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A partire da Umano, troppo umano, nella filosofia di Nietzsche, accanto al genio e al santo, si

“congela l’eroe” esaltato nella metafisica dell’arte della Nascita della tragedia. Questo contrasta
certamente con la figura consolidata del mito eroico di Nietzsche che ha comunque caratterizzato,
in più modi e direzioni, la fortuna e talvolta perfino il culto del filosofo.
Il tema dell’eroismo appare un termine di confronto continuo e centrale che permette al filosofo di
differenziare la propria posizione dalle molte “morali eroiche” dell’epoca (da Carlyle a Gobineau,
da Wagner a Baudelaire).
La prima parte di questo lavoro percorre il tema dell’eroismo in Nietzsche cogliendone - fino alla
radicale critica - i significativi mutamenti: la filosofia dello spirito libero dissolve, con le
certezze metafisiche, ogni propensione verso una morale eroica che può arrivare all’estremo
ascetico sacrificio di sé. La seconda parte è dedicata alla complessa figura di Socrate, “eroe” della
decadenza, la cui scelta di morte rivela il vero senso della sua filosofia. La terza parte analizza la
lotta di Nietzsche contro le “ombre di Dio” che offuscano l’orizzonte, le diverse figure ed
atteggiamenti che il grande avvenimento della morte di Dio produce. L’“uomo superiore” della
quarta parte di Zarathustra ha in sé i caratteri dell’eroismo: dalla lotta contro il movimento di
Verkleinerung che porta al dominio dell’“ultimo uomo”, alla necessità del proprio tramonto per il
sorgere di una forma di esistenza legata a nuovi valori. 

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Eroismo - è il sentimento di un uomo che aspira a un fine rispetto al quale egli medesimo non conta
più nulla. Eroismo è la buona volontà del tramonto assoluto di noi stessi.
Deve ancora disimparare la sua volontà eroica [...]. Ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi: ma egli
dovrebbe liberare anche i suoi mostri e i suoi enigmi e trasformarli in figli del cielo.
Friedrich Nietzsche
GIULIANO CAMPIONI allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato nel 1970 in Filosofia
presso l’Università di Pisa con Nicola Badaloni. Ha insegnato all’Università di Lecce e di Pisa dove
attualmente è professore di Storia della filosofia. È direttore del Centro interuniversitario “Colli-
Montinari”. Dal 2001 è coordinatore nazionale di ricerche interuniversitarie. È curatore e
responsabile del completamento e revisione dell’edizione italiana Colli-Montinari delle Opere e
dell'Epistolario di Nietzsche e della nuova edizione dei Frammenti postumi 1869-1889 in 21 voll.
(Adelphi 2004). È tra i curatori del Catalogo della biblioteca del filosofo (de Gruyter 2003). Ha
compiuto studi sulla filosofia e sulle culture tedesche e francesi dell’800 e del ’900, con particolare
riferimento a Nietzsche ed alla sua fortuna. Si è occupato, nell’ambito della storia della filosofia
italiana, della “crisi dell’attualismo” e di alcune figure del movimento positivista. Ha indagato
momenti e figure centrali della riflessione francese sui temi dell’etnocentrismo, del razzismo e
dell’identità nazionale.
Tra le pubblicazioni recenti: la cura delle Lettere da Torino di Friedrich Nietzsche (Adelphi 2008) e
degli Scritti filosofici di Ernest Renan (Bompiani 2008); la monografia Der französische Nietzsche
(de Gruyter 2009).
nietzscheana
10
collana diretta da Giuliano Campioni, Franco Volpi
Sandro Barbera, già condirettore della collana sin dalla sua nascita nel 2004, è improvvisamente
scomparso il 5 febbraio 2009. Segnaliamo uno scritto di Giuliano Campioni in sua memoria su
questa pagina: www.schopenhauersource.org/barbera.html
Giuliano Campioni

Nietzsche
La morale dell’eroe
Edizioni ETS
www.edizioniets.com
Pubblicato con un contributo dai fondi PRIN 2005 cofinanziati dal MIUR e dal Dipartimento di
Filosofia dell’Università di Pisa
© Copyright 2008 EDIZIONI ETS /
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
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alla memoria di Sandro Barbera

Introduzione
«L'opposto di una natura eroica».

Per una lettura antimitica di Nietzsche


- «Io sono l’opposto di una natura eroica» (EH, Perché sono così accorto 9). Così Nietzsche, in
Ecce homo, conclude il brano che mostra, con metodo genealogico, «come si diventa ciò che si è»
riassumendo il percorso che lo ha portato alla perfetta maturità della forma. Il filosofo caratterizza
la propria persona, in quella particolare esposizione di sé alla fine della sua avventura di pensiero,
con tratti fortemente antieroici e antifanatici. Del suo libro dichiara: «L’ho scritto per distruggere
alla radice ogni mito su di me»1 e, in ima lettera a Heinrich Köselitz del 30 ottobre 1888: «Non
vorrei assolutamente presentarmi all’umanità

come profeta, mostro, spauracchio morale». Nietzsche racconta se stesso attraverso la propria
minuta quotidianità fatta di «piccole cose, secondo il giudizio comune»: lontano ogni sfondo
grandioso, lontana anche la corona di spine che caratterizza l’iconografia della leggenda, lontano
ogni pathos dell’atteggiamento («chi ha bisogno di atteggiamenti è falso... Attenzione agli uomini
pittoreschi!»). Il grande compito presuppone la grande accortezza nelle piccole cose:
«Alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo - sono inconcepibilmente più
importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante» (EH, Perché sono così accorto 10).
Ecce homo è anche l’ostensione di un corpo - che si realizza essenzialmente come corpus di opere -
nell’autosuperamento della malattia e della decadenza in una superiore forma. Non allo splendore
della salute della ‘bionda bestia’ o di ‘cornuti Sigfridi’, cui la stupidità si accompagna come
l’ombra, ma alla ripetuta pratica del dolore e della pazienza di un corpo che ha vissuto a lungo e
ripetutamente negli angoli della malattia, Nietzsche manifesta la sua gratitudine. La malattia ha
liberato il suo spirito, gli ha dato «la capacità psicologica di “vedere dietro l’angolo”», alla malattia
Nietzsche deve la profondità e le nuances: «Le devo la mia filosofia» (NW, Epilogo 1). La
fisiologia è il presupposto della scrittura: l’essere stato «come summa summarum» sano, ha reso
possibile lo Zarathustra che pone un nuovo inizio: la vera prova di forza sta nella distanza da
ogni profetismo e fanatismo delle convinzioni (Zarathustra è ‘diverso’, «qui non parla un “profeta”,
uno di quegli spaventosi ibridi di malattia e volontà di potenza» (EH, Prologo 4).
L‘essere benriuscito’ si caratterizza per l’autodeterminazione nella misura, contro ogni
atteggiamento eroico ed estremo che seduce senza argomentare.    
Le chiare affermazioni di Ecce homo esprimono la coerenza di un atteggiamento teorizzato a partire
da Umano, troppo umano dove, accanto al genio e al santo, congela l’eroe. Questo in contrasto
certamente con la figura consolidata del mito ‘eroico’ di Nietzsche che, in molte direzioni e in
diversi momenti, in più
modi e accentuazioni, ha comunque caratterizzato la fortuna e talvolta perfino il culto del filosofo2.
Da tempo il lavoro storico e filologico, legato soprattutto all’edizione Colli-Montinari, sta fornendo
strumenti per una collocazione più precisa e sempre più articolata, una migliore definizione di
categorie filosofiche centrali della riflessione di Nietzsche, del suo stile di pensiero, dei movimenti
interni al suo percorso. Emerge il duplice atteggiamento, che caratterizza l’originalità di Nietzsche,
di assimilazione e di distacco dalle immagini proposte dalla sua epoca.
E tuttavia non mancano ancora approcci ideologici e immediatistici alla sua filosofia, nuove letture
strumentali ed anche la cruda riproposizione, al termine di un percorso che ha bruciato rapidamente
le maschere della ‘liberazione’ e del gioco estetico, della terribile semplificazione che lega come un
destino il Nietzsche eroico al nazismo.
Il tema dell’eroismo appare comunque un termine di confronto continuo e centrale che permette al
filosofo di differenziare la propria posizione dalle molte ‘morali eroiche’ dell’epoca (da Carlyle a
Gobineau, da Wagner a Baudelaire).
La prima parte di questo lavoro percorre il tema dell’eroismo in Nietzsche cogliendone - fino alla
radicale critica - i significativi mutamenti: la filosofia dello spirito libero dissolve, con le certezze
metafisiche, ogni propensione verso una morale eroica che può arrivare all’estremo ascetico
sacrificio di sé. La
seconda parte è dedicata alla complessa figura di Socrate, ‘eroe’ della decadenza, la cui scelta di
morte rivela il vero senso della sua filosofia. La terza parte analizza la lotta di Nietzsche contro le
‘ombre di Dio’ che offuscano l’orizzonte, le diverse figure ed atteggiamenti che il grande
avvenimento della morte di Dio produce. L’‘uomo superiore’ della quarta parte di Zarathustra, ha
in sé i caratteri dell’eroismo: dalla lotta contro il movimento di Verkleinerung che porta al dominio
dell'ultimo uomo’, alla necessità del proprio tramonto per il sorgere di una forma di esistenza legata
a nuovi valori.
1 FP 25[6] dicembre 1888-gennaio 1889. Le lezioni, affollate di uditori, sul ‘radicalismo
aristocratico’ di Nietzsche, tenute a Copenhagen nell’aprile-maggio 1888 da Georg Brandes, il
critico danese cosmopolita, rappresentano il primo contatto del filosofo con un pubblico più vasto,
al di là della cerchia ristretta in cui finora era stato valorizzato. Nietzsche comunque coglieva i
segni di pericolosi fraintendimenti e ‘mitizzazioni’ già nella devozione acritica di alcuni seguaci in
cerca di nuove fedi, nella lettura germanica, idealistica, ‘eroica’, addirittura ‘antisemita’, e in quella
biologico-darwiniana, del superuomo. «La parola “superuomo” [...] è stata intesa, quasi ovunque,
con totale innocenza, nel senso proprio di quegli stessi valori il cui opposto si è manifestato nella
figura di Zarathustra» (EH, Perché scrivo libri così buoni 1 ). Si veda anche la lettera a Franz
Overbeck del 24 marzo 1887: «C’è un fatto curioso di cui divento ogni giorno più cosciente. Ho un
“influsso”, molto sotterraneo, ben inteso. In tutti i partiti radicali (socialisti, nichilisti, antisemiti,
cristiani ortodossi, wagneriani) godo di una straordinaria, quasi misteriosa, considerazione.
L’estrema purezza dell’atmosfera, in cui mi sono posto, seduce». «Zarathustra, l’“uomo divino”, è
piaciuto agli antisemiti; ne esiste un’interpretazione specificamente antisemita, che mi ha fatto
ridere molto».
2 Sulla forte presenza del tema dell’eroismo nella fortuna e nel culto di Nietzsche rimando agli studi
di Sandro Barbera, basati su una attenta esplorazione di archivi (tra cui il Goethe-Schiller-Archiv di
Weimar), che hanno portato alla luce e valorizzato con esiti innovativi e sorprendenti epistolari
inediti, diari, appunti. Barbera ha seguito le varie metamorfosi del tema a partire dai «volumi della
biografia in cui Elisabeth fissava le linee canoniche per il culto del fratello, descritto come un genio
che assomma in sé anche i tratti della santità e dell’eroismo» fino all’interpretazione agonale e
guerriera di Baeumler degli anni Trenta, riveduta radicalmente nel dopoguerra. Cfr. in particolare:
L’Archivio Nietzsche tra nazionalismo e cosmopolitismo (in «Giornale critico della filosofia
italiana», 2003, voi. LXXXIII, pp. 21-41) e “Er wollte zm Europa, wir wollten zum Reich“.
Anmerkungen zu den Nietzsche-Interpretationen von Alfred Baeumler in S. Barbera, R. Müller-
Buck ed., Nietzsche nach dem ersten Weltkrieg, ETS, Pisa 2006, pp. 199-234.

Avvertenza
Per gli scritti di Nietzsche, quando non diversamente indicato, il riferimento si intende sempre
all’edizione: Friedrich Nietzsche, Werke, Kritische Gesamtausgabe, herausgegeben von G. Colli
und M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1967 sgg. [KGW], La traduzione italiana utilizzata (quando
disponibile) è quella dell’edizione italiana Colli-Montinari delle Opere di Friedrich Nietzsche,
Adelphi, Milano 1964 sgg. [Opere] attualmente da me curata per il completamento e la revisione.
Per i frammenti postumi degli anni 1869-1874 il riferimento è ai voll. 1-4 di Frammenti postumi,
della nuova edizione da me curata (con la collaborazione di Maria Cristina Fornari), PBA, Adelphi,
Milano 2004 sgg. Salvo diversa indicazione, la numerazione dei frammenti e dei voli, delle Opere
corrisponde a quella dell’edizione tedesca. Per le lettere di Nietzsche e dei suoi corrispondenti il
riferimento s’intende sempre all’edizione: Friedrich Nietzsche, Briefwechsel, Kritische
Gesamtausgabe, herausgegeben von G. Colli und M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1975 sgg.
[KGB]. La traduzione italiana utilizzata (quando disponibile) è quella dell’edizione italiana Colli-
Montinari dell 'Epistolario di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1976 sgg., attualmente da me
curata per il completamento e la revisione [Epistolario]. I riferimenti sono dati utilizzando: per gli
scritti di Nietzsche, le sigle dell’edizione critica seguite dal numero dell’aforisma o del frammento e
identificando le lettere dalla data e dal nome dei corrispondenti.
Il primo capitolo è stato pubblicato nel volume La filosofia e le sue storie (a cura di M.C. Fornari e
F. A. Sulpizio, Milella, Lecce
12

1998, pp. 87-133) con il titolo “Leggere Nietzsche. Dall’agonismo inattuale alla critica della
‘morale eroica’”. Il secondo capitolo, nel volume Socrate in Occidente (a cura di E. Lojacono, Le
Monnier, Firenze 2004, pp. 220-257) con il titolo “Il Socrate ‘monstrum’ di Friedrich Nietzsche”. Il
testo dei due saggi è stato arricchito, rivisto e aggiornato nei riferimenti. Il terzo capitolo è inedito. I
temi di questo capitolo sono stati presentati nei convegni internazionali di Villa Vigoni
(«L’annuncio della “morte di Dio” e la scienza come problema. Aspetti dell’attualità di Nietzsche»,
10-13 settembre 2007); di Xalapa, Veracruz, Mexico («Nietzsche ha muerto?», 1-5 ottobre 2007) e
di Malaga («Nietzsche y la cultura contemporanea», I Congreso Internacional de la Sociedad
espanda de Estudios sobre Nietzsche, 3-5 aprile 2008). In Appendice è tradotto il testo giovanile di
Nietzsche Ueber das Verhältniß der Rede des Alcibiades zu den übrigen Reden des platonischen
Symposions non compreso nel primo volume delle Opere e analizzato nella seconda parte di questo
volume. Ringrazio Maria Cristina Fornari, che da tempo collabora in maniera preziosa alle edizioni
da me curate, per avermi messo a disposizione il testo di Nietzsche da lei tradotto.
Sigle
GA = Nietzsche’s Werke («Großoktav-Ausgabe»), C.G. Naumann (poi Kröner), Leipzig, 1894-1926
(edizione delle opere di Nietzsche in 20 voli., di cui uno dedicato agli indici, pubblicata per
iniziativa di Elisabeth Förster-Nietzsche)
KGB = Nietzsche. Briefwechsel, kritische Gesamtausgabe, a cura di Giorgio Colli e Mazzino
Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1975 sgg.
KGW = Nietzsche. Werke, kritische Gesamtausgabe, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari,
Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1967 sgg.
KSA = Friedrich Nietzsche, Kritische Studienausgabe in 15 Einzelbänden, hrsg. von Giorgio Colli
und Mazzino Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1980,1988 2. Auflage.
Opere = Opere complete di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e
Mazzino Montinari, testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano, 1964 sgg.
Epistolario = Epistolario di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e
Mazzino Montinari, testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano, 1977 sgg.
BN    = Libri della biblioteca di Nietzsche (Nietzsches persönliche Bibliothek, hrsg. von G.
Campioni, P. D’Iorio, M, C. Fornari, F. Fronterotta, A. Orsucci, de Gruyter, Berlin-New York,
2002).
NA = Nachgelassene Aufzeichnungen
NF =Nachgelassene Fragmente

FP =Frammenti postumi
AC = L'Anticristo
BA = Sull’avvenire delle nostre scuole
AC = L'Anticristo
CV =Cinque prefazioni per cinque libri non scritti
DS =David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore
EH = Ecce homo
FW =La gaia scienza
GD = Il crepuscolo degli idoli
GM =Genealogia della morale
GT =La nascita della tragedia
HL = Sull’utilità e il danno della storia per la vita
JGB =Al di là del bene e del male
M = Aurora
MA = Umano, troppo umano
NW = Nietzsche contra Wagner
SE = Schopenhauer come educatore
UB =Considerazioni inattuali
VM =Opinioni e sentenze diverse
WA =Il caso Wagner
WB = Richard Wagner a Bayreuth
WS = Il viandante e la sua ombra
ZA = Così parlò Zarathustra

Agonismo “inattuale” e critica della “morale eroica”


1. Le ‘inquiete’ e ‘mutevole inclinazioni del giovane Nietzsche
Di nessuna grande personalità è conosciuto in così larga misura, come per Nietzsche, il materiale
postumo relativo agli anni dell’infanzia e della fanciullezza: disegni, abbozzi di drammi, poesie,
poemi, composizioni musicali, riflessioni autobiografiche e critiche sui più vari argomenti etc. Nella
canonica del villaggio natale il piccolo figlio del pastore è affascinato in particolare dalla stanza del
padre: «Le file dei libri, molti dei quali illustrati, le pergamene, rendevano quel luogo uno dei miei
soggiorni prediletti»1. Così pure, nel vicino villaggio di Pobles, dove abitava la famiglia del pastore
David Ernst Oehler: «La mia stanza preferita era lo studio del nonno, dove il mio più
grande passatempo era scartabellare tra i vecchi libri e i quaderni»2. I taccuini di quegli anni ci
restituiscono continui progetti ed appunti di lettura; i libri, di cui è continua la richiesta nelle lettere,
costituiscono nutrimento vitale per la sua formazione. Il rapporto con la lettura diventa e rimarrà un
continuo oggetto di riflessione. C’è in Nietzsche la precoce volontà di non subire le forti passioni
del suo temperamento: la necessità di trasformarle, dominarle in consapevolezza critica e sapere. Di
qui la continua assimilazione, quasi incorporazione, di letture in una mobile riflessione critica e
intellettuale, in una continua sperimentazione di scrittura e di stili che appartengono interamente
alla volontaria costruzione di sé.
Naturale e comune per il fanciullo l’essere colpito dagli avvenimenti della guerra di Crimea:
l’emozione mette in moto i prevedibili vivaci giochi infantili con truppe di soldatini, flotte e
terrapieni per riprodurre fedelmente le battaglie. La passione non si sfoga solo nei rumorosi giochi
(«con palle di pece, zolfo e salnitro»3) comunque sorretti dalla minuta sapienza tecnica delle
vicende di guerra e registrati e regolati per scritto. Nei quaderni troviamo anche una poesia sulla
caduta di Sebastopoli, più Orakularia e altri complessi giochi di dadi, un Festungsbuch con
interminabili e prolisse catalogazioni, disegni con dettagliati piani e i movimenti dell’assedio e la
presenza fantasiosa di un invincibile guerriero che chiamava, nel suo latino incerto, l'expungnator
invictus. «Saccheggiavamo tutto quanto potevamo trovare concernente l’arte militare [...] le nostre
raccolte si arricchivano sia di lessici, sia di libri militari nuovissimi, e già progettavamo di scrivere
insieme un grande dizionario militare»4 si legge nell’abbozzo autobiografico del 1858: le fantasie
‘eroiche’ del ragazzo volgono immediatamente all’erudizione non priva di pedanteria.
Ai contemporanei soldati delle cronache di guerra, «gli eroi che han trovato la morte» nell’assedio
di Sebastopoli - su cui Nietzsche versa lacrime e a cui, nella poesia a loro dedicata, rivolge un
solenne saluto finale - succedono, negli interessi del giovane, gli eroi della tradizione classica e
delle saghe della mitologia nordica e germanica. Troviamo, fin dai primi anni giovanili, il forte
fascino per le figure di eroi di primitiva e selvaggia grandezza, caratterizzati già dal termine
‘sovrumano’ e da metafore che esprimono il loro vigore animale. Tale lo sguardo della natura
superiore, capace di incutere terrore, oppure lo sguardo di Swanhilde figlia di Gudrun («das
übermenschliche  Glänzen ihrer Augen»5).
Nel 1858 in un abbozzo di riflessione critica Su Medea, Nietzsche mette a confronto Medea con la
Chrimhilde della saga nibelungica: in Chrimhilde «domina una rozzezza tedesca, che si abbassa
fino alla bestia, mentre Medea rimane sempre nell’ambito ideale della grecità». Ma anche i caratteri
greci primitivi, come le origini «rozze e violente» di tutte le civiltà, portano in sé passioni selvagge
che si esprimono nelle «enormi imprese e avventure eroiche» come quelle della leggenda degli
Argonauti (NA 4[44], [46] Januar-September 1858). Sulle origini primitive dell’umanità il giovane
si esercita anche in due riflessioni critiche: Jäger und Fischer e Die Kindheit der Völker.
Giasone e Medea, il componimento poetico scolastico del 1858, accompagna altri componimenti
che rivelano l’interesse di Nietzsche per le figure eroiche dell’immaginario nazionale-romantico,
come quelli dedicati all’esecuzione a Napoli del giovane ‘eroe’ Corradino, o alla leggenda del
Barbarossa che dorme sottoterra in attesa di un risveglio che porti ‘l’età aurea’ a tutte le terre unite
«in pace e benedizione» (la leggenda, ripresa anche da Heine, in Nietzsche è derivata direttamente
da Friedrich Ruckert).
Intorno alle figure degli eroi si unifica la multiforme attività del giovane: i vari tentativi di
composizioni drammatiche, poetiche, musicali di carattere eroico sono presto sorretti da una analisi
critica, storica e filologica. L’interesse va prevalentemente ai materiali epici della saga nibelungica:
un esercizio poetico è dedicato alla morte di Sigfrido, un componimento scolastico
alla caratterizzazione della figura di Chrimhilde, la cui passione violenta e demoniaca non può
essere compresa dalle nature piccole e deboli, capaci di rispecchiare la propria impotenza solo
nella limitatezza delle loro azioni. Numerosi gli abbozzi e gli appunti per un commento critico del
Nibelungenlied volto a individuarne gli aspetti genetici (il rapporto tra gli ‘elementi pagani’ e le
‘risonanze cristiane’ nell’etica e nella mitologia, l’influenza degli ideali cavallereschi sulla
formazione del mito, il lontano sfondo storico, le caratteristiche estetiche, l’opposizione ai
caratteri omerici etc.) (NA 15[24] Aprii 1863 bis September 1863).
Nietzsche è affascinato soprattutto dalla prima figura della storia germanica, il re degli Ostrogoti
Ermanarico, il cui dominio si estendeva dal Mar Nero al Baltico e la cui leggenda si sviluppa, a
partire dalla cronaca latina di Jordanes - De origine actibusque Getarum scritta intorno al 552 - per
almeno sette secoli contaminandosi con leggende nordiche, danesi e con la saga nibelungica. In tal
modo, la morte per suicidio di Ermanarico nel 375 testimoniata da Ammiano Marcellino, diventa,
ne La saga dei Volsunghi e nel canzoniere eddico (Incitamento di Gudrun e II Canto di Hamdhir),
una sanguinosa e cupa uccisione per vendetta. Questo spinge il giovane a mettere in versi La morte
di Ermanarico, a progettare e abbozzare una tragedia ed a comporre un poema sinfonico a
programma per due pianoforti (avendo come modello la Dante-Symphonie di Liszt) dedicate alla
figura dell’«ultimo e più grande eroe dei Goti»6. Gli interessi per Ermanarico persistono, con vari
intervalli, dall’estate del 1861 all’agosto del 1865, quando Nietzsche abbozza un ultimo, breve
schema di tragedia. Tutto quanto resta di queste elaborazioni è improntato fortemente a un ingenuo
eccesso romantico fatto di passioni selvagge e primitive, notturni tradimenti, tempeste, roghi,
sangue etc. Più significativa dell’erompere senza freno della fantasia è la fredda, decisa
autocritica sulla sinfonia Ermanarico. Nietzsche, infatti, un anno dopo la prima stesura (allora «non
ero ancora in grado di analizzare imparzialmente il flusso di sentimenti che animava tutta
l’opera»7), nell’ottobre del 1862, modifica il poema sinfonico e ne analizza i risultati. La musica gli
appare capace di decantare, più della poesia, la forza della sua passione per la leggenda cupa ed
eroica di Ermanarico. Tutti i miglioramenti apportati (il

«folle impeto» del nuovo finale), il recuperato vigore complessivo, non redimono però la sua
composizione da «acerbità ed eccessi». L’influenza decisiva e negativa di Liszt è confessata: «I miei
personaggi non son certo dei Goti, dei Tedeschi, bensì -non mi perito di affermarlo - figure
ungheresi; [...] ardenti anime magiare»8. Soprattutto colpisce la piena consapevolezza autocritica
del giovane che sembra anticipare - nella dichiarata impossibilità di una poesia ‘ingenua’ - alcune
mosse della sua critica matura ai pretesi eroi germanici di Wagner: «Mancano ai personaggi i
primitivi, possenti tratti germanici; i sentimenti sono più scavati e moderni, troppa riflessione e
troppo poco vigore naturale»9. Né la via della tragedia né quella della musica sembrano soddisfare
il giovane che invece decanta definitivamente tutto il materiale della leggenda di Ermanarico prima
in uno studio storico ‘molto secco’ (luglio 1861), poi in un lavoro di carattere filologico dell’ottobre
del 1863 (La formazione della  saga del re ostrogoto Ermanarico fino al XII secolo) sui cui risultati
esprime una ‘quasi’ soddisfazione.
Questo è il primo lavoro filologico di Nietzsche, che precede il componimento di congedo da
Pforta, in latino, sul poeta Teognide di Megara a cui è stata dedicata, da parte della
letteratura critica, maggiore attenzione. Frutto della rigorosa lezione dei valenti suoi maestri a
Pforta («Steinhart, Keil, Corssen, Peter, uomini dallo sguardo aperto e dai freschi slanci»), è anche
un significativo esempio di quella continua volontà del giovane di trovare nel rigore della scienza
un «contrappeso alle inquiete e mutevoli inclinazioni». Entrambi i saggi intendono recuperare il
nucleo originario, storico, della figura ‘germanica’ di Ermanarico - a partire dalle cronache,
Jordanes, Saxo Grammaticus -liberando e spiegando le molte incrostazioni e contaminazioni del
mito nordico (lo Jormurenck dell’Edda) di cui Nietzsche subisce comunque pienamente il fascino
terribile e sublime ‘che schiaccia l’uditore’.
È un fatto ben noto che la saga nordica traspone in chiave terribile, misteriosa, sublime quanto in
quella germanica si trova ancora nell’ambito della chiarezza storica e dell’umanità [...]. La natura
solitaria e selvaggia del Nord dà l’impronta anche ai suoi canti; sono canzoni che si levano fino al
cielo come rupi, dotate di una titanica forza primigenia, gigantesche nella forma. Tutta la
rappresentazione è quanto mai concisa; ogni parola, possente e greve di significato, è
scagliata come una folgore nell’azione10.
Il saggio filologico percorre analiticamente, in tutte le ramificazioni e varianti, i momenti e le
scansioni della tradizione che trasfigurano negativamente la figura storica di Ermanarico
(originariamente paragonato per le sue grandi imprese ad Alessandro) in una leggenda deformata
dall’odio verso i conquistatori e che presta a Ermanarico i tratti dello stesso Attila (già ne II canto
dell’errante Ermanarico è ‘furioso’, ‘traditore’ e il manoscritto d’Exeter lo paragona al lupo).
Secondo Nietzsche Ermanarico è inizialmente estraneo alla tradizione nordica nibelungica e solo il
nome comune di Gudrun (la maga), mette in relazione due cicli di leggende. Mentre le leggende
nordiche si interessano solo alla cupa fine (non al precedente potere e alle vicende del vasto regno),
per la tradizione germanica Ermanarico è al centro di un ciclo di leggende che si interessano alle
sorti del re prima della catastrofe. Il valore e poi la crudeltà dell’eroe appartengono allo sviluppo del
suo carattere. Comunque - afferma Nietzsche - «per la saga popolare, fintanto che essa si mantiene
nella sua purezza originaria, le forti passioni sono forse oggetto di orrore, ma non di biasimo»11.
Il filosofo crede di poter recuperare, soprattutto in Jordanes, i tratti originali della figura storica
dell’eroe ostrogoto a cui si attacca la leggenda. La catastrofe finale, la morte e forse il suicidio
all’awicinarsi degli Unni di Attila, presuppongono un re ormai vecchio, piegato dalla malattia
dovuta a una ferita al fian-

co: una natura «fisicamente abbattuta e annientata, per poter trovare più comprensibile il
suicidio»12. Nietzsche vede bene anche l’articolazione dei caratteri eroici nel mondo della
saga nibelungica, non omologabili in un unico paradigma. Nella Völsungasaga e nel Canto di
Hamdir, dei tre figli di Gudrun che devono vendicare su Jörmurenk (Ermanarico) la morte
della sorella Swanhilde, Hamdir «dal sublime coraggio» ha il tipico carattere da eroe (ein
Heldencharakter) «animo acceso e battagliero, molto orgoglioso, alieno dal riconciliarsi e dominato
da cieco egoismo»13. Accanto a lui Sörli «dallo spirito saggio» e nobile riconosce la forza del
destino: «Alta fama conquistammo; oggi o domani moriremo. Nessuno vedrà la sera contro
la sentenza delle Nome»14. Erp, chiamato, per disprezzo, ‘bastardo’ e ‘nano bruno’ dai fratelli che
lo uccideranno, viene assassinato - ipotizza Nietzsche respingendo le motivazioni avanzate da
Simrock - per invidia della sua ‘superiorità intellettuale’ e del suo coraggio, riunendo in sé i
caratteri degli altri due.
2. Titanismo e crepuscolo degli dèi
Nietzsche subisce il fascino sublime di questi eroi violenti e determinati nel destino di morte, figure
sovrumane che agiscono sullo sfondo cupo dell’annunciata morte degli dèi. Questa fine, che si
accompagna a rivoluzioni e catastrofi cosmiche, è descritta con crudo naturalismo dal canzoniere
eddico e dall’Edda di Sturluson Snorri. Già nella composizione poetica La morte di Ermanarico, i
neri corvi nelle «nebbie sanguigne» annunciano «il rogo del mondo, il fosco e splendido
crepuscolo degli dèi»15. Nel suo primo saggio storico, Nietzsche afferma:
Quel crepuscolo degli dèi, in cui il sole si oscura, la terra sprofonda
nel mare, vortici di fuoco avvolgono l’albero nutritore del mondo e la vampa lambisce il cielo, è la
più grandiosa invenzione mai escogitata dal genio di un uomo, insuperata nella letteratura di ogni
tempo, infinitamente ardita e terrificante, eppure risolta in incantevoli armonie16.
Nietzsche cita, a riprova, i versi dalla Vôlospà (Profezia della Veggente) in cui la descrizione del
nuovo inizio di una età dell’oro, dopo le cupe vicende dell’annientamento del mondo, è affidata alla
lieve immagine del ritrovamento tra l’erba delle pedine d’oro con cui giocavano un tempo gli dèi: il
ciclo della vita ricomincia.
L’uso del termine Götterdämmerung17 e il forte interesse di Nietzsche per la mitologia eroica
germanica si devono anche alle prime appassionate informazioni su Wagner che l’amico Krug gli
veniva fornendo. Con lui e con Pinder Nietzsche aveva fondato, nell’estate del 1860, l’associazione
culturale Germania, «per stimolare, e al tempo stesso tenere a freno» i giovanili impulsi culturali.
Krug vi aveva tenuto più conferenze su Wagner: sul Tristano e Isotta (marzo 1861), sulla Faust-
ouverture (febbraio 1862) e infine su L’oro del Reno (marzo 1862) (NA 13[28] April-September
1862).
Il tema dell’eroismo si connette, fin dall’inizio, con quello della morte di Dio, col crepuscolo degli
dèi. In questa direzione va anche l’iniziale interesse per la figura di Prometeo. Già in una lettera di
fine aprile-primi di maggio 1859 diretta all’amico Pinder, in un piano comune di lavoro sulla figura
di Prometeo, Nietzsche è affascinato soprattutto dal tema della
fine di Zeus (in rapporto alle saghe tedesche) [...]. Vi si trova la fine di Zeus, conosciuta in
precedenza da Prometeo, il solo in grado di evitarla, in rapporto con il tramonto delle divinità
tedesche, che vengono annientate dalle forze della natura (le quali, presso i Greci, sono appunto i
Titani).

Il cammino dello ‘spirito libero’ troverà nelle grette reazioni dell’ambiente domestico un motivo
continuo di sofferenza fino ad affermare in Ecce homo la ‘disharmonia praestabilita’ con la sorella
e la madre (perfette macchine infernali capaci di ferirlo nei ‘momenti supremi’) e a vedere nella
loro esistenza «la più profonda obiezione contro “l’eterno ritorno”» (EH, Perché sono  così saggio
3). La Bibbia conservata a Weimar nella biblioteca postuma di Nietzsche, con i molti segni di
lettura del padre, porta annotato, accanto al nome del pastore Ludwig, con la data di acquisto del
volume (1820), il nome del figlio Friedrich con la data 1858, l’anno in cui il giovane lascia la
famiglia per andare a studiare a Pforta ed eredita, come viatico per una ideale continuità, il volume
paterno18. E' questo il simbolo visibile di una lunga catena familiare, difficile da spezzare, fatta di
generazioni di pastori, di una severa e ristretta fede luterana che si esprime nelle angustie della
‘virtù di Naumburg’. Nelle lettere degli anni Ottanta, in un periodo di profonda crisi, si legge tutto il
peso del vissuto quotidiano: «Consideri che vengo da un ambiente che ritiene riprovevole e abietta
tutta la mia maturazione; ed è stato soltanto in conseguenza di questo che mia madre l’anno
scorso ebbe a definirmi una “vergogna per la famiglia” e “un disonore per la tomba di mio padre”»
(lettera a Malwida von Meysenbug del 20 aprile 1883). La liberazione non poteva assumere, dato
il temperamento del giovane ed il peso dei vincoli, che il carattere ‘eroico’ di una ribellione
radicale, che necessitava di ima forza ‘sovrumana’ per arrivare all’affermazione della morte di Dio.
Tali impulsi verso la libertà dalla tradizione e dalla fede sono nutriti delle letture sotterranee degli
anni di Pforta dedicate alle figure prometeiche e addirittura sataniche: dal Manfred di Byron ai
Masnadieri di Schiller. A tale proposito Nietzsche scrive già nell’estate del 1859: «Ho letto ancora
una volta I Masnadieri [...]. I personaggi mi appaiono quasi sovrumani, sembra di assistere a una
lotta di titani contro la religione e la virtù»19.
Nietzsche si sofferma a caratterizzare la caduta dell’eroe in Schiller, in un confronto interno tra una
poesia giovanile del poeta e un passo del dramma, con l’immagine dello splendore del sole al
tramonto. La metafora, presente anche in Byron ed Hölderlin, tornerà più volte in Nietzsche,
soprattutto nello Zarathustra. Karl Moor vuol ripetere nel suo eroismo estremo la virtù dei grandi
uomini di Plutarco e assume lo spirito ribelle del Satana di Milton contro la mediocrità dell’epoca,
contro la legge e la morale comune: «La scintilla del fuoco di Prometeo si è spenta sostituita dalla
fiamma dello zolfo, un’innocua fiamma da teatro [...]. La legalità non ha mai generato
un grand’uomo, mentre la libertà produce colossi ed eventi memorabili»20. Il filosofo stesso si
esercita in brevi scritti, in un gioco stilistico improntato a un satanismo romantico, di
maniera, spinto subito al grottesco. In tal modo si esprime e si esorcizza ad un tempo
l’irrequietudine giovanile: è il caso dell’abbozzo della ‘ripugnante’ novella Euforione, che fin dal
titolo rimanda alla figura di Byron (questo il nome del poeta inglese nel Faust di Goethe), e di altri
componimenti rimasti o di cui si ha notizia da brevi appunti («“Satana ascende dall’inferno”
insoddisfazione: difficoltà a cogliere il satanico e a rappresentarlo»21). E' nota la passione giovanile
di Nietzsche per il poeta inglese visto come espressione di una uhris titanica, prometeica, che rompe
ogni limite sfidando il cielo. I suoi eroi - in particolare Manfred - non scendono a patti con nessuna
forza superiore fidando solo sull’energia della propria volontà. Per ben tre volte a proposito di
Manfred il giovane Nietzsche (dicembre 1861) adopera il termine Übermensch22, - usato più volte
dallo stesso poeta inglese - per definire il personaggio, il carattere della sua disperazione e per
connotare l’opera di Byron. La crisi profonda della fede e la sfida nei confronti della tradizione,
avevano

trovato, nello stesso periodo, altri strumenti di liberazione: dalla critica filologica ai Vangeli della
scuola liberale, alla filosofia di Feuerbach e di Emerson. Infatti, con gli appunti e i saggi della
primavera del 1862, il filosofo approda all’affermazione di una piena immanenza, che vede nella
fede cristiana, contro la forza degli antichi che credevano nel fato, una scelta di debolezza, «una
incapacità a plasmare da sé, con decisione, il proprio destino». Citando da L’essenza del
cristianesimo di Feuerbach, Nietzsche pone il cammino del recupero dall’alienazione («Dio è
diventato uomo»), come espressione di un nuovo eroismo: «L’umanità acquista la sua virilità
attraverso gravi perplessità e ardue battaglie; essa riconosce in sé “l’inizio, il centro e la fine della
religione”»23.
Nell’aprile del 1859 Nietzsche scrive un breve dramma in un atto dedicato a Prometeo, i cui
riferimenti sono la Teogonia di Esiodo (w. 521-564) e l’inno Prometeo di Goethe del 1773: il primo
per l’inganno a Zeus, durante il sacrificio, il secondo per le caratteristiche del titano solitario che
sfida gli dèi coprendoli di disprezzo e rifiutando di condividere con loro il cielo. Prometeo vuol
governare sugli uomini da lui creati: la creazione degli uomini a propria immagine, da parte del
Prometeo goethiano, è il tratto più rivoluzionario/superomistico dell’inno. Il riferimento va però
anche alla composizione poetica Das Göttliche in cui Goethe afferma il valore normativo degli
immortali che possono essere ‘in grande’ ciò che l’uomo è ‘in piccolo’ e postula una sorta di
conciliazione e necessaria collaborazione tra il mondo umano e il divino. Sullo sfondo l’ostile
insensatezza della natura che non distingue buoni e cattivi e che tutti imprigiona in un ciclo eterno.
Il Prometeo di Nietzsche rifiuta l’alleanza ‘di terrore’, proposta dal padre Japeto («Voglio essere
libero e sovrano di questi uomini cui ho dato l’esistenza
[...] non tollero alcun padrone»24). Dopo l’inganno del sacrificio, di cui gli dèi onniscienti subito si
accorgono e per cui puniscono il titano, il coro degli uomini risolve ingenuamente - e la soluzione
estetica non è certo felice - la tensione accogliendo la conciliazione dell’inno goethiano. L’impulso
edificante permette la collaborazione degli uomini con gli dèi che fungono loro -soltanto - da norma
e da specchio: «Ma guai a coloro / che adorano dèi / anch’essi non liberi / da colpe e da vizi»25. Il
tentativo poetico, ancora una volta, è seguito da una riflessione autocritica, un dialogo
umoristico/satirico che si richiama ad un registro stilistico del tutto diverso: il modello esplicito è
Jean Paul. Si mette in scena l’incomprensione e il contrasto tra il poeta e vari rappresentanti del
pubblico: un capitano, uno studente, un professore, un consigliere, una vecchia signora. Il pubblico
che affonda, in modo diverso, nella stupidità - la grossolanità, l’ignoranza, la pedanteria etc. - rende
impossibile un ritorno nel mondo contemporaneo al linguaggio della classicità: il dialogo satirico di
Nietzsche sembra annullare nell’autocritica ogni possibilità di tentativo epico.
3.La filologia e la ‘seconda natura’
Questi diversi registri di scrittura appartengono alla lenta e metodica invenzione di uno stile che è
costruzione di sé. Nietzsche ha insistito più volte, fin dagli appunti autobiografici del 1867-68, su
una ‘seconda natura’ estorta con forza alle ‘libere’ inclinazioni considerate un pericolo. Lasciata alle
spalle la metafisica romantica e l’esperienza wagneriana, ai vecchi amici che vedono nello ‘spirito
libero’ una ‘decisione stravagante’ che lo estranea da se stesso, Nietzsche ribadisce: «Soltanto
grazie a questa seconda natura ho preso possesso della mia prima natura» e, in modo più radicale, in
una lettera a Rohde: «Ho una

