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anche i meno noti dei letterati italiani che han scritto di lingua trovano
collocazione.1 Salvo errore, la bibliografia su Ortes als Sprachforscher
si riduce alle pagine dedicategli da Lia Formigari e anche da chi scrive
nei primi anni Novanta, unitamente ai pertinenti cenni disseminati in
taluni contributi di carattere più generale (del Di Lisa, del Farina e
altri);2 ed è anche per questo che si rende opportuna e urgente una rie-
dizione del prezioso libretto, che tenga conto dei peraltro non copiosi
materiali autografi presenti in Marciana, già a suo tempo segnalati dal
Torcellan.3
Eppure le Riflessioni ortesiane avevano, al loro tempo, una carica
innovativa di non poco conto. Si valutino, anzitutto, gli aspetti cro-
nologici. Al tempo della pubblicazione, il 1775, il curriculum filosofi-
co-linguistico del pensiero italiano era ancora piuttosto smilzo, specie
se paragonato al quadro internazionale. A parte la Scienza Nuova del
Vico (della quale la sezione sul linguaggio non era, tuttavia, la più ap-
pariscente; per nulla dire di quanto sia arduo mapparne la circolazio-
ne nell’Italia del secondo Settecento), l’unico lavoro coevo di chiaro
intento teorico (in particolare, di ispirazione condillachiana), e non
solo grammaticale e normativo, erano le Ricerche sullo stile del Bec-
caria, apparse nel 1770. L’anno precedente, una prelezione padovana
del Cesarotti, De naturali linguarum explicatione,4 aveva proposto una
1
Cfr. M. Vitale, La questione della lingua, nuova ed., Palermo, Palumbo, 1984. Nessuna traccia
delle Riflessioni nelle ormai molte opere collettive, a carattere internazionale, dedicate alla storia della
linguistica. Unica eccezione (a mia conoscenza) è la breve voce presente in Lexicon Grammaticorum. A
Biographical Companion to the History of Linguistics, edited by H. Stammerjohann, 2nd ed., Tübingen,
Max Niemeyer Verlag, 2009, p. 1102.
2
Rimando una volta per tutte ai saggi raccolti in Giammaria Ortes. Un ‘filosofo’ veneziano del
Settecento, a cura di P. Del Negro, Firenze, Leo S. Olschki, 1993. Di L. Formigari, a parte il lavoro
incluso nel volume collettivo appena citato, si veda L’esperienza e il segno, Roma, Editori Riuniti, 1990,
in part. pp. 110-144. Si aggiungano, come contributi di generale interesse su Ortes, M. Di Lisa, «Chi
mi sa dir s’io fingo?». Newtonianesimo e scetticismo in Gianmaria Ortes, in «Giornale critico della fi-
losofia italiana», s. VI, LXVII, 2, 1988, pp. 202-249, e P. Farina, Il disincanto della scienza. Gianmaria
Ortes (1713-1790): l’«economia nazionale» contro i Lumi, Venezia, Marsilio, 2007. Dell’Ortes mi sono
occupato in Volgar favella. Il pensiero linguistico italiano dal Robortello al Manzoni, Firenze, La Nuova
Italia, 1993, pp. 191-203.
3
In tal senso chi scrive sta lavorando, in collaborazione col dott. Alessandro Prato (Università di
Siena), con l’intento di contribuire a una collocazione delle Riflessioni nella ‘svolta’ filosofico-linguistica
che la cultura italiana, sia pure fra molte esitazioni, attua nella seconda metà del XVIII secolo.
Si tratta di un testo raro e finora poco studiato, lo si legge in M. Cesarotti, De lingua et eloquen-
4
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tia praecipue graeca. Acroases in patavino Archigymnasio pubice habitae, Florentiae, Typis Molini, Landi
et Soc., 1810, pp. 57-97.
