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Ladri

di Biblioteche
L’autrice
Gabriella Gribaudi insegna Storia contemporanea presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Ha pubblicato
Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno (1980); A Eboli. Il mondo meridionale in cent’anni di trasformazione (1990);
Donne, uomini, famiglie. Napoli nel Novecento (1999) e, presso Bollati Boringhieri, ha curato il volume Traffici criminali. Camorre mafie e reti
internazionali dell’illegalità (2009). Fa parte della direzione di «Quaderni Storici».
www.bollatiboringhieri.it

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© 2005 Bollati Boringhieri editore

Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86

Gruppo editoriale Mauri Spagnol

L’editore è a disposizione degli aventi diritto dai quali non fosse stato possibile ottenere l’autorizzazione a pubblicare immagini di loro proprietà, e
si dichiara pronto a regolare le intese economiche in base alle norme vigenti in materia di diritto d’autore.

Illustrazione di copertina: Benevento: piazza Santa Maria dopo i bombardamenti dell’agosto-settembre 1943. (Fotografia di Luigi Intorcia;
Archivio fotografico Intorcia).

Grafica di copertina: ​Pierluigi Cerri

ISBN 978-88-339-3580-5

Prima edizione digitale: maggio 2020

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.


Indice
Introduzione

Guerra totale
Parte prima. Una città in prima linea. Napoli 1940-44

1. La prima fase della guerra: i bombardamenti della RAF. Napoli, giugno 1940-novembre 1942

«La guerra iniziò, io ero incinta di Gennarino»

I bombardamenti: giugno 1940-novembre 1942

2. La guerra vista dall’alto

Guerra aerea: strategie e legittimazione

I bombardamenti in Italia

3. I bombardamenti a tappeto

Inglesi e americani: la memoria

4 dicembre 1942

Gennaio-marzo 1943

L’esplosione della Caterina Costa: 28 marzo 1943

4 aprile 1943

Giugno-agosto 1943

I raid tedeschi: inverno 1943-44

Danni collaterali

4. Una resistenza popolare. Napoli, settembre 1943

La cronaca

I saccheggi

Le razzie di uomini

I massacri

I testimoni: racconti e pratiche dello spazio

Autoritratti

Gli «scugnizzi»

La caccia ai fascisti

Antifascismo?

«A difesa e amore della propria città»

Interpretazioni, narrazioni, discorsi sulle quattro giornate

Parte seconda. Nella terra di nessuno. La popolazione civile tra le linee del fronte: dal Volturno alla linea Gustav 1943-44

5. Violenza da terra e violenza dal cielo. Lungo il Volturno, settembre 1943

La violenza degli alleati: i raid aerei e lo sbarco di Salerno

La violenza degli occupanti

«Eravamo un popolo di sbandati»

Obiettivo: il ponte sul Volturno di Cancello Arnone

Mondragone: evacuazione e massacri

Capua: «tanne nun ce steve né ciele a veré né terra a cammenà»

6. Una città distrutta e saccheggiata

Obiettivo n. 13: Benevento

Il saccheggio

7. Fra razzie di uomini e bombardamenti

Il rastrellamento del 23 settembre 1943

Gli ordini tedeschi

Le violenze della Wehrmacht: Teano, Marzano Appio, settembre-ottobre 1943

I bombardamenti alleati: Teano, 6 e 22 ottobre 1943

8. Ebrei napoletani nel cuore della guerra. Tora e Piccilli: un paese virtuoso?

Le leggi razziali a Napoli

Gli ebrei e la popolazione

Gli ebrei e le istituzioni del regime


Torani ed ebrei di fronte a un comune nemico: settembre-ottobre 1943

9. Nove mesi nella terra di nessuno. Dal Garigliano al golfo di Gaeta, settembre 1943-maggio 1944

Il fronte e i tentativi di sfondamento

Storie

Le violenze tedesche

I bombardamenti alleati

Sulle montagne

Una famiglia di ebrei sui monti Aurunci

10. Gli stupri di massa

Il cammino del Corpo di spedizione francese attraverso gli Aurunci

Campodimele e Lenola: due paesi travolti da violenze successive.

Il ricordo delle donne

I documenti del tempo

Francesi e italiani

Le ragioni della violenza

Epilogo

Parte terza. Riflessioni

11. Il racconto del dolore

Il passato oggi

Le immagini della morte di massa: corpi profanati, corpi insepolti

La morte dei cari: le parole e il silenzio

Madri e spose: rappresentazioni simboliche

Perdite irreparabili

Perdite materiali, perdite simboliche

12. Interpretazioni private, discorsi pubblici

Il destino

La morte che viene dal cielo

La violenza nazista

Il ricordo dei collaboratori

I linguaggi pubblici della memoria

Il linguaggio religioso

Zona grigia?

Elenco dei testimoni

Elenco delle abbreviazioni

Note

Introduzione

1. La prima fase della guerra: i bombardamenti della RAF. Napoli, giugno 1940-novembre 1942

2. La guerra vista dall’alto

3. I bombardamenti a tappeto

4. Una resistenza popolare. Napoli, settembre 1943

5. Violenza da terra e violenza dal cielo. Lungo il Volturno, settembre 1943

6. Una città distrutta e saccheggiata

7. Fra razzie di uomini e bombardamenti

8. Ebrei napoletani nel cuore della guerra. Tora e Piccilli: un paese virtuoso?

9. Nove mesi nella terra di nessuno. Dal Garigliano al golfo di Gaeta, settembre 1943-maggio 1944

10. Gli stupri di massa

11. Il racconto del dolore

12. Interpretazioni private, discorsi pubblici

Tavole

Tavola 1

Tavola 2
Tavola 3

Tavola 4

Tavola 5

Tavola 6

Tavola 7

Tavola 8

Tavola 9

Tavola 10

Tavola 11

Tavola 12 e 13

Tavola 14

Tavola 15

Tavola 16

Tavola 17 e 18

Tavola 19

Tavola 20 e 21

Tavola 22

Indice dei nomi

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Introduzione

Il secolo che ci sta alle spalle è dominato da due guerre che ne segnano la memoria. La maggior parte di noi ha convissuto con questa memoria,
con le immagini, con i racconti ascoltati in famiglia. Nessun evento storico, come la guerra, obbliga gli individui comuni a fare i conti con la
«grande» storia, e le guerre del Novecento lo hanno fatto in modo estremo: il numero delle vittime è stato straordinariamente alto (circa 60
milioni di morti), si è trattato di una morte di massa visibile e scioccante con conseguenti traumi psicologici e sociali dovuti a perdite irreparabili,
vite capovolte... Per chi vi è passato la guerra è un evento liminale, che traccia un solco nella vita, ne spezza il racconto in un prima e un dopo
irrimediabilmente diversi. Quel momento straordinario può essere alla base di un mito personale oppure può costituire un trauma non
elaborabile, una ferita viva nella storia individuale, per cui non esiste sostituzione simbolica possibile e per questo ritorna a noi nei racconti
vividamente reale.1

