Sei sulla pagina 1di 360

Istituto italiano per la storia antica

ARISTOTELE
LA POLITICA
direzione di Lucio Bertelli e Mauro Moggi

Libro I

a cura di Giuliana Besso e Michele Curnis

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
Volume pubblicato con il contributo
dell’Istituto italiano per la storia antica

Giuliana Besso ha scritto l’introduzione al Libro I,


tradotto il testo e scritto il commento.
Michele Curnis ha scritto l’introduzione alla storia
del testo, ha curato il testo greco con gli apparati critici
e scritto le note testuali

© Copyright 2011 by «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER


Via Cassiodoro 19 - Roma
http://www.lerma.it

Tuti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e


illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore.

Aristoteles

La politica / Aristotele. - Roma : «L’Erma» di Bretschneider,


2011- . - v. ; 20 cm

CDD. 22. 321.06

1: Libro I / a cura di Michele Curnis e Giuliana Besso. - 2011. -


VI, 256 p. - (Aristotele. La Politica ; 1)

ISBN 978-88-8265-617-1

I. Curnis, Michele II. Besso, Giuliana


Introduzione al libro I

PRESENTAZIONE DELL’OPERA

Malgrado l’Italia sia stata la sede della prima traduzione latina della
Politica di Aristotele, uscita a Viterbo nel 1260 per mano di Guglielmo
di Moerbeke, probabilmente per invito di Tommaso d’Aquino, che se
ne servì per il suo commento, e nonostante che a Firenze tra Quattro-
cento e Cinquecento una nutrita schiera di umanisti (Leonardo Bruni,
Donato Acciaiuoli, Antonio Brucioli, Bernardo Segni, Benedetto Var-
chi, Pietro Vettori etc.) si sia dedicata intensamente a traduzioni, vol-
garizzamenti e commenti della Politica, dopo questa ferace stagione di
studi, dal ʼ600 in poi, l’interesse per quest’opera aristotelica sembra del
tutto tramontato. Se si scorre infatti l’elenco delle edizioni e traduzioni
della Politica tra ʼ800 e ʼ900 si vedrà che l’impegno filologico ed ese-
getico su questo testo è emigrato altrove: in Germania, in Francia e in
Inghilterra. In Italia non si produce nessuna impresa editoriale parago-
nabile a quelle ancora fondamentali di I. Bekker (1831) e di F. Susemihl
(1872-1894) in Germania, di Barthélemy St. Hilaire (1848) in Francia,
di R. Congreve (1855), R. Jowett (1885), W.L. Newman (1887-1902) in
Inghilterra. Bisogna arrivare a V. Costanzi (1948), C.A. Viano (1955),
R. Laurenti (1966) per rivedere traduzioni italiane, tutte benemerite per
la diffusione del testo a livello scolastico e genericamente culturale,
ma che offrono interpretazioni che non entrano tuttavia nel merito
della tradizione testuale della Politica, recependo di solito l’edizione
oxoniense di D. Ross (1957), e che presentano un apparato esegetico
limitato a brevi annotazioni. Si avverte pertanto la mancanza di una tra-
duzione che non si accontenti del testo stabilito da precedenti edizioni e
di un commento organico agli otto libri della Politica, che affronti tutti
i complessi problemi di natura testuale e di ordine politico-filosofico,
istituzionale e storico che il trattato contiene.
Questa iniziativa scientifica ed editoriale colma dunque una lacuna
nel panorama nazionale, ma si inserisce nell’ambito degli studi aristote-
lici anche a livello internazionale, dal momento che l’attuale situazione
dei commenti lascia ampio spazio a nuovi interventi.
In effetti, i commenti esistenti – da quello di W.L. Newman (1887-
1902) a quello di J. Aubonnet (1960-1989) – anche quando sono il
frutto apprezzabile e utile del lavoro di studiosi dotati di grande cultura,
intelligenza e sensibilità nei confronti del testo aristotelico, costituisco-
no nondimeno una dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ine-
vitabilmente nell’affrontare un’opera che, per la sua ricchezza di temi e

V
PRESENTAZIONE

di problemi, richiede una ricchezza di conoscenze e di competenze che


è raro trovare in una sola persona. Una precisa indicazione in questo
senso viene dal monumentale lavoro di E. Schütrumpf (1991-2005),
il quale ha opportunamente fatto ricorso alla collaborazione di H.-J.
Gehrke per i libri IV-VI, che sono i più ricchi di exempla historica, di
norma tanto preziosi per lo storico, quanto difficili da contestualizzare
e da interpretare in maniera corretta ed esauriente.
D’altra parte, l’edizione oxoniense curata T. Saunders, R. Robin-
son, D. Keyt e R. Kraut (1973-1999), solo apparentemente può essere
considerata il frutto di un lavoro di équipe, perché in realtà rappresenta
il risultato della divisione del lavoro fra un gruppo di studiosi, che sem-
brano aver operato in maniera individuale e autonoma ai libri affidati a
ciascuno di loro.
Ciò che caratterizza la presente edizione con traduzione e commen-
to e che la distingue dalle precedenti è il suo essere il risultato di un
lavoro di squadra, di una collaborazione interdisciplinare, che ha visto
la partecipazione di studiosi le cui diverse competenze e specializza-
zioni dovrebbero aver creato le condizioni per un approccio adeguato a
un testo che pone problemi, spesso di soluzione tutt’altro che facile, al
filosofo, al politologo, allo storico, al filologo, al giurista etc.
Il piano dell’opera prevede la pubblicazione di una serie di volumi
di traduzione e commento dedicati agli otto libri della Politica, pre-
ceduti nel primo da una Introduzione alla storia del testo e alle sue
edizioni moderne, e seguiti da un volume miscellaneo di saggi affi-
dati a diversi studiosi, che affronteranno una serie di problemi relativi
all’opera e all’autore e che costituiranno una sorta di guida alla lettura
della stessa.
Per concludere, un vivo ringraziamento va all’Istituto italiano per
la storia antica, che ha inserito questa iniziativa tra i suoi progetti scien-
tifici di maggiore interesse, incoraggiandola, dal 2005 in poi, con un
prezioso sostegno morale e materiale.

LUCIO BERTELLI E MAURO MOGGI

VI
INTRODUZIONE ALLA STORIA
DEL TESTO DELLA POLITICA
2
1. Tradizione diretta e indiretta
La serie di peripezie dei libri aristotelici prende avvio, ormai per se-
colare consuetudine, da un aneddoto plutarcheo molto celebre, inserito
nella Vita di Silla (26).

«Salpò (scilicet Silla) con tutta la flotta da Efeso, e due giorni dopo
approdò al Pireo. Si fece iniziare ai misteri e si impossessò della biblio-
teca di Apellicone di Teo, che conteneva quasi tutti i libri di Aristotele
e di Teofrasto, allora poco conosciuti dai più. Si dice che quando la
biblioteca fu portata a Roma, il grammatico Tirannione si occupò di
riordinarla in gran parte; da lui Andronico di Rodi riuscì a ottenere gli
esemplari (tw`n ajntigravfwn) dai quali trasse le copie che mise in cir-
colazione e i cataloghi ora in uso. È evidente che i Peripatetici più anti-
chi furono di per sé uomini colti ed eruditi, ma non avevano conosciuto
se non, superficialmente, poche delle opere di Aristotele e Teofrasto,
perché l’eredità di Neleo di Scepsi, al quale Teofrasto lasciò i suoi libri,
era finita nelle mani di gente grossolana e ignorante»1.

La notizia dell’acquisizione di questa eccezionale biblioteca da par-


te di Silla va collocata nell’autunno dell’84 a.C., poco dopo la morte
del precedente proprietario2. Del bibliofilo (più che filologo) Apellicone
di Teo danno notizia Ateneo di Naucrati (V 214d-215b) e Strabone di
Amasea (XIII 1, 54), per informare come si fosse procurato manoscritti
di Aristotele e di Teofrasto dagli eredi di Neleo di Scepsi. La successio-
ne ereditaria dei libri aristotelici (con la menzione congiunta di quelli
del maestro e del suo allievo indiretto Teofrasto di Ereso) si legge sem-
pre nel passo ricordato di Strabone – che, tra l’altro, del grammatico

1
Meriani 1998, pp. 383-385. Sui personaggi evocati cfr. le note (di M.G.
Angeli Bertinelli) in Angeli Bertinelli 1997, pp. 371-373. Sulle fonti di Plutarco,
tra cui (forse anche per il capitolo in esame) i Commentarii dello stesso Silla,
Russo 2002 (spec. pp. 291-292.).
2
In realtà le indagini sugli antichi cataloghi delle opere del filosofo permet-
tono di risalire anche a un’età più remota. Diogene Laerzio (V 22) menziona nel
suo minuzioso elenco di scritti aristotelici prima un Politico in due libri (molto
probabilmente un dialogo), poi una Politica in due libri, che potrebbe aver fatto
parte dell’attuale testo (gli ultimi due, VII e VIII?), oppure aver costituito un
trattato a parte, e poi ancora un «corso di politica in otto libri, come quello di
Teofrasto» (Politikh`~ ajkroavsew~ wJ~ hJ Qeofravstou aV bV gV dV eV ıV zV hV ),
i cui otto libri coincidono con la consistenza della Politica come trasmessa dai
testimoni medioevali. Moraux, sulla base di numerose indicazioni all’interno di
un’ulteriore lista, meglio nota come ‘Catalogo di Tolemeo’, ipotizza che tra III
e II secolo a.C. un maestro della Scuola si fosse interessato alla storia dell’isti-
tuto, ai testamenti dei suoi predecessori, alle opere dello stesso Aristotele; tale
personaggio sarebbe da identificare con Aristone di Ceo (più che con Ermippo):
cfr. Moraux 1951, pp. 95, 313 e l’appendice Political Miscellanies of Aristotle,
in Barker 1946, pp. 385-389.

3
LA STORIA DEL TESTO

Tirannione fu allievo diretto –, e rientra nel filone letterario sulle tradi-


zioni interne alle scuole filosofiche dell’antichità (il Liceo, appunto); la
breve digressione nasce da una notizia sulla biografia di «Neleo, figlio
di Corisco, che era stato uditore sia di Aristotele sia di Teofrasto, e che
di quest’ultimo aveva ereditato la biblioteca3 (nella quale era confluita
quella di Aristotele; egli aveva infatti lasciato i suoi libri, come pure la
direzione della scuola, allo stesso Teofrasto)».
Il dato che più interessa del racconto di Plutarco è invece un altro,
di carattere geografico; si apprende infatti con certezza che grazie a
Silla una biblioteca contenente gli opera (non però omnia) di Aristotele
viene trasferita da Atene a Roma e diventa oggetto di cure critiche (Ti-
rannione è un grammatico; Andronico, filosofo peripatetico, è secondo
la tradizione l’undicesimo successore di Aristotele alla guida del Li-
ceo4: con questa responsabilità si assunse il compito di diffondere gli
scritti del maestro in una versione attendibile e corretta)5. Per quanto
concerne, ancora, la geografia della diffusione libraria, le notizie (più o
meno precise) di Strabone e di Plutarco appaiono circoscritte a un’area

3
Notizia ulteriormente confermata dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio
V 52 (in cui si legge il testamento di Teofrasto). Per un dettagliato resoconto
delle fonti, e soprattutto per un vaglio critico di tutte le notizie sul destino della
biblioteca di Aristotele cfr. il capitolo d’apertura di Moraux 1973 = 2000, pp.
3-31 = 13-40 (in tale capitolo, intitolato appunto La sorte della biblioteca di Ari-
stotele non si dimentica mai la componente alquanto romanzesca e aneddotica
delle fonti sul fortunoso ritrovamento della biblioteca aristotelica).
4
Anche se esistono dubbi sull’effettiva sopravvivenza del Liceo come scuo-
la all’epoca di Andronico: cfr. Donini 1982, pp. 32, 45 n. 1 (le pp. 81-86 sono
inoltre dedicate all’edizione dello stesso Andronico).
5
Jean Aubonnet esordisce nel suo paragrafo dedicato all’établissement du
texte con riferimento certo all’edizione di Andronico. Anzi: «parrebbe che tutti
i manoscritti della Politica, attraverso intermediari diversi, derivino dal testo
corretto da Andronico» (Aubonnet 1960, p. CXCVII; traduzione e corsivi nostri).
Ma, a parte la nozione di intermediario riferito a modelli che colleghino i mano-
scritti conservati (il più antico, frammentario, è del X secolo) con il testo giunto
a Roma nel I secolo a.C. (ammesso che anche la Politica fosse tra le opere di
Aristotele conservate nella raccolta di Neleo), l’asserzione di Aubonnet esclude
che si sia potuta sviluppare una tradizione testuale della Politica a partire da
altri centri del mondo antico (Alessandria, Pergamo, la stessa Atene) all’infuori
di Roma. Aubonnet ricerca con insistenza la presenza di antiche edizioni della
Politica: anche quello compiuto da Aristone sarebbe secondo lui un lavoro ec-
dotico a tutti gli effetti, tanto da costituire il termine di riferimento dell’edizione
di Andronico (p. CXCVIII). Cfr. il capitolo Zur Textgeschichte der aristotelischen
Politik, in Oncken 1870-1875, pp. 64-100 (anche per una sintetica descrizione
di alcuni manoscritti e delle principali edizioni a stampa). Sulla Rezeption della
Politica a partire dall’età antica cfr. le poche ma dense pagine dell’omonimo
capitolo in Schütrumpf 1991, I, pp. 67-71.

4
LA STORIA DEL TESTO

piuttosto limitata. Parrebbe impossibile che, all’inizio del primo secolo


a.C., la diffusione dei libri di Aristotele (e quindi anche la conoscenza
della Politica) fosse limitata alla traiettoria Atene-Scepsi, dove Neleo a
suo tempo li aveva conservati, e dove i suoi eredi (la «gente grossola-
na e ignorante») li avevano inseriti in un’umida cavità del terreno per
timore di una confisca da parte dei sovrani Attalidi («l’ardeur biblio-
phile des Attales», come scrive Moraux)6. Questo è l’aneddoto, o – se
si preferisce – il romanzo ante litteram sulla sorte di celebri raccolte.
Ma le biblioteche alessandrine? L’Aristotele degli scritti scolastici non
era noto anche altrove? Anzi: ben più che ad Atene? Nel caso della
Politica non è possibile una risposta positiva, perché tra la morte di
Aristotele e il I secolo a.C. non è conservata alcuna attestazione del-
la sua lettura diretta7. Questa mancanza non obbliga però a ritenere
completamente veri i racconti antichi sulla biblioteca di Aristotele. A
differenza del testo di Plutarco, le affermazioni di Strabone sembrano
piuttosto finalizzate a mostrare quanto fosse deperita la tradizione del
Liceo nella stessa città in cui era nato, al punto che molte opere di
Aristotele non si leggevano più (scomparse addirittura dopo la morte
di Teofrasto, e introvabili fino all’oneroso acquisto di Apellicone dagli
improvvidi eredi di Neleo). Apellicone poi, constatato il deterioramen-
to dei volumi, ebbe cura di restaurarli personalmente, ossia di trarne
nuove copie perfettamente leggibili: ma Strabone stesso riferisce che
a causa della sua scarsa preparazione «non integrò correttamente, anzi
pubblicò i libri ricolmi di errori» (ajnaplhrw`n oujk eu\, kai; ejxevdwken
aJmartavdwn plhvrh ta; bibliva, Str. XIII 1, 54)8.
Oltre al titolo e al numero di libri che compongono la Politica, le te-
stimonianze della tarda antichità non dicono nulla, come è da aspettarsi,

6
Moraux 1951, p. 1. Strabone si riferisce a Eumene II, che regnò su Perga-
mo tra 197 e 159 a.C. e operò con grande zelo (l’autore della Geografia parla di
spoudhv) per fondarvi una biblioteca.
7
Parimenti molto incerti la collocazione cronologica delle lezioni sulla tevc-
nh politikhv, che Aristotele tenne, e quindi il periodo di redazione degli otto li-
bri della Politica; quale risultato dell’annosa questione, la scrittura della Politica
risulta suddivisa in tre periodi, corrispondenti a tre blocchi non consequenziali
dell’opera: 1) libri VII e VIII composti tra 347 e 344 a.C.; 2) libri I-III composti
tra 342 e 336; 3) libri IV-VI composti tra 335 e 322; nel merito, cfr. Barker 1931,
pp. 162-172, e il capitolo Stellung und Verhältnis der Bücher bzw. Buchgruppen,
in Schütrumpf 1991, I, pp. 39-67.
8
Canfora 2002a, p. 75 ha fatto notare che la sostanziale concordanza di no-
tizie di Strabone e Plutarco deve essere interpretata come indizio di affidabilità:
«Appare perciò immotivata la diffidenza che alcuni moderni ancora serbano nei
confronti di questa “storia del testo” dei Trattati di Aristotele com’è raccontata
da Strabone».

5
LA STORIA DEL TESTO

sulla configurazione del testo, sulle sue qualità, sulle questioni esegeti-
che: insomma, su tutto quanto scaturisce dalla recensione dei testimoni
a confronto, la cui storia è molto tarda rispetto alle notizie degli auto-
ri antichi. Di quest’opera non si conosce un commentario sistematico
specificamente dedicatole; né sono frequenti i riferimenti da parte della
folta schiera dei commentatori di Aristotele, a cominciare da Alessandro
di Afrodisia (che si limita a rarissimi cenni di confronto con la Politica)9.
La mancanza di una tradizione esegetica parallela alla diffusione del te-
sto aggrava il quadro di scarsità della tradizione indiretta; accanto alle
citazioni di autori antichi e alle loro osservazioni, il paragone tra il corre-
do lemmatico di un commentario (ossia le stringhe di testo originale che
suscitano il commento stesso), le citazioni interne, e il testo completo
– noto grazie alla tradizione medioevale – permettono sovente di com-
prendere assai meglio le configurazioni e le versioni dei codici stessi, la
congruità del testo tràdito rispetto a quanto leggevano i commentatori
antichi, la differenza tra una vulgata medioevale e un versante più antico
della tradizione. Ma tutto questo per la Politica non è dato; al contrario,
occorre basarsi esclusivamente sui codici tardo-medioevali per proporne
una versione critica (il manoscritto greco più antico che contenga tutto
il testo non è anteriore al XIV secolo). L’assenza di un testo esegetico
strutturato in maniera organica sui libri di quest’opera ha insospettito gli
studiosi moderni, tanto da far profilare a Otto Immisch un’ipotesi che
fosse “compensativa” dell’ingiusto oblio e del disinteresse dei commen-
tatori. Immisch studiò e pubblicò per primo gli scolî e le glosse contenuti
in un manoscritto di Berlino (l’importante codice Hamiltonianus 41, H
del XV secolo), e osservò la sostanziale identità di alcune di queste an-
notazioni marginali ad allusioni e riferimenti al testo della Politica in
scritti di Michele di Efeso, forse discepolo di Michele Psello, tra l’altro
commentatore dell’Etica Nicomachea nel circolo filosofico promosso da
Anna Comnena10. Le glosse in questione sono importanti nel confron-
to con il testo offerto dai manoscritti, ma la ricostruzione di Immisch,
prontamente accolta soprattutto dall’ultimo editore della Politica, Alois

9
Non è neppure certo che Alessandro disponesse di una copia integra della
Politica: «On peut se demander si Alex. a pu lire Pol. qui paraît avoir été négli-
gée dans l’antiquité, et dont les copies sont rares et tardives. Marc Aurèle, IV 24,
évoque l’animal politique, 1252 a 2. Alex. pourrait avoir cité Phocylide d’après
une autre source» (Thillet 1987, p. 110 n. 22). Comunque in un passo del Com-
mento alla Metafisica (CAG I, 17,7) Alessandro cita il titolo TA POLITIKA,
con riferimento a I 5, 1254a 14-15.
10
La scena è dunque Costantinopoli nell’XI secolo; sull’opera di Michele Efe-
sio (e in generale su I Bizantini come commentatori di Aristotele) Eleuteri 1995.

6
LA STORIA DEL TESTO

Dreizehnter, eccede forse in ottimismo: Immisch suppone che Michele


Efesio avesse redatto nella seconda metà dell’XI secolo un commento
completo (o comunque esteso) alla Politica, poi andato perduto (e si trat-
terebbe dell’unico commentario greco); soltanto sparuti lacerti sarebbero
rifluiti, nella tradizione scoliastica bizantina, in un filone importante (os-
sia esemplari con testo originale e annotazioni marginali tratte da studi
qualificati: l’opera dei commentatori), superstite unicamente nel codice
H. L’idea di Immisch è molto affascinante, forse anche perché non ha
ripercussioni decisive sulla costituzione del testo; ma riesce difficile ac-
cettarla del tutto (come hanno fatto Barker11 e Dreizehnter; quest’ultimo
segna nel suo apparato i lemmi provenienti dagli anonimi scolî del co-
dice H come lezioni ascrivibili direttamente a Michele Efesio). Innanzi
tutto, solo alcuni dei riferimenti che Michele Efesio rivolge alla Politica
– mentre commenta l’Etica Nicomachea – si ritrovano nei margini di H;
in secondo luogo il materiale scoliastico, di per sé piuttosto scarso, risul-
ta eterogeneo, perché molto probabilmente dovuto alla cernita di più ma-
teriali: con un commento perpetuo a disposizione le trascrizioni laterali
in H sarebbero state forse più frequenti e certamente più sistematiche; da
ultimo, se realmente Michele Efesio avesse composto un commento or-
ganico alla Politica, ci si potrebbe domandare perché sentisse il bisogno
di richiamare in esso (o perché da esso siano desunte) chiose e glosse
che si leggono nei commenti all’Etica. In definitiva, poiché di Michele è
attestato un lavoro esegetico sull’Etica aristotelica, in cui si accenna più
volte alla Politica, e non il contrario, sembra più economico ipotizzare
che un lettore erudito, forse un «copista per passione»12, abbia tratto dai
commenti all’Etica di Michele Efesio alcuni materiali sulla Politica, e

11
Barker 1957, pp. 136-141, dedica un capitolo specifico a questo testo (A
Byzantine Commentary on Aristotle’s Politics / By Michael of Ephesus [circa
1070-80]), come se fosse tràdito o come se gli scholia di H indicassero esplici-
tamente la paternità di Michele Efesio.
12
Definizione di Cavallo 2002, p. 224 per una categoria di studiosi-lettori,
ma soprattutto ‘operatori materiali’ del libro. Anche nella trasmissione della Po-
litica è intervenuta quella élite culturale che «nel suo complesso gioca un ruolo
fondamentale nella trasmissione dei testi classici a Bisanzio: una élite fatta di
uomini di Stato, alto clero, funzionari diversi civili ed ecclesiastici, militari di
rango, monaci eruditi pur se rari (o meglio, più spesso, eruditi fattisi monaci), ai
quali tutti facevano da ‘supporto’ scolastico insegnanti diversi, grammatici, reto-
ri, filosofi; una élite, insomma, formata non soltanto da figure-cardine, ma anche
e soprattutto da “shadowy figures”, cui è legata per la più parte la produzione e
la circolazione di quei libri-manoscritti che hanno assicurato la conservazione
e trasmissione dei testi antichi nel mondo bizantino» (ibid., p. 213). Specifica-
mente dedicati ai marginalia lo studio di Odorico 1985 e il capitolo Lorsque le
lecteur se révèle, in Cavallo 2006, pp. 133-137.

7
LA STORIA DEL TESTO

li abbia trascritti sui margini della copia che stava studiando, insieme ad
altre osservazioni, sue o di provenienza ancora differente. Forse questo
lavoro risale all’età comnena (XI-XII secolo), quando un erudito lettore
sente il bisogno di radunare annotazioni alla Politica (bisogno culturale
analogo a quello di creare la silloge di scritti politici originariamente
contenuta nel codice V).
Tranne gli ultimi due secoli della sua storia (ossia l’epoca cui riman-
dano i più antichi manoscritti conservati) la letteratura bizantina non di-
mostra particolare interesse nei confronti della Politica e della sua inter-
pretazione; è ormai acquisito nel mondo bizantino il parallelismo tra la
fortuna della tradizione diretta di Platone (equivalente a pluralità e varietà
di fonti manoscritte), e il numero, relativamente scarso, di codici aristo-
telici (fatta eccezione per le opere di logica); al contrario, su Aristotele
è fiorita una formidabile tradizione esegetica (la serie dei commenti, in
parte ancora inedita), mentre i commentari sistematici ai dialoghi plato-
nici sono, dopo il VI secolo, molto scarsi. Bisogna evitare di ridurre la
complessità culturale del mondo bizantino (e prima ancora dell’età tardo-
antica) alla sola esigenza di conservazione e di trasmissione della lette-
ratura antica; vale però una deroga sul corpus aristotelico, applicabile
anche alla Politica, formulata a suo tempo da Paul Maas:

«Le scienze particolari non hanno per loro natura interessi parti-
colarmente letterari e piuttosto tengono fermi i risultati canonizzati;
quindi esse hanno conservato molto soltanto in rielaborazioni recenti,
compilazioni, dossografie, però anche Platone per intero e la maggior
parte di Aristotele (ma niente dei suoi scritti giovanili)».13

Alla disamina dei documenti effettivamente superstiti bisogna ag-


giungere considerazioni di ordine ancor più pragmatico, derivanti dalla
sostanza della Politica. L’assenza di un commentario organico (la cui
confezione nel cenacolo di Anna Comnena è supposizione plausibile,
ma nulla più) va intesa in congiunzione al totale disinteresse della lette-
ratura antologica, di gnomologi e florilegi, così come dei sacra paralle-
la medioevali (insomma, di tutta la cosiddetta ‘letteratura di raccolta’)
nei confronti della Politica. Per motivi stilistici (un greco affatto pri-
vo di lusinghe, spesso sintatticamente aggrovigliato, a rischio di so-
lecismo, soprattutto nei primi due libri)14, oltre che per le complesse

13
La traduzione è di Giorgio Pasquali, che inserisce lo scritto maasiano Sorti
della letteratura antica a Bisanzio in appendice a Pasquali 1988, p. 488.
14
Lungo la storiografia critica, queste caratteristiche si sono trasformate in
elementi di giudizio negativo, soprattutto a causa del paragone stilistico (immoti-

8
LA STORIA DEL TESTO

e sempre dilatate arcate argomentative con cui i contenuti procedono,


l’opera è difficilmente antologizzabile: le singole ‘lezioni’ tematiche (a
stento ridotte dagli editori entro le maglie di paragrafi come ‘numeri
chiusi’ di ciascun libro) solo raramente potrebbero essere sintetizzate
con efficacia in pagine di compendio didattico, o – più difficilmente
ancora – nelle egloghe delle antologie15. In effetti, a proposito di ma-
nuali e ‘raccolte di fiori’ della cultura letteraria greca, occorre chiedersi
perché il maggiore regesto enciclopedico di tutta la grecità (l’Antho-
logion di Giovanni Stobeo, redatto verisimilmente nel V secolo) non
presenti una sola citazione dalla Politica, a fronte delle decine e decine
di estratti (anche iterati) dalle Leggi e dalla Repubblica platoniche. La
prosa classica che tratta di argomenti politici e civili si diffonde in età
tardo-antica grazie a più direttrici testuali: dai testi scolastici ai canali
della letteratura gnomologica tradizionalmente intesa; eppure sarebbe
vano cercare stralci testuali della Politica in una delle linee possibili e
ricostruibili, quella pur ricchissima di testi, per esempio, che collega il
già citato Anthologion con la coeva Graecarum affectionum curatio di
Teodoreto di Cirro e, a ritroso, con la Praeparatio evangelica di Euse-
bio di Cesarea.
Dunque, specialmente ai fini di una breve introduzione alla sto-
ria del testo16, sarà opportuno limitarsi ai documenti superstiti che si
possono considerare in relazione diretta o indiretta con la Politica. La
prima attestazione dello scritto risale a un papiro di provenienza igno-
ta, databile al I/II secolo d.C., di cui due soli frammenti (PMich inv.

vato, a causa della differenza di genere e di funzione comunicativa) tra le opere di


Aristotele e gli scritti letterari dei suoi contemporanei (i principali modelli dello
stile attico: Isocrate e Demostene). Recentemente Pierluigi Donini, a proposito
delle possibili contraddizioni interne al pensiero aristotelico, ha accennato anche
allo stile: «Quelli a noi pervenuti sono appunto i suoi scritti di scuola, non opere
letterarie elaborate stilisticamente definite una volta per tutte nel loro contenuto
e nella forma e destinate poi alla circolazione tra un pubblico estraneo alla prassi
didattica: il carattere sempre compresso del linguaggio, sintetico fino all’essen-
ziale e spesso fino all’oscurità, lo stile quasi sempre asciutto e tecnico delle argo-
mentazioni lo dicono con chiarezza» (Donini 2008, p. LXXX). Di alcuni pregiudizi
critici del greco aristotelico aveva già fatto giustizia Renehan 1992.
15
Sono gli stessi e più impegnati commentatori, come Alessandro di Afro-
disia, a formulare un giudizio stilisticamente negativo: con la sua modalità espo-
sitiva Aristotele risulterebbe ‘oscuro’; e di ajsavfeia (letteralmente: «mancanza
di trasparenza») si potrebbe tacciare gran parte della sua scrittura (cfr. Eleuteri
1995, p. 440).
16
Lo studio più approfondito relativo a storia e testimonianze della Politi-
ca è nell’introduzione dell’ultima edizione critica: Dreizehnter 1970, pp. XI-XXI,
XXXIX-XLV.

9
LA STORIA DEL TESTO

6643 e PBrux inv. E 8073) restituiscono pochissime righe di IV 4,


1292a 30-1292b 2 e 1293a 15-1817. Il testo è sostanzialmente conso-
nante con quello dei codici di età medioevale e umanistica, anche se la
campionatura leggibile è eccessivamente esigua per stabilire confronti
probanti o significativi. Non si può affermare con certezza se il papiro
riportasse brani della Politica insieme ad altri testi, oppure contenesse
una versione integrale dell’opera. Fa però propendere per la seconda
possibilità la presenza di una diple obelismene (≥), che segna la fine
del capitolo 4, dopo le parole to;n trovpon tou`ton di 1292a 38. Il fatto
è di notevole importanza, perché parrebbe documentare sia l’antichità
della suddivisione in capitoli dei singoli libri della Politica sia la coin-
cidenza di tale suddivisione (almeno in questo caso) nella tradizione
manoscritta antica e successiva (tanto da persistere nelle edizioni mo-
derne). Il passo inoltre non è testimoniato in nessun altro contesto di
tradizione indiretta: l’isolamento testuale contribuisce all’ipotesi che il
papiro appartenesse a una copia integrale della Politica. In ogni caso i
due frustoli provengono da un papiro di buona fattura, scritto soltanto
sul lato perfibrale, provvisto di alcuni segni diacritici, elementi rego-
larizzatori dei margini (riempitivi), e soprattutto studiato da un lettore
colto, in grado di proporre una correzione al testo tràdito (ktwmevnwÊ
della prima mano, coincidente con la lezione di tutti i codici, è mutato
in kekth[mev-]/[n]wÊ: si veda la nota testuale ad locum). Ma tale inter-
vento non ha lasciato traccia né nei testimoni medioevali né nei pochi
scolî al passo. Considerata la sua datazione (età imperiale), forse il
papiro rappresenta una copia di edizione coeva o di qualche decennio
precedente, ovvero del periodo in cui la maggior parte degli scritti di
Aristotele (secondo i resoconti di Plutarco e di Strabone) era tornata in
auge nel mondo romano18, grazie all’importazione della biblioteca di

17
Oltre alle schede e alla bibliografia di Moraux 1976, pp. 6, 85-86 (rispettiva-
mente sul frammento conservato a Ann Arbor, University of Michigan, e su quello
conservato a Bruxelles, Fondation égyptologique Reine Élisabeth), cfr. soprattutto
lo studio di Menci 1989, pp. 265-269, che accosta i due frustoli.
18
Si consideri che un autore come Polibio pare non conoscere direttamen-
te la Politica, nonostante alcuni passaggi del VI libro della sua opera alluda-
no a problemi e istituti politici con terminologia analoga a quella aristotelica.
Ma, come nel caso di altri autori di età ellenistica, non è possibile escludere
(sarebbe anzi semplificante e riduttivo) che fossero utilizzate fonti interme-
die, debitrici alla Politica (e alla serie delle Politei`ai aristoteliche): scritti
di ambito stoico, il Tripolitikov~ di Dicearco, etc. W.L. Newman, a latere
della sua monumentale edizione commentata della Politica in quattro volumi
(Newman 1887-1902) offre una rassegna puntuale (ancorché non esaustiva) di
testimonia e loci similes, dove si fa riferimento alla Politica di Aristotele, o

10
LA STORIA DEL TESTO

Neleo di Scepsi a Roma, e alle conseguenti cure scientifiche di Tiran-


nione e di Andronico.
Alla cronologia della riscoperta e diffusione degli scritti acroama-
tici di Aristotele si potrebbe collegare anche la ricostruzione cronologi-
ca che Michelangelo Giusta ha ipotizzato nei suoi Dossografi di etica:
«In un’epoca, che la menzione di Stoici posteriori a Posidonio e la
conoscenza delle opere acroamatiche di Aristotele da un lato, dall’altro
la cronologia delle opere filosofiche di Cicerone19 portano a collocare
attorno al 50 av. Cristo, fu messa insieme una vasta silloge dossogra-
fica di morale, analoga a quella di fisica che il Diels chiamò Vetusta
Placita. Come i Vetusta Placita di fisica, i Vetusta Placita di etica erano
una dossografia “per argomento”, che cioè raccoglieva per ogni singo-
lo argomento le opinioni dei diversi filosofi e delle diverse scuole»20.
L’autore di questi Vetusta placita, secondo Giusta, sarebbe stato il
filosofo stoico Ario Didimo. A causa delle caratteristiche dell’opera,
«troppo voluminosa e impegnativa», dalla stesura originaria vennero
desunte più epitomi, ossia riassunti (localizzati a sezioni varie del trat-
tato), tre delle quali sono conservate all’interno dell’Anthologion di

al cui testo in qualche modo si allude (II, pp. X-XX). In mancanza di riscontro
stringente, però, un elenco del genere è più utile a documentare la diffusione
di idee e dottrine politiche (certamente originatesi dal magistero aristotelico e
poi della scuola peripatetica), che non la conoscenza diretta del testo; nel primo
apparato della presente edizione saranno segnalati soltanto i passi in cui risulti
ravvisabile una connessione linguistica, oltre che concettuale, tra i documenti,
indizio di una lettura diretta o indiretta dello scritto di Aristotele, da Cicerone
allo Pseudo-Plutarco di età rinascimentale. Comunque, il fatto che in età elleni-
stica (almeno fino alla metà del I secolo a.C.) non siano documentabili riprese
e letture del testo, unitamente alla datazione dell’unico papiro della Politica,
induce ad avvalorare il racconto di Plutarco e Strabone, e a ipotizzare che tra
la morte di Aristotele e l’arrivo di Silla ad Atene la circolazione del testo fosse
stata pressoché nulla.
19
Cicerone potrebbe essere l’anello di congiunzione tra intellettuali greci
e romani nella diffusione degli scritti aristotelici, anche perché ebbe modo di
consultare la celebre biblioteca trasportata a Roma da Silla, quando essa appar-
teneva ormai a Fausto, figlio del dittatore (cfr. Ad Atticum, IV 10, 1). Fausto, per
fronteggiare problemi economici, dovette poi disfarsi della biblioteca; non si
può escludere che i libri di Aristotele e Teofrasto restassero nella cerchia di Cice-
rone e di Attico, nonostante negli scritti ciceroniani siano rintracciabili soltanto
allusioni alla Politica o probabili parafrasi del testo (mai, però, citazioni dirette).
Aubonnet, anche sulla scorta di Eduard Zeller, fornisce comunque un cospicuo
elenco di passi in cui Cicerone parrebbe costruire le proprie argomentazioni a
partire dal testo della Politica (Aubonnet 1960, p. CXXX n. 4, cui si rimanda anche
per la precedente bibliografia. Si tengano presenti in particolare Gigon 1959 e
Canfora 1995, spec. pp. 206-212).
20
Giusta 1967, p. 533.

11
LA STORIA DEL TESTO

Giovanni Stobeo (V secolo d.C.). Ai fini dell’indagine sulla diffusione


del testo aristotelico nell’antichità, la più importante è la terza (Stob.
II 7, 23 = II, pp. 148-152 Wachsmuth), poiché si tratta di un riassunto
tematico delle dottrine etica e politica secondo la scuola aristotelica.
L’autore dei Vetusta placita aveva certamente studiato e sunteggiato la
Politica, di cui restano tracce visibili in alcuni passaggi dell’epitome
dello Stobeo21. Il dato più significativo è l’utilizzo diretto di una copia
integra della Politica, come inducono a credere le sezioni propriamen-
te riassuntive di interi libri (prima il primo, poi terzo, quinto e settimo);
ma il redattore ha contaminato i contenuti del trattato con altre fonti a
sua disposizione:

«il nostro dossografo [...] ha integrato Aristotele con altri pen-


satori peripatetici (a p. 151, 1 accenna alla politeiva mikthv come
all’ottima delle costituzioni), e la Politica con passi ricavati da altre
opere dello stesso Aristotele. Ne fa fede soprattutto il passo p. 150,
10-16, che parla dell’oijkonomikovn, del nomoqetikovn, del politikovn
e dello strathgikovn come parti della frovnhsi~, e che corrisponde,
per altro non completamente, a Eth. Nic. VI 8 p. 1141b 24 sgg. [...]
Quale importanza Didimo attribuisse a questi schemi è provato dal
fatto che al punto c) egli presenta come compiti dell’uomo politikov~
quelle che nel libro VII della Politica sono caratteristiche dell’ajriv-
sth politeiva. Evidentemente la fedeltà del dossografo allo schema
da lui precostituito è andata a scapito della fedeltà allo stesso pensiero
di Aristotele»22.

In questa «rielaborazione funzionale» i frammenti di parafrasi


sono le uniche citazioni (non testuali, se non per brevi sintagmi) della
Politica all’interno dello Stobeo: Aristotele (in particolare quello del-
la filosofia politica ed etico-civile) non gode affatto di buona fortuna

21
Il compendio di filosofia peripatetica in cui si leggono brevi estratti dalla
Politica (sottoposti però a parafrasi e adattamento, come accade con la tecnica
del riassunto) è stato analizzato nel dettaglio (pur senza riferimenti alla tradizio-
ne diretta dell’opera) da Hahm 1990; in particolare, alle pp. 2945-2947 lo studio-
so presenta una suddivisione tipologica del materiale riportato nell’Anthologion
(la succinta parafrasi della Politica farebbe parte di una «sezione C» dell’opera
di Ario Didimo, dedicata alla filosofia Peripatetica); alle pp. 3030-3034 Hahm
ipotizza l’identità del compilatore della «Doxography C» non in un epitomatore
di Ario Didimo (quindi fonte dello Stobeo, come aveva ricostruito Giusta), ma
nel testo stesso di Ario «arranged by schools» (p. 3032). La ricostruzione com-
plessiva di Giusta è stata ulteriormente confutata da Mansfeld e Runia, che per
quanto riguarda l’apporto di Ario Didimo allo Stobeo riprendono le conclusioni
di Hahm (Mansfeld-Runia 1996, pp. 238-265).
22
Giusta 1967, p. 524.

12
LA STORIA DEL TESTO

tra i redattori dell’Anthologion. Questa raccolta tarda costituisce però


l’unico documento che consente di ipotizzare il lavoro di sintesi operata
da Ario Didimo verso la fine del I secolo a. C. sulla Politica: la lettura
mirata e funzionale del trattato permette di redigere un capitolo sulla
concezione politica dei filosofi peripatetici, e di integrare così il relativo
summarium cui Ario Didimo sta attendendo23.
Se quella dei Vetusta placita (titolo puramente convenzionale) è una
testimonianza indiretta e mediata per alcuni secoli (ossia fino al loro in-
serimento nell’opera di Giovanni Stobeo), diretto è invece il riferimento
offerto da Giuliano: l’imperatore è uno dei pochi lettori dell’antichità a
documentare la sua frequentazione (probabilmente assidua) della Poli-
tica, che cita e discute in più punti della Epistola a Temistio, riportando
passaggi del testo. La testimonianza è importante, sia per accertare la
diffusione dello scritto esattamente alla metà del IV secolo d. C. (in
più, nella biblioteca imperiale) sia per tentare un confronto (purtroppo
molto limitato) di tradizione indiretta antica e manoscritti medioevali.
Ma grazie alle citazioni dirette, base di discussione e di dialogo per le
riflessioni di Giuliano, il riferimento permette «di indagare sulla sto-
ria del testo della Politica in questo oscuro periodo. In particolare [...]
il titolo politika suggrammata, con cui l’opera è citata nell’Epistola a
Temistio, ne testimonia una valutazione nell’ambito del corpus Aristo-
telicum ben differente da quella che ha nei cataloghi di Diogene Laerzio
e dell’Anonimo»24. E doveva certo trattarsi del testo integro della Poli-
tica, non di un’epitome scolastica, come sembra di potersi concludere
dall’utilizzo funzionale del materiale con specifica tecnica argomentati-
va: esso «dimostra inequivocabilmente la conoscenza diretta, anzi una

23
Sulla qualità di questo lavoro dossografico (la «dossografia C» secon-
do la suddivisione interna di Hahm: cfr. la n. 21) e sull’inevitabile distanza
dall’impostazione originaria della Politica si tenga presente il giudizio di va-
lore di Nagle: «[...] that the Epitome is a coherent whole, derives from the
consistency of the doctrine expounded in both parts. [...] The fact of the matter
is that Arius has not done a particularly good job of forcing a convincing phi-
losophical connection between households, povlei~ and larger political enti-
ties. [...] At the best Arius was able to maintain only the doctrine of natural
sociability of humankind while watering down its complementary (from an
Aristotelian viewpoint), political nature. It might be argued that Arius’ revision
of Aristotle preserved the povli~ without restricting development to it and also
expanded its moral dimensions and potentialities to all people. [...] Arius and
the version of the Peripatetic tradition he represents, embraced the non-povli~
dominated world after Alexander. This world-view includes the povli~, but re-
alistically reduces its importance by extending its scope» (Nagle 2002, passim
pp. 216, 219, 221-222).
24
Micalella 1987, p. 81.

13
LA STORIA DEL TESTO

buona padronanza da parte di Giuliano di tutto il testo della Politica, e


forse non solo di questo»25 tra gli scritti aristotelici.
«Io penso che l’anima di un sapiente siano la sua saggezza, il suo
pensiero e la sua dottrina, e che le tombe di queste anime siano i libri e
gli scritti (bivblou~ te kai; ta; gravmmata) nei quali i loro resti giacciono
come dentro monumenti sepolcrali. Questi monumenti dunque, che nel
tesoro della memoria (ejn tw`/ qhsaurw`/ th`~ mnhmosuvnh~) erano decaduti
come edifici per lunga incuria e rischiavano di svanire del tutto e di spe-
gnere insieme pure le anime che vi si trovano dentro, egli (l’imperatore
Costanzo) ordina che abbiano vita nuova, nomina un soprintendente a
questa impresa e fornisce i mezzi necessari all’iniziativa. [...] Fra poco a
pubbliche spese ritornerà in vita per voi il sapientissimo Platone, ritorne-
ranno in vita Aristotele e l’oratore di Peania, il figlio di Teodoro e quello
di Oloro. [...] per dirla in breve, la moltitudine innumerabile dell’antica
sapienza, non quella comunemente nota presso il grande pubblico ma
quella arcana e riposta, una schiera ormai affievolita e “sbiadita dal tem-
po”, che stava scomparendo nelle tenebre. Egli restaura per voi anche
questi altri ancor più insigni monumenti delle Muse»26.

Con queste enfatiche e celebri parole Temistio salutava il progetto


di Costanzo II di porre rimedio alle cattive condizioni in cui versavano
i libri conservati nella biblioteca imperiale di Costantinopoli (metafori-
camente indicata come tesoro della memoria); il catalogo degli autori
più rappresentativi, la cui opera sarebbe stata ricopiata e resa disponibi-
le in nuovi esemplari, prendeva avvio appunto con Platone, Aristotele,
Demostene, Isocrate, Tucidide. La rinascita della biblioteca, finalizzata
alla conservazione e alla riproduzione dell’antica letteratura greca (se non
addirittura a un’edizione “d’archivio”, ufficiale) prevedeva dunque che
si raccogliessero esemplari dei grandi classici (con le opere di Platone e
Aristotele in testa); il discorso di Temistio è dell’inizio del 357. Poco tem-
po dopo, come ricorda Zosimo (III 11, 3), i libri privati di Giuliano (che
succedette a Costanzo e regnò tra 360 e 363) confluirono nella biblioteca
imperiale che egli stesso aveva fondato a Costantinopoli. Nel contesto
culturale tratteggiato con tanto sfarzo da Temistio questa notizia assume
un’importanza straordinaria, in particolare se si considera che le riflessio-
ni giulianee sul testo della Politica muovevano dalla lettura di una copia
completa dell’opera. Tale copia, con ogni probabilità, entrò a far parte
della biblioteca imperiale di Costantinopoli, e giocò un ruolo importante
nella tradizione manoscritta della Politica per i secoli a venire27.

25
Micalella 1987, p. 79.
26
Maisano 1995, pp. 256-259.
27
Sul significato della pagina di Temistio cfr., per esempio, Monaco 2000,
pp. 82-85.

14
LA STORIA DEL TESTO

Il filosofo neoplatonico Proclo, nato all’inizio del V secolo d. C.


(e dunque cronologicamente vicino alla redazione dell’Anthologion),
è attento lettore di Aristotele (e della Politica), in quanto commen-
tatore della Repubblica di Platone; l’ultima delle dissertazioni su-
perstiti sul dialogo platonico (che non deve apparire quale semplice
appendice del commentario) è infatti dedicata all’inizio del II libro
del trattato aristotelico, in cui per più temi e problemi Platone è ri-
chiamato in causa, e ne sono confutate alcune idee28. La citazione
esplicita di alcuni passaggi testuali indica che anche Proclo aveva sul
suo tavolo di lavoro una copia della Politica; ma è significativo che il
riferimento al testo di Aristotele non sia né sistematico né all’interno
del commento alla Repubblica platonica: si tratta piuttosto di una
digressione rispetto al fluire del commento, motivata dal frequente ri-
chiamo da parte di Aristotele al testo che Proclo sta analizzando. Gli
accenni sono più un completamento del meticoloso lavoro di com-
mento, basato comunque su un interesse specifico per l’ordinamento
interno della politeiva, che non la prova di uno studio complessi-
vo della Politica, autonomo o finalizzato al confronto con Platone.
Tuttavia Proclo dimostra di conoscerne assai bene la sostanza, come
induce a credere l’inizio del testo:

«Il divino Aristotele nel II libro della Politica, facendo un esame


della Repubblica di Platone, secondo la sua abitudine di mettere alla
prova le opinioni di chi lo ha preceduto prima di esporre le proprie, in
primo luogo ha assunto quell’ottimo principio fondamentale, ricava-
to da un procedimento diairetico, riguardante ogni forma di governo,
cioè che è necessario che per coloro che si trovano a far parte di una
sola e medesima forma di governo vi sia comunanza di tutto o di
nulla, oppure che alcune cose le abbiano reciprocamente in comune,
mentre altre no. Ed il fatto che non vi sia comunanza di nulla, è
impossibile per coloro che vivono nella medesima <città>: infatti
ogni città è formata da individui che si associano e si riuniscono tra
loro; d’altronde il fatto che <vi sia comunanza> di tutto è parimenti
impraticabile: certamente è per lo meno inevitabile che si servano
dei loro corpi in modo privato e delle loro sensazioni in modo diffe-
rente come di ogni altro tipo di attività naturale. Una volta scartate
queste alternative, rimane <solo una possibilità>, che nelle città per
gli individui di alcune cose vi sia comunanza, mentre di altre non
ve ne sia. Ebbene, questo è il principio fondamentale che Aristotele
ha presupposto. D’altra parte è stato detto anche da Platone che non

28
Ben poca attenzione è dedicata all’appendice espositiva in cui Proclo ri-
assume i nuclei concettuali del II libro nello studio, pur importante per l’esegesi
platonica condotta dal filosofo bizantino, di Männlein-Robert 2006.

15
LA STORIA DEL TESTO

è ammissibile che vi sia comunanza di tutto, ma è preferibile che


nelle città ben governate vi sia la comunanza del maggior numero
possibile di cose»29.

Gli accenni di Alessandro di Afrodisia, di un Anonimo commen-


tatore dell’Etica Nicomachea, le allusioni e citazioni più frequenti di
Michele Efesio (tutti e tre lettori specializzati dell’opera di Aristotele),
chiudono la rassegna di tradizione indiretta prima dell’attestazione dei
documenti conservati di tradizione diretta, di gran lunga più importanti.
Ma non sono conservati codici bizantini coevi all’opera dei commenta-
tori citati: al X secolo risalgono soltanto scarni frammenti di un antico
manoscritto della Politica (il cod. Vaticano gr. 1298 V), che non reca
note marginali; gli altri codici greci sono prodotto degli ultimi due seco-
li del mondo bizantino, cioè di età paleologa, oppure sono confezionati
da umanisti greci in terra occidentale. In definitiva, lungo i secoli della
cultura bizantina le attestazioni certe della Politica, grazie alle quali
si possa supporre una lettura diretta del testo (antologica o completa),
sono scarse e discontinue: Eustazio di Tessalonica, il grande commen-
tatore omerico del XII secolo, mostra di conoscere la Politica, di cui
cita passi del IV libro nel suo trattato De emendanda vita monachica.
Parimenti cita, in almeno due occasioni delle sue Epistulae, il VII libro
della Politica Michele Coniata, intellettuale e uomo politico vissuto tra
XII e XIII secolo (sul crinale della Quarta Crociata e l’invasione latina
di Costantinopoli del 1204), arcivescovo di Atene e allievo di Eustazio
di Tessalonica, nonché fratello del più celebre Niceta Coniata, storico
di Bisanzio. L’età dei Paleologi, e la smania di riscoperta e riscrittu-
ra dei classici che la caratterizza, è naturalmente il periodo in cui si
concentrano le tracce più significative: Teodoro Metochita, dignitario
e poi primo ministro dell’imperatore Andronico II, fu uno dei migliori
conoscitori e studiosi del testo aristotelico dell’età sua (morì poco più
che sessantenne nel 1332); nel monastero metropolitano di Chora (di
cui aveva personalmente patrocinato il restauro tra 1316 e 1321 ca.)30

29
Procl. in Resp. II 360 Kroll; la traduzione è quella di Michele Abbate, in
Abbate 2004, p. 315 (alle pp. 420-427 un dettagliato commento all’intera dis-
sertazione). Cfr. Ar. Pol. II 1, 1260b 27-1261a 9. Sul rapporto tra la filosofia
politica di Platone e di Aristotele mediata da Proclo cfr. Gerdjikov 1991-1992
e Stalley 1995.
30
«Questa biblioteca, è evidente, garantiva in primo luogo la conservazione
dei libri depositati al suo interno e, dunque, la salvaguardia della cultura tanto
sacra quanto profana di cui questi erano vettori. I libri – dice infatti Metochita –
dovevano essere conservati con la massima attenzione ejn ajsfalei` kai; a[sula,
pavsh~ ejphreiva~ ajnwvterav te kai; kreivttw, “al riparo e sicuri, lontani da ogni

16
LA STORIA DEL TESTO

fu impegnato a redigere commenti e parafrasi delle opere di filosofia


naturale di Aristotele31, ed ebbe modo di leggere e trascrivere anche
la Politica (ampi brani della parte finale del II libro sono confluiti nei
Miscellanea philosophica et historica)32.
Ma, tutto sommato, a parte il lavoro di metodica scelta e trascrizio-
ne di Teodoro Metochita, si tratta di evidenze minime, appena sufficien-
ti a rintracciare l’esistenza di «lettori eruditi»33 del trattato di Aristotele,
interessati a lasciar traccia (per mezzo di allusioni e citazioni) della loro
lettura. Evidentemente la Politica non faceva parte di quel repertorio di
classici, nel cui testo e nella cui ricezione la cultura bizantina ritrova-
va motivi di esemplarità e continuità storico-culturale. Questo giudizio
implicito, avvalorato anche dall’assenza della Politica nella Biblioteca
del patriarca Fozio, deriva da più cause: prima e decisiva è senza dub-
bio l’inconciliabilità dei modelli politici e amministrativi (le politeiai)
descritti o auspicati nel trattato con la realtà della monarchia autocratica
e teocratica di Bisanzio. L’inapplicabilità (o meglio: l’inammissibilità)
di tali modelli costituisce un deterrente alla lettura e alla fruizione34,

minaccia e ancor di più” protetti sia dai tarli sia “dagli assalti del tempo che con
la sua inarrestabile corsa tutto quanto insieme, le cose preziose e quelle no, getta
negli abissi dell’oblio”» (Bianconi 2003, p. 542; le pp. 541-551 sono dedicate
al ruolo di Teodoro Metochita quale sovrintendente della biblioteca di Chora,
e allo stesso monastero di Chora come centro di produzione di libri nuovi e
restauro di antichi; Bianconi del resto ha ricostruito l’ambiente e la sede libraria
di Chora prendendone in esame la produzione di manoscritti fino al XIV secolo:
cfr. Bianconi 2005).
31
Sulla sua opera di commentatore e di intellettuale presso la corte imperiale
bizantina, Wilson 1990, pp. 384-394.
32
Secondo il titolo che gli editori Chr. G. Müller e Th. Kiessling fornirono
alla raccolta, pubblicata a Leipzig nel 1821. Su Metochita lettore della Politica
si veda Bydén 2003, pp. 59-61, 73 s.; più in generale sulla cultura politica del
personaggio Barker 1957, pp. 173-183; Gigante 1967. Ha pubblicato parte delle
Semeioseis in una nuova edizione critica Hult 2002, ma non quelle che conten-
gono le citazioni della Politica.
33
Secondo una categoria culturale indicata da Cavallo 2004, pp. 579-586.
34
Nella cultura bizantina «Uomo non è sinonimo di individuo. La coesione
del sistema politico e sociale impediva di dar esagerata importanza alle vicen-
de dei singoli; gli individui si sentivano membra di un organismo sacro, anche
se magari malato o in pericolo, che era il compimento della vicenda umana,
in quanto sintesi di Roma e Dio» (Mazzucchi 2002-2003, p. 19); nonostante
le trasformazioni storiche degli ultimi tempi (le vicende delle città italiane, la
divisione dei resti dell’impero fra i membri della famiglia paleologa, le diverse
forme di convivenza istituzionale con i Turchi, etc.), la concezione aristotelica
di un mondo di poleis autonome o confederate, comunque libere, animate da una
pluralità di modelli costituzionali, è lontanissima dall’idea di impero autocratico
e cristiano.

17
LA STORIA DEL TESTO

come si può desumere dal modo in cui Fozio parla della Repubblica
di Platone:
«Di Platone e dei filosofi greci si potrebbe dunque ripetere, a fron-
te dell’incontaminata verità delle Scritture, ciò che non a caso Fozio
poteva dire, sull’altro versante, degli Apocrifi, e cioè che sono “fonte e
madre di ogni eresia” (Bibl. cod. 114).
Non di meno, figure come Platone potevano risultare scomode
anche nell’ambito del pensiero politico: lo stesso patriarca Fozio può
esserne un buon esempio. A più riprese egli ha avuto parole molto dure
per Platone, non solo sulla dottrina delle idee, tante volte criticata come
empia e ingannevole, ma anche sulla dimensione politica ed etica della
Repubblica: un’opera, dice Fozio “tutta cosparsa di molteplici impu-
denze, di molteplici contraddizioni, di principi che confliggono con
qualsiasi forma di governo sperimentata dall’uomo”»35.

Ma Platone restava pur sempre, sul piano linguistico e stilistico, un


modello raccomandabile, al pari dei grandi storici di età classica36, e la
Repubblica (come altri dialoghi eminentemente politici: Il politico, Le
leggi) vanta una copiosa tradizione di estratti, parafrasi, citazioni dirette
in tutta l’età bizantina37. La Politica di Aristotele, come si è già avuto
modo di accennare, non porge al lettore – al di là di exempla storici e
argomentativi – riferimenti retorici ed esiti di arte oratoria considerabili
di primaria importanza.
Sarebbe però errato sostenere che il disinteresse per la Politica di
Aristotele fosse, nell’ambito degli studi in questo campo, totale. Grazie
ai frammenti del citato codice Vaticano38 è possibile ricostruire in parte
la confezione di un volume, forse interamente dedicato alla trattazione
politica; nel corso del X secolo venne infatti approntato a Costantino-
poli un manoscritto che accostava testi molto differenti tra loro per ori-
gine, struttura e destinazione, ma accomunati dal tema di fondo: pochi
fascicoli del Vaticano greco 1298 V restituiscono alcuni frammenti del-
la Politica di Aristotele e di un Dialogo sulla scienza politica, rimasto
inedito fino a tempi recentissimi. I due testi sono stati molto studiati: il
primo in sede critica, poiché ha finalmente permesso la collazione della
Politica in un esemplare antico (nonostante il confronto sia limitato

35
Bossina 2003, p. 69.
36
Il più importante intellettuale dell’XI secolo, Michele Psello, fu ritenuto
dai suoi contemporanei «colpevole di eccessive e compromettenti frequentazio-
ni dei testi platonici» (Maltese 1998, p. 805).
37
Come risulta dagli indici di Boter 1989, pp. 285-287, 290-376.
38
Vat. gr. 1298 (V), il più antico testimone medioevale, frammentario, del
trattato di Aristotele: per la descrizione e la storia cfr. sotto, il paragrafo dedicato
ai Codici greci.

18
LA STORIA DEL TESTO

dallo scarso numero di fogli), visto che il codice è anteriore di più di


tre secoli rispetto al manoscritto integro più antico della Politica (B);
il secondo ha offerto al lettore moderno un unicum quanto a tipolo-
gia di scritto e di specificità storico-letteraria, poiché la composizione
del Dialogo risale alla prima metà del VI secolo, ovvero al tempo di
Giustiniano. Ma al di là dell’interesse e dell’indagine filologica (per
la Politica) o storico-culturale (per il Dialogo), occorre considerare
il codice in quanto manufatto librario e vettore testuale complessivo:
nel X secolo fu percepita l’esigenza di radunare in un solo supporto
più scritti (classici e non, evidentemente) della trattatistica politica. Lo
stato frammentario non permette di elencare con certezza se non i due
titoli già ricordati (e un solo codice non poteva contenere molto di più
della Politica e del Dialogus); ma forse non sarebbe arbitrario suppor-
re che, insieme a Dialogo sulla scienza politica di Menas e Tommaso
e Politica di Aristotele comparissero, in altri manoscritti, Leggi e Re-
pubblica di Platone, Economico (che, sempre inserito nel corpus delle
opere aristoteliche, nei codici di età successiva è spesso abbinato alla
Politica), commentari di più autori a queste o ad altre opere: una sorta
di «collezione politica», successiva, ma purtroppo perduta, alla celebre
e fortunata «collezione filosofica», allestita verso la fine del secolo IX. I
codici della «collezione filosofica», progressivamente identificati come
tali grazie a caratteristiche tematiche (contenuti), paleografiche (mani e
stili di scrittura; copisti, committenti, lettori) e codicologiche (struttura
e ornamentazione)39, paiono riprodurre il catalogo di «una biblioteca
di età tardo-antica, riscritta e riedita»40 nel IX secolo. La pluralità e la
ricchezza di tutti questi testimoni non possono certo essere confrontate
con i frammenti di un solo manoscritto; ma la natura composita del
Vat. gr. 1298 ispira la suggestione (oltre non è lecito spingersi) che, per
studio e per conservazione dei testi, nel X secolo si volesse approntare
un repertorio di scritti politici, per unire in un unico volume classici del
passato e rivisitazioni di epoca giustinianea, nella abituale ricerca di
armonia tra paganesimo e verità rivelata, tra filologia e cristianesimo41.

39
Anche per la storia degli studi sulla «collezione» si veda Perria 1991. Il
codice Vaticano, comunque, non reca traccia delle cure critiche che caratterizza-
no invece gli esemplari della «collezione filosofica».
40
Cavallo 1995, p. 208. Sull’evidente «influsso esercitato dai copisti della
cosiddetta collezione filosofica», e sulla trasformazione della grafia bouletée,
in un gruppo di manoscritti della I metà del X secolo si veda Aletta 2007 (in
particolare pp. 119-128).
41
Ardua, ed evidentemente poco fortunata, impresa: è sufficiente accosta-
re la lettura del paragrafo iniziale della Politica e dei frammenti del V libro

19
LA STORIA DEL TESTO

La cronologia e le caratteristiche del codice Vaticano non chiariscono


però il problema principale: quando furono accostati per la prima volta
i due testi in un unico libro? È possibile che nel X secolo si volesse
trascrivere un volume di scritti politici già strutturato; ma forse Menas
stesso, l’autore del Dialogus, poteva aver pensato già nel VI secolo
all’accostamento con la Politica di Aristotele, come parrebbe desumer-
si dalla scheda foziana (Bibl. 37), che riassume il contenuto del trattato
con la disputa sulla ajrivsth politeiva (ossia con un argomento discus-
so estesamente nella Politica).
Ben più solida di quella su un’eventuale «collezione politica» è
l’ipotesi di ricostruzione della diffusione delle opere aristoteliche, ossia
il presupposto che in qualche momento gli scritti del filosofo venissero
raccolti in edizioni, parziali o complete: è la conclusione cui giunse
Dieter Harlfinger studiando conformazione e corredo esegetico dei
codici aristotelici bizantini. Tali corpora dovettero essere realizzati a
Costantinopoli42, e una prima fase sembra essere il periodo 1350-1375,

del Dialogo per rendersi conto di una lontananza difficilmente conciliabile.


«L’osservazione aristotelica, il suo sguardo, sono quelli del biologo, dello
scienziato degli animali, delle piante, degli organismi. [...] L’uomo aristotelico
è il termine intermedio di una serie classificatoria che al limite superiore inclu-
de gli dèi, a quello inferiore le donne, i bambini, gli schiavi, gli animali [...].
Come è noto, oltre all’immagine dell’uomo, è l’immagine della natura a essere
latente in ogni modo di pensare la politica. E la natura di Aristotele è la fuvsi~
del vivente» (Veca 1980, p. 855). Al tempo di Giustiniano vige invece la con-
cezione della monarchia di investitura divina (già di ascendenza ellenistica);
anzi, per l’autore del dialogo «la politikè philosophía o epistéme è la stessa
cosa che la basilikè epistéme e la basileía (V 4, p. 598), perché tutta la teoria
è basata sulla dottrina della homoiosis (oJmoivwsi~, somiglianza o imitazione)
di Dio [...]. Ora, come l’uomo è composto da chi comanda (l’anima) e da chi è
comandato (il corpo), così lo Stato ha bisogno di chi comanda (il basileús) e di
chi è comandato (i sudditi). Ma tale capo, per l’analogia che esiste rispetto alla
situazione del Creatore di fronte al creato, non potrà non essere simile a Dio
e il suo regno simile alla patria celeste. Il basileús si trova quindi tra gli uo-
mini sotto duplice aspetto pur essendo uno: come uomo tra gli uomini e come
“qualcosa al di sopra degli uomini”» (Pertusi 1990, pp. 11-12). In più Menas,
in modo opposto alla disamina aristotelica, ambiva «definire una politica, una
forma statale, che non fosse l’èsito - magari giustificato a posteriori - di questa
o quella contingenza storica, bensì venisse dedotta in maniera “scientifica”
dagli stessi principi dell’Essere. [...] Monarchia, oligarchia e democrazia non
sono più fra loro alternative, ma gerarchicamente contenute una nell’altra: le
corporazioni, in cui è ordinato il popolo, esprimono i loro bisogni e desideri
agli ottimati, che fattili propri, li comunicano al monarca» (Mazzucchi 2006,
pp. 332-333).
42
«Es hat in der byzantinischen Hauptstadt zu verschiedenen Zeiten Ge-
lehrte, Schulen oder sonstige philosophisch interessierte Kreise gegeben, die
offensichtlich einheitliche Sammlungen fast sämtlicher Werke des Stagiriten

20
LA STORIA DEL TESTO

anni cui risalgono le raccolte aristoteliche del Par. gr. 1921, del Par.
Coisl. 161 (che tra l’altro contiene la Politica, A), del Par. Coisl. 166,
del Hier. Sancti Sepulcri 150, quattro codici accomunati dall’identità
delle mani che hanno vergato testo e note, forse nati da un impulso di
Niceforo Gregora. Una “seconda edizione” quasi completa delle opere
di Aristotele è realizzata circa tre generazioni più tardi, attorno al 1450,
e occupa i manoscritti Alexandr. 87 della Biblioteca del Patriarcato di
Alessandria d’Egitto43, e i tre della Biblioteca del Sinodo di Mosca,
rispettivamente Mosquensis 6, Mosq. 451 (in cui, tra l’altro, è la Po-
litica, D), Mosq. 239. Anche questa seconda serie di quattro codici è
vergata dalla stessa mano, identificata con quella del copista Matteo
Camariotes44.
Delineare, per quanto possibile, un regesto di lettori-testimoni sto-
ricamente definiti non equivale del resto a ipotizzare quante copie della
Politica circolassero a Bisanzio tra X e XIV secolo45; certo non dovet-
tero essere molto numerose (anche perché l’unico testimone conservato
risalente a questo periodo è B), ma la loro consistenza diventa più con-
siderevole nel corso del secolo successivo, il XV, quando provengono
in Europa più esemplari del testo (alcuni tuttora conservati, altri andati
perduti, a cominciare da quello utilizzato da Leonardo Bruni per la sua
traduzione latina; secondo Vespasiano da Bisticci si trattava della prima
copia della Politica in greco a giungere in Italia; cfr. sotto).

angelegt haben. [...] Mindestens zwei solcher „Editionen“ des Corpus Aristoteli-
cum aus späterer Zeit, in denen der originale Grundtext stets auch von parallelen
Marginal-kommentaren der bekannten Aristoteles-Exegeten begleitet wird, sind
uns zu großen Teilen erhalten geblieben» (Harlfinger 1971, p. 55).
43
Moraux 1976, pp. 1-2.
44
Harlfinger 1971, p. 56. L’ipotesi di due edizioni aristoteliche approntate
a distanza di meno di un secolo è molto suggestiva, e certamente scaturisce
dalla ricchezza di testimonianze, testuali ed esegetiche, che dalle officine libra-
rie bizantine raggiunsero l’Occidente. Ma a questo punto si pone il problema
della “parentela” tra i due progetti, e quindi della possibilità di collegare gli
stessi titoli all’interno di un albero genealogico, ossia di uno stemma codicum.
Harlfinger aveva notato che «Beide genannten Sammlungen sind auffälliger-
weise stemmatisch engstens miteinander verwandt, aber keineswegs so, daß
die jüngeren Manuskripte aus den älteren geflossen wären» (ibid.). Studiando
i rapporti tra ACD, e giungendo alla conclusione che essi porgono esattamente
lo stesso testo, Schneider 1973, p. 337, pose in dubbio questa conclusione di
Harlfinger (almeno per quanto concerne i legami tra le copie della sola Poli-
tica).
45
Purtroppo è possibile rintracciare alcuni indizi della sola diffusione orien-
tale; di altri manoscritti contenenti la Politica che probabilmente giunsero in
Occidente tra X e XIII secolo (in particolare in Italia meridionale) si è perduta
ogni traccia. Per casi differenti cfr. De Gregorio 1991.

21
LA STORIA DEL TESTO

Eppure la tradizione indiretta della Politica (che ne documenta il


Fortleben) nel medioevo latino è considerevole, così come la presenza
del testo completo nelle biblioteche europee. Questa notevole diffusio-
ne riguarda però le versioni latine che vennero realizzate sin dal XIII
secolo, e che suscitarono la composizione di commenti, questioni, con-
fronti di dottrina politica, discussioni in merito alla filosofia aristotelica
e alle sue applicazioni nel mondo coevo. La più antica traduzione si
deve a Guglielmo di Moerbeke (Guilelmus de Moerbeka, detto anche
Guilelmus Brabantinus), dell’ordine dei Frati Predicatori, nato intorno
al 1215, nominato arcivescovo di Corinto nel 1276 o 127746. Gugliel-
mo, collaboratore filologo di Tommaso d’Aquino, è forse il principa-
le traduttore latino di Aristotele, specie se si considera la fortuna e la
diffusione delle sue versioni47. Nel caso della Politica, considerata la
recenziorità dei testimoni greci, gli antichi manoscritti della versione
latina (completata nel 1260 a Viterbo; pubblicata in edizione critica da
Franz Susemihl nel 1872 sulla base di un congruo, ma non certo ampio,
numero di testimoni: cfr. i sigla), hanno rivestito notevole importanza
anche per la ricostruzione dell’originale greco. Numerosi editori hanno
infatti tentato di recuperare il presunto originale grazie alla tecnica della
retroversione (la lezione latina che differisce da quella dei testimoni
greci è nuovamente tradotta in greco, e diventa varia lectio a tutti gli
effetti, secondo una pratica editoriale – antica ma anche novecentesca
– per nulla irreprensibile). La traduzione latina della Politica redat-
ta da Guglielmo venne immediatamente studiata da Alberto Magno,

46
Su Guglielmo cfr. soprattutto Jourdain 1843, pp. 67-71 (per quanto ri-
guarda le sue traduzioni latine), e in generale Vanhamel 1989, pp. 339-341 (per
la Politica), il capitolo dedicatogli in Brams 2003, pp. 105-130 e in Rossi 2002-
2003, pp. 94-98.
47
Tradusse Politica, Retorica, Metafisica, De anima, scritti zoologici, i
commenti di Alessandro di Afrodisia sui Meteorologica e sul De sensu et sen-
sibili, quelli di Simplicio sulle Categorie e sul De caelo et mundo, quelli di
Giovanni Filopono e di Temistio sul De anima. Studiando il cod. Vat. Lat. 2995,
che contiene Politica e Retorica nella traduzione di Guglielmo (oltre all’Etica
Nicomachea nella traduzione di Grossatesta), Grabmann fu tentato di attribu-
ire a Guglielmo anche l’anonima traduzione della Rhetorica ad Alexandrum,
contenuta nello stesso manoscritto (Grabmann 1932, pp. 26-81); ma i confronti
con una seconda versione latina dello stesso trattato, oltre a motivi di ordine sti-
listico, indussero Grabmann a revocare la proposta di attribuzione a Guglielmo.
Forse il domenicano redasse comunque una traduzione della Rhetorica ad Ale-
xandrum ritenuta aristotelica, di cui resterebbe un frammento della parte iniziale
nel cod. Vat. Lat. 2083 (cfr. Lacombe 1939, p. 78-79; si veda anche il paragrafo
Les traductiones latines, in Chiron 2000, pp. 20-23). Sulla traduzione più in
generale si veda Chiesa 1995 (spec. pp. 179-186).

22
LA STORIA DEL TESTO

che ne scrisse un commento completato nel 1265; anche Tommaso


d’Aquino ne intraprese un minuzioso commento (databile tra 1269
e 1272), limitato però ai primi tre libri, poi ripreso e completato da
Pietro d’Alvernia.
Ma sin dal 1264 era nota anche una seconda versione latina, che
i codici48 attribuivano sempre a Guglielmo, dei soli primi due libri
dell’opera; essa è stata pubblicata nel 1961 a cura di Pierre Michaud-
Quantin, che ha anche presentato un dubbio sull’identità del traduttore
rispetto alla versione completa49. Siccome il confronto dei primi due li-
bri evidenzia due traduzioni molto differenti tra loro, nell’impostazione
formale, nel lessico, a volte nella sintassi, ad alcuni interpreti è parso
assai difficile che si tratti dell’opera dello stesso traduttore, sia pure re-
alizzata a grande distanza di tempo. In realtà, più che sul raffronto delle
due versioni latine, l’attenzione va diretta sul modello greco utilizzato.
Non sono pervenute notizie sui codici greci di Guglielmo, ma le due
traduzioni divergono sensibilmente tra loro poiché dipendono da due
manoscritti piuttosto differenti (anche per antichità: cfr. sotto).

2. I codici greci
Anche le ultime edizioni della Politica, nel corso della seconda
metà del Novecento, hanno dovuto confrontarsi con il maggior pro-
blema critico ai fini della recensione: stabilire quale delle due famiglie
di manoscritti fosse superiore rispetto all’altra, in modo da decidere
sulla base di un criterio oggettivo nei casi di varianti adiafore. Franz
Susemihl, senza dubbio il più meritevole e originale indagatore dei co-
dici della Politica (in greco e nella antica versione latina) aveva optato
per la prima famiglia (P1), formata da pochi manoscritti. Dopo di lui,
soprattutto in seguito alle riflessioni di William Lambert Newman e di
Otto Immisch, gli editori hanno preferito affidarsi alle lezioni della se-
conda, più numerosa e frastagliata, famiglia di codici (P2). Non rientra
nelle ambizioni di una breve introduzione alla storia del testo richiama-
re pareri e dispareri, tutti opportunamente argomentati, delle diverse
preferenze. Ma il problema, più che accantonato perché annoso (e in
parte fuorviante), va comunque affrontato: non si può negare la presen-

48
Soltanto tre: Vat. Chisianus lat. E. VII. 225, del secolo XIII (mutilo
dell’inizio; il testo della traduzione prende avvio da II 3, 1262a 5: manca pertan-
to l’intero I libro); Harvardianus Hofer Typ. 233 H (olim Neoeboracensis), dei
secoli XIII-XIV; Par. lat. 6458, del secolo XIV.
49
In risalto sin dal titolo: Aristoteles Latinus, Politica, translatio prior im-
perfecta, interprete Guillelmo de Moerbeka (?) = Michaud-Quantin 1961.

23
LA STORIA DEL TESTO

za di due rami principali della tradizione, opposti ma comunicanti tra


loro per collazione di antichi esemplari.

Nel rispetto delle classificazioni tradizionali, possono essere così


schematizzate le caratteristiche dei principali testimoni50:
I famiglia (P1).
- P è il codex Parisinus gr. 2023, risalente agli anni 1460/1480 ca. Fu
scritto da Demetrio Calcondila, copista ed editore di testi, a Firenze (o
forse a Milano secondo Aubonnet), e contiene Etica Nicomachea, Po-
litica, Grande etica, Economico. Nel 1511 Aulo Giano Parrasio, genero
di Calcondila51, ereditò il libro52. Il manoscritto trasmigrò poi nelle bi-
blioteche del cardinal Ridolfi, di Piero Strozzi, e quindi di Caterina de’
Medici, per essere poi accorpato alle collezioni della biblioteca reale di
Parigi. Questo manoscritto è assai importante per più ragioni: anzitutto
chi lo ha trascritto non era semplice copista, ma dotto editore di testi greci
(Calcondila pubblica un’edizione di Omero a Firenze nel 1488, Isocrate
a Milano nel 1493, il lessico Suda nel 1499, sempre a Milano); la sua
ars critica si cimenta dunque anche sulla Politica con l’annotazione di
numerosi interventi congetturali e correttivi direttamente a testo. Dal mo-
dello utilizzato provengono probabilmente note, correzioni, aggiunte che
il copista trascrive con lo stesso inchiostro nero usato per vergare il testo
oppure con inchiostro rosso (P1 in apparato critico); numerose glosse, e
qualche lezione, provenienti da un altro manoscritto, appartenente alla
seconda famiglia, sono trascritte nei margini con un inchiostro più chiaro
(P2); altre glosse, trascritte con inchiostro rosso, si aggiungono alle pre-
cedenti, e provengono anch’esse da un esemplare della seconda famiglia
(P3); un’ulteriore, più recente, mano ha apposto note e correzioni di vario

50
Per ragioni di opportunità la descrizione, molto sintetica, si limita ai testi-
moni principali; notizie più dettagliate su tutti i manoscritti, elenco dettagliato
dei codici contenenti singoli brani (excerpta), bibliografia, studi e ipotesi sulla
loro parentela, e di conseguenza anche uno stemma codicum completo e meglio
rispondente ai dati storico-testuali, saranno trattati in altra sede. Cfr. comun-
que Wartelle 1963; le identificazioni dei copisti di codici aristotelici proposte da
Harlfinger 1971, pp. 405-420; le schede ad locum in Moraux 1976 e in Mioni
1958; Dreizehnter 1962, pp. 1-12; Dreizehnter 1970, pp. XXI-XXXIX.
51
Ne aveva sposato la figlia Teodora, nata a Firenze nel 1486; dei suoi
dieci figli è lo stesso Demetrio Calcondila a ricordare gli atti di nascita, scritti
personalmente sul f. 323r/v del Parisinus gr. 2023, ossia dopo la trascrizione
dell’Economico (Actes de naissance des dix enfants de Démétrius Chalcondyle
si leggono in Legrand 1885, pp. 304-307). Per una biografia di Calcondila cfr.
sempre Legrand 1885, pp. XCIV-CI.
52
Non sembra possibile riscontrare la presenza di questa copia della Politica
nell’inventario della biblioteca (cfr. Tristano 1989).

24
LA STORIA DEL TESTO

tipo (Pc). Sia Calcondila sia altri lettori del codice ne hanno quindi con-
frontato il testo con la versione dell’altra famiglia53, integrando e correg-
gendo ove bisognasse (per esempio nei molti punti in cui la recensione di
P1 presentasse un testo semplificato rispetto a quello di P2).
- M e S (Ambrosianus B 105 sup. e Leidensis Scaligeranus 26) sono
due manoscritti considerati gemelli da Dreizehnter, in quanto copiati
dallo stesso copista, Demetrio Sguropulo, dallo stesso modello (come
dimostra la pressoché continua concordanza in errore dei due codici).
Si tratta in entrambi i casi di esemplari di lusso, da biblioteca, in per-
gamena, con ampi margini e rubricationes; come raramente accade,
entrambi i manufatti riportano esclusivamente il testo della Politica. In
S (provvisto di scholia come AHP)54 il copista sottoscrive il codice, ter-
minato il 22 Marzo 1445 a Milano per conto di Francesco Filelfo55, evi-
dentemente committente della trascrizione. Nel 1594 S divenne posses-
so di Giuseppe Giusto Scaligero e fu portato a Leiden, la cui Biblioteca
universitaria lo ereditò a sua volta nel 1609. M è privo di annotazioni,
tranne una iniziale (assai tarda) che informa di un suo acquisto a Pisa.

II famiglia (P2).
- A Tra i codici integri della Politica quello del fondo Coislin 161
di Parigi è uno dei più antichi e autorevoli, anche perché presenta una
collezione di opere filosofiche di Aristotele in volume unico: Etica Ni-
comachea (con commentario), Politica, Economico, Metafisica (con
commentario), De Providentia (ossia la Quaest. 1, 25 di Alessandro
di Afrodisia). Il copista è lo stesso del Coisl. 166, che contiene le opere
fisiche di Aristotele (con i commenti di Giovanni Filopono e di Michele
Efesio), ed è noto come Anonymus Aristotelicus56. Come già annotato da
Dreizehnter, la grafia del codice presenta una netta somiglianza con quel-
la del copista B del Vat. gr. 984 (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche),

53
Demetrio Calcondila, allievo di Teodoro Gaza, aveva ereditato la copia
della Politica accuratamente trascritta dal maestro (il codice di Udine E, che ap-
partiene infatti alla II famiglia, anche se non presenta glosse ma soltanto noticine
di lettura: cfr. sotto).
54
Scholia che coincidono soprattutto con quelli di H, ossia con le note di
commento che Immisch identificò come provenienti da un supposto commenta-
rio di Michele Efesio: cfr. la scheda di U. Victor in Moraux 1976, pp. 394-395.
55
Eleuteri 1991. Filelfo è anche l’estensore di numerosi marginalia su un
altro codice contenente la Politica: il Laur. Acquisti e doni 4 (Cast), trascritto da
Palla Strozzi solo per i primi fogli, continuato e completato da Giovanni Skuta-
riota (Eleuteri 1991, p. 174).
56
Sulla sua produzione cfr. Brockmann 1993, p. 63; Berger 2005, pp. 140-
147; Mondrain 2005.

25
LA STORIA DEL TESTO

scritto nel 135457. Forse il manoscritto è stato realizzato a Costantinopo-


li; passò poi nella biblioteca del monastero di S. Atanasio sull’Athos, e,
per mezzo del sacerdote Atanasio di Cipro, nelle mani di Pierre Séguier
(morto nel 1672), cancelliere di Luigi XIV, e quindi in quelle del duca di
Coislin. Dal 1795 fa parte delle collezioni della Bibliothèque Nationale.
Come P, anche A rappresenta una copia di ‟lavoro editoriale”, su cui lo
stesso copista ha registrato – in fasi e con inchiostri diversi – svariati tipi
di annotazione, in seguito a confronto con esemplari diversi. Una pri-
ma messe di marginalia è vergata con lo stesso inchiostro nero del testo
principale, e riporta varianti coincidenti con le lezioni della I famiglia
(probabilmente già presenti sul modello della trascrizione: A1 in appa-
rato). P e A sono dunque due codici provenienti da famiglie diverse, sui
cui modelli era già stato effettuato un confronto con esemplari dell’altra
famiglia: recano una (parziale e non sistematica) collazione, che di volta
in volta serve a correggere la scrittura di base. Un secondo gruppo di
correzioni è vergato direttamente a testo con inchiostro più scuro (A2),
mentre in inchiostro giallognolo sono riportate ulteriori variae lectiones,
desunte da un codice della I famiglia collazionato dal copista stesso (A3);
altre note, glosse e correzioni, corrispondenti a una ulteriore lettura criti-
ca, sono segnate in inchiostro rosso (A4).
- B è il Par. gr. 2026, di datazione controversa: Susemihl lo conside-
rava «codicum omnium, qui nobis hoc opus Aristoteleum tradiderunt,
antiquissimus, 8° min. saeculo XIV ineunte» (Sus.1 p. XX); secondo Au-
bonnet è un prodotto di XV secolo; Dreizehnter, appoggiandosi a un
confronto paleografico58, ne colloca la scrittura tra XIII e XIV secolo.
Pur contenendo soltanto la Politica, come MS, B è scritto da due mani
diverse: la prima, che trascrive la maggior parte del testo, giunge fino a
VII 5, 1326b 37 dia; tou;~; la seconda, dai caratteri appena più eleganti
della prima, completa l’opera. Una terza mano, più tarda, che utilizza
inchiostro più chiaro, ha operato alcune correzioni a testo, oppure ha
aggiunto glosse e note marginali; dalla qualità delle correzioni, coin-
cidenti con la lezione di altri manoscritti noti, si evince facilmente che
l’esemplare utilizzato appartenesse alla stessa famiglia di B.
- C è un altro Parisinus, Suppl. gr. 652, di recente acquisizione (ri-
spetto agli altri) della Bibliothèque Nationale. Si tratta di un codice di
XV secolo, importante a) per la provenienza, poiché è stato scritto pres-

57
Turyn 1964, pp. 149 s., T. 123.
58
Bick 1920, T. 16 (= cod. Pal. Theol. gr. 49, 1290, scritto da Manuele
oJ ʼAlhqinov~ ). Cfr. anche Dreizehnter 1962, pp. XX , XXIX .

26
LA STORIA DEL TESTO

so la scuola del Patriarcato di Costantinopoli; b) per almeno un copista,


Matteo Camariotes59; e c) per essere un codice miscellaneo: contiene la
Politica e l’Economico (fino a II, 3, 1346a 31), soltanto dopo un blocco
di diverse opere letterarie (Carmina aurea di Pitagora, Batracomioma-
chia, Scudo e Opere esiodei, Fenomeni di Arato con scholia) e alcuni
trattati di argomento astronomico e matematico. Un primo copista tra-
scrisse la Politica fino a 3, 1276b 22; proseguì, la completò e iniziò
l’Economico Matteo Camariotes (che morì a Costantinopoli nel 1490).
Si leggono varianti e scolî a margine. Il manoscritto giunse a Parigi a
opera di Minoides Mynas nel 1844/1845.
- D è il codice della Biblioteca del Sinodo di Mosca 451, del XV
secolo, assai simile al precedente C nel testo presentato e nella qualità
di errori e di deviazioni. A differenza di C, però, D è un tipico corpus
filosofico, se non una collezione di titoli aristotelici, in quanto contie-
ne: Grande etica, Etica Nicomachea (con commentario), Politica (con
scolî e varianti come in A, ossia riferimenti a lezioni della I famiglia).
Interamente scritto a Costantinopoli, il codice è opera di diversi copisti.
Dal monastero di Vatopedi sull’Athos venne portato in dono allo zar
Alessio da Arsenios Suchanov verso la metà del XVII secolo.
- E è conservato presso la Biblioteca Arcivescovile di Udine (VI
5 = coll. 258): si tratta di un elegante manufatto cartaceo della metà
del XV secolo, abbellito da capilettera ornati, che contiene la sola
Politica, con qualche nota marginale di carattere esplicativo, ma privo
di varianti. Fu scritto interamente dall’erudito Teodoro Gaza60, forse a
Ferrara o a Roma, e alla sua morte (1475) passò nelle mani dell’allie-
vo Demetrio Calcondila, il copista di P; successivamente confluì nella
biblioteca di Parrasio (genero di Calcondila), e poi venne acquistato
dal cardinal Grimani, fondatore della Biblioteca di S. Antonio in Ca-
stello a Venezia61.

Codici difficilmente collocabili nell’ambito delle due famiglie:


- V il Vaticanus gr. 1298 racchiude i più antichi frammenti della tra-
dizione testuale della Politica di Aristotele. Attualmente il codice è sud-

59
Saffrey 1960, pp. 340-344. Biografia e opere di Camariotes in Biedl 1935
e Gamillscheg-Harlfinger-Hunger 1981, 1A p. 269, 1B p. 114.
60
Cfr. Leone 1992 e Salanitro 1992.
61
Nella biblioteca personale dell’ecclesiastico il codice della Politica era ca-
talogato al n. 42 (Index voluminum graecorum bibliothecae D. Card. Grimani, nel
cod. Vat. gr. 3960; il catalogo è trascritto in Diller 2003, p. 115). Sui manoscritti
greci Utinenses della raccolta di Grimani cfr. Vendruscolo 2006-2007.

27
LA STORIA DEL TESTO

diviso in due tomi, che riportano l’opera di Elio Aristide, già descritti da
Pinelli nel 1575 in quanto collocati nella libreria di Pietro Bembo62, ma
precedentemente appartenuti a Niccolò Leonico Tomeo63. Il codice pro-
venne nel 1602 alla Vaticana dalla biblioteca di Fulvio Orsini. Soltanto
negli anni Venti del XIX secolo il cardinale Angelo Mai riscoprì all’in-
terno del codice 12 fascicoli palinsesti contenenti un trattato anonimo
sulla politica64 e l’ignoto testimone dello scritto aristotelico. Non è dato
sapere nulla sulla confezione e provenienza del manoscritto (ma nes-
sun elemento impedisce di pensare a Costantinopoli), che nella seconda
parte del II tomo è riscritto con la tecnica del palinsesto: da un codice
antico, che conteneva la Politica di Aristotele e il trattato Peri; poli-
tikh`~ ejpisthvmh~ sono derivati alcuni bifolî annessi insieme in ordine
casuale65. Risultano leggibili soltanto alcuni frammenti sia dell’una sia
dell’altra opera, riconducibili al X secolo grazie a «una scrittura assai
regolare e piacevole che i paleografi chiamano ora ‘bouletée’, la quale
attesta - così come la rigorosa preparazione dei fogli - la superiore cul-
tura dell’ambiente in cui e per cui il codice fu confezionato; e insieme
documenta, nell’età di Areta e di Costantino VII, l’alta considerazione
tributata all’Autore del Peri; politikh`~ ejpisthvmh~: tanto alta che
figura, se pure anonimo, in un corpus di opere politiche a fianco del
grande Aristotele»66. Anche il patriarca Fozio scheda questo trattato di
scienza politica (originariamente in sei libri, dunque di discreta esten-
sione) nella sua Biblioteca (37)67, specificando che in esso è illustra-
to un tipo di governo diverso da quelli esaminati dagli antichi (kai;
e{teron ei\do~ politeiva~ para; ta; toi`~ palaioi`~ eijrhmevna eijsavgei).

62
Clough1980, p. 47.
63
De Bellis 1980, p. 49.
64
Mai 1827, pp. 571-609. La prima collazione rigorosa dei frammenti ari-
stotelici si legge però in Heylbut 1887, pp. 102-110. Sulla tipologia di codice cfr.
le note di Wilson 1990, pp. 173-174 e n. 20, 230.
65
Accurata descrizione codicologica in Dreizehnter 1962, pp. 5-10.
66
Fiaccadori 1979, p. 130; per la grafia del codice, Irigoin 1977; sul trattato
bizantino, basato in particolare sulla Repubblica platonica e sul De republica
ciceroniano, Barker 1957, pp. 63-75; Bertelli 1962-1963; Mazzucchi 1978, e
soprattutto l’edizione critica del testo in Mazzucchi 2002; dagli apparati di Maz-
zucchi non risulta, all’interno del nuovo testo, alcuna citazione testuale della
Politica. Studia diffusamente, e in confronto ad altri testi, la concezione politica
dell’autore Pertusi 1990, pp. 6-31.
67
Henry 1959, p. 22 n. 1 lo definisce texte perdu, ed è scettico sulla pos-
sibilità di identificarlo con l’anonimo trattato pubblicato a suo tempo da Mai.
Con una serie di studi, e finalmente con l’edizione critica del Dialogus (19821,
20022), Mazzucchi 1978 e 2002 avrebbe poi dissipato tali dubbi.

28
LA STORIA DEL TESTO

È interessante notare che nella Biblioteca la Politica di Aristotele non


compare; ma alludendo agli antichi (scrittori di cose politiche), e citan-
do espressamente poco oltre la Repubblica di Platone, Fozio parrebbe
alludere anche alla Politica, specie quando la politeiva prospettata dal
Dialogus è definita come la composizione dei tre ei[dh tradizionali (mo-
narchia, aristocrazia, democrazia: appunto le forme sistematicamente
trattate da Aristotele). Il patriarca sembra così suggerire, sul piano dei
contenuti, un accostamento tra i due titoli che la confezione del codice
Vaticano attua materialmente, ossia presentare insieme Politica e Dia-
logus. Scrittura e datazione del codice frammentario sono tra i dati più
interessanti: le opere dei classici e i testi non liturgici o patristici nel X
secolo erano, ormai da tempo, vergati in minuscola; la traslitterazione
della Politica, ossia il passaggio dagli esemplari in grafia maiuscola68
a quelli in minuscola, può a buon diritto essere collocata tra VIII e IX
secolo, visto che nel X è attestata una copia nella elegante e aristocrati-
ca scrittura del tempo, la bouletée (chiamata così a causa delle boules,
ossia le «gocce» di inchiostro alle estremità delle aste). È merito di Car-
lo Maria Mazzucchi aver identificato i protagonisti del Dialogo sulla
scienza politica, e di averne datato la composizione agli anni 532-53369.
I frammenti della Politica appartengono al III e all’inizio del IV libro, e
rendono qualche sprazzo di luce a una fase della tradizione manoscritta
in cui non si è ancora manifestata la divisione nelle due famiglie: le
emergenze del testo di V, in cui quasi sempre mancano distinctio e se-
gni diacritici, ora concordano con la lezione della prima ora con quella
della seconda famiglia70. L’antichità del codice rispetto a tutti gli altri
testimoni è il fattore più rilevante nella recensio testuale; per il resto le
sue lezioni, considerato lo stato frammentario e l’esiguità del confronto
con gli altri manoscritti, risultano in pochi casi dirimenti.
- H il codice Berolinensis Hamiltonianus 41 (397 Studemund) della
Biblioteca Nazionale di Berlino, al pari di V, rappresenta l’esito tardo
(metà del XV secolo) di uno stato della tradizione antico, nel quale la

68
Sin dalla fine del VII secolo la maiuscola è utilizzata pressoché esclusiva-
mente per la trascrizione di testi ecclesiastici: cfr. Cavallo 1977.
69
Nell’edizione critica del De scientia politica dialogus Mazzucchi 2002 ri-
costruisce la composizione dei fascicoli A e B originariamente occupati dal testo
della Politica (pp. X-XII; bibliografia dell’esegesi dello scritto alle pp. XXIII-XXV).
70
Si tratta di un problema filologico diffuso: ne descrive ampiamente un
esempio Matteo Monaco a proposito della tradizione di Eschine (che, a differen-
za di quella della Politica, è arricchita - e complicata - da numerose testimonian-
ze papiracee); cfr. Monaco 2000.

29
LA STORIA DEL TESTO

netta suddivisione delle due famiglie P1 e P2 non si è ancora manifesta-


ta. Il modello di H, in altre parole, doveva essere un esemplare simile
per tipologia e provenienza a V, dato che in esso si leggevano abbon-
danti scolî e annotazioni al testo, traccia – secondo alcuni editori – di
un originario commentario alla Politica. Ma tale modello antico dovette
risultare di difficile utilizzo, o perché mutilo, oppure a causa della sua
antichità, specie nella parte che conteneva gli ultimi libri della Politica.
H, un prodotto di dimensioni considerevoli ancorché non molto esteso
(188 ff.), contiene infatti Etica Nicomachea, Grande etica, Politica, ma
la scrittura dell’ultimo titolo dipende dall’intervento di tre copisti e da
una confezione complessa: fino a VI 4, 1318b 16 lhvmmata è il primo
scriba a realizzare il testo (a Milano, come risulta da una subscriptio a
f. 59v, e si tratta di Demetrio Sguropulo, forse per conto di Francesco
Filelfo, come nel caso di S). Fino a quel punto il testo è affiancato da
numerosi scolî, in inchiostro rosso, vergati dallo stesso copista; oltre
quel punto vengono aggiunti due fascicoli (di solo testo, senza alcuno
scolio), scritti da altri due copisti e contenenti rispettivamente il finale
del VI e gli ultimi due libri. Il terzo copista del codice è più recente
rispetto ai due precedenti, e il tipo di testo trascritto (Pol. VII e VIII)
proviene da un esemplare appartenente alla seconda famiglia della tra-
dizione, non più dal modello utilizzato da Demetrio Sguropulo. Sono
presenti anche scholia più recenti, che Harlfinger ha ricondotto alla
mano del cardinal Bessarione. H spesso è l’unico testimone a porgere la
buona lezione, rispetto a tutti gli altri manoscritti; inoltre, per i primi sei
libri apporta anche una quantità di scholia, utili al riscontro tra testo e
lemma, o tra testo ed esegesi che lo convalidi. Fino al 1810 il codice era
conservato presso il monastero di S. Michele di Murano a Venezia; con
lo scioglimento degli ordini religiosi venne temporaneamente disperso,
per confluire poi nella collezione di Hamilton; dal 1884 è conservato
a Berlino. Il primo editore ad averlo collazionato ed essersi reso conto
del suo valore fu Otto Immisch, che nelle sue edizioni (19091, 19292)
ne fece un pilastro della constitutio textus, oltre a pubblicarne tutte le
varianti e gli scholia.

- Codici deteriori della II famiglia (P4 e altri)


Soltanto per brevità e comodità di riferimento si utilizza la qualifica
di deteriores per i codici meno importanti nella recensio della Politica:
in realtà, a parte gli apografi come Impr Matr W L81,6 (per cui cfr. i
sigla), tutti i testimoni, i loro copisti, committenti, proprietari (senza
dimenticare i lettori che lasciarono il segno, del loro lavoro o della sem-
plice lettura, sulla copia), sono importanti ai fini della storia del testo.

30
LA STORIA DEL TESTO

La datazione di quasi tutti i “deteriori”, seconda metà del XV secolo, e


quindi pieno Umanesimo71, lascia intuire come, a fronte dello sparuto
gruppo dei manoscritti principali più antichi superstiti, l’interesse per la
Politica nell’originale greco sia divampato a metà del Quattrocento, po-
chi anni prima della nascita e diffusione della stampa: l’editio princeps
aldina del 1498 è contenuta nel V volume degli opera omnia, e il testo
della Politica è desunto da un codice (forse di provenienza romana)
poi andato perduto; la stampa di Aldo costituisce dunque un’importante
surroga di un manoscritto non più esistente (ancorché deterior)72. Ma
già nei decenni precedenti si erano interessati alla Politica illustri com-
mittenti, che ne avevano richiesto copia: Federico di Montefeltro, Duca
di Urbino, appassionato scolaro di greco ed entusiasta lettore di Aristo-
tele, subito dopo la metà del XV secolo commissionò il codice Urbi-
nate greco 46 (oggi alla Biblioteca Apostolica Vaticana), che contiene
appunto la Politica, e incaricò poi Donato Acciaiuoli di approntare un
commentario al testo, come aveva già fatto per l’Etica Nicomachea.
Lettore decisamente erudito, studioso del testo e valente filologo è il
cardinal Bessarione, patriarca di Venezia, che in gioventù aveva tra-
scritto di persona almeno una copia integra della Politica73; desideroso

71
Umanesimo anche come età della ricerca di rinnovata cultura politica, che
sollecitava lo studio del testo di Aristotele: «Partendo, com’è giusto, dal Petrar-
ca, potremmo anzitutto affermare che l’Umanesimo nasce come reazione contro
la cultura e la politica (intesa nel senso più lato) contemporanee. Petrarca era
saturo e insofferente di quella filosofia scolastica isterilitasi nella dialettica delle
Quaestiones quodlibetales, ch’egli giudicava astratta e vana schermaglia logica,
priva di vero contenuto, applicata di preferenza alla fisica e alla metafisica, del
tutto inutile all’edificazione dell’uomo e incurante della bellezza letteraria. La
vera filosofia dev’essere – diceva con Cicerone – ars vitae» (Mazzucchi 2002-
2003, p. 16).
72
E dalla stampa furono trascritti altri codici: l’erudito bizantino Costantino
Lascaris, per esempio, completa a Messina nel 1501 la trascrizione dell’Eco-
nomico e della Politica, in un manoscritto che poi finisce in Spagna (è il Matr.
4578), desumendoli per gran parte dalla stampa Aldina (Martínez Manzano
1998, p. 20). Non a caso Lascaris menziona testualmente alcuni passaggi della
Politica nei suoi inediti Prolegomena ad alcuni trattati antichi di retorica (ver-
sione autografa di tali Prolegomena è nei codd. Matr. 4632, ff. 4r-10v e Matr.
4620, ff. 130r-137r).
73
Nel Par. gr. 767 Bessarione copia Politica ed Etica Nicomachea; altri
due codici Parisini (2041 e 2042) contengono antologie di brani da quasi tutti
gli scritti di Aristotele, organizzate e trascritte dallo stesso Bessarione. Dalla
sua biblioteca proveniva inoltre il codice Sinaiticus 2124, contenente la Metho-
dus astrologica di Pletone, la Politica di Aristotele, la Geometria del Pediasimo,
chiose e appunti in latino: fu scritto a Firenze nel 1439 da Teodoro diacono e
notaio «per il metropolita di Nicea». Da Venezia il codice finisce al Monastero
di Santa Caterina del Sinai, probabilmente come dono di Bessarione, o come

31
LA STORIA DEL TESTO

di possedere l’opera completa di Aristotele nella sua biblioteca, com-


missionò un manoscritto monumentale, che contenesse tutte le opere
del filosofo (tranne gli scritti di logica): si tratta del codice Marciano gr.
200, scritto probabilmente a Roma dal celebre copista Giovanni Roso
(che lo terminò il 15 Luglio 1457).

Anche dalla cursoria rassegna dei testimoni appare evidente come


lo studio per costituire il testo critico della Politica si sia sempre av-
valso di documenti eterogenei: due traduzioni medioevali, una di età
umanistica, l’editio princeps, tutti e quattro desunti da codici perduti;
un unico manoscritto antico, ma frammentario (V); due del XIV secolo,
appartenenti a versanti differenziati della recensio (A e P); un codice
del XV secolo che risale però a un versante antico della tradizione (H);
un congruo numero di codici recentiores.
Con le edizioni di Newman e di Immisch, che accordano preferenza
alle lezioni di P2, si è accentuato un contrasto rispetto alla costituzione
testuale di Susemihl, convinto invece della superiorità delle lezioni di
P1. Le revisioni della seconda metà del Novecento (Ross, Aubonnet,
Dreizehnter) ereditano ed esasperano questo parallelo, determinato dal-
la sempre maggiore propensione per la famiglia P2 (e quindi contro
l’impostazione di Susemihl). Gli apparati critici di queste edizioni non
tengono però in sufficiente considerazione l’aspetto diacronico del la-
voro di Susemihl, limitandosi a citare per lo più la stampa del 1872
(ossia la sua prima edizione critica, che affianca al testo greco l’anti-
ca versione latina completa di Guglielmo di Moerbeke). Ma Susemihl
pubblicò, nel 1879, nel 1882, e da ultimo, in collaborazione con Robert
Drew Hicks, nel 1894, altre tre edizioni, con rispettivi apparati critici e
ricorrenti innovazioni nella scelta testuale. I ventidue anni intercorsi tra
prima e ultima stampa segnano soprattutto una marcata attenuazione de-
gli interventi congetturali, della correzione del testo tràdito sulla scorta
delle versioni latine (di Guglielmo, ma anche di Leonardo Bruni), delle
espunzioni di tutto quanto omesso dal ramo P1. Non soltanto: oltre alla
disamina più equilibrata delle lezioni e al maggior rispetto complessivo
per la vulgata del testo, Susemihl recepisce anche le impostazioni e le
eventuali osservazioni di altri editori. In particolare di Newman, che gli
aveva rimproverato eccessiva fiducia nella famiglia P1; in proposito la
risposta di Susemihl, molto equilibrata e coerente, conferma la sua pre-

scambio con altri manoscritti (è plausibile pensare allo scambio, considerato che
nel fondo greco del cardinale restavano comunque due copie della Politica, nei
codici Marc. gr. 200 e Marc. gr. Z. 213 [= 751]). Cfr. Mioni 1991, p. 136.

32
LA STORIA DEL TESTO

cedente impostazione editoriale, e quindi la fiducia nelle lezioni di P1,


nel complesso più vicine all’autenticità (sebbene deteriorate) rispetto
alle presunte innovazioni e aggiunte di P2 74.
Per comprendere meglio la storia della tradizione manoscritta della
Politica, oggi occorre anzitutto domandarsi se le due famiglie medioe-
vali dei codici sono rami di un archetipo, anch’esso medioevale, oppure
sono la continuazione di versanti testuali dell’antichità (in altre parole,
se possono risalire a edizioni dei primi secoli d.C.). Si tratta di due
ipotesi contrapposte, e in entrambe è insito qualche vizio di semplifica-
zione della realtà storica: la teoria dell’archetipo medioevale pretende
di ridurre ogni variazione testuale all’interno di un “sistema chiuso”, in
cui i testimoni possono essere apparentati, singolarmente o per gruppo
di appartenenza, e fatti derivare tutti da un modello unico, a monte delle
varie suddivisioni (risalente al più tardi al IX-X secolo). La teoria della
derivazione delle famiglie medioevali recta via dall’antichità accentua
invece l’autonomia di ogni gruppo di manoscritti: non soltanto di P1 e di
P2, ma anche di V, dell’edizione della Politica letta e in parte trascritta
da Giuliano, dell’esemplare alla base degli scholia di H. A dirimere la
questione (anche se in maniera non del tutto soddisfacente), e a far pro-
pendere per la teoria dell’archetipo medioevale, interviene la categoria
degli errores coniunctivi, ossia di quelle lezioni sbagliate comuni a tutta
la tradizione - testimoni greci e insieme traduzioni latine (di Guglielmo
di Moerbeke e di Leonardo Bruni). È infatti possibile stilare un elenco
di passi in cui il testo unanimemente tràdito non soddisfa, in quanto
palesemente (o molto probabilmente) errato. Per spiegare tale evenien-
za occorre naturalmente postulare un esemplare già corrotto, che abbia
poi trasmesso la corruttela a tutti gli altri; nella Politica i punti critici
di questa gravità sono assai pochi75, e non sempre si può essere certi

74
Basandosi su una distinzione dei testimoni sia cronologica sia quali-
tativa, Susemihl sostiene che nei codici di P2 si legga un testo della Politica
sostanzialmente restaurato in età bizantina, cioè migliorato a posteriori rispetto
al versante più antico, superstite in P1. Da qui egli difende la tesi generale su
un testo bisognoso di numerosi interventi congetturali, poiché trasmesso in
condizioni pessime (Note on the Basis of the Text, in Susemihl-Hicks 1894,
pp. 460-468).
75
Cfr. Dreizehnter 1962, p. 13, e, in generale, il paragrafo Konjekturen und
Varianten, pp. 45-48. Dreizehnter 1970, p. XVI n. 36 fornisce invece un elenco
di lezioni comuni errate (o, quanto meno, considerabili tali), e di tre passaggi in
cui gli editori hanno sospettato una lacuna testuale; le stesse lezioni (alle quali
Dreizehnter affianca la correzione proposta dagli editori e solitamente accettata)
derivano tutte da tipici errori da grafia maiuscola.

33
LA STORIA DEL TESTO

dell’effettiva natura di errore della lezione. Almeno in un’occasione,


per esempio (Pol. II 1, 1260b 41), allorché tutti i codici greci e la ver-
sione latina di Bruni recano un testo errato (ijsovth~ / paritas), complica
il quadro la duplice traduzione latina attribuita a Guglielmo di Moer-
beke, che rende il testo genuino ricostruibile (unus qui unius, ossia ei|~ oJ
th`~, divenuto ijsovth~ per iotacismo in tutti i testimoni greci). In questo
caso occorre scorporare il gruppo P1 dai modelli greci di Guglielmo e
supporre che la buona lezione si fosse salvata soltanto negli esemplari
dello stesso traduttore; tale procedimento, però, oltre a incrinare la qua-
lifica di error coniunctivus per il passo citato, è incongruente con ogni
ricostruzione dei modelli delle antiche traduzioni latine.

3. La componente latina di un testo critico greco: traduzioni medioevali


e umanistiche
Sulla traduzione di Guglielmo non devono pesare né entusiastici
giudizi di totale affidabilità né condanne di totale inaffidabilità. Per lun-
go tempo i meccanismi e le procedure del traduttore antico non sono
stati compresi nella loro funzione; a cominciare dalle traslitterazioni in
scrittura latina di numerose parole e forme greche, semplici o comples-
se, variamente interpretate dai lettori moderni76.
«En traduisant mot à mot, le traducteur fournit des indications pré-
cises sur son modèle. Il y a bien sûr des erreurs de copie qu’on ne peut
imputer au traducteur, et quelques exceptions à cette règle de servilité:
[...] lorsque le modèle est détérioré ou que la construction de la phra-
se grecque lui échappe, le traducteur ose innover»77: questo giudizio,
formulato per un anonimo traduttore della Retorica ad Alessandro, po-
trebbe valere anche per la duplice (a quanto sembra) traduzione della
Politica operata da Guglielmo di Moerbeke?

76
Spesso Guglielmo traslittera, e a distanza di pochissime righe traduce, la
stessa parola greca: «hic quoque universus interpretis usus respiciendus est: ut
verbum Graecum saepe non mutatum versioni inserit, ita idem verbum hic illic
sive apto sive inepto vocabulo Latino interpretari conatur» (Dittmeyer 1883, p.
36, a proposito della versione della Retorica). A Pol. II 6, 1265b 39 ejfovrwn è
tradotto plebeiorum; nella riga successiva ejfovrou~ è semplicemente traslittera-
to ephoros. Altra pratica frequente di Guglielmo è creare concordanza di genere
tra soggetto e predicato (si veda ancora Dittmeyer 1883, p. 34). Oggi sono però
del tutto inaccettabili giudizi sbrigativi e semplicistici come quello di Newman a
proposito della traduzione della Politica: «It is not perhaps quite certain in what
sense this translation was the work of William of Moerbeke. More hands than
one may have been employed upon it: some parts of it [...] show much ignorance
of Greek than others» (Newman 1887, II, p. XLIV n. 1).
77
Chiron 2000, pp. 21 s.

34
LA STORIA DEL TESTO

L’utilizzo in sede critica della traduzione incompleta (G.i. = Guilel-


mi imperfecta translatio) permette di avvalorare un’antica intuizione di
Newman a proposito della differenza tra le due famiglie dei manoscritti
greci. Newman aveva osservato come, tutto sommato, le discrepanze
tra i due gruppi fondamentali di testimoni non fossero molto frequen-
ti né di grande entità; questo giudizio lo induceva a supporre che la
divisione tra i due rami non fosse dunque antichissima. La bontà di
tale ipotesi è corroborata dal confronto di traduzione di G. e di G.i.; i
rispettivi modelli sono stati collocati nell’ambito della I famiglia (tanto
che G, il codice della Politica tradotto per intero, costituiva la colonna
portante di P1 nelle ricostruzioni di Susemihl). Si deve però osservare
che in moltissimi luoghi le traduzioni di G. e di G.i. divergono in quanto
dipendenti da modelli che recavano differente lezione; e la discrepan-
za delle lezioni latine rispecchia quella dei testimoni greci secondo la
tradizionale distinzione in P1 e P2. In altre parole, spesso G.i. sembre-
rebbe ricavato da un esemplare greco vicino a P2. Siccome Guglielmo
di Moerbeke ha avuto modo di lavorare su due (almeno) manoscritti
contenenti la Politica, per lo più affini tra loro (ma, a causa del tipo di
discordanze, non sovrapponibili né apparentabili per filiazione), si può
ipotizzare che di poco precedente alla confezione di quegli esemplari
fosse la spaccatura dei due rami. G.i. quindi potrebbe costituire l’anello
di transizione tra P1 e P2, quando ormai la divisione delle famiglie an-
dava accentuandosi di trascrizione in trascrizione. Al contrario, H e V
sarebbero i discendenti di un versante della tradizione, nella fase in cui
non si era ancora manifestata la spaccatura, piuttosto netta, tra P1 e P2.
Tale ricostruzione è però verificabile soltanto nel confronto sui primi
due libri (poiché la traduzione di G.i. non raggiunge neppure la fine del
II libro, interrompendosi a 11, 1273a 30 strathgouv~)78.
Dreizehnter ha ricostruito la genealogia dei manoscritti della Po-
litica, includendo nello stemma codicum, ‟l’albero genealogico” dei
manoscritti, anche i modelli di G. e di G.i., le due più antiche versioni
latine conservate. In entrambe le raffigurazioni questi esemplari sono

78
Anche Aubonnet, attento più al dato manoscritto specifico che all’appar-
tenenza stemmatica della lezione, scriveva che «Une séparation très ancienne de
ces deux familles et l’affirmation de Susemihl que la première famille remonte à
un archétype des VIe ou VIIe siècle ne peuvent se justifier. En effet, deux docu-
ments présentent un état de la tradition antérieur à celui de tous les autres manu-
scrits, conservés et témoignent de l’existence d’un texte, où les leçons données
par le deux recensions ne sont pas encore dissociées. Ce sont un palimpseste du
Vatican – V – et les scolies d’un manuscrit de Berlin – H –» (Aubonnet 1960,
p. CCIII).

35
LA STORIA DEL TESTO

sistemati in parallelo, e – quel che più conta – esclusivamente all’in-


terno della famiglia P1. Il confronto delle traduzioni e lo studio delle
corrispondenze fa però notare come nel caso di lezione deteriore il rap-
porto P1/G. sia molto più evidente di quello P1/G.i. La traduzione in-
completa di Guglielmo permette confronti limitati ai primi due libri; ma
è significativo elencare i passaggi in cui la differenza di testo greco tra
P1 e P2 sia rispecchiata dalla differenza di traduzione latina tra G. e G.i.
(con una corrispondenza secondo famiglie di manoscritti e traduzioni di
Guglielmo, in cui P1 è in sintonia con G., P2 è in sintonia con G.i.).
- 1253a 3: ejsti è presente in MS (ossia parte consistente di P1) e
in G., assente in P2 (in realtà tutti gli altri codici oltre a MS) e in G.i.:
gli editori lo espungono - 1253a 10: la presenza unica in S della pre-
posizione in e[cei ajpo; tw`n zw/vwn (contro tutti gli altri manoscritti che
hanno e[cei tw`n zw/vwn) ha unico corrispondente nella traduzione di G.
supra animalia (in G.i. solo animalium): si tratta di un dato quantita-
tivo, più che qualitativo, di una sola preposizione aggiunta (neppure
corrispondente tra greco e latino ajpov / supra), che però accomuna
sempre l’asse privilegiato S (elemento di P1)/G. - 1255a 24: a parte
le aggiunte marginali l’opposizione è a{ma (in H, elemento di P2) /
o{lw~ (P1), cui si accompagna quella semper (G.)/omnino (G.i.). Ma
l’equivalenza qui non regge, soprattutto perché semper non traduce né
o{lw~ né a{ma (forse un a{ma corrotto, e letto ajeiv/aijeiv?) - 1255a 36: sul
nome di Elena concordano gli errori di MS e G. (ejlelovgh MS eleloga
G.) - 1256b 1: porivzontai (P2)/komivzontai (P1) è rispecchiato da
acquirunt (G.i.)/ferunt (G.): si tratta di un caso in cui alla totalità dei
manoscritti formanti le due famiglie si oppone seccamente la diffe-
rente traduzione, e spicca la concordanza in errore di P1=G. - 1258b
37: labw`ntai M (testimone importante di P1)/lwbw`ntai (tutti gli al-
tri codici); ma l’opposizione sumuntur G./maculantur G.i. dimostra
che l’errore labw`ntai ha origini remote, risalendo almeno al modello
della traduzione completa; ancora una volta G.i. è la traduzione che
rispecchia la buona lezione dei codici, contro l’asse P1/G. - 1260a 37:
a\ra (P1)/a[ra (P2), ergo (G.)/utrum (G.i.). In questo caso isolato G.i.
traduce P1 anziché, al solito, P2, mentre G. reca la traduzione della
buona lezione contenuta in P1: la corrispondenza abituale è inverti-
ta, ma il dato più interessante è che, comunque traduca, G.i. rechi la
buona lezione; questo significa che il suo modello presentava un testo
meno corrotto rispetto all’esemplare di G., e più vicino a una facies
ʻomogeneaʼ della tradizione manoscritta, quando le opposizioni tra
le due famiglie non si erano ancora accentuate come nei testimoni
superstiti.

36
LA STORIA DEL TESTO

Un elenco di concordanze nella buona lezione non avrebbe di per sé


alcun valore; ma G.i. (pur avendo un modello greco classificato da Drei-
zehnter all’interno della prima famiglia) troppo spesso rende il testo di
P2; G. al contrario rende quasi sempre il testo (diverso ed errato) di P1.
Nonostante il confronto sia possibile soltanto per i primi due libri, si
può concludere che non solo Guglielmo lavorò su due esemplari diversi
della Politica, fornendo all’Occidente medioevale due versioni latine
non sempre sovrapponibili, ma anche che tra quei due esemplari non
intercorreva uno stretto legame di parentela. Se G. (con la sua ricchis-
sima tradizione) rispecchia quasi immancabilmente le deviazioni e le
corruzioni di P1, i pochi codici in cui è stato trascritto G.i. derivano da
un testo della Politica certamente meno corrotto (cfr. la corrispondenza
di 1260a 37), più antico, ossia da un esemplare realizzato quando le
differenze tra P1 e P2 erano minime79. Il quadro si completa con un’in-
dicazione cronologica di massima: Guglielmo avrebbe prima tradotto
il modello contenente soltanto i primi due libri, e poi il testo completo
(presumibilmente in seguito al ritrovamento di un testimone integro). È
stato indicato e ripreso il 1260 quale anno di discrimine tra le due tradu-
zioni, sulla base del confronto tra la versione dell’Historia animalium
(terminata appunto nell’aprile 1260) e quella della translatio imperfecta
della Politica. Poiché la qualità di traduzione dell’Historia animalium
risulterebbe superiore, si è dedotto che il primo esercizio sulla Politica
risalga a un tempo in cui la conoscenza del greco di Guglielmo non era
ancora così solida, comunque prima di quell’anno80.
Ma le traduzioni latine dipendenti da codici greci andati perduti, e
perciò importanti ai fini della ricostruzione testuale, non sono soltanto
quelle di Guglielmo di Moerbeke. Documentata da carteggi, trattati
di argomento specifico sulla ars vertendi, lettere dedicatorie e abbon-

79
G.i. è una traduzione incompleta non perché sia andato perduto il prosie-
guo dei libri III-VIII dell’opera, ma perché il traduttore lavorava su un modello
greco parziale (cfr. nota testuale a II 11, 1273a 30). Può darsi che il codice greco
fosse mutilo perché deteriorato dal tempo (in altre parole, malandato, forse per-
ché molto antico)?
80
Dreizehnter 1970, p. XLII n. 70, ripreso anche da Viano 1992, p. 10 n. 5. Se
si confrontano le lezioni di G.i. con i testimoni greci, anziché cercare paralleli e
differenze nel latino di altre traduzioni, l’ipotesi della versione incompleta si raf-
forza, anziché potersi sbrigativamente relegare G.i. a un tempo in cui Guglielmo
non conosceva ancora bene il greco. Chi si ostinasse a considerare le due tra-
duzioni del Moerbeke dipendenti dallo stesso modello greco dovrebbe spiegare
sia la straordinaria quantità di modifiche del testo latino sia la subscriptio finale
di G.i., in cui il traduttore confessa di non aver reperito nell’esemplare greco i
restanti libri dell’opera (cfr. II 11, 1273a 30).

37
LA STORIA DEL TESTO

danza di tradizione manoscritta e a stampa è la versione realizzata e


pubblicata da Leonardo Bruni tra 1435 e 1438, in principio offerta a
Unfredo di Gloucester, in secondo tempo dedicata al pontefice Eu-
genio IV81. A differenza del contesto eminentemente filosofico della
traduzione di Guglielmo (la cerchia di Tommaso d’Aquino), Bruni
lavora sulla Politica con la convinzione e l’urgenza di chi ha necessità
di un manuale da rendere operativo, di una techne da riscoprire e dif-
fondere perché funzionale alla realtà politica in cui il testo può essere
letto. Non disgiuntamente dalla nuova polemica sulla traduzione dal
greco82, e sul come tradurre Aristotele83, Bruni si concentra sulle ope-

81
«Della traduzione della Politica di Aristotile, iniziata nel 1435, il Bru-
ni parlò in una lettera al Filelfo, scritta da Firenze alla fine del 1435 [...]. Il
Bruni aveva intrapreso la traduzione per esortazione del duca Humphrey di
Gloucester, appena terminato il primo volume lo aveva inviato al Duca per
mezzo di alcuni mercanti, il Duca non ringraziò e non rispose in nessun modo,
allora nel 1438 il Bruni dedicò la traduzione ad Eugenio IV. Nel ms. Vat. lat.
2108 si conserva la lettera di Biondo Flavio al Bruni, dove si riferisce circa
l’accoglienza riservata dal Pontefice alla traduzione, la lettera di dedica al Papa
[...] ed una “Interpretis alia praemissio ad evidentiam rarae translationis” che
precede la traduzione, pubblicata a Venezia negli anni 1504, 1505, 1511, 1517
e a Basilea, 1538» (nota di Aulo Greco alla Vita di meser Lionardo d’Arezo, in
Greco 1976, I, p. 479 n. 2). In realtà, oltre a questa ricostruzione favorevole al
Bruni, grazie al contributo di altre epistole è possibile elaborarne una seconda,
da cui emerge la nuova decisione di dedicare la Politica anche a Eugenio IV
già prima del 1438: «Il curioso di tutta la vicenda è che la Politica, benché de-
dicata ad Eugenio IV nella primavera del 1437, era considerata ancora inedita
nel dicembre dello stesso anno, quando il Bruni scrive le lettere a Barnaba da
Siena, al Frulovisi e con ogni probabilità anche al Mattioli. Si deve insomma
ritenere che egli avesse fatto preparare, fra il 1436 e il 1437, due copie della
Politica: una, offerta al papa, e l’altra, che è la sola di cui parla nelle sue
lettere, destinata al duca di Gloucester e a lui effettivamente inviata nel 1438.
[...] solo dopo la spedizione al duca, il Bruni autorizzò la pubblicazione del
testo, di cui egli stesso inviò un esemplare ai signori di Siena e al re di Napoli»
(Gualdo Rosa 1983, pp. 121-122.).
82
Per una bibliografia su Bruni traduttore dal greco, P. Viti, Profilo ideo-
logico di Leonardo Bruni, in Viti 1996, p. 22 n. 47, ai cui rimandi è opportuno
aggiungere Hankins 1994.
83
Poiché fortemente convinto dell’eleganza della Politica – intesa etimo-
logicamente come stile di scrittura scelto e accurato – Bruni lamenta in più oc-
casioni la sciatteria e le ridicolaggini della resa letterale di Guglielmo di Moer-
beke: «cum viderem hos Aristotelis libros, qui apud Graecos elegantissimo stilo
perscripti sunt, vitio mali interpretis ad ridiculam quamdam ineptitudinem esse
redactos ac praeterea in rebus ipsis errata permulta ac maximi ponderis, laboris
suscepi novae traductionis, quo nostris hominibus in hac parte prodessem»; ob-
biettivo di Bruni è che i conoscitori del latino «non per enigmata ac deliramenta
interpretationum ineptarum ac falsarum, sed de facie ad faciem possint Aristo-
telem intueri et, ut ille in Graeco scripsit, sic in Latino perlegere» (in Baron

38
LA STORIA DEL TESTO

re etico-civili, volgendo in latino prima l’Etica Nicomachea (tra 1416


e 1417) e poi la Politica, quando ormai è Segretario della Repubblica
fiorentina, e percepisce con particolare serietà il compito intellettuale
che si è imposto84. Nel percorso della storia del testo però, la sua ver-
sione interessa particolarmente, poiché si basa su di un modello greco
proveniente da Costantinopoli, e poi andato perduto; doveva trattarsi
di un manoscritto assai vicino, per qualità testuale, ai codici della fa-
miglia P2. Quanto alle modalità con cui Bruni ne entrò in possesso, è
bene lasciare la parola al biografo Vespasiano da Bisticci:

«Essendo in Firenze bonissima notitia delle lettere latine ma non


delle greche, diterminò che l’avessi ancora delle greche, et per que-
sto fece ogni cosa che potè, che Manuello Grisolora, greco, passassi in
Italia, pagando buona parte della ispesa. Venuto Manuello in Italia nel
modo detto col favore di messer Palla, mancavano i libri, ché sanza i
libri non si poteva fare nulla. Meser Palla mandò in Grecia per infiniti
volumi, di libri tutti alle sua ispese, la Cosmografia colla pittura fece
venire infino da Gostantinopoli, le Vite del Plutarco, l’opere di Plato-
ne, et infiniti libri degli altri, la Politica d’Aristotele non era in Italia,
se meser Palla noll’avessi fatta venire lui di Gostantinopoli, et quando
meser Lionardo tradusse la Pulitica, ebbe la copia di meser Palla. Fu
cagione meser Palla per avere fatto venire Manuello in Italia, che meser
Lionardo imparassi le lettere greche da Manuello, Guerino veronese,
frate Ambrogio degli Agnoli, Antonio Corbinegli, Ruberto de’ Rossi,
meser Lionardo Giustiniani, meser Francesco Barbero, Pietro Pagolo
Vergerio, ser Filippo di ser Ugolino [...]»85.

