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STORIA DELLA CRITICA D’ARTE

Professore Paul Tucker

LEZIONE 1
DOMANDE PRELIMINARI
L’insegnamento qui impartito si chiama “storia della critica d’arte”; ma cosa significa? E
come si deve considerare la sua storia?
Inoltre, qual è il rapporto della storia della critica d’arte, dalla quale in Italia per lo meno viene
distinta come disciplina?
Appartiene infatti al settore scientifico disciplinare L-Art/04 (Museologia e critica artistica e
del restauro). Mentre Storia dell’arte medievale, moderna e contemporanea sono oggetti di
altri settori (L.Art/01,02,03). Non ci è però di molto aiuto la definizione ufficiale della
disciplina del SSD L-Art/04:
Comprende gli studi di carattere teorico e metodologico sulla letteratura artistica, sulla critica
d’arte e sulla storia sociale e quelli sulla storia e l’organizzazione dei musei sulla didattica
museale, nonché sulle tecniche artistiche e sulla conservazione ed il restauro dei beni
artistici.
Anzi, la definizione fa sorgere ulteriori domande.
La critica d’arte e la “letteratura artistica” come anno distinte? E che differenza c’è tra “storia
della critica d’arte” e la “storia della letteratura artistica”?
La storia della letteratura artistica essendo il nome di un altro insegnamento impartito nelle
università italiane, in corsi di laurea magistrale in Storia dell’arte (compresa quella di questo
ateneo e in corsi di laurea triennale come il nostro).
Come appena accennato, sia storia della critica d’arte (SCA) che storia della letteratura
artistica (SLA) sono discipline specifiche alle università italiane. In quelle estere esse non
sono offerte quali insegnamenti specifici e non ci sono inquadramenti accademici analoghi a
quello di L-Art/04. Sono piuttosto quali indirizzi di ricerca, che portano nomi vari, ad es: Art of
Historiography, History of art writing, Historiographie de l’art, ecc.
In Italia tuttavia la prima cattedra di SCA risale al 1968, quando la professoressa Paola
Barocchi (1927-2016) la ottenne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
La denominazione SLA deriva dal libro (quasi) omonimo dello storico dell’arte austriaco
Julius Schlosser (1866-1938), “La letteratura artistica. Manuale delle fonti della storia
dell’arte moderna ([1935] 2008).
Ma chi era Schlosser? Allievo di Franz Wickhoff e insieme Alois Riegl e Max Dvoràk
massimo esponente della scuola di Vienna (espressione coniata dallo stesso Schlosser).
Dopo la laurea entra a fare parte dell’institut für Osterreichische Geschichtsforschung diretto
da Theodor Von Sickel (1826-1908), padre della moderna scienza diplomatica (lo studio dei
documenti quali testimonianze storiche).
1901: diventa direttore delle raccolte imperiali di scultura e di arti minori (confluite nel
Kunsthistorisches Museum) e inizia ad insegnare all’Università di Vienna.
1922: è chiamato alla cattedra di Storia dell’Arte presso l’Università di Vienna, già di Max
Dvorák.
La denominazione SCA, invece, risale al volume dello storico dell’arte e critico italiano,
Lionello Venturi (1885-1961). Storia della critica d’arte; pubblicata prima in inglese, poi
francese ed infine in italiano.
Ma chi era Venturi? Figlio dello storico dell’’arte Adolfo, dopo un periodo come Ispettore
presso l’amministrazione delle Belle Arti, ottiene la cattedra in Storia dell’Arte a Torino nel
1915. Nel 1931 rifiuta di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista ed emigra prima in
Francia poi negli Stati Uniti. Nel 1945 torna in Italia, dove copre la cattedra di Storia dell’Arte
a Roma La Sapienza fino al 1955.
Dal momento che avrebbero dato luogo ad insegnamenti dai nomi distinti, vi sarebbe da
supporre una più o meno sostanziale diversità- in contenuti, nel metodo- tra le due
insegnamenti, come in effetti darebbe ad intendere il “Dizionario di arte” di Luigi Grassi e
Mario Pepe ([1995] 2003), che dedica loro (o alle discipline/istituzioni corrispondenti) due
voci distinte.

Letteratura artistica: conoscenza letteraria delle fonti, materiali, trattati, teorie, biografie e
criteri storiografici riguardanti gli artisti e le arti figurative in generale. La L. Artistica
comprende pertanto un vasto patrimonio letterario in cui gli scrittori d’arte non sono
necessariamente critici d’arte, ma anche anonimi od oscuri autori di guide (cioè l topografia
artistica), di poesie, o epigrammi sulla pittura, di bibliografia sulle fonti, ecc. questo ampio
concetto e significato della L. Artistica si distingue e si oppone a quello più circoscritto di
Storia della critica d’arte, quale è stato proposto nell’omonimo volume di L. Venturi (1948). Il
modello venturiano infatti intende impostare la trattazione nella dialettica tra il fatto
propriamente critico, e quello teoretico; per distinguere l’atto critico di uno scrittore d’arte, nei
confronti delle teorie, “poetiche”, estetiche o fonti di ordine letterario.
Storia della critica d’arte: esame critico della storiografia, e delle testimonianze dovute ad
artisti, dilettanti, teorici, conoscitori, poeti, letterati, ecc., concernenti le attribuzioni, i giudizi,
le vicende del gusto, intorno alle Arti figurative, e alle opere d’arte.
La S. Della critica d’arte sul piano della ricerca e della consultazione dei documenti, lettere
d’arte, biografie di artisti, concetti, termini, teorie estetiche, poetiche, ecc., si interessa al
campo stesso, più ampio, della Letteratura artistica, quale ravvisiamo nel fondamentale
modello offerto dal volume omonimo di J. Schlosser (1924/1964). Tuttavia, se ne distingue:
perché si propone di delimitare e definire storicamente, non soltanto il rapporto, o il
contrasto, tra le idee e le interpretazioni sulle opere e gli artisti dei singoli periodi, nella
situazione culturale e sociale cui essi appartengono, ma intende soprattutto individuare e
fissare l’originalità dell’atto critico, e della intuizione e comprensione, sovente in anticipo sui
tempi, da parte dei singoli scrittori d’arte, nei confronti degli artisti medesimi protagonisti dei
mutamenti del gusto.
Le voci sono distinte ma manifestamente correlate: sono infatti espliciti in entrambe i rimandi
alla disciplina sorella. Tuttavia, delle due discipline sembra predominare la SCA, forse in
quanto più connotata o specifica rispetto alla SLA. Benché concettualmente opposte,
entrambe le discipline si interesserebbero allo stesso “campo” di studio, agli stessi materiali;
ma una, la SCA, se ne occuperebbe in modo più “circoscritto” dell’altra.
Tale circoscrizione si rispecchia fosse in una serie di vocaboli i quali sono utilizzati per
caratterizzare la SCA ma che non vengono applicati anche alla SLA: attribuzioni, giudizi,
opere, conoscitori, concetti, idee, originalità, fatto/atto critico, (vicende del) gusto.
Mentre di specifico la SLA ha: (le arti figurative) in generale, trattati, criteri storiografici,
guide, poemi, epigrammi, bibliografia sulle fonti.
Cerchiamo di capire la ragione di tale specificità lessicale, confrontando tra loro i due volumi
eponimi, specie le parti introduttive, a cominciare dal volume di Schlosser.
Questo si divide in nove libri (preceduti da una premessa e da una introduzione), libri che
commentano scritti in prevalenza italiani, ma anche, sebbene in misura molto minore,
tedeschi, francesi, inglesi e spagnoli, e che spaziano dall’antichità classica fino al XVIII
secolo. Nella premessa lo stesso Schlosser precisa la natura delle fonti da lui raccolte e
commentate:
Il concetto stesso della scienza delle fonti ha bisogno di una limitazione: si intendono qui le
fonti scritte, secondarie, indirette; soprattutto quindi, nel senso storico, le testimonianze
letterarie, che si riferiscono in senso teoretico all’arte, secondo il lato storico, estetico o
tecnico, mentre le testimonianze per così dire impersonali, iscrizioni, documenti e inventarli,
riguardano altre discipline e possono qui essere materia soltanto di un’appendice.
Appendice che però non venne mai pubblicata.
I vari saggi compresi nel libro erano apparsi tra il 1914 e il 1920 sulla rivista
“Sitzungsberichte” dell’Accademia Viennese delle Scienze, col titolo Materialiper la scienza
delle fonti storico-artistiche. Inoltre, Schlosser aveva già curato: due raccolte di fonti,
apparse nelle “Fonti scritte per la storia dell’arte e la tecnica artistica del medioevo e
dell’epoca moderna”, collana inaugurata da Rudolf Von Eitelberger, titolare della prima
cattedra di Storia dell’arte presso l’Università di Vienna (1852) e da Albert Ilg, conservatore
del Kunsthistorisches Museum, nonché un’edizione dei Commentari di Lorenzo Ghiberti
[Ghiberti 1912].
Ma Die Kunstliteratur aveva origini ancora più lontane, nella formazione cioè di una propria
“biblioteca di storia e di teorie dell’arte, specialmente italiana, quasi completa e in ogni modo
notevolissima per un privato”. Attingendo alla quale Schlosser intendeva nel volume fornire
alla nascente disciplina storico-artistica una serie di strumenti, dal carattere filologico,
analoghi a quelli che si erano adoperati a raccogliere gli archeologi.
Come spiega Donata Levi nel suo Discorso sull’arte (2010), l’archeologia classica, disciplina
ormai istituzionalizzata, si era da tempo approntata gli strumenti che Schlosser nel 1924
intendeva fornire alla storia dell’arte. Al 1868 risalivano ad esempio, per l’arte greca, Die
antiken Schriftquellen di Johannes Adolf Overbeck, un corpus di passi desunti da testi
storici, filosofici, retorici, letterari dell’antichità contenenti informazioni su artisti e opere.
Sottolineando come il volume di Schlosser si distingua però da imprese come quella di
Overbeck: mentre Overbeck aveva suddiviso le testimonianze sulla base degli artisti,
ordinati cronologicamente, Schlosser fa opera critica ed ermeneutica, puntando alla
“dimostrazione dell’intrinseco valore storico dei suoi materiali”.
La citazione sul valore storico delle fonti raccolte è tratta dalla Premessa di Schlosser: la
scienza delle fonti deve anzitutto esplorare il materiale effettivamente esistente, e
trasmetterlo descrivendolo almeno bibliograficamente. Essa sale su un gradino più elevato
on l’elaborazione critica di questa materia prima, che deve naturalmente essere adattata ai
singoli periodi. Finalmente si innalza al rango di una disciplina storica indipendente, al pari
delle altre “scienze ausiliarie”,- per usare una volta tanto quest’espressione inesatta,- con la
dimostrazione dell’intrinseco valore storico di questo materiale, considerato con spirito
filosofico, trasformandosi quindi necessariamente, nel passare ai tempi più recenti, in una
storia della nostra disciplina.
Nella dedica all’amico filologo Karl Vossler, Schlosser esprime la propria insoddisfazione per
il volume quale esito delle sue ricerche, ascrivendole limiti e difetti ad un proprio
cambiamento di vedute, dovuto al crescente influsso su di lui del pensiero filosofico di
Benedetto Croce, motivo per i quale ciò che era iniziato come “manuale di scienza delle
fonti” ed era finito come un duplice aspetto attraverso gli accenni qua e là sensibili a
qualcosa di fondamentale diverso che pure poggia sulla stessa base e che mi preoccupa
sempre più, a una teoria cioè e a una storia della storiografia artistica…
Tanto è vero che l’opinione diffusa (e in parte giustificata) secondo la quale il volume
costituisce una sorta di “bibliografia ragionata” (com la chiama Venturi- idea che si
rispecchia anche nella voce Grassi-Pepe (“Bibliografia delle fonti”)- è in parte smentita da
passi come quelli in cui Schlosser insiste che da un punto vista storico e teorico si apriva un
“abisso profondo fra la concezione medievale e quella moderna del mondo e dell’arte”
oppure che “l’intellettualismo dominante, l’accentuata attività delle menti, la ricerca delle basi
scientifiche, cominciata nel Quattrocento italiano e volta ad inserire le arti figurative nella
classe delle antiche “arti liberali”, tutto dimostra che non era ancora affatto superato l’antico
concetto dell’arte, quale ci è rimasto in qualche locuzione usuale (“arte culinaria” e simili)”.
E più equa risulta la caratterizzazione del volume suggerita da Donata Levi:
Sistematica ed esaustiva ricognizione degli scritti sull’arte della tarda antichità al
Settecento… lavoro di raccolta monumentale, preceduto da una breve, ma densa
introduzione che traccia le linee di sviluppo della letteratura artistica nel periodo preso in
esame.
Introduzione che spiega altra peculiarità della definizione della SLA di Grassi e Pepe, la
quale presenta, tra i vocaboli specifici di essa, più nomi di generi testuali: trattati, guide,
generi, epigrammi. Indizio infatti della “sistematicità” della ricognizione di Schlosser è
l’accento che pone nell’interruzione (sottotitolato inizio della letteratura artistica occidentale)
sui vari generi o classi testuali di appartenenza degli scritti intorno all’arte più antichi che ci
sono pervenuti, generi dalla vita duratura che pertanto serviranno allo studioso nello
strutturare le varie fasi cronologiche della sua trattazione.
Generi che sono:
Il Trattato: quella letteratura “fiorita negli ambienti artistici”, di argomento tecnico, di cui
l’unico esempio che si è conservato è il trattato di Maro Vitruvio Pollione (80 a.C. Circa) De
Architectura.
La Biografia d’Artista: tipologia di scritto che deriva “da ambienti profani, dal pubblico degli
autori e degli osservatori”, di cui gli unici esempi giunti a noi si trovano all’interno della
Naturalis historia, opera enciclopedica, in 37 libri, di Gaius Plinius Secundu, dett Plinio il
Vecchio (23/24-79), di cui i libri XXXIII-XXXVII si occupano dei metalli, delle pietre e delle
terre e del loro utilizzo nella medicina, nell’arte e nell’architettura.
Un genere di carattere topografico, detta Periegetica (dal nome greco che indica quella
persona incaricata d accompagnare i forestieri nella visita di templi e monumenti), di cui è
rimasta un’unica opera completa, un libro in dieci libri di Pausania, dal titolo variamente
tradotto: Viaggio in Grecia / Guida alla Grecia / Descrizione della Grecia / Geografia.
L’Ekphrasis: descritto da Schlosser quale genere “del tutto soggettivo, che appartiene
all’ambiente dei poeti, dei retori e dei giornalisti, e che si serve dell’opera d’arte soprattutto
come stimolo e pretesto a far mostra di brio, di arguzia e di umorismo”, ma che “ha frequenti
occasioni ala critica stilistica, particolarmente in un fine conoscitore come Luciano”.
E infine gli Epigrammi: (“fiore squisito dello spirito greco”), conservati ad esempio nella
cosiddetta Antologia Palatina, compilata a Costantinopoli intorno alla metà del X secolo, il
cui manoscritto, diviso tra Heidelberg e Parigi, sarebbe la copia ampliata di un antologia di
poco precedente, ma perduta.

LEZIONE 2
DOMANDE PRELIMINARI (2)
LEZIONE 2
DOMANDE PRELIMINARI (2)
Passiamo ora a considerare il volume cui risale la denominazione disciplinare di SCA,
l’omonima Storia della critica d’arte di Lionello Venturi. Ma prima di procedere, sarebbe da
notare che, non meno della “Kunstliteratur” di Schlosser, anche la Storia di Venturi
rappresenta l’esito finale di ricerche avviate in anni anche molto precedenti: si vedano
Venturi 1917, 1922, 1925, 19941, ed in particolare il libro “Il gusto dei primitivi” ([1926]1972),
in cui, come ricorda lo stesso Venturi nella SCA, aveva già “tentato di scrivere una storia
della critica d’arte da Platone a Ruskin, limitandola a un solo problema, quello del giudizio di
valore agli artisti primitivi” (col termine “primitivi” si intende coloro che sono venuti prima di
Giotto e Raffaello per quanto riguarda l’arte della pittura, perciò nel Medioevo). Ruskin era
uno storico dell’arte inglese che agì nell’interesse della scoperta e l’identificazione dei
“primitivi”. Occorre innanzitutto correggere l’impressione che si potrebbe trarre dalla voce
sulla SCA in Grassi-Pepe 2003 che il volume di Venturi fosse più limitato per estensione
cronologica rispetto a quello di Schlosser. In realtà, da questo punto di vista La storia della
critica d’arte risulta più ampio della monumentale Kunstliteratur: spazia infatti dall’antichità
classica fino al Novecento, arrivando a trattare persino il pensiero architettonico di Frank
Lloyd Wright, che sarebbe morto nel 1959.
Ma quali sono i materiali trattati da Venturi? Quali i criteri di scelta e di commento adottati?
Ed in che modo essi giustificherebbero l’adozione in Grassi-Pepe 2003, nel riguardo
specifico della SCA, dei termini precedentemente elencati (e che per comodità si riportano di
nuovo qui sotto)?. Ma cosa intende Venturi per “giudizio”, termine variamente qualificato nel
corso del volume aule “artistico”, “critico”, “estetico”? Essenzialmente un giudizio sulle opere
d’arte o sugli artisti in quanto tali (ossia, come produttori di opere d’arte). Infatti, secondo
l’autore condizione necessaria di critica sarebbe “l’esperienza intuitiva delle opere d’arte”, in
particolare di quelle d’arte contemporanea: “questo ritorno continuo all’origine, all’impulso
intuitivo, al contatto con l’opera d’arte, al contatto di uomo a uomo, di spirito a spirito”. Dalle
espressioni “esperienza intuitiva” ed “impulso intuitivo” trasparenza il fatto che da un punto di
vista teorico anche il volume di Venturi, come quello di Schlosser, ma ancor di più e in
maniera più esplicita, si appoggia alla filosofia di Benedetto Croce, che nell’Estetica (1908)
aveva definito l’arte quale manifestazione primaria della conoscenza “intuitiva”, che in quanto
“conoscenza delle cose nella loro concretezza e individualità” viene distinta dalla
“intellettuale”.
Secondo Croce la conoscenza intuitiva sarebbe appunto conoscenza anche in quanto la
stessa intuizione si distinguerebbe dalla semplice sensazione, che sarebbe il motivo per cui:
Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in

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un’espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione o naturalità. Lo spirito
non intuisce se non facendo, formando, esprimendo… l’attività intuitiva tanto intuisce quanto
esprime.
La dottrina crociana dell’arte quale intuizione o speciale forma di attività espressiva dello
spirito umano si rispecchia in modo evidente nel seguente passo, tratto dall’Introduzione alla
Storia, in cui Venturi analizza da un punto di vista teorico il processo di creazione artistica.
“Un pittore vede un albero e vuole dipingerlo. Egli non s’interessa ai dati scientifici che
classificano la specie o l’età dell’albero. Ciò che egli vede è l’apparenza dell’albero, per
esempio la massa scura del fogliame contro la chiarità del cielo. Quella massa suscita
nell’artista un affetto per l’albero come se si trattasse di un essere umano; egli sente che
quell’albero è forte o debole, tranquillo o tormentato, lussureggiante o miserevole. Quel che
noi supponiamo essere la realtà oggettiva della natura è l’albero per sé, ma quel che
conosciamo è la sua realtà soggettiva, che chiamiamo il carattere dell’albero- in altre parole,
ciò che il pittore ha veduto e sentito. E in questa realtà soggettiva che l’immaginazione
lavora per rendere chiara, per realizzarne l’immagine.
O in altri termini per realizzarne la forma, “forma essendo l’ordine mentale assegnato
all’esperienza sensoria e alla vita dei sentimenti”.
Così per Venturi il compito del critico sarebbe quello di “ricostruire” il lavoro creativo
dell’artista, attraverso la ricognizione analitica degli elementi formali- Venturi li chiama
“schemi e simboli”- messi all’opera dall’artista, il ritiro arriva a “sentire”, a sperimentare nella
propria immaginazione “quell’insieme… quel carattere di sintesi, che è proprio della
creazione”- o, per. Dirlo con Croce, quella “fisionomia individuale” che è proprio “ciò che
s’intuisce in un’opera d’arte”.
Ma per Venturi il giudizio critico/ artistico/ dell’arte in che cosa consiste esattamente? Non è
facile risponderne a tale domanda: egli non premia il significato del concetto in maniera
univoca. In sostanza, però, si tratterebbe di una forma di giudizio di valore volta a
riconoscere l’opera d’arte come tale, di approvarla (o disapprovarla) alla luce dell’ dea
dell’arte di cui risultasse (o non risultasse) manifestazione. Dichiara intanto Venturi:
schematicamente si può rappresentare il giudizio artistico come la coincidenza del concetto
universale di arte e dell’intuizione della singola opera d’arte, e indica come il senso di tale
“coincidenza” si tradurrebbe nella “affermazione: questo quadro è un’opera d’arte; o [nella]
relativa negazione: questo quadro non è un’opera d’arte”. È un passo che richiama e in
parte ricalca uno del Breviario di estetica di Croce in cui il filosofo sostiene che la
“riproduzione dell’immagine-espressione dell’opera non sia ancora “critica”, la quale sarebbe
un fatto non solo di intuizione ma anche di pensiero, di conoscenza non intuitiva ma
intellettuale, operante per mezzo di concetti, nella fattispecie il concetto di arte, ed
esternantesi in affermazioni il cui senso ultimo si risolverebbe nella proposizione
esistenziale”. C’è un’opera d’arte a, con la corrispondente negativa: non c’è un’opera d’arte
a.
Per Venturi il giudizio critico/artistico/estetico/dell’arte sarebbe quindi un giudizio sulle opere
oppure sugli artisti che li validasse (riconoscesse, approvasse) quali appunto opere d’arte o
artisti, secondo una determinata idea dell’arte e della sua ”autonomia” o indipendenza “dalla
scienza, come dall’utile e dal morale”. E la storia della critica d’arte sarebbe perito la storia
plurisecolare della “esperienza formatrice del giudizio artistico”- la storia di quello sporadico,
protratto venire alla coscienza umana del concetto di arte quale creazione autonoma.
Sarebbe il racconto di un processo mediato dall’esperienza diretta e consapevole delle
singole opere quali testimonianze di determinati orientamenti artistici. L’atto critico-
giudicatore- è infatti componente necessaria perché la storia dell’arte risulti tale, ossia una

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narrazione di fatti coordinati da un “nesso ideale”, costituito proprio dalla “coscienza della
natura dell’arte”.
In tal modo la SCA si identificherebbe cn la storia dell’arte stessa, come ancora una volta
aveva teorizzato Croce. Idealmente storia e critica si fonderebbero in una “storia critica
dell’arte”: storia e critica convergono dunque verso quella comprensione dell’opera d’arte,
che non ha luogo senza la conoscenza delle condizioni del suo sorgere, e che non è
comprensione se non è giudizio. Il giudizio è il punto d’arrivo della storia critica dell’arte…nel
giudizio si realizza il pensiero concreto sull’arte. E (per dar conto infine dell’utilizzo nella
voce sulla SCA in Grassi-Pepe 2003 del termine Gusto) tale pensiero concreto sull’arte si
realizza per Venturi proprio in quanto il giudizio segnala la distinzione tra arte e quello che
Venturi denomina appunto Gusto:
Una distinzione fra le sintesi dell’opera d’arte (creatività) e gli elementi costruttivi dell’opera,
che possono essere dissociati dall’opera, che possono trovarsi in più opere [specie dello
stesso periodo o ambiente] e che non s’identificano con l’arte stessa. Quegli elementi sono
di varia natura, dalla tecnica all’ideale, ma hanno un comune carattere di forte alla sintesi,
alla creazione dell’opera d’arte. Quel comune carattere fu molti anni fa (Venturi) da me
chiamato Gusto.

LEZIONE 3
DOMANDE PRELIMINARI (3)
Le definizioni della SCA come disciplina non si esauriscono naturalmente con quella
fondante di Venturi, né le discipline o aree di studio affini alla SCA ma distinte da essa si
esauriscono con la SLA schlosseriana. Nell’Introduzione programmatica ad un suo manuale
ad uso di studenti universitari iscritti ad un corso di laurea in Storia dell’Arte che prendesse
un insegnamento di SCA e/o di SLA, Donata Levi spiega come la scelta del titolo Il discorso
sull’arte tradisca la difficoltà di individuare con una dizione più concisa un ambito di studi che
in anni recenti è diventato sempre più difficile da delimitare e da mettere a fuoco.
Osserva inoltre Donata Levi che, sebbene il “titolo della disciplina nelle nostre università”
continui “a essere, tranne alcune più fantasiose eccezioni, Storia della critica d’arte o, in
netta minoranza, Letteratura artistica, a seconda che in passato si fossero adottati, più o
meno consapevolmente, come modelli Lionello Venturi o Julius Schlosser”, alla stabilità
istituzionale della denominazione fa riscontro invece una significativa varietà terminologica
nei modi con cui la disciplina è stata vi via definita nel dibattito specifico.
Varietà che, oltre alle canoniche SCA e SLA, comprenderebbe: la “critica d’arte” delle
Proposte per una critica d’arte di Roberto Longhi (1950). Dicitura con la quale Longhi si
oppone all’impostazione teorico-filosofica della SCA di Venturi, proponendo piuttosto “una
storia di evasioni, riuscite o no, dalle chiuse dottrinali”, a favore di una concezione della
critica quale “illuminazione acerrima, terebrante (significato: penetra fino ad arrivare alla
definizione)” di un’opera.
La “storiografia” cui accenna il titolo del contributo di Paola Barocchi sulla Storia dell’arte
einaudiana.
La “storia della storia dell’arte”: titolo di una storia della disciplina universitaria dello storico
dell’arte tedesco Heinrich Dilly (1979), dicitura in varie forme ripresa da altri autori: da
Donald Preziosi nell’antologia The Art of Art History (1998); da Rolan Recht et al (2008); da
Orietta Rossi Pinelli (2014); da Michela Pasini (2017); da Christopher Wood (2019).

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La “artwriting” del filosofo dell’arte americano David Carrier (1987): espressione già
riscontrata (ma come due parole distinte) negli scritti di Walter Friedlaender (1955) e Michael
Fried (1970), che per Carrier è comprensiva di testi da un lato di critici d’arte e dall’altro di
storici dell’arte.
La “histoire critique de l’art” di un gruppo di ricerca francese, che ricalca in maniera esplicita
la “storia critica dell’arte” venturiana.
Oltre a tali varianti terminologiche vanno segnalate alcune significative definizioni alternative
della critica d’arte e della sua storia, come quella proposta dallo storico e storico dell’arte
tedesco Albert Dresdner (1866-1934) nella Nascita della critica d’arte nel contesto della
storia della vita artistica europea (1915). Unico volume realizzato di un più ampio progetto di
storia e teoria della critica d’arte, dove in via preliminare Dresdner avanza una definizione
comparativa della critica d’arte e delle discipline sorelle, la storia e la teoria dell’arte. Così
per Dresdner, sebbene lo storico dell’arte e il critico d’arte si occupano tutti e due della
creazione artistica, lo farebbero da punti di vista distinti: “il primo si occupa del già divenuto,
il secondo di ciò che è in procinto di divenire”. La produzione artistica entra nella sfera
d’indagine dello storico dell’arte soltanto dopo un intervallo minimo di tempo, nel corso del
quale il suo legame cin il passato e l suo ordine interno cominciano a diventargli
comprensibili… il critico (invece) si occupa esclusivamente di arte contemporanea. Il nuovo,
spesso stranamente incomprensibile, entra nel suo laboratorio ancora caldo, per così dire,
dalla mano del suo creatore e lo opprime con la sua tremenda, enigmatica presenza, egli si
confronta direttamente con le opere d’arte e si circonda di esse…
Inoltre la critica d’arte non si esaurisce nel riconoscere e nel valutare la creazione artistica
contemporanea, ma mira anche ad esercitare un influsso sullo sviluppo artistico.
Mentre del rapporto tra critica e teoria dell’arte Dresdner osserva: la critica d’arte e la teoria
dell’arte spesso si toccano e si compenetrano così intimamente che sembrano quasi
coincidere. Ogni critica d’arte degna del nome è di per sé un documento di teoria dell’arte…
La critica d’arte senza la teoria dell’arte è impensabile. Una critica d’arte che non facesse
uso della teoria dell’arte non sarebbe praticabile perché, per usare un paragone dalla
tecnica della pittura, mancherebbe il legante.
Per quanto riguarda invece la SCA, per Dresdner essa sarebbe essenzialmente la storia del
concretarsi nel corso del tempo e nel contesto europeo di un apposito “genere letterario”:
Nella sua forma più generale, il giudizio sull’arte è probabilmente vecchio quanto la
creazione dell’arte stessa. Originariamente un’espressione puramente reattiva del
sentimento di piacere o dispiacere suscitato dal l’opera d’arte, si oggettiva in una fase
successiva dello sviluppo intellettuale in un giudizi di valore estetico… cambia il suo stato di
aggregazione, se è permesso esprimersi così… il giudizio dell’arte si è organizzato sula
base di certe condizioni storiche in un certo momento storico (dando luogo a) una propria
rappresentazione e forma letteraria.
Ne consegue la definizione:
Per critica d’arte nel senso di questo libro intendo quel genere letterario indipendente che ha
come oggetto d’indagine, di valutazione e d’influsso l’arte contemporanea.
Del 2009 invece è il libro On Criticism del filosofo e critico cinematografico americano Noël
Carroll (1947-), che è dedicato alla critica in generale, definita dall’autore nei seguenti
termini:
Sostengo che la valutazione costituisca l’essenza stessa della critica, specie in riferimento
alla categoria o al genere artistico di cui l’opera in questione rappresenta un esempio… per
me, il critico è una persona che si occupa a valutare le opere d’arte in maniera ragionata.

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Può essere un accademico, un giornalista o qualche altro tipo di scrittore d’arte - purché
s’impegni a supportare le proprie valutazioni con delle ragioni…
E ancora:
A mio avviso la componente principale della critica è l’operazione valutativa. Le altre attività
del critico - comprese la descrizione, la contestualizzazione, la classificazione,
l’elucidazione, l’interpretazione e l’analisi - sono gerarchicamente subordinate ale finalità
valutative. Delle varie parti della critica la valutazione è prima tra i pari. In genere le altre
attività comprese nella critica sono funzionali all’articolazione di quelle ragioni su cui si basa
una sana critica.
E infine, nel 2018 lo scrittore, storico dell’arte e critico letterario francese Gérard-Georges
Lemaire (1948-) pubblicò una sua Historie de la critique d’art, focalizzato in prevalenza sulla
tradizione francese del Sette- e Ottocento. Libro che sin dal titolo si presenta quale
“hommage à Lionello Venturi”, ma che, pur pretendendo di rivedere “toute la question… de
fond en comble”, non solo non supera i limiti cronologici della SCA, ma è privo di una pur
minima definizione di critica d’arte.
Al posto di definizioni di critica d?arte si trovano accenni generici: alla sua importanza ed ai
suoi labili e mutevoli confini; alla coesistenza di numerosi tipi di critico, molto diversi tra loro;
all’assenza nell’antichità classica della critica “au sens où nous l’entendons; ad un momento
storico - intorno alla metà del Settecento (francese) - decisivo per il suo sviluppo, in cui “la
circulation des œuvres d’art reposait sur une relation triangulaire: l’artiste, le collectionneur
et le critique”; alla sempre più complessa compagine del mondo dell’arte nei secoli
successivi, portando alla perdita di prestigio e di potere culturale del critico nel mondo
odierno.
Mentre il programma storiografico che si prefigge Lemaine viene riassunto cosi: capire come
è nato un discorso sull’arte che è stato definito discorso “critico”; esaminare come questa
critica ha potuto imporsi come un genere letterario a sé stante, come ha potuto svilupparsi
ma anche diversificarsi, nel bene e nel male, e come ha raggiunto il suo apice nel XIX
secolo.
La circolazione delle opere d’arte si basava su un rapporto a tre lati: quello tra l’artista, il
collezionista e il “critico”…
Se Lemaire evita di fornire una propria definizione di critica d’arte, lo storico e critico d’arte
americano James Elkins (1955-) ha voluto sottolineare la difficoltà, forse insuperabile,
dell’impresa.
Lo vediamo nella voce Art Criticism redatta da Elkins per la prestigiosa Grove Dictionary of
Art, che apre (in una versione rifiutata dall’editore e messa in rete da Elkins):
La critica d’arte può essere definita in maniera provvisoria quale forma di scrittura che valuta
l’arte. Tuttavia, non ne esiste definizione formale, né vi è intesa quale prassi storica che
abbraccia scrittori che vanno da Plinio o da Vasari ad oggi; dall’altro, è considerata un modo
di scrivere potenzialmente indipendente dalle condizioni storiche. Non esiste alcuna storia o
filosofa della critica d’arte di cui possa fare affidamento, né, quasi, letteratura relativa al suo
concetto o alla sua natura. Alcuni filosofi negano che la critica d’arte esista in quanto tale;
altri che sussuma la storia dell’arte- così che tutto il presente Dizionario sarebbe un esempio
di critica artistica. Data questa disparità, sarebbe meglio non presupporre che la critica d’arte
goda di un significato consensuale e piuttosto prendere sul serio le definizioni alterne.

Perfino la definizione “provvisoria” da cui Elkins parte risulta problematica: come egli stesso
giustamente osserva, una presunta funzione valutativa non costituisce una base adeguata
per distinguere la critica da una storia dell’arte concepita per contrasto quale “descrittiva”

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oppure “informativa”, né la critica d’arte sarebbe caratterizzabile in modo esclusivo
dall’intento valutativo (come riconosce anche Carroll). Come afferma sempre lo stesso
Elkins, la si potrebbe anche intendere (ancora una volta venturianamente, anzi
crocianamente) quale rievocazione immaginativa della creazione o della percezione, senza
alcuna relazione determinata con la valutazione. E ancora, volendo considerare la critica
d’arte quale “historical practice”, in che modo andrebbe fatto?
Come raccolta di testi e brani senza alcun riferimento ad un qualche forte principio
organizzativo. Oppure solo in riferimento a tempi e luoghi in cui il termine “critica d’arte” o
affini erano in uso presso gli stessi scrittori? Sarebbe lecito usare l’espressione anche in
riferimento ad epoche più remote e a testi appartenenti ad altre culture, testi classificabili
come “art criticism” soltanto quale “discorso sull’arte” in senso rudimentale, piuttosto che per
una più coerente corrispondenza con l’estetica e con la critica occidentale?.
Risponde concludendo (non del tutto negativamente) Elkins:
Non esiste teoria della critica d’arte che non sia contro intuitiva, anacronistica, etnocentrica,
artificiosa o ingenua. Il termine è così diffuso da risultare quasi privo di significato, e
guadagna coerenza soltanto nella misura in cui li autori riconoscano gli influssi disparati
esercitati da definizioni contrastanti ed indichino i punti in cui tali definizioni si trovano in
armonia oppure in conflitto l’una con l’altra.
Ribatte però Donata Levi (che ne discute nella sua Introduzione):
Ribaltando i termini - e soprattutto sfuggendo a queste gabbie - dispersione e molteplicità
possono però assumere anche un valore positivo e proprio il mero - elementare - discorso
sull’arte che Elkins liquida come una forma solo rudimentale di art criticism, può riprendere,
in virtù della sua elasticità e indeterminatezza, un ruolo importante se non si vuol imporre un
ordine schematico, ma dar ragione di una gamma varia, ricca, suggestiva di testimonianze
verbali. Naturalmente questo implica uno sforzo di puntuale e precisa contestualizzazione
filologica delle singole testimonianze.
E conclude a sua volta:
Che cosa significa dunque quella che - solo per comodità - chiameremo la “storia della
critica d’arte”, quale ambito di studi si individua con questo nome? Si potrebbe rispondere in
maniera approssimativa: si tratta del discorso che riguarda quella produzione materiale che
di tempo in tempo, per certi suoi sempre mutevoli caratteri, è stata considerata di qualità e di
fruizione intrinsecamente differenti da quelle di altri manufatti. È il discorso che si articola
intorno a questi oggetti, l loro statuto, alle loro classificazioni e alle loro vicende - anche, anzi
soprattutto, quelle concrete, come i restauri, le musealizzazioni ecc.-, agli artisti e alla loro
attività, alle istituzioni artistiche, quali le accademie, il mercato, i musei. Si tratta dunque di
indagare i modi in cui questo discorso si è venuto articolando, attraverso quali canali e con
quali modalità e, infine, come si è guadagnato un qualche, seppur labile, statuto disciplinare.

LEZIONE 4
LA CRITICA D’ARTE COME DISCORSO
Nell’ultima lezione abbiamo visto come Donata Levi sia stata portata a caratterizzare ciò he
persiste nel considerare un’unica (per quanto multiforme) disciplina - un unico “ambito di
studi” - con il nome de “il discorso sull’arte”. Per i problemi inerenti alla definizione della
critica d’arte sollevati (ad esempio) da James Elkins. Altrimenti per la proliferazione di una
terminologia alternativa alla denominazione canonica di SCA. Per la “limitazione” al concetto
di Quellenkunde imposta da Julius Schlosser nella LA. O per altre ragioni ancora.

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“Il discorso sull’arte”, secondo la studiosa, sarebbe denominazione atta a comprendere e dar
conto di un campo “già di sé vasto” ma “ulteriormente complicato dalla più che varia natura
delle fonti”: anche se si considerano - in età moderna - solo i generi tradizionali in cui si è
articolato il discorso, colpisce una gamma estremamente vasta che va dalla trattatistica, sia
tecnica sia teorica, alla biografia, dall’epistolografia alla periegetica, dalla storiografia alla
critica militante, dalla produzione scientifica alle testimonianze letterarie, fino a documenti
come i contratti, gli inventari, i cataloghi di collezioni, di esposizione e di vendita.
A dire il vero, però, oltre che alla “elasticità ed indeterminatezza” - alla comprensività pura e
semplice - del termine “discorso” ci sarebbero altri motivi, non esplicitamente riconosciuti da
Donata Levi, per cui definirla in tal modo potrebbe effettivamente contribuire a “dar ragione”
di quella “gamma varia, ricca, suggestiva di testimonianze verbali” intorno all’arte di cui la
disciplina sarebbe chiamata ad occuparsi.
Proprio in quanto, se inteso in senso prettamente linguistico, il concetto di discorso non solo
permette di raccogliere idealmente entro un’unica ma generica categoria quello sconfinato,
eterogeneo patrimonio di fonti, ma ne indica il principio di unità essenziale, quello Strong
organizing principle di cui Elkiins denuncia l’assenza nell’accezione comune del concetto di
critica d’arte. Ma di quale principio si tratterebbe? La domanda implica un’altra: cosa si
intende per discorso?
Il sostantivo “discorso” deriva dal verbo “discorrere”, composto dal verbo “correre” e il
prefisso dis-.
Prefisso verbale e nominale che in molti vocaboli derivati dal latino o formati modernamente
indica separazione (per es. disgiungere), dispersione (per es. discutere, che propr. Significa
“scuotere in diverse parti”), e più spesso rovescia il senso buono o positivo della parola a cui
prefigge (per es., onore - disonore; simile - dissimile; piacere - dispiacere).
Di conseguenza, le accezioni più antiche e letterarie del verbo tradiscono un nesso
semantico con il verbo correre nella sua accezione letterale, più un elemento di spostamento
progressivo, di passaggio da una cosa ad un’altra. Questo particolare storico-etimologico
getta una luce significativa sulle accezioni più comuni del verbo:
Parlare ragionatamente su qualche argomento, svolgendo una serie d’idee (ma in modo
piano e pacato, non con la solennità dell’oratore)…
Più spesso, conversare insieme con altri, sia di argomenti seri e con una certa gravità…
E del sostantivo:
L’atto del discorrere, dell’esprimere il pensiero per mezzo della parola…
L’argomento su cui si discorre…
Colloquio, conversazione….
Trattazione ordinata e diffusa intorno a qualche preciso argomento (di solito pronunciata in
pubblico, ma che può anche essere soltanto scritta)…
In altri termini un discorso è innanzitutto una sorta di percorso, un atto o evento
comunicativo che comporta essenzialmente la partecipazione interattiva di almeno due
parlanti e che si svolge “ragionatamente” intorno ad un determinato argomento o complesso
di argomenti, passando dall’uno all’altro in maniera “ordinata e diffusa”.
Un discorso quindi è un percorso allo stesso tempo comunicativo e conoscitivo, in quanto il
“pensiero”, le “idee” che in esso si svolgono costituiscono tanti tentativi di rappresentare “per
mezzo della parola”, l’argomento, l’oggetto, il tema intorno al qual si discorre, percorso del
quale ogni testo in quanto tale conserva la traccia:
(Un testo è un’unità di linguaggio in uso. Non è un’unità grammaticale, come una
proposizione o una frase, e non è definito dalle sue dimensioni… un testo non è qualcosa di

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simile ad una frase, ma più grande, è qualcosa la cui stessa natura differisce da quella di
una frase.)
Un testo infatti è l’esito unitario, elaborato in progressione, di un processo connotato di
coerenza semantica e pragmatica, è un insieme coordinato di frasi o (per accentuare ancora
una volta l’aspetto attivo ed evenziale della comunicazione verbale) enunciati, ognuno dei
quali (ma in vario modo) realizza la rappresentazione verbale di un dato oggetto.
Si tratta di atti linguistici volti a rappresentare in un determinato modo un determinato
oggetto o insieme di oggetti (che nel nostro caso specifico potrebbe essere un’opera
d’arte/l’opera di un artista/di una scuola/di un periodo/una collezione di opere).
Tali atti rappresentativi costituiscono il germe funzionale o principio generativo di un testo.
La rappresentazione verbale di un oggetto si espleta tramite le predicazione: il porre in
relazione tra loro due elementi, detti soggetto e predicato (da non confondere con il soggetto
e il predicato grammaticali). Il soggetto della predicazione è l’ente al quale essa si riferisce,
quell’ente (animato o inanimato, materiale o astratto) al quale il parlarne intende “attribuire
qualcosa”, come spiegò Aristotele. L’affermazione è un’enunciazione che attribuisce
qualcosa a qualcosa, la negazione un’enunciazione che sottrae qualcosa da qualcosa.
Pensare la critica d’arte come “discorso”, ma in senso più prettamente linguistico rispetto al
modo in cui intende il concetto Donata Levi, ci permetterà di recuperare e rivedere l’accento
posto sui generi testuali da Schlosser, nonché la centralità del giudizio cui tanto insiste
Venturi. Checché ne dica, infatti, Venturi non si occupa di giudizi concreti, elementi di un
discorso specifico, quanto di “criteri”, “norme” o “principi” di giudizio.
Manca poi a Schlosser una consapevolezza del genere testuale non tanto come categoria
storica (o trans-storica), quanto tipologia di evento comunicativo, come lo definisce il
linguista inglese John Swales:
“Un genere comprende una classe di eventi comunicativi, i cui membri condividono una
serie di scopi comunicativi. Questi scopi sono riconosciuti dai membri esperti della comunità
discorsiva di origine, e quindi costituiscono la logica del genere. Questa logica modella la
struttura schematica del discorso e influenza e condiziona la scelta del contenuto e dello
stile… oltre allo scopo, gli esemplari di un genere manifestano vari forme di affinità tra loro,
in termini di struttura, stile, contenuto e di pubblico previsto”.
Di fatto, né Schlosser, né Venturi si occupano di testi come tali, ma è di testi che la storia
della critica d’arte si dovrebbe occupare— testi (per motivi storici) prevalentemente scritti,
ma anche orali— e non, se non marginalmente, di “riflessi pratici” più o meno muti, come
invece insistette, in maniera paradossale, lo straordinario scrittore d’arte Roberto Longhi:
“Recentemente, per colmare l’assenza italiana della buona critica accanto
all’impressionismo, proponevo, senz’ombra d’ironia, di rammentare almeno il gesto della
signora Giulia Ramelli che nel 1865, ancora durando il coro d’insulti all’Olympia di Manet, ne
chiedeva per lettera il prezzo al pittore…
Pensare la critica d’arte come discorso incentrato nella predicazione ci permetterà inoltre di
recuperare anche le “operazioni” extra-valutative non solo di Carroll ma anche di Pierre-
Henry Frangne e Jean-Marc Poinsot:
“La critica d’arte… è un intrico di quattro operazioni principali che generano la sua
complessità ma che costituiscono anche la sua specificità e il suo interesse. Queste quattro
operazioni sono quelle della descrizione (poiché il critico deve dare conto di un incontro
sensibile e particolare), della valutazione (poiché il critico giudica o apprezza la qualità, il
successo o il fallimento dell’opera), della interpretazione (poiché il critico fa emergere un
contenuto o un significato), dell’espressione (poiché il critico esprime le proprie scelte, le
proprie concezioni, i propri gusti, i propri sentimenti). In quel discorso necessariamente

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plurale che è il discorso del critico d’arte, nessuna delle sue operazioni può esistere in
maniera pura o isolata. È la valutazione, tuttavia, penetrando le altre tre funzioni o viceversa,
che assicura la loro comunicazione e dà il centro di gravità mobile della critica d’arte: “È il
giudizio sull’artista o l’opera d’arte, che deve stare al centro della nostra trattazione” scrive
Venturi.
Oltre al valore quindi quali sono le altre “cose” che si possono attribuire ad una cosa tramite
un enunciato?
In sostanza si tratta di modi diversi di essere o di agire, che possono essere di due tipi:
costitutivi dell’ente di riferimento, considerato nei suoi aspetti permanenti; contingenti e
momentanei.
Le predicazioni pertanto si possono distinguere in: predicazioni di stato permanente o
costitutivo, oppure non-permanente o contingente; predicazioni di azione tipica o costitutiva,
oppure contingente.
Mettendo quindi a confronto quei casi in cui il soggetto è, da un lato, un individuo connotato
da caratteristiche permanenti e, dall’altro, protagonista o partecipante di un qualche evento,
possiamo distinguere i seguenti cinque tipi di predicazione:
Di stato permanente o costitutivo (New York City I è un quadro di Piet Mondrian del 1941).
Di stato non-permanente, contingente (A Düsseldorf il quadro è appeso al contrario).
Di azione tipica, abituale o costitutiva (Francesco Visalli studia la pittura di Mondrian).
Di azione contingente o occasionale (Francesco Visalli contattò il museo di Düsseldorf).
Di evento [avvenimento non intenzionale] (il quadro di Mondrian muta aspetto).
La scelta da parte del parlante tra queste varie forme di predicazione dipenderà in parte
dalla natura dell’ente cui si riferisce e in parte dalle finalità comunicative del discorso, in un
brano di testo che coordina più enunciati la natura degli enti di riferimento, correlati tra loro,
determina la scelta non solo dei tipi di predicazione ma anche delle modalità di
coordinamento degli enunciati, dando luogo a diverse tipologie di testo basilari,
caratterizzate da diverse forme di organizzazione progressiva, di cui si possono distinguere
tre:
Una tipologia narrativa, dalla progressione temporale, (con)sequenziale.
Una tipologia istruzionale, dalla progressione insieme (con)sequenziale e finale.
Una tipologia individuativa, dalla progressione spaziale o logica.
Qual è la relazione tra tipologie e generi testuali?
La corrispondenza tra tipologia e genere non è univoca, per il motivo che raramente i testi
sono esemplificativi di una sola tipologia, ma piuttosto sono amalgami di tipologie diverse.
Tra le altre cose è infatti la tempra particolare di un dato amalgama tipologico che
caratterizza un determinato genere testuale.
La critica d’arte, come la si intenderà in questo corso, non è in sé né una tipologia, né un
genere testuale; si associa anzi ad una famiglia di generi. È una componete tipologica—
individuativa—di un qualche testo o genere riferito alla produzione artistica. Considereremo
ora i vari modi in cui il parlante può individuare un ente—conferire ad esso il carattere che lo
rende individuale—tramite una predicazione di tipo costitutivo.

LEZIONE 5
LA CRITICA D’ARTE COME DISCORSO
Abbiamo appena detto che la critica d’arte non si intenderà in questo corso quale tipologia
testuale particolare né come genere particolare: come invece lo definì esplicitamente Albert

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Dresdner e come lo definì per implicazione anche Venturi, che ad esempio nel Cap. V della
SCA scrive che nel XVIII secolo “Per la prima volta la critica d’arte propriamente detta trovò
la sua forma nei resoconti delle esposizioni”. Ma piuttosto quale momento individuativo di un
testo o genere riferito alla produzione artistica.
Occorre anzitutto quindi occuparci di quella tipologia di testo che abbiamo denominato
individuativa, rimandando per il momento ogni approfondimento delle altre due tipologie
riconosciute—la narrativa e l’istruzionale—alla rassegna cronologica e comparativa dei testi
sull’arte che avrà inizio nella prossima lezione. Oggi, invece, ci chiederemo quali siano le
forme di predicazione che prevalgono nel testo di tipologia individuativa e come esso
progredisca in senso logico argomentativo.
Le predicazioni prevalenti sono di natura costitutiva e sono di sette tipi, ognuno associato ad
un attributo o “predicabile” diverso dell’ente di riferimento. Ne segue l’elenco, con accanto al
nome dell’attributo quello dell’atto linguistico tramite il quale esso viene attribuito all’ente in
questione: identità: identificare; classe: classificare; collocazione/configurazione: descrivere;
valore/merito: valutare; qualità/carattere: caratterizzare; somiglianza: paragonare-a;
significato: interpretare.
Prendiamoli uno per volta, illustrandone il senso con qualche esempio:
Identificare
Ossia, rappresentare l’ente in termini di identità, di unicità (della scuola fiorentina il più antico
ritratto è quel Masaccio… ecco il tipo più eccelso dello “High-brow” italiano del
Quattrocento).
Classificare
Ossia, rappresentare l’ente in termini di appartenenza ad una qualche classe o categoria,
come campione di una determinata tipologia (… o è una copia o una contraffazione… /Un
perfetto esempio di mero meccanismo. Grammaticalmente, quasi un precedente del
maestro del Paliotto di Panzano).
Descrivere
Ossia, rappresentare l’ente in termini di collocazione o di configurazione spaziale, di
atteggiamento corporeo, come ente situato in rapporto ad altri enti situati, come tutto
articolato in parti (La Vergine siede di profilo: con la sinistra tiene un libro semichiuso sulle
ginocchia e coll’altra mano cerca di coprirsi col manto, mentre si spinge alquanto innanzi ad
osservare l’Angelo che la sta davanti con un ginocchio a terra e la destra alzata…).

Valutare
Ossia, rappresentare l’ente in termini di valore o di merito, secondo un determinato criterio
(E se fra’ Filippo fu raro in tutte le sue pitture, nelle piccole superò se stesso./Masaccio
maturo, sta bene/Senza dubbio questa è una delle più gloriose creazioni di Renoir nel suo
primo periodo impressionista…)
Caratterizzare
Ossia, rappresentare l’ente in termini di ‘carattere’, la sua maniera distintiva di essere di
apparire, il suo impatto visivo o affettivo, come presenza espressiva (Le ombre che
dipingeremo saranno più luminose delle luci dei nostri predecessori…/Una composizione
armonica è bilanciata, ma una composizione bilanciata non è detto che sia armonica.)
Paragonare-a
Ossia, rappresentare l’ente in termini di somiglianza o di dissomiglianza (E veramente la
storia pittorica è simile alla letteraria, alla civile, alla sacra./Simile è la testa della Vergine: le
mani rassomigliano a quelle di Lei nel quadro di Londra./… la Flagellazione di Cristo a

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Richmond ricorda una sacra rappresentazione di corte diretta da un malsano eradico
zelatore.)
Interpretare
Ossia, rappresentare l’ente in termini di significato, come segno (L’uno e l’altro volto è
comunale e mostra che l’opera non sia dei migliori./Un’opera d’arte è nello stesso tempo
un’impressione della realtà è un’espressione dell’animo)

Ora, con quali modalità avanza, progredisce un testo dalla tipologia individuativa? In altri
termini, come vengono coordinati tra loro i singoli enunciati che insieme lo compongono?
Seguono definizioni ed esempi relativi ai principali atti coordinativi di cui può avvalersi il
parlante. Negli esempi sono evidenziati in rosso le espressioni indicative di un certo tipo di
coordinamento (che però non sempre sono presenti: il nesso coordinativo può essere
espresso ed inteso senza indicazione esplicita).

