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id=violenza_straniero%3Agonfiantini_mito
Giulia Gonfiantini
Ecco perché Jesi ha ritenuto tanto importante insistere, come quel Kerényi
riconosciuto fin dagli anni giovanili come il proprio maestro, nella distinzione tra
mito genuino e mito tecnicizzato. La sua concezione del mito trae molto dal
continuo confronto con i testi dell’ungherese, eppure si discosta da essi in un punto
fondamentale: pur risultando largamente debitrice dall’insegnamento kerényiano,
Jesi approda ad esiti originali, soprattutto a partire dai primi anni Settanta, in cui
prende forma l’idea di macchina mitologica. In virtù di quella inaccessibilità del mito
tanto evocata e associata, al contempo, all’abbondante disponibilità di materiali
mitologici riscontrabili nella cultura e nella storia, diviene quasi illegittimo per
l’intellettuale torinese parlare di scienza del mito. Quest’ultima semmai andrebbe
sostituita a buon diritto con una scienza delle mitologia, ossia con una scienza di
quei residui che il mito, inafferrabile ed inconoscibile, continua a produrre e a
gettare nel mondo. Non è più cruciale per Jesi distinguere tra coloro che intendono
il mito come ”sostanza”, cioè qualcosa di realmente esistente anche se in una
dimensione extra razionale, e coloro che non lo fanno, ma bensì andare oltre: tale
distinzione, che era divenuta nel dopoguerra uno dei baluardi dell’opposizione
all’ideologia della destra tradizionale, qui appare oramai superata. Il modello
gnoseologico di macchina mitologica serve semmai a Jesi al fine di mostrare
l’urgenza, per un’ipotetica ed auspicabile scienza della mitologia, di una più
profonda comprensione di quegli automatismi attraverso cui il mito, per quanto
impenetrabile, continua a condizionare la vita dell’uomo contemporaneo: «la
macchina mitologica… tende a divenire un centro fascinatorio e ad esigere prese di
posizione, petizioni di principio, circa il suo presunto contenuto. Quanto più lo
sguardo si fissa su quel contenuto (per affermarne o per negarne l’esistenza), esso
si distoglie dalle modalità di funzionamento dei meccanismi della macchina. Ma
proprio quelle modalità, più ancora che il problema dell’essere o del non essere del
nucleo enigmatico della macchina, sono il punto focale obbligato di un’indagine che
voglia tentare sia di approfondire in sé e per sé la conoscenza del fenomeno
«mitologia», sia - e insieme - di rispondere alla necessità politica di cautelarsi
dinanzi alle tecnicizzazioni, alle manipolazioni, alle rischiose apologie, del mito»
(Jesi, 1973, 1980-1989, 2008: 154).
A tali rischi il paradigma gnoseologico di macchina ideologica può sottrarsi soltanto
evitando di assurgere al ruolo di modello universale. Ecco perché Jesi non ne
fornisce mai una descrizione dettagliata e sistematica in nessuna delle pagine in
cui, a partire dai primi anni Settanta, inizia a fare capolino l'idea di macchina:
l'autore di questi saggi sperimentali, in cui a materiali mitologici provenienti da testi
e letteratura viene applicato il sistema del conoscere per composizione, lascia
volutamente incompleto il profilo del modello conoscitivo che sta utilizzando. Esso,
semmai, deve poter prendere forma di volta in volta dalle esigenze che il mitologo
si trova a dover soddisfare in un determinato contesto: nella convinzione del suo
ideatore, infatti, soltanto così il prototipo di macchina mitologica può restare uno
strumento critico valido a scardinare le strutture dell'ideologia, impedendo alla
ragione di chi indaga i miti di restarne irretita.
Con tale assunto la speculazione jesiana sul mito rivela la propria originalità.
