Sei sulla pagina 1di 34

"Hinduismo" e "Buddhismo" °

Due Assoluti allo specchio.

Mario Piantelli

Yam saivah samupasate siva iti brahmeti vedantino

bauddha buddha iti pramanapatavah karteti nayayikah /

arhan nityatha jainasasanaratah karmeti mimamsakah

so' yam vo vidadhatu vañcitaphalam trailokyanatho harih //

" Colui che gli sivaiti di Siva adorano quale Siva, quale Brahman i vedantin,

i seguaci del Buddha quale Buddha, e, destri nei mezzi di conoscenza, quale Creatore quelli del Nyaya,

quale Arhat sempre quanti si dilettano dei precetti dei Jaina, quale Atto i fautori della Mimamsa,

Costui vi accordi il frutto bramato, il Signore del trimundio, Hari!"

La strofe d'incerto autore visnuita apposta come lemma a queste pagine è spesso citata a documentare l'atteggiamento di cattolicità del cosiddetto "hinduismo"
nella sua maturità, allorché tutte le diverse tessere dell'immenso mosaico che il mondo spirituale indiano ci presenta vengono volentieri sussunte sotto un
comune denominatore, sia esso fornito, come qui è il caso, dalla figura divina personale di un Dio degli dèi (Devadeva), sia, come più spesso avviene, dal
Brahman, l'Assoluto impersonale teorizzato dalla "dottrina del puro non-dualismo", il Kevaladvaitavada, più noto come "Advaita Vedanta" o Vedanta
sankariano1.

Di primo acchito l'occidentale, che prenda in esame la rassegna fatta in esso dei diversi volti del Divino, è colpito da una singolare difformità rispetto a ciò che
accade di ritrovare altrove nel mondo "hindu", ma anche sotto altri cieli, dove l'identificazione tra diverse figure divine prende le mosse dalla identificazione di
tali figure nel quadro dei culti e/ o delle mitologie correnti, senza darsi troppo pensiero dei conati della eventuale riflessione teologica attorno ad esse.
Nella serie di rappresentazioni equivalenti della Realtà suprema fornita dalla strofe citata, accanto a Siva e Hari (uno dei nomi più usati di Visnu) troviamo
invece schierati non già altri Dèi oggetto di effettiva adorazione, ma i venerati maestri di due indirizzi soteriologici eterodossi dichiaratamente atei, il Buddha e
lo Arhat/ Jina, nonché un campionario di concezioni astratte dai caratteri accentuatamente "filosofici": tali il "Creatore" (il Kartr: l'epiteto viene da una radice
indoeuropea ch'è la stessa del latino "creo"; evidentemente la nostra resa prescinde dalla nozione teologica occidentale d'una creazione dal nulla, ignota nella
storia del pensiero indiano) convenzionalmente detto il "Possente/ Dominatore" (lo Isvara; in origine si trattava di un epiteto di Rudra/ Siva), profilo rarefatto di
un Demiurgo teorizzato in base ad argomenti meramente logico/ metafisici dai maestri teisti del Nyaya/ Vaisesika2, il Brahman impersonale e il non meno
impersonale karman, valorizzato dai sostenitori -anch'essi atei- del sistema brahmanico della "Prima esegesi" (la Purvamimamsa).

Il criterio in base al quale essi vengono accostati non è, con ogni evidenza, meramente "religioso": il testo è espressione tipica d'una temperie culturale
caratteristica della visione indiana del Divino che tende a privilegiare il momento speculativo.

A questo proposito, si deve ricordare che gli stessi grandi Dèi richiamati dalla strofe, cui sindirizza con fervore la devozione degli "hindu" d'ogni strato della
società a cominciare dai dotti brahmani, formano in primo luogo il centro degli importanti sistemi teologico/ metafisici che sivaiti e visnuiti hanno elaborato nei
secoli, in serrato confronto con le altre scuole di pensiero.

Gli è che, nelle diverse concezioni "religiose" dell'India, la componente speculativa ha un peso determinante, anche agli occhi dei non "addetti ai lavori", presso
i quali grandissimo è sempre stato il peso del travaglio intellettuale dei dotti.

Accanto alla privilegiata esperienza personale della Realtà suprema patrimonio di veggenti e mistici, la quale gode evidentemente del massimo prestigio, fattore
primario della visione del mondo indiana è invero la presenza delle tradizioni "filosofiche" che di tale esperienza formano la cornice, essendone sì legittimate,
ma a loro volta legittimandola e fornendole non di rado lo stesso linguaggio attraverso cui i suoi depositarii si sforzano di descrivere l'ineffabile e dar forma a
ciò che trascende il pensiero e le sue categorie...

A differenza di quanto avviene per le intuizioni dei mistici, tuttavia, il deposito dottrinale delle singole scuole, una volta fissato, si trasforma in armatura
dogmatica non eludibile, tanto che nei pubblici dibattiti il sostenere una tesi esplicitamente o implicitamente in contraddizione con le posizioni del sistema che
si difende contro gli agguerriti avversarii degl'indirizzi di pensiero rivali comporta automaticamente la sconfitta del disputante.

Ciò non toglie, evidentemente, che si siano verificati in realtà più volte convergenze, scambi, prestiti -e furti!- dottrinali fra l'uno e l'altro fascio di sistemi
indiani: il mondo del subcontinente non ci offre lo spettacolo di una sorta di giardino all'italiana, in cui le aiuole delle diverse scuole, ben delimitate, crescano
ciascuna i proprii fiori, ma piuttosto di un sottobosco incolto, lussureggiante e abbastanza caotico (dopo tutto, è proprio in India che nasce il termine "jangala",
donde proviene il nostro anglicismo "jungla"...), dove l'una o l'altra componente della vegetazione sinsinua volentieri nell'intrico delle piante vicine,
soffocandole con una crescita incontenibile per nutrirsi del loro cadavere, fino a subire a sua volta la stessa sorte.

Numerosi e significativi sono i momenti di contatto nella storia delle diverse scuole, che rivelano quanto esse siano state in realtà debitrici le une nei confronti
delle altre durante tutto l'arco della loro storia; in effetti la situazione dei pensatori indiani, polemizzanti con vigore tra loro, ma sempre entro i confini d'un
comune orizzonte, è in qualche modo parallela a quella degli esponenti della filosofia occidentale, arroccati nella torre d'avorio d'un universo intellettuale da
tutti più o meno condiviso e ignoranti totalmente, salvo poche -e meritorie!- eccezioni, luci e ombre dei mondi intellettuali extra-europei.

E' istruttivo a questo proposito il confronto tra l'attenzione appassionata che la letteratura tecnica delle scuole di pensiero indiane accorda alle più minute
variazioni dottrinali autoctone e il disinteresse pressoché totale verso ogni forma di pensiero speculativo di matrice straniera: le teologie imposte negli ultimi
secoli, con la violenza o con il prestigio, dai conquistatori musulmani e cristiani a milioni di convertiti, alienati dal loro retaggio culturale e sociale e arruolati in
comunità sostanzialmennte straniere in patria, non divengono oggetto di esame, né di confutazione, da parte degli esponenti di tale retaggio, che a malapena
prendon nota qua e là della loro esistenza3.

Né si deve supporre che un tale disinteresse sia dovuto semplicemente ad una salutare prudenza dei maestri indiani nei confronti di dominatori alieni spesso
poco benevoli verso le tradizioni indigene.

A ben vedere, essi non fanno che seguire le orme dei loro antenati, i quali, in un'India in gran parte ancora libera da invasori estranei, si limitavano a trascegliere
per recepirli, dal vasto edificio del brillante pensiero ellenistico, sviluppato si può dire gomito a gomito con i sistemi "classici" della loro terra, i principii teorici
e operativi di discipline secondarie quali l'astrologia giudiziaria e l'alchimia.

Del resto, anche le dottrine professate dai membri delle enclave ebraica, nestoriana e zoroastriana insediatesi via via sulle coste dell'India meridionale e
occidentale, decisamente pacifiche e numericamente assai ristrette, sono state oggetto d'una benevola noncuranza da parte dell'élite culturale della terra che le
ospitava; allo stesso modo le letterature tecniche indiane, pur così attente alla discussione dei diversi aspetti del discorso deontologico e alle tecniche più
raffinate di meditazione, tacciono delle intuizioni più profonde in questo campo della non lontana Cina e soltanto alcune forme di "tantrismo" bengalese
relativamente recenti sembrano accordare una modica attenzione alle ricette di longevità basate sulla ritenzione dello sperma insegnate dal "taoismo" popolare.

Ciò è tanto più notevole, quando per secoli maestri "buddhisti" indiani e/ o di cultura indiana hanno assimilato, come indispensabile preliminare alla loro fatica
di traduttori, il lessico dei classici cinesi, in primo luogo "taoisti", mentre pellegrini cinesi di buona cultura letteraria si recavano nella patria del Buddha in cerca
di testi e d'insegnamenti.

Si potrebbe osservare che questa chiusura è lungi dal costituire una nota esclusiva del mondo indiano: in maggiore o minor grado, essa è caratteristica della
stragrande maggioranza delle culture "nazionali" nella storia dell'umanità, arroccate nel loro passato sacrale e sprezzanti d'ogni novità, specialmente se di
provenienza straniera: basta considerare il Vicino Oriente antico per rendersene conto.

Resta che nel caso dell'India essa trova la sua giustificazione, più che in un ostinato ideale di isolazionismo, via via meno realistico col passare dei secoli, nella
tradizione speculativa affatto peculiare che ha sempre contraddistinto la vita spirituale del subcontinente.

La vicenda di essa comporta l'adesione degli esponenti delle diverse scuole fiorite nel suo lungo corso ad un vasto accordo di fondo, preliminare necessario
d'ogni dibattito: familiari a ciascuna sono i problemi discussi in campo etico, metafisico ed epistemologico; adottate da tutte sono in particolare le metodologie
rigorose dell'indagine speculativa, la cosiddetta "post-osservazione" (la anviksiki) già teorizzata in età precristiana, come prova la sua comparsa in testi che la
considerano ancora parte del sapere tradizionale appannaggio dei brahmani, come le famose "Leggi di Manu" (il Manavadharmasastra)4:
" Che (il monarca) dai tri-scienti (brahmani) apprenda la triplice scienza (la trayi vidya, ossia la conoscenza dei tre Veda: Rg-, Yajur- e Samaveda,
l'Atharvaveda essendo stato aggiunto ad essi su un piede di parità solo in età più recente), l'arte politica (la dandaniti, lett "condotta relativa allo scettro ")
eterna e la anviksiki, la scienza del Sé (la atmavidya); e (apprenda) i principii del sapere pratico (la varta) dai mondani."

E il "Trattato della politica" (lo Arthasastra) di Canakya Kautilya/ Kautalya, contemporaneo di Alessandro Magno che accorda ad essa uno speciale rilievo in
quanto garanzia di "scientificità" ove sia applicata ai diversi àmbiti del sapere tradizionale5 :

" La Anviksiki, la trayi, la varta e la dandaniti : ecco i quattro saperi; la trayi, la varta e la dandaniti (soltanto sussistono) : così i seguaci di Manu (sostengono),
la trayi vidya (comprendendo) in effetti questa anviksiki (...)

Il Samkhya (inteso a quest'epoca come enumerazione dei principii costitutivi del mondo, caratteristica del sapere teoretico), lo Yoga (inteso come approccio
pragmatico alla esperienza liberatrice; i sistemi che si appropriano della diade di questi nomi sono nati presumibilmente in età successiva) e il Lokayata (forse
inteso come indagine sul mondo e sulle sue leggi, piuttosto che come designazione del "materialismo indiano) : tale è la anviksiki; (grazie a questa) dharma e il
non-dharma (vengono appresi) nella trayi, guadagno (lo artha) e non-guadagno nella varta, pianificazione (il naya) e non-pianificazione nella dandaniti;
(sempre grazie alla anviksiki) forza (il bala) e non-forza (sono apprese) quanto a quelle (tre forme di sapere); per (tali) cause, quanto è oggetto di anviksiki al
mondo arreca beneficio, nella calamità e nel successo la mente fa salda, di conoscenza (prajña), eloquio, azione limpidezza produce:

'Face di tutte le scienze, espediente di tutte le azioni, rifugio di tutti i dharma sempre la anviksiki è stimata!' "

Tali metodologie non recano soltanto con sé un'approfondita teorizzazione dei mezzi del conoscere (i pramana), dei suoi presupposti e delle sue condizioni;
esse sboccano ben presto nella codificazione dei procedimenti d'una logica raffinata6, tra i cui aspetti più importanti è la formalizzazione dei modelli
d'argomentazione generalmente ritenuti accettabili in sillogismi a dieci, cinque o tre "membra" - quest'ultimo, che esclude il momento induttivo, essendo stato
adottato dai loici "buddhisti", che giungono, per coerenza con il loro "pessimismo gnoseologico" ad esiti abbastanza vicini a quelli aristotelici, ma con qualche
"marcia" in più7.

D'altra parte l'esigenza di sottrarsi alle maglie del discorso logico, sentite come gravemente riduttive nei confronti dell'espressione del Reale, spingerà i maestri
degl'indirizzi soteriologici più aperti ai paradossi dell'esperienza mistica, come Nagarjuna, il prestigioso fondatore dei Madhyamika8 e Sriharsa, famoso
esponente del Kevaladvaitavada nella sua fase più matura9, a sondare i limiti dei presupposti su cui le sue leggi si reggono, proponendo interessanti vie
dialettiche di elusione degli equivalenti indiani dei principii di non contraddizione e del terzo escluso e attaccando vigorosamente le categorie gnoseologiche e
metafisiche normalmente accettate dagli altri sistemi.

Quello della critica delle ingenue certezze dei realisti è un terreno d'incontro privilegiato per gli approcci all'Assoluto insegnati da questi maestri, ben più
preoccupati di salvare l'esigenza -posta al centro delle loro rispettive soteriologie- di un'esperienza diretta della Realtà che trascende pensiero e linguaggio, che
non di rinsaldarne i fondamenti, vacillanti sotto i loro attacchi ripetuti.

Con tutto ciò, la dialettica indiana è non solo più agguerrita, ma meno incline ai funambolismi dell'eristica rispetto a quella che ci è più familiare; anche per
questo i suoi esiti finiscono per lasciare la loro impronta sul dibattito speculativo di tutte le scuole, obbligandole a ripensare e riformulare costantemente le
proprie dottrine.

In risposta al vaglio severo dell'analisi dei non-dualisti, gli esponenti del Nyaya/ Vaisesika in particolare avvertiranno, specialmente a partire da Gangesa (XIII-
XIV sec. dC:), l'imperiosa necessità di adottare nuovi modi d'espressione estremamente rigorosi; è questa la base del cosiddetto "Nyaya novello"(il
Navyanyaya)10, che condizionerà le proposizioni di loici e teologi negli ultimi secoli; di conseguenza il lessico del pensiero indiano si raffinerà fino a divenire
pressocché incomprensibile ai "non addetti ai lavori" - un altro parallelo significativo con la vicenda della filosofia in Occidente...

Di tutti questi aspetti del quadro generale del pensiero indiano occorre particolarmente tener conto, quando si studiano i rapporti intercorsi nei secoli tra due
edificii speculativi apparentemente eterogenei come quelli del "buddhismo", fascio di soteriologie in genere abbastanza elitarie predicate a pochi asceti ed
intellettuali, e dello "hinduismo", espressione estremamente composita -e a tratti persino magmatica!- della società intera del subcontinente indiano.

Se di primo acchito ciò può indurre lo storico del pensiero dell'India a prender le sue distanze da accostamenti insidiosamente facili tra i due mondi, resta pur
sempre vero che lo iato tra le loro rispettive architetture non è in realtà ingente come potrebbe apparire a prima vista: appartengono infatti ad uno stesso tipo
ideale.

Intanto, sia "buddhismo" che "hinduismo" condividono il carattere di sistema normativo fondante la ortoprassi, carattere già insito nel termine che li designa,
"dharma"11, implicante la categoria che in India sostituisce quella di "religione", che, sia detto di sfuggita, è nata in riferimento a fatti ed idee sviluppatisi
nell'orizzonte peculiare della cultura occidentale e sovente si rivela male adattabile o addirittura fuorviante se applicata oltre i confini del suo àmbito storico e
geografico.

Per i discepoli del Buddha, il termine "Dharma" si riferisce sia alla Legge impersonale che regge, al posto di un Dio supremo il cui ruolo di cosmocratore è
fieramente negato, il mondo del divenire, sia alla Retta Via (il Sanmarga) che permette di uscirne, itinerario ascetico e meditativo ch'è anzitutto fondato sulla
perfetta conoscenza di tale Legge.

Tale nozione è accompagnata dalla più alta considerazione.

Subito dopo l'attingimento della comprensione salvifica (la bodhi) che fa di lui un Buddha, in mancanza di una figura di maestro divino o umano a cui
inchinarsi, l'asceta Gautama si chiede, in un passo carico di suggestione del Canone del Theravada singalo-birmano, a noi pervenuto in lingua pali12, a chi
rivolgere il suo saluto rispettoso13:

" Io non vedo in questo mondo con i suoi spiriti, Mara e dèi (alcuno che mi sia superiore), (né vedo) in questa generazione (umana) con i suoi asceti e
brahmani, nobili guerrieri e popolani, un qualche asceta o brahmano per il quale queste nozioni siano più perfette che per me, sottoposto al quale io viva; ma v'è
questo Dharma da me rinvenuto... e se io vivessi sottoposto ad esso, adorandolo e prosternandomi ad esso? "
E' dunque il Dharma riscoperto dopo un lungo periodo d'oblio, unico oggetto ormai degno di venerazione al cospetto del suo occhio interiore, aperto per sempre
alla visione sommamente rasserenante di esso (il dharmacaksus), che il neo-Buddha intronizza al posto d'onore, quale valore supremo nella vita sua e dei suoi
futuri discepoli.

Essi lo imiteranno, ponendo il Dharma sullo stesso piede del Maestro e della Comunità da lui fondata (il Sangha) nella triade delle gemme (il Triratna) in cui
tradizionalmente prendono rifugio per proclamare e ribadire la loro fede.

Se nella società indiana extra-"buddhistica" i fanciulli che hanno terminato l'alunnato brahmanico (il brahmacarya), una volta ricevuti l'iniziazione e il cordone
sacrificale che l'accompagna, hanno diritto al titolo di "due volte nati" (gli dvija), anche chi apprende appieno -e di conseguenza inizia a vivere- il Retto
Dharma (il Saddharma; si noti che "sat", participio presente del verbo che in sanscrito equivale al nostro "essere", si applica a ciò che è vero/ reale e di
conseguenza efficace, ma anche buono/ positivo), superiore ad ogni altro, è soggetto ad una rinascita spirituale: alla sua nascita umana si sovrappone e
sostituisce ora la "nascita dei nobili" (la aryajati).

Il fatto è espresso da una solenne formula che ricorre più volte nel Canone pali in riferimento a discepoli del Buddha particolarmente degni di lode:

"figlio del Bhagavat, nato dalla sua bocca, generato dal Dharma, fatto del Dharma, erede del Dharma, non della carne".

E' evidente, da simili espressioni, come il Buddha stesso si identifichi con il Dharma da lui conosciuto e insegnato, incarnandolo, per così dire, a tutti gli effetti.

Innumerevoli testi lo dichiarano eloquentemente: la sua persona santa, la sua voce leonina, sono la persona e la voce stesse del Dharma, il quale a sua volta
costituisce il corpo eterno e glorioso del Maestro, opposto all'umbratile e perituro corpo umano (è questo il Dharmakaya, che sarà teorizzato come Realtà ultima
dell'universo intero dal Grande Veicolo, il Mahayana).

Come nel noto passo giovanneo14 il Cristo insegna al discepolo Filippo che veder lui è lo stesso che vedere il Padre, così il Buddha proclama all'asceta
Valkalin15:

" Chi vede il Dharma, questi mi vede, chi vede me, questi vede il Dharma: vedendo il Dharma invero è me che vede, vedendo me è il Dharma che vede."

Se questa esperienza sommamente preziosa, che trasforma totalmente chi la attinge e lo mette al di sopra degli uomini e degli stessi dèi, è realizzabile
perfettamente solo da pochi eletti, il modello di condotta che essa fonda e stabilisce resta praticabile - almeno in modo ridotto- anche da chi vive rettamente nel
mondo, rimandando a qualche esistenza futura il faticoso ottenimento della gnosi liberatrice.

Per costoro il Dharma vige in forma della cosiddetta "ricchezza della condotta" (lo siladhana), consistente in cinque precetti che comportano altrettante
astensioni: dalla uccisione/ nocumento (la himsa), dal prendere ciò che non è dato, dalle donne altrui, dalla menzogna e dalla consumazione di bevande
inebbrianti16.

Si tratta d'un codice di condotta panindiano, il cui quinto precetto, cui verrà ascritta considerevolissima importanza dagli "hindu" specie in seguito alle invasioni
musulmane apportatrici del "proibizionismo" coranico, è sempre stato parte delle norme dietetiche indirizzate agli asceti e ai brahmani.

Lo stesso schema ritroviamo nel Dharma dei Jaina, che richiede da parte dei "laici" cinque "voti di base" (gli anuvrata): non uccidere (la ahimsa), veridicità (il
satya) in relazione ad azione corporea, parola e pensiero, non- furto (lo asteya), castità (il brahmacarya, condotta tipica dell'alunnato brahmanico, donde prende
nome; per l'uomo sposato i rapporti con la moglie sono, ovviamente, ammessi) e distacco (lo aparigraha) dalle cose materiali, in particolare dai proprii
possessi17 .

Questo elenco è sussunto, senza mutarne in nulla la terminologia, dal sistema "hindu" che prende nome dallo Yoga, codificato fra il IV e il VI secolo dC. dagli
aforismi ascritti a Patañjali, che fanno di tali cinque precetti, detti "raffrenamenti"

(gli yama), il primo gradino della pratica ascetica, mentre gli stessi, abbracciati senza limitazioni di sorta, formano il "gran voto" (il mahavrata) che
contraddistingue il perfetto yogin18.

Già queste coincidenze, che non sono un fatto isolato, mostrano come il Dharma del Buddha non debba necessariamente differire in toto nei suoi contenuti dai
Dharma insegnati e praticati in altri ambienti, specialmente quelli legati alla pratica dell'ascesi.

Per gli "hindu", che non mancano di divinizzarlo, il Sanatanadharma (la "Norma perenne", espressione che i tradizionalisti preferiscono al termine straniero
"hinduismo"; si ricorderà la nozione occidentale di Lex aeterna cara ai giusnaturalisti...) è un sistema deontologico desunto dalla rivelazione -ovunque e sempre
valida- dei Veda, che fornisce il modello ideale della società intera e serve di fondamento ad ogni eticità individuale.

I suoi dettami devono reggere, attraverso una minuziosissima rete di regole, la vita di ciascuno in dipendenza dalla sua condizione, casta, età, sesso etc.: è
questo lo svadharma, letteralmente il "proprio dharma" o visisthadharma, il "dharma specifico" o peculiare d'un tipo umano individuato dalla titolarità d'un
diritto/ dovere (lo adhikara) ad applicare concretamente quel certo modello di comportamento.

Accanto a queste regole, che variano notevolmente da un destinatario all'altro, figurano precetti generali indirizzati a tutti gli esseri umani in quanto tali,
principii d'una universale rettitudine, formanti il samanyadharma, il "dharma comune".

Queste norme, agli occhi degli esponenti della tradizione brahmanica, fanno di tutti gli esseri umani degli "hindu", talché nessuna conversione è necessaria per
praticarle.

Una formulazione molto sintetica di esse è, ad esempio, la variante indiana della cosiddetta "regola aurea" solennemente enunciata nella grande epica "hindu", il
Mahabharata19 :
" Non quello a un altro si conferisca, che è di contrarietà (pratikula) a se stessi: questo in forma concisa è il Dharma, il resto viene dal desiderio."

L'attenersi puntualmente a tutte queste norme è un sine qua non per l'attingimento di ogni bene in questo e nell'altro mondo e per la stessa liberazione dal ciclo
delle rinascite, identificata con il nirvana e l'Infinito: così dichiara in una bella pagina della stessa epica20 il retto e scrupoloso "Re del Dharma", Yudhisthira,
difendendo appassionatamente l'osservanza del Dharma e la nozione d'un Dio che la rimerita dalle critiche dei "materialisti" indiani, i Carvaka/ Lokayata, delle
quali sè fatta portavoce in un drammatico confronto la sposa Draupadi:

" Colui che dubita del Dharma non arriva in base a null'altro ad una misura ("pramana"): usando se stesso quale misura, arrogante, (ciò ch'è) migliore
disprezza.