Un enunciato (y) spiega un altro (x) quando rappresenta un situazione che determina per
nesso causale (anche motivazionale) quella rappresentare in x.
Spiegare
X, a causa del fatto che Y (La scuola Senese e la scuola Fiorentina del Trecento non
producono dopo Giotto e Simone un solo grande artista perché invece di camminare per la
propria via tentano di darsi la mano.)

Un enunciato (y) giustifica un altro (x) quando adduce un argomento teso a mostrarne la
giustezza.
Giustificare
X, poiché Y (Deve dominare il colore poiché privilegio tipico del genio italiano).

Un enunciato (y) illustra un altro (x) quando adduce esemplificazione atta ad esplicarlo.
Illustrare
X, ad esempio Y (Anche la statua in tutto tondo isolata nella spazio [almeno
apparentemente] ha bisogno di un fondo acconcio di tenda per potervi disegnare meglio il
suo profilo elegante e vibratile. Anche nella cosiddetta statua può valere adunque, talora, il
profilo di linea funzionale e perfino floreale. Così accade per esempio per una statua di
Prassitele—tutta vibrazione ionica di margini corporei—così per una di gotico francese, tutta
insinuata mollezza di linee discendenti: un Simone Martini in scultura.)

Un enunciato (y) complementa un altro (x) quando rappresenta una situazione che risulta
conseguire da quella rappresentata in x.
Complementare
X, ne consegue che Y (Il Cubismo intendeva reagire allo spirito cartesiano e bergsoniano del
momento, verso la conquista di un assoluto plastico. La filosofia dello spirito voleva
sostituirsi alla filosofia della vita.)

Un enunciato (y) modifica un altro (x) quando mira ad attenuarne la forza o pretesa di
validità o a smentirne le implicazioni.
Modificare
X, sebbene Y (Nella centesimaquarta Olimpiade fiorì Prassitele famosissimo scultore, il
quale, e nel bronzo, e nel marmo dimostrò la virtù sua, benché nel marmo egli superasse se
stesso./Un altro degli affreschi meno rovinati è quello della cattura di nostro Signore, che

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però non mostra eguali bellezze, apparendo l’azione alquanto violenta, troppo alte e magre
le figure con forme secche e in generale con tipi poco piacenti, anche se non volgari, vuoi
per le forme, vuoi per l’espressione.)

Un enunciato (y) corregge un altro (x) quando lo rifiuta e lo sostituisce.


Correggere
Non X, ma Y (In effetti L’art des sculpteurs romans [di Henri Foçillon] rappresentò, al
momento della sua pubblicazione, un nuovo approccio alla scultura romanica, né
classificatorio-descrittivo come quello di molti archeologi francesi, né prevalentemente
iconografico come i grandi studi del Mâle. Piuttosto un tentativo di analisi formale che,
tenendone conto, non ricalcava meccanicamente gli esempi del Wölfflin ma introduceva e
utilizzava in modo flessibile nuovi elementi di indagine e di giudizio.)

Un enunciato (y) si contrappone a un altro (x) quando rappresenta una situazione che è in
contrasto con quella rappresentata in x.
Contrapporsi
X, viceversa Y (Beato Angelico è uno di questi timidi pittori che non si risolvono a prender
partito. Egli—vedete—comprende tutto: ama le vivide e delicate tinte gotiche per poterle
abbandonare— ne usa infatti e talora mirabilmente; d’altra parte come gli paion belli quei
ghirigori, quei riccioli, quelle sinuosità floreali del panneggio leggero dei senesi e le adopera
sempre, un poco; però, gli piace anche il miracolo del chiaroscuro!)

LEZIONE 6
IL TRATTATO ATTRAVERSO I SECOLI
Nella prima lezione abbiamo visto come Schlosser abbia sottolineato le origini classe e, ed
in particolare greche, della LA, e insieme la longevità culturale di quanto si è conservato
della “ricca e perduta ‘biblioteca artistica’ del mondo classico”.
Come la maggior parte delle manifestazioni culturali dell’Europa, anche la letteratura che si
riferisce all’arte figurativa ha le sue radici su suolo ellenico. Di questi primi scritti soltanto
pochi e tardi ci sono pervenuti direttamente, ma il loro spirito e la loro materia hanno
continuato ad avere efficacia, quasi direi, fino ai nostri giorni.
Abbiamo anche accennato al fatto tutta la trattazione di Schlosser è strutturata in modo da
dimostrare la longevità culturale in particolare dei generi testuali riferiti all’arte che furono
stabiliti presso i greci e i romani: trattato; biografia; periegetica; ekphrasis; epigramma.
Inizieremo oggi la prevista panoramica della critica d’arte—nell’accezione proposta nelle
ultime due lezioni—a partire proprio dall’antichità classica, in particolare da quella romana
imperiale. Focalizzando l’attenzione su un testo che costituisce “l’unica teoria dell’arte che è
giunta fino a noi nella sua interezza” e più specificatamente il primo trattato dlla SCA o SLA,
ossia De architectura, scritta probabilmente tra il 27 e il 23 a.C., da Marco Vitruvio Pollione
(80 a.C. Circa - dopo 15 a.C.)
Come osserva Lionello Venturi, le “idee architettoniche dell’antichità” ci sono note grazie
proprio al trattato di Vitruvio, il primo scrittore che tratti compiutamente dell’architettura,
compendiamo ecletticamente da varie fonti greche, tra le quali sembra predominare
Ermodoro (XI secolo). È infatti possibile ravvisare sovrapposte e spesso confuse le
successive concezioni della bellezza come simmetria o pura proporzione numerica, come

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euritmia o diletto dei sensi nel ritmo, come decorum, valore che implica un apprezzamento
morale.
Le tappe principali della secolare fortuna culturale di questo testo unico vengono
sinteticamente enumerate da Schlosser:
Ancor vivi, o piuttosto redivivi, nell’età carolingia, sebbene in realtà rimaneggiati, come si
rileva da una memorabile lettera di Eginardo, essi tramandano al Medioevo più tardo i
fondamenti estetico-tecnici dell’antichità; se ne trovan le tracce negli scrittori scolastici, e in
Italia nel Cennini. Nel ‘400, quando Poggio ne ebbe nuovamente scoperto il manoscritto s
San Gallo, L. B. Alberti si propose ad esempio Vitruvio, se ne servi Lorenzo Ghiberti e in
certo qual modo lo tradusse per primo. L’editio princeps è uno degli incunabuli
quattrocenteschi, la più antica traduzione stampata del Cesariano del 1521; ma solo per i
teorici del ‘500 assume il valore di una vera e propria Bibbia dell’architettura.
Racconto integrato ed aggiornato da Donata Levi:
Seppur in versioni rimaneggiate o lacunose, il De Architectura tramanda al Medioevo, fin
dall’età carolingia, quelli che furono considerati i fondamenti estetico-tecnici dell’antichità: se
ne conoscono diversi manoscritti a partire dall’epoca carolingia e anche singoli excerpta su
capitelli, colonne e sulle tecniche costruttive, più tardi anche sulla teoria delle proporzioni.
Noto, secondo alcuni studiosi, nel XIII secolo anche a Villard de Honnecourt, il testo di
Vitruvio fu utilizzato largamente anche nello Speculum Naturale e Dottrinale di Vincenzo di
Beauvais, la prima grande compilazione enciclopedica domenicana. Per questo tramite fu
noto a Petrarca, che lo fece conoscere a Boccaccio, determinando una circolazione che
precede la pretesa riscoperta a opera di Poggio Bracciolini nel 1414. La fortuna di Vitruvio
s’incrementa in età umanistica quando il testo sarà usato da Ghiberti e preso a modello da
Leon Battista Alberti per il suo De re aedificatoria. Come avverrà nel caso di Plinio, la
stampa, a partire dalla traduzione di Cesariano del 1521, ne assicurò una diffusione molto
ampia e dal Rinascimento in poi fu studiato da artisti e teorici per carpire i “segreti” della
bellezza antica, dato che sembrava offrire precise indicazioni normative.
Ma chi era Vitruvio?
Un militare sovrintendente delle macchine da guerra per Giulio Cesare e successivamente
architetto-ingegnere al servizio di Augusto.
De Architectura infatti è dedicato all’imperatore, la cui attiva promozione di monumentali
campagne edificatorie viene citato dallo stesso Vitruvio, nella Praefatio, come motivazione
principale alla stesura del trattato, tramite il quale mira fornire agli architetti romani u sistema
normativo.
Come spiega Donata Levi, “a tal scopo, egli presenta l’architettura in senso aristotelico,
come mimesis dell’ordine provvidenziale della natura: perciò si richiede all’architetto una
cultura ricca e varia, enciclopedica quasi quanto quella dell’oratore ciceroniano, e che faccia
perno sulla filosofia.
Vitruvio infatti vuole dimostrare che l’architettura non è una téchne, bensì una scienza
(epistéme), ovvero un’attività intellettuale, dotata di una parte applicativa—che consiste nel
progettare e costruire—e di una teorica,che egli individua nella capacità razionale di
motivare concettualmente le costruzioni realizzate.
L’opera si divide in dieci libri:
I libro. Definizione dell’architettura e dell’architetto; i fondamenti teorici.
II libro. Le origini dell’architettura; materiali e tecniche.
III libro. Templi: l’ordine ionico.
IV libro. Templi: evoluzione degli ordini greci.
V libro. Edifici pubblici.

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VI e VII libro. Edilizia privata.
VIII libo. Idraulica.
IX libro. Astronomia.
X libro. Meccanica civile e militare.
Ma prima di considerare più da vicino il trattato di Vitruvio occorre spiegare come si
affronterà il suo esame quale Ur-trattato.
Specificheremo l’essenza del genere, che cosa lo distingue dagli altri generi antichi e
perenni della SCA.
Confronteremo De Architectura di Vitruvio con gli altri due testi, di John Ruskin e di Juhani
Pallsmaa, che si possono considerare anch’essi dei trattati architettonici, ma di epoca
moderna e contemporanea.
Con l’intento di dimostrare comparativamente non soltanto la longevità del genere ma anche
come esso si sia mutato nel tempo, soprattutto nella dimensione individuativa dei testi.
Cosa sarebbe quindi un trattato?
Il vocabolario Treccani lo definisce come segue:
“trattato s.m. Opera scientifica o tecnica, storica, letteraria che svolge metodicamente una
materia o espone i principi e le regole di una disciplina: t. di zoologia, di botanica, di
astronomia, di retorica, di filosofia, di embriologia, di architettura; scrivere, comporre,
pubblicare un trattato. Con valore più ampio, nel passato, studio o saggio su qualsiasi
argomento particolare (sinon. quindi del termine attuale monografia).
Mentre il Grove Dictionary of Art specifica che si tratta di un:
Written account of the general principles of art or architecture, usually treated systematically
or formally.
Franco Bernabei ne dà la seguente definizione:
Un trattato, nella sua definizione più semplice ed immediata, è un libro di regole, che traccia
le norme costitutive di una certa materia. Norme che possono avere carattere o teorico o
tecnico.
Come genere testuale, quindi, il trattato è una classe di evento comunicativo dalla netta
impostazione prescrittiva o normativa. Normatività che si manifesta talvolta anche nella
scomposizione metodica in ‘parti’ (aspetti, elementi, strumenti, fini, ecc.) dell’arte trattata.
Come traspare anche dal seguente brano, tratto dal terzo capitolo del primo libro di De
Architectura:
L’architettura si divide in tre parti: costruzione, gnomonica (l’arte di costruire orologi solari),
meccanica. La costruzione si divide a sua volta in due settori, di cui uno è legato
all’edificazione di mura e pubblici edifici su suolo pubblico, l’altro alla realizzazione di edifici
privati. Le opere pubbliche si suddividono inoltre in tre categorie: quelle destinate alla difesa,
quelle riservate al culto e quelle di pubblica utilità. Appartiene al sistema di difesa l’erezione
di mura, torri e porte atte a respingere in ogni momento gli assalti del nemico; all’ambito
religioso, invece, la fondazione di templi e sedi sacre gli dei immortali; mentre del terzo
genere, di pubblica utilità, fanno parte i luoghi di lavoro e di ritrovo comuni, come le piazze, i
portici, i bagni, le aree di passeggio e gli altri siti di pubblica appartenenza e con le
medesime finalità.
Ma queste opere devono essere realizzate secondo criteri di solidità, comodità e bellezza. Il
primo principio sarà rispettato se le fondamenta poggeranno in profondità, su strati solidi, e
se la scelta dei materiali sarà accurata, senza badare a spese; il secondo, o della
funzionalità, allorché la distribuzione degli spazi [risponda] ad un utilizzo corretto ed agevole
e rispetti opportunamente l’esposizione cardinale in base alla funzione specifica dei locali. Il

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terzo infine, quello della bellezza, quando l’aspetto esteriore dell’opera sarà gradevole e
raffinato, nel rispetto delle giuste proporzioni e della simmetria delle sue parti.
Sono criteri che saranno poi ripresi da Leon Battista Alberti (1404-72) nel proprio trattato
sull’architettura, De re aedificatoria (1443-52)—e anche, come vedremo da Ruskin nelle
Pietre di Venezia.
Per poter confrontare questo brano di Vitruvio con brani scritti molti secoli dopo da Ruskin e
da Pallasmaa, sarà necessario considerare tutti alla stessa stregua, ossia come testi—
tracce di percorsi comunicativi e conoscitivi—e specificatamente come testi della tipologia
individuativa.
In tal modo saremo in grado di porci le stesse domande riguardo a tutti e tre i testi:
Qual è l’ente o quali gli enti qui sottoposti a rappresentazione verbale? In che modo tale
rappresentazione si realizza nel testo?
In questo brano di Vitruvio l’ente globale la cui natura viene rappresentata è l’architettura,
intesa quale attività, prassi professionale.
La natura di tale attività viene esplicata attraverso la sua progressiva suddivisione in parti
subordinate, secondo una struttura gerarchica, ad albero inverso:
Una volta introdotta una determinata parte, ad es. la costruzione, essa viene a sua volta
suddivisa in parti o “settori”, ognuno dei quali connotato da una finalità distinta, essendo
volto l’uno “all’edificazione di mura e pubblici edifici su suolo pubblico, l’altro alla
realizzazione di edifici privati”.
In tal modo, dall’architettura quale attività si arriva ad annoverare i prodotti di tale attività: le
varie tipologie di edificio a seconda del settore di appartenenza. Si tratta di una modalità di
progressione mereoeologica: la mereologia essendo quella teoria che si occupa delle
relazioni tra le varie parti di un insieme e tra quell’insieme ed ognuna di esse.
Che è una modalità dal carattere essenzialmente spaziale, benché in senso non tanto fisico
quanto mentale, concettuale. Gli enunciati che vengono coordinati in tal modo di tipo
descrittivo ed identificativo.
Nel secondo paragrafo l’attenzione si sposta sule opere architettoniche, ma non su opere
particolari e non più su particolari tipologie di opera, ma sulle opere quali prodotti generici
dell’attività architettonica e soprattutto quali eventuali oggetti di valutazione.
Si individuano infatti tre criteri di valutazione—solidità, comodità e bellezza— e le opere
vengono sottoposte ad una sorta di valutazione virtuale secondo ognuno di essi—
valutazione in cui vengono indicate le condizioni necessarie perché l’esito ne risulti positivo;
si tratta quindi di una serie di giustificazioni implicite di valutazioni ipotetiche di oggetti del
tutto indeterminati.
Passiamo ora al testo dell’inglese John Ruskin (1819-1900), che era (tra le altre cose):
critico e teorico dell’arte e dell’architettura; disegnatore e acquerellista e influente insegnante
del disegno; mecenate; difensore di Turner e dei Preraffaelliti; autore di studi letterari,
mineralogici, ornitologici, geologici, botanici; teorico dell’educazione; teorico dell’economia,
in particolare per quanto riguarda l’arte e la cultura; anti-capitalista; critico e riformatore della
società; pensatore utopico; conferenziere pubblico; filantropo; pensatore ecologico.
Il brano che andiamo a leggere è tratto da The Stones of Venice (Le Pietre di Venezia,
1851-53), opera in tre volumi difficilmente classificabile: un trattato di architettura dal taglio
stoico, ma anche una storia politico-morale della repubblica veneziana, letta nella sua
architettura.
Assunto di base dell’opera è che l’architettura veneziana fornisca “elementi di prove…
frequenti ed irrefragabili, che il declino della sua prosperità politica è coinciso esattamente
con quello della sua religione domestica e individuale”.

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Tale assunto si riflette nella stessa struttura del libro, che è scandito secondo la parabola
biologica di nascita-maturazione-declino-caduta—parabola raccomandata da Ruskin quale
monito all’Inghilterra vittoriana, potenza mercantile e navale erede della Serenissima.
Il brano è tratto dal secondo capitolo del primo volume dell’opera, capitolo intitolato The
Virtues of Architecture (le Virtù dell’architettura), che apre con l’affermazione:
In genere pretendiamo dagli edifici, come dagli uomini, due tipi di bontà: in primo luogo, il
fare bene il proprio dovere pratico; e poi che lo facciano in modo grazioso e gradevole; il che
di per sé un’altra forma di dovere.
“Le due virtù dell’architettura che possiamo valutare con giustezza consistono, come
abbiamo affermato, nella forza o bontà della costruzione e nella bellezza o bontà della
decorazione. Considerare perciò, in primo luogo, cosa significa sostenere che un edificio sia
ben costruito o ben edificato. Certamente, non solo che esso risponde al suo scopo, un
risultato già rilevante, ma che molti edifici moderni non raggiungono. Per essere veramente
ben costruito, esso deve rispondere a questo scopo nel modo più semplice possibile,
evitando un eccessivo dispendio di mezzi. Un faro, ad esempio, chiediamo che sia solido e
che porti una luce. Se non soddisfa questi due requisiti, è certamente mal costruito. Ma può
anche soddisfarli fino alla fine dei tempi e tuttavia non essere ben costruito. Può avere
centinaia di tonnellate di pietra in più di quante ne occorrevano o essere costato migliaia di
sterline in più del necessario. Per dichiararlo ben costruito o mal costruito, dobbiamo sapere
a quali forze estreme dovrà poter resistere, tramite quali disposizioni delle pietre si può
ottenere la migliore resistenza e quali sono i modi più rapidi per realizzare tali disposizioni.
Soltanto nella misura in cui tali disposizioni sono state scelte e tali metodi utilizzati, il faro
sarà ben costruito. Pertanto sono la consapevolezza di tutte le difficoltà da affrontare e di
tutti i mezzi necessari per affrontarle, la capacità di intuire o inventare, con giustezza e
rapidità, i modi di adattare i mezzi al fine, ciò che abbiamo da ammirare nel costruttore,
anche quando lo consideriamo in riferimento a questa prima ed inferiore parte del suo
lavoro. Potenza mentale, osservate, non muscolare, né meccanica, non tecnica, né empirica
—ma intelligenza pura, preziosa, maestosa, robusta; che non si ottiene a basso prezzo, né
si accoglie senza ringraziamento, e senza chiedere a chi appartiene.”
“Supponete, ad esempio, di presenziare alla costruzione di un ponte: per i muratori è stata
eretta la centinatura, e questa centinatura è stata messa insieme da un falegname, per il
quale l’architetto aveva tracciato la linea curva. I muratori stanno abilmente maneggiando e
adattando i mattoni, o, con l’aiuto di macchine, regolando attentamente le pietre, che sono
state numerate in corrispondenza ai posti che dovranno assumere. C’è probabilmente
qualcosa di ammirevole nella loro rapidità d’occhio e prontezza di mano; ma non è questo
che chiedo al lettore di ammirare: non la carpenteria, né la muratura, anzi, nulla di quanto
possa vedere e comprendere in questo momento, ma la scelta della curva, la modellatura
delle pietre numerate e la determinazione del loro numero,; decisioni, queste, che prima di
essere prese, hanno reso necessario conoscere e considerare molte cose. L’uomo che
scelse la curva e numerò le pietre, doveva conoscere i tempi e le maree del fiume, e la forza
delle sue piene, e l’altezza e il flusso di esse, e il terreno delle rive, e la sua resistenza, e il
peso delle pietre con cui doveva costruire, e il tipo di traffico che giorno dopo giorno sul
ponte sarebbe passato attraverso il ponte,—tutto questo in particolare, ma anche le grandi
leggi generali della forza e del peso e del loro modo di operare; e nella scelta della curva e
nella numerazione delle pietre si esprimono non solo tali conoscenze, ma l’ingegnosità e la
determinazione del costruttore nel saper impiegare mezzi particolari per superare le difficoltà
particolari sorte nella costruzione del ponte. È impossibile dire quanta intelligenza, profondità
di pensiero, fantasia, presenza di spirito, coraggio e risolutezza possano aver contribuito alla

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collocazione di una sola pietra. Questo è ciò che dobbiamo ammirare, questo grande potere
e cuore dell’uomo nella cosa; non il suo modo tecnico o empirico di tenere la cazzuola e
stendere la malta.”

Il brano presenta molte affinità con il secondo capoverso di quello tratto da Vitruvio.
Anche qui il testo ipotizza la valutazione delle opere architettoniche secondo determinati
criteri, precedentemente definiti equi riassunti nei termini strength (forza, potere) e beauty
(bellezza) (che come già cenato ripropongono due dei tre criteri vitruviani).
D’altra parte, oltre al fatto che vengano precisate in maggior dettaglio le condizioni
necessarie perché l’esito della valutazione sia positivo e l’edificio dichiarato Well built (ben
costruito), tali condizioni si distinguano da quelle specificate nel testo di Vitruvio per
l’insistenza sull’aspetto economico del lavoro.
Ma ancor più significativa è la diversa caratterizzazione dell’architettura quale ente
sottoposto ad individuazione.
Già nel titolo del capitolo e nel l’affermazione di apertura l’architettura viene presentata non
tanto quale attività professionale produttrice di opere degne o meno di lode, quanto piuttosto
—quasi fosse una persona—individuo capace di un comportamento morale, le cui”virtù” si
manifestano attraverso opere delle tipologie ben distinte e particolari e grazie a specifiche
capacità mentali dell’architetto, che alla fine del primo capoverso emerge come protagonista
del processo architettonico e fonte della cifra morale delle costruzioni da lui progettate.
Ne consegue che vi è una maggiore enfasi in questo brano sulla funzione particolare del
singolo edificio; e vi gioca pertanto un ruolo cospicuo l’atto coordinativo dell’ illustrare, del
tutto assente invece da quello vitruviano.
Ad esemplificare infatti le virtù architettoniche viene da Ruskin evocata una precisa tipologia
di opera architettonica—il faro—con i suoi ‘doveri’ particolari.
Segue una ulteriore, elaborata illustrazione, volta ad inscenare la valutazione ipotetica di
un’altra tipologia di opera architettonica ed in tal modo a precisare quali capacità mentali
sono richieste all’architetto, anche di tango non eccelso, perché si possa realizzare: siamo
invitati ad assistere alla costruzione di un ponte e a leggere in esso L’ingente impegno
intellettuale e morale che essa comporta. All’interno dell’illustrazione ve ne è un’altra: si
danno esempi delle “molte cose” che era necessario che l’architetto conoscesse e
comprendesse. Illustrazione che funge come giustificazione anticipata della valutazione
conclusiva del ponte, valutazione interpretativa ‘dell’uomo nella cosa’.
Per Ruskin, come Vitruvio, nelle opere di architettura si manifestano le capacità intellettuali
dell’architetto, che si distingue nettamente dai muratori ed artigiani che la realizzano.
Ma per Ruskin tali capacità mentali sono anche capacità morali, che si manifestano
soprattutto nel secondo ‘dovere’ dell’architetto e della sua opera, quella relativa alla
bellezza; e qui però la distinzione tra architetto ed artigiano si confonde—una bellezza frutto
del pensiero anche povero ma autentico dell’artigiano essendo per Ruskin caratteristica
essenziale dell’architettura per eccellenza, quella gotica. Come viene argomentato altrove
nelle Pietre di Venezia, nel celebre capitolo intitolato The Nature of Gothic.
Il terzo brano è scritto dall’architetto finlandese Juhani Pallasmaa (1936-), ed è tratto dal
libro The Eyes of The Skin (Gli occhi della pelle).
Il titolo del libro viene così spiegato dall’autore nella sua Introduzione:
Col titolo Gli Occhi Della Pelle volevo esprimere la portata del senso del tatto nella nostra
esperienza e nella nostra comprensione del mondo, ma intendevo anche creare un
cortocircuito concettuale tra il senso dominante, la vista, e la modalità sensoriale soppressa,

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il tatto. Scrivendo il testo originario mi fu chiaro che la nostra pelle è effettivamente in grado
di distinguere un certo numero di colori; noi, con la pelle, vediamo.
Il brano che leggeremo costituisce invece il penultimo paragrafo del libro.
È possibile distinguere diverse architetture in base alla modalità sensoriale che tendono a
enfatizzare. Accanto alla prevalente architettura dell’occhio, esiste un’architettura tattile,
muscolare ed epidermica. Ed esiste anche un’architettura che riconosce i regni dell’udito,
dell’olfatto e del gusto.
L’architettura di Le Corbusier [1887-1965] e quella di Richard Maier [1934-], per esempio,
privilegiano chiaramente la vista, sia nell’impatto frontale sia come occhio cinestetico della
“promenade architecturale” (anche se i lavori successivi di Le Corbusier introducono forti
esperienze tattili nella presenza vigorosa di materialità e peso). D’altro canto, l’architettura di
orientamento espressionista, a cominciare da Erich Mendelsohn [1887-1953] e Hans
Scharoun [1893-1972], favorisce la plasticità muscolare e tattile a seguito di una
soppressione del dominio oculare prospettico. L’architettura di Frank Lloyd Wright e quella di
Alvar Aalto [1898-1976] si fondano sul pieno riconoscimento della condizione corporale
dell’uomo e della moltitudine di reazioni istintive nascoste nell’inconscio umano.
Nell’architettura contemporanea, le esperienze sensoriali sono espresse ad esempio nella
loro ricchezza nell’opera di Glenn Murcutt [1936-], Steven Holl [1947-] e Peter Zumthor
[1943-].
Nella sua architettura, Alvar Aalto si è coscientemente interessato a tutti i sensi. Il suo
commento sull’intenzionalità sensoriale nel suo design d’arredamento rivela questo
interesse: “Un oggetto destinato all’ambiente quotidiano non dovrebbe avere superfici con i
riflessi troppo abbaglianti, né trasmettere troppo il ‘senso del suolo’ durante l’uso e inoltre
l’oggetto che funziona in contatto preciso con l’uomo non dovrebbe essere costruito con
materiale a forte conducibilità termica”. Ne risulta chiaro che Aalto fosse più interessato
all’incontro fra l’oggetto e il corpo di chi ne fruisce, che alla mera estetica visiva.
Nell’architettura di Aalto fa bella mostra di sé una forte presenza muscolare e tattile. Gli
elementi sono dislocati, asimmetrici, irregolari, e poliritmici per suscitare esperienze
corporee, muscolari e tattili. Le strutture dalla superficie elaborata e i dettagli lavorati perché
la mano li tocchi, invitano al tatto creando un’atmosfera di intimità e calore. Al posto
dell’incorporeo idealismo cartesiano dell’architettura dell’occhio, l’architettura di Aalto si basa
sul realismo sensoriale.
I suoi edifici non si fondano su un singolo concetto dominante o su una singola Gestalt;
piuttosto, sono agglomerati sensoriali. Se talvolta possono apparire anche mal fatti e
sconclusionati nei disegni, sono però concepiti per essere apprezzati nel loro effettivo
impatto fisico e spaziale, “nella carnalità” del mondo vissuto, non come costruzioni di
un’idealizzata visione.
Il titolo del paragrafo—“Un’architetto dei sensi”—è programmatico: rispecchia l’orientamento
normativo del libro, orientamento che traspare in quella spiegazione del titolo generale e che
lo rende paragonabile ai testi precedentemente considerati. Ma in questo libro l’intento
normativo o prescrittivo subisce una trasformazione notevole: non solo nella natura delle
norme proposte ma anche nei modi in cui esse vengono proposte.
Il testo parte da una suddivisione, non dell’architettura come attività professionale, come in
Vitruvio, né enumerando “virtù” astratte delle opere architettoniche, quali eventuali criteri di
valutazione, come sia in Vitruvio che in Ruskin, ma raggruppando le stesse opere in base a
delle caratteristiche generali: “in base alla modalità sensoriale che tendono a enfatizzare”.
La presentazione di tali caratteristiche non è neutra: la si capisce anche dal fatto che viene
del tutto trascurata quella “prevalente”, legata al “senso dominante, la vista”.

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Inoltre il testo assume una inflessione persuasiva grazie alla caratterizzazione degli edifici
progettati da architetti particolari, non attraverso la valutazione di opere generiche o di
specifiche tipologie, che rimangono però indeterminate.
È interessante in tal senso il modo in cui una eventuale valutazione negativa degli edifici di
Aalto quali “malfatti e sconclusionati”—secondo norme tradizionali che risalgono proprio al
trattato di Vitruvio—viene controbilanciata dalla caratterizzazione “concepiti per essere
apprezzati nel loro effettivo impatto fisico e spaziale, ‘nella carnalità’ del mondo vissuto”.

LEZIONE 7
LA BIOGRAFIA ARTISTICA ATTRAVERSO I SECOLI
In questa lezione si proporrà una riflessione analoga a quella svolta nella scorsa e che
riguarderà un altro dei generi testuali che sin dalle più antiche fasi della storia culturale
dell’Occidente sono stati riferiti all’arte.
Si tratta della biografia, o—come si tenderà a chiamarlo nel rinascimento italiano (sulla scia
anche delle “Vite de Plutarcho traducte de latino in vulgare” stampate all’Aquila nel 1482)—
la vita d’artista.
Ci occuperemo in primo luogo della raccolta più antica di vite di artisti di cui disponiamo—
raccolta contenuta (come accennato nella lezione I) in alcuni libri della “Naturalis historia” di
Plinio il Vecchio.
Da questo testo estrarremo un brano che confronteremo con due tratti invece da testi affini,
per quanto riguarda il genere, ma di epoche diverse: i quattrocenteschi “Commentariii” dello
scultore Lorenzo Ghiberti (1378-1455) e la “Breve ma veridica storia della pittura italiana”,
delle dispense scritte per gli studenti dei licei Visconti e Tasso di Roma da Roberto Longhi
nel 1914.
Come in precedenza, l’intento sarà quello di illustrare attraverso il confronto non soltanto la
longevità del genere ma anche i modi in cui esso si è trasformato nel tempo, soprattutto
nella dimensione esplicativa (predicativa e coordinativa) del testo, nonché gli stretti rapporti
che da sempre in riferimento all’arte legano tra loro il genere biografico e quello
storiografico.
Infatti, in un suo articolo sulla tradizione squisitamente occidentale della storiografia artistica,
Salvatore Settis definisce la biografia artistica quale genere che dispone “in narrazione
storica le vite degli artisti e le loro opere”; e proprio dei “Commentarii” di Ghiberti, Settis nota
che essi contengono biografie di artisti, organizzate secondo una parabola evolutiva, il cui
inizio nell’antichità greco-romana—tolto dalla “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio—è
delineato nel primo Commentario…
Ora, non solo i Commentarii (come anche la Naturalis Historia pliniana) contengono
biografie di artisti, ma il modello evolutivo comune a tutti e due i testi—modello connotato da
quelle idee di progresso, di perfezionamento e di decadenza dell’arte tanto biasimate da
Lionello Venturi [ad es. 1964,99]—è di per se stesso biografico, in quanto ripropone niente
meno che la ‘curva’ ineluttabile di ogni vita umana.
Viceversa la “Breve ma veridica storia” di Longhi offre un modello storiografico diverso, che
si potrebbe quasi associare a quella “Storia critica dell’arte” cui aspirava Venturi—una storia
della pittura pur sempre evolutiva, ma non dominata ed ordinata dalle idee di progresso, di
perfezionamento e di decadenza.
Dedicata nel 77 d.C. all’imperatore Tito (di cui Plinio era consigliere) la Naturalis Historia è
opera (come si è detto) enciclopedica, di cui 37 libri costituiscono “una vera e propria

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summa del sapere” o, nelle parole di Schlosser, “un grandioso tentativo di considerare tutta
la natura in rapporto alla cultura umana”; dove per “cultura umana” si deve intendere anche
la cultura formativa dell’arte, che vi appare infatti “come illustrazione del naturale per mezzo
dell’artificiale”.
“L’editio princeps” dell’opera di Plinio fu stampata a Venezia da Giovanni da Spira nel 1469.
In modo analogo a quanto è avvenuto nel caso del De Architectura di Vitruvio, attraverso la
Naturalis Historia è stato possibile risalire al modello della più antica letteratura di “storia
dell’arte”, nata nella Grecia classica prima nella forma di trattati tecnico-giustificativi (così per
esempio il trattato sul Partenone del suo architetto, Ictino; o quello di Policleto su una sua
statua, detta Canone), poi con libri sulla pittura e la scultura, scritti a volte da artisti (come
Senocrate di Atene), a volte da intellettuali “conoscitori” (come Duride di Samo). In tal modo
il discorso sull’arte, che si era sviluppato nelle botteghe degli artisti, entrò nello spazio
letterario, rivolgendosi a un pubblico potenziale non di soli artisti, adottando convenzioni
espositive e frasario tecnico dedotti dalla techne dominante nell’orizzonte culturale: la
retorica.
Del resto, proprio a Duride (340-270 a.C.)—allievo del filosofo e botanico Teofrasto, a sua
volta discepolo di Aristotele, e in seguito tiranno dell’isola di Samo—si attribuiscono esempi
precoci di biografie di artisti, che sarebbero stati inseriti in un suo perduto trattato sulla
pittura. Si tratterebbe di biografie strutturate in modo da far risaltare di ognuno “l’akmé o
floruit”, ovvero il momento in cui l’ingegno e l’operatività si dimostravano più intensi e che in
genere coincideva con la realizzazione dell’opera più importante.
Più tardi anche lo storico Cornelio Nepote (100-27 a.C.) avrebbe scritto delle biografie di
artisti, anch’esse però perdute; cosicché “l’unico esempio che possediamo di questo
genere”, come sottolinea anche Schlosser, sono “i libri della Naturalis Historia di Plinio che si
riferiscono al nostro tema”—e cioè i libri XXXIV-XXXVII.
Il libro XXXIV infatti tratta dei metalli, e in particolare del bronzo, ma anche della produzione
statuaria.
Il XXXV è dedicato agli usi delle terre, compresi quegli specifici dei pittori.
Il XXXVI verte sulle pietre, compreso l’uso del marmo in scultura, nonché sull’architettura e
sui materiali di costruzione.
Il XXXVII è dedicato alle gemme e alle pietre preziose.
Come spiega Donata Levi, entro questa struttura, Plinio tramanda un quadro dello sviluppo
dell’arte antica che costituirà la base per ogni successiva considerazione storica. Non si
tratta solo di un ordinamento cronologico, ma, specie per gli scultori in bronzo e i pittori,
anche storico, cioè organizzato secondo un modello di sviluppo basato sull’idea di una
progressiva acquisizione di scoperte tecniche e di affinamenti artistici.
Scoperte dovute ad una vera e propria successione di maestri d’eccellenza, che in tutti e
due i casi (dei bronzisti e dei pittori) sono trattati in precedenza agli altri, ritenuti a loro
inferiori.
La trattazione della pittura nel XXXV libro apre con una serie di considerazioni morali in cui:
Plinio lamenta che la nobile arte [della pittura] sia stata sostituita dal marmo sulle pareti, da
bronzo argento e oro per i ritratti; e il rimpianto per la decadenza della pittura… si allarga a
comprendere e riprovare le invenzioni artistiche e le mode invalse negli ultimi decenni, le
quali tendono a cancellare definitivamente dalla vita familiare e dello Stato i pochi residui
dell’antica tradizione. Non solo, ma Plinio manifesta anche il suo sdegno, quasi difensore
della natura violata dalla moda irriverente, contro quelli che variegano artificialmente il
marmo coi colori.

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Di seguito sono riportate varie opinioni e notizie relative alle origini della pittura,
inframmezzate di riflessioni sulla fortuna di quest’arte presso i romani:
Sugli inizi della pittura regna grande incertezza, e del resto la questione esula dal compito
nostro. Gli Egizi dicono che fu inventata da loro seimila anni prima che passasse in Grecia:
vana pretesa, com’è di per sé chiaro. I Greci dicono, alcuni che fu trovata a Sicione, altri a
Corinto; tutti però concordano che nacque dall’uso di contornare l’ombra umana con una
linea. Pertanto la prima pittura fu così; la seconda fu a colori unici, detta poi
“monochromatos” quando già era in uso quella più complicata, a vari colori. La pittura
monocromatica dura tal quale anche adesso.
La pittura lineare—quella del contorno all’ombra—sarebbe inventata da Philokles Egizio o
da Kleanthes Corinzio: la esercitarono per primi Arideikes Corinzio e Telephanes Sicionio,
ancora senza l’uso di alcun colore, ma disseminando delle linee entro il contorno; c’era
pertanto l’abitudine di scrivere anche il nome delle persone rappresentate. Il primo a
colorare le figure fu, come narrano, Ekphantos di Corinto, che usò il colore del coccio
pesto…
…Fu dopo un certo tempo che l’arte, di per sé stessa, introdusse le distinzioni e trovò la luce
e le ombre, in seguito alla constatazione che la differenza dei colori era acuita ed eccitata
appunto dalla loro alterna giustapposizione. In seguito fu aggiunta anche la luminosità, cosa
ben differente, qui, dalla luce. E chiamarono “tónos” l’intervallo tra la luce e l’ombra,
“harmogé” il contatto ed i passaggi dei colori.
Harmoge: la giustapposizione tra i due colori differenti, o tra due zone, una luminosa e una
oscura può essere fatta in due modi: o col metodo della incisura, o “unione” con quello della
commissura; al primo termine, detto anche divisura, corrisponde il greco tònos = tensione,
intervallo; del secondo è sinonimo harmogè: quando cioè l’incontro tra colore e colore è
costituito da una zona di colore intermedio, digradante via via, sia da un lato che dall’altro, in
modo che sia evitato ogni passaggio brusco. All’atto pratico, però, il fenomeno non si
presenta così semplice e schematico come Plinio lo presenta.

Viene ora ripresa la discussione dei “singoli colori dei primi pittori”, già avviata nel libro
XXXIII, per passare solo in seguito (“giacché l’ordine stesso dell’opera presente esige che
noi mostriamo prima la natura dei colori”) all’elencazione dei pittori “che inventarono” e delle
loro invenzioni—ad iniziare dai “celebri” o “capi” (proceres) per passare poi a quelli di
seconda categoria (primis proximi), ai non ignobiles e infine alle pittrici.
Il brano sul quale ci soffermeremo è tratto dalla sezione dedicata ai più eminenti tra i pittori e
riguarda in particolare Parrasio (o Parrhasios), un pittore di Efeso di cui Plinio pone il floruit
intorno a 420 a.C., ma che probabilmente visse in epoca precedente.
67—Parrhasios, nato ad Efeso, fu anch’egli autore di molte scoperte [“multa contulit”,
portò/raccolse insieme/contribuì molte cose]. Per il primo dette alla pittura le norme della
simmetria, eseguì per il primo i minuti particolari del viso, l’eleganza dei capelli, la bellezza
della bocca, e, per riconoscimento degli altri artisti, raggiunse la perfezione nelle linee di
contorno dei corpi; le quali costituiscono il maggior pregio per una pittura. È certamente,
infatti, prova di grande perizia dipingere i corpi e le zone centrali degli oggetti, ma è perizia di
cui partecipano molti; invece rendere l’estremità dei corpi e saper racchiudere e limitare il
giro dei piani di scorcio, là dove termina l’oggetto rappresentato: questo raramente riesce
bene.
68—La linea di contorno deve infatti come girar su sé stessa, e finire in modo da lasciar
immaginare altri piani e altre linee al di là, quasi che, in certo qual modo, volesse mostrare
anche parti che necessariamente occulta. Questa gloria gli concessero Antigonos [scrittore e

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scultore di Caristo, nato nel 290 a.C.] e Xenokrates [Senocrate, scultore di Atene del III
secolo a.C.] che scrissero intorno alla pittura, non solo constatando il fatto, ma predicandolo
come norma. Di lui restano molti disegni e abbozzi a matita su tavole e pergamene, dai quali
si dice che traggan profitto gli artisti. Nel complesso però, giudicato insomma in tutta la sua
produzione, appare inferiore nella figurazione delle zone centrali delle figure.
69—Dipinse il Popolo degli ateniesi con una convenzione pittorica davvero ingegnosa.
Presentò un individuo di carattere variabile: iracondo ingiusto incostante, e al tempo stesso
placabile clemente misericordioso; vantatore [modesto], sublime umile, feroce timido e così
via tutto insieme. Dipinse anche un Teseo, la qual tavola è stata a Roma in Campidoglio, e
un Navarco [comandante di flotta] vestito di corazza; in un unico quadro che è a Rodi
Meleagro [un principe di Calidone e argonauta] Eracle Perseo. Questo dipinto fu colpito tre
volte dal fulmine senza essere danneggiato, onde è aumentata la sua celebrità.
70—Dipinse anche un Archigallo [antico capo dei Galli, sacerdoti del culto di Cibele], del
quale (come racconta Deculone [che avrebbe scritto una vita di Tiberio]) si innamorò di
Tiberio; costui, pagatolo 6.000.000 di sesterzi, lo chiuse nella sua camera. Dipinse anche
una nutrice Tracia con un bambino in braccio, e un Filisco [poeta della commedia nuova], e
un Bacco con Areté, e due fanciulli per i quali si può ravvisare la tranquillità e l’innocenza
dell’età; ancora, un sacerdote con fanciullo che porta un incensiere e una corona.
71—Vi son di lui due pitture famose, un Oplita [soldato della fanteria pesante] in battaglia in
atto di correre così da sembrar che sudi, e un altro il quale depone le armi e par di sentirlo
ansare. In un’unica tavola sono lodati Enea Castore Polluce, in un’altra Telefo Achille
Agamennone Ulisse. Artefice molto fecondo, certo; ma nessuno più arrogantemente di lui si
vantò della fama artistica, giacché volle darsi anche dei soprannomi, come “habrodiaitos”
(che fa cioè vita molle e lussuriosa), e in certi altri versi si definì principe dell’arte pittorica, da
lui portata alla perfezione massima; ma sopratutto diceva di esser nato dalla stirpe di Apollo,
e di aver dipinto lo Herakles che si trova a Lindo tale e quale gli era spesso apparso in
sogno.
72—Perciò, quando a grande maggioranza di voti fu superato da Timanthes [pittore di Citno
vissuto tra V e IV secolo a.C.] in una gara a Samo, nella quale aveva esposto un “Aiace e il
Giudizio delle armi”, egli andava dicendo di esserne indignato in nome dello stesso eroe
Aiace, perché, in seguito a questa gara, Aiace veniva ad essere superato per la seconda
volta da un indegno [il primo essendo stato Ulisse, cui erano state aggiudicate le armi di
Aiace]. In quadretti più piccoli dipinse anche scene intime [libidines], quasi riposandosi in
questo genere di pittura leggera ed allegra.

È un brano cui accenna Roberto Longhi nelle Proposte per una critica d’arte, riferendosi in
particolare al passo sulla linea di contorno:
È significante che, volendo parlare degli artisti figurativi, Plinio sia costretto a includerli in
una Storia naturale, come utenti di materiali naturalistici. E, del resto, anche nei tanti autori
greci e romani da cui desume, sento che la buona critica si nasconde piuttosto entro la
vicenda semantica dei vocaboli, che in altro. I trapassi di parola da arti diverse, “tonon,
armoghè” e simili, la dicon più lunga che i soliti rilievi di progresso nella eterna “mimesi”. Su
tutto spicca la famosa definizione “de lineis” tratta certo, e di presenza sensibile, da qualche
opera di Parrasio: “Ambire enim se ipsa debet extremitas et sic desinere ut promittat alia
post se ostendatque etiam quae occultant”. Definizione tanto aderente che la moderna storia
della critica credette di scoprirla soltanto nell’Aretino che si era limitato a trascriverla
letteralmente; per dirla schietta, a plagiarla.

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Dove con l’espressione “de lineis” Longhi forse allude alla polemica crociana contro gli
“indagatori [quali Venturi e Longhi stesso] degli stili e narratori della “fabula de lineis et
coloribus”; mentre il riferimento ad Aretino sarebbe alla lettera che indirizzò a Michelangelo il
16 settembre 1537.
Perché proprio questo passo abbia tanto colpito Longhi si capirà meglio una volta sclerato il
brano dalla Breve ma veridica storia che confronteremo con questo su Parrasio dalla
Naturalis Historia.
Cerchiamo intanto di vedere quali siano gli enti sottoposti ad esplicazione in questo brano, a
quali modalità di esplicazione essi siano sottoposti e con quali modalità di coordinamento tali
esplicazioni siano legate tra loro.
Referente globale è il pittore Parrasio—meglio, la sua opera: l’esistenza di tale referente
globale è ciò che ci permette di considerare il brano quale unità comunicativa e nella
fattispecie quale esemplificativo del genere biografico riferito all’arte.
Il pittore viene introdotto nel discorso—meglio, reintrodotto, essendo appena stata
menzionata la gara in cui sconfisse Zeusi—quale facente parte della serie dei massimi
artisti-inventori (“fu anch’egli autore di molte scoperte”).
Entro tale quadro storico-valutativo si enunciano delle identificazioni implicite (evocate
dall’aggettivo primus) abbinate a predicazioni di azione volte a stabilire i primati specifici che
gli spetterebbero quale pittore:
Per il primo dette alla pittura le norme della simmetria, eseguì per il primo i minuti particolari
del viso (Primus symmetriam picturae dedit, primus argutias voltus)…
Che portano alla riferita valutazione di Parrasio da parte degli artisti quale “in liniis extremis
palmam adeptus” (colui che “raggiunse la perfezione”, letteralmente il ramo di palma segno
di vittoria nelle gare atletiche, “nelle linee di contorno”).
Introdotte così le linee di contorno esse a loro volta diventano oggetto di esplicazione,
tramite un’identificazione di cui il senso è valutativo: Haec est picturae summa suptilitas (“le
quali costituiscono il maggior pregio per una pittura”).
Affermazione che viene poi giustificata in due momenti:
tramite la valutazione del “dipingere i corpi e le zone centrali degli oggetti” quali “di grande
perizia” [magni operis], cui pochissimi arrivano;
tramite la “famosa definizione” della linea di contorno, definizione descrittiva e insieme
normativa, grazie al verbo modale dovere (“La linea di contorno deve infatti come girar su sé
stessa…”)
La fonte autorevole di tale normatività è indicata negli scritti di Antigono e Senocrate (cui
sarebbe quindi da attribuire quella concreta esperienza critica che Longhi suppone essere
stata alla base di una “definizione tanto aderente” della linea di contorno). La valutazione
positiva dell’opera di Parrasio quale esemplare in tal senso, ascritta ad Antigono e
Senocrate, viene indirettamente giustificata adducendo quanto “si dice” (dicuntur) circa il
proficuo uso fatto dagli artisti dei disegni e abbozzi lasciati dal pittore.
La valutazione positiva ascritta ad Antigono e Senocrate ed in generale agli artisti viene però
subito modificata da una valutazione complessiva e comparativa dell’opera di Parrasio che
esprime delle precise riserve sul suo conto:
Nel complesso, però, giudicato insomma in tutta la sua produzione, appare inferiore nella
figurazione delle zone centrali delle figure (Minor tamen videtur sibi comparatus in mediis
corporibus exprimendis).
Tale valutazione complessiva conclude la prima parte del brano; che nella seconda passa
ad annoverare i dipinti di Parrasio, distinti per soggetto ed introdotti nel discorso

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specificatamente quali prodotti pittorici, esiti di quel tipo di azione che definisce Parrasio
quale pittore e che viene evocato tramite il verbo, più volte ripetuto, dipingere:
Dipinse il Popolo degli Ateniesi…
Le opere così introdotte sono a loro volta assunte quali oggetti da esplicare.
A tal fine sono ‘attaccate’ ai nomi che si riferiscono ai singoli dipinti predicazioni indirette,
espresse in genere tramite delle relative:
Ad es. il dipinto rappresentante il popolo degli ateniesi (definito, in maniera efficace, in
Lelonotti & Prenettieri 1652 quale un “compendio d’affettuose meraviglie”), viene
indirettamente valutato attraverso la frase avverbiale “con una convenzione davvero
ingegnosa”—valutazione poi giustificata attraverso la caratterizzazione seriale dell’individuo
raffigurato (“iracondo ingiusto incostante, e al tempo stesso placabile clemente
misericordioso”).
Mentre del dipinto di Teseo viene specificata la collocazione e di quello del navarco la fama
(non però di carattere estetico).
Del dipinto dell’archigallo infine si riferisce il valore venale ed affettivo che rappresentava per
Tiberio, proprietario geloso.
Il più delle volte, e non solo nel caso particolare del dipinto del popolo degli ateniesi, le
predicazioni indirettamente riferite alle singole opere sono delle caratterizzazioni:
Così, nella raffigurazione dei due fanciulli “si può ravvisare la tranquillità e l’innocenza
dell’età”.
Mentre nei due dipinti raffiguranti opliti le figure sono rappresentate luna “così da sembrare
che sudi” e l’altra che ansi.
Il brano si conclude con una ulteriore coppia di valutazioni—la prima, positiva, di Parrasio
quale artista “molto fecondo”, la seconda, sempre di Parrasio, ma quale persona vanitosa ed
arrogante, che di fatto modifica notevolmente la prima e che viene giustificata attraverso il
racconto finale della gara a Samo e la battuta supponente di Parrasio nei confronti del rivale
vincitore.
In conclusione, l’analisi mette in luce non tanto e non solo la “vicenda semantica” di singoli
vocaboli, messa in evidenza da Longhi, quanto la trama di un testo (che etimologicamente
significa tessuto o intrecciato) individuativo, elaborato in progressione intorno alla figura di
Parrasio quale pittore.