“seconda natura”, però non per distruggere la prima, bensì per reggere a questa. La mia “prima
natura” mi avrebbe distrutto già da un pezzo - anzi mi aveva già quasi distrutto» (a Hans
von Bülow, primi di dicembre 1882 e a Rohde, stesso periodo)26.
Anche per la poesia il tentativo, sempre consapevole e fortemente autocritico, dell’‘operoso
fabbricatore di rime’, che arrivava ad imporsi, per un certo periodo, di scrivere una poesia al giorno,
è quello di «mostrare non già come si nasce poeti, bensì come lo si diventa»27. Una continua e
insoddisfatta analisi («Scrivevo orribili poesie, ma col più grande ardore»28) che segue evoluzioni e
decise svolte, e la richiesta principale ai propri versi: «Mancava pur sempre la cosa principale, i
concetti», «Una poesia priva di concetti ma ammantata di frasi ed immagini assomiglia ad una mela
rossa di fuori, che all’interno ha il verme», «Una trascuratezza nello stile si perdona più facilmente
di un’idea confusa». Così pensa il giovane di quattordici anni che ancora vuole sentire, nelle sue
vicende, la guida sicura di Dio, che sente la musica come «splendido dono di Dio» capace di
elevare e guidare verso il Bene e la Verità ed esprime tutta la sua diffidenza verso la stravaganza e
confusione della «cosiddetta “musica del futuro”»29. Nietzsche esplicita fin dagli anni giovanili il
suo fondo ‘tellurico’, la sua natura impulsiva, passionale, ricca e debordante in più direzioni. Ben
presto coglie come il libero abbandono agli impulsi possa essere dissolvente e come sia necessaria
una consapevole rinuncia ed una limitazione del campo di attività. Questa sensibilità si esprime
spesso nella assidua funzione pedagogica (talvolta rude) verso gli amici e ancor più verso se stesso.
La prima lettura di Schopenhauer (nel 1865) significa la decisione di vivere, fino in fondo, la
filosofia di quel «genio cupo ed energico». Ciò provoca nel filosofo una vera «rivoluzione
spirituale», ma anche «una violenta agitazione nervosa» e il pericolo
di follia: il rimedio è visto nell’ordine, nell’«obbligo degli studi regolari». Significativa la
riflessione sull’amico Romundt - «in lui erano disperatamente mescolati i tratti di studioso, poeta e
filosofo»30 - che diventa specchio negativo dei pericoli in cui può incorrere la pluralità di
aspirazioni e di doti che non abbiano alcuna definizione di traguardi: l’impotenza e la «perpetua
insoddisfazione». Gli scritti autobiografici insistono sui pericoli della dispersione che può diventare
disgregazione: il «vagabondare senza meta in tutti i campi dello scibile» («Giungevo perfino
a disegnare e a dipingere»31, «Mi ero talmente immedesimato nell’idea di acquistare scienza e
capacità universali, che correvo il rischio di diventare un vero stravagante e visionario»32). A questi
pericoli un Nietzsche, ‘passionalmente severo’, contrappone la serietà dello specialismo, la volontà
connaturata di «risalire fino alle radici più remote e profonde dei singoli argomenti»33.
La scelta per la filologia non è, nell'autoriflessione del filosofo, espressione di un ‘istinto’ o
vocazione, ma nasce dalla «educazione, riflessione, forse addirittura dalla rassegnazione». «Quando
mi volgo a considerare», si legge in un appunto autobiografico dell’inizio del 1869, «come sono
passato dall’arte alla filosofia, dalla filosofia alla scienza, e in quest’ambito a interessi sempre più
ristretti: la cosa ha quasi l’aria di una consapevole rinuncia»34. Era anche, in un comune sentire
schopenhaueriano, la consapevole scelta dell’amico della giovinezza, il filologo Erwin Rohde,
esplicitata in una lettera a Nietzsche del 4 novembre 1868. Per chi non ha la libertà del genio si
pone la necessità di «conquistare un terreno solido, un campo che possa essere coltivato con risorse
minori; giacché, a noi piccoli uomini, l’agio necessario per l’esistenza non può darcelo se non un
lavorio coscienzioso, in una sfera liberamente scelta del fili-

steismo». Sempre più, per Rohde, la inesorabile chiusura nell’orizzonte domestico e nel lavoro
filologico, trova come compenso e trasfigurazione ideale la musica eroica di Wagner: «Bayreuth,
l’unico posto al mondo dove posso dimenticare me stesso, i miei dolori e insieme la filologia [...] e
naufragare in un mare di piacere» (a Friedrich Nietzsche, 2 luglio 1876).
Ad una natura ‘tellurica’ come quella di Nietzsche, solo per poco tempo poteva dare rassicuranti
confini la limitazione liberamente scelta fatta di ininterrotta lettura, di rigore e completezza
dell’informazione bibliografica con la sensazione di «essere murato tra i libri» (a Carl von
Gersdorff, 7 aprile 1866). («Il dotto in fondo non fa che “compulsare” libri - circa duecento al
giorno per il filologo medio»; EH, Perché sono così accorto 8). Questo non ha nulla a che fare con
l’immagine caricaturale - è stato fatto anche questo - di un Nietzsche alieno ed ostile ad ogni lettura
e che, carico di ispirazione e geloso della sua geniale indipendenza di pensiero, scrive, mentre
passeggia, folgoranti aforismi e massime da restituire, magari in opportuni breviari, per opportune
citazioni alla ‘bello superiore’.
Nietzsche, comunque, porta entro la cornice della scienza più accademica e rigorosa della Germania
dell’epoca le forti tensioni e gli impulsi che avevano caratterizzato il suo percorso giovanile. Egli
cerca, volta a volta, nuovi punti di equilibrio e di convivenza tra metafisica dell’arte e filologia, fino
alla definitiva conquista di una ‘propria’ filosofia. Solo lo spirito diventato libero può sciogliere
definitivamente il rapporto di subordinazione del filologo/educatore nei confronti del ‘genio’, e
continuare a valorizzare «l’arte di leggere bene» propria della filologia. L’atteggiamento filologico
rimarrà sempre lo strumento necessario di pulizia e di probità intellettuale contro ogni tentativo di
‘corruzione’ del testo attraverso il suo ‘approfondimento’ con interpretazioni morali e teologiche: è
il caso delle letture pneumatiche della natura o della lettura in termini di colpa e castigo di
sofferenze fìsiche35.
Nell’ultimo periodo Nietzsche propone la solidarietà di intenti critici tra filologia, fisiologia,
genealogia, contro le interpretazioni predeterminate, fisse, pre-giudiziali che rifiutano il lavoro
paziente. Si tratta di leggere le intenzioni e le forze che attraversano il testo, che lo costituiscono:
leggere bene, lentamente, con «la cautela, la pazienza, la finezza. Filologia come ephexis
nell’interpretazione: si tratti di libri, di curiosità giornalistiche, di destini o di fatti metereologici -
per non parlare della “salvezza dell’anima”» - scrive Nietzsche ne L'anticristo (52). Una ‘volontà di
sapere’, di andare fino in fondo, mettendosi di fronte alle varie manifestazioni della complessità del
reale, leggendone i segni e sciogliendone i geroglifici senza prevaricarne il senso con distorsioni
pregiudiziali, fissate e rigide. Questo atteggiamento contribuisce a svelare l’apparato di
falsificazione che sorregge la mistificazione del ‘genio’ metafisico, l’illusione dell’immediatezza.
Ma il professore di filologia a Basilea non usa ancora questa carica liberatrice contro l’ideale
metafisico: permane una sorta di solidarietà spontanea tra la subordinazione del filologo e l’impero
del genio, quasi che il mestiere quotidiano, ‘macchinale’, abbia bisogno della trasfigurazione
oppiacea dell’ideale e della musica di Wagner.
La pubblicazione, attualmente in corso nell’edizione critica, dei materiali filologici (in particolare
gli appunti dei vari corsi di lezione a Basilea) ha facilitato una più accorta e autonoma valutazione
del lavoro filologico di Nietzsche all’interno della storia degli studi classici e ha permesso di
conoscere il complesso rapporto di interazione e conflittualità tra un mestiere, praticato con
crescente sicurezza, e il sorgere della identità filosofica36. Certamente l’interesse filosofico non
significa per
Nietzsche allontanamento o ostilità nei confronti della filologia, piuttosto la volontà di
sovrintendere ad una pratica inattuale della disciplina. Nuovi problemi sul senso del mestiere
specialistico, sui pericoli del filisteismo legati alla professione (i filistei come «gli individui
continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà che non è tale»37), sui compiti
più generali per la rinascita culturale della Germania, si intrecciano alla filosofia del ‘musagete’
Schopenhauer, «il filosofo di una ridestata classicità, di una grecità germanica»38. Il culto del
genio - già presente nei tratti aristocratici delle riflessioni di Lipsia -si sviluppa soprattutto dopo
l’incontro con Wagner: «Nessun altro mi fa manifesta l’immagine di dò che Schopenhauer chiama
“il genio”»; «E' il mio corso pratico di filosofia schopenhaueriana» - scrive Nietzsche, con
entusiasmo, agli amici39.
All’interno dei suoi studi sulle tradizioni della storia letteraria, nei primi anni di Lipsia, il filosofo
intraprende una radicale critica dei metodi, delle angustie, delle finalità degli studi filologici della
sua epoca incapaci di cogliere lo spirito dell’antichità. La prospettiva muove da Schopenhauer ed
assume anche i caratteri di critica, a favore della visione artistica, contro la sopravvalutazione della
storia e contro i ‘costruttori’ di storia che usano le categorie interpretative di ‘progresso’,
‘necessità’, ‘sviluppo’. La storia è essenzialmente storia dei confusi bisogni e impulsi della massa,
«la singola personalità conta solo in quanto ha agito sulla massa», il successo è legato alla capacità
di soddisfare bisogni. «I bisogni il cui soddisfacimento è più vistoso e si esprime in guerre,
letterature, etc. non per questo sono i più importanti. Un pezzo di pane è sempre più importante
di un libro»40. È evidente in queste riflessioni l’influenza della caratterizzazione che Schopenhauer
fa del ‘talento’ come di colui
che è capace di rispondere ai bisogni dell’epoca, al servizio comunque della volontà e diverso, per
sua natura, dal genio
di solito in contraddizione e in lotta contro il suo tempo [...]. Gli uomini, che hanno solo talento,
arrivano sempre al momento giusto: infatti, poiché sono stimolati dallo spirito del proprio tempo e
provocati dal bisogno del presente, sono anche in grado di soddisfare questo preciso bisogno41.
Per Schopenhauer solo al genio e al «vero eroe» (tra loro avvicinati per l’isolamento e la lotta
contro le tendenze dell’epoca) si addice il predicato di ‘grande’: «Andando contro la natura umana,
non hanno cercato il proprio interesse, né hanno vissuto per sé, bensì per tutti»42. Solo i grandi
possono percepire il grande e solo il grande filosofo capace di una visione universale dà impulsi al
lavoro subalterno e riproduttivo del filologo. Il confronto tra il genio filosofico (‘datore di lavoro’) e
il filologo (‘operaio di fabbrica’) - la metafora è direttamente derivata dai Parerga di Schopenhauer
- torna più volte nelle riflessioni del giovane Nietzsche. «Anche i nostri massimi talenti
filologici sono solo relativamente datori di lavoro»; da un punto di vista più alto non sono essi stessi
che «operai al servizio di qualche grande semidio della filosofia»43.
La filologia - si legge nella prolusione di Basilea - è un nome che copre attività scientifiche tra loro
diverse e che ha un carattere composito: «È un po’ storia, un po’ scienza naturale, un po’ estetica»44.
Il tentativo è quello di trovare, in quella ‘pozione magica’, miscuglio di materiali e impulsi più
eterogenei, una via di uscita dai muri dalla prigione storicistica che pone anche

il migliore filologo in un rapporto esclusivo «con i pensieri fissati per scritto»45. Sotto l’influenza di
Schopenhauer, Nietzsche sottolinea, nei suoi appunti per una storia degli studi letterari, come oltre
alla membrana «spessa ed impenetrabile» che avvolge le cose in sé, l’osservatore storico sia da esse
separato anche da «quelle due membrane che sono le rappresentazioni del tempo e delle fonti»46.
Una via d’uscita verso una realtà più immediata, sembra essere, a partire dall’inverno 1868-69, la
considerazione sulla «conoscenza scientifica [naturwissenschaftlich] dell’essenza del linguaggio»:
il più bel trionfo della filologia «è la linguistica comparata con la sua prospettiva filosofica»
grazie alla quale «sono state scoperte delle leggi, si è entrati tra le scienze naturali [...], si è cercata
una via verso i problemi del pensiero». La componente naturwissenschaftliche della filologia è da
Nietzsche collegata alla tematizzazione del «più profondo istinto dell’uomo, l’istinto linguistico».
Nietzsche sembra credere, dopo la lettura di Eduard von Hartmann, che la tematica degli istinti,
caratterizzati come oscura potenza della storia, gli permetta un rapporto più diretto con la natura: in
tal modo non ci si limita più ad esaminare solo «gli occhiali con cui uomini lontani vedevano il
mondo».
Se noi cerchiamo di intendere questi uomini straordinari, insieme ai loro pensieri, solo come
sintomi di correnti spirimali, come sintomi di vita ininterrotta degli istinti, tocchiamo direttamente
la natura. Lo stesso accade quando procediamo fino all’origine del linguaggio47.
Gli interessi verso le scienze della natura, sviluppatisi a partire dalla lettura della Storia del
materialismo di Lange e presenti anche negli appunti sulla teleologia (del 1868) e negli studi
democritei, lasceranno il posto, nel percorso più visibile della riflessione di Nietzsche, alla
‘metafisica dell’arte’. Il filologo ideale sarà allora subordinato e complementare all’attività del
genio artisti-
co (Wagner) e la sua «inclinazione pedagogica» sarà recuperata in un senso più alto contro
l’aspetto, apologetico ed ‘umanistico’, dominante nello studio attuale dell’antichità. Significative
in questa direzione le lezioni tenute nel semestre estivo del 1871 e invernale del 1873-74
(Encyclopädie der klassischen Philologie und Einleitung in das Studium derselben) in cui il
filologo assume un posto centrale con la funzione di educatore: per essere tale veramente egli deve
comprendere la ‘classicità’ senza mistificarla. Di qui il necessario momento propedeutico della
filosofia che, al contrario della scienza, riesce «a porre in luce da ogni punto di vista anche ciò che è
particolarissimo»48 senza smarrire la visione complessiva, in grande, che permette di porre al
passato domande nuove per avere nuove risposte49. Nelle lezioni si precisa la professione di fede
espressa con la temeraria inversione del motto di Seneca («philosophia facta est quae
philologia fuit»50) e posta da Nietzsche alla fine della sua prolusione su Omero. La scelta filosofica,
propedeutica necessaria per il nuovo filologo, è l’‘idealismo’ inattuale promosso da
Schopenhauer: «Qui appare la cosa più utile l’unione di Platone e Kant». Ciò comporta, come nella
prolusione, un conciliante programma in cui l’attività filosofica sembra poter integrarsi, senza
dilacerazioni, con la stessa attività filologica. La ricerca dell’«antichità reale» degli studi filologici
non necessariamente preclude ^antichità ideale». Il nuovo filologo - dotato di una enorme
‘riproduttività’ di contro alla creatività del genio - diviene così l’insegnante ideale, «il mediatore tra
i grandi geni e i nuovi geni in divenire, tra il grande passato ed il futuro»51. Nietzsche afferma che il
filologo deve essere ‘uomo moderno’ ma legato con la grandezza moderna capace di aprire la via
alla grandezza reale dell’antichità. Il tema è ripreso e sviluppato nelle conferenze Sull’avvenire
delle nostre scuole che pongono una necessaria conti-
nuità di aspirazione «verso la terra della nostalgia, la Grecia», tra i grandi classici tedeschi e il
nuovo educatore: non è possibile «saltare direttamente, senza servirsi di ponti, in quello
straniato mondo greco»52. L’affermazione che troviamo più volte nel periodo giovanile, del
«legame che avvince realmente la più intima natura tedesca al genio greco» - con qualche richiamo,
perfino, alla «fedeltà del soldato tedesco» - appare una concessione alle posizioni wagneriane e sarà
oggetto di una decisa e ferma autocritica a partire da Umano, troppo umano.
La filosofia di Schopenhauer guida la ricerca, nel passato, di atteggiamenti pessimistici che vanno al
di là della divisione tra Paganesimo e Cristianesimo. Ciò impone anche una cautela critica nei
confronti della categoria della «serenità greca [.griechische Heiterkeit]» che non tiene conto del
sostrato della tragedia, dei misteri, della filosofia di Empedocle. La prospettiva capace di fornire
l’orizzonte di senso al lavoro filologico è ‘l’elemento universalmente umano’: «L’arte greca è
l’unica che sopravanzi i limiti nazionali: qui giungiamo per la prima volta all' Humanität cioè non
alla umanità media, ma alla umanità più alta»53. Nietzsche insiste, qui come altrove, sulla
falsificazione umanistica della essenza naturale, tragica, della natura umana, che si rivela
scopertamente nel mondo greco dove l’individualità è possibile in maggior misura e con maggior
forza che nel mondo moderno. Nel mondo greco è ancora unito ciò che nel mondo attuale, sotto
l’impero della civilizzazione e della divisione del lavoro, è in pezzi: l’arte con la religione,
l’individuo con la comunità e lo Stato. Il concetto di ‘Humanität’ non ha niente a che fare con i
«diritti fondamentali»: la bella comunità che rende possibile belle individualità ha come sua
condizione terribile la schiavitù.
Nietzsche propone l’immagine dell’uomo ideale come qualcosa di raro, come capace di tenere
insieme e in equilibrio gli
istinti: egli è ad un tempo «profondo, mite, artistico, politico, bello, dalla nobile forma». Per
arrivare a questa immagine ideale Nietzsche ritiene ancora necessario il modello greco. Negli anni
successivi, quando matura la crisi della metafisica dell’arte e del rapporto con Wagner, tornando con
più radicalità ad una critica della filologia attuale, Nietzsche ritiene che «dalla civiltà antica noi
siamo separati per sempre, in quanto le sue fondamenta sono per noi diventate completamente
fradicie» (5[156] primaveraestate 1875). Il mito, il pensiero ‘impuro’, la religione e anche l’arte,
succedanea della religione - in quanto ‘narcotici’ e ‘medicine inferiori’ - non possono più essere i
fondamenti della nuova civiltà.
Proprio Wagner a Bayreuth, segna la crisi radicale della centralità metafisica dell’arte vista ora
come «l’attività di colui che riposa»: «Gli oggetti a cui mirano gli eroi tragici non sono senz’altro di
per sé le cose più degne d’essere desiderate». L’opera d’arte viene valorizzata solo in quanto
semplifica i problemi e le soluzioni: per questo essa appartiene al sogno ristoratore che precede la
battaglia eroica dell’individuo contro il ‘potere’, la legge, le convenzioni. «L’arte non è certo una
maestra e un’educatrice per l’agire immediato; l’artista non è mai in questo senso un educatore e un
consigliere». Per chi è divenuto «veggente di fronte al reale» l’arte rappresenta, nella sua
semplificazione delle «reali lotte della vita» e del «calcolo infinitamente complicato dell’agire e del
volere umano», un ristoro momentaneo. La fuoriuscita immediata dal caos, promessa dall’arte
tragica e legata alla morte redentrice dell’eroe («Il modo più bello di vivere per gli individui è di
maturare per la morte e immolarsi, nella lotta per la giustizia e l’amore»), appartiene alla
consolazione momentanea. «Perché l’arco non si spezzi, perciò esiste l’arte» (WB 4). Nella
‘semplificazione’ wagneriana del mondo è già avvertito il pericolo della letargia. La
categoria ampia di ‘educazione’ si sviluppa ora in contrapposizione a questi pericoli presenti
nell’arte. Accanto ad un fondo immutabile e tragico dell’esistenza, si riconosce un campo di
mobilità che, liberato dalle strutture metafisiche, può essere plasmato

dall’attività umana ordinatrice, dall'«effettivo potere sulle cose». La filosofia deve stabilire «fino a
che punto le cose abbiano natura e forma invariabile: per poi procedere col coraggio
più intransigente al miglioramento della parte di mondo riconosciuta mutabile» (WB 3).
L’«educazione» viene definita «anzitutto una dottrina del necessario, ed in seguito una dottrina di
ciò che si trasforma ed è modificabile».
Per questo compito, ai tradizionali educatori della gioventù tedesca, Nietzsche ritiene si debbano
sostituire «il medico - il naturalista - l’economista». Negli appunti per l’Inattuale sulla filologia che
pongono come centrale il tema dell’educazione e la necessità di «educare gli educatori», il filologo
non ha più un ruolo centrale positivo. L’ultimo importante tentativo di Nietzsche di aprirsi un varco
verso la realtà ancora all’interno della disciplina filologica rinnovandone radicalmente la pratica,
prima di abbandonare definitivamente la cattedra di Basilea per divenire filosofo e fugitivus errans,
è costituito dall’uso dell’etnologia e della sociologia dell’epoca (Tylor, Lubbock, Wuttke, Hellwald,
Bagehot, Spencer) ampiamente documentato dalle lezioni sul culto divino dei Greci54. Riflessioni
centrali di questo corso diverranno aforismi di Umano, troppo umano.

4. Lillusione vitale in Nietzsche e Renan.

L’eroismo della razza celtica


Alcuni frammenti della fine del 1874 contengono l’abbozzo di un dramma allegorico su Prometeo
in cui Nietzsche intendeva affrontare la critica della civiltà moderna nel suo rapporto con la Grecità.
I temi accennati nei frammenti su Prometeo - e la forma che vuole esprimerli - sono, come anche il
più artico-
lato tentativo di tragedia su Empedocle, lontani prodromi dello Zarathustra. Mentre la figura di
Empedocle dipende fortemente da Hölderlin, questo abbozzo si richiama a Goethe, in particolare
alla Pandora che esprime la Sehnsucht per la bellezza e la felicità del passato.
Al centro ancora la morte di Zeus, andato in rovina a causa del figlio e del fatto che Prometeo non
ha voluto svelare il segreto della fine del dio. Zeus, volendo la distruzione degli uomini, aveva
inventato la splendida civiltà greca: gli uomini in tal modo avrebbero perduto il gusto della vita
nell’impossibile tentativo di uguagliare i Greci e nella assoluta nostalgia di quella irraggiungibile
bellezza. Il figlio di Zeus provvede all’uopo rendendo gli uomini stupidi e timorosi della morte: da
ciò il loro odio per il mondo greco e l’attaccamento ad una ‘piccola’ sopravvivenza. Prometeo
manderà Epimeteo per contrastare la volontà del figlio di Zeus, volenteroso anche lui di annientare
in altro modo gli uomini. Epimeteo suscita Pandora (‘la storia, il ricordo’) e con essa ‘la favolosa
Grecità’. Essa in un primo tempo seduce gli uomini alla vita; in un secondo momento, rivelatisi
‘terribili e inimitabili’ i fondamenti reali di quella cultura, li allontana dalla vita. Prometeo dopo
aver ridotto gli uomini ad un’amalgama (una ‘massa’, una ‘poltiglia’) può creare il nuovo uomo,
‘l’individuo del futuro’. Per rinascere in una nuova forma superiore gli uomini ‘devono anzitutto
perire’. In questi frammenti compare anche Dioniso, ‘colui che supera il mondo’, destinato
comunque, come Zeus, ad andare in rovina. Da alcuni cenni si comprende come, nelle intenzioni di
Nietzsche, il dramma dovesse avere caratteri grotteschi e satirici: «Gli dèi sono stupidi (l’avvoltoio
chiacchiera come un pappagallo) [...]. L’avvoltoio non vuol più divorare. Il fegato di Prometeo
cresce troppo [...]. Prometeo e il suo avvoltoio sono stati dimenticati»55. Tale avvoltoio, alla luce
delle affermazioni dello

scritto postumo su Lo stato greco, potrebbe essere compreso come la verità dell’affermazione: «La
schiavitù rientra nell’essenza di ogni cultura». Scrive infatti Nietzsche che la violenza esercitata
sulla casta di schiavi (terribile e necessaria per la creazione di una cultura), è la realtà «che non
lascia alcun dubbio sul valore assoluto dell’esistenza. Tale verità è l’avvoltoio che divora il fegato al
fautore prometeico della cultura»56. Da questa verità l’uomo moderno rifugge nascondendo, a se
stesso e agli altri, la generale schiavitù del mondo che lo circonda, priva di senso e finalità superiori,
attraverso l’«allucinazione concettuale» della dignità dell’uomo e del lavoro.
Nietzsche, in più luoghi, riprende le pagine dove Schopenhauer attacca la ‘dignità dell’uomo’ come
una formula vacua che nasconde l’assenza del concetto. La concezione metafisica di Nietzsche, che
vede come finalità ultima e necessaria della realtà la produzione del genio, propone un’altra
dimensione, più dura ed eroica, della dignità: «Ogni uomo, con tutta la sua attività, acquista una
dignità solo in quanto sia, coscientemente o incoscientemente, uno strumento del genio [...].
Solo come essere pienamente determinato, al servizio di scopi ignoti, l’uomo può giustificare la
propria esistenza»57. Il dovere appare come «obbedienza verso un istinto, che si presenta nella
figura di pensiero» (7[26] fine 1870-aprile 1871]. Nell’istinto si esprime direttamente una volontà
che sottomette con l’inganno l’individuo. La vergogna, che accompagna nel mondo greco anche la
produzione artistica come seduzione alla vita, è l’espressione della consapevolezza dell’uomo greco
di essere solo uno strumento di fenomeni della volontà che lo trascendono infinitamente come
individuo. I veri moventi della volontà sono nasco
sti dalle rappresentazioni del dovere e si impongono come istinti. La struttura di inganno è quella
individuata da Schopenhauer nella metafisica dell’amore sessuale: l’istinto è illusione (Wahn) che
perpetua la volontà di vivere, è l’inganno da parte del ‘genio della specie’ a spese dell’individuo. Il
postulato iniziale di Nietzsche della impossibilità pratica della negazione della vita, comporta
l’accettazione di questi meccanismi di illusione funzionalizzati alla costruzione di una civiltà
superiore. L’arte e il mito sono l’immagine illusoria più alta di seduzione alla vita: «Correggere il
mondo - ecco la religione o l’arte. Come deve apparire il mondo, perché valga la pena di
vivere?» (5[32] settembre 1870-gennaio 1871). La trama delle illusioni è nelle mani del genio
tragico che, per amore e compassione della comunità, asseconda l’inganno dell’Uno originario. La
scelta della Grecità è lontana dal puro dionisiaco (letargico) come dal nefando ottimismo
alessandrino del mondo moderno: la civiltà greca è una costruzione piramidale che ha al suo
culmine la realtà del genio ed è saldamente vincolata alla vitalità dell’istinto. In tal modo si
mantiene un rapporto non distruttivo (velato e protetto dal mito) con il fondo tragico che nel genio
soddisfa in modo potenziato la sua capacità artistico-rappresentativa. L’adeguarsi all’inconscia
teleologia della natura significa subordinarsi in modo assoluto al genio.
Un meccanismo analogo di illusioni che si impongono come istinto, in connessione con l’inganno
della natura, si trova in Renan. L’autore francese, non a caso, è valorizzato in questi anni da Wagner
e da Nietzsche soprattutto per la centralità che assegna al tema del genio/eroe fino ad interpretare
(contro Strauss) in tal modo la figura di Gesù. Anche Renan si richiama esplicitamente alla
metafisica dell’amore sessuale di Schopenhauer, criticandone l’atteggiamento di rivolta: è più
saggio lasciarsi ingannare, sottomettersi al ‘machiavellismo’ della natura: «Il suo scopo è buono;
quindi dobbiamo volere ciò che essa vuole. La virtù è un amen ostinato, detto agli oscuri fini che la
Provvidenza persegue tramite noi». La forte teodicea, la garanzia teleologica di uno stato finale di
pieno valore («Dio è una necessità assoluta.

Dio sarà e Dio è. Sarà come realtà, è in quanto ideale»58) impone la generale subordinazione e
gerarchizzazione. L’eroismo della devozione e il grado di ascetismo garantiscono della posizione
che ognuno assume nella gerarchia in cui tutti, comunque, servono a fini superiori. Di qui la
valorizzazione del sacrificio degli eroi umili ed oscuri (tutti costruiscono la piramide, tessono la tela
di cui ignorano il disegno): «Si costruisce un’opera infinita, in cui ognuno inserisce la propria
azione come un atomo»59 con la garanzia che nulla vada perduto. La guerre savante e la vittoria
della Prussia, spingono Renan alla conferma di un modello sociale che unisca saldamente struttura
gerarchica e valori feudali alla modernità tecnico scientifica. L’affermazione egoistica deve essere
sacrificata all’efficienza e forza della macchina complessiva in cui il singolo è inserito come
funzione: la guerra «suppone una grande assenza di riflessione egoistica poiché, dopo la vittoria,
quelli che più vi hanno contribuito, cioè i morti, non ne godono». Il forte spirito antiborghese di
Renan si scaglia contro la stupidità e volgarità di una esistenza ‘étroite et finie', non illuminata
dall’ideale, che comporta la dispersione egoistica di energia non finalizzata alla realizzazione del
Dio. Agli ‘insipidi mercanti’ Renan contrappone la ‘sublime follia’ dello stilita, dell’asceta,
dell’«héros de la vie désintéressée», perfino del fanatico che mette con gioia il suo capo sotto le
ruote del carro sacro, perché questa follia testimonia comunque, in modo irrazionale, lo slancio
verso l’ideale. «Il barbaro, con i suoi sogni e le sue favole, vale più dell’uomo positivo che non
comprende che il finito»60. Nelle discussioni seguite alla guerra franco-prussiana sul ruolo
dell’educazione primaria per l’affermazione di una cultura, con particolare cinismo, Renan si
pronuncia contro l’illu-
sione «che facendo balbettare qualche parola razionale all’essere informe che la luce interiore non
illumina, ne facciamo un uomo»61. Il popolo va lasciato nella sua ignoranza, fedele ai suoi istinti
che lo spingono, con cieca sicurezza, a servire l’ideale, a godere per procura della bellezza e
superiorità dei grandi: i vincoli della ‘devozione’ non devono essere spezzati in nessun modo.
Alcuni di questi temi elitari sono presenti anche in Burckhardt e nel giovane Nietzsche: la
consapevolezza portata alla ‘cieca talpa della cultura’, in nome di un ‘nefando ottimismo’, è
distruttiva della rete di illusioni vitali.
Burckhardt agisce su Nietzsche come contrappeso critico all’ideologia germanica di Wagner: i due
professori di Basilea vedono nella guerra ‘zoologica’ tra nazioni, un minaccioso pericolo per la
cultura. «Il più delle volte, il vincitore diventa stupido, il vinto diventa malvagio. La guerra
semplifica [...]. È un letargo invernale della civiltà» (32[62] inizio 1874-primavera 1874). E più
volte Nietzsche, in questo periodo, vede la regressione dell’uomo attuale alla ‘bestia da preda’ che
corre «sul grande deserto della terra», che ingaggia, in una furia generale, «lotte dilaniami con altri
animali» spinta solo da istinti immediati. La breve esperienza nella guerra franco-prussiana come
infermiere volontario conferma Nietzsche nell’atteggiamento antieroico di compassione verso
l’orrore materiale dei campi di battaglia fatto di ‘lezzo di cadaveri’ e purulenti ferite. La ‘patria’, la
nazione (anche nel periodo giovanile) sono comunque, per Nietzsche, solo forme inferiori di
illusione vitale {Wahn). E fino agli ultimi appunti del gennaio del 1889, paralleli ai ‘biglietti della
follia’, Nietzsche si scaglia, in nome della fisiologia e della ‘grande politica’ della vita, contro la
pace armata delle nazioni in Europa («un porcospino dall’eroico sentire»62) e contro la guerra:
«È follia che poi si metta davanti alla bocca dei cannoni il fior fiore
della forza e della giovinezza e della potenza» (25 [15] dicembre 1888-gennaio 1889).
Gli eroi di Renan hanno il carattere della assoluta dedizione e sacrificio all’ideale. Nella costruzione
del suo mito personale, Renan si richiama alle sue radici bretoni e al «sangue celtico» che ne
avrebbero determinato il carattere idealistico, disinteressato, devoto. I bretoni sono presentati, più
volte, come popolazione non contaminata dalla volgarità della civiltà moderna (egoistica ed
utilitaria, perciò atea): «Questa razza ha nel cuore un’eterna sorgente di follia»63 vive di sogno e si
logora «a perseguir l’ideale». L’epopea culmina nel saggio del 1854 su La poesia delle
razze celtiche. Qui si trova la variante nordica del mito dolce di Gesù: colui che «fece compiere alla
sua specie il massimo passo verso il divino», «il principio inesauribile di rinnovamento
morale»64, pur lontano dal sentore che vi fossero ‘leggi’ di natura, ignaro di ogni scienza. Il
«vangelo degli umili» comporta il primato del valore morale, cancellato, invece, dalla logica dei
Dialoghi filosofici dove la figura di Gesù lascia interamente il campo al Dio-tutto e agli scienziati
tiranni, dèi superuomini capaci di imporsi attraverso la minaccia di un inferno effettivo. Ne La
poesia delle razze celtiche è significativo il confronto tra gli eroi delle saghe germaniche (dove
regna «l’orrore della barbarie grondante sangue, l’ebbrezza del massacro») e quelli delle saghe
celtiche (impregnate di un «profondo senso di giustizia, una grande esaltazione della fierezza
individuale unita a un grande bisogno di devozione»). L’eroe germanico si caratterizza per la sua
«brutalità senza oggetto», per l’amore del male, per il gusto disinteressato della distruzione e della
morte di contro all’eroe cimbrico «dominato da abitudini di benevolenza e da una viva simpatia per
gli esseri deboli», per gli animali, la natura, le pietre. L’eroe cimbrico non si distingue dal santo ed è
capace di rivolgere la sua dolce pietà, come in una
leggenda di San Brandano, perfino a Giuda sofferente nell’inferno. Il sogno, che sostituisce la
realtà, impronta l’anima celtica e la sua sete di avventura è ancora «una corsa senza fine
dietro l’oggetto sempre fuggevole del desiderio»65.
La razza celtica resiste al tempo e difende le cause disperate: da qui - afferma con malizia Renan -
la sua inettitudine alla vita politica. Quegli uomini hanno il senso della fissità della vita
e dell’impossibilità di poterla cambiare: si rassegnano alla fatalità. La loro posizione è antitetica
all’eroismo prometeico: «A vederli così poco audaci contro Dio, si crederebbe appena questa razza
figlia di Japeto»66. La volontà di infinito e di illusione comporta l'avvicinamento al narcotico:
Questa razza vuole l’infinito; essa ne ha sete, essa lo persegue ad ogni prezzo, al di là della tomba,
al di là dell’inferno. Il difetto essenziale dei popoli bretoni, la tendenza all’ubriachezza, difetto che,
secondo tutte le tradizioni del VI secolo, fu la causa dei loro disastri, è legato a questo invincibile
bisogno di illusioni.
E questo, nonostante la lontananza da ogni sensualità grossolana: i Bretoni «cercavano
nell’idromele quello che S. Brandano e Pérédur perseguivano alla loro maniera: la visione del
mondo invisibile»67.
Un quadro teleologico, che garantisce il progresso e la realizzazione del Dio, fa del sacrificio e
dell’ascesi gli elementi caratterizzanti la grandezza. Il godimento dell’individuo sembra trattenuto e
rimandato alla sua realizzazione finale, nel piacere immenso di un corpo immenso di cui l’individuo
sarà una cellula vivente: «Un solo essere che sente, che gode, che assorbe con la sua gola ardente un
fiume di voluttà che strariperebbe fuori di lui in un torrente di vita [...]. La natura, a tutti i livelli, ha
l’unica preoccupazione di ottenere un risultato superiore con il sacrificio di individualità
inferiori»68.

5. Una ‘consolazione metafisica’ per l’eroe che muore


In Nietzsche, la metafisica dell’artista impone la necessaria distruzione della individualità dell’eroe
perché sia possibile il raggiungimento di una nuova forma. La tragedia attinge con la morte
dell’eroe la consolazione metafisica che permette, anche per la filosofia di Schopenhauer,
l’affermazione eroica della vita: malgrado la morte e la caducità di tutte le cose individuali, ogni
essere che vuole esistere ha assicurata l’esistenza senza fine ed interruzioni. «L’eroe, la più alta
apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è comunque solo apparenza, e la vita
eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione»69. Dopo la morte della tragedia, la
dissonanza tragica -l’eroe martirizzato dalla sorte - perde la superiore consolazione metafisica e
cerca una soluzione terrena, un deus ex machina per il lieto fine di una ricompensa terrena: «L’eroe
era diventato il gladiatore a cui, dopo che era stato bellamente scorticato e coperto di ferite, si
donava talvolta la libertà»70.
Nella Nascita della tragedia - il cui frontespizio portava come vignetta la figura di Prometeo
liberato dalle catene realizzata da Leopold Rau - appare centrale il riferimento alla ubris
come ‘peccato attivo’ del titano Prometeo a partire dall’inno goethiano («Vero e proprio inno
dell’empietà»). Viene qui utilizzata la dubitosa categoria interpretativa di ‘ariano’ (per il mito
‘maschile’ di Prometeo), diffusa in lavori di linguistica e storia del linguaggio71 allora in voga
anche se segnati da grande confusione (la caratterizzazione ariana corrispondeva, per molti, al
principio primordiale femminile, materno). Ricordiamo come Michelet, nella sua Bible de
l’humanité (la Bibbia solare che nasce presso gli Ariani ‘figli della luce’) veda in Prometeo
«l’émancipateur primitif» contro le tenebre dell’oriente, «toute énérgie libre a procédé
de lui», la sua lezione «est directement contraire aux Sauveurs ténébreux, aux faux libérateurs».
Prometeo è espressione di una umanità che non si piega: «on sent que l’héroisme en l’homme est la
nature»72. Certamente la contrapposizione tra il mito ariano di Prometeo e «il mito semitico del
peccato originale», in cui predomina una «serie di affetti eminentemente femminili», poteva
compiacere l’antisemitismo del suo interlocutore privilegiato Wagner ma non appare essenziale alla
costruzione metafìsica che dà il senso al mito.
Prometeo rappresenta l'«eroico impulso» dell’individuo a superare i limiti dell’individuazione in
una tensione verso l’universale. La sua volontà di essere ‘l’unica essenza del mondo’ comporta
l’assunzione su di sé della contraddizione originaria: il Titano «commette un delitto e soffre».
L’interpretazione di fondo è legata alla struttura della metafisica dell’arte e al
tema schopenhaueriano della ‘giustizia eterna’: la volontà originaria che ha commesso la colpa
dell’individuazione subisce la sofferenza. Anche Prometeo che, come i vari eroi della scena tragica,
appare preso nella rete della volontà individuale e che come individuo «sbaglia, lotta e soffre», è in
realtà la maschera apollinea di Dioniso-Zagreus dei misteri, sofferente, fatto a pezzi dai Titani e che
aspira ad una rinascita che ponga fine all’individuazione. La soluzione della tragedia pessimistica
che giustifica il male umano eticamente, nella direzione schopenhaueriana, viene superata in
Nietzsche dall’accettazione tragica della realtà: «Tutto ciò che esiste è giusto ed ingiusto, e in
entrambi i casi ugualmente giustificato». Tale affermazione dell’innocenza del divenire, in
Nietzsche, è ancora ostacolata dall’accettazione di categorie metafisiche schopenhaueriane sia pure
profondamente modificate alla luce della riflessione teorica di Wagner.
Nietzsche afferma che lo sguardo dello spettatore tragico, potenziato dalla forza della musica, non si
arresta alle belle illusioni plasticamente vive sulla scena: deve rifugiarsi di nuovo in grembo alla
vera e unica realtà attraverso la distruzione dell’eroe-individuo. «A un altro essere e a una gioia
superiore, l’eroe combattente, pieno di presagi, si prepara con la sua rovina, non con le sue
vittorie»73. Il mondo trasfigurato della scena viene visto da uno sguardo che «desidera essere
cieco», aspira cioè alla superiore chiaroveggenza musicale (il «sogno vero» del cuore del mondo
capace di comunicarsi solo attraverso le immagini depotenziate del sogno allegorico, della mattina).
Nietzsche utilizza in modo ravvicinato per la sua riflessione le tematiche del Beethoven di Wagner,
in cui il musicista riformula, in termini completamente nuovi e coerenti col primato
schopenhaueriano della musica, la teoria del dramma musicale. L’unità del dramma è garantita ora
non più, come nelle teorie giovanili, dal ricongiungimento delle arti sorelle divise e degradate a
técnai sotto il dominio della civilizzazione, ma dalla visione romantica della musica come un
linguaggio privilegiato capace di produrre visioni.
La svolta di Wagner era stata radicale. Come Nietzsche avvertirà polemicamente: il musicista
diventa ora portavoce privilegiato dell’in-sé delle cose, oracolo, sacerdote, «ventriloquo d’iddio». Il
tentativo di Nietzsche è quello di valorizzare in Wagner l’affermazione tragica dell’arte, il serio
‘gioco’ con la realtà, contro i pericoli nichilistici impliciti nelle scelte del musicista. Questo
comporta l’accentuazione degli elementi di continuità e una lettura anticristiana del tema
dell’eroismo wagneriano.

