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Trascrizioni audio Nuovissimo Progetto italiano 4 – Quaderno degli esercizi

Unità 1

Traccia 1

- Ciao ragazzi sto per intervistare Alessia, italiana che ha vissuto a Berlino per sei anni prima di decidere
di tornare in italia, e adesso si trova qui a Bologna.
Innanzitutto cosa facevi a Berlino e perché sei andata lì?

- Io sono andata a Berlino perché fondamentalmente ero stanca della realtà lavorativa che vivevo in
italia. Avevo terminato l'università con te però poi non avevo proseguito
con la specialistica, aveva continuato a lavorare, e allora mi sono iscritta ad un master, proprio qui a
Bologna.

- Ok...

- Ho fatto un master, un MBA, che è durato all'incirca due anni, però in modalità part-time. Dopo aver
speso quei soldi magari tu ti immagini, insomma, di poter vivere una
realtà lavorativa diversa che non è mai arrivata... Per cui insomma, così, lavoravo. Avevo chiesto di fare il
turno notturno al lavoro: lavoravo a Palermo, facevo un part-time,
lavoravo per Alitalia in quel momento avevo chiesto di passare in un altro dipartimento notturno, di
modo che di giorno potessi un attimo organizzarmi e cercare di trovare
un altro lavoro. Nel frattempo una mia amica, che era già a Berlino e che era stata assunta da questa
azienda, mi dice che l'azienda per la quale era assunta a Berlino cercava delle
persone e mi invita, diciamo così, a mandare il curriculum faccio un colloquio e nel giro di una settimana
decido di trasferirmi a Berlino.

- Una settimana?!

- Ovviamente offerta lavorativa arrivata il giorno stesso. Cioè, faccio il colloquio al mattino alle 11, alle
due e mezza avevo già l'offerta di lavoro in mano.

- Pazzesco! Quindi, cioè, subito! Che azienda era, hai detto?

- L'azienda per la quale ancora oggi lavoro è a grandi linee la competitor di Huber. Insomma sì, sono
andata a Berlino... Premetto che ero stata già a Berlino in vacanza...

- Perché non ti era piaciuta?

- Mah, non lo so, mi era sembrata troppo troppo fredda, austera, molto lontana da, diciamo, dal mondo
che piace a me.
- Tu sei tornata perché c'erano delle cose di Berlino nello specifico che comunque non ti piacevano sin
dall'inizio, addirittura da quando eri lì in vacanza.

- No, va beh, quella è stata proprio sensazione ad impatto, tipo il feeling che hai quando arrivi nella città.
Cosa che non mi è mai successa, per esempio, qui a Bologna.

- Cos'era di Berlino che non andava?

- Mah, il tempo sicuramente... cioè non è bello se vedi che, tipo, fino a due giorni fa nevicava. Quindi
questo già è un handicap non indifferente per una siciliana. Poi, vabbè, il
fatto che fosse proprio grande, grande, grande, quindi ogni spostamento andava pensato e
programmato, per qualsiasi cosa. Avevi voglia di prendere una pizza con i tuoi amici? Dovevi
programmarlo, dovevi capire a che ora potevate vedervi perché era così grande che ci mettevi 50 minuti
a raggiungere l'altra persona.

- Certo.

- Qui in 50 minuti vai a Milano.

- Con i miei colleghi dopo sei anni a Berlino, sì, sono riuscita a creare un rapporto di amicizia, ma non
così profondo, banalmente, come quello che potresti creare conoscendo qualcuno
qui, tipo, una sera in un bar... è veramente molto difficile.

Traccia 2

Ve la ricordate la storia della “fuga dei cervelli”? Dai, i giovani laureati che sono andati a cercare fortuna
altrove e che hanno abbandonato il nostro Paese? Quelli che andavano a lavorare in Francia, in
Germania, in Belgio. Andavano, beh, ci vanno tuttora, perché, se pensavi fosse un fenomeno del
passato, ti sei sbagliato di grosso. Questo è PIL, “Per Intenderci L’economia”, la rubrica di notizie.it che
spiega i fenomeni economici e sociali che cambiano la nostra vita ogni giorno.
Se sono un professionista oppure ho un alto livello di istruzione e scelgo una migliore condizione di paga
e di vita all'estero, allora sono un cervello in fuga: una bella definizione è quella della Corte dei conti per
dire che sempre più giovani, gente qualificata che paradossalmente sarebbe molto utile al Paese, sceglie
di lasciarlo perché questo, di Paese, non gli permette di vivere bene, forse a volte neanche di vivere.
Sì è vero, in Italia la quota dei giovani adulti con una laurea è aumentata costantemente in questi ultimi
dieci anni, ma resta comunque inferiore rispetto ai Paesi dell'OCSE.
Questa tendenza è riconducibile alle mille difficoltà di entrata nel mercato del lavoro, ma soprattutto ciò
che incide è che il fatto che tu sia laureato non ti assicura la possibilità di impiego maggiore rispetto a
quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore. E, indovinate un po’, negli altri Paesi dell'OCSE è l'esatto
contrario: se sei laureato, lavori e guadagni di più di chi non lo è. Bello, vero?
Dal 2013 ad oggi il fenomeno della fuga dei cervelli è cresciuto del 41,3%.
In Italia il 34% dei laureati sceglie di vivere in uno stato dell'Unione Europea diverso da quello di origine.
Insieme a Polonia, Romania, Bulgaria e Portogallo siamo una delle nazioni che fa più scappare i
lavoratori e questo è un danno che possiamo anche stimare: ogni anno l'Italia perde circa 14 miliardi di
euro a causa della fuga dei cervelli. E questo è un paradosso, perché in Italia abbiamo alcune delle
migliori università al mondo: da Pisa a Milano a Roma e Venezia, fino a Bologna, l'università più antica
del mondo occidentale che è ancora attiva. Se in tutti questi istituti si formano talenti che poi
preferiscono andare all'estero perché il nostro mercato non gli offre un lavoro e un tenore di vita
adeguato, allora stiamo continuando a sprecare gli investimenti nell'istruzione, senza permettere a
questi talenti di contribuire al PIL del nostro Paese.
È la classica storia del cane che si morde la coda: chi va all'estero contribuisce solo al benessere di un
altro stato, letteralmente porta valore altrove, lo stesso che poteva accaparrarsi l'Italia.
E così si favorisce la crescita dello squilibrio tra stati: questo effetto si chiama brain drain appunto la
“fuga di cervelli”. Siamo una vecchia signora decadente senza più appeal, perché i neo laureati brillanti e
determinati dovrebbero essere sedotti dal mercato del lavoro italiano?
Nella lista delle cose da fare ci sono sicuramente più investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione. Ci
serve un nuovo mondo ricco di business e di idee capaci di suscitare curiosità e voglia di mettersi in
gioco, ci serve un nuovo ecosistema svecchiato che riconosca il valore di chi ha un titolo universitario e
che premi i talenti italiani, con la promessa di non lasciarli orfani della propria casa: l'Italia.

Unità 2

Traccia 3

Allora la prima cosa da fare, anche se magari è scontata, però vale la pena ripeterla, è chiarire la
differenza tra rimpianti e rimorsi. Il rimorso è un pentimento per qualcosa che si è fatto in passato e che
invece non avremmo mai voluto fare. Il rimpianto invece, un po' al contrario, è un dispiacere per non
aver potuto o non aver voluto fare qualcosa che oggsi capisce invece che sarebbe stato molto meglio
aver fatto. Possiamo in un certo senso dire che il rimorso deriva da una incapacità di non agire, mentre
il rimpianto nasce da una incapacità di agire. Quindi sono due situazioni abbastanza diverse e, anche se
non si possono fare classificazioni nette, almeno nella mia esperienza credo che ci sia un po' una
tendenza ad andare in una direzione e in un'altra in ognuno di noi. Ci sono persone che tendono ad
avere più difficoltà a non agire e poi hanno dei rimorsi, e altre persone che hanno più difficoltà invece ad
agire e hanno dei rimpianti. Ma potrebbe benissimo essere che nel corso di una vita di una persona
queste situazioni si accavallino e si interscambino.
Ora nella mia esperienza ci sono tre rimpianti che ho visto con una grande frequenza.
[...]
Il primo è la gestione del tempo. Ho sentito tantissime persone dire: avrei voluto dedicare più tempo ai
figli, alla famiglia, agli amici, all'amore, agli affetti e perfino a se stessi. Cioè evidentemente ci sono
moltissime persone che con il passare del tempo si accorgono di aver investito troppa energia, troppo
tempo, troppo spazio della loro vita su cose che forse non erano così importanti alla fine.
E credo che riconoscere che le componenti più importanti della vita di ognuno di noi alla fine sono
quelle relazionali e quelle emotive sia una cosa che ci può aiutare molto anche in una fase precoce della
vita, quindi ancora da giovani, a capire su cosa investire più tempo, invece che essere un po' condizionati
dalla tendenza sociale che è quella di lavora di più, lavora di più, lavora di più.
Rimpianto numero due, anche molto frequente: avrei voluto essere me stesso, avrei voluto vivere la mia
vita, fare le mie scelte, cioè per molte persone con il passare degli anni emerge la sensazione di non aver
vissuto in completo controllo della propria esistenza, come se nei momenti cruciali, nei momenti di
scelte importanti - che professione scelgo? che compagno o compagna scelgo per la vita? - è un po'
come se l'influenza esterna fosse stata eccessiva, e successivamente fosse emersa la possibilità di
fare invece altrimenti, di scegliere qualcos'altro, di scegliere qualcosa di diverso.
Allora anche qui, è chiaro che poi le cose si imparano con l'esperienza, dunque è facile dirlo in teoria,
però anche qui avere chiaro anche in età ancora giovane l'importanza di seguire le proprie sensazioni, di
andare alla ricerca di ciò che dà a te soddisfazione, di comprendere che in fondo noi cerchiamo non
tanto un lavoro, un compagno o una compagna, una casa, ma le emozioni che queste cose ci possono
regalare: avere chiaro questo concetto ci rende un po' meno suscettibili rispetto alle pressioni degli altri
che magari sono fatte in totale buona fede, ma che però ci condizionano e ci fanno fare delle scelte che
poi magari non ci rendono effettivamente felici.
Terzo rimpianto, anche molto frequente e un po' se vogliamo anche connesso con i primi due: avrei
voluto lavorare un po' meno. Cioè in tante persone con il passare degli anni aumenta la consapevolezza
che in fondo accumulare, accumulare, accumulare per questa idea che un giorno, domani, un futuro,
potrai godere queste cose è un'idea fallimentare... Non del tutto, è chiaro che in un po' di pianificazione
non c'è niente di male, ma dobbiamo anche sforzarci di vivere di più nel qui e ora nel goderci le
esperienze che stiamo vivendo e non come dire precluderci dalla possibilità di godercele perché, no,
dobbiamo stare focalizzati sul fare di più, lavorare di più, guadagnare di più,... e poi ti accorgi ad un certo
punto che la tua intera vita se ne è andata così e il momento di capitalizzare questo investimento non
arriva. Ecco la cosa più importante da capire dal mio punto di vista è che non è mai troppo tardi per
affrontare i propri rimpianti, e perché dico questo... perché basta un'istante per compensare decadi,
perché non è la quantità, non è un fattore di quantità che cambia, ma è l'intensità delle emozioni che
viviamo che trasforma l'intera visione che hai della tua vita stessa. Dunque non è mai troppo tardi per
affrontare i propri rimpianti, cambiare direzione, dedicare più tempo alle cose giuste, fare finalmente
quello che veramente ti piace e ti dà soddisfazione perché anche se lo fai tardi, questo tardi è meglio
che mai.

