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CAPITOLO OTTAVO – L’OTTOCENTO

 
1. PURISMO E CLASSICISMO
 
All’inizio dell’800 si sviluppò un movimento che va sotto il nome di “Purismo”.
Questo termine indica in sostanza l’intolleranza di fronte ad ogni innovazione, il
culto dell’epoca d’oro della lingua, il ‘300.
Il tradizionalismo cruscante e il culto del fiorentino arcaico offriva salde basi al
Purismo.
Il capofila del Purismo italiano è Padre Antonio Cesari, veronese, autore di libri
religiosi, di novelle, di studi danteschi ma soprattutto lessicografo. Secondo Cesari,
“tutti in quel benedetto tempo del ‘300 parlavano e scrivevano bene. I libri delle
ragione de’ mercatanti, i maestri delle dogane, gli stratti delle gabelle e d’ogni
bottega menavano il medesimo oro…”.
Egli non stabilì che cosa fosse quella bellezza della lingua di cui parlava
misticamente.
Il marchese Basilio Puoti, napoletano, tenne una scuola libera e privata, dedicata
all’insegnamento della lingua italiana, intesa in base a una concezione puristica
meno rigida di quella di Cesari, più disponibile verso gli autori del ‘500.
Lo scrittore Carlo Botta fu autore di una Storia della guerra della indipendenza
degli Stati Uniti d’America (1809) in cui la lingua piena di arcaismi cozza col
contenuto moderno.
Lo scrittore Vincenzo Monti ebbe la forza e l’autorevolezza per porre un freno alle
esagerazioni del Purismo. Definì Cesari il “grammuffastronzolo di Verona”,
rinfacciandogli di aver dato una versione del Vocabolario della Crusca
apparentemente più ampia, in realtà di aver solamente “raccolto ed insaccato a
ribocco tutte quelle voci ch’eransi a bello studio degli Accademici repudiate e
dannate come lordure”.
Le polemiche linguistiche montiane compongo la serie di volumi intitolata
Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita dal
1817 al 1824. Gran parte della Proposta era costituita dalla ricerca di errori
compiuti dai vocabolaristi fiorentini, dovuti anche alla loro scarsa preparazione
filologica.
Tra i romantici milanesi circolò uno scritto di Stendhal intitolato “I pericoli della
lingua italiana”. Questo scritto condannava con forza il Purismo e la particolare
situazione linguistica del nostro paese, caratterizzato dalla vitalità dei dialetti e
dall’artificiosità della lingua letteraria.
 
2. LA SOLUZIONE MANZONIANA ALLA “QUESTIONE DELLA LINGUA”
 
Tra i romantici milanesi si dibatteva attorno al problema, già sollevato nel ‘700,
dell’italiano in tutto o in parte simile ad una lingua morta.
Manzoni, con le sue idee, maturate nella stesura dei Promessi Sposi, rende la
nostra lingua più viva e meno letteraria.
Manzoni affrontò la “questione della lingua” a partire dalle sue personali esigenze
di romanziere. Iniziò ad occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821,
con la stesura del Fermo e Lucia, redazione iniziale dei Promessi Sposi. Questa
prima fase eclettica cercava di raggiungere uno stile duttile e moderno utilizzando
il linguaggio letterario, ma senza vincolarsi ai puristi, anzi accettando francesismi e
milanesismi, o applicando la regola dell’analogia. Questa descrizione della propria
lingua letteraria fu data da Manzoni stesso nella seconda introduzione al Fermo e
Lucia, del 1823, dove prendeva ormai le distanze dallo stile “composito”, e
lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo, ammettendo il provvisorio
fallimento. La seconda fase, che Manzoni chiamò toscano-milanese, corrisponde
alla stesura dei Promessi Sposi per l’edizione del 1825-27. In questo caso lo
scrittore cercava di utilizzare una lingua genericamente toscana, ma ottenuta per
via libresca.
Questo studio libresco, comunque, non poteva bastare. In lui maturò un concetto di
uso molto più vitale e innovativo. Nel 1827 Manzoni fu a Firenze, e il contatto
diretto con la lingua toscana suscitò una reazione decisiva. La nuova edizione dei
Promessi Sposi, nel 1840-42, corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso,
resa scorrevole, piana, purificata da latinismo, dialettismi ed espressioni letterarie
di sapore arcaico. Si trattava del linguaggio fiorentino dell’uso colto.
Nel 1847, in una lettera al lessicografo piemontese Giacinto Carena, Manzoni
espresse la propria posizione definitiva, auspicando che la lingua di Firenze
completasse quell’opera di unificazione che già in parte si era realizzata proprio
sulla base di quanto vi era di vivo nella lingua letteraria toscana.
Nel 1868 lo scrittore, in una Relazione al ministro Broglio, spiegò come il
fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una capillare politica linguistica, messa
in atto nella scuola, a opera degli insegnanti, e proposta in forma di generalizzata
educazione popolare. Proponeva anche che si realizzasse un vocabolario della
lingua italiana concepito su basi nuove, affiancato da agili vocabolari bilingui,
capaci di suggerire le parole toscane corrispondenti a quelle proprie delle varie
parlate d’Italia.
Tommaseo e Lambruschini presero le distanze da Manzoni, rivendicando la
funzione degli scrittori nella regolamentazione della lingua, sollevando dubbi di
varia natura sul primato assoluto dell’uso vivo di Firenze.
Quel modello sembrava aver la capacità di liberare la prosa italiana dall’impaccio
della retorica; era l’antidoto ai difetti messi in evidenza dal manzoniano Ruggero
Borghi nel bel saggio Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1855).
I difetti di costruzione e le inversioni, infatti, ne rendevano faticosa la lettura. In
alternativa proponeva uno stile piano, adatto a una piacevole conversazione, senza
paludamenti classici.
L’esempio di Manzoni, inoltre, favorì la prassi della “risciacquatura in Arno”, il
soggiorno culturale a Firenze allo scopo di acquisire familiarità con la lingua
parlata in quella città. Influì sugli insegnamenti un libro come l’Idioma gentile di
De Amicis (1905). La borghesia italiana, nella babele linguistica della nazione
appena unificata, aveva appunto bisogno di libri del genere, facili e concreti.
L’unico freno al diffondersi della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu
probabilmente il prestigio di un poeta-professore come Carducci, irriducibile
avversario del “popolanesimo” toscaneggiante, pronto a sferzarlo con la sua satira.
 