5
Per un’esauriente analisi di questo episodio centrale della riflessione filosofico-linguistica nel
XVIII secolo, vedi C. Neis, Anthropologie im Sprachdenken des 18. Jahrhunderts. Die Berliner Preisfrage
nach dem Ursprung der Sprache, Berlin, De Gruyter, 2003.
6
Se ne ha ora una utile riedizione: cfr. D. Colao Agata, Piano ovvero ricerche filosofiche sulle
lingue, a cura di A. Martone, Napoli, Bibliopolis, 1997.
7
Un discorso a parte meriterebbero i tentativi di ripensamento in senso logico e razionalista della
grammatica italiana. I due episodi editoriali più rilevanti in tale ambito furono la Grammatica ragionata
della lingua italiana (1770) di Francesco Soave, oggetto di rinnovata attenzione in tempi recenti grazie
al Marazzini (si veda Francesco Soave e la grammatica del Settecento, Atti del Convegno di Vercelli,
21 marzo 2002, a cura di C. Marazzini e S. Fornara, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004) e il Corso
Teoretico di Logica e Lingua Italiana, premesso un Discorso Filosofico sulla Metafisica delle Lingue (1783)
del modenese Ildefonso Valdastri, sul quale informa A. Battistini, Un esempio provinciale di linguistica
illuminista: il «Corso teoretico» di Ildefonso Valdastri, in «Lingua e Stile», XXX, 1, 1995, pp. 107-116.
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Saggio sulla filosofia delle lingue del Cesarotti, con quale, in certo senso,
la filosofia italiana del linguaggio fa la sua comparsa ufficiale nel mer-
cato europeo delle idee.
Come si vede, con l’eccezione dell’ingegno genuinamente filosofi-
co-linguistico del Vico, destinato però a esser riconosciuto come tale
solo in pieno Ottocento, nei grandi numeri la linguistica italiana del
secolo restava dominata dai tradizionali dibattiti normativi, imperniati
sullo status della lingua letteraria, con le note opzioni pro o contro il
‘rinnovamento’, pro o contro il ‘francesismo’ ecc.:8 in evidenza vi tro-
viamo le personalità dell’Algarotti, del Bettinelli, del Baretti, del Gozzi,
del Galeani Napione, dell’Alfieri, dello stesso Cesarotti, e prima del
Muratori, per nulla dire dei dibattiti arcadici, fra cui spicca la celebre
polemica Orsi-Bouhours, virtualmente chiusa nel 1735, ma i cui echi si
avvertono ancora in piena epoca dei Lumi. Se si pensa che l’Inghilter-
ra, la Germania e la Francia avevano sin dalla fine del XVII secolo vis-
suto il loro linguistic turn, con il già menzionato Essay lockiano (1690),
con i fondamentali scritti linguistici editi di Leibniz (1666, 1710, 1717
ecc.), con le opere capitali di Cordemoy, Du Marsais, Rousseau, Con-
dillac, Beauzée, De Brosses, Lambert, Maupertuis, Michaelis, Herder e
tanti altri, il ‘ritardo’ italiano in tema di filosofia del linguaggio appare
innegabile. Ritardo, intendo, soprattutto nel senso di una comparativa-
mente modesta capacità di autonoma elaborazione teorica, in rapporto
con i temi correnti nel contesto europeo.
Il punto che c’interessa è proprio questo: Ortes, nel contesto stori-
co e culturale che abbiamo sommariamente ricordato, è il primo autore
italiano che si immerge con impronta personale nelle questioni aperte
del dibattito filosofico-linguistico, che da decenni impegnavano i mi-
gliori intelletti dell’Occidente: il rapporto fra pensiero e linguaggio, le
ragioni interne della diversità delle lingue, la funzione delle opinioni
e della comunicazione sociale, non ultimo il tema della traducibilità
dei linguaggi, che di lì a qualche tempo assurgerà a vero crinale teore-
8
Un quadro classico di questa fase storico-linguistica rimane G. Folena, Il rinnovamento lin-
guistico del Settecento italiano [1a ed.1965], ripreso e ampliato in L’italiano in Europa. Esperienze lin-
guistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983. Per le dottrine linguistiche (a parte il cit. M. Vitale, La
questione della lingua) cfr. il volume di vari autori, Teorie e pratiche linguistiche nell’Italia del Settecento,
a cura di L. Formigari, Bologna, Il Mulino, 1984.