Fino a ciò che, collegato al compiacimento dei sensi, a questo mondo cade sotto gli occhi (o "è immediatamente esperito", lokasaksika) spinge il suo pensiero
l'infantile/ stolto (bala), quanto al resto attinge l'obnubilamento.

Rituali d'espiazione per lui non vi sono, che il Dharma revoca in dubbio; (pur) meditando, egli degno di compassione, impuro, i mondi (divini) non ottiene.

Dalla misura invero volto via, biasimatore del senso di Veda e testi autorevoli, da brame e avidità sopraffatto, confuso, gl'inferni attinge!

Chi invece sempre, fattasi un'opinione (krtamati; il termine sottolinea l'iniziativa del credente nella decisione di sostenere l'autorità tradizionale), al Dharma
soltanto rispettosamente ricorre, non dubitando, oh tu di buon auspicio, costui nell'altro mondo l'Infinità (lo Anantya) consegue.

La misura dei Veggenti (vedici) avendo trasgredito, il Dharma non custodendo, giunto al di là di tutti i testi autorevoli, confuso, il bene (anche in
numerosissime) nascite non consegue.

Dai dotti praticato, il nostro Dharma, oh tu Krsna, non revocarlo in dubbio, esso antichissimo, dai Veggenti enunciato, onniscienti, onniveggenti!

Il Dharma solo è zattera, non ve n'è altra per quanti al mondo celeste, oh Draupadi, son traghettati, esso solo nave per il mercante che dell'oceano brama l'altra
riva.

Infruttuoso se il Dharma fosse, esso praticato dai praticanti del Dharma (le valenze positive del termine sono qui sfruttate in quella che all'occidentale può
parere una banale tautologia: il senso è ad un dipresso: "se la giustizia praticata dai giusti fosse senza frutto"), in tenebra senza fondo questi esseri umani
(jagat; cfr il francese monde) sprofonderebbero, oh tu irreprensibile!

Il nirvana non attingerebbero, vivrebbero vita d'armenti, in ostacoli sempre e soltanto incorrerebbero, e nessuno (di loro) mai otterrebbe guadagno.

E ascesi e castità, sacrificio e recitazione (del Veda) altresì, dono (ai poveri meritevoli), rettitudine: se questi non fossero fruttuosi, invero,

non avrebbero gli avi praticato il Dharma, e gli avi loro, e quelli più antichi: delusione questa in assoluto (vipralambho' yam atyantam) sarebbe, se fossero
infruttuose le (buone) azioni!

Veggenti e dèi e gandharva e asura e raksasa (tre categorie di esseri divini, gli ultimi due pericoli e sinistri) sono possenti: per che ragione (se non recasse
vantaggio) essi praticherebbero il Dharma con zelo ?

Ma è avendo accertato che datore di frutti è a questo mondo Colui che dispone ("Dhatr", epiteto di Brahma in quanto Autore del mondo e Signore del destino)
per chi (persevera) in quel che è migliore, che il Dharma essi praticano, oh Krsna: quello invero è il migliore, l'eterno.

Esso non è infruttuoso, il Dharma, né è fruttuoso, poi, il non-Dharma : si constata infatti (che vi sono) per le scienze dei frutti, e per le pratiche ascetiche altresì
(; pertanto anche la buona condotta, prescritta dal Dharma insieme ad esse, deve risultare efficace)."

In questo antico contesto il termine "pramana" non ha presumibilmente ancora il senso specifico di "mezzo di conoscenza", che i sistemi di pensiero gli
assegneranno nel lessico tecico panindiano; esso connota semplicemente un "criterio di misura" (tale il senso letterale del termine), base sicura per la
individuazione del bene e del male nella condotta umana.

In sua assenza, l'uomo è costretto a usar se stesso come metro, more protagoreo.

Possiamo tuttavia già cogliere qui limpidamente la nota essenziale dell'ortodossia "hindu", che i diversi sistemi (il Nyaya, il Samkhya nella sua fase tardiva, ma
specialmente la Purvamimamsa) si preoccuperanno di precisare ancorandola ad un discorso razionale: il riferimento ai Veda, stimati d'origine divina, o perenni
ed impersonali (apauruseya, non riconducibili ad un autore e perciò sottratti agli eventuali difetti che la testimonianza di costui potrebbe comportare, ad es la
possibile invalidità delle fonti da cui dipende o dei processi conoscitivi cui è ricorso per accertare quanto afferma), come solo metro non soggettivo per valutare
un comportamento.

Questo è un insegnamento largamente diffuso nei testi autorevoli della tradizione brahmanica: a prescindere dalle allusioni di diversi vati vedici al loro ruolo di
Veggenti (gli Rsi) nei confronti della propria poesia, sia i trattati lessicografici e grammaticali che i Dharmasastra (ad esempio le "Leggi di Manu"21)
presuppongono ch'essi non siano gli autori delle proposizioni loro ascritte, ma che le abbiano apprese grazie ai loro poteri e tramandate come fonte indipendente
ed universalmente valida del Dharma.

Nella sua legittimazione dei Veda come autorità ultima in materia deontologica, la dottrina dei seguaci della Purvamimamsa22 è particolarmente interessante ed
elaborata: essa rifiuta di tentare il salto tanto spesso maldestramente compiuto in Occidente tra essere e dover essere: non vi è nulla nello stato dei fatti che
cadono sotto i nostri sensi nell'àmbito dell'esistente e del realizzato (il siddha) che permetta d'inferire una regola quanto a dei modelli di condotta suscettibili
d'esser messi in pratica, i quali rientrano nella sfera del realizzabile (il sadhya), che solo il linguaggio - e un linguaggio sottratto a qualsiasi ipoteca soggettiva! -
è in grado di descrivere e di farci conoscere una volta per tutte.

Ciò implica l'esigenza d'una perennità/ eternità nei confronti di tutta una serie di entità :

- delle proposizioni vediche, presenti da tutta l'eternità a sancire il Dharma;

- del Dharma stesso, immutabile e valido erga omnes;

- del mondo e dei brahmani, vera anima dell'umanità che il mondo abita, giacché da sempre dev'essere presente chi abbia appreso e a sua volta tramandi i Veda.

- della lingua immutabile e perfetta dei Veda (la samskrtabhasa, opposta ai mutevoli vernacoli, le prakrtabhasa,"parlate volgari" soggette a tutte le innovazioni
lessicologiche e fonetiche del divenire linguistico), non solo per la non- dimostrabilità di una sua inesistenza nel passato, ma anche e soprattutto perché la realtà
del Dharma è ad essa intimamente connessa;

- del rapporto tra le singole parole (i pada) e i loro referenti/ significati (gli artha, "cose");

- di tali referenti, che, quando si tratta di sostantivi, appartengono pertanto alla sola categoria degli universali/ genera (le jati), mentre i nomi - proprii e comuni
- impiegati a designare gli individui devono esser considerati meri epiteti.

Significativamente, Dio è assente da questo quadro: il Dharma dei Mimamsaka, non meno di quello "buddhistico", non ha bisogno di un cosmocratore che
funga da suo garante e vindice, che porrebbe tra l'altro insormontabili problemi nell'àmbito della teodicea.

Si deve sottolineare che anche laddove, come nel passo dell'epica ora citato, questo ruolo divino in ordine alle norme venga accettato (e ciò si verifica in pratica
per tutte le scuole teistiche di matrice "hindu", a comiciare dal Nyaya/ Vaisesika), la cosa non è necessariamente in contrasto con la nozione di un Dharma
impersonale e senza inizio nel tempo, che le diverse scuole del Vedanta, incluse quelle visnuite, tendono ad accettare dalla Mimamsa, pur sovrapponendo alla
visione di un tempo infinito da essa insegnata una serie indeterminata di sempre ricorrenti cicli di sprigionamento (la srsti) e riassorbimento (il samhaa) del
cosmo da parte della Divinità stessa che sovrintende alle sue sorti.

A prima vista, le polemiche assai vivaci, che hanno opposto per secoli i sostenitori della autorità dei Veda in quanto fonte del Dharma (i quali solgono chiamare
se stessi astika, lett " (quelli) del ' v'è ' (asti) ", tale affermazione investendo in primo luogo un sé distinto dal corpo e il suo destino post mortem) e i loro
avversarii, negatori di tale autorità (messi in un sol fascio assegnando ad essi l'etichetta collettiva di nastika, lett " (quelli) del ' non v'è ' (nasti)"), sembrano
precludere ogni possibilità di ricondurre "hindu" e "buddhisti" ad un comune denominatore in questa materia.

I primi argomentano contro i secondi che la pretesa onniscienza del Buddha, garanzia della corretta formulazione del Dharma da lui insegnato, è indimostrabile
e/ o illogica, e comunque confutata dai fatti, essendosi rivelate erronee alcune delle previsioni formulate in modo solenne (i vyakarana) a lui ascritte dalla
tradizione, come quella del venir meno entro cinque secoli del Saddharma a seguito dell'introduzione d'una branca femminile della comunità dei discepoli da lui
fondata (il sangha).

Dai maestri "buddhisti" si ribatte che i Veda sono evidentemente opera dei Veggenti (gli Rsi) i cui nomi figurano in testa alla tradizione dei diversi inni e passi
che li compongono, ch'essi vanno delegittimati in quanto sanciscono il sacrificio d'esseri viventi e contengono proposizioni prive di senso, e/ o contraddittorie
rispetto ai fatti.

Con tutto ciò, un esame attento delle posizioni deille diverse scuole nei confronti dell'autorità mostra che può esser individuato un accordo di fondo tra esse, non
solo per quanto tocca i termini più generali della concezione del Dharma, ma anche rispetto alle modalità della sua apprensione: ricercando se vi sia qualcosa,
quanto a tali modalità, che distingua il Buddha dagli Rsi vedici, si approderà in effetti ad un terreno comune .

Certo, il Buddha è considerato dai suoi seguaci aver attinto un grado di multiscienza che fa impallidire i risultati raggiunti dai normali yogin: allorché in lui
albeggia la comprensione liberatrice (la bodhi), il cui contenuto proprio è, naturalmente, il Dharma, egli acquisisce automaticamente un triplice sapere/ vedere
(la trayividya: abbiamo qui chiaramente la rivendicazione d'una forma iperbolica di multiscienza che soppone al prestigioso sapere brahmanico designato dalla
stessa espressione...); più precisamente,

- anzitutto il Buddha è in grado di rammentare le proprie vite trascorse in ogni minimo dettaglio ( conoscenza che anche Krsna rivendica a sé nella
Bhagavadgita23);

- in secondo luogo, grazie ai suoi poteri di veggente può apprendere gli oggetti esistenti, per quanto sottili, minuscoli, lontani e/ o schermati da ostacoli diversi;

- da ultimo, egli sa che per lui sono definitivamente cessate le diverse forme di perniciosi influssi karmici (gli asrava), che trascinano il processo di nascita e
morte a riprodursi incessantemente in un cieco e assurdo tentativo di perpetuare l'esistenza di un sé che in effetti è irreale.

Si tratta nei primi due casi di una conoscenza soltanto potenziale, giacché le vite che si stendono innanzi alla memoria del liberato formano una serie
abbracciante un passato senza principio, mentre gli oggetti suscettibili di presentarsi alla sua percezione yogica sono infiniti: se si nega, come sembrano fare
alcuni passi del Canone pali (ma i seguaci del Lokottaravada, che assegnano al maestro divino una mente capace di cogliere in un solo istante il tutto, lo
ekaksanacitta, son pronti a sostenerlo!), che il Buddha goda di una conoscenza/ visione simultanea della totalità degli eventi dell'universo passato, presente e
futuro, ci troviamo di fronte non ad un'onniscienza in senso proprio, ma ad una indefinita/ illimitata attitudine a conoscere.

Altrettanto potenziali sono i tre saperi astratti, che concorrono con la trayividya a formar le sei "forze" (i bala) del maestro:

- egli, sempre secondo lo stato dei fatti, sa ciò ch'è possibile in quanto possibile, ciò ch'è impossibile in quanto impossibile;
- coglie esattamente il nesso tra gli accadimenti passati, presenti e futuri e le cause e condizioni in presenza di cui si verificano;

- e in particolare si rende conto di quali risultati, positivi o negativi, hanno le diverse forme di meditazione suscettibili d'esser coltivate.

Questi ultimi saperi, che sembrano partecipare di un carattere linguistico/ proposizionale a differenza delle esperienze immediate e non-linguistiche ricadenti
entro la trayividya , sono coordinati, come altrettante specificazioni di esso, al modello ideale di rapporti tra eventi psichici e fisici che costituisce l'ossatura del
Dharma nel suo aspetto di normativa universale.

E' difficile sottrarsi all'impressione che, sotto questo rispetto, il Dharma delle varie scuole "buddhistiche" antiche condivida diversi caratteri di quello teorizzato
dagli esponenti della Purvamimamsa: certamente il Buddha non lo inventa, ma lo apprende, e lo apprende come contenuto di una serie di proposizioni, le stesse
che comunicherà con la sua voce divina e sommamente persuasiva ai discepoli, destandoli alla visione salvifica di cui per primo ha fruito.

La perennità del Dharma, quale che sia la giustificazione teoretica offerta per essa, riguarda la sua presenza costante in termini di conoscibilità come istanza
ultima di valutazione dell'agire umano, non già la sua effettiva applicazione: questa può essere disattesa, ed in effetti vi sono età oscure del mondo (i ricorrenti
Kaliyuga) in cui il Dharma è offuscato e posto in non cale, allorché la sua conoscenza e la sua pratica da parte dei più vengono meno.

Ora, la pratica del Dharma è d'importanza centrale per la conservazione del mondo e dell'ordine sociale, così come per la salvezza dei singoli: è per proteggere
tale pratica, per consolidarla allorché vacilla, che il "Beato" (resa convenzionale di Bhagavat, lett "possessore di bhaga", ossia di buona sorte, maestà, gloria,
ricchezza; è questo un epiteto del Maestro divino applicato dai loro rispettivi devoti sia al Buddha che a Vasudeva/ Krsna e a Siva docente), vero "mandriano"
incaricato di custodire la vacca del Dharma perenne (lo sasvatadharmagoptr), non esita a rivestire di tempo in tempo un corpo umano e a compiere la sua
"discesa" (lo avatara) nel mondo: così insegna lo stesso Krsna in due strofe celeberrime della Bhagavadgita24:

" Ogniqualvolta del Dharma estenuarsi (la glani) si verifica, oh discendente di Bharata, e predominio del non-Dharma, allora me stesso emano io:

per la completa protezione dei buoni e la rovina dei male operanti, al fine di ben rinsaldare il Dharma io vengo in esistenza di ciclo in ciclo cosmico (yuge
yuge)."

E' istruttivo il modo in cui sostanzialmente concordano le letture che di questa importantissima affermazione del maestro divino fanno i diversi commentatori,
per quanto diverse possano essere le loro opzioni metafisiche e gnoseologiche.

Sankara la trasceglie addirittura come tema inizialmente affrontato dalla sua introduzione al poema sacro, distinguendo tuttavia dal Dharma teorizzato dalla
Purvamimamsa, giocato sull'azione e sul dover essere, un modello di condotta ascetico orientato alla gnosi e fondato nell'essere, anch'esso enunciato nei Veda, e
più precisamente nelle Upanisad, che dei Veda costituiscono insieme la fine e il fine (tale il senso del termine "Vedanta", che collettivamente le designa)25:

" Quel Bhagavat, avendo emanato questo mondo, e di esso il perdurare desiderando, a cominciar da Marici in pricipio i (dieci) Prajapati avendo sprigionato, il
Dharma caratterizzato dal volgersi a (l'attività mondana, in primo luogo sacrificale, la pravrtti) fece apprendere (a costoro), enunciato dai Veda; in seguito
anche gli altri (figli nati dalla sua mente) a cominciar da Sanaka e Sanandana avendo posto in esistenza, il Dharma caratterizzato dal volgersi via da (l'attività
mondana, la nivrtti), contraddistinto da gnosi e impassibilità/ distacco (il vairagya) fece (loro) apprendere. Duplice infatti è enunciato dai Veda il
Dharma:quello caratterizzato dal volgersi a (l'attività) e quello caratterizzato dal volgersi via da (essa), (entrambi) causa/ strumento (karana) del perdurare del
mondo. Quel Dharma, che è immediatamente e direttamente causa per gli esseri che han vita e respiro dell'albeggiare (del successo mondano, lo abhyudaya) e
di ciò di cui nulla è migliore (la liberazione dal ciclo di nascite e morti, il nihsreyasa), dagli appartenenti ai varna e agli asrama (i quattro grandi gruppi
sociali: sacerdoti, nobili guerrieri, popolani e servi, e i quattro stadii della vita: alunno brahmanico, capofamiglia, anacoreta e asceta itinerante ) a cominciar
dai brahmani, desiderosi del meglio, fu praticato per lungo tempo. A seguito del sorgere dei desiderii/passioni (i kama) per i (suoi) praticanti, invero, essendo il
Dharma sopraffatto dal non-Dharma, cagionato dal venir meno di discriminazione e conoscenza, e predominando il non-Dharma, il perdurare del mondo
desiderando assicurare, quel Primo Creatore (lo Adikartr) chiamato "Narayana", Visnu, al fine di proteggere il Brahman terrestre, ch'è il brahmano (in quanto
tale, il brahmanatva), in Devaki da Vasudeva con una (sua) particola quale Krsna venne in esistenza, (pensando:) ' Mediante la protezione del brahmano invero
protetto sarà il Dharma vedico, data la dipendenza da esso delle distinzioni di varna e asrama '.E quel Bhagavat, di conoscenza, dominio, potenza, vigore, virile
energia, fulgore sempre provvisto, la propria illusione/ magia (la maya ) consistente dei tre guna, natura-radice (la mulaprakrti), avendo sotto controllo, non
nato, degli esseri signore, pur essendo quanto al suo essere eterno, puro, cosciente, libero (nityasuddhabuddhamukta: sono i cosiddetti attributi intrinseci del
Brahman), per la propria maya come se fosse dotato di un corpo e come se fosse nato, l'ausilio del mondo (lokanugraha) operando, è percepito. Pur in assenza
di un suo scopo (egoistico), per desiderio di sovvenire agli esseri, il duplice Dharma vedico ad Arjuna, nel vasto oceano d'angoscia e d'obnubilamento
sprofondato, autorevolmente insegnò, (pensando:) 'Da persone dotate di (buone) qualità una volta appreso e messo in pratica, il Dharma attingerà le
moltitudini'. "

Il Bhagavat tratteggiato in questo schizzo teologico, coincidente in realtà con il Brahman impersonale totalmente sottratto alle vicissitudini del divenire eppure
intento, grazie al gioco della sua potenza d'illusione, a soccorrere disinteressatamente gli esseri impartendo loro il Dharma, ha tratti abbastanza vicini a quelli
del Buddha venerato dai seguaci della antica scuola del Lokottaravada come volto umano soltanto apparente di un Assoluto "trascendente il mondo" (appunto
Lokottara), nozione ripresa e ampliata nella predicazione del Mahayana, ch'è possibile stia - almeno indirettamente - alle radici dei conati docetistici nel
cristianesimo nascente.

Questa simiglianza può venir colta limpidamente, ad esempio, in alcune strofe delle "Quattro lodi" (il Catuhstava) ascritte a Nagarjuna, più o meno
contemporaneo dei docetisti d'Occidente; così nella "Lode dell' Impareggiabile" (il Niraupamyastava) egli canta 26 :

"Oh Impareggiabile (per cui non v'è paragone/ similitudine, la upama), prosternazione a te, cui è noto che le cose mancano di natura propria
(nihsvabhavarthavedine), giacché tu (tuttavia) di questo mondo (loka) rovinato dalle vedute (erronee) in aiuto sei sorto! (...)

E ovunque seguito sei e non nato sei dovechessia: quanto a nascita, dharma (qui il termine denota delle peculiarità intrinseche) e corpo inconcepibile tu sei, oh
Gran Silenzioso! (...)

Priva di caratteristiche da te, oh Intelligente, è veduta la forma, come (fosse) non-forma, eppure con un corpo fulgente di caratteristiche (divine) sei veduto nella
sfera delle forme!
Né, poi, con l'esser veduta la (tua) forma, in termini di "veduto" sei definito: il Dharma essendo veduto, però, veduto sei; e (pure) la Realtà del Dharma (la
Dharmata) non è veduta!

Cavità non v'è per te nel corpo, e neppure carne, ossa, sangue: come l'arma d'Indra (l'arcobaleno) nello spazio celeste un corpo vieni mostrando!

Nè infermità né impurità v'è nel (tuo) corpo, né di fame e sete v'è insorgere; (pure) da te al fine di render servigio al mondo (lokanuvrtti) è mostrata mondana
attività! (...)

Eterno, saldo, benigno/ puro/ sereno (siva) è il corpo tuo, fatto di Dharma, vittorioso (jina), e (pure), a cagione della gente da istruire, è mostrato il volgersi via
(dal mondo, la nivrtti) da te! "

e nella "Lode della Suprema Realtà" (il Paramarthastava), coniugando docetismo e apofatismo27:

"A cagione del (tuo) esser proprio di Non-sorto (in esistenza), un (reale) sorgere per te non v'è, né un andare (all'altro mondo), né un venire (in questo), oh
Signore! Al Privo d'esser proprio prosternazione sia (resa), a te!

Non rosso, bruno, rosato: un colore in te (in realtà) non si percepisce, non giallo, nero o bianco! All'incolore prosternazione sia, a te!

Non grande e neppur breve sei, non lungo (dirgha) o tutt'attorno sferoide (parimandala): dell'incommensurabilità (o: "dell'inaccessibilità ai mezzi di
conoscenza", se si assegna all'epiteto "apramana" questa accezione tecnica) la soglia hai attinto! All'Incommensurabile prosternazione sia, a te!

Non lungi e neppure in prossimità, non in cielo e neppure in terra, non nel ciclo delle rinascite e neppure nel nirvana : a Colui che non dimora (in nessun luogo)
prosternazione sia, a te!

Non dimorante in tutti i dharma, della sfera del Dharma (il Dharmadhatu) la soglia hai attinto, la Suprema Profondità hai conseguito! Al Profondo
prosternazione sia, a te! "

Questa descrizione negativa del Bhagavat, che di primo acchito colpisce per la sua apparente "modernità", ricalca in realtà in parte moduli assai antichi, e non
esclusivamente "buddhistici".

Si confrontino questi versi sulla condizione di chi ha attinto la gnosi ultima messi in bocca al Jina, Vardhamana il "Grande Eroe" (Mahavira), tratti dallo
Acarangasutta28:

" Tutte le parole si volgono via; indagine razionale (takka) dove non v'è, la mente ivi non penetra, nello stato del Privo di base (lo Appatitthana).

Egli non è lungo (diha), né breve, né triangolare, né quadrato né sferoide (parimandala), non nero, né blu, né rosso, né bruno, né bianco (...)

Egli è incorporeo, intangibile, né femmina, né maschio, né altrimenti, (eppure) percepisce, conosce; similitudine (la uvama) non v'è (per lui), è informe essenza
(aruvi satta)."

In effetti, un maestro rivale del Buddha e del Jina, Gosala, fondatore della scuola fatalistica detta degli Ajivika ("osservanti di una regola di vita", lo ajiva,
termine che si rinviene anche nel lessico "buddhistico"), sembra assegnasse all'"anima" (il jiva, termine impiegato anche dai "buddhisti", dai Jaina e dai seguaci
del Vedanta) in procinto d'attingere il nirvana, immateriale e indivisibile, serenamente fluttuante al vertice del cosmo, l'aspetto di una sorta di vasta nube
sferoidale (gul.aparimandala)29 di colore azzurro, del diametro di ben cinquecento giornate di viaggio (gli yojana, un'unità di distanza variabile dello stesso
tipo delle parasanghe persiane), mentre tutta una serie di colori del del jiva nella sua condizione mondana, percepibili dai veggenti e dipendenti del diverso
grado del suo inquinamento dovuto ad infiltrazioni di materia karmica, è oggetto di classificazione da parte sia degli Ajivika che dei Jaina (i quali ultimi si
riferiscono ad essi come "lesya").

