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FILOLOGIA ROMANZA:

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LEZIONE 1-2
 Introduzione Continuità e trasformazione
Inizio con tre citazioni di tre studiosi. La prima “Il buon Dio è nei dettagli” di Warbung: La
filologia è una materia attenta al dettaglio. Chi era? Era uno storico dell’arte e a lui si deve la
definizione dell’iconologia. Lo storico aveva messo insieme una grande biblioteca. Tra le diverse
acquisizioni vi è l’atlante, composto da una serie di tavole costruite da montaggi fotografici. Il
senso era quello di associare le immagini affinché rappresentasse un’idea, ruotata in un centro
concettuale. La seconda citazione del romanista Schuchardt, secondo il quale “La combinazione
paritetica del microscopico e del macroscopico rappresentano l’ideale della ricerca scientifica”
(dettaglio e sistema) L’ultima citazione è d Gide, che parla di miniaturizzare, lavorare in piccolo
per poter rappresentare il grande. Fa alcuni esempi come il teatro con l’Amleto di Shakespeare.
Definisce infatti il “mise en abyme”, ovvero “la messa in abissso”, far del piccolo per rappresentare
il grande (gioco di specchi). Anche in Giotto emerge il “mise en abyme” con il Polittico Stefaneschi
o con Calvino ne “il cavaliere inesistente”.
Tornando a Warbung, aveva messo assieme una biblioteca a Londra. Cambia la disposizione dei
libri man mano che l’idea si espande. Si parla della regola del “buon vicino”.
Si arriva poi a Umberto Eco e al suo libro “Il nome della rosa”, romanzo storico con la voce di
Adso. I personaggi all’interno del romanzo sono in parte reali e in parte di finzione. Uno di quelli
reali è Salvatore, un monaco che parla un’iperlingua che non è latino e nemmeno volgare. “Parlava
tutte le lingua e nessuna” come dice Eco. Fa parlare il suo personaggio con il latino, con base
italiano settentrionale, combinata con la lingua provenzale e un po' della letteratura, quindi relitti
galloromanzi e relitti iberoromanzi. È dunque una lingua mescolata.
La filologia romanza si occupa di trasformare la continuità nella storia. Si tenta di trovare i
tratti che ci permettono di individuare elementi di continuità. Dal latino al volgare per esempio è
una trasformazione della continuità. E ancora la tradizione del testo, va interpretato come un
processo, visto nelle tappe della sua elaborazione.
 DANTE (prima della filologia romanza)
Si parla poi del 1 testo romano: il “De Vulgari eloquentia” di Dante: trattato incompiuto in cui
Dante si focalizza su alcuni aspetti come il linguaggio primigenio dell’umanità (la lingua adamica):
per Dante era fondamentale capire con quale lingua si fosse espresso Adamo; la frammentazione
linguistica (la lingua babelica); i rapporto tra il latino e le lingue volgari.
(Beltrami) Bisogna ricordare che gli argomenti di studio della filologia romanza medievalistica non
possono escludere il Trecento italiano, e soprattutto comprendono a pieno titolo il Tre e il
Quattrocento francese e iberico. L’opera di Dante in cui converge ed è rifuso poeticamente tutto
l’essenziale del Medioevo romanzo, non si può ovviamente sfiorare, salvo un brevissimo cenno alla
sua diffusione.
Il De vulgari eloquentia e il Convivio, composti parzialmente in parallelo, fra il 1304 e il 1306 il
primo, fra il 1303 e il 1308 il secondo, sono rimasti entrambi incompiuti e non divulgati dall’autore.
Si possono trovare tracce isolate della conoscenza delle due opere già nel Trecento, ma nessuna
delle due ha avuto la rilevanza che avrebbe potuto avere fino al Cinquecento. Del vulgari
eloquentia (un trattato latino che affronta il problema del “volgare illustre”, cioè della lingua
appropriata per lo stile elevato) si dirà solo che è rimasta senza seguito la teoria metrica dantesca,
che solo dai moderni è stata presa come base della descrizione della canzone antica.
Dal punto di vista della storia letteraria, la novità del Convivio (un trattato filosofico in volgare, in
forma di commento a quattro canzoni dello stesso Dante) è che esso è un’opera di pensiero originale
in prosa volgare, in cui alla scrittura in volgare è attribuita la stessa autorità del latino.
Dante era già stato autore di una prosa originale, nel prosimetro (misto di prosa e di poesia) della
Vita nova che raccoglie 31 poesie entro la narrazione, carica di valori simbolici, dell’amore per
Beatrice. Dante ha avuto un immediato successo a Firenze e fuori. La Commedia o comedìa come
dice Dante, terminata poco prima della morte dell’autore, e divulgata subito dopo, ha avuto una
diffusione immediata e larghissima, dapprima nell’Italia settentrionale ma presto anche in Toscana
e già nello stesso decennio è cominciata una tradizione di commenti propri degli autori latini e del
favore del pubblico in senso lato popolare. A cominciare dall’Italia settentrionale, il successo della
Commedia è stato uno dei fattori decisivi per l’imporsi del fiorentino come base della futura lingua
italiana.
Per Dante il latino (detto grammatica) è una lingua che sta al di sopra delle altre, indifferenziata e
immutabile, creata per l’espressione intellettuale dei dotti a partire da elementi dei volgari, cioè
delle lingue parlate, materne, apprese nell’infanzia spontaneamente. Dante ha però chiaro che il
volgare cambia nel tempo e anche che i tre volgari letterari di cui ha esperienza, che si chiama
“lingua d’oc” (provenzale), “lingua d’oil” (francese) e “lingua di si” (italiano o meglio dire
toscano), hanno molto in comune fra loro e ne deduce che derivano da una sola lingua. A
dimostrazione di ciò adduce il fatto che essi esprimono molti concetti con le stesse parole.
All’epoca di Dante, il latino è la lingua della cultura e della scuola e l’unica che è oggetto di
insegnamento, a differenza del volgare, che è ancora sentito come la lingua del parlato, popolare e
non è oggetto di insegnamento. È dunque un’affermazione rivoluzionaria quella del vulgari
eloquentia, secondo cui i rimatori in volgare hanno diritto al titolo di “poeta”, come i poeti latini.
Però Dante aggiunge che c’è una differenza tra i due perché i poeti latini detti “grandi” hanno
scritto in una lingua e con una tecnica regolari. Come creare una lingua e una retorica volgari di
dignità pari al latino è per l’appunto un tema del De vulgari eloquentia.
LEZIONE 3-4
 Filologia e critica del testo
Etimologia allo studio e significato attuale: La parola filologia risale al greco philèin “amare” e
lògos “discorso”, ovvero “amore per il discorso” (o dello studio o della dottrina). Tra le prime
attestazioni filologo poteva significare chi è “amante della conversazione”, così come Socrate
definisce se stesso nel Fedro di Platone, o addirittura un “chiacchierone”. Nella storia “filologia” ha
assunto più significati. Il termine dopo un lungo processo di elaborazione viene inteso anche in
modo peggiorativo (“la filologia porta al peggio”) per cui la filologia non si è portata molte simpatie
quando è portata all’estremo che la rende quasi una scienza esoterica.
Nel senso più tecnico e ristretto è la disciplina che analizza i materiali in cui un testo ci è
disponibile (manoscritti o stampe) per stabilire se c’è un autore o se tale volontà è ricostruibile
oppure com’era esattamente quando è stato messo in circolazione per la prima volta. Per questo è
importante parlare della storia della tradizione, cioè la storia dei manoscritti e per le età più recenti,
delle stampe che ci hanno trasmesso i testi.
Una delle tante definizioni è: quella di Auerbach è che la filologia è “l’insieme delle attività che
si occupano del linguaggio dell’uomo, e delle opere d’arte composte in questo linguaggio”; di qui il
valore che la parola ha nei sistemi universitari dove è sinonimo di “studi letterari” o “studi
linguistici e letterari” e dove un corso di studi di filologia romanza può essere l’equivalente di
quello che in Italia è un corso di lingue e letterature straniere in cui si studino lingue romanze. La
filologia romanza è dunque secondo Beltrami la “filologia delle lingue e delle letterature romanze”,
cioè riguarda i testi prodotti in queste lingue, da un punto di vista unitario.
Oppure Varvaro (grande filologo romanzo) dà altre definizioni. Egli raccoglie una serie di
definizioni in dizionari e si deduce che la filologia è diversa a seconda della nazione, con linee di
ricerca diverse. Può capitare dunque che in diverse nazioni si elabori un quadro della disciplina
leggermente diverso. Il suo obiettivo è quello di vedere cosa viene fuori dalle diverse nazioni, per
quanto riguarda la filologia. Per esempio il dizionario francese dice che la filologia è una disciplina
che va a ricercare, conservare e interpretare i documenti per lo più scritti. In Inghilterra è la branca
che ha a che fare con gli aspetti storici, linguistici, critici della letteratura (sinonimo di linguistica
storica).
È importante sapere inoltre che la filologia si occupa sia di testi letterari che non letterari.
Continua Beltrami: Le lingue romanze sono le lingue che hanno tratto origine dalla frantumazione e
dalle trasformazioni nel tempo e nello spazio del latino parlato nell’Impero romano. Queste lingue
si dicono anche neolatine. Nel libro vengono elencate lingue romanze, con riferimento all’Europa,
come il portoghese, galego, spagnolo, catalano (lingue iberoromanze) o l’italiano, il sardo, il corso
(lingua italoromanzo), ecc… Trattare queste lingue congiuntamente e non separatamente ha senso
dal punto di vista della linguistica storica perché esse formano un gruppo, quella che si è detta
anche una famiglia linguistica, in quanto derivano tutte da una fase comune, cioè il latino.
Lo studio dei testi non può fare a meno di competenze linguistiche, senza le quali non si possono
interpretare né se ne possono studiare i problemi di edizione critica. Per questo è sempre stata
necessaria un’introduzione alla linguistica storica e alla grammatica storica. La prima, comprende la
teoria del mutamento linguistico e lo studio della lingua; la grammatica storica è la descrizione di
una lingua o di un sistema di lingue. Si deve avere però la consapevolezza che le trattazioni di
linguistica e grammatica storica si basano su dati, cioè su testi che sono oggetto di ricerca filologica.
Esiste dunque una circolarità tra filologia e linguistica: la filologia fornisce alla linguistica dati
testuali, la linguistica fornisce alla filologia norme e cognizioni linguistiche per fare edizione dei
testi e per interpretarli.
Ritornando alla citazione di Auerbach, sulla “Introduzione alla filologia romanza” aggiunge che una
delle forme più antiche della filologia, e che è ancora considerata da molti studiosi la più nobile e
autentica, è l’edizione critica dei testi”. Ma cos’è un’edizione critica? E a che cosa serve? Gaston
Paris afferma che essa ha un obiettivo, cioè quella di ritrovare la forma che l’opera a cui si applica
aveva quando è uscita dalle mani dell’autore, ovvero l’editore ha l’impegno di ricostruire il testo
originale, nei limiti possibili, perché la critica del testo non lo raggiunge mai completamente. Ma
chi dobbiamo interrogare? Bisogna ripercorrere le fonti per l’edizione critica, ma come si risale al
testo originale? Per raggiungere questo fine bisogna lavorare sui “testimoni” attraverso cui il testo
oggetto di ricerca ci è giunto e interrogarli opportunatamente. Tutti i manoscritti che conservano il
testo sono testimoni della tradizione del testo e la fonte storica aspetta che qualcuno la interroghi da
ogni angolazione poiché possano darci delle informazioni.

Si parla poi delle diverse competenze che il filologo deve possedere:


 Paleografiche/codicologiche/diplomatiche: deve saper leggere il testo, il tipo di scrittura e
deve occuparsi dell’oggetto-libro, utile per osservare il manoscritto.
 Linguistiche
 Storico-culturali
 Ermeneutiche: deve capire cosa voleva dire lo scrittore, o meglio il testo prima di diventare
leggibile
 Critico-testuali: deve possedere elementi critici, come sono usciti dalla mente dell’autore.
Un caso esemplificativo: La scuola Siciliana: la denominazione ci fa capire l’area geografica,
ovvero dove si trovava l’imperatore Federico II che ha favorito delle fonti d’arte nella sua corte,
come la scuola poetica. I principali interpreti che scrivevano poesie d’amore mettevano in campo il
loro potere come Giacomo da Lentini, Pier delle Vigne, Guido delle Colonne ecc… ed essi sono
quindi considerati i principali esponenti della scuola poetica siciliana. Tra le opere spicca “Madonna
dir vo voglio” di Giacomo da Lentini, citata da Dante nel De vulgari eloquentia, ritenendo che da
Lentini non venisse dalla Sicilia ma dalla terraferma, mettendolo tra gli Apuli. L’opera viene
considerata la prima poesia lirica volgare, e quindi precedente a Dante, caratterizzata da i seguenti
aspetti: tecnicismo della poesia siciliana; poesia lirica su alcuni topoi propri della poesia lirica
d’amore; termini carichi di significato.
Sono tre le principali testimonianze manoscritte: V (indica il manoscritto della Città del
Vaticano; P (Firenze, manoscritto del Banco Rai); L (sempre a Firenze della Biblioteca
Laurenziana). Sono dunque manoscritti che conservano la maggior parte del corpus poetico dei testi
tradizionali. C’è una differenza tra questi tre manoscritti per esempio per quanto riguarda la mise en
page, ovvero com’è organizzata la pagina. Per esempio un’altra differenza è la miniatura, o i codici
estremi organizzati a due colonne (manoscritto L) ed altri disposti a tutta pagina: questo ci dice che
il manoscritto L si inserisce in una tradizione grafica diversa dal libro V e in parte a quello P. (qui si
fa dunque riferimento alla competenza paleografica del filologo). Il paleografo è anche in grado di
datare il manoscritto: uno dei più importanti è Armando Petrucci, il quale afferma che il Canzoniere
V è modellato in realtà sul modello di un altro manoscritto. Si rifà quindi a dei modelli, cioè quello
del registro contabile. Diverso è il caso del Canzoniere P, visto come un prodotto più alto,
presentato in miniatura che dal Petrucci è chiamato “libro cortese di lettura”, cioè ci riporta al
mondo del mezzogiorno di Francia che hanno ispirato la poesia dei trovatori. La scrittura di tipo
gotica è molto sorvegliata, e ci fa capire come esso sia frutto di un professionista. Il terzo esempio è
poi il Canzoniere L, molto simile a quello siglato P, ma la competenza grafica è inferiore. È
possibile che il fatto che sia incolonnato si riferisca a dei modelli.
Poi per quanto riguarda le competenze linguistiche bisogna considerare la fonologia e la scripta.
Ognuno dei tre manoscritti ha un sistema grafico per rendere la fonologia: lo stesso suono può
essere rappresentato con una serie di grafie. Bisogna capire come deve suonare la parola e in questo
caso la parola “m’à preso” può essere interpretata in diversi modi.
CHE COS’E’ LA SCRIPTA? (sempre legato alle competenze linguistiche) è un tema importante
che secondo Asperti “lo scritto non individua in maniera univoca una realizzazione orale e questo
soprattutto in epoche di transizione, dunque di crisi e di rielaborazione dei sistemi linguistici: più
grafie possono corrispondere a uno stesso suono, ma anche più suoni celarsi sotto una medesima
grafia che regolano per convenzione la trascrizione dei testi volgari ”. E secondo Ivi “la scripta è un
sistema individuante l’insieme delle tradizioni grafico-scrittorie che regolano per convenzione la
trascrizione dei testi volgari in assenza di norme costituite”. Bisogna essere consapevoli del
problema della scripta e che si incontrino nella filologia romanza. Tra le competenze linguistiche
bisogna considerare anche i sistemi vocalici a confronto, come:
 Sistema italoromanzo: in cui vige l’opposizione in sillaba tonica tra vocali aperte e vocali
chiuse. E comprende 7 suoni vocalici (vedi slide 33)
 Sistema siciliano: che risponde alla differenza tra mapreso e maprizo: uno conserva tratti
originali di un’area geografica e l’altra dove la “i” viene trasformata. Nel sistema siciliano
tutte le e le o toniche sono “aperte”; la “è” tonica italoromanza è chiusa in “i”, la “ò” tonica
toscana si è chiusa in “u”.
Il sistema siciliano è probabilmente un’evoluzione, nell’alto Medioevo, del sistema
panromanzo. Comprende 5 suoni vocalici/vocali toniche. (esempio della rima
“priso”:”miso”).
(Beltrami, capitolo dedicato alle vocali: pag. 145)
Si parla poi delle competenze storico-culturali: Bisogna considerare la tradizione per arricchire la
lettura e anche dal punto di vista di partenza. Per esempio le poesie dei Siciliani sono giunte fino a
noi per la maggior parte attraverso i manoscritti redatti in Toscana: i copisti sovrapposero il proprio
sistema linguistico a quello dei testi di partenza, ibridandone la lingua. La scuola siciliana ha dei
precursori, e cioè è influenzata dal modello della poesia dei trovatori, movimento lirico sviluppatasi
in Occitania a partire dal XII secolo: la lirica dei trovatori è d’amore in cui il poeta (trovatore) si
poneva in una posizione inferiore rispetto alla dama e cantava come regolamento. I trovatori hanno
elaborato il corpus lirico in lingua d’oc. Anche in Italia i trovatori hanno trovato il loro pubblico ed
è avvenuto proprio a partire da Federico II con la scuola siciliana.
In più l’intertestualità che era molto evidente nella poesia dei trovatori: gli autori comunicavano tra
loro ed essa permetteva cioè di collegare due testi mettendoli uno accanto all’altro. Per esempio F.
Torraca differenzia due testi, ossia una poesia di Folchetto di Marsiglia, un trovatore che scrive in
lingua d’oc e “Madonna dir vo voglio” di da Lentini e si accorge che la poesia dei trovatori era
bipartita da poesia e parte musicale mentre quella siciliana veniva solo letta.
Riepilogo delle competenze del filologo (della lezione 5): Le competenze del filologo sono di
diverso tipo e c’è una sorta di circolarità, perché esse devono essere messe in atto
contemporaneamente, le une servono alle altre per ottenere quello che è il punto più alto
dell’esercizio della filologia, che consiste nello stabilire il testo critico. Ciò che guida la mano del
filologo che deve risalire alla forma originale del testo sono gli errori, è proprio da essi che il
filologo è in grado di ricostruire questa grande catena che ha portato alla trasformazione
dell’originale in qualcosa di diverso ovvero le forme documentate. L’errore è dunque il principio
guida che ci permette di risalire nel tempo alle forme più vicine all’originale però i testimoni dei
testi (le forme manoscritte) non sono ininfluenti.
La competenza paleografica del filologo serve per datare e collocare storicamente e socio
culturalmente un manufatto librario. E a che cosa serve la codicologia invece? È quell’aspetto che
studia com’è fatto un manoscritto, di come è fatta la mise en page, quali sono i materiali su cui è
scritto, tutti elementi che servono ancora una volta a capire a chi era destinato il libro, quali sono i
lettori che questo libro ha avuto nel tempo, per chi era pensato. Anche questo non è secondario per
capire fatti di tipo culturale. Le competenze linguistiche a che cosa servono poi? Per esempio a
ragionare sulla scripta, a capire quali fatti linguistici sono dell’originale e quali fatti linguistici
potrebbero essere sovrapposti successivamente (nel caso della toscanizzazione dei testi siciliani).
STEMMA CODICUM: lo stemma dei manoscritti ci permette di stringere sempre più verso
un’unica radice la selva dei manoscritti testimoni che abbiamo.
TRADIZIONE E FORTUNA DEL TESTO: ci sono dei testi che hanno avuto una esigua tradizione
e poi improvvisamente molta fortuna presso un certo pubblico di lettori. Ci sono degli elementi para
testuali, con note esplicative, per capire per quali mani sono passati i testi. Per esempio il destino
del manoscritto V è stato quello di passare nelle mani di un grande umanista, Angelo Colocci (uno
che si interessava della provvidenzialistica dopo la sua “perdita”), che possedette una grande
biblioteca e un manoscritto V dalla quale fece eseguire una copia. Colocci aggiungeva la sua voce e
scriveva “Dante cita questo…”.
LEZIONE 5-6
 Dominio romanzo, paradigma storico-comparativo (da pag. 85 del Beltrami)
Si parla in questa lezione di un altro aspetto. Abbiamo visto cosa significa filologia e che è quasi
autologico definire filologia e linguistica romanza perché all’interno della filologia c’è già la
linguistica. Veniamo però a dare maggiore evidenza dopo il punto filologico, a inoltrarci nel campo
della linguistica e dentro al fatto che è romanza.
Il primo aspetto da considerare è sicuramente:
1. Il Dominio in cui si applica (perché è linguistica romanza)
2. Secondo quale prospettiva vengono analizzati i fatti linguistici
3. Quali sono le principali tappe della nascita della disciplina
1.Per rispondere alla prima, Perché romanzo? Innanzitutto si sa che si può scegliere come coppia
quasi sinonimica le lingue neolatine e romanze. Bisogna capire prima di tutto cos’è “la
romània”: è l’insieme delle aree geografiche e delle culture in cui si parlano le lingua romanze, che
continuano in modo diretto e non il latino. Romania o anche detto dominio romanzo è una sorta di
neoformazione, un nome geografico che deriva dal popolo ossia “i romani”, che comprende
l’impero Impero. Parliamo della romania storica, romania antica che corrisponde più o meno,
parzialmente all’estensione geografica dell’Impero. La parola romania fa la sua comparsa più avanti
nel tempo (IV secolo d.C.) ed nell’uso moderno è entrata in uso nel 1872, data di fondazione di una
rivista che è chiamata proprio con questo nome, dedicata agli studi linguistici delle lingue romanze.
Esisteva questa parola dunque già nella tarda antichità che descriveva l’intera estensione
dell’impero romano e che è risultata utile per i filologi e linguisti ottocenteschi per definire
quell’ambito romanzo a cui i loro studi si applicavano.
Da dove deriva la parola romanzo? Perché le lingue sono romanze? Poiché “Romanicus” vuol
dire “di Roma”, cioè che ha che fare con la latinità è probabile che il parlare proprio dei romani sia
un “Romanice loqui”, cioè un parlare ai modi dei romani. È da questa forma (Romanice loqui) che
deriva le formazioni antico francesi che sono per esempio romanzi. L’uso di questa terminologia
quando entra nelle lingue volgari ha a che fare con le pratiche traduttive che portano i testi a un
forma linguistica in lingua volgare, cioè “mettere in romanzo” significa tradurre, trasporre in lingua
romanza qualcosa che prima era in latino.
Romanice loqui in realtà è un’espressione che è attestata latinamente dopo le prime attestazioni
volgari. Il punto è quindi che la parola Romans in volgare compare prima dell’espressione romanice
loqui in latino, quindi potrebbe darsi che quest’ultima espressione sia un calco latino su un modello
romanzo.
È da tenere conto che nell’Impero romano esistono fondamentalmente due aree linguistiche e
questo è importante per capire perché la Romània antica quando si sfalda l’impero corrisponde solo
in parte all’Impero romano stesso: perché c’è una parte che linguisticamente si riferiva più ad un
modello linguistico greco. Quindi anche quei cittadini romani che vivevano in Grecia non fanno
parte della Romània antica perché esiste quella che è detta la Romània sommersa, che è
un’ulteriore sottrazione di spazio rispetto alla Romània antica. Tagliavini, che è uno dei più grandi
linguisti italiani, riguardo alla Romània sommersa riprende il caso dell’Africa settentrionale dove si
parlava latino ma non c’è più una continuità della latinità, per cui essa fa parte della Romania
sommersa. Altre zone in cui l’Impero romano c’era e non sono più zone dove si parla una lingua
romanza sono: Gran Bretagna, Olanda, Germania, Svizzera… e dove il latino non sopravvive come
lingua madre ma come lingua di cultura. Dunque il latino non era bandito del tutto (Medioevo) ma
costituiva lingua sovranazionale ma era perduta dal punto di vista della lingua materna perché le
lingua germaniche avevano preso il sopravvento e altre zone adriatiche e l’Africa sett.
Vicino alla Romania sommersa e antica esiste anche una cosiddetta Romània nuova, che anch’essa
è oggetto di studio della filologia romanza. Con essa si designano le nuove aree fuori dall’Europa,
in cui si sono insediate alcune lingue romanze a partire dall’espansione e dalle colonizzazioni
iniziate nella seconda metà del 400, di cui l’episodio più importante è la conquista dell’America
dopo i viaggi di Cristoforo Colombo. Essa dunque si estende nei vari continenti e chiaramente la
sua presenza più rilevante è in quello americano.
Le lingue romanze in Europa oggi: quelle neolatine/romanze che possono essere divise in
categoria a seconda della collocazione geografica: iberoromanze (cioè le lingue dell’antica
Penisola Iberica come il portoghese, galego, castigliano), italoromanze (cioè l’italiano con il
sistema dei dialetti italiani), galloromanze (cioè le lingue dell’antica Gallia, l’odierna Francia),
retoromanze (dal nome degli antichi Raeti e dalla provincia romana della Reatia),
balcanoromanze (cioè il dalmatico e il romeno). Questa classificazione pone alcuni problemi
poiché alcune lingue hanno caratteristiche di altre per esempio il catalano con l’occitano per cui si
parla di “lingue ponte”, in questo caso fra iberoromanze e galloromanze.
