“congela l’eroe” esaltato nella metafisica dell’arte della Nascita della tragedia. Questo contrasta
certamente con la figura consolidata del mito eroico di Nietzsche che ha comunque caratterizzato,
in più modi e direzioni, la fortuna e talvolta perfino il culto del filosofo.
Il tema dell’eroismo appare un termine di confronto continuo e centrale che permette al filosofo di
differenziare la propria posizione dalle molte “morali eroiche” dell’epoca (da Carlyle a Gobineau,
da Wagner a Baudelaire).
La prima parte di questo lavoro percorre il tema dell’eroismo in Nietzsche cogliendone - fino alla
radicale critica - i significativi mutamenti: la filosofia dello spirito libero dissolve, con le
certezze metafisiche, ogni propensione verso una morale eroica che può arrivare all’estremo
ascetico sacrificio di sé. La seconda parte è dedicata alla complessa figura di Socrate, “eroe” della
decadenza, la cui scelta di morte rivela il vero senso della sua filosofia. La terza parte analizza la
lotta di Nietzsche contro le “ombre di Dio” che offuscano l’orizzonte, le diverse figure ed
atteggiamenti che il grande avvenimento della morte di Dio produce. L’“uomo superiore” della
quarta parte di Zarathustra ha in sé i caratteri dell’eroismo: dalla lotta contro il movimento di
Verkleinerung che porta al dominio dell’“ultimo uomo”, alla necessità del proprio tramonto per il
sorgere di una forma di esistenza legata a nuovi valori.
722454
Eroismo - è il sentimento di un uomo che aspira a un fine rispetto al quale egli medesimo non conta
più nulla. Eroismo è la buona volontà del tramonto assoluto di noi stessi.
Deve ancora disimparare la sua volontà eroica [...]. Ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi: ma egli
dovrebbe liberare anche i suoi mostri e i suoi enigmi e trasformarli in figli del cielo.
Friedrich Nietzsche
GIULIANO CAMPIONI allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato nel 1970 in Filosofia
presso l’Università di Pisa con Nicola Badaloni. Ha insegnato all’Università di Lecce e di Pisa dove
attualmente è professore di Storia della filosofia. È direttore del Centro interuniversitario “Colli-
Montinari”. Dal 2001 è coordinatore nazionale di ricerche interuniversitarie. È curatore e
responsabile del completamento e revisione dell’edizione italiana Colli-Montinari delle Opere e
dell'Epistolario di Nietzsche e della nuova edizione dei Frammenti postumi 1869-1889 in 21 voll.
(Adelphi 2004). È tra i curatori del Catalogo della biblioteca del filosofo (de Gruyter 2003). Ha
compiuto studi sulla filosofia e sulle culture tedesche e francesi dell’800 e del ’900, con particolare
riferimento a Nietzsche ed alla sua fortuna. Si è occupato, nell’ambito della storia della filosofia
italiana, della “crisi dell’attualismo” e di alcune figure del movimento positivista. Ha indagato
momenti e figure centrali della riflessione francese sui temi dell’etnocentrismo, del razzismo e
dell’identità nazionale.
Tra le pubblicazioni recenti: la cura delle Lettere da Torino di Friedrich Nietzsche (Adelphi 2008) e
degli Scritti filosofici di Ernest Renan (Bompiani 2008); la monografia Der französische Nietzsche
(de Gruyter 2009).
nietzscheana
10
collana diretta da Giuliano Campioni, Franco Volpi
Sandro Barbera, già condirettore della collana sin dalla sua nascita nel 2004, è improvvisamente
scomparso il 5 febbraio 2009. Segnaliamo uno scritto di Giuliano Campioni in sua memoria su
questa pagina: www.schopenhauersource.org/barbera.html
Giuliano Campioni
Nietzsche
La morale dell’eroe
Edizioni ETS
www.edizioniets.com
Pubblicato con un contributo dai fondi PRIN 2005 cofinanziati dal MIUR e dal Dipartimento di
Filosofia dell’Università di Pisa
© Copyright 2008 EDIZIONI ETS /
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PDE, Via Tevere 54,1-50019 Sesto Fiorentino | Firenze |
alla memoria di Sandro Barbera
Introduzione
«L'opposto di una natura eroica».
come profeta, mostro, spauracchio morale». Nietzsche racconta se stesso attraverso la propria
minuta quotidianità fatta di «piccole cose, secondo il giudizio comune»: lontano ogni sfondo
grandioso, lontana anche la corona di spine che caratterizza l’iconografia della leggenda, lontano
ogni pathos dell’atteggiamento («chi ha bisogno di atteggiamenti è falso... Attenzione agli uomini
pittoreschi!»). Il grande compito presuppone la grande accortezza nelle piccole cose:
«Alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo - sono inconcepibilmente più
importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante» (EH, Perché sono così accorto 10).
Ecce homo è anche l’ostensione di un corpo - che si realizza essenzialmente come corpus di opere -
nell’autosuperamento della malattia e della decadenza in una superiore forma. Non allo splendore
della salute della ‘bionda bestia’ o di ‘cornuti Sigfridi’, cui la stupidità si accompagna come
l’ombra, ma alla ripetuta pratica del dolore e della pazienza di un corpo che ha vissuto a lungo e
ripetutamente negli angoli della malattia, Nietzsche manifesta la sua gratitudine. La malattia ha
liberato il suo spirito, gli ha dato «la capacità psicologica di “vedere dietro l’angolo”», alla malattia
Nietzsche deve la profondità e le nuances: «Le devo la mia filosofia» (NW, Epilogo 1). La
fisiologia è il presupposto della scrittura: l’essere stato «come summa summarum» sano, ha reso
possibile lo Zarathustra che pone un nuovo inizio: la vera prova di forza sta nella distanza da
ogni profetismo e fanatismo delle convinzioni (Zarathustra è ‘diverso’, «qui non parla un “profeta”,
uno di quegli spaventosi ibridi di malattia e volontà di potenza» (EH, Prologo 4).
L‘essere benriuscito’ si caratterizza per l’autodeterminazione nella misura, contro ogni
atteggiamento eroico ed estremo che seduce senza argomentare.
Le chiare affermazioni di Ecce homo esprimono la coerenza di un atteggiamento teorizzato a partire
da Umano, troppo umano dove, accanto al genio e al santo, congela l’eroe. Questo in contrasto
certamente con la figura consolidata del mito ‘eroico’ di Nietzsche che, in molte direzioni e in
diversi momenti, in più
modi e accentuazioni, ha comunque caratterizzato la fortuna e talvolta perfino il culto del filosofo2.
Da tempo il lavoro storico e filologico, legato soprattutto all’edizione Colli-Montinari, sta fornendo
strumenti per una collocazione più precisa e sempre più articolata, una migliore definizione di
categorie filosofiche centrali della riflessione di Nietzsche, del suo stile di pensiero, dei movimenti
interni al suo percorso. Emerge il duplice atteggiamento, che caratterizza l’originalità di Nietzsche,
di assimilazione e di distacco dalle immagini proposte dalla sua epoca.
E tuttavia non mancano ancora approcci ideologici e immediatistici alla sua filosofia, nuove letture
strumentali ed anche la cruda riproposizione, al termine di un percorso che ha bruciato rapidamente
le maschere della ‘liberazione’ e del gioco estetico, della terribile semplificazione che lega come un
destino il Nietzsche eroico al nazismo.
Il tema dell’eroismo appare comunque un termine di confronto continuo e centrale che permette al
filosofo di differenziare la propria posizione dalle molte ‘morali eroiche’ dell’epoca (da Carlyle a
Gobineau, da Wagner a Baudelaire).
La prima parte di questo lavoro percorre il tema dell’eroismo in Nietzsche cogliendone - fino alla
radicale critica - i significativi mutamenti: la filosofia dello spirito libero dissolve, con le certezze
metafisiche, ogni propensione verso una morale eroica che può arrivare all’estremo ascetico
sacrificio di sé. La
seconda parte è dedicata alla complessa figura di Socrate, ‘eroe’ della decadenza, la cui scelta di
morte rivela il vero senso della sua filosofia. La terza parte analizza la lotta di Nietzsche contro le
‘ombre di Dio’ che offuscano l’orizzonte, le diverse figure ed atteggiamenti che il grande
avvenimento della morte di Dio produce. L’‘uomo superiore’ della quarta parte di Zarathustra, ha
in sé i caratteri dell’eroismo: dalla lotta contro il movimento di Verkleinerung che porta al dominio
dell'ultimo uomo’, alla necessità del proprio tramonto per il sorgere di una forma di esistenza legata
a nuovi valori.
1 FP 25[6] dicembre 1888-gennaio 1889. Le lezioni, affollate di uditori, sul ‘radicalismo
aristocratico’ di Nietzsche, tenute a Copenhagen nell’aprile-maggio 1888 da Georg Brandes, il
critico danese cosmopolita, rappresentano il primo contatto del filosofo con un pubblico più vasto,
al di là della cerchia ristretta in cui finora era stato valorizzato. Nietzsche comunque coglieva i
segni di pericolosi fraintendimenti e ‘mitizzazioni’ già nella devozione acritica di alcuni seguaci in
cerca di nuove fedi, nella lettura germanica, idealistica, ‘eroica’, addirittura ‘antisemita’, e in quella
biologico-darwiniana, del superuomo. «La parola “superuomo” [...] è stata intesa, quasi ovunque,
con totale innocenza, nel senso proprio di quegli stessi valori il cui opposto si è manifestato nella
figura di Zarathustra» (EH, Perché scrivo libri così buoni 1 ). Si veda anche la lettera a Franz
Overbeck del 24 marzo 1887: «C’è un fatto curioso di cui divento ogni giorno più cosciente. Ho un
“influsso”, molto sotterraneo, ben inteso. In tutti i partiti radicali (socialisti, nichilisti, antisemiti,
cristiani ortodossi, wagneriani) godo di una straordinaria, quasi misteriosa, considerazione.
L’estrema purezza dell’atmosfera, in cui mi sono posto, seduce». «Zarathustra, l’“uomo divino”, è
piaciuto agli antisemiti; ne esiste un’interpretazione specificamente antisemita, che mi ha fatto
ridere molto».
2 Sulla forte presenza del tema dell’eroismo nella fortuna e nel culto di Nietzsche rimando agli studi
di Sandro Barbera, basati su una attenta esplorazione di archivi (tra cui il Goethe-Schiller-Archiv di
Weimar), che hanno portato alla luce e valorizzato con esiti innovativi e sorprendenti epistolari
inediti, diari, appunti. Barbera ha seguito le varie metamorfosi del tema a partire dai «volumi della
biografia in cui Elisabeth fissava le linee canoniche per il culto del fratello, descritto come un genio
che assomma in sé anche i tratti della santità e dell’eroismo» fino all’interpretazione agonale e
guerriera di Baeumler degli anni Trenta, riveduta radicalmente nel dopoguerra. Cfr. in particolare:
L’Archivio Nietzsche tra nazionalismo e cosmopolitismo (in «Giornale critico della filosofia
italiana», 2003, voi. LXXXIII, pp. 21-41) e “Er wollte zm Europa, wir wollten zum Reich“.
Anmerkungen zu den Nietzsche-Interpretationen von Alfred Baeumler in S. Barbera, R. Müller-
Buck ed., Nietzsche nach dem ersten Weltkrieg, ETS, Pisa 2006, pp. 199-234.
Avvertenza
Per gli scritti di Nietzsche, quando non diversamente indicato, il riferimento si intende sempre
all’edizione: Friedrich Nietzsche, Werke, Kritische Gesamtausgabe, herausgegeben von G. Colli
und M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1967 sgg. [KGW], La traduzione italiana utilizzata (quando
disponibile) è quella dell’edizione italiana Colli-Montinari delle Opere di Friedrich Nietzsche,
Adelphi, Milano 1964 sgg. [Opere] attualmente da me curata per il completamento e la revisione.
Per i frammenti postumi degli anni 1869-1874 il riferimento è ai voll. 1-4 di Frammenti postumi,
della nuova edizione da me curata (con la collaborazione di Maria Cristina Fornari), PBA, Adelphi,
Milano 2004 sgg. Salvo diversa indicazione, la numerazione dei frammenti e dei voli, delle Opere
corrisponde a quella dell’edizione tedesca. Per le lettere di Nietzsche e dei suoi corrispondenti il
riferimento s’intende sempre all’edizione: Friedrich Nietzsche, Briefwechsel, Kritische
Gesamtausgabe, herausgegeben von G. Colli und M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1975 sgg.
[KGB]. La traduzione italiana utilizzata (quando disponibile) è quella dell’edizione italiana Colli-
Montinari dell 'Epistolario di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1976 sgg., attualmente da me
curata per il completamento e la revisione [Epistolario]. I riferimenti sono dati utilizzando: per gli
scritti di Nietzsche, le sigle dell’edizione critica seguite dal numero dell’aforisma o del frammento e
identificando le lettere dalla data e dal nome dei corrispondenti.
Il primo capitolo è stato pubblicato nel volume La filosofia e le sue storie (a cura di M.C. Fornari e
F. A. Sulpizio, Milella, Lecce
12
1998, pp. 87-133) con il titolo “Leggere Nietzsche. Dall’agonismo inattuale alla critica della
‘morale eroica’”. Il secondo capitolo, nel volume Socrate in Occidente (a cura di E. Lojacono, Le
Monnier, Firenze 2004, pp. 220-257) con il titolo “Il Socrate ‘monstrum’ di Friedrich Nietzsche”. Il
testo dei due saggi è stato arricchito, rivisto e aggiornato nei riferimenti. Il terzo capitolo è inedito. I
temi di questo capitolo sono stati presentati nei convegni internazionali di Villa Vigoni
(«L’annuncio della “morte di Dio” e la scienza come problema. Aspetti dell’attualità di Nietzsche»,
10-13 settembre 2007); di Xalapa, Veracruz, Mexico («Nietzsche ha muerto?», 1-5 ottobre 2007) e
di Malaga («Nietzsche y la cultura contemporanea», I Congreso Internacional de la Sociedad
espanda de Estudios sobre Nietzsche, 3-5 aprile 2008). In Appendice è tradotto il testo giovanile di
Nietzsche Ueber das Verhältniß der Rede des Alcibiades zu den übrigen Reden des platonischen
Symposions non compreso nel primo volume delle Opere e analizzato nella seconda parte di questo
volume. Ringrazio Maria Cristina Fornari, che da tempo collabora in maniera preziosa alle edizioni
da me curate, per avermi messo a disposizione il testo di Nietzsche da lei tradotto.
Sigle
GA = Nietzsche’s Werke («Großoktav-Ausgabe»), C.G. Naumann (poi Kröner), Leipzig, 1894-1926
(edizione delle opere di Nietzsche in 20 voli., di cui uno dedicato agli indici, pubblicata per
iniziativa di Elisabeth Förster-Nietzsche)
KGB = Nietzsche. Briefwechsel, kritische Gesamtausgabe, a cura di Giorgio Colli e Mazzino
Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1975 sgg.
KGW = Nietzsche. Werke, kritische Gesamtausgabe, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari,
Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1967 sgg.
KSA = Friedrich Nietzsche, Kritische Studienausgabe in 15 Einzelbänden, hrsg. von Giorgio Colli
und Mazzino Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1980,1988 2. Auflage.
Opere = Opere complete di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e
Mazzino Montinari, testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano, 1964 sgg.
Epistolario = Epistolario di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e
Mazzino Montinari, testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano, 1977 sgg.
BN = Libri della biblioteca di Nietzsche (Nietzsches persönliche Bibliothek, hrsg. von G.
Campioni, P. D’Iorio, M, C. Fornari, F. Fronterotta, A. Orsucci, de Gruyter, Berlin-New York,
2002).
NA = Nachgelassene Aufzeichnungen
NF =Nachgelassene Fragmente
FP =Frammenti postumi
AC = L'Anticristo
BA = Sull’avvenire delle nostre scuole
AC = L'Anticristo
CV =Cinque prefazioni per cinque libri non scritti
DS =David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore
EH = Ecce homo
FW =La gaia scienza
GD = Il crepuscolo degli idoli
GM =Genealogia della morale
GT =La nascita della tragedia
HL = Sull’utilità e il danno della storia per la vita
JGB =Al di là del bene e del male
M = Aurora
MA = Umano, troppo umano
NW = Nietzsche contra Wagner
SE = Schopenhauer come educatore
UB =Considerazioni inattuali
VM =Opinioni e sentenze diverse
WA =Il caso Wagner
WB = Richard Wagner a Bayreuth
WS = Il viandante e la sua ombra
ZA = Così parlò Zarathustra
«folle impeto» del nuovo finale), il recuperato vigore complessivo, non redimono però la sua
composizione da «acerbità ed eccessi». L’influenza decisiva e negativa di Liszt è confessata: «I miei
personaggi non son certo dei Goti, dei Tedeschi, bensì -non mi perito di affermarlo - figure
ungheresi; [...] ardenti anime magiare»8. Soprattutto colpisce la piena consapevolezza autocritica
del giovane che sembra anticipare - nella dichiarata impossibilità di una poesia ‘ingenua’ - alcune
mosse della sua critica matura ai pretesi eroi germanici di Wagner: «Mancano ai personaggi i
primitivi, possenti tratti germanici; i sentimenti sono più scavati e moderni, troppa riflessione e
troppo poco vigore naturale»9. Né la via della tragedia né quella della musica sembrano soddisfare
il giovane che invece decanta definitivamente tutto il materiale della leggenda di Ermanarico prima
in uno studio storico ‘molto secco’ (luglio 1861), poi in un lavoro di carattere filologico dell’ottobre
del 1863 (La formazione della saga del re ostrogoto Ermanarico fino al XII secolo) sui cui risultati
esprime una ‘quasi’ soddisfazione.
Questo è il primo lavoro filologico di Nietzsche, che precede il componimento di congedo da
Pforta, in latino, sul poeta Teognide di Megara a cui è stata dedicata, da parte della
letteratura critica, maggiore attenzione. Frutto della rigorosa lezione dei valenti suoi maestri a
Pforta («Steinhart, Keil, Corssen, Peter, uomini dallo sguardo aperto e dai freschi slanci»), è anche
un significativo esempio di quella continua volontà del giovane di trovare nel rigore della scienza
un «contrappeso alle inquiete e mutevoli inclinazioni». Entrambi i saggi intendono recuperare il
nucleo originario, storico, della figura ‘germanica’ di Ermanarico - a partire dalle cronache,
Jordanes, Saxo Grammaticus -liberando e spiegando le molte incrostazioni e contaminazioni del
mito nordico (lo Jormurenck dell’Edda) di cui Nietzsche subisce comunque pienamente il fascino
terribile e sublime ‘che schiaccia l’uditore’.
È un fatto ben noto che la saga nordica traspone in chiave terribile, misteriosa, sublime quanto in
quella germanica si trova ancora nell’ambito della chiarezza storica e dell’umanità [...]. La natura
solitaria e selvaggia del Nord dà l’impronta anche ai suoi canti; sono canzoni che si levano fino al
cielo come rupi, dotate di una titanica forza primigenia, gigantesche nella forma. Tutta la
rappresentazione è quanto mai concisa; ogni parola, possente e greve di significato, è
scagliata come una folgore nell’azione10.
Il saggio filologico percorre analiticamente, in tutte le ramificazioni e varianti, i momenti e le
scansioni della tradizione che trasfigurano negativamente la figura storica di Ermanarico
(originariamente paragonato per le sue grandi imprese ad Alessandro) in una leggenda deformata
dall’odio verso i conquistatori e che presta a Ermanarico i tratti dello stesso Attila (già ne II canto
dell’errante Ermanarico è ‘furioso’, ‘traditore’ e il manoscritto d’Exeter lo paragona al lupo).
Secondo Nietzsche Ermanarico è inizialmente estraneo alla tradizione nordica nibelungica e solo il
nome comune di Gudrun (la maga), mette in relazione due cicli di leggende. Mentre le leggende
nordiche si interessano solo alla cupa fine (non al precedente potere e alle vicende del vasto regno),
per la tradizione germanica Ermanarico è al centro di un ciclo di leggende che si interessano alle
sorti del re prima della catastrofe. Il valore e poi la crudeltà dell’eroe appartengono allo sviluppo del
suo carattere. Comunque - afferma Nietzsche - «per la saga popolare, fintanto che essa si mantiene
nella sua purezza originaria, le forti passioni sono forse oggetto di orrore, ma non di biasimo»11.