3. UNA STAGIONE D’ORO DELLA LESSICOGRAFIA
 
L’800 è stato il secolo dei dizionari: una stagione splendida per ricchezza di
produzione e per qualità. La “Crusca veronese”, fondata nel 1806-11 da padre
Antonio Cesari di Verona, aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con una
serie di giunte, allo scopo di esplorare ancor più a fondo il repertorio della lingua
antica, la lingua trecentesca, ripescata non solamente negli scritti dei grandi autori,
ma anche nei minori e minimi, poco colti e semipopolari.
Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe
Manuzzi, anch’esso nato da una revisione della Crusca. Manuzzi fu un purista
come Cesari.
Le opere citate possono dare l’impressione di una certa monotonia, di una
mancanza di originalità, per il tentativo di sommare l’esistente mediante
l’accumulo di giunte, aggiunte al vocabolario di base.
La somma delle giunte avveniva in maniera piuttosto meccanica, e ciò indica la
difficoltà nell’amalgamare l’insieme, l’impossibilità di tagliare di netto con il
passato. Persino gli esperimenti lessicografici più notevoli e innovativi prendevano
pur sempre le mosse della Crusca, anche se poi se ne distanziavano in maniera
critica.
Tra il 1829 e il 1840 la società tipografica napoletana Tramater diede alle stampe il
Vocabolario universale italiano, la cui base era ancora la Crusca; l’opera aveva
però un taglio tendenzialmente enciclopedico e dedicava particolare attenzione alle
voce tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri.
L’opera si segnala per il superamento delle definizioni tradizionali: i vocabolari del
passato avevano fatto riferimento a cane come “animal noto” o il cavolo come
“erba nota”; nel Tramater, invece, la definizione zoologica e botanica poggia sulla
precisa classificazione scientifica, per cui il cane è la “specie di mammifero
domestico…che ha sei denti incisori…”.
Nessun vocabolario dell’800 si avvicina nemmeno lontanamente alla qualità del
Dizionario di Tommaseo (poi portato a termine da Bellini). Tommaseo si
preoccupò di illustrare attraverso il proprio dizionario le idee morali, civili e
letterarie. Tra queste, comunismo e positivismo, entrambe accompagnate da una
definizione umorale e per nulla oggettiva.
Uno dei punti di forza del nuovo vocabolario era, oltre alla mole e all’abbondanza
dei termini, la strutturazione delle voci. Il criterio seguito non consisteva nel
privilegiare il significato più antico o etimologico, ma nel dichiarare “l’ordine delle
idee”, seguendo un criterio logico, a partire dal significato più comune ed
universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali significati diversi di una
parola, individuati da numeri progressivi, e privilegiando sostanzialmente l’uso
moderno.
Della soggettività di Tommaseo, è rimasta celebre la faziosità contro Leopardi,
dimostrata nel compilare la voce “procombere”: “l’adopra un verseggiatore
moderno, che per la patria diceva di voler incontrare la morte…Non avendo egli
dato saggio di sostenere virilmente i dolori, la bravata appare non essere che
retorica pedanteria”.
Si realizzò anche un vocabolario coerente con l’impostazione manzoniana, ispirata
al fiorentinismo dell’uso vivo. Nella relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi
di diffonderla del 1868, Manzoni aveva guardato al Dictionnaire de l’Acadèmie
française: erano stati aboliti gli esempi di autore. Al posto delle citazioni tratte
dagli scrittori, il Giorgini-Broglio presentava una serie di frasi anonime,
testimonianza dell’uso generale. Allo stesso tempo, venivano eliminate le voci
arcaiche. Secondo Manzoni, si trattava di scindere le due funzioni che si erano
confuse nei vocabolari italiani, i quali avevano voluto allo stesso tempo mostrare
l’uso vivente, e documentare gli esempi degli scrittori del passato. Questa seconda
finalità doveva essere invece rinviata a lessici appositi, di tipo esclusivamente
storico, mentre la funzione primaria doveva essere quella di indicare l’uso vivo di
Firenze.
Il secondo obiettivo proposto da Manzoni nella Relazione del 1868 stava nella
realizzazione di una serie di vocabolari dialettali i quali suggerissero l’esatto
equivalente fiorentino.
L’800 fu anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale. L’interesse romantico
per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il
dialetto, considerato non più italiano corrotto, ma una parlata con la sua dignità, i
suoi documenti, la sua storia parallela a quella della lingua italiana. Lo studio dei
dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche
per le forme letterarie della cultura orale, canti e racconti.
Mentre si realizzava l’unità d’Italia, lo studio dei dialetti serviva proprio per
scoprire le tradizioni italiane.
 