Ci sono due Romanie che si distinguono tra loro pur essendo strettamente legate oppure si può dire
che in base ad alcuni tratti linguistici il dominio romanzo si divide in: Romania orientale e
occidentale. Questa divisione taglia in due le lingue italoromanze: la Romània occidentale
comprende tutte le varietà linguistiche italiane settentrionali e le lingue retoromanze, galloromanze
e iberoromanze mentre quella orientale comprende tutte le varietà linguistiche italiane centro-
meridionali (incluso il toscano) e il romeno. I tratti linguistici della Romania occidentale sono la
lenizione delle consonanti interv. Del latino e la conservazione della s finale. *
Quali sono i fattori che le differenziano? Sono dei fenomeni linguistici che vanno a situarsi intorno
ad una isoglossa (linea immaginaria che divide due aree, in questo caso la Romania orientale e occ.,
in cui il medesimo tratto ha valori distinti), che ha a che fare con la geografia linguistica. Un
esempio è la linea Rimini-La spezia. Quali sono i fattori che ci permettono di tracciare questa linea
ideale? Per esempio è la lenizione delle consonanti intervocaliche del latino, che ha come esito a
seconda dei casi, il passaggio da sorde a sonore, la spirantizzazione, fino al dileguo. Per esempio
dalla parola “roda” passa a “rueda” e così via. Altro fattore è la conservazione della –s finale
latina.*
Si parla poi della LINGUA E DIALETTO: che possono essere oggetto di studio della filologia
romanza ed è importante sottolineare la distinzione tra la lingua standard e i dialetti, che non è
linguistica bensì sociale, e che esso è anche mutevole, può variare nel tempo poiché non è detto che
una lingua o dialetto sia fissa nel tempo. Possiamo dunque affermare che la possibilità di
distinguere nel dominio romanzo lingue e gruppi di lingue dipende dall’esistenza di lingue
standardizzate che fungono da poli di aggregazione della varietà dialettale. Quest’ultima è invece un
continuum. La distinzione tra lingua e dialetto riguarda l’uso, la diffusione, il prestigio, il tipo di
riconoscimento che certe lingue hanno e che altre, il dialetto, non hanno: è dunque una distinzione
sociolinguistica. Nella situazione moderna la lingua è tipicamente propria dell’intera società, copre
l’intera gamma degli usi tecnici, scientifici, è oggetto d’insegnamento scolastico e così via. Per le
lingue medievali (a parte il latino) si parla di lingua piuttosto che di dialetto quando esiste un certo
grado di standardizzazione. Al contrario il dialetto è tipicamente di uso locale, non è standardizzato
e non ha un dominio completo. Si possono distinguere due tipi di dialetti, quelli secondari, quelli
che hanno origine dalla differenziazione interna di una lingua e quelli primari, cioè quelli che hanno
una storia indipendente come i dialetti italiani che sono continuazioni dirette del latino come ogni
altra lingua romanza per poi diventare dialetti quando nel 500 si è affermato l’italiano.
Le lingue romanze sono lingue a sé che hanno una componente romanza e che sono le lingue creole
e pidgins: sono delle lingue che in ambito romanzo hanno come base soprattutto il portoghese,
francese. Per quanto riguarda le pidgins, sono lingue che si formano soprattutto in Africa e Asia e
nascono dal contatto tra le lingue del colonizzatore e le lingue indigene. Sono lingue che servono a
comunicare quel che basta e legate alla sfera degli scambi commerciali. Hanno inoltre una
grammatica fortemente semplificata, finalizzata ad un obiettivo pratico. Quando però questo tipo di
lingua diventa una lingua materna, e quindi ad assumere dei tratti più complessi si parla delle lingue
creole, che si estendono ad altre sfere della comunicazione. Hanno come base lessicale presa dalle
lingue madri ma la grammatica si discosta.
2.Dopo aver definito qual è ambito della romanistica, cosa sia romanza adesso ci spostiamo sulla
LINGUISTICA. La linguistica è una disciplina che studia il linguaggio umano ma la primaria
manifestazione è orale mentre la scritta è secondaria. Questa banalità è anche però una grande
complicazione nel nostro caso, perché ci porta per esempio a chiederci se questo è latino o volgare?
Con questo suono che cosa si voleva rappresentare? È una forma protoromanza o tardo latina? Tutte
queste domande hanno a che fare col fatto che la lingua debba essere rappresentata graficamente,
quello che prima definivamo la scripta, cioè come rappresentare i suoni di un sistema nascente? Si
doveva passare attraverso gli strumenti che si possedevano, cioè attraverso la rappresentazione
grafica del latino cercando di adattarla alle nuove forme linguistiche. Questa norma non esisteva per
cui siamo in un periodo di transizione, dunque di crisi e di rielaborazione dei sistemi linguistici, in
cui le grafie sono difficili da rappresentare.
Dunque che tipo di linguistica è? È una linguistica a che fare con fatti attestati in diverse forme
per cui un fenomeno linguistico può rappresentarsi sotto forme diverse. La scrittura (o grafia)
dunque non è solo secondaria ma anche mutevole.
Quello che poi nella filologia e linguistica romanza a che fare con il mutamento linguistico è il
PARADIGMA STORICO-COMPARATIVO: cioè osserviamo i fatti linguistici in una
prospettiva storica e comparativa. Bisogna avere per cui sia una prospettiva diacronica sia
comparativa, perché i fenomeni linguistici della Romània sono tra di loro interconnessi, studiati
contrastivamente. Abbiamo già visto che una lingua a seconda dell’area geografica può avere degli
esiti diversi nel corso del tempo e quindi mettere affianco le diverse forme (italiano, francese ecc)
vuol dire fare una comparazione. Non è però l’unico atteggiamento, poiché si può estendere lo
sguardo anche a fenomeni letterari.
In questa impostazione del paradigma è importante cercare di connettere mutamenti di paradigma di
tipo linguistico a quelli di tipo filologico. Quali sono i grandi momenti? C’è la concezione a-
storica: cioè esistono due lingue, una della storia che muta nel tempo, percepito anche in modo
negativo e poi una lingua a-storica, cioè fuori dal tempo, che era la grammatica, il latino (definita da
Dante come lingua artificiale). Nel pensiero medioevale confluiscono il pensiero classico e il mito
biblico della torre di Babele. Successivamente nell’Umanesimo ci si libera di questo modo di
pensare, e si dà uno sguardo sul mutamento della riflessione linguistica. Si apre un dibattito sul fatto
che ci si ritrovi in una situazione di bilinguismo (che è già nei fatti nel Medioevo) che opponeva
volgare/latino. Per cui la riflessione della lingua si fa ancora più profonda e di fronte a questo
bilinguismo ci si chiede Questa situazione è sempre stata così? Che lingua si parlava nell’antica
Roma? Gli umanisti ragionano e si dividono in due visioni: una che è in continuità con il modello
a-storico e si pensava che nell’Antica Roma si parlasse un volgare e che i dotti parlassero latino
(società bilingue). Questo è legato ad un famoso dibattito tra due umanisti Leonardo Bruni e
Flavio Biondo, che si confrontarono su questo tema. Flavio Biondo affermava che i dotti e letterati
nell’antica Roma condividevano la medesima lingua latina ma la impiegavano su registri diversi.
Egli afferma quindi che parlavano tutti la stessa lingua ma a seconda della padronanza, quel che
cambia è lo stile. Un’altra cosa che nota è che il mutamento è un fattore negativo, la trasformazione
linguistica è intesa come decadenza a causa delle invasioni barbariche e il conseguente
inquinamento del latino. Mentre L. Bruni metteva in opposizione dotti e letterati e quindi latino vs.
volgare.
3.Sempre rimanendo nella prospettiva storico-comparativa ci soffermiamo adesso sulla lingua nella
storia. COSA ACCADE TRA SETTECENTO E OTTOCENTO? Ovvero tra Romanticismo e
Idealismo? * Innanzitutto c’è una nuova concezione linguistica, soprattutto la trasformazione
linguistica che finalmente passa dall’essere considerato un fattore negativo a un fattore come un
altro, connaturato nella lingua stessa. Si supera dunque il concetto di decadenza, perché si coglie in
questo mutamento un fatto sostanziale della lingua. Questo mutamento va quindi visto come
elemento di trasformazione che ci permette di cogliere la storia di una lingua. Cos’altro favorisce
questa trasformazione? La scoperta o riscoperta del sanscrito (lingua della letteratura classica
dell’India fortemente formalizzata e standardizzata) e i suoi rapporti con la lingua greca, latina e
quelle indoeuropee moderne. Un altro punto che favorisce il mutamento del paradigma è l’utilizzo
di tecniche fondate su un metodo scientifico dell’analisi linguistica, cioè per la prima volta si pensa
che l’analisi linguistica possa ricorrere ad un metodo rigoroso e possa elevarsi a scienza. (appunti)
(Beltrami) * La linguistica dell’800 nasce da tre fattori concomitanti. Il primo è la nuova
concezione della lingua che dipende dalle idee filosofiche e dai movimenti culturali; il secondo è la
scoperta del sanscrito e delle sue affinità con il greco, latino e lingue europee moderne; il terzo è la
creazione di un metodo rigoroso per comparare le lingue una con l’altra, abbandonando vecchie
ipotesi. Un punto centrale è che viene superata l’idea classica e tradizionale che le lingue tendano
ad uno stato di “perfezione” con norme prescrittive, grammatiche e lessici e che l’evoluzione
successiva sia un processo di corruzione e decadenza. Nel nuovo pensiero linguistico la lingua è
espressione dello spirito dei popoli e le sue trasformazioni sono momenti della sua vita nella storia.
Conoscere una lingua significa dunque conoscere la storia, e l’essere nella storia è quindi una
proprietà intrinseca della lingua: storia intesa come il divenire, nel tempo, dello spirito umano.
C’è un punto di partenza con una data quella del 1786: quella di una conferenza tenuta da un
funzionario britannico, William Jones a Calcutta, in cui mette in evidenza i rapporti che ci sono
tra il sanscrito e le lingue europee. CHE COS’E’ IL SANSCRITO? E’ una lingua scritta dei testi
sacri che presentava delle analogie con le lingue europee. Succede che quest’ultime che erano state
notate in precedenza, per esempio la testimonianza di un mercante fiorentino Filippo Sassetti che
già sul finire del 500 aveva messo in evidenza alcune analogie tra le due lingue in una lettera del
1586: egli dice che il sanscrito è un’antica lingua letteraria, non più parlata, ma studiata come in
Europa il greco e il latino, e osserva che in esso si ritrovano simili “molti de’ nostri nomi” citando
Dio, serpente, i numerali 6, 7, 8 e 9.
Questo per dire che la conferenza di Jones è il punto terminale di un percorso in cui erano già
cominciate ad essere avvertite queste analogie ma non c’era ancora un terreno. Qual è il risultato di
questa conferenza? In essa parla delle affinità degli indiani con un vasto insieme di popoli nella
lingua, nella religione e nell’arte e architettura. Rimane il fatto che si fa strada la convinzione che ci
sia una matrice comune tra le due lingue, che esista cioè una lingua madre, che può essere definita
col termine di INDOEUROPEA o INDOGERMANICO. Sono lingue indoeuropee il sancrito, le
lingue iraniche (persiano e indiano), l’armeno, il greco, latino e antiche lingue italiche, lingue
celtiche, germaniche, ecc…
Altra data importante è quella del 1816 quando un tedesco F. Bopp pubblicò uno studio linguistico
in cui si faceva per la prima volta un’analisi comparativa che poneva in dialogo l’indoeuropeo con
greco, latino, persiano e germanico. Si cominciano a creare quindi delle grammatiche dalle quali è
possibile osservare un panorama più ampio delle discipline linguistiche e tendono ad avere questo
approccio storico-comparatistico per mezzo di strumenti scientifici.
QUALI SONO STATI I MODI IN CUI SI E’ TENTATO DI STABILIRE I RAPPORTI CON LE
LINGUE? CON QUALI CRITERI LO SI FA? Secondo tre criteri: tipologico, genealogico e i
neogrammatici.
1. Il primo criterio è quello tipologico, cioè sulla base di quale osservazioni posso fare le mie
considerazioni. Elaborato da Schlegel, nel 1808, il quale fonda la tipologia linguistica, cioè
la ricerca di classi di analogie e differenze tra le lingue che permettono di classificare in “tipi
distinti”. L’analisi tipologica è stata intesa nell’Ottocento come una via per studiare come
una o più lingue discendano da un’altra mentre la tipologia moderna prescinde dalla
genealogia, ed è orientata alla ricerca delle proprietà comuni a tutte le lingue del mondo.
Schlegel notò che tutte le lingue potevano essere osservate in base al loro funzionamento, da
due tipi morfologici: isolante, flessivo e tra i due ce n’è uno intermedio che è quello delle
lingue agglutinanti. L’isolante prevede che si accostino tra loro degli elementi che
rimangono autonomi: ad ogni morfema corrisponde una parola e viceversa (per esempio il
cinese). Nel flessivo, come l’italiano, le funzioni grammaticali si esprimono con alterazione
della radice e con suffissi. Ci sono poi i tipi agglutinanti, in cui ogni parola è formata da una
radice invariabile cui si uniscono affissi invariabili e portatori di un solo valore
grammaticale. Per cui le lingue possono essere messe in relazione a seconda del tipo che
rappresentano.
Il sanscrito, secondo Schlegel, dà l’esempio di una lingua perfettamente flessiva, e così sono
flessive anche se in misura minore, le lingue indoeuropee, che perciò sono discendenti da
una matrice comune, che è il sanscrito stesso. Si può dunque anticipare che nella linguistica
romanza si osserva la tendenza del latino a passare da forme “sintetiche” (flessive) a forme
“analitiche”, rispecchiate nelle lingue romanze.
2. Il secondo criterio genealogico, elaborato da Schleicher e situato in piena età darwinistica, in
cui si tenta di applicare il metodo evoluzionistico non solo all’osservazione della vita ma
anche in quella della lingue, per capire il motivo di parentela delle lingue, se sono sorelle o
se l’una è la madre delle altre. Per cui viene messo in atto il concetto di famiglia e
genealogia delle lingue*. (lo stemma codicum per esempio). Il linguista va oltre Darwin per
elaborare un albero linguistico delle lingue indoeuropee ed è esplicito il richiamo alle teorie
dell’evoluzionismo.
La realtà della lingua è nel divenire non perché essa viva nella storia ma perché è della
stessa natura delle specie viventi. Quindi in questa prospettiva la linguistica del mutamento
non si può dire storica ma si affermano i concetti di genealogia e parentela linguistica, affini
a quelli che valgono per la specie, e di famiglia linguistica.*
3. Abbiamo visto anche che le lingue mutano e che di questo mutamento bisogna ritrovare i
principi regolativi e mutabili, cioè vedere come esso funziona. Si cercava di inquadrare in
certe categorie anche la trasformazione. Questo è stato il compito dei linguisti chiamati
“neogrammatici”, che sono attivi verso la fine dell’800 e che dicono che il cambiamento
segue delle regole, fisse, che sostanzialmente sono due: la prima è il principio di legge
fonetica, cioè se c’è un mutamento fonetico, esso si riproduce sempre uguale,
meccanicamente. Dall’osservazione delle leggi fonetiche si può dedurre una cronologia
relativa delle trasformazioni linguistiche; la seconda regola fa ricorso ad un’altra categoria
che è quella di analogia, cioè per la tendenza ad applicare trasformazioni simili a forme che
si sentono collegate fra loro.
Se dunque da un lato c’è una regola fissa dall’altro non si poteva far a meno che questa
regola non era rispettata.
Agganciandosi a quello si è detto, e vedere un’ulteriore trasformazione che si connette leggermente
alla precedente e legata ad una visione alternativa rispetto a quella dei neogrammatici, elaborata da
Schuchardt (che abbiamo visto alla prima lezione). Questo linguista risale l’invenzione della
formula del “latino volgare” con la pubblicazione dell’opera “il sistema vocalico del latino
volgare”. Nell’impostazione storico-comparativa, i tratti di questo latino vengono individuati
mediante la ricostruzione. Schuchardt esamina e classifica una vastissima documentazione latina,
iscrizioni, documenti e testi studiandone le grafie per valutare in che modo rappresentino la
pronuncia. Il problema è che il materiale così raccolto è molto confuso perché contiene tutte le
variazioni che sono apparse e scomparse e quindi capiamo che nell’evoluzione del mutamento
linguistico bisogna considerare anche il punto d’arrivo (ricostruzione). Il lato positivo è che emerge
tutta la complessità che la ricostruzione finisce per nascondere.
Il suo merito è quello di aver elaborato una teoria, chiamata “teoria delle onde”: cioè la sua
osservazione è che le diverse varietà linguistiche non sono isolate, ma trapassano una nell’altra e si
influenzano a vicenda; dunque non è sufficiente considerare il mutamento linguistico solo in
verticale, lungo l’asse del tempo ma anche considerare i rapporti orizzontali. L’immagine è quella
di uno specchio d’acqua sul quale si formano delle onde, che partono ognuna da un centro e si
allargano a cerchio incrociandosi fra loro. Un esempio può essere dato un’innovazione del latino
volgare: come la i del latino è diventata e, così anche la u è diventata o nel latino che è la base della
maggior parte delle lingue romanze come Musca port.> mosca spa. Ecc ecc.. (pag. 48 Beltrami).
Le lingue non sono sistemi chiusi, ma in rapporto tra loro e soprattutto le innovazioni si propagano
per centri di irradiazione. Teoria delle onde, perché come un sasso lanciato nelle onde concentriche
che man mano si allargano così potremmo immaginare il mutamento linguistico che si genera in
un’area. L’opposizione che si fa con i neogrammatici investe l’idea che queste leggi siano
invariabili e va superata l’idea della loro ineccepibilità, sostenuta dai neogrammatici. L’idea che i
mutamenti linguistici nascano come innovazioni circoscritte e si propagano nello spazio va infatti
contro la concezione della lingua come organismo naturale.
Anche Schuchardt si era fatto corrompere dal fascino dell’albero genealogico. Anch’egli aveva
elaborato un albero delle lingue neolatine. L’idea del linguista era che dal latino sia nato
direttamente l’italiano centrale e che poi tutte le varietà romanze siano sorte in diversi momenti
storici, quando la linguistica entrava in contatto con le aree geografiche analizzate. Il fatto che nella
Romània si parlino lingue diverse dipende dal fatto che il latino era di volta in volta diverso. Per cui
S. si è anche lui interessato alla frammentazione della latinità.
GEOGRAFIA LINGUISTICA: nasce per impulso della relativizzazione del modello dei
neogrammatici. Essa ci porta a elaborare dei principi quando si cerca di applicare il metodo storico-
comparativo, ovvero criteri per determinare quale sia la forma più antica che compaiono nelle
lingue romanze a fronte di una forma latina. (Bartoli) QUALI SONO?
- Il criterio delle aree isolate: tra due forme quella più antica, cioè più vicina a quella
originale è generalmente quella che si conserva nell’area più isolata, cioè meno esposta alle
comunicazioni.
- Aree laterali: tra due forme quella più antica è quella conservata nelle aree laterali e non
centrali (per esempio “égua” port. Vs “cavalla” tosc.: portoghese più conservativo del
toscano)
- Area maggiore: tra due forme quella più antica è quella diffusa su un’area maggiore, più
vasta.
Un altro elemento che ci aiuta a cogliere una cronologia nel mutamento linguistico è quello delle
norme areali. Ci possono essere delle innovazioni linguistiche riconducibili ad un tipo di
irradiazione: monogenetiche, poligenetiche (ci possono essere trasformazioni che sono da
ricondurre ad un’unica matrice ed altre a diverse aree. La prima, cioè da un origine comune) e
ondata di innovazione, cioè le innovazioni si susseguono nel tempo (dalla forma più antica magis
altu a plus hault, mas alto…).
Il pensiero linguistico si è evoluto e quello che ci può essere utile è la SOCIOLINGUISTICA ed
alcune categorie che ci aiutano a cogliere dei fenomeni linguistici prima che la sociolinguistica li
mettesse a fuoco. Prende avvio nel secondo Novecento, la sociolinguistica osserva la lingua come
fenomeno sociale e in quest’ottica si prende il contatto tra le lingue diverse, le cosiddette
“interferenze” (fondate dallo studio di WEINREICH). Nelle situazioni di contatto linguistici,
quando due o più lingue sono parlate dagli stessi individui, si hanno non solo prestiti di parole ma
anche influssi sulla fonologia, morfologia e sintassi. Dalla sociolinguistica vengono categorie utili
per osservare la variazione linguistica: diatopica (per la quale una lingua varia da un luogo ad un
altro), diacronica, diafasica (a seconda della situazione comunicativa), diamesica, diastratica (a
seconda dello strato sociale che la usa). Un’altra categoria è quella di diglossia, da non confondere
con bilinguismo. Quest’ultima è quando ci sono due lingue percepite come diverse tra loro mentre
per diglossia è quando questa distinzione non c’è e avviene nei fatti ed è uno scollamento tra lo
standard e la forma usata. Due lingue parlate nella stessa comunità non sono sullo stesso piano: una
è la varietà alta, usata cioè in situazioni formali, scuola ecc e l’altra è la varietà bassa, usata nei
rapporti privati (concetto che si ricollega alla distinzione tra lingua e dialetto).
LINGUISTICA GENERALE: (vedi Beltrami da pag. 63)
Come per la linguistica storico-comparativa, della linguistica moderna si presentano momenti e
temi. È importante da ricordare la data del 1916 perché è l’anno in cui viene pubblicato il Corso di
linguistica generale di Saussure, perché è un altro cambio di paradigma. Questo cambio di
paradigma va visto come uno spostamento verso la direzione della sincronicità, cioè pensandola
come un modello, sistema che va studiato in un dato momento.
La novità rivoluzionaria di Saussure è che per studiare la lingua non significa più studiarne il
mutamento in diacronia (nelle dimensioni del tempo) ma al contrario, l’oggetto della linguistica è la
lingua in quanto essa funziona in una società in sincronia (contemporaneità). Per sincronia s’intende
un periodo nel quale i cambiamenti sono irrilevanti e soprattutto non sono avvertiti dai parlanti.
Oggetto primario della linguistica è per Saussure è il sistema comune a tutti i parlanti, al quale dà il
nome di langue, che è presupposto dagli atti linguistici concreti, che dà il nome di parole. La
nozione di sistema, poi detta struttura, nel pensiero di S. implica che ogni elemento della langue ha
un senso in quanto è in rapporto con tutti gli altri; il suo valore consiste nel fatto di non essere
nessuno degli altri e di entrare con gli altri indeterminate relazioni.
A partire dal Corso di linguistica generale, la linguistica del 900 è caratterizzata dall’idea della
lingua come sistema, o struttura, che si esplica in sincronia, e in essa deve essere oggetto di studio
scientifico. Si parla dunque di mutamenti linguistici. Tuttavia, i cambiamenti avvengono negli atti
linguistici individuali: molti cadono subito, altri invece entrano a far parte del sistema ma in una
fase successiva (in un’altra lingua) anch’essa da studiare in sincronia.
I PRIMI PASSI DELLA FILOLOGIA ROMANZA (Raynouard, Diez e Meyer-Lubke)
Raynouard: poeta, letterato e autore di teatro. È un appassionato precursore della rinascita della
cultura meridionale. Egli afferma che sia esistita una lingua intermedia fra il latino e le lingue
romanze attuali e che essa coincida in sostanza con la lingua dei trovatori provenzali; si tratterebbe
della stessa che è nominata come lingua romana. Del poeta va ricordata sicuramente l’opera le
“scelte di poesie originali dei trovatori”, considerato un vero punto di partenza degli studi romanzi
moderni.
Friedrich Diez: fondatore della filologia romanza, che come R. si interessa ai trovatori. Con la sua
opera “Grammatica delle lingue romanze”, Diez pone le basi della linguistica romanza, mettendo a
frutto originalmente il modello della “grammatica germanica” di Grimm (la 1 grammatica di
metodo storico-comparativo). A quest’opera si aggiungerà poi il “dizionario etimologico delle
lingue romanze”.
Meyer-Lubke:
LEZIONE 7-8
 Lingua letteraria e latino sommerso
Appunti
Applicazione del metodo comparativo: In linguistica, il metodo comparativo è un modo
standardizzato per confrontare lingue diverse al fine di determinare la loro relazione tra loro. Il
metodo comparativo si basa sul principio del cambiamento regolare del suono, che sostiene che
qualsiasi cambiamento nei suoni di una lingua che si verifica nel tempo si verifica in modo regolare,
senza eccezioni. Le lingue vengono analizzate utilizzando il metodo comparativo per determinare se
condividono una lingua madre comune, un’unica lingua dalla quale evolvono molte altre. Il metodo
comparativo può anche suggerire quali rami di una famiglia linguistica si siano sviluppati prima o
dopo nel tempo.
Partiamo da un’osservazione di tipo lessicale e fonologico e mettendo a fronte diverse lingue come
l’italiano, lo spagnolo e il francese e isolando i vari casi. Le tre lingue hanno un punto di partenza
comune: [ka] [ko] [ku]. Una successiva fase di evoluzione fonologica ha interessato solo il francese
[ka] > [ ʃa ]. Però ci si chiede perché è probabile che [ka] fosse il punto di partenza? Per esempio
considerando il Principio di maggioranza (che però presenta dei problemi: es. «coppa» vs «copa»,
«coupe»); un’altra possibilità è quella del principio delle aree laterali e in più c’è anche un altro
modo per mettere insieme le lingue, ovvero secondo un criterio tipologico (in cui il passaggio [k] >
[tʃ] > [ʃ] è quello più frequente nelle lingue del mondo: non si può dire lo stesso dell’inverso).
Un altro aspetto da individuare sono i diversi passaggi dalla (ca) alla (ch) nelle diverse lingue, per
poi ritornare nuovamente (ca) e notiamo che la palatizzazione (L'alterazione della pronuncia di una
consonante per opera di un'appendice collegata con il palato) della vocale avviene solo in francese,
soltanto nel momento in cui la a è aperta. Qual è il cambiamento che è arrivato prima? Nella forma
“char” si assiste ad una degeminazione (scempiamento, che è un processo fonologico che vede una
consonante passare da geminata a scempia) mentre nella forma «cher» si assiste ad apocope,
Caduta della vocale finale di una parola ed eventualmente anche della consonante che la precede.
Dati questi mutamenti si parte da delle ipotesi: la prima data dalla palatizzazione e dopo dalla
degeminazione (si perde la doppia) e infine cade la vocale con l’apocope; la seconda ipotesi è che si
ha prima una degeminazione e poi una palatizzazione. Si tratta di un esito identico di due parole di
esiti diversi, per cui stabiliamo che esista un ordine, e una cronologia relativa.