LEZIONE 8
LA BIOGRAFIA ARTISTICA ATTRAVERSO I SECOLI
Ora confronteremo la breve biografia pliniana del pittore Parrasio con quella di Giotto posta
in apertura del secondo dei tre Commentarii di Lorenzo Ghiberti, nonché con un passo tratto
dalla Breve ma veridica storia della pittura italiana di Roberto Longhi. Sono passi scelti con
l’intento di illustrare, per brevi ma significativi accenni, i modi in cui si è trasformato nel corso
del tempo il genere della biografia artistica, sia in sé che come modello storiografico.
Come si è visto, la complessiva funzione storiografica delle biografie contenute nei
Commentarii di Ghiberti è stata sottolineata da Salvatore Settis, che le descrive quali
“organizzate secondo una parabola evolutiva, il cui inizio nell’antichità greco-romana—tolto
dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio—è delineato nel primo Commentario”.
E proprio in quanto storiografo, protagonista del ridestato “senso storico” del Rinascimento
italiano, Ghiberti è ritenuto da Schlosser “l’antenato” per eccellenza “della letteratura storico-
artistica nel vero senso della parola… tanto più che egli, provenendo direttamente dalla

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bottega di un pittore giottesco del secolo precedente [la bottega del padre orafo], congiunge
nella sua persona l’età nuova con l’antica”.
È istruttivo infatti confrontare, anche sul piano ‘generico’ (ossia, in riferimento a questioni di
genere testuale), i Commentarii di Ghiberti, redatti in tarda età tra il 1447 e il 1455, con il
precedente trattato sulla pittura di Leon Battista Alberti, scritto, anch’esso in volgare, nel
1435 (e successivamente tradotto in latino dallo stesso Alberti).
Il trattato di Alberti, che “aveva aperto… una prospettiva completamente nuova sull’operare
dell’artista e sulla funzione della pittura”, aveva esplicitamente rifiutato il modello biografico
derivato da Plinio:
Ma qui non molto si richiede sapere quali prima fossero inventori dell’arte o pittori, poi che
non come Plinio recitiamo storie, ma di nuovo fabbrichiamo un’arte di pittura, della quale in
questa età, quale io vegga, nulla si trova scritto…
Il trattato di Alberti “[era] coscientemente un’opera di reinvenzione, non di commemorazione
storica”, mentre Ghiberti “privilegia… proprio sulla falsa riga pliniana, una visione storica,
basata sugli apporti delle singole individualità”. Visione comunicata in un testo che si
riaggancia, come già aveva visto Schlosser, “anche nella sua natura spirituale alla
letteratura memorialista fiorentina dei Ricordi”.
Sottolinea infatti Donata Levi come Ghiberti, nell’alludere al proprio testo con il nome di
commentario, abbia seguito Vitruvio—che in apertura del VII libro di De Architectura aveva
affermato:
Con saggia e utile decisione i nostri antenati stabilirono di tramandare ai posteri per mezzo
di testimonianze scritte le loro conoscenze e teorie scientifiche perché non andassero
perdute e dal momento che col passare del tempo, esse si arricchivano sempre di più,
vennero pubblicate in volumi che potessero far prevenire a un più alto grado di sapere.
Ma sottolinea anche come Ghiberti sembri intendere il termine commentario in un modo
assimilabile a quello in cui viene utilizzato dall’umanista aretino a lui contemporaneo,
Leonardo Bruni (1370-1444):
Bruni, infatti, intitola “Commentarii” sia la narrazione degli eventi cui aveva partecipato
(riprendendo la tradizione di Giulio Cesare e riagganciandosi alla tradizione memorialistica
fiorentina dei Ricordi), sia un riassunto degli Hellenica di Xenofonte e una compilazione da
Polibio.
“Nel contesto di un successo anche finanziario e imprenditoriale” e in seguito soprattutto alla
vincita dell’epocale concorso (1400-1401) per la porta a nord del Battistero fiorentino—
evento che inaugura in tutti i sensi il Quattrocento—“i Commentarii diventano una chiara
testimonianza della presa di coscienza, da parte dell’artista, del proprio ruolo”.
Quasi fossero l’equivalente letterario dell’inserimento dell’autoritratto dello scultore nelle
cornici sia della porta a nord del Battistero che, successivamente, della cosiddetta Porta del
Paradiso.
In che cosa consiste tale ruolo?
Come spiega Donata Levi, Ghiberti scrive nella convinzione che per essere un buon scultore
l’artista doveva avere sia abilità nel trattamento dei materiali (o naturale abilità) sia una
conoscenza dei principi della sua arte (materia e ragionamenti, ingegno e disciplina).
Doveva investigare le teorie su cui era fondata la buona pratica moderna e studiare e imitare
le opere degli artisti antichi e moderni che, scoprendo o indagando principi fondamentali,
avevano dato dei contributi alla pratica artistica. Questi tre argomenti—gli esempi antichi in
riferimento ai loro principi, i grandi esempi moderni e la teoria—sono quelli dei tre libri.
I Commentarii infatti—conservati in un unico manoscritto presso la Biblioteca Nazionale di
Firenze—si dividono in tre libri.

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Il primo—volto a tramandare memoria dell’arte antica—è una “collezione e una
rielaborazione di passi da testi classici”:
Principalmente da Plinio e Vitruvio, ma anche da Ateneo, detto Meccanico, contemporaneo
di Vitruvio e autore di un trattato in greco sulle macchine militari.
Il secondo libro—volto a tramandare memoria dell’arte moderna, a partire cioè dal crollo
dell’impero romano ma soprattutto dalla rinascita dell’arte “in Etruria”—contiene le biografie
di Giotto e dei suoi discepoli.
Esse restituiscono un “complesso panorama dell’arte trecentesca organizzato per artisti” e al
contempo una “vera e propria genealogia del Ghiberti”, la cui autobiografia—“la prima
autobiografia di artista che ci sia nota”—giunge a conclusione di questo libro.
Il terzo libro—il più esteso dei tre, sebbene sia rimasto incompleto—è l’abbozzo di una teoria
prospettica, in parte limitata ad una raccolta di fonti, tra cui il De Aspectibus del medico,
filosofo è matematico arabo Alhazen (965 circa-1039), la Perspectiva di Roger Bacon (1220-
1292) e la Perspectiva communis di John Peckham (1240-1292).
La biografia di Giotto che apre il secondo libro è preceduto da un passo che la colloca in un
contesto storico dalla portata vasta e che la pone in relazione all’evento per Ghiberti
centrale, determinante, ossia il crollo del mondo classico in seguito all’assunzione a religione
ufficiale dell’impero del cristianesimo—evento che “si colora di toni apocalittici sia sul piano
artistico sia su quello culturale”.
<A>dunche al tempo di Constantino imperadore e di Silvestro papa sormontò su la fede
christiana. Ebbe la ydolatria grandissima persecu.one, in modo tale, tutte le statue e le
picture furon disfaLe e lacerate di tanta nobiltà et anticha e perfetta dignità, e così si
consumaron colle statue picture, e vilumi, e comentarii, e liniamenti, e regole davano
amaestramento a tanta et egregia e gentile arte. E poi levare via ogni anticho costume di
ydolatria, constituirono i templi tutti essere bianchi. In questo tempo ordinorono grandissima
pena a chi facesse alcuna statua o alcuna pictura, e cosi finì l'arte statuaria e la pictura et
ogni doctrina che in essa fosse fatta. Finita che fu l'arte, stettero e templi bianchi circa d'anni
600. Cominciorono i Greci debilissimamente l'arte della pictura e con molta rozeza
produssero in essa: tanto quanto gl'antichi furon periti, tanto erano in questa età grossi e
rozi. Dalla edificatione di Roma furono olimpie 382.

L’ultima frase ci introduce al particolare sistema di datazione adoperato da Ghiberti. Come


spiega infatti Lorenzo Bartoli:
Ghiberti usa un sistema cronologico basato sul calcolo delle olimpiadi [separate le une dalle
altre da intervalli di quattro anni]—sistema permutato da Plinio, ma che si estende anche alle
parti sull’arte moderna (il Ghiberti scrive, di Andrea Pisano, che “fu grandissimo statuario
nella olimpia 410”; quando finalmente giunge a trattare di se stesso, improvvisamente passa
ad un computo per anni dell’era cristiana: “Nella mia giovanile età, nelli anni di Christo 1400
mi parti […] da Firenze”…la frattura cronologica, nell’isolare il momento dell’autobiografia, ne
esalta anche la rilevanza storica (Lorenzo Ghiberti, infatti, è l’unico artista vivente di cui si
parli nei Commentarii).
Passiamo ora a leggere la biografia di Giotto, che apre con un episodio narrativo,
eccezionale all’interno del secondo libro dei Commentarii, e che serve “per marcare l’evento
‘provvidenziale’ della venuta del grande riformatore”, evento che, come sembra suggerire
Venturi, risente “dell’idea medievale del miracolo”, se non addirittura del racconto
evangelico.
Effetti retorici che sono il diretto risultato dell’accostamento quasi violento di predicazioni
d’azione appartenenti a piani non solo diversi ma distanti tra loro: quello della storia

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universale per l’appunto e quello biografico, relativo alla sfera individuale e alla quotidianità
(In una villa…nacque uno fanciullo…il quale si ritraeva del naturale una pecora).
“Cominciò l’arte della pictura a sormontare in Etruria. In una villa allato alla città di Firenze, la
quale si chiamava Vespignano, nacque uno fanciullo di mirabile ingegno, il quale si ritraeva
del naturale una pecora. In su passando Cimabue pictore, per la strada a Bologna, vide el
fanciullo sedente in terra, e disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima
amiratione del fanciullo, essendo di si pichola età fare tanto bene. Domandò veggendo aver
l’arte da natura, domandò il fanciullo come egli aveva nome. Rispose e disse: “Per nome io
son chiamato Giotto. El mio padre à nome Bondoni, e sta in questa casa che è apresso”,
disse. Cimabue et andò con Giotto al padre; aveva bellissima presentia; chiese al padre el
fanciullo. El padre era poverissimo, concedetegli el fanciullo a Cimabue. Menò seco Giotto,
e fu discepolo di Cimabue. Tenea la maniera greca, in quella maniera ebbe in Etruria
grandissima fama. Fecesi Giotto grande nell’arte della pictura.”

Ma come ci ricorda Donata Levi, la storiografia artistica di Ghiberti, come anche quella di
Plinio, è storia costituita proprio dagli “apporti delle singole individualità”; conseguentemente,
il testo passa da una modalità di progressione di tipo narrativo e consecutivo a quella
individuativa, scegliendo quale ‘oggetto’ da individuare proprio Giotto pittore, la
constatazione valutativa della cui grandezza è il punto d’arrivo della narrazione introduttiva,
in quanto evoca l’esito di un processo di auto-trasformazione (Fecesi Giotto grande nell’arte
della pictura).
Tutto il resto della biografia, costruita per la maggior parte “sulla base delle opere”, giunge a
giustificare tale constatazione.
A partire da una sequenza di predicazioni d’azione (figurate) di cui è soggetto Giotto:
Arrechò l’arte nuova, lasciò la rozeza de’ Greci, sormontò excellentissimamente in Etruria. E
fecionsi egregiissime opere e spetialmente nella città di Firenze et in molti altri luoghi, et
assai discepoli furono tutti dotti al pari delli antichi Greci. Vide Giotto nell’arte quello che gli
altri non agiunsono. Arecò l’arte naturale e Ia gentileza con essa, non uscendo delle misure.
E che nella maggior parte dei casi introducono nel discorso—quali prodotti, fuochi o punti di
riferimento di tali azioni—degli oggetti (l’arte nuova; la rozeza dei Greci; quello che gli altri
non aggiunsono; l’arte naturale; la gentileza; le misure) che servono a caratterizzare in modo
più o meno indiretto la pittura così come la praticò e come la concepì Giotto.
A tali caratterizzazioni indirette sono abbinate valutazioni sia indirette (egregiissime) che
dirette (dotti) dei discepoli di Giotto e delle loro opere.
Schlosser suggerisce che per misure Ghiberti intenda per lo più proporzioni, talvolta
simmetria.
Venturi commenta così il passo:
Come spiega il Ghiberti la grandezza di Giotto? “Arrecò l’arte naturale e la gentilezza con
essa non uscendo dalle misure”. Se “arte naturale” e “misure” derivano da Plinio,
“gentilezza” indica l’affinità tra Cennini e Ghiberti: si tratta della nobiltà del sentire.
Giotto viene poi valutato (Fu peritissimo in tutta l’arte) e classificato (Fu inventore e trovatore
di tanta doctrina) in termini che richiamano puntualmente la storia dell’arte pliniana quale
storia degli artisti-inventori e che richiedono una spiegazione generale evocativa di leggi
della natura:
“Fu peritissimo in tutta l’arte, fu inventore e trovatore di tanta doctrina la quale era stata
sepulta circa d’anni 600. Quando la natura vuole concedere alcuna cosa, la concede sanza
veruna avaritia.”

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Che il caso Giotto possa effettivamente illustrare la provvidenziale generosità della natura
viene dimostrato adducendo la varia ed estesa operosità del pittore:
Costui fu copioso in tutte le cose, lavorò in …, in muro, lavorò a olio, lavorò in tavola. Lavorò
di mosaico la nave di San Pietro in Roma, e di sua mano dipinse la cappella e la tavola di
San Pietro in Roma. Molto egregiamente dipinse la sala del Re Uberto de’ huomini famosi,
in Napoli, dipinse nel castello dell’uovo [a Napoli]. Dipinse nella chiesa, cioè tutta è di sua
mano, della Rena [Cappella degli Scrovegni] di Padova. È di sua mano una gloria mondana.
E nel Palagio della Parte [Guelfa, a Firenze] è una storia della fede christiana e molte altre
cose erano in detto palagio. Dipinse nella chiesa d’Ascesi [Assisi], nell’ordine de’ frati minori,
quasi tutta la parte di sotto. Dipinse a sancta Maria degli Angeli in Ascesi. A sancta Maria
della Minerva in Roma uno crocifisso con una tavola.
Tale operosità viene rappresentata tramite:
Ripetute predicazioni d’azione, alcune delle quali (lavorò…lavorò…lavorò) servono ad
introdurre nel discorso le diverse tecniche da Giotto padroneggiate, mentre altre (dipinse…
dipinse…dipinse, che equivale al Pinxit di Plinio) servono ad introdurvi le opere.
Un costrutto ‘esistenziale’ (nel Palagio della Parte è una storia della fede christiana) volto
anch’esso ad introdurre un’opera.
L’individuazione di un ulteriore membro della classe di oggetti di sua mano (È di sua mano
una gloria mondana), con analoga funzione.
In modo indiretto ed in maniera molto limitata, le opere vengono interpretate quali
raffigurazioni di determinati soggetti, descritte nelle loro dimensioni, e generalmente valutate
in maniera positiva per il modo in cui sono lavorate, attraverso l’utilizzo di avverbi quali
egregiamente, doctissimamente, excellentemente.
L’opera che per lui furon dipinte in Firenze. Dipinse nella badia di Firenze, sopra all’entrare
della porta in uno arco, una meza Nostra Donna con due figure dallato molto egregiamente;
dipinse la cappella maggiore e la tavola. Nell’ordine de’ frati minori [a S. Croce] quattro
capelle e quattro tavole. Molto excellentemente dipinse in Padova ne’ frati minori.
Doctissimamente sono ne’ frati Humiliati in Firenze [nella chiesa di Ognissanti] [era] una
cappella, e uno grande crocifixo, e quattro tavole fatte molto excellentemente: nell’una era la
morte di Nostra Donna con angeli e con dodici apostoli e Nostro Signore intorno, fatta molto
perfectamente. È vi una tavola grandissima [la Maestà] con una Nostra Donna assedere in
una sedia con molti angeli intorno; è vi, sopra la porta va nel chiostro, una meza Nostra
Donna col fanciullo in braccio. E in Sancto Giorgio un crocifixo; ne’ frati Predicatori [S. Maria
Novella] è uno crocifixo et una tavola perfectissima di sua mano; ancora vi sono molte altre
cose. Dipinse a moltissimi signori. Dipinse nel Palagio del podestà di Firenze, dentro fece el
comune come era rubato e la capella di sancta Maria Maddalena.
L’affresco del Palazzo del Podestà cui Ghiberti accenna con l’espressione “come il comune
era rubato” era un affresco allegorico di cui parla Vasari nella sua “Vita di Giotto”:
Nella sala grande del Podestà di Fiorenza, per mettere paura ai popoli, dipinse il Commune
ch’è rubato da molti, dove in forma di giudice con lo scettro in mano a sedere lo figura, e le
bilance pari sopra la testa per le giuste ragioni ministrate da esso et aiutato da quattro figure:
dalla Fortezza con l’animo, dalla Prudenzia con le leggi, dalla Giustizia con l’armi e dalla
Temperanza con le parole—pittura bella et invenzione garbata, propria e verisimile.
Infine, una valutazione generale di Giotto (meritò grandissima loda) viene giustificata da
un’altra, che specifica quale sede di valutazione “tutta l’arte” (da intendere in riferimento alla
pittura, come sembra indicare il senso aggiuntivo e contrastivo di quell’”ancora” che
introduce l’accento all’opera di Giotto scultore e architetto):

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Giotto meritò grandissima loda. Fu dignissimo in tutta l’arte, ancora nella arte statuaria. Le
prime storie sono nello edificio il quale dallui fu edificato, dal campanile di sancta Reparata,
furono di sua mano scolpite e disegnate; nella mia età vidi provedimenti di sua mano di dette
istorie egregiissimamente disegnati. Fu perito nell’uno genere e neil’altro.
La biografia conclude nel riaffermare che Giotto è stato di “somma lode”, anche perché
maestri di “molti discepoli”, cui seguiranno le biografie:
Costui è quello a cui, senso dallui resultata e seguitata tanta doctrina, a cui si de’ concedere
somma loda, per la quale si vede la natura procedere in lui ogni ingegno; condusse l’arte a
grandissima perfectione. Fece moltissimi discepoli di grandissima fama. E discepoli furon
questi…

Concludiamo questa lezione con la lettura di un brano dalla Breve ma veridica storia della
pittura di Roberto Longhi, di cui narra la genesi Cesare Garboli nell’Introduzione all’edizione
BUR.
Quando scrisse la Breve ma veridica storia della pittura Italiana, nel 1914, Longhi aveva
ventiquattro anni. Si era laureato a Torino discutendo col Toesca una tesi sul Caravaggio;
poi, nel 1912, un anno dopo la laurea, era sceso a Roma per frequentarvi, stipendiato, la
scuola di perfezionamento del Venturi [Adolfo] alla quale era stato ammesso dopo un
colloquio sul Tura. Intanto, preso alloggio a vita Urbana, insegnava nei licei Tasso e
Visconti. E qui, per gli studenti liceali, preparò alla fine dell’anno scolastico 1913-14, tra il 15
giugno e il 4 luglio, un paio di settimane incandescenti se si deve credere alla denuncia,
nell’explicit, del caldo intollerabile di quei giorni, un promemoria, in vista degli esami di
maturità, un breviario, una sorta di Bignami che riassumesse, in poche formule essenziali e
in termini facilmente assimilabili e memorizzabili, il corso delle lezioni impartite dalla
cattedra.
Il brano è tratto dalla Parte I del libro (Idee), volta ad esporre quegli “elementi” tramite i quali
il pittore “trasfigura l’essenza visiva” della realtà, giungendo così ad offrire, non una
imitazione, bensì una “interpretazione individuale” e propriamente pittorica di essa—elementi
che costituiscono infatti “una serie di modi di visione pittorica, degli stili diversi insomma”, le
cui “vicende” saranno raccontate nella Parte II (Storia):
Un’opera ci piace: è gusto; un’altra ci piace per le stesse ragioni che scopriamo essere
ragioni di espressività lineare, supponiamo, o coloristica. Porre la relazione fra le due opere
è anche porre il concetto della Storia dell’Arte, come almeno intendo io, e cioè null’altro che
la storia dello svolgimento degli stili figurativi: le vicende della linea del colore della forma per
opera degli artisti di genio, non dei braccianti della pittura.
Così, in base a questi semplici criteri, non aspettate da me copia di nomi, di date, di
biografie più o meno aneddotiche; ma soltanto la catena ideale che lega i più grandi artisti
italiani a seconda dei loro intenti stilistici. Il che, non è poco.
Il primo di tali elementi fondamentali ad essere presentato ed esplicativo è lo “stile lineare”:
Stile lineare
È un modo di visione per cui l’artista figurativo esprime tutta la realtà visiva, sotto specie di
linea e di contorno. Voi comprendete quanto sia lontano dal realismo un artista che sfronda
dal complesso delle apparenze tutto ciò che non si può esprimere sinteticamente per mezzo
di linea.

La cui classificazione quale “modo di visione”, precedentemente stabilita, viene qualificata


tramite una predicazione d’azione espressiva (esprime tutta la realtà…) riferita all’artista che
ne fa uso e complementata da una caratterizzazione indiretta (lontano dal realismo) di tale

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artista, ‘proiettata’, a scopo retorico e didattico, quale cognizione già acquisita dai lettori-
allievi (Voi comprendete…)—caratterizzazione implicitamente giustificata da un’ulteriore
predicazione d’azione, indiretta e figurata (che sfronda dal complesso delle apparenze…)
L’attenzione individuativa si sposta sulla linea, “mezzo” per il quale si realizza tale stile, che
viene rappresentata quale esito dell’agire formativo dell’artista e in giustapposizione
all’oggetto intenzionale di tale agire—quel corpo la cui “articolata nervosità” la linea è
chiamata ad esprimere:
Quando si voglia, per esempio, esprimere la articolata nervosità di un corpo per mezzo di
puro contorno, ecco l’artista imprimere tale vibrazione ondulata alla linea marginale da
sintetizzare con essa lo scatto e lo spostamento della materia corporea inclusa nel rigirarsi
del contorno, materia ch’egli non rappresenta e che pure esprime per mezzo di una cosa
diversa: la linea.
Dove sembra ci sia già un richiamo al passo pliniano sulle linee di contorno (o come le
chiama Aretino “estreme”) ricordato quasi quarant’anni dopo nelle Proposte.
Ribadita la strumentalità della linea e specificato il fine che permette di conseguire
(sintetizzare…lo scatto e lo spostamento della materia corporea inclusa nel rigirarsi del
contorno), essa viene. Identificata, nella misura in cui corrisponda a tale finalità, quale “linea
funzionale”:
La quale quando come in questo caso abbia per scopo di esaltare l’energia vibrante del
corpo può chiamarsi: linea funzionale.
A tale precisazione denominativa viene contrapposta un’altra “linea floreale), corrispondente
ad una “nuova specie di linea”, preliminarmente ed indirettamente caratterizzata tramite la
‘presentazione’ di una serie di enti sinestetici e visivi, quasi fossero prodotti dal moto vitale
della stessa linea (ritmi, rispondenze di ondulazioni, rabeschi decorativi) o esiti di una
metamorfosi della “linea funzionale” (un’ondulazione, uno stelo…,un’alga…):
Ma spesso dallo svolgersi e dall’intreccio delle linee funzionale si formano ritmi, rispondenze
di ondulazioni, che accentuate a poco a poco dall’artista vengono a formare dei puri
rabeschi decorativi in cui l’antico valore vitale organico non è abolito ma è ridotto a
un’ondulazione quasi involontaria, come di uno stelo incurvo dal vento, o di un’alga insinuata
dalla corrente; e questa nuova specie di linea può ben dirsi: linea floreale.
Nel capoverso conclusivo, alla linea in generale e alle specie funzionale e floreale si
aggiungono altri referenti: alcuni artisti (Antonio Polaiolo, Simone Martini, “gli artisti Cinesi e
Giapponesi”) e certe loro opere.
Attraverso quale percorso esplicativo arriva Longhi a parlarne?
Gli artisti sono introdotti tramite una mossa espansiva che, partendo dalle due specie di
linea, mira ad indicarne, quasi fossero degli attributi loro, gli artisti-esponenti più insigni, i
quali, insieme a loro opere, sono evocati quali oggetti intenzionali di una serie di atti mentali,
richiesti ai lettori-allievi dall’autore-maestro, in un passo che assume valenza istruzionale
(potete ricordare…non dimenticate…considerate).
Come massimo creatore di linea funzionale potete fin d’ora ricordare il nome di Antonio
Pollaiolo e riferirvi alle analisi particolari ch’io faccio di qualche opera sua… come
insuperabile floreale non dimenticate ormai Simone Martini e studiate con me il suo Trittico
degli Uffizi di Firenze, con l’Annunciazione e due Santi… considerate infine di poter gustare,
sulle stesse basi espressive, gli artisti Cinesi e Giapponesi che furono florealisti supremi, e
per molti secoli.

LEZIONE 9

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PERIEGESI ED EKPHRASIS ATTRAVERSO I SECOLI
In questa lezione si concluderà la nostra ricognizione preliminare dei principali generi in uso
nel discorso riferito all’arte d’epoca classica, integrando così le precedenti osservazioni e
letture relative al trattato e alla biografia e storiografia artistiche con altre dedicate invece alla
periegetica e all’ekphrasis. E anche in questo caso confronteremo i testi antichi con testi
affini ma appartenenti ad epoche successive.
Il trattato, l’abbiamo visto, è un genere essenzialmente normativo, che, riferito all’arte, tende
a regolare una determinata procedura formativa.
Pertanto tende o ad istruire in tale procedura (lo vedremo quando ci occuperemo di
confrontare tre trattati tecnici medioevali, tra cui il “Libro dell’arte” di Cennino Cennini) o ad
individuarla nelle varie sue parti (parti concettuali e pratiche, teoriche e tecniche); come
individuerà anche le opere quali suoi effettivi o potenziali esiti, diversamente riusciti ed
esemplari.
La biografia invece è un genere in cui prevale la tipologia testuale narrativa e che, riferito
all’arte, tende a tracciare un iter produttivo, fosse di un singolo artista o movimento, di una
singola scuola, cultura o epoca—spesso a tracciare insieme o in parallelo le vicende
evolutive di un’arte particolare o dell’arte in generale.
E pertanto tende ad esplicare le figure degli artisti come produttori di opere e le opere in
quanto testimonianze di tale iter o di tali vicende.
Riferiti all’arte la periegetica e l’ekphrasis sono entrambi incentrati nell’esplicazione non
tanto di procedure o di iter produttivi quanto delle opere che ne costituiscono gli esiti e le
testimonianze.
Soprattutto tende ad individuare le opere quali oggetti di fruizione, di osservazione, di
frequentazione o visita.
Sono generi il cui sviluppo va collocato in una fase tarda di quel processo di allargamento
del discorso sull’arte cui accenna Schlosser quando confronta la letteratura “prodotta da
artisti” con “un altro numeroso gruppo di scritti, che considerano l’argomento dal punto di
vista dell’impressione e derivano da ambienti profani, dal pubblico degli amatori e degli
osservatori…”
È un processo tracciato a grandi linee (come del resto è inevitabile, dal momento che la
maggior parte dei testi sono andati perduti) da Donata Levi:
È un lungo processo che dal V secolo giunge fino alla fine del IV, dapprima con opere
sempre redatte da artisti (Pamfilo di Amfipoli sembra aver scritto un libro sulla pittura e sui
pittori), poi con qualcuno che invece osserva fuori dalla bottega. Nel IV secolo, Duride di
Samo, scrittore di storie, compose le prime biografie di artisti, dimostrando così da una parte
che, oltre alle riflessioni degli artisti, esisteva anche una letteratura prodotta da profani,
amatori, osservatori, di conseguenza un pubblico interessato…
Albert Dresdner (1915) associa questo stesso processo al fatto che negli scritti
sull’educazione (primo fra tutti la Politica), il filosofo Aristotele aveva attribuito un ruolo
importante anche al disegno, dando luogo alla “necessità di raccogliere materiali utili per
l’intendimento e per la critica dell’arte e per la loro trasmissione al pubblico”.
Così, osserva Dresdner, “si sviluppò un nuovo genere di letteratura d’arte, che fu coltivato
per la prima volta nella scuola di Aristotele, cioè da Duride, un importante discepolo del
maestro”.
Era l’epoca [continua Dresdner] in cui l’arte veniva intensamente coltivata presso le corti
greche, specialmente quella di Alessandria e più tardi quella di Pergamo; si creavano
collezioni d’arte, si organizzava il commercio d’arte e i viaggi d’arte cominciavano a
diventare di moda. Per tutta questa operazione su larga scala non si poteva fare a meno di

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istruzioni letterarie e manuali di ogni tipo, e già, come sembra, dotti conoscitori d’arte furono
chiamati per elaborare i programmi di importanti imprese artistiche). Così, oltre alla
letteratura degli artisti, apparve una letteratura laica sull’arte [che] trattava l’arte non come
fine a se stesso ma come un oggetto di educazione…
…Si dava molta importanza alla spiegazione fattuale delle opere d’arte, e a questo scopo si
offriva un’ampia erudizione antiquaria, mitologica e storica. Inoltre, i compiti della topografia
dell’arte offrivano un ampio campo; fu fatto l’inventario dei beni artistici del mondo greco, e
furono create le note guide di viaggio… In questa fase, la vita artistica greca raggiunse un
nuovo stadio di sviluppo, in quanto il giudizio laico prese decisamente il suo posto accanto a
quello artistico, anzi, sottolinea Dresdner, sempre più in opposizione ad esso.
Anche nel caso della periegesi, come in quelli del trattato e della biografia artistica, ci è
giunta un’unica opera antica nella sua interezza, la cosiddetta Guida alla Grecia di Pausania
(110 circa-180 circa), storico, geografo ed erudito greco, originario della Lidia, di cui l’editio
princeps risale a 1516.
L’opera, divisa in dieci libri, intende offrire notizie di erudizione antiquaria sotto forma di
itinerario di viaggio, per cui le descrizioni di luoghi, monumenti d’arte, templi ecc. sono
occasione per digressioni di carattere storico e geografico. Fonte insostituibile per le
numerose notizie su artisti e le ampie descrizioni di opere, come quelle del trono di Amicle,
oppure dello Zeus di Fidia e dell’arca di Cipselo a Olimpia, il testo di Pausania fa supporre
l’esistenza di una tradizione di conoscenze assemblate da ciceroni e custodi e rivela sia il
significato collettivo dei luoghi sacri della Grecia sia la loro valenza museale, assimilabile a
quella che potranno assumere nel Medioevo i tesori delle chiese.
Come sottolinea anche Schlosser:
Come la chiesa medievale ha i suoi elenchi di reliquie, come la letteratura delle guide di
Roma procede dai Mirabilia, così non è da disconoscere neppure in Pausania la base di una
letteratura popolare per i pellegrini credenti che si contentavano di vedere, tanto più se si
pensi quale parte avevano ancora le reliquie e simili oggetti miracolosi nelle guide del ‘600,
specialmente se i loro autori erano ecclesiastici. La questione della autopsia dell’antico
periegeta è stata esemplarmente trattata dallo Heberdey ed è la stessa che ci presenta
anche nella critica vasariana.
Finalità invece dell’ekphrasis sarebbe stata di descrivere un’opera fino a renderla quasi
“visibile a parole”. Se ne trova un celeberrimo esempio già in Omero, con lo scudo di Achille
descritto nell’Iliade…L’ekhrasis, che attraverso del resto tutta la storia della poesia, trova la
sua legittimazione nel parallelo fra le arti adombrato già da Simonide nel V secolo: la pittura
è una poesia muta, la poesia è una pittura parlante; un parallelo che avrà grandissima
fortuna e che troveremo espresso ancor più concisamente nella famosa formula oraziana
dell’ut pictura poesis.
L’ekphrasis diventerà poi un vero e proprio genere nella cultura della Seconda Sofistica, in
particolare con Luciano (II sec. d.C.), che sostiene che il conoscitore (l’esteta) non deve
rimanere “muto spettatore della bellezza”, non deve “cogliere il piacere solo con gli occhi”: il
suo impegno era di “guardare”, “lodare” e “spiegare la bellezza a chi non la conosce”.
Come esempio di ekphrasis leggeremo un brano tratto dalle immagini, opera in due libri di
Filostrato maggiore (nato introno a 190 d.C.), un retore greco che frequentava il circolo
dell’imperatrice romana Giulia Domna.
Si tratta di una serie di ‘descrizioni’ di quadri, dai soggetti in prevalenza mitologici, che si
sarebbero trovati nel portico di una villa a Napoli e che, come nota Donata Levi, mentre a
lungo sono state considerate immaginarie, “oggi gli studiosi sono propensi a riferire[le] a
quadri reali”.

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Ma iniziamo con un brano di Pausania, dedicato alla Stoà Pecile, il portico eretto nell’agorà
di Atene prima della metà del V secolo a.C. da Peisianatte, e dove da altre fonti sappiamo
che avevano lavorato pittori del rango di Polignoto di Taso (attivo tra 480 e 455 a.C.).
Il portico dette il loro nome ai filosofi stoici, discepoli di Zenone che usava riunirli proprio in
questo luogo.
[1] Andando al portico, che dalle pitture prende il nome di Pecile, si vede l’Ermes di bronzo,
detto Agoràios, e vicino una porta; sopra la porta c’è un trofeo degli Ateniesi che in uno
scontro di cavalleria vinsero Plistarco [re di Sparta dal 480 a.C. al 458 a.C.], il quale, come
fratello di Cassandro, era stato investito del comando della cavalleria e dei mercenari al
servizio di quello. In questo portico sono dipinti dapprima gli Ateniesi, schierati contro gli
spartani ad Enoe [un demo dell’Attica], in territorio argivo; la battaglia non è rappresentata al
suo culmine o al momento in cui si fa mostra l’audacia, ma ancora al suo inizio e quando i
contendenti stanno venendo alle mani.
[2] Al centro della parete gli Ateniesi e Teseo combattono contro le Amazzoni.
Evidentemente solo a tali donne la sconfitta non toglieva il generoso ardimento di fronte ai
pericoli, se dopo la presa di Temiscira da parte di Eracle e la distruzione dell’esercito che
avevano inviato contro Atene, esse vennero ugualmente a Troia per combattere contro gli
stessi ateniesi e contro tutti i greci. Dopo le Amazzoni, sono raffigurati i greci che hanno
conquistato Ilio e i re riuniti a consiglio per quel che Aiace osò fare a Cassandra; la pittura
poi rappresenta lo stesso Aiace e Cassandra fra altre prigioniere.
[3] All’estremità della pittura vi sono i combattenti di Maratona: i Beoti di Platea [nella regione
a nord dell’Attica] e quanti ateniesi erano presenti sono raffigurati mentre vanno allo scontro
con i barbari. In questa parte le sorti dello scontro sono ancora incerte per entrambi gli
schieramenti, mentre nella parte interna della battaglia i barbari sono in fuga e si spingono
l’un l’altro verso la palude; e proprio in fondo alla pittura si vedono le navi fenicie e i greci
che fanno strage dei barbari che cercano scampo sulle navi. Qui è rappresentato anche
l’eroe Maratone, da cui prende il nome la pianura, e Teseo, raffigurato come se emergesse
dalla terra, e poi Atena e Eracle: i Maratonii, infatti, come dicono essi stessi, furono i primi a
considerare Callimaco, eletto polemarco dagli ateniesi, fra gli strateghi Milziade [generale
ateniese], e l’eroe chiamato Echetlo, che ricorderò più avanti.
[4] Ci sono poi scudi di bronzo: su alcuni è apposta un’epigrafe che li dice presi agli Scionei
[abitanti di Scione, città nella penisola Calcidica] e ai loro alleati; gli altri scudi, cosparsi di
pece perché non li rovinino il tempo e la ruggine, si dice che siano degli Spartani fatti
prigionieri nell’isola di Sfacteria.
Sono qui da rimarcare, quali indizi di genere, le molte espressioni locutive che hanno la
funzione di orientare l’utente nello spazio sia fisico del luogo che pittorico della raffigurazione
complessa che gli viene ordinatamente indicata ed illustrata. “Andando al portico” indirizza
l’utente verso il monumento in esame, al cui interno viene segnalata la presenza di una
serie di opere ed oggetti, tipicamente tramite l’uso del costrutto esistenziale (vi sono, c’è) o
del verbo “vedere” (si vede, si vedono: cfr. sono particolarmente in vista).
Dipinti e oggetti vengono introdotti secondo un ordine che replica i rapporti di contiguità e di
sequenza spaziale che si riscontrerebbero nel luogo stesso:
Si vede l’Ermes di bronzo…e vicino una porta; sopra la porta c’è.…in questo portico sono
dipinti dapprima…al centro della parete gli ateniesi e Teseo combattono contro le
Amazzoni…dopo le Amazzoni…poi…all’estremità della pittura…in questa parte… mentre
nella parte interna…in fondo alla pittura…ci sono poi.
E infine si può notare anche il tentativo di riportare la raffigurazione di un singolo episodio
storico all’intera sequenza di fatti extra-pittorici cui rimanda.

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Passiamo ora al brano di Filostrato, che in un proemio fornisce il pretesto delle sue
‘descrizioni’: si trovava a Napoli in occasione di una gara e non avendo voglia di tenere
conferenze pubbliche e infastidito dai ragazzi che frequentavano la casa dell’ospite, se ne va
in bagno rivolto verso il mare.
…Dove c’era un portico costruito su quattro, forse cinque arcate, esposto a Zefiro,
riguardante il mar Tirreno. Era risplendente di tutti i marmi che il lusso può vantare, ma
soprattutto era splendido per via dei quadri collocati alle pareti, pitture che non mi pare
fossero state raccolte da incompetenti: in esse si manifestava infatti la maestria di parecchi
pittori.
Io, già per mio conto, sentivo di dover lodare quelle pitture, ma si aggiunse il fatto che il figlio
di mio ospite, un ragazzino di dieci anni, buon ascoltare e desideroso di apprendere, mi
osservava mentre passavo in rassegna i quadri e mi chiese di interpretarglieli. Perché non
mi considerasse un villano, gli dissi: “D’accordo, appena saranno arrivati i ragazzi ne faremo
il tema di una lezione”.
Questo è l’assedio di Tebe: ecco infatti le mura con le sette porte e l’esercito di Polinice, il
figlio di Edipo: perciò l’armata si divide in sette compagnie. Si accosta Amfiarano con volto
mesto, perché conosce ciò che accadrà; ma anche gli altri capi hanno timore (per questo
levano le mani verso Zeus), mentre Capaneo guarda sprezzante le mura, ritenendo i
bastioni facili da scalare. Lui non è stato ancora respinto dai bastioni, perché i Tebani
indugiano ad iniziare il combattimento.
Piacevole è l’artificio del pittore che, collocando sulle mura degli uomini armati, alcuni li fa
vedere interi, altri coperti fino alle gambe, di altri si vede solo il petto, di altri solo la testa, poi
gli elmi, infine le aste. Ragazzo mio, questa sì che è prospettiva: bisogna infatti ingannare
con opportuni piani pittorici gli occhi che percorrono il quadro.
Dove è da notare la presenza di più espressioni “deittiche” (quelle cioè che indicano aspetti
o elementi del contesto referenziale di un enunciato dal punto di vista spaziale specifico del
parlante/dello scrivente):
Ecco, espressione che “serve a richiamare l’attenzione su cosa che contemporaneamente si
addita o si mostra, o a sottolineare un fatto, un avvenimento, oppure a indicare persona o
cosa che appaia improvvisamente”. I pronomi dimostrativi “questo” e “questa”.
Ma che in realtà rappresentano una leggera forzatura del testo originale; dove non si trova
alcuna espressione equivalente ad “ecco” ma solo l’enfatico ([è] proprio l’assedio di Tebe); e
solo nel caso dell’ enunciato “questa sì che è prospettiva” troviamo l’utilizzo di un
dimostrativo.
Il traduttore sembra abbia voluto sottolineare il ruolo del narratore quale guida alla simulata
osservazione diretta dell’immagine.
Sono pure da notare:
I tentativi di spiegare o motivare le espressioni ed atteggiamenti dei personaggi raffigurati
(Amfiarano, gli altri capi, Capaneo) tramite rimando a cognizioni, stati emotivi, giudizi e fatti
desunti del racconto e dalle fonti letterarie.
La descrizione del gruppo degli uomini armati sulle mura, presentato quale esito di precisi
accorgimenti compositivi e in funzione della valutazione dell’arte del pittore in termini prima
di piacevolezza, poi di sapienza prospettica.
Valutazione, la seconda, che viene subito giustificata in senso normativo: bisogna infatti
ingannare con opportuni piani pittorici gli occhi che percorrono il quadro.
Confronteremo questi due brani con testi del Seicento e del Novecento, di Federico
Borromeo e di Edoardo Sanguineti.

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Il testo del cardinale Borromeo (1564-1631) è tratto da Musæum (1625), che restituisce una
sorta di visita guidata alla pinacoteca ambrosiana, condotta da suo fondatore.
In apertura del libro, stampato ad uso di una cerchia ristretta, Borromeo ne racconta la
genesi:
Qualche tempo fa mi trovavo ad ammirare alcuni quadri, modelli e statue che avevo fatto
sistemare qualche tempo prima in un’ala della Biblioteca Ambrosiana fatta erigere a questo
specifico scopo, quando mi si avvicinarono due persone di mio seguito appassionate d’arte; i
due, con una sorta di sospiro, mi fanno: “Non sarebbe un bel lavoro, un lavoro di gran gusto
descrivere con cura in un testo tutte queste testimonianze di arte straordinaria che vediamo
raccolte in questa sede?”
E dichiara di prendere come modello Plinio, “non certo con la presunzione di imitarlo” ma
quale standard generale di eccellenza, con l’intento cioè “di accumulare un minor numero di
errori attendendomi alle opere più vicine alla perfezione”—regola di massima in tutta le cose.
Spiegando inoltre l’ordine del libro e i criteri adoperati nella scelta degli oggetti trattati, tra i
“quadri, disegni…copie ricavate dalle più celebri opere antiche…ritratti di uomini illustri, oltre
che quadri a contenuto storico o narrativo” esposti nel museo:
[l’ordine] non sarà che quello determinato appunto dalla disposizione dei quadri; sia subito
detto, sono stati collocati secondo l’ordine suggerito dall’opportunità, cioè in genere dai
vincoli degli spazi. Per essere sinceri, non ci siamo proposti di descrivere in questo testo tutti
i capolavori di pittura o di scultura conservati nel nostro museo, ma piuttosto di esaminare
con cura soltanto alcuni particolarmente degni di note…
Una delle opere cui Borromeo dà maggiore spazio è la Sacra Famiglia con S. Anna e S.
Giovannino (1530 ca) di Bernardino Luini:
La sala in cui si entra subito dopo mostra in evidenza l’arte meravigliosa del Luini il Vecchio.
C’è un quadro di dimensioni piuttosto notevole; i pittori ritengono che da questo artista non
sia stato fatto nulla di più compiuto. Però non tutta intera la gloria di questo quadro spetta al
Luini, ma deve essere condivisa con un altro sommo artista, per l’esattezza con Leonardo.
Questa si limitò a delineare con estrema squisitezza l’opera; Luini poi le conferì quanto di più
bello e di eccellente poteva darle, cioè una certa soavità, movimento e tenerezza affettuosa
nei volti. In questo modo, senza dubbio, questi celeberrimi artisti si prestavano
vicendevolmente la propria abilità: Luini riconosceva la nobiltà del disegno di Leonardo e a
sua volta Leonardo avrebbe riconosciuto al suo discepolo il sommo della gloria se avesse
visto l’opera completata al suo posto da quello. Tale sincera disponibilità nei sommi ingegni
è sempre esistita; esempi simili, relativi ed antichi artisti, sono riferiti anche da Plinio. Poiché
infatti conoscevano gli sterminati territori delle arti e i ristretti confini dell’umano ingegno e
sapevano in quanto ristretto spazio fosse circoscritta l’abilità e l’eccellenza di ciascuno, si
aiutavano reciprocamente con gioiosa generosità.
Precipuo lume di questo quadro è il Bambino Gesù e il suo volto; meravigliosa in particolare
nel corpicino del divino Infante è la morbidezza, così come è elogiata fra gli artisti la
tenerezza del ventre. Rimane anche un modello che Leonardo realizzò in argilla impressa
allo scopo di testimoniare i propri lavori divulgando l’eccellenza del suo impegno. La
bellezza della Vergine è tanto più ammirevole quanto più il suo viso supremamente degno di
venerazione esclude qualsiasi forma di lascivia; si può dunque veramente ammirare con
quale arte il pittore abbia saputo separare col pennello due realtà connesse in un certo
senso tra di loro dalla natura e come si riuscito a relegarle lontanissime l’una dall’altra.
L’anziana Elisabetta [sic=Anna] mostra la robustezza di una vivace vecchia e il piccolo
Giovanni osserva il Salvatore con ammirevole dolcezza. Queste osservazioni che sembrano
dette in tono eccessivamente ammirativo vorremmo veramente potessero parimenti

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adattarsi a tutte le altre opere del nostro museo; vedo invece che lo stile deve essere
abbassato perché quanto resta non gode dello stesso prestigio.
Nella sala in cui, seguendo le direzioni dell’autore-cicerone, ora entra, al visitatore-lettore
viene segnalata la presenza della “arte meravigliosa” di Luini.
Presenza e valore (meravigliosa) che si concretizzano in un quadro di cui viene indicato
innanzitutto, oltre alle dimensioni notevoli, l’altrettanto notevole prezzo sul mercato, che
l’acquirente sembra voler giustificare riportando l’autorevole giudizio dei pittori circa il suo
valore artistico: ritengono che da questo artista non sia stato fatto nulla di più compiuto
(valutarne tipicamente comparativa).
Si precisa subito che si tratta in realtà di un’opera in qualche modo collaborativa, quindi di un
merito condiviso, tra Luini e Leonardo—affermazione che avvia l’individualizzazione del
quadro.
Esso innanzitutto viene indirettamente caratterizzato tramite i complementi delle predicazioni
d’azione delineare e conferì, riferite ai due artisti (con estrema squisitezza; quanto di più
bello e di eccellente poteva darle…una certa soavità, movimento e tenerezza affettuosa nei
volti).
Successivamente l’attenzione si sposta verso la reciproca stima dei due artisti, che viene
presentata quale esempio concreto di una pretesa, generale legge morale circa la
disponibilità nei sommi ingegni, attestata anche (con somma autorevolezza) in Plinio.
Da tali considerazioni storiche e morali, di cui il dipinto fungerebbe da testimonianza, si
passa ad osservarlo più da vicino, riprendendone l’esplicazione in chiave caratterizzante-
valutativa, secondo un ordine che lo scompone in conformità ad una precisa gerarchia degli
elementi figurativi ed in un modo che sottolinea la varietà della loro rappresentazione
pittorica:
Il Bambino Gesù, suo volto, il corpicino, il ventre (meravigliosa… morbidezza).
La Vergine, il viso (bellezza… ammirevole; supremamente degno di venerazione esclude
qualsiasi forma di lascivia)—carattere che viene portata a testimonianza dell’intento (anche
morale) da parte del pittore di distinguere e separare tra loro due contrapposti tipi di
bellezza.
L’anziana Elisabetta [Anna] (robustezza di una vivace vecchia).
Il piccolo Giovanni, lo sguardo rivolto al Salvatore (ammirevole dolcezza).
Infine una ekphrasis del poeta Edoardo Sanguineti (1930-2010), tratto dalla raccolta
Mauritshuis, “un ironico viaggio pellegrinaggio lirico”, il cui titolo allude all’omonimo museo
dell’Aja, che il poeta visitò nel 1986.
Si tratta di un testo a commento della “Lezione di anatomia del dottor Tulp” (1632) di
Rembrandt Van Rijn.
Rembrandt Van Rijn:
Il mio nome è Aris kindt: fui un notorio criminale: (e fui molto autorevolmente giustiziato, a
suo tempo):(e, alla fine, non male riciclato): al connaisseur turista, che si degusta, oggi, con
gli occhi spalancati, il mio arto guasto (che però pare, ahimè, un’inguaiata protesi, un
posticcio pasticcio plasticato), io non richiedo, per il sapiente e calcolato scempio del mio
quieto cadavere, compianto né pietà: a me, può bastarmi per sempre, a mio confronto, tutto
quello che è iscritto negli sguardi di tutti quei signori bene in posa: (il perplesso e lo stolido,
l’imbarazzo e il curioso, l’inorridito e il distratto e l’ansioso): (ringrazio il dottor Tulp,
naturalmente, per la sua memorabile lezione, e l’avveduta gesticolazione cordiale).
L’ekphrasis di Sanguineti si inserisce in una tradizione antica secondo la quale un'iscrizione
posta su un artefatto lo rende 'parlante' – tradizione di cui ci ricorda Giuseppe Pucci:

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"Oggetti parlanti", resi tali da un'iscrizione con un testo che "parla" in prima persona esistono
in Grecia fin dall'età più arcaica. La famosa coppa di Nestore di Ischia, databile all'ultimo
quarto dell'VIII secolo, è l'esempio più antico, praticamente contemporaneo di Omero e della
nascita della stessa scrittura in Grecia; mentre è solo di qualche decennio più recente la
prima statua parlante che conosciamo, quella che un certo Mantiklos dedicò ad Apollo, ora
al Museum of Fine.
L’espediente retorico qui si ritorce contro la presunta curiosità malsana dello spettatore-
lettore, che il testo ritrae quale degustatore di passaggio, al di là del disgusto. Svelando la
propria identità e insieme, in una serie di caratterizzazioni ‘improprie’, gli stati mentali ed
emotivi di coloro che assistono alla “memorabile lezione” d’anatomia, il cadavere rivaluta
ironicamente il prestigio culturale e sociale del ritratto di gruppo e dà un’inflessione
imprevista alla consueta pretesa di universalità e di immortalità.