6. Veracità eroica e inattualità: la lezione di Schopenhauer


Nietzsche, nella sua radicale autocritica del periodo romantico, vedrà nell’atteggiamento ‘inattuale’,
in quella forma di agonismo contro il proprio tempo, una espressione di gioventù, di inesperienza
ma anche di reale debolezza: «Oggi io comprendo che con questa specie di accusa, di esaltazione, di
scontentezza,
io appartenevo, proprio per questo, ai più moderni tra i moderni» (2[201] autunno 1885-autunno
1886). Quella delle Inattuali è ‘la metafisica della cultura’ che è anche una metafìsica della gioventù
capace di un nuovo eroismo (il modello è Sigfrido): la situazione della cultura viene giudicata in
base ai solitari, grandi eroi di un’epoca ed al loro rapporto con il popolo74. Tutta l’azione di
Nietzsche (e le Inattuali pretendono di essere azione contro le viltà e le pigrizie dell’epoca) si
presenta come sacrificio e dedizione per la realizzazione del genio.
La lotta è contro le varie maschere del filisteismo e la pavidità che fa uso della passata grandezza
per opporsi alla costruzione di una nuova cultura e alla possibilità di nuovi genii. I filistei, nascosti
dietro il rassicurante ‘noi’ e a maschere irrigidite nei ruoli sociali, «preoccupati della commedia
comune e niente affatto di sé», hanno come parola d’ordine: «non dobbiamo più cercare»75. Anche
in questo caso il riferimento di Nietzsche è, puntuale, a Wagner che parla del dono fatto, a chi
nasce, dalla più giovane delle Nome perché tutti, un giorno, possano diventare dei genii: «Lo spirito
mai soddisfatto e che cerca sempre qualcosa di nuovo»76.
L’affermata ‘patria metafisica’ del genio diventa momento di fanatica convinzione con la possibilità
della rovina dei nuovi eroi: «Le loro parole e azioni sono esplosioni ed è possibile che per esse, essi
stessi periscano».
In un frammento del 1878 Nietzsche ribadisce a proposito di Schopenhauer, accanto alla «diffidenza
verso il sistema fin dall’inizio», la valorizzazione costante della persona, «tipica come filosofo e
promotore della cultura» (30[9] estate 1878). Il giovane Nietzsche, già nella primavera del 1868,
aveva fatto i conti definitivamente, in poche, tormentate pagine di appunti, dell’elemento
sistematico della metafisica di Schopenhauer, sulla base

della lettura di Lange e di altri filosofi neokantiani, mantenendo una fedeltà superiore a
Schopenhauer. Nella terza Inattuale il filosofo diventa maestro di eroismo: il riferimento
privilegiato sono le pagine dei Parerga in cui la ‘eudemonologia’ è in primo piano come l’arte,
l’accortezza, gli strumenti per ‘superare la vita’ con la consapevolezza che «una vita felice è
impossibile: il massimo che l’uomo può raggiungere è una vita eroica»77. Nietzsche riprende queste
parole dei Parerga per caratterizzare l’agonismo educatore di Schopenhauer, la necessità di un
«animo duro, corazzato contro il destino e armato contro gli uomini»: «On meurt les armes à la
main»78. Il ritratto di Schopenhauer ha indubbiamente toni emersoniani, parenetici: la stessa
caratterizzazione dell’eroismo risente da vicino dei saggi del filosofo americano e, in particolare,
delle considerazioni su questo tema. L’essenza dell’eroismo, questa «attitudine militare dell’anima»,
è «obbedienza ad un impulso segreto in un carattere individuale», «fiducia in se stessi», «diffidenza
per la falsità e il torto». E' il coraggio della veridicità contro le illusioni, contro «la falsa virtù che si
basa sulla salute e sulla ricchezza»79. L’elemento che Nietzsche aveva valorizzato fin da giovane in
Emerson è la sfida, piena di amore per l’immanenza e di energia, alle limitazioni poste dalla natura,
è il «non curvare la schiena» di fronte al ‘fato’, un ‘drago’ da dominare e cavalcare.
Da Schopenhauer procede sia la ‘vivisezione’ dell’illusione, sia il sonno metafisico più profondo del
genio wagneriano. Il nucleo del ritratto che Nietzsche fa del filosofo assume però, sempre più, i
caratteri della «veracità eroica». Lo Schopenhauer inattuale conduce «nella più sottile e pura, gelida
aria alpina, per far sì che possiamo decifrare i geroglifici di granito della natura». Esige la prova di
forza: «Chi non resiste lassù tomi pure
giù in fretta a rifugiarsi nella mollezza della sua cultura trasfiguratrice» (34 [21] primaveraestate
1874). Le metafore del gelo di montagna e l’espressione ‘spirito libero’ (con quella di «distruttore
che libera [befreiender Zerstörer]») caratterizzano, negli appunti della primaveraestate 1874, la
figura del filosofo pessimista. Questo Schopenhauer, già «volterriano», nonostante il pathos della
verità e il travestimento emersoniano, apre a Nietzsche la via della liberazione, al pieno recupero di
se stesso.

7. «Siegfried, il filosofo in divenire»


La riflessione e la passione di Nietzsche per il tema dell’eroismo è anche, immediatamente, una
riflessione sui drammi musicali di Richard Wagner. La nasata della tragedia è anche ‘rinascita’
della tragedia e ‘azione’ inattuale sul presente a favore della cultura. Nella posizione del giovane
Nietzsche prevale l’interpretazione metafisica della distruzione dell’individualità eroica (intesa
come apparenza) che aspira alla dissoluzione nell’unità superiore («Il genio è l’apparenza che
annienta se stessa. Serpens nisi serpentent comederit, non fit draco»80). Accanto al primato
schopenhaueriano della musica («Il musicista assoluto: il solitario dispregiatore del mondo della
parvenza») che è il presupposto di questa interpretazione, Nietzsche sviluppa temi legati alla
riflessione giovanile di Wagner quali la centralità della mimica e della danza, «il più materiale tra
tutti i generi d’arte», che ha come materia il corpo umano, l’uomo fisico nella sua interezza. Nella
musica dionisiaca l’individuo aspira ad esprimersi come essere appartenente alla specie
[Gattungswesen], il coro dei satiri lo rappresenta simbolicamente come «uomo della natura tra
uomini della natura». La tragedia greca era per Wagner un modello, non solo artistico, capace di
realizzare l’unità delle arti ma anche un atto di bella ‘religione umana’: l’individuo ri-

trovava immediatamente nell’eroe sulla scena ‘la parte più nobile di sé’, se stesso potenziato nella
verità dell’elemento umano generico. Nel dramma antico, come festa popolare, l’individuo vedeva
realizzata la sua destinazione comunitaria: l’arte era allora «gioia di sé, dell’esistenza, dell’umanità
intera». Motivi della filosofia della storia hegeliana (la libertà dei pochi come limite del mondo
greco, la ‘schiavitù reciproca e universale’ dell’impero romano, il Cristianesimo come espressione
della ‘coscienza infelice’ etc.) ma soprattutto il materialismo e universalismo di Feuerbach sono
fortemente presenti nelle riflessioni giovanili di Wagner. Ancora nel 1853, nel commento alla terza
sinfonia di Beethoven, Wagner descrive l’eroe come «l’uomo completo cui sono proprie tutte le
sensazioni puramente umane - amore, dolore, energia - nella loro massima pienezza e potenza»81.
La posizione del giovane Wagner è fortemente anticristiana: il Cristianesimo appare espressione di
rinuncia alla vita, negazione dell’arte, ‘orrore della comunità’, alienazione82. Nietzsche opporrà al
Wagner ascetico dell’ultimo periodo, le espressioni letterali sulla ‘sana sensualità’ come redenzione,
da lui usate in gioventù, direttamente derivate da Feuerbach (GM, IIII, 3). Wagner, nel suo profilo
autobiografico del 1843 e nella successiva La mia vita, ricorda appunto come, contro il «misticismo
astratto», avesse imparato attraverso l’Ardinghello di Heinse e La giovane Europa di Laube ad
«amare la materia», a «godere la vita», «guardare il mondo con occhi sereni». Nella sua opera
giovanile Divieto d’amare «la libera, aperta sensualità - scrive Wagner - vince con le sole sue forze,
l’ipocrisia puritana»83.
Più volte Nietzsche lega la sua superiore fedeltà al Wagner ateo e anticristiano: ancora nei
frammenti postumi per la tormentata quarta Inattuale, il filosofo insiste, in un confronto con
Eschilo, libero di fronte ai vari Zeus (14[6] autunno 1875-primavera 1876), sul carattere irreligioso
dei poeti e sullo specifico ateismo di Wagner, uomo moderno che «crede in se stesso». Nietzsche
riprende il legame forte tra eroismo, amore e morte, presente nei drammi wagneriani,
interpretandoli alla luce delle teorie giovanili del musicista e insistendo sull’elemento vitalistico:
La morte è il suggello di ogni grande passione ed eroismo: senza di essa, l’esistenza non ha alcun
valore. Essere maturo per la morte è la cosa suprema che possa venir raggiunta, ma altresì la cosa
più difficile, che si conquista attraverso lotte e sofferenze eroiche. Ogni morte di questa natura è un
vangelo dell’amore (14[6] estate 1875).
Il tema dell’amore era al centro, in particolare, della riflessione e della poetica wagneriana negli
anni 1848-1854: l’amore è il mediatore tra la forza e la libertà. Non imposto dall’alto come l’amore
cristiano, esso è la manifestazione più attiva della natura umana. Forte l’influenza di Feuerbach,
soprattutto dei Pensieri sulla morte e l’immortalità: l’amore trova il suo compimento nella morte
come ultima redenzione dall’egoismo verso il raggiungimento dell’unità più reale. I tratti pieni
dell’ebbrezza di morte nel finale del Tristano, la vittoria definitiva sulle menzogne del giorno che
separa gli amanti (l’io e il tu), devono comunque molto, sia pure attraverso la Volontà di
Schopenhauer, alla teoria giovanile di Wagner sull’amore. Scrive Nietzsche: «L'amore nel Tristano
deve essere inteso in senso non già schopenhaueriano, bensì empedocleo: manca del tutto
l’elemento peccaminoso: l’amore è un segno e una garanzia di unità eterna» (11 [5] estate 1875).
Wagner consapevolmente fin dal 1857, su questo punto, ritiene di dover correggere e completare il
filosofo pessimista: l’amore che sorpassa la volontà individuale manifesta una via di salvezza, porta
la possibilità di una purificazione della volontà.
Analogamente, la morte significa la fine dell’individualità e la continuazione della vita nella
pienezza della specie, «l’ultimo sicuro annullamento dell’egoismo». E' anche il senso del sacrificio
e della redenzione di molti eroi e, soprattutto, eroine wagneriane. «Ogni forte passo della vita sul
palcoscenico è accom-

pagnata dall’eco cupa della morte» — commenta Nietzsche (11 [18] estate 1875). La morte per
amore è quindi ricerca del ‘puro umano’, superamento dei limiti individuali e degli ostacoli di una
vita dominata dagli arbitri della legge: «Il peccato contro la proprietà è determinato unicamente
dalla legge della proprietà». Queste parole si trovano nell’abbozzo Gesù di Nazareth, in cui il Cristo
è espressione della ‘coscienza infelice’ dell’artista nella situazione degradata del mondo moderno.
La «fuga davanti a questa vita», l’autoannientamento, appare l’unica soluzione possibile per
sciogliere i legami di una bassa sensualità e per realizzare una natura purificata non potendo
distruggere, attraverso la rivoluzione, le leggi e le convenzioni di «una società senza amore». Gli
eletti - gli eroi - restaurano l’ordine pacificato, retto dall’amore contro la proprietà, rappresentano il
futuro e la vita contro il dominio del passato e delle morte cose. Nella lettera indirizzata a Röckel
del 25 gennaio del 1854, Wagner afferma che «la paura della morte» caratterizza «azioni, leggi,
istituzioni» attuali: «Dobbiamo imparare a morire, e morire nel senso più pieno della parola. La
paura della fine è la sorgente d’ogni mancanza d’amore».
Nietzsche, negli anni Settanta, prende sul serio fino in fondo le intenzioni di Wagner ed il carattere
filosofico delle sue affermazioni. In particolare valorizza l'Anello del Nibelungo in quanto
«immenso sistema di pensiero» espresso in una «forma visibile e sensibile»84. Il musicista ha saputo
trarre dalle filosofie l’elemento agonistico: «Maggior coraggio e decisione, non succhi narcotici».
«Wagner è filosofo soprattutto là dove è più energico ed eroico»85. Nell’appunto preparatorio a
questo brano di Wagner a Bayreuth Nietzsche fa significativo riferimento, per il loro ardito
simbolismo, al gesto e alle parole di Siegfried in risposta alle figlie del Reno86. Gettando via, al di
sopra del capo, una zol-
la di terra, alludendo alla sua vita, Siegfried afferma: «Così la getto via, lontano da me». E' il tema
dell’eroe che vive nella leggerezza e nella pienezza dell’amore e della immediata vitalità istintiva e,
per questo, non ha conosciuto la paura. La filosofia che esprime Siegfried è quella che «distrugge
gli dèi, contro la quale va in pezzi la lancia di Wotan». Nietzsche continuerà a valorizzare Siegfried,
dandogli un ruolo filosofico centrale, insostituibile anche quando coprirà di sarcasmi gli altri eroi ed
eroine wagneriane. In Al di là del bene e del male (aforisma 256) valorizza contro il Parsifal la
creazione di un Siegfried ‘antilatino’, liberissimo, gaiamente e innocentemente barbaro e
anticattolico, decisamente antiromantico. Afferma in più punti che solo la propria filosofia è
adeguata a quella figura e che Schopenhauer ha falsificato la direzione dell’arte wagneriana,
decisamente anticristiana87. Ancora più estrema è la sibillina affermazione: «Siegfried il filosofo in
divenire [Der werdende Philosoph Siegfried]» (34[2] primaveraestate 1874). Certo nelle intenzioni
di Nietzsche, Siegfried significava il recupero da parte di Wagner delle sorgenti naturali: ancora
«l’uomo non è stato esaurito». Wagner «scaccia la rappresentazione secondo cui il mondo sarebbe
diventato organicamente vecchio». Il dummer Siegfried afferma la forza della creazione attraverso
l’inconscio, contro la conoscenza degli dèi che porta all’annientamento. La conoscenza
astratta trova solo nella propria fine la redenzione possibile. Nell’eroe nibelungico si legge la
possibilità dell’artista/artigiano libero, capace di foggiarsi, contro l’impotenza della tecnica di
Mime, per puro piacere, la spada (una ripresa del mito di Wieland il fabbro). Siegfried è libero
perché non toccato dalla maledizione del possesso: «Unico retaggio il mio proprio corpo; vivendo
lo consumo» [einzig erb’t ich / den eignen Leib; / lebend zehr’ ich den auf]»88. Non possiede, non è
posseduto. Soprattutto il libero gioco è l’elemento che caratterizza Siegfried come «überfroher
Held» [«eroe supremamente giocondo»]89, nel suo rapporto di antitesi/complementarietà con
Wotan, il dio triste, «di tutti il meno libero»90.
L’eroe si caratterizza per lo scherzo, la serenità e la leggerezza in cui è immerso e che esorcizzano il
mondo della tragedia e del mito. Nietzsche sembra cogliere l’aspetto di fiaba (la definizione è di
Dalhaus) della seconda giornata dell'Anello quando insiste sul carattere di ‘idillio’, in senso
schilleriano, del Siegfried-, «La natura e l’ideale sono reali, questo dà gioia» (9[142] 1871). Lo
stesso pessimismo di fondo, di matrice schopenhaueriana, non riesce ad eliminare ma solo a
modificare il tema della redenzione/rigenerazione che resta sempre possibile: «il dramma [è]
profezia di una vita più pura (in contrapposto al dramma antico che è retrospettivo)» (12[19] estate-
fine settembre 1875). «Hidillio tragico: l’essenza delle cose non è buona e deve perire, ma gli
uomini sono talmente buoni e grandi, che i loro delitti ci commuovono nel modo più profondo,
poiché essi sentono di essere incapaci di tali delitti. Siegfried è l’“uomo”, e noi invece siamo i bruti
senza pace né meta» (9[149] 1871). Questo riferimento all’uomo rimanda puntualmente alla
riflessione di Wagner in Una comunicazione ai miei amici in cui la figura dell’eroe caratterizzato
dall’amore (quasi visibile nella sua corporeità) e dalla piena «gioia di vivere», rappresentava «la
palpitante manifestazione sensibile dell’uomo nella sua più naturale e serena pienezza [...] l’“uomo”
nella pienezza della sua forza più alta e più immediata e della sua più indiscussa amabilità»91.
Il tema dell’anticristianesimo di Siegfried, nella valorizzazione di Nietzsche, non può comunque
limitarsi a questi elementi:
soprattutto non andrà confuso mai con la pagana salute della ‘bionda bestia’ o del primitivo
germano. Nietzsche ne prende le distanze, sarcasticamente, quando con disprezzo parla di
«adolescenti tedeschi, cornuti Sigfridi e altri wagneriani» che hanno bisogno del ‘sublime’, del
‘profondo’, dello ‘sbalorditivo’. L’elemento rivoluzionario di Wagner, al di là dei travestimenti,
non può che rimandare alla Francia e alle decisive esperienze filosofiche giovanili: «Wagner era un
rivoluzionario - scappava via dai Tedeschi» (EH, Perché sono così accorto 5).
Nell'Anello, la strada degli uomini viene intrapresa per primo dall’ignaro e innocente Siegmund, la
cui sorte è pianificata senza spazi di libertà, che è disposto a rinunciare alla condizione di eroe nel
Wahalla offerta da Brunhilde a favore della vita umana legata all’amore di Sieglinde: «Dove vive
Sieglinde, / in piacere e patire / colà anche Siegmund vuol rimanere [Wo Sieglinde lebt / in Lust
und Leid, / da will Siegmund auch säumen]»92. Stessa rinuncia, per motivo d’amore, da parte di
Brunhilde nel III atto del Siegfried. Wagner riprende lo spunto tracciato nel 1851 per l’Achilleide: a
Teti che promette l’immortalità ad Achille, purché rinunci a vendicare l’amico Patroclo, l’eroe
oppone uno sdegnato rifiuto. La dea si inchina riconoscendo la superiorità dell’uomo sul dio: «Gli
eterni dèi sono gli elementi che danno vita all’uomo. Nell’uomo la creazione è al suo culmine»93,
l’uomo è il perfezionamento del Dio.
Nietzsche in Ecce homo afferma: «Un dio che venisse sulla terra non potrebbe fare altro che torti -
prendere su di sé la colpa, non la pena, questo sarebbe veramente divino» (EH, Perché sono così
saggio 5). Il tema toma più volte in Nietzsche ed è sviluppato, in antitesi al Cristianesimo, in pagine
centrali della Genealogia della morale. Il Dio redentore cristiano si sacrifica, innocente, per la colpa
degli uomini portando all’iperbole il senso di debito verso gli avi e la divinità e rendendo
impossibile

ogni risarcimento ed espiazione. «Un debito verso Dio: questo pensiero diventa per lui [l’uomo
dalla cattiva coscienza] strumento di tortura». Gli istinti animali vengono reinterpretati dall’uomo,
la «dissennata triste bestia», come una colpa verso Dio. Ogni negazione di sé diventa affermazione
di un contrario, proiettato fuori da sé: la sofferenza e il rimorso, il senso di colpa non trovano vie
d’uscita. Gli dèi greci, invenzione di una vita affermatrice, tengono invece lontana la cattiva
coscienza, hanno la funzione di togliere la colpa agli uomini per assumerla essi stessi:
“Deve pur averlo accecato un dio”... In tal modo allora gli dèi servivano a giustificare, entro una
certa misura, l’uomo anche nel male, servivano come cause del male - in quel tempo essi non si
assumevano la pena, bensì, come è più nobile, la colpa (GM II23).
Nietzsche nella Genealogia sviluppa questo tema confortato dalla lettura di Die Ethik der alten
Griechen (1882) del filologo Leopold Schmidt94 a cui Nietzsche si riferisce,
implicitamente, soprattutto per l’analisi dell’origine e delle trasformazioni dei termini buono e
cattivo. Il tema era comunque già presente nella riflessione sugli dèi greci e, soprattutto, trovava
nella caratterizzazione iniziale di Wagner della figura di Siegfried, bene esplicitato, questo aspetto
decisamente anticristiano. Nel Mito dei Nibelunghi, l’abbozzo in prosa per la Morte di Siegfried
(la Heldenoper del 1848 che Nietzsche, come risulta dai Diari di Cosima, nel giugno del 1871,
aveva addirittura ricopiato per la stampa) il finale suonava: «Udite dunque, voi Dèi possenti:
il vostro torto è cancellato; siatene grati all’eroe che assunse su di sé la vostra colpa». Questo
comporta, con la restituzione dell’anello alle figlie del Reno, la fine del servaggio dei Nibelunghi,
la liberazione dello stesso Alberich, il regno pacificato di Wotan lontano dalla maledizione del
possesso. Sembra quasi che Wa-
gner tenga presente la fine del mito di Prometeo con il ritorno di Zeus (Wotan) e delle sue leggi in
un mondo purificato. Questo tema, centrale, è esplicitato in più punti: «Senza colpa ha preso su sé la
colpa degli dèi [Er hat schuldlos die Schuld der Götter übernommen]» 95. Lo stesso Wotan non può
cancellare l’ingiustizia «senza commettere una nuova ingiustizia: soltanto una volontà libera,
indipendente dagli stessi dèi, che è in grado di assumersi tutta la colpa e di espiarla, può rompere
l’incanto; e gli dèi riconoscono nell’uomo la capacità di una tale libera volontà». L’uomo redentore
della colpa divina comporta l’autodistruzione degli dèi:
Per questa alta destinazione, cioè perché egli espii la loro propria colpa, gli dèi allevano l’uomo e la
loro intenzione sarebbe realizzata, se creando gli uomini, essi annientassero se stessi, se fossero,
nella libertà della coscienza umana, obbligati a rinunciare alla loro influenza
immediata96.
La colpa degli dèi, anche per Nietzsche, è la fissazione irrigidita, in un cielo lontano, di valori e
morali che hanno perduto il loro carattere di mobilità e esperimento vitale, che pesano come
estranei sull’uomo. La libertà è fine dell’alienazione: l’uomo trasforma se stesso acquistando una
‘nuova innocenza’. L’insegnamento che Nietzsche recepisce da Wagner, con riferimento preciso alle
parole con cui Wotan esprime la sua aspirazione verso l’“altro’, l’eroe che solo può redimere97, è
che «chiunque voglia diventare libero, deve diventarlo da sé, e che a nessuno la libertà cade in
grembo come un dono miracoloso» (WB 11).
I lunghi tempi della realizzazione dell' Anello conoscono profondi mutamenti in Wagner, nella
teoria musicale come nei riferimenti culturali. La linearità della proposizione che porta dalla morte
di Dio all’uomo, si gioca poi nella complessità delle relazioni e nella continua ambiguità rispetto ai
temi iniziali. Il

protagonista effettivo, l’eroe, diventa sempre più Wotan il dio ‘schopenhaueriano’ della rinuncia e
della volontà di fine. Il crepuscolo degli dèi mostra la profonda perversione della naturalità: il
mondo che ha al suo centro la maledizione è un mondo snaturato, e il finale, nella sua ambiguità
affidata alla forza suggestiva della musica, accentua il motivo nichilistico della redenzione,
possibile solo come annientamento della realtà tutta, non solo degli dèi e della loro colpa. La musica
dei Leit-motive vuole esprimere non rigide maschere o enfatizzare situazioni: attraverso l’uso delle
varianti, dei legami e derivazioni dei motivi l’uno dall’altro, come è stato messo in luce, la linearità
del percorso si complica e si contraddice. Parola e musica spesso si relazionano, dialetticamente o a
contrasto, producendo nuove e inedite connessioni di senso. Il mito eroico di Wagner assume i
caratteri dell’ambiguità: la sua musica più che sopraffare e violentare, nella sua ‘festa di relazioni’
(Thomas Mann), vuole essere capita da una «riflessione integralmente consumata» che sola può
dare «un sentimento ed una facoltà di percezione musicale che vadano al di là dell’abbacinamento
acustico» (Carl Dalhaus).

8. Gli eroi figli della grande città


Sul tema centrale della redenzione che caratterizza gli eroi wagneriani, l’ultimo Nietzsche eserciterà
i suoi strali fino al sarcasmo. Il confronto avviene anche con L'Anello del Nibelungo, con la svolta
schopenhaueriana che ‘redime’ Wagner dal ‘nefando ottimismo’ rivoluzionario dei suoi giovani
anni, trasformando la primitiva volontà rivoluzionaria ed emancipatrice nella volontà del nulla.
Wagner è confermato da Schopenhauer come décadent: i suoi eroi in realtà sono figli della grande
città, travestono in vesti antiche, per esotismo, sentimenti modernissimi, patologici: «Che i bravi
Tedeschi riescano qui a fantasticare di sentimenti primigeni di robustezza ed energia germanica, è
qualcosa che fa parte di quei sintomi spassosi della cultura psicologica dei Tedeschi» (15[99]
primavera 1888). Il germane-
simo e l’eroismo nazionale di Bayreuth («una palude di arroganza, oscurità e tedescheria»), il cui
idealismo non riesce a nascondere gli sporchi risvolti, sono, nella matura analisi di Nietzsche, un
involucro che deforma radicalmente la genuina natura di Wagner. Il culto della passione, il suo
eccesso e la sua tirannia, è riportato da Nietzsche al clima romantico francese degli anni Trenta e
Quaranta: «Wagner ha creduto all’amore come tutti i romantici di quel decennio folle e sfrenato.
Cosa ne restò? Quella insensata divinizzazione dell’amore e, accanto a ciò, della dissolutezza e
finanche del delitto»98.
Le eroine wagneriane, al di sotto della leggera ‘scorza eroica’, sono della stessa natura di madame
Bovary: viceversa, l’eroina di Flaubert, tradotta in scandinavo e norvegese, sarebbe un libretto
ideale per il musicista. «Come ha saputo Wagner, con suoi eroi, venire incontro ai tre bisogni
fondamentali dell’anima moderna: essa vuole il brutale, il morboso e l’innocente... Questi mostri
magnifici, con corpi di epoche preistoriche e nervi di dopodomani»99. Gli eroi di Wagner non sono
più promessa di ideale rigenerazione di una civiltà e neppure l’eco di epoche passate - come li
aveva pensati Nietzsche in periodi diversi - ma esprimono, nella loro stessa fisiologia, la
disgregazione e la decadenza dell’epoca moderna. Parigi li definisce e li esprime: «Sempre a quattro
passi dall’ospedale! Niente altro che problemi modernissimi, problemi assolutamente da
grande  città» (WA 9). E' noto come Nietzsche utilizzi per il ‘caso’ Wagner le analisi di Bourget (in
particolare quelle dedicate a Baudelaire: «Un des “cas” les plus réussis» della decadenza100)
per caratterizzare la complessità e la contraddizione, la convivenza

di anime inconciliabili e inconciliate nell’opera del musicista. «Mi sono chiesto se ci sia mai stato
qualcuno, tanto moderno, morboso, molteplice e contorto da poter essere considerato all’altezza di
affrontare il problema Wagner. Tutt’al più in Francia: penso a Charles Baudelaire» (15 [6]
primavera 1888). Certamente la fisiologia dell’arte di Nietzsche vede nel bisogno energico di
dominare, tirannizzare il pubblico coi forti colori e l’eccesso della passione, l’espressione della
debolezza moderna di Wagner. L’eroismo appartiene di nuovo completamente alla scena, alla
volontà di sedurre e dominare il pubblico, adattandosi ai suoi bisogni più bassi: è uno strumento
della politica decadente della crisi che agita caoticamente i sentimenti senza purificarli, ordinarli,
trasformarli.

9. Altri eroi ‘modernissimi’: i casi di Hugo, Michelet, Baudelaire, Gobineau nella


critica di Nietzsche
Principalmente attraverso il Wagner dalla natura ‘francese’ ed europea e attraverso il suo ‘fratello’
Baudelaire, Nietzsche si apre la via alla comprensione dell’eroismo come soggetto della modernità
nel suo rapporto con la décadence. Baudelaire valorizza la tradizione di rivolta che, partendo dal
Satana di John Milton, attraverso il Caino di Byron, il Prometeo di Percy Bysshe Shelley, definisce
l’atteggiamento del poeta della grande città, solidale con ogni ribellione quanto impotente ad una
azione che non sia gesto teatrale (l’‘impotenza epica’). Sulle orme di Bourget, Nietzsche sottolinea
nei decadenti la pronta fuga nell’‘ideale’, nell’allucinazione provocata dall’incapacità di dominare il
prestissimo  delle sensazioni. Esemplare la posizione di Baudelaire di «disdegno contro i
boulevards» (16[34] primaveraestate 1888): «Certes, je sortirai, quant à moi, satisfait / D’un
monde où l’action n’est pas la sœur du rêve» (Baudelaire)101. Il dare forma a quel caos
degli istinti che caratterizza l’uomo moderno, presuppone una disciplina del corpo e
dell’atteggiamento, la scelta dell’‘artificio’ contro la natura. Se non vi è forza sufficiente per
arrivare ad una nuova forma, subentra la volontà di apparire. L’unità e lo svolgimento della forma
postulata dal desiderio, ma resa impossibile dalla malattia della volontà, viene giocata sul
palcoscenico: il mondo moderno è il teatro dell’attore, dell’istrionismo della decadenza. Nello
stesso Victor Hugo - come Nietzsche polemicamente ha colto - l’eroe e l’istrione sono tra loro
solidali: la gonfia epopea del progresso marcia con Dio attraverso coloro che aprono all’umanità la
via dell’infinito, che rompono la gabbia che rinserra l’uomo. «Tutti coloro in cui Dio si concentra»,
«i combattenti delle idee, i gladiatori di Dio» grazie a cui «une sorte de Dieu fluide coule aux veines
du genre humain», «ces acteurs du drame profond [...] ces splendides histrions ces histrions sont les
héros!»102.
La stessa decisa critica di Nietzsche è rivolta a Michelet, piena espressione della debolezza
romantica: lo storico ha tutti i caratteri dell’istrionismo che nasce dall’impotenza e dalla mimesi
della grandezza, è «un concitato, sudato plebeo», un «tribuno popolare». Il romanticismo di
Michelet ha affermato la morte del Dio cristiano solo per sostituirvi la nuova religione del popolo
capace di estinguere, nel banchetto universale del genere umano, ‘la fame di Dio’. Un dio che si
costruisce e che quotidianamente diviene, di contro al ‘Dieu tout fait’ del Medioevo.
Il giudizio sferzante di Nietzsche culmina in un gesto di definitiva opposizione («Tutto quello che a
me piace gli è estraneo: Montaigne come Napoleone»; 26[403] estate-autunno 1884) e rimanda,
anche puntualmente, alle critiche di Paul Bourget103,

Karl Hillebrand104, e a quelle di Hippolyte Taine105, da cui i primi due sembrano in gran parte
derivare. La caratterizzazione di Michelet come ‘uomo della compassione’, che ha
«l’ammirevole capacità di ricostruire in sé gli stati d’animo», il confronto con Hugo e la sua
‘allucinazione pittorica’, la febbre dell’anima che «déborde en expressions convulsives» sono temi
presenti in Taine e Bourget. Nietzsche e Taine concentrano la loro critica sullo stesso punto,
l’elemento plebeo e istrionico (charlatanisme) dell’atteggiamento di Michelet: «Il veut persuader le
public; bien plus, le peuple». La sua storia «è ammirabile e incompleta; seduce e non convince»106.
A tal proposito ci dobbiamo ricordare delle parole con cui Zarathustra mette in guardia gli ‘uomini
superiori’: «Sul mercato si persuade coi gesti. Le ragioni, invece, rendono diffidente la plebe» (ZA
IV, Dell’uomo superiore 9). Il popolo è la gonfia epopea della riconquista del Dio «nel quale gli
uomini si riconoscano e si amino», per il quale sia possibile di nuovo ed abbia un senso superiore ‘il
sacrificio’ degli eroi, umili o grandi.
Altro eroe, il dandy. La riflessione sul dandysmo, appare negli appunti di Nietzsche intrecciata alla
lettura degli scritti postumi di Baudelaire. L’‘eroismo’ del dandy, la sua solitudine, nasce dalla
necessità di distinguersi come ‘individuo’ sullo sfondo della grande città, ma anche, più in generale,
di una società e di un momento storico particolarmente meschini (la caratterizzazione di Marx della
seconda repubblica: «Passioni senza verità, verità senza passione, eroi senza azioni eroiche,
storia senza avvenimenti»107).
La ‘sublimità’ del dandy (per Baudelaire «l’ultimo bagliore
di eroismo nei tempi della decadenza») sta nel giocare una parte aristocratica per non rendersi
accessibile ai sensi del grande gregge dominante: il suo eroismo sta nella quotidiana fatica della
costruzione di sé per l’apparenza («Il dandy deve vivere e dormire davanti a uno specchio»).
Indubbiamente Nietzsche subisce il fascino di questa figura possibile di eroismo della modernità.
Ricordiamo il suo interesse per De Custine, Barbey d’Aurevilly oltre che la costante presenza (più o
meno esplicita) di Byron nei suoi scritti e la sua trascrizione dei passi di Baudelaire dedicati al
dandy.
La stessa figura di Cesare, che appare negli ultimi scritti, è lontana dalla semplificazione di una
affermata volontà di potenza ‘imperiale’ o guerriera. Cesare è piuttosto più vicino alla complessa e
ambigua figura posta come modello più illustre dal dandy (De Custine, Delacroix, d’Aurevilly) e
che fa esclamare a Baudelaire: «Che splendore di sole al crepuscolo getta nell’immaginazione il
nome di quest’uomo! Se mai uomo in terra ha avuto somiglianza col Divino questi è Cesare»108.
Nietzsche, come Baudelaire, insiste sulla cura che Cesare aveva della propria persona (era un dandy
raffinato dalla «pelle bianchissima» nonostante le marce), sulla costante capacità di
autodominio, sull’esercizio della ‘forma’. Nietzsche lo presenta tra gli «estremi, e perciò quasi essi
stessi già decadenti... La breve durata della bellezza, del genio, del Cesare, è sui generis» (14 [133 J
primavera 1888), ed altrove si legge della «estrema vulnerabilità di una macchina delicata».
L’appunto «Cesare tra i pirati» (11 [52] novembre 1887-marzo 1888) mi pare significativo in questa
direzione di lettura per il riferimento a Plutarco (cap. 2): Cesare caduto in mano a pirati sanguinari
si comporta con impassibilità e pieno autodominio della collera, come un principe che impone la
distanza o concede familiarità senza poi tralasciare, dopo il riscatto, una vendetta inaspettata e a
freddo. «Scriveva poesie e discorsi, e glieli faceva ascoltare, e se non glieli applaudivano li
chiamava bruscamente illetterati e barbari, e spesso,
ridendo, minacciò di impiccarli; anch’essi ne ridevano». Dopo il riscatto armò delle navi e con
freddezza realizzò ciò che aveva predetto ai pirati.
Altri eroi modernissimi sono quelli creati dalla disperata volontà di fuga del conte di Gobineau di
fronte al mondo contemporaneo: una fuga impotente nella immaginaria purezza di lontani eroi
ariani oppure nella allucinata costruzione di impossibili genealogie per una personale epopea (il
pirata norvegese Ottar Jarl). È la debolezza e impotenza che spinge Gobineau a delirare l’intero
processo storico con una mitica filosofia della storia, che ha nella metafisica della razza il suo
fondamento e nella catastrofe finale la sua verità. La grande città è l’inferno’ dove tutto si mescola:
all’universale mediocrità («Médiocrité de force physique, médiocrité de beauté, médiocrité
d’aptitudes intellectuelles»109) e alla certezza di una fine della storia legata alla rovina della razza
ariana, si oppone solo il sogno di evasione (un Iran eroico e mitico, le origini chiare, pure e felici
dell’umanità, i mostri di forza del Rinascimento, i ‘fiori d’oro’, i ‘figli dei re’, etc.). Nell’universale
mediocrità non vi sono più classi, popoli, ma solo qualche individualità «surnageant comme des
débris sur un déluge».
Nietzsche è deciso contro questo eroismo decadente, di cartapesta. Tra le maschere degli ‘uomini
superiori’ nello Zarathustra, troviamo i due re che parlano il cupo e crudo linguaggio
dell’aristocratico pessimista sull’epoca della decadenza. Nella nobiltà
tutto è falso e marcio, prima di tutto il sangue [...]. È il regno della plebe, - non mi lascio più
ingannare. Plebe, però, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì è tutto mescolato alla rinfusa, santo e
ladrone e nobiluomo e giudeo, ogni sorta di bestie dall’arca di Noè. Buoni costumi: presso di noi
tutto è falso e marcio (ZA IV, Colloquio con i re 1).
Le parole dei due re sono quelle, piene di risentimento, che
66 Nietzsche. La morale dell’eroe caratterizzano anche la scimmia di Zarathustra che sputa il
suo veleno sulla grande città di cui è reale espressione e prodotto. Il linguaggio degli uomini
superiori non deve essere confuso con quello di Zarathustra: essi appartengono completamente, in
vario modo, alla decadenza ed alla reattività, soffrono dei valori dati e correnti senza avere la forza
di superarli.

10. Il superamento dell’eroismo nell’ultimo Nietzsche


«Più in alto del “tu devi” sta l’“/o voglio” (gli eroi); più in alto dell’“io voglio” sta “io sono” (gli
dèi dei Greci)» (25[351] primavera 1884). In questo appunto del 1884 Nietzsche riassume,
applicandolo al tema dell’eroismo, il percorso tracciato da Zarathustra nella parabola delle tre
metamorfosi: dall’accettazione di ogni peso gravoso come esperimento e prova di una forza che
isola (il cammello che corre nel deserto) alla lotta per la libertà contro il costume rigido della
comunità e i valori millenari (l’io voglio del leone lotta contro il tu devi). Anche nel leone è durezza
per «crearsi la libertà per una nuova creazione». Ed infine il fanciullo come «innocenza e oblio» e
«gioco della creazione», come risultato.
Prima di pubblicare lo Zarathustra, il filosofo si confronta, in maniera radicale e prendendone le
distanze, con la morale ‘eroica’ proposta da Heinrich von Stein nel suo scritto Helden und Welt,
Dramatische Bilder. In questo testo, inviato a Nietzsche in ultime bozze, Stein si richiamava al
modello degli affreschi drammatici de La Renaissance di Gobineau, e alle teorie dell’ultimo Wagner
e del suo maestro Dùhring, interpretato come espressione di ‘pessimismo eroico’. Stein è
rappresentante dell'idealismo germanico’, legato alla prospettiva antisemita comune ai suoi maestri.
La purezza del sangue, la liberazione del Cristianesimo dagli elementi ebraici, il confronto
simpatetico con molti temi della cupa filosofia della storia di Gobineau, il legame forte tra
ascetismo ed eroismo caratterizzano l’ultima filosofia di Wagner. Nietzsche con sicurezza, per
tempo, ha

