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dalla conoscenza esatta di certi fenomeni (non avevamo, in questo caso

Ezio Raimondi
 parlo anche di altri, incontrato Altiero Spinelli), l'idea che la via era
L'Italianistica e l'Europa.
 davanti a noi. Non sapevamo che negli anni '40 Chabod cominciava le
sue lezioni proprio sulla storia dell'idea d'Europa; non conoscevamo
Lezione del 22 maggio 1996 neanche certe pagine che si sono lette solo più tardi; c'era però una
sorta di ansia confusa, un'ansia confusa che non aveva direttamente una
ragione politica: era, se mai, l'idea di una moralità pubblica, di un certo
modo di intendere i compiti dell'intelligenza, il rapporto tra ciò che
L'altro giorno si concludeva il corso con un dialogo tra due generazioni
ognuno fa del proprio lavoro e qualche cosa che appartiene anche a una
diverse del nostro secolo, tra Pasolini e Piovene, proprio intorno al
comunità più larga.

problema dell'Europa. Piovene aveva scritto un libro,   L'Europa
Era capitato che, proprio durante gli ultimi anni di quel periodo, mi
semilibera, che era una sorta di escursione/interrogazione sull'Europa e
fossi imbattuto nei primi saggi di Ernst Robert Curtius, che poi
il suo possibile destino; Pasolini, che veniva da un'altra generazione,
sarebbero diventati, nell'immediato dopoguerra, Letteratura europea e
rispondeva, replicava, aggiungeva altri dati, e qualche cosa capiva e
Medioevo latino; e forse di lì cominciai a sentire, col Medioevo e altre
qualche cosa sostituiva. Il discorso si era fermato poi agli anni '73-'74,
cose, che c'erano degli orizzonti più ampi. Certo in quelle pagine,
con una specie di chiusura in penombra, ad Altiero Spinelli, che proprio
soprattutto poi quando divennero libro - e oramai erano i primi anni del
in quegli anni diventava Commissario per il Mercato Comune alla
dopoguerra -, cominciò la sensazione che ciò che chiamavamo la
Comunità Europea, tra il '70 e il '76, e successivamente parlamentare
"letteratura nazionale" era anche altro, aveva bisogno di una prospettiva
europeo. Tutto questo secolo, che nella nostra prospettiva non poteva
più ampia, doveva proporsi anche altre ragioni; Curtius parlava di
che essere visto di sbieco, presentava tra l'altro una ricerca drammatica
un'unità di senso della cultura e della letteratura europea, almeno fino a
di quella che chiamiamo "l'idea dell'Europa", la possibile identità
un certo secolo, e diceva che le letterature nazionali sono soltanto attimi
europea, nel momento stesso in cui i nazionalismi finivano e poi
limitati di un sistema molto più ampio: quel sistema aveva come nome
rinascevano e i sistemi totalitari introducevano nuove ragioni.

l'Europa. Era la stessa Europa, nella sostanza, di cui parlava Thomas
Io vorrei interrogarmi a questo punto sul perché proprio un ultimo
Mann nelle Storie di Giuseppe ed anche in altri testi; era un'Europa che
corso si è fermato su temi europei all'interno della letteratura italiana
veniva da solidarietà di generazioni francesi, italiane, inglesi e
del nostro Novecento. Appartengo ad una generazione che arrivava a
tedesche. Sta di fatto che in quel libro - che è diventato poi attuale, e
una rapida maturità tra gli ultimi anni della guerra e il primo
per noi soltanto di recente con la finale traduzione italiana - Curtius
dopoguerra; e anche se ci mancavano certe ragioni e certe prospettive,
sosteneva che occorre uscire dagli ambiti ristretti di ciò che chiamiamo
c'era sicuramente una sorta di ansia che, nel momento stesso in cui
la letteratura di una lingua, e occorre invece introdurre un dialogo più
tentava di entrare nel mondo della democrazia, voleva porre il
ampio ripristinando l'importanza della memoria dentro la letteratura - e
problema della modernità, e con la modernità un orizzonte più ampio di
non soltanto dentro la letteratura - alla ricerca di costanti, alla ricerca di
quello da cui eravamo venuti negli anni precedenti, quegli anni che poi,
elementi che nel momento stesso in cui davano posto all'individualtà,
durante il corso, abbiamo cercato in parte di ascoltare attraverso le
ne scoprivano anche i contesti, le presenze profonde, le unità più
parole di Pintor e di qualche altro meno giovane. Da quegli anni
radicali che stava solo a noi di riscoprire.