1928, pp. 73-74). Una lettera indirizzata a «un non ancora meglio identificato»
Demetrio è interamente dedicata alla difesa dell’eloquenza e dello stile di Ari-
stotele contro i detrattori e, soprattutto, contro i traduttori latini che ne hanno
scempiato fisionomia e bellezza: è la epistula 4, 22 in Hankins 2007, I, pp. 137-
140; il destinatario è «probabilmente il monaco bizantino Demetrio Scarano»
(Viti 1992, p. 336).
84
A maggior ragione la traduzione deve essere fedele, chiara, univoca: «est
disciplina magna, et accurata, in qua si paululum modo aberraveris, omnia paene
confundantur. Itaque incredibili diligentia opus est ad fidelitatem traductionis.
Et haec fuit michi causa retinendi hos libros diutius in manibus, atque multi
jampridem flagitant, et avide expectant, ut libri edantur» (epistula X 10, in Han-
kins 2007, II, p. 181). Sulla concezione politica di Bruni, a partire dal modello
aristotelico, si veda Dees 1987, centrato sull’analisi dell’opuscolo in greco Peri;
th`~ politeiva~ tw`n Flwrentivnwn, composto in occasione del Concilio di Fi-
renze del 1439, «quasi sviluppo o appendice della traduzione della Politica»
(Viti 1992, p. 195).
85
Dalla Vita di Palla di Noferi Strozzi, in Greco 1976, II, pp. 140-141. Sul
ruolo chiave di Manuele Crisolora, maestro di greco e “importatore” di codici
greci, cfr. Cortesi 1995 (spec. pp. 462-473).

39
LA STORIA DEL TESTO

Gli inventari e le indagini sulla biblioteca di Palla Strozzi86 non


recano alcuna notizia relativa a una copia in greco della Politica di
Aristotele: è presumibile che essa sia rimasta di proprietà di Bruni, e
in seguito alla sua morte sia andata dispersa. Ma sussiste una prova
frammentaria della frequentazione diretta di Palla con il testo della Po-
litica: i primi dieci fogli del codice Laur. Acquisti e Doni 4 Cast (che
contiene Politica, Lettere e Retorica ad Alessandro) sono stati trascritti
da Strozzi; dal f. 10v fino al termine del manoscritto la mano è quella
di Giovanni Scutariota87 (copista di professione, che realizza nel 1494
un’altra copia della Politica per conto di Angelo Poliziano: è il codice
Laur. Plut. 81,6, contenente soltanto questo scritto aristotelico)88. Bruni
non fornisce nessuna notizia del modello greco utilizzato per la tra-
duzione, né dell’eventuale utilizzo di altri esemplari di collazione, a
differenza di quanto si legge solitamente89.

86
Fiocco 1964. Cfr. inoltre Sambin 1958, pp. 371-373, e Gregory 1981, pp.
183-185. Palla Strozzi (1372-1462) nel 1434 fu esiliato da Firenze in seguito
alla presa di potere da parte dei Medici, e si ritirò a Padova; Giovanni Argiropu-
lo e Andronico Callisto, che aveva fatto giungere da Costantinopoli, dovettero
probabilmente seguirlo; sulla cerchia intellettuale di Palla si veda Legrand 1885,
pp. L-LI. Nella sezione del suo testamento dedicata ai libri non si fa menzione
della Politica di Aristotele, né tra i titoli destinati «a Sancta Trinita» o ai figli
né tra quelli da alienare; però nell’Inventario de’ libri di messer Palla di Nofri
[sic] Strozzi, latini, grechi et volghari, fatto a dì XXIIII d’agosto [1431] (Fiocco
1964, pp. 306-310) al n. 219, in un gruppo di titoli aristotelici (senza però no-
men auctoris, a differenza dei nn. 136-138, De animalibus, Ethica, Fixicha, de
anima, de generatione et corruptione, preceduti dalla specificazione Aristotelis),
compare l’indicazione «Politicorum»: è evidentemente il codice di Crisolora poi
utilizzato da Bruni.
87
È una supposizione (Vermutung) di Dreizehnter 1970, p. XXIV (convalidata
da Dieter Harlfinger), che la scrittura dei ff. 1-10 sia di Strozzi. Il Laur. Plut.
81,6 risulterebbe comunque, secondo Schneider, un apografo dell’Utinensis VI
5 (258), ossia E: cfr. Schneider 1973, pp. 337-338.
88
Il manoscritto utilizzato da Bruni discendeva certamente dall’ambito
della II famiglia, e probabilmente era stato confrontato e contaminato con altri
esemplari (appartenenti alla I famiglia, secondo il fenomeno già notato). Piena-
mente condivisibile è l’ipotesi sulla qualità di tale modello, riassunta da Franz
Susemihl nella praefatio alla sua prima edizione del 1872: «Leonardus Aretinus
interpres interdum Latine reddidit quae ut a maiore codicum parte deflectunt ita
cum Guilelmi translatione concinunt, ut is quoque codice similem in modum
emendato haud dubie usus sit» (Susemihl 1872, p. XIV).
89
Nella sua fondamentale History of Classical Scholarship Sandys dedica
un breve paragrafo a Leonardo Bruni, e si concentra sulla traduzione in latino
della Politica, precisando che «For this work he used a MS of the Politics obtai-
ned from Constantinople by Palla Strozzi, probably comparing therewith the
MS in possession of his friend Filelfo. [...] Bruni describes the original as an
opus magnificum ac plane regium, and he had good reason to be proud of a free
and flowing version that made the Greek masterpiece intelligible to the Latin

40
LA STORIA DEL TESTO

La straordinaria diffusione della Politica nella traduzione di Bruni90


offuscò già dalla metà del XV secolo l’interesse per la vetusta interpre-
tatio di Guglielmo; anche grazie alla polemica sul metodo (tradurre ver-
bum e verbo, o piuttosto de facie ad faciem, per riprendere un’espres-
sione di Bruni) e alle rivendicazioni stilistiche e retoriche dello stesso
Bruni91, gli studiosi, ben presto anche i commentatori e gli editori del
testo, utilizzarono quale termine di confronto quasi esclusivamente la
nuova traduzione. Al pari di quella medioevale anch’essa influì forte-
mente nelle scelte editoriali delle età successive: allorché la facies del
latino di Bruni si discosti dal testo dei manoscritti greci alcuni editori

scholars of Europe» (Sandys 1908, p. 46). In tale passaggio sono contenute due
inesattezze: nella prima parte la collazione con la copia della Politica in greco
di proprietà di Filelfo (che la possedeva sin dall’inverno 1428/1429, periodo del
suo ritorno in Italia dalla Grecia) è frutto di lettura frettolosa di una brevissima
lettera scritta da Bruni allo stesso Filelfo, di cui conviene riportare la conclusio-
ne: «Aggressi nempe sumus post discessum tuum Aristotelis Politicorum libros
perficere, quos, ut scis, traducere jampridem coeperamus. In his nunc versatur
plurimum cura et cogitatio nostra. Vale» (Bruni, Ep. 6, 11). Siccome alla fine del
1429 Filelfo è a Firenze e si intrattiene con Bruni, Oncken espresse il sospetto
che il primo manoscritto della Politica in greco giunto in Italia fosse appunto
quello dell’umanista di Tolentino, passato poi nelle mani di Palla Strozzi e di
Bruni (Oncken 1870-1875, pp. 78-79). Si tratta di un’inferenza illegittima, per-
ché Bruni, a proposito del suo lavoro di traduzione e del momento in cui Filelfo
è ripartito da Firenze, scrive che ora deve concludere (post discessum tuum ...
perficere) quanto intrapreso tempo prima (jampridem traducere coeperamus).
Che poi lo stesso Filelfo avesse recato con sé in quel viaggio a Firenze la sua
copia della Politica è pura immaginazione. Nella seconda parte del passaggio
riportato Sandys è ambiguo nel riferirsi a the original, descritto da Bruni come
opus magnificum, ac plane regium. The original, a questo punto, parrebbe indi-
care l’esemplare greco utilizzato da Bruni; si tratta invece dell’originale della
sua traduzione latina, inviata con dedica al pontefice Eugenio IV. La citazione è
infatti tratta da una lettera di Bruni a Biondo Flavio, in cui il traduttore, a opera
compiuta, illustra i contenuti della Politica e l’intenzione di dedicarla al papa;
l’iperbole della definizione dell’opus, da ultimo, non si riferisce al manoscritto,
ma al contenuto del testo e all’importanza dello scritto: se si prosegue oltre le pa-
role trascritte da Sandys, la definizione completa dell’opus (che è la traduzione, e
quanto da essa si può apprendere, non un fantomatico original) giustifica la dedi-
ca: «et profecto dignissimum, quod Summo Pontifici dedicetur, quondoquidem
tota ejus libri materia est de rectione populorum» (Bruni, Ep. 8, 1).
90
Hankins 1994, p. 166, ha censito 206 manoscritti e 51 edizioni a stampa.
91
Nel De interpretatione recta Bruni si sofferma sui caratteri stilistici pecu-
liari della Politica, indicando un Aristotele crebrior e ritrovando una piacevolez-
za tipicamente oratoria in più punti della trattazione: «In libris vero Politicorum
multo crebrior est. Quod enim materia est civilis et eloquentiae capax, nullus
fere locus ab eo tractatur sine rhetorico pigmento atque colore, ut interdum etiam
festivitatem in verbis oratoriam persequatur» (il testo si legge in Viti 1996, p.
174).

41
LA STORIA DEL TESTO

sono stati tentati dalla retroversione in greco; le edizioni ottocentesche


conservano ancora qualche traccia degli aggiustamenti “guidati” a ri-
troso dalla traduzione di Bruni. Del resto essa condivide un carattere
importante con l’antica versione di Guglielmo, ossia di dipendere da
un modello perduto; e spesso le velleità di ricostruzione filologica di un
manoscritto perduto hanno prevalso sulla disamina oggettiva di tutti i
testimoni superstiti.
Pubblicata in tempi assai più recenti (1548) ma comunque impor-
tante anche ai fini dell’indagine critica è la traduzione latina di Juan
Ginés Sepulveda. A differenza di quanto si potrebbe supporre, Sepul-
veda non si è basato sul testo dell’edizione Aldina (o meglio: non su di
esso in primo luogo), perché nella Praefatio rivolta al principe Filippo
(allora reggente di Spagna per conto del padre Carlo V, poi Filippo II)92,
rivela di aver utilizzato più esemplari, studiati in varie città italiane, se-
lezionati con il criterio della correzione, o meglio del grado di emenda-
tio che le versioni della Politica presentavano. Purtroppo non fornisce
alcun dato preciso relativo ai manoscritti utilizzati, perché, ricordando
la sua carriera di traduttore aristotelico, si limita a scrivere: «eiusdem
philosophi libris, quos Bononiae, Romaeque in mea viginti duorum
annorum Italica peregrinatione latinate donaveram [...] castigatorum
exemplarium fidem secutus converti»93. Ancor più della traduzione in-
teressano gli Scholia di cui Sepulveda la correda, e in cui giustifica
scelte sulla base dei testimoni utilizzati, scartando di volta in volta le-
zioni deteriori e vulgate a favore di un testo più affidabile (perché tratto
da codice più antico), oppure di correzioni (non sue, ma ritrovate negli
esemplari stessi). Quella di Sepulveda è dunque la prima traduzione
latina desunta da più esemplari greci (perduti, o comunque non iden-
tificati con nessuno dei testimoni superstiti), in cui la contaminazione
delle fonti è parallela alla segnalazione di varianti e di correzioni. Ai
fini della constitutio textus, quale valore sarà opportuno attribuire agli
interventi migliorativi testimoniati dal solo Sepulveda? In assenza di
notizie precise sui testimoni consultati e sull’origine delle lezioni in
questione, resta il sospetto che Sepulveda intendesse come varianti e
antichi interventi di copista note, correzioni, congetture in realtà uma-

92
Sepulveda fu tra i precettori di Filippo per volontà di Carlo V: «Altri
precettori del principe furono Honorato Juan de Valenza [...], e Juan Ginés Se-
pulveda di Cordova, che Carlo V nominò nel 1536 suo cronista, cioè storico
ufficiale del suo Impero. Si trattava in entrambi i casi di studiosi assai autorevoli,
profondamente dotti nelle lingue e culture greca e latina» (Gerosa 2006, p. 396).
Sulla sua opera si veda la recente rassegna di Solana Pujalte 2005.
93
Sepulveda 1548, s. i. p.

42
LA STORIA DEL TESTO

nistiche. Questa possibilità è altissima quando la variante sia ricondotta


a emendatiores exemplares (come accade, per esempio, per ei|~ oJ th`~ al
posto del tràdito ijsovth~ di 1260b 41); è meno alta quando Sepulveda
accredita la sua variante ricorrendo alle formule «ut in vetustis legitur»,
«in codicibus antiquis», e simili94.
L’utilizzo delle traduzioni latine in sede critica, e quindi il ricorso
alla retroversione migliorativa, prende avvio con la seconda edizione
a stampa del testo completo, pubblicata da Pier Vettori a Firenze nel
155295, e non cessa nella storia delle edizioni successive; anzi, il culmi-
ne di tale pratica, come si è già registrato, è rappresentato dalle prime
due edizioni critiche di Franz Susemihl (1872 e 1879).

4. L’idolo della ricostruzione testuale: macro e microstrutture


Basandosi su una corposa serie di correzioni, congetture, modifiche del
testo risalenti al XVI e XVII secolo, la tradizione editoriale ottocentesca
plasma progressivamente un testo della Politica uniforme alle lezioni della
prima famiglia di codici (P1, oggi considerata di secondaria importanza)
e alle traduzioni latine di Guglielmo e di Bruni. Questa tendenza, in sé
molto coerente, ma indifferente alla storia del testo documentata dal resto
dei testimoni, raggiunge il culmine nella prima delle edizioni di Franz Su-
semihl (1872): l’editore porge sinotticamente al lettore il greco di Aristotele
e il latino di Guglielmo, opportunamente restaurati (il primo con l’aiuto
del secondo) perché siano armonizzati tra loro e non stridano: come se il

94
Il rimando all’autorità degli antichi esemplari è pratica filologica che già
gli autori antichi praticavano, sia per controllare grafie e lezioni sia per compren-
dere quale potesse essere il testo originario (anche non in presenza dell’origina-
le, ossia la copia autografa o dettata dall’autore). Quintiliano, per esempio, con
formule che diverranno di riferimento, «ut ex veteribus eius libris... in veteribus
libris», stabilisce le grafie corrette in passi di Catone il Censore contro correzioni
di copie più recenti. Cfr. Quint. Institutio oratoria I 7, 22; IX 4, 39. Sul problema
si veda il recente contributo di Pecere 2007.
95
Una lettura pubblica della Politica venne sollecitata a Vettori da parte di
suoi allievi: cfr. Mouren 2007 (in particolare p. 490 e n. 72). Ma non si tratta di
novità assoluta: già nelle biografie di Vespasiano da Bisticci era data notizia di
più corsi e cicli di lezioni sulla Politica (dalle ricerche di codici di Palla Strozzi
all’insegnamento di greco di Emanuele Crisolora ai corsi specifici sul trattato
aristotelico di Donato Acciaiuoli, dietro insistenza di Federico da Montefeltro).
Sulla biblioteca di Vettori, la sua consistenza, i suoi spostamenti, si veda Ha-
jdú 2002, pp. 81-90 (cfr. inoltre i sigla III.). Bandini ricorda che nella recensio
dei testimoni Vettori fu aiutato da monsignor Della Casa, al quale l’edizione
è dedicata: «L’anno susseguente [scil. 1552] colle stampe de’medesimi Giunti
fece vedere la Politica di Aristotele diretta al suo amicissimo Monsig. Gio. della
Casa, da cui aveva ricevuto grandissimi ajuti nel ridurre sul riscontro di ottimi
testi quest’opera alla sua vera lezione» (Bandini 1757, pp. 189-190).

43
LA STORIA DEL TESTO

testo greco di Aristotele debba corrispondere alla traduzione latina del XIII
secolo. Come già nelle edizioni di Bekker e di Goettling, anche in quella
di Susemihl scarsa attenzione è riservata al dato linguistico e alla specifi-
cità attica del greco aristotelico; interessa piuttosto correggere, a norma di
grammatica, tutti i passi in cui la sintassi dei casi e dei modi verbali (per
citare le categorie più ricorrenti di presunta anomalia) non corrispondano
alle attese del lettore erudito. Ma oltre alla frequenza delle correzioni e del-
le congetture invasive (che interessa la restituzione della maggior parte dei
testi greci editi nel corso del XIX secolo), alla Politica sono state applicate
macrostrutture, specie per quanto concerne la successione dei libri.
Se correzioni e aggiustamenti formali rientrano nell’ambito di modi-
fiche microstrutturali apportate al testo tràdito, intervenire sull’ordine dei
libri in seguito a considerazioni esegetiche e storico-filosofiche significa
mortificare un dato unanime della tradizione, visto che tutti i manoscrit-
ti riportano la stessa successione degli otto libri, spesso con evidenza di
lemmi e didascalie96. La dislocazione di libri in sede diversa da quella in
cui la tradizione manoscritta li ha consegnati obbedisce a una serie di os-
servazioni concernenti la struttura e i contenuti dell’opera. La modifica
può avere valore logico-tassonomico, e contribuire alla sistemazione più
organica e omogenea del materiale raccolto da Aristotele di libro in libro;
in determinati casi è stato dimostrato che la composizione di un libro è
precedente a quella di un altro libro, che nei testimoni precede anziché se-
guire. Ma, in definitiva, lo spostamento dei libri cozza contro il dato una-
nime della tradizione, e non ha altra funzione che quella di assecondare
le esigenze del lettore moderno97. Una delle acquisizioni filologiche più
importanti del XIX secolo relativamente al testo aristotelico fu la consa-
pevolezza che incongruenze, aporie, iterazioni o anomale disposizioni del
corredo argomentativo dipendessero dalla natura funzionale e didattica di
molti scritti superstiti del corpus; il merito va in particolare rivendicato alle
due versioni di un saggio fondamentale di Werner Jaeger: quella latina di
Emendationum Aristotelearum Specimen (1911) e quella tedesca di Studien

96
Anche nel palinsesto Vaticano del X secolo (Vat. gr. 1298, II V) a cavallo
tra f. 302r e 302v termina il libro III e inizia il IV, come in tutti i manoscritti più
recenti: Susemihl, nelle sue edizioni, ha dislocato il IV libro dopo il VI, facendo
seguire al III direttamente il VII.
97
Newman 1887, II, p. XL, ricorre a un’ipotesi “separativa” per spiegare il
“disordine” dei libri nei testimoni manoscritti: quarto e quinto libro sarebbero
circolati autonomamente, separati dal resto dell’opera, e in una fase di ricosti-
tuzione dell’unità sarebbero stati collocati in posizione errata. Si vedano poi il
paragrafo Dislocations and Double Recensions, in Susemihl-Hicks 1894, pp.
78-97, e il contributo di Mesk 1916.

44
LA STORIA DEL TESTO

zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles (1912). Jaeger


«comprese che lo stato del testo aristotelico, da lui magistralmente descritto
nelle Studien da un punto di vista puramente filologico, era il prodotto di
un lungo e ripetuto lavoro sui problemi e delle esigenze dell’esposizione
orale, come mostravano, oltre alla Metafisica, anche le Etiche e la Politica,
e concepì dunque l’idea dell’evoluzione del pensiero di Aristotele»98.
La seconda metà del XIX secolo (che equivale a indicare la reite-
rata applicazione di Franz Susemihl al testo della Politica) si esercita
invece nella ristrutturazione logico-razionale del trattato, quindi in una
collocazione dei suoi blocchi diversa rispetto a quella (unanime) della
tradizione manoscritta. Può essere utile sintetizzare in tabella le dislo-
cazioni operate da Susemihl nel corso delle sue edizioni99:

N. di Successione e numerazione dei libri:


libro
- nei - in Susemihl1 - in Susemihl2 e 3 - in Susemihl4-
manoscritti (1872) (1879 e 1882) Hicks (1894)
1. A A A A
2. B B B B
3. G G G G
4. D Z (segnato come D) H (segnato come D) H (VII, segnato
come IV)
5. E H (segnato come E) Q (segnato come E) Q (VIII, segnato
come V)
6. Z D (segnato come ı) D (segnato come Z) -
7. H ı (segnato come Z) Z (segnato come H) -
8. Q E (segnato come H) E (segnato come Q) - 100

98
Berti 2008, p. 27. La tesi di Jaeger sulla composizione non di libri necessa-
riamente collegati in modo organico, ma di methodoi unitarie è stata ripresa e rie-
laborata dalla minuziosa analisi di Schütrumpf 1991, I (alle pp. 39-67 il già citato
capitolo Stellung und Verhältnis der Bücher bzw. Buchgruppen): «Nicht Bücher
der überlieferten Einteilung, sondern methodoi sind die schriftstellerischen Ein-
heiten. Nur bei den Büchern Pol. I, II, III und VI gab es eine Kongruenz von me-
thodos und Buchrolle. Jaeger wagte aber nicht so weit zu gehen, die Verteilung der
beiden anderen methodoi auf je zwei Rollen, d. h. die heutige Buchtrennung IV zu
V bzw. VII zu VIII Aristoteles selber zuzuschreiben» (pp. 41-42; alle stesse pagine
si rimanda per la discussione della ricostruzione jaegeriana di tutta la Politica).
99
Analogo schema, dedicato alle edizioni di Schneider, Bekker, Newman,
è già in Immisch 1929, p. VII. Sul problema “storico” dell’ordo librorum si veda
il paragrafo L’ordine dei libri: Antonio Scaino da Salò, in Besso, Guagliumi,
Pezzoli 2008, pp. 159-160.
100
Il testo dei libri IV, V, VI in questa edizione non compare.

45
LA STORIA DEL TESTO

5. Per un ritorno alla tradizione manoscritta


Già si è accennato al notevole credito offerto da Susemihl alla tra-
dizione critica precedente, in particolare per le sue prime due edizioni
della Politica (1872 e 1879). Il rapporto dell’editore con il testo aristo-
telico, nonostante la messe di dati manoscritti e di varianti a disposizio-
ne, resta teso all’ambizione di ricostruzione (anche stilistica), impedita
dalle cattive condizioni dei manoscritti, e quindi bisognosa di conget-
ture e correzioni da parte dell’editore. Il ritorno alla tradizione mano-
scritta – sempre prediletta rispetto ai tentativi (anche geniali, ma pur
sempre tentativi) di ricostruire modelli perduti e vagheggiati subarche-
tipi – va misurata nella totalità della recensio, estesa anche ai testimoni
delle antiche traduzioni latine. Per questo motivo si noterà subito come
dall’apparato critico della presente edizione siano scomparse (se non
in citazione da precedenti editori) le sigle g e G, che indicavano ipso
facto i contenuti dei perduti codici utilizzati da Guglielmo di Moerbeke
per le sue due traduzioni, e che godevano (nel riferimento alla lezione
ricostruita) della massima considerazione ai fini della constitutio textus.
Poiché l’apporto delle versioni latine (di Guglielmo e di Bruni soprat-
tutto, ma in secondo grado anche di Sepulveda) rappresenta il momento
più difficile della recensio, è bene precisare il limite di considerazione
di tali traduzioni nelle scelte critiche. Non si vuole affatto negare credi-
to e importanza alle antiche versioni della Politica: in alcuni passaggi la
tecnica della retroversione permette di correggere in modo palmare un
errore della tradizione (il caso più evidente è la corruzione ad apertura
del II libro, 1260b 41, in cui ei|~ oJ th`~ è ricostruito grazie a Guglielmo:
tutti i codici greci hanno l’errore di iotacismo e di mancata distinctio
ijsovth~). Si vuole invece sollevare un dubbio sulla sistematicità della
retroversione, operata e adottata ogni qual volta le traduzioni antiche si
discostino dal testo greco tràdito; è evidente come la prima e la seconda
edizione di Franz Susemihl siano un prodotto del metodo e della filolo-
gia positiva della Germania di metà Ottocento (se non, per meglio dire,
del Positivismo tout court; a meno che agisse ancora, a livello incon-
scio, il preconcetto umanistico della superiorità dei Latini sui graeculi,
cioè di illustri traduttori ed editori su ignoti copisti medioevali). Ma la
persistenza di tale metodo in alcune edizioni novecentesche, unitamen-
te all’incessante accoglienza di correzioni e interventi migliorativi (del-
lo stile o dei contenuti, a seconda delle esigenze personali: si vedano in
particolare testo e apparato di Ross) appare oggi assai opinabile. Le le-
zioni ricostruite ricorrono con discreta frequenza, ma sono sempre pre-
sentate come tali in apparato, quale ipotetica retroversione o congettura
(utile per comprendere errori e genesi di variante); non sostituiscono

46
LA STORIA DEL TESTO

mai l’autentica lezione latina (giusta o sbagliata che essa sia) trasmessa
nei codici di G. e di G.i.
Gli editori hanno di volta in volta identificato gli accordi in errore
dei vari testimoni, singolarmente o per famiglia; a queste tipologie si
aggiunge il riscontro (o il dissenso) tra le traduzioni latine e il testo
greco dei manoscritti. Le varie eventualità sono così esemplificate nelle
edizioni otto-novecentesche: 1) Lezioni ricostruite dalla versione latina
di G., distinte e (a detta dell’editore) superiori al resto della tradizio-
ne greca (Sus.1 pp. V s.). 2) Lezioni ricostruite dalla versione latina di
Bruni, distinte e (a detta dell’editore) superiori al resto della tradizione
greca (Sus.1 pp. XV s.). 3) Vestigia di P1 nella traduzione di Bruni (cioè
nel suo modello) coincidenti con lezioni isolate di codici della famiglia
P2 (Sus.2 pp. VI s.). 4) Consensus del gruppo P1 con alcuni codici di P2
(Suse.3 pp. VII s.). 5) Concordanza delle lezioni di P1858 ora con il gruppo
P1 ora con quello P2 (Sus.3 pp. IX s., Sus.4 pp. 76 s.). 6) Esempi di buone
lezioni ricavabili o da G. soltanto, o da G. insieme ad altri testimoni
(dell’originale greco) isolati, o da G. e da Bruni (Sus.4 pp. 462 s.). 7)
Buone lezioni del gruppo P1 (Sus.4 pp. 465 s.). 8) Discrepanze interne
alla famiglia P1 (incluso il modello perduto di G.: Sus.3 pp. X s.). 9)
Ross riporta un nutrito elenco (soltanto numerico, però) di concordan-
ze possibili tra ABVHMP e G (il modello perduto di G.), separandole
in sette insiemi. Dal semplice ammontare numerico delle concordanze
(288 tra AB, 60 tra PH, per citare il numero massimo e quello minimo),
l’editore inferisce che AB fanno parte della stessa famiglia, che MP e
il modello di G. lo sono dell’altra, che HV concordano assai più con
la famiglia di AB (cioè P2) che non con l’altra. Sulla base di questi
dati Ross, con la disposizione di chi vuole mediare tra diverse ipotesi
e riconoscere a buon diritto i meriti delle precedenti edizioni, ribadisce
l’esattezza della distinzione in due famiglie (teoria di Susemihl) e della
superiorità di P2 contro P1 (teoria di Newman-Immisch). Per mezzo
dello stesso criterio quantitativo Ross fa ancora notare che, siccome
V concorda con P2 più che con P1, nei casi in cui tra le due famiglie
e V la lezione discordi, egli ha scelto quella del codice Vaticano (Ross
p. VI). 10) Elenco delle lezioni di P2 preferibili a quelle di P1 secondo
Newman (Newman, 1987, II, pp. LVI-LVIII). Tutti questi elenchi configu-
rano rispettive ipotesi di lavoro, in base alle quali si possono compren-
dere le scelte operate dagli editori; più che preordinare tali scelte, però,
sarà opportuno esaminare ogni problema nella sua specificità testuale,
nell’ambizioso tentativo di rendere chiaro (safhnivzein) Aristotele con
il testo stesso di Aristotele.

47
LA STORIA DEL TESTO

6. Criteri della presente edizione

a) Codici e raggruppamenti
Risulterebbe molto difficile, oggi, disconoscere la maggiore complessità e
ricchezza della famiglia P2 rispetto alla prima. Ma questo non implica necessa-
riamente che si debba operare la scelta delle lezioni esclusivamente sulla base
della famiglia di appartenenza; il testo di H e di V è irriducibile all’opposizione
secca P1 / P2; è invece opportuno discutere i singoli luoghi di volta in volta, ed
evitare così automatismi e determinazioni di ordine puramente stemmatico o
meccanico. Anche perché, per riprendere parole di Matteo Monaco sulla tradi-
zione di Eschine, tra i gruppi di testimoni per lo più «si ha a che fare con un sot-
tobosco testuale di divergenze minime (inversioni nell’ordo verborum, aggiunte
od omissioni di poco momento, utilizzo di forme – verbali, aggettivali, pronomi-
nali – sostanzialmente equivalenti), a tal punto che, per un editore, la scelta della
lezione poziore è sempre problematica e raramente può poggiare su basi d’as-
soluta certezza»101. Allo stesso modo, nel nome di una cautela critica finalizzata
alla conservazione (e, ove possibile, alla valorizzazione) della tradizione, non si
è proceduto alla meccanica cassazione dei codici deteriori e delle loro varianti
e deviazioni (la eliminatio lectionum singularium): l’apparato anzi registra tutte
le principali emergenze testuali rispetto alla versione scelta, affinché il lettore si
renda conto con dati oggettivi (le lectiones) per quali motivi classificare alcuni
testimoni come primari, e altri come deteriori.

b) Scelte ortografiche e fonetiche


- (1) Le attestazioni lessicografiche e la comparazione con lo stile degli au-
tori attici contemporanei di Aristotele (perfetto contemporaneo è Demostene) in-
ducono a credere che usuali abitudini grafiche ricorrenti nelle edizioni (le grafie
givnomai per givgnomai, oujqev per oujdev, etc., ossia l’opposizione della versione di
koinh; diavlekto~ a quella tradizionale attica) restituiscano effettivamente la fa-
cies dei codici manoscritti più antichi, anche se gli editori aristotelici non si sono
concentrati troppo spesso sull’aspetto prettamente linguistico del testo tràdito102
(forse anche a causa del dato geo-linguistico: Aristotele, nativo di Stagira, non
si sarebbe espresso in perfetto attico, pur vivendo e insegnando ad Atene). Nel
caso della Politica questa situazione è solo in parte confermata dalle varianti
formali dei manoscritti. Mentre in tutto il resto della tradizione di quest’opera
dilaga la grafia di uso ellenistico, la famiglia P1 tende infatti a ricostruire il più
possibile le forme attiche; a volte la tradizione è unanime nel porgere queste
ultime, come altre volte è unanime nella grafia della forma recentior. Questo si-
gnifica molto probabilmente che il gruppo MPS conserva non già un aspetto più
antico, ma consistenti tracce di una normalizzazione grammaticale diffusa (pa-
rallela al sostanzioso restauro testuale operato da un grammatico, che è alla base
della diramazione in due famiglie; in età moderna analogo restauro linguistico è
realizzato dall’edizione di Bekker); in P2 (dunque anche nel gruppo dei codici
deteriori) si è invece mantenuta la convivenza di forme diverse. La questione

101
Monaco 2000, p. 6.
102
Sulla questione, soprattutto Renehan 1992, p. 720; per il problema dello
iato in Aristotele cfr. invece Hicks 1890.

48
LA STORIA DEL TESTO

non è mai stata affrontata direttamente dai precedenti editori della Politica, che
di fronte a varianti linguistiche scelgono per lo più le forme ellenistiche. Pur
essendo disponibile l’appoggio dei documenti (nella famiglia di codici, però, di
secondaria importanza P1), non è possibile mantenere a testo sic et simpliciter la
grafia attica, considerato il massiccio intervento correttivo subìto dai testimoni
che presentano tali forme. Aristotele, del resto, vive nella generazione in cui
la prosa attica è già divenuta un mezzo di espressione universale, in grado di
mediare tra tutti i particolarismi linguistici delle varie città greche; la sua lin-
gua, di straniero naturalizzato ad Atene, deve probabilmente conservare forme
miste e coesistenti, avviandosi a quella normalizzazione morfologica (la koinh;
diavlekto~, appunto) che ha nella prosa di Polibio uno degli esempi maggiori103.
Pertanto, nei casi di opposizione tra P1 e P2, a prevalere sarà ancora una volta la
seconda famiglia; in altri casi di opposizione d’uso tra lingua attica e lingua co-
mune ellenistica (per esempio metav / suvn et similia) la scelta dipende dallo spe-
cifico ventaglio di varianti nei manoscritti, di volta in volta ricordato in apparato.
- (2) Alternanza ou{tw / ou{tw~: conformemente alla tendenza pressoché costante
dei manoscritti, ou{tw~ è segnato soltanto quando seguito da iniziale vocalica o
da segno di interpunzione forte (punto alto o basso); in tutti gli altri casi è ou{tw
(cfr. Schwyzer 1939, I, pp. 406 b, 409 Zusatz 5); lo stesso criterio serve a con-
fermare la presenza di -n efelcistico, anche se le attestazioni dei manoscritti si
presentano meno soggette alla regola (per cui si veda ancora Schwyzer 1939, II,
pp. 405-406). - (3) Alternanza e[sti / ejstiv: l’orientamento della scelta è di volta
in volta determinato dalla disamina della situazione manoscritta documentata in
apparato (sulla questione, ancorché riferiti specificamente a Platone, si vedano
Duke 1995, p. XX n. 30, Martinelli Tempesta 2003, p. 115). - (4) Alternanza aijeiv
/ ajeiv: la forma ajeiv inizia a prevalere nelle iscrizioni attiche risalenti al 361 a.C.
in poi (Meisterhans 1888, pp. 14, 64, Threatte 1980, pp. 275-276); considerata
però l’unanimità della tradizione di aijeiv limitatamente a pochi casi (1266a 28,
1273b 19, 1276a 36, 38, 1281a 32, 1286b 18, etc.), lì il testo conserva la forma
con il doppio dittongo (scelta già codificata in Newman 1887, II, p. 82).

c) Punteggiatura
Le difficoltà esegetiche poste dal testo aristotelico possono essere osservate
anche in parallelo alla complessità con cui il periodo risulta strutturato: le ar-
gomentazioni e il procedere del ragionamento inducono Aristotele a formulare
continui corollari, digressioni, enumerazioni asindetiche rispetto alla proposi-
zione principale, che si trasformano in propaggini sintattiche (a volte difficil-
mente controllabili). Gli editori, sin dal XVI secolo, hanno tentato di rendere
più agevole la lettura del testo greco con un procedimento di gerarchizzazione
interna delle idee: per isolare corollari, parallelismi, esegesi di una locuzione o
di un termine, in modo che il lettore potesse seguire il percorso principale del
testo (nella relativa sintassi) senza smarrirsi in precisazioni e chiarimenti, sono
state utilizzate le parentesi tonde, un segno diacritico «ignoto alla tradizione
ellenica»104. La presenza delle parentesi (di indubbia utilità sul piano della com-

103
Papanastassiou 2007 e Kaczko 2008; per lo specifico semantico della
lingua di Aristotele, Kotzia 2007.
104
Mazzucchi 1997, p. 138 (si tenga conto anche di Mazzucchi 1979). In
sostituzione delle parentesi, «poiché è familiare al greco il concetto di “inciso”»,

49
LA STORIA DEL TESTO

prensione) pone però un duplice problema critico: 1) è inframmezzato al testo


greco un segno diacritico estraneo alla punteggiatura e ai segni convenzionali
della lingua antica; 2) la demarcazione testuale a mezzo di parentesi stabilisce un
testo primario, caratterizzato da sintassi-guida, e un testo secondario (contenuto
all’interno delle parentesi, quasi fosse di minore importanza); la posizione di tali
confini qualitativi è inoltre arbitraria rispetto al dettato aristotelico come conser-
vato nei manoscritti. Alois Dreizehnter, pubblicando nel 1970 l’ultima edizione
critica della Politica, ha deciso di interrompere la pratica delle parentesi, che
si ripetevano di edizione in edizione (quasi senza mutare), e di ristabilire una
punteggiatura ordinaria e storicamente plausibile rispetto al testo greco. Anche
la presente edizione adotta la scelta di Dreizehnter, senza però accettarne in toto
le proposte di punteggiatura, che è stata ricontrollata anche con riferimento ai
manoscritti più autorevoli105. Data la complessità espositiva della Politica, non
è possibile stabilire criteri inderogabili per la posizione di virgola, punto basso
(equivalenti solo formalmente, ma non funzionalmente, dell’uJpostigmhv) e pun-
to alto (la teleiva); è però possibile rintracciare alcune tendenze espositive (non
automatismi), e a esse adeguare l’esigenza di ordine interno in ogni periodo. A
titolo di esempi: 1) il frequentissimo gavr esplicativo è quasi sempre segnale di
inizio di una nuova e autonoma sezione del periodo (con funzione argomentativa
e autonomia sintattica): il colon che lo precede sarà pertanto chiuso da un punto
alto. 2) Dal momento che le particelle correlative mevn... dev (a volte il solo dev), e
i connettivi dhv, ou\n, diov, diovper e simili, segnano l’inizio di una nuova sezione,
il colon che precede (specie se conclude una serie argomentativa o una parte del

Mazzucchi suggerisce di utilizzare «il trattino orizzontale di paravgrafo~, che,


vista la sua natura separativa, sembra ben adatto allo scopo. Si tratta comunque
di una novità rispetto all’uso antico e bizantino, ma, a mio giudizio, compatibile
con esso» (Mazzucchi 1997, pp. 137-138). Nonostante l’invito alla moderazione
nell’uso della parentesi, già formulato da Aldo il Giovane nell’Epitome Ortho-
graphiae del 1575 (e riportato da Mazzucchi nello stesso saggio, pp. 137-138 n.
26), gli editori aristotelici otto- e novecenteschi non si sono limitati a includervi
incisi e parti del periodo estranei alla sintassi complessiva, ma le hanno inte-
se funzionali al contenimento di un “secondo livello” del testo (come a dire:
l’equivalente, nel corpo del testo principale, delle note a piè di pagina dei testi
contemporanei). Ci si orienti anche con Polara 1998.
105
Sulla base della qualità del testo, Mazzucchi ha distinto due casistiche di
approccio e due vie da seguire: «Che conto dovrà fare un editore della punteg-
giatura che trova nei manoscritti? Quando non ci sia presunzione d’autografia o
di esemplari d’edizione – e non è questo il caso per la letteratura antica –, egli
se ne sentirà libero e autorizzato a procedere come meglio gli sembri; tuttavia
gli converrà paragonare con modestia le sue scelte almeno con quelle del codice
più autorevole: dato che entrambi applicano sostanzialmente lo stesso sistema, il
dialogo è possibile. Invece, davanti agli autografi non resta che il rispetto» (Maz-
zucchi 1997, pp. 139-140). Nella tradizione della Politica sarebbe però arduo
individuare «il codice più autorevole»: un confronto utile giunge quindi sia da
B (il manoscritto più antico, e rappresentante della II famiglia) sia da P (per la I
famiglia); non va dimenticato l’apporto del codice E, scritto da un teorico della
grammatica e dell’interpunzione come Teodoro Gaza (Theodori Introductivae
Grammatices libri quatuor, Venetiis 1495), nonostante il suo sistema introduces-
se innovazioni rispetto alla tradizione antica.

50
LA STORIA DEL TESTO

ragionamento) sarà chiuso da un punto basso. 3) L’utilizzo della paravgrafo~


(sotto forma dei trattini orizzontali – ... –) è comunque minimo, mirato a isolare
quelle parti del periodo sintatticamente assolute, che davvero costituiscono un
“inciso” nella frase. 4) La virgola è utilizzata soprattutto per separare i cola
all’interno dello stesso periodo, e quindi molto spesso (ma non a ogni costo,
anche per non frantumare l’unità del discorso) precede congiunzioni coordinanti
e subordinanti. Tale funzione secondo la tradizione antica dovrebbe essere svolta
dal punto medio (mevsh), ma per consuetudine si adotta il segno più familiare; la
posizione della virgola (che nei codici di età umanistica è sovente equiparata, nel
segno grafico, all’uJpostigmhv) tiene conto delle modalità di separazione dei cola
nei manoscritti più importanti.

d) I sigla
Il significato delle sigle P1 e P2, ereditate dalla tradizione degli studi critici
e utilizzate di frequente nell’apparato, non coincide però con quello che hanno
attribuito loro gli editori otto- e novecenteschi. Susemihl e successivi indicarono
infatti con P1 non soltanto i manoscritti superstiti della I famiglia, ma anche i
perduti modelli delle due traduzioni altomedioevali. Nell’apparato della presente
edizione la sigla P1 indica semplicemente il consensus dei codici greci apparte-
nenti a quella famiglia; l’eventuale specificità delle traduzioni latine è segnalata
a parte. Per la II famiglia di manoscritti, invece, limitarsi all’indicazione P2
sarebbe davvero troppo semplificante, quando si consideri il massiccio gruppo
dei cosiddetti codici deteriori. Si è così provveduto a distinguere il consensus
dei codici più importanti del secondo raggruppamento (P2 = ABCDEH) da un
parziale consensus, che isola come eccentrico rispetto alla sua stessa famiglia
l’importante testimone H (P3 = ABCDE); da ultimo, anziché limitarsi a sbrigati-
ve indicazioni di consensus nei testimoni deteriori (come l’ambiguo p3 in Ross),
si è cercato di individuare, nei limiti del possibile e nelle situazioni testuali più
intricate, il consensus di gran parte di tali manoscritti secondari (P4).

e) Il testo
La disposizione del testo secondo una prestabilita numerazione di pagine,
colonne, righe, segue per convenzione editoriale l’impaginazione della Politica
secondo l’edizione critica curata da Bekker106. I numeri da 1253 a 1342 indicano
quindi le pagine della suddetta edizione; le lettere a e b indicano rispettivamente
la colonna di testo a sinistra e a destra, contenute in ogni pagina dell’edizio-
ne bekkeriana; i numeri da 1 a 42 (massimo) il numero della riga nella stessa
edizione. Unica deroga rispetto alla disposizione testuale di Bekker (a parte le
migliorie testuali dovute all’apporto di manoscritti riscoperti e utilizzati suc-
cessivamente) riguarda le citazioni poetico-letterarie che Aristotele inserisce
nell’opera: qualora integre e riconoscibili, sono state stampate in corpo minore
ed evidenziate all’interno del testo per mezzo di rientro.
Il testo critico utilizza alcuni fondamentali accorgimenti editoriali per chia-
rire al lettore la natura di passaggi specifici: il testo incluso tra parentesi uncinate
‹ ... › è integrazione congetturale, considerata necessaria alla piena intelligenza

106
Nella versione di Bekker-Gigon 1960, pp. 1252-1342.

51
LA STORIA DEL TESTO

del passo. Il testo incluso tra parentesi quadre [ ... ] è espunzione di quanto, pur
trasmesso da tutta o da parte della tradizione manoscritta, gli editori considera-
no spurio, interpolato, aggiuntosi nel corso delle trascrizioni (per i più svariati
motivi: errore, dittografia, zeppa esplicativa, glossa marginale rifluita nel testo,
interpolazione, correzione grammaticale).
Le singole lettere stampate in corsivo nel testo evidenziano una correzione
editoriale; il corsivo evidenzia dunque, unitamente alle integrazioni di intere
parole, l’intervento editoriale che si allontana dal testo tràdito nella sua plu-
ralità di testimoni (e che può essere individuato in 1257b 33, 36, 1260b 41,
1262a 7 [soltanto in apparato], 1272b 39-40, 1280b 23, 1285a 39, 1286a 9,
etc.; integrazioni vere e proprie - tra parentesi uncinate - in 1261b 3, 1276b 9,
1283b 15, etc.).

f ) L’apparato critico
A piè delle pagine recanti la traduzione italiana della Politica può comparire
un apparato articolato in due sezioni, dedicato alle fonti (le molte rintracciabili)
del discorso di Aristotele, ossia alla referenza delle citazioni letterarie che il fi-
losofo porge ai lettori, e alla tradizione indiretta che riporta passi della Politica
(o vi si riferisce in termini circostanziati, parafrasando e riassumendo i contenuti
dell’opera). Tale apparato assolve dunque a due funzioni, corrispondenti alle
due sezioni di riferimenti: 1) riportare loci similes (in particolare all’interno di
altre opere aristoteliche) e riferimenti alla letteratura che Aristotele menziona; 2)
fornire informazioni sulla fortuna della Politica e sulla sua tradizione indiretta,
a partire dagli scholia leggibili in alcuni manoscritti fino alle citazioni testuali
di età umanistica (da Ario Didimo a Teodoro Gaza, in buona sostanza). Anche
quando Aristotele cita parzialmente un verso poetico (soprattutto da Omero o dai
poeti tragici), l’apparato rimanda per esteso al passo, con l’ausilio di un’edizione
di riferimento. A volte esso registra la sola referenza a un passo, senza il testo per
esteso; è invece riportato anche il testo greco o latino di riferimento ogni qual
volta sia rintracciabile una citazione diretta del dettato aristotelico, ovvero un
segnale di collegamento lessicale che presuppone lettura e rielaborazione dello
specifico passaggio della Politica. Quando il testo greco sia documentato da
testimoni d’eccezione (ma frammentari: il papiro o il palinsesto Vaticano V), a
questi è dedicata la prima sezione del pre-apparato, con referenza circostanziata
delle parti della Politica in essi presenti.
Le singole variazioni testuali della tradizione indiretta sono segnalate
nell’apparato critico vero e proprio, specificamente dedicato alle varianti dei
testimoni di tradizione diretta, alla loro discussione, alle scelte degli editori.
Esso compare in calce alle pagine recanti il testo greco della Politica. Esulano
dall’apparato critico le segnalazioni di variazione nell’ordo verborum all’inter-
no dei modelli (perduti) delle due versioni latine antiche (limitate a scambio di
posizione tra due parole, e descritte in modo sistematico da Dreizehnter), e della
traduzione di Bruni, in quanto non si tratta mai di dati oggettivi, ma sempre di
supposizioni dell’editore: pluralità e diversità di traduzioni latine dello stesso
testo inducono a postulare piuttosto una ratio (stilistica) messa in opera dal tra-
duttore, non già l’automatismo di ricostruzione del testo greco.
Quando nell’apparato critico viene citata la lezione di uno scolio (contrasse-
gnato dalla lettera s posta ad apice della sigla del manoscritto), il testo, completo
o parziale, dello stesso scolio (o anche di alcune glosse significative) è riportato
nel pre-apparato. Questo accade anche per le eventuali attestazioni di tradizio-

52
LA STORIA DEL TESTO

ne indiretta, sotto forma di parafrasi, commento, allusione: quando l’apparato


segnala una lezione proveniente da altro autore, il testo circostanziato che la
contiene è riportato nel pre-apparato, in modo che il lettore possa apprezzare
liberamente e autonomamente la fortuna della Politica nel corso della letteratura
greca successiva, nonché le variazioni testuali rispetto ai dati della tradizione
diretta. Delle citazioni testuali estese (ossia delle fonti di tradizione indiretta)
l’apparato ovviamente non riporta il testo completo, ma le sole varianti.
L’edizione di riferimento di scholia e glossae è quella di Otto Immisch, in
calce al testo completo della Politica edito nel 1929 sulla scorta delle edizioni
di Franz Susemihl.
Le traduzioni latine compaiono in apparato con insistente frequenza, so-
prattutto quelle più antiche di Guglielmo di Moerbeke (nella versione completa
e in quella limitata ai primi due libri) e di Leonardo Bruni, poiché si tratta di
testi dipendenti direttamente da manoscritti greci perduti. Sporadico il ricorso
a traduzioni più recenti, ma giustificato laddove sia difficoltosa l’esegesi del
testo greco. I testi di Guglielmo (G. = traduzione completa dell’opera; G.i. =
traduzione incompleta) compaiono sempre nei casi in cui la resa latina induca a
supporre un testo di partenza differente rispetto a quello dei manoscritti greci;
ma essi sono riportati anche nel caso in cui parte della tradizione greca presenti
difformità rispecchiate da uno o da entrambi i testi latini. Naturalmente, essi
sono riportati qualora la versione latina, nel confronto con la totalità dei testi-
moni greci recante lezioni deteriori, permetta di ricostruire un testo originario
più attendibile di quello tràdito (situazione molto rara; ma si veda 1260b 41).
L’assidua menzione delle traduzioni latine antiche non significa però né dipen-
denza del testo critico dai perduti (e soltanto minimamente ricostruibili) codici
compulsati da Guglielmo, né predilezione per la famiglia di testimoni greci cui
esse siano più avvicinabili (senza dubbio P1 per G.). Occorre ricordare che en-
trambe le versioni latine di Guglielmo non sono rappresentate dall’autografo del
traduttore latino, ma da una tradizione di testimoni (assai più copiosa di quanto
non risulti dall’apparato critico di Susemihl per il testo completo), a sua volta
connotata da gruppi di manoscritti apparentabili, da errori più o meno vistosi,
da varianti adiafore, da errori singolari107. Per concludere, si tratta in entrambi i
casi di tradizioni complesse, la cui edizione critica è come sempre un tentativo
di ricostruzione del testo originale.
Sulla base di queste considerazioni si desume quanto sia stato rischioso,
e in molti casi del tutto opinabile, ricostruire il greco dei manoscritti utilizzati

107
Dreizehnter 1970, p. XL, riporta un giudizio molto negativo dell’edizione
di G.i. a c. di Michaud-Quantin: «Leider ist die Ausgabe im ARISTOTELES
LATINUS völlig unbrauchbar, weil der Herausgeber pro Seite im Schnitt 10
falsche Angaben macht, sei es, daß er sich in den Handschriften verlesen hat, sei
es, daß er die Siglen im kritischen Apparat verwechselt. Deshalb erwies es sich
als notwendig, für die vorliegende Ausgabe die drei Handschriften erneut zu
kollationieren, um einen gesicherten Text als Grundlage der zu rekonstruirenden
griechischen Vorlage zu schaffen». Provvede Dreizehnter stesso a correggere gli
errori di lettura e a integrare i rimandi ai codici di G.i. nel suo apparato. Va ricor-
dato da ultimo che il più antico manoscritto della versione latina di Guglielmo è
il Toletanus Bibl. Capituli 47.9, vergato tra la fine di XIII e l’inizio di XIV secolo
(non compare nella rassegna di Newman 1887, II, p. 61; è invece segnalato per
la sua importanza da Schneider 1973, p. 341 e n. 1).

53
LA STORIA DEL TESTO

da Guglielmo a partire da singoli codici latini (o gruppi di tali codici) e inserire


negli apparati critici la nuova traduzione in greco di una lezione latina a sua
volta anticamente tradotta dal greco. Tutto questo perché la traduzione non è
un processo automatico, meccanico, riproducibile con gli stessi risultati per un
erudito europeo alla metà del XIII secolo così come per editori del XIX e XX
secolo; molto difficilmente tale processo può consegnare all’editore lezioni di
testimoni antichi, da considerare addirittura superiori a quelle trasmesse dai te-
stimoni greci. Nella recensione delle precedenti edizioni, almeno fino a Ross,
la disamina del dato incerto si mescola a quella dei dati oggettivi (i testi leggi-
bili), con il pericolo di inficiare il valore scientifico del testo critico. Per questo
motivo, a differenza di quanto proposto dagli editori precedenti, nella presente
versione la sigla P1, ossia il riferimento alla I famiglia, non significa unanimità
dei testimoni MPS e dei due (?) manoscritti utilizzati da Guglielmo, segnati so-
litamente come G e g (rispettivamente il testo greco completo e incompleto della
Politica). P1 indica soltanto il consensus dei tre codici greci menzionati. Si è di
norma ritenuto preferibile trascrivere il testo latino (con varianti e discrepanze),
più che la retroversione in greco operata dagli editori. Quanto può essere corret-
to, a titolo di esempio metodologico, indicare in apparato «om. G.» nei casi in
cui non tutto il testo greco abbia un corrispettivo nella versione latina? Omittit
indica volontà di omissione oppure distrazione del copista (in questo caso: del
traduttore). Ma la questione è molto più complessa, dal momento che la supposta
omissione potrebbe essere il risultato di un guasto nella tradizione dei codici
di Guglielmo (mentre la lezione avrebbe potuto essere presente nell’archetipo
della tradizione latina), oppure – in modo ugualmente probabile – derivare da
una mancanza nell’esemplare greco utilizzato da Guglielmo, e quindi essere in-
dipendente dall’operato del traduttore108. L’errore pregiudiziale commesso dagli
editori è stato quello di supporre un testo greco della Politica perfetto e completo
negli esemplari utilizzati da Gugliemo di Moerbeke; e in conseguenza di tale
pregiudizio è sempre stata attribuita grande importanza alla ricostruzione del
testo greco di tali modelli. Sin dagli inizi dell’età moderna, al contrario, sono
stati registrati forti dubbi sulle competenze linguistiche e sull’affidabilità del
traduttore stesso109.
Anche nei punti (numerosi) in cui si ha certezza di poter ricostruire la lezio-
ne del modello greco, non va dissolto l’eventuale dubbio sulla esatta lettura del
modello compiuta dal traduttore, né vanno dimenticate le tentazioni correttive
di chiunque lavori su un testo senza intenderlo completamente (non è possibile
spiegare sempre allo stesso modo, per esempio, tutti i punti in cui il traduttore
non traduce e si limita alla trascrizione latina dei caratteri greci; tale situazione

108
Assai più cauto l’atteggiamento di chi si limiti a riscontrare che, in corri-
spondenza di un testo greco, Guglielmo semplicemente non traduce (il non vertit
dell’apparato; o per meglio dire: a causa di motivi che possono essere differenti,
l’insieme dei testimoni di Guglielmo non reca alcuna traduzione della lezione
greca discussa).
109
Oltre alle già riportate note di sfiducia (o di aperto biasimo) delle capacità
di Guglielmo, occorre riferirsi ai risultati di un’indagine critica di Vuillemin-Di-
em 1987. La studiosa ha dimostrato come Guglielmo traduca sia il testo di base
sia le correzioni successive presenti nei suoi modelli, e riveda (anche a distanza
di anni) le sue traduzioni, introducendo sensibili modifiche e innovazioni.

54
LA STORIA DEL TESTO

permette però di postulare con più probabilità il testo di partenza, senza media-
zioni culturali, a volte deformanti, del processo traduttivo).
Nell’apparato critico varianti, traduzioni latine, correzioni e congetture af-
ferenti alla stessa lezione o allo stesso segmento testuale sono separate da due
punti verticali ( : ); quando la lezione o il testo di riferimento cambia il separatore
è offerto dal numero di riga.

g) Le note testuali
Le note testuali che accompagnano il testo greco di ciascun libro non han-
no alcuna pretesa di fornire un commentario filologico dettagliato (si rimanda
piuttosto alle Critical notes apposte in calce al testo originale nell’edizione di
Newman); si tratta invece di schede riassuntive a proposito della tradizione del
testo, a sostegno e integrazione delle informazioni dell’apparato critico, in par-
ticolare per i luoghi in cui la situazione manoscritta è complicata da varianti o
guasti; a volte le schede presentano i criteri della scelta testuale o argomentano
in modo esteso gli interventi sul testo tràdito; altre volte sono dedicate alla tradi-
zione indiretta della Politica e alla valutazione storico-critica dei passi ricordati
nel pre-apparato.

h) Le Appendices coniecturarum
In calce alle note testuali di alcuni libri sono riportate sobrie appendici di in-
terventi congetturali e proposte di correzione non incluse nell’apparato critico. Il
fatto stesso di essere raccolte in appendice rispetto al testo qualifica l’importanza
secondaria di tali ipotesi; ma, al pari delle informazioni nell’apparato critico,
lo scopo di queste raccolte non è né erudito né esclusivamente documentario:
gli interventi di modifica, integrazione o cassazione del testo hanno sempre e
comunque un valore storico, e permettono di comprendere il tipo di approccio
testuale che di epoca in epoca si è trasformato. Il lettore potrà anzi percepire,
pur nell’inevitabile selezione degli interventi registrati, le tipologie di urgenza
che nelle varie edizioni si sono meglio manifestate, e che hanno determinato
proposte di modifica rispetto alla tradizione manoscritta. Per gran parte, in questi
interventi si manifesta quella velleità di ricostruire il testo che ha caratterizzato
l’attività editoriale soprattutto nel XIX secolo.

55
LA STORIA DEL TESTO

56
INTRODUZIONE AL LIBRO I*

* Le abbreviazioni bibliografiche si riferiscono a entrambe le sezioni della


bibliografia.
1. La materia trattata e la sua organizzazione
Come altre opere aristoteliche (Analitici Secondi, Fisica, Metafisi-
ca, Etica Nicomachea), la Politica si apre con un’affermazione generale
di valore universale: poiché ogni città (povli~) è una comunità (koinw-
niva) e ogni comunità si costituisce in vista di un bene, è chiaro che tutte
le comunità tendono a un bene, e al bene più alto e più importante tende
la comunità più importante, che comprende tutte le altre, quella chia-
mata polis e comunità politica (1, 1252a 1-7). A questa dichiarazione
iniziale segue un attacco polemico alle posizioni di «altri», il cui nome
non è fatto esplicitamente: possiamo però facilmente intuire, anche dal-
le riprese testuali abbastanza precise – o volutamente imprecise – che
l’interlocutore è Platone (in particolare con riferimento al Politico), con
qualche contaminazione proveniente dall’opera di Senofonte. Proprio
da questa polemica “a distanza” Aristotele prende le mosse per affron-
tare la materia, con una premessa che sintetizza perfettamente argo-
mento, metodo e fine della ricerca: a) nella gerarchia logica delle forme
di aggregazione umana la comunità politica, la polis, è la comunità più
alta; b) tutto ha un fine, e la polis ha quindi il fine più elevato; c) sono in
errore coloro che ritengono che le forme di autorità preposte a guidare
le varie comunità umane (il re, il padrone, l’amministratore della casa
e l’uomo politico) si pongano tutte sullo stesso piano, e si differenzino
unicamente per il numero di sottoposti; esse esercitano invece tipi di
comando diversi. Questi temi attraversano tutto il primo libro, giacché
Aristotele intende dimostrare che, studiando con un criterio finalistico
le parti minime di cui si compone la città e le relazioni tra coloro che co-
mandano e coloro che sono comandati nei vari ambiti, risulterà chiaro
che i tipi di autorità sono diversi per specie e hanno dunque prerogative
e caratteri diversi.
In estrema sintesi, le aree tematiche che percorrono il primo libro
sono quattro: la generazione della polis a partire dai suoi elementi mini-
mi, la schiavitù, l’amministrazione domestica, le relazioni tra i compo-
nenti della casa. L’analisi parte dal concetto che la polis è un intero for-
mato di parti (1, 1252a 5 ss.), ciascuna delle quali esistente per natura
e dotata di un fine. La prima di esse, in senso logico e non cronologico,
è la casa/famiglia (oi\ko~Éoijkiva; 3, 1253b 1 ss.; 13, 1260b 13), che si
costituisce per natura per soddisfare le necessità della vita quotidiana
(2, 1252b 13), formata di persone e proprietà. Quindi viene il villaggio
(kwvmh), colonia della casa, unione di più famiglie con il fine di soddi-
sfare bisogni non più solo strettamente quotidiani; infine, l’insieme di
più villaggi che ha raggiunto la piena autosufficienza è la città, la polis,
che nasce per consentire di vivere, ma sussiste per raggiungere la «vita

59
INTRODUZIONE AL LIBRO I

buona», la felicità, che nell’antropologia politica aristotelica rappresen-


ta il bene supremo.
Il primo capitolo appare dunque la premessa da cui scaturisce
l’esposizione, non solo del libro, ma dell’intera opera, una sorta di in-
troduzione generale; a partire dal secondo capitolo vengono poste le
questioni di base, i fondamenti metodologici e contenutistici che man
mano troveranno una trattazione più ampia in sezioni dedicate e distin-
te; i rimandi più o meno espliciti a quanto esposto nel capitolo 2 non
cesseranno fino al termine del libro. È dal capitolo 3 che Aristotele en-
tra nel vivo dell’analisi e si dedica quasi completamente a esaminare i
rapporti gerarchici fondanti della casa/famiglia, quindi le relazioni reci-
proche dei suoi membri – che costituiscono le comunità elementari i cui
componenti non possono sussistere separatamente (padrone-schiavo,
marito-moglie, padre-figli) –, e la relazione del padrone di casa con la
proprietà: questo impegno si dipana, lungo l’intero libro, fino al capito-
lo 12. Individuate le relazioni naturali tra i membri della casa/famiglia
(cap. 3), due ampie sezioni che, seppure in larga misura indipendenti,
risultano imprescindibili l’una dall’altra, sono dedicate rispettivamente
alla relazione padrone-schiavo (capp. 4-7) e al rapporto con la proprietà
in collegamento con l’arte di acquisizione dei beni da parte dell’ammi-
nistratore della casa (capp. 8-11); infine, per colmare una lacuna della
parte precedente, l’autore si concentra sulle altre relazioni personali,
quella tra marito e moglie e tra padre e figli, il cui esame occupa gran
parte dei capitoli 11 e 12, ma spesso ancora in riferimento alla relazione
padrone-schiavo; infine, questa complessa analisi viene collegata ad un
progetto più ampio, quello dell’esame delle costituzioni.
Come si vede anche da questo riassunto schematico, non è possibile
individuare un unico tema nel libro, come in passato è stato fatto dai
numerosi commentatori che hanno riduttivamente ricondotto l’intera
trattazione all’economia, spinti dal carattere estremamente innovativo
e straordinariamente attuale di alcuni concetti espressi in questa parte;
in realtà, l’amministrazione dell’oikos costituisce solo una delle parti
del libro, il cui soggetto centrale sono invece, a ben guardare, le parti
costitutive della polis e, per la casa/famiglia, i rapporti interni e le forme
di esercizio dell’autorità nelle rispettive relazioni tra i membri e con la
proprietà.
È evidente dunque che non possiamo parlare per il I libro di un’as-
soluta omogeneità nella materia trattata; quel che risulta con chiarezza
è invece la presenza di sezioni tematiche piuttosto nette (la proprietà, la
schiavitù, l’acquisizione dei beni), che tuttavia appaiono poi raccordate
tra loro, anche se non sempre in maniera perfettamente coerente, da un

60
INTRODUZIONE AL LIBRO I

filo rosso che percorre l’intera argomentazione. Esso è rappresentato,


dopo la necessaria introduzione generale, da riprese e richiami continui
alle premesse di ogni sezione, ma soprattutto da due principi fondamen-
tali, cui Aristotele si appella continuamente: il carattere naturale degli
elementi e delle relazioni cui fa riferimento e la centralità dell’oikia, la
casa/famiglia, che solo nelle ultime righe del libro lascia il posto alla
polis.
Possiamo dunque ipotizzare che il libro (come forse l’intera opera)
sia il prodotto di una rielaborazione di logoi autonomi, corrispondenti
all’incirca alle sezioni tematiche, che pur tuttavia appaiono, dal punto
di vista del contenuto, perfettamente inseriti in un progetto più ampio,
anche se nel testo scritto spesso non figurano indicatori precisi di richia-
mo; ciò è senz’altro molto evidente per le due parti più estese, quelle
dedicate rispettivamente alla relazione padrone-schiavo e all’ammini-
strazione domestica.
Questa supposizione è forse in grado di escludere la tesi, espressa
già da Arnim (1924), che inizialmente Aristotele avesse previsto di trat-
tare solo le tipologie di autorità citate nel primo capitolo e avesse poi
provveduto a una pesante rielaborazione successiva; potrebbe essere
accaduto esattamente l’opposto, ovvero che Aristotele abbia inserito
trattazioni monografiche all’interno di una cornice tematica più ampia,
che non è tuttavia rimasta estranea allo sviluppo dell’argomentazione,
tanto che il tema delle forme di autorità e del loro esercizio è il punto
di partenza e il punto d’arrivo della dimostrazione, ma non è affatto
l’unico punto di vista da cui sono affrontati i singoli argomenti: al fine
di spiegare come è strutturato l’oikos, divengono fondamentali i temi
dei modi e delle fonti di approvvigionamento, dell’uso corretto della
proprietà in termini di schiavi e beni, del ruolo dei singoli membri al
suo interno.
Nel I libro non vi è alcun riferimento cronologico, per cui il mate-
riale contenuto in esso non può essere utilizzato per reperire indicazioni
sulla data di composizione dell’opera; assai più interessanti appaiono
invece i riferimenti incrociati con gli altri libri, seppure nemmeno que-
sti decisivi per stabilire una cronologia relativa dell’elaborazione del
lavoro. L’indagine analitica oggi generalmente applicata punta a stu-
diare l’opera indipendentemente dalla cornice storico-politica, e supera
in parte anche la questione dell’ordine compositivo dei libri o di gruppi
di libri, che ampio spazio invece avevano nei lavori dei commentatori
della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX; le po-
sizioni rispettive di Jaeger – secondo cui il nucleo più antico sarebbe
costituito dai libri “platonici” (II e III) e dai libri VII e VIII – e di Arnim

61
INTRODUZIONE AL LIBRO I

– i primi libri a essere stati composti sarebbero il I e il III e gli ultimi


il VII e l’VIII, di cui il II sarebbe l’introduzione – hanno rappresentato
le linee critiche dominanti per parecchi decenni1. In realtà nulla si può
dire di preciso, ma è opportuno limitarsi a notare i (rari) riferimenti
incrociati e i parallelismi contenutistici tra gli otto libri. Un dato certo è
l’assenza di collegamento tra il libro I e i libri V e VI; paradossalmente
anche con il libro II, che dovrebbe esserne la naturale prosecuzione, i
legami sono piuttosto labili, per non dire trascurabili, dal momento che
tra di essi non vi sono richiami espliciti. La valutazione del libro I come
esordio della Politica sarebbe anche in contraddizione con la prassi ari-
stotelica di iniziare i propri lavori passando in rassegna le opinioni dei
predecessori2: tuttavia, come si è detto, anche nel capitolo 1 del I libro si
sottolinea l’opinione comune sul tema oggetto iniziale della ricerca; il
libro II sarebbe quindi più idoneo ad essere considerato il primo nell’or-
dine di composizione, come sembrerebbe provare anche la “sintesi” che
chiude il X libro dell’Etica Nicomachea (X 10, 1181b 12-23), peraltro
mutilo; essa non contempla alcuno dei temi trattati nel I libro e potrebbe
quindi provare che il libro non avesse collocazione iniziale o non fosse
affatto presente nel piano dell’opera.
Ben più significativi invece i rapporti del libro I con i libri III e
VII. Per quanto riguarda il libro III è inevitabile fare riferimento a III 6,
1278b 15-19: «innanzitutto bisogna stabilire per quale fine si è costituita
la città e quante sono le specie di autorità sul singolo e sulla comunità;
nei primi discorsi (kata; tou;~ prwvtou~ lovgou~), nei quali si è tratta-
to dell’amministrazione domestica e dell’autorità padronale, si è detto
anche che l’uomo è per natura un animale politico». È indubitabile il
riferimento alle tesi contenute nel libro I, anche se non vi è alcuna prova
che i logoi richiamati su questi argomenti dovessero essere identificati
con la redazione del I libro; è certo però che i «discorsi» citati nel libro
III dovevano essere stati elaborati in una fase precedente. Se dunque
l’impianto della Politica è aristotelico e non è invece frutto del lavoro
di revisione e di compilazione di un materiale composito preesistente
da parte di qualche editore – ipotesi che non può essere assolutamente
esclusa allo stato delle nostre conoscenze –, possiamo dedurre che il I
libro potrebbe essere tardo e che lo stesso autore abbia deciso di porlo
all’inizio quando ormai il lavoro compositivo era concluso, dato che
poteva rappresentare una valida base teorica in un’opera dallo scopo

1
Cfr. Jaeger 1923; Arnim 1924.
2
Saunders 1995, p. 15.

62
INTRODUZIONE AL LIBRO I

eminentemente pratico. Ma anche l’esclusivo valore teorico del libro


può essere messo in dubbio.
Le relazioni con il libro VII sono altrettanto significative, anche se
meno esplicite e puntuali; vanno tuttavia citati VII 3, 1325a 30-31, dove
si fa nuovamente riferimento a protoi logoi, questa volta a proposito
dell’autorità del padrone in relazione alla questione dello schiavo per
natura (I 7, 1255b 16 ss.); VII 14, 1333a 3, dove si parla di protoi logoi
a proposito del potere esercitato nell’interesse di chi lo detiene realiz-
zando un’autorità padronale (oltre a III 6, 1278b 30 ss. il riferimento
può essere a I 7, 1255b 20 ss.; oltremodo interessante è l’intreccio dei
richiami nei tre libri); VII 4, 1326b 7-9, che riproduce quasi letteralmen-
te la definizione di polis data in I 2, 1252b 10 (che non è tuttavia prova,
va precisato, di ripresa testuale o di priorità dell’uno rispetto all’altro;
si veda anche I 9, 1257a 19 ss.). In generale, comunque, la costruzione
della polis del libro VII è la trasposizione in senso funzionale delle rela-
zioni individuate nella casa/famiglia nel libro I e la natura, su cui Aristo-
tele tanto ha insistito, rappresenta la norma per il suo ordinamento3.
Non è comunque possibile individuare una coerente sistematicità
in questi richiami interni, che finiscono per apparire più riferimenti ad
argomenti trattati in precedenza che riprese precise di testi già scritti,
come potrebbero dimostrare anche alcune incoerenze nell’uso dei ter-
mini (per esempio koinwniva, «comunità» o crhmatistikhv, «cremati-
stica») tra libri diversi o all’interno dello stesso libro I, che sono però
in larga parte spiegabili alla luce del metodo aristotelico che, dopo una
premessa iniziale, in genere apodittica, giunge a poco a poco alla defi-
nizione precisa della materia.

2. Questioni di metodo
Aristotele non fornisce esplicite premesse metodologiche in rela-
zione alla ricerca oggetto della Politica; esse sono formulate nelle Eti-
che (Nicomachea ed Eudemia), che rappresentano la prima parte della
trattazione della “filosofia delle cose umane”, di cui sono il logico com-
pletamento la Politica e la Retorica come strumento discorsivo dell’agi-
re politico. Il metodo che appare poi in larga misura applicato anche
nel I libro della Politica è proposto sia nell’Etica Nicomachea (VII 1,
1145b 3-5: dei` dev, w{sper ejpi; tw`n a[llwn, tiqevnta~ ta; fainovmena
kai; prw`ton diaporhvsanta~ ou{tw deiknuvnai mavlista me;n pavnta ta;
e[ndoxa peri; tau`ta ta; pavqh, eij de; mhv, ta; plei`sta kai; kuriwvtata:

3
Schütrumpf 1991, I, p. 130.

63
INTRODUZIONE AL LIBRO I

«dopo aver presentato ciò che appare probabile e aver fatto emergere
anzitutto le difficoltà, bisogna mostrare sull’argomento tutte le opinioni
notevoli o, se non è possibile, la maggior parte e le più importanti») sia
nell’Etica Eudemia (I 6, 1216b 35-40: «in ciascuna ricerca, le argomen-
tazioni si distinguono in quelle che hanno carattere filosofico da quelle
che non l’hanno, perciò anche nel campo della politica non bisogna
ritenere superflua una ricerca di questo tipo attraverso la quale risulti
chiara non solo la natura dell’oggetto, ma anche la sua causa») e viene
definito «metodo degli endoxa»4 o «metodo diaporetico»5: si tratta del
«metodo di mettere alla prova le opinioni su un certo oggetto», che
«non è altro che l’applicazione del metodo proprio di ogni indagine
filosofica descritto da Aristotele nei Topici» (I 2, 101a 35-101b 4: «[La
dialettica] è utile infine per le scienze connesse con la filosofia, poiché
potendo sollevare difficoltà riguardo ad entrambi gli aspetti della que-
stione, scorgeremo più facilmente in ogni oggetto il vero e il falso...
Questa per altro è l’attività propria della dialettica...: essendo infatti una
tecnica per sottoporre ad esame le opinioni, apre la via verso i principi
di tutte le ricerche»)6. L’applicazione di tale metodo, cui assistiamo fin
dalle prime righe del libro, punta alla confutazione dell’opinione di co-
loro – Platone e in parte Senofonte – che confondono la definizione del-
le varie forme di autorità, differenziandole non in relazione alla specie,
come dovrebbe essere, ma in relazione alla quantità di sottoposti, ed
istituendo una (non corretta) identità di genere attraverso l’equiparazio-
ne di una grande casa ad una piccola città (1, 1252a 12-13). La critica
all’endoxon platonico (-senofonteo) ha una precisa funzione nel ragio-
namento aristotelico: aprire la strada al metodo giusto – ovviamente
secondo Aristotele – per definire la natura del “composto” polis7.
Aristotele afferma infatti di voler usare il metodo «proposto»8 per
meglio chiarire le affermazioni iniziali (1, 1252a 18-23). Si tratta del
metodo della diaivresi~, della divisione, «perché come negli altri casi
è necessario dividere il composto fino alle parti semplici – queste sono
infatti le parti più piccole del tutto – così, esaminando anche la città
nelle parti dalle quali è composta, osserveremo meglio anche riguardo a
queste in che cosa differiscano le une dalle altre e vedremo se è possibi-

4
Barnes 1981, p. 490.
5
Berti 1989, pp. 75-85.
6
Bertelli 2011.
7
Bertelli 2011.
8
Il termine è altrimenti tradotto «principale» o «normale, consueto»; si veda
il commento al passo.

64
INTRODUZIONE AL LIBRO I

le determinare una qualche definizione riguardo a ciascuna delle figure


sopra citate». In sostanza, con il metodo analitico il tutto dev’essere
scomposto ed indagato nelle sue parti minime, e poi con queste stesse
parti sinteticamente ricomposto. Questo metodo aveva precedenti pla-
tonici (nel Sofista e nel Politico), ma è soprattutto una delle tecniche
consigliate da Aristotele nei Topici per arrivare ad una definizione con-
vincente dell’oggetto ricercato (II 2, 109b 15-22); come rileva Bertelli,
anche negli Analitici Secondi (II 13-14, 96a 20-98a 23) «è prevista la
“divisione fino agli indivisibili” per arrivare alla definizione di una cosa
attraverso l’individuazione dei suoi caratteri specifici, ma come viene
spiegato negli stessi Analitici (APr I 31, 46a 32; APo II 5, 91b 12 ss.) la
diairesis è solo un “sillogismo debole”, cioè una dimostrazione che in
realtà non dimostra l’essenza della cosa ricercata, ed è utile solo per in-
dividuare l’appartenenza a un genere o a una specie: insomma descrive
l’oggetto, ma non lo definisce nella sua essenza»9. La diairesis quindi
non sostituisce la definizione dell’essenza, ed è probabilmente per que-
sto motivo che il metodo proposto viene abbandonato.
All’inizio del secondo capitolo infatti una nuova premessa forni-
sce indicazioni diverse: «se allora si indagassero le cose nascere dal
principio, anche in questi casi, come negli altri, si potrebbero fare le
migliori osservazioni» (2, 1252a 24-26). In effetti Aristotele propone
qui un diverso approccio, di tipo “genetico”, seppure con qualche ne-
cessaria precisazione. Si tratta cioè di indagare il processo che porta alla
formazione di un oggetto complesso, nel nostro caso la polis, partendo
da elementi minimi o non ulteriormente scomponibili (ajsuvnqhta). Per
il filosofo tuttavia il punto di vista teleologico è prioritario nel campo
politico; come ci ha detto al principio del capitolo 1 la comunità più
alta, la polis, costituita dall’aggregazione di tutte le altre, tende al bene
più importante di tutti, l’eu\ zh`n, il vivere bene, la felicità; pertanto «nel
nostro caso i singoli beni, che le varie forme di associazione subordina-
te perseguono, devono essere funzionali al bene più nobile perseguito
dalla comunità più alta»10. Il metodo d’indagine non si limita quindi
all’analisi dell’aggregazione degli elementi che vanno poi a formare
l’oggetto complesso, ma esula dal semplice dato materiale per tenere in
conto anche il fine e la funzione dell’oggetto complesso che si va a co-
stituire. Il metodo proposto qui è dunque genetico per quel che attiene
allo sviluppo progressivo dell’indagine, ma è integrato dall’analisi con-

9
Bertelli 2011.
10
Accattino 1978, p. 178.

65
INTRODUZIONE AL LIBRO I

dizionale, legata alla funzione peculiare di ogni parte11. Aristotele non


abbandona tuttavia il criterio metodologico che gli impone di servirsi
dei fainovmena («ciò che appare probabile»), o e[ndoxa («le opinioni
notevoli») dell’Etica Nicomachea (VII 1, 1145b 3-6), e qui, come nel
resto del libro, si richiama alle testimonianze dei poeti e all’opinione
comune su alcune questioni particolarmente discusse.
D’altra parte l’uso del metodo dialettico nel senso qui esposto per-
corre tutto il I libro, ed è particolarmente puntuale nelle due sezioni
centrali del testo (accomunate anche da segnali linguistici come l’uso
del verbo ajporevw e del sostantivo ajmfisbhvthsi~): l’individuazione
del concetto di «schiavo per natura» (6, 1255a 3 ss.) e la relazione tra
oijkonomiva («amministrazione domestica») e crematistica (8, 1256a 1 ss.).
Per quanto riguarda il primo punto si può affermare con certezza
che l’intera questione, a partire da I 3 (1253b 14 ss.), è affrontata attra-
verso l’introduzione di una proposizione dialettica costruita su opinioni:
all’enunciazione del tema della ricerca segue l’inserimento delle idee
sulla materia, che in parte riprendono le affermazioni già fatte nel capi-
tolo 1 a proposito dell’endoxon platonico, in parte riuniscono opinioni
comuni e/o sofistiche oppure «costruiscono artificialmente sulla base di
opinioni correnti un endoxon per poterlo poi demolire contrapponendo
difficoltà a difficoltà e far apparire come vera la soluzione»12.

11
Aristotele cercherà nuovamente di servirsi del metodo della divisione nel
libro IV (3, 1289b 27–1290a 13) – per spiegare perché ci sono diversi tipi di
costituzione e più forme di uno stesso tipo –, dove suddividerà la città prima in
famiglie-rendendosi tuttavia conto che non si può parlare di differenza specifica
tra famiglie, anche se questo schema è alla base del discorso della genesi della
polis in I 2, 1252b 15 ss. –, poi per posizione sociale (ricchi, poveri e medi) e
infine tra demos e gnorimoi. Ma nello stesso contesto (IV 4, 1290b 21-1291b
13) Aristotele affronta lo stesso problema con principi metodologici diversi,
istituendo un confronto con la morfologia degli animali. Anche in questo caso,
come nel I libro, cerca di applicare, se possibile in modo ancora più preciso,
il metodo enunciato nel De partibus animalium, che risale dalle funzioni alle
parti (ossia, in presenza di una certa funzione è necessario che esistano orga-
ni deputati ad espletarla), ma dopo l’enumerazione di esse Aristotele non può
andare oltre, perché non è in grado di applicare il principio della divisione del
lavoro organico (ove possibile, ad un solo organo, un solo compito), che utilizza
invece in modo abbastanza rigoroso in un punto del capitolo 2 del I libro (2,
1252b 3). Si limita pertanto a suddividere la società nelle uniche due parti tra
loro incompatibili, ricchi e poveri (corrispondenti a costituzioni oligarchiche e
democratiche). Anche in questo caso dunque metodo della divisione e analisi
funzionale sono utilizzati in successione, e il metodo biologico (che istituisce
l’analogia tra polis e organismo vivente) è applicato nella scienza politica. Cfr.
Accattino 1978, pp. 175-178.
12
Bertelli 2011.

66
INTRODUZIONE AL LIBRO I

Sulla seconda questione il procedimento è molto simile; in questo


caso addirittura la presentazione dell’argomento che Aristotele andrà di
lì a poco ad affrontare è associata alla dichiarazione di voler procedere
«nel solito modo», quello proposto (to;n uJfhghmevnon trovpon); ad essa
segue la solita obiezione («qualcuno potrebbe porre il dubbio» di 8,
1256a 3-4), reale o fittizia, che porta alla dimostrazione e alla soluzione
attraverso dubbi e passi successivi.
L’indagine sul metodo è particolarmente interessante anche per
mettere in luce l’obiettivo di Aristotele; se da un lato Platone usa il
metodo dialettico per smontare e distruggere le opinioni correnti e le
esperienze reali, Aristotele invece dimostra di credere che le opinioni
della maggioranza e dei competenti in materia (cfr. per es. 6, 1255a 8)
possono avere un margine di verità o almeno essere utili per giungere
alla chiarezza nella soluzione dei problemi (si noti l’ampio uso di fa-
nerovn e di dh`lon nelle parti conclusive dei ragionamenti), «per costru-
ire un quadro il più possibile popolato di cose e personaggi in sintonia
col reale e corrispondenti a quello che pensano i più»13.

3. Il lessico aristotelico: alcune parole-chiave


La Politica è un’opera profondamente radicata nella realtà concre-
ta, anche se i moderni non sono in grado di coglierne appieno tutti gli
aspetti; Aristotele aveva probabilmente in animo di opporsi a coloro che
intendevano svalutare la vita pratica e già nell’Etica Nicomachea sot-
tolinea come la politica vada considerata una facoltà «architettonica» (I
1, 1094a 24 ss.): essa stabilisce quali scienze sono necessarie nella città,
e quali deve apprendere ciascuno, e fino a che punto, considerando che
sono subordinate ad essa altre scienze, come l’arte militare, l’ammini-
strazione della casa, la retorica; il suo fine è il bene supremo. Pertanto
è proprio dal mondo greco del IV secolo a.C. che occorre partire per
meglio penetrare le indagini aristoteliche in questo campo, e per evi-
tare di incorrere in eccessive generalizzazioni o modernizzazioni, che
rischiano di allontanare dalla vera comprensione del testo. Per questo
motivo serve al lettore conoscere alcuni elementi di base, che sono sot-
tesi alla terminologia usata nel I libro e nell’intera opera, e che possono
condizionare la traduzione e l’interpretazione.
a) Povli~ (polis). Traduciamo convenzionalmente con «città» questo
termine, che ha invece una connotazione ben più ampia e polisemica del
vocabolo usato nella nostra lingua, e non consente di mantenere nella tra-

13
Bertelli 2011.

67
INTRODUZIONE AL LIBRO I

duzione la connessione etimologica, che è propria del greco, tra la polis


e l’ambito semantico della politica. D’altra parte il problema lessicale è
presente anche in lingue diverse dall’italiano: per fare qualche esempio,
Saunders (1995) traduce state e Simpson (1997) city; Schütrumpf (1991,
I) sceglie staatlicher Verband, che egli interpreta come «associazione di
uomini o cittadini» (e che in lingua tedesca viene reso altrove staatli-
cher o städtischer Verband, Staat o Stadt). Egli inoltre sottolinea come la
semplice traduzione con «città» (Stadt) non possa funzionare, perché nel
senso moderno la città è strettamente connessa all’amministrazione cen-
trale o al governo provinciale, e non si pone mai il problema del governo
costituzionale, che invece è essenziale nell’opera di Aristotele, perché
evidentemente è fondamentale nel dibattito greco antico14. Allo stesso
modo a suo parere non esprime correttamente il concetto la locuzione
«città-stato» (Staat-stadt), poiché la polis come comunità politica nel
senso aristotelico non prevede un centro amministrativo di tipo statale.
Il modello greco cui qui si fa riferimento ha a che fare solo in par-
te con la nozione spaziale e territoriale connessa alla moderna idea di
città; se è vero infatti che, da un lato, il valore di polis si colloca anche
sul versante topografico e abitativo, è pur vero che, dall’altro, investe
la sfera politico-istituzionale e privilegia la componente umana e ci-
vica strutturata15. In effetti l’ampia sfera semantica del termine polis
comprende l’agglomerato urbano – che tuttavia in alcuni casi di poli-
centrismo insediativo non esiste fisicamente –, e l’insieme costituito da
questo e dal territorio circostante, che pure la identifica spazialmente,
ma indica anche e soprattutto una unità politica dotata di specifica iden-
tità e autonomia (la «comunità politica» di Aristotele, appunto), in cui
la sovranità è esercitata dai cittadini liberi. Potremmo dunque definire
la polis, nella sua accezione più comune, un insieme di «insediamento»
e «comunità», il cui centro è costituito dal cittadino16. Proprio la Poli-
tica ritorna in più punti su questo argomento, sottolineandone i diversi
aspetti: «uno solo è il luogo di una sola città e i cittadini sono quanti
hanno in comune un’unica città» (II 1, 1261a 1); la polis è koinwniva
politw`n politeiva~, «una comunità di cittadini che condividono una
costituzione» (III 3, 1276b 1-4); perché ci sia una polis però non basta
la comunanza di luogo, né il desiderio di evitare aggressioni o di favo-

14
Schütrumpf 1991, I, p. 173.
15
Moggi 2008, pp. 94-95, 100-102.
16
Sulla nozione di polis cfr. Sakellariou 1989; Ampolo 1996; Hansen 1998,
pp. 17-24; Lombardo 1999, pp. 5-36; Hansen-Nielsen 2004, pp. 39-46; Moggi
2008, pp. 94-102. Cfr. inoltre Schütrumpf 1991, I, pp. 173-174.

68
INTRODUZIONE AL LIBRO I

rire gli scambi; la polis è comunità di famiglie e stirpi in vista del vivere
bene, e il suo fine è «una vita compiuta e autosufficiente» (III 9, 1280b
30-35). Si affiancano pertanto due modi di intendere il concetto: la polis
come area abitata civilizzata, sottratta al vivere selvaggio, e la polis
come forma di comunità civica, tipica del mondo greco, di cui parla
Aristotele e che egli pone al vertice della perfezione, tale da consentire
agli individui che ne fanno parte di «vivere» – nel senso di soddisfare
i bisogni primari – e, in più, di «vivere bene», cioè raggiungere l’appa-
gamento di altre funzioni superiori (I 1, 1252b 27-30): «La comunità
perfetta (tevleio~) costituita da più villaggi è la città, che ha ormai per
così dire la completa autosufficienza, che nasce per permettere di vive-
re, che sussiste per permettere di vivere bene».
b) Oi\ko~Éoijkiva (oikos/oikia). I termini individuano tre aree di si-
gnificato: il luogo fisico di abitazione (l’edificio talora è chiamato oikia,
ma non sempre la distinzione è così netta); la casa come famiglia; la
casa come proprietà (comprendente schiavi, animali, casa e terreni, con
tutto quello che in essa viene prodotto e consumato), in una prospettiva
dinamica, mutevole17. L’oikos è la base della società e dell’economia in
Grecia, e risulta il nucleo fondamentale della polis assai più del singolo
individuo, soprattutto a partire dal IV secolo a.C., come è dimostrato
per esempio dalla legislazione ateniese, nella quale i provvedimenti per
garantire la perpetuazione della famiglia come entità socio-economica
sono assai più significativi di quelli relativi ai singoli membri18. In lin-
gua italiana non esiste un termine che possa rendere in modo efficace
tutto quest’insieme: «famiglia» pone l’accento soprattutto sui legami
tra i componenti umani (significativo il nome famuli dato in latino agli
schiavi che vivevano nella casa); del resto, peculiare della famiglia an-
tica era l’essere composta anche da elementi che non avevano tra di
loro rapporti biologici, nella fattispecie gli schiavi, del tutto assente nel
moderno concetto; «casa» d’altro canto limita l’interesse alla proprietà,
alla struttura fisica, e perde di vista le relazioni umane dei suoi membri.
Per questo motivo, soprattutto nel commento, il termine sarà reso con
casa/famiglia. Del resto anche i più adeguati household inglese e Hau-
shalt tedesco, che definiscono la casa come sistema complesso, sottoli-
neano soprattutto la proprietà a discapito delle relazioni affettive.

17
Molto efficace a questo proposito la definizione di U.E. Paoli dell’oikos
come l’organismo nel quale sono compresi cose, persone e riti, riportata da Fer-
rucci 2006, p. 183.
18
Cfr. Bodei Giglioni 1996; Pomeroy 1994; Geiger in Höffe 2005, pp. 388-
389; Nagle 2006.

69
INTRODUZIONE AL LIBRO I

In Senofonte è possibile delineare un uso sistematico dei termini


oikos – come complesso delle proprietà del titolare – e oikia – come
casa con tutti i beni presenti al suo interno e famiglia19 –. Nella Poli-
tica di Aristotele invece l’uso è apparentemente meno preciso, ma ha
ugualmente un suo criterio di sistematicità: nel I libro risulta nettamente
preponderante l’uso di oikia con 45 occorrenze; solo in quattro casi ri-
corre oikos, di cui uno all’interno della citazione di Esiodo in I 2 (1252b
13-14), a proposito della quale Aristotele spiega l’oikos come koinwniva
kata; fuvsin, quasi a voler sottolinearne, ponendo l’accento sul caratte-
re naturale, la continuità temporale nella struttura, priva evidentemente
di particolari alterazioni o mutamenti (hJ me;n ou\n eij~ pa`san hJmevran
sunesthkui`a koinwniva kata; fuvsin oi\kov~ ejstin)20. In 3, 1253b 2-3
si dice poi che pa`sa ga;r suvgkeitai povli~ ejx oijkiw`n, «ogni città con-
sta di case», e le oikiai si strutturano intorno alle relazioni tra i compo-
nenti umani liberi, giacché gli schiavi sono parte della proprietà – come
dimostrato in III 4, 1277a 7-8: oijkiva ejx ajndro;~ kai; gunaikov~, kai;
kth`si~ ejk despovtou kai; douvlou, in I 3, 1253b 23: hJ kth`si~ mevro~
th`~ oijkiva~ ejsti, ed inoltre da Aristotele, Oec. I 2, 1343a 18: mevrh de;
oijkiva~ a[nqrwpov~ te kai; kth`siv~ ejstin –. In sostanza la prevalenza
di oikia rispetto a oikos nella Politica potrebbe avere un preciso signi-
ficato: quello di salvaguardare l’identità della casa/famiglia all’interno
dei suoi confini di fronte alle spinte centrifughe espresse dal concetto
senofonteo di oikos, che sottolinea la centralità della proprietà del pa-
drone indipendentemente dalle relazioni interne al gruppo familiare. Va
tuttavia sottolineato che l’uso dei due termini non è comunque rigoroso
neppure nei documenti ufficiali, dove si registra una prevalenza di oi-
kia in quanto «edificio» o al limite gruppo familiare, mentre oikos, in
quanto patrimonio, è più presente nelle orazioni di successione e nel
diritto privato.
Nella Politica, l’oikia è la prima comunità umana per natura (I 2,
1252b 10, ma si noti invece l’uso di oikos poco più avanti, a 1252b 14);
nell’impostazione teleologica di Aristotele essa ha il fine di soddisfare
le necessità quotidiane ed ha pertanto un minimo di autosufficienza, che
le consente di essere l’unità di base della polis; le relazioni al suo inter-
no si basano su due principi fondamentali, la gevnhsi~ («generazione»,

19
Xen. Oec. 1, 5: oi\ko~ de; dh; tiv dokei` hJmi`n ei\nai; h] kai; o{sa ti~ e[xw th`~
oijkiva~ kevkthtai, pavnta tou` oi[kou tau`tav ejstin; jEmoi; gou`n, e[fh oJ Kritov-
boulo~, dokei`, kai; eij mhd∆e[n th/` aujth/` povlei ei[h tw/` kekthmevnw/, pavnta tou`
oi[kou ei\nai o{sa ti~ kevkthtai.
20
Cfr. Ferrucci 2006, p. 188.

70
INTRODUZIONE AL LIBRO I

tipica della relazione maschio-femmina) e la swthriva («sopravviven-


za», tipica del rapporto comandante-comandato, o padrone-schiavo).
Aristotele mette in evidenza tre tipi di legami: padrone-schiavo, marito-
moglie e padre-figlio, nei quali l’uomo rappresenta comunque la figura
dell’autorità. La trattazione dell’argomento occupa i capitoli dal 3 al 13;
il maggiore spazio è dedicato al primo dei tre legami (capp. 3-8).
c) Koinwniva (koinonia). È il termine con cui si apre la Politica
e che percorre l’intero sviluppo argomentativo del I libro; si tratta di
uno dei concetti di base della teoria politica aristotelica, ma Aristotele
non tratta l’argomento sistematicamente in nessuna delle opere in no-
stro possesso. L’uomo è definito nell’Etica Eudemia (VII 10, 1242a 25)
zw`on koinonikovn, «animale atto a vivere in comunità»; dall’Etica Ni-
comachea (V 8, 1133a 16 ss.) veniamo a sapere che la koinonia consiste
di almeno due esseri umani diversi, non uguali. Dal capitolo 8 del VII
libro della Politica (1328a 25 ss.) apprendiamo poi che «tutti i mem-
bri di una comunità devono partecipare in modo uguale o disuguale a
qualcosa di comune e di identico: cibo, o territorio o qualcos’altro del
genere». L’elemento comune intorno al quale si costituisce la koinonia
può essere anche il suo fine, e questo è proprio il punto di partenza
della Politica: ogni comunità si costituisce in vista di un qualche bene
(1, 1252a 2) e il bene più grande è quello a cui tende la polis, koinonia
politike, che è appunto la koinonia più importante di tutte, quella che
comprende tutte le altre (cfr. anche VII 8, 1328a 35-37: la città è una co-
munità di uguali, che ha come fine il raggiungimento della vita migliore
possibile). Ed in effetti di koinoniai si parla per le parti costitutive della
polis, l’oikia e il villaggio, ma anche per le unità elementari che forma-
no la famiglia stessa, quelle date dalla relazione padrone-schiavo, ma-
rito-moglie e padre-figlio (I 3, 1253b 2 ss.). È dunque particolarmente
significativo che le parti minime dell’analisi aristotelica siano costituite
non da singoli individui (ed è una delle critiche rivolte alla costruzione
dello stato platonico in II 2, 1261a 17 ss. e II 5, 1263b 32 ss.), ma da
relazioni che Aristotele identifica con forme di koinoniai. Se esistono
tipi di comunità i cui membri si trovano tutti allo stesso livello, come la
koinonia allaktike, fatta per lo scambio commerciale – gli esseri umani
si associano in quanto possessori di beni e al fine di scambiarli: chi non
necessiti di qualcosa o di qualcuno non può entrare in una koinonia –, si
registra soprattutto l’esistenza di tipi di koinoniai nelle quali i membri
hanno tra di loro livelli di relazione diversi. Questo è vero per le forme
di comunità descritte nel I libro – la famiglia, il villaggio, la polis – per-
ché qui i membri sono legati dalla relazione a[rcwn-ajrcovmeno~, «chi
comanda»-«chi è comandato».

71
INTRODUZIONE AL LIBRO I

d ) Crhmatistikhv (chrematistike). Con il termine crematistica, reso


così in italiano per l’impossibilità di trovare un vocabolo adeguato che
non sia una lunga perifrasi – a differenza per esempio della maggiore
incisività del termine inglese business, usato da Lord e da Simpson21 –,
si intende l’arte di acquisire beni in senso lato (procurati producendo,
acquistando, scambiando beni o denaro), e anche l’arte di acquisire il
denaro che serve per comprare i beni (entrambi indicati in greco con
crh`maÉcrhvmata). Le prime attestazioni si trovano in Platone (Gorg.
477e-478a 8, dove è collegato alla scienza del medico e al diritto; Resp.
IX 581 c-d; Phaedr. 248d)22; in Senofonte non esiste il termine, ma
il concetto è associato a quello di oikonomia nell’Economico (6, 4).
Nella Politica, mentre si può affermare che il vocabolo in I 3, 1253b
14, al suo apparire, assume un valore del tutto neutro, sovrapponibile a
kthtikhv – usato sinonimicamente ancora nel capitolo 8 (1256b 27) –,
tra il capitolo 8 e il capitolo 9 dall’ambito semantico generico dell’ac-
quisizione si spinge a quello, più comune, di “tecnica del far denaro”,
«connessa a una specifica nozione del bene acquisito»23.

4. Le sezioni argomentative

4.1. L’antropologia
La Politica, il cui contenuto, come si è detto, è enunciato a conclu-
sione dell’Etica Nicomachea, completa, in termini di filosofia pratica,
la concezione aristotelica di quale sia il bene supremo dell’uomo, cioè
la felicità. Nell’Etica la felicità è la realizzazione delle capacità proprie
dell’uomo attraverso il giusto; nel I libro della Politica risulta chiaro
che l’uomo può realizzare pienamente il proprio essere uomo solo nella
città.
A conclusione del capitolo 1 Aristotele si propone di fornire la chia-
ve per comprendere le parti della città attraverso il metodo della divi-
sione; il capitolo 2 si apre invece con l’indicazione di un nuovo modo
di procedere, pur con lo stesso scopo: l’osservazione del modo in cui
esse si sviluppano naturalmente dal loro principio. Non si tratta tuttavia
di una indagine storica, nel senso di una narrazione diacronica delle
fasi successive che hanno condotto, nell’interpretazione aristotelica,
alla costituzione della polis. Non possiamo definirla tale innanzitutto

21
Lord 1984; Simpson 1997.
22
Cfr. Natali 1989, pp. 297-299 e Faraguna 1994, p. 556.
23
Campese 2005, p. 9.

72
INTRODUZIONE AL LIBRO I

perché il filosofo non ci parla di un passato che si evolve e diviene un


presente, ma descrive piuttosto un presente (la polis) che è il prodotto
di sopravvivenze di un passato senza tempo. In effetti la narrazione
aristotelica non ha alcun carattere di storicità, né spaziale né temporale.
Non vi si fa riferimento alcuno a luoghi e tempi; si risolve in un «re-
soconto schematico di tendenze successive: la formazione di famiglie,
di villaggi, di città»24. Essa è senza dubbio il frutto di riflessioni dello
stesso Aristotele, accanto al recupero di caratteri che ritroviamo in altre
opere della letteratura greca (opere storiche, i racconti platonici per es.
della Repubblica e delle Leggi) e che immaginiamo siano venuti alla
luce dagli studi preliminari alla redazione delle 158 costituzioni com-
missionate agli allievi.
L’espressione che l’uomo è «per natura un animale politico» (I 2,
1253a 3) sintetizza sostanzialmente tutto il percorso dell’argomenta-
zione di Aristotele: la natura, come spiega nel capitolo 2, non è una
condizione primitiva (come la intenderanno i filosofi del XVII e del
XVIII secolo), ma il punto di arrivo, il fine dell’uomo, la massima re-
alizzazione del sé, che avviene solo all’interno della comunità politica
la quale, essendo al vertice tra le forme di aggregazione, è quella che
può realizzare il bene supremo, quindi la felicità. L’uomo, prima (ma in
senso di valore, non di tempo) di appartenere alla città, appartiene alla
famiglia ed eventualmente al villaggio, e si colloca all’interno di que-
ste forme di comunità realizzando gradi diversi di autosufficienza, per
raggiungere appunto l’eu zen, il «vivere bene» all’interno della polis.
Non vi è dubbio che dal punto di vista della genesi la famiglia precede
la città e fornisce quindi la struttura relazionale di base (le relazioni
padronale, politica e regale) che poi si ripercuote nella città a un livel-
lo superiore, ma Aristotele intende fornirci un’ immagine della società
greca del suo tempo (anche se non proprio degli anni in cui scriveva), e
non certo un percorso evolutivo da una società arcaica semplice ad una
complessa al culmine dell’evoluzione.
Nel I libro si delinea un’antropologia, «che il linguaggio della phy-
sis configura come una sorta di etologia», giacché l’essere umano è per
natura spinto alla formazione di una comunità, all’interno della quale
realizza la sua essenza, che è il suo fine. Si tratta di un processo bio-
logico basato su una «sequenza di aggregati sociali che convergono in
altri più ampi, qualificati a svolgere una funzione più complessa, che
ingloba quelle erogate dagli aggregati precedenti», che «pur situata nel

24
Saunders 1995, p. 60.

73
INTRODUZIONE AL LIBRO I

tempo, non presenta la contingenza dei processi storici, ma la necessi-


tà dei processi naturali»25. L’antropologia aristotelica è quindi volta a
porre le fondamenta per la definizione del bios politico e pratico, che si
esprime attraverso la «partecipazione all’amministrazione della città e,
in generale, alle relazioni comunitarie»26, vero scopo della trattazione
dell’opera.

4.2. L’oikonomia
La sezione centrale del libro I è dedicata da Aristotele ad analizzare
l’oijkonomiva, l’amministrazione domestica, nelle sue parti costituenti;
è particolarmente importante rilevare come il termine greco non possa
essere tradotto tout court con l’italiano «economia», che perde comple-
tamente di vista l’elemento principale del termine e del concetto, cioè
quella relazione con l’oikos, la casa/famiglia, che è centrale nell’analisi
aristotelica. Anzi, possiamo dire con chiarezza che Aristotele, nella Po-
litica, non si occupa affatto di economia, ma appunto di oikonomia.
L’oikonomia in senso astratto nasce (ma sarebbe meglio dire “si
rivela”) soltanto nel IV secolo a.C.: la prima attestazione in nostro pos-
sesso si trova in Platone (Apol. 36b 7)27. Prima di questo momento sono
attestati solo l’aggettivo oijkonovmo~, amministratore in senso lato, e la
forma verbale, da Focilide (fr. 2 Gent.-Pr.) a Eschilo (Agam. 155) e
Sofocle (Electr. 190) fino a Lisia (7) e Crizia (88 F 2 DK). Il termine oi-
konomia nasce in ambito privato nel senso di «amministrazione dell’oi-
kos» e si occupa di tutto ciò che è relativo all’oikos, cioè dei beni e
delle persone che ne fanno parte nelle loro relazioni (cfr. Pol. I 2, 1253a
23 ss., b 3-11; 13, 1259b 18-21 e inoltre Oec. I 2, 1343a 18 e Philod.
Oec. col. VIII Jensen); il vocabolo tuttavia non ha mantenuto lo stesso
valore nella sua storia, ed anzi è proprio Aristotele a documentare che
nel IV a.C. secolo esso uscì dall’ambito strettamente privato della casa/
famiglia per allargarsi al campo dell’amministrazione della polis28, in
particolare a quello delle entrate e delle uscite29. Senofonte (Oec. 6, 4)

25
Campese 2005, p. 5.
26
Campese 2005, p. 6.
27
Cfr. Spahn 1984, p. 302.
28
Si noti l’uso metaforico p. es. di dioikei`n in relazione alla città in Thuc.
III 37, 3 o in Aristoph. Eccl. 305-306.
29
Da segnalare la classificazione dei tipi di oikonomiai del II libro dell’Eco-
nomico pseudo-aristotelico, 1345b 11-1346a 16: oijkonomivai dev eijsi tevttare~:
... basilikhv, satrapikhv, politikhv, ijdiwtikhv, che rivela come ad un certo
punto esistessero forme diverse di amministrazione finanziaria collegate a quelle
di organizzazione politica.

74
INTRODUZIONE AL LIBRO I

ci dice che hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h|Ê oi[kou~ duvnantai au[xein
a[nqrwpoi, ma è anche un altro prezioso testimone del collegamento
dell’oikonomia, non più esclusivamente legata alla sfera della famiglia,
con le attività economiche dello stato – in An. I 9, 19 l’espressione
deino;~ oijkonovmo~ viene usata in relazione ad un sottoposto di Ciro con
funzioni pubbliche –, parallelamente a un certo numero di iscrizioni
del IV secolo a.C. nelle quali il titolo di oikonomos era assegnato a
funzionari con responsabilità amministrative e finanziarie. L’uso della
terminologia propria dell’amministrazione domestica anche per le que-
stioni della polis è documentata proprio nella Politica (III 18, 1288a
34; IV 15, 1299a 23). Ma, come sottolinea R. Zoeppfel nel suo monu-
mentale commento all’Economico pseudo-aristotelico30, vale poco la
discussione terminologica se essa non corrisponde a una riflessione sul
concetto, che si può ravvisare a partire dalle fonti più antiche; l’as-
senza di un termine, precisa appunto la studiosa, può senz’altro essere
determinata non tanto dall’assenza del dibattito sull’argomento quanto
dalla tipologia delle opere pervenuteci e dall’uso linguistico letterario
di quelle opere, che non riproduce certo la lingua d’uso31. E anche l’im-
piego della terminologia nelle citazioni tarde delle opere greche classi-
che non può che destare qualche sospetto e non può essere certo preso
alla lettera. Qualunque sia il termine usato per esprimere il concetto, va
però sottolineato che la corretta comprensione del tema è stata a lungo
minata dal tentativo, da parte degli studiosi moderni, di ravvisare nelle
opere antiche le radici del moderno concetto di economia – con i noti
deludenti risultati –, portati fuori strada dalla somiglianza terminologi-
ca e dal mancato collegamento del problema con la realtà della società
greca32, e quindi dal legame del concetto con la struttura familiare e
con le relazioni di questa con la polis, che sono poi gli elementi predo-
minanti nella riflessione della Politica aristotelica; questa necessità è
messa in luce solo a partire dall’opera di Polanyi33, secondo cui l’eco-
nomia greca può essere studiata solo all’interno delle istituzioni che le
sono proprie, in quanto embedded, integrata, alla società nel suo com-
plesso. Con estrema semplificazione si può dire che per lungo tempo

30
Zoeppfel 2006, pp. 51-52.
31
Vale l’esempio di hiatros, presente già nell’epica, e di hiatrike, forma at-
testata solo a partire dal Corpus Hippocraticum, quando la scienza medica trova
per la prima volta una tradizione scritta; hiatrikos compare in Platone (p. es. in
Prot. 313e 2; Gorg. 460b 3; Resp. I 350a 1; X 599c 1; Leg. XII 963b 5).
32
Cfr. p. es. Ampolo 1979; Vegetti 1982; Spahn 1984; Descat 1988.
33
Polanyi 1944; Id. 1966; Id. 1968.

75
INTRODUZIONE AL LIBRO I

la cosiddetta dottrina prevalente è stata rappresentata dalle posizioni di


Finley34: usando, per sua stessa ammissione, categorie analitiche elabo-
rate per le società moderne, egli svalutava del tutto i risultati del pen-
siero economico greco, ritenendo che gli scritti di economia antichi si
caratterizzassero per la totale assenza di mentalità economica nel senso
moderno del termine; questo criterio era tuttavia inapplicabile alla si-
tuazione greca antica. Negli ultimi decenni è ormai generalmente accer-
tato che l’economia moderna eredita il nome dall’oikonomia greca, ma
non il reale e originario significato. L’economia come oggi viene inte-
sa, «incentrata sull’insieme dei fenomeni che riguardano la produzione,
lo scambio e la distribuzione dei beni materiali»35 è definita come la
scienza che studia il complesso delle risorse e delle attività dirette alla
loro utilizzazione ovvero la scienza che studia la produzione, la distri-
buzione e il consumo dei beni e dei servizi. Come si vede, essa va nella
direzione opposta all’analisi teorica aristotelica, e non è in alcun modo
messa in relazione con i rapporti interni alla famiglia e ancor meno con
le sue relazioni morali, come deduciamo invece dalla definizione impli-
cita in alcune opere che riguardano la materia, tra cui l’Economico di
Senofonte, la Politica di Aristotele e l’Economico pseudo-aristotelico,
che, pur probabilmente non autentico, prova comunque la coerenza del-
la scuola aristotelica. La delusione per non aver trovato in questi scritti
i semi del moderno pensiero economico, a lungo ricercati dagli studiosi,
si è però ora trasformata in una produttiva analisi degli aspetti dinamici
del cosiddetto pensiero economico greco36, che corrispondono agli ele-
menti di dinamicità propri anche della realtà dell’oikos, sebbene le fonti
legislative ed oratorie ce ne diano in genere un quadro piuttosto statico
e tradizionale37. Lungi dall’essere una disciplina teorica, l’oikonomia
correttamente intesa ha un ruolo decisamente pratico ed è oggetto di
interesse della politica in quanto trova la sua applicazione all’interno
della casa/famiglia, che è parte fondamentale della città.
A partire da I 3, 1253b 1-14, per proseguire poi all’inizio di I 4,
1253b 23-28 e nella restante parte del I libro (capp. 4-13), Aristotele
tratta i rapporti gerarchici fondanti della prima comunità umana per
natura. L’inizio del capitolo 3 fa riferimento diretto a I 1, 1252a 18-23,

34
Finley 19852.
35
Faraguna 1994, p. 554.
36
Come sottolineato da Faraguna 1994, p. 577, «la varietà e molteplicità di
opinioni espresse dagli autori antichi, ricostruibili attraverso affermazioni più o
meno esplicite riscontrabili nei loro scritti».
37
Ferrucci 2006, p. 184.

76
INTRODUZIONE AL LIBRO I

che si era chiuso con il proposito metodologico di indagare le parti co-


stitutive della città. Da questa sorta di schematica introduzione risulta
chiaro che l’oikonomia, in quanto amministrazione domestica, ha il suo
fondamento negli elementi che compongono la famiglia, già in gran
parte individuati da Aristotele: il padrone-marito-padre, lo schiavo, la
moglie, i figli – le cui relazioni reciproche vengono singolarmente af-
frontate nei capitoli seguenti – e i beni. Il rapporto padrone-schiavo è
oggetto d’indagine nei capitoli 4-7, con una breve appendice nel 13;
le relazioni marito-moglie e padre-figlio sono trattate rapidamente nei
capitoli 12-13. Viene introdotto in questa sede anche un altro oggetto
d’indagine, la crematistica, arte di acquisire beni, che avrà una sua trat-
tazione specifica nei capitoli 8-11.
Lo schema trova una precisa corrispondenza nella struttura del grup-
po familiare all’interno della società greca e in particolare nell’immagi-
ne che della famiglia greca ci dà l’oratoria giudiziaria, sotto il profilo del
diritto: la gerarchia familiare era estremamente chiara e coinvolgeva tut-
ti i membri, anche i liberi, nelle loro relazioni, non soltanto i liberi nei ri-
guardi degli schiavi; per questo motivo occorre vedere il capofamiglia (e
questo è appunto ciò che almeno all’inizio Aristotele si propone di fare)
nelle relazioni con gli altri membri, nel ruolo quindi di marito, padrone
e padre, corrispondenti a poteri e responsabilità diverse nei confronti di
coloro che gli sono «legalmente subordinati»38. Ma questa distinzione
non ha solo un valore legale e ancor meno si limita a regolare le funzioni
interne alla casa/famiglia nel caso che sorgano problemi giuridici. È un
fatto che i titolari di oikoi ad Atene costituivano la cittadinanza; pertanto,
come sottolinea Ferrucci, «la figura del titolare dell’oikos rappresenta il
tramite tra la sfera pubblica e politica e quella privata e domestica»39.
Se il kuvrio~, il capofamiglia, esercita direttamente poteri e responsabi-
lità all’interno del suo nucleo familiare (si noti che in 8, 1256a 12-13 il
termine oijkonomiva indica il sovrintendere all’uso dei beni della casa),
è pur vero che ciò gli è richiesto non solo per il buon funzionamento
della casa/famiglia, ma anche per poter partecipare a pieno titolo della
cittadinanza ed esercitarne le prerogative. Per questo motivo la trattazio-
ne dell’oikonomia (focalizzata sul ruolo del capofamiglia) così com’è
affrontata nel I libro è, in una prospettiva antropologico-sociale, prepa-
ratoria e al tempo stesso esegetica dell’analisi politica vera e propria, che
riguarda la polis e il cittadino come agente centrale.

38
Ferrucci 2006, p. 201.
39
Ferrucci 2006, p. 202.

77
INTRODUZIONE AL LIBRO I

In questo quadro il tema dell’amministrazione della casa è solo


apparentemente slegato anche dall’argomentazione precedente, cioè le
parti della città, comunità perfetta e autosufficiente, da cui si era par-
titi all’esordio. In realtà il ragionamento aristotelico procede secondo
un percorso coerente che ha avuto inizio dal primo capitolo: avviato
con l’obiettivo di dimostrare che le forme di comando differiscono per
specie e non per quantità di subordinati, si è sviluppato attraverso l’in-
dagine delle parti di cui si compone la città e dei loro fini specifici, mo-
strando tra l’altro che le singole parti non possono sussistere indipen-
dentemente dall’intero; ora, considerando più nel dettaglio queste parti,
si ritorna alla disamina dei ruoli di comando che le caratterizzano.
Facendo uso anche qui della metodologia consueta dell’analisi
attraverso ampliamenti progressivi al fine di raggiungere la compren-
sione dell’unità che ne esprime la compiutezza, Aristotele prende le
mosse dalle unità elementari della famiglia, con cui si identificano
le parti dell’oikonomia: studiate nella loro natura e nella loro qualità
(poi`on dei` ei\nai), e nelle relazioni dei loro membri, esse fornisco-
no indicazioni sulle parti dell’amministrazione domestica di cui sono
oggetto, e che sono il campo d’indagine delle successive sezioni del
libro I. Dato che l’oikia è composta di esseri umani e beni, Aristotele
procede a trattare prima dei componenti ‟umani” (liberi e schiavi), poi
dei beni (la figura dello schiavo fa ovviamente da cerniera tra le due
porzioni). L’oikonomia ha dunque tre parti che corrispondono alle tre
relazioni dei componenti (padrone-schiavo, marito-moglie, padre-fi-
glio), non singoli individui, bensì comunità elementari strutturate sulla
base delle relazioni reciproche dei membri già delineate nel capitolo
precedente; ad esse si aggiunge una presunta quarta parte – sembra
del tutto improbabile già qui la possibilità proposta da Aristotele che
la crematistica esaurisca l’intera amministrazione domestica, ma poi
viene detto esplicitamente in 8, 1256a 15 ss. –, la crematistica, che si
occupa della proprietà; Aristotele si propone dunque di indagare «che
cosa sia» e «di quale qualità debba essere» ciascuna delle tre parti/
relazioni della casa; l’analisi occuperà in maniera più o meno diretta la
parte restante del libro.

4.3. La schiavitù
Nel capitolo 4 Aristotele muove dalla premessa che per vivere
l’uomo ha bisogno della proprietà, che è parte della casa, nucleo vitale
dell’aggregazione umana, senza la quale non si può arrivare alla per-
fezione della polis. Quindi, l’uomo «politico» deve vivere all’interno
della famiglia e non può prescindere dalla proprietà. Di essa fanno parte

78
INTRODUZIONE AL LIBRO I

gli schiavi, che sono parte del padrone, sebbene distinta da lui, e sono
strumenti animati nelle sue mani per raggiungere il fine del «vivere»,
punto di partenza per arrivare alla felicità data dalla vita nella polis. Per
raggiungere il bene o la felicità è necessario dunque essere in grado di
contare sul lavoro materiale di altri.
La lunga sezione sulla schiavitù è allora perfettamente funzionale
all’indagine sull’oikos/oikia, e si può supporre che non nasca come ri-
sposta polemica a discussioni in corso40 o come tentativo di risolvere
una questione che si sentiva problematica nella sua essenza, giacché
Aristotele stesso viveva in una società in cui il lavoro era affidato es-
senzialmente agli schiavi, e la sua difesa della schiavitù era legata al
modello sociale a cui era abituato; per inquadrarla nel filo conduttore
del libro, dato dai due elementi del fine e della naturalità, Aristotele
ha bisogno di risolvere una serie di aporie determinate dal fatto che
si tratta di un problema concreto e quotidiano. Il filosofo intende dun-
que dimostrare che la presenza degli schiavi – e quindi la relazione
padrone-schiavo – è necessaria (e utile) perché è naturale; in sostanza
deve esistere perché è quello che in generale accade (come cerca di
dimostrare nel capitolo 5). Il suo ragionamento pertanto è tutt’altro che
aprioristico e ideologico – come è stato invece ritenuto innumerevoli
volte in passato dai commentatori, che ne hanno fatto la bandiera del
giustificazionismo della schiavitù – ma è piuttosto induttivo, e parte
dall’osservazione «di ciò che accade» (5, 1254a 21).
Per inserire lo schiavo tra le cose che sono per natura – e quindi
porlo a buon diritto tra le parti necessarie dell’oikia e tra gli oggetti
di interesse dell’attività dell’oikonomos – l’argomentazione aristotelica
parte dalla dimostrazione che esistono nella realtà schiavi per natura e
che il loro ruolo rappresenta ciò che è meglio e giusto. Per arrivare a ciò
è opportuno dimostrare che la schiavitù è naturale e giusta perché alcu-
ni uomini sono stati resi dalla natura incapaci di pieno sviluppo umano;

40
Cfr. per esempio il retore del V secolo a.C. Antifonte (fr. 44 B col. 2 l.13
DK: «per natura siamo nati tutti simili in tutto, barbari e Greci. La prova è che
tutti gli uomini ritengono le stesse cose necessarie per natura, se le procurano
nello stesso modo, e in queste questioni non c’è distinzione tra greco e barbaro:
tutti respiriamo l’aria con bocca e narici e usiamo le mani per mangiare») o il
poeta comico del IV secolo Filemone (fr. 95 K: «benché un uomo sia schiavo,
la carne è la stessa nostra; infatti per natura nessuno nasce per essere schiavo»).
Una riflessione più articolata, a livello filosofico ed ideologico, sarà sviluppa-
ta, a partire dal relativismo sofistico, con il pensiero stoico, cinico ed epicureo.
Sulle istanze culturali legate al problema della schiavitù cfr. Cambiano 1987;
Schofield 1990, pp. 16-27; Brunt 1993, pp. 343-388, spec. pp. 351-356; Garnsey
1996, p. 74; Moggi 2005, pp. 206-214.

79
INTRODUZIONE AL LIBRO I

è nei piani della natura il fatto che essi debbano servire come strumenti
per la buona vita di coloro che sono capaci di guidarli.
Il ragionamento parte dal principio che in ogni composto formato
di parti che rappresentano un’unità esistono un elemento che comanda
e uno che è comandato per natura; se ne ricordano alcune diverse tipo-
logie, all’interno dell’essere vivente in generale, nel rapporto uomo-
animale, nella relazione maschio-femmina e infine in quella padrone-
schiavo41. Per meglio spiegare questo concetto Aristotele ricorre al pa-
rallelo con la divisione di ogni essere vivente in anima (comandante)
e corpo (comandato) e dell’anima in parte razionale (comandante) ed
emotiva (comandata), che rappresenta la condizione ottimale e il con-
sueto ordine naturale; nella relazione padrone-schiavo dunque lo schia-
vo sarà collocato al livello del corpo e della parte emotiva dell’anima.
Queste premesse portano ad una definizione dello schiavo per natura
per gradi successivi: schiavo è «chi è potenzialmente in condizione di
appartenere ad un altro uomo, e perciò appartiene a un altro» (5, 1254b
20-22); fa uso del corpo e questo è il suo compito e quel che di meglio
si può ottenere da lui; partecipa della ragione nella misura in cui può
percepirla, ma non possederla ed è quindi legato a chi di fatto possiede
la ragione (il padrone), al quale obbedisce; il tipo di attività che svolge
lo avvicina agli animali domestici42.

41
Aristotele impiega una enorme quantità di modelli diversi per esprimere il
carattere, lo status e la funzione dello schiavo: possessore/possesso, utilizzatore
dello strumento/strumento, uomo/animale, ragione/emozione, anima/corpo, parte/
intero, animato/inanimato (Saunders 1995, p. 102). Ciascuna di queste coppie di
opposti cerca di catturare una parte della visione generale, ma non vi è una tratta-
zione armonica d’insieme del problema, che si dipana nel corso dell’intero libro e
ancora in alcuni altri punti dell’opera e presenta numerose difficoltà esegetiche.
42
Appare suggestiva, ma difficilmente dimostrabile sulla base del ragio-
namento di Aristotele, l’opinione espressa da Simpson (1998, pp. 37-38) nel
commento a I 6, 1254b 17: nel parlare di persone che sono nella condizione
di schiavi per natura, nel senso che sono quelli la cui opera migliore è l’uso
del corpo, Aristotele usa diakeintai, indicando una condizione e riferendosi alla
«generazione» o alla nascita; questa condizione potrebbe essere dunque il pro-
dotto non solo della nascita, ma del «venire ad essere» (coming into being) in
questa condizione per cui lo schiavo per natura potrebbe non esserlo per questio-
ni di nascita, ma potrebbe diventarlo in modi diversi: per caso, per educazione
o anche per scelta. Il paragone con gli animali potrebbe essere in questo senso
illuminante: gli animali domestici infatti diventano tali non per nascita, ma per
educazione ed esercizio, anche se non sono per natura in questa condizione. Per-
tanto, dall’interpretazione di Simpson si potrebbe dedurre che quella di schia-
vo per natura sia per alcuni una condizione di nascita e per altri una forma di
«generazione» successiva, dovuta a un errore della natura che non ha realizzato
appieno il proprio telos.

