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En: nº 10, junio 2011, Trickster.

Rivista del Master in Studi Interculturali

http://masterintercultura.dissgea.unipd.it/trickster/doku.php?
id=violenza_straniero%3Agonfiantini_mito

Il mito oltre le parole


Negli anni Settanta Furio Jesi ha mostrato la connessione esistente tra
tecnicizzazione del mito e certi codici linguistici "senza parole" ben radicati nella
cultura europea

Giulia Gonfiantini

La tecnicizzazione del mito è ancora una questione attuale. Le sue dinamiche


risultano attive, anche nel nostro paese, ai livelli più disparati; non mancano,
infatti, di emergere a più riprese esempi di rivendicazioni politiche inneggianti a
tradizioni perdute ed a simbologie di propaganda. L’uso e l’abuso di rituali riferiti ad
una supposta cultura originaria, simbologie artificiali ed appelli ad una falsa identità
popolare sono, vista la loro insistenza, stati più volte oggetto di studi autorevoli. Il
presente contributo si propone di sottolineare l'importanza della riflessione avviata
da Furio Jesi nel tentativo di interpretare i meccanismi all'origine di una
comunicazione pubblica fondata sulla manipolazione di miti.
Contestualizzare l'apporto di Jesi implica al contempo anche il rimarcare che molti
casi politici, che spesso sembrano avere il sapore della novità, sono in realtà delle
costanti della nostra storia. Il modello conoscitivo di macchina mitologica, così
come Jesi lo aveva immaginato più di trent'anni fa, risulta infatti utile al fine di
comprendere la manipolazione di simboli che ancora oggi non cessano, nonostante
nel frattempo siano mutati gli scenari sullo sfondo, di far presa sulle masse.
Con un'intuizione estremamente efficace, Furio Jesi si era servito nella seconda
metà degli anni Settanta di un’espressione di Spengler per indicare un'inclinazione
culturale tendenzialmente ricorrente nella civiltà europea del XX secolo: «L'unica
cosa che promette la saldezza dell'avvenire è quel retaggio dei nostri padri che
abbiamo nel sangue; idee senza parole»1). All'epoca il germanista torinese era già
pervenuto a molte delle sue interpretazioni e teorie più originali, perciò non è
difficile, per chi ha sotto mano la sua produzione saggistica, tradurre la citazione
spengleriana nel senso di quella manipolazione di materiali mitologici su cui Jesi
aveva insistito più volte. In ballo c'era, dunque, l'esistenza di un “linguaggio delle
idee senza parole”, ovvero di una sorta di codice legato ad un patrimonio culturale
originatosi in ambito borghese diversi decenni prima e poi confluito nel mondo
contemporaneo: un lessico che in certo qual modo, non avendo mai cessato
esistere, continuava ad ammettere la possibilità di una tecnicizzazione del mito e di
un suo sfruttamento per fini strumentali. C'è di più: in quelle stesse pagine Jesi
indicava nel linguaggio delle idee senza parole una caratteristica propria sì
dell'ideologia politica della destra, ma anche e soprattutto un sintomo
inequivocabile di una propensione frequente nella nostra cultura e nella nostra
storia più recente. E bisogna dire che le sue affermazioni, per quanto potessero
risultare provocatorie o quantomeno insolite per l'epoca, si sono rivelate per certi
aspetti lungimiranti. Se ad inizio Novecento il pretesto era quello di un ritorno a
delle presunte origini pre-illuministiche, il fallimento dei tentativi di costruire società
migliori e più giuste, insieme alle contraddizioni proprie del mondo globalizzato,
sono probabilmente causa anche oggi di un rinnovato bisogno di religione e di valori
più “originari”. Sfortunatamente, oggi come allora tale urgenza non è immune dal
