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L'italiano pian piano

Ana Gabriela Calisti


B1
"Inglesorum"
Claudio Paulucci, “Inglesorum. Sul capitalismo linguistico”
https://www.che-fare.com/claudio-paolucci-inglesorum-sul-capitalismo-linguistico/

Comincio questa mia collaborazione con cheFare enunciando due principi a cui mi
atterrò, da qui all’eternità:
1) nessuna teoria può essere assunta come chiave interpretativa di tutto;
2) dividere il mondo in buoni e cattivi non aiuta a cogliere la complessità delle cose.

La complessità, appunto. In uno spazio come questo, siamo chiamati a interpretare


la complessità che ci circonda: cheFare non chiederebbe di scrivere articoli a un
professore universitario se non sperasse di ricevere indietro un minimo di
intelligibilità, una piccola luce, non fosse altro che quella fioca di una candela. Ma
appunto la complessità che ci circonda la dobbiamo interpretare, non semplificare,
pena lo spegnersi di quella piccola luce. Questo non vuol dire che non possiamo farlo
con parole chiare, senza ricorrere a tecnicismi o all’ostentazione delle tante ore
passate a leggere libri. Ho imparato dal mio maestro che la semiotica si può fare
senza troppi paroloni e senza che il lettore se ne accorga.

A proposito di paroloni, oggi vanno di moda quelli in inglese: il vostro capo ha fatto
“un briefing coi propri partner sulla governance di una nuova location fresca di
restyling, viste le nuove chance offerte dal jobs act”. A voi è sembrata una cosa
importante, ma in realtà ha solo fatto due chiacchiere veloci coi colleghi su come
sfruttare i benefici fiscali che può avere qualora assuma un ventenne nel nuovo bar
che ha appena ristrutturato. Ma non poteva dire la stessa cosa in italiano? Chissà. Io
non credo sia un caso che il vostro capo certe cose le dica in inglese.

Stimolati dall’iniziativa di Anna Maria Testa #dilloinitaliano, di recente i linguisti


hanno cercato di prendere posizione su questo fenomeno. I linguisti sanno
perfettamente che non si può, e nemmeno si deve, fare nulla contro la
trasformazione della lingua e la modificazione del lessico tramite termini stranieri.
Non solo, sanno anche che il Dizionario è di fatto la registrazione di una serie di
pratiche che rendono la lingua un organismo vivo. E tuttavia, ad esempio nella
recente edizione del [dizionario] Devoto- Oli (…), si è provato a porre un argine a
questo fenomeno attraverso una regola semplice: l’anglicismo è accettabile qualora
manchi un’espressione italiana corrispondente, in caso contrario è bene usare la
parola italiana. Ma questo è esattamente il nostro problema. E cioè: perché anche in
presenza di un perfetto equivalente italiano, si usa comunque la forma inglese? E
soprattutto, è davvero equivalente dire “ma che bella location” e “ma che bel posto”
(…)?
L'italiano pian piano
Ana Gabriela Calisti
B1

La mia impressione è che ci sia un effetto di senso diverso nell’usare l’espressione


inglese e che sia esattamente questa diversità ciò che è importante indagare. Non è
un caso che l’istinto omicida ci salga con l’inglese e non con l’italiano.

Sia chiaro, apprezzo e condivido l’iniziativa di Anna Maria Testa e dell’Accademia della
Crusca: la lingua è un corpo vivo che ha (anche) la forma delle pratiche sociali che la
usano, esattamente come il nostro corpo ha (anche) la forma della vita che facciamo
(…). Tuttavia, non credo affatto che dire “che bella location” abbia lo stesso significato
del suo equivalente italiano, almeno se pensiamo che nel significato di una frase
pulsi la vita sociale dei parlanti che usano i segni. (…) Non sará che con “location” ci
sia qualcuno che sta cercando di venderci qualcosa, infiocchettandoci un posto che
poi così bello non è?

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