80
INTRODUZIONE AL LIBRO I

Questi parametri possono dunque servire, secondo Aristotele, per


valutare se esistano schiavi per natura ed eventualmente per separare
coloro per i quali è giusto ed utile essere schiavi – in quanto appunto
schiavi per natura – da coloro che non lo sono a buon diritto.
Da questa premessa, sviluppata nel capitolo 5, Aristotele può par-
tire per affrontare la seconda questione: la schiavitù per convenzione
e fondata sulla forza ha ragione di esistere soltanto se coloro che sono
asserviti sono schiavi per natura, altrimenti si tratta di una palese ingiu-
stizia. Questa seconda parte dell’argomentazione è delineata attraverso
la risoluzione di aporie successive, che Aristotele inserisce all’interno
di un dibattito, reale o fittizio – non abbiamo gli strumenti per valutarlo
– sull’argomento. Aristotele in realtà riporta tutta la dimostrazione alla
questione dello schiavo per natura, sottolineando che anche l’opinione
di eventuali detrattori della schiavitù può essere condivisibile se colle-
gata al fatto che esistono schiavi ingiustamente asserviti con la violenza
perché non sono tali per natura. Se cioè coloro che sono diventati schia-
vi kata; novmon, per legge, o in virtù di una oJmologiva – un accordo tra
le parti che prevede che il vincitore in guerra prenda possesso di tutti i
beni del vinto –, non hanno il carattere degli schiavi per natura, la loro
schiavitù è ingiusta e pertanto non utile. Se non ci si pone da questo
punto di vista perdono valore anche le altre percezioni del problema:
quella di coloro che considerano spaventoso che chi può esercitare la
violenza ed è superiore in potenza sottometta arbitrariamente chi è og-
getto della sopraffazione, ma anche quella di alcuni saggi, che questo
modo di fare sia il prodotto di una superiorità in virtù del vincitore sul
vinto e giustifichi quindi la violenza in quanto rappresenta una forma di
«benevolenza» (eu[noia).
Le due posizioni – dei sostenitori della «legge del più forte» e
dell’associazione virtù-esercizio della violenza – vengono pertanto
ricondotte da Aristotele alla questione dello schiavo per natura: inu-
tile concentrare l’attenzione sul carattere dell’azione di asservimento
(violenza o benevolenza, guerra giusta o ingiusta), l’unico modo per
valutare la legittimità di una relazione di schiavitù è che lo schiavo
sia tale per natura. La dimostrazione aristotelica vale quindi per quelli
naturalmente destinati a obbedire fin dalla nascita (e a comandare), ma
non può funzionare altrettanto bene con coloro che diventano schiavi
in un secondo momento, figli di genitori (apparentemente) liberi. Ma il
problema è già stato in sostanza risolto nel capitolo 2: per i Greci tutti
i barbari sono schiavi (e lo sono evidentemente per natura). Dal mo-
mento che la realtà prova che la stragrande maggioranza degli schiavi
proviene dai cosiddetti popoli barbari o discende da essi, la naturalità

81
INTRODUZIONE AL LIBRO I

della relazione di dipendenza è salva. Per questa ragione chi condivide


tale posizione può essere portato facilmente a legare la schiavitù per
natura ai barbari; in realtà Aristotele, nell’identificare lo schiavo per
natura, non ha mai parlato di barbari, ma ha sempre e soltanto fatto
riferimento a caratteristiche tipiche dell’anima. Il collegamento della
schiavitù con l’essere barbaro è pertanto solo un corollario della de-
finizione aristotelica, che evidentemente giustifica l’opinione comune
(bouvlontai levgein: 6, 1255a 29) e l’osservazione della realtà: i Greci
non saranno mai schiavi, in quanto superiori per natura, e i barbari lo
saranno sempre.
Per giustificare in maniera adeguata la relazione padrone-schiavo
è tuttavia necessario valutare che anche il padrone nella relazione sia
tale per natura, a costo di minare alle fondamenta tutto il ragionamento.
Il criterio di valutazione del padrone per natura è pertanto legato ai
parametri di nobiltà e nascita libera, che non possono essere fondati
esclusivamente sulla discendenza o la provenienza, ma necessitano del
rigido criterio di valutazione dei caratteri dell’anima.
Come c’è uno schiavo per natura, c’è dunque tendenzialmente an-
che un padrone per natura; nella prospettiva aristotelica, l’asservimento
risulta normalizzato, e la violenza che esso implica legittimata, median-
te l’identificazione, nella figura del barbaro, dello schiavo ‟potenziale”,
o per natura, con lo schiavo di fatto, nella situazione sociale greca del
IV secolo43. Questa saldatura di analisi teorica e di circostanze fattuali è
sottolineata da Aristotele (4, 1254a 20-21): «tutto ciò non è difficile sia
osservarlo a livello razionale (tw' lovgw/ qewrh'sai) sia apprenderlo dai
fatti (ejk tw'n gignomevnwn katamaqei'n)»44.

4.4. La crematistica
Dopo aver elencato le parti dell’amministrazione domestica in rela-
zione alla composizione della casa/famiglia in termini di liberi e schiavi
(3, 1253b 1-11), Aristotele introduce ancora un elemento, la cremati-
stica, arte di procurarsi beni, che ha a che fare non tanto con i rapporti
tra i membri della famiglia quanto con la proprietà, l’altro costituente

43
Il passaggio dalla potenza all’atto (cioè da essere con caratteri di schiavo
per natura a schiavo vero e proprio) non accade spontaneamente, come avviene
in natura per quello dal seme alla pianta, ma richiede un atto violento di asservi-
mento; tuttavia, aggiunge Aristotele, è la virtù stessa a trovarsi nella condizione
di poter usare la violenza (bia), e quindi questa non appare disgiunta dalla virtù
nel porre in atto l’asservimento (6, 1255a 13-16; Vegetti 2000, p. 73).
44
Cfr. Vegetti 2000, pp. 73-74.

82
INTRODUZIONE AL LIBRO I

dell’oikos, che approfondirà in seguito (capp. 4 e 8-11). Dalle poche


informazioni preliminarmente riportate nel capitolo 3 apprendiamo che
si tratta di un campo discusso: per alcuni si identificherebbe addirittura
con la totalità dell’amministrazione domestica45, per altri ne sarebbe
una (quarta) parte. Il filosofo ripeterà e discuterà questo argomento in I
8, 1256a 3-10, riprendendo analiticamente i due punti del dibattito qui
solo citati; neppure più avanti tuttavia si esprimerà più chiaramente a
riguardo dei sostenitori delle diverse posizioni, impossibili da identifi-
care; come già per le sezioni precedenti, potrebbe trattarsi dell’appli-
cazione del metodo «consueto», in cui la presentazione dell’opinione
altrui è la molla da cui parte l’argomentazione, che si propone di ar-
monizzare le visioni opposte. Il milieu sociale entro il quale si muove
l’opera aristotelica ci rivela però che il problema della proprietà come
parte dell’oikos rivestiva un’importanza tutt’altro che trascurabile.
Sull’arte acquisitiva Aristotele torna all’inizio di I 4 (1253b 23-28),
denominandola però kthtikhv. Con la consueta tecnica dell’amplia-
mento progressivo prende le mosse dagli elementi minimi per arrivare
all’intero: la proprietà è parte della casa; l’arte di acquistare proprietà
è parte dell’amministrazione domestica. Questi due elementi (la pro-
prietà e la capacità di procurarsela) consentono di raggiungere il fine
proprio della casa/famiglia, il vivere, ma anche quello dell’intero (la
polis), cioè il vivere bene. Da questa precisazione risulta più chiaro che
l’arte di acquisire proprietà potrebbe rappresentare effettivamente una
(quarta) parte dell’oikonomia (dal momento che le altre tre riguardano
le relazioni umane). La kthtikhv (ktetike) del capitolo 4 (sott. tevcnh)
appare pertanto sovrapponibile alla crhmatistikhv (chrematistike) del-
la parte finale del capitolo 3, che più avanti assumerà invece anche il
significato più specifico di «arte di procurarsi ricchezza col denaro»; in
realtà vi sono altri casi in cui i due termini sono usati come sinonimi
(ad es. 8, 1256a 1, 4; 1256b 26), anche quando Aristotele ha già ope-
rato le dovute distinzioni tecniche nel loro significato (cfr. 8, 1256b
26-27; 1256b 40-41–1257a 1-5; 9, 1257b 1-5). La sovrapposizione dei
due termini ha un suo motivo nell’articolazione del ragionamento di
Aristotele: il filosofo deve spiegare che cos’è la crematistica o meglio

45
Cfr. Xen. Oec. 6, 4, dove ejpisthvmh~ mevn tino~ e[doxen hJmi`n o[noma ei\-
nai hJ oijkonomiva, hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h/| oi[kou~ duvnantai au[xein
a[nqrwpoi, oikonomia è «il nome di una scienza; questa scienza è quella per
mezzo della quale gli uomini risultano in grado di accrescere il loro patrimo-
nio»; l’oikos, o{per kth`si~ hJ suvmpasa, «si identifica con la proprietà nel suo
complesso».

83
INTRODUZIONE AL LIBRO I

come essa è generalmente intesa, e il suo ragionamento non può che


partire da elementi noti, com’è appunto la kthtikhv. Così l’aggettivo
non pretende di esaurire il concetto, ma rappresenta il punto di partenza
dell’argomentazione che per gradi successivi arriverà a una definizione
complessiva e conclusiva nel capitolo 9. La crematistica è qui l’og-
getto da studiare, non ancora definito, che deve essere spiegato perché
ci sono opinioni contrastanti. Ma senza dubbio, al di là dell’artificio
argomentativo, questo dibattito vero o presunto è la spia del fatto che
ancora una volta la sua argomentazione è fortemente sollecitata dagli
impulsi sociali e la definizione teorica si scontra con la complessità ben
maggiore della realtà. La stabilità dell’oikos è minata alla base dalla
struttura dell’economia reale e dalla mobilità sociale che, ben docu-
mentata per la realtà ateniese, sta cambiando radicalmente il sistema
delle relazioni tra struttura familiare e polis: la diffusione delle attività
finanziarie e bancarie e la circolazione dei beni in un’ottica privatistica
rappresentano spinte contrarie alla salvaguardia dell’oikonomia orien-
tata alla centralità della casa/famiglia. Per questo ha senso chiedersi se
l’«arte acquisitiva» sia una parte – dal momento che non può esaurirla
completamente – dell’amministrazione domestica e quale debba essere
il ruolo del padrone/capofamiglia nel suo esercizio.
Il filosofo finisce per distinguere «sul piano teorico»46 tra una cre-
matistica naturale47 e una non naturale – che nasce dall’esperienza e
dall’arte –, entrambe parte della ktetike, ma solo la prima parte dell’oi-
konomia (3, 1253b12 ss., 8-10, 1256a 1-1258b 8), dal momento che ha
come fine l’autosufficienza (9, 1257a 30); è suo compito indagare da
dove vengono i beni e la proprietà; «una sola specie di arte dell’acquisto
di proprietà è parte per natura dell’amministrazione domestica», quella
che serve per raccogliere i mezzi utili alla vita, che rappresentano la
vera ricchezza. Quindi la crematistica di 3, 1253b 14 e la ktetike di 4,
1253b 23 (e poi di 8) sono sovrapponibili, e Aristotele all’inizio del ca-
pitolo 4 sembra aver già risposto ai dubbi del capitolo 3 e definito l’arte
di acquisire proprietà una parte dell’amministrazione domestica, poiché
la proprietà è parte della casa: la crematistica, in generale, consta di
una parte buona, naturale, produttrice di ricchezza in termini di beni
necessari ed utili e di una ‟cattiva”, non naturale, quella che produce
solo denaro senza limiti e fine a se stesso. Il capitolo 8 mette in luce

46
Faraguna 1994, p. 556.
47
Essa è definita anche crematistica fisiologica, «tecnica del rifornimento»,
in Campese 2004, p. 155.

84
INTRODUZIONE AL LIBRO I

nuovamente l’ambiguità del termine chrematistike che, dall’ambito se-


mantico generico dell’acquisizione si spinge a quello, più comune, di
«tecnica del far denaro», «connessa a una specifica nozione del bene
acquisito», ed è la spia delle difficoltà di trovare una sistematizzazione
nel definirne l’ambito, ulteriormente ribadita all’inizio del capitolo 11,
quando Aristotele si trova a fare i conti con il «piano concreto» dell’em-
peiria a proposito della distinzione tra le forme di crematistica (che
appare a questo punto tripartita: 11, 1258b 9-39)48.
All’interno della sezione sulla crematistica notevole rilevanza as-
sume anche il discorso sulla moneta (9, 1256b 31 ss.), capace di espri-
mere nella sua lucidità un processo a cui è stato assegnato nel tempo un
preciso valore storico. La moneta nasce dallo scambio su larga scala in
modo naturale e necessario, e non ha, almeno all’inizio, un significato
negativo; esiste per facilitare lo scambio e per raggiungere quell’au-
tosufficienza che è il fine della comunità più complessa. Il pensiero
aristotelico sulla moneta è anch’esso in larga parte frutto del dibattito in
corso nel IV secolo a.C.: Aristotele fa notare che è l’opinione comune
a mettere in relazione la crematistica con la moneta e insiste sul valore
convenzionale assegnato al denaro, che può portare all’estrema funesta
conseguenza che il denaro non sia garanzia di sopravvivenza. È il pas-
saggio dall’uso strumentale della moneta all’accumulo indiscriminato
di denaro (per cui i beni o il denaro non sono più mezzo per la vita,
ma la vita stessa è dominata dal pensiero del guadagno) che sancisce
il sorgere della crematistica in senso deteriore, quella che, attraverso
manovre di carattere puramente finanziario, perde completamente di
vista il bene di cui rappresenta il controvalore. Alla luce delle premesse
fatte sull’arte acquisitiva in generale, Aristotele critica l’uso crematisti-
co della moneta allo scopo di eliminare i suoi effetti nocivi sulla società,
determinati dal commercio su larga scala, per ritornare alla consapevo-
lezza dello scambio del bene, e dunque alla valorizzazione dell’oikono-
mos, senza però rigettare il sistema monetario nella sua forma neutra
e usuale. In alcuni punti è vero però che Aristotele sembra aprirsi alla
finanza (11, 1259a 33-36): sono quelli in cui passa dalla teoria all’espe-
rienza pratica, e intravediamo la situazione reale della società greca del
IV secolo. Come rileva Faraguna, il pensiero aristotelico appare quindi
anti-economico (o meglio antimonetario) perché è contro l’uso distorto
della moneta, dello scambio, contro la perdita di valore dell’oikos come
casa/famiglia a vantaggio della centralità del patrimonio, ma è evidente

48
Cfr. Campese 2005, p. 12.

85
INTRODUZIONE AL LIBRO I

che di fronte alla situazione reale Aristotele non poteva non lavorare
sull’empiria49. L’economia market oriented finalizzata al profitto che
si affacciava alla società ateniese e greca nel corso del IV secolo viene
quindi rigettata da Aristotele come estranea ed esterna al suo concet-
to di oikonomia e stigmatizzata come «crematistica» in senso tecnico;
ancora una volta l’argomentazione aristotelica, anche se non sempre
in maniera lineare, è guidata dal tentativo di saldare analisi teorica e
circostanze fattuali: una buona scuola di metodo per comprendere la
realtà della polis.

49
Faraguna 2006, p. 134.

86
Bibliografia

BIBLIOGRAFIA

87
Bibliografia

88
I. LA STORIA DEL TESTO

Abbate 2004
Proclo, Commento alla Repubblica di Platone (Dissertazioni I,
III-V, VII-XII, XIV-XV, XVII), Saggio introduttivo, traduzione e
commento di M. Abbate, prefazione di M. Vegetti, Bompiani,
Milano 2004.

Aletta 2007
A.A. Aletta, La «minuscola quadrata». Continuità e discon-
tinuità nelle minuscole librarie della prima età macedone,
«RSBN» n. s. 44, 2007, Ricordo di Lidia Perria, III, pp. 97-
128.

Angeli Bertinelli 1997


Plutarco, Le vite di Lisandro e di Silla, a cura di M.G. Angeli
Bertinelli, M. Manfredini, L. Piccirilli e G. Pisani, «Fondazione
Lorenzo Valla» Mondadori, Milano 1997.

Aubonnet 1960
Aristote, Politique, livres I et II, texte établi et traduit par J.
Aubonnet, Les Belles Lettres, Paris 1960.

Bandini 1757
A.M. Bandini, Vita di Pier Vettori, in Memorie istoriche per
servire alla vita di più uomini illustri della Toscana, I, Per An-
ton Santini e Compagni, Livorno 1757 (rist. 1973).

Barker 1931
E. Barker, Life of Aristotle and Composition of the Politics,
«CR» 45, 1931, pp. 162-172 poi in Schriften zu den Politika
des Aristoteles, hrsg. von P. Steinmetz, Olms, Hildesheim-New
York 1973, pp. 32-42.

Barker 1946
The Politics of Aristotle, translated with Introduction Notes and
Appendixes by E. Barker, Clarendon Press, Oxford 1946.

Barker 1957
E. Barker, Social and Political Thought in Byzantium from
Justinian I to the Last Palaeologus, Clarendon Press, Oxford
1957.

89
BIBLIOGRAFIA

Baron 1928
L. Bruni Aretino, Humanistisch-philosophische Schriften, ed.
H. Baron, Teubner, Leipzig 1928.

Bekker-Gigon 1960
Aristotelis Opera ex recensione I. Bekkeri ed. Academia Regia
Borussica, editio altera quam curavit O. Gigon, II, apud W. de
Gruyter et Socios, Berolini 1960.

Berger 2005
F. Berger, Die Textgeschichte der Historia Animalium des Ari-
stoteles, Reichert, Wiesbaden 2005.

Bertelli 1962-1963
L. Bertelli, Ei\do~ Dikaiarcikovn, in «AAT» 97, 1962-1963, pp.
175-209.

Berti 2008
E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 20082
(1992).

Besso, Guagliumi, Pezzoli 2008


G. Besso, B. Guagliumi, F. Pezzoli, La riscoperta della Politi-
ca di Aristotele nell’Italia di età umanistico-rinascimentale tra
interpretazione filologico-letteraria e filosofico-politica, «Qua-
derni del Dipartimento di filologia, linguistica e tradizione clas-
sica “A. Rostagni”» n. s. 7, 2008, pp. 147-164.

Bianconi 2003
D. Bianconi, Eracle e Iolao. Aspetti della collaborazione tra
copisti nell’età dei Paleologi, «ByzZ» 96, 2003, pp. 521-558.

Bianconi 2005
La biblioteca di Cora tra Massimo Planude e Niceforo Grego-
ra. Una questione di mani, «S&T» 3, 2005, pp. 391-438.

Bick 1920
J. Bick, Die Schreiber der Wiener griechischen Handschriften,
Strache, Wien 1920.

Biedl 1935
A. Biedl, Matthaeus Camariotes. Specimen prosopographiae
byzantinae, «ByzZ» 35, 1935, pp. 337-339.

90
BIBLIOGRAFIA

Bossina 2003
L. Bossina, La chiesa bizantina e la tradizione classica, «Hu-
manitas (Brescia)» n.s. 58/1, 2003 = poi in E.V. Maltese (a cura
di), Bisanzio tra storia e letteratura, Morcelliana, Brescia 2003,
pp. 64-84.

Boter 1989
G. Boter, The Textual Tradition of Plato’s Republic, Brill, Lei-
den-New York 1989.

Brams 2003
J. Brams, La riscoperta di Aristotele in Occidente, Jaca Book,
Milano 2003.

Brockmann 1993
Ch. Brockmann, Zur Überlieferung der aristotelischen Magna
Moralia, in F. Berger, Ch. Brockmann, G. De Gregorio, M.I.
Ghisu, S. Kotzabassi, B. Noak (hrsgg.), Symbolae Berolinenses
für Dieter Harlfinger, Amsterdam 1993, pp. 43-80.

Bydén 2003
B. Bydén, Theodore Metochites’ Stoicheiosis astronomike and
the study of natural philosophy and mathematics in early Pa-
laiologan Byzantium, Acta Universitatis Gothoburgensis, Göte-
borg 2003.

Canfora 1995
L. Canfora, Le collezioni superstiti, in G. Cambiano, L. Can-
fora, D. Lanza (dir.), Lo spazio letterario della Grecia antica,
II, La ricezione e l’attualizzazione del testo, Salerno Editrice,
Roma 1995, pp. 95-250.

Canfora 2002
L. Canfora, Aristotele ‘fondatore’ della Biblioteca di Alessan-
dria, in L. Torraca (a cura di), Scritti in onore di Italo Gallo,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma 2002, pp. 167-
175.

Cavallo 1977
G. Cavallo, Funzione e struttura della maiuscola greca tra i
secoli VIII-XI, in La Paléographie grecque et byzantine (Col-
loques Internationaux du CNRS, Paris 21-25 Octobre 1974),
CNRS, Paris 1977, pp. 95-137.

91
BIBLIOGRAFIA

Cavallo 1995
G. Cavallo, I fondamenti culturali della trasmissione dei testi
antichi a Bisanzio, in G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza
(dir.), Lo spazio letterario della Grecia antica, II, La rice-
zione e l’attualizzazione del testo, Salerno Editrice, Roma
1995, pp. 265-306, poi in Id., Dalla parte del libro. Storie
di trasmissione dei classici, QuattroVenti, Urbino 2002, pp.
195-233.

Cavallo 2004
G. Cavallo, Le pratiche di lettura, in B. Scarcia Amoretti, G.
Cavallo, M. Capaldo, F. Cardini (dir.), Lo spazio letterario del
Medioevo, 3, Le culture circostanti, I, La cultura bizantina, Sa-
lerno Editrice, Roma 2004, pp. 569-603.

Cavallo 2006
G. Cavallo, Lire à Byzance, Les Belles Lettres, Paris 2006.

Chiesa 1995
P. Chiesa, Le traduzioni, in G. Cavallo, C. Leonardi, E. Me-
nestò (dir.), Lo spazio letterario del Medioevo, 1, Il Medioevo
latino, III, La ricezione del testo, Salerno Editrice, Roma 1995,
pp. 165-196.

Chiron 2000
P. Chiron, La tradition manuscrite de la Rhétorique à Alexan-
dre: prolégomènes à une nouvelle édition critique, «RHT» 30,
2000, pp. 17-69.

Clough 1980
C.H. Clough, Die Bibliothek von Bernardo und Pietro Bembo,
«Librarium» 23, 1980, pp. 41-56.

Cortesi 1995
M. Cortesi, Umanesimo greco, in G. Cavallo, C. Leonardi, E.
Menestò (dir.), Lo spazio letterario del Medioevo, 1, Il Medio-
evo latino, III, La ricezione del testo, Salerno Editrice, Roma
1995, pp. 457-507.

De Bellis 1980
D. De Bellis, La vita e l’ambiente di Niccolò Leonico Tomeo,
«Quaderni per la storia dell’Università di Padova» 13, 1980,
pp. 37-75.

92
BIBLIOGRAFIA

De Gregorio 1991
G. De Gregorio, Osservazioni ed ipotesi sulla circolazione del
testo di Aristotele tra Occidente ed Oriente, in G. Cavallo, G.
De Gregorio e M. Maniaci (a cura di), Scritture, libri e testi
nelle aree provinciali di Bisanzio, Atti del seminario di Erice
(18-25 settembre 1988), II, Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo, Spoleto 1991, pp. 475-498.

Dees 1987
R. Dees, Bruni, Aristotle and the Mixed Regime in «On the
Constitution of the Florentines», «M&H» n.s. 15, 1987, pp.
1-23.

Diller 2003
A. Diller, H.D. Saffrey, L.G. Westerink, Bibliotheca Graeca
Manuscripta Cardinalis Dominici Grimani (1461-1523), Edi-
zioni della Laguna, Venezia 2003.

Dittmeyer 1883
L. Dittmeyer, Quae ratio inter vetustam Aristotelis Rhetorico-
rum translationem et Graecos codices intercedat, Diss., Würz-
burg, München 1883.

Donini 1982
P. Donini, Le scuole, l’anima, l’impero: la filosofia antica da
Antioco a Plotino, Rosemberg & Sellier, Torino 1982.

Donini 2008
Aristotele, Poetica, a cura di P. Donini, Einaudi, Torino 2008.

Dreizehnter 1962
A. Dreizehnter, Untersuchungen zur Textgeschichte der aristo-
telischen Politik, Brill, Leiden 1962.

Dreizehnter 1970
Aristoteles’ Politik, hrsg. von A. Dreizehnter, Fink, München
1970.

Duke 1995
Platonis Opera, recc. brevique adnot. critica instrr. E.A. Duke,
W.F. Hicken, W.S. Nicoll, D.B. Robinson, J.C.G. Strachan, I, e
Typographeo Clarendoniano, Oxonii 1995.

93
BIBLIOGRAFIA

Eleuteri 1991
P. Eleuteri, Francesco Filelfo copista e possessore di codici
greci, in D. Harlfinger e G. Prato (a cura di), Paleografia e co-
dicologia greca. Atti del II Colloquio internazionale (Berlino-
Wolfenbüttel, 17-21 Ottobre 1983), I, Edizioni dell’Orso, Ales-
sandria 1991, pp. 163-179.

Eleuteri 1995
P. Eleuteri, La filosofia, in G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza
(dir.), Lo spazio letterario della Grecia antica, II, La ricezione
e l’attualizzazione del testo, Salerno Editrice, Roma 1995, pp.
444-451.

Fiaccadori 1979
G. Fiaccadori, Intorno all’Anonimo Vaticano ‘Peri; politikh`~
ejpisthvmh~’, «PP» 34, 1979, pp. 127-147.

Fiocco 1964
G. Fiocco, La Biblioteca di Palla Strozzi, in Studi di Bibliogra-
fia e di Storia in onore di Tammaro De Marinis, II, Olschki,
Firenze 1964, pp. 289-310.

Gamillscheg-Harlfinger-Hunger 1981
Repertorium der griechischen Kopisten 800-1600, 1. Hand-
schriften aus Bibliotheken Grossbritanniens, erstellt von E.
Gamillscheg, D. Harlfinger, H. Hunger, Verlag der Österreichi-
schen Akademie der Wissenschaften, Wien 1981.

Gerdjikov 1991-1992
A. Gerdjikov, Aristoteles’ Kritik an Platons politischen Schrif-
ten, «Helikon» 31-32, 1991-1992, pp. 461-469.

Gerosa 2006
G. Gerosa, Carlo V, un sovrano per due mondi, Mondadori, Mi-
lano 1990.

Gigante 1967
M. Gigante, Per l’interpretazione di Teodoro Metochites quale
umanista bizantino, «RSBN» n.s. 4, 1967, pp. 11-25.

Gigon 1959
O. Gigon, Cicero und Aristoteles, «Hermes» 87, 1959, pp. 143-
162.

94
BIBLIOGRAFIA

Giusta 1967
M. Giusta, I dossografi di etica, II, Giappichelli, Torino 1967.

Grabmann 1932
M. Grabmann, Eine lateinische Übersetzung der pseudo-aristo-
telischen Rhetorica ad Alexandrum aus dem 13. Jahrhundert,
«Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaf-
ten», philologische-historische Abteilung 4, 1931-1932, Mün-
chen 1932, pp. 26-81.

Greco 1976
Vespasiano da Bisticci, Le vite, ediz. critica con introduz. e
commento di A. Greco, I-II, Nella sede dell’Istituto Palazzo
Strozzi, Firenze 1976.

Gregory 1981
H. Gregory, A Further Note on the Greek Manuscripts of Palla
Strozzi, «JWI» 44, 1981, pp. 183-185.

Gualdo Rosa 1983


L. Gualdo Rosa, Una nuova lettera del Bruni sulla sua tradu-
zione della “Politica” di Aristotele, «Rinascimento» s. II, 23,
1983, pp. 113-124.

Hahm 1990
D.H. Hahm, The ethical Doxography of Arius Didymus, in Auf-
stieg und Niedergang der römischen Welt, de Gruyter, Berlin-
New York, 36/4, 1990, pp. 2935-3055.

Hajdú 2002
K. Hajdú, Katalog der griechischen Handschriften der Baye-
rischen Staatsbibliothek München, X 1. Die Sammlung grie-
chischer Handschriften in der Münchner Hofbibliothek bis zum
Jahr 1803, Harrassowitz, Wiesbaden 2002.

Hankins 1994
J. Hankins, Translation Practice in the Renaissance: the Case
of Leonardo Bruni, in Méthodologie de la traduction: de l’Anti-
quité à la Renaissance, Actes du Colloque édités par C.M. Ter-
nes et M. Mund-Dopchie, Centre Universitaire, Luxembourg
1994, pp. 154-175.

95
BIBLIOGRAFIA

Hankins 2007
L. Bruni, Epistolarum libri, recensente Laurentio Mehus (1741),
ed. by J. Hankins, I-II, Edizioni di Storia e di Letteratura, Roma
2007.

Harlfinger 1971
Die Textgeschichte der Pseudo-Aristotelischen Schrift Peri;
ajtovmwn grammw`n. Ein kodikologisch-kulturgeschichtlicher
Beitrag zur Klärung der Überlieferungsverhältnisse im Corpus
Aristotelicum, Hakkert, Amsterdam 1971.

Henry 1959
Photius, Bibliothèque, I, texte établi et traduit par R. Henry, Les
Belles Lettres, Paris 1959.

Heylbut 1887
G. Heylbut, Zur Überlieferungsgeschichte der Politik des Ari-
stoteles, «RhM» 42, 1887, pp. 102-110.

Hicks 1890
R.D. Hicks, On the Avoidance of Hiatus in Aristotle’s Politics,
«PCPhS» 13-15, 1890, pp. 22-30.

Hult 2002
K. Hult, Theodore Metochites on Ancient Authors and Philoso-
phy. Semeioseis gnomikai 1-26 & 71, A critical Edition with in-
troduction, translation, notes, and indexes, with a contribution by
B. Bydén, Acta Universitatis Gothoburgensis, Göteborg 2002.

Kaczko 2008
S. Kaczko, La koiné, in A.C. Cassio (a cura di), Storia delle lin-
gue letterarie greche, Le Monnier, Milano 2008, pp. 357-392.

Kotzia 2007
P. Kotzia, Philosophical Vocabulary, in A History of Ancient
Greek. From the Beginnings to Late Antiquity, ed. by A.-F.
Christidis, Cambridge University Press, Cambridge 2007
[Thessaloniki 2001], pp. 1089-1103.

Irigoin 1977
J. Irigoin, Une écriture du X siècle: la minuscule bouletée, in La
Paléographie grecque et byzantine (Colloques Internationaux
du CNRS, Paris 21-25 Octobre 1974), CNRS, Paris 1977, pp.
191-199.

96
BIBLIOGRAFIA

Jourdain 1843
A. Jourdain, Recherches critiques sur l’âge et l’origine des tra-
ductions latines d’Aristote, Paris 18432.

Lacombe 1939
Aristoteles Latinus, codices descripsit G. Lacombe, in societa-
tem operis adsumptis A. Birkenmajer, M. Dulong, Aet. France-
schini, I, La Libreria dello Stato, Roma 1939.

Legrand 1885
É. Legrand, Bibliographie hellénique, II, Paris 1885 (rist., Cul-
ture et Civilisation, Bruxelles 1963).

Leone 1992
P.L.M. Leone, Le lettere di Teodoro Gaza, in M. Cortesi e E.V.
Maltese (a cura di), Dotti bizantini e libri greci nell’Italia del
secolo XV, Atti del Convegno internazionale, Trento 22-23 Ot-
tobre 1990, D’Auria, Napoli 1992, pp. 201-218.

Mai 1827
A. Mai, Scriptorum Veterum Nova Collectio e Vaticanis codici-
bus edita, II, Bibliotheca Apostolica Vaticana, Romae 1827.

Maisano 1995
R. Maisano (a cura di), Discorsi di Temistio, UTET, Torino
1995.

Maltese 1998
E.V. Maltese, La letteratura greca da Bisanzio agli umanisti, in
I. Lana e E.V. Maltese (dir.), Storia della civiltà letteraria greca
e latina, III, UTET, Torino 1998, pp. 801-811.

Männlein-Robert 2006
I. Männlein-Robert, Die Aporien des kritikers Longin. Zur In-
szenierung der Platonexegese bei Proklos, in Proklos. Metho-
de, Seelenlehre, Metaphysik, Akten der Konferenz in Jena am
18.-20. September 2003, hrsg. von M. Perkams, R.M. Piccione,
Brill, Leiden-Boston 2006, pp. 71-97.

Mansfeld-Runia 1996
J. Mansfeld, D.T. Runia, Aëtiana. The Method and Intellectual
Context of a Doxographer, 1, The Sources, Brill, Leiden 1996.

97
BIBLIOGRAFIA

Martinelli Tempesta 2003


F. Trabattoni (a cura di), Platone, Liside, I, Edizione critica, tra-
duzione e commento filologico di S. Martinelli Tempesta, LED,
Milano 2003.

Martínez Manzano 1998


T. Martínez Manzano, Costantino Láscaris. Semblanza de un
humanista bizantino, Consejo Superior de Investigaciones
Científicas, Madrid 1998.

Mazzucchi 1978
C.M. Mazzucchi, Per una rilettura del Palinsesto Vaticano
contenente il dialogo “Sulla scienza politica” del tempo di
Giustiniano, in G.G. Archi (a cura di), L’imperatore Giustinia-
no. Storia e mito (Giornate di Studio a Ravenna, 14-16 Ottobre
1976), Giuffrè, Milano 1978, pp. 237-247.

Mazzucchi 1979
C.M. Mazzucchi, Sul sistema di accentazione dei testi greci in
età romana e bizantina, «Aegyptus» 59, 1979, pp. 145-167.

Mazzucchi 1997
C.M. Mazzucchi, Per una punteggiatura non anacronistica, e
più efficace, dei testi greci, in S. Lucà e L. Perria (a cura di),
jOpwvra. Studi in onore di mgr Paul Canart per il LXX comple-
anno, I, «BBGG» n.s. 51, 1997, pp. 129-143.

Mazzucchi 2002
Menae patricii cum Thoma referendario De scientia politica
dialogus, ed. C.M. Mazzucchi, Vita e Pensiero, Milano 20022
(1982).

Mazzucchi 2002-2003
C.M. Mazzucchi, Cultura bizantina e primo Umanesimo italia-
no, in M. Feo, V. Fera, P. Megna, A. Rollo (a cura di), Petrarca
e il mondo greco, I, Atti del Convegno internazionale di studi
(Reggio Calabria 26-30 novembre 2001), «Quaderni petrarche-
schi» 12-13, 2002-2003, pp. 15-20.

Mazzucchi 2006
C.M. Mazzucchi, Damascio, autore del Corpus Dionysiacum, e
il dialogo Peri; politikh`~ ejpisthvmh~, «Aevum» 80, 2006, pp.
299-334.

98
BIBLIOGRAFIA

Menci 1989
G. Menci, scheda in Corpus dei papiri filosofici greci e latini.
Parte I, 1*, Olschki, Firenze 1989, pp. 265-269.

Meisterhans 1888
K. Meisterhans, Grammatik der attischen Inschriften, Weid-
mann, Berlin 1882.

Mesk 1916
J. Mesk, Die Buchfolge in der aristotelischen Politik, «WS» 38,
1916, pp. 250-269, poi in P. Steinmetz [hrsg. von], Schriften
zu den Politika des Aristoteles, Olms, Hildesheim-New York
1973, pp. 1-20.

Meriani 1998
A. Meriani e R. Giannattasio Andria (a cura di), Vite di Plutar-
co, VI, UTET, Torino 1998.

Micalella 1987
D. Micalella, La Politica di Aristotele in Giuliano Impe-
ratore, «Ricerche di Filologia Classica» 3, Interpretazioni
antiche e moderne di testi greci, Giardini, Pisa 1987, pp.
67-81.

Michaud-Quantin 1961
Aristoteles Latinus, Politica, translatio prior imperfecta, in-
terprete Guillelmo de Moerbeka (?), ed. P. Michaud-Quantin,
Desclée de Brouwer, Bruges-Paris 1961.

Mioni 1958
E. Mioni, Aristotelis Codices Graeci qui in bibliothecis Venetis
adservantur, In Aedibus Antenoreis, Patavii 1958.

Mioni 1991
E. Mioni, [Vita del Cardinale Bessarione], «Miscellanea Mar-
ciana» 6, 1991.

Monaco 2000
M. Monaco, La tradizione manoscritta di Eschine tra i papiri e
i codici medievali, «Aegyptus» 80, 2000, pp. 3-98.

99
BIBLIOGRAFIA

Mondrain 2005
B. Mondrain, Traces et mémoire de la lecture des textes: les
marginalia dans les manuscrits scientifiques byzantins, in
Scientia in Margine. Études sur les marginalia dans les manu-
scrits scientifiques du Moyen Âge à la Renaissance, réunies par
D. Jacquart-Ch. Burnett, Droz, Genève 2005, pp. 1-25.

Montanari 2004
F. Montanari, Vocabolario della lingua greca GI (Greco-Italia-
no), Loescher, Torino 20042.

Moraux 1951
P. Moraux, Les listes anciennes des ouvrages d’Aristote, préfa-
ce par A. Mansion, Éditions universitaires, Louvain 1951.

Moraux 1973 = 2000


P. Moraux, Der Aristotelismus bei den Griechen von Androni-
kos bis Alexander von Aphrodisias, I, de Gruyter, Berlin-New
York 1973, poi in P. Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci, I,
La rinascita dell’Aristotelismo nel I secolo a. C., prefazione di
G. Reale, introduzione di T.A. Szlezák, traduzione di S. Togno-
li, Vita e Pensiero, Milano 2000.

Moraux 1976
Aristoteles Graecus. Die griechischen Manuskripte des Aristo-
teles, untersucht und beschrieben von P. Moraux, de Gruyter,
Berlin-New York 1976.

Mouren 2007
R. Mouren, Un professeur de grec et ses élèves: Piero Vettori
(1499-1585), «Lettere Italiane» 49, 2007, pp. 473-506.

Nagle 2002
D.B. Nagle, Aristotle and Arius Didymus on Household and
Povli~, «RhM» 145, 2002, pp. 198-223.

Newman 1887-1902
The Politics of Aristotle, with an Introduction, two Prefatory
Essays and Notes Critical and Explanatory, by W.L. Newman,
I-IV, The Clarendon Press, Oxford 1887-1902.

Odorico 1985
P. Odorico, ‘... alia nullius momenti’. A proposito della lettera-
tura dei marginalia», «ByzZ» 78, 1985, pp. 23-36.

100
BIBLIOGRAFIA

Oncken 1870-1875
W. Oncken, Die Staatslehre des Aristoteles in historisch-politi-
schen Umrissen, Leipzig 1870-1875 (rist. Scientia Verlag, Aa-
len 1964).

Papanastassiou 2007
G.C. Papanastassiou, Morphology: From Classical Greek to
the Koine, in A.-F. Christidis (ed.), A History of Ancient Greek.
From the Beginnings to Late Antiquity, Cambridge University
Press, Cambridge 2007 (Thessaloniki 2001), pp. 610-617.

Pasquali 1988
G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, rist. a
cura di D. Pieraccioni, Le Lettere, Firenze 1988 (19522).

Pecere 2007
O. Pecere, La scrittura de Padri della Chiesa tra autografia e
dictatio, «S&T» 5, 2007, pp. 3-29.

Perria 1991
L. Perria, Scrittura e ornamentazione nei codici della “colle-
zione filosofica”, «RSBN» n.s. 28, 1991, pp. 45-111.

Pertusi 1990
A. Pertusi, Il pensiero politico bizantino, a cura di A. Carile,
Pàtron, Bologna 1990.

Polara 1998
G. Polara, A proposito della punteggiatura dei testi antichi: fra
teorie dei grammatici e prassi degli editori, in A. Ferrari (a cura
di), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche
a confronto, Atti del Convegno Roma 25-27 maggio 1995, Centro
italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1998, pp. 327-335.

Renehan 1992
R. Renehan, Some Special Problems in the Editing of Aristotle,
«SIFC» III s. 10, 1992, pp. 719-724.

Rossi 2002-2003
P.B. Rossi, Fili dell’Aristoteles latinus, in M. Feo, V. Fera, P.
Megna, A. Rollo (a cura di), Petrarca e il mondo greco, I, Atti
del Convegno internazionale di studi (Reggio Calabria 26-30
novembre 2001), «Quaderni petrarcheschi» 12-13, 2002-2003,
pp. 75-98.

101
BIBLIOGRAFIA

Russo 2002
F. Russo, I Commentarii sillani come fonte della Vita plutar-
chea di Silla, «SCO» 48, 2002, pp. 281-305.

Saffrey 1960
H.D. Saffrey, Nouveaux manuscrits copiés par Matthaios Ca-
mariotès, «Scriptorium» 14, 1960, pp. 340-344.

Salanitro 1992
G. Salanitro, Teodoro Gaza traduttore di testi classici, in M.
Cortesi e E.V. Maltese (a cura di), Dotti bizantini e libri greci
nell’Italia del secolo XV, Atti del Convegno internazionale, Tren-
to 22-23 Ottobre 1990, D’Auria, Napoli 1992, pp. 219-225.

Sambin 1958
P. Sambin, Libri in volgare posseduti da Bardo de’ Bardi e cu-
stoditi da Palla Strozzi, «IMU» 1, 1958, pp. 371-373.

Sandys 1908
J.E. Sandys, A History of Classical Scholarship, II, Cambridge
University Press, Cambridge 1908.

Schneider 1973
B. Schneider, recensione di Dreizehnter 1970, «Gnomon» 45,
1973, pp. 336-345.

Schütrumpf 1991-2005
Aristoteles, Politik. übersetzt und erläutert von E. Schütrumpf,
I-IV, Akademie-Verlag, Berlin 1991-2005.

Schwyzer 1939
E. Schwyzer, Griechische Grammatik, I-II, Beck, München
1939.

Sepulveda 1548
Aristotelis de Republica libri VIII, interprete et enarratore Io.G.
Sepulveda, apud Vascosanum, Parisiis 1548.

Solana Pujalte 2005


J. Solana Pujalte, Estudios filológicos sobre la obra de Juan
Ginés de Sepúlveda (1984-2003), in F. Forner, C.M. Monti,
P.G. Schmidt (a cura di), Margarita amicorum. Studi di cultura
europea per Agostino Sottili, II, Milano, Vita e Pensiero, 2005,
pp. 1051-1072.

102
BIBLIOGRAFIA

Stalley 1995
R.F. Stalley, The Unity of the State, Plato, Aristotle and Pro-
clus, «Polis» 14, 1995, pp. 129-149.
Susemihl 1872
Aristotelis Politicorum libri octo, cum vetusta translatione Gui-
lelmi de Moerbeka, rec. F. Susemihl, in aedibus B. G. Teubneri,
Lipsiae 1872.
Susemihl-Hicks 1894
The Politics of Aristotle. A revised text with introduction analy-
sis and commentary by F. Susemihl and R.D. Hicks, Macmil-
lan, London 1894.
Thillet 1987
P. Thillet, Alexandre d’Aphrodise et la poésie, in J. Wiesner
(hrsg. von), Aristoteles Werk und Wirkung, II, Kommentierung,
Überlieferung, Nachleben, de Gruyter, Berlin-New York 1987,
pp. 107-119.
Threatte 1980
L. Threatte, The Grammar of Attic Inscriptions, I, Phonology,
de Gruyter, Berlin-New York 1980.
Tristano [1989]
C. Tristano, La biblioteca di un umanista calabrese: Aulo Gia-
no Parrasio, Vecchiarelli, Roma s.i.d. [1989].
Turyn 1964
A. Turyn, Codices Graeci Vaticani saeculis XIII et XIV scripti
annorumque notis instructi, Bibliotheca Apostolica Vaticana,
Civitas Vaticana 1964.
Vanhamel 1989
W. Vanhamel, Biobibliographie de Guillaume de Moerbeke, in
Guillaume de Mœrbeke, recueil d’études à l’occasion du 700e
anniversaire de sa mort (1286), édité par J. Brams et W. Vanha-
mel, University Press, Leuven 1989, pp. 301-383.

Veca 1980
S. Veca, Politica, in Enciclopedia, X, Einaudi, Torino 1980, pp.
855-879.

Vendruscolo 2006-2007
F. Vendruscolo, Codici dell’Argiropulo tra gli Utinenses Grae-
ci, «Incontri triestini di filologia classica» 6, 2006-2007, pp.
289-297.

103
BIBLIOGRAFIA

Viano 1992
C.A. Viano (a cura di), Aristotele, Politica e Costituzione di
Atene, UTET, Torino 1992.

Viti 1992
P. Viti, Leonardo Bruni e Firenze. Studi sulle lettere pubbliche
e private, Bulzoni, Roma 1992.

Viti 1996
P. Viti (a cura di), Opere letterarie e politiche di Leonardo Bru-
ni, UTET, Torino 1996.

Vuillemin-Diem 1987
G. Vuillemin-Diem, La traduction de la Métaphysique d’Ari-
stote par Guillaume de Moerbeke et son exemplaire grec: Vind.
Phil. gr. 100 (J), in J. Wiesner (hrsg. von), Aristoteles Werk und
Wirkung, II, Kommentierung, Überlieferung, Nachleben, de
Gruyter, Berlin-New York 1987, pp. 434-486.

Wartelle 1963
A. Wartelle, Inventaire des manuscrits grecs d’Aristote et de ses
commentateurs, Les Belles Lettres, Paris 1963.

Wilson 1990
N.G. Wilson, Filologi bizantini (trad. it.), Morano, Napoli 1990
(ed. orig., Scholars of Byzantium, Duckworth, London 1983).

II. IL LIBRO I DELLA POLITICA

Accattino 1978
P. Accattino, Il problema di un metodo biologico nella Politica
di Aristotele, «AAT» 112, 1978, pp. 169-195.

Accattino 1986
P. Accattino, L’anatomia della città nella Politica di Aristotele,
Tirrenia Stampatori, Torino 1986.

Accattino 1997
Platone, Politico, traduzione, introduzione e note di P. Accatti-
no, Laterza, Roma-Bari 1997.

104
BIBLIOGRAFIA

Ampolo 1979
C. Ampolo, OIKONOMIA (Tre osservazioni sui rapporti tra
la finanza e l’economia greca), «AION(archeol)» 1, 1979, pp.
119-124.

Ampolo 1996
C. Ampolo, Il sistema della «polis». Elementi costitutivi e ori-
gine della città greca, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia
Cultura Arte Società, II 1, Einaudi, Torino 1996, pp. 297-342.

Arnim 1924
H. von Arnim, Zur Entstehungsgeschichte der aristotelischen
Politik, SAWW, Wien 1924.

Barker 2007
A. Barker, The Science of Harmonics in Classical Greece,
Cambridge University Press, Cambridge 2007.

Barnes 1981
J. Barnes, Aristotle and the Methods of Ethics, «RIPh» 34, 1981,
pp. 490-511.

Bertelli 1984
L. Bertelli, La schole aristotelica tra norma e prassi empirica,
«AION(filol)» 6, 1984, pp. 97-129.

Bertelli 2011
L. Bertelli, Forme di argomentazione nella “Politica” di Ari-
stotele, in La armonia del conflicto. Los fundamentos aristotéli-
cos de la politica. Actas del Congreso Internacional sobre la
Política de Aristóteles, Universidad Carlos III y Instituto “Lu-
cio Anneo Seneca”, Madrid-Getafe 8-9 octubre 2008, Academia
Verlag, Sankt Augustin 2011 (c. di s.).

Berti 1989
E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989.

Berti 1997
E. Berti, Il pensiero politico di Aristotele, Laterza, Roma-Bari
1997.

Bien 1973
G. Bien, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Ari-
stoteles, Alber, Freiburg-München 1973.

105
BIBLIOGRAFIA

Bodei Giglioni 1996


G. Bodei Giglioni, L’oikos: realtà familiare e realtà economi-
ca, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società,
II 1, Einaudi, Torino 1996, pp. 735-754.

Bodéüs 1991
R. Bodéüs, Politique et philosophie chez Aristote. Recueil
d’études, préface de P. Pellegrin, Collection d’Études Classi-
ques, Namur 1991.

Bodéüs 1996
R. Bodéüs, Aristote, la justice et la cité, PUF, Paris 1996.

Bömer 1980
P. Ovidius Naso, Metamorphosen, Kommentar von F. Bömer,
Buch X-XI, Carl Winter Universitätsverlag, Heidelberg 1980.

Bonitz 1870
H. Bonitz, Index Aristotelicus, G. Reimer, Berlin 1870 (rist. an.
de Gruyter, Graz 1955).

Brillante 2004
C. Brillante, Il sogno di Epimenide, «QUCC» n.s. 77, 2004, pp.
11-39.

Brunt 1993
P. Brunt, Studies in Greek History and Thought, Clarendon
Press, Oxford 1993.

Cambiano 1987
G. Cambiano, Aristotle and the Anonimous Opponents of Slave-
ry, «Slavery and Abolition» 8, 1987, pp. 22-41.

Campese 2004
S. Campese, I bioi economici nel I libro della Politica, in F.
Lisi (ed.), The Ways of Life in Classical Political Philosophy,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2004, pp. 153-165.

Campese 2005
S. Campese, Forme di vita e forme economiche in Aristotele,
«La società degli individui» 24/3, 2005, pp. 5-16.

Canfora 2002a
L. Canfora, Il copista come autore, Sellerio, Palermo 2002.

106
BIBLIOGRAFIA

Cartledge 2002
P. Cartledge-E.E. Cohen-L. Foxhall (eds.), Money, Labour and
Land. Approaches to the Economics of Ancient Greece, Rout-
ledge, London-New York 2002.

Cobetto Ghiggia 2011


P. Cobetto Ghiggia, Homonoia e Demokratia nell’Atene fra V
e IV secolo a.C. Un approccio lessicale, in Salvare le poleis,
costruire la concordia, progettare la pace, Atti del Convegno
internazionale di Storia greca, Torino 5-7 aprile 2006. Edizioni
dell’Orso, Alessandria 2011.

Cohen 1992
E.E. Cohen, Athenian Economy and Society. A Banking Per-
spective, Princeton University Press, Princeton 1992.

Cohen 1995
D. Cohen, Law, Violence and Community in Classical Athens,
Cambridge University Press, Cambridge 1995.

Cordano 1986
F. Cordano, Antiche fondazioni greche, Sellerio, Palermo 1986.

Cubeddu 2006
I. Cubeddu, Aristotele e l’economia, «Isonomia», Istituto di
Filosofia Arturo Massolo, Università di Urbino, 2006, http://
www.uniurb.it/Filosofia/isonomia/http://www.uniurb.it/Filoso-
fia/isonomia/

Daverio Rocchi 1993


G. Daverio Rocchi, Città-stato e stati federali della Grecia
classica. Lineamenti di storia delle istituzioni politiche, LED,
Milano 1993.

Delcourt 1981
M. Delcourt, L’oracle de Delphes, Payot, Paris 19812.

De Luna 2003
M.E. De Luna, La comunicazione linguistica fra alloglotti nel
mondo greco: da Omero a Senofonte, ETS, Pisa 2003.

Descat 1988
R. Descat, Aux origines de l’oikonomia grecque, «QUCC» 28,
1988, pp. 103-119.

107
BIBLIOGRAFIA

Detienne 1998
M. Detienne, Apollon le couteau à la main, Gallimard, Paris
1998.

Dihle 1995
A. Dihle, Der Begriff des Nomos in der griechischen Philoso-
phie, in O. Behrends-W. Sellert (hrsg. von), Nomos und Gesetz.
Ursprünge und Wirkungen des griechischen Gesetzdenkens,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1995, pp. 117-134.

Dobbs 1994
D. Dobbs, Natural Right and the Problem of Aristotle’s Defense
of Slavery, «The Journal of Politics» 56, 1994, pp. 69-94.

Donini 2004
P. Donini, Plutarco e Aristotele, in I. Gallo (a cura di), La bi-
blioteca di Plutarco. Atti del IX Convegno plutarcheo, Pavia,
13-15 giugno 2002, D’Auria, Napoli 2004, pp. 255-273.

Ducrey 1999
P. Ducrey, Le traitement des prisonniers de guerre dans la
Grèce antique des origines à la conquête romaine, De Boccard,
Paris 19992.

Epimenide cretese
Epimenide cretese, Luciano Editore, Napoli 2001.

Faraguna 1994
M. Faraguna, Alle origini dell’oikonomia: dall’Anonimo di
Giamblico ad Aristotele, «RAL» s. 9, 5, 1994, pp. 552-589.

Faraguna 2006
M. Faraguna, “Nomisma e polis”. Aspetti della riflessione gre-
ca antica sul ruolo della moneta nella società, in G. Urso (a
cura di), Moneta mercanti banchieri. I precedenti greci e ro-
mani dell’Euro, Atti del Convegno internazionale, Cividale del
Friuli, 26-28 settembre 2002, ETS, Pisa 2006, pp. 109-135.

Ferrari 2001
Omero, Odissea, a cura di F. Ferrari, UTET, Torino 2001.

Férnandez Nieto 1975


F.J. Férnandez Nieto, Los acuerdos bélicos en la antigua Gre-
cia (época arcaica y clásica), I-II, Univesidad de Santiago de
Compostela, Santiago 1975.

108
BIBLIOGRAFIA

Ferrucci 2006
S. Ferrucci, L’«oikos» nel diritto attico «Dike» 9, 2006, pp.
183-210.

Finley 1985
M. Finley, The Ancient Economy, London 19852.

Fraser-Matthew 1988
P.M. Fraser-E. Matthews (eds.), A Lexicon of Greek Personal
Names, I: The Aegean Islands, Cyprus, Cyrenaica, Clarendon
Press, Oxford 1988.

Frontisi-Ducroux 1975
F. Frontisi-Ducroux, Dédale. Mythologie de l’artisan en Grèce
ancienne, Maspero, Paris 1975.

Garlan 1982
Y. Garlan, Les esclaves en Grece ancienne, Maspero, Paris
1982.

Garnsey 1996
P. Garnsey, Ideas of Slavery from Aristotle to Augustine, Cam-
bridge University Press, Cambridge 1996.

Gastaldi 1987
S. Gastaldi, Lo spoudaios aristotelico tra etica e poetica, «Elen-
chos» 8, 1987, pp. 63-104.

Gastaldi 1990
S. Gastaldi, Aristotele e la politica delle passioni: retorica, psi-
cologia ed etica dei comportamenti emozionali, Tirrenia Stam-
patori, Torino 1990.

Gastaldi 1994
S. Gastaldi, Le immagini della virtù. Le strategie metaforiche
nelle ‘Etiche’ di Aristotele, Edizioni dell’Orso, Alessandria
1994.

Gastaldi 1995
S. Gastaldi, L’uomo buono e il buon cittadino in Aristotele,
«Elenchos» 16, 1995, pp. 253-290.

Gastaldi 1998
S. Gastaldi, Storia del pensiero politico antico, Laterza, Roma-
Bari 1998.

109
BIBLIOGRAFIA

Gastaldi 2003
S. Gastaldi, Bios haireiotatos. Generi di vita e felicità in Aristo-
tele, Bibliopolis, Napoli 2003.

Gehrke 2006
H.-J. Gehrke, The Figure of Solon in the Athenaion Politeia,
in J.H. Blok-A.P.M.H. Lardinois (eds.), Solon of Athens. New
Historical and Philological Approaches, Brill, Leiden-Boston
2006, pp. 276-289.

Göransson 1995
T. Göransson, Albinus, Alcinous, Arius Didymus, Acta Univer-
sitatis Gothoburgensis, Göteborg 1995.

Graham 2006
D. Graham, Explaining the Cosmos: The Ionian Tradition of
Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton
2006.

Guidorizzi 2000
Igino, Miti, a cura di G. Guidorizzi, Adelphi, Milano 2000.

Hansen 1983a
M.H. Hansen, The Athenian “Politicians”, 403-322 B.C.,
«GRBS» 24, 1983, pp. 33-55.

Hansen 1983b
M.H. Hansen, Rhetores and Strategoi in Fourth-Century
Athens, «GRBS» 24, 1983, pp. 151-180.

Hansen 1987
M.H. Hansen, Rhetores and Strategoi: Addenda et Corrigenda,
«GRBS» 28, 1987, pp. 209-211.

Hansen 1991
M.H. Hansen, Athenian Democracy in the Age of Demosthenes,
Oxford University Press, Oxford 1991.

Hansen 1998
M.H. Hansen (ed.), Polis and City-state: An Ancient Con-
cept and its Modern Equivalent, Munksgaard, Copenhagen
1998.

110
BIBLIOGRAFIA

Hansen 2001
M.H. Hansen, Graphe paranomon: la sovranità del tribuna-
le popolare ad Atene nel 4. secolo a. C. e l’azione pubblica
contro proposte incostituzionali, trad. e introd. a cura di M.C.
Rogozinski, G. Giappichelli, Torino 2001 (= M.H. Hansen,
The Sovereignty of the People’s Court in Athens in the Fourth
Century B.C. and the Public Action against Uncostitutional
Proposals, Odense 1974 + Graphe paranomon against Pse-
phismata not yet passed by the Ekklesia, «C&M», 38, 1987,
pp. 63-73).

Hansen-Nielsen 2004
M.H. Hansen-T.H. Nielsen (ed.), An Inventory of Archaic and
Classical Poleis. An Investigation Conducted by the Copenha-
gen Polis Centre for the Danish National Research Foundation,
Oxford University Press, Oxford 2004.

Höffe 2001
O. Höffe (hrsg. von), Aristoteles Politik, Akademie Verlag, Ber-
lin 2001.

Höffe 2005
O. Höffe, Aristoteles-Lexicon, Kröner Verlag, Stuttgart 2005.

Hölkeskamp 1999
K.-J. Hölkeskamp, Schiedsrichter, Gesetzgeber und Gesetzge-
bung im archaischen Griechenland, Steiner, Stuttgart 1999.

Jaeger 1923
W. Jaeger, Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner
Entwicklung, Weidmann, Berlin 1923.

Keyt 1991
D. Keyt, Three Basic Theorems in Aristotle’s Politics, in D.
Keyt-F.D. Miller Jr. (eds.), A Companion to Aristotle’s Politics,
Blackwell, Oxford 1991, pp.118-141.

Kraut 2002
R. Kraut, Aristotle: Political Philosophy, Oxford University
Press, Oxford 2002.

Kraut-Skultety 2005
R. Kraut-S. Skultety (eds.), Aristotle’s Politics. Critical Essays,
Rowman & Littlefield, Oxford 2005.

111
BIBLIOGRAFIA

Kühner-Gerth 1955
Ausführliche Grammatik der griechischen Sprache, von R.
Kühner (3. Auflage von B. Gerth), Hahnsche Buchhandlung,
Hannover 1955 [ediz. originale 1898].

Kullmann 1995
W. Kullmann, Antike Vorstufen des modernen Begriffs des Na-
turgesetzes, in O. Behrends-W. Sellert (hrsg. von), Nomos und
Gesetz. Ursprünge und Wirkungen des griechischen Gesetzden-
kens, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1995, pp. 36-111.

Laks-Louguet 2002
A. Laks-C. Louguet (sous la direction de), Qu’est-ce que la phi-
losophie présocratique?, Presses Universitaires du Septentrion,
Villeneuve d’Ascq 2002.

Laurenti 1966
Aristotele, Politica, a cura di R. Laurenti, Laterza, Bari 1966.

Laurenti 1967
Aristotele, Il trattato sull’economia, a cura di R. Laurenti, La-
terza, Bari 1967.

Laurenti 1992
R. Laurenti, Introduzione alla Politica di Aristotele, Istituto ita-
liano per gli Studi filosofici, Roma 1992.

Laurenti 1993
Aristotele, Politica, a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari
1993.

Leszl 1989
E. Leszl, La politica è una “techne”? E richiede un’ “episte-
me”? Uno studio sull’epistemologia nella “Politica” di Ari-
stotele, in E. Berti-L. Napolitano Valditara (a cura di), Etica,
Politica, Retorica. Studi su Aristotele e la sua presenza nell’età
moderna, Japadre, L’Aquila 1989, pp. 75-159.

Lewis 2006
J. Lewis, Solon the Thinker. Political Thought in Archaic
Athens, Duckworth, London 2006.

Lewis 2007
J. Lewis, Early Greek Lawgivers, Bristol Classical Press, Lon-
don 2007.

112
BIBLIOGRAFIA

Lipsius 1905-1914
J.H. Lipsius, Das attische Recht und Rechtsverfahren, Darm-
stadt 1905-1914 (rist. Olms, Hildesheim 1966).

Lisi 2011
F. Lisi, Dinero y justicia en la Política de Aristóteles, in La
armonia del conflicto. Los fundamentos aristotélicos de la po-
litica. Actas del Congreso Internacional sobre la Política de
Aristóteles, Universidad Carlos III y Instituto “Lucio Anneo
Seneca”, Madrid-Getafe 8-9 octubre 2008, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2011 (c. di s.)

Lombardo 1979
M. Lombardo, Elementi per una discussione sulle origini e fun-
zioni della moneta coniata, «AIIN» 26, 1979, pp. 75-121.

Lombardo 1999
M. Lombardo, La polis: società e istituzioni, in E. Greco (a cura
di), La città greca antica, Donzelli, Roma 1999, pp. 5-35.

Longo 1988
O. Longo, Ecologia antica. Il rapporto uomo/ambiente in Gre-
cia, «Aufidus» 6, 1988, pp. 3-30.

Longo 1989
O. Longo, Le forme della predazione. Cacciatori e pescatori
della Grecia antica, Liguori, Napoli 1989.

Lord 1984
Aristotle. The Politics, transl. with an introd., notes and glossa-
ry by C. Lord, University of Chicago Press, Chicago 1984.

Maffi 1979
A. Maffi, Circolazione monetaria e modelli di scambio da Esio-
do ad Aristotele, «AIIN» 26, 1979, pp.161-184.

Mansfeld 1985
J. Mansfeld, Aristotle and Others on Thales, or the Begin-
nings of Natural Philosophy, «Mnemosyne» 38, 1985, pp.
109-129.

Mansfeld-Runia 1996
J. Mansfeld-D.T. Runia, Aëtiana. The Method and Intellec-
tual Context of a Doxographer, 1. The Sources, Brill, Leiden
1996.

113
BIBLIOGRAFIA

Meadows-Shipton 2001
A. Meadows-K. Shipton (eds.), Money and its Uses in the An-
cient Greek World, Oxford University Press, Oxford 2001.

Meikle 1979
S. Meikle, Aristotle and the Political Economy of the «Polis»,
«JHS» 99, 1979, pp. 57-73.

Meikle 1995
S. Meikle, Aristotle’s Economic Thought, Clarendon Press, Ox-
ford 1995.

Migeotte 2002
L. Migeotte, L’économie des cités grecques, de l’archaïsme au
Haut-Empire romain, Ellipses, Paris 2002.

Mirto-Paduano 1997
Omero, Iliade, traduzione e introduzione di G. Paduano, com-
mento di M.S. Mirto, Einaudi-Gallimard, Torino 1997.

Moggi 2005
M. Moggi, Il barbaros fra ideologia e realtà, in C. Termini (a
cura di), L’elezione di Israele: origini bibliche, funzione e am-
biguità di una categoria teologica, Edizioni Dehoniane, Bolo-
gna 2005 = «RSB» 17/1, 2005, pp. 203-223.

Moggi 2008
M. Moggi, La polis e le altre organizzazioni politico-territoriali:
formazione e sviluppi, in A. Barbero (dir.), Storia d’Europa e del
Mediterraneo, II, Il mondo antico, La Grecia, a cura di M. Gian-
giulio, III, Grecia e Mediterraneo dall’VIII sec. a.C. all’Età delle
guerre persiane, Salerno Editrice, Roma 2007, pp. 93-130.

Morris 1992
S.P. Morris, Daidalos and the Origins of Greek Art, Princeton
University Press, Princeton N. J. 1992.

Mossé 1995a
C. Mossé, La classe politique à Athènes au IVème siècle, in W.
Eder (hrsg. von), Die athenische Demokratie im 4. Jahrhundert
v. Chr., Steiner, Stuttgart 1995, pp. 67-77.

Mossé 1995b
C. Mossé, L’orateur dans la cité, «Sileno» 21, 1995, pp. 103-112.

114
BIBLIOGRAFIA

Musso 1996
Euripide, Tragedie, I, a cura di O. Musso, UTET, Torino 1996.

Naddaf 2005
G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, Suny Press, Albany
NY 2005.

Nagle 2006
D.B. Nagle, The Household as the Foundation of Aristotle’s Po-
lis, Cambridge University Press, New York 2006.

Natali 1989
C. Natali, Aristote et la chrématistique, in Patzig 1990, pp. 296-
324.

Natali 1990
C. Natali, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli
1990.

Natali 1995
Aristotele, L’amministrazione della casa, a cura di C. Natali,
Laterza, Roma-Bari 1995.

Newman 1887, II
The Politics of Aristotle, II: Prefatory Essays, Books I and II-
Text and Notes, ed. by W.L. Newman, Clarendon Press, Oxford
1887.

Nucci 2006
Pseudo Cipriano, Il gioco dei dadi, a cura di C. Nucci, Edizioni
Dehoniane, Bologna 2006.

O’Grady 2002
P. O’Grady, Thales of Miletus. The Beginnings of Western
Science and Philosophy, Ashgate, Aldershot 2002.

Parise 2000
N. Parise, La nascita della moneta, Donzelli, Roma 2000.

Patzig 1990
G. Patzig (hrsg. von), Aristoteles’ Politik, Akten des XI. Sympo-
sium Aristotelicum Friedrichshafen / Bodensee 25-8 / 3-9 1987,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1990.

115
BIBLIOGRAFIA

Pellegrin 1982
P. Pellegrin, Monnaie et chrématistique. Remarques sur le mou-
vement et le contenu de deux textes d’Aristote à l’occasion d’un
livre récent, «RPhF» 172, 1982, pp. 631-644.

Perotto 1996
S. Tommaso d’Aquino, Commento alla “Politica” di Aristote-
le, a cura di L. Perotto, Esd, Bologna 1996.

Polanyi 1944
K. Polanyi, The Great Transformation, Rinehart & Co., New
York 1944.

Polanyi 1966
K. Polanyi, Dahomey and the Slave Trade: an Analysis of an
Archaic Economy, University of Washington Press, Seattle-
London 1966.

Polanyi 1968
K. Polanyi, Primitive, Archaic and Modern Economies, ed. by
G. Dalton, Beacon Press, Boston 1968.

Pomeroy 1994
Xenophon Oeconomicus: A Social and Historical Commentary,
ed. by S. Pomeroy, Clarendon Press, Oxford 1994.

Pugliara 2003
M. Pugliara, Il mirabile e l’artificio. Creature animate e se-
moventi nel mito e nella tecnica degli antichi, L’«Erma» di
Bretschneider, Roma 2003.

Reale 2006
I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali
a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di
Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Bompiani,
Milano 2006.

Reden 1995
S. von Reden, Exchange in Ancient Greece, Duckworth, Lon-
don 1995.

Reden 2002
S. von Reden, Money in the Ancient Economy: a Survey of Re-
cent Research, «Klio» 84, 2002, pp. 141-174.

116
BIBLIOGRAFIA

Rhodes 1972
P.J. Rhodes, The Athenian Boule, Oxford University Press, Ox-
ford 1972.

Romilly 2001
J. De Romilly, La loi dans la pensée grecque des origines à
Aristote, Les Belles Lettres, Paris 20012.

Rostagni 1945
Aristotele, Poetica, a cura di A. Rostagni, Chiantore, Torino 19452.

Rowe 1977
C.J. Rowe, Aims and Methods in Aristotle’s Politics, «CQ» 27,
1977, pp. 159-172.

Sakellariou 1989
M. Sakellariou, The Polis/State. Definition and Origin, Rese-
arch Centre for Greek and Roman Antiquity, National Hellenic
Research Foundation, Athens 1989.

Saunders 1995
Aristotle, Politics. Books I and II, translation with a commenta-
ry by T.J. Saunders, Oxford University Press, New York 1995.

Scherf 2000
J. Scherf, s.v. Midas, in Der neue Pauly, 8, Metzler Verlag,
Stuttgart-Weimar 2000, coll. 154-155.

Schofield 1990
M. Schofield, Ideology and Philosophy in Aristotle’s Theory of
Slavery, in Patzig 1990, pp. 1-27.

Schütrumpf 1991, I
Aristoteles, Politik Buch I, übersetz und erläutert von E.
Schütrumpf, Akademie - Verlag, Berlin 1991.

Seaford 2004
R. Seaford, Money and the Early Greek Mind, Cambridge Uni-
versity Press, Cambridge 2004.

Simpson 1997
The Politics of Aristotle, transl. with introd., analysis and no-
tes by P.L. Phillips Simpson, The University of North Carolina
Press, Chapel Hill-London 1997.

117
BIBLIOGRAFIA

Simpson 1998
P.L. Phillips Simpson, A Philosophical Commentary on the
Politics of Aristotle, The University of North Carolina Press,
Chapel Hill-London 1998.

Spahn 1984
P. Spahn, Die Anfänge der antiken Ökonomik, «Chiron» 14,
1984, pp. 301-323.

Vattimo 1961
G. Vattimo, Il concetto di fare in Aristotele, Giappichelli, Tori-
no 1961 (ora in G. Vattimo, Opere complete, I 1. Ermeneutica,
Meltemi, Roma 2007).

Vegetti 1982
M. Vegetti, Il pensiero economico greco, in L. Firpo (dir.), Sto-
ria delle idee politiche, economiche e sociali, I, L’antichità,
UTET, Torino 1982, pp. 583-607.

Vegetti 2000
M. Vegetti, Normale, naturale, normativo in Aristotele, «QS»
52, 2000, pp. 73-84.

Venturi Ferriolo 1983


M. Venturi Ferriolo, Aristotele e la crematistica, La Nuova Ita-
lia, Firenze 1983.

Viano 1974
Aristotele, Metafisica, a cura di C.A. Viano, UTET, Torino
1974.

Viano 2002
Aristotele, Politica, a cura di C.A. Viano, Rizzoli, Milano
2002.

Vottero 1994
D. Vottero, Teodette e la Teodettea di Aristotele, in Voce di mol-
te acque. Miscellanea di studi offerti a Eugenio Corsini, Zamo-
rani Editore, Torino 1994, pp. 105-118.

Weißenberger 2002
M. Weißenberger, s.v. Theodektes, in Der neue Pauly, 12/1,
Metzler Verlag, Stuttgart-Weimar 2002, coll. 309-311.

118
BIBLIOGRAFIA

West 1978
Hesiod, Works and Days, ed. with Prolegomena and Commen-
tary by M.L. West, Clarendon Press, Oxford 1978.

Wolff 1970
H.J. Wolff, “Normenkontrolle” und Gesetzbegriff in der atti-
schen Demokratie, C. Winter, Heidelberg 1970.

Xanthakis–Karamanos 1980
G. Xanthakis-Karamanos, Studies in Fourth-Century Tragedy,
Akademia Athenon, Athenai 1980.

Zanatta 2008
Aristotele, I Dialoghi, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano
2008.

Ziegler 1949
K. Ziegler, Plutarchos von Chaironeia, Druckenmuller, Stutt-
gart 1949.

119
SIGLE E ABBREVIAZIONI

SIGLE E ABBREVIAZIONI
USATE NEGLI APPARATI CRITICI

121
Bibliografia

I. Testimoni manoscritti

a) Papiri
Pap PMich inv. 6643 et PBrux inv. E 8073 (fragmenta Pol. IV
4-5-6, 1292a 30-1292b 2 et 1293a 15-18)

b) Codici medioevali e rinascimentali

- Codices potiores
A Parisinus Coislinianus 161 (olim 304), chart. a. 1360/1380
B Parisinus gr. 2026 (olim Medic. Reg. 3085), membr. saec.
XIII ex./XIV in.
C Parisinus suppl. gr. 652, chart. saec. XV ex.
D Mosquensis Synodus Bibl. 451 Vladimir (8 Savva = VIII
Matthaei), chart. saec. XV
E Utinensis Archiepiscopalis VI 5 (258), chart. XV sec.
H Berolinensis Hamiltonianus 41 (397 Studemund), chart. saec.
XV
M Ambrosianus B 105 sup. (126 Martini-Bassi), membr. saec. XV
P Parisinus gr. 2033 (olim Medic. Reg. 3077, Reg. 3294), chart.
a. 1460/1480
P1857 Parisinus gr. 1857 (olim Fontainebl. Reg. 2592), membr. a. 1492
P1858 Parisinus gr. 1858 (olim Colb. 2401, Reg. 2592,3), membr.
saec. XV
P2025 Parisinus gr. 2025 (olim Reg. 3084,2), membr. saec. XV ex.
S Leidensis Scaligeranus gr. 26, membr. a. 1445
V Vaticanus gr. 1298, II, membr. palimps. saec. X (fragmenta
librorum III et IV)

- Codices qui raro in apparatu laudantur


Cant Cantabrigiensis Dd IV 16 (191), chart. a. 1441 (excerpta )
Cast Laurentianus ‘Acquisti e Doni’ 4 (Castiglione), chart. saec. XV
Co Costantinopolitanus G. I. 20 (Topkapі Sarayі Bibl.), chart.
saec. XV

123
SIGLE E ABBREVIAZIONI

F Parisinus gr. 963, chart. saec. XV (excerpta)


Harl Harleianus 6874, membr. saec. XV (excerpta librorum I, IV, V)
Impr Parisinus 1 (Musée de l’Imprimerie Nationale), membr. saec.
XVI
L Lipsiensis 24 (olim 1335), chart. circa a. 1500
L81,5 Laurentianus Pl. 81, 5, membr. saec. XV
L81,6 Laurentianus Pl. 81, 6, chart. a. 1494
L81,21 Laurentianus Pl. 81, 21, membr. saec. XV ex.
Matr Matritensis 4578 (olim N 41), chart. a. 1501
Mon Monacensis gr. 332 (olim 127; 64; 17), membr. saec. XV
N Neapolitanus gr. 325 (III. E. 3), membr. a. 1493
O Oxoniensis Bodleianus Corpus Christi 112, chart. saec. XV
Pal Vaticanus Palatinus gr. 160, membr. saec. XV
Per Perusinus Augustanus 482 (G 71), chart. saec. XV
Sin Sinaiticus 2124, chart. a. 1437/1439
Urb Vaticanus Urbinas gr. 46, membr. saec. XV ex.
V2238 Vaticanus gr. 2238 (olim Columnensis 77), chart. a.
1466/1467
V3270 Vaticanus gr. 3270, chart. a. 1460/1470
VB Vaticanus Barberinianus gr. 215, chart. saec. XV ex.
Ven200 Venetus Marcianus gr. 200 (327), chart. a. 1457
Ven213 Venetus Marcianus gr. 213 (751), membr. saec. XV
VenIV3 Venetus Marcianus gr. append. IV, 3 (1186), chart. a. 1494
W Vaticanus Reginensis gr. 125, chart. saec. XVI

P1 consensus codicum MPS


P2 consensus codicum ABCDEH
P 3 consensus codicum ABCDE
P 4 consensus codicum L81,5L81,21PalUrbV2238V3270VenIV3Ven200
Ven213

- Guilelmi a Moerbeka perfectae translationis codices po-


tiores (vide Sus.1 pp. XXXIV-XLIII; Aristoteles Latinus, I-II, ad
locos; Newman, 1987, II, pp. 60-62)
a Parisinus lat. 699 (Bibl. Arsen.), membr. saec. XIV

124
SIGLE E ABBREVIAZIONI

b Parisinus lat. 7695 A (olim Colb. 2240), membr. saec. XIV


c Parisinus lat. 6307, membr. saec. XIII ex.
g Guelpherbytanus Helmstadiensis 593, membr. a. 1331
h Guelpherbytanus Helmstadiensis 488, membr. saec. XIV
k Lipsiensis 1337 Univers. Bibl., membr. saec. XIV in.
l Lipsiensis 1338 Univers. Bibl., membr. saec. XIV in.
m Monacensis 306, membr. saec. XIII-XIV
o Oxoniensis Colleg. Balliolensis 112, membr. saec. XIV in.
t Toletanus Bibl. Capituli 47.9, membr. saec. XIII-XIV
z Oxoniensis Phillipps 891, membr. a. 1393

ac codicis lectio ante correctionem


1 codicis librarius se ipse corrigens
2 3 4 secundus, tertius, quartus corrector
c corrector incertus
s scholium
mg in margine
App. Appendix coniecturarum
cett. ceteri codices
edd. Consensus editionum Newman (1887-1902), Immisch (1929),
Ross (1957), Aub.(onnet 1960-1989), Drei.(zehnter 1970)

II. Autori antichi e medioevali

Aeschl. Pr. Aeschyli Prometheus, ed. M.L. West, Teubner,


Stutgardiae 1992.
Al. in Metaph. Alexandri Aphrodisiensis in Aristotelis Metaphy-
sica commentaria, ed. M. Hayduck, «Commenta-
ria in Aristotelem Graeca» I, Typis et impensis G.
Reimeri, Berolini 1891.

125
SIGLE E ABBREVIAZIONI

An. in EN Eustratii et Michaelis et Anonyma in Ethica Ni-


comachea commentaria, ed. G. Heylbut «Com-
mentaria in Aristotelem Graeca» XX, Typis et
impensis G. Reimeri, Berolini 1892.
An. Prof. Ep. Anonymi Professoris Epistulae, rec. A. Mar-
kopoulos, de Gruyter, Berolini et Novi Eboraci
2000.
Ar. EN Aristotelis Ethica Nicomachea, rec. brevique
adn. crit. instr. L. Bywater, e typographeo Cla-
rendoniano, Oxonii 1894.
Ar. Oec. Aristote, Économique, texte établi par B.A. van
Groningen et A. Wartelle, traduit et annoté par A.
Wartelle, Les Belles Lettres, Paris 1968.
Ar. PA Aristote, Les parties des animaux, texte établi
et traduit par P. Louis, Les Belles Lettres, Paris
1956.
Diog. Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. T.
Dorandi, Cambridge University Press, Cambrid-
ge [in corso di pubblicazione].
Edmonds The Fragments of Attic Comedy, after Meineke,
Bergk, and Cock, by J.M. Edmonds, III A, Brill,
Leiden 1961.
Eur. IA Euripides, Iphigenia Aulidensis, ed. H.Ch. Gün-
ther, Teubner, Leipzig 1988.
Eustath. in Il. Eustathii Archiepiscopi Thessalonicensis Com-
mentarii ad Homeri Iliadem pertinentes, ed.
M. van der Valk, II, Brill, Lugduni Batavorum
1976.
Eustath. Opera Eustathii Thessalonicensis Opera minora (ma-
minora gnam partem inedita), rec. P. Wirth, de Gruyter,
Berolini et Novi Eboraci 2000.
Gazae Probl. Theodori Gazae Problemata, ed. J. Monfasani [J.
M., Testi inediti di Bessarione e Teodoro Gaza, in
M. Cortesi ed E.V. Maltese (a cura di), Dotti bi-
zantini e libri greci nell’Italia del secolo XV, Atti
del Convegno internazionale, Trento 22-23 Otto-
bre 1990, D’Auria, Napoli 1992, pp. 231-256].

126
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Glossae Scholia et glossae, in Aristotelis Politica, post Fr.


Susemihlium rec. O. Immisch, Teubner, Lipsiae
19292, pp. 293-327.
Hes. Op. Hesiodi Theogonia Opera et Dies Scutum, ed.
F. Solmsen; Fragmenta selecta, edd. R. Merkel-
bach et M.L. West, e typographeo Clarendonia-
no, Oxonii 1970.
Hdt. Herodoti Historiae, rec. brevique adnot. critica in-
str. C. Hude, e typographeo Clarendoniano, Oxo-
nii 19273.
Hier. W.W. Fortenbaugh & St. White, Lyco of Troas
and Hieronymos of Rhodes, Transaction Publi-
shers, New Brunswik & London 2004.
Hom. Il. Homeri Ilias, rec. M.L. West, I, Teubner, Stutgar-
diae et Lipsiae 1998 (rhapsodiae 1-12); II, Stut-
gardiae et Lipsiae 2000 (rhapsodiae 13-24).
Hom. Od. Homeri Odyssea, rec. A. Ludwich, I-II, Teubner,
Stutgardiae et Lipsiae 1998 (1889).
Mich. Eph. in EN Michaelis Ephesii in librum quintum Ethico-
rum Nicomacheorum commentarium, ed. M.
Hayduck, «Commentaria in Aristotelem Graeca»
XXII 3, Typis et impensis G. Reimeri, Berolini
1901.
Nic. Greg. Flor. Nicephori Gregorae Florentius, in Niceforo Gre-
gora, Fiorenzo o intorno alla sapienza, Testo
critico, introduzione, traduzione e commentario
a cura di P.L.M. Leone, Università di Napoli, Na-
poli 1975.
PCG Poetae Comici Graeci, edd. R. Kassel et C. Au-
stin, VII, Menecrates – Xenophon, de Gruyter,
Berolini et Novi Eboraci 1989.
Plat. Leg. Platonis Leges, in Opera, V, rec. brevique adnot.
critica instr. I. Burnet, e typographeo Clarendo-
niano, Oxonii 1913.
Plat. Men. Platon, Oeuvres complètes, V 1, Ion Ménexène
Euthydème, texte établi e traduit par L. Méridier,
Les Belles Lettres, Paris 1931.

127
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Plat. Pol. Platon, Oeuvres complètes, IX 1, Le Politique,


texte établi et traduit par A. Diès, Les Belles Let-
tres, Paris 19502.
[Plut.] Nob. Plutarchi Chaeronensis Moralia, rec. G.N. Ber-
nardakis, VII, Plutarchi fragmenta vera et spu-
ria (Pro nobilitate), Teubner, Lipsiae 1896.
Porph. Abst. Porphyre, De l’abstinence, edd. M. Patillon, A.
Ph. Segonds, avec concours de L. Brisson, Les
Belles Lettres, Paris 1995.
Scholia Scholia et glossae, in Aristotelis Politica, post Fr.
Susemihlium rec. O. Immisch, Teubner, Lipsiae
19292, pp. 293-327.
Sol. Solonis elegiae, in Iambi et Elegi Graeci ante
Alexandrum cantati, ed. M.L. West, II, Claren-
don, Oxonii 19922.
Soph. Sophoclis Fabulae, recc. H. Lloyd-Jones et N.
Wilson, Clarendon, Oxonii 1990.
Stob. - Ioannis Stobaei Anthologii libri duo priores, qui
inscribi solent Eclogae Physicae et ethicae, I-II,
rec. C. Wachsmuth, Weidmann, Berolini 1884.
- Ioannis Stobaei Anthologii libri duo posteriores,
rec. O. Hense, I (III), Weidmann, Berolini 1894;
II (IV), Weidmann, Berolini 1909; III (V), Weid-
mann, Berolini 1912.
Strömberg R. Strömberg, Greek Proverbs, Elanders Bok-
tryckeri Aktiebolag, Göteborg 1954.
SVF Stoicorum veterum fragmenta, coll. I. ab Arnim,
I, Teubner, Stutgardiae 1905.
Theod. Metoch. Theodori Metochitae Semeioseis, in T. M. Miscel-
Sem. lanea philosophica et historica, edd. M.Chr.G.
Müller et M.T. Kiessling, Teubner, Lipsiae 1821
(Hakkert, Amsterdam 1966).
TrGF Tragicorum Graecorum Fragmenta, I, Testimonia
et fragmenta tragicorum minorum, ed. B. Snell,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1971; IV,
Sophocles, ed. S. Radt, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 1977; V 1-2, Euripides, ed. R. Kannicht,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2004.

128
SIGLE E ABBREVIAZIONI

III. Editori, traduttori, commentatori

Bruni (L.) Strassburgi 1469 (traduzione latina, insieme a


quella di Ethicorum ad Nicomachum et Oeconomi-
corum librorum), Florentiae 1478 (traduzione lati-
na), Barcinonae 1478 (traduzione latina) et 1492
(traduzione latina con il commento di Thom.), Ve-
netiis 1504, 1506 (traduzione latina), etc.
G.(uilelmus a Venetiis 1483 (editio princeps della vetus tran-
Moerbeka) slatio della Politica, insieme a quella di Ethi-
corum et Oeconomicorum librorum, «a Nicole-
to primum edita»)
Oresme (N.) Parisiis 1489 (traduzione francese, risalente al
1370 circa)
Ald.(us Manutius) Venetiis 1498 (Aristotelis Opera omnia, V), edi-
tio princeps del testo greco
Ald.Mon.c Anonimo corrector di un esemplare dell’editio
Aldina conservato a Monaco (collazione di cor-
rezioni e congetture in Sus.1)
Bas.1, 2, 3 Editiones Basileenses: 15311 (Erasmo et S. Gry-
naeo curantibus); 15392 (Erasmo et S. Grynaeo
curantibus); 15503 (M. Isengrinio curante)
Brucioli (A.) Venetiis 1547 (traduzione italiana)
Sep.(ulveda G.) Parisiis 1548 (traduzione latina con ampio com-
mento); Coloniae Agrippinae 1601 (traduzione
latina con ampio commento, unitamente all’edi-
tio princeps della traduzione latina dei libri IX
e X della Politica, già composti in greco da C.
Strozzi a integrazione del trattato aristotelico.
Strozzi aveva in precedenza consegnato alle
stampe i «libros nonum et decimum graeco ser-
mone […] illis octo additos quos scriptos reliquit
Aristoteles» [Florentiae 1563])
Segni (B.) Florentiae 1549 (traduzione italiana; rist., Milano
1844)
Toxites (M.) Tiguri circa 1550 (Pol. I con traduzione latina)
Vict.(orius P.) Florentiae 15521 (et Parisiis 1556, Francofurti
1577), Florentiae 15762

129
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Vict.sc Petrus Victorius sui ipsius corrector = Correzio-


ni autografe di Pier Vettori in un esemplare, ora
conservato a Monaco, della sua prima edizione
della Politica (per cui cfr. l’edizione di Sus.1 p.
XLVIII; sull’esemplare BSB, Cbm Cat. 209c I, II e
sulla biblioteca di Vettori cfr. inoltre S. Kellner,
A. Spethmann, Historische Katalog der Baye-
rischen Staastbibliothek München. Münchner
Hofbibliothek una andere Provenienzen, Harras-
sowitz Verlag, Wiesbaden 1996, p. 568).
Camot (J.B.) Venetiis 1553 (Aldina editio altera)
Morel (G.) Parisiis 1556 (basata soprattutto sulla prima edi-
zione di Vict.)
G.(uilelmus a Venetiis 1558 (entrambe le traduzioni latine di G.
Moerbeka), Thom. e di Bruni, accompagnate dal commento di Tom-
(as Aquinas), maso d’Aquino)
Bruni (L.)
Lambin (D.) Parisiis 1567 (traduzione latina)
Cam.(erarius = J. Francofurti 1581 (Pol. I-VII, edizione basata su
Kammermeister) un manoscritto greco di proprietà di Kammer-
meister, ora perduto, e accompagnata da tradu-
zione latina)
Zwinger (J.) Basileae 1582 (ex Vict. editione altera)
Sylburg (F.) Francofurti 1587 (Aristotelis Opera omnia, XI)
Casaubon (I.) Lugduni 1590 (Aristotelis Opera omnia, II)
Mon.(tecatini A.) Ferrariae 1587-1597 (commenti ai libri I, II, III)
Mon.(tecatini A.) Ferrariae 1594 (Pol. II)
Ram.(us = P. de la Francofurti 1601 (con traduzione latina)
Ramée)
Giffen (H. van) Francofurti 1608 (traduzione latina)
Heinse (D.) Lugduni Batavorum 1621 (con traduzione latina)
Alb.(ertus Magnus) Lugduni 1651 (commentarium Politicorum li-
brorum P. Iammyus ed.)
Conring (H.) Helmstadii 1656
Maurus Sylvester Romae 1668 (Parisiis 1885)

130
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Reiz (F.W.) Lipsiae 1776 (edizione parziale: soltanto Pol. IV,


17 et V)
Schneider (J.G.) Francofurti ad Viadrum 18091 (testo critico greco
accompagnato dalla traduzione latina di Sep.),
Berolini 18252
Koraïs (A.) Parisiis 1821 (il nome dell’editore di origine
greca è soggetto a variazioni grafiche, a seconda
della traslitterazione: in altre edizioni è indicato
come Coraes, Corai, Koraes)
Thurot (F.) Paris 1823 (traduzione francese delle Etiche e
della Politica)
Goettling (K.W.) Jenae 1824
Barth.(élemy- St. Parisiis 1837 (con traduzione francese), 1848
Hilaire J.) (traduzione francese), 1878 (con traduzione la-
tina)
Stahr (A.) Lipsiae 1839 (con traduzione tedesca), Stuttgart
1860 (traduzione tedesca di C. e A. Stahr)
Bekker (I.) Berolini 18311 (Aristotelis Opera omnia, II et
editio separata), 18552, 18783
Weise (C.H.) Lipsiae 1843
Eaton (J.R.T.) Oxonii 1855 (traduzione inglese)
Congreve (R.) Londini 18551, 18742
Duebner (F.) Parisiis 1862 (Aristotelis Opera omnia graece et
latine, I)
Sus.(emihl F.) Lipsiae 18721 (testo critico greco in parallelo al
testo critico latino della traduzione completa di
G.), Lipsiae 18792 (con traduzione tedesca), Lip-
siae 18823, Londini 18944 (edd. F. Susemihl et R.
D. Hicks: libri I, II, III, VII, VIII). Negli apparati
critici l’indicazione Sus. (senza alcun numero a
esponente) indica il consenso delle quattro edi-
zioni
Bernays (J.) Berolini 1872 (traduzione tedesca dei primi tre
libri)
Broughton (R.) Oxonii et Londini 1876 (libri I, III, IV)
Jowett (R.) Oxford 1885 (traduzione inglese)

131
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Newman (W.L.) Oxford 1887-1902 (Pol. I-II 1887; III-VIII


1902)
Welldon (J.E.C.) London 1888 (traduzione inglese)
Immisch (O.) Lipsiae 19091, 19292
Rackham (H.) London-Cambridge 1932 (con traduzione inglese)
Costanzi (V.) Bari 1948 (traduzione italiana)
Gigon (O.) Zürich 1955 (traduzione tedesca), poi München
1971
Viano (C.A.) Torino 1955, 1992 (traduzione italiana, insieme
alla Costituzione di Atene)
Ross (D.) Oxonii 1957
G.i. (= Guilelmi de Bruggae in Fiandris-Parisiis 1961 (editio prin-
Moerbeka [?] ceps della traduzione incompleta di Guglielmo, a
imperfecta cura di P. Michaud-Quantin; il testo latino giunge
translatio) fino a Pol. II 11, 1273a 30)
Tricot (J.) Paris 19621, 19824 (traduzione francese)
Laurenti Bari 1966 (traduzione italiana)
Aub.(onnet J.) Paris 1960-1989 (testo critico con note e tradu-
zione francese; Pol. I-II 1960; III-IV 1971; V-VI
1973; VII 1986; VIII 1989)
Drei.(zehnter A.) München 1970
Schütrumpf (E.) Berlin-Darmstadt 1991-2005, I-IV, (traduzio-
ne tedesca e ampio commento; Pol. I 1991; II-
III 1991; IV-VI 1996, con il contributo di H.-J.
Gehrke; VII-VIII 2005)

IV. Studi sul testo critico

Amsdorf (G.) Symbolae ad Aristotelis Politicorum cris., I-II,


«Programmata Landshurtiana», Landshut 1894-
1895.
Arnim (H. von) Zur Entstehungsgeschichte der aristotelischen
Politik, SAWW, Wien und Leipzig 1924.

132
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Bender (K.H.) Kritische und exegetische Bemerkungen zu Ari-


stoteles’ Politik, «Jahresbericht über das Kö-
nigliche Gymnasium zu Hersfeld», Hersfeld
1876.
Bernays (J.) Oratio de Aristotele Athenis peregrinante et de
libris eius politicis, in Gesammelte Abhandlun-
gen, Berlin 1885 (Olms, Hildesheim 1971), pp.
165-170.
Boecker (E.) De quibusdam Politicorum Aristotelis locis,
Diss., Gryphiae 1867.
Bojesen (E.F.) Bitrag til Fortolkningen om Aristoteles’s Böger
om Staten, I-II, «Soröer Programmes», Copen-
hagen 1844-1845.
Bonitz (H.) Aristotelische Studien, II, III, IV, «Acta Aca-
demiae Vindobonensis» 46, 47, 52, 1863-1866;
Zu Aristot. Pol. II 3.1262a 7, «Hermes» 7, 1873,
pp. 102-108.
Brandis (C.A.) Handbuch der Geschichte der griechische-
römischer Philosophie, II 2, G. Reimer, Berlin
1857, p. 1633.
Buecheler (F.) Proposte correttive e congetturali comunicate a
F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Burnet (J.) Aristotle on Education: Being Extracts From
the Ethics and Politics, Cambridge University
Press, Cambridge 1967 (1903), pp. 102 s.
Busse (A.) De praesidiis Aristotelis Politica emendandi,
Mayer & Müller, Berolini 1881.
Bywater (I.) Aristotle on the Art of Poetry, Translated by I.
B., Clarendon, Oxford 1897, p. 47 et passim;
«JPh» 14, 1885, pp. 42 ss.
Chandler (H.W.) Miscellaneous emendations and suggestions,
London 1866.
Cosattini (A.) Per l’interpretazione e per il testo d’un passo
della Politica di Aristotele (D (H) XIII, pag.
1334b. 12-17), «SIFC» n. s. III, 1923, pp. 41-
48.

133
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Costanzi (V.) L’Individuo e lo Stato. Estratti dalla Politica di


Aristotele, Laterza, Bari 1924.
Croiset (A.) Note sur un passage d’Aristote (Polit. p. 1253a),
«Annuaire de l’association pour l’encouragement
des études grecques» 15, 1882, pp. 94-97.
Diebitsch (F.) De rerum conexu in Aristotelis libro de republi-
ca, Diss., Vratislaviae 1875.
Diels (H.) De Phalea et Hippocrate, in Fragmente der Vor-
sokratiker, I 4, Weidmann, Berlin 1922, n. 27,
p. 293.
Freudenthal (J.) Proposte correttive e congetturali comunicate a
F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Hagfors (E.) De praepositionum in Aristotelis Politicis et in
Atheniensium Politia usu, Diss., Berlin 1892.
Hayduck (M.) Proposte correttive e congetturali comunicate a
F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Heitland (W.E.) Note Critical and Explanatory on Certain Pas-
sages in the First Book of the Politics of Aristtle,
Haywood, Cambridge 1876.
Henkel (H.) Zur Politik des Aristoteles, «Programm des Gym-
nasiums zu Seehausen», Stendal 1875, pp. 1-17.
Hermann (G.) Proposte correttive e congetturali comunicate a
F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Heylbut (G.) Zur Ueberlieferung der Politik des Aristoteles,
«RhM» 42, 1887, pp. 102-110.
Hicks (R.D.) New Materials for the Text of Aristotle’s Politics,
«CR» 1, 1887, pp. 20 ss.
Jackson (H.) Aristot. Pol. I, 3. Anthol. IX 482, «AJPh» 7, 1877,
pp. 236-244; ibid. 10, 1882, pp. 311 ss.; On Aris-
totle, Politics I, 6.1255a 7 sqq., «PCPhS» 1882,
pp. 27 ss.
Lindau (A.) Aristoteles’ Lehrvorträge über die Staatskunst,
m. Anm. Oels. 1843.

134
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Madvig (J.N.) Adversaria critica ad Scriptores Graecos, I,


Hauniae 1871 (Olms, Hildesheim 1967), pp.
461 ss.
Muretus (M.A.) Variarum lectionum libri, in M.A. Mureti Ope-
ra omnia, ed. D. Ruhnkenius, II, apud S. et J.
Luchtmans, Lugduni Batavarom 1781.
Nickes (J.P.) De Aristotelis Politicorum libris, Diss., Bonn
1851.
Oncken (W.) Emendationum in Aristotelis Ethica Nicomachea
et Politica specimen I, Diss., Heidelbergae
1861; Staatslehre des Aristoteles in historisch-
politischen Umrissen, I-II, Engelmann, Leipzig
1870-1875.
Piccart (M.) In Politicos Aristotelis libros commentarius,
impensis I. Borneri senioris, & E. Rehefeld bi-
bliop., Lipsiae 1615.
Postgate (J.P.) Notes on the Text and Matter of the Politics of
Aristotle, Bell and Co., Deighton 1877.
Rassow (H.) Observationes criticae in Aristotelem, «Jahresbe-
richt über das Königliche Joachimsthalsche Gym-
nasium», Berlin 1858; Emendationes Aristote-
leae, «Jahresbericht über das Wilhelm-Ernstische
Gymnasium zu Weimar», Weimar 1861; Bemer-
kungen Über einige Stellen der Politik des Aristo-
teles, «Jahresbericht über das Wilhelm-Ernstische
Gymnasium zu Weimar», Weimar 1864.
Reiske (J.J.) Proposte correttive e congetturali pubblicate negli
Addenda dell’edizione di J.G. Schneider (II, pp.
471 ss.)
Richards (H.) Aristotelica, Grant Richard LTD, London 1915.
Ridgeway (W.) Notes on Arist. Pol. I. II., «Cambridge Universi-
ty Reporter» 418, 1882, pp. 355 ss., e «PCPhS»
1882, pp. 8-10; Notes on Arist. Pol. III-VIII,
«Philologische Wochenschriften» II, 1882, pp.
1456-1459.
Riese (A.) Zu Aristoteles Politik, «Jahrbuch für Philologie»
CIX, 1874, pp. 171-173.

135
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Sauppe (H.) Proposte correttive e congetturali comunicate a


F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Scaliger (J.J.) Congetture e correzioni raccolte e riportate in
Oncken.
Schmidt H. Die Erziehungsmethode des Aristoteles, Diss.,
Halle 1878.
Schmidt M. Miscellaneorum philologicorum particula III,
«Index scholarum in universitate litteraria Je-
nensi», Jenae 1879.
Schnitzer (K.F.) Zu Arist. Pol., «Eos» 1, 1864, pp. 499-515.
Sus.(emihl F.) De Aristotelis Politicorum libris primo et secun-
do quaestiones criticae, «Index scholarum in
universitate litteraria gryphiswaldensi», Gryphi-
swaldiae 1867-1868; De Aristotelis Politicorum
libris tribus prioribus quaestiones criticae, «In-
dex scholarum in universitate litteraria gryphi-
swaldensi», Gryphiswaldiae 1871; De Politicis
Aristoteleis quaestionum criticarum particula
V, «Index scholarum in universitate litteraria
gryphiswaldensi», Gryphiswaldiae 1872-1873;
De Politicis Aristoteleis quaestionum criticarum
particula VII, «Index scholarum in universitate
litteraria gryphiswaldensi», Gryphiswaldiae
1875; Iulianos und Aristoteles, «Jahrbuch für
Philologie» 117, 1878, pp. 389 ss.; Drei schwie-
rige Stellen der aristotelischen Politik, «Her-
mes» 19, 1884, pp. 576-595; Die Textüberliefe-
rung der aristotelischen Politik, «Jahrbuch für
Philologie» 135, 1887, pp. 801-805.
Tegge (A.) Proposte correttive e congetturali comunicate a
F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Thurot (C.) Observationes criticae in Aristotelis politicos li-
bros, «Jahrbücher für Philologie» 81, 1860, pp.
749-759; Études sur Aristote: politique, dialec-
tique, rhetorique, Durad, Paris 1860.

136
SIGLE E ABBREVIAZIONI

Trieber (K.) Proposte correttive e congetturali comunicate a


F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Vahlen (I.) Bonitz Index Aristotelicus, in Gesammelte phi-
lologische Schriften, I (1858-1874), Teubner,
Leipzig und Berlin 1911, pp. 328-341.
Vermehren (M.) Proposte correttive e congetturali comunicate a
F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e
nelle edizioni della Politica.
Wil.(amowitz U. von) Aristoteles und Athen, I-II, Weidmann, Berlin
1893, passim.
Wilson (J. Cook) Notes on some passages in the Politics, «AJPh»
10, 1881, pp. 80-86.

137
TESTO E TRADUZIONE*

*Il segno < in margine al testo greco segnala la presenza di


una nota testuale (cfr. pp. 327-345).
POLITIKWN A

1252a 1. ΔEpeidh; pa'san povlin oJrw'men koinwnivan tina; ou\san, kai;


pa'san koinwnivan ajgaqou' tino" e{neken sunesthkui'an - tou' ga;r
ei\nai dokou'nto" ajgaqou' cavrin pavnta pravttousi pavnte" - dh'-
lon wJ" pa'sai me;n ajgaqou' tino" stocavzontai, mavlista de;
5 kai; tou' kuriwtavtou pavntwn hJ pasw'n kuriwtavth kai; pavsa"
perievcousa ta;" a[lla". au{th dΔ ejsti;n hJ kaloumevnh povli"
kai; hJ koinwniva hJ politikhv. o{soi me;n ou\n oi[ontai politiko;n
kai; basiliko;n kai; oijkonomiko;n kai; despotiko;n ei\nai to;n
aujto;n ouj kalw'" levgousin: plhvqei ga;r kai; ojligovthti nomiv-
10 zousi diafevrein ajllΔ oujk ei[dei touvtwn e{kaston: oi|on a]n me;n
ojlivgwn, despovthn, a]n de; pleiovnwn, oijkonovmon, a]n dΔ e[ti
pleiovnwn, politiko;n h] basilikovn: wJ" oujde;n diafevrousan
megavlhn oijkivan h] mikra;n povlin: kai; politiko;n de; kai;
basilikovn, o{tan me;n aujto;" ejfesthvkh/ basilikovn: o{tan
15 de; kata; tou;" lovgou" th'" ejpisthvmh" th'" toiauvth" kata; mevro"
a[rcwn kai; ajrcovmeno", politikovn: tau'ta dΔ oujk e[stin ajlhqh'.
dh'lon dΔ e[stai to; legovmenon ejpiskopou's i kata; th;n uJfh-
ghmevnhn mevqodon. w{sper ga;r ejn toi'" a[lloi" to; suvnqe-
ton mevcri tw'n ajsunqevtwn ajnavgkh diairei'n - tau'ta ga;r ejlav-
20 cista movria tou' pantov" - ou{tw kai; povlin, ejx w|n suvgkeitai
skopou'nte", ojyovmeqa kai; peri; touvtwn ma'llon, tiv te dia-
fevrousin ajllhvlwn kai; ei[ ti tecniko;n ejndevcetai labei'n peri;
e{kaston tw'n rJhqevntwn.

1252a 3 ei\nai non vert. G. nec G.i. 4 mavlista de; ras. B 5 kai;1 om.
P1 (non vert. G. nec G.i.) Ú hJ kuriwtavth pasw`n P1 6 dev ejstin MP 8
ei\nai om. P1 (post to;n suppl. M1) : non vert. G. nec G.i. : secl. Sus. 8-9 to;n
aujtovn] taujtovn H (idem G. et G.i.) 11 oijkonovmon] on ras. B 13 politikw`n
(poli ras.)B2 14 ejfevsthke vix leg. B : ejfestevkaΔ vix leg. M : ejfesthvkei
P4 LP1857P2025W Ald. 15 tou;~ om. P4 : tou;~ lovgou~ om. in lac. H 16
[a[rcwn] kai; ajrcovmeno~ h\/ Bernays 19 -ton mevcri tw`n ajsunqev- om. V2238ac

140
POLITICA I

1. 1252a Dal momento che vediamo che ogni città è una


forma di comunità e ogni comunità è costituita in vista di un
qualche bene – giacché tutti compiono tutte le loro azioni per
quello che sembra loro essere un bene – è chiaro che tutte mi-
rano ad un qualche bene, ma in grado eminente e al più im-
portante di tutti i beni tende quella comunità che è più autore-
vole di tutte e include tutte le altre: questa è quella chiamata
città e comunità politica. Orbene, quanti credono che l’uomo
politico, l’uomo regale, l’amministratore della casa e il pa-
drone si identifichino, non si esprimono correttamente; co-
storo infatti credono che ciascuno di questi differisca dagli al-
tri per maggiore o minore quantità di sottoposti, ma non per
specie; per esempio, se è a capo di pochi sarebbe un padrone,
se lo è di un numero maggiore di persone un amministratore,
e se poi lo è di un numero ancora maggiore un politico o un
re, in quanto una grande casa e una piccola città non presente-
rebbero alcuna differenza; quanto poi al politico e al re, nel
caso che uno sovrintenda da solo, si avrebbe un re, e invece
un politico quando uno governa ed è governato a turno secon-
do i dettami di tale scienza. Ma tutto ciò non è vero; e quel
che si viene dicendo sarà chiaro se si indaga sulla scorta del
metodo proposto, perché come negli altri casi è necessario di-
videre il composto fino alle parti semplici – queste sono in-
fatti le parti più piccole del tutto – così, esaminando anche la
città nelle parti dalle quali è composta, osserveremo meglio
anche riguardo a queste in che cosa differiscano le une dalle
altre e vedremo se è possibile dire qualcosa di scientifica-
mente fondato riguardo a ciascuna delle figure sopra dette.

1252a 7-13 Plat. Pol. 258e 8-11 Povteron ou\n to;n politiko;n kai; basileva
kai; despovthn kai; e[tΔ oijkonovmon qhvsomen wJ~ e}n pavnta tau`ta prosagoreuv-
sonte~, h] tosauvta~ tevcna~ aujta;~ ei\nai fw`men o{saper ojnovmata ejrrhvqh;
ibid. 259b 7-c 3 Kai; mh;n oijkonovmo~ ge kai; despovth~ taujtovn. - Tiv mhvn; - Tiv dev;
megavlh~ sch`ma oijkhvsew~ h] smikra`~ au\ povlew~ o[gko~ mw`n ti pro;~ ajrch;n
dioivseton; - Oujdevn. - Oujkou`n, o} nundh; dieskopouvmeqa, fanero;n wJ~ ej-
pisthvmh miva peri; pavntΔ ejsti; tau`ta: tauvthn de; ei[te basilikh;n ei[te poli-
tikh;n ei[te oijkonomikhvn ti~ ojnomavzei, mhde;n aujtw`Δ diaferwvmeqa ibid. 259d
3-5 Th;n a[ra politikh;n kai; politiko;n kai; basilikh;n kai; basiliko;n eij~ tauj-
to;n wJ~ e}n tau`ta pavnta sunqhvsomen; cf. Plat. Leg. III 680d 4-681a 3, 683a 2-8

1252a 2 ajgaqou` tino~ cf. Ar. EN I 1094a 1-2 Pa`sa tevcnh kai; pa`sa mev-
qodo~, oJmoivw~ de; pra`xiv~ te kai; proaivresi~, ajgaqou` tino;~ ejfivesqai dokei`
28 Stob. II 7, 26 (II 148, 19-21) Sunevrcesqai ga;r tw`/ qhvlei to; a[rren kata;
povqon teknwvsew~ kai; th`~ tou` gevnou~ diamonh`~: ejfivesqai ga;r eJkavteron
gennhvsew~

141
POLITIKWN A

2. Eij dhv ti" ejx ajrch'" ta; pravgmata fuovmena blevyeien,


25 w{sper ejn toi'" a[lloi", kai; ejn touvtoi" kavllistΔ a]n
ou{tw qewrhvseien. ajnavgkh dh; prw'ton sunduavzesqai tou;" a[neu
ajllhvlwn mh; dunamevnou" ei\nai, oi|on qh'lu me;n kai; a[rren th'"
genevsew" e{neken, kai; tou'to oujk ejk proairevsew", ajllΔ w{sper <
kai; ejn toi'" a[lloi" zw/voi" kai; futoi'" fusiko;n to; ejfivesqai
30 oi|on aujtov toiou'ton katalipei'n e{teron, a[rcon de; fuvsei kai;
ajrcovmenon dia; th;n swthrivan. to; me;n ga;r dunavmenon th/'
dianoiva/ proora'n a[rcon fuvsei kai; despovzon fuvsei, to; de;
dunavmenon tau'ta tw/' swvmati poiei'n ajrcovmenon kai; fuvsei
dou'lon: dio; despovth/ kai; douvlw/ taujto; sumfevrei. fuvsei me;n
1252b ou\n diwvristai to; qh'lu kai; to; dou'lon: oujde;n ga;r hJ fuvs i"
poiei' toiou'ton oi|on oiJ calkotuvpoi th;n Delfikh;n mavcairan,
penicrw'", ajllΔ e}n pro;" e{n: ou{tw ga;r a]n ajpoteloi'to kavl-
lista tw'n ojrgavnwn e{kaston, mh; polloi'" e[rgoi" ajllΔ eJni;
5 douleu'on: ejn de; toi'" barbavroi" to; qh'lu kai; to; dou'lon th;n
aujth;n e[cei tavxin. ai[tion dΔ o{ti to; fuvsei a[rcon oujk e[cousin,
ajlla; givnetai hJ koinwniva aujtw'n douvlh" kai; douvlou: diov fasin
oiJ poihtai;
barbavrwn dΔ ”Ellhna" a[rcein eijkov",
wJ" taujto; fuvsei bavrbaron kai; dou'lon o[n. ejk me;n ou\n touv-
10 twn tw'n duvo koinwniw'n oijkiva prwvth, kai; ojrqw'" ÔHsivodo"
ei\pe poihvsa"
oi\kon me;n prwvtista gunai'kav te bou'n tΔ ajroth'ra:
oJ ga;r bou'" ajntΔ oijkevtou toi'" pevnhsivn ejstin. hJ me;n
ou\n eij" pa'san hJmevran sunesthkui'a koinwniva kata; fuvs in
oi\kov" ejstin, ou}" Carwvnda" me;n kalei' oJmosipuvou", ΔEpimenivdh"

24 ajrch`~ ãeij~Ã Richards Ú fuovmena ta; pravgmata (ejx ajrch`~ om.) MS :


fuovmena non vert. G.i. 25 kavllista M 26 sunduavzesqai] sundiavzesqai
M : combinari vel combinare G. codd. (obviare G. cod. o) 28 genevsew~]
gennhvsew~ Sus. Ross (falso collato Stob.) 29 ejfesqai Mac 30 aujto;~ Mac Ú
de; om. M : dh; Ven213 Ú fuvsei post 31 ajrcovmenon P1 32 ajrcon M Ú
[fuvsei2] Thurot 33 tau`ta tw`/ swvmati P1H : tw`/ swvmati tau`ta cett. Ú
poiei`n] diaponei`n Gomperz : tau`ta om. Ven213 (ªtau'taº tw/' swvmati Ross)
34 douvlw" ex dou`lo~ (ut vid.) corr. B2 Ú taujto;] hoc G.i. (tou`to eum legisse
susp. edd.) 1252b 1 to;2 om. Bac Ú oujde;n P1 : oujqe;n cett. 2 oiJ om. CDE Ú
delfikh;n th;n mavcairan Bas.3 3 ajpotelei`to MO 5 douleu`son Richards Ú
to;2 om. CDE 6 de; MP 8 de; M 9 tauto; M Ú fuvsei ras. A Ú o[n om. P1 Ú ou\n
om. MS 11 prwvtista ras. A 14 ou}~ oJ me;n Carwvnda~ me;n P1

142
POLITICA I

2. Se allora si indagassero le cose evolversi fin dal princi-


pio, anche in questi ambiti di ricerca, come negli altri, si po-
trebbero in questo modo fare le migliori osservazioni. Innan-
zi tutto è necessario accoppiare coloro che non possono
sussistere l’uno senza l’altro, come il maschio e la femmina
in vista della riproduzione – e ciò non per scelta, ma per il fat-
to che è naturale, come anche negli altri animali e piante, la
tendenza a lasciare un altro essere simile a sé –, e chi coman-
da per natura e chi è comandato al fine della sopravvivenza.
Infatti chi è in grado di fare progetti con l’intelligenza co-
manda per natura ed è padrone per natura, mentre chi è in
grado di eseguire quei progetti servendosi del corpo è coman-
dato ed è per natura schiavo; quindi la stessa cosa giova a pa-
drone e schiavo. 1252b Per natura dunque sono distinti la
femmina e lo schiavo: la natura infatti non produce nulla al
risparmio, sul tipo del coltello di Delfi fatto dai fabbri, ma fa
una singola cosa per una sola funzione; così infatti ogni stru-
mento che non serva a molte operazioni, ma a una sola, po-
trebbe portare a compimento il suo scopo nel migliore dei
modi. Tra i barbari invece la femmina e lo schiavo sono sullo
stesso piano; ne è causa il fatto che non hanno per natura l’e-
lemento che comanda, ma la loro comunità è quella di una
schiava e di uno schiavo. Perciò dicono i poeti
«è naturale che gli Elleni dominino sui barbari»,

in quanto l’essere barbaro e l’essere schiavo sarebbero per na-


tura la stessa cosa. Dunque da queste due comunità viene per
prima la famiglia, e giustamente Esiodo ha detto nei suoi versi
«prima di tutto una casa, una donna e un bue che ara».

Il bue infatti è per i poveri il sostituto dello schiavo. Dun-


que secondo natura la comunità sorta per la quotidianità è la
famiglia, quelli che Caronda chiama «compagni di pane»,

1252b 2 th;n Delfikh;n mavcairan : Aristo in SVF I f. 375, Plat. Resp. I


353a, Ar. PA IV 683a 22-25 6-9 cf. Plat. Leg. VII 805d 6-e 2 8 Eur. IA 1400
11 Hes. Op. 405 (idem legitur in Ar. Oec. I 1343a 20-21)

1252b 1-3 Theod. Gazae Probl. 6, 21 kai; ejn tw`/ aV tw`n Politikw`n, ouj-
de;n ga;r ... e}n pro;~ e{n

143
POLITIKWN A

15 de; oJ Krh;" oJmokavpou": hJ dΔ ejk pleiovnwn oijkiw'n koinwniva


prwvth crhvsew" e{neken mh; ejfhmevrou kwvmh. mavlista de;
kata; fuvs in e[oiken hJ kwvmh ajpoikiva oijkiva" ei\nai, ou}" ka-
lou's iv tine" oJmogavlakta", pai'dav" te kai; paivdwn pai'da".
dio; kai; to; prw'ton ejbasileuvonto aiJ povlei", kai; nu'n e[ti ta;
20 e[qnh: ejk basileuomevnwn ga;r sunh'lqon: pa'sa ga;r oijkiva
basileuvetai uJpo; tou' presbutavtou, w{ste kai; aiJ ajpoikivai, dia;
th;n suggevneian. kai; tou'tΔ ejsti;n o} levgei “Omhro"
qemisteuvei de; e{kasto" paivdwn hjdΔ ajlovcwn.
sporavde" gavr kai; ou{tw
to; ajrcai'on w/[koun: kai; tou;" qeou;" de; dia; tou'to pavnte" fasi;
25 basileuvesqai, o{ti kai; aujtoi; oiJ me;n e[ti kai; nu'n, oiJ de; to;
ajrcai'on ejbasileuvonto, w{sper de; kai; ta; ei[dh eJautoi'" ajfo-
moiou's in oiJ a[nqrwpoi, ou{tw kai; tou;" bivou" tw'n qew'n. hJ dΔ ejk
pleiovnwn kwmw'n koinwniva tevleio" povli", h[dh pavsh" e[cousa
pevra" th'" aujtarkeiva" wJ" e[po" eijpei'n, gignomevnh me;n ou\n tou'
30 zh'n e{neken, ou\sa de; tou' eu\ zh'n. dio; pa'sa povli" fuvsei e[stin,
ei[per kai; aiJ prw'tai koinwnivai. tevlo" ga;r au{th ejkeivnwn, hJ de;
fuvs i" tevlo" ejstivn: oi|on ga;r e{kastovn ejsti, th'" genevsew"
telesqeivsh", tauvthn fame;n th;n fuvs in ei\nai eJkavstou, w{sper
ajnqrwvpou, i{ppou, oijkiva". e[ti to; ou| e{neka kai; to; tevlo" bevl-
1253a tiston: hJ dΔ aujtavrkeia kai; tevlo" kai; bevltiston. ejk touvtwn
ou\n fanero;n o{ti tw'n fuvsei hJ povli" ejstiv, kai; oJ[ti] a[nqrwpo" <

15 oJmokavpnou~ P1LOP2025Ven213 16 crhvsew~] rhv ras. A 16-17 mh; ...


e[oiken non vert. G.i. Ú mavlista dΔ e[oike kata; fuvs in hJ kwvmh MS : om. Pac 17
oijkiva~ ajpoikiva E 19 to; om. MS 20 sunh`lqon om. P1 (suppl. P1) : utique
venerunt G.i. (fortasse ex a]n h\lqon) : non ex hiis qui suberant regno accreverunt
Bruni 21 aiJ om. P1 23-24 aliter Ross: sporavde" gavr: kai; ou{tw to; ajrcai'on
[ oun. kai; tou;" qeou;" ktl. 28 h[dh] hJ dh; P2CastL81,5L81,21MOPacP1857
w/k
P2025SUrbVBV2238V2370Ven200Ven213W : hJ de; HarlLVenIV3 : h[dh; Pal 29 gi-
nomevnh codd. Ú ou\n om. P1H 31 au{th] ipsa G.i. 31 prwvtai M 32 tevleio~
H 33 eJkavstou ei\nai P1 34 bevltion MS 1253a 1 aujtavrcia P1857VenIV3 Ú
kai;1 om. P1 Ú ejk touvtou H 2 ejstin P Ú o{ti oJ a[nqrwpo~ P1 Ross : o{ti a[nqrw-
po~ cett. Sus. Immisch Aub. Drei. : [ti] seclusi

144
POLITICA I

Epimenide di Creta invece «compagni di mensa»; la prima


comunità costituita da più famiglie in vista della soddisfazio-
ne di una necessità non quotidiana è il villaggio. Il villaggio
sembra essere al massimo grado secondo natura una colonia
della famiglia i cui componenti alcuni chiamano fratelli di
latte, figli e figli di figli. Perciò in un primo momento le città
erano governate da re, e ora lo sono ancora i popoli; in effetti
esse furono il risultato dell’aggregazione di uomini governati
da un potere monarchico, perché ogni famiglia è retta come
un regno dal più anziano, per cui lo sono anche le colonie del-
la famiglia, in virtù dell’affinità di stirpe con questa. E questo
è ciò che dice Omero:
«ciascuno esercita la propria autorità sui figli e sulle mogli».

Infatti vivevano sparsi e questo era il loro stile di vita nei


tempi antichi: per questo motivo tutti dicono che anche gli
dèi sono governati da un re, perché anch’essi, chi ancora an-
che ora, chi nell’antichità, erano governati da un re; gli uomi-
ni, come fanno simili a se stessi le immagini degli dèi, così ne
fanno simili anche i modi di vita.
La comunità perfetta formata da più villaggi è la città, la
quale ha ormai raggiunto il limite della piena autosufficienza,
per così dire; essa è sì nata in funzione del vivere, ma sussiste
in funzione del vivere bene. Perciò ogni città esiste per natu-
ra, se tali sono anche le comunità precedenti. In effetti questa
è il fine di quelle, e la natura è il fine; infatti quale ciascuna
cosa è, quando si sia compiuto il suo processo di formazione,
questa diciamo essere la sua natura; così diciamo di un uomo,
di un cavallo, di un edificio. E ancora, “ciò in vista di cui” e il
fine rappresentano il meglio; e l’autosufficienza è sia il fine
sia il meglio. 1253a Dunque da queste considerazioni è
chiaro che la città va annoverata fra le cose che esistono per

22 Hom. Od. IX 114-115

15-16, 28 Stob. II 7, 26 (II 148, 8-13) Mikra; gavr ti~ e[oiken ei\nai povli~
oJ oi\ko~, ei[ ge katΔ eujch;n aujxomevnou tou` gavmou kai; tw`n paivdwn ejpididovn-
twn kai; sunduazomevnwn ajllhvloi~ e{tero~ oi\ko~ uJfivstatai kai; trivto~
ou{tw~ kai; tevtarto~, ejk de; touvtwn kwvmh kai; povli~. Pleiovnwn ga;r
genomevnwn kwmw`n povli~ ajpetelevsqh 27-30 Ar. Oec. I 1343a 10-11 Povli~
me;n ou\n oijkiw`n plh`qov~ ejsti kai; cwvra~ kai; kthmavtwn au[tarke~ pro;~ to;
eu\ zh`n 1253a 2-3 Stob. II 7, 26 (II 148, 2-4) ajnagkai`on ejfexh`~ kai; peri;
tou` oijkonomikou` te kai; politikou` dielqei`n, ejpeidh; fuvsei politiko;n
zw`/on a[nqrwpo~
145
POLITIKWN A

fuvsei politiko;n zw/'on, kai; oJ a[poli" dia; fuvs in kai; ouj dia;
tuvchn h[toi fau'lov" ejstin, h] kreivttwn h] a[nqrwpo", w{sper kai;
5 oJ uJfΔ ΔOmhvrou loidorhqei;"
ajfrhvtwr ajqevmisto" ajnevstio":
a{ma ga;r fuvsei toiou'to" kai; polevmou ejpiqumhthv", a{te per
a[zux w]n w{sper ejn pettoi'". diovti de; politiko;n oJ a[nqrwpo" <
zw/'on pavsh" melivtth" kai; panto;" ajgelaivou zw/vou ma'llon,
dh'lon. oujqe;n gavr, wJ" famevn, mavthn hJ fuvs i" poiei': lovgon
10 de; movnon a[nqrwpo" e[cei tw'n zw/vwn: hJ me;n ou\n fwnh; tou' lu-
phrou' kai; hJdevo" ejsti; shmei'on, dio; kai; toi'" a[lloi" uJpavr-
cei zw/voi", mevcri ga;r touvtou hJ fuvs i" aujtw'n ejlhvluqe, tou'
e[cein ai[sqhsin luphrou' kai; hJdevo" kai; tau'ta shmaivnein
ajllhvloi": oJ de; lovgo" ejpi; tw/' dhlou'n ejsti to; sumfevron kai;
15 to; blaberovn, w{ste kai; to; divkaion kai; to; a[dikon: tou'to ga;r
pro;" ta; a[lla zw/'a toi'" ajnqrwvpoi" i[dion, to; movnon ajgaqou'
kai; kakou' kai; dikaivou kai; ajdivkou kai; tw'n a[llwn ai[sqhsin
e[cein: hJ de; touvtwn koinwniva poiei' oijkivan kai; povlin. kai;
provteron dh; th/' fuvsei povli" h] oijkiva kai; e{kasto" hJmw'n ejstin.
20 to; ga;r o{lon provteron ajnagkai'on ei\nai tou' mevrou": ajnairou-
mevnou ga;r tou' o{lou oujk e[stai pou;" oujde; ceivr, eij mh; oJmwnu-
vmw", w{sper ei[ ti" levgei th;n liqivnhn: diafqarei'sa ga;r e[stai
toiauvth: pavnta de; tw/' e[rgw/ w{ristai kai; th/' dunavmei, w{ste
mhkevti toiau'ta o[nta ouj lektevon ta; aujta; ei\nai ajllΔ oJmwv-
25 numa. o{ti me;n ou\n hJ povli" kai; fuvsei kai; provteron h] e{kas-
to", dh'lon: eij ga;r mh; aujtavrkh" e{kasto" cwrisqeiv", oJmoivw"

3 zw`o
/ n ejsti MS (homo natura civile animal est G. : homo natura civile ani-
mal G.i.) : ejsti om. cett. : del. edd. 4 tuvchn] tevcnhn MS Ú h] a[nqrwpo~] paro;
super h] B2, super a[nqrwpo~ A1 5 ajfrhvtwr ajqevmisto" ajnevstio"] insocialis,
illegalis, sceleratus G. (sceleratus: «misread ajnevstio~ for ajnovs io~» Newman) :
afritor, athemistos, anestios G.i. 6 ejpiqumhthv~] ejrasthv~ H (glossa mihi vide-
tur) : dΔ ejpiqhmhthv~ Urb 7 a[zux w]n om. AB (post vacuum om. EOUrb : tan-
tum w]n om. P2025) : ajnariptw`n Castc (sine jugo existens G.) Ú pettoi`~] petei-
noi`~ Pc (volatilibus G.) : velut perizixon (i.e. perivzux w]n), sicut in pegonis G.i. Ú
a[neu zuvgou tugcavnwn P4 : a{te ãw{sÃper a[zux w[n [w{sper] ejn pettoi`~ fortasse
legendum est Ú diovti] «an o{ti?» Drei. : de;] dh; Drei. 7-8 zw`o / n oJ a[nqrwpo~ P1
9 oujde;n P1 10 movno~ Bac Ú ajpo; tw`n zwvw / n S (supra animalia G.) 11 hJdevw~
kai; luphrou` P1 12 ejlhvluqe] proh`lqen LOP1857P2025Ven213VenIV3 (pro
h`lqenw{ste [?] in app. Ross) : ejlhvluqen Ald. 12-13 tou` ... hJdevo~] w{ste aijs-
qavnesqai tou` luphrou` kai; hJdevo~ LOP1857P2025Ven213VenIV3 14 tw`]/ to; P
19 dev H Sus. Immisch Ross Drei. : dhv cett. Aub. (non vert. G.i.) Ú hJmi`n M 22
levgoi ACDEH : levgei cett. et edd. (dicat G. et G.i.) 23 de; om. S 25 kai;1
om. P1 : kai;2 om. ABacCD (neutrum vert. G.i.) : utrum secl. Sus.1,2 : kai;2 secl.
Sus.3,4 : kai; provteron ras. B : protevra EP1857PalUrb Ven200Ven213 VenIV3 :
provtera P2025 : protevrw L81,5L81,6L81,21 (prior G. et G.i.)