rischio di recare con sé nuove forme di violenza.
Le pagine in questione sono quelle di Cultura di destra, saggio dato alle stampe per
la prima volta nel 1978 e frutto in parte della rielaborazione di testi già pubblicati
sulla rivista Comunità tra il dicembre 1975 e l'aprile 1978. Ora lo stesso libro, che
conobbe una seconda edizione nel 1993 ma che poi scomparve per lungo tempo
dagli scaffali delle librerie, è in corso di ripubblicazione presso l'editore Nottetempo:
è imminente dunque una nuova edizione, curata da Andrea Cavalletti e
comprensiva di tre inediti e di una intervista2).
Uno studioso sui generis
Quella di Furio Jesi è stata una figura molto particolare nel panorama italiano del
dopoguerra. Giovane intellettuale molto precoce, a quindici anni era già un
egittologo ed archeologo per così dire affermato, ed abbandonò gli studi in prima
liceo per viaggiare ed apprendere il mestiere direttamente sul campo. Ebbe quindi
un percorso intellettuale già di per sé fuori dall’ordinario ed è forse dovuto in parte
anche a questo se non possiamo certo parlare di Jesi come di un accademico in
senso stretto. Nel corso della sua vita spaziò dalla critica letteraria all'antropologia,
dall'archeologia alla filosofia; germanista e mitologo, si concentrò soprattutto su ciò
che egli stesso indicava come le sopravvivenze del mito in epoca moderna e sulle
conseguenze che ne derivavano in ambito politico. Riguardo a ciò, potremmo forse
affermare che per Jesi il nocciolo sta tutto lì, in quella concezione del mito come
qualcosa divenuto ormai inaccessibile, diverso dal reperto degli archeologi, che
aveva preso campo in seno al filone intellettuale irrazionalista e conservatore della
Germania d'inizio Novecento, e che poi era stato declinato in modi diversi col
mutare dello scenario storico. Le sue analisi sul mito dunque precorrono i tempi,
per certi aspetti; non che sia presente in lui una vera e propria presa di distanza
critica, come quella che Paolo Rossi muove verso le “smisurate speranze” e gli
“apocalittici”, ossia i critici della modernità (Rossi, 2008). Tutt'altro, Jesi, che pure
si caratterizzò tra le altre cose anche per l'impegno politico, si pone in tutto e per
tutto aldilà delle classiche dicotomie presenti negli anni in cui vive. All'irrazionalismo
di matrice mitteleuropea l'Italia fu in realtà quasi sempre poco permeabile: la
celebre Collana violaprogettata da Pavese e De Martino fin dagli anni del secondo
conflitto mondiale fu pioneristica in questo senso, perché introdusse per la prima
volta nel nostro paese autori e testi fino a quel momento semisconosciuti. Il
programma comprendeva scritti molto eterogenei: da Kerényi a Jung, da Mauss a
Frazer, da Eliade a altri nomi forse altrettanto “scomodi”, la cui comprensione fu in
parte condizionata dal clima culturale di rifiuto a tutto ciò che era riconducibile alle
tendenze irrazionalistiche perdurante nel secondo dopoguerra. L'atteggiamento
prevalente era più che altro quello della chiusura e della condanna un po' ovunque,
e ancor più per quel che concerne il caso italiano.
Negli scritti di Jesi sul mito confluiscono invece elementi differenti e talvolta
apparentemente contrastanti, provenienti ora da Kerényi, ora da Th. Mann, Pavese
o Rilke, che rendono quei testi difficilmente ascrivibili alle correnti culturali
dominanti. Anche la sua scrittura è peculiare e tutt’altro che sistematica, poiché
rispondente ad esigenze compositive che Jesi stesso intendeva quasi in senso
musicale; pertanto i cardini della sua riflessione sono da cogliere non tanto nel
contenuto manifesto dei suoi scritti, ma, come si evince dalle stesse parole