Unità 3

Traccia 4

Leila: Ci siam conosciuti a un aperitivo con amici universitari, amici in comune.


La prima volta che ho visto Gabri quello che mi ha colpito vabbè innanzitutto la simpatia. Quando
abbiam preso confidenza, la testa, il suo modo di ragionare, di affrontare le situazioni, sempre di petto,
quindi praticamente il contrario di me.
Gabriele: Quello che mi ha colpito di Leila appena l’ho vista penso che sia il fatto di essere sempre
solare, ha sempre un sorriso in più insomma di quello che si può fare anche nelle cose minime. Il fatto
veramente che sia una persona leggera nella vita quotidiana, cosa che io spesso non riesco a fare, e lei in
questo mi completa, ma contemporaneamente la profondità emotiva.

Leila: La prima volta che ho presentato Gabriele ai miei, in realtà stavamo insieme già da parecchio
tempo, da un annetto. Il fatto che io abbia rimandato così in là le conoscenze è stato semplicemente
dovuto al fatto che non avevo mai presentato nessuno ai miei. I miei genitori sono di fede islamica e mi
hanno sempre dato molta libertà; il fatto che io abbia preso coraggio e sia riuscita a farlo è molto dovuto
a lui, cioè se non ci fosse stato Gabri probabilmente io avrei continuato a rimandare e a posticipare
l’incontro.
Ero terrorizzata perché si trattava di qualcosa di completamente nuovo che io non avevo mai affrontato
con i miei genitori. Non sapevo come loro avrebbero reagito, se mi avrebbero impedito di continuare a
vedere questa persona, se poteva per loro essere una delusione. Questo mi sembrava un ostacolo
insormontabile. Io ho detto ai miei di Gabri per telefono, cioè con un messaggio, poi mio padre mi ha
chiamato contentissimo, dicendomi “Ma quand’è che me lo porti a casa? Andiamoci a fare un pranzo,
non vedo l’ora di conoscerlo!”. E lì, cioè, nel mio cuore proprio mi si è tolto un peso enorme, perché ho
detto: “Cavolo, ma allora tutto quello che avevo pensato, tutti i miei castelli, tutte le paranoie, erano
solo paranoie!”.

Gabriele: Io ricordo che quando ho conosciuto i suoi genitori è stato un giorno di festa, è stato
bellissimo. Mi hanno cucinato marocchino, io mi sono innamorato della cucina marocchina, oltre che di
Leila, devo dirlo. La cucina marocchina è molto buona.
Leila: Mia mamma ha cucinato refisa, che un piatto tipico del Marocco, del centro Marocco, che è il suo
piatto preferito. Non ha avuto problemi a finirlo! Mia mamma era la persona più contenta del mondo e
quindi più mangiava più la sua soddisfazione e il suo orgoglio crescevano.
Gabriele: In effetti, ora che ci penso, non esiste un piatto marocchino che non mi piaccia da impazzire.
Cioè, letteralmente, tutto quello che mi hanno cucinato i suoi, non so se è stata una coincidenza, ma io
dovevo incontrare proprio una ragazza marocchina, cioè...

Leila: Il compagno della mamma di Gabri è napoletano. Marito. È napoletano ed è tradizione fare tutti i
Natali con loro e la prima volta è stata una cena infinita. Avrò messo tipo 5 chili solo in quella serata!
Abbiamo iniziato a mangiare il salmone, gli antipasti alle sei di sera, abbiamo concluso a mezzanotte.
Dopo il sorbetto col limone con la zia che voleva cucinare il..
Gabriele: Lo stoccafisso fritto!
Leila: Il primo Natale però è stato bellissimo con loro perché poi mi hanno accolto con un’accoglienza
tipica dei napoletani. Cioè è stata una cosa straordinaria e ora cioè ormai il Natale con loro è un must.

Leila: Sì, io festeggio il Natale, ancora prima di conoscere Gabri in realtà perché i miei hanno sempre
comunque cercato di farci sentire come gli altri bambini, quindi facevamo l’albero di Natale, mi facevano
i regali a Natale, li aprivamo la mattina del 25 e quindi sì, l’ho sempre festeggiato.

Leila: Ci siamo accorti che i pregiudizi sono molto esterni, cioè noi ci rendiamo conto delle nostre
differenze di pelle, di cultura, di religione, nel momento in cui siamo in mezzo alle altre persone.
Gabriele: Vedi le occhiate, vedi le domande che ti fanno, tipo “Ma come parli bene italiano!?”
Indipendentemente dalla cattiveria individuale delle persone, è un virus impiantato nella società che fa
uscire fuori queste cose così.
Leila: Se ne vengono fuori con delle battute, non rendendosi conto che io faccio parte di questa realtà.
Sì, sono una ragazza di seconda generazione, sono nata e cresciuta qua, ma i miei genitori, quindi io, il
mio storico, il mio background, è quello lì, è quello di immigrata.

Gabriele: il figlio o la figlia che vive il conflitto con i genitori, figlia magari di seconda generazione,
piuttosto che la coppia che riceve delle pressioni particolari, si può vivere in armonia e costruire uno
spazio in linea con quella che è veramente la tua felicità, la personalità, se ti metti comunque nell’ottica
di educare l’ambiente circostante. Devo dire comunque grazie a Leila perché me l’ha insegnata lei
questa cosa, ora io lo dico ma me l’ha insegnato lei.

Leila: Avrei voluto sentirmi dire certe cose, che non puoi mai deludere i tuoi genitori. Possono non
condividere la tua scelta. Tu devi fare quello che senti che sia giusto per te. I tuoi genitori ti vogliono
bene e anche se non sono d’accordo e pensano che tu, per forza di cose, debba stare con una persona di
religione musulmana, che ti debba sposare, che debba fare un certo tipo di percorso, non puoi
rinunciare a te stessa!

Unità 4

Traccia 5

Accanto al tradizionale concetto di “dispersione scolastica”, che riguarda i giovani che hanno
abbandonato la scuola prima di concludere il percorso del secondo ciclo, è possibile individuare un altro
fenomeno, ugualmente preoccupante, i giovani che, pur avendo conseguito un titolo di studio di scuola
secondaria di secondo grado, non raggiungono i traguardi di competenza previsti dopo l’intero percorso
di tredici anni di scuola. Questo fenomeno prende il nome di “dispersione scolastica implicita”.
Analizzando i risultati delle prove, si osserva che il 9,5% degli studenti termina la scuola secondaria di
secondo grado con competenze di basi fortemente inadeguate. La dispersione scolastica implicita è
cresciuta a livello nazionale di 2 punti percentuali e mezzo. Sono cresciute anche le differenze territoriali
che riguardano la dispersione implicita: nel Nord vale il 2,6%, nel centro Italia l’8,8%, e nel Mezzogiorno
il 14,8%.
Volendo valutare la dispersione scolastica nel suo insieme, si devono sommare questi dati a quelli forniti
dall’ISTAT sulla dispersione esplicita: in questo modo si ottiene che il 23% degli studenti, quasi uno
studente su quattro, ha abbandonato la scuola o l’ha terminata senza acquisire le competenze di base
minime.
È possibile analizzare questi dati in base al contesto socio-economico degli studenti, attraverso l’indice
ESCS, un parametro utilizzato a livello internazionale per definire lo status socio-economico e culturale
della famiglia di provenienza: in questo modo si osserva che la dispersione implicita è aumentata
maggiormente per gli studenti che provengono da ambienti meno avvantagiati.

Unità 5

Traccia 6

La tematica OGM devo dire che, ancora una volta e sempre di più, viene giocato a livello mediatico non
come un argomento scientifico, ma viene giocato come due tifoserie della squadra di calcio, quindi sulla
base di slogan di cori e di reciproche accuse senza mai entrare nel merito. Quindi chi è pro OGM accusa
chi è contro di oscurantismo scientifico e di impedire lo sviluppo e il progresso, chi è contro gli OGM
continua a dire che non solo questi eventi, questi prodotti non portano alcun vantaggio per i
consumatori, ma soprattutto il rischio dal punto di vista ambientale nel medio-lungo periodo non è stato
studiato. Tutto questo da vent'anni, senza che ci sia fatto una sola verifica e un solo passo avanti nel
merito, continuando a parlare per slogan.
Qui vi sono due grandi realtà che vanno tenute in considerazione: dal punto di vista l'opinione pubblica
si conferma, a distanza di vent'anni, come la stragrande maggioranza dei consumatori questi prodotti
non li voglia; ma non è che non li vuole perché ha chissà quale timore, non li vuole perché non intravede
alcun vantaggio specifico per il proprio consumo. Per cui sono 20 anni che si favoleggia di questi OGM
che resisteranno alla siccità, che cresceranno senza niente, però poi in realtà a oggi abbiamo mais, soia,
colza e riso, tutti prodotti che sono cosiddetti commodity, cioè prodotti senza identità.
L'altro aspetto appunto è proprio l’identità: che vantaggio hanno gli agricoltori, e qui il principale
sindacato agricolo, la Coldiretti, è fortemente contraria, a introdurre in Italia, un Paese fatto di prodotti
di nicchia, di prodotti di altissima qualità, di prodotti che tutti vogliono copiarci ad altissima qualità, a
introdurre un qualcosa che ti standardizza a Brasile, Stati Uniti, Canada o Cina, che hanno dei sistemi
agricoli molto diversi dai nostri, hanno grandi estensioni, hanno prodotti che non hanno identità. Che
vantaggio hanno i nostri agricoltori a produrre qualcosa che automaticamente li standardizza sugli altri?
Per cui le vere due tematiche importanti sulle quali non c'è risposta è: qual è il vantaggio per i
consumatori, quali sono i rischi per l'ambiente, quali sono i vantaggi per gli agricoltori e quali sono i
rischi o i benefici nel coltivare (e anche poi, di nuovo, si va avanti a slogan e senza unità di misure).
E poi vi è un'ultima piccola incognita che grava su tutta questa vicenda è: se introduciamo gli OGM, chi
paga i costi per tenere separate le due filiere? Perché ovviamente questo genera un costo e ovviamente,
normalmente, paga l'ultimo arrivato non si può pretendere che siano le filiere che già c'erano a pagare i
costi per tenersi segregati da chi sta arrivando e inquina.