LEZIONE 10
PER VISIBILIA INVISIBILIA
Nella scorsa lezione abbiamo considerato esempi ‘fondanti’ dei generi testuali della
periegetica e dell’ekphrasis—esempi risalenti alla tarda antichità classica—che abbiamo
confrontato con testi affini per genere benché del Sei- e del Novecento.
L’obiettivo era quello di illustrare il perdurare attraverso i secoli di tali modalità generiche,
non tanto come tradizioni letterarie quanto come amalgami variabili delle tre tipologie testuali
(narrativa, istruzionale, individuativa) che abbiamo distinto—amalgami corrispondenti a
diverse combinazioni dei modi in cui è possibile per il parlante confrontarsi con gli oggetti—
ad esempio le opere d’arte o gli artisti—e rappresentarli a parole.
Nella lezione odierna, si darà avvio ad una rassegna storica più ordinata della critica d’arte,
intesa quale momento individuativo di un discorso riferito alla produzione artistica (e
necessariamente limitato alla cultura occidentale). Rassegna inevitabilmente selettiva ma
che, ponendo i testi a lettura critica e comparativa, cercherà di approfondire elementi sia di
continuità che di discontinuità, anche alla luce di considerazioni storiche di carattere
generale.
Nella misura concessa dalla durata del corso, si tenterà cioè di compiere quello “sforzo di
puntuale e precisa contestualizzazione filologica delle singole testimonianze” sulla cui
necessità ha insistito Donata Levi.
Si inizierà con il considerare il processo per cui, nei secoli immediatamente successivi a
quelli in cui vissero e scrissero Pausania e Filostrato Maggiore, generi testuali riferiti all’arte
quali la periegesi e l’ekphrasis si sono ‘convertiti’ al cristianesimo e pertanto rinnovati.
Testimonianza di una forma di continuità in seno a condizioni di profondo, talvolta violento
mutamento culturale.
Sono secoli infatti che hanno segnato quella cesura con il mondo classico di cui la memoria
traumatica affiora nell’Incipit del secondo Commentario di Ghiberti:
A dunque al tempo di Costantino imperadore e di Silvestro papa sormontò su la fede
christiana. Ebbe la ydolatria grandissima persecutione, in modo tale, tutte le statue e le
picture furon disfatte e lacerate di tanta nobiltà et anticha e perfetta dignità, e così si
consumaron colle statue picture, e amaestramento a tanta et egregia e gentile arte.
Incipit che tramanda in maniera un poco confusa gli esiti dell’editto di Tessalonica del 380
d.C., in cui non Costantino ma gli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II (benché
ancora ragazzo) dichiararono il cristianesimo religione ufficiale dell’impero romano e

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proibirono, oltre all’eresia ariana (che negava la consustanzialità tra prima e seconda
persona, Padre e Figlio, della Trinità), i culti pagani.
Cesura e trauma storiche evocate anche da Roberto Longhi nella propria rivisitazione della
storia della critica d’arte, le Proposte:
Crolla il mondo antico: tutti morti, i raffinati conoscitori greco-romani. Alla trascendenza del
Medioevo non resta che umiliare ogni dottrina mondana e ridursi, per l’arte, a un’umile
precettistica di laboratorio. Ma è tanto meglio per la critica diretta, perché al momento buono
le descrizioni dei “prati marmorei” di Santa Sofia in Paolo Silenziario e i “titoli” di tanti
anonimi poeti sotto i mosaici romani ci rivelano interpretazioni ineffabilmente libere.
Con l’espressione “umile precettista di laboratorio” Longhi accenna ad un altro genere
testuale riferito all’arte: il trattato tecnico, che grazie alla consapevolezza di un rinnovato per
quanto lacerato legame con il passato rappresenta anch’esso un fenomeno di continuità
nella discontinuità, di trattati tecnici medioevali si discuterà nella prossima lezione.
Oggi, invece, ci occuperemo proprio delle “descrizioni” di Paolo Silenziario e dei “Tituli” alto-
medioevali, quali esempi del ‘reimpiego’ in prospettiva cristiana dei generi classici della
periegesi, dell’ekphrasis e dell’epigramma, indagando le modalità in cui si manifesta tale
‘cristianizzazione’.
Occorre comprendere infatti in che cosa consista e come si realizzi quell’intento di “umiliare
ogni dottrina mondana” riferita all’arte, denunciato con palese fastidio da Longhi.
Occorre chiedersi in che modo tale intento modifichi il rapporto con l’oggetto artistico e quale
sia la natura delle “interpretazioni” cui darebbe luogo.
In primo luogo occorre riportare tale intento a quella “resistenza’ alle immagini nella
letteratura cristiana dei primi secoli” di cui Donata Levi indaga le coordinate culturali, tra cui:
Il divieto al culto e alla realizzazione delle immagini nella tradizione giudaica.
Il pensiero filosofico greco, in particolare nelle tradizioni presocratica, pitagorica e platonica,
imperniate su dicotomie quali quelle tra invisibile e visibile, materiale ed immateriale,
fenomenale ed ideale.
La lotta contro l’idolatria pagana; il risentimento verso l’obbligo del culto dell’effige imperiale.
L’influenza esercitata da movimenti quali il montanismo, che predicava il rifiuto totale del
mondo materiale, su apologeti cristiani quali il filosofo Tertulliano (155 circa-230 circa), che
condannava ogni tipo di raffigurazione.
È una resistenza alle immagini che non necessariamente sfocia in condanne assolute come
questa di Tertulliano, ma che, anzi, nella nascente controversia iconoclastia e nella
contestuale fase di istituzionalizzazione della religione cristiana, assume posizioni talvolta
vicine alle difese del culto delle immagini avanzate dagli stessi pagani.
Come ad es. dall’oratore Dione Crisostomo (II secolo), secondo il quale l’immagine rivela
l’invisibile tramite il visibile, sono argomentazioni arricchite nel pensiero cristiano da
considerazioni teologiche intorno alla dottrina dell’Incarnazione.
È il caso ad esempio di Giovanni Damasceno, teologo siriano vissuto tra il VII e il VIII secolo
e considerato il più importante difensore della figurazione cristiana: le sue argomentazioni
giocarono un ruolo cruciale nel II Concilio di Nicea (787), che annullò la precedente
condanna del culto delle immagini promossa dall’imperatore Costantino V ed emanata dal
Concilio di Hieria (754):
Nelle sue Orazioni in favore delle sacre immagini egli aveva proposto una gerarchia di tipi di
immagine, distinta in sei gradi, che mostra radicate implicazioni teologiche. All’estremo
superiore della scala Giovanni pone Cristo come immagine di Dio, in quanto sua
incarnazione, mentre a quello inferiore inserisce le immagini materiali, assimilandole alla
scrittura, in quanto il Verbo si materializza in essa così come si concretizza negli oggetti

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visibili. È luogo comune della teologia iconofila che le parole scritte e le immagini operino in
maniera simile, ma in Giovanni questa similitudine si carica di ulteriori significati: seppur a un
grado infimo l’immagine, operando come la parola, si realizza secondo un meccanismo di
incarnazione, in virtù delle potenzialità memorialistiche e edificanti.
Nella prima orazione Giovanni scrive:
L’immagine infatti è una memoria. Ciò che è il libro per coloro che conoscono la scrittura,
questo è l’immagine per gli illetterati, e ciò che è la parola per l’udito, questo anche è
l’immagine per la vista: e a lui noi pensiamo mentalmente.
E nella terza:
Ogni immagine è rivelatrice e dimostratrice di ciò che è nascosto. Io dico qualcosa come
questo: poiché l’anima è rivestita dal corpo, l’uomo non ha una conoscenza pura
dell’invisibile; e poiché egli è limitato dallo spazio e dal tempo, egli non ha una conoscenza
neanche delle cose che saranno dopo di lui o che spazialmente sono separate o distanti. E
per questo l’immagine fu escogitata a guida della conoscenza, per manifestazione e cioè
affinché, essendo ricordato e celebrati gli avvenimenti, noi riconosciamo le cose nascoste,
desideriamo e cerchiamo di imitare ciò che è buono e respingiamo ed odiamo ciò che è
contrario, cioè il male.
Una posizione questa analoga a quella già espressa da Gregorio Magno, papa tra il 590 e il
604, che in uno scambio epistolare con il vescovo iconoclasta Sereno di Marsiglia aveva
legittimato l’uso delle immagini in quanto libri pauperum:
Nella prima lettera al vescovo Sereno scrisse: “Per questo motivo infatti si fa uso della
pittura nelle chiese, affinché coloro che sono analfabeti ‘leggano’, perlomeno vedendole
sulle pareti, ciò che non sono in grado di leggere nella Scrittura”; e nella seconda
puntualizzava: “Una cosa è adorare una pittura, un’altra apprendere che cosa debba essere
adorato grazie a ciò che è illustrato nella rappresentazione. Infatti ciò che è illustrato nella
rappresentazione. Infatti ciò che la scrittura offre a coloro che leggono, questo la pittura offre
a coloro che guardano, poiché in essa anche gli analfabeti vedono che cosa debba essere
appreso, in essa leggono coloro che non sanno leggere”.
E proprio a Gregorio è attribuita l’espressione che funge da titolo a questa lezione, e che
però si trova in un’interpolazione introdotta da un anonimo autore della seconda metà del
VIII secolo in due lettere mandate dal papa nel 598 a Secondino, vescovo di Taormina.
Stando a tale interpolazione il papa si sarebbe augurato…
…che la quotidiana “visio corporalis” di alcune immagini raffiguranti il Salvatore, la Madonna
e gli apostli Pietro e Paolo, lo rafforzasse nella fede, dato che non vi era nulla di sbagliato
nel mostrare “per visibilia invisibilia”. “So—aggiungeva lo Pseudo Gregorio—che non chiedi
l’immagine del Salvatore per adorarla come se fosse Dio, ma per riscaldarti con la memoria
del Figlio di Dio nell’amore di colui la cui immagine tu desideri vedere. […] E mentre la
pittura “quasi scriptura” ci porta alla memoria il Figlio di Dio, essa allieta l’animo nostro di
fronte alla raffigurazione della resurrezione o l’addolora con quella della passione.”
Pur sottolineando il persistere attraverso questi secoli di radicale trasformazione di un
discorso sull’arte recuperabile soltanto “per lacerti e frammenti” e insieme la necessità di
tener conto in generale di “un’attitudine mentale intrisa di valori simbolici”, Donata Levi
suggerisce che si possano:
Comunque enucleare due approcci, non esclusivi, anzi spesso intrecciati: da un lato la
considerazione della funzione didattica delle immagini [dove “didattica” andrebbe intesa in
senso molto lato, così da comprendere anche valenze mnemoniche e devozionali] e
dall’altro l’apprezzamento materialistico degli oggetti, che porta a considerare non la forma
dell’opera d’arte, quanto il valore e il lusso della sua materia…

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Approcci riscontrabili soprattutto in due generi di testo: i tituli cui accenna Longhi, e “le
descrizioni di edifici religiosi”, nelle quali “in genere prevale un’interpretazione allegorica”.
La funzione didattica dell’immagine è ben illustrata dal “Passio Sancti Cassiani
Forocorneliensis” del poeta e politico ispanico-romano, Aurelio Prudenzio Clemente (348-
post 405), un inno in onore di S. Casciano di Imola, tratto dalla raccolta martirologica il
“Peristephanon liber” (Libro sulle corone). Che è interessante anche in quanto mostra chiare
affinità con la tradizione periegetica ed ecfrastica: come anche altri dei quattordici
componenti raccolti nel libro, il Passio Sancti Cassiani è occasionato da una visita del poeta
nel luogo del martirio.
L’inno infatti apre con il racconto di come in una sosta durante il viaggio per Roma (“la più
grande di ogni cosa al mondo”) e nella speranza che “Cristo [gli] sarebbe stato propizio”,
Prudenzio si fosse prostrato dinanzi al sepolcro del martire Cassiano e, afflitto dai ricordi
delle disgrazie e dei “travagli della vita” propria, avesse alzato gli occhi al cielo, per scorgere
davanti a sé:
Dipinta con rossi colori l’immagine del Santo, cosparsa di mille piaghe, lacerata per tutte le
membra, la pelle straziata da piccole ferite.
Tanti fanciulli intorno—miserabile vista—trafiggevano il corpo del martire con piccoli stili con
i quali si è soliti incidere le tavolette cerate per scrivere e annotare i precetti enunciati nel
brusio della scuola.
In questi versi si individua l’immagine del martirio tramite la descrizione indiretta della figura
del santo così come si presenta grazie alle torture subite alle mani di quei fanciulli, le cui
azioni sono invece rappresentate direttamente ma in modo da risultare ‘congelate’ quali
componenti della scena—tramite cioè l’uso di un verbo all’imperfetto: trafiggevano.
Tale descrizione è integrata di classificazioni riferite agli strumenti di tortura adoperati e
insieme di un’interpolazione esclamativa—miserabile vista—che accenna una
caratterizzazione della scena complessiva evocandone il forte impatto emotivo.
In seguito, tuttavia, l’immagine del martire, che serve come pretesto, si perde (per così dire)
di vista: non assume evidenza maggiore rispetto ai pochi cenni descrittivi iniziali—anzi, viene
come eclissata dall’esplicazione narrativa fornita dal custode cui, curioso, si rivolge il poeta.
Esplicazioni volta a precisare, con immediatezza agghiacciante—intensificata dall’uso del
presente storico (anche nel latino originale)—quegli eventi di cui sono raffigurate le
conseguenze e così a potenziare il valore dell’immagine quale testimonianza di fede.
“Quello che vedi” mi dice “non è una vana o sciocca favola; la pittura riporta una storia che è
scritta anche nei libri testimoniando la vera fede del tempo antico. Cassiano educava allo
studio i fanciulli, era un maestro di scuola seguito da un gran numero di alunni; sapeva
mirabilmente spiegare ogni parola con brevi note e fissare poi quanto aveva detto con rapidi
segni. A volte i severi ammonimenti e il viso accigliato avevano destato timore e malanimo in
quello stuolo di ragazzini. Il maestro è sempre amaro al fanciullo che apprende, e nessuna
disciplina è cara all’infanzia.
Ecco la violenta tempesta abbattersi sulla fede, perseguitare la gente che aspira alla gloria
di Cristo.
Il maestro di quella turba di fanciulli è tratto fuori dal gruppo poiché si era rifiutato di pregare
dinanzi alle are.
Il carnefice chiede quale arte eserciti quell'uomo ribelle, di spirito cosi forte;
gli rispondono: "Guida la schiera degli imberbi ragazzi insegnando loro ad annotare le parole
con appositi segni".
"Portate il prigioniero" egli grida "e sia consegnato, lui sferzatore, ai suoi stessi alunni:

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lo scherniscano a loro piacere, lo strazino impunemente, immergano le loro mani in festa nel
sangue del maestro.
È un piacevole divertimento per i discepoli avere in consegna proprio il maestro severo che li
ha tenuti a freno".
Quel piccolo esercito, armato di stili acuminati, lo circonda, gli lega le mani dietro la schiena,
lo spoglia delle vesti.
Quanto odio ciascuno aveva concepito in silenziosa ira, ora finalmente lo scatena, acceso di
libera collera.
Alcuni scagliano e rompono le tavolette sulla testa, e il legno si spacca sulla fronte percossa;
risuonano i bossoli cerati sbattuti sulle gote sanguinanti
e la tavoletta di cera, spezzata dal colpo, s’arossa di sangue.
Altri scagliano ferri acuminati e uncini dalla parte con cui si scrive sulla cera incidendo solchi,
e da quella con cui si cancellano le lettere impresse e ritorna di nuovo liscia e lustra la
superficie scalfita.
Così il confessore di Cristo o è trafitto, o è tagliato.
Una parte dei colpi affonda nelle molli viscere, un'altra squarcia la pelle.
Duecento mani allo stesso modo trafissero tutte le membra, e altrettante gocce di sangue
stillarono dalle ferite ...
Cosi i fanciulli si divertivano con il corpo del maestro, né il lungo supplizio liberava
quell'uomo sfinito.
Ma finalmente Cristo dal cielo mosso a pietà
per quell'agonia, ordina che siano disciolti i lacci del cuore ...
Concludendo il proprio discorso il custode impiega una coppia di pronomi dimostrativi:
Haec sunt, quae liquidis expressat coloribus, hospes, miraris, ista est Cassiani gloria.
Il primo dei quali (haec) ha valore di deissi endoforica (rinvio ostensivo a referente interno al
testo); mentre il secondo (ista) ha valore di deissi esoforica (rinvio ostensivo a referente
esterno al testo [sulla distinzione vedi Halliday & Hasan 1976]) ed in particolare rinvia a
quella cosa che sta vicina a chi ascolta.
Tale contrasto referenziale (annullato nella traduzione) ‘riposiziona’ il poeta—e noi insieme a
lui—di fronte all’immagine:
Questi [appena raccontati] sono i fatti che vedi dipinti a chiari colori, questa [ossia, quella
davanti a te] è la gloria di Cassiano. Se hai un desiderio amabile e giusto, se hai qualche
speranza, o qualcosa ti tormenta, rivolgiti a lui. Il martire, credimi, ascolta benevolo le
preghiere, e le esaudisce quando le ritiene giuste”.
Così, nei versi finali dell’inno è di nuovo al centro della nostra attenzione l’impatto emotivo e
insieme morale dell’immagine sul poeta, che narra in prima persona (e al presente) la
propria reazione, segno di quel sostegno spirituale il desiderio del quale aveva motivato la
presente sosta:
Obbedisco, abbraccio il sarcofago e piango.
Scaldo l’altare con il volto, la pietra con il petto;
ripenso a tutti i miei dolori segreti,
e ricordo in silenzio le mie speranze, i miei timori,
la casa lontana, abbandonata a un incerto destino,
e la dubbiosa speranza di un bene futuro.
Sono stato ascoltato. Vado a Roma, ho una sorte
propizia. Poi, tornato in patria, celebro Cassiano.
“Tituli” e descrizione di un edificio religioso si trovano abbinati in un componimento poetico di
un contemporaneo di Prudenzio, Paolino (355–431), vescovo di Nola, che fece costruire a

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Cimitile (Cimiterium), vicino a Nola (Nuvia), luogo di sepoltura di Felice, martire già vescovo
di Nola, una basilica dedicata al santo.
Pretesto del carro XXVII di Paolino è la celebrazione del giorno natalizio di Felice, festa che
nell’anno di riferimento (403) assume per lui una rilevanza particolare grazie alla presenza
dell’amico Niceta, ritornato a Nola a distanza di tre anni dalla sua prima venuta.
Rivolgendosi direttamente a Niceta, Paolino mette in scena una ‘visita guidata’ delle opere
edilizie compiute (almeno in parte) durante l’assenza dell’amico—ambienti monastici, ospizio
per i pellegrini, acquedotto, la cosiddetta Basilica nova—“cimentandosi in una descrizione”,
come sottolinea Donata Levi, “in cui le costruzioni evocate sono da intendersi come un
riflesso delle realtà spirituali” e dove, come nel caso di Prudenzio, il richiamo alla tradizione
ecfrastica pagana è chiaro non solo nell’espediente della visita—che aveva un precedente
illustre anche nella descrizione di Filostrato di una pinacoteca napoletana—, ma anche
nell’uso di un linguaggio aulico che si vale, accanto ai riferimenti biblici, sia di reminiscenze
virgiliane sia di appropriati termini tecnici.
L’intento allegorico di Paolino è chiarissimo nel seguente passo, che probabilmente si
riferisce al “triforium” eretto per collegare la Basilica nova al sepolcro di Felice:
Ammira anche questo: il fatto che il tempio del martire in armonia con l’alta legge del mistero
si apre con tre porte (egli, infatti, professò la legge nell’unico regno sotto il nome della
Trinità) e che le case, unite insieme, essendo le costruzioni tra loro congiunte hanno un
significato per santa disposizione, poiché, pur essendo molti i tetti per gli edifici innalzati,
tuttavia una sola è la causa della pace santa e l’armonia fa di molte membra un corpo solo,
al cui vertice sta Cristo come forza coesiva.
Dove ciò è degno di ammirazione (oggetto quindi di valutazione positiva) è indicato
esplicitamente nel fatto che il numero delle porte d’ingresso alla basilica e la configurazione
delle varie parti che insieme la compongono siano da interpretare quali segni o simboli del
mistero della Trinità.
Di cui sa da una lettera di Paolino allo storico cristiano Sulpicio severo (360 ca—420 ca) che
nell’abside della Basilica nova vi era una precoce raffigurazione simbolica, in cui, come
spiegava il titulus, composto dallo stesso Paolino, una mano uscente dal cielo stava per il
Dio Padre, un agnello per Cristo e una colomba per lo Spirito Santo.
Del resto è proprio nel carmo XXVII che si trova usato per la prima volta il termine titulus con
accezione nuova, illustrata da Schlosser:
Questa novità è il titulus schiettamente medievale, che in Occidente subentra all’antico
epigramma artistico giocoso; l’Oriente greco non lo conosce quasi affatto, mentre
l’epigramma vi è coltivato fino alla fine. Tutto un mondo divide il titulus dall’epigramma,
sebbene i due nomi abbiano in fondo uguale significato [ossia, ‘iscrizione’]; questo è
un’opera d’arte a sé stante in formato minimo, un prodotto puramente letterario, autonomo di
fronte all’opera d’arte, intorno a cui giuoca con piacevole arguzia; quello è in realtà la
sottoscrizione versificata dell’immagine che esso spiega, le è davvero sostanzialmente
legato e può esserne separato soltanto dalla forza del tempo; né ha alcuna importanza che,
creato prima dell’opera d’arte, possa servire a questa da guida o da programma. Esso era
pure ben noto ai Greci nella più lontana antichità: massimo esempio, i Tituli dell’arca di
Cipselo nel V libro di Pausania.
Durante la visita alla basilica Paolino spiega infatti a Niceta la funzione pratica delle
“iscrizioni” (purtroppo non conservate) collocate sotto una serie di pitture al suo interno:
Propterea visum nobis opus utile totis
Felicis domibus pictura ludere sancta,
si forte adtonitas haec per spectacula mentes agrestum caperet fucata coloribus umbra,

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quae super exprimitur titulis, ut littera monstret quod manus explicuit...
Perciò a noi è sembrata opera utile rappresentare argomenti sacri in tutta la casa di Felice
con le pitture, nella speranza che la figura rivestita di colori attragga con questi spettacoli
l’interesse delle menti attonite dei contadini; essa è in alto spiegata dalle iscrizioni, affinché
lo scritto mostri ciò che la mano dell’artista ha eseguito…
Tituli e pitture infatti fanno parte di un unico ed articolato programma didattico-morale di
Paolino, che viene debitamente illustrato all’amico: mettendo in primo piano i benefici
spirituali procurati dalla contemplazione di tali immagini:
Ora voglio che tu contempli le pitture che si snodano in lunga serie sulle pareti dei portici
dipinti [ossia, sopra le due file di colonne della navata centrale della Basilica nova e stanchi
un po’ il collo levato verso l’alto, mentre leggi attentamente ogni cosa con il volto piegato
all’indietro. Chi contempla queste pitture, conoscendo il vero attraverso le vuote figure, nutre
la mente fedele con non inutili immagini.
Che vengono ordinatamente interpretate, anche indirettamente attraverso la ripresa della
narrazione dell’Ottateuco veterotestamentario (comprendente i libri di Genesi, Esodo,
Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosuè, Giudici e Ruth).
Infatti la pittura accoglie in una serie fedele tutto ciò che l’antico Mosè descrisse nel
Pentateuco, e le imprese che compì Giosuè, indicato col nome del Signore, sotto la cui
guida il Giordano, avendo trattenuto il corso delle acque, fermati i flutti, si arrestò al cospetto
dell’arca di Dio. Una mirabile forza divise il fiume: una parte, volta all’indietro la corrente, si
fermò, l’altra parte del fiume scorrendo si affrettò verso il mare e lasciò vuoto il letto. Dalla
parte donde il fiume venendo dalla sorgente si precipitava impetuoso aveva innalzato come
in un alto cumulo le onde trattenute e una montagna di acqua sovrastava minacciosa con
una oscillante parete guardando dall’alto i piedi avanzare sul fondo dissecato e nel mezzo
del fiume le impronte polverose degli uomini lasciate dai piedi asciutti nel limo indurito.
E attraverso l’applicazione quasi tipologica del racconto alle condizioni di vita del presente:
Passa ora con occhi attenti ad osservare Ruth, che con un piccolo libro distingue i tempi,
l’età trascorsa sotto i Giudici e quella che ha inizio con i Re; sembra breve questa storia, ma
indica i significati misteriosi di una grande guerra, poiché le due sorelle si separano in
opposte direzioni. Ruth segue la santa suocera che Orfa abbandona; una nuora mostra
infedeltà, l’altra fedeltà; luna preferisce Dio alla patria, l’altra la patria alla vita. Dimmi, di
grazia: non rimane forse questa discordia in tutta la terra poiché una parte segue Dio, l’altra
precipita attraverso il mondo? E volesse il cielo che fosse uguale il numero di quelli che
vanno in rovina e di quelli che si salvano! Invece la via larga attira molti ed un irrevocabile
errore trascina con facile rovina quelli che precipitano lungo la china.
Cui si aggiunge la spiegazione della decisione “di far dipingere diversamente dal solito i
sacri templi con riproduzioni di creature animate”:
Tutti conoscono quali moltitudini qui attiri la gloria di San Felice, ma la moltitudine più
frequente qui è data da uomini di campagna, non privi di fede, ma incapaci di leggere.
Questi a lungo abituati a servire ai riti pagani essendo loro Dio il ventre, venendo come
pellegrini si convertono infine a Cristo, mentre ammirano le manifeste opere dei santi
compiute nel nome di Cristo. Guardate quanto numerosi convengano da tutte le campagne e
con quanta pietà vadano in giro tratti in inganno dalla rozzezza delle loro menti. Lasciarono
le case lontane, riscaldati dalla fede non curarono i freddi invernali ed ecco ora in gran
numero e svegli prolungano la gioia per tutta la notte, allontanano il sonno con l’allegria, le
tenebre con le fiaccole. Ma volesse il cielo che trascorressero queste ore di gioia in sobrie
preghiere, né mettessero insieme le coppe di vino con le sante soglie…

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I semplici, non consapevoli della gravità della colpa, peccano per la stessa pietà, poiché per
errore credono che i santi godano se i loro sepolcri siano cosparsi di vino olezzante. Essi
approvano da morti dunque quello che nel loro magistero condannarono? La mensa di
Pietro accetta ciò che l'insegnamento di Pietro rigetta? Uno solo dovunque è il calice del
Signore, uno è il cibo e una sola la mensa e la casa di Dio. Si ritirino i vini nelle taverne, la
Chiesa è la casa santa delle preghiere; allontanati, o serpente, dalle sacre soglie ...
Perciò ... mentre tutti a vicenda si additano e leggono le figure dipinte, almeno si ricordino
più tardi del cibo durante il tempo in cui gli occhi soddisfano la fame che diventa loro gradita
e cosi un più utile vantaggio nasca nel loro stupore mentre la pittura inganna la fame. In chi
legge le sacre storie delle opere buone si insinua l'onestà della vita ispirata dai santi esempi;
con la bocca spalancata bevono la virtù della sobrietà, subentra l'oblio delle libagioni.
Come risulta dalle osservazioni di Schlosser appena citate, e come sottolinea Donata Levi, il
“titulus” è di definizione ambigua, non solo per la forma (metrica, in prosa, in versi) delle
iscrizioni cui viene riferito il termine (qualora venisse preferito ad altri quali versus, versus ad
picturas o superscriptio versuum), ma anche per l’incerto rapporto tra testo e immagine. Un
caso piuttosto enigmatico è dato da un’altra opera poetica di Prudenzio, che comprende una
serie di tetrastici esametrici e che porta il titolo Dittochaeon (Doppio nutrimento), in
riferimento al Vecchio e al Nuovo Testamento.
Schlosser definisce il Dittochaeon quale “il più antico esempio di una Bibbia a immagini
parallele”. Mentre Donata Levi osserva:
Non è chiaro se questi [tetrastici] si riferiscono a immagini fittizie oppure a opere d’arte reali
—e, in questo caso a dipinti su tavola o a pinakes musivi—o se, addirittura, possa trattarsi di
un “programma figurativo”…
Il Dittochaeon appartiene infatti al genere tardo antico detto “Tituli historiarum” e definibile
quale "serie di didascalie epigrammatiche che si prefiggono di illustrare iconografie di
argomento biblico, vetero—e neotestamentario".
Di cui noti altri tre esempi:
• Il Disticha attribuiti ad Ambrogio (21 coppie di esametri, 17 dedicati ad episodi dell’Antico e
4 a vicende del Nuovo Testamento)
• l’epigramma pseudoclaudianeo Miracula Christi (9 distici elegiaci dedicati a prodigi di
Cristo)
i Tristicha historiarum testamenti ueteris et noui di Elpidio Rustico (24 tristici esametrici,
costituiti da 8 coppie dedicate ad eventi di Antico e Nuovo Testamento tipologicamente
collegati, e da altri 8 tituli di argomento esclusivamente neotestamentario).
Dei Tituli historiarum in generale osserva Francesco Lubian che il “reale’ rapporto da essi
intrattenuto con le iconografie a cui essi rimandano, [è] assai difficilmente valutabile in
mancanza non solo dei loro referenti pittorici o musivi, ma anche nell’assenza pressoché
completa di testimonianze sulla loro effettiva esistenza.”
Inoltre, riguardo al Dittochaeon in particolare, in alcuni casi “è addirittura problematico
individuare quale sia il referente biblico a cui allude il poeta, poiché esso è oggetto di
commistione con altri passi scritturistici o anche extra-biblici”.
Un esempio è il tetrastico XXXI:
Dalla distruzione dell’antico Tempio resta superstite un pinnacolo; infatti l’angolo edificato
con quella pietra è destinato a rimanere nei secoli dei secoli; colui che disprezzarono i
costruttori, ora è chiave di volta del tempio ed elemento di connessione delle nuove pietre.
Commenta Lubian:
Il riferimento all’interpretazione cristologica della pietra scartata destinata a diventare κεφαλὴ
γωνίας (Psalm. 117, 22) e ai fedeli "pietre vive" della Chiesa (I Petr. 2, 4-5; Eph. 2, 19-20)

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compare insieme alla notizia, evidentemente nota a Prudenzio e testimoniata dai resoconti
di viaggio in Terra Santa a partire dal 333 c., secondo cui un pinnacolo superstite del
Tempio era collocato nell’angolo S-E del recinto dell’Ḥaram. Il tetrastico, collocato fra quelli
dedicati al Battesimo di Cristo (XXX) e alle nozze di Cana (XXXII), è stato di volta in volta
collegato a raffigurazioni della Tentazione di Cristo (Mt. 4, 5-7), della predicazione nella
Sinagoga (secondo Mt. 21, 42), di Gesù circondato da due apostoli, ma in esso si è anche
visto l’esempio principale della fallacia metodologica intrinseca ad ogni tentativo di associare
ai tetrastici una particolare iconografia.
Nei tetrastici di Prudenzio, infatti, a prescindere della loro brevità, sono rari quegli elementi
linguistici eventualmente indicativi di una loro funzione quale tituli di immagini particolari,
reali o immaginarie che fossero. Elementi quali dimostrativi espressivi di deissi esoforica, o
cenni a reciproci rapporti spaziali tra figure o altri componenti all’interno di una scena.
Elementi che troviamo invece nei tituli di Paolino di Nola, ad esempio:
Come in questo, destinato al mosaico absidale di un’altra basilica costruita da Paolino, a
Fondi:
Sanctorum labor et merces sibi rite cohaerent,
Ardua crux pretium que crucis sublime, corona.
Ipse deus, nobis princeps crucis atque coronae,
Inter floriferi caeleste nemus paradisi Sub cruce sanguinea niueo stat Christus in agno.
Le fatiche e le ricompensa giustamente vanno insieme: l’ardua croce e la corona, sublime
ricompensa della croce. Lo stesso Cristo Dio, principe per noi della croce e della corona,
nella figura di un agnello candido come la neve sta sotto la croce insanguinata nel celeste
bosco sacro del fiorito Paradiso, agnello offerto come vittima innocente ad una morte
ingiusta; mentre su di lui in estasi si effonde lo Spirito Santo, in forma di pacifica colomba, e
il Padre l’incorona da una nube rosseggiante. E poiché l’Agnello sta ritto come un giudice
sopra un'eccelsa rupe, circondano il suo trono due diversi gruppi di animali: i capretti di
fronte agli agnelli; il pastore allontana i capretti che stanno alla sinistra e raccoglie alla sua
destra gli agnelli, che hanno ben meritato.
[Paolino 1992, 262-265]
Nel Dittochaeon è paragonabile l’uso di dimostrativi quale hic nel tetrastico XXIV:
Hic bonus Ezechias meruit ter quinque per annos Praescriptum proferre diem legemque
obeundi Tendere, quod gradibus, quos uespera texerat umbra, Lumine perfusis docuit sol
uersus in ortum.
Qui il buon Ezechia si guadagnò di prolungare di quindici anni
Il giorno per lui stabilito, e di ottenere una proroga dalla legge della morte; Lo confermò il
sole voltosi verso oriente, mentre si inondavano di luce
I gradi della meridiana che l’ombra della sera aveva già coperto.
O ancora l’allocuzione ad una figura interna alla situazione rappresentata nel testo, o l’uso
del verbo apparet, il quale evoca il ruolo dello spettatore, nel tetrastico XXXVIII:
Conscius insignis facti locus in Bethania Vidit ab inferna te, Lazare, sede reuersum; Apparet
scissum fractis foribus monumentum, Vnde putrescentis redierunt membra sepulti.
Un luogo della Betania, testimone dell’evento miracoloso, Ti vide, o Lazzaro, ritornare
indietro dall’oltretomba;
Si mostra un sepolcro aperto, dalle porte dissigillate,
Da dove uscì il corpo già putrescente del defunto.
Mancano invece allocuzioni al lettore nella funzione di spettatore, come mancano anche
cenni alla relativa disposizione spaziale delle singole componenti della scena.

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Per quanto "utili alla visualizzazione" [Lubian 2013, 16] espressioni quali sub virginis ubere
Christo (a Cristo infante, stretto al petto della Vergine) e duo ... crucibus hinc inde latrones
contiguis (i due ladroni delle croci vicine, da una parte e dall’altra) nei tetrastici XXVII e XLII
non arrivano ad abbozzare una mappatura descrittiva della scena.
In assenza di tali indizi anche elementi quali l’espressione deittica ecce e l'"uso
generalizzato del presente" quale "tempo commentativo... tipico di didascalie e titoli di
quadri" [Lubian 2013, 16] mancano di sicuro effetto ostensivo:
Tutus agit uir iustus iter uel per mare magnum. Ecce Dei famulis scissim freta rubra
dehiscunt, Cum peccatores rabidos eadem freta mergant: Obruitur Farao, patuit uia libera
Mosi.
L’uomo giusto viaggia sicuro anche attraverso il vasto mare.
Ecco, ai servitori di Dio si aprono schiudendosi i flutti del mar Rosso Mentre i medesimi flutti
sommergono i peccatori furenti:
Il Faraone è travolto, una via libera si aprì davanti a Mosè.
Dove notate anche il passaggio, in chiusura, dal presente al tempo narrativo del perfetto—
patuit (si aprì)—che sembra rimandare al significato complessivo assunto dall’episodio
all’interno del racconto biblico dell’Esodo.
Ai tetrastici del Dittochaeon mancano soprattutto elementi lessicali che si riferiscono
esplicitamente a componenti materiali dell'immagine, come ad es. concisis metallis nel
titulus sottostante il mosaico absidale di S. Agnese fuori le mura a Roma, eseguito sotto
papa Onorio I (625-38):
Aurea concisis surgit pictura metallis / Et complex simul clauditur ipsa dies / Fontibus e
niveis credas aurora subire / Correptas nubes roribus arva rigans / Vel qualem inter sidera
lucem proferet Irim / Purpureusque pavo ipso colore nitens.
(L’aurea pittura sorge dalle tessere musive: sembra che racchiuda tutta la luce del giorno.
Crederesti che l’aurora fuori dalle sue fonti candide affronti le dense nubi spargendo rugiada
pe’ campi, oppure che l’iride diffonda la sua luce fra le stelle e che lo stesso pavone
purpureo risplenda del suo colore).
Titulus su cui attira l’attenzione del lettore Longhi nelle Proposte:
Qui, la prima, e come alta, ‘equivalenza verbale’ di un’opera d’arte; sciolta affatto dal
soggetto apparente che è Sant’Agnese fra Onorio e Simmaco; ma squisitamente addetta al
soggetto interno, e validamente metaforico, dello svariare delle tessere musive: una visione
stillante d’alba iridata,e nient’altro.
Ridimensiona l’esaltazione longhiana Donata Levi:
Non bisogna esagerare nel considerare queste iscrizione come frutto di semplice
apprezzamento estetico; si tratta anche di stilemi e formule che si ripetono. Così l’iscrizione
di Sant’Agnese ricalca quella postala tempo di Felice IV (526-530) nella chiesa dei SS.
Cosma e Damiano, più volte copiata nel Medioevo: ‘Aula Dei claris radiat speciosa metallis’
[La bella casa di Dio s’irradii di metali brillanti]. Entrambe in effetti riflettono un’attenzione per
la decorazione musiva che s’incentra sul valore mistico della luce, rimandando a
un’interpretazione dottrinale e con una forte connotazione simbolica.
Riportandoci a quel “apprezzamento materialistico degli oggetti”e a quel “attitudine mentale
intrisa di valori simbolici”, dal marcato carattere interpretativo, tipico del periodo.
Apprezzamento e attitudine che sono manifesti nell'ultimo esempio di questa lezione, tratto
dalla descrizione della basilica giustinianea di Haghia Sophia a Costantinopoli, cui accenna
pure Longhi nelle Proposte.
L’autore, Paolo Silenziario, era un poeta e dignitario palatino (525- 575), autore di
un’ottantina degli epigrammi contenuti nell’Antologia palatina.

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Si tratta di un’opera in versi (pubblicata per la prima volta nel 1680) composta per la
seconda consacrazione della chiesa nel 562, in seguito ai lavori necessitati dai danni dovuti
ai terremoti del 557: “quasi una lunga iscrizione votiva che accompagnava l’edificio riportato
all’antico splendore”.
Il poemetto, simile ad un'orazione imperiale, che non poteva essere letto nel corso delle
cerimonie liturgiche della consacrazione (24 dicembre 562), venne recitato qualche giorno
dopo, l'ultima domenica di dicembre, o più probabilmente il giorno dell'Epifania ...
[c]ertamente in due luoghi diversi, come avvertono i lemmi del manoscritto ... la prima parte
(vv. 1-80) ... nel palazzo imperiale, alla presenza dell'imperatore, degli alti ufficiali e dei
dignitari laici; la seconda parte (vv. 81-410), nel patriarchio, davanti al patriarca e alle alte
gerarchie ecclesiastiche, ai quali si era unita la precedente assemblea; la terza parte, dopo
un’interruzione, si svolse ancora nel patriarchio.
Due panegirici rivolti all’imperatore Giustiniano e al patriarca Eutichio sono seguiti da un
discorso alle due Rome, ai sacerdoti e all’imperatore e dal resoconto dei danni subiti dalla
chiesa e della sua ricostruzione, delle feste della consacrazione.
La descrizione vera e propria, preceduta da una simulazione del solenne ingresso nella
chiesa, inizia col trattare l’estremità orientale, da cui passa a quella opposta e poi al nartece;
dopo di che sono descritti pilastri, arcate, pennacchi, cupola, pareti settentrionale e
meridionale, navatelle, gallerie.
Dall’interno si passa all’esterno per descrivere l’atrio, poi di nuovo all’interno per considerare
l’impianto decorativo, gli arredi liturgici e il sistemi di illuminazione.
Ora il fatto che il poeta cominci con la struttura archi, passi poi alla decorazione
monumentale e approdi infine agli arredi liturgici, ha indotto a ritenere che egli descriva le
principali fasi costruttive dell’edificio ... Come dire che il poeta non ha inteso descrivere
ordinatamente la chiesa, come prevedevano le normali convenzioni dell'ekphrasis, ma
piuttosto "costruirla" usando i mezzi a sua disposizione (le parole), con un procedimento
parallelo a quello messo in atto dagli architetti.
Leggiamo dei versi tratti dalla parte dedicata ai “prati marmorei” della decorazione.
605. Sulla parete di marmo levigato risplendono ovunque disegni artisticamente variati: li
produssero le gole del
Proconneso
circondato dal mare. La connessione dei marmi finemente tagliati somiglia alla pittura; qui
infatti, su lastre quadrate e ottagonali, vedrai le venature.
610. riunite in un decoro: connesse in tal modo le lastre imitano la bellezza di immagini
viventi. Dovunque, presso i fianchi e le estremità, all’esterno del tempio immortale vedrai
molti cortili scoperti, poiché ciò è stato fatto con ordine sapiente.
615. intorno al maestoso tempio, affinché sembrasse bagnato con i raggi dell’aurora dai
begli occhi.
E chi canterà a piena voce, con i versi risonanti di Omero, i prati marmorei raccolti sulle
solide pareti e sull’esteso pavimento.
620. Dell'altissimo tempio? Con il suo dente la scure del cavapietre tagliò i verdi fianchi del
Caristo e dalle cime della Frigia staccò un marmo screziato, l'uno rosato a vedersi, misto al
biancore dell'aria, l'altro luminosamente splendente di fiori purpurei
625 e insieme candidi come l'argento. Il porfido, che gravò la barca sul Nilo dalle belle
braccia, in gran copia si leva e brilla, cosparso di piccole stelle. Puoi vedere anche il
verdeggiante fulgore del marmo di Laconia e i marmi scintillanti con venature ondulate,
630 quanti ne producono le valli profonde delle vette di Iaso, marmi che mostrano striature
oblique, di un rosso sangue e di un bianco livido; e quanti ne produce la remota Lidia,

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circondando fiori giallo pallido commisti di rosso; e tutto il fulgore, color dell’oro e color dello
zafferano.
635 che il sole africano dà ai marmi affocandoli con la sua luce dorata, sui fianchi scoscesi
delle cime della Mauritania. E quanti ne producono le vette della Gallia coperte di ghiacci
che spandono in abbondanza un bianco lattiginoso sulla pelle del marmo scintillante di nero,
versato qua e là, a caso.
640 E tutto il prezioso giallo che il monte Onice produce nelle sue cave traslucide e quanti
ne partorisce la terra di Atrace nelle distese pianeggianti e non in una gola scoscesa ora di
un verde acceso simile allo smeraldo, ora di un verde profondo che tende al blu.
645 C'è anche qualcosa di simile al candore delle nevi accanto a neri bagliori: la loro
bellezza mescolata ravviva il marmo.
Il valore simbolico della chiesa imperiale come figura delle luce divina viene qui esaltato da
una rappresentazione che abbina varie modalità predicative.
L’individuazione descrittiva, puntuale e come ravvicinata ma indiretta, riferita non tanto alle
lastre che compongono il rivestimento decorativo delle pareti e del pavimento della chiesa,
quanto ai diversi tipi di marmo adoperativi, e comunque frutto anche della rivisitazione di un
passo della precedente descrizione della chiesa nel Περὶ κτισμάτων [Sugli edifici] di
Procopio di Cesarea [490 ca-560 ca])
…e delle colonne, e de’ marmi impiegati ad ornamento di tanta fabbrica, chi degnamente
riferirà la varietà stupenda? Facilmente crederà tal uno di trovarsi in un giardino pieno di
fiori, e vedere il bel color porporino degli uni, l’azzurro degli altri, e il verde amenissimo del sì
diverso fogliame, e lo splendor brillante dell’insieme, dalla natura vagamente presentato,
come fa il pittore con tanta varietà di tinte differentissime.
Tale descrizione viene arricchita di varie similitudini (alle stelle, all’argento, ai fiori, all’oro,
allo zafferano, al latte) volte ad evocare precise configurazioni e cromie, e inserita in una
cornice narrativa riassuntiva dell’immenso e faticoso lavoro di estrarre e trasportare, per qui
mettere in opera, marmi così diversi e dalla provenienza così diffusa—come se la basilica
volesse compendiare il mondo, l’impero, la natura.

LEZIONE XI
UMILE PRECETTISTICA DI LABORATORIO
Come anticipato nella scorsa lezione, nella presente ci occuperemo di quella “umile
precettistica di laboratorio” cui secondo Roberto Longhi la “dottrina mondana” dell’arte si era
ridotta nel medioevo, in seguito al ‘crollo’ del mondo antico. Ci occuperemo cioè di alcuni
esempi di trattato tecnico—genere che secondo Schlosser costituisce “l’unica letteratura
artistica in senso stretto” del periodo, anzi “la parte più originale…di ciò che possiamo
chiamare la letteratura artistica del Medio Evo”—periodo in cui l’arte si trovava nella
condizione di dover “ricominciare sulle sterminate rovine della civiltà antica”. Confrontando
tre trattati risalenti a tre fasi diverse della media aetas.
De coloribus et artibus Romanorum è un testo in tre libri, attribuito a tale “Eraclio”, da tempo
però ritenuto una “finzione mitologica…la personificazione di un mago”.
Il trattato risulta essere infatti una miscellanea, databile, per i primi due libri (composti in
versi e probabilmente in ambito italiano) al X secolo e per il terzo (redatto in prosa,
probabilmente in ambito francese) al XII o al XIII secolo.
Il secondo trattato, anch’esso in tre libri, è noto (per indizi testuali interni) quale Schedula
diversarum artium, oppure Diversarum artium schedula, o ancora come De diversis artibus.

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È un testo probabilmente del XII secolo, il cui autore, che si presenta quale monaco e prete
dal nome “Theophilus”—ma in alcuni manoscritti anche quale “Rugerus”—sarebbe da
identificare secondo alcuni studiosi con l’orafo benedettino Ruggero di Helmarshausen
(primo quarto del XII secolo).
Il terzo trattato infine è il Libro dell’arte del pittore Cennino Cennini, nato a Colle Val d’Elsa
intorno al 1370 e morto a Firenze entro il 1427. Cennini lo scrisse probabilmente nell’ultimo
decennio del Trecento e a Padova, dove nel 1398 è documentato essere stato al servizio di
Francesco dei Carraresi. Il Libro esiste in quattro codici, di cui la copia più antica è
conservata presso la Biblioteca Laurenziana a Firenze (datata da uno dei copisti il 31 luglio
del 1437; vedi l’immagine accanto), seguita da quella della Biblioteca Ricciardiana, sempre a
Firenze (variamente datata).
De coloribus et artibus Romanorum è una compilazione di ricette riguardanti la preparazione
dei colori da impiegarsi nella miniatura, la tecnica del vetro e della ceramica, nonché il taglio
e la levigatura delle gemme.
Ne è documentata l’ampia diffusione, nonché l’appartenenza a “una tradizione di portata
certamente più vasta rispetto alla semplice storia del testo”:
Esistono infatti, provenienti da manoscritti che risalgono fino al IX secolo, piccoli gruppi di
ricette non identiche a quelle raccolte sotto il nome di Eraclio, ma assai simili nel contenuto.
Alcune ricette trovano parziali o completi riscontri in Vitruvio, Plinio e Isidoro di Siviglia [560
ca- 636]…
Come osserva Schlosser, il titolo del testo:
Esprime già a sufficienza che [esso] vuole gettare un ponte provvisorio verso il glorioso
passato…
Sennonché:
Elementi favolosi e strani di origine medievale-orientale si intrecciano ai resti antichi: è
proprio una specie di Casa di Crescenzio, rappezzata con avanzi di antiche architetture…
La Schedula di Teofilo è stata caratterizzata quale “ampia enciclopedia tecnica dell’arte del
primo Medio Evo, quale si sviluppava nei conventi” e “summa di quelle conoscenze tecniche
che informavano la produzione decorativa di cui Bernardo [di Chiaravalle (1090-1153)]
censura l’utilizzazione in ambito monastico”
I tre libri in cui si articola sono così distinti:
Il primo, dedicato alla miniatura e alla pittura murale, descrive procedimenti come "fare i
pigmenti", le colle e le vernici, come fabbricare la foglia d’oro, come dorare e dipingere nei
libri, sulle pareti, su tavola, compresi alcuni procedimenti come la pittura a olio e quella su
stagno, per le quali non abbiamo testimonianze concrete. Il secondo libro riguarda la
fabbricazione del vetro e la pittura su vetro. È un libro particolarmente importante perché è il
più antico testo dedicato alle vetrate e con consapevolezza Teofilo sembra sottolineare la
novità della tecnica ... Il terzo libro si occupa dell’arte orafa e riguarda la fusione e vari
processi relativi alla metallotecnica, ma anche la lavorazione con pietre preziose, per cui
accanto alle tecniche basilari, come fusione, sbalzo, saldatura, prende in considerazione
nielli e smalti. Vi si trovano la prima descrizione della fusione delle campane e il più
completo resoconto medievale della costruzione di un organo.
Schlosser nota come sia “molto superiore nella sua struttura a [quella] letteratura di semplici
ricette” cui apparterrebbe De Coloribus.
E Donata Levi invece che:
Non si tratta di una compilazione, come i ricettari medievali, ma di un trattato più organico,
presentato in forma razionale e ordinata e che promette una acquisizione di competenze ad

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ampio raggio geografico…di dettagliate descrizioni di procedimenti tecnici, illustrati nelle
varie fasi di produzione.
Nota infatti Paolo Galloni – accennando al pensiero del teologo e filosofo Ugo di San Vittore,
il primo a teorizzare e ad enumerare le arti meccaniche (tra cui l'armatura, ovvero ogni
lavoro in legno, pietra, metallo, fabbricazione di armi, architettura, scultura, pittura)—il
trattato di Teofilo contiene una novità fondamentale nella storia della cultura europea: è il
primo testo a occuparsi direttamente degli strumenti del lavoro, il primo a concepire l’idea
che lo strumento si possa concettualmente separare dalle mani di coloro che ne fanno uso.
In effetti parecchi capitoli della Schedula sono consacrati alla fabbricazione degli strumenti
che a loro volta serviranno a fabbricare oggetti. Lo strumento viene pertanto trattato come
un’entità autonoma dotata di un intrinseco significato e valore ... Nel Didascalicon Ugo ...
ridefinisce il rapporto tra i materiali, gli attrezzi e le norme per il loro utilizzo ... il fare
dell’artigiano viene concepito come un rapporto tra materiali e strumenti che si instaura
grazie alla volontà dell’operatore. Lo strumento diviene a sua volta mediatore sensibile tra
l’intenzione dell’artigiano e i suoi fini. Ne consegue che fabbricare strumenti è un modo di
portare ordine nel mondo, di migliorarlo. Con Teofilo il sapere pratico si riveste
esplicitamente di una dignità nuova…
Anche nel Libro dell’arte di Cennini—un “manuale di didattica del mestiere” del pittore—si
assiste agli esiti di un processo in cui le “sparse cognizioni di bottega” sono “razionalizzate e
sistematizzate”:
Il Libro dell’arte già una struttura ben precisa, resa più evidente dalla suddivisione in capitoli
che si deve però alle edizioni a stampa…I primi quattro riguardano considerazioni generali
sull’arte della pittura e sui costumi che si addicono all’artista, dal V al XXXIV si tratta
dell’apprendimento del disegno, poi si prosegue fino al LXVI con i colori e con la loro
preparazione. Seguono infine le diverse tecniche: colorire su muro, tavola, tela, carta, vetro,
mosaico, cuoio, pietra, pietra, fino a come ottenere l’impronta di una moneta, lavorare
coperte da cavalli, divise per tornei e giostre, cimieri o elmi, cofani e forzieri, trucchi e metodi
per levarlo.
Allo stesso tempo però – in sintonia con il cronista e umanista Filippo Villani (1325 ca-1407),
che nello stesso periodo include un capitolo dedicato a Giotto e ad altri pittori nel suo Liber
de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus (redatto in due fasi: 1381-1382;
1395-96) – Cennini rivendica per la pittura una posizione non più relegata tra le arti
meccaniche ma piuttosto tra quelle liberali, accanto alla poesia.
Come vedremo quando verremo a leggere il primo capitolo – sorta di prologo – del Libro
dell'arte e a confrontarlo con i prologhi o prefazioni a De coloribus e alla Schedula di Teofilo.
Ma prima di far ciò sarà opportuno confrontare alcuni brani attinti dal corpo di ciascun
trattato, per vedere come ognuno sfrutti le potenzialità caratteristiche del genere.
Che, l'abbiamo già detto e ripetuto, è essenzialmente normativo e quando è riferito all'arte
tende a regolare una determinata procedura formativa, o indicando il modo in cui essa
andrebbe svolta, oppure differenziando le sue parti – concettuali e pratiche, teoriche e
tecniche.
Se prevale il primo di questi due aspetti o intenti, prevarrà anche quella tipologia testuale
che abbiamo chiamato “istruzionale”, distinta da una modalità di progressione del testo
insieme (con)sequenziale e finale.
Verifichiamo la cosa, esaminando innanzitutto due capitoletti di De Coloribus.
I, II. COME VARI COLORI ADATTI ALLA SCRITTURA SI OTTENGONO DAI FIORI
Chi desidera trasformare i fiori in colori per scrivere che la pagina dei libri richiede, deve
camminare nei campi di grano il mattino presto. Allora noterà tanti fiori appena sbocciati.

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Che li colga e, rientrato a casa, badi a non mischiarli, ma faccia ciò che quest’arte richiede:
macini i fiori sopra una pietra liscia. La composizione deve contenere gypsum così da
mantenere i colori asciutti. Se vuoi ottenere un colore verde, mischia calce ai fiori. Vedrai
allora che ciò che ti ho trasmesso l’ho prima sperimentato.
II, XVI. SUL RAME DORATO CON LA BILE
Se desideri trattare il rame con la bile in modo che sembri dorato, fa' così. Raschialo con un
coltello e lucidalo con un dente d’orso. Poi cospargi dappertutto il liquido della bile con un
calamo. Poi stendi una seconda copertura e di nuovo una terza volta e sempre ovunque con
cura. Infine aggiungi creta bianca al liquido e la mistura renderà il colore brillante.

