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LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

1873

t
Traduzione condotta sull'originale tedesco «Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Grie-
chen», in F. Nietzsche, Werke, Zweiter Band, Herausgegeben von K. Schlecta, Dritter Band,
Mùnchen, Hanser, 1956.
Traduzione e note (vedi pp. 244 ss.) di Ferruccio Masini
Introduzione

Sotto il titolo de La filosofia nell'età tragica dei Greci (Die Philosophie


im tragischen Zeitalter der Griechen/ ci è conservato un ampio abbozzo di
una storia del pensiero greco fino a Socrate, rimasto incompiuto né mai
dall'autore destinato alla pubblicazione. Ad esso Nietzsche pose mano a
più riprese fino al 1873 (l'anno successivo alla pubblicazione de La nascita
della tragedia/ anche nell'intento, attestatoci da una lettera del 5 aprile
J8732, di darne pubblica lettura a Bayreuth: sul manoscritto egli doveva
tornare per l'ultima volta, portandolo, e lasciandolo definitivamente, allo
stato in cui ci è conservato, fra il 1875 e il 1876. L'attuale consistenza del-
l'opera è evidentemente incompleta: dei filosofi presocratici sono trattati
più o meno estesamente soltanto Talete, Anassimandro, Eraclito, Parme-
nide e Anassagora. Con Anassagora la trattazione si interrompe, lasciando
fuori, fra gli altri, pensatori come Empedocle, gli atomisti, i Sofisti; né
compensano le lacune gli abbozzi e schizzi di un proseguimento dell'opera
(risalenti anch'essi al 1872-73)*, e neppure gli appunti per i corsi di filoso-
fia antica all'università di Basilea (semestri estivi 1872, 1873, 1876)4, pub-
blicati anch 'essi postumi, e che, pur trattando non pochi dei pensatori as-
senti ne La filosofia..., come Anassimene, Pitagora e i Pitagorici, Empe-
docle (il «filosofo tragico» per eccellenza, il grande contemporaneo di
Eschilo), hanno un taglio ben diverso da questa.
Malgrado queste lacune, l'opera ha una sua indiscutibile unità, che ne fa
qualcosa di più che un semplice abbozzo, calata com 'essa è in un 'unica vi-
sione coerente, inserita in un complesso tessuto di collegamenti e richiami
con altre opere, contemporanee ma anche successive, del filosofo (in pri-
mis, naturalmente, la coeva Nascita della Tragedia/ Nella sua specificità e
atipicità di carattere storiografico, essa rappresenta insieme un «unicum»
nella produzione nietzscheana, che si distacca decisamente dagli scritti pro-
priamente filologici del professore di Basilea, proponendosi come scritto
programmatico e provocatorio insieme, in una linea interpretativa netta-
mente al di fuori, anzi in deciso contrasto con gli schemi e i modelli storio-
grafici accademici. •
Già la scelta della perìodizzazione che è alla base dell'opera ci dà il segno
del distacco dì Nietzsche dai canoni della storiografia filosofica: perché
l'«età tragica» della Grecia antica, entro cui sembra consumarsi ogni capa-
1
Le citazioni di Nietzsche, tranne che per La filosofia..., rimandano, salvo contraria indi-
cazione, a F.W.N., Werke in drei Bànden, hrsg. von Karl Schlechta, Darmstadt, I9602 (citato
d'ora in poi come Werke).
1
La lettera (n. 78 in Werke, m, 1087 ss.), è diretta a Cari von Gersdorff, ed è datata da Ba-
silea.
3
«Entwùrfe zur Fortsetzung», e «Planskizzen», in Nietzsche's Werke, u e Abt., Bd. x,
Stuttgart, 1922\ pp. 93-106.
4
«Die vorplatonischen Philosophen», in Nietzsche's Werke, in e Abt., Bd. xix, hersg. von
O. Crusius und W. Nestle, Leipzig, 1913, pp. 125-234.
192 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

cita di produrre una autentica fiiosofia, comprende, stando aite chiarissi-


me indicazioni dei fautore, un periodo di non più di due secoli, e forse an-
che meno, a cavallo fra vie v secolo a.C. La filosofia greca è quella prepla-
tonica, o meglio presocratica, che va da Talete a Democrito, perché con
Socrate è già in atto la decadenza e la negazione della grecità autentica.
Una prospettiva dunque che capovolge le dimensioni delia storiografia fi-
losofica, per la quale (si pensi ad esempio alla monumentale opera di
Eduard Zeller, La filosofia dei Greci esposta nel suo sviluppo storico, di
cui si pubblicava nel 1876 la iv edizione) il pensiero anteriore a Socrate è in
certo qual modo una preparazione e una gestazione che preludono alla fio-
ritura della grande speculazione filosofica di Platone ed Aristotele. La filo-
sofia... nietzscheana rovescia questa prospettiva, ponendosi nel contempo
non come un «manuale», un'opera di storiografia accademica, ma portan-
do in sé ì caratteri del libello, dello scritto militante, carico di tutta la pole-
mica contro la cultura tedesca contemporanea. Le posizioni di Nietzsche si
distaccano altresì da quelle del classicismo imperante, che situava il perio-
do di massima fioritura intellettuale e artistica del mondo greco nell'età di
Pericle, e datava l'inizio del tramonto della civiltà greca con la fine del
v secolo a.C. e il crollo dell'impero ateniese. Per Nietzsche questo limite
inferiore va anticipato alla fine delle guerre persiane (circa il 470-60 a.C.)5,
e viene a coincidere con la morte di Eschilo (456 a.C), che segna anche la
fine della tragedia. L'impero ateniese, dal suo costituirsi con Pericle e fino
alla disfatta del 404, rappresenta per Nietzsche soprattutto un fenomeno di
oppressione politica e culturale esercitata da Atene sul resto del mondo
greco, e al tempo stesso un periodo di improduttività filosofica della cultu-
ra ateniese6. In tal modo Nietzsche viene ad anticipare una prospettiva «ar-
caistica» del tutto in contrasto con le idee del suo tempo, rovesciando le
posizioni classicistiche e riducendo /'akmé della autentica cultura greca al
ristretto periodo che va da Talete alla morte di Eschilo.
Ciò che soprattutto colpisce, in questa visione, è la totale condanna della
filosofia greca da Socrate in poi. Per Nietzsche l'autentico pensiero greco è
quello che va da Talete ai Sofisti (ma all'interno di esso già il pensiero di
Parmenide occupa, come vedremo, un posto a sé), e che incorre nel defini-
tivo collasso ad opera di Socrate prima, e quindi di Platone e delle scuole
postplatoniche. Socrate, l'eroe anti-tragico per eccellenza, l'instauratore
della «dialettica», il filosofo della «decadenza», rappresenta per Nietzsche
la negazione dell'autentica cultura «ellenica». Il «socratico», che si pone
come polo antitetico al «dionisiaco» (non, ovviamente, nel senso in cui
nella Nascita della tragedia al «dionisiaco» si contrappone l'«apollineo»,
ma in un contrasto totale e insanabile), porta alla morte della tragedia e
dunque alla fine dell'«età tragica»: con Euripide, «maschera» di un nuovo
demone, che non è più Dioniso, né Apollo, ma Socrate7, la tragedia è già
finita, e con questa fine assistiamo insieme al tramonto del «tragico» come
categoria immanente alla realtà storica, alia distruzione della filosofia e
della cultura greca.
La condanna di Socrate è in Nietzsche totale e irremissibile: condanna
dell'anti-artista, del distruttore della scienza, del fondatore del predominio
della morale; condanna, al tempo stesso, della classe cui Socrate apparte-
3
Si veda per esempio «Wissenschaft und Weisheit im Kampfe», in Werke, voi. ni, pp. 340,
342 ss., 347.
6
Ivi, p. 340.
7
Geburt der Tragèdie, 12 (Werke, ì, 71) (tr. it. «La nascita della tragedia», in questo voi.).
INTRODUZIONE DI ODDONE LONGO 193
neva (la «plebe», il popolino più basso. Nietzsche si chiederà addirittura se
Socrate fosse davvero greco!f, della dialettica, intesa come lo strumento
prevaricatore dell'affermarsi della «plebe» a scapito dei «nobili» fVorneh-
me>, come sintomo della «decadenza»: una decadenza che è anche sociale,
nell'affermazione delle classi inferiori (si pensi in parallelo alla ripetuta de-
nuncia nietzscheana della «democratizzazione» dell'Europa contempora-
nea, inseparabile dal ruolo egemonico assunto nella filosofia dalla dialetti-
ca hegeliana). Accanto al plebeo Socrate, un Platone rimane bensì all'al-
tezza dell'antica aristocrazia, ma ciò non basta tuttavia a riscattarlo: giac-
ché in Platone l'«aristocrazia» si esprime essenzialmente come Reaktion,
come momento negativo, dominato esso stesso dalla dialettica socratica, e
mirante a scuotere dalle fondamenta la stessa «cultura ellenica», attribuen-
do ad essa la responsabilità della «decadenza» (decadenza politica, collas-
so della città-stato), in quanto di più «genuinamente greco» essa aveva
prodotto: Omero, Pericle, la tragedia, la retorica9. In Platone prevalgono
gli istinti antiellenici, egli è profondamente, morbosamente antigreco10. E
c'è una rottura profonda nel rapporto fra pensatoi e società, perché a par-
tire da Platone il filosofo è un esiliato che cospira contro la patria, che cer-
ca il distacco della polis dalle tradizioni dei padri". Dopo Platone i filosofi
saranno essenzialmente fondatori di sette d'opposizione, avverse alla «cul-
tura ellenica», che cercano i loro interlocutori, non più nella comunità,
nella città, nella patria, ma negli individui singoli o tutt'al più in una ri-
stretta consorteria di seguaci.
Con ciò vien meno l'antica solidarietà fra il filosofo e la città, di cui ap-
punto i grandi presocratici erano stati i campioni*1: quella solidarietà che
sola poteva offrire alla filosofia la legittimazione di cui essa necessita, per-
ché la filosofia questa legittimazione non la trova in se medesima, ma deve
ricercarla nel rapporto intrattenuto con la società. Per i Greci dell'«età tra-
gica» la filosofia ha trovato la sua legittimazione in quanto essa è stata
l'immediata espressione dell'anima di un popolo che ha impreso a filosofa-
re «nella gioia, in una matura virilità, dal bel mezzo dell'accesa gaiezza di
una prode e vittoriosa età virile»**. Solo i Greci potevano legittimare la fi-
losofia, perché essi erano il popolo «sano» per eccellenza, ed essi l'hanno
legittimata nell'atto stesso del loro filosofare. I Greci, ben s'intende, del-
l'«età tragica», giacché a partire da Socrate la filosofia perde ogni collega-
mento con la società, e funziona fine a se stessa: c'è sfilacciamento e lace-
razione fra il singolo e la società, e in questa condizione la filosofia diviene
a sua volta un elemento di disgregazione, l'occasione offerta a chi aspira
ad isolarsi dietro «la siepe di chi è pago di se stesso».
Queste prime considerazioni ci danno già una misura adeguata delle
coordinate ideali entro le quali Nietzsche si proponeva di collocare il suo
lavoro di storico della filosofia presocratica. Ma per cogliere appieno le
implicazioni della posizione nietzscheana dobbiamo evidenziarne ancora
altri aspetti. La storiografia filosofica di Nietzsche si presenta infatti, non
solo come antiaccademica (nelsenso della ricusazione delle convenzioni ac-
8
Gòtzendàmmerung, «Das Problem des Sokrates», 3 (Werke, li, 952) (tr. it. «Crepuscolo
degli idoli», «Il problema di Socrate», in F.W. Nietzsche, Opere 1882-1895, Roma, Newton
Compton, 1993).
9
Nachlass Werke, in, 637.
10
Ivi, p. 770.
11
Ivi.
12
Cf. per esempio «Wissenschaft und Weisheit im Kampfe» (Werke \\v 336): «la più antica
filosofia greca è filosofia di autentici uomini di stato... Questa è ciò che differenzia maggior-
mente i presocratici dai postsocratici».
11
La filosofia..., p. 206.
194 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

ceffate dalla cultura universitaria tedesca), ma al tempo stesso come decisa-


mente antistoricistica; essa presuppone la negazione dello storicismo hege-
liano, il rifiuto della concezione della storia come sintesi dialettica degli
opposti, come continuità e sviluppo e progressione. Il tempo della storia
nietzscheana non è il tempo uniforme e continuo della storia rettilinea, è il
tempo dell'eterno ritorno, dunque il tempo della rottura e della disconti-
nuità — della ripetizione del medesimo. Nel circolo dell'eterno ritorno,
ogni punto del tempo è isolato e autonomo, non correlato a ciò che prece-
de e a ciò che segue, totale nella sua arbitrarietà: ogni punto può essere in-
differentemente principio e fine, e pertanto il processo storico non si lascia
disporre sulla linea retta, e non ha senso neppure ricercare il principio del
processo stesso. Ecco così la dichiarazione dell'inanità di ogni «ricerca del-
le origini»: quello delle «origini», e dunque dello «sviluppo» è per Nietz-
sche un falso problema, perché nella realtà ci troviamo costantemente di
fronte a forme già perfette e compiute (i punti «totali» del circolo dell'eter-
no ritorno): «le questioni sulle origini della filosofia sono del tutto irrile-
vanti», e ci troviamo sempre in presenza di «stadi superiori»1*. Per Nietz-
sche, «fare storia» significa guardare innanzi tutto davanti a sé, al presente
e al futuro: ogni storia del passato è insieme, necessariamente, la storia del
futuro. Il «voltarsi indietro» a cercare nel passato è una deformazione pro-
fessionale dello storico: «chi va alla ricerca delle origini diventa granchio.
Lo storico guarda all'indietro; alla fine si trova anche a credere ali'indie-
tro»15. Gli darà ragione, cinquant'anni più tardi, uno storico (non certo
imputabile di «antistoricismo») come Marc Bloch, che nell'«ossessione
delle origini» vedrà la forma più caratteristica di idolum tribus dello «sto-
rico di professione»16.
La storiografia come storia della discontinuità, come storia di momenti
assoluti, è la «storia monumentale» propugnata da Nietzsche nelle seconde
Considerazioni inattuali (Sull'utilità e il danno della storia per la vita^; e la
«storia monumentale» è inscindibile, ancora una volta, dalla filosofia del-
l'eterno ritorno del medesimo. Il passato può proporsi come degno d'imi-
tazione — e come imitabile — solo in quanto esso può ripetersi; tutto
quanto vi fu un tempo di «grande», «fu comunque possibile, e perciò sarà
anche possibile di nuovo»11.1princìpi della «storia monumentale» si appli-
cano anche alla storia del pensiero greco (e il «ritorno» della grecità è in ef-
fetti uno dei motivi ricorrenti del pensiero nietzscheano); così come non
avrebbe senso ricercare le «origini» della filosofia presocratica, non ne
avrebbe neppure il tentar di collegare fra loro nella continuità di uno svi-
luppo ininterrotto i vari momenti di quel pensiero: tanto più in quanto ca-
ratteristiche della civiltà greca sono una crescita e una decadenza rapidissi-
me, e ad essa non si può pertanto sovrapporre un modello di «gradualità»
fAllmàhlichkeitJ che può funzionare in altri casi19. Non ha senso dunque
costruire una «storia della filosofia» (men che meno una «Storia della filo-
sofia nel suo sviluppo storico» sul modello dello Zeller), come non ne ha
neppure il postulare l'esistenza di «scuole» filosofiche (così ad es. Senofa-
ne e Parmenide sono entrambi «eleati» solo per caso: «essi non formano
una scuola e non hanno in comune nulla che l'uno avrebbe potuto even-

14
hi, p. 206.
15
Gòtzendammerung, «Sprùche und Pfeile», 24 {Werke, il, 946) (tr. it. «Crepuscolo degli
idoli», «Detti e frecce», ed. cit.).
16
Apologia delta storia, o mestiere di storico, trad. it. Torino, Einaudi, 19692, p. 43.
17
Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in questo voi. p. 343.
18
«Wissenschaft und Weisheit im Kampfe», in Werke, in, 339.
INTRODUZIONE DI ODDONE LONGO 195
tualmente apprendere dall'altro»)19. Una storia della filosofia non potreb-
be essere che una storia dei sistemi filosofici, ma tutti i sistemi sono confu-
tabili; la sola parte «inconfutabile» funwiderleglicty, che ogni sistema, an-
che il più «erroneo», contiene, è la personalità dell'autore. Compito dello
storico è conservare e perpetuare l'inconfutabile e l'indiscutibile di ciascun
sistema, e questo è la personalità, il «punto» che va estratto dal suo conte-
sto, col portare alla luce «der grosse Mensch»20. La storia del pensiero sarà
pertanto una storia di «grandi personalità», al di fuori di ogni messa in re-
lazione e continuità storicizzante. Ma discontinuità non esclude ripetizio-
ne, e la serie dei grandi pensatori presocratici è appunto nel segno della ri-
petizione: essi sono tutti «sbozzati interi e da un 'unica roccia», e la discon-
tinuità che li separa non esclude la similarità, e insieme la loro capacità di
fungere da veri e propri «modelli» («l'intera storia greca è l'immagine om-
bratile, la copia sbiadita» dei «grandi tratti del genio greco» personificati
in questi «geni eccelsi»)21. La relazione che si stabilisce fra di essi non è
quella della continuità storica, ma quella dell'identità e dunque della ripeti-
zione. I pensatori preplatonici formano una sorta di «repubblica di genia-
li» f«Genialen-Republik»: l'espressione è presa da Schopenhauer), nella
quale il rapporto fra un «genio» e l'altro si attua nell'esclusione di qualsi-
voglia relazione con un contesto storico esterno; i «geni» del pensiero pre-
socratico dialogano fra di loro a distanza, passando sulla testa della storia,
al di là dei secoli («un gigante chiama l'altro attraverso le desolate distanze
dei tempi, e l'alto dialogo degli spiriti prosegue indisturbato...»)22. È lo
stesso collegamento attraverso i millenni fra i «grandi momenti» della sto-
ria, che vengono così a formare una catena di eventi imperituri (e insieme
la vitalità presente dei «momenti» del più remoto passato), di cui parla
Nietzsche nelle Considerazioni inattuali per legittimare, appunto, la «sto-
ria monumentale». La sola, vera continuità, è pertanto quella che si costi-
tuisce, al di là del tempo rettilineo e progressivo, fra ciò che di grande vi è
stato (e vi sarà) nella storia umana («die Zusammengehòrigkeit und Konti-
nuitàt des Grossen aller Zeiten», «l'omogeneità e perpetuità della grandez-
za di tutte le epoche»)23. E ciò di cui, in questa prospettiva, Nietzsche va al-
la ricerca nella storia (nella storia del pensiero antico) è la produttività in
geni: «io non cerco nella storia i periodi di felice prosperità, ma i tempi che
offrono un terreno favorevole alla produzione del genio»24 (uno di questi
periodi è appunto quello anteriore alle guerre persiane).
Struttura profonda e cifra costantemente riaffiorante nella riflessione
nietzscheana, la concezione dell'eterno ritorno del medesimo si colloca im-
plicitamente, ma indiscutibilmente, al centro della Filosofia nell'età tragi-
ca...: anche per quanto concerne l'idea di «età tragica», e il valore da rico-
noscere al pensiero presocratico e alla civiltà greca in generale. L'indivi-
duazione e la propugnazione di un '«età tragica», che è come dire di un 'età
votata al prevalere dell'istinto dionisiaco, sono anch'esse inseparabili dalla
prospettiva dell'eterno ritorno. L'«età tragica» si struttura nell'esperienza
del dionisiaco, della musica, della tragedia, in quella visione dionisiaca che
appercepisce il mondo come «incessante divenire e generare», in quella
19
La filosofia..., p. 225.
20
La filosofìa..., «Prefazione».
21
La filosofia..., p. 207.
22
Ivi, p. 207.
23
Sull'utilità e il danno della storia..., p. 343.
24
«Wissenschaft und Weisheit im Kampfe», in Werke, ni, 343.
196 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

«gioia del divenire» che comprende in sé anche la «gioia dell'annientare» .


Nel por mano alla Filosofia... Nietzsche era ancora calato per intiero nel-
l'esperienza maturatasi con la Nascita della tragedia, con la scoperta del
dionisiaco come termine antitetico, e insieme complementare, dell'apolli-
neo, e insieme come cifra interpretativa del mondo greco. Il dionisiaco per-
vade di sé la civiltà greca, e penetra anche la filosofia dell'«età tragica»
(basti pensare a Eraclito). Ma Dioniso, la cui sostanza più intima è riposta
nella forza generatrice fZeugungy, è essenzialmente l'eternità della vita al
di là della morte, l'eterno6 ritorno della vita f«das ewige Leben, die ewige
Wiederkehr des Lebens»/ . La filosofia «dionisiaca» coincide con la filo-
sofia dell'eterno ritorno, quell'eterno ritorno che si propone a Nietzsche
fra i due poli estremi dell'esperienza descritta nella Gaia21scienza (la tenta-
zione offerta da un demone insieme malvagio e benigno) , e di quella regi-
strata, in termini rigorosamente scientifici, in un frammento postumo
(l'eterno ritorno come principio statistico su cui si organizzano le infinite
combinazioni seriali degli eventi cosmici, secondo un «Kreislauf» che am-
mette, anzi impone, la ripetizione del già avvenuto)29.
Come ogni altro momento della storia, anche l'«età tragica» sostanziata
dello spirito dionisiaco, si ripeterà, ritornerà. C'è stata un 'età tragica della
Grecia, ma ci sarà, è anzi già in atto, anche un 'età tragica della Germania:
è in atto «la nascita di un 'età tragica dello spirito tedesco»29, che è un «ri-
torno a se stessi», un felice ritrovarsi, nel segno dell'eterno ritorno. È allo
spirito tedesco che è toccato il compito di riscoprire, «novello Colombo»,
il mondo antico, riannodando il legame coi Greci, che sembrava spezzato
per sempre30; la filosofia tedesca segna così uno dei momenti più alti della
storia — quasi un nuovo Rinascimento — nel suo ardore di procedere nella
riscoperta dell'antichità, nello scavo31
delle rovine dell'antica filosofia, in
primo luogo di quella presocratica . «Di giorno in giorno diventiamo più
greci»32; una «rinascita dell'antichità greca» è oramai possibile, dal mo-
mento che, nella sintesi prodigiosa di musica tedesca e filosofia tedesca, si
assiste alla «Wiedergeburt der Tragòdie»33. Nella filosofia tedesca è in atto
la rinascita del dionisiaco: Nietzsche stesso, nel predicare la propria conti-
nuità, nel segno dell'eterno ritorno, con i grandi pensatori presocratici,
perseguirà l'ideale di Dionysos philosophos, rivendicando per sé il titolo di
«discepolo del filosofo Dioniso», e insieme il «primo filosofo tragico»34. È
in questa esaltazione dello spirito tragico-dionisiaco che Nietzsche potrà
scrivere, ancora nell'Ecce Homo, «io prometto un 'epoca tragica: l'arte su-
prema nel dire Sì alla vita, la tragedia, verrà generata di nuovo...»35. Del
resto, non mancano certo le affinità fra Kant e gli Eleati, fra Schopen-
hauer ed Empedocle, fra Eschilo e Riccardo Wagner; il compito di oggi è
quello di raccogliere insieme «lo spirito della cultura ellenica, che penetra
bensì, ma in uno stato di totale dispersione, l'età presente»; dunque, rian-
25
Ecce homo, «La nascita della tragedia», in F.W. Nietzsche, Opere 1883/1895, ed. cit.
26
Gòtzendàmmerung, «Was ich den Alten verdanke», 4 (Werke, li, 1031 ss.) (tr. it. «Cre-
puscolo degli idoli», «Quel che debbo agli antichi», ed. cit.).
27
Diefróhliche Wissenschaft, iv 341 (Werke, n, 202 ss.) (tr. it. «La gaia scienza», in F.W.
Nietzsche, Opere 1882/1895, ed. cit).
28
Nachlass, Werke, m, 704.
29
Geburt der Tragòdie, 19 (Werke, i, 110) (tr. it. «La nascita della tragedia», ed. cit.).
30
Nachlass Werke, iti, 469 e 465.
31
Ivi, 465.
32
Ivi.
33
Geburt der Tragòdie, 19 e 20 ( Werke, i, 110 e 112) (tr. it. «La nascita della tragedia», ed.
cit.).
34
Ecce homo, «La nascita della tragedia», tr. cit., p. 865.
35
Ivi, p. 866.
INTRODUZIONE DI ODDONE LONGO 197
nodare il nodo gordiano della cultura greca, che era stato tagliato da Ales-
sandro, e che oggi va ricomposto, ha anzi già trovato chi lo ricompone, in
una suprema sintesi culturale: Riccardo Wagner*6.
Della densissima esposizione del pensiero presocratico da Talete ad
Anassagora, ci limiteremo qui a cogliere alcuni tratti essenziali, nell'inten-
to di offrire al lettore, non una parafrasi — impresa improba oltre che di
scarsa utilità —, ma un disegno d'interpretazione complessiva, in stretta
connessione con quanto siamo venuti fin qui rilevando. Della periodizza-
zione in ossequio alla quale Nietzsche identifica l'età aurea della grecità
nella «età tragica», entro cui si circoscrive anche la storia dell'autentico
pensiero ellenico, si è già detto. Una seconda periodizzazione, interna alla
prima, ci è proposta con l'ulteriore suddivisione del pensiero presocratico
in due fasi, una «anassimandrea» (che comprende Talete, Anassimandro
ed Eraclito) ed una «parmenidea» (comprendente Parmenide, Senofane,
Anassagora: a questi andrebbero aggiunti gli atomisti, che nella Filoso-
fia..., come si è detto, non sono trattati). La pietra di confine fra queste
due fasi è segnata da Parmenide, più precisamente da quel momento nella
storia del pensiero parmenideo in cui il filosofo di Elea raggiunge, in virtù
di una specie di rivelazione, la concezione dell'essere (e in Parmenide in
quanto filosofo dell'essere è già in nuce il platonismo, e dunque la «deca-
denza», la morte della filosofia «tragica»).
Al di qua della linea di confine, Talete, Anassimandro, Eraclito. La sto-
ria del pensiero greco inizia con Talete, e inizia con un «balzo»: è con un
«balzo» che Talete supera, d'un tratto, il basso livello delle concezioni fisi-
che contemporanee («piuttosto che superato, Talete ha oltrepassato, a dir
poco, d'un balzo il basso stadio delle cognizioni fisiche del suo tempo»*1;
«è balzato al di là /ubersprang^ della scienza e del dimostrabile»]™. Nell'in-
tuizione fondamentale di Talete, per cui «tutto è acqua», è già contenuta
in germe la proposizione metafisica che «tutto è uno», e siamo con ciò ben
al di là di ogni rappresentazione mitica o allegorica. Il «balzo» di Talete ri-
guarda non solo il pensiero scientifico precedente, ma la stessa concezione
del mondo greca, improntata ad un realismo antropocentrico, che Talete
capovolge ponendo al centro del mondo, come unica realtà, non più l'uo-
mo, ma l'elemento primordiale, l'acqua («Non l'uomo, bensì l'acqua è la
realtà delle cose»).
Tuttavia, malgrado ogni carattere di precursore e di iniziatore da ricono-
scere a Talete, il vero inizio della speculazione filosofica si ha con Anassi-
mandro, «pietra terminale della filosofia greca»39, del cui apeiron Nietz-
sche dà un'interpretazione in netto contrasto con quella corrente: /'apeiron
non è l'«infinità», ma V«indeterminato», l'«indefinito», ciò cui non si può
attribuire alcun predicato, la «matrice di tutte le cose» («der Mutterschoss
aller Dinge»>, da cui il divenire procede e in cui torna a dissolversi, a per-
dere cioè i suoi predicati per annegarsi daccapo nell 'indistinzione primige-
nia (sintonia, per Anassimandro come per Talete, con la concezione che è
alla base <fe//'Anello del Nibelungo, al quale Wagner lavorava in quegli an-
ni: la prima rappresentazione a Bayreuth ebbe luogo nell'agosto del
1876!). La terra appassisce, i mari si disseccano, il fuoco annienta l'univer-
so... «Ma sempre di nuovo tornerà a riedificarsi un siffatto mondo della
36
Unzeitgemàsse Betrachtungen iv, 4 (Werke, i, 380 ss.) (tr. it. «Richard Wagner a Bay-
reuth.
37
Considerazioni inattuali vi, 4», in questo voi.).
38
La filosofia..., p. 210.
39
Ivi.
Ivi, p. 213.
198 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

caducità: chi riuscirebbe mai a redimervi dalla maledizione del diveni-


re?»*0. È, ancora una volta, la concezione dell'eterno ritorno, ma vissuta
come dannazione, come tragedia senza fine; in Anassimandro, l'incessante
successione delle nascite e del divenire è come un '«espressione di spasimo
doloroso sul volto della natura», un «funereo interminabile lamento in tut-
ti i regni dell'esistenza»41. Di fronte a questo immane dolore cosmico,
Anassimandro si leva con la dignità e la solennità di un personaggio tragi-
co, che nei suoi costumi di vita e nei suoi atteggiamenti dimostra la consa-
pevolezza della tragicità dell'esistenza, in un'autentica «fierezza tragica»
(«einen wahrhaft tragischen Stolz»>. L'eterno ritorno come tragedia senza
redenzione: come non pensare, ancora una volta, alla tentazione del demo-
ne della Gaia scienza?
La medesima concezione di un eterno divenire, di una perpetua instabili-
tà e caducità del reale si ripresenta in Eraclito, con i medesimi tratti di
un 'esperienza terrificante e sconvolgente, simile a quella di chi nel terremo-
to sente mancare la terra sotto i piedi. Ma posto di fronte alla «tragedia del
divenire», Eraclito compie l'impresa impossibile, che lo distanzia e lo in-
nalza sui suoi predecessori e sui suoi contemporanei: nella concezione della
«polarità» degli opposti, dello scomporsi della forza in due tensioni con-
trarie, qualitativamente distinte e tendenti alla ricomposizione, Eraclito su-
pera lo «stordimento» fBetàubung^ del divenire, tramutandolo in estatica
contemplazione, in sublime meraviglia. Se per Talete «tutto era uno» (al-
meno nel senso che esisteva un principio fisico unico, l'acqua), per Eraclito
vale il principio opposto: la molteplicità si annida nell'unità, «l'uno è il
molteplice» f«das Eine ist das Vide»/ Un rientrare dalla finestra della
«dialettica» cacciata dalla porta? Si deve dire piuttosto che la filosofia di
Eraclito si risolve in una «cosmodicea» fondata sul principio della «guer-
ra» come perpetua realizzazione di una giustizia unitaria: una cosmodicea
che, come Nietzsche preciserà più tardi nell'Ecce Homo, s'identifica con
l'«affermazione fBejahunaV del fluire e dell*annientare, carattere decisivo
in una filosofia dionisiaca, il "sì" detto all'opposizione e alla guerra: il di-
venire, con il radicale rifiuto dello stesso concetto di "essere"»42. In Eracli-
to Nietzsche vedrà appunto l'antesignano della propria «filosofia tragica»,
fondata su una concezione del tragico che va ben al di là dell'interpretazio-
ne aristotelica della tragedia come liberazione dal terrore e dalla pietà, per
immergersi nelV«eterna gioia del divenire», che è insieme anche la «gioia
dell'annientare»: questa è la grande trasposizione ^«Umsetzung»^ del dio-
nisiaco nel «pathos filosofico».
La sintesi eraclitea sarebbe tuttavia incompleta senza un elemento risolu-
tore centrale: l'idea della realtà come giuoco. «Il mondo è il giuoco di Zeus
o, per esprimersi in termini fisici, il giuoco del fuoco con se stesso: solo in
questo senso» si può predicare che «l'uno è al tempo stesso il molto»43. È il
giuoco dell' «artista» e del «fanciullo»; il «fuoco eterno», l'«Eone», giuo-
cano con se stessi nella più totale innocenza, così come giuoca il fanciullo o
l'artista. Il fanciullo fa e disfa i mondi per gioco, come l'artista; e ogni vol-
ta il giuoco ricomincia daccapo. È dunque solo una visione estetica quella
che permette di sperimentare la realtà come perpetua lotta del molteplice,
recante tuttavia in sé i princìpi della legge e della giustizia; solo l'esteta
40
/vi, p. 214.
41
M
42
Ecce homo, tr. cit., pp. 865-6.
43
La filosofia..., p. 218.
INTRODUZIONE DI ODDONE LONGO 199
(«der àsthetische Mensch»> può innalzarsi — e qui è riposto il senso pro-
fondo dell'estatica contemplazione eraclitea — a vedere «come necessità e
giuoco, conflitto e armonia debbano coniugarsi per generare l'opera d'ar-
te»*4. Il principio che regge il cosmo eracliteo è quello della legge nel dive-
nire e del giuoco nella necessità. Vi ritorneremo, più a fondo, a proposito
di Anassagora.
Con Eraclito si chiude la «fase anassimandrea» del pensiero presocratico
(un ritorno ad essa si avrà tuttavia con Anassagora). Con Parmenide sia-
mo agli antipodi, non solo filosofici, ma anche culturali. Per Nietzsche
Parmenide non è più greco di Socrate: il momento in cui nasce in Parmeni-
de la dottrina dell'essere è «così poco greco come nessun altro» f«ungrie-
chisch wie kein anderer»/5. Parmenide non è greco, come non è greco So-
crate, perché l'uno come l'altro si rifiutano alla visione tragica, all'espe-
rienza del dionisiaco. A carico di Parmenide va ascritta, in primo luogo, la
negazione del corpo, quella drastica rottura fra «corpo» e «spirito» che
«pesa sulla filosofia come una maledizione»46. Ma la spaccatura va a colpi-
re lo stesso intelletto da Parmenide assolutizzato, nel momento in cui egli
separa e contrappone percezione e ragione, sensazione e capacità astratti-
va. Al sommo di tutto, Parmenide colloca il concetto più «vuoto», più
«freddo»: Tessere, con la sua «rigida mortale immobilità»41. Ma l'essere è
vuoto, è nulla, e la stessa parola che lo indica «indica soltanto la relazione
più generale che collega tutte le cose». Non c'è una «verità assoluta» cui si
possa attingere con le parole (e «essere» non è che una parola), perché le
parole stesse non sono che «simboli riguardanti le relazioni delle cose tra di
loro e con /io/»48. Un astratto schematismo, la più totale assenza di vitalità
e di «sangue», di religiosità, di calore morale — ecco ciò di cui Nietzsche
fa carico a Parmenide, che per di più era un Greco («bei einem Grie-
chen!»>. Ma Parmenide, come si è detto, è agli antipodi dell'esperienza
dionisiaca: la dottrina dell'essere gli si manifesta sotto le specie di un «ra-
pimento» di segno contrario al rapimento dionisiaco, in una specie di illu-
minazione raggelante ed esangue che lo coglie con il «gelido brivido d'a-
strazione» («jener eisige Abstraktionsschauder»/9. Il filosofo, rapito nella
sfera dell'astratto e del privo di vita, si isola dalla realtà, prigioniero delle
generalità più sbiadite, alla ricerca della «verità» nella vuota scorza delle
parole più indeterminate, impigliato nelle ragnatele delle sue stesse formu-
le, pietrificato e trasformato in una pura «macchina per pensare».
La requisitoria contro la dottrina parmenidea dell'essere è, si può dire, il
fulcro, nel negativo, dell'affermazione del tragico, del dionisiaco, del «di-
venire» («Werden»^ che per Nietzsche sostanzia la realtà. In queste pagine
della Filosofia... Nietzsche conduce avanti la sua battaglia contro {'«esse-
re», contro la «verità», per il riscatto del «divenire», per la demistificazio-
ne della pretesa alla verità, per il rifiuto della stessa ipotesi che vi sia una
«verità», che vi sia un «essere», che vi siano delle «cose», laddove — come
egli non si stancherà di ribadire nei frammenti postumi degli anni '80 — la
credenza nell'essere, nelle cose, nella verità, non è che un mero strumento
operativo, una falsificazione operata dall'uomo alfine della conservazione
della specie, una manifestazione della volontà di potenza. L'identità e spe-
44
Ivi, p. 219 ss.
45
Ivi, p. 223.
46
Ivi, pp. 226-7.
47
Ivi, p. 227.
48
Ivi, p. 228.
49
Ivi, p. 222 ss.
200 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

cularità di pensiero ed essere predicata da Parmenide va così rovesciata,


nell'affermazione che dove c'è pensiero non può esserci essere, verità, «co-
se», ma c'è invece necessariamente falsificazione, «immaginario» («Par-
menide ha detto, "non si pensa ciò che non è"; noi siamo agli antipodi e di-
ciamo, "ciò che può essere pensato, deve certamente essere una finzio-
ne"»)50.
Spetterà ad Anassagora — della cui dottrina Nietzsche ci dà qui un'e-
sposizione magistrale — sgombrare il campo dall'«immobile, rigido, mor-
to essere di Parmenide», calando la dottrina dell'essere «non generato e
non perituro» dall'astrattezza della teoria nel concreto del mondo reale,
trasformando l'essere in una sostanza attiva ed operante, l'Intelletto (il
nus), nel quadro di una concezione grandiosa che deduce l'intero cosmo
del divenire dal circolo perennemente in moto del nus, mentre Parmenide
aveva immaginato l'essere e il mondo sotto forma di una sfera immobile.
Con la circonvoluzione cosmica operata dal nus, Anassagora ha riportato
il divenire e la vita nel mondo congelato da Parmenide, anche se con diffi-
coltà irrisolte, e con contraddizioni non superate, in primo luogo quella di
dover assumere, accanto al nus, una infinità di sostanze (le «omeomerie»),
ma una infinità che, ab aeterno, non patisce incremento né diminuzione, e
cioè, contraddittoriamente, un'infinità da concepirsi come chiusa e finita.
Al centro di questa infinità di sostanze in perpetuo moto, in incessante
aggregazione e disgregazione, l'Intelletto, il nus. Forse il principio supre-
mo della razionalità cosmica, operante in vista di un fine? Ebbene, no; la
negazione di una finalità, di una razionalità del cosmo anassagoreo (e già il
Socrate platonico rimproverava ad Anassagora di aver posto in opera ben-
sì cause motrici, ma non cause finali), questa negazione assume in Nietz-
sche la veste di un supremo assenso, appunto, alla non-finalità del nus; il
nus ha il privilegio dell'arbitrarietà fWillkur) del suo operare, può dare ini-
zio alla circonvoluzione cosmica in un momento scelto a suo piacimento,
non ha obblighi cui uniformarsi né scopi da raggiungere; esso «agisce di
proprio arbitrio; tutti i suoi atti, anche l'atto di quel moto originario, sono
atti della "volontà libera"... Quella volontà assolutamente libera, tuttavia,
può essere pensata unicamente come senza scopo, pressappoco alla stessa
maniera del giuoco fanciullesco o dell'impulso artistico al giuoco»51. Con
ciò Anassagora, consumando e superando l'esperienza parmenidea, si alli-
nea con l'altro grande filosofo «tragico», Eraclito. Principio supremo del
divenire cosmico è anche per Anassagora il giuoco. Quando il nus diede
inizio al movimento cosmico, proponendosi in qualche modo un fine, eb-
bene, tutto questo era solo «un giuoco»; l'Intelletto anassagoreo «è un ar-
tista... che coi mezzi più semplici crea le forme e le orbite più grandiose...
ma sempre prendendo le mosse da quell'arbitrio irrazionale che s'annida
nel profondo dell'artista»52, e il divenire è esso stesso, in questa prospetti-
va, «un fenomeno artistico».
È consumata così l'ultima delle Tre metamorfosi dello «spirito» di cui
recita l'omonimo discorso di Zarathustra; lo spirito, fattosi dapprima
«cammello», che si carica di tutta la gravezza del mondo, del peso dei valo-
ri, e quindi «leone», che lotta contro il drago del Tu devi per affermare il
proprio Io voglio, alla terza e ultima metamorfosi si fa fanciullo, e cioè
«innocenza... e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gi-
50
Nachiass Werke, in, 731.
51
La filosofia..., p. 242.
i2
Ivi, p. 241.
INTRODUZIONE DI ODDONE LONGO 201
ra su se stessa, un primo moto, un santo dire di sì»53. L'ideale è il giuoco
come il non-utile («das Unnùtzliche»>, e Dio è un dio-fanciullo, un dio che
«giuoca», pais paizón54. Irrazionalità, arbitrio, non-finalità, giuoco: il ri-
fiuto nietzscheano del finalismo meccanicistico, della razionalità capitali-
stica, l'esaltazione della vita come attività ludica, come fenomeno estetico,
è già formulata per intero nella Filosofia..., anche se qui essa ci è conse-
gnata come risultato di un 'indagine storica e al tempo stesso come la tipica
soluzione greca, la quintessenza della «grecità». Arte, filosofia e vita in
una sintesi suprema: «il mio compito: mostrare come vita, filosofia e arte
hanno fra di loro un profondo rapporto di affinità»55.
In questa convergenza fra considerazione storica e problematica attuale,
in questa maturazione del pensiero sul presente attraverso la riflessione sul-
l'antico va cercata una delle cifre forse più significative, per noi, della Filo-
sofia nell'età tragica... La filologia — non quella accademica, beninteso,
ma la nuova filologia di cui Nietzsche si fa qui il propugnatore — segna il
crocevia attraverso cui si deve passare nel continuo percorso dal presente al
passato e dal passato al presente, l'inesauribile «misurarsi di ogni epoca
con l'antichità». È solo dalla conoscenza del presente che può scaturire il
Trieb verso l'antichità classica: /Tirlebnis è condizione indispensabile per
fare filologia. Reciprocamente, la conoscenza del passato si pone, in que-
sta prospettiva, come il tramite ottimale per la comprensione del presente,
ed è qui che la filologia diventa una scienza perenne e in continuo rinnova-
mento. «Se al filologo si conferisce il compito di comprendere meglio il
suo tempo attraverso l'antichità, il suo compito diviene un compito eter-
no»56.
ODDONE LONGO

53
Così parlò Zarathustra, «Delle tre metamorfosi», tr. it. in F. W. Nietsche, Opere 1882-
1895, Roma, Newton Compton, 1993.
54
Nachlass, Werke m 492.
55
«Wissenschaft und Weisheit im Kampfe», in Werke, in, 337.
56
«Wir Philologen», in Werke, ni, 325 (da cui sono tratte tutte le citazioni di questo capo-
verso).
Prefazione

