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ARISTOTELE
LA POLITICA
direzione di Lucio Bertelli e Mauro Moggi
Libro I
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
Volume pubblicato con il contributo
dell’Istituto italiano per la storia antica
Aristoteles
ISBN 978-88-8265-617-1
PRESENTAZIONE DELL’OPERA
Malgrado l’Italia sia stata la sede della prima traduzione latina della
Politica di Aristotele, uscita a Viterbo nel 1260 per mano di Guglielmo
di Moerbeke, probabilmente per invito di Tommaso d’Aquino, che se
ne servì per il suo commento, e nonostante che a Firenze tra Quattro-
cento e Cinquecento una nutrita schiera di umanisti (Leonardo Bruni,
Donato Acciaiuoli, Antonio Brucioli, Bernardo Segni, Benedetto Var-
chi, Pietro Vettori etc.) si sia dedicata intensamente a traduzioni, vol-
garizzamenti e commenti della Politica, dopo questa ferace stagione di
studi, dal ʼ600 in poi, l’interesse per quest’opera aristotelica sembra del
tutto tramontato. Se si scorre infatti l’elenco delle edizioni e traduzioni
della Politica tra ʼ800 e ʼ900 si vedrà che l’impegno filologico ed ese-
getico su questo testo è emigrato altrove: in Germania, in Francia e in
Inghilterra. In Italia non si produce nessuna impresa editoriale parago-
nabile a quelle ancora fondamentali di I. Bekker (1831) e di F. Susemihl
(1872-1894) in Germania, di Barthélemy St. Hilaire (1848) in Francia,
di R. Congreve (1855), R. Jowett (1885), W.L. Newman (1887-1902) in
Inghilterra. Bisogna arrivare a V. Costanzi (1948), C.A. Viano (1955),
R. Laurenti (1966) per rivedere traduzioni italiane, tutte benemerite per
la diffusione del testo a livello scolastico e genericamente culturale,
ma che offrono interpretazioni che non entrano tuttavia nel merito
della tradizione testuale della Politica, recependo di solito l’edizione
oxoniense di D. Ross (1957), e che presentano un apparato esegetico
limitato a brevi annotazioni. Si avverte pertanto la mancanza di una tra-
duzione che non si accontenti del testo stabilito da precedenti edizioni e
di un commento organico agli otto libri della Politica, che affronti tutti
i complessi problemi di natura testuale e di ordine politico-filosofico,
istituzionale e storico che il trattato contiene.
Questa iniziativa scientifica ed editoriale colma dunque una lacuna
nel panorama nazionale, ma si inserisce nell’ambito degli studi aristote-
lici anche a livello internazionale, dal momento che l’attuale situazione
dei commenti lascia ampio spazio a nuovi interventi.
In effetti, i commenti esistenti – da quello di W.L. Newman (1887-
1902) a quello di J. Aubonnet (1960-1989) – anche quando sono il
frutto apprezzabile e utile del lavoro di studiosi dotati di grande cultura,
intelligenza e sensibilità nei confronti del testo aristotelico, costituisco-
no nondimeno una dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ine-
vitabilmente nell’affrontare un’opera che, per la sua ricchezza di temi e
V
PRESENTAZIONE
VI
INTRODUZIONE ALLA STORIA
DEL TESTO DELLA POLITICA
2
1. Tradizione diretta e indiretta
La serie di peripezie dei libri aristotelici prende avvio, ormai per se-
colare consuetudine, da un aneddoto plutarcheo molto celebre, inserito
nella Vita di Silla (26).
«Salpò (scilicet Silla) con tutta la flotta da Efeso, e due giorni dopo
approdò al Pireo. Si fece iniziare ai misteri e si impossessò della biblio-
teca di Apellicone di Teo, che conteneva quasi tutti i libri di Aristotele
e di Teofrasto, allora poco conosciuti dai più. Si dice che quando la
biblioteca fu portata a Roma, il grammatico Tirannione si occupò di
riordinarla in gran parte; da lui Andronico di Rodi riuscì a ottenere gli
esemplari (tw`n ajntigravfwn) dai quali trasse le copie che mise in cir-
colazione e i cataloghi ora in uso. È evidente che i Peripatetici più anti-
chi furono di per sé uomini colti ed eruditi, ma non avevano conosciuto
se non, superficialmente, poche delle opere di Aristotele e Teofrasto,
perché l’eredità di Neleo di Scepsi, al quale Teofrasto lasciò i suoi libri,
era finita nelle mani di gente grossolana e ignorante»1.
1
Meriani 1998, pp. 383-385. Sui personaggi evocati cfr. le note (di M.G.
Angeli Bertinelli) in Angeli Bertinelli 1997, pp. 371-373. Sulle fonti di Plutarco,
tra cui (forse anche per il capitolo in esame) i Commentarii dello stesso Silla,
Russo 2002 (spec. pp. 291-292.).
2
In realtà le indagini sugli antichi cataloghi delle opere del filosofo permet-
tono di risalire anche a un’età più remota. Diogene Laerzio (V 22) menziona nel
suo minuzioso elenco di scritti aristotelici prima un Politico in due libri (molto
probabilmente un dialogo), poi una Politica in due libri, che potrebbe aver fatto
parte dell’attuale testo (gli ultimi due, VII e VIII?), oppure aver costituito un
trattato a parte, e poi ancora un «corso di politica in otto libri, come quello di
Teofrasto» (Politikh`~ ajkroavsew~ wJ~ hJ Qeofravstou aV bV gV dV eV ıV zV hV ),
i cui otto libri coincidono con la consistenza della Politica come trasmessa dai
testimoni medioevali. Moraux, sulla base di numerose indicazioni all’interno di
un’ulteriore lista, meglio nota come ‘Catalogo di Tolemeo’, ipotizza che tra III
e II secolo a.C. un maestro della Scuola si fosse interessato alla storia dell’isti-
tuto, ai testamenti dei suoi predecessori, alle opere dello stesso Aristotele; tale
personaggio sarebbe da identificare con Aristone di Ceo (più che con Ermippo):
cfr. Moraux 1951, pp. 95, 313 e l’appendice Political Miscellanies of Aristotle,
in Barker 1946, pp. 385-389.
3
LA STORIA DEL TESTO
3
Notizia ulteriormente confermata dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio
V 52 (in cui si legge il testamento di Teofrasto). Per un dettagliato resoconto
delle fonti, e soprattutto per un vaglio critico di tutte le notizie sul destino della
biblioteca di Aristotele cfr. il capitolo d’apertura di Moraux 1973 = 2000, pp.
3-31 = 13-40 (in tale capitolo, intitolato appunto La sorte della biblioteca di Ari-
stotele non si dimentica mai la componente alquanto romanzesca e aneddotica
delle fonti sul fortunoso ritrovamento della biblioteca aristotelica).
4
Anche se esistono dubbi sull’effettiva sopravvivenza del Liceo come scuo-
la all’epoca di Andronico: cfr. Donini 1982, pp. 32, 45 n. 1 (le pp. 81-86 sono
inoltre dedicate all’edizione dello stesso Andronico).
5
Jean Aubonnet esordisce nel suo paragrafo dedicato all’établissement du
texte con riferimento certo all’edizione di Andronico. Anzi: «parrebbe che tutti
i manoscritti della Politica, attraverso intermediari diversi, derivino dal testo
corretto da Andronico» (Aubonnet 1960, p. CXCVII; traduzione e corsivi nostri).
Ma, a parte la nozione di intermediario riferito a modelli che colleghino i mano-
scritti conservati (il più antico, frammentario, è del X secolo) con il testo giunto
a Roma nel I secolo a.C. (ammesso che anche la Politica fosse tra le opere di
Aristotele conservate nella raccolta di Neleo), l’asserzione di Aubonnet esclude
che si sia potuta sviluppare una tradizione testuale della Politica a partire da
altri centri del mondo antico (Alessandria, Pergamo, la stessa Atene) all’infuori
di Roma. Aubonnet ricerca con insistenza la presenza di antiche edizioni della
Politica: anche quello compiuto da Aristone sarebbe secondo lui un lavoro ec-
dotico a tutti gli effetti, tanto da costituire il termine di riferimento dell’edizione
di Andronico (p. CXCVIII). Cfr. il capitolo Zur Textgeschichte der aristotelischen
Politik, in Oncken 1870-1875, pp. 64-100 (anche per una sintetica descrizione
di alcuni manoscritti e delle principali edizioni a stampa). Sulla Rezeption della
Politica a partire dall’età antica cfr. le poche ma dense pagine dell’omonimo
capitolo in Schütrumpf 1991, I, pp. 67-71.
4
LA STORIA DEL TESTO
6
Moraux 1951, p. 1. Strabone si riferisce a Eumene II, che regnò su Perga-
mo tra 197 e 159 a.C. e operò con grande zelo (l’autore della Geografia parla di
spoudhv) per fondarvi una biblioteca.
7
Parimenti molto incerti la collocazione cronologica delle lezioni sulla tevc-
nh politikhv, che Aristotele tenne, e quindi il periodo di redazione degli otto li-
bri della Politica; quale risultato dell’annosa questione, la scrittura della Politica
risulta suddivisa in tre periodi, corrispondenti a tre blocchi non consequenziali
dell’opera: 1) libri VII e VIII composti tra 347 e 344 a.C.; 2) libri I-III composti
tra 342 e 336; 3) libri IV-VI composti tra 335 e 322; nel merito, cfr. Barker 1931,
pp. 162-172, e il capitolo Stellung und Verhältnis der Bücher bzw. Buchgruppen,
in Schütrumpf 1991, I, pp. 39-67.
8
Canfora 2002a, p. 75 ha fatto notare che la sostanziale concordanza di no-
tizie di Strabone e Plutarco deve essere interpretata come indizio di affidabilità:
«Appare perciò immotivata la diffidenza che alcuni moderni ancora serbano nei
confronti di questa “storia del testo” dei Trattati di Aristotele com’è raccontata
da Strabone».
5
LA STORIA DEL TESTO
sulla configurazione del testo, sulle sue qualità, sulle questioni esegeti-
che: insomma, su tutto quanto scaturisce dalla recensione dei testimoni
a confronto, la cui storia è molto tarda rispetto alle notizie degli auto-
ri antichi. Di quest’opera non si conosce un commentario sistematico
specificamente dedicatole; né sono frequenti i riferimenti da parte della
folta schiera dei commentatori di Aristotele, a cominciare da Alessandro
di Afrodisia (che si limita a rarissimi cenni di confronto con la Politica)9.
La mancanza di una tradizione esegetica parallela alla diffusione del te-
sto aggrava il quadro di scarsità della tradizione indiretta; accanto alle
citazioni di autori antichi e alle loro osservazioni, il paragone tra il corre-
do lemmatico di un commentario (ossia le stringhe di testo originale che
suscitano il commento stesso), le citazioni interne, e il testo completo
– noto grazie alla tradizione medioevale – permettono sovente di com-
prendere assai meglio le configurazioni e le versioni dei codici stessi, la
congruità del testo tràdito rispetto a quanto leggevano i commentatori
antichi, la differenza tra una vulgata medioevale e un versante più antico
della tradizione. Ma tutto questo per la Politica non è dato; al contrario,
occorre basarsi esclusivamente sui codici tardo-medioevali per proporne
una versione critica (il manoscritto greco più antico che contenga tutto
il testo non è anteriore al XIV secolo). L’assenza di un testo esegetico
strutturato in maniera organica sui libri di quest’opera ha insospettito gli
studiosi moderni, tanto da far profilare a Otto Immisch un’ipotesi che
fosse “compensativa” dell’ingiusto oblio e del disinteresse dei commen-
tatori. Immisch studiò e pubblicò per primo gli scolî e le glosse contenuti
in un manoscritto di Berlino (l’importante codice Hamiltonianus 41, H
del XV secolo), e osservò la sostanziale identità di alcune di queste an-
notazioni marginali ad allusioni e riferimenti al testo della Politica in
scritti di Michele di Efeso, forse discepolo di Michele Psello, tra l’altro
commentatore dell’Etica Nicomachea nel circolo filosofico promosso da
Anna Comnena10. Le glosse in questione sono importanti nel confron-
to con il testo offerto dai manoscritti, ma la ricostruzione di Immisch,
prontamente accolta soprattutto dall’ultimo editore della Politica, Alois
9
Non è neppure certo che Alessandro disponesse di una copia integra della
Politica: «On peut se demander si Alex. a pu lire Pol. qui paraît avoir été négli-
gée dans l’antiquité, et dont les copies sont rares et tardives. Marc Aurèle, IV 24,
évoque l’animal politique, 1252 a 2. Alex. pourrait avoir cité Phocylide d’après
une autre source» (Thillet 1987, p. 110 n. 22). Comunque in un passo del Com-
mento alla Metafisica (CAG I, 17,7) Alessandro cita il titolo TA POLITIKA,
con riferimento a I 5, 1254a 14-15.
10
La scena è dunque Costantinopoli nell’XI secolo; sull’opera di Michele Efe-
sio (e in generale su I Bizantini come commentatori di Aristotele) Eleuteri 1995.
6
LA STORIA DEL TESTO
11
Barker 1957, pp. 136-141, dedica un capitolo specifico a questo testo (A
Byzantine Commentary on Aristotle’s Politics / By Michael of Ephesus [circa
1070-80]), come se fosse tràdito o come se gli scholia di H indicassero esplici-
tamente la paternità di Michele Efesio.
12
Definizione di Cavallo 2002, p. 224 per una categoria di studiosi-lettori,
ma soprattutto ‘operatori materiali’ del libro. Anche nella trasmissione della Po-
litica è intervenuta quella élite culturale che «nel suo complesso gioca un ruolo
fondamentale nella trasmissione dei testi classici a Bisanzio: una élite fatta di
uomini di Stato, alto clero, funzionari diversi civili ed ecclesiastici, militari di
rango, monaci eruditi pur se rari (o meglio, più spesso, eruditi fattisi monaci), ai
quali tutti facevano da ‘supporto’ scolastico insegnanti diversi, grammatici, reto-
ri, filosofi; una élite, insomma, formata non soltanto da figure-cardine, ma anche
e soprattutto da “shadowy figures”, cui è legata per la più parte la produzione e
la circolazione di quei libri-manoscritti che hanno assicurato la conservazione
e trasmissione dei testi antichi nel mondo bizantino» (ibid., p. 213). Specifica-
mente dedicati ai marginalia lo studio di Odorico 1985 e il capitolo Lorsque le
lecteur se révèle, in Cavallo 2006, pp. 133-137.
7
LA STORIA DEL TESTO
li abbia trascritti sui margini della copia che stava studiando, insieme ad
altre osservazioni, sue o di provenienza ancora differente. Forse questo
lavoro risale all’età comnena (XI-XII secolo), quando un erudito lettore
sente il bisogno di radunare annotazioni alla Politica (bisogno culturale
analogo a quello di creare la silloge di scritti politici originariamente
contenuta nel codice V).
Tranne gli ultimi due secoli della sua storia (ossia l’epoca cui riman-
dano i più antichi manoscritti conservati) la letteratura bizantina non di-
mostra particolare interesse nei confronti della Politica e della sua inter-
pretazione; è ormai acquisito nel mondo bizantino il parallelismo tra la
fortuna della tradizione diretta di Platone (equivalente a pluralità e varietà
di fonti manoscritte), e il numero, relativamente scarso, di codici aristo-
telici (fatta eccezione per le opere di logica); al contrario, su Aristotele
è fiorita una formidabile tradizione esegetica (la serie dei commenti, in
parte ancora inedita), mentre i commentari sistematici ai dialoghi plato-
nici sono, dopo il VI secolo, molto scarsi. Bisogna evitare di ridurre la
complessità culturale del mondo bizantino (e prima ancora dell’età tardo-
antica) alla sola esigenza di conservazione e di trasmissione della lette-
ratura antica; vale però una deroga sul corpus aristotelico, applicabile
anche alla Politica, formulata a suo tempo da Paul Maas:
«Le scienze particolari non hanno per loro natura interessi parti-
colarmente letterari e piuttosto tengono fermi i risultati canonizzati;
quindi esse hanno conservato molto soltanto in rielaborazioni recenti,
compilazioni, dossografie, però anche Platone per intero e la maggior
parte di Aristotele (ma niente dei suoi scritti giovanili)».13
13
La traduzione è di Giorgio Pasquali, che inserisce lo scritto maasiano Sorti
della letteratura antica a Bisanzio in appendice a Pasquali 1988, p. 488.
14
Lungo la storiografia critica, queste caratteristiche si sono trasformate in
elementi di giudizio negativo, soprattutto a causa del paragone stilistico (immoti-
8
LA STORIA DEL TESTO
9
LA STORIA DEL TESTO
17
Oltre alle schede e alla bibliografia di Moraux 1976, pp. 6, 85-86 (rispettiva-
mente sul frammento conservato a Ann Arbor, University of Michigan, e su quello
conservato a Bruxelles, Fondation égyptologique Reine Élisabeth), cfr. soprattutto
lo studio di Menci 1989, pp. 265-269, che accosta i due frustoli.
18
Si consideri che un autore come Polibio pare non conoscere direttamen-
te la Politica, nonostante alcuni passaggi del VI libro della sua opera alluda-
no a problemi e istituti politici con terminologia analoga a quella aristotelica.
Ma, come nel caso di altri autori di età ellenistica, non è possibile escludere
(sarebbe anzi semplificante e riduttivo) che fossero utilizzate fonti interme-
die, debitrici alla Politica (e alla serie delle Politei`ai aristoteliche): scritti
di ambito stoico, il Tripolitikov~ di Dicearco, etc. W.L. Newman, a latere
della sua monumentale edizione commentata della Politica in quattro volumi
(Newman 1887-1902) offre una rassegna puntuale (ancorché non esaustiva) di
testimonia e loci similes, dove si fa riferimento alla Politica di Aristotele, o
10
LA STORIA DEL TESTO
al cui testo in qualche modo si allude (II, pp. X-XX). In mancanza di riscontro
stringente, però, un elenco del genere è più utile a documentare la diffusione
di idee e dottrine politiche (certamente originatesi dal magistero aristotelico e
poi della scuola peripatetica), che non la conoscenza diretta del testo; nel primo
apparato della presente edizione saranno segnalati soltanto i passi in cui risulti
ravvisabile una connessione linguistica, oltre che concettuale, tra i documenti,
indizio di una lettura diretta o indiretta dello scritto di Aristotele, da Cicerone
allo Pseudo-Plutarco di età rinascimentale. Comunque, il fatto che in età elleni-
stica (almeno fino alla metà del I secolo a.C.) non siano documentabili riprese
e letture del testo, unitamente alla datazione dell’unico papiro della Politica,
induce ad avvalorare il racconto di Plutarco e Strabone, e a ipotizzare che tra
la morte di Aristotele e l’arrivo di Silla ad Atene la circolazione del testo fosse
stata pressoché nulla.
19
Cicerone potrebbe essere l’anello di congiunzione tra intellettuali greci
e romani nella diffusione degli scritti aristotelici, anche perché ebbe modo di
consultare la celebre biblioteca trasportata a Roma da Silla, quando essa appar-
teneva ormai a Fausto, figlio del dittatore (cfr. Ad Atticum, IV 10, 1). Fausto, per
fronteggiare problemi economici, dovette poi disfarsi della biblioteca; non si
può escludere che i libri di Aristotele e Teofrasto restassero nella cerchia di Cice-
rone e di Attico, nonostante negli scritti ciceroniani siano rintracciabili soltanto
allusioni alla Politica o probabili parafrasi del testo (mai, però, citazioni dirette).
Aubonnet, anche sulla scorta di Eduard Zeller, fornisce comunque un cospicuo
elenco di passi in cui Cicerone parrebbe costruire le proprie argomentazioni a
partire dal testo della Politica (Aubonnet 1960, p. CXXX n. 4, cui si rimanda anche
per la precedente bibliografia. Si tengano presenti in particolare Gigon 1959 e
Canfora 1995, spec. pp. 206-212).
20
Giusta 1967, p. 533.
11
LA STORIA DEL TESTO
21
Il compendio di filosofia peripatetica in cui si leggono brevi estratti dalla
Politica (sottoposti però a parafrasi e adattamento, come accade con la tecnica
del riassunto) è stato analizzato nel dettaglio (pur senza riferimenti alla tradizio-
ne diretta dell’opera) da Hahm 1990; in particolare, alle pp. 2945-2947 lo studio-
so presenta una suddivisione tipologica del materiale riportato nell’Anthologion
(la succinta parafrasi della Politica farebbe parte di una «sezione C» dell’opera
di Ario Didimo, dedicata alla filosofia Peripatetica); alle pp. 3030-3034 Hahm
ipotizza l’identità del compilatore della «Doxography C» non in un epitomatore
di Ario Didimo (quindi fonte dello Stobeo, come aveva ricostruito Giusta), ma
nel testo stesso di Ario «arranged by schools» (p. 3032). La ricostruzione com-
plessiva di Giusta è stata ulteriormente confutata da Mansfeld e Runia, che per
quanto riguarda l’apporto di Ario Didimo allo Stobeo riprendono le conclusioni
di Hahm (Mansfeld-Runia 1996, pp. 238-265).
22
Giusta 1967, p. 524.
12
LA STORIA DEL TESTO
23
Sulla qualità di questo lavoro dossografico (la «dossografia C» secon-
do la suddivisione interna di Hahm: cfr. la n. 21) e sull’inevitabile distanza
dall’impostazione originaria della Politica si tenga presente il giudizio di va-
lore di Nagle: «[...] that the Epitome is a coherent whole, derives from the
consistency of the doctrine expounded in both parts. [...] The fact of the matter
is that Arius has not done a particularly good job of forcing a convincing phi-
losophical connection between households, povlei~ and larger political enti-
ties. [...] At the best Arius was able to maintain only the doctrine of natural
sociability of humankind while watering down its complementary (from an
Aristotelian viewpoint), political nature. It might be argued that Arius’ revision
of Aristotle preserved the povli~ without restricting development to it and also
expanded its moral dimensions and potentialities to all people. [...] Arius and
the version of the Peripatetic tradition he represents, embraced the non-povli~
dominated world after Alexander. This world-view includes the povli~, but re-
alistically reduces its importance by extending its scope» (Nagle 2002, passim
pp. 216, 219, 221-222).
24
Micalella 1987, p. 81.
13
LA STORIA DEL TESTO
25
Micalella 1987, p. 79.
26
Maisano 1995, pp. 256-259.
27
Sul significato della pagina di Temistio cfr., per esempio, Monaco 2000,
pp. 82-85.
14
LA STORIA DEL TESTO
28
Ben poca attenzione è dedicata all’appendice espositiva in cui Proclo ri-
assume i nuclei concettuali del II libro nello studio, pur importante per l’esegesi
platonica condotta dal filosofo bizantino, di Männlein-Robert 2006.
15
LA STORIA DEL TESTO
29
Procl. in Resp. II 360 Kroll; la traduzione è quella di Michele Abbate, in
Abbate 2004, p. 315 (alle pp. 420-427 un dettagliato commento all’intera dis-
sertazione). Cfr. Ar. Pol. II 1, 1260b 27-1261a 9. Sul rapporto tra la filosofia
politica di Platone e di Aristotele mediata da Proclo cfr. Gerdjikov 1991-1992
e Stalley 1995.
30
«Questa biblioteca, è evidente, garantiva in primo luogo la conservazione
dei libri depositati al suo interno e, dunque, la salvaguardia della cultura tanto
sacra quanto profana di cui questi erano vettori. I libri – dice infatti Metochita –
dovevano essere conservati con la massima attenzione ejn ajsfalei` kai; a[sula,
pavsh~ ejphreiva~ ajnwvterav te kai; kreivttw, “al riparo e sicuri, lontani da ogni
16
LA STORIA DEL TESTO
minaccia e ancor di più” protetti sia dai tarli sia “dagli assalti del tempo che con
la sua inarrestabile corsa tutto quanto insieme, le cose preziose e quelle no, getta
negli abissi dell’oblio”» (Bianconi 2003, p. 542; le pp. 541-551 sono dedicate
al ruolo di Teodoro Metochita quale sovrintendente della biblioteca di Chora,
e allo stesso monastero di Chora come centro di produzione di libri nuovi e
restauro di antichi; Bianconi del resto ha ricostruito l’ambiente e la sede libraria
di Chora prendendone in esame la produzione di manoscritti fino al XIV secolo:
cfr. Bianconi 2005).
31
Sulla sua opera di commentatore e di intellettuale presso la corte imperiale
bizantina, Wilson 1990, pp. 384-394.
32
Secondo il titolo che gli editori Chr. G. Müller e Th. Kiessling fornirono
alla raccolta, pubblicata a Leipzig nel 1821. Su Metochita lettore della Politica
si veda Bydén 2003, pp. 59-61, 73 s.; più in generale sulla cultura politica del
personaggio Barker 1957, pp. 173-183; Gigante 1967. Ha pubblicato parte delle
Semeioseis in una nuova edizione critica Hult 2002, ma non quelle che conten-
gono le citazioni della Politica.
33
Secondo una categoria culturale indicata da Cavallo 2004, pp. 579-586.
34
Nella cultura bizantina «Uomo non è sinonimo di individuo. La coesione
del sistema politico e sociale impediva di dar esagerata importanza alle vicen-
de dei singoli; gli individui si sentivano membra di un organismo sacro, anche
se magari malato o in pericolo, che era il compimento della vicenda umana,
in quanto sintesi di Roma e Dio» (Mazzucchi 2002-2003, p. 19); nonostante
le trasformazioni storiche degli ultimi tempi (le vicende delle città italiane, la
divisione dei resti dell’impero fra i membri della famiglia paleologa, le diverse
forme di convivenza istituzionale con i Turchi, etc.), la concezione aristotelica
di un mondo di poleis autonome o confederate, comunque libere, animate da una
pluralità di modelli costituzionali, è lontanissima dall’idea di impero autocratico
e cristiano.
17
LA STORIA DEL TESTO
come si può desumere dal modo in cui Fozio parla della Repubblica
di Platone:
«Di Platone e dei filosofi greci si potrebbe dunque ripetere, a fron-
te dell’incontaminata verità delle Scritture, ciò che non a caso Fozio
poteva dire, sull’altro versante, degli Apocrifi, e cioè che sono “fonte e
madre di ogni eresia” (Bibl. cod. 114).
Non di meno, figure come Platone potevano risultare scomode
anche nell’ambito del pensiero politico: lo stesso patriarca Fozio può
esserne un buon esempio. A più riprese egli ha avuto parole molto dure
per Platone, non solo sulla dottrina delle idee, tante volte criticata come
empia e ingannevole, ma anche sulla dimensione politica ed etica della
Repubblica: un’opera, dice Fozio “tutta cosparsa di molteplici impu-
denze, di molteplici contraddizioni, di principi che confliggono con
qualsiasi forma di governo sperimentata dall’uomo”»35.
35
Bossina 2003, p. 69.
36
Il più importante intellettuale dell’XI secolo, Michele Psello, fu ritenuto
dai suoi contemporanei «colpevole di eccessive e compromettenti frequentazio-
ni dei testi platonici» (Maltese 1998, p. 805).
37
Come risulta dagli indici di Boter 1989, pp. 285-287, 290-376.
38
Vat. gr. 1298 (V), il più antico testimone medioevale, frammentario, del
trattato di Aristotele: per la descrizione e la storia cfr. sotto, il paragrafo dedicato
ai Codici greci.
18
LA STORIA DEL TESTO
39
Anche per la storia degli studi sulla «collezione» si veda Perria 1991. Il
codice Vaticano, comunque, non reca traccia delle cure critiche che caratterizza-
no invece gli esemplari della «collezione filosofica».
40
Cavallo 1995, p. 208. Sull’evidente «influsso esercitato dai copisti della
cosiddetta collezione filosofica», e sulla trasformazione della grafia bouletée,
in un gruppo di manoscritti della I metà del X secolo si veda Aletta 2007 (in
particolare pp. 119-128).
41
Ardua, ed evidentemente poco fortunata, impresa: è sufficiente accosta-
re la lettura del paragrafo iniziale della Politica e dei frammenti del V libro
19
LA STORIA DEL TESTO
20
LA STORIA DEL TESTO
anni cui risalgono le raccolte aristoteliche del Par. gr. 1921, del Par.
Coisl. 161 (che tra l’altro contiene la Politica, A), del Par. Coisl. 166,
del Hier. Sancti Sepulcri 150, quattro codici accomunati dall’identità
delle mani che hanno vergato testo e note, forse nati da un impulso di
Niceforo Gregora. Una “seconda edizione” quasi completa delle opere
di Aristotele è realizzata circa tre generazioni più tardi, attorno al 1450,
e occupa i manoscritti Alexandr. 87 della Biblioteca del Patriarcato di
Alessandria d’Egitto43, e i tre della Biblioteca del Sinodo di Mosca,
rispettivamente Mosquensis 6, Mosq. 451 (in cui, tra l’altro, è la Po-
litica, D), Mosq. 239. Anche questa seconda serie di quattro codici è
vergata dalla stessa mano, identificata con quella del copista Matteo
Camariotes44.
Delineare, per quanto possibile, un regesto di lettori-testimoni sto-
ricamente definiti non equivale del resto a ipotizzare quante copie della
Politica circolassero a Bisanzio tra X e XIV secolo45; certo non dovet-
tero essere molto numerose (anche perché l’unico testimone conservato
risalente a questo periodo è B), ma la loro consistenza diventa più con-
siderevole nel corso del secolo successivo, il XV, quando provengono
in Europa più esemplari del testo (alcuni tuttora conservati, altri andati
perduti, a cominciare da quello utilizzato da Leonardo Bruni per la sua
traduzione latina; secondo Vespasiano da Bisticci si trattava della prima
copia della Politica in greco a giungere in Italia; cfr. sotto).
angelegt haben. [...] Mindestens zwei solcher „Editionen“ des Corpus Aristoteli-
cum aus späterer Zeit, in denen der originale Grundtext stets auch von parallelen
Marginal-kommentaren der bekannten Aristoteles-Exegeten begleitet wird, sind
uns zu großen Teilen erhalten geblieben» (Harlfinger 1971, p. 55).
43
Moraux 1976, pp. 1-2.
44
Harlfinger 1971, p. 56. L’ipotesi di due edizioni aristoteliche approntate
a distanza di meno di un secolo è molto suggestiva, e certamente scaturisce
dalla ricchezza di testimonianze, testuali ed esegetiche, che dalle officine libra-
rie bizantine raggiunsero l’Occidente. Ma a questo punto si pone il problema
della “parentela” tra i due progetti, e quindi della possibilità di collegare gli
stessi titoli all’interno di un albero genealogico, ossia di uno stemma codicum.
Harlfinger aveva notato che «Beide genannten Sammlungen sind auffälliger-
weise stemmatisch engstens miteinander verwandt, aber keineswegs so, daß
die jüngeren Manuskripte aus den älteren geflossen wären» (ibid.). Studiando
i rapporti tra ACD, e giungendo alla conclusione che essi porgono esattamente
lo stesso testo, Schneider 1973, p. 337, pose in dubbio questa conclusione di
Harlfinger (almeno per quanto concerne i legami tra le copie della sola Poli-
tica).
45
Purtroppo è possibile rintracciare alcuni indizi della sola diffusione orien-
tale; di altri manoscritti contenenti la Politica che probabilmente giunsero in
Occidente tra X e XIII secolo (in particolare in Italia meridionale) si è perduta
ogni traccia. Per casi differenti cfr. De Gregorio 1991.
21
LA STORIA DEL TESTO
46
Su Guglielmo cfr. soprattutto Jourdain 1843, pp. 67-71 (per quanto ri-
guarda le sue traduzioni latine), e in generale Vanhamel 1989, pp. 339-341 (per
la Politica), il capitolo dedicatogli in Brams 2003, pp. 105-130 e in Rossi 2002-
2003, pp. 94-98.
47
Tradusse Politica, Retorica, Metafisica, De anima, scritti zoologici, i
commenti di Alessandro di Afrodisia sui Meteorologica e sul De sensu et sen-
sibili, quelli di Simplicio sulle Categorie e sul De caelo et mundo, quelli di
Giovanni Filopono e di Temistio sul De anima. Studiando il cod. Vat. Lat. 2995,
che contiene Politica e Retorica nella traduzione di Guglielmo (oltre all’Etica
Nicomachea nella traduzione di Grossatesta), Grabmann fu tentato di attribu-
ire a Guglielmo anche l’anonima traduzione della Rhetorica ad Alexandrum,
contenuta nello stesso manoscritto (Grabmann 1932, pp. 26-81); ma i confronti
con una seconda versione latina dello stesso trattato, oltre a motivi di ordine sti-
listico, indussero Grabmann a revocare la proposta di attribuzione a Guglielmo.
Forse il domenicano redasse comunque una traduzione della Rhetorica ad Ale-
xandrum ritenuta aristotelica, di cui resterebbe un frammento della parte iniziale
nel cod. Vat. Lat. 2083 (cfr. Lacombe 1939, p. 78-79; si veda anche il paragrafo
Les traductiones latines, in Chiron 2000, pp. 20-23). Sulla traduzione più in
generale si veda Chiesa 1995 (spec. pp. 179-186).
22
LA STORIA DEL TESTO
2. I codici greci
Anche le ultime edizioni della Politica, nel corso della seconda
metà del Novecento, hanno dovuto confrontarsi con il maggior pro-
blema critico ai fini della recensione: stabilire quale delle due famiglie
di manoscritti fosse superiore rispetto all’altra, in modo da decidere
sulla base di un criterio oggettivo nei casi di varianti adiafore. Franz
Susemihl, senza dubbio il più meritevole e originale indagatore dei co-
dici della Politica (in greco e nella antica versione latina) aveva optato
per la prima famiglia (P1), formata da pochi manoscritti. Dopo di lui,
soprattutto in seguito alle riflessioni di William Lambert Newman e di
Otto Immisch, gli editori hanno preferito affidarsi alle lezioni della se-
conda, più numerosa e frastagliata, famiglia di codici (P2). Non rientra
nelle ambizioni di una breve introduzione alla storia del testo richiama-
re pareri e dispareri, tutti opportunamente argomentati, delle diverse
preferenze. Ma il problema, più che accantonato perché annoso (e in
parte fuorviante), va comunque affrontato: non si può negare la presen-
48
Soltanto tre: Vat. Chisianus lat. E. VII. 225, del secolo XIII (mutilo
dell’inizio; il testo della traduzione prende avvio da II 3, 1262a 5: manca pertan-
to l’intero I libro); Harvardianus Hofer Typ. 233 H (olim Neoeboracensis), dei
secoli XIII-XIV; Par. lat. 6458, del secolo XIV.
49
In risalto sin dal titolo: Aristoteles Latinus, Politica, translatio prior im-
perfecta, interprete Guillelmo de Moerbeka (?) = Michaud-Quantin 1961.
23
LA STORIA DEL TESTO
50
Per ragioni di opportunità la descrizione, molto sintetica, si limita ai testi-
moni principali; notizie più dettagliate su tutti i manoscritti, elenco dettagliato
dei codici contenenti singoli brani (excerpta), bibliografia, studi e ipotesi sulla
loro parentela, e di conseguenza anche uno stemma codicum completo e meglio
rispondente ai dati storico-testuali, saranno trattati in altra sede. Cfr. comun-
que Wartelle 1963; le identificazioni dei copisti di codici aristotelici proposte da
Harlfinger 1971, pp. 405-420; le schede ad locum in Moraux 1976 e in Mioni
1958; Dreizehnter 1962, pp. 1-12; Dreizehnter 1970, pp. XXI-XXXIX.
51
Ne aveva sposato la figlia Teodora, nata a Firenze nel 1486; dei suoi
dieci figli è lo stesso Demetrio Calcondila a ricordare gli atti di nascita, scritti
personalmente sul f. 323r/v del Parisinus gr. 2023, ossia dopo la trascrizione
dell’Economico (Actes de naissance des dix enfants de Démétrius Chalcondyle
si leggono in Legrand 1885, pp. 304-307). Per una biografia di Calcondila cfr.
sempre Legrand 1885, pp. XCIV-CI.