146
POLITICA I

natura, che l’uomo è per natura un animale politico e che co-


lui che non vive nella città, per natura e non per caso, o è un
miserabile o è superiore all’essere umano, come anche quello
schernito da Omero
«senza relazioni familiari, senza leggi, senza focolare».

Un tipo del genere è insieme anche uno che per natura


brama la guerra, poiché si comporta come uno che se ne sta
isolato nel luogo in cui si gioca a dadi. È chiaro allora perché
l’uomo è un animale politico più di ogni ape e di ogni anima-
le che vive in greggi. La natura infatti, come diciamo noi, non
fa nulla inutilmente; soltanto l’uomo, tra gli animali, ha la pa-
rola. La voce è segno del dolore e del piacere, perciò la pos-
siedono anche gli altri animali: infatti la loro natura giunge
fino a questo punto, ad avere la sensazione del dolore e del
piacere e a manifestarla l’uno all’altro; la parola invece serve
a mostrare l’utile e il nocivo, come anche il giusto e l’ingiu-
sto. Questo infatti è proprio dell’uomo rispetto agli altri ani-
mali: essere l’unico ad avere la sensazione del bene e del
male, del giusto e dell’ingiusto e delle altre cose del genere.
La condivisione di queste cose costituisce famiglia e città.
Invero la città secondo l’ordine naturale viene prima del-
la famiglia e di ciascuno di noi. Perché necessariamente l’in-
tero viene prima della parte: in effetti, tolto l’intero, non vi
sarà più né piede né mano, se non per omonimia, come nel
caso in cui ci si riferisca a una mano di pietra – sarà infatti in
una tale situazione quando sarà morta –; tutte le cose sono de-
finite dalla funzione e dalla capacità, sicché non bisogna dire
che sono le stesse, quando non sono più tali, ma solo che han-
no lo stesso nome. È chiaro dunque che la città è per natura e
viene prima di ciascun individuo; se infatti un individuo, iso-
lato, non è autosufficiente,

1253a 5 Hom. Il. IX 63 ajfrhvtwr ajqevmisto~ ajnevstiov~ ejstin ejkei`no~

147
POLITIKWN A

toi'" a[lloi" mevresin e{xei pro;" to; o{lon, oJ de; mh; dunavme-
no" koinwnei'n h] mhde;n deovmeno" diΔ aujtavrkeian oujqe;n mevro"
povlew", w{ste h] qhrivon h] qeov". fuvsei me;n ou\n hJ oJrmh; ejn
30 pa's in ejpi; th;n toiauvthn koinwnivan: oJ de; prw'to" susthvsa"
megivstwn ajgaqw'n ai[tio". w{sper ga;r kai; telewqe;n bevltis-
ton tw'n zw/vwn a[nqrwpov" ejstin, ou{tw kai; cwrisqe;n novmou kai;
divkh" ceivriston pavntwn. calepwtavth ga;r ajdikiva e[cousa
o{pla: oJ de; a[nqrwpo" o{pla e[cwn fuvetai fronhvsei kai; <
35 ajreth/', oi|" ejpi; tajnantiva e[sti crh'sqai mavlista. dio; ajnosiwv-
taton kai; ajgriwvtaton a[neu ajreth'", kai; pro;" ajfrodivs ia kai;
ejdwdh;n ceivriston. hJ de; dikaiosuvnh politikovn: hJ ga;r divkh po-
litikh'" koinwniva" tavxi" ejstivn, hJ de; divkh tou' dikaivou krivs i".
1253b 3. ΔEpei; de; fanero;n ejx w|n morivwn hJ povli" sunevsthken,
ajnagkai'on prw'ton peri; oijkonomiva" eijpei'n: pa'sa ga;r suvg-
keitai povli" ejx oijkiw'n. oijkonomiva" de; mevrh ejx w|n pavlin oijkiva
sunevsthken: oijkiva de; tevleio" ejk douvlwn kai; ejleuqevrwn. ejpei;
5 dΔ ejn toi'" ejlacivstoi" prw'ton e{kaston zhthtevon, prw'ta de;
kai; ejlavcista mevrh oijkiva" despovth" kai; dou'lo", kai; povs i"
kai; a[loco", kai; path;r kai; tevkna, peri; triw'n a]n touvtwn
skeptevon ei[h tiv e{kaston kai; poi'on dei' ei\nai. tau'ta dΔ ejsti;
despotikh; kai; gamikhv, ajnwvnumon ga;r hJ gunaiko;" kai; ajn-
10 dro;" suvzeuxi": kai; trivton teknopoihtikhv, kai; ga;r au{th oujk <
wjnovmastai ijdivw/ ojnovmati. e[stwsan dΔ au|tai trei'" a}" ei[po-
men. e[sti dev ti mevro" o} dokei' toi'" me;n ei\nai oijkonomiva,
toi'" de; mevgiston mevro" aujth'": o{pw" dΔ e[cei, qewrhtevon:

28 oujqe;n] oujde; P1 31-32 telewqei;~ ... cwrisqei;~ Spengel Ross 32 oJ


a[nqrwpo~ P1 Ú ou{tw cwrisqe;n kai; novmou kai; divkh~ Drei. 34 fuvetai] faiv-
netai A3CD 37-38 hJ ga;r divkh] to; ga;r divkaion Richards 38 hJ de; divkh]
kai; hJ divkh Hs : divkh kai; tou` dikaivou H : hJ de; dikaiosuvnh Reiske Thurot
Ross 1253b 1 ejpei; de; kai; fanero;n VB 1-3 sunevsthken, ajnavgkh peri;
oijkonomiva~ eijpei`n provteron: pa`sa ga;r povli~ (povlei V2370 : povli V2238)
ejx oijkiw`n suvgkeitai VBV2238V2370 2-4 ajnagkai'on ... sunevsthken om.
L81,5L81,6L81,21PalacUrb 2-3 ajnavgkh peri; oijkonomiva" eijpei'n provteron:
pa'sa ga;r povli" ejx oijkiw'n suvgkeitai LOP1857P2025Ven200Ven213VenIV3W
Bekker 3 oijkiva~ de; mevrh LOP1857P2025Ven200Ven213VenIV3 (domus autem
partes G.) : de; om. Pal Ú pavlin oijkiva] hJ oijkiva pavlin P1 (rursum domus G.) :
pavlin] au\qi~ LOP1857 P2025VBV2238V2370Ven200Ven213 VenIV3W Ald. Bekker
4 sunivstatai LP1857P2025Ven200Ven213 VenIV3W Ald. Bekker 7 a]n ante 8
ei[h P1 8 ejstin post ti add. M Ú dei`] dh; M 9 kai;1 om. M 10 teknopoih-
tikhv] patrikhv (ex de paterna disciplina Bruni et coll. 1259a 38 : deknofativa
G. plerique codd. : teknofativa Sus.) Goettling Sus. Immisch Drei. 11 dh;
au|tai Sus. : au|tai ãaiJÃ trei`~ Jovett Ross

148
POLITICA I

sarà rispetto all’intero nella stessa relazione delle altre parti; e


allora chi non è in grado di far parte di una comunità o in virtù
della sua autosufficienza non manca di nulla, non è parte di
una città, e quindi è o una belva o un dio.
Per natura dunque è presente in tutti lo stimolo a far parte
di una siffatta comunità; il primo ad istituirla è stato causa di
grandissimi beni. Come infatti l’uomo è il migliore degli ani-
mali quando sia stato reso perfetto, così è il peggiore di tutti
quando sia privo di legge e di giustizia. In effetti l’ingiustizia
più pericolosa è quella che dispone di armi; l’uomo viene al
mondo disponendo di armi al servizio di saggezza e virtù, ma
di queste armi è quanto mai possibile servirsi per cose oppo-
ste. Perciò senza virtù è l’animale più scellerato e più feroce
ed il peggiore rispetto al sesso e al cibo. Ora, la giustizia è
cosa che ha a che fare con la città; infatti il diritto è l’ordine
della comunità politica, il diritto è il discernimento del giusto.

3. 1253b Dal momento che è evidente di quali parti è co-


stituita la città, è necessario in primo luogo parlare dell’ammi-
nistrazione della casa, dato che ogni città consta di case. Le
parti dell’amministrazione della casa sono quelle di cui a sua
volta è costituita la casa; la casa perfetta è costituita di schiavi
e liberi. Poiché ciascun oggetto deve essere indagato prima di
tutto nelle sue parti minime, e le parti prime e minime della
casa sono padrone e schiavo, marito e moglie, padre e figli, è
riguardo a questi tre elementi che bisognerebbe indagare che
cosa sia ciascuno e di quale qualità debba essere. Essi costitui-
scono i rapporti padronale e coniugale – non esiste infatti una
parola che identifichi il legame di donna e uomo – e in terzo
luogo il rapporto riproduttivo – anche questo infatti non è de-
signato con un proprio nome. Siano allora queste le tre parti
che dicevamo. Ma c’è una parte che agli uni sembra costituire
per intero l’amministrazione della casa, agli altri sembra esse-
re la parte più importante di essa – bisogna indagare come

38 scholium H kai; hJ divkh tou` dikaivou krivs i~. hJ tou` dikaivou krivs i~
politikh`~ koinwniva~ tavxi~ ejstivn. ktl. (Ar. EN V 1134a 31-32 hJ ga;r divkh
krivs i~ tou` dikaivou kai; tou` ajdivkou) 1253b 1-23 Mich. Eph. in EN V 1134a
24 (43, 19-23) oujk e[sti to; politiko;n divkaion, ajllav ti divkaion kaqΔ oJmoiov-
thta, w{sper patro;~ pro;~ uiJovn, kai; ajndro;~ pro;~ gunai`ka, kai; douvlou
pro;~ despovthn: ejn ga;r touvtoi~ oujk e[sti pro;~ ajllhvlou~ to; politiko;n div-
kaion, ajlla; to; oijkonomiko;n kai; despotikovn. tivna de; tau`ta ta; divkaia,
ei\pen ejn tai`~ Politeivai~ ; cf. Theod. Metoch. Sem. 96 (613-614)

149
POLITIKWN A

levgw de; peri; th'" kaloumevnh" crhmatistikh'". prw'ton de;


15 peri; despovtou kai; douvlou ei[pwmen, i{na tav te pro;" th;n
ajnagkaivan creivan i[dwmen, ka]n ei[ ti pro;" to; eijdevnai peri;
aujtw'n dunaivmeqa labei'n bevltion tw'n nu'n uJpolambanomev-
nwn: toi'" me;n ga;r dokei' ejpisthvmh tev ti" ei\nai hJ despoteiva,
kai; hJ aujth; oijkonomiva kai; despoteiva kai; politikh; kai; ba-
20 silikhv, kaqavper ei[pomen ajrcovmenoi, toi'" de; para; fuvs in
to; despovzein: novmw/ ga;r to;n me;n dou'lon ei\nai to;n dΔ ejleuv-
qeron, fuvsei dΔ oujde;n diafevrein. diovper oujde; divkaion: bivaion
gavr. 4. ΔEpei; ou\n hJ kth's i" mevro" th'" oijkiva" ejsti; kai; hJ kthti-
kh; mevro" th'" oijkonomiva": a[neu ga;r tw'n ajnagkaivwn ajduvnaton
25 kai; zh'n kai; eu\ zh'n, w{sper de; tai'" wJrismevnai" tevcnai"
ajnagkai'on a]n ei[h uJpavrcein ta; oijkei'a o[rgana, eij mevllei
ajpotelesqhvsesqai to; e[rgon, ou{tw kai; tw/' oijkonomikw/'. tw'n
dΔ ojrgavnwn ta; me;n a[yuca ta; de; e[myuca, oi|on tw/' ku-
bernhvth/ oJ me;n oi[ax a[yucon oJ de; prw/reu;" e[myucon: oJ
30 ga;r uJphrevth" ejn ojrgavnou ei[dei tai'" tevcnai" ejstivn: ou{tw kai;
to; kth'ma o[rganon pro;" zwhvn ejsti, kai; hJ kth's i" plh'qo"
ojrgavnwn ejstiv, kai; oJ dou'lo" kth'mav ti e[myucon, kai; w{sper
o[rganon pro; ojrgavnwn pa'" uJphrevth". eij ga;r hjduvnato
e{kaston tw'n ojrgavnwn keleusqe;n h] proaisqanovmenon ajpote-
35 lei'n to; auJtou' e[rgon, w{sper ta; Daidavlou fasi;n h] tou;" tou'
ΔHfaivstou trivpoda", ou{" fhsin oJ poihth;" aujtomavtou" qei'on
uJpoduvesqai ajgw'na, ou{tw" aiJ kerkivde" ejkevrkizon aujtai; kai; <
ta; plh'ktra ejkiqavrizen, oujde;n a]n e[dei ou[te toi'" ajrcitevktosin
1254a uJphretw'n ou[te toi'" despovtai" douvlwn. ta; me;n ou\n legovmena
o[rgana poihtika; o[rganav ejsti, to; de; kth'ma praktikovn: ajpo;

14 de;] me;n M 15 ta; om. E 16 ajnavgkhn creivan M Ú to; (w s.l.) P : om.


B(suppl. B2) 17 dunavmeqa P1Cast 19 hJ om. B(suppl. B2) H 19-20 poli-
tiko;n kai; basilikovn MS Ú basilikhv] dhspotikhv H : kai; basilikhv non
vert. G.i. 23 oijkiva~] oujs iva~ Mac 23-24 [kai; hJ kthtikh; mevro~ th`~ oijko-
nomiva~] Sus.2,3,4 25 kai; eu\ zh`n om. P1(suppl. Pc) Ú de;] kai; S : de; ejn E : dh;
Sus.3 Ross 27 tw`/ oijkonomikw`/ P1Hac : tw`n oijkonomikw`n ABP1857 : tw` oijko-
nomikw`n H1 (sic et yconomico G. et G.i.) : ou{tw kai; tw`/ oijkonomikw`/ post 30
ejstivn transp. esse cens. Rassow (secl. Immisch Sus.) 30 ei[dh Mac 33 pa`~
uJphrevth~ HMPacS : pa`~ oJ uJ. cett. 35 auJtou` EP (suum G. et G.i.) Bekker :
aujtou` cett. Ú ãkai;Ã w{sper Ross Ú tou;~ P2025 36 qei`on om. Pac 37 uJpo-
duvesqai MS (subinduere G. : occultare G.i.) : duvesqai cett. et edd. : [uJpo]-
duvesqai Sus. Ú ou{tw~] sic si G. et G.i. Ú aujtai; Cast edd. (per se G. et G.i.) :
au|tai codd. 38 oujde;n] oujk P Ú ajrcitevktwsin M

150
POLITICA I

stanno le cose – e intendo riferirmi alla cosiddetta crematisti-


ca. In primo luogo parliamo allora del padrone e dello schia-
vo, per indagare ciò che serve alla soddisfazione delle necessi-
tà e se eventualmente possiamo cogliere, in relazione alla
conoscenza di questi, qualcosa di meglio rispetto alle infor-
mazioni ora comunemente accettate. Alcuni infatti pensano
che quella padronale sia una forma di scienza e che siano la
stessa cosa l’amministrazione della casa, l’autorità padronale,
l’autorità politica e quella regale, come abbiamo detto all’ini-
zio; ad altri invece sembra che l’essere padrone sia contro na-
tura: infatti (sostengono che) per legge l’uno è schiavo, l’altro
è libero, mentre per natura non vi è alcuna differenza. Perciò
non è neppure giusto, dato che è un atto di costrizione.

4. Dal momento dunque che la proprietà è parte della casa


e l’arte di acquistare è parte dell’amministrazione della casa –
in effetti senza le cose necessarie è impossibile sia vivere sia
vivere bene –, come invero sarebbe necessario che tecniche
determinate avessero strumenti propri, se si vuole portare a
compimento l’opera, così dovrebbe averli anche l’ammini-
strazione della casa. Degli strumenti alcuni sono inanimati,
altri animati: per esempio il pilota di una nave si serve del ti-
mone, inanimato, e della vedetta, animata (infatti l’aiutante
nelle attività tecniche rientra nella classe degli strumenti);
così anche la cosa posseduta è uno strumento per la vita, e la
proprietà è un insieme di strumenti; lo schiavo è una cosa pos-
seduta animata, e ogni aiutante è come uno strumento che
precede gli altri strumenti. Se infatti ciascuno degli strumenti
fosse in grado di portare a compimento la propria opera in vir-
tù di un comando o di un presentimento, come dicono faces-
sero le creazioni di Dedalo o i tripodi di Efesto, che, a detta
del poeta, si recano spontaneamente alla divina adunanza,
allo stesso modo le spole tessessero da sé e i plettri suonasse-
ro da sé, allora i costruttori non avrebbero per nulla bisogno di
aiutanti né i padroni di schiavi. 1254a Gli strumenti citati
dunque sono strumenti produttivi, la cosa posseduta invece è

1253b 36 Hom. Il. XVIII 376 o[fra oiJ aujtovmatoi qei`on dusaivatΔ ajgw`na

14-1254b 39 An. in EN IV 1124b 30 (190, 4-5) ajllΔ oujde; pro; a[llon zh`n
dunatovn fhsi. to; ga;r pro;~ a[llon douvlou kai; douloprepev~, wJ~ ejn Poli-
teivai~ devdeiktai 24-27 Stob. II 7, 26 (II 149, 12-13)

151
POLITIKWN A

me;n ga;r th'" kerkivdo" e{terovn ti givnetai para; th;n crh's in


aujth'", ajpo; de; th'" ejsqh'to" kai; th'" klivnh" hJ crh's i" mov-
5 non. e[ti dΔ ejpei; diafevrei hJ poivhsi" ei[dei kai; hJ pra'xi",
kai; devontai ajmfovterai ojrgavnwn, ajnavgkh kai; tau'ta th;n
aujth;n e[cein diaforavn. oJ de; bivo" pra'xi", ouj poivhsi", ejstin:
dio; kai; oJ dou'lo" uJphrevth" tw'n pro;" th;n pra'xin. to; de;
kth'ma levgetai w{sper kai; to; movrion. tov te ga;r movrion ouj
10 movnon a[llou ejsti; movrion, ajlla; kai; o{lw" a[llou: oJmoivw" de;
kai; to; kth'ma. dio; oJ me;n despovth" tou' douvlou despovth" mov-
non, ejkeivnou dΔ oujk e[stin: oJ de; dou'lo" ouj movnon despovtou dou`-
'lov" ejstin, ajlla; kai; o{lw" ejkeivnou. tiv" me;n ou\n hJ fuvs i" tou' douv-
lou kai; tiv" hJ duvnami", ejk touvtwn dh'lon: oJ ga;r mh; auJtou' fuvsei
15 ajllΔ a[llou, a[nqrwpo" w[n, ou|to" fuvsei dou'lov" ejstin: a[llou <
dΔ ejsti;n a[nqrwpo" o}" a]n kth'ma h/\ dou`lo" w[n, kth'ma de; o[rga- <
non praktiko;n kai; cwristovn. 5. Povteron dΔ e[sti ti" fuvsei
toiou'to" h] ou[, kai; povteron bevltion kai; divkaiovn tini douleu-
vein h] ou[, ajlla; pa'sa douleiva para; fuvs in ejstiv, meta; tau'ta
20 skeptevon. ouj calepo;n de; kai; tw/' lovgw/ qewrh'sai kai; ejk
tw'n gignomevnwn katamaqei'n. to; ga;r a[rcein kai; a[rcesqai
ouj movnon tw'n ajnagkaivwn ajlla; kai; tw'n sumferovntwn ejstiv,
kai; eujqu;" ejk geneth'" e[nia dievsthke ta; me;n ejpi; to; a[rcesqai
ta; dΔ ejpi; to; a[rcein. kai; ei[dh polla; kai; ajrcovntwn kai;
25 ajrcomevnwn e[stin, kai; ajei; beltivwn hJ ajrch; hJ tw'n beltiovnwn
ajrcomevnwn, oi|on ajnqrwvpou h] qhrivou: to; ga;r ajpotelouvmenon
ajpo; tw'n beltiovnwn bevltion e[rgon. o{pou de; to; me;n a[rcei

1254a 3 e{teron ti; M 5 dΔ om. MS : secl. Sus. Ú hJ1 om. M 6 kai;


devontai] devontai dΔ P4 8 [uJphrevth~] Drei. 10 aJplw`~ o{lw~ P1A(aJplw`~
eJrmhvneia ejsti tou` o{lw~ A3) : lac. ante o{lw~ et aJplw`~ s.l. adscr. D (simplici-
ter G.) 12 ejkeivnou dΔ oujk e[stin om. E Ú despovth~ M 13 ejstin om. E
14-16 oJ ga;r ... w[n] qui enim non sui ipsius natura, sed alterius homo est, iste
natura servus est, alterius autem est homo quicunque res possessa aut servus
est G. (16 dou`lo~ ejstivn Sus.) : homo enim non sui ipsius per naturam sed al-
terius, iste natura servus est. Alterius autem est homo, quicumque res possessa
aut servus est G.i. 14 aujtou` HMS 15 a[nqrwpo~ w[n P1FP2025c Ald. : a[n-
qrwpo~ dev P4A ras.B CDP2P1857 : a[nqrwpo~ E : a[nqrwpo~ w[n non vert. G.i.
15-16 a[llou dΔ] ajllΔ oujdΔ P4P : ajllΔoujde;n MS : ajllΔ a[llou: a[nqrwpo~ dev,
ou|to~ fuvsei dou`lo~ e[stin: a[llou dΔ ejsti;n ktl. Pal 16 h\Δ]h] M (aut G.) Ú
dou`lo~ w[n] a[nqrwpo~ w[n A1BcCDLL81,5L81,6L81,21P2P1857PalUrbVB (ut
vid.)Ven200c Ven213cVenIV3W Goettling Newman Immisch Ross Aub. : a[nqrw-
po~ w]n dou`lo~ w[n P2025 : alterius autem est qui possidetur homo existens in-
strumentum ad acquirendum activum et separabile Bruni : o} a]n kth`ma h\/
[dou`lo~ ejstivn], kth`ma de; ex G. corr. et secl. Sus. 17 tiv~ M 18 divkaion
codd. : justius G. 18-19 kai; povteron ... ou[ om. 23-25 kai; ... ejstivn om. M
25 [hJ1] Koraïs 27 uJpo; tw`n beltiovnwn Bekker2 Ross (sed cf. 1254b 18)

152
POLITICA I

uno strumento d’azione; infatti dalla spola deriva qualcos’al-


tro oltre al suo proprio uso, mentre dalla veste e dal letto sol-
tanto l’uso. E ancora, dal momento che la produzione e l’azio-
ne differiscono per specie ed entrambe hanno bisogno di
strumenti, è necessario che anche questi abbiano la stessa dif-
ferenza. Ma la vita è azione, non produzione; pertanto anche
lo schiavo è aiutante per quel che riguarda l’azione. La cosa
posseduta si definisce come anche la parte. Infatti la parte non
è solo una parte di un altro, ma appartiene anche interamente
a questo altro; ciò vale ugualmente anche per la cosa possedu-
ta. Perciò il padrone è solo padrone dello schiavo, ma non ap-
partiene a lui; invece lo schiavo non solo è schiavo del padro-
ne, ma appartiene anche completamente a quello.
Quale sia dunque la natura dello schiavo e quale la sua
funzione risulta chiaro da queste considerazioni; chi infatti,
essendo uomo, non appartiene per natura a se stesso ma a un
altro, è per natura schiavo; appartiene ad un altro l’uomo che,
essendo schiavo, sia cosa posseduta ed è oggetto di possesso
uno strumento che è rivolto all’azione e separato.

5. Poi bisogna esaminare se esista un individuo tale per


natura o no, e se sia meglio e giusto per qualcuno essere
schiavo o no o se invece ogni schiavitù sia contro natura. E
non è difficile indagare con il ragionamento e apprenderlo dai
fatti che accadono. Infatti comandare ed essere comandati è
parte non solo delle cose necessarie ma anche di quelle utili e
subito fin dalla nascita alcuni esseri si distinguono in quanto
destinati gli uni ad essere comandati, gli altri a comandare.
Esistono molte specie sia di comandanti sia di comandati, ed
è sempre migliore il comando esercitato sui comandati mi-
gliori, per esempio su un uomo piuttosto che su una bestia.
Infatti l’opera portata a compimento dai migliori è migliore, e

1254a 14-15 Al. in Metaph. I 982b 11 (17, 7-9) to;n ga;r dou`lon ejn toi`~
Politikoi`~ ei\nai ei\pen o}~ a[nqrwpo~ w}n a[llou ejstivn: toiou`to~ de; oJ mh;
dioratiko;~ tw`n praktevwn diΔ ajfui?an, ajlla; uJphretikov~ An. in EN IV
1124b 30 (190, 4-5) vide supra ad 1253b 14 ss. 20-1254b 10 cf. Theod. Me-
toch. Sem. 96 (613-614)

153
POLITIKWN A

to; dΔ a[rcetai, e[sti ti touvtwn e[rgon: o{sa ga;r ejk pleiovnwn


sunevsthke kai; givnetai e{n ti koinovn, ei[te ejk sunecw'n ei[te ejk
30 dih/rhmevnwn, ejn a{pasin ejmfaivnetai to; a[rcon kai; to; ajrcov-
menon, kai; tou'to ejk th'" aJpavsh" fuvsew" ejnupavrcei toi'"
ejmyuvcoi": kai; ga;r ejn toi'" mh; metevcousi zwh'" e[sti ti"
ajrchv, oi|on aJrmoniva". ajlla; tau'ta me;n i[sw" ejxwterikwtev-
ra" ejsti; skevyew": to; de; zw/'on prw'ton sunevsthken ejk yuch'"
35 kai; swvmato", w|n to; me;n a[rcon ejsti; fuvsei to; dΔ ajrcov-
menon. dei' de; skopei'n ejn toi'" kata; fuvs in e[cousi ma'llon
to; fuvsei, kai; mh; ejn toi'" diefqarmevnoi": dio; kai; to;n bevl-
tista diakeivmenon kai; kata; sw'ma kai; kata; yuch;n a[n-
qrwpon qewrhtevon, ejn w/| tou'to dh'lon: tw'n ga;r mocqhrw'n h]
1254b mocqhrw`~ ejcovntwn dovxeien a]n a[rcein pollavki~ to; sw`ma th'" <
yuch'" dia; to; fauvlw" kai; para; fuvs in e[cein. e[sti dΔ
ou\n, w{sper levgomen, prw'ton ejn zw/vw/ qewrh'sai kai; de-
spotikh;n ajrch;n kai; politikhvn: hJ me;n ga;r yuch; tou' swv-
5 mato" a[rcei despotikh;n ajrchvn, oJ de; nou'" th'" ojrevxew" po-
litikh;n kai; basilikhvn: ejn oi|" fanerovn ejstin o{ti kata; fuv-
sin kai; sumfevron to; a[rcesqai tw/' swvmati uJpo; th'" yu-
ch'", kai; tw/' paqhtikw/' morivw/ uJpo; tou' nou' kai; tou' morivou tou'
lovgon e[conto", to; dΔ ejx i[sou h] ajnavpalin blabero;n pa's in.
10 pavlin ejn ajnqrwvpw/ kai; toi'" a[lloi" zw/voi" wJsauvtw": ta; me;n
ga;r h{mera tw'n ajgrivwn beltivw th;n fuvs in, touvtoi" de;
pa's i bevltion a[rcesqai uJpΔ ajnqrwvpou: tugcavnei ga;r sw-
thriva" ou{tw". e[ti de; to; a[rren pro;" to; qh'lu fuvsei to; me;n
krei'tton to; de; cei'ron, kai; to; me;n a[rcon to; dΔ ajrcovmenon. to;n
15 aujto;n de; trovpon ajnagkai'on ei\nai kai; ejpi; pavntwn ajnqrwv-
pwn. o{soi me;n ou\n tosou'ton diesta's in o{son yuch; swvmato"
kai; a[nqrwpo" qhrivou, diavkeintai tou'ton to;n trovpon o{swn

33 aJrmoniva~] ejn aJrmoniva/ prop. Sus. : aJrmonivai~ vel ejn aJrmonivai~


Richards Ú me;n om. M 39 ejn ... dh`lon om. P 39-40 tw`n ga;r ... ejcovntwn]
pestilentium enim et prave se habentium G. et G.i. (mocqhrw`~ in fauvlw~ corr.
et 1254b 2 [fauvlw~ kai;] Buecheler : «fortasse tamen h] mocqhrw`~ ejcovntwn
potius secludenda esse ci. Studemundus» Sus.1) 1254b 1-2 pollavki~ ...
e[cein om. H 2 kai; para; fuvs in om. P1(suppl. P2) Ú e[sti] e{teron H(e[sti
gr. Hc) Ú peri; AB 5 swvmato~ despotikh;n e[cei Bas.3 (a[rcei d. ajrch;n mg.)
6 [kai; basilikhvn] Oncken («nescio an recte» Sus.3) : h] basilikhvn Richards
Ross 7 kai; sumfevron om. Pac 9 lovgou M 13 ou{tw P1 Ú to;3 om. MS
14 kai; om. CDE 16 diesta`s in tosou`ton MS(diesta`s i M) : diesta`s i
toiou`ton P 17 kai;] kaisuo~ M Ú diavkeintai dev A2C2D2 Sus. Ross Drei.
(disponuntur autem hoc modo G. et G.i.) Ú o{son M

154
POLITICA I

laddove c’è qualcosa che comanda e qualcosa che è coman-


dato è presente una qualche opera di costoro: in effetti in tutto
ciò che deriva dall’unione di più parti, siano esse continue o
separate, ed è un’unica entità comune, appare l’elemento che
comanda e quello comandato, e questo esiste negli esseri ani-
mati per opera della natura nella sua interezza; infatti persino
in quelle cose che non partecipano della vita c’è un elemento
dominante, come ad esempio quello dell’armonia. Ma questi
argomenti forse fanno parte di una ricerca troppo estranea al
tema.
L’essere vivente consta in primo luogo di anima e corpo,
dei quali per natura l’una comanda e l’altro è comandato. E bi-
sogna ricercare ciò che è per natura in quei soggetti che in
maggior misura sono in condizione conforme a natura, e non
in quelli corrotti; perciò anche si deve considerare l’uomo che
si trova nelle migliori condizioni e nel corpo e nell’anima, nel
quale questo principio è chiaro; infatti tra i depravati o
1254b quelli che si comportano in maniera depravata sembre-
rebbe che spesso il corpo comandi sull’anima a causa della
sua inclinazione malvagia e contro natura. È possibile dun-
que, come stiamo dicendo, osservare in primo luogo nell’es-
sere vivente l’autorità padronale e politica, poiché l’anima e-
sercita un’autorità padronale sul corpo, l’intelletto invece
un’autorità politica e regale sull’appetizione; nei quali casi è
evidente che è secondo natura e utile per il corpo l’essere co-
mandato dall’anima, e per la parte passionale essere comanda-
ta dall’intelletto e dalla parte dotata di ragione, mentre sarebbe
dannoso per tutti il rapporto paritario o il rapporto inverso.
Allo stesso modo funziona daccapo per l’uomo e gli altri
animali: infatti gli animali domestici sono migliori per natura
degli animali selvatici, e per tutti è meglio essere comandati
dall’uomo, poiché in questo modo è garantita la sopravvivenza.
E ancora, il maschio rispetto alla femmina è tale che per
natura l’uno è migliore, l’altra peggiore, e l’uno comanda,
l’altra è comandata. E nello stesso modo è necessario che le
cose stiano anche nel caso di tutti gli uomini. E allora tutti
quelli che differiscono dagli altri tanto quanto l’anima dal cor-
po e l’uomo dalla bestia – e si trovano in questa condizione gli

39-40 glossa A mocqhrov~ ejstin oJ katΔ ejnevrgeian tou` kakou`, o}~ kai;
i[asto~, eij mhvpw mocqhrw`~ e[cei: o} ga;r mocqhrw`~ e[cei, to; kaqΔ e{xin tevlo~,
o} thÊ` fuvsei ejxivswtai

155
POLITIKWN A

ejsti;n e[rgon hJ tou' swvmato" crh's i", kai; tou'tΔ ejstΔ ajpΔ aujtw'n
bevltiston, ou|toi mevn eijs i fuvsei dou'loi, oi|" bevltiovn ejstin
20 a[rcesqai tauvthn th;n ajrchvn, ei[per kai; toi'" eijrhmevnoi". e[sti
ga;r fuvsei dou'lo" oJ dunavmeno" a[llou ei\nai dio; kai; a[llou
ejstivn, kai; oJ koinwnw'n lovgou tosou'ton o{son aijsqavnesqai ajl-
la; mh; e[cein: ta; ga;r a[lla zw/'a ouj lovgw/ aijsqanovmena, ajlla;
paqhvmasin uJphretei'. kai; hJ creiva de; parallavttei mikrovn:
25 hJ ga;r pro;" tajnagkai'a tw/' swvmati bohvqeia givnetai parΔ
ajmfoi'n, parav te tw'n douvlwn kai; para; tw'n hJmevrwn zw/vwn.
bouvletai me;n ou\n hJ fuvs i" kai; ta; swvmata diafevronta
poiei'n ta; tw'n ejleuqevrwn kai; tw'n douvlwn, ta; me;n ijscura;
pro;" th;n ajnagkaivan crh's in, ta; dΔ ojrqa; kai; a[crhsta pro;"
30 ta;" toiauvta" ejrgasiva", ajlla; crhvs ima pro;" politiko;n
bivon: ou|to" de; kai; givnetai dih/rhmevno" ei[" te th;n polemikh;n
creivan kai; th;n eijrhnikhvn. sumbaivnei de; pollavki" kai; touj-
nantivon, tou;" me;n ta; swvmatΔ e[cein ejleuqevrwn tou;" de; ta;"
yucav": ejpei; tou'tov ge fanerovn, wJ" eij tosou'ton gevnointo diav-
35 foroi to; sw'ma movnon o{son aiJ tw'n qew'n eijkovne", tou;" uJpo-
leipomevnou" pavnte" fai'en a]n ajxivou" ei\nai touvtoi" douleuvein.
eij dΔ ejpi; tou' swvmato" tou'tΔ ajlhqev", polu; dikaiovteron ejpi;
th'" yuch'" tou'to diwrivsqai: ajllΔ oujc oJmoivw" rJa/vdion ijdei'n
tov te th'" yuch'" kavllo" kai; to; tou' swvmato". o{ti me;n
1255a toivnun eijs i; fuvsei tine;~ oiJ me;n ejleuvqeroi oiJ de; dou`loi, fa- <
nerovn, oi|" kai; sumfevrei to; douleuvein kai; divkaiovn ejstin.
6. ”Oti de; kai; oiJ tajnantiva favskonte" trovpon tina; levgou-
sin ojrqw'", ouj calepo;n ijdei'n. dicw'" ga;r levgetai to; douleuvein
5 kai; oJ dou'lo": e[sti gavr ti" kai; kata; novmon dou'lo" kai;
douleuvwn: oJ ga;r novmo" oJmologiva tiv" ejstin ejn w|/ ta; kata;
povlemon kratouvmena tw'n kratouvntwn ei\naiv fasin. tou'to dh;

18 e[stΔ] ejstin M 19 dou`lon Bac 20 post eijrhmevnoi~ lac. susp. Morel


Thurot 23 lovgw/ HMP Bas.3mg : lovgou cett. et edd. (dub. Sus.) praeter Aub. :
nam cetera quidem animalia rationem non sentiunt Bruni («he would seem
therefore to have read lovgou» Newman) Ú [aijsqanovmena] Bender Ross : aij-
sqavnontai Schneider Ú [ajlla;] Spengel (fortasse recte) 25 ajnagkai`a ta; swv-
mata MS 26 para;2 om. MS 28 poiei`n P1A2CDE : poiei` cett. Ú kai; ta;
me;n ijscura; ACD 31 kai; om. L : secl. Sus.1,2 (ou|to~ ... eijrhnikhvn additi-
cium cens. Schneider) 32 eijrhvnhn M 32-33 tounantivon M 33 swvmata
MP Ú ejleuqevrw~ A1CD 36 pavnta~ MS 38 diwrei`sqai B(ut vid. : corr. B2)
: diairei`sqai P 1255a 1 eijs i; lac. B(suppl. B2) 2 sumfevrein M 3 ta; ej-
nantiva lac. M 5 kai;2 om. P1B(suppl. B2) H 6 ejn w|]/ ejn h|/ Bas.3 Ross

156
POLITICA I

uomini la cui attività implica l’impiego del corpo e questo è il


meglio che si possa ottenere da essi – sono per natura schiavi,
e per loro è meglio essere soggetti a questa forma di coman-
do, se è vero che ciò vale anche per i casi già esposti. È infatti
schiavo per natura colui che, essendo potenzialmente di un
altro, è per ciò anche di un altro, e partecipa della ragione in
misura tale da starla a sentire, ma da non possederla. Gli altri
animali svolgono servizi non percependo con la ragione ma
con le passioni. Anche il loro impiego peraltro differisce di
poco: entrambi infatti, gli schiavi e gli animali domestici,
sono d’aiuto alle necessità della vita col loro corpo. Ora, la
natura intende differenziare anche il corpo dei liberi e degli
schiavi, rendendo gli uni forti per le mansioni necessarie, gli
altri eretti e inadatti a simili attività, ma adatti alla vita politi-
ca, che si divide in attività di guerra e di pace. Spesso però ac-
cade anche il contrario, cioè che gli uni abbiano il corpo di li-
beri, gli altri l’anima; perché è perlomeno chiaro che se
l’unica differenza fosse nel corpo, nella stessa misura in cui
le immagini degli dei differiscono da quelle degli uomini, al-
lora tutti direbbero che quelli inferiori sono degni di essere
schiavi di questi. Se poi ciò è vero per il corpo, è molto più
giusto che questa distinzione valga per l’anima; sennonché
non è ugualmente facile vedere la bellezza dell’anima e quel-
la del corpo. 1255a È evidente pertanto che vi sono alcuni
uomini che per natura sono gli uni liberi, gli altri schiavi, e
che per questi l’essere schiavi è utile e giusto.

6. Non è difficile vedere che anche coloro che affermano


il contrario in qualche modo hanno ragione. Infatti le locuzio-
ni «essere schiavo» e «schiavo» vengono dette in due sensi,
perché c’è qualcuno che è schiavo e presta servizio come
schiavo anche per legge: infatti la legge nella quale si dice
che ciò che viene preso in guerra appartiene a chi lo prende è
una forma di accordo tra le parti.

1254b 27-29 Stob. II 7, 26 (II 149, 1-3) ijscuro;n me;n tw/` swvmati pro;~
uJphresivan, nwqh` de; kai; kaqΔ eJauto;n ajduvnaton diazh`n, w|/ to; a[rcesqai
sumfevrein 1255a 1-1255b 4 ”Oti me;n toivnun ... ouj mevntoi duvnatai in
[Plut.] Nob. 6 (214, 6-218, 10) Oujde; mh;n oujdΔ aujto;~ ΔAristotevlh~, o}n w{sper
diwvkonta toutoni; to;n ajgw`na proskalei`te, ou{tw~ eujgeneiva~ ajnisovrropo~
diaiththv~ ejstin, w{sqΔ uJmi`n sumfwnei`sqai. kai; ga;r ejn toi`~ Politikoi`~
a[llw~ te a[llo zhtou`nto~ ejkei` gnwvmh scedo;n au{th. {Oti me;n toivnun eijs i; ...
ouj mevntoi duvnatai 5 Stob. II 7, 26 (II 149, 3-4) ... ei[te kai; novmw/ dou`lon

157
POLITIKWN A

to; divkaion polloi; tw'n ejn toi'" novmoi" w{sper rJhvtora grav-
fontai paranovmwn, wJ" deino;n eij tou' biavsasqai dunamevnou
10 kai; kata; duvnamin kreivttono" e[stai dou'lon kai; ajrcovmenon
to; biasqevn. kai; toi'" me;n ou{tw dokei', toi'" dΔ ejkeivnw", kai;
tw'n sofw'n. ai[tion de; tauvth" th'" ajmfisbhthvsew", kai; o}
poiei' tou;" lovgou" ejpallavttein, o{ti trovpon tina; ajreth; tug-
cavnousa corhgiva" kai; biavzesqai duvnatai mavlista, kai;
15 e[stin ajei; to; kratou'n ejn uJperoch/' ajgaqou' tino", w{ste dokei'n
mh; a[neu ajreth'" ei\nai th;n bivan, ajlla; peri; tou' dikaivou mov-
non ei\nai th;n ajmfisbhvthsin. dia; ga;r tou'to toi'" me;n eu[noia
dokei' to; divkaion ei\nai, toi'" dΔ aujto; tou'to divkaion, to; to;n
kreivttona a[rcein: ejpei; diastavntwn ge cwri;" touvtwn tw'n lov-
20 gwn ou[te ijscuro;n oujqe;n e[cousin ou[te piqano;n a{teroi lovgoi,
wJ" ouj dei' to; bevltion katΔ ajreth;n a[rcein kai; despovzein. o{lw"
dΔ ajntecovmenoiv tine", wJ" oi[ontai, dikaivou tinov", oJ ga;r novmo"
divkaiovn ti, th;n kata; povlemon douleivan tiqevasi dikaivan,
a{ma dΔ ou[ fasin: thvn te ga;r ajrch;n ejndevcetai mh; di-
25 kaivan ei\nai tw'n polevmwn, kai; to;n ajnavxion douleuvein oujda-
mw'" a]n faivh ti" dou'lon ei\nai: eij de; mhv, sumbhvsetai tou;" euj-
genestavtou" [ei\nai] dokou'nta" douvlou" ei\nai kai; ejk douvlwn,
eja;n sumbh/' praqh'nai lhfqevnta". diovper aujtou;" ouj bouvlontai
levgein douvlou", ajlla; tou;" barbavrou". kaivtoi o{tan tou'to lev-
30 gwsin, oujqe;n a[llo zhtou's in h] to; fuvsei dou'lon, o{per ejx
ajrch'" ei[pomen: ajnavgkh ga;r ei\naiv tina" favnai tou;" me;n
pantacou' douvlou" tou;" dΔ oujdamou'. to;n aujto;n de; trovpon kai;
peri; eujgeneiva": auJtou;" me;n ga;r ouj movnon parΔ auJtoi'" eujge-
nei'" ajlla; pantacou' nomivzousin, tou;" de; barbavrou" oi[koi mov-
35 non, wJ" o[n ti to; me;n aJplw'" eujgene;" kai; ejleuvqeron to; dΔ
oujc aJplw'", w{sper kai; hJ Qeodevktou ÔElevnh fhsi;

8 novmoi~] lovgoi~ Hs Ú w{sper rJht v ora] w{sper rJhtv ore~ malim 9 deino;n
ão]nà suppl. Ross 10 e[sti M 11 [kai;] tw`n sofw`n Koraïs 17 eujnoiva M :
eujnomiva Lambin : eujhqv eia Richards : a[noia Ross 18 to; ante divkaion2 add.
M 24 a{ma AsHP2 : o{lw~ P1LP1857UrbVen213 (omnino autem non aiunt G. :
semper autem non aiunt G.i. : «In vulgatis exemplaribus depravate legitur a{ma
dΔ oujfasi;, pro o{lw~ de; ouf
j asi;, ut in vetustis legitur» Sep.) : aJplw`~ Fraenkel
(o[lw~ aut aJplw`~ Bas.3mg) 24-25 a{ma ... dikaivan om. OacP2025ac 25 ei\nai
om. Pac Ú polemivwn CMS 27 [ei\nai] seclusi 28 paraqh`nai MS Ú tou;~ euj-
sqenei`~ kai; krathqevnta~ post lhfqevnta~ M : tou;~ eujgenei`~ kai; krath-
qevnta~ glossa super aujtou;~ A4 32 pantacou` P2 (aJpantacou` gr. P2) : ejx
ajrch`~ P1 33 auJtou;~ A2 : auJtoi`~ ABL81,21 Urb : aujtou;~ cett. : parΔ aujtoi`~
CHMS 35 kai; om. CDE Newman 36 ÔElevnh] ejlelovgh MS : Eleloga G. :
Elena G.i. : elegia Alb.

158
POLITICA I

Invero molti di coloro che si intendono di leggi contesta-


no a un simile giusto l’illegittimità, come avviene con l’accu-
sa mossa a un retore, considerando spaventoso che l’elemen-
to che subisce violenza si ritrovi schiavo e sottoposto a colui
che può commetterla ed è superiore in forza. E anche tra i
saggi gli uni la pensano in questo modo, gli altri in quell’al-
tro. Causa di questa contesa e ciò che fa in modo che gli argo-
menti si trovino confusi è che in un certo senso la virtù, aven-
done i mezzi, è in grado anche di esercitare al massimo grado
la violenza, ed è sempre la parte dominante ad avere in ab-
bondanza qualche bene, cosicché si ritiene che la violenza
non esista senza virtù, e che invece la contesa sia relativa sol-
tanto al giusto. Per questo infatti gli uni ritengono che il giu-
sto sia benevolenza, gli altri invece che il giusto consista pro-
prio in questo, nel fatto che comandi il più forte. Giacché,
perlomeno quando questi argomenti si trovino ad essere sepa-
rati, non hanno più alcuna forza né capacità persuasiva gli al-
tri ragionamenti, secondo i quali il migliore per virtù non
deve comandare ed essere padrone. Alcuni poi, attenendosi
completamente, come pensano, ad una sorta di giusto (in ef-
fetti la legge è una sorta di giusto) affermano che la schiavitù
di guerra è giusta, ma contemporaneamente lo negano; per-
ché l’origine delle guerre potrebbe non essere giusta, e in nes-
sun modo uno potrebbe dire che sia schiavo chi non è degno
di essere schiavo; altrimenti succederà che uomini nobilissi-
mi sembrino essere schiavi e discendenti di schiavi, qualora
accada che siano presi prigionieri e venduti. Perciò non vo-
gliono chiamare schiavi costoro, ma i barbari. Eppure, quan-
do lo dicono, non ricercano null’altro se non lo schiavo per
natura, di cui abbiamo parlato all’inizio; in effetti bisogna
ammettere che vi sono alcuni che sono schiavi dappertutto,
altri da nessuna parte. Lo stesso vale anche per la nobiltà: (i
Greci) si credono infatti nobili non solo in patria, ma dapper-
tutto, mentre credono nobili i barbari solo nella loro patria,
come se ci fossero una nobiltà e una libertà assoluta e un’altra
non assoluta, come dice anche l’Elena di Teodette:

8 scholium H gravfetai kai; tw`n ejn toi`~ lovgoi~ w{sper rJhvtora

159
POLITIKWN A

qeivwn dΔ ajpΔ ajmfoi'n e[kgonon rJizwmavtwn


tiv" a]n proseipei'n ajxiwvseien lavtrin…
o{tan de; tou'to levgwsin, oujqeni; ajllΔ h] ajreth/' kai; kakiva/ dio-
40 rivzousi to; dou'lon kai; ejleuvqeron, kai; tou;" eujgenei'" kai; tou;"
1255b dusgenei`~. ajxiou`s i gavr, w{sper ejx ajnqrwvpou a[nqrwpon kai;
ejk qhrivwn givnesqai qhrivon, ou{tw kai; ejx ajgaqw'n ajgaqovn. hJ
de; fuvs i" bouvletai me;n tou'to poiei'n pollavki", ouj mevntoi
duvnatai. o{ti me;n ou\n e[cei tina; lovgon hJ ajmfisbhvthsi",
5 kai; ou[k eijs in oiJ me;n fuvsei dou'loi oiJ dΔ ejleuvqeroi, dh'lon,
kai; o{ti e[n tisi diwvristai to; toiou'ton, w|n sumfevrei tw/' me;n
to; douleuvein tw/' de; to; despovzein: kai; divkaion [kai; dei'] to; me;n <
a[rcesqai to; dΔ a[rcein h}n pefuvkasin ajrch;n a[rcein, w{ste
kai; despovzein, to; de; kakw'" ajsumfovrw" ejsti;n ajmfoi'n: to;
10 ga;r aujto; sumfevrei tw/' mevrei kai; tw/' o{lw/, kai; swvmati kai;
yuch/', oJ de; dou'lo" mevro" ti tou' despovtou, oi|on e[myucovn ti
tou' swvmato" kecwrismevnon de; mevro". dio; kai; sumfevron
ejstiv ti kai; filiva douvlw/ kai; despovth/ pro;" ajllhvlou" toi'"
fuvsei touvtwn hjxiwmevnoi", toi'" de; mh; tou'ton to;n trovpon,
15 ajlla; kata; novmon kai; biasqei's i, toujnantivon.
7. Fanero;n de; kai; ejk touvtwn o{ti ouj taujtovn ejsti despo-
teiva kai; politikhv, oujde; pa'sai ajllhvlai" aiJ ajrcaiv, w{sper ti-
nev" fasin. hJ me;n ga;r ejleuqevrwn fuvsei hJ de; douvlwn ejstivn, kai;
hJ me;n oijkonomikh; monarciva, monarcei'tai ga;r pa'" oi\ko",
20 hJ de; politikh; ejleuqevrwn kai; i[swn ajrchv. oJ me;n ou\n despov-
th" ouj levgetai katΔ ejpisthvmhn, ajlla; tw/' toiovsdΔ ei\nai,
oJmoivw" de; kai; oJ dou'lo" kai; oJ ejleuvqero". ejpisthvmh dΔ a]n
ei[h kai; despotikh; kai; doulikhv, doulikh; me;n oi{an per oJ ejn

37 e[kgonoin P : corr. P1 (Dem. Chalcondylas) : ejk govnwn H : ejk govnoin


AVBV2370Ven200Ven213 : ejk govnoi Pal : ejkgovnoi L81,21Urb : e[kgonoi cett. :
progenetricibus G. : ab utraque stirpe Bruni 38 ajxiwvseie P1AB2 : ajxiwvsei
E 39 oujqeni;] oujde;n P1 40 kai;1 om. M 1255b 1 ga;r] de; M Ú ejk om.
B(suppl. B2) 2 genevsqai P1E : givgnesqai H 3 poiei`n tou`to MP : poiei`
tou`to S 5 oujk om. W Ald. Goettling : o{ti pro oujk Bojesen : oujk ãajeivà eij-
sin dub. Sus. Ross Ú fuvsei om. P1(suppl. P2) 6-8 to; douleuvein, tw` de;, de-
spovzein, kai; divkaion. kai; dei`, to; me;n, a[rcesqai, tov dΔ a[rcein: h]n pefuvka-
sin ktl. PalVBV2370 7 to;1 om. P2 : despovzein kai; divkaion kai; dei` Sus. :
despovzein kai; divkaion, kai; dei` edd. ([kai; divkaion] Ross) : despovzein: kai;
divkaion [kai; dei`] distinxi seclusique 8 a[rcein to; dΔ a[rcesqai P1 Ú a[r-
cein2] e[cein P 9 «an ajsuvmforon?» Ross 9-10 to; ga;r aujtov] hoc ipsum
enim G.i. (tou`to aujto; gavr edd.) 10 tw`/ swvmati M 11 th`/ yuch`/ M 12
tou` swvmato~ post mevro~ P1(punctis suppositis del. P1) 14 touvtwn] tales G.
(toiouvtoi~ Sus.1,2 : «toiouvtoi~ ãei\naiÃ?» Sus.3,4) et G.i. 16 despovth~ M
18 fuvsew~ MS 21 kata; MP 23 me;n] me;n ga;r H 23-24 ejn tai`~ Sur. P1

160
POLITICA I

«discendente da entrambe le parti da radice divina,


chi riterrebbe giusto chiamarmi schiava?».

Ma quando dicono ciò, distinguono l’essere schiavo e


l’essere libero, quelli di alto e quelli di basso rango in base a
nessun altro criterio se non per virtù e vizio. 1255b Infatti
ritengono che, come da uomo nasce uomo e da bestia nasce
bestia, così anche da buoni nasca uno buono. La natura tende
a farlo spesso, ma non ci riesce.
È chiaro dunque che la contesa ha una sua ragion d’essere
e che non sono gli uni schiavi per natura e gli altri liberi; è
chiaro anche che sussiste tale distinzione per alcuni uomini,
quelli per i quali è utile all’uno essere schiavo, all’altro essere
padrone, ed è giusto che l’uno obbedisca e l’altro eserciti
l’autorità che gli è stato dato dalla natura di esercitare, così da
essere di fatto anche padrone, mentre l’esercitarla male è dan-
noso per entrambi; in effetti la stessa cosa giova alla parte e al
tutto, a corpo ed anima, e lo schiavo è una parte del padrone,
come fosse una parte del suo corpo animata ma separata; per-
ciò vi sono un vantaggio e un’amicizia reciproca tra schiavo e
padrone quando essi siano conosciuti tali per natura, mentre
accade il contrario quando le cose non vanno in questo modo,
ma sono tali in virtù di una legge e per costrizione.

7. È evidente anche da queste considerazioni che non si


identificano l’autorità padronale e quella politica e neppure
tutte le forme di autorità le une nei riguardi delle altre, come
alcuni affermano. Infatti l’una – quella politica – si esercita
su uomini liberi per natura, l’altra su schiavi, e l’autorità del-
l’amministratore della casa è comando di uno solo – perché
l’intera casa è retta da uno solo –, mentre l’autorità politica è
il comando esercitato su liberi e uguali. Dunque il padrone
non è così chiamato in virtù di una scienza, ma in virtù della
sua condizione, come (lo sono) sia lo schiavo sia il libero. Po-
trebbe esistere una scienza del padrone e dello schiavo;

1255a 37-38 TrGF I 72 f. 3

161
POLITIKWN A

Surakouvsai" ejpaivdeuen: ejkei' ga;r lambavnwn ti" misqo;n


25 ejdivdaske ta; ejgkuvklia diakonhvmata tou;" pai'da": ei[h dΔ
a]n kai; ejpi; plei'on tw'n toiouvtwn mavqhsi", oi|on ojyopoiikh;
kai; ta\lla ta; toiau'ta gevnh th'" diakoniva". e[sti ga;r e{tera
eJtevrwn ta; me;n ejntimovtera e[rga ta; dΔ ajnagkaiovtera, kai;
kata; th;n paroimivan dou'lo" pro; douvlou, despovth" pro; de-
30 spovtou. aiJ me;n ou\n toiau'tai pa'sai doulikai; ejpisth'maiv eijs i:
despotikh; dΔ ejpisthvmh ejsti;n hJ crhstikh; douvlwn. oJ ga;r de-
spovth" oujk ejn tw/' kta'sqai tou;" douvlou", ajllΔ ejn tw/' crh'sqai
douvloi". e[sti dΔ au{th hJ ejpisthvmh oujde;n mevga e[cousa oujde;
semnovn: a} ga;r to;n dou'lon ejpivstasqai dei' poiei'n, ejkei'non dei'
35 tau'ta ejpivstasqai ejpitavttein. dio; o{soi" ejxousiva mh; aujtou;"
kakopaqei'n, ejpivtropo" lambavnei tauvthn th;n timhvn, aujtoi;
de; politeuvontai h] filosofou's in. hJ de; kthtikh; eJtevra ajm-
fotevrwn touvtwn, oi|on hJ dikaiva, polemikhv ti" ou\sa h] qhreu-
tikhv. peri; me;n ou\n douvlou kai; despovtou tou'ton diwrivsqw to;n
40 trovpon.
1256a 8. ”Olw~ de; peri; pavsh~ kthvsew~ kai; crhmatistikh`~ qew-
rhvswmen kata; to;n uJfhghmevnon trovpon, ejpeivper kai; oJ dou'-
lo" th'" kthvsew" mevro" ti h\n. prw'ton me;n ou\n ajporhvseien
a[n ti" povteron hJ crhmatistikh; hJ aujth; th/' oijkonomikh/' ejstin,
5 h] mevro" ti, h] uJphretikhv, kai; eij uJphretikhv, povteron wJ" hJ
kerkidopoiikh; th/' uJfantikh/' h] wJ" hJ calkourgikh; th/' ajn-
driantopoiiva/: ouj ga;r wJsauvtw" uJphretou's in, ajllΔ hJ me;n o[r-
gana parevcei, hJ de; th;n u{lhn: levgw de; u{lhn to; uJpokeiv-
menon ejx ou| ti ajpotelei'tai e[rgon, oi|on uJfavnth/ me;n e[ria
10 ajndriantopoiw/' de; calkovn. o{ti me;n ou\n oujc hJ aujth; hJ oijko-
nomikh; th/' crhmatistikh/', dh'lon: th'" me;n ga;r to; porivsa-
sqai, th'" de; to; crhvsasqai: tiv" ga;r e[stai hJ crhsomevnh
toi'" kata; th;n oijkivan para; th;n oijkonomikhvn… povteron de;

24 surrakouvsai~ MS Ú ejpaivdeusen P1 26 tw`n toiouvtwn] touvtwn P1 Ú


oJyopoihtikhv P1Hac : oJyopoihkh; OP2025 27 ga;r kai; e{tera MS : e{tera]
e[rga AB(corr. B2) CD 28 e[rga om. P 34 a{] eij (ut vid.)M 36 ejpivtropov~
ãti~Ã Ross Ú lambavnetai MS 37 de; kthtikh;] dektikh; M 37-39 hJ de; ...
qhreutikhv suspecta cens. Conring 38 oi|on dikaiva Sus. : hJ dikaiva, oi|on
Richards 38-39 [h] qhreutikhv] Sus.2,3,4 1256a 1-1259a 36 o{lw~ de; ...
tau`ta movnon additicia cens. Arnim 1-2 qewrhvswmen P2L81,21UrbVen200
Ald. Bekker : qewrhvsomen cett. Sus. 4 hJ2 om. MS Ú aujth` Bac 5 uJphreti-
kov~ (ut vid.)M 6 kerkidopoihtikhv P1 : kerkidopoiikh` Bac Ú hJ om. HP Ú
calourgikh` Bac 9 e[rion P (lana G. et G.i.) 10 calkov~ P : calk ; M : cal-
kou`n H2 Ú hJ oijkonomikh; A2CD Bekker 10-11 th`/ oijkonomikh`/ hJ crhmatis-
tikhv Sylburg 13 peri; BML81,21Urb

162
POLITICA I

la scienza dello schiavo sarebbe del tipo di quella che si inse-


gnava a Siracusa: là infatti una persona, dietro compenso,
istruiva i giovani schiavi nei servizi domestici quotidiani. Po-
trebbe essere ancora più ampio l’insegnamento di tali mate-
rie, a comprendere per esempio la culinaria e altri siffatti ge-
neri di servizio. Esistono infatti attività diverse tra loro, le
une più stimate, le altre più necessarie e, come dice il prover-
bio, «c’è schiavo e schiavo, padrone e padrone». Tutte quelle
di questo genere sono dunque scienze dello schiavo, mentre
la scienza del padrone consiste nel servirsi degli schiavi. Il
padrone infatti è tale non nell’acquisire gli schiavi, ma nel
servirsi degli schiavi. E questa è una scienza che non ha nulla
di grande né di straordinario: infatti il padrone deve saper co-
mandare quelle cose che lo schiavo deve saper fare. Perciò
per quanti hanno la possibilità di non affannarsi in prima per-
sona, un sovrintendente si prende quest’incarico, ed essi si
dedicano alla vita politica o alla filosofia. L’arte di acquisire
schiavi, quella legittima, è diversa da entrambe queste, essen-
do in un certo senso arte della guerra o della caccia. Riguardo
allo schiavo e al padrone valga dunque la distinzione operata
in questi termini.
8. 1256a Ci accingiamo ora ad indagare in generale, nel
modo proposto, la proprietà nel suo complesso e la crematisti-
ca, dal momento appunto che anche lo schiavo è una parte del-
la proprietà. In primo luogo dunque qualcuno si potrebbe chie-
dere se la crematistica sia identica all’amministrazione
domestica o ne sia una parte, oppure se sia ad essa subordinata
e, se è subordinata, se lo è nel modo in cui l’arte di costruire
spole è subordinata alla tessitura o l’arte di lavorare i metalli al-
l’arte statuaria; in effetti non hanno un identico rapporto di
subordinazione, ma l’una fornisce gli strumenti, l’altra la mate-
ria; e intendo per materia la sostanza con cui si realizza un’ope-
ra, come la lana per il tessitore e il bronzo per lo scultore.
È chiaro dunque che l’amministrazione domestica non è
identica alla crematistica – alla seconda infatti compete pro-
curarsi i beni, alla prima usarli; quale sarà quella che utilizze-
rà i beni della casa se non l’amministrazione domestica?

1255b 29 PCG VII 256 Philemonis f. 57 [Pankratiastes] «alio sensu


Arist. [...] ubi prov valet ‘praestat’» K.-A. = f. 54 Edmonds (3 A, 26) = Ström-
berg 63

163
POLITIKWN A

mevro" aujth'" ejstiv ti h] e{teron ei\do", e[cei diamfisbhvthsin:


15 eij gavr ejsti tou' crhmatistikou' qewrh'sai povqen crhvmata kai;
kth's i" e[stai: hJ de; kth's i" polla; perieivlhfe mevrh kai; oJ
plou'to", w{ste prw'ton hJ gewrgikh; povteron mevro" ti th'" crh-
matistikh'" h] e{terovn ti gevno", kai; kaqovlou hJ peri; th;n tro-
fh;n ejpimevleia kai; kth's i". ajlla; mh;n ei[dh ge polla; tro-
20 fh'", dio; kai; bivoi polloi; kai; tw'n zw/vwn kai; tw'n ajnqrwvpwn
eijs ivn: ouj ga;r oi|ovn te zh'n a[neu trofh'", w{ste aiJ diaforai;
th'" trofh'" tou;" bivou" pepoihvkasi diafevronta" tw'n zw/vwn.
tw'n te ga;r qhrivwn ta; me;n ajgelai'a ta; de; sporadikav ejstin,
oJpotevrw" sumfevrei pro;" th;n trofh;n aujtoi'" dia; to; ta; me;n
25 zw/ofavga ta; de; karpofavga ta; de; pamfavga aujtw'n ei\nai,
w{ste pro;" ta;" rJa/stwvna" kai; th;n ai{resin th;n touvtwn hJ fuvs i"
tou;" bivou" aujtw'n diwvrisen, ejpei; dΔ ouj taujto; eJkavstw/ hJdu; kata;
fuvs in ajlla; e{tera eJtevroi", kai; aujtw'n tw'n zw/ofavgwn kai; tw'n
karpofavgwn oiJ bivoi pro;" a[llhla diesta's in: oJmoivw" de;
30 kai; tw'n ajnqrwvpwn. polu; ga;r diafevrousin oiJ touvtwn bivoi.
oiJ me;n ou\n ajrgovtatoi nomavde" eijs ivn: hJ ga;r ajpo; tw'n hJmev-
rwn trofh; zw/vwn a[neu povnou givnetai scolavzousin: ajnagkaivou
dΔ o[nto" metabavllein toi'" kthvnesi dia; ta;" noma;" kai;
aujtoi; ajnagkavzontai sunakolouqei'n, w{sper gewrgivan zw'san
35 gewrgou'nte". oiJ dΔ ajpo; qhvra" zw's i, kai; qhvra" e{teroi eJtev-
ra", oi|on oiJ me;n ajpo; lh/steiva", oiJ dΔ ajfΔ aJlieiva", o{soi liv-
mna" kai; e{lh kai; potamou;" h] qavlattan toiauvthn prosoi-
kou's in, oiJ dΔ ajpΔ ojrnivqwn h] qhrivwn ajgrivwn: to; de; plei'ston
gevno" tw'n ajnqrwvpwn ajpo; th'" gh'" zh/' kai; tw'n hJmevrwn kar-
40 pw'n. oiJ me;n ou\n bivoi tosou'toi scedovn eijs in, o{soi ge aujtov-
futon e[cousi th;n ejrgasivan kai; mh; diΔ ajllagh'" kai; ka-

14 mevro~ om. OP2025ac Ú diΔ ajmfisbhvthsin ACH 15 eij gavr] si enim G.


et G.i. : ei[per Mon. Sus. 16 eu[stai M : e[stai, h{ ge kth`s i~ Ross 16-17
polla; kai; plou`to~ MS 17 ante w{ste lac. susp. Conring Sus.1 Ú povtero~ Bac
17-18 crhmatistikh`~ codd. Bekker Suse1. Ross Aub. : oijkonomikh`~ Garve
Sus.2,3,4 Immisch Drei. 19 [kai; kth`s i~] Sus. : kai; kth`s i~… Newman Ross
21-22 w{ste ... trofh`~ om. M 22 diafevronta~ pepoihvkasi P1 23 te om.
MS Ú ga;r om. ACD 25 ta; de; pamfavga om. P(suppl. P2) : ta; de; om. M 26
kai;] kata; Bernays 29 diasta`s in M 30 polu;] polloi; L81,21P2025Urb
Ald. : multis G. et G.i. (polloi`~ in app. Sus. Ross) 31 (et 39) hJmetevrwn MS
33 toi`~ kthvnesi metabavllein P1 35 zw`s in P 36 aJlieiva~] aJleiva~
ABMPP2025 : hii autem a piscatione G. et G.i. 39 th`~ om. P Ú hJmetevrwn M
40 ge] te E 41 diallagh`~ MS

164
POLITICA I

È invece oggetto di discussione se la crematistica sia una


parte di essa (l’amministrazione domestica) o un’altra specie
di arte: ci si domanda infatti se spetta a colui che si occupa di
acquisire beni indagare da dove possano venire beni e pro-
prietà. Ora, la proprietà, come la ricchezza, comprende molte
parti, così che innanzitutto ci si dovrebbe chiedere se l’agri-
coltura sia una parte della crematistica o qualcosa d’altro ge-
nere, e in generale se lo siano la cura e il possesso dell’ap-
provvigionamento. Ma invero ci sono molte specie di
alimentazione, perciò anche molti modi di vivere e tra gli ani-
mali e tra gli uomini; non è infatti possibile vivere senza nu-
trimento, sicché le differenze di nutrimento hanno prodotto
modi di vita diversi tra gli animali. Degli animali selvatici in-
fatti alcuni vivono in gruppo, altri sparsi, a seconda di quel
che conviene loro per il sostentamento, per il fatto che alcuni
di essi sono carnivori, altri erbivori, altri ancora onnivori, co-
sicché la natura ha definito i loro modi di vita in relazione alla
loro comodità e alla loro scelta, dal momento che non è per
natura gradita a tutti la stessa cosa, ma ad uno piace una cosa,
all’altro un’altra, e quindi addirittura i modi di vita dei carni-
vori e degli erbivori si differenziano l’uno dall’altro.
Lo stesso vale anche per gli uomini; infatti i loro stili di
vita presentano molte differenze. Ora, i più pigri sono noma-
di – l’alimentazione per costoro viene dagli animali domesti-
ci senza fatica mentre se ne stanno in ozio –; ma, poiché è ne-
cessario che le greggi si trasferiscano alla ricerca dei pascoli,
anch’essi sono costretti a seguirle, come se praticassero un’a-
gricoltura vivente; altri vivono di caccia, esercitandone chi
un tipo chi un altro: alcuni per esempio vivono di brigantag-
gio, altri – quelli che risiedono presso laghi, paludi, fiumi, o
un mare adatto – di pesca, altri ancora di uccelli o di animali
selvatici; ma la maggior parte del genere umano trae i mezzi
di vita dalla terra e dai frutti coltivati.
I modi di vita dunque sono all’incirca questi, quelli alme-
no di quanti hanno un’attività autonoma e non

1256a 23-29 Mich. Eph. in EN V 1133b 17 (40, 2) aiJ me;n ou\n ajllagaiv,
wJ~ ejn tai`~ Politeivai~ levgetai, ou{tw~ ejgivnonto pro; th`~ tou` nomivsmato~
euJrevsew~: kli`nai ga;r ejdivdonto ajnti; oijkiva~, kai; ta\lla oJmoivw~, kai; tiv ga;r
diafevrei, pevnte klivna~ labei`n kai; dou`nai oijkivan h] e– mna`~, ejpei; e– mnw`n
eijs in a[xiai aiJ kli`nai… tau`ta deivxa~ sumperaivnetai levgwn tiv me;n ou\n ejsti
to; divkaion, tov te dianemhtiko;n dhlonovti kai; to; ejpanorqwtikovn, kai; to;
ajntikeivmenon touvtoi~ a[dikon, ei[rhtai

165
POLITIKWN A

1256b phleiva~ porivzontai th;n trofhvn, nomadiko;~ gewrgikov" lh/-


striko;~ aJlieutiko;" qhreutiko;". oiJ de; kai; mignuvnte" ejk touv-
twn hJdevw" zw's i, prosanaplhrou'nte" to;n ejndeevstaton bivon,
h/| tugcavnei ejlleivpwn pro;" to; aujtavrkh" ei\nai, oi|on oiJ me;n
5 nomadiko;n a{ma kai; lh/strikovn, oiJ de; gewrgiko;n kai; qhreu-
tikovn. oJmoivw" de; kai; peri; tou;" a[llou": wJ" a]n hJ creiva
sunanagkavzh/, tou'ton to;n trovpon diavgousin. hJ me;n ou\n toiauv-
th kth's i" uJpΔ aujth'" faivnetai th'" fuvsew" didomevnh pa's in,
w{sper kata; th;n prwvthn gevnesin eujquv", ou{tw kai; teleiw-
10 qei's in. kai; ga;r kata; th;n ejx ajrch'" gevnesin ta; me;n sunek-
tivktei tw'n zw/vwn tosauvthn trofh;n wJ~ iJkanh;n ei\nai mevcri"
ou| a]n duvnhtai aujto; auJtw/' porivzein to; gennhqevn, oi|on o{sa
skwlhkotokei' h] w/jotokei': o{sa de; zw/otokei', toi'" gennwmevnoi"
e[cei trofh;n ejn auJtoi'" mevcri tinov", th;n tou' kaloumevnou gav-
15 lakto" fuvs in. w{ste oJmoivw" dh'lon o{ti kai; genomevnoi" oijh-
tevon tav te futa; tw'n zw/vwn e{neken ei\nai kai; ta; a[lla zw/'a
tw'n ajnqrwvpwn cavrin, ta; me;n h{mera kai; dia; th;n crh's in
kai; dia; th;n trofhvn, tw'n dΔ ajgrivwn, eij mh; pavnta, ajlla;
tav ge plei'sta th'" trofh'" kai; a[llh" bohqeiva" e{neken, i{na
20 kai; ejsqh;" kai; a[lla o[rgana givnhtai ejx aujtw'n. eij ou\n hJ
fuvs i" mhqe;n mhvte ajtele;" poiei' mhvte mavthn, ajnagkai'on
tw'n ajnqrwvpwn e{neken aujta; pavnta pepoihkevnai th;n fuvs in.
dio; kai; hJ polemikh; fuvsei kthtikhv pw" e[stai. hJ ga;r qh-
reutikh; mevro" aujth'", h/| dei' crh'sqai prov" te ta; qhriva kai;
25 tw'n ajnqrwvpwn, o{soi pefukovte" a[rcesqai mh; qevlousin, wJ"

1256b 1 porivzontai P2 edd. : komivzontai P1 Sus. (ferunt G. : acquirunt


G.i.) 2 gewrgikov~ om. MS (pascualis, furativa, piscativa, venativa G.) : post
2 qhreutikov~ dist. Spengel Ross 3 prosanaplhrou`nte~] supplentes G.i. Ú
ejndeevstaton] defectissimam G. et G.i. : to; ejndee;~ tou` bivou Bas.3 : ejndeevs-
teron Bernays Sus. edd. praeter Aub. 4 oi|on oiJ mevn nomadiko;n] w|n nomadi-
ko;n M : oi|on oiJ mevn om. P 7 ajnagkavzh/ ACD : sunana et lac. S 8 dedo-
mevnh P1 (data G.) 9-10 teleiwqei`s in] secundum perfectionem G. :
secundum perfectam (scil. generationem) G.i. Alb. : sic etiam ad perfectionem
deductis Bruni 11 wJ~] w{sqΔ Ross 12 eJautw`/ MS Ú porivzei M 13-15 toi`~
gennwmevnoi~ ... ejn auJtoi`~ ... o{ti kai; genomevnoi~] genomevnoi~ (ABHO) ... ejn
aujtoi`~ (HMS) ... o{ti kai; gennwmevnoi~ (P) : o{ti kai; a[llw~ genomevnoi~ P1
(quare similiter est genitis quoque existimandum plantasque animalium esse
gratia et cetera animalia hominum causa Bruni codd. Oxon. Novi Coll. 228,
Bod. Canon. Class. Lat. 195) 15 [genomevnoi~] Goettling Sus.3,4 : del. Sus.1,2
(fuvs in fortasse damnandum est: cf. infra 22) 17-18 ta; a[lla zw/'a: tw`n ãdΔÃ
ajnqrwvpwn cavrin dist. et suppl. Drei. 18 eij mh; pavnta] eij mh; ta; a[lla pavnta
MS : ta[lla pavnta P : ta; pavnta P20252 20 givnhtai] gevnhtai P1 Ú eij gou`n
Conring Sus.2 22 th;n fuvs in fortasse secludendum est (cf. supra 15)

166
POLITICA I

1256b si procurano il nutrimento con gli scambi e il commer-


cio: la vita del nomade, dell’agricoltore, del brigante, del pe-
scatore, del cacciatore. Altri poi vivono bene anche mesco-
lando questi generi di vita, dando completezza ad uno stile di
vita in certo modo imperfetto, laddove per caso sia manche-
vole per quanto riguarda l’autosufficienza; per esempio gli
uni praticano insieme la vita nomade e quella del brigante, al-
tri quella dell’agricoltore e del cacciatore. E ugualmente ac-
cade anche per gli altri: vivono il tipo di vita che il bisogno
impone loro.
Dunque tale proprietà dei mezzi di sostentamento sembra
data a tutti dalla natura stessa, subito, al momento della nasci-
ta, così come anche quando si sono completamente sviluppati.
Infatti fin dal momento della nascita dei piccoli alcuni animali
producono una quantità di nutrimento tale da bastare fino a
quando il nuovo nato possa procurarselo da sé, per esempio
quelli che generano larve o gli ovipari; i vivipari invece hanno
per un certo tempo in se stessi un nutrimento per i loro nati, la
sostanza naturale chiamata latte. Quindi è chiaro che dobbia-
mo supporre che la natura provveda allo stesso modo anche
per gli esseri già cresciuti e che le piante esistano a beneficio
degli animali e gli altri animali a beneficio degli uomini: quel-
li domestici sia per l’uso sia per il nutrimento, di quelli selva-
tici invece, se non tutti, almeno la maggior parte per il nutri-
mento e per altre forme di supporto, per ottenere da essi vesti
e altri strumenti. Se dunque la natura non fa nulla di imperfet-
to né fa nulla invano, necessariamente ha fatto tutte queste
cose a vantaggio degli uomini. Perciò anche l’arte della guerra
sarà per natura in qualche modo arte di acquisizione – infatti
l’arte della caccia è una parte di essa –, della quale bisogna
servirsi con le bestie e tra gli uomini con quanti, nati per obbe-
dire, non vogliono farlo,

1256b 15-20 cf. Porph. Abst. II 12, 3 20-21 Theod. Gazae Probl. 6, 21
kai; ejn tw`/ aV tw`n Politikw`n, [...] (cf. 1252b 1-3) kai; au\, oujqevn, wJ~ famevn,
mavthn hJ fuvs i~ poiei` 21 cf. An. Prof. Ep. 41, 24-25 tw`/ ajtelei` poiei`n

167
POLITIKWN A

fuvsei divkaion tou'ton o[nta to;n povlemon. e}n me;n ou\n ei\do"
kthtikh'" kata; fuvs in th'" oijkonomikh'" mevro" ejstivn, o} dei'
h[toi uJpavrcein h] porivzein aujth;n o{pw" uJpavrch/, w|n e[sti qh-
saurismo;" crhmavtwn pro;" zwh;n ajnagkaivwn, kai; crhsivmwn
30 eij" koinwnivan povlew" h] oijkiva". kai; e[oiken o{ gΔ ajlhqino;"
plou'to" ejk touvtwn ei\nai. hJ ga;r th'" toiauvth" kthvsew"
aujtavrkeia pro;" ajgaqh;n zwh;n oujk a[peirov" ejstin, w{sper Sov-
lwn fhsi; poihvsa"
plouvtou dΔ oujde;n tevrma pefasmevnon ajndravs i kei'tai.
kei'tai ga;r w{sper kai; tai'" a[llai" tevcnai":
35 oujde;n ga;r o[rganon a[peiron oujdemia'" ejsti tevcnh" ou[te plhv-
qei ou[te megevqei, oJ de; plou'to" ojrgavnwn plh'qov" ejstin oijkono-
mikw'n kai; politikw'n. o{ti me;n toivnun e[sti ti" kthtikh;
kata; fuvs in toi'" oijkonovmoi" kai; toi'" politikoi'", kai; diΔ
h}n aijtivan, dh'lon.
40 9. “Esti de; gevno" a[llo kthtikh'", h}n mavlista kalou's i,
kai; divkaion aujto; kalei'n, crhmatistikhvn, diΔ h}n oujde;n dokei'
1257a pevra~ ei\nai plouvtou kai; kthvsew~: h}n wJ~ mivan kai; th;n
aujth;n th/' lecqeivsh/ polloi; nomivzousi dia; th;n geitnivasin:
e[sti dΔ ou[te hJ aujth; th/' eijrhmevnh/ ou[te povrrw ejkeivnh". e[sti dΔ <
hJ me;n fuvsei hJ dΔ ouj fuvsei aujtw'n, ajlla; diΔ ejmpeiriva"
5 tino;" kai; tevcnh" givnetai ma'llon. lavbwmen de; peri; aujth'"
th;n ajrch;n ejnteu'qen. eJkavstou ga;r kthvmato" ditth; hJ crh's iv"
ejstin, ajmfovterai de; kaqΔ auJto; [me;n] ajllΔ oujc oJmoivw" kaqΔ <
auJtov, ajllΔ hJ me;n oijkeiva hJ dΔ oujk oijkeiva tou' pravgmato",
oi|on uJpodhvmato" h{ te uJpovdesi" kai; hJ metablhtikhv. ajm-
10 fovterai ga;r uJpodhvmato" crhvsei": kai; ga;r oJ ajllattov-
meno" tw/' deomevnw/ uJpodhvmato" ajnti; nomivsmato" h] trofh'"

26 tou`ton o[nta to;n povlemon BEH (to;n povlemon prw`ton ACD) : o[nta
tou`ton to;n qhreutiko;n povlemon prw`ton MS : hoc praedativum bellum et
primum G. : qhreutikovn om. P : o[nta tou`ton to;n [qhreutiko;n] povlemon
[kai; prw`ton] glossas (ex A4) secludens Sus.1 («prw`ton var. lectio ad e}n esse
videtur, to;n qhreutiko;n supra tou`ton AD, i. e. glossa» Drei.) 27 kata; fuv-
sin kthtikh`~ P1 Ú o{ dei` codd. (pars est, quam oportet G.) : kaqo; Bernays Im-
misch : ão{Ãti Zwinger : h| Lambin : o{ti (i.e. quia) Richards Ross : w/| Thurot
Drei. : diΔ o{ Schnitzer : a{ Rassow 28 w|n] ejx w|n H 30 eij~] pro;~ P 32 ajga-
qw`n Pac (hn supra qw`n adscr.) P2 33 oujqe;n ABCDHPac : oujde;n P1 Sol. (i.e.
Stob. codd.) 34 kei`tai1 om. MS : kei`tai ga;r om. Pac 36 plh`qo~] plou`-
to~ H 36-37 oijkonomikw`n kai; politikw`n] yconomico et politico G. : rei fa-
miliaris et rei publicae Bruni 37 kthtikh;] kth`s i~ C 41 aujtov] ou[tw
Bas.3mg 1257a 1 h}n] o}n M 3 ejkeivnh~] keimevnh Sus.1,2 (ex neque longe
posita G. : neque longe ab illa G.i. : cf. infra 31 ejkeivnh) 6 crhvmato~ MP2S
(rei G.) 7 [kaqΔ auJtov] Koraïs Ú [mevn] seclusi 9 uJpovdhsi~ P1

168
POLITICA I

dal momento che per natura questa guerra è giusta.


Pertanto una sola specie di arte acquisitiva è per natura
parte dell’amministrazione domestica, quella che deve esser-
ci o che deve provvedere affinché disponga di quei mezzi at-
traverso i quali sia possibile l’accumulo dei beni necessari
alla vita e utili alla comunità cittadina o familiare. E pare che
la vera ricchezza consti di questi beni. Infatti la quantità di
una tale proprietà sufficiente alla vita buona non è illimitata,
come invece dice Solone nei suoi versi:
«nessun limite di ricchezza è prescritto per gli uomini».

C’è infatti, come anche nelle altre arti: nessuno strumen-


to di nessuna arte è illimitato né per numero né per grandez-
za, e la ricchezza è l’insieme degli strumenti che servono al-
l’amministrazione della casa e alla città. È chiaro allora che
esiste un’arte acquisitiva naturale per gli amministratori della
casa e per i politici e anche per quale motivo esista.

9. Esiste un altro tipo di arte acquisitiva, che per lo più


chiamano, e anzi è giusto chiamare, crematistica, in virtù del-
la quale sembra che non esista alcun limite a ricchezza e pro-
prietà; 1257a molti credono che essa sia una sola e identica
a quella di cui si è parlato in virtù dell’affinità; invece non è
identica a quella citata né è lontana da essa. Di queste l’una è
per natura, l’altra non è per natura ma deriva piuttosto da una
forma di esperienza e di tecnica. Cominciamo a trattarne da
questo punto.
L’uso di ciascuna cosa posseduta è duplice; entrambi ap-
partengono all’oggetto di per sé, ma non allo stesso modo di
per sé, bensì l’uno è proprio, l’altro non è proprio rispetto alla
cosa: per esempio una scarpa può essere usata come calzatura
o come oggetto di scambio. Entrambi infatti sono usi della
scarpa; perché chi fa scambio con chi ha bisogno della scarpa
ottenendone denaro o nutrimento

1256b 33-34 Sol. f. 13, 71 (cf. Stob. III 9, 23 = III 355, 2)

169
POLITIKWN A

crh'tai tw/' uJpodhvmati h/| uJpovdhma, ajllΔ ouj th;n oijkeivan


crh's in: ouj ga;r ajllagh'" e{neken gevgone. to;n aujto;n de;
trovpon e[cei kai; peri; tw'n a[llwn kthmavtwn. e[sti ga;r hJ
15 metablhtikh; pavntwn, ajrxamevnh to; me;n prw'ton ejk tou'
kata; fuvs in, tw/' ta; me;n pleivw ta; de; ejlavttw tw'n iJkanw'n
e[cein tou;" ajnqrwvpou", h/| kai; dh'lon o{ti oujk e[sti fuvsei th'"
crhmatistikh'" hJ kaphlikhv: o{son ga;r iJkano;n aujtoi'", ajnag-
kai'on h\n poiei'sqai th;n ajllaghvn. ejn me;n ou\n th/' prwvth/
20 koinwniva/, tou'to dΔ ejsti;n oijkiva, fanero;n o{ti oujde;n e[stin e[r-
gon aujth'", ajllΔ h[dh pleivono~ th'" koinwniva" ou[sh". oiJ me;n ga;r
tw'n aujtw'n ejkoinwvnoun pavntwn, oiJ de; kecwrismevnoi pollw'n
pavlin kai; eJtevrwn: w|n kata; ta;" dehvsei" ajnagkai'on poiei'-
sqai ta;" metadovsei", kaqavper e[ti polla; poiei' kai; tw'n
25 barbarikw'n ejqnw'n, kata; th;n ajllaghvn. aujta; ga;r ta;
crhvs ima pro;" aujta; katallavttontai, ejpi; plevon dΔ oujdevn, <
oi|on oi\non pro;" si'ton didovnte" kai; lambavnonte", kai; tw'n
a[llwn tw'n toiouvtwn e{kaston. hJ me;n ou\n toiauvth metablh-
tikh; ou[te para; fuvs in ou[te crhmatistikh'" ejstin ei\do" ou-
30 jqevn: eij" ajnaplhvrwsin ga;r th'" kata; fuvs in aujtarkeiva" h\n. ejk
mevntoi tauvth" ejgevnetΔ ejkeivnh kata; lovgon. xenikwtevra" ga;r
ginomevnh" th'" bohqeiva" tw/' eijsavgesqai w|n ejndeei'" kai; ejk-
pevmpein w|n ejpleovnazon, ejx ajnavgkh" hJ tou' nomivsmato" ejpo-
rivsqh crh's i". ouj ga;r eujbavstakton e{kaston tw'n kata; fuvs in
35 ajnagkaivwn: dio; pro;" ta;" ajllaga;" toiou'tovn ti sunevqento
pro;" sfa'" aujtou;" didovnai kai; lambavnein, o} tw'n crhsivmwn
aujto; o]n ei\ce th;n creivan eujmetaceivriston pro;" to; zh'n, oi|on
sivdhro" kai; a[rguro" ka]n ei[ ti toiou'ton e{teron, to; me;n prw'-
ton aJplw'" oJrisqe;n megevqei kai; staqmw/', to; de; teleutai'on
40 kai; carakth'ra ejpiballovntwn, i{na ajpoluvsh/ th'" metrhv-
sew" aujtouv": oJ ga;r carakth;r ejtevqh tou' posou' shmei'on.

13 gevgwne OP2025 14-15 oJ metablhtikov~ M 15 me;n to; D 16 de;


ejlavttw ABO : dΔ ejlavttw cett. 18 crhmatistikh`~] metablhtikh`~ Bernays
21 pleiovnwn Richards Ross 22 tw`n om. P1(add. P2) : auJtw`n ... kecw-
rismevnwn Immisch 23 post eJtevrwn lac. st. Sus. : kai; ãe{teroià eJtevrwn Ber-
nays Immisch (vide App.) Ú ajnagkai`on ãh\nà Koraïs Sus. (23-24 necessarium
fieri retributiones G. : necessarium facere redditiones G.i. : necessarium erat
Bruni) 24 kaiv cum G. non vert. secl. Sus. : kai; ãnu`nà Bernays. Schmidt 26
auJtav Ross Ú oujdevn P1 31 mevntoi tauvth~] me;n toiauvth~ PS 32 ginomevnh~
(facto auxilio G.)] genomevnh~ Koraïs et omnes edd. (praeter Sus.1 Aub.) Ú eij-
savsqai om. OacP2025ac Ú ejndeei`~] ejnevdei Bernays : ejndeei`~ h\san Ross 36
o}] ouj H 37 aujto;] kai; aujto; H : aujtov ãoujkà Koraïs Ú ajmetaceivriston H
38 ka]n] kai; P 40 ejpibalovntwn P 41 auJtouv~ Ross (ut absolvat a mensura-
tione ipsos G. : ut non dubitent de mensura ipsius G.i.) 41-42 porisqevnto~]
determinato G.i. (an oJrisqevnto~ legebat?) : facto G

170
POLITICA I

si serve della scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso


proprio; infatti la scarpa non è fatta per lo scambio. Lo stesso
vale anche per gli altri oggetti posseduti. È possibile infatti lo
scambio di tutto, in quanto trae la sua origine prima da un fat-
to naturale, e cioè che gli uomini hanno in alcuni casi di più in
altri di meno di quel che serve, per cui è anche chiaro che il
piccolo commercio non è per natura parte della crematistica,
perché (all’inizio) necessariamente era oggetto di scambio
quanto bastava loro.
Dunque nella prima comunità – cioè la famiglia – è chia-
ro che non esiste la funzione dello scambio, mentre c’è quan-
do la comunità è formata già da più famiglie. Gli uni, cioè i
membri della famiglia, mettevano infatti in comune tutte le
cose, gli altri (i membri della comunità più grande), vivendo
separati, ne condividevano a loro volta molte e diverse, e di
queste necessariamente venivano fatti scambi secondo i biso-
gni, come ancora fanno molti popoli barbari, ricorrendo al
baratto. Essi infatti scambiano cose utili con cose utili, e nulla
di più, per esempio dando e ricevendo vino per grano, e ogni
altra cosa del genere. Dunque tale forma di scambio non è
contro natura e non è neppure una specie della crematistica,
giacché mirava alla realizzazione dell’autosufficienza secon-
do natura. Peraltro da questa è derivata logicamente quella.
Quando si fece ricorso ad aiuti esterni per l’importazione
di ciò che mancava e l’esportazione di ciò che era sovrabbon-
dante, di necessità si introdusse l’uso della moneta.
Infatti non è facile da trasportare tutto ciò che per natura
è necessario: perciò per gli scambi stabilirono di dare e pren-
dere tra loro qualcosa che, utile in se stesso, avesse il vantag-
gio di essere facilmente impiegabile per la vita quotidiana,
come per esempio il ferro e l’argento e qualche altro materia-
le del genere, dapprima definito semplicemente per grandez-
za e peso, alla fine poi incidendo uno stampo, per evitare la
misurazione; lo stampo infatti fu posto come indicazione del-
la quantità.

1257a 18 Stob. II 7, 26 (II 149, 8-11) th;n dΔ oijkonomikh;n frovnhsin,


dioikhtikh;n ou\san aujtou` te oi[kou kai; tw`n katΔ oi\kon, oijkeivan ajndro;~ uJ-
pavrcein. Tauvth~ de; to; me;n ei\nai patrikovn, to; de; gamikovn, to; de; despo-
tikovn, to; de; crhmatistikovn 25-28 Mich. Eph. in EN V 1133b 17 (40, 2);
cf. 1255a 25-33

171
POLITIKWN A

1257b porisqevnto" ou\n h[dh nomivsmato" ejk th'" ajnagkaiva" ajllagh'"


qavteron ei\do" th'" crhmatistikh'" ejgevneto, to; kaphlikovn, to;
me;n prw'ton aJplw'" i[sw" ginovmenon, ei\ta, diΔ ejmpeiriva" h[dh
tecnikwvteron, povqen kai; pw'" metaballovmenon plei'ston
5 poihvsei kevrdo". dio; dokei' hJ crhmatistikh; mavlista peri; to;
novmisma ei\nai, kai; e[rgon aujth'" to; duvnasqai qewrh'sai pov-
qen e[stai plh'qo" crhmavtwn: poihtikh; gavr [ei\nai] tou` plouv-
vtou kai; crhmavtwn. kai; ga;r to;n plou'ton pollavki" tiqevasi no-
mivsmato" plh'qo", dia; to; peri; tou'tΔ ei\nai th;n crhmatistikh;n
10 kai; th;n kaphlikhvn. oJte; de; pavlin lh'ro" ei\nai dokei' to;
novmisma kai; novmo" pantavpasi, fuvsei dΔ oujqevn, o{ti meta-
qemevnwn te tw'n crwmevnwn oujqeno;" a[xion ou[te crhvs imon pro;" <
oujde;n tw'n ajnagkaivwn ejstiv, kai; nomivsmato" ploutw'n pollav-
ki" ajporhvsei th'" ajnagkaiva" trofh'": kaivtoi a[topon toiou'ton
15 ei\nai plou'ton ou| eujporw'n limw/' ajpolei'tai, kaqavper kai; to;n
Mivdan ejkei'non muqologou's i, dia; th;n ajplhstivan th'" eujch'"
pavntwn aujtw/' gignomevnwn tw'n paratiqemevnwn crusw'n. dio;
zhtou's in e{terovn ti to;n plou'ton kai; th;n crhmatistikhvn, ojr-
qw'" zhtou'nte". e[sti ga;r eJtevra hJ crhmatistikh; kai; oJ plou'-
20 to" oJ kata; fuvs in, kai; au{th me;n oijkonomikhv, hJ de; kaphlikh;
poihtikh; crhmavtwn ouj pavntw", ajlla; dia; crhmavtwn me-
tabolh'". kai; dokei' peri; to; novmisma au{th ei\nai: to; ga;r
novmisma stoicei'on kai; pevra" th'" ajllagh'" ejstin. kai; a[pei-
ro" dh; ou|to" oJ plou'to", oJ ajpo; tauvth" th'" crhmatistikh'".
25 w{sper ga;r hJ ijatrikh; tou' uJgiaivnein eij" a[peirovn ejsti, kai;
eJkavsth tw'n tecnw'n tou' tevlou" eij" a[peiron, o{ti mavlista ga;r
ejkei'no bouvlontai poiei'n, tw'n de; pro;" to; tevlo" oujk eij" a[pei-
ron, pevra" ga;r to; tevlo" pavsai", ou{tw kai; tauvth" th'"
crhmatistikh'" oujk e[sti tou' tevlou" pevra", tevlo" de; oJ toiou'-
30 to" plou'to" kai; crhmavtwn kth's i". th'" dΔ oijkonomikh'" au\ crh-

1257b 1 nomivsmati M 3 me;n ou\n prw`ton P1 (primo quidem igitur G.)


7 e[stai] ejsti Ross Ú [crhmavtwn] Giffen Koraïs Sus. Ú ei\nai om. P1 (non vert.
G. nec G.i.) : secl. Sus. Ú tou` om. MS : secl. Koraïs 7-8 ga;r ei\nai ... kai;
crhmavtwn] dΔ ei\nai ... kai; ãga;rà crhmavtwn Bernays 8 tiqevasi pollavki~
P1 9 dia; to;] dio; Sus. 10 [kai;] Thurot Ú oJte;] ou[te MS 11 novmw/ Lambin
12 crwmevnwn] cr et vacuum Bac 12 ou[te] o[n te H (neque G. et G.i.) : oujdev
Bekker Sus. Ross 17 aujtw`/] sibi G. 18 zhtou`s i P Ú kai; ojrqw`~ H 19 ga;r]
kai; MS 20 me;n oijkonomikhv] mevn hJ oijkonomikhv A2CD 22 au{th] haec G. :
ipsam G.i. 24 dh;] de; Giffen Schneider Koraïs Ú ou|to~ om. P1 (et infinitae
utique divitiae G.) : secl. Sus. 26 ga;r] kai; M 27-28 oujk ... tevlo~ om.
OacP2025 28 to; om. P(suppl. P2) 29 crhmatikh`~ A 30 dΔ om. H Ú ouj] au\
Bernays : ou[sh~ Schmidt 30-31 crhmatistikh; A2CD : [ouj crhmatistikh`~]
Bojesen Schnitzer

172
POLITICA I

1257b Allora, acquisita ormai la moneta in conseguenza


della necessità dello scambio, nacque l’altra specie di crema-
tistica, il commercio al minuto, dapprima esercitato forse in
forma rudimentale, ma poi, con l’esperienza, divenuto una
conoscenza sempre più specialistica di dove e come procura-
re attraverso lo scambio il massimo guadagno. Perciò pare
che la crematistica riguardi soprattutto il denaro, e sia compi-
to suo riuscire a vedere da dove possa trarre abbondanza di
denaro, perché essa è produttrice di ricchezza e di beni. E in-
fatti spesso si considera la ricchezza come abbondanza di de-
naro, per il fatto che a questo puntano la crematistica e il
commercio al minuto. Talvolta, di contro, pare che il denaro
sia una cosa da poco e del tutto una convenzione, e assoluta-
mente non un fatto naturale, perché, se cambiano il valore
corrente coloro che ne fanno uso, non vale più nulla né è utile
per alcuna delle necessità della vita, e chi è ricco di denaro
spesso sarà privo del necessario sostentamento; eppure sareb-
be strana una ricchezza siffatta che, posseduta in abbondanza,
fa morire di fame, come anche racconta il mito del famoso
Mida, poiché, in conseguenza della sua richiesta suggerita
dall’insaziabilità, tutto ciò che gli si presentava diventava
oro. Perciò ricercano una ricchezza e una crematistica che
siano qualcosa di diverso – e lo ricercano giustamente – . Esi-
ste infatti un’altra crematistica ed esiste la ricchezza secondo
natura, e questa crematistica è legata all’amministrazione do-
mestica, mentre l’altra, quella che si fonda sul commercio, è
produttrice di denaro, ma non in senso assoluto, bensì attra-
verso lo scambio di denaro. Ed è quella che pare relativa al
denaro perché il denaro è principio e fine dello scambio. E in-
vero questa ricchezza, derivante da tale forma di crematisti-
ca, è priva di limiti. Infatti, come la medicina si incarica di ri-
sanare senza limiti e ciascuna delle arti è senza limiti nel
raggiungimento del proprio fine – dal momento che vuole
realizzarlo al massimo grado –, mentre non sono senza limiti
i mezzi per raggiungere il fine – giacché il fine è per tutte il li-
mite –, così anche per questa crematistica non c’è limite al
raggiungimento del fine, e il fine è appunto la ricchezza di
tale genere e l’accumulo del denaro.

173
POLITIKWN A

matistikh'" e[sti pevra": ouj ga;r tou'to th'" oijkonomikh'" e[rgon.


dio; th/' me;n faivnetai ajnagkai'on ei\nai panto;" plouvtou pevra",
ejpi; de; tw'n ginomevnwn oJrw'men sumbai'non toujnantivon: pavnte" <
ga;r eij" a[peiron au[xousin oiJ crhmatizovmenoi to; novmisma.
35 ai[tion de; to; suvneggu" aujtw'n: ejpallavttei ga;r hJ crh's i", tou'
aujtou' ou\sa, eJkatevra" th'" crhmatistikh'". th'" ga;r aujth'" <
ejsti crhvsew" kth's i", ajllΔ ouj kata; taujtovn, ajlla; th'" me;n
e{teron tevlo", th'" dΔ hJ au[xhsi". w{ste dokei' tisi tou'tΔ ei\nai
th'" oijkonomikh'" e[rgon, kai; diatelou's in h] sw/vzein oijovmenoi
40 dei'n h] au[xein th;n tou' nomivsmato" oujs ivan eij" a[peiron. ai[tion
de; tauvth~ th`~ diaqevsew~ to; spoudavzein peri; to; zh`n, ajlla;;
1258a mh; to; eu\ zh'n: eij" a[peiron ou\n ejkeivnh" th'" ejpiqumiva" ou[sh",
kai; tw'n poihtikw'n ajpeivrwn ejpiqumou's in. o{soi de; kai; tou' eu\
zh'n ejpibavllontai to; pro;" ta;" ajpolauvsei" ta;" swmati-
ka;" zhtou's in, w{stΔ ejpei; kai; tou'tΔ ejn th/' kthvsei faivnetai uJ-
5 pavrcein, pa'sa hJ diatribh; peri; to;n crhmatismovn ejsti, kai; to;
e{teron ei\do" th'" crhmatistikh'" dia; tou'tΔ ejlhvluqen. ejn uJper-
bolh/' ga;r ou[sh" th'" ajpolauvsew", th;n th'" ajpolaustikh'"
uJperbolh'" poihtikh;n zhtou's in: ka]n mh; dia; th'" crhmatisti-
kh'" duvnwntai porivzein, diΔ a[llh" aijtiva" tou'to peirw'ntai,
10 eJkavsth/ crwvmenoi tw'n dunavmewn ouj kata; fuvs in. ajndreiva"
ga;r ouj crhvmata poiei'n ejstin ajlla; qavrso", oujde; strathgikh'"
kai; ijatrikh'", ajlla; th'" me;n nivkhn th'" dΔ uJgiveian. oiJ de;
pavsa" poiou's i crhmatistikav", wJ" tou'to tevlo" o[n, pro;" de;
to; tevlo" a{panta devon ajpanta'n. peri; me;n ou\n th'" te mh;
15 ajnagkaiva" crhmatistikh'", kai; tiv", kai; diΔ aijtivan tivna ejn
creiva/ ejsme;n aujth'", ei[rhtai, kai; peri; th'" ajnagkaiva", o{ti
eJtevra me;n aujth'", oijkonomikh; de; kata; fuvs in hJ peri; th;n
trofhvn, oujc w{sper aujth; a[peiro" ajlla; e[cousa o{ron.

31 pevra~] tevlo~ H 33 oJrw`men Sylburg et omnes edd. (cf. e.g.


1252a 1) : oJrw` codd. : video G. (videre ac : videtur o2) : videtur Alb. : videmus
G.i. Vict. Sep. : 34 oiJ crhmatizovmenoi] pro rebus ad usum habentes G. 36 eJ-
katevra~ «vetusta et emendatiora exemplaria» teste Sep. (prob. Goettling
Sus.2,3,4 Immisch Ross Aub. Drei.) : eJkatevra codd. Sus.1 Newman : eJkatevra/
Koraïs Schneider Bernays (utriusque crimatistice G.i. : uterque pecuniativae
G. [utrique pecuniativae G. codd. bgh]: utique Alb. : utriusque acquisitionis
Bruni) Ú th`~ crhmatistikh`~] th`/ crhmatistikh`/ Bernays 37 crhvsew~
kth`s i~ (usus acquisitio G. : usus possessio G.i.)] kthvsew~ crh`s i~ Goettling
Sus.2,3,4 Immisch Ross Drei. 39 oijkonomiva~ HacL81,21P1857P2025UrbVen200
41 to; om. M 1258a 4-5 uJpavrcon Koraïs 5 pa`sa hJ diatribh;] omnis eorum
cura G. (pa`sa aujtw`n eum legisse susp. Drei.) : omnis eorum vita G.i. Bac
7 th`~ post ou[sh~ om. 10 ajndriva~ B2MP 11 ejstin secludendum esse
censeo 12 uJgeivan MP 14 a{panta devon om. OacP2025 Ú te] ge MS 15
crhmatikh`~ M 17 de;] kai; M Ú th;n om. MS

174
POLITICA I

D’altra parte della crematistica che rientra nell’ammini-


strazione domestica esiste un limite, poiché questo tipo di ric-
chezza (quella senza limiti) non è compito dell’amministra-
zione domestica. Perciò da questo punto di vista appare
necessario un limite per ogni ricchezza, mentre vediamo che
nella realtà accade il contrario: infatti tutti coloro che si dedi-
cano ad accumulare ricchezze accrescono il denaro all’infini-
to. La causa è l’affinità tra le forme di crematistica: infatti
l’uso della stessa cosa, che è proprio di entrambe le forme di
crematistica, le fa confondere. D’altra parte la proprietà serve
allo stesso uso, ma non nello stesso modo, bensì il fine dell’u-
na è di altro genere, quello dell’altra è l’aumento della pro-
prietà. Cosicché ad alcuni sembra che questa sia la funzione
dell’amministrazione domestica, e continuano a vivere pen-
sando che si debba o conservare o accrescere illimitatamente
la consistenza del loro patrimonio in denaro. Causa di questo
modo di essere è il darsi da fare per vivere, ma non per vivere
bene; 1258a dunque, poiché quel desiderio è illimitato, de-
siderano anche mezzi produttivi illimitati. Quanti poi aspira-
no anche a vivere bene cercano ciò che conduce a soddisfare i
piaceri del corpo, cosicché, dal momento che anche questo
appare dipendere dalla proprietà, ogni loro occupazione è
tesa al procurarsi ricchezze, e per questo è sorta l’altra specie
di crematistica. Poiché infatti il piacere risiede in un eccesso,
ricercano il mezzo per ottenere l’eccesso di piacere; e se non
riescono a procurarselo attraverso la crematistica, ci provano
con un altro espediente, servendosi di ciascuna delle compe-
tenze non in maniera naturale. Infatti non è compito del co-
raggio produrre ricchezze, ma audacia, né lo è dell’arte della
guerra o di quella medica, ma dell’una è compito procurare la
vittoria, dell’altra la salute. Eppure costoro fanno altrettanti
tipi di crematistica, come se questo fosse il fine, e a questo
fine tutto dovesse tendere.
Si è dunque detto, della crematistica non necessaria, qua-
le sia e per quale motivo ce ne serviamo, e di quella necessa-
ria che, diversa dall’altra, è parte dell’amministrazione do-
mestica per natura, ha a che fare con i mezzi di vita, e non è,
come l’altra, illimitata, ma dotata di un limite preciso.

1258a 2-3 Eustath. in Il. VI 68 (mhv ti~ nu`n ejnavrwn ejpiballovmeno~ me-
tovpisqe) II 246, 21-247, 2 Shmeivwsai de; to; ejpibavllesqai ajnti; tou` ejfive-
sqai kai; ejpiqumei`n. dio; kai; genikh`/ suntavssetai. Kei`tai de; hJ toiauvth
levxi~ oJmoivw~ kai; parΔ a[lloi~, w|n ejsti kai; ΔAritotevlh~ (cf. 1260b 36)

175
POLITIKWN A

10. Dh'lon de; kai; to; ajporouvmenon ejx ajrch'", povteron tou'
20 oijkonomikou' kai; politikou' ejstin hJ crhmatistikh; h] ou[, ajlla;
dei' tou'to me;n uJpavrcein: w{sper ga;r kai; ajnqrwvpou" ouj poiei' hJ
politikhv, ajlla; labou'sa para; th'" fuvsew" crh'tai
aujtoi'", ou{tw kai; trofh;n th;n fuvs in dei' paradou'nai, gh'n h]
qavlattan h] a[llo ti ejk de; touvtwn: wJ" dei' tau'ta diaqei'-
25 nai proshvkei to;n oijkonovmon. ouj ga;r th'" uJfantikh'" e[ria
poih'sai, ajlla; crhvsasqai aujtoi'", kai; gnw'nai de; to; poi'on
crhsto;n kai; ejpithvdeion, h] fau'lon kai; ajnepithvdeion. kai; ga;r
ajporhvseien a[n ti" dia; tiv hJ me;n crhmatistikh; movrion th'"
oijkonomiva", hJ dΔ ijatrikh; ouj movrion: kaivtoi dei' uJgiaivnein tou;"
30 kata; th;n oijkivan, w{sper zh'n h] a[llo ti tw'n ajnagkaivwn.
ejpei; de; e[sti me;n wJ" tou' oijkonovmou kai; tou' a[rconto" kai; peri;
uJgieiva" ijdei'n, e[sti dΔ wJ" ou[, ajlla; tou' ijatrou', ou{tw kai; peri;
tw'n crhmavtwn e[sti me;n wJ" tou' oijkonovmou, e[sti dΔ wJ" ou[, ajlla;
th'" uJphretikh'": mavlista dev, kaqavper ei[rhtai provteron, dei'
35 fuvsei tou'to uJpavrcein. fuvsew" gavr ejstin [e[rgon] trofh;n tw/'
gennhqevnti parevcein: panti; gavr, ejx ou| givnetai, trofh; to;
leipovmenovn ejsti. dio; kata; fuvs in ejsti;n hJ crhmatistikh;
pa's in ajpo; tw'n karpw'n kai; tw'n zw/vwn. diplh'" dΔ ou[sh"
aujth'", w{sper ei[pomen, kai; th'" me;n kaphlikh'" th'" dΔ oijko-
40 nomikh'", kai; tauvth" me;n ajnagkaiva" kai; ejpainoumevnh", th'"
1258b de; metablhtikh`~ yegomevnh~ dikaivw~: ouj ga;r kata; fuvs in ajllΔ
ajpΔ ajllhvlwn ejstivn. eujlogwvtata misei'tai hJ ojbolo-
statikh; dia; to; ajpΔ aujtou' tou' nomivsmato" ei\nai th;n kth's in
kai; oujk ejfΔ o{per ejporivsqh. metabolh'" ga;r ejgevneto cavrin,
5 oJ de; tovko" aujto; poiei' plevon, o{qen kai; tou[noma tou'tΔ ei[lh-
fen: o{moia ga;r ta; tiktovmena toi'" gennw's in aujtav ejstin, oJ de;
tovko" givnetai novmisma [ejk] nomivsmato": w{ste kai; mavlista
para; fuvs in ou|to" tw'n crhmatismw'n ejstin.

20 crhmatikh; AM 22 para;] peri; M 23 ãpro;~Ã trofh;n Richards


Ross : ãeij~Ã trofh;n Schneider (sed. cf. infra 35-36) 24 qavlassan P1 25
proshvkei skopei`n A2CD 29 uJgiaivnein dei` P1 : dei`n P2025 31 oijkonovmou]
yconomici G. 32-33 ajlla; tou` ... dΔ wJ~ ou[ om. HL81,21PalUrb 33 tw`n
crhmavtwn] crhmatistikh`~ gr. P2 34 th`~ kevrdou~ uJphretikh`~ Bas.3mg
(Erasmus?) 35 tou`to fuvsei P1 Ú [e[rgon] seclusi Ú tw`/ om. ACD 37 leipov-
menon] leivpomen ras. A2 38 karpw`n kai; tw`n om. O : kai; tw`n om. P2025ac
1258b 1 metabolikh`~ P1(corr. P2) 3 ajpΔ] uJpΔ Bekker2 : ejpΔ Jackson Ú th;n om.
MS 4 ejfΔ w|/per ejporisavmeqa P1 7 ejk om. P2 : secl. Sylburg Aub. Drei.

176
POLITICA I

10. Si chiarisce allora anche il dubbio iniziale, se l’acqui-


sizione dei beni sia compito dell’amministratore della casa e
del politico o no, ma invece devono essere già disponibili;
come infatti la politica non produce gli uomini ma, ricevutili
dalla natura, si serve di loro, così anche la natura deve fornire,
come mezzi di sostentamento, terra, mare o qualche altra cosa
del genere; e di conseguenza spetta all’amministratore della
casa disporre queste cose nel modo dovuto. Infatti non tocca
all’arte del tessitore produrre la lana, ma usarla, e sapere qual
è utilizzabile e adatta, oppure scadente e inadatta. E infatti si
potrebbero nutrire dubbi sul perché la crematistica sia parte
dell’amministrazione domestica e la medicina non ne sia par-
te; eppure i membri della famiglia devono essere in buona sa-
lute, esattamente come devono vivere o avere ogni altra cosa
necessaria. Giacché ci sono condizioni in cui è compito del-
l’amministratore domestico e del governante badare anche
alla salute, mentre ve ne sono di quelle in cui non lo è, ma è
compito invece del medico; allo stesso modo anche riguardo
ai beni vi sono casi in cui spetta all’amministratore domestico
occuparsene e casi in cui non gli spetta, ma è invece compito
di un’arte ausiliaria. Ma soprattutto, come si è già detto prima,
questo deve risultare per natura, perché è compito della natura
procurare il nutrimento al nuovo nato; ciascuno infatti trova il
nutrimento in quel che resta di ciò da cui è nato. Perciò la cre-
matistica per natura deriva per tutti dai frutti della terra e dagli
animali. Avendo essa due forme, come abbiamo detto, il com-
mercio al minuto e l’amministrazione domestica, quest’ultima
necessaria e lodevole, l’altra, fondata sullo scambio, 1258b
giustamente disprezzata – perché non è secondo natura, ma è
praticata dagli uni prendendo dagli altri –, molto saggiamente
si odia il prestito a interesse, per il fatto che il guadagno pro-
viene dal denaro stesso, e non da ciò per cui esso è stato inven-
tato. Infatti è nato in vista dello scambio, mentre l’interesse lo
rende sempre maggiore: da qui l’interesse ha tratto anche il
nome, perché i figli sono simili a coloro che li hanno generati
e l’interesse è denaro che viene da denaro; cosicché questa è
tra le forme di guadagno quella più contro natura.

177
POLITIKWN A

11. ΔEpei; de; ta; pro;" th;n gnw's in diwrivkamen iJkanw'", ta;
10 pro;" th;n crh's in dei' dielqei'n. pavnta de; ta; toiau'ta th;n
me;n qewrivan ejleuqevran e[cei, th;n dΔ ejmpeirivan ajnagkaivan.
e[sti de; crhmatistikh'" mevrh crhvs ima: to; peri; ta; kthvmata
e[mpeiron ei\nai, poi'a lusitelevstata kai; pou' kai; pw'", oi|on
i{ppwn kth's i" poiva ti" h] bow'n h] probavtwn, oJmoivw" de; kai;
15 tw'n loipw'n zw/vwn: dei' ga;r e[mpeiron ei\nai pro;" a[llhlav
te touvtwn tivna lusitelevstata, kai; poi'a ejn poivoi" tovpoi":
a[lla ga;r ejn a[llai" eujqhnei' cwvrai", ei\ta peri; gewrgiva",
kai; tauvth" h[dh yilh'" te kai; pefuteumevnh", kai; melit-
tourgiva", kai; tw'n a[llwn zw/vwn tw'n plwtw'n h] pthnw'n, ajfΔ
20 o{swn e[sti tugcavnein bohqeiva". th'" me;n ou\n oijkeiotavth" crh-
matistikh'" tau'ta movria kai; prw`ta, th'" de; metablhtikh'"
mevgiston me;n ejmporiva, kai; tauvth" mevrh triva, nauklhriva
forthgiva paravstasi": diafevrei de; touvtwn e{tera eJtevrwn tw/'
ta; me;n ajsfalevstera ei\nai, ta; de; pleivw porivzein th;n ejpi-
25 karpivan, deuvteron de; tokismov", trivton de; misqarniva: tauv-
th" dΔ hJ me;n tw'n banauvswn tecnw'n, hJ de; tw'n ajtevcnwn
kai; tw/' swvmati movnw/ crhsivmwn. trivton de; ei\do" crhma-
tistikh'" metaxu; tauvth" kai; th'" prwvth": e[cei ga;r kai; th'"
kata; fuvs in ti mevro" kai; th'" metablhtikh'", o{sa ajpo; gh'"
30 kai; tw'n ajpo; gh'" ginomevnwn, ajkavrpwn me;n crhsivmwn dev,
oi|on uJlotomiva te kai; pa'sa metalleutikhv. au{th de; polla;
h[dh perieivlhfe gevnh: polla; ga;r ei[dh tw'n ejk gh'" metal-
leuomevnwn e[stin. peri; eJkavstou de; touvtwn kaqovlou me;n ei[rh-
tai kai; nu'n, to; de; kata; mevro" ajkribologei'sqai crhvs imon me;n
35 pro;" ta;" ejrgasiva", fortiko;n de; to; ejndiatrivbein. eijs i; de;
tecnikwvtatai me;n tw'n ejrgasiw'n o{pou ejlavciston tuvch",
banausovtatai dΔ ejn ai|" ta; swvmata lwbw'ntai mavlista, douli-

11 ejleuvqeron codd. : ejleuqevran recte Ross (cf. 1331a 32) 12 th`~ crh-
matistikh`~ P1 Ú kthvmata] kthvnh Bernays 15-17 dei' ga;r e[mpeiron ... ejn
a[llai" eujqhnei' cwvrai" scholium cens. Drei. 18-19 melitourgiva~ MP 19
post zwv/wn glossam add. A(del. A4) in textu: dei` ga;r e[mpeiron ei\nai pro;~ a[l-
lhlav te touvtwn tivna lusitelevstata, kai; poi'a ejn poivoi" (i.e. 15-16) 21
prw`ta] prwvth~ Richards Ross 24 oJrivzein P 26 tecnãitÃw`n Vermehren
Ross Ú de; tw`n ajtevcnwn om. A 27 trivton] tevtarton P1(a[llw~ trivton P2)
P2025ac 29 o{sa] ou\sa Bernays 30 te kai; P Ú me;n om. E 31 uJlotomiva
codd. (puta silvae incisiva G. : puta ylotomia G.i. : silva cedua Bruni) : hJ la-
tomiva Thom. Sus.1 Ú pasw`n M 32 ei[dh] h[dh P 33-35 peri; eJkavstou ... ejn-
diatrivbein post 39 prosdei' ajreth'" transp. esse cens. Mon. Sus. 36 th`~
tuvch" L81,21P1857P2025UrbVen200 Bekker (th`~ secl. Sus.1 : del. Sus.2,3,4) 37
lwbw`ntai] labw`ntai M (sumuntur G. : maculantur G.i.)