Quanto ai lontani, ci basta conoscere le loro mète per approvarli o riget-


tarli in blocco. Quanto ai vicini, giudichiamo secondo i mezzi con i quali
essi promuovono i loro obiettivi: spesse volte disapproviamo le loro mète,
ma li amiamo a cagione degli strumenti e della guisa del loro volere. Orbe-
ne, soltanto per i loro fondatori sono i sistemi filosofici interamente veri:
per tutti i filosofi posteriori sono di norma un unico grande errore, per le
teste più deboli una somma di errori e di verità, in ogni caso però, in quan-
to massimo obiettivo, sono un errore e, in questo senso, riprovevoli. Per
questa ragione molti uomini disapprovano ogni filosofo, giacché la sua
mèta non è la loro: sono questi i più lontani. Chi invece trova nei grandi
uomini la sua gioia, gioisce altresì di siffatti sistemi, per quanto essi siano
completamente erronei1: purtuttavia v'è in quelli un punto che è assoluta-
mente inconfutabile, un tono, una coloritura personali; possiamo servirce-
ne per conquistare l'immagine del filosofo, allo stesso modo con cui si può
giudicare il terreno dai frutti di un determinato luogo. Quel modo di vivere
e di considerare le cose umane è comunque esistito una volta ed è dunque
possibile: il «sistema», o almeno una parte di questo sistema, è il frutto di
questo terreno.
Il mio racconto è la storia semplificata di codesti filosofi: in ogni sistema
voglio mettere in evidenza unicamente il punto che costituisce un fram-
mento di personalità e che appartiene a quel tanto di inconfutabile e di in-
discutibile che la storia deve conservare: è un princìpio per riguadagnare e
ricreare, mediante un confronto, quelle nature e per restituire infine una
buona volta alla polifonia dell'indole greca tutta la sua risonanza: il com-
pito è quello di mettere in luce ciò che noi sempre dobbiamo amare e vene-
rare e ciò che non ci può essere defraudato da alcuna conoscenza ulteriore:
l'uomo grande2.
Prefazione posteriore1

Questo tentativo di raccontare la storia dei più antichi filosofi greci si di-
stingue da tentativi consimili per la sua brevità. Questa è stata ottenuta ci-
tando per ogni filosofo soltanto una parte assai esigua delle sue dottrine,
dunque grazie all'incompiutezza. Ma sono state scelte quelle dottrine nelle
quali ritrova la sua più intensa risonanza l'elemento personale di un filoso-
fo, mentre una completa rassegna di tutti i possibili insegnamenti traman-
dati, com'è d'uso nei manuali, ha in ogni caso, quale unico risultato, il
completo ammutolirsi dell'elemento personale. Per questo codeste tratta-
zioni ingenerano tanta noia: infatti, in sistemi che risultano confutati, l'u-
nico motivo d'interesse è appunto costituito dall'elemento personale, es-
sendo questo l'eternamente inconfutabile. Con tre aneddoti è possibile da-
re l'immagine di un uomo: io cerco di mettere in risalto, in ogni sistema,
tre aneddoti, e sacrifico il resto.
1.
Esistono avversari della filosofia: e si fa bene ad ascoltarli, particolar-
mente quando sconsigliano la metafisica alle teste malate dei Tedeschi1 e
predicano invece una purificazione attraverso la physis, come Goethe2, o
una guarigione attraverso la musica, come Richard Wagner. I medici del
volgo ripudiano la filosofia; chi vuole dunque giustificarla si compiaccia di
mostrare a qual fine i popoli sani si servono e si sono serviti della filosofia.
Nel caso che questo gli sia possibile, persino gli infermi, forse, si renderan-
no fruttuosamente conto del perché questa sia nociva proprio a loro. Ci so-
no, in verità, buoni esempi di una salute che può sussistere assolutamente
senza filosofia o con un uso alquanto moderato e quasi giocoso di essa; co-
sì i Romani vivevano, nella loro migliore età, senza filosofia. Ma dove si
troverebbe l'esempio della infermità di un popolo al quale la filosofia aves-
se restituito la perduta salute? Se mai essa si è manifestata soccorrevole,
salvifera, preservatrice, è stato tra i sani, i malati li ha costantemente resi
ancor più malati. Se mai un popolo mostrò i segni della disgregazione e
con inerte tensione si tenne collegato ai suoi singoli membri, non fu mai la
filosofia a riannodare più saldamente questi individui al tutto. Se mai
qualcuno fu propenso a starsene in disparte e a dedurre intorno a sé la sie-
pe di chi di se stesso è pago, sempre la filosofia fu pronta ad isolarlo viep-
più e, con l'isolamento, a distruggerlo. Essa è pericolosa, laddove non è
nel suo pieno diritto: e soltanto la salute di un popolo, ma neppure di ogni
popolo, dà ad essa questo diritto.
Guardiamoci ora attorno in cerca di quella massima autorità per ciò che
in un popolo deve essere detto sano. 1 Greci, in quanto veramente sani3,
hanno giustificato una volta per tutte la stessa filosofia col loro filosofare4;
e invero, molto di più che tutti gli altri popoli. Non poterono neppure farla
finita al momento giusto; giacché ancora nel tempo sterile della vecchiaia
si atteggiarono a fervidi veneratori della filosofia, per quanto già intendes-
sero sotto questo nome soltanto i devoti arzigogoli e i sacrosanti cavilli del-
la dogmatica cristiana. Non avendo potuto desistere al momento giusto,
hanno essi stessi ridotto di molto i loro meriti nei confronti della barbara
posterità, poiché questa, nell'insipienza e nella veemenza della sua giovi-
nezza, dovette impigliarsi appunto in quelle reti e in quei lacci artificial-
mente intessuti.
Viceversa i Greci hanno saputo cominciare a tempo giusto, e chiaramen-
te come nessun altro popolo sanno ammaestrarci su quando si debba dare
inizio al filosofare. Vale a dire, non soltanto nella tribolazione come riten-
gono certuni, per i quali la filosofia discende dalla tetraggine. Bensì nella
gioia, in una matura virilità, dal bel mezzo dell'accesa gaiezza di una prode
e vittoriosa età virile. Il fatto che i Greci abbiano filosofato in questo tem-
po ci ammaestra tanto su quel che la filosofia è e deve essere, quanto sui
206 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [1]

Greci stessi. Se fossero stati, allora, quei prosaici e saccenti uomini pratici
ed equilibrati, quali se li immagina il dotto filisteo dei nostri tempi, o se
avessero vissuto solo in uno sfrenato librarsi, risuonare, respirare e sentire,
come non esita a supporre l'incolto visionario, non si sarebbe affatto ma-
nifestata presso di loro la sorgente della filosofia. Tutt'al più ci sarebbe
stato un ruscello, ora smorente col suo bisbiglio nella sabbia, ora svapo-
rante nelle nebbie, giammai però quel largo fiume riversantesi in superbe
ondate, al quale diamo il nome di filosofia greca.
Effettivamente ci si è infervorati a mostrare quanto i Greci poterono tro-
vare e apprendere nell'Oriente straniero e in quanti modi diversi abbiano
attinto di là. Fu indubbiamente un bizzarro spettacolo quando si chiama-
rono insieme a convegno i presunti maestri d'Oriente e i possibili discepoli
greci, e si fece apparire a questo punto Zoroastro accanto ad Eraclito, gli
Indiani accanto agli Eleati, gli Egizi a fianco di Empedocle, o perfino
Anassagora in mezzo agli Ebrei e Pitagora tra i Cinesi5. Di particolare è
stato trovato poco; ma a questo pensiero nella sua globalità abbiamo con-
sentito di buon grado, sempreché non ci venga fatta pesare la conseguenza
che la filosofia sarebbe stata così soltanto importata in Grecia e non sareb-
be allignata su un naturale terreno nativo, e che addirittura, essendo essa
qualcosa di straniero, avrebbe recato ai Greci piuttosto rovina che avanza-
mento. Nulla di più insensato che attribuire ai Greci una cultura autocto-
na; essi hanno, al contrario, assorbito ogni cultura fiorente presso altri po-
poli; giunsero così lontano proprio perché seppero scagliare più avanti la
lancia da quel punto in cui un altro popolo l'aveva abbandonata a terra6.
Nell'arte di imparare con frutto essi sono ammirevoli: e al pari di loro noi
dobbiamo apprendere dai nostri vicini in vista della vita, non della cono-
scenza erudita, utilizzando quanto si è appreso come un sostegno sul quale
ci si innalza sempre più in alto del vicino. Le questioni sulle origini della fi-
losofia sono del tutto irrilevanti, giacché, ovunque, al principio, c'è il roz-
zo, l'informe, il vuoto e il brutto, e in ogni cosa sono presi in considerazio-
ne solo gli stadi superiori. Chi in luogo della filosofia greca preferisce oc-
cuparsi di quella egizia e persiana, essendo quelle forse «più originali» e in
ogni caso più antiche, si comporta con la stessa sconsideratezza di coloro
che non riescono a darsi pace per quanto riguarda la mitologia greca tanto
splendida e profonda, finché non l'hanno ricondotta alle grossolanità fisi-
che, quali sole, fulmine, procella e nebbia, come suoi princìpi originari, e
che farneticano di aver ritrovato, per esempio, nella ristretta adorazione di
una volta celeste presso i prodi Indogermani, una forma della religione più
pura di quanto sarebbe stata quella politeistica dei Greci. La via alle origini
porta ovunque alla barbarie; e chi si occupa dei Greci deve sempre tener
presente che lo sfrenato impulso del sapere è in ogni tempo, in se stesso,
radice di barbarie quanto l'odio del sapere e che in virtù di un riguardo
verso la vita, in virtù di una ideale esigenza di vita, i Greci hanno represso
il loro impulso, in sé insaziabile, di sapere, volendo essi vivere subito quel
che imparavano7. Anche in quanto uomini di cultura e con i fini della cul-
tura i Greci hanno fatto filosofia, epperciò non si dettero cura d'inventare
ancora una volta, sulla base di una qualsivoglia autoctona presunzione, gli
elementi della filosofia e della scienza; ma si impegnarono subito a verifi-
care, potenziare, innalzare e purificare questi elementi acquisiti, così da di-
ventare solo a questo punto inventori in un senso più alto e in una sfera più
pura. Inventarono cioè le tipiche teste filosofiche, e l'intera posterità non
ha più nulla d'essenziale da inventare ancora.
Ogni popolo prova vergogna quando si rinvia ad una società di filosofi
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI (1) 207

così mirabilmente idealizzata, come quella dei maestri dell'antica Grecia,


Talete, Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Anassagora, Empedocle, De-
mocrito e Socrate. Tutti codesti uomini sono sbozzati interi e da un'unica
roccia. Tra il loro pensiero e il loro carattere domina una rigorosa necessi-
tà. Manca per essi ogni convenzione, non esistendo allora un ceto di filoso-
fi e di dotti. Stanno tutti in una grandiosa solitudine, essendo gli unici, in
quel tempo, a vivere soltanto di conoscenza. Posseggono tutti la virtuosa
energia degli antichi, grazie alla quale sormontano tutti i posteri nel trova-
re la loro propria forma e nel perfezionarla, per metamorfosi, sino all'e-
strema finezza e grandezza. Nessuna moda, infatti, si fece loro incontro
soccorrevole e lenitrice. Così essi formano tutti insieme quella che Scho-
penhauer, in antitesi alla repubblica dei dotti, ha chiamato repubblica di
geniali8: un gigante chiama l'altro attraverso le desolate distanze dei tempi,
e l'alto dialogo degli spiriti prosegue indisturbato dall'accozzaglia petulan-
te e strepitante dei nani che vanno strisciando sotto di loro.
Di questo alto dialogo di spiriti mi sono proposto di narrare quel che la
nostra moderna durezza d'orecchi può in qualche modo udire e intendere9:
cioè, senza dubbio, assai poco. Mi sembra che in codesto dialogo quegli
antichi saggi, da Talete a Socrate, abbiano trattato tutto ciò che nella sua
forma più generica costituisce ai nostri occhi la peculiarità ellenica. Nel lo-
ro colloquio, come già nella loro personalità, essi esprimono i grandi tratti
del genio greco, dei quali l'intera storia greca è l'immagine ombratile, la
copia sbiadita e perciò, nel suo linguaggio, non chiara. Se del popolo greco
interpretassimo esattamente la vita nella sua totalità, troveremmo sempre
rispecchiata soltanto quell'immagine che nei suoi geni eccelsi rifulge di più
vivi colori. Già la prima esperienza della filosofia in terra greca, la sanzio-
ne dei Sette Sapienti10, è una linea chiara e inobliabile nell'immagine del-
l'ellenico. Altri popoli posseggono santi, i Greci hanno sapienti. Si è detto
a ragione che un popolo non è tanto caratterizzato dai suoi grandi uomini,
quanto dal modo con cui li riconosce e li onora. In altri tempi il filosofo è
un casuale viandante solitario in un ambiente estremamente ostile che sci-
vola via furtivo oppure, stringendo i pugni, si apre un varco. Soltanto
presso i Greci il filosofo non è casuale: quando nel sesto e nel quinto secolo
appare tra i pericoli e le seduzioni enormi della mondanizzazione e come se
uscisse dalla caverna di Trofonio11, si fa in mezzo all'opulenza, alla felicità
della scoperta, alla ricchezza e alla sensualità delle colonie greche, si ha il
presentimento che egli venga, a guisa d'un nobile ammonitore, allo stesso
scopo per il quale, in quel secolo, nacque la tragedia12, e che i misteri orfici
fanno intendere nei grotteschi geroglifici dei loro riti. Il giudizio di quei fi-
losofi sulla vita e l'esistenza in generale è di gran lunga più significativo
d'un giudizio moderno, avendo costoro dinanzi a sé la vita in una rigoglio-
sa perfezione e non smarrendosi mai presso di loro il sentimento del pensa-
tore, come avviene invece tra di noi, nella scissione tra il desiderio di liber-
tà, di bellezza, di grandezza vitale e l'impulso verso la verità, che insiste nel
chiedere: qual è in generale il valore della vita? Il compito che il filosofo
deve adempiere all'interno di una cultura reale, plasmatasi secondo uno
stile unitario, non può essere spiegato sulla base delle nostre condizioni ed
esperienza, per il semplice fatto che noi non possediamo una tale cultura.
Soltanto una cultura come quella greca può invece rispondere al problema
di codesto compito del filosofo, soltanto questa, come dicevo, può giustifi-
care la filosofia in generale, essendo essa l'unica a sapere e a dimostrare
per quale ragione e in che guisa il filosofo non sia un casuale viandante
qualsiasi, sbalestrato in questo o in quel luogo. Esiste una necessità
208 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [2]

ferrea che incatena il filosofo ad una vera cultura; ma in che modo se que-
sta cultura non esiste? Il filosofo è allora una imprevedibile e perciò terrifi-
cante cometa, mentre nel migliore dei casi irradia luce come una stella di
prima grandezza nel sistema solare della cultura. Per questo i Greci giusti-
ficano il filosofo, perché soltanto accanto a loro non è una cometa13.

2.
Dopo tali considerazioni si accetterà senza scandalo che io parli dei filo-
sofi preplatonici come di una collettività omogenea e pensi di dedicare sol-
tanto a loro questo scritto. Con Platone comincia qualcosa d'affatto nuo-
vo; ovvero, come si può dire allo stesso buon diritto, da Platone in poi
manca ai filosofi qualcosa di sostanziale in confronto a quella repubblica
di geniali da Talete a Socrate.
Chi si vuole pronunciare sfavorevolmente riguardo a quei più antichi
maestri, può chiamare costoro i monocordi, e i loro epigoni, Platone alla
testa, i pluricordi. Sarebbe però maggiormente giusto ed equanime inten-
dere questi ultimi come filosofici caratteri ibridi, i primi, invece, come tipi
puri. Lo stesso Platone è il primo grandioso carattere ibrido e tanto nella
sua filosofia quanto nella sua personalità è scolpito come tale. Nella sua
dottrina delle idee sono riuniti elementi socratici, pitagorici ed eraclitei: per
questo essa non è un fenomeno tipicamente puro. Anche come uomo, Pla-
tone fonde i tratti di un regalmente distante e supremamente pago Eracli-
to, di un malinconicamente-compassionevole e legiferatore Pitagora e di
un Socrate, il dialettico esperto d'anime. Tutti i filosofi posteriori sono sif-
fatti caratteri ibridi; là dove in essi si presenta qualcosa di monocorde, co-
me nei cinici, non c'è tipo, sibbene caricatura. Ma cosa molto più impor-
tante è che costoro sono fondatori di sette e che le sette da essi fondate fu-
rono tutte organismi contestatori della civiltà ellenica e della sua sino ad al-
lora esistente unità di stile. Alla loro maniera essi cercano una redenzione,
ma solo per i singoli o tutt'al più per gruppi vicini di amici e discepoli.
L'attività dei filosofi più antichi si volge, ad onta della loro inconsapevo-
lezza, ad un risanamento e ad una purificazione in blocco; il corso possen-
te della civiltà greca non deve arrestarsi, terribili pericoli devono essere
sgombrati dalla sua strada, il filosofo protegge e difende il suo luogo nata-
le. Ora, a cominciare da Platone, egli è in esilio e complotta contro la sua
patria. — È una vera calamità che ci resti così poco di quei più antichi
maestri di filosofia e che ci venga sottratta ogni completezza. Nostro mal-
grado, a causa di quella perdita, li misuriamo secondo metri errati e ci la-
sciamo impressionare a sfavore dei primitivi dalla circostanza puramente
accidentale che a Platone ed Aristotele non sono mai mancati estimatori e
plagiatori. Taluni suppongono una particolare provvidenza per i libri, un
fatum libellorum: ma questo-dovette in ogni caso essere assai maligno se
trovò giusto sottrarci Eraclito, il meraviglioso poema di Empedocle, gli
scritti di Democrito, che gli antichi mettono sullo stesso piano di Platone e
che persino lo sopravanza in nobiltà, e al loro posto farci venir tra le mani
Stoici, Epicurei e Cicerone. La parte più grandiosa del pensiero greco e
della sua espressione in parole è probabilmente andata perduta per noi: un
destino di cui non si stupirà chi ricordi le sventurate sorti di Scoto Eriuge-
na1 o di Pascal2 e consideri che anche in questo secolo illuminato la prima
edizione del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer do-
vette essere ridotta in carta da macero3. Se qualcuno vuole ammettere per
tali casi una particolare potenza del fato, lo faccia pure e dica con Goethe:
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [3] 209

«Nessuno si dolga dell'abiezione: infatti, checché se ne dica, è potenza»4.


In particolare, è più possente della potenza della verità. Ben di rado l'uma-
nità produce un buon libro in cui con ardimentosa libertà venga intonato il
canto di battaglia del vero, il canto dell'eroismo filosofico: se esso soprav-
vive ancora un secolo oppure diventa fango o terra, ciò dipende dalle più
miserabili accidentalità, da un offuscarsi repentino delle menti, da sussulti
e antipatie di natura superstiziosa, e infine persino da dita pigre a scrivere
o addirittura da tarli roditori e dal maltempo. Ma non lagnamoci; prendia-
mo invece come dette proprio a noi le sdegnose e confortanti parole da Ha-
mann rivolte ai dotti che levano lamenti sulle opere perdute: «L'artigiano
che con una lente passa attraverso la cruna d'un ago, ha bisogno forse
d'un moggio di lenti per esercitare la sua acquisita abilità? Ci piacerebbe
rivolgere questa domanda ai dotti che non sanno usare le opere degli anti-
chi più saggiamente di quanto costui usasse le sue lenti»5. Ci sarebbe da ag-
giungere nel nostro caso che per stabilire la tesi generale che i Greci giusti-
ficano la filosofia, non occorreva ci fossero tramandati una parola, un
aneddoto, una data in più oltre a quanto ci è pervenuto e che anzi ci poteva
essere stato conservato molto meno. — Un'età che soffre della cosiddetta
educazione collettiva, ma che non ha cultura e nessuna unità di stile nella
sua vita, non saprà venire a capo di nulla con la filosofia, anche quando
essa venisse conclamata su strade e mercati dal genio stesso della verità. In
un'epoca siffatta essa resta piuttosto un dotto monologo del viandante so-
litario, preda occasionale del singolo, occulto segreto da studiolo o inno-
cuo chiacchiericcio tra accademici vegliardi e fanciulli. Nessuno può osare
di adempiere la norma della filosofia in sé, nessuno vive filosoficamente
con quella semplice fedeltà virile che costringeva un antico, ove avesse pro-
messo fedeltà alla Stoa, a comportarsi da stoico ovunque si trovasse e qua-
lunque fosse la sua attività. Tutto il moderno filosofare è politicamente e
poliziescamente circoscritto da governi, chiese, accademie, costumi, mode,
pusillanimità umane, alla dotta apparenza: si riduce al sospiro: «eppure
se», o alla conoscenza: «c'era una volta». La filosofia non ha diritti, per
questo l'uomo moderno, sempreché fosse animoso e coscienzioso, dovreb-
be ripudiarla e bandirla a un dipresso con le stesse parole con cui Platone
cacciava dal suo Stato i poeti tragici6. Indubbiamente resterebbe ad essa
una replica, come resta, contro Platone, anche a codesti poeti tragici:
«Volgo miserevole! È colpa mia se in mezzo a te vado vagabondando come
una profetessa nella sua terra e mi devo nascondere e contraffare quasi
fossi io la peccatrice e voi i miei giudici? Guardate un po' la mia sorella,
l'arte! Le accade lo stesso che a me, siamo sbalestrati in mezzo a barbara
gente e non sappiamo più metterci in salvo. Qui ci manca, è vero, ogni
buon diritto: ma i giudici dinanzi ai quali ci verrà resa giustizia, giudiche-
ranno anche voi e vi diranno: Dovete prima possedere una cultura per sa-
pere anche voi che cosa vuole e che cosa può la filosofia». —

3.
La filosofia greca sembra aver inizio con un'idea inconsistente, la pro-
posizione che l'acqua è l'origine e il grembo materno di tutte le cose1. È
davvero necessario soffermarci su questo punto e prendere un serio atteg-
giamento? Sì, e per tre motivi: primo, perché la frase asserisce qualcosa
sull'origine delle cose; secondo, perché Io fa in guisa non immaginosa e
senza favoleggiamenti2; terzo, perché in essa, benché unicamente allo stato
di metamorfosi larvale, è racchiuso il pensiero: tutto è uno. Il motivo indi-
210 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [3]

cato per primo lascia Talete ancora in compagnia dei religiosi e dei super-
stiziosi, il secondo lo snida invece da questa compagnia e ci mostra in lui il
naturalista, il terzo motivo, però, fa di Talete il primo filosofo greco3. Se
avesse detto: dall'acqua viene la terra, avremmo soltanto un'ipotesi scien-
tifica, fallace sì, ma tuttavia difficilmente confutabile. Egli invece andò ol-
tre lo scientifico. Nella rappresentazione di questa idea di unità mediante
l'ipotesi dell'acqua, piuttosto che superato, Talete ha oltrepassato, a dir
poco, d'un balzo il basso stadio delle cognizioni fisiche del suo tempo. Le
manchevoli e disordinate osservazioni di tipo empirico che Talete aveva
fatto sull'apparizione e sulle trasformazioni dell'acqua, o più esattamente
dell'umido, avrebbero consentito ben poco o tanto meno consigliato una
siffatta generalizzazione; ciò che condusse a questa fu un articolo di fede
metafisico che ha la sua origine in una intuizione mistica e che incontriamo
in tutte le filosofie insieme ai sempre rinnovati tentativi di esprimerlo me-
glio — la proposizione «tutto è uno»4.
È degno di nota il modo tirannico con cui una tale fede tratta ogni empi-
ria: proprio in Talete è possibile apprendere quale è stato in ogni tempo il
modo di procedere della filosofia, quando ha voluto valicare i cancelli del-
l'esperienza per tendere alla sua mèta magicamente affascinante. Su lievi
sostegni spicca un balzo in avanti: la speranza e la divinazione le mettono
ali ai piedi. Pesantemente le si affanna dietro l'intelletto calcolatore e cerca
puntelli migliori per attingere anch'esso quell'allettante mèta a cui la più
divina compagna è già pervenuta5. Sembra di vedere due viandanti sulla ri-
va di un rapinoso ruscello silvestre che rotola ciottoli nella sua corsa: il pri-
mo lo oltrepassa d'un salto con agile piede, servendosi delle pietre e lan-
ciandosi sempre innanzi su di esse, anche se queste immediatamente affon-
dano dietro di lui. Il secondo si arresta ad ogni momento, privo di soccor-
so, deve prima costruirsi fondamenta che sopportino il suo greve, guardin-
go passo; talvolta non c'è nulla da fare e allora non v'è un dio che l'aiuti a
guadare il ruscello. Che cosa dunque porta così rapidamente alla sua mèta
il pensiero filosofico? Si diversifica esso dal pensiero che calcola e misura,
forse soltanto per il suo più rapido volo nel valicare grandi spazi? No, giac-
ché è un'ignota e non logica potenza, la fantasia, a sollevare il suo piede.
Da essa innalzato balza avanti di possibilità in possibilità, che provvisoria-
mente vengono assunte come certezze: qua e là coglie anche certezze a vo-
lo. Un geniale presentimento gliele addita, esso indovina da lontano che in
quel punto ci sono certezze dimostrabili. Ma in particolar modo possente è
la forza della fantasia nel fulmineo afferrare e illuminare le analogie6; in
seguito la riflessione fa avanzare i suoi canoni e i suoi modelli e cerca di so-
stituire con le eguaglianze le analogie, con le causalità le contiguità osser-
vate. Ma anche se ciò non dovesse mai essere possibile, persino nel caso di
Talete il filosofare indimostrabile ha ancora un valore; per quanto tutti i
sostegni siano infranti, allorché la logica e l'inflessibilità dell'empiria vuole
travalicare fino alla proposizione: «tutto è acqua», purtuttavia sopravanza
un residuo alla disgregazione della costruzione scientifica; e appunto in
questo residuo sta una forza impulsiva e, per così dire, la speranza di una
fecondità futura.
Naturalmente io non credo che in una qualche limitazione o attenuazio-
ne o nelle vesti di un'allegoria questo pensiero racchiuda forse ancora una
sorta di «verità»: come se per caso ci si immaginasse che soffermandosi
presso una cascata uno scultore vedesse, nelle forme che gli balzano con-
tro, un giuoco, artisticamente espresso in figure esemplari, dell'acqua con
membra umane e ferine, maschere, piante, rocce, ninfe, vegliardi7, e in gè-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [31 211

nere con tutti i tipi esistenti; sì che per lui risulterebbe confermata la pro-
posizione «tutto è acqua». Il pensiero di Talete — anche dopo il riconosci-
mento della sua indimostrabilità8 — ripone piuttosto il suo valore esatta-
mente nel fatto che esso fu comunque inteso in guisa non mitica né allego-
rica. I Greci, tra i quali Talete divenne all'improvviso così ragguardevole,
erano in ciò l'opposto di tutti i realisti, in quanto credevano propriamente
soltanto alla realtà di uomini e dèi e riguardavano la natura quasi unica-
mente come un travestimento, una mascherata e una metamorfosi di questi
uomini-dèi. L'uomo era per costoro la verità e il nocciolo delle cose, tutto
il resto soltanto fenomeno e ingannevole giuoco. Appunto per questo co-
stituiva per loro un inconcepibile disagio cogliere i concetti come concetti:
e all'opposto dai moderni, presso i quali l'elemento più personale si subli-
ma in astrazioni, per loro la massima astrattezza tornava sempre a racco-
gliersi in una persona. Ma Talete diceva: «Non l'uomo, bensì l'acqua è la
realtà delle cose». Egli comincia a credere nella natura, nella misura alme-
no in cui crede nell'acqua. Come matematico e astronomo aveva acquisito
una certa freddezza nei confronti di tutto quanto è mitico e allegorico, e se
non gli riuscì di disincantarsi fino alla pura astrazione «tutto è uno», re-
stando inchiodato ad un'espressione fisica, costituì tuttavia, tra i Greci del
suo tempo, una sorprendente rarità. Gli Orfici forse, assolutamente fuori
del comune, possedevano la capacità di concepire astrazioni e di pensare in
termini non plastici in un grado ancora più elevato del suo: solo che non fu
loro possibile esprimerle se non nella forma dell'allegoria. Anche Ferecide
di Siro, che si avvicina a Talete nel tempo e in talune concezioni fisiche9,
nel modo con cui esprime queste astrazioni resta sospeso in quella regione
intermedia in cui il mito si congiunge con l'allegoria: così da osare, per
esempio, di paragonare la terra ad una quercia alata che si libra nell'aria
ad ali spiegate10 e intorno alla quale Zeus, sopraffatto Cronos, ha steso
uno splendido manto d'onore trapunto di terre, acque e fiumi dalla sua
stessa mano. Di fronte a un siffatto filosofare oscuramente allegorico, a
malapena traducibile in termini visivi, Talete è un maestro creatore che co-
minciò a scrutare, senza favoleggiarvi fantasticamente, nelle profondità
della natura. Per quanto in questo si fosse effettivamente servito della
scienza e del dimostrabile e li avesse oltrepassati ben presto, ciò resta
egualmente un tipico tratto distintivo della mente filosofica. La parola gre-
ca che designa il «sapiente» appartiene etimologicamente a sapio, assapo-
ro, sapiens, colui che assapora, sisyphos, l'uomo dal gusto sottilissimo11;
un acuto trar fuori assaporando e conoscendo, un significativo distinguere
costituisce dunque, secondo la coscienza del volgo, la peculiare arte del fi-
losofo. Egli non è accorto, se si attribuisce il termine di accorto a colui che
sa discernere l'utile nelle sue proprie faccende. A ragione Aristotele affer-
ma: «Quel che sanno Talete e Anassagora verrà detto inconsueto, sorpren-
dente, difficile, divino, ma inutile perché costoro non badavano ai beni
umani»12. Mediante questa elezione e sceveramento dell'inconsueto, del
sorprendente, del difficile, del divino, la filosofia delimita i propri confini
nei riguardi della scienza allo stesso modo con cui, mercé il risalto dato al
disutile, trova la sua distinzione dall'accortezza. Senza codesta scelta, sen-
za codesta finezza di gusto la scienza piomba su tutto lo scibile, nella cieca
bramosia di voler tutto conoscere a qualsiasi prezzo; il pensiero filosofico,
invece, è sempre sulla traccia delle cose degne d'essere sapute, delle grandi
e più importanti conoscenze. Pertanto il concetto della grandezza è varia-
bile, sia sul terreno morale che su quello estetico: così la filosofia comincia
con una legislazione della grandezza13, ad essa si riconnette un imporre no-
212 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [4]

mi. «Questo è grande», essa dice, e in tal modo innalza l'uomo sulla cieca,
sfrenata cupidità del suo istinto di conoscenza. Mercé l'idea della grandez-
za impone a questo istinto un freno: col considerare, per Io più, come rag-
giungibile e raggiunta la suprema conoscenza, quella intorno all'essenza e
al nocciolo delle cose. Quando Talete dice «tutto è acqua», con un sussulto
l'uomo si solleva cessando il brancicare e tortuoso strisciare, a mo' dei ver-
mi, proprio delle scienze particolari, presagisce la soluzione ultima delle
cose e con questo divinamento supera la volgare angustia dei gradi inferio-
ri di conoscenza. Il filosofo cerca di far riecheggiare dentro di sé l'univer-
sale armonia del mondo e di estrinsecarla in concetti: benché contemplati-
vo come l'artista plastico, compassionevole come il religioso, intento a
scrutare finalità e causalità come l'uomo di scienza, benché si senta cresce-
re sino a divenire il macrocosmo, conserva l'avvedutezza di considerarsi
freddamente un riflesso del mondo, quella avvedutezza che è propria del
poeta drammatico quando si trasmuta in altre persone, parla per bocca lo-
ro, e sa tuttavia proiettare fuori di sé, in versi scritti, questa metamorfosi.
Ciò che è qui il verso per il poeta, è per il filosofo il pensiero dialettico: egli
s'afferra ad esso per tener saldo il proprio incantesimo, per pietrificarlo. E
come per il drammaturgo parola e verso sono soltanto un balbettio in una
lingua straniera14, allo scopo di dire in essa quel che ha vissuto e veduto [e
quel che solo attraverso i gesti e la musica può direttamente render noto]15,
così l'espressione di ogni profonda intuizione filosofica attraverso la dia-
lettica e la riflessione scientifica è, invero, per un certo aspetto, l'unico
mezzo per comunicare quanto è stato veduto, un mezzo tuttavia misero,
anzi, in fondo, una trasposizione metaforica del tutto infedele in una sfera
e in un linguaggio diversi. Così Talete vide l'unità degli essenti: e poiché
voleva comunicare, parlò dell'acqua!

4.
Mentre il tipo universale del filosofo1 si delinea nella figura di Talete,
ma solo come se affiorasse dalle nebbie, l'immagine del suo grande succes-
sore parla a noi già con maggior chiarezza. Anassimandro di Mileto, il pri-
mo scrittore filosofico dell'antichità2, scrive nel modo in cui precisamente
scriverà il filosofo tipico, sintantoché spregiudicatezza e semplicità non gli
verranno estorte da singolari esigenze: testimone frase per frase, in una
scrittura lapidaria grandiosamente stilizzata, di una nuova illuminazione
ed espressione di una sublime sosta contemplativa. Il pensiero e la sua for-
ma sono pietre miliari sul sentiero di una suprema saggezza. Con siffatta
epigrafica efficacia disse una volta Anassimandro: «Là donde le cose han-
no l'origine loro, devono perire secondo la necessità; conviene infatti che
esse paghino il fio e siano giudicate per le loro ingiustizie, secondo l'ordine
del tempo»3. Enigmatica sentenza di un autentico pessimista, oracolo scol-
pito sulla pietra terminale della filosofia greca, come ti interpreteremo?
L'unico moralista d'impianto rigoroso del nostro secolo ci raccomanda
fervidamente nei «Parerga», volume n, p. 327, una considerazione analo-
ga. «Il retto criterio per giudicare ogni uomo sta nel vedere in lui un essere
che non dovrebbe affatto esistere, ma che sconta la sua esistenza con molte
specie di dolori e di morte: che cosa ci possiamo attendere da un tale esse-
re? Non siamo forse tutti noi peccatori condannati a morte? Noi espiamo
la nostra nascita in primo luogo con la vita e secondariamente con la mor-
te.4» Chi sa leggere in questa dottrina, estraendola dalla fisionomia della
nostra comune sorte umana, e già nel fatto che nessuna sopporta di essere
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [4] 213
considerata attentamente e molto da vicino riconosce la radicale malfor-
mazione di ogni vita umana — benché il nostro tempo, adusato alla bio-
grafica pestilenza, sembri pensare in termini diversi e più vistosi intorno al-
la dignità dell'uomo —; chi, come Schopenhauer, ha udito sulle «vette del-
le brezze indiane» la sacra parola del valore morale dell'esistenza, difficil-
mente potrà fare a meno dal fabbricare una metafora assolutamente antro-
pomorfica e dal sottrarre a quella malinconica dottrina la sua triste limita-
zione alla vita umana applicandola, per trasposizione, al carattere univer-
sale di ogni esistenza. Può non essere logico, ma è comunque davvero
umano e per df più davvero nello stile del balzo filosofico sovra descritto,
riguardare ora con Anassimandro ogni divenire come una emancipazione,
meritevole di castigo, dall'eterno essere, come un'ingiustizia che deve esse-
re espiata con la distruzione. Tutto ciò che è divenuto una volta, ancora
una volta dilegua, sia che si pensi alla vita umana o all'acqua o al caldo o
al freddo: ovunque sono percepibili determinate proprietà, ci è consentito,
stando a un'immensa dimostrazione d'esperienza, preconizzare la distru-
zione di queste proprietà. Una sostanza che possieda determinate qualità e
in esse consiste, non potrà dunque mai essere origine e principio delle cose;
il vero essente, concludeva Anassimandro, non può avere proprietà deter-
minate, altrimenti esso, al pari di ogni altra cosa, avrebbe necessariamente
una nascita e una morte. Affinché non si arresti il divenire, la sostanza ori-
ginaria deve essere indeterminata. L'immortalità e l'eternità della sostanza
originaria non sta nella sua infinitudine e inesauribilità — come general-
mente ammettono gli esegeti di Anassimandro5 —, bensì nel fatto che essa
è priva di qualità determinate, comportanti la distruzione; di qui il nome di
«indeterminato»6 che le viene attribuito. Questa sostanza originaria così
denominata è sovrastante al divenire e appunto per questo garantisce l'e-
ternità e il corso, senza inceppi, del divenire. Questa estrema unità in code-
sto «indeterminato», questa matrice di tutte le cose, può certamente essere
definita dall'uomo solo in via negativa come qualcosa al quale non può at-
tribuirsi alcun predicato ricavato dal mondo del divenire e a cui perciò po-
trebbe riconoscersi una comunanza d'origine con la kantiana «cosa in sé».
Senza dubbio chi vuol andar disputando con altri quale specie mai di
materia prima sia essa stata, se sia per caso un'entità intermedia tra aria e
acqua o forse tra aria e fuoco, non ha compreso per nulla il nostro filoso-
fo7: similmente dovrà dirsi di coloro che si domandano seriamente se
Anassimandro abbia concepito la sua materia originaria come un miscu-
glio di tutte le materie esistenti. Dobbiamo invece volgere lo sguardo là do-
ve ci è possibile apprendere che Anassimandro non trattava più il proble-
ma dell'origine di questo mondo in termini meramente fisici, a quella lapi-
daria sentenza, cioè, citata al principio. Scorgendo nella molteplicità delle
cose giunte a nascimento una somma di ingiustizie da espiare, con piglio
audace ha afferrato, lui primo tra i Greci, il nodo del più profondo proble-
ma etico. Come può perire qualcosa che ha diritto ad essere? Da cosa nasce
quell'incessante divenire e generare, quell'espressione di spasimo sul volto
della natura, quel funereo, interminabile lamento in tutti i regni dell'esi-
stenza8? Da questo mondo dell'ingiustizia, della proterva caduta dall'unità
originaria, Anassimandro cerca scampo in una rocca metafisica, da cui
sporgendosi lascia spaziare lo sguardo nelle lontananze, per uscire infine,
dopo un meditabondo silenzio, in queste domande a tutti gli esseri: «Che
valore ha la vostra esistenza? E se nulla ha valore, a che scopo esistete? Per
vostra colpa, a quanto osservo, indugiate in questa esistenza. Con la morte
214 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [5]

dovete espiarla. Guardate come appassisce la vostra terra; scemano i mari


e si disseccano, la conchiglia sui monti vi mostra fino a che punto essi si so-
no già inariditi; già il fuoco sta distruggendo il vostro mondo, si dissolve-
rà, infine, tutto in fumo. Ma sempre di nuovo tornerà a riedificarsi un sif-
fatto mondo della caducità: chi riuscirebbe mai a redimervi dalla maledi-
zione del divenire?»9.
Ad un uomo che pone tali interrogativi e che continuamente, col suo
pensiero librato in volo, lacera le maglie del mondo empirico per prendere
subito il massimo slancio oltrelunare, non ogni specie di vita poteva essere
bene accetta. Non esitiamo a prestar fede alla tradizione secondo la quale
egli incedeva vestito con particolare dignità, ostentando nei gesti e nelle
consuetudini di vita una fierezza veramente tragica10. Viveva come scrive-
va; parlava con la stessa solennità con cui si vestiva; sollevava la mano e
piantava il piede come se questa esistenza fosse una tragedia nella quale
egli era destinato, per nascita, a recitarvi la parte dell'eroe. In tutto ciò fu
il grande modello di Empedocle. I suoi concittadini scelsero lui per capeg-
giare una colonia di emigranti — si rallegrarono, forse, di potere al tempo
stesso onorarlo e sbarazzarsene. Anche il suo pensiero si mise in via e fon-
dò colonie: a Efeso e ad Elea non ci si liberò di lui, e anche se non si potè
decidere di restare là dove egli s'era fermato, tuttavia si fu ben consapevoli
di essere stati guidati da lui al punto da cui ora, senza di lui, ci si accingeva
a procedere oltre.
Talete addita l'esigenza di semplificare il regno del molteplice e di degra-
darlo a semplice svolgimento o travestimento dell'unica qualità esclusiva-
mente esistente: l'acqua. Anassimandro lo sopravanza di due passi. Costui
si domandò un giorno: «Se esiste una eterna unità, come è mai possibile
codesto molteplice?» e trovò la risposta nel carattere contraddittorio di
questo molteplice che consuma e nega se stesso. L'esistenza di questo mol-
teplice diventa per lui un problema morale, non si giustifica, ma continua-
mente espia se stessa con la morte. Ed è allora che nasce in lui l'interrogati-
vo: «Se è già trascorsa un'intera eternità di tempo, perché mai tutto il dive-
nuto non è andato già da un pezzo distrutto? Quale l'origine di questa sem-
pre nuova fiumana del divenire?». Da questo interrogativo riesce a salvarsi
solo attraverso possibilità mistiche: l'eterno divenire può avere la sua origi-
ne unicamente nell'eterno essere, le condizioni della caduta da quell'essere
in un divenire nell'ingiustizia sono sempre le stesse, la costellazione delle
cose è ormai siffatta che non è possibile stabilire alcun termine quanto allo
sgorgare di ogni singolo essere dal grembo dell'«indeterminato». Qui s'ar-
restò Anassimandro: vale a dire, restò nelle profonde ombre che come gi-
ganteschi fantasmi dimoravano sulle montagne di una siffatta concezione
del mondo. Quanto più ci si voleva avvicinare al problema del come possa
mai, per una caduta, scaturire dall'indeterminato il determinato, dall'eter-
no il tempo, dal giusto l'ingiustizia, tanto più grande si faceva la notte.