Il filosofo crede di poter recuperare, soprattutto in Jordanes, i tratti originali della figura storica
dell’eroe ostrogoto a cui si attacca la leggenda. La catastrofe finale, la morte e forse il suicidio
all’awicinarsi degli Unni di Attila, presuppongono un re ormai vecchio, piegato dalla malattia
dovuta a una ferita al fian-
co: una natura «fisicamente abbattuta e annientata, per poter trovare più comprensibile il
suicidio»12. Nietzsche vede bene anche l’articolazione dei caratteri eroici nel mondo della
saga nibelungica, non omologabili in un unico paradigma. Nella Völsungasaga e nel Canto di
Hamdir, dei tre figli di Gudrun che devono vendicare su Jörmurenk (Ermanarico) la morte
della sorella Swanhilde, Hamdir «dal sublime coraggio» ha il tipico carattere da eroe (ein
Heldencharakter) «animo acceso e battagliero, molto orgoglioso, alieno dal riconciliarsi e dominato
da cieco egoismo»13. Accanto a lui Sörli «dallo spirito saggio» e nobile riconosce la forza del
destino: «Alta fama conquistammo; oggi o domani moriremo. Nessuno vedrà la sera contro
la sentenza delle Nome»14. Erp, chiamato, per disprezzo, ‘bastardo’ e ‘nano bruno’ dai fratelli che
lo uccideranno, viene assassinato - ipotizza Nietzsche respingendo le motivazioni avanzate da
Simrock - per invidia della sua ‘superiorità intellettuale’ e del suo coraggio, riunendo in sé i
caratteri degli altri due.
2. Titanismo e crepuscolo degli dèi
Nietzsche subisce il fascino sublime di questi eroi violenti e determinati nel destino di morte, figure
sovrumane che agiscono sullo sfondo cupo dell’annunciata morte degli dèi. Questa fine, che si
accompagna a rivoluzioni e catastrofi cosmiche, è descritta con crudo naturalismo dal canzoniere
eddico e dall’Edda di Sturluson Snorri. Già nella composizione poetica La morte di Ermanarico, i
neri corvi nelle «nebbie sanguigne» annunciano «il rogo del mondo, il fosco e splendido
crepuscolo degli dèi»15. Nel suo primo saggio storico, Nietzsche afferma:
Quel crepuscolo degli dèi, in cui il sole si oscura, la terra sprofonda
nel mare, vortici di fuoco avvolgono l’albero nutritore del mondo e la vampa lambisce il cielo, è la
più grandiosa invenzione mai escogitata dal genio di un uomo, insuperata nella letteratura di ogni
tempo, infinitamente ardita e terrificante, eppure risolta in incantevoli armonie16.
Nietzsche cita, a riprova, i versi dalla Vôlospà (Profezia della Veggente) in cui la descrizione del
nuovo inizio di una età dell’oro, dopo le cupe vicende dell’annientamento del mondo, è affidata alla
lieve immagine del ritrovamento tra l’erba delle pedine d’oro con cui giocavano un tempo gli dèi: il
ciclo della vita ricomincia.
L’uso del termine Götterdämmerung17 e il forte interesse di Nietzsche per la mitologia eroica
germanica si devono anche alle prime appassionate informazioni su Wagner che l’amico Krug gli
veniva fornendo. Con lui e con Pinder Nietzsche aveva fondato, nell’estate del 1860, l’associazione
culturale Germania, «per stimolare, e al tempo stesso tenere a freno» i giovanili impulsi culturali.
Krug vi aveva tenuto più conferenze su Wagner: sul Tristano e Isotta (marzo 1861), sulla Faust-
ouverture (febbraio 1862) e infine su L’oro del Reno (marzo 1862) (NA 13[28] April-September
1862).
Il tema dell’eroismo si connette, fin dall’inizio, con quello della morte di Dio, col crepuscolo degli
dèi. In questa direzione va anche l’iniziale interesse per la figura di Prometeo. Già in una lettera di
fine aprile-primi di maggio 1859 diretta all’amico Pinder, in un piano comune di lavoro sulla figura
di Prometeo, Nietzsche è affascinato soprattutto dal tema della
fine di Zeus (in rapporto alle saghe tedesche) [...]. Vi si trova la fine di Zeus, conosciuta in
precedenza da Prometeo, il solo in grado di evitarla, in rapporto con il tramonto delle divinità
tedesche, che vengono annientate dalle forze della natura (le quali, presso i Greci, sono appunto i
Titani).
Il cammino dello ‘spirito libero’ troverà nelle grette reazioni dell’ambiente domestico un motivo
continuo di sofferenza fino ad affermare in Ecce homo la ‘disharmonia praestabilita’ con la sorella
e la madre (perfette macchine infernali capaci di ferirlo nei ‘momenti supremi’) e a vedere nella
loro esistenza «la più profonda obiezione contro “l’eterno ritorno”» (EH, Perché sono così saggio
3). La Bibbia conservata a Weimar nella biblioteca postuma di Nietzsche, con i molti segni di
lettura del padre, porta annotato, accanto al nome del pastore Ludwig, con la data di acquisto del
volume (1820), il nome del figlio Friedrich con la data 1858, l’anno in cui il giovane lascia la
famiglia per andare a studiare a Pforta ed eredita, come viatico per una ideale continuità, il volume
paterno18. E' questo il simbolo visibile di una lunga catena familiare, difficile da spezzare, fatta di
generazioni di pastori, di una severa e ristretta fede luterana che si esprime nelle angustie della
‘virtù di Naumburg’. Nelle lettere degli anni Ottanta, in un periodo di profonda crisi, si legge tutto il
peso del vissuto quotidiano: «Consideri che vengo da un ambiente che ritiene riprovevole e abietta
tutta la mia maturazione; ed è stato soltanto in conseguenza di questo che mia madre l’anno
scorso ebbe a definirmi una “vergogna per la famiglia” e “un disonore per la tomba di mio padre”»
(lettera a Malwida von Meysenbug del 20 aprile 1883). La liberazione non poteva assumere, dato
il temperamento del giovane ed il peso dei vincoli, che il carattere ‘eroico’ di una ribellione
radicale, che necessitava di ima forza ‘sovrumana’ per arrivare all’affermazione della morte di Dio.
Tali impulsi verso la libertà dalla tradizione e dalla fede sono nutriti delle letture sotterranee degli
anni di Pforta dedicate alle figure prometeiche e addirittura sataniche: dal Manfred di Byron ai
Masnadieri di Schiller. A tale proposito Nietzsche scrive già nell’estate del 1859: «Ho letto ancora
una volta I Masnadieri [...]. I personaggi mi appaiono quasi sovrumani, sembra di assistere a una
lotta di titani contro la religione e la virtù»19.
Nietzsche si sofferma a caratterizzare la caduta dell’eroe in Schiller, in un confronto interno tra una
poesia giovanile del poeta e un passo del dramma, con l’immagine dello splendore del sole al
tramonto. La metafora, presente anche in Byron ed Hölderlin, tornerà più volte in Nietzsche,
soprattutto nello Zarathustra. Karl Moor vuol ripetere nel suo eroismo estremo la virtù dei grandi
uomini di Plutarco e assume lo spirito ribelle del Satana di Milton contro la mediocrità dell’epoca,
contro la legge e la morale comune: «La scintilla del fuoco di Prometeo si è spenta sostituita dalla
fiamma dello zolfo, un’innocua fiamma da teatro [...]. La legalità non ha mai generato
un grand’uomo, mentre la libertà produce colossi ed eventi memorabili»20. Il filosofo stesso si
esercita in brevi scritti, in un gioco stilistico improntato a un satanismo romantico, di
maniera, spinto subito al grottesco. In tal modo si esprime e si esorcizza ad un tempo
l’irrequietudine giovanile: è il caso dell’abbozzo della ‘ripugnante’ novella Euforione, che fin dal
titolo rimanda alla figura di Byron (questo il nome del poeta inglese nel Faust di Goethe), e di altri
componimenti rimasti o di cui si ha notizia da brevi appunti («“Satana ascende dall’inferno”
insoddisfazione: difficoltà a cogliere il satanico e a rappresentarlo»21). E' nota la passione giovanile
di Nietzsche per il poeta inglese visto come espressione di una uhris titanica, prometeica, che rompe
ogni limite sfidando il cielo. I suoi eroi - in particolare Manfred - non scendono a patti con nessuna
forza superiore fidando solo sull’energia della propria volontà. Per ben tre volte a proposito di
Manfred il giovane Nietzsche (dicembre 1861) adopera il termine Übermensch22, - usato più volte
dallo stesso poeta inglese - per definire il personaggio, il carattere della sua disperazione e per
connotare l’opera di Byron. La crisi profonda della fede e la sfida nei confronti della tradizione,
avevano
trovato, nello stesso periodo, altri strumenti di liberazione: dalla critica filologica ai Vangeli della
scuola liberale, alla filosofia di Feuerbach e di Emerson. Infatti, con gli appunti e i saggi della
primavera del 1862, il filosofo approda all’affermazione di una piena immanenza, che vede nella
fede cristiana, contro la forza degli antichi che credevano nel fato, una scelta di debolezza, «una
incapacità a plasmare da sé, con decisione, il proprio destino». Citando da L’essenza del
cristianesimo di Feuerbach, Nietzsche pone il cammino del recupero dall’alienazione («Dio è
diventato uomo»), come espressione di un nuovo eroismo: «L’umanità acquista la sua virilità
attraverso gravi perplessità e ardue battaglie; essa riconosce in sé “l’inizio, il centro e la fine della
religione”»23.
Nell’aprile del 1859 Nietzsche scrive un breve dramma in un atto dedicato a Prometeo, i cui
riferimenti sono la Teogonia di Esiodo (w. 521-564) e l’inno Prometeo di Goethe del 1773: il primo
per l’inganno a Zeus, durante il sacrificio, il secondo per le caratteristiche del titano solitario che
sfida gli dèi coprendoli di disprezzo e rifiutando di condividere con loro il cielo. Prometeo vuol
governare sugli uomini da lui creati: la creazione degli uomini a propria immagine, da parte del
Prometeo goethiano, è il tratto più rivoluzionario/superomistico dell’inno. Il riferimento va però
anche alla composizione poetica Das Göttliche in cui Goethe afferma il valore normativo degli
immortali che possono essere ‘in grande’ ciò che l’uomo è ‘in piccolo’ e postula una sorta di
conciliazione e necessaria collaborazione tra il mondo umano e il divino. Sullo sfondo l’ostile
insensatezza della natura che non distingue buoni e cattivi e che tutti imprigiona in un ciclo eterno.
Il Prometeo di Nietzsche rifiuta l’alleanza ‘di terrore’, proposta dal padre Japeto («Voglio essere
libero e sovrano di questi uomini cui ho dato l’esistenza
[...] non tollero alcun padrone»24). Dopo l’inganno del sacrificio, di cui gli dèi onniscienti subito si
accorgono e per cui puniscono il titano, il coro degli uomini risolve ingenuamente - e la soluzione
estetica non è certo felice - la tensione accogliendo la conciliazione dell’inno goethiano. L’impulso
edificante permette la collaborazione degli uomini con gli dèi che fungono loro -soltanto - da norma
e da specchio: «Ma guai a coloro / che adorano dèi / anch’essi non liberi / da colpe e da vizi»25. Il
tentativo poetico, ancora una volta, è seguito da una riflessione autocritica, un dialogo
umoristico/satirico che si richiama ad un registro stilistico del tutto diverso: il modello esplicito è
Jean Paul. Si mette in scena l’incomprensione e il contrasto tra il poeta e vari rappresentanti del
pubblico: un capitano, uno studente, un professore, un consigliere, una vecchia signora. Il pubblico
che affonda, in modo diverso, nella stupidità - la grossolanità, l’ignoranza, la pedanteria etc. - rende
impossibile un ritorno nel mondo contemporaneo al linguaggio della classicità: il dialogo satirico di
Nietzsche sembra annullare nell’autocritica ogni possibilità di tentativo epico.
3.La filologia e la ‘seconda natura’
Questi diversi registri di scrittura appartengono alla lenta e metodica invenzione di uno stile che è
costruzione di sé. Nietzsche ha insistito più volte, fin dagli appunti autobiografici del 1867-68, su
una ‘seconda natura’ estorta con forza alle ‘libere’ inclinazioni considerate un pericolo. Lasciata alle
spalle la metafisica romantica e l’esperienza wagneriana, ai vecchi amici che vedono nello ‘spirito
libero’ una ‘decisione stravagante’ che lo estranea da se stesso, Nietzsche ribadisce: «Soltanto
grazie a questa seconda natura ho preso possesso della mia prima natura» e, in modo più radicale, in
una lettera a Rohde: «Ho una
“seconda natura”, però non per distruggere la prima, bensì per reggere a questa. La mia “prima
natura” mi avrebbe distrutto già da un pezzo - anzi mi aveva già quasi distrutto» (a Hans
von Bülow, primi di dicembre 1882 e a Rohde, stesso periodo)26.
Anche per la poesia il tentativo, sempre consapevole e fortemente autocritico, dell’‘operoso
fabbricatore di rime’, che arrivava ad imporsi, per un certo periodo, di scrivere una poesia al giorno,
è quello di «mostrare non già come si nasce poeti, bensì come lo si diventa»27. Una continua e
insoddisfatta analisi («Scrivevo orribili poesie, ma col più grande ardore»28) che segue evoluzioni e
decise svolte, e la richiesta principale ai propri versi: «Mancava pur sempre la cosa principale, i
concetti», «Una poesia priva di concetti ma ammantata di frasi ed immagini assomiglia ad una mela
rossa di fuori, che all’interno ha il verme», «Una trascuratezza nello stile si perdona più facilmente
di un’idea confusa». Così pensa il giovane di quattordici anni che ancora vuole sentire, nelle sue
vicende, la guida sicura di Dio, che sente la musica come «splendido dono di Dio» capace di
elevare e guidare verso il Bene e la Verità ed esprime tutta la sua diffidenza verso la stravaganza e
confusione della «cosiddetta “musica del futuro”»29. Nietzsche esplicita fin dagli anni giovanili il
suo fondo ‘tellurico’, la sua natura impulsiva, passionale, ricca e debordante in più direzioni. Ben
presto coglie come il libero abbandono agli impulsi possa essere dissolvente e come sia necessaria
una consapevole rinuncia ed una limitazione del campo di attività. Questa sensibilità si esprime
spesso nella assidua funzione pedagogica (talvolta rude) verso gli amici e ancor più verso se stesso.
La prima lettura di Schopenhauer (nel 1865) significa la decisione di vivere, fino in fondo, la
filosofia di quel «genio cupo ed energico». Ciò provoca nel filosofo una vera «rivoluzione
spirituale», ma anche «una violenta agitazione nervosa» e il pericolo
di follia: il rimedio è visto nell’ordine, nell’«obbligo degli studi regolari». Significativa la
riflessione sull’amico Romundt - «in lui erano disperatamente mescolati i tratti di studioso, poeta e
filosofo»30 - che diventa specchio negativo dei pericoli in cui può incorrere la pluralità di
aspirazioni e di doti che non abbiano alcuna definizione di traguardi: l’impotenza e la «perpetua
insoddisfazione». Gli scritti autobiografici insistono sui pericoli della dispersione che può diventare
disgregazione: il «vagabondare senza meta in tutti i campi dello scibile» («Giungevo perfino
a disegnare e a dipingere»31, «Mi ero talmente immedesimato nell’idea di acquistare scienza e
capacità universali, che correvo il rischio di diventare un vero stravagante e visionario»32). A questi
pericoli un Nietzsche, ‘passionalmente severo’, contrappone la serietà dello specialismo, la volontà
connaturata di «risalire fino alle radici più remote e profonde dei singoli argomenti»33.
La scelta per la filologia non è, nell'autoriflessione del filosofo, espressione di un ‘istinto’ o
vocazione, ma nasce dalla «educazione, riflessione, forse addirittura dalla rassegnazione». «Quando
mi volgo a considerare», si legge in un appunto autobiografico dell’inizio del 1869, «come sono
passato dall’arte alla filosofia, dalla filosofia alla scienza, e in quest’ambito a interessi sempre più
ristretti: la cosa ha quasi l’aria di una consapevole rinuncia»34. Era anche, in un comune sentire
schopenhaueriano, la consapevole scelta dell’amico della giovinezza, il filologo Erwin Rohde,
esplicitata in una lettera a Nietzsche del 4 novembre 1868. Per chi non ha la libertà del genio si
pone la necessità di «conquistare un terreno solido, un campo che possa essere coltivato con risorse
minori; giacché, a noi piccoli uomini, l’agio necessario per l’esistenza non può darcelo se non un
lavorio coscienzioso, in una sfera liberamente scelta del fili-
steismo». Sempre più, per Rohde, la inesorabile chiusura nell’orizzonte domestico e nel lavoro
filologico, trova come compenso e trasfigurazione ideale la musica eroica di Wagner: «Bayreuth,
l’unico posto al mondo dove posso dimenticare me stesso, i miei dolori e insieme la filologia [...] e
naufragare in un mare di piacere» (a Friedrich Nietzsche, 2 luglio 1876).
Ad una natura ‘tellurica’ come quella di Nietzsche, solo per poco tempo poteva dare rassicuranti
confini la limitazione liberamente scelta fatta di ininterrotta lettura, di rigore e completezza
dell’informazione bibliografica con la sensazione di «essere murato tra i libri» (a Carl von
Gersdorff, 7 aprile 1866). («Il dotto in fondo non fa che “compulsare” libri - circa duecento al
giorno per il filologo medio»; EH, Perché sono così accorto 8). Questo non ha nulla a che fare con
l’immagine caricaturale - è stato fatto anche questo - di un Nietzsche alieno ed ostile ad ogni lettura
e che, carico di ispirazione e geloso della sua geniale indipendenza di pensiero, scrive, mentre
passeggia, folgoranti aforismi e massime da restituire, magari in opportuni breviari, per opportune
citazioni alla ‘bello superiore’.
Nietzsche, comunque, porta entro la cornice della scienza più accademica e rigorosa della Germania
dell’epoca le forti tensioni e gli impulsi che avevano caratterizzato il suo percorso giovanile. Egli
cerca, volta a volta, nuovi punti di equilibrio e di convivenza tra metafisica dell’arte e filologia, fino
alla definitiva conquista di una ‘propria’ filosofia. Solo lo spirito diventato libero può sciogliere
definitivamente il rapporto di subordinazione del filologo/educatore nei confronti del ‘genio’, e
continuare a valorizzare «l’arte di leggere bene» propria della filologia. L’atteggiamento filologico
rimarrà sempre lo strumento necessario di pulizia e di probità intellettuale contro ogni tentativo di
‘corruzione’ del testo attraverso il suo ‘approfondimento’ con interpretazioni morali e teologiche: è
il caso delle letture pneumatiche della natura o della lettura in termini di colpa e castigo di
sofferenze fìsiche35.
Nell’ultimo periodo Nietzsche propone la solidarietà di intenti critici tra filologia, fisiologia,
genealogia, contro le interpretazioni predeterminate, fisse, pre-giudiziali che rifiutano il lavoro
paziente. Si tratta di leggere le intenzioni e le forze che attraversano il testo, che lo costituiscono:
leggere bene, lentamente, con «la cautela, la pazienza, la finezza. Filologia come ephexis
nell’interpretazione: si tratti di libri, di curiosità giornalistiche, di destini o di fatti metereologici -
per non parlare della “salvezza dell’anima”» - scrive Nietzsche ne L'anticristo (52). Una ‘volontà di
sapere’, di andare fino in fondo, mettendosi di fronte alle varie manifestazioni della complessità del
reale, leggendone i segni e sciogliendone i geroglifici senza prevaricarne il senso con distorsioni
pregiudiziali, fissate e rigide. Questo atteggiamento contribuisce a svelare l’apparato di
falsificazione che sorregge la mistificazione del ‘genio’ metafisico, l’illusione dell’immediatezza.
Ma il professore di filologia a Basilea non usa ancora questa carica liberatrice contro l’ideale
metafisico: permane una sorta di solidarietà spontanea tra la subordinazione del filologo e l’impero
del genio, quasi che il mestiere quotidiano, ‘macchinale’, abbia bisogno della trasfigurazione
oppiacea dell’ideale e della musica di Wagner.
La pubblicazione, attualmente in corso nell’edizione critica, dei materiali filologici (in particolare
gli appunti dei vari corsi di lezione a Basilea) ha facilitato una più accorta e autonoma valutazione
del lavoro filologico di Nietzsche all’interno della storia degli studi classici e ha permesso di
conoscere il complesso rapporto di interazione e conflittualità tra un mestiere, praticato con
crescente sicurezza, e il sorgere della identità filosofica36. Certamente l’interesse filosofico non
significa per
Nietzsche allontanamento o ostilità nei confronti della filologia, piuttosto la volontà di
sovrintendere ad una pratica inattuale della disciplina. Nuovi problemi sul senso del mestiere
specialistico, sui pericoli del filisteismo legati alla professione (i filistei come «gli individui
continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà che non è tale»37), sui compiti
più generali per la rinascita culturale della Germania, si intrecciano alla filosofia del ‘musagete’
Schopenhauer, «il filosofo di una ridestata classicità, di una grecità germanica»38. Il culto del
genio - già presente nei tratti aristocratici delle riflessioni di Lipsia -si sviluppa soprattutto dopo
l’incontro con Wagner: «Nessun altro mi fa manifesta l’immagine di dò che Schopenhauer chiama
“il genio”»; «E' il mio corso pratico di filosofia schopenhaueriana» - scrive Nietzsche, con
entusiasmo, agli amici39.