Il nesso tra Bhagavat e Dharma, per quanto diversamente modulato nell'ottica "hindu" e in quella "buddhistica", resta un momento estremamente significativo
delle costruzioni soteriologiche espresse da entrambe.

E la chiave soteriologica è assolutamente indispensabile alla lettura in prospettiva del pensiero indiano: ove si prescinda da essa, che ne condiziona fino in
fondo interessi e tematiche, la vicenda plurimillenaria di questo pensiero tenderà ad apparire agli occhi dell'indagatore occidentale un caotico affastellarsi di
gratuite costruzioni speculative.

In realtà, invece, tanto i darsana sviluppatisi in seno all'ortodossia brahmanica che i nikaya espressi dal buddhismo antico e gli indirizzi fioriti nel Mahayana
perseguono con lucida coerenza, a partire dalla conoscenza salvifica di cui si ritengono depositarii, la riflessione sui suoi contenuti, sulle sue modalità e
condizioni,

Al di là delle loro posizioni particolari e divergenti sull'uno o sull'altro tema specifico, i due indirizzi condividono in gran parte atteggiamenti e concezioni nei
confronti del mondo, dell'uomo e del suo agire (il famoso karman), che lo trascina a rinascere sempre di nuovo nella ruota senza principio e senza fine della
trasmigrazione (il samsara), attraverso un implacabile meccanismo di contrappasso; di qui l'esigenza avvertita da tutti i maestri indiani -ad eccezione dei soli
Lokayata/ Carvaka "che l'anima col corpo morta fanno"- d'una liberazione che è il fine ultimo di ciascun uomo, e di conseguenza anche d'ogni sapere.

Certo, questa è variamente intesa e descritta, come provano anzitutto le sue designazioni, diverse a seconda delle scuole e dei periodi.

Abbiamo così, per citare solo le principali:


- lo apavarga della letteratura tardo-vedica, letteralmente l'atto di "strappar via" il documento del debito contratto nelle precedenti vite e nell'attuale attraverso
meriti e demeriti, che il Vaisesika costruisce come uno stato di beatitudine negativa che esclude ogni esperire e la stessa coscienza;

- il kaivalya, nudo "isolamento" del soggetto cosciente nella sua purezza, ormai per sempre esente da relazioni condizionanti con qualsiasi oggetto finito,
insegnato dai maestri Jaina e del Samkhya/ Yoga;

- il duhkhanta, ossia la "fine del disagio" esistenziale, di cui volentieri parlano "buddhisti" e sivaiti dell'antica scuola Pasupata;

- il moksa o la mukti , lo "scioglimento" o il "lasciar cadere" del legame della nescienza (lo ajñana o la avidya, non mera assenza di conoscenza, ma potenza
oscura e obnubilatrice che riprecipita ogni volta l'individuo nell'esperienza ripetitiva e eternamente inconcludente del samsara), termine d'uso panindiano -e
anche "buddhistico, nella variante vimoksa o vimukti, dove il prefisso vi- indica una pluralità di direzioni: "affrancamento completo, sotto ogni rispetto";

- il ben noto nirvana, letteralmente uno stato di "assenza dell'aria" che alimenta e insieme agita la fiamma dell'esistenza terrena, e/ o delle passioni di essa
responsabili, che nella resa "buddhistica" diviene piuttosto uno spegnersi della fiamma stessa ad opera del vento.

Nel suo dialogo con il giovane Upasivan, contenuto nel Suttanipata, una delle sezioni più antiche del Canone, il Buddha impiega appunto quest'accezione del
termine30:

" 'La fiamma come per l'impeto del vento (vatavegena), oh Upasiva', il Bhagavat disse, ' (una volta) spenta a casa (attham) torna, né è (più) soggetta a
designazione, così il silenzioso, (una volta che sia) da nome e corpo al tutto disciolto (vimukto) a casa torna, né è (più) soggetto a designazione'.

' A casa andato così, (più egli) non è, o (permane) senza malattia in eterno? Che il Silenzioso mi chiarisca questo, ché di tale Dharma ha contezza! '

' Per chi è a casa andato, non (più) misura (pamana) v'è, oh Upasiva', il Bhagavat disse, ' (Un qualche criterio) in base a cui predicare di lui alcunché

(più ) non v'è; tutti gli elementi/ peculiarità (i dharma) essendo spazzati via assieme (samuhata, rimossi in mucchio) , sono spazzate assieme anche le vie del
linguaggio, tutte! ' "

Tale connotazione semantica è rafforzata allorché il termine è letto come indicante uno spegnersi della fiamma per altre cause, come il suo esser coperta o la
sopravvenuta assenza di combustibile; quest'ultima accezione è oggetto di frequenti allusioni nel Canone pali, dove volentieri sintroduce la similitudine del
fuoco che si estingue essendo ormai "senza nutrimento" (anahara).

La metafora del fuoco che va "a casa", come il sole al tramonto (l'espressione è la medesima), sembra alludere non ad una mera scomparsa, ma al ritorno ad uno
stato misterioso e ineffabile di latenza.

Si comprende come, spiegando all'asceta itinerante Vacchagotta perché è necessario negare l'esistenza, ma anche l'inesistenza, a proposito di chi ha attinto il
nirvana al momento della morte, il Bhagavat ci venga presentato in atto di ricorrere ancora una volta alla nozione dell'attingimento da parte del fuoco che si
spegne di tale condizione paradossale.

Il loro dialogo è eloquente, e serve ad esemplificare lo stile della anviksiki applicata nel periodo aurorale del "buddhismo" a quesiti apparentemente legittimi,
per mostrarne l'assurdità 31:

" ' Se a te (...) innanzi questo fuoco "nirvanasse" (nibbayeyya), conosceresti tu: ' questo a me innanzi, il fuoco, è "nirvanato" (nibbuto)' "?

" Se a me (...) dinanzi questo fuoco "nirvanasse", conoscerei io: ' questo a me dinanzi, il fuoco, è "nirvanato" .' "

" E se qualcuno (...) così ti domandasse: ' Quel ch'era questo a te dinanzi, il fuoco "nirvanato" , questo fuoco da qui verso che direzione è andato? Di fronte, o
alle spalle, o a sinistra, o a destra (il lettore ricordi che in India ci si orienta guardando appunto ad Oriente: le direzioni indicate corrispondono ad Est, Ovest,
Nord e Sud rispettivamente)? Così interrogato, tu che risponderesti? "

" Non si applica (tutto ciò al caso in esame, "na upeti"). Quel ch'era invero questo a me dinanzi, il fuoco che in dipendenza dai fattori causali (consistenti in)
combustibile costituito da erba secca e bacchette era stato acceso, essendovi stata da parte di esso consumazione (del combustibile) ed essendovi per esso
assenza d'alimento, alla designazione di "nirvanato" è giunto.'

Sostenere che dopo la morte chi ha raggiunto il nirvana non c'è più, o c'è ancora, o entrambe le cose, o nessuna delle due, è altrettanto improprio che parlare di
uno spostamento del fuoco da qualche altra parte, quando spegnendosi esso è divenuto qualcosa di diverso, totalmente a-spaziale.

Per comprendere appieno la portata della metafora in discorso è opportuno far riferimento alla nozione vedica della vulva/ matrice (la yoni) dove Agni (cfr il
latino ignis), il dio-fuoco, riposa, fino a quando egli ne è evocato/ ridestato: si tratta dalla cavità, sagomata appunto come una vulva, della bacchetta inferiore (la
adhararani o "arani" tout court), ricavata da un albero di Ficus religiosa, nella quale è sfregata la bacchetta superiore (la uttaraarani) durante il rito
dell'accensione; la forma fallica di quest'ultima non lascia alcun dubbio sulla natura di coito simbolico dell'azione rituale in discorso.

Ora, allorché Agni è spento, egli non è svanito, ma ha subito un vero e proprio regressus ad uterum, è "andato alla sua vulva"; recita l'autorevole
Svetasvataropanisad, un florilegio di citazioni vediche commentate destinato a servir di base alla teologia "hindu" dell'epica e dei diversi sistemi classici e post-
classici32:

" Come del Fuoco (Vahni, lett "veicolante" le offerte che vi sono arse al mondo celeste) andato alla vulva il volto non è veduto, eppure non vi è annientamento
del (suo aspetto) sottile, (giacché) esso di nuovo invero nella vulva di combustibile (indhanayoni) è afferrabile, così appunto entrambi (gli aspetti del Sé,
manifesto e sottile, van considerati nel processo di manifestazione di questo) grazie al mormorio (della sillaba "om") nel corpo.
Del proprio corpo la bacchetta (inferiore) avendo fatto e del mormorio la bacchetta superiore, con la pratica del soffregamento ch'è la meditazione, il Dio si
vedrà, (ch'era) come nascosto."

Questa concezione ricompare anche altrove: così troviamo citata nella Maitreyupanisad33 e nella Maitrayanyupanisad34una strofe, che adotta già il lessico
tecnico che sarà proprio dello Yogadarsana, in cui il riposo di Agni nella vulva è impiegato come similitudine con lo stato di immobilità della sostanza mentale
(il citta; anche i trattati delle scuole "buddhistiche" nella loro maturità ricorrono spesso a questo termine) allorché in essa non si producono più i vortici (le vrtti)
cagionati da esperienze oggettuali e/ o passioni:

" Come senza combustibile (nirindhana) il fuoco nella sua vulva/ matrice (la yoni) si acquieta, così a seguito dell'estenuarsi delle vrtti il citta nella sua vulva si
acquieta."

A questo punto, il lettore si sarà formato l'idea che nelle più antiche testimonianze pervenuteci in campo "hindu" e "buddhistico" l'attingimento del nirvana
corrisponda, mutatis mutandis, alla situazione della morte di Laura descritta dal nostro Petrarca nei Trionfi35:

" Non come fiamma che per forza è spenta,

ma che per se medesma si consume,

se n'andò in pace l'anima contenta,

a guisa d'un soave e chiaro lume

cui nutrimento a poco a poco manca (...)"

L'idea di spegnimento non è, tuttavia, necessariamente l'unica veicolata dal termine, che nel discorso di Yudhisthira abbiamo visto designare semplicemente la
liberazione dal ciclo delle rinascite: si confronti la resa della similitudine nella Bhagavadgita36:

" Come una face che sta senza vento (nivatastho) non vibra, questa similitudine è ricordata per lo yogin la cui coscienza (citta) è doma, che è congiunto allo
yoga del Sé."

Da intendersi come un pacifico identificarsi, grazie alla conoscenza, dell'individualità umana limitata con l'Assoluto divino è probabilmente il brahmanirvana
di cui parla lo stesso testo, che sembra valere da vivi non meno che in articulo mortis37:

" Questa relativa al Brahman è la stazione (la brahmi sthitih), oh figlio di Prtha, né questa avendo attinto si è (più) confusi; stando in essa anche al tempo della
fine (della vita) , il brahmanirvana si consegue. (...)

Quegli il cui agio è interiore, che dell'interiore si diletta, e così pure ch'è tutt'uno con l'interiore luce (antarjyotir eva), questo yogin al brahmanirvana , divenuto
il Brahman, perviene.

Attingono il brahmanirvana i veggenti le cui impurità sono estenuate, le cui ambivalenze sono state recise, il cui sé (qui nel senso della persona, o della mente)
è imbrigliato, che nel giovare a tutti gli esseri si compiacciono.

Presso coloro che da desiderio ed ira sono al tutto disgiunti, asceti dalle coscienze imbrigliate, il brahmanirvana si verifica , essi cui il Sé è noto."

E' degno di nota come questo testo prestigioso definisca la condizione di chi attinge tale stato sublime in termini d'una raggiunta identità con il Brahman;
secondo il famoso adagio vedantico:

"Il conoscitore del Brahman il Brahman appunto diviene" (brahmavid brahmaiva bhavati)

e qui egli è appunto "divenuto il Brahman", o anche "essente il Brahman", a seconda di come leggiamo l'epiteto "brahmabhuta".

Si deve notare, a questo proposito, che anche nel lessico "buddhistico" reperibile in diversi passi del Canone pali tale epiteto è introdotto a qualificare sia la
figura del Buddha in persona, ovviamente paradigma di chi ha ottenuto, con la liberazione, l'identità con il Dharma impersonale, sia - è questo è decisamente
più significativo - il sé (l'atman), attraverso la cui identificazione con il Brahman (brahmabhutena attana) è detta essere attingibile la liberazione stessa39.

Se in altri contesti si può intendere come referente del termine "atman" la persona intera, a cominciare dal corpo, o la sola mente, qui l'equivalenza con il
Brahman lascia ben poco spazio a interpretazioni siffatte: nel discorso sviluppato dal pensiero indiano già in età tardovedica, infatti, il sé che si scopre
coincidente con l'Assoluto è il puro soggetto al di là e al di sopra delle diverse forme d'esperienza limitata, non già l'individuo empirico nell'uno o nell'altro dei
suoi aspetti psicofisici.

Né vale leggere al posto del termine neutro "Bra'hman", designazione dell'Assoluto impersonale, quello maschile "Brahma'n", epiteto della figura divina
responsabile della manifestazione del mondo delle forme, erede delle speculazioni cosmogoniche attorno al ruolo e ai limiti del Demiurgo, di cui abbondano i
testi tardo-vedici39.

Questa figura non gode, infatti, di considerazione sufficiente nella considerazione "buddhistica" per giustificar l'attribuzione del suo nome al Buddha onde
esaltarlo: se è vero che, con l'antico dio vedico Indra, egli è stato fin dai primordii accettato e messo in subordine al Buddha, il fatto che fosse posto al centro
della riflessione espressa dalla nascente teologia indiana lo ha reso bersaglio di diverse tirate denigratorie, nonché di miti in cui era ridicolizzato nella sua
pretesa di onnipotenza ed onniscienza, mentre gli veniva negato il ruolo di origine degli dèi e del mondo normalmente riconosciutogli nel milieu extra-
"buddhistico".
La connotazione apparentemente vedantica del nirvana, che ci fan sospettare l'uso di "brahmabhuta" e del suo quasi- sinonimo "brahmaprapta" ("che ha attinto
il Brahman", laddove la liberazione stessa è detta talora "brahmaprapti", "attingimento del Brahman"...) - anche se i commentatori d'età posteriore han fatto del
loro meglio per minimizzare la portata dei nostri termini! -, mostra quanto pesino, al di là delle ovvie tensioni intercorrenti fra loro, i punti di contatto della
visione soteriologica del "buddhismo" nella sua fase più antica con quella vedantica, che, fin dal suo sorgere, tenderà a formare il mainstream della tradizione
"hindu".

In effetti, ben più di quanto normalmente accada nell'insegnamento degli esponenti delle altre soteriologie indiane che, come la loro, ammettono l'esistenza
effettiva del mondo e dei singoli individui (i Jaina, ma anche, nel solco dell'ortodossia brahmanica, i seguaci del Samkhya/ Yoga, del Nyaya/ Vaisesika e della
Purvamimamsa), i testi autorevoli del "buddhismo" sembrano assegnare allo stato del liberato in vita e/ o in morte40 i connotati di un Assoluto che a molti
studiosi ricorda il Brahman upanisadico.

Prendiamo in considerazione le solenni enunciazioni in versi da parte del Buddha che figurano in un famoso passo riportato tanto negli Udana41, che,
parzialmente, negli Itivuttaka42, raccolte che sono fra le parti più antiche del Canone :

" V'è ("atthi", in posizione fortemente enfatica), asceti, quel luogo, ove né affatto la terra, né le acque, né l'igneo fulgore, né il vento, né il luogo dell'infinità
dello spazio, né il luogo dell'infinità della coscienza, né il luogo del nulla, né il luogo della né in effetti esperienza né inesperienza, né questo mondo, né l'altro
mondo, né entrambi Luna e Sole (si trovano).

Quello io, asceti, né affatto venuta (al mondo, agati) dico, né andata (all'altro mondo, gati), né stato (thiti), né venir meno (cuti), né venire in esistenza
(upapatti): senza una base/ fondamento (appatittha), senza una messa in moto (appavatta), senza un supporto (anarammana) appunto è Quello, questa solo è la
fine del disagio! (...)

V'è, asceti, un non nato (ajata), non divenuto/ essente (abhuta), non fatto (akata), non composito (asamkhata). Se ciò non fosse, asceti, (se) non vi fossero un
non nato, un non divenuto, un non fatto, un non composito, non invero quanto a questo (il dimostrativo serve qui a indicare ciò che è famigliare all'uditore; di
solito tale portata semantica si rende con "di quaggiù, di questo mondo", o altre perifrasi siffatte) nato, divenuto, fatto, composito un'uscita si conoscerebbe. E
perché invero, asceti, v'è un non nato, non divenuto, non fatto, non composito, perciò quanto a questo nato, divenuto, fatto, composito un'uscita si conosce."

I tratti del primo udana sono abbastanza vicini, nelle modalità adottate per esprimere il mistero insondabile dello stato della liberazione, a quelli che ci accade di
udire in un classico testo della Kathakopanisad43 :

" 'Quello è desso!' ("tad etad", un'espressione che può significare semplicemente "è proprio quello!", oppure avere il senso di una tautologia che confina con
l'inesprimibile) : così si pensa quel che non è suscettibile d'essere indicato, il supremo agio; come dunque lo si conoscerebbe? Forse che fulge manifesto (bhati),
o rifulge in ogni dove (vibhati)?

Né ivi il Sole fulge, né Luna e stelle, né questi lampi fulgono; e donde questo fuoco? A seguito di Quello solo fulgente fulge manifesto il tutto, per il fulgore di
Quello tutto questo (universo) rifulge in ogni dove."

Come nella Gerusalemme celeste dell'Apocalissi giovannea44, i luminari, che con il loro moto scandiscono il tempo e segnano l'assoggettamento degli esseri
alla mutevolezza del divenire, sono assenti dal Luogo supremo, a simboleggiarne l'atemporalità.

Il Buddha docente ci vien presentato anche altrove intento a descrivere in questo modo quasi- spaziale il nirvana; così lo udiamo proclamare, ancora negli
Udana45:

" Là le acque e la terra, l'igneo fulgore, il vento non ha base, là le stelle non rifulgono, il Sole non illumina, là la Luna non luce, (eppure) là la tenebra non
esiste! Quando l'asceta, il brahmano, grazie al sé e al silenzio abbia conosciuto, allora da forma e informe, da agi e disagi è liberato."

e nel Kevaddhasutta46:

" Dove le acque e la terra, l'igneo fulgore, il vento non ha base? Dove il lungo e il breve, il sottile e il grossolano, il bene e il male (subhasubha), dove e nome e
forma senza eccezione vien meno? (...)

Coscienza senza indicazione (viññanam anidassanam), infinita, d'ogni dove splendente! Là le acque e la terra, l'igneo fulgore, il vento non ha base, là il lungo e
il breve, il sottile e il grossolano, il bene e il male, là e nome e forma senza eccezione vien meno. Della coscienza grazie alla cessazione/ arresto (il nirodha)
della coscienza, là questo vien meno."

Occorre notare che il termine impiegato a designare tale Realtà trascendente, "ayatana" ("luogo"), denota nel lessico "buddhistico" specializzato i livelli
superiori del cosmo, al di là della sfera delle forme, che son sede delle gerarchie divine più elevate, ma anche i corrispondenti stati attinti dalle pratiche
contemplative più rarefatte, le cosiddette quattro samapatti (lett "incontri/ completamenti"), coltivando le quali alla morte si accederà al mondo divino
corrispondente per un lunghissimo periodo di tempo, anche se, una volta esaurito il karman positivo che manteneva in tali dimore, si ritornerà a nascere sulla
terra.

Non a caso, nella biografia dell'asceta Gautama, destinato a divenire alla fine di un iter di ricerca e di lotte il Buddha della nostra epoca, si riporta la sua
insoddisfazione nei confronti anche degli ayatana più sottili, cui è pervenuto sotto la guida dei maestri Arada e Udraka (si tratta del terzo e quarto "luogo"
rispettivamente).

Questi "luoghi", del resto, sono elencati subito dopo gli elementi materiali che compongono, come altrettante sfere concentriche, il cosmo, per negare che lo
Stato ultimo sidentifichi con essi: il modello, comune ad altre cosmologie antiche, è quello di una spazializzazione della progressiva discesa dall'orizzonte
oggettuale del mondo esteriore nell'interiorità del soggetto, ai cui gradi corrispondono sfere via via sempre più estese e lontane dalla terra.
Ci si può domandare se la liberazione non sia tuttavia loro assimilata in qualche misura, come un gradino ulteriore posto a coronamento dell'iter meditativo che
rappresentano, quasi a formare una sortoa di empireo abbracciante tutto il resto: la connotazione spaziale del nirvana negli udana ora riportati sembrerebbe di
primo acchito suggerirlo.

Per comprendere meglio i termini del problema, giova esaminar partitamente i diversi ayatana, così come la tradizione "buddhistica" li presenta:

- L'attingimento del "luogo dell'infinità dello spazio" (lo akasanantyayatana) si ha allorché il meditante rinuncia ad ogni supporto esteriore limitato
dell'attenzione, essendosi convinto dei difetti insiti nel loro uso.

Il trascendimento di tali supporti ha luogo a partire dalla loro percezione: dopo essersi concentrati su di essi, il flusso continuo delle consapevolezze che li
hanno per oggetto viene spogliato sia dell'attenzione alle forme sotto cui li si percepisce, che di quella alla loro molteplicità, badando esclusivamente allo spazio
da essi occupato.

Gradualmente si giunge a fare astrazione anche dai confini di tale spazio, dilatandolo all'infinito: oggetto della meditazione è a questo punto la sostanza sottile
della quale è fatto lo spazio (lo akasa, che nella visione indiana è sovente assimilabile ad un continuum materiale indivisibile ricolmante il vuoto; la resa con
"etere" è forse la soluzione meno imperfetta, anche se un'identificazione pura e semplice dello akasa con esso può risultare in certa misura fuorviante) .

- Ma lo stesso spazio presenta ancora dei difetti, legati alla sua oggettualità, sia pur rarefatta e impalpabile: resosene conto, il meditante compie ora il salto
dall'oggetto al soggetto.

Egli si spinge a fare astrazione dalla spazialità stessa dello spazio, conservandone solo l'estensione: in alto, in basso e in ogni direzione, all'infinito, egli coglierà
allora soltanto la presenza di un quid che coincide con la consapevolezza sensoriale ch'egli sta esercitando (il vijñana): mutuando una massima occidentale, si
potrebbe dire che nel "luogo dell'infinità della coscienza" (il vijñananantyayatana) l' esse dello spazio è davvero divenuto mero percipi.

Questo ayatana sembra essere identico al nirvana, o per lo meno assai strettamente associato ad esso, nella seconda strofe citata nella descrizione del
Kevaddhasutta; la normale presentazione che ne vien data, tuttavia, implica che anch'esso vada superato.

- Anche a questo livello di attenzione ineriscono infatti dei difetti, che dipendono in primo luogo dal resto di oggettualità insito nell'estensione che il meditante
continua a sperimentare nel suo rappresentarsi in ogni dove la propria consapevolezza: questa va ulteriormente purificata, prescindendo da ogni riferimento ad
una collocazione qual si voglia e riportandola ad una soggettività senza residuo.

Varie tecniche portano a quest'esito: ad esempio il sovrapporre all'esperienza della coscienza ancora spazializzata una vivace rappresentazione immaginativa (la
bhavana) della sua assenza (lo abhava, che sembra in questo contesto doversi intendere come un "non esser lì" più che come un "non esserci"), il che serve per
così dire a "smaterializzarla", o il brusco sprofondarsi dell'attenzione nella rappresentazione parimenti fantasticata della "vacuità" (la sunyata, pali suññata; il
lettore rammenterà qui irresistibilmente lo "sperdersi" e il "naufragare" del nostro Leopardi nella sua celebre lirica sull' Infinito ...), o ancora il semplice
scartarne la "forma/ aspetto " in quanto fatto distinto (viviktakara).

S'arriva così al "luogo del nulla" (lett "non-alcunché", è lo akimcanyayatana), in cui l'attenzione sembra non aver più oggetto.

- In effetti, l'assenza, il vuoto, l'impalpabile informe che l'attenzione investe è pur sempre l'esito di una rappresentazione fittizia e come tale comporta, per
quanto estenuata, un'ultima traccia d'oggettualità, il che, se da un lato permette di esperirlo, dall'altro inficia la perfezione della quiete del meditante: la punta di
disagio che ne deriva è come un ascesso, come una freccia infitta nelle sue carni.

