoromanze si sono allungate davanti a j/w semivocaliche e anche
davanti a liquida: SAPIAT > sappia; VOLUI > volli; OCULU(M) > occhio.
La terminazione verbale -AS ha come esito -e (con palatalizzazione dell’a
dovuta alla s seguente): HABEAS, *DEAS, *SIAS, *POTEAS > age, die, sie, poze; per
analogia ore invece di ori.
Notevole l’uso della vocale epitetica i in ui “o”, farai “farà”; da segnalare anche
l’epitesi di -ne in ène.
La particella pronominale proveniente da INDE compare di solito nella forma
nde, ma si trova anche de (la prima forma in enclisi e dopo monosillabi vocalici, la
seconda negli altri casi).

2.8. La “Carta pisana” o “Conto navale pisano” di Filadelfia


Più recente è la scoperta, dei primi anni ’70 del Novecento, da parte di Ignazio
Ignazio Baldelli, di una carta pisana che si può collocare tra la metà del sec. XI e la
metà del sec. XII. Questa carta ha avuto una vicenda fortunosa: trattandosi di una
nota di spese, esaurito il suo compito originario, fu tagliato e parzialmente cancellato
e riscritto, ed in seguito fu utilizzato per la costruzione della rilegatura di un nuovo
codice, fatto non insolito nel Medioevo, quando il materiale pergamenaceo veniva
riciclato in ogni modo possibile. La scoperta della carta in questione non è avvenuta
in Europa, ma in America, perché il codice è oggi proprietà della Free Library di
Philadelphia. Qui Baldelli ha avuto la ventura di scoprire il testo, che risulta essere
un elenco di spese navali, o forse, più precisamente, un riepilogo delle spese
sostenute per l’armamento di una squadra navale. La localizzazione toscana e pisana
del testo discende da considerazioni di ordine linguistico: si riscontra infatti il
dittongamento ie di E breve tonica in sillaba libera nella parola matieia, plurale di
*matieio < MATERIUM, it. moderno madiere, termine tecnico che indica un

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particolare pezzo in legno conficcato nella carena della nave; si riscontra anche
l’esito in i del nesso latino -RJ- (ad es. nel termine mannaia). Questi sono caratteri
tipicamente toscani, ma propria dell’antico pisano (oltre che del lucchese e
pistoiese) è la conservazione di au davanti a l: nel testo abbiamo taule ‘tavole’.
Sempre d’origine pisana sono gli antroponimi Gherardo e Ciguli, attestati in altre
carte contemporanee. Si è già detto che matieia è un tecnicismo: il testo abbonda di
parole settoriali della marineria e dell’artigianato ad essa collegato (fra gli attrezzi
elencati si ricordi, ad esempio, corbella ‘ceste’, marcho ‘martello’, sorti / pechi / aguti
‘chiodi’, pianeta ‘pialla’; per quanto riguarda i tipi di artigiano, si ricordi invece
restaiolo ‘artigiano che fabbrica le reste’, ispornaio ‘chi fabbrica gli speroni o rostri’,
polamari ‘addetto alla palomba’, testore ‘tessitore).
Tanto più interessante è questa carta se si tiene conto del fatto che proviene
dalla Toscana, la culla della lingua italiana nei secc. XIII e XIV, regione che però, in
questa fase iniziale, non è più presente di altre. Si osservi come addirittura Firenze
sia per ora assente: il più antico testo volgare fiorentino (un frammento di libro di
conti di banchieri) si colloca al di là della soglia del Duecento (1211). Nei testi citati
finora emerge il fatto fondamentale dell’origine poligenetica del volgare italiano:
essa sorge contemporaneamente in vari punti dell’Italia dai dialetti locali e si
manifesta in iscritto a poca distanza di tempo nei diversi luoghi. In questo momento
il toscano, e ancor di più il fiorentino, è solo uno fra i tanti volgari che s’affermano a
livello scritto nell’Italia medievale.

2.9. Primi documenti letterari: i Ritmi e Quando eu stava in le tu’ catene


Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe solamente nel sec. XIII, a
partire dalla scuola poetica fiorita alla corte di Federico II, la cosiddetta ‘Scuola
Siciliana’. Non mancano tuttavia anche in precedenza alcuni documenti che hanno
un carattere poetico, o che si presentano in versi, seppure sempre in forma
frammentaria o occasionale. Il carattere ritmico, comunque, si riscontra già
nell’Indovinello veronese, il quale, non a caso, fu interpretato inizialmente – ed
erroneamente – come un ‘canto’ di bifolchi; e si potrebbe osservare che anche la
‘Postilla amiatina’ sembra avere una forma metrica. Un documento poi rivelatosi
falso (o almeno non così antico), come l’iscrizione del Duomo di Ferrara, fu
considerato nel Settecento un piccolo campione di antichissima poesia, anche

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perché sembrava retrodatare la produzione di versi alla prima metà del sec. XII,
permettendo all’Italia di competere con le due letterature che si svilupparono prima
della nostra, la francese e l’occitana. In realtà, anche se l’iscrizione di Ferrara fosse
stata autentica, l’Italia non avrebbe potuto vantare qualche cosa di così antico come
la francese Sequenza di Sant’Eulalia, del IX sec., o di valore così alto come la Chanson
de Roland, il primo vero capolavoro della letteratura di Francia, nel sec. XI. Alla prima
metà del sec. XI risale il Poema di Boezio in provenzale, e forse un po’ più antico è il
ritornello romanzo d’una celebre Alba bilingue (si chiama alba una poesia che parla
del sorgere del mattino). Se cerchiamo componimenti poetici italiani nel sec. XI,
restiamo a mani vuote. Qualche cosa è dato trovare a partire dalla seconda metà del
sec. XII, nella forma che comunemente viene definita ‘ritmo’. Il ‘ritmo’ è un nome
generico che indica un componimento in versi delle origini: il nome allude al fatto
che la sua metrica si accosta alla versificazione rhythmica medievale piuttosto che a
quella moderna. Si trovano quattro versi volgari in una memoria latina esaltante le
vittorie delle milizie di Belluno e di Feltre su quelle di Treviso nel 1193 e 1196,
trasmessa però dalle copie cinquecentesche di quattro eruditi bellunesi. È il
cosiddetto Ritmo bellunese:
De Castel d’Ard / av li nost bona part.
I lo getà / tu intro lo flum d’Ard.
Sex cavaler / de Tarvìs li plui fer
Con sé dusé / li nostre cavaler.

Altri versi in volgare italiano, risalenti al sec. XII, sono usciti dalla penna di
autori non italiani, ma anche in Italia ebbero occasione di soggiornare. Il trovatore
provenzale Raimbaut de Vaqueiras ha scritto le prime strofe regolari che ci siano
pervenute nella nostra lingua, in un celebre Contrasto tra un giullare che parla
provenzale e una donna genovese (anteriore al 1194). Suo è anche un altro singolare
componimento, il ‘discordo plurilingue’ in cui compaiono cinque idiomi diversi, il
provenzale, l’italiano, il francese, il guascone, il galego-portoghese. Ecco i primi versi
della strofa italiana:
Io son quel che ben non aio
ni jamai non l’haverò,
ni per april ni per maio
si per madonna non l’ò.

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Nelle corti dell’Italia settentrionale in questo periodo si usa ascoltare poesia
provenzale, non italiana. Per trovare versi italiani dobbiamo forse scavalcare la
soglia del sec. XIII, visto che a quella data alcuni spostano il cosiddetto Ritmo
laurenziano, che comincia “Salva lo vescovo senato, lo mellior c’umque sia nato”. Alla
fine del XII sec. o poco oltre si collocano il Ritmo cassinese e il marchigiano Ritmo su
Sant’Alessio. Del resto nel sec. XIII i tempi sono maturi, con un poeta del valore di
San Francesco, e con la nascita, finalmente, di una vera scuola poetica in Sicilia. Alla
ricerca dei frammenti o dei ritmi isolati si può sostituire, a quel punto, un esame più
articolato della produzione linguistica in volgare.
Fra i ritrovamenti che possiamo considerare come un vera e propria
rivoluzione nel campo delle prime attestazioni letterarie, annoveriamo i versi
Quando eu stava in le tu’ catene, una canzone d’amore trascritta in Romagna alla fine
del secolo XII, e che è stata pubblicata da Alfredo Stussi sullo scorcio del Novecento.
I versi sono stati recuperati nella pergamena 1158ter – proveniente dal fondo del
monastero femminile di Sant’Andrea Maggiore di Ravenna –, che contiene sul recto
una pagina vendicionis in latino datata 28 febbraio 1127 relativa a una casa, e sul
verso, capovolto, reca due componimenti poetici in volgare. I due testi furono
vergati, verosimilmente in un breve arco di tempo, da due mani diverse, entrambe
collocabili tra il penultimo decennio del secolo XII e l’inizio del XIII. Il primo testo (A,
con 25 linee di scrittura, con il seguente incipit: Quando eu stava in le tu’ catene) è
una canzone formata da cinque stanze di dieci decasillabi piani con minime
ipermetrie del tipo che si produce normalmente in fase di copia, mentre il secondo
(B, con due linee e mezza di scrittura, con il seguente incipit: Fra tutti quî ke fece lu
Creature), a causa della brevità, è di più difficile definizione metrica (solo nella prima
linea si possono identificare due regolari endecasillabi). Per quanto riguarda la
lingua, entrambi i testi presentano una fisionomia ibrida, probabilmente prodotto
di una o più trascrizioni: si riconosce, infatti, una mescolanza di tratti centro-
meridionali o mediani e di tratti settentrionali. Si registrano dunque forme di tipo
padano, come ou, smentegare, çogo, tego, sego, mego, splaser, cresse, accanto ad
attestazioni di colorito più mediano, come fuçere (senza metaplasmo) farò (e non il
tipo più comune faraio), le terze plurali in -no (ènno ‘sono’), i passati remoti (plaque,
feceme), sebbene lo studioso sottolinei la presenza, seppure non maggioritaria, di
questi tratti mediani anche in testi antichi settentrionali: basti ricordare che, in

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alcuni casi, la stessa forma può accogliere entrambi (come in nusune, dove il
vocalismo protonico indica una componente settentrionale, mentre la finale e ne
richiama una centro-meridionale). Stussi giunge alla conclusione che ragioni
letterarie e ragioni paleografiche spingono a ritenere originaria la componente
settentrionale e a far dipendere quella mediana dalla trascrizione sulla pergamena
ravennate. Di per sé i dati emersi dall’analisi della grafia e della lingua non
contraddicono tale ipotesi, ma nemmeno offrono prove dirimenti, poiché essi non
sarebbero incompatibili, per lo più, con l’ipotesi contraria (da Sud a Nord), che
tuttavia è ipotesi assai più problematica. Si tratta, comunque, di un testo pubblicato
recentemente e di certo ancora aperto a suggerimenti e ulteriori verifiche metriche
e linguistiche.

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4. IL DUECENTO

4.1. Eventi politici: L’Italia dei Comuni


Durante i secoli XI e XII si assiste al risorgere del borgo e alla formazione di
una cultura ispirata ai nuovi dettami della vita cittadina. Questi nuovi fermenti
sociali, economici e culturali, si materializzano, in ambito politico, nella lotta fra
Impero e Papato per le investiture, da un lato, e nella nascita dei liberi comuni in
Italia, dall’altro. Il processo di profonda moralizzazione della Chiesa iniziato nel
1059 dal papa Niccolò il nel sinodo di Roma – in cui si proibiva la simonia, il
concubinato e la possibilità di accettare laiche da parte dell’imperatore; inoltre
veniva preclusa ai laici la partecipazione alla nomina dei vescovi, mentre l’elezione
del papa sarebbe spettata al Collegio dei Cardinali e non più al clero ordinario e al
popolo o all’imperatore – sfociò, con il papa Gregorio VII, nell’affermazione del
principio della teocrazia, secondo il quale il pontefice era arbitro indiscusso di tutta
la vita ecclesiastica. Tale dettato papale non fu favorevolmente accolto
dall’imperatore Enrico V, che indisse un sinodo a Worms, nel quale detronizzava il
papa. Seguirono varie scomuniche e pentimenti, con la successiva elezione di un
antipapa eletto dall’imperatore: a partire da questo momento iniziano le lotte fra i
due poteri massimi del mondo cristiano, destinate a riaccendersi nei decenni
successivi, che coinvolgeranno anche i comuni italiani, dividendo spesso le città
italiane, se non una stessa città, in fazioni favorevoli all’impero o al papato e opposte
in sanguinose dispute.
I comuni, si è accennato precedentemente, nascono in Italia fra la fine del
secolo XI e i primi del XII, affermandosi vittoriosamente col risorgere delle città a
nuova vita, quando il disfacimento del mondo feudale è in pieno sviluppo, e si
riprendono i commerci e le industrie, tra l’infuriare delle lotte tra il Papato e
l’Impero, che largheggiano, entrambi, di concessioni e di riconoscimenti alla potenza
nascente delle classi cittadine. Solo nell’Italia del Sud, il formarsi di una potente
monarchia unitaria, per opera dei Normanni – questi, infatti, accorsi nel 1059 in
aiuto del papa, occupano tutta l’Italia meridionale –, limita prima e soffoca poi del

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tutto la libera espressione della vita politica della città: si ricordi l’esempio
emblematico di una delle prime repubbliche marinare, Amalfi, conquistata dai
Normanni e poi scomparsa rapidamente dalla scena attiva del Mediterraneo. Il
risveglio dell’XI secolo, accompagnato da fenomeni come la lotta per le investiture o
le crociate, rese più rapido il declino del feudalesimo. La città cessò di essere una
semplice fortezza, ove la gente trovava riparo dalle scorrerie e dalle aggressioni, per
diventare luogo di mercato e di scambi. I mercanti e gli artigiani costituivano ormai
una solida classe sociale. I cittadini tendevano sempre più a riunirsi in associazioni
per difendere i propri interessi. Nasceva così il comune. Inizialmente esso fu
un’organizzazione tra cittadini di carattere privato. Man mano, però, che il numero
dei membri aumentava, esso assunse sempre più l’aspetto di un’istituzione pubblica
cui faceva capo l’intera cittadinanza, in seno alla quale esistevano diverse classi
sociali. Vi era un ceto aristocratico, c’erano poi i semplici cittadini (soprattutto
mercanti ed artigiani) e, infine, gli abitanti del contado, ossia delle campagne, i quali
non godevano di veri e propri diritti politici. Dalla parola contado derivo il termine
contadino, entrato poi nell’italiano corrente per significare chi lavora la terra, sia in
proprio che alle dipendenze di altri. Il governo comunale subì col tempo dei
mutamenti strutturali. Quand’esso era ancora un’istituzione privata i suoi membri
erano rappresentati in seno all’arengo (sorta di parlamento), mentre alcuni
cosiddetti buoni uomini ricoprivano le cariche direttive. Man mano che il comune
assunse forma pubblica, l’arengo venne sostituito da due consigli: quello maggiore
e quello minore, mentre i Buoni Uomini lasciarono il posto ad una magistratura
presieduta da un certo numero di consoli (generalmente da due a quattro). Questi
amministravano la città ed assumevano il comando delle forze armate in tempo di
guerra. Per un certo tempo essi amministrarono anche la giustizia, che fu
successivamente affidata a speciali magistrati. Ma l’amministrazione del Comune
rimase essenzialmente nelle mani delle grandi famiglie aristocratiche. Tuttavia, a
partire dal secolo XII, lo sviluppo economico diede inizio ad una progressiva ascesa
della classe borghese, formata da imprenditori, mercanti ed artigiani, i quali si
riunirono progressivamente in arti o corporazioni (associazioni di categoria).
Queste entrarono presto in conflitto con l’aristocrazia, dove pure frequenti erano i
contrasti tra le varie famiglie. Ciò rese necessario abbandonare la forma di governo
consolare, ove i consoli rappresentavano queste o quelle altre famiglie

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aristocratiche, e si decise di assegnare l’incarico di primo cittadino del Comune ad
un forestiero, perciò al di fuori delle parti, con il titolo di podestà, in carica
generalmente per un anno, durante il quale egli svolgeva le funzioni esecutive e
quelle giudiziarie. Il Comune ebbe notevole successo nell’Italia centrale e
settentrionale, ad iniziare dalla pianura padana, ove, sin dall’XI secolo, aveva
imposto il proprio primato il comune di Milano.
La morte di Enrico V, avvenuta nel 1125, poneva fine alla dinastia di
Franconia, mentre una lunga serie di lotte interne fece precipitare l’Impero in una
profonda crisi politica, della quale i comuni poterono approfittare per nuove
rivendicazioni ed una loro diffusione anche nell’Italia centrale. Sarà utile ricordare
che la lotta per la successione al trono imperiale vede opposti due partiti: i partigiani
della casa dei duchi di Baviera discendenti da Welf, e i seguaci della casa dei duchi di
Svevia, gli Hohenstaufen, che avevano il loro centro nel castello di Weiblingen. Da
questi due nomi nasceranno i termini Guelfo e Ghibellino, che caratterizzeranno le
divisioni dei comuni italiani, indicando, rispettivamente, chi era favorevole al papa
o all’imperatore.
Alla fine di queste sanguinose lotte viene eletto, nel 1152, Federico I di Svevia,
detto Barbarossa, imparentato con le due case, che elabora la nuova concezione di
‘Impero Teutonico’, secondo la quale l’impero trasmesso direttamente da Dio al
popolo germanico, dopo gli Assiri, i Macedoni, i Romani, i Bizantini, e conquistato
dal valore guerriero dei principi tedeschi (translatio imperii). La sua politica fu
improntata alla ferma volontà di riaffermare l’autorità imperiale nei confronti del
papa e dei comuni italiani. Furono ben sei le campagne militari condotte dal
Barbarossa in Italia, dal 1154 al 1176, anno della sua definitiva sconfitta da parte
della Lega lombarda.
Federico I morì nel 1190, mentre si recava in Oriente per prendere parte alla
III crociata. Gli succedette il giovane figlio, Enrico VI, il quale, avendo sposato
Costanza d’Altavilla, ultima erede del Regno Normanno, era diventato anche Re di
Sicilia. Morto prematuramente nel 1197, egli lasciò erede della duplice corona il
figlio Federico II.
Una volta maggiorenne, Federico II cinse la corona imperiale, e, dopo qualche
esitazione ai tempi del papa Innocenzo III, riunì l’impero e l’Italia del Sud sotto un
unico scettro, seppure, formalmente, di quest’ultima è solo reggente in nome del

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figlio Enrico. Federico II scelse l’Italia come sua sede: Palermo fu la sua residenza
preferita, oltre ad altre città dell’Italia meridionale, dove pose le basi di quel
dispotismo illuminato, fondato su un forte accentramento del potere, accompagnato
però da diverse riforme, che fece della Sicilia una realtà politico-istituzionale
precorritrice dello stato moderno. Anche la cultura fu testimone della buona
situazione politica del Regno: nasceva infatti la prima vera e propria corrente
letteraria italiana, la scuola poetica siciliana, di cui fecero parte, fra gli altri, lo stesso
Federico e il suo cancelliere, Pier delle Vigne. Federico dovette comunque
continuare le lotte contro il papa Gregorio IX e contro i comuni italiani, i quali ebbero
la meglio sulle truppe imperiali a Fossalta, nel 1249, un anno prima della morte
dell’imperatore. Gli succedettero il figlio Corrado IV, morto però prematuramente
nel 1254, e il fratello di questi, Manfredi, che morì nel 1265, combattendo contro
Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia, incoronato re di Sicilia dal papa. Un
ultimo tentativo fu quello del quindicenne Corradino di Svevia, che però venne
sconfitto con il suo esercito a Tagliacozzo nel 1268 e, fatto prigioniero dagli Angioini,
fu condannato a morte e decapitato a Napoli.
L’ultima parte del secolo è dominata dalla figura del papa Bonifacio VIII. Il
papa appoggiò le rivendicazioni angioine nel sud d’Italia e mandò a Firenze, come
proprio delegato, Carlo di Valois, per dirimere la sanguinosa lotta fra guelfi bianchi,
di estrazione popolare (fra cui si trovava Dante), e guelfi neri, di estrazione
aristocratica. Prevalsero i neri, segretamente appoggiati dallo stesso pontefice; ma
vennero cacciati da lì a poco da una violenta rivolta popolare, che costò la vita al loro
capo, Corso Donati, e riportò al potere i bianchi. Mentre ciò accadeva a Firenze,
s’innescava una feroce diatriba fra il papa e il re di Francia, che si concluse con
l’arresto del papa, poi liberato da una rivolta della popolazione, anche se Bonifacio
VIII, ultimo rappresentante della teocrazia medievale, moriva di lì a poco. Da parte
imperiale un ultimo sussulto di vitalità venne con Enrico (Arrigo) VII, intorno a cui
s’accesero le ultime speranze di coloro che sognavano la resurrezione dell’impero
medievale. Sceso in Italia per porre definitivamente termine alle lotte fra guelfi e
ghibellini, di ritorno da Roma, dove aveva cinto la corona imperiale, morì
improvvisamente a Buonconvento (1313), presso Siena, chiudendo, ad un decennio
dell’ultimo portavoce della politica teocratica, anche l’epoca dell’Impero quale
monarchia universale.

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4.2. Il policentrismo linguistico del Duecento: fattori di differenziazione e di unità
Il complesso di fatti e di processi socio-politici appena descritti ha enormi
ripercussioni sulla vita culturale e linguistica d’Italia. La civiltà dei comuni è
altamente policentrica, diversificata, fatta di realtà geografiche anche molto diverse.
Ciò provocherà tipi svariati di produzione linguistica e letteraria a seconda delle
diverse aree: la parlata locale, ovunque, diventa strumento privilegiato di poesia e
di prosa. Dappertutto, infatti, l’idioma nativo è oggetto di una notevole
considerazione, che vuole promuoverlo a dignità culturale. La situazione, vedremo
fra poco, è radicalmente differente dalla Sicilia in cui era fiorito il Notaro, per
evidenti motivi geopolitici, storici, ambientali. Eppure anche qui un ruolo decisivo
per la promozione del dialetto alla letteratura, svolge la realtà istituzionale. Non più
la corte, ma la città, il Comune con la sua organizzazione corporativa, con la sua fitta
attività produttiva, con le sue strutture sociali e politiche, nelle quali si muovono e
si confrontano partiti diversi, con la sua intensa vita civile. Policentrismo significa
anzitutto radicamento forte degli individui nel proprio spazio municipale, nel
proprio orizzonte nativo di tempo e di luogo, nella storia locale della propria
famiglia. La parola patria ha, per l’uomo duecentesco, un valore che lo riporta
puntualmente al suo Comune, alla sua città. E l’attaccamento di Dante a Firenze, che
non finisce nemmeno nei cieli della terza cantica, è un efficace simbolo poetico di
quello che fu un atteggiamento psicologico largamente diffuso. Appunto questo dato
storico bisogna aver presente per comprendere l’apertura a raggiera della
produzione poetica in volgare. E non ci si stupirà di scoprire che al policentrismo
politico del “paese del sì” nel XIII secolo corrisponde un policentrismo linguistico di
grande vitalità: era il segno di una tradizione storica molto diversificata e che durerà,
magari in modo sotterraneo, fino ai giorni nostri. Seguire le linee della nascente
lingua volgare vuole dire quindi avvicinarsi alle differenti realtà regionali del
medioevo, in un processo che rende spesso difficile identificare linee di sviluppo
parallele. Si cercherà, comunque, di individuare i caratteri principali delle più
importanti correnti letterarie, per evitare così di disperdersi in tradizioni
esclusivamente locali e municipali.

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Dentro questo policentrismo vi sono però elementi di unità molto importanti,
che imparentano ambienti, città, regioni anche molto lontane fra loro, e che
giustificano lo sviluppo di una letteratura per molti aspetti comune:
a) Crescita della circolazione culturale. Il fenomeno ha varie componenti. Anzitutto
una sociale: crescono strati sociali nuovi, acquistano prestigio economico e politico,
condizionano la vita degli altri ceti. Tali strati cominciano ben presto ad avere
bisogno di strumenti culturali che aiutino e diano solidità alla loro iniziativa:
anzitutto strumenti tecnici immediati per la lettura e la scrittura, per il far di conto.
Nascono così e si espandono rapidamente delle scuole in cui si impartisce
l’insegnamento di base: scuole private, a volte nel retrobottega di un artigiano, a
volte gestite da un maestro (e poi da corporazioni di maestri) che fa mestiere delle
sue conoscenze; oppure scuole pubbliche, istituite dal Comune, e di vario livello, da
quello più semplice, elementare, ai gradini più elevati della cultura retorica e
letteraria. L’apprendimento avveniva esclusivamente in volgare nelle scuole dei
mercanti, o scuole d’abaco o algoritmo, che potrebbero essere paragonate alle
moderne scuole a indirizzo professionale. In queste scuole s’imparava a scrivere e
leggere esclusivamente in volgare, fatta eccezione per quel tanto di latino formulare
che poteva servire per scrivere una lettera. Il volgare, inoltre, mediava
l’apprendimento di una grande quantità di nozioni tecniche e professionali, come la
merceologia, l’aritmetica, la contabilità, l’economia monetaria internazionale,
indispensabili per coloro che volessero esercitare la mercatura. Un secondo aspetto
è dato dai rapporti fra le varie realtà comunali e cittadine e dal rinnovato influsso
della cultura francese, ancor più evidente in una situazione in cui il senso del
rapporto tra espressione linguistica e nazionalità è particolarmente accentuata. I
libri di Francia e di Provenza circolano abbondanti in Italia; gli scrittori d’oltralpe
scendono in Italia, in particolare i trovatori, da Raimbaut de Vaqueiras a Uc di Saint
Circ. L’autore della Chanson d’Aspremont è un francese che scrive in Italia nei tempi
della terza crociata (1191) e la fortuna precoce del Roland in Italia ha fatto persino
pensare ad una gestazione italiana. Le traduzioni dal francese (il Roman de la rose
volto compendiosamente nel Fiore) e dal provenzale (si pensi alla fortuna di
Folchetto da Marsiglia) sono assolutamente comuni. Attraverso la circolazione
popolare dell’epopea cavalleresca, come attraverso i contatti assicurati dai mercanti
i quali si muovono di paese in paese, dai podestà che offrono i loro uffici politici ora

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a questa ora a quella città, si stabiliscono indirettamente dei legami: un comune
clima mentale, certe letture, e naturalmente parole, modi di dire, espressioni che
passano e diventano comprensibili da un luogo all’altro.
b) Laicizzazione della cultura. Il mondo comunale che si è formato è ricco, articolato,
pieno di iniziative e di esigenze. Perciò esso ha bisogno per funzionare di un
personale intellettuale numeroso e qualificato, di giuristi e tecnici
dell’amministrazione cui affidare i compiti della Cancelleria e del governo della cosa
pubblica, di oratori per le ambascerie, di notai per redigere i vari tipi di contratto
stipulati tra i cittadini, di maestri che insegnino a leggere e scrivere e a far di conto
ai figli dei mercanti e dei borghesi, di medici. Sono tipi di intellettuale nuovi, non più
legati alla Chiesa, ma alle attività economiche, politiche, diplomatiche dell’ambiente
cittadino di cui fanno parte, figure professionali in cui il dato municipale conta
molto, di contro a quel cosmopolitismo che aveva caratterizzato i chierici medievali,
funzionari di una istituzione universale come la Chiesa. La sede in cui questi
intellettuali si formano è principalmente l’Università. All’antico Studio bolognese,
che risale all’XI secolo, si affiancano ora le Università di Padova, di Napoli (fondata
da Federico II), di Roma, di Siena, di Modena, di Vercelli. Anche se il peso della Chiesa
si fece sentire sugli Studi italiani, è vero che essi, a differenza delle facoltà parigine,
dove fiorì la Scolastica, riusciranno a restare complessivamente autonomi
dall’autorità ecclesiastica.
c) Carattere “pratico” della cultura nuova. Questa era scaturita da esigenze della vita
sociale e non c’è da sorprendersi che proprio nelle fasce produttive della comunità
la circolazione degli strumenti culturali trovi l’impulso maggiore. Essa, cioè, si
alimentava alle attività mercantili, agli scambi economici, ai contratti fra privati. Era
cultura pratica, cultura delle classi medie. Dovremo naturalmente distinguere i vari
livelli di possesso di conoscenze e di saperi: vi saranno, ad esempio, strati
intellettuali più elevati che considereranno ‘disinteressata’ la poesia e la ricerca
spirituale. Ma la spinta all’alfabetizzazione, che è il grande fatto nuovo del tempo,
nasce dal popolo più socialmente attivo e funzionale. Non è un caso se, dagli anni
remoti dell’Impero romano, si ricomincia a scrivere sui muri, come si era fatto a
Pompei nel I sec. d.C. Segno che vi è possibilità di essere letti e compresi, di
comunicare; che la parola scritta cessa di essere, almeno nelle situazioni più evolute,

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uno scarabocchio incomprensibile alla maggioranza: rinascono così le “scritture
esposte”, cioè tutte le scritture non legate al supporto librario.
d) Ricostituzione di un pubblico letterario. È questo un processo lungo, che si attua in
modi e misure diverse da zona a zona, ma che ha un’importanza storica decisiva. La
conquista della capacità di leggere e di scrivere per strati crescenti della popolazione
determina una domanda di libri, di cultura come non si era più vista da circa un
millennio. Fra il ceto dei colti, di estrazione universitaria o educati in famiglia, e la
schiera degli incolti, degli “idioti”, poveri di conoscenze e di letture, si colloca uno
strato intermedio che è in grado di capire sia gli uni sia gli altri. È uno strato
socialmente nuovo, nel quale risiedono i primi gruppi borghesi, che fa da cemento
culturale della comunità. Per esso passa la letteratura popolare di provenienza
francese, come passeranno la Commedia di Dante e il Decameron. È la classe da cui
usciranno i novellieri e i cronisti; alla sua robusta presenza si dovranno le numerose
traduzioni da testi latini e francesi nella lingua dell’uso, il volgare; il suo linguaggio
sarà la base di ogni tentativo di volgare illustre.
Non ci si potrebbe spiegare la grande fioritura poetica il cui apice è Dante se
non attraverso la rinnovata presenza nella società comunale di un pubblico
letterario che è l’interlocutore necessario e costante, sia quando è assiduamente
cercato, sia quando, magari, è criticato e disprezzato dagli intellettuali maggiori. È
proprio Dante, come vedremo meglio in seguito, mostra di capire a fondo questa
situazione con la sua appassionata ricerca sui dialetti d’Italia, con l’ipotesi che la
lingua letteraria deve fondarsi sul raffinamento della lingua comune, soprattutto con
la scelta del volgare per la grande, la Commedia.
Questi quattro aspetti possono dare forse l’idea della profonda
trasformazione della società italiana nel Duecento, limitatamente, è bene ricordarlo,
all’area centro-settentrionale e cittadina. Per il Regno delle Sicilie, come si vedrà più
avanti, la situazione è abbastanza diversa.

4.3. La lingua della scuola poetica siciliana


Gli esordi della scuola poetica siciliana si possono collocare attorno agli anni
‘30 del Duecento, presso la corte di Federico II di Svevia. Agli anni 1233 e 1240,
infatti, risalgono alcuni documenti regi rogati per manus Iacobi de Lentino (il
“Notaro” per antonomasia), iniziatore, e secondo alcuni studiosi promotore, della

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tradizione poetica del volgare italiano. Sarebbe impossibile dar conto di tutti i
caratteri di una tradizione linguistica che è fra le più sofisticate del Medioevo, per
cui, in questa sede, ci si limiterà a fare il punto su alcune questioni importanti: le
fonti e i temi, il problema della lingua, strettamente legato a quello della tradizione
manoscritta, e il trapianto della lirica siciliana in Toscana.
La tradizione lirica in volgare prese avvio su di un retroterra poetico già
pienamente consolidato, la poesia dei trovatori provenzali, che intorno alla prima
metà del Duecento attraversava ormai una fase di declino. L’influenza della lirica
trobadorica si manifesta già a partire dalla canzone che, per tradizione storiografica
e per l’effettiva rilevanza acquisita presso i poeti successivi, viene indicata come il
primo atto della poesia dei siciliani, Madonna dir vo voglio di Giacomo Lentini, il cui
verso iniziale, ad esempio, è una traduzione libera di A vos, midontç, voill rettrair’en
cantan del trovatore Folchetto, che morì vescovo di Marsiglia ai primi del Duecento.
I prelievi operati da altri poeti sul corpus trobadorico, Iacopo Mostacci, Mazzeo di
Ricco, Stefano Protonotaro, per citarne alcuni, rivelano la natura complessa e il
notevole grado di autonomia dei siciliani rispetto alle loro fonti, e lo spirito
agonistico per cui un poeta tendeva a evitare il prelievo di luoghi già utilizzati da
altri. L’originalità dei poeti siciliani si misura anche sotto il profilo specificamente
metrico: ai siciliani, e forse al caposcuola Giacomo da Lentini, si deve infatti
l’elaborazione del sonetto, genere metrico breve, che riscuoterà un’immensa fortuna
nella poesia italiana, formato da un’ottava e una sestina e derivato probabilmente
dalla cobla esparsa provenzale.
I trovatori avevano cantato temi politici e guerreschi, morali e religiosi, e
naturalmente argomenti amorosi. I poeti siciliani, fra i quali a differenza dei
trovatori provenzali v’erano molti funzionari del Regno di Sicilia (oltre al Notaro,
ricordiamo fra i più famosi Stefano Protonotaro, il giudice Guido delle Colonne, Pier
della Vigna, protagonista del XIII canto dell’Inferno dantesco; non mancavano i
nobili, come Rinaldo d’Aquino, Re Enzo, figlio di Federico II, e lo stesso Federico), si
mostrarono più selettivi nei confronti della poesia provenzale, della quale elessero
esclusivamente le tematiche inerenti all’amore, che non interferivano con la politica
accentratrice e assolutistica di Federico II. La poetica dei siciliani ruota
fondamentalmente attorno agli aspetti del cosiddetto ‘amore cortese’, rivolto a una
donna di posizione sociale elevata, spesso irraggiungibile e orgogliosa, alla quale il

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poeta si rivolge usando la terminologia e le espressioni di deferenza di un vassallo
verso il proprio signore.
I poeti della corte sveva predilessero uno stile aulico, che solo presso alcuni
di loro piegò verso tonalità popolareggianti (per esempio Giacomino Pugliese e, per
le composizioni ispirate al genere delle “canzoni di donna”, Rinaldo d’Aquino). Un
registro “comico” predomina invece nel Contrasto di Cielo d’Alcamo, composto fra il
1231 e il 1250 in strofe di tre alessandrini monorimi col primo emistichio sdrucciolo
più due endecasillabi a rima baciata. Le strofe sono attribuite alternativamente a un
giullare che avanza insistenti profferte d’amore, e una donna che dapprima si mostra
reticente e sdegnosa, per poi (nell’ultima strofa) dichiararsi pienamente
consenziente, secondo uno schema già praticato nel contrasto bilingue (provenzale
e genovese) del trovatore catalano Raimbaut de Vaqueiras. In Raimbaut, però, la
differenza etnica e linguistica fra il giullare (provenzale) e la donna (genovese) si
risolve in una sconfitta per il giullare, mentre nel Contrasto l’identità della lingua
permette al giullare di fare sfoggio di una retorica amorosa, ispirata alla trattatistica
erotica (il De Amore di Andrea Cappellano, principalmente), che gli consente la
vittoria. La forma del contrasto attraversa parimenti (l’opposizione fra la donna e il
giullare) e il linguaggio del componimento, tutto giocato sull’avvicendamento e la
dissonanza fra un registro aulico-cortese evidente fin dall’incipit: Rosa fresca
aulentissima. A differenza che nella poesia aulica, in cui abbondano i gallicismi (e
soprattutto i provenzalismi) di tradizione letteraria, la lingua del Contrasto esibisce
una gran quantità di francesismi di tono ‘alternativo’ o ‘parlato’.
In quale lingua scrissero i poeti siciliani? Un aspetto idiomatico
genericamente meridionale più che specificamente siciliano è evidente nel
Contrasto di Cielo d’Alcamo (si pensi, ad esempio, a trezze, eo, forme sicure perché
presenti in rima; ai possessivi enclitici pàremo ‘mio padre’, pàdreto ‘tuo padre’,
càrama ‘mia cara’; i plurali in -ora, schiantora; i perfetti forti àbbero ‘ebbero’, pottero
‘poterono’). Invece nella poesia ‘aulica’, così come la si legge oggi e come la leggeva
Dante al principio del Trecento, di siciliano c’è assai poco, tanto che in passato si
poté dubitare dell’effettiva sicilianità della lingua adoperata dai primi rimatori.
Infatti, a eccezione di un importante tassello recentemente aggiunto al corpus dei
siciliani, un frammento della canzone [R]esplendiente stella de albur di Giacomino
Pugliese, copiato fra il 1234 e il 1235 in un documento giuridico, e di alcune poesie

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in siciliano illustre (Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro e alcuni frammenti
di Re Enzo) inserite nel Libro dell’arte di rimare dell’umanista Giovanni Maria
Barbieri (1519-74), che egli affermava di aver trascritto da un antico Libro siciliano,
quasi tutti i componimenti della più antica poesia d’amore si leggono in un toscano
venato di sicilianismi, in alcuni codici toscani risalenti a un’epoca in cui la lirica
siciliana si era esaurita da circa mezzo secolo: essi sono, in ordine decrescente
d’antichità, il codice Banco Rari 217 della Nazionale di Firenze (ex Palatino 418 = P),
di area lucchese o pistoiese, della fine del Duecento; il Laurenziano Rediano 9 della
Medicea Laurenziana di Firenze (= L), copiato da due mani, la più antica delle quali,
linguisticamente pisana, risale alla fine del Duecento ed è probabilmente di poco
posteriore al precedente; infine, ultimo in ordine di tempo ma non d’importanza, il
grande canzoniere Vaticano Latino 3793 della Biblioteca Apostolica Vaticana (= V),
fiorentino, dei primi del Trecento. Insomma, tutto quanto conosciamo dei poeti
siciliani è già frutto di una mediazione linguistica e culturale avvenuta
principalmente per opera di copisti toscani cui si deve una generale, anche se non
sistematica, toscanizzazione delle liriche. Solo in Per meu cori alligrari ritroviamo il
sistema vocalico tonico e atono siciliano (pir, meu, taciri, amuri, rasuni, valuri,
amaduri, diri, cantari, levimenti, turniria, ecc.), ormai perduto negli altri
componimenti. Siciliana è, ad esempio, la consuetudine alle forme non dittongate da
è ed ò in sillaba libera, che è all’origine del successo secolare dei vari core, foco, loco,
more, omo, fero. La grana linguistica siciliana si riconosce anche nel passaggio di -ns-
a -nz- (penzata) o nell’esito -z- o -zz- del nesso -cj- o -ccj- intervocalici (dolzi,
plazimento, abbrazata, fazo, ecc.). Una conseguenza rilevante della toscanizzazione
delle liriche siciliani fu la creazione di un particolare istituto formale, la “rima
siciliana”. Presso i siciliani (così come nella poesia dei trovatori), erano possibili solo
rime perfette, come taciri:diri ai vv. 7-8 di Per meu cori alligrari. Nel passaggio dal
siciliano al toscano, la ‘traduzione’ del sistema vocalico siciliano basato su cinque
vocali a tre gradi di apertura (a, è, ò, i, u) e tre vocali atone (a, i, u) nel sistema toscano
basato su sette vocali con quattro gradi di apertura (a, è, é, ò, ó, i, u) e cinque vocali
atone (a, e, i, o, u), generò rime imperfette in cui i poteva rimare con é e u con ó.
Quindi, da rime perfette come diri : taciri e adiviniri:timiri scaturirono rime
imperfette come dire:tacere e adivenire:temere; analogamente da misura:innamura
o bon’ura:ventura si crearono rime come misura:innamora, o bon’ora: ventura. La

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fonologia siciliana, imponendo i e u tonici dove l’italiano ha é e ó, ha prodotto le
durevoli forme del tipo nui vui priso miso: la rima siciliana venne istituzionalizzata
dai poeti toscani, fu accolta cioè come un procedimento pienamente legittimo.
All’influsso siciliano è, infine, almeno in parte, riducibile anche la fortunata tendenza
ad ammettere come perfetta la rima di é con è e di ó con ò (vérde:pèrde, fióri:còri),
dal momento che nei siciliani e ed o venivano pronunciate sempre aperte e quindi
consentivano di stabilire rime perfette anche tra aperte e chiuse, quando queste
ultime venivano recuperate per latinismo (amori:cori). Il sottofondo idiomatico,
recuperabile solo in forma parziale e indiziaria per la fonetica, è un po’ più
consistente nel lessico e nella morfologia. Caratteristiche del siciliano, spesso
fortunatissime nella tradizione poetica seriore, sono infatti forme come disio, abento
‘riposo’, eo, meo, saccio ‘so, ave ‘ha’ e, soprattutto, una particolare morfologia
verbale. Ad esempio ajo, aggio da HABEO, da cui i futuri in -a(g)gio e in -aio
(moriraio, ameragio, falliraggio); esti, este per è; -imo -iti -ati (voi mostrati, vedite)
desinenze delle persone plurali del presente indicativo; i passati remoti di prima
coniugazione alla terza singolare in -ao -au (amau, amao, pigliao, ecc.) e quelli in
terza alla prima in -ivi (audivi, partivi) e alla terza in -ío (morío, udío, punío), e
soprattutto l’imperfetto in -ía dei verbi in -e- della seconda coniugazione (vedia,
avia); il participio passato in -uto di quelli di terza (smaruta, arriccuto). Si ricordino,
inoltre, i condizionali in -ara derivati dal piuccheperfetto indicativo latino in -
AVERAM (soffondara, gravara, pèrdera, toccàra, mòssera, degnàra, mìsera, ecc.), che
alternano con l’altro condizionale, prevalentemente centro-meridionale e
settentrionale, ma non toscano, del tipo in -ia < infinito + HABEBAM (crederia,
sembraria). Un sicilianismo, anzi meridionalismo, sintattico è tenere mente costruito
con l’oggetto diretto, nel significato di ‘guardare’ (Giacomo da Lentini: quando voi
tegno mente). Alcune espressioni trovano un preciso riscontro nel dialetto moderno,
come possiamo osservare in questi esempi tratti da Giacomo da Lentini (fra
parentesi le attestazioni poetiche): sicilianismo lessicali come spicari ‘svettare,
crescere’, allintari ‘stancarsi’ (spica, alento); locuzioni avverbiali come a n’autra
parti ‘altrove’ (altra parte); locuzioni verbali tipicamente siciliane come pariri forti
‘sembrare difficile, duro a farsi’, aviri davanti ‘avere dinnanzi agli occhi’ (mi par forti,
v’aggia avante); espressioni come a vista dill’occhiu ‘la vista’ o mutari vintura
‘cambiare stato’ (la vista dell’occhio, muteria ventura).

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I poeti della corte sveva, inoltre, scrissero in un siciliano in cui vollero forti e
chiare le tracce dei modelli francesi e soprattutto provenzali, con prestiti e
adattamenti solo raramente richiesti dal contenuto del loro discorso. Si voleva così
rendere ancor più spiccato il carattere analogo e consimile di questa poesia sorella
in un idioma affine, accrescendo il numero delle parole dall’aspetto provenzale. Ed
ecco il grande sfruttamento delle forme a suffisso:
a) -anza: accordanza, adimoranza, allegranza, amanza, amistanza,
benvoglianza, certanza, confurtanza, diletanza, dimoranza, erranza, fallanza,
intendanza, leanza, membranza, misuranza, obrianza, onoranza, pesanza,
pietanza, sicuranza, tristanza, ecc.;
b) -enza: canoscenza, contendenza, cordoglienza, credenza, intenza,
mantenenza, ecc.;
c) -mento: adonamento, agecchiamento, cominzamento, compimento,
confortamento, dimostramento, dipartimento, mancamento, narramento,
pensamento, regimento, ecc.;
d) -agio: coragio, damnagio, fallagio, fermagio, usagio, ecc.;
e) -ore: acerore, amarore, baldore, bellore, dolzore, gelore, lostrore, pascore,
verdore, ecc.;
f) -ura: verdura, freddura, frondura, riccura, chiarura, ecc.
Si tratta di forme certo compatibili col e spesso già proprie del siciliano (come
anche, poi, del toscano), ma qui presenti (e in gran quantità) come provenzalismi in
grado di alludere al modello e di autenticare così il valore letterario del nuovo testo.
Questa indiscutibile disponibilità linguistica viene accresciuta dalla
possibilità di variare i suffissi di una stesa radice, mantenendo sostanzialmente
inalterato il significato delle diverse parole così formate (‘doppioni’ o ‘varianti
fonomorfologiche’). Ecco qualche esempio del glossario dei poeti siciliani:
a) allegranza, allegressa, allegrezza, alegraggio;
b) amistanza, amistade;
c) belessa, belleze, biltà / beltà, bellore, bieltate;
d) conforto, confortamento, confortanza;
e) disio, disideranza /disianza / disiranza, desiderare;
f) dubio, dubitamento, dubitanza;
g) fallo, fallanza, fallenza, fallagio, fallia, fallimento, fallire,;

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h) innamoramento, innamoranza, innamorare;
i) oblio, obrianza (ubrianza), obria;
l) pietà (piatà), pietade, pietanza;
m) sembiante (sembrante), sembianza (semblanza), semplamento;
n) speme, spera, speranza, speramento;
o) temenza, timore, temere;
p) uso, usaggio, usanza, usare;
q) valenza, valere, valimento, valore.

Questa possibilità di ricavare effetti stilistici e retorici (e metrici) da dati


puramente linguistici si realizza anche in una tipica figura nata in Italia coi poeti
siciliani, la “dittologia sinonimica”, vale a dire, la replica, a distanza ravvicinata, per
lo più immediata e congiunta, dello stesso concetto (espresso da aggettivo, nome o
verbo che sia) con effetti di ripetizione, spesso di pura sinonimia: sospiri e pianti /
sollazando e in gioia stando / tempesta e dispera / placire ed alegrire (Giacomo da
Lentini); crudele e spietata / saggio e canoscente (Re Enzo); m’ha vinto e stancato /
v’incresca e prova / la mia gran pena e gravoso affanno (Guido delle Colonne), ecc. La
fecondità di questa struttura stilistica minimale, grazie alla quale il linguaggio
poetico recupera una struttura comunicativa primaria e colloquiale (la ridondanza),
è dimostrata non solo dalla sua fortuna nel tempo (diventerà, infatti, uno degli
stilemi caratteristici del Petrarca e dei suoi imitatori), ma anche dalla disponibilità
a farsi alimentare da variazioni molteplici, a cominciare da quella che sostituisce al
secondo sinonimo un termine antitetico al primo (Giacomo da Lentini dice, ad
esempio, lo foco donde ardea stutò con foco), preparando il terreno alle celebri
coppie con cui il Petrarca dichiarerà pace non trovo e non ho da far guerra o ardo et
son un ghiaccio.
Con la morte di Federico II (1250) e il conseguente tramonto della casa sveva,
che comportò la fine dei focolai di cultura i quali avevano alimentato la prima scuola
poetica italiana, venne meno la poesia siciliana. La sua eredità passò in Toscana e a
Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli stilnovisti. Questa è la linea
maestra della poesia italiana, che porta dunque dal Meridione verso l’area centro-
settentrionale.

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4.4. Dante Alighieri: il “padre della lingua italiana”
Sarebbe impossibile trattare esaustivamente in poche pagine la figura di
Dante e quanto abbia dato alla lingua italiana, sia in Italia che all’estero. La
complessità e la profondità delle sue argomentazioni, la genialità e la poliedricità
delle sue risorse linguistiche ne fanno un autore dalle interpretazioni inesauribili.
Questa sua ‘unicità’ nel panorama letterario italiano è stata riconosciuta anche a
livello popolare: ne sia prova l’espressione vulgata che chiama Dante Alighieri
(1265-1321) “padre della lingua italiana”, senza dimenticare l’altra, un po’ meno
forte, ma non meno onorevole, di Petrarca, il quale lo chiamò dux nostri eloquii
vulgaris (Sen., V, 2). Il pensiero di Dante è ancora per tutti i suoi elementi
intimamente legato al pensiero medievale, e infatti egli domina tutta la cultura
dell’Europa cristiana del tempo, seppure, per una felice contraddizione, non pensi a
risolvere il problema linguistico in modo conforme a quelli che sarebbero gli
interessi della monarchia universale, ma a quelli dell’Italia, che ebbe modo di
conoscere a fondo durante il suo esilio: suo uditorio ideale è dunque l’Italia, in tutte
le sue parti “a le quali questa lingua si stende” (Convivio, I, III, 4). E su questa fiducia,
insolita per l’epoca, in una nazione che non aveva ancora coscienza della sua
sostanziale unità culturale, seppe fondare un programma linguistico e culturale che
riuscì a oltrepassare i limiti angusti di un’epoca e di una regione, divenendo
patrimonio non solo italiano, ma dell’intera umanità.
LE OPERE DI RIFLESSIONE SUL VOLGARE (DE VULGARI ELOQUENTIA E CONVIVIO). Le idee
di Dante sul volgare si leggono fondamentalmente nel Convivio e nel De vulgari
eloquentia. Nel Convivio il volgare viene tra l’altro celebrato come “sole nuovo”
destinato a splendere al posto del latino, per un pubblico che non è in grado di
comprendere la lingua dei classici: il giudizio di Dante nasce dunque, oltre che da
una fiducia profonda nelle possibilità della nuova lingua, da un’istanza di
divulgazione o comunicazione più larga ed efficace. Altra questione toccata in
entrambi i testi (ma risolta nell’uno e nell’altro in maniera diversa) è la maggiore o
minore dignità dell’una e dell’altra lingua: nel Convivio il latino è reputato superiore
in quanto utilizzato nell’arte, nel De vulgari eloquentia, invece, la superiorità del
volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza, ma la letterarietà della

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lingua latina diventa uno stimolo per la regolarizzazione del volgare. Il De vulgari
eloquentia, composto nell’esilio (intorno al 1303), Il trattato in lingua latina De
Vulgari Eloquentia fu scritto probabilmente tra il 1303 ed il 1305, in ogni caso
durante il periodo dell’esilio, come ricaviamo dalla data post quem nel I libro (cap.
VI), in cui l’autore fa riferimento all'esilio ingiustamente subito (“[…] et Florentiam
adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste”). Il titolo dell'opera è
ricavato da una citazione del Convivio (I, 5: “uno libello... di volgare eloquenza”) e da
due definizioni interne al testo. Fu il primo scritto nel quale venne affrontata la
questione di una lingua italiana unitaria (pur sempre nelle modalità medievali) e,
nonostante il progetto originario dell'autore, non arrivò a comprendere i quattro
libri originariamente progettati, ma rimase incompiuto al quattordicesimo capitolo
del secondo libro. Il De Vulgari Eloquentia ebbe una vicenda travagliata, al contrario
delle altre opere dantesche. I manoscritti medievali sopravvissuti del DVE sono
pochissimi: a Milano (Biblioteca Trivulziana), in Francia e in Germania. L’opera
scomparve fino al Cinquecento, quando divenne oggetto di contese per sostenere o
controbattere alcune controversie della questione della lingua.Troviamo accenni
qua e là in autori trecenteschi, ad esempio nella Vita di Dante di Gianni Villani:
Fece un libretto, che s’intitola De vulgari eloquentia, ove promette fare quattro libri, ma non
se ne trova se non due, forse per l’affrettato suo fine, ove con forte e adorno latino e belle
ragioni ripruova tutti i volgari d’Italia” (Cronica). Giovanni Boccaccio: “libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendea di dar dottrina a chi
imprendere la volesse, del dire in rima.