5.
Nel cuore di questa mistica notte da cui era fasciato il problema anassi-
mandreo del divenire, apparve Eraclito di Efeso rischiarandola con un
lampo divino. «Il divenire io contemplo», egli dice, «e nessuno ha mai os-
servato con tanta attenzione questa risacca e questo ritmo eterni delle cose.
E che cosa ho veduto? Normatività, certezze indefettibili, vie del diritto
sempre eguali, Erinni giudicanti1 dietro tutte le trasgressioni delle leggi,
l'intero mondo, spettacolo di una giustizia dominatrice e di forze naturali
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [5] 215

demonicamente onnipresenti, sottoposte al suo servizio. Non ho veduto la


punizione del divenuto, bensì la giustificazione del divenire. Quando il de-
litto, la caduta si sono manifestate in forme inviolabili, in leggi santamente
rispettate? Dove domina l'ingiustizia, ivi è arbitrio, disordine, mancanza
di regole, contraddizione; ma là dove unica governa la legge e la figlia di
Zeus, la Dike, come in questo mondo, come potrebbe esservi la sfera della
colpa, dell'espiazione, della condanna e, per così dire, il patibolo di tutti i
condannati?2»
Da questa intuizione Eraclito trasse due congiunte negazioni che solo dal
confronto con le sentenze del suo predecessore vengono messe in chiara lu-
ce. Per prima cosa negò la dualità di mondi del tutto diversi3, che Anassi-
mandro era stato costretto ad ammettere; non separò più un mondo fisico
da un mondo metafisico, un regno delle qualità determinate da un regno
della indefinibile indeterminatezza. Compiuto che ebbe questo primo pas-
so, niente più potè trattenerlo da una ben più grande audacia di negazione:
negò l'essere in generale. Questo unico mondo, infatti, che egli lasciò sussi-
stere — custodito da una cintura di eterne leggi non scritte, abbandonato
al flusso e al riflusso nel bronzeo pulsare del ritmo —, in nessun luogo mo-
stra un permanere, una indistruttibilità, una diga nella fiumana. Più forte
di Anassimandro gridò Eraclito: «Altro non vedo che divenire. Non lascia-
tevi ingannare! Dipende dal vostro corto sguardo, non dall'essenza delle
cose, che voi crediate di vedere in un qualche luogo una terraferma nel ma-
re del divenire e del trascorrere. Adoperate i nomi delle cose come se aves-
sero una stabile durata: ma anche il fiume in cui entrate per la seconda vol-
ta non è Io stesso della prima»4.
La massima forza della rappresentazione intuitiva è per Eraclito il suo
regale possesso; mentre verso l'altra specie di rappresentazione che si rea-
lizza in concetti e in combinazioni logiche, dunque verso la ragione, si mo-
stra freddo, insensibile, anzi ostile e sembra provare piacere allorché può
contraddirla con una verità conquistata intuitivamente. Così fa in proposi-
zioni come: «ogni cosa ha sempre in sé la propria antitesi»5, con tale spa-
valderia che Aristotele lo accusa, dinanzi al tribunale della ragione, del
massimo crimine, quello di aver peccato contro il principio di contraddi-
zione. Ma la rappresentazione intuitiva abbraccia due diverse realtà: in pri-
mo luogo il variopinto e mutevole mondo presente che in tutte le esperien-
ze ci va incalzando dappresso, in secondo luogo le condizioni per le quali
soltanto è possibile ogni esperienza di questo mondo: tempo e spazio. Que-
sti ultimi, infatti, anche se sono privi di un determinato contenuto possono
essere percepiti con l'intuizione, dunque intuiti, indipendentemente da
ogni esperienza e semplicemente in se stessi. Quando dunque Eraclito con-
sidera in questa guisa il tempo, svincolato da ogni esperienza, trova in esso
il più istruttivo monogramma di tutto ciò che cade nel campo della rappre-
sentazione intuitiva6. Analoga alla sua cognizione del tempo fu quella che
ne ebbe, per esempio, Schopenhauer, avendo quest'ultimo reiteratamente
asserito, riguardo al tempo, che in esso ogni momento in tanto esiste, in
quanto ha annientato quello che lo precede, suo genitore, per essere esso
stesso ben presto nuovamente annientato; che passato e futuro sono nulla,
al pari di un qualsiasi sogno, mentre il presente è solo il limite inesteso ed
effimero tra l'uno e l'altro; che tuttavia, al pari del tempo, anche io spazio,
e con questo tutto quanto è in esso e nel tempo, ha soltanto un'esistenza
relativa ed è unicamente per mezzo e in vista di un altro della stessa specie,
cioè per qualcosa che ancora una volta sussiste al medesimo modo. È que-
sta una verità della più alta, immediata evidenza, a ognuno accessibile, e
216 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [5]

appunto perciò molto difficile da raggiungere per via concettuale e razio-


nale. Chi l'ha dinanzi agli occhi, però, deve altresì procedere immantinente
alla illazione eraclitea e dire che l'intera essenza della realtà è appunto sol-
tanto un agire e che per essa non esiste alcun'altra specie di essere; come ha
analogamente messo in luce Schopenhauer (Mondo come volontà e rappre-
sentazione, i, p. 10): «Solo in quanto agente, essa riempie lo spazio, riem-
pie il tempo: il suo agire sull'oggetto immediato condiziona l'intuizione
nella quale soltanto essa esiste: la conseguenza dell'agire di ogni altro og-
getto materiale su di un altro in tanto è riconosciuta in quanto quest'ulti-
mo agisce ora in un modo diverso da prima sull'oggetto immediato, e in
ciò unicamente consiste. Causa ed effetto sono dunque l'intera essenza del-
la materia: il suo essere è il suo agire. Per la qual cosa, in guisa quanto mai
calzante, l'insieme di ogni entità materiale viene chiamato in tedesco Wir-
klichkeit\ parola che è molto più caratterizzante di Realità?. Ciò su cui es-
sa agisce è sempre ancora una volta materia: tutto il suo essere e la sua es-
senza consistono dunque soltanto nella modificazione, conforme a leggi,
che una parte di essa determina nell'altra, sono quindi del tutto relativi, al-
la stregua di una relazione valida solo all'interno dei suoi limiti, precisa-
mente dunque come il tempo, come lo spazio»9.
L'eterno e unico divenire, la totale precarietà di ogni reale che sempre
unicamente agisce e diviene e non è, costituisce, come insegna Eraclito,
una rappresentazione terribile e sconcertante e strettissimamente affine,
nel suo influsso, alla sensazione con cui qualcuno in un terremoto perde la
fiducia nella stabilità della terra. Fu necessaria una sorprendente energia
per trasferire questo effetto nel suo opposto, nel sublime e nella beata me-
raviglia. A ciò giunse Eraclito osservando il caratteristico andamento di
ogni divenire e trapassare, inteso da lui sotto la forma della polarità, come
lo scindersi di una forza in due attività qualitativamente diverse, antiteti-
che e tendenti al ricongiungimento. Una qualità entra di continuo in di-
scordia con se stessa e si divarica nei suoi opposti; di continuo questi oppo-
sti cospirano nuovamente l'uno verso l'altro. Il volgo crede invero di iden-
tificare qualcosa di rigido, di compiuto, di permanente; in verità luce e om-
bra, amaro e dolce sono in ogni momento vicini e avvinghiati l'uno all'al-
tro come due lottatori, dei quali ora questo ora quello prende il sopravven-
to. Il miele è, secondo Eraclito, amaro e dolce al contempo, e il mondo
stesso è un'anfora da misture che deve essere di continuo agitata. Dalla
guerra dei contrari nasce ogni divenire: le qualità determinate che ci ap-
paiono come durevoli esprimono solo la momentanea preponderanza di un
lottatore, con ciò tuttavia la guerra non è mai finita, questo lottare si pro-
trae in eterno. Tutto avviene secondo questa contesa, e appunto questa
contesa manifesta l'eterna giustizia10. È una concezione mirabile attinta al-
la più pura fonte dell'ellenico, quella che considera la contesa come il co-
stante signoreggiare di una giustizia unitaria, rigorosa, vincolata a leggi
eterne. Solo un Greco fu capace di trovare in questa concezione il fonda-
mento di una cosmodicea; è la buona Eris di Esiodo trasfigurata in princi-
pio cosmico, è il pensiero agonale dei singoli Greci e dello Stato greco11 tra-
sferito dai ginnasi e dalle palestre, dai certami artistici, dalla lotta dei parti-
ti politici e delle città tra di loro, sul piano della massima universalità, così
che ora su di essa fa perno la ruota dell'ingranaggio cosmico. Allo stesso
modo con cui ogni Greco combatte, quasi fosse lui solo nel giusto, e in
ogni istante una misura infinitamente certa della sentenza di diritto deter-
mina da che parte propende la vittoria, così le qualità pugnano tra loro alla
stregua di leggi e misure inviolabili, immanenti alla lotta. Quelle stesse cose
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [6] 217

nella cui stabilità e costanza l'angusta cervice dell'uomo e dell'animale ri-


pone la sua fede, non hanno affatto una propria esistenza, sono il balenìo
e il barbaglio di spade sguainate, sono lo scintillare della vittoria nella lotta
delle qualità antagoniste.
Codesta lotta, che è peculiare ad ogni divenire, codesto eterno avvicen-
darsi della vittoria tornerà a descriverla nuovamente Schopenhauer (Mon-
do come volontà e rappresentazione, i, p. 175): «Costantemente la perdu-
rante materia deve mutar forma, mentre incalzandosi per bramosia d'ap-
parire, fenomeni meccanici, fisici, chimici, organici si sottraggono l'uno
all'altro, sul filo conduttore della causalità, la materia, dal momento che
ognuno di questi vuol manifestare la propria idea. È possibile seguire que-
sto conflitto attraverso tutta la natura, anzi questa continua appunto a sus-
sistere unicamente in virtù di esso»12. Le pagine successive offrono di que-
sto conflitto le più significative illustrazioni: solo che il tono fondamentale
di questa descrizione resta sempre altro da quello di Eraclito, in quanto la
lotta, per Schopenhauer, attesta lo scindersi in se stessa della volontà di vi-
vere, è uno struggersi in se medesimo di questo tenebroso, ottuso istinto,
un fenomeno, questo, assolutamente terrifico e tutt'altro che gioioso. L'a-
rena e l'oggetto di questa lotta è la materia, che le forze naturali cercano
vicendevolmente di sottrarsi, come pure spazio e tempo, la cui unione at-
traverso la causalità è appunto la materia.

6.
Mentre l'immaginazione di Eraclito misurava l'universo nel suo moto
incessante, la «realtà», con l'occhio dello spettatore gioiosamente appaga-
to, che vede lottare in gaia tenzone innumerevoli coppie sotto la vigilanza
di severi giudici di gara, sopraggiunse in lui un presagio ancor più alto; non
potè più considerare separate tra loro le coppie e i giudici, gli stessi giudici
sembravano combattere, gli stessi lottatori sembravano giudicarsi — anzi,
dal momento che in fondo percepiva soltanto una giustizia1 eternamente
imperante, osò esclamare: «La contesa dei molti è essa stessa la pura giu-
stizia! E in genere: l'uno è il molteplice. Che cosa sono, infatti, tutte quelle
qualità secondo l'essenza loro? Sono dèi immortali? Sono sostanze separa-
te, agenti per sé dall'inizio e senza mai fine? E se il mondo che noi vediamo
è unicamente divenire e trapassare e non conosce permanenza alcuna, non
dovrebbero forse proprio codeste qualità costituire un mondo metafisico
diversamente configurato, non già un mondo dell'unità, come lo cercava
Anassimandro sotto il volubile velo del molteplice, bensì un mondo di
molteplici eterni e sostanziali?». — È forse Eraclito nuovamente incappato
per vie tortuose nel duplice ordinamento del mondo, sebbene lo avesse
energicamente negato, con un Olimpo di numerosi dèi e demoni immortali
— cioè con molte realtà — e con un mondo umano che scorge soltanto la
pulverulenta nuvolaglia delia olimpica lotta e il barbaglio delle divine lance
— vale a dire unicamente un divenire? Anassimandro si era appunto rifu-
giato dalle qualità determinate nel grembo dell'«indeterminato» metafisi-
co; poiché queste divenivano e trapassavano, egli aveva negato loro la ve-
race e salda esistenza; ma non doveva tutto ciò apparire ora come se il di-
venire fosse soltanto il manifestarsi di una lotta di qualità eterne? Non si
doveva ritornare alla caratteristica fragilità della conoscenza umana, allor-
ché si parla del divenire — mentre nell'essenza delle cose forse non esiste
alcun divenire, bensì unicamente una continuità di realtà vere, indivenute,
indistruttibili?
218 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI (6]

Queste sono scappatoie e vie sbagliate non eraclitee: ancora una volta
egli grida: «l'uno è il molto»2. Le molte qualità percepibili non sono so-
stanzialità eterne e neppure fantasmi dei nostri sensi (nel primo modo le
penserà più tardi, Anassagora, nel secondo, Parmenide), non sono né un
essere immobile, sovrano,- né un'apparenza fugace e mutevole nelle menti
degli uomini. La terza possibilità, che unica sopravvive per Eraclito, nessu-
no potrà coglierla con sagacia dialettica e per così dire mediante un calco-
lo; quel che costui infatti trovò a questo punto è una rarità anche nell'am-
bito delle inverosimiglianze mistiche e delle inattese metafore cosmiche. —
11 mondo è il giuoco di Zeus o, per esprimermi in termini fisici, il giuoco
del fuoco con se stesso: solo in questo senso l'uno è al tempo stesso il mol-
to3. -
Per chiarire innanzitutto l'introduzione del fuoco come forza plasmatri-
ce del mondo, ricorderò in quale modo Anassimandro avesse ulteriormen-
te sviluppato la teoria dell'acqua come origine delle cose. Pur prestando
sostanzialmente fede a Talete e pur corroborando e moltiplicando le sue
osservazioni, Anassimandro non poteva convincersi che prima dell'acqua,
e per così dire sotto l'acqua, non esistesse alcun altro grado qualitativo: dal
caldo e dal freddo gli parve invece che si formasse lo stesso umido e che
perciò caldo e freddo dovessero essere i gradi preliminari dell'acqua, le
qualità ancor più originarie. Con la loro separazione dall'essere primordia-
le dell'«indeterminato» ha inizio il divenire. Eraclito, che come fisico si ri-
metteva all'autorità di Anassimandro, reinterpreta questo calore anassi-
mandreo come soffio, alito caldo, vapori asciutti, insomma come l'ele-
mento igneo4: di questo fuoco egli asserisce lo stesso di quel che Talete e
Anassimandro avevano affermato dell'acqua, che percorre in innumerevo-
li metamorfosi la strada del divenire, soprattutto nei tre stati principali di
caldo, umido, solido. L'acqua, infatti, si trasforma, nel discendere, par-
zialmente in terra, nel salire, in fuoco: ovvero come sembra essersi espres-
so più esattamente Eraclito: dal mare si levano i vapori puri che servono a
nutrire il celeste fuoco degli astri, dalla terra solo quelli cupi, nebbiosi, dai
quali l'umido trae il suo nutrimento. I vapori puri sono il trapasso del ma-
re al fuoco, gli impuri il trapasso della terra all'acqua. Così le due vie di
metamorfosi del fuoco corrono continuamente, in alto e in basso, avanti e
indietro, l'uria accanto all'altra, dal fuoco all'acqua, da questa alla terra,
dalla terra dì nuovo tornando all'acqua, dall'acqua al fuoco5. Mentre Era-
clito segue Anassimandro nelle più importanti di queste concezioni, per
esempio in quella secondo la quale il fuoco è alimentato dalle evaporazioni
o in quella per la quale dall'acqua si separa in parte la terra, in parte il fuo-
co6, si mostra invece indipendente e in contraddizione con lui nell'esclude-
re il freddo dal processo fisico, laddove Anassimandro lo aveva posto con
eguale autorità accanto al caldo per far nascere da entrambi l'umido. Pro-
cedere in questo modo era indubbiamente, per Eraclito, una necessità: se
tutto infatti deve essere fuoco, per quante siano le possibilità della sua tra-
smutazione, non può esistere nulla che sia il suo assoluto opposto; avrà
dunque interpretato ciò che chiamiamo freddo solo come una gradazione
del caldo e potè giustificare agevolmente questa interpretazione. Ma molto
più significativa di questa deviazione dalla dottrina di Anassimandro è una
più larga concordanza: come quest'ultimo, egli crede a un naufragio co-
smico che periodicamente si ripete e a un sempre nuovo emergere di un al-
tro mondo dalla conflagrazione universale che tutto annienta7. Il periodo
in cui il mondo si affretta incontro a quella conflagrazione e alla dissolu-
zione nel puro fuoco è caratterizzato da Eraclito, in guisa estremamente in-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [7] 219
cisiva, come una bramosia e un bisogno, il completo inabissarsi nel fuoco
come sazietà. Resta a noi il problema di come ha inteso e chiamato il nuo-
vo ridestantesi impulso alla plasmazione cosmica, air effondersi nelle for-
me della molteplicità. Sembra venirci in aiuto il proverbio greco, con il
pensiero che «sazietà genera delitto (la hybris6)»; e in effetti ci si può chie-
dere un istante se Eraclito abbia forse derivato dalla hybris codesto ritorno
al molteplice. Si consideri un po' questo pensiero con serietà: alla luce di
esso il volto di Eraclito si trasforma di fronte ai nostri sguardi, il superbo
lampeggiare dei suoi occhi si smorza, una piega di dolorosa rinuncia, d'im-
potenza si rileva nei suoi lineamenti, si direbbe che ci sia chiaro perché la
tarda antichità lo abbia chiamato il «filosofo piangente». Non è ora l'inte-
ro processo cosmico un atto di punizione della hybris? La molteplicità, il
risultato di un delitto? La metamorfosi del puro nell'impuro, conseguenza
dell'ingiustizia? Non viene posta ora la colpa alla radice delle cose, e di
conseguenza non è affrancato da essa il mondo del divenire e degli indivi-
dui, ma al tempo stesso sempre di nuovo condannato a subirne le conse-
guenze?9

7.
Quella pericolosa parola, hybris, è in realtà la pietra di paragone per
ogni eracliteo; è su questo punto che egli può mostrare se ha compreso o
misconosciuto il suo maestro. V'è colpa, ingiustizia, contraddizione, dolo-
re in questo mondo?
Sì, grida Eraclito, ma soltanto per l'uomo limitato che vede per parti
staccate e non globalmente, non già per il dio contuitivo; per questi ogni
contraddizione concorre ad un'unica armonia, invisibile, è vero, per il co-
mune occhio umano1, ma comprensibile per chi, come Eraclito, è simile al
dio contemplativo. Dinanzi al suo sguardo fiammeo, nel mondo che gli si
effonde intorno non una goccia di ingiustizia sopravvive; e persino quel
fondamentale ostacolo, costituito dal modo con cui il fuoco puro possa pe-
netrare in forme tanto impure, viene superato con una sublime similitudi-
ne. Un divenire e un trapassare, un edificare e un distruggere, senza alcuna
imputazione morale, con eternamente eguale innocenza, sono presenti, in
questo mondo, unicamente nel giuoco dell'artista e del fanciullo2. E così
come giocano il fanciullo e l'artista, gioca il fuoco semprevivente, costrui-
sce e distrugge, con innocenza — e questo giuoco gioca l'Eone con se stes-
so. Tramutandosi in acqua e terra, a somiglianza d'un fanciullo innalza
cumuli di sabbia sul lido marino, ammonta e fa ruinare: di tempo in tempo
riprende di nuovo il giuoco. Un attimo di sazietà: poi lo riafferra nuova-
mente il bisogno, così come il bisogno costringe l'artista a creare. Non em-
pietà, bensì il sempre risorgente impulso del giuoco chiama altri mondi alla
vita. Talora il fanciullo getta via il suo trastullo: ma ecco che subito rico-
mincia con estro innocente. Appena però costruisce, connette, incastra e
foggia a misura di norma e secondo le sue interiori regole.
Soltanto l'uomo esteta riguarda in questo modo il mondo, lui che nel-
l'artista e nel nascere dell'opera d'arte ha appreso come la contesa del mol-
teplice può portare in sé norma e diritto, come l'artista sia contemplativa-
mente al di sopra e agisca all'interno dell'opera d'arte, come necessità e
giuoco, conflitto e armonia debbano coniugarsi per generare l'opera d'ar-
te.
Chi pretenderà ora da una siffatta filosofia altresì un'etica con i necessa-
ri imperativi «tu devi», o addirittura muoverà a Eraclito il rimprovero di
220 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [7)

una tale mancanza? Sin nelle sue più profonde midolla l'uomo è necessità e
assolutamente «non libero» — se si intende per libertà l'insana pretesa di
poter mutare a talento la propria essentia a guisa di un abito, una pretesa
che ogni seria filosofia ha fino ad oggi respinto con il dovuto sarcasmo3.
Che uomini coscienti vivano così poco nel logos e conformemente all'oc-
chio artistico onniabbracciante4, questo dipende dal fatto che le loro anime
sono umide5 e che occhi e orecchie degli umani e soprattutto il loro intellet-
to sono un cattivo testimone6, se «umido fango tiene le anime loro in sua
balìa»7. Perché sia così, non lo si chiede, così come non si chiede perché
fuoco diventi acqua e terra. Eraclito non ha appunto alcun motivo di do-
ver dimostrare (come lo aveva Leibniz)8 che questo mondo è addirittura
migliore fra tutti, a lui basta che esso sia il giuoco bello e innocente del-
l'Eone. Persino considera in generale l'uomo un essere irrazionale: con la
qual cosa non contrasta il fatto che in tutto il suo essere si adempia la legge
della ragione su ogni cosa sovrana. Questi non assume affatto una posizio-
ne particolarmente privilegiata nella natura, la cui massima manifestazio-
ne9 è il fuoco, per esempio come astro, e non già lo stupido uomo. Se co-
stui è giunto, attraverso la necessità, a partecipare del fuoco, è un po' più
razionale; ma sintantoché consiste di acqua e terra, la sua ragione si trova
in grave difetto. Un obbligo a riconoscere il logos, per il fatto di essere uo-
mini, non esiste. Ma perché c'è acqua, perché c'è terra? Questo è per Era-
clito un problema molto più serio della questione sul perché gli uomini sia-
no così sciocchi e malvagi. Nell'uomo più elevato come in quello più per-
verso si manifesta l'identica immanente normatività e giustizia. Ma se si
volesse avanzare a Eraclito la domanda per quale ragione il fuoco non è
sempre fuoco, perché mai sia ora acqua, ora terra, egli si limiterebbe ap-
punto a rispondere: «È un giuoco, non prendetelo troppo sul patetico, e
soprattutto non in termini morali!». Eraclito descrive soltanto il mondo
esistente e prova per esso quel compiacimento contemplativo con cui l'arti-
sta guarda la sua opera in divenire. Soltanto coloro che non hanno motivo
di essere soddisfatti della sua descrizione naturale dell'uomo trovano Era-
clito cupo, malinconico, lacrimoso, accigliato, atrabiliare, pessimista e
particolarmente detestabile. Ma con tutte le loro antipatie e simpatie, odio
e amore, sarebbero costoro per lui egualmente indifferenti ed egli imparti-
rebbe loro sentenze all'inarca di questo tenore: «I cani abbaiano a coloro
che non conoscono»10, oppure «All'asino piace più la pula dell'oro»11.
Da questi insoddisfatti provengono altresì le numerose lagnanze sull'o-
scurità dello stile eracliteo; verosimilmente mai un uomo ha scritto in mo-
do più chiaro e luminoso. Molto stringato senza dubbio e perciò, a dire il
vero, oscuro per chi va rapido nella lettura. Ma che un filosofo dovesse
scrivere intenzionalmente in modo non chiaro — e su questo si trova di so-
lito da ridire riguardo a Eraclito — ciò è assolutamente inspiegabile: a me-
no che egli non avesse una ragione per dissimulare i suoi pensieri o sia stato
abbastanza briccone da nascondere tra le parole il suo vuoto intellettuale.
Come dice Schopenhauer, persino nelle faccende della ordinaria vita prati-
ca si deve accuratamente prevenire, con la chiarezza, possibili fraintendi-
menti; in che modo mai dovrebbe allora essere lecito esprimersi in maniera
vaga, anzi enigmatica, sull'oggetto più difficile, più astruso e a malapena
attingibile, del pensiero compito della filosofia? Per quanto poi concerne
la brevità, Jean Paul ci fornisce un buon ammaestramento. «Tutto consi-
derato è giusto che ogni grandezza — ricca di significato per un raro intel-
letto — venga espressa solo concisamente e (perciò) oscuramente, affinché
lo spirito meschino la prenda per un'assurdità piuttosto che tradurla nella
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI 18] 221

propria vuotezza. Gli spiriti volgari hanno infatti la brutta abilità di scor-
gere nella sentenza più profonda e più ricca null'altro che la propria opi-
nione di tutti i giorni.» Del resto, e ad onta di tutto ciò, Eraclito non è
sfuggito agli «spiriti meschini»: già gli Stoici lo hanno stravolto in una su-
perficiale interpretazione e hanno svilito la sua fondamentale percezione
estetica del giuoco cosmico in una volgare considerazione per la struttura
finalistica del mondo, cioè per i vantaggi degli uomini12: cosicché dalla sua
fisica è andato nascendo, in quelle teste, un grossolano ottimismo, con il
continuo invito al plaudite amici rivolto a Tizio e a Caio.

8.
Eraclito era superbo1 e quando un filosofo monta in superbia, è questa
una grande superbia. Il suo operare non lo rinvia mai ad un «publicum»,
all'applauso delle masse e al coro giubilante dei contemporanei. Andare
solitari per la propria strada si identifica con l'essenza del filosofo. Il suo
talento è tra i più rari, in un certo senso il più innaturale, e inoltre esclusivo
e ostile persino verso i talenti affini. Il muro del suo restar pago di sé deve
essere di diamante, se non vuol essere distrutto e infranto, poiché tutto è in
movimento contro di lui. Il suo viaggio verso l'immortalità è più di ogni al-
tro difficile e irto d'ostacoli; e tuttavia nessuno può credere con maggior
sicurezza di quanta ne abbia precisamente il filosofo, di pervenire con esso
alla mèta — giacché questi ignora in quale altro luogo debba piantarsi, se
non sugli ampi e spiegati vanni di tutti i tempi; la noncuranza per il presen-
te e per il momentaneo è infatti intrinseca all'essenza della grande natura
filosofica. Costui possiede la verità: si volga pure dove vuole la ruota del
tempo, non potrà mai sfuggire alla verità. Di siffatti uomini è importante
sapere che essi sono vissuti una volta. Non riusciremmo mai ad immagi-
narci, per esempio, la superbia di Eraclito come una oziosa possibilità.
Ogni aspirazione al conoscere sembra in se stessa, stando alla sua essenza,
eternamente inappagata e inappagante. Perciò nessuno, se non è ammae-
strato dalla storia, potrà credere ad un tanto sovrano apprezzamento di sé,
nonché alla certezza di essere l'unico pretendente favorito della verità2.
Uomini di questa stoffa vivono nel loro proprio sistema solare; lì dobbia-
mo cercarli. Anche un Pitagora, un Empedocle ebbero per se medesimi
una sovrumana considerazione, anzi un quasi religioso timore; ma il lega-
me della compassione, connesso alla grande fiducia nella metempsicosi e
nella unità di tutti i viventi3, li ricondusse agli altri uomini, alla loro guari-
gione e salvezza. Di quel senso della solitudine che permeò l'eremita efesio
del tempio di Artemide4, soltanto nei più aspri deserti montani è possibile
avere in qualche modo un agghiacciante presagio. Da costui non si espande
alcun sentimento oltrepossente di compassionevoli turbamenti, alcuna bra-
mosa volontà di aiutare, di guarire e salvare. È una costellazione senz'at-
mosfera. Il suo occhio, che si rivolge fiammeggiante all'interno, guarda,
come per semplice apparenza, spento e gelido all'esterno. Intorno a lui,
immediatamente contro la rocca della sua superbia, battono i marosi della
follia e della perversità: altrove egli volge il suo sguardo sdegnoso. Ma an-
che gli uomini dal cuore sensibile si discostano da una siffatta maschera
che sembra fusa nel bronzo; un tale essere può apparire più comprensibile
in un romito santuario tra simulacri divini accanto ad una architettura
fredda, pacatamente sublime. In mezzo agli uomini Eraclito, come uomo,
era incomprensibile; e se anche fu veduto starsene attento al giuoco di tu-
multuanti fanciulli5, proprio in quei momenti andava certo meditando quel
222 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [9]

che mai un uomo in un'occasione del genere aveva mai meditato: il giuoco
del grande fanciullo-dei-mondi Zeus6. Non aveva bisogno degli uomini,
neppure per le sue conoscenze; non gPimportava nulla di tutto ciò che si
poteva forse apprendere da loro e che gli altri saggi prima di lui si erano
sforzati di sapere con le loro domande. Parlava sprezzantemente di quei
tali uomini che vanno domandando e raccogliendo, insomma di codesti
uomini «storici»7. «Cercai e investigai me stesso»8 — disse di sé con le pa-
role con cui si indica la consultazione di un oracolo: come se fosse lui e
nessun altro a dare verace adempimento e compimento al precetto delfico:
«conosci te stesso».
Ciò che tuttavia ricavò nell'ascolto di questo oracolo, lo reputò saggezza
immortale ed eternamente degna d'interpretazione, illimitata nei suoi più
lontani effetti secondo il modello dei profetici discorsi della Sibilla. Per la
più tarda umanità questo può bastare: possa essa dunque farsi interpretare
come sentenze oracolari quel che costui, a somiglianza del dio delfico, «né
asserisce, né nasconde»9. Sebbene egli vaticini «senza sorriso, senza fasto e
profumi d'unguenti», ma piuttosto «con bocca schiumante», la sua voce
dovrà spingersi fino ai millenni avvenire10. Poiché il mondo ha eternamen-
te bisogno di verità, così ha eternamente bisogno di Eraclito: pur non
avendo costui bisogno di esso. Che importa a lui della sua gloria? La gloria
presso «mortali che sempre scorrono via!», come esclama beffardo. Della
sua gloria importa in qualche modo agli uomini, non a lui, l'immortalità
degli uomini ha bisogno di lui, non lui dell'immortalità dell'uomo Eracli-
to. Quel che lui vide, la dottrina della legge nel divenire e del giuoco nella
necessità, deve d'ora innanzi starci eternamente di fronte agli occhi: egli ha
levato il sipario su questo grandioso spettacolo.

9.
Mentre in ogni parola di Eraclito si esprime la fierezza e la maestà della
verità, ma della verità intuitivamente colta, non di quella a cui ci si arram-
pica sulla scala di corda della logica; mentre nel suo profetico rapimento
scruta, non spia, conosce, non calcola: con il suo contemporaneo Parmeni-
de gli si pone a fianco una figura antagonista, egualmente tipica nel senso
di un profeta della verità, ma per così dire foggiata nel ghiaccio e non nel
fuoco, dalla quale si effonde un cerchio di fredda luce pungente. Una vol-
ta, probabilmente soltanto nella sua età avanzata, Parmenide ha avuto un
momento di purissima astrazione, non intorbidata da alcuna realtà e asso-
lutamente esangue. Questo momento — così poco greco come nessun altro
nei due secoli dell'età tragica —, il cui risultato è la teoria dell'essere, di-
venne per la sua stessa vita la pietra terminale che la divise in due periodi:
al tempo stesso questo medesimo momento separa il pensiero presocratico
in due metà, di cui la prima può essere chiamata anassimandrea, la secon-
da dichiaratamente parmenidea. Il primo e più antico periodo nel filosofa-
re di Parmenide porta appunto ancora lo stigma di Anassimandro1; esso
produsse un compiuto sistema filosofico-fisico come risposta ai problemi
di Anassimandro. Quando più tardi lo assalì quel gelido brivido d'astrazio-
ne e venne da lui stabilita la semplicissima proposizione che tratta dell'es-
sere e del non-essere2, tra le molte più antiche teorie che abbandonò all'an-
nientamento c'era anche il suo stesso sistema. E tuttavia non sembrò aver
perduto tutta la sua paterna riverente affezione per il figlio vigoroso e ben
costrutto della sua giovinezza e a cagione di ciò si trasse d'impaccio dicen-
do: «In verità una sola è la strada giusta; ma se ci si vuole affidare a un'al-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [9] 223

tra, soltanto la mia opinione di un tempo è, per bontà e coerenza, nel giu-
sto»3. Mettendosi al riparo con questo giro di parole, egli ha concesso al
suo anteriore sistema fisico un degno e ampio posto anche in quel grande
poema sulla natura che doveva propriamente proclamare la nuova idea co-
me Tunica guida alla verità. Questo riguardo paterno, anche se con esso
doveva insinuarsi un errore, costituisce in una natura interamente pietrifi-
cata dalla rigidità logica e quasi trasformata in una macchina pensante, un
residuo di sentimento umano.
Parmenide, i cui personali rapporti con Anassimandro non mi sembrano
indegni di fede e del quale non solo è attendibile, ma evidente il procedere
dalla dottrina di Anassimandro4, aveva per quanto riguarda l'assoluta se-
parazione tra un mondo che soltanto è e un mondo che soltanto diviene5 la
stessa diffidenza di cui era stato vittima anche Eraclito e che lo aveva por-
tato alla negazione dell'essere in generale. Entrambi cercavano una via
d'uscita da quella contrapposizione e separazione di un doppio ordine del
mondo. Quel salto nell'indeterminato, nell'indeterminabile, mediante il
quale Anassimandro era sfuggito una volta per tutte al regno del divenire e
alle sue qualità empiricamente date, non riusciva facile per menti come
quelle di Eraclito e di Parmenide, così indipendenti nella loro natura; co-
storo cercavano innanzitutto di andare il più possibile avanti e si riservava-
no il salto per quel punto in cui il piede non trova più appoggio ed è neces-
sario saltare per non cadere. Entrambi contemplavano ripetutamente ap-
punto quel mondo che Anassimandro condanna in maniera così melanco-
nica e che aveva considerato sede d'empietà e al tempo stesso luogo d'e-
spiazione per l'ingiustizia del divenire. Nel contemplarlo, Eraclito, come
già sappiamo, scoprì quale mirabile ordine, regolarità e sicurezza si mani-
festano in ogni divenire: di qui giunse alla conclusione che il divenire stesso
non poteva essere nulla di empio e d'ingiusto. Del tutto diverso fu lo sguar-
do gettato da Parmenide; mise a confronto tra loro le qualità e credette di
trovare che non essendo tutte della stessa specie, dovrebbero essere ordina-
te in due rubriche. Paragonando per esempio luce e oscurità, la seconda
qualità era evidentemente la semplice negazione della prima6; e così diver-
sificò qualità positive e negative, sforzandosi seriamente di rinvenire e di
registrare codesto fondamentale antagonismo nell'intero regno della natu-
ra. Il suo metodo, a questo proposito, era il seguente: prese una coppia di
opposti, per esempio leggero e pesante, sottile e denso, attivo e passivo, e
la mise a confronto con l'antitesi paradigmatica di luce e oscurità: ciò che
corrispondeva al luminoso era la qualità positiva, ciò che corrispondeva al-
l'oscuro quella negativa. Prese il pesante e il leggero, il leggero cadeva dal-
la parte del luminoso, il pesante da quella dell'oscuro: e così il pesante era
per lui solo la negazione del leggero, e il leggero una qualità positiva. Già
da questo metodo risulta una puntigliosa attitudine al procedimento logi-
co-astratto, preclusa ai suggerimenti sensibili. Il pesante sembra invero
presentarsi ai sensi in guisa quanto mai imponente come qualità positiva;
ciò non impedì tuttavia a Parmenide d'imprimergli il marchio della nega-
zione. Similmente designò come semplici negazioni la terra in antitesi al
fuoco, il freddo in antitesi al caldo, il denso in antitesi al tenue, il femmini-
le in antitesi al maschile, il passivo in antitesi all'attivo: così che al suo
sguardo il nostro mondo empirico restò scisso in due distinte sfere, quella
delle qualità positive — con un carattere luminoso, igneo, caldo, leggero,
sottile, attivo-virile — e quella delle qualità negative. Queste ultime espri-
mono propriamente solo la mancanza, l'assenza delle altre, positive; egli
descrisse dunque la sfera in cui mancano le qualità positive come oscura,
224 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [10]

terrosa, fredda, pesante, densa e in generale come avente un carattere fem-


minile-passivo. Invece delle espressioni «positivo» e «negativo» usò il ter-
mine fisso «essente» e «non-essente», giungendo in tal modo all'assioma
che in contrapposizione ad Anassimandro anche questo nostro mondo
contiene qualcosa che è7: indubbiamente anche qualcosa che non è. L'es-
sente non dobbiamo cercarlo al di fuori del mondo e per così dire al di là
del nostro orizzonte; bensì dinanzi a noi e ovunque, in ogni divenire, è con-
tenuto ed è attivo qualcosa che è.
Restava così per lui il compito di dare una risposta più precisa all'inter-
rogativo: che cos'è il divenire? — ed era questo il momento in cui doveva
fare un salto per non cadere, sebbene forse, per personalità come quella di
Parmenide, lo stesso saltare equivale a cadere. Basta così, stiamo per in-
cappare nella nebbia, nella mistica delle qualitates occultae e persino un
po' nella mitologia. Al pari di Eraclito, Parmenide contempla l'universale
divenire e impermanere e non sa spiegarsi un trapassare in alcun modo, se
non rendendone responsabile il non-essente. Come potrebbe infatti l'essen-
te portare la colpa del perire? Allo stesso modo il nascere deve essere posto
in atto con la collaborazione del non-essente: poiché l'essente esiste sempre
e non potrebbe, da se medesimo, nascere, come non potrebbe spiegare al-
cun nascimento. Tanto il nascere dunque quanto il perire sono determinati
dalle qualità negative. Ma la circostanza che quanto sta nascendo ha un
contenuto e che quanto va trapassando perde un contenuto, presuppone
che le qualità positive — cioè appunto quel contenuto — siano egualmente
partecipi di entrambi i processi. Risulta, insomma, questo assioma: «Per il
divenire si richiede tanto l'essente quanto il non-essente; quando essi agi-
scono congiuntamente, ne consegue un divenire». Ma in che modo il posi-
tivo e il negativo convengono l'uno con l'altro? Non dovrebbero, al con-
trario, eternamente sfuggirsi, in quanto opposti, e in tal modo rendere im-
possibile ogni divenire? A questo punto Parmenide si appella a una quali-
tas occulta, a una mistica inclinazione degli opposti ad avvicinarsi e ad at-
trarsi e dà veste sensibile a codesta antitesi mediante il nome di Afrodite e
mediante la reciproca relazione, empiricamente nota, di maschile e femmi-
nile8. La potenza di Afrodite è ciò che accoppia gli opposti, l'essente e il
non-essente. Una brama porta al congiungimento gli elementi che guerreg-
giano tra loro e si odiano: il risultato è un divenire. Quando quella brama è
saziata, l'odio e il conflitto interiore spingono di nuovo alla separazione
l'essente e il non-essente — e allora l'uomo dice: «questa cosa trapassa». —

10.
Ma nessuno viola impunemente astrazioni così tremende come tessen-
te» e il «non-essente»; poco a poco si agghiaccia il sangue allorché le toc-
chiamo. Ci fu un giorno in cui a Parmenide venne un'ispirazione bizzarra
che sembrò togliere ogni valore a tutte le sue precedenti combinazioni, sic-
ché Io prese la voglia di gettarle in un canto come una borsa di vecchie mo-
nete fuori uso. Si suppone generalmente che anche un'impressione esterna
e non soltanto la interiormente incalzante consequenzialità di siffatti con-
cetti come «essente» e «non-essente» abbia concorso alla scoperta di quel
giorno, vale a dire la familiarità con la teologia di Senofane di Colofone, il
vecchio rapsodo dai molti vagabondaggi1, il cantore di una mistica diviniz-
zazione della natura2. Per tutto il tempo di un'esistenza straordinaria Se-
nofane visse come poeta girovago e in virtù dei suoi viaggi divenne un uo-
mo molto dotto e molto ricco d'insegnamenti, che possedeva la maestria
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [IO) 225
dell'interrogare e del raccontare; per questo Eraclito lo annoverò tra i poli-
storici e tra le nature «storiche» in generale, nel senso già chiarito3. Da
quale fonte e quando gli sia sopraggiunto il mistico impulso verso l'uno e
l'eternamente quieto, nessuno potrà mai accertarlo; forse si tratta soprat-
tutto della concezione di un vegliardo, divenuto finalmente sedentario, di-
nanzi all'anima del quale, dopo le emozioni d'avventurosi viaggi e l'ine-
sausto apprendere e indagare, si manifesta la massima eccellenza e gran-
dezza nella visione di una divina quiete, nella permanenza di tutte le cose
all'interno di una panteistica pace originaria. Del resto mi sembra pura-
mente casuale che proprio nello stesso luogo, ad Elea, convivessero per un
certo tempo due uomini, ognuno dei quali aveva in testa una sua concezio-
ne dell'unità: essi non formano una scuola e non hanno in comune nulla
che l'uno avrebbe potuto eventualmente apprendere dall'altro e quindi
continuare ad insegnare4. L'origine infatti di codesta concezione dell'unità
è nel primo del tutto diversa, anzi antitetica a quella del secondo; e se l'uno
ha appreso la dottrina dell'altro dovette, almeno, per comprenderla, tra-
durla prima nel suo proprio linguaggio. In questa trasposizione andò co-
munque perduto proprio l'elemento specifico dell'altrui dottrina. Se Par-
menide pervenne all'unità dell'essente semplicemente attraverso una pre-
sunta consequenzialità logica e sviluppò questa unità traendola dal concet-
to di essere e di non-essere, Senofane è un mistico religioso e con quella sua
mistica unità appartiene senz'altro davvero al sesto secolo5. Anche se non
fu una personalità così sovvertitrice come Pitagora, tuttavia, nei suoi vaga-
bondaggi ha già lo stesso veemente impulso a migliorare, a purificare, a
guarire gli uomini. È il maestro etico, sia pure ancora al grado di rapsodo;
in un tempo successivo sarebbe stato un sofista. Nell'audace condanna dei
costumi e delle valutazioni vigenti non ha in Grecia il suo eguale; a questo
fine non si ritraeva per nulla in solitudine, come Eraclito e Platone, bensì si
piantava proprio dinanzi a quel pubblico, la cui gongolante ammirazione
per Omero, la cui appassionata propensione alle glorie delle spettacolari
festività olimpiche, la cui adorazione di pietre in forma umana fustigava
con ira e scherno, e tuttavia non a guisa d'un litigioso Tersite. Con lui la li-
bertà dell'individuo è al suo apice; e in questa quasi sconfinata evasione da
tutte le convenzioni egli è imparentato a Parmenide assai più strettamente
che non per quell'ultima unità divina contemplata un giorno in uno stato
visionario degno di quel secolo e che con l'unico essere parmenideo ha a
malapena comune l'espressione e la parola, ma indubbiamente non l'origi-
ne.
Fu piuttosto una condizione opposta quella in cui Parmenide trovò la
teoria dell'essere. In quel giorno e in quello stato, saggiò entrambi i suoi
opposti, dalla concorrente azione, la cui brama e odio costituiscono il
mondo e il divenire, l'essente e il non-essente, le qualità positive e quelle
negative — e all'improvviso restò diffidentemente in sospeso di fronte al
concetto della qualità negativa, del non-essente. Può infatti qualcosa che
non è, essere una qualità? In altri termini, ponendo il problema in un senso
più rigoroso: può essere qualcosa che non è? L'unica forma di conoscenza
alla quale immediatamente riserbiamo un'incondizionata fiducia e la cui
negazione equivale a un vaneggiamento, è la tautologia A = A. Ma pro-
prio questa conoscenza tautologica gli gridava spietatamente: ciò che non
è, non è! Ciò che è, è! D'improvviso sentì pesare sulla sua vita un mostruo-
so peccato contro la logica; aveva sempre supposto sconsideratamente che
esistessero qualità negative e il non-essente in generale, che dunque, per
esprimermi con una formula, fosse A = non A: ciò che soltanto il totale
226 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI flO]

pervertimento del pensiero potrebbe sostenere. Per la verità, l'intera gran-


de moltitudine degli uomini giudica, come lui stesso rammentava, nella
stessa aberrante maniera: egli non aveva fatto altro che partecipare all'uni-
versale delitto contro la logica. Ma Io stesso attimo che lo accusa di questo
delitto, lo circonfonde della gloria di una scoperta: egli ha trovato un prin-
cipio, la chiave del mistero cosmico, lontano da ognuna illusione; se ne
scende adesso nell'abisso delle cose, stringendosi alla mano salda e terribile
della tautologica verità sull'essere.
Su questa strada incontra Eraclito — sventurato incontro! A Parmeni-
de, per il quale tutto dipendeva dalla più rigorosa separazione di essere e
non-essere, appunto in quel momento dovette risultare profondamente de-
testabile il giuoco eracliteo delle antinomie: proposizioni come queste:
«noi siamo e al tempo stesso non siamo»6, «essere e non-essere sono insie-
me lo stesso e ancora non sono lo stesso»7, proposizioni come queste, per
le quali s'intorbidava e s'intricava nuovamente tutto ciò che egli aveva ap-
pena chiarito e districato, scatenavano in lui il furore: «Alla larga dagli uo-
mini», gridava, «che sembrano aver due teste, eppure nulla sanno! Tutto
fluisce in costoro, anche il loro pensiero! Guardano ottusamente sbalorditi
le cose e devono essere ben sordi e ciechi per mescolare i contrari in un tale
guazzabuglio!»8. L'insensatezza della massa, glorificata attraverso antino-
mie ludiche ed esaltata come vertice di tutto il conoscere, fu per lui un'e-
sperienza dolorosa e incomprensibile.
S'immerse allora nel gelido bagno delle sue tremende astrazioni. Ciò che
è verace deve essere eternamente presente, di esso non può dirsi: «fu», «sa-
rà». L'essente non può essere divenuto: poiché da che cosa avrebbe potuto
divenire? Dal non-essente? Ma questo non è e nulla può generare. Dall'es-
sente? Ma questo non potrebbe generare nient'altro che se stesso. Egual-
mente si dica per il perire; esso è altrettanto impossibile come il divenire,
come ogni trasformazione, come ogni accrescimento, ogni diminuzione.
Validità generale ha la proposizione: tutto ciò di cui può dirsi «è stato» op-
pure «sarà» non è, ma dell'essente non può mai dirsi «non è»9. L'essente è
indivisibile, giacché dov'è la seconda potenza che lo potrebbe dividere? È
immobile, verso dove infatti dovrebbe muoversi? Non può essere né infini-
tamente grande né infinitamente piccolo poiché è compiuto e una infinità
compiutamente data è una contraddizione10. Così esso se ne sta sospeso,
delimitato, compiuto, immobile, equilibrato in tutte le sue parti, egual-
mente perfetto in ogni punto come una sfera, ma non in uno spazio: altri-
menti questo spazio sarebbe un secondo essente. Ma molteplici essenti non
possono esistere, poiché per separarli dovrebbe esserci qualcosa che sareb-
be non-essente: una supposizione che si elimina da sé. Così esiste soltanto
l'eterna unità.
Ma allorché Parmenide rivolse indietro lo sguardo al mondo del diveni-
re, la cui esistenza aveva precedentemente cercato di comprendere mercé
tante ingegnose combinazioni, si adirò del suo occhio, poiché vedeva so-
prattutto il divenire, e del suo orecchio, poiché Io ascoltava. «Guardatevi
dal seguire l'occhio stolto», suona ora il suo imperativo, «l'orecchio riso-
nante o la lingua, ma unicamente investigate con la forza del pensiero!»
Realizzò così l'estremamente importante, anche se ancora così inadeguata
e funesta nelle sue conseguenze, prima critica dell'apparato conoscitivo:
scindendo nettamente dai sensi la capacità di pensare astrazioni, dunque la
ragione, quasi fossero due facoltà assolutamente distinte, ha polverizzato
lo stesso intelletto e incoraggiato quella separazione, del tutto fallace, di
«spirito» e «corpo», che particolarmente a partire da Platone pesa sulla fi-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [11] 227

losofia come una maledizione. Tutte le percezioni sensibili, a giudizio di


Parmenide, procurano soltanto illusioni; e l'illusione principale sta appun-
to nel creare la falsa apparenza che anche il non-essente esiste e che anche
il divenire ha un essere. Tutta quella molteplicità e varietà del mondo noto
in termini d'esperienza, la vicissitudine delle sue qualità, il suo ordinato as-
setto in alto e in basso, vengono spietatamente gettati da parte come mera
parvenza e illusione; da lì non c'è nulla da apprendere, dunque ogni trava-
glio cui ci si sottoponga per questo mondo immaginario, radicalmente nul-
lo e per così dire fraudolentemente carpito attraverso i sensi, è sprecato.
Chi giudica in blocco a questo modo, come fece Parmenide, cessa di essere
un indagatore della natura nel particolare; la sua partecipazione ai fenome-
ni s'inaridisce, e si viene formando un rancore per non sapersi riscattare da
questo eterno inganno dei sensi. Solo nelle più pallide e astratte universali-
tà, nei gusci vuoti delle parole più indeterminate deve ora albergare la veri-
tà come in una trama di fili di ragno: e accanto a una siffatta «verità» è
ora seduto il filosofo, esangue egli pure al pari di un'astrazione e imbozzo-
lato completamente in una ragnatela di forinole. Il ragno vuole il sangue
delle sue vittime; ma il filosofo parmenideo odia precisamente il sangue
delle sue vittime, il sangue dell'empiria da lui sacrificata11.