Di qui l'esigenza di trascendere anche il "nulla", estendendo e intensificando, con un ultimo sforzo di rappresentazione cosciente, la quiete stessa che già si è
raggiunta, fino a sostituirla completamente all'impressione negativa che prima sera coltivata.

Ora l'oggetto è veramente obliato, ora l'attenzione, priva di qualsiasi centro, si riassorbe in se stessa e resta allo stato di latenza, come il fuoco che si è spento
nella variante upanisadica della metafora.

La designazione di questo stato come "luogo della né in effetti esperienza né inesperienza" ( il naivasamjñanasamjñayatana) procede ormai a colpi di negazioni
simmetriche, secondo il modello dell'approccio aporetico sovente adottato nella prima stagione del pensiero indiano, approccio documentato ad esempio nella
formulazione sintetica dell'insegnamento d'un altro dei contemporanei del Buddha, Sañjaya (maestro di quello che sarebbe divenuto il suo discepolo più
brillante, Sariputra) conservataci nel repertorio di dottrine rivali nel Samaññaphalasutta47:

" ' V'è un altro mondo (para loka)?': se così tu interroghi, ( ecco la mia risposta:) ' V'è un altro mondo' :se così per me fosse, (allora)' V'è un altro mondo': a te
questo insegnerei. Così però per me non è.

(Più esattamente,) che sia così, per me altresì non è, che sia altrimenti, per me altresì non è, che non sia così, per me altresì non è, che non (sia vero) che non è
così, per me altresì non è.

' Non v'è un altro mondo?': se così tu interroghi " ' Non v'è un altro mondo' :se così per me fosse, ' Non v'è un altro mondo': a te questo insegnerei. Così però per
me non è. Che sia così, per me altresì non è, che sia altrimenti, per me altresì non è, che non sia così, per me altresì non è, che non (sia vero) che non è così, per
me altresì non è". " ' V'è e non v'è un altro mondo?' (...)

' Né in effetti v'è, né non v'è un altro mondo? ' (...)

' ' V'è un'essenza che sinvola (verso altre vite, la satta upapatika)?' (...) ' ' Non v'è un'essenza che sinvola? ' (...)

' V'è e non v'è un'essenza che s 'invola? ' (...)


' Né in effetti v'è, né non v'è un'essenza che sinvola? ' (...)

' V'è di bene operati e male operati karman frutto, maturazione? ' (...)

' Non v'è di bene operati e male operati karman frutto, maturazione? ' (...)

' V'è e non v'è di bene operati e male operati karman frutto, maturazione? ' (...)

' Né in effetti v'è, né non v'è di bene operati e male operati karman frutto, maturazione? ' (...)

' Sussiste (hoti) il "Così andato" (il Tathagata) al di là della morte? ' (...)

Non sussiste il "Così andato" al di là della morte? (...)

' Sussiste e non sussiste il "Così andato" al di là della morte?' (...)

' Né in effetti sussiste né non sussiste il "Così andato" al di là della morte? ' (...) "

Nel suo rifiuto di rispondere ai dieci quesiti cosiddetti "non esposti" (avyakrta), il Buddha delle scuole antiche sembra riprendere, semplificandola, questa stessa
demarche dialettica: le sedici posizioni di Sañjaya sono ridotte al tetralemma da cui si parte per svilupparle (il ben noto catuskoti, di cui si avvarrà, applicandolo
metodicamente an altissimo numero di proposizioni dogmatiche, Nagarjuna), dichiarando il "non expedit" (na upeti) a proposito di ciascuna delle quattro
alternative: è, non è, è e non è, né è né non è:

" Eterno è il mondo?"; " Non eterno è il mondo?"; " Avente fine è il mondo?"; " Non avente fine è il mondo?"; " Quello è il vivente (jiva) che è il corpo? ";
"Altro è il vivente, altro il corpo? "; " Sussiste il Tathagata al di là della morte? " ; " Non sussiste il Tathagata al di là della morte?"; " Sussiste e non sussiste il
Tathagata al di là della morte?" ; " Né in effetti sussiste né non sussiste il Tathagata al di là della morte? "

E' interessante come nell'elenco degli avyakrta i quattro ultimi, a proposito della condizione post mortem del "Così andato" che ha raggiunto la conoscenza
salvifica, coincidano esattamente con la formulazione ascritta al maestro rivale.

Se non scegliamo di vedere qui un'aggiunta alla casistica di Sañjaya, motivata dalla presenza del tetralemma con essa condiviso (una ratio compilatoria, questa,
spesso rilevabile nei testi "buddhistici" antichi), siamo indotti ad ammettere che, oltre alla tipologia degli ayatana, anche quella degli avyakrta appartenga,
almeno in parte, ad una sorta di "vulgata filosofica" corrente ai tempi del suo fondatore e delle prime generazioni successive, di cui le scuole del "buddhismo" si
sono appropriate al momento della loro formazione.

Il nirvanadhatu attinto in quanto Luogo transmondano è sottratto a qualsiasi determinazione concettuale, perché in realtà si tratta d'un non-luogo, oltre che di
una sfera sottratta al tempo: come ci ricorda Nagarjuna in uno degl'inni dianzi citati, il Buddha che in esso è penetrato al momento del suo decesso, non sta più,
letteralmente, né in cielo né in terra.

Interessante è la descrizione fornitaci di questo esito sublime della vita del Maestro da testi in gran parte paralleli dei diversi Canoni, analizzati e posti a
confronto da uno studio prezioso del Bareau48: sotto lo sguardo spirituale dal veggente cieco Aniruddha, opportunamente presente al trapasso, il Buddha vi
percorre dapprima, l'una dopo l'altra, le diverse tappe della meditazione, entrando via via nei quattro ayatana; in seguito, ridiscendendo per così dire la scala
cosmica, recupera il suo stadio normale di coscienza.

Da ultimo, come un pendolo che abbia preso forza descrivendo la sua prima oscillazione, la coscienza del Maestro spirante riparte verso l'alto, ma sarresta a
metà strada tra la sfera delle forme (il rupadhatu) e quella dell'informe, quasi in corrispondenza d'una fissura tra di esse improvvisamente spalancatasi: è dallo
stato di coscienza corrispondente alla quarta ed ultima meditazione formale (il quarto dhyana), e dunque prima d'aver attinto il primo ayatana, ch'egli entra nel
completo nirvana (il parinirvana, lett "nirvana tutt'attorno").

I testi del Mahayana situeranno proprio in questo luogo mediano tra forma e informe il Sambhogakaya , ossia il "corpo (oggetto) di perfetta fruizione" per i
Bodhisattva contemplanti il Buddha trascendente: che si voglia vedere in esso una sorta di "after- image" da lui lasciata al momento d'uscire definitivamente
dall'orizzonte del divenire, o lui stesso ormai eternamente fissato nel suo nirvana interstiziale, è chiaro che, secondo questa visione autorevole, il Luogo ultimo
non si trova al di là dei quattro "luoghi" dianzi accennati, ma costituisce qualcosa di radicalmente altro rispetto ad essi.

E' lecito, sì, vedere nel suo attingimento un momento estremamente significativo dell'esperienza (la samjña), anzi l'unico che sia veramente tale, ma esso si
presenta anche, e a pieno titolo, con i tratti d'un Assoluto metafisico; del resto, questo è anche il caso del Brahman.

La rigorosa presentazione apofatica, che segue alla negazione dei quattro ayatana nello udana da cui siamo partiti, richiama il celebre approccio negativo
teorizzato, sulla base dell'identità ultima con un tale Assoluto, inconoscibile quale oggetto, dalla antichissima Brhadaranyakopanisad49:

" Ordunque l'indicazione: 'né così, né così' (neti neti): né invero v'è un'altra al di là di questa, 'non così' ";

" Dove invero è come se dualità vi fosse, ivi altro discerne altro, ivi altro odora altro, ivi altro assapora altro, ivi altro enuncia altro, ivi altro ode altro, ivi altro
pensa altro, ivi altro tocca altro, ivi altro conosce altro; ma dove per costui tutto atman soltanto divenne, ivi con che discernerà che cosa, ivi con che odorerà che
cosa, ivi con che assaporerà che cosa, ivi con che enuncerà che cosa, ivi con che udrà che cosa, ivi con che penserà che cosa, ivi con che toccherà che cosa, ivi
con che conoscerà che cosa? Quel con cui tutto conosce, ciò con che conoscerà? E' proprio questo il 'né così, né così' , l'atman, inafferrabile - né infatti è
afferrato -, imperituro - né infatti perisce -, senza contatto - né infatti si contatta -, senza legame (asita; v'è qui un gioco di parole con un termine omofono che
significa "candido"): né trema, né è danneggiato; il conoscitore con che mai conoscerà? "
Nella più recente e sottile trattazione della Kenopanisad50 ciò si trasforma nella professione di una docta ignorantia dagli echi che per un occidentale hanno
quasi un sapore neoplatonico:

" Non là l'occhio giunge, non la parola giunge, non la mente; non sappiamo, non conosciamo come questo vada insegnato!

Altro certo è Quello dal noto, e così pure dell'ignoto è al di sopra: così abbiamo udito dai pristini, che Quello a noi han illustrato.

Quel che con la parola è impronunciato, per cui la parola è pronunciata, Quello appunto (qual) Brahman tu conosci, non questo che codesto (volgo) medita
rispettosamente!

Quel che con la mente non è pensato, con cui solgon dire che la mente è pensata, Quello appunto (qual) Brahman tu conosci, non questo che codesto (volgo)
medita rispettosamente!

Quel che con l'occhio non si vede, con cui gli occhi vedono, Quello appunto (qual) Brahman tu conosci, non questo che codesto (volgo) medita rispettosamente!

Quel che con l'orecchio non sode, con cui quest'orecchio è udito, Quello appunto (qual) Brahman tu conosci, non questo che codesto (volgo) medita
rispettosamente!

Quel che con il respiro non saspira, con cui il respiro è aspirato, Quello appunto (qual) Brahman tu conosci, non questo che codesto (volgo) medita
rispettosamente!

Se pensi: ' Ben lo seppi ', in minima parte solo ora tu sai del Brahman la forma. Quel che di questo tu (sai)? Quel che di questo presso gli dèi è indagabile
soltanto da te penso saputo!

Non io penso: " Ben lo seppi ", né: " Non lo seppi " altresì. Chi di noi Quello seppe, ciò seppe: "né: 'non (lo) seppi' ", eppur seppe! (Tale il senso letterale di
questo verso paradossale, che gioca sull'ambiguita di "veda", leggibile come riferito alla prima o alla terza persona singolare del perfetto, tra l'altro con
valore di presente, come il greco " oida " !)

Da chi non è pensato, da costui è pensato; da chi è pensato, non seppe costui! E' ignoto a quanti conoscono, noto a quanti non conoscono."

Un tale approccio si ritrova lungo tutto l'arco della plurisecolare storia del Vedanta; per citare solo il più significativo dei suoi maestri, Sankara, egli
commentando la Aitareyopanisad51 sviluppa in pari tempo col massimo rigore la via negationis e la applica alla tradizionale metodologia upanisadica di
progressiva dis-identificazione del sé dai diversi fattori oggettuali dell'individualità per cui di volta in volta lo si scambia, a cominciare da corpo e mente:

" ' V'è ', ' Non v'è'; ' E' uno ' ' E' molteplice'; ' E' possessore d'attributi '; ' E' senz'attributi '; ' Conosce ', ' Non conosce '; ' E' possessore d'attività (causale) ', 'E'
senz'attività '; ' E' dotato di frutti/ effetti (phala)', ' E' senza frutto '; ' E' agio/ piacere ' , ' E' disagio/ pena '; ' E' mediano (madhya) ', ' E' non mediano ' ; ' E' vuoto
(sunya) ', ' E' non-vuoto '; ' E' altro (da me)' o ' Sono proprio io ': a proposito della forma propria (del Reale, o di ciascuno) al di là di ogni parola ed idea/
nozione (il pratyaya) chi ciò immaginare/ costruir mentalmente (vikalpayitum) vuole, ebbene costui la volta celeste a guisa di pelle arrotolare intende, e nel
cielo ascendere con i suoi due piedi, e nell'acqua e nell'aere dei pesci e degli uccelli l'impronta brama scorgere, perché vi sono i testi upanisadici ' né così, né
così ' , e ' donde le parole si volgono via (senz'averlo raggiunto alla mente assieme, la beatitudine del Brahman conoscendo non si teme dovechessia) ' 52, e i
mantra vedici: ' Chi dunque seppe (, chi qui proclamerà quest'emanazione del cosmo donde venne in esistenza)? ' 53.

" E come dunque di Quello (vi sarà) l'appercezione (il vedana): ' E' il mio sé ' ? Dì grazie a che mezzo/ artifizio (prakara) Quello io come 'E' il mio sé' conosca!
"

" A questo proposito una parabola è narrata. C'era una volta un certo uomo tonto (mugdha) cui fu detto da un tale, data una certa trasgressione: ' Accidenti a te!
Non sei un uomo! ' Egli, per stupidità, onde acquisir la nozione della propria umanità accostatosi a qualcuno (rispettosamente) disse: ' Insegni la Signoria vostra
chi io sono! '. Quegli, conosciutane l'insipienza, disse: ' Gradualmente ti farò attingere la comprensione (il bodha)' ; avendo rimosso (l'idea) che fosse un
oggetto immobile (, un animale) e così via, e avendogli detto: ' non sei tu alcunché di non umano (amanusya)', tacque. E quel tonto gli disse: ' Vossignoria,
avendo iniziato a farmi attinger la comprensione, sè taciuta! Perché non mi fa capire? ' Simile invero è questa tua domanda: chi pur sentendosi dire: ' non sei
alcunché di non umano ' non si rende conto della propria umanità, questi come, pur sentendosi dire: ' un uomo, sei! ' si renderà conto della propria umanità? "

E' utile a questo punto porre a confronto anche i rispettivi linguaggi dell'apofatismo upanisadico e di quello posta in bocca al Buddha negli udana citati.

Se si esclude l'epiteto "non nato" (che, nella forma "aja " figura nella Kathakopanisad54), la via negationis vi si presenta improntata ad una certa qual
"modernità" lessicale, che appartiene già al mondo della riflessione di maestri abituati all'impiego di termini dotati di qualche precisione tecnica.

L'uso di queste negazioni è già in sintonia con il modello di nirvana che il "buddhismo" antico nelle sue trattazioni più scolastiche viene evocando, modello in
certa misura ritagliato sulle esigenze di un discorso razionale a colpi di differenze e simiglianze, che la stagione proto-classica del pensiero indiano ci mostra
all'opera anche in altre costruzioni teoretiche.

Un esempio di questo procedere ci è offerto dalla dottrina del sistema Samkhya, che, come è noto55, oppone da un lato il primo principio oggettuale del mondo,
la cosiddetta "natura- radice" (la mulaprakrti) ai proprii prodotti/ modificazioni (le vikrti), e dall'altro sia questi ultimi che la "natura" stessa ad un principio di
soggettualità pura, detto il "conoscitore" (lo jña), cui ci si riferisce di regola con la designazione già vedica di "purusa" (v'è qui un gioco di parole, basato -
come spesso avviene in India - sulla polisemia: mentre quest'ultimo termine significa nel linguaggio corrente "maschio", "prakrti" può designare la vulva, ciò
che fa assumere al rapporto tra i due principii i tratti di una sorta di copula mundi; il paragone della prakrti con una danzatrice e del purusa con lo spettatore
della sua esibizione56 sottolinea questa valenza della coppia cosmica ).

Tutta una serie di attributi simmetricamente disposti concreta l'opposizione in discorso; così la "natura" si distingue dai proprii prodotti:
- in quanto una (eka), mentre essi sono molteplici (aneka);

- in quanto non costituita di parti o stadii (gli avayava), mentre essi ne constano;

- in quanto immanifesta (avyakta), mentre essi sono manifesti (vyakta);

- in quanto perenne (nitya), mentre essi sono dotati di un principio nel tempo e perciò stesso destinati a venir meno;

- in quanto non avente causa (ahetumat), mentre essi ne sono provvisti;

- in quanto onnipervadente/ onnipresente (vyapin), mentre essi sono limitati nello spazio;

- in quanto priva d'attività (akriya), mentre essi ne esercitano diverse attività;

- in quanto non dotata di supporto (anasrita), mentre essi sono basati vuoi sulla "natura", vuoi gli uni sugli altri;

- in quanto non suscettibile di essere riassorbita (alinga) in alcunché, mentre essi sono riassorbibili vuoi nella "natura" stessa, vuoi gli uni negli altri;

- in quanto non dipendente da altro (aparatantra), mentre essi dipendono vuoi dalla "natura", vuoi gli uni dagli altri.

Viceversa la "natura" differisce dal soggetto cosciente:

- in quanto essa è dotata dei tre guna (gli aspetti che, di volta in volta predominando, ne determinano lo sviluppo in forma dell'uno o dell'altro prodotto: il
sattva, limpido, leggero, gradevole e inattivo, che nella triade funzionale hindu, la cosiddetta trimurti, vien fatto corrispondere a Visnu; il rajas, mobile,
sgradevole e attivo, che vien fatto corrispondere a Brahma, e il tamas, opaco, greve e resistente, che vien fatto corrispondere a Rudra/ Siva; ma gli sivaiti
invertono la polarità sattva- tamas, asserendo che il loro Signore si presenta come tamas soltanto esteriormente, mentre interiormente è sattva, dove per Visnu
avviene il contrario...), mentre esso ne è totalmente privo;

- in quanto essa, anche se non ricade sotto i sensi, è pur sempre partecipe del carattere oggettuale (è un visaya), mentre esso, in quanto soggetto, ne manca;

- in quanto essa è comune (samanya), mentre esso è "privato";

- in quanto essa è suscettibile di sviluppare dei prodotti (prasavadharmin), mentre esso, non alterandosi, non ha tale attitudine.

Per contro:

- il soggetto è dotato di coscienza (esso è il cetana) e la "natura" non lo è;

- il soggetto è capace/ passibile di discriminazione (vivekin) e la "natura" non lo è.

Ora, ciò in cui la "natura" differisce dal soggetto è esattamente quel che essa ha in comune con i propri prodotti, mentre ciò in cui differisce da essi è
esattamente quel che ha in comune con il soggetto; ciò, ad eccezione del fatto che:

- dove essa è una, il soggetto è molteplice, giacché per il sistema le coscienze sono tante, quanti sono gli individui.

Questa è l'unica disarmonia nell'architettura altrimenti perfetta del Samkhya "classico", codificato da Isvarakrsna nel IV-V sec. dC.; e si tratta d'una rottura di
simmetria dettata da opzioni dottrinali irrinunciabili, difese con dovizia d'argomentazioni.

Nel passato della scuola, in cui alcuni maestri sostenevano anche una molteplicità delle prakrti, ponendole in corrispondenza biunivoca con i soggetti coscienti
e trasformando così questi ultimi in una specie di corrispondente indiano alla monade leibniziana, un maggior numero di opposizioni sembra fosse teorizzato,
sulla base di una tipologia di sette diverse relazioni (i sambandha, lett "collegamenti")57:

- fra un quid che appartiene (sva; cfr il latino suum) e ciò a cui appartiene (lo svamin, lett "possessore, signore");

- fra ciò ch'è principale/ primario (la prakrti) e la sua alterazione (il vikara):

- fra l'effetto/ prodotto (il karya, lett "creabile") e la causa (il karana, lett "creazione/ strumento"), che lo manifesta, trasformandosi in esso e restandogli
intrinseca;

- fra la ragione (il nimitta , lett "bersaglio") estrinseca e ciò che da essa dipende per venire in esistenza (il naimittika);

- fra la matrice (la matra) e ciò che da essa è generato (il matrika);

- fra fattori concomitanti alla produzione di qualcosa (i sahacarin);


- fra ciò ch'è annientabile (il vadhya) e il suo annientatore (il ghataka).

Il lettore avrà notato che, a parte la prima e l'ultima, ben cinque di queste relazioni ineriscono alle diverse forme di causalità 58.

Il discorso causale ricompare puntualmente là dove gli esponenti del Vedanta non- dualistico si sforzano di delineare le simiglianze, le opposizioni e i rapporti
tra il mondo e il Brahman (quest'ultimo, giova ricordarlo, è presente anche nel Samkhya, dove è identificato, in quanto arché, con la "natura" e reso pertanto
privo di coscienza).

Ecco, a titolo d'esempio, i punti dell'opposizione tra l'atman e il corpo in un celebre poemetto didascalico, la Aparoksanubhuti o "Esperienza non-indiretta
(dell'Assoluto)" 59:

" Grazie alla parola "io" ben noto, uno soltanto, si situa il Supremo; grossolano/ materiale (sthula) invece (è il corpo), che la molteplicità ha attinto; come
sarebbe questo corpaccio il soggetto (il puman, sinonimo di "purusa") ?

L' io (aham) in quanto veggente è provato/ accertato (siddha), il corpo in quanto (distinto dal soggetto come oggetto) visibile si situa, in base all'indicazione
(tratta dall'esperienza:) "mio è questo"; come sarebbe questo corpaccio il soggetto?

L' io è privo di alterazioni (vikara), poi, il corpo sempre dotato di alterazioni, lo si accerta de visu (saksat); come sarebbe questo corpaccio il soggetto? (...)

Distaccato è detto il purusa nel Brhadaranyaka60 altresì; da infinite impurità totalmente impiastricciato, come sarebbe questo corpaccio il soggetto?

E dal momento che nello stesso passo è detto: "luce di per se stesso è il purusa", in se stesso privo di coscienza ( jada, lett "freddo, torpido") e illuminabile
(solo) da altro, come sarebbe questo corpaccio il soggetto? (...)

Ora, come già mostra la descrizione del nirvana nell'udana che abbiamo presentato, siffatte opposizioni sono suscettibili d'esser tratteggiate anche per esso, ove
lo si metta a confronto con i fattori "reali" dell'esistenza (i dharma), cioè gli oggetti, eventi e processi che (almeno nella prospettiva delle antiche scuole) sono
dotati di consistenza ontologica, e dai quali il mondo del divenire è formato; vediamo più analiticamente come la sfuggente nozione di cui ci siamo fin qui
occupati venga delimitata in contrasto con le caratteristiche proprie di tale mondo e di ciò che ricade entro il suo orizzonte.

- Laddove il nirvana è privo di una struttura composita e/ o di condizioni che lo co-effettuino (a-samskrta), i diversi dharma sono compositi/ effettuati da
condizioni (samskrta; fanno eccezione per diverse scuole, ma non per il Theravada, lo spazio e alcune nozioni legate alla importante categoria della cessazione/
arresto, il nirodha61);

- laddove il nirvana è eterno/perenne (nitya), fisso/ saldo (dhruva) e senza moto (acala), essi sono l'opposto;

- laddove il nirvana è non- nato (ajata) e non veniente in esistenza (abhuta), essi nascono e/o vengono in esistenza;

- laddove il nirvana è non creato/ prodotto (akrta), essi sono prodotti;

- laddove il nirvana non dipende da condizioni (apratyaya), essi sono prodotti in presenza di condizioni;

- laddove il nirvana è imperituro (acyuta) e immortale, o meglio coincidente con la non- morte (amrta), essi sono, tutti, destinati a perire;

- laddove il nirvana è agio/ letizia (sukha), tutti i dharma sono disagio/ pena esistenziale (duhkha);

- laddove il nirvana è calma serena (la santi, lo ksema), essi sono inquietudine dolorosa;

- laddove il nirvana è trascendente il mondo (lokottara) e/ o non- mondano

(alaukika), essi sono mondani (laukika);

- laddove il nirvana è completamente sottratto al dispiegarsi dei fenomeni

(nisprapañca), essi sono tutti quanti ricompresi entro tale orizzonte.

E' abbastanza evidente che, come nel Samkhya e nel Vedanta le serie di attributi sovente negativi rispettivamente ascritti alla "natura" e al Brahman tendono
anzitutto a definirli distinguendoli dai tratti proprii del mondo fenomenico, così la descrizione del nirvana, almeno in ciò che essa ha di non metaforico (giacché
abbondano nei testi epiteti come "approdo", "isola", "rifugio", "caverna", "medicina", "città santa", "altra sponda" dell'oceano delle rinascite, etc.), viene a
configurarlo come opposto a tale mondo, e specificamente in ciò che esso ha di sgradevole e negativo.