Nonostante ciò, fino al Cinquecento esso rimase sconosciuto, o fu citato in


maniera vaga, senza che fosse stato letto per davvero. Ne parlano alcuni umanisti,
come Leonardo Bruni, Cristoforo Landino, Giovan Mario Filelfo. Nel 1529 Trissino
pubblica a Vicenza (Janiculo) una traduzione italiana del testo, di cui si servì come
argomento per sostenere la sua teoria sulla lingua letteraria espressa nel dialogo Il
castellano. Secondo Trissino, la lingua usata da Dante e Petrarca non era vero
fiorentino ma una lingua nata dalla commistione di elementi provenienti da varie
parlate del Nord Italia, per cui la lingua letteraria non doveva essere il toscano bensì
una sorta di koiné nata nell'ambito delle corti dell'Italia settentrionale: “li Tωscani
sianω più degli altri in questa εbbriεtà furibωndi, ci pare in qualche coʃa utile ε degna
torre in qualche coʃa la pωmpa a ciascunω dei vωlgari proprii de le città di
Tωscana”. Il DVE ricompare nella prima metà del Cinquecento, quando, secondo una

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tradizione non del tutto attendibile, il letterato vicentino Gian Giorgio Trissino nel
1514 avrebbe parlato dell'opera agli intellettuali degli Orti Oricellari frequentati da
Machiavelli, il quale tra l'altro contesta le idee di Dante espresse nel De vulgari nel
suo Dialogo intorno alla nostra lingua. Non ebbe dunque, a differenza di altre opere
di Dante, una sorte molto felice. Fu ‘riscoperto’ nella prima metà del sec. XVI, e allora
pubblicato in traduzione italiana dal letterato vicentino Giangiorgio Trissino, uno
dei protagonisti del dibattito sulla ‘questione della lingua’, che lo fece conoscere in
pubblica lettura alla cerchia fiorentina degli “Orti Oricellari” (1513 ca.). Anche dopo
la pubblicazione, però, la fortuna del trattato non fu pacifica, né completa, né senza
contrasti, anche perché le sue tesi furono utilizzate in chiave polemica nelle dispute
sulla ‘questione della lingua’; ciò fece mancare la piena serenità di giudizio, anche se
di fatto, in questo modo, il De vulgari eloquentia finì per essere al centro
dell’attenzione, come uno dei testi fondamentali per il dibattito linguistico del
Rinascimento. Nel corso di queste discussioni, alcuni insinuarono il sospetto che il
trattato non fosse di Dante, che ci si trovasse di fronte ad un falso. La tesi della falsità
del De vulgari eloquentia non era disinteressata: faceva comodo soprattutto alla
cultura fiorentina, che mal tollerava le pagine in cui Dante aveva condannato
duramente (come vedremo) il volgare toscano, preferendogli il bolognese e il
siciliano illustre, e negando che il toscano stesso potesse identificarsi con la lingua
degna della poesia volgare. Nel 1577 venne finalmente pubblicato a Parigi, a cura
del fuoruscito fiorentino Jacopo Corbinelli, il testo originale latino del De vulgari
eloquentia (DVE). Le contrastanti valutazioni sul trattato dantesco, pur apprezzato
nel Settecento da intellettuali come Gravina e Muratori, non finirono qui:
nell’Ottocento Alessandro Manzoni tentò di sminuirne l’importanza, affermando che
il De vulgari eloquentia non aveva per oggetto la lingua in generale, né l’italiano in
maniera specifica, ma solo la poesia. Questa era un’osservazione sottile, basata sul
fatto che buona parte del trattato discute effettivamente problemi retorici e metrici.
Agli occhi di Dante, però, l’intreccio tra i due temi era indissolubile, e solo la perfetta
definizione del concetto di ‘lingua’ permetteva la fondazione di una letteratura in
volgare: per il poeta fiorentino, infatti, la riflessione teorica accompagna e sostiene
in maniera continua l’azione poetica. In ogni caso, il DVE rappresenta un’opera di
valore eccezionale, perché, fra l’altro, precorre alcune tematiche e forme di ricerca
moderne: la concezione della lingua come organismo che varia secondo i luoghi e le

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distanze; la parola come unione di una parte ‘fisica’ ed una ‘razionale’ (oggi diremmo
‘significante’ e ‘significato’); il concetto di ‘grammatica’ come codice immutabile e
artificiale adatto alla comunicazione universale, distinto dal volgare o ‘lingua
materna’; il confronto fra le lingue neolatine (oggi noto come “comparazione
linguistica”), che attesta la provenienza da una lingua comune. del Trissino e in
particolare contro la paternità dantesca del trattato, perché il Trissino non aveva
pubblicato il testo latino ed era diffusa la voce che la sua traduzione fosse in realtà
un falso. L'originale latino è pubblicato a Parigi nel 1577 da Jacopo Corbinelli. La
ricomparsa dell'opera non suscitò un grande dibattito nella fine del sec. XVI e se ne
parlò assai poco anche nel Seicento. Nel Settecento il dibattito critico intorno al DVE
torna di attualità e cambia l'atteggiamento degli intellettuali intorno al trattato:
l'interesse verso l'opera nasce dall'insofferenza di alcuni scrittori verso il purismo
fiorentino e l'Accademia della Crusca, tra cui Ludovico Antonio Muratori, mentre più
tardi guarderanno con simpatia al De vulgari Carlo Denina e Melchiorre Cesarotti.
Agli inizi dell'Ottocento Vincenzo Monti si servì delle tesi dantesche per combattere
la Crusca e il suo vocabolario, in nome di una lingua letteraria sovraregionale e non
popolare, nel 1868, Alessandro Manzoni si occupò del De vulgari affermando che
Dante nel trattato non si era occupato di lingua ma di retorica.
Dante, procedendo secondo la logica della cultura del suo tempo, ma con
un’originalità eccezionale nell’impianto e nello sviluppo delle argomentazioni, è
cosciente della novità del tema scelto ad oggetto di indagine, muove dalle origini
prime, dalla creazione di Adamo: stabilisce che fra tutte le creature l’unico essere
dotato di linguaggio è l’uomo; dunque il linguaggio stesso caratterizza l’essere
umano in quanto tale, diversificandolo ad esempio dagli animali bruti,
gerarchicamente più in basso di lui, e dagli angeli, posti più in alto. L’origine del
linguaggio e delle lingue viene ripercorsa attraverso il racconto biblico: nodo
centrale è l’episodio della Torre di Babele. La storia delle lingue naturali, nella loro
varietà, incomincia proprio qui: loro caratteristica è il mutare nello spazio, da luogo
a luogo, e nel tempo, visto che le lingue medesime sono tutte soggette ad una
continua trasformazione. La ‘grammatica’ delle lingue letterarie, come quella del
greco e del latino, secondo Dante, è una creazione artificiale dei dotti, intesa a
frenare la continua mutevolezza degli idiomi, garantendo la stabilità senza la quale
la letteratura stessa non può esistere. Anche il volgare, per farsi ‘letterario’, per

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arrivare ad una dignità paragonabile a quella del latino, deve acquistare stabilità,
distinguendosi dal parlato popolare.
Per arrivare a definire i caratteri del volgare letterario, Dante procede in
maniera ordinata, seguendo la diversificazione geografico-spaziale delle lingue
naturali, e concentrando la sua attenzione su spazi geografici via via più ristretti. La
sua attenzione si concentra sull’Europa, in cui venne portato un ydioma tripharium,
che generò moltissimi volgari, i quali si distinguono per la particella affermativa: nei
paesi del Nord e del Nord-Est (che noi diremmo germanici e slavi) si parlano lingue
in cui sì si dice io; nei paesi del Centro-Sud si parla la lingua d’oil (il francese), la
lingua d’oc (il provenzale), il volgare del sì (l’italiano); in Grecia e nelle zone orientali
è diffuso il greco. Questa è l’Europa linguistica secondo Dante, il quale, sempre
procedendo dal generale al particolare, e avendo come obiettivo una trattazione
approfondita dell’area italiana, si avvicina progressivamente al suo scopo, venendo
a trattare del gruppo linguistico costituito da francese, provenzale e italiano (volgari
i quali hanno comune origine, come dimostrano le concordanze lessicali di parole
come Dio, amore, mare, terra, cielo ecc.). Si restringe quindi finalmente alla sola area
italiana, la quale risulta diversificata al suo interno in una quantità di parlate locali.
L’esame viene condotto in base a criteri che a noi possono sembrare a volte
stravaganti e riduttivi, ma dimostrano comunque un eccezionale interesse per la
realtà empirica delle lingue viventi, ciò che fa di Dante un ‘glottologo’ e ‘dialettologo’
ante litteram. L’esame delle varie parlate si conclude con la loro sistematica
eliminazione: tutte, nella loro forma naturale, sono indegne del volgare illustre. La
condanna colpisce non solo volgari ‘impuri’, di confine, come il piemontese e il
trentino, ma anche il friulano, il sardo, il romanesco, il marchigiano e via dicendo.
Tra le più severe condanne c’è quella per il toscano e il fiorentino. Migliori degli altri
risultano il siciliano e il bolognese, ma non nella loro forma popolare, bensì nell’uso
di alto livello formale fattone rispettivamente dai poeti della corte di Federico II e
da Guinizelli. Il discorso si sposta ora dalla lingua alla letteratura: Dante, abbiamo
detto, sta cercando una lingua ideale, ‘illustre’, priva di tratti locali e popolari,
selezionata e formalizzata ad un livello ‘alto’. Le realizzazioni di questa lingua
vengono identificate nei modelli di stile a cui gli stilnovisti e Dante stesso
guardavano con maggior ammirazione. La nobilitazione del volgare deve avvenire
dunque attraverso la letteratura. Ecco perché il toscano viene condannato, al pari

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delle altre parlate italiane: non solo la lingua popolare toscana non interessa Dante
(in questa fase, per lo meno), ma inoltre la condanna colpisce poeti come Guittone
d’Arezzo, caratterizzati da uno stile rozzo e plebeo, ben diverso (nel giudizio di
Dante) da quello dei siciliani e degli stilnovisti. Il trattato De vulgari eloquentia da
libro di linguistica si trasforma dunque in trattato di teoria letteraria, oltre che in
profilo ‘militante’ di storia e di critica (se vogliamo usare delle categorie ‘moderne’):
viene passata al vaglio la tradizione poetica volgare, giudicata nei suoi risultati
qualitativi, allo scopo di tracciare una linea che conduca a Dante stesso e al suo
gruppo. Dante esamina le parlate alla ricerca del volgare illustre, che deve essere allo
stesso tempo aulico, curiale, cardinale: per il poeta, infatti, la componente essenziale
di tale lingua è il suo uso a livello ‘ufficiale’ e il suo riconoscimento come lingua di
una corte (aula e curia). Purtroppo, in Italia, non esiste una corte di questo tipo, che
potrebbe essere identificata con quella imperiale (“curia regis Alemanie”): pur non
essendo fisicamente presente, è sostituita spiritualmente dal “gratioso lumen
rationis”, cioè dal profondo e vivo sentimento degli intellettuali italiani di
riconoscersi in una lingua unica. E, infatti, per secoli, fino al 1861, la cultura italiana
sopravvisse grazie a questo desiderio comune di possedere una lingua nazionale,
non sostenuta da nessun organismo ufficiale, tantomeno da uno stato libero e
indipendente. Nei 14 capitoli del II libro, forse meno interessanti agli occhi dello
storico della lingua, l’autore parla della poesia a cui il volgare illustre principalmente
si addice, cioè la canzone; nel VII capitolo egli spiega come si debbano cernere
(“cribrare”) i vocaboli magnifici (“grandiosa vocabula”) adatti alla canzone:
naturalmente solo alcune esclusioni possono essere fondate su criteri estrinseci,
mentre quasi sempre si tratta di gusto. Che cosa dovessero contenere i libri seguenti,
sappiamo solo da qualche rinvio: forse nel III si doveva trattare della prosa; al IV
Dante rimandava per il volgare mediocre e umile. Nemmeno è certo se il trattato
dovesse terminare con il quarto libro. L’incompiutezza dell’opera fu la causa
principale dei malintesi a cui diede origine nel Cinquecento. La ricerca dantesca,
bisogna sottolinearlo, benché prenda la mosse dallo stato linguistico dell’Italia del
suo tempo, non è una ricerca di lingua (intesa come strumento sociale, atto a servire
alla generalità degli italiani), ma di stile (cioè di sublimazione artistica della parola).
Dato che il volgare, come vedremo nel Convivio, “seguita uso”, cioè non è legato a
regole stabili come il latino, esso può essere elaborato solo individualmente

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(discretio), con la mira rivolta a un ideale d’arte simile a quello che ispirò i grandi
poeti dell’antichità (“lo bello stile” dirà Dante nella Divina Commedia).
Altra opera sul volgare è il Convivio, incompiuta, che comprende quattro
trattati invece dei quindici progettati (1 introduttivo + 14). In essa è affermata, per
la prima volta con grande consapevolezza, la dignità del volgare nell’uso colto e, ciò
che più importa, il ruolo della prosa nell’affermazione della nuova lingua, scelto a
preferenza del latino per commentare le canzoni morali del poeta, anche se non
contiene alcuna informazione notevole circa le norme da seguire. Prima di tutto
Dante vuole giustificare l’uso del volgare e non del latino per commentare le sue
opere. Tre sono le ragioni additate:
1) Disconvenevole disordinazione: cioè una giusta relazione tra canzone e
commento esige che siano redatti nella stessa lingua;
2) Prontezza di liberalitade: la liberalità consiste nel rendere accessibile il
libro a molta gente, in qualunque momento e per chiunque;
3) Naturale amore a propria loquela: come aveva detto nel DVE, il latino è
lingua artificiale, mentre il volgare è la lingua che si apprende dalla propria nutrice.
Il latino è superiore “per nobiltà e per virtù e per bellezza”, “è perpetuo e
incorruttibile”, “manifesta molte cose concepute ne la mente che volgare far non
può”, è più armonica (“quella cosa dice l’uomo esser bella, cui le parti debitamente
si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento”), però “lo volgare
seguita uso”, cioè è elaborato individualmente ed è quindi più naturale, mentre il
latino segue l’”arte”, cioè la grammatica, ed è quindi di natura artificiale. Dopo aver
giustificato l’uso del volgare, Dante conclude il primo libro con delle famose parole
dal tono profetico: “Questo [il volgare] sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà
là dove l’usato tramonterà e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade,
per lo usato sole che a loro non luce” (I, XIII). E la profezia, vale la pena dirlo,
s’avverò. Vale la pena ricordare la complessità della sintassi del Convivio e, in
generale, il forte influsso esercitato dal latino nella prosa dantesca. Quindi una
sintassi del periodo ricca di latinismi, con costrutti all’infinita calcati sul gerundivo
(“a la quale restaurare fu l’umana natura poi creata”) e sull’accusativo con infinito
(“sapemo essi tutti tutte l’altre cose, fuori che la sapienza, avere messe a non
calere”), con relative agganciate alla frase del periodo precedente (“come le
maledette ricchezze. Le quali come ne la loro possessione...”), con incidentali e in

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genere secondarie anticipate di posto (“la terza è, sanza essere domandato lo dono,
dare quello”). Ruolo importante gioca in questa sintassi il gerundio, specie in
funzione circostanziale e strumentale, in dipendenza da verbi che indicano
ragionamento o riflessione e anche ‘dire’ e ‘mostrare’. C’è, in generale, una sintassi
ad andamento prolettico che anticipa le interrogative indirette e le dichiarative, a
volte controbilanciata da quella opposta che anticipa la principale e da essa governa
tutto il periodo. I latinismi lessicali sono molto numerosi, anche e soprattutto nei
luoghi di diretta traduzione da precedenti latini ben riconoscibili, soprattutto passi
della Scrittura; abbondano i sostantivi in -ione, gli aggettivi in -abile / -ibile, o in -ale
/ -evole. Gli stessi sostantivi in -anza / -enza, tanto frequentati dalla poesia come
provenzalismi e francesismi, qui si moltiplicano, applicati ai tecnicismi, forse
soprattutto come diretti discendenti degli astratti latini in -antia / -entia di gran
consumo scolastico, accanto a quelli in -mento o in -ezza: in definitiva il livello
filosofico-saggistico e poetico-letterario si uniscono, completandosi a vicenda.
IL PLURILINGUISMO DANTESCO: LA DIVINA COMMEDIA. Delle “tre corone”
trecentesche, Dante sarà l’autore meno imitato nel Cinquecento. Infatti, rispetto a
Petrarca o a Boccaccio, lo stile dantesco si caratterizza, soprattutto nella sua opera
più conosciuta, la Divina Commedia, per un sostanziale polimorfismo, che nasce da
un continuo sforzo di adattamento alla situazione e ai contesti narrati: ne consegue
l’inevitabile plurilinguismo, di certo difficile da imitare o da riassumere in modelli
applicabili alla poesia aulica, fuori dal loro contesto di composizione. Vi ritroviamo,
infatti, la levigatezza dello Stilnovo, la brutalità ed asprezza delle ‘petrose’, la
complessità concettuale dei trattati filosofico-linguistici, la raffinatezza sublimata di
un uso comune della lingua per trattare argomenti umani ed immortali. La base della
lingua di Dante è, in tutte le opere in volgare, il fiorentino, ma è forse la Commedia la
sua opera più fiorentina, nella struttura fonomorfologica, sintattica e nel lessico
fondamentale, forse per un recupero del fiorentino, anche sul piano teorico. Il
riferimento alla lingua di Firenze, infatti, è esplicito e proclamato: “E un che ‘ntese la
parola tosca” (Inf. XXIII, 76), “parlandomi tosco [...]” (Purg. XVI, 137), “O Tosco [...] /
la tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patria natio” (Inf. X, 22-26), “ma
fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo” (Inf. XXXIII, 11-12). E dal
fiorentino mutua voci della vita quotidiana, anche delle professioni più umili, ad
esempio pece, rimpalpare, ristoppa, coste, proda, poppa, remi, sarte, terzeruolo,

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artimon (Inf. XXI); dalla vita della villana viene spigolar (Inf. XXXII) e dal pastore “le
capre ruminando manse”, la verga, il mandriano, il peculio (Purg. XXVII); dal
montanaro, che “stupido si turba / [...] e rimirando ammuta / quando rozzo e
selvatico s’inurba” (Purg. XXVI). Sempre d’origine plebea è l’uso di bastare nel senso
di ‘durare’ (Purg., XXV, 136), burlare per ‘buttare via, sparpagliare’ (Inf., VII, 30),
potere nel senso di ‘essere capace di portare’ (Par., XVI, 47), e poi ancora sirocchia
‘sorella’, parroffia ‘parrocchia’, signorso ‘il suo signore’, mora ‘muro di pietre’, allotta,
ecc. Ma non ricorre solo al fiorentino vivo, infatti spesso adopera forme antiquate,
soprattutto alcune forme verbali ormai obsolete, creando così un’aura di arcaicità
linguistica. Questa libertà di scelta basta a mostrare che Dante, pur tenendosi
saldamente ancorato all’uso natio, guarda intorno a sé, accogliendo accanto alle
forme del fiorentino contemporaneo o arcaico anche voci e forme provenienti da
altre lingue. Prima fra tutte, e non potrebbe essere altrimenti, la lingua universale
dell’epoca, il latino. Basti ricordare quando Cacciaguida (Par. XV, 28-30) si rivolge a
Dante in latino: “O sanguis meus, o superinfusa / gratia Dei, sicut tibi cui / bis
unquam celi ianua reclusa?”. Amplissima, quasi illimitata, è l’apertura verso i
vocaboli latini, classici, tardi e medievali. L’ammissibilità di tutti essi, anche i più
strani, è dimostrata dal passo del DVE (II, VII, 6), in cui Dante cita come adoperabile
in volgare la stravagante coniazione della latinità medievale
“honorificabilitudinitate, quod duodena perficitur sillaba in vulgari, et in gramatica
tredena perficitur in duobus obliquis”. I latinismi, come si è appena detto, sono
numerosi (vime, cirro, baiulo, cive, patre, image, umbriferi, passuro, ecc.),
s’impongono con forza in rima (combusto:giusto, colubro:rubro, cuba:Iuba:tuba,
liqua:iniqua, imo:opimo:primo), e sovrabbondano nei canti di discussione dottrinale,
per cui ne troviamo in quantità crescente dall’Inferno al Paradiso. Altre volte è
l’aderenza alla sua fonte che suggerisce a Dante il latinismo: l’agricola del canto di
San Domenico (Par. XII, 71) risale alla parabola del vignaiolo; il conservo di papa
Adriano (Purg. XIX, 134) viene dall’Apocalisse; gli iaculi serpenti di Libia (Inf. XXIV,
86) sono un ricordo di Lucano, ecc. Il latino, infine, è il serbatoio del linguaggio
tecnico di Dante, da quello della geometria (“l’imago al cerchio”) a quello
dell’astronomia (epiciclo:periclo) e dell’anatomia (epa:crepa). La vastità d’orizzonte
lessicale dantesca si riflette anche nell’uso di voci dialettali, come il lucchese issa di
Bonagiunta, il sardismo donno di Michele Zanche, il sipa bolognese di Venedico

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Caccianemico, istra settentrionale, e così barba ‘zio’, scàrdova, burchio, ancoi, adesso,
chiappa ‘sasso’, oltre alla sonorizzazione in rima di figo e sego. Numerosi i
sicilianismi d’ascendenza letteraria: oltre ai casi di rima siciliana (noi:fui:sui,
nome:come:lume, suso:sdegnoso:desideroso), si ricordino i condizionali in -ía,
satisfara, miso, sorpriso, riprisa e poco altro. La consacrazione letteraria è evidente
anche in vonno, proveniente dall’umbro letterario, fenno, apparinno, terminonno (3º
pers. plur. del perfetto), usati letterariamente dai toscani occidentali. E dalla
tradizione poetica mutua i gallicismi, il più delle volte in rima, mescolandosi spesso
con i latinismi (dolzore:fore:amore, gaggi:maggi, parveza:circunferenza, spegli:vegli,
ecc.), quasi a marcare la loro estraneità o perlomeno a sottolineare la loro
eccezionalità linguistica. In rima sono anche, spesso, le rade forme in -anza, con le
loro tracce provenzali: beninanza, dilettanza, disianza, fallanza, sobranza, possanza,
ecc. Ed è proprio in rima (a ribadirne l’eccezionalità) si registra la maggior parte
delle forme non dittongate di tradizione letteraria, come convene, fera, sede o core,
che supera cuore per frequenza e posizione di rima, o foco, che su 67 occorrenze, ne
ha 21 in rima, o loco, che su 90 (non bilanciate per altro dai 17 luogo) ne conta 27 in
rima. Complessivamente, però, sono poche le forme senza dittongo: ad esempio solo
il tipo buono e lieve prevale su leve che è solo in rima; viene è più frequente di vène e
costanti sono lieto e insieme. Il polimorfismo linguistico della Commedia è dunque
enorme e autorizzerà l’impiego in letteratura di infinite varianti: ad esempio alterna
i ed e in protonia (vertù, nepote, rimane, iguale), oppure, sempre in protonia, a (più
popolare: sanesi, danari, sanza, giovanetto) ed e; una certa oscillazione c’è pure tra
le consonanti intervocaliche sorde e le sonore (savere/sapere, ovra/opra,
adovra/adopra, ecc.); si ha dicea accanto a diceva; vorrei accanto a vorria; tacetti
accanto a tacqui. Tale libertà stilistica permette a Dante di utilizzare in gran quantità
anche voci, dal potere foneticamente attrattivo, che egli stesso aveva sconsigliato nel
DVE per la loro fonomorfologia (“parole tronche, con consonante doppia liquida, con
sorde più liquida, con z [...]): miglia : assottiglia : maraviglia,
Boemme:Ierusalemme:emme, Verrucchio:succhio, Navarra:arra:garra, Cagnazzo:
Draghignazzo: pazzo, Tagliacozzo:mozzo:sozzo, Stricca:ricca:appicca, ecc.
La lingua dantesca propone un esempio significativo del fiorentino di
transizione dalla fase arcaica a quella pienamente trecentesca, riscontrabile nei
seguenti tratti:

81
- e finale in dimane, stamane, diece.
- Esito in [ggj] di –GL- in tegghia, tegghiaio, Fegghine.
- Mantenimento di e tonica in iato nelle forme del congiuntivo dea, stea
(rispetto a dia, stia).
- La forma verbale sè (se’) di 2ª persona singolare del presente indicativo
invece di sei.
- Propensione per forme non sincopate come temperare, vespero, averebbe,
ecc.
- Avverbi in –le + mente, distinzioni tra forme con aggettivo piano
(naturalmente) o sdrucciolo (similemente).
- Alternanza dei tipi della 1ª p. sing. ind. pres. vedemo e diciamo,
- Tipo 2ª pers. sing. pense e pensi / fosse e fossi / ecc.
- 3ª pers. pl. perf. indic. della coniugazione debole: poetaro, ammiraro, ma
anche diventaron, ammiraron, ecc.
Accanto all' incredibile capacità di amalgamare elementi linguisticamente
eterogenei, troviamo nella Commedia anche l’invenzione verbale di Dante, che si
scatena soprattutto nei verbi parasintetici a prefisso in-: s’imborga, s’india, s’inluia,
t’inlei, s’infutura, s’insempra, s’indova, s’insusi, s’infora, immegliarsi, s’intrea, o “s’io
m’intuassi come tu t’immi” (Par., IX, 81). Lo stesso si può dire rispetto ai parasintetici
a prefisso a- (arruncigliarmi, v’abbella, acceffa, m’attempo, m’adima), di- (dilacco,
dipela, dirocciarsi, dilaccarsi, divinarsi), dis- (dismalare, dissonna, disfama, dischiomi),
ri- (rinselva, rinfami, rintoppa). A questi possono unirsi i denominali (doga, falca,
bugio, galla) e, simmetricamente opposti, i sostantivi deverbali, come sbarro,
mischio, scoscio.
Fin dal Trecento, lo vedremo fra poco, la Commedia verrà assunta quasi a
‘libro sacro’ della nazione, commentato come si commentavano i testi sacri, e letto
nelle scuole d’alto livello. Esso ha fornito e fornisce materia di continue citazioni, sia
di versi interi, sia di locuzioni che più o meno alludono, molte volte ironicamente, a
episodi e figure del poema o a concetti danteschi: le bramose canne (di Cerbero), il
fiero pasto (del conte Ugolino, per cui più dell’amor poté il digiuno), il disiato riso
(della regina Ginevra), la vendetta allegra, la mala signoria, il natio loco, il velen
dell’argomento, non ti curar di lor, ma guarda e passa; sanza infamia e sanza lodo, ecc.
Anche singole parole dantesche hanno avuto fortuna: non solo quelle che si

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riferiscono alla struttura e alle leggi dell’oltretomba dantesco (come bolgia e
contrappasso), ma parecchie altre, come lai, loico, macro, grifagno, ceffo, tetragono
(nel senso astratto di ‘incrollabilmente saldo’), ecc., il che dimostra, ancora una volta,
la continuità e la persistenza della figura di Dante nella cultura italiana di tutti i
tempi.

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5. IL TRECENTO

5.1. Il contesto storico-sociale


Il Trecento vede continuare alcuni fenomeni osservati alla fine del secolo
precedente: da una parte la decadenza degli istituti universali medievali, cioè
impero e papato, dall’altra lo sviluppo dei comuni e la loro trasformazione in
signorie.
Il papato, dopo l’insulto di Anagni (1303) da parte di Sciarra Colonna e le
contese con Filippo IV il Bello, viene trasferito ad Avignone (1305): inizia così la
cosiddetta ‘cattività avignonese’, in cui il papato è sotto il controllo francese. Nel
1377 Gregorio IX ristabilisce la sede papale a Roma, ma alla sua morte la situazione
precipita. Viene eletto papa Urbano VI, arcivescovo di Bari, contro cui si schierò la
maggior parte dei vescovi francesi, che eleggono un ‘antipapa’. Nasce così lo “Scisma
d’Occidente”, che si protrarrà fino al 1449, quando con Eugenio IV viene chiusa la
disputa. Pur conservando il prestigio della sua universale autorità spirituale, il
papato dovette abbandonare il suo programma teocratico, accentuando il carattere
temporale dello Stato della Chiesa, entrando così a far parte del sistema degli stati
italiani come uno degli elementi della vicenda politica italiana.
In Italia, intanto, il protrarsi delle lotte fra le fazioni dei guelfi, sostenitori
della politica papale, e dei ghibellini, favorevoli all’Impero, portò soprattutto alla
crisi dei comuni. Gli antichi organi comunali, come le corporazioni, persero la loro
importanza, mentre prevalse la tendenza di una singola persona ad affermarsi
(podestà), introducendosi negli ambienti del potere per poi impossessarsene. Si
passò così a una nuova forma di governo: la signoria. Prima in Italia fu quella di
Milano, instaurata nel 1248 ad opera della famiglia Della Torre. Nacquero
successivamente le signorie di Mantova, Ferrara, Ravenna. L’Italia del XIV secolo
vide il rapido sviluppo, al nord e poi al centro, delle signorie seguito in breve tempo
dalla loro trasformazione in principati, così definiti perché al signore subentrava una
vera e propria dinastia, la quale poneva a capo dello stato un proprio membro, al
quale la carica veniva conferita con una formale investitura papale od imperiale.
Scomparvero gli antichi organi di rappresentanza cittadini e vennero sostituiti con

84
una classe di funzionari legati alla persona del principe, sebbene si trattò per lo più
di un duca o di un marchese. Territorialmente i principati assunsero sempre più
l’estensione di intere regioni, grazie al progressivo assorbimento delle città minori
da parte di quelle maggiori. In Piemonte (Italia nord-occidentale) si espandeva una
contea – in seguito trasformata in ducato – con a capo la dinastia dei Savoia; Milano
fu ben presto capitale di un ducato con a capo i Visconti e fu protagonista di
numerose campagne per l’espansione territoriale, che portarono, per un certo
periodo, all’annessione della stessa città di Genova. Quest’ultima infatti stava
attraversando una violenta crisi causata soprattutto da continui scontri con Venezia
per garantirsi il monopolio del commercio con i Tartari. Anche Firenze seguì
l’evoluzione di Milano e del Piemonte, inglobando ormai nel proprio territorio
buona parte della Toscana, con l’acquisizione dello sbocco sul mare, grazie
all’annessione di Pisa e della nascente Livorno, mentre al potere s’insediò la famiglia
dei Medici. Ma a Firenze furono più che mai evidenti le trasformazioni sociali che
accompagnavano la crisi delle signorie. Mentre in epoca comunale e signorile fu la
città ad avere il ruolo dominante, ora si assistette ad una riscossa delle campagne,
mentre si moltiplicarono i lavoratori non autonomi, ma salariati, dunque
dipendenti: primo importante esempio di quella classe, definita qualche secolo più
tardi come classe proletaria o proletariato. Segno di questo cambiamento fu, sempre
a Firenze, la rivolta detta dei ciompi del 1378, ad opera dei ceti più umili, che
riuscirono, seppure per breve tempo, a far ottenere ai propri rappresentanti un
terzo dei posti al Comune, nonché la carica di gonfaloniere al loro portavoce Michele
di Lando. Intanto, nell’Italia meridionale, il malgoverno degli Angioini provocò la
cosiddetta “guerra del Vespro” (1282-1302), che vide opposti i Siciliani, che
chiamarono in aiuto Pietro III d’Aragona, e Carlo d’Angiò. Il conflitto si concluse con
la pace di Caltabellotta (1302), con cui la Sicilia passava a Federico II d’Aragona. Il
Regno di Napoli, invece, resterà nelle mani degli Angioini fino al 1442, quando
Alfonso V d’Aragona lo conquistò.

5.3. La diffusione del toscano e le grandi trasformazioni del fiorentino tardo-


trecentesco

Quando il padovano Antonio da Tempo, nel 1332, scriveva a conclusione


della sua Summa artis rithmicae: “Circa finem autem huius operis quaeri posset,

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quare magis utimur verbis Tuscorum in huiusmodi rithmis quam aliorum. Et
responsio est in promptu, quia lingua tusca magis apta est ad literam sive literarum
quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intellegibilis”, erano passati solo
dieci anni dalla morte di Dante, ma la fama della lingua toscana aveva già
oltrepassato i confini della regione, oltrepassando le barriere comunali. Ma perché
proprio il toscano? Di certo non solo perché in questa lingua scrissero le “tre corone”
fiorentine. Questa espansione non fu solamente dovuta alla letteratura in sé, ma fu
piuttosto il prodotto di diversi fattori, fra i quali la nuova cultura della classe sociale
che va formandosi. La prima metà del Trecento, infatti, segna la massima espansione
della civiltà comunale, ma semina i germi per la crisi che, con l’Umanesimo e le
signorie, avrebbe trasformato i modi di vivere e di pensare. Sappiamo che
l’importanza del volgare fiorentino aumenta, a partire dagli ultimi decenni del
Duecento, in Toscana. Effettivamente le eccezionali condizioni di sviluppo
economico-commerciale dovettero influire sull’uso del volgare. Ne siano prova
l’imponente numero di scritture documentarie, soprattutto lettere commerciali e
registri contabili, oggi conservati negli archivi toscani.
Prosperano, intanto, le grandi compagnie mercantili che importano materie
prime ed esportano poi il prodotto lavorato con lauti profitti. Le banche
amministrano il capitale, imprestandolo ad alto interesse in Italia e all’estero. Si
conia il “fiorino d’oro”, una delle monete più pregiate a livello internazionale. La
borghesia comunale in ascesa richiederà, per il suo fiorire, una scuola non
strettamente elitaria. Si può affermare che in Toscana, l’alfabetizzazione non è più
legata alla classe dei dotti (il clero, chi fa professione di scienza, diritto o letteratura),
ed è già svincolata dal latino, grazie soprattutto alle scuole d’abbaco, a indirizzo
pratico e commerciale, aliene alla “grammatica” (cioè il latino), nelle quali si scrive
quasi esclusivamente in volgare e che sono documentate prevalentemente al
principio del Trecento, soprattutto in Toscana. Fra le città toscane spicca soprattutto
Firenze: secondo la Cronica di Giovanni Villani, riferita al 1338, si ricaverebbe che
più della metà dei bambini in età scolare, da 8 a 10.000, imparavano a leggere e a
scrivere, 1.000-1.200 andavano a scuola d’abbaco, 5/6.000 studiavano grammatica
e logica.
Commercio, industria, arte e letteratura hanno in Firenze un centro, da cui
irradiano in tutta la penisola, pur conservando l’individualità dei singoli comuni: se

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Giotto, che si muove da Firenze ad Assisi e a Padova, diventa caposcuola nell’arte
pittorica, per la lingua Dante, e poi anche Petrarca e Boccaccio, diventano padri e
maestri, sotto il segno della letterarietà che supera le frontiere municipali, vero
sogno della renovatio culturale e letteraria. Basti ricordare che il quattordicenne
Boccaccio, nel 1327, era a Napoli per imparare mercatura e curare gli interessi della
compagnia dei Bardi: mercanti fiorentini e toscani, dunque, i quali, importando
ricchezze in Firenze, diventano veicoli di lingua nella penisola.

5.3. Francesco Petrarca


Forse in nessun autore come Petrarca la lingua si stringe allo stile in un nesso
così profondo e indissolubile, tanto che Contini parlò di “fiorentinità
trascendentale”. La lingua petrarchesca elaborata con sapiente artificio e con studio
letteratissimo nasconde, dietro la sua eccezionale uniformità tonale “una pur
suggestiva miscidanza di tratti diversi” (Vincenzo Mengaldo, 1996). Nato ad Arezzo
da genitori fiorentini, a otto anni, dopo l'infanzia trascorsa all'Incisa, P. lascia
definitivamente la terra d'origine, tornandovi solo per delle brevi soste. Il contatto
con la lingua materna resta quindi affidato all'ambiente familiare e alla colonia di
toscani, in gran parte esuli, che si erano stabiliti fra Avignone e Carpentras, fra i quali
è anche il primo maestro, ser Convenevole da Bologna. La densissima letterarietà
della parola petrarchesca rielabora, con fine perizia dissimulatrice, un enorme
repertorio di fonti classiche, tardo-latine, scritturali e volgari, dai provenzali ai
siciliani, dai siculo-toscani agli stilnovisti, fino ad arrivare a Dante, della Commedia
anzitutto, in misura minore delle Rime, comprese le petrose. Eppure, rispetto a
Dante, Petrarca si dimostra sempre particolarmente attento a evitare gli estremi
vistosi sia in direzione realistica che in direzione colta, effettuando un accorto
processo di selezione del materiale offertogli dalla tradizione. Gran parte della
moderna interpretazione del canzoniere petrarchesco è dovuta a un grande
studioso americano, il filologo e storico della letteratura italiana Ernest Hatch
Wilkins (1880-1966), autore dell'opera fondamentale (The making of the Canzoniere
and other Petrarchan studies, 1951; Studies in the life and works of Petrarch, 1955):
la sua impresa geniale è di aver presentato una versione complessiva della
complicatissima evoluzione dei Rerum vulgarium fragmenta. Per lo studioso
americano, approfondire la conoscenza della genesi e dello sviluppo redazionale

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dell'opera significava penetrare nella vita interna del poeta e rivelarne il processo
artistico6. Si tratta di un dibattito di lunga data, riconducibile all’esegesi
petrarchesca del Cinquecento e alle polemiche nate intorno alla definizione del
Canzoniere come "forma chiusa", cioè come armonica struttura di componimenti, o
come semplice silloge di rime sparse. Nel Rinascimento, se diversi erano gli approcci
all’opera, comune era invece il desiderio di restituire al Canzoniere una misura
perfetta, per affermare così l’assoluta efficacia del modello, tanto da spingere gli
esegeti a un eccesso di petrarchismo. Si ricercava, insomma, una reductio ad unum
volta essenzialmente a favorire l’imitazione poetica, proponendo un modello
normativo non solo per lingua e grammatica, ma anche per le questioni retoriche e
metriche.
Ma occupiamoci più da vicino della compagine linguistica del canzoniere
petrarchesco. La grafia dell'autografo è caratterizzata da una massiccia presenza di
notazioni culte, anche se in libera alternanza con quelle volgari:
- H- etimologica: huom, honore (che viene meno in presenza di univerbazione:
altruom, donore). Presenti anche grafie pseudoetimologiche
- ti, ci [tsj] nei latinismi: sententia, letitia, giudicio, ecc.
- prefissi ex, ad, ob.
- digrammi e lettere grecizzanti: ph, th,y.
Fra le grafie volgari, si stabilizzano le seguenti scrizioni:
- uso dei segni diacritici h e i per indicare rispettivamente velarità e palatalità,
anche se permangono svariati casi di ch davanti a a, o, u (scompare la k,
presente nell'unica forma Karlo).
- uso moderno delle palatali gn e gli (poche eccezioni).
- normale nei testi toscani trecenteschi l'uso della sibilante palatale sorda (<
-SJ-) in basciolle, basciale, basciar.
I caratteri fonomorfologici della poesia petrarchesca s'inquadrano con
coerenza nell'ambito del fiorentino coevo e ne costituiscono la presenza più incisiva
e determinante:
- presenza dell'anafonesi (consiglio, famiglia, lingua, punge, ecc.);

6 A questo proposito occorre evidenziare la differenza fra raccolta e silloge: per la prima si intende
l'unione di testi eterogenei per una pubblicazione; nel secondo caso ci si riferisce (come dice
l'etimologia sun légein, 'raccogliere insieme') a un gruppo di testi che, pur nella loro eterogeneità,
presentano un progetto
88
- chiusura di e in iato;
- evoluzione di ar a er;
Fra i tratti contrastivi rispetto ad oggi notiamo:
- esito in [ggj] di –GL- in tegghia; tegghiaio; Fegghine;
- 1ª perso. impf. ind. -a (andava, cangiava, cantava, ecc.);
- Mantenimento di e tonica in iato nelle forme del congiuntivo dea, stea
(rispetto a dia; stia);
- La forma verbale sè di 2ª persona singolare del presente indicativo invece
di sei;
- Propensione per forme non sincopate come temperare, vespero, averebbe,
ecc.;
- Avverbi in –le + mente, altrenanza negli visibilmente / 'nvisibilemente;
similmente e similemente, ma sempre humilemente;
Fra gli elementi arcaizzanti:
- e finale in dimane, stamane, diece;
- alternanza dei tipi della 1ª p. sing. ind. pres. vedemo e diciamo;
- tipo 1ª/2ª pers. sing. cong. pres. e impf. consume e ascolti / credesse e
sapessi/ ecc.;
3ª pers. pl. perf. indic. della coniugazione debole: tempraro; udiro; alzaron;
sentiron; ecc.
Fra gli esiti non fiorentini:
- La desinenza in -eno invece di -ero, riscontrabile nell'area toscana
occidentale, forse anche riflesso del modello provenzale, diffusa poi nel
fiorentino più tardo,: ebben; mossen; trassen; andassen, ecc.
- L'esito -ng- invece di -gn- < -GN- (piangere e non piagnere);
- il tipo fusse, fusti accanto a fosse, fosti e dia, stia che rimandano alla Toscana
non fiorentina. Altri occidentalismi già danteschi; ponno e fenno; u' 'dove; el
in luogo di il (2 volte); il mantenimento di -ar- (lassarà e vecchiarella).
- particolare attenzione meritano le forme con e protonica in luogo di i,
coincidenti con la norma toscano-orientale, già dotate di abbondanti riscontri
nella tradizione preesistente e connotative soprattutto dell'uso guittoniano:
de preposizione; me e se pronomi atoni proclitici; me, te, ve, se in enclisi

89
(aitarme, mostrarte, celarse, ecc.); serie prefissali de-, re-; in tutti i casi
precedenti si può chiamare in causa anche il latino.
- preposizioni articolate con scempia può essere interpretato in chiave
preziosistica arcaizzante non esente da suggestioni orientali; i rari casi con l
doppia figurano di preferenza davanti a parola iniziante per vocale accentata
(all'alma; all'ombra; dell'altre ma anche nelli occhi).
Per la componente latina, spesso col supporto della tradizione poetica
anteriore, ricordiamo:
- Riduzione stabile del monottongo ie e uo: core, novo, foco, move, rota, fele,
noce, percote, o nei casi di è, ò precedute da muta + liquida (copre, provo, trovo,
prego, tregua,ecc. ma anche priega e triegua); oscillazione (in maggioranza i
casi di monottongamento: fero / fiero; inseme / insieme; vene / viene;
- Oscillazione fra esiti latineggianti e sviluppi popolari: ancilla / ancella; auro
/ oro; columna / colonna; laude / lode; thesauro / tesoro: loco / luogo, ecc.
Fra i meridionalismi, filtrati dalla tradizione poetica anteriore:
- voci verbali come aggio, aggia; moro, mora; ancidere (domina su occidere);
- condizionale in -ia (infinito + HABEBAM): avria, devria, perderia, poria,
saria, vorria, avrian, devrian, ecc.
- limitate le testimonianze dell'impf. in -ia: credia, solia, ecc.
- unico caso di rima siciliana: altrui:voi.
Le concordanze del Canzoniere (Crusca 1971) con i loro 3.275 lemmi e gli
apici di frequenza spettanti a voci come mio (840 occorrenze); io (792); bello (342)
ecc. mettono in evidenza la relativa limitatezza del lessico petrarchesco, incentrato
sull'interiorità dell'autore e su un microcosmo semantico “chiuso in un giro di
inevitabili oggetti eterni, sottratti alla mutabilità della storia” (Contini 1964: XVII).
Anche le voci più concrete, come quelle appartenenti al mondo vegetale e
animale, assumono una denotazione generica o un valore metaforico,
sottintendendo sempre significati figurati e simbolici, spesso di ascendenza classica.
Nel circuito del lessico petrarchesco, sempre altamente sorvegliato
nell'evitare gli estremi vistosi sia in direzione realistica che in direzione colta,
entrano con una certa parsimonia gli elementi galloromanzi, tutte attestate nella
tradizione poetica che lo precede.
Più numerosi i latinismi, in parte già acquisiti dalla tradizione, in parte nuovi.

90
Diventano fondamentali alcuni stilemi petracheschi, su cui si fonderà gran
parte della tradizione aulica posteriore: l’iterazione sinonimica (tarde e pigre, LVII,
1; solitarii ed hermi, CCCIV, 4); l’accumulazione (aggettivale, sostantivale o verbale:
Caro, dolce, alto e faticoso pregio, CCXIV, 13; L’accorta, honesta, humil, dolce favella,
CCXCIX, 6; O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi, LXXI, 37; Vedi, odi et leggi et parli
et scrivi et pensi, CCIV, 2), alcune strutture parallele [del tipo N(ome) + A(gettivo), A
+ N: li occhi sereni et le stellanti ciglia, CC, 9; N + determinante due volte: Pioggia di
lagrimar, nebbia di sdegni, CLXXXIX, 9; N + A, N + Complemento, N + C: Leggiadria
ignuda, le bellezze inferme, [...] / Cortesia in bando, et Honestate in fondo, CCCXXXVIII,
3; Preposizione + A + N, P + N + A: Per alti monti et per selve aspre trovo, CXXXIX, 14;
A + N, A + due Complementi: Dolci durezze, et placide repulse, / pieno di casto amore
et di pietate, CCCLI, 1-2; e l’ampliamento può subire variazioni, con V(erbo) + A + N,
/ N + V, N + N: Cercato ho sempre solitaria vita / (le rive il sanno, et le campagne e i
boschi), CCLIX, 1-2], e, infine, l’antitesi, altro aspetto della struttura binaria (amara
et dolce, dolce et acerba, piango et rido, taccio et grido, m’agghiaccia et mi riscalda, si
turba et rasserena, dolce et ria, ecc.). La poesia del Petrarca è sempre ricchissima di
echi, cadenze, di allusioni letterarie, mutuate dal mondo classico (Orazio, Ovidio,
Seneca, ma su tutti è prediletto Virgilio, senza dimenticare le favole antiche, da cui
eredita miti e leggende) e dal mondo cristiano (che manifesta la lunga consuetudine
con Agostino e con le Scritture e la tradizione esegetica).
Sul piano della sintassi, Petrarca fa largo uso di una dispositio che muta
l’ordine regolare delle parole, anticipando il determinante rispetto al determinato
(però di perdonar mai non è sacia, XXIII, 124; et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
I, 12), i complementi indiretti ai verbi (Ma veggio ben or sì come al popol tutto / favola
fui gran tempo, I, 9; di me medesmo meco mi vergogno, I, 11), i participi passati agli
ausiliari (facto avean quasi adamantino smalto, XXIII, 25; discinta et scalza, et desto
avea ‘l carbone, XXXIII, 6), o l’infinitiva dipendente rispetto alla principale (se tanto
viver pò ben colto lauro, XXX, 60; che volver non mi posso, ov’io non veggia, CVII, 10):
la collocazione delle parole, insomma, si sottrae alla banalità del quotidiano. Inoltre
ricorrono tmesi chiasmi, anafore, enjambements, allitterazioni: si tratta di
caratteristiche, già verificabili in parte nella tradizione più antica, che diventeranno
tipiche del linguaggio lirico italiano.