All’interno dei suoi studi sulle tradizioni della storia letteraria, nei primi anni di Lipsia, il filosofo
intraprende una radicale critica dei metodi, delle angustie, delle finalità degli studi filologici della
sua epoca incapaci di cogliere lo spirito dell’antichità. La prospettiva muove da Schopenhauer ed
assume anche i caratteri di critica, a favore della visione artistica, contro la sopravvalutazione della
storia e contro i ‘costruttori’ di storia che usano le categorie interpretative di ‘progresso’,
‘necessità’, ‘sviluppo’. La storia è essenzialmente storia dei confusi bisogni e impulsi della massa,
«la singola personalità conta solo in quanto ha agito sulla massa», il successo è legato alla capacità
di soddisfare bisogni. «I bisogni il cui soddisfacimento è più vistoso e si esprime in guerre,
letterature, etc. non per questo sono i più importanti. Un pezzo di pane è sempre più importante
di un libro»40. È evidente in queste riflessioni l’influenza della caratterizzazione che Schopenhauer
fa del ‘talento’ come di colui
che è capace di rispondere ai bisogni dell’epoca, al servizio comunque della volontà e diverso, per
sua natura, dal genio
di solito in contraddizione e in lotta contro il suo tempo [...]. Gli uomini, che hanno solo talento,
arrivano sempre al momento giusto: infatti, poiché sono stimolati dallo spirito del proprio tempo e
provocati dal bisogno del presente, sono anche in grado di soddisfare questo preciso bisogno41.
Per Schopenhauer solo al genio e al «vero eroe» (tra loro avvicinati per l’isolamento e la lotta
contro le tendenze dell’epoca) si addice il predicato di ‘grande’: «Andando contro la natura umana,
non hanno cercato il proprio interesse, né hanno vissuto per sé, bensì per tutti»42. Solo i grandi
possono percepire il grande e solo il grande filosofo capace di una visione universale dà impulsi al
lavoro subalterno e riproduttivo del filologo. Il confronto tra il genio filosofico (‘datore di lavoro’) e
il filologo (‘operaio di fabbrica’) - la metafora è direttamente derivata dai Parerga di Schopenhauer
- torna più volte nelle riflessioni del giovane Nietzsche. «Anche i nostri massimi talenti
filologici sono solo relativamente datori di lavoro»; da un punto di vista più alto non sono essi stessi
che «operai al servizio di qualche grande semidio della filosofia»43.
La filologia - si legge nella prolusione di Basilea - è un nome che copre attività scientifiche tra loro
diverse e che ha un carattere composito: «È un po’ storia, un po’ scienza naturale, un po’ estetica»44.
Il tentativo è quello di trovare, in quella ‘pozione magica’, miscuglio di materiali e impulsi più
eterogenei, una via di uscita dai muri dalla prigione storicistica che pone anche
il migliore filologo in un rapporto esclusivo «con i pensieri fissati per scritto»45. Sotto l’influenza di
Schopenhauer, Nietzsche sottolinea, nei suoi appunti per una storia degli studi letterari, come oltre
alla membrana «spessa ed impenetrabile» che avvolge le cose in sé, l’osservatore storico sia da esse
separato anche da «quelle due membrane che sono le rappresentazioni del tempo e delle fonti»46.
Una via d’uscita verso una realtà più immediata, sembra essere, a partire dall’inverno 1868-69, la
considerazione sulla «conoscenza scientifica [naturwissenschaftlich] dell’essenza del linguaggio»:
il più bel trionfo della filologia «è la linguistica comparata con la sua prospettiva filosofica»
grazie alla quale «sono state scoperte delle leggi, si è entrati tra le scienze naturali [...], si è cercata
una via verso i problemi del pensiero». La componente naturwissenschaftliche della filologia è da
Nietzsche collegata alla tematizzazione del «più profondo istinto dell’uomo, l’istinto linguistico».
Nietzsche sembra credere, dopo la lettura di Eduard von Hartmann, che la tematica degli istinti,
caratterizzati come oscura potenza della storia, gli permetta un rapporto più diretto con la natura: in
tal modo non ci si limita più ad esaminare solo «gli occhiali con cui uomini lontani vedevano il
mondo».
Se noi cerchiamo di intendere questi uomini straordinari, insieme ai loro pensieri, solo come
sintomi di correnti spirimali, come sintomi di vita ininterrotta degli istinti, tocchiamo direttamente
la natura. Lo stesso accade quando procediamo fino all’origine del linguaggio47.
Gli interessi verso le scienze della natura, sviluppatisi a partire dalla lettura della Storia del
materialismo di Lange e presenti anche negli appunti sulla teleologia (del 1868) e negli studi
democritei, lasceranno il posto, nel percorso più visibile della riflessione di Nietzsche, alla
‘metafisica dell’arte’. Il filologo ideale sarà allora subordinato e complementare all’attività del
genio artisti-
co (Wagner) e la sua «inclinazione pedagogica» sarà recuperata in un senso più alto contro
l’aspetto, apologetico ed ‘umanistico’, dominante nello studio attuale dell’antichità. Significative
in questa direzione le lezioni tenute nel semestre estivo del 1871 e invernale del 1873-74
(Encyclopädie der klassischen Philologie und Einleitung in das Studium derselben) in cui il
filologo assume un posto centrale con la funzione di educatore: per essere tale veramente egli deve
comprendere la ‘classicità’ senza mistificarla. Di qui il necessario momento propedeutico della
filosofia che, al contrario della scienza, riesce «a porre in luce da ogni punto di vista anche ciò che è
particolarissimo»48 senza smarrire la visione complessiva, in grande, che permette di porre al
passato domande nuove per avere nuove risposte49. Nelle lezioni si precisa la professione di fede
espressa con la temeraria inversione del motto di Seneca («philosophia facta est quae
philologia fuit»50) e posta da Nietzsche alla fine della sua prolusione su Omero. La scelta filosofica,
propedeutica necessaria per il nuovo filologo, è l’‘idealismo’ inattuale promosso da
Schopenhauer: «Qui appare la cosa più utile l’unione di Platone e Kant». Ciò comporta, come nella
prolusione, un conciliante programma in cui l’attività filosofica sembra poter integrarsi, senza
dilacerazioni, con la stessa attività filologica. La ricerca dell’«antichità reale» degli studi filologici
non necessariamente preclude ^antichità ideale». Il nuovo filologo - dotato di una enorme
‘riproduttività’ di contro alla creatività del genio - diviene così l’insegnante ideale, «il mediatore tra
i grandi geni e i nuovi geni in divenire, tra il grande passato ed il futuro»51. Nietzsche afferma che il
filologo deve essere ‘uomo moderno’ ma legato con la grandezza moderna capace di aprire la via
alla grandezza reale dell’antichità. Il tema è ripreso e sviluppato nelle conferenze Sull’avvenire
delle nostre scuole che pongono una necessaria conti-
nuità di aspirazione «verso la terra della nostalgia, la Grecia», tra i grandi classici tedeschi e il
nuovo educatore: non è possibile «saltare direttamente, senza servirsi di ponti, in quello
straniato mondo greco»52. L’affermazione che troviamo più volte nel periodo giovanile, del
«legame che avvince realmente la più intima natura tedesca al genio greco» - con qualche richiamo,
perfino, alla «fedeltà del soldato tedesco» - appare una concessione alle posizioni wagneriane e sarà
oggetto di una decisa e ferma autocritica a partire da Umano, troppo umano.
La filosofia di Schopenhauer guida la ricerca, nel passato, di atteggiamenti pessimistici che vanno al
di là della divisione tra Paganesimo e Cristianesimo. Ciò impone anche una cautela critica nei
confronti della categoria della «serenità greca [.griechische Heiterkeit]» che non tiene conto del
sostrato della tragedia, dei misteri, della filosofia di Empedocle. La prospettiva capace di fornire
l’orizzonte di senso al lavoro filologico è ‘l’elemento universalmente umano’: «L’arte greca è
l’unica che sopravanzi i limiti nazionali: qui giungiamo per la prima volta all' Humanität cioè non
alla umanità media, ma alla umanità più alta»53. Nietzsche insiste, qui come altrove, sulla
falsificazione umanistica della essenza naturale, tragica, della natura umana, che si rivela
scopertamente nel mondo greco dove l’individualità è possibile in maggior misura e con maggior
forza che nel mondo moderno. Nel mondo greco è ancora unito ciò che nel mondo attuale, sotto
l’impero della civilizzazione e della divisione del lavoro, è in pezzi: l’arte con la religione,
l’individuo con la comunità e lo Stato. Il concetto di ‘Humanität’ non ha niente a che fare con i
«diritti fondamentali»: la bella comunità che rende possibile belle individualità ha come sua
condizione terribile la schiavitù.
Nietzsche propone l’immagine dell’uomo ideale come qualcosa di raro, come capace di tenere
insieme e in equilibrio gli
istinti: egli è ad un tempo «profondo, mite, artistico, politico, bello, dalla nobile forma». Per
arrivare a questa immagine ideale Nietzsche ritiene ancora necessario il modello greco. Negli anni
successivi, quando matura la crisi della metafisica dell’arte e del rapporto con Wagner, tornando con
più radicalità ad una critica della filologia attuale, Nietzsche ritiene che «dalla civiltà antica noi
siamo separati per sempre, in quanto le sue fondamenta sono per noi diventate completamente
fradicie» (5[156] primaveraestate 1875). Il mito, il pensiero ‘impuro’, la religione e anche l’arte,
succedanea della religione - in quanto ‘narcotici’ e ‘medicine inferiori’ - non possono più essere i
fondamenti della nuova civiltà.
Proprio Wagner a Bayreuth, segna la crisi radicale della centralità metafisica dell’arte vista ora
come «l’attività di colui che riposa»: «Gli oggetti a cui mirano gli eroi tragici non sono senz’altro di
per sé le cose più degne d’essere desiderate». L’opera d’arte viene valorizzata solo in quanto
semplifica i problemi e le soluzioni: per questo essa appartiene al sogno ristoratore che precede la
battaglia eroica dell’individuo contro il ‘potere’, la legge, le convenzioni. «L’arte non è certo una
maestra e un’educatrice per l’agire immediato; l’artista non è mai in questo senso un educatore e un
consigliere». Per chi è divenuto «veggente di fronte al reale» l’arte rappresenta, nella sua
semplificazione delle «reali lotte della vita» e del «calcolo infinitamente complicato dell’agire e del
volere umano», un ristoro momentaneo. La fuoriuscita immediata dal caos, promessa dall’arte
tragica e legata alla morte redentrice dell’eroe («Il modo più bello di vivere per gli individui è di
maturare per la morte e immolarsi, nella lotta per la giustizia e l’amore»), appartiene alla
consolazione momentanea. «Perché l’arco non si spezzi, perciò esiste l’arte» (WB 4). Nella
‘semplificazione’ wagneriana del mondo è già avvertito il pericolo della letargia. La
categoria ampia di ‘educazione’ si sviluppa ora in contrapposizione a questi pericoli presenti
nell’arte. Accanto ad un fondo immutabile e tragico dell’esistenza, si riconosce un campo di
mobilità che, liberato dalle strutture metafisiche, può essere plasmato
dall’attività umana ordinatrice, dall'«effettivo potere sulle cose». La filosofia deve stabilire «fino a
che punto le cose abbiano natura e forma invariabile: per poi procedere col coraggio
più intransigente al miglioramento della parte di mondo riconosciuta mutabile» (WB 3).
L’«educazione» viene definita «anzitutto una dottrina del necessario, ed in seguito una dottrina di
ciò che si trasforma ed è modificabile».
Per questo compito, ai tradizionali educatori della gioventù tedesca, Nietzsche ritiene si debbano
sostituire «il medico - il naturalista - l’economista». Negli appunti per l’Inattuale sulla filologia che
pongono come centrale il tema dell’educazione e la necessità di «educare gli educatori», il filologo
non ha più un ruolo centrale positivo. L’ultimo importante tentativo di Nietzsche di aprirsi un varco
verso la realtà ancora all’interno della disciplina filologica rinnovandone radicalmente la pratica,
prima di abbandonare definitivamente la cattedra di Basilea per divenire filosofo e fugitivus errans,
è costituito dall’uso dell’etnologia e della sociologia dell’epoca (Tylor, Lubbock, Wuttke, Hellwald,
Bagehot, Spencer) ampiamente documentato dalle lezioni sul culto divino dei Greci54. Riflessioni
centrali di questo corso diverranno aforismi di Umano, troppo umano.
scritto postumo su Lo stato greco, potrebbe essere compreso come la verità dell’affermazione: «La
schiavitù rientra nell’essenza di ogni cultura». Scrive infatti Nietzsche che la violenza esercitata
sulla casta di schiavi (terribile e necessaria per la creazione di una cultura), è la realtà «che non
lascia alcun dubbio sul valore assoluto dell’esistenza. Tale verità è l’avvoltoio che divora il fegato al
fautore prometeico della cultura»56. Da questa verità l’uomo moderno rifugge nascondendo, a se
stesso e agli altri, la generale schiavitù del mondo che lo circonda, priva di senso e finalità superiori,
attraverso l’«allucinazione concettuale» della dignità dell’uomo e del lavoro.
Nietzsche, in più luoghi, riprende le pagine dove Schopenhauer attacca la ‘dignità dell’uomo’ come
una formula vacua che nasconde l’assenza del concetto. La concezione metafisica di Nietzsche, che
vede come finalità ultima e necessaria della realtà la produzione del genio, propone un’altra
dimensione, più dura ed eroica, della dignità: «Ogni uomo, con tutta la sua attività, acquista una
dignità solo in quanto sia, coscientemente o incoscientemente, uno strumento del genio [...].
Solo come essere pienamente determinato, al servizio di scopi ignoti, l’uomo può giustificare la
propria esistenza»57. Il dovere appare come «obbedienza verso un istinto, che si presenta nella
figura di pensiero» (7[26] fine 1870-aprile 1871]. Nell’istinto si esprime direttamente una volontà
che sottomette con l’inganno l’individuo. La vergogna, che accompagna nel mondo greco anche la
produzione artistica come seduzione alla vita, è l’espressione della consapevolezza dell’uomo greco
di essere solo uno strumento di fenomeni della volontà che lo trascendono infinitamente come
individuo. I veri moventi della volontà sono nasco
sti dalle rappresentazioni del dovere e si impongono come istinti. La struttura di inganno è quella
individuata da Schopenhauer nella metafisica dell’amore sessuale: l’istinto è illusione (Wahn) che
perpetua la volontà di vivere, è l’inganno da parte del ‘genio della specie’ a spese dell’individuo. Il
postulato iniziale di Nietzsche della impossibilità pratica della negazione della vita, comporta
l’accettazione di questi meccanismi di illusione funzionalizzati alla costruzione di una civiltà
superiore. L’arte e il mito sono l’immagine illusoria più alta di seduzione alla vita: «Correggere il
mondo - ecco la religione o l’arte. Come deve apparire il mondo, perché valga la pena di
vivere?» (5[32] settembre 1870-gennaio 1871). La trama delle illusioni è nelle mani del genio
tragico che, per amore e compassione della comunità, asseconda l’inganno dell’Uno originario. La
scelta della Grecità è lontana dal puro dionisiaco (letargico) come dal nefando ottimismo
alessandrino del mondo moderno: la civiltà greca è una costruzione piramidale che ha al suo
culmine la realtà del genio ed è saldamente vincolata alla vitalità dell’istinto. In tal modo si
mantiene un rapporto non distruttivo (velato e protetto dal mito) con il fondo tragico che nel genio
soddisfa in modo potenziato la sua capacità artistico-rappresentativa. L’adeguarsi all’inconscia
teleologia della natura significa subordinarsi in modo assoluto al genio.
Un meccanismo analogo di illusioni che si impongono come istinto, in connessione con l’inganno
della natura, si trova in Renan. L’autore francese, non a caso, è valorizzato in questi anni da Wagner
e da Nietzsche soprattutto per la centralità che assegna al tema del genio/eroe fino ad interpretare
(contro Strauss) in tal modo la figura di Gesù. Anche Renan si richiama esplicitamente alla
metafisica dell’amore sessuale di Schopenhauer, criticandone l’atteggiamento di rivolta: è più
saggio lasciarsi ingannare, sottomettersi al ‘machiavellismo’ della natura: «Il suo scopo è buono;
quindi dobbiamo volere ciò che essa vuole. La virtù è un amen ostinato, detto agli oscuri fini che la
Provvidenza persegue tramite noi». La forte teodicea, la garanzia teleologica di uno stato finale di
pieno valore («Dio è una necessità assoluta.
Dio sarà e Dio è. Sarà come realtà, è in quanto ideale»58) impone la generale subordinazione e
gerarchizzazione. L’eroismo della devozione e il grado di ascetismo garantiscono della posizione
che ognuno assume nella gerarchia in cui tutti, comunque, servono a fini superiori. Di qui la
valorizzazione del sacrificio degli eroi umili ed oscuri (tutti costruiscono la piramide, tessono la tela
di cui ignorano il disegno): «Si costruisce un’opera infinita, in cui ognuno inserisce la propria
azione come un atomo»59 con la garanzia che nulla vada perduto. La guerre savante e la vittoria
della Prussia, spingono Renan alla conferma di un modello sociale che unisca saldamente struttura
gerarchica e valori feudali alla modernità tecnico scientifica. L’affermazione egoistica deve essere
sacrificata all’efficienza e forza della macchina complessiva in cui il singolo è inserito come
funzione: la guerra «suppone una grande assenza di riflessione egoistica poiché, dopo la vittoria,
quelli che più vi hanno contribuito, cioè i morti, non ne godono». Il forte spirito antiborghese di
Renan si scaglia contro la stupidità e volgarità di una esistenza ‘étroite et finie', non illuminata
dall’ideale, che comporta la dispersione egoistica di energia non finalizzata alla realizzazione del
Dio. Agli ‘insipidi mercanti’ Renan contrappone la ‘sublime follia’ dello stilita, dell’asceta,
dell’«héros de la vie désintéressée», perfino del fanatico che mette con gioia il suo capo sotto le
ruote del carro sacro, perché questa follia testimonia comunque, in modo irrazionale, lo slancio
verso l’ideale. «Il barbaro, con i suoi sogni e le sue favole, vale più dell’uomo positivo che non
comprende che il finito»60. Nelle discussioni seguite alla guerra franco-prussiana sul ruolo
dell’educazione primaria per l’affermazione di una cultura, con particolare cinismo, Renan si
pronuncia contro l’illu-
sione «che facendo balbettare qualche parola razionale all’essere informe che la luce interiore non
illumina, ne facciamo un uomo»61. Il popolo va lasciato nella sua ignoranza, fedele ai suoi istinti
che lo spingono, con cieca sicurezza, a servire l’ideale, a godere per procura della bellezza e
superiorità dei grandi: i vincoli della ‘devozione’ non devono essere spezzati in nessun modo.
Alcuni di questi temi elitari sono presenti anche in Burckhardt e nel giovane Nietzsche: la
consapevolezza portata alla ‘cieca talpa della cultura’, in nome di un ‘nefando ottimismo’, è
distruttiva della rete di illusioni vitali.
Burckhardt agisce su Nietzsche come contrappeso critico all’ideologia germanica di Wagner: i due
professori di Basilea vedono nella guerra ‘zoologica’ tra nazioni, un minaccioso pericolo per la
cultura. «Il più delle volte, il vincitore diventa stupido, il vinto diventa malvagio. La guerra
semplifica [...]. È un letargo invernale della civiltà» (32[62] inizio 1874-primavera 1874). E più
volte Nietzsche, in questo periodo, vede la regressione dell’uomo attuale alla ‘bestia da preda’ che
corre «sul grande deserto della terra», che ingaggia, in una furia generale, «lotte dilaniami con altri
animali» spinta solo da istinti immediati. La breve esperienza nella guerra franco-prussiana come
infermiere volontario conferma Nietzsche nell’atteggiamento antieroico di compassione verso
l’orrore materiale dei campi di battaglia fatto di ‘lezzo di cadaveri’ e purulenti ferite. La ‘patria’, la
nazione (anche nel periodo giovanile) sono comunque, per Nietzsche, solo forme inferiori di
illusione vitale {Wahn). E fino agli ultimi appunti del gennaio del 1889, paralleli ai ‘biglietti della
follia’, Nietzsche si scaglia, in nome della fisiologia e della ‘grande politica’ della vita, contro la
pace armata delle nazioni in Europa («un porcospino dall’eroico sentire»62) e contro la guerra:
«È follia che poi si metta davanti alla bocca dei cannoni il fior fiore
della forza e della giovinezza e della potenza» (25 [15] dicembre 1888-gennaio 1889).