probabilmente nacque, almeno per la nostra generazione, di là anche
L'uscita del libro di Curtius in realtà coincideva con uno dei primi dell'Europa era intimamente congiunta, per le prime generazioni come
momenti dell'europeismo del secondo dopoguerra; e trovò anche da noi, per quelle che si avviano verso la fine del secolo, al tema del suo
per coloro che lo leggevano, delle accoglienze sospettose. Ma il possibile decadimento, del suo possibile finire: tanto più difficile è
problema di Curtius restava lo stesso, e qualche anno dopo gli dava dunque la discussione su una possibile rinascita, o il ritrovamento di ciò
ragione, partendo da un cammino parallelo e nello stesso tempo che avevamo dimenticato o che non avevamo posto a sufficienza nel
diverso, un altro di quella grande generazione della prima parte del nostro quadro mentale. Dirò soltanto che in anni più recenti un
secolo, Erich Auerbach, quando, in un testo che è quasi il suo personaggio che certo non ignora tutta questa cultura d'ambito europeo
testamento, parlava di una filologia della Weltliteratur, di una filologia - anche se poi legata, come nel caso di Auerbach, anche all'esilio è un
della letteratura mondiale, dove riconosceva che le storie nazionali non critico americano, Harold Bloom, che in un libro recente, su cui però
potevano più bastare. Anche sotto il profilo letterario dovevano non ci si è trattenuti a sufficienza, ha tentato di enunciare quello che
integrarsi in ragioni molto più ampie, e la loro disciplina - come del chiama "il canone occidentale", che è in realtà un discorso, alla fine,
resto aveva già detto anche Curtius - non poteva che essere la filologia, sull'Europa. Nel libro in fondo conta poco quali siano gli scrittori che
intesa naturalmente nella sua pienezza: come scienza del testo e dei egli assume dalle diverse tradizioni nazionali, collocandole in ciò che
suoi possibili contesti, come capacità di penetrazione, come forza egli chiama il "canone"; conta invece l'esigenza che egli pone:
interpretativa.
 dobbiamo fare entrare un autore in un dialogo tanto più ampio, in un
Auerbach diceva che il luogo della filologia è la nostra Terra, è il dialogo che non è soltanto di "testi" ma anche di libri.
mondo: si trattava di trovare strade possibili per disegnare una mappa
che non poteva essere mai una totalità chiusa e statica, ma era sempre Credo che a questo punto converrebbe un momento fermarsi su ciò che
un'esplorazione; dove l'insieme non era tanto l'oggetto quanto una volta ebbe a scrivere una straordinaria intelligenza di linguista e di
l'aspirazione; dove le lingue nella loro diversità continuavano a antropologo come Humboldt quando, dopo la traduzione
dialogare tra di loro e potevano, dopo tutto, arricchirsi anche là dove dell'Agamennone, si poneva il problema di che cos'è la traduzione, e
c'era la strada del contrasto o il pericolo del fraintendimento.
 quand'è che una traduzione ha un esito, per così dire, felice. Non è un
È; vero che Curtius parlava della tradizione come qualche cosa di caso - lo si è visto più volte, del resto -, che si introduca in questa
omogeneo, e la memoria e il passato sono i grandi miti che creano una considerazione il problema del tradurre; tutti coloro, anche di recente,
costellazione in quel caso europea. Egli osservava meno che una che si sono intrattenuti sul problema del leggere, e in fondo anche sul
tradizione, se è vivente, è fatta di conflitti, anzi, è fatta di problema della critica - di là poi dalle ragioni generali che la possono
un'interrogazione permanente, come avrebbero detto altri poi, che regolare -, hanno riconosciuto che leggere è sempre tradurre, è sempre
venivano dal mondo della filosofia e della scienza: se tradizione ci deve il passaggio di un'esperienza a un altro luogo, a un altro soggetto. E
essere, la tradizione è il luogo di confronto perché il nostro spirito allora non è irragionevole fermarci su alcune considerazioni di
critico dia una risposta e si prenda, per così dire, la sua responsabilità; Humboldt, che era stato il primo, d'altro canto, a dire che il
la tradizione come luogo dei rapporti, come luogo della diversità, come comprendere è intimamente congiunto al fraintendere, come condizione
luogo appunto dei conflitti, senza dei quali non si dà poi, se non in indispensabile perché si dia un'esperienza attiva di ciò che è un altro nel
modo mitico e astratto, ciò che chiamiamo un vero dialogo. Attraverso momento in cui parla con me. Ma è importante che Humboldt
il nostro itinerario nel corso abbiamo visto che la ricerca dell'idea riconoscesse che il capire è una tensione verso il capire, che ha bisogno
anche del suo contrario; non è un lavoro pacifico; è una sorta di sforzo. metteva in movimento, si aveva una serie di reazioni, si scoprivano una
Nel momento in cui parlava del tradurre, Humboldt diceva che forse, quantità di cose. Era, alla lettera - in questo caso diciamolo più con
quando noi pensiamo a un'altra lingua - al testo di un'altra lingua, a Auerbach/Curtius che non con Bloom -, il compito vero della filologia,
un'opera -, dovremmo sempre distinguere tra ciò che è lo straniero e ciò cui dovrebbe essere rivendicata (come del resto alla lettura, in primo
che è la stranierità, o, se vogliamo, «l'estraneo» e la «estraneità».
 luogo) l'esigenza - nei termini della tradizione filologica -,
Quando in una traduzione la stranierità prevale sullo straniero, è una dell'observatio che è anche inspectio, e presuppone o porta alla cognitio
cattiva traduzione; quando nella traduzione è lo straniero che ci arriva, e alla extimatio: occorre un'ipotesi e poi occorre la concretezza dei
cioè, diremmo noi, l'altro, che resta nella sua integrità anche se diventa rapporti con le realtà, con i testi, con i fenomeni e le cose.