11.
E costui fu un Greco la cui fioritura è pressappoco coeva all'esplosione
della rivoluzione ionica. A un Greco era possibile, allora, fuggire dalla
realtà sovraricca come da un semplice schematismo fantasmagorico delle
potenze immaginative — non già, come Platone, nel paese delle idee eter-
ne, nell'officina del foggiatore di mondi, per pascere l'occhio tra le incon-
taminate inviolabili forme originarie delle cose —, sibbene nella rigida
mortale immobilità del concetto più freddo, che nulla dice, quello dell'es-
sere. Certo che ci guarderemo bene dall'interpretare secondo false analogie
un fatto tanto degno d'attenzione. Quella fuga non era una fuga dal mon-
do, nel senso dei filosofi indiani, non invitava ad essa la profonda convin-
zione religiosa nella corruttibilità, nella caducità e infelicità dell'esistenza;
quella mèta ultima, la quiete nell'essere, non era presa di mira come il mi-
stico inabissarsi in un'unica rappresentazione onniappagante e incantevole
che costituisce per l'uomo comune un enigma e uno scandalo. Nel pensiero
di Parmenide non v'è la minima traccia dell'inebriante, greve aroma di
quello indiano, il quale forse non è del tutto inavvertibile in Pitagora ed
Empedocle: la singolarità di codesto fatto, in quell'epoca, è piuttosto pro-
prio l'assenza di profumo, di colore, d'anima, di forma, la totale mancan-
za di sangue, di religiosità e di fervore etico, l'astrattamente-schematico —
in un Greco! — e soprattutto la tremenda forza di quel tendere alla certez-
za in un'età di pensiero mitico, volubilmente-fantasiosa al più alto grado.
«Concedetemi solo una certezza, voi celesti!» è la preghiera di Parmenide,
«sia pure soltanto una zattera sul pelago dell'incerto, larga abbastanza per
sdraiarvisi! Tutto quanto diviene, tutto quanto è opulento, variopinto, fio-
rente, illusorio, ammaliante, vivente, tenetevelo pure per voi: a me date
soltanto Tunica povera vuota certezza!»
Nella filosofia di Parmenide il tema ontologico ha il suo preludio. In
nessun luogo l'esperienza gli offrì un essere, come era nel suo pensiero, ma
dal fatto che poteva pensarlo giunse ad inferire che esso dovesse esistere:
una conclusione fondata sul presupposto del possesso, da parte nostra, di
un organo conoscitivo che si estende all'essenza delle cose ed è indipenden-
228 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [11]

te dall'esperienza. Secondo Parmenide la materia del nostro pensiero non è


presente nell'intuizione1, bensì viene recata da un qualche altro luogo, da
un mondo sovrasensibile, al quale abbiamo diretto accesso mediante il
pensiero. Orbene Aristotele, contro tutte le argomentazioni concludenti in
questo modo, ha già sottolineato il principio che l'esistenza non è intrinse-
ca all'essenza, che l'esserci non appartiene mai all'essenza delle cose2. Ap-
punto perciò dal concetto di «essere» — la cui essentia è appunto soltanto
l'essere — non si può affatto inferire una existentia dell'essere. La verità
logica di quell'antitesi «essere» e «non-essere» è assolutamente vuota, se
non può essere dato l'oggetto che ne sta alla base, se non può essere data
l'intuizione da cui questa antitesi è dedotta per astrazione; senza questo re-
gredire all'intuizione, essa è soltanto un giuoco di rappresentazioni, attra-
verso il quale nulla in realtà è conosciuto. Il criterio puramente logico della
verità, infatti, come Kant insegna, vale a dire l'accordo di una conoscenza
con le leggi universali e formali dell'intelletto e della ragione è invero la
conditio sine qua non, quindi la condizione negativa di ogni verità: la logi-
ca, però, non può spingersi oltre e l'errore che non riguarda la forma, ben-
sì il contenuto, la logica non può evidenziarlo con alcuna pietra di parago-
ne3. Non appena invece si cerca il contenuto in ordine alla verità logica del-
l'antitesi: «ciò che è, è; ciò che non è, non è!», non si trova in effetti una
sola realtà che sia rigorosamente strutturata secondo quella antitesi. Posso
dire di un albero sia che «esso è» in confronto a tutte le altre cose, sia che
esso «diventa» in confronto a se stesso in un altro momento del tempo, sia
infine che esso «non è», per esempio: «non è ancora albero», fintanto che
osservo, metti caso, un ramoscello. Le parole sono unicamente simboli ri-
guardanti le relazioni delle cose tra loro e con noi e non toccano minima-
mente la verità assoluta4: e perfino la parola «essere» indica soltanto la re-
lazione più generale che collega tutte le cose, allo stesso modo della parola
«non essere». Ma se la stessa esistenza delle cose è indimostrabile, anche la
relazione delle cose tra loro, il cosiddetto «essere» e «non-essere» non po-
trà approssimarci di un passo alla regione della verità. Per il tramite delle
parole e dei concetti non giungeremo mai dietro la parete delle relazioni, a
qualcosa come il favoloso fondo originario delle cose5, e persino nelle pure
forme della sensibilità e dell'intelletto, spazio tempo e causalità, non ci è
dato acquisire nulla che sia somigliante a una veritas aeterna. È assoluta-
mente impossibile per il soggetto voler vedere e conoscere qualcosa al di là
di se stesso, tanto impossibile che conoscere ed essere sono le sfere mag-
giormente, tra tutte, in contraddizione. E se Parmenide, nella ingenuità co-
noscitivamente sprovveduta della critica dell'intelletto di quel tempo, pote-
va illudersi di pervenire dal concetto eternamente soggettivo ad un essere-
in-sé, oggi, dopo Kant, costituisce un'arrogante ignoranza, in questo o in
quello, specie tra disinformati teologi che vogliono giocare a fare i filosofi,
porre come compito della filosofia quello di «cogliere con la coscienza l'as-
soluto», magari persino in questa forma: «l'assoluto è già presente, in qua-
le altro modo potrebbe essere cercato?», come si è espresso Hegel, o con le
parole di Beneke, «l'essere deve essere dato in qualche modo, in qualche
modo deve essere da noi attingibile, giacché altrimenti non potremmo nep-
pure avere il concetto di essere»6. Il concetto di essere! Come se già nell'eti-
mologia della parola esso non rivelasse la più miserevole origine empirica!
Esse, infatti, ha fondamentalmente il significato di «respirare»7 e nulla
più: se l'uomo ne fa uso per tutte le altre cose, trasferisce mediante una
metafora, vale a dire qualcosa di illogico, la convinzione che egli stesso re-
spira e vive sulle altre cose e concepisce la loro esistenza, per analogia urna-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI (12] 229
na, come un respirare. Ben presto si va cancellando la significazione origi-
naria della parola, ma ne resta sempre abbastanza perché l'uomo si rappre-
senti l'esistenza di altre cose analogicamente alla sua propria esistenza,
dunque in guisa antropomorfica e in ogni caso mediante una trasposizione
non-logica. Ma anche per l'uomo, prescindendo dunque da codesta traspo-
sizione, la proposizione: «io respiro, dunque esiste un essere», è tuttavia
del tutto insufficiente: in quanto ad essa deve essere mossa la stessa obie-
zione che all'altra: ambulo, ergo sum, oppure ergo est.
V

12.
L'altro concetto, di maggior contenuto, rispetto a quello dell'essere ed
egualmente già pensato da Parmenide, per quanto non ancora così accor-
tamente applicato come dal suo discepolo Zenone, è quello dell'infinito.
Non può esistere nulla d'infinito: infatti da una tale supposizione discende-
rebbe il concetto contraddittorio di una infinità compiuta. Dal momento
che la nostra realtà, il nostro mondo esistente porta ovunque il carattere di
questa compiuta infinità, rappresenta nella sua essenza una contraddizione
nei riguardi del logico e quindi anche nei riguardi del reale ed è illusione,
menzogna, fantasma. Zenone si servì in particolar modo del metodo indi-
retto di dimostrazione: diceva, per esempio: «non può darsi alcun movi-
mento da un luogo ad un altro: giacché se esistesse, sarebbe compiutamen-
te data una infinità: questo è però impossibile». Achille non può gareggia-
re, raggiungendola, con la tartaruga che ha un piccolo vantaggio; infatti
per attingere semplicemente il punto da cui la tartaruga ha iniziato la sua
corsa, dovrebbe già aver percorso innumerevoli infiniti piccoli spazi, vale a
dire innanzitutto la metà di quello spazio, poi un quarto, poi un ottavo,
poi un sedicesimo e così via in infinitum '. Se di fatto egli raggiunge la tar-
taruga è questo un fenomeno illogico, in nessun caso, dunque, una verità,
una realtà, un essere verace, bensì solo un'illusione. Poiché non è mai pos-
sibile porre un termine all'infinito. Un'altra popolare figura espressiva di
questa dottrina è la freccia che vola e tuttavia resta immobile2. In ogni atti-
mo del suo volo ha una posizione: in questa posizione sta immobile. La
somma delle infinite posizioni di quiete non sarebbe così identica al movi-
mento? E non sarebbe così movimento la quiete infinitamente ripetuta,
dunque precisamente il suo opposto? L'infinito viene qui utilizzato come
acido nitrico della realtà: in esso questa si dissolve. Ma se i concetti sono
saldi, eterni ed essenti — e essere e pensare coincidono per Parmenide3 —,
se l'infinito non può dunque mai essere compiuto, se la quiete non può mai
divenire movimento, la freccia, in verità, non è affatto volata: non si è
mossa affatto dal suo posto e dalla quiete, non è trascorso alcun tratto di
tempo. O in altri termini: in questa cosiddetta, eppur soltanto presunta
realtà, non c'è né tempo, né spazio, né movimento. La freccia stessa, infi-
ne, è una pura illusione: essa infatti procede dalla molteplicità, dalla fanta-
smagoria del non-uno generata dai sensi. Supposto che la freccia avesse un
essere, essa sarebbe immota, acrona, non divenuta, fissa ed eterna — una
rappresentazione impossibile! Supposto che il tempo sia reale, esso non
potrebbe essere infinitamente divisibile; il tempo, di cui la freccia ha avuto
bisogno, dovrebbe consistere di un numero limitato di momenti, ognuno di
questi momenti dovrebbe essere un atomon — una rappresentazione im-
possibile! Non appena il loro contenuto empiricamente dato, attinto da
questo mondo visibile, viene preso come veritas aeterna, tutte le nostre
rappresentazioni portano a contraddizioni. Se esiste un movimento assolu-
230 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI (13]

to, non esiste spazio: se esiste uno spazio assoluto, non esiste movimento;
se esiste un essere assoluto, non esiste molteplicità. Se esiste assoluta mol-
teplicità, non esiste unità. Con ciò dovrebbe essere chiaro quanto poco,
con tali concetti, tocchiamo il cuore delle cose o sciogliamo il nodo della
realtà: mentre Parmenide e Zenone, al contrario si aggrappano saldamente
alla verità e all'universale validità dei concetti e rifiutano il mondo visibile
come l'antitesi dei concetti veri e universalmente validi, come una oggetti-
vazione del non-logico e del contraddittorio. In tutte le loro dimostrazioni
prendono le mosse dal presupposto, completamente inverificabile, anzi in-
verosimile, che in quella facoltà concettuale sia da noi posseduto il supre-
mo criterio decisivo dell'essere e del non-essere, vale a dire della realtà og-
gettiva e del suo opposto: codesti concetti non devono validificarsi e cor-
reggersi sulla base della realtà, sebbene da essa effettivamente discendano,
bensì devono viceversa misurare e giudicare la realtà e persino condannarla
ove venisse in contraddizione con l'elemento logico. Per poter concedere
loro queste prerogative giurisdizionali, Parmenide dovette assegnare ad es-
si l'essere medesimo, che soltanto in quanto essere aveva per lui un senso:
il pensiero e quella unica indivenuta perfetta sfera dell'essere non erano
più ora da concepirsi come due diverse modalità dell'essere, dal momento
che dell'essere non poteva darsi alcuna duplicità. Così era divenuta neces-
saria la più che temeraria idea di considerare identici pensiero ed essere;
nessuna forma d'intuitività, nessun simbolo, nessuna similitudine poteva a
questo punto venire in soccorso; quest'idea era assolutamente irrappresen-
tabile, ma necessaria, anzi celebrava, nella mancanza di ogni possibilità
d'oggettivazione sensibile, il suo massimo trionfo sul mondo e sulle pretese
dei sensi. Stando all'imperativo parmenideo, a terrificare ogni fantasia, il
pensiero e quell'essere bozzoluto e sferico, in tutto e per tutto mortalmen-
te-greve e rigidamente-inerte, devono identificarsi ed essere assolutamente
una cosa sola. Contraddica pure i sensi questa identità! Precisamente il
fatto che essa non è presa in prestito dai sensi costituisce la sua garanzia.

13.
Del resto si sollevarono contro Parmenide anche una robusta coppia di
argumenta ad hominem ovvero ex concessis, con cui poteva venire alla luce
non certo la verità in se stessa, ma se non altro la non-verità di quella asso-
luta separazione di mondo sensibile e mondo concettuale e della identità di
essere e pensiero. Primo argomento: se il pensiero della ragione espresso in
concetti è reale, anche la molteplicità e il movimento devono avere realtà,
infatti il pensiero razionale è mosso e questo è invero un movimento da
concetto a concetto, all'interno, dunque, di una molteplicità di realtà. Non
esiste viceversa alcuna via di uscita, è del tutto impossibile designare il pen-
siero come un rigido permanere, come un eternamente immoto pensiero
dell'unità su se stessa. Secondo argomento: se dai sensi procedono unica-
mente inganno e apparenza, e se esiste in verità solo la reale identità di es-
sere e pensiero, che cosa sono allora i sensi stessi? In ogni caso ancora sol-
tanto apparenza: giacché essi non coincidono col pensiero e il loro prodot-
to, il mondo sensibile, non coincide con l'apparenza. Ma se i sensi stessi
sono apparenza, per chi poi sono apparenza? In che modo possono ingan-
nare, irreali come sono? Il non-essente non può neppure ingannare. Resta
dunque la provenienza dell'illusione e dell'apparenza un enigma, anzi una
contraddizione. Questi argumenta ad hominem noi li chiamiamo l'obiezio-
ne della ragione in movimento e quella sull'origine dell'apparenza. Conse-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [14] 231
guirebbe dalla prima la realtà del movimento e del molteplice, dalla secon-
da l'impossibilità dell'apparenza parmenidea; nel presupposto che si am-
metta la fondatezza della dottrina principale di Parmenide intorno all'esse-
re.
Questa dottrina capitale si limita però a dire: l'essente soltanto ha un es-
sere, il non-essente non è. Ma se il movimento è un siffatto essere, vale per
esso quello che vale per l'essente in generale e in ogni caso: esso è indivenu-
to, eterno, indistruttibile, senza accrescimento e riduzione. Ma se appog-
giandoci a quella domanda sull'origine dell'apparenza, si nega l'apparenza
estromettendola da questo mondo, se la scena del cosiddetto divenire, dei
mutamento, la nostra multiforme inesausta varia e ricca esistenza, sono
messi al riparo dalla riprovazione parmenidea, è necessario caratterizzare
questo mondo dell'avvicendarsi e dei trasmutarsi come una somma di tali
sostanze che veramente sono ed esistono ad un tempo per tutta l'eternità.
Anche ammesso ciò, è naturalmente del tutto impossibile parlare di un mu-
tamento in senso rigoroso, di un divenire. Ma ora la molteplicità ha un ve-
ro essere, tutte le qualità hanno un vero essere e il movimento non in minor
misura: e di ogni momento di questo mondo, per quanto questi momenti
arbitrariamente presi siano fra loro distanti di millenni, si dovrebbe poter
dire: tutte le vere sostanze presenti nel mondo, senza eccezioni, esistono si-
multaneamente, immutate, indiminuite, senza accrescimento, senza ridu-
zione. Un millennio dopo, questo mondo è precisamente lo stesso, nulla si
è trasformato. Se ad onta di ciò il mondo ha un aspetto di volta in volta di-
verso, ciò non è illusione, non è alcunché di meramente apparente, bensì
conseguenza dell'eterno movimento. I veri essenti ora sono mossi in un
modo, ora in un altro, accostati, disuniti, innalzati, abbassati, avviluppati
l'un l'altro, disordinatamente intricati.

14.
Con questa rappresentazione abbiamo già fatto un passo nella cerchia
della dottrina di Anassagora. Con molta energia vengono mosse da costui
contro Parmenide due obiezioni, quella del pensiero in movimento e l'al-
tra, sulla provenienza dell'apparenza; ma nella tesi principale Parmenide
lo tiene soggiogato al pari di tutti i più giovani filosofi e investigatori della
natura. Tutti costoro negano la possibilità del divenire e del trapassare, co-
me s'immagina il buon senso del volgo e come avevano ammesso Anassi-
mandro e Eraclito con profonda riflessione e tuttavia ancora in maniera ir-
riflessa. Un tale mitologico scaturire dal nulla, dileguare nel nulla, una tale
arbitraria trasmutazione del nulla in qualcosa, un siffatto casuale scambio,
spoliazione e attrazione di qualità furono considerati da allora in poi come
assurdi: similmente e per le stesse ragioni uno scaturire del molto dall'uno,
delle diverse qualità dall'unica qualità originaria, insomma la derivazione
del mondo da una materia primordiale, alla maniera di Talete o di Eracli-
to. Venne invece posto ora lo specifico problema di trasferire la dottrina
dell'essere indivenuto e non transeunte in questo mondo esistente, senza
cercar riparo nella teoria dell'apparenza e dell'illusione prodotte dai sensi.
Ma se il mondo empirico non deve essere apparenza, se le cose non devono
essere derivate dal nulla e tanto meno da un unico qualcosa, occorre che a
queste stesse cose sia intrinseco un essere verace, la loro materia e il loro
contenuto devono essere assolutamente reali, e ogni mutamento può rife-
rirsi unicamente alla forma, vale a dire alla posizione, all'ordine, al rag-
gruppamento, alla commistione, alla scomposizione di queste eterne so-
232 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [14J

stanzialità simultaneamente esistenti. Accade così come nel giuoco dei da-
di: sono sempre gli stessi dadi, ma ora cadendo in un modo, ora in un al-
tro, significano per noi qualcosa di diverso. Tutte le teorie più antiche si
erano mosse a ritroso alla ricerca di un elemento originario, quale grembo
e causa del divenire, fosse esso acqua, aria o fuoco oppure l'indeterminato
di Anassimandro. Viceversa Anassagora afferma che dall'uguale non può
mai nascere il disuguale e che il mutamento non può mai essere spiegato a
partire da un unico essere1. Pensando a quell'unica supposta materia assot-
tigliata o addensata che sia, non si raggiungerà mai, mercé una tale con-
densazione o rarefazione, quel che si desidererebbe di spiegare: la moltepli-
cità delle qualità. Ma se il mondo è effettivamente colmo delle più diverse
qualità, queste, ove non siano apparenza, devono avere un essere, devono
essere, cioè, eternamente indivenute, non transeunti e sempre simultanea-
mente esistenti2. Ma non possono essere apparenza poiché la domanda sul-
l'origine dell'apparenza resta senza risposta, anzi addirittura risponde a se
stessa con un no. Gli indagatori più antichi avevano voluto semplificare il
problema del divenire stabilendo una sola sostanza che portasse in grembo
le possibilità del divenire; ora invece si dice: esistono innumerevoli sostan-
ze, ma non crescono né diminuiscono mai di numero, né mai ve ne sono di
nuove. Solo il movimento le getta sempre di nuovo sottosopra3: ma che il
movimento sia una verità e non un'apparenza, Anassagora lo dimostrò
contro Parmenide, con l'incontestabile successione delle nostre rappresen-
tazioni nel pensiero. Con la massima immediatezza, per il fatto che pensia-
mo e abbiamo rappresentazioni, cogliamo la verità del movimento e della
successione. È comunque liquidato il rigido, inerte, morto essere unico di
Parmenide, esistono molti essenti, così come è egualmente certo che questi
molteplici essenti (esistenze, sostanze) sono in movimento. Trasmutazione
è movimento — ma donde prende origine il movimento? Forse che questo
moto non lascia completamente intatta la peculiare essenza di codeste so-
stanze indipendenti e isolate e secondo la più rigorosa nozione dell'essente,
non deve essere in se stesso estraneo ad esse? Oppure, ad onta di ciò, esso è
intrinseco alle cose stesse? Ci troviamo di fronte a un'importante decisio-
ne: dipende dall'indirizzo che intendiamo assumere il nostro futuro incam-
minarci nella regione di Anassagora o di Empedocle oppure di Democrito4.
È necessario porre questa spinosa questione: se esistono molte sostanze e
se queste nella loro pluralità si muovono, che cosa le muove? Si comunica-
no reciprocamente il movimento? O le muove qualcosa come la semplice
forza di gravità? Oppure nelle cose stesse vi sono magiche forze di attrazio-
ne o di repulsione? O la causa del movimento sta al di fuori di queste mol-
teplici sostanze reali? Ovvero, ponendo il problema in modo più rigoroso:
se due cose indicano una successione, una correlativa modificazione di po-
sizione, è da esse stesse che ciò deriva? E deve essere ciò spiegato in termini
meccanici, o magici? Oppure, se non si trattasse di questo, v'è un qualche
terzo che le muove? È un arduo problema: anche ammettendo l'esistenza
di molte sostanze Parmenide infatti avrebbe pur sempre potuto dimostrare
ancora una volta, contro Anassagora, l'impossibilita del movimento. Po-
teva cioè dire: prendete due sostanze che in se stesse sono, ognuna con un
essere assolutamente diverso, autonomo, incondizionato — e di tale specie
sono le sostanze anassagoree — : stando così le cose, quelle non possono
mai urtarsi, mai muoversi, mai attrarsi, non esiste tra loro alcuna causali-
tà, alcun ponte, non si toccano, non si disturbano, non hanno nulla a che
fare tra loro. L'urto è quindi altrettanto inspiegabile quanto l'attrazione
magica; le cose che sono assolutamente estranee non possono esercitare al-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [15] 233

cuna specie di azione reciproca, dunque non possono neppure essere mosse
o far muovere. Parmenide avrebbe finanche aggiunto: l'unico scampo che
vi resta è attribuire il movimento alle cose stesse; ma allora tutto ciò che
conoscete e vedete come movimento è una mera illusione e non movimento
vero, poiché l'unica specie di movimento che potrebbe competere a codeste
sostanze assolutamente indipendenti sarebbe solo un movimento proprio,
senza alcun effetto. Voi invece supponete il movimento appunto per spie-
gare gli effetti dell'avvicendamento, della dislocazione nello spazio, della
trasformazione, insomma le causalità e le relazioni delle cose tra di loro.
Proprio questi effetti però non risulterebbero spiegati e resterebbero pro-
blematici come prima; per la qual cosa nessuno può dire a qual fine sareb-
be necessario supporre un movimento, dal momento che esso non dà luogo
a nulla di ciò che voi pretendete da esso. Il moto non si conviene all'essen-
za delle cose ed è ad esse eternamente estraneo.
A mettere in non cale una siffatta argomentazione, codesti avversari del-
la immobile unità eleatica furono indotti da un pregiudizio proveniente
dalla sensibilità. Ha l'aria di essere un fatto irrefutabile che ogni verace es-
sente sia un corpo riempiente lo spazio, una concrezione di materia, gran-
de o piccola, ma comunque spazialmente estesa; cosicché due o più di tali
concrezioni non possono essere in un unico spazio. Ciò premesso, Anassa-
gora e più tardi Democrito supposero che se nel loro movimento si imbat-
tessero l'uno nell'altro, questi conglomerati dovrebbero venire in collisio-
ne, si contenderebbero il medesimo spazio e che da questo conflitto nasce-
rebbe appunto ogni trasformazione. In altre parole: quelle sostanze del tut-
to isolate, radicalmente eterogenee ed eternamente immutabili, non erano
pensate come assolutamente eterogenee, bensì avevano tutte, oltre a una
qualità specifica, affatto particolare, un substrato perfettamente omoge-
neo, un frammento di materia riempiente spazio. Nel partecipare della ma-
teria si ponevano tutte sullo stesso piano e potevano perciò agire l'una sul-
l'altra, cioè urtarsi. Ogni trasformazione dipendeva in generale non già
dalla eterogeneità di codeste sostanze, bensì dalla loro omogeneità in quan-
to materia. Alla base delle supposizioni di Anassagora c'è un errore logico:
poiché quel che è veramente in sé, deve essere del tutto incondizionato e
unitario, non può presupporre quindi nulla come sua causa — mentre in-
vece tutte quelle sostanze anassagoree hanno un condizionante, la materia,
e presuppongono già l'esistenza di questa: la sostanza «rosso», ad esem-
pio, era appunto per Anassagora non solo il rosso in sé, ma oltre a ciò, im-
plicitamente, un frammento di materia priva di qualità. Soltanto con que-
sta il «rosso in sé» agiva su altre sostanze, non con il rosso dunque, bensì
con ciò che rosso non è, non ha colore, non è in generale determinato qua-
litativamente. Se il rosso fosse stato rigorosamente assunto come il rosso,
come la stessa specifica sostanza, dunque senza quel substrato, Anassago-
ra non avrebbe certo osato parlare di un'azione del rosso su altre sostanze,
magari addirittura con il giro di parole che il «rosso in sé» comunica ulte-
riormente, mediante l'urto, il movimento ricevuto dal «corposo in sé». Sa-
rebbe allora chiaro che ciò che veramente è, non potrebbe mai essere mosso.

15.
Occorre prendere in considerazione gli avversari degli Eleati, per apprez-
zare i meriti eccezionali della supposizione parmenidea. Quali difficoltà —
alle quali Parmenide era sfuggito — attendevano Anassagora e tutti quanti
credevano a una molteplicità di sostanze, alla domanda: «Quante sostan-
234 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [15]

ze?». Anassagora spiccò il salto, chiuse gli occhi e disse: «Infinitamente


molte»: se non altro in questo modo aveva oltrepassato d'un volo la prova
incredibilmente malagevole di un numero determinato di materie elemen-
tari. Dal momento che queste, infinitamente molte, senza accrescimento e
variazioni dovevano esistere dall'eternità, in quella supposizione era data
la contraddizione di una infinità conchiusa e pensabile nella sua compiu-
tezza. Insomma la molteplicità, il movimento, l'infinità messi in fuga da
Parmenide con la mirabile proposizione dell'essere unico, tornavano dalla
proscrizione e scagliavano i loro dardi sugli avversari di Parmenide, per ca-
gionar ferite di cui non esiste guarigione1. Questi avversari non hanno evi-
dentemente nessuna sicura consapevolezza della terribile forza di quei pen-
sieri eleatici: «non può esistere tempo, né movimento, né spazio, giacché
possiamo rappresentarceli tutti unicamente come infiniti, e cioè in primo
luogo come infinitamente grandi, in secondo luogo come infinitamente di-
visibili; ma ogni infinito non ha essere alcuno, non esiste», cosa indubita-
bile per chiunque concepisca rigorosamente il senso della parola «essere» e
ritenga impossibile l'esistenza di alcunché di contraddittorio, per esempio
di una infinità conchiusa. Ma se proprio la realtà ci mostra ogni cosa sol-
tanto sotto la forma della compiuta infinità, balza agli occhi il fatto che es-
sa si contraddice e che dunque non ha alcuna vera realtà. Se poi quegli av-
versari volessero obiettare: «Ma persino nel vostro pensiero esiste succes-
sione, perciò anche il vostro pensiero potrebbe non essere reale e quindi
potrebbe non essere neppure in condizione di dimostrare alcunché», Par-
menide avrebbe forse dato la stessa risposta che ebbe a dare Kant in un ca-
so analogo ad un'analoga obiezione: «Posso sì dire che le mie rappresenta-
zioni si succedono l'un l'altra: ma questo significa soltanto: noi siamo co-
scienti di esse in quanto si dispongono in una sequenza temporale, vale a
dire secondo la forma del nostro senso interno. Il tempo quindi non è qual-
cosa in sé, e neppure una determinazione oggettivamente inerente alle co-
se»2. Occorrerebbe dunque distinguere il puro pensiero, che sarebbe atem-
porale come l'unico essere parmenideo, e la coscienza di questo pensiero; e
quest'ultima ha già traslato il pensiero nella forma dell'apparenza, cioè
della successione, della molteplicità e del movimento. È verosimile che
Parmenide si sarebbe giovato di questa via d'uscita: tuttavia dovrebbe es-
sergli mossa poi la stessa obiezione che A. Spir (Pensiero e realtà, p. 264)3
rivolge a Kant: «Ora è però in primo luogo evidente che non posso saper
nulla di una successione come tale, se non ho al tempo stesso nella mia co-
scienza i termini di questa subentranti gli uni agli altri. La rappresentazio-
ne di una successione è dunque essa stessa per nulla successiva, è quindi ra-
dicalmente diversa dalla successione delle nostre rappresentazioni. In se-
condo luogo la tesi di Kant implica tanto manifeste assurdità, che fa mera-
viglia come abbia potuto lasciarle passare inosservate. Secondo questa tesi
Cesare e Socrate non sono realmente defunti, essi vivono ancora altrettan-
to bene come duemila anni fa e sembrano essere morti soltanto in conse-
guenza di un meccanismo del mio "senso interno". Uomini di là da venire
vivono già in questo istante e se non ancora campeggiano in questo mo-
mento nella loro vita, è sempre a cagione di quell'ordinamento del "senso
interno". A questo punto ci si domanda innanzitutto: come può il princi-
pio e la fine della stessa vita cosciente, unitamente a tutti i suoi sensi interni
ed esterni, esistere semplicemente nella concezione del senso interno? È ap-
punto un fatto, che non si può assolutamente negare la realtà del muta-
mento. Se la si butta fuori dalla finestra, torna a introdursi di nuovo attra-
verso il buco della serratura. Se si dice: "Mi sembra solo che stati e rappre-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI {15] 235

sentazioni si avvicendino" — anche questa apparenza è qualcosa d'oggetti-


vamente presente e in essa la successione ha indubbiamente realtà oggetti-
va, qualcosa segue effettivamente a qualcos'altro. — Si deve inoltre osser-
vare che l'intera critica delta ragione può avere senz'altro fondamento e ti-
tolo soltanto nel presupposto che le nostre stesse rappresentazioni ci ap-
paiono così come sono. Poiché se anche le rappresentazioni ci apparissero
diverse da quello che realmente sono, non si potrebbe stabilire neppure in-
torno ad esse alcuna opinione valida, dunque non si potrebbe realizzare al-
cuna teoria della conoscenza e alcuna indagine "trascendentale" avente va-
lidità oggettiva. Non v'è dubbio però che le nostre rappresentazioni stesse
ci appaiono come successive».
La considerazione di questa successione e di questa mobilità incontesta-
bilmente certe ha ordunque spinto Anassagora ad una ipotesi rilevante.
Evidentemente le rappresentazioni muovevano se stesse, non venivano
mosse, e non avevano fuori di sé la causa del movimento. Dunque esiste
qualcosa, lui si disse, che porta in sé la sorgente e il principio del moto; in
secondo luogo osservò che questa rappresentazione non muove soltanto se
stessa, bensì anche qualcosa d'interamente diverso, il corpo. Scopre così
nella più immediata esperienza un agire delle rappresentazioni sulla mate-
ria estesa, il quale si dà a conoscere come movimento di quest'ultima. Era
questo, per lui, un fatto; solo incidentalmente si sentì indotto a spiegare
anche questo dato di fatto. In poche parole: era in suo possesso uno sche-
ma regolativo in ordine al movimento nel mondo, concepito ora o come
movimento delle vere isolate sostanzialità operato dal soggetto delle rap-
presentazioni, il nus, oppure come movimento prodotto dal già mosso.
Che quest'ultima specie di moto, la trasmissione meccanica di movimenti e
spinte, implicasse essa pure un problema nella sua presupposizione di fon-
do, gli è verosimilmente sfuggito: la banalità e quotidianità dell'azione
operata dall'urto determinò un ottundimento del suo sguardo di fronte al-
l'enigmaticità di quello. Avvertì molto bene, al contrario, la natura proble-
matica, anzi contraddittoria di un'azione delle rappresentazioni su sostan-
ze in sé essenti e cercò perciò di ricondurre anche quest'azione ad un mec-
canismo di spinte e di urti spiegabile ai suoi occhi. In ogni caso il nus era
anch'esso una tale sostanza in sé essente ed egli la caratterizzò come una
materia quanto mai tenue e sottile, con una specifica qualità costituita dal
pensiero. Data la presupposizione di un siffatto carattere, l'azione di que-
sta materia su altre materie doveva essere indubbiamente della stessa iden-
tica specie di quella che un'altra sostanza esercita su una terza, vale a dire
un'azione meccanica, inducente il movimento per pressione e urto. Con
tutto ciò aveva ora una sostanza che muove sé e altro, il movimento della
quale non proviene dall'esterno e non dipende da chicchessia: mentre sem-
brava quasi indifferente come doveva essere pensata questa autocinesi,
qualcosa di simile allo spingersi in ogni senso di delicatissime sferette di
mercurio piccole e rotonde. Tra tutti i problemi che riguardano il moto,
nessuno è più molesto di quello relativo all'inizio del movimento. Se infatti
è possibile pensare tutti i restanti movimenti come conseguenze ed effetti,
dovrebbe pur sempre essere data una spiegazione del primo e originario; in
ogni caso, però, per i movimenti meccanici, il primo anello della catena
non può consistere in un movimento meccanico, giacché sarebbe lo stesso
che ricorrere al concetto contraddittorio di causa sui. D'altro canto non ha
neppure senso ascrivere alle cose eterne e incondizionate un loro proprio
movimento, per così dire dall'origine, quale appannaggio della loro esi-
stenza. II movimento, infatti, non può essere rappresentato senza una dire-
236 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [16]

zione verso un qualche luogo e su un qualche luogo, dunque soltanto come


riferimento e condizione; una cosa, però, non è più in se stessa essente e in-
condizionata, se necessariamente si riconnette, secondo la sua natura, a
qualcosa di esistente fuori di essa. In questo impiccio Anassagora ritenne
di trovare un aiuto e una salvezza eccezionali in quel nus autocinetico e per
ogni altro aspetto autonomo: in quanto la sua essenza è appunto abbastan-
za oscura e velata da poter ingannare sul fatto che anche la sua ammissione
non involga fondamentalmente quella interdetta causa sui. Per il punto di
vista empirico è addirittura fuori discussione che il rappresentare non è
una causa sui, bensì l'azione del cervello, anzi per questo stesso punto di
vista deve essere una curiosa aberrazione separare lo «spirito», il prodotto
del cervello, dalla sua causa e immaginarlo, dopo questo distacco, ancora
esistente. Così fece Anassagora; dimenticò il cervello, il suo sorprendente
magistero dedaleo, la sottigliezza e il tortuoso groviglio dei suoi meandri e
dei suoi processi e decretò lo «spirito in sé». Questo «spirito in sé» era do-
tato di arbitrio, esso solo tra tutte le sostanze, ha questa facoltà — splendi-
da conoscenza! Esso poteva quando che sia dare inizio al movimento delle
cose esterne a lui, e all'opposto occuparsi di sé per un tempo immenso —
insomma, ad Anassagora era lecito ipotizzare in un tempo originario un
primo istante del movimento quale punto germinale di tutto il cosiddetto
divenire, cioè di ogni trasmutazione, vale a dire di ogni dislocazione e di
ogni diversa disposizione delle eterne sostanze e delle loro particelle. Ben-
ché lo spirito stesso sia eterno, esso non è per nulla costretto a prendersi
cura, dall'eternità, del giro di spostamento dei granelli materiali: e ci fu co-
munque un tempo e uno stato di codesti elementi materiali — se di breve o
di lunga durata non ha importanza —, in cui il nus non ancora aveva pro-
dotto su di essi i suoi effetti, e nel quale essi erano ancora inerti. È questo il
periodo del caos anassagoreo.