Gli eroi di Renan hanno il carattere della assoluta dedizione e sacrificio all’ideale. Nella costruzione
del suo mito personale, Renan si richiama alle sue radici bretoni e al «sangue celtico» che ne
avrebbero determinato il carattere idealistico, disinteressato, devoto. I bretoni sono presentati, più
volte, come popolazione non contaminata dalla volgarità della civiltà moderna (egoistica ed
utilitaria, perciò atea): «Questa razza ha nel cuore un’eterna sorgente di follia»63 vive di sogno e si
logora «a perseguir l’ideale». L’epopea culmina nel saggio del 1854 su La poesia delle
razze celtiche. Qui si trova la variante nordica del mito dolce di Gesù: colui che «fece compiere alla
sua specie il massimo passo verso il divino», «il principio inesauribile di rinnovamento
morale»64, pur lontano dal sentore che vi fossero ‘leggi’ di natura, ignaro di ogni scienza. Il
«vangelo degli umili» comporta il primato del valore morale, cancellato, invece, dalla logica dei
Dialoghi filosofici dove la figura di Gesù lascia interamente il campo al Dio-tutto e agli scienziati
tiranni, dèi superuomini capaci di imporsi attraverso la minaccia di un inferno effettivo. Ne La
poesia delle razze celtiche è significativo il confronto tra gli eroi delle saghe germaniche (dove
regna «l’orrore della barbarie grondante sangue, l’ebbrezza del massacro») e quelli delle saghe
celtiche (impregnate di un «profondo senso di giustizia, una grande esaltazione della fierezza
individuale unita a un grande bisogno di devozione»). L’eroe germanico si caratterizza per la sua
«brutalità senza oggetto», per l’amore del male, per il gusto disinteressato della distruzione e della
morte di contro all’eroe cimbrico «dominato da abitudini di benevolenza e da una viva simpatia per
gli esseri deboli», per gli animali, la natura, le pietre. L’eroe cimbrico non si distingue dal santo ed è
capace di rivolgere la sua dolce pietà, come in una
leggenda di San Brandano, perfino a Giuda sofferente nell’inferno. Il sogno, che sostituisce la
realtà, impronta l’anima celtica e la sua sete di avventura è ancora «una corsa senza fine
dietro l’oggetto sempre fuggevole del desiderio»65.
La razza celtica resiste al tempo e difende le cause disperate: da qui - afferma con malizia Renan -
la sua inettitudine alla vita politica. Quegli uomini hanno il senso della fissità della vita
e dell’impossibilità di poterla cambiare: si rassegnano alla fatalità. La loro posizione è antitetica
all’eroismo prometeico: «A vederli così poco audaci contro Dio, si crederebbe appena questa razza
figlia di Japeto»66. La volontà di infinito e di illusione comporta l'avvicinamento al narcotico:
Questa razza vuole l’infinito; essa ne ha sete, essa lo persegue ad ogni prezzo, al di là della tomba,
al di là dell’inferno. Il difetto essenziale dei popoli bretoni, la tendenza all’ubriachezza, difetto che,
secondo tutte le tradizioni del VI secolo, fu la causa dei loro disastri, è legato a questo invincibile
bisogno di illusioni.
E questo, nonostante la lontananza da ogni sensualità grossolana: i Bretoni «cercavano
nell’idromele quello che S. Brandano e Pérédur perseguivano alla loro maniera: la visione del
mondo invisibile»67.
Un quadro teleologico, che garantisce il progresso e la realizzazione del Dio, fa del sacrificio e
dell’ascesi gli elementi caratterizzanti la grandezza. Il godimento dell’individuo sembra trattenuto e
rimandato alla sua realizzazione finale, nel piacere immenso di un corpo immenso di cui l’individuo
sarà una cellula vivente: «Un solo essere che sente, che gode, che assorbe con la sua gola ardente un
fiume di voluttà che strariperebbe fuori di lui in un torrente di vita [...]. La natura, a tutti i livelli, ha
l’unica preoccupazione di ottenere un risultato superiore con il sacrificio di individualità
inferiori»68.
della lettura di Lange e di altri filosofi neokantiani, mantenendo una fedeltà superiore a
Schopenhauer. Nella terza Inattuale il filosofo diventa maestro di eroismo: il riferimento
privilegiato sono le pagine dei Parerga in cui la ‘eudemonologia’ è in primo piano come l’arte,
l’accortezza, gli strumenti per ‘superare la vita’ con la consapevolezza che «una vita felice è
impossibile: il massimo che l’uomo può raggiungere è una vita eroica»77. Nietzsche riprende queste
parole dei Parerga per caratterizzare l’agonismo educatore di Schopenhauer, la necessità di un
«animo duro, corazzato contro il destino e armato contro gli uomini»: «On meurt les armes à la
main»78. Il ritratto di Schopenhauer ha indubbiamente toni emersoniani, parenetici: la stessa
caratterizzazione dell’eroismo risente da vicino dei saggi del filosofo americano e, in particolare,
delle considerazioni su questo tema. L’essenza dell’eroismo, questa «attitudine militare dell’anima»,
è «obbedienza ad un impulso segreto in un carattere individuale», «fiducia in se stessi», «diffidenza
per la falsità e il torto». E' il coraggio della veridicità contro le illusioni, contro «la falsa virtù che si
basa sulla salute e sulla ricchezza»79. L’elemento che Nietzsche aveva valorizzato fin da giovane in
Emerson è la sfida, piena di amore per l’immanenza e di energia, alle limitazioni poste dalla natura,
è il «non curvare la schiena» di fronte al ‘fato’, un ‘drago’ da dominare e cavalcare.
Da Schopenhauer procede sia la ‘vivisezione’ dell’illusione, sia il sonno metafisico più profondo del
genio wagneriano. Il nucleo del ritratto che Nietzsche fa del filosofo assume però, sempre più, i
caratteri della «veracità eroica». Lo Schopenhauer inattuale conduce «nella più sottile e pura, gelida
aria alpina, per far sì che possiamo decifrare i geroglifici di granito della natura». Esige la prova di
forza: «Chi non resiste lassù tomi pure
giù in fretta a rifugiarsi nella mollezza della sua cultura trasfiguratrice» (34 [21] primaveraestate
1874). Le metafore del gelo di montagna e l’espressione ‘spirito libero’ (con quella di «distruttore
che libera [befreiender Zerstörer]») caratterizzano, negli appunti della primaveraestate 1874, la
figura del filosofo pessimista. Questo Schopenhauer, già «volterriano», nonostante il pathos della
verità e il travestimento emersoniano, apre a Nietzsche la via della liberazione, al pieno recupero di
se stesso.
trovava immediatamente nell’eroe sulla scena ‘la parte più nobile di sé’, se stesso potenziato nella
verità dell’elemento umano generico. Nel dramma antico, come festa popolare, l’individuo vedeva
realizzata la sua destinazione comunitaria: l’arte era allora «gioia di sé, dell’esistenza, dell’umanità
intera». Motivi della filosofia della storia hegeliana (la libertà dei pochi come limite del mondo
greco, la ‘schiavitù reciproca e universale’ dell’impero romano, il Cristianesimo come espressione
della ‘coscienza infelice’ etc.) ma soprattutto il materialismo e universalismo di Feuerbach sono
fortemente presenti nelle riflessioni giovanili di Wagner. Ancora nel 1853, nel commento alla terza
sinfonia di Beethoven, Wagner descrive l’eroe come «l’uomo completo cui sono proprie tutte le
sensazioni puramente umane - amore, dolore, energia - nella loro massima pienezza e potenza»81.
La posizione del giovane Wagner è fortemente anticristiana: il Cristianesimo appare espressione di
rinuncia alla vita, negazione dell’arte, ‘orrore della comunità’, alienazione82. Nietzsche opporrà al
Wagner ascetico dell’ultimo periodo, le espressioni letterali sulla ‘sana sensualità’ come redenzione,
da lui usate in gioventù, direttamente derivate da Feuerbach (GM, IIII, 3). Wagner, nel suo profilo
autobiografico del 1843 e nella successiva La mia vita, ricorda appunto come, contro il «misticismo
astratto», avesse imparato attraverso l’Ardinghello di Heinse e La giovane Europa di Laube ad
«amare la materia», a «godere la vita», «guardare il mondo con occhi sereni». Nella sua opera
giovanile Divieto d’amare «la libera, aperta sensualità - scrive Wagner - vince con le sole sue forze,
l’ipocrisia puritana»83.
Più volte Nietzsche lega la sua superiore fedeltà al Wagner ateo e anticristiano: ancora nei
frammenti postumi per la tormentata quarta Inattuale, il filosofo insiste, in un confronto con
Eschilo, libero di fronte ai vari Zeus (14[6] autunno 1875-primavera 1876), sul carattere irreligioso
dei poeti e sullo specifico ateismo di Wagner, uomo moderno che «crede in se stesso». Nietzsche
riprende il legame forte tra eroismo, amore e morte, presente nei drammi wagneriani,
interpretandoli alla luce delle teorie giovanili del musicista e insistendo sull’elemento vitalistico:
La morte è il suggello di ogni grande passione ed eroismo: senza di essa, l’esistenza non ha alcun
valore. Essere maturo per la morte è la cosa suprema che possa venir raggiunta, ma altresì la cosa
più difficile, che si conquista attraverso lotte e sofferenze eroiche. Ogni morte di questa natura è un
vangelo dell’amore (14[6] estate 1875).
Il tema dell’amore era al centro, in particolare, della riflessione e della poetica wagneriana negli
anni 1848-1854: l’amore è il mediatore tra la forza e la libertà. Non imposto dall’alto come l’amore
cristiano, esso è la manifestazione più attiva della natura umana. Forte l’influenza di Feuerbach,
soprattutto dei Pensieri sulla morte e l’immortalità: l’amore trova il suo compimento nella morte
come ultima redenzione dall’egoismo verso il raggiungimento dell’unità più reale. I tratti pieni
dell’ebbrezza di morte nel finale del Tristano, la vittoria definitiva sulle menzogne del giorno che
separa gli amanti (l’io e il tu), devono comunque molto, sia pure attraverso la Volontà di
Schopenhauer, alla teoria giovanile di Wagner sull’amore. Scrive Nietzsche: «L'amore nel Tristano
deve essere inteso in senso non già schopenhaueriano, bensì empedocleo: manca del tutto
l’elemento peccaminoso: l’amore è un segno e una garanzia di unità eterna» (11 [5] estate 1875).
Wagner consapevolmente fin dal 1857, su questo punto, ritiene di dover correggere e completare il
filosofo pessimista: l’amore che sorpassa la volontà individuale manifesta una via di salvezza, porta
la possibilità di una purificazione della volontà.
Analogamente, la morte significa la fine dell’individualità e la continuazione della vita nella
pienezza della specie, «l’ultimo sicuro annullamento dell’egoismo». E' anche il senso del sacrificio
e della redenzione di molti eroi e, soprattutto, eroine wagneriane. «Ogni forte passo della vita sul
palcoscenico è accom-
pagnata dall’eco cupa della morte» — commenta Nietzsche (11 [18] estate 1875). La morte per
amore è quindi ricerca del ‘puro umano’, superamento dei limiti individuali e degli ostacoli di una
vita dominata dagli arbitri della legge: «Il peccato contro la proprietà è determinato unicamente
dalla legge della proprietà». Queste parole si trovano nell’abbozzo Gesù di Nazareth, in cui il Cristo
è espressione della ‘coscienza infelice’ dell’artista nella situazione degradata del mondo moderno.
La «fuga davanti a questa vita», l’autoannientamento, appare l’unica soluzione possibile per
sciogliere i legami di una bassa sensualità e per realizzare una natura purificata non potendo
distruggere, attraverso la rivoluzione, le leggi e le convenzioni di «una società senza amore». Gli
eletti - gli eroi - restaurano l’ordine pacificato, retto dall’amore contro la proprietà, rappresentano il
futuro e la vita contro il dominio del passato e delle morte cose. Nella lettera indirizzata a Röckel
del 25 gennaio del 1854, Wagner afferma che «la paura della morte» caratterizza «azioni, leggi,
istituzioni» attuali: «Dobbiamo imparare a morire, e morire nel senso più pieno della parola. La
paura della fine è la sorgente d’ogni mancanza d’amore».
Nietzsche, negli anni Settanta, prende sul serio fino in fondo le intenzioni di Wagner ed il carattere
filosofico delle sue affermazioni. In particolare valorizza l'Anello del Nibelungo in quanto
«immenso sistema di pensiero» espresso in una «forma visibile e sensibile»84. Il musicista ha saputo
trarre dalle filosofie l’elemento agonistico: «Maggior coraggio e decisione, non succhi narcotici».
«Wagner è filosofo soprattutto là dove è più energico ed eroico»85. Nell’appunto preparatorio a
questo brano di Wagner a Bayreuth Nietzsche fa significativo riferimento, per il loro ardito
simbolismo, al gesto e alle parole di Siegfried in risposta alle figlie del Reno86. Gettando via, al di
sopra del capo, una zol-
la di terra, alludendo alla sua vita, Siegfried afferma: «Così la getto via, lontano da me». E' il tema
dell’eroe che vive nella leggerezza e nella pienezza dell’amore e della immediata vitalità istintiva e,
per questo, non ha conosciuto la paura. La filosofia che esprime Siegfried è quella che «distrugge
gli dèi, contro la quale va in pezzi la lancia di Wotan». Nietzsche continuerà a valorizzare Siegfried,
dandogli un ruolo filosofico centrale, insostituibile anche quando coprirà di sarcasmi gli altri eroi ed
eroine wagneriane. In Al di là del bene e del male (aforisma 256) valorizza contro il Parsifal la
creazione di un Siegfried ‘antilatino’, liberissimo, gaiamente e innocentemente barbaro e
anticattolico, decisamente antiromantico. Afferma in più punti che solo la propria filosofia è
adeguata a quella figura e che Schopenhauer ha falsificato la direzione dell’arte wagneriana,
decisamente anticristiana87. Ancora più estrema è la sibillina affermazione: «Siegfried il filosofo in
divenire [Der werdende Philosoph Siegfried]» (34[2] primaveraestate 1874). Certo nelle intenzioni
di Nietzsche, Siegfried significava il recupero da parte di Wagner delle sorgenti naturali: ancora
«l’uomo non è stato esaurito». Wagner «scaccia la rappresentazione secondo cui il mondo sarebbe
diventato organicamente vecchio». Il dummer Siegfried afferma la forza della creazione attraverso
l’inconscio, contro la conoscenza degli dèi che porta all’annientamento. La conoscenza
astratta trova solo nella propria fine la redenzione possibile. Nell’eroe nibelungico si legge la
possibilità dell’artista/artigiano libero, capace di foggiarsi, contro l’impotenza della tecnica di
Mime, per puro piacere, la spada (una ripresa del mito di Wieland il fabbro). Siegfried è libero
perché non toccato dalla maledizione del possesso: «Unico retaggio il mio proprio corpo; vivendo
lo consumo» [einzig erb’t ich / den eignen Leib; / lebend zehr’ ich den auf]»88. Non possiede, non è
posseduto. Soprattutto il libero gioco è l’elemento che caratterizza Siegfried come «überfroher
Held» [«eroe supremamente giocondo»]89, nel suo rapporto di antitesi/complementarietà con
Wotan, il dio triste, «di tutti il meno libero»90.
L’eroe si caratterizza per lo scherzo, la serenità e la leggerezza in cui è immerso e che esorcizzano il
mondo della tragedia e del mito. Nietzsche sembra cogliere l’aspetto di fiaba (la definizione è di
Dalhaus) della seconda giornata dell'Anello quando insiste sul carattere di ‘idillio’, in senso
schilleriano, del Siegfried-, «La natura e l’ideale sono reali, questo dà gioia» (9[142] 1871). Lo
stesso pessimismo di fondo, di matrice schopenhaueriana, non riesce ad eliminare ma solo a
modificare il tema della redenzione/rigenerazione che resta sempre possibile: «il dramma [è]
profezia di una vita più pura (in contrapposto al dramma antico che è retrospettivo)» (12[19] estate-
fine settembre 1875). «Hidillio tragico: l’essenza delle cose non è buona e deve perire, ma gli
uomini sono talmente buoni e grandi, che i loro delitti ci commuovono nel modo più profondo,
poiché essi sentono di essere incapaci di tali delitti. Siegfried è l’“uomo”, e noi invece siamo i bruti
senza pace né meta» (9[149] 1871). Questo riferimento all’uomo rimanda puntualmente alla
riflessione di Wagner in Una comunicazione ai miei amici in cui la figura dell’eroe caratterizzato
dall’amore (quasi visibile nella sua corporeità) e dalla piena «gioia di vivere», rappresentava «la
palpitante manifestazione sensibile dell’uomo nella sua più naturale e serena pienezza [...] l’“uomo”
nella pienezza della sua forza più alta e più immediata e della sua più indiscussa amabilità»91.
Il tema dell’anticristianesimo di Siegfried, nella valorizzazione di Nietzsche, non può comunque
limitarsi a questi elementi:
soprattutto non andrà confuso mai con la pagana salute della ‘bionda bestia’ o del primitivo
germano. Nietzsche ne prende le distanze, sarcasticamente, quando con disprezzo parla di
«adolescenti tedeschi, cornuti Sigfridi e altri wagneriani» che hanno bisogno del ‘sublime’, del
‘profondo’, dello ‘sbalorditivo’. L’elemento rivoluzionario di Wagner, al di là dei travestimenti,
non può che rimandare alla Francia e alle decisive esperienze filosofiche giovanili: «Wagner era un
rivoluzionario - scappava via dai Tedeschi» (EH, Perché sono così accorto 5).
Nell'Anello, la strada degli uomini viene intrapresa per primo dall’ignaro e innocente Siegmund, la
cui sorte è pianificata senza spazi di libertà, che è disposto a rinunciare alla condizione di eroe nel
Wahalla offerta da Brunhilde a favore della vita umana legata all’amore di Sieglinde: «Dove vive
Sieglinde, / in piacere e patire / colà anche Siegmund vuol rimanere [Wo Sieglinde lebt / in Lust
und Leid, / da will Siegmund auch säumen]»92. Stessa rinuncia, per motivo d’amore, da parte di
Brunhilde nel III atto del Siegfried. Wagner riprende lo spunto tracciato nel 1851 per l’Achilleide: a
Teti che promette l’immortalità ad Achille, purché rinunci a vendicare l’amico Patroclo, l’eroe
oppone uno sdegnato rifiuto. La dea si inchina riconoscendo la superiorità dell’uomo sul dio: «Gli
eterni dèi sono gli elementi che danno vita all’uomo. Nell’uomo la creazione è al suo culmine»93,
l’uomo è il perfezionamento del Dio.
Nietzsche in Ecce homo afferma: «Un dio che venisse sulla terra non potrebbe fare altro che torti -
prendere su di sé la colpa, non la pena, questo sarebbe veramente divino» (EH, Perché sono così
saggio 5). Il tema toma più volte in Nietzsche ed è sviluppato, in antitesi al Cristianesimo, in pagine
centrali della Genealogia della morale. Il Dio redentore cristiano si sacrifica, innocente, per la colpa
degli uomini portando all’iperbole il senso di debito verso gli avi e la divinità e rendendo
impossibile
ogni risarcimento ed espiazione. «Un debito verso Dio: questo pensiero diventa per lui [l’uomo
dalla cattiva coscienza] strumento di tortura». Gli istinti animali vengono reinterpretati dall’uomo,
la «dissennata triste bestia», come una colpa verso Dio. Ogni negazione di sé diventa affermazione
di un contrario, proiettato fuori da sé: la sofferenza e il rimorso, il senso di colpa non trovano vie
d’uscita. Gli dèi greci, invenzione di una vita affermatrice, tengono invece lontana la cattiva
coscienza, hanno la funzione di togliere la colpa agli uomini per assumerla essi stessi:
“Deve pur averlo accecato un dio”... In tal modo allora gli dèi servivano a giustificare, entro una
certa misura, l’uomo anche nel male, servivano come cause del male - in quel tempo essi non si
assumevano la pena, bensì, come è più nobile, la colpa (GM II23).