4. GLI EFFETTI LINGUISTICI DELL’UNITA’ POLITICA
 
In comune, tra i vari stati italiani, c’era soltanto un modello di italiano letterario,
elaborato dalle élite. Mancava quasi completamente una lingua invece comune
della conversazione.
Il numero degli italofoni, era allora incredibilmente basso. De Mauro, al momento
della fondazione del Regno d’Italia, sostiene che quasi l’80% degli abitanti era
analfabeta ufficialmente. Non tutto il restante 20% però sapeva utilizzare l’italiano.
Alfabeta dunque non significava avere un reale possesso della lingua scritta. De
Mauro ha supposto che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua
occorresse almeno la frequenza della scuola superiore postelementare, la quale nel
1862-63 toccava solamente l’8,9 per mille della popolazione tra gli 11 e i 18 anni,
ovvero 160000 individui. A questi, si aggiungano i 40000 toscani e 70000 romani
che hanno un possesso naturale della lingua. Essi infatti, se hanno conseguito
anche solo un’istruzione elementare, hanno un possesso accettabile della lingua.
In totale sarebbero dunque 600000 gli italiani capaci a parlare italiano su una
popolazione totale di 25 milioni, ovvero il 2,5%.
Castellani ha invece posto il problema dell’esistenza di una fascia geografica
mediana, corrispondente almeno a una parte della Marche, del Lazio e
dell’Umbria, in cui la natura delle parlate locali è tale da far ritenere che un grado
di istruzione anche elementare sia sufficiente per arrivare al possesso dell’italiano.
Il nocciolo del problema sta nel tipo di rapporto che si ritiene intercorra tra la
lingua toscana parlata, i dialetti dell’area mediana e l’italiano. Il nuovo calcolo del
Castellani alza la percentuale di parlanti in italiano al 10% della popolazione totale.
Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la scuola elementare divenne
ovunque gratuita ed obbligatoria grazie all’estensione della legge piemontese
Casati del 1859 in tutto il territorio statale. La legge Coppino del 1877 rese
effettivo l’obbligo della frequenza, almeno per il primo biennio, punendo gli
inadempienti.
Nel 1861, almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico.
Nel 1906, evadeva l’obbligo ancora il 47% dei ragazzi.
Esistevano gravi condizioni di disagio: certi maestri infatti usavano il dialetto per
tenere lezione, essendo incapaci di fare di meglio; inoltre nelle scuole superiori si
confrontarono posizioni teoriche diverse, con la presenza di insegnanti puristi,
manzoniani e classicisti.
Giosuè Carducci diede il suo parere su programma e libri scolastici, progettando un
percorso basato su di un sentimento classico della lingua letteraria.
Le cause che hanno portato all’unificazione linguistica italiana dopo la formazione
dello stato unitario, individuate da Tullio De Mauro, possono essere così riassunte:
1) azione unificante della burocrazia e dell’esercito. 2) azione della stampa
periodica e quotidiana. 3) effetti di fenomeni demografici quali l’emigrazione, che
porta fuori dall’Italia molti analfabeti. 4) l’aggregazione attorno ai poli urbani che
significa abbandono dei dialetti rurali.
 
5. IL RUOLO DELLA TOSCANA E LE TEORIE DI ASCOLI
 
Nel 1873 le idee e le proposte manzoniane furono contrastate da Graziadio Isaia
Ascoli, il fondatore della linguistica e della dialettologia italiana.
La polemica prendeva le mosse dal titolo del Novo vocabolario della lingua
italiana secondo l’uso di Firenze di Giorgini-Broglio, titolo in cui era stato usato
l’aggettivo novo alla maniere fiorentina moderna, con il monottongamento in –ò-
di –uo-, contro al tipo nuovo, ormai largamente accolto nella lingua letteraria
comune. In sostanza Ascoli escludeva che si potesse disinvoltamente identificare
l’italiano nel fiorentino vivente, e affermava che era inutile quanto dannoso
aspirare a un’assoluta unità della lingua.
L’unificazione linguistica italiana non poteva essere la conseguenza di un
intervento pilotato, doveva essere una conquista reale, che sarebbe avvenuta solo
quando lo scambio culturale nella società italiana si fosse fatto fitto.
Ascoli, inoltre, contestava che si potesse applicare in Italia il modello centralistico
francese, a cui si era ispirato Manzoni. L’Italia andava considerata insomma un
paese policentrico, in cui Ascoli individuava la mancanza di quadri intermedi che
si ponessero a mezza strada tra i pochissimi dotti e l’ignoranza delle masse, e la
malattia era la retorica.
Ascoli è severo con la Toscana. La giudica una terra fertile di analfabeti, con una
cultura stagnate: perciò meglio guardare a Roma.
Castellani invece ha difeso il ruolo e la funzione di questa regione, insistendo
sull’importanza del manzonismo.
 
6. IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO
 
Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza superiore.
Proliferavano infatti periodici che raggiungevano un pubblico nuovo. Ma
inizialmente non era stato facile, e il giornale primo-ottocentesco infatti restava
ancora un prodotto di èlite.
Nella seconda metà del secolo, in ogni modo, il giornalismo diventò fenomeno di
massa. Ancora in questo periodo, nel giornale di alternavano voci culte e libresche
a voci popolari, anche se vengono in genere evitati i dialettismi più vistosi. Alcune
voci regionali si diffondono attraverso questo canale, come camorra e picciotto.
La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodare breve, e spesso alla frase
nominale. Il giornale è oggi linguisticamente interessante perché composto da parti
diverse: la lingua della cronaca infatti non è la stessa di quella politica o
economica.
Compare anche la pubblicità sotto forma di annunzi che spesso contenevano
termini nuovi o parole regionali.
Michele Ponza, insegnante e lessicografo piemontese, nel 1830 se la prendeva con
un foglio periodico in cui trovava regionalismi come grotta per cantina e pristinaio
per panettiere. Il direttore si difese dicendo: “Non so come siami lasciata cadere
dalla penna questa marcia voce di pristinaio, voce lombarda”.
 
7. LA PROSA LETTERARIA
 
Nell’800, si fonda la moderna letteratura narrativa. Manzoni ebbe il merito di
rinnovare il linguaggio non solo del genere romanzo, ma anche della saggistica,
avvicinando decisamente lo scritto al parlato.
Una svolta nella prosa letteraria è comunque quella segnata da Manzoni nei
Promessi Sposi, che uscì in prima edizione del 1825-27 già indirizzata verso la
lingua media e comune. Seguì una lunga e meditata revisione, la cosiddetta
risciacquatura dei panni in Arno, cioè la correzione della lingua del suo
capolavoro, che egli voleva perfettamente adeguato al fiorentino delle persone
colte.
Possiamo così sintetizzare i criteri della prassi correttoria manzoniana:
1) espunzione abbastanza ampia della forme lombardo-milanesi, come
l’eliminazione del termine marrone per sproposito: ho fatto un marrone diventa ho
sbagliato.
2) Eliminazione di forme eleganti, pretenziose, scelte, preziosistiche, auliche,
affettate, arcaicizzanti, o letterarie rare: lunghesso la parete per strisciando il muro
e l’affisò per lo guardò, per esempio.
3) Assunzione di forme tipicamente fiorentine come i monottongamenti di –uo-:
avremo quindi spagnuolo per spagnolo; poi l’uso di lei e lui come soggetti al posto
dei letterari ella ed egli. E ancora citeremo pranzo per desinare.
4) Eliminazione di doppioni di forme e di voci, avendo quindi eguaglianza per
uguaglianza e quistione per questione.
La risciacquatura dei panni in Arno determinò in linea di massima l’adozione di
uno stile più naturale, più sciolto, slegato dalla tradizione aulica allora imperante.
Ecco alcuni esempi da due edizioni dei Promessi Sposi:
ed. 1827: Renzo rimase lì gramo e scontento, a pensar d’altro albergo. […] La casa
era fuori del villaggio, a pochissima distanza. Quivi egli deliberò di rivolgersi a
chiedere ospizio. Ed. 1840: Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove
anderebbe a fermarsi. […] La casa era a pochi passi fuori dal paese. Pensò di andar
lì.
Si noti in particolare la frase finale, in cui il pesante costrutto indotto da quivi,
costituito da ben tre verbi di fila, viene sostituito dall’agilissimo “Pensò d’andar
lì”; poi vi è l’eliminazione del troppo letterario gramo a favore di triste. A livello
fonomorfologico invece si nota giovinotto al posto di giovanotto.
Modelli di prosa toscana che stanno a margine rispetto al Manzoni sono quelli di
Fucini e di Collodi. Quest’ultimo, in particolare, ebbe una grande influenza sul
pubblico giovanile, con il celeberrimo Le avventure di Pinocchio (1883). Di fatto,
lo stile di quel libro collaborò con il manzonismo a diffondere la lingua toscana in
tutta Italia.
Un diverso uso del toscanismo si ha negli scrittori del “multilinguismo” come
Carlo Dossi, Giovanni Faldella e Vittorio Imbriani. Usavano forme linguistiche
attinte a fonti diverse: toscano arcaico, toscano moderno, linguaggio comune e
dialetto si trovano a coesistere in una miscela composita.
Ben altra importanza ebbe la svolta inaugurata da Verga, soprattutto nei
Malavoglia. Verga non abusa del dialetto e non lo usa come macchia locale.
Il procedimento sta nell’adattare la lingua italiana a plausibile strumento di
comunicazione per i personaggi siciliani appartenenti al ceto popolare, senza
peraltro regredire ad un dialetto usato in maniera integrale. Lo scrittore adotta
dunque alcune parole siciliane note in tutt’Italia, e poi ricorre ad innesti
fraseologici, come quando usa l’espressione “pagare col violino”, ovvero a rate.
Tratti popolari sono anche i soprannomi dei personaggi, l’uso del che polivalente,
la ridondanza pronominale, il ci attualizzante (es: averci), gli per loro. Questi tratti
popolari servono a simulare un’oralità viva, suggerita anche da raddoppiamenti e
ripetizioni (“ci levano la camicia di dosso, ci levano!”).
Molto nuova risulta la sintassi usata da Verga, in particolare per il discorso
indiretto libero (o “discorso rivissuto”): esso è un miscuglio del discorso diretto e
del discorso indiretto. Non vengono aperte le virgolette, ma nella voce dello
scrittore affiorano modi e forme che sono propri del discorso diretto: “Gli venivano
tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di
fabbricare quel magazzino!”.
Abbiamo insomma un’oscillazione tra l’autore e il suo personaggio.
 
