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Comincio questa mia collaborazione con cheFare enunciando due principi a cui mi
atterrò, da qui all’eternità:
1) nessuna teoria può essere assunta come chiave interpretativa di tutto;
2) dividere il mondo in buoni e cattivi non aiuta a cogliere la complessità delle cose.
A proposito di paroloni, oggi vanno di moda quelli in inglese: il vostro capo ha fatto
“un briefing coi propri partner sulla governance di una nuova location fresca di
restyling, viste le nuove chance offerte dal jobs act”. A voi è sembrata una cosa
importante, ma in realtà ha solo fatto due chiacchiere veloci coi colleghi su come
sfruttare i benefici fiscali che può avere qualora assuma un ventenne nel nuovo bar
che ha appena ristrutturato. Ma non poteva dire la stessa cosa in italiano? Chissà. Io
non credo sia un caso che il vostro capo certe cose le dica in inglese.
Sia chiaro, apprezzo e condivido l’iniziativa di Anna Maria Testa e dell’Accademia della
Crusca: la lingua è un corpo vivo che ha (anche) la forma delle pratiche sociali che la
usano, esattamente come il nostro corpo ha (anche) la forma della vita che facciamo
(…). Tuttavia, non credo affatto che dire “che bella location” abbia lo stesso significato
del suo equivalente italiano, almeno se pensiamo che nel significato di una frase
pulsi la vita sociale dei parlanti che usano i segni. (…) Non sará che con “location” ci
sia qualcuno che sta cercando di venderci qualcosa, infiocchettandoci un posto che
poi così bello non è?