In tutti e due i brani viene indicata esplicitamente, quale obiettivo eventuale del lettore-
ricevente del testo, quella finalità – in un caso ottenere colori, in particolare il verde, per
scrivere, nell’altro far sembrare dorato il rame – che determinerà e darà ordine e
orientamento alla procedura in questione.
Tale procedura viene esposta – e il suo carattere prescrittivo segnalato – attraverso una
serie di predicazioni d'azione che sono o modalizzate tramite l'uso del verbo dovere (deve
camminare) oppure espresse al modo imperativo (fa’ così, mischia, raschialo, cospargi,
stendi, aggiungi), al congiuntivo (colga, badi, faccia, macini), o ancora al futuro (noterà,
vedrai), nel caso di azioni che si verificheranno a condizione che ne vengano
precedentemente compiute delle altre.
Le azioni che compongono la procedura sono coordinate – in senso temporale e in senso
logico – attraverso l'uso di congiunzioni ed espressioni avverbiali quali allora, poi, di nuovo.
L'intento prescrittivo si esprime anche nella locuzione avverbiale di maniera con cura; e si
riscontra nella descrizione della composizione ottenuta dai fiori, che alla modalizzazione
(deve contenere gypsum) aggiunge una motivazione finale (così da mantenere i colori
asciutti).
Ed analogamente ad asciutti nel primo brano, anche brillante nel secondo indica lo stato (del
colore) cui mira tutto il processo in esame.
Passiamo ora alla Schedula di Teofilo ed esaminiamo i capitoli primo e terzo del primo libro:
I, I. LA PREPARAZIONE DEI COLORI PER I CORPI NUDI
Il colore che vien detto membrana, con il quale si dipingono i volti e i corpi nudi si prepara
così. Prendi colore bianco fatto con il piombo e mettilo, senza tritarlo ma com’è, asciutto, in
un vaso di ferro o di rame che piazzerai sul fuoco fino al momento in cui diventerà giallo.
Allora macinalo e mischialo con altro bianco plumbeo e vermiglio finché non prende il colore
della carne. Combina i colori secondo il tuo gusto: se vuoi volti rossi aggiungi vermiglio, se li
vuoi chiari aggiungi bianco, se li preferisci pallidi aggiungi un poco di verdigris invece del
vermiglio.
I, III. IL COLORE PER LE OMBRE SUI CORPI NUDI
Dopo aver preparato il colore per i corpi nudi e aver riempito i volti e i corpi, mescola ad esso
il verde scuro, il rosso ottenuto dalla combustione dell’ocra, un poco di vermiglio, e prepara il
colore per le ombre. Con quello dipingerai le sopraciglia, gli occhi, le narici, la bocca, il
mento, le fossette accanto alle narici e alle tempie, le rughe della fronte e del collo, le
rotondità del viso, la barba dei giovani, le articolazioni delle mani e dei piedi, e tutte quelle
membra che spiccano nel corpo nudo.
Salgono all'occhio alcune affinità formali con i brani tratti da De coloribus: i verbi al modo
imperativo (prendi, metti, combina, mescola, prepara); le congiunzioni (allora, dopo) che
coordinano le rappresentazioni di singole azioni e fasi; l'uso di un periodo ipotetico della

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realtà per indicare la procedura da seguire nell’eventualità di prediligere un determinato esito
(ad es. se vuoi volti rossi aggiungi vermiglio).
Ma possiamo notare anche come vengono segnalati, oltre ai prodotti finali (ad es. Il colore
che vien detto membrana; volti rossi) anche gli stadi terminali delle fasi di lavoro, attraverso
l’uso della preposizione fino e la congiunzione finché (che piazzerai sul fuoco fino al
momento in cui diventerà giallo; mischialo con altro bianco plumbeo e vermiglio finché non
prende il colore della carne).
Tratto distintivo di questa coppia di brani, rispetto ai due precedenti, è l’altro uso che fanno
del futuro, che nell’espressione “Con quello dipingerai le sopracciglia, gli occhi, ecc. accenna
ad una finalità figurativa—disegnare le varie parti dei corpi nudi—che pertanto sta di là della
finalità immediata della ricetta, che in quest’ottica risulta strumentale, in quanto corrisponde
al primo stadio di una procedura complessa che avanza per gradi, come si può vedere
confrontando il terza con il quarto capitolo:
I, IV. IL PRIMO COLORE ROSA
Poi prepara il rosa mescolando il colore per i corpi nudi con un poco di vermiglio e di minio.
Lo userai per arrossare le guance, la bocca, la parte bassa del mento, il collo, le rughe della
fronte, leggermente, la fronte stessa sopra le tempie da entrambi i lati, il naso nella sua
lunghezza e sopra le narici, la muscolatura e le altre membra nel corpo nudo.
Come nota infatti Paolo Galloni [1998, 86], "In generale abbondano ricette che individuano
un’operazione precisa" – operazione, aggiungiamo, che fa parte di un’altra, più ampia.
E' come se nell’organizzazione del proprio libro Teofilo avesse voluto applicare e allo stesso
tempo ampliare quella "professione di fede nel valore dell’operare concreto" che si trova
nell’incipit del manoscritto più completo di un precedente ricettario per la preparazione dei
colori, di varia origine e data, e di fatto non del tutto concreto e disorganico, la cosiddetta
Mappae clavicula:
Ogni abilità si impara lentamente, passo dopo passo. La prima è l’abilità del pittore nella
preparazione dei pigmenti. Volgi la tua mente alla mistura dei colori poi comincia il lavoro,
ma verifica tutto con la punta delle dita affinché il tuo dipinto contenga freschezza e bellezza.
Dopo, come molti ingegni testimoniano, al lavoro seguirà la maestria, come questo libro
insegnerà.
L’effettivo procedere in maniera metodica che è caratteristico dalla Schedula di Teofilo lo
ritroviamo, intensificato, nel Libro dell'arte di Cennini che, come mette in evidenza Albert
Dresdner, presenta segnali "di un nuovo atteggiamento verso l'arte" anche in quanto il suo
autore non si limita, come i suoi predecessori, ad una semplice enumerazione di ricette, ma
offre un resoconto sistematico di un corso di studio artistico organizzato per gradi – il primo
del suo genere – entro il quale colloca opportunamente le sue istruzioni, mostrandosi
perspicace e pienamente consapevole del proprio mestiere: pianifica e, in gran parte,
realizza il proprio trattato come un insieme intellettuale.
Ne è un esempio il primo capitolo della parte dedicata all'affresco, dove il titolo stesso
"chiarisce che l’autore non si limiterà a dare ricette, come nei trattati medievali, ma
descriverà le fasi di un procedimento" [Levi 2010, 288]:
CAPITOLO LXVII.
Il modo e ordine a lavorare in muro, cioè in fresco, e di colorire o incarnare viso giovenile.
Col nome della santissima Trinità ti voglio mettere al colorire. Principalmente cominci a
lavorare in muro, del quale t'informo che modi dèi tenere a passo a passo. Quando vuoi
lavorare in muro, ch'è 'l più dolce e il più vago lavorare che sia, prima abbi calcina e
sabbione, tamigiata bene l'una e l’altra. E se la calcina è ben grassa e fresca, richiede le due
parti sabbione, la terza parte calcina. E intridili bene insieme con acqua, e tanta ne intridi,

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che ti duri quindici dì o venti. E lasciala riposare qualche dì, tanto che n’esca il fuoco; chè
quando è così focosa, scoppia poi lo ‘ntonaco che fai…
Dove, oltre alle modalità testuali già riscontrate in De coloribus e in Teofilo, sarebbero da
notare il commento valutativo circa la procedura in esposizione (o sull'esito estetico cui
conduce) interpolato da Cennino (ch’è ‘l più dolce e il più vago lavorare che sia) nonché il
modo in cui vengono giustificate le proprie istruzioni (lasciala riposare qualche dì, tanto che
n'esca il fuoco) tramite l'indicazione, debitamente circostanziata, dell'effetto indesiderato cui
porterebbe l'operare in maniera diversa (chè quando è così focosa, scoppia poi lo ’ntonaco
che fai).
La tendenza a voler giustificare la prescrizione di determinati modi di agire la ritroviamo nel
capitolo LXXXVI, e ancora in senso valutativo, ma dove la valutazione – ed è un tratto molto
significativo – è più chiaramente riferibile ad un desiderato effetto estetico:
CAPITOLO LXXXVI.
El modo del colorire àlbori ed erbe e verdure, in fresco e in secco
Se vuoi adornare le dette montagne di boschi d'àrbori o d’erbe, metti prima il corpo
dell’albero di nero puro temperato, ché in fresco mal si posson fare; e poi fa' un grado di
foglie di verde scuro, o pur di verde azzurro, che di verdeterra non è buono; e fa’ che le
lavori bene spesse. Poi fa' un verde con giallorino, che sia più chiaretto; e fa' delle foglie
meno, cominciando a ridurti a trovare delle cime. Poi tocca i chiarori delle cime pur di
giallorino, e vedrai i rilievi degli àlbori e delle verdure; ma prima, quando hai campeggiati gli
àlbori di negro in piè, e alcuni rami di albori…e buttavi su e le foglie, e poi i frutti; e sopra le
verdure butta alcuni fiori e useletti.
Come ha notato Donata Levi, il termine ‘rilievo’, qui e altrove, è "uno dei segni di modernità
di Cennino":
Il rilievo è per lui in primo luogo il volume di una figura, significato questo che prevarra ̀ nella
teoria artistica rinascimentale; in secondo luogo, in quanto dipende da una illuminazione
naturale, è il risultato della corretta applicazione delle ombre da parte del pittore. D’altra
parte la concezione del rilievo come volume di una figura e la percezione della sua
connessione con il problema della luce nella susseguente teoria artistica rimasero
strettamente legate all’unicita ̀ della tradizione artistica fiorentina.
Ma oltre a queste accezioni, ‘rilievo’ per Cennini significa quella condizione necessaria
perché una raffigurazione pittorica assuma per l’osservatore quasi la presenza di un oggetto
reale.
L'uso del termine è infatti da collegare a certe osservazioni, altrettanto 'moderne', fatte da
Cennino nel primo capitolo del Libro dove, oltre a cominciare, come fa anche Teofilo, "ab
ovo, col peccato originale e con l’origine del lavoro manuale – determinato dalla necessitas"
(ma potenzialmente espressione di quella intelligenza e "scienza" già ricevute in dono da
Dio) – arriva a precisare che al pittore:
conviene avere fantasia e operazione di mano, di trovare cose non vedute, cacciandosi sotto
ombra di naturali, e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è, sia. E con
ragione merita metterla a sedere in secondo grado alla scienza, e coronarla di poesia. La
ragione è questa: che 'l poeta, con la scienza prima che ha, il fa degno e libero di poter
comporre e legare insieme sì o no come gli piace, secondo sua volontà. Per lo simile al
dipintore dato è libertà potere comporre una figura ritta, a sedere, mezzo uomo, mezzo
cavallo, sì come gli piace, secondo sua fantasia.
Sono termini – ‘rilievo’, ‘fantasia’, come anche ‘disegno’ e ‘maniera’ – che sono spie di
finalità insolitamente immaginative ed espressive, dalle quali sono determinate ed orientate
le procedure esposte nel Libro dell'arte.

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Osserva in proposito al passo appena citato Lionello Venturi:
Non si insisterà mai abbastanza sull'importanza di questo passo. Infatti, in seguito alla
spiritualizzazione dell'arte operata da Plotino in poi, l'imitazione della natura è intesa quale
produzione indipendente e parallela alla natura, come riproduzione di quello che non è nella
natura, come se fosse naturale ... L'artista deve fantasticare, ma bisogna che la sua fantasia
appaia realtà.
‘Eraclio' nell'incipit a De coloribus si prefigge di formare colui che "forte della propria virtù"
conservi "le chiavi dell’ingegno" ed in tal modo di recuperare qualcosa dell'"insigne ingegno"
che aveva permesso ai romani di scoprire i segreti delle loro arti.
Teofilo invece nel prologo al primo libro, partendo appunto dalla caduta dell'uomo, pone
l'accento sul dovere da parte dei devoti – dovere e privilegio loro per eredità spirituale e per
umana fratellanza – di "convertire all'ossequio di Dio ciò che Dio stesso aveva creato a lode
e gloria del proprio nome [factumque est ut quod ad laudem et gloriam nominis sui condidit
dispositio divina, in eius obsequium converteret plebs Deo devota]" mentre nel prologo al
terzo libro ne illustra l'esito ideale di tale processo trasformativo tramite l'esplicazione
individuativa della "Casa del Signore" – la chiesa intesa in senso materiale quale edificio e
spirituale quale "paradiso di Dio", idealmente adornata dall'artefice discente.
Quello proposto da Cennino invece è un iter prettamente professionale, iter che richiede
certe doti ed inclinazioni specifiche: in primo luogo un "'animo gentile', predisposizione
naturale che si manifesta col dilettarsi dell’intelletto per il disegno" e condizione essenziale di
ciò che Venturi chiamerà la "personalità artistica" e che in prospettiva storica vede 'spuntare’
proprio qui nel Libro dell’arte, "per forza di fantasia", iter che è teso verso la produzione di
opere d'arte considerate non tanto quali prova di ingegno o di maestria, né come
componenti (ideali o materiali) della "Casa del Signore", ma come creazioni appunto della
fantasia dell’artista.

LEZIONE XII
CARTE CHE “RIDONO” E OPERE SENZA TITOLO
Questa lezione ha due obiettivi:
Dare conto del posto occupato da Dante Alighieri nella storia della critica d’arte.
Abbozzare una storia del titolo dell’opera d’arte.
Sono due obiettivi apparentemente sconnessi, ma, legati tra loro in profondità.
L'importanza di Dante in tal senso è sottolineata, a modo proprio, da ognuna delle guide che
ci stanno accompagnando nella nostra rivisitazione della storia della critica d'arte.
Intesa – sarà il caso ancora una volta di ribadire – quale momento individuativo di un testo o
genere variamente riferito alla produzione artistica.
Per Schlosser, Dante, o più esattamente la Commedia di Dante ed in particolare "i famosi
passi su Cimabue e su Giotto".
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è oscura. [Dante 1983, Purgatorio, XI, 94-96]

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Segnala il "punto di partenza" della stessa "storiografia artistica fiorentina" incentrata
nell'interesse per la "personalità artistica" e manifestatasi "subito, presso i commentatori di
Dante [in] tutta una letteratura di novelle e di leggende, che Inoltre, Schlosser si occupa di
Dante in un capitolo volto ad illustrare la "dottrina
artistica" del poeta, ma soprattutto a dimostrare come questa non vada travisata dalla
"concezione ... moderna del mondo e dell'arte" e pertanto separata da quella medievale –
che era ancora quella di Dante – da un "abisso profondo" trovarono la loro conclusione nel
romanzo cimabuesco del Vasari”.
Inoltre, Schlosser si occupa di Dante in un capitolo volto ad illustrare la "dottrina artistica" del
poeta, ma soprattutto a dimostrare come questa non vada travisata dalla "concezione ...
moderna del mondo e dell'arte" e pertanto separata da quella medievale – che era ancora
quella di Dante – da un "abisso profondo".
Per Venturi invece:
Dante Alighieri nella poesia e Giotto nella pittura hanno conchiuso tutta un'epoca della storia
e ne hanno aperto un'altra. E anche la storia della critica d'arte deve tener conto di loro, di
Giotto perché ha ispirato nuove idee agli scrittori, di Dante perché le sue idee sull'arte, pur
muovendosi nel mondo tradizionale, hanno accennato a nuovi bisogni.
Bisogni che, in linea con Schlosser, Venturi individua in quella "identità di sensibile e di
mistico" insita nella poetica del "dolce stil novo" ed in particolare del concetto di amore
Dante Gabriel Rossetti, – "sia sensibile sia soprasensibile, che cioè mistica" – che lo
informa.
Per Venturi l'importanza di Dante per la storia della critica d'arte non è solo di carattere
storico, o storiografico, ma anche critico, nell'accezione specificatamente venturiana di
questo termine.
Dante cioè segnerebbe il punto di partenza non soltanto della storiografia artistica fiorentina
ma di una nuova fase nella stessa concezione dell'arte, quella in cui, come si è visto a
proposito di Cennini, "spunta la personalità artistica" e inizia ad affermarsi quell'idea unitaria
dell'opera che si rispecchia nel nascente "giudizio artistico".
La scissione tra la tradizione estetica, il repertorio iconografico e il ricettario tecnico è finita
per opera di quella civiltà italiana che doveva chiudere il medioevo e aprire le porte all'evo
moderno. Dante parla di Cimabue e di Giotto. Dopo di lui Petrarca, Boccaccio, Sacchetti,
Filippo Villani, Cennini scrivono dell'arte toscana del tempo loro: da essa traggono l'incentivo
a formarsi un criterio di giudizio artistico: ora la esaltano, ora temono della sua fortuna, ora
cercano di fissarne le leggi, ora vogliono trasmettere ai posteri i nomi degli artisti, quali glorie
della loro città. Si getta in tal modo un ponte tra l'arte figurativa e la cultura letteraria
classicheggiante, erudita. I principi appresi dagli antichi scrittori sono messi in rapporto con
le esperienze quotidiane dell'arte; e cioè il principio teorico è spinto a essere applicato alla
realtà vivente dell'arte, a concentrarsi in giudizio. D'altra parte gli artisti contemporanci sono
confrontati, come a diapason, agli artisti dell'antichità; e dal confronto scaturisce un primo
abbozzo di storia, non degli artisti soltanto, ma anche delle epoche storico-artistiche.
Il titoletto del paragrafo che Donata Levi da parte sua dedica all'Alighieri – Dante: "visibile
parlare" e cronologia – annuncia i "due poli" fra i quali sarebbe da leggersi il "fondamentale
contributo di Dante al discorso sull'arte":
Altissimi esempi di ekphrasis e, in germe, gli inizi di una storia dell’arte ... Da un lato Dante
propone la descrizione di alcune opere scultoree fittizie, dall’altro individua – seppur
icasticamente – una embrionale cronologia artistica che mette in parallelo con quella
letteraria in una sorta di implicito ut pictura poesis.

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Il riferimento è innanzitutto al Canto X del Purgatorio, in cui il poeta si trova nel girone in cui
è punita la superbia, per l'espiazione della quale sono poste all'attenzione delle anime
alcune storie scolpite in una parete di pietra marmorea ed illustranti la virtù opposta
dell'umilità:
Gli intagli rappresentano nell’ordine i tre exempla di umiltà: l’Annunciazione a Maria che
accetta la novella ubbidiente al volere divino; la danza del re David, che acconsente di
spogliarsi della sua dignità regale e “tresca” – danza – senza velo come un umile salmista
davanti all’arca dell’Alleanza; infine il dialogo fra Traiano e la vedova, dove l’imperatore –
secondo la leggenda, unico pagano a meritare di essere liberato dalle pene dell’Inferno in
virtù del suo senso di giustizia – rinuncia a un’impresa bellica per compiere un dovere
morale e condannare dei colpevoli.
Donata Levi mette giustamente in evidenza che Dante (come anche Virgilio in un passo
dall'Eneide che costituisce una delle fonti classiche cui guarda il poeta in questo suo
esercizio ecfrastico) "si sofferma sull’interazione fra scene e spettatore".
Foco d'interesse inscritto nel testo tramite l'uso ripetuto di un costrutto correlativo particolare,
formato da due proposizioni, una 'principale' e l'altra 'subordinata' ma in realtà più importante
da un punto di vista comunicativo, in quanto rappresenta una situazione risultativa che,
riferita ad un'opera d'arte, evoca il suo effetto su o per lo spettatore.
Perno della costruzione si trova tuttavia nella 'principale' o antecedente: un avverbio o
aggettivo dimostrativo – ad es. ‘tanto’, ‘tale’, ‘talmente’, ‘così’, ‘sì’, ‘abbastanza’ – indicatore
del grado di attuazione di una determinata qualità o quantità.
Grado di attuazione la cui indeterminatezza viene indirettamente risolta nella consecutiva –
introdotta da che se esplicita – in termini appunto di effetto conseguente.
Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand'io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco, 30

esser di marmo candido e addorno


d'intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno. 33

L'angel che venne in terra col decreto


de la molt'anni lacrimata pace,
che aperse 'l ciel del suo lungo divieto, 36

dinanzi a noi pareva sì verace


quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace. 39

In seguito il testo offre l'esplicazione di questo e degli altri intagli in chiave caratterizzante –
di cui un primo chiaro indizio sono i verbi "pareva", "sembrava".
La caratterizzazione opera sia in modo diretto, come sopra, sia indirettamente – ad es.
tramite la citazione testuale dei saluti apparentemente scambiati da Gabriele e Maria e la
similitudine della figura impressa nella cera:
Giurato si saria ch'el dicesse 'Ave!';
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; 42

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e avea in atto impressa esta favella
‘Ecce ancilla Dei’, propriamente
come figura in cera si suggella. 45

Il carattere particolare di queste sculture e l'effetto sullo (e nello) spettatore che suscita è
indirettamente comunicato soprattutto dai dialoghi che Dante riferisce come di sentire tra i
propri sensi della vista e dell'udito e tra l'imperatore e la vedova:
Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e' buoi, traendo l'arca santa,
per che si teme officio non commesso. 57

Dinanzi parea gente; e tutta quanta,


partita in sette cori, a' due mie' sensi
faceva dir l’un "No", l’altro "Sì, canta". 60

Similemente al fummo de gl'incensi


che v'era imaginato, gli occhi e 'l naso
e al sì e al no discordi fensi. 63

La miserella intra tutti costoro


pareva dicer: "Signor, fammi vendetta
del mio figliuol ch'è morto, ond'io m’accoro"; 84

ed egli a lei risponder: "Or aspetta


tanto ch'io torni." E quella: "Signor mio,"
come persona in cui dolor s’affretta, 87

"se tu non torni?” Ed ei: "Chi fia dov'io,


la ti farà." Ed ella: "L’altrui bene
a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?" 90

Ond’egli: "Or ti conforta, ch’ei convene


ch’io solva il mio dover anzi ch’io mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene." 93

E' tale carattere che viene riassunto nel celebre ossimoro "visibile parlare":
Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova. 96

Donata Levi si sofferma anche sul passo del Canto XI cui già si è accennato, in cui Dante
riconosce il miniatore Oderisi da Gubbio (1240 ca-1299) e l'apostrofa con le parole.
"Oh!", diss'io lui, "non se’ tu Oderisi,
l'onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch'alluminar chiamata è in Parisi?" 81

cui risponde Oderisi:


"Frate" diss’egli, "più ridon le carte

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che pennelleggia Franco bolognese;
l'onore è tutto or suo, e mio in parte. 84

Ben non sare' io stato sì cortese


mentre ch'io vissi, per lo gran disio
de l'eccellenza ove mio core intese. 87
Citando poi la fortuna intrecciata di Cimabue e di Giotto come esempio della "vana gloria de
l'umana posse".
Commenta Donata Levi:
Accanto e in relazione, con questa lettura formale [quella che sarebbe implicita nella frase
"più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese"], Dante impone in questo canto, con
forza ancora maggiore, i concetti di mutamento, progresso, fioritura, decadenza, che
vengono estesi ora dal campo della civiltà in senso generale a quello specifico dell’arte ...
Oltre alla critica d’arte nasce così anche la storia dell’arte ... Questi pochi versi di Dante
racchiudono infatti i germi di una cultura che, in meno di due secoli, produrrà i primi abbozzi
di una nuova forma di scrittura, la storia dell’arte. Di fatto, con Dante si introduce l’idea che
gli artisti meritano di essere considerati come oggetti di una storia, sulla base della loro
capacità creatrice entro un ordine spirituale. È una vera rivoluzione mentale ...
Riprendiamo a leggere nelle Proposte a cominciare dal punto in cui siamo arrivati: quello in
cui si presenta il titulus di S. Agnese- fuori-le-mura quale "la prima, e come alta, 'equivalenza
verbale' di un'opera d'arte":
Di queste stupende trasposizioni fu pieno il Medioevo e basterà citarne un esempio anche
più decisivo al tramonto di quella lunga età.
Sui primi del Trecento un uomo che guarda certi fogli di un libro di diritto, miniati da un pittor
bolognese del tempo, si avvede che quelle carte "ridono". Dante, perché si tratta di lui, fonda
con quella frase, e proprio nel cuore del suo poema, la nostra critica d'arte. Lasciamo stare il
peso sociale del passo, dove, per la prima volta, nomi di artisti figurativi son citati alla pari
accanto a nomi di grandi poeti. Conta di più l'astrazione intensa dai soggetti di quelle carte
ch'erano, c'è da presumerlo, scene atroci di torture legali, eppure le carte "ridono" nella rosa
dei colori. Conta altrettanto il rapporto posto, per dissimiglianza, tra Franco e Oderisi che già
afferma il nesso storico fra opere diverse, nega cioè l'isolamento metafisico e romantico
dell'"unicum", distrugge il mito del capolavoro incomunicante e imparagonabile. Conta, più di
tutto, che Dante abbia subito qualificato quei colori con un sentimento di gioia ridente.
Sebbene all'estremo sentimentale opposto, siamo già sul piano di Baudelaire quando
conclude l'elenco dei colori nella "Caccia al tigre" di Delacroix con la tetra esclamazione:
"bouquet sinistre!".
riferimento quest’ultimo agli appunti di Baudelaire su alcune opere nella collezione Crabbe,
tra cui:
EUGÈNE DELACROIX. — Chasse au tigre. Delacroix alchimiste de la couleur. Miraculeux,
profond, mystérieux, sensuel, terrible ; couleur éclatante et obscure, harmonie pénétrante.
Le geste de l’homme et le geste de la bête. La grimace de la bête, les reniflements de
l’animalité. Vert, lilas, vert sombre, lilas tendre, vermillon, rouge sombre, bouquet sinistre.
Ora, per quanto suggestivo possa essere la caratterizzazione comparata delle carte
miniate da Franco Bolognese e delle proprie messa in bocca ad Oderisi da Dante, occorre
precisare che sui primi del Trecento le cose non sono andate proprio come suggerisce
Longhi.
Occorre non perdere di vista, cioè, il fatto che quelle carte che "ridono" assumono un loro
significato preciso all'interno della scena immaginata dal poeta – quale professione di umiltà

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nei confronti del rivale da parte di un artista che si riconosce colpevole di superbia e di vana
gloria – e soprattutto all'interno dell'intero sistema escatologico figurato nella Commedia.
E che non si tratta della trasposizione verbale diretta di un'esperienza critica particolare di
Dante: non è questione, infatti, né di lui, né di "libro di diritto", né di "rosa dei colori", né per
quello di "lettura formale" di un'opera d'arte intesa come tale.
Analogamente, come ci rammenta Marco Collareta, "Non si deve dimenticare ... che i tre
rilievi marmorei che attraggono l'attenzione del poeta non sono opera di un'arte umana" e
che sono evocativi invece di quel "topos specificamente medievale del Dio artista".
Ancora infatti l'opera d'arte in quanto tale non è entrata in scena, non cattura l'attenzione di
nessuno, né esige un'apposita sua esplicazione verbale.
Ed ecco trovato il nesso con la storia del titolo dell’opera, che anch'esso – ed è sintomatico
– ancora in questo periodo non c’è, né per molto tempo ci sarà.
Ora, onsiderate questo passo:
Imagine yourself in a gallery. You turn into a room and are confronted with an image. The
title is printed near the work, but you look away from it. You do not, or not quite yet, want
your impression of the work to be limited by the artist’s text. You do not want to know what
the work is about, you want to contemplate what it is. [Julius 2002, 15]
È l’augurio di un artista contemporaneo che dà per scontata l’esistenza del tito'lo dell’opera
ma che si auspica funga da 'antititolo' – un invito all’osservazione attenta dell’opera e alla
sua giudiziosa interpretazione—e che, se presente, si limiti semmai a recitare Senza titolo.
Ma occorre ricordare che le opere letteralmente senza titolo costituivano, in un passato non
remoto, la norma.
Possiamo comprendere meglio la funzione moderna del titolo come nome di un’opera se
consideriamo la storia dei titoli e del loro uso: una storia – o preistoria – intricata, dal
momento che "much Western art has been titled only in retrospect and by general
description".
Ad es., l’opera di Pieter Brueghel il Vecchio ora nota come Paesaggio con la caduta di Icaro
(1558 ca) era sconosciuta fino all’inizio del ‘900, quando apparse sul mercato d’arte a
Londra e venne acquistato dal museo di Bruxelles.
Dovrebbe quindi risalire a questo momento l’assegnazione del titolo, che compare infatti (in
inglese: Fall of Icarus) nell’annuncio dell’acquisto dato su "American Art News" il 22 febbraio
1913.
Ma anche ad opere conosciute da tempo come il Paesaggio con fiume di Leonardo (Firenze,
Gallerie degli Uffizi) e la Sacra conversazione con i santi Caterina e Tommaso (1526- 1528)
di Lorenzo Lotto (Vienna, Kunsthistoriches Museum) sono stati assegnati i titoli con i quali
noi ci riferiamo ad esse diverso tempo dopo la loro creazione.
È anche questione dell’indisponibilità o dell’instabilità di categorie generiche ed
iconografiche atte a classificare le opere.
Paesaggio con fiume, datato 1473, è il più antico disegno di Leonardo che ci è noto ed è
considerato uno dei primi esempi, se non proprio il primo, di studio di paesaggio puro nella
storia dell’arte occidentale.
Tuttavia, l’impiego delle parole ‘paese’ e (meno frequentemente) ‘paesaggio’ per indicare un
genere di raffigurazione artistica risale al secolo successivo.
Finito dunque che ebbe per ultimo il detto S. Francesco, se ne tornò a Firenze, dove giunto
dipinse per mandar a Pisa, in una tavola, un S. Francesco ne l’orribile sasso della Vernia
[Parigi, Musée du Louvre] con straordinaria diligenza, perché oltre a certi paesi pieni d’alberi
e di scogli, che fu cosa nuova in que’ tempi, si vede nell’attitudini di S. Francesco che con
molta prontezza riceve ginocchioni le stìmate, un ardentissimo disiderio di riceverle et infinito

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amore verso Gesù Cristo, che in aria circondato di Serafini gliele concede con sì vivi affetti
che meglio non è possibile immaginarsi.
Eccone un altro esempio:
La tavola, dove è effigiata la Sammaritana, disse il Sirigatto, che parla al Salvadore del
mondo è di Alessandro Allori di ordinanza molto ben composta, la femmina molto vaga, il
fanciullo bellissima testa, e dilicate membra, il paese ben accomodato, & il colorito non si
può disiderare il migliore. [Borghini 1584]
N.B.: il primo uso di landscape ('landskipes') attestato dall'Oxford English Dictionary è del
1598: si trova nella traduzione di Richard Haydocke del Trattato della pittura di Giovanni
Paolo Lomazzo (1584).
Analogamente la categoria Sacra conversazione così come la intendiamo oggi è forse
un'invenzione dell’Ottocento che si innesta sulla tradizione pre-esistente, ma a sua volta non
più antica del tardo '600, della Santa conversazione, la quale sembra essersi riferita
principalmente a raffigurazioni della Santa (o Sacra) Famiglia.
D'altro canto, titolare le opere nel senso di chiamarle per nome risulta una esigenza piuttosto
recente.
Non che non fosse possibile in passato che il parlante/scrivente usasse le parole per riferirsi
ad una determinata opera e per differenziarla da altre – soprattutto in generi quali contratti
ed inventari, dove questo era tra i principali scopi comunicativi.
Le modalità di individuazione adottate furono varie, ma tutte volte alla classificazione
iconografica dell’opera.
Ad es. tramite la qualificazione di sostantivi generici (ad es. quadro, storia) grazie a
complementi introdotti da con o di; a relative o appositive introdotte ad es. da quando, como,
dentrovi; oppure a proposizioni particolari:
Francesco Maria [Rondani] sia obbligato a pingere un quadro como poi fu preso in orto.
Fece in detto luogo la finestra di Santo Antonio e di San Niccolò, bellissime, e due altre,
dentrovi nella una la storia quando Cristo caccia i vendenti del tempio, e nell’altra l’adultera.
Un quadro con Maria, il Bambino, S. Maddalena, San Giovanni battista, S. Caterina, & c.,
opera del Palma Vecchio…
Arminio Zuccati ovvero Zuccato pittore veneziano. Di questo artefice vien fatta menzione nel
libro intitolato “Il forestiero illuminato” ecc., impresso in Venezia nel 1740, registrando le
appresso opere di sua mano che sono in Venezia, cioè la tavola di S. Vittore in Santa Maria
Nuova sul disegno di Bonifazi Bembi, a 157, e in San Sebastiano, a 242.
Un quadro con ornamento simile, alto braccia 2 e largo 1 e mezzo rappresentante
S.Giuseppe con Gesù Bambino. Di Guido Re.
O ancora grazie all’uso di espressioni simili ma con funzione di complementi diretti di verbi
quali fare o dipingere, nonché all’uso, sempre come complementi diretti, di gruppi nominali
indicativi del soggetto raffigurato, in genere preceduti dall’articolo indeterminativo, talvolta
dall’articolo determinato.
Dipinse [Giotto] nel palagio del podestà di Firenze, dentro fece el comune come era rubato.
Soleva talvolta Tiziano per diporto passar a Padova, ove ritrasse monsignor Bonfio, per cui
fece una Maddalena.
Nella compagnia di S. Croce che è sotto la chiesa di S. Agostino [Sodoma] dipinse la
risurrezione del Signore.
Tuttavia, tali espressioni non costituiscono a tutti gli effetti titoli così come li intendiamo noi.
Svolgono delle funzioni discorsive limitate: a differenza dei titoli moderni non fungono
direttamente da soggetti di predicazione, anche quando formalmente più assomigliano a

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titoli veri e propri, caso che si dà ad es. negli elenchi degli inventari oppure in passi come il
seguente.
Furono trasportati in Anversa dal signor Jacopo Casciopino due soggetti contenenti, cose di
divotione; e le seguenti Pitture parimenti dal Signor Giovanni Van Ussel nelle sue case. Un
quadro di Piramo moribondo con Amore piangente, che disprezza l’arco, e gli strali, di
grandezza al naturale; altro della Vergine adorante il bambino con San Girolamo vestito da
Cardinale, San Francesco, e l’Arcangelo Michele di mezze figure quanto il vivo; San
Girolamo orante in una spelonca; Christo in forma d’Ecce Homo; una giovanetta tenuta per
Cornelia figliuola di Titiano, che tiene un bacille, entrovi due meloni; due ritratti, I'uno di
Daniel Barbaro, che posa la mano sopra un libro rarissimo, l’altro dell’Aretino, riposato sopra
d’un braccio con ramo di lauro innanzi, & uno di un Patriarca Greco e quello d’un Gioieliere
vicino ad un tavolino con filo di perle in mano; un huomo calvo; e l’effigie di bellissima
vedova, & altra della figliuola pur del pittore in diversa maniera rappresentata; in oltre un
imagine di Nostra Donna col bambino in seno, San Giovanni e San Gioseppe in un paese di
figure intere; & un componimento finalmente che dimostra la Vergine sotto ad un albero, co'
Santi Antonio Abate, Francesco, e Girolamo intorno di forma naturale delle cose le più
eccellenti di Titiano.

LEZIONE XIII
DI NUOVO FABBRICHIAMO UNA ARTE DI PICTURA
In questa lezione ci occuperemo di uno tra i maggiori trattati d’arte del Quattrocento, De
Pictura (1435) di Leon Battista Alberti (1404-1475).
Cui si è accennato già nelle lezioni precedenti, a proposito del trattato sull’architettura di
Vitruvio, che Alberti prese a modello, e dei Commentarii di Ghiberti, redatti una decina di
anni dopo e che si sarebbero coscientemente posti quali
opera di "commemorazione storica" sul modello biografico ereditato da Plinio, laddove
Alberti aveva invece esplicitamente rifiutato tale modello, proponendo nel trattato una “opera
di reinvenzione” teorica.
Sarà interessante confrontare il trattato di Alberti con quello di Cennini, scritto solo una
quarantina di anni prima, e così verificare sui testi e alla luce delle nostre considerazioni sul
genere del trattato quanto scrive Venturi in proposito:
I trattati d'arte del secolo XV non hanno piú nulla del ricettario, essi si occupano soprattutto
dell'interpretazione della realtà e suggeriscono le norme per rappresentare la realtà …
L'interpretazione della natura assegna ... tanta importanza all'uomo interprete, che essa
diventa a volte una creazione dell'uomo. Anzi i limiti tra interpretazione e creazione spesso
sfuggono ... Egli [Alberti] vuol far sorgere la pittura dalle radici della natura: "Noi non come
Plinio recitiamo storia, ma di nuovo fabbrichiamo una arte di pictura" ... la sua definizione
della pittura, come veduta prospettica della natura, pone su basi nuove il trattato d'arte.
L'origine dell'arte era indicato nell'antichità e nel medioevo in modo leggendario; l'Alberti
chiarisce che l'origine dell'arte è problema psicologico e non storico; si rinnova ogni volta
che si crea arte. E alla medesima origine non si riporta soltanto la pittura, ma anche la
scultura e l’architettura: si tratta di un principio di stile figurativo.
Ora, come si è accennato nella XI Lezione, quel modo "leggendario", tipico del medioevo, di
indicare l'origine dell'arte, si ritrova anche in Cennini, che inizia il Libro dell’arte raccontando
la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso e le conseguenze che avrebbe portato. Nel
principio che Iddio onnipotente creo ̀ il cielo e la terra, sopra tutti animali e alimenti creo ̀

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l’uomo e la donna alla sua propia immagine, dotandoli di tutte virtù. Poi, per lo inconveniente
che per invidia venne da Lucifero ad Adam, che con sua malizia e segacita ̀ lo inganno ̀ di
peccato contro al comandamento di Dio (cioe ̀ Eva, e poi Èva Adam), onde per questo Iddio
si cruccio ̀ inverso d'Adam, e sì li fe' dall'angelo cacciare, lui e la sua compagna, fuor del
paradiso, dicendo loro: – Perché disubbidito avete el comandamento il quale Iddio vi détte,
per vostre fatiche ed esercizii vostra vita traporterete. – Onde cognoscendo Adam il difetto
per lui commesso, e sendo dotato da Dio si ̀ nobilmente, sì come radice, principio e padre di
tutti noi, rinvenne di sua scienza di bisogno era trovare modo da vivere manualmente; e cosi
̀ egli incomincio ̀ con la zappa e Eva col filare. Poi seguito ̀ molt'arti bisognevoli, e
differenziate l'una dall'altra, ché tutte non potevano essere uguali: perché la più degna è la
scienza; appresso di quella seguita alcuna discendente da quella, la quale conviene avere
fondamento da quella con operazione di mano: e questa è un'arte che si chiama dipignere ...
Nel caso di Cennini, tuttavia, e a differenza di quello di Teofilo ad esempio, tale origine
leggendaria dell'arte costituisce un antecedente dalle conseguenze non tanto morali quanto
anch'esse di natura 'psicologica': nella disgrazia le virtù intellettuali di cui i progenitori erano
dotati in origine persistono quali principi di "scienza".
Il cui ‘fiore’ estremo, stando al riassunto genealogico di Cennini, sarebbe stato, come si è
visto, la predisposizione immaginativa del pittore, o fantasia.
In quanto genere prescrittivo, normativo, il trattato, abbiamo detto, si articola in due modi:
La suddivisione esplicativa della materia in questione in 'parti' distinte.
L'esposizione istruzionale di procedure finalizzate a determinati obiettivi.
Nel Libro dell'arte di Cennini predomina il secondo modo, ma non è assente nemmeno il
primo.
Nel capitolo introduttivo, infatti, la stessa "fantasia" è indicata – prima ancora della
"operazione di mano" – quale parte indispensabile dell'arte di "dipignere", parte in virtù della
quale si rivendica per essa il titolo di "poesia":
che conviene avere fantasia e operazione di mano, di trovare cose non vedute, cacciandosi
sotto ombra di naturali, e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è, sia. E
con ragione merita metterla a sedere in secondo grado alla scienza, e coronarla di poesia.
La ragione è questa: che'l poeta, con la scienza prima che ha, il fa degno e libero di poter
comporre e legare insieme sì e no come gli piace, secondo sua volontà. Per lo simile al
dipintore dato è libertà potere comporre una figura ritta, a sedere, mezzo uomo, mezzo
cavallo, si come gli piace, secondo sua fantasia.
Confrontando i tratatti di Alberti con quelli medievali, Venturi dichiara icasticamente, “La
visione è sostituita alla tecnica”.
In Cennini però, accanto alla tecnica, vi è, se non proprio la visione in senso stretto, il
problema della visualizzazione delle immagini della fantasia, fonte e generatrice di "cose
non vedute".
Ulteriore, esplicita suddivisione della pittura in "parti" avviene nel capitolo IV del Libro
dell’arte:
El fondamento dell'arte, [e] di tutti questi lavorii di mano il principio, è il disegno e 'l colorire.
Queste due parti vogliono questo, cioe ̀: sapere tritare, o ver macinare, incollare, impannare,
ingessare, e radere i gessi e pulirli, rilevare di gesso, mettere di bolo, mettere d'oro, brunire,
temperare, campeggiare, spolverare, grattare, granare, o vero camucciare, ritagliare,
colorire, adornare, e 'nvernicare in tavola o vero in cona. Lavorare in muro, bisogna
bagnare, smaltare, fregiare, pulire, disegnare, colorire in fresco, trarre a fine in secco,
temperare, adornare, finire in muro. E questa si è la regola de i gradi predetti, sopra i quali,
io con quel poco sapere ch'io ho imparato, dichiarero ̀ di parte in parte.

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Dove, come ha notato Donata Levi, le categorie che denominano tali parti, “disegno” e
“colorire” vengono “subito [è molto decisamente] tradotte in termini di fattura concreta”, di
“operazione di mano” appunto.
Come vanno le cose invece nel trattato di Alberti?
Ma prima di tentare una risposta a questa domanda, ricordiamoci di chi stiamo per parlare.
Leon Battista Alberti (1404-1472), architetto, pittore, scultore, teorico dell’arte e scrittore,
nacque a Genova, figlio illegittimo del banchiere fiorentino Lorenzo di Benedetto Alberti.
Studiò diritto canonico all’università di Bologna. Nel 1432 divenne abbreviatore apostolico a
servizio di papa Eugenio IV e nel 1434 lo seguì a Firenze, dove il papa si era rifugiato a
causa dei moti repubblicani a Roma; così Alberti venne a conoscere i protagonisti della
cosiddetta “generazione del 1420”: Brunelleschi, Masaccio, Donatello.
Iniziò a comporre il trattato sulla pittura nel 1435, prima in volgare, poi in latino. Fu il primo di
tre suoi trattati di argomento artistico, di cui gli altri due – De statua (datazione incerta) e De
re ædificatoria (1445) – si sarebbero occupati della scultura e dell'architettura.
L’editio princeps della redazione in latino De Pictura fu stampata a Basilea nel 1540; mentre
quella della redazione in volgare risale all’Ottocento—da non confondere con la traduzione
di Cosimo Bartoli, compresa tra gli Opuscoli morali di Alberti stampati a Venezia nel 1568.
Il trattato sulla pittura si divide in tre libri preceduti da un Prologus, in cui, oltre a lodare gli
artisti fiorentini della propria cerchia (Brunelleschi, Donatello, Ghiberti, Luca della Robbia,
Masaccio), in quanto "sanza precettori, senza esemplo alcuno" avevano trovato "arti e
scienze non udite e mai vedute", Alberti riassume per il dedicatario Brunelleschi la struttura
del volume:
Vedrai tre libri: el primo, tutto matematico, dalle radici entro dalla natura fa sorgere questa
leggiadra e nobilissima arte; el secondo libro pone l'arte in mano allo artefice, distinguendo
sue parti e tutto dimostrando; el terzo instituisce l'artefice quale e come possa e debba
acquistare perfetta arte e notizia di tutta la pittura.
Alberti inizia il primo libro annunciando che (per quanto desideroso di essere considerato
piuttosto quale pittore) procederà alla manier dei matematici, i quali "col solo ingegno,
separata ogni matera, mesurano le forme delle cose", giustificando questa sua scelta con
l’osservazione che nella pittura "vogliamo le cose essere poste da vedere".
E si avvia "in questo certo difficile e da niuno altro che io sappia descritta matera”, definendo
uno per volta quelli che in un opuscolo coevo (Elementa picture) chiama gli elementi della
pittura, o piuttosto del disegno: punto, linea, superficie, corpo.
Dove alla linea sono riconosciute due qualità:
L'una si conosce per quello ultimo orlo quale chiuda la superficie. E sara ̀ questo orlo chiuso
d'una o di più linee: sara ̀ una la circulare, saranno più come una flessa e una retta, o
insieme più diritte linee. Sarà circulare quella quale inchiude uno circolo. Sarà circolo forma
di superficie quale una intera linea quasi come una ghirlanda l'avvolge; e se qui in mezzo
sara ̀ uno punto, qualunque linea da questo punto sino alla ghirlanda sara ̀ d'una mensura
all'altre equale, e questo punto in mezzo si chiama centrico. Quella linea diritta, la quale
coprira ̀ il punto e tagliera ̀ in due luoghi il circolo, si dice appresso de' matematici diamitro:
noi giovi chiamarla centrica. E qui sia da’ matematici persuaso quanto essi dicono, che
niuna linea segna alla ghirlanda del circolo angoli equali se non quella una quale dritta
cuopra il centro.
E' un passo che ci può ricordare quello pliniano sulla linea di contorno di Parrasio, e forse
anche per questo motivo attirò l’attenzione di Roberto Longhi, che si sentì chiamato a
salvarlo dalla deriva teorica generale della critica nel Quattrocento:

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Cresce, per altro, il nuovo mito della pittura-scienza, il mito geometrico, neoeuclideo, la
deificazione delle norme, delle proporzioni, degli ordini. E tutto perciò finisce in trattato, non
in critica accostante. Gran cosa se, dalla serqua degli enunciati albertiani, si cava il tratto
calzante sull'"amistà dei colori" o quest’altro più delicato: "Sarà circolo forma di superficie
quale un’intera linea quasi come una ghirlanda l'avvolge". L'"esprit de finesse" vince qui
sull'"esprit de géométrie", e il circolo astratto si rianima quasi in un serto di Luca della
Robbia. Ma son luoghi rari.
(Dove Longhi parrebbe riferirsi al passo nel secondo libro di De Pictura in cui si parla di
quella “comparazione” dei colori tramite la quale la loro bellezza risulterebbe più “chiara e
più leggiadra”—quella “amicizia dei colori, che l’uno, giunto con l’altro, li porge dignità e
grazia”.
Alberti intanto giunge per questa strada a definire la pittura:
non altro che intersegazione della pirramide visiva sicondo data distanzia, posto il centro e
constituiti i lumi, in una certa superficie con linee e colori artificioso representata.
E ad esporre di seguito il celebre metodo per ottenere raffigurazioni illusionistiche di oggetti
tridimensionali su superfici bidimensionali (la scena dipinta concepita come veduta da
"finestra aperta" e costruita prospetticamente).
E all’inizio del secondo libro propone la divisione dell’arte della pittura in tre parti:
Principio, vedendo 'qualcosa', diciamo questo esser 'cosa quale' occupa uno luogo; qui il
pittore, descrivendo questo spazio, dirà questo suo guidare uno orlo con linea essere
circonscrizione.
A presso, rimirandolo, conosciamo come più superficie del veduto corpo insieme
convengano; e qui l'artefice, segnandole in suoi luoghi, dirà fare composizione.
Ultimo, più distinto discerniamo colori e qualità delle superficie, quali ripresentandoli, ché
ogni differenza nasce da' lumi, proprio possiamo chiamarlo recezione di lumi.
Concludiamo leggendo un brano tratto dal secondo libro di De pictura, volto a spiegare
come nel comporre le "istorie" il pittore si dovrà occupare del modo in cui i "movimenti
d'animo si conoscono dai movimenti del corpo"
E che quindi non presenta altro che la teorizzazione 'scientifica' – in chiave psicologica e
fisionomica – e l’applicazione prescrittiva alla pittura del "visibile parlare" di Dante.
e in fondo del quale, quale exemplum complementare a quelli antichi (tratti come di
consueto da Plinio), si trova l’unico accenno in tutto il trattato (che come nota Longhi
pretende celebrare i "'nuovi uomini' dell’arte" [Longhi 2014, 31]) ad un'opera moderna
(sebbene di un artista non più vivente): il mosaico di Giotto detto Navicella già sulla facciata
dell’antica basilica di San Pietro a Roma, ma che in seguito ha subito spostamenti, tagli e
restauri, al punto di contare quasi come opera perduta.
(Notò infatti Schlosser, come Alberti, “patriarca della teoria dell’arte classicistica” non avesse
“quasi nessun interesse storico”).
Poi movera ̀ l'istoria l'animo quando li uomini ivi dipinti molto porgeranno suo proprio
movimento d'animo. Interviene da natura, quale nulla più che lei si truova rapace di cose a
sé simile, che piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride, e doglianci con chi si duole.
Ma questi movimenti d'animo si conoscono dai movimenti del corpo. E veggiamo quanto uno
atristito, perche ́ la cura estrigne e il pensiero l'assedia, stanno con sue forze e sentimenti
quasi balordi, tenendo sé stessi lenti e pigri in sue membra palide e malsostenute, vedrai a
chi sia malinconico il fronte premuto, la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi
stracco e negletto cade; vero, a chi sia irato, perche ́ l'ira incita l'animo, pero ̀ gonfia di stizza
negli occhi e nel viso, e incendesi di colore, e ogni suo membro, quanto il furore, tanto ardito
si getta; a li uomini lieti e gioiosi sono i movimenti liberi e con certe infiessioni grati. Dicono

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che Aristide tebano, equale ad Appelle, molto conoscea questi movimenti, quali certo e noi
conosceremo quando a conoscerli porremo studio e diligenza.
Cosi adunque conviene sieno a i pittori notissimi tutti i movimenti del corpo, quali bene
impareranno dalla natura, bene che sia cosa difficile imitare i molti movimenti dello animo. E
chi mai credesse, se non provando, tanto essere difficile, volendo dipignere uno viso che
rida, schifare di non lo fare piuttosto piangioso che lieto? E ancora chi mai potesse senza
grandissimo studio espriemere visi nei quale la bocca, il mento, gli occhi, le guance, il fronte,
i cigli, tutti ad uno ridere o piangere convengono? Per questo molto conviensi impararli dalla
natura, e sempre seguire cose molto pronte e quali lassino da pensare a chi le guarda molto
più che egli non vede. Ma che? Noi racontiamo alcune cose di questi movimenti, quali parte
fabbricammo con nostro ingegno, parte imparammo dalla natura. Parmi in prima tutti e corpi
a quello si debbano muovere a che sia ordinata la storia. E piacemi sia nella storia chi
ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso
cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche
pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme
o a ridere;
e cosi ̀ qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti, tutto appartenga a ornare o a
insegnarti la storia. Lodasi Timantes di Cipri in quella tavola in quale egli vinse Colocentrio,
che nella imolazione di Efigenia, avendo finto Calcante mesto, Ulisse più mesto, e in
Menelao poi avesse consunto ogni suo arte a molto mostrarlo adolorato, non avendo in che
modo mostrare la tristezza del padre, a lui avolse uno panno al capo, e cosi ̀ lassò si
pensasse qual non si vedea suo acerbissimo merore. Lodasi la nave dipinta a Roma, in
quale el nostro toscano dipintore Giotto pose undici discepoli tutti commossi da paura
vedendo uno de' suoi compagni passeggiare sopra l'acqua, ché ivi espresse ciascuno con
suo viso e gesto porgere suo certo indizio d'animo turbato: tale che in ciascuno erano suoi
diversi movimenti e stati.
E' un passo molto significativo: tra i brani finora letti nella nostra rassegna storica è il primo a
sottoporre ad esplicazione individuativa, non una qualche procedura utile per la
realizzazione di un'opera d'arte, né un qualche effetto d'arte, come quello di rilievo in
Cennini, né ancora una qualche 'parte' o elemento di un'arte particolare, ma direttamente
l’opera stessa.
Nella fattispecie (in primo luogo) una generica opera di pittura, intesa qui non quale
costruzione matematica ma quale unitaria composizione figurativa e più precisamente quale
istoria, immagine che per coerenza non formale ma esperienziale suscita la partecipazione
affettiva dello spettatore.
Punto di partenza quindi è la caratterizzazione del dipinto in quanto istoria (moverà l'istoria
l'animo), la cui valenza normativa si desume non solo dall'uso del futuro (moverà) ma
soprattutto dal fatto che viene subordinata a condizione prescrittiva: perché la istoria riesca a
muovere l'animo dello spettatore, le figure che la compongono dovranno a loro volta risultare
caratterizzabili in riferimento al proprio movimento d'animo.
Tale subordinazione a condizione viene giustificata – è anche questa una cospicua novità –
in riferimento ad una legge della natura, che in secoli futuri prenderà il nome di empatia e
che interessa lo spettatore in quanto essere umano (piagniamo con chi piange, e ridiamo
con chi ride ...)
Precisa Alberti che per natura siamo affetti dai movimenti d'animo, in sé invisibili, non
direttamente ma indirettamente, tramite i movimenti del corpo, che nella parte rimanente del
testo, soprattutto nell'estesa enumerazione di casi illustrativi (veggiamo quanto uno
atristito ... malinconico ... irato ... liet[o] e gioso[o] ...), distinti gli uni dagli altri attraverso la

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descrizione e la caratterizzazione, sono interpretati quali indizi di carattere affettivo, che il
pittore farà bene a studiare, in modo da incorporarli nelle proprie istorie.
Anzi, ad Alberti preme che la trama affettiva insita nell'istoria – sulla quale insiste quale
principio unitario (Parmi in prima tutti e corpi a quello si debbano muovere a che sia ordinata
la storia) – sia riflessivamente rimarcata al suo interno dagli atteggiamenti di determinate
figure (E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci…)
Ma soprattutto esige che il pittore non solo possieda la conoscenza dei movimenti del corpo
e dei loro significati ma che ponga particolare attenzione a quelli che lassino da pensare a
chi le guarda molto piu ̀ che egli non vede – di cui il celebre espediente di Timanthes è un
esempio eloquente, perché estremo.
Quasi rivisitando i precetti di Giovanni Damasceno – per cui "Ogni immagne è rivelatrice e
dimostratrice di ciò che è nascosto" (X Lezione) – e di Cennini – per cui il pittore deve
"trovare cose non vedute ... dando a dimostrare quello che non è, sia" (XI Lezione) – Alberti
esige che le cose non vedute o nascoste siano mostrate nel dipinto come tali, ma non in
quanto rivelazione del divino, ma piuttosto dell'umano, ovvero degli affetti costitutivi di
comunità e pertanto di istorie.