«La violenza di guerra appartiene solo apparentemente alla “storia che si agita” evocata con certa condiscendenza da Fernand Braudel, ma,
proprio al contrario, essa concerne quanto vi è di essenziale nella storia degli uomini. Se si vuole prendere come punto di partenza questi ultimi,
così da tentare una “storia dal basso” chi mai potrà negare che le guerre e la loro violenza hanno costituito per coloro che ne erano stati coinvolti
ed erano sopravvissuti l’esperienza più importante di tutta una vita?»2

Per la mia generazione e per quella delle nostre madri e dei nostri padri la seconda guerra mondiale è l’evento primo, memorabile, la
discriminante del Novecento. Perché è quella che ha coinvolto la popolazione civile al massimo grado attraverso i massacri dei bombardamenti e
degli eserciti di occupazione, la distruzione del paesaggio, delle città, dei villaggi. E per questo è per noi l’incarnazione della «guerra totale».

Guerra totale. Che cosa indichiamo con questa categoria oggi entrata nel vocabolario comune e tanto spesso evocata? Nell’accezione più
utilizzata essa indica il coinvolgimento massimo dei civili: la popolazione ostaggio di nemici contrapposti, obiettivo principale delle armi di
sterminio di massa. I soldati non hanno più come scopo principale quello di uccidere altri soldati, ma di uccidere anche, coscientemente, donne,
bambini, anziani, con i bombardamenti tecnologici, con i campi di sterminio, con i massacri diretti.3

Ma se questi sono gli elementi per indicare una «guerra totale», quale differenza c’è fra questa guerra e quelle del passato? Gli studiosi del
Novecento, oltre ad avere un atteggiamento eurocentrico, hanno anche, spesso, uno sguardo limitato sul loro tempo, il tempo presente. E tutto,
da questo angolo visuale, si presenta come nuovo rispetto a un passato lontano. È anche vero che conosciamo i conflitti armati dei secoli più
lontani solo attraverso le immagini letterarie o iconografiche, i paesaggi infernali di Bosch, le immagini di Goya... Gli storici hanno descritto in
modo asettico le guerre. «Origini e conseguenze delle guerre» recitavano i capitoli dei sussidiari e dei manuali che abbiamo studiato a scuola,
senza nominare mai le perdite e le distruzioni, gli effetti sugli uomini e sulle donne delle armi, dei passaggi di eserciti e compagnie.4

Eppure le popolazioni civili erano state preda degli eserciti fin dalle antichità più remote. Senza tornare troppo indietro nel tempo, pensiamo che
la guerra dei Trent’anni (1618-48) devastò la Germania, riducendo la popolazione urbana del 33 per cento e quella rurale del 44 per cento, che
saccheggi e uccisioni dilagarono nel 1688-89 nel Palatinato, e nel 1700-21 nella grande guerra del Nord tra russi e svedesi.5 Negli stessi territori
di cui ci occupia mo in questo volume le truppe francesi operarono stupri, massacri, razzie nel 1798-99 e gli eserciti unitari intervennero contro le
insorgenze meridionali con stato d’assedio, fucilazioni sommarie, distruzione delle case dei briganti, tortura, presa di parenti come ostaggi.6
Secondo Strachan meglio sarebbe definire l e due guerre mondiali guerre moderne: una guerra moderna non è necessariamente una guerra
totale e viceversa. La guerra in Iraq, ad esempio, è totale per gli iracheni e non per le nazioni occidentali che la combattono.7

La categoria di «guerra limitata» fu coniata per indicare i conflitti settecenteschi; ma, più che sulla realtà, chi l’aveva costruita si era basato sulle
discussioni e sui tentativi illuministi di porre un freno, di mettere delle regole alla guerra, cercando di salvaguardare i non combattenti e i
prigionieri.8 Von Clausewitz aveva poi contribuito, con la sua d escrizione di «guerra come continuazione della politica», a divulgare l’idea che
anche nell’Ottocento governanti e militari riuscissero a controllare le lotte armate. «Lo scopo della guerra, afferma von Clausewitz, è di servire a
un fine politico; la natura della guerra, egli dimostra, è di servire solo a se stessa. [...] In realtà von Clausewitz pensava alla guerra come avrebbe
dovuto essere, [anche se] sapeva come la guerra era stata. [...] Nella pratica bellica lo statista e il comandante supremo continuano a rivolgersi ai
principi di von Clausewitz; invece quando si tratta di descrivere fedelmente la guerra, il testimone oculare e lo storico devono abbandonare i suoi
metodi. [...] I fatti senza una teoria sono muti, ha scritto l’economista von Hayek. Ma se questo può valere per i freddi dati dell’economia, quelli
della guerra non sono freddi; ardono del calore delle fiamme infernali. In tarda età il generale William Tecumseh Sherman che aveva incendiato
Atlanta e messo a ferro e fuoco una bella fetta del Sud americano, espresse con amarezza proprio questa idea con parole che sono divenute
altrettanto celebri di quelle di von Clausewitz: Sono stanco e nauseato della guerra. La sua gloria è affatto insensata... la guerra è l’inferno».9

Von Clausewitz si era pr oposto di «enunciare una teoria universale di ciò che la guerra avrebbe dovuto essere»: condotta con eserciti regolari
«civilizzati», soldati sottoposti a una rigida disciplina, un grado eccezionale di obbedienza dei subalterni ai legittimi superiori e un elevato grado
di regole e convenzioni, un inizio e una fine regolarmente decisi e definiti, una distinzione fra i combattenti legittimi e i portatori di armi
illegittimi.10 Il modello ideale di von Clausewitz è lo sfondo su cui si collocano i compr omessi internazionali raggiunti o tentati per limitare gli
effetti delle guerre. La distinzione fra combattenti regolari e irregolari rispunta ancora oggi nei conflitti «asimmetrici». Ma si trattava, appunto,
di un’idea astratta; furono proprio gli eserciti regolari di leva a dare origine alla prima grande carneficina del Novecento, una grande
confutazione della guerra come continuazione della politica.