Perché è utile uno sguardo storico-comparativo? Sappiamo che le lingue romanze discendono
dal latino, lingua «madre» della famiglia delle lingue romanze, ci è noto per via diretta. Osserviamo
alcune situazioni: Lat. LOQUI vs fr. parler, it. parlare; sp. hablar; port. Falar; Nel latino non esiste
l’articolo, categoria grammaticale presenti invece in tutte le lingue romanze. Dunque notiamo che
numerose parole latine sono cadute dall’uso parlato e non si sono conservate nelle lingue romanze.
Per esempio, infatti, LOQUI “parlare” è stato sostituito da FABULARE o da un derivato di questo
FABELLARE, da cui l’italiano Favellare o dagli esiti di PARABOLARE. Dunque notiamo che Le
lingue neolatine non derivano dal latino classico, ma da una lingua «intermedia», una «zona
grigia» fra latino classico e lingue romanze, scarsamente documentata [insincerità delle
testimonianze scritte], le cui caratteristiche sono ricostruibili attraverso l’applicazione del
metodo comparativo. Il metodo storico-comparativo ha però i suoi limiti perché è difficile risalire
dalla forma analitica a quella sintetica.
 Latino volgare, latino tardo, protoromanzo, latino sommerso
Temi e problemi dal latino alle lingue romanze: 1.Tempi e modi della latinizzazione; 2.Il mosaico
delle lingue «non latine» — sostrato e adstrato; 3.La variazione diacronica, diatopica e diastratica;
4.Le forme della lingua.
1. Tempi e modi della latinizzazione: Il latino è stata ricevuta e adattata secondo alcuni
fattori:
per esempio quello Politico/Amministrativi — l’amministrazione romana era omogenea e
si serviva di funzionari che venivano dal «centro» dell’Impero; Economici — il «mercato»
favorì la circolazione di beni e persone; a creare una rete articolata di comunicazione
contribuì in modo decisivo il sistema della rete stradale; Militari — la lingua dell’esercito
era il latino / oltre all’influenza esercitata direttamente sul territorio dall’esercito, va
considerato anche il peso dei legionari congedati nelle colonie come fattore di
latinizzazione; Processi sociali — la possibilità di integrazione e ascesa sociale favorì
l’adozione da parte dei popoli assoggettati della lingua latina; Culturali — il prestigio della
cultura latina era spesso incomparabile con quello delle culture indigene.
Il fattore cronologico e il passaggio dal latino alle lingue romanze: La latinizzazione è un
processo secolare, cambia nel corso dei secoli e che continua anche con la fondazione dell’Impero
arrivando fino a Giustiniano nel VI secolo. Si deve tener conto, dunque, la cronologia
dell’espansione di Roma: VIII sec. a.C. — Fondazione di Roma753; II sec. d.C. — Massima
espansione (Traiano conquista la Dacia nel 107) — Diocleziano (285) e Teodosio (395) — Caduta e
posterità della Pars Occidentis; 476 — Deposizione di Romolo Augustolo; 534 — Giustiniano:
Corpus iuris civilis. (appunti)
(Varvaro) Il successo del latino è conseguenza diretta del lento affermarsi del predominio politico di
Roma. Grazie alla sua solidità Roma riuscì a imporre il suo imperium sulla penisola e poi ben oltre.
Ma il trionfo del latino in Occidente non è il risultato di una politica linguistica ma furono il
prestigio della città e la superiorità della cultura che da essa il latino si diffondeva tra le genti. La
latinizzazione linguistica trovò però un limite solo nella parte orientale, dove rimase predominante
la lingua greca, che godeva in partenza di un prestigio culturale ben più alto di quello latino. Nel
corso poi dei secoli centrali del medioevo questa grande area vide la formazione di un gran numero
di varietà parlate, dette neolatine o romanze in quanto erano appunto evoluzioni del latino, che
continuava a essere usato come lingua di cultura e scritta. Queste varietà romanze finirono per dare
luogo poi alle odierne lingue romanze di cultura, come il portoghese, spagnolo, italiano… Dunque
COME SPIEGARE QUESTO FENOMENO DI STORIA LINGUISTICA E NON? È molto diffusa
l’idea che il processo vada distinto in due fasi successive: la latinizzazione dell’impero occidentale
sarebbe stata completata prima che avesse inizio la frammentazione romanza.
Ripresa del criterio genealogico di Schuchardt: nella corrispondenza tra la data conquista di
ciascuna provincia e il tipo di latino che vi veniva parlato. Il linguista ritenne opportuno disegnare
uno schema genealogico delle lingue romanze sul modello di quello di Schleicher per
l’indoeuropeo, ma a differenza di quest’ultimo Schuchardt disegna un albero che ha una linea
evolutiva principale, la quale conduce dal latino all’italiano centrale; da tale linea si staccano in
momenti differenti le linee che portano alle diverse varietà romanze. L’ordine di successione
corrisponde alla successione cronologica della conquista delle rispettive province: italiano
meridionale, settentrionale… l’idea è poi ripresa da un altro linguista Grober, il quale affermava
che “La separazione delle lingue romanze sarebbe dunque molto antica. Essa ebbe inizio al tempo
della romanizzazione della prima provincia fuori d’Italia e si realizzò di nuovo ogni volta che si
conquistava l’area di una lingua romanza; la lingua di colui che ogni volta era in essa il primo
colono romano costituì il punto di partenza di ciascuna lingua romanza: essa dovette difendersi
dalla lingua dei successivi immigrati, riuscì ad assimilarla a sé e senza il loro influsso fonetico si
sviluppò nella lingua romanza”. L’ipotesi dei due studiosi ha però dei problemi di fondo poiché:
La romanizzazione linguistica dei territori annessi è un processo che non può essere avvenuto in un
arco cronologico troppo breve, al contrario è un processo estremamente lungo e complesso; I
rapporti delle province tra loro e con il centro rendono impossibile pensare alle aree linguistiche dei
territori conquistati come sistema chiusi; Le innovazioni linguistiche provenienti dal centro
dell’Impero potevano influire sulle province; Esiste una differenza tra latino degli immigrati e latino
dei provinciali originariamente alloglotti.
2. Il mosaico delle lingue «non latine» - Sostrato e adstrato
Per esempio le lingue non-latine hanno costituito il sostrato, MA CHE COS’E’? Si dicono lingue di
sostrato, o semplicemente sostrati, le lingua alle quali il latino si è sostituito. In ogni area dove è
arrivato il dominio romano, infatti, fra il latino e la lingua del luogo è avvenuto dapprima un
rapporto di bilinguismo, poi di diglossia; infine la lingua del luogo è stata abbandonata, con qualche
eccezione (il basco). Questo processo non può essere stato immediato, è anzi probabile che il
passaggio al latino delle popolazioni indigene delle campagne sia stato lento. A partire dall’opera di
Ascoli è stata formulata l’idea di spiegare con l’influsso dei sostrati vari mutamenti, soprattutto
fonetici, propri delle lingue romanze rispetto al latino. L’influsso sostrato del lessico è certo, cioè il
fatto che dalle lingue di sostrato sono passate in latino numerose parole che si sono continuate nelle
lingue romanze.
Sostrato o adstrato? L’«adstrato» indica il contatto fra due lingue parlate in zone confinanti, senza
che l’una abbia una «posizione» di superiorità rispetto all’altra. In alcuni casi non è facile
determinare se le interferenze linguistiche si siano verificate in un momento in cui il latino e la
lingua limitrofa avevano pari prestigio nella prospettiva dei parlanti. In quest’ultimo caso si
parlerebbe, più che di «relitti», di «prestiti».
Esempi di lingue di sostrato: Le lingue che hanno interagito con il latino intorno alla Roma più
antica fin dalle origini sono l’etrusco, il greco e le lingue italiche. 1. (Lingue italiche) L’etrusco è
una lingua non indoeuropea, parlato nell’attuale Toscana e nel Lazio settentrionale. Parole di
derivazione etrusca sono ad es. HISTRIO («istrione») e PERSONA (originariamente «maschera»);
POPULUS («popolo») e TABERNA («taverna»). Alcuni studiosi hanno sostenuto che all’etrusco
vadano ricondotti fenomeni della pronuncia osservabili in Toscana (la ‘gorgia’, cioè l’aspirazione
delle occlusive intervocaliche); tale ipotesi non è unanimemente accolta; 2. Appartengono al gruppo
italico l’osco, parlato in Sannio e Campania, Lucania e Bruzio [odierna Calabria]. Aveva in comune
con il latino una serie di parole in cui alla -B- latina corrispondeva una -F-. Sono forme di
derivazione osca ad. es. INFIMUS e SCROFA; poi c’è il contatto con il greco: Il greco era parlato
nelle colonie della Magna Grecia e il suo contatto con il latino risale fin alle origini. Di derivazione
greca sono parole relative ad àmibiti centrali della vita di tutti i giorni come (OLIVA, OLEUM,
GARUM [«salsa di pesce»]), termini come GUBERARE («governare la nave») o SPATHA
(«spada»). La cultura romana fin dall’inizio del II sec. a.C. si svolge in stretto rapporto con quella
greca: il lessico intellettuale latino si modella sul greco; e il contatto con le lingue celtiche: Al
sostrato celtico (in particolare alla pronuncia del gallico) alcuni hanno pensato di ricondurre
fenomeni tipici delle lingue galloromanze.
3. La variazione (Diacronica, diatopica e diastratica)
(Varvaro) È del tutto ovvio che il latino, parlato per un così lungo periodo, su uno spazio tanto
ampio da individui che in massima parte lo avevano appreso come Lingua2 non mancava di livelli
sub-standard, che variavano nello spazio, nel tempo e nella classe sociale.
Lo studio di questi fenomeni sub-standard è estremamente difficile, in quanto essi devono essere
stati prodotti soprattutto nell’oralità, mentre noi possediamo soltanto testi scritti. Varvaro afferma
che vorremmo sapere non solo se sia esistita una variazione del latino standard e sub-standard e in
che cosa consistesse ma anche se tale variazione corrispondesse all’articolazione geografica delle
lingue romanze. E afferma che è possibile rispondere positivamente alla prima ma non alla seconda:
i fenomeni sub-standard si dispongono secondo una diatopia che diventa sempre più evidente verso
la fine dell’impero ma le aree in cui sono diffusi non hanno a che vedere con l’articolazione
dell’area romanza. Dunque Varvaro afferma, secondo sua ipotesi, che nel tardo Impero sia esistito
un livello linguistico ancora inferiore al latino sub-standard (latino sommerso), cioè un insieme di
usi sentiti di parlanti come bassissimi, e che si basa sull’osservazione che esistono certi tratti
comuni a tutte le varietà romanze.
4. Le forme della lingua (L’immagine stabile: il latino letterario)
(appunti+Beltrami)
Del latino abbiamo un’immagine stabile, proiettata da un solido, ovvero il latino letterario, la
grammatica. La norma «classica» della lingua letteraria, che prendeva ad es. autori come Cicerone o
Virgilio a modello per la prosa e la poesia, potrebbe essere considerata stabile nel tempo a partire
dal II-I sec. a.C. — Il latino letterario è una lingua di culture formalizzata e severamente regolata,
che tende a mascherare la provenienza geografica degli scriventi. E inoltre il latino letterario è la
forma più affinata di lingua scritta, ma anche quella che offre minori indizi per costituire l’idea di
lingua.
Il latino di cui possediamo documentazione diretta è esclusivamente quello scritto, in prevalenza
letterario. Il latino di cui le lingue romanze sono continuazione è invece quello parlato. Del parlato
esiste solo documentazione indiretta ma le forme del parlato di possono ricostruire mediante la
comparazione tra forme correlate nelle lingua romanze. Il latino letterario è una lingua unitaria,
quali siano le provenienze degli autori dalle diverse parti del mondo romano. Talvolta gli antichi
osservavano che di uno scrittore si sente la sua origine. VARIAZIONE DIATOPICA (riflessione
metalinguistica) Per esempio Quintiliano afferma che nella lingua di Tito Livio era percepibile una
traccia di «patavinitas» (ovvero “qualcosa di padovano”); S. Girolamo in un testo del 386 d.C.
afferma che «Il latino muta ogni giorno nello spazio e con il tempo»; S. Agostino, sempre nel 386
d.C., rivolgendosi alla madre, riferisce che «gli italiani lo scherniscono per il suo modo di
pronunciare molte parole»; Lo storico Sulpicio Severo avrebbe affermato: ‘Temo che una parlata
rozza possa offendere le vostre orecchie troppo raffinate’. Oltre alla variante diatopica bisogna
considerare anche quella dell’asse verticale dei registri stilistici (diastratica): Il latino letterario è
solo una delle manifestazioni di una lingua multiforme. È necessario considerare la compresenza di
livelli di lingua connessi al grado di cultura del parlante e al registro (più o meno formale) adottato.
«Al di sotto» del latino letterario agisce una lingua d’uso più aperta alla trasformazione,
scarsamente formalizzata: una varietà che potrebbe essere definita sub-standard. Questa lingua
d’uso non è parlata solo dagli strati sociali bassi, ma attraversa l’intera società (≈ latino «volgare»).
Lo studio di questa varietà (prevalentemente orale) è complesso per via della qualità, della quantità,
della distribuzione delle fonti (per forza di cose scritte) che la trasmettono → ogni fenomeno del
parlato, una volta scritto, perde spontaneità.
Si parla anche di latino non letterario (volgare): al contrario del latino dell’uso colto, pubblico e
letterario, che era per tutti quello di Roma e che ha contribuito alla centralizzazione del potere,
sistema di comunicazioni, ecc… si parla, dall’altra parte di un latino censurati negli usi formali e
nella scrittura perché variamente scorretto rispetto alla norma (detto latino sommerso o in termini
moderni un latino “sub-standard rispetto allo standard della norma colta e letteraria)*. E dà il
nome di latino volgare, al latino diverso dalla norma colta.
Opere letterarie come fonte per la conoscenza del latino non letterario: Testi con ambizione
mimetica rispetto al parlato (commedie di Plauto e Terenzio; il Satyricon di Petronio); Opere
consapevolmente meno elevate sul piano stilistico (Epistole di Cicerone, nelle quali si usa un sermo
familiaris o plebeius); Testi tardi, elaborati nell’ambito della cultura cristiana e liberi da
consuetudini letterarie, come la Peregrinatio Aetheriae noto anche come Itinerarium Egeriae (fine
IV sec.).
Altre fonti per la conoscenza del latino volgare (non letterario): i testi in latino parlato in senso
proprio non esistono e nemmeno le scritture dei meno colti. Si parla dunque di testi che
documentano forme e stili del latino che differiscono in vario grado dalla lingua letteraria
“classica”. Esempi di lingua pratica non letterarie sono le Lettere e comunicazioni della
quotidianità scritte su papiri, cocci o tavolette. Poi ancora le Iscrizioni e scritture esposte (che
hanno il vantaggio di essere localizzabili e molto spesso databili — importanti sono, ad es. le
iscrizioni e i graffiti di Pompei). Altro esempio sono le opere tecniche, perché il loro contenuto
utilizzano necessariamente parole ed espressioni che sono assenti dalla lingua letteraria: come il De
agricoltura di Catone il Vecchio; sono ricchi di termini ed espressioni settoriali. E infine grande
importanza per la conoscenza dell’evoluzione della lingua al di fuori e “al di sotto” della tradizione
letteraria sono le opere dei grammatici, nelle quali si segnalano, per condannarle, forme dell’uso
ritenute scorrette. Un testo che merita una menzione particolare è la cosiddetta Appendix Probi.
 Quinta di una serie di «appendici» poste in coda a un trattato grammaticale (Instituta artium)
falsamente attribuito a Valerio Probo
 Il testo è conservato dal ms. lat. 1 della Biblioteca Nazionale di Napoli, e fu trascritto
verosimilmente a Bobbio alla fine del VII secolo.
 L’Appendix è probabilmente databile alla metà del V sec. d.C. e raccoglie materiale
preesistente.
 Contiene una serie di coppie di voci organizzate secondo il principio «[si dice/scrive] X e
non Y»; ad es.: «calida non calda»
 Attraverso l’analisi delle forme «innovative» è possibile ragionare su diversi fenomeni
evolutivi che hanno riscontro nelle lingue romanze
LATINO SOMMERSO *: messa a punto da Varvaro e si configura in un latino che è al di sotto
del sub-standard, ovvero un insieme di usi sentiti dai parlanti come bassissimi», usi censurati e
dunque non rappresentati nella documentazione scritta. Tale livello sembra dimostrato dal fatto
«che esiste un certo numero di tratti comuni a tutte (o quasi) le varietà romanze, tratti che sono
documentati fin dai più antichi documenti scritti e che non appaiono invece in nessuno (o quasi
nessuno) testo latino precedente. Dunque ad un certo punto comincia a manifestarsi nelle forme
scritte una forma del latino basso, assai censurato, che non si vede e che infatti prende il nome di
sommerso. Questo non è sovrapponibile a quello di «protoromanzo», perché è un “fantasma
linguistico” frutto della ricostruzione storico-comparativa e che ci riporta alla lingua artificiale.
Varvaro afferma che cominciano ad emergere elementi della lingua romanza con un processo che
accomunava tutte le lingue. Ma quali sono i fenomeni che vanno approfonditi da ricondurre al
livello «sommerso» della lingua?
 Mutamento dell’ordine dei costituenti della frase
 Il crollo (non totale) della declinazione e quello (non totale) del neutro
 Comparsa dell’articolo determinativo
 La formazione del nuovo passivo con sole forme perifrastiche “part. pass + essere”
 Formazione del futuro sintetico dalla perifrasi “infinito + habeo”
 La formazione di un nuovo passato perifrastico “habeo + part. pass.”
 La formazione del condizionale “inf. habebam / habui”
 Modifica della natura dell’accento e l’assestamento dei sistemi vocalici
 La dittongazione, sia spontanea che metafonetica
 Le palatalizzazioni
 Lenizione delle consonanti intervocaliche
LA FRAMMENTAZIONE DEL SISTEMA: Bisogna considerare adesso degli elementi di
trasformazione: 1.Perdita della funzione accentratrice del potere imperiale; 2. Diffusione del
Cristianesimo; 3.Invasioni germaniche; 4. Il «restringimento» del mondo.
1. Perdita della funzione accentratrice del potere imperiale: Il potere si è spostato altrove e
Roma non è più il centro della latinità e già nel IV sec si manifestano segni di fragilità. Dal
III sec. l’Impero è attraversato da crisi economiche e sociali sempre più gravi. Nel 330 ca.
Costantino sposta la capitale a Costantinopoli. Nel 395, alla morte di Teodosio, l’Impero è
diviso in due parti, d’Occidente e d’Oriente. Nel 476 viene deposto Romolo Augustolo, che
segna la caduta dell’impero romano, evento in linea con l’andamento politico ma cambia
che nessuno verrà chiamato imperatore.
2. La diffusione del Cristianesimo: un ruolo fondamentale di innovazione della lingua lo ha
avuto il cristianesimo. Con l’editto di Milano di Costantino nel 313 si rende lecita la
religione cristiana e l’imperatore assume anche il ruolo di guida della Chiesa, poi nel 380
con l’editto di Tessalonica emanata da Teodosio, il cristianesimo diventa la religione
ufficiale dell’impero. È importante negli autori cristiani l’orientamento nello stile della
lingua, la quale ricerca la semplicità, lo stile umile e basso (Sermo humilis): un concetto
degli autori cristiani sul quale insistono è che la lingua della cultura deve essere accessibile
agli ignoranti.
Inoltre la dottrina cristiana poteva comportare l’abbandono al suo destino della letteratura
antica pagana e più in generale, la cancellazione della cultura greco-romana, che era il
patrimonio degli ambienti non cristiani. L’idea che si dovesse fare tabula rasa del passato
ebbe sostenitori fra i Padri antichi della Chiesa: 1. S. Agostino: con la svalutazione del
“classicismo” e “inversione di prestigio” e S. Girolamo: e il rapporto ambivalente con la
cultura classica, poiché nel Cristianesimo c’è stato un lento lavoro di dialettica con i classici
e San Girolamo oscilla tra due polarità. Dunque la tradizione antica poteva e doveva essere
conservata al servizio della nuova cultura cristiana. Ciò ha fatto sì che una parte delle opere
latine antiche pagane restassero nel circuito degli scritti che si continuavano a studiare.
3. Invasioni germaniche: dalla fine del IV sec, l’Impero d’Occidente è travolto dalle invasioni
germaniche e di altri popoli. I contatti fra i romani e i popoli germanici avevano una lunga
storia: dal I sec. l’Impero romano confinava con gli germani ma numerosi furono, nei secoli
successivi, gli insediamenti di germani entro i confini dell’Impero. Le conquiste dei germani
portano ad una fase di bilinguismo romano-germanico. Diversamente da quanto era
avvenuto nel rapporto fra il latino e le lingue di sostrato, ora però, a prevalere non sono state
le lingue dei conquistatori, ma quella dei conquistati, cioè il latino. Dunque le lingue
germaniche si dicono lingue di superstrato, cioè che si sono sovrapposte al latino ma alla
fine sono state anch’esse abbandonate a suo favore.
4. Il restringimento del mondo: Fra il V e VI sec d. C. la forza del potere imperiale si riduce;
il mondo per così dire si restringe, perché più ristretto si fa l’orizzonte entro cui gli uomini si
muovono. E come afferma Varvaro Finché l’area di riferimento era rimasta l’Impero, il
modello linguistico di riferimento era stato quello, ideale, della corte imperiale, fosse essa
realmente a Roma o Milano o Treviri o altrove. C’era dunque una norma comune, sia pur
con tutte le variazioni regionali. Ma ora n un mondo più ristretto, il riferimento ideale e reale
è tutt’al più la sede del vescovo o quella, itinerante, del re; ma costui è sempre un non
romano, la cui lingua ha poco in comune con la norma imperiale antica, che era quella della
letteratura. Questa è stata la vera catastrofe […] perché ha rotto la strutturazione del sistema
complessivo, ha modificato o addirittura capovolto le relazioni di prestigio, ha ridotto la
norma precedente a norma letteraria lasciando libero il campo a norme parlate diverse da
zona a zona, del tutto indipendenti dalla norma antica.
COSA ACCADE DUNQUE DOPO LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO? Si abbassa un po'
tutto, per esempio il livello culturale dei ceti alfabetizzati; Peggioramento della qualità della lingua
scritta; Sono scorrette le scriptae latine usate in Francia durante il periodo merovingico, in Italia
durante la dominazione longobarda; Basso anche il latino scritto nella Spagna del nord dopo la
conquista araba del 711, detto leonese.
ULTIMA DEFINIZIONE DEL LATINO: Il «latino della parola»:
LEZIONE 9-10
 La presa di coscienza del volgare- Appunti linguistici
Nei secoli dal V all’VIII si compie la progressiva trasformazione delle diverse forme del latino
parlato nelle diverse lingue romanze. Lingua scritta rimane il latino che si insegna nelle scuole
ecclesiastiche, dato che le scuole cittadine laiche sono state ridotte drasticamente dalla crisi. Questo
latino subisce le interfacce del parlato. Nei sec. VI-VIII nella Francia dei Merovingi, il latino è in
profonda crisi: poiché arriva al limite dell’incomprensibilità per un lettore abituato al latino
tradizionale. In Italia, nella Spagna visigotica e nella Francia meridionale, il latino scritto era quello
più stabile, perché la cultura latina è rimasta meglio conservata. Dunque Il latino che più conserva
le forme originali è quello in quelle aree in cui esso non rappresenta la lingua parlata ed ha una
forma più rispettosa di quella originale. Da queste aree si formeranno delle formulazioni dinastiche
dove si mantiene una maggior aderenza alla cultura classica. Una forma più vicina al latino
‘classico’ si conserva nelle aree in cui questo s’insegna come una lingua del tutto straniera, come ad
es. nei monasteri dell’Irlanda e dell’Inghilterra del V-VI sec., i cui monaci avrebbero fondato
monasteri divenuti centri culturali di rilievo.
Il latino dunque continua ad esistere: è ancora la lingua della predicazione, cioè destinata ai
fedeli, per cui ha degli strumenti meno efficaci quando cerca di raggiungere il destinatario. In base
alle testimonianze, pare di poter affermare che prediche in forme semplificate di latino fossero
ancora comprensibili all’inizio del VII sec, ecco perché si parla di comprensibilità del latino, di
chi non lo studiava. Ma ci si chiede: A che lingua ci riferiamo? O meglio a che data i parlanti del
mondo romanizzato privi di qualsiasi tipo di studio fossero in grado di capire un discorso in latino,
purché semplificato. È importante affrontare attraverso testimonianze che cosa somigliasse questa
lingua, questo latino comprensibile, detto anche “semiromanzo” e ci è dato attraverso due
testimonianze significative:
1. Glosse di Reichenau
Innanzitutto la pratica glossatoria è da considerarsi parte dell’ampia opera di spiegazione e
commento del testo che si è sviluppata attorno alla Bibbia prima e poi si è allargata ai testi teologici
in ambito universitario. Le glosse che più interessano in questa sede sono spiegazioni o persino
traduzioni. Possono essere in relazione con un testo (in margine alla pagina o interlineari) oppure
riunite in raccolte di estensione variabile (da pochi lemmi fino a diverse migliaia. A noi interessa
guardare le glosse dal punto di vista lessicale. E inoltre non è sempre vero che le glosse si
avvicinino alla lingua parlata e ne siano testimonianza. Ma COME SI FORMANO? COME SI
PRESENTANO LE GLOSSE? Possono nascere in simbiosi sulla stessa pagina e possono essere
riunite contando oltre 5000 entrate ed hanno un’ampia casistica, come quella di R. Va chiarito un
aspetto: non è sempre vero che la glossa rappresenti un’opposizione ma spesso sono interne al
sistema latino (si glossa il latino con il latino), quindi il sistema delle glosse non è latino VS volgare
ma latino VS un latino più comprensibile. Questo va associato anche ad un altro aspetto che è
l’arricchimento del sistema latino che possiamo trarre dalle glosse.