8. LA POESIA
 
Il linguaggio poetico dell’800 si caratterizza, almeno all’inizio del secolo, per una
fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in coincidenza con l’affermarsi del
Neoclassicismo, in Vincenzo Monti, ma anche in Foscolo. Il lessico viene
selezionato in modo da ascriversi alla serie delle parole nobili, cultismi (bronchi
per rami e avelli per tombe) e latinismi (cure per affanni), diverse da quelle proprie
della quotidianità.
Nel caso di parole che non erano diverse in prosa e in poesia, per nobilitarle nella
forma, si ricorreva con facilità alla sincope (spirto per spirito, pria per prima) o al
troncamento: nei Sepolcri troviamo mar e non mare, per esempio.
Un maestro di retorica dell’inizio dell’800, diceva così: “Poesia è favella degli
iddii, e tanto migliore è, quanto più dai parlari del profano vulgo si sprolunga.
Dalle idee basse, che rammentano cose troppo a noi vicine abborri, figliuol mio. Ai
nomi propri sostituisci una bella circonlocuzione; non dirai amore, ma il bendato
arciero, etc.”.
Anche Leopardi dichiara che gli arcaismi si confanno alla poesia. Il suo linguaggio
poetico si riallaccia alla tradizione petrarchesca e tassiana; ma attraverso Tasso,
Leopardi acquisisce anche il principio del carattere vago del linguaggio poetico,
parole che evocano e suggeriscono qualche cosa di indefinito, e quindi di poetico.
Il linguaggio poetico dell’800 ha difficoltà ad accettare vistose novità formali. Lo
stesso Manzoni, come poeta si attenne sostanzialmente alla forma tradizionale. Il
tono, comunque, è sempre alto, anzi sublime.
Quando i romantici vollero introdurre in poesia contenuti realistici, urtarono
proprio contro questo ostacolo. I poeti classicisti, quando avevano avuto la
necessità di menzionare oggetti comuni, avevano fatto ricorso alla perifrasi: Gian
Luigi Beccaria ricorda le “rauche di stagno abitatrici (rane) del Monti.
L’800 fu un secolo in cui ebbe eccezionale sviluppo qualitativo la poesia in
dialetto. Il Porta milanese e il romano Belli (introdusse fregarsene, cazzata e fesso
nella lingua nazionale) rappresentarono i più alti esponenti di questo tipo di
letteratura.
Il classicista Pietro Giordani, nel 1816, afferma che l’uso dei dialetti era nocivo
alla nazione, che i dialetti erano “moneta di rame” da spendere con gente rozza, o
con i bambini, nelle circostanze banali della vita comune. Giordani riteneva che la
poesia dialettale fosse da collocare su di un piano basso.
Bisogna prendere atto che romantici e classicisti, sul tema della letteratura in
dialetto, partivano da presupposti completamente diversi. I romantici si ponevano
come difensori del dialetto, mentre i classicisti diffidavano di ogni discesa verso il
livello basso della comunicazione e guardavano alla tradizione letteraria nazionale
nelle sue forme nobili.
Tornando al Porta, egli entrò direttamente nella polemica contro Giordani,
scrivendo una serie di dodici sonetti satirici.
 