LEZIONE XIV
“AL DI LÀ DELL’ORDINE”
La lezione odierna sarà dedicata in primo luogo al trattato pittorico di Leonardo da Vinci
(1492- 1519), secondo Venturi una delle "due piú importanti teorie dell'arte del rinascimento"
[Venturi 1964, 95] (di cui l’altra costituita dai trattati di Alberti).
Lo confronteremo con testi del Cinquecento, esemplificativi di generi diversi: il Dialogo sulla
pittura (1557) del letterato Ludovico Dolce (1508-1568) e due lettere del poeta e scrittore
Pietro Aretino (1492-1556).
L'opera nota ormai come il Trattato della pittura di Leonardo è una ricostruzione postuma di
annotazioni del pittore tratte da diciotto suoi codici (non tutti dei quali sono stati conservati),
ricostruzione realizzata probabilmente dall'allievo Francesco Melzi (1491-1570) e contenuta
in un codice conservato presso la Biblioteca vaticana, che reca il titolo Libro di pittura di M.
Lionardo da Vinci pittore.
Precisa lo storico dell’arte e studioso di Leonardo Martin Kemp,
[Anche se ci sono alcune parti più sostenute e relativamente ben organizzate – è il caso in
particolare di quella riguardante il paragone, o confronto tra le arti – è nel complesso
un'antologia disomogenea, ripetitiva, talvolta contraddittoria, fatta di appunti risalenti a varie
date. Argomenti come quelli della luce e del colore, del movimento, del gesto e della
botanica sono relativamente ben rappresentate, mentre gli interessi più matematici (in
particolare quello per la prospettiva) sono trattate in modo ingannevole sommario, e nei suoi
dettagli la scienza dell’anatomia umana non è rappresentata affatto.]
Diverse versioni abbreviate del trattato circolavano, in forma manoscritta, durante il
Cinquecento e ancora nel primo Seicento, specie in ambiti accademici italiani (Venturi
osserva che il trattato "è il programma fondamentale dell'arte del secolo XVI" [1964, 105]).
Ve ne fu un progetto di pubblicazione da parte del collezionista Cassiano dal Pozzo (1588-
1657) e del conte Galeazzo Arconati, che rimase però non realizzato.
Fu tuttavia Cassiano a fornire una copia (sempre abbreviata) del trattato, con illustrazioni di
Nicolas Poussin, a Paul Fréart Sieur de Chambray, che lo portò con sé in Francia, dove una
prima edizione fu stampata da Raphael Trichet du Fresne nel 1651.

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La prima edizione condotta sul codice vaticano fu stampata in Italia nel 1817; l’edizione
critica di riferimento è quella di H. Ludwig (2 voll., Vienna 1882), uscita nella già citata
collana dei Quellenschriften curata da Rudolf Von Eitelberger e da Albert Ilg.
Albert Dresdner osserva che il libro si colloca idealmente a metà strada tra:
la non-libertà artigianale del Medioevo e [la] non-libertà dogmatica del accademismo a
venire; unisce la solidità e la certezza dell'antica esperienza di bottega con l'intellettualismo
della nuova formazione artistica, e offre così una dottrina dell'arte di una consumata e
davvero antica razionalità, senza mai scendere nel razionalismo. Per quanto riguarda il
rapporto dello scritto con il movimento di emancipazione [dell’artista] ... Leonardo non diede
ad esso nuove idee guida o concetti chiave; il programma di Alberti, infatti, cui Leonardo
stesso aveva aderito, ne abbracciava già tutti i punti decisivi. La novità consiste nel
maestoso allargamento delle dimensioni. In Leonardo tutti i contenuti del nuovo pensiero
artistico e tutte le giustificazioni aumentano infinitamente di grandezza, di profondità e di
ricchezza; la visione dell'arte diventa una visione del mondo – una visione del mondo la cui
legge è l'arte; l'artista è elevato a signore di questo mondo, e il pittore, la cui arte Leonardo
considerava la più nobile, superiore alla poesia, alla musica e alla scultura, diventa un
essere il cui potere creativo sembra di natura divina.
Venturi a sua volta sottolinea l'impellente aspirazione leonardesca all'universalità:
Perché il pittore sia degno di originare ogni arte e ogni scienza deve essere universale. La
conoscenza della forma umana non è piú sufficiente. Il pittore deve conoscere e
rappresentare tutti gli aspetti della natura, le nebbie, le piogge, la polvere, i fumi, le
trasparenze delle acque e le stelle nel cielo.
Universalità che non dipende soltanto dalla pluralità delle sfere di interesse e di azione ma
soprattutto dall’attenta osservazione di un mondo della natura recepito quale in sé vasto e
unitario.
E Venturi individua nell'ombra l'elemento pittorico che permette a Leonardo, nell'instancabile
ricerca di conoscenza appunto universale, di andare oltre "la forma plastica, quale l'Alberti
l'aveva teorizzata" [Venturi 1964, 105] e ancora oltre la prospettiva lineare.
Anzitutto la prospettiva di Leonardo non è piú prospettiva lineare; egli distingue tre specie di
prospettiva: "liniale, di colore, di speditione". Nel rapporto tra la figura e il suo sfondo, la
forma plastica richiede il chiaro sulla figura e lo scuro nello sfondo. Ma per Leonardo il
rapporto è piú complesso: "Delle cose piú oscure che l'aria, quella si dimostrerà di minore
oscurità la quale sarà piú remota; delle cose piú chiare che l'aria quella si dimostrerà di
minor bianchezza che sarà piú remota dall'occhio". Donde deriva la visione d'una figura
scura su un cielo luminoso e l'ammissione del paesaggio come opera d'arte per sé ...
[Leonardo] [i]mmagina ... uno stile pittorico che comprenda a un tempo la forma plastica e
l'atmosfera, continua ad assegnare il primo posto alla natura umana, ma vuole immaginarla
nell'atmosfera: cosí a modo suo realizza la visione non solo di un elemento, l'uomo, ma
dell'universo della natura. Qual è l'elemento che deve unire l'uomo e la natura circostante,
che deve riempire il vuoto prospettico e avvolgere l'immagine? È l'ombra.
Troviamo infatti che quando Leonardo, nella Parte seconda del trattato, arriva a sua volta a
definire le "parti" della pittura, in un primo passo indica proprio gli elementi annoverati da
Alberti:
Il principio della scienza della pittura è il punto, il secondo è la linea, il terzo è la superficie, il
quarto è il corpo che si veste di tal superficie; e questo è quanto a quello che si finge, cioè
esso corpo che si finge, perchè invero la pittura non si estende più oltre che la superficie,
per la quale si finge il corpo figura di qualunque cosa evidente.
Ma subito dopo individua quale "secondo principio della pittura":

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L’ombra del corpo, che per lei si finge, e di questa ombra daremo i principi, e con quelli
procederemo nell’isculpire la predetta superficie.
Leonardo poi specifica come "La scienza della pittura" si estenda:
in tutti i colori delle superficie e figure dei corpi da quelle vestiti, ed alle loro propinquità
e remozioni con i debiti gradi di diminuzione secondo i gradi delle distanze; e questa scienza
è madre della prospettiva, cioè linee visuali. La qual prospettiva si divide in tre parti, e di
queste la prima contiene solamente i lineamenti de' corpi; la seconda tratta della
diminuzione de' colori nelle diverse distanze; la terza, della perdita della congiunzione de'
corpi in varie distanze. Ma la prima, che sol si estende ne' lineamenti e termini de' corpi, è
detta disegno, cioè figurazione di qualunque corpo. Da questa esce un'altra scienza che si
estende in ombra e lume, o vuoi dire chiaro e scuro; la quale scienza è di gran discorso; ma
quella delle linee visuali ha partorito la scienza dell’astronomia, la quale è semplice
prospettiva, perchè sono tutte linee visuali e piramidi tagliate.
E l'ombra è ugualmente presente in due ulteriori enumerazioni di parti (all'interno della
stessa Seconda parte):
Tenebre, luce, corpo, figura, colore, sito, remozione e propinquità. Si possono aggiungere a
queste due altre, cioè moto e quiete, perchè tal cosa è necessario figurare ne' moti delle
cose che si fingono nella pittura.
Le parti della pittura sono cinque, cioè: superficie, figura, colore, ombra e lume, propinquità e
remozione, o vuoi dire accrescimento e diminuzione, che sono le due prospettive, come
nella diminuzione della quantità e la diminuzione delle notizie delle cose vedute in lunghe
distanze, e quella de' colori, e qual colore è quello che prima diminuisce in pari distanze, e
quel che più si mantiene.
Viene da rimarcare la grande distanza concettuale che separa tali parti della pittura da
quelle riconosciute da Cennini (facoltà immaginativa ed esecutiva che si realizzano nei
numerosi procedimenti pratici del disegno e del colorire) e da Alberti (operazioni secondo
verità geometriche, mentali prima che manuali).
Nel caso di Leonardo infatti si tratta di realtà fenomeniche che accomunano pittura e natura
e rendono pertanto la prima strumento conoscitivo della seconda.
La pittura pertanto indagherà e restituirà una nuova, più comprensiva ed intensa esperienza
percettiva.
Esperienza che si rispecchia in passi come il seguente, in cui la caratterizzazione iniziale
(grandissima grazia d'ombre e di lumi s’aggiunge) e la valutazione finale (acquista assai di
bellezza) di visi veduti per caso in determinate circostanze ambientali, sono come
sostanziate e giustificate dalla puntuale dimostrazione descrittiva e caratterizzante della
complementare aumentazione d’ombre e di lume da cui tali qualità dipendono:
Grandissima grazia d'ombre e di lumi s'aggiunge ai visi di quelli che seggono sulle porte di
quelle abitazioni che sono oscure, e gli occhi del riguardatore vedono la parte ombrosa di tali
visi essere oscurata dalle ombre della predetta abitazione, e vedono alla parte illuminata del
medesimo viso aggiunta la chiarezza che le dà lo splendore dell’aria: per la quale
aumentazione di ombre e di lumi il viso ha gran rilievo, e nella parte illuminata le ombre
quasi insensibili, e nella parte ombrosa i lumi quasi insensibili; e di questa tale
rappresentazione e aumentazione d’ombre e di lumi il viso acquista assai di bellezza.
Ma anche in quelli dove, come già Alberti, Leonardo indaga l’universale linguaggio
espressivo dei gesti e degli atteggiamenti:
Il buon pittore ha da dipingere due cose principali, cioè l’uomo ed il concetto della mente
sua. Il primo è facile, il secondo difficile, perchè si ha a figurare con gesti e movimenti delle

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membra; e questo è da essere imparato dai muti, che meglio li fanno che alcun’altra sorta
d’uomini.
Alla figura irata farai tenere uno per i capelli col capo storto a terra, e con uno de’ ginocchi
sul costato, e col braccio destro levare il pugno in alto; questo abbia i capelli elevati, le ciglia
basse e strette, ed i denti stretti e i due estremi daccanto della bocca arcati, il collo grosso, e
dinanzi, per il chinarsi al nemico, sia pieno di grinze.
e ancora nella coreografia prescrittiva di questo, forse una delle "molte descrizioni
premature di Leonardo per quadri che nessuno, neppure lui, [avrebbe potuto] mai dipingere"
di cui si lamenta Longhi [2014, 32] – e dove, a ben vedere, la descrizione degli atteggiamenti
corporali è funzionale alla caratterizzazione delle persone e delle situazioni ed in tal senso
integrata dalla caratterizzazione degli sguardi:
Userai di far quello che tu vuoi che parli fra molte persone in atto di considerare la materia
ch'egli ha da trattare, e di accomodare in lui gli atti appartenenti ad essa materia; cioè, se la
materia è persuasiva, che gli atti sieno al proposito, e se è materia di dichiarazione di
diverse ragioni, fa che quello che parla pigli con i due diti della mano destra un dito della
sinistra, avendone serrato i due minori, e col viso pronto volto verso il popolo; con la bocca
alquanto aperta, che paia che parli; e se egli siede, che paia che si sollevi alquanto ritto, e
con la testa innanzi; e se lo fai in piedi, fallo alquanto chinarsi col petto e la testa verso il
popolo, il quale figurerai tacito ed attento a riguardare l’oratore in viso con atti ammirativi; e
fa la bocca d’alcun vecchio per maraviglia delle udite sentenze chiusa, e negli estremi bassi
tirarsi indietro molte pieghe delle guance; e con le ciglia alte nelle giunture le quali creino
molte pieghe per la fronte. Alcuni a sedere con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi
dentro il ginocchio stanco; altri con un ginocchio sopra l’altro, sul quale tenga la mano, che
dentro a sé riceva il gomito, la mano del quale vada a sostenere il mento barbuto di qualche
vecchio chinato.
Nota Venturi che:
Le idee artistiche di Leonardo non furono continuate direttamente, nemmeno a Firenze, per
il prevalere delle idee di Michelangelo. Tuttavia una loro continuazione ideale, o meglio uno
sviluppo dei presentimenti di Leonardo sull'avvenire della pittura, si trova a Venezia, negli
scritti di Pietro Aretino (1492-1556), di Paolo Pino (prima metà del secolo XVI) e di Lodovico
Dolce (1508-1568).
Il Dialogo della pittura di Dolce fu pubblicato nel 1557, un anno dopo la morte di Aretino, in
onore del quale venne, come si vede dal frontespizio, intitolato L'Aretino.
Lo scrittore vi compare quale interlocutore (spesso antagonistico) del grammatico toscano
Giovan Francesco Fabrini, con cui discute, sempre secondo il frontespizio, "della dignità di
essa pittura e di tutte le parti necessarie che a perfetto pittore si acconvengano".
Come spiega Franco Bernabei,
[Quest'opera è una difesa polemica della scuola veneziana ispirata dalp'Aretino, difesa
sostenuta anche nel Dialogo di pittura (1548) di Paolo Pino, e che contrastava la oresunta
superiorità della tradizione fiorentina esposta nelle Vite del Vasari (1550). In esso Dolce
difendeva anche i diritti del laico colto contro il sapere tecnico specializzato dei pittori
professionisti. ]
All’ordine prospettico della pittura fiorentina viene opposta una pittura che va “al di là
dell’ordine”, di cui “la varietà dei motivi naturali dipinti deve apparire non studiata né
ricercata, ma prodotta dal caso” e che, seguendo certi dettami leonardeschi relativi al
bozzar, evita di finir troppo, “perché il finito è la morte della vitalità d’una pittura”.
Anche in questo dialogo vengono debitamente definite le parti della pittura:

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ARET. Tutta la somma della pittura, a mio giudicio, è divisa in tre parti: invenzione, disegno
e colorito. La invenzione è la favola o istoria, che 'l pittore si elegge da lui stesso o gli è
posta inanzi da altri per materia di quello che ha da operare. Il disegno è la forma con che
egli la rappresenta. Il colorito serve a quelle tinte, con le quali la natura dipinge (che così si
può dire) diversamente le cose animate et inanimate: animate, come sono gli uomini e gli
animali bruti; inanimate, come i sassi, l'erbe, le piante e cose tali, benché queste ancora
siano nella spezie loro animate, essendo elleno partecipi di quell’anima che è detta
vegetativa, la quale le perpetua e mantiene. Ma ragionerò da pittore e non da filosofo.
Ma tali parti o principi qui fungono da criteri di valutazione critica comparativa, soprattutto
laddove si tratta del colorito, principio intorno al quale ruota maggiormente la controversia
sulla relativa superiorità delle scuole fiorentine e veneziane:
ARET. Superò nel colorito il graziosissimo Rafaello tutti quelli che dipinsero inanzi a lui, sì a
olio come a fresco, et a fresco molto più, in guisa che ho udito dire a molti, et io ancora così
vi affermo, che le cose dipinte in muro da Rafaello avanzano il colorito di molti buoni maestri
a olio, e sono sfumate et unite con bellissimo rilevo e con tutto quello che può far l’arte. Il
che non cessa di predicare a ciascuno Santo cognominato Zago, pittore nel vero espedito e
valente in dipingere medesimamente a muro, et oltre a ciò studioso dell’anticaglie, delle
quali ve ne ha un gran numero, e molto pratico delle Istorie e de’ poeti, sì come quello che si
diletta di leggere infinitamente. Né parlerò altrimenti del colorito di Michelagnolo, perché
ognun sa che egli in ciò ha posto poca cura, e voi mi cedete. Ma Raffaello ha saputo col
mezzo dei colori contraffar mirabilmente qualunque cosa, e carni e panni e paesi, e tutto ciò
che può venire innanzi al pittore. Fece ancora ritratti dal naturale: come fu quello di papa
Giulio secondo, di papa Leone decimo e di molti gran personaggi, che sono tenuti divini.
Oltre a ciò fu grande architetto, onde, dopo la morte di Bramante, gli fu allogata dal
medesimo papa Leone la fabrica di San Pietro e del Palagio; il perché si veggono spesso
nelle sue pitture edifici tirati con bellissima prospettiva. E, quello che fu di grandissimo danno
alla pittura, morì giovane, lasciando il suo nome illustre in tutte le parti della Europa; e visse i
pochi anni di sua vita (come ne posso io farvi fede e come scrive il Vasari con verità) non da
privato, ma da prencipe, essendo liberale della sua virtù e dei suoi danari a tutti gli studiosi
dell’arte che ne avevano alcun bisogno; e fu openione universale che 'l papa gli volesse
dare un capello rosso, perché, oltre alla eccellenza della pittura, aveva Rafaello ogni virtù et
ogni bel costume e gentil creanza che conviene a gentiluomo. Dalle quali tutte cose mosso il
cardinal Bibbiena lo indusse contra sua voglia a prender per moglie una sua nipote, benché
egli vi mettesse tempo in mezzo né consumasse il matrimonio, aspettando che 'l papa, che
glie ne aveva dato intenzione, lo facesse cardinale; il qual papa gli aveva dato ancora poco
innanzi alla sua morte un ufficio di cubiculario, grado onorevolissimo et utile. Ora potete
molto bene esser chiaro che Raffaello è stato non pur uguale a Michelagnolo nella pittura,
ma superiore. Nella scoltura è poi Michelagnolo unico, divino e pari agli antichi, né in ciò ha
bisogno delle mie lodi né di quelle d’altrui, né anco può esser vinto da altri che da sé stesso.
Sul colore verte anche quella lettera di Pietro Aretino, indirizzata a Tiziano nel maggio del
1544, che Longhi insiste meriti un posto nella propria antologia storica di critica d'arte –
lettera dove,
fingendo di descrivere un drammatico tramonto sulla laguna, rende da grande prosatore (e
perché non anche da critico?) il caos coloratissimo della pittura di Tiziano.
A Messer Tiziano
Avendo io, Signor Compare, con ingiuria della mia usanza cenato solo, o, per dir meglio, in
compagnia dei fastidi di quella [febbre] quartana, che più non mi lascia gustar sapore di cibo
veruno, mi levai da tavola sazio de la disperazione con la quale mi ci posi. E così,

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appoggiate le braccia in sul piano de la cornice de la finestra, e sopra lui abbandonato il
petto, e quasi il resto di tutta la persona, mi diedi a riguardare il mirabile spettacolo che
facevano le barche infinite, le quali, piene non men di forestieri che di terrazzani, ricreavano
non pure i riguardanti, ma esso Canal grande ricreatore di ciascun che il solca. E subito che
fornì lo spasso di due gondole, che con altrettanti barcaiuoli famosi fecero a gara nel vogare,
trassi molto piacere de la moltitudine che per vedere la rigatta si era fermata nel ponte del
Rialto, ne la riva de i Camerlenghi, ne la Pescaria, nel Traghetto di Santa Sofia, e nel da
Casa da Mosto. E mentre queste turbe e quelle con lieto applauso se ne andavano a le sue
vie; ecco ch’io, quasi uomo che fatto noioso a se stesso non sa che farsi de la mente, non
che de i pensieri, rivolgo gli occhi al cielo; il quale, da che Iddio lo creò, non fu mai abbellito
da cosi vaga pittura di ombre e di lumi. Onde l'aria era tale, quale vorrebbono esprimerla
coloro che hanno invidia a voi, per non poter esser voi che vedete nel raccontarlo io;
imprima i casamenti, che benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata, e dipoi
scorgete l'aria, ch'io compresi in alcun luogo pura, e viva, in altra parte torbida e smorta.
Considerate anco la maraviglia, ch'io ebbi de i nuvoli composti d'umidità condensa, i quali in
la principal veduta mezza si stavano vicini a i tetti de gli edificij, e mezzi nella penultima,
peroché la diritta era tutta d'uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupij certo del color
vario, di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare, e i più
lontani rosseggiavano d'uno ardore di minio non così bene acceso. O con che belle
tratteggiature i pennelli naturali spingevano l'aria in là, discostandola da i palazzi con il
modo, che la discosta il Vecellio nel far de i paesi! Appariva in certi lati un verde azurro, ed
in alcuni altri un azurro verde veramente composto da le bizarrie de la natura maestra de i
maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di
rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è spirito de i suoi spiriti, e tre e
quattro volte esclamai, "O Tiziano, dove sete mo?"; per mia fé che se voi aveste ritratto cio
ch'io vi conto, indurreste gli uomini nello stupore, che confuse me, che nel contemplare quel
che v'ho contato, ne nutrij l'animo, che piu non durò la maraviglia di sì fatta pittura. Di
Maggio, in Vinezia M.D.XLIIII.
Alla lettura del testo risulta curiosamente inesatta l’individuazione da parte di Longhi del
"caos coloratissimo della pittura di Tiziano" quale 'vero' oggetto di descrizione di Aretino.
Non infatti quale intrico disordinato, bensì come principio di coerenza dell’immagine pittorica
– coerenza non tanto formale quanto vitale, perché esito di rapporti dinamici di variazione e
di opposizione – Aretino evoca il colore di Tiziano.
Longhi poi sembra non cogliere tutto il peso critico della duplice visuale (non si tratta affatto
di 'finzione') di Aretino, che lo vede sottolineare la complementarità dell’esperienza della
scena naturale e quella della raffigurazione in pittura tramite la trasposizione da una sfera
all’altra di vocaboli squisitamente pittorici o grafici quali sfondare, rilevare e tratteggiature
(della quale variante di tratteggio però questa risulta la prima occorrenza documentata dalla
GDLI).
Più calzanti ed acute le osservazioni di Albert Dresdner, secondo il quale Aretino, a
differenza di Dolce,
si è astenuto da tutto quell’apparato pignolo di citazioni dotte, di prove e di allusioni storiche
e antiquarie, né si è curato di schematismi teorici, portando soltanto le proprie sensazioni
immediate davanti alle opere d'arte, le vicende e le delizie di una personale esperienza di
conoscitore ... Con finezza da buongustaio egli assapora, ed in un linguaggio carico di
colore e soffuso di un entusiasmo autentico racconta e celebra la verità della natura, il
colorito, il fascino sensuale dei quadri di Tiziano, che ama sopra ogni cosa. Egli ritrova
l'artista finanche nei particolari e dalla sua opera estrae gli aspetti più squisiti ...

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Per Aretino, l'opera d'arte non era né un oggetto di cultura, da venerare in ossequio al bon
ton letterario, né un gradito pretesto per effusioni retoriche e fioriture dotte. Era piuttosto
un'esperienza che afferrava ed elaborava con tutte le sua facoltà. Vedeva la natura come
un'opera d'arte, e vedeva l'opera d'arte come natura. Come natura, ma non – si badi bene –
come mera imitazione della natura. L’opera d’arte era per lui un'altra natura, in cui la realtà
risulta intensificata ed elevata ad una verità più alta e perfetta; e così è sempre l'attività
organizzativa, la maniera e la forza personale dell'artista che egli sente ed evidenzia nelle
sue opere. In ciò era sicuramente vantaggiato dall'abitudine di frequentare gli artisti, di
osservarli al lavoro e di familiarizzarsi con i loro metodi e con il loro linguaggio, il gergo delle
botteghe. E tenuto conto di tutto ciò, si può ben affermare che Aretino fu il primo tra i
moderni a porsi di fronte all'opera d'arte.
leggiamo, alla luce di questi commenti di Dresdner,
un'altra lettera di Aretino, rivolta anch’essa a Tiziano
e riguardante una perduta Annunciazione del pittore:
A Messer Tiziano
Egli è stato savio l'avvedimento vostro compare caro, avendo voi pur disposto di mandare
l'imagine della Reina del cielo all'imperadrice de la terra. Né poteva l'altezza del giudizio dal
qual traete le maraviglie della pittura, locar più altamente la tavola in cui dipigneste cotal
Nunziata. Egli s’abbaglia nel lume folgorante che esce dai raggi del paradiso donde vengono
gli angeli adagiati con diverse attitudini in su le nuvole candide, vive e lucenti. Lo Spirito
Santo circondato dai lampi de la sua gloria, fa udire il batter delle penne, tanto somiglia la
colomba, di cui ha preso la forma. L’arco celeste, che attraversa l’aria del paese scoperto da
l’albore de l’aurora, è più vero che quel che si dimostra dopo la pioggia inver’ la sera. Ma
che dirò io di Gabriele, messo divino? Egli, empiendo ogni cosa di lume e rifulgendo ne
l’albergo con nuova luce, si inchina sì dolcemente col gesto della riverenza, che ci sforza a
credere che in tal atto si appresentasse innanzi al cospetto di Maria. Egli ha la maestade
celeste nel volto, e le sue guance tremano ne la tenerezza, composta dal latte e dal sangue,
che al naturale contraffà l'unione del vostro colorire. Cotal testa è girata da la modestia,
mentre la gravità gli abbassa soavemente gli occhi: i capegli, contesti in anelli tremolanti,
accennano tuttavia di cadere da l'ordine loro. La veste sottile di drappo giallo, non
impacciando la semplicità del suo involgersi, cela tutto l'ignudo, senza asconderne punto, e
par che la zona, di che è soccinto, scherzi col vento. Né si sono vedute ancor ali, che
uguaglino le sue piume di varietà né di morbidezza. E il giglio, recatosi nella sinistra mano,
odora e risplende con candore inusitato. Insomma par che la bocca, che formò il saluto che
ci fu salute, esprima in note angeliche "Ave". Taccio della Vergine, prima adorata e poi
consolata dal corrier di Dio, perché voi l'avete dipinta in modo e con tanta meraviglia, che
l'altrui luci, abbagliate nel refulgere dei suoi lumi pieni di pace e di pietade, non la possono
mirare. Come anco per la novità dei suoi miracoli non potremo laudare l'istoria che dipignete
nel palazzo di San Marco, per onorare i nostri signori e per accorar quegli, che, non potendo
negar l'ingegno nostro, danno il primo luogo a voi nei ritratti ed a me nel dir male, come non
si vedessero per il mondo le vostre e le mie opere.
Di Venezia, il 9 novembre 1537.
Dopo aver caratterizzato il dipinto intero, per impatto visivo e per intento figurativo, quale
abbaglio di luce paradisiaco, il testo ne esplica direttamente, ad una ad una, le figure
principali, soffermandosi in particolare su Gabriele.
Di cui viene elaborata una caratterizzazione complessa, articolata per parti – atteggiamento,
gesto, volto, guance, testa occhi, cappelli, veste, zona, ali, giglio – e coronata da un rinvio al

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visibile parlare di Dante e all’Annunciazione del Purgatorio X, reso quasi esplicito dalla
ripresa lessicale del saluto-salute della Vita nuova.
Il testo insomma sembra smentire certe affermazioni di Venturi che (come si vedrà in una
prossima lezione) esclude che prima del XVIII secolo e delle occasioni offerte dalle mostre
pubbliche, la critica d’arte mai sia stata questione di “scrivere unicamente per dire la propria
opinione” su una particolare opera o su un particolare artista.

LEZIONE XV
VASARI E LA “STORIA VSIVA”
In questa lezione affronteremo l'opera che secondo Schlosser "segna la piú forte cesura nel
nostro campo" [Schlosser 2008, 239], la monumentale raccolta di Vite de’ più eccellenti
pittori, scultori e architettori (1550, 1568) del pittore Giorgio Vasari (1511- 1574).
Sorta di apoteosi cinquecentesca dell'antico genere della biografia d'artista, ma soprattutto
di esempi fiorentini del Tre- e Quattrocento.
Nelle lezioni XI e XII si è accennato al fatto che nel secondo Trecento l’attenzione riservata
agli artisti da parte degli scrittori dell’antichità – indizio di grande prestigio – era stata citata
dall’umanista fiorentino Filippo Villani, che così aveva giustificato l’inclusione in un'opera
elogiativa, il Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, delle vite di
alcuni concittadini pittori, tracciandone una breve genealogia evidentemente ispirata a quelle
raccontate da Plinio.
A me debbe essere lecito, secondo l'esempio degli antichi Scrittori, i quali ne' loro annali e
tra gli uomini illustri Zeusi, Policreto, Calai, Fidia, Prassitele, Mirone, Apelle, Canone, Volario
& altri hanno recitato: e Prometeo pe' suoi ingegni e diligenza, finsero avere del limo della
terra creato un uomo; con questo esempio i miei egregi Dipintori Fiorentini raccontare, i quali
quell'arte smarrita e quasi spenta suscitarono: tra' quali il primo fu Giovanni, chiamato
Cimabue, che l'antica pittura, e dal naturale già quasi smarrita e pagante [sic: vagante?], con
arte e con ingegno rivocò; perocchè innanzi a questo la Greca e la Latina pittura per molti
secoli avea errato, come apertamente dimostrano le figure nelle tavole e nelle mura
anticamente dipinte.
Dopo lui fu Giotto di fama illustrissimo, non solo agli antichi pittori eguale, ma d'arte e
d'ingegno superiore. Questi restituì la Pittura nella dignità antica, & in grandissimo nome,
come apparisce in molte dipinture, massime nella Porta della Chiesa di San Piero di Roma,
opera mirabile di Musaico, e con grandissima arte figurata [ubi ex musivo
periclitantes navi apostolos artificiosissime figuravit]. Dipinse eziandio a pubblico spettacolo
nella città sua, con ajuto di specchi, sè medesimo, & il contemporaneo suo Dante Alighieri
poeta, nella Cappella del Palagio del Podestà nel muro [redazione latina: in tabula altaris
capelle palatii potestatis]. Fu Giotto, oltre alla Pittura, uomo di gran consiglio, e conobbe
l'uso di molte cose. Ebbe ancora piena notizia delle Storie. Fu eziandio emulatore
grandissimo della poesia, e della fama, piuttosto che del guadagno, fu seguitatore. Da
questo laudabile uomo, come da sincero e abbondantissimo fonte uscirono chiarissimi rivoli
di pittura, i quali essa pittura rinnovata, emulatrice della natura fecero preziosa e piacevole:
infra quali fra tutti gli altri Maso dilicatissimamente dipinse con mirabile venustà. Stefano,
Scimia della natura, nell'imitazione di quella valse più. Taddeo dipoi con tanta arte dipinse,
che fu stimato quasi un altro Dinocrate.
Da Plinio forse derivava inoltre il motivo dell’arte che si era spenta e poi risorta:

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Dopo questa data l’arte del bronzo ebbe un periodo di sosta [cessavit deinde ars], ma
riprese nuovamente nell’ol. 156 (156-143), quando vissero, molto inferiori ai predetti, pur
tuttavia assai apprezzati Antaios, Kallistratos, Polykles, Athenaios, Kallixenos, Pythokles
[Pythias, Timokles].
[Plinio 2019, 94-95].
Anche se un modello più vicino, riguardante non l’antichità ma l’epoca moderna ed in
particolare la figura di Giotto, era Boccaccio, che a metà secolo, nella quinta novella della
sesta giornata del Decameron (novella vertente sul contrasto tra intelligenza e mancanza di
bellezza esteriore), aveva inserito il seguente ritratto di Giotto.
Ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dá la natura, madre di tutte le cose
ed operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello
non dipignesse sí simile a quella, che non simile, anzi piú tosto dessa paresse, intanto che
molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore,
quello credendo esser vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in
luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni che piú a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a
compiacere allo ’ntelletto de’ savi dipignendo intendevano, era stata sepulta, meritamente
una delle luci della fiorentina gloria dirsi puote: e tanto piú, quanto con maggiore umiltá,
maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d’esser chiamato
maestro; il qual titolo rifiutato da lui tanto piú in lui risplendeva, quanto con maggior disidèro
da quegli che men sapevan di lui o da’ suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma
quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d’aspetto in
niuna cosa piú bello che fosse messer Forese.
E' chiaro poi come, oltre all'esempio pliniano, anche la biografia giottesca di Villani abbia
informato quella scritta a metà Quattrocento da Ghiberti, sulla cui rilevanza per la storia della
storiografia artistica italiana – per lo sviluppo di quella "parabola evolutiva" [Settis 2012] della
storia dell'arte presa in prestito dalla Naturalis Historia – ci siamo soffermati nelle lezioni VII
e VIII.
La testimonianza di Villani riguardo al fondamentale apporto di Giotto e insieme il suo senso
storiografico sembrano riecheggiare anche nel capitolo iniziale del Libro dell'Arte di Cennini,
che termina con la seguente autopresentazione genealogica del pittore.
Sì come piccolo membro essercitante nell'arte di dipintoria, Cennino d'Andrea Cennini da
Colle di Valdelsa nato, fui informato nella detta arte XII anni da Agnolo di Taddeo da Firenze
mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu
battezzato da Giotto, e fu suo discepolo anni XXIIII. Il quale Giotto rimutò l'arte del dipignere
di greco in latino, e ridusse al moderno; ed ebbe l'arte piu ̀ compiuta che avessi mai piu ̀
nessuno. Per confortar tutti quelli che all'arte vogliono venire, di quello che a me fu
insegnato dal predetto Agnolo mio maestro, nota farò, e di quello che con mia mano ho
provato; principalmente invocando l'alto Iddio onnipotente, cioe ̀ Padre Figliuolo Spirito
Santo; secondo, quella dilettissima avvocata di tutti i peccatori Vergine Maria, e di Santo
Luca evangelista, primo dipintore cristiano, e dell'avvocato mio Santo Eustachio, e
generalmente di tutti i santi e sante del paradiso. Amen.
Ora, come ci ricorda Venturi, dopo Cennini e soprattutto dopo Ghiberti "Le 'Vite degli
artisti' ... sono continuate":
Il Manetti [Antonio Manetti (1423-1491), che si crede essere stato il 'volgarizzatore' delle vite
di Villani] scrive una vita di Brunelleschi [Vita di Filippo di Ser Brunellesco, redatta poco dopo
la morte dell'architetto nel 1446], per opera di Marcantonio Michiel [1484-1552; Notizie
d'opere di disegno] e di Pietro Summonte [1453-1526] in Napoli. Ma l'opera che mise nel
dimenticatoio tutte le altre furono le Vite dei pittori, scultori e architectetti di Giorgio Vasari.

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Che videro la luce in una prima edizione, stampata dall’editore ducale Torrentino nel 1550, e
successivamente in una edizione rivista e molto ampliata (nonché corredata di ritratti incisi
degli artisti), stampata invece dall’editore Giunti nel 1568.
Nel Proemio alle Vite, Vasari giustifica così la propria opera:
... considerando, e conoscendo non solo con l'esempio degli antichi ma de' moderni ancora
che i nomi di moltissimi vecchi e moderni architetti, scultori e pittori, insieme con infinite
bellissime opere loro in diverse parti di Italia, si vanno dimenticando e consumando a poco a
poco e di una maniera, per il vero, che ei non se ne può giudicare altro che una certa morte
molto vicina, per difenderli il più che io posso da questa seconda morte e mantenergli più
lungamente che sia possibile nelle memorie de' vivi, avendo speso moltissimo tempo in
cercar quelle, usato diligenzia grandissima in ritrovare la patria, l'origine e le azzioni degli
artefici, e con fatica grande ritrattole dalle relazioni di molti uomini vecchi e da' diversi ricordi
e scritti lasciati dagli eredi di quelli in preda della polvere e cibo de’ tarli, e ricevutone
finalmente et utile e piacere, ho giudicato conveniente, anzi debito mio, farne quella
memoria che per il mio debole ingegno e per il poco giudizio si potrà fare.
Venturi sottolinea come, oltre a tale intento memorialistico, Vasari mostrasse "il desiderio di
mettere in rapporto la biografia degli artisti con la teoria dell'arte", anteponendo alle biografie
degli artisti "un suo trattato d'arte, che è assai piú tecnico di quello, per esempio, dell'Alberti"
[Venturi 1964, 115].
Ma va inoltre (ed enfaticamente) segnalata la grande ambizione storiografica di questo
novello biografo dei moderni artisti italiani.
ambizione che si rispecchia nell'architettura del libro, che viene scandito in tre parti, riferite
alle successive fasi della "rinascita" dell'arte avviata nel Duecento all'epoca di Giotto e
giunta alla piena maturità, per mezzo di Michelangelo, in quella di Vasari stesso.
Egli chiama tali fasi età, in un esplicito richiamo alla storiografia antica dell'arte e alla
parabola della vita umana, che assumerà a modello nel grande racconta all’interno del quale
incastona le singole biografie – il racconto del cammino delle tre arti del disegno (pittura,
scultura, architettura) verso la perfezione.
E va ulteriormente segnalato il significato non limitatamente storico- artistico ma generale e
consapevolmente etico (in senso ampio del termine) dell'impresa vasariana.
Nel Proemio della seconda età dell’edizione torrentiana Vasari infatti afferma:
... avendo io preso a scriver la istoria de' nobilissimi artefici per giovar all'arti quanto
patiscono le forze mie, et appresso per onorarle, ho tenuto quanto io poteva, ad imitazione
di così valenti uomini, il medesimo modo; e mi sono ingegnato non solo di dire quel che
hanno fatto, ma di scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono e l'ottimo dal migliore, e
notare un poco diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e le fantasie de' pittori e
degli scultori; investigando, quanto più diligentemente ho saputo, di far conoscere a quegli
che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e del
miglioramento e peggioramento delle arti accaduto in diversi tempi et in diverse persone.
Suggerisce Paola Barocchi che si tratti di un riferimento implicito alla recente pubblicazione
degli scritti di Macchiavelli e che le parole di Vasari tradiscano la consapevolezza che più
consuete ed oggettive soluzioni storiografiche, quali le 'note' degli artefici o gli 'inventari delle
opere loro', appaiono ormai insoddisfacenti, proprio perché legate, nella loro anonimità
quantitativa, a periodi remoti, dei quali non è possibile 'dire più che se ne abbino detto quei
tanti scrittori che sono pervenuti all'età nostra'.
Vasari pertanto si rivolgerebbe al modello della biografia umanistica che impegna invece
l'autore a investigare con diligenza e con curiosità 'i modi e i mezi e le vie che hanno usati i

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valenti uomini nel maneggiare l'imprese' e quindi ‘insegna vivere’ e dà il ‘piacere’ di ‘vedere
le cose passate come presenti’…
"Da qui", commenta Paola Barocchi,
il valore del tutto nuovo di una 'storia' visiva articolata in singole monografie, le quali
indirettamente esemplificano gli infiniti e strani casi della fortuna. La eticità dell'assunto, con
la pertinente fiducia nella umanistica consapevolezza, fa sì che lo storico si muova
nell'esemplarità del passato:
Ad onore dunque di coloro che già sono morti e beneficio di tutti gli studiosi, principalmente
di queste tre arti eccellentissime Architettura, Scultura e Pittura, scriverrò le Vite delli artefici
di ciascuna secondo i tempi che ei sono stati di mano in mano da Cimabue insino ad oggi ...
[Nel leggere le Vite, occorrerà tener conto di tali precisazioni, che serviranno tra l'altro ad
affinare o ridimensionare certe osservazioni degli storici della critica e dell’arte.
Venturi ad esempio afferma che
ciò che egli fece come nessuno prima di lui, nemmeno nell'antichità, fu di sviluppare
enormemente il racconto della vita degli artisti e la descrizione delle loro opere, dando cosí
la prova di un interesse storico nuovo. Anche la storia del Vasari si ricollega al tipo
prammatico delle storie del rinascimento, cioè considera la virtú pratica degli individui (senza
connetterli con il loro ideale) l'interpretazione dei quali può soltanto essere psicologica.
Ma la singola biografia (o, come la preferisce chiamare Paola Barocchi, monografia)
vasariana espande sì ma non diverge sostanzialmente dallo schema presentato da Villani o
Ghiberti e addirittura da Plinio, se non in quella parte, tipicamente la parte iniziale, che serve
proprio a mettere in rilievo il valore ‘esemplare’ della vita dell’artista in esame mentre, anche
per questo fatto, la “descrizione” vasariana delle opere non risulta in se stessa così
“enormemente” distante da quella dei biografi precedenti.
Ma è giusto parlare della "descrizione" o delle "descrizioni", per non dire l'"ecfrasi", di
Vasari?
Una risposta affermativa è la premessa dalla quale muove un fortunato articolo sull'ecfrasi
nelle Vite di Svetlana Alpers, che apre con la constatazione che: “The major part of Vasari’s
Lives is made up of descriptions of paintings, but these have been largely ignored in the
critical literature ...”
Alpers pertanto si prefigge di dare conto dello "psychological and narrative interest of the
descriptions and the astonishing fact that wherever one opens the Lives, whether at the
beginning of art with Giotto or toward the end with Raphael, the descriptions are alike”, in
quanto si limiterebbero a registrare certe “narrative qualities”, pur non essendo tali qualità
comprese nella perfetta regola dell’arte vasariana, incentrata nel criterio dell’imitazione della
natura.
In modo analogo, inizia così un recente contributo sull’argomento di Pasquale Sabbatino:
Nelle singole biografie della raccolta Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori
italiani ... (Firenze, Torrentino, 1550), articolata in tre parti o stagioni, l’artista scrittore
Giorgio Vasari descrive con le parole le immagini dipinte o scolpite. L'esposizione vasariana
tenta di volta in volta di uguagliare l’opera originale dello scalpello o del pennello, utilizzando
tutte le risorse della figura retorica dell’ecfrasi (ekphrasis), che ha illustri precedenti in Omero
e Filostrato. In tal modo l'immagine verbale dell'artista scrittore entra in competizione con
l'immagine dipinta o scolpita, puntando sull'obiettivo di tradurla con la scrittura e cogliendo di
volta in volta la specificità dell'opera e l'altezza raggiunta entro lo schema storiografico delle
tre stagioni della rinascita.

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Ora, né le narrative qualities, privilegiate, secondo Alpers, da Vasari, né le "risorse"
dell'ecfrasi di cui secondo Sabbatino egli si avvale vengono definite con chiarezza da questi
studiosi.
Soprattutto, però, è scontato che l’obiettivo dello scrittore, nel parlare di oggetti
extralinguistici, sia quello di 'tradurli' in parole (meglio, di rappresentare il concetto ad essi
associato per mezzo di determinate forme grafiche e/o foniche).
Sia Alpers che Sabbatino portano ad esempio un brano della Vita di Masaccio, protagonista
della seconda età della rinascita, in cui Vasari si sofferma sugli affreschi della Cappella
Brancacci (di cui però Alpers riporta soltanto la parte che va da "vi si conosce").
Ma tra l'altre notabilissima apparisce quella dove San Piero per pagare il tributo cava per
commissione di Cristo i danari del ventre del pesce; perche ,́ oltra il vedersi quivi in un
Apostolo che è nell'ultimo, nel quale è il ritratto stesso di Masaccio fatto da lui medesimo a lo
specchio, tanto bene che par vivo vivo, vi si conosce l’ardir di San Piero nella dimanda e la
attenzione degl'Apostoli nelle varie attitudini intorno a Cristo, aspettando la resoluzione con
gesti si ̀ pronti che veramente appariscon vivi; et il San Piero massimamente, il quale
nell’affaticarsi a cavare i danari del ventre del pesce ha la testa focosa per lo stare chinato; e
molto più quando e' paga il tributo, dove si vede l'affetto del contare e la sete di colui che
riscuote, che si guarda i danari in mano con grandissimo piacere.
Alpers cita il passo per dimostrare come l’affresco di Masaccio sia "described in the same
terms" – definiti "psychological" – in cui lo sono opere e della prima e della terza età, quali il
mosaico giottesco della Navicella e L’ultima cena di Leonardo:
Vasari does not indicate the arrangement of the figures. His interest is specifically in the
subject of the picture, which he attempts to make as real for the reader as it is for the viewer.
In each case his major concern is psychological – the artist's convincing depiction of certain
real emotions ... the ardour of Masaccio's Peter and the ardour of the tax collector ... This is
accompanied by exclamations on the skilful imitation of certain physical and material
details ... Peter’s red face ...
Per Sabbatino invece il passo costituisce:
un primo esempio di ekphrasis di una pittura di storie (l’episodo evangelico del tributo), con
vari personaggi ... ciascuno dei quali compie un gesto, assume un atteggiamento, partecipa
con un ruolo ...
A dimostrazione di come, in modo emblematico della seconda età:
Le immagini dipinte da Masaccio, in particolare quelle che raccontano storie [siano] del tutto
raccontabili con le parole come naturali ...
Ma l'interesse di Vasari per gli aspetti "psicologici" della resa pittorica del racconto
evangelico è, come osserva Alpers stessa, tutt’uno con la sua "praise for the realistic
representation of many details" [Alpers 1960, 193].
L'interesse per la 'raccontabilità' della raffigurazione è inscindibile dall’apprezzamento per la
sua 'vivezza';
Anzi è funzionale ad esso, come ben si vede dal passo, che ruota tutto intorno alla
caratterizzazione (in due costrutti consecutivi correlati) e del presunto autoritratto di
Masaccio e delle figure degli Apostoli quali "vivi", caratterizzazione che nel primo caso
giustifica l’attribuzione valutativa implicita in "fatto ... tanto bene" e nel secondo viene a sua
volta giustificata dai vari particolari indicati.
Ma ciò che più importa capire è come l’autoritratto, gli Apostoli, San Pietro nell’atto di cavare
i danari dal pesce e di contarli, l’esattore – così valutati e caratterizzati – siano tutti introdotti
nel discorso per giustificare la valutazione della scena intera quale "notabilissima".

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E ancora come Vasari arrivi a citare la scena seguendo una logica narrativa che è quella
che traccia la 'carriera' dell’artista.
Come si vede resitituendo il brano al proprio contesto:
Dopo questo ritornato al lavoro della capella de' Brancacci, seguitando le storie di San Piero
cominciate da Masolino, ne fini ̀ una parte, cioe ̀ l’istoria della cattedra, il liberare gl'infermi,
suscitare i morti, et il sanare gli attratti con l’ombra nell’andare al tempio con San Giovanni.
Ma tra l’altre notabilissima apparisce…
Il motivo infatti per cui "Vasari does not systematically read a whole work as a single story,
and ... treats a scene with great selectivity" [Alpers 1960, 194] – e per cui è fuorviante
considerare le sue rappresentazioni verbali delle opere nelle Vite quali "descriptions" o
esempi di "ecfrasi" a sé stanti – è proprio che cita ogni singola opera innanzitutto quale
tappa in un iter produttivo ed eventualmente quale manifestante certe virtù figurative.
Come se 'davanti' all’opera non si chiedesse affatto come 'trasporla' in parole ma se in essa
era racchiusa l’eccellenza.
E’ uno schema retorico che si potrà individuare con più facilità nella lettura integrale di una
Vita, quella breve ma non per questo atipica di Pesello, e Francesco Peselli Pittori fiorentini.
Rare volte suole avvenire che i discepoli de' maestri rari, se osservano i documenti di quegli,
non divenghino molto eccellenti, e che, se pure non se gli lasciano dopo le spalle, non gli
pareggino almeno e si agguaglino a loro in tutto, perché il sollecito fervore della imitazione
con la assiduità dello studio ha forza di pareggiare la virtù di chi gli dimostra il vero modo
dell'operare. Laonde vengono i discepoli a farsi tali che e' concorrono poi co' maestri, e gli
avanzano agevolmente, per esser sempre poca fatica lo aggiugnere a quello che è stato da
altri trovato. E che questo sia il vero, Francesco di Pesello imitò talmente la maniera di fra'
Filippo che, se la morte non ce lo toglieva così acerbo, di gran lunga lo superava. Conoscesi
ancora che Pesello imitò la maniera d'Andrea dal Castagno; e tanto prese piacer del
contrafare animali e di tenerne sempre in casa vivi d'ogni specie, che e' fece quegli sì pronti
e vivaci che in quella professione non ebbe alcuno nel suo tempo che gli facesse paragone.
Stette fino all'età di trent’anni sotto la disciplina d’Andrea, imparando da lui, e divenne
bonissimo maestro.
Onde avendo dato buon saggio del saper suo, gli fu dalla Signoria di Fiorenza fatto
dipignere una tavola a tempera quando i Magi offeriscono a Cristo, che fu collocata a mezza
scala del loro palazzo; per la quale Pesello acquistò gran fama, e massimamente avendo in
essa fatto alcuni ritratti, e fra gl’altri quello di Donato Acciaiuoli. Fece ancora alla cappella de’
Cavalcanti in Santa Croce, sotto la Nunziata di Donato, una predella con figurine piccole,
dentrovi storie di San Niccolò. E lavorò in casa de’ Medici una spalliera d’animali molto bella,
et alcuni corpi di cassoni con storiette piccole di giostre di cavalli. E veggonsi in detta casa
sino al dì d’oggi di mano sua alcune tele di leoni i quali s’affacciano a una grata, che paiono
vivissimi; et altri ne fece fuori, e similmente uno che con un serpente combatte; e colorì in
un’altra tela un bue et una volpe con altri animali molto pronti e vivaci.
Et in San Pier Maggiore, nella cappella degl'Alessandri, fece quattro storiette di figure
piccole di San Piero, di San Paulo, di San Zanobi quando resuscita il figliuolo della vedova,
e di San Benedetto; et in Santa Maria Maggiore della medesima città di Firenze fece nella
cappella degl'Orlandini una Nostra Donna e due altre figure bellissime. Ai fanciulli della
Compagnia di S. Giorgio un Crucifisso, San Girolamo e San Francesco; e nella chiesa di
San Giorgio in una tavola una Nunziata. In Pistoia nella chiesa di San Iacopo una Trinità,
San Zeno e San Iacopo; e per Firenze in casa de' cittadini sono molti tondi e quadri di mano
del medesimo.

