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LEZIONE 15-16
L’epica; la tradizione manoscritta del testo
Continuo con la Chanson de Roland:
Sappiamo che la Chanson de Roland è la storia di un tradimento per cui Rolando muore. Questo
tradimento è interpretato da Gano, che viene presentato come un nuovo Giuda, anche
strutturalmente nel verso. In realtà è un personaggio che conserva dei tratti di grandezza e che
soprattutto ai nostri occhi agisce con qualche ragione. Ma qual è il contesto che ha generato questi
personaggi?
Lasse 12-26: Da qui inizia quel consiglio che andò male “ora comincia il consiglio malaugurato”,
elemento che rimanda alla frase “e ora comincia un altro pezzo”, riferendosi al lettore per
richiamarne l’attenzione. Finisce una lassa e ne inizia un’altra. Nella lassa 13, a partire da “signori
baroni”, l’imperatore Carlo Magno elenca una serie di beni e doni che il re Marsilio promette di
donargli: stesso meccanismo utilizzato nelle lasse precedenti, per esempio l’elenco fatto da
Biancadrino, per cui l’ascoltatore se lo aspetta e chi parla riattiva la sua memoria sulla lassa
precedente, crea dunque dei ponti con quanto già accaduto. Nella lassa successiva (14), il conte
Orlando si oppone e prende la parola rivolgendosi al re: dice di aver conquistato una serie di città
immaginarie, come Nobles, Commibles, … e fa riferimento ad un evento: afferma che già prima il
re Marsilio aveva fatto offerta simile e che i francesi avevano mandato due uomini a contrattare.
Marsilio li aveva decapitati sui monti. Dunque Rolando dice al re di portare aventi la guerra e
vendicare quelli uccisi dal “fellone”, ovvero il vassallo che si sottrae ai suoi obblighi. Questo
episodio precedente sarà poi il motivo del successivo agire di Orlando.
Carlo risponde a Rolando con dei gesti “tiene basso il capo” e “si liscia la barba e si arriccia i baffi”:
fa dei gesti che lo caratterizzano e che ritornano anche presenti nella canzone di Santa Fede (riferiti
a Diocleziano): sta ad indicare o connotare la regalità. Dopo risponde a Orlando dicendo che è suo
nipote, poiché la sorella di Carlo Magno, Berta, partorisce Orlando con un uomo che poi morì per
poi risposarsi con Gano (quindi patrigno di Orlando) che tra i due non corre buon sangue. La
vicenda della nascita di Orlando diventa oggetto di testi epici, anche in ambito italiano, arrivando
fino ad Ariosto con questa espansione della materia clamorosa. Perfino il nome di Orlando viene
collegato ad un’etimologia italiana, cioè “retroattivamente” da “rotolando”.
Mentre Gano si fa portavoce del punto di vista opposto: fa un discorso uguale e contrario a
quello di Orlando. In quest’ultimo Gano è totalmente inserito nel sistema e nella logica feudale,
poiché vuole che si attui la pace perché il re deve seguire i consigli solo se seguono i suoi interessi.
Poi Namo, è quello che determina la scelta del re perché Gano è ora in maggioranza, per cui lo
sostiene. Re Carlo vuole mandare messaggeri a concordare la pace e Orlando si offre ma Oliviero lo
ferma e gli dice che il suo carattere è troppo violento e fiero per cui potrebbe azzuffarsi. (lassa 17)
Il re risponde che non vuole nessuno di loro lì da Marsilio, per cui Orlando nella lassa 20 propone
al re che vada Gano, proprio in virtù del loro pessimo rapporto, la cui proposta è considerata il
motore dell’azione. Ma Gano ne prova gran risentimento, fa fatica ad accettare il ruolo impostatogli
da Orlando (con la sua titubanza, non rispecchia la perfetta prassi vassallatica) perché Carlo Magno
si fida di lui e tutti gli altri baroni lo sostengono. Per cui Gano da qui in poi diventa
TRADITORE, ma non nasce come tale, lo diventa per l’odio che prova nei confronti di
Orlando.
Presentazione di Gano e opposizione con Orlando: Il personaggio viene presentato con
un’espressione assimilabile a quella che presenta Giuda e con una formula sotto una riflessa della
letteratura religiosa. Questa “aurea” di religiosità spesso traspare nella Chanson de Roland voluta al
raggiungimento di uno status testuale di testo mitografico, ricollegabile alle radici del genere e i
suoi contatti con generi religiosi (per esempio l’agiografia). Gano non può ritirarsi per l’ethos
cavalleresco che gli impone di non arretrare e sembra dunque che sia Orlando a disseppellire l’ascia
da guerra. Orlando subisce molte modifiche e trasformazioni, ha degli aspetti di dismisura notevoli,
superbia, tracotanza, è quasi respingente al contrario di Gano, che viene presentato in un modo per
cui ci si sente quasi vicini a lui. Accade poi che Orlando si offre di sostituirlo in questa missione
perché convinto che Gano si arrenderà, ma quest’ultimo si rifiuta perché è l’imperatore Carlo a cui
spetta la decisione e gli comunica anche che ci saranno conseguenze a questa sua azione, promette
dunque un po' di vendetta ad Orlando fino a quando quest’ultimo RIDE (lassa 21 e 22, collegate
fra loro), questo tema della risata è tipica del Medioevo in quanto visto come un atteggiamento
che non si addice a certi uomini. Ma qui oltre al tema della risata entra in gioco anche quello della
vendetta: Gano rinuncia a questa vendetta, sembra essersi dimenticato della morte dei due
messaggeri precedenti mentre Orlando vuole vendicarli. Per cui la vendetta è il motore dell’azione,
non privata ma collettiva. Al contrario Gano sembra essere a favore della pace e rinuncerebbe
alla vendetta, e questo suo atteggiamento fa ipotizzare che potrebbe essere lui il messaggero.
Tuttavia, Gano non viene presentano subito negativamente, anzi presenta un’umanità che ad
Orlando finora mancava. Nella lassa fa discorso con Carlo dicendo che se parte per la missione non
torna più, mostrando tenerezza verso il figlio, dicendo di lasciare tutto a lui (tratto umano e non
violento) e il re Carlo gli risponderà di avere un cuore troppo tenero ma che deve andare per suo
ordine; inoltre Gano più avanti torna dai suoi uomini che lo circondano di solidarietà; egli è un
cavaliere prode, è nobile e non un semplice traditore. Quindi Gano può essere visto come una figura
ambigua, complessa e sfaccettata rispetto agli altri personaggi dell’epoca.
Re Carlo deve dare a Gano l’autorità per poter trattare, conferimento che passa attraverso
l’investitura (gesti simbolici e simboli che si rifanno alla cerimonia dell’omaggio tipica della società
feudale): vi sono qui inseriti alcuni simboli come il passaggio di un guanto e un bastone,
elemento importato dalle popolazioni germaniche e che simboleggia la mano del Ree viene dato
anche dal vassallo al signore quando si fa suo uomo. Ma succede qualcosa: il guanto cade dalla
mano titubante di Gano: evento che è presagio di sventura e che tutti lo comprendono. Titubanza
di Gano che è segno della sua non totale adesione al sistema che deve funzionare; ciò va contro
l’ethos cavalleresco, per cui lo spirito di servizio è estremo e si spinge fino alla morte.