Unità 6

Traccia 7

- La cosa più bella del base [jumping] è che si possono variare infinitamente gli scenari: tu puoi
saltare da un grattacielo in centro a Manhattan, al Duomo di Milano, alla bellissima Valle dei
Laghi, qui in Trentino.
- Venendo qua, guardando questo paesaggio, qualcuno potrebbe dire che sei pazzo, tu cosa dici?
- Normale amministrazione... comunque sia, facciamo una cosa che è al di fuori degli schemi. Un
essere umano non è stato progettato “per saltare da una montagna” e quindi, giustamente,
all’occhio dell’opinione pubblica uno è un matto scatenato. In realtà, per quanto forti possano
essere le immagini o, appunto, quello che ci apprestiamo a fare, è tutto calcolato assolutamente
nei minimi dettagli.
Non è una roulette russa, questo è sicuro. Cioè, non si salta e non si sa cosa succede “mah,
speriamo come vada”, assolutamente. Si sa perfettamente cosa succede, dove si va.
L’adrenalina è con noi in ogni salto e, come ho detto, rende vigili, però non si salta puramente
per l’adrenalina. Qua saltiamo anche perché, comunque, ci si libra in volo come degli uccelli, si
vola rasenti le montagne, sono delle emozioni molto forti e si vola in degli scenari eccezionali:
possiamo mettere i piedi in posti dove poche persone hanno la fortuna di metterle.
Abbiamo uno strapiombo di 1200 metri...
- Qual è la velocità che raggiungi quando ti butti?
- Con queste tute alari possiamo raggiungere fino ai 220 km orari.
- Adesso vai a saltare!
- Adesso andiamo a saltare, insieme!

Unità 7

Traccia 8

Quali sono i materiali che compongono l'economia circolare e grazie ai quali essa già oggi è una realtà?

Alla carta dobbiamo uno dei beni più preziosi che l'umanità possiede: la conoscenza. La messa a punto
dei processi industriali di produzione della carta è stato il secondo elemento di diffusione della cultura
delle informazioni a una moltitudine di persone dopo l'invenzione della macchina da stampa di
Gutenberg.
Oggi noi in Italia ogni anno raccogliamo 6 milioni di tonnellate di carta e cartone da macero.
Attualmente una scatola di cartone torna a nuova vita in due settimane, un foglio di giornale in una sola
settimana.
Nello stabilimento Favini dal 1736 si produce carta che viene commercializzata in tutto il mondo. Qua
arriva sia pasta di legno di ottima qualità sia carta da macero già selezionata, proveniente dalla raccolta
differenziata. Da 25 anni l’azienda si è specializzata nell'utilizzo di materiali alternativi alla fibra di
cellulosa: principalmente scarti dell'industria agricola o del mondo della pelletteria, esuberi della natura
come le alghe della laguna di Venezia e sottoprodotti di altre filiere industriali. Si tratta di lavorazioni che
sono frutto dell’upcycling, il riuso creativo dei sottoprodotti o degli scarti.
Le bucce delle arance, opportunamente micronizzate, entrano nel processo di lavorazione della carta e
vanno a sostituire un 20% di cellulosa d'albero. Qua si riutilizza il tutolo del mais, la pellicina del caffè, i
gusci delle nocciole e delle mandorle, e gli scarti del cuoio, che sostituiscono un quarto della cellulosa
necessaria al processo.
Noi abbiamo calcolato che la raccolta differenziata di carta e cartone corrispondono al blocco di tutto il
traffico veicolare italiano per una settimana: è come se non si muovessero automobili, motociclette e
autobus, e quindi capite l'impatto dal punto di vista, per esempio, dell'inquinamento.
Più carta viene riciclata, meno risorse vengono consumate, gli alberi in primo luogo.
I tre quarti delle fibre vergini di cellulosa provengono da processi di forestazione sostenibile.
In Italia con 5 milioni di tonnellate annue di carta riciclata, noi siamo tra i primi in Europa.
Il recupero degli scarti o dei sottoprodotti di altri filiere industriali consente di produrre delle carte
sostenibili, che sono realizzate utilizzando energia idroelettrica rinnovabile generata direttamente
all'interno dello stabilimento.

Unità 8

Traccia 9

La serotonina, la dopamina, l’ossitocina e le endorfine sono i nostri antidepressivi fisiologici: combattono


lo stress, favoriscono il buonumore e ci tengono alla larga dall'ansia e dalla tristezza.
Dobbiamo sapere che la felicità dipende dal nostro cervello che, attraverso una complessa rete di
strutture nervose neuronali, di sinapsi, di intrecci, ecc. e attraverso messaggeri chimici, è in grado
praticamente di regalarci delle emozioni positive. Quando il cervello produce serotonina noi proviamo
una piacevole sensazione di benessere e poi anche dormiamo meglio, perché la serotonina interviene
anche sul ciclo della melatonina ecc.. Quando invece viene rilasciata dopamina, siamo più motivati a
raggiungere i nostri obiettivi. Con l’ossitocina, invece... l’ossitocina ci fa apprezzare, per esempio, ancora
di più l'amore, no? È detto l'ormone dell'amore.
Questi sono i cosiddetti “ormoni della felicità” che sono di veri e propri antidepressivi naturali.
Queste sostanze sono prodotte dal nostro organismo e aiutano praticamente a riequilibrare il nostro
benessere psicofisico e farci sentire meglio quando siamo tristi, quando siamo nervosi, quando siamo
stressati.
Molto spesso si pensa che la felicità su qualcosa di così, come dire, di esoterico qualcosa che ci arriva
dall'esterno oppure qualcosa che ci arriva soggettivamente. In realtà non è così: la felicità viene
influenzata da una serie di reazioni biochimiche che sono regolate appunto da neurotrasmettitori e
ormoni che sono tutti sotto stretto controllo del cervello. L’essere felici dipende soprattutto dalla
serotonina, che è l'ormone del buonumore, viene chiamato appunto “ormone della felicità”, e questo
neurotrasmettitore praticamente regola il tono dell'umore, agisce sulla memoria, ha un sacco di
interventi: interviene sull'apprendimento e anche sull'appetito, lavora sull'alternanza sonno-veglia e sul
desiderio sessuale.
Un altro ormone legato alla felicità è la dopamina: si tratta praticamente di un neurotrasmettitore che
aumenta quando facciamo qualcosa che ci dà piacere e soddisfazione, e oltretutto la dopamina controlla
anche la motivazione.
Poi abbiamo l’ossitocina, che è anche chiamata appunto, come ho detto prima, “l'ormone dell'amore”,
che viene prodotta nell'ipotalamo ed è collegato ai rapporti affettivi soprattutto quelli molto intensi e
dall'alto contatto, come quelli tra madri e figli, ad esempio, tra partner.
C'è poi un altro un altro neurotrasmettitore, antistress per eccellenza, che è il gaba e il cui ruolo è quello
praticamente di calmare il sistema nervoso quando siamo in stati di grande eccitazione riportandolo...
riportandoci alla calma.
E poi ci sono le endorfine. Le endorfine si chiamano “endorfine”... sono state scoperte pochi decenni fa,
mentre conoscevamo molto bene la morfina prima di loro, e l’endorfine sono state chiamate proprio
perché hanno un effetto esattamente come la morfina, solo che sono endogene: cioè la morfina è una
droga, è una sostanza stupefacente esterna che viene introdotta nel nostro corpo, mentre le endorfine
sono gli ormoni del benessere, sono dei neurotrasmettitori che ci fanno sentire meno il dolore e meno la
fatica; esattamente come la morfina, cioè come alcune droghe esogene, che cioè, praticamente, devono
arrivare dall'esterno.

Unità 9

Traccia 10

Pittore, collagista e disegnatore, Alberto Burri è l’artista italiano, insieme a Lucio Fontana, ad aver dato il
più importante contributo italiano al panorama artistico internazionale nel secondo dopoguerra.
La sua ricerca artistica spaziò dalla pittura alla scultura, avendo come unico fine l’indagine sulle qualità
espressive della materia.
Nel 1943 fu catturato in nord Africa mentre prestava servizio come medico nell’esercito italiano, e nel
1944, prigioniero di guerra a Hereford, Texas, iniziò a dipingere utilizzando qualunque materiale
riuscisse a trovare, compresi i sacchi di iuta.
Dopo la guerra si stabilì a Roma e abbandonò la medicina per l’arte. Nel 1948 iniziò a comporre opere
astratte, e nel 1949 a inserire frammenti di sacchi come elementi di collage. Spesso spalmava pittura
rossa sui tessuti, che davano l’idea di bende intrise di sangue.
Nei tardi anni Cinquanta cominciò a inserire nei dipinti materiali più corposi, tra cui pezzi di legno
carbonizzati o metalli arrugginiti, che ancora riflettevano la sanguinosa esperienza della guerra.
A contrassegnare in modo evidente tutte le fasi della ricerca di Burri è sempre l’uso di materiali extra-
artistici: dal catrame ai sacchi, dal legno alle plastiche combuste alle lamine di ferro saldate.
La serie più famosa di opere dell’artista è quella dei Sacchi, avviata nel 1950-51.
La svolta fondamentale della carriera di Burri inizia nel 1953, quando il direttore del Guggenheim
Museum di New York espone due suoi lavori in una grande mostra, proponendo una lettura
drammaticamente esistenzialista dei Sacchi.
Il fascino inquietante, aggressivo e allo stesso tempo estremamente raffinato dei Sacchi di Burri sta nel
fatto che spesso condensano forma, superficie e supporto in un’unica opera. La tela di iuta prende
anche il posto della tela come supporto classico della pittura.
Nonostante il suo carattere schivo, Burri ottenne un grande successo internazionale grazie alla qualità
del suo lavoro. Fu uno dei primi artisti a sperimentare la forza evocativa dei materiali di scarto,
anticipando il movimento dell’arte povera, nato in Italia alla fine degli anni Sessanta.
Burri è anche l’unico artista ad aver fatto un monumento a una calamità naturale, il terremoto, sulle
macerie dello sfortunato paese di Gibellina, in Sicilia.
Colando cemento sui resti del paese, Burri ha trasformato così in necropoli le macerie della cittadina,
divenuta Il Grande Cretto. Realizzò inoltre scenografie per il Teatro alla Scala di Milano e altri teatri.