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Fu persona Pesello moderata e gentile, e sempre ch’e’ poteva giovare agli amici, con
amorevolezza e volentieri lo faceva. Tolse moglie giovane et ebbene Francesco detto
Pesellino suo figliuolo, che attese alla pittura imitando gl’andari di fra’ Filippo infinitamente.
Costui, se più tempo viveva, per quello che si conosce arebbe fatto molto più che egli non
fece, perché era studioso nell’arte né mai restava né dì né notte di disegnare. Per che si
vede ancora nella cappella del noviziato di Santa Croce, sotto la tavola di fra' Filippo, una
maravigliosissima predella di figure piccole, le quali paiono di mano di fra' Filippo. Egli fece
molti quadretti di figure piccole per Fiorenza; et in quella acquistato nome, se ne morì d’anni
XXXI. Per che Pesello ne rimase dolente, né molto stette che lo seguì d’anni LXXVI'.
E' intanto da notare come, in maniera tipica delle Vite, l'attività produttiva di un pittore
(Pesello) sia portata quale caso esemplificativo di una legge generale della formazione
pratica ed attitudinale, anzi a giustificazione di quanto affermato nel preambolo generale.
L'impostazione biografica ed in fondo etica dell'opera di Vasari si riscontra in molti aspetti del
testo, a cominciare dall'esteso 'panorama’ referenziale, che comprende:
• alcune categorie di persona ('i discepoli' e i maestri rari’) e I fatti che generalmente
definiscono i loro rapporti
• pittori individuali, i loro maestri, i loro committenti, familiari
• le opere, i soggetti in esse raffigurati; i luoghi di conservazione
parti del discorso stesso ("E che questo sia il vero, Francesco di Pesello imitò ...)
Tale impostazione porta anche al prevalere, nella parte iniziale appunto, del nesso
coordinativo dello spiegare:
Rare volte suole avvenire che i discepoli de’ maestri rari, se osservano i documenti di quegli,
non divenghino molto eccellenti, e che, se pure non se gli lasciano dopo le spalle, non gli
pareggino almeno e si agguaglino a loro in tutto, perché il sollecito fervore della imitazione
con la assiduità dello studio ha forza di pareggiare la virtù di chi gli dimostra il vero modo
dell’operare. Laonde vengono i discepoli a farsi tali che e’ concorrono poi co’ maestri, e gli
avanzano agevolmente, per esser sempre poca fatica lo aggiugnere a quello che è stato da
altri trovato. E che questo sia il vero ...
Nesso che però ritroviamo anche all'interno della narrazione biografica:
Onde avendo dato buon saggio del saper suo, gli fu dalla Signoria di Fiorenza fatto
dipignere una tavola a tempera quando i Magi offeriscono a Cristo ...
Costui, se più tempo viveva, per quello che si conosce arebbe fatto molto più che egli non
fece, perché era studioso nell’arte né mai restava né dì né notte di disegnare. Per che si
vede ancora nella cappella del noviziato di Santa Croce, sotto la tavola di fra’ Filippo, una
maravigliosissima predella di figure piccole, le quali paiono di mano di fra’ Filippo.
Dove il primo perché è forse segno di un nesso che si trova in bilico tra la spiegazione e la
giustificazione, nesso quest'ultimo altrimenti assente da quelle parti delle biografie in cui si
trattano le opere.
Benché Vasari, come di consueto nelle Vite, fornisca una sorta di catalogo delle opere di
Pesello e di Pesellino, l'impostazione biografica subordina tale catalogo – e soprattutto le
rappresentazioni delle singole opere che lo costituiscono – ad una logica crono-topo-
causale.
Non diversamente in fondo che in Plinio, Ghiberti o Villani (si vedano le VII e VIII lezioni) le
singole opere sono introdotte nel discorso quali prodotti dagli artisti – fungono cioè da
complementi diretti a verbi quali fare, colorare, lavorare – in determinate fasi e circostanze
dei loro iter creativi.

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Solo di rado le opere fungono da espliciti soggetti di predicazione, e avviene comunque
soltanto in predicazioni 'supplementari', realizzate da relative non-restrittive (i quali
s’affacciano a una grata, che paiono vivissimi; le quali paiono di mano di fra' Filippo).
Altrimenti predicazioni riferite alle opere non sono che accennate, tramite elementi all’interno
degli stessi gruppi nominali che si riferiscono ad esse, o alle figure in esse raffigurate (una
predella con figurine piccole; alcuni corpi di cassoni con storiette piccole di giostre di cavalli;
una spalliera d’animali molto bella; uno che con un serpente combatte; altri animali molto
pronti e vivaci; due altre figure bellissime; molti tondi e quadri di mano del medesimo).
In questo testo cinquecentesco, infatti – ben diversamente però dalla lettera di Aretino
sull'Annunciazione di Tiziano – le singole opere sono e non sono al centro del discorso.
Ancora prive del resto di titoli (si vedano le XII e XVI Lezioni), sono inevitabilmente citate
quali esempi di determinate iconografie consolidate o raffigurazioni di determinati episodi
biblici o agiografici.
Difficilmente quindi le opere potevano assumere nella mente dello spettatore-commentatore
un tasso di individualità tale da esigere la predicazione esplicita e diretta.

LEZIONE XVI
INTORNO ALLE IMMAGINI SACRE E AI TITOLI
Il corso si avvia ad una conclusione a dir poco prematura, dal momento che nella nostra
rassegna storica della critica d'arte, iniziata nella X Lezione, siamo giunti per ora solo al
tardo Cinquecento.
Occorre quindi ribadire la già espressa dichiarazione di inevitabile selettività – e con
accresciuta cognizione di causa, in vista della "spaventosa abbondanza" [Schlosser 2008,
457] del discorso sull'arte dei secoli XVII e XVIII, per non parlare di quelli ancor più vicini a
noi.
Ma è altrettanto d'obbligo indicare sin da ora fino a quale punto si vorrà comunque arrivare,
perché proprio a quel punto e per quali tappe.
Il punto di arrivo che ci prefiggiamo è quello stesso indicato sia da Albert Dresdner che da
Lionello Venturi quale il punto in cui, dopo una genesi (o se vogliamo una preistoria) durata
molti secoli, venne finalmente alla luce la "critica d'arte", e cioè il XVIII secolo, nella
fattispecie quello francese.
E' qui, in questo momento, che per Dresdner infatti emerge quel "genere letterario
indipendente, che ha come oggetto l'esame, la valutazione e l'influenza dell'arte
contemporanea" e che "chiamiamo, secondo l'uso comune, critica d'arte" [Dresdner 1915, 8,
11].
Fatto storico di cui sottolinea la stranezza, dal momento che "il mondo ne aveva fatto
benissimo a meno per migliaia di anni".
Ma che 'spiega' indicando il modo in cui, nel corso di quelle migliaia di anni, era andata
lentamente trasformandosi la stessa "vita artistica europea" ed in particolare "il rapporto
dell'arte e degli artisti con il pubblico e la letteratura" – rapporto che si manifesta nel "giudizio
artistico" – "fino a cristallizzarsi" in una "propria rappresentazione e forma letteraria".
Venturi, da parte sua, attribuisce il decisivo 'salto di qualità' avvenuto nel XVIII secolo, oltre
che alle tendenze empiriche dell'illuminismo, all'istituzione delle mostre pubbliche.
Prima del secolo XVIII le occasioni per la critica d'arte sono state da ricercarsi nei trattati
d'arte e nelle vite degli artisti. Ma il secolo XVIII ha fornito con le esposizioni d'arte,
specialmente in Francia, l'opportunità dei resoconti critici, cioè la critica d'arte ha trovato una

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sua forma naturale. Non si trattava più di inserire giudizi tra le notizie sugli artisti e le norme
dell'arte, si trattava di scrivere unicamente per dire la propria opinione su un gruppo di opere
e di artisti. E poiché quegli artisti erano contemporanei al critico, s'imponeva il desiderio di
risalire ai principî dall'impressione diretta dell'opera, di controllare sull'opera la verità dei
principî, d'intendere l'opera nell'assieme della personalità dell'artista, e d'intendere la
personalità nella varietà dei gusti contemporanea; s'imponeva insomma il desiderio di
trovare un rapporto tra la sintesi dell'opera d'arte e tutti gli elementi che la costituiscono. La
critica d'arte, eseguita pure in modo affrettato e superficiale, assumeva il carattere di critica
d'attualità. E ciò non sarebbe stato possibile, senza la filosofia dell'illuminismo, e il suo
nuovo interesse per trovare la ragione dei fatti nell'analisi dei fatti stessi.
Ora, a dire il vero, non è ragionevole assumere che prima del XVIII secolo e fuori dalla
Francia nessuno si fosse mai impegnato a "scrivere [o a parlare] unicamente per dire la
propria opinione su un gruppo di opere e di artisti" (pensiamo ad esempio a quella lettera di
Aretino sull'Annunciazione di Tiziano).
Ed è ugualmente problematico affermare – o per lo meno intimare – come fa Dresdner, che
per la mancanza in epoche passate, soprattutto nell'antichità classica, di un genere letterario
indipendente – dedicato specificatamente ed esclusivamente all'arte ed in particolare all'arte
contemporanea—era assente la critica d’arte, la quale sarebbe apparsa soltanto nel XVIII
secolo.
Piuttosto, come si è cercato di dimostrare, la critica era senz'altro già presente, benché in
modo diffuso e parziale.
E questo non per la mancanza di un genere in quanto tale, né di opinioni su opere o artisti
espresse per il solo desiderio di esprimerle, ma perché all'interno di una varietà di generi
erano rarissimamente giunto ad un grado di esplicitezza assertiva atti individuativi riferiti ad
opere o ad artisti particolari.
Il punto di arrivo prefisso non corrisponde quindi alla comparsa improvvisa di una cosa
precedentemente assente, ma piuttosto al momento in cui un tal grado di esplicitezza inizia
a manifestarsi più diffusamente – il momento in cui emerge (non dal nulla ma, come ben
vede Venturi, dalle pieghe di un discorso sull’arte di cui non era ancora protagonista) la
produzione artistica quale oggetto direttamente e per se stessa esplicabile.
Per quali tappe quindi ci arriveremo?
Nella prossima lezione si confronteranno con le Vite vasariane le Vite de' pittori scultori et
architetti moderni pubblicate circa un secolo dopo, nel 1672, dall'abbate romano Gian Pietro
Bellori (1615-1696).
Bellori è l'esponente principale di una delle due correnti di critica d'arte del secolo XVII
isolate e differenziate da Venturi, e cioè quella che, fondata sull'Idea, e partita
dall'insegnamento dei Carrracci, trova a Roma la sua massima espressione per opera del
Bellori e del Poussin, e si fa sistematica con l’Accademia francese.
dove con "l'Idea" si intende il concetto neo-platonico, il quale, in riferimento all'arte, Bellori,
come vedremo, contribuì in modo eminente a divulgare.
Mentre "i Carracci" sono naturalmente i pittori bolognesi – i fratelli Agostino (1557- 1602) ed
Annibale (1560-1609) ed il l loro cugino Ludovico (1555-1619) – che nel 1582 fondarono a
Bologna una scuola di pittura chiamata prima Accademia del Naturale, poi dei Desiderosi e
successivamente (1590) degli Incamminati (nomi, questi ultimi due, che rispecchiano
l’orientamento devozionale e controriformista dell’istituzione).
Ed infine, "l'Accademia francese" è probabilmente un riferimento all’Académie royale de
peinture et de sculpture fondata sotto Luigi XIV a Parigi nel 1648 e che nel 1661 passò sotto
il controllo del politico ed economista Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), cui Bellori dedicò

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le sue Vite e che insieme allo scultore Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) fondò nel 1666
l’Accademia di Francia a Roma.
L'altra corrente critica individuata da Venturi sarebbe
quella che, fondata sulla sensibilità pittorica, e partita da Venezia, per opera principalmente
del Boschini, trionfa a Parigi per opera di Roger de Piles.
Si tratta dello scrittore, pittore ed incisore Marco Boschini (1602-1681), su cui ci
soffermeremo di seguito, insieme alle figure del teorico e diplomatico Roger de Piles (1635-
1709) e dell’epigone (critico) inglese, il ritrattista e collezionista Jonathan Richardson (1665-
1745).
Infine, ci occuperemo anche dei "resoconti critici" o recensioni alle mostre organizzate nel
Settecento dalle accademie reali di pittura di Parigi e di Londra.
E concluderemo facendo dei salti in avanti per considerare alcuni esemplari ottocenteschi e
novecenteschi del genere, nonché infine un testo di un critico dei nostri giorni, Jerry Saltz, la
cui immagine – atteggiato a difensore
disponibile ma fermo del proprio giudizio—si trova in frontespizio.
Ma prima di passare a Bellori, faremo due brevi letture tardo- cinquecentesche, atte ad
inquadrarlo.
La prima in riferimento a quella "tendenza diffusa ... [alla] concezione moralistica dell'arte",
sintomo della Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento – la XIX concilio ecumenico
della Chiesa cattolica – tenutosi tra 1545 e 1563.
La seconda in riferimento alla genesi del titolo, in senso moderno, dell’opera d’arte, genesi
altrettanto lunga e graduale quanto quella della “critica d’arte”, di cui va letta quale sintomo.
Il primo testo è tratto dal Discorso intorno alle imagini sacre e profane (1582) di Gabriele
Paleotti, vescovo, poi arcivescovo metropolitano di Bologna, e dal 1572 anche cardinale.
libro che porta quali epigrafi due testi estratti dai decreti del Concilio di Trento:
Omnis superstitio in imaginum sacro usu tollatur; omnis turpis quaestus eliminetur, omnis
denique lascivia vitetur, ita ut procaci venustate imagines nec pingantur nec ornentur.
Concil. Trid., sess. XXV (Surius, IV, p. 983).
[Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle
immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia
evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza.
Cosí pure, i fedeli non approfittino delle celebrazioni dei santi e della visita alle reliquie per
darsi all’abuso del mangiare e del bere, quasi che le feste dei santi debbano celebrarsi col
lusso e la liberta ̀ morale.]
Postremo tanta circa haec diligentia et cura ab Episcopis adhibeatur, ut nihil inordinatum, aut
praepostere aut tumultuarie accommodatum, nihil prophanum, nihilque inhonestum
appareat, cum domum Dei deceat sanctitudo.
Ibid.
[Da ultimo, in queste cose sia usata dai vescovi tanta diligenza e tanta cura, che niente
appaia disordinato, niente fuori posto e rumoroso, niente profano, niente meno onesto: alla
casa di Dio, infatti, si addice la santità.]
L’intento generale del Discorso viene spiegato nel Proemio, che inizia:
Tra molte cose utilissime et santissime decretate dal sacro Concilio Tridentino per introdurre
nel mondo la vera disciplina del Christiano, anzi per restituirla all'antica sua forma & dignità;
Una è, nella quale hanno premuto assai i padri del Concilio, ch'è stato intorno alla materia
delle imagini, nella quale due principali astuzie del Demonio et mancamenti degli huomini,
se bene l'uno più grave dell'altro, hoggi si scorgono. Il primo è degli heretici, et Iconomachi,
che, togliendo affatto alle imagini la debita venerazione, hanno cercato di esterminarle da

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tutti i luoghi. L'altro è de' catholici, i quali, ritenendo l'uso delle imagini, hanno nondimeno in
varij modi corrotta et difformata la dignità loro. Onde il sacro Concilio, havendo prima
dannata la perfidia, et empietà degli heretici; ha cercato poi di rimediare à gli abusi de'
catholici, caricando con molta vehemenza, et ardore le conscienze de' Vescovi, accioche
ciascuno nella sua diocese provegga con ogni diligenza alla religione, onestà, et
convenevolezza di quelle.
Il vescovo Paleotti è persuaso che nella propria diocesi di Bologna, lontano come sarebbe
da "ogni heretica macchia", non vi sia motivo di paventare l'iconomachia.
Si prefigge quindi di "far opra con alcuni rimedi di rintegrare" la scadente concezione delle
immagini presso I cattolici, rimasta a lungo non corretta "et assai dalla corrottela del mondo
contaminata".
Ne scorge due cause principali:
L’una perche, sì come de gli Oratori è stato scritto che, per riuscire grandi, & eccellenti,
debbono essere versati in ogni facoltà, & scienza, poi che di tutte le cose può occorrere loro
di dover ragionare, & persuadere il popolo; così pareva si potesse dire della pittura, la
qual'essendo come un libro popolare capace d’ogni materia, sia di cielo, ò di terra, di
animali, ò di piante, ò d'attioni humane di qualunque sorte; richiedesse insieme, che il
pittore, al quale appartiene il rappresentare queste cose, fosse di ciascuna, se non
compitamente erudito, al meno mediocremente instrutto, ò non affatto imperito; come de gli
architetti ancora anticamente fù lasciato scritto. Si vede nondimeno hoggi per lo più avvenir il
contrario ne' professori di quest’arte; poi che, riservata la laude dovuta in ciò ad alcuni,
gl'altri, ò per la necessità del vivere, che li fà trascurare i principij et ornamenti necessarij à
l’arte, ò per lo sconcerto grande, et quasi universale di tutte le cose del mondo, che non si
fanno co’ methodi suoi, ma
come à caso, restano i pittori nella cognitione dell'altre discipline affatto rozzi, & inesperti.
L’altra è che, ricercandosi nelle imagini, quanto alle sacre, che muouano i cuori de'
riguardanti alla divotione e vero culto di Dio, i pittori per non essere communemente meglio
disciplinati degli altri nella cognitione di Dio, nè essercitati nello spirito, & pietade, non
possono rappresentare nelle figure che fanno quella maniera di divotione ch'essi non hanno
nè sentono dentro di se; Onde si vede per isperienza che poche imagini hoggi si dipingono,
che produchino questo effetto.
Paleotti dà la seguente definizione dell'immagine:
diciamo che per Imagine noi pigliamo ogni figura materiale prodotta dall’arte chiamata il
dissegno, & dedotta da un'altra forma per assomigliarla.
E individua "varie cose, che tutte concorrono" a formarla:
Prima vi è l’autore, ò artefice; dipoi vi è la materia, di ch'è composta la imagine; appresso
l'instrumento, ò mezo con che si è formata la imagine; di più il corpo tutto della imagine, & la
forma, che le dà il nome; ultimamente il fine, per lo quale ella è stata fabricata.
Oltre al fine principale – che, come risulterebbe dalla citata definizione, è solitamente quello
di "imitare un'altra cosa" – Paleotti riconosce "molti altri particolari" che ne derivano, ”& quasi
vari effetti, secondo le varie cause, che hanno mosso il pittore a formare l'Imagine".
In riferimento specifico al pittore cristiano e alle immagini sacre, Paleotti distingue due fini
del pittore, uno secondario, e cioè:
di essercitare l’arte sua per ritrarne guadagno, ò per acquistarne honore, ò per altre cause
dette di sopra, quando però siano tutte regolate con le debite circonstanze, della persona,
del luogo, del tempo, del modo e del resto, che si richiede: talche da niun lato si possa dire,
che egli biasimevolmente esserciti questa arte, & in niun modo s'adopri contra il fine
supremo.

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E l’altro principale:
Co’l mezo della fatica, & arte sua acquistarsi la gratia divina…
Fine della pittura invece sarebbe quello per cui, "essercitandosi come operatione di huomo
christiano, acquista insieme un'altra più nobile forma, & perciò passa nell'ordine delle più
nobili virtù".
Virtù che interessano tre aspetti distinti della pittura, di ascendenza retorica: il dilettevole,
l'utile e l'onestà.
Così, le immagini cristiane "apportano" tre sorti di "dilettazione": 1) animale o sensuale, 2)
razionale e 3) spirituale, nessuna delle quali vietata dalla:
legge cristiana ... purche siano adoperate co'l debito modo: perciò che non distrugge le cose
della natura, ma le dà perfettione, servendosi di esse come di gradi, & mezzi per giungere al
fine alto della beatitudine eterna ...
Inoltre, esse "servono grandemente per ammaestrare il popolo al ben viver" [Paleotti 1582,
72 (titolo del cap. XXIII)].
Ed in terzo luogo – ma si tratterebbe della parte "non solo propria, ma prencipale delle
pitture" – le immagini cristiane "servono molto a movere gli affetti delle persone ... il che
tanto maggior laude le apporta, quanto che l'effetto in se è nobilissimo et esse a ciò sono
molto atte, & efficaci”.
E nel capitolo XXVI i varij effetti notabili causati da le imagini pie, & divote sono illustrati
tramite l'esplicazione (riferita ed autorevole) di due immagini.
La rappresentazione del cui carattere e del cui merito, segnalati da sostantivi riferiti allo stato
affettivo e alle proprietà morali dei personaggi raffigurati (acerbità della passione, grandezza
della fortezza) e da avverbi (vivamente, pietosamente) indicativi dell'operare artisticamente
efficace e insieme moralmente motivato dei pittori (che però si fa a meno di nominare) è
legata a quella dell'effetto sullo spettatore tramite il ripetuto impiego di consecutive correlate.
Et perche dissegnamo noi al suo luogo raccontare altri molti essempi de gli effetti causati
dalle imagini profane, per hora staremmo solo in quegli delle pitture sacre & morali,
ricordando prima che scrive S. Gregorio Nisseno, allegato più volte nella settima sinodo, che
l’historia d’Abraham, qua[n]do volse immolare il figliuolo suo Isaac, era stata così vivamente
& pietosamente da un' pittore ritratta, che ogni volta che la mirava, si mutava talmente tutto,
che non potea ritenere le lagrime: vidi, inquit, sæpius inscriptionis imaginem, & sine lacrymis
transire non potui, cum tam efficaciter pictura ob oculos poneret historiam; & soggiungono
quei padri nel concilio, si tanto doctori peperit vtilitatem & lacrymas, quanto magis rudibus
hominibus vtilis erit? narra nella detta sinodo S. Asterio, vescovo di Amasea, d’una pittura
fatta del martirio di S. Eufemia, ove era così bene espressa l’acerbità della passione, & la
grandezza della fortezza sua, che facea muover le lagrime, lacrymas, inquit, fundo, nam tam
exacte sanguinis guttas pictor defluentes depinxerat, vt iuraveris à labijs profluere.
Ora, è da notare come in questo passo, riferendosi ad un dipinto cui noi daremmo subito il
titolo de Il sacrificio di Isacco, Paleotti faccia uso, come abbiamo visto fare ancora Vasari, di
una proposizione temporale introdotta da quando, che funge da 'riassunto' narrativo
dell'episodio biblico raffigurato.
A questo proposito sarà interessante confrontare il passo con uno tratto da un testo quasi
coevo – Il Riposo (1584) del commediografo e poeta fiorentino Raffaello Borghini (1537-
1588).
Nel quale si riporta una discussione tra lo scultore Giambologna (Jean de Boulogne, 1529-
1608) ed alcuni suoi "dotti amici" – Bernardo Vecchietti, proprietario della villa il cui nome è
ricordato nel titolo del volume, Ridolfo Sirigatti, Girolamo Michelozzi, e Baccio Valori, nonché

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lo stesso Borghini – "sul nome più opportuno" da dare ad un suo gruppo in marmo, da allora
(o quasi!) conosciuto come il Ratto delle sabine.
Poiché del Nettuno habbiam discorso à bastanza, disse il Michelozzo, ditene qualcosa M.
Bernardo delle bellissime statue di Giambologna figurate per la rapina delle Sabine, e
digratia dichiaratemi questa istoria, e perche più questa, che altra è stata presa da lui.
Havendo Giambologna, rispose il Vecchietto, nel fare molte figure di bronzo grandi e piccole,
& infiniti modelli, dimostrato quanto egli fosse eccellente nell’arte sua, non potendo alcuni
invidiosi artefici negare che in tai cose egli non fosse rarissimo, confessavano che in far
figurine gratiose e modelli in varie attitudini con una certa vaghezza, egli molto valeva; ma
che nel mettere in opera le figure grandi di marmo, in che consiste la vera scultura, egli non
sarebbe riuscito. Per la qualcosa Giambologna, punto dallo sprone della virtù, si dispose di
mostrare al mondo, che egli non solo sapea fare le statue di marmo ordinarie, ma etiandio
molte insieme e le più difficili, che far si potessero, e dove tutta l’arte in far figure ignude
(dimostrando la manchevole vecchiezza, la robusta gioventù, e la delicatezza feminile) si
conoscesse; così finse, solo per mostrar l’eccellenza dell’arte, e senza proporsi alcuna.
historia, un giovane fiero, che bellissima fanciulla à debil vecchio rapisse, & havendo
condotta quasi a fine questa opera maravigliosa, fú veduta dal Serenissimo Francesco
Medici Gran Duca nostro, & ammirata la sua bellezza, diliberò che in questo luogo, dove or
si vede [la Loggia dei Lanzi in piazza della Signoria], si collocasse. Laonde perché le figure
non uscisser fuore senza alcun nome, procacció Giambologna d’aver qualche invenzione
all’opera sua dicevole, e gli fù detto, non so da cui, che sarebbe stato ben fatto, per seguitar
l’historia del Perseo di Benvenuto, che egli havesse finto per la fanciulla rapita Andromeda
moglie di Perseo, per lo rapitore Fineo zio di lei, e per lo vecchio Cefeo padre d'Andromeda.
Ma essendo un giorno capitato in bottega di Giambologna Raffaello Borghini, & havendo
veduto con suo gran diletto questo bel gruppo di figure, & inteso l'historia, che dovea
significare, mostrò segno di maraviglia; del che accortosi Giambologna, il pregò molto che
sopra ciò gli dicesse il parer suo, il quale gli concluse che à niun modo desse tal nome alle
sue statue; ma che meglio vi si accomoderebbe la rapina delle Sabine; la quale istoria,
essendo stata giudicata à proposito, ha dato nome all’opera.
Per Schlosser il passo – che segnala quale "uno dei documenti più memorabili di
quest'epoca" – è significativo in quanto mette in scena l'"inevitabile contrasto" tra il punto di
vista del letterato e quello dell'artista, in un momento storico in cui:
compare qualcosa di nuovo; la "grande" arte si separa dal mestiere, i suoi rappresentanti
salgono nello strato superiore della società; i "pittori di storie" e i professori di accademie da
un lato, i "decoratori" e gli imbianchini dall'altro divengono i due poli estremi che non hanno
più nulla a comune.
Ma il passo si fa notare anche per l'esplicita designazione dell'espressione indicativa del
proposto soggetto quale nome, da attaccare, quasi fosse una etichetta, all'opera prima che
uscisse dalla bottega dello scultore e e si rendesse fruibili dal pubblico generale.
Nonché per il fatto che, nonostante tale esplicita designazione, nel testo l’espressione
Rapina delle sabine non viene utilizzata quale nome dell'opera, ma semmai quale quello
della "historia":
(si confronti ad es. il seguente brano di una scheda della Galleria degli Uffizi:
Il Ratto delle Sabine è una statua in marmo, forse una delle più famose tra le opere esposte
nella Loggia dei Lanzi. L’autore è Giambologna, nome italianizzato di Jean de Boulogne
(1529 – 1603), scultore fiammingo che lavorò in Italia, soprattutto a Firenze).
E' riduttivo infatti il commento di Schlosser, che con tono di superiorità assimila il punto di
vista di Borghini e gli altri letterati a quello:

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dei profani che rimangono sempre alle porte dell'arte e pretendono un'etichetta perché la
loro fantasia formalmente impotente ha bisogno di un appoggio concreto.
Ed è curioso che sembri mostrarsi ignaro o non curante dello spiraglio epocale che si apre in
questo brano, tanto più che egli assimila esplicitamente tale "etichetta" alle didascalie degli
"editori delle stampe inglesi" (del secolo successivo), che sapevano bene che le loro
dolcissime teste di fanciulle si potevano collocare molto più facilmente col nome sonoro di
un’Evelina o di un’Arabella, che non con quello timido e oggettivo di “studio per una testa”…
e che invece, come si è accennato, sono da considerare un altro, importante sintomo della
genesi del titolo dell'opera d'arte, come ha argomentato Ruth Yeazell:
It is precisely because the history of painting since the Renaissance had tended to divorce
word and image that the titling of reproductive prints made a difference. With a few
exceptions, the images themselves had no inscriptions. Those who wished to multiply and
publish the images supplied them ... The birth of the modern picture title is thus intimately
connected to the history of print.
Yeazell cita infatti il caso dell'incisore tedesco, attivo a Parigi, Jean Georges Wille (1715-
1808), che usava descrivere meticolosamente, in un apposito taccuino, tutti i dipinti che
entravano nel suo atélier, ma anche integrare le stampe che ne traeva di una didascalia,
dalla forma diversa (e più concisa) della descrizione.
The French journal that he started keeping in 1759, a few years after his first great success
with a print after Gerrit Dou, makes clear that the paintings themselves had no titles – at
least none known to Wille before he chose to publish them ... Indeed, the distinction between
describing a painting and titling it is nowhere sharper than in Wille's account, where pictures
typically enter the record under a brief description – or sometimes merely name – only to be
translated into print and accorded a title of his devising. So a "very beautiful" painting by
Gerrit Dou that arrived in Wille's shop on loun from its owner first appears in his journal of
1761 as "an old woman with glasses who reads in a big book," or simply "an old woman who
reads," before it resurfaces on its publication the next year as La liseuse ... selling more than
three hundred copies, Wille notes happily, on the first day.

LEZIONE XVII
TRA PLASTICO E PITTORESCO
Ora, Il Riposo di Borghini – di cui i libri III e IV danno "in brieve sommario le vite degli antichi
e de' moderni scultori e pittori" [Borghini 1584, 248], volte anche ad esporre "il quadro
evolutivo successivo delle arti nella Firenze granducale" – è tra le prime di quelle numerose
produzioni letterarie che dal tardo Cinquecento in avanti si sarebbero occupate di
“completare e/o correggere” la monumentale opera di Vasari.
E, come si evince dal titolo, anche Le vite de' pittori scultori e architetti moderni di Bellori
erano intese quale continuazione delle Vite vasariane.
O pià precisamente quale "versione 'emendata'" di un'altra loro continuazione: Le vite de'
pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa
Urbano VIII nel 1642 (1642) del pittore romano Giovanni Baglione (1573-1643).
Sostiene Giovani Previtali che alla morte di Baglione, nel 1643, questo progetto:
poté assumere la forma concreta di una iniziativa editoriale, pensando di poter stampare la
nuova opera come vera e propria seguito alla riedizione bolognese delle Vite del Vasari
(1647) a cura di Carlo Manolessi ...

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L'opera tuttavia non vide la luce per quasi tre decenni, nel corso dei quali cambiò
radicalmente carattere, giungendo a comprendere "poche biografie selezionate", in
dichiarata polemica con Vasari (come anche con Baglione) per il non essersi limitato ai soli
“buoni pittori che ottenghino alcune parti eminenti, non dico di quella ultima perfezzione che
più in Raffaele s’ammira”.
Rifiutando non solo la preeminenza assoluta assegnata nelle Vite vasariane a Michelangelo
(cui viene preferito, come si è appena potuto constatare, Raffaello) ma anche l’attenzione
quasi esclusiva riservata in esse alla scuola toscana ed in particolare a quella fiorentina,
l'opera di Bellori (nell'unica parte completata dall’autore e pubblicata nel 1672) comprende le
vite di:
Otto artisti italiani, di cui nessuno toscano: i pittori Annibale e Agostino Carracci, Federico
Barocci, Michelangelo da Caravaggio, Domenichino e Giovanni Lanfranco; uno scultore,
Alessandro Algardi; e l'architetto Domenico Fontana;
Tre fiamminghi: i pittori Rubens e van Dyck e lo scultore François Dusquenoy;
E il pittore francese Nicolas Poussin.
Le biografie sono precedute dal testo di un discorso pronunciato da Bellori nel 1664 presso
l'Accademia di San Luca a Rome, dove aveva anche studiato e di cui nel 1671 sarebbe
diventato segretario: L'idea del pittore, dello scultore e dell'architetto scelta dalle bellezze
naturali superiore alla natura.
Stimolato dalla compresenza a Roma, negli anni 1595-1605, dei pittori antagonisti Annibale
Carracci e Michelangelo da Caravaggio, il "pendolo teorico" intorno all'antico principio
dell'imitazione – l'"eterna 'mimesi'", come la chiama Longhi [2014, 27] – "oscilla tra una pura
imitazione del reale, di tradizione aristotelica, e una imitazione selettiva e idealizzante, di
stampo platonico".
Ne L’Idea, sulla scia del Trattato della pittura (1607– 1615) del diplomatico ed arcivescovo
bolognese Giovan Battista Agucchi (1570-1632, Bellori propone un amalgama delle
tradizioni platoniche ed aristoteliche, facendo proprio l'"abilissimo contorcimento teorico" per
il quale:
il filtro classico dell'electio, cioè la selezione del bello naturale, non viene presentato come
un mezzo per raggiungere un bello ideale, ma per svolgere fino in fondo le intenzioni
estetiche della natura stessa.
Bellori fa di questa visione una chiave per l’innalzamento intellettuale di tutta l’arte
figurativa…
Quel sommo ed eterno intelletto autore della natura, nel fabbricare l'opere sue maravigliose,
altamente in se stesso riguardando, costituí le prime forme chiamate idee; in modo che
ciascuna specie espressa fu da quella prima idea, formandosene il mirabile contesto delle
cose create. Ma li celesti corpi sopra la luna non sottoposti a cangiamento, restarono per
sempre belli ed ordinati, qualmente dalle misurate sfere e dallo splendore de gli aspetti loro
veniamo a conoscerli perpetuamente giustissimi e vaghissimi. Al contrario avviene de' corpi
sublunari soggetti alle alterazioni ed alla bruttezza; e sebene la natura intende sempre di
produrre gli effetti suol eccellenti, nulladimeno per l'inequalità della materia si alterano le
forme, e particolarmente l'umana bellezza si confonde, come vediamo nell'infinite deformità
e sproporzioni che sono in noi. Il perché li nobili pittori e scultori quel primo fabbro imitando,
si formano anch'essi nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando,
emendano la natura senza colpa di colore e di lineamento. Questa idea, overo dea della
pittura e della scoltura, aperte le sacre cortine de gl'alti ingegni de i Dedali e de gli Apelli, si
svela a noi e discende sopra i marmi e sopra le tele; originata dalla natura supera l'origine e

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fassi originale dell'arte, misurata dal compasso dell'intelletto, diviene misura della mano, ed
animata dall’immaginativa dà vita all’immagine.
Tale "dea della pittura" – identificata tramite un titulus all'antica, parte integrante
dell'immagine – si riconosce nell’incisione posta in testa al saggio e raffigurante una donna
ignuda che tiene nella sinistra un compasso, le punte rivolte in alto, mentre con la destra
dipinge, lo sguardo rivolto al cielo.
Essa fa parte di una ricca ed articolata "cornice ornamentale", l'esame del quale, suggerisce
Giovanni Previtali, pone in evidenza il rischio di insistere troppo sull'Idea quale "unica chiave
interpretativa dell’intiero discorso critico”: tale cornice mostrerebbe invece” in quale più vasto
contesto di idee il Bellori voleva che fosse inteso (ed in un certo senso diluito) il suo
polemico discorso”.
La cornice consiste in una serie di quarantatre incisioni, di cui dodici riservate ai ritratti ...
cinque a carattere decorativo
(di cui due, con la Pittura ideale e due putti che sorreggono la maschera dell'Imitazione
ripetuta ciascuna cinque volte); due con le misure della statua di Antinoo; nove lettere
capitali ... e quindici allegorie distribuite tra il frontespizio, la dedicatoria, L'Idea, e le dodici
biografie. Sono, naturalmente, queste ultime che ci dicono di piú sulle intenzioni del Bellori e
di chi lo sosteneva. A parte quella del frontespizio ... esse appaiono infatti strettamente
collegate al programma classicistico.
Così "il posto di apertura", nella dedicatoria a Colbert, “è occupata dalla pittura ‘muta
poesia’”; seguita dall’allegoria dell’Idea, “strettamente connessa con una delle vignette
decorative ricorrenti…rappresentante quello che può essere interpretato come il genio della
pittura ideale, e cioè una donna alata che, mentre dipinge, rivolge gli occhi al cielo e lo indica
con la sinistra”.
Le altre dodici allegorie rappresentano:
La Fama Buona (Vita di Annibale Carracci)
MVTA POESIS (Agostino Carracci)
GEOMETRIA (Domenico Fontana)
STVDIO VIGILANTI (Federico Barrocci)
PRAXIS (Michelangelo da Caravaggio)
DANT NOBIS PRÆMIA REGES (Pietro Paolo Rubens)
IMITATIO SAPIENS (Antonio Van Dyck)
CALAMO LIGANTVR EODEM (Francesco Di Quesnoy)
CONCEPTVS IMAGINATIO (Domenico Zampieri)
NATVRA (Giovanni Lanfranco)
TRES SORORES (Alessandro Algardi)
LVMEN ET VMBRA (Nicolò Pussino).
Commenta Previtali:
Come si può osservare a prima vista, la serie delle allegorie non dà l'impressione di essere
legata dalla coerenza di una logica strettamente unitaria; esse sembrano piuttosto trovare
spiegazioni caso per caso in connessione con le caratteristiche dell'artista la cui vita sono
chiamate a decorare.
Quelle che, pur non sfuggendo a questa regola, hanno carattere piú esplicitamente
programmatico, si ricollegano ai due concetti chiave già enunciati della pittura come "muta
poesia" (MVTA POESIS, con allusione all'attività poetica di Agostino) e come scelta ideale
(IMITATIO SAPIENS, che tiene uno specchio e calca col piede la scimmia, simbolo
dell'imitazione pedissequa dei naturalisti fiamminghi e bamboccianti, e CONCEPTVS
IMAGINATIO); a queste si aggiungono altri due temi tradizionali (risalenti cioè almeno a

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Vasari), quello delle "arti sorelle" (TRES SORORES, CALAMO LIGANTVR EODEM, con
allusione, la vite e l'olmo, il pennello e lo scalpello, all'amicizia Duquesnoy Poussin), e quello
dei riconoscimenti ufficiali ottenuti dalle arti "liberali" (DANT NOBIS PRÆMIA REGES) ... Le
altre accennano a parti dell'arte ... in cui l'artista cui si riferisce è particolarmente dotato…
Ma è la struttura interna e propriamente testuale delle biografie che ci deve interessare in
particolar modo.
Previtali distingue cinque "elementi" comuni a tutte le biografie, che sono diversamente
ordinati in ognuna di esse, sebbene il primo posto sia sempre riservato al Proemio e l’ultimo
all'"Aspetto fisico, carattere, detti celebri dell'artista".
Gli altri tre elementi vengono così etichettati da Previtali:
2) Narrativa, 3) Descrizioni, 4) Considerazioni stilistiche
E così commentati:
Gli elementi che abbiamo isolato sono tradizionali (li troviamo tutti in Vasari), ma diversa è
l'accentuazione relativa che essi assumono dalle mani di Bellori nell'economia delle Vite. Per
esempio, relativamente brevi appaiono i proemi, concisa la narrazione e, soprattutto rispetto
a contemporanei quali il Passeri ed il Malvasia, non eccessivamente sviluppata, anche se
piú vasta. Le considerazioni tecnico-stilistiche ... hanno solitamente importanza maggiore di
quanto lo spazio che occupano parrebbe indicare. Ciò che assume, poi, un rilievo anche
quantitativo senza precedenti, al punto da poter essere assunto a elemento caratterizzante
del metodo belloriano, sono le Descrizioni ...
Lo stesso Bellori, infatti, avverte il lettore delle Vite di tale novità:
Mi sono fermato sopra di alcune [opere] con piú particolare osservazione, poiché avendo già
descritto l'immagini di Raffaello nelle camere vaticane [la Descrizzione delle imagini dipinte
de Raffaelle d’Urbino nelle Camere del Palazzo Apostolico Vaticano verrà pubblicata a
Roma nel 1695], nell'impiegarmi dopo a scrivere le vite, fu consiglio di Nicolò Pussino che lo
proseguissi nel modo istesso, e che oltre l'invenzione universale, io sodisfacessi al concetto
e moto di ciascheduna particolar figura, ed all'azzioni che accompagnano gli affetti ...
Dove è chiarissimo l'accenno ad un'altro indizio programmatico, non visivo ma testuale, e
cioè all'epigrafe tratto da Filostrato il Giovane (nato nel 220 ca), nipote dello scrittore
omonimo e autore anch'egli di un'opera ecfrastica dal titolo Εἰκόνες (Immagini), epigrafe che
così inizia (preannunciando tra l’altro la definizione della fantasia pittorica data da Cennini
nel Libro dell’arte):
Colui che vuole rettamente governar l'arte della pittura, bisogna che conosca bene la natura
umana, e che ancora sia atto ad esprimere i segni de' costumi di coloro anco che tacciono, e
quello che si contiene nella costituzione delle guancie, nel temperamento de gli occhi, nella
naturalezza delle ciglia; e per dirla in breve, tutte quelle cose che appartengono all'animo ed
al pensiero. Chi possiede sufficientemente queste cose otterrà il tutto, e la mano
rappresenterà esquisitamente l'atto di ciascuno: se occorra che sia furioso, overo adirato, o
pensieroso, o allegro, o incitato, overo amante; ed in una parola, dipingerà quello che è
proporzionato a ciascuno. Anche in ciò dolce è l'inganno, non apportando vergogna alcuna;
imperoché il rimanersi a quelle cose che non sono come se fossero, ed esser da loro indotto
a creder che sieno, come non è bastante a dilettare?
Ora, la novità del "metodo" critico di Bellori evidenziato da Previtali assume un significato
ancor maggiore se guardiamo non tanto al relativo 'peso' quantitativo riservato alle
"Descrizioni" all'interno delle biografie, quanto al modo in cui, anche al livello tipografico,
viene dato loro risalto.
Bellori infatti separa le parti delle biografie che sono dedicate all'"osservazione" di singole
opere, anteponendo ad ognuna un 'titoletto' conciso riferito all'opera in questione e che così,

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oltre a segnalare che si tratta di una parte distinta del testo, con un argomento proprio,
relativamente all'opera in esame assume qualcosa del carattere delle didascalie che
saranno sottoposte alle stampe di traduzione del XVIII secolo.
Vediamo ad esempio la Vita di Poussin.
Qui, dopo un proemio davvero breve (nonché retorico e del tutto privo di quelle
considerazioni etiche generali che caratterizzano quelli delle Vite vasariane).
Quando nell'Italia ed in Roma piú fiorivano le belle arti del disegno nello studio di chiarissimi
ed eccellentissimi artefici, e la pittura principalmente, quasi in sua stagione, era feconda
d'opere e d'ingegni; perché ella da ogni parte restasse gloriosa, le Grazie amiche arrisero
verso la Francia, la quale, d'armi e di lettere inclita e fiorentissima, si rese anche illustre nella
fama del pennello, contrastando con l'Italia il nome e la lode di Nicolò Pussino, di cui l'una fu
madre felice, l'altra maestra e patria seconda. Discese Nicolò dalla nobile famiglia de'
Pussini in Piccardia ...
La progressione narrativa e propriamente biografica viene interrotta da quattro brani dedicati
rispettivamente a (e si riportano qui i ‘titoletti’ ad essi anteposti).
• Martirio di Santo Erasmo [1628-1629, Musei Vaticani]
• Il morbo de gli Azotii [Peste di Azoth, 1630, Parigi, Louvre]
• Li sette sagramenti [la prima serie, 1637-1640, di cui uno, la Penitenza, distrutta in un
incendio nel 1816 e gli altri divisi tra Washington, Cambridge, Fort Worth, nel Texas, e
Belvoir Castle, nel Regno Unito]
L'acqua nel deserto [Mosè che fa sgorgare l'acqua dalla roccia o Il colpo della roccia, 1633-
1635, Edimburgo, National Gallery of Scotland]
L’Estrema Unzione [dalla seconda serie dei Sacramenti, 1644-1648, Edimburgo, National
Gallery of Scotland]
E la biografia viene seguita da simili "Descrizioni", ciascuna a sé stante, di altre 28 opere del
pittore.
Leggiamo a titolo esemplificativo i brani dedicati a due dei Sagramenti.
3 Segue l'Eucaristia, con gli Apostoli nel cenacolo collocati sopra i letti all'uso antico: Cristo
in mezzo di loro con una mano tiene il pane sopra il calice e con l'altra benedice, restando
gli Apostoli attoniti e riverenti alle parole divine. Trovansi in quest'opera tre lumi artificiosi:
due derivano da una lucerna appesa in alto, con due lucignoli che illuminano avanti tutte le
figure; il terzo si aggiunge da una candela situata a basso sopra uno scanno, dupplicandosi
e triplicandosi i raggi e l'ombre, che si tagliano insieme con angoli maggiori e minori piú e
meno apparenti, conforme le distanze, come si vede nello scanno stesso e nel piede del
letto, dove posano gli Apostoli incontro il lume.
5 Succede l'Estrema Unzione, espressovi l'infermo disteso in letto col petto estenuato e
smorto, raccogliendo una mano al seno. Dietro, la madre gli regge il capo, e di fianco vi è il
sacerdote che l'unge e lo segna sopra un occhio; e questa figura è bellissima nella
operazione, veduta in profilo in un pallio di color giallo, illuminata per di sopra da una
fenestra che manda il lume nella camera. Evvi di rincontro un giovine avvolto in un manto
rosso con torcia in mano; ma vivissima è la passione de' congiunti che attorniano il
moribondo. La moglie assisa a piedi il letto si appoggia piangendo con la mano al volto;
volgesi dietro la figliuola con le mani giunte, pregando per la salute del padre; e nella
contraria sponda del letto succede un uomo velato col mantello in capo, che stende il
braccio indietro e porge un vaso ad un servo, senza levar gli occhi dall'infermo, e si volge
appresso un'altra donna dolente con le mani incrocicchiate: sí che piena di senso è
l'azzione.