La guerra totale è anche una guerra condotta contro un nemico totale, in cui chi combatte è dominato dall’odio verso il nemico e cerca di
annientarlo. In questo senso i conflitti civili sono anch’essi alle origini della guerra totale, per il loro carattere ideologico e per il carico di violenze
cui la popolazione è sottoposta, per la difficile, spesso impossibile, distinzione fra civili e combattenti.11 La guerra civile americana e poi quella
spagnola ne sono i riferimenti paradigmatici, i l terribile assedio di Atlanta e il bombardamento di Guernica le icone simboliche nella nostra
cultura.12

Una guerra totale è stata definita quell a condotta contro le popolazioni dei paesi colonizzati. «Non voglio prigionieri. Voglio che tutti siano uccisi
e tutto venga incendiato. Voglio che vengano uccise tutte le persone in grado di prendere le armi nelle attuali ostilità contro gli Stati Uniti»:13
sono le parole del generale Smith che combatté i ribelli delle Filippine nel 1901, ma le ci tazioni potrebbero essere infinite. Negli scontri con le
popolazioni native uccidere tutti, bruciare i villaggi e distruggere i raccolti era normale. Non ci si poneva il problema dei prigionieri di guerra,
l’ordine era «non fare prigionieri». I primi grandi bombardamenti vennero attuati sulle popolazioni ribelli dei paesi colonizzati. Il principio di
immunità dei non combattenti non è neppure lontanamente contemplato nella guerra coloniale. Il carico di violenza sprigionato contro gli
«indigeni» si legava al profondo razzismo insito nella conquista coloniale e a un nazionalismo aggressivo, inegualitario, antidemocratico. Il
disprezzo e la disumanizzazione del nemico caratteristici del colonialismo si sarebbero riversati nei teatri di guerra europei, nella conquista dello
spazio vitale. «Il nazismo [avrebbe realizzato] l’incrocio e la fusione tra le due figure paradigmatiche dell’alterità: l’ebreo nel mondo occidentale e
il sottouomo nel mondo coloniale».14

Per altri aspetti la guerra totale è la conclusione di un perc orso che nasce con la costruzione delle nazioni ottocentesche caratterizzate da
un’identità militare e virile: la «nazione in armi» rappresentata dai suoi cittadini maschi armati. La Francia rivoluzionaria aveva esteso la
coscrizione a tutti i cittadini maschi, una consuetudine abbandonata nella reazione, che era stata però ripresa dalla Prussia e poi adottata dalle
nazioni europee nel corso dell’Ottocento. L’educazione alla nazione attraverso l’esercito fu uno degli elementi decisivi in quel processo che è stato
definito di nazionalizzazione delle masse: tutti i cittadini combattono per la patria, una patria virile che si esprime attraverso i suoi soldati. Ancora
oggi, nella maggioranza degli stati europei, durante le celebrazioni nazionali sfilano gli eserciti. Scarsa o nulla è la coscienza del ruolo storico e
della simbologia cui sono legate tali parate.
A cavallo dei secoli XIX e XX la nazionalizzazione delle masse si incontrava con la formazione di stati estremamente autoritari, che enfatizzavano il
ruolo dell’esercito e basavano la loro forza reale e simbolica sulle armi, che usavano anche contro i loro cittadini ribelli. Intanto nascevano quelli
che Hobsbawm ha definito nazionalismi etnici: il mito di nazioni culturalmente omogenee, con radici storiche lontane nel tempo, identità
territoriali costruite contro altre identità. Emergevano logiche di tipo totalitario che provocarono una sorta di mobilitazione negativa conducendo
alla costruzione di nemici interni, a politiche razziali, espropriazioni coercitive, deportazioni di popolazioni. Tutto ciò contribuì ad accelerare i
meccanismi di imbarbarimento e di brutalizzazione della guerra.15

Nella prima guerra mondiale tutti questi principi entrarono in gioco: nazionalismi aggressivi dipingevano l’avversario come un demone; si
incominciavano a deportare e rinchiudere in campi reticolati le popolazioni nemiche; i fronti si trasformavano in luoghi di morte seriale e casuale.
I soldati che saltavano dalle trincee verso le linee nemiche sapevano di avere un’altissima probabilità di morire. Per convincere normali cittadini a
uccidere e a farsi uccidere largo spazio fu dato all’ideologia del nemico assoluto, al mito del combattente, alla solidarietà virile. Mosse ha definito
ciò un processo di banalizzazione della morte e di brutalizzazione della politica: popolazioni intere furono condotte con la prima guerra mondiale
a familiarizzarsi progressivamente con la morte.16 Le società furono spinte ad accettare fatalisticamente la morte di massa, i soldati furono
«brutalizzati» nel combattimento. Entrambi parte ciparono alla questione fondamentale della trasgressione all’interdizione dell’omicidio. Mentre
la cultura occidentale fa del «non uccidere» una proibizione capitale, togliere la vita diventa nella guerra un obiettivo e un ordine. Gli eserciti si
costruiscono intorno a due norme contrarie alla vita civile e civilizzata: l’accettazione della morte e la risoluzione ad ammazzare che viola il tabù
dell’omicidio. «Essi trasformano dei civili in soldati che si fanno uccidere e uccidono».17 Per ottenere questo risultato sviluppano una
controcultura specifica, fondata sulla legittimazione a dare la morte in guerra i cui presupposti sono: il per messo delle più alte autorità morali e
religiose; la decolpevolizzazione dell’esecutore il quale non fa che obbedire agli ordini; la legittima difesa: uccidere per non essere ucciso. Questa
legittimazione è meno difficile se l’avversario è devalorizzato, disumanizzato, se non appare più come un uomo simile a noi, ma un essere
differente, inferiore per natura moralmente o anche fisicamente.18

La prima guerra mondiale è una grande smentita del concetto di von Clausewitz: non fu soggetta alla politica, anzi al contrario scivolò senza
controlli verso obiettivi assoluti e nichilisti, vide gli eserciti regolari combattersi in maniera totale e fuori delle regole. Fu applicata per la prima
volta una tecnologia di morte seriale che avrebbe toccato il suo apice nella seconda guerra mondiale, che per questo è ricordata come la «guerra
totale» per eccellenza. «Le guerre totali della nostra epoca hanno questo carattere specifico: sono il frutto dell’incontro mortifero e programmato
della tecnica, basata sullo sviluppo scientifico, con la violenza esistente nel cuore della società di massa».19