altro da sé, allora la traduzione è efficace, ha realmente creato un È probabile che, a questo punto, ciò che abbiamo chiamato filologia
dialogo di arricchimento, perché il tradurre - e anche questo tenda a diventare qualche cosa di più complesso di quanto non si
probabilmente vale, quando ne parliamo più in generale e in modo pensava in altri tempi. Certi antropologi oggi ci hanno ammonito che
meno mitico, per il lettore - è il lavoro forse più necessario nelle forse è venuto il momento di una sorta di filologia più ampia di quella
letterature. Era lo stesso discorso poi della Weltliteratur di cui parlava tradizionale, dove il filologo «è un esperto in relazioni contestuali per
Goethe, perchè è lì che si dà l'ampliamento della significatività e della tutte le discipline dove cercare la costituzione di un testo». È; un
forza espressiva, come una sorta di dilatazione, di operazione nella discorso che riguarda tanto il mondo della parola quanto il mondo
quale ognuno resta se stesso ma diventa anche qualcos'altro. Bloom ha dell'immagine, e diventa di filologico antropologico; un discorso nel
posto questo problema, legandolo alla tematica dell'influenza, al quale le ragioni nascoste della filologia classica diventano
romance famigliare, al contrasto fra il vecchio e il giovane, fra il esplicitamente anche antropologia applicata a ciò che ci sta intorno.

vecchio scrittore e il giovane scrittore - introducendo, in altre parole, in In fondo il corso di quest'anno, attraverso l'interrogazione su come si
quella che poteva essere un'idea troppo irenica della tradizione, il svolga il dibattito sul tema dell'Europa - che certo si mescola a ragioni
conflitto: è un conflitto che determina anche, in qualche modo, il politiche e ad altro -, tendeva a suo modo a muoversi con una sua
rapporto tra le generazioni, il passaggio di una trasmissione, poiché particolare ipotesi dentro ragioni di questa natura, con l'aspirazione di
questo è in realtà la tradizione.
 far diventare tale interrogazione di più storia, dialogo, confronto di
Su questo versante risulta allora, con abbastanza esattezza, l'idea, il personaggi, movimento di diverse generazioni, recupero, anche, di
compito di portare la letteratura nazionale, quella che chiamiamo la personaggi, testi ed esperimenti che spesso, senza certe prospettive,
storia nazionale, anche su un versante più ampio. Auerbach aveva restano al di fuori di ciò che noi diciamo pomposamente "la letteratura
ragione a dire come poi si può fare, procedendo con criteri sempre italiana". Tenderà di più, se non mi sbaglio, a recuperare il molteplice
parziali, e invitava a considerare il principio di avere un ascolto, di dei personaggi, il senso vivo dei dibattiti (1940, 1943 e via di questo
avere un attacco, di avere un problema, con cui poi operare dentro passo), facendo entrare di più in gioco, anche se attraverso certe
questa ricognizione più ampia di quella predeterminata dalla tradizione finestre, quello che è il "di là" della letteratura, quella che è l'ansia di
linguistica della propria appartenenza. Prendeva proprio con grande coloro che non leggeranno mai quei testi, ma per i quali, viceversa, quei
generosità il libro di Curtius dicendo che quello era un libro che aveva testi a loro modo dicono qualcosa, che ha un significato comune.