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9
La familiarità di Ortes con la metafisica e la gnoseologia leibniziane non può sorprendere: dai
tempi di Michelangelo Fardella, il Veneto era stato un avamposto della circolazione delle dottrine di
Leibniz in Italia (cfr. A. Robinet, L’empire leibnizien. La conquite de la chaire de mathématiques de
l’Université de Padoue, Trieste, Lint Editoriale Associati, 1991) e l’apporto di Antonio Conti (amico e
sodale di Ortes, assieme ad Algarotti e Stellini, negli anni successivi al 1744: cfr P. Del Negro, Ortes,
Giammaria, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXIX, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
2013, pp. 752-756) aveva contribuito a fare del filosofo tedesco un ingrediente di primo piano del di-
battito epistemologico del tempo. A ciò si aggiunga l’eco europea avuto dalla pubblicazione postuma
(1765) dei Nouveaux Essais sur l’entendement humain.
10
É stato suggerito che gli Elementa Physicae dell’olandese Peter van Musschenbroek (ho da-
vanti l’editio altera veneta, apud Jos. Bertella, 1752) abbiano molto pesato nella formazione newtoniana
dell’Ortes. Tra l’altro, fin dalle prime pagine, gli Elementa postulano quella distinzione basilare fra senso
e ragione che pervade tutte le Riflessioni.
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11
Un celebre libro di T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Bari, Laterza, 1965, ha illustrato
la fortuna bimillenaria di questo approccio, che comincia a entrare in crisi con Leibniz e Locke, per
venire finalmente smantellato agli inizi del XX secolo. Tuttavia, diversamente che in passato, oggi non si
ritiene più che questa rigida dottrina convenzionalista sia appartenuta ad Aristotele, ma la si fa risalire
alla lettura che Severino Boezio diede del fondamentale trattatello logico De interpretatione, che doveva
influenzare in modo profondo il pensiero linguistico del Medioevo e della prima modernità.
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non resta se non che gli oggetti s’esprimano per voci identiche stesse accordate per consenso e per uso,
per le quali gli oggetti o le figure e immagini loro, s’esprimano non esattamente ma prossimamente; e
non già per quanto sarebbe necessario ma per quanto soltanto è possibile; inguisaché, essendo tali im-
magini tutte simili e tutte altresì diverse, le voci corrispondenti le esprimano bensì esattamente quanto
alla lor somiglianza comune ma non quanto all’individua loro diversità. […] Con ciò si vede, come
effetto della favella è quello di restrigner il numero degli oggetti e delle immagini loro indeterminato e
infinito, a numero tanto finito, quanto quel delle voci colle quali sogliono proferirsi gli oggetti medesimi
per quanto sono consimili, e non per quanto sono diversi, giacché alla istessa voce d’una stella, d’un
fiore, d’un sasso non si destano in ciascuni le stesse immagini, ma si destano tanto diverse, quanto quella
stella, quel fiore, quel sasso così appellati sono individualmente variabili, e si riferiscono da ciascuni non
agli stessi, ma ad oggetti altri diversi, pur variabili ed appresi diversamente, e appellati tuttavia per quelle
voci [Riflessioni, pp. XV-XVI].
12
In più punti dei suoi scritti linguistici, fra l’altro nel III libro dei menzionati Nouveaux Essais,
infatti, Leibniz aveva riattualizzato la famosa pagina del Cratilo in cui si indagano le remote ‘radici’ foni-
co-semantiche delle lingue, rivedendola e storicizzandola alla luce del naturalismo linguistico epicureo,
assorbito tramite Gassendi. Alleggerite del loro presunto senso metafisico, le radici potevano essere
prese a base di una ricerca etimologica sulle lingue conosciute, disegnando una sorta di paradigma
‘iconicista’ che godé di ampia fortuna. Charles De Brosses aveva continuato il lavoro di Leibniz nel suo
ampio Traité de la formation mécanique des langues (1765), fonte dichiarata del nostro Cesarotti.