I simboli della morte di massa tecnologica sono i bombardamenti aerei e le camere a gas. Fra la prima e la seconda guerra mondi ale si attuava
un processo di perfezionamento delle tecniche, che sarebbe culminato nella bomba atomica, con lo scopo dichiarato di trovare armi che
uccidessero quante più persone possibili. E le persone che entravano nel mirino di tali armi non erano i soldati ma le popolazioni civili, le quali
diventavano il bersaglio della guerra, veri e propri ostaggi per spingere il nemico alla disfatta. La strategia di guerra si trasformava in una
strategia apertamente terroristica: bisognava seminare morte e panico nel campo avversario per disorganizzarlo, terrorizzarlo, per spingere i
suoi governanti e i suoi comandi militari alla resa. Il quinto comandamento era ormai del tutto capovolto. Ritornavano attuali le parole
pronunciate contro la guerra da Voltaire due secoli prima: «La cosa più straordinaria di queste infernali intraprese è che ciascuno di quei capi
assassini fa benedire e invoca solennemente Iddio, prima d’andare a sterminare il suo prossimo. Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare
solo due o tremila uomini, non starà a ringraziar Dio per questo; ma quando è riuscito a sterminarne almeno diecimila col ferro e fuoco, e inoltre,
per colmo di grazia, ha distrutto qualche città da cima a fondo, allora si fa cantare a quattro voci una lode a Dio».20

Caratteristica precipua della guerra tecnologica è che la morte è data da qualcuno che non si vede e che a sua volta non vede chi uccide. Questo
produce da un canto deresponsabilizzazione degli assassini, che tali non si ritengono – i piloti che hanno lanciato le bombe si sono sentiti e sono
stati celebrati come eroi –, e dall’altro una narrazione mistificata della guerra, che cela le vittime con discorsi e metafore allusivi (danni
collaterali, bombardamenti chirurgici ecc.) su cui mi soffermerò ampiamente quando parlerò dei bombardamenti.

L’immagine della guerra totale tecnologica ha tuttavia offuscato altri elementi presenti su entrambi i fronti nella seconda guerra mondiale,
ricomparsi nei conflitti di fine Novecento. Ai metodi moderni si sono ampiamente mescolati metodi antichissimi: stupri, saccheggi, massacri
compiuti vis-à-vis dai soldati che avanzano in territorio nemico. La popolazione presa in ostaggio con i bombardamenti diventa anche preda di
violenze inusitate, bottino di guerra, come lo era per gli eserciti mercenari dei secoli passati.

Le popolazioni esposte alle invasioni sono particolarmente fragili, e tanto più lo diventano quanto più gli eserciti occupanti sono pervasi da
ideologie o sentimenti razzisti, che tendono a disumanizzare gli abitanti dei territori occupati, e producono nei loro confronti disprezzo dichiarato
o latente, che rende più facile l’offesa fino alla morte. Il caso più esplicito è quello dei tedeschi sul fronte orientale,21 ma un atteggiamento
analogo ebbero gli stessi soldati sul fronte italiano e in particolare meridionale, quando gli ex alleati divennero «traditori».22 Gli americani si
comportarono, d’altro canto, in modo non diverso sul fronte del Pacifico, dove i giapponesi venivano descritti come una razza subumana e
bestiale. Verso di loro vennero attuati i bombardame nti più crudeli fino all’attacco con la bomba atomica; i soldati americani non avevano remore
ad accanirsi con barbarie sul corpo dei loro nemici, portandosi i loro crani o altre parti del corpo in patria come trofei di guerra.23 I giapponesi, a
loro volta, si comportarono in modo analogo con i cinesi. Tali dinamiche sono manifeste oggi nelle guerre asimmetriche condotte in Afghanistan o
in Iraq: bombardamenti sui civili, brutalizzazione quotidiana della popolazione, rastrellamenti, torture disumanizzanti verso i prigionieri.

Connesso al discorso delle invasioni è quello della «resistenza»: la resistenza all’occupante scaturisce da quello stesso processo che ha condotto
alla costruzione degli eserciti di leva. «Il secondo aspetto del fenomeno della leva di massa è l’interiorizzazione dell’obbligo di mobilitarsi per la
difesa della nazione o della rivoluzione, anche in assenza dello stato. Si tratta di un volontarismo ideologico che porta alla guerriglia, alla guerra
popolare o alla guerra di liberazione».24 Ma, in assenza di uno stato, non esiste una legittimazione ufficiale a combattere e uccidere. Chi dà la
legittimazione? E chi è legittimato a portare le armi? Di volta in volta vi sono coloro che considerano una guerriglia una lotta di liberazione e
coloro che giudicano i combattenti dei banditi. In Spagna la lotta contro le truppe rivoluzionarie francesi fu ed è considerata una resistenza
nazionale contro l’invasore, in Italia un’insorgenza reazionaria contro truppe portatrici di principi di libertà ed eguaglianza. E si potrebbero fare
molti altri esempi. Gli eserciti dell’Italia unita combattevano contro i ribelli meridionali chiamandoli briganti, questi combattevano in nome dei
Borboni contro gli invasori piemontesi. I tedeschi definivano i partigiani banditi e non legittimi combattenti, rifiutando loro lo status di prigioniero
di guerra. Oggi la questione si è riproposta con i combattenti islamici da parte degli americani.