CAPITOLO NONO – IL NOVECENTO
 
1. IL LINGUAGGIO LETTERARIO NELLA PRIMA META’ DEL SECOLO
 
La lingua italiana si presenta nel ‘900 con un ribollire di novità. Probabilmente
Carducci è l’ultimo scrittore che incarna il ruolo tradizionale del vate.
Anche la poesia di D’Annunzio non rinuncia alla nobilitazione attraverso la
selezione lessicale. G.L. Beccaria ricorda che ippopotamo diventa “pachidermo
fiumale”.
D’altra parte, la poesia di D’Annunzio si presenta come innovativa, per la capacità
di sperimentare una miriade di forme diverse (anche metriche, fino a preludere
ormai al verso libero), e per il gusto di citare e utilizzare lingua, esempi, stilemi
antichi. D’Annunzio è un consumatore onnivoro di parole, è un compulsatore di
vocabolari e di lessici specialistici. Gli si devono, fra l’altro, alcuni neologismi tra i
quali velivolo per aeroplano, così come ha avuto fortuna il nome da lui suggerito
per la Rinascente (grande emporio milanese distrutto da un incendio e rinato dalle
proprie ceneri).
Inoltre collaborò con la nascente cinematografia del muto, fornendo le didascalie e
i nomi di persona latini e punici per il colossal del 1914 Cabiria.
Una prima rottura col linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli, con i
crepuscolari e le avanguardie.
Benché Pascoli utilizzi parole colte e latinismi, benché sappia maneggiare
perfettamente la forma antica, con lui “cade” la distinzione fra parole poetiche e
non poetiche, fino ad includere dialettismi, regionalismi e persino un po’ di
italoamericano in Italy.
La poesia crepuscolare accentuò nel verso la tendenza verso la prosasticità,
rovesciò il tono sublime. In Gozzano, il rovesciamento dei toni si ha mediante una
dissacrante ironia.
Quanto all’avanguardia, in Italia essa si identifica sostanzialmente col futurismo.
Fra le innovazioni più vistose ed effimere ricordiamo l’uso di parole miste a
immagini, l’uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse per rendere l’intensità
e il “volume fonico” delle parole, l’abolizione della punteggiatura e il largo uso di
onomatopee.
Le punte più innovative della prosa dannunziana si possono indicare nel Notturno e
nel tardo Libro segreto. La prosa del Notturno si caratterizza per il periodare breve
e brevissimo, per la sintassi nominale, per i frequenti “a capo”, per la presenza di
elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico.
Ecco un esempio in cui D’Annunzio, cieco, si impersona in una rondine:
“Entra nella Corte Contarina. Un grido, due gridi. / Viene dalla riva degli
Schiavoni. / Passò sopra Chioggia. / Volò a San Francesco del deserto”.
D’Annunzio, dunque, col suo gusto per lo sperimentalismo, è una sorta di Giano
bifronte: si pone a chiusura di un ciclo storico e al tempo stesso inaugura nuove
tendenze.
Un interessante riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, nelle opere
teatrali, dove si ha la presenza di una serie di interiezioni frequentissime come “ah
sì!”, “eh via!”, e connettivi come “è vero”, “ si sa”.
Va ricordato inoltre che Pirandello “è sempre stato programmaticamente diffidente
verso il dialetto come strumento letterario”.
L’altro grande scrittore del primo ‘900, Italo Svevo, è famoso per il rapporto non
facile con la lingua italiana, determinato dalla sua provenienza da un’area
periferica come quella di Trieste. A lui fu rivolta l’accusa di “scriver male”.
La mancata adesione ai modelli del bello scrivere, in una tradizione iperletteraria e
culta come quella italiana poteva essere persino una forza, una verginità; e forse
effettivamente lo fu, nel senso che favorì una diversità e leggibilità del testo.
Uno dei punti di riferimento per gli scrittori rimane sempre però il dialetto.
Bisogna distinguere fra l’utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili
combinando dialetto e lingua. Nel ‘900, anche il toscano può essere considerato
alla stregua di un dialetto: Federico Tozzi introduce senesismi dei suoi romanzi
(parole come astiare per odiare). Negli scrittori invece mistilinguisti come Carlo
Emilio Gadda, non c’è un solo dialetto, ma una varietà: lombardo, fiorentino,
romanesco, molisano, etc.
 
2. L’ORATORIA E LA PROSA D’AZIONE
 
L’oratoria del primo ‘900 richiama il tema dei discorsi rivolti alle masse da
Mussolini. Gran parte del loro fascino stava nel rapporto diretto con la folla,
secondo i dettami, appunto, dell’oratoria tradizionale.
Se dovessimo indicare un modello che, meglio di quello mussoliniano, rappresenta
le tendenze di un’oratoria letteraria e magniloquente, coltissima, efficace, ben
radicata anche nel militarismo patriottico della Grande Guerra, dovremmo riferirci
ancora una volta a D’Annunzio.
Sicuramente il modello dannunziano influì sulla retorica del Fascismo. Nella
lingua del fascismo e di Mussolini sono stati individuati i seguenti caratteri:
abbondanza di metafore religiose (martire, asceta, etc.), militari (falangi, veliti),
equestri (redini del proprio destino), oltre a tecnicismi di sapore romano, come
Duce, littore, centurione e manipolo.
Si aggiunga l’ossessione dei numeri: l’insistenza, ad esempio, sui milioni di
italiani, sulle migliaia o decine di migliaia di caduti, di feriti, etc. Rispetto ai
modelli di retorica alta prima esaminati, l’oratoria mussoliniana rivolta al popolo si
distingue per un particolare tipo di dialogo con la folla, la quale risponde con
l’ovazione collettiva. Ovviamente nel discorso mussoliniano ha largo posto lo
slogan, l’esagerazione e il luogo comune: massa compatta, compiti poderosi,
pagine di sangue e di gloria, fermissima incrollabile decisione, etc.
 