91
Questa regolarizzazione stilistica e linguistica del materiale poetico renderà
Petrarca pronto per l’imitazione, assimilandola a un glossario per l’uso lirico, a una
sorta di prontuario che fornisce tutto l’occorrente per una data situazione o una
certa immagine. Il linguaggio petrarchesco fornisce quanto serve per fissare un
quadro, definire un paesaggio o un particolare: monti, valli, paludi, et mari, et fiumi
(CCCLX), frutti, fiori, herbe, et frondi (CCCLXXXVII); fresco, ombroso, fiorito et verde
colle (CCXLIII); fior, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi (CCCIII); oppure un
ritratto di donna: a gli atti, a le parole, al viso, a i panni (CCCXIV); il suo modo
d’essere: et viva, et senta, et vada, et ami, et spiri (CCLXXXVI); le sue qualità: gentile,
/ santa, saggia, leggiadra, honesta, et bella (CCLXII). Quasi un dizionario dei sinonimi
utilizzabili nei casi previsti e variamente ricombinabili, questo stile non lascia nulla
di non detto e, al tempo stesso, dice solo l’indispensabile col minimo sforzo e si offre,
già di per sé ripetitivo, a una ripetizione che sarà secolare.
Se Dante aveva sviluppato le implicazioni filosofiche e teoretiche del discorso
d’amore, Petrarca chiude questa ricerca e fa dell’amore un tema squisitamente
psicologico e sentimentale. La lingua finisce per smarrire in parte quelle capacità
argomentative e di discussione intellettuale che avevano caratterizzato l’opera di
Dante. Ne sia prova che, nell’opera del Petrarca, si fissa una sintassi relativamente
elementare, sufficiente a dar conto di stati d’animo ed emozioni e non più interessata
a controverse evoluzioni teoretiche: il nome e soprattutto l’aggettivo occupano lo
spazio principale e spesso si estendono padroni di tutto il verso: “L’aura, et l’odore,
e ‘l refrigerio, et l’ombra”, “Le stelle, il cielo, et gli elementi a prova”, “Verdi panni,
sanguigni, oscuri, o persi”, ecc. La lingua del Petrarca – il cui impianto linguistico è
certamente fiorentino – è il risultato di una selezione esigente, che semplifica e
regolarizza al tempo stesso ciò che era arrivato fino a lui troppo movimentato e
plurimo. La lingua del Canzoniere tende a un sublime, uniforme registro di nobile e
temperata eleganza, con l’eliminazione di punte espressive o di caratteri
geograficamente e storicamente marcati. In questo senso le correzioni spogliano le
forme dei tratti locali dell’uso del fiorentino parlato; così si ha di preferenza la
riduzione del monottongo ie e uo in alcune forme proprie della tradizione poetica
siciliana, siculo-toscana, stilnovistica e del Dante lirico, e che avranno una rendita
assicurata nella poesia italiana per secoli: core, novo, foco, move, rota, fele, intero,
altero, o nei casi di è, ò precedute da muta + liquida (copro, provo, trovo, prego,

92
tregua). Hanno oscillazioni fra le due forme, ma con prevalenza in ogni modo delle
forme monottongate di tradizione poetica, spesso in posizione di rima: dole / duole,
more / muore, homo / huomo, fora / fuor, vol / vuol, fero / fiero, inseme / insieme, leve
/ lieve, pè sing. / piè plur., mei / miei, ecc. Analogamente si istituzionalizzano nella
lingua poetica le alternanze fra la forma fiorentina e le forme di duplice o triplice
ascendenza, siciliana, provenzale o latina: Dio / Deo, degno / digno, mondo / mundo,
oro / auro, in cui s’avverte chiaramente la patina lievemente arcaizzante e
latineggiante. Erede della più antica tradizione dei siciliani, ma nello stesso tempo
severo e rigoroso nel vaglio di forme e costrutti, Petrarca accoglie una sola rima
siciliana (voi : altrui), ma consacra la rima grafica e non fonica ò : ó, è : é. Sfoltisce il
registro letterario di numerosi gallicismi (numericamente esigui e sanciti dalla
tradizione poetica: augello, cangiare, frale, guidardone, leggiadro, ligio, veglio, ecc.);
il suffisso in -anza, già in regresso in Dante e negli stilnovisti, è drasticamente ridotto
eliminato a rari casi (rimembranza, baldanza, lontananza, speranza, usanza), come
anche quello in -enza (che sopravvive in accoglienza, partenza, presenza, reverenza,
sofferenza, temenza). Notiamo i passati remoti in -ío (fuggío, morío), del toscano
arcaico e della tradizione poetica, quindi àve (ha è però maggioritario), aggio (ma
vince ho), aggia (ma anche abbi), cheggio ‘chiedo’, caggio ‘cado’, i molti condizionali
in -ia (poria, porian, saria, avria, avrian, devria, devrien, farian, perderia), affiancati
però da quelli toscani contemporanei (sarei, sarebbe, avrei, avrebbe, vorrei, saprebbe,
devrebbe). Regolarizzati alla toscana sono gli imperfetti indicativi che spesso
restaurano anche la v intervocalica (nudriva, sapeva, faceva, piangeva, ecc.) e le terze
persone dei passati remoti in -aro(n) (legaro, scoloraro, incominciaro, trovaron);
oscillano abbiamo e avemo; siam e semo; mentre tracce della tradizione poetica,
d’altronde presenti nella prosa tosco-fiorentina, si possono intravedere dietro le
forme veggio / veggendo. Il Petrarca riduce pure materialmente il lessico: le
Concordanze registrano 3.275 lemmi, ripetuti e variati in tante situazione,
chiudendosi, come afferma Contini, “in un giro di inevitabili oggetti eterni sottratti
alla mutabilità della storia”. L’universo petrarchesco, infatti, dove solo entità
assolute trovano luogo, si nega alla mutabilità e all’imprevedibilità dell’esperienza,
ed è chiuso e fissato nell’oscillazione circolare di situazioni e accenti sempre
ritornanti, lungo le medesime costanti orientate all’unità lessicale e tonale. Così
ridotto, il lessico petrarchesco gioca i suoi ritmi sull’abile combinazione degli

93
elementi: ne deriva un’orchestrazione e una tessitura di rara armonia, di sapiente
equilibrio in cui le multiple e diverse configurazioni valgono inoltre ad assorbire
ogni espansione, ad azzerare le tensioni, ad annullare il movimento. Grande
rilevanza assumono alcuni aggettivi, come dolce, soave, gentile, chiaro, fresco, bello,
leggiadro, beato, sereno, ecc. L’estremo antirealismo petrarchesco si manifesta
particolarmente nell’intensa metaforizzazione del reale. La figura di Laura è evocata
per mezzo di particolari (occhi, viso, capelli, man, braccia, piedi, ecc.), secondo un
procedimento sineddochico, a rendere più astratta ed immateriale la
rappresentazione, in cui il plurale è volutamente usato perché meno definito del
singolare. Tutta la realtà fisica si scorpora e si smaterializza per metafora o perifrasi:
Laura è colei che solo a me par donna, colei ch’avanza tutte l’altre meraviglie, colei che
la mia vita ebbe in mano, fiamma, dolce guerrera, fera bella e mansueta; i suoi capelli
biondi sono aurata piuma, oro forbito e perle, aurate corna (Laura è una candida
cerva); le lacrime sono un doloroso fiume; i tormenti d’amore amorose punte,
amorosi vermi, ecc. Diventano fondamentali alcuni stilemi petracheschi, su cui si
fonderà gran parte della tradizione aulica posteriore: l’iterazione sinonimica (tarde
e pigre, LVII, 1; solitarii ed hermi, CCCIV, 4), l’accumulazione (aggettivale,
sostantivale o verbale: Caro, dolce, alto e faticoso pregio, CCXIV, 13; L’accorta,
honesta, humil, dolce favella, CCXCIX, 6; O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi, LXXI,
37; Vedi, odi et leggi et parli et scrivi et pensi, CCIV, 2), alcune strutture binarie [del
tipo N(ome) + A(gettivo), A + N: li occhi sereni et le stellanti ciglia, CC, 9; N +
determinante due volte: Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni, CLXXXIX, 9; N + A, N +
Complemento, N + C: Leggiadria ignuda, le bellezze inferme, [...] / Cortesia in bando,
et Honestate in fondo, CCCXXXVIII, 3; Preposizione + A + N, P + N + A: Per alti monti
et per selve aspre trovo, CXXXIX, 14; A + N, A + due Complementi: Dolci durezze, et
placide repulse, / pieno di casto amore et di pietate, CCCLI, 1-2; e l’ampliamento può
subire variazioni, con V(erbo) + A + N, / N + V, N + N: Cercato ho sempre solitaria vita
/ (le rive il sanno, et le campagne e i boschi), CCLIX, 1-2], e, infine, l’antitesi, altro
aspetto della struttura binaria (amara et dolce, dolce et acerba, piango et rido, taccio
et grido, m’agghiaccia et mi riscalda, si turba et rasserena, dolce et ria, ecc.). La poesia
del Petrarca è sempre ricchissima di echi, cadenze, di allusioni letterarie, mutuate
dal mondo classico (Orazio, Ovidio, Seneca, ma su tutti è prediletto Virgilio, senza
dimenticare le favole antiche, da cui eredita miti e leggende) e dal mondo cristiano

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(che manifesta la lunga consuetudine con Agostino e con le Scritture e la tradizione
esegetica).
Sul piano della sintassi, Petrarca fa largo uso di una dispositio che muta
l’ordine regolare delle parole, anticipando il determinante rispetto al determinato
(però di perdonar mai non è sacia, XXIII, 124; et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
I, 12), i complementi indiretti ai verbi (Ma veggio ben or sì come al popol tutto / favola
fui gran tempo, I, 9; di me medesmo meco mi vergogno, I, 11), i participi passati agli
ausiliari (facto avean quasi adamantino smalto, XXIII, 25; discinta et scalza, et desto
avea ‘l carbone, XXXIII, 6), o l’infinitiva dipendente rispetto alla principale (se tanto
viver pò ben colto lauro, XXX, 60; che volver non mi posso, ov’io non veggia, CVII, 10):
la collocazione delle parole, insomma, si sottrae alla banalità del quotidiano. Inoltre
ricorrono tmesi chiasmi, anafore, enjambements, allitterazioni: si tratta di
caratteristiche, già verificabili in parte nella tradizione più antica, che diventeranno
tipiche del linguaggio lirico italiano.
Questa regolarizzazione stilistica e linguistica del materiale poetico renderà
Petrarca pronto per l’imitazione, assimilandola a un glossario per l’uso lirico, a una
sorta di prontuario che fornisce tutto l’occorrente per una data situazione o una
certa immagine. Il linguaggio petrarchesco fornisce quanto serve per fissare un
quadro, definire un paesaggio o un particolare: monti, valli, paludi, et mari, et fiumi
(CCCLX), frutti, fiori, herbe, et frondi (CCCLXXXVII); fresco, ombroso, fiorito et verde
colle (CCXLIII); fior, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi (CCCIII); oppure un
ritratto di donna: a gli atti, a le parole, al viso, a i panni (CCCXIV); il suo modo
d’essere: et viva, et senta, et vada, et ami, et spiri (CCLXXXVI); le sue qualità: gentile,
/ santa, saggia, leggiadra, honesta, et bella (CCLXII). Quasi un dizionario dei sinonimi
utilizzabili nei casi previsti e variamente ricombinabili, questo stile non lascia nulla
di non detto e, al tempo stesso, dice solo l’indispensabile col minimo sforzo e si offre,
già di per sé ripetitivo, a una ripetizione che sarà secolare.

5.4. Giovanni Boccaccio


L‘importanza del Decameron per la prosa italiana e accentuata dal fatto che,
a differenza di quanto era accaduto nella poesia, la prosa trecentesca non era ancora
stabilizzata in una tradizione salda. Non si può dire che mancassero degli esempi
importanti a cui ispirarsi: basti pensare alla Vita nuova e al Convivio di Dante; ma

95
queste due opere erano state concepite come legate strettamente alla poesia (la Vita
Nuova commenta una scelta delle liriche giovanili di Dante, il Convivio è un
commento dottrinale ad una serie di canzoni), ciò che non attribuiva ancora
sufficiente autonomia alla loro prosa. Un modello di prosa narrativa era nel
Novellino, ma non si trattava di prosa adatta a tutti i contesti, né esso offriva un
campionario ampio e complesso di situazioni. Il salto di qualità che si ha con il
Decameron è davvero notevole. Anzi, si può affermare che la tradizione della prosa
letteraria italiana nasce con quest’opera, che diventerà il costante punto di
riferimento per gli scrittori dei secoli successivi.
Nella tradizione italiana la prosa di Giovanni Boccaccio (1313-1375) assunse
una funzione egemonica, specialmente quando, nel Cinquecento, teorici e
grammatici, seguendo Bembo, indicarono in essa il modello a cui attenersi. Tale
modello acquistò ancor più autorità grazie a Leonardo Salviati e all‘Accademia della
Crusca. Benché vi fossero fieri avversari del modello boccacciano di prosa toscana,
tuttavia questo modello influenzò largamente coloro che scrissero in italiano, e
quest’influenza si esercitò per secoli. Ancora nell’Ottocento i manzoniani,
sostenendo i diritti della lingua viva, dirigevano la loro polemica contro alcune
caratteristiche del periodare di Boccaccio, diventate una sorta di ‘maniera’
attraverso l’imitazione di moduli sintattici ripetuti fino alla sazietà. Bisogna
comunque rilevare subito che lo stile boccacciano che imperversò per così lungo
tempo, dominando il gusto di tutti i pretesi sostenitori della ‘buona lingua’, faceva in
parte torto alla capacità stilistica dello scrittore trecentesco: il periodare
boccacciano che divenne canonico era presente nel Decameron, ma il Decameron
stesso offriva in molte sue parti modelli ben differenti, che però non riscossero lo
stesso successo. Nelle novelle di Boccaccio ricorrono situazioni narrative molto
variate, in contesti sociali diversi; vi sono rappresentate diverse classi sociali, dai
regnanti alle prostitute, così come compaiono quadri geografici e ambienti molto
differenti. Lo scrittore non ha rinunciato affatto, nella sua ricerca di realismo, ad una
caratterizzazione anche linguistica che sapesse cogliere queste diversità. In questo
senso il Boccaccio inaugura un nuovo uso dei campioni verbali provenienti da aree
linguistiche diverse da quella dell’autore, che intervengono non già a nobilitare il
testo, ma a rievocare, ora parodisticamente, ora a scopo di realismo mimetico, un
dato ambito regionale. Del resto, l’autore stesso allerta ripetutamente il lettore sul

96
ruolo dello scontro delle lingue nello sviluppo dei racconti: “essa poco o niente di
quella lingua intendeva”, “e sappiendo la lingua di lei”, “e in nostra lingua [...] gli
dissi”, “era chiamato Cimone, il che nella loro lingua sonava quanto nella nostra
bestione”. Qua e là compaiono voci che introducono elementi diversi dal fiorentino:
il veneziano di monna Lisetta (VI, 2) e di Chichibìo (VI, 4), il senese di Tingoccio (VII,
10) e di Fortarrigo (IX, 4), il toscano rustico nella novella del prete di Varlungo e di
madonna Belcolore (VIII, 2), il siciliano di Biancofiore (VIII, 10). Il gioco linguistico
entra nella burla, ad esempio nella predica di frate Cipolla (VI, 10), con effetti di
sapore espressionistico. Vi Troviamo anche riferimenti alle lingue straniere, come il
francese: per con valore di ‘da’, dannaggio, giuncata (fr. joncher ‘cospargere’), santà,
messi (mets, ‘portate, piatti’), come uom dice (on impersonale), cavalleressa, prenze,
perdonanza, origliere, usurieri, sugliardo, ecc. Boccaccio, in ogni caso, non parodia
tanto i dialetti diversi dal suo, quanto piuttosto ironizza sui livelli popolareschi di
ogni parlata, anche se forse sarebbe eccessivo definire la varietà presente nelle
novelle come una sorta di “plurilinguismo programmatico”, visto che prevale uno
stile nobile come costante ricerca di regolarità. Sta di fatto, però, che le novelle
mostrano sovente una disposizione a concedere spazio alla vivacità del dialogo, che
aderisce sapientemente ai moduli del parlato, con vivaci scambi di battute in cui
entrano elementi popolari e anacoluti. Si ricordino, ad esempio, le popolaresche
repliche del pronome: “che mi potrestú far tu?” (IX, 6), o gli anacoluti di cui si diceva,
come il seguente: “Il Saladino, il valore del quale fu tanto [ ...] gli venne a memoria
un ricco giudeo...” (I, 3), per non citare il che polivalente, o le dislocazioni a destra e
a sinistra, tipiche del parlato. Tuttavia lo stile che divenne ‘boccacciano’ per
eccellenza, e fu poi imitato anche troppo, è quello caratterizzato dalla complessa
ipotassi, come si ritrova soprattutto nella cornice delle novelle, e specialmente nelle
parti più ‘nobili’ ed elevate. È uno stile magniloquente, in cui le subordinate si
accumulano in gran numero, e la cui struttura è resa più complessa dalle inversioni
di sapore latineggiante e dalle posposizioni dei verbi in clausola. Qualunque lettore
(anche poco esperto) dell’opera di Boccaccio è stato sicuramente colpito da questo
tipo di sintassi, che si snoda in lente volute, e precipita alla fine del periodo, là dove
si incontra il verbo. A modo d’esempio, ricorderemo un passo Decameron (II, 8) la
cui citazione può servire ancor oggi per mettere in evidenza questo stile particolare:

97
E avanti che a ciò procedessero, per non lasciare il regno senza governo,
sentendo Gualtieri conte d’Anguersa gentile e savio uomo molto loro fedele amico e
servidore, e ancora che assai ammaestrato fosse nell’arte della guerra, per ciò che
loro più alle dilicatezze atto che a quelle fatiche parea, lui in luogo di loro sopra tutto
il governo del reame di Francia general vicario lasciarono, e andarono allor
cammino.
Questo periodo può essere definito come ‘sbilanciato a sinistra’, secondo il
modello del latino. La principale, infatti, arriva solo dopo una sequenza di ben cinque
subordinate, ed è preceduta dal lui complemento oggetto anteposto; si noti la
posizione del verbo lasciarono, in fine della frase, e si noti anche la presenza del
gerundio, che abbonda nel periodare di Boccaccio. Non si fa certo fatica a trovare
esempi analoghi in tutto il Decameron.
Accanto alla sintassi ascendente, andrà notato anche il ricorso larghissimo al
parallelismo, cioè a una delle strutture più tipicamente praticate dalla prosa classica,
prima greca e poi latina: “però che, quanto tra’ cavalieri era d’ogni virtù il marchese
famoso, tanto la donna tra tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa”
(I, 5). Non mancano poi espedienti cari alla tradizione poetica, come le strutture
binarie (“in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi”, I, Intr.), o ternarie (“e con
logge e con sale e con camere, I, Intr.), allitterazioni (“A me medesimo incresce
andarmi tanto tra tante miserie ravolgendo”, I, Intr.), chiasmi (“Così d’avarizia e di
misera ogni altro misero e avaro che al mondo fosse soperchiava”, I, 8), ecc.
Il latino è comunque presente anche in altri campi, forse meno appariscenti.
Accanto ai latinismi lessicali e morfologici, quali discorrere ‘scorrazzare’, conducere,
constante, copia ‘abbondanza’, nocenti ‘colpevoli’, oste ‘esercito’, i plurali latora
(come tempora), letta (neutro: ‘i letti’), si ha: “quasi per niente avesse” < pro nihilo
habere; “oltre alla speranza” < praeter spem; “come prima” < ut primum; forme
sintattiche, come: “e perciò è buono a...” < bonum est; “fu andato” per ‘si andò’, cioè
il passivo di un impersonale; “che non” cioè ‘senza che’ < quin; “ne’ fiorentini” ‘contro
i fiorentini’ < in + accusativo; opus non erant > “non era bisogno”; “il condannò nella
testa” < capite damnare; ecc.
Come abbiamo detto, il riferimento a questa complessità sintattica non
esaurisce il discorso sullo stile di Boccaccio, il quale anzi sa essere vario come sono
vari gli scenari delle sue novelle e i personaggi che vi si muovono. Si tratta, però, dei

98
moduli che furono maggiormente imitati e che pesarono fortemente sulla
stabilizzazione normativa della lingua italiana, così come furono imitati i nessi
largamente usati da Boccaccio per regolare il funzionamento e la successione del
periodo, con i frequenti adunque, allora, appresso, come che, avvenne che, mentre,
quando, e furono imitate certe sue preferenze, come l’uso del relativo per iniziare il
periodo, con scoperto latinismo, nel tipo Al quale, A cui... + soggetto + disse / rispose
ecc. in funzione di raccordo immediato. Al di là di questa utilizzazione particolare di
alcuni moduli sintattici fatta da grammatici, teorici e imitatori, e applicata poi più o
meno forzosamente a contesti assai diversi da quello narrativo, la prosa di Boccaccio
resta comunque un esempio di eccezionale ricchezza. Benché, come abbiamo visto,
in essa entrino elementi vari, attinti anche alle parlate italiane di Toscana e non di
Toscana (usati a scopo di caratterizzazione realistica), magari al latino e al francese,
sta di fatto che la prosa di Boccaccio, nelle sue forme normali, non mimetiche, è
fiorentina di livello medio-alto. Fortunatamente è giunto fino a noi l’autografo del
Decameron, il famoso Hamilton 90 scritto da Boccaccio verso il 1370 e recante la
quasi totalità del testo, che ci consente di collocare puntualmente le strutture
grammaticali della lingua boccacciana nel quadro del fiorentino coevo. Alcuni tratti
appaiono leggermente arcaicizzanti, come l’uso costante nel Decameron del
numerale diece anziché dieci, che si era imposto nella seconda metà del Trecento
(anche Dante, nella Commedia, usa quasi sempre diece); altre forme vanno in
direzione moderna, come tu ami, canti ecc. al posto del duecentesco tu ame, o come
i perfetti perdé, uscì anziché perdeo, uscio, usati dallo stesso Boccaccio nel Teseida.
Boccaccio non usa mai le forme popolari o innovative (le ritroveremo nel fiorentino
quattro-cinquecentesco) quali arò per avrò, arei per avrei, missi per misi.
Anche nel caso di Boccaccio possiamo verificare la grafia dell’autore,
avvalendoci del prezioso autografo a cui si è appena fatto cenno, il codice Hamilton
90 conservato a Berlino, interamente di mano dello scrittore. Nella grafia di
Boccaccio, come in quella di Petrarca, si notano latinismi, come le x (exempli), il
nesso -ct- (decto ‘detto’), usato a volte anche per indicare il raddoppiamento (stecte,
altre volte scritto stette), come la forma advenuto per ‘avvenuto’, come le h
etimologiche in herba, habito, honore, honesto, huomo (ma non nelle forme del verbo
avere). L’affricata dentale è resa dalla ç, come in Petrarca, ma anche dalla z, e queste
consonanti vengono sempre scritte scempie, indipendentemente dal loro valore

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fonetico sordo o sonoro: scioccheça ‘sciocchezza’, magnificençe ‘magnificenze’,
mezano, ecc. Anche qui, come in Petrarca, ricorrono le usuali abbreviazioni delle
nasali e di per. Il sistema dei segni di interpunzione è più ricco che nel Canzoniere di
Petrarca: si trovano virgola, punto e virgola, due punti (con valore di pausa lunga),
il punto, la sbarra obliqua (già presente in Petrarca), il punto interrogativo usato
anche per le interrogative indirette, degli appositi segni ‘a capo’, e un comma, simile
al punto esclamativo, ma con valore di punto e virgola.
Se Petrarca rappresenta l’ultimo grande rappresentante dell’amore
medievale, nel suo inconciliabile dissidio fra amore terreno e divino, e Boccaccio il
sommo ritrattista della vita mercantile fiorentina, entrambi vissero e operarono
come preumanisti e profondi amatori della classicità greca e latina. Sappiamo che
grandissima importanza ebbe per entrambi gli scrittori lo studio filologico dei testi
classici, per riuscire a portare alla luce manoscritti ormai perduti. Petrarca, nel suo
soggiorno a Verona del 1345, frugando nella biblioteca capitolare, scoprì le lettere
di Cicerone ad Attico, al fratello Quinto e a Bruto; successivamente portò alla luce
l’orazione Pro Archia e il trattato De Gloria, andato poi perduto. La tradizione dice
che, mentre moriva, reclinasse il capo su un codice di Virgilio, fissando in
un’immagine simbolica la conclusione di una vita dedicata alla poesia e allo studio
della classicità.
Boccaccio fu amico di Petrarca e ne condivise l’amore per i classici, riunendo
attorno a sé, negli ultimi anni della sua vita (dal 1360 in poi), un attivo gruppo di
umanisti, fra cui Coluccio Salutati e Filippo Villani. Questo fervore umanistico fu
espresso da Boccaccio in opere erudite in latino, e nel suo desiderio di imparare il
greco. Nel 1362 ebbe un ripensamento religioso che lo indusse per un certo tempo
a rinunciare alla letteratura, fino al punto di comunicare all’amico Petrarca
l’intenzione di bruciare le sue opere e vendergli la sua biblioteca: fortunatamente, si
trattò di un proposito che non portò a termine. Il principio della convenienza
linguistica al contesto culturale e tematico dell'opera, proclamato nella Conclusione
del Decameron, legittima la presenza di più piani stilistici che, all'interno dell'opera
stessa, via via si adeguano al variare delle situazioni narrative. Questa varietà
stilistica di ampissimo raggio riflette sia la pluralità dei piani narrativi insiti
nell'architettura dell'opera, sia la multiforme realtà delle novelle nel loro variare di
personaggi, ambienti e situazioni. Ci sono dunque le parti dal tono più elevato e

100
magniloquente, dove prendono vigore le risrse più colte e artificiali di questa prosa
speintemente esemplate sui modelli della retorica classica e medievale. Dominano i
periodi lunghi, dalla complessa architettura ipotattica, nelle cui ampie volute si
accumulano gerarchie di subordinate, spesso complicate anche da incisi di tipo
parentetico, relegando la principale in posizione finale: si tratta del cosiddetto
periodo “sbilanciato a sinistra”. In questo tipo di periodare, calcato sul modello della
prosa latina (soprattutto di Cicerone, di Quintiliano, di Tito Livio), si riflette però
anche la lezione delle artes dictaminis, ravvisabile soprattutto nell'insistente gusto
di dare alla prosa una disposizone ritmica avvalendosi del cursus7 (cioè la tecnica
usata dagli scrittori per conferire un tono ritmico al periodo) e di altri artifici
musicali come omoteleuti, allitterazioni, rime, nonché di vere e proprie strutture
metriche. È lo stile “boccacciano” per eccellenza, che si è imposto sugli altri livelli
espressivi pur presenti nell'opera e ha fatto scuola nei secoli. Esso domina in modo
assoluto nelle soglie testuali che incorniciano le novelle, dove prendono campo, pur
nelle loro diverse tonalità, le voci sia dell'autore sia dei singoli narratori; ma ricorre
anche all'interno delle singole novelle, e non solo in quelle di materia più tragica ed
elevata (X giornata), ma ovunque, ogniqualvolta le esigenze espressive lo
richiedano, in funzione di un narrato, esterno o interno, più complesso, perché segue
una progressione di atti o pensieri spesso complicati o tortuosi.
Ma si può trovare nel Decameron anche uno stile di segno opposto, che
asseconda la rapidità delle azioni e dei movimenti e s'impone, per mettere in rilievo
certi scatti narrativi. Qui l'andamento sintattico si fa più semplice e serrato, a
struttura tendenzialmente paratattica. Uno stile agile e incalzante che caratterizza
gli scambi di battute, calcati sulla sintassi elementare, franta e spesso ripetitiva,
tipica del parlato. L'oralità è infatti l'altra grande protagonista della narrativa

7 Il cursus è un accorgimento retorico, utilizzato in prosa, che ha lo scopo di conferire un particolare


ritmo alla parte desinenziale di una frase e di conseguenza una maggiore efficacia comunicativa.
Abbiamo il cursus planus: si usa preferibilmente all'interno del periodo ed è dato quando in fine di
frase si pongono due parole accentate sulla penultima sillaba (parola piana + parola piana); cursus
velox: è dato quando le ultime due parole sono accentate rispettivamente sulla terzultima e sulla
penultima sillaba (parola sdrucciola + parola piana); cursus tardus: è l'inverso del cursus velox, è dato
da parola accentata sulla penultima seguita da parola accentata sulla terzultima sillaba (parola piana
+ parola sdrucciola).

101
decameroniana, che si esprime innanzi tutto nei dialoghi, fondandosi su precise
strategie di mimesi del parlato:
- uso di moduli esclamativi e interiettivi
- i procedimenti ripetitivi
- uso insistente del generico fare con funzione vicaria
- ironia antifrastica
- ingiurie
- forte presenza di contaminazioni dialettali, che ricorrono sia nel tessuto
narrativo, contribuendo ad evocare realisticamente ambienti e situazioni, sia
nei dialoghi, dove naturlamente può provocare effetti di marcata
connotazione espressivistica. La facciamo un passo all'indietro.
- un ruolo analogo è assunto dalla componente vernacolare rustica, ultimo
gradino delle varietà distratiche interne al toscano, spesso in concomitanza
con componenti più genericamente popolari e plebee, acendente diretto e
indiscusso della poesia nenciale del Rinascimento. Spiccano, sempre in
quest'àmbito, le deformazioni che mettono spesso in parodia l'oscura
terminologia giuridica o ecclesiatica.
In stretto rapporto con la ricchezza di personaggi, ambienti, situazioni e
registri stilistici che trovano spazio nel Decameron, si colloca il patrimonio lessicale
estremamente copioso e interessante. Occorre soffermarsi in primo luogo sulle
componenti lessicali che legano le novelle al mondo descritto dal Boccaccio, nella
sua grandiosa rappresentazione della civiltà borghese, che fu poi anche quella che
contribuì a imporre l'opera e a decretarne il successo. Si tratta di termini per i quali
è possibile stabilire puntuali con le scritture mercantili contemporanee, che
designano:
- Capi di abbigliamento: camiscia, camiscione8, brache, farsetto, ecc.
- Stoffe: bucherame, mescolato 'panno tessuto con fili di colorazione diversa',
vergato, ecc.
- Oggetti e arredi casalinghi: coppa, fiasco, nappo, orciuolo, ecc.

8 In fiorentino antico l'esito normale di -SJ- era la sibilante palatale sorda (BASJUM > bascio,
CAMISJA(M) > camiscia, ecc.), ben distinto dall'affricata palatale sorda [tʃ] (PACE(M) > pace). La
coincidenza tra le due pronunce si verifica, a quanto pare, solo dalla seconda metà del trecento (prima
attestazione nel 1364: asceto, crosce, dodisci), li porta a divenire entrambi varianti di posizione del
fonema /tʃ/, adeguandosi alla comune grafia c.
102
- Terminologia mercantile e bancaria: ragione 'conto, contabilità', dannare
'cancellare', scrivere a ragione, ecc.; monete (fiorini, ducati, gigliati, bolognini,
ecc.).
- Terminologia giuridica: essaminazione 'disamina processuale', procura,
quistione criminale, ecc.
- Tecnicismi medici (soprattutto nella descrizione della mortifera pestilenza):
gavoccioli ('bubbone' usato ancora da Manzoni nella ventisettana), cirugia,
argomento 'clistere', ecc.; farmacopea (aloè, comino, gengiovo 'zenzero', ecc.
- Termini marinareschi: nave, navicella, cocca 'nave da trasporto', galeotta,
ecc.
- Lessico colto: gallicismi (noia, corsier, dama, damigella, fellone, giostra, ecc.
- Latinismi: pecunia, preterito, suspizione, ecc.
- Voci del lessico comune contemporaneo che suonano oggi come arcaismi:
nei pronomi (eglino, elleno; desso < ID IPSUM sempre usato con funzione di
predicato nominale in dipendenza dai verbi essere e parere “Questi è desso”;
niuno; uomo usato come l'on francese con valore impersonale); interrogativi
e comparativi (chente < QUEM GENTEM 'quale').
- Voci espressive di uso tipicamente popolare: squasimodeo 'sciocco', trecca
'fruttivendola', ciurmarsi 'ubriacarsi', bazzicare 'frequentare'; interiezioni
(gnaffé, alle guagnele); in particolare quelle riferite alla stoltezza umana
(gocciolone, pecorone, lavaceci, bambo, dolce di sale, ecc.).
- Ricchissima fraseologia, con modi di dire, locuzioni (valere un grosso 'valere
poco', più sano che pesce, trarre dalla padella e gittarlo nel fuoco, ecc.); i
proverbi che a volte suggellano la novella (la VI, 10 si conclude chi te la fa,
fagliele)
- Numerosissime le anfibologie oscene: mortaio / pestello, foro, salsiccia,
mortadello, usignolo; le espressioni figurate (prendere piacere, sollazzarsi,
trastullarsi, cavalcare, lavorare l'orto, volare senza ali). Tutte queste voci e
locuzioni daranno un contributo fondamentale alla terminologia burlesca
rinascimentale.

5.5. La fortuna delle Tre Corone

103
Dante, Petrarca e Boccaccio sono autori profondamente diversi fra di loro per
formazione, per il rapporto che instaurano con il volgare, per la natura e
l’ispirazione delle loro opere. Eppure, da Firenze alla Toscana e dalla Toscana
all’Italia, l’ammirazione per le Tre Corone si diffonde rapidamente, facendone dei
modelli insuperabili di lingua e stile. Il segno più eloquente di questa proiezione
verso l’esterno è la fortuna dei singoli testi, in primo luogo della Commedia.
L’enorme ed immediata fortuna della Commedia coinvolge non solo i gruppi elitari
dell’alta cultura ma anche le cerchie più vaste ed eterogenee della borghesia
mercantile dell’epoca, tanto da costituire il primo atto di diffusione di un modello
linguistico che s’impone in Italia al di sopra delle singole tradizioni locali,
saldamente radicatesi nel corso del Due e Trecento. Il più precoce indizio del suo
successo è affidato alle numerose citazioni che affiorano nelle aree e negli ambienti
più disparati: alcune terzine dell’Inferno vengono trascritte, a partire dal 1317
(quando l’autore era ancora in vita) nei documenti notarili bolognesi (meglio noti
come Memoriali bolognesi)9, gli stessi che fin dal 1287 avevano offerto le primissime
attestazioni del Dante lirico con il sonetto sulla Garisenda (il più antico sonetto
dantesco, “No me poriano giamai fare menda”). Un passo del III canto dell’Inferno è
copiato sulla coperta di un registro di atti criminali da ser Tieri degli Useppi di San
Gimignano, mentre i frammenti, fortemente contaminati da tratti locali, si
susseguono negli anni successivi nei Memoriali, redatti da notai bolognesi. Altri
prelievi del poema sono aggiunti, a mo’ di glosse, in un codice del De consolatione
boeziano, verso il 1330 da un monaco benedettino dell’Abbazia di Montecassino.
Riecheggiamenti e citazioni centonarie pullulano perfino in testi dovuti a scrittori di
cultura media, come il Libro del biadaiolo ovvero Specchio umano10. Molti di questi

9 A Bologna, il 26 aprile 1265, fu pubblicato un provvedimento di notevole portata e saggezza, che


non aveva precedenti e fu di lì a poco imitato in altre città del Nord (Modena, Parma, Venezia,
Ferrara): la trascrizione obbligatoria in appositi registri, i Libri Memorialium o Memorialia communis,
di tutti gli atti pubblici e i contratti privati (testamenti, lasciti, donazioni, pagamenti, ecc.) onde
garantirne l'autenticità e impedirne qualsivoglia alterazione e falsificazione. I M. bolognesi, una vera
miniera per lo studioso di storia civile, economica e sociale, sono particolarmente interessanti per lo
studioso di storia della lingua e della letteratura: intercalate agli atti, specie fra Due e Trecento,
troviamo infatti numerose poesie (circa novanta, fra il 1279 e il 1325), soprattutto sonetti e ballate,
per la maggior parte anonime ma qualche volta a noi note e da noi facilmente attribuibili, e di poeti
locali, dal Guinizzelli a Fabruzzo e a Onesto, come di siciliani e di stilnovisti o giocosi toscani, da
Iacopo da Lentini al Cavalcanti, da Cecco Angiolieri a Cino da Pistoia, a tal punto da costituire un
vivace sommario delle tendenze e degli aspetti della nostra lirica volgare duecentesca.
10 Il testo, singolare esempio di registro finanziario-agrario, risale agli anni 1339-41, è opera di un

fiorentino, modesto venditore di biade.


104
rappresentano i primi esempi di quelle locuzioni, stilemi, sentenze che nascono dalla
cristallizzazione di versi danteschi e che, col loro insediamento nel linguaggio
comune, sono un’altra prova inconfutabile della larga fortuna del poema, il cui
autore meriterà il titolo di “padre della lingua italiana”. Sono note due novelle del
Sacchetti (CXIV e CXV) dove si allude alla consuetudine popolare di “cantare il libro
di Dante, ovvero cantare il Dante”11: da allora in poi il Dante è sinonimo di Commedia
(nell’inventario degli arredi del siciliano Federico IV il Semplice, risalente al 1367, si
legge infatti: “librum unum dictum lu dante quod dicitur de inferno”). Alla diffusione
orale del poema contribuiscono le pubbliche letture che si susseguono a Siena,
Firenze, Bologna, Ferrara, Verona, ecc. A Firenze l’incarico della pubblica lettura di
Dante, dall’ottobre 1374 ai primi del 1375, fu affidato proprio a Giovanni Boccaccio,
il quale comporrà il Trattatello in laude di Dante. Ed è proprio Boccaccio a
trascrivere, nel codice Chigiano L V 176 della Biblioteca Apostolica Vaticana,
precedute da una versione ridotta del proprio Trattatello, la Vita nuova e quindici
canzoni di Dante e, insieme, i Rerum vulgarium fragmenta del Petrarca, in un
accostamento che è stato definito come momento centrale della storia linguistica e
letteraria italiana. Fitte e profonde sono le presenze dantesche nell’opera del
Petrarca, il quale aveva però ribadito la propria personale autonomia intellettuale
(Familiare XXI 15 del 1359, nella quale il Boccaccio gli aveva sollecitato di esprimere
pubblicamente il suo parere su Dante). Ed è sempre Petrarca che definisce Dante il
principe del nostro volgare eloquio (“ille nostri eloquii dux vulgaris”, e nella Senile V
2 rimprovera al Boccaccio per aver meditato di distruggere le proprie poesie volgari
ritenendole inferiori al Canzoniere.
L’ammirazione per i tre grandi trecentisti alimenta la coscienza della
superiore qualità del fiorentino o toscano (termini per ora usati indifferentemente)
rispetto alle altre varietà locali. Ne sia prova significativa il propagarsi di elementi
linguistici toscani nelle opere di letterati delle varie regioni d’Italia. Il processo
investe anzitutto il fronte poetico, che fin dalla prima metà del secolo di autori che,
pur in modi e misure diverse, sono già visibilmente improntati all’influsso toscano:

11 CXIV: «Quando ebbe desinato, esce di casa, e avviasi per andare a fare la faccenda, e passando per
porta San Piero, battendo ferro uno fabbro su la 'ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare,
e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima
ingiuria»; CXV: «uno asinaio, il quale avea certe some di spazzatura innanzi; il quale asinaio andava
drieto agli asini, cantando il libro di Dante».
105
il veneziano Giovanni Quirini (imitatore di Dante e propagatore del suo culto); il
trevisano Niccolò de’ Rossi, il padovano (ma di padre aretino) Francesco di
Vannozzo; e, nell’area centro-meridionale, la cerchia dei poeti perugini (Marino
Ceccoli, Neri Moscoli, Cecco Nuccoli); e i napoletani Bartolomeo di Capua, Paolo
dell’Aquila, Landulfo di Lamberto. Il padovano Antonio da Tempo, nel 1332, a
conclusione del suo celeberrimo trattato di metrica (Summa artis rithimici vulgaris
dictaminis) riconosce che la lingua toscana è la più adatta alla letteratura, e quindi
la più diffusa e la più comprensibile, anche se non esclude la possibilità di attingere
altrove. Benvenuto da Imola, nel suo commento alla Commedia, afferma il primato
del fiorentino (“Nullum loqui est pulcris aut proprius in Italia quam Florentinum”).
Il veronese Gidino da Sommacampagna nel suo Trattato de li rithimi volgari, scritto
in un volgare fortemente marcato da tratti settentrionali, usa toscano come
sinonimo di volgare: “in questa parte èe da vedere de li soneti bilingui, zoè li quali
sono de due lengue […] videlicet in lingua volgara o sia toscana, et in lingua
francescha o sia oltramontana”.
Per quanto riguarda la diffusione del Decameron, occorre osservare che la
trasmissione del testo fu spesso frammentaria, perché legata a un pubblico
essenzialmente borghese. Dei 103 codici giunti fino a noi, ben 79 sono cartacei,
fragili e poveri, come s’addice ai libri di una cultura mercantile che salvo i pochi casi
di rango superiore fu spesso rappresentata da piccoli imprenditori, commercianti,
bottegai dotati di scarse finanze ed ancor più ridotta liquidità. La grande
maggioranza del pubblico di matrice mercantile, infatti, non poteva vantare risorse
economiche tanto elevate, né l’adeguata esperienza grafica per copiare testi letterari
di una certa estensione. Pertanto, un buon numero di manoscritti decameroniani
presenta strutturazioni incomplete o inconsuete, come il Vaticano latino 9893 della
Biblioteca Apostolica Vaticana, diviso in tre volumi contenenti le giornate 1-3, 4-7 e
8-10, esempio macroscopico di copie del Decameron eseguite in tempi e da mani
successive e poi messe insieme. Tale situazione di copia testimonierebbe, dunque,
una primitiva circolazione di codici contenenti singole sezioni del Decameron,
presumibilmente coincidenti con gruppi di tre o quattro giornate. Nelle biblioteche
altoborghesi tardo-quattrocentesche, modellate sull’ideale neoplatonico (Platone,
Landino, Ficino, Pico) ed umanistico (i libri greci, i dizionari, Valla, il Salutati), ci sarà

106
invece pochissimo Boccaccio, specie quello del Decameron e del Corbaccio, che i
lettori d’epoca umanistica consideravano troppo legato allá cultura medievale.
Nasce così il mito delle Tre corone, espressione usata per la prima volta da
Giovanni Gherardo da Prato, che, in apertura al Paradiso degli Alberti, scritto nel
1425-26, proclamando la sua adesione al fiorentino, aggiunge il riferimento
metaforico a una triade regale che poi si fisserà nella celeberrima espressione:

I, 2: “Scusimi ancora l’ardentissima voglia che continuamente mi sprona il mio idioma


materno con ogni possa sapere essaltare e quello nobilitare, come che da tre corone
fiorentine principalmente già nobilitato ed essaltato si sia; le quali io umilissimamente sì
seguo non altrementi ch’ e’ dottissimi navicanti fecino ne’ loro viaggi pel segno del nostro
polo”.

107
6. IL QUATTROCENTO

6.1. Il contesto storico-sociale


Si è visto precedentemente che le prime signorie apparvero nell’Italia del
Nord verso la metà del XIII secolo: una delle prime fu quella di Ezzelino da Romano
a Verona. Con la trasformazione delle signoria in principato, il potere passò a una
vera e propria dinastia, come quella dei Medici a Firenze (dal 1382), degli Estensi a
Ferrara (dal 1317), dei Visconti (1390-1447) e Sforza (dal 1447) a Milano, dei Da
Carrara a Padova (1320), dei Gonzaga a Mantova, dei Montefeltro a Urbino, dei
Correggio a Parma, dei Malatesta a Rimini, ecc. Al sud, dopo la ribellione degli
Angioini, la Sicilia era passata agli Aragonesi. Tra questa dinastia e gli Angioini
scoppiò, in seguito, una violenta guerra per la successione al trono di Napoli, che si
concluse nel 1442 con l’insediamento sul trono napoletano della dinastia aragonese.
Ma la guerra di successione napoletana ebbe i suoi effetti anche fuori dal regno,
poiché, per l’uno o per l’altro contendente, si schierarono di volta in volta i maggiori
stati italiani, i quali, anche dopo la conclusione della disputa dinastica, si logorarono
vicendevolmente in una serie di lotte egemoniche, che ebbero fine nel 1454 con la
pace di Lodi, grazie alla quale la politica si consolidò in un sistema di stati interessati
a mantenere l’equilibrio di forze raggiunto in quasi mezzo secolo di lotte e di
competizioni. Tali stati erano: il Ducato di Savoia; il Ducato di Milano (con gli Sforza);
le repubbliche marinare di Venezia, Genova e Pisa; il Ducato di Mantova (con i
Gonzaga); il Ducato di Ferrara (Estensi); la Repubblica di Firenze (con i Medici); lo
Stato della Chiesa; il Regno di Napoli e di Sicilia (agli Aragonesi). Il più insigne
rappresentante e fautore della politica di equilibrio fu Lorenzo de’ Medici (detto “il
Magnifico”), che riuscì a mantenere la pace in Italia per circa cinquant’anni (fino alla
sua morte, avvenuta nel 1494).
Il passaggio dal regime feudale alla formazione di stati nazionali o regionali,
territorialmente compatti e con una solida organizzazione burocratica centralista,
segnò per l’Europa la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna. Ma se l’Europa
occidentale era ormai sede di potenti monarchie nazionali, come la Francia, la
108
Spagna, il Portogallo e l’Inghilterra, l’Italia si limitava a cercare di mantenere
l’equilibrio tra cinque principali stati a livello regionale: il Ducato di Savoia, quello
di Milano, la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Firenze, lo Stato Pontificio, il
Regno di Napoli.
Il progresso tecnico aveva arricchito il continente di nuove ed importanti
scoperte ed invenzioni. L’utilizzo della polvere da sparo (o polvere pirica) permise
l’introduzione delle armi da fuoco e fu motivo di riorganizzazione generale degli
apparati militari. Un notevole beneficio all’economia ed alla finanza venne
dall’introduzione della cambiale, che facilitò notevolmente la circolazione del
denaro. Ma furono le grandi scoperte geografiche a portare in Europa ingenti
ricchezze, frutto della febbre dell’oro, che attrasse migliaia di avventurieri e
squattrinati verso nuove terre, alla ricerca di mitici tesori e di guadagni facili. Il 12
ottobre del 1492 Cristoforo Colombo sbarcava, dopo aver attraversato l’oceano
Atlantico, in un’isola, convinto di aver raggiunto il Giappone da est. Seguirono
immediatamente altre spedizioni oltre Atlantico condotte dal navigatore genovese
al servizio del Re di Spagna; e solo qualche anno più tardi e con l’aiuto di altri
navigatori, tra cui un altro italiano, Amerigo Vespucci, lo stesso Colombo si dovette
rendere conto che aveva messo piede su una terra sino ad allora ignorata dagli
Europei, e che, proprio in onore ad Amerigo Vespucci, fu chiamata America. Nuove
vie marittime si aprirono ai commerci che cessarono di avere il proprio centro nel
Mediterraneo, dando così un duro colpo all’economia di Genova e di Venezia.
Quest’ultima, poi, si vedeva ormai minacciata da vicino dai Turchi ottomani che, nel
1453 erano entrati a Costantinopoli, ponendo fine all’esistenza politica dell’Impero
Bizantino, diretta continuazione dell’’Impero Romano d’Oriente: e ciò quasi un
millennio dopo la caduta di quello d’Occidente ad opera di Odoacre.
Ma non si può parlare dell’epoca nuova se non si menziona l’introduzione
massiccia della stampa grazie al tedesco Giovanni Gütenberg, che perfezionò, a
partire dagli anni intorno al 1455, i caratteri mobili, così definiti poiché ciascuno di
essi conteneva una lettera sotto la propria base e poteva essere spostato ed
appoggiato in qualunque punto della pagina a seconda delle parole che bisognava
comporre. L’invenzione della stampa permise la maggiore diffusione dei libri, i quali
cessarono di essere prodotti unicamente nei monasteri o nelle abbazie, ma uscirono
da vere e proprie industrie, le tipografie, che si svilupparono principalmente in

109
Germania, nei Paesi Bassi, in Francia e in Italia, ove i principali centri furono a
Venezia e a Firenze. Lo sviluppo della stampa, oltre a produrre mutamenti radicali
nel mondo alfabetizzato, dalla circolazione della cultura all’organizzazione della
società, con riflessi notevoli sulle stesse coordinate psicologiche e antropologiche
dell’uomo moderno, per quanto riguarda la storia dell’italiano esercitò un’azione
fondamentale di assestamento dell’ortografia.
Con la diffusione della stampa ebbe maggiore diffusione anche la cultura. In
Italia ciò diede vita, nel XV secolo, all’importante fenomeno filosofico-letterario
dell’Umanesimo. All’idea medievale di una Fortuna (intesa nel senso metafisico), che
condizionava in prima persona le vicende umane, si contrappose un’ampia
rivalutazione dei valori individuali, ponendo l’uomo al centro come artefice del
proprio destino. Fiorirono gli studi filologici, legati al desiderio di conoscere in
profondità i testi classici greci e latini. Studiosi del calibro di Marsilio Ficino e di Pico
della Mirandola riscoprivano in una luce nuova la filosofia di Aristotele e di Platone,
mentre poeti come Angelo Poliziano permeavano i propri scritti di temi classici.
Come spesso accade, si può dire che il Quattrocento, dal punto di vista
politico, finisca prima della normale conclusione cronologica. Dal settembre 1494 al
luglio 1495, infatti, ebbe luogo la spedizione francese di Carlo VIII, il quale, con il
pretesto di alcune rivendicazioni francesi in materia di successione, occupò la
penisola sino a Napoli. Ma ben presto egli incontrò l’opposizione di una lega sorta
tra Venezia, Milano, il Papa, la Spagna e l’Impero, e, il 6 luglio 1495, fu sconfitto a
Fornovo, presso Parma, e dovette ritirarsi. Eppure l’equilibrio mantenuto per
cinquant’anni era ormai compromesso: l’Italia era destinata a trasformarsi in campo
di battaglia per gli eserciti di Francia e Spagna.