52
Non sembra possibile riscontrare la presenza di questa copia della Politica
nell’inventario della biblioteca (cfr. Tristano 1989).
24
LA STORIA DEL TESTO
tipo (Pc). Sia Calcondila sia altri lettori del codice ne hanno quindi con-
frontato il testo con la versione dell’altra famiglia53, integrando e correg-
gendo ove bisognasse (per esempio nei molti punti in cui la recensione di
P1 presentasse un testo semplificato rispetto a quello di P2).
- M e S (Ambrosianus B 105 sup. e Leidensis Scaligeranus 26) sono
due manoscritti considerati gemelli da Dreizehnter, in quanto copiati
dallo stesso copista, Demetrio Sguropulo, dallo stesso modello (come
dimostra la pressoché continua concordanza in errore dei due codici).
Si tratta in entrambi i casi di esemplari di lusso, da biblioteca, in per-
gamena, con ampi margini e rubricationes; come raramente accade,
entrambi i manufatti riportano esclusivamente il testo della Politica. In
S (provvisto di scholia come AHP)54 il copista sottoscrive il codice, ter-
minato il 22 Marzo 1445 a Milano per conto di Francesco Filelfo55, evi-
dentemente committente della trascrizione. Nel 1594 S divenne posses-
so di Giuseppe Giusto Scaligero e fu portato a Leiden, la cui Biblioteca
universitaria lo ereditò a sua volta nel 1609. M è privo di annotazioni,
tranne una iniziale (assai tarda) che informa di un suo acquisto a Pisa.
II famiglia (P2).
- A Tra i codici integri della Politica quello del fondo Coislin 161
di Parigi è uno dei più antichi e autorevoli, anche perché presenta una
collezione di opere filosofiche di Aristotele in volume unico: Etica Ni-
comachea (con commentario), Politica, Economico, Metafisica (con
commentario), De Providentia (ossia la Quaest. 1, 25 di Alessandro
di Afrodisia). Il copista è lo stesso del Coisl. 166, che contiene le opere
fisiche di Aristotele (con i commenti di Giovanni Filopono e di Michele
Efesio), ed è noto come Anonymus Aristotelicus56. Come già annotato da
Dreizehnter, la grafia del codice presenta una netta somiglianza con quel-
la del copista B del Vat. gr. 984 (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche),
53
Demetrio Calcondila, allievo di Teodoro Gaza, aveva ereditato la copia
della Politica accuratamente trascritta dal maestro (il codice di Udine E, che ap-
partiene infatti alla II famiglia, anche se non presenta glosse ma soltanto noticine
di lettura: cfr. sotto).
54
Scholia che coincidono soprattutto con quelli di H, ossia con le note di
commento che Immisch identificò come provenienti da un supposto commenta-
rio di Michele Efesio: cfr. la scheda di U. Victor in Moraux 1976, pp. 394-395.
55
Eleuteri 1991. Filelfo è anche l’estensore di numerosi marginalia su un
altro codice contenente la Politica: il Laur. Acquisti e doni 4 (Cast), trascritto da
Palla Strozzi solo per i primi fogli, continuato e completato da Giovanni Skuta-
riota (Eleuteri 1991, p. 174).
56
Sulla sua produzione cfr. Brockmann 1993, p. 63; Berger 2005, pp. 140-
147; Mondrain 2005.
25
LA STORIA DEL TESTO
57
Turyn 1964, pp. 149 s., T. 123.
58
Bick 1920, T. 16 (= cod. Pal. Theol. gr. 49, 1290, scritto da Manuele
oJ ʼAlhqinov~ ). Cfr. anche Dreizehnter 1962, pp. XX , XXIX .
26
LA STORIA DEL TESTO
59
Saffrey 1960, pp. 340-344. Biografia e opere di Camariotes in Biedl 1935
e Gamillscheg-Harlfinger-Hunger 1981, 1A p. 269, 1B p. 114.
60
Cfr. Leone 1992 e Salanitro 1992.
61
Nella biblioteca personale dell’ecclesiastico il codice della Politica era ca-
talogato al n. 42 (Index voluminum graecorum bibliothecae D. Card. Grimani, nel
cod. Vat. gr. 3960; il catalogo è trascritto in Diller 2003, p. 115). Sui manoscritti
greci Utinenses della raccolta di Grimani cfr. Vendruscolo 2006-2007.
27
LA STORIA DEL TESTO
diviso in due tomi, che riportano l’opera di Elio Aristide, già descritti da
Pinelli nel 1575 in quanto collocati nella libreria di Pietro Bembo62, ma
precedentemente appartenuti a Niccolò Leonico Tomeo63. Il codice pro-
venne nel 1602 alla Vaticana dalla biblioteca di Fulvio Orsini. Soltanto
negli anni Venti del XIX secolo il cardinale Angelo Mai riscoprì all’in-
terno del codice 12 fascicoli palinsesti contenenti un trattato anonimo
sulla politica64 e l’ignoto testimone dello scritto aristotelico. Non è dato
sapere nulla sulla confezione e provenienza del manoscritto (ma nes-
sun elemento impedisce di pensare a Costantinopoli), che nella seconda
parte del II tomo è riscritto con la tecnica del palinsesto: da un codice
antico, che conteneva la Politica di Aristotele e il trattato Peri; poli-
tikh`~ ejpisthvmh~ sono derivati alcuni bifolî annessi insieme in ordine
casuale65. Risultano leggibili soltanto alcuni frammenti sia dell’una sia
dell’altra opera, riconducibili al X secolo grazie a «una scrittura assai
regolare e piacevole che i paleografi chiamano ora ‘bouletée’, la quale
attesta - così come la rigorosa preparazione dei fogli - la superiore cul-
tura dell’ambiente in cui e per cui il codice fu confezionato; e insieme
documenta, nell’età di Areta e di Costantino VII, l’alta considerazione
tributata all’Autore del Peri; politikh`~ ejpisthvmh~: tanto alta che
figura, se pure anonimo, in un corpus di opere politiche a fianco del
grande Aristotele»66. Anche il patriarca Fozio scheda questo trattato di
scienza politica (originariamente in sei libri, dunque di discreta esten-
sione) nella sua Biblioteca (37)67, specificando che in esso è illustra-
to un tipo di governo diverso da quelli esaminati dagli antichi (kai;
e{teron ei\do~ politeiva~ para; ta; toi`~ palaioi`~ eijrhmevna eijsavgei).
62
Clough1980, p. 47.
63
De Bellis 1980, p. 49.
64
Mai 1827, pp. 571-609. La prima collazione rigorosa dei frammenti ari-
stotelici si legge però in Heylbut 1887, pp. 102-110. Sulla tipologia di codice cfr.
le note di Wilson 1990, pp. 173-174 e n. 20, 230.
65
Accurata descrizione codicologica in Dreizehnter 1962, pp. 5-10.
66
Fiaccadori 1979, p. 130; per la grafia del codice, Irigoin 1977; sul trattato
bizantino, basato in particolare sulla Repubblica platonica e sul De republica
ciceroniano, Barker 1957, pp. 63-75; Bertelli 1962-1963; Mazzucchi 1978, e
soprattutto l’edizione critica del testo in Mazzucchi 2002; dagli apparati di Maz-
zucchi non risulta, all’interno del nuovo testo, alcuna citazione testuale della
Politica. Studia diffusamente, e in confronto ad altri testi, la concezione politica
dell’autore Pertusi 1990, pp. 6-31.
67
Henry 1959, p. 22 n. 1 lo definisce texte perdu, ed è scettico sulla pos-
sibilità di identificarlo con l’anonimo trattato pubblicato a suo tempo da Mai.
Con una serie di studi, e finalmente con l’edizione critica del Dialogus (19821,
20022), Mazzucchi 1978 e 2002 avrebbe poi dissipato tali dubbi.
28
LA STORIA DEL TESTO
68
Sin dalla fine del VII secolo la maiuscola è utilizzata pressoché esclusiva-
mente per la trascrizione di testi ecclesiastici: cfr. Cavallo 1977.
69
Nell’edizione critica del De scientia politica dialogus Mazzucchi 2002 ri-
costruisce la composizione dei fascicoli A e B originariamente occupati dal testo
della Politica (pp. X-XII; bibliografia dell’esegesi dello scritto alle pp. XXIII-XXV).
70
Si tratta di un problema filologico diffuso: ne descrive ampiamente un
esempio Matteo Monaco a proposito della tradizione di Eschine (che, a differen-
za di quella della Politica, è arricchita - e complicata - da numerose testimonian-
ze papiracee); cfr. Monaco 2000.
29
LA STORIA DEL TESTO
30
LA STORIA DEL TESTO
71
Umanesimo anche come età della ricerca di rinnovata cultura politica, che
sollecitava lo studio del testo di Aristotele: «Partendo, com’è giusto, dal Petrar-
ca, potremmo anzitutto affermare che l’Umanesimo nasce come reazione contro
la cultura e la politica (intesa nel senso più lato) contemporanee. Petrarca era
saturo e insofferente di quella filosofia scolastica isterilitasi nella dialettica delle
Quaestiones quodlibetales, ch’egli giudicava astratta e vana schermaglia logica,
priva di vero contenuto, applicata di preferenza alla fisica e alla metafisica, del
tutto inutile all’edificazione dell’uomo e incurante della bellezza letteraria. La
vera filosofia dev’essere – diceva con Cicerone – ars vitae» (Mazzucchi 2002-
2003, p. 16).
72
E dalla stampa furono trascritti altri codici: l’erudito bizantino Costantino
Lascaris, per esempio, completa a Messina nel 1501 la trascrizione dell’Eco-
nomico e della Politica, in un manoscritto che poi finisce in Spagna (è il Matr.
4578), desumendoli per gran parte dalla stampa Aldina (Martínez Manzano
1998, p. 20). Non a caso Lascaris menziona testualmente alcuni passaggi della
Politica nei suoi inediti Prolegomena ad alcuni trattati antichi di retorica (ver-
sione autografa di tali Prolegomena è nei codd. Matr. 4632, ff. 4r-10v e Matr.
4620, ff. 130r-137r).
73
Nel Par. gr. 767 Bessarione copia Politica ed Etica Nicomachea; altri
due codici Parisini (2041 e 2042) contengono antologie di brani da quasi tutti
gli scritti di Aristotele, organizzate e trascritte dallo stesso Bessarione. Dalla
sua biblioteca proveniva inoltre il codice Sinaiticus 2124, contenente la Metho-
dus astrologica di Pletone, la Politica di Aristotele, la Geometria del Pediasimo,
chiose e appunti in latino: fu scritto a Firenze nel 1439 da Teodoro diacono e
notaio «per il metropolita di Nicea». Da Venezia il codice finisce al Monastero
di Santa Caterina del Sinai, probabilmente come dono di Bessarione, o come
31
LA STORIA DEL TESTO
scambio con altri manoscritti (è plausibile pensare allo scambio, considerato che
nel fondo greco del cardinale restavano comunque due copie della Politica, nei
codici Marc. gr. 200 e Marc. gr. Z. 213 [= 751]). Cfr. Mioni 1991, p. 136.
32
LA STORIA DEL TESTO
74
Basandosi su una distinzione dei testimoni sia cronologica sia quali-
tativa, Susemihl sostiene che nei codici di P2 si legga un testo della Politica
sostanzialmente restaurato in età bizantina, cioè migliorato a posteriori rispetto
al versante più antico, superstite in P1. Da qui egli difende la tesi generale su
un testo bisognoso di numerosi interventi congetturali, poiché trasmesso in
condizioni pessime (Note on the Basis of the Text, in Susemihl-Hicks 1894,
pp. 460-468).
75
Cfr. Dreizehnter 1962, p. 13, e, in generale, il paragrafo Konjekturen und
Varianten, pp. 45-48. Dreizehnter 1970, p. XVI n. 36 fornisce invece un elenco
di lezioni comuni errate (o, quanto meno, considerabili tali), e di tre passaggi in
cui gli editori hanno sospettato una lacuna testuale; le stesse lezioni (alle quali
Dreizehnter affianca la correzione proposta dagli editori e solitamente accettata)
derivano tutte da tipici errori da grafia maiuscola.
33
LA STORIA DEL TESTO
76
Spesso Guglielmo traslittera, e a distanza di pochissime righe traduce, la
stessa parola greca: «hic quoque universus interpretis usus respiciendus est: ut
verbum Graecum saepe non mutatum versioni inserit, ita idem verbum hic illic
sive apto sive inepto vocabulo Latino interpretari conatur» (Dittmeyer 1883, p.
36, a proposito della versione della Retorica). A Pol. II 6, 1265b 39 ejfovrwn è
tradotto plebeiorum; nella riga successiva ejfovrou~ è semplicemente traslittera-
to ephoros. Altra pratica frequente di Guglielmo è creare concordanza di genere
tra soggetto e predicato (si veda ancora Dittmeyer 1883, p. 34). Oggi sono però
del tutto inaccettabili giudizi sbrigativi e semplicistici come quello di Newman a
proposito della traduzione della Politica: «It is not perhaps quite certain in what
sense this translation was the work of William of Moerbeke. More hands than
one may have been employed upon it: some parts of it [...] show much ignorance
of Greek than others» (Newman 1887, II, p. XLIV n. 1).
77
Chiron 2000, pp. 21 s.
34
LA STORIA DEL TESTO
78
Anche Aubonnet, attento più al dato manoscritto specifico che all’appar-
tenenza stemmatica della lezione, scriveva che «Une séparation très ancienne de
ces deux familles et l’affirmation de Susemihl que la première famille remonte à
un archétype des VIe ou VIIe siècle ne peuvent se justifier. En effet, deux docu-
ments présentent un état de la tradition antérieur à celui de tous les autres manu-
scrits, conservés et témoignent de l’existence d’un texte, où les leçons données
par le deux recensions ne sont pas encore dissociées. Ce sont un palimpseste du
Vatican – V – et les scolies d’un manuscrit de Berlin – H –» (Aubonnet 1960,
p. CCIII).
35
LA STORIA DEL TESTO
36
LA STORIA DEL TESTO
79
G.i. è una traduzione incompleta non perché sia andato perduto il prosie-
guo dei libri III-VIII dell’opera, ma perché il traduttore lavorava su un modello
greco parziale (cfr. nota testuale a II 11, 1273a 30). Può darsi che il codice greco
fosse mutilo perché deteriorato dal tempo (in altre parole, malandato, forse per-
ché molto antico)?
80
Dreizehnter 1970, p. XLII n. 70, ripreso anche da Viano 1992, p. 10 n. 5. Se
si confrontano le lezioni di G.i. con i testimoni greci, anziché cercare paralleli e
differenze nel latino di altre traduzioni, l’ipotesi della versione incompleta si raf-
forza, anziché potersi sbrigativamente relegare G.i. a un tempo in cui Guglielmo
non conosceva ancora bene il greco. Chi si ostinasse a considerare le due tra-
duzioni del Moerbeke dipendenti dallo stesso modello greco dovrebbe spiegare
sia la straordinaria quantità di modifiche del testo latino sia la subscriptio finale
di G.i., in cui il traduttore confessa di non aver reperito nell’esemplare greco i
restanti libri dell’opera (cfr. II 11, 1273a 30).
37
LA STORIA DEL TESTO
81
«Della traduzione della Politica di Aristotile, iniziata nel 1435, il Bru-
ni parlò in una lettera al Filelfo, scritta da Firenze alla fine del 1435 [...]. Il
Bruni aveva intrapreso la traduzione per esortazione del duca Humphrey di
Gloucester, appena terminato il primo volume lo aveva inviato al Duca per
mezzo di alcuni mercanti, il Duca non ringraziò e non rispose in nessun modo,
allora nel 1438 il Bruni dedicò la traduzione ad Eugenio IV. Nel ms. Vat. lat.
2108 si conserva la lettera di Biondo Flavio al Bruni, dove si riferisce circa
l’accoglienza riservata dal Pontefice alla traduzione, la lettera di dedica al Papa
[...] ed una “Interpretis alia praemissio ad evidentiam rarae translationis” che
precede la traduzione, pubblicata a Venezia negli anni 1504, 1505, 1511, 1517
e a Basilea, 1538» (nota di Aulo Greco alla Vita di meser Lionardo d’Arezo, in
Greco 1976, I, p. 479 n. 2). In realtà, oltre a questa ricostruzione favorevole al
Bruni, grazie al contributo di altre epistole è possibile elaborarne una seconda,
da cui emerge la nuova decisione di dedicare la Politica anche a Eugenio IV
già prima del 1438: «Il curioso di tutta la vicenda è che la Politica, benché de-
dicata ad Eugenio IV nella primavera del 1437, era considerata ancora inedita
nel dicembre dello stesso anno, quando il Bruni scrive le lettere a Barnaba da
Siena, al Frulovisi e con ogni probabilità anche al Mattioli. Si deve insomma
ritenere che egli avesse fatto preparare, fra il 1436 e il 1437, due copie della
Politica: una, offerta al papa, e l’altra, che è la sola di cui parla nelle sue
lettere, destinata al duca di Gloucester e a lui effettivamente inviata nel 1438.
[...] solo dopo la spedizione al duca, il Bruni autorizzò la pubblicazione del
testo, di cui egli stesso inviò un esemplare ai signori di Siena e al re di Napoli»
(Gualdo Rosa 1983, pp. 121-122.).
82
Per una bibliografia su Bruni traduttore dal greco, P. Viti, Profilo ideo-
logico di Leonardo Bruni, in Viti 1996, p. 22 n. 47, ai cui rimandi è opportuno
aggiungere Hankins 1994.
83
Poiché fortemente convinto dell’eleganza della Politica – intesa etimo-
logicamente come stile di scrittura scelto e accurato – Bruni lamenta in più oc-
casioni la sciatteria e le ridicolaggini della resa letterale di Guglielmo di Moer-
beke: «cum viderem hos Aristotelis libros, qui apud Graecos elegantissimo stilo
perscripti sunt, vitio mali interpretis ad ridiculam quamdam ineptitudinem esse
redactos ac praeterea in rebus ipsis errata permulta ac maximi ponderis, laboris
suscepi novae traductionis, quo nostris hominibus in hac parte prodessem»; ob-
biettivo di Bruni è che i conoscitori del latino «non per enigmata ac deliramenta
interpretationum ineptarum ac falsarum, sed de facie ad faciem possint Aristo-
telem intueri et, ut ille in Graeco scripsit, sic in Latino perlegere» (in Baron
38
LA STORIA DEL TESTO
1928, pp. 73-74). Una lettera indirizzata a «un non ancora meglio identificato»
Demetrio è interamente dedicata alla difesa dell’eloquenza e dello stile di Ari-
stotele contro i detrattori e, soprattutto, contro i traduttori latini che ne hanno
scempiato fisionomia e bellezza: è la epistula 4, 22 in Hankins 2007, I, pp. 137-
140; il destinatario è «probabilmente il monaco bizantino Demetrio Scarano»
(Viti 1992, p. 336).
84
A maggior ragione la traduzione deve essere fedele, chiara, univoca: «est
disciplina magna, et accurata, in qua si paululum modo aberraveris, omnia paene
confundantur. Itaque incredibili diligentia opus est ad fidelitatem traductionis.
Et haec fuit michi causa retinendi hos libros diutius in manibus, atque multi
jampridem flagitant, et avide expectant, ut libri edantur» (epistula X 10, in Han-
kins 2007, II, p. 181). Sulla concezione politica di Bruni, a partire dal modello
aristotelico, si veda Dees 1987, centrato sull’analisi dell’opuscolo in greco Peri;
th`~ politeiva~ tw`n Flwrentivnwn, composto in occasione del Concilio di Fi-
renze del 1439, «quasi sviluppo o appendice della traduzione della Politica»
(Viti 1992, p. 195).
85
Dalla Vita di Palla di Noferi Strozzi, in Greco 1976, II, pp. 140-141. Sul
ruolo chiave di Manuele Crisolora, maestro di greco e “importatore” di codici
greci, cfr. Cortesi 1995 (spec. pp. 462-473).
39
LA STORIA DEL TESTO
86
Fiocco 1964. Cfr. inoltre Sambin 1958, pp. 371-373, e Gregory 1981, pp.
183-185. Palla Strozzi (1372-1462) nel 1434 fu esiliato da Firenze in seguito
alla presa di potere da parte dei Medici, e si ritirò a Padova; Giovanni Argiropu-
lo e Andronico Callisto, che aveva fatto giungere da Costantinopoli, dovettero
probabilmente seguirlo; sulla cerchia intellettuale di Palla si veda Legrand 1885,
pp. L-LI. Nella sezione del suo testamento dedicata ai libri non si fa menzione
della Politica di Aristotele, né tra i titoli destinati «a Sancta Trinita» o ai figli
né tra quelli da alienare; però nell’Inventario de’ libri di messer Palla di Nofri
[sic] Strozzi, latini, grechi et volghari, fatto a dì XXIIII d’agosto [1431] (Fiocco
1964, pp. 306-310) al n. 219, in un gruppo di titoli aristotelici (senza però no-
men auctoris, a differenza dei nn. 136-138, De animalibus, Ethica, Fixicha, de
anima, de generatione et corruptione, preceduti dalla specificazione Aristotelis),
compare l’indicazione «Politicorum»: è evidentemente il codice di Crisolora poi
utilizzato da Bruni.
87
È una supposizione (Vermutung) di Dreizehnter 1970, p. XXIV (convalidata
da Dieter Harlfinger), che la scrittura dei ff. 1-10 sia di Strozzi. Il Laur. Plut.
81,6 risulterebbe comunque, secondo Schneider, un apografo dell’Utinensis VI
5 (258), ossia E: cfr. Schneider 1973, pp. 337-338.
88
Il manoscritto utilizzato da Bruni discendeva certamente dall’ambito
della II famiglia, e probabilmente era stato confrontato e contaminato con altri
esemplari (appartenenti alla I famiglia, secondo il fenomeno già notato). Piena-
mente condivisibile è l’ipotesi sulla qualità di tale modello, riassunta da Franz
Susemihl nella praefatio alla sua prima edizione del 1872: «Leonardus Aretinus
interpres interdum Latine reddidit quae ut a maiore codicum parte deflectunt ita
cum Guilelmi translatione concinunt, ut is quoque codice similem in modum
emendato haud dubie usus sit» (Susemihl 1872, p. XIV).
89
Nella sua fondamentale History of Classical Scholarship Sandys dedica
un breve paragrafo a Leonardo Bruni, e si concentra sulla traduzione in latino
della Politica, precisando che «For this work he used a MS of the Politics obtai-
ned from Constantinople by Palla Strozzi, probably comparing therewith the
MS in possession of his friend Filelfo. [...] Bruni describes the original as an
opus magnificum ac plane regium, and he had good reason to be proud of a free
and flowing version that made the Greek masterpiece intelligible to the Latin
40
LA STORIA DEL TESTO
scholars of Europe» (Sandys 1908, p. 46). In tale passaggio sono contenute due
inesattezze: nella prima parte la collazione con la copia della Politica in greco
di proprietà di Filelfo (che la possedeva sin dall’inverno 1428/1429, periodo del
suo ritorno in Italia dalla Grecia) è frutto di lettura frettolosa di una brevissima
lettera scritta da Bruni allo stesso Filelfo, di cui conviene riportare la conclusio-
ne: «Aggressi nempe sumus post discessum tuum Aristotelis Politicorum libros
perficere, quos, ut scis, traducere jampridem coeperamus. In his nunc versatur
plurimum cura et cogitatio nostra. Vale» (Bruni, Ep. 6, 11). Siccome alla fine del
1429 Filelfo è a Firenze e si intrattiene con Bruni, Oncken espresse il sospetto
che il primo manoscritto della Politica in greco giunto in Italia fosse appunto
quello dell’umanista di Tolentino, passato poi nelle mani di Palla Strozzi e di
Bruni (Oncken 1870-1875, pp. 78-79). Si tratta di un’inferenza illegittima, per-
ché Bruni, a proposito del suo lavoro di traduzione e del momento in cui Filelfo
è ripartito da Firenze, scrive che ora deve concludere (post discessum tuum ...
perficere) quanto intrapreso tempo prima (jampridem traducere coeperamus).
Che poi lo stesso Filelfo avesse recato con sé in quel viaggio a Firenze la sua
copia della Politica è pura immaginazione. Nella seconda parte del passaggio
riportato Sandys è ambiguo nel riferirsi a the original, descritto da Bruni come
opus magnificum, ac plane regium. The original, a questo punto, parrebbe indi-
care l’esemplare greco utilizzato da Bruni; si tratta invece dell’originale della
sua traduzione latina, inviata con dedica al pontefice Eugenio IV. La citazione è
infatti tratta da una lettera di Bruni a Biondo Flavio, in cui il traduttore, a opera
compiuta, illustra i contenuti della Politica e l’intenzione di dedicarla al papa;
l’iperbole della definizione dell’opus, da ultimo, non si riferisce al manoscritto,
ma al contenuto del testo e all’importanza dello scritto: se si prosegue oltre le pa-
role trascritte da Sandys, la definizione completa dell’opus (che è la traduzione, e
quanto da essa si può apprendere, non un fantomatico original) giustifica la dedi-
ca: «et profecto dignissimum, quod Summo Pontifici dedicetur, quondoquidem
tota ejus libri materia est de rectione populorum» (Bruni, Ep. 8, 1).
90
Hankins 1994, p. 166, ha censito 206 manoscritti e 51 edizioni a stampa.
91
Nel De interpretatione recta Bruni si sofferma sui caratteri stilistici pecu-
liari della Politica, indicando un Aristotele crebrior e ritrovando una piacevolez-
za tipicamente oratoria in più punti della trattazione: «In libris vero Politicorum
multo crebrior est. Quod enim materia est civilis et eloquentiae capax, nullus
fere locus ab eo tractatur sine rhetorico pigmento atque colore, ut interdum etiam
festivitatem in verbis oratoriam persequatur» (il testo si legge in Viti 1996, p.
174).
41
LA STORIA DEL TESTO
92
Sepulveda fu tra i precettori di Filippo per volontà di Carlo V: «Altri
precettori del principe furono Honorato Juan de Valenza [...], e Juan Ginés Se-
pulveda di Cordova, che Carlo V nominò nel 1536 suo cronista, cioè storico
ufficiale del suo Impero. Si trattava in entrambi i casi di studiosi assai autorevoli,
profondamente dotti nelle lingue e culture greca e latina» (Gerosa 2006, p. 396).
Sulla sua opera si veda la recente rassegna di Solana Pujalte 2005.
93
Sepulveda 1548, s. i. p.
42
LA STORIA DEL TESTO
94
Il rimando all’autorità degli antichi esemplari è pratica filologica che già
gli autori antichi praticavano, sia per controllare grafie e lezioni sia per compren-
dere quale potesse essere il testo originario (anche non in presenza dell’origina-
le, ossia la copia autografa o dettata dall’autore). Quintiliano, per esempio, con
formule che diverranno di riferimento, «ut ex veteribus eius libris... in veteribus
libris», stabilisce le grafie corrette in passi di Catone il Censore contro correzioni
di copie più recenti. Cfr. Quint. Institutio oratoria I 7, 22; IX 4, 39. Sul problema
si veda il recente contributo di Pecere 2007.
95
Una lettura pubblica della Politica venne sollecitata a Vettori da parte di
suoi allievi: cfr. Mouren 2007 (in particolare p. 490 e n. 72). Ma non si tratta di
novità assoluta: già nelle biografie di Vespasiano da Bisticci era data notizia di
più corsi e cicli di lezioni sulla Politica (dalle ricerche di codici di Palla Strozzi
all’insegnamento di greco di Emanuele Crisolora ai corsi specifici sul trattato
aristotelico di Donato Acciaiuoli, dietro insistenza di Federico da Montefeltro).
Sulla biblioteca di Vettori, la sua consistenza, i suoi spostamenti, si veda Ha-
jdú 2002, pp. 81-90 (cfr. inoltre i sigla III.). Bandini ricorda che nella recensio
dei testimoni Vettori fu aiutato da monsignor Della Casa, al quale l’edizione
è dedicata: «L’anno susseguente [scil. 1552] colle stampe de’medesimi Giunti
fece vedere la Politica di Aristotele diretta al suo amicissimo Monsig. Gio. della
Casa, da cui aveva ricevuto grandissimi ajuti nel ridurre sul riscontro di ottimi
testi quest’opera alla sua vera lezione» (Bandini 1757, pp. 189-190).
43
LA STORIA DEL TESTO
testo greco di Aristotele debba corrispondere alla traduzione latina del XIII
secolo. Come già nelle edizioni di Bekker e di Goettling, anche in quella
di Susemihl scarsa attenzione è riservata al dato linguistico e alla specifi-
cità attica del greco aristotelico; interessa piuttosto correggere, a norma di
grammatica, tutti i passi in cui la sintassi dei casi e dei modi verbali (per
citare le categorie più ricorrenti di presunta anomalia) non corrispondano
alle attese del lettore erudito. Ma oltre alla frequenza delle correzioni e del-
le congetture invasive (che interessa la restituzione della maggior parte dei
testi greci editi nel corso del XIX secolo), alla Politica sono state applicate
macrostrutture, specie per quanto concerne la successione dei libri.
Se correzioni e aggiustamenti formali rientrano nell’ambito di modi-
fiche microstrutturali apportate al testo tràdito, intervenire sull’ordine dei
libri in seguito a considerazioni esegetiche e storico-filosofiche significa
mortificare un dato unanime della tradizione, visto che tutti i manoscrit-
ti riportano la stessa successione degli otto libri, spesso con evidenza di
lemmi e didascalie96. La dislocazione di libri in sede diversa da quella in
cui la tradizione manoscritta li ha consegnati obbedisce a una serie di os-
servazioni concernenti la struttura e i contenuti dell’opera. La modifica
può avere valore logico-tassonomico, e contribuire alla sistemazione più
organica e omogenea del materiale raccolto da Aristotele di libro in libro;
in determinati casi è stato dimostrato che la composizione di un libro è
precedente a quella di un altro libro, che nei testimoni precede anziché se-
guire. Ma, in definitiva, lo spostamento dei libri cozza contro il dato una-
nime della tradizione, e non ha altra funzione che quella di assecondare
le esigenze del lettore moderno97. Una delle acquisizioni filologiche più
importanti del XIX secolo relativamente al testo aristotelico fu la consa-
pevolezza che incongruenze, aporie, iterazioni o anomale disposizioni del
corredo argomentativo dipendessero dalla natura funzionale e didattica di
molti scritti superstiti del corpus; il merito va in particolare rivendicato alle
due versioni di un saggio fondamentale di Werner Jaeger: quella latina di
Emendationum Aristotelearum Specimen (1911) e quella tedesca di Studien
96
Anche nel palinsesto Vaticano del X secolo (Vat. gr. 1298, II V) a cavallo
tra f. 302r e 302v termina il libro III e inizia il IV, come in tutti i manoscritti più
recenti: Susemihl, nelle sue edizioni, ha dislocato il IV libro dopo il VI, facendo
seguire al III direttamente il VII.
97
Newman 1887, II, p. XL, ricorre a un’ipotesi “separativa” per spiegare il
“disordine” dei libri nei testimoni manoscritti: quarto e quinto libro sarebbero
circolati autonomamente, separati dal resto dell’opera, e in una fase di ricosti-
tuzione dell’unità sarebbero stati collocati in posizione errata. Si vedano poi il
paragrafo Dislocations and Double Recensions, in Susemihl-Hicks 1894, pp.
78-97, e il contributo di Mesk 1916.
44
LA STORIA DEL TESTO
98
Berti 2008, p. 27. La tesi di Jaeger sulla composizione non di libri necessa-
riamente collegati in modo organico, ma di methodoi unitarie è stata ripresa e rie-
laborata dalla minuziosa analisi di Schütrumpf 1991, I (alle pp. 39-67 il già citato
capitolo Stellung und Verhältnis der Bücher bzw. Buchgruppen): «Nicht Bücher
der überlieferten Einteilung, sondern methodoi sind die schriftstellerischen Ein-
heiten. Nur bei den Büchern Pol. I, II, III und VI gab es eine Kongruenz von me-
thodos und Buchrolle. Jaeger wagte aber nicht so weit zu gehen, die Verteilung der
beiden anderen methodoi auf je zwei Rollen, d. h. die heutige Buchtrennung IV zu
V bzw. VII zu VIII Aristoteles selber zuzuschreiben» (pp. 41-42; alle stesse pagine
si rimanda per la discussione della ricostruzione jaegeriana di tutta la Politica).
99
Analogo schema, dedicato alle edizioni di Schneider, Bekker, Newman,
è già in Immisch 1929, p. VII. Sul problema “storico” dell’ordo librorum si veda
il paragrafo L’ordine dei libri: Antonio Scaino da Salò, in Besso, Guagliumi,
Pezzoli 2008, pp. 159-160.
100
Il testo dei libri IV, V, VI in questa edizione non compare.
45
LA STORIA DEL TESTO
46
LA STORIA DEL TESTO
mai l’autentica lezione latina (giusta o sbagliata che essa sia) trasmessa
nei codici di G. e di G.i.
Gli editori hanno di volta in volta identificato gli accordi in errore
dei vari testimoni, singolarmente o per famiglia; a queste tipologie si
aggiunge il riscontro (o il dissenso) tra le traduzioni latine e il testo
greco dei manoscritti. Le varie eventualità sono così esemplificate nelle
edizioni otto-novecentesche: 1) Lezioni ricostruite dalla versione latina
di G., distinte e (a detta dell’editore) superiori al resto della tradizio-
ne greca (Sus.1 pp. V s.). 2) Lezioni ricostruite dalla versione latina di
Bruni, distinte e (a detta dell’editore) superiori al resto della tradizione
greca (Sus.1 pp. XV s.). 3) Vestigia di P1 nella traduzione di Bruni (cioè
nel suo modello) coincidenti con lezioni isolate di codici della famiglia
P2 (Sus.2 pp. VI s.). 4) Consensus del gruppo P1 con alcuni codici di P2
(Suse.3 pp. VII s.). 5) Concordanza delle lezioni di P1858 ora con il gruppo
P1 ora con quello P2 (Sus.3 pp. IX s., Sus.4 pp. 76 s.). 6) Esempi di buone
lezioni ricavabili o da G. soltanto, o da G. insieme ad altri testimoni
(dell’originale greco) isolati, o da G. e da Bruni (Sus.4 pp. 462 s.). 7)
Buone lezioni del gruppo P1 (Sus.4 pp. 465 s.). 8) Discrepanze interne
alla famiglia P1 (incluso il modello perduto di G.: Sus.3 pp. X s.). 9)
Ross riporta un nutrito elenco (soltanto numerico, però) di concordan-
ze possibili tra ABVHMP e G (il modello perduto di G.), separandole
in sette insiemi. Dal semplice ammontare numerico delle concordanze
(288 tra AB, 60 tra PH, per citare il numero massimo e quello minimo),
l’editore inferisce che AB fanno parte della stessa famiglia, che MP e
il modello di G. lo sono dell’altra, che HV concordano assai più con
la famiglia di AB (cioè P2) che non con l’altra. Sulla base di questi
dati Ross, con la disposizione di chi vuole mediare tra diverse ipotesi
e riconoscere a buon diritto i meriti delle precedenti edizioni, ribadisce
l’esattezza della distinzione in due famiglie (teoria di Susemihl) e della
superiorità di P2 contro P1 (teoria di Newman-Immisch). Per mezzo
dello stesso criterio quantitativo Ross fa ancora notare che, siccome
V concorda con P2 più che con P1, nei casi in cui tra le due famiglie
e V la lezione discordi, egli ha scelto quella del codice Vaticano (Ross
p. VI). 10) Elenco delle lezioni di P2 preferibili a quelle di P1 secondo
Newman (Newman, 1987, II, pp. LVI-LVIII). Tutti questi elenchi configu-
rano rispettive ipotesi di lavoro, in base alle quali si possono compren-
dere le scelte operate dagli editori; più che preordinare tali scelte, però,
sarà opportuno esaminare ogni problema nella sua specificità testuale,
nell’ambizioso tentativo di rendere chiaro (safhnivzein) Aristotele con
il testo stesso di Aristotele.