178 Stefano Gensini
smo linguistico, quasi che la scelta di questa o quella voce per veicolare
un significato sia secondo Ortes artificio volontario, intellettualistica-
mente deliberato. Si tratta a suo avviso di ‘uso’, il quale «è arbitra-
rio, e libero» (Riflessioni, p. XVI), è immerso, cioè, in una spontanea
pratica sociale, regolata dal bisogno di comunicazione dei parlanti.
Quanto si è visto finora inerisce al funzionamento dei segni relativo
a una «stessa favella» (si veda il titolo del cap. IV); ma il meccanismo
è ribadito e, in certo modo, elevato al quadrato nel caso si assuma una
prospettiva interlinguistica (cap. V: «oggetti come nominati per favelle
diverse»). Limitiamoci a una citazione esemplare:
Il fatto però è, che sebbene le voci siano finite riguardo agli innumerabili e infiniti oggetti per esse
espressi, son però esse pure innumerabili e infinite riguardo a se medesime, senza perciò avere quella
infinità relazione alcuna con questa; mentre laddove quella degli oggetti dipende dagli infiniti modi coi
quali procede il moto, che per le stesse invariabili leggi li preserva e li rinuova in ciascuna e in tutte le
specie; quella delle voci dipende dai moti pur infiniti, co’ quali l’aria stessa può uscir dalle labbra, spinta
e percossa dagli organi della favella, e quei modi non àn che fare con questi. Quindi apparisce perché le
lingue abbiano ad esser diverse a diversi tempi e nei diversi luoghi, perciocché essendo le maniere, colle
quali le voci possono articolarsi infinite, e dovendo esse adoprarsi a numero finito per esprimer oggetti
medesimi e consimili, benché infiniti; non v’à ragione perché a quest’uso s’adoprino l’une anziché l’altre
di esse, o perché un sasso, un fiore, una stella appellati ora in Italia con questi nomi, non fossero appellati
o non fosser per appellarsi ad altri tempi in Italia o altrove con nomi diversi [Riflessioni, pp. XVIII-XIX].
13
Si innesta qui, in tutta la sua forza, il concetto ortesiano di ‘ragione comune’, giustamente messo
in evidenza da studiosi come Del Negro, Di Lisa, Farina nei loro contributi di cui alla nota 2. A conforto
della lettura data nel testo si veda ad es. quanto l’autore osserva nel cap. IX, § 5: «Dall’altro canto,
siccome questi oggetti cangiando modificazioni son pur gli stessi in tutti i luoghi e a tutti i tempi per le
stesse leggi di moto che li producono; il medesimo avviene de’ costumi, ed è sempre una stessa invariabil
ragione e verità comune, che per varie vie li guida e governa. Per questo s’è veduto, quella ragione comu-
ne esser la sola, per cui gli uomini sussistano insieme come per quella che può ben essere diversa nelle
diverse sue modificazioni, ma non può mai a se stessa esser contraria, nel qual caso soltanto la comun
sussistenza sarebbe impossibile. Ond’è che non è essa contraria che per difetto o ragione particolare di
alcuni e non mai di tutti. Ciò fa che i governi o gl’imperi sian sempre consimili per questa stessa ragione
per cui sussistono (vedi cap. 8 par. I), avvegnaché diversi per le modificazioni diverse di questa ragione
medesima non ostante qualsivoglia irregolarità particolare» (Riflessioni, p. XLVII).