Unità 10

Traccia 11

- Buongiorno! Mai soli! Cosa ci fa il Tenente Colonnello Paolo Capizzi in apertura?


Colonnello, dobbiamo fare un momento di chiarezza. Posso invitarla a sedersi? Si accomodi!
Colonnello, io stamattina sono uscita in una maniera raccapricciante: due cappelli, sette sciarpe...
c’avevo anche la calza... non si può! Io ero pronta ad affondare i piedi nella neve a Roma!

- No, sono uscite queste notizie che magari hanno... era un modo per distribuire il sale!

- Ecco! Va bene, facciamo la battutina! Ma c'è un'era glaciale in arrivo? Qual è la situazione, colonnello?
Scherzi a parte.

- Mah, io non so perché ogni volta che si parla di qualcosa che fa caldo in estate e fa freddo in inverno
sia una cosa normale. Poi ci lamentiamo se non fa freddo: “ah, non c'è più l’inverno!”.
Bisogna pure mettersi d'accordo!

- Chiariamo una volta per tutte!


- Siamo in inverno, è giusto che faccia freddo. Fa bene anche all'agricoltura, magari non le gelate, ma la
neve fa bene anche all'agricoltura, come sa chi tratta la terra. E quindi abbiamo il freddo; freddo che
abbiamo avuto anche l'anno scorso, meno che a gennaio, che è stato un po’ particolare, un po’ caldo.
Adesso gennaio è freddo e sarà freddo anche nei prossimi giorni.

- Qual è la situazione attuale, colonnello?

- La situazione attuale vede effettivamente una discesa di aria fredda, ho sentito “dalla Francia”, in
realtà viene dall’area polare.

- Cioè proprio fredda, fredda, fredda?

- Fredda, è fredda, sì, come la barzelletta...

- Se qualcuno mi avesse incontrato stamattina, credo che avrebbe chiamato i vigili perché ero
veramente imbarazzante, però ho detto “vabbè, prepariamoci, evitiamo i colpi di freddo...”. Questa è la
situazione che...

- Questa è la situazione che abbiamo... che avremo nella giornata di domani, tra stanotte e domani. In
realtà è un po’ accelerato il fatto: la natura è più veloce di quello che possiamo prevedere.
È quello che succede in quota: ora in quota immaginate che è un insieme di montagne, colline e vallate.
Dove vedete “h”, sarebbe l’alta pressione, è una collina o una montagna, dove vedete la bassa è una
vallata. Ora, il colore sta a indicare anche la temperatura che avremo in quota, quindi vedete che più il
blu intenso più l'aria è fredda e quindi abbiamo una temperatura che intorno ai 5000 metri sta a -32°C.

- Colonnello, 5000 metri va bene, benedetto chi ha la forza di salirci! Invece nelle nostre città?

- Volevo verificare che quel valore di pressione, anche se in quota...

- Torniamo al grafico di prima.

- È un valore non comune, piuttosto raro, che non si vede nel Mediterraneo. Adesso, se passiamo invece
a quella che sarà la situazione del suolo, ecco, anche qui abbiamo un valore di pressione al suolo molto
basso, non comune, un po’ raro. E vedete la rotazione dei venti, la rotazione anticiclonica tipica...
ciclonica, scusate, tipica della bassa pressione e venti molto sostenuti a ovest della Sardegna, quindi
mari anche agitati, se non grossi. E tutta questa è un'area instabile perturbata, che naturalmente
porterà a determinate previsioni.
L'immagine da satellite, attuale, la vediamo...

- Arriva, arriva pian pianino, arriva tutto, perché l’abbiamo appena incassata, anticipiamola intanto...
eccola qui!
- Ecco, sì, fa vedere appunto la discesa di aria fredda molto insistente, molto potente. Vedete dalle
latitudini polari scende diretta sul Mediterraneo, quindi sono tutti i corpi nuvolosi che si generano da
quest'aria fredda che penetra nel bacino Mediterraneo che è più caldo rispetto all'area circostante, e
quindi genera tutte quelle fenomenologie che vanno dalle piogge alle nevicate.

Traccia 12

Un caro saluto da Mario Giuliacci.


Il tempo previsto per lunedì 21 febbraio: un'altra perturbazione atlantica viene deviata verso i Balcani
dell'anticiclone delle Azzorre e da qui poi scivolerà verso l’Italia proprio nella giornata di lunedì.
Piogge moderate intorno 5-10 mm su tutto il Centro-Sud e sull'Emilia Romagna, Veneto e levante ligure.
Nevicate sulle Alpi di confine fino a bassa quota, intorno ai 10 centimetri; qualche centimetro anche su
Abruzzo e Molise.
Nebbie su est della Lombardia e su basso Veneto.
Temperature in rialzo, massime intorno a 10 gradi sul triveneto; 14 e 16 sul resto dell'Italia.
Forte libeccio fino a 70-80 chilometri all'ora sulle regioni tirreniche, föhn sulle regioni di Nord-Ovest.

Unità 11

Traccia 13

Bene, oggi voglio parlarvi proprio di chi non ha nulla perché è disoccupato. “Disoccupato”, non
“inoccupato”, perché lo Stato fa molta differenza tra chi il lavoro lo ha perso e che invece non lo ha mai
avuto. Nel primo caso ci sono una serie di strumenti di tutela, nel secondo caso no o quantomeno sono
di gran lunga inferiori.
Ho voluto così fare un video per spiegare a cosa ha diritto un disoccupato, voglio cioè spiegarvi tutti gli
strumenti di tutela che sono previsti dalla legge a chi rimane senza lavoro.
Iniziamo dal diritto più tradizionale dei disoccupati, che è proprio l'assegno di disoccupazione.
Se siete lavoratori dipendenti e siete stati appena licenziati, avete diritto all'indennità di disoccupazione
chiamata “NASPI”. Questa indennità vi spetta solo se avete questi requisiti: dovete aver perso il lavoro
non per causa vostra, dovete cioè essere stati licenziati per qualsiasi ragione anche dipendente dal
vostro comportamento o magari esservi dimessi per una giusta causa, derivante dal comportamento
illecito del datore di lavoro, ad esempio non vi è stato pagato lo stipendio, siete stati mobbizzati,
ingiuriati e così via; poi dovete aver lavorato per almeno trenta giornate nell'anno; dovete avere alle
spalle almeno tredici settimane di contributi negli ultimi quattro anni.
Se possedete questi requisiti, potete ottenere l'assegno disoccupazione, ossia la NASPI, che ammonta
normalmente al 75 per cento del reddito medio mensile degli ultimi quattro anni, con un tetto massimo
di poco superiore a 1.300 euro mensili.
Veniamo ora a quanto dura la NASPI. La NASPI è corrisposta per un numero di settimane pari alla metà
di quelle di contribuzione degli ultimi quattro anni, comunque non può durare mai più di 24 mesi: ad
esempio, se avete lavorato continuamente negli ultimi quattro anni e non avete mai percepito un
sussidio di disoccupazione, l'indennità dura massimo 24 mesi.
Ricordate che l'ammontare della NASPI cala del 3 per cento a partire dal quarto mese; inoltre se trovate
un nuovo lavoro, potete continuare a ricevere la NASPI se, in caso di lavoro dipendente, il reddito non
supera 8.700 euro o in caso di lavoro autonomo, il reddito non supera 4.500 euro al mese.
Non avete diritto alla NASPI se siete dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato.
Dove si chiede la disoccupazione? Potete chiedere la disoccupazione sul sito dell'INPS se possedete le
credenziali di accesso, cioè il codice PIN dell'INPS, oppure lo SPID della carta nazionale dei servizi, che
può essere ad esempio la tessera sanitaria con un apposita abilitazione, oppure la carta di identità
elettronica. Se non avete molta dimestichezza col computer o con le app, potete chiedere la
disoccupazione magari chiamando il call center dell'INPS (bisogna comunque avere il codice PIN
dell'INPS in questo caso) oppure potete recarvi semplicemente a un patronato.

Unità 12

Traccia 14

Dato che 1/3 della popolazione mondiale utilizza i siti di social networks, essi hanno chiaramente una
forte influenza sulla società. Ma il nostro corpo come reagisce?
Ecco qui 5 pazzeschi modi con cui i social media e internet stanno influenzando il tuo cervello proprio
ora!
Non riesci a sconnetterti? Sorprendentemente, il 5-10% degli utenti di internet non è in grado di
controllare quanto tempo trascorre online.
Sebbene sia una dipendenza psicologica e non da qualche sostanza, le scansioni cerebrali di queste
persone rivelano un handicap delle zone del cervello simile a quello dato dalla dipendenza dalla droga.
In particolare, c'è un chiaro deterioramento della materia bianca nella regione che controlla i processi
emotivi, l'attenzione e la presa di decisioni.
Poiché i social network forniscono una ricompensa immediata senza un eccessivo impegno, il tuo
cervello si adatta, facendoti desiderare questi stimoli.
Così inizi a desiderare fortemente altre di queste eccitazioni neurologiche date da ogni interazione.
Suona quasi come una droga, vero?
Vediamo anche dei cambiamenti sul multitasking. Potresti pensare che chi usa i social network o passa
costantemente dal lavoro ai siti web sia capace di avere attenzione su più cose, ma gli studi hanno
scoperto che confrontando chi fa uso pesante di internet con gli altri, i primi hanno riportato una
performance molto più scarsa durante un test di passaggio da un compito a un altro.
Un incremento multi-tasking online riduce l'abilità del tuo cervello di filtrare le interferenze, e può anche
rendere più difficile memorizzare mentalmente le informazioni.
È esattamente come se il tuo telefono squillasse nel mezzo di un lavoro impegnativo. O, un
momento..ha davvero suonato?
La sindrome delle vibrazioni fantasma è un fenomeno psicologico relativamente nuovo, ovvero quando
pensi di aver sentito il tuo telefono squillare ma non lo ha fatto davvero. In uno studio, l'89% dei soggetti
campione ha detto di aver provato tale sensazione almeno una volta in 2 settimane. Per quanto folle
possa sembrare, la tecnologia ha iniziato a ricalibrare il nostro sistema nervoso - e i nostri cervelli
vengono attivati in maniere mai viste prima d'ora.
I social provocano anche il rilascio di dopamina - la sostanza che ci fa stare bene. Da una risonanza
magnetica, gli scienziati hanno scoperto che il centro di ricompensa del cervello, nelle persone, è più
attivo quando si parla dei propri punti di vista, al contrario di quando si ascoltano gli altri.
Non è sorprendente - tutti amiamo parlare di noi stessi, vero? Ma mentre il 30-40% delle conversazioni
faccia a faccia riguarda le esperienze condivise, circa l'80% delle comunicazioni via social
è su se stessi.
La stessa parte di cervello legata all'orgasmo, motivazione e amore è stimolata utilizzando i social - e
molte altre ancora quando sai di avere un pubblico. I nostri corpi ci ricompensano psicologicamente
se parliamo di noi online!
Ma non è tutto così legato a se stessi. Infatti, studi sulle relazioni hanno scoperto che i partner tendono
a piacersi di più se si sono conosciuti per la prima volta online rispetto a un incontro faccia a faccia.
Probabilmente per via del fatto che le persone siano più anonime, o forse perché si è più chiari sui
propri obiettivi futuri, statisticamente c'è più successo nei rapporti iniziati online.
Morale della favola? Internet ha cambiato la nostra comunicazione verbale, con un'incrementata
separazione fisica, però le relazioni che contano finiscono poi con lo stare più vicini.