178
POLITICA I

11. Dopo aver operato sufficienti distinzioni per quel che


riguarda le nozioni teoriche, occorre ora esporre quel che
concerne l’uso effettivo. Tutti gli argomenti di questo genere
nella teoria godono di un certo grado di libertà, ma nella pra-
tica sono vincolati dalla necessità. Vi sono parti della crema-
tistica che sono utili: l’essere esperti delle proprietà, quindi
sapere quali siano le più vantaggiose, dove e come, per esem-
pio quali peculiarità abbia l’acquisto di cavalli o di buoi o di
bestiame, e allo stesso modo anche degli altri animali – biso-
gna infatti essere esperti di quali di questi animali siano più
redditizi gli uni rispetto agli altri, e di quali tipi ci siano nei
diversi luoghi; infatti animali diversi prosperano in zone di-
verse –; e poi essere esperti di agricoltura, sia di quella erba-
cea sia di quella arborea, e dell’allevamento delle api, e degli
altri animali acquatici o dei volatili, dai quali sia possibile ot-
tenere risorse. Queste dunque sono le parti e i fondamenti
della crematistica propriamente detta, mentre di quella di
scambio la parte più importante è il commercio – e di questo
tre sono le parti: l’allestimento di navi, il trasporto e la vendi-
ta: sono differenti le une dalle altre in quanto le une sono più
sicure, le altre procurano un maggior guadagno –, al secondo
posto viene il prestito a interesse, al terzo il lavoro retribui-
to – di questo una parte è quella delle tecniche di lavoro ma-
nuale, l’altra di quelle non specializzate e che fanno uso solo
del corpo –; la terza specie di crematistica è quella che sta in
mezzo tra questa e la prima, perché ha in sé una parte sia di
quella naturale sia di quella di scambio; concerne i prodotti
della terra e tutte le cose che derivano dalla terra, prive di
frutti ma utili, per esempio il taglio dei boschi e ogni tipo di
attività mineraria. Quest’ultima poi comprende senz’altro
molti generi, giacché esistono molte specie di prodotti mine-
rari estratti dalla terra. Di ciascuna di queste forme si è parla-
to in generale; ora dunque sarebbe utile in relazione alle atti-
vità pratiche considerarle con cura separatamente, ma
sarebbe pesante soffermarvisi. Tra le attività pratiche sono le
più specializzate quelle in cui meno conta il caso, le più ma-
nuali quelle in cui il corpo subisce i maggiori danni,

1258b 9-1259a 36 (cap. 11) additicium cens. Newman : cf. Ar. Oec. II 1346a
25-26 Ta; me;n ou\n peri; ta;~ oijkonomiva~ te kai; ta; mevrh ta; touvtwn eijrhvkamen:
o{sa dev tine~ tw`n provteron pepravgasin eij~ povron crhmavtwn, ei[ãteà tec-
/ hsan 23 forthgiva cf. Eustath. Opera minora 19, 75; 41, 1
nikw`~ ti diwvk

179
POLITIKWN A

kwvtatai de; o{pou tou' swvmato" plei'stai crhvsei", ajgennev-


statai de; o{pou ejlavciston prosdei' ajreth'". ejpei; dΔ e[stin
40 ejnivoi" gegrammevna peri; touvtwn, oi|on Carhtivdh/ tw/' Parivw/ kaiv
1259a ΔApollodwvrw/ tw'/ Lhmnivw/ peri; gewrgiva~ kai; yilh`~ kai;
pefuteumevnh", oJmoivw" de; kai; a[lloi" peri; a[llwn, tau'ta
me;n ejk touvtwn qewreivtw o{tw/ ejpimelev": e[ti de; kai; ta; le-
govmena sporavdhn, diΔ w|n ejpitetuchvkasin e[nioi crhmatizov-
5 menoi, dei' sullevgein. pavnta ga;r wjfevlima tau'tΔ ejsti; toi'" ti-
mw's i th;n crhmatistikhvn, oi|on kai; to; Qavlew tou' Milhsivou:
tou'to gavr ejsti katanovhmav ti crhmatistikovn, ajllΔ ejkeivnw/
me;n dia; th;n sofivan prosavptousi, tugcavnei de; kaqovlou ti
o[n. ojneidizovntwn ga;r aujtw/' dia; th;n penivan wJ" ajnwfelou'"
10 th'" filosofiva" ou[sh", katanohvsantav fasin aujto;n ejlaiw'n
fora;n ejsomevnhn ejk th'" ajstrologiva", e[ti ceimw'no" o[nto"
eujporhvsanta crhmavtwn ojlivgwn ajrrabw'na" diadou'nai tw'n
ejlaiourgivwn tw'n tΔ ejn Milhvtw/ kai; Civw/ pavntwn, ojlivgou mi-
sqwsavmenon a{tΔ oujqeno;" ejpibavllonto": ejpeidh; dΔ oJ kairo;"
15 h|ke, pollw'n zhtoumevnwn a{ma kai; ejxaivfnh", ejkmisqou'nta o}n
trovpon hjbouvleto, polla; crhvmata sullevxanta ejpidei'xai
o{ti rJadv/ iovn ejsti ploutei'n toi'" filosovfoi", a]n bouvlwntai, ajllΔ
ouj tou'tΔ ejsti; peri; o} spoudavzousin. Qalh'" me;n ou\n levgetai tou'-
ton to;n trovpon ejpivdeixin poihvsasqai th'" sofiva": e[sti dΔ, w{s-
20 per ei[pomen, kaqovlou to; toiou'ton crhmatistikovn, ejanv ti" duv-
nhtai monopwlivan auJtw/' kataskeuavzein. dio; kai; tw'n povlewn
e[niai tou'ton poiou'ntai to;n povron, o{tan ajporw'si crhmavtwn:
monopwlivan ga;r tw'n wjnivwn poiou'sin. ejn Sikeliva/ dev ti" teqevnto"
parΔ aujtw/' nomivsmato" suneprivato pavnta to;n sivdhron ejk
25 tw'n sidhreivwn, meta; de; tau'ta wJ" ajfivkonto ejk tw'n ejmpo-
rivwn oiJ e[mporoi, ejpwvlei movno", ouj pollh;n poihvsa" uJperbo-
lh;n th'" timh'": ajllΔ o{mw" ejpi; toi'" penthvkonta talavntoi"

38 ajgenevstatai P1HP2025V200 40 cavriti dh; M : carivtia~ dh` (dh` ex


dh; corr.) H(caritiavdh~ oJ pavrio~ Hc) : cavrhti dh; P2P (Carhtivdh/ Sus. : ka-
ritide / khantide / kacici de / Charete G. codd. : charete Alb.) : Cavrhti dh; tw`/
Parivw/ Immisch 1259a 1 limnivw M 3 me;n ou\n ejk touvtwn H 6 mhlhsivou
M 10-11 ejlaiw`n ... o[nto~ om. P(suppl. P1) 12 ojlivgwn] lovgwn Oac Ú ajra-
bw`na~ P 13 ejlaiourgeivwn P Diog. : ejlaiourgivwn P2 Ald. Bekker : ej-
laiouvrgwn P2025 : ejlaiourgiw`n MSUrbVen200Ven213 : ejleourgiw`n L : oliva-
rum cultoribus G. et G.i. 17 a]n bouvlwntai] eij bouvlwntai M : eij bouvlontai
S 18 o}] w|n H 21 aujtw`/ MS : eJautw`/ C 22 povron] hoc modo faciunt divi-
tias G. : hoc modo faciunt G.i. (trovpon eum legisse susp. Drei.) 25 ejk] aiJ S :
oiJ aiJ M Ú ejmporiw`n CDE : porivwn M 26 oiJ om. M Ú ejpwvlei movno~] ejpili-
mevno~ M : ejpi; limevno~ S 27 talavntoi~ ras. B

180
POLITICA I

le più servili quelle in cui massimo è l’uso del corpo, le più


ignobili quelle in cui è richiesto il minimo della virtù.
Dal momento che alcuni hanno scritto riguardo a questi
argomenti, per esempio Caretide di Paro e 1259a Apollodo-
ro di Lemno sull’agricoltura sia erbacea sia arborea, e analo-
gamente anche altri su altri soggetti, chiunque sia interessato
a tali temi li studi a partire da queste trattazioni; e ancora bi-
sogna raccogliere quel che si è detto qua e là sui mezzi con
cui alcuni sono riusciti ad accumulare ricchezze, perché tutte
queste informazioni sono utili per coloro che tengono in con-
siderazione la crematistica, come per esempio l’episodio di
Talete di Mileto; questo infatti è un accorgimento crematisti-
co, ma lo attribuiscono a lui in virtù della sua saggezza e può
essere un principio generale. Poiché infatti gli rinfacciavano,
a motivo della sua povertà, che la filosofia è inutile, dicono
che, avendo previsto sulla base di studi sugli astri che vi sa-
rebbe stata abbondanza di olive, ancora in inverno, con le po-
che ricchezze che possedeva si accaparrò tutti i frantoi di Mi-
leto e Chio, pagandoli poco perché nessuno li richiedeva;
quando poi venne il momento opportuno, dato che molti li
cercavano contemporaneamente e urgentemente, li diede in
affitto al prezzo che volle e, accumulate molte ricchezze, di-
mostrò che per i filosofi è facile arricchirsi, se vogliono, ma
questo non è ciò per cui si danno da fare.
Si racconta dunque che Talete in questo modo fece mo-
stra della sua sapienza ma, come abbiamo detto, questo è un
accorgimento crematistico di portata generale, se uno riesce a
crearsi un monopolio. Perciò anche alcune città ricorrono a
questa fonte di guadagno, quando sono a corto di ricchezze:
si procurano un monopolio di merci. In Sicilia un tale, aven-
do da parte una somma di denaro, comprò tutto il ferro che
proveniva dalle fonderie; quando in seguito giunsero i mer-
canti dagli empori, lo vendeva lui solo, senza applicare un
prezzo eccessivo: ma tuttavia, da cinquanta talenti

1259a 3 Ar. Oec. II 1346a 26 (cf. supra 1258b 9-1259a 36) 6 Diog. I 26,
8-12: Thales (ex Hier. Rhod.) Fhsi; de; kai; ÔIerwvnumo~ økai;Ø oJ ÔRovdio~ ejn tw`/
deutevrw/ tw`n Sporavdhn uJpomnhmavtwn o{ti boulovmeno~ dei`xai rJav/dion ei\nai
ploutei`n, fora`~ ejlaiw`n mellouvsh~ e[sesqai, pronohvsa~ ejmisqwvsato ta;
ejlaiourgei`a kai; pavmpleista sunei`le crhvmata (cf. Hier. f. 47) 19 Nic.
Greg. Flor. 219-221 ΔEkwvmasev ti~ ej~ th;n ÔEllavda Xenofavnh~ oJ Qrasumav-
cou pollh;n th`~ sofiva~ ejpivdeixin poihvsein ejpaggellovmeno~

181
POLITIKWN A

ejpevlaben eJkatovn. tou'to me;n ou\n oJ Dionuvs io" aijsqovmeno" ta;


me;n crhvmata ejkevleusen ejkkomivsasqai, mh; mevntoi ge e[ti
30 mevnein ejn Surakouvsai", wJ" povrou" euJrivskonta toi'" aujtou'
pravgmasin ajsumfovrou": to; mevntoi o{rama Qavlew kai; tou'to
taujtovn ejstin: ajmfovteroi ga;r eJautoi'" ejtevcnasan genevsqai
monopwlivan. crhvs imon de; gnwrivzein tau'ta kai; toi'" poli-
tikoi'". pollai'" ga;r povlesi dei' crhmatismou' kai; toiouvtwn
35 povrwn, w{sper oijkiva/, ma'llon dev: diovper tine;" kai; poli-
teuvontai tw'n politeuomevnwn tau'ta movnon.
12. ΔEpei; de; triva mevrh th'" oijkonomikh'" h\n, e}n me;n de-
spotikhv, peri; h|" ei[rhtai provteron, e}n de; patrikhv, trivton de;
gamikhv: kai; ga;r gunaiko;" a[rcein kai; tevknwn, wJ" ejleuqev-
40 rwn me;n ajmfoi'n, ouj to;n aujto;n de; trovpon th'" ajrch'", ajlla;
1259b gunaiko;~ me;n politikw`~ tevknwn de; basilikw`~: tov te ga;r
a[rren fuvsei tou' qhvleo" hJgemonikwvteron, eij mhv pou sunev-
sthke para; fuvs in, kai; to; presbuvteron kai; tevleion tou' new-
tevrou kai; ajtelou'". ejn me;n ou\n tai'" politikai'" ajrcai'" tai'"
5 pleivstai" metabavllei to; a[rcon kai; to; ajrcovmenon: ejx i[sou
ga;r ei\nai bouvletai th;n fuvs in kai; diafevrein mhqevn. o{mw"
dev, o{tan to; me;n a[rch/ to; dΔ a[rchtai, zhtei' diafora;n ei\nai
kai; schvmasi kai; lovgoi" kai; timai'", w{sper kai; “Amasi"
ei\pe to;n peri; tou' podanipth'ro" lovgon: to; dΔ a[rren ajei; pro;"
10 to; qh'lu tou'ton e[cei to;n trovpon. hJ de; tw'n tevknwn ajrch;
basilikhv: to; ga;r gennh'san kai; kata; filivan a[rcon kai;
kata; presbeivan ejstivn, o{per ejsti; basilikh'" ei\do" ajrch'". dio;

28 tou`to HL81,21 : tou`ton cett. Ú oJ om. P1H 29 ge om. MS 30 mei`-


nai MS Ú auJtou` E Sus. 31 o{rama] eu{rhma Cam. : qewvrhma Koraïs : dra`ma
Campbell (visum fuit G. [iussum fuerit G. cod. o]) Ú Qavlew kai; tou`to] Thali et
hoc G.i. : Thali et huic G. (Qavlh/ kai; touvtw/ eum legisse susp. Sus. : Qavlew
kai; touvtou susp. Newman) 35 oijkiva/] domibus G. 36 tw`n politeuomevnwn
om. P(suppl. P1) 37 ejpeidh; de; M Ú mevrh om. CDEOP2025Urb 39 ante kai;
ga;r lac. st. Conring Thurot Sus. Drei. (quasi a[rcein pendens; «scil. e[famen»
Immisch, sed supra scripsit Ar. ei[rhtai) Ú a[rcein] ajrktevon Bernays : a[rcei
Ross (praeest G. codd. praeter praeesse b, quod rec. Sus.1) 39-40 et enim
mulieri praeesse et natis tamquam liberis quidem ambobus G. : etenim mulieris
pricipatum et puerorum, tamquam liberis quidem ambobus G.i. 1259b 1 ajl-
la; kai; gunaikw`n M 2 a[rrhn M Ú qhvlew~ P2025 Ú pou] pw~ P1(corr. P2)
A3D1 (alicubi G.i.) 6 ei\nai om. MS Ú mhdevn P1 Bekker 7 dΔ o{tan P2 Bek-
ker 8 skhvmati (ex schvma, t supra a) M : ai[masi~ Bac 9 podanipth lo-
gon P(corr. P2) 10 e[coi B 11 to; ga;r gennh`san om. S

182
POLITICA I

che aveva speso, ne guadagnò cento. Dionisio dunque, venu-


to a conoscenza di ciò, lo autorizzò a portarsi via le ricchezze,
ma gli ordinò di non rimanere assolutamente più a Siracusa,
poiché aveva trovato risorse contrarie ai suoi interessi; co-
munque lo stratagemma di Talete e questo sono identici: en-
trambi infatti si diedero da fare per crearsi un monopolio. È
utile anche ai politici conoscere queste cose. Molte città infat-
ti hanno bisogno di risorse finanziarie e di entrate di questo
tipo, come una casa, ma anche in maggior misura: perciò al-
cuni dei politici si occupano esclusivamente di queste attività.

12. Allora tre sono le parti dell’amministrazione domesti-


ca, una padronale, di cui si è parlato prima, una seconda che
riguarda il padre, una terza coniugale – infatti consiste nell’e-
sercitare l’autorità su moglie e figli, in quanto liberi l’una e
gli altri, però non lo stesso tipo di autorità, ma 1259b sulla
moglie un’autorità del tipo di quella del politico, sui figli in-
vece del tipo di quella del re. In effetti il maschio è per natura
più adatto a comandare della femmina, fatta salva qualche ec-
cezione contro natura, e chi è più vecchio e maturo è più adat-
to di chi è più giovane e immaturo. Dunque nella maggior
parte delle cariche cittadine si alternano la parte che comanda
e la parte comandata – vogliono infatti essere uguali per natu-
ra e non differire in nulla –; ma tuttavia, quando una parte co-
manda e l’altra è comandata, cercano di istituire una differen-
za sia nell’aspetto esterno sia nel linguaggio sia negli onori,
come disse anche Amasi nel discorso sul catino per lavare i
piedi: il maschio ha sempre questo comportamento verso la
femmina. L’autorità sui figli invece è di tipo regale: il genito-
re infatti comanda sulla base sia dell’affetto sia della età più
avanzata, che è un carattere proprio dell’autorità regale.

37-39 Stob. II 7, 26 (II 149, 8-11) th;n dΔ oijkonomikh;n frovnhsin, dioikh-


tikh;n ou\san aujtou` te ãoi[kouà kai; tw`n katΔ oi\kon, oijkeivan ajndro;~ uJpavr-
cein. Tauvth~ de; to; me;n ei\nai patrikovn, to; de; gamikovn, to; de; despotikovn, to;
de; crhmatistikovn 1259b 8-9 Hdt. II 172, 3-4 «Hn oiJ a[lla te ajgaqa; muriva,
ejn de; kai; podanipth;r cruvseo~, ejn tw`/ aujtov~ te oJ “Amasi~ kai; oiJ daitumovne~
oiJ pavnte~ tou;~ povda~ eJkavstote ejnapenivzonto: tou`ton katΔ w\n kovya~
a[galma daivmono~ ejx aujtou` ejpoihvsato kai; i{druse th`~ povlio~, o{kou h\n ej-
pithdeovtaton: oiJ de; Aijguvptioi foitw`nte~ pro;~ tw[galma ejsevbonto megav-
lw~: maqw;n de; oJ “Amasi~ to; ejk tw`n ajstw`n poieuvmenon, sugkalevsa~ Aijgup-
tivou~ ejxevfhne fa;~ ejk tou` podanipth`ro~ tw[galma gegonevnai ktl.

183
POLITIKWN A

kalw'" ”Omhro" to;n Diva proshgovreusen eijpw;n path;r ajn-


drw'n te qew'n te to;n basileva touvtwn aJpavntwn. fuvsei ga;r <
15 to;n basileva diafevrein me;n dei', tw/' gevnei dΔ ei\nai to;n aujtovn:
o{per pevponqe to; presbuvteron pro;" to; newvteron kai; oJ gen-
nhvsa" pro;" to; tevknon.
13. Fanero;n toivnun o{ti pleivwn hJ spoudh; th'" oijkonomiva"
peri; tou;" ajnqrwvpou" h] peri; th;n tw'n ajyuvcwn kth's in, kai;
20 peri; th;n ajreth;n touvtwn h] peri; th;n th'" kthvsew", o}n kalou'men
plou'ton, kai; tw'n ejleuqevrwn ma'llon h] douvlwn. prw'ton me;n
ou\n peri; douvlwn ajporhvseien a[n ti", povteron e[stin ajrethv ti"
douvlou para; ta;" ojrganika;" kai; diakonika;", a[llh timiwtevra
touvtwn, oi|on swfrosuvnh kai; ajndreiva kai; dikaiosuvnh kai; tw'n
25 a[llwn tw'n toiouvtwn e{xewn, h] oujk e[stin oujdemiva para; ta;~
swmatika;" uJphresiva". e[cei ga;r ajporivan ajmfotevrw": ei[te
ga;r e[stin, tiv dioivsousi tw'n ejleuqevrwn… ei[te mh; e[stin, o[ntwn
ajnqrwvpwn kai; lovgou koinwnouvntwn a[topon. scedo;n de;
taujtovn ejsti to; zhtouvmenon kai; peri; gunaiko;" kai; paidov",
30 povtera kai; touvtwn eijs i;n ajretaiv, kai; dei' th;n gunai'ka ei\nai
swvfrona kai; ajndreivan kai; dikaivan, kai; pai'" e[sti kai; ajkov-
lasto" kai; swvfrwn, h] ou[… kaqovlou dh; tou'tΔ ejsti;n ejpiske-
ptevon peri; ajrcomevnou fuvsei kai; a[rconto", povteron hJ aujth;
ajreth; h] eJtevra. eij me;n ga;r dei' ajmfotevrou" metevcein kalo-
35 kagaqiva", dia; tiv to;n me;n a[rcein devoi a]n to;n de; a[rcesqai
kaqavpax… oujde; ga;r tw/' ma'llon kai; h|tton oi|ovn te diafev-
rein: to; me;n ga;r a[rcesqai kai; a[rcein ei[dei diafevrei, to;
de; ma'llon kai; h|tton oujdevn. eij de; to;n me;n dei' to;n de; mhv,
qaumastovn. ei[te ga;r oJ a[rcwn mh; e[stai swvfrwn kai; div-
40 kaio", pw'" a[rxei kalw'"… ei[qΔ oJ ajrcovmeno", pw'" ajrcqhv-
1260a setai kalw`~… ajkovlasto~ ga;r w]n kai; deilo;~ oujqe;n poihvsei
tw'n proshkovntwn. fanero;n toivnun o{ti ajnavgkh me;n metevcein
ajmfotevrou" ajreth'", tauvth" dΔ ei\nai diaforav", w{sper kai;

14 aJpavntwn patevra eijpwvn MS : omnium patrem dicens G. : dhlonovti


patevra eijpwvn glossa A4 15 diafevrei M 19 th;n om. H 20 th;n1 om. H :
th;n ajreth;n th;n P2025 23 a[llh] alia G. : sed honorabilior G.i. (ex ajlla;?)
24 kai; ãeJkavsthà tw`n Spengel Ross 25 tw`n toiouvtwn ejxevwn «gen. part., ut
1338b 30» Immisch 26 ei[te] ei[ti Laur81,21P2025Urb : ei[ ti BP1857 Ald.
28 a[topon om. P(suppl. P2) Ú dh;] de; A(corr. A2) : autem G. et G.i. 30 ejsti;n
ajrethv H 30-31 swvfrona ei\nai P1 31 kai;4 om. P1 32 kai;2 om. MS (nec
vert. G.) : secl. Sus. Ú dh;] dei` M : de; Schneider 33 fuvsei ante peri; S 36
tw`/] to M 1260a 1 oujde;n P1 3 diaforav~] huius autem esse differentiae G.

184
POLITICA I

Perciò a ragione Omero si rivolse a Zeus chiamando “pa-


dre degli uomini e degli dei” il re di tutti quanti gli esseri. Il re
infatti per natura deve distinguersi, mentre per stirpe dev’es-
sere uguale ai sudditi, la stessa cosa che capita al più vecchio
rispetto al più giovane e al genitore rispetto al figlio.

13. È chiaro dunque che la cura dell’amministrazione do-


mestica è indirizzata agli uomini più che al possesso delle
cose inanimate, e alla virtù di questi più che a quella della
proprietà, che chiamiamo ricchezza, e alla virtù dei liberi più
che degli schiavi. In primo luogo dunque a proposito degli
schiavi ci si potrebbe chiedere se esista una qualche virtù del-
lo schiavo accanto a quelle strumentali e servili, diversa e più
stimata di queste, come per esempio la temperanza, il corag-
gio, la giustizia e qualcuna delle altre doti morali di questo
genere, oppure se non ne esista nessuna oltre alle capacità di
servizio offerte dal corpo. In effetti in entrambi i casi vi è una
difficoltà: infatti, se esiste, in che cosa gli schiavi differiranno
dai liberi? E, se non esiste, è davvero strano, dal momento
che sono uomini e partecipano della ragione. Quasi identico è
il problema in relazione alla donna e al fanciullo: se cioè vi
siano virtù proprie anche di questi e se la donna debba essere
saggia, coraggiosa e giusta e il fanciullo sia intemperante e
saggio, o no. In generale la questione deve essere esaminata
relativamente a chi per natura è comandato e a chi comanda
chiedendosi se la virtù sia la stessa o sia diversa. Ora, se infat-
ti entrambi devono partecipare dell’eccellenza, per quale mo-
tivo l’uno dovrebbe comandare e l’altro essere comandato in
tutto e per tutto? E neppure infatti è possibile che vi sia diffe-
renza quantitativa in più o in meno, perché l’essere comanda-
ti e il comandare differiscono per specie, non per grado. Ci
sarebbe da meravigliarsi se l’uno dovesse partecipare dell’ec-
cellenza e l’altro no. Se infatti colui che comanda non sarà
temperante e giusto, come potrà comandare bene? E se non lo
sarà chi è comandato, come potrà obbedire bene? 1260a
Perché, essendo intemperante e pigro, non farà nulla di ciò
che rientra tra i suoi doveri. Certo è chiaro che entrambi par-
tecipano necessariamente della virtù e che nell’ambito di
questa necessariamente vi sono differenze,

13-14 Hom. Il. I 544 th;n dΔ hjmeivbetΔ e[peita path;r ajndrw`n te qew`n te
(cf. etiam Ar. EN VIII 1160b 24-26)

185
POLITIKWN A

tw'n fuvsei ajrcomevnwn. kai; tou'to eujqu;" uJfhvghtai peri; th;n


5 yuchvn: ejn tauvth/ gavr ejsti fuvsei to; me;n a[rcon to; dΔ
ajrcovmenon, w|n eJtevran fame;n ei\nai ajrethvn, oi|on tou' lovgon
e[conto" kai; tou' ajlovgou. dh'lon toivnun o{ti to;n aujto;n trovpon
e[cei kai; ejpi; tw'n a[llwn, w{ste fuvsei ta; pleivw a[rconta
kai; ajrcovmena: a[llon ga;r trovpon to; ejleuvqeron tou' douvlou
10 a[rcei kai; to; a[rren tou' qhvleo" kai; ajnh;r paidov", kai; pa's in
ejnupavrcei me;n ta; movria th'" yuch'", ajllΔ ejnupavrcei dia-
ferovntw". oJ me;n ga;r dou'lo" o{lw" oujk e[cei to; bouleutikovn,
to; de; qh'lu e[cei mevn, ajllΔ a[kuron: oJ de; pai'" e[cei mevn,
ajllΔ ajtelev". oJmoivw" toivnun ajnagkaivw" e[cein kai; peri; ta;"
15 hjqika;" ajreta;" uJpolhptevon, dei'n me;n metevcein pavnta",
ajllΔ ouj to;n aujto;n trovpon, ajllΔ o{son eJkavstw/ pro;" to; auJtou'
e[rgon: dio; to;n me;n a[rconta televan e[cein dei' th;n hjqikh;n
ajrethvn: to; ga;r e[rgon ejsti;n aJplw'" tou' ajrcitevktono", oJ de;
lovgo" ajrcitevktwn. tw'n dΔ a[llwn e{kaston o{son ejpibavllei
20 aujtoi'", w{ste fanero;n o{ti e[stin hjqikh; ajreth; tw'n eijrhmevnwn
pavntwn, kai; oujc hJ aujth; swfrosuvnh gunaiko;" kai; ajndrov",
oujdΔ ajndreiva kai; dikaiosuvnh, kaqavper w/[eto Swkravth", ajllΔ
hJ me;n ajrcikh; ajndreiva hJ dΔ uJphretikhv, oJmoivw" dΔ e[cei kai;
peri; ta;" a[lla". dh'lon de; tou'to kai; kata; mevro" ma'llon
25 ejpiskopou's in: kaqovlou ga;r oiJ levgonte" ejxapatw's in eJautou;"
o{ti to; eu\ e[cein th;n yuch;n ajrethv, h] to; ojrqopragei'n, h[ ti
tw'n toiouvtwn: polu; ga;r a[meinon levgousin oiJ ejxariqmou'nte"
ta;" ajretav", w{sper Gorgiva", tw'n ou{tw" oJrizomevnwn. dio; dei',
w{sper oJ poihth;" ei[rhke peri; gunaikov", ou{tw nomivzein e[cein

4 ajrcomevnwn] ajrcovntwn kai; ajrcomevnwn O2 (principantium et subiecto-


rum G. : principantium plerique G. codd. om.) : tw`n fuvsei ajrcovntwn. Ross Ú
uJfhgei`tai P1(corr. P2) Ú ãta;Ã peri; Schuetz Ross 6 me;n ei\nai fame;n P1 :
me;n fame;n ei\nai P2025 Ú ãth;nà ajreth;n Schneider 8 pleivw ta; fuvsei H : fuv-
sei pleivw ta; Ram. Thurot 14 moivw~ B Ú ajnagkaivw~ H Immisch Ross 15
ajreta;~ uJpolhptevon dist. Sylburg: ajretav~: uJpol. ktl. Ald. Bekker : uJpo-
leptevon ga;r A2CD 16 o{son ãiJkano;nà Richards Ross Ú eJkavstou P Ú auJtou`
P Bekker et edd. : aujtou` cett. (sui ipsius G. et G.i.) 17 dio; om. E Ú teleivan
M Ú hjqikh;n] dianohtikh;n Thurot 20 [hjqikh;] Thurot 21 aJpavntwn P1 22
oJ Swkr. P2025 23 ajndreiva M Ú de; e[cei M 25 levgonte~ ma`llon ejxapa-
tw`s in P 26 h] to; P1H Ald. Sus. Immisch Ross Drei. : to; P2 Newman Aub. :
kai; to; ojrqopragei`n Ven200 (et recte agere Bruni) Ú ajrethv] ajreth`/ Mac (virtu-
te G. et G.i.) 27 tw`n toiouvtwn] toiou`ton P1 (talium G. et G.i.) Ú polloi; M
(multi enim G.i.) 28 dei`] dh; M

186
POLITICA I

come anche tra coloro che sono comandati per natura. E que-
sto conduce subito alle questioni riguardanti l’anima: in essa
vi sono infatti per natura una parte che comanda, e una parte
che è comandata, delle quali diciamo che possiedono una di-
versa virtù, e cioè quella della parte dotata di ragione e quella
della parte irrazionale. È chiaro allora che anche per le altre
cose vale lo stesso principio, cosicché per natura nella mag-
gior parte dei casi vi sono elementi che comandano e che
sono comandati. Infatti diverso è il modo in cui il libero co-
manda sullo schiavo, il maschio sulla femmina e l’uomo sul
fanciullo, e tutti possiedono le parti dell’anima, ma le possie-
dono in modo diverso. Lo schiavo infatti non possiede la par-
te deliberativa nella sua completezza, mentre la femmina ce
l’ha, ma senza potere, e il fanciullo ce l’ha, ma imperfetta.
Allora bisogna supporre che necessariamente funzioni allo
stesso modo anche per le virtù etiche, e che ne devono parte-
cipare tutti, ma non in egual modo, bensì nella misura ade-
guata a ciascuno per esercitare la propria attività. Perciò chi
comanda deve avere la virtù etica nella sua compiutezza –
perché il suo compito è assolutamente quello dell’architetto,
e la ragione è l’architetto –, mentre ciascuno degli altri ne
deve avere quanto gli spetta; di conseguenza è evidente che la
virtù etica è propria di tutti quelli di cui si è parlato, e non è la
stessa la temperanza di una donna e di un uomo, e neppure lo
sono coraggio e giustizia, come pensava Socrate, ma l’uno è
il coraggio di chi comanda, l’altro di chi serve, e allo stesso
modo stanno le cose anche per le altre virtù.
Questo è chiaro anche a chi osserva più nei particolari;
infatti ingannano se stessi coloro che dicono in generale che
la virtù consiste nell’avere una buona disposizione d’animo
o nell’agire rettamente o in cose di questo genere; quelli in-
fatti che enumerano le virtù, come Gorgia, parlano molto
meglio di coloro che danno definizioni in questo modo. Per-
ciò bisogna ritenere che le cose stanno per tutti come ha

1260a 22-28 Plat. Men. 71b 1-73c 4 30 Soph. Ai. 293 guvnai, gunaixi;
kovsmon hJ sigh; fevrei

1260a 4-9 cf. Theod. Metoch. Sem. 96 (613-614) 9-14 Stob. II 7, 26 (II
149, 5-8) Touvtou de; th;n ajrch;n kata; fuvs in e[cein to;n a[ndra. To; ga;r bou-
leutiko;n ejn gunaiki; me;n cei`ron, ejn paisi; dΔ oujdevpw, peri; douvlou~ ãdΔÃ oujdΔ
o{lw~

187
POLITIKWN A

30 peri; pavntwn: gunaiki; kovsmon hJ sigh; fevrei, ajllΔ ajndri;


oujkevti tou'to. ejpei; dΔ oJ pai'" ajtelhv", dh'lon o{ti touvtou me;n kai;
hJ ajreth; oujk aujtou' pro;" auJtovn ejstin, ajlla; pro;" to; tevlo"
kai; to;n hJgouvmenon: oJmoivw" de; kai; douvlou pro;" despovthn. e[qe-
men de; pro;" tajnagkai'a crhvs imon ei\nai to;n dou'lon, w{ste dh'-
35 lon o{ti kai; ajreth'" dei'tai mikra'", kai; tosauvth" o{pw" mhvte
diΔ ajkolasivan mhvte dia; deilivan ejlleivyh/ tw'n e[rgwn. ajpo-
rhvseie dΔ a[n ti", to; nu'n eijrhmevnon eij ajlhqev", a\ra kai; tou;"
tecnivta" dehvsei e[cein ajrethvn: pollavki" ga;r diΔ ajkolasivan
ejlleivpousi tw'n e[rgwn. h] diafevrei tou'to plei'ston… oJ me;n ga;r
40 dou'lo" koinwno;" zwh'", oJ de; porrwvteron, kai; tosou'ton ejpi-
bavllei ajreth'" o{son per kai; douleiva": oJ ga;r bavnauso" te-
1260b cnivth" ajfwrismevnhn tina; e[cei douleivan, kai; oJ me;n dou'lo" tw'n
fuvsei, skutotovmo" dΔ oujqeiv", oujde; tw'n a[llwn tecnitw'n.
fanero;n toivnun o{ti th'" toiauvth" ajreth'" ai[tion ei\nai dei' tw/'
douvlw/ to;n despovthn, ajllΔ ouj th;n didaskalikh;n e[conta tw'n
5 e[rgwn despotikhvn.dio; levgousin ouj kalw'" oiJ lovgou tou;" douvlou"
ajposterou'nte" kai; favskonte" ejpitavxei crh'sqai movnon: nouqe-
thtevon ga;r ma'llon tou;" douvlou" h] tou;" pai'da".
ΔAlla; peri; me;n touvtwn diwrivsqw to;n trovpon tou'ton: peri;
dΔ ajndro;" kai; gunaikov", kai; tevknwn kai; patrov", th'" te peri;
10 e{kaston aujtw'n ajreth'" kai; th'" pro;" sfa'" aujtou;" oJmiliva",
tiv to; kalw'" kai; mh; kalw'" ejsti, kai; pw'" dei' to; me;n eu\ diwv-
kein to; de; kakw'" feuvgein, ejn toi'" peri; ta;" politeiva" ajnag-
kai'on ejpelqei'n. ejpei; ga;r oijkiva me;n pa'sa mevro" povlew",
tau'ta dΔ oijkiva", th;n de; tou' mevrou" pro;" th;n tou' o{lou dei' blev-
15 pein ajrethvn, ajnagkai'on pro;" th;n politeivan blevponta" pai-
deuvein kai; tou;" pai'da" kai; ta;" gunai'ka", ei[per ti diafevrei
pro;" to; th;n povlin ei\nai spoudaivan, kai; tou;" pai'da" ei\nai spou-

31 oujkevti] oujk e[ti B : oujk e[sti MS Ú dΔ oJ] de; P1 Ú ajtelev~ M 32 to;n


tevleion LP1857P2025W (ad perfectum et ducem Bruni) Ald. Bekker 33 qeme;n
MS 35 o{pou Bac 36 ejlleivyei P1 P3(corr. B2) Bekker : ejlleivyein H 37
eijrhmevnon om. D Ú a[ra P2O2 (ergo G. : utrum G.i.) 38 tecnavta~ Mac Ú dehv-
sei ante 37 kai; tou;~ E 39 touvtwn P1(corr. P1: differt ab hiis plurimum G.)
41 per om. MS (tantum immitit virtutis quantum ministrationis G.i.) 1260b 2
oujdeiv~ P1 Bekker Sus. Ú tecnhtw`n Mac 4 ajllΔ ouj th;n didaskalikhvn] ajllΔ ouj
to;n didaskalikhvn Scaliger : ajllΔ ouj ãto;nà th;n didaskalikhvn Schneider Ross
: ajllΔ oujc h|/ th;n didaskalikhvn Richards 5 [despotikhvn] Giffen Ross Ú lov-
gou~ P2025 8 me;n ou\n touvtwn HMS 9 te] ge M 10 fa`~ M Ú oJmhliva~ M
12 ta;~ om. Arnim : secl. Nickes 15 blevponta~] necessarium ad politiam
respicientes erudire G. : necessarium ad politicam respicientes studiosam facere
G.i. 16 ti] toi M 17 spoudaivan ei\nai Pac Ú kai; om. P1H : kai; ãto;Ã Ross

188
POLITICA I

detto il poeta riguardo alla donna: «il silenzio reca ornamen-


to alla donna», ma di certo non all’uomo. Dal momento che
il fanciullo è imperfetto, è chiaro che anche la sua virtù non
ha a che fare con lui in quanto tale, ma con il suo fine e con
chi lo guida: lo stesso vale anche per quella dello schiavo
nei riguardi del padrone.
Abbiamo stabilito che lo schiavo è utile per le cose ne-
cessarie, cosicché è chiaro che ha bisogno anche di poca vir-
tù, e di quel tanto che gli basta per non venir meno ai suoi
compiti né per intemperanza né per pigrizia. Qualcuno po-
trebbe chiedere, se è vero ciò che ora si è detto, se anche i la-
voratori specializzati dovranno possedere la virtù, perché
spesso vengono meno ai loro compiti per intemperanza. Op-
pure questo caso è molto diverso? Infatti lo schiavo è parteci-
pe della vita del padrone mentre l’altro, il lavoratore specia-
lizzato, è più lontano, e gli tocca la virtù nella misura in cui è
proprio della sua condizione di schiavitù; infatti il lavoratore
manuale specializzato 1260b ha una schiavitù limitata e lo
schiavo invece fa parte di coloro la cui condizione è tale per
natura, mentre non ne fanno parte nessun calzolaio e neppure
alcuno degli altri specializzati.
È evidente allora che la causa di tale virtù per lo schiavo
dev’essere il padrone, ma non in quanto possiede l’arte padro-
nale dotata della capacità di insegnargli i lavori. Perciò non di-
cono bene coloro che negano agli schiavi la ragione e prescri-
vono di servirsi solo del comando: infatti bisogna ammonire
più gli schiavi che i fanciulli.
Ma riguardo a questi argomenti siano queste le dovute
spiegazioni; riguardo poi a uomo e donna, figli e padre, alla
virtù di ciascuno di essi e alle relazioni reciproche, che cosa
sia bene e che cosa no e come si debba perseguire ciò che è
bene e fuggire invece ciò che è male, sono questioni che è ne-
cessario esaminare nelle parti sulle forme costituzionali. Poi-
ché infatti ogni famiglia è parte di una città e questi elementi
sono parte della famiglia, e bisogna osservare la virtù della
parte in relazione alla virtù del tutto, è necessario educare sia
i fanciulli sia le donne guardando alla costituzione, se è vero
che per ottenere che la città sia virtuosa è in qualche misura
importante che siano virtuosi i figli

1260b 5-6 Plat. Leg. VI 777e 4-778a 4 (cf. 720b 2-5)

189
POLITIKWN A

daivou" kai; ta;" gunai'ka" spoudaiva". ajnagkai'on de; diafevrein:


aiJ me;n ga;r gunai'ke" h{misu mevro" tw'n ejleuqevrwn, ejk de; tw'n
20 paivdwn oiJ koinwnoi; givnontai th'" politeiva". w{stΔ, ejpei; peri; me;n
touvtwn diwvristai, peri; de; tw'n loipw'n ejn a[lloi" lektevon, ajfevn-
te" wJ" tevlo" e[conta" tou;" nu'n lovgou", a[llhn ajrch;n poihsavmenoi
levgwmen, kai; prw'ton ejpiskeywvmeqa peri; tw'n ajpofhnamevnwn pe-
ri; th'" politeiva" th'" ajrivsth".

18 ei\nai spoudaiva~ E 19 tw`n2 om. E 19-20 oiJ koinwnoi;] dispen-


satores G. : yconomi G.i. (oijkonovmoi Sus.) : qui gubernant Bruni (oijakonovmoi
eum legisse susp. H. Schmidt; cf. Aeschl. Pr. 148) 20 peri;] ejpi; M 23-24
th`~ ajrivsth~ politeiva~ P1 Sus. (de optima politia G.)

190
POLITICA I

e virtuose le donne. Ed effettivamente deve essere importan-


te, perché le donne sono la metà degli esseri liberi, e dai fan-
ciulli vengono coloro che prendono parte all’attività politica.
Quindi, poiché riguardo a questi argomenti si sono fornite le
necessarie spiegazioni, e di quelli rimanenti si deve parlare in
altra sede, mettendo da parte i discorsi presenti perché hanno
raggiunto il loro compimento, assumiamo un nuovo punto di
partenza, e in primo luogo esaminiamo le opinioni avanzate
sulla costituzione migliore.

191
POLITIKH~ A
COMMENTO*

*
Le abbreviazioni bibliografiche si riferiscono a entrambe le sezioni della
bibliografia.
CAPITOLO I
PREMESSA ALL’INDAGINE E PRESENTAZIONE DEL METODO

Ogni comunità ha come fine il bene e la città, che è la comunità su-


prema, ha a maggior ragione come fine il bene supremo; poste queste
premesse, Aristotele enuncia che anche coloro che guidano i diversi
livelli di comunità vanno distinti non solo per numero di sottoposti,
ma soprattutto per specie di comando; egli pone quindi in discussione
la posizione di chi, basandosi esclusivamente sul numero di sottoposti
o di appartenenti alla comunità, non è in grado di operare le corrette
distinzioni tra uomo politico, uomo regale, amministratore della casa,
padrone. Per formulare una chiara definizione di queste figure sarà ne-
cessario impiegare il metodo analitico, dividendo la città nelle parti di
cui è formata fino a quelle minime, per esaminarle singolarmente.
Noi osserviamo (oJrw`men) che ogni città è una comunità e possiamo
osservare inoltre che ogni comunità viene costituita in vista di un qual-
che bene. Ciò avviene perché gli uomini agiscono sempre e comunque
in vista di ciò che a loro pare essere un bene (a prescindere, cioè, dal
fatto che questo sia effettivamente un bene reale; cfr. EN III 6, 1113a
20-24, dove l’attenzione è puntata sul tevlo~, «il fine», del singolo,
dell’individuo). Tutte le comunità quindi mirano in tutta evidenza ad
un qualche bene, ma al grado massimo e al bene più importante mira
quella comunità che è la più autorevole di tutte e che comprende tutte
le altre, ossia quella che viene chiamata città e comunità politica. Due
punti vanno qui sottolineati: 1) la città include (perievcousa) le altre
comunità; 2) povli~ e koinwniva politikhv sono qui sinonimi e hanno
una valenza ampia. È probabile che qui città e comunità politica non ab-
biano tout court il significato ristretto di comunità dei cittadini di pieno
diritto che si autogovernano assunto poi nel corso dell’opera.
A questo punto si tratta di capire in che modo la città include le altre
forme di associazione. La città comprende comunità subordinate che
hanno la sua stessa struttura e sono della sua stessa specie, oppure la
città è una totalità le cui parti non sono omogenee all’intero? Aristotele
è per la seconda alternativa, che emergerà chiaramente nel cap. 2. La
prima alternativa – laddove si prevede che uomo politico, re, ammini-
stratore della casa e padrone abbiano lo stesso ruolo, e si differenzino
soltanto per numero di sottoposti, poiché non vi è alcuna differenza
sostanziale tra una grande casa e una piccola città; la polis quindi sareb-
be solo l’ampliamento della comunità domestica, e pertanto famiglia e

195
COMMENTO I 1, 1252a 1-7

città avrebbero una struttura identica, solo su scala diversa, e sarebbero


entità omogenee – è riconducibile al Politico di Platone, come si vedrà
più avanti.
Ora, questa tesi platonica è falsa, e la verità – dice Aristotele – risul-
terà chiaramente a quanti indagano secondo il metodo proposto (kata;
th;n uJfhghmevnhn mevqodon). Qui verosimilmente il «metodo proposto»
è il metodo della divisione, utilizzato fino alle estreme conseguenze da
Platone stesso nel Politico. In altri termini: se Platone avesse applicato,
come negli altri casi, il metodo della divisione anche sulla città, non
avrebbe detto che famiglia e città sono entità della stessa specie. Per
appurarlo, anche nel caso della città, come per gli altri, bisogna dividere
il composto (suvnqeton) fino alle parti semplici. Una volta chiarito di
quali parti consti la città e come si differenzino tra loro, sarà possibile
anche una conoscenza più precisa circa ciascuna delle figure che rive-
stono ruoli di comando.
La struttura di questo primo capitolo trova paralleli negli esordi di
altre opere aristoteliche (Analitici Secondi, Fisica, Metafisica, Etica Ni-
comachea): un’affermazione iniziale di valore universale e una polemi-
ca più o meno esplicita con le posizioni di «altri» è presente altrove nella
produzione aristotelica. In particolare in Metaph. I 1, 980 a 21-26, EN I
1, 1094a 1-7 e Pol. I 1, 1252a 1-7 anche la struttura del ragionamento
trova puntuali corrispondenze: comune è lo sforzo per perseguire un fine
(il sapere, un bene), ma nelle diversità di modi e di fini (diversi tipi di
sapere, diversi scopi di technai e metodi, diversi fini delle società) in
ogni caso si tende a quello più alto (la forma di sapere più alta, il fine più
alto, il bene più alto). Questo parallelismo è stato considerato la prova
decisiva che la Politica non può essere stata in alcun caso legata inscin-
dibilmente all’Etica Nicomachea, dal momento che appare chiaramente
– lo dimostra la struttura argomentativa – un segmento autonomo della
produzione aristotelica, come è confermato appunto dall’esordio, artico-
lato secondo la forma “canonica” (Schütrumpf 1991, I, p. 171). L’ultimo
capitolo dell’EN (X 10, 1181b 13-23) enuncia l’argomento della Politi-
ca, la legislazione e le costituzioni; tuttavia i temi esposti non ne esauri-
scono il contenuto – proprio la materia del libro I sembra completamente
ignorata – e la funzione di “prologo” assegnata a queste righe non può
che rappresentare semplicemente un “progetto” allo studio dell’autore.

1252a 1-7 ∆Epeidh; pa`san povlin oJrw`men... hJ koinwniva hJ poli-


tikhv.
L’affermazione di carattere generale riguardante la polis proposta
nel primo paragrafo è presentata attraverso una struttura teleologica e

196
COMMENTO I 1, 1252a 1-7

sillogistica (non formalizzata a regola d’arte, ma attraverso un ragiona-


mento implicito). Aristotele presenta gli elementi basilari, che vengono
via via analizzati nel loro funzionamento, ma lo sviluppo dell’argo-
mentazione non è esplicitato: abbiamo il prodotto finale, il complesso,
che dà l’avvio al metodo analitico, utile a scomporre ed esaminare nel
dettaglio le parti costitutive. L’affermazione “universale” contiene tutti
gli elementi generali poi discussi non solo nel libro I, ma lungo il corso
dell’intera opera (termini-chiave sono polis, koinonia, agathon, e più
avanti le denominazioni delle forme di comando).
Il primo periodo, introdotto dalla congiunzione ejpeidhv, «dal mo-
mento che», pone le premesse; con l’uso del verbo oJrw`men, «vediamo»,
e, poco oltre, con l’espressione dh`lon wJ~, «è chiaro che», Aristotele
intende sottolineare che la sua analisi sta partendo dall’esperienza ge-
nerale (cfr. Bodéüs 1993, p. 332).
Il significato di polis, che abbiamo tradotto semplicemente «città»,
in mancanza di un termine italiano adatto a riprodurre le diverse sfuma-
ture del concetto greco (per il concetto di polis cfr. sopra, pp. 67-69),
è in questo contesto piuttosto generico, e va inteso in relazione con
la successiva espressione hJ koinwniva hJ politikhv. La polis è infatti
presentata, fin dall’esordio, come «una forma di comunità», koinwnivan
tinav; si tratta della più importante, quella che riunisce tutte le forme
sottoposte e punta quindi al raggiungimento del bene più alto – il cui
carattere apprenderemo solo nel capitolo successivo –: è la «comunità
politica», la koinwniva politikhv. L’aggettivo può essere interpretato in
duplice senso: da un lato, più verosimilmente, in un’accezione vicina a
polis («comunità cittadina») e politeia («comunità politica, dello stato»;
cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 173); dall’altro in collegamento con la qua-
lità di cittadino propria dei membri della comunità (quindi «comunità
dei cittadini»), che tuttavia sembra prendere il sopravvento soltanto più
avanti nel corso dell’opera.
Il concetto di koinwniva è altrettanto basilare per la teoria politica
aristotelica, anche se non esiste alcuna trattazione autonoma del filo-
sofo sull’argomento; una più o meno precisa definizione è fornita solo
nel libro VII (VII 8, 1328a 25-28: e}n gavr ti kai; koino;n ei\nai dei` kai;
taujto; toi`~ koinwnoi`~, a[n te i[son a[n te a[nison metalambavnousin:
oi|on ei[te trofh; tou`tov ejstin ei[te cwvra~ plh`qo~ ei[t’ a[llo ti tw`n
toiouvtwn ejstivn, «per tutti i membri di una comunità dev’esserci un
qualcosa di comune e identico, e vi partecipano in parti uguali o di-
suguali, sia esso il cibo, un territorio o qualcos’altro del genere»; cfr.
anche EN V 8, 1133a 16: la comunità nasce in generale tra diversi, non
tra uguali). La comunità, secondo queste indicazioni, si forma intorno a

197
COMMENTO I 1, 1252a 7-16

un elemento comune, che può essere, come dice Aristotele nell’esordio,


il suo fine: «ogni comunità è costituita in vista di un qualche bene»
(Saunders 1995, p. 55); per quanto riguarda il fine cfr. EN X 3, 1174a
19: ogni processo raggiunge il suo compimento quando ha raggiunto il
suo fine (cfr. sotto, p. 213).
1252a 7-16 o{soi me;n ou\n oi[ontai... politikovn.
Nel porsi il problema di come i vari tipi di comunità siano compresi
in quella più autorevole, ovvero la comunità politica, Aristotele è inevi-
tabilmente portato a confrontarsi con la posizione platonica, nei riguardi
della quale si pone polemicamente a partire già dal piano metodologico.
Platone, nel Politico (258e 8–259c 4), prende le mosse dalla que-
stione, esposta dallo «straniero», se il politico possa essere anche re,
padrone e amministratore domestico (così che tutte queste attività siano
chiamate con un unico nome: «Orbene, porremo il politico anche re e
padrone e pure amministratore domestico, usando tutte queste espres-
sioni come se fossero una cosa sola», trad. Accattino 1997), o se invece
ci siano tante tevcnai quanti sono i loro nomi. Il ragionamento si svi-
luppa nel passaggio dal privato al pubblico: se un privato è capace di
farsi consigliere di un medico pubblico, avrà lo stesso nome dell’arte
di colui che consiglia; se un privato sa consigliare un re, ha la scienza
che dovrebbe possedere il governante. Pertanto chi ha l’arte regale, sia
privato o governante, sarà correttamente chiamato, in conformità con la
sua arte, «uomo regale» (basilikov~), e lo stesso discorso varrà anche
per l’«amministratore» (oijkonovmo~) e il «padrone» (despovth~), dal
momento che una grande casa e una piccola città non differiscono in
relazione al governo. Dunque l’argomentazione porta a concludere che
esiste una sola scienza, la si chiami regale, politica o dell’amministra-
tore. In questo modo Platone intende mostrare che «il sapere necessario
per guidare gli uomini è dello stesso tipo, a prescindere dal numero
degli uomini che si trova a dirigere e, conseguentemente, dai diversi
nomi in uso nel linguaggio ordinario e, infine, dal fatto che si eserciti
effettivamente o no» (Accattino 1997, p. 163 n. 18).
Aristotele muove qui al ragionamento platonico, dando l’impres-
sione di una citazione quasi letterale (wJ~ di 1252a 12 sembrerebbe infat-
ti aprire una citazione puntuale, ma il testo platonico è piuttosto piegato
alle esigenze del ragionamento di Aristotele), un chiaro rimprovero
(o{soi me;n ou\n oi[ontai... ouj kalw'~ levgousin): di essere in errore nel
mettere sullo stesso piano tipi di autorità che sono in realtà diversi per
specie (ei[dei), perché il ruolo del comandante non è definito dal pos-
sesso di una scienza, ma da una precisa condizione (cfr. sotto, 7, 1255b
22-24). Se uomo politico, re, amministratore della casa e padrone si

198
COMMENTO I 1, 1252a 16-23

identificano perché identica è la scienza di cui sono portatori – si noti


tuttavia la sottigliezza argomentativa aristotelica in questo punto, giac-
ché Platone in realtà non dice che politico, re, amministratore domesti-
co, padrone sono tra loro «la stessa persona», ma che il politico si può
«chiamare» anche re, amministratore domestico, padrone (cfr. Bertelli
2011) –, e si differenziano solo per numero di sottoposti (plhvqei kai;
ojligovthti), poiché non vi è alcuna differenza sostanziale tra una gran-
de casa e una piccola città, la polis viene ad essere solo l’ampliamento
della comunità domestica, e pertanto famiglia e città hanno una strut-
tura identica, anche se su scala diversa, e risultano entità omogenee.
Si tratta probabilmente di una posizione non isolata, come dimostrato
anche dalle affermazioni di Erodoto (V 28-29) e Senofonte (Mem. III
4, 12; 6, 14-15); in particolare è Senofonte a sottolineare la differenza
quantitativa tra politico e amministratore domestico.
Si potrebbe dedurre quindi che anche i rapporti di autorità all’in-
terno della città e della famiglia siano identici, ovvero che ad uguale
funzione corrisponda uguale competenza, come dimostrano le forme
pronominali con suffisso -ikov~. Per Aristotele invece solo la comunità
politica è una totalità (to; suvnqeton) nel senso di un’unità costituita
di parti (ejlavcista movria tou' pantov~) che non sono di per se stesse
una totalità (cfr. Metaph. V 26, 1023b), per cui le comunità che essa
racchiude a livelli inferiori non sono sul suo stesso piano (ma cfr.
11, 1259a 33-36, che secondo Faraguna 1994, p. 554, esprimerebbe
un’idea contrastante rispetto a quella qui proposta). Di conseguenza i
rapporti di potere vigenti all’interno delle altre comunità, caratteriz-
zati da «disuguaglianze complementari» (Accattino 1986, p. 19), non
sono paragonabili a quelli della comunità politica: per esempio, colui
che sia insieme padrone di schiavi e marito o padre manterrà atteggia-
menti diversi rispetto ai sottoposti, schiavi e moglie o figli, e non vi
potrà certo essere alcuno scambio di ruoli. Lo scambio di ruoli, l’al-
ternanza di comandante e comandato, la reciprocità, come Aristotele
spiegherà meglio anche più avanti, sono possibili solo ad un livello
superiore, nei confronti di coloro che hanno le stesse prerogative, si
collocano allo stesso livello ed esercitano pertanto l’ajrch; politikhv
propriamente detta.
1252a 16-23 tau`ta d∆ oujk e[stin... peri; e{kaston tw`n rJhqevntwn.
Le posizioni che Aristotele ha iniziato a confutare sono dunque
errate (l’espressione tau`ta d∆ oujk e[stin ajlhqh `, «ma tutto ciò non
è vero», sembrerebbe negare la veridicità non solo dell’ultima frase,
ma dell’intero argomento) e la prova definitiva verrà dall’uso del
metodo corretto.

199
COMMENTO I 1, 1252a 16-23

Per chiarire l’affermazione precedente, Aristotele dice di voler ricor-


rere al «metodo applicato anche nelle altre ricerche», ma non è immedia-
tamente comprensibile al lettore se si tratti delle ricerche cui ha fatto poco
prima riferimento, quelle platoniche, o delle proprie. L’esegesi del passo
è dunque condizionata dal valore assegnato al participio uJfhghmevnhn:
alcuni traduttori hanno usato l’aggettivo «normale», altri hanno fatto ri-
ferimento ad un metodo «indicato in precedenza», che sarebbe utilizzato
nell’EN (cfr. EN I 13, 1103a 3; II 7, 1108a 3), dove, seppure citato, non
sembra trovare invece applicazione concreta; molto più semplicemente
potrebbe fare riferimento al metodo “qui” indicato, appunto quello diaire-
tico. Cfr. Leszl 1989, p. 76 n.1; Schütrumpf 1991, I, pp. 182-183.
Il termine mevqodo~ ha in Aristotele il duplice significato di metodo
dell’indagine e di indagine vera e propria (vd. Bonitz 1870, p. 449b 43).
Il metodo è in realtà il percorso con cui si raggiunge l’obiettivo; consi-
ste nell’esaminare di quali parti sia composta la realtà oggetto dell’in-
dagine (Accattino 1997). Il metodo della diaivresi~, «divisione», posto
qui alla base dell’analisi, consiste nella raccolta, mediante l’induzio-
ne, dei dati che consentono di arrivare alla soluzione della questione
iniziale; la diaivresi~ appare qui il cuore della polemica con Platone,
giacché proprio nel Politico, riecheggiato nelle linee immediatamente
precedenti, il metodo della divisione è sistematicamente applicato (per
il metodo diairetico in Platone come mezzo per raggiungere una defini-
zione, si vedano Soph. 252b e Phaedr. 277b-c). In sostanza, Aristotele
sembra voler confutare Platone con le sue stesse armi, per dimostrare
che scomporre la polis nei suoi elementi costitutivi porterà a chiarire
che i livelli inferiori non valgono autonomamente come interi e che il
funzionamento delle comunità di livello inferiore prevede differenze
«specifiche». Il metodo della divisione però non è regolarmente impie-
gato nel resto dell’opera. Il capitolo successivo (2, 1252a 24-26) infatti
si aprirà con una nuova premessa di tipo metodologico, in cui si pro-
porrà l’uso del metodo cosiddetto “genetico” (si veda il commento ad
locum). Pur annunciatosi “platonico”, Aristotele abbraccia dunque ben
presto un diverso modo di procedere. Il metodo diairetico sarà richia-
mato ancora in IV 3, 1290a 23 ss. per essere poi nuovamente abbando-
nato (vd. commento al passo e sopra, pp. 64-66).

200
CAPITOLO 2
LA CITTÀ E LE ALTRE FORME DI ASSOCIAZIONE;
L’UOMO COME ANIMALE POLITICO

Il capitolo si apre con una nuova prospettiva metodologica: l’indagine


dal punto di partenza del processo di costituzione e sviluppo delle parti
componenti la città. Vengono quindi analizzate le forme associative ele-
mentari come parti minime e i loro fini: la comunità uomo-donna con
fini riproduttivi e la comunità padrone-schiavo in vista della sopravvi-
venza con le loro varianti. Si passa quindi alla famiglia, prodotto delle
relazioni precedenti, che ha lo scopo di soddisfare i bisogni quotidiani,
e al villaggio, unione di più famiglie, con il fine di appagare bisogni
non strettamente quotidiani. Il punto d’arrivo è infine la città, comunità
perfetta costituita di più villaggi, autosufficiente, che consente di vivere
bene, esistente per natura. L’ultima parte è poi dedicata all’uomo, ani-
male politico, destinato per natura a vivere nella città, superiore agli
altri animali sociali in quanto capace di percepire e di esprimere con la
parola bene e male, giusto e ingiusto, inferiore quando viva al di fuori
della comunità organizzata.
Aristotele ha messo in evidenza nel cap. 1 che la particolarità delle
differenti tipologie di autorità (politica, regale e così via) è spiegabile
solo in riferimento a quella tra i diversi tipi di comunità, che egli di-
stingue in relazione al fine di ciascuna; il cap. 2 ruota infatti intorno
alla descrizione del fine (tevlo~) proprio di ciascuna comunità (1252a
27; a 31; b 16). Si comprende così il concetto iniziale del cap. 1 secon-
do il quale la polis porterebbe a compimento lo scopo più elevato: lo
sviluppo delle società nel cap. 2 (coppia di individui, famiglia, villag-
gio, città) è un costante miglioramento delle possibilità di pervenire
al fine più alto. L’uomo pertanto può esprimere al massimo le proprie
potenzialità solo nella polis, senza la quale si abbasserebbe al livello
delle fiere. La descrizione della società civile svolta in questo capitolo è
quindi esegetica dei paragrafi iniziali del cap.1, anche se Aristotele, nel
presentarci le varie forme di comunità, non prende in considerazione
il punto centrale da cui era partito, ovvero le tipologie di autorità; esse
sono qui trattate da un punto di vista del tutto particolare (cfr. l’espres-
sione di Schütrumpf 1991, I, p. 225: «unter kulturphilosophischen Ge-
sichtspunkten»), che non trova ulteriore applicazione nel resto dell’ope-
ra. Peculiarità del capitolo sono anche i vistosi parallelismi con le opere
fisico-biologiche (soprattutto Physica, De partibus animalium, Historia

201
COMMENTO I 2, 1252a 24-26

animalium), in particolare in relazione ad alcuni principi e concetti che


Aristotele usa nell’analisi degli animali e delle loro funzioni, applicati
qui anche al campo politico (cfr. p. es. MA 703a 29 ss. per il paragone
tra la costituzione dell’animale e quella di una città ben amministrata),
apparentemente contravvenendo al principio dell’autonomia assegnata
dal filosofo alle singole scienze (cfr. Accattino 1978, pp. 173-176; Keyt
1991, pp. 119-120; Saunders 1995, pp. 61-63).

1252a 24-26 Eij dhv ti~... ou{tw qewrhvseien.


Aristotele non applica per conto proprio il metodo della divisione
che ha preannunciato di voler seguire nel cap.1: invece di scomporre
l’edificio nei suoi elementi strutturali, mostra come gli elementi strut-
turali vanno a comporre l’edificio; invece di dividere (diairei`n) la città
nelle sue articolazioni naturali (come prevede il metodo della divisione
citato nel cap. 1: cfr. Plat. Phaedr. 265e), unisce (cfr. sunduavzesqai) le
parti minime che vanno naturalmente a realizzare le comunità elementari
il cui insieme, attraverso la tappa intermedia del villaggio, andrà a creare
la città, in quanto oggetto composto, al cui funzionamento concorrono
le varie parti che la costituiscono. Questo metodo consente di osservare
parti minime che tendono naturalmente a unirsi e ad aggregarsi in co-
munità più ampie e permette, a suo parere, di offrire la migliore visione
delle cose (kavllist∆ a]n ou{tw qewrhvseien). Rispetto al problema di
partenza (cfr. cap. 1) il risultato è però lo stesso: le comunità elementari
che soddisfano fini specifici e diversi da quelli della comunità in cui
sono incluse (e che ha un fine diverso dalle prime), non sono della stessa
specie di quest’ultima e prevedono quindi forme di autorità e ruoli di
comando che non sono identici né tra loro né con la forma di comando
della comunità più alta; essi quindi non possono essere confusi.
Il metodo che Aristotele dichiara qui di voler seguire, definito “ge-
netico” o “biologico”, intende considerare gli oggetti dell’indagine nel-
la loro origine e nel loro sviluppo, secondo un ordine progressivo, e
accomuna pertanto le opere fisico-biologiche alla Politica; in realtà Ari-
stotele integra la semplice osservazione della progressiva aggregazione
dei dati materiali con l’analisi condizionale (adottata nel I libro del De
partibus animalium), che tiene conto del fine e della funzione delle sin-
gole tappe del processo, funzionalmente all’oggetto che rappresenta il
punto di arrivo: in questo caso quindi i beni a cui tendono le koinoniai
elementari sono funzionali al bene supremo perseguito dalla comunità
più alta che, enunciati nel primo periodo del cap.1, sono poi trattati più
distesamente. Il filosofo non si limita però alla descrizione di un proces-
so genetico, ovvero non descrive semplicemente il processo generativo

202
COMMENTO I 2, 1252a 26-34

della città a partire dalle associazioni elementari; i suoi interessi sem-


brano puntare soprattutto sull’analisi delle componenti strutturali della
città, definite in base alla funzione svolta da ciascuna, per arrivare a dire
quello che la città è. Cfr. Accattino 1978, pp. 178-188; Bien 1973, p.
199; Schütrumpf 1991, I, p. 187; cfr. sotto p. 213 e Introduzione.
L’espressione w{sper ejn toi`~ a[lloi~, kai; ejn touvtoi~, «anche in
questi ambiti di ricerca, come negli altri», potrebbe fare riferimento
proprio al metodo posto in atto nel De partibus nell’esame degli organi-
smi viventi, il quale, come si vedrà più avanti, presenta puntuali analo-
gie – anche se non un’identità assoluta – con quello qui prospettato per
spiegare la successione degli stadi dell’organizzazione umana.
Va sottolineato per questo esordio di capitolo uno stretto paralleli-
smo, almeno espressivo, con Platone (Leg. VII 757c 8: auj to; to; div k a-
ion: ou| kai; nu` n hJ ma`~ ojregomevn ou~ dei` kai; ij s ov t hta, w\ Kleiniva,
ajp oblevp onta~, th;n nu` n fuomev n hn katoikiv zein pov l in; cfr. an-
che Resp. II 369a 5: A \ r` ou\n, h\n d`ejgwv, eij gignomevnhn povlin qeasaiv-
meqa lovgw/, kai; th;n dikaiosuvnhn aujth`~ i[doimen a]n gignomevnhn kai;
th;n ajdikivan). I “prestiti” terminologici tuttavia (si veda p. es. l’uso di
qewrh`sai e dei verbi correlati skopevw, o[yomai, blevpw, usati al modo
di Platone per indicare il risultato di un’indagine: cfr. Berti 1997, p. 45)
nascondono presupposti ben diversi: per Platone la formazione della città
è il punto da cui partire per affrontare il problema della costituzione; per
Aristotele, nel I libro e in particolare in questo capitolo, la polis è un
punto d’arrivo, di cui egli intende dare conto nel suo sviluppo progressivo
(«dal principio»), senza tuttavia prendere in considerazione l’evoluzione
storica degli stati (che sarà oggetto d’interesse dei libri III-VI).
1252a 26-34 ajnavgkh dh; prw`ton sunduavzesqai... taujto; sumfevrei.
Le parti minime «che non possono sussistere le une senza le al-
tre», da cui Aristotele prende le mosse nel percorrere il processo di
formazione della polis, sono maschio e femmina, padrone e schiavo
(si tratta peraltro dell’unico passo in tutta l’opera in cui si faccia rife-
rimento ad una koinonia di padrone e schiavo): non dunque individui,
ma associazioni di individui, «comunità» elementari, che hanno come
funzioni naturali prioritarie rispettivamente la riproduzione (gevnesi~)
e la sopravvivenza individuale (swteriva). Aristotele precisa che il fine
riproduttivo della comunità elementare formata dall’elemento maschi-
le e da quello femminile non è frutto di una scelta (proaivresi~), ma
è un carattere naturale che accomuna l’uomo agli altri animali e alle
piante (per la contrapposizione scelta-natura cfr. PA II 13, 657a 37).
La riproduzione, funzione prioritaria della prima delle due associazioni
minime, è caratterizzata dalla necessità («non si tratta affatto di una

203
COMMENTO I 2, 1252a 26-34

scelta», precisa Aristotele: uomo e donna non potrebbero vivere se-


paratamente); a chiarimento si veda EN VIII 14, 1162a 17: l’uomo
per natura è più portato ad accoppiarsi che a vivere in una comu-
nità politica, in quanto la famiglia precede la città e ha carattere di
maggiore necessità rispetto ad essa; la riproduzione è condivisa da
tutti gli esseri viventi, non è quindi un carattere tipicamente umano
(a[nqrwpo~ ga;r th`Ê fuvsei sunduastiko;n ma`llon h] politikovn, o{sw/
provteron kai; ajnagkaiovteron oijkiva povlew~, kai; teknopoiiva koi-
novteron toi`~ zw/voi~). D’altro canto la prospettiva qui adottata attinge
l’ambito strettamente biologico, come proverebbero il verbo sunduav-
zesqai, «accoppiare, unire», che non implica alcun rapporto sociale
stabile tra i partners, e l’uso dei termini qh`lu kai; a[rren, «maschio e
femmina» (più avanti Aristotele farà uso dei più specifici povsi~ kai;
a[loco~, «marito e moglie»: 3, 1253b 6-7).
Naturale è anche la disposizione, tipica del rapporto padrone-schia-
vo, al comando e all’obbedienza (una formulazione molto simile si tro-
va in Plat. Phaed. 80a 1), spiegata con riferimento al fine o funzione
(la sopravvivenza individuale), che appare legata rispettivamente alla
capacità di prevedere con l’intelligenza (thÊ` dianoiva/ proora`n; tipica di
coloro che esercitano il potere in Thuc. I 17, 1: proorwvmenoi; Xen. Cyr.
I 6, 9: pronoei`n; Isocr. 1, 40: proora`n) e di eseguire materialmente un
comando con le abilità fisiche (cfr. anche 5, 1254b 17 ss.; per l’interpre-
tazione di tau`ta cfr. Newman 1887, II, p. 107; non convince la corre-
zione ad opera di Ross del poiei`n dei codici in ponei`n, gradito invece
da Schütrumpf 1991, I, p. 193). A differenza del caso precedente, in
cui la natura è la molla che fa scattare l’unione tra maschio e femmina,
qui il carattere naturale è il risultato del rapporto tra padrone e schiavo,
presentato come vantaggioso per entrambi i componenti, caratterizzato
dall’identità di interessi e dalla reciprocità di prestazioni (cfr. EE VII
10, 1242a 6-10). Qui il concetto di fuvsi~ sembra avere un’ulteriore
implicazione: funzioni complementari basate su capacità diverse sono
naturali quando la complementarità consente di compiere funzioni più
complesse, con chiaro vantaggio per entrambi gli elementi (la natura
sarà pertanto da intendere qui nel senso di “ordine naturale”, concetto
che accomuna prodotti naturali e prodotti umani, la cui affinità è evi-
denziata dal filosofo in Phys. II 1-2, 193a 9 ss. e 8-9, 195b 20 ss. e in PA,
I 1, 639b 10-16; cfr. Accattino 1978, p. 179). Diverso il punto di vista
aristotelico nelle Etiche, dove si sottolinea che padrone e schiavo non
formano una koinonia perché lo schiavo, in quanto parte del padrone,
non è distinto da lui (EE VII 9, 1241b 17-24) e si deduce che il rapporto
di schiavitù non può essere caratterizzato dalla reciprocità (EN V 8,

204
COMMENTO I 2, 1252a 34-1252b 5

1132b 21-31). Più avanti anche nella Politica Aristotele rimarca il ruolo
dello schiavo come strumento (4, 1253b 31-1254a 17) e sottolinea che
lo schiavo è parte del padrone (4, 1254a 11-13); infine, cerca di armo-
nizzare i due punti di vista (6, 1255b 4-15). In ogni caso si anticipa qui
il concetto di «schiavo per natura» che sarà tema dei capitoli successivi
(in particolare il cap. 5).
Per quel che emerge dalle associazioni terminologiche in questo
periodo (1252a 32-34) sembra da escludere che Aristotele intenda fare
riferimento ad una condizione naturale dell’uomo preesistente la quali-
tà di padrone o schiavo, in quanto fuvsi~ è associato ai termini a[rcon,
despovzon e a dou`lon, non a dunavmenon, quindi alle funzioni di ciascun
essere umano quando sia già membro dell’associazione elementare, sia
cioè già padrone o schiavo (Accattino 1978, p. 179). Altrove Aristotele
afferma invece (5, 1254a 23-24) che vi sono «alcuni esseri umani fin
dalla nascita destinati ad obbedire, altri a comandare», in qualche modo
segnalando la possibilità di una differenza congenita tra le due tipo-
logie di individui. Questa difficoltà nell’interpretare la naturalità delle
relazioni elementari ha prodotto un ampio dibattito sul valore da dare
nei singoli casi al termine fuvsi", che insieme ai suoi derivati ricorre
ben ventuno volte in questo capitolo, con sfumature piuttosto variegate,
tanto da essere apparse in qualche caso poco coerenti tra loro (dai ben
cinque diversi significati del termine individuati da Bien 1985, pp. 194-
198 si rintraccia ora un unico ampio concetto di natura, caratterizzato
tuttavia da differenti connotazioni: cfr. Schütrumpf 1991, I, pp. 206-
207; Saunders 1995, pp. 62-63; si veda inoltre la sintesi di J. Althoff
in Höffe 2005, pp. 455-462). L’apparente varietà e l’impossibilità di
ricondurre l’interpretazione del concetto ad una sistematizzazione sono
generalmente ritenuti frutto dell’iniziativa di Aristotele di mutuare con-
cetti e principi usati in campo fisico, soprattutto biologico, assimilando
la polis, in quanto appartenente al genere dei prodotti umani (o oggetti
artificiali), ai prodotti naturali, agli animali soggetti al processo di ge-
nerazione naturale (cfr. Phys. II 1, 194a 21-33; vd. Accattino 1978, p.
174; Keyt 1991, pp. 121-122; Saunders 1995, p. 63; cfr. sopra, p. 201) e
vanno quindi legate al ragionamento svolto dal filosofo in altre opere.
1252a 34-1252b 5 fuvsei me;n... ajll∆ eJni; douleu`on:.
Sulla base della distinzione naturale Aristotele sostiene poi che vi
sono particolari tipi di attività per i quali ciascuno è portato in modo
specifico ed esclusivo (applicando il giudizio unicamente agli schiavi
e alle donne che, si deduce chiaramente, hanno una funzione subordi-
nata); la natura infatti costituisce ogni cosa per un solo uso e pertanto
ciascuno degli strumenti (anche quelli animati, come gli schiavi) eser-

205
COMMENTO I 2, 1252a 34-1252b 5

citerà al meglio la propria funzione se sarà quella a cui è stato destinato


per natura (nel caso dello schiavo, il lavoro manuale). Aristotele cerca
di chiarire il concetto attraverso il paragone con il «coltello di Delfi»,
fabbricato «al risparmio» dagli artigiani e adibito a più usi, che tuttavia
a noi moderni risulta del tutto oscuro: probabilmente lo scarso valore
del materiale o la sommaria fattura – per Aristotele il fatto stesso che
venisse destinato a diverse attività – facevano sì che questo tipo di col-
tello non fosse in grado di esercitare al meglio nessuna delle funzioni
per cui era stato realizzato.
Nel trattare il problema della distinzione tra la donna e lo schia-
vo Aristotele fa qui riferimento al principio della divisione del lavoro
organico, per il quale è evidente il collegamento con le opere biologi-
che. Nel De partibus animalium (IV 6, 683a 20-26) si dichiara infatti
che è meglio che lo stesso organo non sia destinato a funzioni diverse;
la natura, quando sia possibile, si vale di organi diversi per esercitare
funzioni diverse, e non imita il fabbro che per risparmiare costruisce
una lampada-spiedo; quando invece non sia possibile, si serve dello
stesso organo per più funzioni. Questo passo, come si nota, chiarisce
l’intero ragionamento e soprattutto la metafora del «coltello di Delfi»:
la situazione ottimale nei viventi è quella in cui organi diversi espleta-
no funzioni diverse senza intralciarsi a vicenda; tuttavia esistono casi
in cui la distinzione delle funzioni produrrebbe un impedimento e la
natura provvede quindi a far svolgere ad un solo organo più funzioni
(p. es. la mano, che sembra fare le veci di numerosi strumenti diversi
in quanto capace di espletare funzioni molto diverse: cfr. PA IV 10,
687a 19). Questo è il caso che Aristotele sembrerebbe trasferire an-
che alla Politica, facendo riferimento al principio della divisione del
lavoro: nell’associazione elementare ci sono particolari tipi di funzioni
assegnate a ciascuno dei membri, che consentono al singolo di svolgere
al meglio quella che gli è stata destinata (diversamente dal coltello,
adibito a più funzioni). Tuttavia è chiaro che i ruoli di maschio e pa-
drone sono assegnati alla stessa persona; in questo caso è probabile
che Aristotele ritenesse che le due funzioni, distinte, avrebbero creato
qualche difficoltà al corretto funzionamento della comunità. Se dunque
la natura ha strutturato i viventi in modo tale da consentire, attraverso
la divisione organica del lavoro, un migliore funzionamento del com-
posto, anche nella koinonia elementare la destinazione di ogni membro
a funzioni diverse sarà naturale e garantirà pertanto un migliore ordine
dell’insieme (cfr. Accattino 1978, p. 180).
b 2 oi|on oiJ calkotuvpoi th;n Delfikh;n mavcairan. Delfi, sede
di uno dei più famosi santuari dell’antichità e dell’oracolo di Apollo,

206
COMMENTO I 2, 1252b 5-9

era meta ininterrotta di pellegrinaggi. Non ci è stata tramandata alcuna


notizia sul fatto che i coltelli ivi fabbricati avessero particolari carat-
teristiche, ma da Ateneo (Deipn. IV 173c) si apprende che Delfi era
famosa per i suoi coltelli, probabilmente molto usati (e importanti per
la correttezza delle operazioni sacrificali) nelle pratiche di sacrificio; lo
stesso dio Apollo è talvolta denominato mageirios (sulle pratiche sacri-
ficali a Delfi cfr. Delcourt 19812; Detienne 1998). Esistevano tipi diver-
si di coltello per uccidere e sezionare gli animali, e le procedure erano
regolamentate con precisione, ma è possibile che in qualche caso per
risparmiare venisse usato lo stesso attrezzo; Tommaso d’Aquino, nel
suo commento al passo, definisce il coltello di Delfi “roba da poveri”,
giacché essi non erano in grado di comprarsi diversi tipi di utensili (l.
229 ss. = Perotto 1996, p. 54).
1252b 5-9 ejn de; toi`~ barbavroi~... fuvsei bavrbaron kai;
dou`lon o[n.
A corollario e conferma della sua iniziale analisi Aristotele aggiun-
ge, senza tuttavia esplicitamente sviluppare tutti i passaggi del ragiona-
mento, che presso i barbari invece la donna e lo schiavo si trovano per
natura sullo stesso piano, cioè le loro funzioni non sono differenziate
(la donna si trova cioè a svolgere i compiti dello schiavo; diversamente
in II 9, 1269b 24-26: in molte società guerriere è diffuso il predominio
femminile; si veda anche Plat. Leg. VII 805d 8-e 2: presso i Traci e
altri popoli le donne compiono servizi non differenti da quelli degli
schiavi); la causa è che tutti i barbari, in quanto mancanti «per natura»
dell’elemento «che comanda», sono funzionalmente schiavi nel con-
cetto greco. Se si considera dunque che tra i barbari «per natura» non
possa sussistere il rapporto a[rcwn-ajrcovmeno~, la relazione gerarchica
marito-moglie e padrone-schiavo sarà del tutto annullata e l’unica for-
ma di comunità elementare possibile sarà quella tra schiavi. Ora il con-
cetto della condizione di schiavitù per natura dei barbari («per natura
è lo stesso essere barbaro ed essere schiavo») è utilizzato da Aristotele
ad ulteriore dimostrazione dell’opinione comune, che egli riporta con le
parole di Euripide (IA 1400). Inizia qui una lunga serie di citazioni, più
o meno esplicite, volte a conferire l’“autorità” di poeti o noti personaggi
dei tempi antichi ad alcune affermazioni significative: in questa occa-
sione l’autore tragico, adombrato nella generica categoria dei “poeti”,
si farebbe testimone del punto di vista comunemente accettato che sia
nell’ordine naturale delle cose – ma ben diverso è il senso dell’aristo-
telico fuvsei e dell’euripideo eijkov~ – che i Greci dominino sui barbari
(per l’interpretazione dell’espressione euripidea cfr. De Luna 2003, p.
125). Questa posizione, presunta in Erodoto (VII 135, 3; cfr. De Luna

207
COMMENTO I 2, 1252b 9-15

2003, p. 157) e più volte ribadita nelle tragedie euripidee (cfr. anche
Hel. 276-277, Andr. 665), diviene un topos nel IV secolo a.C., soprattut-
to nel campo dell’oratoria (cfr. p. es. Isocr. 4, 184). Si vedrà più avanti
tuttavia che l’inferiorità dei barbari non è condivisa in toto dal filosofo,
che proprio in relazione al problema della schiavitù ritiene necessario
giustificarla in modo più preciso .
1252b 9-15 ejk me;n ou\n touvtwn... ∆Epimenivdh~ de; oJ Krh;~ oJmo-
kavpou~.
Ritornando al filo principale del ragionamento, Aristotele riprende
il tema delle due comunità elementari (maschio-femmina, padrone-
schiavo; nel capitolo successivo tuttavia esse saranno tre, compren-
dendo anche quella padre-figlio: cfr. 3, 1253b 6-7) per indicarle come
gli elementi costitutivi primi dell’oijkiva, la casa/famiglia (costituita da
persone e beni; vd. sopra, p. 69). Delle componenti-base della famiglia
dà ulteriore prova anche un verso delle Opere e i giorni di Esiodo (v.
405): la casa (edificio, ma anche “figura” del padrone), la donna, il bue
(per stessa affermazione di Aristotele “figura” del servo nelle famiglie
meno abbienti, che dovevano evidentemente accontentarsi dell’uso de-
gli animali). In realtà il fatto che il testo esiodeo specifichi, al succes-
sivo v. 406, che la donna dev’essere «comprata, non sposata, una che
segua anche i buoi» (kththvn, ouj gamethvn, h{ti~ kai; bousi;n e{poito),
in qualche modo smentendo il ragionamento di Aristotele (che potrebbe
però aver “forzato” Esiodo), è stato ritenuto da alcuni editori una pro-
va sufficiente della non autenticità del v. 406 (cfr. West 1978, p. 270;
Laurenti 1967, pp. 68-70.). A complicare ulteriormente l’interpretazio-
ne del passo contribuisce la citazione dello stesso verso esiodeo, in un
contesto molto simile a questo (ma oggetto di interventi dei moderni
editori), nel I libro dell’Economico pseudo-aristotelico (1343a), in cui
però il riferimento alle parti della casa/famiglia va inteso in modo signi-
ficativamente diverso. Per un quadro completo dell’esegesi delle due
citazioni si veda Laurenti 1967, pp. 68-74.
Non del tutto univoca anche l’interpretazione di prwvth (b 10), per
lo più inteso in accezione temporale, anche se con diverse varianti: «pri-
ma la famiglia, poi il villaggio, poi la città», oppure «una prima casa, poi
una seconda e così via», o ancora «prima una casa più semplice, fatta
solo di relazioni marito-moglie e padrone-schiavo, poi una più completa
che prevede anche la relazione padre-figlio» (cfr. Newman 1887, II, p.
111; Schütrumpf 1991, I, p. 198: il senso temporale andrebbe integrato
da un valore condizionale che implica il raggiungimento dei requisi-
ti minimi per l’esistenza della famiglia); tale senso conferirebbe però
all’intero passo la funzione di una “storia sistematica della civiltà” che

208
COMMENTO I 2, 1252a 14-15

senz’altro non aveva nel concetto dell’autore (cfr. Saunders 1995, p. 65:
Aristotele avrebbe ravvisato un periodo storico pre-familiare in cui le
associazioni elementari avrebbero potuto sussistere anche contempora-
neamente, ma indipendentemente l’una dall’altra, dal momento che la
formazione di una comunità «da» - ejk un’altra presume che qualcosa
esistesse già in precedenza). L’uso dell’aggettivo richiama certo stilisti-
camente il prwvtista del verso esiodeo, che nel poema ha un indubbio
valore temporale ma, come si è già visto, l’intera citazione appare for-
zatamente piegata da Aristotele alle esigenze del testo. Laurenti (1967,
p. 72 e ancora in 1993, p. 5: «casa nella sua essenza è la donna e il bove
che ara») è arrivato a supporre che il verso di Esiodo sia stato reintepre-
tato anche sintatticamente da Aristotele, che ne avrebbe fatto una frase
oggettiva con ellissi del verbo costituita da un soggetto (oi\kon) e da due
predicati nominali (gunai`ka e bou`n). L’espressione va probabilmente
chiarita con riferimento a 1253a 20, dove si spiega che l’intero viene
prima della parte: l’oikia dunque viene prima delle comunità incluse in
essa (cfr. EN VIII 14, 1162a 18: la famiglia viene prima ed ha un caratte-
re di maggiore necessità rispetto alla polis). In questo modo si potrebbe
comprendere anche l’uso di prwvth in riferimento al villaggio (1252b
15-16). Cfr. Laurenti 1967, pp. 71-73; Geiger in Höffe 2005, p. 389.
Riassuntivamente dunque la famiglia (dapprima oijkiva, poi oi\ko~
per attrazione del termine esiodeo) – sulla cui composizione Aristotele
si è ormai ampiamente pronunciato, esaminandone le parti minime – è
la comunità «per natura» (in quanto formata da associazioni elementari
anch’esse esistenti per natura) che si indirizza alla soddisfazione dei bi-
sogni quotidiani (eij~ pa`san hJmevran). Pertanto la famiglia è il prodotto
dell’unione delle associazioni elementari, naturali e necessarie, capaci
di espletare funzioni diverse: essa svolge una funzione complessa (sod-
disfare i bisogni quotidiani) che deriva dall’unione delle funzioni delle
due comunità-base che la compongono.
b 14-15 ou}~ Carwvnda~ ... oJmokavpou~: con una concordanza a sen-
so della proposizione relativa Aristotele richiama due personaggi ormai
circondati da un’aura mitica e le loro originali definizioni dei membri
della famiglia: oJmosipuvou~, «compagni di pane», hapax aristotelico da
sipuvh, una madia in cui veniva conservato il pane (cfr. Aristoph. Pl.
806) e oJmokavpou~, «compagni di mensa» (anche in Plut. Mor. 643d 4),
da kavph, mangiatoia. Entrambi i termini fanno riferimento proprio al
campo del nutrimento, al primo cioè di quei bisogni quotidiani che la
famiglia ha il compito di soddisfare. Caronda fu, tra il VII e il VI secolo
a.C., legislatore in Italia e in Sicilia delle colonie fondate da Calcide di
Eubea (cfr. II 12, 1274a 23 dove viene detto «di Catania»; b 5; IV 13,

209
COMMENTO I 2, 1252b 15-27

1279a 23; vd. commento ai passi); Epimenide di Creta (fine VII - inizio
VI secolo a.C.), figura dal profilo molto incerto, è collegato dallo stesso
Aristotele in Ath. Pol. 1 alla purificazione di Atene dopo il massacro
sacrilego dei ciloniani (cfr. anche Plat. Leg. I 642d; Diog. I 110). Su
Epimenide cfr. Epimenide cretese 2001; Brillante 2004, pp. 11-39; per
Caronda cfr. Cordano 1986; Hölkeskamp 1999; Lewis 2007 e il com-
mento a II 12, 1274a 22 ss.
1252b 15-27 hJ d∆ ejk pleiovnwn oijkiw`n... tou;~ bivou~ tw`n qew`n.
Il sopperire a necessità non strettamente essenziali, quotidiane, è
invece il fine della comunità più complessa – che assolve pertanto ad
una funzione ancora più articolata –: il villaggio, formato da più fami-
glie (che nei tempi antichi vivevano separate le une dalle altre; questa
forma di aggregazione sarà poi del tutto abbandonata nel prosieguo del
testo, fatta eccezione per III 9, 1280b 40; cfr. II 2, 1261b 11, dove si
citano solo individuo, famiglia e città). Secondo lo schema adottato
poco sopra per la famiglia Aristotele, dopo la definizione iniziale in re-
lazione al fine, dedica un’ulteriore riflessione al processo di formazione
del villaggio: esso è «naturalmente» una colonia, una filiazione della
casa/famiglia, in quanto composto di gruppi familiari che derivano da
essa per la fuoriuscita dei membri dalla famiglia d’origine (figli natu-
rali o assimilabili, per aver condiviso le stesse esperienze formative,
nipoti), pur essendone poi nella realtà distinti. Si noti l’originale uso
del lessico della colonizzazione, per il quale però è stata sottolineata
l’incongruenza, dal momento che il ragionamento aristotelico prevede
affinità di stirpe tra i membri del villaggio, condizione assolutamente
non richiesta per la fondazione di colonie (cfr. Saunders 1995, p. 66):
conosciamo esempi di apoikiai fondate da gruppi misti (Gela da Rodii e
Cretesi, Imera da Calcidesi di Zancle e da esuli siracusani, cfr. Thuc. VI
3-4), ma lo stesso Aristotele ci dice altrove (cfr. i diversi esempi offerti
da Pol. V 2, 1302a 25-b 3 su synoikoi e epoikoi) che la disomogeneità
etnica poteva creare problemi. Per questo motivo i membri del villaggio
saranno opportunamente definiti figli, figli di figli (cfr. Plat. Leg. III
681b 5, ma anche Omero e i lirici) o fratelli «di latte».
Ogni casa/famiglia è retta da un potere monarchico nelle mani del
più anziano (si noti che il discorso si è nuovamente spostato sulla fami-
glia, provando ulteriormente il ruolo marginale assegnato da Aristotele
al villaggio); pertanto, anche le altre forme di comunità gerarchicamen-
te superiori – le «colonie di case», in quanto affini per stirpe, cioè i
villaggi, le città «all’inizio» (cfr. III 15, 1286b 8) e «ora» le formazioni
etniche – si dotano, almeno nelle prime fasi della loro storia, di un po-
tere regale monarchico. Dunque la monarchia è un elemento strutturale

210
COMMENTO I 2, 1252b 15-27

presente in tutti i livelli di complessità delle comunità (casa, villaggio e


città; cfr. però il cap.1, dove si sottolinea la differenza qualitativa tra le
diverse forme di comando). A riprova dell’affermazione viene inserito
un verso di Omero relativo ai Ciclopi, proposti già come esempio di
comunità primitiva organizzata nell’Odissea (IX 114; cfr. anche EN X
10, 1180a 28). Le abitudini di vita più antiche spiegherebbero anche,
secondo Aristotele, l’uso di assegnare un re anche agli dèi: gli uomini
tendono infatti a proiettare sugli dèi non solo le proprie sembianze, ma
anche i propri stili di vita e, dal momento che fin dall’antichità la condu-
zione monarchica fa parte dello stile di vita dell’uomo, non si può che
ammettere che debba essere tipica anche del mondo degli dèi.
Vistosi parallelismi si riscontrano per questo passo con Platone (Leg.
III 680a-681b), persino nella citazione dello stesso brano dell’Odissea
(per Schütrumpf 1991, I, pp. 200-201 l’intero passo sarebbe una sorta
di “correzione” aristotelica alle Leggi): dopo il diluvio, dispersi in fa-
miglie e stirpi, guidate dai più anziani, gli uomini si riunirono in gruppi
più ampi (oijkhvsei~), nei quali ciascuna stirpe recava i propri costumi
e la propria struttura patriarcale e la perpetuava (formando «figli e figli
dei figli») in quanto più gradita; solo l’opera di un legislatore consentì
di mettere insieme le norme migliori e di istituire una forma di governo
codificata (aristocratica o monarchica). A ben vedere però, numerose
sono le differenze rispetto al testo della Politica: in Platone la fase de-
scritta viene dopo una catastrofe, che ha cancellato una forma di civiltà
più progredita e già cittadina riportando l’umanità ad uno stadio primi-
tivo (Leg. III 677b); si evidenzia inoltre l’unione di gruppi familiari di
diversa provenienza, non affini per stirpe tra loro, e la forma di governo
assume il ruolo codificato di politeiva.
b 20 Aristotele introduce qui una forma di aggregazione che finora
non aveva contemplato nel suo schema di associazioni progressivamen-
te concatenate tra loro, l’ethnos. Questa tipologia di organizzazione
umana non sembra però rientrare nella successione di cui sta trattando,
forse perché i membri, in quanto appartenenti a popolazioni non-greche
«in uno stadio arretrato dell’evoluzione politico-istituzionale» (Moggi
2008, pp. 95-96: l’ethnos è prevalentemente, ma non esclusivamente,
anellenico), non si differenziano per specie come coloro che possono
far parte di una comunità politica. Sulla possibilità che Aristotele inten-
da il termine in modo più generico, come «popolazione», cfr. il com-
mento di Pezzoli a II 2, 1263a.
b 23 I Ciclopi, dice Omero, non hanno ajgorai; boulhfovroi, «as-
semblee per consultarsi», né qevmiste~ «regole sociali», norme tradi-
zionali socialmente riconosciute (in base a precedenti verdetti orali che

211
COMMENTO I 2, 1252b 27-1253a 1

facevano da base per le decisioni dei giudici). Pertanto essi si basano


sulla legge consuetudinaria (qevmi~; cfr. il verbo qemisteuvw, «esercito
la legge consuetudinaria») nel rapportarsi con i figli e le mogli, su cui
hanno diritto di vita e di morte (Ferrari 2001, p. 332 n. 24).
1252b 27-1253a 1 hJ d∆ ejk pleiovnwn kwmw`n... kai; tevlo~ kai;
bevltiston.
Dal villaggio alla città, costituita di più villaggi: Aristotele arriva al
livello ultimo del suo percorso di sviluppo verso la comunità perfetta e
completa, quella che nel cap.1 era stata indicata come «quella comunità
che è più autorevole di tutte e include tutte le altre» (1252a 5-6), e rap-
presenta il limite massimo raggiungibile (i tre stadi sono presenti anche
in Plat. Leg. I 627a 1 ss.). La polis è perfetta perché autosufficiente, in
grado di soddisfare ogni bisogno umano, perché è dotata di un tevlo~
proprio («nata in funzione del vivere, ma che sussiste in funzione del
vivere bene»: cfr. sopra, p. 197), perché esiste per natura (in virtù del
fatto che essa è il tevlo~ ultimo di ciascuna delle comunità che la prece-
dono le quali – come Aristotele ha già sufficientemente spiegato – esi-
stono esse stesse per natura); non perché è l’aggregazione successiva di
elementi separati, bensì perché contiene in sé una sorta di nocciolo che
passa intatto nella successiva fase di sviluppo. La relazione che unisce i
diversi stadi di cui Aristotele ha dato conto finora (comunità elementari,
famiglia, villaggio e città) è una «concatenazione progressiva», in cui
«ogni stadio subordinato funge da materia ed è finalizzato allo stadio
successivo e in cui lo stadio superiore ingloba le funzioni di quello infe-
riore» (Accattino 1978, p. 182). Pertanto il processo di concatenazione
trova compimento quando si raggiunge «quel tipo di associazione la cui
funzione possiede i caratteri della completezza» (ibid.). Nel momento in
cui la vita umana associata arriva a formare la polis, le comunità che la
precedono non hanno più un’esistenza autonoma; la polis rappresenta il
loro fine e ne costituisce «l’assetto ottimale, il quadro entro cui ciascuna
trova la propria collocazione e a partire dal quale viene giustificata la
funzione di ciascuna» (Accattino 1986, p. 17). Questo procedimento
aristotelico trova un parallelo quasi perfetto nel De partibus animalium
(II 1, 646a 13-24; 646b 10 ss.; 647a 2 ss.), laddove vengono esaminati
i livelli di composizione degli organismi viventi: si osserva anche qui
una successione delle componenti strutturali (I composizione: qualità
attive e passive → elementi; II composizione: elementi → parti omo-
genee, i tessuti; III composizione: tessuti → parti non omogenee, gli
organi), in cui ogni livello è dotato di funzioni proprie e finalizzato al li-
vello successivo, e in cui il limite massimo è quello del raggiungimento
del fine. L’organizzazione progressiva, dal semplice al complesso, con

212
COMMENTO I 2, 1252b 27 - 1253a 1

la definizione di stadi, ciascuno dei quali è materia per la costituzione


di quello successivo (il “nocciolo” cui si è fatto cenno poco sopra: cfr.
Keyt 1991, pp. 129-130; Saunders 1995, p. 68), accomuna dunque lo
studio dei viventi e quello dell’organizzazione umana, confermando
ancora l’analogia metodologica tra viventi e prodotti umani messa in
atto da Aristotele. È opportuno però sottolineare, con Accattino (1978,
p. 183), che il processo biologico e quello dell’organizzazione umana
non sono del tutto sovrapponibili, giacché «la successione famiglia-vil-
laggio-città non è una successione necessaria come necessaria è invece
l’organizzazione del vivente»; questo schema non riproduce cioè l’uni-
ca forma di aggregazione umana possibile (si veda il caso dell’ethnos),
anche se famiglia e villaggio, quando si costituisca la città, non possono
più sussistere indipendentemente.
I parallelismi con il De partibus sono rilevabili anche nell’amb-
to della concezione aristotelica riguardo al processo di formazione, da
un lato degli organismi viventi, dall’altro della città (cfr. PA I 1, 640a
16-19; a 33-b 4). Aristotele pone infatti al centro della sua indagine in
un ambito l’uomo, nell’altro la città nella sua essenza e sottolinea che
per spiegare la natura del composto non è sufficiente fare riferimento
al processo di formazione in quanto la vera essenza, la vera realtà è il
tutto, una volta che esso sia compiuto: le parti che hanno contribuito a
formarlo pertanto perdono il loro valore autonomo perché divengono
solo parti del composto senza più una loro realtà. Per questo motivo
l’analisi aristotelica della genesi della polis si concentra soprattutto
sulla definizione delle sue componenti strutturali in relazione alla loro
funzione all’interno del composto.
In questo senso si spiega anche la questione della finalità collegata a
quella della naturalità: quando il processo della generazione di ciascuna
cosa è completo, si ha il tevlo~, il fine della cosa, cioè la cosa a cui ha
condotto il processo generativo (p. es. un uomo, un cavallo, una casa;
gli stessi esempi sono riportati in Phys. II 8-9, 195a 26 ss.; PA I 1, 639a
1 ss., a riprova dello stretto parallelo tra prodotti naturali e prodotti
umani, legati dallo stesso concetto di ordine naturale); e l’ oi|on di quel-
la cosa, cioè quello che essa è, è la sua natura.
Ritornando poi all’affermazione precedente, – «perciò ogni città
esiste per natura, se tali sono anche le comunità precedenti» –, Aristote-
le conclude che lo scopo, «ciò per cui» una cosa esiste, il suo fine ultimo
è quanto di meglio vi possa essere: per quanto attiene la città dunque i
fini singoli delle comunità precedenti concorrono al fine della comunità
più alta, che è «il meglio». L’autosufficienza che caratterizza la città,
in quanto fine della comunità più alta, è dunque anche «il meglio». Il

213
COMMENTO I 2, 1252a 27 - 1253a 1

concetto di natura che appare da questa disamina è quindi quello di una


«realizzazione ordinata e compiuta di un composto» (Accattino 1978,
p. 184); la città esiste per natura perché deriva da altri composti natu-
rali, ma soprattutto perché è la situazione migliore possibile, capace di
espletare funzioni complesse (di qui l’autosufficienza) che inglobano
tutte le funzioni delle comunità sottostanti.
Il concetto dell’autosufficienza della polis è ribadito più avanti (II
2, 1261b 11: la famiglia è più autosufficiente dell’individuo, la città
più della famiglia; si veda anche IV 4, 1291a 8: non si può definire
città quella in stato di schiavitù, dal momento che non potrebbe essere
autosufficiente), spiegato nel libro VII (5, 1326b 29-30: essere auto-
sufficiente significa disporre di tutto e non aver bisogno di nulla, in
termini di beni e prestazioni) e proposto anche nell’Etica Nicomachea
(V 10, 1134a 27: il giusto in relazione alla sfera politica è quello che
attiene a coloro che vivono in comunità per realizzare l’autosufficienza,
e sono liberi e uguali). Come carattere distintivo della polis è presente
nel discorso di Pericle in Tucidide (II 36, 3: gli Ateniesi in età adulta
hanno il merito di aver portato la città al massimo dell’autosufficien-
za) e prevista anche nella Repubblica di Platone (II 369b 5: la città
nasce perché i singoli non sono autosufficienti; cfr. anche Pol. IV 4,
1291a 14-15, dove è indirettamente presupposta in relazione alla critica
alla Repubblica); la quasi totalità delle attestazioni in autori preceden-
ti ad Aristotele presenta però la forma aggettivale, mentre si può dire
che il sostantivo astratto trovi la sua prima applicazione certa proprio
nell’opera aristotelica.
b 30 ou\sa de; tou` eu\ zh`n. Il fine della città va dunque al di là della
soddisfazione dei fini di alimentazione, abitazione, commercio o difesa:
Aristotele lo identifica nel «vivere bene», cioè nella felicità. Oggetto
di indagine dell’Etica Nicomachea in quanto fine del singolo, la felici-
tà è per Aristotele necessariamente anche il massimo bene della città,
poiché il bene dell’individuo fa parte del bene della città e l’uomo può
realizzare la propria umanità solo nella polis (è un «animale politico»,
cfr. sotto). Il semplice accenno di questo capitolo è reso più esplicito
nel libro III (9, 1280b 28-1281a 1: vd. commento al passo): «la città
è la comunità del vivere bene per le famiglie e per le stirpi in vista di
una vita compiuta e autosufficiente… Orbene, fine della città è il vivere
bene e tutte queste cose sono in vista del fine. La città è la comunione di
stirpi e di villaggi ad una vita compiuta e autosufficiente e questo coin-
cide – come diciamo noi – col vivere in modo felice e in modo “bello”»
(trad. Accattino). Una definizione più articolata, che tiene conto degli
elementi introdotti nei libri seguenti, si ritrova in VII 8, 1328a 36.

214
COMMENTO I 2, 1253a 1-3

1253a 1-3 ejk touvtwn ou\n … politiko;n zw/`on.


La conclusione a cui Aristotele dichiara di essere giunto dopo tutta
questa parte appare duplice, anche se i due elementi non hanno un’evi-
dente immediata connessione: a) la città è da annoverarsi tra i prodotti
naturali (e in effetti ampio spazio è stato dedicato alla dimostrazione
di questo punto); b) l’uomo è «per natura un animale politico», ovvero
un animale fatto per vivere nella polis, adatto a far parte di una comu-
nità strutturata: in sintesi, l’uomo necessita della città per realizzarsi
(giustamente sottolinea Schütrumpf 1991, I, p. 216 che sarebbe ridut-
tivo tradurre l’aggettivo politikovn con «sociale», che implicherebbe
solo il vivere insieme e non il realizzarsi completamente dell’uomo).
Come Aristotele ha spiegato poco sopra a proposito della polis, il pieno
compimento, la realizzazione, quel che una cosa è, è il suo fine. Il fine
dell’uomo pertanto è vivere in una comunità (e qui non si parla ancora
dell’esercizio di diritti politici nella città) e tra di esse la polis è quella
che per natura consente di raggiungere l’obiettivo massimo, la felicità;
la naturale politicità di cui parla qui Aristotele non è quindi una condi-
zione primitiva e precedente la nascita dell’organizzazione statale (una
caratteristica genetica, come a lungo hanno pensato i filosofi moderni),
ma il punto d’arrivo, il fine dell’uomo, quello cioè che realizza il suo
oi|on, quello che egli è (cfr. 1252b 32-34).
Partendo da questi presupposti, le implicazioni di questo secondo
punto occuperanno la parte immediatamente successiva del capitolo,
in tre fasi:
1253a 3-18 kai; oJ a[poli"... hJ de; touvtwn koinwniva poiei` oijkivan
kai; povlin.
Chi non vive in una città, non per scelta ma per una sua inclinazione
naturale (Aristotele non ne spiega le cause, forse semplicemente per
mancanza di capacità o di “impulso”: cfr. Saunders 1995, p. 69), è da
annoverare tra i miserabili (fau`loi) o tra gli esseri superiori (è o belva
o dio, come Aristotele spiegherà più avanti; cfr. anche III 13, 1284a 10-
11): è, con le parole dell’Iliade (IX 63, dal discorso di Nestore), «senza
relazioni familiari, senza leggi, senza focolare», portato per natura alla
guerra, isolato come una pedina del gioco o, forse, come uno che se ne
sta isolato mentre gli altri giocano a dadi. Ancora una volta Aristotele
piega la citazione alle necessità del contesto: al verso citato letteralmen-
te segue una sorta di parafrasi del verso successivo, il 64 (oj~ polevmou
e[ratai ejpidhmivou ojkruovento~, «che si compiace di guerra intestina,
agghiacciante»), nel quale l’inclinazione alla guerra intestina appare la
causa dell’isolamento. Qui invece, come l’assenza di legami e di leggi,
il desiderio di guerra è una naturale conseguenza del vivere al di fuori

215
COMMENTO I 2, 1253a 3-18

di una comunità: non è chiaro però se Aristotele riferisca questa condi-


zione ad entrambe le categorie citate all’inizio del periodo (il fau`lo~ e
il kreivttwn h] a[nqrwpo~: cfr. Newman 1887, II, p. 121) o soltanto alla
prima (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 211).
L’espressione w{sper ejn pettoi`~ potrebbe essere citazione delle
Supplici di Euripide (v. 409), ma al moderno lettore non è comprensi-
bile il collegamento con l’aggettivo a[zux, «senza legami, isolato»: se
Aristotele, come il tragediografo prima di lui, intende riferirsi ad un
gioco in voga ai suoi tempi (poleis, paragonabile al backgammon o alla
dama; dato il nome del gioco, il richiamo sarebbe molto pertinente),
potrebbe trattarsi di un termine tecnico usato per indicare la posizione
di una pedina isolata; più suggestiva ancora appare la proposta di Cur-
nis di una trasposizione di w{sper, che permetterebbe di intendere la
locuzione ejn pettoi`~ nel senso di «nel luogo in cui si gioca a dadi»,
sulla base di un verso di Eur. Med. 68. Si veda la nota al passo nelle
Note testuali, p. 332.
Aristotele procede poi con un’ulteriore fase della dimostrazione: è
chiaro che la tendenza dell’uomo alla socializzazione (l’uomo è ma`llon
politikovn, è cioè animale politico ad un livello più alto) non si limita
alla vita in gruppo, come nel caso di alcuni animali (le api, gli animali
che vivono in greggi), bensì si allarga a comprendere la koinwniva (la
condivisione) dei sentimenti (bene e male, giusto e ingiusto, e così via),
che fonda le varie forme complesse di associazione (famiglia e città).
La spiegazione di ciò sta nella peculiarità dell’essere umano, che la
natura – che non fa nulla inutilmente (viene qui ripreso un concetto
proprio di molte delle opere fisico-biologiche: cfr. p. es. Cael. I 4, 271a
33; PA II 13, 658a 9; GA II 5, 741b 4; cfr. Kullmann 1995, pp. 51-55) –
ha dotato non solo della fwnhv, la voce, come gli altri animali, ma anche
del lovgo~, la parola (o la ragione: cfr. VII 13, 1332b 5). La natura degli
animali (e dell’uomo con essi) giunge al punto di dar loro la sensazione
del piacere e del dolore (cfr. anche EN I 6, 1098a 2-3), e il possesso
della voce permette loro di esprimere le emozioni. Ma l’uomo ha una
caratteristica unica tra di essi: la percezione del bene e del male, del giu-
sto e dell’ingiusto e delle altre sensazioni, che con l’articolazione del
discorso è in grado di manifestare in termini di utile e dannoso e quindi
di giusto e ingiusto (per l’associazione parola, ragione e legge si veda
Isocr. 3, 5-9, spec. 7: kai; scedo;n a{panta ta; di’ hJmw`n memhcanh-
mevna lovgo~ hJmi`n ejstivn oJ sugkataskeuavsa~. ou|to~ ga;r peri; tw`n
dikaivwn kai; tw`n ajdivkwn kai; tw`n aijscrw`n kai; tw`n kalw`n ejnomo-
qevthsen∑ w|n mh; diatacqevntwn oujk a]n oi|oiv t’ h\men oijkei`n met’
ajllhvlwn. Cfr. Romilly 20012, pp. 156-162).

216
COMMENTO I 2, 1253a 18-25

Il principio della naturale politicità dell’uomo ha un suo paralle-


lo (ma inteso in senso puramente biologico) nell’Historia animalium
(I 1, 487b 33-488a 13), dove viene stabilita una suddivisione tra ani-
mali sociali (che vivono in gruppo), politici e solitari (che vivono se-
paratamente); qui Aristotele precisa che gli animali politici (tra i qua-
li elenca l’uomo, l’ape, la vespa, la formica, la gru; cfr. anche Plat.
Phaed. 82b 5-8) sono quelli che hanno un fine comune. Nella Politica
tuttavia il ragionamento va oltre la visione puramente biologica, e il
fulcro dell’argomentazione sta nell’opera della natura, che non fa nulla
invano: l’uomo vive in comunità con i propri simili perché possiede una
dote specifica (la comunicazione delle sensazioni in termini di giusto
o ingiusto) funzionale a tale forma associativa, che fissa quindi come
naturale il rapporto tra gli uomini. La definizione dell’uomo come ani-
male politico pertanto non ha un semplice valore di classificazione bio-
logica, ma rientra nel ragionamento teso a dimostrare la naturalità della
vita associata e quindi della città come “intero” di cui i singoli individui
sono funzionalmente parte (Accattino 1978, p. 187).
1253a 18-24 kai; provteron dh; thÊ` fuvsei... ta; aujta; ei\nai ajll∆
oJmwvnuma.
Che l’uomo sia per natura un animale politico è ulteriormente pro-
vato dal fatto che la città (in termini di valore) viene per natura prima
della famiglia e di ciascun individuo, nel senso che la comunità rap-
presenta in senso funzionale il provteron thÊ` fuvsei rispetto ai singoli
componenti, come il tutto viene necessariamente prima delle singole
parti ed è superiore a esse (come è stato già ripetuto più volte in modi
diversi, è il fine, l’unità strutturata verso la quale tendono tutte le sin-
gole parti nel loro naturale sviluppo: cfr. Saunders 1995, p. 70); per-
tanto per estensione la città per natura precede la famiglia e i singoli
individui. La prova di ciò risiede nell’esempio del piede e della mano
che, in mancanza dell’intero di cui sono parte (il corpo vivente), perdo-
no completamente di significato, cioè possono essere tali, quali sono,
solo se sono parti dell’intero; se viene meno questo, perdono anche
il loro carattere peculiare. Del resto, ogni cosa si definisce sulla base
della funzione e della potenza (cfr. anche PA 640b 21-22; 641a 1-3): nel
momento in cui di un piede o di una mano possiamo dire soltanto, per
esempio, il materiale di cui è fatta («la mano di pietra»), non sarà certo
chiaro che cos’è, e il ragionamento si limiterà semplicemente all’omo-
nimia (la mano di pietra ha la forma di una mano, è fatta di pietra, ma è
morta, non è chiara la sua funzione); se invece di essa possiamo dire che
cosa può fare (funzione e potenza), sarà chiaro non solo che cos’è, ma
saranno comprensibili anche le sue caratteristiche. Si spiega così perché

217
COMMENTO I 2, 1253a 25-29

il tutto (la città) abbia una naturale priorità rispetto alla parte (famiglia
e individui), dal momento che le singole parti possono svolgere la loro
funzione solo se esiste un tutto organizzato. Il riferimento è a Metaph.
V 26, 1023b 27-29: holon è «ciò che contiene le proprie parti in maniera
tale che esse costituiscano qualcosa di unico. Ciò può avvenire…o per-
ché esse insieme hanno la stessa unità che ha ciascuna di esse singolar-
mente presa o perché c’è un’unità costituita da tutte quelle parti» (trad.
Viano 1974). Aristotele intende qui provare che la comunità politica
è un holon del secondo tipo, cioè non è fatta di unità omogenee dello
stesso genere (come quelle proposte da Platone nel Politico, che egli ha
criticato esplicitamente nel cap. 1), ma contiene le altre comunità che
non si pongono però sul suo stesso piano. Da questo punto di vista la
città è l’holon come lo è un organismo vivente che è in grado di svol-
gere determinate operazioni a partire dalle quali acquistano senso gli
organi e i tessuti di cui è composto (Accattino 1986, pp. 15-17). Cfr.
anche Metaph. VI 10, 1035b 16-23; 11, 1036b 30-36.
L’esempio della «mano di pietra» trova un corrispondente esplica-
tivo nella parte finale dei Meteorologica (IV 12, 390a 10-14), dove Ari-
stotele propone l’esempio dell’occhio morto o «occhio di pietra», usato
per spiegare che ogni cosa «è definita dalla sua funzione ed è veramente
se stessa quando sia capace di compiere la propria funzione; così accade
per l’occhio se vede; ciò che invece non ne è capace ha semplicemente
lo stesso nome, come un occhio morto o un occhio di pietra».
1253a 25-29 o{ti me;n ou\n hJ povli~... w{ste h] qhrivon h] qeov~.
Gli individui sono in rapporto con la città come le singole parti con
l’intero; pertanto l’individuo, considerato separatamente, non è auto-
sufficiente, ma ha bisogno di una comunità per realizzarsi. Chi infatti
non può far parte di una comunità o non ne ha bisogno perché è già
autosufficiente (leggi: è una comunità egli stesso, perché ha raggiunto
il fine ultimo da solo, l’autosufficienza), sarà nel primo caso una bestia,
destinato ad una vita solitaria di pura sussistenza, e nel secondo caso
un dio, perché ha raggiunto un livello che è precluso agli altri esseri
umani (cfr. EN VII 1, 1145a 15 ss.), ma non sarà in grado di realizzare
la propria funzione specifica all’interno della comunità.
1253a 29-38 fuvsei me;n ou\n hJ oJrmh;... hJ de; divkh tou` dikaivou krivsi~.
Ciascuno ha quindi in sé per natura lo stimolo alla vita nella comu-
nità politica – l’uomo è un animale politico perché è parte di un intero,
da solo non è autosufficiente e raggiunge il proprio fine solo all’interno
di questo intero, la comunità politica; ancora una volta, non si tratta di
un ragionamento antropologico –, e per questo motivo è sommamen-
te meritevole chi per primo l’ha istituita, in quanto causa dei beni più

218
COMMENTO I 2, 1253a 29-38

grandi: l’uomo è il migliore tra gli animali se realizza i suoi fini, è il


peggiore se è privo di leggi e giustizia (i due elementi sono spesso tradi-
zionalmente collegati tra loro: p. es. Hdt. IV 106; Aristoph. Nub. 1040;
Plat. Prot. 327b 3); la giustizia è «politica», collegata alla città, e il
diritto l’ordinamento della comunità politica; pertanto la città è il luogo
in cui si realizza, grazie alla giustizia, la possibilità per l’uomo di essere
“migliore” (cfr. EN V 3, 1129b 14-19: le leggi tendono all’utile comune,
per tutti o per i migliori o per chi governa, secondo virtù o secondo un
altro criterio simile; si dice giusto ciò che produce e preserva la felicità
e le sue parti per la comunità politica). L’essere umano è infatti dotato
naturalmente di armi il cui uso appropriato dovrebbe condurlo nella
direzione di saggezza e virtù; tali armi possono però essere utilizzate
in tutt’altra direzione, e questa “ingiustizia armata” è quella in grado di
produrre i maggiori danni: l’uomo senza virtù, privo dell’esercizio della
giustizia, ajnosiwvtaton kai; ajgriwvtaton, «empio e feroce al grado più
alto» si dedicherà ai peggiori tra i vizi, il sesso e il cibo (tipici degli
animali anche in Plat. Leg. VIII 831 d), degenerazione estrema dei fini
della prima forma di comunità, generazione e sopravvivenza.
Il riferimento ad un agente esterno per la costituzione della città («il
primo ad averla istituita») non ha paralleli nell’intera opera aristotelica;
Aristotele non richiama altrove una causa esterna per la sua formazione.
D’altro canto è già risultato chiaro in parecchie occasioni che la polis,
pur se assimilabile per alcuni caratteri, non è del tutto identificabile con
i prodotti naturali (che hanno il proprio principio in se stessi), ma nep-
pure con i prodotti umani, perché non è possibile individuare un agente
umano esterno al processo (cfr. Accattino 1978, p. 185). La spiegazione
di questa espressione risiede probabilmente soltanto nel suo carattere di
topos retorico, assai diffuso nel IV secolo a.C. (cfr. p. es. And. 1, 141;
Lys. 16, 1; Isocr. 4, 75; 6, 16; 12, 60; 15, 79; Plat. Euthyph. 3a 2; Symp.
178c 2; Phaedr. 266b 1; Demosth. 18, 92).
a 30-37 Si noti lo sviluppo dell’argomentazione, caratterizzato per
tutto il passo da un’accumulazione di superlativi spesso in antitesi e
da un dipanarsi di frasi negative: Aristotele intende provare che tutti
gli elementi che sono posseduti al massimo grado producono i risultati
migliori, la privazione di essi al grado più elevato produce gli effetti più
negativi, più incisivamente sottolineati.
a 37-38 hJ de; dikaiosuvnh politikovn:... hJ de; divkh tou` dikaivou
krivsi~. Non si è ritenuto opportuno accettare qui la correzione dei mo-
derni editori (Richards, Reiske, Thurot e da ultimo Ross), che hanno vi-
sto nella ripetizione di divkh un errore nella tradizione del testo, peraltro
concorde; fa certo qualche difficoltà la presenza del secondo dev, che non

219
COMMENTO I 2, 1253a 29-38

appare in alcun modo correlato. Nessuna delle correzioni infatti sembra


chiarire in maniera decisiva il testo, che ruota intorno al significato dei
tre termini dikaiosuvnh, divkh e divkaion: il primo periodo spiega che
la giustizia è una virtù propria della polis, che si regge su di essa, e tro-
va un’ulteriore esplicazione nella frase successiva (il diritto, in quanto
determinazione di ciò che è giusto, ordina la comunità politica; si veda
l’uso di tavxi~ in III 1, 1274b 38 e 16, 1287a 18; cfr. anche Cohen 1995,
p. 37: «the word taxis implies a regulation or arrangement, that is an
artificial order that is imposed to control that element of human nature
which tends towards excess and savagery»); chiarito in che modo di-
ritto e comunità politica sono legati, Aristotele ritiene infine opportuno
offrire precisazioni anche sull’altro elemento della frase precedente, il
diritto, e lo indica quindi, come già altrove (cfr. EN V 10, 1134a 32: hJ
ga;r divkh krivsi~ tou` dikaivou kai; tou` ajdivkou), in termini di capacità
di distinguere il giusto. Cfr. Newman 1887, II, p. 131; Viano 2002, p. 78
n. 13; Laurenti 1993, p. 7 n. 18; Cohen 1995, pp. 37-38.

220
CAPITOLO 3
LA CASA: L’AMMINISTRAZIONE E LE SUE PARTI;
LE RELAZIONI TRA I SUOI MEMBRI

A partire da questo capitolo, e per tutto il resto del I libro (capp. 3-13),
si parla dei rapporti gerarchici alla base dell’oikia (la casa/famiglia, vd.
l’Introduzione), la prima comunità umana per natura. Questa sezione del
testo fa riferimento diretto al cap.1 (1252a 18-23), che si era chiuso con
il proposito metodologico di indagare le parti costitutive della città. Da
questa sorta di schematica introduzione risulta chiaro che l’amministra-
zione domestica, oggetto di trattazione da questo punto in poi, ha il suo
fondamento negli elementi che compongono la famiglia, già in gran par-
te individuati da Aristotele: il padrone-marito-padre, lo schiavo, la mo-
glie, i figli – le cui relazioni reciproche vengono singolarmente affrontate
nei capitoli seguenti – e i beni. Il rapporto padrone-schiavo è oggetto
d’indagine dei capitoli 4-7, con una breve appendice nel 13; le relazio-
ni marito-moglie e padre-figlio sono trattate cursoriamente nei capitoli
12-13. Vengono introdotti in questa sede due nuovi oggetti di studio:
l’amministrazione domestica (oikonomia) e la crematistica, l’arte di ac-
quistare beni, che avrà una sua trattazione specifica nei capitoli 8-11.

1253b 1-4 jEpei; de; fanero;n... ejk douvlwn kai; ejleuqevrwn.