uno spunto, un giusto Ansatz - il problema della retorica, il peso della C'erano anche altre ragioni che entravano nel nostro discorso. In questo
tradizione occidentale -, e a questo punto tutto, in quel cammino, si caso, come hanno detto poi storici illustri, era il senso del nostro secolo:
alla fine del secolo non ci si può non interrogare su ciò che è accaduto, che il presente - parlava anche della letteratura -, non è un piccolo strato
e rappresentare che cosa è in gioco, che cos'è che conta, che cosa può di ghiaccio soltanto; il presente è dato anche dall'acqua profonda che è
essere la nostra comunità rispetto ad altre comunità. Forse non è un dietro, da un tempo più lungo, da una memoria; ed egli ripeteva quello
caso che uno come me, di quella generazione, partito da ansie confuse che diceva in altri modi Wittgenstein quando parlava della parola che è
su qualcosa di più ampio di quello da cui si veniva, si sia poi mosso a sempre «un'acqua profonda». I testi si rinnovano di continuo, diventano
suo modo dentro un'esperienza nella quale la letteratura italiana sempre altro restando se stessi; e dunque il testo del passato, da questo
diventava anche "altra" letteratura, non già per diventare letteratura punto di vista, è sempre il testo profetico.

comparata, ma per una ragione intrinseca: per stabilire che c'è un Di recente un critico americano, Geoffrey Hartman, ha intitolato un suo
dialogo profondo, che avviene attraverso lingue diverse, che fa parte libro, nel quale si interroga sulle ragioni e sull'esperienza della critica
anche di quello spazio specifico che poi chiamiamo - o chiamavamo - la nel nostro secolo, Profezie minori; un testo del passato è qualcosa che
letteratura italiana e la lingua italiana.
 si riferisce al nostro presente, se noi ne siamo capaci; quello che diceva
C'è sotto un problema di fondo: la critica letteraria, la storia letteraria, Humboldt vale in due direzioni: un testo è un'energia che ci giunge, ma
può ancora delimitarsi dentro uno spazio particolare, o ha bisogno di se non c'è in noi energia, quel testo tende ad essere muto e povero;
orizzonti più larghi? E come si organizzano gli orizzonti più larghi quanto più si è detto, nei tempi recenti, che la letteratura ha un
senza che si dia - è il discorso di Auerbach - una specie di fondazione protagonista, il lettore, tanto più bisogna sottolineare la responsabilità
statica, affinché questo paesaggio sia un paesaggio vivo, sia una del lettore. Il lettore è responsabile di qualche cosa, deve decidere di
dinamica non conclusa ma ancora aperta?
 qualche cosa, e in questo senso hanno ragione gli scrittori quando
Machado una volta ha detto che la filosofia della storia - diciamo dicono che il linguaggio è nuovo soltanto quando c'è davvero una scelta
meglio, la storia - può essere anche un «profetizzare il passato»; etica e una scelta cognitiva; il lettore è giudicato da questo punto di
profetizzare il passato, nel senso che il passato non è fatto soltanto di vista - lo si è detto tante volte - dal testo; egli si mette alla prova, per
ciò che si è realizzato: è fatto anche di ciò che non si realizzò, di così dire; e qui allora ecco che possiamo spostarci all'altra parte
possibilità che rimasero, per così dire, inevase; e quelli sono gli spazi dell'itinerario, e alle interrelazioni sull'itinerario che ho detto.