dell’autore, «nella loro architettura, nei loro criteri compositivi, in ciò che li fa
essere 'composizioni' (nel senso musicale della parola)» (Jesi, 1989: 331). Jesi
aveva fatto propria un’analogia tra mitologia e musica già precedentemente
immaginata da Kerényi e l’aveva ulteriormente sviluppata, rendendola funzionale
ad una prassi compositiva finalizzata a «circoscrivere il concetto di mito mediante
una tecnica di 'composizione' critica di dati e dottrine, fatti reagire tra loro, il cui
modello metodologico si trova nella formula del conoscere per citazioni, dunque
strumentalizzando le citazioni (che divengono schegge interreagenti), di W.
Benjamin» (Jesi, 1973, 1980-1989, 2008: 7).
Il fascino di molti saggi di Jesi risiede proprio nella presenza di tali “schegge
interreagenti”, e nel fatto che in essi l’autore dialoga con poeti e scrittori, spesso
lontani nello spazio e nel tempo, piuttosto che con filologi o specialisti del mito,
costruendo architettonicamente il proprio percorso attraverso la manipolazione di
un materiale letterario cui attinge quasi si trattasse di un repertorio divenuto
comune. E' anche questa un’idea fortemente presente in Jesi, che in effetti, a
proposito della sua unica raccolta di poesie, intitolata L’esilio , aveva scritto:
«L’esilio non ha alcuna nota, poiché l’autore intende sottolineare l’usufruibilità di
ogni precedente poetico quale repertorio di anonimi luoghi comuni – i quali possono
apparire bizzarrie estremamente soggettive, ma in realtà sono proprio anonimi
luoghi comuni di una koiné che – in termini cronologici – principia con Ugo Foscolo
e si chiude con Ezra Pound»3). Come ha notato Carlo Tenuta in uno scritto comparso
recentemente, con Jesi siamo di fronte ad «un esempio novecentesco di saggista in
quanto philosophe e di scrittore tout court, essendo ogni filosofo «un pensatore
sperimentale»» (Tenuta, 2010: 437).
Certamente tale idea del conoscere per citazioni, e, più in generale, ciò che emerge
da scritti come Germania segreta oSpartakus , in cui Jesi tratta di miti dialogando
con scrittori e poeti, piuttosto che con studiosi dell’antichità appartenenti al
versante accademico, fa sì che il suo contributo agli studi sul mito si collochi
dunque al di fuori delle correnti predominanti nel periodo tra gli anni Sessanta e
Settanta. In effetti, per certi aspetti, quello di Jesi rappresenta un caso isolato
nell'Italia del dopoguerra, come già hanno sottolineato, del resto, Agamben e
Cavalletti nell'introdurre il numero monografico di Cultura tedesca a lui dedicato
(Agamben e Cavalletti, 1999).
Mito inaccessibile e meccanismi reiterati
«Disponiamo di «materiali mitologici» soppesabili, fotografabili, suscettibili di analisi
filologica; del mito non solo non sappiamo nulla, ma dichiariamo per coerenza
logica di non potere saper nulla. L’archeologo circoscrive uno spazio nel quale
potrebbe anche essere esistita una certa cultura, ma non è in grado di mettere
piede entro quello spazio; il mitologo circoscrive un meccanismo che potrebbe
anche essere fatto muovere dal mito, ma non è in grado di affermare che il mito
esiste» (Jesi, 2007: 21). Il mitologo circoscrive un meccanismo, o quantomeno si
propone di farlo: ciò che conta, dunque, è che tale meccanismo esiste anche
laddove il mito non è più conoscibile. Il mito è invece divenuto «quell’arnese dai
mille usi, che però, siccome s’era persa la vite, era ridotto in due parti» (Jesi, 1976
e 2002: 20), ossia qualcosa di non più utilizzabile nella sua funzione originaria nella
nostra epoca. Per questo motivo, l’uso che l’uomo contemporaneo ha potuto farne
non ha niente a che vedere con il suo vero contenuto: si è trattato, semmai, di un