47
LA STORIA DEL TESTO
a) Codici e raggruppamenti
Risulterebbe molto difficile, oggi, disconoscere la maggiore complessità e
ricchezza della famiglia P2 rispetto alla prima. Ma questo non implica necessa-
riamente che si debba operare la scelta delle lezioni esclusivamente sulla base
della famiglia di appartenenza; il testo di H e di V è irriducibile all’opposizione
secca P1 / P2; è invece opportuno discutere i singoli luoghi di volta in volta, ed
evitare così automatismi e determinazioni di ordine puramente stemmatico o
meccanico. Anche perché, per riprendere parole di Matteo Monaco sulla tradi-
zione di Eschine, tra i gruppi di testimoni per lo più «si ha a che fare con un sot-
tobosco testuale di divergenze minime (inversioni nell’ordo verborum, aggiunte
od omissioni di poco momento, utilizzo di forme – verbali, aggettivali, pronomi-
nali – sostanzialmente equivalenti), a tal punto che, per un editore, la scelta della
lezione poziore è sempre problematica e raramente può poggiare su basi d’as-
soluta certezza»101. Allo stesso modo, nel nome di una cautela critica finalizzata
alla conservazione (e, ove possibile, alla valorizzazione) della tradizione, non si
è proceduto alla meccanica cassazione dei codici deteriori e delle loro varianti
e deviazioni (la eliminatio lectionum singularium): l’apparato anzi registra tutte
le principali emergenze testuali rispetto alla versione scelta, affinché il lettore si
renda conto con dati oggettivi (le lectiones) per quali motivi classificare alcuni
testimoni come primari, e altri come deteriori.
101
Monaco 2000, p. 6.
102
Sulla questione, soprattutto Renehan 1992, p. 720; per il problema dello
iato in Aristotele cfr. invece Hicks 1890.
48
LA STORIA DEL TESTO
non è mai stata affrontata direttamente dai precedenti editori della Politica, che
di fronte a varianti linguistiche scelgono per lo più le forme ellenistiche. Pur
essendo disponibile l’appoggio dei documenti (nella famiglia di codici, però, di
secondaria importanza P1), non è possibile mantenere a testo sic et simpliciter la
grafia attica, considerato il massiccio intervento correttivo subìto dai testimoni
che presentano tali forme. Aristotele, del resto, vive nella generazione in cui
la prosa attica è già divenuta un mezzo di espressione universale, in grado di
mediare tra tutti i particolarismi linguistici delle varie città greche; la sua lin-
gua, di straniero naturalizzato ad Atene, deve probabilmente conservare forme
miste e coesistenti, avviandosi a quella normalizzazione morfologica (la koinh;
diavlekto~, appunto) che ha nella prosa di Polibio uno degli esempi maggiori103.
Pertanto, nei casi di opposizione tra P1 e P2, a prevalere sarà ancora una volta la
seconda famiglia; in altri casi di opposizione d’uso tra lingua attica e lingua co-
mune ellenistica (per esempio metav / suvn et similia) la scelta dipende dallo spe-
cifico ventaglio di varianti nei manoscritti, di volta in volta ricordato in apparato.
- (2) Alternanza ou{tw / ou{tw~: conformemente alla tendenza pressoché costante
dei manoscritti, ou{tw~ è segnato soltanto quando seguito da iniziale vocalica o
da segno di interpunzione forte (punto alto o basso); in tutti gli altri casi è ou{tw
(cfr. Schwyzer 1939, I, pp. 406 b, 409 Zusatz 5); lo stesso criterio serve a con-
fermare la presenza di -n efelcistico, anche se le attestazioni dei manoscritti si
presentano meno soggette alla regola (per cui si veda ancora Schwyzer 1939, II,
pp. 405-406). - (3) Alternanza e[sti / ejstiv: l’orientamento della scelta è di volta
in volta determinato dalla disamina della situazione manoscritta documentata in
apparato (sulla questione, ancorché riferiti specificamente a Platone, si vedano
Duke 1995, p. XX n. 30, Martinelli Tempesta 2003, p. 115). - (4) Alternanza aijeiv
/ ajeiv: la forma ajeiv inizia a prevalere nelle iscrizioni attiche risalenti al 361 a.C.
in poi (Meisterhans 1888, pp. 14, 64, Threatte 1980, pp. 275-276); considerata
però l’unanimità della tradizione di aijeiv limitatamente a pochi casi (1266a 28,
1273b 19, 1276a 36, 38, 1281a 32, 1286b 18, etc.), lì il testo conserva la forma
con il doppio dittongo (scelta già codificata in Newman 1887, II, p. 82).
c) Punteggiatura
Le difficoltà esegetiche poste dal testo aristotelico possono essere osservate
anche in parallelo alla complessità con cui il periodo risulta strutturato: le ar-
gomentazioni e il procedere del ragionamento inducono Aristotele a formulare
continui corollari, digressioni, enumerazioni asindetiche rispetto alla proposi-
zione principale, che si trasformano in propaggini sintattiche (a volte difficil-
mente controllabili). Gli editori, sin dal XVI secolo, hanno tentato di rendere
più agevole la lettura del testo greco con un procedimento di gerarchizzazione
interna delle idee: per isolare corollari, parallelismi, esegesi di una locuzione o
di un termine, in modo che il lettore potesse seguire il percorso principale del
testo (nella relativa sintassi) senza smarrirsi in precisazioni e chiarimenti, sono
state utilizzate le parentesi tonde, un segno diacritico «ignoto alla tradizione
ellenica»104. La presenza delle parentesi (di indubbia utilità sul piano della com-
103
Papanastassiou 2007 e Kaczko 2008; per lo specifico semantico della
lingua di Aristotele, Kotzia 2007.
104
Mazzucchi 1997, p. 138 (si tenga conto anche di Mazzucchi 1979). In
sostituzione delle parentesi, «poiché è familiare al greco il concetto di “inciso”»,
49
LA STORIA DEL TESTO
50
LA STORIA DEL TESTO
d) I sigla
Il significato delle sigle P1 e P2, ereditate dalla tradizione degli studi critici
e utilizzate di frequente nell’apparato, non coincide però con quello che hanno
attribuito loro gli editori otto- e novecenteschi. Susemihl e successivi indicarono
infatti con P1 non soltanto i manoscritti superstiti della I famiglia, ma anche i
perduti modelli delle due traduzioni altomedioevali. Nell’apparato della presente
edizione la sigla P1 indica semplicemente il consensus dei codici greci apparte-
nenti a quella famiglia; l’eventuale specificità delle traduzioni latine è segnalata
a parte. Per la II famiglia di manoscritti, invece, limitarsi all’indicazione P2
sarebbe davvero troppo semplificante, quando si consideri il massiccio gruppo
dei cosiddetti codici deteriori. Si è così provveduto a distinguere il consensus
dei codici più importanti del secondo raggruppamento (P2 = ABCDEH) da un
parziale consensus, che isola come eccentrico rispetto alla sua stessa famiglia
l’importante testimone H (P3 = ABCDE); da ultimo, anziché limitarsi a sbrigati-
ve indicazioni di consensus nei testimoni deteriori (come l’ambiguo p3 in Ross),
si è cercato di individuare, nei limiti del possibile e nelle situazioni testuali più
intricate, il consensus di gran parte di tali manoscritti secondari (P4).
e) Il testo
La disposizione del testo secondo una prestabilita numerazione di pagine,
colonne, righe, segue per convenzione editoriale l’impaginazione della Politica
secondo l’edizione critica curata da Bekker106. I numeri da 1253 a 1342 indicano
quindi le pagine della suddetta edizione; le lettere a e b indicano rispettivamente
la colonna di testo a sinistra e a destra, contenute in ogni pagina dell’edizio-
ne bekkeriana; i numeri da 1 a 42 (massimo) il numero della riga nella stessa
edizione. Unica deroga rispetto alla disposizione testuale di Bekker (a parte le
migliorie testuali dovute all’apporto di manoscritti riscoperti e utilizzati suc-
cessivamente) riguarda le citazioni poetico-letterarie che Aristotele inserisce
nell’opera: qualora integre e riconoscibili, sono state stampate in corpo minore
ed evidenziate all’interno del testo per mezzo di rientro.
Il testo critico utilizza alcuni fondamentali accorgimenti editoriali per chia-
rire al lettore la natura di passaggi specifici: il testo incluso tra parentesi uncinate
‹ ... › è integrazione congetturale, considerata necessaria alla piena intelligenza
106
Nella versione di Bekker-Gigon 1960, pp. 1252-1342.
51
LA STORIA DEL TESTO
del passo. Il testo incluso tra parentesi quadre [ ... ] è espunzione di quanto, pur
trasmesso da tutta o da parte della tradizione manoscritta, gli editori considera-
no spurio, interpolato, aggiuntosi nel corso delle trascrizioni (per i più svariati
motivi: errore, dittografia, zeppa esplicativa, glossa marginale rifluita nel testo,
interpolazione, correzione grammaticale).
Le singole lettere stampate in corsivo nel testo evidenziano una correzione
editoriale; il corsivo evidenzia dunque, unitamente alle integrazioni di intere
parole, l’intervento editoriale che si allontana dal testo tràdito nella sua plu-
ralità di testimoni (e che può essere individuato in 1257b 33, 36, 1260b 41,
1262a 7 [soltanto in apparato], 1272b 39-40, 1280b 23, 1285a 39, 1286a 9,
etc.; integrazioni vere e proprie - tra parentesi uncinate - in 1261b 3, 1276b 9,
1283b 15, etc.).
f ) L’apparato critico
A piè delle pagine recanti la traduzione italiana della Politica può comparire
un apparato articolato in due sezioni, dedicato alle fonti (le molte rintracciabili)
del discorso di Aristotele, ossia alla referenza delle citazioni letterarie che il fi-
losofo porge ai lettori, e alla tradizione indiretta che riporta passi della Politica
(o vi si riferisce in termini circostanziati, parafrasando e riassumendo i contenuti
dell’opera). Tale apparato assolve dunque a due funzioni, corrispondenti alle
due sezioni di riferimenti: 1) riportare loci similes (in particolare all’interno di
altre opere aristoteliche) e riferimenti alla letteratura che Aristotele menziona; 2)
fornire informazioni sulla fortuna della Politica e sulla sua tradizione indiretta,
a partire dagli scholia leggibili in alcuni manoscritti fino alle citazioni testuali
di età umanistica (da Ario Didimo a Teodoro Gaza, in buona sostanza). Anche
quando Aristotele cita parzialmente un verso poetico (soprattutto da Omero o dai
poeti tragici), l’apparato rimanda per esteso al passo, con l’ausilio di un’edizione
di riferimento. A volte esso registra la sola referenza a un passo, senza il testo per
esteso; è invece riportato anche il testo greco o latino di riferimento ogni qual
volta sia rintracciabile una citazione diretta del dettato aristotelico, ovvero un
segnale di collegamento lessicale che presuppone lettura e rielaborazione dello
specifico passaggio della Politica. Quando il testo greco sia documentato da
testimoni d’eccezione (ma frammentari: il papiro o il palinsesto Vaticano V), a
questi è dedicata la prima sezione del pre-apparato, con referenza circostanziata
delle parti della Politica in essi presenti.
Le singole variazioni testuali della tradizione indiretta sono segnalate
nell’apparato critico vero e proprio, specificamente dedicato alle varianti dei
testimoni di tradizione diretta, alla loro discussione, alle scelte degli editori.
Esso compare in calce alle pagine recanti il testo greco della Politica. Esulano
dall’apparato critico le segnalazioni di variazione nell’ordo verborum all’inter-
no dei modelli (perduti) delle due versioni latine antiche (limitate a scambio di
posizione tra due parole, e descritte in modo sistematico da Dreizehnter), e della
traduzione di Bruni, in quanto non si tratta mai di dati oggettivi, ma sempre di
supposizioni dell’editore: pluralità e diversità di traduzioni latine dello stesso
testo inducono a postulare piuttosto una ratio (stilistica) messa in opera dal tra-
duttore, non già l’automatismo di ricostruzione del testo greco.
Quando nell’apparato critico viene citata la lezione di uno scolio (contrasse-
gnato dalla lettera s posta ad apice della sigla del manoscritto), il testo, completo
o parziale, dello stesso scolio (o anche di alcune glosse significative) è riportato
nel pre-apparato. Questo accade anche per le eventuali attestazioni di tradizio-
52
LA STORIA DEL TESTO
107
Dreizehnter 1970, p. XL, riporta un giudizio molto negativo dell’edizione
di G.i. a c. di Michaud-Quantin: «Leider ist die Ausgabe im ARISTOTELES
LATINUS völlig unbrauchbar, weil der Herausgeber pro Seite im Schnitt 10
falsche Angaben macht, sei es, daß er sich in den Handschriften verlesen hat, sei
es, daß er die Siglen im kritischen Apparat verwechselt. Deshalb erwies es sich
als notwendig, für die vorliegende Ausgabe die drei Handschriften erneut zu
kollationieren, um einen gesicherten Text als Grundlage der zu rekonstruirenden
griechischen Vorlage zu schaffen». Provvede Dreizehnter stesso a correggere gli
errori di lettura e a integrare i rimandi ai codici di G.i. nel suo apparato. Va ricor-
dato da ultimo che il più antico manoscritto della versione latina di Guglielmo è
il Toletanus Bibl. Capituli 47.9, vergato tra la fine di XIII e l’inizio di XIV secolo
(non compare nella rassegna di Newman 1887, II, p. 61; è invece segnalato per
la sua importanza da Schneider 1973, p. 341 e n. 1).
53
LA STORIA DEL TESTO
108
Assai più cauto l’atteggiamento di chi si limiti a riscontrare che, in corri-
spondenza di un testo greco, Guglielmo semplicemente non traduce (il non vertit
dell’apparato; o per meglio dire: a causa di motivi che possono essere differenti,
l’insieme dei testimoni di Guglielmo non reca alcuna traduzione della lezione
greca discussa).
109
Oltre alle già riportate note di sfiducia (o di aperto biasimo) delle capacità
di Guglielmo, occorre riferirsi ai risultati di un’indagine critica di Vuillemin-Di-
em 1987. La studiosa ha dimostrato come Guglielmo traduca sia il testo di base
sia le correzioni successive presenti nei suoi modelli, e riveda (anche a distanza
di anni) le sue traduzioni, introducendo sensibili modifiche e innovazioni.
54
LA STORIA DEL TESTO
permette però di postulare con più probabilità il testo di partenza, senza media-
zioni culturali, a volte deformanti, del processo traduttivo).
Nell’apparato critico varianti, traduzioni latine, correzioni e congetture af-
ferenti alla stessa lezione o allo stesso segmento testuale sono separate da due
punti verticali ( : ); quando la lezione o il testo di riferimento cambia il separatore
è offerto dal numero di riga.
g) Le note testuali
Le note testuali che accompagnano il testo greco di ciascun libro non han-
no alcuna pretesa di fornire un commentario filologico dettagliato (si rimanda
piuttosto alle Critical notes apposte in calce al testo originale nell’edizione di
Newman); si tratta invece di schede riassuntive a proposito della tradizione del
testo, a sostegno e integrazione delle informazioni dell’apparato critico, in par-
ticolare per i luoghi in cui la situazione manoscritta è complicata da varianti o
guasti; a volte le schede presentano i criteri della scelta testuale o argomentano
in modo esteso gli interventi sul testo tràdito; altre volte sono dedicate alla tradi-
zione indiretta della Politica e alla valutazione storico-critica dei passi ricordati
nel pre-apparato.
h) Le Appendices coniecturarum
In calce alle note testuali di alcuni libri sono riportate sobrie appendici di in-
terventi congetturali e proposte di correzione non incluse nell’apparato critico. Il
fatto stesso di essere raccolte in appendice rispetto al testo qualifica l’importanza
secondaria di tali ipotesi; ma, al pari delle informazioni nell’apparato critico,
lo scopo di queste raccolte non è né erudito né esclusivamente documentario:
gli interventi di modifica, integrazione o cassazione del testo hanno sempre e
comunque un valore storico, e permettono di comprendere il tipo di approccio
testuale che di epoca in epoca si è trasformato. Il lettore potrà anzi percepire,
pur nell’inevitabile selezione degli interventi registrati, le tipologie di urgenza
che nelle varie edizioni si sono meglio manifestate, e che hanno determinato
proposte di modifica rispetto alla tradizione manoscritta. Per gran parte, in questi
interventi si manifesta quella velleità di ricostruire il testo che ha caratterizzato
l’attività editoriale soprattutto nel XIX secolo.
55
LA STORIA DEL TESTO
56
INTRODUZIONE AL LIBRO I*
59
INTRODUZIONE AL LIBRO I
60
INTRODUZIONE AL LIBRO I
61
INTRODUZIONE AL LIBRO I
1
Cfr. Jaeger 1923; Arnim 1924.
2
Saunders 1995, p. 15.
62
INTRODUZIONE AL LIBRO I
2. Questioni di metodo
Aristotele non fornisce esplicite premesse metodologiche in rela-
zione alla ricerca oggetto della Politica; esse sono formulate nelle Eti-
che (Nicomachea ed Eudemia), che rappresentano la prima parte della
trattazione della “filosofia delle cose umane”, di cui sono il logico com-
pletamento la Politica e la Retorica come strumento discorsivo dell’agi-
re politico. Il metodo che appare poi in larga misura applicato anche
nel I libro della Politica è proposto sia nell’Etica Nicomachea (VII 1,
1145b 3-5: dei` dev, w{sper ejpi; tw`n a[llwn, tiqevnta~ ta; fainovmena
kai; prw`ton diaporhvsanta~ ou{tw deiknuvnai mavlista me;n pavnta ta;
e[ndoxa peri; tau`ta ta; pavqh, eij de; mhv, ta; plei`sta kai; kuriwvtata:
3
Schütrumpf 1991, I, p. 130.
63
INTRODUZIONE AL LIBRO I
«dopo aver presentato ciò che appare probabile e aver fatto emergere
anzitutto le difficoltà, bisogna mostrare sull’argomento tutte le opinioni
notevoli o, se non è possibile, la maggior parte e le più importanti») sia
nell’Etica Eudemia (I 6, 1216b 35-40: «in ciascuna ricerca, le argomen-
tazioni si distinguono in quelle che hanno carattere filosofico da quelle
che non l’hanno, perciò anche nel campo della politica non bisogna
ritenere superflua una ricerca di questo tipo attraverso la quale risulti
chiara non solo la natura dell’oggetto, ma anche la sua causa») e viene
definito «metodo degli endoxa»4 o «metodo diaporetico»5: si tratta del
«metodo di mettere alla prova le opinioni su un certo oggetto», che
«non è altro che l’applicazione del metodo proprio di ogni indagine
filosofica descritto da Aristotele nei Topici» (I 2, 101a 35-101b 4: «[La
dialettica] è utile infine per le scienze connesse con la filosofia, poiché
potendo sollevare difficoltà riguardo ad entrambi gli aspetti della que-
stione, scorgeremo più facilmente in ogni oggetto il vero e il falso...
Questa per altro è l’attività propria della dialettica...: essendo infatti una
tecnica per sottoporre ad esame le opinioni, apre la via verso i principi
di tutte le ricerche»)6. L’applicazione di tale metodo, cui assistiamo fin
dalle prime righe del libro, punta alla confutazione dell’opinione di co-
loro – Platone e in parte Senofonte – che confondono la definizione del-
le varie forme di autorità, differenziandole non in relazione alla specie,
come dovrebbe essere, ma in relazione alla quantità di sottoposti, ed
istituendo una (non corretta) identità di genere attraverso l’equiparazio-
ne di una grande casa ad una piccola città (1, 1252a 12-13). La critica
all’endoxon platonico (-senofonteo) ha una precisa funzione nel ragio-
namento aristotelico: aprire la strada al metodo giusto – ovviamente
secondo Aristotele – per definire la natura del “composto” polis7.
Aristotele afferma infatti di voler usare il metodo «proposto»8 per
meglio chiarire le affermazioni iniziali (1, 1252a 18-23). Si tratta del
metodo della diaivresi~, della divisione, «perché come negli altri casi
è necessario dividere il composto fino alle parti semplici – queste sono
infatti le parti più piccole del tutto – così, esaminando anche la città
nelle parti dalle quali è composta, osserveremo meglio anche riguardo a
queste in che cosa differiscano le une dalle altre e vedremo se è possibi-
4
Barnes 1981, p. 490.
5
Berti 1989, pp. 75-85.
6
Bertelli 2011.
7
Bertelli 2011.
8
Il termine è altrimenti tradotto «principale» o «normale, consueto»; si veda
il commento al passo.
64
INTRODUZIONE AL LIBRO I
9
Bertelli 2011.
10
Accattino 1978, p. 178.
65
INTRODUZIONE AL LIBRO I
11
Aristotele cercherà nuovamente di servirsi del metodo della divisione nel
libro IV (3, 1289b 27–1290a 13) – per spiegare perché ci sono diversi tipi di
costituzione e più forme di uno stesso tipo –, dove suddividerà la città prima in
famiglie-rendendosi tuttavia conto che non si può parlare di differenza specifica
tra famiglie, anche se questo schema è alla base del discorso della genesi della
polis in I 2, 1252b 15 ss. –, poi per posizione sociale (ricchi, poveri e medi) e
infine tra demos e gnorimoi. Ma nello stesso contesto (IV 4, 1290b 21-1291b
13) Aristotele affronta lo stesso problema con principi metodologici diversi,
istituendo un confronto con la morfologia degli animali. Anche in questo caso,
come nel I libro, cerca di applicare, se possibile in modo ancora più preciso,
il metodo enunciato nel De partibus animalium, che risale dalle funzioni alle
parti (ossia, in presenza di una certa funzione è necessario che esistano orga-
ni deputati ad espletarla), ma dopo l’enumerazione di esse Aristotele non può
andare oltre, perché non è in grado di applicare il principio della divisione del
lavoro organico (ove possibile, ad un solo organo, un solo compito), che utilizza
invece in modo abbastanza rigoroso in un punto del capitolo 2 del I libro (2,
1252b 3). Si limita pertanto a suddividere la società nelle uniche due parti tra
loro incompatibili, ricchi e poveri (corrispondenti a costituzioni oligarchiche e
democratiche). Anche in questo caso dunque metodo della divisione e analisi
funzionale sono utilizzati in successione, e il metodo biologico (che istituisce
l’analogia tra polis e organismo vivente) è applicato nella scienza politica. Cfr.
Accattino 1978, pp. 175-178.
12
Bertelli 2011.
66
INTRODUZIONE AL LIBRO I
13
Bertelli 2011.
67
INTRODUZIONE AL LIBRO I
14
Schütrumpf 1991, I, p. 173.
15
Moggi 2008, pp. 94-95, 100-102.
16
Sulla nozione di polis cfr. Sakellariou 1989; Ampolo 1996; Hansen 1998,
pp. 17-24; Lombardo 1999, pp. 5-36; Hansen-Nielsen 2004, pp. 39-46; Moggi
2008, pp. 94-102. Cfr. inoltre Schütrumpf 1991, I, pp. 173-174.
68
INTRODUZIONE AL LIBRO I
rire gli scambi; la polis è comunità di famiglie e stirpi in vista del vivere
bene, e il suo fine è «una vita compiuta e autosufficiente» (III 9, 1280b
30-35). Si affiancano pertanto due modi di intendere il concetto: la polis
come area abitata civilizzata, sottratta al vivere selvaggio, e la polis
come forma di comunità civica, tipica del mondo greco, di cui parla
Aristotele e che egli pone al vertice della perfezione, tale da consentire
agli individui che ne fanno parte di «vivere» – nel senso di soddisfare
i bisogni primari – e, in più, di «vivere bene», cioè raggiungere l’appa-
gamento di altre funzioni superiori (I 1, 1252b 27-30): «La comunità
perfetta (tevleio~) costituita da più villaggi è la città, che ha ormai per
così dire la completa autosufficienza, che nasce per permettere di vive-
re, che sussiste per permettere di vivere bene».
b) Oi\ko~Éoijkiva (oikos/oikia). I termini individuano tre aree di si-
gnificato: il luogo fisico di abitazione (l’edificio talora è chiamato oikia,
ma non sempre la distinzione è così netta); la casa come famiglia; la
casa come proprietà (comprendente schiavi, animali, casa e terreni, con
tutto quello che in essa viene prodotto e consumato), in una prospettiva
dinamica, mutevole17. L’oikos è la base della società e dell’economia in
Grecia, e risulta il nucleo fondamentale della polis assai più del singolo
individuo, soprattutto a partire dal IV secolo a.C., come è dimostrato
per esempio dalla legislazione ateniese, nella quale i provvedimenti per
garantire la perpetuazione della famiglia come entità socio-economica
sono assai più significativi di quelli relativi ai singoli membri18. In lin-
gua italiana non esiste un termine che possa rendere in modo efficace
tutto quest’insieme: «famiglia» pone l’accento soprattutto sui legami
tra i componenti umani (significativo il nome famuli dato in latino agli
schiavi che vivevano nella casa); del resto, peculiare della famiglia an-
tica era l’essere composta anche da elementi che non avevano tra di
loro rapporti biologici, nella fattispecie gli schiavi, del tutto assente nel
moderno concetto; «casa» d’altro canto limita l’interesse alla proprietà,
alla struttura fisica, e perde di vista le relazioni umane dei suoi membri.
Per questo motivo, soprattutto nel commento, il termine sarà reso con
casa/famiglia. Del resto anche i più adeguati household inglese e Hau-
shalt tedesco, che definiscono la casa come sistema complesso, sottoli-
neano soprattutto la proprietà a discapito delle relazioni affettive.
17
Molto efficace a questo proposito la definizione di U.E. Paoli dell’oikos
come l’organismo nel quale sono compresi cose, persone e riti, riportata da Fer-
rucci 2006, p. 183.
18
Cfr. Bodei Giglioni 1996; Pomeroy 1994; Geiger in Höffe 2005, pp. 388-
389; Nagle 2006.
69
INTRODUZIONE AL LIBRO I
19
Xen. Oec. 1, 5: oi\ko~ de; dh; tiv dokei` hJmi`n ei\nai; h] kai; o{sa ti~ e[xw th`~
oijkiva~ kevkthtai, pavnta tou` oi[kou tau`tav ejstin; jEmoi; gou`n, e[fh oJ Kritov-
boulo~, dokei`, kai; eij mhd∆e[n th/` aujth/` povlei ei[h tw/` kekthmevnw/, pavnta tou`
oi[kou ei\nai o{sa ti~ kevkthtai.
20
Cfr. Ferrucci 2006, p. 188.
70
INTRODUZIONE AL LIBRO I
71
INTRODUZIONE AL LIBRO I
4. Le sezioni argomentative
4.1. L’antropologia
La Politica, il cui contenuto, come si è detto, è enunciato a conclu-
sione dell’Etica Nicomachea, completa, in termini di filosofia pratica,
la concezione aristotelica di quale sia il bene supremo dell’uomo, cioè
la felicità. Nell’Etica la felicità è la realizzazione delle capacità proprie
dell’uomo attraverso il giusto; nel I libro della Politica risulta chiaro
che l’uomo può realizzare pienamente il proprio essere uomo solo nella
città.
A conclusione del capitolo 1 Aristotele si propone di fornire la chia-
ve per comprendere le parti della città attraverso il metodo della divi-
sione; il capitolo 2 si apre invece con l’indicazione di un nuovo modo
di procedere, pur con lo stesso scopo: l’osservazione del modo in cui
esse si sviluppano naturalmente dal loro principio. Non si tratta tuttavia
di una indagine storica, nel senso di una narrazione diacronica delle
fasi successive che hanno condotto, nell’interpretazione aristotelica,
alla costituzione della polis. Non possiamo definirla tale innanzitutto
21
Lord 1984; Simpson 1997.
22
Cfr. Natali 1989, pp. 297-299 e Faraguna 1994, p. 556.
23
Campese 2005, p. 9.
72
INTRODUZIONE AL LIBRO I
24
Saunders 1995, p. 60.
73
INTRODUZIONE AL LIBRO I
4.2. L’oikonomia
La sezione centrale del libro I è dedicata da Aristotele ad analizzare
l’oijkonomiva, l’amministrazione domestica, nelle sue parti costituenti;
è particolarmente importante rilevare come il termine greco non possa
essere tradotto tout court con l’italiano «economia», che perde comple-
tamente di vista l’elemento principale del termine e del concetto, cioè
quella relazione con l’oikos, la casa/famiglia, che è centrale nell’analisi
aristotelica. Anzi, possiamo dire con chiarezza che Aristotele, nella Po-
litica, non si occupa affatto di economia, ma appunto di oikonomia.
L’oikonomia in senso astratto nasce (ma sarebbe meglio dire “si
rivela”) soltanto nel IV secolo a.C.: la prima attestazione in nostro pos-
sesso si trova in Platone (Apol. 36b 7)27. Prima di questo momento sono
attestati solo l’aggettivo oijkonovmo~, amministratore in senso lato, e la
forma verbale, da Focilide (fr. 2 Gent.-Pr.) a Eschilo (Agam. 155) e
Sofocle (Electr. 190) fino a Lisia (7) e Crizia (88 F 2 DK). Il termine oi-
konomia nasce in ambito privato nel senso di «amministrazione dell’oi-
kos» e si occupa di tutto ciò che è relativo all’oikos, cioè dei beni e
delle persone che ne fanno parte nelle loro relazioni (cfr. Pol. I 2, 1253a
23 ss., b 3-11; 13, 1259b 18-21 e inoltre Oec. I 2, 1343a 18 e Philod.
Oec. col. VIII Jensen); il vocabolo tuttavia non ha mantenuto lo stesso
valore nella sua storia, ed anzi è proprio Aristotele a documentare che
nel IV a.C. secolo esso uscì dall’ambito strettamente privato della casa/
famiglia per allargarsi al campo dell’amministrazione della polis28, in
particolare a quello delle entrate e delle uscite29. Senofonte (Oec. 6, 4)
25
Campese 2005, p. 5.
26
Campese 2005, p. 6.
27
Cfr. Spahn 1984, p. 302.
28
Si noti l’uso metaforico p. es. di dioikei`n in relazione alla città in Thuc.
III 37, 3 o in Aristoph. Eccl. 305-306.
29
Da segnalare la classificazione dei tipi di oikonomiai del II libro dell’Eco-
nomico pseudo-aristotelico, 1345b 11-1346a 16: oijkonomivai dev eijsi tevttare~:
... basilikhv, satrapikhv, politikhv, ijdiwtikhv, che rivela come ad un certo
punto esistessero forme diverse di amministrazione finanziaria collegate a quelle
di organizzazione politica.
74
INTRODUZIONE AL LIBRO I
ci dice che hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h|Ê oi[kou~ duvnantai au[xein
a[nqrwpoi, ma è anche un altro prezioso testimone del collegamento
dell’oikonomia, non più esclusivamente legata alla sfera della famiglia,
con le attività economiche dello stato – in An. I 9, 19 l’espressione
deino;~ oijkonovmo~ viene usata in relazione ad un sottoposto di Ciro con
funzioni pubbliche –, parallelamente a un certo numero di iscrizioni
del IV secolo a.C. nelle quali il titolo di oikonomos era assegnato a
funzionari con responsabilità amministrative e finanziarie. L’uso della
terminologia propria dell’amministrazione domestica anche per le que-
stioni della polis è documentata proprio nella Politica (III 18, 1288a
34; IV 15, 1299a 23). Ma, come sottolinea R. Zoeppfel nel suo monu-
mentale commento all’Economico pseudo-aristotelico30, vale poco la
discussione terminologica se essa non corrisponde a una riflessione sul
concetto, che si può ravvisare a partire dalle fonti più antiche; l’as-
senza di un termine, precisa appunto la studiosa, può senz’altro essere
determinata non tanto dall’assenza del dibattito sull’argomento quanto
dalla tipologia delle opere pervenuteci e dall’uso linguistico letterario
di quelle opere, che non riproduce certo la lingua d’uso31. E anche l’im-
piego della terminologia nelle citazioni tarde delle opere greche classi-
che non può che destare qualche sospetto e non può essere certo preso
alla lettera. Qualunque sia il termine usato per esprimere il concetto, va
però sottolineato che la corretta comprensione del tema è stata a lungo
minata dal tentativo, da parte degli studiosi moderni, di ravvisare nelle
opere antiche le radici del moderno concetto di economia – con i noti
deludenti risultati –, portati fuori strada dalla somiglianza terminologi-
ca e dal mancato collegamento del problema con la realtà della società
greca32, e quindi dal legame del concetto con la struttura familiare e
con le relazioni di questa con la polis, che sono poi gli elementi predo-
minanti nella riflessione della Politica aristotelica; questa necessità è
messa in luce solo a partire dall’opera di Polanyi33, secondo cui l’eco-
nomia greca può essere studiata solo all’interno delle istituzioni che le
sono proprie, in quanto embedded, integrata, alla società nel suo com-
plesso. Con estrema semplificazione si può dire che per lungo tempo
30
Zoeppfel 2006, pp. 51-52.
31
Vale l’esempio di hiatros, presente già nell’epica, e di hiatrike, forma at-
testata solo a partire dal Corpus Hippocraticum, quando la scienza medica trova
per la prima volta una tradizione scritta; hiatrikos compare in Platone (p. es. in
Prot. 313e 2; Gorg. 460b 3; Resp. I 350a 1; X 599c 1; Leg. XII 963b 5).
32
Cfr. p. es. Ampolo 1979; Vegetti 1982; Spahn 1984; Descat 1988.
33
Polanyi 1944; Id. 1966; Id. 1968.
75
INTRODUZIONE AL LIBRO I
34
Finley 19852.
35
Faraguna 1994, p. 554.
36
Come sottolineato da Faraguna 1994, p. 577, «la varietà e molteplicità di
opinioni espresse dagli autori antichi, ricostruibili attraverso affermazioni più o
meno esplicite riscontrabili nei loro scritti».
37
Ferrucci 2006, p. 184.
76
INTRODUZIONE AL LIBRO I
38
Ferrucci 2006, p. 201.
39
Ferrucci 2006, p. 202.
77
INTRODUZIONE AL LIBRO I
4.3. La schiavitù
Nel capitolo 4 Aristotele muove dalla premessa che per vivere
l’uomo ha bisogno della proprietà, che è parte della casa, nucleo vitale
dell’aggregazione umana, senza la quale non si può arrivare alla per-
fezione della polis. Quindi, l’uomo «politico» deve vivere all’interno
della famiglia e non può prescindere dalla proprietà. Di essa fanno parte
78
INTRODUZIONE AL LIBRO I
gli schiavi, che sono parte del padrone, sebbene distinta da lui, e sono
strumenti animati nelle sue mani per raggiungere il fine del «vivere»,
punto di partenza per arrivare alla felicità data dalla vita nella polis. Per
raggiungere il bene o la felicità è necessario dunque essere in grado di
contare sul lavoro materiale di altri.
La lunga sezione sulla schiavitù è allora perfettamente funzionale
all’indagine sull’oikos/oikia, e si può supporre che non nasca come ri-
sposta polemica a discussioni in corso40 o come tentativo di risolvere
una questione che si sentiva problematica nella sua essenza, giacché
Aristotele stesso viveva in una società in cui il lavoro era affidato es-
senzialmente agli schiavi, e la sua difesa della schiavitù era legata al
modello sociale a cui era abituato; per inquadrarla nel filo conduttore
del libro, dato dai due elementi del fine e della naturalità, Aristotele
ha bisogno di risolvere una serie di aporie determinate dal fatto che
si tratta di un problema concreto e quotidiano. Il filosofo intende dun-
que dimostrare che la presenza degli schiavi – e quindi la relazione
padrone-schiavo – è necessaria (e utile) perché è naturale; in sostanza
deve esistere perché è quello che in generale accade (come cerca di
dimostrare nel capitolo 5). Il suo ragionamento pertanto è tutt’altro che
aprioristico e ideologico – come è stato invece ritenuto innumerevoli
volte in passato dai commentatori, che ne hanno fatto la bandiera del
giustificazionismo della schiavitù – ma è piuttosto induttivo, e parte
dall’osservazione «di ciò che accade» (5, 1254a 21).