che ancora ci restano, gli spazi sui quali ancora possiamo noi operare; Siamo di là, evidentemente, dalle vecchie dimensioni nazionali; si
sono ciò che ci resta come - se lo vogliamo - luogo della nostra aprono nuove ragioni e nuove prospettive con dialettiche che poi
responsabilità e quindi anche del nostro futuro. Questo che si dice della portano anche a processi di iperglobalizzazione, che vanno assunti però
storia vale certamente ancora di più per i testi, indipendentemente dal dentro questo movimento più generale. Il critico letterario tenta di
tempo a cui si richiamano. Un testo, per definizione, è un testo aperto a entrare in certi contesti, ma alla fine poi urta e solleva il suo contesto, la
sempre nuovi contesti, a sempre nuovi lettori; e il lettore è il mediatore sua specificità; deve, come diceva un grande storico, Febvre - che
tra una vita nuova e una vita antica, e interroga un testo esattamente in almeno per la mia generazione fu una delle grandi scoperte -
questo modo. Un testo lo si interroga - lo abbiamo visto tante volte «generalizzare sul concreto»: deve cioé avere davanti a sé ciò che è
anche in alcuni grandi esercizi critici -, a partire dall'ansia del presente, specifico, ciò che è individuale, ciò che non è riducibile ad altro - il
ritrovando «là» qualche cosa del «qui», e attraverso quel «là» dando un diverso, per intenderci -, e però nello stesso tempo facendolo diventare
senso nuovo al «qui». Era quello che ci ha ripetuto un personaggio che momento di un discorso più ampio e di un discorso comune. Andrebbe
ha resistito alle bufere del nostro secolo come Bachtin, quando diceva ricordato che Curtius, mentre parlava della filologia (aveva scoperto
che per capire veramente Joyce bisognava farla da filologo, e quindi l'esperienza del leggere, dell'incontro con altri testi, e con i contesti che
una filologia tanto più d'avanguardia quanto più legata al passato), fanno parte di quel testo? Una volta Wittgenstein, che era un grande
diceva che la storia letteraria deve trarre la sua forza dalla critica scrittore - uno scrittore non soltanto d'aforismi -, diceva: «non si può
letteraria.
 capire uno scrittore se non si ama il contesto di cui fa parte»; e
L'intenzione di Curtius era introdurre un'altra ragione, un'altra introduceva qualche cosa che non è soltanto un rapporto conoscitivo, è
prospettiva, che è quella che chiamiamo, nelle sue diverse facce, la anche altro: è il rapporto della fiducia, è probabilmente quello che
prospettiva ermeneutica. Era anche una ragione di coloro che hanno aveva detto una volta Kafka quando aveva parlato di un territorio
parlato del leggere come di un tradurre, per cui sembra difficile difficile da attraversare, quello che sta tra la solitudine e l'amicizia. La
distinguere il problema del leggere dal problema dell'individualità da letteratura forse appartiene a uno spazio di questo genere, dove si danno
una parte, e dal problema del comprendere quella individualità esperienze che sono un momento alto dell'Esperienza, ma nello stesso
dall'altra. Un testo verifica quello che disse una volta un grande poeta tempo con una propria specificità. È; poi vero che quella esperienza si
come Mandel'štam: è uno «sciame di prolungate risonanze». È; una lega anche al quotidiano, se nel quotidiano la parola ci serve di
specie di voce che comporta con sé altre voci, e pure se stessa, solo se continuo per avere un rapporto con gli altri e con le cose; e la parola
stessa. Si tratta di «entrare in rapporto con», a questo punto, tra storicità letteraria è una parola come potenziata dal salto della sua referenzialità.
e non storicità, anche se poi ci sono dei problemi che riguardano le È; una parola con un'energia che la fa durare di più, che la consuma di
tendenze della nostra vita contemporanea, non c'è più una meno; è un bene che, più è partecipato, più viene condiviso anziché
contrapposizione vera; come abolire la temporalità in ciò che facciamo diminuito.