Lasse 58-63 — Orlando assegnato alla retroguardia: Gano va e stabilisce un patto con Marsilio:
consegna la retroguardia di Carlo, perciò è mosso dalla vendetta verso Orlando: lo vuole morto.
Secondo il principio di similarità Gano deve fare in modo che sia Orlando a capo della retroguardia
per tenerlo isolato: propone così Orlando come comandante, esattamente come Orlando aveva fatto
prima con lui, nominandolo. Re Carlo reagisce in modo spropositato verso Gano.
Di conseguenza Orlando si dice felice del compito e afferma che a lui non cadrà di mano il segno
del potere come invece è accaduto a Gano. Vi è quindi nuovamente un richiamo immediato nella
mente di chi ascolta alla situazione precedente, con una evidente contrapposizione tra i due
personaggi. Da una parte Gano che non vuole sottostare alla rigida etica militare e dall’altra
Orlando che invece la cerca, la invoca. Carlo rifà i gesti di prima e non può evitare di piangere
(lassa 61), come se abbia un presagio, una conoscenza di quello che dopo accadrà. Infatti in seguito
avrà un sogno premonitore di sventura sulla missione legato anche alla caduta del guanto
(dominante onirico importante): “Per colpa di Gano, Francia sarà distrutta. Questa notte ebbi una
visione dall'angelo…”: comincia a costruire in chi ascolta una consapevolezza si sventura e
martirio.
La Chanson de Roland si divide in 2 parti: la prima si conclude con la morte di Orlando e la
seconda con il racconto della vendetta dei paladini francesi a opera dell’esercito di Carlo e chiuderà
su un sogno tutta la Chanson de Roland. Nella seconda parte viene sconfitto l’esercito dei saraceni;
viene processato Gano ma tutto sembra riequilibrarsi se non con un altro sogno di Carlo, di un altro
angelo che gli dice che presto dovrà andare a difendere la cristianità altrove.
Auerbach dà una chiave di lettura di tutte le vicende e coglie lo spirito del testo della Chanson de
Roland. Cioè perché Carlo che tutto può e che sa l’esito lascia che Orlando vada a morire?
Afferma infatti che «Tutto l’atteggiamento dell’imperatore è poco chiaro e, nonostante la posa
decisa e autoritaria che ogni tanto assume, sembra paralizzato, come succede in sogno. La sua
posizione importante, simbolica, simile a quella di un principe di Dio, sta in strano contrasto con la
sua impotenza. Sebbene presagisca l'inevitabile sventura, egli non è in grado di impedirla; egli
dipende dai suoi baroni e fra questi non c'è nessuno che possa cambiare la situazione”. E afferma
che il re è forse il riflesso della debole posizione del potere centrale nella struttura giuridica della
società feudale, quale si stava consolidando al sorgere della Chanson de Roland: IL RE HA
L’AUTORITA’ IN POTENZA MA NON E’ IN GRADO DI ESERCITARLA, e che crea
nell’ascoltatore una manifestazione dolorosa, poiché ci si aspetterebbe un altro modello di società
più definito attorno al sovrano mentre il re Carlo (sempre come afferma Auerbach) viene affidata
una concezione metà religiosa e metà leggendaria, che attribuisce alla figura del grande re tratti che
sanno sofferenza, di martirio, per cui egli sembra come paralizzato; e si potrebbe pensare anche a
un'imitazione di Cristo. Inoltre spiega che tutto ciò non è analizzato e spiegato nella poesia ma è
solo frutto della nostra immaginazione e infatti dice che Il poeta non spiega nulla, ma tutto ciò che
succede è espresso con tanto vigore paratattico da convincere che nulla potrebbe succedere
diversamente». Tuttavia, lo stile è così convincente che convince il pubblico.
Auerbach ancora ritiene che il ritmo della Chanson de Roland sia PARATATTICO: tutto è
giustapposto; il discorso non si sviluppa logicamente ma in frasi come mattoni, uno sopra l’altro. Il
ritmo della Chanson de Roland non è mai scorrevole come quello dell'antico epos (Odissea). A
questo effetto contribuisce, oltre alla paratassi dominante, il nesso stesso disuguale e privo di
grammatica, anche là dove si nota il tentativo di ipotassi piú complicate, e la struttura strofica con le
sue assonanze, per cui ogni riga sembra una forma indipendente e tutta la strofa un fascio di membri
indipendenti.
Inoltre afferma che La struttura paratattica si trova nelle lingue antiche nello stile umile, e ha
carattere piú comicorealistico che sublime, piú parlato che scritto. Ma qui appartiene allo stile
sublime; è una forma nuova che non si basa sul periodare e sulle figure retoriche, ma sulla forza di
blocchi linguistici indipendenti, posti gli uni accanto agli altri. Uno stile alto di membri paratattici
non è di per sé una novità in Europa; già lo stile biblico ha questo carattere.
Quindi la Chanson de Roland ha uno stile sublime con una struttura rigidissima dei fatti,
immutabile, con una semplificazione della prospettiva. Il linguaggio non è fatto di figure retoriche e
complesso ma scarnificato al massimo per lasciare solo l’immagine o scena morale. Per quanto
riguarda i personaggi, vi sono solo figure grandi, superiori, fuori dal comune e che sono
l’incarnazione della massima potenza dei moti e dei movimenti dell’animo.: ecco perché si parla di
personaggi “monolitici”, cioè sono come dei blocchi al di sopra del normale. Tuttavia, questa
poesia è rivolta ad un pubblico popolare che si limitano ad osservare le vicende, senza prendervi
parte e questo perché la società si stringeva attorno ai valori che caratterizzava e su cui si costruiva
il tema orlandiano.
Ritornando alla Chanson de Roland: Lasse 79-87 — Orlando e Oliviero: siamo nel momento in
cui Carlo si allontana e le truppe dei saraceni sono pronte per l’agguato. Qui vediamo il personaggio
di Oliviero, che li identifica e avvisa Orlando con un po' di timore. Dobbiamo sottolineare da una
parte la saggezza e prudenza di Oliviero e dall’altra la prode di Orlando. Perciò se Oliviero
vuole chiedere aiuto, Orlando non vede l’ora di lottare proprio perché è la rappresentazione della
furia bellica. Si fronteggiano quindi due personaggi complementari fra di loro.
Lasse 83, 84, 85: in questa scena Oliviero invita Orlando a suonare l’olifante (corno), il quale
anch’esso ha un aurea di sacralità, forse oggetto di venerazione e conservato in una Chiesa. Oliviero
con moduli formulari (tipici della composizione della chanson de geste) per tre volte invita
Orlando a suonarlo ma costui si rifiuta perché non vuole coprirsi di vergogna agli occhi dei suoi
pari.
Lasse 127-137 — Orlando suona l’Olifante e la sua morte: Ad un certo punto, dopo il massacro
dei francesi è avvenuto, sarà Orlando a voler suonare il corno e Oliviero a dirgli che non avrebbe
senso e che avrebbe dovuto farlo prima. Tuttavia, Orlando risponde che va consumata la giusta
vendetta e suona per farsi vendicare e non aiutare e quindi è importante per lui che i cadaveri dei
cristiani vadano seppelliti in terra cristiana per essere venerati, proprio come martiri. Orlando
dunque, rimasto tra gli ultimi suona il suo olifante e per le ferite subite muore per questo ultimo
sforzo.