Per quanto riguarda la glossa R. è chiamata così perché è contenuta in un manoscritto del X secolo
proveniente dall’Abbazia benedettina di Reichenau, ma non è stato lì prodotto, poiché Il ms. è una
copia di un modello forse di origine francese, compilato al più presto all’inizio del sec. IX. La
glossa di R. contiene 5000 lemmi, accompagnati dalle relative spiegazioni. Una prima lunga parte
consiste in glosse della Bibbia; una seconda in un glossario alfabetico. Ogni glossa affianca una
parola latina “difficile”, reperibili del testo della Vulgata che si ritiene bisognosa di spiegazione, di
una parola più comprensibile, spesso ancora latina. In una parte consistente dei lemmi del glossario
traspare un «fondo romanzo».
Osservazioni sui fenomeni della lingua a partire dalle Glosse di Reichenau: Un primo punto da
considerare è la crisi del sistema dei generi. In latino esistono tre generi (m., f. e n.); nell’evoluzione
verso le lingue romanze il neutro viene a cadere (esiti del n.s. vengono a coincidere con il maschile,
il n.p. va a convergere con i nomi femminili). COLAPHUM* è originariamente un neutro, passato
poi a maschile (colpus). Un altro punto è considerare alcuni esempi per la trattazione di fenomeni
linguistici più precisamente il sistema verbale romanzo che differisce da quello latino, per cui si
tengono in considerazione alcuni mutamenti come: il passaggio da forme sintetiche ad analitiche.
Per esempio dalla parola saniore a plus sanus. Si passa dalla forma sintetica “san-ior”, cioè i
componenti della parola non sono separati, poiché da soli non hanno senso; alla forma analitica (o
anche perifrastica), “plus sanus”, cioè si separano i due termini, in cui plus è staccato e può avere
vita autonoma (oppure da “guardate” a “ho guardato”). Questa tendenza investe il verbo latino e dà
origine a nuovi modi e tempi verbali o comporta la ristrutturazione delle forme esistenti:
 Indicativo passato prossimo: Il latino per esprimere un’azione conclusa nel passato aveva
l’indicativo perfetto, una forma verbale sintetica (ad es. «Epistulam scripsi» ‘scrissi una
lettera’). A questa si affianca un’altra analitica, formata dall’indicativo presente del verbo
‘avere’ + participio prossimo, il cui uso si è progressivamente esteso (ad es. «Epistulam
habeo scriptam» ‘ho scritto una lettera’).
 Futuro: anche l’indicativo futuro del latino aveva una forma sintetica. Sostituita poi da una
forma analitica formata con il verbo all’infinito + l’ausiliare ‘avere’. Il tipo romanzo più
diffuso discende dunque da forme come: «CANTARE HABEO» (nel senso ‘devo cantare’,
e poi ‘canterò’). Dalla forma analitica si è poi passati a una forma sintetica, con La
grammaticalizzazione dell’ausiliare: CANTARE HABEO > CANTARE *AO > CANTERÒ
 Condizionale presente: Modo verbale che non trova esatta corrispondenza nel latino. Nasce
quando si vuol dare l’idea futura nel passato. Come fare? Per esempio con la formula
CANTARE HABEBAM > sp. Cantaría CANTARE *HEBUI > it. Canterei. Anche qui come
nel futuro si passa da una forma sintetica con la grammaticalizzazione dell’ausiliare. La
radice è dunque: dismettere le forme sintetiche per arrivare alle forme analitiche e per poi
ritornare a quelle sintetiche.
 Forme del passivo: Nelle forme passive il latino alternava forme sintetiche e forme
analitiche con il verbo ‘essere’; nelle lingue romanze si hanno forme solo di quest’ultimo
tipo, a seguito di una complessiva ristrutturazione del sistema di partenza. AMOR (‘io sono
amato’) > AMATUS SUM (a seguito di una rielaborazione del sistema di partenza: la
forma, in precedenza, era il passivo del perfetto).
Spostiamoci adesso sul LESSICO: una tendenza già in atto in epoca arcaica è l’estensione dei
diminutivi ottenuti per mezzo di suffissazione e la loro lessicalizzazione. Fenomeno ben attestato
già dal V sec. (Appendix probi). Decisivo perché è dalle nuove forme che discendono quelle
romanze; it. orecchia >ORIC(O)LA e non da AURIS (opposizione attestata nell’AP). La parte più
consistente del lessico attuale delle lingue romanze deriva dal latino in forma diretta, attraverso
termini del parlato e adattamenti fonetici tipici delle diverse aree linguistiche. In alcuni casi però le
parole non entrano nel lessico per questa via, ma vi sono importate per via dotta. Per esempio
macchia o maculato: il primo è di estrazione “popolare”; il secondo è un recupero colto e per questo
conserva forma affine a quella originaria.
2. Indovinello veronese
E’ un Manoscritto liturgico (detto Orazionale mozarabico) proveniente dalla Spagna e transitato
nell’VIII sec. a Pisa e arrivato infine a Verona. Scritto in due righe su un codice della Biblioteca
capitolare di Verona, un codice da una formula latina. Le due scritte sono databili tra 760 e 790 e
definite delle prove di abilità grafica eseguite forse in competizione; più spesso si è parlato di
“prove di penna”. Ciò che interessa di più è la prima parte, che si mostra complessa da leggere a
partire da “Separeba”, ecco anche il perché del titolo, proprio dovuto alla complessità del testo.
L’indovinello risale a una tradizione scolastica mediolatina di enigmi sulla scrittura, il cui testo
recitava queste righe: ‘Spingeva avanti (?) i buoi, arava bianchi campi, teneva un bianco aratro e
seminava un nero seme’. Si allude dunque a qualcosa o qualcuno, ma chi? Probabilmente a colui
che scrive con la piuma, l’inchiostro o il cesto della scrittura. Dunque l’indovinello inaugura la
stagione della lingua volgare.
Con la stessa ottica della glossa di R., cogliamo le osservazioni sui fenomeni della lingua, questa
volta a partire dall’indovinello veronese: riflettiamo innanzitutto sulla perdita del caso nei sostantivi
e negli aggettivi. Partiamo dall’inizio dell’indovinello, precisamente dalla forma “Boves” che
potrebbe essere residuo della declinazione del nome. La parola dunque ci dice il ruolo della frase.
In latino, parte delle funzioni sintattiche dei sostantivi e degli aggettivi è indicata dalla desinenza. In
latino nella desinenza (morfema grammaticale) del nome e dell’aggettivo non si depositano solo
informazioni relative al genere e al numero, ma anche alla funzione logica. Esso ha una morfologia
nominale complessa: i nomi si suddividono in 5 classi, dette anche declinazioni. In ciascuna di essa
i casi hanno le proprie desinenze specifiche.
Altro punto da osservare è L’arretramento del sistema dei casi: si ha un arretramento per due ragioni
principali: Il progressivo ampliamento dell’uso delle preposizioni e Il trattamento delle consonanti
finali (specialmente -M e -S) causa confusione. Cadono anche le “-T” finali dei verbi (parebat,
ecc.).
Un ulteriore punto è la costruzione sintattica della frase: in latino La costruzione della frase in latino
era libera: poiché i costituenti logici non avevano posizione fissa, tuttavia la forma “non marcata”
della frase era del tipo: S O V. Mentre in italiano, e in genere, nelle lingue romanze si impone un
altro modello sintattico: S V O. Nella sintassi dell’indovinello è evidente il modello latino (anche
nel lessico: albo, versorio).
Un’altra mutazione avviene nel vocalismo e più precisamente dal passaggio del sistema vocalico
latino a quello tonico “panromanzo”: il latino aveva 10 suoni vocalici, distinti sia in base al grado di
apertura che alla lunghezza, segnalata attraverso i diacritici ¯ e ˘ , che indicano la vocale lunga e
quella breve. Oltre alle 10 vocali, il latino aveva anche i dittonghi. La quantità vocalica era utile per
distinguere coppie minime di parole; ad esempio permetteva la distinzione fra PĀLUS(‘palo’) e
PĂLUS (‘palude’). MA CHE SUCCEDE SE LA DIFFERENZA SI PERDE? (cioè tra vocale lunga
e breve) nei sistemi romanzi l’accento ha assunto un carattere distintivo, mentre la quantità della
vocale (la lunghezza) ha perso. Le vocali brevi si pronunceranno “più aperte” rispetto a quelle
lunghe. Questo probabilmente ha favorito la riarticolazione del sistema vocalico che si è concluso
con la confusione fra ĭ ed ē e fra ō e ŭ. In sintesi, fra latino e lingue romanze avviene un passaggio
da un sistema “quantitativo” a un sistema “timbrico/intensivo”. Il risultato della trasformazione è un
sistema di vocalismo che può definirsi “panromanzo” (da questo si differenziano tuttavia quello
balcanico, sardo e siciliano).
Altri fenomeni — In “negativo”: Nelle forme considerate sono assenti alcuni tratti tipici del
passaggio latino > volgare: lenizione: ovvero di ‘indebolimento’ del suono della consonante che, se
sorda, acquista sonorità (per es., lo sp. amigo < AMICUM); se occlusiva passa nella serie delle
fricative (it. aveva < HABEBAT); articolo: una categoria grammaticale sconosciuta al latino
classico, derivata dalla trasformazione dell’aggettivo dimostrativo che invece esisteva nelle lingue
romanze; La subordinazione di tipo oggettivo: ottenuta per mezzo della congiunzione QUOD (da
cui, ad es. l’it. che).
Adesso è importante estendere l’idea di DOCUMENTO con due esempi: L’iscrizione della
Catacomba di Commodilla e Placito di Capua. Il primo è un graffito in lettere capitali databile
alla prima metà del sec. IX, per il tipo di scrittura. È inciso su sei righe nello stucco laterale di un
affresco nella cripta dei santi Felice e Adautto.
Quanto al Placito di Capua: è un documento di tipo giuridico redatto nel 960 d. C., brano volgare
contenuto in un brano più ampio in latino. Si tratta di una sentenza emessa dal giudice Arechisi,
riguardante la contesa su alcune proprietà terriere fra un privato (Rodelgrimo) e l’abbazia di
Montecassino. L’atto è registrato dal notaio Adenolfo. Per dirimere la disputa, vengono ascoltati dei
testimoni che, recitando una formula prescritta, certificavano il possesso trentennale delle terre da
parte dell’Abbazia (con conseguente diritto al possesso per usucapione). A questo documento se ne
possono assimilare altri tre, di poco successivi: i due Placiti di Teano e quello di Sessa Aurunca.
Esempio di “oggettiva” nel Placito di Capua: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene,
trenta anni le possette parte sancti Benedicti. TRADUZIONE [‘So che quelle terre, in quei confini
che qui si descrivono, trent'anni le ha possedute l’abbazia di San Benedetto’].
È uno dei primi testi scritto in lingua volgare che purtroppo però ha perso il suo primato dopo la
scoperta del graffito della catacomba di Commodilla, databile tra l’VIII e il IX secolo. Nel Placito
Capuano, il volgare viene utilizzato solo nelle forme in cui compare il discorso diretto, per citare le
esatte parole dei testimoni, ma tutto il resto del testo notarile è in latino. Ciò permette una
riflessione sulle differenze tra discorso diretto e narrazione indiretta e sul rapporto tra testo scritto e
varietà del parlato.
Che si tratti di parlato è evidente, essendo questa una testimonianza in giudizio; però sulla sua
naturalezza e spontaneità ci sarebbe da discutere. Gli studi più moderni ci hanno insegnato che
questo parlato apparente ha in realtà un valore molto formale, perché le dichiarazioni dei testimoni
si ripetono sempre uguali, come un rituale. Inoltre, l’introduzione della formula non è attribuibile ai
testimoni ma al giudice Archesi. Infatti è proprio il giudice a stabilire che, in mancanza di
documenti, la prova sia affidata a testimonianze orali, le quali saranno rese mediante formula
stabilita (la formula volgare), confermata con il giuramento.
Si è discusso a lungo anche sul fatto che questa lingua parlata sia stata sottoposta a un filtraggio
attraverso le abitudini grafiche latine, essendoci nel testo molti latinismi.
Per poi arrivare all’emersione delle LINGUE ROMANZE NELLA DOCUMENTAZIONE: Le
prime avvengono tra due momenti rinascenti: la Rinascenza carolingia e la rinascenza del XII
secolo. Si sottolineano i seguenti aspetti e cambiamenti:
- Progressivo spostamento verso nord (in atto già dal IX sec.) dell’asse politico europeo (con
conseguente “marginalizzazione” della penisola iberica e dell’Italia [ma, sul finire dell’XI
sec.: i normanni, i comuni e il papa]).
- Rafforzamento delle monarchie di Francia, Germania e Inghilterra
- Riforma della Chiesa (cluniacensi) con Gregorio VII (1075-85) ristabilisce ordine morale
e autonomia politica
La Rinascita carolingia rappresenta secondo Meneghetti non qualcosa che nasce dal nulla ma una
riconvergenza verso il centro per costruire una rete culturale. Dunque è bene sottolineare
l’importanza della funzione politico-culturale, poiché il potere ha bisogno della cultura e viceversa.
Questo è l’obiettivo di Carlo Magno, con la riscoperta del patrimonio classico (alla fine del VIII
sec.). CHE FACEVA? Era partito con un livello di cultura basso per poi ampliarlo ad uno più alto.
Non sapeva scrivere, il che non significa alfabetizzazione ma perdita del meccanismo meccanico
della scrittura. Amava ascoltare le opere di Sant’Agostino e le storie degli antichi e inoltre trascrisse
quei poemi barbari e antichissimi che cantavano la storia e le guerre degli antichi re e ed iniziò
anche una grammatica della lingua nazionale. Carlo Magno osserva che la lingua è completamente
degradata e per contrastarla discende un segnale, bisogna fare qualcosa con questo latino,
riformando il livello culturale. CHE SUCCEDE? Viene scritta una Enciclica De litteris colendis
(sulla necessità di coltivare le lettere), rivolta a tutti i vescovi e abati del regno. Sosteneva che
doveva esserci un modo per ritornare a leggere per bene, continuando a coltivare gli studi.
Carlo Magno dispone che siano create delle scuole, con diversi obiettivi, per esempio quello di
creare una classe dirigente istruita. Come si articola il sistema scolastico? In un sistema di 7 ambiti,
i cosiddetti “7 arti liberali”. Si parte dalla grammatica, che è l’apprendimento della lingua latina;
sopra di essa vi è la retorica, che è l’arte che attraverso il possesso del discorso ci permette di
reggere la parola pubblica.
Si comincia a vedere che il latino nuovo è diverso da quello rustico quindi Il latino viene
“riformato” dall’iniziativa carolingia, ossia riavvicinato quanto più possibile alla norma classica.
Da quest’operazione di “innalzamento” del livello linguistico del latino discende una più acuta
percezione dell’alterità delle lingue romanze. La coscienza del volgare si fa più netta.
Carlo Magno necessitava il bisogno di una vera e propria traduzione, e per far ciò convocava dei
concili, in cui si dissente il punto linguistico. Il primo documento scritto dal quale risulta una
distinzione netta fra il latino delle persone istruite e la lingua del popolo (che oggi possiamo dire
una lingua romanza), è negli atti del Concilio di Tours (813): questo fu uno dei 5 concili convocati
da Carlo Magno in quell’anno, con l’incarico di dare pareri all’imperatore sul riordino della Chiesa.
Nei documenti di tutti e 5 i concili compare una raccomandazione relativa alla predicazione, diversa
da ognuno ma l’articolo del concilio di Tours diceva qualcosa di nuovo rispetto al tema antico della
necessità di esprimersi in modo comprensibile dal popolo e cioè: “È nostro parere unanime che
ogni vescovo tenga omelie contenenti i necessari ammonimenti [...] E che ognuno si curi di
tradurre chiaramente le stesse omelie in lingua romana popolare o tedesca, in modo che tutti
possano capire più facilmente le cose che vengono dette”.
L’obiettivo dunque era quello di TRADURRE CIO’ CHE ERA STATO TRADOTTO IN LATINO
IN RUSTICO ROMANO, IN MODO SEMPLICE. E più precisamente tradurre le omelie in “lingua
tedesca” era sempre stato necessario per i sudditi non istruiti ma la novità era che si riteneva
necessaria la traduzione anche per gli abitanti della Gallia romanizzata, la cui lingua era da secoli il
latino. Lingua romana significa infatti latino. La differenza è nell’aggettivo rustica, cioè popolare.
Dunque il popolo che parla un latino popolare diverso da quello dei chierici e delle prediche, non è
in grado di capire le prediche in latino.
Come afferma Petrucci, La delibera del Concilio di Tours potrebbe essere intesa come la
«manifestazione di una politica che fu attenta (o finì per farsi attenta) a tutt'intera la comunicazione
linguistica inerente l'esercizio del potere; il che volle dire, certo e in prima istanza, restaurazione e
riorganizzazione della comunicazione “interna” (tramite l'imposizione della correttezza
grammaticale), ma poi anche cura della comunicazione verso l’“esterno” non alfabetizzato, almeno
tramite la sanzione del suo peculiare strumento linguistico.
Ci avviamo a leggere i primi monumenti letterari in volgare, non soltanto documenti.
I Giuramenti di Strasburgo
Meno di trent’anni dopo il concilio di Tours è redatto il più antico testo in lingua romanza. Il testo
latino che le conserva chiama questa lingua romana, questa volta senza aggettivi. Si tratta della
cronaca latina che Nitardo, nipote di Carlo Magno, scrisse sulle lotte che opposero fra loro i figli di
Ludovico il Pio (778-840): Carlo, Ludovico il Germanico e Lotario. I primi due, nell’842, si
coalizzarono contro il fratello. Le lotte si conclusero con il trattato di Verdun del 10 agosto 843.
Questo giuramento è importante perché la divaricazione tra i fratelli era anche linguistica: si pone il
problema secondo il quale Carlo ha dovuto parlare germanico mentre Ludovico il rustico romano
germanico. I due capi dunque pronunciano pubblicamente il giuramento in queste due diverse
lingue. (pag. 119 Beltrami) è eccezionale come Nitardo abbia riportato queste formule nella lingua
originale, perché l’uso costante è di scrivere in latino anche tutto ciò di cui si dice è stato
pronunciato in un’altra lingua.
Il contesto del giuramento: Il giorno 14 febbraio, Ludovico e Carlo giunsero alla città un tempo
chiamata Argentaria e che ora è chiamata dal popolo Strasburgo, e pronunciarono i giuramenti che
più sotto sono trascritti; Ludovico giurò in lingua “romana”, Carlo invece in lingua tedesca. E così,
con la gente raccolta nell’occasione del giuramento, l’uno in tedesco, l’altro in “lingua romana”
parlarono…
Quest’opera di Nitardo ci è conservata in un solo manoscritto che ci dice per esempio quanto ci sia
di sommerso nei documenti.
LEZIONE 11-12
 I primi testi in volgare: Dall’agiografia (letteratura relativa alla vita dei santi) all’epica
La Sequenza di santa Eulalia (collegata dopo i giuramenti)
Questa riscoperta della cultura durante la corte di Carlo Magno come fa a prodursi, riflettersi?
Nasce con Carlo Magno un’attenzione per la storia antica, una sorta di moda classica. Ma perché si
dà importanza ai classici? Perché esiste un’idea di fondo come la translatio imperi. Sapere e potere
si uniscono da sempre e questo fa nascere un piacere nel leggere storie dell’antichità. Si ritorna
quindi al classico. La lettura volgare viene considerata come un mezzo per raggiungere le classi
basse.
Partendo dal testo della sequenza di Santa Eulalia: è considerato il testo letterario romanzo più
antico, in lingua d’oïl. Conservata nel ms. 150 della Bibl. municipale di Valenciennes, contenente i
Sermoni di Gregorio di Nazianzo. Alla fine del ms., ai ff. 141r-v, si trovano tre testi, scritti in onore
della martire spagnola Eulalia: una sequenza latina che comincia con ‘Il canto della vergine
Eulalia / intona con cetra dal dolce suono’; per opera di un’altra mano, la sequenza volgare, che
probabilmente doveva essere cantata sulla stessa melodia della latina, ma non ne è una traduzione; e
poi il terzo collegato al testo volgare ma scritto in lingua volgare germanica. Il testo volgare conta
14 unità di due versi, più un verso conclusivo.
Dove è stato redatto il testo? monastero benedettino di Saint-Amand, probabilmente tra Francia e
Belgio.
Elementi per comprendere la Datazione: Sulla stessa facciata e poi sulla carta successiva
(aggiunta a tale scopo al codice), lo stesso copista della Santa Eulalia romanza ha trascritto un
Rithmus Theutonicus (ritmo germanico) su Ludovico re, che si cita come Ludwigslied. È un carme
germanico che celebra la vittoria di Ludovico III di Francia sui Normanni ottenuta a Saucourt
nell’881. Il re morì nell’882, ma nel Rithmus è dato per vivente: l’elemento è fondamentale per la
datazione del testo. La trascrizione del carme, invece, dovrebbe essere avvenuta in un momento di
poco posteriore alla data della morte di Ludovico. Inoltre nel 878 si ha il ritrovamento (a
Barcellona) e traslazione delle spoglie della santa nel monastero femminile di Hanson, presso Saint-
Amand e si pensa quindi che il testo sia dedicato a lei. E l’attività dell’abate Hucbald (ca. 830-930)
presso la scuola musicale del monastero di Saint-Amand, che si ipotizza potesse essere l’autore
stesso del testo. Tutti questi elementi ci permettono dunque di datare e collocare la sequenza
volgare.
I primi versi della sequenza:
Buona fanciulla fu Eulalia Bello ebbe il corpo, più bella l’anima La vollero vincere i nemici di Dio
Vollero farle servire il diavolo. Ella non ascoltò i cattivi consiglieri Che volevano farle rinnegare
Dio, che è nell’alto dei cieli…
TRADUZIONE: Buona fanciulla fu Eulalia Bello ebbe il corpo, più bella l’anima La vollero
vincere i nemici di Dio Vollero farle servire il diavolo. Ella non ascoltò i cattivi consiglieri Che
volevano farle rinnegare Dio, che è nell’alto dei cieli…
Alcune QUESTIONI da affrontare con il testo: La conservazione dei testi ● Intersezioni: lingue
romanze/germaniche ● Elementi di metrica: dalla metrica classica a quella ritmica mediolatina e
volgare ● Struttura del testo ● Cos’è una «sequenza» ● Oralità, performatività, musica e scrittura ●
Il legame con il latino («in principio fuit interpres») ● La lingua della Sequenza
1. La conservazione dei testi: come Manoscritti latini, spesso di contenuto religioso (Santa
Eulalia, Santa Fede); Innesti entro testi latini più ampi con funzione «testimoniale»
(Giuramenti di Strasburgo [?], Placiti campani); In zone marginali (Santa Eulalia, Boeci
[infatti incompleto]; le strofe volgari del ms. Harley 2750, l’Indovinello veronese);
Tradizioni spesso unitestimoniali (ma non il saint Alexis, di cui si conservano 7
manoscritti); In area gallo-romanza sono una dozzina i testimoni ms. risalenti ai sec. IX-XI;
sono 73 [o 102?], invece, i mss. databili al XII sec. — Oralità e scrittura
2. Intersezioni: lingue romanze/germaniche: Concilio di Tours; Giuramenti di Strasburgo;
Cfr. la presenza, per mano dello stesso scrivente, del Ludwigslied accanto alla Sequenza di
Santa Eulalia.
3. Dalla metrica classica a quella ritmica mediolatina e volgare: Il passaggio da un sistema
“quantitativo” a un sistema fondato sull’intensità (tonica) della vocale comporta la
disarticolazione degli schemi prosodici classici. A noi interessa osservare alcuni elementi
fondamentali come: nozione del verso, misurato in base al computo delle sillabe; può essere
ulteriormente scomposto in sotto-unità; la differenza tra sillaba linguistica e metrica;
Numero di sillabe e posizione dell’accento; Parole tronche, piane, sdrucciole, ecc…
4. Struttura di Santa Eulalia: 29 versi di lunghezza variabile (anisosillabismo) ● Organizzati
in 14 periodi ritmici di due versi (l’ultimo è irrelato) ● Tutte le cadenze sono maschili
(tronche) ● I versi sono accomunati fra loro da assonanze.
5. Cos’è una «sequenza»: questa poesia nasce come poesia cantata su un modello, cioè quello
del canto liturgico, per cui la sequenza non è altro che un canto liturgico. La poesia latina
ritmica ha grande sviluppo nell’ambito degli inni religiosi e dei canti paraliturgici. Si
affermano generi come i «tropi» e le «sequenze», fatti per essere cantati. Queste ultime, in
particolare, derivano dallo sviluppo sempre più autonomo dei vocalizzi che si eseguivano
sulla –a finale dell’Alleluja (uno dei due canti liturgici che, durante la messa, si eseguivano
fra le letture dell’Epistola e del Vangelo). Quindi questo è un contesto agiografico che nasce
in un contesto clericale.
6. Oralità, performatività, musica e scrittura: collegata alla precedente, bisogna tener
presente nella sequenza dunque la dimensione musicale, ma anche orale e della scrittura. La
dimensione dell’oralità è dunque importante.
7. Il legame con il latino: La Sequenza in lingua volgare riprende la melodia di quella latina,
che a sua volta piega al sistema ritmico la prosodia dell’inno di Prudenzio. ● Sono in
dialogo con fonti latine anche altri testi volgari di natura agiografica come il Saint Alexis
(per il metro scelto il modello potrebbero essere gli inni di Prudenzio), la Sancta Fides.
Nella sequenza di Santa Eulalia possiamo notare i seguenti aspetti: Non è un’esatta
traduzione; ma è evidente un profondo legame con un modello latino (genere agiografico),
con la cultura clericale, con il canto liturgico. Ma nemmeno un adattamento al pubblico
(differenze con il testo latino: la «svolta narrativa».