Mentre diversi attributi del Brahman vengono da un passato arcaico e male si adattano a questa sorta di simmetria, la "natura" e il nirvana godono entrambi d'un
trattamento dialettico ben calibrato e ci appaiono esattamente costruiti in base alle sue esigenze.

Un esame delle dispute dottrinali delle diverse scuole del "buddhismo" antico a proposito del nirvana62 conferma il carattere in parte artificioso della sua
nozione: così i Theravadin si rifiutano di qualificare "positivo" (kusala, lett buono/ abile,) il nirvana, giacché questa connotazione è suscettibile di venire
assegnata a diversi fenomeni, segnatamente quelli che si riferiscono alla pratica del Dharma produttrice di frutti desiderabili, mentre gli esponenti del
Sarvastivada e gli Andhaka l'accettano tranquillamente, in quanto essa si può opporre, nella asettica lettura in termini di irreprensibilità, all'intrinseca negatività
del mondo.

Come si è visto, nell'architettura del Samkhya la pluralità dei principii coscienti costituisce l' unica nota stonata, avvicinandoli ai prodotti della "natura" in
opposizione a quest'ultima, che è una, mentre la logica immanente alla descrizione sembrerebbe lasciar supporre il contrario.

Similmente, una vera disarmonia sembra esser introdotta nell'architettura "buddhistica" dall'unico tratto che il nirvana e i dharma condividono: l'assenza di un
sé metempirico; entrambi sono, infatti, qualificati "non sé" (an-atman).

Si deve ricordare qui che la non- perennità (lo anityatva), il fatto di comportare disagio esistenziale (il duhkhatva) e l'assenza di sé (lo anatmatva) sono le tre
peculiarità distintive (i trilaksana) di ogni dharma e che le rispettive nozioni rimandano l'una all'altra e si implicano a vicenda: ciò ch'è impermanente è penoso,
ciò ch'è impermanente e penoso non può coincidere con il sé, che per definizione è il contrario.

Ma se questo è vero, resta un mistero come qualcosa che non è il sé, nella fattispecie il nirvana, possa non essere ipso facto impermanente e penoso, ciò che il
sistema sembra sottointendere.

La carica aporetica di questo singolare tratto della descrizione del nirvana, che certo serve a delimitare la concezione di quest'ultimo rispetto a quella del
Brahman e a farne qualcosa di nuovo, anche se non troppo diverso, rispetto ad esso, dovrebbe tuttavia far riflettere su quale possa essere stata l'effettiva
rilevanza della nozione di un "sé" metempirico nella prima visione "buddhistica", anteriormente al consolidarsi dogmatico della dottrina predicante la
inconsistenza o illiceità di ciò che a questa nozione è sotteso, dottrina che costituisce uno dei grandi spartiacque separanti i diversi "buddhismi" dal mondo
"hindu".

In effetti, là dove il "sé" è preso in considerazione per negare che esso si possa identificare con l'uno o l'altro dei cinque "aggregati" (gli skandha) che formano
l'individualità umana, i tratti che lo oppongono ad essi sembrano essere i medesimi che, al di là della comune presenza dello anatmatva, distinguono il nirvana
dai dharma del mondo fenomenico.

Per ciascuno di tali aggregati, il meditante è invitato a riflettere analiticamente sui loro difetti, concludendo ogni volta:

"Questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé" (in pali, "n'etam mama n'eso 'ham asmi na m'eso atta ")63

Ciascuno di questi aggregati è infatti impermanente, composito, nasce in base alla presenza di determinate cause o condizioni, è mutevole, soggetto al duhkha e
soprattutto inconsistente, asara; il termine "sara", che designa il midollo o il succo di qualcosa, è impiegato in una metafora sovente reperibile nei testi indiani
di ogni epoca per indicare l'essenza di una entità, ciò che ne costituisce il nucleo più significativo, e che conferisce ad essa autonomia ontologica e concettuale.
Dire di qualcosa che manca di sara è lo stesso che definirlo "vuoto" (sunya), e infatti alle tre peculiarità dei dharma che abbiamo appena citate ne sarà aggiunta
una quarta, la "vacuità" (la sunyata), ch'è l'altra faccia dello anatmatva.

A ben vedere, la stessa nozione di vacuità, che come si è visto ha un posto importante nella meditazione, tende a configurarsi anche come un'ipotesi di
rivisitazione della via negationis

Questo, più che nella raffinata teorizzazione di Nagarjuna, che si avvale soprattutto della carica negativa del concetto sul piano dialettico, per mettere in crisi la
massiccia ontologia del Sarvastivada giocata sull' "essere proprio" (lo svabhava) dei dharma, si nota nelle liste delle varie sunyata, da quattro a venti, che
diversi testi del Mahayana64 ci forniscono.

La presentazione standard, che ne comporta diciotto, è leggibile come un vero tuffo nell'abisso apofatico, che passa da una negazione all'altra in un crescendo
vertiginoso; seguiamone lo sviluppo:

- vuoti si rivelano alla riflessione i sei vijñana, cioè le consapevolezze inerenti ai cinque sensi e quella mentale, in quanto privi di un "sé" e dunque di
consistenza ontologica: è questa la "vacuità (relativa) all'interiore"(la adhyatmasunyata);

- vuoti sono anche, e per la medesima ragione, gli oggetti sensoriali e mentali: questa è detta la "vacuità (relativa a ciò che si presenta) esteriormente" (la
bahirdhasunyata) ;

- ma se vuoti sono in se stessi vijñana e oggetti, vuoti si rivelano altresì ove vengano considerati in relazione gli uni agli altri: i vijñana per mancanza di oggetti
e gli oggetti per carenza di vijñana, così come vuota è la distinzione stessa tra ciò che è interiore e ciò che è esteriore, che non si basa su alcuna effettiva alterità:
è questa "la vacuità quanto ad interiore ed esteriore" (la adhy^tmabahirdhasunyata);

- ma queste tre vacuità si rivelano come mere nozioni destituite d'una base ontologicamente posiva, e pertanto esse stesse vuote: siamo giunti così alla "vacuità
delle vacuità" (la sunyatasunyata);

- vuoto è poi lo spazio in tutte le sue direzioni, così come è fatto oggetto di meditazione, essendo in realtà identico al Dharmadhatu, in cui i diversi punti
cardinali e intermedii non hanno luogo: è questa la "gran vacuità" o la "vacuità di ciò che è grande" (la mahasunyata);

- la stessa nozione di un Assoluto inteso come Realtà Ultima (il Paramartha, lett "la cosa suprema") è, ad analizzarla fino in fondo, vuota, essendo il nirvana in
realtà sottratto ad ogni determinazione concettuale, né permanente né soggetto a distruzione etc.: sapproda così anche alla "vacuità della Realtà Ultima" (la
paramarthasunyata);

- vuoti sono tutti gli enti co-effettuati e/ o compositi siti tanto nella sfera della forma che in quella dell'informe, i quali non hanno in se stessi la loro ragion
d'essere, ma dipendono da cause e condizioni, e questo loro esser vuoti li rende in realtà perfettamente identici al nirvana: è questa "la vacuità del composito"
(la samskrtasunyata);
- allo stesso titolo anche gli enti non- co-effettuati/ composti, a cominciare dallo stesso nirvana, si rivelano vuoti: è questa la "vacuità del non-composito" (la
asamskrtasunyata);

- abbiamo così raggiunto la atyantasunyata, che si può leggere come "vacuità sotto ogni rispetto" o "vacuità assoluta" in quanto investe la totalità dell'orizzonte
fenomenico, ovvero come "vacuità di ciò che è al di là di ogni limite", ove sia riferita a quanto è così descritto, ponendolo ad un gradino di astrattezza ancor
superiore alle entità non composte, in quanto ci si rivela esser sottratto ai "confini" concettuali di permanenza e distruzione, l'opposizione tra i quali è in effetti
inconsistente;

- poiché ciò che è vuoto in principio e alla fine manca di realtà anche nel mezzo, l'assenza di principio e fine comporta la vacuità dell'intero orizzonte
fenomenico, inerente al ciclo delle nascite e delle morti (il samsara) che è dichiarato esserne privo: ecco la "vacuità di quanto non ha principio né fine", o
"vacuità senza principio e fine" (la anavaragrasunyata);

- ad essa fa da contraltare la vacuità dello stesso nirvana in quanto illusoriamente opposto al samsara, detta "vacuità di ciò che non va soggetto alla finale
dispersione" insita in ogni divenire (la anavakarasunyata) ;

- tutto ciò si rivela dunque accomunato da un' unica natura propria che coincide con la vacuità, ma questa stessa natura propria è destituita di una sua natura
propria: è questa la "vacuità della natura" (la prakrtisunyata);

- i due gradi successivi, talora invertiti, sono quello della vacuità inerente a tutti i presunti "reali" di cui il divenire è formato, ciascuno dei quali è privo d'una
suo essere proprio, chiamata "vacuità di tutti i dharma" (la sarvadharmasunyat^a) e

- quello della vacuità di ogni dharma in quanto contraddistinto da pretese peculiarità ad esso intrinseche, le quali in ultima analisi si rivelano insostanziali; è
questa la "vacuità di ciò che è definibile in termini di sé stesso" (la svalaksanasunyata), una designazione che, nella lettura posteriore da parte dei maestri del
Vijñanavada, si riferisce al microevento, l'istante (lo ksana) che è tutto quel che effettivamente cade sotto i nostri sensi, erroneamente calato nelle griglie
conoscitive di linguaggio e pensiero, che ne tradiscono l'irripetibile unicità assimilandolo ad altri eventi e rendendolo apparentemente riconoscibile;

- i dharma esperiti nei tre momenti del tempo, passato, presente e futuro, sono vuoti allorché li si considera prendendo le mosse da un diverso momento: i
passati nel futuro, i futuri nel passato, i presenti nel passato così come nel futuro e viceversa: questa è la "vacuità di ciò di cui non v'è cogitazione/ cognizione"
(la anupalambhasunyata);

- giacché dipendono da cause e/ o condizioni estrinseche per esistere, tali dharma sono privi d'essere proprio (lo svabhava), ma questa stessa mancanza è vuota,
essendo prive d'essere proprio anche le cause/ condizioni predette, che sono pur sempre dei dharma: è la "vacuità di ciò che non ha essere proprio" (la
asvabhavasunyata), cui talora si sostituisce o sovrappone la " vacuità della inesistenza/ assenza" (la abhavasunyata), vale a dire della vacuità in quanto pura
negazione sul piano ontologico: entrambe le varianti mostrano come la stessa via negationis vada a sua volta trascesa, in quanto determinazione
concettualmente limitata;

- correlativa e simmetrica rispetto alla precedente è la "vacuità dell'essere proprio" (la svabhavasunyata);

- entrambe sono, poi, soggette ad esser negate simultaneamente, o in quanto la stessa distinzione tra realtà e irrealtà, assenza e presenza, deve essere
riconosciuta vuota, o in quanto ciascuna è vuota in se stessa dal momento che rimanda all'altra, in un gioco di specchi che si fronteggiano senza nulla riflettere:
è la "vacuità di assenza e natura propria" (la abhavasvabhavasunyata), che chiude la serie.

Si comprende, a questo punto, come la vacuità sia divenuta essa stessa equipollente alla essenza che serviva anegare, e possa sostituire il Sé della tradizione
brahmanica come volto dell'Assoluto.

Non deve allora stupire chi legga, nel Mahayanasutralamkara65 la paradossale asserzione che:

"Nella vacuità sotto ogni rispetto pura, grazie all'attingimento del limite ultimo del "sé" (lo atmagra, lett "vetta del sé") nell'assenza (stessa) di un "sé" (il
nairatmya), i Buddha a seguito della loro condizione di attingitori del puro Sé sono giunti alla maestà del Sé (la atmamahatmata)."

Ma torniamo alla progressiva dis-identificazione dagli aggregati caratteristica della più antica esperienza "buddhistica".

Dall'immagine in negativo che si oppone alle caratteristiche deteriori dei diversi skandha messe in rilievo dalla loro analisi, caratteristiche che son dette
espressamente incompatibili con la loro identificazione con il sé, si giunge in positivo alla nozione di un atman che ha come attributi la permanenza/ eternità,
l'immutabilità, l'invulnerabilità al disagio esistenziale e/ o l'agio (il sukha) che ne costituisce l'opposto, nonché il sara, quale che sia il significato ascritto a
questo termine evidentemente pregnante: si tratta di una descrizione abbastanza vicina a quella dell'atman upanisadico, da farci sospettare che la nozione di esso
rappresentasse in origine qualcosa di più di un mero parametro ideale, in se stesso falso, per misurare il male nel mondo.

Ma siamo davvero sicuri che tale "sé" sia lo stesso che è oggetto di negazione da parte della scolastica "buddhistica"?

Se si prendono in considerazione le diverse rappresentazioni dell'atman contestuali a tale negazione, le nozioni che ne risultano appaiono mutuate da una
costellazione dottrinale entro certi limiti simile a quella che i testi sopravvissuti del pensiero indiano nella sua fase aurorale, upanisadica e non, ci fanno
conoscere, ma sotto alcuni rispetti significativi difforme da essa.

Tutta una serie di metafore sono impiegate ad esprimere il rapporto fra il presunto "sé" e la realtà corporea in termini che rimandano alla centralità del primo:
così troviamo il "sé" assimilato ad un albero, di cui il corpo non è che l'ombra, o ad un fiore, di cui il corpo rappresenta il profumo.

Qui non è il sé a formare un epifenomeno della realtà corporea, come vogliono i "materialisti" indiani, ma il contrario; abbiamo a che fare con una dottrina in
effetti inedita e che ignora il ruolo determinante del karman nella formazione del corpo e nella sua durata, a meno di non considerare il karman stesso un
attributo del "sé", ciò che renderebbe impossibile la liberazione.
Anche dove il corpo sembra rivestire maggior consistenza, il presunto "sé" rimane contraddistinto da una preziosità intrinseca e da una centralità di significato
che ne fanno l'elemento predominante nel composto umano: è il caso dell'analogia con una gemma custodita in una scatola che la racchiude, quest'ultima
rappresentata appunto dal corpo.

Altre nozioni del sé sembrano più vicine alla ricca serie di immagini contenute nei testi tardovedici: tale l'idea dell'omino alto un pollice, tutto splendente di
luce, contenuto nel cuore, richiamata dalla Mahavibhasa66, il "Gran Commento" che fissa l'ortodossia del Sarvastivada, o quella del purusa del "color del
sole", "al di là delle tenebre", cui lo stesso testo67 si riferisce in modo qua e là abbastanza sibillino:

"Come è asserito nei Veda, vi è il sé, il purusa, le sue dimensioni ampie e vaste e i suoi confini incommensurabili.

Il colore del suo irraggiamento è simile a quello del sole, ma entità oscure e misteriose son poste innanzi ad esso, sicché non possiamo discernerlo. Questo sé va
conosciuto per varcare e passare (l'oceano di) nascita, vecchiaia, infermità e morte; non v'è altra strada per tale guado".

Se la concezione upanisadica dell'atman coincidente con il Brahman è ignorata o elusa da queste descrizioni, vi sono schemi classificatorii che sembrano invece
accogliere alcuni aspetti di essa: tali la nozione di un "sé" privo di forma ed infinito opposta a quella di un "sé" dotato di forma ed infinito, così come a quella di
un "sé" atomico (anu), dotato o meno di forma, o la concezione di un "sé" che è coscienza, quest'ultima opposta a quelle di un "sé" al tutto privo di coscienza o
che la possiede come un quid estrinseco (storicamente individuabile nelle posizioni del Vaisesika).

Particolare attenzione merita la discussione, inquadrata nel Potthapadasutta68, in cui vengono progressivamente scartate le identificazioni dell' atman

- con l'entità corporea (rupin) fatta di terra, acqua, fuoco ed aria, i quattro "grandi elementi" (i mahabhuta), che si nutre di cibo grossolano/ materiale;

- con l'entità dotata di forma (ancora rupin, ma qui il termine sembra usato in accezione diversa da quella corrente) fatta di mente (manomaya; il manas - cfr il
latino mens - è qui la sostanza mentale), dotata di tutte le sue membra e non manchevole negli organi;

- con l'entità senza forma (arupin) fatta di coscienza (samjñamaya, pali saññamaya) e apparentemente null'altro.

Vi sono qui chiari echi del metodo vedantico già accennato per arrivare all'atman procedendo ad una sua graduale dis-identificazione da elementi intrinseci: il
testo fondamentale su cui questa procedura riposa, che è la Taittiriyopanisad69, descrive una serie di cinque "guaine" (i kosa) sempre più sottili da scartare, la
prima delle quali è quella corporea, fatta dell'essenza del cibo assimilato (annarasamaya), mentre tra le più intime troviamo quella fatta di mente (manomaya) e
quella fatta di consapevolezza (vijñanamaya).

In fin dei conti, anche nella progressiva analisi dei cinque skandha l'approccio "buddhistico" si presenta come omologo a quello caratteristico del Vedanta:
l'identificazione con il presunto "sé" delle diverse couches del composto umano, corporee e mentali, vi viene respinta, con un processo di "analisi e scarto"
simile alla rimozione ad una ad una delle "foglie" di un carciofo.

La differenza sta nell'esito finale della ricerca: per il Vedanta, una volta rimossa ogni componente oggettuale della persona, resta il puro soggetto (il visayin),
residuo ineliminabile del processo, non più conoscibile come un "questo" (idam), ma non di meno identico al nudo esserci al fondo di tutti e di ciascuno,
afferrato grazie ad un'intuitiva "certezza del cuore" (lo svahrdayapratyaya) ch'è vicina a quella del "cogito" cartesiano.

Viceversa, nella versione "buddhistica" un tale residuo è espressamente negato: qualsiasi cosa sia stata predicata del sé dai maestri del passato, che ancora non
possedevano il Dharma perfetto, essa è stata in realtà asserita a proposito di quanto ricade nell'uno o nell'altro skandha, mentre il "sé" cui essi non
corrispondono è come il proverbiale "figlio della sterile", un'entità la cui esistenza è solo a livello nominale, effetto di abitudini e/ o giochi del linguaggio senza
riscontro nello stato dei fatti.

Quel che l'analisi rivela, dunque, è il semplice fatto che i diversi skandha nascono, sussistono e periscono senza che vi sia un soggetto cui possano esser
assimilati.

In termini vedantici, ciò che i "buddhismi" sembrano affermare è bensì una sorta di monismo, ma giocato sull'oggetto, anziché sul soggetto: come per il seguace
del Samkhya il Brahman- "natura", benché non cada sotto i sensi, si rivela ad un'attenta indagine oggettuale e affatto destituito di coscienza, così per il
"buddhista" tutto il reale, nirvana incluso, sarà in ultima analisi ricondotto entro i confini dell'oggettualità, dato che l'attribuzione corrente ad un presunto "sé"
metempirico dei diversi eventi mentali strutturati nei quattro skandha superiori, attribuzione ch'è patrimonio degli indotti, non è che illusione, mentre la
coscienza, ancorché non negata, vien ridotta ad una proprietà di alcuni soltanto di tali eventi, i quali in ogni caso si verificano in assenza di qualcuno che ne sia
protagonista e/ o titolare.

Seguiamo per un momento la linea dell'argomentazione "buddhistica": se si ammettesse, ad esempio, che il presunto "sé" sia la stessa cosa della coscienza che
accompagna l'operare dei sensi (la vedana), ciò risulterebbe incompatibile con le ben note caratteristiche negative di questa, tra cui centrale è l'impermanenza:
all'avvento d'ogni nuova sensazione si morrebbe per rinascere in qualche misura diversi, ciò che contrasta con l'esperienza corrente; d'altra parte, se si asserisse
che il "sé" non coincide affatto con tale coscienza, la sua natura cosciente sembrerebbe dover essere negata.

Se si tentasse d'aggirare l'ostacolo ammettendo bensì ch'esso non sia identico a tale coscienza, ma sostenendo che la possiede come un carattere estrinseco e
acquisito (è questa la tesi che sarà difesa dai seguaci del Vaisesika), il cessare del momento conoscitivo legato alla sensazione, o per questo di qualsiasi altro,
comporterebbe pur sempre il venir meno del "sé", in quanto individuato dal possesso della coscienza ad esso strettamente connessa.

In ogni caso, l'assunto del "sé" si rivela foriero di difficoltà insuperabili; se ne conclude che nessuno possiede in realtà la coscienza in discorso, la quale sussiste
autonomamente come caratteristica della sensazione.

Del pari nessuno in realtà nasce, invecchia, si ammala e muore, ma nascita, vecchiaia, infermità e morte si producono come i fenomeni meramente oggettivi che
sono.
Beninteso, l'esistenza di un "sé" empirico, come l'informazione inerente agli usi del linguaggio (la prajñapti) suppone e l'esperienza apparentemente soggettiva
conferma, non è affatto negata, pur se si tratta solo d'una comoda abitudine per riferirsi ad un fascio di processi corporei e mentali, non già di un "reale" (un
dharma), come è invece il caso di tali eventi collocati nell'uno o nell'altro skandha.

Sempre nel Potthapadasutta70 il Buddha ci vien presentato in atto d'insegnare socraticamente ad un asceta che qualcosa effettivamente corrisponde alla
nozione del nostro esserci, anche se questo qualcosa varia considerevolmente nei tre momenti del tempo, anzitutto quanto all'esistenza o inesistenza:

"Se a te, oh Citta, così domandassero: ' Fosti tu nel trascorso periodo, non già tu non fosti ? Sarai tu nel non (ancora) trascorso periodo, non già non sarai? V'è
(un) tu adesso, non già non v'è ? ', così interrogato tu, oh Citta, che dichiareresti?" (...)

" Così interrogato io, Vossignoria, così dichiarerei: ' Fui io nel trascorso periodo, non già io non fui; sarò io nel non trascorso periodo, non già non sarò; v'è (un)
me adesso, non già non v'è. ' Così interrogato io, Vossignoria, così dichiarerei. "

" Se poi a te, oh Citta, così domandassero: ' Quel che per te fu il trascorso "sortire un sé" ( lo atmapratilabha, pali attapatilabha), appunto questo tuo "sortire un
sé" è verità/ realtà (satya, pali sacca), falsità/ irrealtà (mogha) quello non trascorso, falsità quello ch'è in atto di verificarsi ? Ovvero quel che per te sarà il non
trascorso "sortire un sé", appunto questo tuo "sortire un sé" è verità, falsità quello trascorso, falsità quello ch'è in atto di verificarsi ? Ovvero quel "sortire un sé"
che per te è in atto di verificarsi, appunto questo tuo "sortire un sé" è verità, falsità quello trascorso, falsità quello non trascorso? ', così interrogato tu, oh Citta,
che dichiareresti?" (...)

" Così interrogato io, Vossignoria, così dichiarerei: ' Quel che per me fu il trascorso "sortire un sé", appunto questo mio "sortire un sé" in quel tempo verità era,
falsità quello non trascorso, falsità quello ch'è in atto di verificarsi; ovvero quel che per me sarà il non trascorso "sortire un sé", appunto questo mio "sortire un
sé" in quel tempo verità sarà, falsità quello trascorso sarà, falsità quello ch'è in atto di verificarsi; quel "sortire un sé" che per me è ora in atto di verificarsi,
appunto questo mio "sortire un sé" è verità, falsità quello trascorso, falsità quello non trascorso.' Così interrogato io, Vossignoria, così dichiarerei. "

E' soltanto un "sé" pro tempore quello ch'è "sortito" di volta in volta da ciascuno, dato ch'esso sussiste solo al momento di quella certa esperienza esistenziale e
non ha la perennità ascritta al "sé" metempirico, ma si tratta di qualcosa di diverso da un mero abbaglio logico.

La linea delle argomentazioni "buddhistiche" non è, in effetti, così lontana come sembrerebbe da alcune di quelle sviluppate dai sistemi rimasti nell'alveo della
tradizione "hindu": si insiste infatti sul nesso tra sé e coscienza, separando al contempo entrambi dagli eventi mentali, sia nell'ottica del Samkhya, che riconduce
questi ultimi a meri dinamismi ciechi dei prodotti via via sviluppati dalla "natura", sia in quella del Vedanta non- dualistico, che, come sè mostrato, sottrae il sé
da qualsiasi identificazione con cose e fatti appartenenti all'orizzonte meramente oggettuale - e illusorio - dell'universo fenomenico, sia ancora nel Nyaya/
Vaisesika, anche se qui la coscienza è considerata una qualità soltanto avventizia del sé.