Per inserire lo schiavo tra le cose che sono per natura – e quindi
porlo a buon diritto tra le parti necessarie dell’oikia e tra gli oggetti
di interesse dell’attività dell’oikonomos – l’argomentazione aristotelica
parte dalla dimostrazione che esistono nella realtà schiavi per natura e
che il loro ruolo rappresenta ciò che è meglio e giusto. Per arrivare a ciò
è opportuno dimostrare che la schiavitù è naturale e giusta perché alcu-
ni uomini sono stati resi dalla natura incapaci di pieno sviluppo umano;
40
Cfr. per esempio il retore del V secolo a.C. Antifonte (fr. 44 B col. 2 l.13
DK: «per natura siamo nati tutti simili in tutto, barbari e Greci. La prova è che
tutti gli uomini ritengono le stesse cose necessarie per natura, se le procurano
nello stesso modo, e in queste questioni non c’è distinzione tra greco e barbaro:
tutti respiriamo l’aria con bocca e narici e usiamo le mani per mangiare») o il
poeta comico del IV secolo Filemone (fr. 95 K: «benché un uomo sia schiavo,
la carne è la stessa nostra; infatti per natura nessuno nasce per essere schiavo»).
Una riflessione più articolata, a livello filosofico ed ideologico, sarà sviluppa-
ta, a partire dal relativismo sofistico, con il pensiero stoico, cinico ed epicureo.
Sulle istanze culturali legate al problema della schiavitù cfr. Cambiano 1987;
Schofield 1990, pp. 16-27; Brunt 1993, pp. 343-388, spec. pp. 351-356; Garnsey
1996, p. 74; Moggi 2005, pp. 206-214.
79
INTRODUZIONE AL LIBRO I
è nei piani della natura il fatto che essi debbano servire come strumenti
per la buona vita di coloro che sono capaci di guidarli.
Il ragionamento parte dal principio che in ogni composto formato
di parti che rappresentano un’unità esistono un elemento che comanda
e uno che è comandato per natura; se ne ricordano alcune diverse tipo-
logie, all’interno dell’essere vivente in generale, nel rapporto uomo-
animale, nella relazione maschio-femmina e infine in quella padrone-
schiavo41. Per meglio spiegare questo concetto Aristotele ricorre al pa-
rallelo con la divisione di ogni essere vivente in anima (comandante)
e corpo (comandato) e dell’anima in parte razionale (comandante) ed
emotiva (comandata), che rappresenta la condizione ottimale e il con-
sueto ordine naturale; nella relazione padrone-schiavo dunque lo schia-
vo sarà collocato al livello del corpo e della parte emotiva dell’anima.
Queste premesse portano ad una definizione dello schiavo per natura
per gradi successivi: schiavo è «chi è potenzialmente in condizione di
appartenere ad un altro uomo, e perciò appartiene a un altro» (5, 1254b
20-22); fa uso del corpo e questo è il suo compito e quel che di meglio
si può ottenere da lui; partecipa della ragione nella misura in cui può
percepirla, ma non possederla ed è quindi legato a chi di fatto possiede
la ragione (il padrone), al quale obbedisce; il tipo di attività che svolge
lo avvicina agli animali domestici42.
41
Aristotele impiega una enorme quantità di modelli diversi per esprimere il
carattere, lo status e la funzione dello schiavo: possessore/possesso, utilizzatore
dello strumento/strumento, uomo/animale, ragione/emozione, anima/corpo, parte/
intero, animato/inanimato (Saunders 1995, p. 102). Ciascuna di queste coppie di
opposti cerca di catturare una parte della visione generale, ma non vi è una tratta-
zione armonica d’insieme del problema, che si dipana nel corso dell’intero libro e
ancora in alcuni altri punti dell’opera e presenta numerose difficoltà esegetiche.
42
Appare suggestiva, ma difficilmente dimostrabile sulla base del ragio-
namento di Aristotele, l’opinione espressa da Simpson (1998, pp. 37-38) nel
commento a I 6, 1254b 17: nel parlare di persone che sono nella condizione
di schiavi per natura, nel senso che sono quelli la cui opera migliore è l’uso
del corpo, Aristotele usa diakeintai, indicando una condizione e riferendosi alla
«generazione» o alla nascita; questa condizione potrebbe essere dunque il pro-
dotto non solo della nascita, ma del «venire ad essere» (coming into being) in
questa condizione per cui lo schiavo per natura potrebbe non esserlo per questio-
ni di nascita, ma potrebbe diventarlo in modi diversi: per caso, per educazione
o anche per scelta. Il paragone con gli animali potrebbe essere in questo senso
illuminante: gli animali domestici infatti diventano tali non per nascita, ma per
educazione ed esercizio, anche se non sono per natura in questa condizione. Per-
tanto, dall’interpretazione di Simpson si potrebbe dedurre che quella di schia-
vo per natura sia per alcuni una condizione di nascita e per altri una forma di
«generazione» successiva, dovuta a un errore della natura che non ha realizzato
appieno il proprio telos.
80
INTRODUZIONE AL LIBRO I
81
INTRODUZIONE AL LIBRO I
4.4. La crematistica
Dopo aver elencato le parti dell’amministrazione domestica in rela-
zione alla composizione della casa/famiglia in termini di liberi e schiavi
(3, 1253b 1-11), Aristotele introduce ancora un elemento, la cremati-
stica, arte di procurarsi beni, che ha a che fare non tanto con i rapporti
tra i membri della famiglia quanto con la proprietà, l’altro costituente
43
Il passaggio dalla potenza all’atto (cioè da essere con caratteri di schiavo
per natura a schiavo vero e proprio) non accade spontaneamente, come avviene
in natura per quello dal seme alla pianta, ma richiede un atto violento di asservi-
mento; tuttavia, aggiunge Aristotele, è la virtù stessa a trovarsi nella condizione
di poter usare la violenza (bia), e quindi questa non appare disgiunta dalla virtù
nel porre in atto l’asservimento (6, 1255a 13-16; Vegetti 2000, p. 73).
44
Cfr. Vegetti 2000, pp. 73-74.
82
INTRODUZIONE AL LIBRO I
45
Cfr. Xen. Oec. 6, 4, dove ejpisthvmh~ mevn tino~ e[doxen hJmi`n o[noma ei\-
nai hJ oijkonomiva, hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h/| oi[kou~ duvnantai au[xein
a[nqrwpoi, oikonomia è «il nome di una scienza; questa scienza è quella per
mezzo della quale gli uomini risultano in grado di accrescere il loro patrimo-
nio»; l’oikos, o{per kth`si~ hJ suvmpasa, «si identifica con la proprietà nel suo
complesso».
83
INTRODUZIONE AL LIBRO I
46
Faraguna 1994, p. 556.
47
Essa è definita anche crematistica fisiologica, «tecnica del rifornimento»,
in Campese 2004, p. 155.
84
INTRODUZIONE AL LIBRO I
48
Cfr. Campese 2005, p. 12.
85
INTRODUZIONE AL LIBRO I
che di fronte alla situazione reale Aristotele non poteva non lavorare
sull’empiria49. L’economia market oriented finalizzata al profitto che
si affacciava alla società ateniese e greca nel corso del IV secolo viene
quindi rigettata da Aristotele come estranea ed esterna al suo concet-
to di oikonomia e stigmatizzata come «crematistica» in senso tecnico;
ancora una volta l’argomentazione aristotelica, anche se non sempre
in maniera lineare, è guidata dal tentativo di saldare analisi teorica e
circostanze fattuali: una buona scuola di metodo per comprendere la
realtà della polis.
49
Faraguna 2006, p. 134.
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119
SIGLE E ABBREVIAZIONI
SIGLE E ABBREVIAZIONI
USATE NEGLI APPARATI CRITICI
121
Bibliografia
I. Testimoni manoscritti
a) Papiri
Pap PMich inv. 6643 et PBrux inv. E 8073 (fragmenta Pol. IV
4-5-6, 1292a 30-1292b 2 et 1293a 15-18)
- Codices potiores
A Parisinus Coislinianus 161 (olim 304), chart. a. 1360/1380
B Parisinus gr. 2026 (olim Medic. Reg. 3085), membr. saec.
XIII ex./XIV in.
C Parisinus suppl. gr. 652, chart. saec. XV ex.
D Mosquensis Synodus Bibl. 451 Vladimir (8 Savva = VIII
Matthaei), chart. saec. XV
E Utinensis Archiepiscopalis VI 5 (258), chart. XV sec.
H Berolinensis Hamiltonianus 41 (397 Studemund), chart. saec.
XV
M Ambrosianus B 105 sup. (126 Martini-Bassi), membr. saec. XV
P Parisinus gr. 2033 (olim Medic. Reg. 3077, Reg. 3294), chart.
a. 1460/1480
P1857 Parisinus gr. 1857 (olim Fontainebl. Reg. 2592), membr. a. 1492
P1858 Parisinus gr. 1858 (olim Colb. 2401, Reg. 2592,3), membr.
saec. XV
P2025 Parisinus gr. 2025 (olim Reg. 3084,2), membr. saec. XV ex.
S Leidensis Scaligeranus gr. 26, membr. a. 1445
V Vaticanus gr. 1298, II, membr. palimps. saec. X (fragmenta
librorum III et IV)
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SIGLE E ABBREVIAZIONI
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TESTO E TRADUZIONE*
1252a 3 ei\nai non vert. G. nec G.i. 4 mavlista de; ras. B 5 kai;1 om.
P1 (non vert. G. nec G.i.) Ú hJ kuriwtavth pasw`n P1 6 dev ejstin MP 8
ei\nai om. P1 (post to;n suppl. M1) : non vert. G. nec G.i. : secl. Sus. 8-9 to;n
aujtovn] taujtovn H (idem G. et G.i.) 11 oijkonovmon] on ras. B 13 politikw`n
(poli ras.)B2 14 ejfevsthke vix leg. B : ejfestevkaΔ vix leg. M : ejfesthvkei
P4 LP1857P2025W Ald. 15 tou;~ om. P4 : tou;~ lovgou~ om. in lac. H 16
[a[rcwn] kai; ajrcovmeno~ h\/ Bernays 19 -ton mevcri tw`n ajsunqev- om. V2238ac
140
POLITICA I
1252a 7-13 Plat. Pol. 258e 8-11 Povteron ou\n to;n politiko;n kai; basileva
kai; despovthn kai; e[tΔ oijkonovmon qhvsomen wJ~ e}n pavnta tau`ta prosagoreuv-
sonte~, h] tosauvta~ tevcna~ aujta;~ ei\nai fw`men o{saper ojnovmata ejrrhvqh;
ibid. 259b 7-c 3 Kai; mh;n oijkonovmo~ ge kai; despovth~ taujtovn. - Tiv mhvn; - Tiv dev;
megavlh~ sch`ma oijkhvsew~ h] smikra`~ au\ povlew~ o[gko~ mw`n ti pro;~ ajrch;n
dioivseton; - Oujdevn. - Oujkou`n, o} nundh; dieskopouvmeqa, fanero;n wJ~ ej-
pisthvmh miva peri; pavntΔ ejsti; tau`ta: tauvthn de; ei[te basilikh;n ei[te poli-
tikh;n ei[te oijkonomikhvn ti~ ojnomavzei, mhde;n aujtw`Δ diaferwvmeqa ibid. 259d
3-5 Th;n a[ra politikh;n kai; politiko;n kai; basilikh;n kai; basiliko;n eij~ tauj-
to;n wJ~ e}n tau`ta pavnta sunqhvsomen; cf. Plat. Leg. III 680d 4-681a 3, 683a 2-8
1252a 2 ajgaqou` tino~ cf. Ar. EN I 1094a 1-2 Pa`sa tevcnh kai; pa`sa mev-
qodo~, oJmoivw~ de; pra`xiv~ te kai; proaivresi~, ajgaqou` tino;~ ejfivesqai dokei`
28 Stob. II 7, 26 (II 148, 19-21) Sunevrcesqai ga;r tw`/ qhvlei to; a[rren kata;
povqon teknwvsew~ kai; th`~ tou` gevnou~ diamonh`~: ejfivesqai ga;r eJkavteron
gennhvsew~
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POLITIKWN A
142
POLITICA I
1252b 1-3 Theod. Gazae Probl. 6, 21 kai; ejn tw`/ aV tw`n Politikw`n, ouj-
de;n ga;r ... e}n pro;~ e{n
143
POLITIKWN A
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POLITICA I
15-16, 28 Stob. II 7, 26 (II 148, 8-13) Mikra; gavr ti~ e[oiken ei\nai povli~
oJ oi\ko~, ei[ ge katΔ eujch;n aujxomevnou tou` gavmou kai; tw`n paivdwn ejpididovn-
twn kai; sunduazomevnwn ajllhvloi~ e{tero~ oi\ko~ uJfivstatai kai; trivto~
ou{tw~ kai; tevtarto~, ejk de; touvtwn kwvmh kai; povli~. Pleiovnwn ga;r
genomevnwn kwmw`n povli~ ajpetelevsqh 27-30 Ar. Oec. I 1343a 10-11 Povli~
me;n ou\n oijkiw`n plh`qov~ ejsti kai; cwvra~ kai; kthmavtwn au[tarke~ pro;~ to;
eu\ zh`n 1253a 2-3 Stob. II 7, 26 (II 148, 2-4) ajnagkai`on ejfexh`~ kai; peri;
tou` oijkonomikou` te kai; politikou` dielqei`n, ejpeidh; fuvsei politiko;n
zw`/on a[nqrwpo~
145
POLITIKWN A
fuvsei politiko;n zw/'on, kai; oJ a[poli" dia; fuvs in kai; ouj dia;
tuvchn h[toi fau'lov" ejstin, h] kreivttwn h] a[nqrwpo", w{sper kai;
5 oJ uJfΔ ΔOmhvrou loidorhqei;"
ajfrhvtwr ajqevmisto" ajnevstio":
a{ma ga;r fuvsei toiou'to" kai; polevmou ejpiqumhthv", a{te per
a[zux w]n w{sper ejn pettoi'". diovti de; politiko;n oJ a[nqrwpo" <
zw/'on pavsh" melivtth" kai; panto;" ajgelaivou zw/vou ma'llon,
dh'lon. oujqe;n gavr, wJ" famevn, mavthn hJ fuvs i" poiei': lovgon
10 de; movnon a[nqrwpo" e[cei tw'n zw/vwn: hJ me;n ou\n fwnh; tou' lu-
phrou' kai; hJdevo" ejsti; shmei'on, dio; kai; toi'" a[lloi" uJpavr-
cei zw/voi", mevcri ga;r touvtou hJ fuvs i" aujtw'n ejlhvluqe, tou'
e[cein ai[sqhsin luphrou' kai; hJdevo" kai; tau'ta shmaivnein
ajllhvloi": oJ de; lovgo" ejpi; tw/' dhlou'n ejsti to; sumfevron kai;
15 to; blaberovn, w{ste kai; to; divkaion kai; to; a[dikon: tou'to ga;r
pro;" ta; a[lla zw/'a toi'" ajnqrwvpoi" i[dion, to; movnon ajgaqou'
kai; kakou' kai; dikaivou kai; ajdivkou kai; tw'n a[llwn ai[sqhsin
e[cein: hJ de; touvtwn koinwniva poiei' oijkivan kai; povlin. kai;
provteron dh; th/' fuvsei povli" h] oijkiva kai; e{kasto" hJmw'n ejstin.
20 to; ga;r o{lon provteron ajnagkai'on ei\nai tou' mevrou": ajnairou-
mevnou ga;r tou' o{lou oujk e[stai pou;" oujde; ceivr, eij mh; oJmwnu-
vmw", w{sper ei[ ti" levgei th;n liqivnhn: diafqarei'sa ga;r e[stai
toiauvth: pavnta de; tw/' e[rgw/ w{ristai kai; th/' dunavmei, w{ste
mhkevti toiau'ta o[nta ouj lektevon ta; aujta; ei\nai ajllΔ oJmwv-
25 numa. o{ti me;n ou\n hJ povli" kai; fuvsei kai; provteron h] e{kas-
to", dh'lon: eij ga;r mh; aujtavrkh" e{kasto" cwrisqeiv", oJmoivw"
3 zw`o
/ n ejsti MS (homo natura civile animal est G. : homo natura civile ani-
mal G.i.) : ejsti om. cett. : del. edd. 4 tuvchn] tevcnhn MS Ú h] a[nqrwpo~] paro;
super h] B2, super a[nqrwpo~ A1 5 ajfrhvtwr ajqevmisto" ajnevstio"] insocialis,
illegalis, sceleratus G. (sceleratus: «misread ajnevstio~ for ajnovs io~» Newman) :
afritor, athemistos, anestios G.i. 6 ejpiqumhthv~] ejrasthv~ H (glossa mihi vide-
tur) : dΔ ejpiqhmhthv~ Urb 7 a[zux w]n om. AB (post vacuum om. EOUrb : tan-
tum w]n om. P2025) : ajnariptw`n Castc (sine jugo existens G.) Ú pettoi`~] petei-
noi`~ Pc (volatilibus G.) : velut perizixon (i.e. perivzux w]n), sicut in pegonis G.i. Ú
a[neu zuvgou tugcavnwn P4 : a{te ãw{sÃper a[zux w[n [w{sper] ejn pettoi`~ fortasse
legendum est Ú diovti] «an o{ti?» Drei. : de;] dh; Drei. 7-8 zw`o / n oJ a[nqrwpo~ P1
9 oujde;n P1 10 movno~ Bac Ú ajpo; tw`n zwvw / n S (supra animalia G.) 11 hJdevw~
kai; luphrou` P1 12 ejlhvluqe] proh`lqen LOP1857P2025Ven213VenIV3 (pro
h`lqenw{ste [?] in app. Ross) : ejlhvluqen Ald. 12-13 tou` ... hJdevo~] w{ste aijs-
qavnesqai tou` luphrou` kai; hJdevo~ LOP1857P2025Ven213VenIV3 14 tw`]/ to; P
19 dev H Sus. Immisch Ross Drei. : dhv cett. Aub. (non vert. G.i.) Ú hJmi`n M 22
levgoi ACDEH : levgei cett. et edd. (dicat G. et G.i.) 23 de; om. S 25 kai;1
om. P1 : kai;2 om. ABacCD (neutrum vert. G.i.) : utrum secl. Sus.1,2 : kai;2 secl.
Sus.3,4 : kai; provteron ras. B : protevra EP1857PalUrb Ven200Ven213 VenIV3 :
provtera P2025 : protevrw L81,5L81,6L81,21 (prior G. et G.i.)
146
POLITICA I
147
POLITIKWN A
toi'" a[lloi" mevresin e{xei pro;" to; o{lon, oJ de; mh; dunavme-
no" koinwnei'n h] mhde;n deovmeno" diΔ aujtavrkeian oujqe;n mevro"
povlew", w{ste h] qhrivon h] qeov". fuvsei me;n ou\n hJ oJrmh; ejn
30 pa's in ejpi; th;n toiauvthn koinwnivan: oJ de; prw'to" susthvsa"
megivstwn ajgaqw'n ai[tio". w{sper ga;r kai; telewqe;n bevltis-
ton tw'n zw/vwn a[nqrwpov" ejstin, ou{tw kai; cwrisqe;n novmou kai;
divkh" ceivriston pavntwn. calepwtavth ga;r ajdikiva e[cousa
o{pla: oJ de; a[nqrwpo" o{pla e[cwn fuvetai fronhvsei kai; <
35 ajreth/', oi|" ejpi; tajnantiva e[sti crh'sqai mavlista. dio; ajnosiwv-
taton kai; ajgriwvtaton a[neu ajreth'", kai; pro;" ajfrodivs ia kai;
ejdwdh;n ceivriston. hJ de; dikaiosuvnh politikovn: hJ ga;r divkh po-
litikh'" koinwniva" tavxi" ejstivn, hJ de; divkh tou' dikaivou krivs i".
1253b 3. ΔEpei; de; fanero;n ejx w|n morivwn hJ povli" sunevsthken,
ajnagkai'on prw'ton peri; oijkonomiva" eijpei'n: pa'sa ga;r suvg-
keitai povli" ejx oijkiw'n. oijkonomiva" de; mevrh ejx w|n pavlin oijkiva
sunevsthken: oijkiva de; tevleio" ejk douvlwn kai; ejleuqevrwn. ejpei;
5 dΔ ejn toi'" ejlacivstoi" prw'ton e{kaston zhthtevon, prw'ta de;
kai; ejlavcista mevrh oijkiva" despovth" kai; dou'lo", kai; povs i"
kai; a[loco", kai; path;r kai; tevkna, peri; triw'n a]n touvtwn
skeptevon ei[h tiv e{kaston kai; poi'on dei' ei\nai. tau'ta dΔ ejsti;
despotikh; kai; gamikhv, ajnwvnumon ga;r hJ gunaiko;" kai; ajn-
10 dro;" suvzeuxi": kai; trivton teknopoihtikhv, kai; ga;r au{th oujk <
wjnovmastai ijdivw/ ojnovmati. e[stwsan dΔ au|tai trei'" a}" ei[po-
men. e[sti dev ti mevro" o} dokei' toi'" me;n ei\nai oijkonomiva,
toi'" de; mevgiston mevro" aujth'": o{pw" dΔ e[cei, qewrhtevon:
148
POLITICA I
38 scholium H kai; hJ divkh tou` dikaivou krivs i~. hJ tou` dikaivou krivs i~
politikh`~ koinwniva~ tavxi~ ejstivn. ktl. (Ar. EN V 1134a 31-32 hJ ga;r divkh
krivs i~ tou` dikaivou kai; tou` ajdivkou) 1253b 1-23 Mich. Eph. in EN V 1134a
24 (43, 19-23) oujk e[sti to; politiko;n divkaion, ajllav ti divkaion kaqΔ oJmoiov-
thta, w{sper patro;~ pro;~ uiJovn, kai; ajndro;~ pro;~ gunai`ka, kai; douvlou
pro;~ despovthn: ejn ga;r touvtoi~ oujk e[sti pro;~ ajllhvlou~ to; politiko;n div-
kaion, ajlla; to; oijkonomiko;n kai; despotikovn. tivna de; tau`ta ta; divkaia,
ei\pen ejn tai`~ Politeivai~ ; cf. Theod. Metoch. Sem. 96 (613-614)
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POLITIKWN A
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POLITICA I
1253b 36 Hom. Il. XVIII 376 o[fra oiJ aujtovmatoi qei`on dusaivatΔ ajgw`na
14-1254b 39 An. in EN IV 1124b 30 (190, 4-5) ajllΔ oujde; pro; a[llon zh`n
dunatovn fhsi. to; ga;r pro;~ a[llon douvlou kai; douloprepev~, wJ~ ejn Poli-
teivai~ devdeiktai 24-27 Stob. II 7, 26 (II 149, 12-13)
151
POLITIKWN A
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POLITICA I
1254a 14-15 Al. in Metaph. I 982b 11 (17, 7-9) to;n ga;r dou`lon ejn toi`~
Politikoi`~ ei\nai ei\pen o}~ a[nqrwpo~ w}n a[llou ejstivn: toiou`to~ de; oJ mh;
dioratiko;~ tw`n praktevwn diΔ ajfui?an, ajlla; uJphretikov~ An. in EN IV
1124b 30 (190, 4-5) vide supra ad 1253b 14 ss. 20-1254b 10 cf. Theod. Me-
toch. Sem. 96 (613-614)
153
POLITIKWN A
154
POLITICA I
39-40 glossa A mocqhrov~ ejstin oJ katΔ ejnevrgeian tou` kakou`, o}~ kai;
i[asto~, eij mhvpw mocqhrw`~ e[cei: o} ga;r mocqhrw`~ e[cei, to; kaqΔ e{xin tevlo~,
o} thÊ` fuvsei ejxivswtai
155
POLITIKWN A
ejsti;n e[rgon hJ tou' swvmato" crh's i", kai; tou'tΔ ejstΔ ajpΔ aujtw'n
bevltiston, ou|toi mevn eijs i fuvsei dou'loi, oi|" bevltiovn ejstin
20 a[rcesqai tauvthn th;n ajrchvn, ei[per kai; toi'" eijrhmevnoi". e[sti
ga;r fuvsei dou'lo" oJ dunavmeno" a[llou ei\nai dio; kai; a[llou
ejstivn, kai; oJ koinwnw'n lovgou tosou'ton o{son aijsqavnesqai ajl-
la; mh; e[cein: ta; ga;r a[lla zw/'a ouj lovgw/ aijsqanovmena, ajlla;
paqhvmasin uJphretei'. kai; hJ creiva de; parallavttei mikrovn:
25 hJ ga;r pro;" tajnagkai'a tw/' swvmati bohvqeia givnetai parΔ
ajmfoi'n, parav te tw'n douvlwn kai; para; tw'n hJmevrwn zw/vwn.
bouvletai me;n ou\n hJ fuvs i" kai; ta; swvmata diafevronta
poiei'n ta; tw'n ejleuqevrwn kai; tw'n douvlwn, ta; me;n ijscura;
pro;" th;n ajnagkaivan crh's in, ta; dΔ ojrqa; kai; a[crhsta pro;"
30 ta;" toiauvta" ejrgasiva", ajlla; crhvs ima pro;" politiko;n
bivon: ou|to" de; kai; givnetai dih/rhmevno" ei[" te th;n polemikh;n
creivan kai; th;n eijrhnikhvn. sumbaivnei de; pollavki" kai; touj-
nantivon, tou;" me;n ta; swvmatΔ e[cein ejleuqevrwn tou;" de; ta;"
yucav": ejpei; tou'tov ge fanerovn, wJ" eij tosou'ton gevnointo diav-
35 foroi to; sw'ma movnon o{son aiJ tw'n qew'n eijkovne", tou;" uJpo-
leipomevnou" pavnte" fai'en a]n ajxivou" ei\nai touvtoi" douleuvein.
eij dΔ ejpi; tou' swvmato" tou'tΔ ajlhqev", polu; dikaiovteron ejpi;
th'" yuch'" tou'to diwrivsqai: ajllΔ oujc oJmoivw" rJa/vdion ijdei'n
tov te th'" yuch'" kavllo" kai; to; tou' swvmato". o{ti me;n
1255a toivnun eijs i; fuvsei tine;~ oiJ me;n ejleuvqeroi oiJ de; dou`loi, fa- <
nerovn, oi|" kai; sumfevrei to; douleuvein kai; divkaiovn ejstin.
6. ”Oti de; kai; oiJ tajnantiva favskonte" trovpon tina; levgou-
sin ojrqw'", ouj calepo;n ijdei'n. dicw'" ga;r levgetai to; douleuvein
5 kai; oJ dou'lo": e[sti gavr ti" kai; kata; novmon dou'lo" kai;
douleuvwn: oJ ga;r novmo" oJmologiva tiv" ejstin ejn w|/ ta; kata;
povlemon kratouvmena tw'n kratouvntwn ei\naiv fasin. tou'to dh;
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POLITICA I
1254b 27-29 Stob. II 7, 26 (II 149, 1-3) ijscuro;n me;n tw/` swvmati pro;~
uJphresivan, nwqh` de; kai; kaqΔ eJauto;n ajduvnaton diazh`n, w|/ to; a[rcesqai
sumfevrein 1255a 1-1255b 4 ”Oti me;n toivnun ... ouj mevntoi duvnatai in
[Plut.] Nob. 6 (214, 6-218, 10) Oujde; mh;n oujdΔ aujto;~ ΔAristotevlh~, o}n w{sper
diwvkonta toutoni; to;n ajgw`na proskalei`te, ou{tw~ eujgeneiva~ ajnisovrropo~
diaiththv~ ejstin, w{sqΔ uJmi`n sumfwnei`sqai. kai; ga;r ejn toi`~ Politikoi`~
a[llw~ te a[llo zhtou`nto~ ejkei` gnwvmh scedo;n au{th. {Oti me;n toivnun eijs i; ...
ouj mevntoi duvnatai 5 Stob. II 7, 26 (II 149, 3-4) ... ei[te kai; novmw/ dou`lon
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POLITIKWN A
to; divkaion polloi; tw'n ejn toi'" novmoi" w{sper rJhvtora grav-
fontai paranovmwn, wJ" deino;n eij tou' biavsasqai dunamevnou
10 kai; kata; duvnamin kreivttono" e[stai dou'lon kai; ajrcovmenon
to; biasqevn. kai; toi'" me;n ou{tw dokei', toi'" dΔ ejkeivnw", kai;
tw'n sofw'n. ai[tion de; tauvth" th'" ajmfisbhthvsew", kai; o}
poiei' tou;" lovgou" ejpallavttein, o{ti trovpon tina; ajreth; tug-
cavnousa corhgiva" kai; biavzesqai duvnatai mavlista, kai;
15 e[stin ajei; to; kratou'n ejn uJperoch/' ajgaqou' tino", w{ste dokei'n
mh; a[neu ajreth'" ei\nai th;n bivan, ajlla; peri; tou' dikaivou mov-
non ei\nai th;n ajmfisbhvthsin. dia; ga;r tou'to toi'" me;n eu[noia
dokei' to; divkaion ei\nai, toi'" dΔ aujto; tou'to divkaion, to; to;n
kreivttona a[rcein: ejpei; diastavntwn ge cwri;" touvtwn tw'n lov-
20 gwn ou[te ijscuro;n oujqe;n e[cousin ou[te piqano;n a{teroi lovgoi,
wJ" ouj dei' to; bevltion katΔ ajreth;n a[rcein kai; despovzein. o{lw"
dΔ ajntecovmenoiv tine", wJ" oi[ontai, dikaivou tinov", oJ ga;r novmo"
divkaiovn ti, th;n kata; povlemon douleivan tiqevasi dikaivan,
a{ma dΔ ou[ fasin: thvn te ga;r ajrch;n ejndevcetai mh; di-
25 kaivan ei\nai tw'n polevmwn, kai; to;n ajnavxion douleuvein oujda-
mw'" a]n faivh ti" dou'lon ei\nai: eij de; mhv, sumbhvsetai tou;" euj-
genestavtou" [ei\nai] dokou'nta" douvlou" ei\nai kai; ejk douvlwn,
eja;n sumbh/' praqh'nai lhfqevnta". diovper aujtou;" ouj bouvlontai
levgein douvlou", ajlla; tou;" barbavrou". kaivtoi o{tan tou'to lev-
30 gwsin, oujqe;n a[llo zhtou's in h] to; fuvsei dou'lon, o{per ejx
ajrch'" ei[pomen: ajnavgkh ga;r ei\naiv tina" favnai tou;" me;n
pantacou' douvlou" tou;" dΔ oujdamou'. to;n aujto;n de; trovpon kai;
peri; eujgeneiva": auJtou;" me;n ga;r ouj movnon parΔ auJtoi'" eujge-
nei'" ajlla; pantacou' nomivzousin, tou;" de; barbavrou" oi[koi mov-
35 non, wJ" o[n ti to; me;n aJplw'" eujgene;" kai; ejleuvqeron to; dΔ
oujc aJplw'", w{sper kai; hJ Qeodevktou ÔElevnh fhsi;
8 novmoi~] lovgoi~ Hs Ú w{sper rJht v ora] w{sper rJhtv ore~ malim 9 deino;n
ão]nà suppl. Ross 10 e[sti M 11 [kai;] tw`n sofw`n Koraïs 17 eujnoiva M :
eujnomiva Lambin : eujhqv eia Richards : a[noia Ross 18 to; ante divkaion2 add.
M 24 a{ma AsHP2 : o{lw~ P1LP1857UrbVen213 (omnino autem non aiunt G. :
semper autem non aiunt G.i. : «In vulgatis exemplaribus depravate legitur a{ma
dΔ oujfasi;, pro o{lw~ de; ouf
j asi;, ut in vetustis legitur» Sep.) : aJplw`~ Fraenkel
(o[lw~ aut aJplw`~ Bas.3mg) 24-25 a{ma ... dikaivan om. OacP2025ac 25 ei\nai
om. Pac Ú polemivwn CMS 27 [ei\nai] seclusi 28 paraqh`nai MS Ú tou;~ euj-
sqenei`~ kai; krathqevnta~ post lhfqevnta~ M : tou;~ eujgenei`~ kai; krath-
qevnta~ glossa super aujtou;~ A4 32 pantacou` P2 (aJpantacou` gr. P2) : ejx
ajrch`~ P1 33 auJtou;~ A2 : auJtoi`~ ABL81,21 Urb : aujtou;~ cett. : parΔ aujtoi`~
CHMS 35 kai; om. CDE Newman 36 ÔElevnh] ejlelovgh MS : Eleloga G. :
Elena G.i. : elegia Alb.
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1256a 23-29 Mich. Eph. in EN V 1133b 17 (40, 2) aiJ me;n ou\n ajllagaiv,
wJ~ ejn tai`~ Politeivai~ levgetai, ou{tw~ ejgivnonto pro; th`~ tou` nomivsmato~
euJrevsew~: kli`nai ga;r ejdivdonto ajnti; oijkiva~, kai; ta\lla oJmoivw~, kai; tiv ga;r
diafevrei, pevnte klivna~ labei`n kai; dou`nai oijkivan h] e– mna`~, ejpei; e– mnw`n
eijs in a[xiai aiJ kli`nai… tau`ta deivxa~ sumperaivnetai levgwn tiv me;n ou\n ejsti
to; divkaion, tov te dianemhtiko;n dhlonovti kai; to; ejpanorqwtikovn, kai; to;
ajntikeivmenon touvtoi~ a[dikon, ei[rhtai
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1256b 15-20 cf. Porph. Abst. II 12, 3 20-21 Theod. Gazae Probl. 6, 21
kai; ejn tw`/ aV tw`n Politikw`n, [...] (cf. 1252b 1-3) kai; au\, oujqevn, wJ~ famevn,
mavthn hJ fuvs i~ poiei` 21 cf. An. Prof. Ep. 41, 24-25 tw`/ ajtelei` poiei`n
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fuvsei divkaion tou'ton o[nta to;n povlemon. e}n me;n ou\n ei\do"
kthtikh'" kata; fuvs in th'" oijkonomikh'" mevro" ejstivn, o} dei'
h[toi uJpavrcein h] porivzein aujth;n o{pw" uJpavrch/, w|n e[sti qh-
saurismo;" crhmavtwn pro;" zwh;n ajnagkaivwn, kai; crhsivmwn
30 eij" koinwnivan povlew" h] oijkiva". kai; e[oiken o{ gΔ ajlhqino;"
plou'to" ejk touvtwn ei\nai. hJ ga;r th'" toiauvth" kthvsew"
aujtavrkeia pro;" ajgaqh;n zwh;n oujk a[peirov" ejstin, w{sper Sov-
lwn fhsi; poihvsa"
plouvtou dΔ oujde;n tevrma pefasmevnon ajndravs i kei'tai.
kei'tai ga;r w{sper kai; tai'" a[llai" tevcnai":
35 oujde;n ga;r o[rganon a[peiron oujdemia'" ejsti tevcnh" ou[te plhv-
qei ou[te megevqei, oJ de; plou'to" ojrgavnwn plh'qov" ejstin oijkono-
mikw'n kai; politikw'n. o{ti me;n toivnun e[sti ti" kthtikh;
kata; fuvs in toi'" oijkonovmoi" kai; toi'" politikoi'", kai; diΔ
h}n aijtivan, dh'lon.