6.2. La nascita della ‘questione della lingua’


La questione della lingua nasce ufficialmente sull’onda della discussione
iniziata nel marzo del 1435 a Firenze da alcuni dei più famosi umanisti del primo
Quattrocento (Biondo Flavio, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Andrea Fiocchi,
Cencio Rustici), nell’anticamera di Eugenio IV, intorno alla natura della lingua usata
nella Roma antica. Schematizzando, la disputa girava attorno due posizioni: la prima
faceva capo a Biondo Flavio (che la espose nell’epistola De verbis romanae locutionis,
datata 1 aprile 1435), e sosteneva che in Roma antica letterati e indotti parlassero

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un’unica e medesima lingua, il latino, sia pure differenziata nei toni e nei registri; la
seconda, attribuita a Leonardo Bruni (che rispose a Biondo il 7 maggio del medesimo
anno, sulla questione an vulgus et literati eodem modo per Terentii Tullique tempora
Romae locuti sunt), sosteneva che si parlasse un volgare privo di grammatica e di
strutturazione morfosintattica, altrettanto nettamente distinto dal latino della
letteratura, identificato con la grammatica. Questa posizione fu comunque fraintesa
da Biondo, che attribuì a Bruni la persuasione che presso i Romani la moltitudine
degl’incolti parlasse il medesimo volgare in uso nell’età moderna, mentre la tesi del
Bruni era che la plebe antica parlasse un volgare, non che questo fosse identificabile
nel volgare moderno: l’analogia fra tempi nuovi e gli antichi era, piuttosto, nella
situazione linguistica complessiva. L’aspetto che qui interessa è la coscienza e
l’interesse del volgare che, discutendo del latino, gli umanisti manifestano: infatti la
disputa che originariamente riguardava la natura della lingua parlata in Roma, si
allargò alla questione dei rapporti genetici – e gerarchici – fra latino e volgare,
cosicché, conseguentemente, se ne occupò anche chi, disinteressato alla prima
questione, era spinto a chiarire i termini della seconda. La posizione del Bruni –
seppure molto più vicina alle teorie moderne di genesi delle lingue neolatine –
chiudeva al volgare ogni possibilità di diventare una lingua regolata, grammaticale,
e lo degradava al rango di strumento della comunicazione bassa. La tesi di Bruni,
infatti, si ricollegava in qualche modo alla concezione medievale, secondo la quale il
latino letterario era dotato di ‘grammaticalità’, cioè era regolato e stabile, governato
da norme precise, mentre la lingua popolare (cioè il parlato), in epoca antica così
come all’epoca degli umanisti, era caratterizzata da un’assoluta variabilità. La
posizione di Biondo, invece, lasciava aperta al volgare la porta della migliorabilità e
restituiva dignità alla situazione sociolinguistica moderna, poiché le riconosceva
analogia con quella antica. Per Biondo, inoltre, il volgare era nato dalla corruzione
del latino classico durante le invasioni barbariche (in questo modo dimostrava a
Bruni che non era esistito contemporaneamente al latino), elaborando quella “teoria
della catastrofe” e della corruzione che avrebbe goduto di una grande fortuna presso
gli intellettuali delle generazioni successive. Se il volgare era il frutto di una
corruzione del latino, non si poteva negare che avesse una sua nobiltà, per quanto
decaduta; se gli intellettuali, adottando il volgare come strumento dello scambio
artistico e scientifico, si fossero impegnati a perfezionarlo, avrebbero potuto

111
convivere un volgare basso, destinato agli usi correnti, e un volgare alto, riservato
agli usi artistico-scientifici.
Direttamente legato al dibattito Biondo/Bruni è l’intervento di Leon Battista
Alberti. L’Alberti colse che dalla posizione del Bruni, implicante l’intrinseca
agrammaticalità, in linea di principio, del volgare, discendeva come ovvio corollario
la sua subalternità letteraria. E per controbattere la sostanziale agrammaticalità del
volgare, si doveva dimostrare che il volgare poteva essere codificato in una
grammatica: nasce così la Grammatichetta vaticana basata in gran parte, come si è
visto, sull’uso fiorentino quattrocentesco.

6.3. Formazione e sviluppo della koinè


La lingua quattrocentesca, nelle sue realizzazioni pratiche e letterarie, non
può essere compresa nella sua complessità, se non si fa riferimento alla koinè, cioè
quella particolare forma di lingua composita che, pur con ovvie differenze
diatopiche, diastratiche e diamesiche interne, si diffonde da Sud a Nord, anticipando
di qualche secolo l’unificazione linguistica ottocentesca. Prima di descriverne le
principali caratteristiche, converrà soffermarsi sul termine stesso di koinè. Senza
entrare in sottili distinzioni, diremo che in greco con he koinè diálektos si indicava la
varietà scritta letteraria usata dai prosatori d’epoca ellenistica e imperiale, diversa
dalle diàlektoi connotate regionalmente, l’eolica, la dorica, la ionica e l’attica. Fra i
primi a usare tale termine riferendosi alle lingue romanze è Carlo Tagliavini nella
prima edizione delle Origini delle lingue neolatine del 1949 (si ricordi, comunque,
che Antoine Meillet nel suo Aperçu d’une histoire de la langue grecque del 1913 aveva
dedicato un ampio capitolo alla koinè), per il francone e il provenzale, con cui
designa una lingua composita, predisposta a un uso letterario. Il suo uso diventa
comune fra i linguisti dagli anni ‘60 in poi (lo usano i linguisti ungheresi, ad esempio,
per indicare la “lingua comune regionale”; la parola inizia ad essere scritta in
caratteri latini, o addirittura in forma italianizzata, coinè). Queste testimonianze
mostrano la progressiva adozione da parte degli studiosi di una nozione tecnica, di
contenuto specifico, in alcune aree linguistiche in cui con koinè si intende una
particolare varietà non facilmente definibile, nel significato all’incirca di lingua
comune, non ancora standard o ufficiale. Parleremo di koinè a proposito di una
varietà sopralocale, che si estende su un’entità territoriale ampia (una regione, un

112
gruppo di regioni, insomma una parte consistente del territorio che si riconosce in
quella determinata lingua), tanto ampia da presentare una sufficiente
frammentazione o diversificazione linguistica; la presenza di una koinè presuppone
sotto di sé un certo grado di differenziazione che essa annulla, neutralizza. Esistono
anche koinè di uso poetico e letterario, o burocratico, che presentano caratteri di
vera e propria artificialità; la specificità del mezzo prescelto permette una
convergenza molto maggiore di quella raggiungibile in una varietà orale, ed anche
una maggior rigidezza e uniformità.
LA KOINÉ CANCELLERSCA. Quando si parla di koinè in merito alla storia della
lingua italiana, ci si riferisce a una serie di esperienze linguistiche maturate
nell’Italia quattro-cinquecentesca che tendono al conguaglio e al livellamento
fonomorfologico, indirizzandosi verso forme sovraregionali e toscanizzanti, in un
lento, ma progressivo, sforzo di demunicipalizzazione. E’ comunque difficile, se non
impossibile, definire esattamente in modo teorico la koinè quattro-cinquecentesca:
si tratta, infatti, di una lingua altamente differenziata non solo dal punto di vista
diatopico, ma anche diafasico e diastratico. La lingua del Boiardo lirico, ad esempio,
è ben diversa da quella usata nelle lettere familiari, dove i tratti dialettali e demotici
si intensificano notevolmente; al contrario le rime del Calmeta offrono una lingua
assai più marcata in senso locale e antitoscano rispetto a quella usata nelle epistole.
La koinè, comunque, pur con le inevitabili varietà e articolazioni interne, è una realtà
linguistica viva e concreta, effettivamente operativa, nel parlato e nello scritto, in un
certo periodo e in una determinata area geografica, sottoposto poi a un ulteriore
processo di raffinamento e di selezione.
Si è soliti raccogliere sotto l’etichetta di “lingua cancelleresca” il complesso
della produzione volgare dettata dagli apparati burocratici, sui quali si articolava la
gestione dello stato rinascimentale. Si tratta comunque di un etichetta troppo
generica e onnicomprensiva, che associa comportamenti semiotici eterogenei e
differenziati in rapporto all’ufficio emittente (sussistendo in genere tante
cancellerie quante erano le funzioni di governo), allo scopo e al contenuto del
messaggio. E’ chiaro, ad esempio, che in documenti ad uso interno sarà superiore
l’incidenza della patina locale, proprio in ragione dell’intento di renderli al massimo
adeguati alla comprensione degli indigeni, mentre i documenti a uso esterno, cioè
quelli dotati di una maggiore “ufficialità”, saranno meno influenzati dai tratti

113
municipali. Per cancelleria s’intende l’insieme degli uffici preposti al disbrigo degli
affari delle diverse magistrature e dei diversi organi, centrali e periferici, degli stati,
con conseguente produzione di varie scritture documentarie ed epistolari: atti
legislativi o giudiziari, statuti, ordinamenti, decreti, bandi, grida, relazioni di
ambascerie, discorsi ufficiali, convenzioni o trattati, comunicazioni interne tra uffici,
corrispondenza con funzionari entro e fuori lo stato, corrispondenza diplomatica,
ecc. Altamente differenziata è dunque la produzione documentaria cancelleresca, sia
da punto di vista qualitativo che quantitativo: una definizione univoca è quindi
impossibile. Si può invece stabilire che i suoi assetti si giocano su tre poli: base
dialettale, modello latino e modello toscano (nella sua doppiezza di fiorentino aureo,
cioè il fiorentino trecentesco, e quello argenteo, cioè il fiorentino quattrocentesco).
Il modello latino è attivo soprattutto a livello grafico e lessicale; lo troviamo anche a
livello sintattico, ma le particolari condizioni di composizione dei testi (si ricordi
infatti che la maggior parte dei documenti, soprattutto le lettere, erano dettate e
trascritte, la tradizione cancelleresca risente cioè di una tradizione di didattica
dettatoria che insegnava a costruire una lettera o un discorso nelle sue singole parti,
indicava le formule esatte alle diverse circostanze e categorie di destinatari, le regole
dell’ornato e i giri di frase di sapore latineggiante, ma si disinteressava
dell’organizzazione complessiva del periodo), rendevano quasi impossibile
l’impostazione di un accurato impianto sintattico. In alcuni casi i poli potevano
coincidere due contro uno: modello latino e base dialettale (pensiamo alle forme
metafonetiche, come in ditti, alle forme non dittongate, o alla conservazione della e
protonica, del tipo segnore, megliore, ecc.); in altri casi modello tosco-fiorentino
(soprattutto del fiorentino “argenteo”, come vedremo più avanti) e base dialettale. I
tratti linguistici attribuibili a una base comune sovraregionale (in molti casi quasi
nazionale, come vedremo a proposito della lingua poetica) sono, ad esempio, la
coloritura latineggiante del vocalismo, il mancato dittongo delle vocali toniche
aperte in sillaba libera, l’assenza di anafonesi, le tracce di metafonesi nei pronomi (il
tipo nui, vui), il mantenimento del nesso atono -ar-, desinenze verbali in -amo/-
emo/-imo per la prima persona plurale dell’indicativo, -eno per la terza persona
plurale dell’indicativo presente, -ìa per il condizionale, gli indeclinabili como, forsi,
contra. Si inizia a usare il volgare per lo più in scritture rivolte al popolo (statuti,
grida, ecc.) prima che in altri atti e nella corrispondenza ufficiale, in tempi diversi

114
nei vari centri: a Firenze compaiono lettere in volgare addirittura dal 1311, a Napoli
dal 1356 (ma questo non dà luogo a una tradizione), a Urbino dal 1378, a Mantova
dal 1401, a Ferrara dal 1427, a Milano dal 1438, mentre a Venezia il volgare compare
nell’attività legislativa intorno al 1420, in quella giudiziaria (ritardata dalla tecnicità
e formularità del linguaggio giuridico) addirittura nel Cinquecento). La tendenza alla
reciprocità nella corrispondenza fra stati è un fattore di ‘contagio’ nella sostituzione
del volgare al latino dovunque, ma nel caso di Milano è stata ipotizzata una diretta
disposizione in questo senso di Filippo Maria Visconti, amante e protettore del
toscano. E infatti il processo di integrazione toscana si completa proprio a Milano
nei primi decenni del Cinquecento, quando anche gli ultimi baluardi linguistici locali
vengono smantellati, sebbene non si tratti di un processo univoco e uniforme
(permangono, per esempio alcuni focolai di resistenza delle abitudini locali presso i
rimatori milanesi della prima parte del XVI secolo). La cancelleria di Milano
rappresentò comunque per gli stessi contemporanei un modello di scrittura alto:
scrivere “alla cortesana” voleva dire imitarne la lingua anche in altri tipi di testi.
LA KOINÈ LETTERARIA. Nel corso del Quattrocento la lingua della poesia lirica si
caratterizza, rispetto alla scripta cancelleresca, per un grado massimo di
allontanamento dal volgare locale e di tendenziale identificazione con un ideale di
lingua aulica; in questo senso svolge un ruolo di primo piano nel superamento del
localismo linguistico, depurando e nobilitando la lingua d’uso. Molto più
compromessi coi volgari locali sono invece la poesia non amorosa e non lirica
(componimenti d’occasione vari, generi didascalici, poesia narrativa, o teatrale, o
bucolica, e al livello più basso poesia comico-realistica e burlesca). Si prenda come
esempio Matteo Maria Boiardo. Gli Amorum libri, composti fra il ‘69 e il ‘76, oscillano
linguisticamente fra la lingua del Petrarca e il volgare letterario pre-trecentesco
(oltre ovviamente al latino), anche se in un settore come quello del dittongamento
sembra risentire anche del toscano quattrocentesco. Gli influssi locali sono limitati
a pochi tratti fonetici, come gli esiti metafonetici (quilli), in molti casi sostenuti dalla
tradizione siciliana (come nui, vui), dalla mancanza di realizzazione anafonetica per
coincidenza con la forma latina, ecc. Più fortemente caratterizzato localmente è
invece l’Orlando Innamorato. Il genere epico-cavalleresco, infatti, era influenzato dai
cosiddetti ‘cantari’, racconti versificati, per lo più in ottava rima, particolarmente
diffusi nella prima metà del Quattrocento in area padano-veneta. Non deve dunque

115
sorprendere che l’Innamorato presenti una patina linguistica dialettale più marcata:
preminenza del tipo non anafonetico (comencia, lengue, gionto, ecc.); tendenza alla
monottongazione; mantenimento della e protonica; oscillazione scempie/doppie;
presenza massiccia di affricate dentali in luogo delle palatali toscane (il tipo giazo,
fazo, ecc.), con relativi ipercorrettismi (come megio / -ani per mezzo / -ani); uscita
in -ar- dei verbi della prima coniugazione; 1ª pers. sing. perfetto in -e (tipo io fece,
disse), ecc. L’analisi linguistica dell’Innamorato è resa comunque difficile per il fatto
che non possediamo l’originale, e nemmeno le due edizioni princeps
quattrocentesche. Le due più antiche edizioni del poema che ci sono giunte, del 1487
e del 1506, ci sono arrivate in unica copia, e tale rarità si spiega con il carattere
‘popolare’ del testo, ciò che comporta sempre una forte deperibilità del libro, una
vera e propria ‘usura’. Il manoscritto giunto fino a noi è invece posteriore al 1495.
Le due stampe presentano un colorito più dialettale, mentre il manoscritto è
maggiormente toscanizzato: insomma, in questo come in altri casi vi è un problema
filologico che condiziona e precede la descrizione dei caratteri linguistici del testo.
Il genere lirico rappresenta dunque, nei vari centri, la punta avanzata nella ricerca
di una lingua letteraria depurata dai tratti municipali, cioè di una lingua comune.
Anche sulla lingua lirica agiscono i tre poli indicati precedentemente
(latineggiamento, toscanismi e tratti locali), ma ben più complesso appare il modo
con cui esse agiscono o interagiscono. In questo ambito la problematica linguistica
è strettamente intrecciata con la problematica letteraria del petrarchismo. Si tratta
di un petrarchismo parziale, eterodosso, soggettivo e liberamente sperimentale,
rispetto al petrarchismo cinquecentesco, globale, ortodosso, rigidamente
canonizzato e fedelmente imitativo. Entro il primo tipo, il modello petrarchesco è
fruito liberamente, come repertorio di temi e stilemi componibili con altri di altra
provenienza e adattabili alle occasioni contingenti della vita di corte: la poesia che
ne risulta è una poesia destinata anzitutto al consumo, quindi fatta più di pezzi
singoli che di un “libro”; la dimensione narrativa e morale del canzoniere (storia di
un’anima) è obliterata. Entro il secondo tipo, invece, il modello viene assunto a
modello unico, tematico e stilistico. Il discrimine è rappresentato dalla teorizzazione
bembesca, che si estende lungo il primo Cinquecento; ma essa è preparata da una
ricerca poetica che occupa la seconda metà del Quattrocento e tende a muovere dal
primo al secondo tipo. E’ chiaro che il petrarchismo linguistico (parzialmente

116
contraddittorio con una generica tendenza alla toscanizzazione) si va affermando
con questa evoluzione letteraria complessiva. Il modello linguistico petrarchesco
dovette esercitare, in ogni caso, un indubbio condizionamento linguistico (a questo
proposito si ricordi la preferenza data a forme non dittongate: homo, petra, pensero,
manera o ai prefissi de-, re-, ecc.); si aggiunga inoltre la solita doppiezza, rispetto al
modello classico, del fiorentino quattrocentesco, in alcuni tratti addirittura solidale
con gli esiti settentrionali e meridionali. Si dà quindi spesso accordo della forma
poetica con la forma latina e anche con la forma locale, contro la forma fiorentina
viva, con possibili, conseguenti ambiguità ulteriori nell’interpretazione delle scelte
di questo o quel poeta. Piuttosto controverso è per gli studiosi, la presenza della
componente locale nei rimatori cortigiani. Nell’Italia settentrionale operano i
rimatori che fioriscono presso le diverse signorie, come il Correggio, il Refrigerio,
Serafino Aquilano o il Visconti, nell’Italia del sud fiorisce invece la lirica napoletana,
propriamente definibile come ‘aragonese’, in quanto nasce e muore insieme con la
corte instaurata a Napoli da questa dinastia, con Francesco Galeota, Giovanni Aloisio,
Joan Francesco Caracciolo, Giuliano Perleoni (detto Rustico Romano) e Pietro Jacopo
de Jennaro. Secondo alcuni studiosi l’elemento locale è il dato inerziale, involontario,
che condiziona, frenandola, la ricerca in direzione extra-municipale (che di volta in
volta fa forza sul latino, sul toscano contemporaneo o sulla lingua poetica). La
presenza, pur cospicua, nella lirica di forme locali sarebbe dunque da leggere più in
negativo, come affioramento di abitudini linguistiche ineliminabili, che in positivo,
come vera e propria proposta consapevole. L’ingrediente locale è, in definitiva, un
residuo linguistico non necessariamente voluto dai rimatori. Altri, invece, come
Maurizio Vitale, vedono il dialetto come ingrediente intenzionale della poesia non
toscana: la scelta di un volgare marcato in direzione meridionale è da intendere
come un’opposizione antitoscana, in favore di una lingua ibrida sovralocale (e tale
tesi sarebbe avvalorata dalla situazione politica dell’epoca, fondata sulla
competizione delle varie corti italiane), per cui si potrebbe pensare a un’omogeneità
linguistico-culturale capace di elevarsi a una forma pressocché nazionale comune
extrafiorentina. Per sostenere tale affermazione lo studioso cita 28 punti di
concordanza linguistica nord-sud (fra cui ricorderemo la metafonesi;
monottongamenti e dittongamenti; conservazione di e protonica; il passaggio a -e-
della -i- postonica mediana; gli indeclinabili como, forsi e in -a; vari esempi di

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prostesi in a-; vari esiti di assibilazione; vari esiti palatali; la perdita dell’elemento
labiale nel nesso labiovelare qu-; metaplasmi di declinazioni e coniugazioni; la
desinenza -i nella seconda persona plurale; le desinenze verbali -amo, -emo, -imo, -
eno; il mantenimento del nesso -ar- nel futuro e nel condizionale della Iª classe
verbale e di ser- nel verbo essere; la presenza dei participi deboli in -uto, ecc.).
Quanto è stato detto per la lingua della poesia, può essere riferito anche alla
prosa. Anche qui, infatti, ritroviamo il concorso dei tre poli, latino, tosco-fiorentino
e dialetto, alla formazione di una lingua prevalentemente ibrida, sebbene si debba
sottolineare che i contatti con la lingua locale sono in genere più intensi proprio
nella prosa, specie in quella narrativa, soprattutto per esigenze immediate di
realismo. Si vedano, in Toscana, i Motti e le facezie del Piovano Arlotto, in cui
emergono punte verso la parlata rustica e popolaresca nel dialogato, o la Novella del
Grasso Legnaiolo, in cui convivono tratti provinciali e popolareggianti con quelli
della tradizione, senza precisa distinzione sociologica di chi li usa. Le cose non
stanno diversamente a Bologna dove le Porretane di Sabadino degli Arienti
espongono idiotismi settentrionali (come abrazzato, perdereti, voi diceti, quilli, le più
sbudellate feste e pecerlecche ‘salamelecchi’, ecc.), soprattutto nei dialoghi; molti
però ne accolgono anche nel discorso dell’autore, in virtù di un’opzione stilistica
media che s’addice alla realtà linguistica in cui questi scrittori sono immersi, ancora
largamente tributaria alle lingue locali. La resistenza del dialetto è anche più forte
nei narratori meridionali, come in Del Tuppo (Esopo) o in Carafa (Memoriali). In
queste opere al dialetto si mescola il latino in un accostamento casuale ma molto
evidenziato come ingrediente nobilitante della scrittura, che ancora risente molto di
quella dialettale, tipica di altri, più antichi, narratori napoletani, come Loise de Rosa.
Con Masuccio Salernitano la lingua locale comincia però a diventare anche un
ingrediente stilistico che serve a caratterizzare con più vivo realismo personaggi e
situazioni e, di conseguenza, opera non solo accanto, ma anche in opposizione al
latinismo e alle forme letterarie colte. Non a caso i latinismi più ingombranti del
Novellino si trovano nelle novelle encomiastiche, mentre i dialettismi napoletani si
fanno più espliciti nei dialoghi delle novelle comiche. Non va però dimenticato che il
municipalismo, anche in Masuccio come in tanti altri autori dell’epoca, sopravvive
ampiamente nel tessuto fonomorfologico della lingua adottata, spesso anche in virtù
della legittimazione del latino (iusticia, iudice, ioco, arbore che possono essere voci

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vernacole quanto latine) o della lingua letteraria arcaica (toa, soa). A Jacopo
Sannazaro e alla sua Arcadia tocca il primato di aver esteso la toscanizzazione a
generi poetici diversi dalla lirica amorosa e alla prosa. Il ventennale lavoro di
rielaborazione del Sannazzaro, infatti, a partire da singole egloghe scritte prima
dell’ideazione del romanzo (poco prima del 1483) e influenzate dalle bucoliche
toscane (ad esempio quelle dei senesi Jacopo Fiorino Boninsegni e Francesco
Arzocchi, o dei fiorentini Bernardino Pulci e Girolamo Benivieni), attraverso la
prima redazione dell’Arcadia (1484-86), fino alla seconda redazione consegnata alla
stampa summontina del 1504, costituisce un processo esemplare, che sintetizza il
movimento dell’intero quadro linguistico-letterario italiano nel passaggio dal
Quattrocento al Cinquecento: quel movimento di riduzione delle componenti
eccentriche, dei contrasti, del plurilinguismo e pluristilismo, e di generale
‘petrarchizzazione’ anche della poesia non lirica e della prosa, che avrà il suo
compimento nella teorizzazione bembiana e ha nel Sannazzaro appunto il suo
rappresentante massimo. Il toscano letterario, dunque, quale codice unitario e
privilegiato per la scrittura d’arte, è acquisto e conquista di Jacopo Sannazaro che,
prima della codificazione grammaticale e retorica bembiana, già nei Sonetti e
canzoni, ma soprattutto nell’Arcadia, testimonia il possesso di uno strumento
linguistico raffinato e regolato, frutto di uno strenuo esercizio stilistico teso al
monolinguismo, che evita sia certa esuberanza sperimentale, sia parallelamente fatti
di vistosa contaminazione con il latino e con il dialetto. Il percorso letterario di
Sannazaro, che chiude la sua esperienza di poeta volgare dopo la pubblicazione
dell’Arcadia per dedicarsi esclusivamente a scritti latini, è simmetricamente inverso
a quello del Boiardo che, dopo un arduo tirocinio poetico in latino, si volge con
assoluta fedeltà alla letteratura in volgare, nell’arco che conduce dagli Amorum libri
all’Orlando innamorato.

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7. IL CINQUECENTO

7.1. Il contesto storico


Si è visto precedentemente come un nuovo periodo politico per l’Italia fosse
iniziato con la calata in Italia di Carlo VIII. A Firenze tale evento fu la scusa per
deporre la signoria medicea, e restaurare la repubblica. Figura emergente della
nuova scena fiorentina fu il frate domenicano rigorista Gerolamo Savonarola, che,
per le sue spiccate idee di riforma in senso puritano della chiesa, fu dichiarato
eretico, scomunicato e condannato al rogo nel 1498. La morte del Savonarola
permise una ripresa della corrente più conservatrice, che dette alla repubblica
fiorentina un assetto nettamente oligarchico. All’inizio del secolo, Luigi XII,
successore di Carlo VIII, ritentò l’avventura francese in Italia, ma venne contrastata
dalla Spagna, che, in seguito all’armistizio di Lione del 1504, poté annettersi gran
parte del Meridione d’Italia, ad eccezione di alcuni porti della Puglia, passati a
Venezia. Da questo momento si può dire che inizino le guerre franco-spagnole in
Italia, che ebbero come protagonisti da una parte il re francese Francesco I e il suo
successore, Enrico II, dall’altra Carlo V d’Asburgo, il quale, per una serie di
combinazioni dinastiche, era divenuto contemporaneamente imperatore e re di
Spagna. Tali contese furono complicate dalla riforma protestante, che, iniziata nel
1517 da Martin Lutero in Germania, minacciava dall’interno la stabilità politica
dell’istituto imperiale. Infatti, nel 1552, Enrico II si alleò con i protestanti tedeschi,
per contrastare così l’impero di Carlo V, che aveva raggiunto ormai proporzioni
intercontinentali, includendo anche le colonie d’America. Carlo V abdicò nel 1556,
lasciando al figlio, Filippo II, la Spagna, completa dei Paesi Bassi, dei possedimenti
italiani e oltre Atlantico, mentre al fratello, Ferdinando I, andò la corona imperiale.
Le guerre franco-spagnole, che avevano coinvolto tutti gli stati italiani con
gravi danni e lutti – nel 1527, ad esempio, Roma era stata saccheggiata per tre giorni
dai lanzichenecchi imperiali –, si conclusero definitivamente con la battaglia di San
Quintino (le truppe imperiali erano comandate dal Duca di Savoia, Emanuele
Filiberto), e con la successiva pace di Cateau-Cambrésis (1559). La pace assegnò alla

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diretta sovranità spagnola una buona metà del territorio italiano, sancendone così il
predominio, diretto o indiretto, sulla penisola.
La Chiesa, intanto, cercava di reagire alla riforma protestante non solo con la
scomunica di Martin Lutero, ma anche con un generale processo di risistemazione
sia sul piano dottrinale che disciplinare della sua struttura, che prese il nome di
Controriforma. Tale nuova linea della Chiesa fu espressa dal Concilio di Trento,
apertosi nel 1545 e durato, malgrado le numerose interruzioni, sino al 1564. La
dominazione spagnola da una parte, e la controriforma, dall’altra, rappresentano gli
spartiacque che scandiscono il Cinquecento in due periodi, definendone in modo
netto la fisionomia politica, culturale e mentale.
Il pensiero politico ebbe in quest’epoca il suo maggiore rappresentante in
Nicolo Machiavelli, che nel suo principale scritto, Il Principe, presenta con obiettività
e realismo il prototipo di capo di stato che il suo tempo esigeva. Uomo pragmatico,
deciso a tutto, pur di mantenere salda l’istituzione di cui egli è al vertice, lontano da
eccessivi scrupoli – il suo pensiero, infatti, si può riassumere nella frase “il fine
giustifica i mezzi” –, il principe machiavelliano punta direttamente allo scopo da
raggiungere prima di interrogarsi sui mezzi per raggiungerlo.
Sul piano più strettamente artistico il pensiero umanistico diede vita, nel XVI secolo,
al Rinascimento, periodo che permise a pittori come Raffaello Sanzio e Piero della
Francesca, a scultori come Donatello e Michelangelo Buonarroti, nonché ad un
personaggio dalle molteplici espressioni artistico-intellettuali quale fu Leonardo da
Vinci, di creare grazie al loro genio, capolavori che impressero all’Italia aspetti
peculiari della sua identità di nazione.

7.2. Il dibattito sulla lingua


Il Cinquecento rappresenta il momento chiave nella storia della codificazione
della lingua italiana, il secolo in cui si decidono le sorti del modello tosco-fiorentino
come lingua da diffondere a livello letterario, con inevitabili conseguenze sulla
lingua comune dei secoli successivi. Gran parte degli autori cinquecenteschi
dedicherà una straordinaria quantità di energie e di passione intellettuale nel
dibattito linguistico: molti scrittori sono allo stesso tempo creatori e teorici della
lingua, o per lo meno si schierano da una parte o dall’altra della ‘mischia’. Nasce così
la questione della lingua (o meglio, si sviluppa, dato che la nascita ufficiale di tale

121
discussione risale al 1435), cioè il dibattito sul modello di lingua da seguire (tosco-
fiorentino letterario, lingua cortigiana, toscano o fiorentino contemporaneo), sul
tipo di lingua (scritta o parlata), e, successivamente, sui suoi modi trasmissione
(lettura dei classici, apprendimento dell’uso vivo, ecc.). Le novità linguistiche sono
avvertibili fin dai primi anni del secolo, e rivelano soprattutto un particolare
interesse nei confronti degli autori trecenteschi, legato ad alcune attività editoriali:
a) l’edizione a stampa, in versioni linguisticamente affidabili, delle opere più
importanti degli autori ‘canonici’ della tradizione letteraria italiana. Ci riferiamo alle
edizioni, di piccolo formato e in carattere corsivo in cui erano già apparsi un Virgilio
e un Orazio, del Canzoniere di Petrarca (luglio 1501) e della Commedia di Dante
(luglio 1502), curate da Pietro Bembo (le cosiddette aldine, dal nome dell’editore
Aldo Manuzio). Queste edizioni saranno importantissime non solo per la diffusione
della lingua letteraria e la semplificazione e fissazione della grafia italiana con una
notevole diminuzione dei nessi consonantici latineggianti, ma anche per la
stabilizzazione del sistema interpuntivo: si introducono il punto, la virgola e il punto
e virgola; dal greco si mutua l’apostrofo, per indicare l’elisione; l’accento grafico
grave, riservato inizialmente al verbo è per distinguerlo dall’e articolo determinativo
maschile plurale (per la congiunzione si usava invece et).
b) Fortuna editoriale di opere in cui è nettissima l’imitazione linguistica delle
Tre Corone (gli Asolani del Bembo e la seconda Arcadia del Sannazaro).
c) Apparizione delle prime grammatiche basate sull’imitazione dei classici
italiani.
Per reazione alla moda del fiorentinismo letterario si accenderà il dibattito
sulla lingua ideale della letteratura e degli usi formali, che si prolungherà nel tempo
fino all’Ottocento, quando s’imporrà a livello ufficiale la teoria manzoniana di
imitazione del fiorentino parlato colto.

7.3. Il fiorentinismo arcaizzante: Fortunio e Bembo


La moda del fiorentinismo letterario nasce soprattutto al nord d’Italia.
Teorici e grammatici prestigiosi del Cinquecento provengono normalmente dalle
aree periferiche, e non deve stupire tale origine. Il riferimento costante a modelli
scritti è normale per chi non può praticare una lingua spesso sconosciuta ed
estranea al proprio patrimonio culturale; più facile è invece la lettura dei testi,

122
l’estrapolazione di vocaboli e costrutti che passano poi alle composizioni. Come
sottolineó Carlo Dionisotti in un articolo del 1938 dedicato a Fortunio, dalle postile,
dalle note che si addensavano sui manoscritti o sulle stampe delle Tre Corone,
nasceranno poi le opere in cui si imitano i grandi trecentisti, o le grammatiche che
fornivano precetti chiari e di facile consultazione.
Le prime due opere di imitazione dei trecentisti sono la seconda Arcadia del
napoletano Jacopo Sannazaro e gli Asolani del veneziano Pietro Bembo: entrambe le
opere vengono sottoposte a un minuzioso processo di toscanizzazione, in cui
vengono progressivamente abbandonate le interferenze locali (abbiamo infatti due
edizioni del Sannazaro, quella del 1484 e la stampa summontina del 1504, e tre
edizioni del Bembo, del 1505, del 1530 e quella postuma del 1549).
Nel 1516, ad Ancona, appare la prima grammatica a stampa dell’italiano, le
Regole grammaticali della volgar lingua del friulano Giovan Francesco Fortunio
(nato a Pordenone, ma vissuto a Venezia). Si tratta di un libro di regole grammaticali
dichiaratamente fondate sull’uso di Dante e soprattutto di Petrarca e Boccaccio, che
riscosse un enorme successo: fu infatti ristampato a Milano nel 1517 e poi a Venezia
nel 1518. Dei cinque libri previsti da un ampio progetto editoriale, in cui rientravano
le pubblicazioni di quest’opera e di una nutrita serie di testi in volgare del Fortunio
e d’altri, furono realizzate solo il primo (sulla morfologia) e il secondo
(sull’ortografia). Come giustifica l’autore l’ammissibilità del volgare come lingua
letteraria? Segue un modello che potremmo definire deduttivo. Secondo l'autore,
infatti, dalla lettura dei classici emerge un’armonia, un’eleganza che presuppone
coerenza grammaticale: è impossibile che i tre massimi autori della letteratura
italiana abbiano scritto con tanta perfezione senza possedere le strutture
grammaticali del volgare. Il problema, dunque, è andarle a cercare nei loro scritti, di
estrarle indagandone attentamente le opere. La grammatica è dunque
indissolubilmente legata agli scritti dei classici volgari: l’opera del grammatico non
consiste che nell’ordinare, dare coesione e strutturare le note desunte dalle opere
lette. Con queste premesse la sua attenzione non poté che rivolgersi alla lingua
scritta. La struttura di questa grammatica è volutamente scarna: le parti del discorso
sono ridotte a quattro (nome, pronome, verbo avverbio); note sparse sull’aggettivo,
il participio, la coniugazione, la preposizione, l’interiezione. Lo spazio maggiore è
dedicato alle citazioni più o meno puntuali, soprattutto per giustificare non tanto le

123
regole, quanto l’accettabilità dei doppioni, garantita da una presenza negli scritti
degli auctores, presupposto teorico-tecnico d’una consuetudine (l’ammissibilità
dell’allotropia), che caratterizzerà l’intera tradizione grammaticale italiana. A
proposito delle citazioni, bisogna sottolineare che il Fortunio, a differenza di Bembo
che si dimostrerà piuttosto severo nei confronti della “elezione” lessicale di Dante,
non ha alcuna riserva nei confronti del linguaggio della Commedia. Grande spazio è
dedicato alla definizione della norma ortografica, un tema particolarmente sentito
all’epoca, in cui la grafia oscillava fra scrittura trecentesca (fonetica) e umanistica
latineggiante (etimologica). Il Fortunio sembra privilegiare quella di tipo fonetico:
come è stata rivendicata l’autonomia morfologica del volgare rispetto al latino, così
viene rifiutata la sua mortificazione in nome d’una grafia latineggiante. Alla grafia
che mantiene il nesso latino bt, ct, dt, pt si preferisce quella assimilata, in linea colle
notazioni polemiche del Proemio, in cui si era scagliato contro i sostenitori della
moda latineggiante.
Le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (Venezia 1470 - Roma 1547;
dotto nel latino e nel greco, segretario di papa Leone X nel 1513, nominato cardinale
da Paolo III, scrittore latino di grande prestigio, ciceroniano in prosa e virgiliano in
poesia), sono il libro-simbolo del classicismo cinquecentesco. Rappresentano la
sintesi delle esperienze del Bembo come curatore delle opere di Dante e Petrarca
(1501-02), come scrittore-imitatore dei classici volgari (i boccacciani Asolani,
pubblicati nel 1505, e le petrarchesche Rime del 1530, iniziate già nel 1512), come
teorizzatore della scelta di un modello unico (Cicerone in prosa, Virgilio nella
poesia) nell’epistola De Imitatione (1512-13). La teoria linguistica di Pietro Bembo,
letterato di grande prestigio, trova la sua collocazione all’interno di un’opera che,
almeno in parte, risponde ai requisiti di una grammatica: il terzo libro delle Prose,
infatti, è un vero e proprio trattato grammaticale, seppure reso ben poco schematico
dalla forma dialogica adottata dall’autore. La forma dialogica, perfettamente
adeguata alle prime due parti in cui si divide l’opera (quelle propriamente più
teoriche), rende meno “didattico” il terzo libro, grammaticale. Questa terza parte
avrebbe potuto avere il merito di essere la prima grammatica a stampa della lingua
italiana, ma, a causa del protrarsi della stesura dell’opera (la quale uscì solo nel
1525, ma sappiamo che i primi due libri erano già pronti fin dal 1512), finì per non
avere tale carattere di assoluta novità, perché fu preceduto, come abbiamo visto,

124
dalle Regole del Fortunio (al contrario del Fortunio che non ha alcuna riserva nei
confronti del linguaggio di Dante, Bembo si dimostra abbastanza severo nei
confronti della scelta lessicale operata dal poeta fiorentino): il Bembo sembra
comunque ignorare l’opera del predecessore, presentando le Prose come il libro che
colma un vuoto nella cultura volgare, perché, benché questa cultura esista da
trecento anni, “non si vede ancora chi delle leggi e regole dello scrivere abbia scritto
bastevolmente” (ma dice “bastevolmente” non “affatto”, quindi l’opera del Fortunio
non doveva essergli sconosciuta).
Il dialogo è ambientato a Venezia del dicembre 1502; vi prendono parte
quattro personaggi, Giuliano de’ Medici (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico, che
rappresenta la continuità con il pensiero dell’umanesimo volgare fiorito alla corte
medicea), Federico Fregoso (che espone molte tesi storiche sul volgare presenti
nelle Prose), Ercole Strozzi (umanista e poeta in latino, che qui espone le tesi degli
avversari del volgare) ed infine Carlo Bembo, fratello di Pietro, portavoce delle idee
dell’autore. Vi si propugna la tesi della supremazia del fiorentino letterario dei
sommi autori trecenteschi, in particolare del Petrarca e del Boccaccio; Dante,
l’autore dell’umanesimo volgare fiorentino quattrocentesco, è invece giudicato
limitativamente proprio per il suo pluristilismo linguistico di natura
prevalentemente fiorentina (ha infatti scritto a volte con voci “rozze disonorate” e
“senza piacevolezza”). In linea generale, ricorderemo che l’interesse maggiore del
Bembo è rivolto all’aspetto artistico delle scritture, la loro qualità letteraria, sola
capace di elevare un linguaggio a lingua; solo attraverso l’imitazione dei classici
volgari era possibile creare una lingua atemporale ed eterna, rifondando una
letteratura che era stata profondamente corrotta nel Quattrocento. Per questo
motivo Bembo non poteva accettare la lingua cortigiana (“quella lingua che in corte
di Roma è in usanza”), perché è instabile ed è usata principalmente per la
comunicazione orale, e chi la usa a livello scritto lo fa “senza legge... senza
avvertimento”, usa il suo criterio personale, la “folle e vana licenza, che essi da sé
s’hanno presa”. Anche il fiorentino quattrocentesco e del primo Cinquecento è
scartato, perché segue il “popolaresco uso”, “quelle voci e ... quelle maniere ... che
offendono e quasi macchiano le scritture”. Si legittima quindi la possibilità che anche
un non fiorentino di nascita possa scrivere in modo eccelso: “gli altri, che toscani
non sono, da’ buoni libri la lingua apprendendo, l’apprendono vaga e gentile”. Si

125
tratta quindi di un modello altamente letterario e libresco, quello offerto dal Bembo,
ma usufruibile anche da parte di chi non poteva vantare una nascita non toscana. Il
classicismo bembiano è, nel suo carattere fiorentinista e arcaizzante, fuori da ogni
concezione naturalistica del linguaggio, e stimola il paziente lavorio artistico e
retorico degli scrittori per ricreare la lingua antica in armonia con i tempi nuovi.
Nel I e II libro delle sue Prose Bembo riconosce che il volgare era nato dalla
corruzione del latino ad opera delle popolazioni germaniche, ma anche che nel
Trecento, grazie all’opera raffinatrice degli scrittori e sotto l’influenza della grande
tradizione letteraria trobadorica, provenzale (riscoperta e riproposta proprio nel
primo Cinquecento), era stata recuperata la sua regolarità grammaticale che si era
poi persa e offuscata nel secolo successivo. Traccia pertanto una storia della
letteratura italiana dalle origini, additando, come abbiamo visto, il fiorentino di
Petrarca e Boccaccio come la lingua più regolata e leggiadra. Come aveva già fatto il
Fortunio, che si limita però a un’esperienza privata di lettura, Bembo legittima il
volgare fondandosi sulle ragioni della storia letteraria. Dalla lettura di tutti questi
classici emerge un’armonia che presuppone coerenza grammaticale. Non è possibile
che questi autori abbiano scritto con tanta perfezione ed eleganza senza possedere
le strutture grammaticali del volgare. Bembo citerà altri autori come Giovanni
Villani, Guido Guinizzelli, Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, fra gli altri, non
limitandosi alle sole corone fiorentine. Aggiungeremo che, in alcuni casi, pochi per
la verità, Bembo accetta forme a lui contemporanee, come nel caso del congiuntivo
di stare e dare, per cui viene accettata l’alternanza fra forme tre-quattrocentesche
del tipo stiano/diano, e forme tipicamente due-trecentesche del tipo deano/steano
(si tratta comunque di un’alternanza presente nelle Tre Corone). Accetta anche la
forma moderna dieci (accettato però dal Petrarca) rispetto all’antico diece: si tratta
di scelte legittimate, forse, dal desiderio di non sbilanciarsi verso un passato
completamente sepolto, interessandosi anche di alcune forme più moderne. Manca
comunque una sistematicità grammaticale, che farà nascere negli anni successivi,
numerose grammatiche che cercano di sistematizzare il terzo libro delle Prose:
ricordiamo, ad esempio, la Grammatica volgare di Alberto Accarisio, pubblicata nel
1537; Le osservazioni della lingua volgare di Francesco Sansovino (Venezia, 1562); i
Fonti Toscani di Orazio Lombardelli (1586).

126
Sempre legati alla moda arcaizzante inaugurata dal Fortunio e dal Bembo,
ricordiamo i vocabolari ispirati alle Tre Corone: Le tre fontane di Niccolò Liburnio,
Venezia 1526; Vocabulario decameroniano di Lucilio Minerbi, Venezia 1535; Le
Osservationi sopra il Petrarca di Francesco Alunno, Venezia 1539; Le ricchezze della
lingua italiana sopra il Boccaccio, Venezia 1543.

7.4. La teoria cortigiana


Già nel primo decennio del ‘500 assistiamo alle prime polemiche contro la
moda fiorentineggiante, ad opera dei sostenitori della cosiddetta ‘lingua cortigiana’,
alla cui base c’è l’esperienza quattrocentesca maturata nelle corti signorili: una
lingua ricca di impasti linguistici, ricchissima di latinismi fonetici, lessicali e
sintattici, depurata dei tratti municipali più vistosi, pur con richiami costanti al
dialetto regionale, e con riferimenti continui al tosco-fiorentino (‘aureo’ della
tradizione letteraria, o ‘argenteo’ dell’uso contemporaneo). Eppure questa tesi ebbe
scarso successo di fronte alla proposta bembiana, ma di certo non per una supposta
debolezza del suo impianto teorico. Infatti, uno dei motivi più importanti, a cui è
stato attribuito per lungo tempo l’insuccesso della teoria cortigiana della lingua, è
stato la sua sostanziale inconsistenza, quasi si trattasse di un “fantasma letterario”.
I teorici cortigiani avrebbero, in sostanza, proposto una teoria scarsamente
concreta, che si riferiva, come abbiamo visto, a una realtà linguistica altamente
differenziata e difficilmente definibile12. Negli ultimi anni, invece, la nuova
prospettiva di analisi della diacronia italiana, basata non più sul toscanocentrismo
ma sul regionalismo, ha rivalutato l’efficacia delle proposte cortigiane, soprattutto
se vengono collegate alle lingue di koinè, letterarie e cancelleresche, delle corti. In
realtà il modello cortigiano esisteva, ed era offerto da una delle più potenti corti
dell’epoca, quella papale. In un lasso di tempo molto ridotto, grosso modo nel primo
decennio del Cinquecento, tre figure esemplari dell’intellettualità cortigiana, Mario
Equicola, il Calmeta e Angelo Colocci, individuano, sia pure con modalità e percorsi

12Già Bembo, nel dibattito sulla lingua cortigiana del Calmeta, capp. XIII-XIV, del I libro delle Prose,
aveva affermato che se la lingua cortigiana è come quella greca – che si fonda su 4 lingue –, essendo
basata sulle numerose presenti alla corte papale, che si avvicendano in continuazione, sarà instabile
e costretta a mutare con il ricambio della compagine di corte seguente a ogni elezione di un nuovo
papa. Bembo aggiunge inoltre “che di nessuno si sa che nella cortigiana lingua scritto abbia infino a
questo giorno”: la lingua cortigiana è dunque intrinsecamente instabile e non ha tradizioni di
scrittura alle spalle, è favella, cioè varietà parlata, ma non può essere lingua, cioè varietà scritta,
codificata, di livello letterario.
127
di ricerca diversi, la cosmopolita corte romana come punto di riferimento e
crogiuolo di una varietà linguistica in grado di fungere da base comune per gli
scambi comunicativi tra le varie genti d’Italia. E’ questo l’unico frangente
propositivo della teoria cortigiana in fatto di modelli alternativi al toscano, trascorso
il quale, si assisterà a un continuo ripiegamento difensivo di quanti (e fra questi
Castiglione e il Trissino) si limitano a rivendicare qualche macchia di colore nel
tessuto monocromo del toscano ormai, di fatto, accettato come lingua comune.
La prima definizione compiuta della lingua cortigiana romana si deve a Mario
Equicola (1470-1525), intellettuale di origine ciociara, vissuto soprattutto alla corte
di Ferrara e di Mantova, dove, dal 1508 al 1519 fu precettore di Isabella d’Este
Gonzaga. Alla nobildonna è indirizzata la lettera dedicatoria del suo capolavoro, il
Libro de natura de amore, nella redazione manoscritta in sei libri, approntata fra il
1506 e il 1509. L’autore sostiene una tesi fortemente antitoscana, proponendo una
varietà viva e concreta, quella della corte romana: “Similmente adiviene de la
materna lingua, havemo la cortesiana romana, la quale de tucti boni vocabuli de
Italia è piena per essere in quella corte de ciascheuna regione preclarissimi homini”:
i caratteri vincenti di tale lingua vanno visti nella sostanziosa componente latina, nel
lessico composito e selezionato, nell’artificiosità che la rende particolarmente adatta
come modello letterario. Diverso è l’atteggiamento dell’Equicola, quando nel 1525
pubblica a stampa l’opera. Cosciente del mutamento del clima culturale, fa
scomparire il riferimento alla lingua cortigiana romana, mentre viene dichiarato che
la lingua usata è “la commune italica lingua”, che esprime una posizione più sfumata,
e vicina all’italianità toscaneggiante del Trissino (un progetto di lingua basato
sull’individuazione come lingua nazionale della lingua di corte romana è ormai
fallito), anche se la lingua dell’Equicola è caratterizzata da latinismi e scelte
fonomorfologiche antitoscane o, comunque, antifiorentine (mancanza di anafonesi,
di dittongazione, desinenza -eno, mantenimento di e protonica, ecc).
Di Vincenzo Colli (1460-1508), detto il Calmeta, è andata perduta l’opera
maggiore, il trattato in nove libri Della volgar poesia, nel quale il letterato cortigiano
esponeva le proprie teorie linguistiche. Ha avuto l’ingrato destino di veder
raccontato il proprio pensiero linguistico dal Bembo e dal Castelvetro, non
favorevoli alla sua teoria (solo nel 1991 è stato ritrovato nella Biblioteca Municipale
di Reggio Emilia un compendio autografo del Castelvetro dell’opera del Calmeta).

128
Sappiamo pertanto che il Colli sosteneva l’idea della lingua cortigiana romana (Carlo
Bembo dice infatti “lingua cortigiana egli vuole che sia quella che s’usa in Roma, non
mica da’ romani uomini, ma da quelli che in Roma fanno dimora”). In una prima
giunta alle Prose del Bembo, pubblicata postuma nel 1572, il Castelvetro si propone
di restituire una corretta interpretazione del pensiero del Calmeta. Nega che il Colli
abbia voluto tratteggiare i lineamenti della lingua scritta in generale, cioè utilizzabile
in prosa e poesia, il suo interesse pare invece confinato alla lingua poetica. Il
programma linguistico del Colli sarebbe realizzabile in due tempi: l’aspirante poeta
deve prima formarsi sugli scrittori classici (Dante e Petrarca) e apprendere il
fiorentino contemporaneo; solo in seguito deve recarsi a Roma per “affinare la
lingua” temperandola all’uso di corte (si potrebbe dire “risciacquare in panni in
Tevere”, parafrasando Manzoni). Ne esce una teoria calmetiana molto più moderata,
perché, in sostanza, non crederebbe nell’esistenza di una lingua cortigiana romana
dotata di caratteri propri.
Anche Angelo Colocci (1474-1549) si esprime in alcuni suoi appunti a
proposito della lingua di Roma, in due citazioni in manoscritti autografi. Nella prima,
tratta dal ms. Vaticano Latino 4831, l’umanista marchigiano afferma che il
romanesco contemporaneo rappresenta la continuazione della lingua parlata a
Roma al tempo dei latini (è evidente il riecheggiamento della posizione espressa da
Leonardo Bruni nella nota disputa tra umanisti su quale lingua parlassero gli antichi
Romani, avvenuta nell’anticamera fiorentina di papa Eugenio IV nel 1435). Nella
seconda, contenuta nel ms. Vaticano Latino 4817, troviamo invece un’indicazione
esplicita della curia di Roma al tempo di papa Leone X come il luogo dove si parla la
lingua comune d’Italia, la quale è individuata da tre caratteri essenziali: l’origine
italica, l’appartenenza all’universo romanzo, la selezione dei vocaboli secondo l’uso
dei dotti.
Baldassarre Castiglione (1478-1550), nel Cortegiano, uscito nel 1528,
rivendicava il diritto ad una lingua non rigorosamente toscana, anch’essa
“commune”, basata sulla selezione lessicale operata dagli “homini che hanno
ingenio”, lontana da ogni affettazione arcaizzante, non disponibile a ridursi
all’imitazione di Petrarca e Boccaccio, anche se non ostile ad accogliere i toscanismi
già accettati dalla consuetudine (posti però accanto ai forestierismi francesi e
spagnoli).