preso le distanze dall’antisemitismo (i contrasti con Wagner e Duhring - come poi con i Förster,
sorella e cognato - hanno in sé anche questo elemento critico) e sono deboli e inconsistenti
i tentativi (a diversi livelli, dai più volgari ai più rispettabili) di leggere nella sua filosofia una
contrapposizione all’elemento ‘semitico’. Si potrebbero moltiplicare i passi, più o meno noti, che
vanno nella direzione di una lotta all’antisemitismo dell’epoca. Preferisco rimandare agli attacchi
che l' Antisemitische Correspondes riserva al ‘filosofo dell’avvenire’ alla fine del 1887 e al decisivo
- per la sua virulente chiarezza - appunto inedito del Nachlaß di Eugen Dühring110:
Nietzsche. Tipo giudaico, e certo uno dei più puzzolenti e insolenti. Non c’è quasi frase in cui egli
non dia di balta. Non si tratta solo di roba aforistica, ma proprio di roba sconnessa e spezzettata.
Questa sconnessione del pensiero è solidale con la tipica violenza ebraica. Inoltre ottuso fino alla
demenza, e con questo già prepara la vera e propria, letterale, piena demenza, in cui lo stato del
paziente finisce con l’essere inguaribile. La sua malattia consisteva, a prescindere dalla follia già da
prima cronica, in una sorta di febbrile e vanitosa esaltazione, che lo condusse infine alla catastrofe
lasciandolo nella più ottusa demenza. Un caso esemplare da manuale psichiatrico.
La critica di Dühring mette in gioco tutti gli elementi del delirio antisemita per caratterizzare la
personalità e la filosofia di Nietzsche. D suo successo - «una colossale messa in scena» - si ebbe
solo quando «lo schiavo sfuggì al suo padrone» Wagner per scatenarsi a favore degli Ebrei.
Nietzsche non fu danneggiato neppure dall’essere ospite del manicomio di Jena perché era
sostenuto dagli interessi e dalla stampa ‘ebraici’. Dühring accusa inoltre Nietzsche di aver
‘saccheggiato’ le sue opere e di averne rovesciato completamente il senso dirigendo i suoi attacchi,
carichi della «sfrontatezza del tutto giudaica», contro
tutto ciò che è «rispettabile e nobile al mondo» e contro i più alti rappresentanti della morale. Gli
antisemiti contemporanei ben riconoscevano in Nietzsche un loro attivo oppositore che fino
all’ultimo, già dentro la follia, manifesta nei biglietti da Torino la volontà di farli tutti fucilare.
L’opposizione a Stein è decisiva per chiarire la posizione più profonda, acquisita a partire da
Umano, troppo umano, sull’eroismo. Nella lettera da Genova dei primi di dicembre del 1882,
Nietzsche afferma: «Riguardo all’eroe io non ne penso tanto bene come Lei. Certo, questa è pur
sempre la forma di esistenza più accettabile, soprattutto se non si ha altra scelta». L’ascetismo è
carattere essenziale dell’eroismo in quanto sacrifìcio della cosa più cara imposto «dal tiranno che è
in noi (che saremmo disposti a chiamare “il nostro io superiore”)». «Quello che Lei tratta - afferma
Nietzsche contro Stein - sono quasi unicamente questioni di crudeltà». Se il filosofo sente di
avere dentro di sé e nel suo percorso qualcosa di questo carattere ‘tragico’, ritiene anche necessario
il suo superamento: «Vorrei liberare l’esistenza umana da quello ch’essa ha di straziante e
di crudele». Nietzsche insiste, in più punti centrali dei suoi scritti della maturità, contro questa
«morale degli animali da sacrifìcio», in cui l’entusiasmo della vittima nasce dal sentirsi una
sola cosa con «il potente essere, sia esso un Dio o un uomo» a cui è consacrata. La sua potenza
viene testimoniata e verificata proprio dal sacrificio: «Non sembrate tanto immolarvi, quanto,
invece, trasmutarvi, col pensiero in divinità e, come tali, godere di voi stessi» (M 215). Con la fine
delle convinzioni va in crisi il primato dell’eroismo che presuppone comunque una fede e pretende
una garanzia metafisica o teologica. In qualche caso, come nel romantico Carlyle, la volontà di fede
nasconde la mancanza di fede propria della debolezza moderna, una «continua appassionata
disonestà verso se stessi».
L’eroismo si lega sempre più, nell’ottica critica di Nietzsche, alla certezza soggettiva, che è propria
della religione e che è nemica dell’indagine e della verità. Sulle orme di Taine, Nietzsche critica
radicalmente Carlyle il cui ‘fanatismo’ si ricongiunge a
quello dei puritani. «La fede è sempre tanto più ardentemente desiderata, tanto più urgentemente
necessaria, laddove manca la volontà» (FW 347). Nietzsche coglie bene il carattere di religiosità e
di fede nel programma eroico e di ‘culto degli eroi’ del romantico inglese Carlyle, da cui prende con
forza le distanze.
L’eroismo è la disponibilità della vittima a lasciarsi usare per fini che la trascendono, che non sono i
suoi: si contrappone alla forza dei grandi spiriti, capaci di ‘scetticismo’ e di una grande passione che
subordina ai suoi fini anche le ‘convinzioni’, senza esserne subordinati. La libertà degli orizzonti è
il presupposto dell’«individuo sovrano» che poggia su se stesso. Nello Zarathustra si riconosce
grande eroismo alla figura del prete per la ‘sofferenza’ che infligge a se stesso e agli altri e la cui
stoltezza ha inventato la testimonianza del sangue (il peggior testimonio) a favore della verità.
L’eroismo è la buona volontà del tramonto assoluto di noi stessi ed appartiene all’‘uomo superiore’,
la figura del ‘decadente’ dopo la morte di Dio che con la sua fine prepara il rovesciamento dei valori
e la via all’individuo sovrano. A questa tensione estrema, agonistica, che caratterizza la
volontà eroica, propria dei ‘sublimi’, Nietzsche contrappone, nello Zarathustra, la forma pacificata,
la bellezza che ha imparato il sorriso. Al ‘sublime’ cristiano, idealistico, Nietzsche oppone
il sublime legato alla pienezza dell’energia, in consonanza con la fisiologia della passione, propria
di Stendhal.
È l’ultima, più diffìcile forma di eroismo, quella che caratterizza il ‘supereroe’: contro l’idealismo
che ‘trasfigura’ se stesso e le sue mete, l’eroismo sta nel «non lottare sotto la bandiera
dell’abnegazione, della dedizione, del disinteresse; consiste nel non lottare affatto». L’eroe sublime
«ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi: ma egli dovrebbe liberare anche i suoi mostri e i
suoi enigmi e trasformarli in figli del cielo» (ZA II, Dei sublimi).
1 NA 4[77] Januar-September 1858; Opere I, I, p. 16.
2 NA 4[77] Januar-September 1858; Opere I, I, p. 38.
3 NA 4[77] Januar-September 1858; Opere, I, I, p. 24.
4    Ibidem.
5    NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 331. Nella riproposizione
in rima del poema eroico serbo Der grimme Bogdan (Il feroce Bogdan), tradotto dallo slavo da
Talvj von Jacob, Bogdan è caratterizzato come «der starke, grimme, wutherfüllte Held» (NA 10[4]
März-August 1861).
6 NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 320. NA 14[2] Oktober 1862 bis März 1863;
Opere I, I, p. 251.
8    Ibidem.
9    NA 14[2] Oktober 1862 bis März 1863; Opere I, I, p. 252.
10    NA 10[20] Ermanarich, Ostgothenkönig. Eine historische Skizze, März-August 1861; Opere I,
I, p. 164.
11    NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864; Opere I, I, p. 346.
12    NA 16[3] Oktober 186} bis März 1864;    Opere I, I, p. 348.
13    NA 16[3] Oktober 1863 bis März 1864;    Opere    I, I, p.    333.
14    NA    16[3] Oktober 1863 bis März 1864;    Opere    I, I, p.    334.
15    NA    12[17] Oktober 1861-März 1862; Opere I,    I, p. 187.
16    NA 10[20] März-August 1861; Opere I, i, p. 164.
17    Götterdämmerung traduce ragnarokkr dalla Edda di Sturluson Snorri: anche se il termine più
antico è ragnarok, ‘il fato degli dèi’. Wagner ha certo contribuito in maniera determinante alla
fortuna dell’espressione.
18    Cfr.BN, pp. 671-672.
19    NA 6[77] April-Oktober 1859; Opere I, I, p. 101.
20    F. Schiller, Die Räuber [J masnadieri, atto I, scena seconda.
21    NA 14[1] Oktober 1862 bis März 1863; Opere I, I, p. 247.
22   F. Nietzsche, Über die dramatischen Dichtungen Byrons, 12[4] Oktober 1861-März 1862;
Opere 1,1, p. 177-183.
25 'Willensfreiheit u. Fatum, NA 13[7] April-Oktober 1862; Opere I, I, p. 213. Cfr. L. Feuerbach,
L'essenza del cristianesimo, a cura di F. Bazzani, Ponte alle Grazie, Firenze 1994, cap. XIX, p. 234.
In una nota di libri per il compleanno, conservata tra le carte di Nietzsche presso il Goethe-Schiller-
Archiv di Weimar, si trova indicato, di Feuerbach, oltre a questo scritto anche Gedanken über Tod
und Unsterblichkeit.
24     Prometheus, NA 6[2]; Opere I, X, p. 61.
25    Prometheus, NA 6[2]; Opere I, I, pp. 66-67.
26   Sul tema della ‘seconda natura’ cfr. NA 6011] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p.
266; HL 3, BA 2; M 455.
27    NA 14[12] Oktober 1862 bis März 1863; Opere I, I, p. 258.
28    Mein Leben, NA 18[2] Sommer 1864; Opere I, i, p. 444.
29    NA 4[77] Januar-September 1858, Opere I, I, pp. 43, 42.
30   Rückblick auf meine zwei Leipziger Jahre, 17 Oktober 1865-10 August 1867, NA 60[1] Herbst
1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 279.
31    Mein Leben, NA 18[2] Sommer 1864; Opere I, i, p. 444.
32    Mein Leben, NA 15[41] April 1863 bis September 1863; Opere I, I, p. 312.
33    Mein Leben, NA 18[2] Sommer 1864; Opere I, I, p. 446.
34 NA 69[10] Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 488.
35 Cfr. WS 17; JGB 22,31.
36 Su questi temi, importanti le indicazioni di F. Gerratana: «Jetzt zieht mich das Allgemein-
Menschliche an», 'Ein Streifzüg durch Nietzsches Aufzeichnungen zu einer «Geschichte der
litterarischen Studien», in «Centauren-Geburten». Wissenschaft, Kunst und Philosophie beim
jungem Nietzsche, hrsg. von T. Borsche, F. Gerratana u. A, Venturelli, de Gruyter, Berlin 1994, pp.
326-350; trad. it. in F. Gerratana, Scritti su Nietzsche editi e inediti, ETS, Pisa 2009.
37   A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 2 voli., a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1981,1,
pp. 462-463.
38    NA 75[20] Februar 1868 bis Oktober 1869; Opere I, II, p. 333.
39    KGB, II, I, pp. 35 e 17; Epistolario, II, pp. 34 e 17.
40    NA 56[7] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 199.
41
   A. Schopenahuer, Il mondo come volontà e rappresentazione, (Supplementi, cap. 31),
Mondadori, Milano 1989, p. 1249.
42    Ivi, p. 1242.
43    KGB, I, II, 316; Epistolario, I, p. 623 (a Paul Deussen, settembre 1868). Si veda anche NA
52[30] Frühjahr 1867 bis Winter 1867/68 e 57[31]; Opere I, II, p. 187 e p. 208; Encyclopédie der
klassischen Philologie 7, KGW, II, III, pp. 369-370; BA 4, Opere, III, II, p. 112. Per il riferimento
ad Arthur Schopenhauer cfr. Parerga e Paralipomena, cit., II, par. 254, pp. 642-643.
44    Omero e la filologia classica, Opere I, n, p. 516.
45    NA 77 [4] September 1868 bis Herbst 1869; Opere I, II, p. 478
46    NA 56[6] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 198.
47    NA 77[4] September 1868 bis Herbst 1869; Opere I, II, p. 478
48    KGW, II, III, 372.
49    NA 57[30] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 208.
50    Omero e la filologia classica, Opere I, II, p. 538.
51    KGW, II, III, p. 368.
52    BA 2, Opere, pp. 131-135.
53   KGW, II, III, p. 371; cfr. NA 58[52] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere I, II, p. 263. Si veda
anche lettera a Erwin Rohde, 1-3 febbraio 1868.
54Der Gottesdienst der Griechen, KGW II/5, pp. 355-520. Sugli studi di Nietzsche, sulla loro
importanza e vastità si veda il volume di A. Orsucci, Orient-Okzident.  Nietzsches Versuch einer
Loslösun vom europäischen Weltbild, de Gruyter, Berlin-New York 1996.
55FP 38[l-7] fine 1874. Ricordiamo le poche righe dedicate da Franz Kafka ad un Prometeo
dimenticato: «Tutti dimenticarono: gli Dèi, le aquile, egli stesso [...]. Ci si stancò di lui che non
aveva più motivo di essere. Gli dèi si stancarono, la ferita - stanca
si chiuse» (Prometeo, 1918). Perfino il ricordo dell’eroe supremo è caduto. Sembra la definitiva
sanzione di una impossibilità - nella condizione moderna - di un eroismo prometeico: l’eroismo è
nell’oscura vita quotidiana.
56    Der griechische Staat, CV 3, Opere III, II, pp. 226-227.
57   Ivi, p. 270; Opere III, II, p. 236. Si veda come questa dedizione assoluta sia vista come
espressione di «sublimità morale, l’istinto per l’eroismo e il sacrificio»: 6A 4, Opere III, n, p. 181.
58   E. Renan, Dialoghi filosofia, in Scritti filosofici, testo francese a fronte, a cura di G. Campioni,
Bompiani, Milano 2008, p. 247.
59    Lettera a Sainte-Beuve del 5 maggio 1862, in Oeuvres Complètes de Ernest Renan, 10 voli., a
cura di H. Psichari, Calmann-Levy Éditeurs, Paris 1947-1961, vol. X, p. 353 (d’ora in poi OC,
seguito dal numero romano per il volume, dall’eventuale specificazione dell’opera in esso contenuta
e dal numero arabo per le pagine).
60    OC, III, L’avenir de la science, pp. 795-797.
61    OC, I, p. 71.
62    Lettera a Reinhart von Seydlitz, 12 febbraio 1888. Il perspicuo riferimento di Nietzsche
(ripreso più volte anche in altri contesti) è alla parabola di Arthur Schopenhauer dei Parerga e
Paralipomena, (396), II, cit., p. 884.
65E. Renan, Ricordi d’infanzia e di giovinezza, a cura di S. De Simone, UTET, Torino 1954, p. 84
(nell’ed. fr. Souvenirs d’enfance et de jeunesse, Calmann Lévy, Paris 1883, p. 78, BN).
64 OC, IV, pp. 370 e 367.
65    OC, II, pp. 258-259.
66    OC, II, pp. 256-257.
67    OC, II, p. 259.
68    E. Renan, Dialoghi filosofici, cit., p. 229.
69    GT 16, Opere, III, I, p. 111.
70    Ivi, p. 117.
71   Cfr. B. von Reibnitz, Ein Kommentar zu Friedrich Nietzsche “Die Geburt der Tragödie aus
dem Geiste der Musik" (Kapitel 1-12), Metzler, Stuttgart 1992, p. 246.
72 J. Michelet, Bible de l’humanité, Chamerot, Paris 1861, pp. 260-264.
GT 19, Opere, III, I, p. 139.
74    BA 3, Opere, III, n, p. 145.
75    DS 2, Opere, III, I, p. 177.
76    R. Wagner, Una comunicazione ai miei amici, ediz. Studio Tesi, Pordenone 1985, p. 26.
77    A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, II, cit., p. 421. Cfr. SE 4, Opere, III, I, p. 398.
78    A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, I, cit., pp. 642-643.
79   Si veda in particolare di R.W. Emerson il saggio Eroismo, in Saggi, Boringhieri, Torino 1962,
pp. 182 sgg.
80 FP 7 [160] fine 1870-aprile 1871. La citazione viene da A. Schopenhauer, Il  mondo come volontà
e rappresentazione, § 27, cit., p. 222.
81   R. Wagner, La «Sinfonia Eroica» di Beethoven, in Ricordi, battaglie, visioni, Ricciardi, Milano
1955, p. 174.
82   Si veda in particolare: R. Wagner, L'arte e la rivoluzione, in Ricordi, battaglie, visioni, cit., pp.
297 sgg.
83 R. Wagner, Scritti scelti, Longanesi, Milano 1983, pp. 89-90. Cfr. anche: R. Wagner, La mia vita,
a cura di M. Mila, UTET, Torino 1960, pp. 134-135.
84    WB 9, Cfr. FP 11 [18] estate 1875.
85    WB 3, Cfr. FP 11L38] estate 1875.
86    Cfr. R. Wagner, II crepuscolo degli dei, Atto terzo, Preludio e Scena prima, vv. 1600-1602.
87    JGB 256. Ma significativo anche l’accostamento alla filosofia di Spinoza: «“Tutto ciò sa molto
più di Spinoza che di me” - direbbe forse Schopenhauer» (FW 99).
88    R. Wagner, II crepuscolo degli dèi, Atto primo, Scena seconda, vv. 405-407.
89    R. Wagner, Il crepuscolo degli dèi, Atto terzo, Scena seconda, v. 1677. Nel saggio postumo Su
verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche designa come «eroe supremamente giocondo»
l’uomo intuitivo che, diversamente dall’uomo razionale che affronta i più impellenti bisogni armato
di «previdenza, prudenza, regolarità», non vede neppure quei bisogni e «considera come reale
soltanto la vita trasformata dalla finzione in parvenza e bellezza» (WL 2; Opere, III, II, p. 371).
90    R. Wagner, La Walkiria, Atto secondo, Scena seconda, v. 879.
91    R. Wagner, Una comunicazione ai miei amici, cit., pp. 118-119.
92 R Wagner, La Walkiria, Atto secondo, Scena quarta, vv. 1349 sgg.
93R Wagner, Entwürfe. Gedanken. Fragmente. Aus nachgelassenen Papieren zusammengestellt,
Breitkopf & Härtel, Leipzig 1885, p. 59 (BN).
94 Si veda 7[160] primaveraestate 1883. Sull’importanza di questo autore come fonte della
Genealogia si veda A. Orsucci, Nietzsche, Wundt e il filologo Leopold Schmidt. A proposito di una
fonte della 'Genealogia della morale', in «Giornale critico della filosofia italiana», LXX (1991), pp.
275-303.
95   R. Wagner, Der Nibelungen-Mythus. Als Entwurf zu einem Drama (1848) in Sämtliche
Schriften und Dichtungen, Breitkopf & Härtel, Leipzig, 1911, II, pp. 166 e 163.
96    Ivi, p. 158.
97    Cfr. R. Wagner, La Walkiria, Atto secondo, Scena seconda, vv. 1062-1063.
98    FP 15[14] primavera 1888. Cfr. anche JGB 256.
99    FP 14[63] primavera 1888. Si veda anche FP 15[15] primavera 1888: «Ogni fisiologo
commenta: è tutto falso!» e FP 2[113] autunno 1885-autunno 1886: «L’impossibilità psicologica di
queste pretese anime d’eroi e di dèi, che sono nello stesso tempo nervose, brutali e raffinate come i
più moderni tra i pittori e i lirici parigini».
100    P. Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Lemerre, Paris 1883, p. 17; trad. it.
Décadence. Saggi di psicologia contemporanea, a cura di F. Manno, Aragno Ed., Torino 2007, p.
14.
101Ch. Baudelaire, I fiori del male, CXVIII (Il tradimento di San Pietro), in Opere, a cura di G.
Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996, p. 249.
102 V. Hugo, Les Mages, in Les Contemplations, Lévy frères, Paris 1856, pp. 184, 201,197,192-193.
103 Cfr. P. Bourget, Essais de Psychologie, cit., p. 224: J. Michelet «ne pouvait comprendre et n’a
compris ni Montaigne ni Bonaparte» (saggio su Taine). Trad. it., cit., p. 129. Nel saggio di Paul
Bourget Enfance de Michelet si legge una decisa critica al romanticismo dello storico «frémissant
jusqu’au spasme à la moindre impression, sensible jusqu’à la colère, capable d’une perspicacité
divinatoire quand il voit juste, incapable
de contrôler ses erreurs quand la passion l’égare» (cit. in E. Seillière, Paul Bourget psychologue et
sociologue, Édition de la Nouvelle Revue Critique, Paris 1937, p. 39).
104
   K. Hillebrand, Zeiten, Völker und Menschen, Zweiter Band: Wälsches und Deutsches, R.
Oppenheim, Berlin 1875 (BN), pp. 140 sgg.
105    H. Taine, Essais de Critique et d’Histoire, Hachette, Paris 18662, pp. 175 sgg.
106    Ivi, pp. 189-190.
107    K. Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, Editore Riuniti, Roma 1964, pp. 87-88.
108 Ch. Baudelaire, Salon del 1859, in Opere, cit., p. 1223.
109 A. Gobineau, Essai sur l’inégalité des races humaines, in Oeuvres, I, Gallimard, Paris 1983, p.
1163.
110L'appunto, rinvenuto da Andrea Orsucci, si trova conservato presso il Nachlaß  Diihring (cassa
numero 5) della ‘sezione manoscritti’ della Staatsbibliothek di Berlino. Ringrazio Orsucci per avere
permesso l’utilizzazione di tale inedito per questo mio lavoro.

Socrate monstrum: eroismo e decadenza


1. Cercare tesori e trovare lombrichi
Dopo aver gettato lo sguardo in lontananze tanto remote, rivolgiamolo di nuovo su Socrate, che nel
frattempo si è certamente trasformato in un mostro: «E già appare come un ippopotamo, con occhi
di fuoco e mascelle terribili».
Così si legge al termine di un lungo appunto in cui Nietzsche delinea le conseguenze fatali,
destinate alla compiuta affermazione nella contemporaneità, della criticità razionalistica di Socrate e
dell’‘arte socratica’1. Tale direzione troverà sviluppo e sistemazione nella singolare ‘filosofia della
storia’ della Nascita della tragedia. In questo appunto, intanto, Nietzsche riprende l’immagine del
Faust di Goethe: il barbone nero che rassicurava il famulo Wagner («è un cane, non un fantasma.
Ringhia ed esita, si mette pancia a terra, scodinzola. Proprio come fanno i cani»; vv. 1163-65) e
aveva inquietato fin dal suo apparire, nella passeggiata fuori porta, il dottor Faust («sembra ch’egli
tenda attorno ai nostri piedi dei sottili lacci magici per prenderci»; vv. 1158-59), assume, nel chiuso
dello studio, proporzioni e forma mostruosa («già appare come un ippopotamo, con occhi di fuoco e
mascelle terribili»2) e si rivela alla fine essere Mefistofele,
«lo spirito che sempre nega». Socrate - figura familiare, simbolo educativo agli occhi del moderno
filisteo alla scuola di una rassicurante filologia tradizionale -, si svela agli occhi del giovane filosofo
tedesco come il possente demone che ha cambiato il corso della storia in una direzione nichilistica:
«Ma ti conosco bene! Per tale genia seminfernale ci vuole la chiave di Salomone» (vv. 1256-58).
Nietzsche propone, del filosofo greco, ima consapevole «tipizzazione», investita da passionalità
(«io mostro una caricatura»; 1[11], 1869), di cui rivendica la vitalità e la forza rispetto alle altre
ricostruzioni: «Diglielo ancora una volta ai filologi, che il mio Socrate ha mani e piedi: sento un tale
contrasto tra la mia descrizione e quelle altre, che mi appaiono tutte così morte e in putrefazione». Il
filosofo scrive questo nella lettera a Rohde del 16 luglio 1872, in cui discute con l’amico la linea di
difesa per la risposta specialistica contro il «rappresentante di una ‘falsa’ filologia», lo «sfacciato
giovanotto» Wilamowitz, che aveva attaccato con estrema durezza e sarcasmo La nascita della
tragedia in uno scritto intitolato La filologia dell’avvenire. Nietzsche suggerisce molti argomenti di
replica che l’amico riprenderà nella sua Afterphilologie [Filologia deretana]. Fin dall’inizio, egli è
consapevole dello scandalo nel mondo accademico del suo scritto «centauro» e sente l’esigenza di
una presa di posizione scientifica da parte del filologo amico (quella che Wilamowitz, definirà con
malizia un «sacrificium intellectus» di Rohde, ritenuto «lontano dalla vertigine dionisiaca» di
Nietzsche3). «Hai forse mai pensato di pronunciarti sul mio libretto sulla tragedia? Temo sempre
che i filologi non lo vogliono leggere per via della musica, i musicisti per via della filologia, e i
filosofi per via della musica e della filologia...» (lettera a Rohde del 23 novembre 1871). Rohde
interviene: in modo simpatetico all’ombra di Scho-
penhauer e Wagner, nelle sue prime recensioni4, immergendosi a pieno in quella «purpurea
oscurità», parla il linguaggio nuovo di Nietzsche, della sua «cosmodicea» e «metafisica dell’arte».
Ritiene che non si debba sottolineare particolarmente «l’aspetto filologico-storico» del libro
(«questo può andar bene per gente rassegnata») ma «in primo luogo risvegliare un bisogno
profondissimo di piena formazione umana» (lettera di Rohde del 26 febbraio 1872). Nella volontà
di un impegno culturale inattuale e più vasto (nel libro, secondo Rohde, si affratellavano «la
scienza dell’antichità greca e la trattazione filosofica dell’arte»5) il presupposto comune ai due
amici è la critica della miseria della filologia quale veniva praticata correntemente (una riflessione
che Nietzsche portava avanti, nei suoi appunti, da alcuni anni). Nella tipizzazione critica del
filologo «attuale», incapace di una visione in grande, Nietzsche ricorre ancora una volta al Faust di
Goethe: «Il vero santo della filologia», il vero filologo e martire di questa scienza, deve essere
individuato in Wagner, il famulo filisteo -«l’arido ipocrita» - del Faust: «ogni stupido storico della
letteratura si crede in diritto di pisciargli addosso: questo è il martirio. E sai come si chiama?
Wagner, Wagner, Wagner! Ah, che libro pericoloso è il Faust di Goethe!» (così scrive Nietzsche a
Deussen nel settembre 1868). E' singolare che anche Wilamowitz veda nel famulo Wagner il
prototipo del filologo improduttivo il cui scavare è cieco e fine a se stesso, del tutto autonomo
rispetto ad ogni superiore scopo conoscitivo. Usa infatti questa immagine: «Chi scava senza sosta
alla ricerca di tesori ed è contento quan-
do trova dei lombrichi, presto cercherà lombrichi. Non devi lasciarti scoraggiare e smettere di
cercare tesori se per una volta hai trovato lombrichi, ma gettali via». Queste espressioni rimandano
direttamente a Goethe. Faust infatti così caratterizza la solerzia del meschino Wagner: «Scava con
avida mano in cerca di tesori ed è tutto contento se trova dei lombrichi!»6.
Nietzsche usa più volte, a proposito del lavoro dei filologi del suo tempo, l’immagine del cieco
scavare delle talpe: «le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate
un verme, e indifferenti verso i veri, urgenti problemi della vita» (lettera a Rohde del 20 novembre
1868). E, nella Nascita della tragedia, per caratterizzare il lavoro senza fine (e senza un ultimo
risultato) dell’uomo di scienza, tornerà ancora alla metafora dello scavare, pensando probabilmente
alla scienza filologica: «I suoi seguaci dovrebbero sentirsi come individui che volessero scavare un
foro attraverso la terra: ciascuno di essi vedrebbe bene che anche con il massimo sforzo,
protratto per tutta la vita, sarebbe in grado di scavare solo una piccolissima parte dell’immane
profondità, la quale verrebbe di nuovo colmata sotto i suoi occhi dal lavoro del vicino, sicché un
terzo sembrerebbe far bene a scegliere per conto suo un altro luogo per i propri tentativi di
perforazione» (GT 15).
Mentre l’orizzonte di Wilamowitz rimaneva del tutto interno alla disciplina filologica alla cui
educativa «ascesi e abnegazione» affidava la gioventù tedesca, Nietzsche, con La nascita
della  tragedia, rompeva con forza i confini delle discipline cogliendo già nello stesso «concetto
della filologia classica» l’intima contraddizione tra arte e scienza: «la differenza, anzi ostilità
reciproca, degli impulsi fondamentali riuniti ma non fusi insieme sotto il nome di filologia»7.
Nelle sue recensioni, Rohde coglie bene il significato epocale, di svolta, che Nietzsche attribuisce
alla figura di Socrate:
Socrate apparì quando i Greci «non capirono più la propria giovinezza [...], il pensiero astratto dei
Greci in fasi alterne si impose progressivamente fino a vittoriosa chiarezza; e sappiamo che in
Socrate esso comprese distintamente se stesso e i propri fini e che con un entusiasmo quasi
arrogante si impadronì dell’intera vita». In Socrate proruppe «con la demoniaca potenza
dell’istinto» «l’ansia di pervenire direttamente a una nozione concettuale» di quel cosmo intero dei
cui «ultimi segreti» la tragedia greca aveva potuto parlare, un’ansia che tenne in seguito occupate
«tutte le forze del lungo autunno e inverno della cultura ellenica»8.

2. Socrate: caricatura e semiotica


Nei primi lavori filologici di Nietzsche non v’è un particolare interesse per la figura di Socrate,
anche se, evidentemente, accanto a Platone (una delle sue letture principali fin dagli anni
di Pforta9), Senofonte e Aristofane, il filologo conosce bene le altre numerose testimonianze e le
vite di Socrate che ci provengono dall’antichità: a partire da quella di Diogene Laerzio, sulle cui
fonti ha a lungo lavorato, della Suida10, e di Aristosseno di Taranto11.
La passione per il Simposio («la mia opera preferita»; Scritti giovanili, Opere, I, I, p. 445), letto e
studiato con grande cura fin dagli anni di Pforta (dal 1863) è testimoniata dal breve scritto di
Nietzsche del 1864 La relazione del discorso di Alcibiade
con gli altri discorsi del Simposio platonico12.
Al centro del saggio non è tanto la figura di Socrate, che rappresenta il lato teorico, astratto, della
consacrazione alla bellezza, quanto quella dello stesso Eros che attraversa, con forza crescente, tutti
i discorsi illuminandoli di parziali verità. Nietzsche insiste su questo punto che vuol porre in testa
alle sue considerazioni. E, nelle lezioni sui dialoghi platonici, conferma, sul Simposio, le
affermazioni presenti nel saggio giovanile: «Del tutto sbagliato credere che Platone si proponesse in
questo modo di rappresentare diverse posizioni errate: in effetti, sono tutti λόγοι filosofici - e tutti
veri - che illuminano aspetti sempre nuovi di un’unica verità»13.
Tale verità trova la sua piena evidenza non tanto in Socrate quanto nella necessaria polarità tra
Socrate e Alcibiade: il primo mostra il lato teoretico dell’uomo consacrato al bello originario,
mentre il secondo ne mostra il lato pratico. Infatti solo «attraverso l’opposizione di Socrate e
Alcibiade viene finalmente alla luce quella doppia natura demonica di Eros stesso, in
mezzo tra il divino e l’umano, lo spirito e i sensi; come, d’altra parte, attraverso la comparsa di
Alcibiade, il Dialogo stesso riceve quella coloritura meravigliosa, quell’oscillare tra opposte tonalità
di colore che si può seguire fin nelle singole parti e che si riverbera sullo stesso linguaggio».
L’effetto del discorso di Socrate viene potenziato dall’irruzione di Alcibiade con la sua schiera di
ubriachi: ispirato dal vino «il discorso di Alcibiade agisce attraverso dati di fatto, quello di Socrate
attraverso idee; e i dati di fatto agiscono con più forza e più efficacia delle idee enunciate».
Nietzsche conosce bene, anche dai versi dei lirici greci che in quel periodo leggeva con passione,
quella ripercussione fisica, che atterra, di Eros dominatore14.
A parte questo scritto giovanile dedicato al Simposio, la figura di Socrate (con la critica del
socratismo dominante nel mondo «attuale») emerge improvvisa solo con la conferenza tenuta il 1
febbraio del 1870, Socrate e la tragedia: non la nascita ma la morte della tragedia è al centro della
riflessione di Nietzsche. Il filosofo greco, prototipo dell’uomo teoretico e ottimista, è stato capace di
distruggere una forma di vita la cui espressione più alta appare l’equilibrio realizzato nella tragedia
classica tra il principio dionisiaco (la musica) e apollineo (la bella forma, il limite, la parola, il
gesto). Il testo di questa conferenza suscita scandalo, fraintendimenti tra gli uditori, speranze e
preoccupazioni a Tribschen: certo già si configura il tema «politico» della rinascita della tragedia in
Germania attraverso la musica di Wagner e la vittoria sul socratismo. La figura di Socrate assume
una valenza fatale
ed epocale che, pur in varie metamorfosi, non abbandonerà più: «Socrate, il punto decisivo
[Wendepunkt] e il vertice della cosiddetta storia universale» (GT 15) - scrive Nietzsche usando
lo stesso termine Wendepunkt con cui Hegel termina la sua trattazione del filosofo greco nelle
Lezioni sulla storia della filosofia15.
Un Socrate monstrum e caricatura - ma anche sfuggente e ambiguo demone tentatore, che ha
sedotto e seduce - rivelando e sottolineando aspetti della riflessione e della personalità di Nietzsche,
ne accompagna da questo momento l’intero percorso filosofico16. Come per Hegel e Kierkegaard,
anche per Nietzsche si può parlare, con la Kofman, di «un roman socratique symptomatique
seulement de son auteur»17.
L’incontro con la figura di Socrate avviene in tempi diversi, a più livelli, nella sua complessità, in
relazione anche alle diverse letture che si sono sovrapposte e intrecciate nel tempo. Il confronto
comporta passionalità, veemenza, eccesso: solo con Richard Wagner Nietzsche ha avuto un simile
atteggiamento perché, come nel caso del musicista, Nietzsche sente di doversi difendere da una
inquietante vicinanza, troppo pericolosa: «Socrate - lo confesso - mi è talmente vicino, che devo
quasi sempre combattere contro di lui» (6[3] 1875-1876). Se Wagner
e Socrate sono dei decadenti (décadents), anche Nietzsche sa di esserlo e riconosce quanto la sua
filosofia debba alla malattia. E se Socrate è stato, nel tempo, maschera e «semiotica» di altri
filosofi, a cominciare da Platone (EH, Considerazioni inattuali 3), questo vale certamente anche per
Nietzsche.
Scrive Bertram: «Nell’ odio-amore di Nietzsche per Socrate, odio e trasfigurazione di se stesso si
incontrano in una straordinaria unità»18. Molte sono le tracce che confermano questo intenso
rapporto: in particolare le caratterizzazioni ambigue del filosofo greco che valgono anche per
Nietzsche. Socrate ha in sé caverne e nascondigli, ha necessità di mascherare la propria realtà per la
comunicazione: «Credo di sentire che Socrate era profondo - la sua ironia era prima di tutto la
necessità di mostrarsi superficiale per poter in genere aver rapporti con gli altri...» (34[148] 1885).
E Nietzsche per sé: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera [...] più ancora, intorno ad ogni
spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè
superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà» (JGB
40) Socrate «fu quel pagliaccio che si fece prendere sul serio» (GD, Il problema Socrate 5) e
Nietzsche su sé: «Non voglio essere santo, allora piuttosto un pagliaccio... Forse sono un
pagliaccio» (EH, Perché sono un destino, 1). Il termine Selbstüberwindung, che in Nietzsche
definisce l’atteggiamento di Socrate (cfr. 5[128] 1875), è lo stesso che, nelle lettere, viene usato dal
filosofo per caratterizzare «la sua risorsa principale» nella vita, per la vita. Nietzsche accetta la
definizione che di lui ha dato Rohde: «Tausendkünstler der Selbstüberwindung [giocoliere
dell’auto-dominio /nell’arte di vincere se stesso]». Anche Nietzsche afferma, come Socrate, di avere
un suo «demone» che identifica con la «voce ammonitrice del padre»19. Infine, sulla problematica
relazione tra il Nietzsche «educatore» e il Socrate «corruttore» della gioventù - su cui hanno scritto
con efficacia Bertram e Hadot - basti ricordare espressioni del tipo: «io persisto a “guastare la
gioventù” (non sfuggirò sicuramente alla cicuta)» (a Ida Overbeck, lettera del 19 gennaio 1882).
Nietzsche cerca un senso e un significato al momento primo ed esteriore dell’approccio con la
figura del filosofo greco: quella bruttezza fisica, univocamente documentata dalle più
diverse testimonianze da Platone a Aristofane, da Senofonte alla commedia greca, e che sembra
rompere l’ideale di armonia tra bellezza fisica e bellezza interiore, il modello greco classico
del καλόν κάγατόν20. Lo stesso Socrate, nel Simposio di Senofonte, nella gustosa gara di bellezza
con il giovane e venusto Critobulo, ironicamente rovescia il valore delle forme esteriori a favore
di una considerazione teleologica che veda il primato dei suoi sgraziati organi21. Solo nella seconda
lettera di Platone troviamo un enigmatico «καλός Σωκράτης», un «Socrate bello»22 che Nietzsche
non manca di rilevare e di cui cerca una spiegazione nella possessiva gelosia di Platone che vuole
avere il maestro «tutto per sé», nella volontà «di sottrarlo agli altri socratici, di definirsi suo
continuatore». Perciò «lo permea di sé, pretende di abbellirlo» ponendolo in una «luce affatto non
storica» (27 [75] primaveraestate 1878)23. E, nelle lezioni sulla storia della lette-
ratura, Nietzsche afferma che Platone opera con le teorie filosofiche di Socrate «come i poeti
avevano operato con il mito», «con una grande predilezione per l’elemento singolare, personale,
bizzarro». «Un Platone che parla attraverso Socrate - continua Nietzsche - è proprio una caricatura,
perché il pieno contrasto tra interiorità ed esteriorità, tra l’elemento plebeo e il geniale aristocratico,
la fredda ragionevolezza contro il misticoprofetico è portato agli estremi: del tutto affascinante»24.
Io «mostro una caricatura» aveva scritto Nietzsche e per l’appunto in Platone ritrova questo, ma
diversa è la direzione: «il Socrate platonico è propriamente una caricatura; egli, infatti è
sovraccarico di qualità che mai si potranno incontrare in una persona sola» (18[47] settembre 1876;
cfr. 5[193] 1875).
La riflessione su Socrate si estende a questo complesso rapporto con la piena consapevolezza che
alla ‘magia’ delle molte anime di Socrate corrisponde anche la pluralità di anime di quel Platone
Cagliostro «uomo dalle molte caverne e facciate» (34 [66] 1885).

3. “Der freieste Mensch”: Democrito contra Socrate


Nietzsche, nei suoi primi lavori filologici, nei suoi non molti riferimenti, non vede affatto in Socrate
quella figura centrale di «mistagogo della scienza» e razionalista che emergerà con La
nascita della tragedia. Piuttosto, su questi temi, la sua attenzione, simpatetica, si rivolge (fin
dall’estate 1867) a Democrito la cui fisionomia provò a ricostruire partendo dall’esame
critico dell’immagine che ne aveva dato Diogene Laerzio. Democrito è «un razionalista fiducioso»,
il «padre di tutte le tendenze illuministiche e razionalistiche», colui che «raggiunge, primo fra
i Greci, il carattere scientifico, che consiste nel tentativo di spiegare in modo unitario una quantità
di fenomeni senza chiamare in aiuto, nei momenti più critici, un deus ex machina».
Democrito vuole liberare dalle paure e dalle superstizioni, dal «timore degli dèi», dalla «fosca
mitologia», attraverso la conoscenza scientifica: per questo condanna «ogni intromissione di un
mondo mitico». L’attività scientifica ha in Democrito un senso etico: nella scienza egli vede «lo
scopo di ogni eudaimonia». Nietzsche sottolinea però come Democrito non trovi affatto nella
scienza la felicità che cercava essendo figura assolutamente anomala, in lotta solitaria contro il suo
tempo e contro i filosofi precedenti ancora legati a concezioni mitiche. «Una vita scientifica era a
quel tempo un paradosso», la sua dedizione assoluta al sapere «contraddiceva alla formazione
armonica e alla misura» proprie del mondo greco. Tale scelta lo condannò ad una vita «nomade e
inquieta, piena di disagi». Democrito pagò con l’infelicità il grande merito di avere per primo
creduto alla scienza come «principio di vita». Nietzsche sottolinea il carattere «fanatico», passionale
del democriteo «impulso al sapere [Wissenstrieb]» che comporta uno «slancio poetico»:
«Democrito una bella natura greca, come una statua all’apparenza freddo eppure pieno di ardore
nascosto»25.
Ancora nell’inverno 1872-1873 Nietzsche può definire Democrito «il più libero» (Demokrit der
freieste Mensch) (23 [17]). E' quindi evidente che, al di là dell’apparente vicinanza e comuni aspetti
(razionalismo e scienza), tra la figura di Democrito e
quella di Socrate - già delineata, in questi anni, ne La nascita della tragedia - vi è una profonda
differenza e forti elementi di opposizione. Soprattutto: in Democrito «il mondo [è] senza significato
morale o estetico, pessimismo del caso» (23 [35] inverno 1872-73), la sua ipotesi scientifica di
spiegazione della realtà allontana come superfluo il Nous di Anassagora. In Democrito Nietzsche
valorizza, fin dall’inizio, la lotta contro la teleologia (gli appunti filologici sul filosofo greco si
mescolano con le riflessioni personali su questo tema). Con Socrate comincia invece l’ottimismo:
egli «ha una teleologia e crede in un dio buono», con lui, «comincia la fede nell’uomo buono che
sa» (23[35] inverno 1872-73). Un frammento dell’autunno 1867-primavera 1868, chiarisce questa
differenza sostanziale: «Che cosa ha portato alla scarsa considerazione di Democrito? La sua decisa
opposizione alla teleologia. Per la vita di Socrate fu un fatto epocale la lettura di Anassagora, che
per primo abbozzò una forma di teleologia. Socrate riconobbe questo punto, ne trovò scadente
l’attuazione e non sapeva che fare. Poi venne il δεύτερος πλους»26. Nietzsche, con questa
espressione metaforica («δεύτερος πλους»: la seconda navigazione, quella che si fa con i remi in
mancanza di vento) ricorda la scelta che Socrate dice di aver fatto dopo l’insoddisfazione provata
nei confronti delle teorie cosmologiche e fisiche precedenti, tra cui quella di Anassagora, incapace
anch’essa di conoscere «la vera causa» (Fedone, 99cd). La teleologia del Nous di Anassagora per
Democrito è superflua e antiscientifica, per Socrate insufficiente e fuorviante. Se l’impulso etico di
Democrito si identificava con una ricerca scientifica senza presupposti, in Socrate la ricerca è
invece sorretta e spinta da presupposti etici che ne inficiano, a priori, la radicalità. Nelle lezioni sui
filosofi preplatonici questo emerge con estrema chiarezza: «la filosofia socratica è assolutamente
pratica: essa è avversa ad ogni conoscenza non
congiunta a conseguenze etiche» «conoscenza e moralità coincidono» «da Socrate prorompe un
flusso morale e per questo egli appare profetico e sacerdotale. Egli è convinto di dover compiere
una missione»27.
Da qui anche la differenza di stile. Nietzsche fa propria la valorizzazione, da parte della tradizione,
degli scritti filosofici di Democrito come «modelli di esposizione filosofica»28. Ancora nelle
Lezioni sulla storia della letteratura greca, Democrito è definito «il primo classico» (der erste
Klassiker): il suo stile scientifico viene contrapposto a quello retorico e argomentativo di Socrate.
Dai due stili contrapposti risulta la differenza epocale: il “φιλόλογος” Socrate sviluppa, in modo
straordinario, l’arte del «parlar bene» contro il rigore scientifico che caratterizza il «piccolo
numero» di filosofi precedenti. Le loro ricerche, in più campi, sono ritenute da Socrate lontane
dall’interesse dell’uomo. «Tra Democrito e Socrate un baratro, nessun ponte: Socrate inventa una
nuova forma del “εύ σχολάζειν” con la passione del dialogo, ma rende ai suoi scolari oggetto
di ripulsa la ricerca scientifica e la vita solitaria del dotto»29.
«Socrate è nell’etica ciò che Democrito è nella fisica» (1[106] autunno 1869).
Nel cammino verso la filosofia dello spirito libero, soprattutto nei frammenti postumi degli anni
1875-1876, Nietzsche incontra di nuovo la figura di Socrate in contrasto con i filosofi che lo hanno
preceduto caratterizzati nella loro volontà di «trovare la via dal ‘mito’ alle leggi della natura,
dàll’immagine al concetto, dalla religione alla scienza»30. Anche Socrate - a differenza di Platone,
«il primo grandioso carattere misto» - appartiene comunque, per la sua forza caratteriale, a «quegli
uomini tutti d’un pezzo, scolpiti da da una sola pietra. Tra il loro pensiero e il loro carattere
interrcorre una rigorosa necessità» (PHG 1, Opere, III, III, p. 273).
I filosofi preplatonici mostrano nuove concrete possibilità di vita, al di là della fede nei miti e nella
religione. Scelsero un modo di vita al di fuori delle illusioni «in cui le difficoltà sono enormemente
accresciute...». Si spogliarono del mito che faceva risplendere la vita dei Greci, eppure riuscirono a
vivere in modo superiore. L’individuo «vuole poggiare su se stesso» (6[7] estate 1875), l’istinto
tirannico è proprio di questi grandi filosofi.
La scelta dell’abbandono delle illusioni è vista come difficile, specialmente in Grecia dove il mito è
espressione di valori di vita ascendente, ed è originato da quella stessa tracotanza che spinge i
preplatonici alla solitudine della conoscenza: «Contenimento dell’elemento mitico. - Rafforzamento
del senso della verità di fronte alla libera poesia. Vis veritatis, ossia rafforzamento del puro
conoscere (Talete, Democrito, Parmenide» (23 [14] 1872-1873). Il mito ha però una forza isolante e
disgregatrice, limitato com’è alla comunità della polis. I limiti della polis stavano nella sua forza
tirannica, nell’irrigidimento del mito. Il dominio politico di Atene che soffocò grandi forze
spirituali, impedì l’avvento di quella riforma panellenica preannunciata dai filosofi presocratici, e
che avrebbe, secondo Nietzsche, favorito il sorgere di grandi e belle individualità. La lotta contro il
mito da parte dei filosofi presocratici si accompagna quindi a progetti politici alternativi a quelli
della comunità naturale della
polis, illuminata, ma anche circoscritta, dal mito.
I presocratici con la loro vita realizzarono le premesse delle nuove individualità: vissero «in modo
libero» senza diventare «dei pazzi o dei virtuosi». «I greci erano sul punto di trovare un tipo di
uomo ancora superiore a quelli precedenti, ma intervenne allora un colpo di forbici» (6[18] estate
1875). Questo fu dovuto, nel campo della filosofia, a Socrate: il filosofo «rovesciò tutto quanto, nel
momento in cui ci si era massimamente  avvicinati alla verità; ciò è particolarmente ironico» (6 [7]
estate 1875). Attraverso Socrate («bastò un cervello strambo...») si compì «l’autodistruzione dei
Greci» (6[23] estate 1875): tra le conseguenze perniciose l’annientamento dello spirito scientifico
che aveva trovato l’espressione più compiuta e pura in Democrito31. Il radicalismo scientifico di
Democrito appare la causa più forte del «socratismo»: «Democrito: il mondo è del tutto privo di
ragione e di istinto, è prodotto da uno scotimento che mescola ogni cosa. Tutti gli dèi e i miti sono
inutili. Socrate: allora non mi rimane null’altro che me stesso; la preoccupazione per noi stessi
diventa l’anima della filosofia» (6[21] estate 1875). La filosofia diventa «individualistica e
eudemonologica»: da Socrate in poi si manifesta «la sciocca pretesa alla felicità»32 come prima
motivazione speculativa. La filosofia, «si separò dalla scienza quando pose la questione: qual’è
quella conoscenza del mondo e della vita nella quale l’uomo vive più felice? Ciò avvenne nelle
scuole socratiche: col punto di vista della felicità si legarono le vene alla ricerca scientifica e lo si fa
ancor oggi» (MA I, 7). Questo tema, con diverse accentuazioni, sarà presente fino alle ultime
riflessioni di Nietzsche: «filosofia: è, da
Socrate in poi, quella suprema forma di accortezza che non cade in errore quando c’è di mezzo la
felicità personale» (25 [17] primavera 1884).
Il giudizio sembra addirittura opposto a quello della Nascita della tragedia in cui Socrate viene
presentato quale «araldo» e «mistagogo della scienza», padre del razionalismo scientifico
e dell’alessandrinismo. La teleologia dominante che comporta la conciliazione tra verità e morale è,
nel suo aspetto più profondo, ostile e inconciliabile con una radicale ricerca scientifica senza
presupposti etici.