40 9. “Esti de; gevno" a[llo kthtikh'", h}n mavlista kalou's i,
kai; divkaion aujto; kalei'n, crhmatistikhvn, diΔ h}n oujde;n dokei'
1257a pevra~ ei\nai plouvtou kai; kthvsew~: h}n wJ~ mivan kai; th;n
aujth;n th/' lecqeivsh/ polloi; nomivzousi dia; th;n geitnivasin:
e[sti dΔ ou[te hJ aujth; th/' eijrhmevnh/ ou[te povrrw ejkeivnh". e[sti dΔ <
hJ me;n fuvsei hJ dΔ ouj fuvsei aujtw'n, ajlla; diΔ ejmpeiriva"
5 tino;" kai; tevcnh" givnetai ma'llon. lavbwmen de; peri; aujth'"
th;n ajrch;n ejnteu'qen. eJkavstou ga;r kthvmato" ditth; hJ crh's iv"
ejstin, ajmfovterai de; kaqΔ auJto; [me;n] ajllΔ oujc oJmoivw" kaqΔ <
auJtov, ajllΔ hJ me;n oijkeiva hJ dΔ oujk oijkeiva tou' pravgmato",
oi|on uJpodhvmato" h{ te uJpovdesi" kai; hJ metablhtikhv. ajm-
10 fovterai ga;r uJpodhvmato" crhvsei": kai; ga;r oJ ajllattov-
meno" tw/' deomevnw/ uJpodhvmato" ajnti; nomivsmato" h] trofh'"
26 tou`ton o[nta to;n povlemon BEH (to;n povlemon prw`ton ACD) : o[nta
tou`ton to;n qhreutiko;n povlemon prw`ton MS : hoc praedativum bellum et
primum G. : qhreutikovn om. P : o[nta tou`ton to;n [qhreutiko;n] povlemon
[kai; prw`ton] glossas (ex A4) secludens Sus.1 («prw`ton var. lectio ad e}n esse
videtur, to;n qhreutiko;n supra tou`ton AD, i. e. glossa» Drei.) 27 kata; fuv-
sin kthtikh`~ P1 Ú o{ dei` codd. (pars est, quam oportet G.) : kaqo; Bernays Im-
misch : ão{Ãti Zwinger : h| Lambin : o{ti (i.e. quia) Richards Ross : w/| Thurot
Drei. : diΔ o{ Schnitzer : a{ Rassow 28 w|n] ejx w|n H 30 eij~] pro;~ P 32 ajga-
qw`n Pac (hn supra qw`n adscr.) P2 33 oujqe;n ABCDHPac : oujde;n P1 Sol. (i.e.
Stob. codd.) 34 kei`tai1 om. MS : kei`tai ga;r om. Pac 36 plh`qo~] plou`-
to~ H 36-37 oijkonomikw`n kai; politikw`n] yconomico et politico G. : rei fa-
miliaris et rei publicae Bruni 37 kthtikh;] kth`s i~ C 41 aujtov] ou[tw
Bas.3mg 1257a 1 h}n] o}n M 3 ejkeivnh~] keimevnh Sus.1,2 (ex neque longe
posita G. : neque longe ab illa G.i. : cf. infra 31 ejkeivnh) 6 crhvmato~ MP2S
(rei G.) 7 [kaqΔ auJtov] Koraïs Ú [mevn] seclusi 9 uJpovdhsi~ P1
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1258a 2-3 Eustath. in Il. VI 68 (mhv ti~ nu`n ejnavrwn ejpiballovmeno~ me-
tovpisqe) II 246, 21-247, 2 Shmeivwsai de; to; ejpibavllesqai ajnti; tou` ejfive-
sqai kai; ejpiqumei`n. dio; kai; genikh`/ suntavssetai. Kei`tai de; hJ toiauvth
levxi~ oJmoivw~ kai; parΔ a[lloi~, w|n ejsti kai; ΔAritotevlh~ (cf. 1260b 36)
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10. Dh'lon de; kai; to; ajporouvmenon ejx ajrch'", povteron tou'
20 oijkonomikou' kai; politikou' ejstin hJ crhmatistikh; h] ou[, ajlla;
dei' tou'to me;n uJpavrcein: w{sper ga;r kai; ajnqrwvpou" ouj poiei' hJ
politikhv, ajlla; labou'sa para; th'" fuvsew" crh'tai
aujtoi'", ou{tw kai; trofh;n th;n fuvs in dei' paradou'nai, gh'n h]
qavlattan h] a[llo ti ejk de; touvtwn: wJ" dei' tau'ta diaqei'-
25 nai proshvkei to;n oijkonovmon. ouj ga;r th'" uJfantikh'" e[ria
poih'sai, ajlla; crhvsasqai aujtoi'", kai; gnw'nai de; to; poi'on
crhsto;n kai; ejpithvdeion, h] fau'lon kai; ajnepithvdeion. kai; ga;r
ajporhvseien a[n ti" dia; tiv hJ me;n crhmatistikh; movrion th'"
oijkonomiva", hJ dΔ ijatrikh; ouj movrion: kaivtoi dei' uJgiaivnein tou;"
30 kata; th;n oijkivan, w{sper zh'n h] a[llo ti tw'n ajnagkaivwn.
ejpei; de; e[sti me;n wJ" tou' oijkonovmou kai; tou' a[rconto" kai; peri;
uJgieiva" ijdei'n, e[sti dΔ wJ" ou[, ajlla; tou' ijatrou', ou{tw kai; peri;
tw'n crhmavtwn e[sti me;n wJ" tou' oijkonovmou, e[sti dΔ wJ" ou[, ajlla;
th'" uJphretikh'": mavlista dev, kaqavper ei[rhtai provteron, dei'
35 fuvsei tou'to uJpavrcein. fuvsew" gavr ejstin [e[rgon] trofh;n tw/'
gennhqevnti parevcein: panti; gavr, ejx ou| givnetai, trofh; to;
leipovmenovn ejsti. dio; kata; fuvs in ejsti;n hJ crhmatistikh;
pa's in ajpo; tw'n karpw'n kai; tw'n zw/vwn. diplh'" dΔ ou[sh"
aujth'", w{sper ei[pomen, kai; th'" me;n kaphlikh'" th'" dΔ oijko-
40 nomikh'", kai; tauvth" me;n ajnagkaiva" kai; ejpainoumevnh", th'"
1258b de; metablhtikh`~ yegomevnh~ dikaivw~: ouj ga;r kata; fuvs in ajllΔ
ajpΔ ajllhvlwn ejstivn. eujlogwvtata misei'tai hJ ojbolo-
statikh; dia; to; ajpΔ aujtou' tou' nomivsmato" ei\nai th;n kth's in
kai; oujk ejfΔ o{per ejporivsqh. metabolh'" ga;r ejgevneto cavrin,
5 oJ de; tovko" aujto; poiei' plevon, o{qen kai; tou[noma tou'tΔ ei[lh-
fen: o{moia ga;r ta; tiktovmena toi'" gennw's in aujtav ejstin, oJ de;
tovko" givnetai novmisma [ejk] nomivsmato": w{ste kai; mavlista
para; fuvs in ou|to" tw'n crhmatismw'n ejstin.
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11. ΔEpei; de; ta; pro;" th;n gnw's in diwrivkamen iJkanw'", ta;
10 pro;" th;n crh's in dei' dielqei'n. pavnta de; ta; toiau'ta th;n
me;n qewrivan ejleuqevran e[cei, th;n dΔ ejmpeirivan ajnagkaivan.
e[sti de; crhmatistikh'" mevrh crhvs ima: to; peri; ta; kthvmata
e[mpeiron ei\nai, poi'a lusitelevstata kai; pou' kai; pw'", oi|on
i{ppwn kth's i" poiva ti" h] bow'n h] probavtwn, oJmoivw" de; kai;
15 tw'n loipw'n zw/vwn: dei' ga;r e[mpeiron ei\nai pro;" a[llhlav
te touvtwn tivna lusitelevstata, kai; poi'a ejn poivoi" tovpoi":
a[lla ga;r ejn a[llai" eujqhnei' cwvrai", ei\ta peri; gewrgiva",
kai; tauvth" h[dh yilh'" te kai; pefuteumevnh", kai; melit-
tourgiva", kai; tw'n a[llwn zw/vwn tw'n plwtw'n h] pthnw'n, ajfΔ
20 o{swn e[sti tugcavnein bohqeiva". th'" me;n ou\n oijkeiotavth" crh-
matistikh'" tau'ta movria kai; prw`ta, th'" de; metablhtikh'"
mevgiston me;n ejmporiva, kai; tauvth" mevrh triva, nauklhriva
forthgiva paravstasi": diafevrei de; touvtwn e{tera eJtevrwn tw/'
ta; me;n ajsfalevstera ei\nai, ta; de; pleivw porivzein th;n ejpi-
25 karpivan, deuvteron de; tokismov", trivton de; misqarniva: tauv-
th" dΔ hJ me;n tw'n banauvswn tecnw'n, hJ de; tw'n ajtevcnwn
kai; tw/' swvmati movnw/ crhsivmwn. trivton de; ei\do" crhma-
tistikh'" metaxu; tauvth" kai; th'" prwvth": e[cei ga;r kai; th'"
kata; fuvs in ti mevro" kai; th'" metablhtikh'", o{sa ajpo; gh'"
30 kai; tw'n ajpo; gh'" ginomevnwn, ajkavrpwn me;n crhsivmwn dev,
oi|on uJlotomiva te kai; pa'sa metalleutikhv. au{th de; polla;
h[dh perieivlhfe gevnh: polla; ga;r ei[dh tw'n ejk gh'" metal-
leuomevnwn e[stin. peri; eJkavstou de; touvtwn kaqovlou me;n ei[rh-
tai kai; nu'n, to; de; kata; mevro" ajkribologei'sqai crhvs imon me;n
35 pro;" ta;" ejrgasiva", fortiko;n de; to; ejndiatrivbein. eijs i; de;
tecnikwvtatai me;n tw'n ejrgasiw'n o{pou ejlavciston tuvch",
banausovtatai dΔ ejn ai|" ta; swvmata lwbw'ntai mavlista, douli-
11 ejleuvqeron codd. : ejleuqevran recte Ross (cf. 1331a 32) 12 th`~ crh-
matistikh`~ P1 Ú kthvmata] kthvnh Bernays 15-17 dei' ga;r e[mpeiron ... ejn
a[llai" eujqhnei' cwvrai" scholium cens. Drei. 18-19 melitourgiva~ MP 19
post zwv/wn glossam add. A(del. A4) in textu: dei` ga;r e[mpeiron ei\nai pro;~ a[l-
lhlav te touvtwn tivna lusitelevstata, kai; poi'a ejn poivoi" (i.e. 15-16) 21
prw`ta] prwvth~ Richards Ross 24 oJrivzein P 26 tecnãitÃw`n Vermehren
Ross Ú de; tw`n ajtevcnwn om. A 27 trivton] tevtarton P1(a[llw~ trivton P2)
P2025ac 29 o{sa] ou\sa Bernays 30 te kai; P Ú me;n om. E 31 uJlotomiva
codd. (puta silvae incisiva G. : puta ylotomia G.i. : silva cedua Bruni) : hJ la-
tomiva Thom. Sus.1 Ú pasw`n M 32 ei[dh] h[dh P 33-35 peri; eJkavstou ... ejn-
diatrivbein post 39 prosdei' ajreth'" transp. esse cens. Mon. Sus. 36 th`~
tuvch" L81,21P1857P2025UrbVen200 Bekker (th`~ secl. Sus.1 : del. Sus.2,3,4) 37
lwbw`ntai] labw`ntai M (sumuntur G. : maculantur G.i.)
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1258b 9-1259a 36 (cap. 11) additicium cens. Newman : cf. Ar. Oec. II 1346a
25-26 Ta; me;n ou\n peri; ta;~ oijkonomiva~ te kai; ta; mevrh ta; touvtwn eijrhvkamen:
o{sa dev tine~ tw`n provteron pepravgasin eij~ povron crhmavtwn, ei[ãteà tec-
/ hsan 23 forthgiva cf. Eustath. Opera minora 19, 75; 41, 1
nikw`~ ti diwvk
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1259a 3 Ar. Oec. II 1346a 26 (cf. supra 1258b 9-1259a 36) 6 Diog. I 26,
8-12: Thales (ex Hier. Rhod.) Fhsi; de; kai; ÔIerwvnumo~ økai;Ø oJ ÔRovdio~ ejn tw`/
deutevrw/ tw`n Sporavdhn uJpomnhmavtwn o{ti boulovmeno~ dei`xai rJav/dion ei\nai
ploutei`n, fora`~ ejlaiw`n mellouvsh~ e[sesqai, pronohvsa~ ejmisqwvsato ta;
ejlaiourgei`a kai; pavmpleista sunei`le crhvmata (cf. Hier. f. 47) 19 Nic.
Greg. Flor. 219-221 ΔEkwvmasev ti~ ej~ th;n ÔEllavda Xenofavnh~ oJ Qrasumav-
cou pollh;n th`~ sofiva~ ejpivdeixin poihvsein ejpaggellovmeno~
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13-14 Hom. Il. I 544 th;n dΔ hjmeivbetΔ e[peita path;r ajndrw`n te qew`n te
(cf. etiam Ar. EN VIII 1160b 24-26)
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come anche tra coloro che sono comandati per natura. E que-
sto conduce subito alle questioni riguardanti l’anima: in essa
vi sono infatti per natura una parte che comanda, e una parte
che è comandata, delle quali diciamo che possiedono una di-
versa virtù, e cioè quella della parte dotata di ragione e quella
della parte irrazionale. È chiaro allora che anche per le altre
cose vale lo stesso principio, cosicché per natura nella mag-
gior parte dei casi vi sono elementi che comandano e che
sono comandati. Infatti diverso è il modo in cui il libero co-
manda sullo schiavo, il maschio sulla femmina e l’uomo sul
fanciullo, e tutti possiedono le parti dell’anima, ma le possie-
dono in modo diverso. Lo schiavo infatti non possiede la par-
te deliberativa nella sua completezza, mentre la femmina ce
l’ha, ma senza potere, e il fanciullo ce l’ha, ma imperfetta.
Allora bisogna supporre che necessariamente funzioni allo
stesso modo anche per le virtù etiche, e che ne devono parte-
cipare tutti, ma non in egual modo, bensì nella misura ade-
guata a ciascuno per esercitare la propria attività. Perciò chi
comanda deve avere la virtù etica nella sua compiutezza –
perché il suo compito è assolutamente quello dell’architetto,
e la ragione è l’architetto –, mentre ciascuno degli altri ne
deve avere quanto gli spetta; di conseguenza è evidente che la
virtù etica è propria di tutti quelli di cui si è parlato, e non è la
stessa la temperanza di una donna e di un uomo, e neppure lo
sono coraggio e giustizia, come pensava Socrate, ma l’uno è
il coraggio di chi comanda, l’altro di chi serve, e allo stesso
modo stanno le cose anche per le altre virtù.
Questo è chiaro anche a chi osserva più nei particolari;
infatti ingannano se stessi coloro che dicono in generale che
la virtù consiste nell’avere una buona disposizione d’animo
o nell’agire rettamente o in cose di questo genere; quelli in-
fatti che enumerano le virtù, come Gorgia, parlano molto
meglio di coloro che danno definizioni in questo modo. Per-
ciò bisogna ritenere che le cose stanno per tutti come ha
1260a 22-28 Plat. Men. 71b 1-73c 4 30 Soph. Ai. 293 guvnai, gunaixi;
kovsmon hJ sigh; fevrei
1260a 4-9 cf. Theod. Metoch. Sem. 96 (613-614) 9-14 Stob. II 7, 26 (II
149, 5-8) Touvtou de; th;n ajrch;n kata; fuvs in e[cein to;n a[ndra. To; ga;r bou-
leutiko;n ejn gunaiki; me;n cei`ron, ejn paisi; dΔ oujdevpw, peri; douvlou~ ãdΔÃ oujdΔ
o{lw~
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POLITIKWN A
190
POLITICA I
191
POLITIKH~ A
COMMENTO*
*
Le abbreviazioni bibliografiche si riferiscono a entrambe le sezioni della
bibliografia.
CAPITOLO I
PREMESSA ALL’INDAGINE E PRESENTAZIONE DEL METODO
195
COMMENTO I 1, 1252a 1-7
196
COMMENTO I 1, 1252a 1-7
197
COMMENTO I 1, 1252a 7-16
198
COMMENTO I 1, 1252a 16-23
199
COMMENTO I 1, 1252a 16-23
200
CAPITOLO 2
LA CITTÀ E LE ALTRE FORME DI ASSOCIAZIONE;
L’UOMO COME ANIMALE POLITICO
201
COMMENTO I 2, 1252a 24-26
202
COMMENTO I 2, 1252a 26-34
203
COMMENTO I 2, 1252a 26-34
204
COMMENTO I 2, 1252a 34-1252b 5
1132b 21-31). Più avanti anche nella Politica Aristotele rimarca il ruolo
dello schiavo come strumento (4, 1253b 31-1254a 17) e sottolinea che
lo schiavo è parte del padrone (4, 1254a 11-13); infine, cerca di armo-
nizzare i due punti di vista (6, 1255b 4-15). In ogni caso si anticipa qui
il concetto di «schiavo per natura» che sarà tema dei capitoli successivi
(in particolare il cap. 5).
Per quel che emerge dalle associazioni terminologiche in questo
periodo (1252a 32-34) sembra da escludere che Aristotele intenda fare
riferimento ad una condizione naturale dell’uomo preesistente la quali-
tà di padrone o schiavo, in quanto fuvsi~ è associato ai termini a[rcon,
despovzon e a dou`lon, non a dunavmenon, quindi alle funzioni di ciascun
essere umano quando sia già membro dell’associazione elementare, sia
cioè già padrone o schiavo (Accattino 1978, p. 179). Altrove Aristotele
afferma invece (5, 1254a 23-24) che vi sono «alcuni esseri umani fin
dalla nascita destinati ad obbedire, altri a comandare», in qualche modo
segnalando la possibilità di una differenza congenita tra le due tipo-
logie di individui. Questa difficoltà nell’interpretare la naturalità delle
relazioni elementari ha prodotto un ampio dibattito sul valore da dare
nei singoli casi al termine fuvsi", che insieme ai suoi derivati ricorre
ben ventuno volte in questo capitolo, con sfumature piuttosto variegate,
tanto da essere apparse in qualche caso poco coerenti tra loro (dai ben
cinque diversi significati del termine individuati da Bien 1985, pp. 194-
198 si rintraccia ora un unico ampio concetto di natura, caratterizzato
tuttavia da differenti connotazioni: cfr. Schütrumpf 1991, I, pp. 206-
207; Saunders 1995, pp. 62-63; si veda inoltre la sintesi di J. Althoff
in Höffe 2005, pp. 455-462). L’apparente varietà e l’impossibilità di
ricondurre l’interpretazione del concetto ad una sistematizzazione sono
generalmente ritenuti frutto dell’iniziativa di Aristotele di mutuare con-
cetti e principi usati in campo fisico, soprattutto biologico, assimilando
la polis, in quanto appartenente al genere dei prodotti umani (o oggetti
artificiali), ai prodotti naturali, agli animali soggetti al processo di ge-
nerazione naturale (cfr. Phys. II 1, 194a 21-33; vd. Accattino 1978, p.
174; Keyt 1991, pp. 121-122; Saunders 1995, p. 63; cfr. sopra, p. 201) e
vanno quindi legate al ragionamento svolto dal filosofo in altre opere.
1252a 34-1252b 5 fuvsei me;n... ajll∆ eJni; douleu`on:.
Sulla base della distinzione naturale Aristotele sostiene poi che vi
sono particolari tipi di attività per i quali ciascuno è portato in modo
specifico ed esclusivo (applicando il giudizio unicamente agli schiavi
e alle donne che, si deduce chiaramente, hanno una funzione subordi-
nata); la natura infatti costituisce ogni cosa per un solo uso e pertanto
ciascuno degli strumenti (anche quelli animati, come gli schiavi) eser-
205
COMMENTO I 2, 1252a 34-1252b 5
206
COMMENTO I 2, 1252b 5-9
207
COMMENTO I 2, 1252b 9-15
2003, p. 157) e più volte ribadita nelle tragedie euripidee (cfr. anche
Hel. 276-277, Andr. 665), diviene un topos nel IV secolo a.C., soprattut-
to nel campo dell’oratoria (cfr. p. es. Isocr. 4, 184). Si vedrà più avanti
tuttavia che l’inferiorità dei barbari non è condivisa in toto dal filosofo,
che proprio in relazione al problema della schiavitù ritiene necessario
giustificarla in modo più preciso .
1252b 9-15 ejk me;n ou\n touvtwn... ∆Epimenivdh~ de; oJ Krh;~ oJmo-
kavpou~.
Ritornando al filo principale del ragionamento, Aristotele riprende
il tema delle due comunità elementari (maschio-femmina, padrone-
schiavo; nel capitolo successivo tuttavia esse saranno tre, compren-
dendo anche quella padre-figlio: cfr. 3, 1253b 6-7) per indicarle come
gli elementi costitutivi primi dell’oijkiva, la casa/famiglia (costituita da
persone e beni; vd. sopra, p. 69). Delle componenti-base della famiglia
dà ulteriore prova anche un verso delle Opere e i giorni di Esiodo (v.
405): la casa (edificio, ma anche “figura” del padrone), la donna, il bue
(per stessa affermazione di Aristotele “figura” del servo nelle famiglie
meno abbienti, che dovevano evidentemente accontentarsi dell’uso de-
gli animali). In realtà il fatto che il testo esiodeo specifichi, al succes-
sivo v. 406, che la donna dev’essere «comprata, non sposata, una che
segua anche i buoi» (kththvn, ouj gamethvn, h{ti~ kai; bousi;n e{poito),
in qualche modo smentendo il ragionamento di Aristotele (che potrebbe
però aver “forzato” Esiodo), è stato ritenuto da alcuni editori una pro-
va sufficiente della non autenticità del v. 406 (cfr. West 1978, p. 270;
Laurenti 1967, pp. 68-70.). A complicare ulteriormente l’interpretazio-
ne del passo contribuisce la citazione dello stesso verso esiodeo, in un
contesto molto simile a questo (ma oggetto di interventi dei moderni
editori), nel I libro dell’Economico pseudo-aristotelico (1343a), in cui
però il riferimento alle parti della casa/famiglia va inteso in modo signi-
ficativamente diverso. Per un quadro completo dell’esegesi delle due
citazioni si veda Laurenti 1967, pp. 68-74.
Non del tutto univoca anche l’interpretazione di prwvth (b 10), per
lo più inteso in accezione temporale, anche se con diverse varianti: «pri-
ma la famiglia, poi il villaggio, poi la città», oppure «una prima casa, poi
una seconda e così via», o ancora «prima una casa più semplice, fatta
solo di relazioni marito-moglie e padrone-schiavo, poi una più completa
che prevede anche la relazione padre-figlio» (cfr. Newman 1887, II, p.
111; Schütrumpf 1991, I, p. 198: il senso temporale andrebbe integrato
da un valore condizionale che implica il raggiungimento dei requisi-
ti minimi per l’esistenza della famiglia); tale senso conferirebbe però
all’intero passo la funzione di una “storia sistematica della civiltà” che
208
COMMENTO I 2, 1252a 14-15
senz’altro non aveva nel concetto dell’autore (cfr. Saunders 1995, p. 65:
Aristotele avrebbe ravvisato un periodo storico pre-familiare in cui le
associazioni elementari avrebbero potuto sussistere anche contempora-
neamente, ma indipendentemente l’una dall’altra, dal momento che la
formazione di una comunità «da» - ejk un’altra presume che qualcosa
esistesse già in precedenza). L’uso dell’aggettivo richiama certo stilisti-
camente il prwvtista del verso esiodeo, che nel poema ha un indubbio
valore temporale ma, come si è già visto, l’intera citazione appare for-
zatamente piegata da Aristotele alle esigenze del testo. Laurenti (1967,
p. 72 e ancora in 1993, p. 5: «casa nella sua essenza è la donna e il bove
che ara») è arrivato a supporre che il verso di Esiodo sia stato reintepre-
tato anche sintatticamente da Aristotele, che ne avrebbe fatto una frase
oggettiva con ellissi del verbo costituita da un soggetto (oi\kon) e da due
predicati nominali (gunai`ka e bou`n). L’espressione va probabilmente
chiarita con riferimento a 1253a 20, dove si spiega che l’intero viene
prima della parte: l’oikia dunque viene prima delle comunità incluse in
essa (cfr. EN VIII 14, 1162a 18: la famiglia viene prima ed ha un caratte-
re di maggiore necessità rispetto alla polis). In questo modo si potrebbe
comprendere anche l’uso di prwvth in riferimento al villaggio (1252b
15-16). Cfr. Laurenti 1967, pp. 71-73; Geiger in Höffe 2005, p. 389.
Riassuntivamente dunque la famiglia (dapprima oijkiva, poi oi\ko~
per attrazione del termine esiodeo) – sulla cui composizione Aristotele
si è ormai ampiamente pronunciato, esaminandone le parti minime – è
la comunità «per natura» (in quanto formata da associazioni elementari
anch’esse esistenti per natura) che si indirizza alla soddisfazione dei bi-
sogni quotidiani (eij~ pa`san hJmevran). Pertanto la famiglia è il prodotto
dell’unione delle associazioni elementari, naturali e necessarie, capaci
di espletare funzioni diverse: essa svolge una funzione complessa (sod-
disfare i bisogni quotidiani) che deriva dall’unione delle funzioni delle
due comunità-base che la compongono.
b 14-15 ou}~ Carwvnda~ ... oJmokavpou~: con una concordanza a sen-
so della proposizione relativa Aristotele richiama due personaggi ormai
circondati da un’aura mitica e le loro originali definizioni dei membri
della famiglia: oJmosipuvou~, «compagni di pane», hapax aristotelico da
sipuvh, una madia in cui veniva conservato il pane (cfr. Aristoph. Pl.
806) e oJmokavpou~, «compagni di mensa» (anche in Plut. Mor. 643d 4),
da kavph, mangiatoia. Entrambi i termini fanno riferimento proprio al
campo del nutrimento, al primo cioè di quei bisogni quotidiani che la
famiglia ha il compito di soddisfare. Caronda fu, tra il VII e il VI secolo
a.C., legislatore in Italia e in Sicilia delle colonie fondate da Calcide di
Eubea (cfr. II 12, 1274a 23 dove viene detto «di Catania»; b 5; IV 13,
209
COMMENTO I 2, 1252b 15-27
1279a 23; vd. commento ai passi); Epimenide di Creta (fine VII - inizio
VI secolo a.C.), figura dal profilo molto incerto, è collegato dallo stesso
Aristotele in Ath. Pol. 1 alla purificazione di Atene dopo il massacro
sacrilego dei ciloniani (cfr. anche Plat. Leg. I 642d; Diog. I 110). Su
Epimenide cfr. Epimenide cretese 2001; Brillante 2004, pp. 11-39; per
Caronda cfr. Cordano 1986; Hölkeskamp 1999; Lewis 2007 e il com-
mento a II 12, 1274a 22 ss.
1252b 15-27 hJ d∆ ejk pleiovnwn oijkiw`n... tou;~ bivou~ tw`n qew`n.
Il sopperire a necessità non strettamente essenziali, quotidiane, è
invece il fine della comunità più complessa – che assolve pertanto ad
una funzione ancora più articolata –: il villaggio, formato da più fami-
glie (che nei tempi antichi vivevano separate le une dalle altre; questa
forma di aggregazione sarà poi del tutto abbandonata nel prosieguo del
testo, fatta eccezione per III 9, 1280b 40; cfr. II 2, 1261b 11, dove si
citano solo individuo, famiglia e città). Secondo lo schema adottato
poco sopra per la famiglia Aristotele, dopo la definizione iniziale in re-
lazione al fine, dedica un’ulteriore riflessione al processo di formazione
del villaggio: esso è «naturalmente» una colonia, una filiazione della
casa/famiglia, in quanto composto di gruppi familiari che derivano da
essa per la fuoriuscita dei membri dalla famiglia d’origine (figli natu-
rali o assimilabili, per aver condiviso le stesse esperienze formative,
nipoti), pur essendone poi nella realtà distinti. Si noti l’originale uso
del lessico della colonizzazione, per il quale però è stata sottolineata
l’incongruenza, dal momento che il ragionamento aristotelico prevede
affinità di stirpe tra i membri del villaggio, condizione assolutamente
non richiesta per la fondazione di colonie (cfr. Saunders 1995, p. 66):
conosciamo esempi di apoikiai fondate da gruppi misti (Gela da Rodii e
Cretesi, Imera da Calcidesi di Zancle e da esuli siracusani, cfr. Thuc. VI
3-4), ma lo stesso Aristotele ci dice altrove (cfr. i diversi esempi offerti
da Pol. V 2, 1302a 25-b 3 su synoikoi e epoikoi) che la disomogeneità
etnica poteva creare problemi. Per questo motivo i membri del villaggio
saranno opportunamente definiti figli, figli di figli (cfr. Plat. Leg. III
681b 5, ma anche Omero e i lirici) o fratelli «di latte».
Ogni casa/famiglia è retta da un potere monarchico nelle mani del
più anziano (si noti che il discorso si è nuovamente spostato sulla fami-
glia, provando ulteriormente il ruolo marginale assegnato da Aristotele
al villaggio); pertanto, anche le altre forme di comunità gerarchicamen-
te superiori – le «colonie di case», in quanto affini per stirpe, cioè i
villaggi, le città «all’inizio» (cfr. III 15, 1286b 8) e «ora» le formazioni
etniche – si dotano, almeno nelle prime fasi della loro storia, di un po-
tere regale monarchico. Dunque la monarchia è un elemento strutturale
210
COMMENTO I 2, 1252b 15-27
211
COMMENTO I 2, 1252b 27-1253a 1
212
COMMENTO I 2, 1252b 27 - 1253a 1
213
COMMENTO I 2, 1252a 27 - 1253a 1
214
COMMENTO I 2, 1253a 1-3
215
COMMENTO I 2, 1253a 3-18
216
COMMENTO I 2, 1253a 18-25
217
COMMENTO I 2, 1253a 25-29
il tutto (la città) abbia una naturale priorità rispetto alla parte (famiglia
e individui), dal momento che le singole parti possono svolgere la loro
funzione solo se esiste un tutto organizzato. Il riferimento è a Metaph.
V 26, 1023b 27-29: holon è «ciò che contiene le proprie parti in maniera
tale che esse costituiscano qualcosa di unico. Ciò può avvenire…o per-
ché esse insieme hanno la stessa unità che ha ciascuna di esse singolar-
mente presa o perché c’è un’unità costituita da tutte quelle parti» (trad.
Viano 1974). Aristotele intende qui provare che la comunità politica
è un holon del secondo tipo, cioè non è fatta di unità omogenee dello
stesso genere (come quelle proposte da Platone nel Politico, che egli ha
criticato esplicitamente nel cap. 1), ma contiene le altre comunità che
non si pongono però sul suo stesso piano. Da questo punto di vista la
città è l’holon come lo è un organismo vivente che è in grado di svol-
gere determinate operazioni a partire dalle quali acquistano senso gli
organi e i tessuti di cui è composto (Accattino 1986, pp. 15-17). Cfr.
anche Metaph. VI 10, 1035b 16-23; 11, 1036b 30-36.
L’esempio della «mano di pietra» trova un corrispondente esplica-
tivo nella parte finale dei Meteorologica (IV 12, 390a 10-14), dove Ari-
stotele propone l’esempio dell’occhio morto o «occhio di pietra», usato
per spiegare che ogni cosa «è definita dalla sua funzione ed è veramente
se stessa quando sia capace di compiere la propria funzione; così accade
per l’occhio se vede; ciò che invece non ne è capace ha semplicemente
lo stesso nome, come un occhio morto o un occhio di pietra».
1253a 25-29 o{ti me;n ou\n hJ povli~... w{ste h] qhrivon h] qeov~.
Gli individui sono in rapporto con la città come le singole parti con
l’intero; pertanto l’individuo, considerato separatamente, non è auto-
sufficiente, ma ha bisogno di una comunità per realizzarsi. Chi infatti
non può far parte di una comunità o non ne ha bisogno perché è già
autosufficiente (leggi: è una comunità egli stesso, perché ha raggiunto
il fine ultimo da solo, l’autosufficienza), sarà nel primo caso una bestia,
destinato ad una vita solitaria di pura sussistenza, e nel secondo caso
un dio, perché ha raggiunto un livello che è precluso agli altri esseri
umani (cfr. EN VII 1, 1145a 15 ss.), ma non sarà in grado di realizzare
la propria funzione specifica all’interno della comunità.
1253a 29-38 fuvsei me;n ou\n hJ oJrmh;... hJ de; divkh tou` dikaivou krivsi~.
Ciascuno ha quindi in sé per natura lo stimolo alla vita nella comu-
nità politica – l’uomo è un animale politico perché è parte di un intero,
da solo non è autosufficiente e raggiunge il proprio fine solo all’interno
di questo intero, la comunità politica; ancora una volta, non si tratta di
un ragionamento antropologico –, e per questo motivo è sommamen-
te meritevole chi per primo l’ha istituita, in quanto causa dei beni più
218
COMMENTO I 2, 1253a 29-38
219
COMMENTO I 2, 1253a 29-38
220
CAPITOLO 3
LA CASA: L’AMMINISTRAZIONE E LE SUE PARTI;
LE RELAZIONI TRA I SUOI MEMBRI
A partire da questo capitolo, e per tutto il resto del I libro (capp. 3-13),
si parla dei rapporti gerarchici alla base dell’oikia (la casa/famiglia, vd.
l’Introduzione), la prima comunità umana per natura. Questa sezione del
testo fa riferimento diretto al cap.1 (1252a 18-23), che si era chiuso con
il proposito metodologico di indagare le parti costitutive della città. Da
questa sorta di schematica introduzione risulta chiaro che l’amministra-
zione domestica, oggetto di trattazione da questo punto in poi, ha il suo
fondamento negli elementi che compongono la famiglia, già in gran par-
te individuati da Aristotele: il padrone-marito-padre, lo schiavo, la mo-
glie, i figli – le cui relazioni reciproche vengono singolarmente affrontate
nei capitoli seguenti – e i beni. Il rapporto padrone-schiavo è oggetto
d’indagine dei capitoli 4-7, con una breve appendice nel 13; le relazio-
ni marito-moglie e padre-figlio sono trattate cursoriamente nei capitoli
12-13. Vengono introdotti in questa sede due nuovi oggetti di studio:
l’amministrazione domestica (oikonomia) e la crematistica, l’arte di ac-
quistare beni, che avrà una sua trattazione specifica nei capitoli 8-11.
221
COMMENTO I 3, 1253b 1-4
222
COMMENTO I 3, 1253b 4-12
223
COMMENTO I 3, 1253b 12-14
224
COMMENTO I 3, 1253b 14-23
225
CAPITOLO 4
LO SCHIAVO COME STRUMENTO E PROPRIETÀ
226
COMMENTO I 4, 12523b 23-27
227
COMMENTO I 4, 1253b 33 - 1254a 1
228
COMMENTO I 4, 1254a 1-8
229
COMMENTO I 4, 1254a 1-8
230
COMMENTO I 4, 1254a 8-13
231
COMMENTO I 4, 1254a 13-17
232
CAPITOLO 5
LO SCHIAVO PER NATURA
Alla fine del cap. 3 (1253b 20-23) Aristotele aveva posto la questione
se la condizione del padrone e quella dello schiavo esistano per natura
o per legge, e cioè se la differenza tra liberi e schiavi sia puramente
convenzionale, dipenda soltanto da una norma positiva, e quindi possa
essere ingiusta, in quanto dettata dalla costrizione, come ritenuto da
«alcuni» (per la discussione su questo punto cfr. sotto, p. 250). Alla fine
del cap. 4 è ormai chiaro che Aristotele crede fermamente nell’esistenza
dello schiavo «per natura» e lo definisce come uomo appartenente ad
un altro uomo, quindi oggetto di proprietà e strumento utile all’azione
separato dal possessore: accanto ad elementi che ha già discusso e di-
mostrato, la qualifica di schiavo «per natura» tuttavia non è stata ancora
verificata. Pertanto il filosofo procede nel cap. 5 a riempire questa ca-
sella vuota, proponendosi di indagare se esistano individui che rispon-
dono alle condizioni poste dalla definizione e quindi se la schiavitù, in
quanto naturale, sia utile e giusta. Dopo la premessa, come sempre, il
metodo: l’indagine sarà svolta in due direzioni, attraverso il ragiona-
mento e l’analisi della realtà dei fatti.