Nella lassa che racconta la sua morte si concentra un certo uso dei procedimenti finora visti: molti
dettagli cruenti, così come abbiamo visto nel racconto della battaglia e un linguaggio epico, non
troppo distante da quello utilizzato nella Canzone di Santa Fede.
Orlando, per richiamare indietro l’esercito con il corno, fa uno sforzo che comporta una rottura di
una vena nella tempia. Prega per i suoi compagni, prende l’olifante e la spada e compie un gesto
simbolico: cammina nella terra dei saraceni perché vuole morire conquistandola e con il volto al
nemico e poi cade svenuto. Poi l’ultimo scontro: un saraceno fintosi morto cerca di strappare ad
Orlando la spada ma quest’ultimo contrattacca mantenendo così quei due oggetti-simbolo: lo
colpisce con il corno che si incrina. Orlando si accorge che tutto ciò che ha gli verrà tolto dai
nemici, per cui decide di distruggere la spada ma con scarsi risultati e mentre ci prova ripercorre
tutte le sue avventure e conquiste (elenco di città conquistate). La spada non si rompe per cui
rivolge delle parole profonde ad essa (momento di massimo sentimentalismo): la spada che
anch’essa è un elemento dell’aurea mitica. Muore sotto ad un pino, su un prato, volgendo la testa ai
nemici, pregando e offrendo il guanto (vuole morire da eroe), teso al cielo. Preso poi dagli angeli e
portato al cielo, perdonato dai peccati che ha commesso, grazie alla sua virtù.
Va sottolineato inoltre che le lasse che parlano della morte di Orlando iniziano con la ripetizione
“Sente Orlando”, e la cui costruzione è semplice: nella prima parte vi è un movimento dal terreno
verso l’ultraterreno; nella seconda gli angeli scendono verso Orlando, che sotto al pino prega Dio,
offre il guanto e giunge le mani.
Finale e La dimensione amorosa nella Chanson de Roland è lasciato totalmente in secondo piano
(massimo sentimentalismo si ha quando Orlando si rivolge alla sua spada). Neanche una parola per
la sorella di Oliviero, promessa sposa di Orlando, di cui non si sa nulla. Alla fine Carlo comunica ad
Alda la morte di Orlando, in cui Carlo ripete gli gesti di regalità e dice ad Alda che è morto e che le
darà un altro uomo altrettanto nobile, cioè suo figlio. Ma Alda dirà di non voler vivere per la morte
del suo amato, per cui subentra un altro topos medievale, cioè morte per dolore. Finisce dunque con
la morte di Alda.
Cenni sulla tradizione del testo della ChR: la tradizione della Chanson de Roland è molto
complessa e si bipartisce in 2 testimoni: O (Oxford) e V4 (Venezia). Manoscritti diversi fra loro: O,
manoscritto più antico e più vicino all’originale, più umile e di piccole dimensioni, circa la metà di
quello di Venezia; V4, non più complesso, e che comprende altri testi su Orlando e segni di
intervento editoriale e arricchimenti, più sontuoso, più ampio. Dunque potremmo concludere che
stabilire il testo critico di un’opera come la Chanson de Roland è un’opera complessa, che si attiva
attraverso accorgimenti legati alla tecnica editoriale, cioè alla critica del testo* e inoltre tradizione
complessa fatta di testi che hanno subito cambiamenti radicali, per cui è una tradizione dinamica e
non statica quella della Chanson de Roland. Per evitare testi corrotti bisogna seguire delle linee-
guida della critica del testo. Tradizione significa corruttela perché uomini e materiali possono
sbagliare e degradarsi”. La corruttela è osservabile da 2 punti di vista: la restaurazione: ripristinare
il testo prima della sua corruttela (ostacolo); ma è anche un grande aiuto, perché attraverso questa
stabiliamo i rapporti fra i codici. Senza errori i testi sarebbero tutti buoni e uguali, ma se gli errori
fossero in comune tra più testi capiamo che essi sono isolati dal resto. Dunque la corruttela da una
parte ha rovinato il testo originale attraverso gli errori ma dall’altra grazie ad essa possiamo
ritornare allo stadio originale.
I guasti materiali non sono da considerare esclusivamente come fatti negativi, ma anche come «dati
positivamente utilizzabili dal ragionamento critico».
Come afferma Roncaglia “Il copista è un uomo: e come ogni uomo è soggetto a sbagliare. I
materiali […] sono, come qualsiasi mezzo materiale, soggetti a corrompersi. La nozione di
corruttela è perciò inseparabile dalla nozione stessa di tradizione”.
*Che cos’è la Critica del testo? : la critica di un testo è una critica letteraria nel tentativo di offrire
ai lettori una edizione critica del testo preso in esame, cioè una versione criticamente verificata e
attendibile del testo, che cerchi di riprodurre le intenzioni dell’autore, nei limiti possibili perché la
critica del testo non raggiunge mai il fine completamente. L’attendibilità del risultato dipende anche
dalla competenza di chi allestisce l’edizione. Si definisce edizione critica di un testo, qualunque
esso sia il testo allestito editorialmente. L’obiettivo di un testo critico è dunque risalire alla forma
più vicina stabilita dall’autore.
L’errore: come errore vale qualsiasi lezione o soluzione testuale che sia con sicurezza classificabile
come non attribuibile all’autore. Supponiamo, per esercizio mentale, che da un esemplare O siano
state tratte tre fotocopie A B C; da A due fotocopie DE; da B una fotocopia F: da C quattro
fotocopie GHIJ; da H una fotocopia K; da K tre fotocopie L M N.
Le copie risultanti sono tutte identiche e conservano esattamente il testo di O, e non c'è alcun
argomento basato sul testo per stabilire la successione. Questo è un esempio estremo di
'conservazione della buona lezione', che illustra il principio fondamentale che la conservazione
della buona lezione non dimostra nulla sulla struttura della tradizione. Che più manoscritti con
cordino nella conservazione della buona lezione è infatti quello che ci si deve attendere in assenza
di innovazioni ed errori. Tuttavia, partendo dalla tradizione conservata, è necessario utilizzare
innovazioni sicure. Se fra cinque manoscritti (A B C D E) ABC presentano una lezione e DE
un'altra, ma entrambe le lezioni sono tali che non si può negare con certezza che risalgano
all'originale, possiamo dire che A B C oppure D E contengono un'innovazione, ma non possiamo
dire da che parte stia l'innovazione e da quale la lezione originaria.
Perciò anche la concordanza di manoscritti in lezioni adiafore (= indifferenti) non dimostra nulla
sulle relazioni tra di loro. Solo l'errore, cioè una lezione di cui si può sostenere fondatamente che
non risale all'originale, è un'innovazione sicura, e solo la concordanza in errore può essere
utilizzata per dimostrare relazioni fra manoscritti.