Nietzsche nella Genealogia sviluppa questo tema confortato dalla lettura di Die Ethik der alten
Griechen (1882) del filologo Leopold Schmidt94 a cui Nietzsche si riferisce,
implicitamente, soprattutto per l’analisi dell’origine e delle trasformazioni dei termini buono e
cattivo. Il tema era comunque già presente nella riflessione sugli dèi greci e, soprattutto, trovava
nella caratterizzazione iniziale di Wagner della figura di Siegfried, bene esplicitato, questo aspetto
decisamente anticristiano. Nel Mito dei Nibelunghi, l’abbozzo in prosa per la Morte di Siegfried
(la Heldenoper del 1848 che Nietzsche, come risulta dai Diari di Cosima, nel giugno del 1871,
aveva addirittura ricopiato per la stampa) il finale suonava: «Udite dunque, voi Dèi possenti:
il vostro torto è cancellato; siatene grati all’eroe che assunse su di sé la vostra colpa». Questo
comporta, con la restituzione dell’anello alle figlie del Reno, la fine del servaggio dei Nibelunghi,
la liberazione dello stesso Alberich, il regno pacificato di Wotan lontano dalla maledizione del
possesso. Sembra quasi che Wa-
gner tenga presente la fine del mito di Prometeo con il ritorno di Zeus (Wotan) e delle sue leggi in
un mondo purificato. Questo tema, centrale, è esplicitato in più punti: «Senza colpa ha preso su sé la
colpa degli dèi [Er hat schuldlos die Schuld der Götter übernommen]» 95. Lo stesso Wotan non può
cancellare l’ingiustizia «senza commettere una nuova ingiustizia: soltanto una volontà libera,
indipendente dagli stessi dèi, che è in grado di assumersi tutta la colpa e di espiarla, può rompere
l’incanto; e gli dèi riconoscono nell’uomo la capacità di una tale libera volontà». L’uomo redentore
della colpa divina comporta l’autodistruzione degli dèi:
Per questa alta destinazione, cioè perché egli espii la loro propria colpa, gli dèi allevano l’uomo e la
loro intenzione sarebbe realizzata, se creando gli uomini, essi annientassero se stessi, se fossero,
nella libertà della coscienza umana, obbligati a rinunciare alla loro influenza
immediata96.
La colpa degli dèi, anche per Nietzsche, è la fissazione irrigidita, in un cielo lontano, di valori e
morali che hanno perduto il loro carattere di mobilità e esperimento vitale, che pesano come
estranei sull’uomo. La libertà è fine dell’alienazione: l’uomo trasforma se stesso acquistando una
‘nuova innocenza’. L’insegnamento che Nietzsche recepisce da Wagner, con riferimento preciso alle
parole con cui Wotan esprime la sua aspirazione verso l’“altro’, l’eroe che solo può redimere97, è
che «chiunque voglia diventare libero, deve diventarlo da sé, e che a nessuno la libertà cade in
grembo come un dono miracoloso» (WB 11).
I lunghi tempi della realizzazione dell' Anello conoscono profondi mutamenti in Wagner, nella
teoria musicale come nei riferimenti culturali. La linearità della proposizione che porta dalla morte
di Dio all’uomo, si gioca poi nella complessità delle relazioni e nella continua ambiguità rispetto ai
temi iniziali. Il
protagonista effettivo, l’eroe, diventa sempre più Wotan il dio ‘schopenhaueriano’ della rinuncia e
della volontà di fine. Il crepuscolo degli dèi mostra la profonda perversione della naturalità: il
mondo che ha al suo centro la maledizione è un mondo snaturato, e il finale, nella sua ambiguità
affidata alla forza suggestiva della musica, accentua il motivo nichilistico della redenzione,
possibile solo come annientamento della realtà tutta, non solo degli dèi e della loro colpa. La musica
dei Leit-motive vuole esprimere non rigide maschere o enfatizzare situazioni: attraverso l’uso delle
varianti, dei legami e derivazioni dei motivi l’uno dall’altro, come è stato messo in luce, la linearità
del percorso si complica e si contraddice. Parola e musica spesso si relazionano, dialetticamente o a
contrasto, producendo nuove e inedite connessioni di senso. Il mito eroico di Wagner assume i
caratteri dell’ambiguità: la sua musica più che sopraffare e violentare, nella sua ‘festa di relazioni’
(Thomas Mann), vuole essere capita da una «riflessione integralmente consumata» che sola può
dare «un sentimento ed una facoltà di percezione musicale che vadano al di là dell’abbacinamento
acustico» (Carl Dalhaus).
di anime inconciliabili e inconciliate nell’opera del musicista. «Mi sono chiesto se ci sia mai stato
qualcuno, tanto moderno, morboso, molteplice e contorto da poter essere considerato all’altezza di
affrontare il problema Wagner. Tutt’al più in Francia: penso a Charles Baudelaire» (15 [6]
primavera 1888). Certamente la fisiologia dell’arte di Nietzsche vede nel bisogno energico di
dominare, tirannizzare il pubblico coi forti colori e l’eccesso della passione, l’espressione della
debolezza moderna di Wagner. L’eroismo appartiene di nuovo completamente alla scena, alla
volontà di sedurre e dominare il pubblico, adattandosi ai suoi bisogni più bassi: è uno strumento
della politica decadente della crisi che agita caoticamente i sentimenti senza purificarli, ordinarli,
trasformarli.
Karl Hillebrand104, e a quelle di Hippolyte Taine105, da cui i primi due sembrano in gran parte
derivare. La caratterizzazione di Michelet come ‘uomo della compassione’, che ha
«l’ammirevole capacità di ricostruire in sé gli stati d’animo», il confronto con Hugo e la sua
‘allucinazione pittorica’, la febbre dell’anima che «déborde en expressions convulsives» sono temi
presenti in Taine e Bourget. Nietzsche e Taine concentrano la loro critica sullo stesso punto,
l’elemento plebeo e istrionico (charlatanisme) dell’atteggiamento di Michelet: «Il veut persuader le
public; bien plus, le peuple». La sua storia «è ammirabile e incompleta; seduce e non convince»106.
A tal proposito ci dobbiamo ricordare delle parole con cui Zarathustra mette in guardia gli ‘uomini
superiori’: «Sul mercato si persuade coi gesti. Le ragioni, invece, rendono diffidente la plebe» (ZA
IV, Dell’uomo superiore 9). Il popolo è la gonfia epopea della riconquista del Dio «nel quale gli
uomini si riconoscano e si amino», per il quale sia possibile di nuovo ed abbia un senso superiore ‘il
sacrificio’ degli eroi, umili o grandi.
Altro eroe, il dandy. La riflessione sul dandysmo, appare negli appunti di Nietzsche intrecciata alla
lettura degli scritti postumi di Baudelaire. L’‘eroismo’ del dandy, la sua solitudine, nasce dalla
necessità di distinguersi come ‘individuo’ sullo sfondo della grande città, ma anche, più in generale,
di una società e di un momento storico particolarmente meschini (la caratterizzazione di Marx della
seconda repubblica: «Passioni senza verità, verità senza passione, eroi senza azioni eroiche,
storia senza avvenimenti»107).
La ‘sublimità’ del dandy (per Baudelaire «l’ultimo bagliore
di eroismo nei tempi della decadenza») sta nel giocare una parte aristocratica per non rendersi
accessibile ai sensi del grande gregge dominante: il suo eroismo sta nella quotidiana fatica della
costruzione di sé per l’apparenza («Il dandy deve vivere e dormire davanti a uno specchio»).
Indubbiamente Nietzsche subisce il fascino di questa figura possibile di eroismo della modernità.
Ricordiamo il suo interesse per De Custine, Barbey d’Aurevilly oltre che la costante presenza (più o
meno esplicita) di Byron nei suoi scritti e la sua trascrizione dei passi di Baudelaire dedicati al
dandy.
La stessa figura di Cesare, che appare negli ultimi scritti, è lontana dalla semplificazione di una
affermata volontà di potenza ‘imperiale’ o guerriera. Cesare è piuttosto più vicino alla complessa e
ambigua figura posta come modello più illustre dal dandy (De Custine, Delacroix, d’Aurevilly) e
che fa esclamare a Baudelaire: «Che splendore di sole al crepuscolo getta nell’immaginazione il
nome di quest’uomo! Se mai uomo in terra ha avuto somiglianza col Divino questi è Cesare»108.
Nietzsche, come Baudelaire, insiste sulla cura che Cesare aveva della propria persona (era un dandy
raffinato dalla «pelle bianchissima» nonostante le marce), sulla costante capacità di
autodominio, sull’esercizio della ‘forma’. Nietzsche lo presenta tra gli «estremi, e perciò quasi essi
stessi già decadenti... La breve durata della bellezza, del genio, del Cesare, è sui generis» (14 [133 J
primavera 1888), ed altrove si legge della «estrema vulnerabilità di una macchina delicata».
L’appunto «Cesare tra i pirati» (11 [52] novembre 1887-marzo 1888) mi pare significativo in questa
direzione di lettura per il riferimento a Plutarco (cap. 2): Cesare caduto in mano a pirati sanguinari
si comporta con impassibilità e pieno autodominio della collera, come un principe che impone la
distanza o concede familiarità senza poi tralasciare, dopo il riscatto, una vendetta inaspettata e a
freddo. «Scriveva poesie e discorsi, e glieli faceva ascoltare, e se non glieli applaudivano li
chiamava bruscamente illetterati e barbari, e spesso,
ridendo, minacciò di impiccarli; anch’essi ne ridevano». Dopo il riscatto armò delle navi e con
freddezza realizzò ciò che aveva predetto ai pirati.
Altri eroi modernissimi sono quelli creati dalla disperata volontà di fuga del conte di Gobineau di
fronte al mondo contemporaneo: una fuga impotente nella immaginaria purezza di lontani eroi
ariani oppure nella allucinata costruzione di impossibili genealogie per una personale epopea (il
pirata norvegese Ottar Jarl). È la debolezza e impotenza che spinge Gobineau a delirare l’intero
processo storico con una mitica filosofia della storia, che ha nella metafisica della razza il suo
fondamento e nella catastrofe finale la sua verità. La grande città è l’inferno’ dove tutto si mescola:
all’universale mediocrità («Médiocrité de force physique, médiocrité de beauté, médiocrité
d’aptitudes intellectuelles»109) e alla certezza di una fine della storia legata alla rovina della razza
ariana, si oppone solo il sogno di evasione (un Iran eroico e mitico, le origini chiare, pure e felici
dell’umanità, i mostri di forza del Rinascimento, i ‘fiori d’oro’, i ‘figli dei re’, etc.). Nell’universale
mediocrità non vi sono più classi, popoli, ma solo qualche individualità «surnageant comme des
débris sur un déluge».
Nietzsche è deciso contro questo eroismo decadente, di cartapesta. Tra le maschere degli ‘uomini
superiori’ nello Zarathustra, troviamo i due re che parlano il cupo e crudo linguaggio
dell’aristocratico pessimista sull’epoca della decadenza. Nella nobiltà
tutto è falso e marcio, prima di tutto il sangue [...]. È il regno della plebe, - non mi lascio più
ingannare. Plebe, però, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì è tutto mescolato alla rinfusa, santo e
ladrone e nobiluomo e giudeo, ogni sorta di bestie dall’arca di Noè. Buoni costumi: presso di noi
tutto è falso e marcio (ZA IV, Colloquio con i re 1).
Le parole dei due re sono quelle, piene di risentimento, che
66 Nietzsche. La morale dell’eroe caratterizzano anche la scimmia di Zarathustra che sputa il
suo veleno sulla grande città di cui è reale espressione e prodotto. Il linguaggio degli uomini
superiori non deve essere confuso con quello di Zarathustra: essi appartengono completamente, in
vario modo, alla decadenza ed alla reattività, soffrono dei valori dati e correnti senza avere la forza
di superarli.
preso le distanze dall’antisemitismo (i contrasti con Wagner e Duhring - come poi con i Förster,
sorella e cognato - hanno in sé anche questo elemento critico) e sono deboli e inconsistenti
i tentativi (a diversi livelli, dai più volgari ai più rispettabili) di leggere nella sua filosofia una
contrapposizione all’elemento ‘semitico’. Si potrebbero moltiplicare i passi, più o meno noti, che
vanno nella direzione di una lotta all’antisemitismo dell’epoca. Preferisco rimandare agli attacchi
che l' Antisemitische Correspondes riserva al ‘filosofo dell’avvenire’ alla fine del 1887 e al decisivo
- per la sua virulente chiarezza - appunto inedito del Nachlaß di Eugen Dühring110:
Nietzsche. Tipo giudaico, e certo uno dei più puzzolenti e insolenti. Non c’è quasi frase in cui egli
non dia di balta. Non si tratta solo di roba aforistica, ma proprio di roba sconnessa e spezzettata.
Questa sconnessione del pensiero è solidale con la tipica violenza ebraica. Inoltre ottuso fino alla
demenza, e con questo già prepara la vera e propria, letterale, piena demenza, in cui lo stato del
paziente finisce con l’essere inguaribile. La sua malattia consisteva, a prescindere dalla follia già da
prima cronica, in una sorta di febbrile e vanitosa esaltazione, che lo condusse infine alla catastrofe
lasciandolo nella più ottusa demenza. Un caso esemplare da manuale psichiatrico.
La critica di Dühring mette in gioco tutti gli elementi del delirio antisemita per caratterizzare la
personalità e la filosofia di Nietzsche. D suo successo - «una colossale messa in scena» - si ebbe
solo quando «lo schiavo sfuggì al suo padrone» Wagner per scatenarsi a favore degli Ebrei.
Nietzsche non fu danneggiato neppure dall’essere ospite del manicomio di Jena perché era
sostenuto dagli interessi e dalla stampa ‘ebraici’. Dühring accusa inoltre Nietzsche di aver
‘saccheggiato’ le sue opere e di averne rovesciato completamente il senso dirigendo i suoi attacchi,
carichi della «sfrontatezza del tutto giudaica», contro
tutto ciò che è «rispettabile e nobile al mondo» e contro i più alti rappresentanti della morale. Gli
antisemiti contemporanei ben riconoscevano in Nietzsche un loro attivo oppositore che fino
all’ultimo, già dentro la follia, manifesta nei biglietti da Torino la volontà di farli tutti fucilare.
L’opposizione a Stein è decisiva per chiarire la posizione più profonda, acquisita a partire da
Umano, troppo umano, sull’eroismo. Nella lettera da Genova dei primi di dicembre del 1882,
Nietzsche afferma: «Riguardo all’eroe io non ne penso tanto bene come Lei. Certo, questa è pur
sempre la forma di esistenza più accettabile, soprattutto se non si ha altra scelta». L’ascetismo è
carattere essenziale dell’eroismo in quanto sacrifìcio della cosa più cara imposto «dal tiranno che è
in noi (che saremmo disposti a chiamare “il nostro io superiore”)». «Quello che Lei tratta - afferma
Nietzsche contro Stein - sono quasi unicamente questioni di crudeltà». Se il filosofo sente di
avere dentro di sé e nel suo percorso qualcosa di questo carattere ‘tragico’, ritiene anche necessario
il suo superamento: «Vorrei liberare l’esistenza umana da quello ch’essa ha di straziante e
di crudele». Nietzsche insiste, in più punti centrali dei suoi scritti della maturità, contro questa
«morale degli animali da sacrifìcio», in cui l’entusiasmo della vittima nasce dal sentirsi una
sola cosa con «il potente essere, sia esso un Dio o un uomo» a cui è consacrata. La sua potenza
viene testimoniata e verificata proprio dal sacrificio: «Non sembrate tanto immolarvi, quanto,
invece, trasmutarvi, col pensiero in divinità e, come tali, godere di voi stessi» (M 215). Con la fine
delle convinzioni va in crisi il primato dell’eroismo che presuppone comunque una fede e pretende
una garanzia metafisica o teologica. In qualche caso, come nel romantico Carlyle, la volontà di fede
nasconde la mancanza di fede propria della debolezza moderna, una «continua appassionata
disonestà verso se stessi».
L’eroismo si lega sempre più, nell’ottica critica di Nietzsche, alla certezza soggettiva, che è propria
della religione e che è nemica dell’indagine e della verità. Sulle orme di Taine, Nietzsche critica
radicalmente Carlyle il cui ‘fanatismo’ si ricongiunge a
quello dei puritani. «La fede è sempre tanto più ardentemente desiderata, tanto più urgentemente
necessaria, laddove manca la volontà» (FW 347). Nietzsche coglie bene il carattere di religiosità e
di fede nel programma eroico e di ‘culto degli eroi’ del romantico inglese Carlyle, da cui prende con
forza le distanze.
L’eroismo è la disponibilità della vittima a lasciarsi usare per fini che la trascendono, che non sono i
suoi: si contrappone alla forza dei grandi spiriti, capaci di ‘scetticismo’ e di una grande passione che
subordina ai suoi fini anche le ‘convinzioni’, senza esserne subordinati. La libertà degli orizzonti è
il presupposto dell’«individuo sovrano» che poggia su se stesso. Nello Zarathustra si riconosce
grande eroismo alla figura del prete per la ‘sofferenza’ che infligge a se stesso e agli altri e la cui
stoltezza ha inventato la testimonianza del sangue (il peggior testimonio) a favore della verità.
L’eroismo è la buona volontà del tramonto assoluto di noi stessi ed appartiene all’‘uomo superiore’,
la figura del ‘decadente’ dopo la morte di Dio che con la sua fine prepara il rovesciamento dei valori
e la via all’individuo sovrano. A questa tensione estrema, agonistica, che caratterizza la
volontà eroica, propria dei ‘sublimi’, Nietzsche contrappone, nello Zarathustra, la forma pacificata,
la bellezza che ha imparato il sorriso. Al ‘sublime’ cristiano, idealistico, Nietzsche oppone
il sublime legato alla pienezza dell’energia, in consonanza con la fisiologia della passione, propria
di Stendhal.
È l’ultima, più diffìcile forma di eroismo, quella che caratterizza il ‘supereroe’: contro l’idealismo
che ‘trasfigura’ se stesso e le sue mete, l’eroismo sta nel «non lottare sotto la bandiera
dell’abnegazione, della dedizione, del disinteresse; consiste nel non lottare affatto». L’eroe sublime
«ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi: ma egli dovrebbe liberare anche i suoi mostri e i
suoi enigmi e trasformarli in figli del cielo» (ZA II, Dei sublimi).
1 NA 4[77] Januar-September 1858; Opere I, I, p. 16.
2 NA 4[77] Januar-September 1858; Opere I, I, p. 38.
3 NA 4[77] Januar-September 1858; Opere, I, I, p. 24.
4 Ibidem.
5 NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 331. Nella riproposizione
in rima del poema eroico serbo Der grimme Bogdan (Il feroce Bogdan), tradotto dallo slavo da
Talvj von Jacob, Bogdan è caratterizzato come «der starke, grimme, wutherfüllte Held» (NA 10[4]
März-August 1861).
6 NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 320. NA 14[2] Oktober 1862 bis März 1863;
Opere I, I, p. 251.
8 Ibidem.
9 NA 14[2] Oktober 1862 bis März 1863; Opere I, I, p. 252.
10 NA 10[20] Ermanarich, Ostgothenkönig. Eine historische Skizze, März-August 1861; Opere I,
I, p. 164.
11 NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 346.
12 NA 16[3] Oktober 186} bis März 1864; Opere I, I, p. 348.
13 NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 333.
14 NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 334.
15 NA 12[17] Oktober 1861-März 1862; Opere I, I, p. 187.
16 NA 10[20] März-August 1861; Opere I, i, p. 164.
17 Götterdämmerung traduce ragnarokkr dalla Edda di Sturluson Snorri: anche se il termine più
antico è ragnarok, ‘il fato degli dèi’. Wagner ha certo contribuito in maniera determinante alla
fortuna dell’espressione.
18 Cfr.BN, pp. 671-672.
19 NA 6[77] April-Oktober 1859; Opere I, I, p. 101.
20 F. Schiller, Die Räuber [J masnadieri, atto I, scena seconda.
21 NA 14[1] Oktober 1862 bis März 1863; Opere I, I, p. 247.
22 F. Nietzsche, Über die dramatischen Dichtungen Byrons, 12[4] Oktober 1861-März 1862;
Opere 1,1, p. 177-183.
25 'Willensfreiheit u. Fatum, NA 13[7] April-Oktober 1862; Opere I, I, p. 213. Cfr. L. Feuerbach,
L'essenza del cristianesimo, a cura di F. Bazzani, Ponte alle Grazie, Firenze 1994, cap. XIX, p. 234.
In una nota di libri per il compleanno, conservata tra le carte di Nietzsche presso il Goethe-Schiller-
Archiv di Weimar, si trova indicato, di Feuerbach, oltre a questo scritto anche Gedanken über Tod
und Unsterblichkeit.
24 Prometheus, NA 6[2]; Opere I, X, p. 61.
25 Prometheus, NA 6[2]; Opere I, I, pp. 66-67.
26 Sul tema della ‘seconda natura’ cfr. NA 6011] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p.
266; HL 3, BA 2; M 455.
27 NA 14[12] Oktober 1862 bis März 1863; Opere I, I, p. 258.
28 Mein Leben, NA 18[2] Sommer 1864; Opere I, i, p. 444.
29 NA 4[77] Januar-September 1858, Opere I, I, pp. 43, 42.
30 Rückblick auf meine zwei Leipziger Jahre, 17 Oktober 1865-10 August 1867, NA 60[1] Herbst
1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 279.
31 Mein Leben, NA 18[2] Sommer 1864; Opere I, i, p. 444.
32 Mein Leben, NA 15[41] April 1863 bis September 1863; Opere I, I, p. 312.
33 Mein Leben, NA 18[2] Sommer 1864; Opere I, I, p. 446.
34 NA 69[10] Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 488.
35 Cfr. WS 17; JGB 22,31.
36 Su questi temi, importanti le indicazioni di F. Gerratana: «Jetzt zieht mich das Allgemein-
Menschliche an», 'Ein Streifzüg durch Nietzsches Aufzeichnungen zu einer «Geschichte der
litterarischen Studien», in «Centauren-Geburten». Wissenschaft, Kunst und Philosophie beim
jungem Nietzsche, hrsg. von T. Borsche, F. Gerratana u. A, Venturelli, de Gruyter, Berlin 1994, pp.