La distinzione fra i combattenti legittimi e i portatori di armi illegittimi era stata fatta da von Clausewitz, con l’idea astratta di sottrarre la guerra
alle violenze di bande armate non controllate da un’istituzione responsabile. I trattati internazionali usarono tale distinzione per regolamentare le
occupazioni militari, a tutto vantaggio degli invasori. In tale interpretazione colui che non può essere distinto dalla divisa militare, l’illegittimo
portatore di armi non è protetto dal diritto internazionale che difende i prigionieri di guerra. Una norma che applicarono i tedeschi contro le
resistenze armate in Europa e che oggi riprendono gli americani con i prigionieri di Guantanamo.25

Il concetto di resistenza si lega dunque storicamente al concetto di lotta armata contro l’invasore della nazione. È speculare a quello di esercito
nazionale: sono gli uomini armati che difendono il suolo patrio, che ne hanno il dovere e poi l’onore. Durante la seconda guerra mondiale la
Resistenza, ricordata non a caso con l’iniziale maiuscola, divenne il simbolo della lotta al nazismo e al fascismo. Non si trattava di combattere
contro un occupante qualsiasi, ma contro un progetto di colonizzazione totalitaria dell’Europa. Coloro che si opposero all’invasione nazista e ai
governi che l’appoggiarono lottarono anche per creare governi democratici e in nome di ideali di libertà e di solidarietà umana. E la lotta si svolse
non soltanto tra partigiani e truppe occupanti ma anche fra i cittadini di uno stesso territorio schierati su opposti fronti, in quella che è stata
definita una «guerra civile europea».26 Da questo punto di vista la resistenza con i suoi ideali divenne il mito fondatore degli stati che sorgevano
nel dopoguerra, e, in linea con i valori e le simbologie che avevano fondato le nazioni, furono gli uomini armati, i partigiani, a simboleggiare la
nuo va patria emersa dalla guerra, e non tutti coloro che si erano opposti al nazismo, mettendo spesso a rischio la vita, con atti di solidarietà,
disobbedienza, resistenza senz’armi. Le loro figure quindi sarebbero finite sullo sfondo: residuali, zona grigia, anonimi. La resistenza e il suo mito
giocarono un ruolo precipuo in Europa, dopo la seconda guerra mondiale, per salvare l’onore di uomini e di nazioni che avevano subito sconfitte
ritenute ignominiose.

La seconda guerra mondiale è stata definita una guerra «femminile», per il ruolo delle donne nella vita quotidiana, per l’assenza del fronte, per il
ruolo ambiguo dei soldati, per essere stata per molte nazioni una guerra di retrovie e di occupazione. «Nella memorialistica come nella
produzione letteraria e filmica la seconda guerra mondiale è fatta più che di scontri e di battaglie, soprattutto di fughe e di delazioni, di fame e di
bombardamenti di città indifese, di anabasi e di prigionie, di vicissitudini di ogni tipo della vita quotidiana. In una guerra siffatta le donne sono
coinvolte in una misura tendenzialmente pari a quella degli uomini».27 Uomini prigionieri, uomini in fuga, sconfitte. E spesso sono le donne a
occupare anche la memoria dei soldati: sono donne salvatrici, donne che consolano. Alla fine esse possono risultare le vere vincitrici della guerra.
«Le guerre totali hanno generato o accentuato crisi di identità maschile. Nella Francia del 1940 un milione e mezzo di prigionieri segna la
disfatta della nazione e l’incapacità dei suoi uomini di difenderla».28 «Le conseguenze concrete della disfatta sottolineano un fallimento del virile
di cui l’accerchiamento, la resa, l’esodo, la presa dei prigionieri sono le manifestazioni più evidenti. Mobilitati dietro le bandiere, gli uomini non
hanno impedito l’invasione del paese». 29 Nel settembre 1943 vennero fatti prigionieri dai tedeschi 650000 soldati italiani, altrettanti circa erano
finiti prigionieri di inglesi, americani, francesi, russi, in seguito alle sconfitte in Africa e in territorio sovietico.30 Un’altra gran massa, stanca della
guerra e abbandonata dagli alti comandi si era data alla fuga dopo l’armistizio e non aveva più voluto combattere. In Italia come in Francia furono
i partigiani riconosciuti ufficialmente a incarnare nel dopoguerra il mito della nazione in armi. «Il mito n azionale si ricostruì, in Francia,
sull’immaginario della Resistenza armata: l’epopea del maquis e del partigiano, l’insurrezione delle città, la liberazione di Parigi. Esso si fondava
su una memoria maschile della Resistenza che celebrava una nazione che aveva ritrovato la sua dignità attraverso le armi. E che rifiutava di
pensarsi come un popolo femminile, un popolo vittima, donna e vittima civile».31

In Italia, nazione sempre sospesa tra disegni di grandeur e drammatiche sconfitte, la paura degli uomini di essere interpretati come un popolo
femminile, incapaci di fare la guerra, è ancora più forte, anzi è un vero terrore. 32 L’educazione militarista impartita nelle scuole fasciste non era
bastata a «trasformare un popolo di suonatori di mandolini» in eroi virili, secondo il disegno di Mussolini. Così nel dopoguerra furono i partigiani
a incarnare il mito della difesa della patria e della fondazione della repubblica. E nel dibatt ito odierno fra ortodossi e revisionisti gli avversari
sono uniti da questo concetto di patria virile: quello che conta e su cui si discute sono le ragioni dei combattenti, di chi stette da una parte o
dall’altra. Tutto il resto è bollato come zona grigia, con un termine improprio, che non dà conto della ricchezza di esperienze di una gran parte
della popolazione, in particolare di quella femminile.33 Un punto di vista che mi propongo di ribaltare, mettendo al centro della mia analisi i
protagonisti di una resistenza popolare e civile.

Tutte le regole ufficiali per limitare la guerra erano state infrante nella seconda guerra mondiale, in modi diversi da tutti gli eser citi, ma nel
dopoguerra i vincitori, russi, inglesi, americani, rifiutarono di giudicare le proprie condotte militari: passarono sotto silenzio le fosse di Katyn, gli
stupri di massa operati dai russi sul fronte orientale e dalle truppe del Corpo di spedizione francese sul fronte occidentale, il bombardamento di
Dresda piena di profughi, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Al giudizio arrivarono soltanto i gerarchi nazisti, che, peraltro,
rappresentavano effettivamente il culmine estremo di quel processo di brutalizzazione della politica e di banalizzazione della morte (per usare
ancora le due espressioni di George Mosse) che seguì la prima guerra mondiale per condurre alla seconda. È noto anche che furono proprio i
nazisti a difendersi cercando di equiparare le uccisioni dei campi di sterminio a quelle dei bombardamenti alleati. Tutto ciò impedì di criticare
liberamente la guerra e i modi di combatterla.