uso strumentale del mito, piegato a scopi politici.
La concezione che si fece largo agli inizi del Novecento, prima nel circolo di
intellettuali facenti capo al poeta Stefan George e poi tra personalità come Klages e
Bäumler, si configurava in antitesi con quella accademica e storicistica e
presupponeva l’esistenza di una sfera religiosa totalmente estranea a quella della
ragione o della coscienza. Gli intellettuali succitati appartengono all’ala più
conservatrice della Germania del tempo, anche se la maggior parte di essi, almeno
in un primissimo tempo, si compiacque di non avere alcun coinvolgimento nella vita
politica. A loro è riconducibile innanzitutto la riscoperta di quel Bachofen che in
seguito anche Jesi e Kerényi avrebbero riconosciuto come centrale per la cultura
europea, e che, nell’ambito della sua indagine intorno al simbolismo funerario
antico, concepì la nozione di simbolo come “riposante in se stesso”, ossia di simbolo
come qualcosa che non rimanda a nient’altro che a se stesso. Un simbolo che
dunque costituisce qualcosa di temporale ed insieme immutabile, senza principio né
fine, non afferrabile per via razionale: quasi un eterno presente quindi, capace di
sfuggire alle leggi della storia intesa come continuum.
Chi si propone di affrontare studi inerenti al mito, afferma lo Jesi di Cultura di
destra, non può fare a meno di imbattersi in qualcuno degli esponenti della destra
tradizionale. La nozione di mito che in questa sede si fece largo risulta in effetti
estremamente vicina a quella del simbolo bachofeniano, ma andò ben oltre: una
simile concezione, portata ad azzerare la distanza tra l’uomo contemporaneo e la
mitologia, spianò di certo la strada alle radicalizzazioni che poi si sono verificate.
Esse furono quindi cullate per lungo tempo nell'alveo della cultura borghese
europea, che secondo Jesi fin dalla seconda metà dell'Ottocento manifestava i tratti
di una religione della morte, ossia di un rapporto viziato con il proprio passato. Un
passato che, proprio in virtù di tale pecca, ha potuto essere a poco a poco alterato
e rimaneggiato, nell'intento di plasmare e conformare il presente, suggellando
l'ipotesi di futuro più cara al potere: il mito, cioè, «è memoria, rapporto con il
passato… Ed è violenza, mito del potere; e quindi anche è sospetto mai cancellabile
dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella,
innanzitutto, di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con
un “eterno presente”» (Jesi, 1976 e 2002: 23). Così, tutti i capisaldi
dell'antisemitismo e della destra più radicale, da ”l’ora del destino” al ”domani
assoluto”, passando per il mito del sangue e quello della razza, vengono a
coincidere con una precisa mitopoiesi volta alla manipolazione delle masse e al
perseguimento di scopi politici tanto irrazionali quanto al di fuori dei confini
dell’etica.
Ma a Jesi preme mettere in chiaro che la ”religione della morte” non è prerogativa
della sola cultura di destra: come si legge in un recente studio di Enrico Manera,
essa per lui «è qualcosa che ha a che fare con la stessa cultura umanistico-
borghese e con il modo in cui il pensiero occidentale produce realtà, strutturando
l'immagine del tempo e di un continuum della storia […] L'umanesimo borghese e
storicista è religio mortis in quanto rapporto con il passato, poiché questo cessa di
essere leggibile, viene risignificato e diventa strumento di legittimazione per chi vi
fa riferimento riconoscendo in modo arbitrario le proprie radici in un processo di
“invenzione”: nella modernità la mitologia è il sapere funzionale alla costruzione del
senso presente mediante il passato, modalità operativa dell'ideologia» 4).