e in ciò che leggiamo, se la temporalità è il segno, diciamolo pure, della Dicevo, se pensiamo ancora che la parola, il colloquio, sia parte della
nostra finitudine, della nostra circoscrizione limitata e nello stesso nostra esperienza quotidiana, allora la letteratura è un luogo di
tempo la volontà di trovare altre realtà, altre finitudini? Naturalmente, un'esperienza simile a questa, e potenziata perchè ci porta di là, anche,
sotto, ci sono delle opzioni d'ordine, se non metafisico, radicale: qual'è dal tempo che chiamiamo, in modo molto astratto, il nostro presente.
il nostro rapporto con ciò che chiamiamo la "verità"?
 Resterebbe poi da chiedersi: cos'è questo presente? Da che momento
Hofmannsthal una volta ha scritto - non riesco a trovare una frase più comincia il nostro presente, e quando finisce? Problema complesso, che
straordinaria di questa, perché con la semplicità dello scrittore salta di dovrebbe però limitarsi ad indicare che cos'è il nuovo, il vecchio e tante
là da tutte le ragioni tecniche e metodologiche: «io scopro nel mondo altre cose: il mistero - ma la letteratura ce l'ha insegnato tante volte - il
quello che sono già, ma ho bisogno del mondo per scoprire che cosa mistero del tempo e della sua funzione, della sua ragione esistenziale.
sono». Costituiamo mondo un libro - non c'è bisogno di dire un libro/
mondo - e abbiamo di nuovo un effetto di questa natura: qual è lo Torniamo ancora però sul problema del leggere come luogo di una
spazio della nostra esperienza? E nella nostra esperienza, che cosa può possibile esperienza, e di un'esperienza forse ancora necessaria. Dicevo
rappresentare ciò che chiamiamo il mondo della parola, ciò che prima che leggere vuol dire comprendere, ma comprendere l'altro può
tradizionalmente era il mondo della letteratura?
 comprendere anche me stesso. Prima avevo detto: «scopro quello che
Certo, bisogna subito dire: non ci si può non chiedere se non siamo sono già, ma ho bisogno dell'altro per scoprire quello che sono»;
entrati in un mondo dove vale, o dove vale anche, un'arte del "dopo- quando leggiamo, quale ricerca istituiamo, quale parte abbiamo noi in
parola"; come, in un dilatarsi di questa natura, può trovare posto anche quella lettura? Mi torna di nuovo a mente Hofmannsthal quando diceva:
«io non mi conosco se resto solo me stesso, ma se sono anche un altro». Kafka diceva di quello spazio tra la solitudine e l'amicizia: due cose
Si badi: nel momento in cui leggo l'altro testo, scopro anche "l'altro" molto difficili, perché diventano nello stesso tempo, come avrebbe
della mia parola, scopro quella faccia ancora ignota che pure forse era detto il vecchio Montaigne, "conversazione". Anzi, è stato un poeta a
in me. Io non posso diventare un altro, posso rapportarmi ad altri; sono dire: «un testo è l'incontro di due solitudini, quella che ha scritto e
l'attore ma per un momento divento me. Che cosa ricavo da quella che legge». In quel momento, tuttavia, non sono più solitudini,
quell'esperienza? E ne ho bisogno? Ha ancora, la parola una sua ragione sono altro. E cosa vuol dire solitudine, se non ancora il senso vivo del
di essere costitutiva di una parte non secondaria della nostra esperienza, silenzio, la certezza che la parola è fatta anche di silenzio? Il silenzio
della nostra intimità riflessa? È; un interrogativo complesso al quale è che non è negazione ma è altro. Come si trova la risonanza di questo
difficile dare risposta. Forse anche per questo si discute, in questi tipo di parola? Ci sono altri strumenti? Forse sì, forse no. Li avremo
giorni: ha ancora senso la critica letteraria, e ancora di più la critica usati tutti, in un sistema che diventa sempre più complesso, dove si
italiana? L'interrogativo di fondo è quest'altro: il nostro riconoscerci ha tratta di preservare la complessità nella sua diversità, e anche nelle sue
forse bisogno anche di questa possibilità, o ha anche altre vie? In un aporie? Il testo scritto non è solo un testo del passato, che viene da un
mondo che è il mondo oramai del visibile diretto, c'è bisogno anche di altro luogo e da un altro tempo; è un testo dove c'è qualche cosa che è
altro? Vogliamo usare la parola senza che abbia nessuna ipoteca: c'è di là dal mio vivere. Il testo viene da una sorta, diciamolo tra virgolette,
bisogno anche dell'invisibile?
 di "via"; è uno sguardo che è anche altro, che è passato da qualche
La parola è certamente il luogo anche dell'invisibile; è un'immagine che parte. Vogliamo dire delle parole profonde? Il testo parla non solo a
costruisco io, è qualche cosa che metto insieme, in uno spazio che non nome della vita; parla a nome di una vita che è diventata anche altro, ha
so esattamente quale sia, che è reale e irreale, è il mio spazio ma è incontrato un altro sguardo, uno sguardo vago ma più compiuto. Perché
anche un altro spazio: quale? Cos'è questa «fusione degli orizzonti», mai certe volte si dice che un grande testo ci comunica una sorta di
come diceva Gadamer? È; una specie di realtà che diventa altro? E mi saggezza, se non perché l'invisibile è il "di là" del nostro esistere?