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Dove si arriva ad esplicare il "concetto e moto" delle figure e soprattutto il "senso" appunto
delle "azzioni che accompagnano gli affetti" attraverso la metodica e progressiva mappatura
descrittiva della scena in cui sono inserite – articolando quindi i loro reciproci rapporti
spaziali all'interno di essa.
Le singole figure sono introdotte via via, in riferimento o alla scena stessa – tramite la
preposizione con (Segue l'Eucaristia, con gli Apostoli nel cenacolo) o la particella vi
(Succede l'Estrema Unzione, espressovi l'infermo disteso in letto) – o alle altre figure, o
ancora a quegli oggetti, ad es. i letti, sui quali s'impernia la descrizione.
Di queste figure vengono indicati, attraverso una serie di predicazioni d’azione finite e non
finite, i gesti (tra cui il reggere e passare vari oggetti), nonché, tramite relative participiali e
frasi preposizionali introdotte da con, in e sopra le posture e le vesti (collocati sopra i letti;
con le mani giunte; in un pallio di color giallo; avvolto in un manto).
Ma interessa in particolare a Bellori indicare quegli atteggiamenti delle figure che sono
espressivi degli stati emotivi e che sono comunicati nel testo attraverso elementi predicativi
non-finiti: participi e gerundi (dolente, piangendo).
Infatti, le uniche due predicazioni individuative esplicite – che si trovano tutte e due nel brano
dedicato all'Estrema unzione – sono riferite, l’una alla figura del sacerdote, valutata quale
"bellissima nella operazione" che svolge, e l’altra, più astrattamente e programmaticamente
alla "passione de' congiunti che attorniano il moribondo", passione caratterizzata quale
"vivissima" (è una caratterizzazione esplicita, inoltre, che dà l'avvio alle caratterizzazioni
indirette di tali congiunti che nel seguito del testo servono a giustificare quella esplicita).
Nel brano sulla Eucarestia, infine, è da notare come, oltre alle figure e agli oggetti
'accessori', siano introdotti, quali presenti in vari punti della scena, i tre lumi, così
permettendo la descrizione indiretta della geometria dei raggi intersecanti (tale da ricordare
proprio le figure e forme geometriche presenti nell'allegoria incisa della LVMEN ET VMBRA
posta in testa a questa Vita).
Veniamo ora alla figura – Marco Boschini – e alla corrente critica contrapposta da Venturi a
quella belloriana – e non solo da Venturi.
Anche da Longhi ad es. gli scritti di Boschini – "il più grande fra i critici del Seicento –
vengono contrapposti a quelli di Bellori e di André Félibien (1619-1695; autore anch'egli di
una raccolta di vite, gli Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellents
peintres anciens et modernes pubblicati in cinque parti tra 1666 e 1688, nonché di un
volume di conferenze tenute davanti all'Académie royale de peinture et de sculpture, 1668).
I quali (Bellori e Félibien) e i "loro adepti" avrebbero secondo Longhi "oppresso e spregiato
tutti i grandi rivoluzionari fondatori della pittura moderna, Caravaggio, Rembrandt,
Velasquez", in nome dei "sacchi sfiatati della vecchia idea platonica, ora alleatasi al
razionalismo cartesiano, i pregi del decoro, dell'invenzione che porta alla pittura a
programma letterario, della composizione in astratto, e simili!”.
Ma chi era Boschini?
Formatosi quale pittore nella bottega di Palma il giovane (1549-1628) e quale incisore sotto
Odoardo Fialetti (1573-1637 o 1638), è noto soprattutto quale autore della Carta del navigar
pitoresco (1660), scritta in versi e (" [m]anco a dirlo" [Longhi 2014, 36]) in dialetto veneziano.
Per Schlosser La carta è "una significantissima testimonianza del suo tempo e del suo
ambiente" e:
in sostanza una guida rimata attraverso le maggiori cose d'arte di Venezia, che si svolge in
un lungo dialogo tra l'"Eccellenza" di un senatore veneziano amatore d'arte e il suo
"Compare", un pittore, lo stesso Boschini. ll primo capitolo contiene un'introduzione
generale, molto importante specialmente per i giudizi artistici, e per le notizie sui grandi

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pittori del Seicento che tendevano verso questa alta scuola di pittura (Velazquez, Rubens,
ecc.). Negli altri capitoli il compare conduce il suo protettore attraverso i luoghi dove si
spiega nelle sue opere piú significative la moderna arte veneziana, cominciando con le
opere del Tintoretto in San Rocco.
Di cui un assaggio nel commento di Longhi:
"Là in alto quella niola batimenta" è il primo dei versi delicati che ci danno la perfetta
trasposizione della pala di Tiziano alla Salute. Tanti altri bellissimi, e sempre in strenua
polemica col disegno di Toscana, chiariscono i vibrati cromatismi della pittura di Jacopo
Bassano: "tuta de colpi e tuta de dotrina – ne ghe un contorno, un'ombra, un segno, un
trato"; oppure: "quei colpi, quele machie e quele bote – che stimo preciose piere fine"; o
ancora, il formidabile distico, grave come in un inno sacro del Manzoni, che chiude il passo
sul "San Pietro Martire" di Tiziano: "Gloria, Tiziano, San Marco in trono, Venezia, S. Maria
del la Salute divinità, teror, delito – e in sito natural che fuze e teme”. Tratti da girare agli
storici della poesia.
Alla Carta seguirono Le minere della pittura (1664), di cui una seconda edizione ampliata
uscì dieci anni dopo sotto il titolo ritoccato de Le ricche miniere della pittura veneziana.
E che esternò del resto quella convinzione riguardo alla "unica perfezione delle pittura
veneziana, rappresentata soprattutto da Tiziano da Tintoretto e da Paolo Veronese" che per
Boschini, secondo Venturi, era "assioma".
Secondo Venturi, nelle due figure di Bellori e di Boschini – nell'opposizione tra Idea
classicistica e "pittoresco", il linguaggio proprio della pittura, per il quale "L'opera da per sì
parla, e rasona" [Boschini 1660, 47] – "noi possiamo cogliere l'antonomia del plastico e del
pittorico nel modo più netto possibile" [Venturi 1964, 141].
E Venturi cita a proposito un passo sul disegno tratto da quella Breve istruzione per
intendere in qualche modo le maniere degli autori veneziani che Boschini prepone alla
porzione delle Ricche miniere che funge anch'essa da guida ("la prima vera guida artistica di
Venezia").
Venturi dà una parafrasi dell’inizio del passo, ma conviene leggerlo nell’originale, anche per
comprendere meglio come si articola la polemica del veneziano contro “il disegno di
Toscana”.
Dico adunque, che il Dissegno è la base, & il fondamento principale della fabrica [della
pittura], e come la fabrica senza fondamento non può sussistere, così la Pittura senza
Dissegno è una mole, che non può reggersi. Alcuni credono, che il Dissegno consista
solamente ne i lineamenti ... ma io dico, che i lineamenti sono ben sì, necessarij al
Dissegno, ma bisogno valersene come fà lo Scrittore della falsa riga, che sino che scrive, se
ne vale; ma doppo haver scritto, la getta da parte: poiche la Pittura vuole essere
rappresentata, tenera, pastosa, e senza terminazione, come il naturale dimostra. E se così
havessero fatto quei Pittori antichi, doppo smarrita la buona Arte, le cose loro non sarebbero
riuscite così secche, dure, e taglienti. Questi lineamenti si possono anco paragonare allo
Scheletro del corpo humano, che deve coprirsi di carne per essere perfetto: e questo è uno
de capi più importãti del Dissegno: poiche il Pittore sopra quei lineamenti deve con il
chiar'oscuro far rillevare le parti carnose. E per meglio esprimermi, darò questo esempio:
Chi vuol formar una palla rotonda certo bisogna con il compasso formar un Circolo; ma non
basta: poiche mancando l'ombre, i chiari, e meze tinte, quel lineamento, quel giro, ò quel
circolo non potrebbe mai dirsi un globo, ò una palla, ma un semplice circolo matematico: di
maniera che fà bisogno con l'artificio del chiar'oscuro, far che tondeggi in ogni sua parte: e
ciò al colpo del pennello s'aspetta nel colorire artificiosamente il Naturale.
Continua a commentare il passo Venturi:

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E [Boschini] conclude: "il pittore forma senza forma, anzi con forma difforme la vera formalità
in apparenza, ricercando cosí l'arte pittoresca". Poiché questa è forse la migliore definizione
che sia mai stata data della forma pittorica, conviene fermarvisi e spiegarla in altre parole.
La forma pittorica non è la forma plastica, anzi ne è una deformazione, con l'intento di
trovare una nuova forma, che sia soltanto l'apparenza delle cose, nel che consiste l'arte
pittorica. È un programma che Manet o Renoir avrebbero potuto accettare, se l'avessero
conosciuto.
Concludiamo la lezione leggendo parte della vita di Giorgione inserita da Boschini nella
Breve istruzione, anche alla luce delle riflessioni già svolte sulle Vite di Bellori ed in
particolare sul ruolo in esse svolte dalle "Descrizioni" di singoli dipinti.
Giorgione da Castel Franco fu discepolo di Gio: Bellino, e fu d'ingegno così sottile, che
penetrò anco più oltre del Maestro nelle viscere della Pittura; a segno, che le tolse quel velo
che ancora la teneva un poco (per così dire) offuscata; e ben si può credere che Giorgione
sia stato nella Pittura un'altro Gio: Custhembergo [Johannes Gutenberg] inventore de
Caratteri di Stampe, facilitando la manuscrizione, tanto faticata, e lunga; riuscendo
all'incontro le cose sua ben composte, pronte, rissolute, e ben aggiustate. E veramente se
Gio: Bellino ... levò la Pittura dalle tenebre, e [sic] Giorgione le hà posto in fronte un
Diamante così purgato, e risplendente, che abbaglia la vista à chiunque la mira: poiche
sopra la aggiustatezza della Simmetria, aggiunse la grazia, e la perfezione. Nel colorito trovò
poi quell'impasto di pennello così morbido, che nel tempo addietro non fù; e bisogna
confessare, che quelle sue pennellate sono tanta carne mista col sangue: ma con maniera
così pastosa, e facile, che più non può dirsi finzione pittoresca, ma verità naturale: perche ne
sfumar de dintorni (che anco il Naturale si abbaglia) nel collocar chiari, e meze tinte, nel
rosseggiar, abbasar, & accrescer di macchie, fece un'armonia così simpatica, e veridica, che
bisogna chiamar la Natura dipinta, ò naturalizata la Pittura ...
Ma osserviamo di grazia con la contemplazione una sola sua opera, e da quella facciamo il
riflesso di tutte le altre sue. Vedevasi in Venezia e lo vidi anch'io, un quadro, che fù poi
trasportato nella Galleria del Serenissimo Arciduca Leopoldo Guglielmo d'Austria. L'Historia
è questa. Celio è assalito da Claudio, afferrato da lui con la sinistra nel capezzo, tiene la
destra sopra il pugnale al fianco: e chi non vede la simplicità di quel giovinetto spaventato
dal timore, non sa cosa sia afflizione d'animo, ne spavento di Morte: affetto vivamente
espresso, benche si vegga semivivo l'assalito, all'incontro Claudio cosi rigido, cosi crudele,
cosi furioso, che rende terrore alle stesse Furie. Due oppositi affetti che formano un concetto
pittoresco, che più non può far l'Arte. Giorgione tu hai animate le tele con la verga incantata
del tuo pennello. L'Armatura poi, che tiene in dosso Claudio si può dire che sia del più fino
acciaio, che possi ressister à colpo di Moschetto: acciaio cosi ben tempestato col pennello di
Giorgione che ne meno qual sia altro pennello lo può colpire. Questa è la maniera di
Giorgione ...
Il carattere straordinario ed innovativo della pittura di Giorgione viene reso attraverso
l’identificazione quale secondo Gutenberg: la resa pittorica del veneziano, di una 'facilità'
senza precedenti, risulta equivalente alla facilità di trascrizione testuale permessa
dall’invenzione della stampa.
Il paragone implicito viene giustificato attraverso la valutazione e la caratterizzazione delle
opere di Giorgione quali ben composte, pronte, rissolute, e ben aggiustate e poi attraverso il
confronto valutativo del pittore con il precursore Giovanni Bellini (confronto che ripropone in
chiave veneziana quello tra Giotto e Cimabue, fondante nella traduzione fiorentina) in termini
dei benefici ed onori resi da entrambi alla Pittura – ed in particolare in termini delle supreme

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qualità integrative conferite da Giorgione alla sua 'persona': sopra la aggiustatezza della
Simmetria, aggiunse la grazia, e la perfezione.
Quale ambito d’eccellenza di Giorgione viene individuato il colorito, che però viene inteso
non in senso strettamente cromatico, ma in riferimento a quell’impasto di pennello che
trasforma i colori in valori tonali.
L’impasto giorgionesco viene reso tramite la caratterizzazione delle pennellate (tanta carne
mista col sangue) e della loro maniera (pastosa, e facile) e tramite l’individuazione sempre
caratterizzante dell’esito delle procedure pittoriche (collocar chiari, e meze tinte ...
rosseggiar, abbasar, & accrescer di macchie) quale armonia ... simpatica e veridica.
Ad ogni passo poi l’utilizzo di consecutive correlate sottolinea l’effetto strabiliante sullo
spettatore della pittura di Giorgione.
Nel secondo capoverso, dedicato ad una sola sua opera, si può notare come, rispetto alle
"Descrizioni" belloriane, la mappatura descrittiva della scena – dei rapporti spaziali tra i
personaggi – è ridotta all'essenziale (Celio è assalito da Claudio, afferrato da lui con la
sinistra nel capezzo, tiene la destra sopra il pugnale al fianco) e si punta diritti agli oppositi
affetti dai personaggi manifestati.
Si punta alla fine poi, e soprattutto, all'armatura, la cui resa pittorica evidentemente va intesa
quale esempio concreto del già citato impasto di pennello, tale che nel resoconto verbale la
sua finta inattaccabilità materiale si permuta in inarrivabile eccezionalità artistica.

LEZIONE XVIII
DESCRIPTIONS E RESOCONTI
In questa lezione, l'ultima del corso, ci occuperemo di cinque autori, quattro dei quali vissuti
tra il Sei- e il Settecento, di cui due francesi:
Roger de Piles (1635-1709).
Denis Diderot (1713-1784).
E due inglesi:
• Jonathan Richardson (1665-1745), chiamato "the Elder" per distinguerlo dal figlio Jonathan
(1694-1771).
• John Williams (1761–1818), che pubblicava sotto lo pseudonimo Anthony Pasquin.
Mentre il quinto autore, come anticipato, sarà l'americano Jerry Saltz, attuale critico d’arte
della rivista New York.
Abbiamo visto nella XVI lezione come Venturi abbia riconosciuto nella figura di Roger De
Piles l’iniziatore di una corrente di critica francese e nella fattispecie parigina, anche se
"partita da Venezia, per opera principalmente del Boschini", ccontrapponendola a quella
belloriana, in quanto si fondava non sull’Idea di derivazione platonica ma "sulla sensibilità
pittorica".
Ma De Piles chi era?
Nato a Clamecy (Nièvre) nel 1635, studiò filosofia e teologia a Parigi, formandosi anche
quale pittore con il francescano recolletto Claude François, noto come Frère Luc (1614-
1685).
Nel 1662 divenne tutore di Michel Amelot de Gournay; e nel 1673 i due fecero un lungo
soggiorno a Roma, ospiti a palazzo Farnese del duca d’Estrées, ambasaciatore francese
alla Santa Sede, e del fratello cardinale.

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Nel 1682 Amelot, nominato ambasciatore a Venezia, incaricò De Piles del ruolo di segretario
d’ambasciata, nella quale capacità avrebbe poi seguito il vecchio allievo a Lisbona nel 1685
e in Svizzera nel 1689.
Nel 1692, durante la Guerra della Grande Alleanza, De Piles intraprese in incognito una
missione diplomatica in Olanda, con l’obiettivo di promuovere la pace, ma fu scoperto ed
arrestato, rimanendovi imprigionato per cinque anni.
In questo periodo De Piles scrisse la principale tra le sue fortunate opere d'argomento
artistico: Abregé de la vie des peintres (1699; ulteriori edizioni nel 1715 e nel 1767).
Si tratta di una raccolta di vite di pittori che spazia dall’antichità classica sino al Seicento
francese, in cui le biografie degli artisti più importanti sono accompagnate da estese
reflexions sulle loro opere e l’intera serie è preceduta da un ampio trattato sulla pittura e sui
principi della connoissance: L’idée du peintre parfait.
Precedentemente però De Piles aveva tradotto e commentato il trattato in versi latini De arte
graphica del pittore Charles Alphonse Du Fresnoy (L’art de peinture, 1668); cui aveva
aggiunto una sintesi delle opinioni (sentimens) dell’autore sulle opere dei principali pittori
italiani e fiamminghi dal Quattrocento in avanti.
Il commento di De Piles e i sentimens di Du Fresnoy sarebbero stati tradotti in inglese,
insieme al trattato, dal poeta John Dryden nel 1695.
Alla 2a edizione dell’Art de peinture (1673) De Piles appese un Dialogue sur le coloris
(Dialogo sulla colorazione – ma il termine era un calco del termine antico colorito).
Sebbene non firmato (come del resto l’Art de peinture) il Dialogue confermò la posizione di
De Piles quale capofila dei rubénistes, sostenitori della preminenza, tra le tre parti della
pittura riconosciute ad es. da Dolce (vedi XIV Lezione), appunto del colorito, e che si
opponevano ai poussinistes, fautori invece del disegno.
Si tratta della cosiddetta querelle du coloris che agitava l'Académie royale sin dal giugno del
1671, quando, in una conferenza su un dipinto di Tiziano, Philippe de Champaigne (1602-
1674) aveva ammonito che prediligere l’éclat extérieur (‘splendore esteriore’) del colore era
come lasciarsi abbagliare da un bel corpo senza pensare a quanto l’avrebbe dovuto
animare: quell’âme e quell’esprit che solo la disciplina intellettuale del disegno sapeva
restituire.
A Champaigne aveva risposto Gabriel Blanchard (1630- 1704), in una Conférence sur le
mérite de la couleur di qualche mese dopo, che proprio l’uso del colore era ciò che
distingueva la pittura dalle altre arti, e che, nel rispetto dei grandi pittori veneziani e lombardi,
di Rubens e finanche di Poussin, ma soprattutto di se stessi, gli Accademici avrebbero
dovuto desistere dal 'fare il processo' al colore.
Il Dialogue di De Piles immagina una conversazione avvenuta tra due amateurs appena
usciti dalla terza delle conférences accademiche dedicate all’argomento – corrispondente
alla seduta del 9 gennaio 1672, in cui il nipote di Champaigne, Jean-Baptiste (1631-1681) e
lo stesso direttore dell'Académie Charles Le Brun (1619- 1690) avevano entrambi
pronunciato dei discorsi a favore del disegno.
Si è soliti identificare la risoluzione dell’annosa querelle con la nomina nel 1699 dell’amateur
De Piles quale Conseiller Honoraire presso l’Académie.
Del Dialogue scrive Venturi:
Circa gli elementi dell'arte, la trattazione del colorito è la sola nuova, rispetto alla tradizione
francese. Roger de Piles s'ispira a Boschini, persino nelle parole. E aggiunge che se il
disegno precede il colore nella pittura, ciò non vuol dire che sia più importante, è invece
materia che deve ricevere dal colore la sua perfezione, e la sua forma essenziale. I valeurs
dei colori (toni) non riproducono le tinte delle cose, ma fanno in modo che sembrino averle.

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E cita il motto di Rembrandt, che egli era non un tintore, ma un pittore. Contro coloro che si
occupano dell'invenzione, come di un puro effetto dell'immaginazione, egli oppone che i
migliori pittori guardano a Giorgione, a Tiziano, al Veronese, come agli esemplari piú perfetti.
Rubens fu per il De Piles ciò che Michelangelo fu per il Vasari, e Raffaello e Annibale
Carracci per il Bellori, cioè l'inviato dal cielo. Egli lo collega con la pittura veneziana, e trova
che ha piú facilità di Tiziano, piú purezza e piú scienza del Veronese, piú maestà, calma e
moderazione del Tintoretto.
La predilezione per Rubens si vede anche dal posto cospicuo da questi occupato in tutta la
produzione successiva di De Piles, dalle Conversations sur la connaissance de la peinture
(1677), che comprende un Abregé de la vie de Rubens, ripubblicata nella Dissertation sur
les ouvrages des plus fameux peintres (1681), al Cours de peinture par principes (1708), in
cui viene pubblicato anche un trattato del pittore fiammingo: De imitatione antiquarum
statuarum.
Ma prima di leggere due brani di De Piles dedicati proprio a dipinti di Rubens, occorre
specificare che andranno qui considerati non tanto quali rappresentativi di una concezione
della pittura opposta a quella "classicistica" e (nel senso più appropriato del termine)
accademica, quanto sintomatici, alla stregua delle "Descrizioni" di Bellori, di una sempre
maggiore consapevolezza del carattere individuale delle opere d'arte e della conseguente
'emancipazione' del momento individuativo nei testi che se ne occupavano.
Abbiamo infatti visto come, nelle Vite di Bellori, all'interno di un testo dalla tipologia
prevalentemente narrativa, venissero isolati dei brani dedicati a singole opere, e come
questa loro funzione fosse segnalata dall'impiego di titoletti interni, da annoverare pertanto
tra i vari 'prototipi' del titolo dell'opera d'arte in senso moderno.
Assistiamo a qualcosa di analogo nei testi di De Piles – e proprio a proposito dei molti e più
volte ripubblicati resoconti critici di quadri di Rubens, specie della collezione di Armand Jean
de Vignerot du Plessis, secondo duca di Richelieu (1629-1715).
Inseriti all'interno dei finti dialoghi riportati nelle Conversations sur la connaissance de la
peinture (1677), li ritroviamo quali descriptions de tableax a se stanti pubblicate in serie nel
Cabinet de Monseigneur le duc de Richelieu (1676) e nella Dissertation (1681).
Si tratta di descriptions ognuna delle quali viene preceduta, proprio come in Bellori, da un
titoletto (che nel primo dei due brani che seguono sembra anticipare con ancor maggiore
precisione le didascalie delle stampe di traduzione settecentesche).
“La Resveuse”
C'est une jeune fille, dont l'attitude est d'une personne fort occupée interieurement. Elle est
assise, les genoux croisez, les mains sans action, dont l'une est posée negligemment sur la
cuisse, & l'autre à moitié fermée semble soûtenir sa teste qui est un peu baissée, & qui
regarde en bas sans rien regarder, à la maniere de ceux qui resvent. Cette figure est la plus
belle, la plus noble & la plus gratieuse qu'on puisse voir: d'un Dessein correct, d'un coloris
admirable.
Ce Tableau a cinq pieds & demi de haut, & trois pieds & demi de large: la figure en est
grande comme Nature.
“La Sognatrice”
Si tratta di una giovane ragazza, il cui atteggiamento è quello di una persona molto
preoccupata interiormente. È seduta, con le ginocchia incrociate, le mani ferme, una delle
quali è appoggiata con negligenza sulla coscia, e l'altra, mezza chiusa, sembra sostenere la
testa un poco abbassata, che guarda in basso senza nulla guardare, alla maniera di chi
sogna. Questa figura è la più bella, la più nobile e la più graziosa che si possa vedere: di un
disegno corretto e di un colorito ammirevole.

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Questo dipinto è alto cinque piede e mezzo, ed è largo tre piedi e mezzo. La figura è di
grandezza naturale.
Il brano è diviso in due parti, la prima delle quali è incentrata nella raffigurazione della
ragazza ed è giocata tra la caratterizzazione:
L'attitude est d'une personne fort occupée interieurement ... qui regarde en bas sans rien
regarder, à la maniére de ceux qui resvent.
E la descrizione:
Elle est assise, les genoux croisez, les mains sans action, dont l'une est posée
negligieusement sur la cuisse ecc.
Nella seconda parte invece subentra la valutazione, di concerto con la caratterizzazione,
prima della figura della ragazza:
La plus belle, la plus noble & la plus gracieuse qu’on puisse voir.
E poi del quadro nel suo insieme, considerato da un punto di vista esecutivo:
D’un Dessein correct, d’un coloris admirable.
“Susanna e i due vecchioni”
Susanna, che è la figura principale di questo quadro, è seduta vicino ad una fonte. Stringe le
braccia incrociate al petto, piega il corpo in avanti e volge il viso verso i vecchioni che la
sorprendono, e che tuttavia sono separati da lei da un balaustro. Il nostro pittore, che cerca
sempre di compiacere agli occhi per mezzo della diversità, ne lascia apparire, con molta
arguzia, nella raffigurazione di tali vecchioni: nell’uno la passione è sostenuta dalla forza del
proprio corpo; mentre l'altro ne possiede soltanto nel pensiero. Il primo, pieno di vigore con il
volto infuocato come quello di un satiro, scavalca incurante il balaustro, seguendo l'ardore
del proprio temperamento. L'altro, uomo pallido e rotto dall'età, sta appoggiato al ramo di un
albero e guarda con avidità l'oggetto di quel desiderio che non è più in grado di soddisfare.
C’è un’unione ammirevole in questo quadro, e il corpo della Susanna mostra una accurata
ricerca di colore e una grande intelligenza di luce.
Il brano si divide in tre parti, dedicate rispettivamente a Susanna, ai due vecchi e al quadro
nel suo insieme.
Nella prima predomina la descrizione; nella seconda la caratterizzazione, sia dei personaggi
raffigurati che del pittore, della cui abituale 'ricerca' pittorica (ricerca della diversité, della
diversità nel senso di varietà) essi vengono presentati a titolo d’esempio.
Nella terza parte, dedicata all'immagine quale saggio di pittura, la raffigurazione del corpo di
Susanna viene valutata secondo criteri che riguardano specificatamente gli aspetti cromatici
e chiaroscurali.
Rispetto alle "Descrizioni" belloriane le descriptions di De Piles non solo restituiscono le
opere nella propria individualità ma le restituiscono quali oggetti che si sottopongono,
singolarmente, al giudizio dello spettatore, nella veste dell’amateur o connaisseur.
De Piles infatti si rivolge a quel "pubblico" scelto di amatori della pittura, come anche della
letteratura, cui pochi anni dopo lo storico, diplomatico e teorico della poesia e della pittura,
l’abate Jean-Baptiste Dubos riconoscerà quale tratto distintivo "ce discernement qu’on
appelle goût de comparaison" ('quela capacità di discernere che si chiama gusto del
confronto’).
Discernement che gli scritti di De Piles – molto apprezzato e consultato anche quale
'esperto' – contribuiranno infatti a formare, anche a livello pratico, come attesta la sua
celebre Balance des peintres, così presentata e spiegata ai lettori del Cours (dove sarebbe
da notare l’aggiunta alle consuete tre parti della Pittura quella dell’Expression):
“La Bilancia dei Pittori”
…Ecco l'uso che faccio della mia bilancia.

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Suddivido la mia misura di peso in venti gradi, di cui il ventesimo è il più alto, e lo attribuisco
alla sovrana perfezione che noi non conosciamo in tutta la sua estensione. Il diciannovesimo
corrisponde al più alto grado di perfezione che conosciamo, al quale tuttavia nessuno sino
ad ora è arrivato. E il diciottesimo è per coloro che, a nostro giudizio, si sono avvicinati di più
alla perfezione; così come le cifre più basse sono per coloro che sembrano stare più lontani
da essa.
Ho sottoposto a giudizio solo i pittori più noti, e ho diviso la pittura in quattro colonne, come
nelle sue parti più essenziali, cioè Composizione, Disegno, Colorazione [Colorito] ed
Espressione. Ciò che intendo con la parola Espressione, non è il carattere di ogni oggetto,
ma il pensiero del cuore umano. Si vedrà dall'ordine di questa divisione a quale grado
assegno ogni pittore il cui nome corrisponde alla cifra riportata in ciascuna colonna.
Si sarebbero potuti includere tra i pittori più famosi diversi fiamminghi, i quali hanno
rappresentato la verità della natura con estrema fedeltà e che hanno mostrato grande
intelligenza di Colorazione, ma, poiché erano dotati di cattivo gusto nelle altre parti, si è
creduto fosse meglio formarne una classe a parte.
Ora, poiché le parti essenziali della pittura sono composte a loro volta da diverse altre parti,
le quali i singoli pittori non sempre possiedono nella stessa misura, è ragionevole
compensare l'una con l'altra per arrivare a fare un giudizio equo. La Composizione, ad
esempio, comprende due parti, ossia l'Invenzione e la Disposizione. È certo che si possa
essere capaci di inventare tutti gli oggetti necessari per fare una buona composizione senza
però sapere come disporli al meglio così da ottenere un grande effetto. Nel disegno c'è il
Gusto e la Correttezza; e l'uno può trovarsi in un dipinto senza essere accompagnato
dall'altro, o possono essere abbinati ma in diversa misura; e così dalla compensazione che
è necessario farne, si può giudicare quanto vale l'insieme.
D’altra parte, non ho una stima così altra delle mie opinioni da pensare che che non
verranno severamente criticate. Avverto tuttavia che per criticare con giudizio occorre avere
una perfetta conoscenza di tutte le parti che compongono l'opera e delle ragioni che la
rendono valido quale insieme. Molti infatti giudicano un quadro solo per la parte che a loro
piace, e non contano per niente quelle che non conoscono o che a loro non piacciono.
E De Piles riporta i 'voti' assegnati a ciascun pittore in una tabella sinottica.
Epigono, come si è detto, di De Piles fu il ritrattista e collezionista inglese Jonathan
Richardson, che nei suoi saggi sull'Art of Criticism – ed è forse la prima attestazione del
termine criticism riferita all'arte – e sulla Science of a Connoisseur (1719) si rivolse in modo
particolare ai nobili e ai gentiluomini del proprio paese, con l’intento di trasmutarli in "Lovers
of Painting, and Connoisseurs" ed in tal modo di promuovere quella scuola di pittura
nazionale che ancora stentava di affermarsi.
Come già appunto De Piles [1699], Richardson divise la "scienza" del conoscitore in tre
ambiti operativi:
• il saper valutare la qualità o relativa Goodness (bontà) di un’opera.
• il saper distinguere tra loro le mani dei diversi artisti.
il saper distinguere le copie dalle opere originali.
Persuaso che le opinioni andassero formate non appellandosi a tradizioni o ad opinioni altrui
(fossero pure autorevoli) ma tramite l‘osservazione diretta e l’uso della ragione [Gibson
Wood 1982, 102-103], Richardson – come già De Piles e come anche Dubos – riconobbe
nel confronto uno strumento essenziale per assicurare alla Connoissance un grado di
certezza non inferiore a quello raggiunto da qualunque altra scienza.
Riguardo ad es. alla Goodness Richardson affermò:
...Rules may be establish’d so clearly derived from Reason as to be Incontestable

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The Rules being Fix’d, and Certain; Whether a Picture, or Drawing has the Properties
required is easily seen, and when they are discover’d a Man is as certain he sees what he
thinks he sees as in any other Case where his own Senses convey the Evidence to his
Understanding.
And by being accustomed to See and Observe the Best Pictures a Man may judge in what
Degree these Excellencies are in That under consideration; for all things must be judg’d of
by Comparison, That will be thought the Best that is the Best we know of. If a Picture has
Any of the Good Properties I have been speaking of, (as None has All) we can see Which, or
How many they have, and What they are, and can tell what Rank they ought to hold in our
Estimation, and whether the Excellencies they have will atone for those they Want.

E’ possibile stabilire delle regole così palesemente derivate dalla ragione da risultare
inconfutabili ...
Essendo tali regole fisse e certe, è facile vedere se un'immagine o un disegno possieda le
proprietà richieste, e avendole scoperte un uomo potrà essere tanto sicuro di vedere ciò che
pensa di vedere quanto lo sarebbe nel caso in cui fossero i propri sensi a fornirne la prova
all’intelletto.
Ed abituandosi a vedere e ad osservare i quadri migliori, un uomo sarà in grado di giudicare
in quale misura tali qualità eccellenti eccellenze siano presenti nel quadro che ha in esame;
poiché tutte le cose vanno giudicate per mezzo del confronto; e così verrà reputata la
migliore, la migliore di cui si è a conoscenza. E se un quadro effettivamente possiede alcune
delle qualità di cui ho parlato (poiché nessuno le possiede tutte) si potrà vedere quali e
quante esse siano, e di quale natura, e dire in quale misura va stimato tale quadro, e se le
qualità eccellenti che possiede compensano quelle che ad esso mancano.
E a tal fine Richardson consigliò ai lettori d'impratichirsi nell’uso della balance des peintres di
De Piles.
Senonché, in modo didatticamente efficace, mostra anche come applicare tale metodo – che
rivede, aggiungendo ai quattro criteri previsti da De Piles anche la Handling o esecuzione e
la Grace and Greatness, la grazia e la grandezza o grandiosità – attraverso l’analisi critica di
un ritratto di van Dyck di sua proprietà (che vedete qui in una copia attribuita allo stesso
Richardson).
Bella da parte di Monsieur de Piles l’idea di proporre una bilancia con la quale esprimere un
giudizio sintetico circa il merito dei pittori ... Con qualche piccola modifica per migliorarla,
essa potrà essere di grande aiuto agli amatori e agli intenditori dell’arte.
Manterrò il numero 18 per indicare il più alto grado di eccellenza; e questo, insieme al
numero immediatamente inferiore, rappresenterà il sublime, qualora lo si raggiungesse in
quelle parti della pittura che ne sono capaci. I numeri 16. 15. 14. 13. indicheranno altri
quattro gradi di eccellenza, come quelli da 12 a 5 incluso indicheranno il mediocre. E anche
se i quadri cattivi non sono affatto degni della nostra attenzione, quelli buoni possono essere
cattivi per certi aspetti; e pertanto mi riserverò gli altri quattro numeri per esprimere questo; e
non perché esistono meno gradi del cattivo rispetto al buono, ma perché i buoni maestri, gli
unici di cui mi occupo, molto raramente sprofondano di molto nel cattivo; e se ciò dovesse
accadere, andrebbe segnato con lo zero.
La bilancia sarebbe da impiegare in questo modo: si dovrebbe tenere sempre a disposizione
un piccolo quaderno, di cui ogni foglio fosse preparato come si vedrà in seguito. E quando si
ha da considerare un quadro, se ne potrebbe fare una stima inserendo in corrispondenza
alle singole voci le cifre che si ritenessero opportune; o più di una se in qualche parte del

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quadro vi fosse una differenza considerevole dalle altre, o se necessitato da una duplice
considerazione.
Darò un esempio di quanto ho proposto; e per soggetto prenderò un ritratto di Van Dyck
della mia stessa collezione: è un mezzo busto di una contessa vedova di Exeter, come
apprendo dalla stampa fatta da Faithorn[e], che è quasi l’unica cosa, oltre alla disposizione
generale e all’atteggiamento della figura che si può imparare da essa riguardo al quadro.
Il vestito è di velluto nero, e avendo esso quasi l’apparenza di una sola grande macchia,
dato che le luci non sono gestite in modo tale da collegarlo con le altre parti del quadro, ed
essendo pertanto il viso, il bianco del lino intorno al collo, con le due mani e i larghi polsini
tre distinte macchie di luce, e quasi dello stesso grado di luminosità, così da formare quasi
un triangolo equilatero, la cui base è parallela a quella del quadro, la composizione è
difettosa; e principalmente a causa dalla mancanza di quelle luci sul nero.
Mai come in questo volto fu espresso un dolore calmo e decoroso, soprattutto laddove è
sempre più evidente, cioè negli occhi. Né Guido Reni, né lo stesso Raffaello avrebbero
potuto concepire una passione con più delicatezza o esprimerla con più forza! Alla qual cosa
contribuisce non poco anche l'atteggiamento generale della figura; la mano destra cade
dolcemente dal gomito della sedia, su cui è poggiato leggermente il polso; mentre l'altra
giace nel grembo dela figura, verso il ginocchio sinistro; e tutto ciò appare nell'insieme così
facile e priva di fatica, che ciò che si perde nella composizione per la regolarità di cui ho
preso nota, si guadagna nell’espressione; il che, essendo di maggiore importanza, giustifica
V. Dyck per lo più, e mostra il suo grande giudizio; poiché, anche se così com’è vi si trova
(come ho detto) qualcosa di sbagliato, non riesco a concepire alcun modo di evitare questo
inconveniente senza provocarne uno maggiore.
Alla fine della lunga analisi (di cui abbiamo letto solo una piccola parte) Richardson assegna
a van Dyck i 'voti' che vedete nella tabella qui accanto (completa di data), facendo notare
che, trattandosi di un ritratto, vi è riservata al solo volto una colonna a parte.
I 'voti' tradiscono un grado di apprezzamento di questo pittore maggiore rispetto a quanto
risulta dalla Balance di De Piles, in riferimento sia al colore che all'espressione (Richardson
e De Piles sono concordi invece nel dare solo 10/18 al pittore per il disegno).
Più complessa ed estesa delle concise descriptions di De Piles, il brano di Richardson
mostra anche un più alto grado di focalizzazione sull'opera in esame, intesa nella sua
multiforme individualità.
In questo senso sia l'uno che le altre – come del resto una conférence quale quella di
Philippe de Champaigne del 1671, volta ad esplicare un unico dipinto – sono antesignani
degli innumerevoli resoconti critici di singole opere che nel corso del secolo XVIII
riempiranno cataloghi e guide di collezioni aristocratiche e pubbliche, nonché le recensioni
ad esposizioni periodiche apparse su riviste letterarie o in appositi opuscoli.
Leggiamo ora due esempi di tali recensioni.
L’uno del filosofo francese Denis Diderot (1713-1784), tratto dai celebri resoconti dei Salons
parigini che egli contribuì alla Correspondance littéraire, philosophique et critique, periodico
edito dall'amico filologo Friedrich Melchior Grimm (1723-1807) e (per aggirare problemi di
censura) mandato in manoscritto ad abbonati altolocati in tutta l’Europa.
L'altro del poeta e critico satirista inglese John Williams (1761–1818), che pubblicava sotto
lo pseudonimo Anthony Pasquin, tratto da A Liberal Critique of the Present Exhibition of the
Royal Academy, un libretto pubblicato in occasione della mostra annuale nel 1794.
137. “DIPINTO OVALE RAFFIGURANTE GRUPPI DI BAMBINI NEL CIELO”
È una bella frittata di bambini, tutti intrecciati gli uni con gli altri, teste, cosce, gambe, corpi,
braccia, con arte singolarissima; ma è senza forza, senza colore, senza profondità, senza

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distinzione di piani. Poiché questi bambini sono molto piccoli, non sono fatti per essere visti
a grande distanza; ma poiché l'insieme assomiglia a un progetto per un soffitto o una
cupola, dovrebbe essere appeso orizzontalmente sopra la testa dello spettatore e giudicato
dal basso. Mi sarei aspettato da questo artista qualche effetto piccante di luce; e non ce n’è.
Ciò è piatto, giallastro, di una tonalità uniforme e monotona, e dipinto in maniera cotonosa.
Questa parola forse non è stata ancora pronunciata, ma rende bene, e così bene che si
prenderebbe questa composizione per un lembo di un bel vello di pecora, ben pulito, ben
giallastro, i cui peli intricati hanno formato per caso ghirlande di bambini. Le nuvole sparse
tra questi sono ugualmente giallastre e rendono il paragone esatto. Signor Fragonard,
questo è diabolicamente insipido. Bella frittata, ben soffice, ben gialla e ben bruciata.
No. 85. “Un ritratto di SUA MAESTÀ, dello stesso artista [Gainsborough Dupont].
Sono stato spesso incline ad immaginare che i raggi di quella divinità che si dice avvolga un
re abbaglierebbero con troppa forza la visuale di qualunque artista tentasse di dipingerli. La
figura del re appare antipatica, presuntuosa e ripugnante – effetto forse dovuto al tremore;
ma lo sfolgorio del panneggio scarlatto invade impudente i nostri sensi e respinge ogni
curiosità del pensiero, subito confondendo i nostri interrogativi. Quella serena dignità che
dovrebbe appartenere a un tale personaggio non si lascia scoprire. Mi dà l'idea di un idiota
vanitoso che si presenta all'ammirazione nella convinzione di fare una figura
straordinariamente bella, non quale rappresentazione della fonte di onori locali. Poiché il
sovrano non si distingue per sfrontatezza o vanità, questo ritratto non soddisfa le mie
aspettative.

Colpisce in entrambi i brani la preoccupazione con l’apparenza complessiva dell’immagine,


con l’effetto, felice o infelice, sullo spettatore della raffigurazione nel suo insieme, e il
giudizio, positivo o negativo, cui dà luogo.
Comincia infatti ad assumere la valutazione un ruolo secondario nel discorso sull’arte e a
prevalere la caratterizzazione, non solo affettiva ma anche percettiva, relativa cioè al
generale impatto visivo dell’opera, che si avvale anche della satira quale modalità di
esplicazione figurata, per implicazione negativa.
Concludiamo però lezione e corso leggendo parte di un articolo di Jerry Saltz, pubblicato tre
anni fa – in piena pandomia – sulla rivista New York ed intitolato This is the saddest picture I
have ever seen ('Questo è il dipinto più triste che abbia mai visto’).
Riguarda una tavoletta quattrocentesca, Il pianto di Mardocheo (Roma, palazzo Pallavicini-
Rospigliosi), attribuita da alcuni a Botticelli, da altri a Filippino Lippi, oppure ad entrambi in
collaborazione, e che già faceva parte di uno di due cassoni decorati intorno al 1475 con
storie di Ester, i restanti comparti dei quali sino agli anni Settanta dell’Ottocento si trovavano
tutti presso ila famiglia Torrigiani a Firenze.
Il piccolo e quasi sconosciuto [sic!]capolavoro quattrocentesco di Sandro Botticelli ci mostra
un essere umano spogliato di ogni speranza. Il dipinto è un crogiolo metafisico pieno delle
disgrazie del mondo esteriore, di emozioni invisibili, di vergogna, del pianto delle cose
ultime, di perdite cataclismiche, di silenzio, di viaggi finali, della cessazione della vita, di
intensità demoniaca e della ritrazione del sé. Spesso chiamato, con aderenza pefettta, La
Derelitta (ossia "The Desperate One" [locuzione che, volutamente come si vedrà, lascia il
genere della figura non definito]) è il dipinto più triste che io abbia mai visto, benché non
l’abbia mai visto dal vivo. Lo vidi per la prima volta quando avevo vent'anni. A forza di
chiacchiere mi ero fatto assumere presso la School of the Art Institute of Chicago, dove
proiettavo le diapositive nelle lezioni di storia dell'arte. Il pomeriggio in cui lo proiettai, rimasi
stravolto. Non c’è modo per entrare visivamente in questo quadro né per uscirne: non c'è

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spazio. È tutto muro, una sorta di brutalismo premoderno o di rigido minimalismo. Tutto è
spoglio di ornamentazione, reso come in basso rilievo, irreale, onirico, sminuito ma concreto,
realistico. Botticelli creò The Desperate One a Firenze mentre si avvicinava ad un momento
di crisi nella propria vita…
The Desperate One, apparentemente dipinto in anticipazione profetica di tutto ciò [ovvero, le
vicende fiorentine di Girolamo Savonarola: l’affermarsi della sua influenza, il declino, il
supplizio], ci fa intravvedere la desolazione interiore che Botticelli provava. Questo è un
mondo bruciato, impoverito. La figura addolorata è piegata su se stessa. Il suo volto è
nascosto: sono visibili soltanto i fluenti capelli maschili. È scalzo come quei danzatori
dionisiaci e quelle ninfe che Botticelli aveva dipinto in precedenza e di cui ora si disperava.
La figura sembra un penitente, quasi un fantasma. È come se l’Estasi fosse appena
avvenuta: tutti sono spariti o se ne sono andati; questa figura è rimasta sola. Tranne che per
alcune visioni mistiche, Botticelli trascorse i suoi ultimi anni in un improduttivo esilio emotivo.
Visse per vedere il suo stile quattrocentesco soppiantato dai tre grandi del Rinascimento:
Michelangelo, Leonardo e Raffaello. Botticelli fu quasi dimenticato fino al XIX secolo,
quando i preraffaeliti se ne riappropriarono. Con il senno di oggi la sua vita potrebbe
sembrare una tragedia virtuosa—un nobile artista sconfitto dalla forza delle credenze
repressive. Ma queste repressero, oppressero anche lui. Savonarola era stato sì bruciato,
ma il suo giudizio pendeva comunque su Botticelli.
Mi soffermo sull'unico particolare del quadro, una piccola porta di legno a due ante
sormontata da una struttura in ferro che chiude un atrio stretto e poco profondo. Questa
porta è importante, lo so. Appena sopra di essa si scorge l'unica tregua visiva del quadro:
una macchia di cielo blu. Mi struggo dal desiderio di sapere cosa c’è di là di quella porta, e
mi balza in testa una strana domanda: La porta si aprirà mai?
Ora la vedo: alla porta manca qualcosa e questa assenza finalmente svela il segreto del
quadro. L'ho sempre saputo ma non l'avevo mai notato prima: su quella porta non c’è né
pomo, né maniglia, né chiavistello, né leva.
Anche se alcuni studiosi ritengono che il dipinto raffiguri Mardocheo del Libro di Ester, io
intendo la figura come quella di Botticelli. Potrebbe stare all’Inferno, ma siccome non ci sono
porte non ne ho la certezza. Suppongo piuttosto che stia fuori alle porte chiuse del Paradiso.
La porta che gli sta davanti può essere aperta soltanto dall'interno, da San Pietro, che ci
pesa i peccati, le azioni, la vita. Le credenze e le azioni di Botticelli lo hanno condannato, e
lui lo sa. Non è l’inferno questo. È un purgatorio terribile di dolore consapevole. Questo
piccolo quadro emette un grido incessante. Non il detto di Sartre, con quel suo sorrisetto da
esistenzialista, “L’inferno sono gli altri”; ma piuttosto qualcosa che sento ogni giorno sempre
di più da chi sta uscendo dal proprio isolamento: L’inferno è la mancanza degli altri.
Nonostante l’intervallo di più di duecento anni che lo separa da quelli di Diderot e di Williams
Il brano di Saltz giunge a conclusione coerente ed istruttiva di questo corso.
Nel quale si è inteso la critica d’arte quale momento individuativo di un discorso riferito alla
produzione artistica e si è tentato di evidenziare il modo in cui col tempo tale momento sia
divenuto sempre più esplicitamente riferito ad artefatti figurativi considerati quali enti
individuali e pertanto di per sé ed integralmente significanti; processo che si rispecchia nella
tardiva genesi del titolo quale nome e chiave interpretativa dell’opera d’arte.
È da notare infatti come nel testo di Saltz il vecchio titolo del dipinto in esame (La derelitta),
benché da tempo invalidato, operi ancora in tal senso—anzi, con potenza semmai rinnovata.
Conviene ripassarne la storia.
Fu Adolfo Venturi, il primo a tirare l’attenzione sulla tavola, nei Tesori d’arte inediti di Roma
(1896), che l’attribuì a Botticelli e che la battezzò La derelitta.

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Appropriandosi, sembra, del titolo di un'opera d’arte contemporanea, una scultura di
Domenico Trentacoste (1859-1933) esposta nel 1895 alla prima Biennale di Venezia.
Come la maggior parte dei commentatori dei decenni successivi Venturi vide nel dipinto (che
si trovava in uno stato di conservazione non buono ed era conosciuto quasi esclusivamente
tramite riproduzione fotografica) una figura femminile, ipotizzando si trattasse della
concubina del levita di Efraim, reduce della notte di violenza subita alle mani degli uomini di
Gàbaa (Giudici 19-20).
Successivamente [si vedano Mesnil 1938, 232-233; Calvesi 2008, 291] si credette
individuare nella figura altri personaggi biblici o storici:
• Tamar, figlia di David (2Samuele 13).
• La romana Lucrezia (come la concubina del levita e anche Tamar, vittima
di violenza).
Una cristiana (o un cristiano) d’epoca romana, in attesa di essere esposta/o alle belve
nell’anfiteatro.
La regina Vashti ripudiata dal re Assuero (Ester 1).
Nonché allegorici:
La Verità scacciata dall’ignoranza
La Giustizia che piange li Savonarola
Lo storico dell’arte e collezionista ‘anglo- fiorentino’ Herbert Horne (1864-1916), che nel
1908 acquistò una delle tavole affini rimaste presso i Torrigiani, per primo riconobbe che
l’intero gruppo derivava da due cassoni decorati con storie di Ester e che La derelitta,
emigrata fuori Firenze sin dall’inizio dell’800 al più tardi, era appartenuta ad uno dei due.
Ma secondo lo storico dell’arte tedesco Edgar Wind—il primo, nel 1940, a riconoscervi con
certezza una figura maschile, che identificò con Mardocheo, cugino di Ester—perfino Horne
era troppo suggestionato dal titolo di Venturi (“‘la derelitta’ was in his mind”) per rendersi
conto dell’errore.
Ed in effetti nel titolo Venturi pare volesse captare quel carattere insolitamente 'moderno’,
dal forte impatto emotivo e 'psicologico', che in mancanza di indizi chiari circa il soggetto,
l’aveva tanto colpito:
Nello sfondo di questo quadro ampio e vuoto, sul quale si staglia una sola figura, Botticelli ci
fa sentire qualcosa che nessun altro ha espresso nel XV secolo e che simpatizza con il
nostro modo attuale di composizione, meno denso di linee ma più pieno di allusioni. Non
vediamo il volto della donna disperata che piange sulla soglia di una casa; ma ci sembra di
sentire il suo mesto lamento risuonare nel luogo severo e desolato in cui è approdata.
Carattere che spingeva altri, se non a sospettare, come Jacques Mesnil, che si trattasse di
un falso, ad ipotizzare un soggetto né biblico, né storico, né allegorico, ma indefinito,
universale e simbolico.
Ad esempio, nello stesso 1896 il romanziere e critico francese Émile Zola, cui Venturi aveva
regalato la fotografia della Derelitta [Venturi 1898, 212], romanzò la scoperta del dipinto (e
quale opera di Botticelli) in Rome, della trilogia Les trois villes.
Nel romanzo un personaggio si chiede quale "dolore senza nome" e quale "terribile
vergogna" possano nascondersi nel "cuore desolato" della donna raffiguratavi; ma anche se
quella figura non fosse "seulement le symbole de tout ce qui frissonne et pleure, sans
visage, devant la porte éternellement close de l’invisible [solo il simbolo di tutto ciò che
trema e piange, senza volto, davanti alla porta eternamente chiusa dell'invisibile]":
Est-ce que cela n’était pas d’un modernisme aigu? L’artiste avait prévu tout notre siècle
douloureux, nos inquiétudes devant l’invisible, notre détresse de ne pouvoir franchir la porte
du mystère, à jamais close. Et quel symbole éternel de la misère du monde, cette femme

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dont on ne voyait pas le visage et qui sanglotait éperdument, sans qu’on pût essuyer ses
larmes!
[Non era ciò di un modernismo acuto? L'artista aveva previsto tutto il nostro secolo doloroso,
le nostre preoccupazioni dinanzi all'invisibile, la nostra angoscia di non poter passare
attraverso la porta del mistero, che rimane per sempre chiusa. E che simbolo eterno della
miseria del mondo, questa donna di cui non si vedeva il volto e che singhiozzava
disperatamente, senza che le si potesse asciugare le lacrime!].
Poco dopo, in maniera analoga, lo storico dell’arte tedesco Ernst Steinmann (1866-1934) si
chiedeva:
What is the secret that her bosom conceals? What story would her life and eyes relate, if we
could raise that head which now is sunk in hopeless woe?
[Qual è il segreto che nasconde il suo seno? Quale storia racconterebbero la sua vita e i
suoi occhi, se potessimo sollevare quella testa che ora è affondata in un dolore senza
speranza?].
Ma Steinmann trovava inoltre nel dipinto "an elemental outburst of inconsolable grief
[‘un'esplosione elementare di dolore inconsolabile’]" che emanava, a suo avviso, da Botticelli
stesso, "apostle of sorrow [‘apostolo del dolore’]"; e suggeriva che sotto la raffigurazione di
questa "Espulsa" (Ausgestossene) andrebbero posti i versi di Shakespeare, dal Sonetto n.
29, "When in disgrace with Fortune and men’s eyes / I all alone beweep my outcast state
[‘Caduto in disgrazia con la fortuna e con gli uomini, piango in solitudine il mio stato di
reietto’]":
are any further words needed to denote the feeling which this picture conveys, or to suggest
an interpretation which everyone must ultimately make and adopt for himself?
[sono necessarie altre parole per detonare il sentimento che questo quadro trasmette, o per
suggerire un’interpretazione che alla fine ognuno deve costruire ed adottare per se stesso?].
Consapevole della sua infondatezza, ma persuaso della sua appropriatezza ed incurante
dell’astoricismo insito in tale atteggiamento, Saltz si appiglia al titolo de La derelitta – meglio,
alla versione inglese gender-neutral di The Desperate One – per tesservi intorno una lettura
dell’immagine che ne restituisca il soggetto di là del soggetto.
Lettura alimentata, acriticamente, da notizie biografiche del pittore e del suo coinvolgimento
alla fine del XV secolo nelle vicende politiche e morali di una Firenze sferzata dal
predicatore domenicano Girolamo Savonarola (vicende che Saltz vuole profeticamente
previste e allo stesso tempo rispecchiate nella tavola), ma che convoglia anche ogni parte e
ogni particolare del dipinto, andando in ciò ben oltre le intuizioni di Venturi o dì Steinmann.
Al punto che il dipinto—The saddest picture I have ever seen—assume un carattere ed una
evidenza emotiva affatto indipendenti dall’artista, come sono indipendenti dal soggetto e
persino dalla storia.
Da un punto di vista storico-artistico Saltz fa abuso ancor maggiore del titolo rispetto a
Venturi e Steinmann: gli è sostanzialmente indifferente l'identificazione ormai assodata del
soggetto della tavola, che recepisce solo nella misura in cui gli permette di esplicare
l'immagine, all'insegna del titolo rivisto, non solo quale simbolo di una condizione generale –
nella fattispecie una universale condizione di crisi – ma come allegoria della presunta
parabola creativa e spirituale dell'artista.
E si ostina a trattarla come opera a se stante piuttosto che appartenente ad un ciclo
figurativo connotato da coesione materiale, funzionale e tematica.
Purtuttavia, da un punto di vista storico-critico, l'abuso maggiore mette maggiormente in
rilievo l'ormai più che matura funzione del titolo quale nucleo identitario ed addensante
semantico dell'opera – quale nome indicante un legame con essa tanto più intimo e

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comprensivo quanto più anonimo (come titoli infatti La derelitta e The Desperate One
discendono da denominazioni definite ma generiche ed appunto anonime del Settecento
quali La liseuse e La resveuse).
E non vanno comunque confuse l'impossibilità storico-artistica, su cui giustamente insiste
Valter Curzi [2018, 21], di "considerare La derelitta un'opera autonoma dagli interrogativi
imprecisati", con l'esigenza, manifestata in questa stessa frase, di chiamarla per nome, ai
fini di una esplicazione espressamente e totalmente individualizzante come quella cui è
giunta la critica d'arte attraverso i secoli.

FINE

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