16.
Il caos di Anassagora non è una concezione immediatamente chiara: per
coglierla occorre aver compreso la rappresentazione che il nostro filosofo
si è foggiata del cosiddetto «divenire». Lo stato di tutte le eterogenee esi-
stenze elementari, anteriormente ad ogni moto, non darebbe infatti luogo,
per se stesso, ad una assoluta commistione di tutti i «semi delle cose»1, co-
me suona l'espressione anassagorea; una mescolanza che egli si immagina-
va come un assoluto guazzabuglio fino alle più piccole parti2, una volta
sminuzzate come in un mortaio tutte quelle esistenze elementari e disinte-
grate in atomi di polvere, sì da poter essere tutte insieme rimescolate in
quel caos come in una brocca. Si potrebbe dire che questa concezione del
caos non ha nulla di necessario; che si ha invece unicamente bisogno di
supporre uno stato casuale purchessia di tutte queste esistenze, non già una
loro infinita scomposizione; che una contiguità eslege è già sufficiente, non
occorre alcun guazzabuglio, per non parlare di un guazzabuglio così totale.
Come pervenne dunque Anassagora a questa difficile e complicata rappre-
sentazione? Attraverso la sua concezione, si è detto, del divenire empirica-
mente dato. Attinse in primo luogo dalla propria esperienza una tesi quan-
to mai singolare sul divenire e questa tesi espresse di necessità da se stessa,
come sua conseguenza, codesta teoria del caos.
L'osservazione dei processi genetici nella natura, non già la considera-
zione di un sistema anteriore, suggerì ad Anassagora la dottrina che tutto
ha origine da tutto 3: questa era la convinzione dello studioso della natura,
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI 116] 237

basata su di una induzione molteplice, di per se stessa, nel suo fondo, po-
vera oltremisura. Ne dette questa dimostrazione: se anche l'opposto può
generarsi dall'opposto, per esempio il nero dal bianco, tutto è possibile:
codesto fatto pure si verifica allorché la bianca neve si discioglie nell'acqua
nera. Egli spiegò la nutrizione del corpo col fatto che dovrebbero esserci
negli alimenti invisibilmente piccole componenti di carne o sangue o ossa,
le quali si separarono nel processo nutritivo e si unirono nel corpo con l'e-
lemento omogeneo. Ma se tutto può nascere dal tutto, il solido dal fluido,
il duro dal molle, il nero dal bianco, il corporeo dal pane, deve essere altre-
sì tutto contenuto in tutto. I nomi delle cose esprimono allora soltanto il
prevalere di una sostanza sulle altre sostanze presenti in quantità più picco-
le, spesso non percepibili. Nell'oro, vale a dire in ciò che si designa a potio-
re col termine «oro», deve essere contenuto anche argento, neve, pane e
carne, seppure in componenti minime; il tutto prende nome da ciò che pre-
domina, dalla sostanza oro.
Ma com'è possibile che una sostanza predomini e riempia una cosa in
quantità maggiore di quella che altre posseggono? L'esperienza mostra che
soltanto mediante il movimento viene a poco a poco a determinarsi questa
prevalenza, che questa preponderanza è il risultato di un processo che noi
comunemente chiamiamo divenire; che viceversa l'essere tutto in tutto non
è il risultato di un processo, bensì invece il presupposto di ogni divenire e
di ogni essere mosso e quindi è anteriore ad ogni divenire. In altre parole,
l'empiria insegna che continuamente il simile si riconduce al simile, per
esempio mediante la nutrizione, dunque questi elementi simili non si trova-
no originariamente conglutinati e conglomerati, sibbene divisi. Nei proces-
si empirici che si svolgono dinanzi ai nostri occhi, il simile viene invece
sempre estratto e rimosso dal dissimile (per esempio nella nutrizione le par-
ticelle di carne dal pane ecc.), quindi il guazzabuglio delle diverse sostanze
è la più antica forma costitutiva delle cose e precede, in ordine di tempo,
ogni divenire e moto. Se adunque tutto il cosiddetto divenire è un separare
e presuppone una mescolanza, ci si chiede ora quale grado debba aver avu-
to originariamente questa mescolanza, questo guazzabuglio. Sebbene il
processo sia un movimento dell'omogeneo verso l'omogeneo e la durata
del divenire occupi già un tempo enorme, si riconosce tuttavia come ancor
oggi in tutte le cose sono ancora inglobati residui e semi di tutte le altre co-
se, i quali attendono la loro separazione, e come soltanto qua e là è posta
in essere una prevalenza; la commistione originaria deve essere stata asso-
luta, vale a dire procedente sino all'infinitamente piccolo, dato che la
scomposizione impiega un tempo infinito. Ci si attiene con ciò rigorosa-
mente al pensiero che tutto quanto possiede un essere sostanziale è divisibi-
le all'infinito, senza che vada perduto il suo specificum.
Secondo questi presupposti Anassagora si immagina l'esistenza origina-
ria del mondo a un dipresso come una massa polverulenta di punti pieni,
infinitamente piccoli, ognuno dei quali è specificamente semplice e possie-
de una sola qualità, in modo tale che ogni qualità specifica viene rappre-
sentata in infinitamente plurimi punti individuali. Questi punti Aristotele li
ha chiamati omeomerie4, in considerazione del fatto che essi sono le parti,
tra loro omogenee, di un intero, omogeneo con le sue parti. Ma molto si
andrebbe errati se si equiparasse quell'originario guazzabuglio di tutti que-
sti punti, questi «grani seminali delle cose», all'unica materia originaria di
Anassimandro: quest'ultima infatti, detta l'«indeterminato», è una massa
assolutamente unitaria e peculiare, l'altro, invece, un aggregato di materie.
È possibile, invero, di questo aggregato di materie, come dell'indetermina-
238 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [17]

to anassimandreo, asserire le stesse cose: come fa Aristotele5; non poteva


essere né bianco, né grigio, né nero, né colorato in alcun altro modo, insa-
pore, inodore, e nel suo complesso, né quantitativamente né qualitativa-
mente determinato. Fin qui si estende l'analogia tra l'indeterminato di
Anassimandro e il miscuglio originario di Anassagora. Ma prescindendo
da questa analogia negativa, li distingue positivamente il fatto che que-
st'ultimo è composito, mentre il primo è un'unità. Con l'ipotesi del suo
caos, Anassagora aveva, se non altro, il vantaggio su Anassimandro di fa-
re a meno della necessità di derivare il molteplice dall'uno, ciò che diviene
da ciò che è.
Indubbiamente, nella sua onnicommistione dei semi dovette ammettere
un'eccezione: il nus non era allora e neppure ora è, in genere, amalgamato
ad alcunché6. Se fosse infatti amalgamato ad un essente, dovrebbe risiede-
re in tutte le cose, in infinite scomposizioni. Questa eccezione è da un pun-
to di vista logico estremamente rischiosa, specialmente se si consideri la na-
tura materiale del nus precedentemente descritta; questa eccezione ha qual-
cosa di mitologico e sembra arbitraria, anche se stando alle premesse anas-
sagoree costituiva una rigorosa necessità. Lo spirito, del resto, divisibile al-
l'infinito come ogni altra materia — sempreché non ad opera di altre mate-
rie, bensì di se stesso, quando si divide, dividendosi e conglomerandosi ora
in grande, ora in piccolo — conserva dall'eternità la sua identica quantità e
qualità: e ciò che in questo attimo, in tutto il mondo, animali, piante, uo-
mini è spirito, lo era anche, senza un più o un meno, sebbene diversamente
distribuito, mille anni fa. Ma se mai esso entrò in relazione con una diversa
sostanza, non fu mai commisto ad essa, bensì volontariamente ne prese
possesso, la mosse e la spinse a suo talento, insomma impose su di essa il
proprio dominio. Essendo l'unico ad avere in sé il movimento, è anche l'u-
nico a possedere la supremazia nel mondo, e la manifesta muovendo i gra-
nelli delle sostanze. Ma in che direzione li muove? O è forse pensabile un
moto senza direzione, senza percorso? È forse lo spirito altrettanto arbitra-
rio nei suoi urti, quanto lo è il momento in cui urta o non urta? Insomma,
all'interno del movimento domina il caso, cioè il più cieco arbitrio? A que-
sto confine, raggiungiamo, nell'ambito rappresentativo di Anassagora, la
sfera del massimamente sacro.

17.
Che cosa doveva avvenire di quel caotico magma dello stato originario
anteriore ad ogni movimento, perché da esso, senza incremento di nuove
sostanze e forze, nascesse il mondo presente, con le orbite regolari degli
astri, con le forme normativamente coerenti della durata stagionale e gior-
naliera, con la multiforme sua bellezza e ordine, insomma, perché dal caos
scaturisse un cosmo? Ciò può essere unicamente conseguenza del movi-
mento, ma di un movimento determinato e saggiamente disposto. Questo
stesso movimento è lo strumento del nus; la sua mèta sarebbe la compiuta
separazione dell'eguale, una mèta non ancora raggiunta, poiché il disordi-
ne e il miscuglio erano all'origine infiniti. Solo con un processo sterminato
questa mèta potrà essere attinta, non è possibile realizzarla tutt'a un tratto,
con un mitologico colpo di bacchetta magica. Se in un punto infinitamente
lontano del tempo avverrà mai che tutto l'omogeneo sia raccolto insieme e
che le esistenze originarie, indivise, si dispongano in bell'ordine le une ac-
canto alle altre, se ogni particella riuscirà a trovare le sue compagne e a
rimpatriarsi, se la grande pace subentrerà alla grande scissione e smembra-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [17] 239
mento delle sostanze e non vi sarà più nulla di smembrato e di scisso, allo-
ra il nus farà nuovamente ritorno alla sua autocinesi e non andrà più va-
gando per il mondo, esso stesso diviso ora in quantità più grandi, ora in
più piccole, come spirito delle piante o degli animali, né si cercherà ricetto
in altra materia. Frattanto questo compito non è ancora portato a termine:
ma la specie di movimento che il nus ha concepito per assolverlo, attesta
un mirabile finalismo, giacché mediante quel movimento il compito riceve
in ogni attimo un adempimento ulteriore. Il suo carattere è infatti quello di
un moto circolare che si continua in guisa concentrica: ha preso inizio in
un qualche punto del caotico miscuglio, nella forma di un piccolo mulinel-
lo e in sempre più grandi orbite questo moto circolare percorre tutto l'esse-
re esistente, sbalzando fuori ovunque il simile verso il simile. In primo luo-
go il moto rotatorio di questo rivolgimento avvicinò al denso ogni densità,
al sottile ogni sottile ed egualmente ai loro simili tutto l'oscuro, il chiaro,
l'umido, il secco: al di sopra di queste generali rubriche ve ne sono due an-
cor più onnicomprensive, vale a dire l'etere, ossia tutto ciò che è caldo, lu-
minoso, tenue, e l'aria, che designa quanto è oscuro, freddo, pesante, soli-
do. Con la separazione delle masse eteriche da quelle dell'aria si forma, co-
me effetto prossimo di quella ruota volgentesi in cerchi sempre più grandi,
qualcosa di simile a ciò che accade in un vortice prodotto da qualcuno in
un'acqua stagnante: le componenti pesanti sono trascinate e compresse al
centro. Allo stesso modo si forma nel caos quella progressiva tromba d'ac-
qua costituita all'esterno di componenti eteriche, sottili, luminose, all'in-
terno di quelle torbide, grevi, umide. Nell'ulteriore corso di questo proces-
so, da quella massa aerea che si concentra all'interno, si separa l'acqua e a
sua volta, dall'acqua, il terroso, dal terroso, poi, sotto l'azione del freddo
tremendo, le pietre. Dal canto loro, nell'impeto della rotazione, alcune
masse pietrose vengono lateralmente strappate dalla terra e scagliate ad-
dentro nella regione dell'ardente etere luminoso; divenute laggiù roventi
per effetto del suo elemento igneo e sfrombolate lontano nell'eterico movi-
mento circolare, irradiano luce e illuminano e riscaldano, come sole ed
astri, la terra in sé cupa e fredda. L'intera concezione è di un'audacia e di
una semplicità mirabili e non ha nulla in sé di quella goffa e antropomorfi-
ca teleologia che è stata spesso coilegata al nome di Anassagora. Codesta
concezione trova la sua grandezza e il suo orgoglio precisamente nell'aver
derivato l'intero cosmo del divenire dal circolo in movimento, mentre Par-
menide contemplava il vero essente come un'inerte morta sfera. Non appe-
na quel cerchio è mosso e fatto ruotare dal nus, tutto l'ordine, la normati-
vità e la bellezza del mondo sono la naturale conseguenza di quel primo
impulso. Quale torto si arreca a Anassagora quando gli si rimprovera il
suo saggio astenersi dalla teleologia, manifesto in questa concezione, e si
parla con disprezzo del suo nus come di un deus ex machina l. Proprio per
aver eliminato le miracolistiche intromissioni mitologiche e teistiche, non-
ché i fini e i vantaggi antropomorfici, Anassagora avrebbe piuttosto potu-
to servirsi di quelle stesse orgogliose parole usate da Kant nella sua Storia
naturale del cielo. È certo un sublime pensiero ricondurre quella magnifi-
cenza del cosmo e il meraviglioso ordinamento delle orbite astrali ad un
moto puramente meccanico e per così dire ad una figura matematica in
movimento, dunque non già alle intenzioni e alle mani invadenti di una
macchinosa divinità, bensì unicamente a una sorta di vibrazione alla quale
basta soltanto aver inizio, per essere, nel suo corso, necessaria e determina-
ta, e per realizzare, pur senza confondersi in essi, gli stessi effetti del più
accorto calcolo dell'intelligenza e del più ponderato finalismo. «Assaporo
240 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [18-19]

il piacere — diceva Kant — di veder generarsi, senza l'ausilio di supposi-


zioni arbitrarie, per effetto di precise leggi del movimento, un tutto ben or-
dinato, tanto simile a quel sistema cosmico che è il nostro, da non potermi
esimere dal considerarlo identico ad esso. Mi sembra che si potrebbe in un
certo senso dire a questo punto senza presunzione: datemi materia, e con
questa edificherò un mondo!2»

18.
Anche ammesso a questo punto che si possa ritenere corretta la deduzio-
ne di quel magma originario, sembrano innanzitutto opporsi al grande
progetto di costruzione cosmica alcune considerazioni derivate dalla mec-
canica. Infatti anche se lo spirito suscita in un certo luogo un moto circola-
re1, è ancora molto difficile rappresentarsi la prosecuzione di quel movi-
mento, particolarmente per il fatto che essa deve essere infinita e deve gra-
dualmente imprimere una rotazione a tutte le masse esistenti. Di primo ac-
chito saremmo indotti a presumere che la pressione di tutta la restante ma-
teria dovrebbe schiacciare questo piccolo movimento circolare al suo pri-
mo sorgere; il fatto che ciò non si verifichi presuppone, da parte del nus
motore, che esso prenda inizio all'improvviso con terribile forza, così rapi-
damente, in ogni caso, da doversi chiamare, quel movimento, un vortice:
un vortice non diverso da come se l'immaginava altresì Democrito. E poi-
ché questo vortice deve essere infinitamente forte per non venire intralciato
dall'intero mondo dell'infinito che gli grava sopra, esso sarà infinitamente
veloce, potendosi manifestare originariamente la forza solo nella velocità.
Quanto più ampi invece sono gli anelli concentrici, tanto più lento sarà
questo movimento; se il movimento potesse una volta attingere il termine
del mondo infinitamente esteso, dovrebbe già avere una velocità di rotazio-
ne infinitamente piccola. Se ci immaginiamo, all'opposto, il movimento
infinitamente grande, cioè infinitamente veloce, vale a dire al suo primissi-
mo inizio, anche il cerchio iniziale dovrà essere stato infinitamente piccolo;
abbiamo dunque come principio un punto che ruota su se stesso, con un
contenuto materiale infinitamente piccolo. Ma esso non spiegherebbe il
moto ulteriore: potremmo persino rappresentarci tutti quanti i punti della
massa originaria vorticanti su se stessi e tuttavia l'intera massa resterebbe
inerte e indivisa. Nel caso invece che quel punto materiale di infinita picco-
lezza afferrato e messo in vibrazione dal nus non sia stato fatto ruotare su
se stesso, ma avesse descritto una circonferenza più grande quanto si vuo-
le, già questo sarebbe bastato ad urtare, a rimuovere, a sfrombolare, a far
rimbalzare altri punti materiali e a suscitare così gradualmente un movi-
mento tumultuoso e dilagante, in cui, come risultato prossimo, avrebbe
dovuto verificarsi codesta separazione delle masse aeree da quelle eteriche.
Come è un atto arbitrario del nus l'inizio dello stesso movimento, così lo è
anche il modo di quest'inizio, in quanto il primo movimento descrive un
cerchio il cui raggio è scelto, a piacere, più grande di un punto.

19.
Ci si potrebbe certamente domandare ora come è accaduto così tutt'a un
tratto al nus di urtare un puntino materiale preso a caso in quella moltitu-
dine di punti e di ruotargli attorno in un vortice di danza e per quale ragio-
ne ciò non gli sia accaduto prima. La risposta di Anassagora sarebbe que-
sta: «Il nus ha il privilegio dell'arbitrio, può cominciare quando gli pare,
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [19] 241

dipende da sé, mentre tutto il resto è determinato dall'esterno. Non ha al-


cun dovere e quindi neppure uno scopo che sarebbe costretto a perseguire;
se ha preso, a un certo momento, inizio con quel movimento e si è posto un
fine, questo fu soltanto — difficile la risposta, ma completerebbe Eraclito
— un giuoco».
Sembra essere stata questa l'ultima soluzione o chiarificazione sospesa
sulle labbra dei Greci. Lo spirito anassagoreo è un artista, cioè il genio più
possente della meccanica e dell'architettura1, che coi mezzi più semplici,
crea le forme e le orbite più grandiose, per così dire una architettura volu-
bile, ma sempre prendendo le mosse da quell'arbitrio irrazionale che s'an-
nida nel profondo dell'artista. È come se Anassagora accennasse a Fidia e
di fronte all'immensa opera d'arte, il cosmo, così come di fronte al Parte-
none, ci gridasse: «Il divenire non è un fenomeno morale, ma soltanto un
fenomeno artistico»2. Racconta Aristotele che a chi gli domandava perché
l'esistenza in generale fosse preziosa per lui, Anassagora rispondesse con
queste parole: «Per contemplare il cielo e tutto l'ordine del cosmo»3. Trat-
tava le cose fisiche con la stessa devozione e con la stessa misteriosa rive-
renza con cui noi stiamo dinanzi ad un tempio antico; la sua dottrina era
divenuta per lui una specie di esercizio religioso da spirito libero, per lui
che ne\V odi prof anum vuigus et arceoA trovava la sua difesa e sceglieva con
cautela i propri discepoli nella più elevata e nobile società ateniese. Nella
chiusa comunità dei seguaci ateniesi d'Anassagora la mitologia del volgo
era ancora consentita soltanto come un linguaggio simbolico; tutti i miti,
tutti gli dèi, tutti gli eroi erano quivi considerati unicamente come gerogli-
fici di un'interpretazione della natura, e persino l'epos omerico doveva es-
sere il canto canonico dell'imperio del nus e delle battaglie e leggi della psy-
sis. Qualche voce di questa società d'eminenti spiriti liberi penetrò qua e là
nel popolo; e particolarmente il grande e sempre ardimentoso Euripide, te-
so nei suoi pensieri al nuovo, osò far sentire in vari modi la sua parola at-
traverso la maschera tragica, dicendo cose che come frecce trapassavano i
sensi della massa e da cui questa si liberò soltanto con caricature buffone-
sche e burleschi stravolgimenti di significato.
Ma il più grande dei seguaci d'Anassagora è Pericle; il più poderoso e
ragguardevole uomo del mondo; e precisamente a lui si riferisce la testimo-
nianza di Platone secondo la quale soltanto la filosofia di Anassagora
avrebbe dato al suo genio la sublimità del volo5. Quando come pubblico
oratore si levava dinanzi al suo popolo nella bella immobilità e compostez-
za di un marmoreo Olimpico e pacatamente, avvolto nel suo mantello dal-
l'inalterato panneggio, senza mutare l'espressione del viso, senza sorride-
re, con invariabile ed energico timbro di voce, in maniera dunque tutt'altro
che alla Demostene, ma perfettamente periclea, parlava, tuonava, lampeg-
giava, annientava e redimeva — allora costui appariva come l'abbreviazio-
ne del cosmo anassagoreo, l'immagine del nus che si è edificata la dimora
più bella e più onorevole e per così dire l'incarnazione visibile di quella for-
za dello spirito, artisticamente indeterminata, che costruisce, muove, sepa-
ra, ordina, scruta dall'alto. Fu lo stesso Anassagora a dire che l'uomo è
l'essere più razionale, ossia che deve albergare in se stesso il nus in pienezza
maggiore di tutti gli altri esseri, già per il semplice fatto che possiede organi
così mirabili come le mani6. La sua conclusione dunque era che quel nus, a
seconda della grandezza e dell'entità con cui stabilisce il suo potere in un
corpo materiale, si fabbrica sempre, con questa materia, gli strumenti cor-
rispondenti al proprio grado quantitativo, i più belli quindi e i più adeguati
se esso si manifesta nella massima pienezza. E come la più meravigliosa e
242 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [19J

più coerente al fine azione del nus dovette essere quell'originario movimen-
to circolare, essendo allora lo spirito ancora raccolto in se stesso allo stato
indiviso, così l'effetto dell'orazione periclea appariva spesso, all'orecchio
di Anassagora, come un'immagine metaforica di quell'originario movi-
mento circolare; anche qui, infatti, avvertiva un vortice di pensieri dalla
forza terribile, pur tuttavia ordinato nel suo movimento, che in cerchi con-
centrici afferrava e trascinava poco a poco i più vicini e i più lontani e che
una volta giunto al suo termine aveva plasmato, a forza di ordinare e sce-
verare, il popolo tutto in una forma nuova.
Per i filosofi successivi dell'antichità il modo con cui Anassagora si ser-
viva del suo nus per spiegare il mondo, risultava bizzarro, anzi difficilmen-
te scusabile; sembrava loro che questi avesse trovato un mirabile strumen-
to, ma che non lo avesse compreso bene, e cercavano di riguadagnare quel
che era stato trascurato dal suo scopritore. Non seppero dunque distingue-
re il significato che aveva la rinuncia di Anassagora, suggerita dal più puro
spirito di metodo scientifico, la quale si pone comunque e preliminarmente
il problema in che modo qualcosa è {causa efficiens) e non per quale ragio-
ne è (causa finalis). Il nus non è stato tirato in ballo da Anassagora in ri-
sposta alla questione particolare: «per quale via esiste il movimento e in
che modo si danno movimenti regolari?»; ma Platone gli rimprovera che
avrebbe dovuto dimostrare, e non lo ha dimostrato, che ogni cosa esiste, in
quel suo proprio modo e luogo, nella guisa più bella e conveniente e perfet-
tamente orientata al fine7. Ma Anassagora non avrebbe in alcun singolo
caso osato affermare ciò: per lui il mondo esistente non era neppure il mas-
simamente perfetto tra i mondi pensabili, giacché egli vedeva tutto nascere
da tutto e non trovava la separazione delle sostanze, realizzata e conclusa
dal nus, né al termine dello spazio pieno del mondo, né nei singoli esseri.
Al suo conoscere era sufficiente aver trovato un movimento che nel sempli-
ce prolungarsi della sua azione può creare l'ordine visibile da un caos con-
sistente in un'assoluta mescolanza, e si guardava bene dal porre la questio-
ne sul perché del movimento, sulla finalità razionale del movimento. Se in-
fatti il nus avesse dovuto adempiere con esso uno scopo necessario confor-
memente alla sua natura, non dipenderebbe più dal suo arbitrio aver dato,
una certa volta, inizio al movimento; in quanto il nus è eterno, avrebbe do-
vuto altresì essere determinato eternamente già da questo fine, e in tal caso
non avrebbe potuto darsi un punto nel tempo in cui il movimento fosse an-
cora mancante, anzi ci sarebbe stato il divieto logico a supporre per il mo-
vimento un punto iniziale: per la qual cosa sarebbe stata ancora una volta
egualmente impossibile, dal punto di vista logico, la rappresentazione del
caos originario, il fondamento dell'intera interpretazione anassagorea del
mondo. Per sottrarsi a tale difficoltà creata dalla teleologia, Anassagora
dovette sempre accentuare e ribadire nel modo più energico il fatto che lo
spirito agisce di proprio arbitrio; tutti i suoi atti, anche l'atto di quel moto
originario, sono atti della «volontà libera», mentre viceversa l'intero altro
mondo, dopo quel momento originario, si plasma in modo rigorosamente
determinato, e cioè meccanicamente determinato. Quella volontà assoluta-
mente libera, tuttavia, può essere pensata unicamente come senza scopo,
pressappoco alla stessa maniera del giuoco fanciullesco o dell'impulso arti-
stico al giuoco. È un errore pretendere da Anassagora il consueto scambio
di piani del teleologo, che ammirando lo straordinario finalismo, l'accordo
delle parti con il tutto, segnatamente nella sfera organica, presuppone che
quanto esiste per l'intelletto sia anche stato introdotto dall'intelletto e che
quanto viene posto in essere sotto la guida del concetto di scopo debba es-
LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI [19] 243

sere realizzato anche dalla natura mediante la riflessione e i concetti finali-


stici (Schopenhauer, Mondo come volontà e rappresentazione, i, p. 373).
Pensati alla maniera di Anassagora, l'ordine e il finalismo delle cose sono
nulla più che il diretto risultato di un moto ciecamente meccanico; e soltan-
to per produrre questo moto, per evadere una buona volta, quando che
sia, dalla mortale quiete del caos, Anassagora suppone il nus arbitrario,
unicamente dipendente da sé. Apprezzava in esso proprio la peculiarità di
essere a proprio modo, di poter agire, dunque, incondizionatamente, in
guisa non determinata, senza guida di cause e di fini.
Note a cura di Ferruccio Masini*

PREFAZIONE
1
Scriveva Nietzsche nel suo giovanile Fragment einer Kritik der schopenhauerischen Philo-
sophie: «Gli errori dei grandi uomini sono degni di rispetto, perché sono più fecondi delle ve-
rità dei piccoli» (F.W. Nietzsche, Werke in 23 Bden, Musarion-Verlag, Mùnchen, 1920-1929,
i. p. 393).
La destituzione di ogni validità teoretica della metafisica è già in fase avanzata all'epoca in
cui Nietzsche scrive la Filosofia nell'età tragica dei Greci; il pensiero che la metafisica possa
essere recuperata (e transvalutata) esclusivamente sul piano estetico trova la sua premessa nel-
la critica mossa a Schopenhauer nello scritto sopracitato. Del resto, per Nietzsche, la stessa
identificazione schopenhaueriana della cosa in sé con il Wille si fonda su un'«intuizione poe-
tica» {ivi, p. 392 ss.). In una lettera a Deussen si legge: «In alcuni uomini la metafisica rientra
nell'ambito delle esigenze del sentimento, è essenzialmente edificazione: per altro verso, essa
è arte, vale a dire quella della composizione poetica dei concetti; tuttavia occorre tener fermo
il fatto che la metafisica né come religione né come arte ha in qualche modo a che fare con il
cosiddetto "vero o essente in sé"» (F.W. Nietzsche, Gesammelte Briefe, 5 Bande, Leipzig und
Berlin, 1900 [1902J], i, p. 101).
2
Non si può trascurare il nesso che la Filosofia nell'età tragica dei Greci ha con le idee
espresse da Nietzsche relativamente al valore e al significato dell'educazione e della cultura in
alcuni suoi scritti giovanili, databili appunto tra il 1869 e il 1872, in particolare nelle sei confe-
renze Uber die Zukunft unserer Bildungsanstalten (Sull'avvenire dei nostri istituti di cultura),
di cui solo cinque furono effettivamente tenute da Nietzsche, e con notevole successo, negli
anni 1871-1872. Negli abbozzi dell'estate-inverno 1872, intesi ad una rielaborazione di queste
conferenze e, in particolare, nelle annotazioni per la sesta e settima conferenza, Nietzsche de-
linea abbastanza chiaramente gli scopi e i compiti della educazione, che non può consistere
semplicemente nel ricevere e nell'imparare, bensì soprattutto in una «comprensione produtti-
va», nel riconoscimento, cioè, del carattere paradigmatico proprio dei «grandi spiriti», tali
appunto per quella misura di grandezza non tramontabile e non transeunte alla quale deve es-
sere commisurata l'epoca presente. In questo senso la Bildung diventa una «potenza trasfigu-
rante» («Die Bildung als verklàrende Macht»), in virtù della quale è possibile istituire un rap-
porto «reale» con la grandezza degli antichi, cosi da stringere saldamente alla loro perpetuità
di «modelli» l'impulso stesso della vita che avanza e plasma nuove forme (cfr. F.W. Nietz-
sche, Werke, Gesamlausgabe in 19 Bànden, Leipzig 1901-19132, ix, 2, pp. 434-435 (10) [d'ora
innanzi W.GA.\).
Per Nietzsche il termine Bildung racchiude in sé il significato normativo e ideale della cultu-
ra assimilabile a quello che hanno nel mondo greco i termini maiSeia e àptxri (si veda, a propo-
sito della distinzione tra il concetto «antropologico» di cultura e la cultura intesa come «idea-
le» da realizzare, le utili osservazioni di W. Jaeger, Paideia, 3 voli., trad. it. di L. Emery, Fi-
renze, 19532, i, p. 29, n. 5). È evidente che l'elemento eternamente irrefutabile di una filosofia
come quella dei presocratici, espresso — secondo le parole di Nietzsche — da un «frammento
di personalità», costituisce qui la base per una reinterpretazione della natura greca in genera-
le, nella quale si realizza la possibilità plastica di una cultura capace di venerare e perciò stes-
so in grado di intendere «polifonicamente» la grandezza storica di un modello.
È in questa prospettiva che si può cogliere sotto l'abbozzo di una storia della filosofia dei
presocratici un tentativo di progettazione, in fondo abbastanza polemico, di un nuovo con-
cetto di cultura. In Das Verhàltniss der schopenhauerischen Philosophie zu einer deutschen
Cu/tur (1872) risulta evidente il disprezzo con cui Nietzsche oppone alla frigida ipertrofia sto-
rica del filisteo colto l'entusiasmo di chi riesce a trovare un rapporto nuovo, vitale, con la sag-
gezza degli antichi: «L'uomo colto è oggi tale soprattutto storicamente: grazie alla sua co-

* Si ripubblicano qui, con qualche ritocco, le note di commento alla Filosofia nell'età tra-
gica dei Greci, nell'edizione da me curata, nel 1970, per l'editrice Liviana di Padova (Collana
Studium Sapientiae).
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 245

scienza storica si salva dal sublime; la qual cosa riesce al filisteo mediante il suo "sentirsi a
proprio agio". Non più l'entusiasmo che la storia suscita — come poteva credere Goethe —
bensì proprio l'ottundimento di ogni entusiasmo è ora il fine di questi ammiratori del nil ad-
mirari, quando si sforzano di comprendere storicamente ogni cosa» (W. GA. ix, 2, p. 443).

PREFAZIONE POSTERIORE
1
L'epoca di composizione di questa ulteriore prefazione risale, con tutta probabilità, all'in-
verno 1874-1875 (cfr. H. J. Mette, Sachlicher 1933, i, xxxiv nota e F. Nietzsche, La filosofia
nell'epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873 [d'ora innanzi FEG], in F. N., Opere, a
cura di G. Colli e Mazzino Montinari, 8 voli, divisi in tomi, Milano 1973, ni, 2, p. 432.

1.
1
Scriveva Nietzsche in Jenseits von Gut und Bòse, a proposito dell'«anima tedesca»: «Vi
sono parole di Goethe in cui, quasi fosse uno straniero a parlare, si sentenzia con impaziente
durezza su quel che per i Tedeschi costituisce un motivo d'orgoglio: il famoso sentimento te-
desco è definito "indulgenza per le proprie e altrui debolezze". Ha forse torto a dire così? — I
Tedeschi hanno questo di particolare, che raramente su di essi si ha completamente torto.
L'anima tedesca è tutta un intrico di labirinti, in essa ci sono caverne, nascondigli, traboc-
chetti; molta parte ha nel suo disordine l'attrattiva del misterioso; e ben conosce ì segreti sen-
tieri che portano al caos. E come ogni cosa ama il suo simbolo, così il tedesco ama le nubi e
tutto ciò che è indistinto, cangiante, crepuscolare, umido e velato: sente come "profondo"
l'incerto, il non formato, tutto ciò che si sposta e che cresce. Lo stesso tedesco non è, ma di-
venta, egli "si sviluppa". Lo "sviluppo" [palese allusione a Hegel) è perciò il ritrovato e il trat-
to caratteristicamente tedesco nel grande regno delle formole filosofiche — un concetto so-
vrano che, associato alla birra e alla musica tedesca, è all'opera per germanizzare l'intera Eu-
ropa» (F. Nietzsche, «Al di là del bene e del male», trad. it. di F. Masini, in Opere di F.
Nietzsche, cit., vi, 1, pp. 156-157).
2
«Non si può parlare pertinentemente nelle scienze naturali sopra taluni problemi se non si
chiama in aiuto la metafisica; non già, però, quel sapere scolastico e verbale: essa è quel che
precedeva, accompagnava e seguiva la fisica e la precedeva e l'accompagnerà ora e sempre»
(W. Goethe, «Maximen und Reflexionen», in Schriften der Goethegesellschaft, a cura di M.
Hecker, 1907, xxi, 546).
3
In che senso deve intendersi quest'affermazione di Nietzsche? Bisogna distinguere la «sa-
nità» dei Greci da quella nobile compostezza morale, da quell'armonico equilibrio di sempli-
cità, forma e grandezza («edle Einfalt und stille Gròfle»), in cui la tradizione classico-umani-
stica da Winckelmann e Schiller, da Humboldt al giovane F. Schlegel, aveva stabilito i carat-
teri del "genio" ellenico, così come la grecofilia settecentesca ne aveva offerto una nostalgica
stilizzazione estetico-intellettuale. La «sanità» di cui parla Nietzsche non esclude la visione
dell'orrore e assurdità dell'esistenza, l'oscura e abissale saggezza tragica nascosta nel mito, la
titanico-barbarica sete di prevaricazione e d'annientamento; anzi essa presuppone tutto ciò e
si propone propriamente come un "risanamento" operato dalle potenze artistiche (apollineo e
dionisiaco), l'espressione, cioè, di quella «gioia metafisica del tragico» («Die Geburt der Tra-
gèdie» in Werke, cit., i, p. 92), di quella «teodicea» dell'arte «in cui tutto quanto esiste, non
importa se buono o cattivo, è divinizzato» (ivi, p. 29).
In una lettera a E. Rohde del primo luglio 1872 Nietzsche insiste sulla sua valutazione pro-
blematica dello stesso mondo omerico: «La rammollita tesi del mondo omerico come mondo
giovanile, come primavera del popolo, eccetera, mi è venuta a noia! Nel senso in cui è enun-
ciata, essa è falsa. Che preceda una lotta enorme, selvaggia, di cupa rozzezza e crudeltà; che
Omero stia come vincitore alla conclusione di questo lungo e desolato periodo: questa è per
me una delle mie convinzioni più salde. 1 Greci sono molto più antichi di quanto si pensi. Si
può parlare di primavera, a patto che si presupponga prima della primavera l'autunno: ma
tutto questo mondo della purezza e della bellezza non è certo caduto dal cielo» (F. Nietzsche,
Lettere a Rohde, trad. it., di M. Montinari, Torino, p. 168). Non si dimentichi che a questa
revisione antiumanistica del mito classico di una Grecia così contemplativamente estraniata
da ogni conflitto e da ogni fondo di barbarie e interamente risolta in una inattingibile misura
di bellezza, già prima di Nietzsche i romantici, da Kleist allo stesso F. Schlegel, da Hòlderlin a
Creuzer, senza dimenticare gli studi sul Mutterrecht di Bachofen, avevano dato, sia pure in
modi e con prospettive storiche ed estetico-filosofiche diverse, un impulso determinante, sco-
prendo dietro il volto olimpico quello cupamente ambiguo (ferino) di una Grecia orgiastico-
dionisiaca. Osserva limpidamente L. Mittner: «I lettori settecenteschi non sentivano affatto il
grido delle passioni più selvagge, dell'orrore e della crudeltà che erompono dai versi dei tragi-
ci greci ed anche di Omero: la loro nobile visione dell'"universalmente umano" ne rimase
246 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

molto pericolosamente limitata ed impoverita» (L. Mittner, Storia della letteratura tedesca
dal Pietismo al Romanticismo 1700-1820, Torino, 1964, p. 195). Sanità ellenica si riconduce,
dunque, per Nietzsche, alla mancanza, nei Greci del vi e del v secolo, di quei segni di decaden-
za che cominceranno a delinearsi subito dopo l'età di Pericle con il prevalere del razionalismo
socratico e quindi anche del suo «ottimismo teoretico». In questa «sanità» resta celato il più
profondo abisso e al tempo stesso la massima altezza di una natura ancora capace di esprime-
re un autosuperamento creatore, non ancora intaccata da quel disprezzo metafisico del sensi-
bile che troverà la sua apoteosi e il suo coronamento ontologico nella trascendenza platonica
delle idee contrapposte come mondo dell'ovx<o? òv a quello delle vane apparenze e perciò costi-
tuenti le supreme tavole di valori.
Siamo dunque di fronte ad una nietzscheana «grande salute», già prefigurata in questa gre-
ca sanità alla seconda potenza, nel senso che presuppone, quest'ultima, il tormento della con-
traddizione metafisico-dionisiaca e al tempo stesso la sua trasfigurazione dionisiaco-apolli-
nea. Allo stesso modo il «Naive», di cui parla Nietzsche nella Geburt der Tragèdie, diversa-
mente dall'«ingenuo» schilleriano non è già un'innocenza originaria, unità armonica con la
«Glùckseligkeit» e con la «Vollkommenheit» della natura, bensì vittoria «sopra una terribile
profondità della contemplazione del mondo, una ultrasensibile capacità di soffrire» («Die
Geburt der Tragòdie», in Werke, cit., i, p. 31).
Scriveva Nietzsche nell'opera sovracitata: «Qui corre l'obbligo di dichiarare che quest'ar-
monia guardata così nostalgicamente dagli uomini moderni, questa unificazione dell'uomo
con la natura, per cui lo Schiller ha creato il termine di ingenuo [Uber naive und sentimentali-
sche Dichtung] non è minimamente uno stato tanto semplice e ingenuo, nato per se stesso e,
per così dire, inevitabile, che dobbiamo per forza incontrarlo sulla soglia di ogni civiltà come
un paradiso del genere umano: a una cosa simile poteva prestarsi fede solo in un tempo in cui
si cercava di figurarsi l'Emilio di Rousseau anche come artista, e si fantasticava di aver trova-
to appunto in Omero codesto Emilio artista, educato nel seno della natura. Invece, quando in
arte ci viene incontro Yingenuo, dobbiamo riconoscere in esso il più alto effetto della cultura
apollinea: la quale ha sempre il compito di cominciare con l'abbattere un regno di titani e uc-
cidere mostri [...]» (La nascita della tragedia, trad. it. di E. Ruta, introduz. di P. Chiarini,
Bari, 19682, p. 59).
Il fatto che per Nietzsche l'ingenuo («das Naive») e il sentimentale («das Sentimentali-
sche») coesistevano armonicamente nel paradigma classico della «schòne Menschlichkeit»
(«Dobbiamo infine confessare, infatti, che né il carattere ingenuo, né quello sentimentale,
considerato unicamente per sé, esauriscono del tutto l'ideale di bella umanità, che soltanto
può scaturire dall'intima connessione di entrambi», F. Schiller, Ober naive und sentimentali-
sche Dichtung, Marbach, s. d., p. 1103) non implica un'analogia con la compresenza di «dio-
nisiaco» e «apollineo» nella tragedia attica, secondo la concezione nietzscheana della Geburt
der Tragòdie; in realtà, la tensione dialettica di queste opposte potenze artistiche, che si sfida-
no reciprocamente, stimolandosi a sempre nuove «generazioni», definisce la natura greca non
già come «bella umanità», ma come «genio» in se stesso discorde che deve soltanto al conti-
nuo miracolo dell'arte la vittoria sulle proprie intime lacerazioni e abissali sconvolgimenti.
Soltanto in virtù di un'artistico-tragica «volontà d'illusione», esso attinge ('«ingenuo», con-
cepito come immersione nella bellezza della parvenza, e al tempo stesso, soltanto in virtù dei-
la sua assenza di misura, la distruzione orgiastica dell'individuo, o più esattamente del princi-
pium individuationis, può essere esaltata nella musica dionisiaca (il ditirambo e la lirica corale
della tragedia). Sulla distinzione di «ingenuo» e «sentimentale» nei Greci si veda «Aus dem
Gedankenkreis der «Geburt der Tragòdie»», in W.GA, cit., ix, 2, p. 266 (212).
4
Alla giustificazione della filosofia come autocomprensione storico-dialettica del concetto
(Hegel) Nietzsche contrappone, in questo suo esordio alla storia dei filosofi «preplatonici»,
l'idea di «grandezza», come cardine di una Wertsetzung espressa nell'atto stesso del filosofa-
re. Scriveva Nietzsche nel 1875, pensando ai presocratici come «precursori di una riforma
greca» e non già come «precursori di Socrate» («Frammenti postumi», in Opere, cit., iv, 1,
p. 165), che «la filosofia greca più antica è unicamente una filosofia di uomini dì Stato» (ivi,
p. 163), indicando in tal modo come tutta la lotta tra mito e scienza, tra «scienza» e «saggez-
za» si svolgesse all'interno di un tentativo di superamento dell'antico concetto mitico di polis.
L'acuta intuizione nietzscheana a questo riguardo è stata ripresa da taluni studiosi nell'inter-
pretazione di alcuni concetti fondamentali dei presocratici, fondati su una trasposizione nel
kosmos dell'ordinamento interno della poto e quindi su una correlazione tra l'evoluzione dei
concetti giuridico-politici del microcosmo politico e quella delle leggi della physis, nel quadro
di una fondazione unitaria della filosofia intesa come «teodicea filosofica» (Jàger). Questa
intuizione resta ancora, in Nietzsche, allo stesso progetto; quel che di essa riceve un certo
svolgimento, specie nel vasto cantiere di abbozzi, schizzi, piani vari degli anni 1872-1875, si
riferisce, in particolare, ai presupposti di quella legislazione «filosofica» del «valore», ricon-
ducibili ad una unità inscindibile di filosofia e cultura, all'affermazione, cioè, di una totalità
vitale (la saggezza tragica) che non si pone il problema del «senso» della verità perché ancora
il senso della verità non si è scisso da quello della vita. È a questo zenit che si colloca il tipo
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 247
«puro» del filosofo, alla cui opera di fondazione del filosofare come modello di cultura è
strettamente intrecciata la mediazione artistica in quanto è in questa e per questa che si pla-
sma quello stile unitario di vita in cui si oggettiva la spinta ascendente di una civiltà unitamen-
te ai suoi correttivi.
È dunque l'arte il nerbo di questa forza vitale. «La bellezza e la grandiosità di una costru-
zione del mondo (alias filosofia) decide ora sul suo valore — cioè essa viene giudicata come
arte» («Piane aus dem Friihjahr 1873», in W.GA., x, 2, p. 126 [49]). «La filosofia presocra-
tica è apparentata con l'arte, le sue soluzioni degli enigmi del mondo si sono lasciate ispirare
più volte dall'arte» («Frammenti postumi Estate 1875», in Opere, cit., iv, 1, p. 164 [trad. it.
di M. Montinari]).
Questa mediazione artistica, in cui si trova racchiuso l'ideale greco della kalokagathia come
elemento normativo della Bildung, costituisce quindi l'unico rapporto possibile con cui — se-
condo Nietzsche — si può mutuare dagli antichi appunto questa tensione plasmatrice («das
Bildende») («Se ci poniamo storicamente in rapporto all'antichità, in certo qual modo la de-
gradiamo: perdiamo l'elemento formativo [...)», «Homer und die klassische Philologie. Ge-
danken zur Einleitung», in W.GA., cit., ix, 2, p. 29 [23]). L'unica conoscenza storica che
Nietzsche riconosce è un «Neuerleben», un rivivere intimamente il passato: «Dal concetto
nessuna strada conduce all'essenza delle cose. Non v'è alcuna altra via per comprendere la
tragedia greca se non quella di essere Sofocle» (F. Nietzsche, Die Unschuld des Werdens, 2
voli., Stuttgart 1956, i, p. 17 (37) [Aus dem Gedankenkreis der Geburt der Tragòdie]). Per
un'articolata disamina di questi concetti ci permettiamo di rinviare al nostro Lo scriba del
caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna, Il Mulino 1978, pp. 59-92.
5
Ci si riferisce qui alle tesi del Gladisch, criticate da E. Zeller, secondo le quali le concezio-
ni fondamentali dei filosofi presocratici riecheggiano temi centrali delle dottrine religiose e
speculative orientali: si veda soprattutto Gladisch «Ober Heraklit», in Zeitschrift fiir Alter-
tums-Wissenschaft, 1846, n. 121; 1848 n. 28 e ss.; Empedokles und die Aegypter, 1858; Hera-
kleitos und Zoroaster, 1859; Anaxagoras und die Israeliten, 1864; Die Religion und die Philo-
Sophie in ihrer weltgeschichtlichen Entwicklung, 1852. L'enunciazione sommaria dei paralle-
lismi rinvenuti dal Gladisch ci rimanda dal testo nietzscheano direttamente a quello del teolo-
go e filosofo, oltreché storico, Eduard Zeller, che non risparmia a questo proposito le sue
considerazioni critiche: cfr. E. Zeller, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, trad. it.
di R. Mondolfo, 2 voli. Firenze, 19513, i, p. 49 e ss., e la nota dello stesso Mondolfo, ivi, pp.
63-99. Non sarà forse fuori luogo ricordare il giudizio del Wilamowitz a proposito della
«grande storia della filosofia» di Zeller: «Egli introdusse il metodo che, di fronte ai filosofi,
era privilegio della scuola teologica di Tubinga: seguire un movimento spirituale attraverso le
persone dei rappresentanti, ossia riconoscere il contesto storico oltre che ricostruire i singoli
sistemi dogmatici. Era una visione in qualche modo aristotelica, e su di essa si orienta anche
l'opera dello Zeller. La sua influenza non può essere sottovalutata e si fa sempre sentire anche
là dove le ricerche hanno preso strade divergenti. Non si dovrebbe rielaborare la sua opera
per portarla al livello attuale, come un libro scolastico. Opere di così alta qualità devono esse-
re lasciate come l'autore le ha fatte. Vogliamo sentire lui anche nelle parti in cui oggi egli stes-
so parlerebbe diversamente» (V. von Wilamowitz-Mòllendorff, Storia della filologia classica,
trad. it. di F. Codino, Torino 1967, p. 130).
Per quanto Nietzsche abbia largamente utilizzato la Philosophie der Griechen in ihrer gè-
schichtlichen Entwicklung dargestellt, originariamente in cinque volumi (oggi in sei), apparsa
negli anni 1844-1852, non riteniamo che questa abbia costituito la principale o quasi esclusiva
fonte di cui egli si servì per il suo studio dei presocratici, pur tenendo conto del fatto che a
quel tempo i frammenti, non ancora organicamente raccolti (la sistemazione del Diels è del
1903), dovevano essere difficilmente e solo parzialmente accessibili (si veda H. M. Wolff, F.
Nietzsche, Der Weg zum Nichts, Bern 1956, p. 17). L'accenno alla lettura dello Zeller appare,
non senza una evidente riserva critica, in una lettera a Rohde del 1 giugno 1872: «Inoltre fac-
cio con piacere le mie lezioni, specialmente quelle sui filosofi preplatonici; questi grandi per-
sonaggi mi appaiono più viventi che mai e soltanto per fare dell'ironia posso leggere le prolis-
se notizie del probo Zeller» (Lettere a Rohde, cit., pp. 160-161). Il proposito di una revisione
radicale dei criteri storiografici riguardanti la filosofia greca (in particolare i presocratici),
evidentemente di tipo zelleriano, anche se questo nome non appare, risulta manifesto in
un'altra lettera a Rodhe: «[...] e penso che una volta o l'altra dovremo riscaldare e illumina-
re, io e te, la storia della filosofia greca, che è rimasta così povera e mummificata» (ivi, p.
141). Non si dimentichi, poi, che certo angusto schematismo zelleriano nella visualizzazione
naturalistica, e non antropologica o politico-civile, del tema speculativo dei presocratici (a
parte l'incomprensione di alcuni concetti fondamentali come quello di physis), già in Nietz-
sche viene radicalmente superato in forza d'intuizioni geniali troppo disinvoltamente fatte
passare per poesia filologica, non senza notevoli anticipazioni su determinate ricerche poste-
riori (Burnet, Jàger) e con la conseguente importante rivalutazione della filosofia presocratica
nel suo complesso in rapporto alla triade Socrate-Platone-Aristotele concepita da Zeller come
l'autentica e più alta espressione del pensiero e della civiltà greca.
248 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