233
COMMENTO I 5, 1254a 21-28
234
COMMENTO I 5, 1254a 28-33
235
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20
81c), o di espressioni simili (cfr. An. III 5, 430a 10; PA I 1, 641b 14);
molto più diffusa l’espressione o{lh fuvsi~ (p. es. II 8, 1267b 28; An. I 2,
404a 5; PA II 6, 652b 7; un elenco più articolato si trova in Schütrumpf
1991, I, pp. 254-255).
a 33 oi|on aJrmoniva~. La presenza del sostantivo al genitivo non aiuta
a chiarire il pensiero di Aristotele in questo punto: non possiamo pensare
che dipenda da metevcousi, anche se grammaticalmente sembrerebbe
l’unica soluzione plausibile; più probabile invece che sia retto da ajrchv.
Del tutto insostenibili appaiono le proposte (rispettivamente di Susemihl
1879, e di Richards in Ross) di correggere con la locuzione ejn aJrmoniva/
e ejn aJrmonivai~ (al plurale per coerenza con gli altri luoghi in cui com-
pare il termine). La presenza di un elemento «che comanda», all’interno
dell’armonia citata qui come esempio di cosa inanimata (il «physical
compound» di Saunders 1995, p. 77), va dunque legata ai diversi tipi
di tonalità musicale (p. es. il tono maggiore o minore), tanto è vero che
anche oggi nella teoria musicale si fa uso del termine “dominante”. Non
si tratta pertanto dell’armonia intesa genericamente come consonanza,
ma di un sistema musicale già elaborato dagli antichi e testimoniato dai
Problemata pseudo-aristotelici (XIX 33, 920a 21-22), dove la nota mevsh
era definita appunto hJgemwvn. Aristotele parla altrove nella Politica di
armonia musicale: IV 3, 1290a 20-29 (specie di armonia in parallelo con
i tipi di costituzione); VIII 5, 1340a 39-1340b7 (gli effetti della musica
sugli ascoltatori); 7, 1342a 23 (le degenerazioni di armonie e canti). Per
una completa disamina del problema si vedano Newman 1887, II, pp.
142-143 e in particolare Schütrumpf 1991, I, pp. 252-253; sull’armonia
nell’opera aristotelica cfr. ora Barker 2007, p. 328.
1254a 33-34 ajlla; tau`ta me;n... kai; para; fuvsin e[cein.
Gli argomenti appena trattati, secondo Aristotele, fanno parte di una
ricerca in qualche modo estranea all’indagine di cui si sta occupando.
È probabile che il filosofo faccia qui riferimento al tema dei rapporti
comandante-comandato nelle cose inanimate, ma non possiamo dire se
l’uso dell’aggettivo ejxwterikov~ in questo contesto intenda indirizzare
il lettore ad altre opere («essoteriche», appunto, cioè preparate per un
pubblico meno colto ed esterno alla scuola: cfr. III 6, 1278b 31-32) o se
il significato sia generico e l’espressione abbia il fine puramente retori-
co di consentire all’autore di riprendere il filo dell’argomentazione.
1254a 34-1254b 20 to; de; zw/`on prw`ton... ei[per kai; toi`~ eijrh-
mevnoi~.
Il segmento seguente del capitolo è organizzato come esemplifica-
zione della relazione comandante-comandato in diversi ambiti, legati
però al mondo degli esseri animati (quello delle cose inanimate è stato
236
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20
237
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20
238
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20
239
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20
di Viano 2002, pp. 87-89 nn. 23-24, che sottolinea anche come questo
tipo di schema fosse comunque platonico, e rappresentasse uno dei ca-
pisaldi della costruzione ideale della Repubblica). Se l’autorità padro-
nale dell’anima sul corpo può essere giustificata dal fatto che il corpo
non ha alcun principio di azione senza l’anima (cfr. Simpson 1998, p.
33), per la relazione intelletto-appetizione la spiegazione è meno intui-
tiva; in ogni modo è fuor di dubbio che la forma di autorità politica (e
regale) che caratterizzerebbe qui le due parti dell’anima non può essere
facilmente intesa sulla base dei criteri evidenziati da Aristotele altrove
in questo libro (1, 1252a 15-16; 7, 1255b 19), in particolare per quel che
riguarda l’alternanza. Verso la fine del I libro saranno ripresi e collega-
ti più direttamente alle relazioni interne alla famiglia – che riproporrà
quindi nei rapporti tra i suoi membri i modelli identificati all’interno
dell’individuo – due dei temi qui solo abbozzati: le diverse forme di au-
torità (12, 1259a 37-1259b 1: padronale quella del padrone sugli schia-
vi, politica del marito sulla moglie, regale quella del padre sui figli;
cfr. anche EN VIII 12, 1160b 23-27) e il parallelo tra parti dell’anima
e relazioni tra i membri della famiglia (13, 1260a 5-12: libero-schiavo,
maschio-femmina, uomo-fanciullo).
b 10-13 A questo punto si passa alle relazioni tra viventi: l’uomo
comanda sugli altri animali; per tutti quelli domestici, che sono migliori
per natura, è garanzia di sopravvivenza (cfr. 2, 1252a 31). Dagli anima-
li domestici, in quanto migliori, è possibile trarre opere migliori (cfr.
sopra 1254a 27): immaginiamo che Aristotele faccia riferimento non
tanto alla compagnia, quanto al lavoro, estremamente prezioso, pro-
prio all’interno dell’oijkiva di cui sta parlando. D’altra parte l’autorità
dell’uomo sugli animali – chiaramente padronale, poiché gli animali
appartengono ai loro padroni, come gli schiavi, nella forma di strumenti
(cfr. 2, 1252b 11-12; 4, 1253b 31 ss.) – li preserva evidentemente dai
predatori e consente loro di nutrirsi regolarmente. Si tratta di riflessioni
tratte dal sentire comune che, tuttavia, Aristotele sfrutta per arrivare
gradualmente al punto centrale del ragionamento.
Se dunque per il rapporto uomo-animali vale lo stesso criterio
(wJsauvtw~) usato per le relazioni anima-corpo e intelletto-appeti-
zione nell’uomo, si chiarisce qui in parte anche l’affermazione fatta
poco sopra (b 6-7), che cioè è «per natura e utile» che nell’esse-
re vivente il corpo sia comandato dall’anima e la parte emotiva da
quella razionale: l’«addomesticare» l’elemento che, nella relazione
di subordinazione, deve obbedire, produce i migliori risultati ed è
vantaggioso, oltre che per la parte che comanda, anche per quella
comandata.
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COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20
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COMMENTO I 5, 1254b 20-26
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COMMENTO I 5, 1254b 20-26
do non sia inteso in senso assoluto, come avremo modo di chiarire fra
poco. Una seconda difficoltà è connessa alla collocazione del participio
aijsqanovmena, che non è nella canonica posizione attributiva e nello
stesso tempo non può fungere da verbo principale in una proposizione
coordinata a quella introdotta da ajllav. Infine, la congiunzione ajllav
è difficilmente comprensibile se le si attribuisce funzione coordinante
dell’intera espressione ajlla; paqhvmasin uJperetei` (in mancanza di un
verbo principale espresso o sottinteso nella prima parte del periodo),
e risulta invece spiegabile se serve a correlare i due sostantivi lovgw/ e
paqhvmasin. Di fronte a tale situazione gli editori hanno adottato scelte
piuttosto varie: chi ha scelto il genitivo lovgou ha mantenuto il partici-
pio aijsqanovmena (Aubonnet); chi ha adottato il dativo lovg/w/ ha talvolta
espunto il participio (Ross, ma non Dreizehnter); per conservare lovgw/
e participio Schütrumpf (1991, I), con una soluzione decisamente eco-
nomica, ha scelto di posporre aijsqanovmena ad ajllav. Il problema più
spinoso tuttavia, legato alla scelta testuale, è di carattere interpretativo:
con la prima opzione (ouj lovgou aijsqanovmena ajlla; paqhvmasin) è
evidente la difficoltà di rendere letteralmente il periodo, che necessita
di essere liberamente interpretato (cfr. Viano 2002 «mentre gli altri
animali non sanno neppure riconoscere la ragione ma obbediscono
alle emozioni»; Aubonnet 1960 «les autres animaux ne perçoivent pas
la raison, mais obéissent à des impressions»); espungendo il partici-
pio e introducendo il dativo è obbligatorio correlare i due dativi (ouj
lovgw// ajlla; paqhvmasin), facendo di uJperetei` il verbo principale (cfr.
Laurenti 1973 «gli altri animali non sono soggetti alla ragione, ma alle
impressioni»; Saunders 1995 «for the other animals obey not reason
but feelings»); la scelta di dativo e participio (ouj lovgw/ aijsqanovme-
na ajlla; paqhvmasin) conduce d’altro canto a due distinte possibilità
interpretative: legare il participio al soggetto e considerare uJperetei`
il verbo principale, intendendo i due dativi come complementi diretti
del verbo (Schütrumpf 1991, I, dove la posposizione del participio non
cambia comunque il senso generale «denn auch die übrigen Lebewesen
[besitzen] keine Vernunft, der sie gehorchen können, sondern da sie
nur Sinneswahrnehmungen haben, folgen sie den Affekten»); oppure
legare i due dativi al participio ed intendere il verbo in senso assoluto
(Simpson 1998 «for the other animals give of their assistance without
perceiving by reason but rather by what they feel»).
La soluzione di Simpson (dativi correlati, verbo inteso in senso
assoluto), che si è adottata nella traduzione italiana – e che trovava
un unico precedente in Koraes 1821 –, risolve un’apparente contrad-
dizione che l’interpretazione usuale di questa frase metteva invece in
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COMMENTO I 5, 1254b 20-26
piena luce. Aristotele ha detto poco sopra (b 10) che nel rapporto tra
l’uomo e gli altri animali vale lo stesso criterio delle relazioni anima-
corpo e intelletto-appetizione nell’uomo e che sono schiavi per natu-
ra coloro che differiscono dagli altri uomini quanto l’anima dal corpo
e l’uomo dalla bestia (b 16-17; gli schiavi per natura sono quindi
al livello del corpo e degli animali nelle altre relazioni): è pertanto
evidente che egli intende stabilire delle consonanze tra la situazione
degli «altri animali» e quella dell’uomo, in particolare in relazione
alla questione della schiavitù per natura (ma cfr. Schütrumpf 1991,
I, p. 268, che nega una precisa volontà di Aristotele di mettere in re-
lazione tra loro schiavi e animali, ma li collega solo in virtù del loro
rapporto di sottoposti in relazione al padrone e alla loro mancanza
del logos: «Er – der Herrscher – besitzt den logos, diejenigen, bei
denen das nicht gilt, werden zusammengeschlossen…Gerade an die-
se Bemerkung, daß die Sklaven keinen selbständigen logos besitzen,
schließt sich die Bemerkung über die Tiere an, die nicht dem logos
gehorchen – in ihrem Falle natürlich, weil sie ihn gar nicht besit-
zen»). Nell’interpretazione scelta di consueto dagli esegeti sarebbe
evidente una dissomiglianza tra schiavi e animali in questo punto,
poiché «gli altri animali» non percepirebbero la ragione (come in-
vece gli schiavi), ma solo le emozioni, oppure non avrebbero alcuna
ragione cui obbedire. Questa spiegazione, che non tiene conto nep-
pure della presenza del gavr esplicativo o conclusivo – e non certo
avversativo – stride ancor più perché subito dopo schiavi e animali
sono equiparati ancora una volta da Aristotele, in quanto prestano il
loro aiuto per le necessità della vita, in un modo «di poco» diverso,
attraverso l’uso del corpo.
Se intendiamo invece che gli altri animali agiscono come “aiu-
tanti” (cfr. 1253b 29-30; 1254a 1) «non percependo con la ragione
ma con le emozioni», possiamo certo affermare che schiavi e animali
percepiscono ed eseguono in modo paragonabile i comandi del pa-
drone, in quanto «strumenti animati»: non tramite la ragione – che
non possiedono in proprio – ma tramite le emozioni, i sentimenti,
l’istinto, scatenati, come sottolinea Simpson, da mezzi concreti come
ad esempio il colpo di redini per il cavallo o grida e fischi per i cani
da pastore (cfr. EN VII 6, 1149a 8-10: kai; tw`n ajfrovnwn oiJ me;n
ejk fuvsew~ ajlovgistoi kai; movnon thÊ` aijsqhvsei zw`nte~ qhriwvdei~,
w{sper e[nia gevnh tw`n povrrw barbavrwn, dove non si fa riferimento
ad un rapporto di subordinazione, ma l’assenza di lovgo~ e la dedizio-
ne all’ai[sqhsi~ sono collegate alla vita “da animale” e a quella dei
barbari, nella Politica gli schiavi “per eccellenza”).
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COMMENTO I 5, 1254b 20-26
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COMMENTO I 5, 1254b 27-39
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COMMENTO I 5, 1254b 27-39
poi che vi è una gerarchia, al vertice della quale stanno pace (eijrhvnh),
ozio (scolhv) e cose belle (ta; kalav), ma per giungere alle quali sono
necessari guerra, lavoro e cose necessarie ed utili – e a queste vanno
educati gli uomini di ogni età (cfr. Bertelli 1984; Gastaldi 1995, p. 253;
Gastaldi 2003).
La natura, è vero, «non fa nulla invano» (2, 1253a 9) e la natura
di ciascuna cosa, che è anche il suo fine, è «il meglio» (2, 1252b 32);
tuttavia in qualche caso bisogna ammettere, secondo Aristotele, che il
risultato non sia perfettamente in linea con questo principio (secondo
Schütrumpf 1991, I, p. 266, la natura qui presupposta non è la natura
intesa in senso teleologico degli scritti zoologici; p. 270: la natura qui
non ha a che fare con gli individui, ma col ruolo e la funzione di questi
all’interno del rapporto di potere): è il caso di coloro che hanno corpo
da liberi (eretti e adatti alla vita politica) e anima da schiavi (quindi non
l’anima di «liberi per natura») oppure di coloro che hanno anima da li-
beri e corpo da schiavi (possiamo immaginare che facesse parte del sen-
tire comune l’idea che gli schiavi, usi alla fatica, avessero un corpo più
esercitato ma anche provato dallo sforzo; quel che non viene detto è se
ciò possa avere delle conseguenze sull’attività razionale dell’anima; cfr.
Saunders 1995, p. 78; ma si veda invece Schütrumpf 1991, I, p. 269, che
precisa come Aristotele sia qui interessato unicamente a fornire spiega-
zioni relativamente all’opera di differenziazione del corpo di liberi e
schiavi, e le indicazioni sull’anima siano solo funzionali ed accessorie
rispetto alle precedenti: un uomo con un’anima dotata di logos e un cor-
po di schiavo rappresenterebbe una contraddizione in se stesso). Questa
situazione, evidentemente molto più diffusa di quanto si potrebbe ipo-
tizzare, consente di giustificare le diverse opinioni a riguardo della na-
turalità della schiavitù (che non sarebbe più tale se la natura fallisse nel
suo intento, poiché verrebbe meno la volontà della natura, quella cioè
di preservare la relazione comandante-comandato o padrone-schiavo).
Una distinzione molto netta tra liberi e schiavi in relazione al corpo e
all’anima toglierebbe però ogni dubbio sull’esistenza degli schiavi per
natura: se infatti vi fossero alcuni diversi dagli altri per le qualità fisiche
quanto lo sono le statue degli dèi (l’uso del paragone con gli dèi è già
presente ripetutamente nel cap. 2: cfr. 1252b 27; si tratta evidentemente
di argomenti tratti dal rumor popolare, che comunque rientrano tra gli
esempi paradossali che Aristotele ha già usato nei capitoli precedenti; si
veda p. es. il riferimento alle statue semoventi di 4, 1253b 35-37), tutti
potrebbero affermare che quelli inferiori dovrebbero essere loro schia-
vi: l’uso del periodo ipotetico non solo esclude la possibilità che ciò
avvenga, ma testimonia anche la presa di distanza dell’autore da questa
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COMMENTO I 5, 1254b 39 - 1255a 2
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CAPITOLO 6
LA SCHIAVITÙ PER LEGGE
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COMMENTO I 6, 1255a 7-11
rattere della norma cui Aristotele si riferisce all’inizio della frase («il
nomos nel quale...»). Tuttavia, giacché il fulcro dell’argomentazione
aristotelica appare la caratterizzazione del nomos come homologia, la
locuzione relativa maschile è parsa inaccettabile ad alcuni editori che
hanno ritenuto opportuna una correzione del maschile in femminile (ejn
hÛ|; già Rackham per la Loeb nel 1932, da ultimo Ross), con l’evidente
scopo di sottolineare che la frase relativa punta a chiarire il significato
dell’accordo e non a precisare il nomos. Il testo tràdito tuttavia può es-
sere conservato senza difficoltà, presupponendo che il lettore antico – a
differenza di noi moderni – avesse chiaro il significato di nomos come
l’insieme di norme e convenzioni imperfette prodotte dall’uomo, che
fa da contraltare ad una condizione «per natura», e potesse considerare
la frase relativa come una semplice specificazione dell’ambito cui sta
facendo riferimento (la schiavitù “di guerra”).
1255a 7-11 tou`to dh; to; divkaion... to; biasqevn.
Il risultato del nomos nell’accezione prima definita, nella sua qualità
di homologia, è pertanto un diritto, una prerogativa (divkaion) – il botti-
no di guerra è proprietà del vincitore –, sancito e giustificato dal nomos
stesso; giacché tuttavia l’homologia prevede che coloro che sono vin-
colati dall’accordo non siano su un piano di parità, la conseguenza sarà
che «il nomos avrà come immediato effetto, sul lato pratico, l’ammis-
sibilità del diritto di chi ha più prerogative»; tale prerogativa non potrà
che portare a prendere atto del fatto che «il risultato più “inquietante”
del nomos umano, se portato all’estremo, sarebbe la pacifica ammissio-
ne del “diritto del più forte”» (dalle riflessioni di P. Cobetto Ghiggia a
me indirizzate). Pertanto in questo modo Aristotele «vuole rilevare le
aporie della categoria nomos»: il considerare il nomos una homologia
prevede che si possa giungere al giustificato diritto (dikaion: giustifica-
to, non necessariamente giusto) di un individuo di ridurne in schiavitù
un altro, appunto kata; novmon (cfr. anche Schütrumpf 1991, I, p. 275:
questa posizione avrebbe un carattere polemico, giacché nel sentire
comune il nomos è opposto alla violenza; Senofonte, Cyr. I 3, 17: to;
me;n novmimon divkaion ei\nai, to; de; a[nomon bivaion). Pertanto alcuni di
coloro che si oppongono alla schiavitù “di guerra” (il riferimento è solo
a questa forma), prodotto della violenza, in realtà considerano inaccet-
tabile il dikaion, il diritto che è l’estremizzazione del concetto di nomos
come homologia in riferimento alla schiavitù. Chi infatti si intende di
diritto – e sono molti – (polloi; ejn toi`~ novmoi~: cfr. VIII 7, 1341b 33,
tine~ tw`n ejn filosofiva/; Metaph. VI 8, 1050b 35: oiJ ejn toi`~ lovgoi~;
Plat. Prot. 317c: eijmi; ejn th`Û tevcnhÛ; Resp. VII 531b: oiJ ejn th`Û ajstro-
nomiva/), contesta il diritto del più forte che deriva da tale interpretazione
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COMMENTO I 6, 1255a 7-11
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COMMENTO I 6, 1255a 7-11
verio Rocchi 1993, p. 207; Hansen 1991, p. 338) –, nella quale indicare
i motivi dell’azione giudiziaria; se non l’avesse fatto sarebbe incorso in
una multa e nella proibizione di intentare altre accuse dello stesso gene-
re. La sentenza favorevole all’accusatore prevedeva l’annullamento del
decreto (in ogni caso) e la punizione del proponente (ma solo se pro-
nunciata entro un anno dalla proposta), con un’ammenda da simbolica
a molto gravosa, fino alla condanna a morte o all’atimia, la privazione
dei diritti politici.
La prima sicura attestazione della grafh; paranovmwn è del 415
a.C., quando Leogora, padre di Andocide, accusò un membro del con-
siglio, Speusippo, di aver proposto un decreto illegale (cfr. And. 1, 17
e 22). Hansen 2001 enumera trentanove casi di grafh; paranovmwn tra
il 415 e il 322 a.C. (ci sono pervenuti alcuni dei discorsi di accusa ad
opera di noti oratori: cfr. il catalogo di Hansen 2001, pp. 31-51); non
si conosce tuttavia la data precisa dell’introduzione della procedura in
Atene. Già Lipsius (1905-1915, pp. 36 e 383) e più recentemente Wolff
(1970, p. 18) e Rhodes (1972, p. 62) la attribuiscono alle riforme di
Efialte del 462/461 a.C., anche se nelle fonti non vi è traccia della sua
esistenza prima della guerra del Peloponneso (Hansen 1991, p. 205 e
n. 284); ciò fa sospettare che la procedura, proprio per il suo valore
politico, sia stata ben presto sfruttata in sostituzione dell’ostracismo per
eliminare i politici “scomodi”.
Il termine rJhvtwr era utilizzato a tutti gli effetti – in un primo mo-
mento accanto a strathgov~, che indicava il comandante dell’esercito
che agiva anche come consigliere e oratore nell’assemblea popolare,
e poi affiancato da dhmagwgov~, il leader popolare in senso neutro ma
ben presto con connotazione spregiativa (si veda IV 4, 1292a 7; V 5,
1305a 7; V 11, 1313b 40-41) –, a partire approssimativamente dalla
metà del IV secolo a.C., per indicare in senso tecnico (e per lo più privo
di giudizi di valore) l’uomo politico ateniese, che agiva nei vari organi
istituzionali come proponente di decreti o come oratore nell’assemblea
e in qualità di accusatore o difensore nei processi di fronte al tribuna-
le popolare (cfr. Hansen 1983a; Hansen 1983b; Hansen 1987; Mossé
1995a; Mossé 1995b) .
L’exemplum di Aristotele sull’accusa di illegalità intentata contro
un rJhvtwr è probabilmente specchio della realtà politica ateniese di cui
egli stesso ha fatto esperienza: i processi per graphe paranomon erano
a quell’epoca ormai per lo più diretti ad personam, e indirizzati contro i
politici rei di aver mal consigliato il popolo. Spesso infatti il decreto che
l’accusatore giudicava contro la legge era già stato approvato dall’as-
semblea; lungi dal dimostrare che, portando avanti un’accusa di questo
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COMMENTO I 6, 1255a 11-17
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COMMENTO I 6, 1255a 17-19
associazione con la virtù non fanno che sostenere la tesi della naturalità
della relazione padrone-schiavo. Il nodo sta dunque nel concetto di «di-
ritto» (dikaion) e su questo si basa la disputa (ma cfr. Schütrumpf 1991,
I, p. 277, che enfatizza il ruolo dell’ajrethv come “causa” della contesa e
presupposto del dominio): chi possiede la virtù, avendone i mezzi, può
dominare, perché nell’esercizio del dominio è insita una superiorità in
relazione a qualche bene, e dunque l’esercizio della forza per chi ha i
mezzi dati dalla virtù è legittimo.
a 12-13 Numerose le possibilità offerte dagli interpreti sulla spie-
gazione dell’«alternanza» (ejpallavttein) degli argomenti (lovgoi); la
spiegazione più semplice è comunque quella di supporre che si possa
parlare di argomentazioni contrastanti (la violenza esercitata dal più
forte vs la violenza “virtuosa”) che partono da uno stesso principio, che
è il dikaion della l. 8, come Aristotele indica alla l. 17. In sostanza si
contende, gli opposti argomenti si confrontano fin quando si lasciano
confuse e non si distinguono adeguatamente violenza pura e violenza
sorretta dalla virtù (cfr. Bonitz 1870, p. 264b 51).
1255a 17-19 dia; ga;r tou`to... to; to;n kreivttona a[rcein:
Le opzioni proposte da Aristotele in relazione alla giustificazione
della schiavitù di guerra corrispondono dunque (gavr) a due diversi modi
di intendere la prerogativa che deriva dal nomos: per coloro che asso-
ciano l’uso della forza alla virtù il dikaion è «benevolenza»; per coloro
che invece fanno riferimento al diritto del più forte tout court (quello
espresso da Trasimaco in Plat. Resp. 338c: to; divkaion oujk a[llo ti h]
to; tou` kreivttono~ sumfevron, «il diritto non è altro che l’utile del
più forte»), la prerogativa che consegue al nomos è semplicemente la
legittimazione stessa, ovvero che il più forte (sia egli virtuoso o no, cfr.
Simpson 1998, p. 41) comanda a buon diritto (si noti la ripresa sintetica
dell’espressione assai più articolata della l. 10; diversamente Simpson
1997, p. 23 e 1998, p. 41 n. 52, che pone la virgola dopo tou`to, inten-
dendo «others think it is this, that rule by the stronger is just»: anche
se l’interpretazione non differisce nella sostanza, la difformità sta nel-
la spiegazione di divkaion che, pur se non accompagnato dall’articolo
ma solo dall’aggettivo, mi sembra da ricollegare al concetto di «diritto,
prerogativa» in cui l’ho inteso nel resto del capitolo a partire dalla l. 8).
Non vi è pertanto alcuna necessità di correggere il termine eu[noia, tra-
smesso dai codici, come hanno invece ritenuto opportuno già Lambin
(eujnomiva) e poi Richards (eujhvqeia) e Ross (a[noia, accolto anche da
Saunders): la «benevolenza» è «volere il bene» di qualcuno, concetto
ben diverso dall’utile personale (cfr. EE VII 7, 1241a 1; EN VIII 2,
1155b 32; VIII 7, 1158a 7; IX 5, 1167a 8; si vedano anche Democr.
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COMMENTO I 6, 1255a 17-19
fr. 302 DK = 617 Luria: to;n a[rconta dei` e[cein... pro;~ de; tou;~ uJpo-
tetagmevnou~ eu[noian e Plut. Mor. 821a-b), ed è collegata alla virtù
(EN IX 5, 1167a 18: o{lw~ d∆ hJ eu[noia di∆ ajreth;n kai; ejpieivkeiavn
tina givnetai, o{tan tw`/ fanh`Û kalov~ ti~ h] ajndrei`o~ h[ ti toiou`ton... ).
Se poi suppliamo all’estrema sintesi aristotelica con alcuni passaggi
del ragionamento che restano sottintesi, possiamo certo dedurre che il
diritto di schiavizzare il più debole da parte del più forte rientra nella
dimostrazione della schiavitù per natura che il filosofo ha condotto nel
cap. 5: se chi esercita la forza è virtuoso e pertanto vuole il bene di colui
che sottometterà, e allo stesso tempo il diritto che viene dall’homologia
– l’accordo non paritario tra le parti che si affrontano – prevede che chi
è oggetto della violenza divenga schiavo di chi la esercita, la condizione
dello schiavo sarà legittimata dal diritto e vantaggiosa, quindi accettata
di buon grado dai sottoposti, come è stato dimostrato a proposito dello
schiavo per natura (5, 1255a 2-3; cfr. Simpson 1998, p. 40 n. 51; cfr.
anche Newman 1887, II, p. 156, che cita il fr. 35 Wehrli di Aristosseno,
allievo di Aristotele, dallo Stobeo IV 1, 49: peri; de; ajrcovntwn kai;
ajrcomevnwn ou{tw~ ejfrovnoun: tou;~ me;n ga;r a[rconta~ e[faskon ouj
movnon ejpisthvmona~, ajlla; kai; filanqrwvpou~ dei`n ei\nai, kai; tou;~
ajrcomevnou~ ouj movnon peiqhnivou~, ajlla; kai; filavrconta~).
In estrema sintesi si può dunque affermare che i sostenitori dell’esi-
stenza di una schiavitù kata; novmon si appellano alla legge, che è insie-
me convenzione, accordo e consuetudine, secondo la quale chi è supe-
riore in forza e risulta vincitore può rendere schiavo chi viene sconfit-
to. Tuttavia Aristotele identifica tra costoro due posizioni, in relazione
all’interpretazione delle prerogative che la legge comporta, e quindi alla
legittimità delle conseguenze che derivano dall’accordo tra le parti (e
non semplicemente all’essere più o meno giuste, come molti commen-
tatori hanno voluto intendere; si tratta di un ragionamento condotto sul
filo sottile della terminologia giuridica): 1) quella di coloro che vedono
come effetto dell’applicazione dell’accordo solo la “legge del più forte”
e dunque un arbitrio da parte del vincitore/padrone; 2) quella di coloro
che associano all’opera del conquistatore il possesso della virtù e dunque
la «benevolenza» verso l’oggetto della violenza, che rende quindi legit-
tima la schiavizzazione degli sconfitti (cfr. Newman 1887, II, p. 156:
«those who argued against slavery unaccompanied by good-will betwe-
en master and slave were probably among those who glorified rule over
willing subjects, in contraddistinction to rule over unwilling subjects»).
Il disaccordo dunque verte sulle conseguenze (l’“attuabilità”, la corretta
interpretazione della legge) e non sulle premesse (la “norma”, riguar-
do alla quale le due argomentazioni coincidono; cfr. Simpson 1998, p.
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COMMENTO I 6, 1255a 19-21
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COMMENTO I 6, 1255a 21-28
ingiusta (cfr. Hdt. VIII 22, 5; Thuc. III 39, 3; Isocr. 12, 163; da segna-
lare l’interpretazione di Simpson 1998, p. 42, che traduce ajrch;n... tw`n
polevmwn «rule arising from war», supponendo che ad Aristotele non
interessi sottolineare le cause delle guerre, ma piuttosto «what one does
to the conquered after one has won rule over them»); in questo caso, chi
diventa schiavo lo sarebbe illegittimamente, perché non si potrebbe dire
che è schiavo uno che non sia degno di esserlo. Il senso dell’aggettivo
a[xio~ è evidentemente ambiguo: siamo probabilmente di fronte ad una
connotazione giuridica, data dal fatto che è ampiamente attestata una
sua forte valenza tecnica nell’area del diritto, e non può essere ristretto
al campo semantico del «meritare» o dell’«essere degno», che nella no-
stra lingua ha valore tipicamente morale – e rende pertanto molto com-
plesso il lavoro del traduttore, in estrema difficoltà a trovare un termine
rispondente al suo reale senso nel greco –; tuttavia, in base a quel che
Aristotele dirà subito dopo e che ha già altrove spiegato, non possiamo
presumere che sia del tutto estraneo al concetto l’elemento della predi-
sposizione naturale. La costruzione dell’argomentazione non è molto
diversa da quella iniziale, poiché si basa sullo stesso principio della
validità della schiavitù di guerra: anche chi sostiene il nomos come ho-
mologia è assolutamente convinto che la schiavitù di guerra è legittima,
sulla base dell’esercizio della superiorità per forza, ma vi sono persone
che la condannano in quanto «spaventosa», se alla forza non sia asso-
ciata la virtù. Qui la posizione sembra indifferenziata: gli stessi che
ammettono la schiavitù di guerra trovano la “falla” nel ragionamento
(a{ma d’ou[ fasin); ma, benché Aristotele non lo dica esplicitamente,
anche in questo caso è possibile che vi sia un gruppo, tra gli «alcuni»,
che prevede la possibilità di una guerra ingiusta, nell’eventualità (si
noti l’uso del futuro logico, con valore ipotetico; cfr. Bonitz 1870, p.
754a 55) che coloro che nell’opinione comune (con una evidente pre-
sa di distanze dall’oggettività del fatto da parte di Aristotele) sono «di
nobile ascendenza» siano venduti come schiavi. Schütrumpf 1991, I, p.
283 fa notare l’incongruenza della locuzione ejk douvlwn, poiché i di-
scendenti di nobili non possono essere definiti schiavi: l’espressione va
tuttavia considerata nel contesto dell’evento bellico, nel quale l’espres-
sione può fare riferimento alla deportazione di massa di una popolazio-
ne, non solo quindi ai singoli prigionieri di guerra. La contraddizione
evidenziata da Aristotele sta nell’illegittimità della condizione di questi
schiavi, nobili e provvisti in maggior misura «di un qualche bene», e
pertanto dotati di superiorità «naturale» e di conseguenza non «degni»
di essere comandati. Su questi temi cfr. Cambiano 1987, pp. 33-37;
Kraut 2002, p. 278.
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caratteri dell’anima e del corpo nel capitolo precedente (5, 1254b 32),
la natura non sempre riesce nel suo intento, e accade che da uomini di
nobili natali discendano altri uomini non nobili e caratterizzati dal vizio,
che pertanto possono essere schiavi per natura. Ciò prova che sono le
condizioni dell’anima a stabilire la differenza tra gli individui, non la
semplice discendenza o la bellezza fisica: pertanto da un lato giustifica
la perplessità dell’Elena di Teodette – che crede che l’origine da Zeus e
Leda siano garanzia sufficiente per conservare la libertà – nel trovarsi
schiava, dall’altro fornisce però la prova che la condizione di schiava
dell’eroina è evidentemente motivata dalla sua mancanza di nobiltà e di
virtù, in quanto adultera (cfr. Simpson 1998, p. 43). D’altra parte, come
si è già detto nel cap. 5 e come testimonia il dibattito contemporaneo,
echeggiato ripetutamente in Platone (Prot. 319d-320b; Alc.1 118c 7 ss.;
cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 285), la virtù non è semplicemente una qua-
lità naturale, ma richiede educazione e pratica.
a 36 hJ Qeodevktou JElevnh: Teodette fu retore e tragediografo del
IV secolo a. C., originario di Faselide in Licia (Asia Minore), morto
ad Atene e sontuosamente sepolto lungo la via sacra in direzione di
Eleusi (Plut. Mor. 837c-d; Paus. I 37, 4). Difficile ricostruire la sua vita
e la sua attività, soprattutto se si presta fede alla notizia di Suda (s.v.
Theodektes) che distingue padre e figlio, omonimi, entrambi impegna-
ti nell’attività letteraria. È pertanto possibile che le opere tramandate
sotto il nome di Teodette appartengano a due autori diversi. Secondo
la tradizione sarebbe stato allievo di Isocrate (Dion. Is. 19; Plut. Mor.