Meneghetti a proposito della sequenza di Santa Eulalia che seppur ci pare un po' ingenua, in
realtà è un prodotto uscito dalle mani dei chierici letterari che avevano lavorato proprio per
abbassare e mutare il tono interno per adattarlo a chi era fuori dal mondo clericale. Quindi non è
un caso che il primo testo letterale in lingua volgare nasce su questa soglia, cioè all’intersezione
tra due mondi: clericale e quello di un pubblico, che ormai parla soltanto in lingua volgare, che
deve essere coinvolto secondo strumenti linguistici ma anche retorici. Dunque per capire la
nascita delle letterature romanze è importante tenere presente che da un lato c’è il pubblico,
dall’altro c’è chi produce, conserva i testi che molto spesso appartiene al mondo religioso.
8. Caratteristiche linguistiche della Sequenza: La lingua della Sequenza, come naturale,
presenta caratteristiche distintive settentrionali (oitaniche): a tonica in sillaba libera > e (es.:
«presentede» < PRAESENTATA) a finale > e (es.: «ele» < ILLA). Le vocali toniche e ed o
in sillaba libera dittongano (ess.:«buona» < BŎNA; «bellazour» < BELLATIŌREM; «ciel»
< CĔLUM; «concreidre» < CONCRĒDERE). Il dittongo au si riduce a o (es. «or» <
AURUM). Tutte queste caratteristiche rappresentano le differenze tra le varietà
settentrionali e occidentali. La Sequenza di santa Eulalia è un testo certamente
settentroniale, tuttavia il testo è scritto in una sorta di koiné: cioè un linguaggio che è sovra
regionale, per cui ha dei tratti che cercano di superare un regionalismo per continuare con
una lingua che vada oltre i confini di una regione. In sintesi la lingua della sequenza di Santa
Eulalia è una lingua in cui si comincia a percepire una volontà di abbandonare tratti
regionali o anzi elevare una lingua di tipo koinè, cioè condivisa al di sopra della regione
(sublimazione della lingua).
Un altro aspetto della lingua è che ritroviamo dei latinismi, per esempio grafici (con la
conservazione della a finale o delle doppie). Ma anche la differenziazione tra caso retto e
obliquo.
Alcune conclusioni sulla Sequenza volgare: ● La Sequenza è stata composta in ambito clericale,
come appare ovvio dal contenuto e come dimostra anche la forma, che ricalca una tipologia di
componimento (la sequenza) molto diffusa, ma precedentemente attestata solo in lingua latina.
Alcune spie grafiche dimostrano l’interferenza del modello offerto dalla scripta latina. Il rapporto
con il corrispettivo latino si gioca in particolare su aspetti ritmico-melodici; il contatto è più
sfumato per quanto riguarda il trattamento del contenuto (esigenze di pubblico?). La sequenza
anticipa, nella sua struttura versale (che spesso sembra tendere al decasillabo cesurato che diverrà
tipico dell’epica), quelle soluzioni che saranno impiegate anche dalle Chansons de gestes
Passiamo adesso al dominio linguistico meridionale, in cui si parla la lingua d’oc con La Canzone
di santa Fede: è sempre un testo di natura geografica, conservato da un unico manoscritto nella
Biblioteca universitaria di Leida, nel XII secolo ma che contiene un testo che risale al periodo
anteriore. La canzone, come la sequenza di Santa Eulalia, è legato ad un culto, cioè quello di Santa
Fede ed è stato prodotto sempre nei luoghi in cui il corpo della santa è stato conservato, forse nella
regione del Rouergue. Siamo dunque nel dominio meridionale.
Contenuto del testo: è più o meno simile al precedente ma molto più esteso e nella parte
conclusiva c’è un innesto che è estraneo allo schema della sequenza di Santa Eulalia. La vicenda
ruota sempre intorno ad un martirio di una giovane santa che si era rifiutata di abiurare il
cristianesimo. La morte, che inizialmente doveva avvenire sul rogo, giunge infine per
decapitazione. Poi è situata una seconda parte, in cui le forze della chiesa trionfano su quelle
maligne (vicende antiche ambientate nel III-IV sec. trasposte sul piano narrativo dopo secoli, così
come nella sequenza di S. Eulalia). Dopo la morte della santa per mano dei persecutori avviene uno
scontro tra le forze del bene, rappresentate da Costantino e quelle del male. L’opera termina con il
trionfo della Chiesa e di Dio, la cui giustizia fa soccombere Massimiano e Diocleziano, persecutori
dei cristiani.
Contesto storico: Siamo nel XII secolo, ovvero nel pieno del sentimento di crociata di una
religione militante, non solo rivolto verso la Terra Santa (Oriente) ma anche al di là dei Pirenei, in
un territorio occupato dai musulmani. La presenza dei musulmani e saraceni tra le schiere dei
pagani era acquisita dagli ascoltatori. Dunque è importante sottolineare questa bipartizione tra
pagani e saraceni, che secondo il loro spirito di crociata dovevano essere combattuti. Questo spiega
anche perché la seconda parte del testo sia così importante e su quale tipo di sentimenti è costruita.
Com’è fatta? È un poemetto provenzale nell’antico occitano redatto in lasse rimate di ottosillabi,
quindi cambia il metro rispetto a quello di Santa Eulalia (non è più una sequenza ma canzone).
Lassa, cioè unità di più versi espandibili a piacimento però legate assieme dalla rima.
Le fonti latine del testo: Anche questo testo ha un retroterra latino, da cui si possono individuare
più di una fonte latina della canzone di Santa Fede, per esempio la Passio Sanctae Fidis (forse anche
in una sua redazione metrica) ● i Miracula Sanctae Fidis ● il De mortibus persecutorum di
Lattanzio (serve da fonte per la parte finale). Dunque ci sono delle fonti che vanno combinate e ci
serve a capire che il testo non viene fuori naturalmente dal nulla.
Partiamo dalla I LASSA: “Ascoltai leggere proprio sotto un pino un bel libro latino sul tempo
andato; tutto lo ascoltai, sino alla fine: non vi è passaggio lasciato non chiarito. Parlò del padre del
re Licinio e della stirpe di Massimino…”. Il libro di cui parla all’inizio è autorevole e ciò che dice è
vero. Lui ascolta mentre il libro narrava dell’antichità. La I lassa narra della stirpe degli imperatori
che perseguivano i cristiani, infatti recita “Costoro misero i santi in tale tormento come fa il
cacciatore coi cervi al mattino”, dunque vi è qui un primo avvicinamento all’orizzonte culturale di
chi ascoltava la canzone ma allo stesso tempo ad una dimensione allegorico simbolica e anche alle
fonti latine, che danno un ulteriore veridicità alla storia.
Si passa poi alla III LASSA: Anche qui come in Santa Eulalia ci dice che deve essere cantato
assieme alla sua melodia, e ancora una volta la verità storica di una vicenda che è stata raccontata
dai chierici, e quindi pieni di fiducia.
Conclusione della Canzone di Santa Fede: si parla della fase della battaglia tra le forze del bene e
del male sullo sfondo storico. Il corvo predice che Costantino e Diocleziano (male) faranno una
grande battaglia di una realtà concreta e con un linguaggio che si avvicina all’epica. Entrano in
gioco anche tracce del vocabolario feudale, un altro di quei controsensi storici come nel termine
“fellone” usato per definire Massimiano o il termine “barone” che storicamente non c’entrano
niente ma è un modo per inserire in questo testo un lessico che rimandi alle strutture sociali che
sono ben note al pubblico che ascolta: quindi le forze del bene sono dei fedeli vassalli mentre le
forze del male sono dei felloni. L’obiettivo era quindi quello di avvicinare il pubblico a chi
ascoltava la canzone, per calare quelle vicende nel presente. Fare continuo riferimento alla
struttura della società contemporanea per spiegare invece momenti storici passati è una
strategia che fa parte un momento che piega il genere agiografico a dei modi che sono già di
moda.
DIFFERENZA Agiografia e epica: bisogna ricordare che l’epica è la narrazione della collettività.
L’io viene messo in secondo piano nella narrazione, sebbene ci sia uno scrittore che si
autonominava. L’autore è invisibile ma indirizza gli ascoltatori richiamandone l’attenzione.
L’autore dunque (sebbene individuo) è una voce collettiva. Collettività legata a valori condivisi,
idee forti.
LEZIONE 13-14
 La Chanson de Roland
L’agiografia, trattatosi di un genere nato in un ambito religioso e che ha un forte collegamento con
la cultura clericale ritroviamo in essa un forte legame con la letteratura nascente popolare.
Clima che si crea nella agiografia volgare rispetto a quella latina: si crea attraverso un uso
consapevole di alcuni mezzi espressivi: si parla di una feudalizzazione del lessico religioso (forte
presa dei modelli feudali sul pubblico). C’è un tentativo di capovolgere le regole di un genere per
trovare una nuova posizione per un pubblico diverso. Alcuni termini chiave sono: Signore, conte,
cavaliere, barone, ecc… che sono assenti nel mondo romano (in Santa Fede o Sant’Alessio) ma
presenti in quello medievale.
La società che ha generato i testi che stiamo leggendo è quella feudale: Importante per
comprendere la mentalità dei paladini di Carlo Magno, scene e termini presenti nella Chanson de
Roland ma anche per capire meglio la lirica dei trovatori (movimento poetico che si fa forte di una
poetica feudale). Importante nella società feudale la cerimonia dell’omaggio che consisteva in due
uomini posti l’uno di fronte all’altro: l’uno che vuol servire e l’altro che accetta e desidera di essere
capo con gesti molto semplici, come mani giunte, inginocchiarsi, cioè adatti a commuovere gli
animi dell’epoca. Nella cerimonia chiamata quindi “omaggio” per designare il superiore si usava il
nome “signore” mentre il subordinato è spesso chiamato comunemente “l’uomo” o “vassallo” di
questo signore. La cerimonia ha un carattere molto antico, non aveva connotati religiosi e si
radicava negli usi germanici ma In seguito venne integrato con un giuramento (fede) prestato sul
Vangelo o sulle reliquie di un santo. Dunque bisogna sottolineare due momenti: quello
dell’omaggio tradizionale e quello della fede. Tuttavia, mentre la fede è a senso unico, costituiva
cioè un obbligo unilaterale, l’omaggio invece implicava una reciprocità, uno scambio: l’uomo dà al
signore e quest’ultimo lo protegge e lo accoglie perciò il rapporto è a doppio senso ed è più stretto
(anche il signore si lega). Questa reciprocità tornerà nel rapporto tra trovatori e dame.
Questo rapporto tra signore e “sottomessi” si ritrova anche in altre società. Perciò c’è una
sovrapposizione tra romani e franchi in Gallia, che sottolinea non una rotture bensì una continuità.
Nella Francia carolingia, il potere centrale cerca di usare questo sistema di relazioni per creare una
società stabile, tentando di estendere il vassallaggio a tutti e rafforzare i legami. Per tale ragione si
rende necessario estendere al massimo grado le forme di dipendenza e far sì che i signori si leghino
direttamente al sovrano, così da far riflettere il potere regale anche sui loro vassalli. Si forma un
gruppo di vassi dominici, ovvero di uomini legati da un rapporto di dipendenza diretto rispetto al
sovrano. Tuttavia, Con la disgregazione dellʼImpero carolingio il sistema del vassallaggio viene
messo in crisi soprattutto per quanto riguarda la dipendenza del sistema da un unico centro di
potere; si moltiplicano i signorati e lʼautorità regale è messa in crisi, spesso rappresentata
localmente dalla grande nobiltà (conti, duchi).
Così l’epoca carolingia ha un rigido sistema di valori incentrato nel sistema di vassallo-signore, che
funzionava con la centro Carlo Magno che aveva i suoi massini interpreti. Siamo si su uno sfondo
sociale ma anche e soprattutto militare: ogni signore aveva i suoi uomini, tra soldati e cavalieri che
gli davano il potere. Così la forza del potere carolingio diventa la proiezione mitica di una società
ideale con un riferimento al passato per capire qual è l’ideale a cui tendere nel presente. Perciò
Carlo Magno è un modello di società non troppo dissimile da quella al quale si voleva tendere.
Questo ci introduce nella distanza temporale tra fatti narrati e epoca in cui i testi sono stati prodotti.
Ma perché proiettare la vicenda di Carlo Magno su un orizzonte mitico? Perché bisogna raccordare
quell’ideale alla società del presente in cui questi testi circolavano ed erano recepiti.
LA CHANSON DE ROLAND:
Periodo e storia della Chanson de Roland: la più antica tra le “canzoni di gesta” è la Canzone di
Rolando, nel testo offerto dal codice Digby 23 della Biblioteca Bodleiana di Oxford, che risale al
XII secolo ma il poema viene dalla Francia settentrionale e sembra di circa un secolo anteriore al
manoscritto.
Al centro della Chanson de Roland è la distruzione della retroguardia dei franchi a Roncisvalle da
parte dei musulmani di Spagna, che avvenne, secondo la “vita di Carlo” di Eginardo, al ritorno di
una campagna del 778. Nel poema si è invece alla fine di una guerra di sette anni con cui Carlo
Magno ha conquistato tutta la Spagna tranne Saragozza, e la disfatta è dovuta a un tradimento.
A capo dell’ambasceria da inviare al re Marsilio, Rolando propone il patrigno Gano, il quale
mortalmente offeso decide di far sì che Rolando conduca la retroguardia. Sulla via del ritorno
quest’ultima viene attaccata ma Rolando rifiuta di suonare il corno per richiamare l’esercito e lo
suona quando sono quasi tutti morti, spezzandosi le tempie. Rolando quindi muore non per mano
altrui, e angeli scendono dal cielo a prendere la sua anima.
Carlo ritorna e insegue i mori fino a quando non li ha raggiunti e sterminati. A vendicare la sconfitta
giunge Baligante con un nuovo esercito. Ritornato Carlo ad Aquisgrana, Gano viene processato e
nel duello giudiziario il suo campione viene sconfitto, e il traditore viene squartato da 4 cavalli.
Per la qualità artistica, oltre che per l’antichità, la Chanson de Roland si presta ad essere considerata
“il modello per eccellenza del genere epico”. Al tempo stesso, però, è un’opera che fa eccezione
per l’ispirazione religiosa, che va al di là della contrapposizione fra cristiani e musulmani, nello
spirito della Reconquista di Spagna e della crociata d’Oriente. Al centro del poema, la morta di
Rolando è rappresentata come quella di un santo martire, a prendere l’anima del quale scendono gli
angeli del cielo; la vendetta di Carlo è permessa da un evento soprannaturale biblico, cioè l’arresto
del sole prima che le tenebre permettano la fuga dei nemici. Dunque l’ispirazione religiosa avvicina
il poema ai primi poemetti agiografici. Da questi ultimi si passa alle canzoni di gesta ma anche
l’ipotesi apposta, cioè che i poemetti agiografici siano a mutuare i procedimenti di un’epica più
antica delle canzoni conservate.
Autore: l’ultimo verso della Chanson de Roland (che si cita con la sigla O) contiene una firma “qui
finisce la geste che Turoldo declinet”, cioè “porta a fine” o “narra”, “scrive”. Per cui Turoldo può
essere tanto l’autore quanto il cantore, o il copista del manoscritto stesso o dell’esemplare da cui è
stato trascritto.
Presentazione della chanson de Roland attraverso le prime 3 lasse: Inizia con l’aggettivo
Nostre, in riferimento a Carlo Magno (il nostro re), affermando dunque l’identità del “noi”, infatti
nell’epica si crea comunità. L’epica inoltre si caratterizza come testi storici veri in linea teorica: chi
ascolta è convinto che sia accaduto (sebbene alcuni fatti siano assolutamente impossibili, per
esempio il fatto che Carlo Magno 7 anni fa è stati in Spagna). Nella seconda lassa, il Re Marsilio sta
a Saragozza e si tiene il suo consiglio, circondato da circa 20 uomini, duchi e conti in un giardino
sotto l’ombra. Marsilio si rivolge ai suoi uomini chiedendo saggi consigli (anticipando il tema della
saggezza vs. follia), che i suoi uomini gli devono in quanto suoi uomini. Nessun pagano risponde
qui all'infuori di Biancandrino: “fu tra i più saggi pagani Per vassallaggio fu gran cavaliere Fu prode
nellʼaiutare il suo signore”, il quale suggerisce di trovare la pace, riconoscere superiorità dei
Franchi, dar loro dei beni e farsi battezzare pur di mantenere controllo in Spagna.
È questo lo spirito che anima la società quando la Chanson de Roland viene redatta e diffusa. Lo
spazio della Chanson de Roland: il percorso di Carlo Magno per tornare da Aquisgrana ripercorre
Saragoza-Roncisvalle-oltre i Pirenei e nella seconda parte della Chanson l’esercito carolingio torna
verso Aquisgrana percorrendo la strada con due soste: Bordeaux e Blaia?. In questo spazio so
svolgono le vicende, specialmente sull’asse Saragozza-Roncisvalle.
Vi è una sorta di partizione interna del genere epico, con diverse materie e generi letterari. La
Chanson de Roland inaugura la “materia di Francia” che ha a che fare con il vero, perchè sono fatti
ricevuti come veri da chi ascolta. Noi però vediamo la doppia verità di questi testi: la storicità e la
trasfigurazione mitica del dato reale/storico. Dunque è da sottolineare la funzione di questi testi
(epica): creare comunità, creare un ideale, raccogliere un gruppo attorno ad una identità, istruire,
dare un modello a cui tendere. Dunque c’è una finalità edificante, non a caso si parla di “monumenti
letterari”, ovvero testi con intento di edificazione, anche in chi ascolta.
Il verso d’elezione dell’epica è il decasillabo (così come il verso della Chanson de Roland), anche
se alcuni ritengono che agli albori delle culture romanze la forma originaria fosse l’ottosillabo. Il
decasillabo è un verso che stava fermentando e infatti si trova nella sequenza di Santa Eulalia; è
formato da un verso lungo di 10 sillabe fino all’ultima sillaba accentata tonicamente, verso che è
possibile scomporlo ulteriormente in due emistichi (metà) 5 + 7 sillabe (4' + 6'), cioè 4 sillabe fino
all’ultima accentata + 6. E il punto in cui due emistichi si congiungono si chiama “cesura”. La
cesura determina un certo andamento ritmico noto come “epica”, cantilante, perché caratterizza
l’epica e per prima la stessa Chanson de Roland prende il nome di “cesura epica”.
La “lassa”: è la strofa su cui è costituita la Chanson de Roland, il cui testo è costruito proprio a
partire da essa, e quindi considerata l’unità base del racconto su cui sono costruite le vicende. Essa è
espandibile a piacere e segue il principio dell’assonanza finale ma data una certa assonanza finale la
lassa può continuare a oltranza finché necessario. Inoltre si configura come un’unità compiuta,
replicabile ma anche trasformabile, che per noi è un nucleo interessante da analizzare.
Sono state fatte delle riflessioni sulle lasse, per esempio secondo Monteverdi Le lasse, se unitarie,
«impongono una segmentazione del racconto, piuttosto che [...] farsi “attraversare” da esso».
L’episodio deve coincidere con la lassa, un racconto non può attraversare più lasse, poiché essa si
conclude alla fine del racconto o episodio, che nella sua unità minima non può continuare. Si
possono quindi distinguere due tipi di lasse: lassa lirica, cioè che è chiusa in se stessa e che occupa
lo spazio narrativo e la lassa che tende di più alla narrativa. Nel caso della Chanson de Roland si
parla di lassa lirica ma può anche accadere diversamente opponendosi con un processo narrativo
incurante della misura della lassa che la attraversa e si dispone lungo varie unità. La lassa della
Chanson de Roland è formata da 30/35 versi, la cui struttura è inizialmente rigida ma poi diventerà
sempre più ampia narrativamente, dunque si espande. Forma e contenuto sono quindi inseparabili.
Esempio di Lassa (8) “Carlo Magno e i suoi uomini”: L’imperatore è baldanzoso e lieto in un
grande giardino con accanto Orlando e Olivieri, coppia di personaggi che si completano poiché
appaiono qui insieme e insieme moriranno. Orlando è prode e Olivieri è saggio, dunque
rappresentano due poli opposti, in contrasto ma insieme (come cristiani e musulmani). Insieme a
loro due ci sono altri uomini intorno a Carlo Magno nel giardino, un luogo di delizia, che
rappresenta una natura ordinata che rispecchia l’ordine che gli vuole dare l’uomo, reso ospitale.
Inoltre è importante perché è da questo tipo di natura che prende spunto la lirica dei trovatori
(giardino armonico, idilliaco, spesso recintato). *
Viene inserita in questa lassa un interessante scorcio di vita: dei soldati in attesa della battaglia:
giocano a giochi da tavola, gli anziani e i saggi giocano a scacchi, i giovani baccellieri tirano a
scherma svelti. Vi è presentata una sorta di partizione interna del gruppo, tra saggezza e violenza,
all’interno del campo stesso di Carlo Magno.
*Siamo nel campo dei topoi, cioè immagini ricorrenti in letteratura, condivise da una mentalità
collettiva, dove le situazioni stereotipate rimangono replicabili che acquistano nuovi significati per
suscitare emozioni. (vedi anche la canzone di Santa fede nello stesso modo di trattare le cose).
Questo porta a diverse considerazioni sul fatto che il Medioevo è replicabile, o meglio cerca di
replicare qualcosa in un’ottica nuova. È per questo che bisogna tener conto di due concetti:
INTERTESTUALITA’ e INTERDISCORSIVITA’. Il primo è il discorso che coinvolge
strettamente due testi che dialogano tra loro a distanza. Come si fa a scovarla? I poeti trovano
materiale nei topoi e nella tradizione precedente che ogni tanto viene citata testualmente. Si creano
quindi dei “ponti” di connessione tra testi lontani/diversi. Mentre la seconda non è un richiamo
puntale tra un testo e un altro ma un attingere a un deposito collettivo di immagini e topoi letterari.
Per esempio in questa lassa, la frase “Sotto al pino”.

LEZIONE 15-16
 L’epica; la tradizione manoscritta del testo
Continuo con la Chanson de Roland:
Sappiamo che la Chanson de Roland è la storia di un tradimento per cui Rolando muore. Questo
tradimento è interpretato da Gano, che viene presentato come un nuovo Giuda, anche
strutturalmente nel verso. In realtà è un personaggio che conserva dei tratti di grandezza e che
soprattutto ai nostri occhi agisce con qualche ragione. Ma qual è il contesto che ha generato questi
personaggi?
Lasse 12-26: Da qui inizia quel consiglio che andò male “ora comincia il consiglio malaugurato”,
elemento che rimanda alla frase “e ora comincia un altro pezzo”, riferendosi al lettore per
richiamarne l’attenzione. Finisce una lassa e ne inizia un’altra. Nella lassa 13, a partire da “signori
baroni”, l’imperatore Carlo Magno elenca una serie di beni e doni che il re Marsilio promette di
donargli: stesso meccanismo utilizzato nelle lasse precedenti, per esempio l’elenco fatto da
Biancadrino, per cui l’ascoltatore se lo aspetta e chi parla riattiva la sua memoria sulla lassa
precedente, crea dunque dei ponti con quanto già accaduto. Nella lassa successiva (14), il conte
Orlando si oppone e prende la parola rivolgendosi al re: dice di aver conquistato una serie di città
immaginarie, come Nobles, Commibles, … e fa riferimento ad un evento: afferma che già prima il
re Marsilio aveva fatto offerta simile e che i francesi avevano mandato due uomini a contrattare.
Marsilio li aveva decapitati sui monti. Dunque Rolando dice al re di portare aventi la guerra e
vendicare quelli uccisi dal “fellone”, ovvero il vassallo che si sottrae ai suoi obblighi. Questo
episodio precedente sarà poi il motivo del successivo agire di Orlando.
Carlo risponde a Rolando con dei gesti “tiene basso il capo” e “si liscia la barba e si arriccia i baffi”:
fa dei gesti che lo caratterizzano e che ritornano anche presenti nella canzone di Santa Fede (riferiti
a Diocleziano): sta ad indicare o connotare la regalità. Dopo risponde a Orlando dicendo che è suo
nipote, poiché la sorella di Carlo Magno, Berta, partorisce Orlando con un uomo che poi morì per
poi risposarsi con Gano (quindi patrigno di Orlando) che tra i due non corre buon sangue. La
vicenda della nascita di Orlando diventa oggetto di testi epici, anche in ambito italiano, arrivando
fino ad Ariosto con questa espansione della materia clamorosa. Perfino il nome di Orlando viene
collegato ad un’etimologia italiana, cioè “retroattivamente” da “rotolando”.
Mentre Gano si fa portavoce del punto di vista opposto: fa un discorso uguale e contrario a
quello di Orlando. In quest’ultimo Gano è totalmente inserito nel sistema e nella logica feudale,
poiché vuole che si attui la pace perché il re deve seguire i consigli solo se seguono i suoi interessi.
Poi Namo, è quello che determina la scelta del re perché Gano è ora in maggioranza, per cui lo
sostiene. Re Carlo vuole mandare messaggeri a concordare la pace e Orlando si offre ma Oliviero lo
ferma e gli dice che il suo carattere è troppo violento e fiero per cui potrebbe azzuffarsi. (lassa 17)
Il re risponde che non vuole nessuno di loro lì da Marsilio, per cui Orlando nella lassa 20 propone
al re che vada Gano, proprio in virtù del loro pessimo rapporto, la cui proposta è considerata il
motore dell’azione. Ma Gano ne prova gran risentimento, fa fatica ad accettare il ruolo impostatogli
da Orlando (con la sua titubanza, non rispecchia la perfetta prassi vassallatica) perché Carlo Magno
si fida di lui e tutti gli altri baroni lo sostengono. Per cui Gano da qui in poi diventa
TRADITORE, ma non nasce come tale, lo diventa per l’odio che prova nei confronti di
Orlando.