129
Anche Giovan Giorgio Trissino, al quale è tradizionalmente attribuito l’avvio
del dibattito sulla questione linguistica con la pubblicazione nel 1524 dell’Epistola
de le lettere nuovamente aggiunte, si pone il problema di conferire una fisionomia
riconoscibile alla lingua comune italiana da opporre al modello tosco-fiorentino. La
scelta di Roma come sede per la pubblicazione degli scritti linguistici e letterari
nell’anno 1524 è indicativa del riconoscimento di una centralità almeno culturale
della capitale pontificia, senza dimenticare che ambienta proprio a Castel
Sant’Angelo il dialogo Il Castellano (1529). Nonostante l’insofferenza del letterato
vicentino per le forme più arcaiche di koinè cortigiana, la corte rappresenta
comunque un polo di elaborazione culturale e linguistica in grado di moderare le
spinte troppo marcate in senso fiorentino municipale. Bisogna inoltre ricordare che
proprio al Trissino dobbiamo la scoperta del De vulgari eloquentia dantesco,
presentato per la prima volta nel 1514 al gruppo degli intellettuali che si riuniva
negli Orti Oricellari (i giardini di palazzo Ruccellai, frequentati, fra gli altri, dal
Machiavelli). Nel 1529 il Trissino lo pubblica in un elegantissima stampa, presso
Ianiculo di Vicenza, ma non nella veste originale, bensì tradotto in italiano, sotto lo
pseudonimo di Giovanbattista Doria. Oscuro è il motivo che spinse il Trissino a non
figurare ufficialmente, ma è invece certo che l’opera dantesca fu fondamentale per
sostenere la sua tesi di una lingua non fiorentina, ma composita.
Anche altri letterati rivolgono parole favorevoli a tale teoria: ad esempio, nei
Ragionamenti del Firenzuola, composti fra il 1523-25, compare una gentildonna
romana, che vive a Firenze, lodata “per quella novità del parlar romano, che ella
mescolato col fiorentino usava con una naturale eleganzia e con una certa viva
prontezza”; Piero Valeriano, con il Dialogo della volgar lingua; Sperone Speroni, con
il Dialogo delle lingue, dove il Cortegiano loda due volte la lingua della corte romana,
afferma che “come son nato così voglio vivere romano, parlare romano e scrivere
romano”. Sta di fatto che i letterati che nei primi decenni del Cinquecento affrontano
la questione della lingua cortigiana, riconoscono alla corte romana uno status
speciale in fatto di elaborazione linguistica. Tutti sembrano concordare su alcuni
punti: a Roma esiste una varietà di lingua dotata di una fisionomia propria,
evidentemente non troppo marcata in direzione localistica, se può essere proposta
come modello alternativo al toscano; tale varietà investe tanto lo scritto quanto il
parlato delle persone colte, ovviamente nei registri più elevati; almeno nei primi

130
decenni del secolo si ritiene che la lingua romana possa essere usata senza
limitazione di contesti diafasici, mentre nella seconda parte del secolo lo spettro dei
possibili impieghi si riduce ad una circolazione limitata alla sola corte (è la versione
di Castelvetro). Perché, viene da chiederci, proprio Roma diviene il punto di
riferimento e di aggregazione di numerosi e valenti intellettuali provenienti da tutte
le parti d’Italia? I caratteri peculiari della capitale pontificia nel Rinascimento posso
essere così riassunti:
a) mancanza di una dinastia regnante e, quindi, di una politica culturale progettata
a lunga scadenza;
b) presenza di un ceto intellettuale per lo più immigrato, organico ai disegni politici
e ideologici dei papi (pensiamo, ad esempio, all’influsso degli intellettuali toscani
durante i papi medicei);
c) presenza di un tessuto culturale di stampo umanistico, attivo nella curia,
impegnato a conciliare i valori della tradizione greco-romana con quelli della
tradizione cristiana;
d) progressiva emarginazione della cultura cittadina estranea alla curia;
e) ecumenismo culturale per accreditare un’immagine di continuità e di
universalità della curia romana al di là delle differenti opinioni degli intellettuali
che vi operano.
Per di più, all’inizio del Cinquecento, Roma è ancora indenne dalla crisi
politica che, nel frattempo, ha colpito altri centri italiani, come Milano, Firenze e
Napoli. Le condizioni politiche favorevoli fanno sì che, al tempo dei pontificati di
Giulio II, Leone X (1513-1521) e Clemente VII (1523-1534), Roma eserciti un forte
potere di attrazione nei confronti degli intellettuali di altre città italiane, al punto
che tante presenze mettono per la prima volta in discussione l’impianto tradizionale,
rigidamente classicistico, della cultura umanistica romana. Un censimento eseguito
solo pochi mesi prima che le truppe di Carlo V mettessero a sacco la città, la nota
Descriptio Urbis della fine del 1526, fornisce molte preziose notizie sulla popolazione
romana: ci dice in primo luogo che gli abitanti erano circa 54.000, e in vari casi
aggiunge il nome dei capi-famiglia, il luogo d’origine e la professione esercitata. Ne
risulterebbe che gli abitanti originari di Roma e del Lazio rappresentavano il 16,4 %,
quelli originari del resto d’Italia il 63,6 %, mentre quelli originari di paesi stranieri
il 20 %. Stando a tale criterio, i romani veri e propri si ridurrebbero a circa un decimo

131
della popolazione complessiva, meno quindi sia dei lombardi sia dei toscani,
rispettivamente 15% e 13% delle provenienze dichiarate. Ugualmente composito
geograficamente è il nucleo degli oltre duecento intellettuali umanisti presenti a
Roma tra il 1513 e il: di questi l’85,5% non è di origine laziale, mentre i romani si
riducono al 10,8% dell’insieme. Vi è un’ampia rappresentanza di tutte le aree
geografiche italiane, a eccezione della parte nord-occidentale (scarsa è la
percentuale dei fiorentini, 3%, che sale però al 37% se si considerano i prelati
domestici impiegati alla corte di Leone X). In definitiva abbiamo una scarsa
partecipazione degli intellettuali cittadini, e una confluenza verso Roma di
consistenti correnti migratorie regionalmente diversificate. In un contesto così
variegato e differenziato linguisticamente e culturalmente si sviluppa la breve
stagione della teoria cortigiana, il cui baricentro è sicuramente attestato a Roma: la
lingua della curia romana si pone come il centro di raccordo tra i vari volgari delle
corti d’Italia. Eppure questo progetto linguistico-culturale fallì: perché? Le risposte
a questo interrogativo sono di vario genere: sono di carattere interno, di carattere
linguistico (instabilità, difficile definizione), ma anche esterne, di tipo socio-
culturale. Tra queste ultime, l’argomento più decisivo, è costituito dallo sfacelo
morale e materiale in cui cadde la città dopo il sacco del 1527 (numerosi furono gli
intellettuali che vi morirono o furono duramente colpiti: Andrea Fulvio, Fabio Calvo,
Paolo Giovio, Antonio Tebaldeo, Pietro Corsi; gli abitanti passano a 30.000). Il sacco
deteriora irrimediabilmente il tessuto sociale e culturale che i papi del primo
Cinquecento aveva laboriosamente costruito. Altro fattore negativo è la decadenza
della corte e il discredito della curia come sede ecumenica laica e religiosa. Ma, forse
la vera ragione del crollo della teoria cortigiana romana, è la debolezza teorica dei
suoi fautori che non seppero dare un esempio equivalente a quello del Bembo, che
invece fu in grado di offrire una storia della letteratura romanza e un trattato
grammaticale completo e normativo del volgare.

7.5. La teoria toscanista e fiorentinista


Alla cultura toscana, fiorentina in particolare, non piacque il De vulgari
eloquentia, messo in circolazione dal Trissino, anche se le risposte pubbliche
giunsero solo con lentezza, come se a Firenze si fosse in difficoltà a tenere il passo
con l’elaborazione teorica del resto d’Italia. Le proposte di Trissino suscitarono le

132
polemiche dei suoi contemporanei, soprattutto dei toscanisti, fra i quali ricorderemo
Claudio Tolomei (1492-1556), autore del Polito, edito sotto lo pseudonimo di
Adriano Franci nel 1535, e del Cesano della lingua toscana, pubblicato a Venezia nel
1555, senza l’autorizzazione dell’autore. Fautore del volgare toscano
contemporaneo, il senese fu una delle menti linguistiche più acute e penetranti di
tutto il Cinquecento, anticipatore di molti concetti che la linguistica scientifica
avrebbe poi confermato nell’Ottocento. Il Cesano è un dialogo che si immagina
avvenuto a Roma nel 1524 alla mensa del cardinale Ippolito de’ Medici, a cui
intervengono il Bembo, il Trissino, il Castiglione, il fiorentino Alessandro de’ Pazzi
(portavoce delle teorie strettamente fiorentine) e il pisano Gabriele Cesano, che
riporta le idee toscaniste dell’autore. Il Tolomei respinge le idee italianiste e
cortigiane, difendendo la tesi del fiorentino vivo e parlato, ma, nell’ultimo lungo
intervento del Cesano, è apertamente dichiarata la soluzione toscana del Tolomei,
sulla base dell’asserita minima distanza tra le varie parlate toscane. Supera così il
particolarismo fiorentino, a favore di una sostanziale e unitaria toscanità, motivata
dal riconoscimento di chiare coincidenze linguistiche fra i dialetti toscani e
dall’intuizione delle profonde ragioni storiche, prima fra tutte quella del sostrato
comune, che rendono strettamente affini tutti i vernacoli della Toscana (lingua
nuova, che proviene dal latino, che conserva tratti dell’antica lingua etrusca e si
arricchisce degli elementi delle lingue barbariche). Il Tolomei distingue inoltre
nettamente e con sicurezza la natura sociale e istituzionale della lingua dalla qualità
letteraria che essa acquista ad opera degli scrittori, cioè l’uso della lingua dalla sua
elaborazione letteraria che la eleva a strumento dell’espressione ornata ed elegante.
Per il Tolomei la lingua scritta costituisce solo l’aspetto e il momento stilistico e
letterario di un preciso momento; in questo senso l’uso moderno e parlato è vivo e
valido ed è alla base del suo uso letterario. Il volgare, pertanto, non ha ancora
raggiunto il suo culmine come sostenevano i bembisti, perché “non sono tutti i
vocaboli toscani in questi tre autori”. C’è alla base l’idea di una continua possibilità
di miglioramento della lingua, anche per la superiorità del toscano come lingua
letteraria, per doti naturali e pregi letterari, come aveva già ribadito ne Il Polito,
quando affermava che la lingua toscana era “la più bella, e più fiorita di tutte l’altre
lingue d’Italia, accresciuta già da molti anni sono da Dante, illustrata dal Petrarca,
dal Boccaccio nobilitata”.

133
Alle tesi toscaniste si avvicinano quelle dei ‘fiorentinisti’, cioè i sostenitori del
parlato vivo fiorentino. Fra i primi sostenitori di questa teoria troviamo Niccolò
Machiavelli (1469-1527), autore del Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua
(1515 o 1516, secondo altri studiosi, 1524), composto a seguito delle discussioni
degli Orti Oricellari durante le quali il Trissino aveva espresso, mostrando il
trattatello dantesco, le sue teorie. Si tratta di un’opera che l’autore non volle
divulgare, forse per evitare polemiche con il Trissino o piuttosto con i potenti
protettori fiorentini del Trissino come il cardinale Ridolfi (ebbe comunque una
limitata circolazione: la Risposta alla epistola del Trissino delle lettere nuovamente
aggionte alla lingua volgar fiorentina di Lodovico Martelli, infatti, riproduce e
sviluppa vari argomenti machiavelliani). Si tratta della prima risoluta e animata
affermazione dei pregi naturali del fiorentino contemporaneo rispetto a tutti gli altri
dialetti italiani, e dell’identità del fiorentino con il volgare della tradizione letteraria,
escludendo ogni possibile collegamento con la lingua comune e cortigiana. Il
Machiavelli vuole dimostrare l’infondatezza della tesi italianista della lingua, basata
sulla presenza di elementi lessicali non fiorentini nella lingua della tradizione.
L’autore, mediante un esame sintetico della lingua della Commedia, attraverso un
immaginario dialogo con Dante, asserisce l’identità della lingua degli scrittori con la
lingua naturale fiorentina, fino ad affermare l’eminenza del dialetto fiorentino per
naturali pregi linguistici e per intrinseche alte qualità espressive. Secondo
Machiavelli i caratteri distintivi di una lingua non sono dati dalla concordanza
lessicale, com’era sostenuto dal Trissino, ma dalle particolarità fonomorfologiche
(ad esempio usare io/tu invece di mi/ti; usare parole che finiscono per vocale e non
per consonante pane/pan) che distinguono nettamente l’uno dall’altro idioma, e in
quanto la comunione linguistica degli scrittori italiani si spiega soltanto
nell’assunzione da parte degli scrittori d’ogni parte d’Italia del fiorentino già usato
dagli scrittori. E se il fiorentino ha assimilato elementi e forme provenienti da altre
lingue, ha avuto il merito di adattarle e armonizzarle ai caratteri fonomorfologici del
proprio idioma, senza perdere la sua individua autonomia e fisionomia, cioè non
modificando la sua qualità originaria rimasta del tutto fiorentina: “... E così i vocaboli
forestieri si convertono in fiorentini, non i fiorentini in forestieri; né però diventa
altro la nostra lingua che fiorentina”. Machiavelli riconosce quindi la concordanza
fonomorfologica della lingua degli scrittori con il fiorentino, nonché

134
l’appropriazione da parte di non fiorentini della lingua fiorentina degli scrittori.
Inoltre per l’autore la bellezza e la grandezza della lingua degli scrittori non consiste
nel processo di elaborazione artistica tipico della letteratura, ma nella naturale
qualità del fiorentino: “perché non per commodità di sito, né per ingegno, né per
alcuna altra particulare occasione meritò Firenze esser la prima e procreare questi
scrittori, se non per la lingua commoda a prendere simile disciplina; il che non era
nell’altre città”. Tale tesi linguistica che indica nella lingua fiorentina viva un sistema
linguistico regolare e perfetto prima ancora di essere strumento dell’espressione
letteraria, ha origine nel quadro culturale del naturalismo rinascimentale, che trova
nel realismo ideologico, letterario e politico del Machiavelli la sua origine. Questa
proclamazione del primato della lingua fiorentina, capace di creare per sua natura
altissimi scrittori e di assorbire elementi di altre lingue, nasce nel Machiavelli quale
risultato della coscienza politica improntata al senso dello stato come patria,
secondo la tradizione dell’umanesimo civile. Ma essa muove anche da ragioni di
ideologia letteraria, quale frutto della concezione naturalistica dell’autore che, in
forza del principio che è “impossibile che l’arte possa più della natura” lo induceva
a risolvere il rapporto fra lingua parlata e lingua letteraria nella identificazione della
loro realtà comune viva e naturale, ossia muove dal riconoscimento che la
perfezione linguistica degli scrittori consegue alla loro adesione a un regolare
linguaggio “proprio e patrio”, naturalmente buono. E’ evidente l’inconciliabile
distanza che esiste tra la posizione machiavelliana e quella del Bembo, ispirata
invece alla necessità dell’elaborazione artistica e alla preminenza della lingua scritta
e letteraria (classicismo) e le posizioni tardo-umanistiche che vedevano nel volgare
una semplice corruzione dell’originario latino. Per Machiavelli dunque la puritas del
volgare non è legata necessariamente alla latinitas. Argomenti simili vengono
condivisi anche da Giovan Battista Gelli, nei suoi Capricci del bottaio, pubblicati nel
1548, ma apparsi incompleti e senza il suo consenso due anni prima, e nel dialogo
Ragionamento sopra le difficoltà del mettere in regole la nostra lingua, premessa alla
grammatica De la lingua che si parla et scrive a Firenze del Giambullari, pubblicata a
Firenze nel 1551. Per il Gelli, infatti, il fiorentino, proprio perché possiede
intrinseche doti di bellezza ed eleganza (lessicale e sintattica), è lingua viva e in
continuo accrescimento, la cui proprietà naturale e attuale non deve essere

135
compromessa dagli usi artificiosi del latino e dalle parole arcaizzanti: l’arte deve
seguire la natura, in definitiva, come aveva affermato Machiavelli.

7.6. L’Ercolano di Benedetto Varchi


La correzione, o meglio, revisione, del pensiero del Bembo passa prima di
tutto attraverso un importante trattato teorico, l’Ercolano, dialogo nel quale si
ragiona delle lingue e in particolare della fiorentina e della toscana (ultimato nel
1560-65, e pubblicato postumo nel 1570) del fiorentino Benedetto Varchi. Il Varchi
aveva maturato un’esperienza culturale al di là della sua città, essendo stato esule a
causa di trascorsi politici antimedicei13. A Padova aveva avuto modo di frequentare
l’Accademia degli Infiammati, dov’era viva la lezione del Bembo; aveva conosciuto
di persona Bembo stesso, per il quale mostrò sempre deferenza. Rientrato a Firenze
dopo il perdono accordatogli da Cosimo de’ Medici (1543), ebbe il merito
d’introdurre il bembismo nella città che gli era naturalmente avversa. Il Varchi,
infatti, nell’Ercolano cerca di conciliare le due tesi sul fiorentino vivo e su quello
arcaizzante: supera la teoria esposta nelle Prose, conciliandola con il fiorentinismo,
dando al fiorentino lo stesso ruolo e una dignità nuova, ricollegando i modelli classici
della lingua scritta (che Varchi riconosceva, come Bembo, nei grandi Trecentisti) con
quelli del parlato moderno di Firenze di livello colto. Egli distingue la lingua, come
dato naturale, vivo, parlato e quindi come elemento primario e preliminare
dell’esperienza linguistica (in questo senso il Varchi rivaluta la lingua parlata, che la
trattatistica del primo Rinascimento aveva in parte trascurato per badare
unicamente alla letteratura), e lo stile, come modo scritto e nobilitante, altrettanto
valido ma secondario, dell’impiego della lingua, cioè un momento successivo e
sublimante della natura parlata della lingua. La teorizzazione del Varchi è ben
sintetizzata in dieci nodi teorici di primaria importanza proposti dall’autore. Nel IV
quesito (“se siano gli scrittori a far le lingue, o le lingue a produrre gli scrittori”),

13 Era repubblicano e dopo il ritorno dei Medici lasciò Firenze. Viaggiò molto, fra Roma, Venezia,
Padova e Bologna; offrì suoi servigi alla famiglia Strozzi. Stabilitosi a Padova, frequentò i corsi di
filosofia allo Studio patavino e dal 1540 al 1541 partecipò alle attività dell'Accademia degli
Infiammati, tenendo lezioni su poeti volgari e sulla logica e sull'Etica di Aristotele. Fu richiamato da
Cosimo I per scrivere la Storia fiorentina, ritornò nel 1543 nella città natale e cominciò a tenere
lezioni su Dante all'Accademia Fiorentina.
136
l’autore vanta il ruolo e la funzione degli scrittori, ma questa celebrazione della
scrittura è inserita nella celebrazione del ‘parlato’. Questa impostazione è ripresa
nell’VII quesito (“se la lingua si debba imparare dagli scrittori o dal popolo”): qui
infatti si sostiene che la condizione dei fiorentini è vantaggiosa, anche se il parlar
popolare non garantisce di per sé il possesso completo della lingua (per il quale
occorre pur sempre la conoscenza degli scrittori), e anche se si ammette che vi è una
sostanziale differenza fra lingua parlata e la lingua scritta. Vi si afferma con
chiarezza che per imparare a parlare bene il soggiorno a Firenze è assolutamente
necessario (il Varchi distingue tra l’uso colto e medio del fiorentino, degno di essere
imitato, e l’uso del “popolazzo”, che non ha invece nessuna rilevanza). Nel X quesito
(“quale debe essere il nome della lingua volgare”), l’autore sostiene che il fiorentino
è superiore alle altre varietà del toscano, così come il toscano risulta essere la
migliore tra le parlate italiane; accetta la designazione di ‘volgare’, ma respinge
quella di ‘lingua cortigiana’ o ‘italiana’. In definitiva, la lingua parlata più importante
per pregi naturali è il fiorentino moderno, e quella più adatta alla scrittura è il
fiorentino degli autori trecenteschi: fiorentinità viva e letterarietà trecentesca
possono così essere conciliati.

7.7. Leonardo Salviati e il Vocabolario della Crusca


La cultura linguistica fiorentina del tardo Cinquecento e del Seicento sfruttò
la nuova impostazione teorica del Varchi, che rivalutava il concetto di ‘lingua
popolare’, offrendo quindi il pretesto per rivalorizzare anche quegli autori che per il
classicismo volgare erano stati irrilevanti o marginali. In questo nuovo ambito
culturale si inserisce la figura di Lionardo Salviati (1539-1589), autore Degli
avvertimenti della lingua sopra ‘l Decamerone (1584-86) – opera nata dopo un
intervento compiuto sul testo del Boccaccio, per renderlo ‘castigato’, per spurgarlo
dalle parti ritenute moralmente censurabili, edizione nota come la ‘rassettatura’ del
Decameron, opera commissionata dal granduca Francesco di Toscana per
compiacere a Sisto V –, e fondatore dell’Accademia della Crusca. Negli Avvertimenti
espone la sua nuova concezione sul Trecento: accanto ai tre grandi, trovano posto
scrittori minori e minimi, anche di livello popolare, spesso privi di intento d’arte, i
quali non avevano avuto altro merito se non quello di essere vissuti nel Trecento e
di essere fiorentini. Si tratta di un recupero della ‘popolarità’ antica reso possibile

137
grazie alla mediazione del Varchi, cui si affianca un rigido apprezzamento del
Trecento come mitica ‘età dell’oro’ della lingua, e una negativa considerazione sulla
‘decadenza’ attraversata dalla lingua fiorentina moderna rispetto all’antica. Tale
impostazione fu determinante affinché la filologia fiorentina riprendesse il
sopravvento in ambito linguistico-grammaticale. Questo risorgere della cultura
fiorentina fu sostenuto ufficialmente a partire dall’età di Cosimo I de’ Medici (1537-
1574), duca molto attento alla politica della lingua, che volle e finanziò l’Accademia
fiorentina. Nata con il nome di "Accademia degli Umidi" nel 1540, un anno dopo si
trasformò per volere del duca in "Accademia fiorentin"; nel 1550 fu affidato a una
commissione di cinque membri il compito pubblico di realizzare un’autorevole
grammatica della lingua fiorentina, progetto che non fu comunque portato a
termine, a causa del disaccordo di alcuni accademici, secondo cui, come il Gelli, il
fiorentino non aveva ancora raggiunto il suo massimo splendore. Si ricordi di nuovo
che l’iniziativa grammaticale dopo Bembo era ancora in mano agli autori e alle
tipografie settentrionali, con autori come Lodovico Dolce (Osservazioni nella volgar
lingua, 1550), Sansovino di Venezia (Osservationi della lingua volgare de diversi
uomini illustri, 1562), Girolamo Ruscelli (Commentarii della lingua italiana, 1581
(postumi)), tutti ispirati al Bembo. Nel 1582 viene fondata, come associazione
assolutamente privata, l’"Accademia della Crusca", in cui entrano alcuni membri
dell’Accademia fiorentina. Inizialmente gli accademici si dedicano a innocui
passatempi, a chiacchierate filologiche-grammaticali, componendo ‘cicalate’ (cioè
discorsi eleganti sopra temi bizzarri e futili) e orazioni scherzose, secondo il gusto
del tempo. Solo nel 1583, con l’ingresso di Lionardo Salviati, cominciano ad
affermarsi seri interessi filologici. In questi primi dieci anni di esistenza la Crusca si
fece conoscere più che altro per la polemica contro la Gerusalemme liberata di Tasso,
a sostegno del primato dell’Ariosto. Nel 1590 l’Accademia deliberò di rivedere e
correggere il testo della Commedia di Dante, collazionando diversi codici, messi a
confronto con la stampa aldina del 1502; nel 1595 uscì a Firenze la Divina Commedia
a cura della Crusca. Si rivaluta Dante, per la sua lingua schiettamente fiorentina. Nel
1591 si inizia a pensare alla lessicografia, si discute del modo di fare un vocabolario,
si dividono gli spogli da compiere, mettendo a punto una tecnica per procedere in
modo ordinato alla schedatura. I criteri adottati sono profondamente ispirati agli
Avvertimenti del Salviati: un’impostazione profondamente antibembiana, secondo

138
cui erano giudicati degni anche gli autori minori e minimi del Trecento, per meriti di
lingua, accanto ai ‘grandi’ della letteratura. Il ‘contenuto’ non interessava, solo i
meriti linguistici erano importanti. Il criterio seguito fu comunque quello di
scegliere quelle parole del fiorentino vivo documentate anche negli autori antichi,
per evidenziare la continuità tra lingua toscana contemporanea e quella antica
trecentesca. Per questo motivo si scelgono anche esempi di autori sconosciuti,
spesso tratti da manoscritti fiorentini inediti, in possesso degli accademici, che ne
avevano cavato parole altrove irreperibili. Tra gli autori moderni si cita Sannazzaro,
Chiabrera, Tolomei, Caro e addirittura Tasso, forse per l’atteggiamento meno rigido
di qualche accademico. La grafia usata è più innovativa, ed è coerente e omogenea,
con un modesto uso dell’h etimologica, molto simile a quella attuale. Nel 1591
Salviati era già morto; gli altri accademici, una cinquantina circa, erano per lo più dei
dilettanti, senza una precisa competenza lessicografica o linguistica (tra loro
troviamo dei pubblici funzionari, degli ecclesiastici, dei docenti di giurisprudenza o
di filosofia, dei medici e, infine, dei ‘letterati’ o ‘poeti’ come Michelangelo Buonarroti
il Giovane (pronipote del grande Michelangelo), allora alle prime armi. Nel 1595 lo
spoglio era già pressoché portato a termine. Sorse allora il problema del
finanziamento. La protezione di Piero de’ Medici si limitò, infatti, a un mero atto
formale. Gli accademici furono costretti ad autofinanziarsi, visto che non si trovò chi
si accollasse integralmente le spese. Prima di tutto ci si volle assicurare sui ‘privilegi’
di vendita nei vari stati, visto che la frammentazione politico-amministrativa
dell’Italia aumentava il pericolo di edizioni-pirata. Poi si cercò un tipografo
economico, che fu trovato a Venezia. Così nel 1612 usciva il Vocabolario della Crusca,
presso la tipografia di Giovanni Alberti. Sul frontespizio recava l’immagine del
frullone o buratto, lo strumento che si usava per separare la farina dalla Crusca (era
l’emblema dell’accademia), con sopra il moto “Il più bel fior ne coglie”, allusivo alla
selezione del lessico, per analogia alla selezione tra la farine (‘fiore’) e la crusca (lo
scarto). E’ il primo grande vocabolario europeo, imitato dal primo progetto del
Dictionnaire de l’Académie française redatto da Chapelain, e dalla Real Academia
Española.
La fortuna del Vocabolario è confermata dalle due edizioni che ebbe nel
Seicento, dopo la prima del 1612. La seconda edizione uscì nel 1623; fu analoga alla
prima, salvo per una piccola serie di aggiustamenti e per alcune giunte e correzioni.

139
La terza edizione, stampata a Firenze (e non più a Venezia, come le precedenti), nel
1691, si presenta invece vistosamente diversa fin dall’aspetto esterno: tre tomi
invece di uno (mantenendo il formato in folio), con un corrispondente aumento del
materiale, sia nella quantità dei lemmi, sia negli esempi e nella definizione delle voci.
La terza Crusca fece quindi un salto quantitativo notevole, consolidando il primato
dell’accademia di Firenze in campo lessicografico. Anche dal punto di vista
qualitativo i cambiamenti erano sensibili: i lavori per questa riedizione durarono
ben trent’anni, e alla fine risultarono decisivi i contributi di accademici quali Carlo
Dati, Alessandro Segni, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti e il giovane Anton Maria
Salvini. La statura culturale di alcuni di questi collaboratori aiuta a comprendere
l’evoluzione positiva di questa terza edizione rispetto alle due precedenti. Il binomio
Redi-Magalotti, costituito da due letterati-scienziati di primo piano, spiega la cura
con cui la nuova Crusca diede conto del linguaggio scientifico, includendo tra l’altro
Ga1ileo fra gli autori spogliati. Non c’è dubbio, insomma, che le forze intellettuali che
diedero vita alla IIIª edizione del Vocabolario erano più vivaci di quelle che pur
avevano saputo realizzarne la prima stampa.
Molte sono le novità della terza edizione rispetto alle precedenti. Per prima
cosa si fece ricorso con maggiore larghezza all’indicazione V.A. (= “Voce antica”) per
segnalare le voci introdotte nel vocabolario, non per proporle all’uso dei moderni,
ma a semplice scopo storico-documentario. Le voci marcate con “V.A.”, insomma,
non dovevano servire come modello, ma come strumento per facilitare la lettura
degli scrittori antichi. Si ricordi, comunque, che tale indicazione limitativa non
colpiva tutte le voci antiche, ma solo quelle che, a giudizio degli accademici, non
avevano più alcuna vitalità, tanto da sconsigliarne l’uso. Ciò non toglie che il
patrimonio della lingua antica raccolta vocabolario risultasse ancora aumentato, per
una serie nuova di spogli. Sul versante della ‘modernità’, venne dato uno spazio
maggiore che in passato a voci non documentate nell’epoca d’oro della lingua
italiana (il Trecento), ma che risultavano dall’uso di autori moderni (Buonarroti il
Giovane, Caro, Della Casa, Firenzuola, Guicciardini, Varchi ecc.), come avvertenza,
baldracca, barare, cannoniera, drammatico, efferato, esangue, neutralità, peculiare,
prefazione ecc. Ancor più decisiva, per mostrare la svolta moderatamente innovativa
del Vocabolario, è la serie di voci attestate da scrittori di scienza del Seicento. Tra
queste si possono citare come esempio microscopio (con attestazioni di Redi),

140
occhiale (nel senso di ‘cannocchiale’, con esempi di Galilei e Redi), parallelepipedo o
paralellepipedo (Magalotti), edizione (Redi), emorroide (Redi). Queste e altre voci
furono scelte sull’autorità di scrittori contemporanei, dando la preferenza ai toscani,
e in diversi casi agli stessi collaboratori dell’Accademia della Crusca. In effetti la
Crusca poteva approfittare della circostanza fortunata per la quale Galileo e
l’Accademia del Cimento univano il merito scientifico a una salda e innegabile
toscanità: l’inserimento di costoro nel Vocabolario aveva insomma il vantaggio di
mettere d’accordo il gusto per la lingua toscana e l’aggiornamento ‘moderno’. Gli
spogli dei vocabolaristi mostrano inoltre una notevole accondiscendenza per gli
scrittori toscani più legati al gusto locale e ribobolaio, come Michelangelo
Buonarroti il Giovane e Lorenzo Lippi. Tra gli “Autori moderni citati in difetto o in
confirmazion degli antichi” troviamo poi diverse presenze significative di non
toscani, sia appartenenti al passato che contemporanei: Iacopo Sannazaro (che
tuttavia era già stato citato, in qualche raro caso, dalla seconda Crusca), Baldassarre
Castiglione (che nel Cortegiano aveva espresso un ideale linguistico antifiorentino),
il poeta Gabriello Chiabrera (di nascita savonese), il romano Pietro Sforza
Pallavicino (autore di una famosa Storia del Concilio di Trento, scritta a nome della
Curia papa1e, in risposta a quella di Sarpi), il predicatore Paolo Sègneri. Quanto ad
a Caro, marchigiano fiorentinizzato, era già stato inserito negli spogli della seconda
Crusca, così come Giovan Battista Guarini, autore della favola pastorale Il pastor fido.
Tuttavia l’autore il cui inserimento nella terza Crusca risulta più significativo è
Torquato Tasso, il quale era entrato in polemica con l’accademia. Vistosa, nella
tavola delle assenze, l’esclusione del Marino: ma l’ambiente fiorentino era
saldamente attestato su posizioni ostili agli "eccessi" del Barocco (e il Marino,
inoltre, non aveva mai dato prova di ossequio verso l’Accademia).

141
8. IL SEICENTO

8.1. Contesto storico


Nel Seicento la carta politica dell’Italia rimane pressocché immutata, in
confronto con i lineamenti fissati dal trattato di Cateau-Cambresis, che aveva
assegnato alla diretta sovranità spagnola una buona metà del territorio italiano.
Sul piano amministrativo la corona di Spagna era rappresentata in Sardegna,
come pure in Sicilia e a Napoli, da un viceré, mentre a Milano l’incarico fu affidato a
un governatore. In Sardegna e nel sud della penisola il Viceré era affiancato da un
Parlamento, che in Sicilia esisteva sin dall’epoca normanna; a Milano il Governatore
era controbilanciato dal Senato, creato al tempo degli Sforza. A Madrid Filippo II creò
il Consiglio d’Italia, formato da ministri spagnoli, due napoletani, un membro
siciliano ed uno milanese. Ma tale organismo non fu capace di assolvere al proprio
compito e si limitò a comprimere fiscalmente i possedimenti spagnoli in Italia,
provocandovi un grave regresso economico, che sfociò, nel 1647, nella rivolta di
Palermo, capeggiata da Giuseppe Alessi, e in quella di Napoli, guidata dal
pescivendolo amalfitano Tommaso Aniello, noto come Masaniello.
Più o meno vincolati alla politica spagnola erano, in Italia, la Repubblica di
Genova, i cui banchieri erano i maggiori finanziatori nonché creditori della corona
madrilena; il granducato di Toscana, il ducato di Parma e Piacenza, sotto la casata
dei Farnese, quello di Modena e Reggio Emilia, governato dalla casa d’Este e quello
di Ferrara, ceduto in seguito dagli Estensi allo Stato Pontificio. Qualche
cambiamento si ha solo nell’Italia settentrionale, in seguito alle due guerre di
successione di Mantova e Monferrato, nelle quali si scontrarono soprattutto
interessi francesi e spagnoli. Nel 1618
scoppia la guerra dei Trent’anni, massima conseguenza del contrasto egemonico
franco-spagnolo. Le lotte tra i due contendenti toccano la penisola solo
episodicamente (lo stato che più ne risente è il Piemonte, spesso coinvolto nelle

142
guerre), ma le ripercussioni sono continue e fortissime: i territori soggetti alla
Spagna devono sempre fornire contingenti di uomini e di denaro; negli stati
indipendenti il dilemma se appoggiarsi all’una o all’altra potenza domina la politica
e la diplomazia.
La pace di Westfalia (1648), che segna la fine della guerra dei Trent’Anni,
sancì il nuovo ordine europeo: vennero riconosciute le tre confessioni religiose
dell’Europa occidentale (cattolica, luterana, calvinista); fu riconosciuta
l’indipendenza dei Paesi Bassi, venne confermata la sovranità francese sui tre
vescovati renani di Toul, Metz e Verdun, nonché su Pinerolo. La Spagna continuò a
combattere, ma fu costretta a firmare la pace dei Pirenei (1659), che segna la fine
della Spagna come grande potenza europea, a tutto vantaggio della Francia e, ben
presto, dell’Inghilterra.
Se ufficialmente la Santa Sede reagì alla riforma protestante in Germania con
la scomunica di Martin Lutero, di fatto il fenomeno protestante costituì il violento
scossone che costrinse gli uomini di Chiesa a meditare sulla necessità di una
revisione intima e profonda dei costumi, fortemente corrotti dalla progressiva
mondanizzazione dell’istituto ecclesiastico. Riemergeva il bisogno di ritornare alle
origini e di risistemare sia sul piano dottrinale che disciplinare la Chiesa cattolica.
Da un lato si trattò di Controriforma, cioè di una reazione alla riforma protestante:
venne creato il tribunale dell’Inquisizione per combattere le eresie e fu istituito
l’Indice dei libri proibiti, perché contrari alla morale. Dall’altro lato si parlò di riforma
cattolica, ossia di autocritica della Chiesa, volta a ricondurre quest’ultima agli antichi
principi. Nacquero nuovi ordini religiosi, quali i Gesuiti, ad opera di Ignazio da
Loyola, i quali operarono in particolare nel campo dell’istruzione e furono, assieme
ai Francescani, tra i maggiori propagatori del cristianesimo nelle colonie centro- e
sud-americane. Tale nuova linea della Chiesa romana fu espressa nel Concilio di
Trento, apertosi nel 1545 e durato, malgrado le numerose interruzioni, sino al 1564.
Durante il suo svolgimento emersero le voci di cardinali come il Contarini ed il
Sadoleto, eredi della filosofia umanista e della sua applicazione al cristianesimo, i
quali auspicarono una riconciliazione con i protestanti tedeschi, resa impossibile
dall’eccessiva intransigenza di alcuni papi del tempo. All’insegna di questi
avvenimenti si operò anche una radicale restaurazione politica nello Stato
Pontificio, il quale ingrandì il proprio territorio assorbendo i ducati di Ferrara, di

143
Urbino e il piccolo ducato di Castro e Ronciglione, a nord di Roma. Nel 1582 venne
introdotto da Papa Gregorio XIII il nuovo calendario, detto appunto gregoriano, che
sostituì quello giuliano, così chiamato perché istituito da Giulio Cesare. Sul versante
dell’ordine pubblico Papa Sisto V condusse un’energica lotta contro i briganti che
compivano frequenti scorrerie nella campagna romana e domò anche con le maniere
forti le numerose ribellioni dei nobili locali. Lo stesso papa iniziò una vasta opera di
ristrutturazione edilizia della città di Roma, mediante la costruzione di numerosi
edifici, creando una serie di quartieri nota come Roma Sistina, tutt’ora centro
nevralgico della capitale. Paolo V fece completare la facciata della basilica di San
Pietro, mentre Urbano VIII contribuì notevolmente alla crescita artistico-
architettonica di Roma mediante il proprio appoggio ad artisti quali Lorenzo
Bernini, autore del colonnato attorno a Piazza San Pietro, ed il Borromini.
Venezia è soprattutto impegnata nelle guerre del Levante: perde Candia, ma
conquista il Peloponneso. La sua resistenza all’espansione turca verso Occidente
non è meno importante delle lotte che si sostengono allo stesso scopo sul continente
(la vittoria della lega cristiana contro le forze navali turche a Lepanto, nel 1571; il
vano assedio dei Turchi di Vienna nel 1683; la liberazione di Buda, nel 1686).
Si è già detto precedentemente che termini storico-culturali più ragionevoli
che anni secolari possono essere additati per delimitare il secondo Cinquecento e il
Seicento: da una parte la pace di Cateau Cambresis o la chiusura del Concilio di
Trento, dall’altro la fine del potere spagnolo in Italia con la guerra di Successione
Spagnola (1700) e la data della fondazione dell’Arcadia (1690).

8.2. La poetica del barocco e il rinnovamento della lingua letteraria

Per definire la poesia barocca ci serviremo delle eloquenti parole di uno dei suoi
più importanti rappresentanti, Giovanbattista Marino: “È del poeta il fin la
meraviglia. / Parlo de l’eccellente e non del goffo / chi non sa far stupir / vada alla
striglia” (Murtoleide, Fischiata XXXIII, 9-11). E la meraviglia si raggiunge in poesia
grazie all’accumulo delle metafore e alla ricerca dei rapporti di somiglianza o di
antitesi che rendono gli oggetti allusivi e vicendevolmente trasformabili (alcuni
studiosi hanno collegato tale processo alle nuove scoperte scientifiche e al nuovo
senso della continua metamorfosi che ne nasce: l’universo si allarga, non è più
statico, ma mutevole, e la “meraviglia” riflette l’effettivo stupore dinnanzi
144
all’improvviso dilatarsi dell’universo). Si guarda comunemente al Cannocchiale
aristotelico del torinese Emanuele Tesauro (prima edizione nel 1654; edizione
definitiva nel 1670) come al trattato più significativo della poetica barocca italiana.
Non a caso vi troviamo proprio l’elogio della metafora, definita come “il più
ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole, il più
facondo e fecondo parto dell’umano intelletto”. Alla metafora infatti il Tesauro
riconosce lo statuto privilegiato di essere in qualche modo figura principale e
generatrice: “madre delle poesie, de’ simboli e delle imprese”, “feconda genitrice
d’innumerabili argutezze”. Tralasciando le riflessioni di tipo strettamente letterario
che vi sono contenute, ricorderemo che le pagine del Tesauro toccano direttamente
problemi di natura linguistica. Vi è prima di tutto una polemica contro il dogmatismo
grammaticale e contro l’autorità pedantesca34. Essa si traduce in una concezione
della lingua intesa come qualcosa di libero, destinato a mutare nel corso del tempo.
Le parole nascono, crescono e muoiono, “per il commerzio de’ forestieri, per
l’idiotismo de’ plebei, per la licenza de’ Poeti, per la sazietà degli orecchi, et per
l’oblio delle menti”. Dalla convinzione che la lingua è un sistema mutevole e aperto,
nasce l’avversità sostanziale per le formulazioni normative vincolanti, come quelle
della Crusca. In particolare Tesauro teorizza la legittimità della violazione della
norma da parte dello scrittore, perché “non pecca contro l’Arte chi pecca
voluntariamente contro l’Arte”, cioè la violazione deve essere cosciente, e la norma
deve essere ben conosciuta. Esiste pertanto la cacofonia (cioè il cattivo suono, un
difetto di forma) e la cacozelia (cioè il difetto di coloro che sbagliano perché sono
troppo ossequiosi verso le norme artistiche convenzionali). Si condannano il
conformismo e la banalità, perché allo scrittore va riconosciuto il diritto di inventare
e usare liberamente la lingua. Questa nuova poetica basata sull’originalità si realizza
in due campi fondamentali: il lessico e l’uso della metafora portato alle sue estreme
conseguenze. Per Tesauro, infatti, al poeta deve essere concesso il diritto di
inventare e usare liberamente i neologismi, le parole straniere definite “barbarismi”

34Il nome “pedante” nel Quattrocento era sinonimo di pedagogo, ma nel Cinquecento, in autori come
Aretino o Caro, assume il significato di “chi cura eccessivamente il rispetto delle regole e della
precisione formale”, “chi nello scrivere imita servilmente i classici”, attraverso il personaggio del
pedante, messo in scena in varie commedie dell’epoca. Il nome “pedante” nel Quattrocento era
sinonimo di pedagogo, ma nel Cinquecento, in autori come Aretino o Caro, assume il significato di
“chi cura eccessivamente il rispetto delle regole e della precisione formale”, “chi nello scrivere imita
servilmente i classici”, attraverso il personaggio del pedante, messo in scena in varie commedie
dell’epoca.
145
dai puristi, che, se utilizzate con abilità, diventano “eleganze”, e anzi le parole
straniere, proprio perché estranee all’italiano, hanno un effetto migliore di quello
che si riscontra nell’idioma in cui provengono, perché diventano “pellegrine”. Il
Tesauro è contrario agli arcaismi lessicali, celebrati invece dalla precedente
tradizione poetica, che definisce come una “pestilenza, l’affettation di alcuni strani
spiriti, i quali scrivendo lettere, o predicando in Lombardia, e potendo valersi di
vocaboli buoni, ed usitati dagli scrittori italiani, e da tutti ben intesi, vanno frugando
nella Crusca vocaboli astrusi, e disusati dagli stessi toscani, overo usati da loro, e
loro propri, ma non altrove intesi, infilzandoli come gioie nelle lettere, o ne’ discorsi,
per parer più eleganti, toscaneggiando tra’ lombardi” (brano tratto da Dell’arte delle
lettere missive, un trattatello di stile epistolare). La modernità è uno dei fattori più
importanti nella definizione della lingua poetica: la lingua contemporanea è
sicuramente migliore di quella antica. Non solo, vanno evitati anche i toscanismi
moderni, se non possono essere intesi dagli altri italiani. Il poeta Ludovico Leporeo
stigmatizzerà il dogmatismo cruscante in un divertente sonetto, intitolato Parole
nuove (tratto da Leporeambi fantastici):

Vo a caccia, e in traccia di parole e parole


dal rio, dal cupo oblio, le purgo, e inciscole,
poi con ingegni, degni, conferiscole,
che a vederle, son perle, e non baltrescole.
Da ferrugine, e ruggine, rinfrescole;
e della muffa e ruffa antica spriscole;
poi con indici, ai Sindaci, asteriscole,
e senza stento, a mille, a cento accrescole.
Dalla Muraglia, d’anticaglia sboscole,
minime, semiminime e minuscole,
e sappi il mondo, attondo, che io conoscole.
Ciarlino pure, le Censure Cruscole,
che a genti, intelligenti e a torme toscole
le vo’ mettere, a lettere minuscole.

Altro elemento fondamentale nella descrizione della nuova poetica è la


metafora, di cui il Tesauro tratta ampliamente. Aristotele, nella Retorica aveva
accennato alla metafora come a uno strumento di effettiva conoscenza della realtà,
in quanto essa sarebbe capace di cogliere l’analogia esistente tra cose di per sé
differenti. Sulla base di questo punto il Cannocchiale, come gran parte della
trattatistica barocca, considera la metafora come il fulcro dell’attività poetica: siamo
di fronte al “concettismo”, secondo cui il maggior pregio della poesia risiede nella
146
novità e raffinatezza dei “concetti”. “Concetto” nel Seicento sarà sinonimo di vivezza,
acutezza, argutezza, e consiste in una combinazione di immagini dissimili, un
avvicinare cose tra loro assi lontane, ma tra le quali l’intelletto sottile e raffinato del
poeta scopre inedite e stupefacenti somiglianze e analogie (la luna chiamata “frittata
del cielo”), oppure il “concetto” prende forma nel restituire a una metafora magari
ovvia e abusata il suo significato letterale, lavorandovi poi sopra, in modo da
suscitare nel lettore la meraviglia dell’inaspettato (i capelli biondi d’una donna, ad
esempio, sono il mare d’oro; ma un mare vero, in cui ci sono bianche barche, i pettini,
onde in tempesta, in cui naufragherà il poeta). La poesia è frutto di un “ingegno”
distinto dalla semplice capacità razionale dell’uomo; l’ingegno è facoltà creativa,
completamente distinto dalla razionalità, e in questo senso è simile alla follia (anche
i matti, osserva Tesauro, sono eccezionali fabbricatori di metafore e simboli, così
come i poeti: anche i matti sono, dunque, “di bellissimo ingegno”). La teoria della
metafora è portata alle estreme conseguenze, a cui non arrivano però tutti i teorici
del Barocco, poiché alcuni si mantengono su posizioni più moderate.
Lessico e metafora naturalmente non sono realtà separate nella poesia barocca,
ma convivono nel verso per destare la meraviglia del lettore, con accostamenti
inusitati e stravaganti.
Prima di tutto bisognerà sottolineare che nei canzonieri barocchi s’impone la
distinzione (già abbozzata dal Tasso nel riordinamento delle Rime) tra lirica sacra,
d’amore ed encomiastica. Uno delle novità più importanti è l’allargamento del
catalogo degli oggetti poetici rispetto alla tradizione (mentre gli schemi metrici e le
cadenze ritmiche sono ancora quelli petrarcheschi). Il desiderio di creare metafore
inusitate fa estendere il repertorio dei temi e delle situazioni che possono essere
assunte come oggetto di poesie: così a un rinnovamento tematico corrisponde un
rinnovamento lessicale, presente comunque anche là dove il contenuto resta
maggiormente legato alla tradizione. Gran parte di questo ampliamento del lessico
poetico tradizionale si deve alle scoperte scientifiche in atto nel Seicento. Un
consistente filone della poesia barocca che fa capo a Giovanbattista Marino (il
massimo esponente di tale movimento, tanto che si parla di Marino e “marinisti”),
mutua gran parte del suo lessico dal mondo della scienza e dei suoi oggetti
emblematici, che così riceve una sorta di riconoscimento o canonizzazione da parte
della letteratura. Si registra dunque l’ingresso nella lingua poetica di atomo, cifra,

147
embrione, fosforo, ottica, chimico, labirinto (dell’orecchio), ventricolo, sferico,
diametro, ecc. In molti casi tale rinnovamento lessicale viene applicato a contenuti
legati alla tradizione. Nel canto VI dell’Adone di Marino (il più famoso poema del
Seicento, pubblicato nel 1623 a Parigi, che non ha una trama unitaria, ma si presenta
piuttosto come una serie di divagazioni e quadri) si parla dell’occhio umano, che
viene descritto usando parole tratte dalla terminologia dei trattati di ottica e di
anatomia, come nervi, orbicolare, pupilla, circolo visivo, cristallo (= cristallino),
albume, anche se viene poi utilizzato nel contesto del tradizionale linguaggio poetico
consueto, sperimentato da secoli. Sempre nell’ambito dell’arricchimento lessicale, si
pensi ai riferimenti botanici. Proprio Marino, accanto alla rosa, fiore prediletto del
barocco, introduce una serie di piante diverse, corredate con il loro epiteto:
l’immortale amaranto, il pieghevole acanto, la gentil mammoletta, la clizia,
l’innamorato giglio, il lieto fiordaliso, il leggiadro narciso, il biondo croco, il canuto
ligustro, il giacinto vezzoso, il papavero molle; tra i marinisti troviamo la granadiglia,
i fiorfiorelli, il garofalo, la calta, il tulipo, l’iri, e anche varietà meno nobili, come il
muschio, le fraghe, le mele, i cedri, l’alga immonda.
Tra gli animali, la poesia barocca utilizza il pavone, il pettorosso, il lucherino
(=tipo di passerotto), il baco da seta, la lucciola, il grillo, la formica, la remora, la
torpedine, la tarma, la tignola, con una particolare predilezione per il mondo degli
insetti, tanto più significativa, se si pensa che proprio nel Seicento la prosa scientifica
si dedicava alla descrizione del regno animale, nelle sue forme più minute, con
l’aiuto dell’”occhialino” o “microscopio”, volgendo l’attenzione proprio verso alcune
delle forme più repellenti, come i vermi, bachi, le crisalidi, le vipere.
Così troviamo il lessico legato all’anatomia del corpo umano, ricavato dai trattati
anatomici dell’epoca, come nell’Adone. Qui sono numerosi i “barbarismi”, come i
francesismi (visaggio ‘viso’, fumea ‘fumata’, aleanza ‘parentela’, ombraggio ‘ombra
prodotta da una folta vegetazione’, gabinetto ‘mobile a cassetti’, o alcune nuove
danze, come le nizzarde e le gagliarde), o gli ispanismi (granadiglia, mantiglia,
amariglia, perrico). Qui ritroviamo i termini popolareschi o colloquiali come
traveggole, o le antiche voci toscane pecchia e parpaglione, bigoncia, timpano (fondo
di botte). Non sono assenti le invenzioni lessicali, che esprimono il gusto per la
fisicità dei suoni: porporeggiare, sfrascolare, colombeggiare. Vengono inoltre usati
cultismi, grecismi, latinismi (come ostro, preferito a porpora; etiopo, preferito a

148
negro e nero). Fra i dialettismi si ricordino alcune forme del napoletano usate da
Marino: brogna ‘conchiglia’, fescina ‘cesta’, letturino ‘leggio’, alare ‘soffiare’, ecc.
In campo lessicale molto usate, accanto alla metafora, le figure retoriche
come il bisticcio, o i giochi anagrammatici, che danno spesso vita a parole finte, per
usare la definizione del Tesauro, come capogirli per ‘capogiri’, forfici ‘forbici’,
escaparatti ‘scarabattola’, parastico ‘staordinario’, “ti sprucchi, collepoli e rincricchi”
impreca il Marino contro il Murtola.
L’innovazione delle immagini della poesia barocca, nella sua capacità di
toccare elementi e oggetti insoliti, od oggetti soliti in modo insolito, può essere ben
esemplificata dal catalogo di situazioni nuove, nelle quali ha modo di trovare
collocazione il nuovo lessico. Naturalmente uno dei campi più frequentati e rivisitati
è la descrizione della donna. Così, ad esempio, il seno femminile. Nella tradizione
poetica “sen” era analogo a “petto” o “cuore”, mentre per i poeti barocchi diviene la
celebrazione anatomica della mammella: per Marino è il “dolce sentire tra mamma
e mamma” (La Lira), o i “vivi scogli delle due mammelle” (Achillini - Donna
scapigliata e bionda). C’è chi mette sul seno della donna una pulce (Paolo Zazzaroni
- Pulce sulle poppe di una bella donna). L’immagine della donna è comunque
riproposta in vesti sconosciute alla tradizione poetica petrarchesca: la figura della
donna ideale celebrata dai poeti precedenti lascia il posto a fantasie erotico-sadiche
(la bella frustata - Marcello Giovannetti e Anton Giulio Brignole Sale, o la donna che
assiste ad una esecuzione capitale - Marcello Giovannetti); oppure l’immagine stessa
si deforma o si caratterizza attraverso le imperfezioni (la donna brutta carica di
gioielli in Ludovico Tingoli; la bella nana o la bella con i capelli rossi in Giovan Leone
Sempronio; la bella balbuziente in Scipione Errico; la bella con gli occhiali in
Giuseppe Artale); oppure la donna acquista i caratteri di una lavoratrice, spesso
umile (la bella lavandaia in Paolo Zazzaroni; la bella filatrice di seta in Bernardo
Morando; la bella ricamatrice in Girolamo Fontanella; ecc.).