Riprendendo conclusivamente l’argomento della sezione antece-
dente – cioè le parti della città, comunità perfetta e autosufficiente –,
Aristotele introduce un elemento nuovo, l’amministrazione della casa,
solo apparentemente slegato dall’argomentazione precedente. In realtà il
ragionamento aristotelico procede secondo un percorso coerente che ha
avuto inizio dal primo capitolo: partito con l’obiettivo di dimostrare che
le forme di comando differiscono per specie e non per quantità di subor-
dinati, si è sviluppato attraverso l’indagine delle parti di cui si compone
la città e dei loro fini specifici, mostrando tra l’altro che le singole parti
non possono sussistere indipendentemente dall’intero; ora, considerando
più nel dettaglio queste parti, si ritorna alla disamina dei ruoli di coman-
do che le caratterizzano (giustificando forse la necessità di individuare ti
tecniko;n, «qualcosa di peculiare», di 2, 1252a 22). Pertanto, in ossequio
al metodo proposto alla fine del cap.1 e ribadito qui poco più avanti
(1252a 18: dividere il composto fino alle parti semplici, esaminando la
città nelle parti dalle quali è formata), Aristotele prende le mosse dalla
casa/famiglia (parte fondante della città anche in IV 3, 1289b 28-29),

221
COMMENTO I 3, 1253b 1-4

per passare immediatamente, in base allo stesso criterio, alle comunità


elementari e alle relazioni tra i vari membri. Il villaggio sembra del tutto
abbandonato, e non verrà più nominato per il resto del libro.
Aristotele ha già fornito alcune informazioni generali sulla fami-
glia – nel senso di ruolo, fine, composizione – nel cap. 2 (1252b 9-15;
20-22; 1253a 18-19); qui sembra dare indicazioni più precise, e so-
prattutto sembra restringere il campo, classificando come «perfetta» la
famiglia composta di liberi e schiavi. Nel cap. 2 in effetti, attraverso la
citazione del verso di Esiodo, l’autore aveva indicato la possibilità che
la casa/famiglia fosse composta di liberi (l’uomo, la donna/moglie) e
di manodopera servile, almeno nelle famiglie più abbienti, sostituita
invece dalla forza-lavoro animale per le famiglie più povere (1252b
10-12; in qualche caso anche donne e bambini potevano dedicarsi a
mansioni servili, cfr. V 10, 1313a 5-6). Questa distinzione, alla luce
dell’affermazione contenuta qui sulla famiglia completa o perfetta, è
stata vista come la prova decisiva dell’esistenza, nella classificazione
aristotelica, di due categorie di famiglie: una, perfetta, composta da li-
beri e schiavi; una seconda, costituita da una componente «riproduttiva
o coniugale», fatta di liberi, e da una componente legata alla proprietà,
rappresentata dal bue (Nagle 2006, pp. 85-86) o, in alternativa, formata
solo di schiavi, come può essere quella dei popoli barbari (1252b 7; cfr.
Simpson 1998, p. 27). In realtà probabilmente la distinzione operata da
Aristotele non riguarda semplicemente due possibilità alternative, ma
una classificazione che implica un giudizio di valore: da un lato una fa-
miglia “normale” (vd. 1252b 10), composta da due koinoniai (maschio-
femmina, padrone-schiavo o, in alternativa allo schiavo, per i poveri, il
bue: 1252b 12); dall’altra la comunità barbarica di schiavo e schiava,
che però non viene presa in considerazione in quanto eccezione “con-
tro natura” (la natura nella concezione greca; c’è poi anche una natura
“barbara” contrassegnata dall’identità barbaro-schiavo). La “famiglia
barbara” non è quindi vista da Aristotele come un’alternativa, ma come
il diverso rispetto al punto di vista ellenocentrico.
L’oijkonomiva, in questo caso amministrazione domestica, consi-
ste, a detta dello stesso Aristotele (8, 1256a 12-13), nel sovrintendere
all’uso dei beni della casa; le sue parti si identificano con quelle costi-
tuenti la casa. Lungi dall’essere una disciplina teorica, come la moderna
“economia”, che trae la sua origine proprio da questo campo d’indagi-
ne, essa ha un ruolo decisamente pratico (cfr. sopra, p. 74) ed è oggetto
di interesse della politica in quanto trova la sua applicazione all’interno
della casa/famiglia, che è parte fondamentale della città. Il termine può
cambiare in italiano la propria valenza in funzione del contesto, a signi-

222
COMMENTO I 3, 1253b 4-12

ficare di volta in volta «gestione» o «amministrazione» familiare o do-


mestica e, in alcuni casi (si veda p. es. III 4, 1277b 24), semplicemente
«funzione, ufficio, compito», senza alcuna implicazione economica.
1253b 4-12 ejpei; d∆ ejn toi`~ ejlacivstoi~... trei`~ a}~ ei[pomen.
Attuando anche qui la metodologia consueta dell’analisi attraverso
ampliamenti progressivi (le «parti»), al fine di raggiungere la compren-
sione dell’unità che ne esprime la compiutezza, Aristotele prende le
mosse dalle unità elementari della famiglia: studiate nella loro natura e
nella loro qualità (poi`on dei` ei\nai), e nelle relazioni dei loro membri,
esse forniscono indicazioni sulle parti dell’amministrazione domestica
di cui sono oggetto, e che sono il campo d’indagine delle successive
sezioni del libro I.
Le parti della casa, e quindi dell’amministrazione domestica, sono
qui non singoli individui (cfr. sopra comm. al cap. 2), bensì comunità
elementari strutturate sulla base delle relazioni reciproche dei membri
– padrone-schiavo, marito-moglie, padre-figlio –, nelle quali il primo
membro è sempre la stessa persona, l’amministratore-padrone della
casa. Se confrontiamo quel che viene detto qui con quello che l’autore
aveva già affermato nel capitolo precedente, possiamo renderci conto
della differente prospettiva adottata. I componenti della casa/famiglia
vengono indicati nella loro funzione, e non nel loro ruolo biologico,
come in 2, 1252a 26-34: il maschio e la femmina sono diventati marito
e moglie e si è aggiunta la relazione padre-figlio, che è il naturale am-
pliamento di quella uomo-donna, esistente in funzione appunto della
generazione (cfr. Simpson 1995, p. 27).
Aristotele si propone di indagare «che cosa sia» e «di che qualità
debba essere» ciascuna delle tre parti/relazioni della casa; nel prosieguo
del testo tuttavia non darà una definizione vera e propria di tali elementi
– che ingannevolmente sembra invece contenuta nella frase successiva,
introdotta da tau`ta d∆ ejstiv –, ma si limiterà ad una valutazione della
terminologia comunemente usata per descriverli, che a suo parere non
indica in maniera appropriata il carattere di ciascuno (cfr. An. 416b 23:
ejpei; de; ajpo; tou` tevlou~ a{panta prosagoreuvein divkaion, tevlo~ de;
to; gennh`sai oi|on aujtovla; se ogni cosa deve essere nominata in rela-
zione al proprio fine, nei riguardi delle relazioni all’interno della fami-
glia il greco è fortemente carente). In greco dunque manca un termine
adeguato a individuare nella famiglia il rapporto tra la donna e l’uomo
legati dal vincolo coniugale e quello tra padre e figlio: mentre despo-
tikhv denota l’esercizio del potere del padrone sullo schiavo, gamikhv
non rende il concetto di autorità insito nella relazione tra i due membri,
spiegato poi in maniera più distesa nel cap. 12 (1259a 37 ss.); per il

223
COMMENTO I 3, 1253b 12-14

rapporto padre-figlio Aristotele si vede addirittura costretto a coniare un


nuovo aggettivo, teknopoihtikhv, che comunque manca del riferimen-
to all’autorità paterna. Forse per questo motivo il filosofo, nel riprende-
re l’argomento (12, 1259a 38), userà patrikhv. Non vi è alcuna ragione
tuttavia per rigettare l’hapax, come hanno fatto alcuni editori moderni
sulla scorta dell’Aretino (cfr. Note testuali, p. 333). Resta da chiedersi
che cosa vada sottinteso accanto agli aggettivi al femminile singolare
scelti da Aristotele, non concordati con alcun altro elemento della frase;
non è possibile scegliere in via definitiva tra le varie proposte fatte dagli
esegeti (ajrchv, ejpisthvmh, tevcnh: cfr. Newman 1887, II, p. 133; Saun-
ders 1995, p. 72), ma è verosimile che Aristotele inventi questi termini
su analogia con quelli che sottintendono tevcnh (da despotike, più usua-
le, vengono coniati probabilmente gamike e technopoietike).
1253b 12-14 e[sti dev ti mevro~... kaloumevnh~ crhmatistikh`~.
La frase e[stwsan d∆ au|tai trei`~ a}~ ei[pomen sembra chiudere in
maniera netta la sezione relativa alle parti dell’amministrazione dome-
stica, ma Aristotele introduce ancora un elemento, la crematistica, arte
di procurarsi beni, che ha a che fare non tanto con i rapporti tra i mem-
bri della famiglia quanto con la proprietà, l’altro elemento cosituente
l’oikos (cfr. sopra, p. 69), e che approfondirà in seguito (capp. 8-11).
Dalle poche informazioni qui riportate apprendiamo che si tratta di un
campo discusso: per alcuni si identificherebbe addirittura con la totalità
dell’amministrazione domestica (cfr. Xen. Oec. 6, 4, dove ejpisthvmh~
mevn tino~ e[doxen hJmi`n o[noma ei\nai hJ oijkonomiva, hJ de; ejpisthvmh
au{th ejfaivneto h\Ê oi[kou~ duvnantai, l’oikonomia è la «scienza con cui
gli uomini possono accrescere il loro patrimonio», poiché l’oikos, o{per
kth`si~ hJ suvmpasa, «si identifica con la proprietà»), per altri ne sareb-
be una (quarta) parte. Il filosofo ripeterà e discuterà questo argomento
in 8, 1256a 3-10, riprendendo analiticamente i due punti del dibattito
qui solo citati; neppure più avanti tuttavia si esprimerà più chiaramente
a riguardo dei sostenitori delle diverse posizioni, che danno l’impres-
sione di essere interlocutori solo ipotetici (l’abbondante presenza di ter-
mini legati alla crematistica in Platone può aiutare solo a valutare l’età
della nascita del termine, cfr. p. es. Gorg. 477e, Resp. IX 581c-d; in
Senofonte il termine non è presente): il sospetto è che si tratti della pras-
si consueta degli esordi (cfr. il cap. 1), in cui la presentazione dell’opi-
nione altrui è la molla da cui parte l’argomentazione, che si propone
di armonizzare le visioni opposte, per arrivare infine a una definizione
esaustiva, una volta che tutte le obiezioni e le aporie siano state risolte.
La crematistica è qui l’oggetto da studiare, non ancora definito, che
deve essere via via spiegato e su cui ci sono opinioni contrastanti. Se

224
COMMENTO I 3, 1253b 14-23

facciamo riferimento a questo modo di procedere di Aristotele, del tutto


consueto, risultano comprensibili da un lato l’introduzione del termine
specifico senza ulteriori precisazioni, dall’altro l’uso generico del ter-
mine «crematistica» (presente anche altrove, ad es. in 8, 1256b 26-39)
come sinonimo dell’arte di acquisire proprietà o beni (kthtikhv), cui si
fa cenno già all’inizio del capitolo seguente.
1253b 14-23 prw`ton de; peri; despovtou... bivaion gavr.
In quest’ultima parte Aristotele sintetizza i temi principali da af-
frontare nella sezione riguardante la relazione padrone-schiavo. Una
prima frase introduttiva pone in sintesi i due punti focali della questio-
ne, sviluppati nei due periodi che seguono: a) i casi in cui è necessario
impiegare gli schiavi (quindi che cos’è lo schiavo); b) una migliore
comprensione del problema, che serve a prendere posizione rispetto al
dibattito in corso sulla schiavitù. Il riferimento è a quanto è stato detto
nel cap. 1 (1252a 7) e all’inizio del cap. 2 (1252a 30-34), e anche que-
sta volta l’argomentazione prende le mosse dalle opinioni di «altri»,
che verranno nuovamente chiamati in causa quando i singoli problemi
saranno affrontati in maniera analitica (cap. 4: la funzione degli schiavi;
cap. 5: la schiavitù è per natura; cap. 6: confutazione delle argomenta-
zioni opposte; cap. 7: la scienza del padrone). In riferimento al punto a)
Aristotele ci riporta alla polemica dell’inizio del libro (vi è una diffe-
renza di specie tra le varie forme di autorità; cfr. commento al passo):
non tutti sono d’accordo sull’esistenza di una «scienza del padrone»,
che si identificherebbe con quella dell’amministratore della casa, con
quella «politica» e «regale» (Bonitz 1870, p. 614b 32 tuttavia vorreb-
be sottintendere qui ajrchv; cfr. anche Newman 1887, II, p. 133), e la
questione va dunque approfondita per chiarire la condizione di padro-
ne e schiavo «per natura». Il punto b) si concentra invece sul dibattito
intorno all’opinione che la condizione di schiavo sia per convenzione
e non per natura, basata sulla forza e pertanto ingiusta, in quanto con-
tro natura (cfr. Plat. Prot. 337d: oJ de; novmo~, tuvranno~ w]n tw`n ajnq-
rwvpwn, polla; para; th;n fuvsin biavzetai). Di quest’ultimo punto avrà
modo di trattare nel cap. 6, al quale si rimanda per la disamina completa
dell’argomentazione e dei riferimenti culturali.

225
CAPITOLO 4
LO SCHIAVO COME STRUMENTO E PROPRIETÀ

Aristotele comincia la sua disamina del rapporto padrone-schiavo ri-


spondendo, anche se non del tutto esplicitamente, alle due questioni
poste nel capitolo precedente: da quella più generale «che cosa sia» cia-
scuna delle relazioni interne alla casa/famiglia (qui in particolare quella
tra padrone e schiavo), a quella più specifica riguardante l’impiego dello
schiavo (e quindi la sua natura). Il nodo del problema tuttavia è centrato
sulla figura dello schiavo in quanto proprietà, e solo collateralmente
viene posta attenzione all’esercizio del potere da parte del padrone che
invece, nelle attese del lettore, sulla base delle premesse del capitolo
precedente – stabilire se l’autorità del padrone sia o no la stessa degli
altri tipi di autorità –, dovrebbe essere il centro dell’intera trattazione,
in quanto protagonista di tutte le relazioni familiari e gestore dell’intero
meccanismo della casa.

1253b 23-33 jEpei; ou\n hJ kth`si~... pa`~ uJphrevth~.


Con la consueta tecnica dell’ampliamento progressivo, Aristotele
parte dagli elementi minimi per arrivare all’intero: la proprietà è parte
della casa – e ciò non è stato ancora detto esplicitamente, poiché finora
si era parlato solo della componente umana (ma questa precisazione è
di grande importanza per comprendere il ruolo dello schiavo, proprietà
e parte del padrone: si veda sotto) –; l’arte di acquistare proprietà è par-
te dell’amministrazione domestica. Questi due elementi (la proprietà e
la capacità di procurarsela) consentono di raggiungere il fine proprio
della casa/famiglia, il vivere, ma anche quello dell’intero (la polis, che
è l’obiettivo ultimo dell’analisi aristotelica), cioè il vivere bene. Sembra
di poter dedurre dal ragionamento aristotelico che l’arte di acquisire
proprietà rappresenti una (quarta) parte dell’oikonomia (dal momento
che le altre tre riguardavano le relazioni umane). Alla fine del capito-
lo precedente, riportando molto brevemente ipotesi di altri, Aristotele
aveva già indicato con il nome di crematistica (arte di acquisire beni)
un simile ambito dell’amministrazione della casa. Dunque la kthtikhv
(sott. tevcnh) qui proposta sembrerebbe sovrapponibile alla crhmati-
stikhv della parte finale del cap. 3 (il termine avrà invece più avanti
anche il significato più specifico di «arte di procurarsi ricchezza col de-
naro»: vd. commento al cap. 8 e Introduzione); in realtà sono parecchi i
casi in cui i due termini sono usati come sinonimi (ad es. 8, 1256a 1, 4;

226
COMMENTO I 4, 12523b 23-27

1256b 26), anche quando Aristotele ha già operato le dovute distinzioni


tecniche nel loro significato (cfr. 8, 1256b 26-27; 1256b 40-41-1257a
1-5; 9, 1257b 1-5), come lo sono anche i sostantivi kth`si~ e crh`ma
utilizzati per indicare la proprietà all’interno della casa. Tuttavia non
possiamo risolvere la questione presumendo che Aristotele abbia sem-
plicemente usato i due termini in forma sinonimica; la sovrapposizione
dei due vocaboli ha una sua ragione nell’articolazione dell’esposizione
(cfr. i parallelismi anche grammaticali con i capp. 1 e 2), ben più che
nel significato specifico del termine: il filosofo ha l’obiettivo di spie-
gare che cos’è quella che definisce crematistica, e il suo ragionamento
non può che partire da elementi noti, com’è appunto la kthtikhv. Certo
l’aggettivo non pretende di esaurire il concetto, ma rappresenta il punto
di partenza del ragionamento che per gradi successivi arriverà a una
definizione complessiva e conclusiva (cap. 9).
Nel lungo periodo iniziale Aristotele pone i termini della questione.
Ogni arte/tecnica ha bisogno di strumenti per il proprio esercizio (cfr.
anche VII 4, 1325b 40-1326a 5, dove però si parla di materia adatta
al lavoro più che di strumenti; cfr. anche Plat. Pol. 287d 8 ss.); quin-
di, dovrà averli a disposizione anche l’amministrazione domestica. Gli
strumenti sono di due tipi: animati e inanimati; per esempio, il pilota
della nave si servirà del timone (inanimato) e della vedetta (animata),
che è un aiutante, ma va fatto rientrare nella categoria degli strumenti
(cfr. l’uso del termine o[rganon per indicare i sottoposti nell’esercito in
Xen. Cyr. V 3, 47). L’amministratore si servirà della proprietà che, in
quanto insieme degli strumenti, è uno strumento per la vita (il fine della
casa/famiglia; cfr. la sintetica definizione di proprietà in Xen. Oec. 6, 4:
oi\ko~ d’ hJmi`n ejfaivneto o{per kth`si~ hJ suvmpasa, kth`sin de; tou`to
e[famen ei\nai o{ ti eJkavstw/ ei[h wjfevlimon eij~ to;n bivon, wjfevlima de;
o[nta huJrivsketo pavnta oJpovsoi~ ti~ ejpivstaito crh`sqai: l’oikos è
definito come la proprietà, la proprietà è ciò che è utile a ciascuno per
vivere; utile è tutto ciò che una persona sa come usare): lo schiavo,
in quanto cosa posseduta – Aristotele non ha bisogno di giustificare
tale affermazione, si tratta di cosa universalmente nota (cfr. Schütrumpf
1991, I, pp. 242-243) –, rientra nella categoria delle proprietà (si noti la
distinzione tra concreto ed astratto nell’uso di kth`ma e kth`si~; cfr. an-
che II 1, 1261a 5-8, dove la classificazione indica il contrasto tra realtà
empirica e costruzione teorica in Platone; contra Schütrumpf 1991, I,
p. 241) ed è uno strumento animato (ma lo sarebbe anche il bue, di cui
si parlava in 2, 1252b 11: si veda anche EN VIII 13, 1161b 4; sull’as-
similazione della relazione padrone-schiavo a quella tra un artigiano e
il suo strumento e alla relazione corpo-anima cfr. EN VIII 13, 1161a

227
COMMENTO I 4, 1253b 33 - 1254a 1

34-35; EE VII 9, 1241b 18-20); l’aiutante può essere assimilato agli


strumenti e ne precede l’uso (contra Schütrumpf 1991, I, p. 245, che
traduce «jeder dienende Gehilfe ist gleichsam ein Werkzeug, das jedes
andere Werkzeug übertrifft», intendendo prov non in senso temporale,
ma in relazione al grado; cfr. invece Newman 1887, II, pp. 137-138: «an
instrument which is prior to other instruments and without which they
are useless»; una simile espressione è presente in PA IV 10, 687 a 19,
a proposito della mano, organo con molte funzioni: cfr. anche sopra 2,
1252b 1-5). Da rilevare che, a proposito della casa, Aristotele afferma
che lo schiavo è uno strumento, ma soprattutto è una proprietà, di cui
il padrone farà uso per le necessità della vita (sono strumenti in vista di
un fine anche amici, ricchezza, potenza politica in EN I 9, 1099b 1, ma
non rientrano nella categoria della proprietà), ed inoltre che l’aiutante è
«come» uno strumento: possiamo quindi dedurre, anche se non è detto
esplicitamente, che è probabilmente assimilabile allo schiavo in quanto
animato, ma non necessariamente un possesso del padrone (anche se
potrebbe trattarsi di un sottoposto non libero).
Non è del tutto evidente quale sia la proposizione principale, conse-
guenza della causale iniziale: a lungo, e fin dal Bruni, si è ritenuto che
il periodo si concludesse tra le ll. 23 e 24 (la proposizione principale
sarebbe dunque kai; hJ kthtikh; mevro~ th`~ oijkonomiva~, con kaiv in
senso pregnante ed ellissi del verbo; questa frase venne invece espun-
ta da Susemihl perché incoerente con le conclusioni successive, ma la
scelta appare inaccettabile; cfr. Newman 1887, II, p. 135); con Simpson
(1998, p. 29 n. 29) ritengo che essa vada individuata nell’espressione
w{sper de;... ou{tw kai; tw/` oijkonomikw/`, di cui la frase iniziale introdot-
ta da ejpei; sarebbe una subordinata causale in posizione enfatica, che
pone le premesse (cfr. anche 1, 1252a 1 ed inoltre 3, 1253b 1; 10, 1258a
31-34; 11, 1258b 9, 39); quel che sta in mezzo avrebbe dunque un ruolo
esplicativo.
1253b 33-1254a 1 eij ga;r hjduvnato… ou[te toi`~ despovtai~ douvlwn.
Aristotele sente la necessità di spiegare perché il padrone abbia
bisogno di strumenti animati per raggiungere il fine: se gli strumenti
inanimati potessero svolgere da soli la propria funzione, non ci sarebbe
alcuna necessità di aiutanti e di schiavi. Quindi gli schiavi esistono per
far svolgere il proprio compito agli strumenti inanimati. Ci si chiede
tuttavia come potrebbe essere a questo punto risolto il problema della
schiavitù «per natura», se è logico presupporre che Aristotele non po-
tesse concepire una società senza schiavi; è pur vero che in linea teorica
l’assenza di schiavi risolverebbe tutta una serie di problemi gestionali
(cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 238; cfr. sopra, p. 78), ma l’espressione

228
COMMENTO I 4, 1254a 1-8

rappresenta con buona probabilità un paradosso, confermato dalla pre-


senza di un periodo ipotetico dell’irrealtà.
b 35-36 w{sper ta; Daidavlou fasi;n h] tou;" tou` JHfaivstou
trivpoda".
Dedalo è il leggendario artefice e inventore (si noti l’assenza
dell’articolo davanti al nome), nonché architetto e scultore, discendente
di Cecrope, antico re dell’Attica, creatore della vacca di legno per Pa-
sifae e del famoso Labirinto di Creta; imprigionato da Minosse con il
figlio Icaro, costruì le ali di cera che gli consentirono la fuga in Sicilia
e condussero invece a morte il figlio, che si era spinto troppo verso il
sole. Molte di queste notizie ci sono giunte attraverso il lungo racconto
di Diodoro Siculo (IV 76-80), che riferisce appunto che Dedalo fu an-
che creatore di statue «vive», che davano l’idea del movimento tramite
espedienti meccanici (cfr. anche [Apollod.] Bibl. 3, 214). Qui è ricor-
dato in relazione alla notizia che avrebbe costruito statue semoventi;
nel De anima (I 3, 406b 17-19, che cita Democr. fr. 104 DK e Philip.
fr. 22 K) si fa più precisamente riferimento ad una statua di Afrodite;
si trattava naturalmente di un artificio, determinato dall’argento vivo
con cui queste realizzazioni erano ricoperte. Anche i poeti comici (p.
es. Cratin. fr. 75 K.-A.; Aristoph. Pl. 1189; fr. 198 K.-A.; Pla. Com. fr.
204 K.-A.) e Platone (Euthyph. 11b-c; Men. 97d-e; in entrambi i casi il
contesto appare comunque velatamente ironico) ricordano più volte le
statue che si muovevano da sole opera di Dedalo. Cfr. Frontisi Ducroux
1975; Morris 1992; Pugliara 2003. I «tripodi di Efesto», di cui racconta
Omero («il poeta»; Il. XVIII 376), sono i sostegni a tre piedi che il dio
del fuoco, inventore della metallurgia, sta forgiando all’arrivo di Teti
nella sua fucina nelle profondità dell’isola di Lemno, dotati di ruote per
entrare ed uscire da soli dalla sala dell’adunanza degli dèi (cfr. Mirto-
Paduano 1997, p. 1326; Pugliara 2003, pp. 79 ss., part. 113). I «plettri»
erano piccoli strumenti in legno o avorio che servivano a far vibrare le
corde della lira, pizzicandole; come le spole per il telaio, richiedevano
una mano d’uomo a manovrarli.
b 38 toi`" ajrcitevktosin. Il termine greco non è del tutto sovrap-
ponibile a quello italiano; gli ajrcitevktone~ non erano quasi mai i pro-
gettisti intesi nel senso moderno ma, oltre che capomastri/capicantiere
esperti nelle tecniche di costruzione, potevano essere i direttori dei la-
vori.
1254a 1-8 ta; me;n ou\n legovmena... pro;~ th;n pra`xin.
Gli strumenti di cui Aristotele ha parlato poco prima – e la preci-
sazione è necessaria, per non incorrere in confusioni sulle differenze
specifiche tra o[rgana indicate subito sotto –, animati e inanimati (ma i

229
COMMENTO I 4, 1254a 1-8

secondi al servizio dei primi), servono a produrre qualcosa di concreto


(sono poihtika; o[rgana) e di esterno ad essi, mentre le cose possedute
sono rivolte semplicemente all’azione, all’uso che di esse si fa (to; de;
kth`ma praktikovn): la spola, nelle mani di uno strumento animato,
produce stoffa per realizzare vesti; il letto e la veste servono solo al pro-
prio uso (sul valore e la superiorità della praxis rispetto alla poiesis nel-
la teoria aristotelica cfr. Vattimo 1961, pp. 137-144.). È questo un tema
che Aristotele affronta anche nell’Etica Nicomachea sottolineando che
produzione e azione sono diverse (VI 4, 1140a, 2-5; 5, 1140b, 6-7), e
che anche tra i fini alcuni sono attività, altri opere realizzate in funzione
di questi (EN I 1, 1094a 3-5) ed inoltre che ogni produttore produce in
vista di qualcosa, e che quel che si produce non è il fine in sé, ma lo è
per qualcuno e in relazione a qualcosa, mentre l’azione (pravxi~) è fine
in se stessa (EN VI 2, 1139b 1-3).
Poiché dunque produzione e azione sono differenti per specie ed
entrambe si servono di strumenti, dovranno essere diversi anche gli
strumenti di cui fanno uso. La vita è azione, non produzione (non serve
dunque a produrre qualcosa di esterno ad essa); dal momento che lo
schiavo è uno strumento che serve a vivere, sarà quindi un aiutante per
l’azione (per esempio, per fare il letto), e non per la produzione (si noti
che Aristotele qui non indica il tipo di occupazione dello schiavo, ma
solo il fine del servizio reso: cfr. Schütrumpf, I, 1991, p. 241). Questa
conclusione ci lascia piuttosto sconcertati: è evidente da un lato che Ari-
stotele non fa rientrare gli strumenti di produzione nella categoria delle
proprietà (le cose possedute sono rivolte all’azione, ma resta da capire
perché la spola impiegata nella realizzazione delle vesti non possa esse-
re cosa posseduta; forse dobbiamo fare riferimento a quel che si diceva
in 2, 1252a 34-b 5, che ogni strumento esercita al meglio la propria
funzione se è quella cui è destinato per natura) e dall’altro che lo schiavo
è escluso da ogni attività di produzione, in quanto cosa posseduta. Per-
tanto Aristotele sembra non contemplare il ruolo degli schiavi in tutte
quelle attività produttive in cui essi erano normalmente impiegati, per
esempio quelle artigianali (e lo scopo, secondo Saunders 1995, p. 73,
non è certamente umanitario, ma piuttosto ideologico; sull’esistenza di
un’«ideologia della schiavitù» in Aristotele cfr. sopra, p. 79); o forse
sta semplicemente restringendo il campo, e limita la propria analisi al
solo ambito della famiglia o della vita quotidiana (come forse ci indica
l’esempio del letto e della veste; cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 241). E in
particolare, il suo punto di vista è quello del padrone, dell’amministrato-
re della casa: gli strumenti di produzione non lo aiutano nello svolgere il
suo lavoro, ma semplicemente producono quello che gli serve per svol-

230
COMMENTO I 4, 1254a 8-13

gerlo; pertanto non sono esattamente definibili come proprietà, anche


se producono proprietà (Simpson 1998, p. 30). Inoltre, se impegnato
nella produzione, lo schiavo potrebbe risultare nelle mani del padrone
artefice di una ricchezza eccessiva, condannata da Aristotele (cfr. anche
Plat. Leg. VIII 846d-847a; cfr. Saunders 1995, p. 74).
Il tentativo di spiegare il ragionamento aristotelico può tuttavia ri-
velarsi infruttuoso giacché in questo passo, come in altri punti del testo,
Aristotele porta l’argomentazione nella direzione che gli è congeniale
per il prosieguo del ragionamento, a costo di qualche apparente con-
traddizione: il discorso sull’oikonomia lo ha condotto a parlare degli
strumenti, che ha diviso in animati e inanimati; questi ultimi vengono
abbandonati perché non servono alla praxis, cioè alla vita, e l’attenzio-
ne viene concentrata sugli strumenti animati, ovvero sugli schiavi; tra le
premesse aveva sostenuto anche che la ktesis è il possesso di un insieme
di strumenti e, giacché punta a portare il ragionamento sulla relazione
padrone-schiavo, attraverso l’affermazione che ktema praktikon (1254a
2) – la cosa posseduta – è strumento d’azione, può tralasciare anche gli
altri strumenti e concentrarsi esclusivamente sullo schiavo.
1254a 8-13 to; de; kth`ma... o{lw~ ejkeivnou.
Si procede ora a dimostrare, come al solito per gradi successivi, che
lo schiavo appartiene completamente al padrone (in senso funzionale,
non legale: cfr. Saunders 1995, p. 73), è una sorta di «intima estensione
del padrone» (Saunders 1995, p. 74): la cosa posseduta è definita allo
stesso modo della parte, ma la parte appartiene totalmente all’intero di
cui è parte (anzi, la parte non esiste senza l’intero: cfr. sopra, 2, 1253a
20), per cui la cosa posseduta appartiene totalmente a ciò di cui è parte,
cioè il possessore. Quindi lo schiavo, in quanto cosa posseduta, appar-
tiene totalmente al padrone (in senso funzionale, quindi è al suo servi-
zio e a sua completa disposizione); non vale però il contrario, perché il
padrone non appartiene allo schiavo, e dunque i due elementi non sono
correlati (in particolare, non si parla di doveri del padrone nei confronti
dello schiavo; il suo legame con lo schiavo è dato semplicemente dalla
proprietà); infatti Aristotele non dice mai che lo schiavo è parte del pa-
drone, ma semmai che appartiene totalmente a lui; poco dopo spiegherà
che è cosa posseduta «distinta» dal possessore. Questo ragionamento ci
consente di concludere anche che, in quanto estensione del padrone e
strumento nelle sue mani (privo di ogni autosufficienza), lo schiavo do-
vrà condividere con il padrone anche il fine, vivere; e dal momento che
la vita è azione, non potrà che essere strumento, o aiutante, per l’azione
(cfr. 13, 1260a 31-33). Da notare che Aristotele è passato definitiva-
mente dal generale al particolare: mentre nella prima parte del capitolo

231
COMMENTO I 4, 1254a 13-17

il padrone di casa era ancora visto come «amministratore», oijkonovmo~,


ora è indicato nella sua relazione con lo schiavo, ed è quindi despovth~,
«padrone».
1254a 13-17 tiv~ me;n ou\n hJ fuvsi~... praktiko;n kai; cwristovn.
Poste dunque le premesse sul carattere e sulla funzione degli stru-
menti, si può quindi giungere alla definizione dello schiavo: è per natu-
ra schiavo l’essere umano che appartiene ad un altro; appartiene ad un
altro essere umano lo schiavo che rientri tra le cose possedute; è cosa
posseduta lo strumento per l’azione distinto fisicamente dal possessore
(cfr. anche 6, 1255b 11-12: oJ de; dou`lo~ mevro~ ti tou` despovtou, oi|on
e[myucovn ti tou` swvmato~ kecwrismevnon de; mevro~; VIII 2, 1317b 14:
ei[per tou` douleuvonto~ to; zh`n mh; wJ~ bouvletai; Metaph. I 2, 982b 25:
w{sper a[nqrwpo~, famevn, ejleuvqero~ oJ auJtou` e{neka kai; mh; a[llou
w[n). Accogliamo (e traduciamo) alla l. 16 la tradizione manoscritta
dou`lo~ w[n, corretto da tutti gli editori moderni, ad eccezione di Drei-
zehnter, in a[nqrwpo~ w[n (cfr. Note testuali, p. 336).
Questa dichiarazione, secondo Aristotele, ci indica la «natura» e la
«potenza» (capacità) dello schiavo (cfr. Plat. Phaedr. 270d 3), quindi lo
definisce in base al criterio, enunciato nel cap. 2 (1253a 23), che ogni
cosa è definita dalla sua funzione e dalla capacità. Come già in prece-
denza ci è capitato di riscontrare, la definizione non conclude un ragio-
namento, ma ne introduce piuttosto uno nuovo: sull’essere strumento e
sull’appartenere al padrone infatti Aristotele si è già pronunciato; ora
deve spiegare meglio l’essere «per natura», che sarà oggetto del capi-
tolo seguente.

232
CAPITOLO 5
LO SCHIAVO PER NATURA

Alla fine del cap. 3 (1253b 20-23) Aristotele aveva posto la questione
se la condizione del padrone e quella dello schiavo esistano per natura
o per legge, e cioè se la differenza tra liberi e schiavi sia puramente
convenzionale, dipenda soltanto da una norma positiva, e quindi possa
essere ingiusta, in quanto dettata dalla costrizione, come ritenuto da
«alcuni» (per la discussione su questo punto cfr. sotto, p. 250). Alla fine
del cap. 4 è ormai chiaro che Aristotele crede fermamente nell’esistenza
dello schiavo «per natura» e lo definisce come uomo appartenente ad
un altro uomo, quindi oggetto di proprietà e strumento utile all’azione
separato dal possessore: accanto ad elementi che ha già discusso e di-
mostrato, la qualifica di schiavo «per natura» tuttavia non è stata ancora
verificata. Pertanto il filosofo procede nel cap. 5 a riempire questa ca-
sella vuota, proponendosi di indagare se esistano individui che rispon-
dono alle condizioni poste dalla definizione e quindi se la schiavitù, in
quanto naturale, sia utile e giusta. Dopo la premessa, come sempre, il
metodo: l’indagine sarà svolta in due direzioni, attraverso il ragiona-
mento e l’analisi della realtà dei fatti.

1254a 17-21 Povteron d∆ e[sti... ejk tw`n ginomevnwn katamaqei`n.


È proprio dall’indagine sulla realtà, testimoniata anche dalla forte
presenza di verbi e pronomi legati al campo dell’osservazione (1254a
30: ejmfaivnetai; 36: dei` skopei`n; 39: qewrhtevon; b 3: qewrh`sai;
6: fanerovn), che Aristotele fa partire l’argomentazione; in effetti la
prima delle due indicazioni metodologiche sembra non trovare spazio
in questo capitolo (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 250; Saunders 1995, p.
75; Simpson 1998, p. 32). D’altro canto la premessa «se esiste qualcu-
no schiavo per natura o no» va già nella direzione dell’osservazione
della prassi e non dell’astratta definizione, oltre che dell’evidente con-
sapevolezza che, anche dando per scontata l’esistenza della schiavitù
nella società da analizzare, non tutti gli schiavi e i padroni sono «per
natura» (sull’ampio significato dell’espressione cfr. il commento a 2,
1252a 26-34). Il secondo gradino della ricerca consiste nello stabilire
se, verificata l’esistenza di schiavi per natura, il loro ruolo rappresenti
anche ciò che è meglio e giusto (si noti anche sotto l’associazione
della naturalità con «il meglio»: 1254b 11; 13-14; 19; cfr. Schütrumpf
1991, I, p. 248; per Saunders 1995, p. 76 «meglio» significherebbe qui

233
COMMENTO I 5, 1254a 21-28

«‘more rational’, and so more effective and useful»; «giusto» in questo


contesto andrebbe invece inteso in relazione con il concetto di “ugua-
glianza proporzionale”, per cui cfr. sotto).
a 18 tini. Il pronome è in posizione ambigua: può funzionare come
complemento diretto del verbo douleuvein, ma anche come dativo di
vantaggio per bevltion kai; divkaion: in questo senso orienterebbe l’at-
tenzione sullo schiavo, che potrebbe trarre un beneficio personale dalla
condizione di “comandato” (ma si veda invece III 6, 1278b 34: gli in-
teressi di schiavo e padrone coincidono, ma è il padrone a trarre van-
taggio dalla relazione con lo schiavo, pena l’annullamento del proprio
ruolo, mentre lo schiavo ne ha un beneficio solo accidentale), e mostre-
rebbe il rovescio della medaglia della situazione descritta nel cap. 4,
dove lo schiavo era visto solo come strumento nelle mani del padrone
(cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 249).
1254a 21-28 to; ga;r a[rcein kai; a[rcesqai … e[sti ti touvtwn
e[rgon.
Il punto di partenza è la relazione comandante-comandato, da an-
noverare tra le cose utili e necessarie; in questa tipologia rientra anche
quella padrone-schiavo, ma non la esaurisce. Aristotele pone poi in
maniera apodittica qualche premessa (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 251:
l’assenza di spiegazioni porterebbe a supporre che Aristotele abbia trat-
tato il problema altrove): a) vi sono alcuni elementi (e[nia, neutro: non
si tratta solo di persone, come apprenderemo più avanti), ma eviden-
temente non tutti, che fin dal loro sorgere sono destinati a comandare
o a obbedire; b) le tipologie di comandanti e comandati sono varie (si
noti il collegamento con il tema delle diverse forme di autorità del cap.
1, anche se qui il caso specifico riguarda solo la forma «padronale»,
in quanto finalizzata al problema della schiavitù; Schütrumpf 1991, I,
p. 250; cfr. VII 3, 1325a 27-30; EN VIII 12, 1160b 31); c) è sempre
meglio comandare sui migliori, perché l’opera che ne deriva (Aristotele
specifica che l’ e[rgon è il prodotto di questa relazione; cfr. Isocr. 15,
180) è migliore. Due punti richiedono di essere ulteriormente rimarcati,
perché basilari nell’argomentazione successiva: 1) la “predestinazio-
ne” naturale al ruolo di comando o di obbedienza (mitigata comunque
dall’«alcuni» della l. 23, che prevede evidentemente casi in cui ciò non
avviene fin da subito, per natura, ma in un momento successivo); 2) il
fatto che chi comanda su elementi migliori è migliore perché è migliore
l’opera che deriva dalla relazione (e ne è il suo fine? È automatico il
collegamento con il «bene» che è fine di ogni azione umana e di tutte le
forme di comunità: cfr. 1, 1252a 1): migliore sarà dunque chi comanda
un uomo piuttosto che chi comanda un animale, ragionamento che, ap-

234
COMMENTO I 5, 1254a 28-33

plicato alla relazione padrone-schiavo, porterà a concludere che l’opera


che ne deriva sia tra le migliori, anche se evidentemente lo schiavo non
è al livello più alto tra gli esseri umani. Due ulteriori conseguenze (evi-
denziate da Schütrumpf 1991, I, p. 252): l’opera che è il prodotto della
relazione comandante-comandato può dipendere non solo dal livello
dei comandati, ma anche dalle prestazioni che i comandanti possono
ottenere da loro; inoltre se, come Aristotele dice all’inizio del cap. 1,
la comunità politica raggiunge il bene più alto, che è il suo fine, qui i
comandati stanno al livello più alto, che può essere anche lo stesso dei
comandanti (anche se nel regno e nell’aristocrazia, perlomeno, questo
non vale); in tal caso i loro ruoli diventano intercambiabili, come affer-
mato più avanti dal filosofo.
1254a 28-33 o{sa ga;r ejk pleiovnwn sunevsthke... oi|on aJrmoniva~.
In ogni composto formato di più parti che rappresenti un’unità (cfr.
il suvnqeton di 1, 1252a 18) appaiono un elemento che comanda e uno
comandato (cfr. anche Plat. Leg. V 726a). Questo principio è presente
negli esseri animati come anche in ciò che non partecipa della vita,
poiché è una condizione propria di tutta la natura. Questo concetto era
già stato in qualche modo anticipato nel capitolo precedente, quando
si parlava degli strumenti in mano al padrone, animati e inanimati; ma
qui il piano è diverso: i rapporti di potere tra gli uomini sono solo un
caso particolare all’interno della legge della natura universale; anche le
relazioni sociali e politiche sono riportate – per la prima ed unica volta
nell’opera – a dati ontologici, collocate in strutture esterne all’uomo
(Schütrumpf 1991, I, p. 252).
a 29 e{n ti koinovn. Il composto cui si fa qui riferimento non è
un’unità data dalla semplice accumulazione di parti, ma un insieme, una
comunità di elementi, non necessariamente umani o animali, diversi per
tipo, dal momento che appaiono il comandante e il comandato (cfr. II 2,
1261a 24; VII 8, 1328a 25). Questa affermazione può aiutarci a chiarire
meglio anche il concetto di koinwniva, che è un insieme composito e
non una semplice associazione volontaria di uomini (Schütrumpf 1991,
I, p. 253).
a 29-30 ei[te ejk sunecw`n ei[te ejk dihÊrhmevnwn. Le parti possono
essere strettamente legate l’una all’altra (come anima e corpo) o fisi-
camente separate (come il padrone e lo schiavo: cfr. 4, 1254a 17). Cfr.
anche Phys. IV, 211a 29 ss.
a 31 ejk th`~ aJpavsh~ fuvsew~. Newman 1887, II, p. 142 intende
«from nature as a whole», escludendo il senso partitivo proposto con
cautela da Bonitz (1870, p. 225b 11). Fa difficoltà il numero esiguo di
attestazioni della locuzione (già in Plat. Phil. 30a; Phaedr. 270c; Meno

235
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20

81c), o di espressioni simili (cfr. An. III 5, 430a 10; PA I 1, 641b 14);
molto più diffusa l’espressione o{lh fuvsi~ (p. es. II 8, 1267b 28; An. I 2,
404a 5; PA II 6, 652b 7; un elenco più articolato si trova in Schütrumpf
1991, I, pp. 254-255).
a 33 oi|on aJrmoniva~. La presenza del sostantivo al genitivo non aiuta
a chiarire il pensiero di Aristotele in questo punto: non possiamo pensare
che dipenda da metevcousi, anche se grammaticalmente sembrerebbe
l’unica soluzione plausibile; più probabile invece che sia retto da ajrchv.
Del tutto insostenibili appaiono le proposte (rispettivamente di Susemihl
1879, e di Richards in Ross) di correggere con la locuzione ejn aJrmoniva/
e ejn aJrmonivai~ (al plurale per coerenza con gli altri luoghi in cui com-
pare il termine). La presenza di un elemento «che comanda», all’interno
dell’armonia citata qui come esempio di cosa inanimata (il «physical
compound» di Saunders 1995, p. 77), va dunque legata ai diversi tipi
di tonalità musicale (p. es. il tono maggiore o minore), tanto è vero che
anche oggi nella teoria musicale si fa uso del termine “dominante”. Non
si tratta pertanto dell’armonia intesa genericamente come consonanza,
ma di un sistema musicale già elaborato dagli antichi e testimoniato dai
Problemata pseudo-aristotelici (XIX 33, 920a 21-22), dove la nota mevsh
era definita appunto hJgemwvn. Aristotele parla altrove nella Politica di
armonia musicale: IV 3, 1290a 20-29 (specie di armonia in parallelo con
i tipi di costituzione); VIII 5, 1340a 39-1340b7 (gli effetti della musica
sugli ascoltatori); 7, 1342a 23 (le degenerazioni di armonie e canti). Per
una completa disamina del problema si vedano Newman 1887, II, pp.
142-143 e in particolare Schütrumpf 1991, I, pp. 252-253; sull’armonia
nell’opera aristotelica cfr. ora Barker 2007, p. 328.
1254a 33-34 ajlla; tau`ta me;n... kai; para; fuvsin e[cein.
Gli argomenti appena trattati, secondo Aristotele, fanno parte di una
ricerca in qualche modo estranea all’indagine di cui si sta occupando.
È probabile che il filosofo faccia qui riferimento al tema dei rapporti
comandante-comandato nelle cose inanimate, ma non possiamo dire se
l’uso dell’aggettivo ejxwterikov~ in questo contesto intenda indirizzare
il lettore ad altre opere («essoteriche», appunto, cioè preparate per un
pubblico meno colto ed esterno alla scuola: cfr. III 6, 1278b 31-32) o se
il significato sia generico e l’espressione abbia il fine puramente retori-
co di consentire all’autore di riprendere il filo dell’argomentazione.
1254a 34-1254b 20 to; de; zw/`on prw`ton... ei[per kai; toi`~ eijrh-
mevnoi~.
Il segmento seguente del capitolo è organizzato come esemplifica-
zione della relazione comandante-comandato in diversi ambiti, legati
però al mondo degli esseri animati (quello delle cose inanimate è stato

236
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20

abbandonato come non pertinente): prima all’interno dell’essere viven-


te più in generale, poi nel rapporto uomo-animale, in quello maschio-
femmina e infine nella relazione padrone-schiavo, che ci riporta all’ar-
gomento centrale di questa sezione del libro. Il ragionamento si articola
in fasi successive, scandite anche dall’uso degli avverbi prw`ton (1254a
34 e b 2), pavlin (b 10) e e[ti (b 13):
a 34-1254b 9 Ogni essere vivente è fatto di anima e corpo, di
cui per natura la prima comanda e il secondo è comandato. Questa
relazione però va individuata nei soggetti in condizione ottimale di
natura, non in quelli corrotti, nei quali anche i rapporti di subordi-
nazione potrebbero essere alterati. All’interno dell’essere vivente si
ravvisa quindi un tipo di autorità padronale e politica (despotikh;n
ajrch;n kai; politikhvn): l’anima esercita sul corpo un tipo di autori-
tà padronale; l’intelletto (nou``~) esercita sull’«appetizione» (o[rexi~, il
desiderio che comprende l’appetito, l’impulso, la volontà: cfr. An. II
3, 414b) un’autorità politica (o meglio regale, intendendo il kaiv come
esplicativo: è quel tipo di autorità politica che non prevede l’alternanza
degli stessi nei ruoli di comandante e comandato). Pertanto è secondo
natura e utile che il corpo sia comandato dall’anima e la parte emotiva
dall’intelletto e dalla ragione, mentre sarebbe dannoso il rapporto pa-
ritario o il rapporto inverso (si noti l’insistenza sulle devianze e le loro
conseguenze, ribadite due volte nel giro di poche righe, a 1254a 39-b
2 e b 9).
La condizione “ottimale” è quindi quella che rientra nel consueto
ordine naturale (l’anima domina sul corpo: l’uomo è sano e/o virtuoso;
cfr. EN II 3, 1105b 9: l’uomo giusto viene dal fatto che compie azioni
giuste); ciò che in qualche modo devia dalla norma è pertanto corrotto e
in quanto tale non può essere assunto come criterio (cfr. Simpson 1998,
p. 33: «it is thus necessary to know the best to know nature»). Il legame
tra condizione naturale ed equilibrio degli elementi è ben rappresenta-
to in Platone (Resp. IV 444d), dove si può notare anche l’analogia tra
l’uomo e la città (cfr. Resp. IX 577d: o{moio~ ajnh;r thÊ` povlei, «l’uomo
è simile alla città»: procurare la salute (la condizione ottimale) significa
fare in modo che gli elementi del corpo dominino e siano dominati gli
uni dagli altri «secondo natura», la malattia significa creare le stesse
condizioni «contro natura» ( E [ sti de; to; me;n uJgiveian poiei`n ta; ejn tw/`
swvmati kata; fuvsin kaqistavnai kratei`n te kai; kratei`sqai uJp’
ajllhvlwn, to; de; nosvon para; fuvsin a[rcein te kai; a[rcesqai a[llo
uJp’ a[llou); parimenti produrre la giustizia vuol dire fare in modo che
gli elementi dell’anima dominino e siano dominati gli uni dagli altri
«secondo natura», e generare l’ingiustizia vuol dire porre le stesse

237
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20

condizioni «contro natura» (cfr. p. es. anche IX 589d 5 ss.: quando si


commette un’ingiustizia la parte migliore dell’anima, to; bevltiston,
diviene schiava di quella più malvagia, tw/` mocqhrotavtw/; Leg. V 726a:
tra le cose che ciascuno possiede, quelle migliori e superiori comanda-
no, quelle inferiori e peggiori servono… nell’ordine bisogna onorare
«per seconda» la propria anima; 727d). Aristotele esprime anche nei
Topici il concetto della corruzione dell’anima come conseguenza del
sovvertimento dei rapporti di potere (V 1, 129a 13-16: ou[te ga;r to;
logistiko;n pavntote prostavttei, ajll’ ejnivote kai; prostavttetai,
ou[te to; ejpiqumhtiko;n kai; qumiko;n ajei; prostavttetai, ajlla; kai;
prostavttei potev, o{tan hÊ\ mocqhra; hJ yuch; tou` ajnqrwvpou: l’anima
dell’uomo è corrotta, depravata, quando l’elemento passionale prende
il sopravvento su quello razionale).
La divisione dell’anima, qui presupposta, trova formulazione nel
libro VI dell’Etica Nicomachea (2, 1139a 17 ss.): nell’anima sono tre
gli elementi che determinano azione e verità, ovvero sensazione, intel-
letto e appetizione (ai[sqesi~, nou`~, o[rexi~; su questi temi cfr. Gastaldi
1990). La sensazione non è principio di azione (anche gli animali ce
l’hanno, ma non hanno nulla a che fare con l’agire; cfr. anche EE II
6, 1222b 18-20); l’appetizione è il corrispondente pratico di ciò che
nel pensiero è affermazione e negazione, e determina quindi ciò che si
deve ricercare e ciò che si deve fuggire; l’intelletto e il pensiero fissano
dunque il fine dell’azione (il principio dell’azione è la scelta e i principi
della scelta sono appetizione e ragione; per questo non vi è scelta senza
intelletto e senza pensiero). Anche nel De anima (III 10, 433a 9-29)
Aristotele prende posizione sull’argomento, pur se in maniera più com-
plessa: l’intelletto spinge nella corretta direzione l’appetizione (nella
forma del desiderio, ejpiqumiva, o dello slancio, qumov~), che è portata a
rivolgersi a ciò che è all’apparenza bene ma non lo è necessariamente;
tuttavia l’appetizione è il vero motore dell’impulso pratico.
Nell’esame degli esseri in condizione ottimale si riscontrerà che
(1) il tipo di autorità esercitato dall’anima sul corpo è padronale e (2)
quello dell’intelletto sull’appetizione (parti dell’anima: cfr. anche III
16, 1287a 31-32; VII 14, 1333a 16) è politico o meglio regale. L’espun-
zione di kai; basilikhvn da parte di Oncken e Susemihl non trova giu-
stificazione nella tradizione; il fatto che l’autorità «regale» non sia con-
templata nell’affermazione generale delle linee immediatamente prece-
denti ha probabilmente indotto gli editori ad ipotizzare una notazione
marginale riferita alla tripartizione delle autorità di 12, 1259a 39-b 1 e
alle affermazioni di EN VIII 12, 1160b 24. Del tutto inaccettabile ap-
pare invece la sostituzione di kaiv con h[ di Richards e Ross. Pur facen-

238
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20

do riferimento ad un tema in corso di trattazione – come sembrerebbe


indicare l’espressione w{sper levgomen di b 2 (Schütrumpf 1991, I, p.
256 la collega all’affermazione di a 34-35, che l’animale è formato di
corpo ed anima) – e sebbene i concetti di autorità padronale, politica (e
regale) siano già stati introdotti (cfr. 1, 1252a 7; 2, 1252a 31; 3, 1253b
19), i termini della questione appaiono formulati in modo nuovo, ma
Aristotele non ritiene evidentemente di dover fornire, per ora, ulteriori
precisazioni. Va tuttavia sottolineato che resta del tutto oscuro, anche
nel prosieguo della trattazione, come i due modelli (anima-corpo; intel-
letto-appetizione) si relazionino tra loro, giacché non si ritrovano né qui
né in altre opere aristoteliche le premesse per le affermazioni contenute
in questo punto (cfr. Saunders 1995, p. 77).
Per il primo punto viene in soccorso l’affermazione platonica che
«quando anima e corpo si trovano insieme, la natura impone all’uno di
servire e di essere comandato, all’altra di comandare e fare da padrona»
(Phaed. 80a: ejpeida;n ejn tw/` aujtw`/ w\si yuch; kai; sw`ma, tw`/ me;n dou-
leuvein kai; a[rcesqai hJ fuvsi~ prostavttei, thÊ` de; a[rcein kai; de-
spovzein; cfr. anche Tim. 34c: oJ de; kai; genevsei kai; ajrethÊ` protevran
kai; presbutevran yuch;n swvmato~ wJ~ despovtin kai; a[rxousan ajrxo-
mevnou sunesthvsato ktl., il dio generò l’anima prima e più vecchia…
in modo che fosse padrona del corpo ed esso obbedisse). Questo model-
lo però non trova paralleli nel sistema della psicologia aristotelica.
Sul secondo punto è opportuno rilevare la divisione dell’anima in
parte razionale ed emotiva come è presentata nell’Etica Nicomachea (I
13, 1102a 26-30, con il riferimento a una trattazione nelle opere “esso-
teriche”, che non sembra esserci pervenuta; VI 2, 1139a 4), che appare
l’unica opera in cui il problema viene affrontato anche in parallelo alle
relazioni tra individui (nel De anima la suddivisione è presentata in ter-
mini di oggetto d’indagine più che di dato di fatto: cfr. III 9, 432a 22 ss.):
le due parti dell’anima, razionale e irrazionale, si relazionano in termini
di dominio e di obbedienza, come avviene nella relazione padre-figlio o
comandante-comandato. Cfr. EN I 13, 1102b 13 ss., spec. 30-33: to; d’
ejpiqumhtiko;n kai; o{lw~ ojrektiko;n metevcei pw~, hÊ| kathvkoovn ejstin
aujtou` kai; peiqarcikovn: «la parte del desiderio e in generale dell’ap-
petizione partecipa in qualche modo (della ragione), nella misura in
cui la ascolta e le obbedisce»; V 15, 1138b 8-12: ejn touvtoi~ ga;r toi`~
lovgoi~ dievsthke to; lovgon e[con mevro~ th`~ yuch`~ pro;~ to; a[logon...
w{sper ou\n a[rconti kai; ajrcomevnw/ ei\nai pro;~ a[llhla divkaiovn ti
kai; touvtoi~: «in questi discorsi la parte razionale dell’anima viene di-
stinta da quella irrazionale… tra esse dunque vi è un qualche principio
di giustizia, come tra comandante e comandato» (si veda il commento

239
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20

di Viano 2002, pp. 87-89 nn. 23-24, che sottolinea anche come questo
tipo di schema fosse comunque platonico, e rappresentasse uno dei ca-
pisaldi della costruzione ideale della Repubblica). Se l’autorità padro-
nale dell’anima sul corpo può essere giustificata dal fatto che il corpo
non ha alcun principio di azione senza l’anima (cfr. Simpson 1998, p.
33), per la relazione intelletto-appetizione la spiegazione è meno intui-
tiva; in ogni modo è fuor di dubbio che la forma di autorità politica (e
regale) che caratterizzerebbe qui le due parti dell’anima non può essere
facilmente intesa sulla base dei criteri evidenziati da Aristotele altrove
in questo libro (1, 1252a 15-16; 7, 1255b 19), in particolare per quel che
riguarda l’alternanza. Verso la fine del I libro saranno ripresi e collega-
ti più direttamente alle relazioni interne alla famiglia – che riproporrà
quindi nei rapporti tra i suoi membri i modelli identificati all’interno
dell’individuo – due dei temi qui solo abbozzati: le diverse forme di au-
torità (12, 1259a 37-1259b 1: padronale quella del padrone sugli schia-
vi, politica del marito sulla moglie, regale quella del padre sui figli;
cfr. anche EN VIII 12, 1160b 23-27) e il parallelo tra parti dell’anima
e relazioni tra i membri della famiglia (13, 1260a 5-12: libero-schiavo,
maschio-femmina, uomo-fanciullo).
b 10-13 A questo punto si passa alle relazioni tra viventi: l’uomo
comanda sugli altri animali; per tutti quelli domestici, che sono migliori
per natura, è garanzia di sopravvivenza (cfr. 2, 1252a 31). Dagli anima-
li domestici, in quanto migliori, è possibile trarre opere migliori (cfr.
sopra 1254a 27): immaginiamo che Aristotele faccia riferimento non
tanto alla compagnia, quanto al lavoro, estremamente prezioso, pro-
prio all’interno dell’oijkiva di cui sta parlando. D’altra parte l’autorità
dell’uomo sugli animali – chiaramente padronale, poiché gli animali
appartengono ai loro padroni, come gli schiavi, nella forma di strumenti
(cfr. 2, 1252b 11-12; 4, 1253b 31 ss.) – li preserva evidentemente dai
predatori e consente loro di nutrirsi regolarmente. Si tratta di riflessioni
tratte dal sentire comune che, tuttavia, Aristotele sfrutta per arrivare
gradualmente al punto centrale del ragionamento.
Se dunque per il rapporto uomo-animali vale lo stesso criterio
(wJsauvtw~) usato per le relazioni anima-corpo e intelletto-appeti-
zione nell’uomo, si chiarisce qui in parte anche l’affermazione fatta
poco sopra (b 6-7), che cioè è «per natura e utile» che nell’esse-
re vivente il corpo sia comandato dall’anima e la parte emotiva da
quella razionale: l’«addomesticare» l’elemento che, nella relazione
di subordinazione, deve obbedire, produce i migliori risultati ed è
vantaggioso, oltre che per la parte che comanda, anche per quella
comandata.

240
COMMENTO I 5, 1254a 34 - 1254b 20

b 13-16 Il maschio, che è per natura migliore, comanda sulla fem-


mina, che è peggiore; questo discorso vale evidentemente per gli es-
seri viventi in generale e per l’uomo in particolare. La differenza che
li caratterizza non sembra intesa in senso biologico (anche se tale è
la terminologia usata), ma evidentemente in relazione all’anima, come
spiegherà alla fine del libro (13, 1260a 5-14: nell’anima è presente ciò
che per natura comanda e ciò che per natura obbedisce, ma le relazioni
tra schiavo e libero, maschio e femmina, uomo e fanciullo sono regola-
te sulla base delle differenze nel possesso delle facoltà dell’anima). In
questo caso la relazione tra i due sessi non è necessariamente padrona-
le; lo stesso Aristotele altrove la definisce «politica» (12, 1259a 39: si
noti però che in questo passo si parla di marito e moglie, come anche
in EN VIII 12, 1160b 32 ss.: ajndro;~ de; kai; gunaiko;~ ajristokratikh;
faivnetai: kat’ ajxivan ga;r oJ ajnh;r a[rcei... : «la comunità tra marito
e moglie appare aristocratica, infatti il marito comanda secondo il va-
lore»).
b 14-15 to;n aujto;n trovpon... . Questa frase è allo stesso tempo
conclusiva della dimostrazione precedente e introduttiva della sezione
successiva: le esemplificazioni dovrebbero aver sufficientemente dimo-
strato che la relazione comandante-comandato vale in tutti gli ambiti e
a maggior ragione è tipica delle relazioni tra uomini (ancora di più in
quanto membri di comunità; lo stesso tipo di procedimento sarà appli-
cato per le relazioni interne alla polis per esempio in VII 2, 1324b 36-
41; 3, 1325a 25-30); Aristotele può quindi procedere nel ragionamento,
anche se con un passaggio logico un po’ arduo, tornando all’argomento
principale, la relazione padrone-schiavo.
b 16-20 Se ci si fonda sugli esempi presentati – quindi per via di
deduzione e non per una dimostrazione condotta in relazione al caso
specifico –, si potrà concludere che per coloro che sono schiavi per na-
tura la soluzione migliore è sottostare al tipo di autorità di cui si è detto
sopra (cfr. anche Plat. Resp. IX 590c: oujkou`n i{na kai; oJ toiou`to~ uJpo;
oJmoivou a[rcetai oi{ouper oJ bevltisto~, dou`lon aujtovn famen dei`n ei\-
nai ejkeivnou tou` beltivstou, e[conto~ ejn auJtw`>/ to; qei`on a[rcon... ajll’
wJ~ a[meinon o]n panti; uJpo; qeivou kai; fronivmou, «dunque, perché un
uomo del genere sia sottoposto a un potere simile a quello che governa
il migliore, diciamo che egli debba essere schiavo di quello, il migliore,
nel quale governa il principio divino…perché siamo convinti che per
chiunque sia meglio esser governato da ciò che è divino e dotato di
intelligenza»). Rientrano nella categoria coloro che differiscono dagli
altri uomini quanto l’anima dal corpo e l’uomo dalla bestia – senza
tuttavia alcuna connotazione biologica –, cioè quelli che usano il corpo

241
COMMENTO I 5, 1254b 20-26

per realizzare il proprio e[rgon (la propria funzione, cfr. 2, 1253a 23 e


sopra 1254a 27) ed è questo quel che di meglio si può ottenere da loro
(posto che «la natura di una cosa è il suo fine» e il fine è «il meglio», chi
esprime queste prerogative, in quanto schiavo, lo sarà senz’altro «per
natura»: cfr. 2, 1252b 31 ss.).
Inoltre, gli schiavi per natura sono al livello del corpo e degli ani-
mali nelle altre relazioni (per l’associazione tra schiavi e animali si
veda III 9, 1280b 32; EN III 13, 1118a 25; cfr. anche Xen. Oec. 13, 9,
dove l’educazione da impartire agli schiavi viene definita qhriwvdh~;
Plat. Leg. VI 777a: alcuni considerano gli schiavi simili a bestie sel-
vatiche). Questa conclusione porta quindi ad una nuova definizione di
«schiavo per natura» (poi ulteriormente precisata nelle linee seguenti),
che fissa apparentemente i criteri di giudizio nella valutazione dello
schiavo (solo in relazione al padrone, non in assoluto: cfr. Schütrumpf
1991, I, p. 260), ma non dice ancora se esistono realmente schiavi per
natura (cfr. Simpson 1998, p. 34). I caratteri dello schiavo «per natura»
enumerati dal nostro autore portano invece ad escludere dalla classifi-
cazione tutti coloro che non si trovano in condizioni ottimali, giacché
in costoro la relazione anima-corpo è «contro natura» (cfr. sopra 1254b
2). Si potrà poi rilevare, sulla base del ragionamento sin qui condotto,
che chi, dotato di queste caratteristiche, si sottomette all’autorità di co-
lui che «comanda per natura», non potrà che averne benefici e la loro
relazione, in quanto naturale, sarà giusta e utile (cfr. sotto 1255a 3).
Aristotele non dice esplicitamente in che cosa consista esattamente il
vantaggio che lo schiavo per natura otterrà dalla propria sottomissione
al padrone – e il problema viene affrontato solo in linee generali anche
altrove (cfr. p. es. EE VII 10, 1242a 13 ss.; cfr. Schütrumpf 1991, I, p.
263); tuttavia Aristotele ha già detto (1, 1252a 30-31) che l’unione tra
chi comanda per natura (padrone) e chi è comandato per natura (schia-
vo) ha come fine la «sopravvivenza» (swthriva), e lo ha ripetuto qui a
proposito degli animali domestici (1254b 12-13), che poche linee sotto
verranno assimilati appunto agli schiavi proprio per la loro utilità.
1254b 20-26 e[sti ga;r fuvsei dou`lo~... para; tw`n hJmevrwn zw/vwn.
Aristotele riprende nuovamente la definizione dello schiavo per na-
tura, recuperando anche gli elementi già forniti nei capitoli precedenti:
- può (ha la capacità di) appartenere ad un altro. La definizione
già data nel cap. 4 (1254a 14-15.: oJ ga;r mh; auJtou` fuvsei ajll’ a[llou
a[nqrwpo~ w[n, ou|to~ fuvsei dou`lov~ ejstin) è posta qui in relazione alla
duvnami~. Se facciamo riferimento alle affermazioni del cap. 2 (1253a
23) che ogni cosa si definisce in base alla funzione (e[rgon) e alla ca-
pacità (duvnami~), i caratteri dello schiavo per natura sono ora del tutto

242
COMMENTO I 5, 1254b 20-26

evidenti: la funzione è collegata all’uso del corpo per realizzare quel


che di meglio si può ottenere (cioè la natura dello schiavo, cfr. sopra
b 18-19), la capacità è legata al carattere di proprietà e all’essere parte
del padrone;
- partecipa alla ragione nella misura in cui può percepirla (nel pa-
drone), ma non possederla. Questa parte del ragionamento è conseguen-
te alla precedente, giacché è evidente che chi non può possedere la ra-
gione (schiavo) non può appartenere a se stesso, ma dovrà appartenere a
chi invece la possiede (padrone); in quanto strumento animato utile per
le necessità della vita (cfr. 4, 1253b 31-34), dovrà però essere in grado
di obbedire al comando del padrone, e quindi partecipare in qualche
modo della ragione, di cui il padrone si serve per comandare (cfr. Sim-
pson 1998, p. 35: «as the master’s command comes from his reason, to
perceive this command is somehow to perceive reason»).
Queste affermazioni ci forniscono l’indicazione che nell’anima del-
lo schiavo esiste un elemento che è razionale in modo limitato, passivo;
in sostanza, la parte passionale comprende quello che la ragione dice,
ma non possiede in maniera perfettamente strutturata la parte raziona-
le. Per questo motivo lo schiavo per natura può obbedire agli ordini e
comprendere le ragioni di quegli ordini, ma manca evidentemente di
una parte della ragione: la sua «disfunzione cognitiva» (Kraut 2002, pp.
283-284) è probabilmente limitata alla facoltà deliberativa, to; bouleu-
tikovn (cfr. 13, 1260a 12), per cui gli schiavi sono in grado di vivere au-
tonomamente, apprendere e svolgere anche abilmente lavori seguendo
indicazioni di altri (Simpson 1998, p. 36 sintetizza con il termine «rea-
soning»), ma non di deliberare bene (sul problema della deliberazione
si veda EN VI 10, 1242b), ovvero di esercitare previsione e discerni-
mento per risolvere i problemi ed ottenere un fine, quando non vi siano
regole fissate da altri: questo è prerogativa di chi possiede la ragione e
può pertanto raggiungere la virtù.
b 23-24 ta; ga;r... uJperetei`. Il periodo, come denota la presenza del
gavr esplicativo, appare un’ulteriore precisazione dell’argomentazione
precedente, ma è estremamente complessa la sua interpretazione “lette-
rale”, a causa della mancanza di linearità nell’espressione. Cerchiamo
di dare conto dei maggiori problemi e delle soluzioni proposte da edito-
ri e traduttori. Il primo problema è dato dalla presenza nella tradizione
delle varianti lovgou e lovgw/: la prima, riportando lo stesso termine della
linea precedente, si giustifica soltanto se il termine è strettamente lega-
to al verbo aijsqanovmena, ma potrebbe essere frutto dell’errore di un
copista in qualche punto della tradizione; la seconda ha maggior senso
se correlata al successivo paqhvmasin e legata al verbo uJperetei` quan-

243
COMMENTO I 5, 1254b 20-26

do non sia inteso in senso assoluto, come avremo modo di chiarire fra
poco. Una seconda difficoltà è connessa alla collocazione del participio
aijsqanovmena, che non è nella canonica posizione attributiva e nello
stesso tempo non può fungere da verbo principale in una proposizione
coordinata a quella introdotta da ajllav. Infine, la congiunzione ajllav
è difficilmente comprensibile se le si attribuisce funzione coordinante
dell’intera espressione ajlla; paqhvmasin uJperetei` (in mancanza di un
verbo principale espresso o sottinteso nella prima parte del periodo),
e risulta invece spiegabile se serve a correlare i due sostantivi lovgw/ e
paqhvmasin. Di fronte a tale situazione gli editori hanno adottato scelte
piuttosto varie: chi ha scelto il genitivo lovgou ha mantenuto il partici-
pio aijsqanovmena (Aubonnet); chi ha adottato il dativo lovg/w/ ha talvolta
espunto il participio (Ross, ma non Dreizehnter); per conservare lovgw/
e participio Schütrumpf (1991, I), con una soluzione decisamente eco-
nomica, ha scelto di posporre aijsqanovmena ad ajllav. Il problema più
spinoso tuttavia, legato alla scelta testuale, è di carattere interpretativo:
con la prima opzione (ouj lovgou aijsqanovmena ajlla; paqhvmasin) è
evidente la difficoltà di rendere letteralmente il periodo, che necessita
di essere liberamente interpretato (cfr. Viano 2002 «mentre gli altri
animali non sanno neppure riconoscere la ragione ma obbediscono
alle emozioni»; Aubonnet 1960 «les autres animaux ne perçoivent pas
la raison, mais obéissent à des impressions»); espungendo il partici-
pio e introducendo il dativo è obbligatorio correlare i due dativi (ouj
lovgw// ajlla; paqhvmasin), facendo di uJperetei` il verbo principale (cfr.
Laurenti 1973 «gli altri animali non sono soggetti alla ragione, ma alle
impressioni»; Saunders 1995 «for the other animals obey not reason
but feelings»); la scelta di dativo e participio (ouj lovgw/ aijsqanovme-
na ajlla; paqhvmasin) conduce d’altro canto a due distinte possibilità
interpretative: legare il participio al soggetto e considerare uJperetei`
il verbo principale, intendendo i due dativi come complementi diretti
del verbo (Schütrumpf 1991, I, dove la posposizione del participio non
cambia comunque il senso generale «denn auch die übrigen Lebewesen
[besitzen] keine Vernunft, der sie gehorchen können, sondern da sie
nur Sinneswahrnehmungen haben, folgen sie den Affekten»); oppure
legare i due dativi al participio ed intendere il verbo in senso assoluto
(Simpson 1998 «for the other animals give of their assistance without
perceiving by reason but rather by what they feel»).
La soluzione di Simpson (dativi correlati, verbo inteso in senso
assoluto), che si è adottata nella traduzione italiana – e che trovava
un unico precedente in Koraes 1821 –, risolve un’apparente contrad-
dizione che l’interpretazione usuale di questa frase metteva invece in

244
COMMENTO I 5, 1254b 20-26

piena luce. Aristotele ha detto poco sopra (b 10) che nel rapporto tra
l’uomo e gli altri animali vale lo stesso criterio delle relazioni anima-
corpo e intelletto-appetizione nell’uomo e che sono schiavi per natu-
ra coloro che differiscono dagli altri uomini quanto l’anima dal corpo
e l’uomo dalla bestia (b 16-17; gli schiavi per natura sono quindi
al livello del corpo e degli animali nelle altre relazioni): è pertanto
evidente che egli intende stabilire delle consonanze tra la situazione
degli «altri animali» e quella dell’uomo, in particolare in relazione
alla questione della schiavitù per natura (ma cfr. Schütrumpf 1991,
I, p. 268, che nega una precisa volontà di Aristotele di mettere in re-
lazione tra loro schiavi e animali, ma li collega solo in virtù del loro
rapporto di sottoposti in relazione al padrone e alla loro mancanza
del logos: «Er – der Herrscher – besitzt den logos, diejenigen, bei
denen das nicht gilt, werden zusammengeschlossen…Gerade an die-
se Bemerkung, daß die Sklaven keinen selbständigen logos besitzen,
schließt sich die Bemerkung über die Tiere an, die nicht dem logos
gehorchen – in ihrem Falle natürlich, weil sie ihn gar nicht besit-
zen»). Nell’interpretazione scelta di consueto dagli esegeti sarebbe
evidente una dissomiglianza tra schiavi e animali in questo punto,
poiché «gli altri animali» non percepirebbero la ragione (come in-
vece gli schiavi), ma solo le emozioni, oppure non avrebbero alcuna
ragione cui obbedire. Questa spiegazione, che non tiene conto nep-
pure della presenza del gavr esplicativo o conclusivo – e non certo
avversativo – stride ancor più perché subito dopo schiavi e animali
sono equiparati ancora una volta da Aristotele, in quanto prestano il
loro aiuto per le necessità della vita, in un modo «di poco» diverso,
attraverso l’uso del corpo.
Se intendiamo invece che gli altri animali agiscono come “aiu-
tanti” (cfr. 1253b 29-30; 1254a 1) «non percependo con la ragione
ma con le emozioni», possiamo certo affermare che schiavi e animali
percepiscono ed eseguono in modo paragonabile i comandi del pa-
drone, in quanto «strumenti animati»: non tramite la ragione – che
non possiedono in proprio – ma tramite le emozioni, i sentimenti,
l’istinto, scatenati, come sottolinea Simpson, da mezzi concreti come
ad esempio il colpo di redini per il cavallo o grida e fischi per i cani
da pastore (cfr. EN VII 6, 1149a 8-10: kai; tw`n ajfrovnwn oiJ me;n
ejk fuvsew~ ajlovgistoi kai; movnon thÊ` aijsqhvsei zw`nte~ qhriwvdei~,
w{sper e[nia gevnh tw`n povrrw barbavrwn, dove non si fa riferimento
ad un rapporto di subordinazione, ma l’assenza di lovgo~ e la dedizio-
ne all’ai[sqhsi~ sono collegate alla vita “da animale” e a quella dei
barbari, nella Politica gli schiavi “per eccellenza”).

245
COMMENTO I 5, 1254b 20-26

Il richiamo ai paqhvmata in questi termini resta tuttavia in certa


misura oscuro, giacché la parte emotiva dell’anima appare in b 7-9
subordinata all’intelletto e alla parte razionale, che schiavi e animali
sembrerebbero non avere (ouj lovgw/... ajlla; paqhvmasin; cfr. anche EN
IX 9, 1170a 16-17), e che non sono separati l’uno dall'altra; inoltre Ari-
stotele ha detto che l’appetizione è legata all’intelletto da una relazione
politica (b 5-6; vd. sopra il commento) e, senza entrare nel merito del
rapporto di subordinazione, è tuttavia vero che entrambi gli elementi
sembrerebbero dover coesistere. Questo apparirebbe provato, ma per il
caso dell’anima dell’uomo virtuoso, dal passo dell’Etica Nicomachea
già citato (I 13, 1102b 13 ss., part. 30 ss.: to; d’ ejpiqumhtiko;n kai; o{lw~
ojrektiko;n metevcei pw~, hÊ| kathvkoovn ejstin aujtou` kai; peiqarci-
kovn: «la parte del desiderio e in generale dell’appetizione partecipa in
qualche modo [della ragione], nella misura in cui la ascolta e le obbedi-
sce»): talvolta si decide razionalmente il corso di un’azione, ma la parte
responsabile di sentimenti e passioni spinge a fare diversamente (cfr.
Kraut 2002, p. 283). Il ragionamento aristotelico del presente capitolo
sembra invece indicare che tali relazioni all’interno dell’anima funzio-
nano in coloro che si trovano in condizioni ottimali di natura, mentre
schiavi e animali sono poi accomunati, attraverso paralleli successivi,
dall’uso del corpo e dalla mancanza della ragione in senso proprio.
Quindi l’affermazione che gli altri animali possono servire i padroni
attraverso una percezione non razionale, ma legata all’istinto (cfr. anche
EN I 6, 1098a 1-4; IX 6, 1170a 16-17), può essere valida anche senza
attribuire a schiavi ed animali il possesso della ragione, come spiega
Simpson (1998, p. 36 n. 41): «the appetite of the slave is not joined
to reason within the soul of the slave, for the slave lacks reason in the
relevant sense. It is only joined, by obedience, to the separate reason of
the master (like the appetite of tame animals)».
Lo schiavo non possiede dunque in maniera perfettamente struttu-
rata la parte razionale, ma nella sua anima esiste un elemento razionale,
seppure in modo limitato, poiché lo schiavo è un uomo (come ribadito
in 13, 1259b 28): per questo motivo lo schiavo per natura può obbe-
dire agli ordini e comprendere le ragioni di quegli ordini, ma manca
evidentemente di una parte della ragione, probabilmente limitata alla
facoltà deliberativa, to; bouleutikovn (vd. sopra; cfr. 13, 1260a 12; cfr.
Schütrumpf 1991, I, pp. 266-267: lo schiavo non dispone della ragion
pratica); pur in grado di vivere autonomamente, apprendere e svol-
gere anche abilmente lavori seguendo indicazioni di altri (cfr. anche
Saunders 1995, p. 78), non è nelle condizioni di deliberare bene (sul
problema della deliberazione si veda EN VI 10, 1242b), esercitando

246
COMMENTO I 5, 1254b 27-39

previsione e discernimento per risolvere i problemi ed ottenere un fine,


quando non vi siano regole fissate da altri (prerogativa di chi possiede
la ragione e può pertanto raggiungere la virtù, cfr. sopra).
Riassumiamo i caratteri dello schiavo per natura evidenziati sino-
ra, e necessari per comprendere anche il ragionamento che Aristotele
farà nel capitolo seguente: a) usa il corpo: questo è il suo compito ed
è il «meglio» che da lui si può ottenere; b) appartiene ad un altro (può
quindi fare le cose al posto di un altro) come strumento vivente per le
necessità della vita, di cui il padrone si serve; c) non possiede la ragione
in senso proprio ma ne partecipa nella misura in cui può coglierla; d)
percepisce il comando del padrone e gli obbedisce; e) il tipo di attività
e il modo in cui la svolge sono simili a quelle degli animali domestici
(quindi il servizio offerto dagli animali prescinde totalmente dalla ra-
gione, ma nella sostanza differisce poco da quello offerto dagli schiavi,
in quanto in ambedue i casi si tratta di un servizio che trova la sua ori-
gine e lo strumento che lo produce nel corpo).
1254b 27-39 bouvletai me;n ou\n hJ fuvsi~... kai; to; tou` swvmato~.
Dopo averci indicato quali sono le diversità tra liberi (padroni) e
schiavi in relazione all’anima, Aristotele fornisce alcune precisazioni
riguardanti le condizioni del corpo dello schiavo, il cui uso, si è detto,
è la sua attività principale e il meglio che si possa ottenere: la natura
intende (Schütrumpf 1991, I, traduce «hat die Tendenz») provvedere
agli schiavi corpi forti adatti alle loro mansioni, mentre ai liberi forni-
sce corpi eretti (la postura eretta contraddistingue l’uomo rispetto agli
altri animali in PA II, 653a 28 ss.; 656a 12; IV, 686a 27-28) e adatti alla
«vita politica» – quella della polis, quella divisa tra attività di guerra e
di pace (cfr. VII 14, 1333a 30-35: all’interno della comunità politica si
riproduce la bipartizione che è propria dell’anima; anche nella vita si
distinguono ozio e attività, guerra e pace, azioni volte a cose necessarie
e utili e azioni che tendono a cose belle); non è da escludere che la pre-
cisazione faccia diretto riferimento al passo del libro VII o sia frutto di
un commento poi entrato nel testo, come rilevato da Schneider. Sarebbe
invece particolarmente significativo se la puntualizzazione sottinten-
desse una posizione aristotelica precisa in relazione alla società greca:
in un’epoca in cui i barbari (schiavi per natura per eccellenza, come
Aristotele avrà modo di precisare poco oltre) venivano ormai spesso
impegnati negli eserciti delle città greche, Aristotele indica chiaramente
(qui e ancora più significativamente nel libro VII 13, 1331b 24 ss. in cui
fornisce gli elementi per la costruzione della polis perfetta) che la «vita
politica», quella dell’uomo libero all’interno della città, è «divisa» tra
attività di guerra e di pace; nel passo del VII libro sopra citato preciserà

247
COMMENTO I 5, 1254b 27-39

poi che vi è una gerarchia, al vertice della quale stanno pace (eijrhvnh),
ozio (scolhv) e cose belle (ta; kalav), ma per giungere alle quali sono
necessari guerra, lavoro e cose necessarie ed utili – e a queste vanno
educati gli uomini di ogni età (cfr. Bertelli 1984; Gastaldi 1995, p. 253;
Gastaldi 2003).
La natura, è vero, «non fa nulla invano» (2, 1253a 9) e la natura
di ciascuna cosa, che è anche il suo fine, è «il meglio» (2, 1252b 32);
tuttavia in qualche caso bisogna ammettere, secondo Aristotele, che il
risultato non sia perfettamente in linea con questo principio (secondo
Schütrumpf 1991, I, p. 266, la natura qui presupposta non è la natura
intesa in senso teleologico degli scritti zoologici; p. 270: la natura qui
non ha a che fare con gli individui, ma col ruolo e la funzione di questi
all’interno del rapporto di potere): è il caso di coloro che hanno corpo
da liberi (eretti e adatti alla vita politica) e anima da schiavi (quindi non
l’anima di «liberi per natura») oppure di coloro che hanno anima da li-
beri e corpo da schiavi (possiamo immaginare che facesse parte del sen-
tire comune l’idea che gli schiavi, usi alla fatica, avessero un corpo più
esercitato ma anche provato dallo sforzo; quel che non viene detto è se
ciò possa avere delle conseguenze sull’attività razionale dell’anima; cfr.
Saunders 1995, p. 78; ma si veda invece Schütrumpf 1991, I, p. 269, che
precisa come Aristotele sia qui interessato unicamente a fornire spiega-
zioni relativamente all’opera di differenziazione del corpo di liberi e
schiavi, e le indicazioni sull’anima siano solo funzionali ed accessorie
rispetto alle precedenti: un uomo con un’anima dotata di logos e un cor-
po di schiavo rappresenterebbe una contraddizione in se stesso). Questa
situazione, evidentemente molto più diffusa di quanto si potrebbe ipo-
tizzare, consente di giustificare le diverse opinioni a riguardo della na-
turalità della schiavitù (che non sarebbe più tale se la natura fallisse nel
suo intento, poiché verrebbe meno la volontà della natura, quella cioè
di preservare la relazione comandante-comandato o padrone-schiavo).
Una distinzione molto netta tra liberi e schiavi in relazione al corpo e
all’anima toglierebbe però ogni dubbio sull’esistenza degli schiavi per
natura: se infatti vi fossero alcuni diversi dagli altri per le qualità fisiche
quanto lo sono le statue degli dèi (l’uso del paragone con gli dèi è già
presente ripetutamente nel cap. 2: cfr. 1252b 27; si tratta evidentemente
di argomenti tratti dal rumor popolare, che comunque rientrano tra gli
esempi paradossali che Aristotele ha già usato nei capitoli precedenti; si
veda p. es. il riferimento alle statue semoventi di 4, 1253b 35-37), tutti
potrebbero affermare che quelli inferiori dovrebbero essere loro schia-
vi: l’uso del periodo ipotetico non solo esclude la possibilità che ciò
avvenga, ma testimonia anche la presa di distanza dell’autore da questa

248
COMMENTO I 5, 1254b 39 - 1255a 2

eventuale conseguenza. Lo stesso discorso dovrebbe valere anche per


l’anima: tuttavia, l’eccellenza dell’anima (che è evidente solo grazie
alla virtù; cfr. EN I 13, 1102b 21) non è così facilmente distinguibile
come quella del corpo, e pertanto potrebbe essere difficile individuare
in questo modo coloro che sono padroni per natura.
Suggestiva l’ipotesi di Simpson (1998, p. 58, già di Dobbs 1994)
che quest’affermazione potrebbe fornire una spiegazione decisiva per
la questione del dibattito sulla schiavitù che ora Aristotele si accinge
ad affrontare: se da un lato la natura è responsabile della condizione
del corpo, dall’altro la perfezione dell’anima, la virtù (seppure presup-
posta alla nascita dalla natura), richiede, oltre alla presenza del lovgo~
– come mostra lo stesso passo del libro VII citato sopra – l’interven-
to del legislatore e di un processo educativo (cfr. anche Schütrumpf
1991, I, p. 266). Pertanto l’anima da schiavi potrebbe non essere frutto
semplicemente dell’opera della natura, ma anche della mancanza di un
processo educativo, e quindi l’anima da schiavo potrebbe prodursi non
solo alla nascita, ma attraverso una successiva “generazione” casuale o
scelta; ciò del resto avviene per alcuni animali, che vengono addomesti-
cati solo in un secondo momento (non dimentichiamo che la condizione
degli animali domestici è stata più volte presentata in questo capitolo
come paragonabile a quella degli schiavi per natura). Per il riferimento
a queste posizioni cfr. sopra, p. 80.
1254b 39-1255a 2 o{ti me;n toivnun... kai; divkaiovn ejstin.
In una sorta di Ringkomposition Aristotele formula la sua risposta
al quesito iniziale: esiste qualcuno schiavo per natura? L’autore sembra
poter dare una risposta definitiva: è «evidente» che per natura vi è una
distinzione tra liberi e schiavi, non assoluta, ma relativa. Così intesa,
l’espressione sembra non comprendere tutti gli uomini (cfr. Saunders
1995, p. 78): è probabilmente su questo argomento che Aristotele basa
il punto di partenza della questione centrale del capitolo successivo. Se
solo alcuni sono schiavi o liberi per natura, è possibile che altri lo siano
diventati in altro modo e/o siano in una condizione diversa da quella
che dovrebbe essere la loro naturale condizione. Solo per coloro che si
trovano in condizione di schiavitù per natura sarà dunque giusto e utile
– come è stato ampiamente dimostrato – essere schiavi.

249
CAPITOLO 6
LA SCHIAVITÙ PER LEGGE

Anche se in maniera ellittica, Aristotele ha già detto alla fine del


cap. 3 (1253b 20-23) che a riguardo della schiavitù esisteva un di-
battito, e che alcuni sostenevano (toi`~ de; [dokei`]) che la condi-
zione di schiavo esiste per convenzione e non per natura, è fondata
sulla forza e pertanto, in quanto contro natura, è anche ingiusta. A
conclusione del cap. 5 dichiara invece di aver dimostrato – per cui
è «evidente», fanerovn – che la distinzione tra liberi è schiavi è per
natura e pertanto l’essere schiavi, per coloro che lo sono per natura,
è giusto e utile. Il cap. 6 si apre quindi con un doppio raccordo;
tuttavia il riferimento diretto a «coloro che affermano il contrario»
– rispetto evidentemente a quel che Aristotele ha appena terminato
di spiegare, cioè l’esistenza della schiavitù per natura –, richiama al
lettore proprio quel che si era accennato alla fine del cap. 3, l’opinio-
ne di coloro che sostengono che la schiavitù esiste per convenzione
ed è fondata sulla forza. Il capitolo si concentra infatti sull’esame e
la confutazione di questa posizione.

1255a 3-4 {Oti de;... ijdei`n.


L’espressione oiJ tajnantiva favskonte~ fa riferimento evidentemen-
te a quel che Aristotele ha detto e dimostrato poco sopra: che l’assunto
neghi l’ultima affermazione o l’intera dimostrazione poco importa (cfr.
Schütrumpf 1991, I, p. 273; Simpson 1998, p. 39). Quel che va rilevato è
da un lato l’espressione possibilista del filosofo riguardo al ragionamen-
to di coloro che la pensano in maniera opposta (trovpon tina; levgousin
ojrqw`~, non hanno tutti i torti), dall’altro la litote ouj calepo;n ijdei`n,
che contrasta il fanerovn del periodo immediatamente precedente. La
conseguenza principale sarà dunque che, se è chiaro che esistono schiavi
per natura e non è difficile vedere che chi dice il contrario ha in qualche
modo ragione, Aristotele ritiene che l’intera categoria degli schiavi non
possa esaurirsi negli schiavi per natura, o che tra gli schiavi – e si parla
della situazione esistente, non della teoria – ne esista un certo numero
per cui è contro natura, ingiusto e/o inutile essere schiavi. L’apparen-
te contraddizione di queste affermazioni verrà comunque risolta subito
dopo, sottolineando che la schiavitù per natura e la schiavitù per legge
non sono incompatibili in ogni caso, ma che la schiavitù potrà essere
definita giusta soltanto se i due caratteri coesistono.

250
COMMENTO I 6, 1255a 4-7

1255a 4-7 dicw`~ ga;r... ei\naiv fasin.


La condizione di schiavitù (to; douleuvein e oJ dou`lo~) può quin-
di essere intesa, oltre che nel senso di condizione naturale – secondo
quel che Aristotele ha dimostrato nel capitolo precedente –, anche kata;
novmon, secondo una condizione giuridica, che non è tuttavia frutto di
una prescrizione del diritto positivo: Aristotele precisa che si tratta di
una oJmologiva che, per comune riconoscimento delle parti, consente al
vincitore in guerra di prendere possesso del vinto – e di tutto ciò di cui
entra in possesso come bottino di guerra, come provato dall’uso del
genere neutro –. La condizione di schiavitù imposta agli sconfitti in
guerra è tema assai comune nella letteratura greca: nei poemi omerici
(cfr. p. es. Hom. Il. I 366; Od. XIV 272), come nella tragedia di età clas-
sica (Eur. Andr. 97), nei racconti storici (Thuc. II 5, 7; III 50, 1), negli
oratori (Demosth. 18, 289) è evidente che le vicende dei Greci sono
costellate di deportazioni di prigionieri e di riduzione in schiavitù degli
sconfitti, in particolare donne e bambini. Questa prassi è normalmente
considerata lecita, oltre che abituale, come testimoniato da Senofon-
te (Cyr. VII 5, 73: tau`ta nomisavtw ajllovtria e[cein: novmo~ ga;r ejn
pa`sin ajnqrwvpoi~ ai[diov~ ejstin, o{tan polemouvntwn povli~ aJlw/`, tw`n
eJlovntwn ei\nai kai; ta; swvmata tw`n ejn thÊ` povlei kai; ta; crhvmata;
Mem. II 2, 2: to; ajndrapodivzesqai tou;~ me;n i{lou~ a[dikon ei\nai do-
kei`, tou;~ de; polemivou~ divkaion ei\nai) e da Platone (Leg. I 626b: kai;
scedo;n ajneurhvsei~, ou{tw skopw`n, to;n Krhtw`n nomoqevthn wJ~ eij~
to;n povlemon a{panta dhmosiva/ kai; ijdiva/ ta; novmima hJmi`n ajpoblevpwn
sunetavxato, kai; kata; tau`ta ou{tw fulavttein parevdwke tou;~ nov-
mou~, wJ~ tw`n a[llwn oujdeno;~ oujde;n o[felo~ o]n ou[te kthmavtwn ou[t’
ejpithdeumavtwn, a]n mh; tw`/ polevmw/ a[ra krath`Ê ti~, pavnta de; ta; tw`n
nikwmevnwn ajgaqa; tw`n nikwvntwn givgnesqai).
Tuttavia il pensiero espresso da Aristotele, come possiamo notare
anche dal linguaggio, si pone su un piano teorico, facendo riferimento
da un lato ai concetti generali e dall’altro a quel complesso di norme
che venivano abitualmente applicate nelle relazioni internazionali e nel
diritto privato. Il nomos qui indicato, più che essere una specifica legge
relativa al possesso del bottino di guerra – come sembrerebbe invece
portare a credere il pronome relativo maschile (ejn w|/) –, ha un’accezione
più generale, quella di “atto normativo”, e si pone come l’insieme di
norme e convenzioni prodotte dall’uomo, e in quanto tali non perfette
(all’opposto della condizione «per natura»). Tuttavia Aristotele non ha
interesse a parlare del carattere convenzionale della legge in generale,
ma intende prima di tutto rimarcare che il nomos, in quanto “riparti-
zione imperfetta” – di contro invece alle relazioni naturali interne alla

251
COMMENTO I 6, 1255a 4-7

città (cfr. Viano 2002, p. 90 n. 26) – richiede un accordo fra individui


disponibili ad accettare la ripartizione e anche la possibilità che uno
o più tra loro si vengano a trovare in situazione di superiorità – ed è
questo il centro dell’argomentazione aristotelica –, e solo in seconda
battuta che l’elemento consensuale a riguardo della schiavitù di guerra
prevede che il bottino divenga possesso del vincitore. In questo senso il
nomos di cui Aristotele parla qui a proposito della schiavitù è definibile
come oJmologiva, ovvero come un accordo «ove i contraenti non sono su
un piano paritetico» (cfr. Cobetto Ghiggia 2011). D’altra parte questo
significato tecnico di homologia è perfettamente dimostrabile sia nella
sfera pubblica sia in quella delle relazioni private tra il V e il IV secolo
a.C. (cfr. Cobetto Ghiggia 2011: «dal punto di vista diacronico si può
osservare come la homologia mantenga a tutto tondo la caratteristica in-
trinseca di atto ufficiale, soprattutto nel settore pubblico e diplomatico,
a partire dal V secolo per proseguire coerentemente nel IV, ove, grazie
al contributo dell’oratoria civile, è lecito trovare sufficiente conferma
di quanto supposto anche per l’ambito privato»). Si potrebbe allora af-
fermare che «1) La homologia non è solo un generico accordo, ma un
istituto giuridicamente regolamentato dal punto di vista formale che
genera rapporti obbligatori. 2) Il ricorso alla homologia nasce da situa-
zioni di contrasto fra due o più parti e mira alla loro composizione. 3)
Dalle testimonianze… si può dedurre altresì che, solitamente, nell’am-
bito della stipula di una homologia una delle parti coinvolte si trova in
una posizione di supremazia, fattuale o anche solo presumibile» (Co-
betto Ghiggia 2011). In relazione a quanto qui affermato da Aristotele
quindi è del tutto inopportuno considerare il nomos qui citato come
una norma precisa; P. Cobetto Ghiggia, nelle sue riflessioni sul passo
a me indirizzate, ha rilevato che «anche il nomos è… un’obbligazione
che implica l’accettazione da parte degli uomini riuniti in un consorzio
sociale e in tale senso alla base del suo funzionamento si deve trovare
l’homologia. L’homologia non è certamente una ‟legge” riconosciuta
a livello pubblico, né tanto meno una consuetudine avente valore di
norma, ma più semplicemente l’accordo consensuale alla base di una
qualsivoglia obbligazione che presuppone l’accettazione di due o più
parti. In accezione traslata, quindi, il nomos (ripartizione umana imper-
fetta) è homologia (accordo consensuale ad accettare tale ripartizione
umana imperfetta)».
La restante parte del periodo è costituita da una proposizione re-
lativa che, nella forma unanimemente tramandata, ha creato qualche
difficoltà esegetica: la locuzione ejn w|/ appare grammaticalmente col-
legata al maschile novmo~ e la relativa sembrerebbe esplicitare il ca-

252
COMMENTO I 6, 1255a 7-11

rattere della norma cui Aristotele si riferisce all’inizio della frase («il
nomos nel quale...»). Tuttavia, giacché il fulcro dell’argomentazione
aristotelica appare la caratterizzazione del nomos come homologia, la
locuzione relativa maschile è parsa inaccettabile ad alcuni editori che
hanno ritenuto opportuna una correzione del maschile in femminile (ejn
hÛ|; già Rackham per la Loeb nel 1932, da ultimo Ross), con l’evidente
scopo di sottolineare che la frase relativa punta a chiarire il significato
dell’accordo e non a precisare il nomos. Il testo tràdito tuttavia può es-
sere conservato senza difficoltà, presupponendo che il lettore antico – a
differenza di noi moderni – avesse chiaro il significato di nomos come
l’insieme di norme e convenzioni imperfette prodotte dall’uomo, che
fa da contraltare ad una condizione «per natura», e potesse considerare
la frase relativa come una semplice specificazione dell’ambito cui sta
facendo riferimento (la schiavitù “di guerra”).
1255a 7-11 tou`to dh; to; divkaion... to; biasqevn.
Il risultato del nomos nell’accezione prima definita, nella sua qualità
di homologia, è pertanto un diritto, una prerogativa (divkaion) – il botti-
no di guerra è proprietà del vincitore –, sancito e giustificato dal nomos
stesso; giacché tuttavia l’homologia prevede che coloro che sono vin-
colati dall’accordo non siano su un piano di parità, la conseguenza sarà
che «il nomos avrà come immediato effetto, sul lato pratico, l’ammis-
sibilità del diritto di chi ha più prerogative»; tale prerogativa non potrà
che portare a prendere atto del fatto che «il risultato più “inquietante”
del nomos umano, se portato all’estremo, sarebbe la pacifica ammissio-
ne del “diritto del più forte”» (dalle riflessioni di P. Cobetto Ghiggia a
me indirizzate). Pertanto in questo modo Aristotele «vuole rilevare le
aporie della categoria nomos»: il considerare il nomos una homologia
prevede che si possa giungere al giustificato diritto (dikaion: giustifica-
to, non necessariamente giusto) di un individuo di ridurne in schiavitù
un altro, appunto kata; novmon (cfr. anche Schütrumpf 1991, I, p. 275:
questa posizione avrebbe un carattere polemico, giacché nel sentire
comune il nomos è opposto alla violenza; Senofonte, Cyr. I 3, 17: to;
me;n novmimon divkaion ei\nai, to; de; a[nomon bivaion). Pertanto alcuni di
coloro che si oppongono alla schiavitù “di guerra” (il riferimento è solo
a questa forma), prodotto della violenza, in realtà considerano inaccet-
tabile il dikaion, il diritto che è l’estremizzazione del concetto di nomos
come homologia in riferimento alla schiavitù. Chi infatti si intende di
diritto – e sono molti – (polloi; ejn toi`~ novmoi~: cfr. VIII 7, 1341b 33,
tine~ tw`n ejn filosofiva/; Metaph. VI 8, 1050b 35: oiJ ejn toi`~ lovgoi~;
Plat. Prot. 317c: eijmi; ejn th`Û tevcnhÛ; Resp. VII 531b: oiJ ejn th`Û ajstro-
nomiva/), contesta il diritto del più forte che deriva da tale interpretazione

253
COMMENTO I 6, 1255a 7-11

(non il nomos in sé) e lo accusa di proposta illegale, come si accusa


un proponente (rJht v wr) in assemblea. All’exemplum di carattere giuri-
dico segue il contenuto dell’accusa: è spaventoso che si possa diventare
schiavi e sottoposti di chi può commettere violenza ed è in condizione
di superiorità. Si tratta di un giudizio di merito soggettivo, ma evidente-
mente anche di una espressione formulare che poteva servire a sottoline-
are la gravità dell’accusa e dare maggior peso al carattere di illegalità del
diritto in questione; l’espressione deinovn eij... è infatti frequente negli
oratori attici del IV secolo a.C., in particolare in Isocrate (p. es. 18, 3; 7,
64; 15, 152) e Demostene (p. es. 5, 8; 7, 1;16, 6; 20, 12), volta a mettere
in risalto con forza e in certi momenti con una sottolineatura iperbolica
un punto di vista su una questione particolarmente significativa.
Come si può notare, il pensiero aristotelico si sviluppa su più piani,
ma conserva un carattere “tecnico” che richiede la perfetta compren-
sione dei singoli termini per giungere a chiarire l’argomentazione nel
suo complesso.
a 8-9 gravfontai paranovmwn. La grafh; pafranovmwn è una pro-
cedura ateniese in vigore tra la fine del V e il IV secolo a.C. nella forma
di accusa per proposta incostituzionale intentata contro decreti (psephi-
smata) in approvazione o già approvati dall’assemblea (ekklesia); essa
era presentata al tribunale popolare (heliaia, eliea), che aveva facoltà di
annullare i decreti. Un caso particolare è quello della graphe parano-
mon contro provvedimenti di grazia e di amnistia, che venivano tuttavia
concessi in forma di decreto e quindi rientravano nel caso precedente
(Hansen 2001, p. 15). Essa poteva essere intentata da qualunque cit-
tadino ed era introdotta da una dichiarazione giurata (hypomosia; cfr.
Demosth. 18, 103) – prestata prima del voto, durante il dibattito as-
sembleare sul provvedimento o dopo l’approvazione – che il decreto
in questione era contrario alle leggi, nella forma o nel contenuto, op-
pure dannoso o inopportuno per gli interessi del popolo: quest’ultima
possibilità comparve soltanto nel corso del IV secolo, con conseguen-
ze talvolta rilevanti, poiché l’ampia interpretazione dell’inopportuni-
tà diveniva un’arma politica che poteva essere usata contro ogni tipo
di decreto. A seconda dei casi, si poteva avere un rinvio del dibattito
assembleare o una sospensione della disposizione fino al verdetto del
tribunale. Il processo contro il proponente del decreto dalla presunta
incostituzionalità si svolgeva davanti al tribunale popolare con almeno
501 giurati: l’accusatore dopo il giuramento era tenuto a portare avanti
l’accusa anche consegnando una memoria scritta ai tesmoteti (Aeschn.
2, 14) – il gruppo degli arconti che aveva il compito di convocare il
tribunale popolare e presiedere quasi tutte le accuse pubbliche (cfr. Da-

254
COMMENTO I 6, 1255a 7-11

verio Rocchi 1993, p. 207; Hansen 1991, p. 338) –, nella quale indicare
i motivi dell’azione giudiziaria; se non l’avesse fatto sarebbe incorso in
una multa e nella proibizione di intentare altre accuse dello stesso gene-
re. La sentenza favorevole all’accusatore prevedeva l’annullamento del
decreto (in ogni caso) e la punizione del proponente (ma solo se pro-
nunciata entro un anno dalla proposta), con un’ammenda da simbolica
a molto gravosa, fino alla condanna a morte o all’atimia, la privazione
dei diritti politici.
La prima sicura attestazione della grafh; paranovmwn è del 415
a.C., quando Leogora, padre di Andocide, accusò un membro del con-
siglio, Speusippo, di aver proposto un decreto illegale (cfr. And. 1, 17
e 22). Hansen 2001 enumera trentanove casi di grafh; paranovmwn tra
il 415 e il 322 a.C. (ci sono pervenuti alcuni dei discorsi di accusa ad
opera di noti oratori: cfr. il catalogo di Hansen 2001, pp. 31-51); non
si conosce tuttavia la data precisa dell’introduzione della procedura in
Atene. Già Lipsius (1905-1915, pp. 36 e 383) e più recentemente Wolff
(1970, p. 18) e Rhodes (1972, p. 62) la attribuiscono alle riforme di
Efialte del 462/461 a.C., anche se nelle fonti non vi è traccia della sua
esistenza prima della guerra del Peloponneso (Hansen 1991, p. 205 e
n. 284); ciò fa sospettare che la procedura, proprio per il suo valore
politico, sia stata ben presto sfruttata in sostituzione dell’ostracismo per
eliminare i politici “scomodi”.
Il termine rJhvtwr era utilizzato a tutti gli effetti – in un primo mo-
mento accanto a strathgov~, che indicava il comandante dell’esercito
che agiva anche come consigliere e oratore nell’assemblea popolare,
e poi affiancato da dhmagwgov~, il leader popolare in senso neutro ma
ben presto con connotazione spregiativa (si veda IV 4, 1292a 7; V 5,
1305a 7; V 11, 1313b 40-41) –, a partire approssimativamente dalla
metà del IV secolo a.C., per indicare in senso tecnico (e per lo più privo
di giudizi di valore) l’uomo politico ateniese, che agiva nei vari organi
istituzionali come proponente di decreti o come oratore nell’assemblea
e in qualità di accusatore o difensore nei processi di fronte al tribuna-
le popolare (cfr. Hansen 1983a; Hansen 1983b; Hansen 1987; Mossé
1995a; Mossé 1995b) .
L’exemplum di Aristotele sull’accusa di illegalità intentata contro
un rJhvtwr è probabilmente specchio della realtà politica ateniese di cui
egli stesso ha fatto esperienza: i processi per graphe paranomon erano
a quell’epoca ormai per lo più diretti ad personam, e indirizzati contro i
politici rei di aver mal consigliato il popolo. Spesso infatti il decreto che
l’accusatore giudicava contro la legge era già stato approvato dall’as-
semblea; lungi dal dimostrare che, portando avanti un’accusa di questo

255
COMMENTO I 6, 1255a 11-17

genere, si sarebbe colpita direttamente la sovranità del popolo riunito in


assemblea, l’uso del procedimento accusatorio finiva per comprovare
che il popolo poteva facilmente essere ingannato da politici corrotti che
ne avevano carpito la buona fede per interessi personali o per amicizie
potenti, o che l’accusa contro il proponente di un decreto poteva essere
usata dagli avversari politici per minarne il prestigio e in qualche caso
estrometterlo dai giochi del potere – ed infatti ad un certo punto i politi-
ci più esposti si servivano di prestanome come proponenti di decreto (i
cosiddetti “sicofanti”), disponibili a subire processi per graphe parano-
mon al loro posto, e per i quali essi stessi potevano scrivere i discorsi di
difesa, esercitando in questo modo il proprio potere politico e la propria
abilità demagogica (Hansen 2001, pp. 69-72).
1255a 11-17 kai; toi`~ me;n... movnon ei\nai th;n ajmfisbhvthsin.
L’estremizzazione delle conseguenze del nomos come homologia,
ovvero la possibilità di chi può esercitare la violenza ed è superiore in
potenza di sottomettere arbitrariamente chi è oggetto della sopraffazio-
ne, non vede tuttavia unanimemente d’accordo i detrattori della schia-
vitù: se verosimilmente uno che si intende un po’ di leggi non potrebbe
accettare che la legge del più forte sia usata come giustificazione della
schiavitù di guerra, è pur vero – nota Aristotele – che anche tra i saggi
vi sono di quelli che non sembrano condividere questa posizione (e
quindi in qualche modo vedono di buon occhio la schiavitù che deriva
dalla violenza e dalla sopraffazione, ma a particolari condizioni, che
Aristotele spiega subito dopo). Il disaccordo scaturisce dal fatto che
essi ritengono che in qualche modo la virtù, quando ne ha i mezzi, sia in
grado di esercitare la violenza, e l’elemento che domina abbia sempre
in larga misura un qualche bene, per cui sembra che non esista uso della
forza senza virtù, e che invece la discussione verta «solo» sul diritto,
sulla prerogativa del dominatore (EN V 10, 1135b 27; cfr. Newman
1887, II, p. 156 e Schütrumpf 1991, I, pp. 278-279). In sostanza, ci
si aspetterebbe che la condanna dell’estremizzazione del diritto del più
forte applicato alla schiavitù di guerra fosse unanime. Invece Aristotele
ci fa notare che «anche tra i saggi» ci sono posizioni contrarie: nella
fattispecie, nell’opinione di costoro, la schiavitù trova giustificazione
nel fatto che il dominio attraverso l’uso della forza presuppone una su-
periorità in virtù di chi la esercita. Se chi risulta vincente non eccellesse
in virtù, la schiavizzazione degli sconfitti sarebbe pertanto «spaventosa»
ed evidentemente non giustificata, perché verrebbe meno la relazione
naturale tra padrone e schiavo, che Aristotele ha dimostrato essere utile e
giusta (Simpson 1998, p. 40). Pertanto i saggi e coloro che condividono
la loro posizione giustificano la prerogativa dei vincitori solo in quanto

256
COMMENTO I 6, 1255a 11-17

la forza è accompagnata dalla virtù, e non mettono quindi in discussio-


ne il valore dell’homologia, bensì il dikaion – come viene ribadito da
Aristotele a 1255a 16 –, quel diritto del più forte che, senza adeguata
discussione, appariva la logica conseguenza dell’affermazione iniziale
di 1255a 7-8.
Bisogna tuttavia intendersi sul significato della «virtù» cui Aristo-
tele fa riferimento: quale eccellenza consente all’uomo di esercitare la
forza? Luogo comune nella “propaganda” ateniese, più volte utilizzato
da Isocrate (cfr. p. es. 4, 150: ouj ga;r oi|ovn te tou;~ ou{tw trefomevnou~
kai; politeuomevnou~ ou[te th`~ a[llh~ ajreth`~ metevcein ou[t’ ejn tai`~
mavcai~ trovpaion iJstavnai tw`n polemivwn, in riferimento ai Persiani,
destinati alla sconfitta in guerra ed educati alla schiavitù, in quanto in-
capaci di disciplina e inesperti di pericoli; e ancora p. es. 12, 71), quello
della superiorità in virtù dei Greci e in particolare degli Ateniesi nel-
la storia passata della loro città (soprattutto nelle guerre persiane) – in
grado, grazie alle loro eccezionali qualità, di sconfiggere il nemico ed
evidentemente legittimati a farlo, ma a certe condizioni –, è un tema che
doveva essere ben presente al filosofo; inserito nelle vicende storiche
delle mire di conquista di Alessandro sulla Grecia, esso potrebbe fornire
un’interessante “suggestione educativa” al sovrano macedone, ma solo a
patto di ipotizzare che almeno parte del materiale poi venuto a costituire
questa sezione del testo esistesse già prima della “composizione” vera e
propria (per la composizione del I libro si veda l’Introduzione). Tuttavia
Aristotele non si limita a proporre una generica connotazione della virtù,
ma possiamo pensare che si riferisca da un lato alle “parti della virtù”
che sono proprie della “vita militare” (stratiwtiko;n bivon: II 9, 1270a
5; pro;~... mevro~ ajreth`~,... th;n polemikhvn: au{th ga;r crhsivmh pro;~
to; kratei`n: II 9, 1271b 2-3), dal momento che «la polis dev’essere
temperante, coraggiosa e forte, perché, secondo il proverbio, “non c’è
riposo per gli schiavi”, e coloro che non sono in grado di affrontare
coraggiosamente i pericoli sono schiavi di chi li attacca» (dio; swvfrona
th;n povlin ei\nai proshvkei kai; ajndreivan kai; karterikhvn: kata; ga;r
th;n paroimivan, ouj scolh; douvloi~, oiJ de; mh; dunavmenoi kinduneuvein
ajndreivw~ dou`loi tw`n ejpiovntwn eijsivn: VII 15, 1334a 19-22); dall’al-
tro alla condizione naturale di padrone e schiavo, ciascuno dotato di
una propria forma di virtù in relazione alle differenti facoltà dell’anima
e al possesso delle virtù «etiche» (EN I 13, 1103a 4-7), cui tutti devono
partecipare, «non nello stesso modo, ma nella misura in cui occorre a
ciascuno per svolgere il proprio compito» (13, 1260a 15-17; cfr. sotto,
il commento al passo). Quindi potremo concludere che coloro che affer-
mano che il diritto del più forte sia giustificato se la forza è esercitata in

257
COMMENTO I 6, 1255a 17-19

associazione con la virtù non fanno che sostenere la tesi della naturalità
della relazione padrone-schiavo. Il nodo sta dunque nel concetto di «di-
ritto» (dikaion) e su questo si basa la disputa (ma cfr. Schütrumpf 1991,
I, p. 277, che enfatizza il ruolo dell’ajrethv come “causa” della contesa e
presupposto del dominio): chi possiede la virtù, avendone i mezzi, può
dominare, perché nell’esercizio del dominio è insita una superiorità in
relazione a qualche bene, e dunque l’esercizio della forza per chi ha i
mezzi dati dalla virtù è legittimo.
a 12-13 Numerose le possibilità offerte dagli interpreti sulla spie-
gazione dell’«alternanza» (ejpallavttein) degli argomenti (lovgoi); la
spiegazione più semplice è comunque quella di supporre che si possa
parlare di argomentazioni contrastanti (la violenza esercitata dal più
forte vs la violenza “virtuosa”) che partono da uno stesso principio, che
è il dikaion della l. 8, come Aristotele indica alla l. 17. In sostanza si
contende, gli opposti argomenti si confrontano fin quando si lasciano
confuse e non si distinguono adeguatamente violenza pura e violenza
sorretta dalla virtù (cfr. Bonitz 1870, p. 264b 51).
1255a 17-19 dia; ga;r tou`to... to; to;n kreivttona a[rcein:
Le opzioni proposte da Aristotele in relazione alla giustificazione
della schiavitù di guerra corrispondono dunque (gavr) a due diversi modi
di intendere la prerogativa che deriva dal nomos: per coloro che asso-
ciano l’uso della forza alla virtù il dikaion è «benevolenza»; per coloro
che invece fanno riferimento al diritto del più forte tout court (quello
espresso da Trasimaco in Plat. Resp. 338c: to; divkaion oujk a[llo ti h]
to; tou` kreivttono~ sumfevron, «il diritto non è altro che l’utile del
più forte»), la prerogativa che consegue al nomos è semplicemente la
legittimazione stessa, ovvero che il più forte (sia egli virtuoso o no, cfr.
Simpson 1998, p. 41) comanda a buon diritto (si noti la ripresa sintetica
dell’espressione assai più articolata della l. 10; diversamente Simpson
1997, p. 23 e 1998, p. 41 n. 52, che pone la virgola dopo tou`to, inten-
dendo «others think it is this, that rule by the stronger is just»: anche
se l’interpretazione non differisce nella sostanza, la difformità sta nel-
la spiegazione di divkaion che, pur se non accompagnato dall’articolo
ma solo dall’aggettivo, mi sembra da ricollegare al concetto di «diritto,
prerogativa» in cui l’ho inteso nel resto del capitolo a partire dalla l. 8).
Non vi è pertanto alcuna necessità di correggere il termine eu[noia, tra-
smesso dai codici, come hanno invece ritenuto opportuno già Lambin
(eujnomiva) e poi Richards (eujhvqeia) e Ross (a[noia, accolto anche da
Saunders): la «benevolenza» è «volere il bene» di qualcuno, concetto
ben diverso dall’utile personale (cfr. EE VII 7, 1241a 1; EN VIII 2,
1155b 32; VIII 7, 1158a 7; IX 5, 1167a 8; si vedano anche Democr.

258
COMMENTO I 6, 1255a 17-19

fr. 302 DK = 617 Luria: to;n a[rconta dei` e[cein... pro;~ de; tou;~ uJpo-
tetagmevnou~ eu[noian e Plut. Mor. 821a-b), ed è collegata alla virtù
(EN IX 5, 1167a 18: o{lw~ d∆ hJ eu[noia di∆ ajreth;n kai; ejpieivkeiavn
tina givnetai, o{tan tw`/ fanh`Û kalov~ ti~ h] ajndrei`o~ h[ ti toiou`ton... ).
Se poi suppliamo all’estrema sintesi aristotelica con alcuni passaggi
del ragionamento che restano sottintesi, possiamo certo dedurre che il
diritto di schiavizzare il più debole da parte del più forte rientra nella
dimostrazione della schiavitù per natura che il filosofo ha condotto nel
cap. 5: se chi esercita la forza è virtuoso e pertanto vuole il bene di colui
che sottometterà, e allo stesso tempo il diritto che viene dall’homologia
– l’accordo non paritario tra le parti che si affrontano – prevede che chi
è oggetto della violenza divenga schiavo di chi la esercita, la condizione
dello schiavo sarà legittimata dal diritto e vantaggiosa, quindi accettata
di buon grado dai sottoposti, come è stato dimostrato a proposito dello
schiavo per natura (5, 1255a 2-3; cfr. Simpson 1998, p. 40 n. 51; cfr.
anche Newman 1887, II, p. 156, che cita il fr. 35 Wehrli di Aristosseno,
allievo di Aristotele, dallo Stobeo IV 1, 49: peri; de; ajrcovntwn kai;
ajrcomevnwn ou{tw~ ejfrovnoun: tou;~ me;n ga;r a[rconta~ e[faskon ouj
movnon ejpisthvmona~, ajlla; kai; filanqrwvpou~ dei`n ei\nai, kai; tou;~
ajrcomevnou~ ouj movnon peiqhnivou~, ajlla; kai; filavrconta~).
In estrema sintesi si può dunque affermare che i sostenitori dell’esi-
stenza di una schiavitù kata; novmon si appellano alla legge, che è insie-
me convenzione, accordo e consuetudine, secondo la quale chi è supe-
riore in forza e risulta vincitore può rendere schiavo chi viene sconfit-
to. Tuttavia Aristotele identifica tra costoro due posizioni, in relazione
all’interpretazione delle prerogative che la legge comporta, e quindi alla
legittimità delle conseguenze che derivano dall’accordo tra le parti (e
non semplicemente all’essere più o meno giuste, come molti commen-
tatori hanno voluto intendere; si tratta di un ragionamento condotto sul
filo sottile della terminologia giuridica): 1) quella di coloro che vedono
come effetto dell’applicazione dell’accordo solo la “legge del più forte”
e dunque un arbitrio da parte del vincitore/padrone; 2) quella di coloro
che associano all’opera del conquistatore il possesso della virtù e dunque
la «benevolenza» verso l’oggetto della violenza, che rende quindi legit-
tima la schiavizzazione degli sconfitti (cfr. Newman 1887, II, p. 156:
«those who argued against slavery unaccompanied by good-will betwe-
en master and slave were probably among those who glorified rule over
willing subjects, in contraddistinction to rule over unwilling subjects»).
Il disaccordo dunque verte sulle conseguenze (l’“attuabilità”, la corretta
interpretazione della legge) e non sulle premesse (la “norma”, riguar-
do alla quale le due argomentazioni coincidono; cfr. Simpson 1998, p.

259
COMMENTO I 6, 1255a 19-21

41), ma è evidente che la seconda posizione è conforme al concetto di


relazione naturale padrone-schiavo che Aristotele ha illustrato preceden-
temente e potrebbe spiegare l’espressione iniziale per cui anche coloro
che dicono «il contrario» (o che «affermano di sostenere il contrario»)
hanno in qualche modo ragione. Per una efficace ricostruzione delle po-
sizioni antiche sul problema della schiavitù, di cui Aristotele avrebbe
potuto tenere conto nel formulare la sua argomentazione cfr. Cambiano
1987, pp. 22; Brunt 1993, pp. 343-388; Garnsey 1996, pp. 74-80.
1255a 19-21 ejpei; diastavntwn ge cwri;~... a[rcein kai; despovzein.
Il periodo è estremamente complesso, ma si può senz’altro affer-
mare, con Newman 1887, II, p. 158, che «confirms what has been said
by introducing a supposition of the contrary» (cfr. anche 1254b 34). La
prima parte del periodo fa probabilmente riferimento a quanto si è detto
poco sopra: i «discorsi contrapposti» sono quelli che riguardano il con-
tenuto del dikaion, da un lato la benevolenza (ma forse anche l’intera
argomentazione dei sostenitori della legittimità della schiavitù di guerra
sulla base del possesso della virtù), dall’altro l’uso della forza in senso
assoluto. Il ragionamento sopra esposto, intende Aristotele, spiega dun-
que perfettamente la questione, al punto che – quando le opposte posi-
zioni non sono più confuse, intricate, sovrapposte, ma si sono operate
le dovute distinzioni –, perdono completamente la loro forza persuasiva
i discorsi di coloro che sostengono che il migliore per virtù non deve
comandare ed essere padrone. Un parziale chiarimento del ragionamen-
to potrebbe venire, come nota Schütrumpf 1991, I, pp. 279-280, dalla
lettura di VII 2, in particolare di 1324b 25 ss. (ma è altrettanto vero che
conosciamo la posizione aristotelica sulla schiavitù «per natura» già dal
cap. 5 del libro I): chi riflette attentamente, troverà strano che il politico
si occupi di reperire mezzi per sottomettere o dominare il prossimo, vo-
lente o nolente, poiché il dominare da padroni, con o senza diritto, non
è mai conforme alla legge, e invece sembra che la maggior parte delle
persone ritengano che il potere dispotico sia politico, anche se ingiusto.
Per lo più cercano un governo giusto per se stessi, ma nelle relazioni
con gli altri non si occupano della giustizia, ed è strano, a meno che non
esista per natura una parte che può essere asservita e una parte che non
può esserlo, e allora si dovrà cercare di dominare solo su quelli adatti
ad esserlo per natura.
In sostanza Aristotele conclude l’argomentazione e apre la strada
alla seconda parte del capitolo: una volta che si sono posti di fronte i
due ragionamenti, coloro che ancora sostengono che la superiorità per
virtù non è legittimazione al comando e al dominio padronale non ri-
escono più a persuadere nessuno, perché la legittimità della sottomis-

260
COMMENTO I 6, 1255a 21-28

sione è provata dall’esistenza degli schiavi per natura (e che il migliore


sia destinato a dominare è già stato detto a 5, 1254a 25; semmai qui si
aggiungono due elementi, quello relativo alla legge di guerra e quello
relativo alla superiorità per virtù, ben presente al filosofo anche altrove,
cfr. 13, 1260a 17; III 16, 1287b 12; VII 3, 1325b 10).
1255a 21-28 o{lw~ dÔ ajntecovmenoiv tine~... eja;n sumbhÛ` praqh`nai
lhfqevnta~.
In una prima fase Aristotele ha sviluppato un blocco del ragiona-
mento: si può essere schiavi anche per legge; la legge è un accordo non
paritario che in guerra prevede il dominio del più forte sul più debole,
quindi una forma di violenza; da essa deriva una prerogativa, un diritto,
che può essere variamente interpretato: in una forma esso è considerato
illegittimo perché giustifica la violenza fine a se stessa; in un’altra è par-
zialmente legittimato dal fatto che la violenza sia esercitata da virtuosi,
perché in fondo chi domina è inevitabilmente superiore in qualcosa. La
discussione quindi verte sul diritto (il «giusto»), sull’interpretazione del
nomos in termini pratici: da un lato benevolenza in quanto espressione
della virtù, dall’altro puro esercizio della forza. Aristotele sembra con-
dividere almeno in linea generale la posizione dei primi, in relazione al
suo punto di vista, già ampiamente esposto, sull’esistenza di padroni e
schiavi per natura, tanto che sembra dirci, pur in maniera piuttosto el-
littica e oscura, che il porre in contrasto queste opinioni ha come conse-
guenza la convinzione della ragionevolezza della superiorità per virtù.
Ora si profila un nuovo blocco argomentativo, che riprende in parte
le premesse del primo, ma le sviluppa secondo un diverso orientamen-
to: abbandonato il problema dell’esercizio della forza-violenza come
effetto della legge – e appurato evidentemente che la legge di guerra è
legittima solo se il vinto diventa schiavo perché il vincitore gli è supe-
riore «naturalmente» – la discussione si concentra sul caso di una pre-
messa errata, ovvero che la guerra sia per forza giusta, elemento prima
dato del tutto per scontato. Alcuni pensano (oi[ontai) che la schiavitù
di guerra sia giusta (dikaivan) perché si attengono assolutamente («ve-
rabsolutieren sie somit einen Teil von Gerechtigkeit zur Gerechtigkeit
schlechthin», Schütrumpf 1991, I, p. 282) ad una prerogativa legittima
(dikaivou tinov~), determinata dal nomos (lo stesso evidentemente ci-
tato all’inizio, ll. 5-6: là poi si era detto che le accuse e la discussione
vertevano appunto sul diritto in quanto attuazione della legge nel caso
specifico; anche qui si tratta di una conseguenza di quel nomos, che pre-
vede che la schiavitù sia un risultato del confronto bellico) e non si pon-
gono il problema dell’esercizio della violenza. In realtà mettono a loro
volta in luce un’altra aporia, quando ammettono l’ipotesi di una guerra

261
COMMENTO I 6, 1255a 21-28

ingiusta (cfr. Hdt. VIII 22, 5; Thuc. III 39, 3; Isocr. 12, 163; da segna-
lare l’interpretazione di Simpson 1998, p. 42, che traduce ajrch;n... tw`n
polevmwn «rule arising from war», supponendo che ad Aristotele non
interessi sottolineare le cause delle guerre, ma piuttosto «what one does
to the conquered after one has won rule over them»); in questo caso, chi
diventa schiavo lo sarebbe illegittimamente, perché non si potrebbe dire
che è schiavo uno che non sia degno di esserlo. Il senso dell’aggettivo
a[xio~ è evidentemente ambiguo: siamo probabilmente di fronte ad una
connotazione giuridica, data dal fatto che è ampiamente attestata una
sua forte valenza tecnica nell’area del diritto, e non può essere ristretto
al campo semantico del «meritare» o dell’«essere degno», che nella no-
stra lingua ha valore tipicamente morale – e rende pertanto molto com-
plesso il lavoro del traduttore, in estrema difficoltà a trovare un termine
rispondente al suo reale senso nel greco –; tuttavia, in base a quel che
Aristotele dirà subito dopo e che ha già altrove spiegato, non possiamo
presumere che sia del tutto estraneo al concetto l’elemento della predi-
sposizione naturale. La costruzione dell’argomentazione non è molto
diversa da quella iniziale, poiché si basa sullo stesso principio della
validità della schiavitù di guerra: anche chi sostiene il nomos come ho-
mologia è assolutamente convinto che la schiavitù di guerra è legittima,
sulla base dell’esercizio della superiorità per forza, ma vi sono persone
che la condannano in quanto «spaventosa», se alla forza non sia asso-
ciata la virtù. Qui la posizione sembra indifferenziata: gli stessi che
ammettono la schiavitù di guerra trovano la “falla” nel ragionamento
(a{ma d’ou[ fasin); ma, benché Aristotele non lo dica esplicitamente,
anche in questo caso è possibile che vi sia un gruppo, tra gli «alcuni»,
che prevede la possibilità di una guerra ingiusta, nell’eventualità (si
noti l’uso del futuro logico, con valore ipotetico; cfr. Bonitz 1870, p.
754a 55) che coloro che nell’opinione comune (con una evidente pre-
sa di distanze dall’oggettività del fatto da parte di Aristotele) sono «di
nobile ascendenza» siano venduti come schiavi. Schütrumpf 1991, I, p.
283 fa notare l’incongruenza della locuzione ejk douvlwn, poiché i di-
scendenti di nobili non possono essere definiti schiavi: l’espressione va
tuttavia considerata nel contesto dell’evento bellico, nel quale l’espres-
sione può fare riferimento alla deportazione di massa di una popolazio-
ne, non solo quindi ai singoli prigionieri di guerra. La contraddizione
evidenziata da Aristotele sta nell’illegittimità della condizione di questi
schiavi, nobili e provvisti in maggior misura «di un qualche bene», e
pertanto dotati di superiorità «naturale» e di conseguenza non «degni»
di essere comandati. Su questi temi cfr. Cambiano 1987, pp. 33-37;
Kraut 2002, p. 278.