3. LA POLITICA LINGUISTICA DEL FASCISMO
 
Il fascismo ebbe una chiara politica linguistica: la battaglia contro i forestierismi in
nome dell’autarchia culturale, la repressione delle minoranze etniche e la polemica
antidialettale erano i punti fermi.
Nel 1930 si ordinò la sospensione nei film di scene in lingua straniera. Nel 1940
l’Accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole
forestiere e di indicare alternative, anche perché una legge dello stesso 1940 vietò
l’uso di parole straniere nell’intestazione delle ditte, nelle attività professionali e
nelle varie forme pubblicitarie.
Durante il fascismo venne fondata la rivista “Lingua Nostra”, in cui agli interventi
scientifici si affiancarono discussioni normative. Bruno Migliorini, in particolare,
elaborò una concezione moderatamente avversa ai forestierismi, definita
“neopurismo”.
A Migliorini si deve fra l’altro la brillante sostituzione della parola resgista al
francese regisseur.
Con l’avvento della Repubblica è stata abrogata la normativa linguistica
esterofoba. Ora in campo linguistico esiste una certa vitalità, dopo che è stata
approvata una legge molto radicale sulla protezione delle minoranze, nella quale si
riconosce tuttavia che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (legge 15
dicembre 1999, n.482).
Tornando alla battaglia fascista contro i forestierismi, va ricordato che furono
pubblicati vari elenchi di parole proscritte, con indicazione dei relativi sostituti.
Nella lingua comune, le parole suggerite dall’Accademia si affiancarono al
forestierismo; ancora permane ai tempi nostri una concorrenza, diventata una
pacifica convivenza, tra termini come “rimessa/garage” e “villetta/chalet”.
Durante il Fascismo vi fu anche una campagna per abolire l’allocutivo “Lei”
(febbraio 1938), e sostituirlo col “Tu”, considerato più romano, e con il “Voi” (di
rispetto, rivolgendosi ai superiori). La campagna non ebbe molto successo.
All’inizio del ‘900 la Crusca tentava ancora di concludere una nuova versione del
suo vocabolario, la quinta, avviata nel 1863. La mole dell’opera era davvero
notevole, ma la realizzazione si trascinò stancamente.
Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile,
filosofo vicino al regime fascista, fu tolto alla Crusca il compito di preparare il
vocabolario. Si interruppe così la quinta impressione, giunta in tanti anni alla
lettera “o”.
Il ventennio fascista si inaugurava, dal punto di vista lessicografico, con la
soppressione dell’antico vocabolario dell’Accademia di Firenze; ma anche il nuovo
e moderno vocabolario del fascismo, prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe
esito felice: la pubblicazione di Giulio Bertoni arrivò infatti solo al primo volume
(1941, lettere da A a C).
Il vocabolario dell’Accademia d’Italia procedette, rispetto al Tommaseo,
all’eliminazione di molte voci antiche.
Nelle linee programmatiche, gli autori accennavano alla necessità dell’accettazione
di vocaboli nuovi per designare idee e cose nuove. Ci si mostrava coscienti che i
vocaboli non si impongono per autorità né di Accademie, né di decreti. Di fatto i
forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, e anche nella forma di prestiti
non adattati, come boxe, bulldog e camion, posti in parentesi quadra al fine di
segnalare la loro estraneità alla sostanza della lingua.
Un aspetto innovativo è il criterio di citazione degli esempi, un compromesso fra la
forma tradizionale della Crusca e di Tommaseo (ampia citazione degli autori) e
quella del Giorgini-Broglio (elimina il riferimento agli autori): sono infatti citati gli
scrittori, ma solo come documentazione di un uso comune, senza riferimento
preciso all’opera.
Questo vocabolario non ebbe tuttavia influenza. Troppo ridotta risultò la parte
realizzata rispetto al progetto, interrottosi con la caduta del Fascismo.
Un certo rilievo ebbe invece la realizzazione di un piccolo vocabolario destinato a
fornire la pronuncia esatta delle parole italiane, a uso primario degli annunciatori
della radio. Nel 1939, infatti, Bertoni e Ugolini pubblicarono il Prontuario di
pronunzia e di ortografia, nel quale si affrontava la questione della pronuncia
romana, là dove essa divergeva dalla fiorentina, rivendicando il ruolo di Roma
nella questione della lingua.
Veniva proposto, per conseguenza, nei casi di divergenza con Firenze, di accettare
l’uso romano.
 