In tutti e tre i sistemi è totalmente impossibile ascrivere ciò che avviene nella mente al puro soggetto, che ne è o lo spettatore impassibile e non coinvolto, o il
punto di riferimento: questa estraneità è la stessa che la dottrina dell'anatman finisce per sottolineare.

La peculiarità della prospettiva di tale dottrina emerge piuttosto allorché le diverse scuole "buddhistiche" ricorrono a dei succedanei del soggetto che rifiutano:

- così i Vatsiputriya, seguaci del cosiddetto Pudgalavada (la "dottrina della persona") sostituiscono ad esso una sorta di rafforzamento del soggetto empirico,
appunto il pudgala (lett il "bel (corpo)"), che non è evidentemente un dharma, e dunque non può assumere, in senso stretto, il ruolo di titolare degli skandha, ma
funge da portatore del fardello da essi costituito (il bharahara) e sta ad essi come la fiamma sempre rinnovata sta al combustibile grazie al quale si produce,
identificandosi e insieme non identificandosi con questo;

- viceversa i Theravadin teorizzano l'esistenza a livello individuale di un flusso costante di stati subconscii (il bhavangasota o bhavangaviññana) che è
responsabile della continuità della vita psichica in riferimento ai diversi eventi mentali colti al di sopra del livello della coscienza;

- per i Mahasanghika questo ruolo è assunto da una consapevolezza- radice (il mulavijñana) diversa dalle altre, sensoriali e mentale, che formano l'aggregato
più intimo dei cinque che compongono la persona (il vijñanaskandha): è questo l'antenato della famosa "anima universale", la consapevolezza-deposito (lo
alayavijñana) insegnato dai maestri della scuola del Mahayana predicante la "dottrina della coscienza" (il Vijñanavada) o della "sola mente" (Cittamatra).

Si tratta d'un fattore d'unificazione ben più potente dei precedenti, che serve a correlare tra loro non soltanto gli eventi istantanei autoconsapevoli, i cosiddetti
"attimi" (gli ksana) che si succedono nell'orizzonte dell'esperienza individuale, ma altresì tutti e quanti siffatti orizzonti, divenuti ormai altrettante
fenomenizzazioni di un'unica coscienza universale.

Se si pone tra parentesi, come diversi testi tardo-"buddhistici" fanno, la struttura pur sempre fenomenica dello alayavijñana, che a rigore consta anch'esso di un
continuo succedersi d'eventi istantanei, la sua nozione, che viene espressamente identificata con quella del nirvana dall'autorevole Lankavatarasutra71, si
mostra assai vicina al Brahman del Vedanta, così come allo Siva trascendente (Paramasiva) adorato dai diversi indirizzi di spiritualità "tantrica".

Consideriamo ad esempio come un testo ascritto a Padmasambhava, un antico proto - evangelizzatore indiano del Tibet vissuto fra l'VIII e il IX secolo dC.,
presenta questa visione72:

"Salute alla Mente unica (il Cittamatra) che ricomprende tutto il samsaa e il nirvana, che è eternamente com'è e non di meno ignota, che, benché sempre chiara
e presente, è nondimeno immanifesta, che, pur fulgente ed esente da oscuramento, non è riconosciuta (...).

Ciò ch'è detto "Mente" è esperienza istantanea. La Mente unica, pur essendo, non è. Essendo la fonte di tutto il sukha del nirvana e di tutto il duhkha del
samsara, essa è venerata in quanto (identica agli) undici Veicoli (insegnati dal Buddha).

Innumerevoli sono le sue designazioni:

- alcuni la dicono "Mente- sé";


- certi sostenitori di dottrine erronee la chiamano "atman";

- i seguaci del "Piccolo Veicolo" (Hinayana) la nomano "Dharma del Dharma";

- quelli dello Yogacara (il Vijñanavada) la dicono "Mente";

- alcuni la denominano "perfezione di conoscenza" (la Prajñaparamita);

- altri la chiamano "essenza dei Beneandati (Sugata, epiteto dei Buddha)";

- altri la dicono il "Gran Sigillo" (la Mahamudra , termine designante sia l'esperienza ultima che una segreta ricetta meditativa che permette d'attingerla73);

- altri ancora la chiamano l'"unico Bindu (lett la "goccia" spermatica da cui si forma, a guisa di feto, il cosmo, rappresentata iconograficamente in forma di
punto al centro di strutture simboliche più o meno complesse, yantra e mandala74 ) ";

- altri la nomano "sfera del Dharma" (il Dharmadhatu);

- altri la chiamano "il Fondamento di tutto" (...).

Nel suo stato innato, la Mente è nuda, immacolata, non fatta di alcunché, della natura della vacuità (la sunyata), chiara, vuota, priva di dualità, limpida, perenne,
non composta, esente da impedimenti, incolore, non suscettibile di essere compresa come entità separata, ma come unità delle entità tutte, ancorché non
composta da esse, dotata di un unico sapore (ekarasa) e trascendente ogni differenziazione. La Mente individuale non è separabile dalle menti altrui."

Una tale descrizione, in cui si affastella tutta una serie di simboli e nozioni di varia provenienza, sviluppa una visione "buddhistica" dell'Assoluto che è ormai
vicinissima a quella "hindu"; decisamente essa ne ha adottato ormai il procedere a colpi d'identificazioni, come nel lemma da cui avevamo preso le mosse
all'inizio del nostro breve studio, che a questo punto converrà citare nuovamente per il lettore che se ne fosse scordato:

" Colui che gli sivaiti di Siva adorano quale Siva, quale Brahman i vedantin, i seguaci del Buddha quale Buddha, e, destri nei mezzi di conoscenza, quale
Creatore quelli del Nyaya, quale Arhat sempre quanti si dilettano dei precetti dei Jaina, quale Atto i fautori della Mimamsa, Costui vi accordi il frutto bramato,
il Signore del trimundio, Hari!"

Se anche altre culture, ad esempio quelle della tarda antichità nei mondi vicino-orientale e mediterraneo, conoscono nella loro maturità analoghi fenomeni di
assimilazione, la tendenza a leggere i diversi personaggi divini come altrettanti nomi e aspetti di un'unica Realtà risponde ad un bisogno antichissimo dello
spirito indiano, già espresso in età vedica e rinverdito via via nei millenni da ogni generazione di mistici e devoti; cantava già il vate Dirghatamas Aucathya in
una strofe della Rgvedasamhita75:

" Indra (il re degli dèi), Mitra (il Patto personificato), Varuna (signore del cielo notturno stellato -cfr il greco Urano- e delle acque, che con il nume precedente
forma una coppia cui è ascritta l'opera cosmogonica ), Agni (il Fuoco personificato -cfr il latino Ignis-, che funge da sacerdote degli dèi) l'hanno chiamato;
altresì il divino egli è dalle belle ali Garutmat (Garut-mat "Il dotato d'ali", uccello mitico destinato a divenire in età classica, col nome di Garuda, la
cavalcatura di Visnu): l'unico Ente (ekam sat) i vati molteplicemente enunciano: Agni, Yama (primo re e giudice dei morti), Matarisvan ("Colui che si espande
nella madre": il Prometeo della mitologia vedica, che reca Agni dal cielo alla terra, ritenuto personificazione del Fulmine) l'hanno chiamato."

E il veggente Kutsayana proclamava, in un inno citato nella Maitrayanyupanisad76:

" Tu sei Brahma e tu invero Visnu, tu Rudra (l' "Urlatore", arciere e medico degli dèi, destinato a divenire in età classica Siva), tu Prajapati (il "Signor di
progenie", personificazione del sacrificio cui è assegnato in età tardovedica il ruolo cosmogonico) , tu Agni, Varuna, Vayu (il Vento personificato,
importantissimo nel pantheon arcaico indo-iraniano), tu Indra, tu la notturna face (il dio lunare), tu l'Alimento, tu Yama, tu la vasta (Terra), tu il Tutto, il Cielo
e così pure l'Indefettibile: per i tuoi scopi e per il fine connaturato (a costoro) molteplicemente v'è dimora in te! "

Basta analizzare i numerosissimi elenchi di epiteti dell'una o dell'altra grande divinità, che compaiono già nei grandi testi dell'epica indiana dei primi secoli
prima e dopo Cristo, per rendersi conto di quanto peso abbia già allora la tendenza in discorso: così, nei loro rispettivi inni dei mille nomi contenuti nel
Mahabharata, Visnu77 e Siva78 sono identificati con plotoni interi di figure divine minori, oltre che, naturalmente, l'uno con l'altro; le dee grandi e piccole,
poi, sono sostenzialmente intercambiabili: tutte mutuano l'una dall'altra nomi e aspetti diversi, tutte vengono salutate dai devoti "hindu" come volti venerati
della Madre

("Matr", "Mata " sono forme di invocazione frequentissimamente impiegate nell'indirizzarsi all'una o all'altra figura divina femminile) onnipresente e sempre
soccorrevole verso i suoi devoti.

E' un fatto che la stessa tendenza si nota nell'ultima stagione del "buddhismo" indiano: allora ai varii Buddha e Bodhisattva proposti alla meditazione dalla
ricchissima fioritura di testi anonimi che caratterizza il Mahayana vengono talora affiancate le grandi figure divine care agli "hindu", come la Dea, Visnu e Siva,
facendo di esse altrettanti aspetti della Realtà suprema ineffabile ormai sostituita al nirvana (la "Tathata", che potremmo rendere con un neologismo latino
come "Sicceitas"; data la sua nota distintiva di auto-riferimento, svalaksana, mutuata dal microevento che ne costituisce l'aspetto perituro, tale nozione è in
effetti un vero paradigma di non definibilità in base a connotazioni estrinseche).

Un tale approccio "hinduizzante" è frequentissimo nei testi "tantrici" minori, ma non manca neppure in alcuni di quelli più prestigiosi. Ad esempio lo
Hevajratantra, che si vuole commentato dal celebre loico Dharmakirti verso la metà del VII sec. dC. ed è tenuto in alto onore dai maestri bengalesi fioriti
successivamente sotto la dinastia dei Pala, assimila addirittura, nella sua descrizione della Realtà, la triade funzionale "hindu", (la cosiddetta "Trimurti"), ai
cinque Jina (detti anche Dhyanibuddha), ben noti nel pantheon mahayanico79:
" Non v'è meditante, né meditazione v'è, mantra non v'è, né divinità: sussistono mantra e divinità (solo) grazie all' essere proprio di Ciò che è sottratto al
dispiegarsi del mondo (nihprapañcasvabhavatah).

La Realtà (il Tattva, che si può render letteralmente con un neologismo latino "Hocceitas"; il termine è abbastanza generico, e d'uso pan-indiano) è detta
Vairocana, Aksobhya, Amogha(siddhi), Ratna(-sambhava) e Aroli (=Amitabha; sono questi i cinque Jina dianzi citati), il Puro (Sattvika), Brahma, Visnu, Siva,
Tutto e Vibuddha (Buddha sotto ogni rispetto, perfetto; equivale al più usato epiteto Samyaksambuddha) :

è detta "Brahma", perché, in quanto Buddha, ha attinto il nirvana, "Visnu", per la sua onnipervadenza, "Siva", per il suo essere sempre salutare, "Tutto"
("Sarva"; il termine significa anche "ciascuno"), perché sta nell'intimo di ognuno. "

Che non si tratti qui di mera valorizzazione strumentale di dèi amati dal popolo, ma dell'esito di una consonanza profonda con il mondo della mistica "hindu", si
vede da altre significative strofe dello stesso testo, come quelle che descrivono la perfetta equanimità derivante dall'esperienza della Realtà, proponendo al
tempo stesso un modello sostenzialmente "hindu" di rappresentazione/ identificazione meditativa ( la "bhavana") sotto il cui segno il meditante è chiamato a
vedere se stesso come Dio supremo, pervadente l' intero universo e uno con esso80:

" Somma beatitudine (paramananda) il divenire è detto, e il nirvana (, che al divenire è opposto, è detto la beatitudine che proviene) dall'assenza di passioni; la
nuda beatitudine, poi, è mediana (tra esse) ; l' innata

(sahaja) è del tutto esente da (tutte e tre) queste.

Non passione e neppure assenza di passioni, né sapprende (qualcosa di) mediano; quivi non è saggezza (la prajña) né (destrezza nell'uso di) espedienti (lo
upaya; si tratta di due perfezioni del Bodhisattva teorizzate dal Mahayana), grazie alla completa comprensione (bodha) della Realtà (tattva).

Né da un altro (all'infuori di chi l'esperisce) è esposta la (beatitudine) innata, né da alcuno viene attinta: la si conosce da sé (o: tramite il Sé, atmana), a seguito
dei meriti (lucrati in questa e/ o nelle precedenti vite), del servizio reso al maestro e ai precetti.

I piccoli/ di poco conto, i medii e i grandi/ eccellenti, e quanti altri (esseri) vi sono mai, tutti questi come gli stessi van riguardati da quanti si rappresentano la
Realtà. (...)

' Immobili e mobili, quali che siano, tutti questi soltanto io sono ' : (essi) sono gli stessi ed equipollenti per quanti, (gustando) uno stesso sapore (samarasa), si
rappresentano la Realtà.

Ciò che è lo stesso è detto equipollente; di esso l'irraggiamento (letteralmente "la ruota", cakra) è ricordato quale sapore: dotato d'uno stesso sapore è l'unico
essere (ekabhava); in questo senso viene cantato così:

' Da me diveniente (madbhavam) invero è il mondo tutto, da me diveniente il trimundio, da me pervaso è tutto questo (universo), non si vede esser fatto d'altro
il mondo.'

Così avendo pensato invero, lo yogin che si applica ben concentrato ha successo, non v'è dubbio, anche se sia uomo di blandi meriti.

Nel mangiare, nel bere, così come nelle abluzioni, vegliando e persino addormentato (così) mediti; poscia raggiungerà la (rappresentazione meditativa)
ininterrotta, bramoso del Gran Sigillo (la "Mahamudra", termine che denota la Realtà, ma anche un'importante pratica segreta, impartita da maestro a
discepolo per via d'iniziazione).

Invero ci si rappresenta il mondo tutto allorché con la mente non ce lo si rappresenta; completa conoscenza di tutti gli esistenti, la rappresentazione non è più
rappresentazione.

E quanti esseri immobili e mobili vi sono, a cominciare da fili d'erba, cespugli e rampicanti, ce li si rappresenta invero come suprema Realtà, avente quale sua
forma propria l'essere del Sé (atmabhavasvarupaka).

Quanto ad essi v'è l'Uno, non altro: grande agio che va esperito quale Sé (svasamvedya); da esperire quale Sé sarà la realizzazione (la siddhi), va esperita quale
Sé la rappresentazione (dianzi descritta).

Fatto di quel che va esperito come Sé è (in ultima analisi lo stesso) karman: è dalla negazione (della Realtà a cagione della nescienza) che il karman nasce.

Il Sé (svayam) è il Distruttore, il Sé il Creatore, il Sé il Re, il Sé il Signore!"

Si confrontino questi insegnamenti con quelli relativi ad un qualsiasi schema di bhavana giocata sul Brahman o sul Dio supremo, da trascegliere tra i
numerosissimi proposti dalla letteratura soteriologica extra-"buddhistica", e si incontreranno idee assai simili, espresse con la stessa terminologia.

Ecco, ad esempio, come sesprime il Sarvajñanottara81, un testo della scuola dualistica dello Saivasiddhanta ("Posizione conclusiva sivaita") che raccomanda,
in via strumentale e soltanto ai fini della purificazione, la meditazione avente per oggetto l'identificazione del fedele con Siva:

" ' Quegli ch'è l'onnipervadente Iddio, Sé di tutto, dal viso ovunque rivolto, fatto di tutti i principii, impensabile, di tutto al di sopra ergentesi

e trascendente tutti i principii, esente da parola, pensiero e nome, questi son io ' : così si mediti con pensiero privo di costruzioni mentali.
' Quella ch'è tale indivisa gnosi, eterna, immobile, imperitura, esente da costruzioni mentali, non suscettibile d'essere indicata, priva di indiziii ed esempii (e
dunque non inferibile),

senza segni caratteristici, indefettibile, pacata, che trascende la portata degli oggetti dei sensi, inconcepibile, indubitabile, questa son io: quanto a ciò invero non
v'è dubbio.

Io solo sono il sommo Iddio, Siva fatto di tutti i mantra e trascendente tutti i mantra, libero da sprigionamento e riassorbimento (dell'universo).

Da me pervaso è questo tutto visibile e invisibile, mobile e immobile, io solo sono il Signore del mondo, da me tutto è illuminato.

L'intero cumulo dei mondi diviso in forme innumerevoli a partire da Siva giù giù fino alla terra, tutto questo in me si trova.

E qualsiasi cosa in questo universo è veduta (appresa tramite percezione diretta) o anche udita (appresa tramite la parola autorevole), a seconda della
distinzione tra esteriore e interiore, tutto ciò è pervaso da me '.

'Ma Siva è altro, e io certo son altro ! ' Che si rinunci al senso di separazione; 'Quegli che è Siva, questi io sono ' : così sempre si pratichi la bhavana della non-
dualità.

Intenti alla bhavana della non-dualità, ovunque nel Sé stabiliti, si vede l'onnipervadente che dimora in ogni corpo, su ciò non v'è dubbio.

Per lo yogin così saldo nella meditazione sull'unità del Sé ed esente da costruzioni mentali l'onniscienza è messa in moto."

Anche più vicina al testo "buddhistico" è la anonima Avadhutagita, ascritta al mitico veggente Datta Atreya e particolarmente cara ai mistici vedantizzanti del
Maharastra82:

"Tu sei la Realtà (Tattva), non v'è invero dubbio. A che (serve che tu pensi) "conosco" ovvero ancora (il contrario) ? Come puoi pensare il Sé in termini di ciò
che non è suscettibile d'essere esperito, o che va esperito quale Sé (svasamvedya)? (...)

Ma pur con lo yoga dalle sei membra (le tappe teorizzate dal sistema dello Yoga codificato dagli aforismi ascritti a Patañjali) non è nient'affatto purificato, ma
pur con la distruzione della mente non è nient'affatto purificato, ma pur con l'insegnamento del maestro non è nient'affatto purificato (essendo già perfetta
purezza nella sua intrinseca natura): e il Sé (svayam) è la Realtà, e il Sé è la Coscienza (buddham)! (...)

Non v'è affatto comprensione (bodha), né poi incomprensione, e neppure comprensione e incomprensione assieme: colui per cui siffatta è sempre la
comprensione, questi sarà comprensione e null'altro!

La gnosi non è processo argomentativo (tarka), né yoga (che si basa sul) samadhi, né spazio e tempo, né l'insegnamento del maestro: io sono la Realtà, che è
consapevolezza dell' essere del Sé (svabhavasamvitti), simile allo spazio, innata (sahaja) e immobile. (...)

Dove vi è una siffatta (Realtà) innata (che non lascia spazio alcuno al mondo delle apparenze), ivi come potrei esserci io, e come ivi tu stesso, come ivi (gli
esseri) mobili e immobili? (...)

Per la grazia della gnosi (impartita dal) maestro, stolto o anche saggio (che sia), colui che tuttavia intuisce perfettamente (sambudhyate) la Realtà è del tutto
non tocco dall'oceano del divenire.

Assolutamente libero da attrazione e ripulsione, intento a giovare a tutti gli esseri, e dotato di stabile consapevolezza (il bodha), intelligente, egli attingerà la
suprema Sede. (...)

Non v'è meditante per te invero nel cuore, né v'è per te samadhi (lo stadio supremo della pratica dello yoga), non v'è meditazione per te nel cuore, né un luogo
all'esterno (in cui praticarla), e non v'è meditabile nel cuore, né invero oggetti e tempo; (così dunque devi meditare:) ' l'ambrosia della gnosi, dotata d'uno stesso
sapore (samarasa), simile allo spazio io sono! ' "

Di fronte alla presenza di questa sorta di koiné mistica in testi di entrambe le tradizioni, le differenze tra di esse paiono ottundersi: ci si domanda se, alla vigilia
della scomparsa del "buddhismo" dalla maggior parte del sub-continente indiano, esso e lo "hinduismo" siano ancora configurabili come realtà spirituali
individuate da edifici dottrinali distinti, o se la loro ipotizzabile coincidenza "al vertice" non finisca per investire anche parti sostanziali delle loro rispettive
architetture.

Qualcuno potrebbe anche credere che ci troviamo qui di fronte a banali manifestazioni del clima "religioso" dai tratti accentuatamente sincretistici che
caratterizza l'India post-classica, che non appaiono particolarmente significative dal punto di vista della storia delle idee e che rappresentano tutto sommato un
tradimento delle rispettive tradizioni di pensiero, largamente giocate sulla contrapposizione reciproca.

Egli argomenterebbe che, dopo tutto, almeno per quanto riguarda l'àmbito del pensiero "buddhistico", assimilazioni di tal fatta sembrano essersi fatte strada solo
tardi, e a fatica, forse grazie ad un graduale smussarsi delle polemiche che opponevano le diverse scuole nel loro periodo di maggior vivacità intellettuale.

V'è chi, come l'illustre storico del pensiero indiano Sarvepalli Radhakrishnan83 rileva il progressivo livellarsi del "buddhismo" in conformità agli standard
"hinduistici", che vede documentato, ad esempio, dalla inclusione del Buddha stesso tra le "incarnazioni" di Visnu, e dalla contemporanea trasformazione di
quest'ultima figura divina in quella del Bodhisattva Avalokitesvara: il risultato di tali aggiustamenti sarebbe la sua "caduta" nell'India che lo vide nascere,
attraverso una combinazione di "lenta assimilazione e indifferenza silente".
Si tratta d'una ricostruzione che non coglie necessariamente la verità, o almeno tutta la verità; essa sottace il peso ingente che per la scomparsa delle istituzioni
"buddhistiche" nell'India settentrionale hanno avuto le invasioni islamiche a partire dal principio dell'XI secolo dC. e pecca sotto diversi rispetti per inesattezza.

Intanto, non è affatto pacifico che Avalokitesvara sia da interpretarsi come un mero equivalente "buddhistico" di Visnu: la notevole complessità degli attributi e
delle funzioni di tale figura divina richiede una lettura ben più attenta alla sua peculiare fisionomia nei testi del Mahayana, a cominciare dal
Saddharmapundarika84, cui deve il suo prestigio in tutto l' Estremo Oriente.

Se nelle liste dei suoi cento e otto epiteti85 questo Bodhisattva è detto Visnucakra, il che lo identifica con Sudarsana, l' arma personificata del Dio, troviamo in
esse anche Harihara, nome della figura divina sincretica che unisce i tratti iconografici di Visnu e Siva, e Nilakantha, "Dalla gola blu", epiteto di Siva; ma la
connessione con il pantheon "hindu", che non si limita a queste grandi figure divine, è certo sporadica di fronte alla vasta e serrata serie delle identificazioni con
figure e nozioni prettamente "buddhistiche". Nel Karandavyuha86 egli è presentato senz'altro coi tratti della Realtà suprema personificata: da lui traggono
origine i Buddha e i diversi dèi, tra cui Brahma, nato dalle sue spalle, Sarasvati signora della sapienza, che procede dai suoi denti, e lo stesso Visnu, emanato dal
suo cuore.

In secondo luogo, ad onta delle identificazioni come quelle fin qui segnalate, non si è mai avuto un irenico "embrassons-nous" che cancellasse le differenze e
riportasse nell'alveo della tradizione brahmanica l'esperienza sotto tanti aspetti idiosincratica dei pensatori "buddhisti": la alterità delle loro dottrine rispetto a
quelle del mainstream delle scuole hindu è restata, anche nell'età che possiamo definire "post-buddhistica", un dato acquisito.

In terzo luogo, non è lecito sostenere che l'inclusione del Buddha nel pantheon "hindu" abbia significato una qualche forma di legittimazione dei suoi
insegnamenti da parte dell'establishment brahmanico; è vero semmai il contrario.

La nicchia occupata dal Buddha in tale pantheon è, appunto, quella di una "discesa" nel mondo (un avatara) di Visnu nelle vesti d'un infido asceta provvisto dei
significativi nomi di Mayamoha ("Obnubilamento a motivo dell'illusione") e Arihan ("Distruttore dei nemici", in luogo dell'epiteto "Arhat", corrente presso
"buddhisti" e Jaina ed indicante il "Degno" di rispetto e venerazione...), accompagnato da quattro discepoli e armato d'un ponderoso trattato redatto in lingua
pracrita di ben sedici milioni di strofe.