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14
Già molti anni prima delle Riflessioni, Ortes aveva sviluppato il tema della relativa incommen-
surabilità dei significati linguistici di fasi storiche diverse in capitoli assai importanti del Calcolo sopra la
verità della storia, collegati al dibattito sul metodo ermeneutico allora in voga soprattutto nella cultura
tedesca.
15
C’è qui una coincidenza col ben noto punto di vista di Leopardi, che nello Zibaldone distingue
appunto fra ‘termini’ (fondati su una stretta convenzione semantica, e nella sostanza translinguistici) e
Stefano Gensini 181
‘parole’ (semanticamente vaghe, nelle quali ciascuna lingua distilla la sua identità più profonda). Riman-
do in proposito a quanto osservavo in Linguistica leopardiana. Fondamenti teorici e prospettive politi-
co-culturali, Bologna, Il Mulino, 1984.
16
Per la formazione di questi fondamentali concetti ortesiani si deve ovviamente risalire al Calcolo
sopra il valore delle opinioni e sopra i piaceri e i dolori della vita umana, del 1757, pubblicato nel vol.
XXIV dell’ed. Custodi.
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17
Ortes non ignora gli aspetti anche squisitamente quantitativi del problema, come mostra il cal-
colo ch’egli compie delle diverse risorse lessicali di italiano e inglese, dedotte dal confronto fra dizionari:
vedi alle pp. CII-CIII delle Riflessioni.
Stefano Gensini 183
dinanzi al quale anche il più ardito dei traduttori deve spesso arrestarsi.
Egli è dunque vero, che trattandosi di traduzioni d’opere d’ingegno scritte dall’una all’altra favella,
non potran queste mai riuscire quanto al diletto della favella stessa, o qualora il traduttore assuma di
dilettare coll’espressioni del suo autore, trasportate nella propria lingua. Questo nondimeno è quel che
volgarmente suol farsi ed è questa la ragione per cui le traduzioni, quand’anche istruiscano ugualmente
che gli originali, dilettan sempre meno di quelli e riescono per questo capo quanto inutili per chi intende
ambe le lingue tanto imperfette per chi non ne intende che una [Riflessioni, p. CIV].
18
Mi riferisco al celeberrimo § 69 del Discorso (seguo la divisione in paragrafi del Trovato nella
sua edizione dell’operetta, Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova, Antenore,
1982), dove Machiavelli spiega la commedia dell’Ariosto esser priva di quei «sali» che sono ingrediente
necessario dell’azione comica, e che presuppongono una piena comunanza linguistica col pubblico.
19
Evidente una punta polemica verso Goldoni, che dal 1762 aveva lasciato Venezia per Parigi, ove
la radicata tradizione della Comédie italienne lo aveva costretto ad arretrare di non poco la barra della
184 Stefano Gensini
quale «potrà starsene in Francia per passar quivi meglio i suoi giorni,
ma non giammai perché il suo talento comico sia così bel rilevato in
Parigi nella lingua francese non sua come il fu già in Venezia nel dia-
letto suo veneziano» (Riflessioni, p. CV). È infatti fisiologico che, fra le
tante possibili opere d’ingegno, il testo teatrale meglio di tutti si presti
a illustrare il condizionamento di cui si diceva, dato che esso deve per
sua natura andare in scena e simulare situazioni di scambio linguistico
parlato, con tutto il brio e l’efficacia della comunicazione reale.
sua riforma del teatro. Anche la sua vocazione creativa ne aveva fortemente risentito, come mostravano,
a tacer d’altro, le deboli commedie scritte in lingua francese nel 1771-72, Le bourru bienfaisant e L’avare
fastueux.
20
Per le implicazioni epistemologiche di questo tipo di ricerche resta imprescindibile P. Rossi,
Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna, Il Mulino 1983
(la prima ed. è del 1960). Molto materiale settecentesco in R. Pellerey, Le lingue perfette nel secolo
dell’utopia, Roma-Bari, Laterza 1992. Lo stesso studioso ha anche curato un fascicolo monografico della
rivista «Versus», 61-62-63, gennaio-dicembre 1992, sul tema Le lingue perfette, con contributi di ampio
spettro storico.