262
COMMENTO I 6, 1255a 32 - 1255b 4

Va notata la precisione della formula aristotelica praqh`nai


lhfqhvnta~: divengono schiavi perché, una volta catturati, vengono
venduti. Non si tratta pertanto di semplici prigionieri di guerra, con
tutto ciò che lo status comporta (Ducrey 1999, p.120), ma di vere e
proprie merci, secondo la concezione tipica della schiavitù di modello
ateniese (Garlan 1982, p. 43).
1255a 28-32 diovper aujtou;"... tou;" me;n pantacou` douvlou" tou;"
dÔ oujdamou`.
La soluzione di questa seconda aporia è quella di limitare la possi-
bilità di essere schiavi solo a coloro che non possono essere altro che
schiavi, ovvero i barbari, giacché nell’opinione comune è lo stesso «es-
sere barbaro ed essere schiavo» (2, 1252b 9). La necessità di astener-
si dallo schiavizzare Greci è espressa chiaramente anche da Platone
(Resp. V 469b-c), che sottolinea invece che i Greci dovranno piuttosto
volgersi ai barbari (cfr. anche Eurip. IA 1400-1401: barbavrwn d ∆ {El-
lena~ a[rcein eijkov~, ajll’ ouj barbavrou~, mh`ter, JEllhvnwn. To; me;n
ga;r dou`lon, oiJ d’ ejleuvqeroi), ma va invece sottolineato che Aristote-
le non esclude mai esplicitamente la possibilità di schiavitù dei Greci,
che tuttavia non ritiene opportuno discutere in linea teorica, giacché
si trattava evidentemente di una situazione estremamente rara anche
nell’esperienza storica concreta (ma cfr. II 9, 1269 36).
In sostanza dunque tutta la discussione sulla legittimità della schia-
vitù di guerra è alla fine scopertamente riportata alla definizione aristo-
telica di «schiavo per natura» (cfr. 5, 1255a 1-3; con ejx ajrch`~ si indica
evidentemente l’inizio della sezione, forse di un logos sulla schiavitù),
alla quale la schiavitù «per legge», nella sua retta interpretazione, non
rappresenta una forma alternativa: solo i virtuosi, in quanto superiori
per natura, possono rendere schiavi i vinti; solo i barbari, in quanto
schiavi per natura, possono essere privati della libertà; si noti tuttavia
che Aristotele, nell’identificare lo schiavo per natura, non ha mai par-
lato di barbari, ma ha sempre e soltanto fatto riferimento a caratteri-
stiche tipiche dell’anima. Il collegamento della schiavitù con l’essere
barbaro è pertanto solo un corollario della definizione aristotelica, che
evidentemente giustifica l’opinione comune (bouvlontai levgein, l. 29)
e l’osservazione della realtà: i Greci non saranno mai schiavi, in quanto
superiori per natura, e i barbari lo saranno sempre.
1255a 32-1255b 4 to;n aujto;n de; trovpon... ouj mevntoi duvnatai.
Il concetto della naturalità vale per la schiavitù – dalla parte quindi
dell’oggetto del dominio – ma anche per la nobiltà di nascita – dal-
la parte del dominatore: i Greci si considerano nobili dappertutto (cfr.
Schütrumpf 1991, I, p. 283: la validità universale è associata anche al-

263
COMMENTO I 6, 1255a 32-1255b 4

trove – p. es. in EN V 10, 1134b 19; 1135a 1 – alla naturalità), ma


ritengono nobili i barbari solo limitatamente alla loro patria, quasi pre-
sumendo l’esistenza di una libertà e di una nobiltà assolute (ajplw`~) e di
una libertà e nobiltà relative. Nobiltà e nascita libera appaiono dunque
associate in relazione alla condizione naturale, ma apprendiamo anche
dal libro III (13, 1283b 16-17: la nobiltà consente di poter godere di
maggiori diritti politici; cfr. commento al passo) che la nobiltà di nascita
rappresenta un livello più alto rispetto alla semplice libertà di nascita.
Il tema della nobiltà, preparato fin dalla l. 27, trova a partire da
questo punto una trattazione più specifica; per meglio comprendere le
ragioni aristoteliche è opportuno fare riferimento al dialogo Peri; eujge-
neiva~ (Sulla nobiltà), dettato probabilmente dall’interesse dello Stagiri-
ta per un tema ampiamente dibattuto nella letteratura filosofica a partire
da Democrito e forse all’interno dell’Accademia, anche per le signifi-
cative implicazioni politiche. Dai pochi frammenti rimastici abbiamo la
prova di posizioni diversificate sulla definizione di nobiltà, come anche
della soluzione aristotelica, che recupera e sintetizza diversi aspetti del-
la nozione di nobiltà oggetto di dibattito: nei frr. 2 e 4 Ross (= Zanatta
2008, pp. 373 e 385) è detto che la nobiltà consiste nella virtù di una
stirpe (ajreth; gevnou~), «intendendosi con ciò la capacità del capostipite
di generare discendenti dotati delle stesse qualità e in grado a loro volta
di trasferirle alla prole» (Zanatta 2008, pp. 362-363; cfr. anche Pol. III
13, 1283a 36-37), per cui «la virtù di una stirpe, in cui consiste propria-
mente la nobiltà, si verifica quando in essa sia presente “un soggetto
unico, di tal fatta che molte generazioni possiedono il bene che deriva
da lui” (fr. 4)» (Zanatta 2008, p. 363). Si comprende allora il ruolo della
nobiltà di natali come discrimine tra chi può diventare schiavo e chi no
esemplificato dalla citazione dall’Elena di Teodette, che pone l’accento
sull’ereditarietà della nobiltà di nascita come impedimento alla condi-
zione di schiavitù. Aristotele formula immediatamente un’esegesi della
citazione, associando la nobiltà di nascita e la libertà al possesso della
virtù – in quanto nobiltà dell’anima, che dà il diritto a dominare (cfr.
1255a 20) –, la schiavitù al vizio e all’origine di basso rango (oujdeni;
ajll∆ h] ajrethÛ` kai; kakiva)/ , con una distinzione attraverso tre coppie di
opposti: virtù-vizio, schiavo-libero (la più significativa, al centro, acco-
stata in chiasmo con la precedente), nobile-non nobile (a sua volta in
chiasmo con la seconda). È vero che, aggiunge Aristotele, se quella del-
lo schiavo è una condizione naturale, dovrebbe valere per essa lo stesso
processo che regola la nascita di un uomo da un uomo e di un animale da
un animale, o di uno buono da buoni, e questo è quel che comunemente
è ritenuto giusto (ajxiou`si). Tuttavia, come si è già detto a proposito dei

264
COMMENTO I 6, 1255a 32 - 1255b 4

caratteri dell’anima e del corpo nel capitolo precedente (5, 1254b 32),
la natura non sempre riesce nel suo intento, e accade che da uomini di
nobili natali discendano altri uomini non nobili e caratterizzati dal vizio,
che pertanto possono essere schiavi per natura. Ciò prova che sono le
condizioni dell’anima a stabilire la differenza tra gli individui, non la
semplice discendenza o la bellezza fisica: pertanto da un lato giustifica
la perplessità dell’Elena di Teodette – che crede che l’origine da Zeus e
Leda siano garanzia sufficiente per conservare la libertà – nel trovarsi
schiava, dall’altro fornisce però la prova che la condizione di schiava
dell’eroina è evidentemente motivata dalla sua mancanza di nobiltà e di
virtù, in quanto adultera (cfr. Simpson 1998, p. 43). D’altra parte, come
si è già detto nel cap. 5 e come testimonia il dibattito contemporaneo,
echeggiato ripetutamente in Platone (Prot. 319d-320b; Alc.1 118c 7 ss.;
cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 285), la virtù non è semplicemente una qua-
lità naturale, ma richiede educazione e pratica.
a 36 hJ Qeodevktou JElevnh: Teodette fu retore e tragediografo del
IV secolo a. C., originario di Faselide in Licia (Asia Minore), morto
ad Atene e sontuosamente sepolto lungo la via sacra in direzione di
Eleusi (Plut. Mor. 837c-d; Paus. I 37, 4). Difficile ricostruire la sua vita
e la sua attività, soprattutto se si presta fede alla notizia di Suda (s.v.
Theodektes) che distingue padre e figlio, omonimi, entrambi impegna-
ti nell’attività letteraria. È pertanto possibile che le opere tramandate
sotto il nome di Teodette appartengano a due autori diversi. Secondo
la tradizione sarebbe stato allievo di Isocrate (Dion. Is. 19; Plut. Mor.
837c; Suda, s.v. Theodektes); Suda e Plutarco (Alex. 17) riferiscono
inoltre che egli avrebbe ascoltato Platone e Aristotele. Divenne logo-
grafo – compositore di discorsi per il tribunale per conto di terzi – per
necessità (Teopompo, FGrHist 115 F 25) e in campo retorico fu autore
di un testo scolastico (in prosa o in versi) e di un epitaffio per Mausolo
(morto nel 353 a.C.), composto per un agone con i più noti oratori del
tempo, nel quale risultò forse vincitore (Suda). Sempre il lessico Suda
e Plutarco (Mor. 837c) ci parlano della sua attività di tragediografo,
che risalirebbe ad un momento successivo: secondo Stefano di Bisanzio
(s.v. Phaselis) avrebbe composto una cinquantina di tragedie parteci-
pando a tredici concorsi e risultando 8 volte vincitore (7 vittorie sono
testimoniate anche dall’iscrizione che riporta i nomi dei vincitori agli
agoni dionisiaci: IG II/III2 2325). Se escludiamo la tragedia dedicata a
Mausolo in occasione delle celebrazioni funerarie, che peraltro ebbe
grande successo (cfr. Suda e Gell. X 18, 7), la sua produzione, testimo-
niata dai titoli delle altre composizioni e dagli scarsissimi frammenti,
dimostra un repertorio piuttosto tradizionale, molto vicino al modello

265
COMMENTO I 6, 1255a 32 - 1255b 4

euripideo. La prima vittoria risalirebbe ad un periodo compreso tra il


372 e il 360; nel 334 era già morto (non da molto), e Alessandro po-
teva rendere omaggio alla sua statua nell’agora di Faselide. Plutarco
(Alex. 17, 9) ci riferisce inoltre che la reverenza del condottiero verso
il letterato derivava anche dalla comune frequentazione di Aristotele;
Suda precisa che egli morì a 41 anni mentre il padre era ancora in vita.
La difficoltà di coniugare una vita così breve con l’ampio numero di
opere a lui attribuite e con la formazione presso Isocrate, l’amicizia di
Alessandro e la frequentazione di Aristotele spinge senz’altro a ritenere
che esistessero due Teodette, padre e figlio, entrambi compositori di
opere letterarie (Weißenberger 2002, col. 311). Non è però possibile
distinguere la paternità delle singole opere tramandate sotto il nome di
Teodette; nessuna notizia aggiuntiva ci risulta in particolare sull’attività
di tragediografo, mentre resta ancora aperta la questione della Teodettea
(una sorta di manuale di retorica), attribuita da alcuni rami della tradi-
zione ad Aristotele, che la cita nel III libro della Retorica e che raccolse
forse il materiale non pubblicato dall’amico (Vottero 1994, pp. 109-
113). La ricostruzione dell’attività letteraria di Teodette prova così
ulteriormente il legame che lo univa al filosofo. Quale che sia la giusta
interpretazione da dare alle figure storiche a nome Teodette, la vici-
nanza di Aristotele, in quanto contemporaneo, è ulteriormente prova-
ta dalla citazione dei versi della tragedia nella Politica (F 3 Nauck2/
Snell); Teodette è l’unico contemporaneo – e non sappiamo neppure
quanto famoso – a conquistarla, accanto a nomi ben più prestigiosi,
quelli di Omero, Esiodo, Euripide, Sofocle. Dell’Elena – ammesso
che Aristotele si riferisse al titolo della tragedia e non indicasse sem-
plicemente il personaggio che pronunciava i versi – non ci rimane
alcun altro frammento certamente attribuibile: la vicenda è verosi-
milmente da collegare a quella delle Troiane di Euripide (cfr. Eurip.
Tr. 1106, jIliovqen o{te me poludavkruton / JEllavdi lavtreuma ga`qen
ejxorivzei; le Troiane nel III stasimo chiedono giustizia divina su Me-
nelao che le ha condotte schiave lontano dalla loro terra); qui possiamo
intravedere Elena presa prigioniera dai Greci dopo la caduta di Troia e
ridotta in servitù (Xanthakis-Karamanos 1980, p. 66). L’eroina invoca
la propria discendenza divina da Zeus e Leda respingendo la possibilità
di essere chiamata schiava (lavtri~ è termine consueto nei tragici). Se-
condo la ricostruzione di Xanthakis-Karamanos 1980, p. 66 (sulla base
anche di un altro frammento forse riconducibile alla stessa tragedia, il F
10 Nauck2/Snell ap. Stob. III 10, 8 dove si riconosce un agon a tre voci,
sul tipo dell’apologia di Elena ai vv. 914-965 delle Troiane), Teodette
mette in bocca all’eroina una requisitoria contro l’accusa rivoltale da un

266
COMMENTO I 6, 1255b 4-15

altro personaggio, forse Menelao, e alla presenza di un terzo personag-


gio non identificabile, dimostrando così la familiarità con i temi tragici
della tradizione del V secolo e la conoscenza delle tecniche retoriche,
oltre che l’abilità nell’uso letterario dell’“eloquenza retorica”.
1255b 4-15 o{ti me;n ou\n e[cei... ajlla; kata; novmon kai; biasqei`si,
toujnantivon.
Quest’ultima parte del capitolo dimostra che si sta chiudendo un
segmento della trattazione; viene infatti cursoriamente riassunta l’argo-
mentazione sulla schiavitù (capp. 4-6), ma in ordine inverso, partendo
cioè dalle conclusioni appena tratte per arrivare alle premesse – che in
realtà rappresentano già la conclusione del ragionamento – del capitolo
4. Aristotele prende le mosse dalla discussione adombrata all’inizio di
questo capitolo (ajmfisbhvthsi~): essa trova la sua ragion d’essere nel
fatto che non c’è una distinzione netta tra schiavi per natura e liberi,
ma vi sono alcuni che sono schiavi solo in virtù dell’interpretazione
del diritto di guerra, e pertanto non dovrebbero esserlo (6, 1255a 3 ss.).
Quando invece la relazione padrone-schiavo sia disposta ed esercitata
secondo natura, la condizione dello schiavo e del padrone è giusta e uti-
le (5, 1255a 3): lo schiavo infatti è parte animata, ma separata, del corpo
del padrone (4, 1253b 32, 1254a 14-17), ed entrambi, in quanto parte e
tutto, corpo e anima, traggono giovamento dalla loro relazione. Si noti
che qui vengono sintetizzati e combinati alcuni aspetti già evidenziati,
ma separatamente, nei capitoli precedenti a proposito del padrone e del-
lo schiavo: nel cap. 4 si era parlato dello schiavo come possesso e come
«strumento» nelle mani del padrone, senza però toccare l’argomento
del vantaggio eventualmente procurato allo schiavo dal suo ruolo; nel
cap. 5 poi Aristotele, riprendendo l’affermazione del cap. 2 (1252a 34)
aveva sottolineato il vantaggio che anche lo schiavo, per la sua naturale
«deficienza» in relazione alla ragione, poteva trarre dalla sua posizione.
Ma finora non si era definito in modo esplicito lo schiavo come par-
te (mevro~) del padrone (più precisamente del corpo del padrone; cfr.
Democr. fr. 270 DK: oijkevtaisin wJ~ mevresi tou` skhvneo~ crw` a[llw/
pro;~ a[llo), che procura un vantaggio ad entrambi.
Inoltre, vi è una forma di utile e di amicizia tra padrone e schiavo,
ma soltanto se la loro relazione è per natura; in caso contrario, ovve-
ro quando padrone e schiavo sono tali secondo la legge in base ad un
rapporto di prevaricazione, il vantaggio e l’amicizia derivanti dall’uti-
le reciproco saranno del tutto assenti e la relazione sarà caratterizzata
dall’ingiustizia e dalla violenza (si noti comunque che Aristotele qui
non esclude assolutamente che alla base del rapporto di schiavitù vi sia
la guerra, come si vedrà nei capitoli successivi: 7, 1255b 37; 8, 1256b

267
COMMENTO I 6, 1255b 4-15

23). In effetti, non giova al padrone avere uno schiavo costretto a servire
con la violenza, soprattutto se alla base della relazione c’è un’ingiusti-
zia di fondo; ancora meno sarà possibile, in queste condizioni, un rap-
porto di amicizia. I commentatori hanno sottolineato l’incongruenza di
quel che viene detto qui a proposito dell’amicizia tra padrone e schiavo
con l’affermazione di EN VIII 13, 1161b 1-8, dove Aristotele sottolinea
l’impossibilità di filiva tra padrone e schiavo (h|Û me;n ou\n dou`lo~, oujk
e[stin filiva pro;~ aujtovn, h|Û d’a[nqrwpo~), ma la concede in quanto
lo schiavo è un essere umano (Philem. fr. 22 Kock: ka]n dou`lo~ h|Û ti~,
oujde;n h|tton, devspota, a[nqrwpo~ ou|tov~ ejstin, a]n a[[nqrwpo~ h\; cfr.
Schütrumpf 1991, I, p. 287). Qui tuttavia la considerazione dello schia-
vo come parte del padrone spiega l’utilità e anche l’amicizia, poiché
schiavo e padrone sono parte di un unico organismo e lo schiavo per
natura, legato al padrone “anima e corpo”, non può che accettare di
buon grado il proprio stato (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 287). Aristotele
tuttavia lascia questo argomento senza ulteriori precisazioni, e ritornerà
a farvi cenno soltanto al cap. 13 (1260a 14 ss.), parlando delle virtù dei
componenti della famiglia; il filosofo aveva probabilmente in animo
di riprendere e approfondire il problema della relazione tra padrone e
schiavo se, ancora a VII 10, 1330a 31-33, dice di voler parlare «in se-
guito» (u{steron) del modo in cui si debbano trattare gli schiavi (tivna
de; dei` trovpon crh`sqai douvloi~).
b 7 kai; divkaion [kai; dei`]. La presenza della locuzione kai;
divkaion, espunta da Ross, risulta ben più comprensibile di quella
di kai; dei`, che gli editori hanno cercato di salvare in vario modo
cambiando la punteggiatura, ma che non trova logica collocazione
all’interno della frase. D’altra parte l’espressione riprende da vici-
no, nella forma e nel contenuto, la frase finale di 5, 1255a 3, oi|~ kai;
sumfevrei to; douleuvein kai; divkaiovn ejstin. La forma pronomina-
le divkaion è spiegabile inoltre alla luce dell’intera argomentazione
del capitolo, che si concentra sulla legittimità di alcune prerogative
che vengono fatte derivare dalla legge di guerra.

268
CAPITOLO 7
CONCLUSIONI PROVVISORIE SULLA RELAZIONE PADRONE-SCHIAVO

Questo capitolo chiude una serie di anelli tematici aperti nel corso
dei capitoli precedenti: 1) il più vicino, sulla distinzione per natura di
schiavo-libero e schiavo-padrone, conclusosi con il cap. 6 (1255a 21;
30 ss.; b 4-9); 2) quello sulla differenza di livello dei comandati e delle
tipologie di autorità, del cap. 5 (1254a 24 ss.; 1254b 2 ss.); 3) la critica
a chi pone sullo stesso piano tipi di autorità diversi per specie, del cap.
1 (1252a 7 ss.); 4) l’esistenza di una scienza del padrone, la stessa di
altre forme di comando, ipotizzata da «alcuni» nel cap. 3, che apre la
sezione relativa alla schiavitù (1253b 18 ss.). Una vera e propria summa
di argomenti, che conferisce a questo capitolo la forma di “conclusione
provvisoria” e che consente all’autore di passare a trattare un nuovo
argomento, anch’esso già accennato ed introdotto nel cap. 3 (1253b 2),
l’oikonomia nella forma dell’arte acquisitiva.

1255b 16-20 Fanero;n de; kai;... kai; i[swn ajrchv.


La despoteiva e l’ajrch; politikhv non sono la stessa cosa, come del
resto non tutte le altre forme di autorità sono identiche l’una all’altra, come
alcuni sostengono. Ciò risulta evidente – dal momento che è stato dimo-
strato nei capitoli 5 e 6 (ma cfr. anche III 6, 1278b 30-33, dove si dice che
sui diversi modi di esercitare l’autorità si sono spesso fatte distinzioni nei
discorsi «essoterici», cui si potrebbe fare riferimento anche qui) – dal fatto
che l’una (la seconda, quella politica, che nel testo greco è quella fisica-
mente più vicina) si esercita su liberi per natura, l’altra su schiavi, e dal
fatto che l’autorità dell’amministratore della casa è una «monarchia», il
comando di uno solo, mentre quella politica si esercita su liberi e uguali.
Dalle affermazioni di Aristotele in questa proposizione si possono
trarre alcune considerazioni: a) non si dice che le varie forme di autorità
sono tutte diverse l’una dall’altra, ma che non tutte (oujde; pa`sai) sono
uguali (taujtovn) l’una rispetto all’altra; b) è quindi possibile, sembra am-
mettere Aristotele, che alcune di queste forme possano essere uguali tra
di loro; c) l’autorità dell’amministrazione domestica (hJ me;n oijkonomikhv
scil. ajrchv) è il comando di uno solo (monarciva), e pertanto abbiamo su-
bito la dimostrazione che le due forme possono sovrapporsi, senza che si
possa rilevare alcuna eccezione rispetto all’enunciato precedente.
Il riferimento è senz’altro al cap. 1 e alla polemica, già innesca-
ta in quell’occasione, con «quanti credono che l’uomo politico, l’uo-

269
COMMENTO I 7, 1255b 16-20

mo regale, l’amministratore della casa e il padrone si identifichino»


(o{soi me;n ou\n oi[ontai politiko;n kai; basiliko;n kai; oijkonomiko;n
kai; despotiko;n ei\nai to;n aujto;n: 1252a 7-9) – qui riecheggiata nel
«come alcuni affermano» (w{sper tinev" fasin) –, ma al contempo al
cap. 3, dove si riaffermava che per alcuni sono «la stessa cosa l’ammi-
nistrazione della casa, l’autorità padronale, l’autorità politica e quella
regale, come abbiamo detto all’inizio» (kai; hJ aujth; oijkonomiva kai; de-
spoteiva kai; politikh; kai; basilikhv, kaqavper ei[pomen ajrcovmenoi:
1253b 19-20): secondo la spiegazione fornita in questo passo è inevita-
bile concludere che le autorità «politica» e «despotica» si differenziano
per specie, dal momento che si esercitano rispettivamente su liberi (e
uguali, ma non evidentemente nell’ambito dell’oikos; cfr. 12, 1259b
1-8) e sugli schiavi per natura, mentre le altre due sono in qualche modo
sovrapponibili, giacché l’amministrazione domestica è una forma di
monarchia. L’impressione che Aristotele stia mettendo insieme piani
diversi, dal momento che per le due prime forme parla dei sottoposti
(liberi e schiavi), mentre per la terza (l’amministrazione domestica) fa
riferimento alla modalità di comando (nelle mani di uno solo, perché
la casa è retta monarchicamente) è un falso problema: se integriamo le
parti mancanti del ragionamento ci accorgeremo che in sostanza viene
detto che all’interno della casa l’amministrazione non può essere una
forma di autorità politica – che tra l’altro ha come carattere l’alternanza
di comandante e comandato –, perché ogni casa/famiglia è retta da uno
solo e questi non comanda su uguali, ma su liberi e schiavi (3, 1253b 4:
oijkiva de; tevleio~ ejk douvlwn kai; ejleuqevrwn; da una diversa prospet-
tiva III 6, 1278b 37-40; cfr. Saunders 1998, p. 45). Infine, va precisato
dal punto di vista lessicale che l’uso di monarciva qui e di basilikovn e
basilikhv rispettivamente nei capp. 1 e 3 non specificano tipi di coman-
do diversi, come prova l’uso sostanzialmente sinonimico in altri passi
dell’opera (p. es. 2, 1252b 20-21: pa`sa gar; oijkiva basileuvetai uJpo;
tou` presbutavtou; III 14, 1285b 31-33: w{sper ga;r hJ oijkonomikh; ba-
sileiva ti~ oijkiva~ ejstivn, ou{tw~ hJ basileiva povlew~ kai; e[qnou~ eJno;~
h] pleiovnwn oijkonomiva), ma addirittura la monarciva può essere qui
intesa come il tipo di comando specifico della casa/famiglia, nella for-
ma dell’autorità di un singolo, come è indicato esplicitamente in III 14,
1285b 29-31 (pevmpton ei|do~ basileiva~, o{tan h|Û pavntwn kuvrio~ ei|~
w[n, w{sper e{kaston e[qno~ kai; povli~ eJkavsth tw`n koinw`n, tetagme-
vnh kata; th;n oijkonomikhvn: «una quinta specie di regno si ha quando
un singolo è signore di tutto, come ogni popolo e ogni città lo è degli
affari comuni, e corrisponde all’amministrazione domestica»); in realtà
si specifica semplicemente che il comando sta nelle mani di una sola

270
COMMENTO I 7, 1255b 20-40

persona, e nella casa può essere esercitato in forme diverse a seconda


della tipologia dei sottoposti (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 293: «sie ist
keine dritte Herrschaftsform neben der despotischen und politischen,
sondern in einer bestimmten Weise ein Oberbegriff beider»).
1255b 20-40 oJ me;n ou\n despovth"... tou'ton diwrivsqw to;n trovpon.
Aristotele aveva già posto in rilievo nel cap. 3 (1253b 18) la po-
sizione di coloro che affermano che quella del padrone è una scien-
za (ejpisthvmh), riferendosi evidentemente in primis ancora a Platone
che, nel Politico già confutato all’inizio del libro, sosteneva che esiste
un’unica scienza di comando, che può avere nomi diversi (259c 1-4);
qui invece si assicura chiaramente che il padrone non è così chiamato
in virtù di una scienza ma, come è stato spiegato nei due capitoli pre-
cedenti, in virtù di un suo carattere specifico (tw/` toiovsd’ ei\nai), come
lo schiavo e il libero. Secondo il ragionamento del capitolo precedente
infatti il libero – e virtuoso (cfr. 6, 1255a 21, 40) – è padrone per natura,
e lo schiavo è tale per la sua deficienza congenita in relazione all’anima
razionale.
Anche in questo caso tuttavia la dichiarazione aristotelica non è
definitiva: posto che non esiste un’unica scienza del comando, quella
ipotizzata da Platone, potrebbero invece esistere una scienza del padro-
ne e una scienza dello schiavo, legate al loro specifico ambito e al loro
specifico obiettivo. Quest’ultima è del tipo di quella insegnata a Siracu-
sa, dove uno stipendiato istruiva i servi a riguardo dei servizi domestici,
ma potrebbe arrivare a comprendere un ampio ventaglio di competenze,
come la culinaria, dal momento che esistono compiti di diverso tipo e di
diverso grado di importanza, come dice il proverbio. La citazione della
situazione siracusana, ripresa anche altrove nell’opera (I 11, 1259a 30;
V 11, 1313b 25), potrebbe far pensare ad una fonte siceliota, o addirittu-
ra al racconto di Platone della propria esperienza (cfr. Schütrumpf 1991,
I, p. 295, che fornisce come prova la citazione in Gorgia 518b 6 di Mi-
teco di Siracusa, autore di un trattato di arte culinaria). L’istruzione dei
servi di casa (pai`de~) era dunque demandata in molte circostanze ad
aiutanti, essi stessi di condizione servile; prova ne sono anche Senofon-
te (Oec. 12, 3) e la commedia JO doulodidavskalo~, L’istruttore degli
schiavi, di Ferecrate, poeta comico ateniese della seconda metà del V
secolo a.C., di poco più anziano di Aristofane (frr. 43-55 K.-A.). Il loro
ruolo era di insegnare i servizi abituali nella casa, ma la scienza del pa-
drone poteva spingersi oltre, e tra le prestazioni richieste ai servi poteva
essere compresa la preparazione di cibi prelibati o altre competenze
diverse e di livello superiore rispetto all’ordinaria attività domestica:
le opere si suddividevano quindi in «necessarie» (ajnagkai`a) e in «no-

271
COMMENTO I 7, 1255b 20-40

bili, importanti» (e[ntima), e l’insegnarle ed eseguirle creava differenti


tipologie di schiavi e padroni, provando la veridicità del proverbio che
rimarcava l’esistenza di schiavi e padroni di livello diverso. Il detto
è riportato dal lessico Suda (s.v. prov) come esempio dell’uso di prov
in sostituzione di ajntiv, «al posto di», e associato al Pancraziaste del
comico Filemone (ajnti; tou` antiv. Filhvmwn PagkratiasthÛ`: dou`lo~
-despovtou: fr. 57 K.-A.). Il poeta, contemporaneo di Aristotele, era
originario di Siracusa (figlio di Damon), ma divenne cittadino ateniese.
Fu particolarmente longevo (visse 97, 99 o addirittura 101 anni); la sua
prima vittoria sicuramente attestata è quella delle Dionisie del 327 a.C.;
sappiamo che fu autore di 94 commedie, di cui rimangono 64 titoli e
soltanto frammenti, per lo più in forma di sentenze (molte delle quali
dall’antologia dello Stobeo). Pur contemporaneo di Menandro, fu spes-
so associato alla cosiddetta “commedia di mezzo”, ma in molte delle
sue opere si ritrovano già i caratteri tipici della commedia “nuova”. La
notizia di Suda potrebbe spingerci a collegare il proverbio all’opera
di Filemone; va comunque tenuto in conto che qui Aristotele, secondo
lo stile che gli è consueto, lo utilizza in un senso in parte diverso da
quello presupposto da Suda, che evidentemente si riferiva al testo della
commedia (cfr. Kassel-Austin, PCG VII, fr. 57: «alio sensu Arist. Pol.
I, 7 p. 1255b 29 ubi prov valet “praestat”. Poteva quindi trattarsi sem-
plicemente di un detto diffuso nel mondo greco, o ateniese; la presenza
nell’opera di Filemone va comunque rilevata per almeno due ragioni: i
due personaggi sono contemporanei (e Filemone ci ha lasciato un nu-
mero altissimo di espressioni proverbiali); Filemone era siracusano, e i
riferimenti a Siracusa in questo passo aristotelico, più o meno scoperti,
non sono affatto marginali.
La scienza del padrone riguarda invece il corretto uso degli schiavi,
dal momento che l’essere padrone non consiste nel saper acquisire gli
schiavi, ma nel saperli usare. Nel cap. 4 (1253b 23-1254a 4) si era sta-
bilito che lo schiavo è parte della proprietà e strumento per l’azione; ne
consegue quindi che il padrone eserciterà il proprio ruolo di comando
sugli schiavi attraverso l’uso di questi come strumenti. Questa scienza
in realtà non ha nulla di grande né di straordinario: in sostanza il padro-
ne deve semplicemente saper comandare – ma non obbligatoriamente
saper eseguire (si veda invece III 4, 1277b 12 e Plat. Leg. VI 762e: chi
non è stato schiavo non potrà essere un padrone degno di lode) – quello
che lo schiavo deve saper fare. Pertanto chi può fa bene a lasciare a un
sovrintendente l’incarico (Saunders 1995, p. 83 e Schütrumpf 1991, I,
p. 297 rimarcano una sottile ironia nell’uso del sostantivo timhv, nel
senso di «onore», per definire tale occupazione; va tuttavia rilevato che

272
COMMENTO I 7, 1255b 20-40

il termine greco è usato anche per indicare un ruolo “ufficiale”, spesso


associato ad ajrchv, e potrebbe valere qui come “incarico ufficiale”, una
sorta di investitura voluta dal padrone) e a dedicarsi a qualcosa di ve-
ramente grande o importante, la politica o la filosofia (cfr. VII 2, 1324a
29-32: tutti gli uomini che si distinguono per virtù praticano uno dei
due generi di vita, la vita politica o quella filosofica; si veda anche II 9,
1269a 33-35: in una città ben governata ci dev’essere la possibilità della
scolhv dalle necessità quotidiane; cfr. Bertelli 1983, pp. 97-129; Ga-
staldi 2003). L’aiutante potrà addirittura essere uno schiavo (cfr. Xen.
Oec. 12-15, che parla a lungo degli ejpivtropoi ejn toi`~ ajgroi`~, e 21,
9), dal momento che deve esercitare soltanto la «scienza del padrone»
– potremmo dire le doti “tecniche” di esercizio dell’autorità – e non
necessariamente possedere le qualità dell’anima che caratterizzano il
padrone. Per cui egli, pur possedendo e mettendo in atto la “scienza del
padrone”, non si sostituirà al padrone, che resterà tale anche nei suoi
riguardi (cfr. Simpson 1998, p. 45).
Aristotele conclude la sezione – a parte la frase finale, chiaramente
di passaggio – con una considerazione che fa da cerniera tra l’argo-
mentazione svolta nei capitoli precedenti sulla schiavitù e quella che
intende portare avanti nella parte seguente sulla proprietà: l’arte di ac-
quistare gli schiavi, quella legittima, è altra cosa rispetto alla scienza
dello schiavo e del padrone, è arte di guerra o di caccia. Dal momento
che la «scienza del padrone» non riguarda l’acquisizione degli schiavi,
è semplice comprendere che questa forma di arte acquisitiva si differen-
zia dalla precedente; inoltre, sottolineando che i mezzi per procacciarsi
gli schiavi valgono solo se sono legittimi, Aristotele rimarca – e noi con
lui – che il discorso che si sta per iniziare funziona esclusivamente se si
accetta da un lato la validità del principio della naturalità della schiavitù
(cap. 5), dall’altro il valore giuridico che ad esso è strettamente collega-
to e che è stato ampiamente dimostrato nel cap. 6.

273
CAPITOLO 8
LA CREMATISTICA NATURALE COME VERA RICCHEZZA

Aristotele riprende il tema, introdotto già nel cap. 3 ma subito abban-


donato (1253b 12-14), dell’oikonomia nel suo collegamento con la cre-
matistica – l’arte relativa all’acquisto dei beni, cui aveva soltanto fatto
cenno (per il significato del termine e del concetto cfr. sopra pp. 82-86)
– e si pone una serie di questioni, anch’esse già accennate, che andrà
a dimostrare nel corso della sezione successiva, comprendente i capp.
8-10: se la crematistica si identifichi con l’oikonomia, se ne sia una par-
te o rappresenti una specie a sé, se abbia una natura differente da questa,
se l’agricoltura ne sia parte. Il punto di partenza dell’argomentazione
tuttavia è l’analisi della proprietà in generale, che Aristotele si trova co-
stretto a recuperare poiché, pur avendola già annunciata e introdotta nel
cap. 4 (1253b 23), era stata subito lasciata da parte per dare spazio al di-
scorso sulla schiavitù, correlato ad essa ma decisamente collaterale. Qui
i due elementi trovano infine il loro punto d’incontro: il ragionamento
sul possesso viene usato da Aristotele anche per giustificare il diritto al
potere su coloro che per natura sono destinati ad essere comandati.

1256a 1-19 O { lw~ de; peri; pavsh~ kthvsew~... ejpimevleia kai; kth'si".
Il discorso sullo schiavo, che è solo parte della proprietà (cfr. 2,
1253a 16; 4, 1253b 32), è ormai esaurito. Ora, con il solito metodo (cfr.
1, 1252a 18, kata; th;n uJfhghmevnhn mevqodon) – quello della divisione,
che permette tramite l’induzione di arrivare alla risoluzione dei quesiti
iniziali; in questo caso dallo schiavo, parte della proprietà, alla proprie-
tà in generale –, Aristotele si propone di indagare la proprietà nella sua
interezza e l’arte di acquisirla. Le questioni a questo riguardo sono an-
cora in parte le stesse del dibattito riportato nel cap. 3 (1253b 11-14): la
crematistica coincide con l’amministrazione domestica (1a) o ne è una
parte (1b)? Ma qui Aristotele aggiunge un corollario: la crematistica
può in alternativa essere al servizio (uJphretikhv) dell’oikonomia? E in
che modo, in quanto arte che provvede gli strumenti (o[rgana) – come
l’arte di fabbricare le spole per la tessitura – o arte che provvede la
materia (u{lh, la sostanza con cui si realizza l’opera finita) – come la
metallurgia per la statuaria? Come dimostrano gli esempi della tessi-
tura e dell’arte statuaria – piuttosto estranei alla nostra esperienza, ma
senz’altro molto vicini a quella dei contemporanei di Aristotele (per i
possibili collegamenti di questo passo con il Politico di Platone, 281a

274
COMMENTO I 8, 1256a 1-19

ss., nel quale la metafora della tessitura è centrale e non mancano i


riferimenti alla metallurgia, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 302-303) –, vi
sono arti sussidiarie che risultano, in modi diversi, essenziali alla prati-
ca dell’arte maggiore; pertanto la crematistica potrebbe avere lo stesso
ruolo nei riguardi dell’amministrazione domestica e, sulla base anche
di quel che si è detto della scienza del padrone nel capitolo precedente,
si potrebbe dedurre che l’acquisizione dei beni possa essere delegata ad
altri (cfr. Saunders 1995, p. 84).
La risposta alla prima parte del primo quesito (1a) viene data imme-
diatamente: «è chiaro» che amministrazione domestica e crematistica non
sono identiche, dal momento che la crematistica ha il compito di pro-
curare i beni e l’oikonomia di usarli (una techne quindi non può avere
due funzioni), e ciò risulta in parte anche da quel che Aristotele ha già in
qualche modo anticipato alla fine del capitolo precedente (7, 1255b 32-33)
a proposito del padrone nella sua relazione con lo schiavo. Se si può esclu-
dere a priori una sovrapposizione totale tra crematistica e oikonomia, non
è però altrettanto evidente se il procurare i beni possa essere una parte
dell’usarli o se le due operazioni siano attività distinte l’una dall’altra.
In relazione alla seconda parte della questione (1b), come era già
accaduto nella discussione sulla schiavitù (6, 1255a 12, 17), Aristote-
le puntualizza invece che esiste una controversia – diamfisbhvthsin,
termine piuttosto raro rispetto al più usuale ajmfisbhvthsin, usato an-
che nel cap. 6: per questa ragione probabilmente si è creata una errata
distinzione di’ ajmfisbhvthsin, comunque inaccettabile grammatical-
mente – sul fatto che la crematistica sia una parte dell’amministrazio-
ne domestica o una specie diversa di arte. Non abbiamo la prova che
fosse in atto un reale dibattito sull’argomento, e non è assolutamente da
escludere che l’espressione fosse genericamente usata dal filosofo come
espediente per dare l’avvio al ragionamento (cfr. Schütrumpf 1991, I,
p. 21, che traduce infatti «ist eine Frage, zu der man unterschiedliche
Meinungen haben kann»). La comprensione esatta dell’argomentazione
aristotelica è resa ancora più faticosa dalla costruzione del periodo che
va da povteron della l. 13 a kth`si~ della l. 19, diversamente struttu-
rabile a seconda della punteggiatura, anche se comunque non in modo
risolutivo e del tutto convincente. Se facciamo riferimento alla consue-
ta interpunzione, il problema principale è determinato dalla presenza
dell’w{ste della l. 17 (cfr. Bonitz 1870, pp. 873a 31) – che introduce
una proposizione consecutiva ellittica seguita a sua volta dalla interro-
gativa indiretta disgiuntiva ugualmente ellittica –, ma che fa difficoltà,
poiché ci si aspetterebbe in quel punto una frase principale che dovreb-
be rappresentare anche l’apodosi di un periodo ipotetico la cui protasi

275
COMMENTO I 8, 1256a 1-19

sarebbe costituita dalle due coordinate eij gavr... e[stai e hJ de; kth`si~...
oJ plou`to~ e che nell’intero periodo non è rintracciabile. L’ipotesi di
una lacuna prima di w{ste, supposta da Conring, non ha alcun riscontro
nella tradizione. L’altra possibilità, quella preferita nel testo, è data dal
presumere, in virtù del gavr della l. 15, che la proposizione eij gavr...
e[stai non sia protasi di quel che viene dopo, ma piuttosto completi
la frase precedente – cui potrebbe essere legata da un punto in alto –,
con l’intento di chiarire i termini della discussione cui si è poco prima
fatto riferimento. La frase successiva (hJ de; kth`si~... oJ plou`to~, nella
quale la correzione di dev con ge, di Ross, perderebbe invece senso)
potrebbe invece rappresentare la principale, legata chiasticamente alla
proposizione precedente (crhvmata kai; kth`si~, hJ de; kth`si~... kai; oJ
plou`to~); essa amplia il concetto, anticipando un argomento che di-
verrà centrale alla fine del capitolo e nel capitolo successivo (cfr. 9,
1257a 1: crhmatistikhvn, di’h}n oujde;n dokei` pevra~ ei\nai plouvtou
kai; kthvsew~). La congiunzione w{ste manterrà pertanto il suo tipico
valore consecutivo e introdurrà una subordinata priva di verbo, seguita
dall’interrogativa diretta disgiuntiva anch’essa ellittica con due distinti
soggetti (hJ gewrgikhv e hJ... ejpimevleia kai; kth`si~).
Per risolvere la controversia Aristotele comincia con l’applicare
il metodo della divisione (dividere l’intero in parti e considerarle sin-
golarmente), come si era già proposto di fare per le parti della città
(1, 1252a 17-23) e della casa (3, 1253b 1-8): tenendo presente che bi-
sogna considerare se è compito di colui che si occupa di acquisire i
beni (il «crematista») valutare da dove vengono i beni e la proprietà,
Aristotele dichiara immediatamente che proprietà e ricchezza (scopri-
remo nel capitolo successivo che esse rientrano in due distinti tipi di
crematistica) hanno molte parti, e bisogna quindi prendere l’avvio da
queste, in primo luogo dall’agricoltura – e più in generale dalla cura e
dal possesso del nutrimento –, per stabilire se la crematistica è una parte
della oikonomia (non trova giustificazione nei manoscritti la correzione
di crhmatistikh`~ in oijkonomikh`~ di Garve, accettata da Susemihl,
Immisch e Dreizehnter, e da ultimo sottintesa in Saunders 1995, p. 84)
o è un tipo diverso di attività. È comprensibile che Aristotele intenda
partire dalla ricerca del nutrimento, che rappresenta la base di ogni ag-
gregazione umana, come avrà modo di spiegare più avanti; l’obiettivo
del filosofo è comunque quello di arrivare a dimostrare, per gradi, che,
se l’agricoltura e l’approvvigionamento – in quanto forme particolari
di crematistica – sono parte dell’amministrazione domestica (cap. 8)
e se dunque l’approvvigionamento è parte della crematistica (e la cosa
non è del tutto scontata, come si vedrà nel cap. 9), anche la crematistica

276
COMMENTO I 8, 1256a 19-29

sarà parte dell’amministrazione domestica (cap. 10). Questo percorso


è affrontato nella sezione comprendente i capp. 8, 9 e 10, di cui questa
prima parte è l’introduzione generale.
1256a 19-29 ajlla; mh;n ei[dh... prov" a[llhla diest`siu.
La proprietà è parte della famiglia e l’arte di acquisire proprietà
è parte dell’amministrazione domestica: Aristotele lo ha già detto in-
troducendo il discorso sulla schiavitù (4, 1253b 23); giacché senza le
cose essenziali non è possibile vivere e vivere bene (4, 1253b 24-25),
è logico concludere che l’approvvigionamento – che serve appunto a
procurare le cose essenziali – è parte della proprietà.
Nell’ottica di stabilire se l’acquisizione del cibo è parte della crema-
tistica, Aristotele – dal momento che non si può vivere senza cibo (cfr.
PA I 1, 642a 7 ss. e inoltre Xen. Oec. 20, 15) – prende empiricamente le
mosse dalla distinzione dei diversi tipi di nutrimento, che sono la fonte
dei diversi modi di vita per animali e uomini, collocando il problema
dei bioi «in un contesto rigorosamente sussistenziale» (Campese 2004,
p. 155). Non vi è quindi alcuna differenza tra uomini e animali nella
necessità del nutrimento (cfr. EN I 13, 1102a 32-b 12), ma è solo a
questo livello minimo che si possono operare sovrapposizioni; altrove
(II 5, 1264b 4; ma cfr. invece II 3, 1262a 21) critica le affermazioni
di Platone nella Repubblica proprio per la scelta di istituire analogie
con il mondo animale a proposito dei compiti dell’uomo e della donna
nella famiglia, giacché non si può parlare di famiglia tra gli animali.
Qui infatti Aristotele tratta le corrispondenze unicamente sul piano
biologico, tratteggiando una sorta di etologia: partendo dagli animali
selvatici – quelli domestici non possono infatti scegliere il nutrimento
–, il filosofo rileva che la natura ha operato una prima diversificazione
degli stili di vita sulla base della distinzione tra carnivori, erbivori e
onnivori, e un’ulteriore addirittura all’interno del gruppo dei carnivori
e degli erbivori, che gradiscono evidentemente tipi diversi di carni e
di piante. A seconda della possibilità di procurarsi il cibo a loro più
comodo e gradito (pro;~ ta;~ rJas / twvna~ kai; th;n ai{resin), essi vivono
in gruppo o isolati. Esistono pertanto numerosi modi naturali di procu-
rarsi il sostentamento, che corrispondono a diverse forme naturali di
vita, legate al piacere derivante dalle tipologie di alimentazione (cfr.
Schütrumpf 1991, I, p. 308, che collega l’affermazione aristotelica e
l’uso dell’aggettivo hJduv alla “teoria del piacere” più volte citata anche
nell’Etica Nicomachea). Il collegamento tra il tipo di nutrimento e le
forme di vita, che apparirebbe congruente alle ricerche biologiche ari-
stoteliche (si veda p. es. HA I 1, 488a 1, in cui si indagano le differenze
tra gli animali, determinate anche, ma non esclusivamente, dalla forma

277
COMMENTO I 8, 1256a 29 - 1256b 7

di vita e dal tipo di alimentazione, ed inoltre VIII 1, 588b 4 ss., dove le


attività e i tipi di vita vengono differenziati sulla base del carattere e del
tipo di nutrimento), non è tuttavia esplicitamente presentato nelle opere
dedicate a questo argomento (caso particolare HA IX 1, 608b, dove si
parla però di quantità e non di tipo di nutrimento; va rilevata tuttavia la
dubbia autenticità del libro, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 307). L’assenza
di tali concetti nelle opere biologiche – come la differenza di termino-
logia per indicare concetti simili (p. es. zw/ofavgo~ vs. sarkofavgo~)
– porta a ritenere che la prospettiva aristotelica in questo passo della
Politica, pur apparentemente biologico-etologica (in forma comunque
semplificata, in relazione al punto focale del ragionamento aristotelico),
sia invece piuttosto antropologico-etnologica (Schütrumpf 1991, I, p.
308; Longo 1988; Id. 1989).
1256a 29-1256b 7 oJmoivw" de; kai; tw'n ajnqrwvpwn... tou'ton to;n
trovpon diavgousin.
Aristotele procede sostenendo che lo stesso discorso vale per gli
uomini (per l’analogia animale-uomo cfr. anche 5, 1254b 10): i loro
stili di vita si distinguono in nomadi, cacciatori e agricoltori. La causa
del loro modo di vivere, tuttavia, non dipende, come per gli anima-
li, esclusivamente dal tipo di nutrimento ricercato e soprattutto dal
piacere prodotto da tale alimentazione, bensì anche da fattori interni,
come il carattere e la comodità nel procurarsi il cibo (cfr. anche 9,
1257a 31 ss.), o esterni, per esempio il luogo di insediamento (cfr.
Campese 2005, p. 9: «la classificazione privilegia il momento della
forma sociale, culturale, indissociabile dalla connotazione etica»). I
nomadi, classificati come «pigri», vivono nell’ozio (scolavzousin;
siamo qui in presenza di un’accezione generica del termine, che al-
trove nell’opera, a partire dal II libro, sarà usato in un senso più “tec-
nico” nell’ambito della scienza politica) e traggono il sostentamento
dagli animali domestici (in questo caso le greggi), che seguono nel
loro peregrinare alla ricerca del cibo, praticando una sorta di «agricol-
tura vivente» (sul collegamento tra pastorizia e agricoltura a livello
di demos cfr. VII 4, 1319a 19). I cacciatori trovano il nutrimento con
il brigantaggio o la pirateria, praticate per procurarsi i beni di prima
necessità e non evidentemente per rivendere la merce (non occorre
comunque assolutamente presupporre che qui Aristotele intenda fare
riferimento anche alla “caccia allo schiavo” e tanto meno al cannibali-
smo; cfr. Simpson 1998, p. 48 e nn. 63-64), con la pesca (se abitano in
un’area che la favorisca) o con la caccia di uccelli o animali selvatici;
gli agricoltori rappresentano la maggior parte del genere umano e vi-
vono dei frutti della terra e delle piante coltivate.

278
COMMENTO I 8, 1256a 29 - 1256b 7

Questi modi di vita, sintetizzati poi in numero di cinque – da noma-


de, da brigante, da pescatore, da cacciatore, da agricoltore, con la distin-
zione di brigantaggio e pesca dalla caccia, di cui invece appena sopra (a
36-37) erano considerati tipologie –, sono accomunati dall’autonomia
nel procurarsi il nutrimento (a 40: aujtovfuton e[cousi th;n ejrgasivan),
senza bisogno di ricorrere al commercio o allo scambio (ajllaghv e ka-
phleiva: nel capitolo seguente, 9, 1257a 15-20, Aristotele comincerà
col dire che il commercio al minuto all’inizio era cosa del tutto diversa
dalla crematistica, poiché gli scambi si realizzavano solo per soddisfare
bisogni elementari, ma accomunerà poi entrambi i modi di acquisto,
criticandoli per il fatto che in certe condizioni possono diventare in-
naturali; sul significato di questi concetti anche in relazione alla posi-
zione platonica cfr. Maffi 1979, pp. 166-170); anche il brigantaggio,
pur non fornendo direttamente il nutrimento, può essere assimilato alle
altre tipologie perché «forma di appropriazione diretta, in quanto non
ricorre al passaggio intermedio della permuta» (Campese 2004, p. 157).
In sostanza, la maggior parte degli uomini può vivere, guidata dalla
naturale necessità del cibo, di ciò che la natura offre spontaneamente,
ma attraverso l’uso dell’arte caratteristica del proprio modo di vivere:
non si tratta infatti della descrizione di un’età dell’oro (cfr. anche Xen.
Mem. IV 2, 10: gli dèi hanno fornito agli uomini gli animali, perché ne
traessero guadagno nei modi più disparati). Per vivere in maniera «con-
fortevole» (hJdevw~; sul collegamento di hJduv con la teoria del piacere
di Eudosso, secondo cui il piacere è il bene, citata in EN X 2, 1172b
9 ss. cfr. n. precedente) talvolta non è sufficiente praticare un unico
stile di vita, poiché esso non possiede evidentemente tutti i mezzi in
grado di garantire la completa autosufficienza: alcuni allora al bisogno
“mescolano” generi di vita diversi – per esempio nomade e da brigante,
agricolo e da cacciatore – per completarne uno che presenta qualche ca-
renza. Le diverse forme di vita pertanto non rappresentano gradi diversi
di evoluzione culturale (elemento del resto rilevabile anche a proposito
dei vari tipi di comunità del cap. 2), come provato per esempio dall’as-
senza di riferimenti alla tipologia dei raccoglitori, già nell’antichità ri-
conosciuta propria delle forme di vita meno evolute (es. Democr. fr. 68
B5 DK); sebbene Aristotele eccezionalmente in VII 10, 1329b 14 ss.
fornisca un esempio di evoluzione – si tratta del passaggio degli Enotri
da popolazione nomade a popolazione contadina, ma in una contesto di
tipo storico, con un esplicito riferimento alla tradizione –, la prospettiva
qui adottata è sincronica e non evolutiva, e non contempla stili di vita
che non trovano riscontro nella società più o meno contemporanea ad
Aristotele (Campese 2004, p. 158). Questi modi di vita si collocano

279
COMMENTO I 8, 1256b 7-26

evidentemente su un diverso piano anche rispetto alla distinzione tra


bioi operata nel libro VII (2, 1324a 25 ss.), giacché non sono relativi
all’uomo in quanto padrone di casa, ma al modo di vivere dei mem-
bri all’interno della casa/famiglia; per questo motivo il ragionamento
può essere in parte applicato anche all’ambito più vasto della polis (cfr.
Schütrumpf 1991, I, p. 307).
a 40 Riferimenti all’agricoltura come prioritario mezzo di sosten-
tamento per l’uomo si ritrovano anche nel cap. 11 (1258b 12-22), dove
vengono rapidamente elencate le cose che un agricoltore deve saper fare
– con una citazione esplicita delle fonti, anche se dei trattati sull’agri-
coltura di Caretide di Paro e Apollodoro di Lemno nulla ci è giunto – e
che rientrano nella crematistica propriamente detta (capacità di acqui-
stare cavalli, buoi o pecore, coltivazione dei campi, cura dei boschi,
allevamento degli animali, attività mercantile) e inoltre nel IV libro (4,
1290b 40), dove all’interno dell’elenco delle parti costituenti la città
gli agricoltori hanno il primo posto, seguiti dagli operai e dai mercanti.
1256b 7-26 hJ me;n ou\n toiauvth kth'si"... divkaion tou'ton o[nta
to;n povlemon.
Artefice della possibilità per tutti (uomini e animali) di procurarsi il
nutrimento (che, si ribadisce, è una forma di possesso e va ottenuto con
i mezzi propri delle arti a disposizione a seconda delle forme di vita)
è dunque la natura, che lo consente non solo – come è stato spiegato
poco sopra – quando gli esseri viventi hanno ormai raggiunto il proprio
completo sviluppo, ma anche al momento della nascita, quando i nuovi
esseri non sono ancora in grado di procurarsi da soli il sostentamento.
Con un chiaro intento classificatorio, Aristotele propone l’esempio di
quelli che partoriscono larve, gli ovipari e i vivipari (cfr. HA IV 11,
537b 28 ss. ed inoltre GA II 1, 732a 25 ss. e 733b 28; III 2, 752b 26 ss.
e 753a 34 ss.), che producono la sostanza «chiamata latte» per nutrire
i loro nati fino ad un certo punto della vita (cfr. le evidenti somiglianze
di GA III 2, 752b 26 ss.). La natura dunque fa in modo che animali ed
esseri umani non solo facciano uso di mezzi già disponibili – legitti-
mando pertanto i metodi che gli uomini adottano per procurarseli –, ma
ne producano essi stessi per il nutrimento dei nuovi nati. Pertanto, per
questi nuovi esseri, i mezzi di sostentamento prodotti dagli adulti sono
proprietà per natura esattamente come il cibo che gli altri si procurano
quotidianamente.
La capacità dell’uomo di procurarsi autonomamente il nutrimen-
to accomuna l’uomo, per concessione della natura, agli altri animali,
ma «è chiaro» che tutto ciò che è collegato a questa capacità è fatto
per l’uomo, che sta dunque al vertice degli esseri viventi e ne rap-

280
COMMENTO I 8, 1256b 7-26

presenta, in relazione al sostentamento, il fine (cfr. Schütrumpf 1991,


I, p. 313, che parla di «anthropozentrische Teleologie», riferibile ad
una concezione più arcaica ma presente in una forma simile anche in
Xen. Mem. IV 3, 10; in Aristotele però la considerazione dell’uomo
come vertice degli esseri viventi non presuppone una teleologia “ester-
na”): le piante esistono per gli animali – compreso l’uomo –, gli altri
animali per l’uomo, gli animali domestici per l’uso e l’alimentazione
dell’uomo, la maggior parte di quelli selvatici per cibo, vesti e come
strumenti d’altro genere utilizzati dagli esseri umani: è la cosiddetta
scala naturae presente in molti scritti biologici, nei quali però la visio-
ne teleologica esterna è del tutto assente o diversamente interpretata
(p. es. HA I 1, 488a 1, in cui si indagano le differenze tra gli animali,
determinate anche, ma non esclusivamente, dalla forma di vita e dal
tipo di alimentazione; ed inoltre VIII 1, 588b 4, dove le attività e i
tipi di vita vengono differenziati sulla base del carattere e del tipo di
nutrimento; PA IV 5, 681a 12; IV 13, 696b 27; Schütrumpf 1991, I, p.
313; Campese 2004, p. 156). Si tratta tuttavia soltanto di una questione
di prospettiva; il punto di vista aristotelico in questo momento è quello
dell’essere umano, ma è evidente dai suoi interessi biologici – usati qui
al solo scopo di legittimare l’accostamento (cfr. Schütrumpf 1991, I, p.
312) – che piante ed animali possono essere considerati di per sé e non
solo in funzione degli esseri umani, e in funzione di questi solo nella
misura in cui concorrono alla loro autosufficienza (cfr. Simpson 1998,
p. 49 n. 65 contro la posizione di chi deduce da questo passo che, dal
momento che la natura ha fatto tutto il resto per gli uomini, potrebbe
essere naturale per gli uomini accumulare ricchezze senza limiti, cosa
che viene invece negata subito dopo). Lo scopo del filosofo è riaffer-
mare che, se la natura non fa nulla di incompleto e non agisce invano,
nella prospettiva teleologica che ne caratterizza l’opera è «necessario»
che faccia tutto per l’uomo. L’associazione animali-uomo garantisce
quindi la naturalità della forma di acquisizione fin qui tratteggiata
(Campese 2005, p. 10).
La conclusione del ragionamento (b 23-26) riporta il discorso da
un piano puramente biologico o antropologico al piano filosofico: l’arte
della caccia è una parte dell’arte della guerra (diversamente Newman
1887, II, pp. 177-178, che intende aujth`~ di b 24 riferito a kthtikhv e
non a polemikhv), l’arte della guerra è per natura una parte dell’arte ac-
quisitiva (kthtikhv), da praticare (anche in questo caso Newman 1887,
II, p. 177 collega hÊ| all’arte acquisitiva e non all’arte della guerra) con-
tro quegli uomini che, pur destinati naturalmente ad essere comandati,
non vogliono esserlo. La guerra giusta per natura sarà pertanto quella

281
COMMENTO I 8, 1256b 7-26

che ha tale obiettivo. Aristotele approfitta della conclusione provviso-


ria del ragionamento per inserire questa considerazione, che in qualche
modo fornisce ulteriori chiarimenti alla sezione sulla schiavitù termi-
nata nel capitolo precedente, e allarga il discorso a comprendere tra i
mezzi al servizio dell’uomo gli schiavi per natura. In sostanza, esclusa
– o risolta – ormai la questione della schiavitù per legge o per accordo,
Aristotele torna a ribadire che il problema della schiavitù è da riportare
all’«essere per natura» dello schiavo; la sua cattura è pertanto configu-
rabile come caccia, attraverso la guerra, di uomini destinati ad essere
comandati per divenire parte della proprietà del padrone (l’associazio-
ne tra pirateria/brigantaggio, attività bellica e acquisizione di schiavi è
presupposta anche da Plat. Soph. 222c; il dialogo platonico è più volte
riecheggiato in questo capitolo). La riflessione sul fatto che la cattura
degli schiavi possa rientrare nell’acquisizione del sostentamento o dei
mezzi di vita è funzionale al discorso: l’oikos non può definirsi «per-
fetto» e pertanto raggiungere la soddisfazione dei bisogni quotidiani
(fine della comunità familiare, cfr. 2, 1252b 12) senza tutti i propri
elementi, e quindi senza schiavi (il cui ruolo di strumenti, già rilevato
in 4, 1254a 14, consente al padrone di dedicarsi all’attività politica,
come sarà detto più avanti).
La nuova prospettiva con cui Aristotele affronta l’ultima parte del
capitolo, che ha funzione preparatoria del nucleo centrale dell’argo-
mentazione che leggiamo nel capitolo successivo, segna anche un inte-
ressante mutamento lessicale con l’uso di kthtikhv (termine conosciu-
to solo dalle 15 occorrenze in Plat. Soph. 219-226 e 265a, dove viene
marcata anche la differenza tra il produrre, affidato ai contadini, e il
procurarsi il cibo, legato a caccia e scambio) al posto di crhmatistikhv
(altro termine platonico, vd. Introduzione): non è possibile distinguere
in maniera netta il senso che Aristotele intende qui attribuire a ciascuno
dei due termini (generico e positivo il primo e specifico ma negativo il
secondo?), ma è evidente che l’autore intende segnare uno stacco – che
avrebbe potuto fungere da introduzione alla sezione fatta cominciare
con il cap. 9 invece che da conclusione dell’8, come tradizionalmente
stabilito dagli editori – rispetto al senso attribuito all’acquisizione, che
era intesa fino a questo punto come «procurarsi beni materiali (crhvma-
ta) per il sostentamento» e che nel senso di crematistica assumerà poco
oltre il valore del tutto negativo di «arte di accumulare indiscriminata-
mente denaro». Cfr. sul tema Maffi 1979, pp. 166-168, con l’interessan-
te paragone con l’uso di Platone nel Sofista; Venturi Ferriolo 1983, pp.
59-62; Schütrumpf 1991, I, p. 301; Höffe 2005, pp. 104-105 e 326; si
veda inoltre sopra, pp. 82-86.

282
COMMENTO I 8, 1256b 26-31

1256b 26-31 e}n me;n ou\n ei\do"... ejk touvtwn ei\nai.


Aristotele dà una prima risposta al quesito iniziale: solo una specie
di arte acquisitiva (kthtikhv) è parte per natura dell’amministrazione
domestica, quella che (o{: non vi è ragione di correggere il testo tràdito,
come ha ritenuto necessario la maggioranza degli editori, ma è fuori
di dubbio che fa difficoltà la presenza del pronome femminile aujthvn,
da riferire all’oijkonomiva) si deve praticare o mettersi nelle condizio-
ni di poter praticare per accumulare i beni necessari alla vita e utili
alla comunità della polis e della famiglia. La vera ricchezza è pertanto
quella che consiste in questi beni «necessari e utili». Il passaggio dal so-
stentamento alla ricchezza indica allora «l’emergere della dimensione
economica propria del cittadino, il soggetto politico ed etico»; egli può
raggiungere la vita buona solo attraverso la tranquillità economica, che
gli consente di ottenere quel tempo libero (scolhv) che è il presupposto
per la «vita politica» (Campese 2005, p. 10).
La proprietà deve essere limitata a quanto basta per garantire l’au-
tosufficienza (1256b 4) della famiglia (cfr. 2, 1252b 12-15) e della città
per raggiungere la vita buona (cfr. III 9, 1280b 39-1281a 2: «il vivere
bene è il fine della città, comunità di genti e di villaggi che conducono
una vita perfetta e autosufficiente, cioè, come diciamo, una vita bella
e felice»). Se quindi la proprietà appartiene alla famiglia per natura,
perché ha a che fare con ciò che serve a soddisfare i bisogni elementari,
l’arte di acquisire proprietà deve appartenere per natura all’amministra-
zione domestica; questa considerazione verrà sviluppata adeguatamen-
te nel cap. 10. Il riferimento alla comunità politica è invece evidente in
quanto la famiglia è l’elemento basilare per la sopravvivenza della polis
e pertanto il procurarsi il sostentamento quotidiano diviene fondamen-
tale non solo per vivere, ma anche per vivere bene, fine della comunità
politica (2, 1252b 29-30); come sottolinea Schütrumpf (1991, I, p. 300);
il passaggio dalla dimensione della famiglia a quella dello stato in rela-
zione ad un tema (come quello del possesso in questo caso) è molto raro
nel primo libro della Politica.
Va rilevato tuttavia che Aristotele resta qui sul piano teorico, e non
chiarisce concretamente in che cosa consistano i beni di base necessari;
se volessimo stabilire un collegamento tra i generi di vita della prima
parte del capitolo e questo discorso sull’acquisizione di ciò che serve a
garantire sopravvivenza e nutrimento, ne risulterebbe il quadro di una
società piuttosto arcaica, popolata di uomini che cercano nell’ambiente
circostante i mezzi di vita, un affresco che stride però con il riferimento
ad una tipologia di famiglia ben strutturata in tutti i suoi aspetti e alla
polis.

283
COMMENTO I 8, 1256b 31-39

1256b 31-39 hJ ga;r th'" toiauvth" kthvsew"... kai; di∆ h}n aijtivan,
dh'lon.
La vera ricchezza – insieme degli strumenti degli amministra-
tori e dei politici (b 36: ojrgavnwn plh`qov~ ejstin oijkonomikw`n kai;
politikw`n; cfr. 4, 1253b 31: hJ kth`si~ plh`qo~ ojrgavnwn ejstiv) – con-
siste pertanto nell’acquisizione dei mezzi sufficienti alla comunità per
vivere bene (prodotti dell’agricoltura, animali e schiavi) ed ha un limite
ben definito, dato dalla limitatezza degli strumenti di cui si serve l’arte
dell’acquisizione e dal raggiungimento dell’autosufficienza che ne è il
fine; si noti tuttavia che l’autosufficienza è possibile solo nella polis, e
soltanto al suo interno evidentemente anche la casa/famiglia può eser-
citare la sua vera funzione economica (cfr. 2, 1252b 28 ss.); l’interesse
di Aristotele in questo punto non sembra tuttavia concentrarsi sulla pre-
sunta inconciliabilità di quel che viene qui sostenuto con le affermazio-
ni del cap. 2 (Schütrumpf 1991, I, p. 320 esprime il fondato sospetto di
una mancata rielaborazione di questo capitolo all’interno del complesso
del libro I). Questo limite non è evidentemente perspicuo agli uomini,
come dimostra il verso di Solone citato. Il ragionamento aristotelico si
dipana dunque per gradi successivi: nessuno strumento di nessuna arte
è illimitato per numero o dimensione; la vera ricchezza consiste negli
strumenti che servono all’arte dell’amministrazione della casa e della
città (per l’associazione tra i due ambiti cfr. 10, 1258a 20 e 11; 1259a 33
ss.); quindi la vera ricchezza ha strumenti senz’altro limitati per quan-
tità e dimensione.
Ora, se è chiaro dal ragionamento aristotelico che i mezzi di vita
non possono essere illimitati – perché il loro limite è dato dalla natura e
dal raggiungimento del fine –, non resta che domandarsi perché Aristo-
tele senta la necessità di specificare ulteriormente che la vera ricchezza
non può essere illimitata (cfr. Epic. Ratae sententiae 15: oJ th`~ fuvsew~
plou`to~ kai; w{ristai kai; eujpovristov~ ejstin, oJ de; tw`n kenw`n doxw`n
eij~ a[peiron ejkpivptei: «la ricchezza naturale è limitata e facilmen-
te raggiungibile, quella delle vuote opinioni si proietta nell’infinito»),
facendo riferimento, evidentemente, all’opinione collettiva, suffragata
dall’affermazione di Solone, il più autorevole testimone di una società
in fieri attraversata da profonde lacerazioni. Il punto nodale risiede nel
concetto di ricchezza “vera”; possiamo ritenere che nel pensiero comu-
ne la vera ricchezza sia rappresentata non dal possesso dei mezzi di vita
che portano all’autosufficienza – che è invece l’espressione della teoria
aristotelica –, bensì da qualcos’altro, cui Aristotele nega validità: alla
luce di quel che dirà più avanti, possiamo concludere che si tratta del
possesso del denaro. La ricchezza nella forma dell’accumulo di denaro

284
COMMENTO I 8, 1256b 31-39

non può essere considerata proprietà, giacché non è strumento di una


tevcnh, può essere illimitata e – elemento carico di implicazioni succes-
sive –, non può condurre al vivere bene.
b 32-33 w{sper Sovlwn fhsi; poihvsa~... Solone di Atene visse tra
il VII e il VI secolo a. C.; arconte nel 594 a.C., fu incaricato, in qualità
di mediatore, di comporre i violenti contrasti tra il demos – la parte del-
la popolazione in condizione di subalternità politica ed economica – e
gli aristocratici, detentori del potere. Egli operò anzitutto nel ruolo di
legislatore, consapevole che «il superamento dei conflitti tra i gruppi
contendenti poteva essere attuato solo attraverso la loro subordinazione
a regole collettive e condivise, estranee a ogni dinamica di appropria-
zione individualistica» (Gastaldi 1998, p. 35): attraverso l’elaborazio-
ne di provvedimenti (per la prima volta ad Atene scritti ed esposti al
pubblico) di carattere economico e sociale – tra i più noti l’abolizione
della schiavitù per debiti e la suddivisione della popolazione in classi
censitarie –, ma senza sovvertire l’assetto esistente, cercò di eliminare
le cause degli scontri, non riuscendo tuttavia ad ottenere che per la polis
ateniese si aprisse un lungo periodo di pace sociale. Solone fu autore
anche di numerosi componimenti poetici, dei quali ci restano circa 300
versi, per lo più in distici elegiaci, in misura minore in metri giambici e
trocaici, destinati all’invettiva e alla polemica politica; l’opera poetica,
riservata alla circolazione all’interno dei circoli simposiali aristocrati-
ci, nasce come commento dell’azione politica, e tratta soggetti come il
buon governo (eunomia), la moderazione, la ricchezza e i suoi pericoli,
la giustizia (dike), oltre a temi di puro carattere simposiale (l’amore, i
piaceri della tavola).
L’esametro soloniano qui citato è il v. 71 del fr. 13 West, riportato
dallo Stobeo (III 9, 23), ripreso da Teognide, poeta elegiaco della se-
conda metà del VI secolo a.C., con una variante (v. 227 del I libro delle
Elegie: pefasmevnon ajnqrwvpoisin invece di pefasmevnon ajndravsi
kei`tai). Se da un lato la citazione aristotelica ci prova che il filosofo
aveva ben chiaro l’interesse di Solone per il problema economico (cfr.
Gehrke 2006, p. 282: «Aristotle is fully aware of the economic aspects
of Solon’s reforms»), dall’altro sembra dimostrare che, come in molti
altri casi nel libro I, il verso è estrapolato dal contesto e caricato di un
significato gnomico. Nel componimento soloniano infatti appare chiaro
che l’autore intende condannare l’eccessivo affannarsi alla ricerca della
ricchezza, che è portato all’estreme conseguenze anche da chi già è
ricco, e procura la punizione (degli dèi o di un generico destino) contro
coloro che sorpassano il limite consentito. Pertanto il ragionamento di
Solone è legato al fatto che il limite concesso agli uomini per l’accu-

285
COMMENTO I 8, 1256b 31-39

mulo di ricchezza non è chiaramente indicato (pefasmevnon), non è


visibile, non è stato rivelato (e invece dovrebbe esserlo, a causa dell’in-
capacità dell’uomo di vedere oltre il contingente e individuare il limite
della ricerca della ricchezza: cfr. Lewis 2006, p. 97), e pertanto porta
inevitabilmente all’eccesso, punito e frenato da un intervento esterno.
La prospettiva di Aristotele è però diversa: l’uso del verso di Solone
si spiega non in relazione al fatto che il limite della ricchezza non è
determinato (o rivelato), elemento che appare centrale nel contesto
soloniano, quanto al concetto che è la proprietà che serve per vivere
bene che non può essere considerata illimitata (hJ... aujtavrkeia... oujk
a[peirov~ ejstin). Il detto di Solone viene presentato in quanto contrad-
dice la consapevolezza, che è invece aristotelica, che i mezzi capaci di
procurare una vita buona non sono infiniti (ma si veda II 7, 1266b 17
ss., dove Solone viene presentato come autore di provvedimenti per
limitare la proprietà terriera); Aristotele pensa che non esista nulla di
illimitato, nel nostro mondo e per la scienza che abbiamo; anche nel
campo dell’etica (EN II 6, 1106b 28-30) può affermare che la virtù è
il mezzo, e che il male è dell’infinito e il bene è di ciò che è limitato.
Tuttavia quel che interessa qui ad Aristotele è da un lato affermare il
valore della crematistica naturale, che l’amministratore della casa deve
conoscere (come anche colui che guida la polis; Schütrumpf 1991, I, p.
319, nota la particolarità nell’uso del termine politikov~ in questo pas-
so e ne associa l’impiego all’esempio del Politico di Platone), dall’altro
introdurre il tema del denaro, che occuperà il capitolo successivo; come
si può notare da questa conclusione provvisoria, tutto il discorso aristo-
telico di impostazione biologico-antropologica ha come unico scopo
quello di provare che esiste un’unica forma di acquisizione che può
essere definita naturale.

286
CAPITOLO 9
LA CREMATISTICA NON NATURALE
COME ACCUMULO ILLIMITATO DI DENARO

Aristotele non può ancora dire di aver trovato soluzione definitiva


al quesito iniziale del cap. 8: il fatto che l’arte acquisitiva sia parte
dell’amministrazione domestica non è del tutto dimostrato, giacché
l’espressione «una sola specie di arte acquisitiva è parte dell’ammini-
strazione domestica» (e}n me;n ou\n ei|do~ kthtikh``~ kata; fuvsin th`~
oijkonomikh`~ mevro~ ejstivn, 1256b 26-27) anticipa la possibilità che esi-
sta almeno un’altra specie di kthtikhv, gevno~ a[llo kthtikh`~, quella
chiamata crhmatistikhv, con cui si apre il cap. 9.
Lo scopo, che Aristotele alla fine dice di avere raggiunto, è dimo-
strare che esistono due specie di crematistica, una necessaria, collegata
all’amministrazione domestica e all’acquisizione del nutrimento, l’altra
non necessaria, che porta all’accumulo indiscriminato di beni in termini
monetari e ne fa il proprio unico obiettivo. Le difficoltà incontrate per
arrivare a queste conclusioni vengono superate attraverso la tecnica del-
la divisione «e cercando le differenze tra le cose e tra i loro significati
per negarne (o affermarne) le somiglianze» (Cubeddu 2006, p. 7; cfr.
anche Top. I 13, 109b 21 ss.).
L’analisi economica qui proposta da Aristotele ha avuto un seguito
che possiamo dire millenario e ha fornito la base per molte delle teorie
economiche moderne; tuttavia il punto di vista qui delineato, proprio
perché legato al sistema della casa/famiglia e alla questione del fine,
presenta caratteri prevalentemente antropologici, socio-culturali ed eti-
ci, poco o per nulla connessi ad una visione di evoluzione storica dei
sistemi economici, all’osservazione dei fatti economici in senso scien-
tifico che sono il fondamento della maniera moderna di intendere l’eco-
nomia, all’analisi del funzionamento economico della polis.

1256b 40-1257a 5 [Esti de; gevno" a[llo kthtikh'"... tevcnh" giv-


gnetai ma'llon.
L’argomentazione precedente si era conclusa con la dimostrazione
che esiste un tipo di arte acquisitiva (kthtikhv) naturale, parte dell’am-
ministrazione domestica, che si occupa dell’acquisizione di ciò che
è necessario e utile alla vita e corrisponde alla vera ricchezza che, in
quanto insieme degli strumenti dell’oikia, non è illimitata.
Esiste tuttavia un’altra tipologia di arte acquisitiva, che viene «giu-
stamente» (a buon diritto) chiamata crematistica, in virtù della quale

287
COMMENTO I 9, 1256b 40 - 1257a 5

proprietà e ricchezza sono illimitate. Dunque la crematistica cui già


si era fatto riferimento nel cap. 3 (1253b 12-14) come «quarta parte»
dell’oikonomia, rappresentava ancora un qualcosa di indistinto; ad essa
forse Aristotele si riferiva come a una sorta di nuovo conio linguistico,
un termine “moderno”, che l’autore si riproponeva di chiarire a poco a
poco fino a giungere a delinearne la fisionomia in relazione a quel che
rappresentava effettivamente nella realtà dei fatti e nella sua personale
visione.
Nel corso del cap. 8 Aristotele, senza tuttavia rendere esplicito il
ragionamento, ha portato il lettore alla conclusione che non si può chia-
mare crematistica l’arte acquisitiva naturale, poiché essa è riferibile
solo all’acquisizione di crhvmata ajnagkai`a kai; crhvsima; la prova è
l’abbandono del termine a partire da 1256b 26: esso è troppo legato
al parametro dei crhvmata intesi come denaro e disponibilità di mezzi
in qualche modo misurabili con questo. Nell’uso comune (cfr. polloi;
nomivzousi di a 2, che riproduce un modulo argomentativo già utilizzato
per altri blocchi del ragionamento, ad es. 3, 1253b 12-14; 6, 1255a 7,
17-19, 22; 7, 1255b 16-18) evidentemente le due tipologie non vengo-
no distinte linguisticamente, poiché non ci si chiede quale differenza
vi sia tra loro; d’altra parte lo stesso Aristotele ammette che non vi è
identità, ma parla di affinità (dia; th;n geitnivasin, a 2) e di vicinanza
(ou{te povrrw ejkeivnh~, a 3). L’affinità spiega dunque perché si tenda
erroneamente a sovrapporre anche crematistica e oikonomia; qui però
Aristotele mette in campo, ancora prima di iniziare la dimostrazione,
due dissomiglianze importanti: l’illimitatezza e la naturalità.
La crematistica che punta all’acquisizione di proprietà e ricchez-
za senza alcun limite è dunque un modo non naturale di acquisizione,
che nasce dall’esperienza (ejmpeiriva) e dall’arte (tevcnh, come capacità
tecnica; cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 326, che traduce «einem fachmänni-
schen Können»; si noti la contrapposizione di ejmpeiriva e tevcnh anche
in Plat. Gorg. 463c). Tuttavia si fa fatica a pensare che anche la forma
naturale non sia guidata da questi criteri, poiché di essa fanno parte at-
tività quali la pesca, la caccia, l’agricoltura, che senz’altro necessitano
di esperienza e arte nel loro esercizio (ma come sostegno all’opera della
natura: cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 326). Secondo Simpson 1998 (p. 51)
il nodo interpretativo sta nel valore dato al verbo givvnetai, da intendere
come «nasce» e non come «deriva, viene»: in questo modo si potrà
sostenere che l’arte acquisitiva naturale richiede esperienza e arte per
il miglioramento delle proprie prestazioni, mentre la crematistica non
naturale nasce effettivamente in virtù di arte ed esperienza, in quanto
si fonda sulla moneta, che non esiste per natura (cfr. anche Schütrumpf

288
COMMENTO I 9, 1257a 5-19

1991, I, p. 326), ma è frutto di invenzione umana. Non si tratta comun-


que, come si vedrà più avanti, di un discorso cronologico (prima i modi
naturali, poi come degenerazione quelli dettati da esperienza ed arte),
ma di una riflessione assiologica.
Aristotele, come di consueto all’inizio di una nuova argomenta-
zione, ha dunque posto le basi del ragionamento, di cui andrà poco a
poco a smontare le parti con la tecnica della divisione per dimostrare
l’assunto iniziale: per far comprendere l’esistenza di una crematistica
non naturale, ritiene opportuno spiegare che essa consiste nell’accumu-
lo illimitato di ricchezza in termini di moneta, e dunque come e perché
essa è nata; ma per comprendere la moneta, nata per lo scambio dei
prodotti, deve partire proprio dallo scambio, e quindi dal valore delle
singole proprietà.
1257a 5-19 lavbwmen de; peri; aujth'"... poiei'sqai th;n ajllaghvn.
È da quest’ultima affermazione – la crematistica non naturale trae
origine da esperienza e arte – che prende l’avvio il ragionamento. L’uso
di ogni proprietà può essere di due tipi (comprendiamo perché Aristo-
tele parta direttamente dall’uso se facciamo riferimento a 4, 1254a 3,
7; 1255b 31; 8, 1256a 11-13): entrambi stanno in relazione con la cosa
in quanto tale, ma in un caso si tratta di un uso proprio, nell’altro di un
uso improprio; sono quelli che noi definiamo “valore d’uso” e “valore
di scambio”. Perfettamente comprensibile dunque l’esempio della scar-
pa: calzare una scarpa o scambiarla sono usi della scarpa, in quanto in
entrambi i casi la scarpa è usata in quanto tale, come scarpa, ma nello
scambio (metablhtikhv) essa è usata per un fine che non è direttamente
quello per cui è stata realizzata (cfr. anche 10, 1258b 4); pertanto l’uso
proprio consiste nel calzarla, quello improprio nell’usarla come merce
di scambio, in cambio di denaro o nutrimento.
Il presupposto di questa argomentazione, secondo Cubeddu 2006,
p. 8, potrebbe essere contenuto in un passo degli Analitici Secondi (I 22,
84a 11-18), nel quale si opera una distinzione tra quegli attributi di per
sé (kaq’auJta; de; dittw`~), che sono tali perché servono a definire una
cosa (ad esempio la pluralità rispetto al numero), e quelli, sempre di per
sé, che però si possono definire solo se si chiarisce qual è la cosa già
definita di cui sono attributo (ad esempio il dispari riferito a un preciso
numero). Senz’altro comunque questo tipo di ragionamento è presente
anche in due punti dell’Etica Eudemia: 1) III 4, 1231b 38-1232a 4,
dove si sottolinea che le ricchezze e la crematistica sono espresse in due
sensi: l’uno riguarda il modo di usare una proprietà in quanto tale, per
esempio una scarpa o un mantello, l’altra in maniera accidentale (ma
non usando il mantello come peso, per esempio), ovvero vendendola o

289
COMMENTO I 9, 1257a 5-19

lasciandola in eredità (dicw`~ de; ta; crhvmata levgomen kai; th;n crhma-
tistikhvn: hJ me;n ga;r kaq’ auJto; crh`si~ tou` kthvmatov~ ejstin, oi|on
uJpodhvmato~ h] iJmativou, hJ de; kata; sumbebhko;~ mevn, ouj mevntoi ou{tw~
wJ~ a]n ei[ ti~ staqmw`/ crhvsaito tw/` uJpodhvmati, ajll’ oi|on hJ pwvlhsi~
kai; hJ mivsqwsi~: crh`tai ga;r hÊ| uJpovdhma); 2) VIII 1, 1246a 27-33,
dove Aristotele presenta l’esempio dell’occhio, usato in quanto tale per
vedere bene o male e, sempre in quanto occhio, in maniera acciden-
tale, nell’ipotesi paradossale di venderlo o di mangiarlo ( Aporhvj seie
d a[n ti~ e[stin eJkavsatw/ crhvsasqai kai; ejf∆ o} pevfuke kai; a[llw~,
kai; tou`to hÊ| aujto; h] au\ kata; sumbebhkwv~: oi|on hÊ| ojfqalmov~, ijdei`n h]
kai; a[llw~ paridei`n diastrevyanta w{ste duvo to; e}n fanh`nai, au|tai
me;n dh; crei`ai a[mfw o{ti me;n ojfqalmov~ ejstin, h\n dæ ojfqalmw/` a[llhÊ
dev, kata; sumbebhkov~, oi|on eij h\n ajpodovsqai h] fagei`n). Come si
può notare, questa seconda occorrenza appare più vicina, anche se non
perfettamente sovrapponibile, a quanto viene detto qui nella Politica
sull’uso della scarpa come oggetto di scambio, incluso tra i suoi usi «di
per sé», giacché Aristotele rileva che entrambi gli usi si configurano
nella categoria kaq’ aujtov; tuttavia vi è un’ulteriore distinzione, oujc
oJmoivw~ kaq’ autov, nel senso che l’uso «di per sé» può essere distinto
ulteriormente in proprio e improprio rispetto alla cosa usata (hJ me;n oij-
keiva hJ d’ oujk oijkeiva tou` pravgmato~).
Lo scambio delineato per la scarpa funziona dunque per tutti gli og-
getti di possesso (evidentemente in uno stadio già più complesso e svi-
luppato, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 328), e ha come presupposto il fatto,
del tutto naturale, che alcuni uomini hanno di più, altri di meno di ciò
che occorre loro, come apparirà chiaro dalla spiegazione successiva.
Pone qualche difficoltà interpretativa invece la proposizione se-
guente – soprattutto in relazione all’attribuzione di fuvsei a hJ ka-
phlikhv o a th`~ crhmatistikh`~ –, che anticipa un nucleo argomen-
tativo che verrà affrontato più avanti e riprende due elementi, la ka-
phlikhv, il piccolo commercio (o commercio al minuto), e l’ajllaghv,
lo scambio, già nominati nel capitolo precedente (8, 1256a 41-1256b
1), ma mai veramente spiegati fino ad ora. L’affermazione «ne conse-
gue che il piccolo commercio (in origine) non è per sua natura parte
della crematistica, perché di necessità scambiavano quanto bastava
loro» va probabilmente intesa in relazione a quel che Aristotele ha
appena detto e dirà dopo (a 15; a 29 ss.). In sostanza Aristotele pre-
cisa che in origine ci si limitava allo scambio dei prodotti che ser-
vivano a soddisfare i bisogni elementari e quindi a raggiungere una
naturale autosufficienza; per questa ragione il piccolo commercio non
è parte per natura della crematistica in senso tecnico che, in quanto

290
COMMENTO I 9, 1257a 19-31

acquisizione di beni in termini di ricchezza senza limiti – a differenza


dell’arte acquisitiva naturale, che punta all’acquisto di beni sufficien-
ti, che rappresentano la vera ricchezza (cfr. 8, 1256b 26-31) –, non è
naturale. Diversa, soprattutto per la prima parte del periodo, la posi-
zione di Schütrumpf 1991, I, p. 24, che traduce: «Daraus geht auch
hervor, daß die Erwerbsweise durch Handel nicht (mehr) von Natur
ist. Denn (um die naturgemäße Versorgung mit lebensnotwendigen
Dingen sicherzustellen), waren sie gezwungen, so viel zu tauschen,
bis sie hinreichend besaßen»; egli per un verso collega in senso parti-
tivo th`~ crhmatistikh`~ a hJ kaphlikhv (cfr. p. 328: «Ich sehe die Er-
gänzung des Prädikats ejsti in fuvsei und nicht th`~ crhmatistikh`~,
was vielmehr Gen. part. bei hJ kaphlikhv ist und zum Artikel auch
beim regierenden Subst.») e per l’altro conferisce a ajnagkai`on h\n il
valore di indicativo in riferimento al discorso storico introdotto poco
prima (diversamente da Newman, Barker, Aubonnet, che traducono
la seconda parte del periodo con sfumatura ipotetica, sottolineando il
carattere di necessità della conseguenza).
1257a 19-31 ejn me;n ou\n th' prwvthÊ koinwniva.Ê .. ejkeivnh kata; lovgon.
Nella prima comunità (2, 1252b 10), la famiglia, lo scambio non
esiste, perché tutti condividono tutto; nella comunità formata dall’unio-
ne di più famiglie, il villaggio – si noti la citazione quasi letterale di
2, 1252b 15-16: hJ dæ ejk pleiovnwn oijkiw`n koinwniva prwvth crhvsew~
e[neken mh; ejfhmevrou kwvmh – gli uomini vivono separati, e possiedono
pertanto cose diverse, di cui devono operare una ripartizione (metavdo-
si~) a seconda delle loro carenze e dei loro bisogni (diverse le inter-
pretazioni di questa espressione, soprattutto in relazione al valore dato
a ajnagkai`on: cfr. p. es. Polanyi 1968, p. 113 che vede un obbligo di
contribuzione ad un accantonamento comunitario; contra Maffi 1979,
p. 165 e Schütrumpf 1991, I, p. 329, che sottolineano come Aristotele
faccia riferimento al fatto che gli uomini vivono separati); essi utiliz-
zano la forma del baratto (ajllaghv), praticata ancora anche dai popoli
barbari, nuovamente prototipo di organizzazione politica primitiva (cfr.
2, 1252b 19 con commento al passo). Il baratto consiste nello scambio
di cose utili (crhvsima), come vino contro grano, e non è perciò con-
tro natura, e neppure si configura come una specie di crematistica, dal
momento che mira a raggiungere l’autosufficienza per natura, che è il
fine della ricchezza buona, e ha un limite naturale di soddisfazione delle
necessità. Però è da questo tipo di scambio che deriva «logicamente»
la crematistica.
Il lettore ha ora tutti gli elementi per comprendere il discorso: al
ragionamento antropologico del cap. 2 – per quel che riguarda l’evo-

291
COMMENTO I 9, 1257a 31 - 1257b 5

luzione delle forme di comunità, dettata dalla necessità del processo


biologico e dalla naturalità, e la questione del fine – si intrecciano
le conclusioni tratte al termine del capitolo precedente sull’arte ac-
quisitiva buona, che ha lo scopo di raccogliere i beni necessari e
utili e di raggiungere l’autosufficienza che porta nella polis alla «vita
buona», anche se con essa in questo passo non è istituito alcun col-
legamento diretto. Quindi la forma di scambio qui descritta, imposta
dalla necessità e dal fine proprio della comunità (crhvsew~ e[neken mh;
ejfhmevrou), è naturale e non può essere confusa con la crematistica
(ormai considerata in senso tecnico e deteriore), di cui però è il logico
punto di partenza.
1257a 31-1257b 5 xenikwtevra" ga;r gignomevnh"... plei'ston
poihvsei kevrdo".
In questa sezione Aristotele delinea il passaggio dal baratto “na-
turale” alla crematistica vera e propria attraverso alcuni passaggi
successivi: il baratto avveniva in origine all’interno della comunità,
per quanto già allargata; ma quando lo scambio diretto non fu più
possibile, in quanto l’importazione e l’esportazione dei prodotti do-
veva realizzarsi all’esterno – giacché evidentemente ciò che mancava
non si poteva trovare all’interno del gruppo di famiglie costituenti la
comunità ed era all’esterno che si potevano distribuire i prodotti in
eccedenza – l’uso della moneta fu dettato dalla necessità (cfr. sopra
a 23). La causa contingente fu il trasporto delle cose necessarie per
natura (cfr. Eur. Suppl. 209, che assegna alla necessità di trasportare
le merci l’invenzione della navigazione; si tratta probabilmente di un
tema topico), che si rivelò complesso, e spinse quindi gli uomini a tro-
vare modi alternativi per gestire lo scambio; si noti l’insistenza sulla
soddisfazione delle necessità primarie per natura, che servirà tuttavia
a comprendere il passaggio dal baratto al commercio in relazione al
sorgere della crematistica. Il primo passo fu quello di dare e accetta-
re, a titolo convenzionale, qualcosa di utile in sé, che potesse essere
impiegato direttamente per le necessità della vita, per esempio un tipo
di metallo più o meno prezioso. Alla base di questo tipo di scambio
(ancora definito ajllaghv, cfr. b 1, b 23) stava quindi un accordo tra le
parti che usava un mezzo convenzionale, ma pur sempre una merce
(cfr. anche Xen. Vect. 3, 2), per indicare il valore dei prodotti e facili-
tare le operazioni di scambio. In questo modo era possibile scambiare
beni non facilmente trasportabili, prevedendo e rispettando tempi di
maturazione e moltiplicando le possibilità.
Ma anche in questo vi fu un’evoluzione: se in origine il valore del
metallo utilizzato era indicato dalla dimensione e dal peso, successiva-

292
COMMENTO I 9, 1257a 31 - 1257b 5

mente si passò ad imprimere un simbolo, un marchio, che indicava il


valore e che permetteva di evitare di ripetere ogni volta la misurazione.
La moneta così pensata nasce quindi in modo naturale e necessario, e
non ha, almeno all’inizio, un significato negativo; esiste per facilitare
lo scambio e per raggiungere quell’autosufficienza che è il fine della
comunità più complessa (Aristotele ripeterà questo concetto a proposito
del commercio nella polis in VII 6, 1327a 25; Schütrumpf 1991, I, p.
323 rileva inoltre come questa prassi possa essere collegata alla «me-
scolanza» dei generi di vita descritta in 8, 1256b 2 ss.). Sulla nascita
della moneta come fenomeno storico ed antropologico in generale cfr.
p. es. Lombardo 1979, pp. 75-121; Maffi 1979, pp. 161-184; Parise
2000; Meadows-Shipton 2001; Reden 2002; Seaford 2004; Faraguna
2006.
Una volta entrata in uso la moneta, il passo dallo scambio «necessa-
rio» all’altro tipo di crematistica, il commercio (to; kaphlikovn), è bre-
ve: se in origine esso fu forse «rudimentale», e si limitò al trasferimento
di merci utili e necessarie per il controvalore in moneta, con l’ejmpeiriva
e la tevcnh (si vedano le inaspettate somiglianze terminologiche in Iso-
cr. 2, 1) cui Aristotele assegna la scintilla per la nascita della crematisti-
ca (cfr. 1257a 4-5), il commercio puntò non più al procurarsi ciò di cui
c’era necessità ma piuttosto al come ottenere un guadagno maggiore in
termini di denaro (povqen kai; pw`~ metaballovmenon plei`ston poihv-
sei kevrdo~), perdendo di vista l’autosufficienza che era il fine dell’arte
acquisitiva del primo tipo, e dando origine probabilmente ad un gruppo
specializzato di commercianti, anche se non si parla esplicitamente di
intermediari tra produttori o tra produttori e compratori (Schütrumpf
1991, I, p. 330). D’altra parte lo stesso Aristotele nel VII libro (9, 1328b
39) parla in termini negativi della vita del commerciante (ajgorai`o~
bivo~), ma la cattiva nomea del commercio esercitato per il guadagno e
per danneggiare il compratore è provata anche dal Pluto di Aristofane
(v. 1063: kaphlikw`~ e[cei, in senso deteriore) e dalle Leggi di Platone
(XI 918d: dio; pavnta ta; peri; th;n kaphvleian kai; ejmporivan kai; pan-
dokeivan gevnh diabevblhtaiv te kai; ejn aijscroi`~ gevgonen ojneivdesin);
è comunque interessante notare che nello stesso passo Platone cerca di
trovare dei correttivi per un giusto impiego del commercio nella città
(919a-920c), e nella Repubblica (II 371a-b) inserisce mercanti e in-
termediari nella suddivisione dei compiti all’interno della nuova città.
Pertanto appare chiaro, in particolare in questa parte del capitolo, che
Aristotele aveva ben presente la situazione dell’Atene del IV secolo,
oltre alla sua evoluzione economico-finanziaria (per questo aspetto si
vedano Cohen 1992; Reden 1995; Cartledge 2002; Migeotte 2003).

293
COMMENTO I 9, 1257a 31 - 1257b 5

Va comunque notato che altrove la prospettiva adottata da Aristote-


le sulla questione del denaro è piuttosto diversa: in EN V 8, 1133a 18-b
28 la funzione della moneta è discussa all’interno dell’analisi delle for-
me del giusto e in particolare della giustizia reciproca o commutativa.
La moneta è intesa nell’Etica come fondamentale per la costituzione
della società – problema a cui in questo passo della Politica non si fa
cenno (ma Schütrumpf 1991, I, p. 332 vede addirittura una contraddi-
zione con l’enfasi qui data al commercio “straniero”) –, perché essa è
un mezzo per rendere commensurabile tutto ciò che può essere scambia-
to, un mezzo tra la necessità del compratore e quella del venditore (dio;
pavnta sumblhta; dei` pw~ ei\nai, w|n e[stin ajllaghv. ejf’ o} to; novmisma
ejlhvluqen, kai; givgnetai pw~ mevson: pavnta ga;r metrei`, w{ste kai;
th;n uJperoch;n kai; th;n e[lleiyin, povsa a[tta dh; uJpodhvmata i[son
oijkiva/ h] trofh`Ê). Dal momento che è appunto la necessità a spingere
alla formazione della comunità cittadina, in questo contesto la mone-
ta serve a valutare una misura precisa di questo scambio attraverso la
proporzionalità e permette quindi di quantificare l’uguaglianza, senza
alcun risvolto negativo (si noti che in questo capitolo della Politica si
parla invece di necessità dello scambio). Nell’Etica dunque troviamo la
conferma dell’importanza della moneta nella formazione della comuni-
tà ma, nell’ottica dell’interpretazione della giustizia, il valore d’uso e il
valore di scambio vengono superati poiché il valore di scambio di una
merce non è determinato dalla necessità o dalla domanda, come l’uso
non è legato a questa, ma dalla posizione del produttore nel contesto
sociale (Lisi 2011). La prospettiva dell’indagine sulla moneta è pertanto
differente nelle due opere, soprattutto se consideriamo che il punto di
vista di Aristotele è rivolto all’uso del denaro e alle sue implicazioni
all’interno di forme di scambio molto diverse tra loro (apparentemente
intracomunitaria nell’Etica, intercomunitaria nella Politica).
La proposizione in 1257a 41-b 2, pur se chiara nel suo senso ge-
nerale (dopo la nascita della moneta e in conseguenza dello scambio
dei beni necessari alla vita, usando il denaro, sorse il commercio, che
rappresentava un’altra specie di crematistica), presenta alcuni nodi in-
terpretativi cui gli studiosi hanno dato differenti soluzioni: il primo ri-
guarda l’espressione ejk th`~ ajnagkaiva~ ajllagh`~, che potrebbe essere
logicamente legata al genitivo assoluto iniziale (la nascita della moneta
è conseguenza dello scambio praticato per necessità, cfr. Lord 1984, p.
47) oppure alla seconda parte del periodo (dallo scambio praticato per
necessità nacque la seconda specie di crematistica, cfr. Barker 1946, p.
25; Schütrumpf 1991, I, p. 335; Saunders 1995, p. 13; Simpson 1998,
p. 53); il secondo concerne invece la funzione logica di to; kaphlikovn

294
COMMENTO I 9, 1257b 5-17

nella seconda parte della frase, che può essere segnalata dalla presenza
o meno della virgola dopo ejgevneto («il commercio al minuto divenne
una seconda specie di crematistica» – senza virgola, cfr. Pellegrin 1982,
p. 639 – oppure «nacque una seconda specie di crematistica, il commer-
cio al minuto» – con virgola, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 25; Simpson
1997, p. 28; Simpson 1998, p. 53).
1257b 5-17 dio; dokei' hJ crhmatistikh;... gignomevnwn tw'n para-
tiqemevnwn crusw'n.
Presentando gli effetti del sorgere della crematistica, Aristotele fa
notare che l’opinione comune vuole dunque che essa abbia a che fare
con la moneta e quindi la sua attività principale sia rivolta a stabilire da
dove si possa procurare un surplus di beni, giacché essa è produttrice di
ricchezza (in termini monetari, cfr. anche EN IV 1, 1119b 26) e di beni.
Non è possibile mantenere nella traduzione la relazione etimologica che
lega crhmatistikhv e crhvmata (b 5-7); possiamo comunque rilevare
che quest’espressione è pressoché identica a quella usata da Aristote-
le all’inizio della sezione relativa alla crematistica in generale, che ha
portato ad individuare la ricchezza buona (8, 1256a 15-16: eij gavr ejsti
tou` crhmatistikou` qewrh`sai povqen crhvmata kai; kth`si~ e[stai; in
quel periodo si erano però rilevati problemi strutturali, cfr. commento
ad locum): in quel caso ci si domandava se fosse compito di colui che
aveva l’incarico di acquisire beni (il crematista), di indagare da dove
venissero beni e proprietà; qui si riconosce che la crematistica ha il
compito di ricercare da dove possa venire abbondanza di beni. Si tratta
di una chiara evoluzione nel percorso esegetico aristotelico per quel
che concerne l’arte acquisitiva: se il crematista del cap. 8 poteva avere
l’incarico di indagare le fonti dei beni, la crematistica del 9 punta alle
fonti dell’accumulo, dal momento che la crematistica è ormai intesa nel
senso deteriore di «accumulo di ricchezza». Quindi è l’abbondanza di
beni – e non più il procurarsi i mezzi necessari e utili alla vita (8, 1256b
28-30) – a configurarsi come ricchezza, e la ricchezza è ora intesa in
termini monetari (nomivsmato~ plh`qo~), secondo l’opinione comune da
cui il filosofo è evidentemente partito.
Talvolta però il denaro risulta privo di valore e semplicemente
frutto di una convenzione (si noti il ripetersi della figura etimologica
anche per novmisma e novmo~ a b 11; cfr. anche la spiegazione di EN V
8, 1133a 30 ss.), e assolutamente non naturale; perciò la moneta ha
valore se c’è un accordo, ma se questo manca perché mutano coloro
che hanno stipulato l’accordo essa non può più avere valore né utilità
per le necessità della vita (l’insistenza sull’utilità e la necessità permea
l’intero passo: cfr. 1257a 25, 34, 35, 36, 37; cfr. anche Xen. Vect. 3, 2).

295
COMMENTO I 9, 1257b 17-38

Conseguenza logica, seppure paradossale, sarà dunque che chi è ricco


in termini monetari potrebbe restare privo di nutrimento e morire di
fame (si noti la presenza dello stesso procedimento argomentativo nei
capitoli sulla schiavitù); lo stesso rischio corso da Mida, figlio di Gor-
dio, mitico fondatore della dinastia regale frigia (sull’origine frigia cfr.
Hdt. VIII 138; Plat. Phaedr. 264c; Theop. FGrHist 115 F 75a; Ovid.
Met. XI 92; Igin. Fab. 191). Aristotele richiama a proposito di Mida
un episodio ormai proverbiale – si noti l’uso di ejkei`non in senso non
pregnante e di muqologou`si –, riferito ampiamente dal poeta latino
Ovidio (Met. XI 85-194: il racconto, come anche quello di Igino, si
configura come eziologia della colorazione dorata dell’acqua del fiume
Pattolo nei pressi di Sardi) e legato alla cattura da parte dei contadini
frigi del satiro Sileno, del seguito di Dioniso, che il re aveva accolto
amichevolmente in quanto compartecipe dei riti misterici cui era stato
avviato da Orfeo ed Eumolpo e aveva poi fatto ricondurre al dio, diretto
in India; in ringraziamento Dioniso aveva offerto di esaudire una pre-
ghiera di Mida, che stoltamente aveva chiesto di ottenere che tutto ciò
che toccava si trasformasse in oro fino a quando, ricco ma infelice, si
era rivolto nuovamente al dio – con successo, dato il suo sincero pen-
timento – chiedendo di essere liberato dalla sventura (sull’argomento
cfr. Bömer 1980, pp. 259-275; Guidorizzi 2000, pp. 127 e 472-474;
Scherf 2000, coll.154-155). Il racconto aristotelico lascia presupporre
che l’episodio legato alla figura di Mida avesse ormai assunto toni pro-
verbiali, e il fatto è senza dubbio provato dai numerosi riferimenti tardi
e dalla fortuna di cui godette nella letteratura latina e oltre; d’altro canto
però quella aristotelica è in pratica la prima occorrenza in nostro pos-
sesso dell’episodio, se si eccettua il richiamo alla ricchezza di Mida in
un verso del Pluto di Aristofane, che tuttavia contamina due aspetti del
mito (la ricchezza e le orecchie d’asino, assegnategli da Apollo come
punizione per non averlo dichiarato vincitore in una gara musicale; cfr.
Plut. 286-87).
1257b 17-38 dio; zhtou'sin e{terovn ti .... th'" dæ hJ au[xhsi".
Se dunque la crematistica che si serve del denaro può raggiunge-
re aspetti paradossali, ovvero che la ricchezza in termini monetari non
garantisca la sopravvivenza, viene da sé che è opportuno rivolgersi ad
un altro tipo di ricchezza e di crematistica, quella trattata nel capitolo
precedente. Come già a proposito della schiavitù Aristotele, partendo
dall’opinione comune e smontando pezzo per pezzo la realtà general-
mente condivisa in relazione alla ricchezza e all’acquisizione dei beni,
arriva a formulare una nuova definizione e a costruire una nuova imma-
gine di ricchezza (come già di schiavo, cfr. 6, 1255a 12-32), che da un

296
COMMENTO I 9, 1257b 17-38

lato piega le apparenti contraddizioni e le difficoltà di trovare accordo


sui concetti di crematistica e di ricchezza e dall’altro fa appello alla
naturalità. Di fronte alle aporie del comune sentire sulla ricchezza (cfr.
allo stesso modo per la schiavitù 6, 1255a 4 ss.), Aristotele si appella
al ritorno ad una crematistica e ad una ricchezza kata; fuvsin, «per na-
tura», appartenenti all’amministrazione domestica perché consentono
di procurarsi i beni necessari ed utili per la vita della famiglia e della
città, nell’ottica del «vivere bene» (8, 1256b 26-30); questo genere di
ricchezza è legato al commercio, ma inteso solo in quanto scambio di
beni: pertanto il commercio produce beni perché essi vengono scam-
biati, e in tale scambio la moneta può essere un mezzo ma non il fine,
che è l’autosufficienza. L’altro tipo di crematistica, quella censurata da
Aristotele, ha invece a che fare – o dokei`, «sembra» avere a che fare,
secondo quel che viene generalmente inteso: Aristotele prende eviden-
temente le distanze da tale posizione – con il denaro, elemento (ma cfr.
Bonitz 1870, p. 702a 26, che nota che il vocabolo può significare anche
«inizio») e fine dello scambio, e produce quindi una ricchezza senza
limiti in termini monetari, e non in termini di beni utili e necessari.
La dimostrazione avviene per gradi nelle linee successive, presup-
ponendo comunque quel che già è stato detto nel capitolo precedente
(8, 1256b 31 ss.): ogni arte cerca di raggiungere il suo fine, che è anche
il suo limite (1257b 28: pevra~ ga;r to; tevlo~ pavsai~); la medicina ad
esempio non si pone un limite al risanamento del paziente, tranne il
raggiungimento dello scopo; i mezzi per raggiungere il fine però non
sono illimitati (8, 1256b 31-37). Quindi la crematistica non naturale,
in quanto arte, non si pone limiti al raggiungimento del fine, che è la
ricchezza in termini monetari e l’acquisto dei beni; d’altro canto questo
tipo di ricchezza è al contempo il limite e il fine, e non ha tuttavia limi-
te, perché il suo accumulo coincide col limite.
Il presupposto aristotelico e la sua critica all’accumulo indiscrimi-
nato di ricchezza tuttavia non colpiscono direttamente l’economia mo-
netaria, ma il fine cui tende l’acquisto di beni: l’arte acquisitiva naturale
(o crematistica «economica», 1257b 30-31), in quanto parte dell’oiko-
nomia, ha come fine ultimo l’acquisizione di beni utili e necessari a
casa e città – la ricchezza buona – che in prospettiva conduce al vivere
bene (cfr. sotto, 1258a 1), che ne rappresenta il limite; l’altro genere di
crematistica, quella praticata nella realtà concreta, perde di vista questo
fine ultimo e come arte fine a se stessa punta esclusivamente all’accu-
mulo di beni o denaro senza limite.
Riprendendo un argomento già proposto all’inizio del capitolo
(1257a 2-3), Aristotele motiva la differenza tra le due specie di arte

297
COMMENTO I 9, 1257b 38 - 1258a 14

acquisitiva: esse sono normalmente confuse a causa della loro affinità


(suvneggu~), determinata dal fatto che entrambe fanno uso della stessa
proprietà; in realtà la proprietà non viene usata allo stesso modo e con
un medesimo fine, ma l’una è rivolta al soddisfacimento delle necessità,
l’altra è finalizzata all’accrescimento della proprietà stessa come se essa
non avesse alcun limite.
1257b 38-1258a 14 w{ste dokei' tisi... a{pavnta devon ajpanta'n.
Nella realtà quindi alcuni (quelli evidentemente che praticano la
crematistica) ritengono che l’accrescimento della proprietà sia compito
della crematistica «economica» (quella che è parte dell’amministrazio-
ne domestica) e continuano a pensare (si noti l’implicita critica con-
tenuta nell’espressione diatelou`sin... oijovmenoi) di dover conservare
o accrescere all’infinito il patrimonio monetario (cfr. la definizione di
oikonomia in Xen. Oec. 6, 4: hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h|Ê oi[kou~
duvnantai au[xein a[nqrwpoi, oi\ko~ d hJmi`n ejfaivneto o{per kth`si~ hJ
suvmpasa, kth`sin de; tou`to e[famen ei\nai o{ ti ejkavstw/ ei[h wjfevlimon
eij~ to;n bivon ktl.; cfr. sopra, pp. 74-78). Poco prima (1257b 31) Aristo-
tele aveva già spiegato e motivato che la ricchezza e il possesso senza
limiti non sono compito della crematistica economica; è quindi chiaro
che il filosofo cerca di interpretare la realtà concreta con il proposito
di mostrarne i limiti sostanziali e rileva che l’atteggiamento comune
nei riguardi del denaro e del patrimonio è determinato dalla mancata
comprensione dei fini e dei limiti nell’uso della proprietà. Quali sono
però le ragioni di questo diffuso sentire? Non può trattarsi soltanto di
una confusione nell’interpretare l’acquisizione di beni; deve rispondere
ad una precisa posizione etica, legata al fine del comportamento dei
singoli e alla visione comune della realizzazione personale: chi si affan-
na ad accumulare denaro senza limite si preoccupa di vivere, ma non
di vivere bene; dal momento che il suo desiderio di vivere è illimitato
pensa di poter ottenere questo scopo con mezzi illimitati, quindi attra-
verso l’accumulo di beni e ricchezze (cfr. VII 1, 1323a 35-1323b 12, ed
inoltre EN I 3, 1096a 5-7: oJ de; crhmatisth;~ bivaiov~ ti~ ejstivn, kai;
oJ plou`to~ dh`lon o{ti ouj to; zhtouvmenon ajgaqovn: crhvsimon ga;r kai;
a[llou cavrin: «chi si dedica al guadagno è in qualche modo sottoposto
a costrizione, e la ricchezza non è il bene che si cerca; essa infatti è utile
ed è orientata a un fine diverso da sé»). Ma anche chi si impegna per
vivere bene può interpretare falsamente i mezzi per raggiungere il fine
(cfr. VII 13, 1331b 39 ss.: tutti aspirano a vivere bene e alla felicità, ma
alcuni non cercano la felicità nel modo corretto, pur potendola raggiun-
gere), andando alla ricerca dei piaceri del corpo e facendoli in qualche
modo dipendere dalla proprietà e dalla ricchezza (cfr. Plat. Resp. I 329a)

298
COMMENTO I 9, 1258a 14-18

e passando il tempo ad acquisire beni, ragion per cui è comparsa la se-


conda forma di crematistica. Per costoro il piacere consiste nell’eccesso
e ricercano quindi il mezzo per raggiungere questo eccesso di piacere
(Schütrumpf 1991, I, p. 345 intende uJperbolhv come «unbegrenzt»,
illimitato, e traduce «ausschweifendes Geniessen», piacere sfrenato;
sull’interpretazione della felicità come piacere cfr. EN I 3, 1095b 15-18:
to; ga;r ajgaqo;n kai; th;n eujdaimonivan oujk ajlovgw~ ejoivkasin ejk tw`n
bivwn uJpolambavnein. oiJ me;n polloi; kai; fortikwvtatoi th;n hJdonh;n:
dio; kai; to;n bivon ajgapw`si to;n ajpolaustikovn: «si giudicano il bene e
la felicità a partire dai modi di vivere, per cui la massa e quelli più vol-
gari lo fanno consistere nel piacere e amano quindi la vita dissoluta»;
per la definizione della «vita di piacere» cfr. anche EE I 4, 1215 a 26).
Se non riescono a procurarselo con la crematistica – essa stessa distorta
nel suo fine proprio –, lo cercano addirittura altrove, facendo cattivo
uso di altre qualità morali o forme di attività tecnica (duvnami~) come la
medicina o l’arte della guerra, piegandole, contro la loro natura, a fini
diversi da quelli propri (la salute e la vittoria, di segno positivo) e usan-
dole invece come strumenti per acquisire ricchezza di segno negativo,
come se tutto dovesse limitarsi a questo scopo.
1258a 14-18 peri; me;n ou\n... ajlla; e[cousa o{ron.
Abbiamo in queste poche righe il sunto dell’intera argomentazione
sulla crematistica nelle sue linee generali: Aristotele ha appena finito di
trattare della crematistica non naturale (o “non necessaria”, nel senso
che non serve a procurare beni necessari per vivere; cfr. Schütrumpf
1991, I, p. 345: «nicht den notwendigen Lebensbedürfnissen dient») e
ne ha spiegato i caratteri (non è parte dell’amministrazione domestica,
ha a che fare con il denaro e non con il nutrimento, è illimitata) e le
cause (il desiderio dell’uomo di vivere o di vivere bene raggiungen-
do il massimo del piacere, identificato con l’accumulo di denaro); nel
precedente capitolo aveva invece definito i caratteri della crematistica
naturale (o necessaria), appartenente all’amministrazione domestica e
dotata del fine di procurare il nutrimento e di un limite ben definito.

299
CAPITOLO 10
IL RUOLO DELLA CREMATISTICA RISPETTO ALL’AMMINISTRAZIONE DOMESTICA:
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La sezione sull’amministrazione domestica è alle ultime battute e Ari-


stotele trae le conclusioni del discorso; dopo la lunga unità argomen-
tativa può finalmente trovare soluzione al quesito iniziale da cui aveva
preso le mosse (8, 1256a 4): la crematistica è parte dell’amministrazio-
ne domestica? Una parte della risposta è già stata data: l’arte acquisi-
tiva legata all’ottenimento del nutrimento e dei beni necessari e utili è
parte della oikonomia, in quanto naturale; quella collegata al commer-
cio in vista non semplicemente dello scambio di beni (anche realizzato
usando il denaro), ma in vista del guadagno in termini monetari, che è
contro natura, non lo è (9, 1257b 19 ss.). Sembra infatti che fino a que-
sto momento Aristotele abbia tracciato il quadro dell’arte acquisitiva
sulla base della maggiore o minore vicinanza alla naturalità, arrivando
dunque al massimo della negatività con la ricerca del piacere tramite
l’accumulo di ricchezza. Tuttavia vi sono alcuni aspetti della questione
che Aristotele sembra non aver ancora chiarito e sembra voler ancora
focalizzare: rispondere al quesito dell’inizio del cap. 8 significa anche
dirimere la questione se la crematistica (il termine, dopo una parente-
si “tecnica” è nuovamente usato in senso ampio di «arte acquisitiva»,
come nel cap. 3), in quanto parte dell’amministrazione domestica, sia
compito dell’amministratore e sia ad essa subordinata in qualità di ausi-
liaria. Da qui dunque prende le mosse per alcune ulteriori considerazio-
ni, ma il problema non trova una soddisfacente soluzione.

1258a 19-34 Dh'lon de; kai;... ajlla; th'" uJphretikh'".


L’interrogativa indiretta iniziale dà l’avvio al ragionamento, che
dovrebbe portare a chiarire il ruolo della crematistica rispetto all’am-
ministrazione domestica, posto come problematico all’inizio del cap. 8
(1256a 3-4: si noti l’uso del verbo ajporevw qui ripreso da to; ajporouv-
menon): l’amministratore della casa e il politico si devono incaricare di
acquisire i beni oppure no, nel senso che li hanno già a disposizione? La
proposizione non è immediatamente perspicua; se la prima parte sem-
bra riprodurre alla lettera il testo dell’interrogativa, la seconda (a partire
da ajllav) appare invece slegata e grammaticalmente poco giustificabile
(tanto da far pensare a Susemihl che fosse caduta una parte della frase e
che fosse sopravvissuta una porzione della risposta al quesito iniziale);

300
COMMENTO I 10, 1258a 19-34

inoltre risulta poco chiaro il significato di tou`to (l’intera espressione


è poi ripresa quasi letteralmente in a 35), che appare intuitivamente
riconducibile ai “beni”, ma senza alcun evidente legame di tipo gram-
maticale a vocaboli usati in precedenza (per l’uso di uJpavrcein in un
contesto simile si veda invece VII 4, 1326a 1; 13, 1332a 28).
Nella risposta Aristotele gioca nuovamente sul contrasto tra «procu-
rare» e «usare», come nel cap. 8 (1256a 10-13): si potrebbe pensare che
sia vera la seconda ipotesi (amministratore e politico non devono acqui-
sire i beni perché li hanno già), se si considera il caso della politica, che
non deve produrre gli uomini, ma semplicemente ne fa uso prendendoli
come sono stati fatti dalla natura. Allo stesso modo la natura produce
terra, acqua e ciò che è necessario al nutrimento (cfr. 8, 1256a 37-39;
non sembra necessaria l’introduzione di prov~ davanti a trofhvn alla l.
23 accolta da Ross) e l’amministratore della casa se ne serve nel modo
dovuto. Questa prima riflessione dovrebbe provare che l’acquisizione
dei beni non è parte dell’amministrazione domestica, come è ulterior-
mente indicato dalle due successive analogie proposte da Aristotele; si
tratta di due ambiti, la tessitura e la medicina, già ampiamente sfruttati
nel corso del libro e in particolare proprio in questa sezione relativa
all’oikonomia (cfr. 8, 1256a 5 ss. e 1257b 25 ss.). Anche il tessitore
non ha il compito di produrre la lana, ma soltanto di usarla e saper
distinguere quale può essere usata ed è adatta allo scopo e quale invece
è scadente e non è adatta; se applicato all’amministrazione domestica
si dirà, come già è stato fatto (8, 1256a 10-13), che l’amministrazione
domestica ha il compito di usare i beni, la crematistica di procurarli (an-
che in 7, 1255b 34 si era già detto che la capacità del padrone riguardo
ai servi si rivela nel loro corretto uso e non nell’acquisirli; sulle com-
petenze della crematistica si veda 11, 1258b 12 ss.; cfr. inoltre III 11,
1282a 18-25). Quanto alla medicina, ci si può domandare – si noti che
la modalità è nuovamente quella, assai spesso utilizzata anche in altri
punti dell’opera, dell’obiezione più o meno fittizia – perché essa non
sia parte dell’amministrazione domestica e la crematistica sì (l’uso di
movrion conferisce un carattere “tecnico” alla definizione), dal momento
che coloro che vivono nella casa devono vivere e procurarsi il neces-
sario (compito della crematistica), ma anche essere in salute (compito
della medicina). La soluzione al quesito non è univoca: se da un lato
l’amministratore della casa e il governante hanno l’incarico di occupar-
si della salute (anche nel libro VII il problema della salute dei cittadini
nella costituzione della città ideale è più volte affrontato, p. es. VII 11,
1330 b 8), è pur vero che in alcuni casi questo è compito del medico, e
ugualmente all’amministratore spetta in alcuni casi occuparsi dei beni,

301
COMMENTO I 10, 1258a 34 - 1258b 8

ma in altri spetta a un’arte sussidiaria (cfr. 4, 1253b 33; 8, 1256a 1 ss.).


Possiamo immaginare, sulla base anche delle argomentazioni preceden-
ti, che cosa intenda qui Aristotele: l’oikonomos, nella consapevolezza
di dover fare in modo che la casa venga correttamente amministrata,
deve servirsi delle arti ausiliarie per gestirla, non senza aver valutato
che quel che gli viene da altre arti sia adatto e utilizzabile; pertanto
dovrà in alcuni casi ricorrere al medico e al crematista.
1258a 34-1258b 8 mavlista dev... tw'n crhmatismw'n ejstin.
Ciò che serve all’amministratore per gestire la casa deve essere già
prima a sua disposizione; Aristotele lo ha detto (a 21) e lo ripete ora,
ma con un’importante aggiunta, frutto del ragionamento appena con-
cluso: è la natura a doverglielo fornire (per l’uso limitativo di mavlista
Newman 1887, II, p. 195). Se leghiamo la riflessione alla crematistica,
ne otterremo che – dal momento che essa è arte di acquisire proprietà
e la proprietà è fatta di strumenti che servono per vivere – come arte
ausiliaria deve fornire alla oikonomia gli strumenti che le competono,
che essa userà per realizzare il fine della casa/famiglia. Ma in prima
battuta questi strumenti di base devono essere garantiti dalla natura,
che ha il compito di procurare il nutrimento agli esseri che nascono (cfr.
8, 1256b 8; vd. anche HA I 5, 489b 6 ss.; GA II 1, 732a 29; III 2, 752 b
17 ss.): la crematistica per natura dunque, necessaria e approvata, dovrà
saper trarre tali strumenti dai frutti e dagli animali (8, 1256b 26-30).
Ma Aristotele ha ben presente di aver parlato (8, 1256b 30; 9, 1258a
14) di un’altra specie di crematistica legata al commercio (th`~ me;n ka-
phlikh`~), ma che procura la proprietà tramite lo scambio (th`~ de; me-
tablhtikh`~), non naturale e quindi giustamente disapprovata, perché
basata non su ciò che è disponibile in natura (senza alcun intermediario
tra la natura stessa e l’uomo che usa i suoi prodotti, secondo Schütrumpf
1991, I, p. 351), ma su quel che viene preso gli uni dagli altri (non “a
spese degli altri” o “sfruttando gli altri”, come si potrebbe pensare dalla
successiva condanna dell’usura, ma attraverso l’azione di intermediario
del mercante). Aristotele riassume qui quel che ha delineato in maniera
articolata nel capitolo precedente, traendone ulteriori conclusioni: là si
era detto che risultava contro natura la pratica dello scambio, soprat-
tutto dal momento in cui la moneta da simbolo della merce scambiata
era divenuta essa stessa fine dello scambio e la ricchezza da disponibi-
lità di beni necessari e utili per vivere si era trasformata in mero accu-
mulo, di denaro (o di beni), per il solo fine del guadagno, escludendo
quindi l’azione della natura. È evidente che questo tipo di scambio non
produce beni forniti dalla natura e utilizzabili per vivere, ma il denaro
o il prodotto che viene reciprocamente scambiato tra le parti (ma cfr.

302
COMMENTO I 10, 1258a 34 - 1258b 8

Schütrumpf 1991, I, p. 351, che ritiene che qui Aristotele intenda con-
dannare la funzione dei mercanti come intermediari delle transazioni).
Si tratta dell’importante differenza tra valore d’uso della proprietà –
quello che ha ben chiaro l’oikonomos quando si serve della crematistica
naturale – e valore di scambio, per cui il prodotto, ma soprattutto il
denaro (con il suo valore strumentale e convenzionale), ha il solo fine
di accrescere la ricchezza perdendo di vista completamente la proprietà.
Aristotele condanna quindi recisamente l’uso del denaro come fine e
non come mezzo (ragione del suo sorgere, 1258b 4), esemplificando il
massimo grado di questo atteggiamento disprezzabile (si noti l’uso di
termini “forti” in crescendo, yegomevnh~ e misei`tai) nel prestito «ad
interesse» (preferibile a «usura» nel tradurre ojbolostatikhv, che non
ha la valenza negativa del termine italiano; cfr. Cohen 1992, pp. 4-5; il
termine è usato da Aristoph. Nub. 1155, che gioca sul doppio signifi-
cato, come qui Aristotele), che, in quanto forma puramente finanziaria,
perde di vista del tutto il prodotto e, totalmente estranea alla naturalità,
trae direttamente denaro da denaro attraverso l’interesse. Indicativo di
questo modo distorto di produrre ricchezza è persino il vocabolo usato
in greco per designare l’interesse: tovko~, che ha anche il significato di
«figlio» in quanto derivante dalla radice del verbo tivktw, «generare»:
come dunque i figli sono simili ai genitori, così anche attraverso l’inte-
resse si produce denaro da denaro.