Unità 13

Traccia 15

- Allora vi leggo un po’ delle sigle: Z4, GL27... non è la coppa 26, non è una zona a traffico limitato, sono
solo alcune delle sigle di alcune baby gang di Milano, ma il fenomeno poi si sta estendendo ad altre città
non soltanto ad altre metropoli italiane.
Baby gang che si fanno ritrarre in video diffusi poi sui social con i mitra, macchinoni, minacce, fino a
spedizioni punitive (questo accade realmente, non solo nei video), motorini incendiati. La situazione sta
diventando preoccupante oppure no?

- La situazione sta diventando abbastanza preoccupante e soprattutto dobbiamo cogliere i segni di


quello che accade.
I giornali di cronaca locale, quest'estate in Svizzera, hanno riportato di uno scontro fra due gang di
ragazzi, di adolescenti, che si offendevano una con l'altra naturalmente e ognuna aveva come tratto
distintivo il codice di avviamento postale del proprio comune. La stessa cosa sta avvenendo a Milano,
per certi versi anche a Torino e per tutti i comuni dell'hinterland usando - e su questo dobbiamo fare
attenzione nel guardare, per esempio, le scritte sui muri delle nostre città - usando proprio i codici
postali o la zona che si accompagna spesso alla lettera “z”. Altri due elementi importanti da cogliere:
primo, ci sono segnali evidenti di contatto con i fenomeni analoghi francesi, sempre più spesso nelle
baby gang e italiane in particolare dell'area milanese c'è il richiamo alla parola banlieu che viene dal
appunto dalle zone periferiche della città di Parigi anche per la composizione etnica di molte di queste
bande. E poi veniamo alla questione fondamentale: tutta questa attività, che è un'attività molto spesso
criminale, trova uno strumento di amplificazione innanzitutto attraverso i social e questo dovrebbe far
riflettere molto attentamente quelli che i social li gestiscono. Abbiamo letto in queste settimane,
diciamo così, dei tormenti anche del numero uno e fondatore di Facebook Mark Zuckerberg. Ebbene i
social hanno una responsabilità gigantesca, perché questi materiali di propaganda violenta li vedono e
solo in alcuni casi li fermano. E poi, diciamocelo qui, nella più grande e più forte, più importante radio
italiana, c'è anche un po’ di, diciamo così, di scarsa attenzione in alcuni artisti che non sono quelli che
passano naturalmente nelle grandi radio nazionali, però c'è un tema di sollecitare questo aspetto
violento anche un po’ da parte di vari fenomeni musicali, allora tutto questo va tenuto sotto controllo in
modo intelligente.
Non c'è dubbio che in alcune zone delle nostre città bisognerebbe fare di più, per esempio campi
sportivi o molto altro, però questo fenomeno che riguarda ragazzi tra i 12 ei 16 anni - perché di questo
parliamo - è un fenomeno sul quale non possiamo tacere o far calare il silenzio, perché questa sarebbe
la ricetta peggiore per affrontare la questione.

- Roberto, in 30 secondi, un flash, ti chiedo: noi ne abbiamo discusso parecchio questa mattina,
insomma, arrivando al tuo appuntamento. È un fenomeno che, però, anche senza i social, quindi
parliamo di 20 anni fa insomma, comunque esisteva già... sarà forse che adesso ne abbiamo più
coscienza?

- Adesso hanno i mitra...

- È così, ma il fenomeno si è arricchito di una potenza di fuoco che viene dalla possibilità di raccontare
quello che fai. Tutto questo nelle generazioni passate esisteva in misura infinitesimale.

- Non c'era il consenso pubblico, cioè tutto lo facevi per la tua gang, che è già terribile così da dire...
Va bene, dai. Roberto Arditti, grazie per essere stato con noi.

Unità 14

Traccia 16

La nostra parlata è una lingua. C’è chi arriccia il naso, insomma, è tutta invidia. Dicono che semo [siamo]
volgari, ma è tutta invidia che vor di’ [che vuol dire], che vor di’ volgare?
La volgarità è molto connessa e collegata all'epoca in cui vive, magari tanti anni fa una parola era
volgare, oggi non lo è più. Pensate alla parola italianissima, tra l’altro, la parola “culo” per esempio, no?
Anni fa era considerata volgare, solo il culetto, il “culetto” se po’ di’ [si può dire] perché è dei bambini, il
“culo” adulto invece è volgare.
Però questa parola non solo era considerata volgare, ma era pure peccato, cioè ti dovevi confessa’
[confessare]. Io mi ricordo, da ragazzetto, era peccato veniale, ti dovevi confessa’.
E quindi ho cominciato a capire: la prima cosa, il primo vantaggio del dialetto è la sintesi. Il dialetto
romano, no? La sintesi. Poi dopo, si capisce che l’insulto si fa sempre con cose ritenute sporche, la
volgarità sporca, quindi le cose sessuali, perché nel nostro Paese il sesso è stato sempre ritenuto una
cosa sporca. Non si sa perché, ma è così. Quindi se tu devi da’ [dare] un insulto a uno, gli dici una parola
che ha a che vedere con una zona anatomica che va dalla cinta, diciamo, dall’ombelico fino a, grosso
modo, all’inizio delle cosce, grosso modo, dipende. Questa è la situazione... E poi dopo, quindi l’aspetto
sessuale, e poi quello scatologico, cioè la parte... non è la teoria delle scatole, ma è tutto ciò che inerisce
e che si riferisce, diciamolo pure, alla cacca. La cacca ha fatto sempre ridere nei secoli, sempre. Sai, i
ragazzini, quelli che volevano trasgredire, dicevano sempre “cacca, merda!” e ridevano, ridevano come
dei pazzi! E quindi, la sintesi... Butta giù un po’ la lavagna, mi so’ [sono] preso degli appunti perché voglio
vedere proprio, analizzare bene, ecco, vediamo la sintesi, come il dialetto è più sintetico della lingua. Per
esempio, per dire una frase come questa qua: “No, però tu adesso devi dirmi tutto!”, questo è in
italiano. In romano è: “Ma mmo m’a da di’!”. Pensate come è più sintetico, sembra un’onomatopea
tribale: “Ma mmo m’a da di’, ma mmo m’a da di’, ma mmo m’a da di’!”. Anche questa: “Signore, scusi,
potrebbe spostarsi un attimo acciocché io possa vedere meglio?”. In romano: “A’ colle’ mpo’?”. Mettile
insieme: “Ma mmo m’a da di’ a’ colle’ mpo’?”, “Ma mmo m’a da di’ a’ colle’ mpo’?”. Ecco, questa per
esempio è una frase italiana che denota come noi romani siamo, siamo... cioè ci serviamo anche di
immagini, di cose magari un po’ idealizzate, per esempio: “Sono stato particolarmente sfortunato”....
“M’ha detto pedalino”. E il pedalino che evoca questa frase non è certo un calzino nuovo nuovo, ma ti
viene in mente subito un pedalino di quelli proprio... perché t’ha preso la sfortuna, no? E si riferisce poi
anche agli odori come potete constatare. Ecco, vediamo adesso, cominciamo a calare, a scendere nelle
zone... “Sono stato, invece, particolarmente fortunato”... “M’ha detto culo”. È più corta, però questa
parola si usa in tante... in molti usi, molte sfaccettature. Ecco, questa frase che viene fa notare come noi
romani siamo sospettosi... Noi romani siamo sospettosi... Che è, ao’... De che? Se no? Anvedi ao’... Per
esempio, in italiano sarebbe questo: “Scusi, signore, lei forse avrebbe l’intenzione in questo momento di
farsi beffe di me?”. Romano: “Ma che me stai a pija’ per culo?!” Poi per finire con questa zona, ecco, per
esempio: “Lei ora ha veramente urtato la mia suscettibilità!”... “Mo’ m’hai rotto li cojoni!”

Unità 15

Traccia 17

- Intanto il giornalismo è entrato in crisi verso la fine del 1953, almeno in Italia, in America un po’
prima, quando apparsa la televisione. Un giorno, una volta, il giornale diceva la mattina quel che
era successo la sera prima, adesso dice alla mattina quello che tutta la gente ha già saputo dalla
televisione la sera prima. Questo avrebbe potuto segnare la disparizione del giornale come
oggetto, come istituzione, mentre il giornale ha dovuto aumentare le pagine per ospitare la
pubblicità eccetera. Una volta, quando ero piccolo, avevano quattro pagine, adesso ne hanno
60.
Cosa fa un giornale? O riesce a fare l'approfondimento, che richiede una forte redazione, la
preparazione di dossier, o il gossip (i giornali inglesi della sera che non fanno altro che parlare
della famiglia reale) e in certi casi, come accadde poi nel mio giornale, lo scandalismo e il ricatto.

- Secondo lei quali sono i brani più comuni e più nefasti praticati dal cattivo giornalismo?

- Sono infiniti, voglio dire, pensi delle pratiche che apparentemente sono corrette: la
tematizzazione. Cioè, un giovanotto uccide la fidanzata a Belo Horizonte, un altro uccide la
moglie a San Paolo, un altro uccide l'amante a Salvador de Bahia, infatti, statisticamente, in un
Paese grande come il Brasile, statisticamente è abbastanza normale che succeda. Se lei li mette
tutti nella stessa pagina ha creato un allarme, se poi tutti queste persone sono, poniamo, della
stessa origine etnica, colorate, allora ha creato proprio la persecuzione razziale, semplicemente
mettendo le notizie nella stessa pagina. Quindi sono tecniche che certe volte sono connaturate,
perché viene naturale al giornalista avere tre notizie abbastanza simili e metterle e metterle
insieme, ma se mette insieme cinque incidenti d'auto sulla stessa pagina vuol dire che c'è
qualcosa che non funziona nel motore delle automobili! Questo è un elemento minimo ma dove
si vede che si può fare del giornalismo pericoloso anche lavorando correttamente.