Non credo inoltre che si debba restringere oltremisura la base filologica degli studi nietz-
scheani intorno ai presocratici. La formazione teologico-filologica del giovane studente di
Bonn e di Lipsia (sarà nel primo periodo lipziense che concepirà il piano di una storia della
letteratura greca) è ben nota e non trascurabili sono i contributi del giovanissimo filologo
classico anche se variamente discussi nella Philologenwelt di allora. Alle obiezioni del Roeper
(Philotogus, xxx), del Freudenthal (in Hellenistische Studien, iv, 1879, pp. 305-315), del Diels
(in Reinisches Museum, xxxi, 1867, p. 30; ma si veda anche nei Sitzungsberìchte der preussi-
schen Akademie der Wissenschaften, 1902, pp. 25-43) e soprattutto del Wilamowitz, l'acerri-
mo detrattore della Ceburt der Tragòdie (Zukunftsphilologie! Eine Erwiderung auf F. Nietz-
sches Geburt der Tragòdie, Berlin 1872, con un «seguito» nel 1873) si contrappongono le lodi
di Wagner e di E. Maass (un discepolo del Wilamowitz!) (in Philologische Untersuchungen,
in, 1880), per non parlare del Rohde recensore della Geburt der Tragòdie, (Nordeutsche All-
gemeine Zeitung, del 26 maggio 1872, ora in Kleine Schriften, n, Tùbingen und Leipzig 1901,
pp. 340-351) e difensore dell'amico contro Wilamowitz (Afterphiiologie, 1872). [Si veda la
versione italiana dei più importanti scritti polemici in Nietzsche Rohde Wilamowitz Wagner,
La polemica sull'arte tragica, a cura di F. Serpa, Firenze 1972.] Le ricerche filologiche sotto
la guida del Ritschl, che nel 1869, con decisione poi rimproveratagli dal Wilamowitz, chiame-
rà alla cattedra di filologia classica dell'Università di Basilea il prediletto discepolo, metteran-
no capo, nell'ultimo anno trascorso a Lipsia dopo il servizio militare, all'approfondimento di
vari problemi come quello della pseudoepigrafia, cui si riconnettono gli studi democritei,
quello della contemporaneità cronologica di Omero ed Esiodo, e l'altro, sulle fonti di Dioge-
ne Laerzio, la cui opera, Le vite e le opinioni dei filosofi illustri, è un capitolo fondamentale
della dossografia presocratica. Sarà in questo secondo periodo lipziense che Nietzsche già
pensa ad una storia dei filosofi greci come «artisti». La scoperta della filosofia di Schopen-
hauer e forse, in particolare, la lettura dei Fragmente zur Geschichte der Philosophie costitui-
sce, con le indagini su Diogene Laerzio (cfr. R. Oehler, Nietzsche und die Vorsokratiker:
«Proprio nell'inverno 1866/67 Nietzsche si occupò a fondo di uno studio che interessa il cam-
po della filosofia greca: egli elaborò l'argomento prescelto dalla Facoltà di Filologia di Leip-
zig «De fontibus Diogenes Laertii»»), il tramite di un rapido trapasso dagli interessi filologici
a quelli filosofici, ma è indubbio che pur entrando in crisi negli anni di Basilea la via ac ratio
del metodo filologico, niente ci autorizza a supporre che nella sua meditazione originale sui
presocratici Nietzsche avesse pregiudizialmente rinunciato ad escludere quanto poteva offrir-
gli, sia pure nei limiti di un semplice strumento, l'aristocratica e «inattuale» scienza storico-
filologica. È avvertibile dall'impianto di citazioni della Philosophie ìm tragischen Zeitalter la
presenza di una tradizione dossografica (Diogene Laerzio, Sesto Empirico, i Commenti di
Simplicio) variamente e largamente frequentata da Nietzsche specie per quanto riguarda i dati
biografici e aneddotici. Una fonte primaria accanto a Diogene Laerzio e Platone è il primo li-
bro della Metafisica di Aristotele, ma non mancano, per quanto riguarda, ad esempio, la
«successione» dei filosofi presocratici, altri importanti riferimenti come quello ad Apollodo-
ro («Briefwechsel mit E. Rohde», in Gesammelte Briefe, Berlin u. Leipzig 19022, II, p. 322).
Per quanto concerne, in particolare, Eraclito è certo che Nietzsche utilizzò largamente l'opera
di Ferdinand Lassalle, Die Philosophie Herakleitos des Dunklen von Ephesos, Berlin 1858, ed
è probabile che abbia avuto presente anche quella di F. Schleiermacher, Herakleitos der Dun-
kle von Ephesos, dargestetlt aus den Trùmmern seine Werkes und den Zeugnissen der Alten
(Sàmtliche Werke, Berlin 1838 Abt. 3, Bd 2) che — come nota Wilamowitz-Mòllendorff —
ebbe il merito di aver promosso con i suoi studi su Diogene di Apollonia e Eraclito lo studio
dei presocratici in Germania (U. von Wilamowitz-Mòllendorff, Storia della filologia classica,
cit., p. 104). All'epoca in cui Nietzsche teneva le sue lezioni su questi filosofi, esisteva già la
Historiaphilosophiae grecae et romanae di L. Preller-H. Ritter (i ediz. 1838) e proprio in que-
gli anni si andavano pubblicando i Fragmenta Philosophorum Graecorum ad opera del Mul-
lach (Parigi 1860-1881) e non è escluso che oltre alle hegeliane lezioni sulla Storia della filoso-
fia (pubblicate, com'è noto, nel 1833 e nel 1840 dal Michelet nei volumi xni e xv delle opere
complete) Nietzsche conoscesse quella parte delle «lezioni di Colonia» di Fr. Schlegel (Philo-
sophische Vorlesungen aus den Jahren 1804-1805, edite dal Windischmann nel 1836 e nel
1846) relative alla più antica filosofia greca. Non si dimentichi poi che nei Parerga di Scho-
penhauer figurano anche i Fragmente zur Geschichte der Philosophie, tra i quali sono com-
presi anche alcuni «pensieri» sulla «filosofia presocratica» («Parerga und Paralipomena», in
A. Schopenhauer's sàmmtliche Werke, 6 voli., Leipzig s.d., iv, 1, pp. 48-57). A proposito di
Schopenhauer e in particolare della sua opera fondamentale, Die Welt als Wille und Vorstel-
lung, giova osservare che tutta l'interpretazione nietzscheana dei Greci sta sotto la sua in-
fluenza. Si veda, in particolare, il cap. 31, 2, in dell'opera sovracitata dedicato al «genio»,
fondamentale per comprendere la caratterizzazione data da Nietzsche alla peculiarità estetica
del «genio» ellenico. [Per eventuali raffronti con le interpretazioni dei presocratici nella sto-
riografia filosofica moderna rimandiamo al prezioso repertorio di F. Adorno 11 pensiero gre-
co. Orientamenti bibliografici, Bari 1969.]
6
È interessante ricordare quanto scriveva F. Schlegel occupandosi del problema delle origi-
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 249
ni orientali delia filosofia greca. Proprio a proposito dei più antichi fisici ionici egli dichiara-
va infatti, d'accordo con tutti coloro che affermano doversi spiegare la filosofia greca senza
ricorrere ad influenze decisive di diverse civiltà, essendo essa nata da se stessa e portando
quindi in sé i segni di una specifica originalità: «Affermano altresì coloro che rispondono ne-
gativamente alla prima domanda (può la filosofia greca essere derivata da quella orientale?):
la filosofia greca deve essere spiegata da se stessa, poiché lo può, poiché è nata da se stessa,
poiché i pensieri dei più antichi filosofi greci si manifestarono assolutamente come originali,
come primi pensieri, e non si ha alcun motivo di volerli derivare da una anteriore fonte stra-
niera. È questo, realmente, il caso dei più antichi filosofi ionici: le loro dottrine portano effet-
tivamente l'impronta di un'indipendenza e originalità originarie; e ancora, nella filosofia
orientale, almeno nella misura in cui oggi ci è nota, non si trova nulla di simile, ma piuttosto
la massima diversità e divergenza nelle idee di fondo» (F. Schlegel, «Die Entwicklung der Phi-
losophie in zwòlf Biichern», in Philosophische Vorlesungen 1800-1807, a cura di Jean-Jac-
ques Anstett, Zurich, 1964 [Kritische F. Schlegel-Ausgabe], 2, xu, p. 172).
Scrive E. Zeller, sicuramente presente a Nietzsche: «Un influsso delle concezioni orientali
sulla filosofia greca può in un certo senso ammetterlo anche chi ritenga questa filosofia una
pura creazione greca. 1 Greci debbono pure aver portato con sé, dalla loro più antica patria
(originariamente già comune ad essi con gli altri popoli Arii), al tempo stesso che la loro lin-
gua, anche i fondamenti della loro religione e del loro costume. Dopo che essi, quindi, ebbero
raggiunta la loro posteriore dimora, furono pur sempre soggetti agli influssi che loro perveni-
vano dall'oriente, sia per la Tracia e il Bosforo, sia per il Mar Egeo e le sue isole» (La filoso-
fia dei Greci, cit., i, p. 43). Lo Zeller sottolinea, in particolar modo, il nesso tra le idee religio-
se orientali e i culti di Dioniso, Cibele e di Eracle, la cui origine, appunto, è non greca. Lo
stesso avverte, però, che per quanto riguarda la filosofia greca «possiamo prendere in consi-
derazione soltanto quegli influssi, che non siano intervenuti nella sua specifica formazione
unicamente attraverso la religione popolare greca, o in genere attraverso la natura spirituale
del popolo greco; giacché, finché si tratti di ciò, dobbiamo in ogni caso considerare la filoso-
fia dei Greci soprattutto come una creazione dello spirito greco» (ivi, p. 44). Con la sua affer-
mazione (più sotto nel testo) che «le questioni sulle origini della filosofia sono del tutto irrile-
vanti», più che correggere l'impostazione data al problema dallo Zeller, Nietzsche la rovescia
nella sua sostanza dimostrando paradossalmente una perspicacia di «senso storico» senza
dubbio superiore a quella, anche troppo celebrata, del «diligente» storiografo della filosofia.
Per Nietzsche, infatti, la questione delle origini resta, in fondo, una questione accademica, se
assunta perentoriamente come problema alternativo tra «miracolo greco» e «dipendenza cul-
turale»: egli è ben disposto a riconoscere che la filosofia dei Greci, al pari della loro cultura,
non è da considerarsi autoctona, e poco si preoccupa se in tal modo si arriva a fare qualche
concessione alla tesi «orientalistica», che è poi soltanto la spia dell'esigenza di estendere ad un
più largo contesto, quello del mondo pregreco ed asiatico in genere, la valutazione storica del-
le origini. Ciò che interessa a Nietzsche è soprattutto stabilire il carattere «tipico» dell'uomo
greco come fondatore di cultura, e quindi del filosofo come suo esponente primario, in base
ad una prodigiosa capacità di assimilazione e di trasformazione, ad una plastica duttilità, da
cui procede quel continuo sforzo di reinvenzione e di superamento con cui i Greci riplasmaro-
no la loro stessa interiore barbarie. (Si veda: «Frammenti postumi primavera-estate 1875», in
Opere, cit., iv, 1, p. 127: «I Greci intesi come l'unico popolo geniale nella storia del mondo.
Essi sono geniali anche nell1 imparare, sanno apprendere nel modo migliore, e non si limitano
ad ornarsi ed a pavoneggiarsi — come fanno i Romani — con ciò che hanno preso a prestito»
[trad. it. di M. Montinari}). Posta in questi termini si comprende come la reimpostazione del
problema delle «origini» trascende, in Nietzsche, l'ambito strettamente storiografico, o, se si
vuole «archeologico» di una ricerca, peraltro alquanto problematica, delle fonti della filoso-
fia greca, per spostarsi sul terreno dell'attitudine «artistica» dello spirito greco, e quindi della
forma teoretica di una noleai; caratterizzante l'essenza stessa della cultura occidentale. Il con-
cetto di «piastische Kraft», come capacità di appropriazione e di metamorfosi creativa, che
incorpora ciò che è estraneo per rifonderlo in un volto nuovo, ritornerà nella seconda delle
Unzeitgemàfie Betrachtungen (Vom Nutzen und Nachteil der Histoirefùr das Leberì) a indi-
care la possibilità di un superamento della malattia storica, dell'ipertrofia di «senso storico»,
e quindi del pericolo che rappresenta la storia, come impossibilità di vivere senza oblio, per la
vita: «Per determinare questo grado e per mezzo di esso il limite in cui il passato deve essere
dimenticato, se non deve diventare il becchino del presente, bisognerebbe sapere precisamente
quanto sia grande la forza plastica di un uomo, di un popolo, di una civiltà: parlo di quella
forza di crescere su se stessi in modo originale, di trasformare ed incorporare ciò che è passa-
to ed estraneo, di risanare le ferite, di sostituire ciò che si è perduto, di rimodellare da sé for-
me infrante» («Sull'utilità e il danno della storia per la vita», in Considerazioni inattuali,
trad. it. di F. Masini, Roma, Newton Compton, 1978, p. 39).
7
Negli appunti per il Philosophenbuch (1872-74) scriveva Nietzsche: «In tutti gli istinti dei
Greci si rivela una infrenante unità: ad essa diamo il nome di volontà ellenica. Ognuno di
questi istinti tenta unicamente di esistere all'infinito. A partire da essi gli antichi filosofi ten-
250 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

tano di costruire il mondo. La cultura di un popolo si manifesta nel raffrenamento unitario


degli istinti di questo popolo: la filosofia raffrena l'istinto della conoscenza, l'arte l'istinto
della forma e l'estasi, la àyànt] V'ipon; ecc.» («Aus dem Herbst und Winter 1872», in Nachge-
lassene Werke\W.GA\, cit., x, 2, p. 124 [46]).
8
Quanto alla schopenhaueriana «Gelehrtenrepublik», si veda Parerga, cit., li, p. 511 (252)
e, per contrapposizione tra «die vollendeteste Gelehrsamkeit» e il «genio», ivi, pp. 90-91 (56)
e p. 502 (248).
9
La prima «durezza d'orecchi» è per Nietzsche quella dei filologi: «Se il nostro mondo sco-
prisse in quale misura l'antichità sia davvero qualcosa di inattuale, ai filologi non si darebbe
più l'incarico di educare» («Frammenti postumi Estate 1875», in Opere, cit., iv, 1, 123). Per
Nietzsche, l'antichità trasmessaci dalla tradizione umanistica è «una antichità mal conosciuta
e completamente falsificata», a tal punto che «messa in chiaro, essa risulta una prova contro
l'umanesimo, contro la natura fondamentalmente buona dell'uomo e [...]», {ivi, p. 126).
Questa falsificazione ha avuto origine, secondo Nietzsche, con l'umanesimo medievale (Carlo
Magno) che utilizzava la civiltà antica come «stimolante per l'accettazione del cristianesimo»
(«Si tratta, per così dire del premio per la conversione, di un addolcimento nell'inghiottire
quel veleno», ed infine come «arma per la difesa spirituale del cristianesimo»). Ad onta del
Rinascimento e dei suoi poeti filologi, che rappresentò un tentativo per sottrarre l'antichità
ad una deformazione cristiana, la Chiesa riuscì «a fornire una direzione innocua agli studi
classici: fu scoperto il filologo, inteso come uno studioso, che per il resto è un sacerdote o
qualcosa di simile» (ivi* pp. 134-135). In realtà, per Nietzsche, l'antagonismo tra cultura mo-
derna, con la sua edulcorazione imitativa e precettistica del patrimonio classico precristiano,
e antichità greca implica (e nasconde) un'antitesi fra il filisteismo della cultura (il «filologo
oggettivo evirato»), combinato ad una prospettiva ottimistica sia in senso teoretico (Socrate)
che teologico (l'ordinamento finalistico e provvidenziale del mondo) e il presentimento di una
«nuova» cultura latente in individualità geniali come Schopenhauer e Wagner. In questa pro-
spettiva è chiaro che il rapporto con l'antichità classica non può essere, al tempo stesso, che
«provocatorio» nei confronti del mondo moderno: «Il mio scopo — dirà Nietzsche — è di
provocare una completa inimicizia tra la nostra attuale "cultura" e l'antichità. Chi vuol servi-
re la prima, deve odiare la seconda» (ivi, p. 104).
10
Tra i Sette Sapienti, i nomi dei quali ricorrono negli scrittori antichi in maniera uniforme,
sono comunemente annoverati Talete, Biante, Pittaco e Solone. Platone aggiunge a questi
Cleobulo, Misone e Chilone (Prot., 343 a). Sono attribuite alla saggezza popolare e oracolare
di costoro massime attinenti alla vita morale dell'uomo, come il ben noto yvuiti aautóv.
" Trofonio, oracolo in Lebadea (Beozia) di cui riferisce Pausania: aveva la figura di ser-
pente e stava celato in un antro. Le caratteristiche rituali con cui si interroga questo oracolo
ricordano la discesa di Enea al Tartaro e quella di Odisseo che interroga Anchise. Secondo
Plutarco i Trofoniadi — maghi dimoranti nell'oscura grotta — appartengono all'età preolim-
pica di Cronos.
Per intendere l'appropriazione che farà Nietzsche di questa figura mitologica intesa come
«maschera» dell'uomo della conoscenza e delle trasmutazioni problematico-sperimentali che
la sottendono esistenzialmente non sarà inutile rimandare all'inizio della prefazione di Mor-
genróte: «In questo troviamo all'opera un «essere sotterraneo», uno che perfora, scava, scal-
za di sottoterra. Posto che si abbia occhi per un tale lavoro in profondità, Io si vedrà avanzare
lentamente, cautamente, delicatamente implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che
ogni lunga privazione di luce e d'aria comporta; lo si potrebbe dire perfino contento del suo
oscuro lavoro. Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compen-
si? Vuol forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto,
enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora1.... Certamente
tornerà indietro: non chiedetegli che cosa cerca là sotto, ve lo dirà lui stesso, questo apparente
Trofonio [il corsivo è nostroj ed essere sotterraneo, quando sarà «ridiventato uomo». Si di-
simpara completamente a tacere quando si è stati così a lungo, come lui, una talpa, un solo»
(«Aurora», trad. it. di F. Masini, in Opere, cit., v, 1, p. 4 [11).
12
II vi e il v secolo rappresentano per Nietzsche l'apogeo della civiltà greca la cui fioritura
s'interrompe di colpo già all'indomani dell'età periclea. Questa epoca, che si conclude con le
guerre persiane («Il pericolo era stato troppo grande e la vittoria troppo straordinaria»,
«Frammenti postumi Estate 1875», in Opere, cit., iv, 1, p. 168) e con Socrate (in lui si compie
«l'autodistruzione dei Greci»), è caratterizzata dalla piena espansione di un tipo umano (la
«tragische Natur»), la cui essenza si riflette nella tragedia come nella filosofia: «I tipi delle
grandi figure tragiche sono i grandi uomini contemporanei: gli uomini eschilei sono imparen-
tati con Eraclito» («Aus den Vorarbeiten zu den Vortràgen: "Das griechische Musikdrama"
und "Sokrates und die Tragèdie"», in W.GA., cit., ìx, 1, p. 65 [12]).
13
Nietzsche precisa qui il nesso rigoroso che riconduce all'ambito e alla temperie culturale
di un popolo non solo il significato autentico, ma la stessa possibilità di sviluppo e di crescita
della filosofia. Non a caso la parola «filosofia», in orìgine, ha il significato di cultura (5/7-
dung). Una filosofia è solitaria, un filosofo è «inattuale», laddove non esistono più per lui le
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 251
radici che lo tengono ancorato saldamente al humus di una cultura. Questa connessione di
fondo tra cultura e filosofia tende evidentemente a far coincidere il problema della filosofia
con quello stesso della cultura: dalla possibilità dell'una discende la possibilità dell'altra e vi-
ceversa. L'assenza di cultura corrisponde, in questa prospettiva, a quel depotenziamento di
turgescenza vitale, di capacità plastiche e virili, nel quale si identifica lo stigma peculiare della
decadenza. Poiché la filosofia assomma in sé le ragioni di una cultura intesa come formazione
dell'uomo, come notiSeCoc morale, è chiaro che essa si trova necessariamente fuori posto laddo-
ve agli ideali eroici di una Bildung protesa ad un avanzamento, nella lotta, dell'uomo, si sono
venuti sostituendo i tortuosi vaneggiamenti e le oscure compiacenze erudite della decadenza.
Non si dimentichi che è sul problema della cultura, in cui si vuole impegnare nuovamente
l'uomo per il presente, che matura il distacco di Nietzsche dagli ideali ascetici e rinunciatari
del pessimismo schopenhaueriano, anche se ad impedire un più radicale approfondimento del
problema persiste, in Nietzsche, il diaframma metafisico costituito dal Wille di Schopen-
hauer.

2.
1
A parte l'intricata questione delle redazioni del De divisione naturae, si allude qui proba-
bilmente alle tardive scoperte di codici e alle varie difficoltà di attribuzione di alcune opere
esegetiche di Giovanni Scoto Eriugena (810-877?), nonché ai problemi, spesso rimasti insolu-
ti, dì ricostruzione storica dei codici e della tradizione manoscritta. Il testo delle Expositiones
super Jerarchiam coelestem, per esempio, sicuramente appartenente al teologo irlandese, ri-
sulta lacunoso. Al 1849 risale il rifacimento, ad opera del Ravaisson (Catalogue general des
manuscripts des départements, Paris, 1849), di tre frammenti di un commento eriugeniano al
vangelo di Giovanni. La traduzione dello Pseudo-Dionigi, compiuta probabilmente tra 1*860
e 1*862, venne pubblicata per la prima volta solo nel 1503, a Strasburgo. Del De Praedestina-
tione, poi, di cui esiste una prima edizione del 1650, sulla base di un manoscritto del sec. ix,
venne fatta una seconda edizione nel 1853 a cura del Floss, che non risparmiò severe critiche
al suo predecessore (G. Mauguin).
2
Solo nel 1842 Victor Cousin richiamava l'attenzione, in un suo «Rapport à PAcadémie
Francaise», sul deplorevole stato delle edizioni dei Pensées pascaliani (1776, 1779, 1835), suc-
cedutesi alla prima edizione (detta Ynédition de Port-Royal») apparsa nel 1669 in un ristretto
numero di esemplari a cura dei familiari e degli amici del filosofo e stampata l'anno seguente,
per il pubblico, con il titolo Pensées de M. Pascal sur la Réligion et sur quelques autres sujets.
Un elementare scrupolo filologico, quale è quello imposto da una lettura fedele e coerente dei
manoscritti, doveva portare alla prima edizione integrale dei Pensieri ad opera di Prosper
Faugère (1844) e a quella di Havet del 1851, probabilmente note a Nietzsche.
3
Die Welt als Wille und Vorstellung apparve per la prima volta nel 1819 per i tipi dell'edi-
tore Brockhaus di Lipsia. Questa edizione restò invenduta e venne condannata in gran parte
al macero. La ristampa dell'opera avvenne, ancora senza successo, nel 1844, con un volume
di «aggiunte». La terza edizione è del 1859, un anno prima della morte di Schopenhauer.
Scriveva quest'ultimo nel proemio alla seconda edizione: «Chi seriamente prende e coltiva
una cosa che non conduce a materiale profitto, non può contare sulla partecipazione dei con-
temporanei. Vedrà invece il più sovente, che una falsa immagine di quella cosa si fa valere sul
mondo, e gode il suo giorno: e questo è nell'ordine dei fatti umani. Invero la cosa stessa deve
venir coltivata per se medesima, altrimenti non può riuscire; perché in tutto il secondo fine
annebbia la vista. Di conseguenza, come attesta pienamente la storia letteraria, ogni opera di
pregio ha avuto bisogno di molto tempo per farsi valere; soprattutto se era di carattere istrut-
tivo e non ameno: e frattanto risplendeva il falso» (// mondo come volontà e rappresentazio-
ne, 2 voli., trad. it. di P. Savy-Lopez e G. Di Lorenzo, Bari, 1968, introduz. di C. Vasoli, i,
pp. 11-12).
Sul «fatum li bel lo rum» si vedano le considerazioni di Nietzsche in Aus dem Herbst und
Winter 1872, in W.GA., cit., x, 2, p. 148 (89).
4
Cfr. W. Goethe, Westóstlicher Divan, hrsg. von E. Beutler, Bremen 1956, p. 52: «Obers
Niedertràchtige / Niemand sich beklage; / denn es ist das Màchtige, / Was man dir auch sa-
ge. — / In dem ScMechten waitet es / Sich zu Hochgewinne, / Und mìt Rechtem schaltet es /
Ganz nach seinem Sinne. — / Wandrer! — Gegen solche Not / Wolltest du dich strauben? /
Wirbelwind und trocknen Kot / Lofi sie drehen undstàuben». «La ignobile coscienza / nessu-
no abbia a dispetto; / poich'essa è la potenza, / checché ti venga detto. / Nel male essa s'im-
pone / per il maggior provento, / e col bene dispone / del tutto a suo talento. / Viandante! —
A tale impiccio / ti vuoi inalberare? / Turbine e fango arsiccio / lasciali mulinare» (W. Goe-
the, Opere, 5 voli., Firenze, 1961, pp. 428-429, versione it. di R. Prati).
5
In una lettera a Rohde del 31 gennaio 1873 Nietzsche scrive: «Leggo anche Hamann: si
penetra nel periodo della incubazione della cultura dei nostri poeti e pensatori tedeschi. Molto
profondo e intimo, ma indegnamente non artistico» (Lettere a Rohde, cit., p. 193).
252 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI
6
«A buon diritto, quindi, lo escludiamo [il poeta] dalla nostra città, che dovrà esser gover-
nata da buone leggi, perché eccita la parte cattiva dell'anima nostra, la nutre, la irrobustisce,
e rovina così la parte ragionevole: come in una città, se diventano potenti i malvagi e conse-
guono il potere, son rovinati tutti i buoni, alla stessa maniera diremo che il poeta, imitando,
introduce nell'anima di ciascuno di noi un cattivo governo, compiacendo la parte insensata di
essa, che non conosce ciò che è più grande o più piccolo, ma ritiene ora grandi, ora piccole le
medesime cose, né produce altro che fantasmi, e rimane sempre molto lungi dal vero» (Plat.,
Rep., x, 605 B C [trad. G. Modugno]).

3.
1
Cfr. Achill., Isag., 3 (Diels, i, B 1 a): «Talete Milesio e Ferecide Sirio stabiliscono come
principio di tutto l'acqua, che Ferecide chiama pure Chaos, prendendo, com'è verosimile,
questa da Esiodo, che dice così: «Certamente primissimo fu Chaos»» (trad. Losacco).
2
Nell'ambito del «naturalismo» di Talete Nietzsche ricollegherà all'abbandono del mito
anche il tentativo di superamento dell'antico concetto «mitico» di polis: «Talete: che cosa lo
spinse alla scienza e alla saggezza? — Prima di tutto per la lotta contro il mito. Contro la po-
lis che su di esso è fondata. Unico mezzo di difendere la grecità; evitare le guerre persiane. In
tutti i filosofi uno scopo panellenico» («Frammenti postumi Estate 1875», in Opere, cit., iv,
l , p . 178).
Si veda ivi, p. 177, questo identico passo.
4
Cfr. W. Jàger: «Per la sua [di Talete] nozione che tutte le cose sono sorte dall'acqua il fi-
losofo rinuncia a ogni espressione mitico-allegorica. La sua acqua è una parte visibile del
mondo empirico; ma il suo studio delle origini lo porta d'altro canto nelle vicinanze dei teolo-
gemi mitici, e anzi lo mette in concorrenza con essi. La sua teoria che sembra puramente fisi-
ca ha per lui anche (diremmo noi) un carattere metafisico, come appare dall'unica frase che di
lui ci è tramandata, sempre che risalga effettivamente a lui: 7iàvxa iùJ\pr\ 9ewv «tutto è pieno di
dei»» (La teologia dei primi pensatori greci, trad. it. di E. Pocar, Firenze, 1961, pp. 32-33). Si
veda, nelle annotazioni per il Philosophenbuch, il rinvio a Talete, «Letze Arbeiten aus dem
Jahre 1875», in W.GA., cit., x, 2, pp. 235-236 (200): «In Talete per la prima volta l'uomo
scientifico sormonta su quello mitico ed a sua volta il saggio vince lo scientifico». Cfr. ivi, p.
224 (195) «Frammenti postumi», in Opere, cit., iv, 1, pp. 177-178. Pur distinguendo tra «uni-
versalità sensibile» propria dell'acqua secondo Talete e «universalità speculativa», in cui la
natura è espressa come «semplice essenza del pensiero», Hegel si avvicina a Nietzsche nelle se-
guenti considerazioni: «L'affermazione di Talete, essere l'acqua l'assoluto, o, come dicevano
gli antichi, il principio, segna l'inizio della filosofia, perché in essa si manifesta la coscienza
che l'essenza, la verità, ciò che solo è in sé e per sé, è una sola cosa. Si manifesta il distacco
dal dato della percezione sensibile; l'uomo si ritrae da ciò che è immediatamente «e in segui-
to», con l'affermazione che quest'essere è l'acqua, è messa a tacere la sbrigliata fantasia ome-
rica infinitamente variopinta, vengono superate queste molteplicità infinite di principi fram-
mentari, tutto questo modo di rappresentarsi il mondo come se l'oggetto particolare sia una
verità per sé stante, una potenza esistente per sé e indipendente al di sopra delle altre; e si am-
mette quindi che vi è un universale, ciò che è universalmente in sé e per sé, l'intuizione sempli-
ce e senza più elementi fantastici, il pensiero, che soltanto l'uno è» (G. W. Hegel, Storia della
filosofia, cit., i, pp. 197-198).
5
Questa svalutazione dell'intelletto è di chiara impronta schopenhaueriana. Scriveva Nietz-
sche nel 1875, citando Schopenhauer: «La «netta separazione tra la volontà e l'intelletto» ca-
ratterizza i geni, e anche i Greci» («Frammenti postumi», in Opere, cit., iv, 1 p. 129). Ma è
singolare che sottolineando questa citazione, qualche anno dopo, Nietzsche vi aggiungesse a
lato l'annotazione: «falso» (ivi, p. 377, nota 5 (75)). Si veda «Uber Wahrheit und Lùge im au-
fiermoralischen Sinn», in Werke, cit., ni, p. 310, dove l'intelletto è definito un «mezzo per la
conservazione dell'individuo» di cui dispongono i più deboli. Tuttavia, in chiusa al saggio,
Nietzsche parla di un intelletto divenuto libero, per il quale la compagine dei concetti è solo
appunto un'«armatura» e un «trastullo» per i suoi più temerari «giuochi di destrezza», mo-
strando in ciò di non essere guidato da concetti, bensì da «intuizioni» (ivi, p. 321).
6
Si veda «Uber Wahrheit und Liige im au/ìermoralischen Sinn», in Werke, cit., in, p. 114
ss.
7
In FEG, p. 309 si legge: Creisen, mentre nell'edizione Schlechta (Werke, ni, p. 362) si ha:
Greifen (grifoni).
8
Questa «indimostrabilità» non implica, per Nietzsche, un giudizio negativo di valore,
giacché il filosofare non deve mirare in alcun modo a mutuare dalle scienze il rigore delle di-
mostrazioni. Il tratto peculiare dell'intuizione filosofica sta nel fatto che il suo elemento deci-
sivo non è «il puro impulso conoscitivo» («der reine Erkenntnistrieb»), bensì quello «esteti-
co» («la poco dimostrata filosofia di Eraclito ha un valore artistico maggiore di tutte le pro-
posizioni aristoteliche»). Il «pathos della verità» si sprigiona da questa imperiosa potenza del-
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 253

la fantasia che concorre a plasmare e «domare» (bàndigen) l'impulso della conoscenza all'in-
terno della cultura ascendente di un popolo, cosicché è il «valore» del conoscere, misurato in
termini di fecondità e d'anticipazione creativa, a garantire la verità, non già viceversa («Aus
dem Herbst und Winter 1872», in IV.GA., x, 2, pp. 133-134 [61]).
9
Ferecide di Samo è, con Ecateo di Mileto e Acusilao di Argo, un trascrittore in prosa delle
genealogie e teogonie poetiche. Il suo tentativo dì ingenua chiarificazione semantica delle de-
signazioni nominali mitiche (Ferec, B. i [Diels, i, 47, 1-3]) si ricollega ad un intendimento cri-
tico che ha come base uno schema cosmogonico suggerito dalla filosofia. Cfr. W. Jàger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 109 e ss.
10
Cfr. Clem., Strom., vi, 53 (Diels, i, 47, 17-20): «Affinché imparino che cosa è la quercia
alata e il mantello ricamato su di essa, quante cose Ferecide allegorizzando teologizzò, dopo
aver preso il fondamento della profezia di Cam» (trad. Losacco). Secondo Anassimandro la
terra, a forma di cilindro piatto, è sospesa nello spazio: allo stesso modo l'albero di Ferecide
non ha radici.
" L'etimologia di sapiente, da sapio, viene qui giustamente ricondotta da Nietzsche alla
concretezza del filosofare che implica un intrinsecarsi nelle cose e al tempo stesso una sottile
capacità di distinguerne i significati, di coglierne, cioè, il «sapore» profondo. L'analogia se-
mantica con sisyphos non ha comunque alcun rapporto con l'etimo di sapio (rad. sap — cfr.
l'osco sipus, «sciens»), Il fatto che il v. ouat^éoOou significhi agire con accortezza e discerni-
mento tecnico-pratico e quindi possa sussistere una vaga affinità tra Etteupo? e il lat. sTbus ( =
callidus sive acutus), persìbus etc, non giustifica alcun accostamento.
12
Etica Nicomachea, 1141, b 3-8. Nella Metafisica, i, 982 b 2, 14-17 dice Aristotele a pro-
posito della scienza: «Che essa poi non miri a nessun effetto esteriore, è chiaro anche da colo-
ro che filosofarono per i primi. [...] Ora, chi innanzi a una difficoltà si meraviglia, reputa di
essere ignorante (perciò chi ama il mito è anch'egli in un certo modo un filosofo, perché il mi-
to risulta da un complesso di meraviglie); ma se, dunque, gli uomini filosofarono per fuggire
l'ignoranza, è manifesto che essi cercarono di conoscere per puro amore del sapere, e non per
servirsene a qualche uso» (trad. A. Carlini).
13
L'idea della filosofia come «legislatrice della grandezza» contiene già forse in nuce lo
strumento ermeneutico della Wertsetzung adottato da Nietzsche come criterio fondativo della
metafisica e della morale.
14
Identica espressione «eine nachstammelnde Obersetzung in eine ganz fremde Sprache» ri-
torna in Wahrheit und Lùge im aufiermoralischen Sinn, a spiegare la natura estetica del rap-
porto soggetto-oggetto, che soltanto è possibile in quanto si fonde su una «sfera e una forza
mediana di libera poesia e libera invenzione» («Wahrheit und Luge», in Werke, cit., ni, p.
317).
Quest'aggiunta, che è presente nel primo manoscritto per la stampa, è stata cancellata
successivamente da Nietzsche. Cfr. FEG, p. 433.