326-350; trad. it. in F. Gerratana, Scritti su Nietzsche editi e inediti, ETS, Pisa 2009.
37 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 2 voli., a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1981,1,
pp. 462-463.
38 NA 75[20] Februar 1868 bis Oktober 1869; Opere I, II, p. 333.
39 KGB, II, I, pp. 35 e 17; Epistolario, II, pp. 34 e 17.
40 NA 56[7] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 199.
41
A. Schopenahuer, Il mondo come volontà e rappresentazione, (Supplementi, cap. 31),
Mondadori, Milano 1989, p. 1249.
42 Ivi, p. 1242.
43 KGB, I, II, 316; Epistolario, I, p. 623 (a Paul Deussen, settembre 1868). Si veda anche NA
52[30] Frühjahr 1867 bis Winter 1867/68 e 57[31]; Opere I, II, p. 187 e p. 208; Encyclopédie der
klassischen Philologie 7, KGW, II, III, pp. 369-370; BA 4, Opere, III, II, p. 112. Per il riferimento
ad Arthur Schopenhauer cfr. Parerga e Paralipomena, cit., II, par. 254, pp. 642-643.
44 Omero e la filologia classica, Opere I, n, p. 516.
45 NA 77 [4] September 1868 bis Herbst 1869; Opere I, II, p. 478
46 NA 56[6] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 198.
47 NA 77[4] September 1868 bis Herbst 1869; Opere I, II, p. 478
48 KGW, II, III, 372.
49 NA 57[30] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 208.
50 Omero e la filologia classica, Opere I, II, p. 538.
51 KGW, II, III, p. 368.
52 BA 2, Opere, pp. 131-135.
53 KGW, II, III, p. 371; cfr. NA 58[52] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 263. Si veda
anche lettera a Erwin Rohde, 1-3 febbraio 1868.
54Der Gottesdienst der Griechen, KGW II/5, pp. 355-520. Sugli studi di Nietzsche, sulla loro
importanza e vastità si veda il volume di A. Orsucci, Orient-Okzident. Nietzsches Versuch einer
Loslösun vom europäischen Weltbild, de Gruyter, Berlin-New York 1996.
55FP 38[l-7] fine 1874. Ricordiamo le poche righe dedicate da Franz Kafka ad un Prometeo
dimenticato: «Tutti dimenticarono: gli Dèi, le aquile, egli stesso [...]. Ci si stancò di lui che non
aveva più motivo di essere. Gli dèi si stancarono, la ferita - stanca
si chiuse» (Prometeo, 1918). Perfino il ricordo dell’eroe supremo è caduto. Sembra la definitiva
sanzione di una impossibilità - nella condizione moderna - di un eroismo prometeico: l’eroismo è
nell’oscura vita quotidiana.
56 Der griechische Staat, CV 3, Opere III, II, pp. 226-227.
57 Ivi, p. 270; Opere III, II, p. 236. Si veda come questa dedizione assoluta sia vista come
espressione di «sublimità morale, l’istinto per l’eroismo e il sacrificio»: 6A 4, Opere III, n, p. 181.
58 E. Renan, Dialoghi filosofia, in Scritti filosofici, testo francese a fronte, a cura di G. Campioni,
Bompiani, Milano 2008, p. 247.
59 Lettera a Sainte-Beuve del 5 maggio 1862, in Oeuvres Complètes de Ernest Renan, 10 voli., a
cura di H. Psichari, Calmann-Levy Éditeurs, Paris 1947-1961, vol. X, p. 353 (d’ora in poi OC,
seguito dal numero romano per il volume, dall’eventuale specificazione dell’opera in esso contenuta
e dal numero arabo per le pagine).
60 OC, III, L’avenir de la science, pp. 795-797.
61 OC, I, p. 71.
62 Lettera a Reinhart von Seydlitz, 12 febbraio 1888. Il perspicuo riferimento di Nietzsche
(ripreso più volte anche in altri contesti) è alla parabola di Arthur Schopenhauer dei Parerga e
Paralipomena, (396), II, cit., p. 884.
65E. Renan, Ricordi d’infanzia e di giovinezza, a cura di S. De Simone, UTET, Torino 1954, p. 84
(nell’ed. fr. Souvenirs d’enfance et de jeunesse, Calmann Lévy, Paris 1883, p. 78, BN).
64 OC, IV, pp. 370 e 367.
65 OC, II, pp. 258-259.
66 OC, II, pp. 256-257.
67 OC, II, p. 259.
68 E. Renan, Dialoghi filosofici, cit., p. 229.
69 GT 16, Opere, III, I, p. 111.
70 Ivi, p. 117.
71 Cfr. B. von Reibnitz, Ein Kommentar zu Friedrich Nietzsche “Die Geburt der Tragödie aus
dem Geiste der Musik" (Kapitel 1-12), Metzler, Stuttgart 1992, p. 246.
72 J. Michelet, Bible de l’humanité, Chamerot, Paris 1861, pp. 260-264.
GT 19, Opere, III, I, p. 139.
74 BA 3, Opere, III, n, p. 145.
75 DS 2, Opere, III, I, p. 177.
76 R. Wagner, Una comunicazione ai miei amici, ediz. Studio Tesi, Pordenone 1985, p. 26.
77 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, II, cit., p. 421. Cfr. SE 4, Opere, III, I, p. 398.
78 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, I, cit., pp. 642-643.
79 Si veda in particolare di R.W. Emerson il saggio Eroismo, in Saggi, Boringhieri, Torino 1962,
pp. 182 sgg.
80 FP 7 [160] fine 1870-aprile 1871. La citazione viene da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà
e rappresentazione, § 27, cit., p. 222.
81 R. Wagner, La «Sinfonia Eroica» di Beethoven, in Ricordi, battaglie, visioni, Ricciardi, Milano
1955, p. 174.
82 Si veda in particolare: R. Wagner, L'arte e la rivoluzione, in Ricordi, battaglie, visioni, cit., pp.
297 sgg.
83 R. Wagner, Scritti scelti, Longanesi, Milano 1983, pp. 89-90. Cfr. anche: R. Wagner, La mia vita,
a cura di M. Mila, UTET, Torino 1960, pp. 134-135.
84 WB 9, Cfr. FP 11 [18] estate 1875.
85 WB 3, Cfr. FP 11L38] estate 1875.
86 Cfr. R. Wagner, II crepuscolo degli dei, Atto terzo, Preludio e Scena prima, vv. 1600-1602.
87 JGB 256. Ma significativo anche l’accostamento alla filosofia di Spinoza: «“Tutto ciò sa molto
più di Spinoza che di me” - direbbe forse Schopenhauer» (FW 99).
88 R. Wagner, II crepuscolo degli dèi, Atto primo, Scena seconda, vv. 405-407.
89 R. Wagner, Il crepuscolo degli dèi, Atto terzo, Scena seconda, v. 1677. Nel saggio postumo Su
verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche designa come «eroe supremamente giocondo»
l’uomo intuitivo che, diversamente dall’uomo razionale che affronta i più impellenti bisogni armato
di «previdenza, prudenza, regolarità», non vede neppure quei bisogni e «considera come reale
soltanto la vita trasformata dalla finzione in parvenza e bellezza» (WL 2; Opere, III, II, p. 371).
90 R. Wagner, La Walkiria, Atto secondo, Scena seconda, v. 879.
91 R. Wagner, Una comunicazione ai miei amici, cit., pp. 118-119.
92 R Wagner, La Walkiria, Atto secondo, Scena quarta, vv. 1349 sgg.
93R Wagner, Entwürfe. Gedanken. Fragmente. Aus nachgelassenen Papieren zusammengestellt,
Breitkopf & Härtel, Leipzig 1885, p. 59 (BN).
94 Si veda 7[160] primaveraestate 1883. Sull’importanza di questo autore come fonte della
Genealogia si veda A. Orsucci, Nietzsche, Wundt e il filologo Leopold Schmidt. A proposito di una
fonte della 'Genealogia della morale', in «Giornale critico della filosofia italiana», LXX (1991), pp.
275-303.
95 R. Wagner, Der Nibelungen-Mythus. Als Entwurf zu einem Drama (1848) in Sämtliche
Schriften und Dichtungen, Breitkopf & Härtel, Leipzig, 1911, II, pp. 166 e 163.
96 Ivi, p. 158.
97 Cfr. R. Wagner, La Walkiria, Atto secondo, Scena seconda, vv. 1062-1063.
98 FP 15[14] primavera 1888. Cfr. anche JGB 256.
99 FP 14[63] primavera 1888. Si veda anche FP 15[15] primavera 1888: «Ogni fisiologo
commenta: è tutto falso!» e FP 2[113] autunno 1885-autunno 1886: «L’impossibilità psicologica di
queste pretese anime d’eroi e di dèi, che sono nello stesso tempo nervose, brutali e raffinate come i
più moderni tra i pittori e i lirici parigini».
100 P. Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Lemerre, Paris 1883, p. 17; trad. it.
Décadence. Saggi di psicologia contemporanea, a cura di F. Manno, Aragno Ed., Torino 2007, p.
14.
101Ch. Baudelaire, I fiori del male, CXVIII (Il tradimento di San Pietro), in Opere, a cura di G.
Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996, p. 249.
102 V. Hugo, Les Mages, in Les Contemplations, Lévy frères, Paris 1856, pp. 184, 201,197,192-193.
103 Cfr. P. Bourget, Essais de Psychologie, cit., p. 224: J. Michelet «ne pouvait comprendre et n’a
compris ni Montaigne ni Bonaparte» (saggio su Taine). Trad. it., cit., p. 129. Nel saggio di Paul
Bourget Enfance de Michelet si legge una decisa critica al romanticismo dello storico «frémissant
jusqu’au spasme à la moindre impression, sensible jusqu’à la colère, capable d’une perspicacité
divinatoire quand il voit juste, incapable
de contrôler ses erreurs quand la passion l’égare» (cit. in E. Seillière, Paul Bourget psychologue et
sociologue, Édition de la Nouvelle Revue Critique, Paris 1937, p. 39).
104
K. Hillebrand, Zeiten, Völker und Menschen, Zweiter Band: Wälsches und Deutsches, R.
Oppenheim, Berlin 1875 (BN), pp. 140 sgg.
105 H. Taine, Essais de Critique et d’Histoire, Hachette, Paris 18662, pp. 175 sgg.
106 Ivi, pp. 189-190.
107 K. Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, Editore Riuniti, Roma 1964, pp. 87-88.
108 Ch. Baudelaire, Salon del 1859, in Opere, cit., p. 1223.
109 A. Gobineau, Essai sur l’inégalité des races humaines, in Oeuvres, I, Gallimard, Paris 1983, p.
1163.
110L'appunto, rinvenuto da Andrea Orsucci, si trova conservato presso il Nachlaß Diihring (cassa
numero 5) della ‘sezione manoscritti’ della Staatsbibliothek di Berlino. Ringrazio Orsucci per avere
permesso l’utilizzazione di tale inedito per questo mio lavoro.
39 Ibidem.
40 Su questo tema, che torna più volte a caratterizzare la décadence, ancora una volta, puntuale il
riferimento a Charles Féré: Cfr. WA 5; frammento 15 [37] primavera 1888 e Ch. Féré, op. cit., p. 92.
41 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, I, cit., pp. 68-70.
42 Ivi, II, p. 14.
43 Ivi, I, p. 71.
44 NA 14[1] Juli-September 1867. In questo lungo appunto filologico, Nietzsche
si muove ancora sulle orme di Valentin Rose e del suo “scetticismo” nei confronti della tradizione
(cfr. V. Rose, De Aristotelis librorum ordine et auctoritate commentatio, Diss. Phil., Berlino 1854,
BN, pp. 6-10) e di tutte le opere che vengono attribuite a Democrito dai πίνακες di Trasillo ritiene
che solo una o due siano realmente del filosofo. Nietzsche muterà opinione. Su questo cfr. la lettera
a Carl von Gersdorff del 16 febbraio 1868. Sulle ragioni per cui Socrate non abbia scritto nulla, si
veda il cap. III del già citato vol. di G. Reale, che inizia appunto dalla citazione di Nietzsche da me
commentata: op. cit., pp. 71-93.
45 ST, Opere, ΙII, II, ρ. 39. Il brano è interamente ripreso, con qualche modifica, in GT. Sui Cinici
(«divenuti gli umoristi dell’antichità») e sulla loro volontà di tradurre l’ironia e la doppiezza della
natura di Socrate, da lui impresse nel discorso, in un nuovo stile cfr. anche NA 74[61] März 1868
bis Mai 1869.
46 Richard Wagner, Oper und Drama, a cura di Klaus Kropfinger, Reclam, Stuttgart 1984. Si veda
in particolare la seconda parte, cap. I e II. Cfr. i frammenti 1 [108] autunno 1869, 7[124] 1870-
1871.
47Così si legge nella stesura preparatoria della conferenza su Socrate e la tragedia. D testo della
conferenza e di GT è meno problematico su questo punto: “In Atene era assai diffusa l’opinione che
Socrate aiutasse Euripide a poetare” (ST, Opere, III, Π, p. 35).
48 È stato messo in luce come questa utilizzazione da parte di Nietzsche di Aristofane risenta
dell’influenza di August W. Schlegel. In particolare si veda il classico saggio di B. Snell, Aristofane
e l’estetica in La cultura greca e le origini del pensiero contemporaneo, Einaudi, Torino 1963, pp.
166-189. Altra traccia importante, meritevole di sviluppi analitici, quella suggerita da Mazzino
Montinari nel suo saggio L‘onorevole arte di leggere Nietzsche, in “Belfagor”, 3, XLI, 1986, pp.
37-44. Montinari rimanda alla critica di Heinrich Heine contro Schlegel. Lo scrittore romantico
(non diversamente da Aristofane da un punto di vista reazionario) è critico di Euripide («che si
avvicinava alla tragedia borghese») e del «razionalista Socrate, che predicando una più elevata
morale», preparava il «tramonto dell’intero Olimpo». Cfr. H. Heine, La scuola romantica in
La Germania, a cura di Paolo Chiarini, Laterza, Bari 1972, pp. 75-76.
49 Aelianus var. bist. Il 13 (Giannantoni, p. 67). Nietzsche stesso lo cita a p. 121 della Geschichte
der griechischen Litteratur (KGWII, v).
50 R. Wagner, Über musikalische Kritik, trad. it. di E. Pocar, Della critica musicale, in Ricordi,
battaglie, visioni, cit., pp. 341-342. Questi temi, centrali, sono sviluppati in più saggi teorici.
51 Wagner toma su questo motto nell’introduzione al III e IV vol. degli “Scritti e poemi” (1872),
traduz. italiana in R. Wagner, Scritti scelti p. 185.
Le ombre di Dio
1. Nuove battaglie
L’espressione “ombra di Dio” in Nietzsche è legata a due importanti aforismi: Γaforisma 108 “Neue
Kämpfe” (Nuove battaglie) e 109 “Hüten wir uns!” (Stiamo all'erta!) che si trovano all’inizio del
terzo libro della Gaia scienza. Se l’espressione “ombra di Dio”, così pregnante, è presente solo in
questi aforismi (e nel frammento preparatorio 14[14] dell’autunno 1881) la tematica è invece
diffusa e ha un ruolo importante nelle riflessioni del filosofo. La stessa celebre parabola de L’uomo
folle (FW 125) che irrompe sul mercato ed annuncia, non inteso e irriso, la morte di Dio, nel
manoscritto Μ III 5 ha una conclusione che rimanda direttamente al significato connesso all 'ombra
e alle ombre di Dio: «Se noi continuiamo a vivere e a bere la luce, apparentemente come sempre
abbiamo vissuto; non è come per il rilucere e lo scintillare di astri che si sono estinti? Ancora
non vediamo la nostra morte, la nostra cenere; e questo ci inganna e siamo indotti a credere di
essere noi stessi luce e vita - ma non è che la vecchia vita nella luce di un tempo, l’umanità passata
e il Dio passato, i cui raggi e bagliori ci raggiungono ancora - anche la luce vuol tempo, anche la
morte e la cenere vogliono tempo! E infine, noi che ancora viviamo e riluciamo, che cosa ne è della
nostra forza luminosa? a paragone con quella delle generazioni passate? E' essa qualcosa di più
della luce grigio-cenere che la luna riceve dalla terra illuminata?» (14 [25] autunno 1881). Dagli
astri estinti ancora proviene la luce che ci permette di vivere «apparentemente come sempre
abbiamo vissuto» -
122 Nietzsche. La morale dell’eroe
non riluciamo di luce propria, solo di luce riflessa, impoverita, cinerea come quella che la luna
riceve dalla terra.
Nell’aforisma 108 Nuove battaglie si legge: «Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad
additare la sua ombra in una caverna - un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla
natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua
ombra. - E noi -noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!». Nietzsche si riferisce qui al culto
superstizioso delle reliquie del Buddha di cui parla, in breve, anche l’ampia, classica, monografìa di
Koeppen conosciuta dal filosofo fin dall’autunno del 1870: accanto alle ossa e ai denti e ad altre
reliquie oggetto di culto, egli «ha lasciato per la salvezza anche la sua ombra che appare ai credenti.
Essa si mostra in più caverne o grotte». Koeppen fa riferimento anche alla narrazione del
pellegrinaggio buddista dal 629 al 645 del cinese Hiouen-Thsang (tradotta e pubblicata in francese
da Stanislas Julien nel 1853) che trova un punto culminante nella commossa descrizione della visita
alla caverna dove i discepoli di Cakia-Mouni credono che il loro maestro abbia lasciato la sua
ombra. Solo dopo ferventi preghiere Hiouen-Thsang «vede la grotta inondata di luce, e l’ombra di
Buddha, d’un biancore accecante, si disegna maestosamente sul muro, come quando le nubi si
aprono e lasciano percepire tutt’a un tratto l’immagine meravigliosa della montagna d’oro».
Questo episodio leggendario, nella versione curata da Stanislas Julien, si trova ripreso anche nei
saggi che Renan dedica al buddismo: la singolare allucinazione, il credere alla macchina
dell’illusione, rivela per Renan l’ingenuità e la buona fede del pellegrino1.
Nietzsche più volte è ricorso all’immagine dell’ombra (delle ombre) dell’eroe della storia o del
pensiero che agisce con forza sul presente: questo a partire da Socrate la cui azione (al di là dei
contorni reali della figura) domina la modernità. La sua influenza «si è estesa sulla posterità fino a
questo momento, simile ad un’ombra che diventa sempre più grande nel sole della sera» (8[19]
inverno 1870-71 -autunno 1872). Nella vita quotidiana l’individuo incorpora in modo inconscio la
tradizione che lo determina: «Alle spalle del presente comincerebbe immediatamente l’oscurità: in
essa si aggirano, come ombre, grandi e incerte figure, che si estendono gigantesche e agiscono su di
noi, ma come possono agire gli eroi, non già come agisce la comune e luminosa realtà giornaliera.
Ogni tradizione sarebbe quella quasi inconscia dei caratteri ereditati: gli uomini viventi, nelle loro
azioni, sarebbero prove di ciò che in fondo viene tramandato attraverso di essi» (29[172] 1873).
Nella stesura preparatoria l’aforisma sull’ombra di Buddha terminava con la messa in guardia:
«Insomma, guardatevi dall’ombra di Dio. - È detta anche “metafisica”»2. L’espressione hütet euch
collega direttamente questo aforisma a quello successivo: Hüten wir uns che termina: «Ma quando
la finiremo di
star circospetti e in guardia! Quando sarà che tutte queste ombre di Dio non ci offuscheranno più?
Quando avremo del tutto sdivinizzato la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noi
uomini, insieme alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamente redenta!». Nel primo aforisma
l’ombra, al singolare, si identifica tout court con «la metafìsica» (FW 109). Nietzsche, contro
Schopenhauer e la diffusa concezione filosofica, nega che all’origine della religione stia «un
bisogno metafisico»: esso viene dopo, assai dopo, come un «tardivo germoglio». «Sotto il dominio
di pensieri religiosi, ci si è abituati alla rappresentazione di un “altro mondo (retro-, sotto- e
sovrastante)” e nell’annientamento dell’illusione religiosa si avverte un senso spiacevole di vuoto e
di privazione - è da quest’ultimo sentimento che rigermoglia così un “altro mondo”, ora non più
religioso, ma soltanto metafisico» (FW 151). All’origine sta la pluralità della vita e delle forze che
caratterizza «la creazione di Dèi, eroi e superuomini di ogni specie» (FW 143).