- Ma la politica dentro la redazione, forse anche quello non può essere una cosa nefasta? Il
giornalismo contaminato da una politica di partito?

- C'è un solo tipo di giornale che non è contaminato, è il giornale di partito, perché si sa, cioè, di
quel partito, quindi si sa come leggerlo, si sa come filtrare le informazioni. Certo che ogni
giornale è sottomesso a pressioni politiche di vario tipo, dipende da come le dichiarano. I grandi
giornali americani in occasione delle elezioni del presidente dicono “noi sosteniamo questo”, ok,
ci siamo ci siamo capiti. In italia un problema tragico è che non ci sono giornali indipendenti,
tutti sono in qualche modo legati a banche, industrie, eccetera eccetera. Questo è molto grave,
ecco, non è tanto la politica, un giornale deve far politica e se è un giornale onesto, denuncia
chiaramente qual è la sua posizione politica, ecco.

Unità 16

Traccia 18

Avrete sentito parlare di immigrazione e di migranti, ultimamente. Giusto un po’, vagamente. Avrete
sentito di storie di stranieri che invadono il nostro territorio e le nostre città; di storie di migranti
su imbarcazioni di fortuna che attraversano il Mediterraneo e che giungono fino alle nostre coste.
Alcuni di loro perdono anche la vita, nel tentativo.
Avrete sentito anche delle storie positive, di rifugiati che decidono di donare i fondi a loro destinati ai
terremotati italiani, per esempio, o di migranti che intraprendono attività commerciali che funzionano.
La storia della migrazione è la storia dell'uomo. Ed è una storia che parte da molto lontano: anche nella
mia famiglia, ad esempio.
Mio nonno è emigrato dal Salento al Belgio all’inizio degli anni '50, in corrispondenza del disastro di
Marcinelle, dove persero la vita, tra gli altri, 136 minatori italiani. I miei genitori si sono spostati da sud
verso nord Italia; mio zio ha lavorato moltissimi anni in Svizzera; e io stesso ho passato tre anni della mia
vita a Londra, in Inghilterra, a fare un dottorato di ricerca, anche se nell'immaginario collettivo
non ero un migrante: ero un italiano all'estero, o un expat, secondo un vocabolo che si sta affermando
sempre di più.
Come nella mia famiglia, sono convinto che anche in molte delle vostre famiglie ci siano storie simili di
emigrazione. E c'è un filo conduttore di queste storie, un unico filo che è l'emozione: l'emozione in chi la
vive, che vi racconterà che è una delle esperienze più intense che abbia mai passato nella vita; e
l'emozione in chi la osserva da una certa distanza.
L'informazione, la politica, e sempre di più i social, si nutrono di queste sensazioni istintive e finiscono
anche con l’avere un impatto sulla nostra percezione, specialmente su tematiche come quelle della
migrazione.
Non è un caso che, secondo l'ultimo Eurobarometro, che è il servizio della Commissione Europea che
guarda alle tendenze dell'opinione pubblica, l'immigrazione è la principale causa di preoccupazione dei
cittadini europei, seguita dal terrorismo.
Per contro, solo il 37% degli intervistati si ritiene informato sulla migrazione. Su 19 Paesi su 28 la
percezione del rapporto fra emigrati extraeuropei e popolazione è di più del doppio di quello che non sia
in realtà.
E in Italia? Chiedo a voi: secondo voi, qual è la percentuale di immigrati extraeuropei in Italia?
Chi pensa "Tra lo zero e il dieci percento", alzi la mano. La metà. Tra il 10 e il 20%? Un po' meno. Tra il 20
e il 30%? Qualcuno. Oltre il 30? Nessuno, meno male.
La percezione in Italia media è del 24,6%, quando in realtà i dati ci dicono che solo sette sono immigrati
su 100 abitanti in Italia. Questi sono i dati ufficiali, in questo 7%, ed io vi parlerò di dati oggi.
Sono un data scientist e quello che amo dei dati è che difficilmente mentono, ma possono essere
utilizzati per sfatare dei miti, degli stereotipi.
Ad esempio, in Africa, il numero maggiore di migranti si muove all'interno del continente e solo una
parte di loro finiscono verso altri continenti, quindi non c'è un esodo di massa verso l'Europa. Oppure, il
flusso di messicani verso gli Stati Uniti è minore di quello che dagli Stati Uniti va verso il Messico: molti
sono migranti di ritorno che si ricongiungono ai loro familiari, e questo dato riguarda sia irregolari che
regolari.

Unità 17

Traccia 19

- Il carcere è innanzitutto inutile e nocivo, fa male!

- Luigi Manconi è il presidente della Commissione Senato per la tutela e la promozione dei diritti
umani e da sempre uno dei politici più impegnati nella difesa dei detenuti ed è l'autore, insieme
a Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta di un libro che ha fatto molto
discutere: Abolire il carcere. Nelle carceri italiane ben 2.368 persone sono morte negli ultimi 15
anni, fanno quasi 160 persone ogni anno, uno ogni due giorni, di cui un terzo per propria scelta.
La frequenza dei suicidi tra i detenuti è 17 volte superiore alla media.

- Ma c'è un altro dato, in genere taciuto da tutti, ed è che negli ultimi 10 anni si sono suicidati
quasi 100 poliziotti penitenziari. È la dimostrazione che il carcere è una macchina patogena, cioè
un sistema che produce malattia, nevrosi, psicosi, autolesionismo e infine morte. Lei deve
immaginare una cella. Due, quattro, sei, otto, talvolta anche più, adulti maschi costretti appunto
in condizione di promiscuità coatta. In un angolo appena di un metro e mezzo di quella cella ci
sono il cesso o il gabinetto alla turca, appena più in là un fornelletto da campo dove viene
cucinato il cibo e un unico rubinetto per tutte le attività che richiedono acqua.

- Però adesso, mi scrivono dal DAP, che la situazione è migliorata. Non si può più parlare di
sovraffollamento.
- Non c'è il minimo dubbio, il sovraffollamento è stato ridotto, ma nelle carceri italiane comunque
rimangono 10.000 detenuti più della capienza regolamentare.

- In Norvegia veramente sono riusciti a fare sì che l'idea di riabilitazione e di reintegro non siano
soltanto delle belle parole, ma siano veramente una realtà. Secondo lei, un modello così è
mutuabile anche da noi?

- In quel Paese l'ergastolo non c'è per una ragione fondamentale: non è il numero degli anni di
condanna che può dissuadere dal commettere il reato. Oggi, io mi chiedo, la classe politica
italiana sarebbe altrettanto matura di quella norvegese?

- Glielo chiedo io, secondo lei?

- Assolutamente no.

Unità 18

Traccia 20

Questi sono seminari non di informatica, naturalmente, no, anzi interdisciplinari, quindi ho pensato di
venirvi a parlare di un romanzo che è uscito un paio di anni fa e che si chiama La solitudine dei numeri
primi. Come mai parlare di questo romanzo? Innanzitutto, come voi sapete, l'autore, Paolo Giordano, è
un ragazzo qui di Torino che stava a San Mauro prima - lo dico perché anch'io stavo a San Mauro, quindi
l'ho conosciuto quando era bambino, diciamo così - ed è un dottorato adesso, addirittura, perché è
riuscito a finire il dottorato di fisica. Quindi, se ci sono dei dottorandi, sappiano che ci sono delle vie rege
per scappare dalla condanna che il dottorato vi profila: potete scrivere la sera dei romanzi, storielle, così.
Perché poi in fondo quello è, bisogna dirsi la verità. E, se vi va bene, voi dopo ne venderete milioni di
copie e il dottorato lo finite soltanto per il piacere di papà e mamma, e poi vi ritirate, diciamo così, in
pensione. Lui non fa più niente, anche perché guadagna molto di più a non far niente. Allora sì, beh, la
realtà è questa.
Allora io vi leggerò dei pezzi del romanzo di Paolo Giordano, in particolare tutti i brani del romanzo,
come vedete c'è una pagina, che hanno a che fare con la matematica e coi numeri primi, perché come
voi sapete quel titolo non era un titolo che ha dato Paolo Giordano: lui aveva deciso di chiamare il suo
romanzo Dentro e fuori dall'acqua, e sarebbe ancora un dottorato di fisica e starebbe cercando di fare
concorsi eccetera, invece qualcuno gli ha scelto un titolo molto migliore, La solitudine dei numeri primi.
Come mai? Ma perché, facendo appunto il dottorato, Giordano si era accorto anzitutto che, cosa che
non sempre succede ai fisici, di cui qui ci sono degli esempi, che ci sono anzitutto... c'è la matematica,
che ci sono i numeri, che ci sono i numeri primi, e così via. Lui, che è un ragazzo sveglio, se ne era
accorto pur rimanendo a fisica, e ha scritto questa pagina sui numeri primi nel romanzo.
Tra l'altro io non ho nessun interesse, intendiamoci, che voi abbiate il romanzo (a me in tasca non me ne
viene niente, a lui sì), però è uscito anche il film recentemente, qualcuno di voi forse l'avrà visto, non so
se nel film c'è la citazione di queste poche righe che adesso vi leggo.
“I matematici li chiamano primi gemelli, sono coppie di numeri primi che stanno vicini, anzi quasi vicini,
perché fra di loro c'è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. Numeri come
l’11 e il 13, come il 17 e il 19, il 41 e il 43. Mattia pensava che lui e Alice erano così, due primi gemelli soli
e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero.”
Questo è tutto ciò che c'è di matematica nel romanzo, ora: basta questo a chiamare La solitudine dei
numeri primi quel romanzo? Io non lo so, però certo il titolo è interessante. Ora come si fa a giudicare, a
decidere se i numeri primi sono effettivamente solitari oppure no. Sapete sono numeri, i numeri anche a
Informatica, a Fisica sapete, prima di tutto, che ci sono, ce ne sono tanti. Ne enumererò qualcuno, non
tutti perché altrimenti la cosa diventerebbe noiosa e infinita: 1, 2, 3, 5 eccetera, ce ne sono infiniti. Ora, i
numeri primi sono una famiglia di numeri interi, a questo punto possiamo anche non sapere che sono
tanti, sono pochi, non sappiamo quanti sono, ma se uno isola all'interno dei numeri una famiglia - una
sottofamiglia - di numeri come quella dei numeri primi, come fa a decidere se questa famiglia è fatta di
componenti solitari oppure no? Questo è un bel problema che non credo Giordano sappia risolvere né
tantomeno l'editor che gli ha inventato questo bel titolo, ma noi, noi intendo dire classe generale dei
matematici, una risposta per lo meno ce l’abbiamo: c'è un modo per giudicare se una famiglia di numeri
è fatta di elementi solitari oppure no. Certo, il modo più semplice sarebbe di dire “beh, certo, se la
famiglia è una famiglia finita, cioè ci sono soltanto un numero finito di elementi dentro questa famiglia,
beh, quelli saranno solitari, certo, in un mondo che ha infiniti abitanti come quello dei numeri naturali,
una famiglia finita è fatta di componenti solitari. Però ci interesserebbe... anche perché poi mi immagino
che qualcuno già sappia che i numeri primi sono infiniti, qualcuno lo sapeva? Nemmeno, vedo, i
professori alzano la mano.