4. Monstrum in fronte, monstrum in animo


Nietzsche mostra un interesse continuativo e costante per la fisionomia del filosofo greco dando ad
essa un diverso significato in contesti profondamente modificati (dalla metafisica dell’arte della
Nascita della tragedia alla fisiologia della decadenza degli ultimi scritti).
Già nella conferenza Socrate e la tragedia, il filosofo tedesco rievoca «quell’aspetto esterno di
Sileno che era proprio di Socrate, i suoi occhi sporgenti, le sue labbra tumide, il suo
ventre cascante» ed afferma: «è significativo che Socrate fosse il primo grande Greco a essere
brutto» (ST, Opere, III, II, pp. 39-40). Nelle lezioni sui filosofi preplatonici, Nietzsche afferma che
il fascino di Socrate emanava oltre che dalla drammatizzazione del dialogo e dalla voce
estremamente seducente, dalla «singolarità della sua fisionomia di Sileno [das Excentrische seiner
silenischen Physiognomie]» («naso piatto, labbra grosse, occhi sporgenti») (KGW II, IV, p. 358).
Questa caratterizzazione giunge ai suoi estremi critici e paradossali nel Crepuscolo degli idoli:
Socrate, «monstrum in fronte, monstrum in animo» (GD, Il problema di Socrate 3).
Certamente l’aspetto fisico del filosofo greco, che è proprio del Sileno, quale viene presentato
unanimemente nelle testimonianze, è carico di ambiguità ed assume immediatamente una
88 Nietzsche. La morale dell’eroe valenza filosofica: rimanda, già in Platone, alla dialettica
apparire-essere. Dalle parole ebbre di Alcibiade che fa l’elogio di Socrate, emerge il primato della
bellezza interiore: Socrate-Sileno è solo apparenza esteriore, come quei sileni di legno che aperti in
due mostrano dentro di sé simulacri preziosi di divinità.
Il tema del rapporto tra fisionomia esteriore e realtà interiore, si pone nel confronto tra Alcibiade e
Socrate nel saggio giovanile sul Simposio in cui Nietzsche scrive: «Socrate è l’amante del bello
originario, ma anche Alcibiade è amante del bello originario. Tuttavia, quale diversità delle nature:
tanto moralmente sublime è l’uno, quanto moralmente corrotto l’altro, tanto bello nel corpo l’uno,
quanto brutto l’altro, tanto sobrio e padrone di sé l’uno quanto ebbro e senza controllo l’altro».
Qui Nietzsche non sembra allontanarsi dall’interpretazione tradizionale del primato dell’interiorità e
dell’autodominio. Nelle lezioni sui preplatonici, in cui il confronto personale con Socrate non
compare ed è in primo piano la ricostruzione storico-filologica, il filosofo greco appare - soprattutto
con la scelta volontaria della morte - come l’ultimo tipo di sapiente originale e genuino, «vincitore
degli istinti attraverso la σοφία»: «Gli istinti sono superati: la chiarezza intellettuale domina la vita
e sceglie la morte» (KGWII, IV, p. 360).
Già in Hegel la classicità di Socrate (la sua figura come una statua monoblocco) è frutto di un lungo
esercizio di autoformazione e disciplina di sé (enkrateia). Il filosofo si caratterizza per il dominio,
attraverso la ragione e la conoscenza, degli impulsi sensibili di cui il suo corpo porta i segni (la
bruttezza è il simbolo della forza di questa naturalità).
Scrive Hegel: «la pietà del cuore, la religione dell’animo, possono abitare anche un corpo che,
considerato per sé nella forma semplicemente esteriore, è brutto, così come la disposizione e
l’attività morale possono albergare nel volto da sileno di Socrate»33 e altrove chiarisce: «E' noto che
il suo aspetto este-
riore risvegliava l’idea di un temperamento in preda a passioni malvagie e basse, ch’egli però ha
saputo padroneggiare, come egli medesimo ci dice»34.
Vi è in Hegel, come in Nietzsche, la valorizzazione dell’incontro tramandato da più fonti (in
particolare Cicerone) tra il filosofo greco e il fisiognomico tracio Zopiro a cui qui si allude:
Zopiro, che affermava di saper riconoscere il carattere di ognuno dall’aspetto fìsico, aveva attribuito
a Socrate un cumulo di vizi, suscitando il riso di tutti gli altri, che non trovavano in lui quei vizi: ma
in suo aiuto venne proprio Socrate, il quale disse che quei vizi erano insiti in lui, ma che li aveva
scacciati da sé con la ragione35.
Più esplicito il riferimento di Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, che riscrive l’episodio per
confermare la fisiologica degenerazione di Socrate di cui la bruttezza è il sintomo primo:
«La bruttezza è abbastanza spesso l’espressione di uno sviluppo ibrido, ostacolato dall’mcrocio. In
altri casi essa appare come un 'involuzione nello sviluppo. Gli antropologi che si interessano di
criminologia ci dicono che il delinquente tipico è brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo.
Ma il delinquente è un décadent. Era Socrate un delinquente tipico? Per lo meno a ciò non
contraddice quel famoso giudizio fisionomico che aveva un suono così urtante per gli amici di
Socrate. Uno straniero che si intendeva di facce, allorché venne ad Atene, disse in faccia a Socrate
che egli era un monstrum - che nascondeva in sé tutti i vizi e le bramosie peggiori. E Socrate si
limitò, a rispondere: “Lei mi conosce, signore!”» (GD, Il problema di Socrate, 3). Monstrum in
fronte, monstrum in animo·, il giudizio dell’antico fisiognomico tracio è confermato, per
quest’ultimo - paradossale - Nietzsche, da sue recentissime letture. Il filosofo trova nello scritto
Dégénérescence et criminalité dello psichiatra posi-
tivista Charles Féré, medico a Bicétre, (tale lettura risale alla primavera del 1888) il richiamo alle
opinioni di «Lombroso e dei suoi emuli»: «si nous savions que le caractère principal du criminel est
d’ètre laid, ‘monstrum in fronte, monstrum in animo’ , les anthropologistes ont fait l’histoire
naturelle de cette laideur, et personne ne peut prévoir quelle sera la portée des faits importante qu’ils
ont mis en lumière»36. La fisiologizzazione della decadenza investe anche il demone di Socrate,
interpretato come una sorta di allucinazione acustica. «Non dimentichiamo nemmeno quelle
allucinazioni acustiche che sono state interpretate in senso religioso, come il ‘demone socratico’»
(cfr. anche il frammento 14 [92] della primavera 1888: «Allucinazioni acustiche in Socrate:
elemento morboso»). Lo aveva già fatto il frenologo Lélut {Du démon de Socrate), medico a
Bicétre (come poi lo sarà Féré), dedicando un intero volume ad un ritratto improntato alla riduzione
deterministica e patologica37. Questo in un volume in cui, dopo aver tracciato - sulla base delle
testi-
monianze tradizionali - il ritratto di un Socrate riformatore della morale e volto
all'«intellectualisation des croyances religieuses» (p. 74), si occupa della «psicologia di Socrate»,
l’originale e strambo scurra Atticus (Cicer. de nat. deor. I, 34). Al centro le «allucinazioni» di
Socrate, in particolare quelle auditive: «l’espèce de folie la plus irréfragable» (p. 98) a cui dedicherà
poi molte pagine «scientifiche» in appendice. Premessa la teoria di una vicinanza fisiologica tra
genio e follia, Socrate appartiene a coloro che hanno fatto il passo deciso nella direzione della
follia: è pertanto «l’expression au moins hallucinée de la raison, de la philosophie et de la vertu» (p.
179).
L’episodio tramandato del fisiognomico Zopiro è la fonte comune di Hegel e di Nietzsche. Lo è, in
effetti, anche di Montaigne che, nel suo saggio Della fisionomia si era soffermato sulla bruttezza di
Socrate così «disdicevole alla bellezza della sua anima, lui così innamorato e appassionato della
bellezza» richiamando lo stesso episodio tramandato da Cicerone: «Socrate diceva della sua
[deformità] che ne avrebbe appunto rivelato una uguale nella sua anima se egli non l’avesse corretta
con l’educazione». Ma Montaigne aggiunge di ritenere che il filosofo, dicendo questo, scherzasse
come soleva fare perché «mai anima tanto eccellente si fece da sola»38.
Siamo di fronte a tre diverse interpretazioni e valutazioni dell’episodio di Zopiro. Per Hegel si tratta
della vittoria dello spirito su una naturalità che mantiene forte i segni inscritti nel corpo: la stessa
figura di Socrate è ‘tragica’, vivendo in due mondi e contraddicendo, col nascente principio della
coscienza riflessa, il vecchio mondo e i suoi valori. Per Montaigne, che solitamente valorizza la
‘naturalità’ e spontaneità di Socrate contro ogni artificio, la bruttezza è un paradosso inspiegabile:
«la natura gli fece ingiustizia»39. Nietzsche prende sul serio e fino in fondo il tema della bruttezza
come segno di disgregazione e
decadenza, come anomalia, tanto da vedere nel dominio della ragione e nell’enkrateia non un
rimedio bensì l’espressione più conseguente di un istinto degenerato. «Notre mal s’empoisonne du
secours qu’on lui donne»40, l’espressione è di Montaigne, ma vale bene ad indicare il sentire di
Nietzsche. Il tema della decadenza (a cui si accompagna con forza, non solo simbolica, la bruttezza
dell’aspetto esteriore) assume diverse valenze all’interno della giovanile «metafisica dell’arte» e
nell’ultimo periodo in cui la valutazione fisiologica dei valori è in primo piano.

5. Socrate anomalo: il filosofo che non scrive


Prima ancora di dare una piena caratterizzazione di Socrate quale «fenomeno più perturbante di
tutta l’antichità», Nietzsche si sofferma, sulle orme di Schopenhauer, sull’anomalia di un filosofo
che rinuncia alla scrittura.
In Schopenhauer, Nietzsche poteva trovare, a vantaggio di Platone, una svalutazione della figura di
Socrate che ha il suo punto di partenza nel giudizio fisiognomico: «Secondo Luciano (Philopseudes
24) Socrate avrebbe avuto un grosso ventre, ciò che non fa davvero parte dei segni distintivi del
genio». Il dubbio viene avvalorato dal fatto che Socrate, con «stupefacente tracotanza», non abbia
lasciato nulla di scritto («l’organo con cui si parla all’umanità») e abbia voluto limitare la sua
influenza su pochi e occasionali discepoli. Il seme nobile, destinato a disperdersi nel terreno
generalmente cattivo degli uditori, può essere salvaguardato solo con la scrittura: «solo essa
permette la più alta precisione e concisione, e una pregnante brevità, risultando il puro ectipo del
pensiero». In tal modo il pensatore può uscire dal gregge, rivolgendosi alle «eccezioni, gli ottimi,
che sono quindi rari». Con la sua scelta Socrate, come tutti coloro che
non hanno scritto, appartiene alla schiera degli «eroi pratici che hanno operato più col loro carattere
che con la loro mente»41.
In Schopenhauer gioca un ruolo essenziale l’assoluta diffidenza verso il dialogo e l’ostilità al
confronto con gli altri, giacché non può discenderne alcuna verità filosofica profonda che può
nascere solo dalla meditazione personale: in essa «tutto è come ritagliato da un solo pezzo, o come
sonato in una sola tonalità; perciò si può raggiungere pieno nitore, chiarezza, e autentica coerenza,
anzi unità»42. La forma dialogica può valere solo nel caso in cui più opinioni si completino per
giungere ad una giusta comprensione della questione in oggetto oppure quando siano permesse più
opinioni del tutto diverse. In questo caso la drammatizzazione deve essere reale. Non è questo
il caso dei dialoghi platonici in cui Socrate non ha veri interlocutori e avversari che lottino
realmente, mettendo in pratica tutti i mezzi per ottenere ragione, strappando la rete in cui si
erano progressivamente impigliati e distruggendo comunque ài filosofo ironico «il suo bel gioco
costruito ad arte»43.
Nietzsche riprende puntualmente l’argomentazione sull’anomalo ascetismo nei confronti della
scrittura, all'inizio del suo lungo appunto filologico, dell’estate 1867, su «I πίνακες dei
Democritea».
«Non sappiamo ciò che spinse Socrate a non scrivere e attraverso la scrittura portare una chiara
espressione del suo spirito ai posteri: le sue ragioni devono essere state di ben strana natura, poiché
non ci è dato di capire questa forma di άσκησις, attraverso la quale egli si privò da un lato di un
grande piacere e sfuggì dall’altro a quel dovere, che è assieme il privilegio delle teste più eccellenti,
di incidere cioè sulla più lontana umanità e di essere attivo non solo sulla passeggera generazione
dei suoi contemporanei, ma su ogni tempo»44. Nietzsche è qui fedele -
fino alla lettera - a Schopenhauer anche se, presto, non potrà concordare con lui: mentre per
Schopenhauer la scelta di non scrivere significa la rinuncia a parlare agli isolati, possibili
geni dell’umanità futura - la rinuncia ad uscire dal gregge per essere un pastore - per Nietzsche
l’azione Socrate, come quella di Cristo, ha tale forza da capovolgere i valori: la sua influenza «si
è estesa sulla posterità fino a questo momento, simile ad un’ombra che diventa sempre più grande
nel sole della sera» (8[19], inverno 1870-71-autunno 1872).
Nietzsche, nell’appunto sovracitato sui πίνακες degli scritti di Democrito, dopo aver quasi
parafrasato Schopenhauer, mette immediatamente in luce come questa forma di ascesi sia
preferibile alla selvaggia e infelice prolissità di un Crisippo che, spinto dalla rivalità con Epicuro,
scrisse 705 volumi raffazzonati e così pieni di citazioni che, a giudizio di un malizioso epicureo che
ne contestava il valore, se si fossero cancellate sarebbe restata solo la pagina bianca (KGW I, IV, pp.
284-285). Nietzsche trova questa notizia in Diogene Laerzio (X, 27), che rivolge lo stesso
rimprovero ad Aristotele. Scrive Nietzsche: «La prolissità e la furia compilatrice, istinti che hanno
fatto la loro prima apparizione, in modo epidemico, nella scuola peripatetica da dove hanno esteso il
loro dominio su tutta l’antichità, devono esser nati dalla testa di Aristotele, dalla testa di uno
Zeus della filosofia». Questo appare altrettanto sconvolgente dell’anomalia socratica: «siamo più
inclini a perdonare a Socrate di non aver scritto che ad Aristotele di averlo fatto in modo
così smisurato e, inoltre, con interessi disparati e dispersi» (KGW I, IV, pp. 285-286). Qui è
fortemente attivo in Nietzsche il pre-
supposto schopenhaueriano che oppone la φιλοσοφία alla ιστορία con la conseguente
caratterizzazione dei filosofi presocratici come coloro che hanno, per lo più, concentrato la
loro saggezza in un solo libro.
Se Socrate non scrive, pure da lui ha inizio una vasta produzione: i suoi discepoli, per primi,
scrivono in misura massiccia, la loro scrittura sembra perdere il vigore
dell’argomentazione scientifica, mentre distrugge le forme artistiche precedenti.
«Socrate come colui che “non scrive” egli non vuole comunicare nulla, ma soltanto interrogare» - si
legge in un frammento dell’autunno 1869 e, poco dopo: «il socratismo distrusse già la forma in
Platone, e ancor più i generi stilistici nei Cinici» (1 [24] e [25]).
Il dialogo platonico nasce dalla volontà di una nuova forma che si adatti al vero artista, l’artista
filosofico: ma la sua essenza è «la mancanza di forma e di stile, prodotta dalla mescolanza di tutte le
forme e di tutti gli stili esistenti [...] ondeggia così fra tutti i generi di arte, fra prosa e poesia,
narrazione, lirica e dramma, e d’altronde ha infranto l’antica legge rigorosa della forma linguistica
stilisticamente unitaria. Il socratismo giunge a una deformazione ancora più spinta negli scrittori
cinici: costoro cercano - con la massima screziatura dello stile e con un ondeggiamento tra forme in
prosa e forme metriche - di rispecchiare in qualche modo quell’aspetto esterno di Sileno che
era proprio di Socrate, i suoi occhi sporgenti, le sue labbra tumide, il suo ventre cascante»45.
E Nietzsche ancora, con un preciso riferimento alle teorie estetiche espresse da Wagner in Oper und
Drama46, vede negli scritti di Platone il prototipo della forma di scrittura moderna,
il romanzo, che prende il posto dell’arte drammatica, sviluppando il dramma letterario (das
Litteraturdrama), destinato alla solitaria fruizione. «Realmente Platone ha fornito a tutta la
posteriorità il modello di una nuova forma d’arte, il modello del romanzo·, questo si può definire
come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla
filosofia dialettica in un rapporto gerarchico simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia
ha vissuto rispetto alla teologia, cioè come ancilla, questa fu la nuova posizione della poesia, in cui
Platone la spinse sotto la pressione del demonico Socrate» (GT, 14, Opere, II, I, p. 95).
E' certo che, per Nietzsche, da Socrate che non scrive, paradossalmente, procede con forza la
scrittura: i primi a scrivere sistematicamente di tutto sono i socratici, da loro poi, in continuità,
Aristotele e gli alessandrini. Parlando della fioritura dei molti dialoghi socratici, Nietzsche, notando
come lo sviluppo artistico del dialogo socratico derivi da chi ha avuto una educazione retorica,
afferma: «credo che Socrate non scrisse perché non lo sapeva fare» (Geschichte der griechischen
Litteratur KGWII, V, p. 195).

6. Euripides ein Sokratistès


Socrate, se pur non scrive, dà origine alla critica letteraria che sostiene un’arte per l’intelletto, legata
all’astrazione dei concetti, alla lettura solitaria. Nietzsche, nel periodo de La nascita della tragedia,
ritiene che nella scrittura Socrate si incontri con Euripide e, per questo, forza a simbolo,
consapevolmente, «il pettegolezzo, sfruttato più volte dai comici, che egli avesse aiutato Euripide a
poetare»47. Lo spunto iniziale si trova nelle prime righe che Diogene Laerzio dedica al filosofo
greco: «Si credeva che avesse collaborato con Euripide nella composizione delle
tragedie...» (II, 18). Più nota ed esplicita l’influenza di Aristofane - «elettivamente affine come
nessun altro al genio a Eschilo» (ST, Opere, III, II, p. 45) - che, con «profondi istinti»,
combatte insieme la «modernità» di Socrate ed Euripide fino a realizzare, vivente Socrate, ne Le
Nuvole una sorta di catartica quanto violenta liberazione facendo appiccare il fuoco al «pensatoio»
del filosofo48. Ma Nietzsche riprende e parafrasa altre fonti come ad esempio Claudio Eliano che
scrive: «Socrate frequentava poco i teatri e vi si recava solo quando il poeta tragico
Euripide gareggiava con nuove tragedie...». E Nietzsche: «E' tramandato inoltre che Socrate si
astenesse dal frequentare la tragedia, mettendosi tra gb spettatori soltanto quando veniva
rappresentato un nuovo dramma di Euripide» (ST, Opere, III, II, p. 35)49.
La scrittura di Euripide appare, al Nietzsche wagneriano, andare verso la «letteratura», in un
distacco dalla tragedia originaria, intesa come «arte vivente» e lontana premessa dell’arte nuova
dell’avvenire.
E' la continuazione della critica intellettualistica di Socrate con altri mezzi. La scrittura in quanto
potenziamento e generalizzazione della critica, trionfo dell’astrazione e allonatanamento dalla vera
arte, appartiene a Socrate. Per Nietzsche: se da una parte vi è Schopenhauer che critica la non
scrittura del filosofo come segno di impotenza e difetto di geniabtà («filosofi si nasce»), dall’altra vi
è Wagner che afferma il primato dell’«arte vivente» sulla
scrittura. Per il musicista si tratta di riconquistare, contro il dominio della «letteratura», del freddo
sapere, della polimatia, la piena conoscenza della «musica» come vera «arte delle muse» (in cui
poesia e arte dei suoni sono una sola cosa indivisibile) e la concreta realizzazione della stessa:
«quell’arte nella quale ciò che vogliamo diventa realmente ciò che possiamo»50.
Riassume Nietzsche: «Euripides ein Sokratistès» (9[38] 1871) «Euripides der dramatische
Sokrates», il Socrate drammatico (1 [44] autunno 1869). «E ora si immagini, dietro tale
intelletto unilaterale, una volontà smisurata, e si pensi alla più personale violenza originaria di un
carattere integro, accompagnata da una bruttezza esterna bizzarramente attraente: si comprenderà
allora come persino un grande talento quale Euripide proprio per la serietà e la profondità del suo
pensiero dovette essere trascinato tanto più inevitabilmente sull’aspro cammino di una creazione
artistica cosciente» (ST, Opere, III, II, p. 36). Con Socrate e con Euripide «il pensiero filosofico
cresce al di sopra dell’arte», «la poesia diventa politica, discorso. Ha inizio il regno della prosa»
(1[7] autunno 1869). E' visibile nel testo di Nietzsche la trama degli scritti teorici di Wagner che
premetteva all’opera giovanile L'arte e la rivoluzione il motto «Quando l’arte tacque, ebbe inizio la
sapienza politica e la filosofia. Oggi che lo statista e il filosofo sono alla fine, tocca di nuovo
all’artista»51.
«Euripide si accinse a mostrare al mondo, come anche fece Platone, l’opposto del poeta
irragionevole...; il suo principio estetico “tutto deve essere cosciente per essere bello”, è, come ho
detto, la proposizione parallela al precetto socratico “tutto deve essere cosciente per essere buono”».
Per conseguenza Euripide può essere da noi considerato come il poeta del socratismo estetico» (GT
12).
Wilamowitz critica con asprezza Nietzsche per il legame Socrate-Euripide da lui posto dando fede
alla «vecchia e triviale favola dei rapporti tra questi due uomini». Per il giovane critico in realtà
Nietzsche può collegare i due nomi solo per «l’odio cocente di cui contro di essi è pieno»52, dato
che la cronologia nega la possibilità che Socrate abbia potuto essere il demone ispiratore di
Euripide. In realtà Nietzsche già consapevole della difficoltà di accreditare, sul piano della
ricostruzione filologica, «il pettegolezzo» dei comici, sembra essere stato colpito in modo forte da
questo appunto, saccente e impietoso: dopo La nascita della tragedia i due nomi non compariranno
più insieme e, addirittura, quello di Euripide scomparirà dalle riflessioni del filosofo. Anche nel
tardo Tentativo di autocritica, in cui si vede come centrale la scoperta della categoria del socratismo
come «segno di declino, di stanchezza, di malattia, di istinti che si disssolvono anarchicamente»
(GT, 1), non vi è cenno al tragediografo greco che tanta parte aveva avuto nella morte dello spirito
dionisiaco.
La difesa di Rohde, su questo punto, riguarda l’elemento sostanziale, la vicinanza ideale, di
tendenza: «nella presente questione si deve tener conto, più della documentata certezza, dei motivi
interni per i quali in passi tanto numerosi Socrate ed Euripide sono rappresentati amici e alleati di
idee». E' significativo che Rohde difenda le concezioni filosofiche ed estetiche dell’amico,
giungendo ad una critica di Aristotele - la balia di Wilamowitz - in nome della teoria teatrale
wagneriana: Aristotele sbaglia quando afferma che la piena efficacia di una tragedia si ha «anche
senza una chiara rivelazione a tutti i nostri sensi, senza spettacolo né attori, cioè nella semplice
lettura»53.
Nota è l’interrelazione tra i temi della Nascita della tragedia e le teorie estetiche wagneriane (sia
quelle giovanili, influenzate da Feuerbach, sia quelle improntate a Schopenhauer). E' certo
che, sul tema della decadenza della tragedia greca - modello costante del dramma musicale
wagneriano - troviamo, negli appunti per lo scritto Das Künstlertum der Zukunft (1849)
l’accostamento Aristofane-Socrate e la sorprendente affermazione «Geburt aus der Musik:
Aischylos. Décadence - Euripides»54. Tutti temi che Wagner, del resto, ripropone in Opera e
dramma: «Nella rettitudine didattica e slealtà artistica risiede la ragione della rapida decadenza
della tragedia greca, nella quale il popolo presto notò, che essa non voleva già determinare il suo
sentimento involontario, sibbene voler arbitrariamente determinare la sua intelligenza. Euripide
scontò a sangue, sferzato dallo scherno di Aristofane questa menzogna grossolana che egli aveva
scoperta. Poi la poesia, sempre più informata a intenzioni didattiche, doveva convertirsi in rettorica
pratica di Stato e finalmente in prosa letteraria»55.
Siamo negli anni giovanili del Wagner rivoluzionario che altrove afferma: «Col crollo dello Stato
ateniese coincide esattamente la decadenza della tragedia. Come lo spirito della comunità si
spezzettò in mille indirizzi egoistici, così anche la totale opera dell’arte tragica si sciolse nelle
singole componenti artistiche: sulle rovine della tragedia Aristofane, il commediografo, pianse la
sua folle risata e ogni entusiasmo artistico si arrestò davanti alle severe rifessioni della filosofia
volta a studiare la causa e la fugacità d’ogni bellezza e d’ogni forza umana»56.
Vent’anni dopo, nel novembre 1869, mentre a Tribschen si leggono con ammirazione commossa i
dialoghi di Platone valorizzando - con sensibilità cristiana - la figura di Socrate57,
Nietzsche elabora una simbologia forte del Socrate monstrum.
7. Socrate e l’istinto
Questo ci porta al centro dell’anomalia socratica de La nascita della tragedia: il filosofo greco
appartiene «ad un mondo assurdo e rovesciato» affermando la consapevolezza e la riflessione della
coscienza nella sua lotta contro l’inconscio. «Il socratismo disprezza l’istinto e quindi l’arte» (ST,
Opere, III, II, p. 37).
Socrate è monstrum, anche nella fisionomia: il suo corpo, paradossalmente, rimanda a quella
naturalità istintiva, dionisiaca, da lui combattuta ad internecionem con la riflessione. Socrate che
distrugge «la terribile saggezza di Sileno» («die schreckliche Weisheit des Silen») ne conserva
l’aspetto vicino a quello del Satiro del coro originario della tragedia «quella figura fantastica, che
appare così urtante, del Satiro saggio ed esaltato, il quale è insieme, in contrapposizione al dio,
l’uomo tonto: immagine della natura e dei suoi istinti più forti, anzi simbolo di essa e insieme
annunciatore della sua saggezza e arte - musicista, poeta, danzatore e visionario in una sola
persona» (GT 8). Il Sileno può dire all’uomo moderno e alla sua civiltà: «noi siamo la verità, voi la
menzogna»58.
Socrate è vivente paradosso: è monstrum, testa balzana, caricatura, histrio in quanto segna una
diversità epocale rispetto al mondo in cui vive: è monstrum in quanto razionalista in un mondo
dominato dall’istinto. «Lo si sarebbe potuto mandar fuori dai confini, come qualcosa di
assolutamente enigmatico, inclassificabile, inesplicabile...» (GT 13). Criticando il cosiddetto
«demone di Socrate», Nietzsche scrive nella Nascita della tragedia·. «Questa voce, quando viene,
dissuade sempre. La saggezza istintiva si mostra in questa natura assolutamente abnorme soltanto
per contrastare qua e là, ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti gli uomini produttivi
l’istinto è pro-
prio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in
Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in una creatrice - una vera mostruosità per
defectum!» (GT 13). L’istinto è qualcosa di primitivo, di «dato», che la consapevolezza socratica
(sviluppatasi sotto il dispotismo della Civilisation) distrugge, portando alla rovina l’intera comunità
estetica. Si tratta per Nietzsche di un recupero della dimensione profonda-istintuale, al di là del
mondo delle convenzioni e dell’astrazione che caratterizzano la cultura moderna. Ogni pratica
sociale è legata immediatamente alla parte oscura della coscienza collettiva: l’istinto sicuro di se
stesso determina la naturalezza del comportamento e la realizzazione della totalità estetica. Socrate,
«nelle sue peregrinazioni critiche per Atene, incontrava dappertutto, parlando con i maggiori statisti,
oratori, poeti e artisti, la presunzione del sapere. Vide con stupore che tutte quelle celebrità non
avevano un’idea giusta e sicura neanche nella loro professione, e che la esercitavano solo per
istinto» (GT 13).
L’istinto si rapporta immediatamente ad una saggezza dell’inconscio collettivo della volontà
ellenica. Forte e diretto l’influsso di Eduard von Hartmann: già negli appunti dell’ultimo inverno di
Lipsia, Nietzsche parla degli uomini e dei loro pensieri come «sintomi di correnti spirituali, della
vita ininterrotta degli istinti»: «La storia non mostra principalmente il potere di singoli ingegni:
piuttosto l’oscura potenza di immani istinti, di una volontà inconscia»59.
La vicinanza alla natura è la garanzia dell’istinto. Con Socrate la divisione del lavoro nel mondo
greco, accettata liberamente come fatum, cessa di essere «naturale» e al servizio della cultura
vissuta. Prima di lui, in Grecia, manca perfino l’idea di artificialità: «quella finzione, quel
rinnegamento della miseria,
quello splendore delle intuizioni metaforiche, e in generale quell’immediatezza dell’inganno
accompagnano tutte le manifestazioni di una siffatta vita. Né l’abitazione, né l’andatura, né
l’abbigliamento, né l’orcio d’argilla lasciano scorgere di essere stati inventati da un bisogno
impellente. Sembra quasi che attraverso tutte queste cose debba esprimersi una sublime felicità, una
serenità olimpica, e per così dire un giocare con ciò che è serio»60.
Socrate porta la consapevolezza e la riflessione del singolo, e con essa l’affermazione dell’illusione
fenomenica: la propria sfera di volontà egoistica si trova necessariamente in conflitto con le altre
sfere: nasce il filisteo come «servo di una realtà che non è tale»61.
Con Socrate trionfa il ceto medio borghese che «sempre riflette e domanda», che calcola, che vuole
il dominio ed esercita la violenza sulla natura (cfr. il contenuto realistico didattico delle opere di
Euripide nella interpretazione di Nietzsche). E qui certamente prevale, nell’interpretazione, il
Socrate di Senofonte che spesso sembra identificare il bene con l’utile. Ma più in generale è con un
«ragionamento da mercante» che il filosofo greco identifica la conoscenza con la virtù morale
portando con sé la certezza teleologica che la virtù conduca alla felicità. Per Nietzsche una riprova
di questo sta nella forte valorizzazione in John Stuart Mill (esempio primo di una morale del
«gregge», utilitaria ed edonista) di Socrate come campione di libertà, «il più virtuoso del suo
tempo» «capo e prototipo di tutti i successivi maestri di virtù», la cui morte è avvicinata a quella del
Cristo («altro caso di iniquità giudiziaria»). Questi passi dell’esemplare, in traduzione tedesca, del
Saggio sulla libertà della biblioteca di Nietzsche presentano segni di lettura62.
È certo che dal Socrate della Nascita della tragedia procede impetuosamente lo sviluppo tecnico. Il
«dio delle macchine e dei crogiuoli» uccide gli dèi del mito: l’ottimismo attivo, superficiale,
orientato dall’utile consapevolmente posto e ricercato, sostituisce e distrugge alle radici il mito
tragico, sicuro fondamento per l’unità comunitaria. Con esso si perde la fissità di valori sentiti e
vissuti, la fede nell’ideale come forza eternizzante. Il mito rappresenta il legame con il fondo
naturale che veniva rivelato solo attraverso la sublimazione estetica (la tragedia).
Qui, con Hartmann, è all’opera una forte teleologia dell’inconscio: l’istinto è definito «un agire
finalizzato senza coscienza del fine», di esso il filosofo offre la più vasta fenomenologia e
valorizzazione. Il primato dell’istinto, per Nietzsche, porta lontano dall’illuminismo («disprezza
l’istinto: esso crede soltanto nelle ragioni»), ma anche dal romanticismo («i romantici mancano
di istinto: le creature illusorie dell’arte non li stimolano ad agire, essi rimangono nel loro stato di
eccitazione») (5[45] 1870-1871).
La giovanile metafisica dell’arte, propone un dio che sogna e il mondo come l’ingannevole sogno
del dio/Ur-Ein. Essa presuppone, e vuole, il dio che inganna (artisticamente) attraverso “l’istinto”
che si esprime direttamente come volontà che sottomette con l’inganno l’individuo. La struttura di
questo inganno è quella individuata da Schopenhauer nella «metafisica dell’amore sessuale»:
l’istinto è illusione che perpetua la volontà di vivere, è l’inganno da parte del «genio della specie» a
spese dell’individuo. Saggezza tragica significa adeguarsi all’inconscia teleologia della natura:
l’Uno primordiale, il dio che inganna, si libera dalla contraddizione originaria attraverso le belle
immagini del sogno. L’arte e il mito sono l’immagine illusoria più alta, la bellezza è intesa quindi
come la più alta seduzione alla vita: «Che cos’è il bello? - Un senso di piacere che ci nasconde
le vere intenzioni della volontà [...] è un sorriso della natura, un sovrappiù di forza e un senso di
piacere dell’esistenza» (7 [27], fine 1870 - aprile 1871).
Simbolicamente: «il brutto e plebeo Socrate» rappresenta «la vendetta di Tersite» ucciso dallo
«splendido Achille». «Socrate ammazzò l'autorità dello splendido mito in Grecia» (6[13] estate
1875).
Il Nietzsche metafisico vedeva nel razionalismo antico (Socrate/Euripide) potenziato in quello
moderno (Descartes) le forze negative capaci di distruggere la bella illusione legata alla vita
istintuale. Ma il ‘razionalismo’ è esso stesso un’illusione ottimistica - di più basso valore, rispetto
alla «consolazione metafisica» - che conferma e rinchiude l’individuo nelle maghe del fenomenico
scambiato per la vera realtà. La onnipotente teleologia dell’inconscio fa dello stesso socratismo uno
strumento per la realizzazione di fini superiori dell’Uno-originario.
Già la serenità teoretica appartiene ai gradi più nobili dell’illusione vitale (Wahn) e seduce
comunque all’esistenza contro «l’etica pratica del pessimismo»: «vita io ti voglio, tu sei degna di
essere conosciuta» (GT 17)63. La parentela tra lo schematismo logico (propria del socratismo) e la
chiarezza apollinea è il tentativo di far rimanere anche la figura di Socrate nella dialettica apollineo-
dionisiaco. Il socratismo esprime una critica eroica comunque ben diversa dalla critica odierna che
«non sa produrre martiri né parla la lingua del ‘più saggio fra i Greci’, che certo non si vanta di non
saper nulla, ma che in verità non sa nulla» (ST, Opere, III, II, p. 45).
L’Uno originario, artistico e provvidenziale, assegna a Socrate morente un ruolo decisivo nella
«cosmodicea»: «La scienza, spronata dalla sua robusta illusione, corre senza sosta fino ai suoi
limiti, dove l’ottimismo insito nell’essenza della logica naufraga. Infatti la circonferenza che chiude
il cerchio della scienza ha infiniti punti, e mentre non si può ancora prevedere come sarà possibile
misurare interamente il cerchio, l’uomo nobile e
dotato giunge a toccare inevitabilmente, ancor prima di giungere a metà della sua esistenza, tali
punti di confine della circonferenza, dove guarda fissamente l’inesplicabile» (GT 15). Faust
rappresenta lo Streben dell’uomo moderno senza posa legato a quella «brama di sapere» che deriva
da Socrate: da lui anche il senso di insoddisfazione e l’aspirare all’azione. «Dal vasto e deserto
mare del sapere» si anela di nuovo ad una costa (GT 18). Simbolo è il ricorrente sogno di Socrate:
«La cosa più profonda, peraltro, che poteva essere detta contro Socrate, l’ha detta a lui un sogno.
Molto spesso gli veniva in sogno, come racconta in carcere ai suoi amici, una stessa apparizione,
che diceva sempre la stessa cosa: “Socrate, datti alla musica!”» La percezione del limite della
conoscenza, esplorata fino agli estremi limiti, apre la via inevitabilmente all’arte tragica, alla
musica. La scienza stessa in definitiva serve il mito: l’uomo socratico appartiene interamente alla
teleologia dell’inconscio che prepara una nuova e superiore arte: «Lo scopo della scienza,
inaugurata da Socrate, è la conoscenza tragica come preparazione del genio. Il nuovo stadio
dell’arte non fu raggiunto dai Greci: esso rientra nella missione germanica. L’arte suscitata da quella
conoscenza tragica è la musica»64.
8. Socrate spirito libero
Umano, troppo umano, monumento di una rigorosa «autodisciplina», di un autosuperamento, segna
una svolta radicale nella direzione antimetafisica: una volontaria lontananza dall’ubriacatura
romantica che aveva portato dalla esaltazione di Democrito alla Nascita della tragedia. Si tratta di
tornare «buoni vicini delle cose prossime», fare a meno dei dogmi ideali, delle
religioni che hanno bloccato e impedito, sulla base di menzogne antivitali, lo sviluppo sociale e
umano. La scienza e la ragione critica sostengono una battaglia liberatrice e definitiva contro
il rovesciamento del mondo: la precedente scelta antivitale della metafisica dell’artista e la
pericolosa superstizione del genio.
Radicalmente mutata l’ottica: nella Nascita della tragedia era dominante la prospettiva della bella
comunità contro i pericoli del caos atomistico e dell’emancipazione individuale, la
perdita dell’istinto significava allontanamento della Kultur e della società dal fondo vitale in
direzione della «civilizzazione». In primo piano, ora, l’emancipazione dell’individuo dai vincoli
del costume e dagli organismi che, con loro forza gregaria, si fanno eredi degli elementi di
costrizione della comunità. La tradizione diventa incorporazione di costumi etici che spingono il
singolo nella direzione del gregge. Vige l’irriflessa convinzione che «solo come totalità possiamo
conservarci». Solo con Socrate nasce «la morale per gli individui, nonostante la comunità e i suoi
principi» (4 [77] estate 1880). Di Socrate si valorizza ora la libertà ed originalità rispetto alla pratica
istintiva dei concittadini della polis: l’emancipazione individuale che si esprimeva nell’ebbrezza
della della dialettica come «arte divina». Contro un «pensiero stregato dall’eticità... sicché il
pensare era un ripetere il già detto» e il piacere stava essenzialmente nel trasmutarsi della forma,
Socrate operò un rovesciamento scoprendo «l’incantesimo antitetico, quello della causa e
dell’effetto, del fondamento e della conseguenza» (M 544). Socrate e i socratici sono tra «gli spiriti
più rari, più eletti, più originali» che aprirono nuove possibilità per l’individuo e perciò vissero sotto
il peso della cattiva coscienza, in contrasto con «l’eticità del costume»: «Quei moralisti che al pari
di chi procedette sulle orme socratiche mettono nel cuore dell’ individuo la morale
dell’autosuperamento e della temperanza come il suo più reale vantaggio, come la chiave più
personale della felicità, costituiscono l’eccezione, e, se ci appaiono diversamente, è perche noi
siamo stati educati sotto il loro influsso; tutti costoro percorrono una nuova strada, con la massima
disapprovazione di ogni rappresen-
tante dell’eticità del costume, essi si sciolgono dalla comunità in quanto non ligi all’eticità e sono,
nel senso più profondo, malvagi [...] non è possibile calcolare quel che devono aver sofferto
nell’intero corso della Storia propria gli spiriti più rari, più eletti, più originali, per il fatto che
vennero sentiti come i malvagi e i pericolosi, per il fatto anzi che essi stessi si sentirono tali. Sotto il
dominio dell’eticità del costume l’originalità di ogni specie ha acquistato una cattiva coscienza; fino
a questo momento il cielo dei migliori ne è stato ancora più offuscato di quanto avrebbe dovuto
esserlo» (M 9)65. Anche nel caratterizzare la decadenza moderna, Nietzsche valorizza la figura di
Socrate: «Le condizioni per la nascita del genio non sono affatto migliorate, semmai peggiorate.
Ripugnanza generale per gli uomini originali. Con noi Socrate non avrebbe raggiunto i settant'anni»
- scrive in un appunto per l’inattuale su Schopenhauer (34 [15] 1874).
Per il Nietzsche che intraprende il cammino della liberazione, è necessario finirla con i narcotici e le
consolazioni, con l’impurezza metafisica: alla lunga il rovesciamento del mondo, il privilegiamento
dell’al di là (sia esso Dio, Essere, Uno-originario, Volontà ecc.) comporta una completa e radicale
svalutazione dell’unico mondo reale: del flusso di forze in divenire da seguire nei suoi sviluppi
«storici». La ragione e la scienza sono, in questa prospettiva, con un puntuale rimando al Faust di
Goethe (I, v. 1852), «la forza umana più alta di tutte» (24[47] estate 1877) «che non conoscono
compromessi col mito religioso» «vivono su pianeti diversi» (MA 110). Questa posizione comporta
una diversa valutazione della figura di Socrate: egli appare adesso, in una certa misura, «spirito
libero», Wanderer critico e tafano molesto (con riferimento ad Apologia 30e). Cosi viene
definito nell’aforisma 433 dove si giustifica il ruolo decisivo di Santippe che «rendendogli casa e
focolare inabitabili e inospitali [...] gli insegnò a vivere per le strade e dappertutto dove si poteva
chiacchierare ed oziare, facendo di lui il più grande dialettico ambulante di Atene: il quale da ultimo
dovè paragonare se stesso a un tafano molesto, posto da un dio sul collo del bel cavallo Atene per
non fargli aver pace» (si veda anche l'af. 437).
Ora Socrate non è più il potente araldo della scienza e l’ottimista teoretico: è prevalentemente il
saggio che ricerca e indaga, lo «scrutatore di anime» e maestro di vita quotidiana. A lui si richiama
quella ragione che non viene «falsamente indirizzata e artificiosamente stornata dalle cose piccole,
le vicinissime»: «Già Socrate si difendeva con tutte le forze contro quella altezzosa trascuratezza
dell’umano a favore dell’uomo, e con un detto di Omero soleva richiamare al vero àmbito e
all’essenza di tutte le cure e i pensieri: “è ciò e solo ciò” diceva “che mi accade di casa di bene e di
male”» (WS 6). Ancora una volta il punto di partenza è Diogene Laerzio che tramanda il verso
dell’Odissea (IV, 392) come divisa di un Socrate che, «convinto che la speculazione naturalistica
non ci riguarda affatto, discuteva di questioni morali nelle officine e nel mercato» (DL, II, 21).
Nietzsche valorizza il Socrate umano di Senofonte contrapposto alla «caricatura» platonica: in
particolare i Memorabili offrono un «modello immediatamente imitabile» (5[192] primaveraestate
1875). E' un libro che «bisogna saper leggere»: «I filologi, in fondo, ritengono che Socrate non
abbia nulla da dir loro, perciò si annoiano alla lettura di questo libro, per altri invece è una lettura
che trafigge il cuore e, insieme, rende felici» (18[47] settembre 1876)
Certamente - dirà poi Nietzsche - anche Senofonte, con la grande libertà che caratterizza i Greci e
con la stessa libertà di Platone, si è creato di Socrate «un’immagine a proprio uso e consumo»
(8[15] estate 1883), anche lui si è messo a dormire nella prima delle molte anime di Socrate (34
[66] aprile-giugno 1885).
Il Socrate che progressivamente emerge è il filosofo che ri-
cerca un’«etica puramente umana, basata sui fondamenti del sapere», quale già era caratterizzato
nelle lezioni sui filosofi preplatonici. Nel 1884, tornando sui testi delle lezioni in una riflessione
complessiva e nuova sulla Grecità, riprende, in un frammento significativo, tale caratterizzazione:
«Socrate non cerca la saggezza, bensì un saggio - e non lo trova; ma il cercare è da lui definito la
sua massima felicità. Infatti non vi sarebbe, secondo lui, niente di più alto della vita che parlar
sempre di virtù» (26[64] 1884). Qui Nietzsche parafrasa un passo dell 74-pologia (38a) ripetendo
anche l’affermazione: «Una vita senza tali ricerche, non è vita» (Die vorplatonischen
Philosophen,  KGW, II, IV, p. 357; trad. it., p. 139). Questo tema della ricerca e dello sperimentare è
talmente centrale nella filosofia dello spirito libero che Nietzsche, in un appunto postumo, pensava
di utilizzare le parole di Socrate a conclusione del libro in elaborazione: «Alla fine: “vi è felicità
maggiore del cercare l’anima -una vita senza ricerca: ού βιωτός”» (33[6] autunno 1878).
Nell’esemplare Apologia, che Nietzsche rilegge in questo periodo («con intima commozione»
28[ 11 ] primaveraestate 1878) e commenta nel suo corso estivo del 1878 dedicato a quest’opera,
conservato nella sua biblioteca con molte glosse e segni, questo passo - come rileva Montinari in
una lettera66 - è
sottolineato e commentato: «Glück des Socrates».
A questo avvicinamento a un Socrate simpatetico e umano, lontano dal monstrum, contribuisce
senza dubbio l’influenza di Montaigne. Con Montaigne Nietzsche afferma «Non c’è niente di più
allegro, più sveglio - e quasi più divertente - del mondo e della sua saggezza» dopo aver ancora con
lui detto «un’anima in cui alberghi la saggezza renderà sano con la sua sanità anche il corpo»67.
Sul confronto di Nietzsche con Montaigne manca ancora una puntuale ricerca: i suoi scritti sono da
Nietzsche letti con attenzione e in più stagioni, con la consapevolezza che quelli del filosofo
francese sono «pensieri della specie che crea pensieri» (WS 214) e che egli rappresenti il punto più
alto dell’onestà (25[74] primavera 1884). I testi furon letti fin da quando Cosima Wagner, per il
Natale del 1870, regalò a lui, giovane filologo devoto alla causa wagneriana, «un’edizione
imponente» degli Essais (lettera a Franziska ed Elisabeth Nietzsche, 30 dicembre 1870)68.
«Veramente - scrive Nietzsche qualche anno dopo - per il fatto che un tal uomo abbia scritto il
piacere di vivere su questa terra è stato aumentato [...]. Con lui mi intenderei se fosse posto il
compito di trovarsi una patria sulla terra» (SE 2). Ancora in Ecce homo, Nietzsche esalta Montaigne
su tutti gli amati francesi, confessando di avere «nello spirito e, chissà?, forse anche nel corpo» la
sua malizia ardimentosa (Muthwille) (EH, Perché sono così accorto 3).
Molti i temi di vicinanza che qui posso solo enumerare: dal tema della maschera a quello del
vacillare di ogni cosa data per
ferma («la stessa costanza non è che un movimento più debole; non descrivo l’essere descrivo il
passaggio», 1. III, cap. II); l’esibizione di «una forma sovrana» che si realizza divenendo ciò che si
è69. Se Nietzsche avvicina, in un primo momento, nell’«onestà», Montaigne a Schopenhauer
‘educatore’ in quanto ‘distruttore’ di illusioni, nell’ultimo periodo ritrova Montaigne, sia pur
riduttivisticamente interpretato, come riferimento forte degli psicologi romanciers dei boulevards
parigini. A Montaigne si richiamano gli «psicologi» e i nuovi scettici che vedono nel suo
atteggiamene le origini del «dilettantismo». «Non è tanto una dottrina quanto una disposizione di
uno spirito, ad un tempo molto intelligente e molto voluttuosa, che ci fa inclinare, di volta in volta,
verso le diverse forme della vita e ci spinge a prestarci a ciascuna di esse, senza darci ad alcuna» -
scrive Bourget che subisce il fascino di questa forma di vita della ‘décadence’70. Egli vede in
Renan un «homme supérieur» e un suo maestro fino a dichiararsi «élève de Montaigne et de M
Renan». E nella stessa definizione di dilettantismo Bourget si richiama, anche nelle espressioni, a
Montaigne: che «si dà agli altri senza togliersi a sé», che dichiara la necessità di «darsi in prestito e
accidentalmente, mentre lo spirito si mantiene tranquillo e sano, senza passione»71.
Per il filosofo francese, Socrate appare espressione felice e naturale di un “gaio sapere” umano, di
una «saggezza gaia e urbana»72: «Socrate era un uomo e non voleva essere né sembrare altro»73.
Come il Nietzsche di questo periodo, Montaigne ritiene che il filosofo greco abbia fatto «un gran
favore alla natura umana mostrando quanto essa può per se stessa...»: «E' lui che ricondusse giù dal
cielo, dove perdeva il suo tempo, la saggezza umana, per restituirla all’uomo, dove è il suo più
giusto e labo-
rioso compito, e il più utile», «non abbiamo bisogno di molta dottrina per vivere a nostro agio. E
Socrate ci insegna che essa è in noi, e la maniera di trovarla e valersene»74.
Di Socrate viene valorizzato, sulle orme di Montaigne, quella capacità di corrispondere ai diversi
temperamenti e di mediazione, recando in sé una pluralità di anime e facendo valere
le ragionevolezze contro la ragione unica:
Se tutto va bene, verrà il tempo in cui, per promuovere il proprio innalzamento spirituale e morale,
si prenderanno in mano i Memorabili di Socrate a preferenza della Bibbia, e in cui Montaigne e
Orazio saranno utilizzati come messaggeri e guide per la comprensione del più semplice e
imperituro mediatore-saggio, Socrate. A lui riconducono le strade delle più diverse maniere
filosofiche di vita, che sono in fondo le maniere di vita dei diversi temperamenti, stabiliti dalla
ragione e dall’abitudine, e tutti quanti rivolti con la loro punta verso la gioia di vivere e di se stessi;
dal che si potrebbe concludere che l’aspetto più peculiare di Socrate sia stato un prendere parte a
tutti i temperamenti. - Rispetto al fondatore del cristianesimo, Socrate ha in più la gioconda forma
di serietà e quella saggezza piena di birbonate, che costituisce per l’uomo lo stato d’animo
migliore. Inoltre aveva un intelletto più grande (WS 86).