4. DAL “NEOITALIANO” DI PASOLINI ALLA LINGUA “STANDA”
 
A Pasolini si deve un clamoroso intervento nella “questione della lingua”. Nato
come conferenza, questo intervento fu infine pubblicato sulla rivista “Rinascita”
del 16 dicembre 1964 con il titolo “Nuove questioni linguistiche”.
Partendo da queste premesse marxiste e gramsciane, sosteneva che era nato un
nuovo italiano, i cui centri irradiatori stavano al Nord del paese, dove avevano sede
le grandi fabbriche, dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale.
Egli annunciava che era nato “l’italiano come lingua nazionale”, nel senso che per
la prima volta una borghesia egemone era in grado di imporre in maniera
omogenea i suoi modelli alle classi subalterne. Tale nuovo italiano poteva contare
su:
1) la semplificazione sintattica, con la caduta di forme idiomatiche e metaforiche.
2) La drastica diminuzione dei latinismi.
3) La prevalenze dell’influenza tecnica rispetto a quella della letteratura.
Un coro di fischi accolse queste acute intuizioni di Pasolini. Diversi anni dopo
Pasolini intervenne per rivendicare una funzione rivoluzionaria dei dialetti e per
lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani.
Egli utilizzava come sistema di riferimento il rapporto con la “lingua media”
(negativa). Sembrava privilegiare viceversa gli esperimenti di plurilinguismo, alla
maniera di Gadda.
Vittorio Coletti, parlando di narratori come Calvino, Tomasi di Lampedusa,
Nathalie Ginzburg etc., osserva che la scelta da essi compiuta in favore della
“lingua media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le infrazioni
espressionistiche o d’avanguardia, è innanzitutto una scelta di una lingua più ricca
e più complessa di quella ammessa dal romanzo nell’immediato dopoguerra”.
Si noti inoltre che gli scrittori della normalità stilistica, sono alla fin fine gli autori
oggi più letti dal grande pubblico.
Lo scrittore gode oggi di una libertà grandissima: può anche arrivare alle soglie di
una lingua semidistrutta e massificata, che è stata ironicamente definita anziché
standard, standa (Antonelli), in riferimento alla nota catena di supermercati.
Nei poeti come Saba, Ungaretti e Montale, il ‘900 sperimenta una grande varietà di
soluzioni stilistiche, dall’apertura al linguaggio comune e quotidiano, fino agli esiti
arditi di Zanzotto. Montale, dopo aver sapientemente selezionato quanto gli offriva
la tradizione primo-novecentesca, è arrivato, in Satura (1971) a una lingua spesso
ironica, distaccata, prosastica, intrisa di citazioni di elementi quotidiani, tuttavia
calcolata con straordinaria eleganza e letterarietà.
 
5. VERSO L’UNIFICAZIONE: “MASS-MEDIA”, DIALETTI, IMMIGRAZIONE
 
Vi era stata indubbiamente nel corso del ‘900 una perdita nei dialetti e
nell’espressività gergale. Era nata un’Italia ben diversa da quella povera, contadina
e patriarcale della prima metà del secolo. C’era stato un cambiamento al livello
della scolarizzazione, prima di tutto.
L’analfabetismo, dal 75% del 1861 e dal 40% del 1911, era passato poi al 14% nel
1951, all’8,3% nel 1961 e al 5,2% nel 1971. I sondaggi ci dicono anche che è
progressivamente diminuito lo spazio del dialetto. Si aggiunga che i dialetti hanno
subito un processo di avvicinamento alla lingua comune e che quindi oggi sono più
“italianizzati”.
Negli anni ’60 e ’70, anche la fabbrica ha svolto una funzione di scuola,
promuovendo ed integrando nella realtà cittadina e industriale, masse di origine
contadina.
La radio italiana nacque nel 1924. La televisione del gennaio del 1954. De Mauro
ne ha messo in evidenza gli effetti, decisivi per l’unificazione linguistica, legati
alla Rai.
L’effettiva influenza odierna linguistica della televisione è assai minore comunque
a quella del suo primo decennio di vita.
Per la diffusione di forme della varietà regionale romana, ha avuto largo spazio la
Rai; quanto alle reti private Mediaste, esse diffondono spesso il modello linguistico
settentrionale, in genere milanese, il cui prestigio è andato crescendo.
Il quotidiano è il “tramite fondamentale fra l’uso colto e letterario dell’italiano e la
lingua parlata” (Beccaria), e inoltre il giornale può essere assunto come un indice
della lingua media.
Nel giornale troviamo una pluralità di sottocodici (politico e finanziario, per es.) e
di registri (aulico, brillante, etc.). Il luogo di maggiore originalità del linguaggio
del giornale sta nei titoli. Lo slogan deve colpire il lettore, e spesso consiste in una
frase nominale.
Gran parte della fortuna recente di parole come ABS, retrofit o air-bag è affidata
alla martellante pubblicità delle case automobilistiche.
La lingua della pubblicità tende sovente a forzare, ad esempio mediante un marcato
uso dei superlativi, sia con desinenza –issimo, sia mediante i prefissi extra, iper,
super, etc.

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