Mito letterario particolarmente ricco che sarà capillare nel Medioevo come quello di Alessandro,
dal quale molti prenderanno spunto e che allo stesso tempo segnerà una serie di problemi. Quali
sono i temi che coinvolgevano il pubblico in questa storia d’amore? Innanzitutto la divisione tra
cuore e corpo: il corpo di Isotta era di Marco ma il suo corpo apparteneva a Tristano, tema che
anima tutti i personaggi di questo triangolo; la fatalità dell’amore è un altro tema vicino alle
conseguenze di questo sentimento, tipico della letteratura cortese del tempo.
A parte le due versioni di Tristano e Isotta ci sono anche delle narrazioni collaterali che raccontano
singoli episodi di questo mito letterario. Uno di queste narrazioni sono legate all’autrice Maria di
Francia, che scrive i Lais, che sono dei racconti con la stessa metrica dei romanzi ma che sono
caratterizzati dalla brevità, i quali hanno dei racconti brevi che si ispirano alla tradizione celtica,
leggende bretoni, con una proiezione fiabesca. È autrice di diversi Lais, e uno di questi è proprio un
episodio di Tristano e Isotta, ovvero il momento in cui Tristano è stato cacciato dalla corte di re
Marco, e i due amanti continuano a frequentarsi. Questo lai è stato chiamato Il lai del caprifoglio:
che racconta proprio uno di questi incontri clandestini tra i due amanti. Il caprifoglio non è altro che
un rampicante che si aderisce all’albero e finché i due sono stretti insieme possono vivere ma nel
momento in cui vengono separati muoiono. In questa rappresentazione naturalistica c’è tutta
l’essenza della vicenda di Tristano e Isotta. Queste metafore naturalistiche vengono usate spesso,
come vedremo poi anche nei poeti trovatori (Guglielmo IX).
Maria di Francia è autrice di questi testo che sono organizzati in una raccolta, in cui l’autrice ha
scritto un prologo, importante perché insiste sul contatto sul sapere degli antichi, su come il passato
deve essere conservato. Un lai, è una canzone in lingua celtica; quelli di Maria sono testi narrative,
le cui storie sono presentate come le motivazioni di canzoni bretoni, vere o presunte. Sono storie
d’amore più o meno brevi, raccontate con grande felicità narrativa e sensibilità poetica, basate sul
materiale tradizionale e folklorico celtico.
Nel pieno della materia arturiana, o meglio della materia bretone e antica, Arriviamo poi ad un altro
autore: Chrétien de Troyes, che è il grande romanziere del medioevo francese e uno dei più grandi
autori della letteratura medioevale. Autore di alcune opere/romanzi come: Erec e Enide (ca.
1170) ;Cligès (ca 1176); Le chevalier au lion / Yvain (ca. 1177-1181); Le chevalier de la
charrete / Lancelot (dedicato a Maria di Champagne; ca. 1177-1181); Le conte du Graal /
Perceval (commissionato da FIlippo dʼAlsazia, conte di Fiandra; ca. 1182-1190).
Soffermiamoci sul Cligès: in cui Fenice, moglie dell’imperatore greco Alis, si innamora del nipote
di quest’ultimo: Cligès, prevale dunque nuovamente quel triangolo amoroso che abbiamo visto in
Tristano e Isotta ma qui c’è una sorta di polemica anti-tristaniana cercando di offrire
un’alternativa, infatti vediamo come il personaggio femminile resiste al tradimento rifiutando di
fuggire con l’amante e dirà che non vuole prendere come modello quegli amanti sventurati ma
offrire una versione nuova di vedere l’amore.
Non volendo tradire il marito, Fenice fa bere a Cligès un filtro magico che gli darà lʼillusione di
averla, quando in realtà egli la sogna. Grazie a un altro filtro simula la sua morte e si ritira a vivere
con Cligès in una torre: scoperti i due cercano lʼaiuto di Artù. Alis muore e Cligès può finalmente
sposare Fenice, salendo così al trono.
Questo romanzo è ambientato nell’antica greca con incursioni della materia bretone, perché si
connettono questi due filoni narrativi. Ricco di analisi psicologiche, di discussioni di casistica
amorosa, di monologhi, in contrapposizione, come si è detto, a Tristano e Isotta, contro una storia
d’adulterio scandalosa. Quella separazione di corpo e cuore che abbiamo visto in Tristano e Isotta
qui vogliono essere viste come una totale unità, la donna infatti i questa opera non vuole essere
come Isotta.
Il discorso è diverso per un altro romanzo di Chrétien de Troyes: Yvain — Lʼavventura di
Calogrenant: ci fa vedere un’altra faccia del romanzo cortese. Abbiamo visto finora che la
personalità del personaggio si fa più sfaccettata rispetto all’epica, poi però anche le virtù dell’uomo
cominciano a diventare più ad ampio raggio. Questo brano ci presenta una situazione che non ha
bisogno di contesto ma è importante per farci entrare in un nuovo genere: quello
dell’AVVENTURA CAVALLERESCA. Il personaggio vive un’avventura invogliando anche altri
personaggi. Insieme all’Erec (altra opera), sono rielaborati motivi folklorici in questo caso la mitica
sorgente della foresta di Brocelandia nell’Yvain; valore guerriero e coinvolgimento in storie
d’amore esemplari sono le due facce inseparabili della personalità dei protagonisti. Yvain passa
attraverso la follia per amore e vive nudo nella foresta come bestia; risanato recupererà il suo valore
in una serie di avventure in compagnia di un leone che ha salvato un drago. L’individuo dunque si
mette alla prova attraverso l’avventura, che innalzano il suo animo. Un tema cardine del romanzo
cortese in questo caso è quindi la dimensione della formazione dell’individuo attraverso la prova.
Ma la prova non somiglia più a quella a cui si sottoponevano gli eroi nell’epica. All’individuo
nessuno ordina di mettersi alla prova ma lo fa per suo desiderio.
Infatti Auerbach afferma che Calogrenant parte a cavallo senza nessun ordine o ufficio; egli va in
cerca d'avventure, cioè di incontri pericolosi, per mettere alla prova se stesso. Una situazione simile
non esiste nella chanson de geste. I cavalieri di quest'ultima hanno un compito preciso e stanno in
un rapporto politico-storico. Questo rapporto è con servato in quanto i personaggi hanno una
funzione da compiere nel mondo reale, come, per esempio, quella di difendere l'impero di Carlo
Magno dagli infedeli, di assoggettare e convertire gli infedeli e via dicendo. Calogrenant invece non
ha nessun compito politico-storico e cosí nessun altro cavaliere della corte di Artú. E aggiunge nella
Mimesis, Il mondo dell'affermazione cavalleresca è un mondo di avventure, non solo nel senso che
troviamo in esso una serie quasi ininterrotta di avventure, ma anche nel senso che in esso non ci
s'imbatte in nulla che non sia il palcoscenico o la preparazione dell'avventura; è un mondo fatto
apposta per l'affermazione del cavaliere.
Riferimento a Dante, al Canto V dove viene citato Lancillotto. E al Don Chisciotte, che a furia di
leggere i libri di cavalleria è convinto di vivere il mondo di quelle avventure, che solo egli vede.
Cultura cavalleresca che ha fatto male anche a Paolo e Francesca, dannandoli per sempre.