Presentazione di Gano e opposizione con Orlando: Il personaggio viene presentato con
un’espressione assimilabile a quella che presenta Giuda e con una formula sotto una riflessa della
letteratura religiosa. Questa “aurea” di religiosità spesso traspare nella Chanson de Roland voluta al
raggiungimento di uno status testuale di testo mitografico, ricollegabile alle radici del genere e i
suoi contatti con generi religiosi (per esempio l’agiografia). Gano non può ritirarsi per l’ethos
cavalleresco che gli impone di non arretrare e sembra dunque che sia Orlando a disseppellire l’ascia
da guerra. Orlando subisce molte modifiche e trasformazioni, ha degli aspetti di dismisura notevoli,
superbia, tracotanza, è quasi respingente al contrario di Gano, che viene presentato in un modo per
cui ci si sente quasi vicini a lui. Accade poi che Orlando si offre di sostituirlo in questa missione
perché convinto che Gano si arrenderà, ma quest’ultimo si rifiuta perché è l’imperatore Carlo a cui
spetta la decisione e gli comunica anche che ci saranno conseguenze a questa sua azione, promette
dunque un po' di vendetta ad Orlando fino a quando quest’ultimo RIDE (lassa 21 e 22, collegate
fra loro), questo tema della risata è tipica del Medioevo in quanto visto come un atteggiamento
che non si addice a certi uomini. Ma qui oltre al tema della risata entra in gioco anche quello della
vendetta: Gano rinuncia a questa vendetta, sembra essersi dimenticato della morte dei due
messaggeri precedenti mentre Orlando vuole vendicarli. Per cui la vendetta è il motore dell’azione,
non privata ma collettiva. Al contrario Gano sembra essere a favore della pace e rinuncerebbe
alla vendetta, e questo suo atteggiamento fa ipotizzare che potrebbe essere lui il messaggero.
Tuttavia, Gano non viene presentano subito negativamente, anzi presenta un’umanità che ad
Orlando finora mancava. Nella lassa fa discorso con Carlo dicendo che se parte per la missione non
torna più, mostrando tenerezza verso il figlio, dicendo di lasciare tutto a lui (tratto umano e non
violento) e il re Carlo gli risponderà di avere un cuore troppo tenero ma che deve andare per suo
ordine; inoltre Gano più avanti torna dai suoi uomini che lo circondano di solidarietà; egli è un
cavaliere prode, è nobile e non un semplice traditore. Quindi Gano può essere visto come una figura
ambigua, complessa e sfaccettata rispetto agli altri personaggi dell’epoca.
Re Carlo deve dare a Gano l’autorità per poter trattare, conferimento che passa attraverso
l’investitura (gesti simbolici e simboli che si rifanno alla cerimonia dell’omaggio tipica della società
feudale): vi sono qui inseriti alcuni simboli come il passaggio di un guanto e un bastone,
elemento importato dalle popolazioni germaniche e che simboleggia la mano del Ree viene dato
anche dal vassallo al signore quando si fa suo uomo. Ma succede qualcosa: il guanto cade dalla
mano titubante di Gano: evento che è presagio di sventura e che tutti lo comprendono. Titubanza
di Gano che è segno della sua non totale adesione al sistema che deve funzionare; ciò va contro
l’ethos cavalleresco, per cui lo spirito di servizio è estremo e si spinge fino alla morte.
Lasse 58-63 — Orlando assegnato alla retroguardia: Gano va e stabilisce un patto con Marsilio:
consegna la retroguardia di Carlo, perciò è mosso dalla vendetta verso Orlando: lo vuole morto.
Secondo il principio di similarità Gano deve fare in modo che sia Orlando a capo della retroguardia
per tenerlo isolato: propone così Orlando come comandante, esattamente come Orlando aveva fatto
prima con lui, nominandolo. Re Carlo reagisce in modo spropositato verso Gano.
Di conseguenza Orlando si dice felice del compito e afferma che a lui non cadrà di mano il segno
del potere come invece è accaduto a Gano. Vi è quindi nuovamente un richiamo immediato nella
mente di chi ascolta alla situazione precedente, con una evidente contrapposizione tra i due
personaggi. Da una parte Gano che non vuole sottostare alla rigida etica militare e dall’altra
Orlando che invece la cerca, la invoca. Carlo rifà i gesti di prima e non può evitare di piangere
(lassa 61), come se abbia un presagio, una conoscenza di quello che dopo accadrà. Infatti in seguito
avrà un sogno premonitore di sventura sulla missione legato anche alla caduta del guanto
(dominante onirico importante): “Per colpa di Gano, Francia sarà distrutta. Questa notte ebbi una
visione dall'angelo…”: comincia a costruire in chi ascolta una consapevolezza si sventura e
martirio.
La Chanson de Roland si divide in 2 parti: la prima si conclude con la morte di Orlando e la
seconda con il racconto della vendetta dei paladini francesi a opera dell’esercito di Carlo e chiuderà
su un sogno tutta la Chanson de Roland. Nella seconda parte viene sconfitto l’esercito dei saraceni;
viene processato Gano ma tutto sembra riequilibrarsi se non con un altro sogno di Carlo, di un altro
angelo che gli dice che presto dovrà andare a difendere la cristianità altrove.
Auerbach dà una chiave di lettura di tutte le vicende e coglie lo spirito del testo della Chanson de
Roland. Cioè perché Carlo che tutto può e che sa l’esito lascia che Orlando vada a morire?
Afferma infatti che «Tutto l’atteggiamento dell’imperatore è poco chiaro e, nonostante la posa
decisa e autoritaria che ogni tanto assume, sembra paralizzato, come succede in sogno. La sua
posizione importante, simbolica, simile a quella di un principe di Dio, sta in strano contrasto con la
sua impotenza. Sebbene presagisca l'inevitabile sventura, egli non è in grado di impedirla; egli
dipende dai suoi baroni e fra questi non c'è nessuno che possa cambiare la situazione”. E afferma
che il re è forse il riflesso della debole posizione del potere centrale nella struttura giuridica della
società feudale, quale si stava consolidando al sorgere della Chanson de Roland: IL RE HA
L’AUTORITA’ IN POTENZA MA NON E’ IN GRADO DI ESERCITARLA, e che crea
nell’ascoltatore una manifestazione dolorosa, poiché ci si aspetterebbe un altro modello di società
più definito attorno al sovrano mentre il re Carlo (sempre come afferma Auerbach) viene affidata
una concezione metà religiosa e metà leggendaria, che attribuisce alla figura del grande re tratti che
sanno sofferenza, di martirio, per cui egli sembra come paralizzato; e si potrebbe pensare anche a
un'imitazione di Cristo. Inoltre spiega che tutto ciò non è analizzato e spiegato nella poesia ma è
solo frutto della nostra immaginazione e infatti dice che Il poeta non spiega nulla, ma tutto ciò che
succede è espresso con tanto vigore paratattico da convincere che nulla potrebbe succedere
diversamente». Tuttavia, lo stile è così convincente che convince il pubblico.
Auerbach ancora ritiene che il ritmo della Chanson de Roland sia PARATATTICO: tutto è
giustapposto; il discorso non si sviluppa logicamente ma in frasi come mattoni, uno sopra l’altro. Il
ritmo della Chanson de Roland non è mai scorrevole come quello dell'antico epos (Odissea). A
questo effetto contribuisce, oltre alla paratassi dominante, il nesso stesso disuguale e privo di
grammatica, anche là dove si nota il tentativo di ipotassi piú complicate, e la struttura strofica con le
sue assonanze, per cui ogni riga sembra una forma indipendente e tutta la strofa un fascio di membri
indipendenti.
Inoltre afferma che La struttura paratattica si trova nelle lingue antiche nello stile umile, e ha
carattere piú comicorealistico che sublime, piú parlato che scritto. Ma qui appartiene allo stile
sublime; è una forma nuova che non si basa sul periodare e sulle figure retoriche, ma sulla forza di
blocchi linguistici indipendenti, posti gli uni accanto agli altri. Uno stile alto di membri paratattici
non è di per sé una novità in Europa; già lo stile biblico ha questo carattere.
Quindi la Chanson de Roland ha uno stile sublime con una struttura rigidissima dei fatti,
immutabile, con una semplificazione della prospettiva. Il linguaggio non è fatto di figure retoriche e
complesso ma scarnificato al massimo per lasciare solo l’immagine o scena morale. Per quanto
riguarda i personaggi, vi sono solo figure grandi, superiori, fuori dal comune e che sono
l’incarnazione della massima potenza dei moti e dei movimenti dell’animo.: ecco perché si parla di
personaggi “monolitici”, cioè sono come dei blocchi al di sopra del normale. Tuttavia, questa
poesia è rivolta ad un pubblico popolare che si limitano ad osservare le vicende, senza prendervi
parte e questo perché la società si stringeva attorno ai valori che caratterizzava e su cui si costruiva
il tema orlandiano.
Ritornando alla Chanson de Roland: Lasse 79-87 — Orlando e Oliviero: siamo nel momento in
cui Carlo si allontana e le truppe dei saraceni sono pronte per l’agguato. Qui vediamo il personaggio
di Oliviero, che li identifica e avvisa Orlando con un po' di timore. Dobbiamo sottolineare da una
parte la saggezza e prudenza di Oliviero e dall’altra la prode di Orlando. Perciò se Oliviero
vuole chiedere aiuto, Orlando non vede l’ora di lottare proprio perché è la rappresentazione della
furia bellica. Si fronteggiano quindi due personaggi complementari fra di loro.
Lasse 83, 84, 85: in questa scena Oliviero invita Orlando a suonare l’olifante (corno), il quale
anch’esso ha un aurea di sacralità, forse oggetto di venerazione e conservato in una Chiesa. Oliviero
con moduli formulari (tipici della composizione della chanson de geste) per tre volte invita
Orlando a suonarlo ma costui si rifiuta perché non vuole coprirsi di vergogna agli occhi dei suoi
pari.
Lasse 127-137 — Orlando suona l’Olifante e la sua morte: Ad un certo punto, dopo il massacro
dei francesi è avvenuto, sarà Orlando a voler suonare il corno e Oliviero a dirgli che non avrebbe
senso e che avrebbe dovuto farlo prima. Tuttavia, Orlando risponde che va consumata la giusta
vendetta e suona per farsi vendicare e non aiutare e quindi è importante per lui che i cadaveri dei
cristiani vadano seppelliti in terra cristiana per essere venerati, proprio come martiri. Orlando
dunque, rimasto tra gli ultimi suona il suo olifante e per le ferite subite muore per questo ultimo
sforzo.
Nella lassa che racconta la sua morte si concentra un certo uso dei procedimenti finora visti: molti
dettagli cruenti, così come abbiamo visto nel racconto della battaglia e un linguaggio epico, non
troppo distante da quello utilizzato nella Canzone di Santa Fede.
Orlando, per richiamare indietro l’esercito con il corno, fa uno sforzo che comporta una rottura di
una vena nella tempia. Prega per i suoi compagni, prende l’olifante e la spada e compie un gesto
simbolico: cammina nella terra dei saraceni perché vuole morire conquistandola e con il volto al
nemico e poi cade svenuto. Poi l’ultimo scontro: un saraceno fintosi morto cerca di strappare ad
Orlando la spada ma quest’ultimo contrattacca mantenendo così quei due oggetti-simbolo: lo
colpisce con il corno che si incrina. Orlando si accorge che tutto ciò che ha gli verrà tolto dai
nemici, per cui decide di distruggere la spada ma con scarsi risultati e mentre ci prova ripercorre
tutte le sue avventure e conquiste (elenco di città conquistate). La spada non si rompe per cui
rivolge delle parole profonde ad essa (momento di massimo sentimentalismo): la spada che
anch’essa è un elemento dell’aurea mitica. Muore sotto ad un pino, su un prato, volgendo la testa ai
nemici, pregando e offrendo il guanto (vuole morire da eroe), teso al cielo. Preso poi dagli angeli e
portato al cielo, perdonato dai peccati che ha commesso, grazie alla sua virtù.
Va sottolineato inoltre che le lasse che parlano della morte di Orlando iniziano con la ripetizione
“Sente Orlando”, e la cui costruzione è semplice: nella prima parte vi è un movimento dal terreno
verso l’ultraterreno; nella seconda gli angeli scendono verso Orlando, che sotto al pino prega Dio,
offre il guanto e giunge le mani.
Finale e La dimensione amorosa nella Chanson de Roland è lasciato totalmente in secondo piano
(massimo sentimentalismo si ha quando Orlando si rivolge alla sua spada). Neanche una parola per
la sorella di Oliviero, promessa sposa di Orlando, di cui non si sa nulla. Alla fine Carlo comunica ad
Alda la morte di Orlando, in cui Carlo ripete gli gesti di regalità e dice ad Alda che è morto e che le
darà un altro uomo altrettanto nobile, cioè suo figlio. Ma Alda dirà di non voler vivere per la morte
del suo amato, per cui subentra un altro topos medievale, cioè morte per dolore. Finisce dunque con
la morte di Alda.
Cenni sulla tradizione del testo della ChR: la tradizione della Chanson de Roland è molto
complessa e si bipartisce in 2 testimoni: O (Oxford) e V4 (Venezia). Manoscritti diversi fra loro: O,
manoscritto più antico e più vicino all’originale, più umile e di piccole dimensioni, circa la metà di
quello di Venezia; V4, non più complesso, e che comprende altri testi su Orlando e segni di
intervento editoriale e arricchimenti, più sontuoso, più ampio. Dunque potremmo concludere che
stabilire il testo critico di un’opera come la Chanson de Roland è un’opera complessa, che si attiva
attraverso accorgimenti legati alla tecnica editoriale, cioè alla critica del testo* e inoltre tradizione
complessa fatta di testi che hanno subito cambiamenti radicali, per cui è una tradizione dinamica e
non statica quella della Chanson de Roland. Per evitare testi corrotti bisogna seguire delle linee-
guida della critica del testo. Tradizione significa corruttela perché uomini e materiali possono
sbagliare e degradarsi”. La corruttela è osservabile da 2 punti di vista: la restaurazione: ripristinare
il testo prima della sua corruttela (ostacolo); ma è anche un grande aiuto, perché attraverso questa
stabiliamo i rapporti fra i codici. Senza errori i testi sarebbero tutti buoni e uguali, ma se gli errori
fossero in comune tra più testi capiamo che essi sono isolati dal resto. Dunque la corruttela da una
parte ha rovinato il testo originale attraverso gli errori ma dall’altra grazie ad essa possiamo
ritornare allo stadio originale.
I guasti materiali non sono da considerare esclusivamente come fatti negativi, ma anche come «dati
positivamente utilizzabili dal ragionamento critico».
Come afferma Roncaglia “Il copista è un uomo: e come ogni uomo è soggetto a sbagliare. I
materiali […] sono, come qualsiasi mezzo materiale, soggetti a corrompersi. La nozione di
corruttela è perciò inseparabile dalla nozione stessa di tradizione”.
*Che cos’è la Critica del testo? : la critica di un testo è una critica letteraria nel tentativo di offrire
ai lettori una edizione critica del testo preso in esame, cioè una versione criticamente verificata e
attendibile del testo, che cerchi di riprodurre le intenzioni dell’autore, nei limiti possibili perché la
critica del testo non raggiunge mai il fine completamente. L’attendibilità del risultato dipende anche
dalla competenza di chi allestisce l’edizione. Si definisce edizione critica di un testo, qualunque
esso sia il testo allestito editorialmente. L’obiettivo di un testo critico è dunque risalire alla forma
più vicina stabilita dall’autore.
L’errore: come errore vale qualsiasi lezione o soluzione testuale che sia con sicurezza classificabile
come non attribuibile all’autore. Supponiamo, per esercizio mentale, che da un esemplare O siano
state tratte tre fotocopie A B C; da A due fotocopie DE; da B una fotocopia F: da C quattro
fotocopie GHIJ; da H una fotocopia K; da K tre fotocopie L M N.
Le copie risultanti sono tutte identiche e conservano esattamente il testo di O, e non c'è alcun
argomento basato sul testo per stabilire la successione. Questo è un esempio estremo di
'conservazione della buona lezione', che illustra il principio fondamentale che la conservazione
della buona lezione non dimostra nulla sulla struttura della tradizione. Che più manoscritti con
cordino nella conservazione della buona lezione è infatti quello che ci si deve attendere in assenza
di innovazioni ed errori. Tuttavia, partendo dalla tradizione conservata, è necessario utilizzare
innovazioni sicure. Se fra cinque manoscritti (A B C D E) ABC presentano una lezione e DE
un'altra, ma entrambe le lezioni sono tali che non si può negare con certezza che risalgano
all'originale, possiamo dire che A B C oppure D E contengono un'innovazione, ma non possiamo
dire da che parte stia l'innovazione e da quale la lezione originaria.
Perciò anche la concordanza di manoscritti in lezioni adiafore (= indifferenti) non dimostra nulla
sulle relazioni tra di loro. Solo l'errore, cioè una lezione di cui si può sostenere fondatamente che
non risale all'originale, è un'innovazione sicura, e solo la concordanza in errore può essere
utilizzata per dimostrare relazioni fra manoscritti.

Classificazione tipologica degli errori di copia.


 Errori di Lettura: dovuta alla difficoltà di decifrazione del modello. Il copista legge male,
perciò memorizza male, per esempio legge male una lettera, la legge attaccata ad un’altra e
confonde una parola con un’altra leggendola sbagliata. Scambio di lettere simili (es.: ni > m;
nni > mi) ● Scambio di parole simili (es.: amore > onore) ● Difficoltà dovute allo
scioglimento dei compendi.
 Memorizzazione / Dettato interiore: se leggo un brano con sinonimi vicini magari
tendono a cadere mentalmente (dimentico) parole che sento come “vuote”, cioè prive di
significato; oppure dovuto ad un riordinamento del costrutto della frase nell’ottica di una
semplificazione; si sostituiscono due sinonimi tra loro (banalizzando), per esempio “agire
bene” con “gare bene”; e dovuto inoltre alle Interferenze della memoria, per esempio
evocando mentalmente versi simili a quello che leggo e li scrivo.
 Saldatura: dovuti a salti per omeoteleuto, cioè copio un testo fermandomi ad un punto,
torno a leggere l’originale e riprendo da un altro punto, saltando- per la ripetizione di una
stessa parola (omeoteleuto)- tutto ciò che sta in mezzo, creando quindi un vuoto.
 Interventi consci dei copisti: che provocano Tagli; Interpolazioni; Adattamenti; Tentativi
di restituzione congetturale di passi giudicati corrotti
 Materiali: dovute a pagine strappate, che provocano lacune nel manoscritto o macchie che
coprono parole magari sostituite con altre versioni del testo (contaminazione tra testi).
Tradizione “attiva” e “quiescente” Quella delle opere classiche «è una tradizione di ambienti
limitati, di professionisti (copisti o a volte studiosi) tendenzialmente rispettosi del testo tradito: una
tradizione che chiamerei quiescente» Nel caso dei testi medioevali, «anche prescindendo dalla
problematica suscitata dagli interventi dell’autore, la posizione del copista rispetto al testo è infine
assai meno rispettosa: un tipo di tradizione che chiamerei attiva». Quest’ultima legata dunque alla
Chanson de Roland.
Lo stemma: è opportuno cercare di stabilire i testimoni di un testo (trascrizioni esistenti) in un
albero genealogico o stemma codicum, una rappresentazione grafica della tradizione manoscritta
che è apparentata con gli alberi genealogici della specie animali e delle lingue umane. Le relazioni
fra i manoscritti si stabiliscono in base alle concordanze e opposizioni in errori certi. Se due
manoscritti hanno in comune un errore che non possono avere compiuto indipendentemente, allora
sono copie dirette o indirette di un manoscritto che già lo conteneva, e si dice Errore congiuntivo.
E se è di natura tale da non poter essere facilmente corretto per congettura; per questa ragione, se è
presente in un ms. A e assente in un ms. B, permette di certificare che B non deriva da A, si dice
allora Errore separativo.
Come si applicano? Nel caso di un errore separativo possiamo avere diversi tipi: «Ricostruzione»
vs «conservazione», legati al “Metodo” di Lachmann e “metodo” di Bédier. Una svolta che
condiziona l’edizione critica dei testi romanzi viene dal metodo di Bédier esposta in un saggio.
Egli sosteneva che i raggruppamenti dei manoscritti in base ai quali si disegna uno stemma siano
aleatori: di ogni tradizione si potrebbero disegnare numerosi stemmi, senza poter decidere quale sia
quello vero. Inoltre la sua osservazione è che quasi tutti gli stemmi disegnati dagli editori di testi
romanzi sono a due rami, argomento fortemente discusso fino ad oggi.
Successivamente pubblicò una nuova edizione fondata su un solo manoscritto, scelto perché è
quello che richiede il minor numero di correzioni. L’idea che sta alla base dell’edizione di Bédier è
che un testo ricostruito è un prodotto “composito” in quanto accoglie lezioni da varie parti della
tradizione, che non è mai esistito nella storia, e che nessun lettore antico ha mai letto; né lo stemma
garantisce alla ricostruzione alcuna certezza. Si ritiene dunque che l’editore debba dare un testo
fedele ad un solo “buon” manoscritto. A partire dai suoi lavori si può parlare di un metodo di Bédier
che si contrappone al metodo ricostruttivo, o del Lachmann.
L'argomento di Bédier si riduce a questo, essenzialmente: che non si può modificare un testo in base
a un albero che non sia il solo possibile; e a questo, anche: che l'albero genealogico, in base al quale
si può emettere un giudizio definitivo sulla bontà delle varianti, si fonda sopra una petizione di
principio, cioè a dire, a sua volta, sopra una discriminazione di lezioni buone e cattive. Il difetto di
Bédier è evidentemente quello di non accorgersi che un'edizione critica è, come ogni atto
scientifico, una mera ipotesi di lavoro, la piú soddisfacente (ossia economica) che colleghi in
sistema i dati...: egli... non si rendeva conto che conservare criticamente è, tanto quanto
innovare, un'ipotesi...: resta a vedere se sia sempre l'ipotesi piú economica.
+ Materiali e scritture nel Medio Evo: vedi foglio stampato
Per concludere: Le ipotesi sull’origine dell’epica: l’epica avrebbe alle spalle una tradizione orale,
di cui non ci è rimasta una tradizione scritta. Sull’origine dell’epica bisogna distinguere i
“Tradizionalisti” e “individualisti”: «I primi sottolineavano il carattere appunto “tradizionale” e
“corale” delle chansons e i legami con l’epica germanica (concepita anche in modo molto variegato:
semplici e brevi racconti, cantilene più complesse) ma dovevano far fronte ad un vuoto di
documentazione tormentoso; i secondi, capitanati da Joseph Bédier e dal suo monumentale Les
légendes épiques, sottolineavano i legami con la tradizione monastica e con il cammino di
Compostela.
LEZIONE 17-18
 Il romanzo e il racconto
Passiamo adesso ad un altro genere, dopo l’epica, che è il ROMANZO. Innanzitutto parliamo
della lingua romanza: si è visto in precedenza come la lingua parlata di origine latina è detta rustica
romana lingua nella raccomandazione del concilio di Tours e romana lingua nella cronaca di
Nitardo, in quanto propria dei romani. Lingua romana si trova poi in provenzale, associata al nome
versus, tipo di testo da cantare e in francese il nome della lingua è romanz fra primo e secondo
quarto del XII sec. romanz si fa derivare dall’avverbio latino ROMANICE “al modo romano”, e a
sua volta dall’aggettivo ROMANICUS “di Roma”. Romanz è stato poi trattato in francese da
espressioni come “scrivere in romanz, tradurre romanz” a un secondo significato di “testo scritto in
romanz”. In spagnolo passa poi a romance, per designare brevi poemi p canzoni di tipo epico-
narrativo. In italiano romanzo è riferito quasi sempre ai romanzi francesi di moda nel Due-Trecento
e una sola volta nel caso di “lingua”.
Come nasce il romanzo? Partiamo da Alessandro Magno, che era oltre che personaggio storico
anche un mito letterario nel Medioevo, anche forse il più diffuso. La figura di Alessandro Magno
nel Medioevo è al centro di una galassia testuale che comprende testi latini e volgari (romanzi e
non). Per esempio nelle Canterbury Tales si parla di lui ed è così noto che non c’è nessuno che non
ne sappia qualcosa, era un personaggio che ha alimentato un universo letterario ed è dove dobbiamo
guardare per cogliere quella transizione che c’è fra epica e romanzo. Uno sotto il rispetto della
forma (formale) e l’altro sotto il punto di vista del contenuto. L’epica formalmente già si definisce,
sappiamo che è un testo epico se è formato da lasse assonanzate; dal punto di vista formale, il
romanzo si presenta dal punto di vista formale in poesia, in distici di ottonari a rima baciata. Quindi
noi vediamo c’è l’epica e cos’è il romanzo dal punto di vista formale. I due generi si differenziano
anche dal punto di vista del contenuto ma vediamo che questa differenza non è subito immediata ma
procede nel tempo.
I primi monumenti letterari romanzi dunque sono a cavallo tra la forma epica e quella “romanzesca”
che narrano le gesta di Alessandro (sovrapponendo a una base storica un colorito fantastico).
Alessandro Magno nel Medioevo ebbe diversi volti e poteva significare tutto: Cortesia e nobiltà;
allo stesso tempo simbolo dei vizi di Lussuria e sfrenatezza (quindi anche pieno di difetti); La
Fortuna, simbolo della ruota della fortuna che gira (immagine emblematica del medioevo); Superbia
e ambizione. Figura che viene definita come l’archetipo, cioè quella figura che sta alla radice
dell’Ulisse dantesco, l’eroe della dismisura, che mette i suoi confini al mondo, arrivando ad Oriente
quando il mondo è finito e non c’è niente da conquistare, per cui decide di mettere dei pilastri a
segno della sua conquista.