Non è un caso che non esistano quasi studi sui bombardamenti della seconda guerra mondiale e che persino fra le popolazioni che li hanno subiti
abbiano fatto presa le giustificazioni e i linguaggi dei militari.34 La riflessione sui bombardamenti e sulle guerre è sempre stata, soprattutto in
Italia dove spesso la storia è sommersa e mistificata nel dibattito politico, vittima di interpretazioni influenzate da rigide posizioni politiche. Fino
alla guerra in Iraq erano le sinistre a tacere sui bombardamenti, per paura di giungere a e quiparare la violenza nazista a quella degli alleati
democratici. Ricordo gli antifascisti che dicevano: stavamo sotto le bombe e le benedivamo perché ci portavano la libertà. Oggi i termini si sono
capovolti. Sono quelli di sinistra, spinti dalle ragioni del presente, a «rivedere» le posizioni di un tempo e quindi a rifiutare di celebrare
acriticamente un evento che è stato liberazione per molti ma anche morte per tanti altri.35 Dunque il problema è sottrarre la questione a uno
sterile dibattito ideologico, ragionare liberamente sulla guerra e sulla terribile escalation delle armi distruttive cui il secolo passato ha assistito,
sulle ragioni e le dinamiche della violenza. Un modo diverso di vedere la guerra che studi nazionali e internazionali hanno ado ttato ormai da
qualche anno: in contrapposizione a una storia militare che cela le vittime delle armi distruttive, un punto di vista dal basso, dalla parte della
popolazione, una storia sociale e culturale dei conflitti armati. È il tentativo di entrare in una dimensione reale dei conflitti armati attraverso la
vita della gente, dando un volto agli individui nascosti dietro i numeri della morte seriale, i volti loro e dei loro congiunti, cercando una «via di
accesso» al vissuto della guerra totale.36 Per fare questo bisogna calarsi sul territorio e confrontare la documentazione militare con quella degli
archivi locali e nazionali, con le testimonianze, le memorie individuali, familiari, di gruppo, di comunità.

Il territorio da me messo a fuoco si può senza dubbio definire un territo rio esemplare per studiare le dinamiche della violenza nella guerra totale
in Europa occidentale. Napoli, la più grande città meridionale e una delle più grandi d’Italia, cruciale ai fini della strategia militare poiché dal suo
porto partivano le navi con i soldati e i rifornimenti per l’Africa, è stata la città più bombardata della penisola. Il territorio campano e del basso
Lazio subì inoltre i raid aerei legati allo sbarco di Salerno del 9 settembre 1943 e all’avanzata delle truppe alleate, fino alla lunga battaglia di
Cassino, sulle cui linee le donne avrebbero sofferto anche gli stupri di massa del Corpo di spedizione francese nel maggio 1944. Nello stesso
tempo le popolazioni ebbero a subire le violenze della Wehrmacht, particolarmente efferate in un momento in cui i soldati tedeschi, che poco
prima avevano combattuto con gli italiani in Sicilia per impedire lo sbarco angloamericano, portavano a termine propositi di ritorsione verso un
ex alleato considerato traditore.37 Tutto il territorio fu attraversato dalle linee di fortificazione tedesche e dai combattimenti fra opposte armate,
e, in quanto «zona di operazione», fu sottomesso alle leggi di guerra tedesche. Contro l’occupazione si svilupparono una resistenza civile e una
resistenza popolare armata per gran parte ignorate o sottovalutate dalla nazione e molto s pesso scarsamente riconosciute anche a livello locale.
Fenomeno anche questo di grande interesse poiché ci permette di analizzare i processi attraverso cui nel discorso pubblico vengono scelti o
esclusi gli episodi da ricordare.

Le dinamiche della guerra totale si sono dunque sviluppate in una misura estrema; e ciò ci consente di indagare territori ed eventi ai margini
delle interpretazioni ufficiali, di provare a rispondere a domande difficili.

Avevo iniziato la ricerca sulla guerra a partire dall’occupazione e dagli eccidi compiuti dalla Wehrmacht. Nei miei percorsi sul territorio,
inseguendo le tracce delle violenze naziste, mi imbattei per la prima volta nei racconti dei grandi bombardamenti. Ovviamente ne avevo la
conoscenza scientifica, ma non ero entrata mai nella dimensione reale dell’evento. A Capua ad esempio, mentre raccoglievo le testimonianze sulle
uccisioni dei nazisti, una sessantina nella cittadina, venivo a scoprire che i bombardamenti avevano provocato in pochissimo tempo circa mille
morti. Mi ero già trovata in una situazione analoga seguendo due tesi di laurea sui campi di internamento fascisti in Campania, a Solofra e a
Campagna. Allora andavamo cercando le memorie dei campi, ci stupivamo che fossero pressoché assenti, che non fossero rimaste tracce dei
luoghi di persecuzione. Poi, nel condurre la ricerca, venimmo a scoprire che sia a Solofra sia a Campagna si erano verificati due grandi
bombardamenti, che avevano provocato centinaia di morti. Allora mi ero detta: che pretendiamo dalla gente? La memoria della guerra per loro è
questa. Anche la loro è stata una «persecuzione», noi andiamo invece a chiedere altro, passiamo sopra la loro storia, non accogliamo la loro
sofferenza. Domandiamo a dei testimoni che hanno visto i loro cari uccisi, la loro cittadina con le case, le chiese, i monumenti simbolici più
importanti distrutti, se si ricordano del campo di internamento. Al testimone che ci dice – ho visto le morti, ho avuto morti – noi proponiamo altre
questioni. E ovviamente daremo spiegazioni sbagliate alle dinamiche della memoria e dell’oblio. Sono queste le occasioni in cui ho cominciato a
pormi delle domande e ad avere dubbi.

Quale peso hanno le morti? E la quantità non ha pure una sua rilevanza? Provoca una cerchia di dolore estesissima, ha conseguenze di lungo
periodo – famiglie distrutte, orfani, solitudine, rovine – che non si possono contare né narrare... E se la brutalità della violenza nazista non ha
bisogno di commenti, non è forse terribile morire soffocati sotto un bombardamento, trepidando fino all’ultimo, sperando nella salvezza,
doloranti, feriti? E se chi veniva messo al muro era costretto con ferocia a contemplare la propria morte, non contemplava pure la propria morte
chi moriva lentamente sotto le macerie? Quale differenza tra le violenze, quale giudizio diamo noi, quale giudizio esprimono le persone che le
hanno subite?