4.
1
Che cosa intende Nietzsche per «tipo universale del filosofo»? Spregiudicatezza (corag-
gio), semplicità e grandiosità di visione (la filosofia come «legislatrice della grandezza») sono
i suoi elementi costitutivi. Alla base di questa definizione ideale v'è un'interpretazione stoica
(per i Greci il filosofo è nepiruó;, superiore alla misura umana, e quindi, anche se non senza
una sfumatura di biasimo, smoderato-eccessivo; cfr. Arist., Met., i, 2 983 a 1), connessa alla
collocazione centrale che ha per Nietzsche l'idea di «contesa», di «gara», e quindi di possibile
«prevaricazione» (uppi?) del vincitore, nel contesto della cultura greca del vi v secolo. È inne-
gabile che in questa stilizzazione paradigmatica del «filosofo» si nasconde, con la suggestione
romantica (Herder), la teoria schopenhaueriana del «genio». Nietzsche sottolinea inoltre, nel
filosofo, il carattere lapidario, sentenzioso ed enigmaticamente oracolare del suo linguaggio e
indubbiamente è questa la tipica fisionomia espressiva di un Ecateto dì Mileto e di un Eracli-
to. Non si dimentichi che è propria della letteratura ionica, anche storiografica e geografica,
con la curiosità e la spregiudicatezza individualistica dell'indagine, la formulazione pregnante
e incisiva del pensiero.
2
Schopenhauer, nei Parerga, considera Ferecide il primo scrittore in prosa di filosofia {Par
und Parai., cit., u, p. 429 [194]).
3
«i£ &v 81 ^i yivtalq i<m -coi; oSm [vale a dire tà ovta] xaì ify ^Oopàv et? xaùta ytvtofaa xaxà xò
Xptó)V ài&óvai Y«P aùtà S(XT)V xaì t(«iv àXXf|Xoi<; xfj? àSixiat; xa-cà TTIV toG XP^VOU -cà^iv» (Anaxi-
mandr., B i [Diels, ì, 89, 12-15]. Traduce A. PasquineUi «E donde viene agli esseri la nascita,
là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità [Diels: «nach Schuldigkeit»]; poiché si
pagano l'un l'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo» (Preso-
cratici, Frammenti e testimonianze, a cura di A. PasquineUi, Torino, 1958, p. 44). Si noti che
nel testo citato da Nietzsche non appare ancora àXXTjXot?. Su questa base W. Jàger contesta
l'interpretazione «mistica» di Nietzsche e Rhode, affermando che non si tratta qui deU'indivi-
254 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

duazione intesa come colpa, come peccato originale, bensì «della riparazione dell'azione so-
praffattrice {pleonessia) delle cose. Non già l'esistenza è una colpa (concezione estranea alla
grecità), bensì Anassimandro immagina concretamente che le cose contendano tra loro, come
gli uomini in tribunale. Ci troviamo di fronte a una polis ionica. Vediamo il mercato, dove si
rende giustizia, e il giudice seduto sul suo seggio, che stabilisce il castigo (xàrrei). Egli ha nome
tempo. Quanto l'uno dei contendenti abbia preso di troppo all'altro, egli sarà immancabil-
mente ritolto e ridato a colui che ebbe troppo poco». E dopo aver ricordato l'idea della SIXTJ in
Solone intesa come «compensazione immanente», Jàger conclude: «Anassimandro va assai
più oltre. Egli vede verificarsi questo eterno compenso non solo nella vita umana, ma nell'u-
niverso intero, negli esseri tutti. L'immanenza della sua effettuazione, che si palesa nella sfera
umana, gli suggerisce l'idea che le cose della natura, le loro forze e contrasti siano sottoposti a
una giustizia immanente, come gli uomini, e che secondo questa se ne compie l'ascesa e il tra-
passo» (Paideia, I, pp. 299-300). Ma è evidente che non bisogna confondere, nel liquidare
troppo sbrigativamente l'interpretazione di Nietzsche, il «pessimismo del pensiero», genial-
mente colto da quest'ultimo nei Greci (e non occorre rinviare alla orfica Xuau; xì\<; <1>UX*K> basta
ricordare l'Edipo a Colono, 1225 ss.), con la tipica valenza schopenhaueriana di questo pessi-
mismo alla quale Nietzsche non sa sottrarsi anche se già comincia a delinearsi, negli scritti del
periodo 1869-1875, una contrapposizione tra lo «spirito della rassegnazione», nichilistica-
mente rinunciatario colto da Schopenhauer nella tragedia greca (si veda Die Welt als Wille
und Vorste/lung, cit., n, p. 445 [1. in, cap. 37]) e la «profondità» dionisiaca, cioè l'«afferma-
zione» tragica dell'Uno-Tutto, intravistavi invece da Nietzsche. È la differente interpretazio-
ne del «tragico», inteso da Schopenhauer come rivelazione dell'orribile «sogno» della vita, e
da Nietzsche come elemento plasmatore, di una conciliazione estetica di «istinto di verità» e
«istinto di saggezza» («Aus dem Gedankenkreise der «Geburt der Tragèdie»» in W.GA., cit.,
ix, i, p. 122 [110]), a proporre come il monumento più alto della cultura greca quello nel quale
P«orientaIe musica dionisiaca» (ivi, p. 123 (111)) viene incatenata e costretta a servire la vo-
lontà apollinea dell'apparenza e dell'immagine. Per una interpretazione del frammento anas-
simandreo vicina a quella datane da Nietzsche si vedano gli autori citati da R. Oehler (von
Strùmpell, Seydel, Teichmùller, Tannery) che peraltro conclude cosi il suo commento: «Non
credo che l'opinione di Nietzsche sia nel giusto: in questioni del genere egli si lasciava indurre
troppo rapidamente ad accettare interpretazioni eccessivamente moderne, anche se geniali»
(Nietzsche und die Vorsokratiker, cit,, p. 60).
4
Si tratta precisamente di una variante del testo (Par. u. Parai., cit., n, p. 318). « Wirbiifien
unsere Geburt erstlich durch das Leben und zweitens durch das Sterben ab»: è l'idea centrale
del capitolo xn dei Parerga, per la quale l'infelicità insopprimibilmente legata all'esistenza
umana fa di questa «ein Ort der Bùfie», «qualcosa — dice Schopenhauer — come uno stabili-
mento penale, a penai colony, un £pYa<rcrjttov» (ivi, p. 315). Nietzsche si riferisce all'edizione
in sei volumi delle opere di Schopenhauer curata da Frauenstàdt (1873-74).
5
Cfr. Aez., de plac. i, 3, 3: «E proprio per questo il principio è infinito, perché la genera-
zione da cui tutto proviene non venga mai a mancare» (trad. Pasquinelli).
6
TÒ ckeipov. Cfr. Anaximandr., A 10 (Diels i 83, 27-40) e A 11 (Diels, 83-84, 41-4).
7
In questo le interpretazioni posteriori più avvedute hanno dato ragione a Nietzsche: «La
ragione — scrive A. Pasquinelli — per cui tra le molte interpretazioni della «natura» dell'a-
peiron non c'è nessuna di cui si possa oggettivamente dire abbia risolto in modo soddisfacente
la questione (Vapeiron come materia indeterminata, come sostanza intermedia [tò (xexa^O: Ari-
stotele, Temistio, Filopono, Asclepio, Simplicio], ecc.) è che l'impostazione stessa di tale pro-
blema è errata [...]». Dopo aver sottolineato che a causa dell'indissociabilità di interessi teo-
retici e pratici nella mentalità dei primi pensatori la loro spiegazione dei fenomeni particolari
assume una doppia valenza, quella di una «chiave» per dominare la realtà e quella di un'in-
tuizione, non priva di un significato religioso, del «nucleo vitale, divino, origine e fondamen-
to di tutta quanta la realtà», «Vapeiron» — così prosegue il citato autore — racchiude nel suo
seno tutta la realtà in virtù della sua indeterminatezza [...]: questo è il carattere che Anassi-
mandro è riuscito a fissare della sua intuizione della realtà, escludendo la rappresentazione
del limite anche dal nome stesso del suo principio, à-rceipov». «Esso rientra in una concezione
religiosa del mondo e ne è l'espressione: anche se le fonti non ci attestassero per Vapeiron gli
attributi della divinità (in maggior misura e con maggior insistenza che per l'acqua di Talete),
ciò risulterebbe evidente dall'innegabile tono escatologico del nostro fr.» (A. Pasquinelli, /
presocratici, cit., pp. 322-323).
Scriveva F. Schlegel a proposito della «Urinatene» di Anassimandro: «Questa materia ori-
ginaria [l'infinito l'indeterminato], da cui nasce ogni cosa, deve essere non delimitata nella
grandezza, indeterminata nella forma. Egli lo (l'indeterminato] chiamava insieme, divino e
umano. Invero è questo un tentativo materialistico, ma in quanto viene posta qui una sostan-
za unica, onniabbracciante, essa racchiude il germe del panteismo. Il panteismo, infatti, con-
siste appunto nell'affermazione che il tutto è assolutamente uno, e nella semplice supposizio-
ne dell'infinito» (F. Schlegel, «Die Entwicklung der Philosophie in zwòlf Biichern», in Philo-
sophische Vorlesungen, cit., ì, pp. 184-185).
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 255
8
Schopenhauer parla di una «ewige Gerechtigkeit» a proposito del rapporto tra il mondo
come fenomeno, come «l'oggettività dell'unica volontà di vivere» e l'essere come volontà:
«Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la volontà, quale essa medesima in sé e
fuori del tempo si determina. Il mondo non è che lo specchio di questo volere; ed ogni limita-
zione, ogni male, ogni tormento, che il mondo contiene, appartengono all'espressione di ciò
che la volontà vuole: sono quali sono, perché essa così vuole. È rigorosa giustizia, quindi, che
ogni creatura sopporti l'essere in genere, e quindi l'essere della sua specie e della sua partico-
lare individualità, interamente come essa è, e in condizioni quali esse sono, in un mondo qua-
le esso è, governato dal caso e dall'errore, temporaneo, effimero, ognora sofferente: e qua-
lunque sorte le tocchi, qualunque le possa toccare, sarà sempre giustizia. La responsabilità
dell'essere e della costituzione del mondo può essa solamente, e nessun altro, portare: poiché
come potrebbe un altro assumerla per sé? Se si vuol vedere ciò che gli uomini, moralmente
considerati, sono in tutto e per tutto, si consideri in tutto e per tutto il loro destino. Esso è pe-
nuria, miseria, strazio, tormento e morte. L'eterna giustizia impera: s'essi non fossero, presi
collettivamente, cosi dappoco, non sarebbe neppure il loro destino, collettivamente preso, co-
sì triste. In questo senso possiamo dire: /'/ mondo stesso è il giudizio universale [il corsivo è
nostro]. Se si potesse mettere in un piatto di bilancia tutto il dolore del mondo, e tutta la col-
pa del mondo nell'altro, la bilancia sarebbe sicuramente in bilico» (// mondo come volontà e
rappresentazione, cit., n, p. 462 [63]).
È Schopenhauer il punto di riferimento per intendere il carattere «inattuale» dell'interpre-
tazione nietzscheana dei presocratici. Nel recupero del pessimismo intellettuale dei Greci, co-
me base di una critica radicale dell'ottimismo filisteo e della cultura del proprio tempo, Nietz-
sche fa propria, infatti, la posizione antiaccademica di Schopenhauer e la sua violenta confu-
tazione di qualsiasi «teodicea teoretica» o storicista, riproponendo così — attraverso i Greci
— il tema di una Kulturkritik che anche in Schopenhauer muoveva da una svalutazione glo-
bale della moderna civiltà occidentale.
9
Viene qui affiorando il pensiero delP«eterno ritorno», che costituirà poi, nella stessa filo-
sofia di Nietzsche, un plesso centrale al cui intimo significato e alle cui sottili implicazioni si
rapportano solo attraverso il carattere «suggestivo» della citazione le antiche cosmologie, del
resto vissute nell'ambito di una reinterpretazione o ritrascrizione moderna. Per l'attribuzione
di questa concezione ad Anassimandro si veda Aez., de plac. i, 3, 3; Simplic, de caelo 615,
13; Phys., 1121, 5; Agostino, De civitate Dei, vili, 2: «Quae rerum principia singularum esse
credidit [Anassimandro] infinita, et innumerabiles mundos gignere et quaecumque in eis
oriuntur; eosque mundos modo dissolui, modo iterum gigni existimauit, quanta quisque aeta-
te sua mane potuerit [...]». Tra le fonti della dottrina nietzscheana del «ritorno», cui rinviano
gli studiosi, da Charles Andler (Nietzsche. Sa vie et sa pensée, 6 voli., Paris, 1920-1931 [in
voli. 19582], iv, p. 228 ss.) a2 K. Lowith (Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des
Gleichen, Stuttgart, 1956 , p. 236) gioverà menzionare i pitagorici (Eudem., Phys., B in fr.
51) e gli stoici (cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, 3 voli., 19094, pp. 157-158, nn. 1-2
ss.); secondo questi ultimi, com'è noto, quando tutte le possibili posizioni degli astri si sono
verificate, essendo il loro numero finito, e quindi ogni accadimento terrestre si sarà compiu-
to, un incendio cosmico, la cui origine sta nella sfera dell'etere, consumerà il mondo sino a
che il processo di rigenerazione tornerà a svolgersi attraverso il passaggio dal vapore all'acqua
e da questa alla terra. È importante sottolineare, tra le fonti probabilmente note a Nietzsche, i
frr. 30, 31,51, 63, 67, 88 di Eraclito, il fr. 115 di Empedocle, la Metafisica, 1. xn, 8 di Aristo-
tele (cui rimanda Lowith), nonché Nemesio (De natura hominis, 38, 147), citato insieme a Eu-
demo dello stesso Nietzsche nei suoi scritti filologici giovanili. Ma si veda anche Plot., Ennea-
di, v, vii, 1-2. Su tutta la questione rinviamo a R. Oehler, Nietzsche und die Vorsokratiker,
cit., pp. 140-163; per un chiarimento sul tema dell'«eterno ritorno» nel quadro della Nietz-
sche-Forschung, ci sia consentito rimandare ancora una volta al nostro Lo scriba del caos,
cit.. p. 186 ss. epp. 211 ss.
1(5
Cfr. Diog. Laerz., viti, 70: «Diodoro d'Efeso, scrivendo su Anassimandro, afferma che
Empedocle lo prendeva a modello, imitandone i vani atteggiamenti da tragedia e indossando
come lui vesti solenni» (trad. Pasquinelli).

5.

1
Cfr. Herakl. B 94 [Diels, I, 172, 8-10] "HXio$ yctp où% Ù7Kp(SfioeTat \kixpa' il 8è [ó\, 'Epivut^ JAIV
A(x7); ènixoupoi èJjeupTJoouoiv). (Helios infatti non travalicherà le sue misure; altrimenti le Erinni,
ministre di giustizia, lo ritroveranno.)
2
Cfr. Herakl., B 102 [Diels, i, 173, 17-19] («Tùi (xèv 8eòn xaXà nàvxa xaì à^a8à xaì Sixaia,
$v8pco7iot 8è & [xiv S8ixa óniiXfaaaiv a U SCxaia») (Per la divinità tutto è bello e buono e giusto gli
uomini invece hanno supposto alcune cose ingiuste, altre giuste).
5
Secondo una riflessione posteriore (Ausdem Nachlkafi, in Werke, cit., in, p. 691), Nietz-
sche afferma essere presente nella Geburt der Tragèdie una concezione del mondo corrispon-
256 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

dente a un grado di «malizia» (Bósartigkeit) non raggiunto da nessun tipo di pessimismo sino-
ra conosciuto. Alla luce di questa visione, l'antitesi tra un mondo «vero» e un mondo «appa-
rente» non ha più alcun senso e si dissolve: «esiste un solo unico mondo e questo è falso, cru-
dele, contraddittorio, ammaliante, senza senso...». Alla distruzione di questa dicotomia
Nietzsche perverrà attaverso la sdivinizzazione del mondo resa possibile dal pessimismo di
Schopenhauer; il mondo, come «mondo divenuto problematico» («Die fròhliche Wissen-
schaft», in Werke, cit., li, p. 229 [357]), è sottratto ad un ordine teleologico che lo giustifichi
rapportandolo ad una sfera trascendente di verità, ad un mondo «in sé», e diventa invece un
mondo «creato» dall'uomo, nel senso che è risultato «di una quantità di errori e di fantasie»
(«Menschliches, Allzumenschliches», in Werke, cit., i, p. 458 [27]). Esso è la sedimentazione
di molteplici pretese morali, estetiche e religiose di interpretazione che annullandosi lasciano
appunto emergere il mondo come «mostro» ignoto, non-divino, non-morale e soprattutto
non-umano, in quanto ormai rescisso da qualsiasi antropomorfismo teologico. All'epoca in
cui Nietzsche scrive la Philosophie irti tragischen Zeitalter, il problema della Weltauslegung
non è ancora aperto e quindi anche il superamento «prospettivista» del risvolto mistico del ni-
chilismo irrazionalista di Schopenhauer è ancora lontano, ma non si dimentichi che la disso-
luzione del dualismo tra mondo vero e mondo apparente e della Zvjeckmàfiigkeit fisico-teolo-
gica offriranno a Nietzsche, in questo periodo, il filo conduttore di una interpretazione mi-
rante a stabilire la «verità» del mondo nella sua perfezione immanente, come eterna e mute-
vole Scheinwelt.
KOTO[XÒ>I yàp oùx eaxiv l^fivcm 8ì$ toh aùtòii xaQ* «HpaxXeltov où8è Bvr\xi\<; oùota? hit; #<[>ao9ai xa-
xà e?tv (Herakl., B 91 [Diels, I, 171, 9-12J). (Nel medesimo fiume, secondo Eraclito, entrare
due volte non è possibile, né due volte toccare sostanza mortale nel medesimo suo atteggia-
mento [trad. Walser]).
Scrive Pasquinelli (op. cit., introduz. p. xv): «La scoperta filosofica di Eraclito non è quel-
la del fiume del divenire (che è anzi uno dei falsi della tradizione), come quella di Parmenide
non è l'uno sferico»; cfr. anche fr. B 49 a (Diels, 161, i, 11-13).
5
Herakl., B 88 (Diels, 1, 170-171, 9-2): xaù-có t'evi C/òv xaì TeOvrjxòs xaì [tò] l*(pT]yopò<; xaì xaGeu-
8ov xaì véov xaì yTjpatóv xaSe yàp (xe*arce<jóvxa Ixiìvà èaxi xàxeTva 7càXtv fiexaneaóxa xaùxa (Lo Stes-
so: il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio; queste cose infatti tra-
mutandosi son quelle e quelle di nuovo tramutandosi son queste [trad. Walzer]).
6
II termine «monogramma» è kantiano. Ricorre nella dottrina dello schematismo trascen-
dentale: «[...] lo schema dei concetti sensibili (come le figure nello spazio) è un prodotto e,
per così dire, un monogramma dell'immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il
quale le immagini cominciano ad essere possibili [...)» (Critica della Ragion pura, in, trad. it.
di G. Gentile e di G. L. Radice, Bari, 1949, i, p. 170).
7
Effettualità. Da wirken, notelv, operari, efficere, agire.
8
Realtà. Da reaiitas, che per i Greci è sempre da considerasi come l^ot ov.
9
A. Schopenhauer, Die Well ah Wille und Worstellung, cit., i, p. 9.
10
Cfr. Herakl., B 80 (Diels, i, 169, pp. 3-5).
" Cfr. Theog., 226. Ma qui Esiodo introduce la «buona» Eris a mo' di palinodia (cfr. W.
Jàger, Paideia, cit., i, pp. 134-135, nota 25). Si veda soprattutto Hes., Opp., 11-26: «Sulla
terra non v'è un sol genere di contesa, bensì due ve ne sono, e mentre l'una è lodata dal sag-
gio, l'altra è riprovevole: hanno infatti indole diversa. L'una, la trista, favorisce la guerra lut-
tuosa e la discordia: nessun mortale l'ama di sicuro, tuttavia, per destino, per volere degli Im-
mortali, si coltiva questa gravosa contesa. La Notte tenebrosa, per prima, generò l'altra, e il
Cronide dall'alto trono, abitatore dell'etere, la pose nelle radici della terra: molto migliore è
questa, per gli uomini: essa, infatti, esorta il neghittoso al lavoro. Perché l'ozioso, volgendo
lo sguardo a un più ricco, si affretta a seminare, a coltivare e a ben governare la casa, il vicino
emula il vicino che alla ricchezza attende. Buona contesa è questa per i mortali: il vasaio ga-
reggia col vasaio, l'artigiano con l'artigiano, il povero invidia il povero, il cantore il cantore»
(trad. L. Magugliani). Questo passo è riportato interamente da Nietzsche nel suo «Homers
Wettkampf» (in Werke, cit., in, p, 294). Osserva quindi Nietzsche, — nel confutare l'opinio-
ne dei dotti secondo i quali i predicati Croll [astio] e Neid [invidia) non potrebbero rifarsi alla
buona Eris e quindi suppongono un'interpolazione — che per Esiodo (come per Aristotele)
quest'ultima stimola gli uomini all'azione non già per una battaglia d'annientamento [Ver-
nichtungskampf), bensì per la gara (Wettkampf). L'invidia è per l'uomo greco non già una
«macchia», bensì «l'influsso di una divinità benefica». Questa «qualità» (Eigenschqff) è tan-
to poco un difetto che viene attribuita persino agli dèi, allorquando l'onore, la ricchezza, Io
splendore e la felicità oltrepassano la misura di quanto è dato comunemente agli uomini:
«quale abisso di giudizio etico tra noi e lui!» commenta Nietzsche. Cfr Herakl, B 80 (Diels, i,
169, 3-5) tlhivon 8è xP^ tòv rcóXenov ióvxa ijuvóv, xaì 8(XTJV £piv, xaì yivó^eva xàvra xat'Eptv xaì gptc&v.
12
A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, cit., i, p. 159. In seguito lo stesso
cita Arist., Metaph., B 5, relativamente a Empedocle.
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 257

6.
1
Osserva G. Preti: «La Atxri oltre che un aspetto etico involge anche un significato logico.
Come nella vita sociale è principio ordinatore dei rapporti tra gli uomini, nell'Universo essa
diventa principio ordinatore dei fenomeni: àpj$. Ma» come abbiamo visto, nella società essa è
il suum cuique tribuere [...], così nel Cosmo la AIXTJ non è dapprima un principio che regoli ab
extra le cose, ma l'essenza stessa di esse che le spinge ad ordinarsi: ciò che regola ogni feno-
meno (cioè l'essenza) ma contemporaneamente quella forza primordiale che ne stabilisce l'or-
dine. In questo secondo senso il pensiero greco preferisce il termine àpxri la cui distinzione da
AIXTJ non è mai chiara, sebbene questa sinonimia tenda a differenziarsi, nel senso che ACXTJ sta
di solito ad indicare la «causa formale» di Aristotele, àpxn la «causa materiale» {/presocrati-
ci, a cura di G. Preti, Milano, 1942, p. 10).
2
Cfr. Herakl., B 10 (Diels, ì, 153, 10-13) «Congiungimenti: intero e non intero, concorde
discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose» (trad. A. Pa-
squinelli).
3
Cfr. il *Gp 6eó? di Hippas., 8, 13-14 [Diels, i, 109, 13] e il rcepvooixòv rojp àfòiov di A 8 (/vi,
145, 34). Sull'ordinamento cosmico inteso come «fuoco vivente» (rcGp àeifroov) che «a misura
s'accende e a misura si spegne» si veda B 30 (i 158, l) e sul fuoco come àpx*\ Eus., Praep. Ev.,
xiv, 3, p. 720 e (cfr. Diels, Doxographi, p. 169). Qui l'interpretazione di Nietzsche si rivela ge-
nialmente arbitraria: in Eraclito il rcoctCtiv (Tterceoeiv) è del fanciullo (B52 [Diels, i 162,5] e
l'AÉwv è appunto un fanciullo, un «regno di fanciullo» PaaiXqu]. In Nietzsche, dal carattere di-
vino del giuoco cosmico del fanciullo (cfr. il 9eia natSià di Clem., Paedag., 15) emerge la figu-
ra di Zeus, come «fanciullo dei mondi» («das Spiel des grofien Weltenkindes Zeus») e quindi
Pesplicitazione di quella connessione tra AJùv e xó<j|xo? che manifesta con la perpetuità del
mondo (è? atavo? xal tì$ aJàJvot) la divina unitotalità e compiutezza della sua struttura e del suo
ordine immanente. Ma il giuoco del fuoco (cioè di Zeus, del Logos) con se stesso non corri-
sponde più al senso della rappresentazione eraclitea nella quale manca indubbiamente l'equi-
valenza tutt'affatto nietzscheana del TtóXtuos e della tpi? con il giuoco. Nietzsche mira a sotto-
lineare non tanto l'imperscrutabilità quanto l'arbitrarietà del Logos che appunto come giuoco
creativo-distruttore s'inserisce nella costellazione della Artistenmetaphysik, cioè nel tema di
una giustificazione estetica del divenire. («... — denn nur als àsthetisches Phànomen ist das
Dasein und die Welt ewig gerechtfertigy [...]», «Geburt der Tragèdie», in Werke, cit., i,
p. 40). È il caso di osservare che la filologia «poetica» di Nietzsche («filologi poeti» era l'e-
spressione ammirativa da lui usata per Goethe e Leopardi) è fondamentale per comprendere
lo sviluppo della sua ulteriore filosofia. Sul nesso dell'attività filologica di Nietzsche con le
sue idee filosofiche si veda l'articolo del Waschsmuth in Neue Rundschau (1904, pp. 257-
264).
4
Cfr. Herakl., B 64 (Diels, i, 165, 1-4), ma si veda anche 66, 90 etc. In questi cenni al siste-
ma cosmologico eracliteo e in particolare alle mutazioni fisiche del fuoco l'interpretazione di
Nietzsche si appoggia alle testimonianze di Aristotele (Met., 984 a 7; De art. 419 a 9), Simpli-
cio (Phys., 23, 33), Galeno (de elem. sce. Hipp., i, 4), Aezìo (i, 3, 11), Clemente (Strom, v,
105); pertanto nell'identificazione del rapporto Eraclito-Anassimandro (anche se è stata giu-
stamente notata l'analogia tra il soffio infuocato di Anassimandro e il npr\<rri)p eracliteo)
Nietzsche cade nella falsa prospettiva di un rapporto di derivazione della fisica eraclitea dalla
filosofia ionica inserito rigidamente nello schema cosmologico deWarché. Scrive a questo
proposito Pasquinelli: «Quando si parla di «cosmologia» eraclitea è bene tener presente che
diversamente dagli Ionici Eraclito non ha alcun interesse per le misurazioni matematiche e
geometriche del cosmo, per le spiegazioni di fenomeni fisici particolari, in generale per ciò che
si intende esattamente con cosmologia, e che quindi il sistema fisico eracliteo non è probabil-
mente che una nostra ricostruzione a posteriori» (/ presocratici, cit., nota 26, pp. 375-376).
Cfr. W. Jàger, La teologia, cit., p. 190.
5
È questa l'interpretazione teofrastea (in Diog., ix, 9-10 [Diels, i, 141]; cfr. Herakl., B 31,
4-14; 60, 5). Secondo il frammento 60 «la via in su e quella in giù» sono «un'unica e identica
via», in quanto questo doppio movimento si svolge all'interno di quella reciproca tensione
(TtaXtvTovo;) armonicamente bilanciata nei suoi opposti che appunto divenendo, per la legge
del Logos, «sono», così come nel cerchio è comune principio e fine. Per i problemi d'inter-
pretazione connessi a questa «coincidenza» si veda la nota di Pasquinelli, op. cit., p. 375
n. 26.
6
Herakl., B 31 (Diels, i, 158, 4-14).
7
Herakl., B 65-66 (Diels, i, 165, 4-7). Cfr. Simplicio, Decaelo, 294, 4: «Anche Eraclito af-
ferma che talora l'universo si incendia e viene distrutto dal fuoco, talora invece si forma di
nuovo dal fuoco a determinati intervalli, quando dice: «incendiandosi al tempo dovuto e al
tempo dovuto estinguendosi»». Sembra, nonostante talune opinioni in contrario (Zeller), che
la dottrina della èxTtupuxn; risalga all'esegesi stoica.
8
«xópos = Cp>? smisurata sazietà, ebrietà di gioia, Hybris e ira si escludono (Eudem. Ethik,
258 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

1146 b): infatti la Hybris presuppone una condizione gioiosa, l'ira uno stato di sofferenza»
(F. Nietzsche, Die Unschuld des Werdens, Der Nachlass, li, cit. i, p. 25). Cfr. xaXet 8è auro [Il
fuoco sempiterno] xPr\<3^°^vr] **ì xópov XPT|O|XOOUT] 8é è<mv i\ SiaxóofjiTjoi? xorc' aùxóv, ^i 8è ixitópw-
au; xópo;, Herakl., B 64 (Diels, 165, 4-6). Cfr. anche Hippol., ix, 10, 7.
9
Questa interpretazione così vicina al 8ÌXT)V 5i8óv<xi del frammento anassimandreo rinvia de-
cisamente alla tesi metafisica fondamentale del pessimismo di Schopenhauer, per la quale il
mondo del divenire «soffre» come castigo la sua separazione ( = individuazione) dalla volon-
tà originaria (Urwille). In Schopenhauer, tuttavia, si insiste sul carattere illusorio di questa
fantasmagorica caducità del mondo, ricollegandolo al principio di ragione e quindi all'essen-
za del tempo e dello spazio come intuizioni pure (// mondo come volontà e rappresentazione,
cit., i, pp. 35-36). Schopenhauer mette in rapporto la filosofia antica e, tra l'altro, anche Era-
clito con la sua concezione del velo di Maya come ingannevole forma dell'apparenza: «E
comprenderemo che come il tempo, così anche lo spazio, e come questo, così tutto ciò che è
insieme nello spazio e nel tempo, tutto, insomma, ciò che proviene da cause o motivi, ha
un'esistenza solo relativa, esiste solo mediante e per un'altra cosa che ha la stessa natura, os-
sia esiste anch'essa soltanto a quel modo. La sostanza di questa opinione è antica: Eraclito la-
mentava con essa l'eterno fluire delle cose» [il corsivo è nostro] (ivi, p. 35).

7.

1
àpjioviTj àcpavTi? <pavepfj<; xpe(rra>v, Herakl., B 54 (Diels, i 162, 10), (l'armonia invisibile è più
forte della visibile). Ma si veda anche B 102 [Diels, i, 173, 17-19].
...aiùv nat? è<rci rcai&ov, neaaeuwV TOXI8Ò<; ^J PaaiXrjfTì (Herakl., B 52 [Diels, 1 162, 5], Tevo è
un fanciullo che gioca spostando qua e là i pezzi del giuoco: un regno di fanciullo). L'immagi-
ne del fanciullo avrà un posto centrale nella filosofia di Nietzsche e più precisamente nell'otti-
ca estatico-dionisiaca della Uberwindung, in quanto sarà questa la «figura» nella quale l'au-
tosuperamento del nichilismo coincide con l'affermazione del mondo e dell'«eterno ritorno
dell'eguale», la conquista, cioè, dell'innocente giuoco dionisiaco. Si veda il primo dei «di-
scorsi» di Zarathustra (Von den drei Verwandlungen): «Unschuld ist das Kind und Verges-
sen, ein Neubeginnen, ein Spiel, ein aus sich rollendes Rad, eine erste Bewegung, ein heiliges
Ja-sagen» («Also sprach Zarathustra», in Werke, cit., i, p. 294) («Innocenza è il fanciullo e
oblio, un ricominciamento, un giuoco, una ruota che di per sé si volge, un primo movimento,
un sacro dir-di-sì»).
L'immagine eraclitea del ntaaós del pezzo o pietruzza con cui il fanciullo gioca al tavoliere
(rceaaeùwv) si trasforma, neWAiso sprach Zarathustra, in un divino «Wùrfelspiel» (giuoco di
dadi). Si veda «Vor Sonnenaufgang», in Werke, cit., u, p. 416; Die sieben Siegel, ivi, p. 474
(3).
Questa concezione del «dio contuitivo» («beschaulicher Gott») è la chiave per intendere il
preciso significato dell'interpretazione nietzscheana di Eraclito. Nel «dio contuitivo» si cele-
bra la crudele innocenza di un giuoco che, come quello del fanciullo, crea solo per distruggere
e distrugge solo per ri-creare. Sta in questa innocenza l'assoluzione del divenire e della sua in-
giustizia in radice, la composizione estatica delle sue divaricazioni e contraddizioni insanabili
in quanto essa presuppone l'intima consonanza con la profonda necessità del tutto. La soffe-
renza cosmica di questo assiduo distruggere-creare è la tensione tragica del dio la cui «estasi»
non giudica il mondo, ma lo comprende e lo redime perpetuamente. Il fatto che Nietzsche as-
simili qui il «bisogno» del fanciullo e del dio a quello dell'artista esprimentesi attraverso l'arte
come giuoco è un chiaro segno dell'ambito extramorale in cui si realizza la purificazione del
divenire come colpa. Il giuoco del distruggere e del creare adombra già il «doppio sguardo» e
la «doppia voluttà» dionisiaca.
Secondo una notevole interpretazione di Nietzsche, questo pensiero del «giuoco» costitui-
sce la chiave per ipotizzare un superamento, nel senso di una «originarietà non metafisica del-
la filosofia cosmologica», del piano ontologico della metafisica tradizionale come «Seinsge-
schichte», dal quale, invece, secondo Heidegger, non riuscirebbe a liberarsi la filosofia nietz-
scheana intesa come «Wert-Metaphysik»: «In Nietzsche il giuoco umano, il giuoco del fan-
ciullo e dell'artista diventa il concetto-chiave dell'universo, metafora cosmica» (E. Fink, op.
cit., 188). In altre parole è attraverso il giuoco che si determina l'essenza dell'uomo come
apertura estatica alla signoria del mondo, giacché è per questo tramite che l'uomo può radi-
carsi nella sua profonda cooriginaria appartenenza alla vita del tutto e inserirsi quindi nel
«grande giuoco di nascita e morte di tutte le cose», come «Mit-spieler», come «con-giocato-
re» nel cosmico «giuoco della necessità». La «metafisica del valore», per cui, secondo Hei-
degger, l'essere è degradato a «essere degli enti» sarebbe dunque ricompresa all'interno del
giuoco del mondo, nel cuore dell'ebbrezza dionisiaca. Per Fink, la riduzione nietzscheana
dell'essere e del divenire al «giuoco» costituisce l'elemento primario di un Weltdenken, di un
«pensare- cosmico» nel cui contesto la volontà di potenza non ha più il carattere di una ogget-
tivazione dell'essente per la rappresentazione di un soggetto, bensì quello di una plasmazione
NOTE 259
apollinea, mentre, per altro verso, l'eterno ritorno diventa la formola di un tempo-giuoco del
mondo che tutto abbraccia, tutto produce e distrugge. Per il concetto speculativo del giuoco
come formula «cosmico-concettuale», che appunto in quanto trova in un modello intramon-
dano il suo rispecchiamento metafisico, viene progettata come il senso dell'essere in generale,
si veda E. Fink, Oasedes Glùcks. Gedanken zu einer Ontologie des Spiels, Freiburg Br.-Mùn-
chen, 1957, p. 49 ss.
I
II punto di vista a cui si riconduce questa considerazione sulla non-libertà del volere è tipi-
camente quello di Schopenhauer che, com'è noto, distingue tra una libertà empirica, pura-
mente illusoria, e una libertà trascendentale, attinente al «carattere intellegibile» — come egli
stesso dice usando una terminologia kantiana —. Il carattere primario della volontà rispetto
alla conoscenza (principio di ragione), appartenendo quest'ultima al mondo dei fenomeni e la
prima, invece, al noumeno, fa sì che la scelta sia predeterminata al di qua della coscienza e del
tempo e che quindi coincida col carattere intellegibile e con la sua intrinseca e immutabile ne-
cessità: «Ciascun uomo — scrive Schopenhauer nel libro iv della sua opera fondamentale — è
quindi quel ch'egli è, per la sua volontà, e il suo carattere è originario, essendo il volere la ba-
se del suo essere. Dalla sopravveniente conoscenza apprende, nel corso dell'esperienza, ciò
ch'egli è; ossia, apprende a conoscere il proprio carattere. Se stesso conosce adunque per ef-
fetto e in conformità della natura del suo volere: e non già vuole, secondo l'antica concezio-
ne, per effetto e in conformità del suo conoscere. Se questa fosse vera, basterebbe che egli ri-
flettesse sul come più gli piacerebbe essere, e così sarebbe: tale è la libertà del volere, secondo
la concezione suddetta. [...] Io viceversa dico: l'uomo si fa da sé prima d'ogni conoscenza, e
questa interviene per dar lume a quel ch'è già fatto. Quindi non può l'uomo decìdere d'esser
fatto in un modo piuttosto che altrimenti, né può diventare un altro [...)» (// mondo come vo-
lontà e rappresentazione, cit., il, pp. 388-389).
4
Cfr. Herakl., B 45 (Diels, i, 161, 1-2): <J>OXT]? netpata la>v oùx àiv èjjeupoio, xàaav ijctTcopeuójievo?
ó86v ouxto paQùv Xóvov exti. Ma si veda anche B 72 (Diels, i, 167, 9- 11).
5
...ófpty r?jv <]>uxty fywv (umida, infatti, è la sua anima [detto dell'uomo ebbro]) (Herakl.,
B 117 [Diels, i, 177,3]).
6
Cfr. Herakl., B 107 (Diels, i, 175, 1-2).
7
Cfr. Herakl., B 13 (Diels, i, 154, 10-11): «Più che di tersa acqua godono del fango i porci»
(trad. Walzer).
8
Qui Nietzsche vuol significare che è estranea ad Eraclito la preoccupazione del razionali-
smo metafisico, all'interno del quale si mira a conciliare teleologia e causalità e quindi a far
coincidere dinamicamente e funzionalmente — come accade appunto in Leibniz — il sistema
della ragione con il sistema dell'armonia e quindi l'ottimismo teoretico con l'ottimismo teolo-
gico. Ma a ben vedere, il tipo di giustificazione, cioè di «teodicea», leibniziana, non si appog-
gia alla struttura aprioristico-deduttiva (la «dimostrazione» in senso tradizionale), bensì ad
un concetto di «funzione», come ha molto bene messo in luce il Cassirer, per cui le concor-
danze sono sostanzialmente «accordi» «tra le prospettive ideali differenti e condizionantisi re-
ciprocamente, da cui la realtà può essere rappresentata e chiarita» (E. Cassirer, Storia della
filosofia moderna, 4 voli., Torino, 1953, n, pp. 220-221).
9
II testo originale dà Erscheinung, che significa propriamente fenomeno. La terminologia
filosofica di Nietzsche è ancora prevalentemente mutuata da Kant e Schopenhauer.
10
xùves yàp xaxa(3auCouoiv J>v a y.r\ Yivàxsxwart (Herakl., B 97 [Diels, i, 173, 1-2]).
II
"Ovous oupua-c' &v éX^oOat jiàXXov 9\ xpuaóv (gli asini sceglierebbero piuttosto la spazzatura
che l'oro), Herakl., B 9 [Diels, i, 152, 12-13]).
12
Cfr. Chalcid. e. 251, p. 284, p. 10 Wrob. (A 20; Diels, i, 149, 16-23) «//. vero consentien-
tibus Stoicis rationem nostrani cum divina ratione conectis regente ac moderante mundana:
propter inseparabtlem comitatum consciam decreti rationabilis factam quiescemibus animis
ope sensuum futura denuntiare. Ex quo fieri, ut adpareant imagines ignotorum locorum si-
mulacraque hominum tam viventium quam mortuorum. Idemque adserit divinationis usum
etpraemoneri meritos instruentibus divinispotestatibus»; cfr. A 16 (Diels, i, 148, 10-13) tou-
xov oùv TÒV 9elov Xóyov xa0' «EpóxXtrcov &V àvanvofte ajtàoavxe? voepoì yivó(At9a, xat iv (lèv urcvot?
Xr)0aloi, xatà hi ìS-tpaiv ndXiv 'é{ji?pove; (secondo Eraclito diventiamo intelligenti ispirando que-
sta ragione diurna con la respirazione, e nel sonno ne siamo dimentichi, e nella veglia di nuo-
vo coscienti).

8.
1
Cfr. Diog. Laert., ix 1-17 ixtfotXó^pwv 81 ytyovt nocp' óvtivecoSv xai ójtepójmjc [...] (fu per na-
tura orgoglioso verso chiunque e sprezzante (Herakl., A 1 [Diels, i, 140, 1-2]).
2
Cfr. F.W. Nietzsche, «La gaia scienza», trad. it. F. Masini, in Opere, cit., v, 2, p. 19 [Pre-
fazione alla seconda edizione]: «Forse la verità è una donna che ha buone ragioni per non far
vedere le sue ragioni. Forse il suo nome per dirla in greco, è Baubol...». «Baubo» è una divi-
260 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

nità eleusina; cfr. nota al testo sovracitato p. 534. Si veda anche, per la figura della verità co-
me donna, la «Vorrede a Jenseits von Gut und Bòse», in Werke, cit., n, p. 565.
3
Scrive Schopenhauer nei Parerga: «I lettori della mia etica sanno che il fondamento della
mia morale riposa in ultima analisi su una verità che nel Veda e nel Vedanta trova la sua
espressione nella formola mistica divenuta stabile «tat twam asì» (questo sei tu), che e espres-
sa in riferimento ad ogni essere vivente, sia uomo od animale, ed è perciò detta il Mahavakya,
ossia la grande parola» (A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena, cit., Il, p. 224 {115]).
4
Diog.,ix 1-17 (PielS, l, 140,8).
5
Ivi, (Diels, i,140, 8-10): àvaxwpnoa? &c *-k TÒ tepòv tyj? 'ApxéfiiSo? [Ltxà. TWV naitiùv i\(rzpctyàXi-
£ev" 7T£pt<n(£vTiov 8' aùxòv xà>v 'Eq>eau»v. *T£, OÌ xóxia-tot, 0avn<4Cexe;' efaev 'i^ oò xpelxxov xouxo noiclv ^
H&9' Ù\ICÙV TtoXneueoOai;' (ritiratosi nel tempio di Artemide prese a giocare a dadi insieme ai fan-
ciulli. Essendogli venuti intorno gli Efesi: «di che cosa, o pessimi, vi fate meraviglia? — disse
— non è forse meglio fare ciò piuttosto che partecipare con voi alla vita pubblica?»).
6
Sarà nell'ambito di questa metafisica del giuoco che Nietzsche elaborerà il tema della
«crudeltà» dionisiaca. È interessante notare che proprio su questo punto è possibile mettere a
fuoco la posizione di Nietzsche rispetto a quella hegeliana, senza dover passare necessaria-
mente attraverso la mediazione dei giovani hegeliani che, secondo Lowith, dovrebbero essere
collocati «con» Nietzsche sulla identica parabola della dissoluzione critica dello hegelismo
(cfr. K. Lowith, Da Hegel a Nietzsche, trad. it. di G. Colli, Torino, 1949, p. 292 ss.). In realtà
è proprio attraverso il momento schopenhaueriano del giovane Nietzsche (momento a torto
trascurato da Lowith che non vede, tra l'altro, il ruolo giocato in senso anticlassicista dall'e-
stetica di Schopenhauer nel «primo» Nietzsche) che si va organizzando in funzione antistori-
cistica e antiprogressiva una visione del divenire e quindi un progetto di «composizione» delle
sue contraddizioni che escludono preliminarmente, anche sotto il profilo della storiografia fi-
losofica, il ricorso ad un movimento dialettico-reale del concetto. È infatti accettando da
Schopenhauer il rifiuto di una razionalità della storia e dell'ottimismo storico, di cui la Ger-
mania è la «culla» e Hegel il «responsabile» («Chi non comprende quanto la storia sia brutale
e priva di senso, non comprenderà certo neppure l'impulso a dare un senso alla storia. Orbe-
ne, si guardi quanto rara è una conoscenza della propria vita che risulti piena di significato,
come lo è quella di Goethe, e ci si domanderà che cosa di razionale possa mai venire fuori da
tutte queste esistenze annebbiate e cieche, una volta che esse agiscano caoticamente in colla-
borazione e in discordia tra loro», «Frammenti postumi Primavera-estate 1875», in Opere,
cit., ìv, i, p. 125), che Nietzsche propone un rapporto con l'antichità greca tale da dissolvere,
insieme alla falsa idealizzazione della Humanitàt, cara alla tradizione umanistico-classicista,
da Erasmo a Winckelmann, a F. A. Wolf e a W. v. Humboldt, la base stessa del Philisterda-
sein, di una esistenza, cioè, ottimisticamente e moralisticamente «somatizzata», quale sta alla
radice della cultura di oggi. La «fede» hegeliana appare, a questo punto, come la sublimazio-
ne speculativa di quel «Glaube an das Fertigsein», di quella fede nell'approntamento finale,
in virtù della quale non solo si possono «sbrigare» arte ed estetica, ma anche l'etica stessa co-
me «l'ottimistica messa a punto della concezione cristiana del mondo» («Aus den Vorarbei-
ten zu den Vortràgen "Das griechische Musikdrama" und "Sokrates und die Tragòdie"», in
W.GA, cit. ix, p. 66 [16]). Di fronte a questa cultura pacificata, il tipo del filosofo presocrati-
co si presenta come l'incarnazione di una «umanità» proiettata sullo sfondo orrido del mito e
continuamente sul punto di soggiacere agli istinti distruttivi e barbarici che si agitano nei suoi
abissi più profondi. È la terribile fascinazione del volto meduse© dell'esistenza che dà un'im-
pronta di sofferenza tragica e di sfigurata beatitudine al genio ellenico, così da farcelo appari-
re come duramente contratto nella sua difficile e quasi disumana lontananza. Non v'è più al-
cuna traccia di quella «civiltà dell'anima» che Burckhardt vedeva nello stesso mondo omeri-
co, in questa crudele giustificazione di «una vita di lotte e di vittorie» a cui Nietzsche ricondu-
ce l'essenza «agonale» della più antica filosofia (per la contrapposizione di Nietzsche a
Burckhardt a questo riguardo si veda A. von Martin, Nietzsche und Burckhardt, Mùnchen,
1941).
Si ricordi, per il concetto di Humanitàt nei Greci, come negazione del «rein Menschliches»,
l'inizio dello Homers Wettkampj': «Quando si parla di umanità [Humanitàt], alla base c'è l'i-
dea che essa possa essere ciò che separa e distingue l'uomo dalla natura. Ma una tale separa-
zione in realtà non esiste: le qualità «naturali» e quelle chiamate specificatamente «umane»
sono concresciute indivisibili. Nelle sue più alte e nobili forze, l'uomo è interamente natura e
porta in sé la sua inquietante duplice caratteristica. Le sue capacità terribili e considerate co-
me disumane sono forse addirittura il fertile terreno su cui soltanto può crescere ogni umanità
in sentimenti, azioni e opere. Così i Greci, gli uomini più umani dell'antichità, hanno in sé un
tratto di crudeltà, di gusto dell'annientamento simile a quello delle tigri [...] («Homers Wett-
kampf», in W.GA., ix, 2, p. 273 [1]).
7
Qui il termine «storici» è da intendersi nel senso dell'etimo (ìoxopia = investigazione, in-
dagine, da l'orwp /ol8a], colui che sa, esperto). È la parola usata da Eraclito (ioTopiT)) per carat-
terizzare la coffee, da Pitagora condannata, come noXuuaGhi multiscienza, polimathia) e xotxo-
teXv(T| (arte volta al male, maligna). Si veda Herakl., B 129 (Diels, i, 180, 13-2) e B 40 (i, 160,
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 261

3-6). Nel significato di uomini proiettati nel futuro e quindi legati all'illusione del progresso
«storicamente necessario», Nietzsche userà il termine «uomini storici» nella seconda Inattua-
le: «Ci piace definire costoro gli uomini storici; lo sguardo nel tempo passato li sollecita verso
il futuro rinfocola il loro coraggio a reggere ancora il confronto con la vita, accende la spe-
ranza che la giustizia venga ancora, e che la felicità stia dietro il monte verso il quale cammi-
nano. Questi uomini storici credono che il significato dell'esistenza verrà sempre più alla luce
nel corso del suo processo, essi guardano indietro solo al fine di comprendere il presente, con-
siderando il processo fin qui avvenuto e di apprendere a bramare più ardentemente il futuro;
non sanno per nulla quanto astoricamente pensino e agiscano malgrado tutta la loro storia, e
quanto anche il loro interessarsi della storia non sia al servizio della pura conoscenza, ma del-
la vita» (Sull'utilità e il danno della storia per la vita, cit., pp. 42-43).
8
èBiftaànTiv èuecouxóv (Herakl., B 101 [Diels, i, 173, 11]).
9
ouxt Xéyei oike xoómei àXXà <rr)(xatvei (non dice e non nasconde, ma significa) si legge nel
frammento eracliteo B 9 (Diels, ì, 172, 6-7).
£((SuXXa 8è {iatvo[iévo>t cxó|xaxi àyéXaato xaeì àxaXXa>m<rta xati <l|i.upiaxa fQiyyoptvi) XiXtwv ixóiv
èijixvtìTai xfji iptovfii Sia xòv 9eóv (Herakl., B 92 Diels, i, 172, 3-5). (La Sibilla dalla bocca deliran-
te dice cose di cui non si ride, non addolcite né da ornamenti né da profumi, e con la sua voce
oltrepassa i millenni, incitata dal dio [trad. Pasquinellij.)