8.3. Il linguaggio della scienza

Se il volgare prevaleva nel settore della scienza applicata o diretta a fini


pratici, non si può dire altrettanto nella ricerca di tipo accademico, non certo fra gli
scienziati di alto livello, salvo poche eccezioni. Fra queste eccezioni si può ricordare

149
Pierandrea Mattioli, medico alla corte di re Ferdinando e dell’imperatore
Massimiliano II, autore di una traduzione e commento dell’opera medica del greco
Dioscoride, stampata nel 1544, che ebbe diverse riedizioni, seppure sia doveroso
sottolineare che si trattava più che altro di un erbario per classificare e riconoscere
le piante medicinali. Galileo Galilei è invece uno fra i primi ad applicare il volgare in
ambito scientifico-universitario, il che rende particolarmente significativa la sua
scelta linguistica. Galileo aveva scritto in italiano fin da quando aveva ventidue anni,
allorché aveva composto il breve saggio La bilancetta, il che denota una precoce
preferenza per la lingua moderna, ma il suo insegnamento universitario a Padova fu
in latino, anche se sappiamo che a volte teneva lezioni in italiano. La scelta fra le due
lingue non era né facile né scontata, ed era un problema che riguardava anche
scienziati di altre nazioni: Cheplero usò il volgare tedesco (anche se con più cautela
solo quando predominava l’intenzione pratica), Bacone si servì, anche se non in
modo univoco dell’inglese, e Cartesio, che pure nel Discorso sul metodo levò un
appello a favore del francese, pubblicò successivamente libri in lingua latina.
All’inizio Galileo usò il latino nel Sidereus nuncius, trattato astronomico che risale al
periodo padovano (1610), ma successivamente scelse coscientemente il toscano,
fiero della propria lingua materna. Il latino assume la funzione di confronto
negativo, come appare nel Saggiatore (1623), dove sono riportate le tesi
dell’avversario scritte in latino e confutate in italiano, così da dar vita ad un continuo
dialogo tra le due lingue, corrispettivo di due diverse visioni della scienza,
direttamente messe a confronto. Va comunque notato che, rinunciando al latino,
Galileo finiva per pagare un prezzo: il volgare, infatti, aveva lo svantaggio di limitare
la circolazione internazionale: si ricordi, ad esempio, che nel 1613 un amico, il
pittore Lodovico Cardi detto il Cigoli, gli scrisse che sarebbe stato meglio per lui
scrivere anche in latino e non solo in lingua italiana, “perché la latina è comune a
tutte le nazioni”.
Una volta compiuta la scelta del volgare, Galileo dovette far sì che la lingua
italiana si adattasse perfettamente ai compiti nuovi che le venivano assegnati. Egli,
pur scegliendo il volgare, non si collocò mai al livello ‘basso-popolare’, ma, favorito
dalla sua origine toscana e spinto da scrupoli di chiarezza, seppe raggiungere un
tono elegante e ‘medio’, perfettamente accoppiato alla chiarezza terminologica e
sintattica. Il ricorso al registro colloquiale non è frequente, ma non rinunciò a

150
mostrare in alcuni suoi scritti alcune ‘macchie’ di lingua toscana viva e parlata, così
come non rinunciò al sarcasmo, alla battuta, al riso caricaturale, e anche alle frasi
idiomatiche e al paradosso. Questo ‘parlato’ vivace e brioso, ottenuto mediante l’uso
di elementi colloquiali, va in parte ascritto alla patria toscana e al gusto
rinascimentale, ma è anche la risposta polemica al gergo elitario e scolastico, la
contrapposizione anche stilistica di un metodo ‘moderno’ che nulla ha da spartire
con il vecchio paradigma aristotelico-tolemaico. Ne fanno parte il “dico” che
riprende il filo di un discorso interrotto e riannoda due componenti della frase, i
vocativi che danno vivacità al dialogo, le interrogative che inchiodano l’avversario
alle sue contraddizioni, il lessico espressivo-quotidiano. Galileo fece un grande
sforzo per raggiungere il rigore logico e dimostrativo e la chiarezza linguistico-
terminologico, senza i quali non ci può essere un discorso scientifico, prendendo
però le mosse dalla cognizione comune, dalla terminologia toscana più diffusa.
Quando nomina e definisce un concetto o una cosa nuova, infatti, preferisce attenersi
ai precedenti comuni, ed evita di introdurre una terminologia inusitata o troppo
colta. Preferì dunque parole semplici e italiane, pur senza respingere gli eventuali
tecnicismi greci e latini già esistenti e affermati, come sesquilatero, transonoro,
apogeo, parallasse, linee stereometriche, linee tetragoniche. Quando però toccò a lui
la responsabilità di scegliere, preferì nomi coniati da altri, come nel caso di cannone
e occhiale (entrambe già esistenti nel comune uso tecnico), che poi prese il nome di
cannocchiale, e infine assunse la denominazione di telescopio (che poi mantenne per
la specializzazione astronomica): Galileo finì per usare prevalentemente il termine
greco. Le denominazioni dotte, ebbero successivamente una grande fortuna: tra i
grecismi affermatisi a partire dall’inizio del Seicento, con circolazione
internazionale, si può citare microscopio (1624 - Giovanni Faber), thermoscopium
(1620 - Biancani), poi thermometrum (1624 - H. van Etten), italianizzato poi in
termometro (Redi), o il barometro (1665 Robert Boyle). Comunque Galileo fu
sempre orientato verso scelte di assoluta semplicità, come nel caso di macchie solari,
per indicare quelle chiazze che il cannocchiale gli aveva permesso di individuare sul
sole. Nel lessico di Galileo ritornano con frequenza alcune parole-chiave che
rispecchiano concetti fondamentali del suo pensiero e del suo metodo, come
esperienze chiare, gli esempi sensati e certi, l’osservazione che deve essere esquisita,
puntuale, le dimostrazioni necessarie, le conclusioni naturali, necessarie ed eterne,

151
ecc. La maggiore carica innovativa della prosa galileiana si esplica indubbiamente
nella sintassi, che potenzia le strutture nominali, ridimensionando l’importanza del
verbo, con la frequenza di nomi che reggono una frase subordinata (“il pensiero che
tu parta”): molti costrutti, se non introdotti certo promossi e volgarizzati da Galileo,
condizioneranno in modo determinante la lingua scientifica e non solo questa.
L’aderenza ai moduli della lingua toscana parlata, l’utilizzo di uno stile
‘medio’, che rifugge allo stesso tempo ogni abuso di magniloquenza e forme
eccessivamente popolari, si possono rintracciare anche in autori toscani come Redi
e Magalotti, notevoli esempi di prosa scientifica secentesca. Di Francesco Redi
(medico di origine aretina al servizio del Granduca di Toscana) sono famose le
esperienze sulle vipere e sulla generazione dei vermi, oltre che una serie di
osservazioni su animali e piante esotiche. Le sue prose sono descrizioni di
esperimenti, ricavate da appunti presi in laboratorio, e svolte come relazione, la
quale prende in genere la forma epistolare, ciò che rende anche più naturale il tono
di amichevole conversazione, che non disdegna a volte l’accento scherzoso. Redi
divideva la propria attività tra il settore scientifico e quello umanistico, che si
manifesta spesso nell’ostentazione di reminescenze letterarie. Sovente sono citati
versi di poeti, in maniera sorprendente e persino fuorviante, nel bel mezzo della
descrizione di qualche esperienza: la poesia non è utilizzata tanto come termine di
confronto (ciò capita a volte per le fonti classiche, in cui ci sono notizie sugli animali
oggetto dell’esperimento), ma si presenta piuttosto come una vera e propria
divagazione, un gioco ‘umanistico. Redi porterà al massimo sviluppo la tendenza alla
discorsività narrativa propria anche di certe pagine di Galileo. La lingua toscana,
nella sua naturalezza, è una componente essenziale di uno stile disinvolto che si
avvale a volte del proliferare di sinonimi, quasi in funzione espressiva, di termini
popolari toscani, spesso a fianco di quelli colti. Quanto a Magalotti, si può dire che vi
si possono rintracciare tendenze parallele a quelle del Redi. Entrambi verranno
citati nella terza edizione del Vocabolario della Crusca, e nel Settecento la loro prosa
finì per essere considerata il miglior modello a cui si potesse guardare per
raggiungere uno stile sciolto, quotidiano, duttile, non paludato.

152
9. IL SETTECENTO

9.1. Il contesto storico

Agli inizi del Settecento si assiste alla fine del predominio spagnolo in Italia,
in seguito ai trattati di Utrecht e Radstadt (1713-14), che segnano la fine della
Guerra di Successione Spagnola: Filippo V, nipote di Luigi XIV, riconosciuto re di
Spagna, conserva l’impero coloniale americano, ma deve rinunciare ai possessi
italiani e ai Paesi Bassi a favore dell’imperatore d’Austria, eccettuata la Sicilia, che,
in un primo momento, passa ai Savoia col titolo regio (questi ultimi, però, devono
poi abbandonarla agli austriaci, ricevendo in cambio la Sardegna: dal 1720 si
fregeranno del titolo di re di Sardegna, che conserveranno fino al 1861). I conflitti
successivi (Guerra di Successione polacca, 1733-1738, che si conclude con la pace di
Vienna, e Guerra di Successione Austriaca, 1740-1748, terminata con la pace di
Aquisgrana) sanciscono il predominio dell’Austria in Italia: domina direttamente
sulla Lombardia e nelle terre fra Trieste e Fiume, in più controlla la Toscana, in cui
si affermano i duchi di Lorena. I Borboni hanno i regni di Napoli e di Sicilia, mentre
il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla è sotto un figlio dei sovrani di Spagna. Si
mantengono indipendenti le repubbliche di Genova, Venezia e Lucca; lo Stato
Pontificio si attesta al centro fra Bologna, Ancona e Roma. Bisogna poi sottolineare
l’ampliamento del Regno di Sardegna con i Savoia, che comprende ormai tutto il
Piemonte, la Lombardia Sud-Occidentale, la Sardegna, le contee di Nizza e di Tenda,
nonché la Savoia.
Fu la Spagna ad avere all’inizio una posizione di primato in Italia, ma,
successivamente, fu l’Austria di Marita Teresa ad assumere tale ruolo, grazie ad una
serie di matrimoni delle sue figlie con altrettanti principi italiani. La seconda metà
del Settecento fu anche uno dei più lunghi periodi di pace per l’Italia, mentre
l’esplodere del pensiero illuminista risvegliava la penisola dal lungo letargo
culturale del secolo precedente. Le nuove dinastie straniere, che si appoggiano a
tradizioni politico-culturali di respiro europeo, mostrano un’energia e una capacità
d’innovazione ignota ai vecchi regnanti. Il Settecento è l’”Età delle Riforme”,
153
sostenuta dalla filosofia dei lumi, per molte regioni italiane in cui operano gruppi
dirigenti stranieri che si contornano di èlites intellettuali fortemente impegnate e al
passo con le più avanzate tendenze della cultura europea.
Possiamo riassumere le componenti essenziali del periodo nei seguenti punti:
- trasformazione dei metodi produttivi e rilancio dell’economia agricola, il che
significa dare un colpo al sistema di rendite e di parassitismo basato sul sistema dei
privilegi delle classi feudali e della Chiesa;
- innovazione e razionalizzazione della legislazione, secondo criteri di giustizia
diversi, basati sulla lotta al privilegio delle vecchie classi dirigenti (i catasti, per
esempio, come quello di Maria Teresa in Lombardia, censiscono rendite e
patrimonio), e sulla riforma del sistema penale (abolizione della tortura,
uguaglianza di fronte alla legge, ecc.);
- programma di riforme che riguarda l’istruzione e la circolazione della cultura: di
fronte a una società scarsamente istruita, in cui la cultura è in mano
prevalentemente ai Gesuiti, occorre “laicizzare”, rendere pubbliche le scuole,
assicurando una scolarizzazione sottratta al predominio della Chiesa.
La scienza ritrovava il vigore che, un secolo prima, le aveva dato la rivoluzione
copernicana, la cui massima espressione in Italia era stato Galileo Galilei, inventore
del telescopio. L’elettrologia conobbe uomini come Luigi Galvani e Alessandro Volta,
inventore della pila.
A scienziati e uomini di lettere si affiancarono studiosi e critici del costume,
quale Giuseppe Parini, dell’economia, come i fratelli Verri, e del diritto, come Cesare
Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, nel quale prende posizione
contro alle torture e alla pena capitale, segnando un’importante tappa nella nascita
del diritto penale moderno.
Fulcri di questo nuovo risveglio furono le città di Napoli e di Milano, ove si
aprirono i primi caffè, che divennero presto luoghi di incontro degli intellettuali che
vi si riunivano per discutere. Tale fu l’importanza di questi nuovi locali alla moda
che il più autorevole portavoce del nuovo pensiero fu il periodico intitolato proprio
Il Caffè, che uscì a Brescia dal 1764 al 1766 a cura dell’accademia milanese
singolarmente denominata Accademia dei Pugni. Collaborarono con Il Caffè Pietro
Verri e lo stesso Beccaria, propugnatori di rinnovamento culturale e riforme sociali,
da più parti fortemente auspicate.

154
Fu questo, sul continente europeo, il periodo del cosiddetto dispotismo
illuminato, che consisteva nella conservazione dei diritti assoluti della Corona dalla
quale, tuttavia, scaturiva una certa volontà di riforme, anche se non si può parlare di
processo di democratizzazione, poiché non era prevista espressamente la
partecipazione della base popolare all’attuazione di tali riforme. Dopo tutto, solo in
Inghilterra, dove esisteva già un parlamento ed un’avviata borghesia, era possibile
iniziare a parlare di democrazia; altrove, la classe colta, in grado di seguire
attivamente l’andamento delle vicende politiche, era sempre una minoranza in
rapporto all’intera popolazione, la gran massa della quale era spesso analfabeta,
dunque lontana da ogni ambizione democratica.
L’Italia non rimase al di fuori del processo riformatore. Notevole fu l’opera
riformatrice di Maria Teresa e del suo successore, Giuseppe II, nei loro possedimenti
italiani. Abili ministri come i conti Cristiano Beltrame e Carlo di Firmian seppero
risollevare in breve tempo le sorti del Milanese, privato di molti suoi territori, ceduti,
come si è già visto, al Regno di Sardegna. Sotto la direzione del toscano Pompeo Neri,
fu redatto il primo catasto, ossia il registro di tutte le proprietà immobiliari dei
cittadini, al fine di favorire una maggiore equità fiscale tra le classi sociali. Vennero
soppresse le corporazioni, la cui esistenza risaliva al medioevo. Anche i rapporti con
la Chiesa vennero rivisti. Furono soppressi il tribunale dell’Inquisizione e la censura
ecclesiastica sui libri. I gesuiti furono estromessi dall’insegnamento e scomparve il
diritto dei malfattori di non essere arrestati qualora si fossero rifugiati presso un
luogo sacro (convento, monastero, o simili).
Altro importante centro delle riforme nei possedimenti di casa d’Austria fu la
Toscana. Dopo la morte di Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa e
granduca di Toscana col nome di Francesco I, lo stato fu affidato al secondogenito
dell’imperatrice, Pietro Leopoldo, quale possedimento autonomo dell’Austria.
Anche qui vennero attuate molte delle riforme già operanti nel Milanese, in più esse
si estesero nel campo delle successioni, ove venne abolito il maggiorascato, cioè il
diritto del figlio primogenito ad ereditare l’intero patrimonio del padre a scapito
degli altri figli. Sul versante penale vennero abolite la tortura e la pena di morte,
anche per delitti politici. Anche l’agricoltura conobbe notevoli benefici grazie ad
ampie bonifiche nella valle di Chiana e nella Maremma. Appoggiato dal vescovo di
Pistoia Scipione de’ Ricci, Pietro Leopoldo intraprese la propria opera di riforma

155
anche nel settore ecclesiastico, tentando pure di pervenire alla creazione di una
chiesa nazionale toscana. Il sinodo di Pistoia del 1786 deliberò questi propositi, ma
l’anno seguente la maggioranza dei vescovi toscani riuniti in un sinodo tenutosi a
Firenze, respinsero i dettati del sinodo pistoiese. Il progetto di riforma ecclesiastica
in Toscana fu definitivamente accantonato quando, nel 1790, Pietro Leopoldo
doveva lasciare il granducato per cingere, come Leopoldo II, la corona imperiale.
Anche Carlo III di Napoli intraprese la propria politica di riforme,
validamente appoggiato dal suo ministro, il toscano Bernardo Tanucci, proveniente
dall’università di Pisa. Le riforme furono soprattutto rivolte all’appianamento delle
differenze dovute ai numerosi privilegi di tipo feudale della nobiltà baronale e del
clero. Fu rivitalizzata l’immagine culturale della città di Napoli. Le riforme
continuarono sul versante finanziario anche dopo il 1759, anno in cui Carlo III
assunse la corona di Spagna ed inizio un periodo di reggenza affidato allo stesso
Tanucci. Questi però fu licenziato dal nuovo sovrano, Ferdinando IV , divenuto
maggiorenne, e fortemente influenzato dalla moglie, Maria Carolina d’Austria, figlia
di Maria Teresa. Ferdinando, poco colto ed apatico, abbandonò ogni progetto di
riforma e fece tornare la propria corte agli antichi schemi reazionari.
Analogo corso ebbero le vicende a Parma, dove regnava Filippo di Spagna,
fratello di Carlo III di Napoli, e che aveva sposato una figlia di Luigi XV di Francia,
Luisa Elisabetta. Grazie alla presenza di essa, Parma divenne un importante centro
di irradiazione della cultura francese in Italia: basti pensare che l’erede al trono
parmense, Ferdinando, aveva avuto come proprio precettore il celebre filosofo
francese Condillac. Motore delle riforme nel ducato fu un altro francese, Guillaume
du Tillot, che fece per un periodo anche da reggente per lo stesso Ferdinando in
attesa della sua maggiore età, raggiunta la quale, nel 1771, il giovane granduca,
retrivo ed influenzato dalla moglie, Maria Amalia, anch’essa figlia di Maria Teresa
d’Austria, licenziò il Du Tillot e lasciò sfumare l’opera innovatrice degli anni
precedenti.
Anche in Piemonte, dopo la trasformazione dello stato a regno, iniziò un
processo di rinnovamento istituzionale. Grazie all’apporto dei due ministri Carlo
Vincenzo Ferrero d’Ormea e Giovambattista Bogino, venne incoraggiata l’istruzione
e si unificò il diritto civile e penale. Caddero pure numerosi privilegi nobiliari ma,
soprattutto, fu rivolta l’attenzione alla situazione della Sardegna, abolendo antichi

156
privilegi feudali e migliorando le comunicazioni all’interno dell’isola. Nel 1749
venne riaperta l’università di Cagliari e se ne creò una nuova a Sassari.
Interessante fu anche l’opera dei papi Benedetto XIV e Pio VI, che fece
bonificare gran parte dell’Agro Pontino, a sud di Roma ed appoggiò numerosi artisti
e letterati.
Nessuna riforma si ebbe invece nelle repubbliche di Genova e di Lucca.
Venezia, ormai in declino sulla scena internazionale, rimase vittima di un’oligarchia
aristocratica, refrattaria a qualsiasi innovazione istituzionale.
Lo scoppio della Rivoluzione francese doveva cambiare l’intero corso della
storia europea e fors’anche mondiale. Il successivo arrivo delle truppe francesi in
Italia, alla fine del secolo, delinea la formazione di un nuovo ordine europeo, quello
napoleonico, che segna la fine dell’Antico Regime e l’inizio del dominio francese in
Italia.

9.2. La reazione antibarocca


La fondazione dell’Arcadia, avvenuta a Roma nel 1690, assunse, in gran parte,
i toni di una reazione alle concezioni poetiche del Barocco in nome di un rinnovato
classicismo e della razionalità della poesia. A partire da questo momento si sviluppa
e prende piede il giudizio, destinato a diventare luogo comune nei secoli successivi,
sul ‘cattivo gusto’ del Barocco, giudizio costantemente ripetuto dagli Illuministi del
Settecento. Il Tesauro, teorico del Barocco italiano, si era schierato contro la Crusca,
non tanto come accademia filologico-letteraria, quanto piuttosto come
rappresentante del tradizionalismo letterario, delle norme vincolanti e della
prevedibilità poetica, come aveva stigmatizzato Ludovico Leporeo nelle Censure
Cruscole. Il Settecento letterario si apre all’insegna del rifiuto polemico degli eccessi
barocchi, contestati in ragione del ‘buon gusto’ e di un’esigenza di ordine e di misura
d’ispirazione classicheggiante. La letteratura del periodo sarà fedele a un linguaggio
tradizionale e misurato, in cui introduce rigore formale e razionalità; la lezione dei
classici latini si fa nuovamente molto vicina e intensa, soprattutto attraverso la
‘riscoperta’ del mondo mitologico, mentre si recupera la migliore tradizione italiana
dal Tre al Cinquecento, avvertita come un patrimonio unitario comune e nazionale.
L’italiano tradizionale, d’ispirazione petrarchesca, assumerà comunque toni più
superficiali, leggiadri e semplici grazie a una nuova metrica più sciolta (soprattutto

157
quando si introduce la musica, come nel melodramma). Chiarezza, semplicità,
razionalità diventano le parole d’ordine del secolo, e si avvaleranno anche del nuovo
tipo di sintassi proveniente dalla Francia, rivoluzionando e agilizzando la prosa
nazionale.
La reazione antibarocca si ebbe in Francia, prima che in Italia; la polemica
letteraria francese antibarocca condannava la letteratura italiana, oltre a quella
spagnola, con un giudizio negativo che ne coinvolse anche la lingua, fissando così
alcune idee molto diffuse nel Settecento. Il primo ad avanzare questo giudizio fu il
gesuita francese Dominique Bouhours, famoso grammatico dell’epoca, che con due
diverse opere del 1671 (Entretiens d’Ariste et d’Eugene) e 1687 (Manière de bien
penser dans les ouvrages d’esprit) svolse la tesi secondo la quale, tra i popoli
d’Europa, solo i Francesi possedevano l’effettiva capacità di ‘parlare’, mentre gli
italiani “sospiravano” e gli spagnoli “declamavano”: l’italiano era troppo sdolcinato,
lo spagnolo troppo magniloquente. Il Bohours criticava della letteratura italiana
l’artificiosità delle immagini e l’innaturalezza di una sintassi propensa all’ordine
inverso, rispetto a cui esaltava la lingua francese, propensa invece a seguire l’ordine
‘naturale’, cioè la costruzione diretta Soggetto-Verbo-Oggetto. Il francese, dunque,
era visto come l’unica lingua che aveva il diritto di ambire allo statuto di lingua della
nuova comunità politico-intellettuale europea, essendo adatto a prosa e poesia,
proprio per la sua razionalità, e poteva aspirare ad ambire il nuovo statuto di lingua
universale, come il latino. Al francese era dunque assegnato il ruolo della lingua della
comunicazione intellettuale, e all’italiano quello della lingua del canto e del
melodramma. La risposta italiana tardò a venire, dimostrando un inequivocabile
segno di debolezza della cultura italiana. Solo nel primo decennio del Settecento
alcuni intellettuali intervennero per difendere la lingua italiana (fra i quali
ricordiamo Giuseppe Orsi, il Muratori o il Salvini), mossi tutti dall’intento di
rivalutare gli istituti letterari italiani, valorizzando quella specificità della tradizione
italiana che l’avvicinava alle lingue classiche. Metafore e costruzione inversa, sono
ribaditi come peculiarità del linguaggio poetico: di fronte al francese, lingua della
‘ragione’ e della ‘prosa’, l’italiano avanza la sua qualifica di lingua della ‘poesia’,
convertendo in pregi quelli che nella visione razionalista erano limiti.

158
9.3. Prestigio e ruolo delle lingue d’Europa
La polemica suscitata dal Bouhours riguardava il francese da una parte,
l’italiano e lo spagnolo dall’altra, uniche lingue degne di essere prese in
considerazione, secondo l’ottica del tempo, quando si parlasse di ‘primati’
(confrontando ovviamente idiomi moderni, e prescindendo quindi dal greco e dal
latino). Le lingue di cultura che potevano ambire ad un primato internazionale erano
dunque tre. Tra queste, lo spagnolo era in fase calante, avendo avuto la sua grande
stagione nel Cinquecento e nella prima meta del Seicento. Da quel momento la sua
fortuna era andata progressivamente diminuendo, in concomitanza con la crescita
di prestigio del francese. Quanto alle altre lingue d‘Europa, nel Settecento non ha
alcun rilievo il portoghese, che pure era stato strumento di comunicazione nel
Cinquecento per mercanti e viaggiatori in terre esotiche. Le lingue slave non erano
né conosciute né apprezzate; il tedesco e l’inglese avevano una posizione marginale,
anche se guardavano ormai all’Inghilterra alcuni intellettuali curiosi e irrequieti,
come Baretti e Denina. Ma l’inglese contò poco all’estero, fino all’inizio
dell’Ottocento, non tanto per motivi di scarsa popolarità nelle corti europee, quanto
per i caratteri complessivamente ‘non aggressivi’ verso l’Europa, almeno della
politica e della cultura britannica alla fine del Seicento. La cultura inglese, pur di
eccezionale importanza (ad esempio, nel settore della filosofia), si diffuse in genere
attraverso le traduzioni francesi. Il tedesco, invece, doveva ancora veder fiorire la
sua stagione: su di esso correvano giudizi piuttosto negativi. Non solo un
intellettuale come Leibniz aveva lamentato il grave ritardo di questa lingua dal
punto di vista del vocabolario intellettuale e della capacità di veicolare il pensiero
filosofico e scientifico, ma le testimonianze mostrano che del tedesco si poteva
benissimo far a meno anche viaggiando e soggiornando nei paesi di lingua
germanica. Voltaire, nel 1750, scrive da Potsdam dicendo di aver l’impressione di
essere in Francia, e osserva che si parla francese dovunque, mentre il tedesco serve
solo per i soldati e per i cavalli. Quando, alla fine del Settecento, l’illuminista italiano
Carlo Denina si trasferì a Berlino, dove entrò a far parte dell’Accademia Reale di
quella città, non ebbe bisogno di imparare il tedesco per scrivere le sue relazioni e
per conversare con i colleghi accademici, visto che la lingua ufficiale del prestigioso
organismo era il francese. Vigeva l’opinione comune che il tedesco avesse uno status
159
culturale insufficiente, e solo con il Romanticismo, all’inizio del sec. XIX, il tedesco
ottenne un riconoscimento generale, e la cultura tedesca si organizzò utilizzando
finalmente la propria lingua nazionale. Nel Settecento, invece, prevaleva ancora un
cosmopolitismo che privilegiava il francese.
Non solo la lingua di comunicazione elegante da usare con i viaggiatori
stranieri nei territori di lingua tedesca era il francese; anche l’italiano aveva una
posizione di prestigio, soprattutto a Vienna. Nel 1675 Magalotti, ambasciatore di
Firenze in quella città, scriveva che non occorreva studiare il tedesco, perché ogni
“galantuomo” sapeva l’italiano. L’italiano era lingua di corte a Vienna, e Metastasio
nel suo lungo soggiorno viennese non sentì la necessità di imparare il tedesco, così
come Da Ponte, il librettista di Mozart. Anche a Parigi l’italiano era abbastanza
conosciuto, come lingua da salotto e per le dame, corredo della buona educazione
delle fanciulle aristocratiche; ma certo qui non siamo nella situazione dei paesi di
lingua tedesca, e chi si trasferisce a Parigi, come Goldoni, necessariamente
perfeziona il proprio francese. Perfeziona, si badi bene, perché la conoscenza del
francese è assolutamente necessaria anche a chi resta tutta la vita in Italia. Un
italiano colto del Settecento che non voglia sfigurare nel bel mondo –anche
quest’espressione, usata per designare la ‘società brillante’, è un tipico francesismo
settecentesco – deve parlare un po’ di francese.
Per quanto le esagerazioni del padre Bouhours potessero irritare gli italiani,
era insomma pacifico che il francese aveva assunto una posizione che lo rendeva in
qualche modo erede dell’antico universalismo latino. È stato stimato che nel 1788
almeno 150.000 intellettuali italiani conoscessero il francese, se non in modo da
parlarlo perfettamente, almeno tanto da poterlo leggere. Del resto scrivere la lingua
straniera secondo una corretta norma ortografica non era assoluta necessità: valga
l’esempio di Goldoni, che se la cavò benissimo anche con un francese assai
disinvolto. Non fu l’unico intellettuale italiano a utilizzare il francese; si trattava anzi
di una scelta obbligata per coloro che si trasferissero all’estero: per citare alcuni casi
celebri, sono in francese le memorie di Giacomo Casanova e diversi saggi di Carlo
Denina. Scrivere in francese significava non solo essere alla moda, ma anche essere
intesi dappertutto senza bisogno di traduzione, vantaggio non di poco conto.
In certi casi, inoltre, il francese veniva usato da scrittori dell’Italia
settentrionale per appunti privati, per annotazioni diaristiche, per abbozzi, e anche

160
per lettere ad amici, parenti, conoscenti. Questo fatto è assai interessante, perché
non trova alcuna giustificazione in uno stato esterno di necessità, ma deriva da una
libera scelta di gusto e di costume. Sappiamo che su 60.000 libri sdoganati a Venezia
tra il 1750 e il 1790, almeno 10.000, cioè il 16-17%, erano scritti in francese. Ed è
giusto ricordare che un’opera fondamentale per la cultura del Settecento come
l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert ebbe due ristampe in Italia, a Lucca (1758-
1771) e a Livorno (1770-1779), entrambe coronate da successo di vendita:
entrambe queste ristampe furono in francese, non certo in traduzione italiana. La
traduzione sarebbe stata probabilmente un’impresa al di sopra delle forze degli
editori nostrani, ma certo la lingua originale non fu affatto di ostacolo alla diffusione
di queste opere, rivolte (ovviamente) ad un pubblico d’élite.
La penetrazione del francese avveniva attraverso un’infinità di canali, non
solo attraverso l’alta cultura. Era una moda che investiva aspetti del costume e della
vita comune. Dalla Francia non venivano soltanto turisti o avventurieri, ma un
nugolo di professionisti ben accettati in Italia, come parrucchieri, cuochi, maestri di
danza e di lingua, predicatori, artisti, compagnie teatrali (o truppe, come si diceva
allora calcando il francese troupes). Nella prima metà del secolo queste compagnie
non andavano oltre il Piemonte, quando presentavano un repertorio esclusivamente
nella lingua d’oltralpe; ma nel 1773 una di esse si spinse fino a Napoli, e un
intellettuale come Francesco Galiani ci ha lasciato una piacevole descrizione del
pubblico napoletano, poco conoscitore del francese (certo molto meno del pubblico
sabaudo), intento non a seguire la rappresentazione che si svolgeva sul palco, ma, a
testa bassa, concentrato sul libretto del testo messo in scena; quel pubblico pareva
contento soprattutto di poter godere di una simile lezione di lingua francese.

9.4. Il francese come lingua-modello

Era inevitabile che una diffusione della lingua, della moda e della cultura di
Francia avesse conseguenze vistose sul piano linguistico. Nel corso del Settecento le
pretese di attribuire all’idioma d’oltralpe una posizione di assoluto primato, così
come aveva tentato il padre Bouhours, si rinnovarono in forme anche più marcate.
Nel 1784 l’Accademia di Berlino premiò un saggio di Rivarol intitolato
significativamente De l’universalité de la langue française. Fissata la consueta

161
omologia fra lingue e nazioni, fra lingue e caratteri dei popoli, Rivarol riprendeva in
uno schematico schizzo storico il tema secondo cui il francese poteva rappresentare
il latino dei tempi moderni, pretendendo di attribuire il successo internazionale del
francese non solo a cause storiche contingenti, ma ad una ragione più assoluta e
profonda, cioè ad una virtù strutturale connaturata a questa lingua, lingua della
chiarezza, della logica, della comunicazione razionale, contrapposta ad esempio
all’italiano, lingua caratterizzata dalle inversioni sintattiche. Sono argomenti che si
riascolteranno più tardi, ripetuti, fino alla sazietà, da grammatici e uomini di scuola,
quando, dopo la Rivoluzione e nell’età napoleonica, la lingua francese fu ‘esportata’
nei paesi conquistati dalle armi imperiali, e fu messa in atto una politica di
francisation, di ‘francesizzazione’ di alcuni territori stranieri (ad esempio del
Piemonte, annesso alla Francia). Un luogo comune assai fortunato voleva insomma
che il francese fosse la lingua della chiarezza, l’italiano la lingua della passione
emotiva, della poesia e della musicalità. Tale luogo comune poteva essere utilizzato
ora in chiave negativa, per screditare la nostra lingua, ora in chiave positiva: in uno
dei più famosi manuali settecenteschi per imparare l’italiano, rivolto al pubblico
francese, l’autore, Francesco Antonini, scriveva che il toscano era lingua dolcissima,
adatta in maniera speciale alla delicatezza delle dame. L’italiano, dunque, era lingua
dolce e poetica, ma scarsamente razionale. Siamo di fronte ad uno dei temi più
dibattuti nel Settecento, anche in relazione al cosiddetto ‘ordine naturale’ della frase.
L’ordine naturale degli elementi della frase veniva identificato (da molti, anche se
non da tutti gli studiosi) nella sola sequenza Soggetto-verbo-complemento,
caratteristica appunto della lineare sintassi francese, reputata specchio del
pensiero. L’italiano, per contro, era ed è caratterizzato da una grande libertà nella
posizione degli elementi del periodo: può anticipare il complemento, spostare il
verbo in fondo alla frase, come accade in tanti esempi di stile boccacciano. Questo
veniva reputato da alcuni un difetto ‘strutturale’, laddove invece sarebbe stato più
giusto lamentare, semplicemente, l’abuso di inversioni, dovuto all’eccessiva
imitazione dello stile latineggiante di Boccaccio. I difetti di razionalità propri
dell’italiano non erano in realtà dovuti a motivi ‘naturali’, ma a cause storiche,
spiegabili con le vicende della nostra lingua, in dipendenza da mode letterarie che
avevano favorito la conservazione ad oltranza di un gusto arcaicizzante. Già un
pensatore francese come Condillac aveva mostrato di non credere affatto che

162
l’ordine Soggetto-Verbo-Complemento potesse esser definito come ‘naturale’; a suo
giudizio erano invece ‘naturali’ sia la costruzione diretta che quella inversa.
Non mancavano, come è evidente, posizioni teoriche più equilibrate. Alla fine
del secolo, Carlo Denina, confutando la tesi di Rivarol, sostenne (riprendendo ancora
uno spunto di Condillac) che non esiste una superiorità intrinseca e assoluta di una
lingua sulle altre, e che anzi le lingue ci paiono ‘naturali’ semplicemente quando
siamo abituati ad esse. Sosteneva ancora Denina che l’ordine libero delle parole
nell’italiano si spiega non con una mancanza di logica interna e di coesione, ma con
la presenza di una diversa organisation (‘organizzazione’), ad esempio per
l’esistenza in italiano di elementi morfologici che segnalano la funzione delle parole,
indipendentemente dalla loro posizione nella frase. La teoria dell”ordine naturale”,
comunque, aiutava coloro che avrebbero voluto riformare lo stile della prosa
italiana, allontanandolo dalla tradizione, in modo da ottenere una lingua priva di
inversioni latineggianti, più libera e moderna, antiaccademica. Baretti, nella Frusta
letteraria, vagheggiava infatti uno “stile naturale e piano e corrente”, di cui vedeva il
modello non soltanto nel francese e nell’inglese, ma in un prosatore cinquecentesco
assolutamente antiaccademico come Cellini.
Al livello della più alta cultura, dunque, si dibatteva sulla questione dell’ordre
naturel (‘ordine naturale’) delle parole nella frase, ma intanto tutta l’Europa
prendeva atto della forza del francese e dei suoi caratteri tipologici, che risultavano
essere la sincronia, la tendenziale unità nei registri prosastico e poetico, l’assetto
ordinato e razionale. Non ci si deve dunque stupire se la diffusione del francese e
l’egemonia esercitata da questa lingua permisero, per contrasto, di guardare in
maniera più critica alla tradizione culturale italiana. La Francia aveva infatti quello
che all’Italia mancava: una lingua viva adatta alla conversazione e alla divulgazione.
Gli intellettuali illuministi nostrani auspicavano quindi a un italiano più agile del
tradizionale; un linguaggio moderno per mezzo del quale la cultura potesse uscire
dalla chiusa cerchia dei dotti e diffondersi in più larghi strati della società. Algarotti,
a Potsdam, nel 1752, nella dedica (in francese) a Federico II di Prussia dei propri
Dialoghi sopra l’ottica newtoniana (usciti inizialmente nel 1737 col titolo Il
newtonianesimo per le dame. Dialoghi sopra la luce e i colori) sapeva riconoscere i
difetti dell’italiano senza pregiudizi e senza ostilità nei confronti del francese:
l’italiano, a cui mancava una “capitale” e una “corte”, era lingua libresca, carica di

163
“giri di frasi affettati e di parole fuori d’uso”, esclusa dalla conversazione colta e da
quella familiare.
Vi erano invece altri intellettuali profondamente ostili all’egemonia del
francese, i quali ne combattevano caparbiamente la diffusione al di qua delle Alpi,
come il piemontese Galeani Napione di Cocconato, autore del trattato Dell’uso e dei
pregi della lingua italiana, la cui prima edizione uscì nel 1791. L’opera era nata dal
preciso intento di suggerire una politica linguistica filo-italiana da applicare al
Piemonte sabaudo, in modo da contrastare la presenza assai forte di questo stato
della lingua d’oltralpe. Ma Galeani Napione, per quanto antifrancese, non si
sottraeva in realtà al fascino dell’idioma di Parigi, di cui ammirava il successo e la
spigliatezza. In questo senso il trattato rivela ad uno stesso tempo l’amore e l’odio:
la polemica scorre mescolando l’invidia e il desiderio di emulazione. Napione, che
ben conosce il topico confronto settecentesco (italiano lingua impacciata-francese
lingua disinvolta), mette l’accento sulla frivolezza del francese, lingua brillante,
effeminata, adatta alle donne, ma i caratteri ‘negativi’ del francese rilevati nella sua
opera sono gli stessi segnati come tratti ‘positivi’ e augurabili per l’italiano, ancor
privo di maneggevole piacevolezza e socialità. La constatazione che l’italiano poco
si prestava alla conversazione familiare e alla divulgazione serviva, se non altro, a
mettere il dito su di una piaga grave: l’impopolarità dell’italiano. Il confronto con il
francese, dunque, non poteva che favorire una modernizzazione della nostra lingua.
Se Giusto Fontanini, letterato di tendenze classiciste e conservatrici, agli inizi del
secolo, imputava alla moda di leggere libri francesi la corruzione della lingua,
individuando proprio nel lessico e nella sintassi i due settori in cui si esplica
l’influenza del francese, c’è anche chi prende atto della situazione e propone
l’inserimento nella lingua dei francesismi ‘necessari’, cioè quei tecnicismi
indispensabili alla denominazione di precise realtà veicolate dal francese. Il toscano
Gerolamo Gigli, autore delle Regole della toscana favella (1734), difende
l’introduzione di termini legati alla scienza o alla moda, e, a Venezia, Giovanni Pietro
Bergantini, con spirito liberamente cosmopolitico, propone di rimediare alla
mancanza di unità terminologica accogliendo i “termini forestieri”, in particolare
francesi, per quei settori come “l’esercizio della danza”, “la Cucina”, “le mode del
vestire”, dove erano già ben inseriti e “nel Volgar famigliare pronunziati in desinenze
italiane”.

164
8.2.4. L’influenza del francese
Quanto si è detto spiega la penetrazione della moda e del gusto francese in
Italia, che fu nel Settecento massiccia e incredibilmente capillare: si copiarono
l’abbigliamento civile e militare, le abitudini gastronomiche, i passatempi, i caratteri
della comunicazione epistolare, le legature dei libri, la struttura e l’arredamento
delle abitazioni, lo stile dei giardini, i mezzi di trasporto, ecc. È ovvio che tutto questo
abbia significato una proporzionale penetrazione di francesismi nella lingua
italiana, quei francesismi che tanto preoccuparono i puristi. I settori più influenzati
dai francesismi furono: la moda, la vita associata, la politica e la diplomazia,
l’esercito e la marina, il diritto, l’amministrazione e la burocrazia, la letteratura e le
belle arti, l’economia e il commercio, la filosofia e le scienze. Se vogliamo essere più
precisi, e scendere nel dettaglio (si noti che la stessa parola dettaglio qui usata è un
francesismo divenuto comune nel Settecento: lo si ritrova in Pietro Verri e Cesare
Beccaria), potremo osservare che anche il termine moda è un gallicismo. Ma
entrarono nell’italiano termini francesi per indicare stoffe, come la tela batista; e
anche la parola stoffa è un francesismo. Lo sono i termini che indicano capi di
abbigliamento come cravatta, parrucca e parrucchiere, gallone, giarrettiera; prestiti
non adattati ancora viventi nell’italiano d’oggi sono toilette e coiffure. Il linguaggio
militare accoglie baionetta, petardo, brigadiere, caserma, plotone; quello della
marina diga, rada, scialuppa. L’elenco potrebbe continuare a lungo, senza
dimenticare i prestiti effimeri, come tromparsi ‘ingannare’, regretto / regrettare
‘rimpianto / rimpiangere’, cocchetta / cocchetteria ‘civetta / civetteria’, ecc.
Mai come in questo secolo si osserva il rapporto stretto che intercorre tra
lingua e cultura. In campo scientifico, ad esempio, una vera e propria rivoluzione è
segnata dal diffondersi dalla nuova terminologia della chimica, la quale arriva dalla
Francia, attraverso gli studi di Lavoisier, nella seconda metà del sec. XVIII. L’aspetto
più noto della riforma nomenclatoria di Lavoisier e degli altri scienziati francesi è la
creazione di nuovi termini per lo più tratti da basi lessicali greche. Ricordiamo, per
esempio, oxigene, azote, hydrogene, oxide, vocaboli che, da quegli anni in avanti, si
insediano a pieno titolo nel vocabolario della chimica, realizzando due principi cari
a Lavoisier: 1) meglio un nome nuovo chiaro e trasparente, piuttosto che un nome
tradizionale opaco e fuorviante; 2) nel creare nuovi termini è opportuno servirsi
165
delle lingue morte e in particolare del greco. Nella terminologia chimica scientifica,
diffusasi nel Settecento, dunque, i suffissi assumono un valore classificatorio: escono
in -ique (italiano -ico) gli acidi ossigenati, a cui corrispondono i sali in -ate (italiano -
ato), mentre gli acidi deboli terminano in -eux (italiano -oso), e ad essi
corrispondono i sali in -ite (italiano -ito). L’adozione della terminologia chimica
francese è accompagnata ad un abbandono delle designazioni in uso in Italia, che
appartenevano ancora alla tradizione alchemica, per cui il “sal acetoso marziale”
diventa nella nuova nomenclatura l’”acetito di ferro” e l’”aria puzzolente di zolfo”
diventa “gas idrogeno solfurato”. In generale, in campo teorico, è promosso l’uso
sistematico di serie di suffissati, come -izzare (legalizzare, simpatizzare, civilizzare),
-ismo / -ista / -istico (giornalismo -ista, giansenismo -ista, deismo -deista), -mento
(allungamento, bollimento, sfumamento), -ale (calcolo integrale, moto spirale, vermi
intestinali), ecc.
Le grandi novità della cultura settecentesca richiedono innovazioni
consistenti nella lingua, esigendo soprattutto lo snellimento della sintassi, oltre
all’internazionaliz-zazione del lessico. L’ordine diretto della sintassi francese in
ambito letterario suscita in Italia più riserve che adesioni, ma riuscirà a conquistare
uno spazio incontrastato in sede extraletteraria, in quella zona di scrittura che oggi
definiremmo più saggistica e di riflessione che letteraria e di creazione, anche se,
all’epoca, la distinzione era assai meno operante e pertinente. La lingua letteraria
sembra più che altro reagire a questa novità, ora ironizzandola ora rifiutandola, ora
limitandone il raggio d’azione in nome di valori ad essa più propri e specifici come
quello di tradizione e di identità culturale. Non è dunque un caso se la maggior parte
dei segni del rinnovamento linguistico settecentesco si trovi in testi (e in autori) di
critica militante, di polemica politica, di saggistica storiografica ed erudita, di
economia e di politica: insomma ovunque la scrittura si misuri direttamente col
proprio tempo. Già diffuso nella prosa francese, lo style coupé viene esplicitamente
teorizzato nel corso del Settecento con motivazioni tipicamente razionalistiche,
come possiamo osservare in questa definizione di Adrienne-Albertine Necker: “la
force du style consiste [...] à reunir, sous le plus petit nombre de mots, le plus grande
somme d’idées possibles”. Le frasi devono essere rapide ed essenziali, le incidentali
risolte in proposizioni autonome, le ligatures (cioè le congiunzioni coordinative e
subordinative) il più possibile eliminate a vantaggio della sintassi giustappositiva.

166
La nuova organizzazione favorisce dunque l’ordine diretto, rematico, della frase
secondo il tipo Soggetto-Verbo-Oggetto, considerato come più ‘naturale’, cioè
conforme ai presunti meccanismi del pensiero, mentre lo sfoltimento dei nessi
congiunzionali produce un andamento ‘spezzato’, coupé, appunto. È lo stile “netto,
chiaro, preciso, interrotto, e sparso d’immagini”, a cui pensa l’Algarotti per il suo
Newtonianesimo per le dame. Si fa strada uno strumento più flessibile e funzionale
alla prosa di “parole atte alle cose” da contrapporre alla “vana pompa oratoria” delle
nostre lettere, come sostiene Pier Jacopo Martello nel dialogo Il vero Parigino
Italiano (1718).
Con il ridursi della subordinazione e il conseguente potenziamento del nome
rispetto al verbo, si espandono le strutture nominali; l’aggettivo passa nella
categoria del sostantivo; diventano frequentissimi i sintagmi che danno rilievo al
sostantivo astratto; l’ampliamento delle possibilità del sostantivo ha riflessi sullo
stesso vocabolario dando incremento alle formazioni pure d’impronta francese del
tipo avere + sostantivo astratto seguito da infinito (come “avere la bontà di...”).
Si estende l’uso di strutture apposizionali di impronta francese, come la
ripresa di una proposizione con elementi astratti generici di tipo cosa, fatto, che
comporta un collegamento più efficace, ma anche più leggero delle proposizioni,
oppure le forme di messa in rilievo del tipo è + complemento + che, la cosiddetta
frase scissa (è la prima volta che..., è a lui che...).
Il contatto col francese dà impulso al generalizzarsi di fenomeni già presenti
in italiano, ma che continueranno ad essere avvertiti come estranei alla lingua fino
in pieno Ottocento, se si bada alle censure cui sono soggetti da parte puristica. Si
tratta dell’uso della congiunzione causale siccome ad apertura del periodo, senza un
correlativo nella reggente; dell’uso di che in luogo di se non per introdurre una
restrittiva; il tipo lo è, dove lo si riferisce a un elemento della frase precedente.
Fra le tante altre strutture che trovano alimento nel bilinguismo francese che
la successiva ‘restaurazione’ linguistica riuscirà in buona parte a respingere, si
ricordi l’uso del ‘passato immediato’ (vengo di fare) e del ‘presente progressivo’
(vanno diventando), il gerundio preposizionale già dell’italiano antico (il tipo in
passando), il di partitivo (poco di tempo), l’uso di a attributivo (vermi a seta, ricalco
di vers à soie), l’ampliamento della preposizione a in contesti che tradizionalmente
richiedevano da o di (restare a desiderare, trovare a ridire); il superlativo relativo

167
con doppio articolo (Genovesi: le anime le più sonnacchiose); malgrado di al posto di
malgrado; la ripresa col relativo (Parini: “il dialetto particolare d’un popolo illustre
dell’Italia, il quale dialetto”).