Unità 19

Traccia 21

- Gli scrocconi, beh, è un bel titolo per una trasmissione, lo è anche per un bel libro, per Piemme,
tra poco incontriamo l'autore. Ma inquadriamolo, perché l'autore lo sintetizza benissimo
dicendo che per ogni italiano che lavora dieci vivono sulle sue spalle. Beh, è una bella
stigmatizzazione. Allora: un volto noto della tv, un gran bravo giornalista, un collega, dunque,
Francesco Vecchi è l'autore de Gli scrocconi. Come ti è venuta questa idea, Francesco?

- Ciao, Claudio, grazie per l'invito. Come mi è venuta? Mi è venuta notando che purtroppo la
distribuzione dei carichi di chi tira la carretta del Paese e di chi si fa trainare è completamente
squilibrata ed è insostenibile. Mi è venuta curiosando su alcuni siti, per esempio www.irpef.info,
dove se tu metti il tuo reddito lordo annuo scopri quanti italiani, secondo il fisco, sono più ricchi
di te e quanti, secondo il fisco, sono più poveri di te. Allora ti dico una cosa: se uno mette 35000
euro lordi annui, ok? Quindi non stiamo parlando di un povero, però non stiamo parlando di un
nababbo, bene, secondo il fisco il 90% dei cittadini italiani è più povera di lui. Perciò è giusto che
chi guadagna 35000 euro lordi all'anno, cioè 1.800 euro netti al mese, paghi per tutti.

- Però, francesco, tu hai fatto una documentazione straordinaria nel tuo volume, ma ci aiuti anche
a capire meglio chi sono gli scrocconi e ci dice attenzione a non confonderli né coi poveri né coi
poveracci. Allora eccola la domanda: ma chi sono gli scrocconi?
- Ti ringrazio, perché poi, dopo, in questo periodo specialmente in cui l'italia è davvero in difficoltà
e in cui davvero ci sono famiglie che hanno bisogno d'aiuto, la gente pensa che nel mio libro si
faccia di tutta l'erba un fascio. Invece è proprio a tutela di chi non ha lavoro e però lo cerca per
davvero e di chi magari non è in condizioni di lavorare e quindi ha bisogno d'aiuto che ho scritto
questo libro, perché questo Stato deve diventare capace di discernere quelli che hanno davvero
bisogno da coloro che sono gli scrocconi. Allora, però, io dico questo, che proprio perché noi
dobbiamo tutelare liberamente in difficoltà e sicuramente in un periodo come questo la
quantità di italiani in difficoltà è cresciuta, dobbiamo anche chiederci, per esempio, come noi
scopriamo chi sono quelli in difficoltà e chi no. Allora tra le cose, le analisi, che io ho effettuato e
racconto nel libro è: le statistiche sulla povertà come sono fatte? Ma voi lo sapete che sono fatte
al telefono? Cioè l’ISTAT chiama e ti dice “scusi, lei quanti soldi guadagna, come li guadagna e
come li spende?”. Allora noi sappiamo anche che, viceversa, siamo in un Paese in cui tantissima
gente guadagna attraverso criminalità, micro o macro criminalità, tantissima gente spende in
gioco d'azzardo (siamo il Paese con il record europeo), tantissima gente spende anche in droghe
(siamo tra i Paesi con il livello più alto di consumi) e allora però, quelli, scusate, sono problemi
diversi, altrettanto gravi, ma che non sono problemi di povertà. Cioè, se io ho davanti a me una
persona che ha un'insufficienza economica, devo dargli un assegno mensile di aiuto o trovargli
un lavoro, se ho davanti a me una persona ludopatica è inutile che gli vado a dare anche un
assegno, che paghiamo con le nostre tasche, che immediatamente si andrà a giocare alle
macchinette. Questo dico: punto primo, scoprire come sono fatte le statistiche e scoprire
quanto sono affidabili queste statistiche.

Unità 20

Traccia 22

Ho scritto poesie e per questo sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore,
critico letterario e musicale, persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un
regime che non potevo amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha
chiesto: “Come ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni,
tante all’attività impiegatizia e tante alla vita?” Ma ho cercato di spiegarle che non si può pianificare
una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c'è un largo spazio per l'inutile e, anzi,
uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell'inutile, alla quale sono sensibili
particolarmente i giovanissimi. Per fortuna la poesia non è una merce. Evidentemente le arti, tutte
le arti visuali, stanno democraticizzandosi, nel senso peggiore della parola. L'arte è produzione di
oggetti di consumo da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l'uomo sia
riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L’esempio che ho portato potrebbe
estendersi alla musica, esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove
milioni di giovani si radunano per esorcizzare l’orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che
mai l'uomo civilizzato è giunto ad aver orrore di se stesso? Le comunicazioni di massa, la radio e
soprattutto la televisione, hanno tentato, non senza successo, di annientare ogni possibilità di
solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce: opere di pochi anni fa sembrano datate e il
bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale,
dell'immediato. Di qui, l'arte nuova del nostro tempo, che è lo spettacolo.
Ma ora, per concludere, debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve
discorso: nella attuale civiltà consumistica, che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi
linguaggi nella civiltà dell'uomo-robot, quale può essere la sorte della poesia?
Le risposte potrebbero essere molte: la poesia è l'arte tecnicamente alla portata di tutti, basta un
foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della
stampa e della diffusione. L'incendio della biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della
letteratura greca; oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale
produzione estetica e poetica dei nostri giorni, ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti
soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l'orto delle muse possa essere devastato da grandi
tempeste è più che probabile, certo, ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti
libri di poesia debbano resistere al tempo.

Unità 21

Traccia 23

Dunque, i giovani oggi sono estremamente fragili, in America li chiamano già la snowflake generation, la
“generazione di cristalli di neve”, di fatto per sottolineare la leggerezza, quasi la superficialità, la
mancanza di gravità che caratterizza le nuove generazioni, che in effetti sono attratte da un'unica
religione in larga parte, che è quella del consumo, della merce, non hanno attenzione per le questioni
dell'eterno, anzi sembrano profondamente insensibili rispetto a questi temi. Eppure io credo che sia
fondamentale già dalla scuola educare i giovani all'importanza della religione, che nel caso specifico
italiano è la religione cattolica ovviamente.
Per cui nelle nuove generazioni mi preoccupa, debbo dire, soprattutto l'ateismo inteso nella sua
dimensione più ampia. L'ateismo non è semplicemente non credere in Dio, quello è il modo in cui la
religione pensa all'ateismo, ma il problema dell'ateismo sul piano metafisico è non avere più interesse
per il problema della verità, è questo che caratterizza purtroppo non solo le nuove generazioni, che sono
immerse nell'ateismo fino al collo, ma in generale la nostra società. È una società che non ha più bisogno
di porsi il problema della verità, è questo l'aspetto più sconcertante, io credo. Far appassionare i giovani
alla religione a mio giudizio è possibile, soprattutto se si trova il maestro giusto, ovviamente, come in
ogni anno ambito, che è quello che non si pone in maniera catechistica, nel senso puramente dottrinale,
ma è colui il quale riesce ad accendere un desiderio nel giovane, ovvero il vero compito è quello di
riuscire ad accendere la scintilla nei giovani affinché desiderino sapere, desiderino conoscere, si mettano
in movimento verso il sapere, verso la religione. E occorre soprattutto, credo, rileggere i testi della
nostra religione anzitutto, in un'epoca in cui quasi ci si vergogna della propria appartenenza, una
tradizione religiosa specifica.
La religione fa parte della nostra civiltà tanto quanto la mitologia greca o il Rinascimento, e quindi
pretendere, come pensano taluni stoltamente, di espungere la religione dalla nostra vita pubblica o
ridurre la religione a semplice questione privata, quasi carbonara, da nascondere, significa di fatto
perdere di vista una questione fondamentale che fa parte del nostro essere al mondo. Io credo che non
si possa essere al mondo come esseri umani senza le tre dimensioni fondamentali che Hegel definiva
dello spirito assoluto, e che sono la religione, l'arte e la filosofia: finché vi sarà umanità, vi saranno
queste tre dimensioni dello spirito assoluto, che pure in quest'epoca tendono in qualche misura a essere
sempre più limitate, sempre più marginalizzate a scapito anche di una nuova forma di religione atea
immanente che è quella della scienza.
Non si crede più nell'anima, l'Occidente tendenzialmente non crede più nelle cose divine, si crede
soltanto nella sopravvivenza del corpo e quindi c'è una nuova scienza, una nuova religione medica che
promette la salvezza dei corpi. Non potendo più l’uomo occidentale, non riuscendo più a credere nella
salvezza dell'anima si consegna a questa nuova fede nella salvezza assoluta del corpo rispetto alla
morte. Non abbiamo più paura di nulla, se non della morte, non crediamo più in nulla, se non nella mera
sopravvivenza. Ecco, io credo che occorra rieducare soprattutto le nuove generazioni e in loro che
bisogna riporre le nostre speranze nel senso della verità. Perché poi la religione non è altro che un
tentativo di cogliere la verità in una forma diversa rispetto a quella della filosofia - che è la via del
concetto - nella forma della rappresentazione, nella forma rappresentativa, tramite anche alcuni dogmi
che comunque sono sono sempre, in qualche modo, non dico spiegabili con la ragione, ma che non
entrano mai in conflitto della ragione.
Ecco ed è solo su questa base di ragione fede che si può trovare un dialogo con le altre religioni. Ed è su
questo che bisogna insistere con i più giovani, educandoli ad amare il senso della ricerca del vero,
insegnando loro che la ricerca del vero avviene soprattutto lungo tre direzioni che sono convergenti tra
loro: l'arte, la filosofia e la religione.