9.
1
Dopo aver riconosciuto l'esistenza nell'antica dossografia di due tendenze rispettivamente
dirette a riallacciare Parmenide «da un lato a Senofane, dall'altro ad Anassimandro», Pa-
squinelli osserva in op. cit., p. 384, nota 1: «Il rapporto ideale tra Anassimandro e Parmeni-
de, per la stessa vaghezza dei suoi presupposti (il concetto totale dì arceipov come fermento alla
filosofia parmenidea dell'essere, il riferimento polemico alla «genesi» del molteplice dall'circei-
pov), è più facile da inserire nei tratti dell'Eleate, ed assicura in un certo senso la continuità del
pensiero greco, più che accettando l'ipotesi di rapporti più vicini nel tempo, ma molto meno
sicuri».
i\ [ièv <mci>$ tcrxtv xe xoù <ó? oùx eaxi [ir\ elvat,
FUtOoù; ècxi XCXEUQO? ('AX^OeCrit yàp òni^eì),
i\ 8' (ó< oùx e<mv xe xocì w; XPet^v £°Tl MH -' e^vai
[...] (Cuna [delle due «vie di ricerca che solo son da pensare») che è e che non è possibile che
non sia, e questa è la via della Persuasione (giacché segue la verità), l'altra che non è e che è
necessario che non sia (Parm., B2 [Diels, ì, 231, 8-11). Si veda anche B 6, [ivi, i, 232, 21-22)).
3
Nietzsche ci dà qui una parafrasi poetica, presentata nella forma di una pseudocitazione,
dei versi tanto discussi del ritpì «puaew? (B 1 [Diels, i, 230, 13-14]):
àXX1 canile xal xauxa (ia9^aeai, tl><; xà Soxoùvxot
Xpfjv 8ox(fico? eìvai 8ià Jtavxò$ rcàvxa neptivxa.
(ma tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza
debba configurarsi perché possa veramente apparire
verosimile penetrando il tutto in tutti i sensi)
(trad. it. Pasquinelli, che segue sostanzialmente la lettura del Wilamowitz (Hermes xxxix, p.
204) accettata dal Kranz). Non rientra nell'ambito del nostro commento sviscerare la vexata
quaestio dell'interpretazione di questi versi, che ha visto contrapposte, sulla base di letture di-
verse, le tesi di molti studiosi, da Diels a Burnet (per i quali la seconda parte, eristica, del poe-
ma parmenideo concerne la sfera ingannevole della lò\<x e rappresenta pertanto un'esposizio-
ne polemica di dottrine cosmologiche da considerarsi erronee), a Zeller, Wilamowitz, Gom-
perz (per i quali la tesi della 8ól;a è invece «ipotetica» e riguarda la possibilità di una spiegazio-
ne non fondata su ragione e quindi in sé non vera, ma tuttavia verosimile, dei fenomeni del
mondo). Anche l'interpretazione a sé stante del Reinhardt, che pure reintegra il discorso della
8ó?a nel contesto unitario del poema, ripropone in termini di platonismo il rapporto àXriQtia e
8ó$x (si vedano al riguardo, sulla scorta del giudizio heideggeriano intorno alla posizione di
Reinhardt, le osservazioni di J. Beaufret, Lepoème de Parmenide, Paris, 1955, p. 27 ss.). Ma
l'importanza dell'interpretazione di Nietzsche non deve essere vista nel quadro di una sua
possibile verifica in sede di critica e di ricostruzione filologica del testo, bensì nel tentativo di
dialettizzare la stessa posizione storica di Parmenide all'interno del suo rapporto con Anassi-
mandro, così da ricavare per questa via l'angolo visuale più appropriato per giudicare della
sua fondamentalità teoretica. In questa prospettiva, Parmenide ed Eraclito si propongono,
per Nietzsche, come momenti di superamento del misticismo teologico-morale di Anassiman-
dro e della sua conseguente radicale svalutazione del sensibile. Se in Eraclito il divenire come
tale non ha più nulla di delittuoso ed ingiusto, in quanto è sostenuto dall'«armonia invisibile»
del Logos, in Parmenide l'antinomia di essere e non-essere è il presupposto di una risoluzione
262 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

del conflitto «etico» di Anassimandro in una sfera puramente logica, dove non interviene più
un giudizio umano sulle cose, ma la pietrificazione ontologica della verità. Tuttavia Nietzsche
non si ferma qui: la filosofia fisica costruita da Parmenide sul piano della 8ó|o è la preistoria
di «quel gelido brivido di astrazione» che segna «una pietra terminale» non solo nella vita di
Parmenide, ma nella stessa filosofia dei presocratici, nella quale è dunque Anassimandro a
dominare il primo periodo e Parmenide il secondo. Il «problema del divenire» si pone, con
Parmenide, in termini d'esclusione logica (di opposizione di qualità, di èóv e urj éóv) anche sul
piano della Sófja e dei SoxoCvxa, e con Eraclito, invece, in termini di intuizione «tragica» (guer-
ra come armonia dei contrari, annientamento-distruzione come giuoco). È appunto lo stesso
orizzonte problematico quello rispetto al quale il rovesciamento nell'immobilità dell'identico
(l'essere è, il non-essere non è [Parmenide]) e la sublimazione nel divino giuoco degli opposti
(Eraclito) si configurano come modi paralleli, ma non necessariamente alternativi, di un pro-
cesso sostanzialmente unitario, che oppone alla «cosmodicea» mitica di Anassimandro una
«cosmodicea» estetica (Eraclito) o logico-nichilista (Parmenide).
4
Secondo Teofrasto, Parmenide fu discepolo di Anassimandro; cfr. Diog., ix, 21-23
(Diels, i, 217, 22-23) e A 2 (ivi, 218, 22). Altre fonti indirette (Aristotele e forse Platone) con-
siderano invece Senofane maestro di Parmenide.
A giudizio di G. Colli — che contesta la lettura del passo di Diog., ix, 21 proposta dal Diels
— «il rapporto di Anassimandro-Parmenide rappresenta [...] la chiave di volta dell'imposta-
zione di Teofrasto», la cui caratteristica «storicistica», è quella di seguire «attraverso le per-
sonalità presocratiche il primo evolversi di problemi, la cui formulazione precisa spetta sol-
tanto alla cultura del iv secolo» (G. COLLI, Studi sulla filosofia greca, Milano, 1948, p. 28). Si
veda anche dello stesso Autore, La sapienza greca, il, Milano, 1978, pp. 297-299 e pp. 309-
311. È evidente che l'insistenza di Nietzsche sulla posizione di primo piano di Anassimandro
nei suoi rapporti d'influenza con i filosofi posteriori risulta, alla luce di quest'indagine, estre-
mamente significativa.
5
È problematico che si possa parlare, per Anassimandro, di un'assoluta opposizione tra i
due mondi. Scrive G. Colli: «Dall'analisi [di Teofrasto! risulta come quell'antitesi [tra Vanti-
pov e gli «elementi»] non fosse tale in definitiva, come cioè la distinzione di unità e molteplici-
tà non rappresentasse ancora per Anassimandro la scoperta di due realtà loto genere differen-
ti. Teofrasto constata che i contrari, il mondo fenomenico cioè, sussistevano anche prima nel-
Po7reipov» (op. cit., p. 37).
6
Questa «semplice negazione» corrisponde al concetto di nihil privativum, chiarito con
estrema semplicità da Schopenhauer nel libro iv del Welt als Wille und Vorstellung: «[...] de-
vo in primo luogo osservare, che il concetto del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce
sempre ad alcunché di determinato, ch'esso nega. Codesta relatività fu attribuita (specie da
Kant) soltanto al nihil privativum, indicato col segno — in opposizione al segno + ; il qua! se-
gno —, capovolgendo il punto di vista, poteva diventare + ; e in contrasto con quel nihil pri-
vativum, si stabilì un nihil negativum, che fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio, del
quale si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa» (// mondo come volontà, cit., u,
pp. 532-533).
7
Proprio contro Anassimandro, che nell'interpretazione nietzscheana svaluta radicalmente
il divenire alla luce del concetto di colpa (e procederà, in fondo, da Anassimandro il nesso
Schopenhauer-Platone-Cristianesimo, posto in seguito da Nietzsche a base della metafisica
nichilista e rinunciataria degli Hinterweltler), è rivalutato qui sotto il profilo cosmologico e
cosmogonico, il pensiero di Parmenide. È singolare che in questo Parmenide, filosofo della
9uai? piuttosto che della rigida e tirannica asserzione -co yàp auto voetv è<mv te xa.1 elvai, Nietz-
sche proietti, quasi in termini hegeliani, la funzione logico-dialettica del «negativo», metten-
do al centro della sua interpretazione la preoccupazione «eraclitea» di una giustificazione im-
manente del divenire.
8
Cfr. Parm., B 18 (Diels, i, 244-45).

10.
1
Si hanno scarse e insicure notizie sui vagabondaggi di Senofane. Abbandonò la città nata-
le (Colofone nella Ionia) in giovanissima età (nel 545 o nel 540) e la sua vita errabonda durò
oltre sessant'anni. Alla maniera dei rapsodi omerici andava recitando i suoi canti tra i quali
figura una celebrazione della fondazione di Elea. Secondo Timeo, Senofane fu a Siracusa al-
l'epoca di Gerone: pare che abbia vissuto ad Elea, ma non tanto, forse, da fondarvi una scuo-
la.
2
La tesi centrale della dottrina di Senofane, autore, tra l'altro, oltre che dei E(XXoi, di un
Flepì fùceoo? conservatoci solo in frammenti, è quella dell'Uno-Tutto, concepito come princi-
pio immutabile senza origine né fine, immanente a tutte le cose e in cui tutte si risolvono. La
critica di Senofane all'antropomorfismo politeistico costituisce una tappa importante sulla
strada dell'astrazione filosofica e del definitivo distacco dalla cosmologia teogonica propria
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 263
del mondo mitico. Nella tradizione filosofica, a cominciare da Platone, Senofane è stato col-
legato a Parmenide, ed è stato visto in funzione antieraclitea come fondatore o capo della
«setta» eleatica (Plat., Sophist., 242 c-d; Clem., Strom., i, 64). Aristotele parla di lui come di
un caposcuola rispetto a Parmenide e a Melisso, anche se mostra una certa perplessità per
quanto riguarda l'identificazione storico-teoretica dei motivi centrali del suo pensiero (Met.,
986 b). Indubbiamente sono giustificate le riserve degli studiosi moderni riguardo alle influen-
ze di Senofane su Parmenide (che ne sarebbe stato, ma è poco credibile, discepolo), o vicever-
sa: resta il fatto che non tanto nello schema teoretico dell'antitesi essere-divenire, quanto nel
contesto di un nuovo paradigma di cultura e di un nuovo ideale educativo antiomenco e an-
tiesiodeo va ricercata l'importanza di Senofane filosofo della natura e del suo principio divi-
no unico e immortale che «tutto intero vede tutto intero pensa e tutto intero ode», Simpl.,
Phys., 23, 10. Secondo Nietzsche, Senofane è un mistico della natura e non un freddo razio-
nalista. Come si vede, questa interpretazione si discosta notevolmente dalla catalogazione tra-
dizionale del rapporto Senofane-Parmenide, trasferendo — come apparirà in seguito — il no-
do del collegamento tra l'uno e l'altro dal terreno logico-teoretico a quello morale della liber-
tà e della lotta contro le superstizioni e le antiche consuetudini.
3
Cfr. Herakl., B 40 (Diels, i, 160-5).
4
La linea di successione «Senofane-Parmenide», accolta dalla storiografia corrente, non è
infatti esente da obiezioni e riserve. «Con Senofane la questione è diversa [da quella inerente
ai rapporti Anassimandro-Parmenide] — nota Pasquinelli —, in quanto accettandone la posi-
zione di maestro di Parmenide, si viene da un lato a dare una interpretazione estremamente
impegnativa della sua metafisica — che urta e contrasta quasi con ogni verso del rapsodo-filo-
sofo — dall'altro, ad inserire la filosofia eleatica in una ben precisa linea di sviluppo, dalla
«teologia» alla pura «ontologia». E proprio quest'ultima impostazione ci sembra falsare nelle
loro intenzioni sia l'uno-dio senofaneo che l'uno di Parmenide» (op. cìt., p. 384, nota 1).
5
Osservazione acutissima e degna di essere sottolineata, specie se si pensa che prima del li-
bro di Karl Reinhardt, Parmenides, Bonn, 1916, la tesi del rapporto di dipendenza Senofane-
Parmenide come perno dello sviluppo storico del monismo eleatico sembrava pacifica, sulla
scorta di una non abbastanza attenta lettura di Aristotele (Metaph., A 5, 986 b 18 ss.). (Si ve-
da anche O. Gigon, Der Ursprung der griechischen Philosophie, Basel 1945, p. 154 ss.)
L'essere parmenideo ha ben poco in comune con il dio di Senofane. Infatti il primo tra-
scende le contraddizioni, e quindi l'errore, il non-vero del mondo della Bói-a la sua struttura
logica implica lo svuotamento di ogni contenuto sensibile; al contrario, l'Uno di Senofane è il
divino che tutto permea, la mente (voù?) che tutto muove e abbraccia senza fatica. Questa con-
cezione è strettamente connessa con la critica all'antropomorfismo politeistico della religione
omerica e si ispira fondamentalmente ad una visione della natura vivente di cui appunto l'U-
no è vita immutabilmente operante, limite che tutto abbraccia (TÓ rcepiéxov).
Scrive Jàger a proposito del «divino» di Senofane: «Nelle parole di Senofane [...] troviamo
un nuovo motivo che diventa la vera e propria fonte della sua teologia. Esso non risale a una
prova logica, anzi non è neanche filosofico, ma scaturisce dall'immediato sentimento religio-
so del rispetto davanti alla sublime solennità del divino. Questo sentimento religioso è la fonte
della negazione di ogni limite e di tutti i difetti che la religione tradizionale addossa ai suoi
dèi. In virtù di questo sentimento, nonostante la dipendenza dalle opinioni dei filosofi natura-
listi, Senofane è una figura teologica che non può essere paragonata a nessun'altra, anzi egli è
comprensibile soltanto come teologo» (La teologia, cit., pp. 80-81).
6
Cfr. Herakl., B 49 a (Diels, i, 161, 11-13).
7
La citazione è di Parmenide, B 6 (Diels, i, 233, 6-9).
8
Dice esattamente Parmenide:
7tp(ÓTT]{ yàp o' àcp' ó8ou TOCUTTK 8ICT|<JIO$ < tipico >,
aùtàp eireix' arcò TT^, fy» Sri Ppotoì eiSóte? o08èv
7cXàrcovtat, Sixpavof à\Lr\xoivir\ yàp iv aikàiv
atf|8eoiv Wóvet - nXaxtòv vóov'(Parm. B6 [Diels ì, 233, 1-6]).
(Poiché da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, // ma anche da quella su cui errano
i mortali che niente sanno, // uomini a due teste: poiché è l'incertezza // che dirige nei loro
petti l'oscillante mente [trad. Pasquinelli, op. cit., p. 230].)
9
Traduciamo letteralmente «das Seiende» con «essente» (iòv), anche se in questo caso «es-
sente» sta per «essere». Acuta l'osservazione di J. Beaufret a proposito del participio ióv:
«D'un coté, comme participe nominai, il vajusqu'à mettre en liberti une sorte de substantif.
Mais de l'autre, comme participe verbal, ilfait retour de ce substantif à la signification pro-
pre du verbe et indique dès lors moins la personnalité de l'agent que la modalité de l'action.
Vivant, par exemple, dit ainsi à lafois celui qui vit et lefait qu'il vit, le vivre /.../. En un sens
tè ióv est le singuiier de tà èóvra et désigne nominalement l'un des ióvw. Mais en un sens plus
fondamental, ióv ne dit plus seutement tei étant singuiier (ens quoddam, un étant, a being, ein
Seiendes) mais la singularité mime de /'etvat (esse, étre, to be, sein) doni tous les ióvxa partici-
264 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

pent en propre sans qu 'elle s'épuise jamais en aucun d'eux» (Lepoème de Parmenide, cit., p.
34).
10
Cfr. Arist., Phys., T 6. 207 a 9 (Parm. A 27): xéXeiov 8' OCSÈV JXTI exov téXoc' tò 8è téXoc; icépot?
(non è perfetto ciò che non sia finito: la finitezza è limite).
11
Annotava Nietzsche nei suoi abbozzi per il Wille zur Macht: «Il traviamento della filoso-
fia sta nel fatto che invece di vedere nella logica e nelle categorie della ragione strumenti per
predisporre il mondo ai fini dell'utilità («in via di principio», quindi, per una vantaggiosa fal-
sificazione), si è creduto di possedere in essi il criterio della verità, e rispettivamente della real-
tà» (in Werke, cit., in, p. 726). Si veda, sul concetto di verità, che come alternativa alla illu-
sione e alla finzione si riduce a mera tautologia, Uber Wahrheit und Lùge im aufiermorali-
sehen Sinn, ivi, in, p. 312.

11.
1
II termine del testo è Anschauung ed è chiaro che si tratta di intuizione empirica nel senso
kantiano. «Quella intuizione [Anschauung), che si riferisce all'oggetto per mezzo della sensa-
zione [Empfindung], dicesi empirica [empirisch]», (1. Kant, «Kritik der reinen Vernunft», in
/. Kant'ssàmmtliche Werke, Leipzig, 1867, ni, p. 56).
2
Evidentemente Nietzsche si riferisce qui alla distinzione tra il TÒ STI e il tò Stó-ct nell'ambito
della scienza empirica, secondo Aristotele: «gli empirici (...] sanno il che Ito 8xi], ma non il
perché [8ióxi] delle cose», a differenza degli «uomini dell'arte», che sono più sapienti, giacché
«ne conoscono il perché e la causa [XTJV aìttav]» (Met., 981 a, 28-30, trad. A. Carlini; ma si ve-
da anche ivi, 1025 b, 16-18; Anal. Post., 89 b, 24; 90 a, 14). La questione è trattata ampia-
mente da Aristotele in Mei., 1031 a, 17 ss., dove si dice che «ogni cosa, individualmente, sem-
bra non essere altro che la sostanza [oùaioc] sua stessa». Ma l'inesistenza di tale identità è di-
mostrata «per le cose che si dicono per accidente» (ini (xèv 8T) twv XEYOCX£V6>V xocxà aufipePrjxò?);
«per le cose considerate in se stesse», invece, cioè per le idee, non può prodursi un divario tra
essenza ed esistenza, giacché «se ciò ch'è il bene, non è un bene, neppure ciò ch'è l'essere è un
essere [..,] e, insomma, le pure essenze o sono tutte parimenti reali o nessuna». La conclusio-
ne è dunque che «la pura essenza e la cosa stessa» coincidono quando si tratti di sostanza (di
un ov Jjov) e non di determinazioni accidentali della cosa». Resta chiaro, dunque, che nel so-
stenere che per Aristotele «l'esistenza non è intrinseca all'essenza» Nietzsche non ha tenuto
presente che l'aristotelica essenza pura (tò xi T)W EIVOCI) è sempre unita a un -ó<k ti, cioè ad un al-
cunché di determinato, nella concretezza della sostanza (oùaioc) come oggetto della scienza, e
che solo la «definizione» della essenza reale, per quanto non coincidente, come definizione,
con il tó8c ti, con un qualcosa di determinato e quindi con l'esistenza, in realtà solo come es-
senza reale, cioè come sostanza, diventa oggetto fondamentale della scienza.
Scrive Abbagnano: «Questa dottrina della distinzione reale [tra essenza ed esistenza) è stata
spesso considerata di derivazione aristotelica. In realtà non ha niente di aristotelico, anzi con-
traddice direttamente a uno dei canoni fondamentali della filosofia di Aristotele e precisa-
mente a quello che identifica l'essere o l'esistenza con l'atto e l'atto con la forma; sicché non
c'è forma che non sia atto, cioè che non esista (la forma è l'esistenza (...]). In realtà la dottri-
na fu introdotta e adoperata per scopi diversi, che non hanno niente a che fare con l'aristote-
lismo» (Dizionario di filosofia, Torino, 1961, s. v. Essenza ed Esistenza).
3
«Ma, per ciò che riguarda la conoscenza quanto alla semplice forma (mettendo da parte
ogni contenuto), è altrettanto chiaro che una logica, in quanto espone le leggi generali e ne-
cessarie dell'intelletto, deve appunto in queste leggi fornire i criteri della verità. Infatti, ciò
che contraddice ad esse, è falso, perché l'intelletto allora contrasta con le sue leggi generali
del pensiero, e perciò con se stesso. Ma questi criteri riguardano soltanto la forma della veri-
tà, cioè del pensiero in generale, e sono perciò verissimi, ma non tuttavia sufficienti. Giacché
una conoscenza potrebbe esser benissimo conforme alla forma logica, cioè non contradditto-
ria in se stessa, e tuttavia essere sempre in contraddizione con l'oggetto. Dunque, il criterio
semplicemente logico della verità, cioè l'accordo di una conoscenza con le leggi generali e for-
mali dell'intelletto e della ragione, è bensì una conditio sine qua non, quindi la condizione ne-
gativa di ogni verità; se non che la logica non può andare più oltre, e non ha pietra di parago-
ne con cui possa scoprire l'errore, che tocchi non la forma, ma il contenuto» (E. Kant, Critica
della Ragion Pura, cit., i, pp. 101-102).
4
Scriveva Nietzsche in Wahrheit und Lùge, dove viene svolta una radicale riduzione feno-
menistico-nominalistica della funzione dell'intelletto in ordine alla pretesa «verità» delle sue
costruzioni concettuali: «Che cos'è dunque verità? Un mobile esercito di metafore, metoni-
mie, antropomorfismi, insomma una somma di relazioni umane che furono poeticamente e
retoricamente potenziate, traslate, adornate e che dopo un lungo uso sembrano ad un popolo
salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, di cui si è dimenticato che sono tali, me-
tafore che sono divenute logore e la cui forza sensuale è indebolita, e monete che hanno per-
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 265
duto la loro effigie e vengono ormai considerate come metallo, non più come monete»
(«Wahrheìt und Lùge», in Werke, cit. tu, p. 314).
5
«In una introduzione o avvertenza preliminare par che sia necessario soltanto notare che
si danno due tronchi dell'umana conoscenza, che rampollano probabilmente da una radice
comune ma a noi sconosciuta: cioè, senso e intelletto; col primo dei quali ci sono dati gli og-
getti, col secondo essi sono pensati» (E. Kant, Critica della Ragione Pura, cit., pp. 61-62 [In-
troduzione!).
6
Friedrich Eduard Benke (1798-1854), filosofo di tendenza deterministico-psicologistica,
docente all'università di Berlino, sostiene l'immediata presenza dell'essere nell'autopercezio-
ne. Probabilmente Nietzsche fa qui riferimento alla Neue Grundlegung zur Metaphysik
(1882), p. 67 ss.
7
II significato originario di esse (rad. es-) è quello di presenza, vale a dire dì permanente
stabilità, e rinvia ad una sfera assolutamente separata dal divenire inteso come un passare ad
esistenza, come un avvenire, un Y(yveo8at. Si potrebbe semmai azzardare l'ipotesi (per quanto
scarsamente attendibile) che questo «respirare» sia in qualche modo semanticamente ricom-
preso nel/wf lat., da fa-ai (fQm - gr. e-<pGv, a.i. à-bhat, «fu»; cfr. a.i. bhàvati «trovarsi, esse-
re»). Probabilmente Nietzsche, pur rinviando erroneamente alla radice es-, intende riferirsi
alla radice bhQ- e quindi al collegamento fui (ted. b-in) — <póat<; intesa come il processo del <pG-
vat, cioè l'apparire e quindi l'originarsi e il crescere. Solo su questa base etimologica è infatti
possibile, sia pure con un'arbitraria estensione della costellazione semantica, stabilire un'ana-
logia (Pitagorici, Anassimene) tra il processo fisiologico della respirazione e Io stesso germo-
gliare, crescere ( = divenire) del cosmo concepito come un grande essere vivente che nasce e si
espande-perdurando, e quindi «respira».

12.
1
Zenon., A 28 (Diels, i, 254, 3 ss). È il secondo argomento, detto d'Achille, tramandatoci
da Aristotele {Phys., Z 9 239, b). Il primo argomento è anch'esso «per assurdo»: «se esiste il
movimento, è necessario che il mobile percorra infiniti tratti in un tempo finito; ma ciò è im-
possibile, quindi il movimento non esiste» (Simpl., Phys., 1013, 4 [trad. A Pasquinelli], ma
ne parla anche Aristotele, nel luogo sovracitato).
2
È il terzo dei quattro argomenti (Zenon., A 27 [Diels, ì, 253, 39 ss.]).
3
...tò fàp aùxò voeìv ia-civ •« xat elvai (Parmen., B 3 [Diels, I, 231, 221).

14.
1
Propriamente: Seienden = essente.
2
Sono le omeomerie, cfr. A 46 (Diels, n, 18, 32- 33) e A 43 (ivi, 17-13 ss.). Dice, in quest'ul-
timo luogo, Aristotele (Afe/, A 3 984 a 11): «Anassagora Clazomenio, che per età vien prima
di lui [Empedocle!, ma per le opere gli è posteriore, dice che i princìpi sono infiniti: quasi tut-
te le cose, quelle che hanno parti omogenee, dice che nascono e periscono nello stesso modo
dell'acqua o del fuoco solo per adunamento o disunione, e che non si generano né muoiono
altrimenti, ma rimangono eterne» (trad. it. di A. Carlini).
ì
Cfr. Anaxag., B 17 (Diels, n, 40-41, 20-4): «Sul nascere e sul perire gli Elleni non hanno
alcuna giusta opinione. Infatti nessuna cosa nasce o si distrugge, ma dalle cose esistenti deriva
il suo aggregarsi e il suo separarsi. Così sarebbe più giusto chiamare la nascita aggregazione e
il perire separazione». Si veda W. Jàger, La teologia, cit., pp. 245-246: «Torniamo ad Anas-
sagora e consideriamo la teoria degli elementi, alla quale sono strettamente legate le sue idee
teologiche. Questo è, ripetiamo, il punto in cui le considerazioni mediche acquistano impor-
tanza per la sua filosofia attraverso il concetto della mescolanza, che egli prende di là per so-
stituirlo al più vecchio concetto del divenire. Un assoluto divenire e perire delle cose non esi-
ste; esistono soltanto il miscuglio e la separazione delle sostanze che costituiscono l'avvicen-
darsi nella natura».
4
Dagli scarsi abbozzi per la prosecuzione dell'opera (inizio 1873) è forse possibile intrave-
dere queste diverse direzioni. Empedocle, infatti, mirò ad eliminare «l'eccesso di ipotesi» dal-
le dottrine di Anassagora, e cioè il uou; proprio per spiegare in maniera più semplice il movi-
mento come azione e reazione reciproca, o meglio come attenzione e repulsione dalla cui pre-
valenza ciclica si generano le varie fasi della vicissitudine cosmica. In Empedocle si ha, secon-
do Nietzsche, un'interpretazione naturalistica della dottrina orfico-pitagorica: tale interpreta-
zione è adombrata dalla Symbolik der Geschiechtsiiebe, per la quale l'aspirazione dell'amore
all'unione indica, contro la tendenza smembratrice dell'odio, il ritorno e al tempo stesso il po-
tenziamento di queir«immenso essere vivente», di quello «stato beato», in cui tutto era lega-
to al tutto in una perfetta rispondenza al fine. In Democrito l'esigenza di economia delle ipo-
tesi dà luogo alla concezione meccanicistica basata sul movimento, nella quale non solo gli
266 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

atomi, ma lo stesso pensiero è movimento di atomi. La conclusione è «il mondo senza signifi-
cato morale ed estetico, pessimistico del caso» («Entwùrfe zur Fortsetzung», in W.GA, cit.,
x, 2, p. 92 ss.).

15.
1
Si noti la straordinaria potenza plastica di queste metafore che ricorrono, come si è visto,
molto di frequente nel discorso nietzscheano, intessuto di figure concettuali cariche di sugge-
stione poetica. Si direbbe quasi che Nietzsche senta il bisogno di calarsi in questo mondo di
idee come in un'arena di lottatori per ripresentarci la tensione, ora tellurica ora alcionia, di
questi superbi contrasti, nei quali l'umanità del pensatore acquista proporzioni o torsioni tita-
niche.
2
1. Kant, «Kritic der reinen Vernunft», in Sàmmtliche Werke, cit., in, p. 69 nota. L'obie-
zione è formulata nel chiarimento dell'estetica trascendentale (sez. n, §7): «(...] i cangiamenti
esistono realmente (lo prova l'interno mutarsi delle nostre proprie rappresentazioni, quan-
d'anche si volesse negare tutti i fenomeni esterni unitamente ai loro cangiamenti). Ora i can-
giamenti delle rappresentazioni non sono possibili se non nel tempo; dunque il tempo è qual-
cosa di reale». Nietzsche cita una nota di Kant in replica a questa obiezione, ma più incisiva è
la risposta contenuta nel testo: «Il tempo, non v'ha dubbio, è qualcosa di reale, cioè la forma
reale dell'intuizione interna. Ha dunque realtà soggettiva rispetto all'esperienza interna, cioè:
io ho realmente la rappresentazione del tempo e delle mie determinazioni in esso. Esso è dun-
que da considerare reale, non come oggetto, ma come modo di rappresentazione di me stesso
come oggetto» {Critica della Ragion pura, cit., i, pp. 80-81).
3
Afrikan Spir (1837-1890), filosofo russo di nascita, ma di formazione tedesca, è il rappre-
sentante di uno spiritualismo a sfondo mistico-profetico nel quale si tenta di far coincidere i
fondamenti logico-gnoseologici con quelli stessi della morale e della religione. L'opera qui ci-
tata da Nietzsche è del 1873 e costituisce, con Moralitàt und Religion (1874), uno dei contri-
buti fondamentali del filosofo, per il quale la separazione tra sfera dell'incondizionato e mon-
do empirico deve essere dedotta dalla struttura stessa del principio d'identità. Risulta che
Denken und Wirklichkeit (2 voli., Leipzig 1873) fu presa in prestito, per tre volte da Nietzsche
alla Biblioteca dell'università di Basilea, tra il 1873 e il 1875 (cfr. FEG, pp. 437-438, n. 15).

16.

'Il termine o-néptiaxa è di Aristotele che lo usa a proposito di Talete: [...] setti 8ià xò nàvxcov xà
an£pH«xa xfy cpuaiv ó-ypàv exeiv (e anche i semi di tutte le cose hanno una natura umida [Aristot.,
Metaphys., A 3 983 b 25-26]). Cfr. gli anassagorei <3nlp\i<xx<x roxvxwv xprpfocov (B 4 [Diels, u,
346-7]).
2
Anaxag., B 1 (Diels, n, 32 ss.).
1
Anaxag., B 4 (Diels, u, 35, 3-5) e B 12 (ivi, u, 37, 22-23).
4
Si veda nota 1 al pgr. 14.
5
Aristot., Met., A 2, 106 9 b, 19. Ma si veda Simpl., Phys., 27, 2: «Inoltre, secondo Teo-
frasto, Anassagora sostiene una dottrina analoga a quella di Anassimandro: dice infatti
Anassagora che nella disgregazione dell'indeterminato i corpi omogenei si muovono gli uni
verso gli altri, e tutto ciò che nel tutto era oro, diviene oro, ciò che era terra, terra; così per
ciascuno degli altri elementi, in quanto originariamente non furono generati, ma già esisteva-
no».
6
Riguardo all'autonomia del voù? dice un frammento del Ilepì <póae<o? di Anassagora: voG? 8é
èuxiv orceipov xaì aùxoxpaxè^ xaì ui[ieixxai oùStvì ypr\\nxx\., àXXà uòvo? aùxò? irC èwuxoù ioxiv (Ana-
xag., i B 12 [Diels, II, 37, 18-20]) (lo spirito non è determinato da alcun limite ed è signore di
sé e non mescolato con cose alcune.-ma è solo, autonomo, per sé). Qui Nietzsche segue da vi-
cino il frammento anche nelle considerazioni successive (Diels, u, 38, 4-5).

17.
1
Cfr. Anaxag., A 47 (Diels, n, 19, 7 ss.) e A 58 (ivi, 20, 40 ss.). A 47 si riferisce ad un passo
del Fedone (Plat., Phaed., 97 B-98 B): «Ma udii da un tale di un libro, che diceva essere di
Anassagora, in cui si affermava che la Mente è l'ordinatrice e la causa e la guida di tutte le co-
se, che, se era così, la Mente ordinatrice avrebbe messo tutte le cose nel miglior ordine possi-
bile... Credevo di aver trovato in Anassagora il maestro che mi avrebbe insegnato la causa
delle cose secondo la ragione, e mi avrebbe detto prima di tutto se la Terra è piatta o rotonda,
e perché lo diceva, mostrandomene la causa e la necessità, delucidando quale fosse il meglio,
e che il meglio era che essa fosse così... Con gran premura mi procurai i libri, e più presto che
NOTE A CURA DI FERRUCCIO MASINI 267

mi fu possibile ne presi conoscenza, perché avevo fretta di sapere il meglio e il peggio. Ma do-
vetti disilludermi di così bella speranza, o amico: perché proseguendo nella lettura vedo un
uomo che non si serve affatto della Mente come causa dell'ordinamento delle cose, ma proce-
de assegnando come causa l'aria e l'acqua e l'etere, e molte altre cose strane» (trad. G. Preti).
La prospettiva nietzscheana di un vou? «arbitrario, unicamente dipendente da sé» non si collo-
ca nell'ambito di ricognizione pre-scientifica propria di quegli studiosi, come avvenuto per
Gomperz, che vedono in Anassagora «un naturalista tutto intero», la cui «nuova teologia»
avrebbe avuto lo scopo di acquisire all'indagine filosofica una spiegazione generale del cosmo
in grado di collegare ad una visione meccanicistica la natura non-meccanicista della sua genesi
[Pensatori Greci, trad. it., Firenze, 1933, i, pp. 338-339) e neppure mira a rintracciare una in-
tenzione «teologica», come risulta nell'interpretazione di Platone e Aristotele. Per Nietzsche,
l'ordine immutabile del cosmo è derivato da un moto ciecamente meccanico alla cui origine
sta l'impulso senza scopo e quindi in se stesso divinamento libero e gratuito del voffc, concepi-
to non già come un deus ex machina, ma esattamente come il suo contrario, come «un a9eo<;
ex machina» («Frammenti postumi, estate 1815», in Opere, cit., iv, 1, p. 174).
Il fatto che quest'impulso sia assimilabile a quello del giuoco riconferma che la connessione
di base tra a-teleologia e contemplazione estetica, su cui si regge tutta l'interpretazione dei
presocratici concepiti come espressione di una cultura in cui la tensione pessimista tende a ri-
scattarsi sul piano estetico. La stessa «teologia» di questo pensatore è da Nietzsche sussunta
sotto un paradigma estetico.
2
Sin dagli anni dei suoi studi lipziensi, Nietzsche aveva approfondito il problema della te-
leologia nel quadro dei suoi studi democritei e di molteplici letture, tra le quali, insieme al
«Kant» di Kuno Fischer e alla Geschichte des Materialismus di Fr. A. Lange, occupava un
posto rilevante nell'opera giovanile di Kant, Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des
Himmels (1755). Come si legge nella Vorrede l'intendimento di Kant in quest'operetta è quel-
lo di spiegare «l'origine del sistema cosmico e la nascita dei corpi celesti unitamente alle cause
dei loro movimenti» sul presupposto di un «Urstoff aller Dinge, [...] an gewisse Gesetze ge-
bunden» (materia originaria di tutte le cose, vincolata a certe leggi) (sta in Kants Werke [Aka-
demie Textausgabel, 9 voli., Berlin, 1968, i, p. 228, 229).
Il rinvio di Nietzsche alla espressione di Kant: «Gebet mir Materie, ich will eìne Welt da-
raus bauenh {ivi, p. 230), alla quale segue nel testo: «vale a dire, datemi della materia e io vi
mostrerò come da questa deve nascere il mondo!», mira a mettere in evidenza il tentativo
kantiano di voler andare, «con» Newton, «oltre» Newton nella soluzione del problema del-
l'origine dell'universo, questione da quest'ultimo lasciata impregiudicata o meglio abbando-
nata alla teologia. Ma se, per un verso, l'«ipotesi» kantiana tende ad abbozzare una cosmo-
gonia meccanica, imperniata sulle leggi generali del movimento e sui semplicissimi elementi
della materia, capace di estromettere un preciso intervento divino nell'azione mai accidentale
delle forze naturali, per altro verso, Kant crede ancora di poter conciliare questo meccanismo
con la dottrina leibniziana che trova nel concetto di Dio la base metafisica della stessa necessi-
tà naturale. Sul carattere «problematico» di questa conciliazione, al quale non sono estranee
le tendenze metodologiche della scuola newtoniana olandese, e sulla crisi del razionalismo
classico storicamente già in atto ncW'Allgemeine Naturgeschichte, in cui il tentativo di risalire
dall'unità della natura all'unità dell'origine divina sfocia in quello di conchiudere l'autono-
mia scientifica della natura nel quadro di una estensione generalizzata in senso genetico-mec-
canico delle leggi e del metodo newtoniano, mi permetto di rinviare alla mia «Noterella sul-
r"AUgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels"», in Historica, ìx (1958) n. 2-3.

18.
1
Anaxag., B 12 (Diels, n 38, 5 ss.).

19.
1
Anassagora è chiamato da Nietzsche, negli appunti per Wir Philologen: «Weltenbaumei-
ster» (architetto di mondi) (JP.GA., cit., x, 2, p. 224 [195]).
2
Nei suoi appunti del 1872, Nietzsche assegnava alla filosofia di Anassimandro e Empedo-
cle (con Eraclito) il carattere di un «antropomorfismo etico», e a quella di Anassagora (con
Parmenide e Pitagora) quello di un «antropomorfismo logico» («Aus dem Herbst und Winter
1872», in W.GA., cit., x, 2, p. 143 [78]). Un'altra importante distinzione tra questi filosofi
appare in Wissenschaft und Weisheit im kampfe (1875): il mondo di Anassagora — scrive qui
Nietzsche — «irrazionale, e pur tuttavia misurato e bello»; così pure era l'uomo — per lui —;
così egli doveva trovare gli antichi Ateniesi (Eschilo): «La sua filosofia [di Anassagora] ri-
specchia l'immagine dell'antica Atene». Il mondo di Democrito è anch'esso irrazionale, ma
non misurato e bello, «soltanto necessario»; quello di Empedocle, «riformatore panellenico»,
268 LA FILOSOFIA NELL'ETÀ TRAGICA DEI GRECI

ci fa intrawedere l'irrazionalità dei due istinti «amore o odio» (in Werke, cit., ni, pp. 347-
348). La linea Anassimandro-Empedocle-Pitagora costituisce evidentemente per Nietzsche il
filone mistico-magico «contro la mondanizzazione» (cfr, «Piane aus dem Friihjahr 1873»,
W.GA., cit., x, 2, pp. 181-182 [168]) in cui la lotta contro ii mito si risolve nel momento este-
tico e non già in quello scientifico o logico-dialettico, come accade, invece, per l'altro indiriz-
zo rappresentato da Talete, Anassagora, Democrito, Parmenide e infine Socrate. Tuttavia,
negli abbozzi per la prosecuzione delia Philosophie irti tragischen Zeitalter (inizio 1873) Anas-
sagora viene collegato ad Eraclito e contrapposto ai pitagorici, Anassimandro ed Empedocle,
nel segno dell'antagonismo tra «ottimismo artistico» e pessimismo religioso, («profonda dif-
fidenza per la realtà»). Il loro diverso atteggiamento di fronte alta «tragedia» caratterizza, se-
condo Nietzsche, la loro stessa filosofia: per questi ultimi, infatti, si ha, nella tragedia, il ri-
specchiamento dell'infelicità dell'esistenza, per i primi, invece, una costruzione artistica che
riproduce in sé le leggi del cosmo (in W.GA., cit,, x, 2, pp. 99-100 [8]).
In conclusione, per quanto sia evidente ancora una volta il carattere di incompiutezza, dal
punto di vista di una elaborazione storico-sistematica, della Philosophie irti tragischen Zeital-
ter, il cui sviluppo resta allo stato di abbozzo estremamente frammentario e talora contraddit-
torio, potremmo tuttavia affermare che quest'opera segna una maturazione ulteriore rispetto
alla Geburt der Tragódie, per quanto riguarda la maggiore consapevolezza del processo di su-
blimazione estetica in cui attraverso i suoi plastici antagonismi si va atteggiando il «pessimi-
smo greco». Quando nel Versuch einer Selbstkrìtik, quattordici anni dopo la Nascita della
tragedia, Nietzsche misurerà la sua distanza da Schopenhauer, una distanza ancora impalpa-
bile nel capolavoro giovanile, in termini di valutazione di un «pessimismo» che non tende alla
rassegnazione e all'abbandono del mondo, bensì al possesso dionisiaco di esso, appare chiaro
che questa elaborazione di un pessimismo tragico «al di là de! bene e del male», passa attra-
verso la mediazione teoretica della Philosophie im tragischen Zeitalter. Qui, infatti, il «pessi-
mismo del pensiero» costituisce lo sfondo su cui si combatte la prodigiosa «gigantomachia»
dei primi filosofi greci: la loro physis, svincolata com'è, nell'interpretazione di Nietzsche, da
qualsiasi ZweckmàJUgkeit, da qualsivoglia implicazione finalistica e perciò teologico-morale,
costituisce qui la preformazione di un'ottica mondana che non vuole più condannare, bensì
giustificare l'ordine necessario (e gratuito) delle cose. La risoluzione estetica sul piano cosmo-
logico di una contraddizione insanabile tra mito e scienza, cioè tra fantasia teogonica e co-
struzione logico-intellettuale, si propone, agli occhi del giovane Nietzsche, come l'ultima veri-
tà di un'«epoca tragica» scolpita nei tratti oracolari ed arcaici di una «saggezza» quasi disu-
mana.
5
Eudem.,£//)., A 5 1216 a 11 (Dìels, n 13, 17-21). Cfr. anche Diog., n 10 (Diels, », 6, 14-
15).
4
Horat., Odi, in, 1.
5
«Rischia, o ottimo, Pericle di essere stato il più perfetto di tutti nella retorica. — Come
mai? —
— Tutte le grandi arti richiedono indagini astruse e difficili intorno alla Natura: sembra che
di qui nascano le considerazioni delle cose dall'alto e la fiducia di raggiungere il fine. E Peri-
cle aggiunse ciò all'esservi portato di natura: essendosi infatti imbattuto in Anassagora, che
faceva al suo caso, si riempì di scienza della Natura, e giunse in possesso delle cognizioni in-
torno alla natura della mente e della ignoranza, intorno alle quali cose Anassagora teneva
molti discorsi, e in questo modo aggiunse alla scienza dei discorsi ciò che le occorre» (trad. G.
Preti) (Plat., Fedro, 269 E). Cfr. Anaxagor., A 15 (Plut., Perici., 4) e A 16(Plut„ Perici, 6).
6
Anaxagor., A 102 (Aristot., de para, anima!., A 10, 687 a 7).
Cfr. Anaxagor., A 47 (Diels, », 19, 7 ss.).

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