LEZIONE 19-20
Introduzione alla poesia dei trovatori
Abbiamo parlato del romanzo cortese, e adesso apriamo il discorso sulla letteratura cortese che si
usa per stabilire un contatto di “amore cortese”. La formula “amor cortese” (amour courtois) è stata
coniata nel 1883 da Gaston Paris, in un saggio dedicato al Lancelot di Chrétien de Troyes, un
romanzo antico-francese risalente alla fine degli anni Settanta del XII secolo.
Questa etichetta moderna sta ad indicare un sentimento impiegata per descrivere la particolare
concezione dell’amore che emerge dal Lancelot e da testi affini, un tipo di sentimento che ha
connotazioni ben precise: 1. non è un sentimento comune e si pone al di fuori del matrimonio
(Tristano e Isotta ce lo dimostrano); 2. Presuppone una sproporzione ineliminabile fra amante e
amata, cioè questi ultimi sono su due livelli diversi e la figura femminile diventa il centro in cui
ruota questo nuovo sistema di valori; 3. è fonte di perfezionamento per lʼamante; 4. ha un carattere
sensuale, ma non deve essere necessariamente soddisfatto: si configura piuttosto come un “servizio”
dellʼamante nei confronti dellʼamata. L’uomo di sottopone completamente all’amata.
Quindi vediamo che le idee cortesi di questo periodo, che sono una vera e propria ideologia
assumono una forma, anche in un trattato in lingua latina, cioè il De amore di Andrea Cappellano:
cappellano alla corte della contessa Maria di Champagne e che scrive il trattato intorno al 1185, in
cui sono canonizzati gli aspetti principali dellʼamor cortese. Infatti in essa riprende alcuni temi
principali dell’amore cortese come: Lʼamore è una passione che nasce dalla visione della donna e
dal desiderio che questa suscita nellʼamante; Lʼamore è fuori dal matrimonio; Lʼamore accresce la
virtù, che è l’elemento di promozione sentimentale. L’amore è individuale ma in quest’ottica è
anche mezzo di produzione della società, perché è un tentativo di attingere a diversi valori che sono
condivisi all’interno della corte e che permettono di promuoversi non solo individualmente ma
anche all’esterno della società.
Ritorniamo alla figura di Maria di Champagne, che altro non è che la figlia di Eleonora d’Aquitania,
nipote di Guglielmo IX d’Aquitania. Anche lei, come la madre è prenditrice della cultura, tant’è che
il Lancelot fu scritto su sua sollecitazione. La figura femminile diventa il personaggio centrale ed
è quasi naturale.
La poesia dei trovatori: Nella Francia meridionale, a partire dallʼultimo quarto dellʼXI secolo, si
assiste a un momento centrale della storia letteraria europea: la nascita della poesia dei trovatori (= i
poeti in lingua volgare), che si presenta in modo variegato. In primo luogo la poesia si esprime in
lingua volgare, lingua d’oc (mezzogiorno di Francia); è intesa da tutti (nella sua forma
orale/performativa), però questa poesia raggiunge anche picchi di complessità particolarmente
difficili da penetrare chiamando a sé dei lettori che siano in grado di intendere ed era inoltre una
poesia fatta per essere pubblicata oralmente; è opera di individui la cui identità è nota, così come il
romanzo e al contrario dell’epica che rimane nell’anonimato. Qui abbiamo un io lirico che parla; è
una lirica dʼarte (rigorosamente isosillabica e rimata), ed ha una grande cura per l’aspetto formale.
(Di Girolamo): La letteratura provenzale presenta una storia abbastanza atipica rispetto alle altre
letterature romanze. È in essa che prende vita la lirica moderna: una poesia d’arte, laica, composta
in una lingua volgare. È infatti la lirica il genere che ne domina. Il primo trovatore Guglielmo IX
d’Aquitania, che inizia la sua attività poetica negli ultimi anni dell’XI secolo e Riquier, che
qualcuno ha chiamato l’ultimo trovatore, scrisse la sua ultima poesia nel 1292: con questa data si
può simbolicamente far terminare la poesia dei trovatori. Dove vivono i trovatori? Vivono
nell’ambiente delle corti feudali del Sud della Francia, della Spagna e dell’Italia settentrionale
grazie al mecenatismo dei signori, talvolta essi stessi trovatori; e nelle corti è anche il loro pubblico.
I trovatori sono poeti d’arte che componevano per iscritto i testi e li musicavano, ma le poesie
circolavano esclusivamente per via orale, attraverso l’esecuzione cantata dei giullari. Una poesia
dunque affidata alla voce, o più precisamente al canto con l’accompagnamento di uno strumento
musicale; una poesia che prende forma come spettacolo e per la quale il termine letteratura appare
discutibile. Sono questi gli aspetti principale della lirica trobadorica che ne determinarono il
successo in tutta Europa e anche la rapida fine.
Una formula più precisa per definire il tipo di sentimento al centro della riflessione dei trovatori è
“finʼamors” (= amore perfetto). È un sistema complesso di valori elaborato dai trovatori. Si
potrebbe persino negare unʼomologazione tout court dellʼ“amor cortese” (espresso nei romanzi
settentrionali) con la “finʼamors” (della lirica dei trovatori e poi dei trovieri = poeti del Nord della
Francia).
L’amor cortese mette in evidenzia due poli importanti: amore e corte, o meglio la fenomenologia di
un sentimento individuale e i modelli sociali e comportamentali radicati nellʼambiente delle corti
feudali. Come afferma Molk ne “la lirica dei trovatori” attraverso l’Espressione «felice, non perché
sia stata adoperata effettivamente da un trovatore, ma perché designa due punti focali del sistema; la
corte (la società) e l'amore (individuo), che si definiscono a vicenda. L'amore (amor) rende cortesi,
e la cortesia (cortezia) rende capaci di amare, l'amante ha degli obblighi precisi nel confronti della
società, la società, a sua volta, deve proteggere l'amante».
L’ambiente di questo nuovo genere, La corte: Un ambiente “laico”, raffinato e aristocratico, che
elabora un proprio sistema di valori. Un luogo in cui la cultura rappresenta unʼemanazione del
potere politico e Un sistema sociale complesso, di impianto verticistico, ma anche caratterizzato da
unʼampia mobilità al suo interno. Una posizione “intermedia” fra cultura elitaria clericale e cultura
e letteratura popolare (ad es. canzoni di gesta, poemetti agiografici).
Quali sono i valori cortesi? Esistono alcune parole-chiave come l’onore, valore, pregio, sapere,
prodezza che abbiamo già riscontrato in precedenza, per esempio nell’epica ma che si arricchiscono
di nuovi valori, come la generosità, l’obbedienza. C’è dunque ancora un sistema sovrapponibile a
quello cavalleresca ma che si arricchisce a quello dell’amore cortese, di una nuova dimensione.
La lirica trobadorica: cerchiamo di fissare delle coordinate e si potrebbe pensare che ha un arco
temporale che va dal 1071, che segna la Nascita di Guglielmo IX, cioè l’unico trovatore di cui noi
abbiamo dei documenti, per cui si prende come pietra miliare; poi c’è uno spartiacque tra 1209-
1229 che è segnata dalla “Crociata” contro gli Albigesi e per finire 1292 (ultima poesia datata di
Guiraut Riquier) o 1323 (Consistori del Gai Saber). Già quindi attraverso l’arco temporale molto
ampio ci dà la misura di quanto sia ampio questo movimento.