Ecco perché Jesi ha ritenuto tanto importante insistere, come quel Kerényi
riconosciuto fin dagli anni giovanili come il proprio maestro, nella distinzione tra
mito genuino e mito tecnicizzato. La sua concezione del mito trae molto dal
continuo confronto con i testi dell’ungherese, eppure si discosta da essi in un punto
fondamentale: pur risultando largamente debitrice dall’insegnamento kerényiano,
Jesi approda ad esiti originali, soprattutto a partire dai primi anni Settanta, in cui
prende forma l’idea di macchina mitologica. In virtù di quella inaccessibilità del mito
tanto evocata e associata, al contempo, all’abbondante disponibilità di materiali
mitologici riscontrabili nella cultura e nella storia, diviene quasi illegittimo per
l’intellettuale torinese parlare di scienza del mito. Quest’ultima semmai andrebbe
sostituita a buon diritto con una scienza delle mitologia, ossia con una scienza di
quei residui che il mito, inafferrabile ed inconoscibile, continua a produrre e a
gettare nel mondo. Non è più cruciale per Jesi distinguere tra coloro che intendono
il mito come ”sostanza”, cioè qualcosa di realmente esistente anche se in una
dimensione extra razionale, e coloro che non lo fanno, ma bensì andare oltre: tale
distinzione, che era divenuta nel dopoguerra uno dei baluardi dell’opposizione
all’ideologia della destra tradizionale, qui appare oramai superata. Il modello
gnoseologico di macchina mitologica serve semmai a Jesi al fine di mostrare
l’urgenza, per un’ipotetica ed auspicabile scienza della mitologia, di una più
profonda comprensione di quegli automatismi attraverso cui il mito, per quanto
impenetrabile, continua a condizionare la vita dell’uomo contemporaneo: «la
macchina mitologica… tende a divenire un centro fascinatorio e ad esigere prese di
posizione, petizioni di principio, circa il suo presunto contenuto. Quanto più lo
sguardo si fissa su quel contenuto (per affermarne o per negarne l’esistenza), esso
si distoglie dalle modalità di funzionamento dei meccanismi della macchina. Ma
proprio quelle modalità, più ancora che il problema dell’essere o del non essere del
nucleo enigmatico della macchina, sono il punto focale obbligato di un’indagine che
voglia tentare sia di approfondire in sé e per sé la conoscenza del fenomeno
«mitologia», sia - e insieme - di rispondere alla necessità politica di cautelarsi
dinanzi alle tecnicizzazioni, alle manipolazioni, alle rischiose apologie, del mito»
(Jesi, 1973, 1980-1989, 2008: 154).
A tali rischi il paradigma gnoseologico di macchina ideologica può sottrarsi soltanto
evitando di assurgere al ruolo di modello universale. Ecco perché Jesi non ne
fornisce mai una descrizione dettagliata e sistematica in nessuna delle pagine in
cui, a partire dai primi anni Settanta, inizia a fare capolino l'idea di macchina:
l'autore di questi saggi sperimentali, in cui a materiali mitologici provenienti da testi
e letteratura viene applicato il sistema del conoscere per composizione, lascia
volutamente incompleto il profilo del modello conoscitivo che sta utilizzando. Esso,
semmai, deve poter prendere forma di volta in volta dalle esigenze che il mitologo
si trova a dover soddisfare in un determinato contesto: nella convinzione del suo
ideatore, infatti, soltanto così il prototipo di macchina mitologica può restare uno
strumento critico valido a scardinare le strutture dell'ideologia, impedendo alla
ragione di chi indaga i miti di restarne irretita.
Con tale assunto la speculazione jesiana sul mito rivela la propria originalità.
Discostandosi in un nodo così fondamentale, come quello della negazione della
sostanza del mito, dalle concezioni correnti del dopoguerra, riuscì probabilmente a
porre l’accento sulle contraddizioni di un’epoca e di una cultura forse fino ad allora
poco inclini a mettersi in discussione. Lo stesso Cultura di destra affrontava
argomenti difficili e forse anche ardui per quel particolare periodo, eppure ancora
adesso alcune analisi in esso contenute meritano una rinnovata attenzione,
soprattutto per poter capire fino a che punto la macchina mitologica è ancora in
moto, se davvero alla fine dei Settanta un intellettuale italiano poteva ancora
affermare: «Il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si
stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto
parole spiritualizzate tanto da poter essere veicolo di idee che esigono non-parole,
si ritrovano anche nella cultura di chi non vuol essere di destra, dunque di chi
dovrebbe ricorrere a parole così «materiali» da poter essere veicolo di idee che
esigono parole. Questo deriva dal fatto che la maggior parte del patrimonio
culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di
destra» (Jesi, 1979 e 1993: 7).
Bibliografia
Agamben, G. e Cavalletti, A. (1999), «Cultura tedesca» n. 12, numero monografico
dedicato a Furio Jesi, Donzelli, Roma.