«Nella loro mitologia, i Greci hanno risolto l’intera natura in personaggi greci. Essi hanno
considerato la natura, per così dire, unicamente come una mascherata e un travestimento di uomini-
dèi» (19[115] estate 1872-inizio 1873). «Da Talete a Socrate - nient’altro che trasposizioni
dell’uomo nella natura -straordinario gioco d’ombre dell’uomo proiettato sulla natura, come sulle
montagne!» (19[134] estate 1872-inizio 1873).
La forza attiva che significa la pluralità della vita che crea gli dèi viene progressivamente assorbita
ed annullata dall’astrazione del monoteismo, dal Dio cristiano, e dalla spiritualizzazione del Dio.
Gli antichi dèi finirono «essi non trovarono la morte nel “crepuscolo”... essi risero una volta da
morire, fino a uccidere se stessi! Questo accadde, quando la più empia delle frasi fu pronunciata da
un dio stesso, - questa: “Vi è un solo dio! Non avrai altro dio accanto a me”» (Za III, Degli
apostati). Già nel 1870-71 (frammento 5[31]), dopo la lettura di Koeppen, Nietzsche poneva il
contrasto tra la vitalità della mitologia greca e «la fede in un solo spirito»: «Divinità sotto forma di
re, di padre, di sacerdote -La mitologia greca ha divinizzato tutte le forme di
un’umanità significativa. La fede in un solo spirito è una fantasia: sorgono subito sostituti
antropomorfici, anzi politeistici. L’impulso ad adorare, come sentimento di piacere per l’esistenza,
si crea un oggetto. Quando manca questo sentimento - sorge il buddhismo».
La «cosa in sé» della metafisica è un ulteriore depotenziamento del Dio unico: viene dopo, non è il
primum come affermavano Mainländer e Hartmann (il Dio-Uno originario, Ur-Ein, cosa in sé). Per
Philip Mainländer (Die Philosophie der Erlösung, 1876) «questa Unità semplice è stata, essa non è
più. Mutando, la sua essenza si è dispersa del tutto nel mondo della pluralità. Dio è morto e la sua
morte fu la vita del mondo (Gott ist gestorben und sein Tod war das Leben der Welt)»3. Una
posizione antitetica a quella di Nietzsche che riprende l’annuncio della morte di Pan - ripresa da
Plutarco e narrata da Heine in Ludwig Börne - a simbolizzare la fine del mondo antico, la
repressione della vitalità naturale: gli dèi muoiono per «l’intimo raccapriccio» del sangue redentore,
sgorgato dal Golgota4. Heine torna più volte su questo tema (di fronte alla sfida del Cristo
sofferente gli dèi «tacquero, impallidirono, impallidirono sempre più e alla fine dileguarono in
nebbia»5) che sta al centro dello scritto Gli Dèi in esilio. Già in Heine, come in Zarathustra, le
chiese si presentano come mausolei o tombe degli dèi pagani. Questo rafforza il contrasto — in più
modi drammatizzato, riecheggiato anche nel capitolo Dell’uomo superiore, tra Himmelreich ed
Erden-Reich6: la contrapposizione tra gli dèi che significano pluralità di valori terrestri, vitali e il
Dio del-
la rinuncia che muore in un processo di crescente spiritualizzazione e di astrazione dalla vita7. Nel
racconto dell’ultimo papa la progressiva perdita di forza porta Dio alla morte, viene a mancare ogni
rapporto con la potenza della vita che è all’origine della creazione degli dèi. Il Dio che muore è
anch’esso già quasi ombra e la metafìsica l’ombra di un’ombra.
3. Stiamo all’erta!
Nietzsche pone un legame tra positivismo e romanticismo: «quest’ultimo è un contraccolpo del
romanticismo, opera di romantici delusi» (2[131] 1885-86). Il frammento 14[14], che prepara
l’aforisma 108 della Gaia scienza, chiarisce il senso di questo movimento: «Dovunque è
venerazione, ammirazione, gioia, timore, speranza, presentimento, si cela il dio di cui abbiamo detto
che è morto - egli si insinua ovunque per vie traverse e vuole soltanto non essere riconosciuto e
chiamato per nome. In tal caso infatti scompare come l’ombra di Buddha nella caverna - egli
continua a vivere alla condizione nuova e singolare che non si creda più in lui. Certamente, però, è
diventato uno spettro!». Il dominio del cuore («venerazione, ammirazione, gioia, timore, speranza,
presentimento») sulla testa annulla la probità scientifica: un dio che non vuole essere chiamato
per nome «continua a vivere alla condizione nuova e singolare che non si creda più in lui».
Un’ombra, uno spettro che mantiene in vita i valori che il Dio della tradizione garantiva.
Affrontiamo brevemente il testo dell’aforisma 109: Stiamo all’erta!. Qui Nietzsche mette in guardia
dalle ombre di Dio (pregiudizi morali, antropomorfismi e teleologie) che caratterizzano le
cosmologie e le scienze della natura contemporanee e che allontanano dalla probità scientifica
pregiudicando la conoscenza. Si tratta di «redimere la natura dalla mascherata divina». Come scrive
in un appunto per Zarathustra·, «vogliamo prendere da lei ciò di cui abbiamo bisogno per poter
sognare al di là dell’uomo» (13 [1] estate 1883).
L’espressione ombra di Dio (af. 108) compare al plurale, non può essere riassunta con la parola
«metafisica» (stesura preparatoria dell’aforisma) la pluralità di atteggiamenti che si aprono alle
molteplici nuove religioni senza Dio. Nel quaderno Μ III 1 (in cui Nietzsche espone e discute, per
sé, la teoria dell’eterno ritorno dell’identico) immediatamente dopo il primo abbozzo dedicato al
«nuovo peso» si trova la stesura preparatoria dell’aforisma 109:
Guardatevi dal dire (Hütet euch zu sagen) che il mondo è un essere vivente. In che senso dovrebbe
estendersi! Da dove dovrebbe nutrirsi. Come potrebbe crescere e aumentare!
- Guardatevi dal dire (Hütet euch zu sagen) che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il
vivente è soltanto una varietà di ciò che è morto: e una varietà rara.
- Guardatevi dal dire che il mondo crei eternamente qualcosa di nuovo.
- Guardatevi dal dire che esistano leggi nella natura. Non vi sono che necessità: e allora non c'è
nessuno che comanda, nessuno che trasgredisce.
- Se sapete che non ci sono scopi, sapete anche che non esiste il caso: perché soltanto accanto ad
un mondo di scopi la parola caso ha ancora un senso.
- Guardatevi dal dire che esistano sostanze che durano in eterno, anche se molto piccole: l’atomo
è un errore quanto il dio degli Eleati (KSA 14, p. 253).
Parlo come uno che ha avuto una rivelazione? Allora disprezzatemi e non datemi ascolto. - Siete
ancora fatti in modo da aver bisogno di dèi? La vostra ragione non è ancora giunta a provare
ripugnanza per un nutrimento così cattivo e a buon prezzo? (11 [142] 1881).
Paolo D’Iorio, nel suo lavoro di tesi (un po’ di anni fa) diventata poi un’ottima monografia18,
analizzava, sulla scorta documentale dei volumi della biblioteca di Nietzsche e delle glosse, i precisi
riferimenti, i termini della discussione con le varie ipotesi cosmologiche contemporanee. In
particolare gli avvertimenti sono rivolti alla cosmologia di Otto Caspari (Zusammenhang
der Dinge, 1881) che concepiva l’universo come un grande organismo vivente ed attribuiva alle
monadi viventi della concezione organicistica la capacità di una continua creazione di nuove forme.
Nietzsche ha presente e discute, oltre che Caspari, il processo del mondo di Hartmann e Dühring (di
cui riecheggia l’espressione: «Guardiamoci (hüten wir uns) da tali superficiali sconsideratezze») e il
meccanicismo di Thomson quali espressioni delle ombre, residui del vecchio Dio, nelle concezioni
della natura. Ma molteplici altre sono le ombre di Dio che caratterizzano la modernità, che tengono
ad oscurare l’orizzonte umano.
5. L’univers se ripète...
L’uomo superiore è detto anche: «l’ultimo residuo di Dio tra gli uomini, cioè gli uomini del grande
anelito, della grande nau-
sea, del grande disgusto» (der letzte Rest Gottes unter Menschen, das ist: alle die Menschen der
grossen Sehnsucht, des grossen Ekels, des grossen Überdrusses) (Za IV, Il saluto). In un certo senso
gli «uomini superiori» potrebbero esser definiti «ombre di Dio» se considerati rispetto al presente o
al passato oppure «ombre del superuomo (Schatten des Übermenschen)» se considerati rispetto al
futuro, alla possibile loro guarigione.
Mentre il superuomo si pone al di là dell’attività «generica», l’uomo superiore è tale ancora in
relazione al metro sociale di giudizio: riflette drammaticamente la crisi dei valori di un
certo periodo storico, incapace di creare un’alternativa. L’uomo superiore è condizionato fino in
fondo dai vecchi valori (anche nell’estremo rifiuto o nel tentativo di capovolgimento) e soffre
quindi per la loro crisi: in questo è un decadente. Il disgusto davanti a se stesso e agli altri è il tratto
distintivo dell’uomo superiore, della sua nobiltà: per lui si tratta di superare decisamente se stesso e
le proprie contraddizioni o di far naufragio. In più punti si legge come il compito di Zarathustra stia
proprio nell’educare queste «nature superiori colte da ogni specie di folle degenerazione», e nel dar
loro uno scopo (27[23] estate-autunno 1884). Ma qui vorrei solo ricordare la presenza del tema del
«grande disgusto», del «grande disprezzo» che non deve confondersi con «l’odio di sé», espressione
di ascetica inimicizia verso la vita. Nell’«odio di sé» come nell’«amore di sé» si esprime l’angustia
della prospettiva che misura tutto su se stesso: «amore di sé è un’espressione sbagliata, troppo
ristretta; l’odio di sé e tutti gli affetti agiscono di continuo con la stessa ristrettezza; come se noi
fossimo al centro di tutto» (11 [10] 1881), sono espressioni di un fantasmatico ego - debole e
piccolo - plasmato dal milieu. Di contro - con il salire all’orizzonte del pensiero dell’eterno ritorno -
si tratta di imparare a «SENTIRE IN MODO COSMICO» - «AL DI LÀ di “me” e di “te”!» (11[7] primavera-
autunno 1881).
«Nella storia dell’umanità gli eventi sono i grandi disprezzi: in quanto sorgente del grande desiderio
del superuomo. Non fatevi ingannare - una volta si desiderava l’aldilà, oppure il nulla, oppure
l’unione con Dio!? Tutte queste parole di vario colo-
re servivano semplicemente ad esprimere che l’uomo era stufo di se stesso - non delle sue
sofferenze, bensì del proprio modo abituale di sentire» (5[1] 270, 1882-1883).
L’educazione degli uomini superiori culmina nel loro confronto con il «pensiero più grave», la
dottrina dell’eterno ritorno. La capacità di assimilare tale pensiero senza andare in rovina comporta
la profonda e radicale trasformazione nella direzione del «superuomo».
L’«ombra di Dio» permane e costituisce il pericolo maggiore e più insidioso per l’uomo superiore:
nuove religioni senza Dio (religione della scienza, dell’arte, del progresso, dell’Umanità, «de la
souffrance humaine» etc.) sostituiscono le vecchie religioni dogmatiche mantenendo la centralità
dei valori dati. La prospettiva del superuomo in Nietzsche, come possibilità agli estremi del
nichilismo, passa attraverso l’affermazione del Chaos sive natura confermato dall’ipotesi
dell’eterno ritorno: un divenire innocente nel suo radicale immanentismo distrugge ogni
residua «ombra di Dio» e valorizza ogni attimo dell’esistenza. La nuova innocenza, legata all’eterno
ritorno, deve vincere anche l’ombra di Dio. Per Nietzsche «la disgregazione, dunque l’incertezza,
è propria di quest’epoca: niente è su di una base solida e su di una risoluta fede in se stessi; si vive
per il domani, perché il dopodomani è incerto. Tutto è liscio e pericoloso sul nostro cammino,
e intanto il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato così sottile: noi tutti sentiamo il caldo,
sinistro respiro del vento australe -dove noi ancora camminiamo ben presto non potrà più
camminare alcuno» (25[9] primavera 1884).
Si tratta di vincere il «terribile sentimento del deserto» che ci afferra davanti agli orizzonti liberi,
alla «prospettiva in tutte le direzioni» che si apre con la fine delle vie prefissate e autoritarie della
tradizione; la prova di forza sta nel confrontarsi affermativamente con il nichilismo che discende
dalla teoria dell’etemo ritorno. E questo possono farlo gli uomini più forti, ovvero i più «moderati»,
capaci di superare in sé l'horror vacui senza ricorrere al mito e alla metafisica, coloro che hanno
saputo attraversare il deserto, «che sanno pensare, riguardo all’uomo,
con una notevole riduzione del suo valore, senza diventare perciò piccoli e deboli», scrive Nietzsche
alla fine del testo sul nichilismo, scritto nella solitudine di Lenzer Heide, chiudendolo con la
domanda che lo assillerà per il resto del suo percorso filosofico: «Come penserebbe un tale uomo
all’eterno ritorno?» (5 [71] 16, estate 1886-autunno 1887).
E certamente la teoria cosmologica dell’eterno ritorno da Nietzsche concepita come ipotesi
scientifica estrema, sperimentale, capace di liberare gli orizzonti dalle ombre di Dio, si incontra con
altre teorie cosmologiche dell’eterno ritorno capaci di mantenere in sé l’ombra di Dio. Nell’ultimo
periodo del suo percorso Nietzsche si confronta con un testo significativo di Guyau, L'irréligion de
l'avenir (1887), in cui il filosofo-sociologo francese intende opporsi alle molte “religioni
dell’avvenire” “vecchie e nuove fedi” che pullulavano in quegli anni. Se per alcuni aspetti «la
metafisica e la morale sono una religione, o almeno il limite a cui tende ogni religione che sta per
sparire (en vote d'“évanouissement")»26, Guyau intende combattere nelle molte religioni
dell’avvenire il compromesso ipocrita con le religioni positive fino alla proposizione di culti e
cerimoniali quali il culto feticistico dell’Umanità, il Catechismo positivistico alla Comte («altra
cosa è l’amore dell’umanità, altra cosa l’idolatria dell’uomo, la “sociolatria”»). L’attenta lettura di
Nietzsche del grosso volume di Guyau è testimoniata dai molti segni di lettura e dalle numerose
glosse a margine nella copia della sua biblioteca. Molte delle argomentazioni e riflessioni presenti
negli appunti postumi sembrano essere una risposta alle argomentazioni del filosofo francese di cui
Nietzsche aveva già letto l'Esquisse d’une morale sans Obligation ni sanction (Alcan, Paris 1885).
Il nome di Guyau compare nei testi di Nietzsche solo quattro volte: in lui il filosofo tedesco legge
comunque la piena conferma della direzione che caratterizza il positivismo, in particolare quello
rappresentato dalla race moutonnière dei sociologi francesi. Nel “Freidenker” Guyau, avvicinato a
Mill e a
Comte oltre che a Fouillée, le tematiche da Nietzsche affrontate trovano una risoluzione nella
direzione opposta. La fine delle religioni positive porterà - per Guyau - a più libere speculazioni
metafisiche e cosmologiche già irrigidite in “formule pretese immutabili”: «il dogma si sarà estinto,
ma il meglio della vita religiosa si sarà propagato, sarà aumentato in intensità ed estensione».
«L’uomo dell’evoluzione è veramente l’Uomo-Dio del cristianesimo [...]». La religione si
trasformerà «in quello che vi è di più puro al mondo, l’amore dell’ideale», in una «metafìsica di
finalità immanente». «Dio è il termine umano con cui noi designamo quello che rende possibile il
movimento del mondo verso uno stato di pace, di concordia, d’armonia»27. Nietzsche commenta:
«Il progresso come miglioramento tangibile della vita, come trionfo della logica come trionfo
dell’amore (Guyau)» (10[171] autunno 1887). Anche l’amore di Zarathustra è espansione di vita,
ma non «naturalmente» garantito dalla realtà naturale dell’evoluzione, come in Guyau.
Nietzsche contesta con forza che l’espansione vitale come principio motore dell’evoluzione abbia in
sé il carattere della socialità garantita («il supremo ideale dell’umanità e anche della natura, consiste
nello stabilire rapporti sociali sempre più stretti tra gli esseri»28) e, a lato delle affermazioni
entusiaste di Guyau, si trovano frequenti annotazioni: «Esel, Eselei», punti esclamativi e commenti
critici (purtroppo rovinati dal rilegatore che li ha tagliati). L’impostazione di Guyau, legando
morale e arte («la delicatesse morale et la delicatesse esthétique»), arriva a negare la possibilità di
sani giudizi estetici a Baudelaire e a Byron, provocando la reazione di Nietzsche che sommerge
la pagina di Esel! e scrive, in fondo alla pagina, significativamente, Manfred, Borgia, Cellini29.
Guyau valorizza invece Wagner e la musica in quanto “arte più religiosa”, la più capace di generare
«des émotions commmunes et simpathiques d’un genre
élévé». «Wagner n’avait pas absolument tort d’y voir la religion de l’avenir ou tout au moins le
culte de l’avenir»30.
Sarebbe interessante soffermarsi su quest’esempio significativo di extratesto capace di render conto
di molti riferimenti presenti negli scritti e nel Nachlaß di Nietzsche, che ci introduce nella
discussione del tempo sulla fine delle religioni positive e sul ruolo e le pretese del positivismo
evoluzionistico nell’orientare l’organizzazione sociale. Qui ci interessa vedere come la morale e i
valori che guidano e limitano la libertà della ricerca dell’irreligion de l’avenir, incontrino e facciano
propria una versione cosmologica dell’eterno ritorno che permette ancora la realizzazione
dell’amore sociale. Già nel quaderno Μ III 1 si trovano appunti che mettono in guardia nei
confronti di versioni dell’eterno ritorno che conservino ombre di Dio: «Guardiamoci dall’attribuire
a questo corso circolare una qualsiasi aspirazione o uno scopo [...]. Guardiamoci dal pensare come
divenuta la legge di questo circolo»; «Guardiamoci dall’insegnare una simile teoria come
un’improvvisata religione! Essa deve infiltrarsi lentamente, intere generazioni debbono lavorare a
essa e divenire fertili per essa - affinché diventi un grande albero che proietti la sua ombra su tutta
l’umanità avvenire» (11 [157], [158] 1881); «La misura della forza del cosmo è determinata, non è
“infinita”: guardiamoci da questi eccessi del concetto!», (11 [202] 1881); «Guardiamoci dal credere
che il cosmo abbia una tendenza a raggiungere certe forme» (11 [205] 1881).
Nello stesso anno 1881, nei Vers d’un philosophe, Guyau prende le mosse dai risultati dell’analisi
spettrale e dalla cosmogonia di Laplace per approdare a una cosmologia molto simile a quella di
Auguste Blanqui (L’éternité par les astres, 1872)
Partout à nos regards la nature est la mème:
L’infini ne contient pour nous rien de nouveau. [...]
Qu’y découvririons-nous? L’univers se répète...
Qu’il est pauvre et stèrile en son immensité!31.
L’infinità dell’universo, del tempo e dello spazio, il numero finito degli elementi rivelati dall’analisi
spettrale, porta necessariamente alla ripetizione :
Depuis l’éternité, quel but peux-tu poursuivre?
S’il est un but, comment ne pas l’avoir atteint?
[...]
L’étemité n’a dono abouti qu’à ce monde!
[...]
Ce qui passe revient, et ce qui revient passe:
C’est un cercle sans fin ...
(L’analyse spectrale)32
Guyau trae da questa ipotesi scientifica un’immagine disperante e nichilistica. Ma la stessa versione
infinitistica dell’eterno ritorno, permette invece - nella Irréligion - di lasciare spazio alla speranza.
Guyau si richiama alla teoria di Blanqui (mai esplicitamente citato) dei mondi infiniti sosia nel
tempo e nello spazio, che autorizzano a sperare nella possibilità di realizzazioni superiori abortite in
questo mondo33. Guyau cerca di salvare il progresso nella direzione della socialità e dell’espansione
vitale: «Non è probabile che noi siamo l'ultimo scalino della vita, del pensiero, dell’amore»: «La
grande risorsa della natura è il numero di cui le combinazioni possibili sono esse stesse
innumerevoli e costituiscono la meccanica eterna. I casi della meccani-
ca e della selezione, che hanno già prodotto tante meraviglie, possono produrre esseri ancora
superiori». Nietzsche pone a lato di questo estremo tentativo di salvare l’ombra di Dio, un deciso
“no” nella pagina del libro. Per lui una potenza infinita, capace di evitare la ripetizione e il ritorno,
non potrebbe che essere chiamata Dio.
Contro il panteismo pessimista alla Hartmann, Guyau conclude: «Sarebbe forse meno difficile il
creare dell’annientare, il fare Dio dell’ucciderlo»34.