Stefano Gensini 185
sale del moto, mai riprodursi due volte nella stessa maniera. Se anche,
per ipotesi, una comunità deliberasse a tavolino di servirsi per sempre
di certe convenzioni, esse verrebbero immediatamente modificate dal
gioco spontaneo e insopprimibile del mutare degli oggetti, dei costumi
e delle opinioni.
21
Si cita dallo Zibaldone di pensieri, ed. critica a cura di G. Pacella, 3 voll. Milano, Garzanti, 1991.
Cfr. in proposito il mio lavoro leopardiano citato alla n. 12.
186 Stefano Gensini
ed intesa, come propria è impossibile, non solo estrinsecamente e per ragioni estrinseche, ma per sua
propria ed intrinseca natura e qualità e proprietà ed essenza, non relativamente né accidentalmente, ma
essenzialmente, di necessità, ed assolutamente [Zib. 3262, del 25 agosto 1823].
22
Ovviamente non si può escludere un’influenza delle Riflessioni sul Leopardi del 1821-23. Ma
s’impone anche a questo proposito la riserva di metodo che conviene a chiunque s’interessi delle fonti
di Leopardi: una volta che siano riscontrate affinità con le idee di un altro autore, presenza o assenza (in
questo caso assenza) dello stesso nella Biblioteca recanatese (nei limiti in cui possiamo ricostruirne la
consistenza ai tempi degli studi di Giacomo) non è di per sé indizio sufficiente di avvenuta visione o di
mancata conoscenza, dato a cui si aggiunge il processo di dissimulazione cui Leopardi spesso sottopone
le sue letture via via che le elabora sul piano concettuale.
Stefano Gensini 187
gli altri ad un altro, ciocché ripugna colla sapienza e perfezione infinita del supremo autore della natura
nelle sue opere. [Riflessioni, pp. XLII-XLIII].
In Vico le funzioni che Ortes affida alla ragion comune sono svolte
dal ‘senso comune’, un bagaglio di universali antropologici deposita-
ti dalla Provvidenza nelle menti, per cui gli uomini sparsi sulla Terra
condividono «le stesse utilità o necessità della vita umana», ancorché
le guardino da prospettive diverse e da esse facciano emergere modi
diversi di associarsi, costruire famiglie e istituti comunitari, e così via.
Posto questo vincolo universale, che Vico fissa fin dalla prima stesura
della Scienza Nuova (1725) e pone a fondamento del progetto di un
dizionario mentale comune,24 la sequenza genetica della varietas lin-
guarum è press’a poco la seguente: diverse nature umane modi dif-
ferenti di guardare utilità e necessità comuni differenti costumanze
di nazioni lingue diverse. In Ortes, salvo errore, la menzione delle
23
G.Vico, La Scienza Nuova, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 2011, p. 247. Ho cercato
di sviluppare la questione in Vico oltre Babele? La diversità delle lingue nella Scienza Nuova, §§ 444-45,
in «Lexicon Philosophicum», 2, 2014, pp. 189-212. Per la presenza di Vico nell’ambiente veneziano si
veda l’importante Vico e Venezia, a cura di C. De Michelis e G. Pizzamiglio, Firenze, Olschki, 1982, cui
si aggiunga la recensione di A. Battistini, Vico e Venezia, in «Rivista di Studi Italiani», I, 2, 1983, pp.
92-105.
24
Importanti osservazioni ha in proposito J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sema-
tologia di Vico, pref. di T. De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 1996.