837c; Suda, s.v. Theodektes); Suda e Plutarco (Alex. 17) riferiscono
inoltre che egli avrebbe ascoltato Platone e Aristotele. Divenne logo-
grafo – compositore di discorsi per il tribunale per conto di terzi – per
necessità (Teopompo, FGrHist 115 F 25) e in campo retorico fu autore
di un testo scolastico (in prosa o in versi) e di un epitaffio per Mausolo
(morto nel 353 a.C.), composto per un agone con i più noti oratori del
tempo, nel quale risultò forse vincitore (Suda). Sempre il lessico Suda
e Plutarco (Mor. 837c) ci parlano della sua attività di tragediografo,
che risalirebbe ad un momento successivo: secondo Stefano di Bisanzio
(s.v. Phaselis) avrebbe composto una cinquantina di tragedie parteci-
pando a tredici concorsi e risultando 8 volte vincitore (7 vittorie sono
testimoniate anche dall’iscrizione che riporta i nomi dei vincitori agli
agoni dionisiaci: IG II/III2 2325). Se escludiamo la tragedia dedicata a
Mausolo in occasione delle celebrazioni funerarie, che peraltro ebbe
grande successo (cfr. Suda e Gell. X 18, 7), la sua produzione, testimo-
niata dai titoli delle altre composizioni e dagli scarsissimi frammenti,
dimostra un repertorio piuttosto tradizionale, molto vicino al modello
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COMMENTO I 6, 1255a 32 - 1255b 4
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COMMENTO I 6, 1255b 4-15
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COMMENTO I 6, 1255b 4-15
23). In effetti, non giova al padrone avere uno schiavo costretto a servire
con la violenza, soprattutto se alla base della relazione c’è un’ingiusti-
zia di fondo; ancora meno sarà possibile, in queste condizioni, un rap-
porto di amicizia. I commentatori hanno sottolineato l’incongruenza di
quel che viene detto qui a proposito dell’amicizia tra padrone e schiavo
con l’affermazione di EN VIII 13, 1161b 1-8, dove Aristotele sottolinea
l’impossibilità di filiva tra padrone e schiavo (h|Û me;n ou\n dou`lo~, oujk
e[stin filiva pro;~ aujtovn, h|Û d’a[nqrwpo~), ma la concede in quanto
lo schiavo è un essere umano (Philem. fr. 22 Kock: ka]n dou`lo~ h|Û ti~,
oujde;n h|tton, devspota, a[nqrwpo~ ou|tov~ ejstin, a]n a[[nqrwpo~ h\; cfr.
Schütrumpf 1991, I, p. 287). Qui tuttavia la considerazione dello schia-
vo come parte del padrone spiega l’utilità e anche l’amicizia, poiché
schiavo e padrone sono parte di un unico organismo e lo schiavo per
natura, legato al padrone “anima e corpo”, non può che accettare di
buon grado il proprio stato (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 287). Aristotele
tuttavia lascia questo argomento senza ulteriori precisazioni, e ritornerà
a farvi cenno soltanto al cap. 13 (1260a 14 ss.), parlando delle virtù dei
componenti della famiglia; il filosofo aveva probabilmente in animo
di riprendere e approfondire il problema della relazione tra padrone e
schiavo se, ancora a VII 10, 1330a 31-33, dice di voler parlare «in se-
guito» (u{steron) del modo in cui si debbano trattare gli schiavi (tivna
de; dei` trovpon crh`sqai douvloi~).
b 7 kai; divkaion [kai; dei`]. La presenza della locuzione kai;
divkaion, espunta da Ross, risulta ben più comprensibile di quella
di kai; dei`, che gli editori hanno cercato di salvare in vario modo
cambiando la punteggiatura, ma che non trova logica collocazione
all’interno della frase. D’altra parte l’espressione riprende da vici-
no, nella forma e nel contenuto, la frase finale di 5, 1255a 3, oi|~ kai;
sumfevrei to; douleuvein kai; divkaiovn ejstin. La forma pronomina-
le divkaion è spiegabile inoltre alla luce dell’intera argomentazione
del capitolo, che si concentra sulla legittimità di alcune prerogative
che vengono fatte derivare dalla legge di guerra.
268
CAPITOLO 7
CONCLUSIONI PROVVISORIE SULLA RELAZIONE PADRONE-SCHIAVO
Questo capitolo chiude una serie di anelli tematici aperti nel corso
dei capitoli precedenti: 1) il più vicino, sulla distinzione per natura di
schiavo-libero e schiavo-padrone, conclusosi con il cap. 6 (1255a 21;
30 ss.; b 4-9); 2) quello sulla differenza di livello dei comandati e delle
tipologie di autorità, del cap. 5 (1254a 24 ss.; 1254b 2 ss.); 3) la critica
a chi pone sullo stesso piano tipi di autorità diversi per specie, del cap.
1 (1252a 7 ss.); 4) l’esistenza di una scienza del padrone, la stessa di
altre forme di comando, ipotizzata da «alcuni» nel cap. 3, che apre la
sezione relativa alla schiavitù (1253b 18 ss.). Una vera e propria summa
di argomenti, che conferisce a questo capitolo la forma di “conclusione
provvisoria” e che consente all’autore di passare a trattare un nuovo
argomento, anch’esso già accennato ed introdotto nel cap. 3 (1253b 2),
l’oikonomia nella forma dell’arte acquisitiva.
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COMMENTO I 7, 1255b 16-20
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COMMENTO I 7, 1255b 20-40
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COMMENTO I 7, 1255b 20-40
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CAPITOLO 8
LA CREMATISTICA NATURALE COME VERA RICCHEZZA
1256a 1-19 O { lw~ de; peri; pavsh~ kthvsew~... ejpimevleia kai; kth'si".
Il discorso sullo schiavo, che è solo parte della proprietà (cfr. 2,
1253a 16; 4, 1253b 32), è ormai esaurito. Ora, con il solito metodo (cfr.
1, 1252a 18, kata; th;n uJfhghmevnhn mevqodon) – quello della divisione,
che permette tramite l’induzione di arrivare alla risoluzione dei quesiti
iniziali; in questo caso dallo schiavo, parte della proprietà, alla proprie-
tà in generale –, Aristotele si propone di indagare la proprietà nella sua
interezza e l’arte di acquisirla. Le questioni a questo riguardo sono an-
cora in parte le stesse del dibattito riportato nel cap. 3 (1253b 11-14): la
crematistica coincide con l’amministrazione domestica (1a) o ne è una
parte (1b)? Ma qui Aristotele aggiunge un corollario: la crematistica
può in alternativa essere al servizio (uJphretikhv) dell’oikonomia? E in
che modo, in quanto arte che provvede gli strumenti (o[rgana) – come
l’arte di fabbricare le spole per la tessitura – o arte che provvede la
materia (u{lh, la sostanza con cui si realizza l’opera finita) – come la
metallurgia per la statuaria? Come dimostrano gli esempi della tessi-
tura e dell’arte statuaria – piuttosto estranei alla nostra esperienza, ma
senz’altro molto vicini a quella dei contemporanei di Aristotele (per i
possibili collegamenti di questo passo con il Politico di Platone, 281a
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COMMENTO I 8, 1256a 1-19
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COMMENTO I 8, 1256a 1-19
sarebbe costituita dalle due coordinate eij gavr... e[stai e hJ de; kth`si~...
oJ plou`to~ e che nell’intero periodo non è rintracciabile. L’ipotesi di
una lacuna prima di w{ste, supposta da Conring, non ha alcun riscontro
nella tradizione. L’altra possibilità, quella preferita nel testo, è data dal
presumere, in virtù del gavr della l. 15, che la proposizione eij gavr...
e[stai non sia protasi di quel che viene dopo, ma piuttosto completi
la frase precedente – cui potrebbe essere legata da un punto in alto –,
con l’intento di chiarire i termini della discussione cui si è poco prima
fatto riferimento. La frase successiva (hJ de; kth`si~... oJ plou`to~, nella
quale la correzione di dev con ge, di Ross, perderebbe invece senso)
potrebbe invece rappresentare la principale, legata chiasticamente alla
proposizione precedente (crhvmata kai; kth`si~, hJ de; kth`si~... kai; oJ
plou`to~); essa amplia il concetto, anticipando un argomento che di-
verrà centrale alla fine del capitolo e nel capitolo successivo (cfr. 9,
1257a 1: crhmatistikhvn, di’h}n oujde;n dokei` pevra~ ei\nai plouvtou
kai; kthvsew~). La congiunzione w{ste manterrà pertanto il suo tipico
valore consecutivo e introdurrà una subordinata priva di verbo, seguita
dall’interrogativa diretta disgiuntiva anch’essa ellittica con due distinti
soggetti (hJ gewrgikhv e hJ... ejpimevleia kai; kth`si~).
Per risolvere la controversia Aristotele comincia con l’applicare
il metodo della divisione (dividere l’intero in parti e considerarle sin-
golarmente), come si era già proposto di fare per le parti della città
(1, 1252a 17-23) e della casa (3, 1253b 1-8): tenendo presente che bi-
sogna considerare se è compito di colui che si occupa di acquisire i
beni (il «crematista») valutare da dove vengono i beni e la proprietà,
Aristotele dichiara immediatamente che proprietà e ricchezza (scopri-
remo nel capitolo successivo che esse rientrano in due distinti tipi di
crematistica) hanno molte parti, e bisogna quindi prendere l’avvio da
queste, in primo luogo dall’agricoltura – e più in generale dalla cura e
dal possesso del nutrimento –, per stabilire se la crematistica è una parte
della oikonomia (non trova giustificazione nei manoscritti la correzione
di crhmatistikh`~ in oijkonomikh`~ di Garve, accettata da Susemihl,
Immisch e Dreizehnter, e da ultimo sottintesa in Saunders 1995, p. 84)
o è un tipo diverso di attività. È comprensibile che Aristotele intenda
partire dalla ricerca del nutrimento, che rappresenta la base di ogni ag-
gregazione umana, come avrà modo di spiegare più avanti; l’obiettivo
del filosofo è comunque quello di arrivare a dimostrare, per gradi, che,
se l’agricoltura e l’approvvigionamento – in quanto forme particolari
di crematistica – sono parte dell’amministrazione domestica (cap. 8)
e se dunque l’approvvigionamento è parte della crematistica (e la cosa
non è del tutto scontata, come si vedrà nel cap. 9), anche la crematistica
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COMMENTO I 8, 1256a 19-29
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COMMENTO I 8, 1256a 29 - 1256b 7
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COMMENTO I 8, 1256b 31-39
1256b 31-39 hJ ga;r th'" toiauvth" kthvsew"... kai; di∆ h}n aijtivan,
dh'lon.
La vera ricchezza – insieme degli strumenti degli amministra-
tori e dei politici (b 36: ojrgavnwn plh`qov~ ejstin oijkonomikw`n kai;
politikw`n; cfr. 4, 1253b 31: hJ kth`si~ plh`qo~ ojrgavnwn ejstiv) – con-
siste pertanto nell’acquisizione dei mezzi sufficienti alla comunità per
vivere bene (prodotti dell’agricoltura, animali e schiavi) ed ha un limite
ben definito, dato dalla limitatezza degli strumenti di cui si serve l’arte
dell’acquisizione e dal raggiungimento dell’autosufficienza che ne è il
fine; si noti tuttavia che l’autosufficienza è possibile solo nella polis, e
soltanto al suo interno evidentemente anche la casa/famiglia può eser-
citare la sua vera funzione economica (cfr. 2, 1252b 28 ss.); l’interesse
di Aristotele in questo punto non sembra tuttavia concentrarsi sulla pre-
sunta inconciliabilità di quel che viene qui sostenuto con le affermazio-
ni del cap. 2 (Schütrumpf 1991, I, p. 320 esprime il fondato sospetto di
una mancata rielaborazione di questo capitolo all’interno del complesso
del libro I). Questo limite non è evidentemente perspicuo agli uomini,
come dimostra il verso di Solone citato. Il ragionamento aristotelico si
dipana dunque per gradi successivi: nessuno strumento di nessuna arte
è illimitato per numero o dimensione; la vera ricchezza consiste negli
strumenti che servono all’arte dell’amministrazione della casa e della
città (per l’associazione tra i due ambiti cfr. 10, 1258a 20 e 11; 1259a 33
ss.); quindi la vera ricchezza ha strumenti senz’altro limitati per quan-
tità e dimensione.
Ora, se è chiaro dal ragionamento aristotelico che i mezzi di vita
non possono essere illimitati – perché il loro limite è dato dalla natura e
dal raggiungimento del fine –, non resta che domandarsi perché Aristo-
tele senta la necessità di specificare ulteriormente che la vera ricchezza
non può essere illimitata (cfr. Epic. Ratae sententiae 15: oJ th`~ fuvsew~
plou`to~ kai; w{ristai kai; eujpovristov~ ejstin, oJ de; tw`n kenw`n doxw`n
eij~ a[peiron ejkpivptei: «la ricchezza naturale è limitata e facilmen-
te raggiungibile, quella delle vuote opinioni si proietta nell’infinito»),
facendo riferimento, evidentemente, all’opinione collettiva, suffragata
dall’affermazione di Solone, il più autorevole testimone di una società
in fieri attraversata da profonde lacerazioni. Il punto nodale risiede nel
concetto di ricchezza “vera”; possiamo ritenere che nel pensiero comu-
ne la vera ricchezza sia rappresentata non dal possesso dei mezzi di vita
che portano all’autosufficienza – che è invece l’espressione della teoria
aristotelica –, bensì da qualcos’altro, cui Aristotele nega validità: alla
luce di quel che dirà più avanti, possiamo concludere che si tratta del
possesso del denaro. La ricchezza nella forma dell’accumulo di denaro
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COMMENTO I 8, 1256b 31-39
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COMMENTO I 8, 1256b 31-39
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CAPITOLO 9
LA CREMATISTICA NON NATURALE
COME ACCUMULO ILLIMITATO DI DENARO
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COMMENTO I 9, 1256b 40 - 1257a 5
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COMMENTO I 9, 1257a 5-19
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COMMENTO I 9, 1257a 5-19
lasciandola in eredità (dicw`~ de; ta; crhvmata levgomen kai; th;n crhma-
tistikhvn: hJ me;n ga;r kaq’ auJto; crh`si~ tou` kthvmatov~ ejstin, oi|on
uJpodhvmato~ h] iJmativou, hJ de; kata; sumbebhko;~ mevn, ouj mevntoi ou{tw~
wJ~ a]n ei[ ti~ staqmw`/ crhvsaito tw/` uJpodhvmati, ajll’ oi|on hJ pwvlhsi~
kai; hJ mivsqwsi~: crh`tai ga;r hÊ| uJpovdhma); 2) VIII 1, 1246a 27-33,
dove Aristotele presenta l’esempio dell’occhio, usato in quanto tale per
vedere bene o male e, sempre in quanto occhio, in maniera acciden-
tale, nell’ipotesi paradossale di venderlo o di mangiarlo ( Aporhvj seie
d a[n ti~ e[stin eJkavsatw/ crhvsasqai kai; ejf∆ o} pevfuke kai; a[llw~,
kai; tou`to hÊ| aujto; h] au\ kata; sumbebhkwv~: oi|on hÊ| ojfqalmov~, ijdei`n h]
kai; a[llw~ paridei`n diastrevyanta w{ste duvo to; e}n fanh`nai, au|tai
me;n dh; crei`ai a[mfw o{ti me;n ojfqalmov~ ejstin, h\n dæ ojfqalmw/` a[llhÊ
dev, kata; sumbebhkov~, oi|on eij h\n ajpodovsqai h] fagei`n). Come si
può notare, questa seconda occorrenza appare più vicina, anche se non
perfettamente sovrapponibile, a quanto viene detto qui nella Politica
sull’uso della scarpa come oggetto di scambio, incluso tra i suoi usi «di
per sé», giacché Aristotele rileva che entrambi gli usi si configurano
nella categoria kaq’ aujtov; tuttavia vi è un’ulteriore distinzione, oujc
oJmoivw~ kaq’ autov, nel senso che l’uso «di per sé» può essere distinto
ulteriormente in proprio e improprio rispetto alla cosa usata (hJ me;n oij-
keiva hJ d’ oujk oijkeiva tou` pravgmato~).
Lo scambio delineato per la scarpa funziona dunque per tutti gli og-
getti di possesso (evidentemente in uno stadio già più complesso e svi-
luppato, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 328), e ha come presupposto il fatto,
del tutto naturale, che alcuni uomini hanno di più, altri di meno di ciò
che occorre loro, come apparirà chiaro dalla spiegazione successiva.
Pone qualche difficoltà interpretativa invece la proposizione se-
guente – soprattutto in relazione all’attribuzione di fuvsei a hJ ka-
phlikhv o a th`~ crhmatistikh`~ –, che anticipa un nucleo argomen-
tativo che verrà affrontato più avanti e riprende due elementi, la ka-
phlikhv, il piccolo commercio (o commercio al minuto), e l’ajllaghv,
lo scambio, già nominati nel capitolo precedente (8, 1256a 41-1256b
1), ma mai veramente spiegati fino ad ora. L’affermazione «ne conse-
gue che il piccolo commercio (in origine) non è per sua natura parte
della crematistica, perché di necessità scambiavano quanto bastava
loro» va probabilmente intesa in relazione a quel che Aristotele ha
appena detto e dirà dopo (a 15; a 29 ss.). In sostanza Aristotele pre-
cisa che in origine ci si limitava allo scambio dei prodotti che ser-
vivano a soddisfare i bisogni elementari e quindi a raggiungere una
naturale autosufficienza; per questa ragione il piccolo commercio non
è parte per natura della crematistica in senso tecnico che, in quanto
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COMMENTO I 9, 1257a 19-31
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COMMENTO I 9, 1257b 5-17
nella seconda parte della frase, che può essere segnalata dalla presenza
o meno della virgola dopo ejgevneto («il commercio al minuto divenne
una seconda specie di crematistica» – senza virgola, cfr. Pellegrin 1982,
p. 639 – oppure «nacque una seconda specie di crematistica, il commer-
cio al minuto» – con virgola, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 25; Simpson
1997, p. 28; Simpson 1998, p. 53).
1257b 5-17 dio; dokei' hJ crhmatistikh;... gignomevnwn tw'n para-
tiqemevnwn crusw'n.
Presentando gli effetti del sorgere della crematistica, Aristotele fa
notare che l’opinione comune vuole dunque che essa abbia a che fare
con la moneta e quindi la sua attività principale sia rivolta a stabilire da
dove si possa procurare un surplus di beni, giacché essa è produttrice di
ricchezza (in termini monetari, cfr. anche EN IV 1, 1119b 26) e di beni.
Non è possibile mantenere nella traduzione la relazione etimologica che
lega crhmatistikhv e crhvmata (b 5-7); possiamo comunque rilevare
che quest’espressione è pressoché identica a quella usata da Aristote-
le all’inizio della sezione relativa alla crematistica in generale, che ha
portato ad individuare la ricchezza buona (8, 1256a 15-16: eij gavr ejsti
tou` crhmatistikou` qewrh`sai povqen crhvmata kai; kth`si~ e[stai; in
quel periodo si erano però rilevati problemi strutturali, cfr. commento
ad locum): in quel caso ci si domandava se fosse compito di colui che
aveva l’incarico di acquisire beni (il crematista), di indagare da dove
venissero beni e proprietà; qui si riconosce che la crematistica ha il
compito di ricercare da dove possa venire abbondanza di beni. Si tratta
di una chiara evoluzione nel percorso esegetico aristotelico per quel
che concerne l’arte acquisitiva: se il crematista del cap. 8 poteva avere
l’incarico di indagare le fonti dei beni, la crematistica del 9 punta alle
fonti dell’accumulo, dal momento che la crematistica è ormai intesa nel
senso deteriore di «accumulo di ricchezza». Quindi è l’abbondanza di
beni – e non più il procurarsi i mezzi necessari e utili alla vita (8, 1256b
28-30) – a configurarsi come ricchezza, e la ricchezza è ora intesa in
termini monetari (nomivsmato~ plh`qo~), secondo l’opinione comune da
cui il filosofo è evidentemente partito.
Talvolta però il denaro risulta privo di valore e semplicemente
frutto di una convenzione (si noti il ripetersi della figura etimologica
anche per novmisma e novmo~ a b 11; cfr. anche la spiegazione di EN V
8, 1133a 30 ss.), e assolutamente non naturale; perciò la moneta ha
valore se c’è un accordo, ma se questo manca perché mutano coloro
che hanno stipulato l’accordo essa non può più avere valore né utilità
per le necessità della vita (l’insistenza sull’utilità e la necessità permea
l’intero passo: cfr. 1257a 25, 34, 35, 36, 37; cfr. anche Xen. Vect. 3, 2).
295
COMMENTO I 9, 1257b 17-38
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COMMENTO I 9, 1257b 17-38
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COMMENTO I 9, 1257b 38 - 1258a 14
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COMMENTO I 9, 1258a 14-18
299
CAPITOLO 10
IL RUOLO DELLA CREMATISTICA RISPETTO ALL’AMMINISTRAZIONE DOMESTICA:
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
300
COMMENTO I 10, 1258a 19-34
301
COMMENTO I 10, 1258a 34 - 1258b 8
302
COMMENTO I 10, 1258a 34 - 1258b 8
Schütrumpf 1991, I, p. 351, che ritiene che qui Aristotele intenda con-
dannare la funzione dei mercanti come intermediari delle transazioni).
Si tratta dell’importante differenza tra valore d’uso della proprietà –
quello che ha ben chiaro l’oikonomos quando si serve della crematistica
naturale – e valore di scambio, per cui il prodotto, ma soprattutto il
denaro (con il suo valore strumentale e convenzionale), ha il solo fine
di accrescere la ricchezza perdendo di vista completamente la proprietà.
Aristotele condanna quindi recisamente l’uso del denaro come fine e
non come mezzo (ragione del suo sorgere, 1258b 4), esemplificando il
massimo grado di questo atteggiamento disprezzabile (si noti l’uso di
termini “forti” in crescendo, yegomevnh~ e misei`tai) nel prestito «ad
interesse» (preferibile a «usura» nel tradurre ojbolostatikhv, che non
ha la valenza negativa del termine italiano; cfr. Cohen 1992, pp. 4-5; il
termine è usato da Aristoph. Nub. 1155, che gioca sul doppio signifi-
cato, come qui Aristotele), che, in quanto forma puramente finanziaria,
perde di vista del tutto il prodotto e, totalmente estranea alla naturalità,
trae direttamente denaro da denaro attraverso l’interesse. Indicativo di
questo modo distorto di produrre ricchezza è persino il vocabolo usato
in greco per designare l’interesse: tovko~, che ha anche il significato di
«figlio» in quanto derivante dalla radice del verbo tivktw, «generare»:
come dunque i figli sono simili ai genitori, così anche attraverso l’inte-
resse si produce denaro da denaro.
303
CAPITOLO 11
LA PRATICA DELLA CREMATISTICA
304
COMMENTO I 11, 1258b 9-11
1258b 9-11 jEpei; de; ta; pro;" th;n gnw'sin diwrivkamen... th;n
d∆ ejmpeirivan ajnagkaivan.
Il contrasto tra «conoscenza teorica» (gnw`si~) e «uso» (crh`si~) è
il punto di partenza per un nuovo ordine di riflessioni sulla crematistica,
legate all’empeiria (cfr. b 11 e 13); se partiamo dal presupposto che
questa parte dell’opera (capp. 8-11) fosse il frutto di un logos autono-
mo sulla relazione oikonomia-crematistica (cfr. sopra, pp. 60-61), dal
periodo iniziale del capitolo il lettore può supporre che Aristotele stesse
rispondendo a qualche obiezione riguardante la realtà dei fatti, o che
abbia notato che occorreva dare indicazioni pratiche per non essere ac-
cusato di essere eccessivamente svincolato dalla realtà. Proprio a que-
sto aspetto sembra infatti fare riferimento la seconda contrapposizione,
quella tra «libertà» della teoria (th;n qewrivan ejleuqevran) e «necessi-
tà» della esperienza (th;n ejmpeirivan ajnagkaivan). Molto differenziate
le interpretazioni di questo passo: tra le più significative Schütrumpf
1991, I, p. 28 (che traduce «in allen diesen Angelegenheiten ist die
theoretische Beschäftigung dem Range eines freien Mannes angemes-
sen, die praktische Erfahrung dient dagegen der Erfüllung notwendiger
Bedürfnisse», spiegando che mentre la cura per la teoria è degna di un
uomo libero, l’esperienza pratica ha a che fare con l’adempimento di
compiti necessari, p. 355); Saunders 1995, p. 16 («in all subjects of this
kind speculation befits a free man, whereas experience meets essential
needs» e p. 95: «there is free scope for speculation, but we cannot avoid
practical experience»); Simpson 1997, p. 28 (che interpreta invece «stu-
dy of all such things has something liberal about it, but to be actually
experienced in them belongs to necessity», ritenendo che l’espressione,
in riferimento a 1258b 33-39, voglia dire «that it becomes rulers of
household and city, who are free men, to devote some study to the use
and practice of business but it does not become them actually to engage
in it»: Simpson 1998, p. 60); si vedano inoltre le traduzioni italiane di
Laurenti 1993, p. 22 («argomenti di tale natura, tutti quanti, in teoria si
studiano liberamente, mentre in pratica, sono legati alla necessità») e di
Viano 2002, p. 117 («infatti tutte queste cose permettono libere inter-
pretazioni teoriche, ma in pratica rivelano la loro necessità»),
La contrapposizione tra conoscenza e uso risponde comunque,
come nota Simpson (1998, p. 59), ad alcune delle riflessioni del ca-
pitolo precedente ed è senz’altro motivata: se la crematistica fa parte
dell’amministrazione domestica nel senso che l’oikonomos è incaricato
305
COMMENTO I 11, 1258b 12-21
di procurare quel che serve alla casa (sia con l’acquisizione sia con
l’uso di ciò che è fornito dalla natura anche attraverso arti ausiliarie, cfr.
10, 1258a 20), anche la pratica della crematistica fa parte dei compiti
dell’amministrazione domestica. E le supposte contraddizioni presenti
nel capitolo vengono superate appunto dalla necessità di rispondere a
queste esigenze di carattere pratico.
1258b 12-21 e[sti de; crhmatistikh'" mevrh... tau'ta movria kai;
prw`ta.
Le parti e i fondamenti (b 21, prw`ta; la scelta del vocabolo sem-
bra soddisfacente e non richiede pertanto la correzione proposta da Ri-
chards e accolta da Ross in prwvth~) della crematistica relativi all’uso –
se così si può interpretare il collegamento etimologico tra crh`si~ (b 10)
e crhvsima (b 12) – riguardano la crematistica «nel senso più proprio»
(b 20, oijkeiotavth), quella naturale, che trae il proprio fabbisogno di-
rettamente dalla natura. Aristotele, nell’elencare le competenze neces-
sarie al crematista, riprende i modi di vita di cui si era occupato nel cap.
8 (1256a 29 ss.), specificando in che modo debba esercitarsi l’abilità di
colui che deve trarre nutrimento dalle varie risorse (per es. poi`a... kai;
pou` kai; pw`~; cfr. in Schütrumpf 1991, I, p. 357 il riferimento a Aristo-
ph. Ran. 971 e alle teorie sofistiche): conoscere i vantaggi delle condi-
zioni e delle collocazioni delle proprietà, avere esperienza di acquisto
di animali e degli ambienti in cui l’allevamento delle singole specie
possa essere più redditizio, essere abile nell’esercizio dell’agricoltura
erbacea e arborea, nell’allevamento delle api e degli altri animali ac-
quatici e volatili, dai quali si possano trarre risorse (bohqeiva~, cfr. 8,
1256b 19).
1258b 21-27 th'" de; metablhtikh'"... movnw/ crhsivmwn.
Il secondo tipo di crematistica è quello già delineato a partire dal cap.
9, relativo allo scambio, contro natura e fonte della ricchezza monetaria,
ma considerato qui da un diverso punto di vista: la sua parte fondamen-
tale è costituita dall’attività mercantile su larga scala (ejmporiva), a sua
volta distinta in armamento di navi, trasporto (forthgiva; cfr. Demosth.
34, 8) e smercio, caratterizzate da un diverso livello di sicurezza e di
guadagno (che in termini attuali potremmo chiamare rapporto rischio-
beneficio); la seconda consiste nel prestito a interesse, già affrontato
alla fine del cap. 10 (ma nell’ottica di una valutazione di senso comu-
ne), che scambia denaro per denaro; la terza è relativa al lavoro retribu-
ito (misqarniva; cfr. anche Plat. Leg. XI 918b), che scambia lavoro per
denaro, esercitato da persone specializzate nei lavori manuali (hJ me;n
tw`n banauvswn tecnw`n; cfr. IV 3, 1289b 33; 4, 1291a 1) o non specia-
lizzate, che si servono soltanto del corpo (cfr. 13, 1260a 39-b 2, dove
306
COMMENTO I 11, 1258b 27-39
307
COMMENTO I 11, 1258b 39 - 1259a 6
d∆ ajpeiriva tuvchn; uno stretto legame tra tevcnh e tuvch si trova anche in
EN VI 4, 1140a 19-20 e EE VIII 2, 1247a 5-7), quelle manuali, nelle qua-
li il corpo è sottoposto all’usura maggiore (cfr. Xen. Oec. 4, 2; Plat. Resp.
VI 495d 7), quelle più servili, che usano il corpo in molti modi diversi
(cfr. 4, 1254b 17), quelle più ignobili, per le quali è richiesto il minimo
grado di virtù (nel senso di sapienza pratica, cfr. Saunders 1995, p. 96;
ma cfr. sotto 13, 1259b 21 ss.). Aristotele qui propone una diversificazio-
ne nelle attività che contemplano l’uso del corpo, laddove in precedenza
(2, 1252a 32; 5, 1254b 17) aveva indicato proprio questo carattere come
segno distintivo dell’attività servile (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 358).
1258b 39-1259a 6 ejpei; dæ ejsti;n ejnivoi"... timw'si th;n crhmati-
stikhvn.
In relazione alle fonti da cui trarre informazioni aggiuntive, Aristo-
tele cita opere scritte, richiamando direttamente quelle sull’agricoltura
erbacea ed arborea ad opera di Caretide di Paro e Apollodoro di Lemno
(per gli «altri» Schütrumpf 1991, I, p. 361 cita Democr. fr. 68 B 26f-
28 DK), e fa inoltre riferimento alla necessità di raccogliere notizie
di seconda mano riguardanti mezzi crematistici di successo, forse al
fine di creare una raccolta di excerpta sull’argomento. Non sappiamo se
l’operazione fosse nelle intenzioni dello Stagirita o se già fosse partito
un progetto di questo genere all’interno della scuola (ammesso che si
possa parlare di una composizione del libro successiva alla fondazione
del Liceo); è certo però che l’invito fu accolto e fatto proprio dall’au-
tore di quello che è divenuto il secondo libro degli Economici, a lungo
attribuiti ad Aristotele, ma ormai generalmente considerati spuri (cfr.
Zoepffel 2006, p. 214).
Quanto ai due autori citati come estensori di opere di agricoltura,
i dati in nostro possesso sono praticamente inesistenti. A proposito di
Caretide non vi è assoluta certezza neppure sull’esattezza del nome;
la mancanza di accordo della tradizione manoscritta ha prodotto da un
lato la scelta di Susemihl CarhtivdhÊ tw/' Parivw/, accolta poi da Ross, e
dall’altro quella di Immisch Cavrhti dh; tw`/ Parivw/. Il nome Carhtivdh~
non è praticamente attestato fuori da Atene se si eccettua un caso, in
lacuna e frutto di parziale integrazione, in un’iscrizione di Andro (IG
XII 5, 778, [ca]rhtivdh~; cfr. Fraser-Matthews 1998, p. 480); anche per
Atene tuttavia le ricorrenze appaiono piuttosto rare e in nessun caso
precedenti al IV secolo a.C. Più comune sembra invece il nome Cavrh~,
ma nessuna delle attestazioni può essere ricondotta all’autore dell’opera
di agricoltura citata qui da Aristotele. Su Apollodoro di Lemno abbiamo
invece il supporto, comunque non decisivo, delle citazioni nel De agri-
cultura di Varrone (I 1, 8, in un elenco di opere greche de agri cultura
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COMMENTO I 11, 1259a 6-33
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COMMENTO I 11, 1259a 6-33
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COMMENTO I 11, 1259b 33-36
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CAPITOLO 12
LE RELAZIONI PADRE-FIGLIO E MARITO-MOGLIE
312
COMMENTO I 12, 1259a 37 - 1259b 10
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COMMENTO I 12, 1259b 10-17
differenze evidenti (età, maturità e l’essere più adatto per natura al co-
mando) e delle prerogative permanenti che lo rendono inevitabilmente
leader e depositario dell’autorità.
Nel capitolo successivo Aristotele riprenderà il tema per chiarire
che nelle relazioni familiari il punto nodale riguarda la virtù e le facol-
tà dell’anima (13, 1260a 13; cfr. anche EN VIII 13, 1161a 22 ss. e V
10, 1134b 15-18, dove la relazione marito-moglie è vista in termini di
giusto e ingiusto). Su questo principio si basa anche il passo di EN VIII
12, 1160b 32 ss., che propone il parallelismo tra costituzioni e comunità
familiare: qui però la relazione tra marito e moglie è definita «aristocra-
tica» (b 32-33: ajndro;~ de; kai; gunaiko;~ ajristokratikh; faivnetai;
cfr. anche EE VII 9, 1241b 30 e Pol. III 17, 1288a 8, dove l’aristocrazia
è un regime politico fondato sulla virtù) e viene affermato che il marito
comanda sulla base del suo valore (kat’ ajxivan) e nelle questioni in cui
l’uomo deve farlo, mentre lascia alla donna ciò che spetta ad una donna.
Da questo passo dell’Etica si può forse meglio comprendere quel che
intende Aristotele con il concetto di autorità «politica».
Suggestiva, ma indimostrabile, appare l’ipotesi di Schütrumpf
1991, I, p. 365, che suppone che l’argomentazione qui sviluppata possa
essere la prova che questa parte della Politica è frutto di una riflessione
precedente a quella delle due Etiche; in sostanza, al momento di realiz-
zare questa parte della Politica Aristotele poteva non aver ancora elabo-
rato la differenziazione delle forme di autorità sulla base delle tipologie
costituzionali; questo passo sarebbe quindi il frutto del primo approfon-
dimento del tema dei tipi di autorità, ancora collegato alla terminologia
del Politico di Platone.
1259b 10-17 hJ de; tw'n tevknwn ajrch;... oJ gennhvsa" pro;" to; tevk-
non.
L’autorità del padre sui figli è invece di tipo regale, perché ne ha
i caratteri, ovvero l’amore (filiva) e la maggiore età (presbeiva; cfr.
VIII 14, 1332b 33). Per natura infatti il re si deve distinguere dai sud-
diti, anche se è uguale a loro per stirpe, come accade nella relazione tra
il più vecchio e il più giovane e tra il genitore e il figlio; pertanto tutti i
re possono essere paragonati a padri, come fa correttamente Omero con
Zeus (Il. I 503 e 544). Anche su questo argomento Aristotele si pronun-
cia nello stesso passo dell’Etica Nicomachea (VIII 12, 1160b 24-32),
che riporta la stessa citazione dall’Iliade: la comunità di padri e figli
ha la forma del regno, poiché il padre si prende cura dei figli e il regno
«vuole essere come un’autorità paterna» (patrikh; ga;r ajrch; bouvle-
tai hJ basileiva ei\nai); unica eccezione tra i Persiani, dove l’autorità
del padre è tirannica, e i figli vengono trattati come schiavi: si tratta
314
COMMENTO I 12, 1259b 10-17
di una forma errata, dice Aristotele, ma già sappiamo che «per natura
barbaro e schiavo sono la stessa cosa» (2, 1252b 9).
Con quest’ultima sezione argomentativa – che ha un’appendice
nel capitolo 13, con cui termina il libro – Aristotele conclude la parte
riguardante le relazioni interne alla famiglia e i tipi di autorità del ma-
schio padrone di casa (monarciva, cfr. 7, 1255b 19) sui vari membri: ora
sappiamo che egli esercita un’autorità dispotica sugli schiavi, che non
sono né liberi né uguali; un’autorità regale sui figli, che sono liberi ma
non uguali; un’autorità politica (o aristocratica) sulla moglie, che è li-
bera e “quasi uguale”, e inoltre si pone nella condizione di amministra-
tore nei confronti della proprietà, parte integrante della casa-famiglia.
Il nostro autore ha dunque risolto, per la prima volta in modo concreto,
la polemica del cap. 1 con «quanti credono che l’uomo politico, l’uomo
regale, l’amministratore della casa e il padrone si identifichino» (1252a
7-9) – ripresa nel cap. 3, dove si riafferma che per alcuni sono «la stessa
cosa l’amministrazione della casa, l’autorità padronale, l’autorità poli-
tica e quella regale, come abbiamo detto all’inizio» (1253b 19-20) – e
ha dimostrato l’inconsistenza della distinzione quantitativa basata sul
numero di sottoposti, attraverso l’indagine delle diverse forme di auto-
rità rese necessarie dalle differenze naturali dei membri della comunità
familiare. Questo argomento sarà ulteriormente studiato nel capitolo
finale.