La lingua dei trovatori: è chiamata provenzale. I trovatori parlavano semplicemente di lenga
romana, cioè “lingua romanza volgare” in opposizione al latino, e solo nel XIII secolo si diffusero a
ovest dei Pirenei e a est delle Alpi, i termini “limosino” e “provenzale”, dalle regioni più vicine alla
Catalogna e all’Italia, mentre, per le stesse ragioni di contiguità geografica, nel Nord della Francia
si usava “pittavino” o “guascone”. Tuttavia il termine “provenzale” ha finito di imporsi negli studi,
all’epoca medievale. Lo Spazio: Lo spazio linguistico dellʼOccitania medioevale è un panorama
variegato. Ed è in una zona linguistica tra Nord e Sud.
In realtà le parlate d’oc occupano un territorio assai più ampio del Limosino e della Provenza,
esattamente l’area individuata da una line che partendo da Bordeaux, corre a nord di Limoges e di
Clermont-Ferrard per poi scendere a sud di Lione fino alle alpi. Le varietà principali del provenzale
sono: 1) il provenzale vero e proprio nella zona sud-orientale; 2) l’alpnino-delfinatese; 3)il
linguadociano-guiennese; 4) il limosino-alverniate. Ma se il Mezzogiorno presenta una complessa
frammentazione dialettale, ciò non significa che i trovatori componessero ciascuno nel suo dialetto.
Il provenzale dei trovatori è una coinè in cui convivono fenomeni (soprattutto fonetici) di diversa
provenienza, anche se è ragionevole pensare che il limosino abbia offerto lo strato di fondo. Quello
che è certo è che già i trovatori più antichi usavano una lingua sopra regionale con dialettismi della
regione di provenienza.
Elementi distintivi della lingua d’oc e la lingua d’oil: il francese è più trasformativo rispetto alla
base latina e rispetto alla lingua doc. (LETTURA) E Le ragioni della differenziazione tra Sud e
Nord. Nel Sud c’era una vita culturale diversa e diverse varietà linguistiche, e uno di queste
comprendevano anche il provenzale, il più importante era il Limosino. La lingua dei trovatori è una
lingua letteraria.
Elementi di versificazione ● La versificazione provenzale si fonda sul numero delle sillabe e
sullʼopposizione tra sillabe toniche e atone. ● Carattere distintivo della poesia dei trovatori è
lʼimpiego della rima (identità di suono di due parole a partire dallʼultima sillaba tonica). ● I versi
possono essere distinti in maschili (lʼaccento cade sullʼultima sillaba) o femminili (lʼaccento cade
sulla penultima sillaba).
È importante sottolineare inoltre anche Il problema delle origini della lirica dei trovatori, che
abbiamo visto anche nell’epica (da dove nasce?). Lo stesso problema sorge quando si osserva la
lirica dei trovatori. Bisogna tener conto diversi campi di tensione, che tutti convergono a stabilire
una nuova forma letteraria: Generi musicali liturgici e paraliturgici [latini] (versus, tropus). Questa
dimensione del canto liturgico è alla base di molte della ricerca formale dei trovatori e avrebbe forse
ispirato la lirica di Guglielmo IX; poi ancora, da questa Poesia classica [latina] era nata una sorta di
Lirica “galante” dei chierici della cosiddetta Scuola della Loira [latina]: anche l’ambito clericale era
stato ripreso per parlare con toni lirici di sentimenti spirituali; poi c’era la Lirica tradizionale,
inglobata alla Lirica mozaraba / jarcha [volgare], poesia “al femminile” di tono popolareggiante:
cioè la lingua parlata dai cristiani nella Spagna arabizzata. Per quando riguarda le origini, non si può
pensare che Guglielmo IX si sia inventato la lirica cortese ma c’erano già delle tradizioni che sono
state orchestrate in un movimento nuovo, che però espande nuove tradizioni.
Caratteri della poesia trobadorica: quando si pensa alla poesia dei trovatori si associa maggior
parte delle volte ad una lirica d’amore, ma non è così, perché è una poesia sfaccettata, non soltanto
d’amore ma si rivolge anche verso la società, satirica, verso il presente, soprattutto attraverso una
forma: serventese. E inoltre, la poesia dei trovatori è Spesso profondamente “dialettica”, si
sollecitano e si danno risposte, è un gruppo di persone che condividono un sistema di valori per
cercare di produrre progetti artistici.
Per quanto riguarda il corpus delle liriche dei trovatori ci è stato tramandato da circa un centinaio
di testimoni, compresi numerosi frammenti e codici descritti, cioè come copie di codici pervenuti.
Immergiamoci ora nei testi, e soprattutto partendo da: Guglielmo IX (1071-1126). Una definizione
è stata attribuita all’autore, data da un filologo, che ha notato che nel corpus poetica dell’autore,
composta da 10 componimenti di cui uno è incerto, all’interno di esso si nota una netta scissione,
da un lato componimenti cortesi, ortodossi poi altri di natura più varia, con tono grottesco, tutt’altro
che cortesi. Dunque di fronte questa scissione, una cortese e l’altra anti-cortese, è stata elaborata
l’etichetta di “trovatore bifronte”. Un trovatore che ha due volti, per sottolineare due ingredienti
principali: da un lato l’esaltazione delle virtù cortesi e del sacrificio in amore; dall’altro l’elogio
senza mezzi termini dei piaceri e del sesso.
Chi era Guglielmo IX? La poesia dei trovatori si apre con una figura di eccezionale rilievo non
solo letterario ma anche storico. Guglielmo, IX duca d’Aquitania e settimo conte di Poiters, fu uno
dei maggiori signori feudali del suo tempo, più potente, per l’estensione dei suoi domini. Sono state
messa a punto delle Vidas, delle agiografie romanzate, cioè delle presentazioni in chiave narrativa
di elementi delle poesie dei trovatori. I lettori leggevano le poesie di Guglielmo IX e traevano da
esse degli elementi utili a ricostruirne i profili per farne la sua biografia. Dalla vita di Guglielmo IX
si presume che ebbe un figlio, che ebbe per moglie la duchessa di Normandia, da cui ebbe una figlia
che fu moglie di re Enrico d'Inghilterra, madre del Re Giovane, di Riccardo e del conte Goffredo di
Bretagna. Queste fonti sembrano attendibili ma ci dice anche altre informazioni sulla vita di
Guglielmo: fu uno degli uomini più cortesi del mondo e uno dei più grandi ingannatori di donne, e
buon cavaliere d'armi e generoso nel corteggiare; e seppe ben comporre e cantare. Tuttavia sono
delle immagini utili per inquadrare meglio il personaggio.
Inoltre trascorse un’esistenza scandita da guerre, assedi: partecpò a due spedizioni crociate, come
quella in Terrasanta, da lui stesso organizzata che si concluse disastrosamente. Migliore esito ebbe
un’altra crociata in Spagna, contro i musulmani. Fu poi capostipite di una famiglia di mecenati che
nel XII secolo e oltre influenzarono profondamente la produzione letteraria in lingua d’oc e d’oil.