Belpoliti, M. e Manera, E. (2010), «Riga n. 31. Furio Jesi», Marcos y Marcos, Milano.

Jesi, F. (1973, 1980-1989, 2008), Mito, Isedi, Milano e Mondadori, Milano; poi
nuova ed. con una nota di G. Schiavoni, Aragno, Torino.
Jesi, F. (1976 e 2002), Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria
Rilke, D’Anna, Messina – Firenze, poi Quodlibet, Macerata.
Jesi, F. (1979, 1993), Cultura di destra. Il linguaggio delle «idee senza parole».
Neofascismo sacro e profano: tecniche, miti e riti di una religione della morte e di
una strategia politica, Garzanti, Milano.
Jesi, F. (1989) Lettera di F. Jesi a G. Schiavoni del 26 giugno 1972, in «Immediati
dintorni. Un anno di psicologia analitica e di scienze umane», Lubrina, Bergamo.
Jesi, F. (2007), Quando Kerényi mi distrasse da Jung. (Auto)intervista su un
itinerario di ricerca, a cura di A. Cavalletti, in « Il Manifesto – Alias» n. 30, 28 luglio
2007, p. 20-21.
Rossi, P. (2008), Speranze, Il Mulino, Bologna.
Tenuta, C. (2010), «Non smetto mai di scriverlo»: Furio Jesi tra saggistica e
narrativa, in «Intersezioni», XXX, n. 3, Il Mulino, Bologna.
1)
Tratta da Spengler, O. (1934), Anni decisivi. La Germania e lo sviluppo storico
mondiale, trad. it. di V. Beonio-Brocchieri, Bompiani, Milano, p. 4. Cit. in F. Jesi
(1979, 1993: 6).
2)
In prossimità della pubblicazione della rivista, e dunque successivamente alla
stesura del presente contributo, ha avuto luogo la distribuzione nelle librerie del
volume Jesi, F. (2011), Cultura di destra. Con tre inediti e un'intervista, a cura di A.
Cavalletti, Nottetempo, Roma. Gli inediti in questione – La religione degli ebrei
dinanzi al fascismo, dedicato alla figura di Ettore Ovazza, banchiere piemontese che
ebbe un ruolo di primo piano nella fondazione del Fascio torinese; i materiali relativi
al progetto jesiano, mai portato a compimento, di realizzazione di un testo dal
titolo Cattivo selvaggio. Teoria e pratica della persecuzione dell'uomo “diverso”;
un'intervista del giugno 1979 – contribuiscono tra le altre cose a rendere l'idea
dell'importanza che le ricerche inerenti alla cultura della destra ebbero nella
produzione complessiva dell'autore.
3)
Scheda editoriale dal titolo Furio Jesi, L’esilio (poesie) , pubblicata postuma in
«Cultura tedesca» n. 12/1999, p. 108; poi anche in «Riga n. 31/2010. Furio Jesi»,
p. 29.
4)
In Manera, E. (2010), Memoria e violenza. Immagini della macchina mitologica,
in «Riga n. 31», pp. 325-339. Il passo qui citato si trova a pag. 332.

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