Il linguaggio militare mette «tra parentesi l’essenziale della guerra»38 che è sia per i soldati sia per i civili la dimensione della morte e della
sofferenza. Quando i capitani dei Bomber Commands descrivono l’azione, parlano di obiettivi strategici, di strutture colpite, di danni inferti;
l’umanità che brulica in mezzo agli obiettivi strategici non esiste, non compare. La guerra vista attraverso gli occhi degli strateghi bellici è una
serie di postazioni , di linee, di armi, di tonnellaggi di bombe, di schieramenti su una mappa. Una visione dall’alto che ne rifiuta la drammatica
concretezza e che la trasforma in una rappresentazione accettabile.39

Qui cerchiamo invece di entrare nel vissuto della guerra e della sofferenza. Prendiamo in considerazione i rapporti dei militari, ma li confrontiamo
con una documentazione che, con un vocabolario oggi fuori moda, potremmo definire documentazione dal basso, tentando di ricostruire i vari
punti di vista sugli eventi. I documenti si incrociano con i racconti dei testimoni. Più narrazioni si intessono o si contrappongono: i rapporti
militari, le relazioni dei prefetti, dei giudici, dei carabinieri e i racconti di chi ha visto e vissuto bombardamenti e violenze vis-à-vis. Emergono le
visioni del mondo, il senso che la gente ha dato alle cose, le sue spiegazioni. Emerge il dolore rimosso.

Cercare di penetrare la dimensione del dolore non significa semplicemente suscitare facili emozioni, ma entrare empaticamente in una
dimensione altra, adempiendo a una funzione storica importante, quella che Ricœur definisce un’elaborazione della memoria che è insieme
elaborazione del lutto (travail de mémoire et travail du deuil).40 Quando lo storico chiede al testimone di narrare la propria esperienza, lavora
insieme a lui all’elaborazione del ricordo e prende in carico la sua storia. Nel passaggio dal testimone allo scrittore «l’esperienza catastrofica si
trasforma in una storia di cui il soggetto diventa l’autore, a condizione che essa venga presa in carico da un altro, disposto a farsi coinvolgere in
nome dell’insieme degli esseri umani compassionevoli».41 Il compito dello studioso è quello di contribuire all’elaborazione collettiva del lutto
facendo valere il suo lavoro di ricerca della verità nello spazio pubblico.42 Michel de Certeau presenta lo storico come colui che si pone ai limiti,
su quella frontiera fra i morti e i vivi su cui si erano situati Dante e Virgilio: egli cerca di entr are nel regno dei morti, cerca di comprendere
questo regno, che costituisce anche alterità, e nello stesso tempo tende a «placare i morti che incombono ancora sul presente e ad offrir loro
delle tombe scritturali». Le ombre dei morti tornano «m eno tristi nelle loro tombe. Il discorso ve le riconduce. Esso è deposizione. Ne fa dei
separati. Le onora con un rituale che mancava loro».43

L’appello alla memoria non è, tuttavia, sufficiente. Oggi le memorie affiorano in massa, e continuamente siamo investiti dall’appello a ricordare.
«Devi ricordare!» Imperativo angoscioso e ispiratore della peggiore retorica, determina spesso il risultato opposto, provocando ripulsa e oblio.
Ora si propone spesso il problema inverso: un rumore eccessivo, informazioni che si affastellano e frastornano, ottundono la comprensione. Si
ripresenta, in un certo senso, l’incubo di Primo Levi: l’impossibilità di essere ascoltati e capiti. La sofferenza, prima che indicibile, si mostra
inaudibile.44 Bisogna trovare allora le parole giuste, il vocabolario adatto a raccontare.

Come molti testimoni della Shoah hanno affermato, è sempre stato difficile, quasi impossibile, raccontare la dimensione di una sofferenza
estrema. La lingua scritta, ha detto qualcuno, ha dei «buchi» nel vocabolario, non riesce a rendere l’indicibile, che può essere espresso solo da
frasi spezzate, parole monc he, allusioni.45 È questa una dimensione che l’oralità comunica con molta più forza del racconto scritto, perché rende
possibile esprimersi attraverso l’uso del dialetto, del linguaggio familiare e quotidiano; permette di accostare immagini, di lavorare con la
memoria riproducendo sequenze spezzate, andando avanti e indietro nel tempo, oltre la cronologia ufficiale degli eventi. In questo caso, più che
mai, la fonte orale ha un ruolo di grande importanza . I racconti delle agonie, dei corpi dei cari distrutti, o quelli degli stupri ci restituiscono un
vissuto della guerra non comparabile con nessuna altra fonte. La storia, come ho già detto, è anche un esercizio di comprensione, di immersione
in un mondo altro. Ed è questo che ci permette di scoprire le rilevanze, ma anche di comunicare agli altri le conoscenze acquisite con una
narrazione credibile, partecipata.

I testimoni, molti di loro illetterati e di estrazione popolare, hanno la capacità di raccontare gli avvenimenti con pochissime parole, con frasi e
immagini icastiche. È il loro, per usare la definizione di de Certeau, un «saper dire», un’«arte del dire», un’arte delle sospensioni, delle citazioni,
dell’ellisse, della metonimia. La narrazione acquista un ruolo teorico, restituisce importanza scientifica al gesto tradizionale che nasce dalle
pratiche ordinarie. Il racconto popolare non è solamente un oggetto testuale da trattare, offre un modello al discorso scientifico, forma la realtà e
produce un effetto di evidenza.46 Molti dei testimoni parlano per la prima volta della loro esperienza. Per ragioni che saranno oggetto della nostra
analisi, la loro interpretazione non è mutuata da un discorso ideologico o retorico. Prevale nelle testimonianze la dimensione narrativa, che
assume una particolare rilevanza nel volume.