La descrizione che ne è fornita ha tratti caricaturali: raso il capo, vestito di stracci sporchi, le braccia esili e snervate gli pendono in grembo; regge nella destra
un cestello di giunchi intrecciati e nella sinistra un panno di cotone che scuote ad ogni passo; ha il volto emaciato, con voce roca e velata mormora in
continuazione: "Dharma, Dharma".

Costui è detto esser venuto non già per istruire i pii in una dottrina salutare, come il Krsna che funge da maestro divino nella Bhagavadgita, ma per traviare e
infrollire gli empii e i malvagi, ricorrendo astutamente ad una predicazione lassista, basata sull'abbandono del culto vedico e delle distinzioni di casta,
accompagnato da un'applicazione indiscriminata della cosiddetta "non-violenza" (la ahimsa; la sua applicazione non più alla sola regola di vita degli asceti, ma
all'agire politico da parte di Mohandas Karancand Gandhi ha fatto sì che molti dei suoi avversarii tradizionalisti vedessero in lui un pericoloso epigono di
quest'antica sottile perversione dell'etica brahmanica ).

Ma chi sono i malvagi che il Buddha deve sedurre e indebolire, sì da renderne possibile la sconfitta e l'annientamento?

Nel momento mitico essi sono identificati con gli asura, i "titani" dell'India, opposti agli dèi nella lotta per il dominio sul cosmo e arroccati in tre invincibile
fortezze volanti cubiche note collettivamente come Tripura (si confronti con l'omologo greco "Tripoli"), rispettivamente di ferro, d'argento e d'oro.

Perduti i loro meriti a seguito delle erronee dottrine del Buddha e alla corruzione conseguente delle loro spose, essi sono annientati da un dardo fiammeggiante
scoccato dall'arco invincibile di Siva, che trapassa le tre rocche durante il loro allineamento nei cieli.

Passati alcuni millenni, il maestro divino di falsità e d'errore ritornerà dal deserto, ove sera ritirato in meditazione, per esercitare le sue arti sui barbari (i
mleccha), destinati a contrastare alla fine dell'attuale età oscura del mondo (il Kaliyuga) la vittoria millenaristica di Kalkin, l' Avatara venturo dello stesso
Visnu.

La perniciosa dottrina dell'avatara è riassunta nel tardivo Sivapurana87 come un abile miscuglio di dogmi dei diversi indirizzi dottrinali "buddhistici", dei
Jaina e dei Carvaka/ Lokayata, i "materialisti" indiani.

Si tratta di qualcosa di più d'una mera caricatura degli aspetti più popolari della contestazione della tradizione brahmanica da parte dei varii maestri negatori di
essa (i nastika), giacché la presentazione delle argomentazioni messe in bocca al Buddha risponde ad un nutrito campionario di luoghi comuni effettivamente
riscontrabile nella letteratura polemica prodotta da questi.

E' interessante presentare qui il passo, come vivace esempio della visione delle dottrine "buddhistiche" diffusa negli ambienti "hindu" di cultura relativamente
modesta, senza un accesso diretto alla effettiva predicazione degli esponenti dei sistemi anti-brahmanici:

" La trasmigrazione di vita in vita si realizza senza principio, essendo priva in realtà di soggetto agente e di azione: da sé soltanto viene in esistenza, da sé
soltanto si dissolve.

A partire da Brahma giù fino al filo d'erba, fin dove v'è legame con i corpi ciascuno è qui Dio a se stesso; non ve n'è alcun altro.

Ciò ch'è detto "Brahma", "Visnu", "Rudra", questo non consiste se non in questi tra gli esseri dotati d'un corpo, esattamente come accade per i miei epiteti a
comiciare da "Arihan". E proprio come il nostro corpo a suo tempo si dissolve, a partire da Brahma giù giù fino alla zanzara a suo tempo gli esseri si
dissolveranno.

Se se ne fa oggetto d'indagine, in questo corpo non v'è nulla di superiore rispetto ad alcun altro: il cibarsi, l'accoppirsi, il sonno, la paura sono gli stessi in tutti.

Attinta un'opportuna misura di nutrimento, ogni essere dotato d'un corpo ottien sazietà simile agli altri, non maggiore, né minore.
Come avendo bevuto una bevanda assetati noi ci sentiamo con letizia dissetati, così anche gli altri: non si conosce la benché minima differenza in ciò.

Vi sian pure mille fanciulle dotate di beltà e avvenenza, ma invero con una sola ci si congiunge a questo mondo al tempo dell'accoppiamento.

Vi siano più centinaia di corsieri, e dotati di molteplici caratteristiche, ma anche così al momento di montare se ne userà uno solo, senza secondo ad esso.

Quell'agio che viene in essere col sonno per coloro che giacciono su un letto dai morbidi cuscini, quest'agio appunto si ha per coloro che, sopraffatti dal sonno,
giacciono sul terreno.

(Similmente) come per gli esseri possessori d'un corpo a cominciar da noi stessi v'è paura a cagione della morte, così v'è paura a cagione della morte per (tutti),
da Brahma fino agl'insetti.

Tutti coloro che sono portatori d'un corpo sono equivalenti, se sindaga applicando l'intelligenza: avendo accertato questo, nessuno mai deve ricever nocumento
da chicchessia. Sulla faccia della terra non v'è norma di comportamento (dharma) pari alla pietà nei confronti dei viventi, perciò con ogni zelo la pietà nei
confronti dei viventi va praticata dagli uomini.

Ove anche un solo vivente sia protetto, l'intero trimundio sarà protetto, e così pure ove lo si uccida (l'intero trimundio) sarà (come se venisse) ucciso: perciò si
protegga, non s'uccida.

' Non uccidere è la Norma suprema ("ahimsa paramo dharmah", un adagio panindiano); peccato/ impurità è nuocere al principio vitale (l'atman, presente nei
corpi altrui come nel nostro); liberazione è l'indipendenza dagli altri; paradiso celeste (lo svarga) è il mangiare ciò che sè scelto.'

Così è stato detto dagli antichi veggenti, ed è sicuro, in base a retti mezzi di conoscenza: sicché l'uccisione/ violenza non va praticata dagli uomini (a buon
diritto) timorosi delle pene infernali.

Non v'è peccato come l'uccidere in questo trimundio con i suoi esseri mobili e immobili. Chi uccide andrà all'inferno, in paradiso chi non uccide.

Vi sono doni di numerose varietà: che (farsene) di essi, che producono frutti di nessun conto? Non v'è un altro dono pari a quello dell'impavidità (che si
conferisce rinunciando ad ogni forma di violenza nei confronti di tutti gli esseri) a questo mondo.

Quaggiù quattro varietà di dono sono state enunciate dai sommi veggenti, avendo indagato molti testi autorevoli, al fine della protezione in questo e nell'altro
mondo: ai timorosi l'impavidità va donata e così pure agl'infermi il medicamento, va donato a quanti perseguono la conosenza il sapere, va donato il cibo ai
tormentati dalla fame.

Per quanti e quali doni siano predicati dai tanti asceti, essi non valgono la sedicesima parte del dono dell'impavidità ai viventi.

Invero la virtù di gemme, mantra ed erbe sfugge ad ogni indagine, (ma) si può ricorrere ad essi con zelo solo in vista di fama e ricchezze; procuratesi ingenti
ricchezze, vanno propiziati tutt'attorno le dodici sedi (degli organi dei sensi): che (farsene) di altre cose propiziate a questo mondo?

Le dimore dei cinque organi d'azione (lingua, per la favella, mano, per la prensione, piede, per la locomozione, ano, per l'escrezione e genitali, per il piacere) e
i cinque organi d'esperienza (occhio, orecchio, naso, pelle e lingua), mente e intelletto: ecco qui enunciate le dodici sedi di buon auspicio.

E' solo a questo mondo che vi sono per i viventi paradiso e inferno, e da nessun'altra parte: l'agio/ piacere è detto "paradiso", il disagio/ dolore é in verità
l'inferno.

Quello ch'è l'abbandono del corpo in mezzo agli agi goduti, questo solo va riconosciuto come liberazione suprema da quanti meditano sulla Realtà; allorché vi è
il tagliar via le sofferenze/ impurità (i klesa) assieme alle latenze subconscie (le vasana; entrambi i termini tecnici sono impiegati nella letteratura
"buddhistica", e segnatamente in quella del Mahayana), il sospender la nescienza va riconosciuto come liberazione da quanti meditano sulla Realtà.

Questo precetto vedico (la sruti) che funge da mezzo di conoscenza è solennemente profferito dagli enunciatori dei Veda :'Non si uccida essere alcuno', non già
gli altri, che inducono ad uccidere: quelli erronei relativi al (rito) dell'Agnistoma sono (adottati) da parte dei malvagi a questo mondo, non sono mezzo di
conoscenza per i conoscitori, essi che ingiungono il sacrificio di animali!

Tagliati degli alberi, uccisi degli animali, versato il sangue, bruciati nel fuoco semi di senape e burro chiarificato si attingerà dunque il mondo celeste?! (...)

Strano davvero! La beatitudine è la forma propria del Brahman : giacché così è detto nel Veda, così appunto stanno qui le cose: non è necessario escogitare
tante erronee fantasticherie!

Finché è salda quest'età giovanile, finché non v'è illanguidimento dei sensi, finché la vecchiezza è lungi, fino ad allora ci si adoperi in vista del benessere!

Allorché i sensi non stanno saldi in se stessi, si è deboli ed anziani, donde (verrà) l'agio?

Il corpo stesso va donato da quanti si propongono l'agio (altrui) quale fine ultimo.

Questa terra, cui (pure) non sono di peso gli oceani, i monti e i grandi alberi, non sopporta il fardello di colui che non è pronto a compiacer la mente del
supplice.
Tosto se ne andrà il corpo, le ricchezze accumulate si squaglieranno; è resosi conto di ciò, che il detentore della conoscenza si adoprerà per l'agio del corpo: ben
presto il cadavere sarà pasto di cani, uccelli e vermi, (ovvero) il corpo finisce in cenere, tale la verità che si ode recitata nei Veda.

Degli obnubilati inventano le distinzioni di casta tra gli uomini: Quando si è partecipi della comune natura umana, chi è inferiore, chi mai superiore? (...)

Si racconta (nel famoso inno vedico noto come Purusasukta88) che i quattro varna (lett "colori": sono le grandi divisioni della società indiana) sarebbero nati
assieme dalla bocca del Purusa (i brahmani), dalle braccia (la nobiltà guerriera), dalle cosce (i contadini e i mercanti) e dai piedi (i servi): (ma) questa è
un'invenzione fantastica degli antichi, che si rivela inconsistente all'indagine; e se davvero son nati in un unico corpo, o da un unico corpo, come i quattro corpi
di costoro avrebbero attinto varna distinti?

Perciò questa distinzione tra varna e mancanza di varna non è affatto evidente: non va fatta dunque distinzione alcuna da nessuno mai tra gli esseri umani! "

L'astuzia ascritta a Mayamoha nel mito ora richiamato, che fornisce la sua cornice a questa predicazione insidiosamente sovversiva, costituisce, a ben vedere,
una sorta di beffardo omaggio alla concezione tutta "buddhistica" della "perfezione della destrezza negli espedienti" (la upayakausalyaparamita), che consente
al maestro divino, e in ispecie al Bodhisattva, di operare il bene degli esseri ricorrendo, quando sia necessario o opportuno, alla diffusione o convalida di
nozioni solo in parte vere e addirittura alla messa in atto di comportamenti aberranti e apparentemente degni del biasimo dei bempensanti.

In effetti, è questa sorta di alibi che ha giustificato la duttile azione missionaria "buddhistica", pronta ad utilizzare le (originariamente!) scandalose simbologie
"tantriche", giocate sul sesso, sulla violenza e sull'orrore, nonché ad accettare di primo acchito, nella sua espansione fuori dall'India, le credenze e le
Weltanschauungen estranee, per eroderle poi via via dall'interno e ridurle ad altrettanti gusci equipollenti - e comunque d'importanza tutto sommato secondaria -
del retto Dharma; si è così assistito a fenomeni di interpretatio indica di figure divine locali, come la trasformazione nel VII/ VIII sec. dC. dell'importantissima
patrona della dinastia imperiale giapponese, la Dea solare Amaterasu-no-Kami, in semplice aspetto del Buddha supremo Mahavairocana, o di rilettura più o
meno spregiudicata in chiave "buddhistica" di teorie scientifiche occidentali, com'è il caso di certe correnti psicanalitiche affermatesi specialmente negli Stati
Uniti negli anni più recenti.

Viceversa, l'approccio "hinduistico" è orientato ad un modello di subordinazione gerarchica degli elementi ostili o estranei a quelli di volta in volta sentiti come
più significativi nella tradizione brahmanica: le scuole di pensiero interne a tale tradizione (i sei darsana classici, ma anche i diversi indirizzi teistici post-
classici, sivaiti e visnuiti), solgono collocar se stesse al vertice di una piramide costituita, in ordine di differenza decrescente e di crescente avvicinamento alla
perfezione, dai sistemi rivali, debitamente confutati in quanto hanno d'inaccettabile, perché in contrasto con le posizioni definitive della retta dottrina (il
cosiddetto siddhanta), che sta al vertice della struttura.

Una volta costituite, queste piramidi tendono (come in effetti ci si attende da simili edificii...) a favorire una specie di mummificazione di quanto è inglobato in
esse, specie per ciò che tocca i sistemi accolti nei loro gradini più bassi: così nei repertorii di dottrine inferiori che figurano nella letteratura specializzata
prodotta dopo l'XI secolo d C. si continuano a presentare, e a contestare con energia, i dogmi delle quattro principali scuole "buddhistiche" (cioè il Vaibhasika/
Sarvastivada e il Sautrantika, unici giudicati rilevanti tra i diciotto e più nikaya del "buddhismo" antico, e, nell'àmbito del Mahayana, il Madhyamika/
Sunyavada e lo Yogacara/ Vijñanavada), benché esse formino ormai un dato archeologico, di fatto scomparso dal subcontinente indiano - fatte salve alcune aree
marginali per lo più himalayane, come il Kasmir, il Nepal e l'Assam/ Bengala.

L' esame delle critiche mosse alle posizioni dei quattro sistemi succitati nei principali commenti ai Brahmasutra89 mostra lo sclerotizzarsi e l' impoverirsi di
secolo in secolo dei resoconti delle loro dottrine accessibili ai maestri "hindu".

Si va da una discussione bene informata come quella del grande Sankara, basata generalmente su una certa conoscenza dei testi e attenta alle ragioni degli
esponenti della logica "buddhistica" a lui precedenti, come Dinnaga, a un progressivo ricorso (a partire dall'XI sec. dC., con Ramanuja) a dei repertorii
dossografici più o meno imbalsamati, basati specialmente sul Tattvasangraha di Santaraksita, commentato da Kamalasila e sulle posteriori opere di Ratnakirti.

Le non facili proposizioni di questi maestri sincretisti, tolte dal loro contesto per venir rimontate in strutture argomentative ingannevolmente nitide, vengono
sempre meno comprese, in concomitanza con l'allontanarsi nel tempo del dialogo con l'esperienza vivente degli interpreti della visione "buddhistica", ormai in
via di estinzione nella terra che l'aveva vista nascere.

Il risultato finale è che si assiste, segnatamente nel caso di Madhva e dei suoi epigoni, ad una vera battaglia contro i mulini a vento, adoperandosi questi
pensatori a confutare con sottigliezza un complesso di teorie che hanno ben poco a che vedere con quelle effettivamente sostenute dai "buddhisti" del passato.

Così troviamo erroneamente ascritta a costoro la tesi della simultaneità di causa / condizione ed effetto/ condizionato, quella di un tutto indistinguibile dagli
atomi aggregati a formarlo (è la dottrina del Paramanupuñjavada, un termine apparentemente coniato dallo stesso Madhva in riferimento al Sarvastivada, senza
nessun effettivo riscontro negli scritti di questa scuola), quella di un vuoto (lo sunya) origine di tutto fatto eguale al non-ente (lo asat); è questa una dottrina ben
nota al pensiero vedico e upanisadico, ma in realtà affatto aliena dalle sottili distinzioni della letteratura mahayanica rispetto a questa categoria dialettica,
espressamente sottratta sia alla presenza che all'assenza.

Un esempio abbastanza rappresentativo di siffatti esiti ci è fornito dal quadro curiosamente distorto che delle quattro scuole anzidette abbozza il
Siddhantapañjara90, un poemetto didattico trecentesco il cui autore, Vinayaka, nativo del Keral.a nell'India meridionale, appartiene da parte sua al ricco filone
del Vedanta sankariano.

Mette conto di presentarlo per esteso come una sorta di contraltare al passo precedente; dove la predicazione rinvenuta nello Sivapurana, forse qui
contemporaneo al nostro testo, si mostra relativamente indipendente dai contenuti più significativi della letteratura tecnica, sia pure di seconda o di terza mano,
Vinayaka tenta di riassumerne concisamente i capisaldi, così come i testi a sua disposizione glieli rendono accessibili:

"Al fine di volger via l'errore della mente, odi ancora la dottrina dei seguaci del Buddha; essa, in base alla distinzione tra i (quattro) discepoli (del Buddha
stesso) è immaginata quadruplicemente.

Di costoro il Madhyamika è il più anziano, lo Yogacara il secondo, il terzo discepolo è noto come Sautrantika, il Vaibhasika è il quarto: ecco la successione dei
discepoli.
La loro costruzione dei mezzi di conoscenza (i pramana) è come quella dei nudi (cioè i Jaina), e così pure la costruzione relativa ai Veda; altrove v'è differenza
di opinioni.

Di esse io enuncio ora il sunto. Tra di loro, per il Madhyamika il soggetto conoscitore è in forma di Vuoto.

Ciò che resta all'entrare in quiete dei sensi, questo solo è la Realtà; ed il riassorbirsi dei sensi si ha nel sonno profondo per tutti gli esseri dotati di corpo: allora
v'è l'apparir manifesto del Vuoto soltanto, è certo.

Perché si constata ciò a seguito del ricordo:" "Io ero Vuoto" da parte di chi era immerso nel sonno: pertanto questo soggetto ha come suo essere proprio il Vuoto
per coloro che discriminano.

Ora, nei testi autorevoli si suol proclamare che la conoscenza ha come ricettacolo il soggetto conoscitore; anche il mezzo di conoscenza (che li ricollega) sarà
invero soltanto il Vuoto, in forza del loro essere rispettivamente il ricettacolo e ciò che vi trova ricetto.

Inoltre vi è sorgere in esistenza e distruzione del mezzo di conoscenza sempre di nuovo ; e una siffatta situazione non si ha per qualcosa d'esistente, sicché è
stabilito che è il Vuoto.

Ci si figura che esista un conoscibile oggetto per il mezzo di conoscenza?

Allora il conoscibile sarà Vuoto in base all'argomentazione dianzi avanzata, ove s'indaghi!

E' solo sotto l'effetto d'una assenza d'indagine che v'è per tutti, sempre, questa nozione d'esistenza a proposito di essi (cioè soggetto, mezzo, oggetto di
conoscenza), quando la loro inesistenza è provata!

Come si assume che l' illusione (la maya) non sia suscettibile di determinazione concettuale, così si assume la non-concettualizzabilità della potenzialità
d'apparenza (la samvrtisakti): ed è grazie ad essa, così non-concettualizzabile, che sorge l'intuizione dell'esistenza.

La triade formata da soggetto etc. è dunque il Vuoto, lo si è invero provato.

Per l'asceta che serve con mente, parole, corpo ed azioni il Maestro che ha insegnato il testo autorevole, il silenzioso che ha nome Beneandato, allorché il Vuoto
è ben stabilito nella mente v'è la Liberazione in forma di Vuoto universale, grazie alla calma ottenuta da uno sforzo zelante.

Così è la conclusione definitiva (il siddhanta) dell'asceta discepolo del Beneandato (il Sugata, epiteto del Buddha ) sostenitore della dottrina del Vuoto.

Apprendi ora le conclusioni degli altri seguaci del Beneandato; per essi vi è la Coscienza-deposito (lo Alayavijñana, che ha la funzione di una sorta di
subconscio collettivo, da cui dipende la "pubblicità" degli eventi mentali riflessi nelle singole coscienze individuali ed erroneamente identificati con un mondo
esterno ad esse) e la non-dualità della Luce (una espressione metaforica per indicare tale Coscienza, impiegata anche in contesti non "buddhistici").

Il soggetto non consiste qui del Vuoto; esso è lo Stato supremo (param padam, espressione vedica), altro dal corpo: dal momento che, nel parlare corrente, si
constata esser detto da tutti:"questo è il mio corpo", il corpo non è noi stessi; ciò anche in base all'inferenza a partire dalla visibilità del corpo, come di un vaso

(esempio tipico d' oggetto privo di coscienza), e, una volta morto il corpo, per il suo esser privo di coscienza (onde sinferisce che questa non ne costituisce
pertanto una proprietà intrinseca ); ancora, per la nozione "io sono nato". Si conclude (da tutto ciò) che la Coscienza-deposito è altra dal corpo.

L' (oggetto) esperito, ad es il blu o il giallo, sia pure Vuoto, e l'esperienza di esso (sia altresì) Vuoto; Vuoto ancora sia questo soggetto che esperisce, essendo
esso il ricettacolo di entrambi, ma si accerta che è solo tramite l'esperire che tale Vuoto è conosciuto!

Tale esperire appunto è cantato nei testi autorevoli come "Coscienza-deposito".

Annientato d'attimo in attimo, esso sorge d'attimo in attimo, è come una fiamma, il suo perdurare è mera apparenza: come in una corrente d'acqua a questo
mondo si crede di scorgere un perdurare (laddove essa è in realtà un flusso di liquido sempre nuovo e diverso), così a tutti sembra che vi sia un perdura della
coscienza.

Per tutti e tre i seguaci del Buddha (diversi dal Madhyamika), poi, il conoscibile consiste nella pentade degli aggregati (gli skandha); in mezzo a questi sono i
tre aggregati delle forme sensibili (i rupa), delle coscienze (i vijñana, cioè le cinque forme di coscienza corrispondenti ai sensi e quella mentale, il
manovijñana, che le coordina fungendo da sensorium commune) e delle percezioni sensoriali (le vedana); il quarto aggregato è quello relativo alle designazioni/
nozioni (le samjña; si tratta in effetti, nella più antica concezione "buddhistica", delle sensazioni riflesse conseguenti alle percezioni), come quinto è ricordato
quello delle formazioni (i samskara, comprendenti una gamma di attitudini e operazioni fisiche e mentali, nonché volontà, memoria, etc.).

Per aggregato delle forme vanno intesi gli oggetti sensibili (i visaya) e i sensi (gli indriya); le consapevolezze di oggetti e sensi son dette formar l'aggregato
delle coscienze; agi/ piaceri e disagi/ dolori e offuscamento vengon chiamati l'aggregato delle percezioni (in effetti classificate come piacevoli, spiacevoli e
neutre); le designazioni/ nozioni consistono di qualità/ attributi, azioni/ verbi, generi/ universali e ideazioni distinte.

L'aggregato delle designazioni viene costruito dai seguaci del Buddha come una quintuplice costruzione: (così) la designazione si configura molteplicemente,
come "bovino", "elefante", "uomo", etc.; "bianco" etc. son detti essere gli attributi; "sto" etc. i verbi, "umanità" etc. i generi, secondo i seguaci del Beneandato;
"cornuto", "quadrupede", "clavigero" etc. sono ricordati come ideazioni distinte.

Impeto/ velocità (il vega), adesione/ avvolgimento (il vesthana) e ciò ch'è definito elasticità (lo sthitasthapaka, lett "stabilizzatore di ciò che è stabilito"): ecco
enunciato l'aggregato delle formazioni dai conoscitori della pentade degli aggregati; l'impeto è costruito come proprio di frecce etc., l'adesione di corteccia etc.;
di rami etc. è detta propria la elasticità dai seguaci del Buddha (l'attribuzione ad oggetti di caratteristiche che appaiono desunte da un repertorio ben più vasto
di fenomeni mentali mostra qui una totale miscomprensione delle fonti utilizzate).

Ecco dunque enunciate le definizioni dei cinque aggregati.

Sotto il dominio del karman dei viventi ed anche in dipendenza dalla propria natura, questi attimo per attimo, a seconda delle divisioni inerenti a corpi e
possessori di corpi, soperano aggregazioni e così pure disgregazioni: non v'è perciò un sé (l'atman) a parte da essi per coloro che son dotati di discriminazione.