Discostandosi in un nodo così fondamentale, come quello della negazione della
sostanza del mito, dalle concezioni correnti del dopoguerra, riuscì probabilmente a
porre l’accento sulle contraddizioni di un’epoca e di una cultura forse fino ad allora
poco inclini a mettersi in discussione. Lo stesso Cultura di destra affrontava
argomenti difficili e forse anche ardui per quel particolare periodo, eppure ancora
adesso alcune analisi in esso contenute meritano una rinnovata attenzione,
soprattutto per poter capire fino a che punto la macchina mitologica è ancora in
moto, se davvero alla fine dei Settanta un intellettuale italiano poteva ancora
affermare: «Il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si
stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto
parole spiritualizzate tanto da poter essere veicolo di idee che esigono non-parole,
si ritrovano anche nella cultura di chi non vuol essere di destra, dunque di chi
dovrebbe ricorrere a parole così «materiali» da poter essere veicolo di idee che
esigono parole. Questo deriva dal fatto che la maggior parte del patrimonio
culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di
destra» (Jesi, 1979 e 1993: 7).
Bibliografia
Agamben, G. e Cavalletti, A. (1999), «Cultura tedesca» n. 12, numero monografico
dedicato a Furio Jesi, Donzelli, Roma.
Belpoliti, M. e Manera, E. (2010), «Riga n. 31. Furio Jesi», Marcos y Marcos, Milano.
Jesi, F. (1973, 1980-1989, 2008), Mito, Isedi, Milano e Mondadori, Milano; poi
nuova ed. con una nota di G. Schiavoni, Aragno, Torino.
Jesi, F. (1976 e 2002), Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria
Rilke, D’Anna, Messina – Firenze, poi Quodlibet, Macerata.
Jesi, F. (1979, 1993), Cultura di destra. Il linguaggio delle «idee senza parole».
Neofascismo sacro e profano: tecniche, miti e riti di una religione della morte e di
una strategia politica, Garzanti, Milano.
Jesi, F. (1989) Lettera di F. Jesi a G. Schiavoni del 26 giugno 1972, in «Immediati
dintorni. Un anno di psicologia analitica e di scienze umane», Lubrina, Bergamo.
Jesi, F. (2007), Quando Kerényi mi distrasse da Jung. (Auto)intervista su un
itinerario di ricerca, a cura di A. Cavalletti, in « Il Manifesto – Alias» n. 30, 28 luglio
2007, p. 20-21.
Rossi, P. (2008), Speranze, Il Mulino, Bologna.
Tenuta, C. (2010), «Non smetto mai di scriverlo»: Furio Jesi tra saggistica e
narrativa, in «Intersezioni», XXX, n. 3, Il Mulino, Bologna.
1)
Tratta da Spengler, O. (1934), Anni decisivi. La Germania e lo sviluppo storico
mondiale, trad. it. di V. Beonio-Brocchieri, Bompiani, Milano, p. 4. Cit. in F. Jesi
(1979, 1993: 6).
2)
In prossimità della pubblicazione della rivista, e dunque successivamente alla
stesura del presente contributo, ha avuto luogo la distribuzione nelle librerie del
volume Jesi, F. (2011), Cultura di destra. Con tre inediti e un'intervista, a cura di A.
Cavalletti, Nottetempo, Roma. Gli inediti in questione – La religione degli ebrei
dinanzi al fascismo, dedicato alla figura di Ettore Ovazza, banchiere piemontese che
ebbe un ruolo di primo piano nella fondazione del Fascio torinese; i materiali relativi
al progetto jesiano, mai portato a compimento, di realizzazione di un testo dal
titolo Cattivo selvaggio. Teoria e pratica della persecuzione dell'uomo “diverso”;
un'intervista del giugno 1979 – contribuiscono tra le altre cose a rendere l'idea
dell'importanza che le ricerche inerenti alla cultura della destra ebbero nella
produzione complessiva dell'autore.
3)
Scheda editoriale dal titolo Furio Jesi, L’esilio (poesie) , pubblicata postuma in
«Cultura tedesca» n. 12/1999, p. 108; poi anche in «Riga n. 31/2010. Furio Jesi»,
p. 29.
4)
In Manera, E. (2010), Memoria e violenza. Immagini della macchina mitologica,
in «Riga n. 31», pp. 325-339. Il passo qui citato si trova a pag. 332.