La figura di Alessandro Magno viene raccontata in diversi testi, per esempio si comincia in area
romanza con: Alberic de Pisançon, Alexandre, che ci lascia un frammento di 105 versi (rimasti
solo questi primi) ottosillabi, organizzati in lasse che sono o rimate o assonanzate e il lingua
francoprovenzale. Questo testo risale al primo trentennio del XII sec. (1130), quindi è molto
arcaico. In che cosa somiglia ancora all’epica? Per esempio alla strutturazione delle lasse; e a che
cosa comincia a somigliare invece al romanzo? Per esempio nei temi trattati. È importante
sottolineare la lunga concatenazioni di testi letterali che portano all’arberic de P. e altri e del fatto
che c’è una lunga tradizione che parte dalla grecità, da un romanzo ellenistica, poi le varie
traduzioni in lingua latina e da essa le rimanipolazioni di questo materiale letterario che arrivarono
anche delle lingue volgari: trafila ininterrotta. Questi testi passano da una lingua all’altra e che via
via si arricchiscono con materiali, e quindi in questo caso nei testi di Alessandro Magno iniziano a
coagularsi diversi materiali narrativi.
Nell’Alberic, c’è il richiamo all’autorità di Salomone, dunque all’autorità biblica e anche un
ingresso al testo sul fatto che “tutto è vano”, tutto si distoglie. Tuttavia Alberic decide di scrivere
dell’antichità, di qualcosa che ci dia la gioia di sapere, in modo tale che attraverso la conservazione
del ricordo, non tutto ciò che è stato risulti vano. Dunque la scrittura è vista come conservazione
dell’esperienza ma anche come contrasto con la dissoluzione che il tempo compie delle vicende
umane. Ma assieme al piacere di conservare l’antichità, vuol dire anche conservare gli insegnamenti
e costruire una cultura che ci ha preceduto. Cominciano ad emergere dunque nei romanzi una serie
di topoi: ritorna l’idea del libro, della conoscenza libresca del mondo. Continua il testo esponendo
le qualità di Alessandro Magno, ce lo descrive fisicamente: viso chiaro, capelli biondi, petto ampoi,
busto sottile, carattere fiero e riflessivo: già vediamo le qualità che in Orlando e Olivieri erano
separate (prode e saggio) che in Alessandro Magno convergono, emblema del potere e regalità.
Oltre alle qualità, viene raccontata la sua nascita (figlio illegittimo della regina olimpiade concepito
per inganno con un mago egiziano, Nettanemo) ed educazione (Aristotele). Alessandro è esperto
delle sette arti liberali.
Dell’Alberic, rimangono solo i primi 105 versi perché trascritti su un manoscritto che conteneva un
altro testo (di Giulio Valerio) che riguardava queste questioni alessandrine. Dunque in un
frammento su carta bianca vengono trascritti questi versi, ed è l’unica attestazione. Quindi se non
avessimo avuto quest’unico manoscritto, non avremmo il testo d’Alberic, ma solo un rifacimento
per esempio quello tedesco scritto dal prete Lamprecht.
Poi che cosa avviene? Dopo questo primo trentennio del XII sec. Qualche decennio dopo, arriva un
altro momento della storia di Alessandro Magno, che segna ancora il passaggio dall’epica al
romanzo con l’Alexandre de Bernay, Roman dʼAlexandre: redatto dopo l’Alberic e riprendendo
altri testi che vengono riorganizzati dall’autore, cioè che nel tempo tra l’aAlberic e il Roman
d’Alexandre ci sono stati altri testi che oggi per noi sono perduti, e che ciascuno di essi raccontava
diversi episodi della vita di Alessandro Magno. Questi testi perduti sono stati raccolti
dall’alexandre. Divide il proprio testo in 4 parti, o anche dette branches: una dedicata all’infanzia
di Alessandro (in continuità con l’Alberic), poi c’è un’altra fase bellica di Alessandro Magno
(Razzia di Gaza); poi c’è un’altra unità testuale, che ha a che fare con l’avventura in Oriente; e
infine c’è la parte dedicata alla morte dell’eroe. Questi 4 grandi movimento vengono messi insieme
dall’Alexandre e gli viene dato loro un’unità, per cui conferisce loro finalmente una forma unitaria.
Si passa dall’ottosillabo dell’Alberic ad una monoforma, ovvero alessandrini, dodecasillabi. Quindi
dispone in alessandrini rimati i materiali a sua disposizione, in particolare la parte più avvincente la
terza, c’è un rimaneggiamento di un precedente testo attribuibile a Lambert le Tort de Châteaudun,
è quella in cui predominano elementi fantastici ed esotici, qualcosa dunque di inimmaginabile nel
contesto epico.
Sempre nell’ultima parte, troviamo Alessandro Magno che ha conquistato tutto e quindi cosa
rimane? Il mare, gli abissi e il cielo. Si mette in testo quindi di conquistare anche cose che non sono
alla portata. In primo momento si fa costruire dai suoi ingegneri un marchingegno in grado di
scavare le profondità del mare, e dopo aver conquistato gli abissi manca un elemento: l’aria, deve
conquistare anche il cielo. Che cosa fa? Alessandro ha addomesticato dei grifoni e decide sempre
con i suoi ingegneri di costruire una sorta di aereo nave, una sorta di gabbia in cui si mette dentro e
fa legare i grifoni alla gabbia. Quest’avventura dunque si sta allontanando dall’epica per avvicinarci
sempre di più al romanzesco, è fantasia sfrenata e colpiva. La ricerca dell’avventura nel romanzo
diventerà infatti un fattore importante, fulcro centrale.
Storia e Romanzo: non c’è soltanto una linea evolutiva che porta dall’epica al romanzo ma anche
un’altra che connette le origini del romanzo col genere storiografico. Vediamo che buona parte
della letteratura di nostro interesse si riferisce a quel contesto chiamato anglonormanno (cultura e
lingua), per esempio Wace operò in Inghilterra e nel vertice del potere anglonormanno, cioè vicino
alla corona inglese. Torniamo alla connessione che già abbiamo trattato, cioè quella tra la letteratura
e il potere, cioè il fatto che l’arte cerchi protezione nel potere e che il potere cerchi nell’arte una
legittimazione, estetica e politica. Vediamo infatti che le opere che tratteremo hanno una finalità
encomiastica, cioè connettono una materia che si presuppone storica a una funzione regnante.
Un’altra cosa da dire ha a che fare col fatto che in Inghilterra era forte la propensione verso il
genere storiografico, che aveva una lunga tradizione e che favorisce questa evoluzione.
Contesto storico: Ci troviamo in un ambiente di corte, in particolare con una coppia di regnanti,
Enrico II Plantageneto e Eleonora d’Aquitania, nipote di Guglielmo IX (primo trovatore), che
favoriscono un risveglio culturale per via di una tradizione familiare. Il potere laico comincia a
connettersi con le prime letterature romanze. La nascente letteratura romanza non nasce dalla poesia
ma dalla traduzione, più precisamente, è un’evoluzione in parte nel panorama latino. Latino e
volgare hanno un rapporto dinamico, che c’è anche nel romanzo. Nella radice della parola romanza
significa infatti tradurre in lingua romanza, trasformare un testo in lingua latina in quella volgare,
per cui traduzione. Mettere in lingua romanza una storia per poi connotare il genere letterario del
romanzo che nella sua evoluzione è diventato quello che noi oggi leggiamo come tale. Nasce come
forma poetica e poi questi versi si sciolgono per trasformarsi in prosa. Il nesso con la traduzione è
dunque importante, e cioè questo sguardo duplice della continuità e mutazione.
Nascono dunque in questo contesto delle narrazione che vogliono raccontare la storia delle genti del
luogo, delle isole britanniche. Uno dei testi più importanti è: Goffredo di Monmouth, Historia
regum Britannie: cioè la storia dei re di Bretagna, databile nel 1136, intorno al primo trentennio
del XII sec. Che cosa avviene? Questa storia attira l’attenzione dei lettori, non pienamente letterati,
e quindi nasce l’esigenza di una cultura alta di due nature, immagine di potere e tentare di mettere a
frutto l’esperienza storica (trasformare l’antichità in piacere), che riprende aspetti del testo latino
amplificandoli.
Poi a circa un ventennio da questo testo arriva la traduzione di Wace, il cosiddetto Roman de Brut.
Chi era? È una resa volgare del testo precedente, in distici di octosyllabe a rima baciata [quasi
15000 versi] che ha come eroe un tale Brutus, che secondo la tradizione il nipote di Enea, che fu il
fondatore del potere bretone. Si cerca dunque di riconnettere i potenti di quel momento a una storia
antichissima che porta fino alle origini di Roma. Si riprende il concetto del translatio imperi, per cui
il potere si muove nella storia e cerca la propria sede ideale; ma anche una translatio studi, anche la
cultura, espressione di quel potere. Questi concetti sono importanti per inquadrare il Roman de Brut
ma anche per vedere all’interno di questo romanzo storico quali sono le figure di rilievo. Per
esempio è grazie alla trafila di Goffredo di M. e Wace che abbiamo la figura di re Artù, che nasce
in questo contesto.
La terza figura dopo Carlo Magno e Alessandro è dunque quella di Re Artù, con il quale vediamo
dei tratti ricorrenti con cui si descrive la regalità. Si accumulano in diversi testi, le qualità del
personaggio di re Artù. Fu cavaliere, degno di dota, superbo, umile, forte e coraggioso, generoso
(generosità regale). Vediamo che le sue qualità convergono con quelle di Alessandro Magno e
Carlo, che riprende il profilo del sovrano ideale. Artù riuscì a mantenere 12 anni di pace, a
riorganizzare la società e temperare i conflitti. E come si fa a dare la rappresentazione utopica in cui
regna l’armonia? Attraverso l’immagina a cui si associa immediatamente re Artù, ovvero la tavola
rotonda, quella tavola attorno a cui non ci sia vassallo o uomo che abbia una posizione preminente
rispetto agli altri. Finché c’è la tavola rotonda vediamo un quadro di una società utopica, in armonia
della contemporaneità. Qui si tratta qualcosa che ha delle radici nelle favole, leggende di quella che
è la materia di Bretagna. Wace cerca di riportare in un terreno storico queste vicende, favorendo in
realtà un processo di romanzizzazione di questi aspetti. Siamo quindi a cavallo tra storia e romanzo,
c’è una pretesa storia ma si dà privilegio a quei racconti pronti ad essere espansi in maniera
narrativa.
I «romanzi antichi»: Che cosa accade sempre attorno alla corte anglo-normanna? Comincia a
nascere una moda che noi vediamo ben rappresentata anche nell’incipit dell’Alberic, per cui
ritorniamo al concetto secondo il quale l’antichità deve essere conservata e che da essa viene il
piacere della conoscenza, lettura e utilità. Questa moda è quella dei romanzi antichi, cioè quei
romanzi che hanno per oggetto delle storie dell’antichità classica. Sono sempre romanzi, cioè
sempre traduzione di opere che hanno in sé che hanno un aggancio con la storia, anche se
trasfigurate in opere letterarie. Sono tre i grandi romanzi che fanno parte di questo ciclo dei romanzi
antichi: Roman de Thebes — fonte: Tebaide; Roman de Troie* — fonti: Darete Frigio (De
excidio Troie) e Ditti Cretese (Ephemeris belli troiani); testi tardoantichi con pretese di «storicità»;
lʼunico di cui sia noto lʼautore; Roman dʼEneas — fonte: Eneide. Questi tre romanzi hanno ormai
assunto la forma del distico di ottosillabo in rima baciata, tipica del romanzo ma conservano anche
toni epici, perché presentano scene e azioni di guerra tipica dell’epica.
*Il Romanzo di Troia, l’unico di cui sia noto l’autore, Benoit de Sainte-Maure, tratta in circa 30.000
versi della guerra di Troia. Mettendo insieme le due fonti, cioè una persona di Ditti Cretese e l’altra
di Darete Frigio (cioè greci e troiani) si poteva ottenere un racconto storicamente fondato sotto la
guerra di Troia. In esso ritorna l’autorità di Salomone che viene evocata all’inizio dell’Alberic, con
una replica di immagine e letterarietà. L’incipit del romanzo di Troia afferma infatti di non
nascondere il sapere e se gli antichi l’avessero respinta, avrebbero vissuto come bestie. Se non c’è
sapere, c’è una contrazione dell’essere.
Così come l’epica era pensata per un pubblico ad alta voce così anche il romanzo, per una cerchia
però più ristretto, selezionato, meno generalista ed è per questa ragione che rappresentano degli
ideali che interessano più alla nobiltà.
Entra qualcosa di nuovo rispetto ai testi che abbiamo visto finora, perché alcuni temi che erano
presentati nell’Eneide, Tebaide, ecc vengono espansi, cioè entra in gioco un altro elemento: il tema
dell’amore, che era estraneo nell’epica, lontano. Questo viene presentato per esempio nel Romanzo
dell’Enea nell’incontro con Didone. Comincia ad entrare una dimensione dell’interiorità che era
assente nei testi precedenti ed accogliere l’evoluzione di una mentalità di un pubblico che riceve e
sollecita la versione di questi testi letterari. L’individuo si arricchisce quindi di una dimensione
nuova, quella dell’interiorità a differenza dell’individuo della Chanson de Roland. Nasce quindi un
nuovo modo di sentire.
Sulla scorta di quei temi del Roman de Brut e dal quel contesto della corte di Artù, della tavola
rotonda, nasce la materia bretone, che si alimenta di un altro grande mito letterario ben noto:
Tristano e Isotta: legato alla narrativa cortese delle leggende celtiche, di cui abbiamo diverse
versioni, la maggior parte frammentate però siamo in grado di ricostruire la trama, sostanzialmente
la trama di una vicenda d’amore e morte dell’opposizione tra la volontà e fatalità. Due sono le
principali versioni: Beroul, 1160/70 [4453 versi], codice unico, (Paris, BNF, fr. 2171), normanno,
solo parte della vicenda e Thomas, 1175 ca. [ ca. 3300 versi], 11 frammenti, anglo-normanno >
fonte del Tristano tedesco di Goffredo di Strasburgo. I due romanzi sono di datazione controversa
così come quale sia più antico.
Nuclei tematici del racconto: è una storia di un triangolo amoroso: Tristano rimane orfano e viene
allevato dallo zio Marco re di Cornovaglia, coinvolto nel triangolo amoroso. Lo zio deve sposare
Isotta e invia il nipote a prenderla.
2.Tristano uccide in duello Morholt, crudele gigante cognato del re dʼIrlanda, ma viene ferito da una
sua spada avvelenata.
3. Tristano viene curato in Irlanda da Isotta, figlia del re e nipote del Morholt, che non gli rivela la
sua identità. 4. Tristano viene nuovamente inviato in Irlanda per portare in patria la promessa sposa
dello zio, Isotta. 5. Durante il viaggio in nave, Brangania, damigella di Isotta, dà per errore a
Tristano e Isotta un filtro magico, destinato a far innamorare i futuri sposi. Tristano e Isotta sono
travolti dalla passione e giacciono insieme. (ritorna il tema della magia, fantastico)
6. Questo amore viene smascherato e quindi Tristano è costretto a fuggire e Isotta sposa re Marco.
Brangania la sostituisce nella prima notte di nozze con re Marco.
7. Tristano e Isotta vivono alla corte di Marco e sono amanti clandestini: il nano Frocino svela il
tradimento a Marco. 8. Con uno stratagemma Frocino fa cadere in trappola gli amanti e offre a
Marco le prove del tradimento. 9. Tristano fugge e Isotta è imprigionata assieme a dei lebbrosi.
10. Tristano libera Isotta e insieme si nascondono in una foresta, vivendo isolati dal mondo.
11. Il re Marco sorprende nella foresta gli amanti, ma li trova addormentati separati dalla spada di
Tristano: interpretando questo fatto come un segno di vita casta, riammette a corte Isotta
12. La regina, sotto giuramento, con alcune astuzie retoriche riesce a convincere Marco della sua
innocenza
13. Tristano viene esiliato nel Continente e sposa Isotta dalle Bianche Mani, senza consumare il
matrimonio
14. Avvengono ulteriori incontri tra gli amanti, grazie a travestimenti e inganni.
15. Tristano fa modellare una statua di Isotta e la colloca in una sala segreta nella quale si rifugia
per ricordare il passato. 16. Tristano viene ferito in un combattimento. In punto di morte manda a
chiamare Isotta. Dà ordine che la nave inviata debba issare vele bianche se al ritorno avrà a bordo
Isotta; viceversa la vela sarà nera. La nave ritorna con a bordo Isotta, ma Isotta dalle Bianche Mani,
al capezzale del marito, gelosa, dice a Tristano che la vela è nera.
17. Tristano si lascia morire. Isotta sopraggiunge e, trovandolo morto, muore per il dolore.

Mito letterario particolarmente ricco che sarà capillare nel Medioevo come quello di Alessandro,
dal quale molti prenderanno spunto e che allo stesso tempo segnerà una serie di problemi. Quali
sono i temi che coinvolgevano il pubblico in questa storia d’amore? Innanzitutto la divisione tra
cuore e corpo: il corpo di Isotta era di Marco ma il suo corpo apparteneva a Tristano, tema che
anima tutti i personaggi di questo triangolo; la fatalità dell’amore è un altro tema vicino alle
conseguenze di questo sentimento, tipico della letteratura cortese del tempo.
A parte le due versioni di Tristano e Isotta ci sono anche delle narrazioni collaterali che raccontano
singoli episodi di questo mito letterario. Uno di queste narrazioni sono legate all’autrice Maria di
Francia, che scrive i Lais, che sono dei racconti con la stessa metrica dei romanzi ma che sono
caratterizzati dalla brevità, i quali hanno dei racconti brevi che si ispirano alla tradizione celtica,
leggende bretoni, con una proiezione fiabesca. È autrice di diversi Lais, e uno di questi è proprio un
episodio di Tristano e Isotta, ovvero il momento in cui Tristano è stato cacciato dalla corte di re
Marco, e i due amanti continuano a frequentarsi. Questo lai è stato chiamato Il lai del caprifoglio:
che racconta proprio uno di questi incontri clandestini tra i due amanti. Il caprifoglio non è altro che
un rampicante che si aderisce all’albero e finché i due sono stretti insieme possono vivere ma nel
momento in cui vengono separati muoiono. In questa rappresentazione naturalistica c’è tutta
l’essenza della vicenda di Tristano e Isotta. Queste metafore naturalistiche vengono usate spesso,
come vedremo poi anche nei poeti trovatori (Guglielmo IX).
Maria di Francia è autrice di questi testo che sono organizzati in una raccolta, in cui l’autrice ha
scritto un prologo, importante perché insiste sul contatto sul sapere degli antichi, su come il passato
deve essere conservato. Un lai, è una canzone in lingua celtica; quelli di Maria sono testi narrative,
le cui storie sono presentate come le motivazioni di canzoni bretoni, vere o presunte. Sono storie
d’amore più o meno brevi, raccontate con grande felicità narrativa e sensibilità poetica, basate sul
materiale tradizionale e folklorico celtico.
Nel pieno della materia arturiana, o meglio della materia bretone e antica, Arriviamo poi ad un altro
autore: Chrétien de Troyes, che è il grande romanziere del medioevo francese e uno dei più grandi
autori della letteratura medioevale. Autore di alcune opere/romanzi come: Erec e Enide (ca.
1170) ;Cligès (ca 1176); Le chevalier au lion / Yvain (ca. 1177-1181); Le chevalier de la
charrete / Lancelot (dedicato a Maria di Champagne; ca. 1177-1181); Le conte du Graal /
Perceval (commissionato da FIlippo dʼAlsazia, conte di Fiandra; ca. 1182-1190).
Soffermiamoci sul Cligès: in cui Fenice, moglie dell’imperatore greco Alis, si innamora del nipote
di quest’ultimo: Cligès, prevale dunque nuovamente quel triangolo amoroso che abbiamo visto in
Tristano e Isotta ma qui c’è una sorta di polemica anti-tristaniana cercando di offrire
un’alternativa, infatti vediamo come il personaggio femminile resiste al tradimento rifiutando di
fuggire con l’amante e dirà che non vuole prendere come modello quegli amanti sventurati ma
offrire una versione nuova di vedere l’amore.
Non volendo tradire il marito, Fenice fa bere a Cligès un filtro magico che gli darà lʼillusione di
averla, quando in realtà egli la sogna. Grazie a un altro filtro simula la sua morte e si ritira a vivere
con Cligès in una torre: scoperti i due cercano lʼaiuto di Artù. Alis muore e Cligès può finalmente
sposare Fenice, salendo così al trono.
Questo romanzo è ambientato nell’antica greca con incursioni della materia bretone, perché si
connettono questi due filoni narrativi. Ricco di analisi psicologiche, di discussioni di casistica
amorosa, di monologhi, in contrapposizione, come si è detto, a Tristano e Isotta, contro una storia
d’adulterio scandalosa. Quella separazione di corpo e cuore che abbiamo visto in Tristano e Isotta
qui vogliono essere viste come una totale unità, la donna infatti i questa opera non vuole essere
come Isotta.
Il discorso è diverso per un altro romanzo di Chrétien de Troyes: Yvain — Lʼavventura di
Calogrenant: ci fa vedere un’altra faccia del romanzo cortese. Abbiamo visto finora che la
personalità del personaggio si fa più sfaccettata rispetto all’epica, poi però anche le virtù dell’uomo
cominciano a diventare più ad ampio raggio. Questo brano ci presenta una situazione che non ha
bisogno di contesto ma è importante per farci entrare in un nuovo genere: quello
dell’AVVENTURA CAVALLERESCA. Il personaggio vive un’avventura invogliando anche altri
personaggi. Insieme all’Erec (altra opera), sono rielaborati motivi folklorici in questo caso la mitica
sorgente della foresta di Brocelandia nell’Yvain; valore guerriero e coinvolgimento in storie
d’amore esemplari sono le due facce inseparabili della personalità dei protagonisti. Yvain passa
attraverso la follia per amore e vive nudo nella foresta come bestia; risanato recupererà il suo valore
in una serie di avventure in compagnia di un leone che ha salvato un drago. L’individuo dunque si
mette alla prova attraverso l’avventura, che innalzano il suo animo. Un tema cardine del romanzo
cortese in questo caso è quindi la dimensione della formazione dell’individuo attraverso la prova.
Ma la prova non somiglia più a quella a cui si sottoponevano gli eroi nell’epica. All’individuo
nessuno ordina di mettersi alla prova ma lo fa per suo desiderio.
Infatti Auerbach afferma che Calogrenant parte a cavallo senza nessun ordine o ufficio; egli va in
cerca d'avventure, cioè di incontri pericolosi, per mettere alla prova se stesso. Una situazione simile
non esiste nella chanson de geste. I cavalieri di quest'ultima hanno un compito preciso e stanno in
un rapporto politico-storico. Questo rapporto è con servato in quanto i personaggi hanno una
funzione da compiere nel mondo reale, come, per esempio, quella di difendere l'impero di Carlo
Magno dagli infedeli, di assoggettare e convertire gli infedeli e via dicendo. Calogrenant invece non
ha nessun compito politico-storico e cosí nessun altro cavaliere della corte di Artú. E aggiunge nella
Mimesis, Il mondo dell'affermazione cavalleresca è un mondo di avventure, non solo nel senso che
troviamo in esso una serie quasi ininterrotta di avventure, ma anche nel senso che in esso non ci
s'imbatte in nulla che non sia il palcoscenico o la preparazione dell'avventura; è un mondo fatto
apposta per l'affermazione del cavaliere.
Riferimento a Dante, al Canto V dove viene citato Lancillotto. E al Don Chisciotte, che a furia di
leggere i libri di cavalleria è convinto di vivere il mondo di quelle avventure, che solo egli vede.
Cultura cavalleresca che ha fatto male anche a Paolo e Francesca, dannandoli per sempre.
LEZIONE 19-20
 Introduzione alla poesia dei trovatori
Abbiamo parlato del romanzo cortese, e adesso apriamo il discorso sulla letteratura cortese che si
usa per stabilire un contatto di “amore cortese”. La formula “amor cortese” (amour courtois) è stata
coniata nel 1883 da Gaston Paris, in un saggio dedicato al Lancelot di Chrétien de Troyes, un
romanzo antico-francese risalente alla fine degli anni Settanta del XII secolo.
Questa etichetta moderna sta ad indicare un sentimento impiegata per descrivere la particolare
concezione dell’amore che emerge dal Lancelot e da testi affini, un tipo di sentimento che ha
connotazioni ben precise: 1. non è un sentimento comune e si pone al di fuori del matrimonio
(Tristano e Isotta ce lo dimostrano); 2. Presuppone una sproporzione ineliminabile fra amante e
amata, cioè questi ultimi sono su due livelli diversi e la figura femminile diventa il centro in cui
ruota questo nuovo sistema di valori; 3. è fonte di perfezionamento per lʼamante; 4. ha un carattere
sensuale, ma non deve essere necessariamente soddisfatto: si configura piuttosto come un “servizio”
dellʼamante nei confronti dellʼamata. L’uomo di sottopone completamente all’amata.
Quindi vediamo che le idee cortesi di questo periodo, che sono una vera e propria ideologia
assumono una forma, anche in un trattato in lingua latina, cioè il De amore di Andrea Cappellano:
cappellano alla corte della contessa Maria di Champagne e che scrive il trattato intorno al 1185, in
cui sono canonizzati gli aspetti principali dellʼamor cortese. Infatti in essa riprende alcuni temi
principali dell’amore cortese come: Lʼamore è una passione che nasce dalla visione della donna e
dal desiderio che questa suscita nellʼamante; Lʼamore è fuori dal matrimonio; Lʼamore accresce la
virtù, che è l’elemento di promozione sentimentale. L’amore è individuale ma in quest’ottica è
anche mezzo di produzione della società, perché è un tentativo di attingere a diversi valori che sono
condivisi all’interno della corte e che permettono di promuoversi non solo individualmente ma
anche all’esterno della società.