168
10. L’OTTOCENTO

10.1. Contesto storico-sociale


L’Ottocento rappresenta un secolo politicamente cruciale per la storia
d’Italia, durante il quale verrà raggiunta l’Unità, seppure parziale: fino al 1918,
infatti, non saranno comprese entro i confini nazionali Friuli-Venezia Giulia e
Trentino Alto-Adige. Il 1861 rappresenta lo spartiacque fra due periodi storici
culturalmente e linguisticamente ben differenziati: mentre sfuma la secolare
“questione della lingua”, in ossequio alla proposta manzoniana quasi
universalmente accettata, l’Italia dovrà affrontare nuovi problemi, primo fra tutti
quello dell’analfabetismo, con la nuova ‘questione’ della diffusione dell’italiano,
quasi dappertutto considerato come una vera e propria lingua straniera.
Dopo la parentesi napoleonica, con il Congresso di Vienna, quasi tutte le
dinastie spodestate durante il periodo francese vengono ripristinate: Genova è
annessa al Regno di Sardegna e Venezia incorporata nel regno Lombardo-Veneto in
mano agli Austriaci; a Parma con Maria Luigia (ex moglie di Napoleone), a Modena
con Francesco IV e in Toscana con Ferdinando III, sono posti sul trono regnanti legati
da parentela agli Asburgo. Lo Stato pontificio, governato dal papa, e il Regno delle
Due Sicilie, in mano ai Borboni, completano il quadro di un’Italia nuovamente divisa.
La soppressione della struttura amministrativa napoleonica si rivela ben presto
dannosa: il frazionamento della penisola secondo frontiere militari e doganali, il
ritorno alle antiche legislazioni, alla doppia censura civile ed ecclesiastica, il ritorno
dei privilegi di classe portano a un regresso nella vita civile.
Le correnti ostili alla Restaurazione non hanno alcuna possibilità pratica di
organizzarsi in modo legale: il dissenso, dunque, che vede protagonisti i liberali
moderati, insieme agli eredi del giacobinismo, si esprime attraverso organizzazioni
clandestine, le quali da un lato elaborano programmi ideologici e dall’altro
preparano le insurrezioni armate. La Carboneria prima, la “Giovine Italia” dopo,
organizzano insurrezioni in diverse parti d’Italia (ricordiamo i “moti” carbonari del
‘20-’21 a Napoli e in Piemonte, quelli mazziniani in Savoia e in Calabria), tutti
duramente e sanguinosamente repressi.
Gli anni fra il 1830 ed il 1848 costituiscono una fase fondamentale per lo
sviluppo economico in Italia. Nonostante la sua arretratezza, anche l’Italia subisce

169
l’influsso della rivoluzione industriale in atto nell’occidente europeo: la costruzione
delle prime ferrovie e dei battelli a vapore, l’uso dell’energia a gas, il notevole
incremento di capitali nel settore bancario, favoriscono la nascita di industrie tessili
e meccaniche. Fra il 1846 e il 1847 si profilano una serie di riforme che paiono
realizzare gli ideali e i programmi del liberalismo moderato, soprattutto nello Stato
della Chiesa, in Toscana e in Piemonte. Nel 1848 Ferdinando di Borbone, temendo
lo scoppio di una rivoluzione, è costretto a concedere la costituzione: Carlo Alberto,
Leopoldo II e Pio IX seguono il suo esempio. Le costituzioni concesse da questi
sovrani sono in parte ispirate a quella francese del 1830: contemplano la piena
salvaguardia del potere del monarca, un Senato di nomina regia e una Camera eletta
sulla base di un censo elevato (lo Statuto Albertino, che reggerà le sorti del Regno di
Sardegna, e poi del Regno d’Italia, fino al fascismo, contempla anche libertà di culto
per valdesi ed ebrei).
Nel 1848 esplodono in tutta l’Europa fermenti rivoluzionari di carattere
nazionale, liberale e democratico: a Vienna, in Ungheria e in Germania. I fatti di
Vienna hanno immediatamente ripercussioni in Italia. A Venezia viene proclamata
la Repubblica, Milano insorge contro gli Austriaci che vengono scacciati (le famose
“Cinque giornate” dal 18 al 23 marzo); alle sollecitazioni di liberali e democratici
piemontesi, tra cui Camillo Benso Conte di Cavour (1810-1861), sostenuti dai
moderati milanesi, il re Carlo Alberto (1798-1849) risponde con la dichiarazione di
guerra all’Austria. La guerra volge però a sfavore dell’esercito Sardo, Carlo Alberto
è costretto ad abdicare a favore del figlio, Vittorio Emanuele, il quale firma
l’armistizio a Vignale, che non prevede perdite territoriali né la revoca dello Statuto.
Cadono la repubblica veneziana e quella romana; ovunque ritornano i regimi
assolutistici; il governo lombardo-veneto si trasforma in una vera e propria dittatura
militare affidata a Radetzky.
Nel Regno di Sardegna, invece, viene mantenuto lo Statuto e continuano le
riforme legislative: con il ministero d’Azeglio, con le leggi proposte dal guardasigilli
Siccardi (1850), vengono aboliti il foro ecclesiastico, il diritto d’asilo e si limitano le
proprietà del clero. Con il ministero Cavour (1852) il Piemonte si contraddistingue
per il dinamismo dello sviluppo economico: si concludono nuovi trattati con l’estero
che favoriscono l’esportazione dei prodotti piemontesi e l’aumento delle
importazioni di materie prime e di macchine utensili, mentre viene stimolata la

170
crescita dell’industria siderurgica e meccanica; viene dato un forte impulso
all’attività bancaria, all’ampliamento del sistema stradale, ferroviario e portuale;
l’agricoltura è modernizzata con interventi diversi (come l’ampia rete di canali
d’irrigazione nel Vercellese e un abbozzo di nuovo catasto agrario). L’azione politica
di Cavour si contraddistingue, all’estero, per il tentativo di porre la questione
italiana all’attenzione delle potenze europee (ad esempio, con la partecipazione alla
Guerra in Crimea). La politica di alleanza con la Francia sfocerà nella Seconda Guerra
d’Indipendenza (1859), grazie alla quale il regno Sardo annette la Lombardia, la
Toscana, la Romagna, le Marche, l’Umbria, i Ducati di Parma e Modena. L’impresa
garibaldina frutterà il Regno delle Due Sicilie; il 17 marzo 1861 viene proclamato il
Regno d’Italia, con capitale Torino.
Nel 1861 viene proclamato il Regno d’Italia; nel 1890 l’Italia costituisce la
colonia Eritrea: dalla conquista dell’indipendenza alla negazione dell’indipendenza
d’un popolo straniero, queste due date delimitano un trentennio che significa non
solo la difficoltosa costruzione d’un nuovo stato, ma anche un brusco salto da
condizioni di vita ancora semifeudali a strutture economiche rigidamente
determinate dalle ragioni d’un nascente capitalismo industriale. Poco per volta il
mito politico dell’unità risorgimentale si spegne, a favore dei nuovi, pressanti,
interessi economici. L’Italia del 1861 era un paese agricolo, profondamente segnato
da residui semifeudali (il latifondo nel Mezzogiorno, la mezzadria nella Toscana,
nelle Marche, nell’Umbria e parte del Nord); privo di industrie moderne (ad
eccezione di alcuni opifici, soprattutto tessili, al Nord); ancora caratterizzato da
sistemi artigianali di produzione; lacerato da differenze di interessi che separano
regione da regione (e, all’interno di ogni regione, classe da classe). La classe
dirigente uscita vittoriosa dal Risorgimento si dispose ad affrontare tale situazione
estendendo lo Statuto piemontese a tutta la penisola. Il deficit del bilancio statale è
contrastato da una durissima pressione fiscale sui ceti meno abbienti, tramite quel
regime di imposte indirette il cui esempio più clamoroso fu la tassa sul macinato
(l’imposta che gravava, nei primi due anni dopo l’unità d’Italia, sulle farine che
uscivano dai mulini, provocando l’aumento di pane e frumento). Si ricordi inoltre
che l’estensione dello Statuto piemontese al resto d’Italia significò la
generalizzazione della tariffa doganale piemontese a tutta la penisola. Ora, poiché
(prima del 1861), gli altri stati italiani avevano, in questo settore, tariffe rigidamente

171
protezionistiche (intese a permettere lo sviluppo delle nascenti industrie locali,
difendendole dalla concorrenza delle merci straniere), l’adozione dei principi
piemontesi (volti a permettere la libera circolazione dei prodotti da stato a stato)
implicava la distruzione delle più deboli strutture economiche meridionali. Ben
presto, accanto ad altre attività industriali entrano in crisi e scompaiono, a Napoli,
le fabbriche di panno; le coperte di Otranto, i felpati di Taranto, le mussole di
Gallipoli, seguono la stessa sorte. A Catania declinano e, intorno al 1890, scompaiono
le industrie del lino e della canapa. Appartiene ancora a questi anni il rapido crescere
e dominare di un ceto di intraprendenti e spregiudicati speculatori, che traevano
profitto dall’enorme massa di lavori pubblici (soprattutto incremento della rete
ferroviaria, opere di bonifica e edilizia pubblica, o il riarmo dell’esercito negli anni
successivi alla sconfitta del ‘66, che aveva però consentito l’annessione del Veneto),
deliberata dal governo e dal finanziamento statale per questi lavori e in genere per
la creazione di quella che, con termine più recente, si chiama la “infrastruttura
economica” del nuovo stato. Quasi sempre dietro la facciata delle banche, delle
società ferroviarie, di quelle di bonifica e di quelle immobiliari, si nasconde un
intento fraudolento di guadagno: si fonda un gruppo economico qualsivoglia, si
ottiene dal governo un appalto e insieme i prestiti necessari a realizzarlo, infine si
dichiara bancarotta elemosinando ulteriori sovvenzioni attinte all’erario. Anche gli
avvii dell’industria sono piuttosto precari: la grettezza politica del ceto dirigente e
la miopia d’una borghesia capitalistica assetata di piccoli guadagni sicuri, creò
ritardi gravissimi all’industrialismo italiano. Solo con l’avvento del governo delle
sinistre (ministero Depretis 1876-87), con le leggi dell’istruzione, sulla riforma
elettorale, sulle imposte e sulle tariffe doganali, accennano a profilarsi condizioni
meno rovinose per un’economia e una società che intendono allontanarsi da
condizioni semifeudali. L’intero decennio 1880-89 può generalmente considerarsi
come una fase di intensificata attività di espansione dell’industria, anche se
decisamente arretrata rispetto al resto dell’Europa. Di fronte a questa situazione il
contadino del Meridione, che aveva creduto di lottare per la sua emancipazione dalla
miseria e dalla servitù del latifondo, rivolge le armi contro i nuovi padroni
piemontesi (si ricordi, a questo proposito, il fenomeno del brigantaggio).
L’intellettuale del Nord, che aveva creduto nel trionfo di tutti gli ideali romantici, si
rifugia nella disperazione e tenta la strada d’una rivolta ideologica contro il

172
predominio dei “banchieri” e dei “droghieri” (Lorenzo Stecchetti), i “curvi che
incensano l’ara del dio metallo” (Emilio Praga).

10.2. “Questione della lingua” e prosa letteraria: Purismo, Neoclassicismo e


Neotoscanismo

Il Purismo. All’inizio dell’Ottocento, anche per reazione contro l’egemonia


della cultura francese e contro l’invadenza della lingua d’oltralpe, esportata ed
imposta in forme sovente autoritarie durante l’impero napoleonico, si sviluppò un
movimento che va sotto il nome di “Purismo”. Questo termine, inizialmente nato per
polemica14, indica in sostanza l’avversione e l’intolleranza di ogni innovazione, di
ogni influsso straniero, di ogni tecnicismo, di ogni neologismo, avversione dettata
da motivi letterari, retorici, o nazionalistici e politici. Un atteggiamento del genere
ebbe per inevitabile conseguenza un forte antimodernismo, e il culto dell’”epoca
d’oro” della lingua, identificata nel remoto passato, nel Trecento. Ne derivava un
vagheggiamento acritico dell’antico, un mito del sec. XIV come epoca felice della
lingua, un disprezzo dei tempi presenti, e infine una teoria della storia linguistica
intesa, pessimisticamente, come progressiva caduta. È evidente che la tradizione
linguistica italiana offriva, con il tradizionalismo cruscante e con il culto del
fiorentino arcaico (si pensi alle teorie di Salviati) salde basi sulle quali edificare
teoria puristiche più o meno rigide. Riconosciuto capofila del purismo ottocentesco
è il sacerdote veronese Antonio Cesari (1760-1828), autore di una nutrita serie di
opere di svariato argomento: letterario, devoto e, appunto, linguistico. In questo
settore importano soprattutto due testi: la Dissertazione sopra lo stato presente della
lingua italiana (premiata nel 1809 dall’”Accademia italiana di Scienze Lettere e Arti
di Livorno”, che aveva bandito un concorso l’anno precedente), e il dialogo Le Grazie
(Verona, 1813), che si finge avvenuto nella villa “le Grazie” presso Rovereto tra il
padrone di casa, Clementino Vannetti e altri due letterati, Giuseppe Pederzani e
Antonio Benoni. Il pensiero del Cesari è caratterizzato dall’antifrancesismo – non
diretto contro il francese, ma contro la mescidanza di italiano e francese –, e
dall’esaltazione del modello trecentesco, non tanto nel senso bembiano, quanto

14I termini purismo e purista nascono nel Seicento francese e si riferiscono al “pedante” o a chi parla
con affettazione; hanno al principio una connotazione fortemente negativa, tanto che nel 1809
Antonio Cesari si lagnava che lo chiamassero purista, quasi si trattasse di un’offesa..
173
piuttosto in quello del naturalismo fiorentino cinquecentesco, senza alcun interesse
per le ragioni storiche del suo primato (potenza economica di Firenze, eccellenza
letteraria delle “Tre Corone”, ecc.). La preminenza del Trecento non dipende per lui
dalla grandezza artistica del Petrarca e del Boccaccia, ma, sulla scia del Salviati, il
Cesari afferma che “Tutti in quel benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano
bene. I libri delle ragioni dei mercanti, i maestri delle dogane, gli stratti delle gabelle
e d’ogni bottega menavano il medesimo oro”. Si trattava di scritture caratterizzate
da “natural candore” e “schiette maniere”: pertanto l’uso di un arcaismo, per il
sacerdote veronese, significa “alla lingua restituir la parte di dote che avea perduta”.
Questa prospettiva lo porta a rivalutare non solo la lingua dei grandi autori, ma
anche la letteratura popolare e la lingua extra-letteraria trecentesca: da qui il grande
interesse, soprattutto nei dialogati de Le Grazie, per i modi idiomatici e detti
proverbiali attinti alla tradizione novellistica e ribobolaia toscana. Nel Cesari si
saldano l’assunzione del modello trecentesco, la vocazione classicistica per la lingua
della scrittura e i presupposti del naturalismo fiorentino cinquecentesco, con un
impasto linguistico che avrà grande seguito nel primo Ottocento.
Se Cesari è il capofila del Purismo, molte sono le figure che si muovono
nell’àmbito di questo movimento, dimostrano anche divergenze rispetto al
sacerdote veronese. Nel Cesari le idee linguistiche e letterarie si accordano con
posizioni moderate in politica, mentre nel frusinate Luigi Angeloni (1759-1842)
l’accesa passione per il Trecento convive con atteggiamenti ideologici libertari, anzi
giacobini (l’Angeloni fu tribuno nella Repubblica Romana nel 1798-99): in lui la
difesa della purezza linguistica è strettamente connessa alla rivendicazione
dell’unità spirituale e ideale della nazione. Il purismo dell’Angeloni si caratterizza
per l’ammirazione verso i grandi trecentisti, Boccaccio in testa; la conseguente
valorizzazione della sintassi periodica boccacciana, basata sull’inversione; il fastidio
per i modi idiomatici della tradizione popolare toscana, in direzione opposta a quella
del Cesari.
Nato una ventina d’anni dopo il cesari, il napoletano Basilio Puoti (1782-
1847) fu il più significativo esponente del purismo meridionale. Più che per gli scritti
linguistici, il Puoti va forse ricordato per la scuola privata (lo “studio”, come egli
amava dire) da lui creato a Napoli e che ebbe, tra i più illustri frequentatori,
Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini. In comune col Cesari, il Puoti condivideva

174
l’avversione al neologismo e in particolare al francesismo, il forte normativismo e la
soggettività del giudizio. Non mancano però le differenze: del Trecento il Puoti
ammira la semplicità, ma disdegna le componenti plebee; esalta il magistero
artistico di cui diedero prova i grandi scrittori del Cinquecento.
Il trecentismo purista influenzò abbastanza largamente, soprattutto nei
primi due o tre decenni del secolo, i letterati che aspiravano alla purezza linguistica,
reagendo all’ondata franceseggiante. Lo scrittore piemontese Carlo Botta (1766-
1837) fu pienamente solidale con il Cesari. Fu autore di una Storia della guerra della
indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809) in cui la lingua piena di arcaismi
cozza con il contenuto moderno. Un cinquecentista, in particolare, sembra aver
esercitato speciale ascendente: Bernardo Davanzati, traduttore di Tacito. Da lui il
Botta riprende il periodare classicamente atteggiato e ricco di tmesi, ma anche il
gusto per le espressioni idiomatiche di sapore popolaresco, come confortarsi cogli
aglietti ‘con deboli speranze’, dormirvi sotto lo scorpione ‘esservi nascosto un
inganno’, repubblicone largo in cintura ‘appassionatissimo per le cose della libertà’,
espressioni glossate alla fine del libro dall’autore. Oltre a parole obsolete quali
civanza ‘utile, guadagno’ (voce tipicamente fiorentina), misfare ‘far male’ ecc.,
l’autore usi i nomi antichi dei venti al posto delle designazioni dei punti cardinali,
tramontana, greco e maestro.
La predilezione per gli arcaismi si ritrova in due tipici, anche se fra loro
diversissimi, prodotti della letteratura romantica: i romanzi storici del democratico
livornese Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873) e i romanzi d’appendice del
gesuita trentino Antonio Bresciani (1798-1862). Il Guerrazzi e il Bresciani – agli
antipodi per ideologia – condividono il gusto per l’enfasi e l’esuberanza espressiva,
in un impasto di suggestioni bibliche, citazioni letterarie, movenze platealmente
oratorie. La sensibilità stilistica del Guerrazzi emerge bene attraverso la revisione
del romanzo La battaglia di Benevento (1ª edizione 1827-28, 2ª edizione 1852), in
cui lo scrittore interviene accentuando ulteriormente il livello aulico del testo: il
passato prossimo è sostituito frequentemente col passato remoto; il verbo essere
cede spesso il posto a formule più ricercate, in ossequio al principio retorico della
variatio (“il pianto è di femmine” → “spetta alle femmine”; “il cielo era sereno” → “il
cielo appariva”, ecc.); vocaboli comuni vengono surrogati con sinonimi culti, magari
col semplice ricorso a un suffisso arcaizzante (dispiacere → dispiacenza, invano →

175
indarno, circostanti → prossimani, divertirsi → sollazzarsi, ecc.). Il Bresciani ha legato
il suo nome all’introduzione in Italia del romanzo d’appendice, ossia di un romanzo
o di una novella pubblicati a puntate su un periodico (generalmente nella sezione
inferiore di una pagina fissa). Il più famoso fu L’ebreo di Verona, che uscì fra il 1850
e il 1851 e che metteva in scena vicende di stretta attualità, essendo ambientate tra
il 1846 e il 1849. Colpisce, fin dalle prime pagine, la sovrabbondanza, spesso
puramente esornativa; l’inversione nell’ordine delle parole nella frase; l’enclisi
pronominale praticata con compiaciuta insistenza (gittavasi, spalancasi, seguianlo,
ecc.); il mancato accordo del participio passato (in frasi come “fu visto una colonna
di fumo”; “visto la subita eruzione”); lo snodo narrativo boccacciano.
Il clasicismo. L’insegna del classicismo primo-ottocentesco è l’equilibrio.
Equilibrio fra tradizione e innovazione, innanzitutto; il richiamo del passato, alla
‘semplicità’ trecentesca e alla ricchezza e varietà del Cinquecento convivono con
significative aperture teoriche a temi mutuati dall’illuminismo francese. Anche nelle
idee dell’Angeloni e del Puoti si possono segnalare componenti “classicistiche”: ma
che cosa s’intende esattamente per classicismo? Si può rispondere che classicisti e
puristi procedono entrambi da un indirizzo tipicamente retorico di origine classica,
incardinato sui principi dell’incorrupte loqui (‘parlare correttamente’), dell’imitatio
di modelli considerati eccellenti e della consuetudo (‘uso dei dotti’). I classicisti
insistono sul carattere letterario, sulla qualità d’arte delle scritture prese a modello
e ammettono un margine di rinnovamento del sistema linguistico attraverso
l’arricchimento promosso soprattutto dall’analogia15; i puristi, invece, considerano
una certa fase linguistica (soprattutto il trecento toscano) naturalmente pura,
indipendentemente dalla sapienza stilistica e addirittura dal livello culturale degli
scrittori, e non ammettono, almeno in linea di principio, l’innovazione fondata
sull’analogia. Da queste premesse discende, nei classicisti, una dichiarata sensibilità
per la lingua come patrimonio intellettuale, non solo dei letterati, ma anche dei
filosofi e degli scienziati.
Il più significativo esponente del classicismo linguistico è senza dubbio il
poeta Vincenzo Monti (1754-1828), il quale, all’apice della sua celebrità letteraria,

15 Per “analogia” la linguistica ottocentesca intendeva la congruenza col sistema derivativo operante
in una lingua. Se esistono, ad esempio, biblioteca ed emanare, allora hanno diritto di cittadinanza –
siano o non siano attestati nella tradizione letteraria – i derivati bibliotecario ed emanazione, che
rientrano a pieno titolo nella serie segreto-segretario, abitare-abitazione, ecc.
176
ebbe la forza e l’autorevolezza per porre un freno agli eccessi del Purismo. Le
polemiche linguistiche montiane compongono la serie di volumi intitolata Proposta
di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita dal 1817 al 1824,
con un’appendice nel 1826. Quest’opera va ricordata non solo quale pietra miliare
nel dibattito sulla questione della lingua, ma anche come importante tappa nella
storia della lessicografia italiana. Gran parte della Proposta, infatti, era costituita
dalla ricerca di errori compiuti dai vocabolaristi fiorentini, errori dovuti anche alla
loro scarsa preparazione filologica (si tratta della cosiddetta Crusca veronese, diretta
dal Cesari).
La Proposta si presentava come un’opera d’équipe, in cui entravano parti
diverse, alcune propriamente storico-linguistiche, affidate a Giulio Perticari, altre di
vera e propria teoria lessicografica, come il Parallelo del Vocabolario della Crusca con
quello della lingua inglese compilato da Samuele Johnson e quello dell’Accademia
spagnola, saggio firmato da “G. G.”, sigla del lessicografo piemontese Giuseppe
Grassi, autore del Dizionario militare italiano (1817), e più tardi del Saggio intorno
ai sinonimi (1821). Anche il Parallelo del Grassi confermava la tesi generale espressa
in tutte le pagine della Proposta: il Vocabolario della Crusca era inadeguato,
caratterizzato da una visione angusta della lingua. Monti, pur senza sottolineare
esplicitamente il legame, si riallacciava alla lezione settecentesca di Cesarotti, al suo
Saggio sulla filosofia delle lingue. Il Monti guarda con sarcasmo il modello
trecentesco, che gli sembra non solo anacronistico, ma inadeguato culturalmente,
perché fondato su testi in prevalenza popolareggianti. Inoltre, nel suo intento di
valorizzare gli apporti non toscani alla cultura italiana, il Monti si ricollega alle
posizioni “italianistiche” di ascendenza cinquecentesca, per le quali l’italiano
letterario non risultava specificamente dal fiorentino trecentesco, bensì
dall’apporto degli scrittori di ogni parte d’Italia. Alla stessa tradizione, ma in
maniera più esplicita, si riallacciava Ludovico di Breme, intellettuale piemontese,
attivo nel gruppo romantico milanese, il quale dalle colonne del “Conciliatore”
appoggiava la polemica di Monti contro il Vocabolario della Crusca e contro ogni
forma di Purismo, invocando però allo stesso tempo un atteggiamento di critica
ancor più drastica nei confronti della tradizione italiana. Vi è dunque una certa
differenza tra le posizioni del classicista Monti e quelle del romantico Breme.
Entrambi, tuttavia, criticarono e condannarono il vocabolario della Crusca, comune

177
nemico. Questo scontro con gli accademici e con i puristi mosse le acque della
riflessione linguistica in Italia. variamente legati alla prospettiva del Monti sono il
piacentino Pietro Giordani (1774-1848) e i milanesi Carlo Cattaneo (1801-1869) e,
più anziano di lui, Giovanni Gherardini (1778-1861). Il Giordani, figura di primo
piano nel panorama letterario dell’epoca, difende il Trecento come il secolo d’oro
della lingua italiana, contro ogni affettazione o popolarismo, auspicando una prosa
che arieggi lo stile dei Greci. Il Cattaneo, più famoso come divulgatore in Italia del
concetto di “sostrato” che come teorico della lingua, non discute l’originario
fondamento fiorentino della lingua letteraria, ma valorizza la lingua come fatto di
cultura, in opposizione al popolarismo dei puristi e, come vedremo in seguito, dei
neotoscanisti. Del Gherardini è notevole l’accentuazione della componente
linguistica colta, ancora una volta in direzione anticruscante e antitoscanista: la
lingua non deve rifarsi alla “depravata” pronuncia del popolo, ma deve adeguarsi
all’etimo delle diverse parole.
Si possono ascrivere al classicismo primo-ottocentesco, ad una prosa
misurata e lessicalmente controllata, i prodotti della prosa letteraria del primo
cinquantennio del secolo, e anche quelli artisticamente più alti: le Ultime lettere di
Jacopo Ortis (1ª ed. completa: 1802, ultima edizione riveduta dall’autore: 1817), alle
Operette morali di Giacomo Leopardi (scritte in gran parte nel 1824, pubblicate nel
1827 e poi, con diverse varianti, nel 1835) e alle Mie prigioni di Silvio Pellico (1832).
La spiccata diversità dei tre libri – nell’ideologia professata, nella struttura esterna,
nelle ascendenze letterarie – si attenua sul versante della lingua. Il tratto saliente
comune alle tre opere è l’omogeneità, ottenuta schivando modi e forme rare e
arcaiche (a differenza dei puristi o di narratori come Guerrazzi o Bresciani) e,
viceversa, marcati colloquialismi, anche di matrice toscana (a differenza, come
vedremo, di un Tommaseo o di un Nievo, ma anche del Manzoni). Alla sostanziale
selezione del lessico si accompagna una sintassi più o meno complessa (sotto questo
aspetto il Leopardi e il Pellico sono agli antipodi), ma che in ogni caso è aliena da
inversioni e da tmesi troppo artificiose, ispirandosi a un’equilibrata ricerca di
armonia. Le cose cambiano per lo stile, in cui l’accensione eroica dell’Ortis si
contrappone al raziocinare delle Operette ed entrambe le opere si distaccano dal
pacato intimismo delle Prigioni. Nell’Ortis sono significative le scelte sintattiche e
topologiche: nessun esempio di frasi con verbo in clausola; rara l’anteposizione di

178
aggettivi di relazione e la tmesi di ausiliare e participio o di verbo servile e infinito.
Il lessico, generalmente elevato, si apre di tanto in tanto a forme correnti, che
vogliono adeguarsi alla finzione epistolare (babbo, ragazzate), mentre l’assetto
complessivo del romanzo foscoliano è lontano da movenze del parlato. Nelle
Operette leopardiane spicca l’impalcatura sintattica di gusto classicheggiante (ad
esempio, con coppie di termini contrapposti in cui il secondo integra il valore
semantico del primo: Storia del genere umano, “non che vasti, ma infiniti”; “non che
tollerata, ma sommamente amata”, ecc.) e lo stile periodico scandito da congiunzioni
fortemente letterarie e arcaizzanti (perciocché, eziandio, acciocché, dappoiché, ecc.).
Le Operette dialogiche sono caratterizzate da un ritmo più vivace, da una lingua
aperta a suggestioni lessicali moderne (ad esempio, nel Dialogo di un folletto e di uno
gnomo troviamo gazzette, lunari) e a modi di colorito colloquiale. La tessitura
stilistica dell’opera del Pellico è caratterizzata dal registro colto, senza nessuna
concessione alla mimesi dell’oralità, neppure nel riprodurre il discorso di
personaggi umili; proprie di una certa sostenutezza oratoria sono le frequenti
esclamazioni (“Povero mio cuore!”) e le interrogative retoriche (“A tanto può
giungere la ferocia? [...] Uccidere un innocente! Un fanciullo!). L’ordine sintattico è
generalmente lineare (soggetto-verbo-complementi), le subordinate sono implicite
col gerundio o infinito o proposizioni relative: vale a dire strutture comuni anche nel
parlato, stilisticamente non marcate.
Il toscanismo. Al primato del toscano sugli altri dialetti italiani e insieme al
prestigio che compete a una lingua parlata, spontanea e naturale, rispetto agli artifici
propri della lingua letteraria, si richiamano i “neotoscanisti” e con loro Niccolò
Tommaseo. Figura complessa come scrittore e come uomo, il Tommaseo intervenne
a più riprese nella questione della lingua; di particolare rilievo l’Introduzione al
celebre Dizionario dei sinonimi del 1830 e un ampio volume del 1841 che, già nel
titolo, suona come una replica alla Proposta montiana: Nuova Proposta di correzioni
al Dizionario italiano. La norma linguistica, secondo lo scrittore dalmata, risiede
nell’uso toscano vivo, tanto da arrivare a menzionare, tra i consulenti del suo
Dizionario, “una donna povera e ignota”, e ad auspicare, per l’educazione linguistica
degl’italiani, il diretto contatto con toscani vivi, non necessariamente colti. Tuttavia
il toscanismo del Tommaseo, a differenza della coerente costruzione manzoniana, è
tutt’altro che compatto. Intanto è forte e dichiarato il legame con la tradizione

179
letteraria, portatrice di valori civili e culturali a cui sono riconosciuti un peso e
un’incidenza decisivi nell’esercizio della lingua. Inoltre l’accoglimento del modello
toscano è pur sempre subordinato a motivazioni di gusto personale. Il Tommaseo,
ad esempio, sa che il toscano coevo aveva monottongato in o il dittongo uo dopo un
suono palatale (in casi come figliola, famigliola), ma preferisce i tipi tradizionali,
poiché le forme senza dittongo “ad occhio non toscano riescono il più delle volte
spiacevoli”. Lo scrittore dalmata cercherà di realizzare i principi toscanisti sostenuti
nella questione della lingua nel suo romanzo Fede e bellezza (1840). Tuttavia il
risultato costituisce un ibrido: i toscanismi, inseriti in un tessuto stilistico letterario
a tratti aulico, riescono stridenti e affettati. Accanto ai numerosi toscanismi lessicali
(come ammencito ‘vizzo’, daddoli ‘moine infantili’, giucco ‘sciocco’, malito
‘malaticcio, pezzotta ‘fagotto involto in una pezzuola), troviamo anche toscanismi
grammaticali. Alcuni sono comuni alla tradizione letteraria e si fanno notare per la
loro concentrazione nelle pagine del romanzo, come la riduzione dei monottonghi
discendenti (de’, ne’, a’, que’, se’, vuo’, ha’, ecc.). Altri, pur trovando riscontri col
toscano antico, non erano riusciti ad acclimatarsi nella prosa letteraria e suonavano
ormai come vistosi idiotismi: si pensi ai numerali vensei, vensette, dumila, o al
cosiddetto participio ‘accorciato’, cioè senza suffisso (le aveva racconto ‘le aveva
raccontato’). Altri ancora, ugualmente ben attestati nei primi secoli, erano declinati
nell’uso toscano coevo e appartengono alla componente libresca del romanzo: si va
dal dittongo dopo palatale, ai pronomi egli, ella o ai o alle forme letterarie (le sapean
grado ‘le erano grati’). Il settore in cui il Tommaseo sembra svincolarsi dal peso della
tradizione letteraria, è la sintassi del periodo. A parte due costrutti latineggianti e
l’”accusativo di relazione” di tono poetico, il ritmo della narrazione procede
velocemente, scandito da frasi giustapposte, con nessi coordinativi ridotti o assenti.
Non raro il ricorso a frasi nominali, un modulo stilistico che sarebbe entrato
largamente nella narrativa solo alla fine del secolo.

10.3. Il modello manzoniano e la prassi correttoria dei “Promessi Sposi”


Tra i romantici milanesi si dibatteva attorno al problema, già sollevato nel
Settecento, dell’italiano in tutto o in parte simile ad una lingua ‘morta’: una lingua,
cioè, che si imparava dai libri, che si utilizzava per la letteratura e per le occasioni
ufficiali, valida per il piano ‘nobile’ della comunicazione, ma inadatta ai rapporti

180
quotidiani e familiari, per i quali era molto più facile e funzionale usare il dialetto,
quando non addirittura una lingua straniera come il francese. Manzoni si trovò a
fare i conti con una situazione del genere, l’affrontò con determinazione, e le sue
idee, maturate nella stesura dei Promessi Sposi, poi divenute una teoria linguistica di
portata generale e di alto valore sociale, influirono profondamente, collaborando a
mutare la situazione dell’italiano, rendendo la nostra lingua più viva e meno
letteraria, o almeno offrendo un modello di letterarietà diverso da quello
tradizionale.
La teoria linguistica manzoniana segna una svolta nelle discussioni sulla
‘questione della lingua’. Alcune delle sue pagine migliori e più profonde sono
contenute in una serie di carte private, che non arrivarono alla forma di saggio
organico e definitivo. Si può affermare che Manzoni, negli interventi pubblici, non
esibì affatto il lavoro teorico che aveva perseguito per anni. In vita, dunque, egli curò
la pubblicazione di interventi più brevi e occasionali, come la Lettera al Carena
(datata 1847, ma stampata nel 1850), la Relazione del 1868 al ministro Broglio, la
Lettera intorno al libro ‘De vulgari eloquio’ di Dante Alighieri (1868), la Lettera
intorno al Vocabolario (1868), l’Appendice alla Relazione (1869). Dopo la morte di
Manzoni fu pubblicata la Lettera al Casanova (che risale al 1871); quindi uscirono
man mano diversi altri frammenti e manoscritti, tra i quali alcuni capitoli del trattato
incompiuto Della lingua italiana, “eterno lavoro” al quale attese dal 1830 al 1859, di
cui ci restano cinque redazioni.
L’interesse del Manzoni ai problemi del linguaggio fu dunque vivissimo e ne
condizionò fortemente l’attività letteraria. Molto precoci le riflessioni sulla specifica
situazione italiana, come dimostra la lettera all’amico Claude Fauriel del 1806, la
prima che ci sia pervenuta di quel fitto carteggio e l’unica scritta in italiano. Il
ventunenne Manzoni vi osservava con molta lucidità che “lo stato d’Italia divisa in
frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale l’hanno posta in tanta distanza
tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta”. Le personali
esigenze di romanziere lo obbligarono ad occuparsi del problema della prosa
italiana (il linguaggio poetico, per contro, non era oggetto di discussione) fin dal
1821, con la stesura del Fermo e Lucia, redazione iniziale dei Promessi Sposi,
pubblicato postumo col titolo arbitrario Gli sposi promessi nel 1915, che si svolse fra
l’aprile del 1821 e il settembre del 1823, con alcuni mesi d’interruzione fra il 1821

181
e il 1822. Questa prima fase, che si riflette in una lettera al Fauriel (3 novembre
1821), viene definita come “eclettica”, nel senso che egli cercava di raggiungere uno
stile duttile e moderno mediante il ricorso a vari elementi, utilizzando il linguaggio
letterario, ma senza vincolarsi ad esso alla maniera dei puristi, anzi accettando
francesismi e milanesismi, o applicando la regola dell’analogia. Nella lettera il
Manzoni riconosce che gli italiani, almeno i non toscani, se devono scrivere un
romanzo – al contrario dei francesi che posseggono una lingua adeguata a descrivere
le diverse realtà sociali in modo omogeneo –, si trovano fra le mani una lingua che
non è parlata, in cui non c’è l’abitudine di discorrere di problemi intellettuali e
filosofici, che insomma non dà la sensazione di poter creare una comunione col
lettore, di costituire uno strumento posseduto da entrambi. Una descrizione della
propria lingua letteraria fu data dal Manzoni stesso nella seconda introduzione al
Fermo e Lucia, del 1823, dove prendeva ormai le distanze dallo stile ‘composito’, e
lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo, ammettendo il (provvisorio)
fallimento.
Già all’altezza del 1823 viene delineandosi quello che, per ragioni storiche e
culturali, gli sembra destinato al rango di modello linguistico: il toscano. Si tratta
d’individuare una lingua reale nell’àmbito delle varietà parlate in Italia; il toscano
(poi, il fiorentino) costituisce l’unico tipo linguistico che si trova nella condizione di
poter essere accolto dagli italiani delle altre regioni, tutti concordi nel riconoscergli
un primato. Il primato c’è, dunque, ma è di ordine storico-culturale, non dipende da
requisiti intrinseci del fiorentino in quanto tale. Tra il 1824 e il 1827 il Manzoni
riscrive interamente il romanzo, modificando o sopprimendo interi episodi e
sforzandosi di rendere toscanamente omogeneo l’assetto formale. Tale fase fu
chiamata dallo stesso Manzoni toscano-milanese, perché gli strumenti a sua
disposizione erano essenzialmente libreschi: dal Vocabolario milanese-italiano del
Cherubini, alla Crusca veronese, da lui attentamente postillata, ai tanti testi letterari
toscani di colorito popolareggiante che in questo periodo furono letti, riletti,
meditati. In generale, l’autore è particolarmente attirato dalle concordanze tra
dialetto milanese e linguaggio fiorentino. Ad esempio, sotto “AVERE che fare”
Manzoni riporta una frase di Sacchetti in cui ricorre l’espressione “ebbono assai che
fare di potere acchetare la moltitudine”, e quindi annota: “Corrisponde appuntino
al milanese: aver da fare. Avoir bien de la peine”. In questo caso viene proposto, cosa

182
non infrequente, il confronto con l’equivalente francese: Manzoni utilizza insomma
gli strumenti che gli sono familiari (il dialetto, il francese) per approfondire la
conoscenza del toscano. Molte di queste postille mostrano il fastidio dello scrittore,
che dopo aver consultato testi e vocabolario non era ancora in grado di sapere con
certezza se le forme linguistiche che lo interessavano fossero vive ormai obsolete.
Ecco ad esempio che cosa Manzoni annotava, con enfasi risentita, di fronte ad un
esempio del predicatore medievale Cavalca riportato dal vocabolario, in cui
risultava il costrutto “avere misericordia in qualcuno”, così commentato dal
vocabolarista: “Si usa con l’IN. …alla Latina, In eum verso quello”: “Si usa? come lo
sapete? perché il Cavalca l’ha usato una volta? E perchél’ha usato alla latina?
traducendo? E questa l’idea dell’Uso?”. Come si vede, Manzoni sembra qui avviare
una sorta di contraddittorio polemico con il suo vocabolario, mentre in lui matura
un diverso concetto di ‘uso’, legato non più ad un eventuale lontano impiego
letterario, ma alla vita della parola in una vera comunità di parlanti.
La pubblicazione del romanzo, compiuta nel 1827 (l’edizione cosiddetta
“ventisettana”), riscosse immediato successo. Questo studio libresco, però, non
appagò l’autore che nel luglio di quello stesso anno, si decise a compiere il tanto
sospirato viaggio a Firenze, dove avviò la celeberrima ‘risciacquatura di panni in
Arno’. Il contatto diretto con la lingua toscana suscitò una reazione decisiva, tanto
che in una lettera del 1828 a Leopoldo II di Toscana parlava della “delizia di vivere
in codesta lingua”. Fu la conferma di scelte già maturate, che andarono sempre più
precisandosi: il modello da proporre non è genericamente il toscano (diviso in più
dialetti, anche se di poco difformi tra loro), bensì una sua varietà popolare: il
fiorentino delle persone colte, senza alcun eccesso di affettazione locale o ribobolaia.
La cultura dei parlanti è però in secondo piano: per il giudizio del Manzoni i pareri
di Emilia Luti, modesta istitutrice della nipotina, contano quanto quelli del
tragediografo G.B. Niccolini o del poligrafo Gaetano Cioni, tutti e tre fra i principali
consulenti della revisione linguistica dei Promessi Sposi. A partire dal 1830 circa, la
riflessione linguistica di Manzoni si sviluppò con maggior impegno, sia nelle varie
stesure del già citato trattato Della lingua italiana, sia nel Sentir messa, trattatello
inedito composto fra il ‘35 e il ‘36 e pubblicato postumo nel 1923. L’esito pubblico
di questo travaglio fu la nuova edizione dei Promessi Sposi, nel 1840-1842, corretta
per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso, resa scorrevole, piana, purificata da

183
latinismi, dialettismi ed espressioni letterarie di sapore arcaico. Nel 1847, in una
lettera al lessicografo piemontese Giacinto Carena, Manzoni espresse la propria
posizione definitiva, auspicando che la lingua di Firenze completasse quell’opera di
unificazione che già in parte si era realizzata proprio sulla base di quanto vi era di
vivo nella lingua letteraria toscana.
Il nuovo testo fu pubblicato a dispense nel 1840-1842, e fu accolto con giudizi
contrastanti. Alcuni preferivano la ventisettana, come il Giusti (che poi cambiò idea),
il Cantù, il De Sanctis, il Bersezio, Carlo Cattaneo e Carlo Tenca. Altri invece
plaudirono alla revisione, riconoscendo che lo scrittore aveva tentato la difficile ed
importante operazione di avvicinare sempre di più la lingua scritta a quella parlata.
Si possono così sintetizzare i criteri della prassi correttoria manzoniana:
1) espunzione abbastanza ampia delle forme lombardo-milanesi, sovente
coincidenti con forme toscane attestate nella letteratura di genere comico dei secoli
passati. Manzoni, studiando il vocabolario della Crusca, non aveva mancato di
segnare e sottolineare queste coincidenze ogni volta che gli capitavano sotto gli
occhi. Se vogliamo esemplificare questo tipo di intervento correttorio, tra i tanti casi,
possiamo citare l’eliminazione del termine marrone per ‘sproposito’: ho fatto un
marrone > ho sbagliato, abbia fatto ben grosso il marrone > l’ abbia fatta bella,
manifestare un marrone > palesare uno sproposito. Si noti che “fa on gran maron o on
maron gross” è espressione milanese, registrata dal vocabolario dialettale del
Cherubini. Allo stesso tempo, però, fare un marrone è espressione nota anche alla
tradizione toscana, usata da autori comici come Berni e Buonarroti il Giovane.
Manzoni, in questo caso, elimina la forma idiomatica, e opta per una soluzione
stilisticamente più ‘neutra’;
2) eliminazione di forme eleganti, pretenziose, scelte, preziosistiche, auliche,
affettate, arcaicizzanti, o letterarie rare. Al loro posto vengono introdotte forme
comuni e usuali. Citiamo qualche esempio: lunghesso la parete > strisciando il muro,
l’affisò > lo guardo, agguatando > spiando, guatare > guardare; aere > aria; bamboli
/ pargoli > bambini; desco > tavola; fidanza > fiducia; tema > paura / timore, ecc.
3) assunzione di forme tipicamente fiorentine. L’attenzione degli osservatori
dell’epoca individuò subito, tra queste forme, i monottongamenti di -uo-. L’opzione
è generale quando il dittongo è preceduto da palatale: spagnuolo > spagnolo,
stradicciuole > stradicciole ecc.; meno netta negli altri casi: a frastono, move, riscotere

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si affiancano infatti buono, cuore, fuoco, fuori, nuovo, uomo, ecc. con un’alternanza
che doveva corrispondere alla naturale oscillazione del fiorentino borghese
contemporaneo, di volta in volta incline al più sorvegliato dittongo o al più
popolareggiante monottongo16. Nel consonantismo si passa tra l’altro dalla serie
beneficio, edificio, sacrificio alla serie benefizio, ecc.; da conchiusione a conclusione;
da imagine a immagine. Più rilevante, in morfologia, la fortissima riduzione dei
pronomi egli e ella, femminile e allocutivo, che vengono in gran parte soppressi se
anaforici, o sostituiti con lui e lei. La 1ª persona dell’imperfetto indicativo assume –
tranne che in quattro casi – la desinenza -o (io aveva > io avevo), d’uso antico a
Firenze, ma a lungo osteggiata dalla tradizione grammaticale. Si diffonde largamente
l’interrogativo ellittico cosa? invece di che cosa?. Tra le microvarianti, da ricordare
l’abbondanza di elisioni (di alloggiare > d’alloggiare), di apocopi
postoconsonantiche (non mancavano mai > non mancavan mai), e postvocaliche
(nelle preposizioni articolate a’, de’, co’, e in que’), la quasi generale eliminazione
della d eufonica tranne che davanti a vocale corrispondente, la preferenza accordata
alle forme analitiche delle preposizioni articolate per il, per la, ecc., e con lo, con la
rispetto alle forme sintetiche pel, collo, ecc., il passaggio da fra a tra e l’incremento
di ci rispetto a vi.
4) eliminazione di doppioni di forme e di voci, secondo un principio teorico assai
caro al Manzoni: eguaglianza > uguaglianza, quistione > questione, giovine > giovane,
dimandare > domandare, veggo > vedo.
Non vi è dubbio che l’uso manzoniano ha in certi casi influenzato decisamente
il destino della lingua italiana. Così per la diffusione di lui e lei soggetto, o per
l’eliminazione delle forme pel e col, o ancora per la quasi generale eliminazione della
d eufonica dai monosillabi ad / ed tranne che davanti a vocale corrispondente. In
altri casi, invece, il modello manzoniano ebbe meno efficacia, come per la larghezza
di elisioni e di apocopi. La posizione di Manzoni è centrale nella storia della prosa
ottocentesca non solo per il valore della sua realizzazione letteraria, ma anche per
l’influenza che esercitò su molti scrittori. Grossi, Cantù, Carcano, d’Azeglio (i primi
tre lombardi, il quarto piemontese) furono legati a Manzoni, e tentarono la via del
romanzo, senza però realizzare appieno l’omogeneità linguistica del modello. Tra

16Negli scritti successivi Manzoni adopererà più largamente forme con o (frequenti, in particolare,
bono, core, novo), ma senza abbandonare del tutto i tipi tradizionali.
185
coloro che si ispirarono al Manzoni, seppure con meno rigore e coerenza del maestro
nelle scelte linguistiche, va ricordato De Amicis, autore di opere di grande successo,
che collaborarono a divulgare una lingua media moderna.

10.4. L’eredità manzoniana


L’esempio dei Promessi Sposi, sostenuto anche dal successo generalizzato
riscosso dai vocabolari filo-fiorentini, ha avuto almeno due effetti di portata
generale: ha avvicinato la lingua scritta a quella parlata e ha lentamente insinuato
nell’uso molte varianti grammaticali che il Manzoni aveva accolto nell’edizione
definitiva del romanzo. Come esempi di quest’ultimo processo ricordiamo: 1.
Riduzione del dittongo uo a o dopo palatale (come in campagnuolo > campagnolo);
2. Semplificazione di varianti morfologiche, specie verbali (con affermazione del
primo elemento della serie come deve / dee / debbe, siano / sieno, vedo / veggo /
veggio); 3. Declino dei pronomi personali di 3ª persona egli e ella, sostituiti da lui e
lei o soppressi; 4. Adozione del pronome interrogativo cosa accanto ai tradizionali
che e che cosa; 5. Espansione della 1ª persona dell’imperfetto indicativo in -o (io
avevo in luogo del tipo etimologico io aveva.
Ugualmente importante l’infiltrarsi nella trama prosastica di modalità
colloquiali, relative a lessico, sintassi e stile; un fenomeno particolarmente evidente
nei romanzi ma avvertibile anche in generi alquanto distanti, come la memorialistica
e la divulgazione storica. Attingendo a piene mani dal serbatoio dell’uso vivo
toscano, il lombardo Emilio Broglio, ad esempio, scrisse una biografia storica (Il
regno di Federico II di Prussia, 1874-1876) che per l’affettazione di frasi idiomatiche
va molto oltre le equilibrate aperture manzoniane nei confronti del parlato e che
spiacque in primo luogo agli stessi fiorentini.
La lezione manzoniana opera con moderazione e intelligenza in uno scrittore
di grande successo come Edmondo De Amicis (1846-1908). La fortuna popolare di
Cuore non è certo legata al fiorentinismo, per altro moderato, del suo autore (per cui
troviamo in iscuola, questo focolino, rote, appuntino, panni), ma alla messa appunto
di una sintassi semplice, paratattica, persino elementare, che non sdegna la
ripetizione per chiarezza, la ridondanza della lingua media. De Amicis volle
esprimere il suo filo-fiorentinismo d’ispirazione manzoniana in un trattato
grammaticale che ebbe enorme successo, L’idioma gentile, pubblicato nel 1905.