serve ancora? È; un problema scientifico. Per uno come me, che viene Rilke una volta ha detto qualche cosa di questo genere, solo che il "di
da una civiltà nella quale solo pochi possedevano le lucide analisi, là" lo chiamava direttamente la morte, e diceva: «la nostra vita è fatta a
mentre gli altri colloquiavano in altri modi, per incapacità a rinnovarsi, due facce, ma una non è mai rischiarata». E però un'esperienza
la risposta tende ancora ad essere, non soltanto per ragioni difensive, profonda è quella che ricupera anche l'altra faccia; è un sospetto, un
che la critica letteraria, il commercio con i testi, il problema vagheggiamento, quello che ci viene dalla parola letteraria; è un altro
dell'interpretazione, il problema dell'immaginazione storica che modo per far parlare quella che ho chiamato prima la "solitudine".
comprende, ha ancora una parte non secondaria.
 Potrebbe darsi che noi si vada verso altri tempi e verso altre situazioni;
Nel leggere io sono operatore decisivo, tutto dipende da me: se non ci è vero però che nei momenti in cui non sappiamo dire certamente come
sono io, con il mio spazio, non trovo quello spazio. Ma quale è si delinea per noi il futuro - e men che meno se ci sarà ancora il futuro
quest'altro spazio? In questo sforzo - perché capire è uno sforzo -, noi della letteratura -, sappiamo, questo sì, che dovremo preservare la
siamo portati a credere che il dialogare sia un atto pacifico: è invece un complessità, la distinzione, la differenza, e nello stesso tempo però
atto conflittuale, nel quale c'è però qualche cosa che, alla fine, conta per saperla mettere in rapporto con strumenti che non saranno più quelli del
entrambi. Fermiamoci invece a quest'altra ragione: la letteratura è un passato. Alla fine non è più una questione solo di gusto, ma una
luogo dell'invisibile.
 questione di responsabilità. Leggere bene è un'educazione alla
responsabilità, e alla responsabilità dell'altro nel momento stesso in cui
è cura di me; è un rapporto ampio.

È; vero, come diceva qualcuno, che anche una lezione è poi un esempio
di rapporto diretto; due o molti che parlano si scambiano le ragioni,
anche nel silenzio di quelli che ascoltano, e alla fine nasce come un
"colloquio pensante", oltre che "pensato"; un colloquio che ci lascia
qualche cosa, che ci serve di orientamento.

Una volta Gadamer - giocando, naturalmente, sulla ricchezza, in questo
caso, della lingua tedesca -, diceva che spiegare vuol dire poi «indicare
dando orientamenti». Che cosa può dire di più un insegnante, se non
che ha cercato di indicare? Che ha cercato, di là dal suo
disorientamento, di orientare? Che ha cercato di mettere la propria
esperienza a disposizione di altri? È; ovvio a questo punto che ciò che
ha fatto è poi verificato e definito da quelli che vengono dopo. Una
lezione è, alla lettera, una trasmissione; è una traditio: si passa qualche
cosa e si aspetta a vedere se qualche cosa in cui si crede - o si credeva -,
vale o non vale anche per gli altri.

Ecco il modo per scoprire ancora qualche cosa di sé attraverso gli altri;
ed ecco perché io devo ringraziare - in questo caso distinguo subito,
anche se devo ringraziare tanti amici che hanno avuto la pazienza e,
diciamo così, la buona volontà di fingersi degli scolari - devo
ringraziare innanzitutto gli scolari-scolari, perché mi hanno consentito
alcune volte di credere che queste cose non fossero false, e in ogni caso
mi hanno dato la spinta per continuare. Se poi ricorderanno qualcosa,
allora dovrò proprio dire che la tradizione si fonda sulla memoria, e
dalla solitudine alla fine nasce soltanto l'amicizia.

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