Unità 22

Traccia 24

Abbiamo cercato di far vedere oggi che la bioetica è un elemento importante nella formazione dei
giovani medici, partendo proprio dall’idea e dall'intuizione del fondatore della bioetica, cioè di Potter, il
quale aveva messo in luce che esiste un grande divario tra la preparazione scientifica, le capacità
tecnologiche dell'uomo, la capacità di manipolare la realtà, la natura e l'ambiente, e la consapevolezza
etica dell'uomo contemporanea. Mentre lo scienziato in qualche modo ha sempre dei momenti di
aggiornamento, di approfondimento, in realtà l'uomo che fa lo scienziato rimane vincolato alle
convinzioni etiche che sono quelle che, per così dire, ha imparato dalla sua infanzia e quindi non è in
grado, non è chiamato a verificare, a dare consistenza, a vedere se le convinzioni che ha assunto dall’
ambiente in cui vive sono valide o no.
Se vogliamo in qualche modo dirigere il progresso, se vogliamo continuare nella ricerca scientifica,
dobbiamo avere una forte preparazione, sicuramente dal punto di vista medico-clinico, ma altrettanto
una forte consapevolezza delle questioni etiche.
La bioetica può dare un grande contributo malgrado l'immagine collettiva, per cui la si vede come
qualcosa che limiti la ricerca alla scienza, perché credo che il compito fondamentale della riflessione
bioetica sia quello di determinare le priorità. E quindi si tratta di valutare quali sono gli elementi sui quali
puntare nella ricerca e anche quelli, in qualche modo, che devono essere messi in seconda battuta.
La bioetica soprattutto può portarci a ripensare alla medicina con un tipo di sapere che si colloca in un
alveo umanistico, d’altra parte in questa università si chiama Humanitas e questo non è a caso.
Perché dico questo? Perché la bioetica può aiutarci a sfuggire a un modello che è puramente, invece, un
modello... potrebbe essere un modello puramente commerciale, in cui la medicina diventa creatrice
essa stessa di bisogni e, creando bisogni, crea nello stesso tempo elementi di produzione in un circolo
che potremmo definire vizioso, perché non ha più al centro la persona, non ha più al centro i suoi
bisogni e la sua salute, ma ha al centro la produzione.
Bisogna innanzitutto partire da un'idea di fondo che il pluralismo etico religioso è prima di tutto una
risorsa, e quindi non vedere nella pluralità un pericolo o un elemento negativo. Se noi pensiamo a una
grande sinfonia, la grande sinfonia è data dal fatto che ognuno suona proprio strumento, ma questi
strumenti vengono suonati insieme e determinano quindi una musica che non è semplicemente una
rottura delle armonie. Detto questo, è chiaro che noi oggi viviamo in periodi di conflitti, di
incomprensioni, e quindi il lavoro che dobbiamo fare, credo, sia proprio il lavoro di incominciare a
tessere una grammatica comune, quindi delle regole comunie anche una semantica, cioè dei significati
che possiamo condividere. Da questo punto di vista io credo che un grande aiuto è sicuramente fornito
dalla filosofia. La bioetica, a mio avviso, come ho cercato anche di dire, è un'impresa che da chiunque
venga attuata - sia un medico, sia un biologo, sia uno scienziato, sia un fisico - è un'impresa di natura
filosofica e da questo punto di vista la filosofia, per la sua passione per la verità, è capace di essere un
territorio fecondo di incontro fra culture diverse, popoli diversi e linguaggi diversi.
Credo che uno dei compiti fondamentali che oggi uno studente debba avere sia quello di andare a
verificare i propri convincimenti, nel senso che vorrei utilizzare una fase che è di Cartesio che diceva:
“Prima di voler cambiare l'ordine del mondo, quindi prima di voler riformare la Terra, i costumi, è bene
che io incominci a pensare all'ordine dei miei pensieri.”

Unità 23

Traccia 25

Buongiorno, sono Piercamillo Davigo, questo libro, che si intitola Il sistema della corruzione, è un volume
che cerca di spiegare a chi non è un esperto della materia, non è necessariamente un giurista, perché è
un libro divulgativo, quali sono le caratteristiche della corruzione seriale diffusiva, per cercare di capire
perché è così diffusa e perché non è semplice venirne a capo.
La difficoltà principale del contenimento della corruzione è determinata dal fatto che per circa 15-16
anni l'attività principale della politica, di quasi tutta la politica e senza apprezzabili differenze tra uno
schieramento e l'altro, non è stata quella di contenere la corruzione, è stata quella di contenere le
indagini e i processi sulla corruzione. Sono state approvate leggi che rendevano inutilizzabili le prove
acquisite, sono stati cambiati i reati contestati, sono state fatte leggi che prevedevano che non si
potessero processare i titolari di determinate cariche pubbliche.
La situazione era diventata così paradossale che un giorno era arrivata la lettera del vicesegretario
generale della Nazioni Unite che preannunciava l'arrivo in Italia di un giudice malese, mandato dalle
stesse Nazioni Unite preoccupate per l'indipendenza della magistratura italiana. Quando mi dissero
questa cosa io pensai che fosse uno scherzo che mi stanno facendo i colleghi, invece era assolutamente
vero. Questo giudice malese venne - si chiamava, tra l’altro Dato’ Param Cumaraswamy - ricordo che
l’allora ministro della giustizia all’annuncio della venuta di questo giudice malese disse – ma i giornali,
per lo meno fu riportato dal giornale del suo partito, virgolettato e mai smentito – “Lo accoglieremo,
perché noi accogliamo chiunque, ma non accettiamo lezioni democrazia da nessuno”. Dopodiché questo
le lezioni di democrazia gliele diede, perchè scrisse due rapporti di fuoco contro il governo e la
maggioranza parlamentare italiana alle Nazioni Unite dicendo “questi mettono in discussione i principi
fondamentali dello stato di diritto, fanno le leggi per non essere processati, cambiano i reati di cui sono
accusati, fanno leggi che azzerano le prove acquisite contro di loro”. E lo stesso ministro della giustizia,
alla pubblicazione sui giornali - peraltro con un rilievo non particolarmente incisivo - di questi rapporti
disse: “Aveva un interprete comunista e ha parlato solo con i magistrati”; una cosa all'evidenza
manifestamente illogica perché o aveva un interprete comunista o ha parlato solo con i magistrati,
altrimenti con chiunque avesse parlato, a meno che non sapesse il malese, sarebbe stata la stessa cosa.
Ma questo la dice lunga, cioè in Italia sostanzialmente non c'è stata alcuna concreta repressione della
corruzione.
Per cominciare la corruzione non è quella che è dipinta dai codici, che la descrivono come un fatto
singolo sostanzialmente, mentre invece la corruzione è seriale e diffusiva, cioè chi è dentro queste
pratiche tende a commettere questi reati una serie infinita di volte - cioè è un delinquente seriale, tutte
le volte che ne ha occasione con ragionevole certezza impunità - e cerca di creare un ambiente
favorevole alla sua impunità e alla sua attività, quindi coinvolge altre persone nella corruzione, fino a che
si crea una situazione in cui sono quelli per bene a doversene andare.
È un reato con una cifra nera elevatissima: la cifra nera è la differenza fra i delitti commessi e i delitti
denunciati. Ci sono reati in cui la cifra nera è prossimo allo zero, pensiamo al furto d'auto: chiunque
subisca il furto di un’auto corre a denunciare che gli hanno sottratto la macchina; mentre la corruzione
non viene denunciata praticamente mai.
Se, nonostante questo, tutti i giorni, sui giornali o per televisione, si dà notizia di qualche arresto per
corruzione, questo è lo specchio di quanta ce n'è in concreto, benché il numero di condanne sia
assolutamente non corrispondente ai fatti che è intuibile si siano verificati.

Unità 25

Traccia 26

Questo è quello che rimane del paese che, negli anni Sessanta, doveva diventare un grande paese dei
balocchi, una Disneyland nostrana. Siamo a Consonno, il borgo fantasma, una quindicina di chilometri da
Lecco, a 600 metri di altitudine. L’idea di costruire qui il paese dei divertimenti è del costruttore Mario
Bagno, che nel 1962 acquista tutte le quote di partecipazione dell’immobiliare Consonno Brianza e avvia
così i lavori. A forza di ruspe e dinamite, butta giù tutto ciò che trova sulla sua strada: il paese di
montagna viene demolito con il suo vecchio borgo, anche le cascine e le stalle. Gli abitanti, che allora
erano circa 200, vengono fatti trasferire. È il 1967 quando finalmente terminano i lavori: il sogno del
conte Bagno è pronto a trasformarsi in realtà. Nella nuova Consonno c’è anche un minareto, che si
innalza per 30 metri, ci sono gallerie dove si possono fare acquisti, ci sono sale da ballo all’aperto, non
mancano sfingi egizie e pagode cinesi; tanto per non farsi mancare nulla, un finto cannone viene portato
da Cinecittà. Insomma: un po’ Disneyland, un po’ sagra paesana.
Per i primi anni il sogno sembra andare avanti, vengono invitati anche personaggi dello spettacolo, come
Pippo Baudo, Johnny Dorelli e i Dik Dik, ma dopo qualche anno arriva anche la crisi: la gente va sempre
meno nella Las Vegas brianzola e pian piano il sogno svanisce. Nel 1976 ci si mette anche una frana a
complicare le cose: l’unica strada che collega Consonno con i paesi vicini viene distrutta. Verrà
ricostruita solo 30 anni dopo.
Il conte allora prova a cambiare rotta: ristruttura il Grand Hotel Plaza per farne una casa di cura per
anziani. Dopo vent’anni la struttura, troppo isolata, viene trasferita a Introbio, nella Valsassina.
Ormai, il paese è diventato un borgo fantasma. Nel 2007 trecento ragazzi, provenienti anche dalla
Francia e dalla Germania, organizzano un rave party e devastano quel poco che è rimasto della cittadella
del gioco.
Del paese dei balocchi non rimane che questo scenario inquietante, teatro ormai solo per qualche set
cinematografico di film horror. Tutto finito? No, perché il giovane architetto Barbara Fumagalli si è
appassionata al problema e ha creato l’associazione “Amici di Consonno”, organizzando manifestazioni e
raccogliendo testimonianze.
- “Il nostro sogno è di vederlo rivivere, rinascere, però, ovvio, è ancora tutto privato e ci vorranno
tanti tanti anni. Però, pian pianino, è stata rifatta la strada, chiusa da vent’anni, che collega
Olginate a Consonno ed è già un primo passo.”
Per ora l’associazione ha indetto un bando di concorso con l’obiettivo di ristrutturare la canonica, forse
qualcuno tornerà da queste parti e non lo farà solo per scattare due foto.

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