186
Un filone toscaneggiante di una certa consistenza è alimentato da scrittori
toscani di nascita, come Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini, 1826-1890), autore
del celeberrimo Pinocchio (1883), del maremmano Renato Fucini (1843-1921),
ricordato soprattutto per Le veglie di Neri (1890), e il quasi coetaneo, amiatino,
Mario Pratesi di Santa Fiora (1842-1921), resosi famoso con la raccolta di novelle In
provincia (1883). L’opera di Collodi attesta ci offre un esemplare spaccato del
fiorentino vivo di tono medio contemporaneo, perché equidistante dal livello
letterario e da quello ultrapopolare, ma al tempo stesso ‘vivo’ per le continue
incursioni nel registro parlato, di tipo più o meno familiare. Fucini e Pratesi
presentano linguisticamente alquanti tratti in comune: numerosi toscanismi
grammaticali, soprattutto nei dialoghi; forme con o invece di uo; riduzione di
determinati gruppi vocalici alla prima componente (come nelle forme mi’ ‘mia’, vo’
‘voi’, ecc.); epitesi di é negli avverbi sì e no (sie, noe); interrogative dirette introdotte
da o; lessico locale e tecnicismi abbondanti, difficilmente riscontrabili nei Promessi
Sposi.

10.5. Il rinnovamento della prosa: espressionismo e verismo


Un diverso uso del toscanismo si ha negli scrittori che Gianfranco Contini ha
ascritto alla cosiddetta linea del “mistilinguismo”, facendone degli anticipatori più o
meno volontari dell’espressionismo linguistico e di certe tendenze proprie del
Novecento. Tra essi ricorderemo il lombardo Carlo Dossi (1849-1910), il
piemontese Giovanni Faldella (1846-1928) e, in area meridionale, Vittorio Imbriani
(1840-1886). Lo stile di questi autori si caratterizza per l’uso di forme linguistiche
attinte a fonti diverse: toscano arcaico (in Faldella, Figurine, 1875: bellore ‘bellezza’,
fumea ‘fumo’, penace ‘che dà pena’, ecc.), toscano moderno (in Faldella: prendere il
drizzone ‘intestardirsi’, machione ‘furbo’, scataroscio ‘scroscio’), linguaggio comune
e dialetto (sempre in Faldella, i piemontesismi baliotta ‘figlia di latte’, faccia da
Artabano ‘corrucciata’, sbolzo ‘ansante’, ecc.) si trovano a coesistere in una miscela
composita. Nel caso del Faldella, poi, siamo in grado di controllare l’apprendistato
di uno scrittore alla ricerca della lingua: lo si può fare attraverso il suo Zibaldone,
sorta di personale vocabolario, in cui registrava le parole interessanti che scovava
nelle sue letture, orientate verso gli autori comici del Cinquecento, o verso un autore
toscano dell’Ottocento come Giuseppe Giusti. Va detto tuttavia che Faldella non

187
sempre fu completamente cosciente della portata stilistica d’élite propria del suo
stile ricercato e, per molti aspetti, ‘antirealista’. A volte egli sembra convinto che
questa sua prosa, caratterizzata in realtà da effetti preziosi, sia un italiano semplice
e popolare, adatto ad una letteratura carica di significato morale ed educativo, quale
egli voleva realizzare. Non era comunque disposto a rinunciare alle risorse della
tradizione e della parlata popolare, e in questo senso si discostava risolutamente
dall’omogeneità stilistica a cui si era ispirato Manzoni.
Benché l’identificazione di naturalismo e regionalismo sia riduttiva o
addirittura fuorviante, non c’è dubbio che uno dei problemi più urgenti per gli
scrittori in qualche modo legati alla corrente veristica sia quello del rapporto tra
lingua e dialetto. La ricerca veristica di “una prosa viva, efficace, adatta a rendere
tutte le quasi impercettibili sfumature del pensiero” (secondo le parole di Luigi
Capuana, 1839-1815, nel suo saggio del 1885 Per l’arte) ha spesso come risultato
una scrittura caratterizzata da scompensi espressivi: francesismi recenti (Matilde
Serao, Fantasia, 1883: timbro ‘campanello’ o cuponi ‘tagliandi’), convivono con
toscanismi (Capuana, Giacinta, 1879: rastiar ‘raschiare’, omo; Serao: pesa ‘pesante’,
capinnascondere ‘nascondino’), regionalismi (come stare ‘essere’ e l’ausiliare avere
con verbo pronominale nel seguente esempio della Serao: “Se ci sta in piazza! Se non
l’han preso tutto!”) e vere e proprie mende (Capuana: “Lo attendo”, con errato
impiego del pronome personale-allocutivo in luogo di “La attendo”; così +
superlativo: “La impressione era così nuova, così piacevolissima, ecc.”).
Ben altra importanza ebbe la svolta inaugurata da Verga, soprattutto nei
Malavoglia. Qui si ha un modesto tasso di sicilianità linguistica, che si accompagna
pero ad una utilizzazione sapientissima e dissimulata dell’elemento locale, di fatto
onnipresente. Verga non abusa del dialetto, e non lo usa come macchia locale, come
inserto confinato nel discorso diretto dei personaggi dialoganti. L’adozione diretta,
come macchia realistica, di gran lunga la più semplice tra le opzioni possibili, era
stata scelta da Fogazzaro e da De Marchi. Il procedimento messo in atto nei
Malavoglia è assai più ambizioso: si tratta di adattare la lingua italiana a plausibile
strumento di comunicazione per dei personaggi siciliani appartenenti al ceto
popolare, senza per altro regredire ad un dialetto usato in maniera integrale. Lo
scrittore adotta dunque alcune parole siciliane note in tutt’Italia, e poi ricorre a
innesti fraseologici, come quando usa le espressioni pagare (col violino) (‘pagare a

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rate’), pigliarsela in criminale (‘prendersela a male’), hanno la rabbia (‘sono
bramose’): questi modi proverbiali hanno una rispondenza nel dialetto, al quale
Verga si richiama. Tratti popolari sono anche i soprannomi dei personaggi, l’uso del
che polivalente ricalcato sul ca siciliano, la ridondanza pronominale, il ci
attualizzante (ad es. in averci), gli per ‘loro’. Questi tratti popolari servono a simulare
un’oralità viva, suggerita anche da raddoppiamenti e ripetizioni (“ci levano la
camicia di dosso, ci levano”). Molto nuova risulta la sintassi usata da Verga, che ha
cercato una soluzione in grado di ridurre le distanze tra la lingua del narratore e
quella dei personaggi, mettendo a punto il discorso indiretto, liberandolo dal
sintassema del verbo dicendi o putandi. Ne risulta un discorso in comproprietà che
deve attenuare ulteriormente le differenze di linguaggio tra i diversi soggetti
dell’enunciazione narrativa. È il discorso indiretto libero, in particolare, a
moltiplicare i tempi dell’imperfetto (e del trapassato) e a dare spazio al racconto in
terza persona (singolare o plurale), immettendo la soggettività nell’apparente
oggettività del racconto. Nella genesi e nella fortuna del discorso indiretto libero ha
rappresentato una parte importante la volontà degli scrittori di trovare soluzioni
sintattiche più sciolte, meno rigide, meno complicate, che andassero anche al di là
del rinnovamento prodotto dal Manzoni. L’innovazione stilistica permetteva di
snellire il periodo eliminando tutta una serie di frasi subordinate, e dava voce a
personaggi nuovi, popolari, appartenenti al mondo degli umili e dei ‘vinti’. Si
completava dunque, seppure sulla base di ipotesi teoriche completamente diverse,
il cammino della lingua scritta verso il parlato, ora non solamente nella forma del
toscano, ma anche dell’italiano popolare e regionale: una strada che sarebbe stata
battuta da molti scrittori ‘(neo)realisti’ del secolo seguente.

10.6. La lessicografia: dizionari generali, puristici, di sinonimi, metodici e dialettali


Dizionari generali. L’Ottocento, in Italia, è stato il secolo dei dizionari: una
stagione splendida per ricchezza di produzione e per qualità, oltre che per varietà di
realizzazioni. Per valutare appieno il progresso compiuto, si pensi che parlare di
lessici in Italia, riferendosi al periodo che intercorre tra il sec. XVI e il sec. XVIII,
equivale essenzialmente ad occuparsi del Vocabolario della Crusca, quasi unico
protagonista delle discussioni. Nell’Ottocento, invece, il quadro si complica
vistosamente. Va osservato tuttavia che anche nel sec. XIX il dibattito lessicografico

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prese le mosse dalla Crusca, sia in riferimento alle idee linguistiche della vecchia
accademia, sia in riferimento alla rivisitazione settentrionale del Vocabolario degli
Accademici, realizzata nel 1806-1811, dal padre Antonio Cesari di Verona, capofila
del Purismo, la cosiddetta Crusca veronese. Cesari aveva riproposto il Vocabolario
della Crusca con una serie di giunte, allo scopo di esplorare ancor più a fondo il
repertorio della lingua antica, la lingua trecentesca e cinquecentesca: da una parte,
quindi, si ripescano gli scritti non solo dei grandi autori, ma anche dei minori e
minimi, con rare ammissioni per gli altri secoli, mentre dall’altra si conferma il
rifiuto nei confronti della terminologia tecnico-scientifica.
Dopo la Crusca veronese di Cesari si ebbero diverse altre realizzazioni
lessicografiche degne di rilievo. Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario
della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, anch’esso nato da una revisione della
Crusca. Manuzzi fu un purista come Cesari, e il suo vocabolario, per quanto corretto
e accurato, conferma la tendenza di una parte della cultura italiana ad assestarsi nel
solco del passato, a radicarsi in esso. Sono sostanzialmente delle riproposte della
Crusca, seppure con varie aggiunte e correzioni, anche il Dizionario della lingua
italiana in sei volumi di Francesco Cardinali, Francesco Orioli e Paolo Costa, la cui
pubblicazione iniziò a Bologna nel 1819, e il Dizionario della lingua italiana in sette
volumi di Luigi Carrer e Fortunato Federici, uscito a Padova tra il 1827 e il 1830,
comunemente detto “della Minerva”, dal nome della tipografia che lo stampò.
Entrambi i vocabolari, quello di Bologna e quello di Padova, dichiarano di aver
integrato la Crusca con le voci attinte dall’Alberti di Villanova, dalla Proposta di
Monti, e anche dalla Crusca veronese di Cesari.
Le opere citate possono dare l’impressione di una certa monotonia, di una
mancanza di originalità, per il tentativo di sommare l’esistente mediante l’accumulo
di ‘giunte’, aggiunte al vocabolario di base, che era pur sempre quello della Crusca.
La somma delle ‘giunte’ avveniva in maniera piuttosto meccanica, senza che si
ripensasse in maniera nuova e originale la struttura stessa dell’opera lessicografica.
Questa debolezza è verificabile anche nella forma grafica: un asterisco è il segno
generalmente scelto per contrassegnare tutte le voci non presenti nella Crusca, le
quali, pertanto, risultano riconoscibili al primo colpo d’occhio. Questa soluzione può
risultare comoda per identificare in maniera rapida le novità introdotte, ma allo

190
stesso tempo è anche prova di una difficoltà nell’amalgamare l’insieme,
dell’impossibilità di tagliare di netto con il passato.
Tra il 1829 e il 1840 la società napoletana Tramater, sotto la direzione
dell’abruzzese Raffaele Liberatore, diede alle stampe il Vocabolario universale
italiano, la cui base era ancora la Crusca, ma rivista in maniera sostanziale; l’opera
aveva un taglio tendenzialmente enciclopedico, e dedicava particolare attenzione
alle voci tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri, nel solco di quanto aveva voluto
fare alla fine del Settecento il lessicografo nizzardo Alberti di Villanova. Il
vocabolario dell’Alberti è giustamente considerato un elemento di novità, così come
lo e il Vocabolario universale italiano, detto “Tramater” dal nome della società
tipografica napoletana che lo stampò. L’opera si segnala per il superamento delle
definizioni tradizionali. I vocabolari del passato avevano fatto riferimento a
conoscenze presupposte nel lettore, definendo ad esempio il cane come ‘animal
noto’, o il cavolo come ‘erba nota’, e via di questo passo. Nel Tramater, invece, la
definizione zoologica e botanica poggia sulla precisa classificazione scientifica, per
cui il cane è la “specie di mammifero domestico appartenente all’ordine de’ carnivori
ed al genere dello stesso nome, che ha sei denti incisori trilobati alla mascella
superiore...”, è il cavolo e “genere di piante della tetradinamia siliquosa, famiglia
delle crucifere...”. Per ricchezza e apertura verso il nuovo, il vocabolario Tramater fu
il migliore disponibile sul mercato italiano, e avrebbe mantenuto questo primato, se
non fosse stato superato dal Tommaseo-Bellini, che oscurò il destino di tutti i
concorrenti.
In contrasto con la proliferazione di grandi opere che segna la prima metà
dell’Ottocento, i dizionari storici postunitari (prescindendo da una nuova edizione
del Tramater nel 1878) sono solo due: il Dizionario della lingua italiana di Niccolò
Tommaseo e Bernardo Bellini (noto come “Tommaseo-Bellini”) e la quinta
impressione del Vocabolario della Crusca, rimasta incompiuta. Nonostante tutte le
lacune e le contraddizioni dell’opera tante volte segnalate a carico del dizionario
(etimologie infondate, mancanza di un criterio rigorosamente diacronico,
successione di significati basata su un ordine logico-semantico più che storico-
evolutivo, definizioni costruite a volte partendo dal significato più noto e comune e
più vivo nell’uso, a volte da quello più arcaico, non corrispondenza tra le sigle usate
nella tavola delle abbreviazioni e quelle presenti all’interno dei lemmi), nell’opera

191
realizzata dal Tommaseo e dai suoi collaboratori tradizione letteraria, lingua
tecnico-scientifica, lingua dell’uso convivono in un equilibrio prima mai raggiunto.
Nell’impianto lessicografico sono numerose le innovazioni, nel quadro di un
intelligente eclettismo che contempera la funzione di tesaurizzare il patrimonio
linguistico della tradizione con quella di documentare l’uso tosco-fiorentino
moderno. Viene abbandonato il vetusto sistema di corrispondenze latine e greche
`presente fino alla IV edizione della Crusca; si evitano distinzioni troppo rigide tra
arcaismi e voci correnti, tendono soprattutto conto del possibile uso letterario dei
primi.
Molte di queste innovazioni si ritrovano anche nel nuovo Vocabolario della
Crusca che, superate lunghe traversie e dopo un sostanziale avvicinamento degli
Accademici alla linea del Monti e del Gherardini, vedeva finalmente la luce col primo
volume nel 1863. Correggendo l’orientamento arcaizzante delle dizioni precedenti,
si ammettono “tutte le parole e locuzioni che gli scrittori posteriori trassero
felicemente dalla viva fonte del popolo toscano [...] e talora dall’analogia”, di tutti i
secoli e non solo di autori toscani. Gli arcaismi confluiscono in un Glossario a parte,
mentre continuano a non essere accolti i termini tecnico-scientifici composti dal
greco o da altre lingue straniere. La stampa procedette però con lentezza; agl’inizi
del Novecento i metodi di compilazione apparvero irrimediabilmente superati (nel
1905 si era solo al IX volume), e la depressione economica conseguente alla prima
guerra mondiale, obbligarono a sospendere, nel 1923, la pubblicazione del
vocabolario (giunto all’XI volume). Bisogna poi aggiungere che la presenza di più
collaboratori e il metodo artigianale dell’allestimento rendono l’opera varia,
suggestiva e originale, ma implicano inevitabilmente molti scompensi.
DIZIONARI PURISTICI, DI SINONIMI E METODICI. Fin dall’inizio del sec. XIX, nel clima
del Purismo, si manifestò la tendenza a raccogliere repertori di voci da proscrivere,
realizzando uno strumento di consultazione con uno scopo opposto a quello del
comune vocabolario. Il vocabolario raccoglie e definisce le parole degne di essere
usate, o comunque adoperate dagli scrittori del passato. I repertori di voci da
proscrivere, invece, si presentano come musei dell’orrore, riunione di parole da
evitare. Nel 1812 il primo vero e proprio dizionario puristico era stato compilato da
Giuseppe Bernardoni, capo divisione del ministero dell’Interno nel Regno Italico, su
sollecitazione dello stesso ministro. L’elenco di alcune parole oggidì frequentemente

192
in uso, le quali non sono ne’ vocabolari italiani, comprende una serie di neologismi in
gran parte d’ambito burocratico, accomunati dalla caratteristica di non essere
registrati da nessun dizionario, nemmeno quello dell’Alberti. Giovanni Gherardini
replicò nello stesso 1812 al Bernardoni, dando un elenco di Voci italiane ammissibili
benché proscritte dall’Elenco del sig. Bernardoni, mostrando che molte voci avevano
in realtà esempi d’autore, che altre erano state ricavate legittimamente per
derivazione e per analogia; infine Gherardini richiamava la necessità di non
esagerare con le minuzie linguistiche, visto che gli impiegati pubblici avevano altro
di meglio da fare che “stizzir sui lessici e sugli elenchi”. Questi due repertori sono in
un certo senso paradigmatici per gli analoghi lavori successivi: al Bernardoni si
rifaranno i “rigoristi” (Puoti, Azzocchi, Ugolini, Valeriani e molti altri), al Gherardini
i “permissivisti”, il più ragguardevole dei quali fu Prospero Viani (Dizionario dei
pretesi francesismi, 1858-60). Nel corso del secolo, infatti, i lessici di parole da
evitare si moltiplicarono, ed ebbero un certo successo editoriale. Comune a tutti i
vocabolari puristici è la lotta contro dialettismi e francesismi, i quali il più delle volte
sono di fatto tranquillamente entrati nella nostra lingua, come egoista e massacrare,
condannati da alcuni rigidi censori. I francesismi, in particolare, costituivano, per i
puristi, una fonte di ‘imbarbarimento’ della lingua italiana (al francese veniva
insomma attribuita l’azione negativa che oggi qualcuno ritiene abbia l’inglese: la
funzione corruttrice viene assegnata di volta in volta alla lingua egemone a livello
internazionale). La lettura dei dizionari puristici resta interessante anche oggi, non
solo per il radicalismo di queste opere, che genera non di rado involontaria comicità,
ma anche a scopo documentario, in quanto spesso questo tipo di dizionario ci
permette di ricavare informazioni sull’uso comune del tempo. Possiamo inoltre
trovare catalogati quei barbarismi la cui vita è stata effimera, o non è andata oltre
all’uso popolare e regionale, come papetiere per ‘cartolaio’, minuziere (minusiere)
per ‘falegname’ (Ugolini). Tra i repertori che si propongono di combattere i
barbarismi spiccano, nella seconda metà del secolo, due testi: il Lessico della corrotta
italianità di P. Fanfani e C. Arlìa (1ª ediz. 1877; dalla 2ª ediz., del 1881, curata come
le successive, dal solo Arlìa, il titolo sarà Lessico dell’infima e corrotta italianità) e i
Neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno di G. Rigutini (1866; arrivato
alla 6ª edizione nel 1912 e ancora ristampato con aggiunte del Cappuccini nel 1926).
Il Lessico è delle due l’opera più rappresentativa. Le voci registrate sono commentate

193
attraverso aneddoti, facezie, lettere vere o finte, proverbi popolari; il tono è
vivacemente aggressivo, soprattutto contro i francesismi, tradizionale bersaglio
polemico della lessicografia puristica. I gallicismi sono infatti perseguiti
implacabilmente, siano non adattati o adattati solo marginalmente (come alla
sanfason < frc. à la sans façon ‘alla buona’), prestiti adattati (come lingeria
‘biancheria’), calchi formali (come insuccesso) o semantici (come difendere col valore
di ‘impedire’), in ossequio alla lingua popolare toscana. Più accomodanti, invece, le
posizioni del Rigutini, che riconferma il primato della lingua parlata e dell’uso vivo
toscano, sebbene guardi con preoccupazione il “linguaggio nuovo e bastardo” offerto
nelle leggi, nei giornali, nei libri, al popolo naturalmente ben parlante, che rischia di
esserne corrotto. Ma rispetto al Lessico, nei Neologismi è evidente la propensione ad
accogliere tutte quelle formazioni che rispettino i meccanismi derivativi
dell’italiano: una volta ammessi abbordare e abbordo può essere accettato anche
abbordaggio, con uscita in aggio “tanto conforme all’indole dell’italiano, quanto
quella in age all’indole della francese”).
Il quadro della produzione lessicografica ottocentesca non sarebbe completo
senza un riferimento ad alcune realizzazioni d’altro genere, destinate a usi specifici,
a particolari funzioni o settori. Tommaseo, ad esempio, aveva colto uno dei suoi
primi allori con il celeberrimo Dizionario dei sinonimi del 1830 (in seguito ampliato
e ritoccato), un’opera ancora ristampata ai giorni nostri. Alla base delle ricerche sui
sinonimi, dopo gli studi sull’argomento elaborati dalla cultura francese del
Settecento, c’era la coscienza che la perfetta sinonimia non esiste, e che tra vocabolo
e vocabolo passa pur sempre una differenza, magari sottile, legata alla disparità tra
idea ‘comune’ e idea ‘accessoria’. Ad esempio, per spiegare la diversità tra i termini
confratello, collega e socio, Tommaseo notava come il concetto comune stesse
nell’idea di “vincolo sociale”, mentre poi ognuno dei termini si distingueva per la sua
specifica idea accessoria: confratello per quella di “religione”, collega per quella di
“ufficio”, socio per quella di “utile”. E ancora, per specificare la maggiore o minore
prossimità dei concetti, Tommaseo faceva notare che “mare e fiume non sono
sinonimi, perché l’idea comune acqua è molto lontana; ma fiume e corrente sono,
perché l’idea comune d’acqua che corre’, è più prossima”.
Negli anni in cui maturava l’Unità, fu maggiormente avvertita la necessità di
lessico tecnico. Pesava sull’italiano, come avevano lamentato gli illuministi del

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Settecento, l’ipoteca letteraria: l’italiano era una lingua che possedeva le parole per
la poesia, per il poema, per il melodramma. Restava da provare la ricchezza e la
vitalità dell’italiano nei settori pratici, nelle tecniche applicate,
nell’amministrazione. La lingua italiana, anzi, dimostrava di essere particolarmente
debole, o poco utilizzabile, proprio nel settore tecnico-pratico e familiare. A questo
problema cercò di sopperire fin dalla prima metà del secolo il lessicografo
piemontese Giacinto Carena, la cui fama presso i posteri è legata quasi soltanto alla
lettera critica indirizzatagli da Manzoni. II suo Prontuario di vocaboli attenenti a
parecchie arti, ad alcuni mestieri, a cose domestiche e altre di uso comune; per saggio
di un vocabolario metodico della lingua italiana si compone di due parti: la prima è il
Vocabolario domestico (1846), la seconda il Vocabolario metodico d’arti e mestieri
(1853). Si noti che Carena non solo attinse a fonti libresche e lessicografiche, tra le
quali anche la Crusca veronese di Cesari e il dizionario dell’Alberti di Villanova, ma
si preoccupò, come egli stesso dichiara, di verificare l’uso vivo toscano, a Firenze e
altrove. Nella sua opera non mancava dunque la documentazione della lingua viva.
Manzoni, tuttavia, gli contrappose una concezione di vocabolario domestico
rigorosamente sincronica, alla quale egli non volle affatto adeguarsi: Carena, infatti,
era convinto che i vocaboli non usati dagli artigiani di Firenze, ma documentati da
ottimi libri, potessero essere accolti come a loro modo ‘vivi’ e ‘italiani’. La prefazione
al secondo volume del Prontuario costituisce una vera e propria risposta alle
osservazioni rivoltegli da Manzoni dopo la pubblicazione del primo volume. L’opera
di Carena inaugurò comunque una stagione floridissima per la lessicografia
metodica, che produsse una notevole quantità di titoli.
DIZIONARI DIALETTALI. L’Ottocento fu anche il secolo d’oro della lessicografia
dialettale. Risalgono a alla prima metà del secolo tutti i più importanti vocabolari del
genere, per la maggior parte insostituiti. L’esigenza di queste opere fu determinata
da una serie di concause: l’interesse romantico per il popolo e per la cultura
popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il dialetto, considerato non più
‘italiano corrotto’, ma una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la sua storia
parallela a quella della lingua nazionale. Lo studio dei dialetti si accompagnò a una
profonda curiosità per le tradizioni popolari, e anche per le forme letterarie della
cultura orale, canti e racconti. Inoltre, in una società fortemente dialettofona, molti
dizionari dialettali nascono come ponti per passare da quello che sembrava

195
l’angusto recinto della varietà locale ai più larghi territori della lingua letteraria. Non
è un caso, insomma, che, proprio mentre si realizzava l’Unità d’Italia, ci si desse tanto
da fare per lo studio dei dialetti. Ciò non avveniva affatto in funzione antiunitaria e
antinazionale, ma anzi serviva proprio per scoprire le tradizioni italiane: peraltro, la
coscienza della dignità dei singoli dialetti è ben percepibile nelle opere più
importanti. Tra queste sono il Gran dizionario piemontese-italiano di Vittorio di
Sant’Albino; il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (1ª ediz. 1814;
2ª ediz., più che triplicata, 1839-56), ampiamente utililizzato dal Manzoni per la
stesura “ventisettana” dei Promessi Sposi; il Dizionario del dialetto veneziano di
Giuseppe Boerio (1ª ediz. 1829, 2ª ediz. 1856, 3ª ediz. 1867); il Nuovo dizionario
siciliano-italiano di Vincenzo Mortillaro (1ª ediz. 1838-44; 2ª ediz. 1853, 3ª ediz.
1862,; 4ª ediz. 1876). Questi quattro repertori condividono svariate caratteristiche:
1) valutazione favorevole del proprio dialetto; 2) l’importanza attribuita non solo
alla letteratura dialettale, ma anche all’uso del dialetto o dei dialettismi in àmbiti
tecnici, scientifici, amministrativi; 3) come requisiti propriamente lessicografici
vanno segnalate: la larga introduzione del vocabolario colto, astratto,
italianeggiante, che risponde all’intento di descrivere nella sua interezza e
autonomia l’universo dialettale, senza limitarsi a censire i più vistosi punti di
divergenza con la lingua letteraria; e la ricca fraseologia, che colloca le singole unità
nei reali contesti d’uso. Nei primi anni del Novecento, quasi tutte le grandi aree
dialettali italiane sono ormai illustrate da uno o più dizionari. Ricordiamo quelli
compilati da G. Nazari (1873, bellunese); R. Andreoli (1887, napoletano); A. Traina
(1868, siciliano); D.L. De Vincentiis (1872, tarantino); A. Tiraboschi (1873,
bergamasco); G. Casaccia (1876, genovese); G. Finamore (1880, abruzzese); L.
Accattatis (1895, calabrese); I. Nieri (1901, lucchese). I dialetti più sguarniti, si potrà
osservare, sono quelli delle regioni centrali che, anche per la relativa contiguità con
la lingua letteraria, suscitano minor interesse da parte degli studiosi.

10.7. Il vocabolario manzoniano e i dizionari dell’uso toscano


Le idee linguistiche del Manzoni, largamente divulgate nella società colta
dell’epoca, trovarono nei primi anni postunitari una straordinaria occasione di
tradursi in programma operativo. Nell’ottobre 1867 fu nominato ministro della
pubblica istruzione il lombardo Emilio Broglio, ammiratore del Manzoni e destinato

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a diventare egli stesso scrittore di gusto toscaneggiante. Appena quattro mesi dopo,
il 14 gennaio 1868, il Broglio emana un decreto affidando a una commissione di
studiosi il compito “di ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi, coi quali
si possa aiutare a rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della
buona lingua e della buona pronunzia”. Presidente della commissione era dichiarato
il Manzoni; i membri erano divisi in due sottocommissioni: una “milanese”,
composta dallo stesso Manzoni, dal Bonghi e dallo scrittore Giulio Carcano, e una
“fiorentina”, rappresentata dal pedagogista e uomo politico Raffaello Lambruschini,
da Giuseppe Bertoldi, letterato e ispettore delle scuole, da Achille Mauri, educatore
e funzionario statale, nonché, più tardi, dallo storico e accademico della Crusca Gino
Capponi (Niccolo Tommaseo si dimise quasi subito). Il Manzoni accolse l’incarico
con fervido entusiasmo e si mise subito al lavoro per stendere una Relazione al
ministro (intitolata Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla). La Relazione,
compilata in un mese, fu pubblicata in varie sedi nel corso di quello stesso 1868. Il
Manzoni vi rinnovava l’argomento fondamentale della scelta del fiorentino come
lingua unica e ‘viva’, aggiungendovi nuove proposte operative: in primo luogo la
compilazione di un vocabolario rigorosamente esemplato sull’uso vivo fiorentino;
poi altri provvedimenti – in verità assai discutibili e addirittura sospettabili
d’incostituzionalità, – quali la preferenza accordata ad insegnanti toscani “o anche
educati in Toscana” (“esclusivamente toscani” avrebbero dovuto essere quelli
destinati alle scuole magistrali); sussidi statali ai comuni che “si provvedessero di
maestri nati od educati in Toscana”; conferenze di maestri toscani nelle scuole delle
varie province; borse di studio ad allievi di scuole magistrali che consentano “di
passare un’annata scolastica in Firenze, per farci la pratica in una delle migliori
scuole primarie”. Ma di lì a poco appariva anche la relazione della sottocommissione
fiorentina, assai divergente dalle posizioni del Manzoni. Per il Lambruschini,
responsabile della sottocommissione ed estensore del testo, il fiorentino delle classi
colte non può costituire un modello di lingua né, tantomeno, l’unico modello. La
borghesia di Firenze non sfugge alla corruttela generale: il vero problema è quello
di salvare l’italiano, insidiato da forestierismi, neologismi, parole e costruzioni
improprie che vengono “pubblicate da uno, accettate, ridette da tutti e prese per oro
di coppella dal volgo degli scrittori di giornali e di libercoli”. La purezza della lingua
si ritroverebbe, invece, nel popolo contadino, non ancora intaccato dai guasti della

197
civilizzazione e in gran parte fedele alla limpida sorgente trecentesca. Anche
sull’utilità di un vocabolario dell’uso vivo il Lambruschini è scettico: non mette conto
compilare un dizionario ex novo, basta integrare opportunamente quelli già
esistenti, “dove insieme con la lingua più propria dei libri, son registrati vocaboli,
costrutti e maniere cavate dalla lingua viva”. Le due relazioni erano dunque
inconciliabili, tanto nelle premesse teoriche quanto nelle proposte operative. Il
Manzoni, letta la relazione del Lambruschini, ne trasse le conseguenze e rassegnò le
sue dimissioni al Broglio; ma questi non si diede per vinto: credeva fermamente
nelle teorie e nelle proposte pratiche del Manzoni e aveva gli strumenti politici e il
temperamento per andare avanti per conto proprio. Nell’ottobre del 1868 il Broglio
istituì una Giunta incaricata di compilare il Dizionario della lingua dell’uso fiorentino,
riservando a sé stesso la presidenza e chiamando a farne parte come vicepresidente
il lucchese Giovan Battista Giorgini, genero del Manzoni e convinto portavoce delle
sue posizioni, e altri tre letterati, tutti toscani: Stanislao Bianciardi (che sarebbe
morto pochi giorni dopo), Pietro Fanfani (presto dimissionario per motivi di fondo)
e Agenore Gelli. Il Novo vocabolario di Giorgini e Broglio, la vera grande novità della
lessicografia postunitaria, venne pubblicato fra il 1870 e il 1897. Con questo
vocabolario si fa strada una concezione lessicografica completamente diversa.
L’impianto è rigorosamente sincronico: nessun esempio d’autore, pochissimi
arcaismi, puntuali indicazioni d’ambito d’uso, attenta valutazione di ogni vocabolo
anche all’interno di serie corradicali e, quel che più conta, insuperata
esemplificazione dei vari contesti attraverso una fraseologia attinta al parlato
quotidiano che ha lo scopo di mostrare concretamente il “funzionamento” della
parola nella lingua. Il fiorentinismo del Giorgini-Broglio è un dato incontrovertibile
che va tuttavia ridimensionato, almeno per quanto riguarda l’aspetto grammaticale.
Così, le forme con o tonica invece di uo adoperate sistematicamente nel lemmario
non sono più di una dozzina (bono, movere, nora, novo, omo, ecc.); per il resto si
hanno forme che presentano solo uo (fuori, luogo, stuolo, suocera e suocero, suono,
suora oltre a ruolo) ovvero in cui dittongo e monottongo si alternano, o in entrata o
nel corpo del lemma. Altri popolarismi fiorentini sono presenti, ma con un rinvio alla
variante non municipale (arimmetica → aritmetica, doventare → diventare; ma c’e
anche il rinvio da ospedale → spedale) oppure come forme secondarie (tecnico e
tennico ).

198
Il Giorgini-Broglio non ebbe grande fortuna editoriale; la ebbero invece, e in
misura straordinaria, due opere che fiorirono contemporaneamente e che presero
le mosse (e spesso anche qualcosa di più) da questa impegnativa impresa
lessicografica: il Vocabolario della lingua parlata di G. Rigutini e P. Fanfani (lª ediz.
1875) e il Novo dizionario universale della lingua italiana di P. Petrocchi (1ª ediz.
1887-1891). Entrambi si richiamano alla lingua dell’uso, accogliendo alcune
innovazioni del Giorgini-Broglio (soppressione degli esempi d’autore, abbondante
fraseologia, ecc.) ma ne alterano la coerente costruzione teorica con varie
concessioni alla lessicografia tradizionale, dettate anche da ragioni commerciali.

10.8. Effetti linguistici dell’unità politica: italofoni e dialettofoni


Al momento dell’Unita politica italiana, nel 1861, non si può certo dire che
l’Italia avesse già raggiunto una corrispondente unità culturale e linguistica. I
territori degli ex-stati nazionali che entravano nel nuovo organismo erano
caratterizzati da differenze profonde, a volte sconvolgenti, relative a tradizioni,
abitudini, modo di vivere, livello di sviluppo economico e sociale. Le differenze
linguistiche erano un segno vistoso di tutto quanto stava dietro la lingua, la quale è
sempre il risultato della storia e della tradizione dei popoli. In comune, tra i vari stati
italiani, c’era soltanto un modello di italiano letterario, elaborato dalle élites.
Mancava quasi completamente una lingua comune della conversazione, la quale si
può sviluppare solo attraverso scambi fitti, in un’omogenea vita civile e sociale. In
Italia questo non c’era mai stato, né era possibile improvvisare, colmando d’un colpo
le lacune del passato.
Un dato statistico è segno evidente di quanto fosse difficile la situazione: il
numero degli italofoni, cioè il numero di coloro che erano in grado di parlare italiano,
era allora incredibilmente basso. Non abbiamo statistiche ufficiali o censimenti che
ci indichino in maniera certa quanti fossero coloro che erano in grado di lasciar da
parte il dialetto e conversare in lingua. Il dato va quindi ricavato indirettamente,
attraverso calcoli non semplici, che si basano in parte su ipotesi e supposizioni. Al
momento della fondazione del Regno d’Italia quasi l’80% degli abitanti era
ufficialmente analfabeta, come risulta dai dati del primo censimento che si tenne
allora. Non tutto il restante 20%, però, sapeva usare l’italiano. La qualifica di
“alfabeti”, infatti, veniva attribuita (con una certa larghezza) a quelli che, lungi dallo

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scrivere decentemente, non sarebbero stati in realtà capaci di stendere due righe in
italiano corretto. L‘ essere “alfabeta”, dunque, non significava avere un reale
possesso della lingua scritta. Si può quindi supporre che per raggiungere una
padronanza accettabile della lingua occorresse almeno la frequenza della scuola
superiore postelementare, la quale nel 1862-1863 toccava solamente l’8,9 per mille
della popolazione tra gli 11 e i 18 anni. Tale percentuale corrisponderebbe a 160.000
individui, su una popolazione complessiva di oltre 25 milioni di abitanti. A questi
cittadini istruiti, capaci di parlare e di scrivere italiano, bisognerebbe aggiungere
400.000 toscani e 70.000 romani, calcolati in questo caso assumendo in toto il
numero dei “non analfabeti”. I toscani, infatti, hanno un possesso naturale della
lingua, per la vicinanza tra il toscano parlato e l’italiano letterario. Gli abitanti di
Roma parlano un dialetto che è molto toscanizzato, e che molto si avvicina al
toscano, anche se non si identifica con esso. Si può affermare dunque che toscani e
romani che abbiano conseguito un’istruzione elementare hanno un possesso
accettabile della lingua. Sommando tutti questi presunti italofoni, si arriva a poco
più di seicentomila italiani capaci di parlare italiano: si tratta di una percentuale
davvero esigua, del 2,5%. Se aggiungiamo alla cifra degli italofoni anche gli abitanti
di quelle zone dell’Italia mediana in cui si parlano varietà più prossime al toscano
(provincia d’Ancona, circondari di Perugia e Orvieto, Lazio settentrionale), gli
italofoni sarebbero stati più di 2.200.000, pari al 9,52% della popolazione con più di
tre anni d’età. Tuttavia il quadro generale non muta più di tanto: al momento
dell’Unità solo una minoranza ridottissima di persone era in grado di parlare
italiano. Tutti gli altri erano confinati nell’uso del dialetto.

10.9. Scuola e analfabetismo


La dialettofonia era in gran parte legata all’analfabetismo. Nel censimento del
1861 la percentuale complessiva di analfabeti era del 75%; nel 1911 era scesa
notevolmente ma restava pur sempre elevata, sfiorando il 40%. Molto accentuate le
differenze da zona a zona. Dall’Italia nordoccidentale, progredita e con forte
concentrazione di popolazione urbana (quindi più facilmente interessata alla
scolarizzazione), in cui la percentuale di analfabeti è, nel 1871, del 44%, la quota di
analfabeti cresce progressivamente passando all’Italia nordorientale (67%), e al
Centro (71%), e soprattutto al Mezzogiorno (80%) e alle isole (85%).

200
Non deve sorprendere, dunque, la preoccupazione del Ministero della
Pubblica Istruzione nell’escogitare sistemi efficaci per l’alfabetizzazione delle
masse. Bisogna ricordare che uno dei portati della dominazione francese nell’età
rivoluzionaria e napoleonica era stato proprio lo sviluppo dell’istruzione
elementare gratuita e obbligatoria. Tutto questo fervore legislativo si interrompe
con la restaurazione, quando la scuola ritorna nelle mani dei religiosi e riaffiorano
nell’opinione pubblica le tradizionali diffidenze nei confronti dell’insegnamento
organizzato dello Stato. Non mancano, comunque, le iniziative volte al
miglioramento dell’istruzione popolare, come ad esempio la diffusione delle scuole
di “mutuo insegnamento” ideate dall’inglese Joseph Lancaster (che consistevano in
un addestramento elementare, cioè leggere, scrivere e far di conto) in parte
demandato dal maestro agli scolari migliori, detti “monitori”). Uno degli stati più
all’avanguardia era stato il Regno di Sardegna, a cui si deve l’introduzione, nel 1859,
della cosiddetta legge Casati, che introduce il principio di gratuità della scuola
elementare, prevedono sanzioni per i genitori che non mandassero i figli nelle
scuole comunali “senza provvedere effettivamente in altra guisa alla istruzione
loro”. Tale ordinamento scolastico verrà esteso al nuovo Stato italiano, con la
successiva modifica della legge Coppino (luglio 1877), che rendeva effettivo
l’obbligo della frequenza, peraltro limitato al primo biennio.
Già fin dal primo Ottocento la situazione della scuola era piuttosto precaria.
malcerti i programmi e l’orario delle lezioni (talvolta l’insegnamento si riduceva a
un’ora o mezz’ora giornaliera); scadenti, mal pagati e poco motivati i maestri; restii,
non solo i ragazzi ad andare a scuola, ma anche i genitori a mandarceli, dato il largo
sfruttamento, in una società prevalentemente agricola, del lavoro infantile,
soprattutto in certi periodi dell’anno (mietitura, raccolta delle olive, ecc.); generale
indifferenza o addirittura ostilità per l’istruzione femminile. Il crescente interesse
dello Stato ai problemi dell’istruzione dello Stato è testimoniato dalla progressiva
espansione della scuola centralizzata. Con la legge Casati il reclutamento dei maestri
era affidato ai comuni; nel 1911 (legge Daneo-Credaro) gran parte dell’istruzione
elementare era avocata dallo Stato. Tuttavia il bilancio del ministero era basso (non
più del 2% nei primi quindici anni postunitari) e, per giunta, costantemente
squilibrato in favore della scuola superiore e dell’università. Particolarmente
depressa la figura dell’insegnante elementare, che continua ad essere mal pagato.

201
Dalla scarsa retribuzione discendono due conseguenze: la prima, in sé non negativa,
è la crescente femminilizzazione del corpo insegnante (nel 1901 per ogni maestro
di sesso maschile erano in servizio due maestre); la seconda, deleteria, è lo scarso
livello professionale complessivo. Un’inchiesta promossa nel 1896 da Francesco
Torraca, allora direttore generale del Ministero (oltre che italianista di fama), su
circa 50.000 maestri ne giudicava “valenti” appena il 37% contro il 48% di
“mediocri” e il 15% “meno che mediocri”.
Dopo l’Unità, soprattutto nelle regioni meno vicine alla Toscana e in genere
maggiormente nelle scuole rurali che in quelle di città, l’uso del dialetto nell’aula
scolastica, prima ancora che come necessità didattica, è un dato di fatto piuttosto
costante, non sempre derivato da una scelta volontaria: spesso, infatti, i maestri
erano incapaci di usare un italiano che non fosse in tutto o in parte condizionato dal
dialetto. I programmi ministeriali, invece, attestano un orientamento decisamente
antidialettale, che raggiungerà il culmine nei programmi del 1905. Un atteggiamento
tradizionalista che trova un riscontro nelle grammatiche adottate: in molte scuole,
infatti, erano ancora in uso, nel 1876, manuali ispirati all’opera di Corticelli.
Si può quindi affermare che l’insegnamento dell’italiano nell’Italia
postunitaria risentì inevitabilmente di notevoli distorsioni strutturali: nelle
elementari si combatteva con l’uso abituale del dialetto da parte dei maestri, oltre
che degli scolari; dall’altro, con una didattica pedantesca e astratta che non teneva
conto della realtà linguistica in cui erano immersi maestri e alunni.

10.10. Altre cause dell’unificazione linguistica


Oltre alla scuola, le cause che hanno portato all’unificazione linguistica
italiana dopo la formazione dello stato unitario 1) azione unificante della burocrazia
e dell’esercito; 2) azione della stampa periodica e quotidiana; 3) effetti di fenomeni
demografici quali l’emigrazione; 4) aggregazione attorno a poli urbani (quest’ultima
dovuta alla nascita di una moderna industrializzazione). Come si vede, si tratta
spesso di fatti ed eventi che solo indirettamente hanno influito sulla lingua, e che
appartengono a pieno diritto alla storia sociale del nostro paese.
Gli effetti della burocrazia unificata del nuovo stato nazionale sulla
formazione di una lingua unitaria sono facilmente comprensibili. La creazione di un
corpo di burocrati ha avuto effetti linguistici anzitutto sui burocrati stessi, che dai

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trasferimenti sono stati costretti ad abbandonare spesso, almeno in pubblico, il
dialetto d’origine e ad usare e diffondere un tipo linguistico unitario. Si tenga
presente che il servizio militare obbligatorio fu una delle novità portate dal Regno
d’Italia. Anche la Grande Guerra del 1915-1918, facendo convivere masse di soldati
provenienti dalle diverse regioni, a contatto con ufficiali istruiti, ebbe effetti
linguistici rilevanti: con questo evento, però, siamo al di la dei confini dell’Ottocento.
Dobbiamo ricordare il benefico influsso esercitato dalle cosiddette “scuole
reggimentali” o “di battaglione”, dove i soldati analfabeti potevano apprendere a
leggere e a scrivere, conseguendo la licenza elementare. In un suo gustoso bozzetto
(Un’ordinanza originale, nella raccolta Vita militare, 1ª ediz. 1868; ediz. definitiva
1880), Edmondo De Amicis racconta di un suo attendente analfabeta, che “parlava
un italiano del quale avrebbe potuto domandare con tutti i diritti il brevetto
d’invenzione” e pure “in cinque o sei mesi, frequentando le scuole reggimentali,
aveva imparato a leggere e a scrivere stentatamente”.
Quanto alla funzione della stampa, bisogna ricordare che anche la
trasformazione dei periodici, con la nascita del giornalismo politico fortemente
legato all’attualità, è stata un’eredità dell’intensa francesizzazione svoltasi durante
l’occupazione napoleonica. Con la Restaurazione, però, la censura inizia a
intervenire pesantemente, orientando i giornali verso temi più innocui (o
apparentemente più innocui) della politica, quali la cronaca teatrale, la divulgazione
scientifica e l’aneddotica. Proliferano periodici che vogliono raggiungere un
pubblico nuovo, e necessitano dunque di un linguaggio più semplice rispetto a quello
della tradizione letteraria. Non è facile, però, raggiungere questo obiettivo, e il
giornale primo-ottocentesco resta ancora un prodotto d’élite: spesso la lingua dei
giornali popolari non differisce da quella dei giornali ‘colti’, e la presenza di
popolarismi morfologici quali stasse ‘stesse’, sintattici come il che polivalente, o la
presenza di uno stile trasandato per ripetizioni lessicali, può accompagnarsi ad un
periodare intricato e faticoso, che nulla divide con la sveltezza dello stile
giornalistico moderno. Nella prima metà del sec. XIX, però, un fatto oggettivo quale
l’aumento delle tirature (aumento notevole per l’epoca, ma molto modesto, se
paragonato con i risultati di oggi: la “Gazzetta del Popolo” di Torino raggiunse nel
1852 i 10.000 abbonati) finì per avere conseguenze pratiche, e la prosa dei giornali
cominciò a trovare la sua strada, modernizzandosi. Nella seconda metà del secolo,

203
in ogni modo, il giornalismo diventò fenomeno di massa. A partire dal 1880 le
edicole furono il punto di vendita della stampa periodica, prima diffusa soprattutto
attraverso gli abbonamenti. Ancora in questo periodo, comunque, nel giornale si
alternano voci culte e libresche a voci popolari, anche se vengono in genere evitati i
dialettismi più vistosi. Alcune voci regionali si diffondono attraverso questo canale,
come camorra e picciotto. La sintassi giornalistica, coerentemente con la ricerca di
un modello diverso da quello tradizionale della letteratura, sviluppò la tendenza al
periodare breve, e spesso alla frase nominale. La lingua dei giornali è molto esposta
al nuovo: in essa è possibile in genere registrare precocemente l’infiltrarsi di
neologismi e forestierismi presenti nella lingua viva e parlata, o nel lessico degli
specialisti di qualche branca del sapere. Compaiono in quel periodo, proprio sui
giornali, termini come straripamento (di un fiume), attrezzatura (attrezzo era un
francesismo penetrato già nella seconda metà del Seicento), confisca, delibera,
importo, ecc. Compaiono termini relativi al nuovo mezzo di trasporto che si va
affermando, la ferrovia: ecco i carri, gli scompartimenti, le rotaie. Tra i forestierismi
troviamo tecnicismi come battello a vapore (contestato dai puristi), batteria
galvanica, dagherrotipo, disinfettante, feldspato. Il giornale, quello ottocentesco
come quello di oggi, è linguisticamente tanto più interessante per il fatto che è
composto da parti diverse: la lingua della cronaca non è identica a quella degli
articoli politici o letterari, né a quella delle pagine che si occupano di economia.
Compare sui fogli periodici la pubblicità, in forma di annunci che spesso contengono
termini nuovi o parole regionali, puntualmente censurate dai puristi. Michele Ponza,
ad esempio, insegnante e lessicografo piemontese, nel 1830 se la prendeva con un
foglio periodico intitolato Giornale d’avvisi pel commercio, in cui trovava
regionalismi come grotta per ‘cantina’, scagno per ‘lavatoio’, pristinaio per
‘panettiere’. E il direttore del giornale messo sotto accusa si difendeva dicendo: “Non
so come siami lasciata cadere dalla penna questa marcia voce di pristinaio, voce
lombarda”. A volte queste parole regionali si sono affermate, ad esempio quando
designavano referenti particolari, anch’essi avviati al successo: è il caso del
panettone, che compare in un giornale milanese del 1863, e che fu accolto già
nell’Ottocento dai vocabolari.
Meno evidente è forse il rapporto tra emigrazione e apprendimento della
lingua italiana. Tra il 1871 e il 1951 sette milioni di italiani si sono trasferiti

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definitivamente in altre nazioni, ma circa 14.000.000 sono rientrati in patria dopo
aver lavorato per un certo periodo all’estero. Gli emigranti italiani erano in gran
parte analfabeti e dialettofoni, e il loro allontanamento fece diminuire in assoluto,
per eliminazione, il numero di coloro che erano in condizioni più svantaggiate
rispetto alla lingua e alla scuola. Non si tratta di una crescita qualitativa, in questo
caso, ma di un semplice cambiamento degli indici statistici. L’emigrante di ritorno,
però, fu un elemento di effettivo progresso, perché l’esperienza lontano dalla sua
zona di origine gli aveva insegnato ad essere diverso, e ad apprezzare molto di più il
valore dell’istruzione e dell’alfabetismo.
Quanto all’industrializzazione, che fece crescere la popolazione di alcune
grandi città, e attirò manodopera proveniente da altre regioni o dalle zone rurali
della medesima regione, ebbe come effetto uno spostamento di abitanti e una più o
meno lenta integrazione nel nuovo luogo di residenza, con abbandono progressivo
del dialetto di origine. Questa emigrazione interna (contenuta nei primi decenni
postunitari, più consistente all’inizio del Novecento) servì al dominio progressivo
dell’italofonia: la presenza in una comunità di parlanti di forti nuclei di diversa
provenienza finiva con l’indebolire prima di tutto il dialetto degl’immigrati (in
condizione d’inferiorità – sia come consistenza numerica sia come prestigio
sociolinguistico – rispetto alla parlata del centro ricevente); poi lo stesso dialetto
della località d’arrivo. Conseguenza della diffusione dell’istruzione delle masse
popolari sarà la crescita delle testimonianze dei “semicolti”: l’avvio
dell’alfabetizzazione, infatti, fornisce a un tempo la coscienza e lo strumento
d’espressione scritta a fasce sociali in precedenza relegate nell’inconsapevolezza e
nell’analfabetismo.

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