315
CAPITOLO 13
I MEMBRI DELLA CASA IN RELAZIONE ALLA VIRTÙ
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COMMENTO I 13, 1259b 12 - 1260a 4
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COMMENTO I 13, 1259b 21 - 1260a 4
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COMMENTO I 13, 1260a 4-14
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COMMENTO I 13, 1260a 14-33
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COMMENTO I 13, 1260a 14-33
tù, anche se sono molte e varie, hanno tutte una stessa forma, in base
alla quale sono virtù; tutti gli uomini sono virtuosi allo stesso modo
perché hanno acquisito la stessa virtù. Aristotele ritiene invece, come
ha appena finito di dimostrare, che una definizione generale non sia in
grado di esaurire tutte le differenze e che proprio il possesso delle parti
dell’anima in modi singolarmente diversi faccia sì che vi siano numero-
se sfumature. Chi infatti fa un’analisi più dettagliata (kata; mevro~, cfr.
anche 11, 1258b 33) si rende conto (dh`lon dev) del fatto che chi parla
genericamente (kaqovlou) e dà definizioni in questo modo (tw`n ou{tw~
oJrizomevnwn), definendo per esempio la virtù una buona disposizione
dell’anima (to; eu\ e[cein th;n yuchvn) o il fare bene (to; ojrqopragei`n,
cfr. Plat. Men. 97b 9), si inganna; ha ragione invece chi, come Gorgia,
cui si riferisce lo stesso dialogo platonico, enumera singolarmente le
virtù (cfr. anche EN II 7, 1107a 28-32: relativamente alle virtù non biso-
gna parlare solo in generale, kaqovlou, ma anche riferendosi a casi par-
ticolari, toi`~ kaq’ e{kasta). Non possiamo identificare precisamente a
chi Aristotele intendesse richiamarsi riportando le definizioni di virtù
che egli non condivide; Platone vi fa riferimento in alcuni passi (Resp. I
353b; IV 444d; Carm.172a; Men. 97a-e), ma è probabile che tali dottri-
ne facessero parte della tradizione socratica. Quanto a Gorgia, nel passo
platonico sopra citato (Men. 71d-72b) Menone si fa portavoce del suo
pensiero sostenendo che si può parlare di virtù diverse per uomini, don-
ne, fanciulli, schiavi e anche in relazione all’età e alle diverse attività.
Per esemplificare come la virtù si possa tradurre praticamente Ari-
stotele fa allora un esempio tratto da una tragedia di Sofocle (Aiax,
293): Tecmessa sta citando le parole di Aiace, che ha appena tentato
di dissuadere dalla vendetta: «il silenzio reca ornamento alla donna».
Da un punto di vista sociologico quest’ affermazione va senz’altro letta
alla luce della condizione femminile in Grecia, che limitava la libertà di
movimento e di iniziativa della donna, confinata all’ambito domestico;
tuttavia Aristotele usa consapevolmente questa dichiarazione a suffra-
gare la bontà dell’argomentazione riguardante la virtù: la prescrizione
del silenzio, comprensibile solo se si considera che il parlare sia un atto
di controllo e di leadership (cfr. Simpson 1998, p. 69), vale per tutti,
tranne che per l’uomo – anche se pronunciata da una donna (ma riferen-
do le parole di Aiace stesso) –, come si può dedurre dalla rassegna delle
applicazioni dell’affermazione; della donna non occorre dire altro, poi-
ché evidentemente è comprensibile, sulla base di quel che è stato detto
sopra, che la sua imperfezione nella facoltà deliberativa mostri che essa
non è in grado di usare in maniera appropriata la parola, e che la virtù
diviene un atto di obbedienza a una guida superiore (Saunders 1995, p.
322
COMMENTO I 13, 1260a 33 -1260b 7
100). È invece opportuno spiegare meglio per quel che riguarda il fan-
ciullo e lo schiavo. Per il primo, si chiarisce che la sua incompletezza,
destinata tuttavia a lasciare il posto alla piena maturità, lo rende dipen-
dente dal padre e la sua virtù quindi non si realizza per lui stesso, ma
per il padre, che è il suo fine – cioè la figura, il maschio adulto, in cui si
compirà pienamente una volta cresciuto – e la sua guida nella scelta dei
fini morali; per il secondo vale lo stesso discorso in relazione al padro-
ne, ma con la differenza che il suo fine è servire il padrone.
1260a 33-1260b 7 e[qemen de;... h] tou;" pai'da".
Il nuovo riferimento alla condizione dello schiavo rispetto alla vir-
tù, come quello dell’inizio del capitolo (1259b 22), serve ad Aristotele
per istituire un parallelo con un’altra categoria, quella dei tecnivtai o
bavnausoi tecnivtai. Lo schiavo dunque è utile per le cose necessarie
(5, 1254b 16), e ha pertanto bisogno di poca virtù e solo in quanto gli
serve per non venire meno ai suoi compiti per mancanza di temperanza
o per pigrizia. D’altra parte una piena deliberazione non servirà allo
schiavo per realizzare al meglio i suoi impegni prioritariamente fisici (si
veda il commento al cap. 5). Questa premessa è invece utile per porre
un nuovo dubbio (ajporhvseie d’ a[n ti~): se quel che si è detto è vero,
anche i lavoratori manuali specializzati dovranno possedere la virtù, dal
momento che spesso vengono meno ai propri compiti per intemperan-
za. I due casi potrebbero però non essere confrontabili perché, mentre
lo schiavo è legato indissolubilmente al padrone (perché partecipa della
sua vita) ed esiste per natura, il lavoratore specializzato serve il padrone
per un tempo definito, limitatamente al periodo in cui lavora per lui e lo
serve, e non è tale per natura. La virtù quindi lo schiavo dovrà posseder-
la per realizzare la volontà del padrone nell’esercizio dei compiti che
gli vengono affidati (talvolta determinanti per il buon andamento della
casa) ed è pertanto adeguato per natura ad esercitarla, l’artigiano invece
dovrà possederla solo per quel tanto che gli serve quando lavora per il
padrone e non quindi come forma di educazione permanente.
Va rilevato tuttavia che appare fortemente incongruente che lo
schiavo possieda più virtù del lavoratore specializzato, che è invece
libero (cfr. Saunders 1995, p. 101). Non è inoltre del tutto perspicua la
differenziazione tra la naturalità dello schiavo e la non naturalità del
lavoratore specializzato, che potrebbe portare a ritenere che Aristotele
consideri le arti non naturali e non necessarie nell’ambito dell’ammi-
nistrazione domestica. In realtà probabilmente Aristotele, affermando
che non si è calzolai per natura (ma cfr. Plat. Resp. IV 443c 5), intende
sottolineare che si può esercitare un’arte solo grazie a un lungo appren-
dimento e non invece per una qualche capacità naturale, e sta precisan-
323
COMMENTO I 13, 1260b 8-20
324
COMMENTO I 13, 1260b 20-24
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COMMENTO I 13, 1260b 20-24
326
Note testuali al I libro
NOTE TESTUALI
327
NOTE TESTUALI
329
NOTE TESTUALI
stessa modifica alla Politica: così in Stob. II, p. 148 l. 6 il genevsei dei
manoscritti FP è stato trasformato da Spengel in gennhvsei, e come tale
accettato anche da Wachsmuth, editore delle Eclogae). Susemihl, tardi-
vamente seguito da Ross, accolse la variante di tradizione indiretta pro-
babilmente per due ragioni, di per sé ragguardevoli: a) nell’opposizione
gevnesi~ / gevnnhsi~ doveva valere il criterio della lectio difficilior a
favore della seconda; b) la tradizione indiretta poteva aver preservato
una facies testuale più vicina all’originale rispetto alla vulgata dei co-
dici medioevali. A confutazione delle due ragioni intervengono però
rispettive considerazioni, di ordine differente; a) anzitutto a proposito
dell’usus scribendi aristotelico. Pur senza note sulla variante testuale in
questione, in Newman ad locum si legge: «Gevnesi~ is a wider term than
gevnnhsi~: ‘et ipsum to; givgnesqai et genna`sqai significat, et univer-
sam eam seriem mutationum complectitur quibus conficitur generatio’
(Bon. Ind. 148b 4)» (Newman 1887, II, p. 105; per la citazione in paren-
tesi Newman ricorre a Bonitz 1870). Più complessa, inerente a storia
e struttura dello gnomologio, la seconda considerazione del problema;
b) è assolutamente vero, e ormai acquisito, che in molte occasioni la
tradizione indiretta fornisca lezioni superiori a quelle di tradizione di-
retta: nello specifico dell’Anthologion di Giovanni Stobeo, i prelievi
del compilatore risalgono a fonti datate (al più tardi) al V secolo d.C.,
e quindi cronologicamente precedenti rispetto alla formazione degli ar-
chetipi di tradizione diretta. Il confronto tra le versioni, finalizzato a
constitutio textus, è dunque del tutto legittimo a patto che si verifichi
una condizione precisa: il lettore deve trovarsi di fronte ad autentica
egloga, ossia citazione circostanziata dell’autore antico, eventualmente
corredata di opportuna didascalia (completa di nomen auctoris, titolo
dell’opera e partizione interna, oppure parziale), non già ad anonima
parafrasi e riassunto di contenuti, in cui la specifica lezione testuale può
andar soggetta all’intervento di ogni copista come autore (per citare una
suggestione di Canfora 2002a, in particolare pp. 21, 34-38). Nel caso
attuale - per concludere - non si è di fronte a un prelievo dello Stobeo
a partire dalla Politica di Aristotele, bensì a una Zusammenfassung di
probabile ambito originario teofrasteo, ripresa da Ario Didimo, poi ci-
tata da Giovanni Stobeo, senza possibilità di controllo su adattamenti
e interpolazioni intermedi (ricorda ancora Dreizehnter riferendosi al
capitolo filosofico dello Stobeo: «schon von Arnim hat festgestellt, daß
dies nichtstimmen kann, und hat die Vorlage als teils theophrastisch,
teils stoisch bezeichnet», Dreizehnter 1970, p. XVIII). Inoltre il testo del
compilatore è trasmesso all’interno di una più complessa antologia: «In
general, the texts were simply copied verbatim and entire from their
330
NOTE TESTUALI
sources. Nevertheless, they were also tendency on the part of both the
compilers of gnomological anthologies and also the scribes who copied
them to treat the texts to some degree as their own property» (Hahm
1990, p. 2943). Hahm ha classificato la pagina in esame come Ethical
Doxography C, ossia la terza parte (dedicata all’etica peripatetica) del-
la discussione filosofica desunta da Ario Didimo in Giovanni Stobeo.
Accantonare l’unanimità della tradizione diretta dei codici di Aristotele
per scegliere una lezione tratta da tale compendio è del tutto arrischiato.
Göransson 1995, pp. 203-226, ha posto in dubbio con solidi argomenti
l’identificazione di Ario Didimo con Ario filosofo, amico di Ottaviano
Augusto, ma il suo scetticismo è stato ulteriormente confutato: per la
bibliografia in merito e un confronto dettagliato tra Aristotele e l’epi-
tome, mirato a evidenziare il progressivo allontanamento dall’imposta-
zione originaria della Politica, si veda Nagle 2002 (pp. 198-199 n. 2 per
l’identità storica di Ario). Per un utile schema - più in generale - delle
fonti dossografiche confluite in Giovanni Stobeo, a partire anche dai
testi di Aristotele, si vedano Mansfeld-Runia 1996, p. 81.
1253a 2. o{ti oJ a[nqrwpo~ è attestato soltanto dai manoscritti della
I famiglia, mentre tutti gli altri testimoni omettono l’articolo. Trattan-
dosi appunto di articoli, non è possibile verificare quale lezione sia
stata tradotta nelle versioni latine di Guglielmo; Newman, con riman-
do a studi grammaticali (Newman 1887, II, pp. 62-64), ma anche più
in generale ai criteri della sua edizione, ha suggerito che in casi come
questo sia preferibile adottare la lezione di P2 (quindi senza articolo,
come già in I 2, 1252b 5 davanti a dhlou`n, 14 davanti a Carwvnda~,
etc.). La scelta però, più che affidarsi all’automatismo di un partito
preso, non dovrebbe prescindere dall’analisi del singolo passo, in vi-
sta di opzione oppure di intervento critico: gli editori hanno unanime-
mente condannato il secondo ejsti di l. 3, inutilmente ripetuto all’in-
terno del periodo, senza notare che analoga zeppa si è probabilmente
inserita nella seconda parte della proposizione con la ripetizione di
o{ti (anzi: se si cancella il secondo ejsti, inutile duplicato del primo, è
opportuno cancellare anche il secondo o{ti, la cui funzione sintattica è
sottointesa dal precedente, all’inizio di l. 2). La congiunzione ripetuta
parrebbe essersi sviluppata su un articolo originariamente presente (oJ
a[nqrwpo~), ipotizzabile grazie alla simmetria con il precedente hJ povli~
e il successivo oJ a[poli~ (in cui l’articolo è unanimemente attestato
dai manoscritti). Nella ricostruzione proposta, sul testo originario sa-
rebbe intervenuto un correttore, a integrare oJ in o{ti (per specificare la
struttura sintattica che prosegue in coordinazione); successivamente,
un altro intervento editoriale (forse finalizzato al restauro della suc-
331
NOTE TESTUALI
332
NOTE TESTUALI
1253a 34. oJ de; a[nqrwpo" o{pla e[cwn fuvetai fronhvsei kai; aj-
reth/'. Rispetto alla frase precedente, la proposizione non è di faci-
le interpretazione, specie per la valenza di o{pla e del complemento
introdotto da fuvetai (Immisch, per esempio, è convinto che sia un
dativo finale: “in vista di saggezza e virtù”). Ma come intendere il
primo sostantivo? «Pour Vettori et d’autres commentateurs, les armes,
ce sont la prudence et la vertu dont on parle; mais le datif fait ici dif-
ficulté. Montecatini traduit ce passage “arma homini data sunt ad pru-
dentiam et virtutem”. De même Bernays traduit “geschaffen mit einer
Rüstung zu Einsicht und Tugend”, et pour lui les armes, ce sont “die
Affekte”, les passions. [...] Holm (de Ethicis Politicorum Aristotelis
principiis, p. 39) traduit “ad virtutes exercendas”» (Aubonnet 1960,
pp. 111-112). Parte della tradizione antica aveva già manifestato dubbi
di comprensione, dal momento che la translatio imperfecta di Gu-
glielmo aggiungeva una negazione: nel suo modello, secondo la rico-
struzione di Susemihl, si sarebbe letto oujk e[cwn o{pla. Riferendosi a
Seneca, de ira 1, 17, 1 (Aristoteles ait adfectus quosdam, si quis illis
bene utatur, pro armis esse; cfr. anche de ira III, 3, 1; nella filologia
aristotelica si tratta del f. 80 Rose) Rostagni aggiunge: «Con questo
frammento di traduzione latina è utile confrontare Polit. I 2, 1253a,
33-35, dove o{pla son le passioni (purché si conservi la lezione mano-
scritta che molti, per mancata intelligenza, correggono). Similmente le
passioni eran chiamate stratiw`tai: vedi Philod. De ira, col. XXXIII,
17-19, p. 69 Wilke, confrontando con Senec., ibid., I, 9, 2» (Rosta-
gni 1945, p. XLII n. 1). Quale che sia il valore semantico di o{pla in
questa frase, lo stesso dovrà necessariamente essere riferito anche al
colon precedente, che la introduce (calepwtavth ga;r ajdikiva e[cousa
o{pla). L’intero contesto categorizza infatti e identifica la perfezione
dell’uomo con l’aderenza alla giustizia; quando Aristotele contrappo-
ne il pericolo di un’ingiustizia ‘armata’ (ossia la condizione di uomo
che si è allontanato da divkh) all’uomo che, al contrario (dev di l. 34),
agisce per natura con saggezza e virtù, egli propone semplicemente
una sorta di definizione storico-civile (poiché tesa alla costituzione
della koinwniva) del comportamento giusto o ingiusto.
1253b 10. teknopoihtikhv. Il termine, a{pax legovmenon (presumi-
bilmente conio aristotelico) è unanimemente attestato dalla tradizione
manoscritta, senza varianti. La maggior parte degli editori però ha inte-
so modificare, optando per la stampa di patrikhv – evidente sinonimo
di più alta frequenza – che compare anche in I 12, 1259a 38 (ma già
Newman, che insieme a Ross e Aubonnet conserva la lezione dei codici
greci, aveva notato come «Patrikhv is substituted for teknopoihtikhv
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estratti non sono riportati per esteso (tra gli estremi della citazione è
semplicemente segnato un asterisco). Le poche varianti riscontrabili tra
il testo stampato da Wolf, e ripreso anche da Bernardakis, inducono a
credere che il modello della compilazione, nel caso della Politica, sia
stata una copia appartenente alla famiglia P2. La massiccia presenza
della Politica in uno scritto tardo, falsamente attribuito a Plutarco, fa
osservare come il testo diventi anche oggetto di citazione antologica
dopo essere ritornato in circolazione, ossia nella fase di trascrizione e
riproduzione dei codici umanistici (il XV secolo); alla stessa altezza
cronologica, e non prima, va infatti collocata la redazione del pastiche
plutarcheo pro nobilitate, probabilmente a opera di «un umanista italia-
no del quindicesimo secolo, che aveva avuto attraverso Stobeo notizie
dello scritto di Plutarco su questo tema» (Ziegler 1965, p. 214). Soltan-
to sulla base di questa ricostruzione storica si può accettare il giudizio
di inutilità della testimonianza ai fini del confronto testuale: «no weight
can be attached to its testimony. [...] But in fact the passages quoted
from Aristotle were not given in the MS., and were inserted by J.C.
Wolf, the first editor of the work [...], so that the text of them in the De
Nobilitate possesses no sort of authority» (Newman 1887, II, p. 68). Al
di là delle considerazioni filologiche e critico-testuali relative al Pro
nobilitate, occorre ricordare da ultimo come non sia affatto chiaro il
rapporto tra il Plutarco (autentico) e l’opera di Aristotele; senza dub-
bio si trattò di un rapporto di conoscenza limitata, poiché «mancano
assolutamente indizi di una conoscenza di grandi opere come la Fisica,
il de generatione et corruptione, i Meteorologica, tutte le opere biolo-
giche (escluse le Historiae), la maggior parte delle opere dell’Organon
(esclusi i Topici e forse le Categorie), la Politica, la Poetica, i primi due
libri della Retorica» (Donini 2004, p. 271).
1255b 7. w|n sumfevrei tw/' me;n to; douleuvein tw/' de; to; despovzein:
kai; divkaion [kai; dei'] to; me;n a[rcesqai to; d’ a[rcein. Dalla difficoltà
di interpungere il testo nascono, come sovente all’interno della Politica,
differenti soluzioni editoriali; in passato gli editori si sono concentra-
ti sulla giuntura kai; divkaion, difficilmente riferibile al precedente to;
despovzein ma allo stesso tempo prolissa introduzione (insieme a kai;
dei`) al colon successivo: di qui l’espunzione proposta da Ross. L’uso
assoluto delle opposizioni verbali, in precedenza e anche di seguito
(tw/' me;n to; douleuvein tw/' de; to; despovzein ... to; me;n a[rcesqai to; d∆
a[rcein), sconsiglia (per confronto analogico) di intendere kai; divkaion
quale specificazione di to; despovzein, e suggerisce per contro di inter-
pungere tra i due nessi. A questo primo discrimen ortografico giunge in
soccorso la versione latina, di cui sarà opportuno riportare uno stralcio
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(quella incompleta reca neque longe ab illa, ossia calco esatto del gre-
co; Bruni traduce più liberamente neque valde remotum), viene trasfor-
mata in una dipendenza dalla supposizione di ejkeivnh~ come errore,
grafia corrotta (si badi, in tutta la tradizione) a partire da un participio
greco, equivalente a posita, ossia keimevnh. Ricostruzione impeccabile,
oltre che legittima. Ma, a questo punto, è ugualmente legittimo stabilire
che keimevnh sia la “lezione” (recuperata; esito della retroversione) pre-
feribile alla totalità dei testimoni greci? Le prime due edizioni di Suse-
mihl propendono per tale soluzione [anche se già nella seconda prende
forma un dubbio: «ejkeivnh~ P Ar. Bekk. (vielleicht richtig)», I, p. 118];
a partire dalla terza (1882) il testo è ripristinato con ejkeivnh~, e il rico-
struito keimevnh relegato nelle annotazioni. Susemihl porge ai lettori i
frutti della mutata considerazione dei testimoni a partire da un avver-
bio con cui introduce il testo utilizzato da Guglielmo nei Prolegomena
della terza edizione: il codice, databile alla fine del XII o inizio del
XIII secolo, sarebbe stato «admodum iam corruptum» (p. V). Applicato
alla ipotizzata variante keimevnh, il giudizio generale diventa ancor più
severo, perché il modello della vetus interpretatio sarebbe deposito di
errores singulares, più che di lectiones difficiliores. Quale ultima pos-
sibilità, che non accresce né diminuisce le qualità filologico-testuali del
manoscritto perduto, keimevnh potrebbe essere semplicemente un errore
di lettura di Guglielmo, come già suggerito da Newman 1877, II, p. 72:
«Vet. Int. either misread ejkeivnh~ as keimevnh or found keimevnh in his
text, for he translates posita». Nella fase intermedia, in cui vedono la
luce le edizioni di Immisch Ross Aubonnet, viene posta in dubbio la
liceità di ricostruire una Ur-Politik grazie alla mediazione latina, anche
se le speculazioni linguistiche e i tentativi di retroversione sono tutt’al-
tro che abbandonati nei rispettivi apparati. Neppure Dreizehnter, che
rappresenta insieme ad Aubonnet l’ultima fase degli studi moderni sul
testo della Politica, riesce a disancorarsi dall’obbligo di induzione del
testo greco di G. e di G.i., la cui versione latina continua ad affascinare
per il frequente sospetto di variante inedita, nascosta dalla traduzione.
Ma di varianti o di errori, quasi sempre, si tratta? A, I, 1257b 22, per
esempio finale, la tradizione greca è unanime nel riportare au{th; le
traduzioni latine invece sono divise in haec (G.) e ipsam (G.i.). Dreize-
hnter nel suo apparato trascrive senza indugio «aujth; g» (g è il modello
greco di G.i.). Il passaggio è azzardato, perché - se valgono le ipotesi di
antichità e di buona qualità del modello perduto di G.i. (per cui cfr. in-
troduzione alla storia del testo) - Guglielmo molto probabilmente avrà
letto sul suo codice auth, da interpretare grammaticalmente, e tradurre
di conseguenza (come si presentano le lezioni nel frammentario codice
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NOTE TESTUALI
V: auth del modello può essere inteso come aujthv / aujthÛ` / au{th, e
dunque tradotto ipsa/eadem, ipsi/eidem, haec/ista: cfr. anche I 2, 1252b
31 au{th). La ri-traduzione meccanica del testo latino in greco rischia di
attribuire ai manoscritti perduti tutti gli interpretamenta dei traduttori,
compresi quelli errati, e quindi di addurre in apparato la presenza di
lezioni mai esistite.
1257a 7. La sovrabbondanza dei nessi discorsivi e degli intercalari
può apparire sospetta, in particolare nell’accostamento me;n ajllav che
contrappone la duplice utilità di ogni possesso di per sé alla differenza
tra utilità propria dell’oggetto posseduto e utilità non propria dell’og-
getto stesso. La frase eJkavstou ga;r kthvmato~ ... pravgmato~ (ll. 6-8)
presenta una trama di connettivi dalla gerarchia per nulla chiara (ga;r
... de; ... me;n ajll∆ ... ajll∆ ...). Nonostante l’unanimità della tradizione
manoscritta, e quindi l’inopportunità di intervenire direttamente sul te-
sto, Susemihl volle probabilmente far percepire il proprio imbarazzo,
annotando in apparato che all’altezza di l. 7 «me;n, ut videtur, om. G»
(Suse.1, p. 35). Tale omissione va comunque riferita a un testimone par-
ticolare come la versione latina completa di Guglielmo (uniuscuiusque
enim rei duplex usus est, ambo autem secundum se, sed non similiter
secundum se, sed hic quidem proprius, hic autem proprius rei). In que-
sta traduzione verbum e verbo di solito a mevn corrisponde quidem; ma
nell’intelaiatura di enim ... autem ... sed ... sed hic quidem ... hic autem
..., difficilmente il traduttore avrebbe potuto rendere anche il mevn di l. 7
(identica anche la traduzione di G.i, tranne una variazione nella prima
parte: uniuscuiusque enim rei possesse duplex usus est, ambo etc.). La
notazione di Susemihl, dunque, pare più finalizzata a denunciare un ef-
fettivo problema stilistico (minimo) del testo aristotelico, che un guasto
(soltanto opinabile) della tradizione manoscritta. Di per sé la locuzione
ajmfotevrai de; kaq∆ auJto; me;n è anomala, in quanto gli intercalari op-
posti sono riferiti allo stesso oggetto logico. Non è arbitrario ipotizzare
che un corrector abbia voluto modificare la correlazione de; ... ajlla;,
ritenuta poco coerente perché avversativa; un mevn di attenuazione (che
avrebbe dovuto sostituire il dev), in principio segnato a margine, si sa-
rebbe poi inserito tra le maglie del testo, e l’intera tradizione l’avrebbe
conservato. Forse il traduttore non ha omesso se non quell’elemento
ritenuto superfluo all’efficacia argomentativa del testo tradotto.
1257a 26. auJta; è correzione di Ross per aujta; della tradizione.
Come al solito, Dreizehnter non prende neppure in considerazione
l’intervento dell’editore di Oxford, plausibile sul piano ecdotico (trat-
tandosi di scelta di segni diacritici), anche se non del tutto dimostrabi-
le su quello esegetico. Ross suppone che lo scambio di cui Aristotele
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NOTE TESTUALI
sta parlando avvenga tra i popoli barbari medesimi, ossia tra se stessi
(pro;~ auJta;); ma se il primo aujta; del periodo (l. 25) è di sicuro sosti-
tuente di polla; ... barbarikw`n ejqnw`n (lo si intuisce soprattutto grazie
al connettivo argomentativo ga;r), pro;~ aujta; è riferito a ta; crhvsima
oggetto di scambio reciproco (“scambiano oggetti utili per altri oggetti
dello stesso tipo”; in una parola, utili anch’essi). La correzione di Ross
non è trascurabile, anche se forse nasce dal conferimento di eccessivo
credito all’antica versione latina di Guglielmo: ipsa enim opportuna
ad ipsa commutant, in cui non è più alcun legame grammaticale con i
polla; ... ejqnw`n, poiché questi erano stati tradotti come multae barba-
rorum nationum. Il secondo ipsa di Guglielmo può essere inteso quale
sostituente riflessivo di ipsa opportuna (soggetto è sottointeso), e dun-
que - in astratto - potrebbe essere traduzione di un originario auJta;.
Direttamente collegata, se non interdipendente, alla correzione di l. 26
è quella di l. 41, sempre di Ross, di aujtouv~ in auJtouv~ (neppure questa,
al pari dell’integrazione di Ross a l. 32, ejndeei`~ ãh\sanÃ, è menzionata
da Dreizehnter 1970).
1257b 12. o{ti metaqemevnwn te tw`n crwmevnwn. Una volta stabilito
il valore attivo di oiJ crwvmenoi, ossia gli utenti del novmisma, si pone un
problema all’interno del costrutto in genitivo assoluto, con il te unani-
memente attestato dalla tradizione manoscritta ma assente nelle versioni
latine: quoniam transpositis utentibus G. translatis pecuniis G.i., senza
congiunzioni che precedano (et, quidem, secondo le possibilità con cui
il te = -que viene di solito tradotto da Guglielmo; per tale funzione
nella prosa attica cfr. Kühner-Gerth 1955, pp. 242-243; in G.i. tra l’al-
tro, più che a crwmevnwn, pecuniis sembrerebbe suggerire un originario
crhmavtwn, come propende a credere Michaud-Quantin 1961, p. 16).
L’assenza di corrispondenza nelle due versioni di Guglielmo induce a
credere che 1) nei rispettivi modelli il te fosse stato omesso; oppure
che 2) anziché te gli esemplari utilizzati da Guglielmo presentassero
un errore comune, frutto della più banale trasformazione di te in fase
di scrittura capitale: TE > GE (nella traduzione latina di Guglielmo i ge
dell’originale non compaiono).
1257b 33. oJrw`men accettato da tutti gli editori è in realtà corretto
sulla base di videmus, attestazione dei soli G.i e Bruni. Ogni manoscrit-
to greco ha invece oJrw` (mentre quelli latini della versione completa di
Guglielmo recano le forme video / videre / videtur / indo [?]). Gramma-
ticalmente la forma oJrw` alla prima persona singolare è del tutto giusti-
ficabile, e non necessiterebbe di alcun intervento; ma due osservazioni
avvalorano la correzione di Sylburg: 1) nell’intero corpus aristotelico
non è mai attestata la prima persona oJravw / oJrw` riferita all’autore che
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NOTE TESTUALI
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NOTE TESTUALI
mina a confronto dei due tipi di crematistica (anche perché segue una
definizione distintiva delle due tipologie a seconda del fine): «Perhaps
we rather expect to hear of two uses than of one use. Hence on the
whole eJkatevra seems preferable, but eJkatevra might so easily take the
place of eJkatevra~ that the true reading is doubtful» (Newman 1887, II,
p. 73). La traduzione di G.i. (utriusque crimatistice) avvalora la scelta
di eJkatevra~, rendendo meno aleatoria la testimonianza di Sepulveda.
Va ricordato che spesso, nei casi in cui la versione di G. e G.i. diver-
ga, e G.i. rispecchi il testo greco preferibile, la traduzione imperfecta
rimanda o alla lezione unanime dei codici greci o a quella di P2 (mai
di P1, tranne in 1260a 37: a\ra P1/a[ra P2 = utrum G.i./ergo G.). Con
eJkatevra tutta la tradizione recherebbe una lezione deteriore, tranne il
manoscritto (o i manoscritti?) letto da Sepulveda; l’accordo di questo
con G.i. induce a credere che anche quel testimone perduto fosse appa-
rentabile più alla famiglia di P2 che a P1.
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NOTE TESTUALI
APPENDIX CONIECTURARUM
APPENDIX CONIECTURARUM
APPENDIX CONIECTURARUM
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1252a 33 tou'ton tw/' swvmati poiei'n malim 1253a 6 ejpiãdhmivon
ejrasÃthv~ Immisch 14 dielei`n Oncken b 11 d’ au\ q’ aiJ trei`~ malim
1254a 15 «Lectio a[nqrwpo~ w[n unice vera videtur, si quidem est natura
servus non is, qui quamquam natura alius hominis tamen ipse homo,
sed is, qui quamquam homo tamen natura alius hominis est» Sus., De
Politicis Aristotelis quaestionarum criticarum partes I-VII, Typis Iu-
lii Abel, Greifswald 1867-1869, p. 341 1256b 3 to; ejndee;~ kata; to;n
bivon Reiske 15-16 dh`lon o{ti kai; [genomevnoi~ kai;] teleiouqei`sin
Bernays : [dh`lon o{ti kai;] genomevnai~ Bender 27 ãhJÃ kata; Reiske :
tou` oijkonomikou` Thurot : th'" oijkonomikh'" [mevro"] ejstivn Schnei-
der Thurot 27-28 dei` ãgavrà Thurot 28 w|n ejsti] w| e{nesti Madwig ou|
e[sti qhsaurismo;~ crhmavtwn pro;~ zwh;n ajnagkaivwn, kai; crhsivmwn
eij~ koinwnivan povlew~ h] oijkiva~ a} dei` h[toi uJpavrcein h] porivzein
aujth;n o{pw~ uJpavrch/ Rassow corr. et transposuit 41 kalei`n] fortasse
kalei`sqai (cf. vocari G. Alb.) 1257a 18 crhmatistikh`~ ãei\do~Ã Sca-
liger 23 eJtevrwn ãejdevontoà Schneider : eJtevrwn ãhjpovrounÃ. Schmidt :
ejstevronto Koraïs : ãeJtevroi~à eJtevrwn ão[ntwnà Siegfried 37 pro;~ to;
zh`n post o]n posuit Pratt : zh`n] metakomivzein Reiske 1257b 25 ejsti] ei\
si Eucken 30-31 ouj crhmatistikh`~ secl. et simul o} kai; th`~ crhmati-
stikh`~ post 31 oijkonomikh`~ transp. Reiske. ouj ... e[rgon post 32 pevra~
transp. Schmidt : tou`to] taujto; Gurlitt 1258a 1 ou[sh~] ijouvsh~ Eucken
14 mh; post 16 peri; th`~ Hampke Rassow transp. 17 kai;Ã kata; Thurot
20-21 ajlla; ... uJpavrcein post 26 poih`sai transp. Hampke : ou[, ãajlla;
**Ã ajlla; M. Schmidt 21 tou`to] tau`ta M. Schmidt 24 touvtwn] touvtou
Sus. 25 to;n oijkonovmon] tw`/ oijkonovmw/ Scaliger (disponere convenit yco-
nomo G.) 33 oijkonovmou] yconomici G. : ouj ga;r] ouj de; M. Schmidt ma-
lit 37 leipovmenon] loipovn Scaliger coni. 38 ãhJÃ ajpo; Schneider 1258b
1 de;] d∆ h\/ dub. M. Schmidt 7 kai; Sylburg secl. 11 ejleuqevrion Koraïs
12 de;] dh; Lambin 18 h[dh] eijdw`n Ald.Mon.c : ei[dh Scaliger 35 to;]
tw`/ Ald.Mon.c 35-39 eijsi; ... ajreth`~ ante 27 trivton Piccard («male»
Sus.1), ante 33 peri; Sus.1 transp. 1259a 3 qewreivtw] qewrhtevon
Schneider (considerentur G.) 16 kai; ante polla; Scaliger (ex Bru-
ni) 1259b 20 th;n2] to; Scaliger 20-21 o}n ... plou`ton] ou| ... plouvtou
Koraïs : to;n kalouvmenon plou`ton (ante 19 kai; traicienda esse) M.
Schmidt coni. 25 a[llwn ãeJkavsthà Spengel coni. : a[llwn ãti~à dub.
Schneider 1260a 40-41 th`~ douvlou vel doulikh`~ ante (vel post)
ejpibavllei aut post 41 ajreth`~ excidisse Sus.1 coni. ãth`~ touvtouà :
349
APPENDIX CONIECTURARUM
350
APPENDIX CONIECTURARUM
INDICI
APPENDIX CONIECTURARUM
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INDICE DEI NOMI ANTICHI
DEL I LIBRO DELLA POLITICA DI ARISTOTELE
[Amasi~ 1259b 8
jApollovdwro~ oJ Lhvmnio~ 1259a 1
Gorgiva~ 1260a 28
Daivdalo~ 1253b 35
Dionuvsio~ 1259a 30
Zeuv~ 1259b 13
JHsivodo~ 1252b 10
{Hfaisto~ 1253b 36
Krhv~ 1252b 15
Lhvmnio~ 1259a 1
Mivda~ 1257b 16
Milhvsio~ 1259a 6
Mivlhto~ 1259a 13
Pavrio~ 1258b 40
Sikeliva 1259a 23
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INDICE DEI NOMI ANTICHI
Sovlwn 1256b 32
Surakou`sai 1255b 24; 1259a 30
Swkravth~ 1260a 22
354
SOMMARIO
Presentazione dell’opera
di Lucio Bertelli e Mauro Moggi ................................. p. V
Bibliografia .................................................................. » 87