Tutto è dunque coscienza, dimorante nel cuore; fuori non v'è che il Vuoto: Sole e Luna, lo spazio celeste, il cerchio delle costellazioni, la Terra, i fiumi, gli
oceani, i monti son tutte fenomenizzazioni (le vibhuti) della coscienza. Dentro (la coscienza) sta tutto quest'universo, in forma di esperire, ed esso è
impermanente; e stando dentro, appare come esteriore, non come interiore, essendo impermanente appare come stabile, per la potenzialità dell'errore (insita nel
conoscere), sempre di nuovo!

Dentro rifulge manifesto il tutto, anche una volta che l'oggetto sia completamente obliato, sicché è dentro che il tutto dimora: così è provato perfettamente.

Questo soltanto sarà l'elemento distintivo (dello Yogacarin) rispetto sia al discepolo Sautrantika che a quello Vibhasika, (mentre) il resto sarà lo stesso (per
tutti): per i due tutto questo (universo) esiste e fuori e dentro.

Mediante la percezione diretta saccerta che tutto questo esiste dentro, e mediante l'inferenza (ch'esso esiste anche) fuori; in ogni caso, la diade (di fenomeni
interni ed esterni rispetto alla coscienza) è sempre impermanente.

Il germinare del seme e così lo sbocciare del germoglio, il crescer della pianta, il suo fogliare e il suo fiorire in successione, il suo fruttificare non si
verificheranno, se vi sia la permanenza d'ogni cosa; e i sei stadii del corpo (da nascita e crescita fino alla morte) non son compatibili con la permanenza.

Essendovi, poi, permanenza del tempo, non sarà possibile la sua triplicità (in quanto passato, presente e futuro); essendovi, poi, permanenza dell'esperire, la
conoscenza che si ha partitamente di blu, giallo, rosso, bianco etc. non sarà possibile.

Che (c'è da guadagnare) qui con tante parole? L'impermanenza è provata!

A voler indagare, c'è una differenza per il discepolo Vaibhasika (rispetto al Sautrantika: per lui, infatti) mai si dà l'inferibilità di un (mondo) esterno: dal
momento che sempre grazie ad un'intuizione diretta (aparoksa) sapprende il "questo", perciò tutto il mondo esterno non è mai inferibile.

Così avendo accertato grazie ai testi autorevoli, sempre dedito al proprio Dharma, avendo reso quotidianamente servizio al maestro e al Tathagata (il "Così
andato", altro epiteto del Buddha ), autore dell'insegnamento, ricorrendo alla pratica del saluto ai caitya e della mormorazione dei mantra del Buddha, giacché
è provato che non v'è valore conoscitivo per i mantra vedici, e grazie al sorgere della conoscenza salvifica sattinge la liberazione, non v'è dubbio. Così per i tre
(diversi dal Madhyamika) vi sarà la liberazione.

Tale è l'epitome delle conclusioni definitive (delle quattro scuole)."

Alla valutazione più o meno serena da parte dei pensatori "hindu" di testi noti e largamente discussi dei maestri eterodossi è subentrata nell'arco di pochi secoli,
come si vede, una miscela di citazioni slegate, sistemate talora alla rinfusa e oggetto di oscure interpretazioni.

Parallelamente troviamo discusse con acribia - e sovente miscomprese - le dottrine dei sistemi "hinduistici" nei repertorii che costituiscono l'armamentario
apologetico delle scuole "buddhistiche" laddove esse continueranno a fiorire: in Tibet, in Indocina e nell'Estremo Oriente.

Ma ciò si verifica con modalità diverse da quanto avviene nella letteratura del pensiero indiano: i dogmi delle scuole rivali vengono ridotti per così dire in
pillole, seguendo in ciò un'antica tradizione sistematica peculiare già del "buddhismo" antico: le diverse proposizioni condannate, ricorrendo ad un procedere
che, mutatis mutandis, ricorda quello del magisterio ecclesiastico nell'Occidente cristiano, sono puntigliosamente classificate, insieme a quelle "buddhistiche" di
volta in volta refutate come "eretiche", tra le "vedute" (le drsti) erronee censurate dal Buddha e dalla tradizione; questa parcellizzazione non prende affatto in
considerazione l'architettura degli edificii dottrinali concorrenti nel suo complesso.

Essa è data per scontata e comunque non interessa la dogmatica "buddhistica", la quale soccupa di preferenza dei singoli "mattoni" di cui tali edifici sono
formati, se e quando offrano il destro all'incasellamento nella griglia eresiologica in discorso.

Anche laddove si offre una serie più vasta di citazioni, il travisamento del dato, soprattutto attraverso numerose e significative omissioni, è invero d'entità
cospicua.

I risultati della paziente fatica d'un Nakamura, che ha dedicato tesori d'erudizione al tentativo di ricostruire a partire da tali frammenti gl'insegnamenti del
Vedanta pre-sankariano, mostrano, nella loro aleatorietà e imprecisione, quanto ristretta possa purtroppo molte volte rivelarsi l'utilità storico-filologica dei
materiali così inglobati nella poderosa struttura del Dharma "buddhistico", ove non ci soccorra il confronto con fonti indiane indipendentemente sopravvissute.

A titolo d'esempio, si può prendere in considerazione la presentazione, intessuta di citazioni upanisadiche e nel complesso decisamente arcaica, delle dottrine
del Vedanta fornita dal maestro Bhavaviveka (noto anche come Bhavya), vissuto fra il 490 e il 570 dC., nelle sue Madhyamakahrdayakarika91:

"I sostenitori della dottrina del Vedanta dicono: "Un conoscitore del Sé (lo Atman) è difficile a trovarsi all'esterno (del nostro sistema); donde vi sarà liberazione
per quanti hanno in odio il Sé, che sostengono esser vuoti i rituali vedici (i samskara)?

L'intelligente trascende la morte, avendo conosciuto al di là delle tenebre il Purusa grande, del color del Sole, il Sé, il Grande Signore; quando, scorgendo Lui
dal colore rosso, vedrà il Creatore, il Signore, allora, avendo abbandonati merito e demerito, raggiungerà la somma equanimità (param samyam).
Passato, presente e futuro: tutto non è che il Purusa; Egli è dentro e fuori, e lontano Egli è, e vicino, ed Egli è il soggetto agente del karman; tutte le esistenze
son nate perciò come gl'irraggiamenti (della tela) dal ragno: in Lui riassorbiti, i detentori della conoscenza non attingono più rinascita.

Non v'è immortalità per il mortale, così come frescura per il fuoco: sicché è insostenibile immortalità senza Risveglio, essendo il Purusa (in realtà) immortale.

Quegli di cui non v'è nulla che sia al di là, nulla maggiore, nulla più sottile, da tale Uno questo tutto è tessuto assieme (samtata), in Lui tutti gli esseri divengono
il Sé, che lo si contempli!

V'è (allora) equipollenza di bimbi e dotti, candala (membri d'una bassissima casta cui sono riservati mestieri impuri, quali boia, macellaio e conciatore di
pelli) e brahmani, etc.

Dato il venire in esistenza del vaso o il suo distruggersi, non v'è per lo spazio (ivi contenuto) identità con esso (tadatmata): similmente dato il sorgere e il venir
meno di corpo etc., l'identità del Sé (con essi) non è desiderabile.

Come per lo spazio contenuto dal vaso, in assenza di sua rottura, v'è apparentemente molteplicità di ciò ch'è uno, mentre alla rottura del vaso l'unità (dello
spazio non più circoscritto da esso ritorna ad esser riconosciuta), così v'è apparentemente nascita di tutto, mentre (in realtà sussiste solo) lo stesso (Sé).

Come pur in presenza della rottura di vaso etc. non v'è alcuna rottura di argilla etc., così anche all'infrangersi del corpo non v'è alcun infrangersi del Sé; come
essendo lo spazio contenuto in un vaso colmo di polvere, fumo, etc. non v'è invero la stessa condizione per tutti (gli altri vasi), così è per il Sé nel caso di
piaceri etc. (che toccano solo un individuo, senza estendersi agli altri).

In assenza di Risveglio, chi non conosce il Sé è come colui che sattribuisca le fruizioni (da lui esperite) in sogno: egli compie il karman e ne fruisce il frutto,
quale che sia, buono o cattivo.

Pur stando nel corpo (invece il detentore della conoscenza), grazie al distacco, anche fruendo non è insozzato: come un re si comporta a piacer suo, né egli è
contaminato dalla trasgressione per (aver commesso) un peccato.

Lo yogin intento allo yoga conosce l'Uno onnipresente, l'eterno sommo Brahman, lo stato imperituro, e allora non attinge rinascita; ed Esso è sempre sottratto
alle costruzioni mentali (avikalpa): dove sta, al di là del territorio delle parole, ivi si ricorre alle parole (per istruire su di Esso i discepoli) da parte di coloro che
hanno volto via i loro intelletti dalla differenza."

Un confronto con le karika dello Agamasastra ascritto a Gaudapada92 dedicate alla caratteristica analogia del Sé apparentemente limitato da corpo e mente
individuali con lo spazio contenuto in un vaso (il celebre ghatakasa), che sembrano appartenere allo stesso orizzonte intellettuale d'una parte delle fonti
utilizzate dal maestro "buddhista", mostra a quale impoverimento sia stato assoggettato il discorso vedantico nella lettura di quest'ultimo, che per facilitare la
sua confutazione sostituisce addirittura le vicende dell'argilla da cui è formato il vaso a quelle dello spazio da esso apparendemente delimitato:

" Il Sé invero è come lo spazio: esso è sorto in (forma dei) soggetti individuali (i jiva, lett "viventi", termine tardovedico spesso impiegato nei sistemi non
"buddhistici" a denotare le entità coscienti trasmigranti di corpo in corpo) proprio come (lo spazio apparentemente sorge in forma degli) spazii nei vasi, e (è
sorto) in (forma degli) aggregati proprio come (lo spazio apparentemente sorge in forma dei contenitori materiali ad esso illusoriamente sovrapposti nel
momento stesso in cui vengono in esistenza) a cominciar dai vasi: quanto alla nascita, questa è la similitudine.

Vasi etc. essendo disfatti, come gli spazii in vasi etc. nello spazio sono completamente riassorbiti, così appunto i soggetti individuali qui (lo sono) nel Sé.

Come, essendo uno spazio nel vaso con polvere, fumo e simili congiunto, non tutti (gli altri) vengono ad esser parimenti congiunti (con essi), così appunto i
soggetti individuali (non vengono ad esser congiunti) con (esperienze altrui quali) agi etc.

Forme, attività e designazioni sono distinte qua e là invero (a seconda dei contenitori), per lo spazio (in essi racchiuso tuttavia) non v'è distinzione; similmente
(avviene) quanto ai soggetti individuali, (tale è) la conclusione.

Come non è, rispetto allo spazio, lo spazio nel vaso un'alterazione o una parte (ma va considerato come tutt'uno con lo spazio medesimo; si noterà che questo è
concepito come un continuum indivisibile piuttosto che come uno spazio geometrico), così neppure rispetto al Sé mai il soggetto individuale è un'alterazione o
una parte.

Come diviene per gli stolti/ infantili (i bala) lo spazio sporcato dalle impurità (presenti in esso, ancorché per la sua sottigliezza sia in realtà incontaminabile),
così diviene per coloro che non comprendono (gli abuddha) anche il Sé sporcato dalle impurità.

Quanto alla morte ed anche al venire in esistenza, all'andare e al venire e altresì al dimorare (rispetto a questo mondo), (il Sé) è non dotato di peculiarità che lo
distinguano dallo spazio."

Pur tenendo conto delle limitazioni che si sono fin qui sottolineate e delle diverse modalità riscontrabili in campo "hindu" e "buddhistico" quanto alla ricezione
e al trattamento degl'insegnamenti altrui, sarà a questo punto abbastanza chiaro al lettore che la consapevolezza delle rispettive differenze, approfondita da un
duro e impietoso dibattito, non si è comunque appannata, neppure nei secoli successivi all'effettiva cessazione di tale dibattito sul suolo indiano, che ne era stato
tanto lungamente testimone.

NOTE
° Trattandosi di etichette assegnate con un certo grado di arbitrarietà dagli studiosi occidentali a realtà ben più complesse e sfumate di quanto la loro
applicazione acritica lasci intendere, i termini "buddhismo" e "hinduismo" (comunque preferibili alle rozze trascrizioni "buddismo" e "induismo" purtroppo
ancora in uso nel nostro paese) e gli aggettivi che ad essi corrispondono saranno posti in queste pagine tra virgolette.

1 Su questa scuola di pensiero e sul suo massimo esponente, Sankara, si veda il ns Sankara e la rinascita del brahmanesimo, Esperienze, Fossano, 1974.

2 Si vedano su ciò per tutti George Chemparathy, An Indian Rational Theology. Introduction to Udayana's Nyayakusumañjali, Brill, Leiden - Gerold & Co.,
Vienna - Motilal Banarsidass, Delhi, 1972 e le parti rilevanti del volume curato da Karl H. Potter nella sua Encyclopedia of Indian Philosophies, II , Indian
Metaphysics and Epistemology, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1977.

3 Salvo il caso decisamente atipico d'una figura solitaria d'innovatore come lo Svamin Dayananda Sarasvati (al secolo Dayashankar Tiwari). Nel voluminoso
trattato "La luce (illuminante) il significato della verità" (il Satyarthaprakasa), uscito nel 1908, egli passava in rivista per confutarli i dogmi cristiani ed islamici
in coda alla trattazione dei sistemi eterodossi di Lokayata/ Carvaka, "buddhisti" e Jaina, in linea con la letteratura controversialistica tradizionale.

4 VII, 43

5 I, 2, 1 ss

6 Sui quali una buona sintesi è fornita, utilizzando il linguaggio della logica simbolica contemporanea, da S S Barlingay, A Modern Introduction to Indian
Logic, National Publishing House, New Delhi, 1976.

7 Si veda in proposito, oltre al classico manuale di F. Th Stcherbatsky, Buddhist Logic, Leningrad, 1930, ristampato in 2 voll. da Dover, New York, 1962, il
bello studio di RSY. Chi, Buddhist Formal Logic, Luzac, London 1969.

8 Cfr per tutti Chr Lindtner, Nagarjuniana. Studies in the writings and Philosophy of Nagarjuna, Institute for indisk filologi, 1982, ristampato da Motilal
Banarsidass, Delhi- Varanasi- Patna- Bangalore- Madras, 1987 e Peter Della Santina, Madhyamaka Schools in India, stesso ed,1986. Il lettore italiano ha a
disposizione le versioni da Nagarjuna di Raniero Gnoli, Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamaka Karika), Boringhieri, Torino, 1961, rist 1979 e di
Attilia Sironi, Lo sterminio degli errori, 1992.

9 Su cui si veda il bello studio di P. E. Granoff, Philosophy and Argument in Late Vedanta: Sri Harsa's Khandanakhandakhadya, D.Reidel Publishing
Company, Dordrecht- Boston- London, 1978.

10 Su ciò si veda Karl H. Potter e Sibajiban Bhattacharyya, Encyclopedia of Indian Philosophies, VI, Indian Philosophical Analysis, Princeton University
Press, Princeton, New Jersey, 1992.

11 Sulla etimologia del termine e la sua ricchezza polisemica, il lettore è rimandato alla ns voce "dharma" in Dizionario delle religioni diretto da Giovanni
Filoramo, Einaudi,Torino, 1993, pp. 202 s

12 A proposito del quale il lettore può consultare la ns presentazione in Il Grande Dialogo del nirvana definitivo (Mahaparinibbanasuttanta), Tea, Milano,
1995, pp. 17 ss, con sintetici dettagli sulla composizione.

13 Samyuttanikaya VI, 2

14 XIV,9

15 "Vakkali" in lingua pali; cfr Samyuttanikaya XX, 87, 13 (vol. III, p.120)

16 Cfr Shundo Tachibana, The Ethics of Buddhism, Clarendon Press, Oxford, 1926, ristampato da Curzon Press, Richmond (Surrey), 1992, pp. 57 ss

17 Cfr Padmanabh S: Jaini, The Jaina Path of Purification, University of California Press, Berkeley- Los Angeles- London, 1977, pp. 169 ss

18 Yogasutra II,30 s

19 V, 39, 57 (ed critica)


20 Ibidem III, 32, 15 ss

21 XIII, 94

22 Su ciò, si veda Ganganatha Jha, Purva- Mimamsa in Its Sources, Banaras Hindu University, 1942, ristampa 1964, pp. 97 ss

23 IV, 5

24 IV, 7 s

25 Sribhagavadgitabhasyam srimacchankarabhagavatpujyapadaih viracitam, in Srisankaragranthavalih, vol. VIII, Srivanivilasa Press, Srirangam, sd, pp. 1 s

26 Edito da Giuseppe Tucci, "Two Hymns of the Catuh-stava of Nagarjuna", in Journal of the Royal Asiatic Society, London, 1932, pp. 313 ss, str 1; 12; 16-
19;22; la ns versione si discosta a tratti da quella dell'illustre studioso. Per una resa italiana dell'intero Catuhstava, cfr R Gnoli, op.cit in n8 supra, pp. 159 ss

27 Tucci, op. cit, pp. 323 ss, str 3-8

28 330 ss

29 Cfr A. L. Basham, History and Doctrines of the Ajivikas, Motilal Banarsidass, Delhi- Varanasi- Patna, 1981, p. 271

30 Suttanipata V, 7, 6 ss (= 1074 ss)

31 Majjhimanikaya I, p. 487

32 I, 13 s

33 I, str3

34 VI, 34

35 Trionfo della Morte I, 160 ss

36 VI, 19

37 II, 72; V,24 ss

38 Cfr T.W. Rhys Dadids e William Stede, The Pali Text Society's Pali-English Dictionary, Luzac & Co., London, 1959, sub voce brahmabhuta, p. 493 e
Kamaleswar Bhattacharya, L'Atman-Brahman dans le bouddhisme ancien, Publications de l'E'cole Française d'Extre^me-Orient, vol. XC, Adrien
Maisonneuve, Paris, 1973, pp. 78 ss, che tratta a fondo la questione.
39 Cfr per tutti Jean Varenne, Cosmogonies Védiques, Arché, Milano, 1982, e, su questa figura divina nel periodo successivo, Mohammad Israil Khan,
Brahma in the Puranas, Crescent Publishing House, Ghaziabad, 1981 e Greg Bailey, The Mythology of Brahma, Oxford University Press, London- Glasgow-
New York- Toronto- Delhi- Bombay- Calcutta- Madras- Karachi- Kuala Lumpur- Singapore- Hong Kong- Tokyo- Nairobi - Dar es Salaam- Cape Town-
Melbourne Auckland, 1983.

40 Su questa fondamentale distinzione e le sistematizzazioni della scolastica "buddhistica" che vengono approfondendola nell'età più recente, cfr Peter
Masefeld, The nibbana-parinibbana controversy, in "Religion", vol. IX (autumn 1979), Routledge & Kegan Paul, London, 1979, pp. 215 ss

41 VIII, 1 ss

42 XLIII (= II, 6)

43 II,2, 14-15; la seconda strofe è citata altresì in Svetasvataropanisad, VI,14 e Mundakopanisad II, 2, 11

44 XXII, 23

45 I, 10

46 Dighanikaya XI, 85 (= I, p. 223)

47 Dighanikaya II, 32 (= I, p. 58)

48André Bareau, Recherches sur la biographie du Buddha dand les Sutrapitaka et les Vinayapitaka anciens II Les derniers mois,. Le Parinirvana et les
funérailes, E'cole Françaised' Extre^me-Orient, Paris, 2 tomi, 1970- 1971; t 2, pp. 150 ss

49 II, 3, 6 e IV, 5, 15

50 I, 4- II, 3

51 Intr a II,1

52 Taittiriyopanisad II, 4, 1

53 Rgvedasamhita X, 129, 6

54 II, 18; cit in Mundakopanisad II, 1, 2 e Svetasvataropanisad IV, 5.

55 CfrIsvarakrsna, Samkhyakarika, 10 s
56 Ibidem, 65 s

57 Cfr Gerald James Larson e Ram Shankar Bhattacharya, Encyclopedia of Indian Philosophies, IV, Samkhya: A Dualist Tradition in Indian Philosophy,
Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1987, pp. 86 ss

58 Sulle diverse concezioni indiane della causalità, cfr Mahesh Chandra Bhartiya, Causation in Indian Philosophy, Vimal Prakashan, Ram Nagar, Ghaziabad,
1973.

59 vv. 31 ss

60 Brhadaranyakopanisad IV, 3

61 Cfr André Bareau, Les sectes bouddhiques du Petit Véhicule, E'cole Française d'Extre^me- Orient, Paris, 1955, pp. 285 s e passim

62 Cfr Ibidem, pp. 271 s

63 Majjhimanikaya I, p. 40

64 Per l'esattezza, quattro nello Hevajratantra, sei nell' Abhidharma ascritto a Sariputra, dieci nella Satyasiddhi, sedici, diciotto e venti nelle varie recensioni
dei Prajñaparamitasutra.

65 IX, 32, cit in Bhattacharya, op. cit in n 38 supra, p. 3.

66 Cfr Nakamura Hajime, A History of Early Vedanta Philosophy, Motilal Banarsidass, Delhi-Varanasi-Patna, 1983, pp. 141 ss

67 CC, 999 c; cit ibidem, p. 142 (trad dal cinese).

68 Dighanikaya IX, 21 ss e 51 ss (= I, pp. 185 ss e 201). Il passo è analizzato da K. N. Jayatilleke, Early Buddhist Theory of Knowledge, George Allen &
Unwin, London, 1963, ristampa Motilal Banarsidass, Delhi- Varanasi- Patna, 1980, §§ 529 ss, pp. 317 ss

69 II, 2 ss

70 Dighanikaya IX, 49 s (= I, p. 200 s)

71 II, XVII s (60 ss)

72 W.Y. Evans-Wentz, The Tibetan Book of the Great Liberation, Oxford University Press, London, 1954, vers fr Le Livre Tibétain de la Grande Libération,
Adyar, Paris, 1960, pp. 248 ss, qui ritradotto con modif.

73 Su questa pratica, di difficile comprensione per il profano, cfr David L. Snellgrove, Indo-Tibetan Buddhism, Serindia Publications, London- Shambala,
Boston, 1987, pp. 263 ss

74 Su ciò, cfr Heinrich Zimmer, Kunstform und Yoga im indischen Kultbild, Frankfurter Verlags-Anstalt, Berlin, 1926, ristampa Suhrkamp Verlag, Frankfurt
am Main, 1976; Giuseppe Tucci, Teoria e pratica del mandala, nuova ed Ubaldini, Roma, 1969; Madhu Khanna, Yantra, the Tantric Symbol of Cosmic Unity,
Thames and Hudson, London, 1979.

75 I, 164, 46

76 V, 1

77 Il testo che fa autorità è quello fissato dal commento ascritto a Sankara, XIII, 149, 14 ss dell'ed vulgata.

78 XIII, 17, 30 ss (ed critica).


79 I, 5, 11 ss

80 I, 8, 34 ss

81 Atmasaksatkara 4 ss

82 I, 42; 48; 57 s; II, 11; 23 s; III, 41

83 Indian Philosophy, Allen & Unwin, London 1923, ristampa 1962, vol. I, p.607/ 608.

84 Questo famoso testo gli dedica l'intera sezione XXIV.

85 Cfr lo studio di Lokesh Candra , The 108 Forms of Lokesvara in Hymns and Sculptures, edito dall'Autore, New Delhi, 1981.

86 Cfr Har Dayal, The Bodhisattva in Buddhist Sanskrit Literature, Routledge & Kegan Paul, London, 1932, ristampa Motilal Banarsidass, Delhi- Varanasi-
Patna, 1978, p. 49.

87 II, 5, 5, vv. 4 ss

88 Rgvedasamhita, X, 90, 12

89 Cfr il bello studio di Gregory J. Darling, An Evaluation of Vedantic Critique of Buddhism, Motilal Banarsidass, Delhi-Varanasi-Patna-Bangalore-Madras,
1987.

90 VII, 183 ss; mi rifaccio all'ed di E.R Sreekrishna Sarma e K. Kunjunni Raja, Adyar Library, Madras, 1986, pp. 20 ss

91 VIII, 1 ss Il testo sanscrito è riportato in op. cit in n 66 supra, pp. 184 s

92 III, 3 ss

Potrebbero piacerti anche