9. Socrate: eroismo e decadenza


La figura di Socrate, pur da Nietzsche finora diversamente tratteggiata, appartiene alla Grecità, è
quella di un «filosofo della vita» (KGWII, IV, p. 354; Lezioni sui filosofi preplatonici, p. 137): la
serenità dell’uomo teoretico della Nascita della tragedia è comunque legata ad una illusione
superiore che seduce all’esistenza ed ancora di più vitale è la gaia saggezza - improntata alla lettura
di Montaigne - amica delle cose prossime del «mediatore-saggio».
Nella Gaia scienza, prima degli aforismi che annunciano l’eterno ritorno e la discesa tra gli uomini
del persiano Zarathustra, si trova l’aforisma dedicato a Socrate morente (FW 340). L’ammirazione
per la saggezza e la forza d’animo di «questo Ateniese, spirito maligno e ammaliatore, beffardo e
innamorato, che faceva tremare e singhiozzare i giovani più tracotanti...», si volge immediatamente
in critica per l’atteggiamento di Socrate davanti alla morte che svela la sua essenziale natura
di decadente. Nietzsche commenta l’ultima frase pronunciata dal filosofo greco (Fedone, 118 a):
«sono in debito d’un gallo ad Asclepio». «Queste ridicole e terribili “ultime parole” significano per
chi ha orecchie: “O Critone, la vita è una malattia”». Socrate con queste «ultime parole»75 che, per
superiore spirito e «magnanimità» non avrebbe dovuto pronunciare, svela la sua natura ascetica ed
il senso profondo del suo «eroismo»: «Un uomo par suo, che visse serenamente sotto gli occhi di
tutti come un soldato - era pessimista! Non s’era appunto preoccupato d’altro che di far buon viso
alla vita e per tutta la durata di essa aveva tenuto nascosto il suo giudizio ultimo, il suo più intimo
sentimento! Socrate, Socrate ha sofferto della vita!». Come tutti i sofferenti, spinto dal risentimento,
se ne è vendicato «con quelle parole velate, atroci, pie e blasfeme» prive di magnanimità.
Nietzsche, mentre si appresta a predicare con Zarathustra il suo «antivangelo» a favore della piena
affermazione della vita, nel valutare la morte di Socrate giudica che: «noi dobbiamo superare anche
i Greci». Individuata la natura di sofferente e malato di Socrate, torna con virulenza la sua
caratterizzazione di «mostro» e antigreco76. La scelta per la morte di «questo accortissimo tra tutti
gli abbindolatori di se stessi» assume ora il
suo pieno significato: «“Socrate non è un medico” - disse piano a se stesso - In questo mondo la
morte soltanto è il medico... Quanto a Socrate, egli fu semplicemente a lungo malato...» (GD, Il
problema Socrate 12).
La malattia e la decadenza sono caos privo di ordine, anarchia di istinti incapaci di misura. «Tutto in
lui è esagerato, buffo, caricatura, tutto è al tempo stesso occulto, pieno di secondi fini, sotterraneo
[...] E' un indice della décadence in Socrate non soltanto la confessata sregolatezza e anarchia
degli istinti; precisamente a essa rinvia anche la superfetazione della logica e quella malvagità da
rachitico che lo caratterizza. Non dimentichiamo nemmeno quelle allucinazioni acustiche che sono
state interpretate in senso religioso, come il “demone socratico”» (GD, Il problema Socrate 12).
Quello che, positivamente, era stato visto, in precedenza, come anima plurale e complessità di istinti
capaci di partecipare ai diversi temperamenti, alle diverse umanità, ciò che caratterizzava la
superiorità del «saggio-mediatore», diventa ora - in sintomatico rovesciamento - espressione di
decadenza fisiologica. Si riprendono i termini della Nascita della tragedia·, «la superfetazione della
logica» (cfr. anche: 14 [42] 1888; cfr. ST, Opere, III, II, p. 41; GT 13; 1[7] 1869) riappare come
mostruosità fisiologica, una «abnormità» che corrisponde alla «violenza e anarchia degli istinti».
Nietzsche ricorre alla caratterizzazione fatta da Aristosseno, musico di Taranto, che insiste nel suo
«pettegolezzo peripatetico», sulla natura assolutamente passionale e sulla mancanza di autodomino
di Socrate: «intollerabile e indecente», «smodato nel godimento dei piaceri venerei... pronto
all’ira», capace certo di sedurre e persuadere, come nessun altro, attraverso tutto il suo
atteggiamento: «questo però quando non si adirava, perché quando invece si infiammava di questa
passione, diventava intollerabile e indecente: e non c’era parola o azione di cui avesse ritegno»77.

Ed accanto ad Aristosseno, il riferimento di Nietzsche va all’episodio del fisiognomico Zopiro, di


cui già ho parlato, e che assume tutta la sua valenza simbolica.
La volontà forte si caratterizza, per il filosofo, come la capacità di ordinare il caos e la
contraddizione senza semplificare la molteplicità, tagliando via in nome di un’istanza dominante
e tirannica. La volontà esprime - come forza di coordinazione -
lo    stato di salute e di energia di un corpo. Una civiltà si caratterizza per la grandezza ed anche la
‘terribilità’ delle passioni che può permettersi senza andare in rovina, per la sua capacità di ‘usarle’
(9[138] autunno 1887): «il dominio sulle passioni, non
il    loro indebolimento o sradicamento! Quanto maggiore è la forza dominatrice della volontà, tanto
maggiore è la libertà che si può concedere alle passioni» (9[139] autunno 1887).
Il caos appartiene all’ambiguità del mondo moderno: «gli istinti corrono ormai a ritroso in tutte le
direzioni e noi stessi siamo una specie di ‘caos’» (JGB 224); l’uomo europeo è ‘ibrido’, la storia è il
suo guardaroba (JGB 223). Tale caos può portare rapidamente se non alla disgregazione della fine,
ad una forma rigida e semplificata, oppure essere la premessa per una forma nuova e più ricca. La
forza del «tiranneggiare» semplifica. L’azione del fanatismo morale, per ordinare, taglia via
violentemente tutto ciò che non può essere ridotto in schemi predeterminati. La prova di forza e di
salute sta nel dire sì alla totalità e nella capacità di ordinare il caos accogliendo la pluralità mobile e
contraddittoria in una forma superiore e tollerante arrivando così all '«uomo più vasto possibile, ma
non perciò  caotico»: «i contrasti sono domati, ciò che è il più alto segno della potenza, rispetto alla
contraddizione, e fra l’altro senza tensione» (7 [3] 1886-1887).
Questa la prova di forza: il decadente Socrate di fronte alla forza tirannica e anarchica dei suoi
istinti, che si riflettono nella sua fisionomia da Sileno, cerca la soluzione nella tirannia di una
ragione esterna ed ostile agli istinti, che taglia via senza ordinare: la «superfetazione della logica»
non è un primum, non è l’istinto che dissuade con la voce del demone, ma è la conquista di uno
strumento che appare necessario agli occhi del decadente («o andare in rovina o... essere
assurdamente razionali») che riconosce la stessa forma di decadenza nel mondo che lo circonda.
«C’era ovunque l’anarchia degli istinti: ovunque si era a pochi passi dall’eccesso, il monstrum in
animo era il pericolo generale». «“Gli istinti vogliono tiranneggiare, occorre inventare un tiranno
opposto che sia più forte”. Quando quel fisionomista ebbe rivelato a Socrate chi egli fosse, un covo
cioè d’ogni malvagia brama, il grande ironista disse ancora qualcosa che ci dà la chiave per
comprenderlo. “Questo è vero - furon le sue parole - ma io sono diventato signore di tutti”» (GD, Il
problema Socrate 9). «La più cruda luce diurna, la razionalità ad ogni costo - scrive ancora nel
Crepuscolo degli idoli - la vita chiara, fredda, prudente, cosciente, senza istinto, in contrasto con
gli istinti, era essa stessa soltanto una malattia, una malattia diversa - e in nessun modo un ritorno
alla “virtù”, alla “salute”, alla felicità... Dover combattere gli istinti - questa è la formula
della décadence; fintantoché la vita è ascendente, felicità e istinto sono eguali» (GD, Il problema
Socrate 11).
Di fronte alla morale greca capace di mantenere - nella sua espressione corporea - la ricchezza e
multiforme vitalità (propria anche dell’uomo del Rinascimento), Socrate si presenta, con la sua
enkrateia, come espressione di una fanatica unilateralità: «l’antico ideale è fatto a pezzi» (7[441
1883). Il tratto ordinatore autoritario ed esterno, che tenta di imporsi ad una molteplicità in
movimento e in lotta, è proprio dei «monstra morali»: «Una tale preponderanza di un elemento
sugli altri (come nel monstrum morale) si contrappone appunto ostilmente alla potenza classica
dell’equilibrio» (9[166] autunno 1887).
Ancora una volta possiamo richiamare - per contrasto - la figura di Montaigne come colui che,
nell’ordinare il caos, è più radicale e consapevole: il suo ordine e la sua ‘verità’ fanno a meno delle
certezze che garantiscono e rassicurano. Gli Essais
presentano anche un distacco del filosofo francese da Socrate: «Non ho corretto, come Socrate, con
la forza del ragionamento, le mie tendenze naturali, e non ho in alcun modo turbato con l’artificio la
mia inclinazione. Mi lascio andare, non combatto nulla...»78.
E l’ultimo Nietzsche sembra far eco, caratterizzando la propria persona con tratti fortemente
antieroici e antifanatici: «Non riesco a ricordarmi di essermi mai sforzato - nella mia vita non si
rintracciano segni di lotta, io sono l’opposto di una natura eroica», «non vorrei assolutamente
presentarmi all’umanità come profeta, mostro, spauracchio morale» (EH, Perché sono così accorto
9).
La serenità di Montaigne esprime la volontà di un secolo forte e ordinatore: già in Schopenhauer
come educatore, Nietzsche vedeva nel francese una «reale serenità rasserenante. Aliis laetus, sibi
sapiens»79. Montaigne esprime la serenità del coraggio e del vigore: «il dio vincitore accanto ai
mostri che ha combattuto» (SE 2, pp. 371-372). E Nietzsche allude qui, esplicitamente, alla vittoria
sui mostri che Montaigne si è portato dietro, che lo hanno assediato nella sua solitudine80.
Un Montaigne, con Nietzsche, lontano da un’eroismo che presuppone certezze e fanatismo81 - sia
pure quelle di una ra-
gione tiranna - che è disponibilità della vittima a lasciarsi usare per fini che la trascendono, che non
sono i suoi. L’eroismo si contrappone alla forza dei grandi spiriti, capaci di ‘scetticismo’ e di una
grande passione che subordina ai suoi fini anche le ‘convinzioni’, senza esserne subordinati. E' il
caso estremo del Socrate eroe e martire, sublime e istrione, commediante dell’ideale: seduttore non
alla vita ma alla morte.
1   Si veda FP 7[124] fine 1870-aprile 1871. Tale frammento corrisponde alla parte finale del cap.
22 di Urspung und Ziel der Tragödie in Nachträge, KGW, III, v/1, p. 195.
2    Cfr. Goethe, Faust I, 1254-55: «schon sieht er wie ein Nilpferd aus,/ mit feurigen Augen,
schrecklichem Gebiß». Cfr. DS 3 dove Nietzsche riprende queste immagini dal Faust di Goethe
contro il filisteismo di Strauss, che si ingigantisce: cane barbone, si
«fa lungo e largo» e «si voltola già come un ippopotamo sulla ‘strada mondiale dell’avvenire’».
3Cfr. U. von Wilamowitz-Möllendorf, Filologia dell’avvenire! Seconda parte, in Nietzsche, Rohde.
Wilamowitz, Wagner. La polemica sull'arte tragica, a cura di F. Serpa, Sansoni, Firenze 1972, pp.
300 e 302.
4    La prima recensione di Rohde fu rifiutata dal «Literarisches Centralblatt» a cui era destinata e
pubblicata solo nell’ambito dell’edizione critica dell’Archivio-Nietzsche: F. Nietzsche, Werke und
Briefe, Historich-kritische Gesamtausgabe, hrsg. von H J. Mette u. K. Schlechta, Beck, München
1933 sgg., Briefe, 1850-1877 (cinque voll, usciti) [BAB], voi. III, pp. 451-456. La seconda fu
pubblicata nella “Norddeutsche Allgemeine Zeitung”, 26 maggio 1872. La polemica con
Wilamowitz Afterphilologie, col sottotitolo Lettera di un filologo a Richard Wagner, uscì presso
l’editore Fritzsch di Lipsia.
5   E. Rohde, Comunicazione nella “Norddeutsche Allgemeine Zeitung”, 26 maggio 1872, in La
polemica sull’arte tragica, cit., p. 200.
6    Goethe, Faust, vv. 604-605. Cfr. U. von Wilamowitz-Moellendorf, Erinnerungen 1848-1914,
trad. it., Filologia e memoria, Guida, Napoli 1986, p. 142.
7    F. Nietzsche, Omero e la filologia classica, Opere, I, II, p. 519.
8   E. Rohde, Comunicazione nella "Norddeutsche Allgemeine Zeitung cit., p. 205, Comunicazione
per il “Literarisches Centralblatt’’, in La polemica sull’arte tragica, cit., ρ. 195.
9   Si veda l’appunto del 1863 (NA 15[20] Aprii 1863 bis September 1863) in cui Nietzsche
manifesta il proposito di leggere, dopo le vacanze estive, L’apologià, Il Critone e l'Eutifrone. Si
veda anche la richiesta al tutore Kletschke di farsi ordinare «Platonis dialogiex recog. Hermanni
voi. II» (26 settembre 1863).
10    Si veda l’appunto sulla voce Socrate della Suidas: NA 74[10], März 1868 bis Mai 1869, KGW
I, v, pp. 86-87.
11    Su Aristosseno quale «vera fonte di tutte le dicerie calunniose su Socrate» cfr.
Per la storia della silloge tegnidea in Opere, I, II, p. III.
12    ΝΑ 17[12] April 1864-September 1864. Questo saggio, tra i più significativi del periodo
preuniversitario, non presente nel volume I, tomo I, delle Opere, viene dato, in appendice, nella
traduzione italiana di M.C. Fornari. A questo scritto giovanile dedica la sua attenzione, tra i pochi,
F. Ghedini, Il Platone di Nietzsche. Genesi e motivi di un simbolo controverso (1864-1879), ESI,
Napoli 1999, pp. 25-31, che fa una completa panoramica degli studi a proposito. Il volume di
Ghedini, per le sue analisi e per la ricchezza dei riferimenti, è anche una opportuna e utile guida
attraverso gli studi su Nietzsche e Socrate. Per un’analisi di questo saggio giovanile di Nietzsche e
per il suo rapporto con gli studi su Platone del filologo Karl Heinrich August Steinhart, professore a
Pforta, si veda, in particolare: H.J. Schmidt, Nietzsche absconditus, II Jugend, t. 2, IBDK Verlag,
Berlin 1994, p. 605 sgg.
13    KGW II, iv, 106; trad. it. [parziale, basata sul testo della GA, Philologica III, pp. 235-304],
Plato amicus sed, Introduzione ai dialoghi platonici, a cura di P. Di Giovanni, Bollati Boringhieri,
Torino 1991, p. 70. Nelle lezioni Nietzsche legge, in questo procedimento di Platone, in diretta
connessione con il Pedro, la messa in opera della nuova retorica filosofica contro «la scuola di Lisia
e tutta la teoria sofistica dell’arte e della retorica». Nella parte delle lezioni dedicata al Fedro,
Nietzsche scriveva: «Il rapporto tra retorica e filosofia in senso stretto è il medesimo che corre tra
bellezza e verità: come la bellezza, quando non è riflesso della vita eterna, si riduce ad una
ingannevole apparenza, così la retorica e l’amore che le si porta sono soltanto una forma di gretto
materialismo» (ivi, p. 100; p. 69).
14 Nel corso di lezioni sui lirici greci Nietzsche ricorda come Saffo venisse paragonata a Socrate dal
retore e filosofo platonico Massimo di Tiro per la natura omoerotica dei loro amori. «Ma la sua fine
sensibilità ci garantisce che lei, come Socrate, abbia amato il bel corpo sempre solo in quanto vaso
della bella anima. Questa fine sensibilità si manifesta nel rapporto con Alceo, che le dice: “Tu, dal
crine di viola, dal dolce riso, divina Saffo, vorrei dire qualcosa ma me lo impedisce il pudore”. Lei
risponde: “Se il tuo desiderio fosse di cose nobili e belle e se la lingua non si muovesse per qualcosa
di male, la vergogna non ti farebbe arrossire le guance ma parleresti apertamente di una cosa
giusta”» (Die griechischen Lyriker, KGW II, 11, p. 135). L’episodio è tramandato da Aristotele
(Retorica 1367a7). Nietzsche aggiunge, all’inizio della frase di Alceo il celebre rigo (fr. 384 Lobel-
Page) citato da Efestione nel suo Manuale di metrica.
15   G. F. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, voi. II,
La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 108.
16    Questa interpretazione si è affermata a partire dalla penetrante e affascinante lettura - sia pure
con i forti limiti di una direzione mitopoietica - di Ernst Bertram, Nietzsche - Versuch einer
Mythologie, Berlino 1918 (ediz. ital. a cura di Lea Ritter Santini, Il Mulino, Bologna 1988). In
particolare è stato Pierre Hadot, a valorizzare, nelle sue riflessioni su Socrate, il capitolo che al
filosofo greco ha dedicato Bertram (del cui volume ha ripubblicato la traduzione francese di Robert
Pitrou del 1932 con una lunga introduzione: éditions du Félin, Paris 1990). Cfr. in particolare La
figura di Socrate, in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, trad. it. di A.M. Marietti,
Einaudi, Torino 1988, pp. 87-117. Cfr. anche P. Hadot, La Philosophie comme manière de vivre,
Entretiens avec Jeannie Carlier et Arnold I. Davidson, Albin Michel, Paris 2001, in particolare il
cap. 8: De Socrate à Foucault, pp. 193-227. A Pierre Hadot, si deve aggiungere, in una posizione
originale, Alexander Nehamas, in particolare per il suo scritto: The art of  living. Socratic
Reflections from Plato to Foucault, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London
1998 oltre che per Nietzsche. La vita come letteratura, trad. it. di D. Stimilli, Armando, Roma 1989.
17    S. Kofman, Socrate(s), Edit. Galilée, Paris 1989, p. 322.
18    E. Bertram, Nietzsche - Versuch einer Mythologie, trad. it., cit., p. 393.
19   FP 11[11] estate 1875, cfr. frammento 28[9] della primaveraestate 1878. Si veda anche lo
schema di lettera a una persona sconosciuta (forse Lou von Salomé) della fine novembre 1882 in
cui si legge: «come parlare con il mio demone».
20    Per il ruolo del Sileno come modello fisiognomico di Socrate si veda il saggio di D. Lanza, Lo
stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Einaudi, Torino
1997, p. 26 e sgg. e passim. Si vedano anche le osservazioni di Michela Sassi, Fisiognomica, in Lo
spazio letterario della Grecia antica, a cura di G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza, L. Giuliani,
Salerno editr., Roma 1993, vol. I, t. II, pp. 431 sgg.
21    Senofonte, Simposio, 5,1-10. Cfr. anche Plutarch. quaest. conviv. II 1 632 B. Abbiamo
utilizzato per le traduzioni dei testi su Socrate: Socrate. Tutte le testimonianze da Aristofane e
Senofonte ai Padri cristiani, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1986 [Giannantoni].
Sulla gara di bellezza in Senofonte: cfr. G. Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana,
Rizzoli, Milano 2001, pp. 9-11.
22    Platone, Lettere 2,314: «... non esiste e non esisterà mai alcun trattato di Platone. Quanto ora gli
si attribuisce, è dovuto a Socrate, bello e giovane». Anche in Ateneo (5, 219) troviamo “il bel
Socrate” che se ne va a caccia di giovani. Cfr. Giannantoni, p. 284.
23    Su questo si veda anche: Geschichte der griechischen Litteratur, KGW, II, V,
p. 198. Nella nota Nietzsche dopo aver ripreso l’intera espressione (καλός καί νέος) della seconda
lettera di Platone, ed aver rinviato ad un passo di Athen. 505 D, afferma: «cosa si intende qui con
“giovane e bello”? Idealizzato? Oppure redivivus?». Un altro riferimento non esplicito nel
frammento 8[15] estate 1883: dove a proposito dei Greci come conoscitori degli uomini si legge:
«L’idealizzare (“giovane e bello”), l’avversione per ciò che non rientra nel tipo, la menzogna
inconscia (manca il prender posizione contro se stessi, una certa magnanimità)».
24 Cfr. Geschichte der griechischen Litteratur, KGW, II, V, p. 198 in cui Nietzsche insiste
sull’atteggiamento “non storico” di Platone. Si vedano anche le lezioni sui filosofi preplatonici dove
Platone è presentato come «natura assolutamente non storica» che si immerge in un’atmosfera
mitica: «Platone non ha intenzione di fissare l’immagine di Socrate, ne crea senza posa di nuove
come controfigure della propria evoluzione». Ancora un giudizio analogo in JGB 190.
25ΝΑ 57[48] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere, I, II, pp. 215-216. Cfr. anche: Demokrit der
wissenschaftliche Reisende («colui che viaggia per la scienza») (19L318] 1872-1873).
26ΝΑ 57 [34], Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere, I, II, 209. Su questo tema Nietzsche utilizza
anche il saggio di Carsten Redlef Volquardsen, genesis des Socrates in “Rheinisches Museum”,
XIX [1864], pp. 505-520, cfr. Opere, I, II, p. 211.
27    KGWII, IV, p. 355; trad. it., I filosofi preplatonici, a cura di P. Di Giovanni, Laterza, Roma-
Bari 20052, p. 149. Cfr. anche sull’“attività missionaria” di Socrate: ST, Opere, III, II, p. 36.
Nell’aforisma 72, WS, Missionari divini, l’arroganza di colui che si sente “missionario divino” è
mitigata in Socrate dall’ironia e dal gusto di scherzare: il compito «di mettere il Dio alla prova» è
intesa come una espressione, non compiuta, sulla via della «libertà dello spirito».
28    KGW I, IV, 57136]; Opere, I, II, p. 211. Cfr. la lezione di Nietzsche sui filosofi preplatonici,
par. 15, KGW II, IV, p. 331: «È un grande scrittore: Dionigi di Alicarnasso (De comp. verb., c. 24)
lo cita assieme a Platone e Aristotele come scrittore modello. Cicerone, De orai. ,1, 11, lo avvicina a
Platone a causa del suo slancio e dell’ornatum genus dicendi·, in De divinat., II, 64, si loda la sua
chiarezza, Plut., Sympos., V, 7, 6, ammira il suo slancio». Cfr. Diels-Kranz, 68 A 34, 68 A 77.
29    KGW II, v, p. 308 e 312. Tra le definizioni storiche del filologo che troviamo nelle prime
pagine delle lezioni introduttive allo studio della filologia, Nietzsche pone quella di Platone che
definiva filologo Socrate in quanto ‘amico della conversazione orale’ e dei logoi filosofici, rispetto
ad Aristotele per il quale filologo è il filosofo in quanto ha bisogno di una grande mole di materiali
empirici (Encyclopädie der klassischen Philologie und Einleitung in das Studium derselben in
KGW, II, III, pp. 342-343).
30 KGWII, IV, p. 214; trad. it., I filosofi preplatonici, cit., p. 5.
31    Si veda anche MA 261 (I tiranni dello spirito), che rielabora e riassume i contenuti dei
frammenti dell’estate 1875 dedicati ai filosofi preplatonici. Socrate appare qui la pietra
nell’ingranaggio capace di far saltare la macchina fortemente accelerata della cultura greca: «in una
notte lo sviluppo della scienza filosofica, fino allora così meravigliosamente regolare, anche se
troppo celere, fu distrutto».
32   Cfr. i frammenti 6[14] e 6[15] estate 1875. La citazione di Nietzsche (una frase di Merck,
amico di Goethe), è tratta da A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, I, cit., pp. 551-552.
33 G. F. W. Hegel, Estetica, ediz. it. a cura di Nicolao Merker, Feltrinelli, Milano 1978, p. 1137.
34    G. F. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 49.
35   Cic. tusc. disp. IV 37,80 (Giannantoni, p. 290). Cfr. anche: Cic. de fato 5,10 dove Zopiro aveva
dedotto che il filosofo greco era stupidus, bardus, mulierosus. All’origine di questo episodio,
probabilmente, il dialogo Zopiro di Fedone (cfr. Diog. Laerz. II 105). Si veda anche Eusebio Praep.
evang. VI 9, 22 (Giannantoni, p. 507).
36    Ch. Féré, Dégénérescence et criminalité. Essai physiologique, F. Alcan, Paris 1888, p. 80. Il
libro è conservato nella biblioteca di Nietzsche a Weimar con vari segni di lettura (anche all’altezza
della frase citata vi è un segno a lato e le parole “étre laici” sono sottolineate). Avevo già segnalato
questa fonte nella mia recensione: Un caso di «tersitismo»: Verrecchia contra Nietzsche, in «Il
Ponte», η. 1, 1979, pp. 129-130. Cfr. anche Bettina Wahrig-Schmidt, "Irgendwie - jedenfalls
physiologisch". Friedrich Nietzsche, Alexander Herzen (fils) und Charles Féré 1888, in «Nietzsche-
Studien», 17 (1988), pp. 434-464.
37    E Lélut, Du démon de Socrate spécimen d’une application de la Science psychologique à celle
de l’Histoire, Trinquart, Paris 1836. Nietzsche, già in MA 126 parlando della falsa lettura morale del
dolore fisico, degli «stati di malattia [...] interpretati in base a radicati errori religiosi e psicologici»
afferma: «Così anche il demone di Socrate è forse solo un mal d’orecchi, che egli interpreta,
secondo la sua prevalente maniera morale di pensare, diversamente da come si farebbe oggi».
Voglio qui ricordare come Charles Baudelaire in Assommons les pauvres (Le Spleen de Paris,
XLIX), scherzi sul proprio demone confrontandolo con quello socratico e se la prenda - qui come
altrove - con le teorie di Lélut: «Puisque Socrate avait son bon Démon, pourquoi n’aurais-je pas
mon bon Ainge, et pourquoi n’aurais-je pas l’honneur, comme Socrate, d’obtenir mon brevet de
folie, signé du subtil Lélut et du bien avisé Baillarger? II existe cette différence entre le Démon de
Socrate et le mien, que celui de Socrate ne se manifestait à lui que pour défendre, avertir, empècher,
et que le mien daigne conseiller, suggérer, persuader. Ce pauvre Socrate n’avait qu’un Démon
prohibiteur; le mien est un grand affirmateur. le mien est un Démon d’action, ou Démon de
combat».
38Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1996, III, cap. XIII, p.
1414.

39 Ibidem.
40 Su questo tema, che torna più volte a caratterizzare la décadence, ancora una volta, puntuale il
riferimento a Charles Féré: Cfr. WA 5; frammento 15 [37] primavera 1888 e Ch. Féré, op. cit., p. 92.
41    A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, I, cit., pp. 68-70.
42    Ivi, II, p. 14.
43    Ivi, I, p. 71.
44    NA 14[1] Juli-September 1867. In questo lungo appunto filologico, Nietzsche
si muove ancora sulle orme di Valentin Rose e del suo “scetticismo” nei confronti della tradizione
(cfr. V. Rose, De Aristotelis librorum ordine et auctoritate commentatio, Diss. Phil., Berlino 1854,
BN, pp. 6-10) e di tutte le opere che vengono attribuite a Democrito dai πίνακες di Trasillo ritiene
che solo una o due siano realmente del filosofo. Nietzsche muterà opinione. Su questo cfr. la lettera
a Carl von Gersdorff del 16 febbraio 1868. Sulle ragioni per cui Socrate non abbia scritto nulla, si
veda il cap. III del già citato vol. di G. Reale, che inizia appunto dalla citazione di Nietzsche da me
commentata: op. cit., pp. 71-93.
45    ST, Opere, ΙII, II, ρ. 39. Il brano è interamente ripreso, con qualche modifica, in GT. Sui Cinici
(«divenuti gli umoristi dell’antichità») e sulla loro volontà di tradurre l’ironia e la doppiezza della
natura di Socrate, da lui impresse nel discorso, in un nuovo stile cfr. anche NA 74[61] März 1868
bis Mai 1869.
46    Richard Wagner, Oper und Drama, a cura di Klaus Kropfinger, Reclam, Stuttgart 1984. Si veda
in particolare la seconda parte, cap. I e II. Cfr. i frammenti 1 [108] autunno 1869, 7[124] 1870-
1871.
47Così si legge nella stesura preparatoria della conferenza su Socrate e la tragedia. D testo della
conferenza e di GT è meno problematico su questo punto: “In Atene era assai diffusa l’opinione che
Socrate aiutasse Euripide a poetare” (ST, Opere, III, Π, p. 35).
48    È stato messo in luce come questa utilizzazione da parte di Nietzsche di Aristofane risenta
dell’influenza di August W. Schlegel. In particolare si veda il classico saggio di B. Snell, Aristofane
e l’estetica in La cultura greca e le origini del pensiero contemporaneo, Einaudi, Torino 1963, pp.
166-189. Altra traccia importante, meritevole di sviluppi analitici, quella suggerita da Mazzino
Montinari nel suo saggio L‘onorevole arte di leggere Nietzsche, in “Belfagor”, 3, XLI, 1986, pp.
37-44. Montinari rimanda alla critica di Heinrich Heine contro Schlegel. Lo scrittore romantico
(non diversamente da Aristofane da un punto di vista reazionario) è critico di Euripide («che si
avvicinava alla tragedia borghese») e del «razionalista Socrate, che predicando una più elevata
morale», preparava il «tramonto dell’intero Olimpo». Cfr. H. Heine, La scuola romantica in
La  Germania, a cura di Paolo Chiarini, Laterza, Bari 1972, pp. 75-76.
49   Aelianus var. bist. Il 13 (Giannantoni, p. 67). Nietzsche stesso lo cita a p. 121 della Geschichte
der griechischen Litteratur (KGWII, v).
50   R. Wagner, Über musikalische Kritik, trad. it. di E. Pocar, Della critica musicale, in Ricordi,
battaglie, visioni, cit., pp. 341-342. Questi temi, centrali, sono sviluppati in più saggi teorici.
51    Wagner toma su questo motto nell’introduzione al III e IV vol. degli “Scritti e poemi” (1872),
traduz. italiana in R. Wagner, Scritti scelti p. 185.