Ritorniamo alla figura di Maria di Champagne, che altro non è che la figlia di Eleonora d’Aquitania,
nipote di Guglielmo IX d’Aquitania. Anche lei, come la madre è prenditrice della cultura, tant’è che
il Lancelot fu scritto su sua sollecitazione. La figura femminile diventa il personaggio centrale ed
è quasi naturale.
La poesia dei trovatori: Nella Francia meridionale, a partire dallʼultimo quarto dellʼXI secolo, si
assiste a un momento centrale della storia letteraria europea: la nascita della poesia dei trovatori (= i
poeti in lingua volgare), che si presenta in modo variegato. In primo luogo la poesia si esprime in
lingua volgare, lingua d’oc (mezzogiorno di Francia); è intesa da tutti (nella sua forma
orale/performativa), però questa poesia raggiunge anche picchi di complessità particolarmente
difficili da penetrare chiamando a sé dei lettori che siano in grado di intendere ed era inoltre una
poesia fatta per essere pubblicata oralmente; è opera di individui la cui identità è nota, così come il
romanzo e al contrario dell’epica che rimane nell’anonimato. Qui abbiamo un io lirico che parla; è
una lirica dʼarte (rigorosamente isosillabica e rimata), ed ha una grande cura per l’aspetto formale.
(Di Girolamo): La letteratura provenzale presenta una storia abbastanza atipica rispetto alle altre
letterature romanze. È in essa che prende vita la lirica moderna: una poesia d’arte, laica, composta
in una lingua volgare. È infatti la lirica il genere che ne domina. Il primo trovatore Guglielmo IX
d’Aquitania, che inizia la sua attività poetica negli ultimi anni dell’XI secolo e Riquier, che
qualcuno ha chiamato l’ultimo trovatore, scrisse la sua ultima poesia nel 1292: con questa data si
può simbolicamente far terminare la poesia dei trovatori. Dove vivono i trovatori? Vivono
nell’ambiente delle corti feudali del Sud della Francia, della Spagna e dell’Italia settentrionale
grazie al mecenatismo dei signori, talvolta essi stessi trovatori; e nelle corti è anche il loro pubblico.
I trovatori sono poeti d’arte che componevano per iscritto i testi e li musicavano, ma le poesie
circolavano esclusivamente per via orale, attraverso l’esecuzione cantata dei giullari. Una poesia
dunque affidata alla voce, o più precisamente al canto con l’accompagnamento di uno strumento
musicale; una poesia che prende forma come spettacolo e per la quale il termine letteratura appare
discutibile. Sono questi gli aspetti principale della lirica trobadorica che ne determinarono il
successo in tutta Europa e anche la rapida fine.
Una formula più precisa per definire il tipo di sentimento al centro della riflessione dei trovatori è
“finʼamors” (= amore perfetto). È un sistema complesso di valori elaborato dai trovatori. Si
potrebbe persino negare unʼomologazione tout court dellʼ“amor cortese” (espresso nei romanzi
settentrionali) con la “finʼamors” (della lirica dei trovatori e poi dei trovieri = poeti del Nord della
Francia).
L’amor cortese mette in evidenzia due poli importanti: amore e corte, o meglio la fenomenologia di
un sentimento individuale e i modelli sociali e comportamentali radicati nellʼambiente delle corti
feudali. Come afferma Molk ne “la lirica dei trovatori” attraverso l’Espressione «felice, non perché
sia stata adoperata effettivamente da un trovatore, ma perché designa due punti focali del sistema; la
corte (la società) e l'amore (individuo), che si definiscono a vicenda. L'amore (amor) rende cortesi,
e la cortesia (cortezia) rende capaci di amare, l'amante ha degli obblighi precisi nel confronti della
società, la società, a sua volta, deve proteggere l'amante».
L’ambiente di questo nuovo genere, La corte: Un ambiente “laico”, raffinato e aristocratico, che
elabora un proprio sistema di valori. Un luogo in cui la cultura rappresenta unʼemanazione del
potere politico e Un sistema sociale complesso, di impianto verticistico, ma anche caratterizzato da
unʼampia mobilità al suo interno. Una posizione “intermedia” fra cultura elitaria clericale e cultura
e letteratura popolare (ad es. canzoni di gesta, poemetti agiografici).
Quali sono i valori cortesi? Esistono alcune parole-chiave come l’onore, valore, pregio, sapere,
prodezza che abbiamo già riscontrato in precedenza, per esempio nell’epica ma che si arricchiscono
di nuovi valori, come la generosità, l’obbedienza. C’è dunque ancora un sistema sovrapponibile a
quello cavalleresca ma che si arricchisce a quello dell’amore cortese, di una nuova dimensione.
La lirica trobadorica: cerchiamo di fissare delle coordinate e si potrebbe pensare che ha un arco
temporale che va dal 1071, che segna la Nascita di Guglielmo IX, cioè l’unico trovatore di cui noi
abbiamo dei documenti, per cui si prende come pietra miliare; poi c’è uno spartiacque tra 1209-
1229 che è segnata dalla “Crociata” contro gli Albigesi e per finire 1292 (ultima poesia datata di
Guiraut Riquier) o 1323 (Consistori del Gai Saber). Già quindi attraverso l’arco temporale molto
ampio ci dà la misura di quanto sia ampio questo movimento.
La lingua dei trovatori: è chiamata provenzale. I trovatori parlavano semplicemente di lenga
romana, cioè “lingua romanza volgare” in opposizione al latino, e solo nel XIII secolo si diffusero a
ovest dei Pirenei e a est delle Alpi, i termini “limosino” e “provenzale”, dalle regioni più vicine alla
Catalogna e all’Italia, mentre, per le stesse ragioni di contiguità geografica, nel Nord della Francia
si usava “pittavino” o “guascone”. Tuttavia il termine “provenzale” ha finito di imporsi negli studi,
all’epoca medievale. Lo Spazio: Lo spazio linguistico dellʼOccitania medioevale è un panorama
variegato. Ed è in una zona linguistica tra Nord e Sud.
In realtà le parlate d’oc occupano un territorio assai più ampio del Limosino e della Provenza,
esattamente l’area individuata da una line che partendo da Bordeaux, corre a nord di Limoges e di
Clermont-Ferrard per poi scendere a sud di Lione fino alle alpi. Le varietà principali del provenzale
sono: 1) il provenzale vero e proprio nella zona sud-orientale; 2) l’alpnino-delfinatese; 3)il
linguadociano-guiennese; 4) il limosino-alverniate. Ma se il Mezzogiorno presenta una complessa
frammentazione dialettale, ciò non significa che i trovatori componessero ciascuno nel suo dialetto.
Il provenzale dei trovatori è una coinè in cui convivono fenomeni (soprattutto fonetici) di diversa
provenienza, anche se è ragionevole pensare che il limosino abbia offerto lo strato di fondo. Quello
che è certo è che già i trovatori più antichi usavano una lingua sopra regionale con dialettismi della
regione di provenienza.
Elementi distintivi della lingua d’oc e la lingua d’oil: il francese è più trasformativo rispetto alla
base latina e rispetto alla lingua doc. (LETTURA) E Le ragioni della differenziazione tra Sud e
Nord. Nel Sud c’era una vita culturale diversa e diverse varietà linguistiche, e uno di queste
comprendevano anche il provenzale, il più importante era il Limosino. La lingua dei trovatori è una
lingua letteraria.
Elementi di versificazione ● La versificazione provenzale si fonda sul numero delle sillabe e
sullʼopposizione tra sillabe toniche e atone. ● Carattere distintivo della poesia dei trovatori è
lʼimpiego della rima (identità di suono di due parole a partire dallʼultima sillaba tonica). ● I versi
possono essere distinti in maschili (lʼaccento cade sullʼultima sillaba) o femminili (lʼaccento cade
sulla penultima sillaba).
È importante sottolineare inoltre anche Il problema delle origini della lirica dei trovatori, che
abbiamo visto anche nell’epica (da dove nasce?). Lo stesso problema sorge quando si osserva la
lirica dei trovatori. Bisogna tener conto diversi campi di tensione, che tutti convergono a stabilire
una nuova forma letteraria: Generi musicali liturgici e paraliturgici [latini] (versus, tropus). Questa
dimensione del canto liturgico è alla base di molte della ricerca formale dei trovatori e avrebbe forse
ispirato la lirica di Guglielmo IX; poi ancora, da questa Poesia classica [latina] era nata una sorta di
Lirica “galante” dei chierici della cosiddetta Scuola della Loira [latina]: anche l’ambito clericale era
stato ripreso per parlare con toni lirici di sentimenti spirituali; poi c’era la Lirica tradizionale,
inglobata alla Lirica mozaraba / jarcha [volgare], poesia “al femminile” di tono popolareggiante:
cioè la lingua parlata dai cristiani nella Spagna arabizzata. Per quando riguarda le origini, non si può
pensare che Guglielmo IX si sia inventato la lirica cortese ma c’erano già delle tradizioni che sono
state orchestrate in un movimento nuovo, che però espande nuove tradizioni.
Caratteri della poesia trobadorica: quando si pensa alla poesia dei trovatori si associa maggior
parte delle volte ad una lirica d’amore, ma non è così, perché è una poesia sfaccettata, non soltanto
d’amore ma si rivolge anche verso la società, satirica, verso il presente, soprattutto attraverso una
forma: serventese. E inoltre, la poesia dei trovatori è Spesso profondamente “dialettica”, si
sollecitano e si danno risposte, è un gruppo di persone che condividono un sistema di valori per
cercare di produrre progetti artistici.
Per quanto riguarda il corpus delle liriche dei trovatori ci è stato tramandato da circa un centinaio
di testimoni, compresi numerosi frammenti e codici descritti, cioè come copie di codici pervenuti.
Immergiamoci ora nei testi, e soprattutto partendo da: Guglielmo IX (1071-1126). Una definizione
è stata attribuita all’autore, data da un filologo, che ha notato che nel corpus poetica dell’autore,
composta da 10 componimenti di cui uno è incerto, all’interno di esso si nota una netta scissione,
da un lato componimenti cortesi, ortodossi poi altri di natura più varia, con tono grottesco, tutt’altro
che cortesi. Dunque di fronte questa scissione, una cortese e l’altra anti-cortese, è stata elaborata
l’etichetta di “trovatore bifronte”. Un trovatore che ha due volti, per sottolineare due ingredienti
principali: da un lato l’esaltazione delle virtù cortesi e del sacrificio in amore; dall’altro l’elogio
senza mezzi termini dei piaceri e del sesso.
Chi era Guglielmo IX? La poesia dei trovatori si apre con una figura di eccezionale rilievo non
solo letterario ma anche storico. Guglielmo, IX duca d’Aquitania e settimo conte di Poiters, fu uno
dei maggiori signori feudali del suo tempo, più potente, per l’estensione dei suoi domini. Sono state
messa a punto delle Vidas, delle agiografie romanzate, cioè delle presentazioni in chiave narrativa
di elementi delle poesie dei trovatori. I lettori leggevano le poesie di Guglielmo IX e traevano da
esse degli elementi utili a ricostruirne i profili per farne la sua biografia. Dalla vita di Guglielmo IX
si presume che ebbe un figlio, che ebbe per moglie la duchessa di Normandia, da cui ebbe una figlia
che fu moglie di re Enrico d'Inghilterra, madre del Re Giovane, di Riccardo e del conte Goffredo di
Bretagna. Queste fonti sembrano attendibili ma ci dice anche altre informazioni sulla vita di
Guglielmo: fu uno degli uomini più cortesi del mondo e uno dei più grandi ingannatori di donne, e
buon cavaliere d'armi e generoso nel corteggiare; e seppe ben comporre e cantare. Tuttavia sono
delle immagini utili per inquadrare meglio il personaggio.
Inoltre trascorse un’esistenza scandita da guerre, assedi: partecpò a due spedizioni crociate, come
quella in Terrasanta, da lui stesso organizzata che si concluse disastrosamente. Migliore esito ebbe
un’altra crociata in Spagna, contro i musulmani. Fu poi capostipite di una famiglia di mecenati che
nel XII secolo e oltre influenzarono profondamente la produzione letteraria in lingua d’oc e d’oil.
Due poesie di Guglielmo IX: Ab la dolchor del temps novel e Pos vezem de novel florir: testi
accomunati da certi elementi e utili per evidenziare alcuni aspetti della lirica dei trovatori.
1. Poesia, Ab la dolchor del temps novel: Le parole chiave di questo testo, legate alla poesia dei
trovatori sono: dolcezza, cantano, melodia, brama. Novità e dolcezza già si impongono nella lirica
da Guglielmo IX, insieme al ritorno delle parole, il canto e il desiderio, questo movimento interiore
verso qualcosa. Il luogo, o meglio il topos è lʼesordio stagionale, un tema frequente nella poesia dei
trovatori. mos cors non dorm ni ri: la frase che compare nella poesia di Guglielmo IX, o meglio la
parola cor e corpus convergono. Cuore e corpo che rimanda immediatamente al contrasto di
Tristano e Isotta.
Salvo l’ultima stanza, la canzone esibisce una singolare trasparenza, con le sue immagini delicate e
intense pur nella loro dissolvenza; nella quarta compare anche il personaggio femminile, inserito
nell’evocazione di una scena d’amore, mentre i nos rimanda all’universo di una coppia. La prima
stanza ricorda un’altra poesia di Guglielmo IX ( la prossima, Pos vezem): anche qui il trovatore,
traendo spunto dalla natura e primavera, afferma che è giusto rivolgersi verso ciò che si ama.
Dunque viene inserito nuovamente il topos dell’esordio stagionale. Diverso però è lo svolgimento
della canzone poiché il poeta-amante si sente in uno stato di incertezza: non riceve messaggi
dall’amata ma non osa farsi avanti. Nonostante ciò, spera che anche stavolta accada come in
passato, quando una mattina fece pace con la sua donna, e lei gli donò il suo amore e il suo anello.
Spera anche che la maldicenza degli invidiosi non lo separi dalla sua amata. Al di là di questo, nella
canzone compaiono diversi elementi caratteristici della poesia dei trovatori, riconducibili alla
cosiddetta metafora feudale. L’amore viene qui visto nei termini di un rapporto feudale: il poeta si
rivolge alla sua donna come un vassallo al suo signore, e ha nei suoi confronti un atteggiamento di
sottomissione, al punto che non osa prendere l’iniziativa. Tra il vassallo e il feudatario c’è un patto,
un vincolo giuridico. Anche feudale è il riferimento dell’anello che il signore donava al vassallo nel
corso della cerimonia di investitura. Il ricorso alla metafora feudale ha risvolti perfino grammaticali,
oltre che terminologici, per esempio “Bon vezi” è un senhal della donna amata, ma ci si può
chiedere come mai questo sia al maschile invece che al femminile. La ragione va cercata
nell’espressione stessa che designava la dama, midons, una forma maschile che sta per “mio
signore”: midons giustifica quindi i senhals al maschile.
2.Poesia, Pos vezem de novel florir: è il cosiddetto canto di penitenza e Guglielmo lo compose
probabilmente dopo essere stato ferito in battaglia, in un momento critico sia dal punto di vista
politico che personale, ma da cui dovette riprendersi ben presto affrontando nuovamente le ire della
Chiesa e della moglie a causa del suo comportamento non irreprensibile. La poesia si apre con il
cosiddetto esordio naturale, e in questo caso si tratta di un esordio primaverile: il poeta guarda la
natura e la metta in rapporto con il suo stato d’animo e la sua condizione. Questo tipo di inizi è un
topos o un luogo comune, cioè una descrizione o situazione che fa parte integrante del codice del
genere letterario. Il topos è dunque qualcosa di previsto: l’abilità del poeta consiste nel
personalizzare questo luogo comune. Il topos del locus amoenus contempla la descrizione di un bel
paesaggio con uccelli, fonti, prati o giardini, cieli azzurri e venticelli tiepidi. Questa natura felice
può essere messa in rapporto di similitudine o di contrasto con i sentimenti del poeta. Questo
esordio inoltre può essere rovesciato: primavera con l’inverno, immagini di gioia con lo spettacolo
di un paesaggio desolato. I topoi dunque nel canto cortese dei trovatori e dei trovieri costituiscono
dei punti di riferimento fisse per gli ascoltatori e per i poeti, per fare i conti con la tradizone e
rinnovarla continuamente.
Guglielmo nella poesia dice in sostanza: il mondo naturale è pieno di gioia e quindi è giusto che
ciascuno pensi a ciò che più ama. Le stanze più importanti, secondo Di Girolamo, sono la quinta e
la sesta: in cui si comprende chiaramente che i comandamenti di amore consistono in un insieme di
regole di comportamento sociale: l’etica dell’amore va osservata a corte, nel rapporto che il fin
amador ha, non solo con la donna, ma anche con altri soggetti dell’universo cortese. Già da qui si
comprende come l’amore non va inteso individualmente, ma invece chiama in causa la società. La
settima stanza poi contiene un elemento ancora nuovo: Guglielmo si autoelogia per la bellezza
della sua canzone e soprattutto chiama in causa gli ascoltatori, affermando che la poesia aumenta di
pregio se viene bene intesa, in ogni suo aspetto, da un pubblico competente. Infatti il rapporto tra
poeta e pubblico è cambiato rispetto a prima (cultura latina medievale), con la nascita della lirica
volgare.
Jaufre Rudel: se da una parte Guglielmo d’Aquitania era un personaggio pubblico, un uomo troppo
in vista perché le storie che si raccontavano sul suo conto fossero frutto di fantasia: di una delle sue
amanti conosciamo perfino il nome. Diverso è il caso di Jaufre Rudel: di lui sappiamo solo che era
principe di Blaia, nei pressi di Bordeaux e che nel 1148 era crociato in Terrasanta, dove forse morì.
La storia del suo amore per una dama mai vista, raccontata nella sua vida, non sembra avere alcun
fondamento e pare ricavata dal contenuto stesso delle sue enigmatiche poesie. Inoltre nella vida si
sa che egli fu uomo molto nobile, principe di Blaia. Si innamorò della contessa di Tripoli, senza
vederla («ses vezer»), per il bene che aveva udito raccontare di lei dai pellegrini che venivano da
Antiochia. E fece su di lei molti vers con belle melodie e parole semplici («paubres motz»). E per il
desiderio di vederla si fece crociato e si mise per mare; e una malattia lo colse sulla nave e fu
condotto a Tripoli, come morto, in un ricovero («en un alberc»)…
Del principe di Blaia ci è giunto un piccolo canzoniere di 6 poesie, caratterizzato da un’estrema
rarefazione del dettato poetico: l’effetto di oscurità è il risultato di uno stile proprio
dell’elementarità del tessuto linguistico.
Lancan li jorn son lonc en mai: è la canzone più famosa di Jaufre Rudel. La canzone non presenta
difficoltà di interpretazione, anche se il suo senso complessivo è tutt’altro che comprensibile.
L’intero componimento ruota attorno all’idea della lontananza, posta in esponente dalla parola-rima
lonh, che ricorre ossessivamente al secondo e al quarto verso di ogni stanza. Quel è il significato
dell’amor lonh di Rudel? Prestando fede alla vida del trovatore, che racconta del suo
innamoramento ses vezer, cioè solo per sentito dire, per una nobildonna d’oltremare, la vecchia
scuola biografica tentò di dare un nome a questa dama (si pensò perfino alla regina di Francia
Eleonora d’Aquitania); in realtà la vida non fa che sviluppare il motivo dell’amore lontano
contenuto nelle canzoni del principe. Sono state date diverse interpretazioni a questa poesia: per
Carl Appel l’amore lontano è l’amore per la Vergine; per Grace Frank è invece l’amore per la
Terrasanta; Battaglia scrive che l’autore canta la nostalgia allo stato puro e infine Spitzer ritiene che
l’amor de lonh porterebbe alle sue conseguenze estreme il paradosso amoroso della lirica cortese, a
sua volta fondato sul paradosso cristiano del reale irreale. La lontananza dell’oggetto amato è
dunque condizione dell’amore e l’unica possibilità di esprimerla è quella del discorso onirico.
Non sap chantar qui so non di: altro componimento di Jaufre Rudel: Sei coblas unissonans di sei
ottosillabi + una tornada, secondo lo schema: 8a 8b 8b 8a 8a 8b. siamo di fronte a un vero e proprio
manifesto poetico della lirica provenzale, e di quella che verrà. I. Parole, canto, ragione profonda:
una meditazione sulla poesia; II. Spiritualizzazione dellʼamore; Il motivo dell’amore per una donna
mai vista compare già, in toni paradossali e forse perfino parodici, nel vers de dreit nien di
Guglielmo IX; III. La gioia e la ferita; IV. Uno spazio onirico / Corpo e spirito; V. Nessuna
concessione dallʼamata; VI. Non rovinate il vers; LEGGERE IL TESTO SULLE SLIDE
Ci spostiamo verso il terzo quarto del secolo con Bernart de Ventadorn: a questo trovatore la
poesia amorosa provenzale deve forse la sua fortuna e i progressi successivi, avendole egli dato
un’impronta indelebile. Bernando, come narra la sua biografia, è nato nel castello di Ventadorn, da
un servo del castello che scaldava il forno per cuocere il pane, piacque per la sua bellezza e per le
sue doti naturali al visconte e anche alla viscontessa, che se ne innamorò. Egli non ha trattato d’altro
che di amore, con calore, abbandono, finezza. Poco più di 40 sono i componimenti che possono
dirsi certamente suoi.
Can vei la lauzeta mover: questa canzone è la risposta ad un dibattito che vede protagonisti altri
due trovatori: Raimbaut d’Aurenga e Chrétien de Troyes, il quale mette a confronto tre posizioni
distinte sull’amore, cioè di tre canzoni giocate su una fitta e sottile trama di intertestualità, e non di
uno scambio polemico diretto. Bernart de V. rispose con quella che è la sua canzone più famosa, in
cui utilizza un impianto strofico che allude alla canzone di Raimbaut (non chant per auzel ni per
flor: non canto per uccello né per fiore), presentando rispetto ad essa solo una leggere variazione
nell’uso di ottonari con uscita maschile in luogo di settenari con uscita femminile. La canzone
frequentemente citata da autori provenzali e francesi e da Dante, è stato considerato esemplare
questo componimento, del genere occitanico della canzone nella sua piena maturità, nonché della
situazione stessa dell’amore cortese.
L’immagine di apertura comporta una variazione del topos dell’esordio naturale. Qui infatti, invece
di una descrizione statica, è raffigurata una creatura che vive e che si muove e a cui vengono
attribuiti dei sentimenti. Nella prima stanza viene presentato Il volo dellʼallodola: che rappresenta
qualcosa che non può essere raggiunto e nei suoi confronti non si può provare che invidia, ma
l’allodola, simbolo di lontananza, può anche rappresentare la donna stessa, o meglio l’amore del
poeta, che è destinato al totale fallimento. Questa è infatti una poesia di commiato e di rinuncia
all’amore. Nella seconda stanza, Lʼamante abbandonato: segue una stanza di riflessioni sull’amore,
e il poeta ne descrive gli effetti; l’amante è stato privato di tutto, del cuore, della sua personalità e
della sua identità, e non gli è rimasto che il desiderio. Nella terza stanza si ha un’altra
deformazione di un topos: la descrizione della donna, delle sue qualità fisiche e morali e che qui si
riduce a un semplice accenno agli occhi. Ma gli occhi di lei non sono che uno specchio, in cui
l’amante si è specchiato e ha visto se stesso. Il ricorso al motivo di Narciso implica che l’amore è
una creazione esclusiva della persona che ama, qualcosa di soggettivo e che riguarda il singolo, non
due persone: dietro lo specchio c’è il nulla o la morte. Come nella maggior parte delle canzoni dei
trovatori, questa canzone ospita stanze più argomentative, di ispirazione misogina. Nessuna delle
donne di corte intercede presso l’amata, sicché il poeta non avrà fiducia in loro. Anche la sua
domna, si rivela femna perché non rispetta le regole dell’amore né il diritto di chi le presta il suo
servizio. La conclusione della canzone e disperata: il poeta risponde con il silenzio della morte,
cioè con la rinuncia all’amore e quindi alla poesia. Il senhal (figura retorica della lirica trobadorica,
appellativo riferito ad un personaggio) della tornada si rifà alla canzone di Raimbaut, che era
paragonato infatti a Tristano. Dunque Bernart, con questa canzone, forza lo spazio cortese perché
rinuncia alla condizione di amante, intendendo l’amore come una proiezione narcisistica del
soggetto e quindi come negaticità assoluta.
I trovatori nella modernità: la nostalgia dei trovatori nasce all’indomani stesso della loro
scomparsa. Una scomparsa lenta, annunciata da molto tempo con i primi fuochi della crociata,
contro gli albigesi, ma che poi sembra essersi consumata alla fine del XIII secolo, al punto che G,
Riquier poteva considerarsi l’ultimo trovatore.
Fino ad arrivare al Novecento che fa rivivere i trovatori attraverso i suoi poeti. I trovatori erano
apparsi come personaggi romanzati già nel secolo precedente e nel Novecento la loro presenza è
mediata in maniera evidente proprio grazie alla filologia, dal momento che un accesso diretto, non
guidato da testi era inimmaginabile. Il poeta più colto, che si avvicina ai trovatori è Ezra Pound:
dai trovatori ricava modi espressivi forti, che impara a praticare nel modo più diretto, nella
traduzione in versi e in rima. Dai trovatori trae nuove forme metriche, a cominciare dalla sestina e
modalità della rappresentazione dell’io. Anche Pasolini scopre i trovatori sui banchi universitari in
due corsi di filologia romanza di Parducci. La poesia trobadorica gli serve da modello per
cominciare a comporre in friulano senza avere nessuna conoscenza della tradizione poetica in
questa lingua. Infatti scriverà componimenti come: Amòur me amòur e Le primule. Pasolini non
fa propria una poetica: mette piuttosto in parallelo due mondi poetici, con le terre ideali che ad essi
hanno dato vita. Questi mondi, di persone, parole, hanno la virtù di non avere nulla alle loro spalle.
È il mito di una lingua innocente e di una poesia primigenia che si ripete nel Friuli, una nuova
Provenza.

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