Due poesie di Guglielmo IX: Ab la dolchor del temps novel e Pos vezem de novel florir: testi
accomunati da certi elementi e utili per evidenziare alcuni aspetti della lirica dei trovatori.
1. Poesia, Ab la dolchor del temps novel: Le parole chiave di questo testo, legate alla poesia dei
trovatori sono: dolcezza, cantano, melodia, brama. Novità e dolcezza già si impongono nella lirica
da Guglielmo IX, insieme al ritorno delle parole, il canto e il desiderio, questo movimento interiore
verso qualcosa. Il luogo, o meglio il topos è lʼesordio stagionale, un tema frequente nella poesia dei
trovatori. mos cors non dorm ni ri: la frase che compare nella poesia di Guglielmo IX, o meglio la
parola cor e corpus convergono. Cuore e corpo che rimanda immediatamente al contrasto di
Tristano e Isotta.
Salvo l’ultima stanza, la canzone esibisce una singolare trasparenza, con le sue immagini delicate e
intense pur nella loro dissolvenza; nella quarta compare anche il personaggio femminile, inserito
nell’evocazione di una scena d’amore, mentre i nos rimanda all’universo di una coppia. La prima
stanza ricorda un’altra poesia di Guglielmo IX ( la prossima, Pos vezem): anche qui il trovatore,
traendo spunto dalla natura e primavera, afferma che è giusto rivolgersi verso ciò che si ama.
Dunque viene inserito nuovamente il topos dell’esordio stagionale. Diverso però è lo svolgimento
della canzone poiché il poeta-amante si sente in uno stato di incertezza: non riceve messaggi
dall’amata ma non osa farsi avanti. Nonostante ciò, spera che anche stavolta accada come in
passato, quando una mattina fece pace con la sua donna, e lei gli donò il suo amore e il suo anello.
Spera anche che la maldicenza degli invidiosi non lo separi dalla sua amata. Al di là di questo, nella
canzone compaiono diversi elementi caratteristici della poesia dei trovatori, riconducibili alla
cosiddetta metafora feudale. L’amore viene qui visto nei termini di un rapporto feudale: il poeta si
rivolge alla sua donna come un vassallo al suo signore, e ha nei suoi confronti un atteggiamento di
sottomissione, al punto che non osa prendere l’iniziativa. Tra il vassallo e il feudatario c’è un patto,
un vincolo giuridico. Anche feudale è il riferimento dell’anello che il signore donava al vassallo nel
corso della cerimonia di investitura. Il ricorso alla metafora feudale ha risvolti perfino grammaticali,
oltre che terminologici, per esempio “Bon vezi” è un senhal della donna amata, ma ci si può
chiedere come mai questo sia al maschile invece che al femminile. La ragione va cercata
nell’espressione stessa che designava la dama, midons, una forma maschile che sta per “mio
signore”: midons giustifica quindi i senhals al maschile.
2.Poesia, Pos vezem de novel florir: è il cosiddetto canto di penitenza e Guglielmo lo compose
probabilmente dopo essere stato ferito in battaglia, in un momento critico sia dal punto di vista
politico che personale, ma da cui dovette riprendersi ben presto affrontando nuovamente le ire della
Chiesa e della moglie a causa del suo comportamento non irreprensibile. La poesia si apre con il
cosiddetto esordio naturale, e in questo caso si tratta di un esordio primaverile: il poeta guarda la
natura e la metta in rapporto con il suo stato d’animo e la sua condizione. Questo tipo di inizi è un
topos o un luogo comune, cioè una descrizione o situazione che fa parte integrante del codice del
genere letterario. Il topos è dunque qualcosa di previsto: l’abilità del poeta consiste nel
personalizzare questo luogo comune. Il topos del locus amoenus contempla la descrizione di un bel
paesaggio con uccelli, fonti, prati o giardini, cieli azzurri e venticelli tiepidi. Questa natura felice
può essere messa in rapporto di similitudine o di contrasto con i sentimenti del poeta. Questo
esordio inoltre può essere rovesciato: primavera con l’inverno, immagini di gioia con lo spettacolo
di un paesaggio desolato. I topoi dunque nel canto cortese dei trovatori e dei trovieri costituiscono
dei punti di riferimento fisse per gli ascoltatori e per i poeti, per fare i conti con la tradizone e
rinnovarla continuamente.
Guglielmo nella poesia dice in sostanza: il mondo naturale è pieno di gioia e quindi è giusto che
ciascuno pensi a ciò che più ama. Le stanze più importanti, secondo Di Girolamo, sono la quinta e
la sesta: in cui si comprende chiaramente che i comandamenti di amore consistono in un insieme di
regole di comportamento sociale: l’etica dell’amore va osservata a corte, nel rapporto che il fin
amador ha, non solo con la donna, ma anche con altri soggetti dell’universo cortese. Già da qui si
comprende come l’amore non va inteso individualmente, ma invece chiama in causa la società. La
settima stanza poi contiene un elemento ancora nuovo: Guglielmo si autoelogia per la bellezza
della sua canzone e soprattutto chiama in causa gli ascoltatori, affermando che la poesia aumenta di
pregio se viene bene intesa, in ogni suo aspetto, da un pubblico competente. Infatti il rapporto tra
poeta e pubblico è cambiato rispetto a prima (cultura latina medievale), con la nascita della lirica
volgare.
Jaufre Rudel: se da una parte Guglielmo d’Aquitania era un personaggio pubblico, un uomo troppo
in vista perché le storie che si raccontavano sul suo conto fossero frutto di fantasia: di una delle sue
amanti conosciamo perfino il nome. Diverso è il caso di Jaufre Rudel: di lui sappiamo solo che era
principe di Blaia, nei pressi di Bordeaux e che nel 1148 era crociato in Terrasanta, dove forse morì.
La storia del suo amore per una dama mai vista, raccontata nella sua vida, non sembra avere alcun
fondamento e pare ricavata dal contenuto stesso delle sue enigmatiche poesie. Inoltre nella vida si
sa che egli fu uomo molto nobile, principe di Blaia. Si innamorò della contessa di Tripoli, senza
vederla («ses vezer»), per il bene che aveva udito raccontare di lei dai pellegrini che venivano da
Antiochia. E fece su di lei molti vers con belle melodie e parole semplici («paubres motz»). E per il
desiderio di vederla si fece crociato e si mise per mare; e una malattia lo colse sulla nave e fu
condotto a Tripoli, come morto, in un ricovero («en un alberc»)…
Del principe di Blaia ci è giunto un piccolo canzoniere di 6 poesie, caratterizzato da un’estrema
rarefazione del dettato poetico: l’effetto di oscurità è il risultato di uno stile proprio
dell’elementarità del tessuto linguistico.
Lancan li jorn son lonc en mai: è la canzone più famosa di Jaufre Rudel. La canzone non presenta
difficoltà di interpretazione, anche se il suo senso complessivo è tutt’altro che comprensibile.