52 U.v. Wilamowitz, Filologia dell’avvenire! in La polemica sull’arte tragica, cit., p.233


53 E. Rohde, in La polemica sull'arte tragica, cit., p. 286 e 289.
54 R. Wagner, Entwürfe. Gedanken. Fragmente. Aus nachgelassenen Papieren zusammengestellt,
cit., p. 68. Ma si veda anche a p. 39 e 52 i riferimenti ad Aristofane e Socrate.
55 R. Wagner, Oper und drama, cit., pp. 296-297.
56R. Wagner, Kunst und die Revolution·, trad. di E. Pocar, L’arte e la rivoluzione, in Ricordi,
battaglie, visioni, cit., p. 301.
57 Si veda: C. Wagner, Die Tagebücher, a cura di M. Gregor-Dellin e D. Mack, voi. I: 1869-1877;
voi. II: 1878-1883, Pieper, München/Zürich 1976-1977. Bd. I: p. 171, 20 nov. 1869, in cui Cosima
riporta le riflessioni del musicista su Socrate. Dal novembre
1869 al maggio 1870, i Wagner si dedicano, con passione, alla lettura dei dialoghi di Platone
(Menone, Eutifrone, l’Apologia, Critone, Gorgia, Cratilo, Teeteto, Il simposio -6-7 aprile, «una
delle impressioni più profonde della mia vita» - il Fedone) e il 7 aprile del 1870 leggono i
Memorabili di Senofonte. Questa l’immagine che ne dà Wagner: «È molto evidente come si presenti
in modo del tutto negativo e come in questo sia saggio, non filosofo. Vuol cercare sempre e
dovunque la verità, in cielo e sotto terra, nell’Ade. Per questo atteggiamento è da confrontare con
Kant, con la sua Critica della  ragion pura che afferma insolubile il problema, e si rapporta a
Platone all'incirca come il primo libro di Schopenhauer si rapporta al secondo. In tal modo egli è
anche il tipo più puro di uno stadio di sviluppo dello spirito umano. Non poteva che essere dolce
e buono, poiché vedeva l’errore dappertutto. Deve aver irritato in modo terribile poiché non si
poteva collocare in nessuna categoria, neppure in quella dei filosofi, traendo tuttavia tutto a sé; se
solamente avesse accettato danaro, tutto sarebbe andato bene. Il primo filosofo fu Platone - Socrate
era solo suo precursore, per lui di grande importanza, poiché rimetteva in discussione tutto ciò che
veniva ammesso. I filosofi anteriori come Anassagora, Pitagora etc. erano solo pratici che
cercavano una spiegazione del mondo oggettivo. Platone è il primo, che ha riconosciuto l’idealità
del mondo e che afferma che il genere è tutto, l’individuo nulla». Il ritratto risente di Schopenhauer
(avvicinamento allo spirito di Kant, valorizzazione di Platone) ma anche di Feuerbach quando si
parla della prevalenza del genere sull'individuo. Il giorno seguente, tornando sull’argomento,
Wagner afferma: «il cristianesimo non poteva trasmettere questa morale - il cristianesimo produce
l’estasi, l’annientamento totale del mondo, ma per ciò che può essere fatto dentro questo mondo,
mai si può andare più in alto di Socrate. Il santo, con il suo grande cuore, vede e può parlare solo in
immagini simboliche, le immagini simboliche della religione, ma chi non vede l’immagine come lui
la vede, non può comprendere i simboli». Ancora il 22 novembre, a proposito del saggio Über das
Dirigiren,  scritto in quel periodo, si ripromette: «voglio come Socrate, essere il tafano che
non cessa di pungolare. E' infame come viene trattata l’intera nostra arte». Cfr. anche p. 194, (3
febbraio 1870), sulla conferenza di Nietzsche su Socrate e la tragedia. Wagner si mostra colpito dal
riferimento di Nietzsche al sogno di Socrate che rimanda al problema del musicista e della musica
come espressione diretta della volontà. Il 26-27 gennaio 1879, Wagner rilegge i Memorabili (in
particolare il dialogo tra Socrate e Theodota), il 31 gennaio Plutarco sul demone socratico. Ancora,
il 18 e 19 agosto 1879, rileggendo l’Apologia di Socrate: «Impressione magnifica». Il punto di
partenza che Wagner approva è la criticità, la negatività della filosofia di Socrate che deve lasciare
il posto all’inesprimibile, «la pace dell’anima» che nasce dalle illusioni distrutte e che muove
all’azione. Agli inizi di ottobre, ancora a Bayreuth si legge il Critone. Wagner mostra di non
apprezzare l’esaltazione dello stato: «non fa parte degli scritti migliori». Una testimonianza
dell’interesse per Socrate a Tribschen nella lettera di Cosima a Nietzsche del 30 novembre 1869. «...
il Maestro la sera mi legge Platone, siamo alle prese con il Gorgia. [...] Vorrò parlare di Socrate in
ogni occasione [...] Riderà se le dico che le ultime parole di Socrate, nell’Apologià, ci fanno pensare
a quel folle sublime? [Don Chisciotte]».
58 Così scrive nella stesura preparatoria in P I 16. Cfr. GT, Note, p. 510. Sul complesso significato
della fisionomia da sileno di Socrate si veda anche Remedios Avila Crespo, “... Aquella excéntrica
fisonomìa de sileno", Agonismo y piedad en la reflexión de Nietzsche en torno a Grecia, in
«Logos». Anales del Seminario de Metafisica, Madrid 2000, n. 2, pp. 91-117.
59 ΝΑ 77[4] September 1868 bis Herbst 1869; Opere I, II, p. 478. Sulla presenza di von Hartmann
nella riflessione del Nietzsche di Basilea cfr. F. Gerratana, Der Wahn jenseits des Menschen. Zur
frühen E. v. Hartmanns-Kezeption Nietzsches, in “Nietzsche-Studien”, voi. 17/1988, trad. it. in F.
Gerratana, Scritti su Nietzsche editi e inediti, cit.
60   WL 2. Anche su questo punto appare, sviluppata, la suggestione di Schopenhauer, cfr. ad es.
Parerga, cit., II, cap. XVII, § 191, pp. 534 e cap. XIX, § 214, p. 564.
61    Per la definizione di Schopenhauer, cfr. Parerga, cit., pp. 462-463: «Sarei ora tentato di
determinare la definizione di filisteo da un punto di vista superiore, indicando con tale termine gli
individui continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà che non è tale».
62    John Stuart Mill, Die Freiheit, übersetzt von Th, Gomperz, Fues (R. Reisland),
Leipzig 1869, in John Stuart Mills Gesammelte Werke. Erster Band. Le pp. 23, 24, 25 presentano
segni di lettura.
63 Tale espressione si trova già nella Prolusione su Omero e la filologia classica nel caratterizzare
“gli impulsi” fondamentali che caratterizzano la filologia: «La vita è degna di essere vissuta, dice
l’arte, la più bella seduttrice; la vita è degna di essere conosciuta, dice la scienza» (Opere, I, II, p.
519). Cfr. anche 3 [3] inverno 1869-70 - primavera 1870.
64EP 7[174] fine 1870-aprile 1871. Cfr. anche 7[166]: «Euripide e Socrate danno una nuova
impostazione allo sviluppo dell’arte: partendo dalla conoscenza tragica. Questo è il compito
dell’avvenire [...] la tragedia greca si può vedere solo come preparazione: serenità inappagata».
65 Su questo punto Nietzsche si sente confortato da una riflessione di Montaigne, che annota nei
suoi quaderni: 26[291] 1884: «Montaigne I p. 174: “Le leggi della coscienza, che secondo quanto
pretendiamo derivano dalla natura, derivano piuttosto dall’abitudine. Ognuno venera nel suo cuore
le opinioni e i costumi approvati e introdotti nel proprio paese, sicché non se ne può sottrarre senza
rimorsi, e non agisce mai secondo i loro dettami senza un certo diletto”» (1.1, cap. XXIII).
66 Su questo si veda la lettera del 10 settembre 1967 a Giorgio Colli di Montinari che, lavorando
agli apparati dell’edizione tedesca della sezione IV, segnala all’amico un errore di decifrazione fatto
per l’edizione Adelphi (tuttora da correggere): «Lo Ast invece mi ha inaspettatamente aiutato a
risolvere un problema di decifrazione assai più difficile, quello del frammento 3318] il cui testo non
mi convinceva per nulla, perché niente affatto rispondente allo stato d’animo di Nietzsche
nell’autunno del 1878. Esso era: “Giebt es ein größeres Glück als die Seele zu greifen - ein Leben
ohne Poesie: ού βιωτός”. Non ti sto a raccontare i tentativi e i passaggi intermedi. In ogni modo,
martedì ho guardato per scrupolo la voce βιωτός in Ast e ho trovato il rimando a Apologia 38a, che
è proprio il passo che cercavo, a patto di leggere invece di “greifen” “prüfen” (che avevo già letto
sul manoscritto!) e “Prüfen” sostantivato invece di “Poesie”. Socrate dice: “ó δέ ανεξέτατος βιος ού
βιωτός άνθρώπω [dativo di anthropos]" - “ein Leben ohne prüfen ού βιωτός”. Io ho anche
l’esemplare dell’Apologià, che Nietzsche sembra aver riletto proprio in questo periodo, con molte
glosse, questo passo è sottolineato e commentato: Glück des Socrates. Mi è sembrato anche un
passo molto bello, per quello che posso ancora capire di greco e in pieno accordo col significato del
fram-
mento» (G. Campioni, Leggere Nietzsche. Alle origini dell’edizione critica Colli-Montinari, cit., p.
433).
67   Cfr. 40[59] 1885. Per Montaigne si veda Essais, 1.1, XXVI, trad. it., cit. pp. 213-214. Cfr.
anche V. Vivarelli, Nietzsche und die Masken des freien Geistes: Montaigne, Pascal und Sterne,
Königshausen & Neumann, Würzburg 1998, pp. 78-79.
68    Nella biblioteca di Nietzsche si trovano due edizioni degli Essais di Montaigne:
Essais avec des notes de tous les commentateurs, Paris 1864 e Versuche, nebst des Verfassers
Leben, nach der neuesten Ausgabe des Herrn Peter de Coste, ins Deutsch übers., 3 Bde. Leipzig
1753-54.
69    Montaigne, Saggi, cit., p. 1076.
70    P. Bourget, Essais de Psychologie contemporaine, Paris 1883, p. 36; trad. it., cit., p. 38.
71    Montaigne, Saggi, cit., p. 1343 (libro III cap. X).
72    Ivi, pp. 1119-1120.
73    Ivi, pp. 1187.
74 Ivi, pp. 1386-1387. Montaigne riprende, alla lettera, l'espressione di Cicerone: Tuscul. Quaest. L.
V, 4, 10. «Socrates autem primus philosophiam devocavit a coelo, et in urbibus conlocavit, et in
domus edam introduxit: et coegit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere».
75   Cfr. anche FW. 36. Per una lettura radicalmente diversa delle ultime parole di Socrate si veda
Glenn W. Most, A Cock for Asclepius, in “Classical Quartely” 43, 1993, pp. 96-111. Contra:
Alexander Nehamas, The art of living, cit., pp. 246-248.
76    GD, Il problema di Socrate 3. In questo Nietzsche ha, come precedente, E. Zeller che parla
dell’elemento “non greco” dell’aspetto e del carattere di Socrate e che giudica storicamente
attendibile l’episodio di Zopiro. Si veda anche: Hans Günther Seebeck, Das Sokratesbild vom 19.
Jahrhundert bis zur Gegenwart, Phil. E, Diss., Göttingen 1947, pp. 296-297.
1875, «Forza enorme del superamento di sé, ad esempio nel cittadino, in Socrate, che era capace di
ogni malvagità».
77 Aristosseno, fr. 54a Wehrli, (Giannantoni, pp. 272-273). Si veda anche 5[128]
78    Montaigne, Saggi, cit., p. 1416,
79    Nietzsche si serve qui di un passo di Emerson per caratterizzare la «reale serenità rasserenante»
di Montaigne «spirito liberissimo e vigoroso»: «Aliis laetus, sibi sapiens»·. «Il più grande privilegio
della salute è uno stato d’animo gaio [frohe Stimmung] che, nelle opere del talento, è più importante
del talento stesso. Per le pesche nulla può compensare la mancanza di sole, e per sfruttare la
conoscenza si deve possedere serenità [Heiterkeit] della saggezza [...]. La gioia dello spirito indica
la sua forza [Die geistige Freude bezeichnet die Geisteskraft]. Tutte le cose sane sono gaie
[fröhlich]. Il genio crea con gioia e la divinità gli sorride di rimando È un’antica regola per la
condotta intellettuale: Aliis laetus, sapiens sibi, che rende il proverbio inglese: “Sii lieto e saggio”»
(cfr. Ralph Waldo Emerson, Die Führung des Lebens. Gedanken und Studien. Ins Deutsche
übertragen von E.S. von Mühlberg [E. Sartorius]. 2. Aufl., Steinacker Leipzig, 1862 (BN), IX, 179).
80    Montaigne, Saggi, cit., pp. 39-40.
81
   Nietzsche trascrive da Paul Foucher, tra gli altri, anche un significativo passo che riguarda
Montaigne: «“Ci si stupisce delle molte esitazioni e dei tentennamenti nel-
le argomentazioni di Montaigne. Ma, messo all’indice dal Vaticano, da gran pezza sospettato da tutti
i partiti, egli impone forse volontariamente alla sua pericolosa tolleranza, alla sua calunniata
imparzialità, la sordina di una specie di interrogativo. Ciò era già molto ai suoi tempi: umanità che
dubita..."» (11 [63] novembrel887 - marzo 1888). Cfr. Paul Foucher, Les coulisses du passe, E.
Dentu, Paris 1873, p. 203: «C’est lui [Montaigne] qui aurait eu le droit de dire au démon de la
guerre : Tu égorges, tu brùles, tu pilles, tu violes, tu peux illustrer, mais qu’est-ce que tri prouves?
On s’est étonné des tàtonnements de l’argumentation de Montaigne, mais son incertitude n’a été
peutétre que de la prudence. Mis à l’index au Vatican, facilement suspect à tous les partis, il mettait
peutétre volontairement à sa tolérance dangereuse, à son impartialité calomniée, la sourdine d’un
point d’interrogation. C’était déjà beaucoup, dans son temps, que de l’humanité dubitative. Censuré
à Rome pour son éloge de Julien l’Apostat, et condamné à des corrections, - qu’il ne fit pas - qui
sait? avec un chapitre plus affirmatif, il eut été brulé. Or, martyr, ce n’était point la destince de
Montaigne. C’est la foi, non le raisonnement, qui fait les martyrs» (Il capitolo è dedicato a «Les
pyrrhoniens antiques & modernes - Horace-Montaigne»).

Le ombre di Dio
1. Nuove battaglie
L’espressione “ombra di Dio” in Nietzsche è legata a due importanti aforismi: Γaforisma 108 “Neue
Kämpfe” (Nuove battaglie) e 109 “Hüten wir uns!” (Stiamo all'erta!) che si trovano all’inizio del
terzo libro della Gaia scienza. Se l’espressione “ombra di Dio”, così pregnante, è presente solo in
questi aforismi (e nel frammento preparatorio 14[14] dell’autunno 1881) la tematica è invece
diffusa e ha un ruolo importante nelle riflessioni del filosofo. La stessa celebre parabola de L’uomo
folle (FW 125) che irrompe sul mercato ed annuncia, non inteso e irriso, la morte di Dio, nel
manoscritto Μ III 5 ha una conclusione che rimanda direttamente al significato connesso all 'ombra
e alle ombre di Dio: «Se noi continuiamo a vivere e a bere la luce, apparentemente come sempre
abbiamo vissuto; non è come per il rilucere e lo scintillare di astri che si sono estinti? Ancora
non vediamo la nostra morte, la nostra cenere; e questo ci inganna e siamo indotti a credere di
essere noi stessi luce e vita - ma non è che la vecchia vita nella luce di un tempo, l’umanità passata
e il Dio passato, i cui raggi e bagliori ci raggiungono ancora - anche la luce vuol tempo, anche la
morte e la cenere vogliono tempo! E infine, noi che ancora viviamo e riluciamo, che cosa ne è della
nostra forza luminosa? a paragone con quella delle generazioni passate? E' essa qualcosa di più
della luce grigio-cenere che la luna riceve dalla terra illuminata?» (14 [25] autunno 1881). Dagli
astri estinti ancora proviene la luce che ci permette di vivere «apparentemente come sempre
abbiamo vissuto» -
122 Nietzsche. La morale dell’eroe
non riluciamo di luce propria, solo di luce riflessa, impoverita, cinerea come quella che la luna
riceve dalla terra.
Nell’aforisma 108 Nuove battaglie si legge: «Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad
additare la sua ombra in una caverna - un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla
natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua
ombra. - E noi -noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!». Nietzsche si riferisce qui al culto
superstizioso delle reliquie del Buddha di cui parla, in breve, anche l’ampia, classica, monografìa di
Koeppen conosciuta dal filosofo fin dall’autunno del 1870: accanto alle ossa e ai denti e ad altre
reliquie oggetto di culto, egli «ha lasciato per la salvezza anche la sua ombra che appare ai credenti.
Essa si mostra in più caverne o grotte». Koeppen fa riferimento anche alla narrazione del
pellegrinaggio buddista dal 629 al 645 del cinese Hiouen-Thsang (tradotta e pubblicata in francese
da Stanislas Julien nel 1853) che trova un punto culminante nella commossa descrizione della visita
alla caverna dove i discepoli di Cakia-Mouni credono che il loro maestro abbia lasciato la sua
ombra. Solo dopo ferventi preghiere Hiouen-Thsang «vede la grotta inondata di luce, e l’ombra di
Buddha, d’un biancore accecante, si disegna maestosamente sul muro, come quando le nubi si
aprono e lasciano percepire tutt’a un tratto l’immagine meravigliosa della montagna d’oro».
Questo episodio leggendario, nella versione curata da Stanislas Julien, si trova ripreso anche nei
saggi che Renan dedica al buddismo: la singolare allucinazione, il credere alla macchina
dell’illusione, rivela per Renan l’ingenuità e la buona fede del pellegrino1.
Nietzsche più volte è ricorso all’immagine dell’ombra (delle ombre) dell’eroe della storia o del
pensiero che agisce con forza sul presente: questo a partire da Socrate la cui azione (al di là dei
contorni reali della figura) domina la modernità. La sua influenza «si è estesa sulla posterità fino a
questo momento, simile ad un’ombra che diventa sempre più grande nel sole della sera» (8[19]
inverno 1870-71 -autunno 1872). Nella vita quotidiana l’individuo incorpora in modo inconscio la
tradizione che lo determina: «Alle spalle del presente comincerebbe immediatamente l’oscurità: in
essa si aggirano, come ombre, grandi e incerte figure, che si estendono gigantesche e agiscono su di
noi, ma come possono agire gli eroi, non già come agisce la comune e luminosa realtà giornaliera.
Ogni tradizione sarebbe quella quasi inconscia dei caratteri ereditati: gli uomini viventi, nelle loro
azioni, sarebbero prove di ciò che in fondo viene tramandato attraverso di essi» (29[172] 1873).
Nella stesura preparatoria l’aforisma sull’ombra di Buddha terminava con la messa in guardia:
«Insomma, guardatevi dall’ombra di Dio. - È detta anche “metafisica”»2. L’espressione hütet euch
collega direttamente questo aforisma a quello successivo: Hüten wir uns che termina: «Ma quando
la finiremo di
star circospetti e in guardia! Quando sarà che tutte queste ombre di Dio non ci offuscheranno più?
Quando avremo del tutto sdivinizzato la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noi
uomini, insieme alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamente redenta!». Nel primo aforisma
l’ombra, al singolare, si identifica tout court con «la metafìsica» (FW 109). Nietzsche, contro
Schopenhauer e la diffusa concezione filosofica, nega che all’origine della religione stia «un
bisogno metafisico»: esso viene dopo, assai dopo, come un «tardivo germoglio». «Sotto il dominio
di pensieri religiosi, ci si è abituati alla rappresentazione di un “altro mondo (retro-, sotto- e
sovrastante)” e nell’annientamento dell’illusione religiosa si avverte un senso spiacevole di vuoto e
di privazione - è da quest’ultimo sentimento che rigermoglia così un “altro mondo”, ora non più
religioso, ma soltanto metafisico» (FW 151). All’origine sta la pluralità della vita e delle forze che
caratterizza «la creazione di Dèi, eroi e superuomini di ogni specie» (FW 143).
«Nella loro mitologia, i Greci hanno risolto l’intera natura in personaggi greci. Essi hanno
considerato la natura, per così dire, unicamente come una mascherata e un travestimento di uomini-
dèi» (19[115] estate 1872-inizio 1873). «Da Talete a Socrate - nient’altro che trasposizioni
dell’uomo nella natura -straordinario gioco d’ombre dell’uomo proiettato sulla natura, come sulle
montagne!» (19[134] estate 1872-inizio 1873).
La forza attiva che significa la pluralità della vita che crea gli dèi viene progressivamente assorbita
ed annullata dall’astrazione del monoteismo, dal Dio cristiano, e dalla spiritualizzazione del Dio.
Gli antichi dèi finirono «essi non trovarono la morte nel “crepuscolo”... essi risero una volta da
morire, fino a uccidere se stessi! Questo accadde, quando la più empia delle frasi fu pronunciata da
un dio stesso, - questa: “Vi è un solo dio! Non avrai altro dio accanto a me”» (Za III, Degli
apostati). Già nel 1870-71 (frammento 5[31]), dopo la lettura di Koeppen, Nietzsche poneva il
contrasto tra la vitalità della mitologia greca e «la fede in un solo spirito»: «Divinità sotto forma di
re, di padre, di sacerdote -La mitologia greca ha divinizzato tutte le forme di
un’umanità significativa. La fede in un solo spirito è una fantasia: sorgono subito sostituti
antropomorfici, anzi politeistici. L’impulso ad adorare, come sentimento di piacere per l’esistenza,
si crea un oggetto. Quando manca questo sentimento - sorge il buddhismo».
La «cosa in sé» della metafisica è un ulteriore depotenziamento del Dio unico: viene dopo, non è il
primum come affermavano Mainländer e Hartmann (il Dio-Uno originario, Ur-Ein, cosa in sé). Per
Philip Mainländer (Die Philosophie der Erlösung, 1876) «questa Unità semplice è stata, essa non è
più. Mutando, la sua essenza si è dispersa del tutto nel mondo della pluralità. Dio è morto e la sua
morte fu la vita del mondo (Gott  ist gestorben und sein Tod war das Leben der Welt)»3. Una
posizione antitetica a quella di Nietzsche che riprende l’annuncio della morte di Pan - ripresa da
Plutarco e narrata da Heine in Ludwig Börne - a simbolizzare la fine del mondo antico, la
repressione della vitalità naturale: gli dèi muoiono per «l’intimo raccapriccio» del sangue redentore,
sgorgato dal Golgota4. Heine torna più volte su questo tema (di fronte alla sfida del Cristo
sofferente gli dèi «tacquero, impallidirono, impallidirono sempre più e alla fine dileguarono in
nebbia»5) che sta al centro dello scritto Gli Dèi in esilio. Già in Heine, come in Zarathustra, le
chiese si presentano come mausolei o tombe degli dèi pagani. Questo rafforza il contrasto — in più
modi drammatizzato, riecheggiato anche nel capitolo Dell’uomo superiore, tra Himmelreich ed
Erden-Reich6: la contrapposizione tra gli dèi che significano pluralità di valori terrestri, vitali e il
Dio del-
la rinuncia che muore in un processo di crescente spiritualizzazione e di astrazione dalla vita7. Nel
racconto dell’ultimo papa la progressiva perdita di forza porta Dio alla morte, viene a mancare ogni
rapporto con la potenza della vita che è all’origine della creazione degli dèi. Il Dio che muore è
anch’esso già quasi ombra e la metafìsica l’ombra di un’ombra.

2. Nous oublions le dieu pour adorer ses traces!


Fin dagli anni di Lipsia Nietzsche combatte i pericoli della teleologia e vede in Democrito lo
«spirito più libero» che «raggiunge, primo fra i Greci, il carattere scientifico, che consiste
nel tentativo di spiegare in modo unitario una quantità di fenomeni senza chiamare in aiuto, nei
momenti difficili, un deus ex machina» e che vuole liberare gli uomini dal timore degli dèi,
dalla «fosca mitologia» che aveva caratterizzato il suo grande predecessore Empedocle. «Egli ha
proprio un’incondizionata fiducia nella forza deduttiva della ratio; ritiene che il mondo e gli uomini
siano per lui senza veli e rifiuta perciò gli involucri e i confini che altri impongono a quella ratio»8.
Democrito è il più conseguente contro le ombre del mito che oscurano la vita:
«Voleva sentirsi nel mondo come in una stanza piena di luce»9.
Nella lotta contro le «ombre di Dio», intrapresa nuovamente con la filosofia dello spirito libero, si
deve leggere anche il senso di una radicale autocritica nei confronti della metafisica dell’arte della
Nascita della tragedia, espressione di «oscuramento romantico» all’ombra di Schopenhauer e di
Wagner: «Un tempo pensavo che la nostra esistenza fosse l’artistico sogno di un Dio, che tutti i
nostri pensieri e sentimenti fossero in fondo le sue invenzioni nel poetare il suo dramma... la
regolarità della natura era per me comprensibile come regolarità delle sue rappresentazioni» (11
[285] 1881). Nietzsche riprende nello Zarathustra il motivo autocritico: «Un tempo anche
Zarathustra gettò la sua illusione [Wahn] al di là dell’uomo come tutti coloro che abitano un mondo
dietro il mondo [Hinterweltler]. E allora il mondo mi sembrò l’opera di un dio sofferente e
torturato». Un mondo certo lontano dalla perfezione, «eternamente imperfetto, immagine riflessa di
un’eterna contraddizione», «imperfetta immagine» di un dio «spettro» che ora è
possibile riconoscere come «frammento misero di uomo e di io» (ZA I, Di coloro che abitano un
mondo dietro il mondo). Nel Nietzsche della Nascita della tragedia il mondo appariva ombra
imperfetta, fantasma di un dio artista e sofferente: ma lo scritto restava una superiore cosmodicea.
L’abbandono della metafisica dell’arte, nel 1879, dopo la pubblicazione di Umano, troppo
umano, appare ai wagneriani espressione di un «nihilisme écceurante» (accusa formulata per primo
dal musicologo alsaziano Schuré). Mathilde Maier in una lettera del luglio 1878 sosteneva con
enfasi appassionata l’accusa di un atteggiamento nichilistico che distrugge la venerazione e
l’illusione (Wahn) necessaria alla vita: «Abbiamo costruito con fatica e sforzo una religione
senza Dio, per salvare almeno il divino - anche se Dio è perduto, e ora Lei ci sottrae il fondamento
che, per quanto aereo e nebuloso, è però forte a sufficienza per sorreggere il mondo ... ora Lei
distrugge tutto! Tutto fluttuante, non più salde immagini, soltanto eterno movimento!». Quello che
non gli si perdonava era l’abbandono delle posizioni che aveva espresso nel periodo wagneriano: la
necessità dell’illusione metafisica e il richiamo alle forze antistoriche e sovrastoriche contro la
posizione nichilistica del discepolo di Eraclito, incapace di agire, una volta condannato a vedere
dappertutto un divenire, un flusso di forze. Emancipatosi dalla tirannia della metafisica dell’arte
wagneriana (una «religione senza Dio, per salvare il divino»), Nietzsche si sente ora volto verso
nuovi e aperti orizzonti, e per la prima volta, nell’autunno del 1881, fa suo il termine
nichilismo: «In che misura ogni orizzonte intellettuale più limpido appare come nichilismo»
(12[57]).
La natura dell’Uno originario (Ur-Ein), con le sue laceranti contraddizioni, teneva lontano la
giovanile metafisica dell’arte sia dalla tradizione biblica che islamica in cui la figura dell’ombra di
Dio comporta una forte rassicurazione per l’uomo in quanto espressione della protezione del Dio
che accoglie gli eletti nella sua ombra. «La gloria del Signore sarà una protezione ed una tenda,
un’ombra contro il calore durante il giorno, un rifugio ed un riparo contro la bufera e la pioggia»
(Isaia IV 6). Betsaleel, il nome dell’artigiano costruttore dell’arca santa, significa «nell’ombra di
Dio», evoca «l’unzione»: a lui è dato di concepire e realizzare l’opera di Dio. Nella tradizione
islamica e nel pensiero politico sunnita il Sultano, il Califfo sono come l’ombra di Dio e del Profeta
sulla terra10.
Se la caverna di Buddha dell’aforisma 108 della Gaia scienza rammemora il mito platonico delle
ombre nel processo della conoscenza, certamente l’espressione «ombra di Dio» è fatta propria dal
neoplatonismo e dallo spiritualismo improntato a Platone. A partire da Filone d’Alessandria per cui
l’ombra di
Dio è il suo Logos, di cui egli si è servito come strumento per la creazione del mondo (Legum
Allegoriae, HI 96) l’immagine ritorna nel neoplatonismo umanistico e rinascimentale: non è un caso
se Marsilio Ficino traducendo il De Monarchia di Dante rende «dici potest: cum totum universum
nihil aliud sit, quam vestigium quoddam divinae honitatis» con «Niente di meno si può dire tutte le
creature esser fatte a divina similitudine, perchè l’universo non è altro che un’ombra di Dio»11.
Anche l’idealismo romantico di Emerson - che segna visibile la differenza del filosofo americano da
Nietzsche - ricorre a questa espressione: «Tutte le cose sono le ombre di Dio»12, cioè riflesso della
superanima (Oversoul' Die höhere Seele). Emerson mostra la convinzione che la natura segua un
disegno e che questo, sebbene rimanga imperscrutabile all’uomo, sia disposto per il suo bene. La
natura diviene così depositaria della divinità e delle sue prerogative provvidenziali. Alla fine «il
bene resta, il male scompare» - così il giovane Nietzsche13 riassumeva un tema che più volte torna
in Emerson.
Lux umbra Dei: «la luce è l’ombra di Dio», era l’iscrizione che si poteva leggere sui quadranti
solari medioevali. Joseph Joubert, platonico, riprende questo in una delle sue massime [titre XIII,
XII]: «La luce è l’ombra di Dio; il chiarore [clarté], l’ombra della luce». Joubert pur accomunato a
Nietzsche dall’ambizione «di dire in dieci proposizioni quello che ogni altro dice in un libro - quel
che ogni altro non dice in un libro» (GD Scorribande ... 51). («S’il est un homme tourmenté par la
maudite ambition de mettre tout un livre dans une page, toute une page dans une phrase, et cette
phrase dans un mot, c’est moi»:
Joubert), è comunque lontano dalla sensibilità del filosofo tedesco. La forma breve è sentita dal
francese come espressione discontinua e slegata ma pur sempre riflesso di una verità superiore a cui
si aspira. Appare significativo l’uso critico che Nietzsche fa dei fratelli Goncourt che affermano che
a Joubert «manca la determinatezza francese. Ciò non è né chiaro né franc» (11[296] novembre
1S87-marzo 1888). Joubert, che in vita non ha pubblicato nulla, ha lavorato al suo Journal
senza arrivare alla forma cui aspirava. Muore nel 1824 ed una prima raccolta di pensieri fu
pubblicata postuma da Chateaubriand -suo grande amico - nel 1838. Nietzsche aveva nella sua
biblioteca l’edizione di Paul de Raynal in due volumi14. Nietzsche apprezzava di Joubert la
politesse - la signorilità - la finezza nei giudizi: per il resto siamo agli antipodi. Egli vede che «il
secolo è tormentato dalla più terribile “malattia dello spirito”, il disgusto delle religioni. Non è la
libertà religiosa che pretende, ma la verità irreligiosa» (p. 215). Un secolo riempito di un
orgoglio gigantesco, come i giganti, nemico degli dèi (p. 249). «La religione è la poesia del cuore»
(p. 21); «Il dio della metafisica non è che una idea; ma il Dio delle religioni, il creatore del cielo
e della terra, il giudice sovrano delle azioni e dei pensieri, è una forza» (p. 12). In Joubert troviamo
la difesa tradizionalista di Dio dalle ombre di Dio - dalle traduzioni metafisiche della religione che
avanzano impetuosamente in quegli anni. Tema fortemente presente in Lamartine: «Nous oublions
le dieu pour adorer ses traces!» - scrive (nel poema La mort de Socrate)15. Nel suo Voyage en
Orient Lamartine afferma che, di fronte allo spettacolo della natura ed alla sua forza che atterrisce,
l’uomo un tempo avrebbe pregato. «Depuis la révolution de juillet, on n’en fait plus. La prióre est
morte sur les lèvres de ce vieux libéralisme du XVIIIe siècle, qui n’avait lui-mème rien de vivant
que sa haine froide contre les choses de l'ame. Ce soufflé sacré de l’homme, que les fils d’Adam
s’étaient transmis jusqu’à nous avec leurs joies ou leurs douleurs, il s’est éteint en France dans nos
jours de dispute et d’orgueil; nous avons mèlé Dieu dans nos querelles. L’ombre de Dieu fait peur à
certains hommes»16.
La posizione di Joubert (come quella dei romantici a cui si assimila per questi temi) è agli antipodi
di quella di Nietzsche, che potrebbe affermare, col suo discepolo colombiano: «La nada es la
sombra de Dios» (Nicolas Gòmes Davila). Non a caso un importante aforisma di Aurora si presenta
come un commento ad una citazione - non esplicitata - di Joubert17. «Le ultime risonanze della
cristianità nella morale. “ On n' est bon que par la pitié. Il faut donc qu’ il y ait quelque pitié dans
tous nos sentiments”- così suona oggi la morale!» (M 132). Joubert trova la pitié perfino
nell’indignazione, nell’odio verso i malvagi, nell’amore verso Dio («pietà verso di noi, come ve n’è
sempre nella riconoscenza»). Nietzsche scopre l’ombra più nascosta di Dio: la morale del
sentimento altruistico che unisce i «liberi pensatori» del positivismo (il riferimento esplicito è a
Comte e Mill) alla debolezza cristiana propria dei romantici tradizionalisti. Lo sciogliersi dai dogmi
ha significato far retrocedere il primato dell’«assoluta importanza dell’eterna salvezza personale» e
spingere in primo piano «la credenza collaterale nell'“amore”, nell’“amore del prossimo”», «Quanto
più ci si scioglieva dai
dogmi, tanto più si cercava quasi la giustificazione di questo affrancamento in un culto dell’amore
umano: non restare indietro su questo punto all’ideale cristiano, bensì, se possibile, sorpassarlo, fu
un segreto incentivo in tutti i liberi pensatori francesi, da Voltaire fino a Auguste Comte; e
quest’ultimo, con la sua famosa formula morale, vivre pour autrui, ha in effetti ultracristianizzato il
cristianesimo Lo si confessi o no, si vuol nientemeno che una radicale trasformazione, anzi un
affievolimento e una soppressione dell’individuo: non ci si stanca di annoverare e di accusare tutto
quel che di malvagio e di ostile, di prodigo, di dispendioso, di sfarzoso c’è stato fino ad oggi nella
forma dell’esistenza individuale; si spera di realizzare un’economia più a buon mercato, meno
pericolosa, più regolare e unitaria, purché esistano ancora grandi corpi con le loro membra. Viene
avvertito come buono tutto quel che in qualche modo corrisponde a questo istinto plasmatore di
corpi e di membra, e ai suoi istinti ausiliari: è questa la fondamentale corrente morale del
nostro tempo; in tutto ciò sensibilità simpatetica e sensibilità sociale reagiscono l’una sull’altra in
un reciproco giuoco».
E certamente - a partire dal pontefice Comte - nelle filosofìe del positivismo, nelle loro cosmologie
e pretese scientifiche, si trovano «le forme più celate del culto DELL’IDEALE MORALE
CRISTIANO», si scopre nella natura quell’«umanità» morale-cristiana e si arriva ad avere, come
oggetto di culto, il concetto di «Uomo» «effemminato e vile» alla Comte (che si ispira alla
Imitatio  Christi: «la religione del cuore»; GD, Scorribande di un inattuale 4) e Stuart Mill (10[170]
1887-88). Comte appare una continuazione del XVIII secolo per il dominio del cuore sulla
testa («Herrschaft von coeur über la tète»), che comporta una «esaltazione altruistica (altruistische
Schwärmerei)» (9[178] 1887).

3. Stiamo all’erta!
Nietzsche pone un legame tra positivismo e romanticismo: «quest’ultimo è un contraccolpo del
romanticismo, opera di romantici delusi» (2[131] 1885-86). Il frammento 14[14], che prepara
l’aforisma 108 della Gaia scienza, chiarisce il senso di questo movimento: «Dovunque è
venerazione, ammirazione, gioia, timore, speranza, presentimento, si cela il dio di cui abbiamo detto
che è morto - egli si insinua ovunque per vie traverse e vuole soltanto non essere riconosciuto e
chiamato per nome. In tal caso infatti scompare come l’ombra di Buddha nella caverna - egli
continua a vivere alla condizione nuova e singolare che non si creda più in lui. Certamente, però, è
diventato uno spettro!». Il dominio del cuore («venerazione, ammirazione, gioia, timore, speranza,
presentimento») sulla testa annulla la probità scientifica: un dio che non vuole essere chiamato
per nome «continua a vivere alla condizione nuova e singolare che non si creda più in lui».
Un’ombra, uno spettro che mantiene in vita i valori che il Dio della tradizione garantiva.
Affrontiamo brevemente il testo dell’aforisma 109: Stiamo all’erta!. Qui Nietzsche mette in guardia
dalle ombre di Dio (pregiudizi morali, antropomorfismi e teleologie) che caratterizzano le
cosmologie e le scienze della natura contemporanee e che allontanano dalla probità scientifica
pregiudicando la conoscenza. Si tratta di «redimere la natura dalla mascherata divina». Come scrive
in un appunto per Zarathustra·, «vogliamo prendere da lei ciò di cui abbiamo bisogno per poter
sognare al di là  dell’uomo» (13 [1] estate 1883).
L’espressione ombra di Dio (af. 108) compare al plurale, non può essere riassunta con la parola
«metafisica» (stesura preparatoria dell’aforisma) la pluralità di atteggiamenti che si aprono alle
molteplici nuove religioni senza Dio. Nel quaderno Μ III 1 (in cui Nietzsche espone e discute, per
sé, la teoria dell’eterno ritorno dell’identico) immediatamente dopo il primo abbozzo dedicato al
«nuovo peso» si trova la stesura preparatoria dell’aforisma 109:
Guardatevi dal dire (Hütet euch zu sagen) che il mondo è un essere vivente. In che senso dovrebbe
estendersi! Da dove dovrebbe nutrirsi. Come potrebbe crescere e aumentare!
- Guardatevi dal dire (Hütet euch zu sagen) che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il
vivente è soltanto una varietà di ciò che è morto: e una varietà rara.
-    Guardatevi dal dire che il mondo crei eternamente qualcosa di nuovo.
-    Guardatevi dal dire che esistano leggi nella natura. Non vi sono che necessità: e allora non c'è
nessuno che comanda, nessuno che trasgredisce.
-    Se sapete che non ci sono scopi, sapete anche che non esiste il caso: perché soltanto accanto ad
un mondo di scopi la parola caso ha ancora un senso.
-    Guardatevi dal dire che esistano sostanze che durano in eterno, anche se molto piccole: l’atomo
è un errore quanto il dio degli Eleati (KSA 14, p. 253).
Parlo come uno che ha avuto una rivelazione? Allora disprezzatemi e non datemi ascolto. - Siete
ancora fatti in modo da aver bisogno di dèi? La vostra ragione non è ancora giunta a provare
ripugnanza per un nutrimento così cattivo e a buon prezzo? (11 [142] 1881).
Paolo D’Iorio, nel suo lavoro di tesi (un po’ di anni fa) diventata poi un’ottima monografia18,
analizzava, sulla scorta documentale dei volumi della biblioteca di Nietzsche e delle glosse, i precisi
riferimenti, i termini della discussione con le varie ipotesi cosmologiche contemporanee. In
particolare gli avvertimenti sono rivolti alla cosmologia di Otto Caspari (Zusammenhang
der  Dinge, 1881) che concepiva l’universo come un grande organismo vivente ed attribuiva alle
monadi viventi della concezione organicistica la capacità di una continua creazione di nuove forme.
Nietzsche ha presente e discute, oltre che Caspari, il processo del mondo di Hartmann e Dühring (di
cui riecheggia l’espressione: «Guardiamoci (hüten wir uns) da tali superficiali sconsideratezze») e il
meccanicismo di Thomson quali espressioni delle ombre, residui del vecchio Dio, nelle concezioni
della natura. Ma molteplici altre sono le ombre di Dio che caratterizzano la modernità, che tengono
ad oscurare l’orizzonte umano.