188 Stefano Gensini
Può essere utile un ulteriore confronto, col passo forse più noto del
Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua (1750) dell’Alga-
rotti, interlocutore di lunga data, come attesta a tacer d’altro l’impor-
tante corrispondenza, dell’abate veneziano:
Diversi sono appresso nazioni diverse i pensamenti, i concetti, le fantasie: diversi i modi di apprendere
le cose, di ordinarle, di esprimerle. Onde il genio, o vogliam dire la forma di ciascun linguaggio, riesce
specificamente diversa da tutti gli altri, come quella che è il risultato della natura del clima, della qualità
degli studi, della religione, del governo, della estensione dei traffici, della grandezza dell’imperio, di ciò
che constituisce il genio e l’indole di una nazione. A segno che una dissimilitudine grandissima conviene
che da tutto ciò ne ridondi tra popolo e popolo, tra lingua e lingua; e i politici tengono per naturalmente
nemici quei popoli che parlano lingue diverse.25
25
Cito da F. Algarotti, Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua, in Opere del Conte
Algarotti. Edizione novissima, tomo IV, in Venezia, presso Carlo Palese, 1792, pp. 3-28. Il passo cit. è
alle pp. 11-12.
Stefano Gensini 189
gazione letteraria e scientifica, così diffusa nella vita cittadina del seco-
lo, come «disperato consiglio, ad onta di quanti Dizionarj, Giornali,
Compendi o altri repertori possan formarsi di cognizioni qualunque
sieno, e che sembrino facilitarle» (p. LXXXIV). In breve, l’eloquenza
è dipinta come prevalentemente «nociva» alle cognizioni reali, e anche
nei capitoli successivi, più possibilisti, un suo utilizzo prudente a fini
educativi, per addolcire, rendendolo dilettevole, l’accesso alle verità
della natura, è presentato come problematico per i motivi generali già
detti. Interessa qui che Ortes tragga dalla sproporzione fra cognizioni
apparenti e cognizioni reali, fra eloquenza e linguaggio ‘proprio’, la
giustificazione di una élite cui compete il governo spirituale e politico
dei popoli. Religione e Principato, i due poli classici della visione orte-
siana del potere, tornano qui come soggetti depositari delle cognizioni
reali e della responsabilità di renderle socialmente operanti:
Questi s’è già avvertito dover esser quelli che agli altri presiedono, sia colla persuasione della religione,
sia colla forza del principato, destinati perciò all’ufficio di giudicare quali fra tutte le verità apparenti,
per le quali si conducono gli affari comuni, concordino colle verità reali e quali di esse discordino, o
siano a queste contrarie. E veramente che un simil giudicio o una simile cognizione abbia ad appartene-
re e possa convenire del pari non solo al nobile e manovale o al cittadino e al rifuggiato, ma al chierico
ancora che istruisce, e al cialtrone che dee essere istruito o al Magistrato che comanda e al suddito che
dee obbedirlo, è questa un’aperta implicanza massime quando già tutti convengono, che gli uomini
generalmente son più spensierati che riflessivi, e che le cognizioni reali son riserbate ai soli più riflessivi
[Riflessioni, pp. LXXXVI-LXXXXVII].
26
Cito da A. Genovesi, Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle arti, in Scritti, a cura di L.
Venturi, Torino, Einaudi, pp. 40-87. Il passo cit. è a p. 66.
27
Cito da L. A. Muratori, De i pregi dell’eloquenza popolare, Venezia, presso Giambattista Pa-
squali, 1750, p. 76. Rimando su questi temi a quanto ho scritto in Il dibattito sulla comunicazione sociale
in Italia attorno al 1750, in «Blityri. Studi di storia delle idee sui segni e le lingue», II, 2, 2013, pp. 71-93
e alla bibliografia ivi utilizzata.
192 Stefano Gensini
genere, lungi dall’ottenere di stender la più reale, non ottenga al contrario di stenderla meno, per non
adoprarsi quella che sulla verità apparente più comune, a esclusione della men comune e reale, che non
esige eloquenza. Lascio considerare se sia perciò che fosse creduto le verità più venerabili e più arcane di
religione, la cui cognizione reale può certamente tanto meno esser comune al popolo, doversi ad esso annun-
ciare con lingua a lui ignota e da lui più rispettata che intesa» [ibid.; corsivo mio].