L’intero componimento ruota attorno all’idea della lontananza, posta in esponente dalla parola-rima
lonh, che ricorre ossessivamente al secondo e al quarto verso di ogni stanza. Quel è il significato
dell’amor lonh di Rudel? Prestando fede alla vida del trovatore, che racconta del suo
innamoramento ses vezer, cioè solo per sentito dire, per una nobildonna d’oltremare, la vecchia
scuola biografica tentò di dare un nome a questa dama (si pensò perfino alla regina di Francia
Eleonora d’Aquitania); in realtà la vida non fa che sviluppare il motivo dell’amore lontano
contenuto nelle canzoni del principe. Sono state date diverse interpretazioni a questa poesia: per
Carl Appel l’amore lontano è l’amore per la Vergine; per Grace Frank è invece l’amore per la
Terrasanta; Battaglia scrive che l’autore canta la nostalgia allo stato puro e infine Spitzer ritiene che
l’amor de lonh porterebbe alle sue conseguenze estreme il paradosso amoroso della lirica cortese, a
sua volta fondato sul paradosso cristiano del reale irreale. La lontananza dell’oggetto amato è
dunque condizione dell’amore e l’unica possibilità di esprimerla è quella del discorso onirico.
Non sap chantar qui so non di: altro componimento di Jaufre Rudel: Sei coblas unissonans di sei
ottosillabi + una tornada, secondo lo schema: 8a 8b 8b 8a 8a 8b. siamo di fronte a un vero e proprio
manifesto poetico della lirica provenzale, e di quella che verrà. I. Parole, canto, ragione profonda:
una meditazione sulla poesia; II. Spiritualizzazione dellʼamore; Il motivo dell’amore per una donna
mai vista compare già, in toni paradossali e forse perfino parodici, nel vers de dreit nien di
Guglielmo IX; III. La gioia e la ferita; IV. Uno spazio onirico / Corpo e spirito; V. Nessuna
concessione dallʼamata; VI. Non rovinate il vers; LEGGERE IL TESTO SULLE SLIDE
Ci spostiamo verso il terzo quarto del secolo con Bernart de Ventadorn: a questo trovatore la
poesia amorosa provenzale deve forse la sua fortuna e i progressi successivi, avendole egli dato
un’impronta indelebile. Bernando, come narra la sua biografia, è nato nel castello di Ventadorn, da
un servo del castello che scaldava il forno per cuocere il pane, piacque per la sua bellezza e per le
sue doti naturali al visconte e anche alla viscontessa, che se ne innamorò. Egli non ha trattato d’altro
che di amore, con calore, abbandono, finezza. Poco più di 40 sono i componimenti che possono
dirsi certamente suoi.
Can vei la lauzeta mover: questa canzone è la risposta ad un dibattito che vede protagonisti altri
due trovatori: Raimbaut d’Aurenga e Chrétien de Troyes, il quale mette a confronto tre posizioni
distinte sull’amore, cioè di tre canzoni giocate su una fitta e sottile trama di intertestualità, e non di
uno scambio polemico diretto. Bernart de V. rispose con quella che è la sua canzone più famosa, in
cui utilizza un impianto strofico che allude alla canzone di Raimbaut (non chant per auzel ni per
flor: non canto per uccello né per fiore), presentando rispetto ad essa solo una leggere variazione
nell’uso di ottonari con uscita maschile in luogo di settenari con uscita femminile. La canzone
frequentemente citata da autori provenzali e francesi e da Dante, è stato considerato esemplare
questo componimento, del genere occitanico della canzone nella sua piena maturità, nonché della
situazione stessa dell’amore cortese.
L’immagine di apertura comporta una variazione del topos dell’esordio naturale. Qui infatti, invece
di una descrizione statica, è raffigurata una creatura che vive e che si muove e a cui vengono
attribuiti dei sentimenti. Nella prima stanza viene presentato Il volo dellʼallodola: che rappresenta
qualcosa che non può essere raggiunto e nei suoi confronti non si può provare che invidia, ma
l’allodola, simbolo di lontananza, può anche rappresentare la donna stessa, o meglio l’amore del
poeta, che è destinato al totale fallimento. Questa è infatti una poesia di commiato e di rinuncia
all’amore. Nella seconda stanza, Lʼamante abbandonato: segue una stanza di riflessioni sull’amore,
e il poeta ne descrive gli effetti; l’amante è stato privato di tutto, del cuore, della sua personalità e
della sua identità, e non gli è rimasto che il desiderio. Nella terza stanza si ha un’altra
deformazione di un topos: la descrizione della donna, delle sue qualità fisiche e morali e che qui si
riduce a un semplice accenno agli occhi. Ma gli occhi di lei non sono che uno specchio, in cui
l’amante si è specchiato e ha visto se stesso. Il ricorso al motivo di Narciso implica che l’amore è
una creazione esclusiva della persona che ama, qualcosa di soggettivo e che riguarda il singolo, non
due persone: dietro lo specchio c’è il nulla o la morte. Come nella maggior parte delle canzoni dei
trovatori, questa canzone ospita stanze più argomentative, di ispirazione misogina. Nessuna delle
donne di corte intercede presso l’amata, sicché il poeta non avrà fiducia in loro. Anche la sua
domna, si rivela femna perché non rispetta le regole dell’amore né il diritto di chi le presta il suo
servizio. La conclusione della canzone e disperata: il poeta risponde con il silenzio della morte,
cioè con la rinuncia all’amore e quindi alla poesia. Il senhal (figura retorica della lirica trobadorica,
appellativo riferito ad un personaggio) della tornada si rifà alla canzone di Raimbaut, che era
paragonato infatti a Tristano. Dunque Bernart, con questa canzone, forza lo spazio cortese perché
rinuncia alla condizione di amante, intendendo l’amore come una proiezione narcisistica del
soggetto e quindi come negaticità assoluta.
I trovatori nella modernità: la nostalgia dei trovatori nasce all’indomani stesso della loro
scomparsa. Una scomparsa lenta, annunciata da molto tempo con i primi fuochi della crociata,
contro gli albigesi, ma che poi sembra essersi consumata alla fine del XIII secolo, al punto che G,
Riquier poteva considerarsi l’ultimo trovatore.
Fino ad arrivare al Novecento che fa rivivere i trovatori attraverso i suoi poeti. I trovatori erano
apparsi come personaggi romanzati già nel secolo precedente e nel Novecento la loro presenza è
mediata in maniera evidente proprio grazie alla filologia, dal momento che un accesso diretto, non
guidato da testi era inimmaginabile. Il poeta più colto, che si avvicina ai trovatori è Ezra Pound:
dai trovatori ricava modi espressivi forti, che impara a praticare nel modo più diretto, nella
traduzione in versi e in rima. Dai trovatori trae nuove forme metriche, a cominciare dalla sestina e
modalità della rappresentazione dell’io. Anche Pasolini scopre i trovatori sui banchi universitari in
due corsi di filologia romanza di Parducci. La poesia trobadorica gli serve da modello per
cominciare a comporre in friulano senza avere nessuna conoscenza della tradizione poetica in
questa lingua. Infatti scriverà componimenti come: Amòur me amòur e Le primule. Pasolini non
fa propria una poetica: mette piuttosto in parallelo due mondi poetici, con le terre ideali che ad essi
hanno dato vita. Questi mondi, di persone, parole, hanno la virtù di non avere nulla alle loro spalle.
È il mito di una lingua innocente e di una poesia primigenia che si ripete nel Friuli, una nuova
Provenza.