1 Cft. C.F. Koeppen, Die Religion des Buddhas, Schneider, Berlin 1857, Bd. I, pp. 523-524. Il
volume ebbe un’ampia recensione di H. Taine, probabilmente conosciuta da Nietzsche, in cui non vi
è riferimento all’ombra di Buddha (H. Taine, Le Bouddhisme, in Nouveaux Essais de critique et
d’histoire, Hachette, Paris 1866, pp. 317-383). Cfr. anche E. Renan, Le Bouddhisme, in Nouvelles
Etudes d’histoire religieuse, Paris 1884, pp. 115-117. Entrambi fanno riferimento a Histoire de la
vie de Hiouen-Thsang et de ses voyages dans l'Inde : depuis lan 629 jusqu’en 645, par Hoeili et
Yen-thsong; ediz. a cura di Stanislas Julien, Impr. imperiale, Paris 1853, p. 81: «Après avoir pénétré
dans le
caverne où vécut le grand initiateur, animé d’une foi profonde, Hiouen-Thsang s’accusa de ses
péchés avec un cceur plein de sincérité; il récita dévotement ses prières en se prosternant après
chaque strophe. Lorsqu’il eut ainsi fait cent salutations, il vit paraìtre une lueur sur le mur orientai.
Pénétré de joie et de douleur, il recommença ses salutations, et de nouveau il vit une lumière de la
largeur d’un bassin qui brilla et s’évanouit comme un éclair. Alors, dans un transport de joie et
d’amour, il jura de ne pas quitter cet endroit avant d’avoir vu l’ombre auguste de Bouddha. Il
continua ses hommages, et, après deux cents salutations, soudain toute la grotte fut inondée de
lumière et le Bouddha apparut, d’une blancheur éclatante, se dessinant majestueusement sur le
mur. Un éclat éblouissant édairait les contours de sa face divine. Hiouen-Thsang
contempla longtemps, ravi en extase, l’objet sublime et incomparable de son admiration. Il
se prosterna avec respect, célébra les Iouanges du Bouddha, et répandit des fleurs et des parfums,
après quoi la lumière céleste s’éteignit. Le brahmane qui l'avait accompagné fut aussi ravi
qu’émerveillé de ce miracle. “Maitre, lui dit-il, sans la sincérité de votre foi et l’énergie de vos
voeux, vous n’auriez pu voir un tei prodige”».
2 Cfr. Vs. N V 7, 16: «Kurz, hütet euch vor dem Schatten Gottes. - Man nennt ihn auch
Metaphysik», Kommentar, KSA 14, p. 253; FW, Note, Opere V, II, p. 640.
3 Ph. Mainländer, Die Philosophie der Erlösung, Berlin 18792, p. 108. Su questo cfr. G.
Campioni, Der französische Nietzsche, de Gruyter, Berlin-New York 2009, p. 250 e sgg.
4 Heinrich Heine’s Sämmtliche Werke, Hoffmann und Campe, Hamburg 1867, voi. XII, p. 73 sg.
Cfr. GT 11, e ST 1; 5[116]; 7[8],7[15] 1870-71.
5 H. Heine, Die Stadt Lucca, in Heinrich Heine’s Sämmtliche Werke, cit., voi. II, p. 74.
6 Cfr. H. Heine, Deutschland, ein Wintermärchen, Kap. I: «Ein neues Lied, ein besseres Lied,/ O
Freunde, will ich euch dichten!/ Wir wollen hier auf Erden schon/ Das Himmelreich errichten» e F.
Nietzsche, ZA IV, La festa dell’asino 2; cfr. anche FP 32[11] 1884-1885.
7 Questo è espresso con particolare forza drammatica anche in Per la storia della religione e
della filosofia in Germania. L’azione di Kant nei confronti del Dio tradizionale è analoga, per
efficacia, a quella della rivoluzione francese: «il vecchio Geova in persona si prepara a morire». Lo
sguardo storico lo segue fin dall’infanzia nelle sue metamorfosi: in Egitto «cresciuto fra divini
vitelli, coccodrilli, sacre cipolle, ibis e gatti», divenuto in Palestina presso un popolino di pastori,
«un piccolo Dio-re» che abitava in un proprio tempio, fino a che, adulto, emigrato a Roma
«rinunciò ad ogni pregiudizio nazionale e proclamò la celeste uguaglianza di tutti i popoli». Questo
evento decisivo comporta l’inizio di una irreversibile decadenza: «l’abbiamo visto spiritualizzarsi
ulteriormente, piagnucolare teneramente, divenire un padre affettuoso, un universale filantropo, un
benefattore del mondo - tutto questo non gli servì a nulla. Udite il suono della campanella?
Inginocchiatevi... portano i sacramenti a un dio morente» (H. Heine, Zur Geschichte der Religion
und Philosophie in Deutschland in Heinrich Heine’s Sämmtliche Werke, cit., voi. V, pp. 177-178,
trad it. La Germania, cit., pp. 263-264).
8 NA 57 [48] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868, Opere, I, II, pp. 215-216,
9 NA 58[17] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere, I, II, p. 245.
10 Per la diffusione del tema si veda ad es. la poesia di Friedrich Rückert, Fürst und Volk: « Kutheir
Ben Murra hat berichtet;/ So sprach Muhammed: wer da herrscht und richtet, /Ein Fürst des Volks,
ein Hirt der Herde,/ Ist Schatten Gottes auf der Erde,/ Der Schutz und Schirm Verfolgten beut,/
Ermüdeten die Kraft erneut/ Und Segen und Erquickung streut» (Friedrich Rückert's gesammelte
poetische Werke in zwölf Bänden, J.D. Sauerländer, Frankfurt a.M. 1868, Bd. 6, p. 72).
11 Dante Alighieri, De Monarchia, in Prose, Pubblicato da L. Ciardetti, 1841, p. 537. Cfr. anche
M. Ficino, De Amore, VI orazione: «Nei corpi ameremo l’ombra di Dio, negli animi la similitudine
di Dio, negli angeli la immagine di Dio».
12 Cfr. R. W. Emerson, Versuche (Essays). Aus dem Englischen von G. Fabricius, C. Meyer,
Hannover 1858 (BN), p. 227: «Wir lernen, daß Gott ist; daß er in mir ist; und daß alle Dinge
Schatten von ihm sind». Si tratta del saggio Kreise su cui Nietzsche, fin dagli anni giovanili, più
volte è ritornato con la lettura.
13 ΝΑ 15117] Aprii 1863 bis September 1863; Opere, I, I, p. 298.
14 L’edizione dei Pensées di J. Joseph curata da P. de Raynal appare nel 1842 (Paris, Gosselin, 2
voli.). La casa editrice Didier (Paris) ripubblica la medesima raccolta dei Pensées di Joubert
condotta da P. de Raynal nel 1861, in 2 volumi. Nella biblioteca di Nietzsche è conservata la sesta
ristampa (1874).
15 A. de Lamartine, OEuvres complètes, voi. II, chez l’auteur, Paris 1860, p. 22.
16 A. de Lamartine, Souvenirs, impressions, pensées et paysages pendant un voyage en Orient,
1832-1833 ou. Notes d’un voyageur, Pagnerre, Hachette, Fume, Paris 1856,
p. 28.
17 Cfr. J. Joubert, Pensées, essais, cit., t. II, p. 72: «On n’ est bon que par la pitié. Il laut donc qu’
il y ait quelque pitié dans tous nos sentiments, même dans notre indignation, dans nos haines pour
les méchants. Mais faut-il qu’ il y en ait aussi dans notre amour pour Dieu ? Oui, de la pitié pour
nous, comme il y en a toujours dans la reconnaissance. Ainsi tous nos sentiments sont empreints de
quelque pitié pour nous ou pour les autres. L’amour que nous portent les anges n’est lui-même qu’
une pitié continuelle, une étemelle compassion. Chacun est compatissant aux maux qu’ il craint. Si
l1’ on n’ y prend garde, on est porté à condamner les malheureux. Il faut encore plus exercer les
hommes à plaindre le malheur qu’ à le souffrir. N’ayez pas l’ esprit plus difficile que le goût, et le
jugement plus sévère que la conscience».
18P. D’Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell’eterno ritorno in Nietzsche,
Pantograf, Genova 1995.
19 Cfr. 26[383] estate-autunno 1884: tra gli «effetti postumi del vecchio dio» Nietzsche pone la
diffusione crescente di cosmologie che postulano un inizio del mondo, che si ribellano all’idea di
una «infinità all’indietro»: «Qui si trovano d’accordo Mainländer, Hartmann, Duhring, ecc.».
20L'art in La vie inquiète (1874-1875), in Oeuvres: Poésies (1872-1876), Lemerre Editeur, Paris
1885, p. 71.
21 E. Renan, Dialogues philosophiques, Calman Levy, Paris 1876, Préface, p. XIX, trad. it., in
Scritti filosofici, cit., p. 93. Ho analizzato il confronto di Nietzsche con Renan in G. Campioni, Der
französische Nietzsche, cit., pp. 65-134.
22 Cfr. anche E. Renan, Discours et Conferences in Oeuvres complètes a cura di H. Psichari, voi.
I, p. 786: “Nous vivons d’une ombre, du parfum d’un vase vide; après nous, on vivrà de l’ombre
d’une ombre”.
25E. Renan, L' avenir religieux des sociétés modernes, in Questions contemporaines, Paris 1868,
pp. 414-415.
24 E. Hello, M. Renan, l’Allemagne et l'athéisme au XlXe siècle, Douniol, Paris 1859, p. 43.
25 J. Lemaltre, Les contemporains, Ie sèrie, Leeone et Oudin, Paris 1886, p. 207 (BN).
26 J.M. Guyau, L’irréligion de l’avenir, Alcan, Paris 1887 (BN), pp. XI-XII.
27 Ivi, pp. 391-92.
28 Ivi, p. 340.
29 Ivi, p. 355.
30 Ivi, ρ. 365.
31 J.M. Guyau, Vers d'un philosophie, Alcan, Paris 1881, pp. 195-196.
32 Ivi, pp. 198-199.
33 Blanqui usa l’infinità del tempo e dello spazio per dare uno scacco estremo al senso di
fallimento. Certo, la notte eterna è popolata dalla «processione funebre» dei pianeti spenti,
«cadaveri siderali»: ma le risorse dell’infinito (affidate ad un’ipotesi strettamente meccanicistica)
permettono la rinascita della vita: mondi sosia, copie, ristampe, varianti innumerevoli che giocano
destini uguali e diversi. «Esiste un’altra Terra dove l’uomo segue la strada disdegnata nell’altra dal
sosia. La sua esistenza si duplica, un globo per ciascuno, poi si biforca una seconda, una terza volta,
migliaia di volte. Egli possiede così dei sosia completi e delle varianti innumerevoli di sosia, che
moltiplicano e rappresentano sempre la sua persona, ma non prendono che dei lembi del suo
destino». Chi ha perduto quaggiù vince e vincerà altrove e in altri tempi. È la legge dell’infinito.
Cfr. A. Blanqui, L'éternité par les astres. Hypothese astronomique, Baillière, Paris 1872, p. 57 e
sgg.
34 J.M. Guyau, L’irréligion de l'avenir, cit., p. 420.
Appendice. Friedrich Nietzsche,
Il rapporto del discorso di Alcibiade con gli altri discorsi del Simposio platonico (1864)*
Voglio porre subito in evidenza come io veda il rapporto che vi è tra i primi cinque discorsi e quello
di Socrate: mi pare completamente errata la tesi che Platone, in quei cinque discorsi, abbia messo
insieme solo opinioni erronee sull’Eros, per opporre loro come l’unica giusta quella di Socrate.
Socrate stesso non nega il suo consenso a questi discorsi, egli ritorna su tutti assegnando alle
singole opinioni il posto loro dovuto. Credo piuttosto che, dal primo discorso fino all’ultimo, abbia
luogo un chiaro sviluppo, in quanto l’opinione che segue accresce ed amplia su un punto essenziale
quella di colui che precede; i singoli oratori vedono il concetto di Eros formarsi davanti a loro con
crescente evidenza, Socrate, in fondo, completa solo con una volta l’edificio da loro gradualmente
eretto, certo non lo abbatte di nuovo. Ciò vale, naturalmente, solo per le opinioni fondamentali di
ciascuno: ciò che gli altri aggiungono come ornamento alle loro esposizioni, viene più volte ricusato
da Socrate come non giustificato.
Il discorso di Fedro delinea solo l’ambito in cui si muove la questione: egli descrive Eros come il
dio più antico e causa dei più grandi beni. Tralascio qui naturalmente il significato dei singoli
discorsi per la caratterizzazione dei personaggi e metto in risalto solo i pensieri fondamentali. -
Pausatila spiega l’Eros della dea celeste come l’amore che ha per fine il perfezionamento attivo o
passivo dell’uomo. Erissimaco estende la consi-
derazione di Eros a tutti gli esseri viventi in natura, mentre entrambi i primi oratori rappresentano
l’amore solo nei suoi effetti sull’uomo. Aristofane afferma che alla base di Eros c’è una necessità
naturale, la legge dell’affinità elettiva. Agatone infine chiama Eros l’amore per il bello, che genera
ogni cosa buona e grande, nella natura, nell’arte, dappertutto. Riassumendo, il concetto di Eros
secondo questi discorsi sarebbe: Eros è l’amore per il bello come legge naturale in vista del
concepimento e procreazione del bene. Non diversa, nella sostanza, suona la definizione di Socrate:
Eros è l’amore volto a procreare nel bello, che egli quindi designa come impulso all’immortalità
insito nella natura spirituale e fisica. Nella scala da lui eretta verso il tipo più elevato di Eros, noto
la particolarità che vi si ritrovano i diversi punti di vista degli oratori. Fedro è di certo, come
al solito, solo l'“ostetrico” dei discorsi seguenti. Ma Pausania, nel cui discorso non si deve mai
tralasciare il suo amore per Agatone, mostra il punto di vista dell’uomo, fintantoché egli ama ancora
un bello, sia questo corporeo o spirituale. Erissimaco è amante di tutto il bello, per come si rivela
nell’intera natura. Aristofane sta già sul gradino superiore dell’amore per l’arte e per la scienza, così
come Agatone che, mi sembra, in quanto poeta tragico ha ricevuto da Platone un posto più alto
rispetto ad Aristofane: un giudizio che noi oggi non condivideremmo più: l’uomo spiritualmente più
grande è di gran lunga Aristofane. Infine, Socrate stesso raggiunge il gradino che Diotima
ha indicato come il più alto, l’amore per il bello originario; noi non dubitiamo che egli lo abbia
raggiunto, ma Socr<ate> stesso non ce lo dice, e non lo può, conformemente al suo carattere. Bene
egli descrive come in passato sia stato irretito nello stesso errore che ora è di Agatone; quella
approfondita concezione egli l’ha acquisita. Ma in che misura essa sia passata nella vita e se, in
genere, possa essere realizzata, deve rimanere incerto per il lettore del dialogo. Alcibiade entra in
scena per rappresentare l’amore per il bello originario nel suo effetto sulla vita pratica dell’uomo; e
precisamente l’effetto di questo amore nell’uomo singolo come in Socrate, e la ripercussione di un
uomo pieno di cotanto amore su un altro, come di Socrate su Alcibiade. Qui sta il punto, perché
Platone abbia scelto proprio Alcibiade per descrivere questo effetto. Fosse entrato in scena, per
celebrare Socrate, uno qualsiasi dei suoi giovani, l’effetto sarebbe stato incomparabilmente più
debole. Alcibiade è, al contrario, un apostata di Socrate, un giovane del tutto estraniato dalla
filosofia. L’influenza di Socrate su un tale uomo, e di certo così geniale, è la più splendida prova
che Platone avrebbe potuto addurre di quella suddetta ripercussione. Inoltre Alcibiade non sa nulla
dei discorsi precedenti: tra la sorpresa degli ascoltatori, egli mostra il lato pratico dell’uomo
consacrato al bello originario, mentre Socrate ne mostrava il lato teoret<ico>. Platone lo rappresenta
ebbro, per lasciarlo maggiormente libero di esprimersi su cose che dovrebbero essere evitate in un
dialogo più serio e misurato; ma la loro menzione era necessaria, tanto più che si trattava di fatti
storici. H contrasto fra il discorso di Socrate e quello di Alcibiade è da rilevare come il contrasto
fra due nature: l’uno e l’altro esprimono i loro più profondi sentimenti, l’uno per bocca della
profetessa ispirata dal dio, l’altro nell’ispirazione del vino, i loro più profondi ma
certamente analoghi sentimenti per il bello originario, l’uno riconoscendolo nell’idea, l’altro nel
rinvio alla realtà: Socrate è l’amante del bello originario, ma anche Alcibiade è amante del bello
originario. Tuttavia, quale diversità delle nature: tanto moralmente sublime è l’uno, quanto
moralmente corrotto l’altro, tanto bello nel corpo l’uno, quanto brutto l’altro, tanto sobrio e padrone
di sé l’uno quanto ebbro e senza controllo l’altro.
È chiaro che questi punti di vista si riferiscono al contempo alla filosofìa come alla costruzione
estetica del dialogo. E' da notare che, con la comparsa di Alcibiade, si verifica un improvviso
mutamento di tono; è un ricorso artistico tra i più audaci il fatto che nell’attimo in cui il discorso di
Socrate ha condotto gli ascoltatori, per così dire, nel mare aperto del bello, faccia irruzione la
schiera degli ubriachi e degli esaltati, e tuttavia l’effetto del discorso di Socrate non venga
vanificato, ma potenziato. Il discorso di Alcibiade è opera di Eros, così come il discorso di
Socrate. Ma il discorso di Alcibiade agisce attraverso dati di fatto, quello di Socrate attraverso idee;
e i dati di fatto agiscono con più forza e più efficacia delle idee enunciate. I discorsi di Socrate e di
Alcibiade si muovono in modo simile a quelli di Agatone e Aristofane, di Erissimaco e Pausania,
solo, in una sfera superiore. Socrate, Agatone, Erissimaco sono i pensatori più grandi, Alcibiade,
Aristofane e Pausania agiscono attraverso fatti e miti: quanto a Pausania si deve infatti notare che
egli ha sempre presente il proprio amore per Agatone. I tre pensatori innalzano l’Eros nell’ambito
più vasto delle arti e delle scienze di loro pertinenza, Erissimaco tratta l’Eros come medico,
Agatone come poeta, Socrate come filosofo.
Attraverso l’opposizione di Socrate e Alcibiade viene finalmente alla luce quella doppia natura
demonica di Eros stesso, in mezzo tra il divino e l’umano, lo spirito e i sensi; come, d’altra parte,
attraverso la comparsa di Alcibiade, il Dialogo stesso riceve quella coloritura meravigliosa,
quell’oscillare tra opposte tonalità di colore che si può seguire fin nelle singole parti e che si
riverbera sullo stesso linguaggio. E in modo proprio uguale, ricorda qui la mirabile fusione del
discorso filosofico con il piacere del vino.
La comparsa di Alcibiade appare il punto di svolta dell’azione drammatica come pure dello
sviluppo filosofico in direzione della realtà; e, se mi si consente di azzardare un paragone, Platone
ha connesso tutte le parti del Dialogo in questo punto nodale, non diversamente da come Zeus
raccolse e strinse, con il cordone ombelicale, le diverse parti e pelli degli uomini in un unico nodo.
* KGWI, III, pp. 384-388, traduzione di Maria Cristina Fornari.
Indice
Introduzione
«L’opposto di una natura eroica». Per una lettura antimitica di Nietzsche
Avvertenza
Agonismo “inattuale” e critica della “morale eroica”
1. Le ‘inquiete’ e ‘mutevoli’ inclinazioni del giovane Nietzsche
2. Titanismo e crepuscolo degli dèi
3. La filologia e la ‘seconda natura’
4. L’illusione vitale in Nietzsche e Renan.
L’eroismo della razza celtica
5. Una ‘consolazione metafisica’ per l’eroe che muore
6. Veracità eroica e inattualità: la lezione di Schopenhauer
7. «Siegfried, il filosofo in divenire»
8. Gli eroi figli della grande città
9. Altri eroi ‘modernissimi’: i casi di Hugo, Michelet, Baudelaire, Gobineau nella critica di
Nietzsche
10. Il superamento dell’eroismo nell’ultimo Nietzsche
Socrate monstrum: eroismo e decadenza
1. Cercare tesori e trovare lombrichi
2. Socrate: caricatura e semiotica
3. “Der freieste Mensch”: Democrito contra Socrate
4. Monstrum in fronte, monstrum in animo
5. Socrate anomalo: il filosofo che non scrive
6. Euripides ein Sokratistès
7. Socrate e l’istinto
8. Socrate spirito libero
9. Socrate: eroismo e decadenza
Le ombre di Dio
1. Nuove battaglie
2. Nous oublions le dieu pour adorer ses traces !
3. Stiamo all’erta!
4. Le molte ombre di dio
5. L'univers se répète...
Appendice
Friedrich Nietzsche, Il rapporto del discorso di Alcibiade con gli altri discorsi del Simposio
platonico (1864)