303
CAPITOLO 11
LA PRATICA DELLA CREMATISTICA

Aristotele sembra aver concluso con il cap. 10 la sezione sulla cremati-


stica. Con una vera e propria climax ha descritto le forme di acquisizio-
ne di beni fino a quella più lontana dalla natura, il prestito a interesse,
nel quale non vi è più alcuna traccia dei beni utili alla sopravvivenza,
sostituiti completamente dal denaro che si auto-produce e alimenta. Ma
l’argomento non è del tutto archiviato. In maniera un po’ inattesa il
nostro autore inserisce ancora un breve corollario, che riguarda la prati-
ca della crematistica. Dopo tanta teoria, è quasi inevitabile, sembra di-
chiarare Aristotele, dire qualcosa sull’uso e riprendere quindi il tema in
relazione ai modi di acquisizione. Questa “deviazione” dal sentiero già
tracciato ha fatto più volte sospettare dell’autenticità di questo capitolo
dell’opera (cfr. Barker 1946, p. 29 n. 3; Lord 1984, p. 17), ma nella tra-
dizione non vi è alcuna prova, diretta o indiretta, che essa possa essere
stata aggiunta in un secondo tempo; i maggiori commentatori sembrano
non nutrire troppi dubbi sull’autenticità del cap. 11: Newman 1887, II,
pp. 196-198, pur manifestando il sospetto che possa essere stato aggiun-
to in seguito, dichiara di ritenerlo autentico e coevo al resto del primo
libro (cfr. anche Schütrumpf 1991, I, p. 355; Saunders 1995, p. 95, che
non pone neppure la questione; Simpson 1998, p. 59). La conclusione
del capitolo potrebbe fornirci una chiave di lettura: il comportamen-
to dell’amministratore domestico–crematista deve servire da modello
anche ai politici (1259a 33), ed è pertanto utile una lettura dettagliata
delle varie pratiche crematistiche proprio perché essi ne possano trarre
utile insegnamento; d’altra parte, la continuità tra pratica domestica e
politica appare ad Aristotele particolarmente vantaggiosa (cfr. Saunders
1995, p. 97). È tuttavia vero che Aristotele propone qui una inedita divi-
sione della crematistica in tre parti, in cui inserisce alcune delle attività
poco prima recisamente condannate; ma anche questa potrebbe essere
una prova a sostegno dell’autenticità, giacché il procedimento può es-
sere ricondotto alla consueta metodologia della divisione. D’altra parte,
già all’inizio della sezione sulla schiavitù si era proposto di mettere in
luce i casi in cui si debba far uso degli schiavi (3, 1253b 15-16: tav te
pro;~ th;n ajnagkaivan creivan) e al termine della sezione, nel cap. 7,
Aristotele aveva insistito sul fatto che il padrone è definito dalla sua
condizione più che da una particolare scienza e aveva dato una serie di
indicazioni – che potremmo definire “pratiche” – sulle competenze del

304
COMMENTO I 11, 1258b 9-11

padrone nei riguardi degli schiavi, proponendo delle esemplificazioni


tratte dall’esperienza comune (7, 1255b 23 ss.).

1258b 9-11 jEpei; de; ta; pro;" th;n gnw'sin diwrivkamen... th;n
d∆ ejmpeirivan ajnagkaivan.
Il contrasto tra «conoscenza teorica» (gnw`si~) e «uso» (crh`si~) è
il punto di partenza per un nuovo ordine di riflessioni sulla crematistica,
legate all’empeiria (cfr. b 11 e 13); se partiamo dal presupposto che
questa parte dell’opera (capp. 8-11) fosse il frutto di un logos autono-
mo sulla relazione oikonomia-crematistica (cfr. sopra, pp. 60-61), dal
periodo iniziale del capitolo il lettore può supporre che Aristotele stesse
rispondendo a qualche obiezione riguardante la realtà dei fatti, o che
abbia notato che occorreva dare indicazioni pratiche per non essere ac-
cusato di essere eccessivamente svincolato dalla realtà. Proprio a que-
sto aspetto sembra infatti fare riferimento la seconda contrapposizione,
quella tra «libertà» della teoria (th;n qewrivan ejleuqevran) e «necessi-
tà» della esperienza (th;n ejmpeirivan ajnagkaivan). Molto differenziate
le interpretazioni di questo passo: tra le più significative Schütrumpf
1991, I, p. 28 (che traduce «in allen diesen Angelegenheiten ist die
theoretische Beschäftigung dem Range eines freien Mannes angemes-
sen, die praktische Erfahrung dient dagegen der Erfüllung notwendiger
Bedürfnisse», spiegando che mentre la cura per la teoria è degna di un
uomo libero, l’esperienza pratica ha a che fare con l’adempimento di
compiti necessari, p. 355); Saunders 1995, p. 16 («in all subjects of this
kind speculation befits a free man, whereas experience meets essential
needs» e p. 95: «there is free scope for speculation, but we cannot avoid
practical experience»); Simpson 1997, p. 28 (che interpreta invece «stu-
dy of all such things has something liberal about it, but to be actually
experienced in them belongs to necessity», ritenendo che l’espressione,
in riferimento a 1258b 33-39, voglia dire «that it becomes rulers of
household and city, who are free men, to devote some study to the use
and practice of business but it does not become them actually to engage
in it»: Simpson 1998, p. 60); si vedano inoltre le traduzioni italiane di
Laurenti 1993, p. 22 («argomenti di tale natura, tutti quanti, in teoria si
studiano liberamente, mentre in pratica, sono legati alla necessità») e di
Viano 2002, p. 117 («infatti tutte queste cose permettono libere inter-
pretazioni teoriche, ma in pratica rivelano la loro necessità»),
La contrapposizione tra conoscenza e uso risponde comunque,
come nota Simpson (1998, p. 59), ad alcune delle riflessioni del ca-
pitolo precedente ed è senz’altro motivata: se la crematistica fa parte
dell’amministrazione domestica nel senso che l’oikonomos è incaricato

305
COMMENTO I 11, 1258b 12-21

di procurare quel che serve alla casa (sia con l’acquisizione sia con
l’uso di ciò che è fornito dalla natura anche attraverso arti ausiliarie, cfr.
10, 1258a 20), anche la pratica della crematistica fa parte dei compiti
dell’amministrazione domestica. E le supposte contraddizioni presenti
nel capitolo vengono superate appunto dalla necessità di rispondere a
queste esigenze di carattere pratico.
1258b 12-21 e[sti de; crhmatistikh'" mevrh... tau'ta movria kai;
prw`ta.
Le parti e i fondamenti (b 21, prw`ta; la scelta del vocabolo sem-
bra soddisfacente e non richiede pertanto la correzione proposta da Ri-
chards e accolta da Ross in prwvth~) della crematistica relativi all’uso –
se così si può interpretare il collegamento etimologico tra crh`si~ (b 10)
e crhvsima (b 12) – riguardano la crematistica «nel senso più proprio»
(b 20, oijkeiotavth), quella naturale, che trae il proprio fabbisogno di-
rettamente dalla natura. Aristotele, nell’elencare le competenze neces-
sarie al crematista, riprende i modi di vita di cui si era occupato nel cap.
8 (1256a 29 ss.), specificando in che modo debba esercitarsi l’abilità di
colui che deve trarre nutrimento dalle varie risorse (per es. poi`a... kai;
pou` kai; pw`~; cfr. in Schütrumpf 1991, I, p. 357 il riferimento a Aristo-
ph. Ran. 971 e alle teorie sofistiche): conoscere i vantaggi delle condi-
zioni e delle collocazioni delle proprietà, avere esperienza di acquisto
di animali e degli ambienti in cui l’allevamento delle singole specie
possa essere più redditizio, essere abile nell’esercizio dell’agricoltura
erbacea e arborea, nell’allevamento delle api e degli altri animali ac-
quatici e volatili, dai quali si possano trarre risorse (bohqeiva~, cfr. 8,
1256b 19).
1258b 21-27 th'" de; metablhtikh'"... movnw/ crhsivmwn.
Il secondo tipo di crematistica è quello già delineato a partire dal cap.
9, relativo allo scambio, contro natura e fonte della ricchezza monetaria,
ma considerato qui da un diverso punto di vista: la sua parte fondamen-
tale è costituita dall’attività mercantile su larga scala (ejmporiva), a sua
volta distinta in armamento di navi, trasporto (forthgiva; cfr. Demosth.
34, 8) e smercio, caratterizzate da un diverso livello di sicurezza e di
guadagno (che in termini attuali potremmo chiamare rapporto rischio-
beneficio); la seconda consiste nel prestito a interesse, già affrontato
alla fine del cap. 10 (ma nell’ottica di una valutazione di senso comu-
ne), che scambia denaro per denaro; la terza è relativa al lavoro retribu-
ito (misqarniva; cfr. anche Plat. Leg. XI 918b), che scambia lavoro per
denaro, esercitato da persone specializzate nei lavori manuali (hJ me;n
tw`n banauvswn tecnw`n; cfr. IV 3, 1289b 33; 4, 1291a 1) o non specia-
lizzate, che si servono soltanto del corpo (cfr. 13, 1260a 39-b 2, dove

306
COMMENTO I 11, 1258b 27-39

compare l’espressione oJ bavnauso~ tecnivth~ che ha spinto Vermehren,


seguito da Ross, a correggere il tecnw`n dei codici in tecnitw`n). Aristo-
tele propone qui non solo nuove ripartizioni funzionali, ma anche una
prospettiva nuova rispetto a quella dei capitoli precedenti, che risponde
alla sua esigenza pratica e che non dà un giudizio di valore delle di-
verse modalità di acquisizione, bensì le cita in relazione allo scopo di
massimizzare il guadagno; è probabilmente questo anche il fine delle
esemplificazioni successive (Schütrumpf 1991, I, p. 359).
1258b 27-39 trivton de; ei\do"... prosdei` ajreth'".
La terza forma, inedita, consiste nello sfruttamento di ciò che si estrae
dalla terra (il lavoro minerario nelle sue innumerevoli forme) e di ciò che
nasce dalla terra, anche senza frutti (per esempio il legno derivante dal ta-
glio dei boschi; cfr. la lode dell’Attica di Xen. Vect. 1); essa è intermedia
tra le due precedenti, nel senso che partecipa dei caratteri della cremati-
stica naturale, perché sfrutta l’opera della natura, e anche di quelli della
crematistica di scambio perché, in mancanza di frutti da utilizzare diret-
tamente, richiede la trasformazione (p. es. dei minerali in metalli o del le-
gno in attrezzi o mobili) e lo scambio di ciò che acquisisce. Va notato che
il piano su cui si sta muovendo Aristotele in questa parte è decisamente
più ampio di quello relativo alla famiglia, cui dovrebbe servire la crema-
tistica almeno nella sua forma naturale, e da cui era partito. Il filosofo
sta probabilmente preparando il campo per il passaggio dall’ambito della
casa/famiglia a quello della polis, che dichiarerà alla fine del capitolo.
Il discorso descrittivo generale si conclude con la considerazione
che lo scendere nei dettagli (kaqovlou di b 33 si contrappone a kata;
mevro~ di b 34) sarebbe senz’altro utile in relazione alle attività prati-
che, ma soffermarsi ulteriormente diventerebbe cosa ‟di basso livello”
(Bonitz 1870, p. 356b 32; cfr. Saunders 1995, p. 95: «a low thing»;
Schütrumpf 1991, I, p. 356 «dies ist nicht die eines Freien würdige
Theorie»); pertanto Aristotele si limita da un lato a dare indicazioni sul
carattere dei diversi tipi di lavoro manuale cui evidentemente i cremati-
sti si devono affidare, dall’altro a rimandare alle fonti in cui si possono
trovare ulteriori approfondimenti (ma si soffermerà a lungo invece su
due esempi, che occupano la seconda parte del capitolo). Sul primo
punto va notato che Aristotele fornisce soltanto un giudizio di tipo mo-
rale, forse in relazione al fine che amministratori di case e città devono
ben avere presente nello scegliere a quale tipo di risorse affidarsi per
acquisire gli strumenti per la vita buona (cfr. 8, 1337b 5 ss.): tra le atti-
vità pratiche si annoverano quelle che richiedono maggiore competenza
e lasciano quindi poco al caso (cfr. Plat. Gorg. 448c 5; Ar. Metaph. I
981a 3-5: hJ me;n ga;r ejmpeiriva tevcnhn ejpoivhsen, wJ~ fhsi; Pw`lo~, hJ

307
COMMENTO I 11, 1258b 39 - 1259a 6

d∆ ajpeiriva tuvchn; uno stretto legame tra tevcnh e tuvch si trova anche in
EN VI 4, 1140a 19-20 e EE VIII 2, 1247a 5-7), quelle manuali, nelle qua-
li il corpo è sottoposto all’usura maggiore (cfr. Xen. Oec. 4, 2; Plat. Resp.
VI 495d 7), quelle più servili, che usano il corpo in molti modi diversi
(cfr. 4, 1254b 17), quelle più ignobili, per le quali è richiesto il minimo
grado di virtù (nel senso di sapienza pratica, cfr. Saunders 1995, p. 96;
ma cfr. sotto 13, 1259b 21 ss.). Aristotele qui propone una diversificazio-
ne nelle attività che contemplano l’uso del corpo, laddove in precedenza
(2, 1252a 32; 5, 1254b 17) aveva indicato proprio questo carattere come
segno distintivo dell’attività servile (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 358).
1258b 39-1259a 6 ejpei; dæ ejsti;n ejnivoi"... timw'si th;n crhmati-
stikhvn.
In relazione alle fonti da cui trarre informazioni aggiuntive, Aristo-
tele cita opere scritte, richiamando direttamente quelle sull’agricoltura
erbacea ed arborea ad opera di Caretide di Paro e Apollodoro di Lemno
(per gli «altri» Schütrumpf 1991, I, p. 361 cita Democr. fr. 68 B 26f-
28 DK), e fa inoltre riferimento alla necessità di raccogliere notizie
di seconda mano riguardanti mezzi crematistici di successo, forse al
fine di creare una raccolta di excerpta sull’argomento. Non sappiamo se
l’operazione fosse nelle intenzioni dello Stagirita o se già fosse partito
un progetto di questo genere all’interno della scuola (ammesso che si
possa parlare di una composizione del libro successiva alla fondazione
del Liceo); è certo però che l’invito fu accolto e fatto proprio dall’au-
tore di quello che è divenuto il secondo libro degli Economici, a lungo
attribuiti ad Aristotele, ma ormai generalmente considerati spuri (cfr.
Zoepffel 2006, p. 214).
Quanto ai due autori citati come estensori di opere di agricoltura,
i dati in nostro possesso sono praticamente inesistenti. A proposito di
Caretide non vi è assoluta certezza neppure sull’esattezza del nome;
la mancanza di accordo della tradizione manoscritta ha prodotto da un
lato la scelta di Susemihl CarhtivdhÊ tw/' Parivw/, accolta poi da Ross, e
dall’altro quella di Immisch Cavrhti dh; tw`/ Parivw/. Il nome Carhtivdh~
non è praticamente attestato fuori da Atene se si eccettua un caso, in
lacuna e frutto di parziale integrazione, in un’iscrizione di Andro (IG
XII 5, 778, [ca]rhtivdh~; cfr. Fraser-Matthews 1998, p. 480); anche per
Atene tuttavia le ricorrenze appaiono piuttosto rare e in nessun caso
precedenti al IV secolo a.C. Più comune sembra invece il nome Cavrh~,
ma nessuna delle attestazioni può essere ricondotta all’autore dell’opera
di agricoltura citata qui da Aristotele. Su Apollodoro di Lemno abbiamo
invece il supporto, comunque non decisivo, delle citazioni nel De agri-
cultura di Varrone (I 1, 8, in un elenco di opere greche de agri cultura

308
COMMENTO I 11, 1259a 6-33

in cui compare anche Aristotele, da cui potrebbe aver tratto la citazione)


e nella Naturalis Historia di Plinio (I 8c, 10, tra le fonti straniere; anche
in questo caso la citazione potrebbe essere di seconda mano).
1259a 6-33 oi|on kai; to; Qavlew... ejtevcnasan genevsqai monopw-
livan.
La raccolta delle esemplificazioni cui Aristotele ha fatto riferimento
poco prima potrebbe essere di grande aiuto a coloro che hanno stima
della crematistica; il nostro autore ritiene pertanto utile fornire un paio
di esempi del modo in cui esse possono essere proficuamente utilizzate.
I due racconti, l’uno riferibile a Talete di Mileto, l’altro ad un episodio
occorso a Siracusa ai tempi di un Dionisio, sono accomunati dal tema
generale del monopolio, oltre che dall’assoluta indeterminatezza – per
esempio non è specificato di quale Dionisio di Siracusa si tratti (Dio-
nisio I, circa 430-367 a.C., o il figlio Dionisio II, 367-post 343 a.C.) –,
legata probabilmente da un lato al carattere aneddotico del racconto,
dall’altro alla presunta notorietà presso i lettori/ascoltatori del testo.
Talete di Mileto, stizzito per le accuse mossegli sul fatto che la fi-
losofia gli era del tutto inutile, vista la sua povertà – che tuttavia proba-
bilmente non rappresentava per lui un problema –, usò la sua capacità
di studio degli astri per prevedere un abbondante raccolto di olive, su
cui riuscì a lucrare accaparrandosi a poco prezzo fuori stagione tutti i
frantoi di Mileto (sua città natale, in Ionia, sulle coste dell’Asia Mino-
re) e dell’isola di Chio, che poi affittò a prezzi ben più alti al momento
giusto; riuscì pertanto a dimostrare che la sua sapienza poteva servire
per arricchirsi, ma questo non era l’obiettivo dei filosofi. L’aneddoto
è utilizzato da Aristotele per provare che un artificio crematistico dal
carattere del tutto contingente può servire da principio generale, come è
dimostrato dal fatto che alcune poleis si procurano un monopolio quan-
do sono in difetto di ricchezze.
Talete di Mileto, vissuto tra l’ultimo quarto del VII e la prima metà
del VI secolo a.C. è considerato il fondatore della filosofia naturali-
stica greca e già presso gli antichi ebbe fama di pensatore originale
rispetto alla tradizione. La fonte principale per la ricostruzione della
sua dottrina è proprio Aristotele, che ci documenta i poliedrici inte-
ressi del filosofo in ambiti diversissimi, dalla storia alla scienza alla
matematica e alla geografia. Fu ricordato in particolare per i suoi studi
sui fenomeni celesti, che diedero l’avvio all’astronomia greca, in par-
ticolare per quel che riguarda la previsione delle eclissi (Hdt. I 74), la
determinazione dei solstizi, la relazione tra questi e i cambi climatici
stagionali. Non vi sono prove che abbia lasciato opere scritte, ma mol-
te delle fonti gliene accreditano un certo numero (si veda il racconto di

309
COMMENTO I 11, 1259a 6-33

Diogene Laerzio, I 23-24, 34); non sappiamo neppure quali fossero i


materiali a disposizione di Platone ed Aristotele per le numerosissime
citazioni delle sue posizioni, ma è possibile che il suo insegnamento
sia passato attraverso l’opera (scritta) di Anassimandro e Anassimene,
suoi conterranei e discepoli. Egli fu annoverato tra i Sette Saggi della
Grecia (cfr. Plat. Prot. 342e-343a); la sapienza d’altro canto è la quali-
tà ascritta da Aristotele a Talete in questo passo, e già proverbialmente
tipica del personaggio anche in Aristofane (Nub. 180; Av. 1009). Su
Talete cfr. Mansfeld 1985, pp. 109-129; Laks-Louguet 2002; O’Grady
2002; Reale 2006.
L’episodio qui raccontato (11 A 10 DK = 10 [A10] Colli) poteva far
parte del patrimonio aneddotico greco, ma soprattutto ci testimonia un
Talete particolarmente abile nelle questioni pratiche (anche Plut. Sol. 2,
4 riferisce che Talete fu coinvolto in affari commerciali; cfr. EN VI 7,
1141b 4, dove è definito frovnimo~, dotato di sapienza pratica), in con-
trasto con il sentire comune che faceva dei filosofi pensatori avulsi dalla
realtà e per questo destinati a rimanere poveri (si tratta di topoi molto
diffusi anche per Socrate, p. es. Plat. Apol. 23c 1; Gorg. 484c 4); alcuni
commentatori notano nel racconto del successo commerciale di Talete
una sorta di empatica ironia da parte di Aristotele. D’altra parte sono le
stesse fonti antiche a presentare Talete sotto differenti aspetti, che vanno
dall’abilità nel produrre ingegnose invenzioni all’incapacità di rimanere
ancorati alla realtà: molto noto l’aneddoto platonico (Teet. 174a) che lo
ritrae mentre cade in un pozzo, intento a guardare le stelle.
Ulteriore prova che l’accorgimento di Talete non fu un episodio
isolato, e che lo schema si ripeté (to; mevntoi o{rama Qavlew kai; tou'to
taujtovn ejstin), è l’applicazione dello stesso principio ad opera di un
ignoto siciliano che mise in atto un monopolio sul ferro, restando poi
l’unico mercante del metallo sul mercato; pur mantenendo il prezzo ra-
gionevolmente basso, egli realizzò un guadagno doppio rispetto all’in-
vestimento e incorse nel bando da Siracusa perché si era procurato una
fonte di entrata che avrebbe potuto danneggiare gli interessi di Dionisio
(sulla possibile origine platonica delle informazioni “siracusane” cfr. il
commento al cap. 7).
Gli esempi qui presentati da Aristotele, al di là del loro carattere
paradigmatico, fotografano comunque la realtà greca e, pur nel valore
proverbiale sotteso al racconto, ci danno alcune indicazioni di carattere
storico, documentando per esempio il rischio di conflitto conseguente
all’instaurazione di un monopolio e l’uso delle città o di qualche pri-
vato molto intraprendente di esercitare il monopolio come mezzo di
arricchimento.

310
COMMENTO I 11, 1259b 33-36

1259a 33-36 crhvsimon de; gnwrivzein... tau'ta movnon.


Chi dunque potrebbe essere il destinatario di tali raccolte di espe-
dienti crematistici? Case e città che necessitano di accumulare beni ed
entrate finanziarie, ci dice Aristotele In realtà in questa frase finale c’è
ben più di un elemento che contraddice quel che Aristotele si è preoccu-
pato di dimostrare finora: nulla da eccepire sul fatto che conoscere tali
situazioni possa essere utile ai politici, ma certo l’uso del monopolio
come fonte di ricchezza va al di là della crematistica naturale o dello
scambio di prodotti naturali che finora Aristotele aveva proposto come
unico mezzo crematistico concesso senza limitazioni.
Qualche dubbio resta anche sul fatto che la crematistica possa im-
pegnare del tutto l’attività politica, nel senso di rappresentare il primo
compito del politico. Ma qui siamo calati nell’empeiria e non è da esclu-
dere che l’osservazione della realtà possa portare a queste conclusioni.

311
CAPITOLO 12
LE RELAZIONI PADRE-FIGLIO E MARITO-MOGLIE

Dopo le trattazioni “monografiche” rispettivamente dedicate alla schia-


vitù e all’acquisizione di beni e proprietà, il cap. 12 recupera l’indirizzo
di analisi che si era aperto nel cap. 3 (1253b 5): le unità elementari com-
ponenti la famiglia, fondamentale strumento per arrivare alla polis, che
sono state identificate sulla base delle relazioni dei membri costitutivi,
con lo scopo di indagare «che cosa» sia e «di quale qualità» debba es-
sere ciascuna delle tre relazioni che sussistono nella casa. Fino a questo
momento l’attenzione dell’autore si è concentrata esclusivamente sul
ruolo del padrone, nella sua qualità di proprietario di schiavi e beni. È
mancato totalmente invece ogni riferimento alla relazione padre-figlio e
a quella marito-moglie. Aristotele ne è ben consapevole; da questo pun-
to parte allora per dare alcune indicazioni anche su questo argomento.

1259a 37-1259b 10 ’Epei; de; triva mevrh... tou'ton e[cei to;n


trovpon.
Della parte dell’amministrazione domestica relativa al ruolo del
padrone Aristotele ha già parlato; restano da affrontare l’autorità del
padre sui figli (patrikhv, che qui sostituisce il conio teknopoihtikhv
di 3, 1253b 10, per cui si veda il commento ad locum) e del marito
sulla moglie. Le due forme di autorità sono accomunate dal fatto di
essere esercitate su liberi (a differenza dei popoli barbari, presso i
quali donne e schiavi hanno la stessa posizione perché privi del prin-
cipio del comando: cfr. 2, 1252b 5), ma si distinguono per le moda-
lità: quella sui figli è di tipo regale (basilikw`~), quella sulla moglie
di tipo politico (politikw`~; l’uso dell’avverbio dà l’impressione di
voler indicare una somiglianza piuttosto che una identità: certamente
i ruoli nella famiglia e nella città non possono essere perfettamente
sovrapponibili; per la traduzione del termine cfr. Schütrumpf 1991,
I, p. 365). Aristotele procede quindi a motivare le sue affermazioni:
l’autorità del marito/padre è naturalmente giustificata dal fatto che il
sesso maschile è per natura più adatto al comando di quello femminile
(cfr. anche 5, 1254b 13) – tranne nei casi di eccezioni “contro natura”
(II 9, 1269b 24; V 11, 1313b 33; EN VIII 12, 1160b 35 ss.) – e chi è
più vecchio e maturo è più adatto al comando di chi è più giovane e
immaturo; per il tipo di autorità (regale e politica) si richiede invece
un’argomentazione più articolata, che presuppone alcuni concetti già

312
COMMENTO I 12, 1259a 37 - 1259b 10

espressi e qui solo richiamati. Aristotele ha già detto anche in pre-


cedenza che l’autorità politica si esercita su uomini liberi e uguali
per natura (7, 1255b 20, l’autorità politica è il comando esercitato su
liberi e uguali); tuttavia viene qui esplicitamente affermato che il ma-
schio è più adatto per natura al comando della femmina e che inoltre
chi è maggiore per età e più maturo è più adatto a comandare di chi è
più giovane e meno maturo. Questi caratteri possono senz’altro essere
attribuiti alla moglie, nel mondo greco di solito di molto più giovane
del marito e senz’altro considerata inferiore a lui per maturità, tanto
da non avere neppure uno status giuridico autonomo. Resta però la
possibile obiezione che nell’esercizio del potere politico è prevista
l’alternanza di comandante e comandato (1, 1252a 13-16; II 2, 1261a
32-37), poiché si presume che tutti i cittadini siano uguali per natura
(II 2, 1261a 39 ss.; III 6, 1279a 8 ss.; III 16, 1287a 16 ss.; V, 1317b 2
ss.; VII 3, 1325b 7 ss.; Schütrumpf 1991, I, p. 366, sottolinea tuttavia
che non in tutti i sistemi politici è previsto lo scambio dei ruoli di
comando), ma ciò evidentemente non si verifica all’interno della fa-
miglia, dove l’esclusività del comando è nelle mani del marito.
La spiegazione, secondo Aristotele, risiede nel fatto che, seppure
nell’ambito della polis chi comanda pretende (bouvletai) di essere
assolutamente uguale per natura a chi è comandato e viceversa (cfr.
Saunders 1995, p. 97, che ritiene «donnish satire» questa affermazione,
che sottolinea il contrasto tra la normale condizione di chi comanda e
le arie che si dà quando è al potere), nella realtà effettiva chi comanda,
nell’esercizio delle sue funzioni, ottiene comunque segni distintivi este-
riori, di linguaggio o di titoli d’onore.
L’esempio di Amasi e del «catino per lavare i piedi», raccontato da
Erodoto (II 172), rende bene l’idea: il faraone egiziano Amasi, di umili
origini e per questo in difficoltà ad ottenere l’apprezzamento dei suddi-
ti, fece fondere un bacile d’oro usato per lavare i piedi e ne fece ricavare
la statua di una divinità, da quel momento oggetto di culto e di onore.
Quando si rivolse ai sudditi spiegò che come il bacile, originariamente
usato per scopi così bassi, era divenuto oggetto di venerazione quando
la stessa materia aveva avuto la forma di statua, così anche lui, nato da
umili origini, una volta divenuto faraone era degno di ricevere i dovuti
onori. In sostanza, da materia uguale si potevano avere effetti connotati
da dignità assai diversa.
Lo stesso ragionamento può valere dunque anche per la relazio-
ne marito-moglie (che ha sempre questa forma, 1259b 9-10): in teoria
marito e moglie in quanto liberi sono sullo stesso piano e anche per
loro dovrebbe valere la legge dell’alternanza; tuttavia il marito ha delle

313
COMMENTO I 12, 1259b 10-17

differenze evidenti (età, maturità e l’essere più adatto per natura al co-
mando) e delle prerogative permanenti che lo rendono inevitabilmente
leader e depositario dell’autorità.
Nel capitolo successivo Aristotele riprenderà il tema per chiarire
che nelle relazioni familiari il punto nodale riguarda la virtù e le facol-
tà dell’anima (13, 1260a 13; cfr. anche EN VIII 13, 1161a 22 ss. e V
10, 1134b 15-18, dove la relazione marito-moglie è vista in termini di
giusto e ingiusto). Su questo principio si basa anche il passo di EN VIII
12, 1160b 32 ss., che propone il parallelismo tra costituzioni e comunità
familiare: qui però la relazione tra marito e moglie è definita «aristocra-
tica» (b 32-33: ajndro;~ de; kai; gunaiko;~ ajristokratikh; faivnetai;
cfr. anche EE VII 9, 1241b 30 e Pol. III 17, 1288a 8, dove l’aristocrazia
è un regime politico fondato sulla virtù) e viene affermato che il marito
comanda sulla base del suo valore (kat’ ajxivan) e nelle questioni in cui
l’uomo deve farlo, mentre lascia alla donna ciò che spetta ad una donna.
Da questo passo dell’Etica si può forse meglio comprendere quel che
intende Aristotele con il concetto di autorità «politica».
Suggestiva, ma indimostrabile, appare l’ipotesi di Schütrumpf
1991, I, p. 365, che suppone che l’argomentazione qui sviluppata possa
essere la prova che questa parte della Politica è frutto di una riflessione
precedente a quella delle due Etiche; in sostanza, al momento di realiz-
zare questa parte della Politica Aristotele poteva non aver ancora elabo-
rato la differenziazione delle forme di autorità sulla base delle tipologie
costituzionali; questo passo sarebbe quindi il frutto del primo approfon-
dimento del tema dei tipi di autorità, ancora collegato alla terminologia
del Politico di Platone.
1259b 10-17 hJ de; tw'n tevknwn ajrch;... oJ gennhvsa" pro;" to; tevk-
non.
L’autorità del padre sui figli è invece di tipo regale, perché ne ha
i caratteri, ovvero l’amore (filiva) e la maggiore età (presbeiva; cfr.
VIII 14, 1332b 33). Per natura infatti il re si deve distinguere dai sud-
diti, anche se è uguale a loro per stirpe, come accade nella relazione tra
il più vecchio e il più giovane e tra il genitore e il figlio; pertanto tutti i
re possono essere paragonati a padri, come fa correttamente Omero con
Zeus (Il. I 503 e 544). Anche su questo argomento Aristotele si pronun-
cia nello stesso passo dell’Etica Nicomachea (VIII 12, 1160b 24-32),
che riporta la stessa citazione dall’Iliade: la comunità di padri e figli
ha la forma del regno, poiché il padre si prende cura dei figli e il regno
«vuole essere come un’autorità paterna» (patrikh; ga;r ajrch; bouvle-
tai hJ basileiva ei\nai); unica eccezione tra i Persiani, dove l’autorità
del padre è tirannica, e i figli vengono trattati come schiavi: si tratta

314
COMMENTO I 12, 1259b 10-17

di una forma errata, dice Aristotele, ma già sappiamo che «per natura
barbaro e schiavo sono la stessa cosa» (2, 1252b 9).
Con quest’ultima sezione argomentativa – che ha un’appendice
nel capitolo 13, con cui termina il libro – Aristotele conclude la parte
riguardante le relazioni interne alla famiglia e i tipi di autorità del ma-
schio padrone di casa (monarciva, cfr. 7, 1255b 19) sui vari membri: ora
sappiamo che egli esercita un’autorità dispotica sugli schiavi, che non
sono né liberi né uguali; un’autorità regale sui figli, che sono liberi ma
non uguali; un’autorità politica (o aristocratica) sulla moglie, che è li-
bera e “quasi uguale”, e inoltre si pone nella condizione di amministra-
tore nei confronti della proprietà, parte integrante della casa-famiglia.
Il nostro autore ha dunque risolto, per la prima volta in modo concreto,
la polemica del cap. 1 con «quanti credono che l’uomo politico, l’uomo
regale, l’amministratore della casa e il padrone si identifichino» (1252a
7-9) – ripresa nel cap. 3, dove si riafferma che per alcuni sono «la stessa
cosa l’amministrazione della casa, l’autorità padronale, l’autorità poli-
tica e quella regale, come abbiamo detto all’inizio» (1253b 19-20) – e
ha dimostrato l’inconsistenza della distinzione quantitativa basata sul
numero di sottoposti, attraverso l’indagine delle diverse forme di auto-
rità rese necessarie dalle differenze naturali dei membri della comunità
familiare. Questo argomento sarà ulteriormente studiato nel capitolo
finale.

315
CAPITOLO 13
I MEMBRI DELLA CASA IN RELAZIONE ALLA VIRTÙ

La questione alla base dell’intera argomentazione del cap. 1 è ormai stata


ampiamente risolta: tutte le parti dell’amministrazione domestica sono
state affrontate singolarmente, in modo più o meno esteso a seconda
dell’importanza e probabilmente delle obiezioni successive cui l’autore
riteneva di dover dare risposta; Aristotele ha mostrato quindi che esse
sono differenti per tipo e non solo per numero di sottoposti. Quest’ulti-
mo capitolo procede oltre, con due scopi prioritari: 1) rimettere insieme
tutte le parti che sono state scomposte e vederle nell’intero in relazione
alla virtù di ciascuna; 2) allargare il campo al vero obiettivo della Po-
litica, la polis e la costituzione migliore. Se valutiamo il lavoro aristo-
telico dal punto di vista qui espresso potremo senz’altro affermare che
il filosofo sta facendo un «tentativo sistematico di trovare i fondamenti
della struttura della casa e dello stato nella psicologia e nella condizione
morale delle categorie dei loro membri» (Saunders 1995, p. 98).

1259b 18-21 Fanero;n toivnun o{ti... ma'llon h] douvlwn.


Aristotele intende probabilmente riequilibrare le proporzioni rispet-
to alla materia trattata nel resto del libro, che è molto chiaramente pre-
sunta in quest’ultima sezione: spazio amplissimo è stato dato alla parte
relativa allo schiavo e a quella sulla proprietà, mentre la trattazione
delle relazioni tra liberi è stata confinata ad una breve analisi, quella
contenuta nel cap. 12. È il caso dunque di sottolineare che l’ammini-
strazione domestica, per quanto possa essere apparso diversamente, ha
cura maggiore degli uomini che dei beni (intesi come possesso delle
cose inanimate, cfr. Plat. Pol. 261b 7 ss.), soprattutto della virtù degli
esseri umani (argomento di questo capitolo) più che della proprietà in-
tesa come ricchezza – in quanto fine dell’acquisizione –, e dei liberi più
che degli schiavi. La ragione non è detta, ma risulta chiaramente dalla
parte appena conclusa (è «evidente», fanerovn: l’insistenza sulla chia-
rezza è notevole in questa sezione): la proprietà (ricchezza e schiavi,
anche se questi ultimi si collocano in una posizione intermedia in quan-
to strumenti animati) serve per la sopravvivenza e il benessere degli
esseri umani.
1259b 21-1260a 4 prw'ton me;n ou\n... tw'n fuvsei ajrcomevnwn.
Gli esseri umani sono più importanti della proprietà: Aristotele sup-
pone di aver già detto tutto; restano da chiarire ora alcune questioni che,

316
COMMENTO I 13, 1259b 12 - 1260a 4

partendo dallo schiavo, gli danno però modo di approfondire anche il


tema delle donne e dei figli, che ritiene evidentemente di non aver tratta-
to in maniera esaustiva. Il discorso è impostato attraverso la tecnica dia-
lettica delle obiezioni (o approssimazione successiva, cfr. Schütrumpf
1991, I, p. 369), che percorre tutto il capitolo. Secondo l’autore «ci si
potrebbe chiedere» se gli schiavi abbiano qualche altra virtù degna di
rispetto oltre a quelle legate all’attività fisica che li caratterizza e alla
loro mansione servile – si tratta delle scienze di cui ha parlato nel cap.
7 (1255b 22), ma anche della condizione di strumento che ha assegnato
allo schiavo nel cap. 4 (1254a 16-17) –, per esempio temperanza, co-
raggio, giustizia e simili (per la definizione di virtù si veda EN II 4-5,
1106a 11 ss. e II 6, 1106b 36 ss., dove la virtù è definita e[xi~, come
del resto qui in b 25; cfr. anche III 4, 1277b 16 ss. con il commento ad
locum). Dunque in sostanza si cerca di stabilire se lo schiavo, in quanto
proprietà o strumento animato (cfr. 4, 1253b 32), abbia le virtù di uno
strumento o quelle di un uomo, se cioè possa operare o meno scelte
razionali in funzione dell’azione.
Alla domanda ci sono due tipi di risposta, in entrambi i casi proble-
matica: 1) in caso affermativo, resterà il dubbio sul fatto che, se dotati
di tali virtù, essi non abbiano nessuna differenza rispetto ai liberi. Ari-
stotele ha già abbondantemente discusso il problema (5, 1254b 32-39;
6, 1255a 39-1255b 2, cfr. il commento ai passi): gli schiavi si distinguo-
no dai liberi come coloro che, privi di nobiltà dell’anima, si distinguono
da coloro che la possiedono in misura eccellente. Se essi possedessero
questo tipo di virtù, la distinzione stessa tra schiavi e liberi perderebbe
valore; 2) in caso negativo, sarebbe decisamente strano che gli schiavi
non fossero dotati di virtù, dato che sono uomini e partecipano della
ragione, che è fonte della virtù. D’altra parte però Aristotele ha detto
che gli schiavi condividono con i loro padroni la ragione, ma solo nella
misura in cui possono percepirla e non possederla (cfr. 5, 1254b 22-23,
con il commento).
La questione può essere posta in termini simili anche per donne e
fanciulli, che si collocano sullo stesso piano degli schiavi per il fatto di
essere per natura comandati: vi sono virtù anche per costoro, in termini
positivi o negativi (la donna può essere coraggiosa e giusta e il fanciullo
intemperante, sua caratteristica più evidente, come dice anche EN III 15,
1119a 34), o no? Per rispondere occorre fare riferimento alla distinzione
tra comandanti e comandati per natura (nella casa; cfr. 5, 1254a 21 ss.),
e valutare se le due categorie abbiano una virtù differente. Segue una
casistica piuttosto elaborata, che rappresenta la risposta aristotelica a
una serie di obiezioni possibili: a) se chi comanda come chi obbedisce

317
COMMENTO I 13, 1259b 21 - 1260a 4

deve possedere le qualità degli eccellenti (la kalokajgaqiva incarna, so-


prattutto nel IV secolo a.C., la massima perfezione dell’uomo greco dal
punto di vista delle qualità etiche ed estetiche, ed è la virtù per eccel-
lenza nell’Etica Eudemia, cfr. EE VIII 3, 1248b 10; cfr. Gastaldi 1995),
non vi è motivo per cui vi siano alcuni che devono sempre comandare e
altri sempre obbedire, ma si dovrà prevedere un’alternanza; b) non vale
il discorso che coloro che comandano e coloro che sono comandati han-
no la virtù in grado diverso (maggiore per chi comanda, minore per chi
obbedisce), perché comandare e obbedire differiscono non per grado,
ma per specie (1, 1252a 9; cfr. anche EN II 6, 1106a 15-24); è tuttavia
vero che lo stesso Aristotele viene ripetutamente meno a questa consi-
derazione, parlando di virtù in termini di grado (p. es. a 1260a 19 e 35);
c) non è possibile neppure sostenere che tra comandanti e comandati
solo gli uni o gli altri abbiano bisogno di avere la virtù, perché se non
l’avessero coloro che comandano non potrebbero comandare bene, se
non l’avessero coloro che obbediscono non potrebbero obbedire bene,
e nessuno farebbe nel modo che gli spetta il proprio compito (per il
collegamento tra ajrethv e e[rgon si veda anche sotto a 16-17).
La soluzione (fanero;n toivnun o{ti ajnavgkh, cfr. 1259b 18), dice
Aristotele, è che tutti abbiano la virtù e che nell’ambito di questa vi
siano differenze, come anche tra coloro che per natura sono destinati
ad essere comandati (cioè le loro virtù devono essere definite in termini
non di attitudine a comandare, ma di attitudine ad essere comandati,
cfr. Saunders 1995, p. 98; cfr. anche III 4, 1277b 18-21: la virtù non è
unica, ma ha specie diverse a seconda che sia esercitata da chi comanda
e da chi è comandato, o da un uomo piuttosto che da una donna). La
locuzione w{sper kai; tw'n fuvsei ajrcomevnwn (questo è il testo dei ma-
noscritti, accettato da Aubonnet e Dreizehnter e tradotto da Simpson e
Schütrumpf) sembrerebbe ribadire, come l’autore ha già più volte sotto-
lineato, che coloro che sono comandati possono appartenere a tipologie
differenti (liberi e uguali o schiavi) e quindi avere caratteri diversi, in
relazione al tipo di virtù posseduta (cfr. a questo proposito 2, 1253a 34
ss.; 5, 1254a 34; 7, 1255b 16 ss.; Schütrumpf 1991, I, p. 374). Ross ha
ritenuto opportuno riportare ajrcovntwn, al posto di ajrcomevnwn, ipotiz-
zando che il periodo possa essere maggiormente comprensibile se si
presuppone una differenziazione nella virtù di chi comanda (sul testo di
Ross traducono Viano, Laurenti e Saunders). Non è però da escludere
che il testo si sia corrotto e ci sia pervenuto mutilo, oppure che sia stato
integrato da un correttore per colmare una presunta lacuna: a rigor di
logica il lettore si aspetterebbe entrambe le categorie degli ajrcovmenoi
e degli a[rconte~ (e così stampa infatti Susemihl nelle edizioni 1872

318
COMMENTO I 13, 1260a 4-14

e 1879 e traduce Pellegrin), come sembra essere provato da un certo


numero di manoscritti della traduzione di Guglielmo di Moerbeka prin-
cipantium et subiectorum; è ragionevole infatti pensare che Aristotele
intendesse che ci sono differenti gradi di virtù tra chi comanda e chi è
comandato (ma cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 373: se la frase riportasse
entrambe le categorie diverrebbe una semplice ripetizione del pensie-
ro aristotelico, già espresso, secondo il quale comandanti e comandati
hanno virtù differenti). Sul passo cfr. anche Newman 1887, II, p. 75.
1260a 4-14 kai; tou'to eujqu;"... ajll̓ ajtelev".
Come già in altre occasioni nel corso del libro, Aristotele è partito
dal postulato (tutti hanno la virtù, ma in maniera differenziata) ed ora
procede alla dimostrazione (la distribuzione della virtù si realizza per
natura). Per la differenziazione della virtù Aristotele trova quindi un
modello nell’anima, come già aveva fatto nel cap. 5 a proposito delle
premesse della naturalità della schiavitù (1254a 34-b 9, vd. commen-
to): al suo interno vi è una parte destinata a comandare e una destinata
ad obbedire (cfr. EN I 13, 1102b 13) e ognuna è dotata di una virtù
differente, in relazione al carattere razionale o irrazionale della parte
dell’anima cui corrisponde (cfr. EN I 13, 1103a 3 ss.: diorivzetai de;
kai; hJ ajreth; kata; th;n diafora;n tauvthn [scil. dell’anima in parte ra-
zionale e irrazionale]: levgomen ga;r aujtw`n ta;~ me;n dianohtika;~, ta;~
de; hjqikav~, sofivan me;n kai; suvnesin kai; frovnhsin dianohtikav~, ej-
leuqeriovthta de; kai; swfrosuvnhn hjqikav~, le virtù si distinguono in
intellettuali, dianoetiche, – p. es. sapienza, senno e saggezza – e morali,
etiche, – p. es. generosità e temperanza –. La conclusione di questa
argomentazione (dh`lon toivnun o{ti, a 7) è dunque che la differenzia-
zione interna all’anima fa da modello anche per tutte le altre cose nelle
quali vi sia «per natura» una parte che comanda e una che è coman-
data (Schütrumpf 1991, I, p. 374 nota il parallelismo, ma inverso, con
l’uso delle partizioni dell’anima nella Repubblica di Platone; inoltre cfr.
Simpson 1998, p. 66 n. 85, che evidenzia due differenti argomentazio-
ni in questo passo: da un lato la discussione dialettica, che scaturisce
dall’osservazione dei fenomeni; dall’altro il riferimento all’anima, che
conferma la conclusione ma deriva dal principio primo, che è causa e
spiegazione dei fenomeni). Tutti infatti possiedono le parti dell’anima,
ma in maniera differente, e di conseguenza la loro posizione rispetto
alla relazione comandante-comandato si differenzierà in rapporto alla
disposizione della parte deliberativa. Può aiutare a comprendere meglio
quest’affermazione un passo dell’Etica Nicomachea (EN VI 2, 1139a 5
ss.): le parti dell’anima sono due, razionale e irrazionale; la parte razio-
nale si divide a sua volta in due, la parte scientifica, to; ejpisthmonikovn,

319
COMMENTO I 13, 1260a 4-14

e la parte calcolatrice, to; logistikovn, che si identifica con la parte de-


liberativa (to; bouleutikovn), perché deliberare e calcolare sono la stes-
sa cosa; essa ha come oggetto le cose possibili, che sono quelle su cui
si delibera (per la teoria della deliberazione vd. EN III 5, 1112a 18-26;
VI 5, 1140a 24-30). Solo il libero possiede completamente questa pre-
rogativa (cfr. EE II 10, 1226b 21 ss.), che esercita in termini di saggezza
pratica; lo schiavo, la donna e il fanciullo, che pure possiedono le parti
dell’anima, si contraddistinguono invece per il diverso grado (si noti
la discrepanza rispetto a quel che Aristotele ha detto sopra a proposito
della differenza specifica e non di grado tra comandanti e comandati)
nel possesso della parte deliberativa (to; bouleutikovn): lo schiavo ne
è privo (il senso esatto dell’espressione è legato tuttavia all’interpre-
tazione di o{lw~ della linea a 12 nel senso di «non ha del tutto la parte
deliberativa» o di «non ha la parte deliberativa nella sua completezza»:
cfr. Simpson 1998, p. 66 n. 86); la donna la possiede, ma senza autorità;
il fanciullo anche, ma in modo non completamente maturo (cfr. EN III
4, 1111b 8-10: i fanciulli mancano della proaivresi~, la capacità di
scelta). Va rilevata, a proposito dello schiavo – se lo si ritiene del tutto
privo della facoltà deliberativa –, l’apparente contraddizione rispetto
a quel che Aristotele ha detto poco sopra sul fatto che tutti possiedono
le varie parti dell’anima: se tuttavia rileggiamo il passo citato del libro
VI dell’Etica Nicomachea, possiamo osservare che la parte deliberati-
va non è che una delle partizioni dell’anima razionale; pertanto la sua
assenza non pregiudica la divisione dell’anima in parte razionale e ir-
razionale e il possesso della parte razionale, ma semplicemente indica
che lo schiavo non potrà deliberare su ciò che dipende da lui ed è rea-
lizzabile ad opera sua (su questo punto cfr. il commento al cap. 5 e III 9,
1280a 33-34: gli schiavi non partecipano della felicità perché non pos-
sono neppure scegliere di vivere). Non è chiaro invece che cosa intenda
Aristotele quando afferma che la donna possiede la parte deliberativa
nella sua interezza, ma priva di potere: egli potrebbe riferirsi alla realtà
di fatto che le donne non hanno il potere di esercitare questa loro facoltà
– ma non si tratterebbe di un fatto naturale legato al possesso della parte
deliberativa – oppure, più probabilmente, al fatto che per natura esse
non ne hanno la capacità, dal momento che «per natura invero il ma-
schio è più adatto a comandare della femmina» (12, 1259b 1-2: tov te
ga;r a[rren fuvsei tou' qhvleo" hJgemonikwvteron) e non sono in grado
di discernere i fini a cui dirigere la propria azione oppure la loro parte ir-
razionale è dominata dalle emozioni più che nell’uomo (Saunders 1995,
p. 99). Questa condizione femminile potrebbe spiegare anche il motivo
per cui non è possibile l’alternanza nel potere tra marito e moglie, di

320
COMMENTO I 13, 1260a 14-33

cui Aristotele ha parlato nel capitolo precedente. Il fanciullo infine ha


la parte deliberativa, ma non ancora completamente sviluppata; sarà
dunque compito dell’educazione ricevuta dal padre e dalle leggi (EN X
10, 1180a 14 ss.) portarla a completa maturazione.
1260a 14-33 oJmoivw" toivnun... kai; douvlou pro;" despovthn.
Qual è dunque il collegamento tra virtù e facoltà dell’anima? Ogni
parte dell’anima è dotata di una virtù differente; pertanto, come differi-
scono le facoltà dell’anima, così anche si differenziano le virtù. Le virtù
«etiche» (coraggio, temperanza, liberalità, magnanimità, mansuetudine
e giustizia), come spiega l’Etica Nicomachea (cfr. sopra ed EN VII 12,
1152b 4-7), sono il prodotto di quella parte che obbedisce alla ragione
ma non la possiede direttamente (sono etiche le virtù della o[rexi~, cfr.
il commento al cap. 5); ora Aristotele afferma che tutti ne partecipano,
ma in modo diverso a seconda del compito di ciascuno (cfr. anche EN
II 1, 1103a 14 ss.: la virtù intellettuale, o dianoetica, nasce e si svilup-
pa a partire dall’insegnamento, per cui ha bisogno di esperienza e di
tempo; la virtù etica invece deriva dall’abitudine, come indica anche
il nome). Perciò chi comanda, dotato della facoltà deliberativa nella
sua completezza, deve possedere la virtù etica al massimo grado per
realizzare il proprio compito; egli è architetto e la ragione è architetto
a sua volta, nel senso che come la ragione dirige e stabilisce i modi per
raggiungere un obiettivo così anche colui che comanda ha il compito di
indirizzare e guidare (cfr. EN III 5, 1112b 13); pertanto il punto non è il
raggiungimento del fine, ma l’abilità nel trovare i mezzi per raggiunger-
lo (Saunders 1995, p. 100). Coloro che obbediscono invece avranno la
virtù etica sufficiente a compiere il proprio dovere, che è evidentemente
quello di collaborare con chi comanda nel raggiungimento dell’obiet-
tivo (cfr. EN III 4, 1111b 7 ss.). Sul tema della virtù cfr. Gastaldi 1990;
Ead. 1994.
La conclusione di questa argomentazione (fanero;n o{ti, a 20) ri-
assume dunque quanto dimostrato finora: tutti coloro di cui si è parla-
to (comandanti e comandati, schiavi, donne e fanciulli) hanno la virtù
etica, ma ogni singola virtù non è identica in tutti a parte che nel nome
(per spiegare questa posizione, piuttosto oscura, Saunders 1995, p. 100
cita EN III 11, 1117a 4-9, che distingue il coraggio legato all’impeto e
quello che coinvolge scelta e fine): la temperanza non è la stessa per
la donna e per l’uomo, così come non lo sono il coraggio e la giustizia
(III 4, 1277b 18), ma vi sarà un coraggio di chi comanda (ajrcikh; ajn-
dreiva) e un coraggio di chi funge da assistente (uJphretikh; ajndreiva).
A questo proposito Aristotele muove una critica al pensiero socratico,
riportato da Platone nel Menone (71c 5-73c 5): secondo Socrate le vir-

321
COMMENTO I 13, 1260a 14-33

tù, anche se sono molte e varie, hanno tutte una stessa forma, in base
alla quale sono virtù; tutti gli uomini sono virtuosi allo stesso modo
perché hanno acquisito la stessa virtù. Aristotele ritiene invece, come
ha appena finito di dimostrare, che una definizione generale non sia in
grado di esaurire tutte le differenze e che proprio il possesso delle parti
dell’anima in modi singolarmente diversi faccia sì che vi siano numero-
se sfumature. Chi infatti fa un’analisi più dettagliata (kata; mevro~, cfr.
anche 11, 1258b 33) si rende conto (dh`lon dev) del fatto che chi parla
genericamente (kaqovlou) e dà definizioni in questo modo (tw`n ou{tw~
oJrizomevnwn), definendo per esempio la virtù una buona disposizione
dell’anima (to; eu\ e[cein th;n yuchvn) o il fare bene (to; ojrqopragei`n,
cfr. Plat. Men. 97b 9), si inganna; ha ragione invece chi, come Gorgia,
cui si riferisce lo stesso dialogo platonico, enumera singolarmente le
virtù (cfr. anche EN II 7, 1107a 28-32: relativamente alle virtù non biso-
gna parlare solo in generale, kaqovlou, ma anche riferendosi a casi par-
ticolari, toi`~ kaq’ e{kasta). Non possiamo identificare precisamente a
chi Aristotele intendesse richiamarsi riportando le definizioni di virtù
che egli non condivide; Platone vi fa riferimento in alcuni passi (Resp. I
353b; IV 444d; Carm.172a; Men. 97a-e), ma è probabile che tali dottri-
ne facessero parte della tradizione socratica. Quanto a Gorgia, nel passo
platonico sopra citato (Men. 71d-72b) Menone si fa portavoce del suo
pensiero sostenendo che si può parlare di virtù diverse per uomini, don-
ne, fanciulli, schiavi e anche in relazione all’età e alle diverse attività.
Per esemplificare come la virtù si possa tradurre praticamente Ari-
stotele fa allora un esempio tratto da una tragedia di Sofocle (Aiax,
293): Tecmessa sta citando le parole di Aiace, che ha appena tentato
di dissuadere dalla vendetta: «il silenzio reca ornamento alla donna».
Da un punto di vista sociologico quest’ affermazione va senz’altro letta
alla luce della condizione femminile in Grecia, che limitava la libertà di
movimento e di iniziativa della donna, confinata all’ambito domestico;
tuttavia Aristotele usa consapevolmente questa dichiarazione a suffra-
gare la bontà dell’argomentazione riguardante la virtù: la prescrizione
del silenzio, comprensibile solo se si considera che il parlare sia un atto
di controllo e di leadership (cfr. Simpson 1998, p. 69), vale per tutti,
tranne che per l’uomo – anche se pronunciata da una donna (ma riferen-
do le parole di Aiace stesso) –, come si può dedurre dalla rassegna delle
applicazioni dell’affermazione; della donna non occorre dire altro, poi-
ché evidentemente è comprensibile, sulla base di quel che è stato detto
sopra, che la sua imperfezione nella facoltà deliberativa mostri che essa
non è in grado di usare in maniera appropriata la parola, e che la virtù
diviene un atto di obbedienza a una guida superiore (Saunders 1995, p.

322
COMMENTO I 13, 1260a 33 -1260b 7

100). È invece opportuno spiegare meglio per quel che riguarda il fan-
ciullo e lo schiavo. Per il primo, si chiarisce che la sua incompletezza,
destinata tuttavia a lasciare il posto alla piena maturità, lo rende dipen-
dente dal padre e la sua virtù quindi non si realizza per lui stesso, ma
per il padre, che è il suo fine – cioè la figura, il maschio adulto, in cui si
compirà pienamente una volta cresciuto – e la sua guida nella scelta dei
fini morali; per il secondo vale lo stesso discorso in relazione al padro-
ne, ma con la differenza che il suo fine è servire il padrone.
1260a 33-1260b 7 e[qemen de;... h] tou;" pai'da".
Il nuovo riferimento alla condizione dello schiavo rispetto alla vir-
tù, come quello dell’inizio del capitolo (1259b 22), serve ad Aristotele
per istituire un parallelo con un’altra categoria, quella dei tecnivtai o
bavnausoi tecnivtai. Lo schiavo dunque è utile per le cose necessarie
(5, 1254b 16), e ha pertanto bisogno di poca virtù e solo in quanto gli
serve per non venire meno ai suoi compiti per mancanza di temperanza
o per pigrizia. D’altra parte una piena deliberazione non servirà allo
schiavo per realizzare al meglio i suoi impegni prioritariamente fisici (si
veda il commento al cap. 5). Questa premessa è invece utile per porre
un nuovo dubbio (ajporhvseie d’ a[n ti~): se quel che si è detto è vero,
anche i lavoratori manuali specializzati dovranno possedere la virtù, dal
momento che spesso vengono meno ai propri compiti per intemperan-
za. I due casi potrebbero però non essere confrontabili perché, mentre
lo schiavo è legato indissolubilmente al padrone (perché partecipa della
sua vita) ed esiste per natura, il lavoratore specializzato serve il padrone
per un tempo definito, limitatamente al periodo in cui lavora per lui e lo
serve, e non è tale per natura. La virtù quindi lo schiavo dovrà posseder-
la per realizzare la volontà del padrone nell’esercizio dei compiti che
gli vengono affidati (talvolta determinanti per il buon andamento della
casa) ed è pertanto adeguato per natura ad esercitarla, l’artigiano invece
dovrà possederla solo per quel tanto che gli serve quando lavora per il
padrone e non quindi come forma di educazione permanente.
Va rilevato tuttavia che appare fortemente incongruente che lo
schiavo possieda più virtù del lavoratore specializzato, che è invece
libero (cfr. Saunders 1995, p. 101). Non è inoltre del tutto perspicua la
differenziazione tra la naturalità dello schiavo e la non naturalità del
lavoratore specializzato, che potrebbe portare a ritenere che Aristotele
consideri le arti non naturali e non necessarie nell’ambito dell’ammi-
nistrazione domestica. In realtà probabilmente Aristotele, affermando
che non si è calzolai per natura (ma cfr. Plat. Resp. IV 443c 5), intende
sottolineare che si può esercitare un’arte solo grazie a un lungo appren-
dimento e non invece per una qualche capacità naturale, e sta precisan-

323
COMMENTO I 13, 1260b 8-20

do che la capacità professionale nell’artigiano determina la virtù morale


(Saunders 1995, p. 101). Un’altra possibilità esegetica, prospettata da
Simpson (1998, p. 69) e Schütrumpf (1991, I, p. 379), è che gli artigia-
ni siano considerati non naturali perché vivono al di fuori della casa/
famiglia ad un livello più basso di quello degli schiavi e raggiungono il
livello della schiavitù solo quando lavorano per qualcuno.
La causa della virtù dello schiavo è quindi il padrone, ma non in
quanto depositario di una scienza per insegnare allo schiavo a svolgere
le sue mansioni (sulla scienza del padrone e il ruolo del sovrintendente
si veda il commento al cap. 7, 1255b 35 ss.); il ruolo del padrone appare
dunque decisivo per la gestione dello schiavo, ben più di quello di un
semplice sovrintendente, responsabile della sola istruzione tecnica. Gli
schiavi non vanno solo comandati, come sostengono alcuni (per esem-
pio Plat. Leg. VI 774e 4-6), senza fare appello alle loro facoltà intellet-
tive (cfr. 5, 1254b 22), ma è necessario ammonirli più dei fanciulli – che
nella loro immaturità forse non sono in grado di comprendere appieno
– nella consapevolezza che se ne otterranno migliori risultati. Questo
passo è inoltre utile, insieme a EN VIII 13, 1161a 31-1161b 11, per com-
prendere le affermazioni aristoteliche di 6, 1255b 12-14 sul rapporto di
amicizia padrone-schiavo.
1260b 8-20 Alla;
j peri; me;n touvtwn... koinwnoi; givnontai th'" po-
liteiva".
Ancora una volta Aristotele si è dilungato a parlare dello schiavo,
tema che ha già approfondito a più riprese; avviandosi alla conclusione,
ora sembra voler chiudere definitivamente l’argomento, e in effetti non
vi tornerà più in maniera analitica per il resto dell’opera. Riguardo in-
vece agli altri membri della casa nelle loro relazioni reciproche (marito
e moglie, figli e padre, in chiasmo) e rispetto alle loro virtù, egli ritiene
necessario rimandare la trattazione al momento in cui si occuperà del-
le forme costituzionali (per l’espressione cfr. anche IV 2, 1289a 26).
Quest’ affermazione ha suscitato un ampio dibattito tra i commentatori:
in effetti, Aristotele non si occuperà specificamente, nel prosieguo della
Politica, delle relazioni matrimoniali e genitoriali, come ci si aspettereb-
be dal preciso elenco di temi qui sviluppato (l’uomo e la donna, i figli e
il padre nelle loro relazioni reciproche, «che cosa vada bene e che cosa
no e come debbano perseguire il bene e fuggire invece il male»), come
hanno rilevato per esempio Newman 1887, II, p. 224; Barker 1946, p.
38 n.1; Lord 1984, p. 249 n. 35; Schütrumpf 1991, I, p. 380. L’argo-
mento è stato a più riprese utilizzato come indicazione per l’ordine dei
libri e le fasi della composizione dell’opera, senza tuttavia che si sia
giunti a risultati produttivi. Va rilevato però che gli argomenti elencati

324
COMMENTO I 13, 1260b 20-24

da Aristotele, come nota Simpson (1998, p. 70), riguardano l’educa-


zione in relazione alla virtù e pertanto il tema generale dell’educazione
all’interno delle forme costituzionali sarà ampiamente affrontato, pur se
senza citare direttamente le relazioni matrimoniali o genitoriali, soprat-
tutto nei libri VII e VIII (si noti lo stretto legame di questa sezione con
la parte relativa allo stato ideale). D’altra parte è lo stesso autore a dirci
che la famiglia è parte della città (cfr. III 4, 1277a 5-12) e che relativa-
mente alla virtù bisogna guardare la parte in relazione al tutto, per cui i
fanciulli e le donne vanno educati guardando al regime costituzionale e
non solo alla casa/famiglia (cfr. VIII 1, 1337a 11 ss.); il comportamento
virtuoso di donne e fanciulli infatti non è assolutamente trascurabile se
vogliamo parlare di una città virtuosa (spoudaivan; cfr. VII 2, 1324a 12
ss.; cfr. Gastaldi 1987, p. 86), perché le donne rappresentano la metà
dei liberi – anche se non partecipano direttamente alla vita politica, ma
nella relazione matrimoniale e in quanto madri hanno un ruolo determi-
nante (cfr. II 9, 1269b 12-19; 1270a 11-15) – e i fanciulli nella comunità
si dedicheranno alla vita politica (koinwnoi; givnontai th`~ politeiva~:
l’espressione è collegabile alla partecipazione ai diritti di cittadinanza,
espressa in modo simile in II 8, 1256b 38; III 3, 1276b 2; IV 4, 1291b
36), a differenza degli schiavi che invece sono più strettamente legati
all’oikos e che non trovano quindi posto in questa sommaria descrizio-
ne della società all’interno della polis. Quindi, occupandosi del tutto
(la polis in tutti i suoi aspetti), Aristotele non mancherà di fornire indi-
cazioni valide per la parte (in questo caso donne e fanciulli, ma anche
la gestione della casa/famiglia in generale, di cui la polis rappresenta il
fine ultimo, cfr. 2, 1252b 31).
1260b 20-24 w{st’ ejpei; peri; me;n touvtwn... peri; th'" politeiva"
th'" ajrivsth".
Il cerchio si chiude: il libro si era aperto con la polis e ad essa ritor-
na, dopo che il composto è stato smontato fin nelle sue parti semplici
– le componenti della casa/famiglia, base della comunità cittadina – e
ciascuna di esse è stata analizzata in distinte sezioni. Quest’ultimo ca-
pitolo ha ricostruito l’insieme riassumendo e ricollocando queste parti
nell’intero. Ha ragione dunque Aristotele a sostenere che questi argo-
menti sono stati ormai definiti e i discorsi che li riguardano possono
essere considerati conclusi, come qualcosa che abbia raggiunto il suo
fine, il tevlo~ di cui tanto si è trattato in queste pagine; di quel che resta
quindi bisogna parlare altrove, cominciando nuovamente dalle posi-
zioni di coloro che hanno trattato l’ajrivsth politeiva, la costituzione
migliore. Anche se si può nutrire qualche dubbio, come è accaduto più
volte tra i commentatori, che questa ultima frase sia da attribuire alla

325
COMMENTO I 13, 1260b 20-24

fase originaria di composizione dell’opera e non risponda invece ad


esigenze pratiche di coloro che si occuparono della risistemazione degli
scritti aristotelici (Schütrumpf 1991, I, p. 384 cita Burnet – anche per
la conclusione dell’Etica Nicomachea si prospettano problemi simili –:
un interpolatore avrebbe collegato in maniera più omogenea i due libri),
la transizione ad un altro ordine di problemi è comunque chiaramente
espressa già dalle righe precedenti ed è evidente anche dall’inizio del
capitolo successivo, che corrisponde al principio del secondo libro.

326
Note testuali al I libro

NOTE TESTUALI

327
NOTE TESTUALI

1252a 28. La pagina iniziale della Politica offre immediatamente op-


portunità di riflessione sulla fortuna del testo (almeno in età tardo-an-
tica), al di là delle testimonianze materiali di tradizione diretta. Quanto
sintetizzato in apparato critico riflette infatti una dicotomia di lezione
genevsew~ / gennhvsew~ che non deve trarre in inganno gli editori; non
si tratta infatti di una variante interna ai testimoni dell’opera, bensì di
una lezione parallela e proveniente da tradizione indiretta. Un intero
capitolo delle Eclogae physicae et ethicae di Giovanni Stobeo, antolo-
gista macedone attivo nel V secolo d.C., è tratto molto probabilmente
dall’Epitome di dottrine filosofiche di Ario Didimo (filosofo stoico di
età augustea); verso la conclusione di tale capitolo il compilatore (Ario
stesso, più che lo Stobeo) ha redatto una parafrasi riassuntiva della parte
iniziale della Politica di Aristotele, valendosi anche degli ipsa verba
del filosofo secondo una tecnica quasi centonaria (comunque compi-
lativa: Stob. II 7, 26 = II, pp. 148-149, ed. Wachsmuth). Dreizehnter,
riferendosi più che al testo di Aristotele alla dottrina politica della sua
scuola, e dunque anche all’opera didattica dei continuatori, parla di
contenuti peripatetici adattati dallo stesso Ario Didimo (non il testo di
Aristotele dunque, ma un compendio del suo insegnamento attraverso
un abbozzo riferito alla Politica: «Abriß der peripatetischen Politik des
Areios Didymos bei Stobaios angeführt», in Dreizehnter 1970, p. XVII).
In questa pagina antologica dello Stobeo si legge tra l’altro Sunevrce-
sqai ga;r tw`/ qhvlei to; a[rren kata; povqon teknwvsew~ kai; th`~ tou`
gevnou~ diamonh`~: ejfivesqai ga;r eJkavteron gennhvsew~ (ibid. ll. 19-
21), che altro non è se non parafrasi succinta di Pol. I 2, 1252a 26-30 (in
corsivo prefissi, termini, locuzioni mutuati dai compilatori): ajnavgkh
dh; prw'ton sunduavzesqai tou;" a[neu ajllhvlwn mh; dunamevnou" ei\
nai, oi|on qh'lu me;n kai; a[rren th`" genevsew~ e{neken, kai; tou'to oujk
ejk proairevsew", ajll∆ w{sper kai; ejn toi'" a[lloi" zw/voi" kai; futoi'"
fusiko;n to; ejfivesqai, oi|on aujtov, toiou'ton katalipei'n e{teron. Sulla
base del confronto, alcuni studiosi di Aristotele hanno inteso ritrovare
anche corrispondenze mancanti, puramente supposte, che implicassero
un ritocco testuale, o dei codici dello Stobeo o della tradizione aristo-
telica, al fine di apparentare i due luoghi in modo ancor più stringente
(non senza risultati talora paradossali e metodologicamente discutibili:
è accaduto che il testo di Aristotele fosse corretto sulla base del rife-
rimento allo Stobeo, come per genevsew~ > gennhvsew~; e viceversa
che in altri punti il testo delle Eclogae fosse corretto sulla base della

329
NOTE TESTUALI

stessa modifica alla Politica: così in Stob. II, p. 148 l. 6 il genevsei dei
manoscritti FP è stato trasformato da Spengel in gennhvsei, e come tale
accettato anche da Wachsmuth, editore delle Eclogae). Susemihl, tardi-
vamente seguito da Ross, accolse la variante di tradizione indiretta pro-
babilmente per due ragioni, di per sé ragguardevoli: a) nell’opposizione
gevnesi~ / gevnnhsi~ doveva valere il criterio della lectio difficilior a
favore della seconda; b) la tradizione indiretta poteva aver preservato
una facies testuale più vicina all’originale rispetto alla vulgata dei co-
dici medioevali. A confutazione delle due ragioni intervengono però
rispettive considerazioni, di ordine differente; a) anzitutto a proposito
dell’usus scribendi aristotelico. Pur senza note sulla variante testuale in
questione, in Newman ad locum si legge: «Gevnesi~ is a wider term than
gevnnhsi~: ‘et ipsum to; givgnesqai et genna`sqai significat, et univer-
sam eam seriem mutationum complectitur quibus conficitur generatio’
(Bon. Ind. 148b 4)» (Newman 1887, II, p. 105; per la citazione in paren-
tesi Newman ricorre a Bonitz 1870). Più complessa, inerente a storia
e struttura dello gnomologio, la seconda considerazione del problema;
b) è assolutamente vero, e ormai acquisito, che in molte occasioni la
tradizione indiretta fornisca lezioni superiori a quelle di tradizione di-
retta: nello specifico dell’Anthologion di Giovanni Stobeo, i prelievi
del compilatore risalgono a fonti datate (al più tardi) al V secolo d.C.,
e quindi cronologicamente precedenti rispetto alla formazione degli ar-
chetipi di tradizione diretta. Il confronto tra le versioni, finalizzato a
constitutio textus, è dunque del tutto legittimo a patto che si verifichi
una condizione precisa: il lettore deve trovarsi di fronte ad autentica
egloga, ossia citazione circostanziata dell’autore antico, eventualmente
corredata di opportuna didascalia (completa di nomen auctoris, titolo
dell’opera e partizione interna, oppure parziale), non già ad anonima
parafrasi e riassunto di contenuti, in cui la specifica lezione testuale può
andar soggetta all’intervento di ogni copista come autore (per citare una
suggestione di Canfora 2002a, in particolare pp. 21, 34-38). Nel caso
attuale - per concludere - non si è di fronte a un prelievo dello Stobeo
a partire dalla Politica di Aristotele, bensì a una Zusammenfassung di
probabile ambito originario teofrasteo, ripresa da Ario Didimo, poi ci-
tata da Giovanni Stobeo, senza possibilità di controllo su adattamenti
e interpolazioni intermedi (ricorda ancora Dreizehnter riferendosi al
capitolo filosofico dello Stobeo: «schon von Arnim hat festgestellt, daß
dies nichtstimmen kann, und hat die Vorlage als teils theophrastisch,
teils stoisch bezeichnet», Dreizehnter 1970, p. XVIII). Inoltre il testo del
compilatore è trasmesso all’interno di una più complessa antologia: «In
general, the texts were simply copied verbatim and entire from their

330
NOTE TESTUALI

sources. Nevertheless, they were also tendency on the part of both the
compilers of gnomological anthologies and also the scribes who copied
them to treat the texts to some degree as their own property» (Hahm
1990, p. 2943). Hahm ha classificato la pagina in esame come Ethical
Doxography C, ossia la terza parte (dedicata all’etica peripatetica) del-
la discussione filosofica desunta da Ario Didimo in Giovanni Stobeo.
Accantonare l’unanimità della tradizione diretta dei codici di Aristotele
per scegliere una lezione tratta da tale compendio è del tutto arrischiato.
Göransson 1995, pp. 203-226, ha posto in dubbio con solidi argomenti
l’identificazione di Ario Didimo con Ario filosofo, amico di Ottaviano
Augusto, ma il suo scetticismo è stato ulteriormente confutato: per la
bibliografia in merito e un confronto dettagliato tra Aristotele e l’epi-
tome, mirato a evidenziare il progressivo allontanamento dall’imposta-
zione originaria della Politica, si veda Nagle 2002 (pp. 198-199 n. 2 per
l’identità storica di Ario). Per un utile schema - più in generale - delle
fonti dossografiche confluite in Giovanni Stobeo, a partire anche dai
testi di Aristotele, si vedano Mansfeld-Runia 1996, p. 81.
1253a 2. o{ti oJ a[nqrwpo~ è attestato soltanto dai manoscritti della
I famiglia, mentre tutti gli altri testimoni omettono l’articolo. Trattan-
dosi appunto di articoli, non è possibile verificare quale lezione sia
stata tradotta nelle versioni latine di Guglielmo; Newman, con riman-
do a studi grammaticali (Newman 1887, II, pp. 62-64), ma anche più
in generale ai criteri della sua edizione, ha suggerito che in casi come
questo sia preferibile adottare la lezione di P2 (quindi senza articolo,
come già in I 2, 1252b 5 davanti a dhlou`n, 14 davanti a Carwvnda~,
etc.). La scelta però, più che affidarsi all’automatismo di un partito
preso, non dovrebbe prescindere dall’analisi del singolo passo, in vi-
sta di opzione oppure di intervento critico: gli editori hanno unanime-
mente condannato il secondo ejsti di l. 3, inutilmente ripetuto all’in-
terno del periodo, senza notare che analoga zeppa si è probabilmente
inserita nella seconda parte della proposizione con la ripetizione di
o{ti (anzi: se si cancella il secondo ejsti, inutile duplicato del primo, è
opportuno cancellare anche il secondo o{ti, la cui funzione sintattica è
sottointesa dal precedente, all’inizio di l. 2). La congiunzione ripetuta
parrebbe essersi sviluppata su un articolo originariamente presente (oJ
a[nqrwpo~), ipotizzabile grazie alla simmetria con il precedente hJ povli~
e il successivo oJ a[poli~ (in cui l’articolo è unanimemente attestato
dai manoscritti). Nella ricostruzione proposta, sul testo originario sa-
rebbe intervenuto un correttore, a integrare oJ in o{ti (per specificare la
struttura sintattica che prosegue in coordinazione); successivamente,
un altro intervento editoriale (forse finalizzato al restauro della suc-

331
NOTE TESTUALI

cessione osservata) avrebbe inserito anche l’articolo, riscontrabile


soltanto in un ramo della tradizione (P1).
1253a 6-7. a{te per a[zux w]n w{sper ejn pettoi'". Per comprende-
re la funzione di questa similitudine (che al lettore antico certamente
spiegava meglio la riflessione di Aristotele), occorre riprenderne il
contenuto in altre parole, e chiedersi: il filosofo sta paragonando l’uo-
mo a[poli~ a una pedina nel gioco dei pettoiv, oppure a un uomo che
se ne sta isolato rispetto a quelli impegnati nel gioco dei pettoiv? A
prescindere dalle informazioni tecniche (peraltro assai scarse) su tale
gioco, è opportuno rimandare a Euripide (Med. 68), ossia al punto in
cui il Pedagogo afferma: [Hkousav tou levgonto~, ouj dokw`n kluvein,
pessou;~ proselqwvn, e[nqa dh; ktl. Pessouv~ di Euripide può anche
essere tradotto luogo in cui si gioca a dadi («giunto alla Contrada dei
dadi» traduce per esempio Musso 1996, p. 214; per una descrizione
del gioco dei dadi tradizionalmente inteso, e dunque più recente ri-
spetto a quello cui Aristotele allude, si veda il trattato cristiano dello
Pseudo Cipriano, Il gioco dei dadi, in Nucci 2006, pp. 28-38). Ma il
disordine delle lezioni testuali e delle numerose corruzioni medioevali
induce a credere che il passo aristotelico non fosse più compreso da
copisti e lettori, e producesse stravolgimenti (in alternativa ad a[zux
w[n si leggono chiose etimologiche come a[neu zugou` tugcavnwn, in
taluni codici recenziori, fino alla traduzione sine jugo existens di Gu-
glielmo (che appunto da questa esplicazione parrebbe derivare), e alla
correzione a[neu zeuvgou~ nell’editio Bas.2). Non soltanto: è attestato
anche uno scholion (ad locum nel codex Cast [Laurenziano Acquisti
e Doni 4], di XV secolo) che intende a[zux w[n con ajnariptw`n, ossia
una forma participiale del disusato ajnariptevw (per ajnarrivptw), ‘ri-
schiare, giocare d’azzardo’. L’esegesi scoliastica risulta senza dubbio
originale, ma poco probabile: difficilmente Aristotele attribuirebbe
la causa (a{te) dell’essere polevmou ejpiqumhthv~ a colui che ama ri-
schiare al gioco, o comunque a chi gioca in maniera troppo disinvolta
(la menzione dei dadi subito appresso ha tratto in inganno lo scolia-
ste). Ragionevoli, dunque, i dubbi di Richards sulla originarietà di
quanto tràdito, a partire da quel pleonastico nesso iniziale a{te per.
Un intervento congetturale economico, che presuppone soltanto una
trasposizione del termine di comparazione w{sper, forse permette di
ritrovare sintassi e senso soddisfacenti, nonché aderenza semantica
del complemento ejn pettoi'" rispetto al locus similis euripideo: a{te
ãw{sÃper a[zux w]n [w{sper] ejn pettoi'" (l’a[poli~ sarebbe dunque tale
«perché si comporta come uno che se ne sta isolato nel luogo dove si
gioca a dadi»).

332
NOTE TESTUALI

1253a 34. oJ de; a[nqrwpo" o{pla e[cwn fuvetai fronhvsei kai; aj-
reth/'. Rispetto alla frase precedente, la proposizione non è di faci-
le interpretazione, specie per la valenza di o{pla e del complemento
introdotto da fuvetai (Immisch, per esempio, è convinto che sia un
dativo finale: “in vista di saggezza e virtù”). Ma come intendere il
primo sostantivo? «Pour Vettori et d’autres commentateurs, les armes,
ce sont la prudence et la vertu dont on parle; mais le datif fait ici dif-
ficulté. Montecatini traduit ce passage “arma homini data sunt ad pru-
dentiam et virtutem”. De même Bernays traduit “geschaffen mit einer
Rüstung zu Einsicht und Tugend”, et pour lui les armes, ce sont “die
Affekte”, les passions. [...] Holm (de Ethicis Politicorum Aristotelis
principiis, p. 39) traduit “ad virtutes exercendas”» (Aubonnet 1960,
pp. 111-112). Parte della tradizione antica aveva già manifestato dubbi
di comprensione, dal momento che la translatio imperfecta di Gu-
glielmo aggiungeva una negazione: nel suo modello, secondo la rico-
struzione di Susemihl, si sarebbe letto oujk e[cwn o{pla. Riferendosi a
Seneca, de ira 1, 17, 1 (Aristoteles ait adfectus quosdam, si quis illis
bene utatur, pro armis esse; cfr. anche de ira III, 3, 1; nella filologia
aristotelica si tratta del f. 80 Rose) Rostagni aggiunge: «Con questo
frammento di traduzione latina è utile confrontare Polit. I 2, 1253a,
33-35, dove o{pla son le passioni (purché si conservi la lezione mano-
scritta che molti, per mancata intelligenza, correggono). Similmente le
passioni eran chiamate stratiw`tai: vedi Philod. De ira, col. XXXIII,
17-19, p. 69 Wilke, confrontando con Senec., ibid., I, 9, 2» (Rosta-
gni 1945, p. XLII n. 1). Quale che sia il valore semantico di o{pla in
questa frase, lo stesso dovrà necessariamente essere riferito anche al
colon precedente, che la introduce (calepwtavth ga;r ajdikiva e[cousa
o{pla). L’intero contesto categorizza infatti e identifica la perfezione
dell’uomo con l’aderenza alla giustizia; quando Aristotele contrappo-
ne il pericolo di un’ingiustizia ‘armata’ (ossia la condizione di uomo
che si è allontanato da divkh) all’uomo che, al contrario (dev di l. 34),
agisce per natura con saggezza e virtù, egli propone semplicemente
una sorta di definizione storico-civile (poiché tesa alla costituzione
della koinwniva) del comportamento giusto o ingiusto.
1253b 10. teknopoihtikhv. Il termine, a{pax legovmenon (presumi-
bilmente conio aristotelico) è unanimemente attestato dalla tradizione
manoscritta, senza varianti. La maggior parte degli editori però ha inte-
so modificare, optando per la stampa di patrikhv – evidente sinonimo
di più alta frequenza – che compare anche in I 12, 1259a 38 (ma già
Newman, che insieme a Ross e Aubonnet conserva la lezione dei codici
greci, aveva notato come «Patrikhv is substituted for teknopoihtikhv

333
NOTE TESTUALI

in I. 12. 1259a 38», Newman 1887, II, p. 132). Relativamente al pas-


so in questione, patrikhv si desume esclusivamente dalla traduzione
latina paterna di Leonardo Bruni d’Arezzo (Ar.(etinus), negli appara-
ti delle edizioni). Persino nelle due versioni di Guglielmo compare la
traslitterazione teknopoiitika. Forse nel modello di Bruni era presente
una glossa esplicativa, ricavata dal successivo passaggio di 1259a 38,
e subentrata nel testo in sostituzione della lezione autentica; ma è an-
che possibile che Bruni stesso abbia voluto tradurre teknopoihtikhv
e patrikhv con lo stesso aggettivo latino, paternus. L’opzione per un
termine ricostruito a partire dal latino, a fronte di tutti gli altri testimoni
greci, appare assai discutibile: significa negare ad Aristotele la possibi-
lità di utilizzare sinonimi (si veda, a titolo di esempio, come oijkonomiva
di I 3, 1253b 2-3 divenga oijkonomikhv a I 12, 1259a 37). Ma neppure è
legittimo escludere a priori un neologismo (tanto più in questo capitolo:
in 1253b 9-10. l’autore lamenta la mancanza di un termine adeguato a
esprimere un tipo di legame familiare; non sarà possibile dunque l’in-
troduzione di parola inedita ma funzionale?). Da ultimo, si consideri
che teknopoihtikhv è hapax legomenon (forse anche ostico), ma non è
certo lectio singularis, passibile tout court di eliminatio (Newman, ibid.,
aveva suggerito analoga direzione di ricerca, puntando sulla funziona-
lità verbale, senza però sottolineare l’aspetto neologico della lezione:
«The words gamikhv and teknopoihtikhv are probably felt by Aristotle
not to describe the nature of the ajrchv in the same clear way in which
the word despotikhv describes the ajrchv of the master over his slave.
We are told in the de Anima (2. 4. 416b 23) that ‘everything should be
named in reference to the end it realizes’. The words gamikhv and tek-
nopoihtikhv certainly do not give us this information»). Sull’aspetto
semantico di teknopoii?a come età adatta alla procreazione, dunque
consigliabile per la realizzazione del matrimonio, cfr. Newman 1887, I,
pp. 186-187. Dreizehnter 1962, p. 13, ha affermato più recisamente di
tutti che non soltanto teknopoihtikhv sarebbe un errore, ma anche che
apparterrebbe al ristretto gruppo di errori comuni a tutta la tradizione,
grazie ai quali è possibile supporre l’esistenza di un archetipo («Dies
ist nach den Lexica die einzige Stelle in der griechischen Literatur, an
der dieses Wort vorkommt»); la classificazione non convince affatto,
perché parte dal presupposto (sbagliato) che un eventuale neologismo
aristotelico vada accantonato, e sostituito o dal primo sinonimo dispo-
nibile (patrikhv di 1259a 38) o da incerte attestazioni di tradizione
indiretta (Stob. II 7, 26 = II 149, 8-11 W.); ma non convince soprattutto
perché non spiega come sarebbe nata, e a opera di chi, l’interpolazio-
ne teknopoihtikhv. Risulta quindi da precisare anche la notazione di

334
NOTE TESTUALI

Schütrumpf (basata sulla stessa indicazione sintetica di Dreizehnter)


«Für verfehlt halte ich es, wenn Dreizehnter unter Berufung auf die Ne-
benüberlieferung bei Stobaios in seiner Textausgabe teknopoihtikhv
in patrikhv ändert und hierin einen “gemeinsamen Fehler aller Hss.”
entdecken möchte (1962, 13)» (Schütrumpf 1991, I, p. 231), in quanto
il passaggio riassuntivo dell’Anthologion non è riferito a Pol. I 3, 1253b
10, ma alla tripartizione di 12, 1259a 37-39. Del resto, se anche lo Sto-
beo offrisse patrikhv in riferimento al passo in questione, non mutereb-
be il giudizio sulla qualità della rielaborazione scolastica del cap. 2, 7
dell’antologia, già espresso a proposito della variante di 1252a 28.
1253b 37. Nonostante alcuni testimoni della prima famiglia (MS)
e la traduzione completa di Guglielmo rechino la forma verbale com-
posta uJpoduvesqai (subinduere), gli editori scelgono l’infinito sempli-
ce duvesqai. Il motivo di preferenza della lectio facilior è soprattutto
esterno al testo, poiché il modello che Aristotele sta citando in questo
passo (fhsin oJ poihthv~) è precisamente individuabile in un verso
dell’Iliade (XVIII 376, o[fra oiJ aujtovmatoi qei`on dusaivat∆ ajgw`na)
in cui compare la forma semplice. Si può però obbiettare a tale scelta
per due motivi pragmatici di notevole evidenza: (1) Aristotele, come
molto sovente, non sta citando alla lettera il testo omerico (aujtomavtou~
qei`on [uJpo]duvesqai ajgw`na non è l’esametro completo, e la cadenza
metrica non torna se non in parte; la grammatica dell’originale è anzi
modificata dalle esigenze sintattiche attuali). (2) Come spiegare il conio
uJpoduvesqai in un versante importante della tradizione? Sarebbe diffi-
cile argomentare l’ipotesi di un copista che modifichi il proprio modello
con un composto sul tema verbale (e, del resto, per quale motivo?). La
lectio di MS (corroborata dalla versione completa di Guglielmo) risul-
ta certamente difficilior. Aristotele sta parafrasando Iliade XVIII 376
(molto probabilmente per citazione a memoria, parzialmente errata), e
trascorre da duvw a uJpoduvw (per quest’ultimo cfr. Metaph. IV 2, 1004b
18; anche Laurenti parla di «citazione accomodata», in Laurenti 1966,
p. 14 n. 51). «La memoria può essere mirabile; infallibile non sarà mai.
E ciascun di noi, quando recita a memoria, sostituisce senza volere una
formula all’altra; rifà il verso nell’atto stesso che lo dice. È naturale che
proprio così il dicitore sostituisca usi linguistici a lui familiari, dunque
moderni o forse peculiari del suo dialetto, alla forma genuina» (così sui
possibili “errori di memoria” di Aristotele Pasquali 1988, pp. 202-203).
Risulta quanto meno affrettato scartare la variante sulla base di una pre-
giudiziale, assoluta fedeltà linguistica e stilistica di Aristotele rispetto a
modelli e fonti richiamati senza controllo scrupoloso. Nell’altro ramo
della tradizione (P2 e derivati, oltre che nel modello della traduzione

335
NOTE TESTUALI

incompleta di Guglielmo) può essere invece intervenuto un copista che,


dopo aver controllato il passo omerico, abbia cancellato il preverbo ag-
glutinato dalla memoria artistotelica; per un’altra configurazione pro-
blematica di citazione omerica cfr. III 13, 1285a 13-14 e relativa nota.
1254a 15. L’opposizione a[nqrwpo~ w[n/a[nqrwpo~ dev dei codici
permette di riconoscere, pur con qualche deroga per alcuni testimoni,
la tradizionale suddivisione nelle due principali famiglie di manoscritti:
P1 al completo trasmette w[n, mentre i più importanti testimoni di P2,
insieme ad alcuni derivati, recano dev. La scelta di w[n (condivisa da
tutti i precedenti editori) non è però il frutto di un automatismo, spe-
cie a partire da Newman, il primo editore della Politica che predilige
sistematicamente le lezioni di P2 contro quelle di P1 (esattamente al
contrario di quanto accaduto nelle quattro edizioni di Susemihl). La
figura filologica è anche più interessante del solito, in quanto le versioni
latine (di Guglielmo e di Bruni) o non traducono la frase in questione
oppure rendono in un modo che non permette di stabilire con certezza
il testo del modello (qui enim sui ipsius non est secundum naturam, sed
alterius homo, hic natura est servus Bruni). Nel confronto di soli codici
greci, è dirimente la testimonianza di Alessandro di Afrodisia (fine II/
inizi III secolo d.C.), che cita questo passaggio della Politica nel suo
commento alla Metafisica, e attesta w[n, confermando quindi autorevol-
mente, per antichità, la lezione di P1 (a onor del vero, neppure la tra-
dizione di Alessandro è del tutto unanime; il codice Laurenziano 87,12
propone infatti un testo differente rispetto a quello adottato dagli editori
del commento alla Metafisica: to;n ga;r dou`lon ejn toi`~ Politikoi`~ ei\
pen ei\nai to;n a[nqrwpon to;n a[llon o[nta kai; mh; eJautou`).
1254a 16. La tradizione manoscritta, più che essere divisa, è in re-
altà quasi del tutto riscritta: le indicazioni riassuntive di Newman («the
better MSS. have dou`lo~ w[n, those of less authority a[nqrwpo~ w[n»,
Newman 1887, II, p. 67), o quelle eccessivamente generiche di Drei-
zehnter («dou`lo~ w[n testes, a[nqrwpo~ w[n var. lectio in ABCDP, edd.»,
Dreizehnter 1970, p. 8), possono trarre in inganno, anche per la scelta
pressoché unanime di stampare a[nqrwpo~ w[n. Sono infatti quasi tutti i
codici a riportare la lezione dou`lo" w[n, mentre quelli più importanti e
un nutrito gruppo misto recano a margine la variante; pochissimi i testi-
moni che presentano soltanto a[nqrwpo" w[n senza note marginali. Ma
la suddivisione non si presta alla solita distinzione delle due famiglie,
né allo scambio di informazioni con cui i correctores hanno postillato
alcuni esemplari (soprattutto nell’incrocio ricorrente per cui P1 rechi
a margine lezioni di P2, mentre A1,2 riporti varianti tipiche di P1). La
nota marginale dilaga in gruppi di codici di entrambe le famiglie, senza

336
NOTE TESTUALI

lasciarsi localizzare dalle solite etichette: a[nqrwpo~ w[n (classificabi-


le come lectio facilior) non compare soltanto nel gruppo, solitamente
omogeneo, dei cosiddetti deteriores (P4) né vi coincide semplicemente.
L’apparato riporta dunque nel dettaglio tutte le presenze della variante
a margine, per documentare quanto capillarmente essa si sia diffusa
quale lezione alternativa, e come abbia convinto tutti gli editori, tran-
ne Susemihl (che ricostruisce il testo in modo personale, seguendo la
versione latina di Guglielmo, e restando fedele alla sua idea in tutte e
quattro le edizioni della Politica) e Dreizehnter, che per primo riabilita
la lezione originaria. La variante a[nqrwpo" w[n è stata definita facilior,
perché permette di stabilire una simmetria rispetto allo stesso inciso
della riga precedente, da rendersi in traduzione con valenza concessi-
va: «pur essendo uomo è per natura schiavo chi appartiene ad altri» (l.
15), così come «è uomo che appartiene ad altri chi, pur essendo uomo,
è oggetto di proprietà» (l. 16). Dreizehnter ha molto opportunamente
rivendicato dignità di testo affidabile alla prima scrittura dei codici più
importanti (P1+P2); si può interpretare, oltre che condividere, la sua
scelta, sulla base di due motivazioni, di ordine grammaticale e semanti-
co. 1) Chi adotta la variante marginale produce un testo in cui lo stesso
termine «uomo» è iterato a brevissima distanza con funzioni sintattiche
differenti, prima di soggetto semplice, poi di concessione alla natura
del soggetto stesso: ejsti;n a[nqrwpo" o}" a]n kth'ma h/\ a[nqrwpo" w[n. Il
testo, apparentemente chiaro, sarebbe corretto se la seconda occorren-
za di a[nqrwpo" fosse almeno accompagnata da una specificazione. 2)
Chi accetta la lezione dou`lo~, contro l’ammodernamento semplificante
della correzione e la consuetudine editoriale, si accorge che il ragiona-
mento di Aristotele non è simmetrico, ma lineare e concatenato, e che
la seconda espressione retta dal participio w[n non necessariamente deve
essere intesa con valore concessivo, ma presenta un senso soddisfacen-
te e conforme al seguito del discorso: «pur essendo uomo è per natura
schiavo chi appartiene ad altri» (l. 15), «dunque è uomo che appartiene
ad altri chi è oggetto di proprietà, appunto in quanto schiavo» (r. 16).
1254b 1. mocqhrw`~ ejcovntwn: l’espressione avverbiale in aggiunta
al complemento che precede mocqhrw`n è parsa a molti editori sospetta,
imponendosi soprattutto (come al solito) la versione latina di Gugliel-
mo pestilentium et prave se habentium. L’avverbio prave, secondo gli
editori primo-ottocenteschi di cui Susemihl raccoglie l’eredità, non può
essere traduzione del corrispondente termine greco presente nei codici,
bensì di fauvlw~ (come quello che si legge subito appresso in 1254b 2).
Buecheler proponeva infatti l’arretramento dell’avverbio, con esito tw`n
ga;r mocqhrw`n h] fauvlw~ ejcovntwn. Del resto lo stesso Susemihl era as-

337
NOTE TESTUALI

sai propenso a credere in un guasto antico della tradizione, preservatasi


correttamente nel modello di Guglielmo; annotava dunque «fauvlw~ G
(wie es scheint)» (Suse.2, I, p. 96 n. 1). Sarebbe sufficiente interrogarsi
sulla possibilità (paleografica e qualitativa, difficilior / facilior) della
trasformazione di un originario fauvlw~ in mocqhrw`~ per vanificare
l’opportunità di tale intervento. Il tutto senza specificare che ogni sorta
di sospetti nasca dalla traduzione latina, non già da variante testuale
del greco (che sarebbe caso assai diverso); nel modello di Guglielmo,
piuttosto, una variante ascitizia di mocqhrw`~ (fauvlw~? kakw`~? una
glossa?) potrebbe aver provocato la versione prave. Ma perché non
supporre anche un Guglielmo traduttore ambizioso, felice di introdurre
una piccola variatio stilistica nella resa del costrutto disgiuntivo gre-
co? Si ricordi per esempio la diade-modello di versione filosofica dal
greco, non certo exemplum di scrupolosa fedeltà linguistica e stilistica:
Cicerone/Platone, in occasione dei capp. 29-43 del Timeo. A dispetto
di pregiudizi cristallizzati, sulla metodologia di traduzione ha avverti-
to esplicitamente Jean Aubonnet: «Le traducteur latin omet ou ajoute
des particules et des mots, change les modes, temps et voix des verbes
grecs, modifie l’ordre des mots, rend un mot par une périphrase pour
l’expliquer ou même introduit des gloses et des leçons marginales à la
place de la leçon originale» (Aubonnet 1960, p. CC).
1255a 1-1255b 4. Nello scarno quadro della tradizione indiret-
ta merita una nota la menzione di un cospicuo estratto della Politica
all’interno di un’opera spuria, attribuita da una tradizione molto tarda
a Plutarco. Il breve trattato Peri; eujgeneiva~ (Pro nobilitate) è incluso
nel catalogo di Lampria al numero 203 degli scritti di Plutarco; non vi è
però alcuna testimonianza testuale del libellus, fatta eccezione per due
estratti nell’Anthologion di Giovanni Stobeo (IV 29, 21; IV 29, 51; il ti-
tolo indicato nel lemma oscilla tra uJpe;r eujgeneiva~ e kata; eujgeneiva~,
ma non ci sono dubbi che «Stobeo aveva dinanzi a sé uno scritto di Plu-
tarco su questo tema», come ha osservato Ziegler 1965, p. 212). Il testo
completo del Pro nobilitate comparve, nella sola traduzione latina, in
un’edizione a stampa del 1566 a Lione (Plutarchi Chaeronei pro nobi-
litate libri fragmentum, a cura di Arnoldus Ferronus Burdigalensis); il
testo greco fu rintracciato più tardi in un manoscritto di Copenaghen
datato alla fine del XV secolo (ora presso la Biblioteca Civica di Am-
burgo, Philol. gr. II 4c) da parte di J.L. Mosheim, e quindi pubblicato
da J.C. Wolf nel quarto volume dei suoi Anecdota Graeca (Amburgo
1724). Dal modello di tale manoscritto il Ferronus doveva aver tratto la
sua traduzione latina, completa delle citazioni da autori classici, come
appunto Aristotele, a differenza del codice con il testo greco, in cui gli

338
NOTE TESTUALI

estratti non sono riportati per esteso (tra gli estremi della citazione è
semplicemente segnato un asterisco). Le poche varianti riscontrabili tra
il testo stampato da Wolf, e ripreso anche da Bernardakis, inducono a
credere che il modello della compilazione, nel caso della Politica, sia
stata una copia appartenente alla famiglia P2. La massiccia presenza
della Politica in uno scritto tardo, falsamente attribuito a Plutarco, fa
osservare come il testo diventi anche oggetto di citazione antologica
dopo essere ritornato in circolazione, ossia nella fase di trascrizione e
riproduzione dei codici umanistici (il XV secolo); alla stessa altezza
cronologica, e non prima, va infatti collocata la redazione del pastiche
plutarcheo pro nobilitate, probabilmente a opera di «un umanista italia-
no del quindicesimo secolo, che aveva avuto attraverso Stobeo notizie
dello scritto di Plutarco su questo tema» (Ziegler 1965, p. 214). Soltan-
to sulla base di questa ricostruzione storica si può accettare il giudizio
di inutilità della testimonianza ai fini del confronto testuale: «no weight
can be attached to its testimony. [...] But in fact the passages quoted
from Aristotle were not given in the MS., and were inserted by J.C.
Wolf, the first editor of the work [...], so that the text of them in the De
Nobilitate possesses no sort of authority» (Newman 1887, II, p. 68). Al
di là delle considerazioni filologiche e critico-testuali relative al Pro
nobilitate, occorre ricordare da ultimo come non sia affatto chiaro il
rapporto tra il Plutarco (autentico) e l’opera di Aristotele; senza dub-
bio si trattò di un rapporto di conoscenza limitata, poiché «mancano
assolutamente indizi di una conoscenza di grandi opere come la Fisica,
il de generatione et corruptione, i Meteorologica, tutte le opere biolo-
giche (escluse le Historiae), la maggior parte delle opere dell’Organon
(esclusi i Topici e forse le Categorie), la Politica, la Poetica, i primi due
libri della Retorica» (Donini 2004, p. 271).
1255b 7. w|n sumfevrei tw/' me;n to; douleuvein tw/' de; to; despovzein:
kai; divkaion [kai; dei'] to; me;n a[rcesqai to; d’ a[rcein. Dalla difficoltà
di interpungere il testo nascono, come sovente all’interno della Politica,
differenti soluzioni editoriali; in passato gli editori si sono concentra-
ti sulla giuntura kai; divkaion, difficilmente riferibile al precedente to;
despovzein ma allo stesso tempo prolissa introduzione (insieme a kai;
dei`) al colon successivo: di qui l’espunzione proposta da Ross. L’uso
assoluto delle opposizioni verbali, in precedenza e anche di seguito
(tw/' me;n to; douleuvein tw/' de; to; despovzein ... to; me;n a[rcesqai to; d∆
a[rcein), sconsiglia (per confronto analogico) di intendere kai; divkaion
quale specificazione di to; despovzein, e suggerisce per contro di inter-
pungere tra i due nessi. A questo primo discrimen ortografico giunge in
soccorso la versione latina, di cui sarà opportuno riportare uno stralcio

339
NOTE TESTUALI

cospicuo (1255b 5-10): «et quod in quibusdam determinatum est quod


tale, eo quod expediat huic quidem servire, huic autem dominari, et
iustum est, et oportet hoc quidem subici, hoc autem principari, ad quem
nati sunt principari, quare et dominari» (Michaud-Quantin 1961, p. 11).
Et iustum est, et oportet fa intendere molto chiaramente la percezione
sintattica del lettore medioevale: kai; divkaion e kai; dei` sono tradotti
come duplice introduzione alla frase che segue. Ma, anche per il fatto
che la recensio non offra varianti di sorta, si potrebbe supporre che
l’intera tradizione rechi le tracce di un testo sovrabbondante. Per essere
più precisi, l’equivalenza kai; divkaion/kai; dei` (consecutivi nel testo)
appare quale tipico risultato di un archetipo con varianti (si veda, na-
turalmente, Pasquali 1988, pp. 194-201, 391-393); nel caso in esame è
ragionevole supporre la doppia lezione a partire dall’analogia grafica
nella parte iniziale dei due termini. Causa della duplice scrittura deve
essere stato un errato scioglimento di compendio (probabilmente, con-
siderata l’unanimità di disposizione dei termini, del compendio con cui
era vergato divkaion; dei` parrebbe interpretazione alternativa, che dal
margine è poi indebitamente rifluita all’interno del testo; d’altra parte,
finora e in seguito non ricorre il nesso kai; dei` a introduzione di frase, a
differenza di quello kai; divkaion). L’espunzione del connettivo secon-
dario permette di restaurare un periodo caratterizzato da sintassi piana,
oltre che da un avvio assolutamente collaudato nei paragrafi precedenti
(a proposito dell’ordo verborum di questa e della riga successiva cfr.
Dreizehnter 1962, p. 30).
1257a 3. La nota d’apparato di Ross («ejkeivnh~] keimevnh G») può
costituire chiaro esempio della fase intermedia dell’approccio filologi-
co al testo della Politica, e alla stratificazione linguistica della sua com-
plessa tradizione. A determinare in Ross, così come in altri editori del
Novecento, l’ambizione di ricostruire esemplari perduti è stato proba-
bilmente l’esempio metodologico derivato dall’immane lavoro di Suse-
mihl. La versione di Guglielmo (nell’unicità della traduzione completa
[G.]; era ancora sconosciuta quella imperfecta, pubblicata soltanto nel
1961 [G.i.]) rappresenta infatti per Susemihl un testimone privilegiato,
addirittura da preferire ai numerosi codici di testo greco, e dunque da
sfruttare per ripristinare le lezioni perdute del modello; così si potrebbe
riassumere la prima fase, quella più tecnica, della costituzione testuale
della Politica, corrispondente alle prime due edizioni dello stesso Suse-
mihl (1872, 1879). Il caso in esame evidenzia l’influenza di tale impo-
stazione, a più di mezzo secolo di distanza, sul lavoro editoriale com-
piuto da Ross: la contrapposizione tra ejkeivnh~ dei codici greci e posita,
corrispondente traduzione latina nella vetus interpretatio di Guglielmo

340
NOTE TESTUALI

(quella incompleta reca neque longe ab illa, ossia calco esatto del gre-
co; Bruni traduce più liberamente neque valde remotum), viene trasfor-
mata in una dipendenza dalla supposizione di ejkeivnh~ come errore,
grafia corrotta (si badi, in tutta la tradizione) a partire da un participio
greco, equivalente a posita, ossia keimevnh. Ricostruzione impeccabile,
oltre che legittima. Ma, a questo punto, è ugualmente legittimo stabilire
che keimevnh sia la “lezione” (recuperata; esito della retroversione) pre-
feribile alla totalità dei testimoni greci? Le prime due edizioni di Suse-
mihl propendono per tale soluzione [anche se già nella seconda prende
forma un dubbio: «ejkeivnh~ P Ar. Bekk. (vielleicht richtig)», I, p. 118];
a partire dalla terza (1882) il testo è ripristinato con ejkeivnh~, e il rico-
struito keimevnh relegato nelle annotazioni. Susemihl porge ai lettori i
frutti della mutata considerazione dei testimoni a partire da un avver-
bio con cui introduce il testo utilizzato da Guglielmo nei Prolegomena
della terza edizione: il codice, databile alla fine del XII o inizio del
XIII secolo, sarebbe stato «admodum iam corruptum» (p. V). Applicato
alla ipotizzata variante keimevnh, il giudizio generale diventa ancor più
severo, perché il modello della vetus interpretatio sarebbe deposito di
errores singulares, più che di lectiones difficiliores. Quale ultima pos-
sibilità, che non accresce né diminuisce le qualità filologico-testuali del
manoscritto perduto, keimevnh potrebbe essere semplicemente un errore
di lettura di Guglielmo, come già suggerito da Newman 1877, II, p. 72:
«Vet. Int. either misread ejkeivnh~ as keimevnh or found keimevnh in his
text, for he translates posita». Nella fase intermedia, in cui vedono la
luce le edizioni di Immisch Ross Aubonnet, viene posta in dubbio la
liceità di ricostruire una Ur-Politik grazie alla mediazione latina, anche
se le speculazioni linguistiche e i tentativi di retroversione sono tutt’al-
tro che abbandonati nei rispettivi apparati. Neppure Dreizehnter, che
rappresenta insieme ad Aubonnet l’ultima fase degli studi moderni sul
testo della Politica, riesce a disancorarsi dall’obbligo di induzione del
testo greco di G. e di G.i., la cui versione latina continua ad affascinare
per il frequente sospetto di variante inedita, nascosta dalla traduzione.
Ma di varianti o di errori, quasi sempre, si tratta? A, I, 1257b 22, per
esempio finale, la tradizione greca è unanime nel riportare au{th; le
traduzioni latine invece sono divise in haec (G.) e ipsam (G.i.). Dreize-
hnter nel suo apparato trascrive senza indugio «aujth; g» (g è il modello
greco di G.i.). Il passaggio è azzardato, perché - se valgono le ipotesi di
antichità e di buona qualità del modello perduto di G.i. (per cui cfr. in-
troduzione alla storia del testo) - Guglielmo molto probabilmente avrà
letto sul suo codice auth, da interpretare grammaticalmente, e tradurre
di conseguenza (come si presentano le lezioni nel frammentario codice

341
NOTE TESTUALI

V: auth del modello può essere inteso come aujthv / aujthÛ` / au{th, e
dunque tradotto ipsa/eadem, ipsi/eidem, haec/ista: cfr. anche I 2, 1252b
31 au{th). La ri-traduzione meccanica del testo latino in greco rischia di
attribuire ai manoscritti perduti tutti gli interpretamenta dei traduttori,
compresi quelli errati, e quindi di addurre in apparato la presenza di
lezioni mai esistite.
1257a 7. La sovrabbondanza dei nessi discorsivi e degli intercalari
può apparire sospetta, in particolare nell’accostamento me;n ajllav che
contrappone la duplice utilità di ogni possesso di per sé alla differenza
tra utilità propria dell’oggetto posseduto e utilità non propria dell’og-
getto stesso. La frase eJkavstou ga;r kthvmato~ ... pravgmato~ (ll. 6-8)
presenta una trama di connettivi dalla gerarchia per nulla chiara (ga;r
... de; ... me;n ajll∆ ... ajll∆ ...). Nonostante l’unanimità della tradizione
manoscritta, e quindi l’inopportunità di intervenire direttamente sul te-
sto, Susemihl volle probabilmente far percepire il proprio imbarazzo,
annotando in apparato che all’altezza di l. 7 «me;n, ut videtur, om. G»
(Suse.1, p. 35). Tale omissione va comunque riferita a un testimone par-
ticolare come la versione latina completa di Guglielmo (uniuscuiusque
enim rei duplex usus est, ambo autem secundum se, sed non similiter
secundum se, sed hic quidem proprius, hic autem proprius rei). In que-
sta traduzione verbum e verbo di solito a mevn corrisponde quidem; ma
nell’intelaiatura di enim ... autem ... sed ... sed hic quidem ... hic autem
..., difficilmente il traduttore avrebbe potuto rendere anche il mevn di l. 7
(identica anche la traduzione di G.i, tranne una variazione nella prima
parte: uniuscuiusque enim rei possesse duplex usus est, ambo etc.). La
notazione di Susemihl, dunque, pare più finalizzata a denunciare un ef-
fettivo problema stilistico (minimo) del testo aristotelico, che un guasto
(soltanto opinabile) della tradizione manoscritta. Di per sé la locuzione
ajmfotevrai de; kaq∆ auJto; me;n è anomala, in quanto gli intercalari op-
posti sono riferiti allo stesso oggetto logico. Non è arbitrario ipotizzare
che un corrector abbia voluto modificare la correlazione de; ... ajlla;,
ritenuta poco coerente perché avversativa; un mevn di attenuazione (che
avrebbe dovuto sostituire il dev), in principio segnato a margine, si sa-
rebbe poi inserito tra le maglie del testo, e l’intera tradizione l’avrebbe
conservato. Forse il traduttore non ha omesso se non quell’elemento
ritenuto superfluo all’efficacia argomentativa del testo tradotto.
1257a 26. auJta; è correzione di Ross per aujta; della tradizione.
Come al solito, Dreizehnter non prende neppure in considerazione
l’intervento dell’editore di Oxford, plausibile sul piano ecdotico (trat-
tandosi di scelta di segni diacritici), anche se non del tutto dimostrabi-
le su quello esegetico. Ross suppone che lo scambio di cui Aristotele

342
NOTE TESTUALI

sta parlando avvenga tra i popoli barbari medesimi, ossia tra se stessi
(pro;~ auJta;); ma se il primo aujta; del periodo (l. 25) è di sicuro sosti-
tuente di polla; ... barbarikw`n ejqnw`n (lo si intuisce soprattutto grazie
al connettivo argomentativo ga;r), pro;~ aujta; è riferito a ta; crhvsima
oggetto di scambio reciproco (“scambiano oggetti utili per altri oggetti
dello stesso tipo”; in una parola, utili anch’essi). La correzione di Ross
non è trascurabile, anche se forse nasce dal conferimento di eccessivo
credito all’antica versione latina di Guglielmo: ipsa enim opportuna
ad ipsa commutant, in cui non è più alcun legame grammaticale con i
polla; ... ejqnw`n, poiché questi erano stati tradotti come multae barba-
rorum nationum. Il secondo ipsa di Guglielmo può essere inteso quale
sostituente riflessivo di ipsa opportuna (soggetto è sottointeso), e dun-
que - in astratto - potrebbe essere traduzione di un originario auJta;.
Direttamente collegata, se non interdipendente, alla correzione di l. 26
è quella di l. 41, sempre di Ross, di aujtouv~ in auJtouv~ (neppure questa,
al pari dell’integrazione di Ross a l. 32, ejndeei`~ ãh\sanÃ, è menzionata
da Dreizehnter 1970).
1257b 12. o{ti metaqemevnwn te tw`n crwmevnwn. Una volta stabilito
il valore attivo di oiJ crwvmenoi, ossia gli utenti del novmisma, si pone un
problema all’interno del costrutto in genitivo assoluto, con il te unani-
memente attestato dalla tradizione manoscritta ma assente nelle versioni
latine: quoniam transpositis utentibus G. translatis pecuniis G.i., senza
congiunzioni che precedano (et, quidem, secondo le possibilità con cui
il te = -que viene di solito tradotto da Guglielmo; per tale funzione
nella prosa attica cfr. Kühner-Gerth 1955, pp. 242-243; in G.i. tra l’al-
tro, più che a crwmevnwn, pecuniis sembrerebbe suggerire un originario
crhmavtwn, come propende a credere Michaud-Quantin 1961, p. 16).
L’assenza di corrispondenza nelle due versioni di Guglielmo induce a
credere che 1) nei rispettivi modelli il te fosse stato omesso; oppure
che 2) anziché te gli esemplari utilizzati da Guglielmo presentassero
un errore comune, frutto della più banale trasformazione di te in fase
di scrittura capitale: TE > GE (nella traduzione latina di Guglielmo i ge
dell’originale non compaiono).
1257b 33. oJrw`men accettato da tutti gli editori è in realtà corretto
sulla base di videmus, attestazione dei soli G.i e Bruni. Ogni manoscrit-
to greco ha invece oJrw` (mentre quelli latini della versione completa di
Guglielmo recano le forme video / videre / videtur / indo [?]). Gramma-
ticalmente la forma oJrw` alla prima persona singolare è del tutto giusti-
ficabile, e non necessiterebbe di alcun intervento; ma due osservazioni
avvalorano la correzione di Sylburg: 1) nell’intero corpus aristotelico
non è mai attestata la prima persona oJravw / oJrw` riferita all’autore che

343
NOTE TESTUALI

disquisisce (semmai è attestato il plurale, come subito all’inizio della


Politica, I 1, 1252a 1); Newman 1887, II, p. 73, fornisce peraltro un
elenco dei luoghi in cui Aristotele utilizza forme verbali alla prima per-
sona singolare, riferite a se stesso (rimarchevole il levgw di Politica III
13, 1283b 1; IV 15, 1299b 19), ma in tutto si tratta di quattro occorrenze
unanimi sul corpus completo. Si aggiunga una terza occorrenza di levgw
all’inizio del secondo libro della Politica, II 2, 1261a 15. 2) È possibi-
le ritrovare una spiegazione razionale della trasformazione oJrw`men >
oJrw`: per errata distinctio infatti un copista può aver letto a l. 33 oJrw`
me;n sumbai`non, e quindi, dopo aver notato l’incongruenza rispetto a
me;n faivnetai (l. 32) ed ejpi; de;, essersi limitato a cancellare il mevn. Dal
momento che tutti i manoscritti greci presentano oJrw`, e che neppure i
correctores di P o di A hanno avuto notizia della forma oJrw`men, l’in-
tervento ipotizzato va collocato in età antica, o comunque alle spalle
dell’archetipo. Difficile stabilire se le traduzioni di G.i. e di Bruni de-
rivino da esemplari in cui si leggesse oJrw`men (nella cui eventualità la
ricostruzione precedente sarebbe sconfessata) o piuttosto siano il frutto
di una tacita correzione del traduttore (più incline a segnare videmus
dell’inusitato video: fa propendere per questa ipotesi il gruppo di va-
rianti nella tradizione. Newman 1887, II, p. 72-73, esamina la grafia del
codice o, in cui video parrebbe invece essere scritto come correzione
di un originario vide’, ossia grafia compendiata per videmus, evidente-
mente da parte di chi stava ricontrollando la versione latina in parallelo
al testo greco). Da ultimo, se non si considera precedente all’archetipo
la trasformazione oJrw`men > oJrw` diventa impossibile condividere le ri-
costruzioni stemmatiche di Dreizehnter, nello specifico della colloca-
zione di G.i. all’interno di P1 (come risulta da entrambi gli stemmata
codicum in Dreizehnter 1962, p. XLVI e Dreizehnter 1970, p. 75).
1257b 36. eJkatevra~ accettato nel testo non è lezione dei codici
conosciuti, ma testimonianza del solo Sepulveda, che scrive di aver-
lo desunto per la sua traduzione da esemplari ‘antichissimi e piuttosto
corretti’. I codici superstiti recano però tutti eJkatevra, senza traccia
di correzioni posteriori. Ammessa l’affidabilità della testimonianza di
Sepulveda (la cui buona fede ottiene il credito della maggior parte de-
gli editori), occorre pensare che il quadro complessivo della tradizione
manoscritta all’inizio dell’età moderna fosse più variegato e complesso
rispetto a quello attualmente verificabile, in particolare se neppure i te-
stimoni più soggetti a riscrittura e a contaminazione di lezioni tratte da
esemplari dell’altra famiglia (A e P) riportano eJkatevra~. Anche New-
man, che pure - al colmo della prudenza - decide di stampare l’unica
lezione sopravvissuta, ammette però che il lettore si aspetta una disa-

344
NOTE TESTUALI

mina a confronto dei due tipi di crematistica (anche perché segue una
definizione distintiva delle due tipologie a seconda del fine): «Perhaps
we rather expect to hear of two uses than of one use. Hence on the
whole eJkatevra seems preferable, but eJkatevra might so easily take the
place of eJkatevra~ that the true reading is doubtful» (Newman 1887, II,
p. 73). La traduzione di G.i. (utriusque crimatistice) avvalora la scelta
di eJkatevra~, rendendo meno aleatoria la testimonianza di Sepulveda.
Va ricordato che spesso, nei casi in cui la versione di G. e G.i. diver-
ga, e G.i. rispecchi il testo greco preferibile, la traduzione imperfecta
rimanda o alla lezione unanime dei codici greci o a quella di P2 (mai
di P1, tranne in 1260a 37: a\ra P1/a[ra P2 = utrum G.i./ergo G.). Con
eJkatevra tutta la tradizione recherebbe una lezione deteriore, tranne il
manoscritto (o i manoscritti?) letto da Sepulveda; l’accordo di questo
con G.i. induce a credere che anche quel testimone perduto fosse appa-
rentabile più alla famiglia di P2 che a P1.

345
NOTE TESTUALI
APPENDIX CONIECTURARUM

APPENDIX CONIECTURARUM
APPENDIX CONIECTURARUM

348
1252a 33 tou'ton tw/' swvmati poiei'n malim 1253a 6 ejpiãdhmivon
ejrasÃthv~ Immisch 14 dielei`n Oncken b 11 d’ au\ q’ aiJ trei`~ malim
1254a 15 «Lectio a[nqrwpo~ w[n unice vera videtur, si quidem est natura
servus non is, qui quamquam natura alius hominis tamen ipse homo,
sed is, qui quamquam homo tamen natura alius hominis est» Sus., De
Politicis Aristotelis quaestionarum criticarum partes I-VII, Typis Iu-
lii Abel, Greifswald 1867-1869, p. 341 1256b 3 to; ejndee;~ kata; to;n
bivon Reiske 15-16 dh`lon o{ti kai; [genomevnoi~ kai;] teleiouqei`sin
Bernays : [dh`lon o{ti kai;] genomevnai~ Bender 27 ãhJÃ kata; Reiske :
tou` oijkonomikou` Thurot : th'" oijkonomikh'" [mevro"] ejstivn Schnei-
der Thurot 27-28 dei` ãgavrà Thurot 28 w|n ejsti] w| e{nesti Madwig ou|
e[sti qhsaurismo;~ crhmavtwn pro;~ zwh;n ajnagkaivwn, kai; crhsivmwn
eij~ koinwnivan povlew~ h] oijkiva~ a} dei` h[toi uJpavrcein h] porivzein
aujth;n o{pw~ uJpavrch/ Rassow corr. et transposuit 41 kalei`n] fortasse
kalei`sqai (cf. vocari G. Alb.) 1257a 18 crhmatistikh`~ ãei\do~Ã Sca-
liger 23 eJtevrwn ãejdevontoà Schneider : eJtevrwn ãhjpovrounÃ. Schmidt :
ejstevronto Koraïs : ãeJtevroi~à eJtevrwn ão[ntwnà Siegfried 37 pro;~ to;
zh`n post o]n posuit Pratt : zh`n] metakomivzein Reiske 1257b 25 ejsti] ei\
si Eucken 30-31 ouj crhmatistikh`~ secl. et simul o} kai; th`~ crhmati-
stikh`~ post 31 oijkonomikh`~ transp. Reiske. ouj ... e[rgon post 32 pevra~
transp. Schmidt : tou`to] taujto; Gurlitt 1258a 1 ou[sh~] ijouvsh~ Eucken
14 mh; post 16 peri; th`~ Hampke Rassow transp. 17 kai;Ã kata; Thurot
20-21 ajlla; ... uJpavrcein post 26 poih`sai transp. Hampke : ou[, ãajlla;
**Ã ajlla; M. Schmidt 21 tou`to] tau`ta M. Schmidt 24 touvtwn] touvtou
Sus. 25 to;n oijkonovmon] tw`/ oijkonovmw/ Scaliger (disponere convenit yco-
nomo G.) 33 oijkonovmou] yconomici G. : ouj ga;r] ouj de; M. Schmidt ma-
lit 37 leipovmenon] loipovn Scaliger coni. 38 ãhJÃ ajpo; Schneider 1258b
1 de;] d∆ h\/ dub. M. Schmidt 7 kai; Sylburg secl. 11 ejleuqevrion Koraïs
12 de;] dh; Lambin 18 h[dh] eijdw`n Ald.Mon.c : ei[dh Scaliger 35 to;]
tw`/ Ald.Mon.c 35-39 eijsi; ... ajreth`~ ante 27 trivton Piccard («male»
Sus.1), ante 33 peri; Sus.1 transp. 1259a 3 qewreivtw] qewrhtevon
Schneider (considerentur G.) 16 kai; ante polla; Scaliger (ex Bru-
ni) 1259b 20 th;n2] to; Scaliger 20-21 o}n ... plou`ton] ou| ... plouvtou
Koraïs : to;n kalouvmenon plou`ton (ante 19 kai; traicienda esse) M.
Schmidt coni. 25 a[llwn ãeJkavsthà Spengel coni. : a[llwn ãti~à dub.
Schneider 1260a 40-41 th`~ douvlou vel doulikh`~ ante (vel post)
ejpibavllei aut post 41 ajreth`~ excidisse Sus.1 coni. ãth`~ touvtouà :

349
APPENDIX CONIECTURARUM

ejpibalei`tai vel ejpibalei`tai ãuJphretikh`~Ã vel ejpibalei`tai aj-


reth`~ ãuJphretikh`~Ã M. Schmidt (cf. Thuc. VI 40, 2 aujqaivreton
douleivan ejpibalei`tai) 1260b 5 despotikhvn] ejpisthvmhn Koraïs
coni. : despotikh`Û (post 6 ejpitavxai transposito) H. Schmidt coni. 13
ejpelqei`n] dielqei`n Thom. : dielei`n Schneider coni.

350
APPENDIX CONIECTURARUM

INDICI
APPENDIX CONIECTURARUM

352
INDICE DEI NOMI ANTICHI
DEL I LIBRO DELLA POLITICA DI ARISTOTELE

Il riferimento di ogni voce dell’indice segue la numerazione delle


pagine e delle righe secondo l’edizione Bekker.

[Amasi~ 1259b 8
jApollovdwro~ oJ Lhvmnio~ 1259a 1

Gorgiva~ 1260a 28

Daivdalo~ 1253b 35
Dionuvsio~ 1259a 30

JElevnh (Qeodevktou) 1255a 36


{Ellhne~ 1252b 8
jEpimenivdh~ oJ Krhv~ 1252b 14

Zeuv~ 1259b 13

JHsivodo~ 1252b 10
{Hfaisto~ 1253b 36

Qalh`~ oJ Milhvsio~ 1259a 6, 18, 31


Qeodevkth~ 1255a 36

Krhv~ 1252b 15

Lhvmnio~ 1259a 1

Mivda~ 1257b 16
Milhvsio~ 1259a 6
Mivlhto~ 1259a 13

[Omhro~ 1252b 22; 1253a 5; 1253b 36 (oJ poihthv~); 1259b 13

Pavrio~ 1258b 40

Sikeliva 1259a 23

353
INDICE DEI NOMI ANTICHI

Sovlwn 1256b 32
Surakou`sai 1255b 24; 1259a 30
Swkravth~ 1260a 22

Carhtivdh~ oJ Pavrio~ 1258b 40


Carwvnda~ 1252b 14
Civo~ 1259a 13

354
SOMMARIO

Presentazione dell’opera
di Lucio Bertelli e Mauro Moggi ................................. p. V

Introduzione alla storia del testo della Politica............ » 1

Introduzione al libro I .................................................. » 57

Bibliografia .................................................................. » 87

Sigle e abbreviazioni usate negli apparati critici ......... » 121

Testo e traduzione ........................................................ » 139

Commento .................................................................... » 193

Note testuali ................................................................. » 327

Appendix coniecturarum .............................................. » 347

Indici ............................................................................ » 351

Potrebbero piacerti anche