4. Le molte ombre di Dio


Nel discorso di Zarathustra Vom höheren Menschen la morte di Dio significa la potenziale
liberazione e riscatto dell’uomo superiore nella direzione del superuomo. «Questo Dio è morto!
Uomini superiori questo Dio era il vostro più grande pericolo. Da quando egli giace nella tomba,
voi siete veramente risorti!» (ZA IV, Dell’uomo superiore 2).
L’annuncio dell'“uomo folle” (FW 125) irrompe drammaticamente per svelare la genesi del
disordine, del caos. Vi era un alto e un basso, un centro ed una periferia, un sole, un orizzonte
determinato, una gerarchia ed un senso dati: tutto ciò non è più. L’avvenimento ha come sfondo la
vicissitudine cosmica: comporta l’oscuramento, lo sciogliersi della Terra dal vincolo di gravità, il
suo raffreddarsi progressivo «via da tutti i soli». La conseguenza è il senso di una fine assoluta:
l’allusione va alle teorie cosmologiche che ponevano la morte termica dell’universo come
necessaria, per progressiva degradazione dell’energia. Nietzsche vede e combatte in queste teorie il
residuo di Dio (nella teleologia negativa e nella postulazione di un inizio assoluto19) come esigenza
della debolezza.
La morte di Dio e l’uomo superiore sono tra loro strettamente legati (come l’eterno ritorno e il
superuomo): l’uomo superiore - la sua sofferenza, il suo infrangersi, il suo spezzarsi - è un aspetto
della grande crisi che ha la sua origine nella morte di Dio e che trova varie risposte. L’uomo
superiore non è la risposta adeguata: solo la sofferenza, il disagio, il «grande disprezzo», la non
rassegnazione che accompagnano la sua vita, significano già una resistenza se non un
contromovimento verso l’autoaffermazione dell’epoca nella direzione dell’“ultimo uomo”.
La morte di Dio è «il più grande avvenimento», caratterizza
un “punto intermedio” estremamente pericoloso «in cui si può giungere fino all'“ultimo uomo”».
Anche gli uomini del mercato, che aspirano all'“ultimo uomo” accontentandosi dell’Eden borghese,
che irridono all’annuncio dell’uomo folle, sono responsabili della morte di Dio: «L'abbiamo ucciso
- voi ed io!  Siamo noi tutti i suoi assassini!» - grida loro l’uomo folle. «Dio è morto: ma ancora gli
uomini non si accorgono affatto di vivere esclusivamente di valori ereditati» (35[74] 1885), per loro
è quindi possibile la salda rassicurazione nelle piccole virtù dei piccoli egoismi che rafforzano il
processo di Verkleinerung. Di fronte a ciò l’uomo superiore non si rassegna, dispera,
esprime sofferenza e disagio: «in verità, io vi amo, uomini superiori, perché oggi non sapete vivere!
Così, infatti, voi, vivete - nel modo migliore!» (ZA IV, Dell’uomo superiore 3).
Nel primo aforisma del libro quinto della Gaia scienza, Nietzsche ritorna - dopo lo Zarathustra e
dopo aver effettuata la diagnosi del nichilismo e della décadence - sulla morte di Dio, il «più grande
avvenimento recente» che «comincia a gettare le sue prime ombre sull’Europa». Per gli «ultimi
uomini» tale avvenimento è lontano da una benché minima possibilità di comprensione, di esso a
loro non è neppure arrivata notizia: continuano a vivere come se nulla fosse accaduto. Per quei
pochi invece «la cui diffidenza negli occhi è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare
che un qualche sole sia tramontato». E' la sensibilità dell’uomo superiore che ricava dalla sepoltura
della fede il senso del crollo, dell’inarrestabile oscuramento, della perdita irrimediabile: «una lunga,
copiosa serie di demolizioni, distruzioni, tramonti, capovolgimenti ci sta ora dinanzi», l’ombra
precede la notte. Ma accanto all’atteggiamento di chi (l’ultimo uomo di Zarathustra) sta al di qua
dell’avvenimento e di chi (l’uomo superiore) avverte drammaticamente nell’avvenimento solo caos,
sconvolgimento e approssimarsi della fine definitiva, vi è l’atteggiamento dello «spirito libero» per
il quale le ombre non sono quelle del crepuscolo che precede la notte ma quelle che si aprono al
giorno, alla luce: «ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora... finalmente
l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno» (FW 343). Si tratta di
sperimentare con pericolo nuove forme di vita, lontani dalla falsa sicurezza metafisica dell’«eroe»
di Carlyle che cammina con Dio ed esprime la divinità del mondo, l’eroe che viveva all’ombra
protettrice del Dio - bontà e ordine progressivo del mondo. «Ci siamo fatti insensibili, raggelati e
induriti nel sapere che nel mondo le cose non vanno in modo divino, anzi neppure razionale, pietoso
o giusto secondo l’umana misura: lo sappiamo, il mondo in cui viviamo è sdivinizzato, immorale,
“inumano” - troppo a lungo ce lo siamo spiegato in maniera falsa e menzognera, ma secondo i
desideri e i voleri della nostra venerazione, vale a dire secondo un bisogno. [...] Ci guardiamo bene
dal dire che esso ha minor valore: la pretesa dell’uomo di scoprire valori che dovrebbero sovrastare
il valore del mondo reale è qualcosa che oggi ci fa ridere - da ciò appunto siamo tornati indietro,
come da un aberrante traviamento della vanità e irragionevolezza umana, che a lungo non è stato
riconosciuto come tale» - scrive Nietzsche nel 1887, dopo aver attraversato i sentieri deserti del
nichilismo (FW 346).
Gli uomini superiori sono i «decadenti» nelle loro varie situazioni, gli estremi prodotti di un’epoca
di transizione, ancora incapaci di signoreggiare e ordinare i molti istinti - tra loro in contraddizione -
di cui sono costituiti come figli della modernità. Nietzsche analizza e combatte le multiformi
espressioni di una décadence storicamente definita (esotismo, cosmopolitismo, culto del primitivo e
dell’innocente, religione della sofferenza, tolstoismo, wagnerismo come oppiaceo, buddismo etc.)
che ha in sé comunque disagio e rifiuto nei confronti dell’uomo “medio” e del suo progressivo
“rimpicciolimento”. Molte maschere della decadenza si trovano rappresentate nelle “figure”
simboliche e allegoriche dell'uomo superiore nella IV parte dello Zarathustra. Gli uomini superiori
ancora condizionati dai vecchi valori non sanno rinunciare a nuove religioni senza Dio. La «festa
dell’asino» comporta inizialmente la regressione: gli «uomini superiori» divengono «fanciullini» e
«devoti» di fronte ad un dio che ha riacquistato la sua materialità (contro la spiritualità del Dio
ormai ombra e fantasma) solo nella veste dell’asino («meglio adorare Iddio in questa che in nessuna
forma!» afferma l'ultimo papa). Ma la devozione, per il ridicolo del suo oggetto, si trasforma
immediatamente in gioco, in festa, in riso giullaresco capace di avviare gli «uomini superiori» verso
la guarigione.
Paul Bourget, che introduce Nietzsche alle varie espressioni della décadence e del nichilismo, vede
l’epoca, priva di un «credo generale», come caratterizzata dalla morte degli dèi, di tutti gli dèi che
cercano di sopravvivere nella loro realtà di eterne idee oggetto della verità dell’arte. Da Leconte de
Lisle Bourget riprende più volte, con ambigua vicinanza alla sensibilità decadente, il tema della
religione dell’arte che sostituisce i valori estinti: «En ce siede où les Dieux sont tout éteints,
j’estime/que l’artiste est un prétre, et doit, pour rester tel, /dévouer tout son coeur à l’Art, seul
Dieu réel...»20. Wagner (il vecchio mago incantatore della IV parte dello Zarathustra) si propone
come “ventriloquo di Dio” ed affida alla musica ed al sacro dramma musicale la rigenerazione
sociale. La musica wagneriana - scrive Nietzsche - «riconduce, anzi seduce a tornare a tutto
quanto fu una volta creduto! [...]. La nostra coscienza intellettuale non ha bisogno di vergognarsi, -
perché ne resta fuori, - quando un qualche antico istinto beve, con labbra tremanti, da
calici proibiti» (14[2] 1888).
La filosofia di Renan appare il tentativo più conseguente di salvare il sentimento e i valori della
religione tradizionale dopo la morte del Dio della tradizione: liberare la religione dagli aspetti
dogmatici, significa la possibilità di vivere ancora a lungo dell’ombra di Dio inverandone i valori.
«Ad un primo sguardo, l’umanità dei nostri giorni sembra costretta in una posizione senza uscita.
Le vecchie credenze per mezzo delle quali si aiutava l’uomo a praticare la virtù sono compromesse
e non
sono state sostituite, Per noi altri, spiriti colti, gli equivalenti di queste credenze che l’idealismo ci
fornisce sono più che sufficienti, perché agiamo sotto il dominio di vecchie consuetudini; siamo
come quegli animali a cui i fisiologi levano il cervello e che nondimeno continuano certe funzioni
vitali per effetto dell’abitudine. Ma questi movimenti istintivi si indeboliranno con il tempo. Fare il
bene perché Dio, se esiste, sia contento di noi, ad alcuni sembrerà una formula alquanto vuota. Noi
viviamo nell’ombra di un’ombra. Di cosa si vivrà dopo di noi?... Una sola cosa è sicura, che
l’umanità escogiterà tutto ciò che è necessario in fatto di illusioni, per riuscire a compiere i suoi
doveri e a realizzare il suo destino. Finora in questo non ha mai fallito, e non fallirà in avvenire»21.
Più volte Renan ripeterà l’espressione, «noi viviamo nell’ombra di un’ombra»22: è l’estremo
tentativo di affidare alla forza delle illusioni che permangono dopo la morte di Dio, la spinta per
proseguire il cammino. «Le sage est celui qui voit à la fois que tout est image, préjugé, symbole, et
que l’image, le préjugé, le symbole, sont nécéssaires, utiles et vrais»23.
L’epiteto di «nichilista» accompagna Renan fin dall’uscita della scandalosa Vita di Gesù. Il critico
cattolico bretone Ernest Hello (1828-1885), si impegnò in una critica radicale del conterraneo
Renan in cui affermava che per caratterizzarne «la dottrina a cui nessuna parola conosciuta si
addice, perché tutte le parole tendono ad esprimere l’essere che questa dottrina tende a negare, si
deve creare una parola tanto spaventosa quanto la cosa stessa, una parola che non dica niente, una
parola che significhi il niente: questa parola sarebbe nichilismo. Dio e la società
soppressi, il bene e il male confusi, il vero e il falso che non sono che il bene e il male nel loro
principio, sono naturalmente confusi. Se il vero e il falso sono identici, o solo indifferenti all’uomo,
cosa diviene la scienza che solo esiste alla condizione di distinguere l’imo dall’altro, e di preferire
l’imo a l’altro?»24. L’ateismo di Renan («apologia del niente delicata e piena di sottili sfumature»)
appare subdolo in quanto vuol mantenere la religione: «Si può dire: io sono ateo; Dio non esiste. Si
può dire come Renan: io credo in Dio, l’adoro; ma egli non esiste». Anche la sua «gaieté» - afferma
Lemaìtre in un saggio conosciuto da Nietzsche - è espressione di malcelato nichilismo: «Non vi è
sfumatura che tenga. Dubitare e in tal modo scherzare, è semplicemente negare; e questo
nichilismo, per quanto elegante sia, non potrebbe essere che un abisso di nera malinconia e
disperazione. [...] Niente, niente, non vi è niente al di fuori dei fenomeni»25.
Renan affida al sentimento religioso anche l’estrema e paziente resistenza contro il crescente
dominio egoistico dell’«Eden borghese». Ma anche Renan, in un saggio in cui critica il pessimismo
di Amiel, con acutezza vede la parabola in corso verso nuove consolazioni religiose e, nel caso di
Amiel, verso «una religione triste, più simile al buddismo che al cristianesimo»: «al culmine del
nichilismo si fa il voltafaccia». «Questa ricostruzione del cristianesimo sulla base del pessimismo
è uno dei sintomi più sconvolgenti del nostro tempo. È così difficile privarsi dell’appoggio di un
culto stabilito, che dopo aver distrutto le chiese di granito, si costruiscono chiese con i calcinacci»
(«Journal des Débats», 30 settembre 1884).

5. L’univers se ripète...
L’uomo superiore è detto anche: «l’ultimo residuo di Dio tra gli uomini, cioè gli uomini del grande
anelito, della grande nau-
sea, del grande disgusto» (der letzte Rest Gottes unter Menschen, das ist: alle die Menschen der
grossen Sehnsucht, des grossen Ekels, des grossen Überdrusses) (Za IV, Il saluto). In un certo senso
gli «uomini superiori» potrebbero esser definiti «ombre di Dio» se considerati rispetto al presente o
al passato oppure «ombre del superuomo (Schatten des Übermenschen)» se considerati rispetto al
futuro, alla possibile loro guarigione.
Mentre il superuomo si pone al di là dell’attività «generica», l’uomo superiore è tale ancora in
relazione al metro sociale di giudizio: riflette drammaticamente la crisi dei valori di un
certo periodo storico, incapace di creare un’alternativa. L’uomo superiore è condizionato fino in
fondo dai vecchi valori (anche nell’estremo rifiuto o nel tentativo di capovolgimento) e soffre
quindi per la loro crisi: in questo è un decadente. Il disgusto davanti a se stesso e agli altri è il tratto
distintivo dell’uomo superiore, della sua nobiltà: per lui si tratta di superare decisamente se stesso e
le proprie contraddizioni o di far naufragio. In più punti si legge come il compito di Zarathustra stia
proprio nell’educare queste «nature superiori colte da ogni specie di folle degenerazione», e nel dar
loro uno scopo (27[23] estate-autunno 1884). Ma qui vorrei solo ricordare la presenza del tema del
«grande disgusto», del «grande disprezzo» che non deve confondersi con «l’odio di sé», espressione
di ascetica inimicizia verso la vita. Nell’«odio di sé» come nell’«amore di sé» si esprime l’angustia
della prospettiva che misura tutto su se stesso: «amore di sé è un’espressione sbagliata, troppo
ristretta; l’odio di sé e tutti gli affetti agiscono di continuo con la stessa ristrettezza; come se noi
fossimo al centro di tutto» (11 [10] 1881), sono espressioni di un fantasmatico ego - debole e
piccolo - plasmato dal milieu. Di contro - con il salire all’orizzonte del pensiero dell’eterno ritorno -
si tratta di imparare a «SENTIRE IN MODO COSMICO» - «AL DI LÀ di “me” e di “te”!» (11[7] primavera-
autunno 1881).
«Nella storia dell’umanità gli eventi sono i grandi disprezzi: in quanto sorgente del grande desiderio
del superuomo. Non fatevi ingannare - una volta si desiderava l’aldilà, oppure il nulla, oppure
l’unione con Dio!? Tutte queste parole di vario colo-
re servivano semplicemente ad esprimere che l’uomo era stufo di se stesso - non delle sue
sofferenze, bensì del proprio modo abituale di sentire» (5[1] 270, 1882-1883).
L’educazione degli uomini superiori culmina nel loro confronto con il «pensiero più grave», la
dottrina dell’eterno ritorno. La capacità di assimilare tale pensiero senza andare in rovina comporta
la profonda e radicale trasformazione nella direzione del «superuomo».
L’«ombra di Dio» permane e costituisce il pericolo maggiore e più insidioso per l’uomo superiore:
nuove religioni senza Dio (religione della scienza, dell’arte, del progresso, dell’Umanità, «de la
souffrance humaine» etc.) sostituiscono le vecchie religioni dogmatiche mantenendo la centralità
dei valori dati. La prospettiva del superuomo in Nietzsche, come possibilità agli estremi del
nichilismo, passa attraverso l’affermazione del Chaos sive natura confermato dall’ipotesi
dell’eterno ritorno: un divenire innocente nel suo radicale immanentismo distrugge ogni
residua «ombra di Dio» e valorizza ogni attimo dell’esistenza. La nuova innocenza, legata all’eterno
ritorno, deve vincere anche l’ombra di Dio. Per Nietzsche «la disgregazione, dunque l’incertezza,
è propria di quest’epoca: niente è su di una base solida e su di una risoluta fede in se stessi; si vive
per il domani, perché il dopodomani è incerto. Tutto è liscio e pericoloso sul nostro cammino,
e intanto il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato così sottile: noi tutti sentiamo il caldo,
sinistro respiro del vento australe -dove noi ancora camminiamo ben presto non potrà più
camminare alcuno» (25[9] primavera 1884).
Si tratta di vincere il «terribile sentimento del deserto» che ci afferra davanti agli orizzonti liberi,
alla «prospettiva in tutte le direzioni» che si apre con la fine delle vie prefissate e autoritarie della
tradizione; la prova di forza sta nel confrontarsi affermativamente con il nichilismo che discende
dalla teoria dell’etemo ritorno. E questo possono farlo gli uomini più forti, ovvero i più «moderati»,
capaci di superare in sé l'horror vacui senza ricorrere al mito e alla metafisica, coloro che hanno
saputo attraversare il deserto, «che sanno pensare, riguardo all’uomo,
con una notevole riduzione del suo valore, senza diventare perciò piccoli e deboli», scrive Nietzsche
alla fine del testo sul nichilismo, scritto nella solitudine di Lenzer Heide, chiudendolo con la
domanda che lo assillerà per il resto del suo percorso filosofico: «Come penserebbe un tale uomo
all’eterno ritorno?» (5 [71] 16, estate 1886-autunno 1887).
E certamente la teoria cosmologica dell’eterno ritorno da Nietzsche concepita come ipotesi
scientifica estrema, sperimentale, capace di liberare gli orizzonti dalle ombre di Dio, si incontra con
altre teorie cosmologiche dell’eterno ritorno capaci di mantenere in sé l’ombra di Dio. Nell’ultimo
periodo del suo percorso Nietzsche si confronta con un testo significativo di Guyau, L'irréligion de
l'avenir (1887), in cui il filosofo-sociologo francese intende opporsi alle molte “religioni
dell’avvenire” “vecchie e nuove fedi” che pullulavano in quegli anni. Se per alcuni aspetti «la
metafisica e la morale sono una religione, o almeno il limite a cui tende ogni religione che sta per
sparire (en  vote d'“évanouissement")»26, Guyau intende combattere nelle molte religioni
dell’avvenire il compromesso ipocrita con le religioni positive fino alla proposizione di culti e
cerimoniali quali il culto feticistico dell’Umanità, il Catechismo positivistico alla Comte («altra
cosa è l’amore dell’umanità, altra cosa l’idolatria dell’uomo, la “sociolatria”»). L’attenta lettura di
Nietzsche del grosso volume di Guyau è testimoniata dai molti segni di lettura e dalle numerose
glosse a margine nella copia della sua biblioteca. Molte delle argomentazioni e riflessioni presenti
negli appunti postumi sembrano essere una risposta alle argomentazioni del filosofo francese di cui
Nietzsche aveva già letto l'Esquisse d’une morale sans Obligation ni sanction (Alcan, Paris 1885).
Il nome di Guyau compare nei testi di Nietzsche solo quattro volte: in lui il filosofo tedesco legge
comunque la piena conferma della direzione che caratterizza il positivismo, in particolare quello
rappresentato dalla race moutonnière dei sociologi francesi. Nel “Freidenker” Guyau, avvicinato a
Mill e a
Comte oltre che a Fouillée, le tematiche da Nietzsche affrontate trovano una risoluzione nella
direzione opposta. La fine delle religioni positive porterà - per Guyau - a più libere speculazioni
metafisiche e cosmologiche già irrigidite in “formule pretese immutabili”: «il dogma si sarà estinto,
ma il meglio della vita religiosa si sarà propagato, sarà aumentato in intensità ed estensione».
«L’uomo dell’evoluzione è veramente l’Uomo-Dio del cristianesimo [...]». La religione si
trasformerà «in quello che vi è di più puro al mondo, l’amore dell’ideale», in una «metafìsica di
finalità immanente». «Dio è il termine umano con cui noi designamo quello che rende possibile il
movimento del mondo verso uno stato di pace, di concordia, d’armonia»27. Nietzsche commenta:
«Il progresso come miglioramento tangibile della vita, come trionfo della logica come trionfo
dell’amore  (Guyau)» (10[171] autunno 1887). Anche l’amore di Zarathustra è espansione di vita,
ma non «naturalmente» garantito dalla realtà naturale dell’evoluzione, come in Guyau.
Nietzsche contesta con forza che l’espansione vitale come principio motore dell’evoluzione abbia in
sé il carattere della socialità garantita («il supremo ideale dell’umanità e anche della natura, consiste
nello stabilire rapporti sociali sempre più stretti tra gli esseri»28) e, a lato delle affermazioni
entusiaste di Guyau, si trovano frequenti annotazioni: «Esel, Eselei», punti esclamativi e commenti
critici (purtroppo rovinati dal rilegatore che li ha tagliati). L’impostazione di Guyau, legando
morale e arte («la delicatesse morale et la delicatesse esthétique»), arriva a negare la possibilità di
sani giudizi estetici a Baudelaire e a Byron, provocando la reazione di Nietzsche che sommerge
la pagina di Esel! e scrive, in fondo alla pagina, significativamente, Manfred, Borgia, Cellini29.
Guyau valorizza invece Wagner e la musica in quanto “arte più religiosa”, la più capace di generare
«des émotions commmunes et simpathiques d’un genre
élévé». «Wagner n’avait pas absolument tort d’y voir la religion de l’avenir ou tout au moins le
culte de l’avenir»30.
Sarebbe interessante soffermarsi su quest’esempio significativo di extratesto capace di render conto
di molti riferimenti presenti negli scritti e nel Nachlaß di Nietzsche, che ci introduce nella
discussione del tempo sulla fine delle religioni positive e sul ruolo e le pretese del positivismo
evoluzionistico nell’orientare l’organizzazione sociale. Qui ci interessa vedere come la morale e i
valori che guidano e limitano la libertà della ricerca dell’irreligion de l’avenir, incontrino e facciano
propria una versione cosmologica dell’eterno ritorno che permette ancora la realizzazione
dell’amore sociale. Già nel quaderno Μ III 1 si trovano appunti che mettono in guardia nei
confronti di versioni dell’eterno ritorno che conservino ombre di Dio: «Guardiamoci dall’attribuire
a questo corso circolare una qualsiasi aspirazione o uno scopo [...]. Guardiamoci dal pensare come
divenuta la legge di questo circolo»; «Guardiamoci dall’insegnare una simile teoria come
un’improvvisata religione! Essa deve infiltrarsi lentamente, intere generazioni debbono lavorare a
essa e divenire fertili per essa - affinché diventi un grande albero che proietti la sua ombra su tutta
l’umanità avvenire» (11 [157], [158] 1881); «La misura della forza del cosmo è determinata, non è
“infinita”: guardiamoci da questi eccessi del concetto!», (11 [202] 1881); «Guardiamoci dal credere
che il cosmo abbia una tendenza a raggiungere certe forme» (11 [205] 1881).
Nello stesso anno 1881, nei Vers d’un philosophe, Guyau prende le mosse dai risultati dell’analisi
spettrale e dalla cosmogonia di Laplace per approdare a una cosmologia molto simile a quella di
Auguste Blanqui (L’éternité par les astres, 1872)
Partout à nos regards la nature est la mème:
L’infini ne contient pour nous rien de nouveau. [...]
Qu’y découvririons-nous? L’univers se répète...
Qu’il est pauvre et stèrile en son immensité!31.
L’infinità dell’universo, del tempo e dello spazio, il numero finito degli elementi rivelati dall’analisi
spettrale, porta necessariamente alla ripetizione :
Depuis l’éternité, quel but peux-tu poursuivre?
S’il est un but, comment ne pas l’avoir atteint?

[...]
L’étemité n’a dono abouti qu’à ce monde!

[...]
Ce qui passe revient, et ce qui revient passe:
C’est un cercle sans fin ...
(L’analyse spectrale)32
Guyau trae da questa ipotesi scientifica un’immagine disperante e nichilistica. Ma la stessa versione
infinitistica dell’eterno ritorno, permette invece - nella Irréligion - di lasciare spazio alla speranza.
Guyau si richiama alla teoria di Blanqui (mai esplicitamente citato) dei mondi infiniti sosia nel
tempo e nello spazio, che autorizzano a sperare nella possibilità di realizzazioni superiori abortite in
questo mondo33. Guyau cerca di salvare il progresso nella direzione della socialità e dell’espansione
vitale: «Non è probabile che noi siamo l'ultimo scalino della vita, del pensiero, dell’amore»: «La
grande risorsa della natura è il numero di cui le combinazioni possibili sono esse stesse
innumerevoli e costituiscono la meccanica eterna. I casi della meccani-
ca e della selezione, che hanno già prodotto tante meraviglie, possono produrre esseri ancora
superiori». Nietzsche pone a lato di questo estremo tentativo di salvare l’ombra di Dio, un deciso
“no” nella pagina del libro. Per lui una potenza infinita, capace di evitare la ripetizione e il ritorno,
non potrebbe che essere chiamata Dio.
Contro il panteismo pessimista alla Hartmann, Guyau conclude: «Sarebbe forse meno difficile il
creare dell’annientare, il fare Dio dell’ucciderlo»34.
1 Cft. C.F. Koeppen, Die Religion des Buddhas, Schneider, Berlin 1857, Bd. I, pp. 523-524. Il
volume ebbe un’ampia recensione di H. Taine, probabilmente conosciuta da Nietzsche, in cui non vi
è riferimento all’ombra di Buddha (H. Taine, Le Bouddhisme, in Nouveaux Essais de critique et
d’histoire, Hachette, Paris 1866, pp. 317-383). Cfr. anche E. Renan, Le Bouddhisme, in Nouvelles
Etudes d’histoire religieuse, Paris 1884, pp. 115-117. Entrambi fanno riferimento a Histoire de la
vie de Hiouen-Thsang et de ses voyages dans l'Inde : depuis lan 629 jusqu’en 645, par Hoeili et
Yen-thsong; ediz. a cura di Stanislas Julien, Impr. imperiale, Paris 1853, p. 81: «Après avoir pénétré
dans le
caverne où vécut le grand initiateur, animé d’une foi profonde, Hiouen-Thsang s’accusa de ses
péchés avec un cceur plein de sincérité; il récita dévotement ses prières en se prosternant après
chaque strophe. Lorsqu’il eut ainsi fait cent salutations, il vit paraìtre une lueur sur le mur orientai.
Pénétré de joie et de douleur, il recommença ses salutations, et de nouveau il vit une lumière de la
largeur d’un bassin qui brilla et s’évanouit comme un éclair. Alors, dans un transport de joie et
d’amour, il jura de ne pas quitter cet endroit avant d’avoir vu l’ombre auguste de Bouddha. Il
continua ses hommages, et, après deux cents salutations, soudain toute la grotte fut inondée de
lumière et le Bouddha apparut, d’une blancheur éclatante, se dessinant majestueusement sur le
mur. Un éclat éblouissant édairait les contours de sa face divine. Hiouen-Thsang
contempla longtemps, ravi en extase, l’objet sublime et incomparable de son admiration. Il
se prosterna avec respect, célébra les Iouanges du Bouddha, et répandit des fleurs et des parfums,
après quoi la lumière céleste s’éteignit. Le brahmane qui l'avait accompagné fut aussi ravi
qu’émerveillé de ce miracle. “Maitre, lui dit-il, sans la sincérité de votre foi et l’énergie de vos
voeux, vous n’auriez pu voir un tei prodige”».
2 Cfr. Vs. N V 7, 16: «Kurz, hütet euch vor dem Schatten Gottes. - Man nennt ihn auch
Metaphysik», Kommentar, KSA 14, p. 253; FW, Note, Opere V, II, p. 640.
3   Ph. Mainländer, Die Philosophie der Erlösung, Berlin 18792, p. 108. Su questo cfr. G.
Campioni, Der französische Nietzsche, de Gruyter, Berlin-New York 2009, p. 250 e sgg.
4   Heinrich Heine’s Sämmtliche Werke, Hoffmann und Campe, Hamburg 1867, voi. XII, p. 73 sg.
Cfr. GT 11, e ST 1; 5[116]; 7[8],7[15] 1870-71.
5    H. Heine, Die Stadt Lucca, in Heinrich Heine’s Sämmtliche Werke, cit., voi. II, p. 74.
6   Cfr. H. Heine, Deutschland, ein Wintermärchen, Kap. I: «Ein neues Lied, ein besseres Lied,/ O
Freunde, will ich euch dichten!/ Wir wollen hier auf Erden schon/ Das Himmelreich errichten» e F.
Nietzsche, ZA IV, La festa dell’asino 2; cfr. anche FP 32[11] 1884-1885.
7    Questo è espresso con particolare forza drammatica anche in Per la storia della religione e
della filosofia in Germania. L’azione di Kant nei confronti del Dio tradizionale è analoga, per
efficacia, a quella della rivoluzione francese: «il vecchio Geova in persona si prepara a morire». Lo
sguardo storico lo segue fin dall’infanzia nelle sue metamorfosi: in Egitto «cresciuto fra divini
vitelli, coccodrilli, sacre cipolle, ibis e gatti», divenuto in Palestina presso un popolino di pastori,
«un piccolo Dio-re» che abitava in un proprio tempio, fino a che, adulto, emigrato a Roma
«rinunciò ad ogni pregiudizio nazionale e proclamò la celeste uguaglianza di tutti i popoli». Questo
evento decisivo comporta l’inizio di una irreversibile decadenza: «l’abbiamo visto spiritualizzarsi
ulteriormente, piagnucolare teneramente, divenire un padre affettuoso, un universale filantropo, un
benefattore del mondo - tutto questo non gli servì a nulla. Udite il suono della campanella?
Inginocchiatevi... portano i sacramenti a un dio morente» (H. Heine, Zur Geschichte der Religion
und Philosophie in Deutschland in Heinrich Heine’s Sämmtliche Werke, cit., voi. V, pp. 177-178,
trad it. La Germania, cit., pp. 263-264).
8    NA 57 [48] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868, Opere, I, II, pp. 215-216,
9 NA 58[17] Herbst 1867 bis Frühjahr 1868; Opere, I, II, p. 245.
10 Per la diffusione del tema si veda ad es. la poesia di Friedrich Rückert, Fürst und Volk: « Kutheir
Ben Murra hat berichtet;/ So sprach Muhammed: wer da herrscht und richtet, /Ein Fürst des Volks,
ein Hirt der Herde,/ Ist Schatten Gottes auf der Erde,/ Der Schutz und Schirm Verfolgten beut,/
Ermüdeten die Kraft erneut/ Und Segen und Erquickung streut» (Friedrich Rückert's gesammelte
poetische Werke in zwölf Bänden, J.D. Sauerländer, Frankfurt a.M. 1868, Bd. 6, p. 72).
11    Dante Alighieri, De Monarchia, in Prose, Pubblicato da L. Ciardetti, 1841, p. 537. Cfr. anche
M. Ficino, De Amore, VI orazione: «Nei corpi ameremo l’ombra di Dio, negli animi la similitudine
di Dio, negli angeli la immagine di Dio».
12   Cfr. R. W. Emerson, Versuche (Essays). Aus dem Englischen von G. Fabricius, C. Meyer,
Hannover 1858 (BN), p. 227: «Wir lernen, daß Gott ist; daß er in mir ist; und daß alle Dinge
Schatten von ihm sind». Si tratta del saggio Kreise su cui Nietzsche, fin dagli anni giovanili, più
volte è ritornato con la lettura.
13    ΝΑ 15117] Aprii 1863 bis September 1863; Opere, I, I, p. 298.
14    L’edizione dei Pensées di J. Joseph curata da P. de Raynal appare nel 1842 (Paris, Gosselin, 2
voli.). La casa editrice Didier (Paris) ripubblica la medesima raccolta dei Pensées di Joubert
condotta da P. de Raynal nel 1861, in 2 volumi. Nella biblioteca di Nietzsche è conservata la sesta
ristampa (1874).
15    A. de Lamartine, OEuvres complètes, voi. II, chez l’auteur, Paris 1860, p. 22.
16   A. de Lamartine, Souvenirs, impressions, pensées et paysages pendant un voyage en Orient,
1832-1833 ou. Notes d’un voyageur, Pagnerre, Hachette, Fume, Paris 1856,
p. 28.
17    Cfr. J. Joubert, Pensées, essais, cit., t. II, p. 72: «On n’ est bon que par la pitié. Il laut donc qu’
il y ait quelque pitié dans tous nos sentiments, même dans notre indignation, dans nos haines pour
les méchants. Mais faut-il qu’ il y en ait aussi dans notre amour pour Dieu ? Oui, de la pitié pour
nous, comme il y en a toujours dans la reconnaissance. Ainsi tous nos sentiments sont empreints de
quelque pitié pour nous ou pour les autres. L’amour que nous portent les anges n’est lui-même qu’
une pitié continuelle, une étemelle compassion. Chacun est compatissant aux maux qu’ il craint. Si
l1’ on n’ y prend garde, on est porté à condamner les malheureux. Il faut encore plus exercer les
hommes à plaindre le malheur qu’ à le souffrir. N’ayez pas l’ esprit plus difficile que le goût, et le
jugement plus sévère que la conscience».
18P. D’Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell’eterno ritorno in Nietzsche,
Pantograf, Genova 1995.
19 Cfr. 26[383] estate-autunno 1884: tra gli «effetti postumi del vecchio dio» Nietzsche pone la
diffusione crescente di cosmologie che postulano un inizio del mondo, che si ribellano all’idea di
una «infinità all’indietro»: «Qui si trovano d’accordo Mainländer, Hartmann, Duhring, ecc.».
20L'art in La vie inquiète (1874-1875), in Oeuvres: Poésies (1872-1876), Lemerre Editeur, Paris
1885, p. 71.
21    E. Renan, Dialogues philosophiques, Calman Levy, Paris 1876, Préface, p. XIX, trad. it., in
Scritti filosofici, cit., p. 93. Ho analizzato il confronto di Nietzsche con Renan in G. Campioni, Der
französische Nietzsche, cit., pp. 65-134.
22    Cfr. anche E. Renan, Discours et Conferences in Oeuvres complètes a cura di H. Psichari, voi.
I, p. 786: “Nous vivons d’une ombre, du parfum d’un vase vide; après nous, on vivrà de l’ombre
d’une ombre”.
25E. Renan, L' avenir religieux des sociétés modernes, in Questions contemporaines, Paris 1868,
pp. 414-415.
24    E. Hello, M. Renan, l’Allemagne et l'athéisme au XlXe siècle, Douniol, Paris 1859, p. 43.
25    J. Lemaltre, Les contemporains, Ie sèrie, Leeone et Oudin, Paris 1886, p. 207 (BN).
26 J.M. Guyau, L’irréligion de l’avenir, Alcan, Paris 1887 (BN), pp. XI-XII.
27    Ivi, pp. 391-92.
28    Ivi, p. 340.
29    Ivi, p. 355.
30    Ivi, ρ. 365.
31    J.M. Guyau, Vers d'un philosophie, Alcan, Paris 1881, pp. 195-196.
32    Ivi, pp. 198-199.

33    Blanqui usa l’infinità del tempo e dello spazio per dare uno scacco estremo al senso di
fallimento. Certo, la notte eterna è popolata dalla «processione funebre» dei pianeti spenti,
«cadaveri siderali»: ma le risorse dell’infinito (affidate ad un’ipotesi strettamente meccanicistica)
permettono la rinascita della vita: mondi sosia, copie, ristampe, varianti innumerevoli che giocano
destini uguali e diversi. «Esiste un’altra Terra dove l’uomo segue la strada disdegnata nell’altra dal
sosia. La sua esistenza si duplica, un globo per ciascuno, poi si biforca una seconda, una terza volta,
migliaia di volte. Egli possiede così dei sosia completi e delle varianti innumerevoli di sosia, che
moltiplicano e rappresentano sempre la sua persona, ma non prendono che dei lembi del suo
destino». Chi ha perduto quaggiù vince e vincerà altrove e in altri tempi. È la legge dell’infinito.
Cfr. A. Blanqui, L'éternité par les astres. Hypothese astronomique, Baillière, Paris 1872, p. 57 e
sgg.
34 J.M. Guyau, L’irréligion de l'avenir, cit., p. 420.
Appendice. Friedrich Nietzsche,
Il rapporto del discorso di Alcibiade con gli altri discorsi del Simposio platonico (1864)*
Voglio porre subito in evidenza come io veda il rapporto che vi è tra i primi cinque discorsi e quello
di Socrate: mi pare completamente errata la tesi che Platone, in quei cinque discorsi, abbia messo
insieme solo opinioni erronee sull’Eros, per opporre loro come l’unica giusta quella di Socrate.
Socrate stesso non nega il suo consenso a questi discorsi, egli ritorna su tutti assegnando alle
singole opinioni il posto loro dovuto. Credo piuttosto che, dal primo discorso fino all’ultimo, abbia
luogo un chiaro sviluppo, in quanto l’opinione che segue accresce ed amplia su un punto essenziale
quella di colui che precede; i singoli oratori vedono il concetto di Eros formarsi davanti a loro con
crescente evidenza, Socrate, in fondo, completa solo con una volta l’edificio da loro gradualmente
eretto, certo non lo abbatte di nuovo. Ciò vale, naturalmente, solo per le opinioni fondamentali di
ciascuno: ciò che gli altri aggiungono come ornamento alle loro esposizioni, viene più volte ricusato
da Socrate come non giustificato.
Il discorso di Fedro delinea solo l’ambito in cui si muove la questione: egli descrive Eros come il
dio più antico e causa dei più grandi beni. Tralascio qui naturalmente il significato dei singoli
discorsi per la caratterizzazione dei personaggi e metto in risalto solo i pensieri fondamentali. -
Pausatila spiega l’Eros della dea celeste come l’amore che ha per fine il perfezionamento attivo o
passivo dell’uomo. Erissimaco estende la consi-
derazione di Eros a tutti gli esseri viventi in natura, mentre entrambi i primi oratori rappresentano
l’amore solo nei suoi effetti sull’uomo. Aristofane afferma che alla base di Eros c’è una necessità
naturale, la legge dell’affinità elettiva. Agatone infine chiama Eros l’amore per il bello, che genera
ogni cosa buona e grande, nella natura, nell’arte, dappertutto. Riassumendo, il concetto di Eros
secondo questi discorsi sarebbe: Eros è l’amore per il bello come legge naturale in vista del
concepimento e procreazione del bene. Non diversa, nella sostanza, suona la definizione di Socrate:
Eros è l’amore volto a procreare nel bello, che egli quindi designa come impulso all’immortalità
insito nella natura spirituale e fisica. Nella scala da lui eretta verso il tipo più elevato di Eros, noto
la particolarità che vi si ritrovano i diversi punti di vista degli oratori. Fedro è di certo, come
al solito, solo l'“ostetrico” dei discorsi seguenti. Ma Pausania, nel cui discorso non si deve mai
tralasciare il suo amore per Agatone, mostra il punto di vista dell’uomo, fintantoché egli ama ancora
un bello, sia questo corporeo o spirituale. Erissimaco è amante di tutto il bello, per come si rivela
nell’intera natura. Aristofane sta già sul gradino superiore dell’amore per l’arte e per la scienza, così
come Agatone che, mi sembra, in quanto poeta tragico ha ricevuto da Platone un posto più alto
rispetto ad Aristofane: un giudizio che noi oggi non condivideremmo più: l’uomo spiritualmente più
grande è di gran lunga Aristofane. Infine, Socrate stesso raggiunge il gradino che Diotima
ha indicato come il più alto, l’amore per il bello originario; noi non dubitiamo che egli lo abbia
raggiunto, ma Socr<ate> stesso non ce lo dice, e non lo può, conformemente al suo carattere. Bene
egli descrive come in passato sia stato irretito nello stesso errore che ora è di Agatone; quella
approfondita concezione egli l’ha acquisita. Ma in che misura essa sia passata nella vita e se, in
genere, possa essere realizzata, deve rimanere incerto per il lettore del dialogo. Alcibiade entra in
scena per rappresentare l’amore per il bello originario nel suo effetto sulla vita pratica dell’uomo; e
precisamente l’effetto di questo amore nell’uomo singolo come in Socrate, e la ripercussione di un
uomo pieno di cotanto amore su un altro, come di Socrate su Alcibiade. Qui sta il punto, perché
Platone abbia scelto proprio Alcibiade per descrivere questo effetto. Fosse entrato in scena, per
celebrare Socrate, uno qualsiasi dei suoi giovani, l’effetto sarebbe stato incomparabilmente più
debole. Alcibiade è, al contrario, un apostata di Socrate, un giovane del tutto estraniato dalla
filosofia. L’influenza di Socrate su un tale uomo, e di certo così geniale, è la più splendida prova
che Platone avrebbe potuto addurre di quella suddetta ripercussione. Inoltre Alcibiade non sa nulla
dei discorsi precedenti: tra la sorpresa degli ascoltatori, egli mostra il lato pratico dell’uomo
consacrato al bello originario, mentre Socrate ne mostrava il lato teoret<ico>. Platone lo rappresenta
ebbro, per lasciarlo maggiormente libero di esprimersi su cose che dovrebbero essere evitate in un
dialogo più serio e misurato; ma la loro menzione era necessaria, tanto più che si trattava di fatti
storici. H contrasto fra il discorso di Socrate e quello di Alcibiade è da rilevare come il contrasto
fra due nature: l’uno e l’altro esprimono i loro più profondi sentimenti, l’uno per bocca della
profetessa ispirata dal dio, l’altro nell’ispirazione del vino, i loro più profondi ma
certamente analoghi sentimenti per il bello originario, l’uno riconoscendolo nell’idea, l’altro nel
rinvio alla realtà: Socrate è l’amante del bello originario, ma anche Alcibiade è amante del bello
originario. Tuttavia, quale diversità delle nature: tanto moralmente sublime è l’uno, quanto
moralmente corrotto l’altro, tanto bello nel corpo l’uno, quanto brutto l’altro, tanto sobrio e padrone
di sé l’uno quanto ebbro e senza controllo l’altro.
È chiaro che questi punti di vista si riferiscono al contempo alla filosofìa come alla costruzione
estetica del dialogo. E' da notare che, con la comparsa di Alcibiade, si verifica un improvviso
mutamento di tono; è un ricorso artistico tra i più audaci il fatto che nell’attimo in cui il discorso di
Socrate ha condotto gli ascoltatori, per così dire, nel mare aperto del bello, faccia irruzione la
schiera degli ubriachi e degli esaltati, e tuttavia l’effetto del discorso di Socrate non venga
vanificato, ma potenziato. Il discorso di Alcibiade è opera di Eros, così come il discorso di
Socrate. Ma il discorso di Alcibiade agisce attraverso dati di fatto, quello di Socrate attraverso idee;
e i dati di fatto agiscono con più forza e più efficacia delle idee enunciate. I discorsi di Socrate e di
Alcibiade si muovono in modo simile a quelli di Agatone e Aristofane, di Erissimaco e Pausania,
solo, in una sfera superiore. Socrate, Agatone, Erissimaco sono i pensatori più grandi, Alcibiade,
Aristofane e Pausania agiscono attraverso fatti e miti: quanto a Pausania si deve infatti notare che
egli ha sempre presente il proprio amore per Agatone. I tre pensatori innalzano l’Eros nell’ambito
più vasto delle arti e delle scienze di loro pertinenza, Erissimaco tratta l’Eros come medico,
Agatone come poeta, Socrate come filosofo.
Attraverso l’opposizione di Socrate e Alcibiade viene finalmente alla luce quella doppia natura
demonica di Eros stesso, in mezzo tra il divino e l’umano, lo spirito e i sensi; come, d’altra parte,
attraverso la comparsa di Alcibiade, il Dialogo stesso riceve quella coloritura meravigliosa,
quell’oscillare tra opposte tonalità di colore che si può seguire fin nelle singole parti e che si
riverbera sullo stesso linguaggio. E in modo proprio uguale, ricorda qui la mirabile fusione del
discorso filosofico con il piacere del vino.
La comparsa di Alcibiade appare il punto di svolta dell’azione drammatica come pure dello
sviluppo filosofico in direzione della realtà; e, se mi si consente di azzardare un paragone, Platone
ha connesso tutte le parti del Dialogo in questo punto nodale, non diversamente da come Zeus
raccolse e strinse, con il cordone ombelicale, le diverse parti e pelli degli uomini in un unico nodo.
* KGWI, III, pp. 384-388, traduzione di Maria Cristina Fornari.
Indice
Introduzione
«L’opposto di una natura eroica». Per una lettura antimitica di Nietzsche
Avvertenza
Agonismo “inattuale” e critica della “morale eroica”
1.    Le ‘inquiete’ e ‘mutevoli’ inclinazioni del giovane Nietzsche
2.    Titanismo e crepuscolo degli dèi
3.    La filologia e la ‘seconda natura’
4.    L’illusione vitale in Nietzsche e Renan.
L’eroismo della razza celtica
5.    Una ‘consolazione metafisica’ per l’eroe che muore
6.    Veracità eroica e inattualità: la lezione di Schopenhauer
7.    «Siegfried, il filosofo in divenire»
8.    Gli eroi figli della grande città
9.    Altri eroi ‘modernissimi’: i casi di Hugo, Michelet, Baudelaire, Gobineau nella critica di
Nietzsche
10. Il superamento dell’eroismo nell’ultimo Nietzsche
Socrate monstrum: eroismo e decadenza
1.    Cercare tesori e trovare lombrichi
2.    Socrate: caricatura e semiotica
3.    “Der freieste Mensch”: Democrito contra Socrate
4.    Monstrum in fronte, monstrum in animo
5.    Socrate anomalo: il filosofo che non scrive
6.    Euripides ein Sokratistès
7.    Socrate e l’istinto
8.    Socrate spirito libero
9.    Socrate: eroismo e decadenza
Le ombre di Dio
1.    Nuove battaglie
2.    Nous oublions le dieu pour adorer ses traces !
3.    Stiamo all’erta!
4.    Le molte ombre di dio
5.    L'univers se répète...
Appendice
Friedrich Nietzsche, Il rapporto del discorso di Alcibiade con gli altri discorsi del Simposio
platonico (1864)

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