D’altro canto, a differenza di altre discipline la «storia» ha un carattere narrativo. Lo storico non distingue tra pr oposizioni teoriche e
proposizioni storiche, ma, sulla base delle informazioni delle fonti e del sapere accumulato di cui dispone, crea un racconto e usa la retorica per
comporre il messaggio e persuadere il lettore.47 Il racconto inoltre ha un livello estetico, utilizza la metafora, rimanda a immagini dense. Il ruolo
del narratore è cruciale nella costruzione di un testo storico. Lo storico sceglie i pezzi da narrare, scompone gli oggetti trovati per ricomporli nel
testo, rappresenta il filtro tra verità e testo. Un’idea positivista della storia attribuisce allo studioso il ruolo di ricostruire una serie di eventi
attraverso fonti «certe»; queste costituiscono la base neutra di un discorso fattuale, stabile e definitivo, che sarà inficiato soltanto nella misura in
cui altre fonti lo smentiranno o ne integreranno la versione. In questa visione alcune fonti sono giudicate inattendibili perché cariche di
soggettività (come le testimonianze, ad esempio), altre invece sono considerate documenti diretti, inoppugnabili, non soggetti a interpretazione.
Tale concezione positivista è ancora largamente diffusa tra gli storici, spesso in modo inconsapevole, ed è anche assai diffusa nel senso comune.
Vi è invece un’idea dinamica della storia: i livelli, i punti di vista e i soggetti si moltiplicano; si sceglie spesso il piano della microstoria contro le
metacostruzioni; non si accettano supinamente le fonti, ma le si critica e le si interpreta tutte quante. Si è consapevoli che ogni fonte è essa
stessa interpretazione e va vagliata e criticata. Come si è consapevoli di fare noi stessi un’operazione di traduzione e di interpretazione
influenzata dalla nostra soggettività. Paradigmi scientifici acquisiti, sensibilità personali e di genere influiscono sui risultati di un’analisi. Che sia
una donna o un uomo, ad esempio, a occuparsi di guerra, non è probabilmente secondario. È importante avere consapevolezza di ciò e farlo
diventare un elemento manifesto dell’analisi, comunicarlo al lettore, svelare le dinamiche della costruzione del testo, per rendere possibile la
smentita, il dubbio, la verifica.

Ho scelto di narrare la guerra totale (i bombardamenti, le violenze naziste, gli stupri, le molteplici facce della resistenza della popolazione)
incentrando l’analisi su alcuni casi emblematici all’interno del territorio considerato; ma ho continuamente fatto dialogare testimonianze e
documenti diversi, in una prospettiva dall’alto e dal basso, nel tentativo di tenere insieme il racconto individuale e il contesto generale. Molte di
queste storie non avevano avuto spazio nella dimensione pubblica, anche quelle che avrebbero potuto essere inserite a pieno titolo nella mitologia
della nazione, come i racconti degli episodi di resistenza che caratterizzarono il periodo breve ma intenso dell’occupazione tedesca. Una
resistenza spontanea e popolare, non inquadrata in formazioni politiche ufficiali, visti i tempi brevi e convulsi in cui si è dovuta organizzare, e per
questo sottovalutata o incasellata nelle categorie di rivolta o di jacquerie apolitica, come nel caso dell’insurrezione di Napoli. La dimensione
micro ha reso possibile, inoltre, prendere in considerazione tutti quegli atti di disobbedienza, di opposizione, di solidarietà con coloro che
venivano ricercati e braccati dagli occupanti, che sono stati definiti di resistenza civile,48 e di mettere a fuoco quelle pratiche che, con de
Certeau, potremmo definire di resistenza ordinaria: le azioni che i deboli pongono in atto contro i potenti, che contraddistinguono la lotta
quotidiana di chi senza armi deve combattere un potere dittatoriale, che indicano la capacità della gente di opporsi a comandi iniqui, di
mantenere margini di autonomia e di giudizio nonostante debba subire un regime ferreo di subordinazione e di oppressione.49

I nostri protagonisti sono infine testimoni di violenze opposte e portatori di discorsi spesso dissonanti rispetto a quelli pubblici. Che cosa significa
questo, in un momento in cui voci diverse si levano contendendosi il ruolo di vittime e prestandosi a volte alla manipolazione del gioco politico?50
La caduta delle barriere ideologiche che hanno governato il mondo della guerra fredda ha e ffettivamente generato una lotta fra gruppi diversi
per affermare le proprie memorie e le proprie ragioni storiche, manipolando il passato, usando le vittime in modo spregiudicato e cinico. C’è il
rischio che la moltiplicazione dei punti di vista, l’espansione della memoria diano origine a una sorta di «ostruzione, rendendo impossibile capire
fenomeni sconosciuti», che «la sovrabbondanza di memoria produca sovrabbondanz a di conformismo, una saturazione che impedisca giudizio e
critica».51 Ma le grandi narrazioni ideologiche non erano state da meno, scegliendo i discorsi, gli eventi e i gruppi da ricordare o da mandare
all’oblio, inquadrando spesso la realtà in rigide gabbie di senso in cui i soggetti non avevano voce. Dunque ben venga l’apertura di memorie
plurali. A noi storici il tentativo di capire e di spiegare le dissonanze fra memorie, fra racconti e realtà, la manipolazione a cui le rappresentazioni
delle vicende passate sono state sottoposte, l’elaborazione individuale e collettiva degli event i, le ragioni dei soggetti. Queste storie meridionali
emergono oggi da un lungo oblio, cui sono state consegnate dalla inadeguatezza di noi storici, ma anche dalle rappresentazioni rigide, dalle
interdizioni che hanno caratterizzato la mitologia nazionale. Esse non hanno trovato un linguaggio pubblico con cui esprimersi e sono rimaste
racchiuse nelle memorie individuali, familiari, di comunità, oppure consegnate al silenzio.

Non sono nata come studiosa esperta di guerra, ma ci sono arrivata indirettamente, condotta dalle storie di vita. Nei miei lavori meno recenti
avevo quasi tralasciato la guerra, l’avevo messa da parte in quanto evento eccezionale, interruzione nel corso della storia lunga, analizzando il
prima e il dopo. Ma gli eventi eccezionali non sono una parentesi, cambiano il corso della storia, le traiettorie individuali, le identità dei gruppi,
quando non spostano popolazioni e confini, non distruggono comunità intere. Come i riti, sono eventi liminali, in cui si rimescolano le strutture
sociali. Sono scenari in cui compaiono vecchi e nuovi attori sociali, i cui atti sono fondamentali per capire quel momento storico e i successivi. Per
questo sono ritornata sui miei passi e ho deciso di prendere in considerazione un evento che segnava le storie di tutta una generazione e che io
stessa, se pure in altri luoghi, avevo sentito raccontare fin dall’infanzia.

Furono inoltre John Davis e Nicola Gallerano, che stavano preparando un convegno presso l’Università del Connecticut, a Hartford, che si tenne
poi nell’aprile 1995 su Italy and America 1943-44, a sollecitarmi a rileggere le storie raccolte a Napoli e in Campania dall’angolo visuale della
guerra. A loro, con un particolare pensiero a Nicola che non è più con noi, va il mio primo riconoscimento. Si può dire che da allora la guerra mi
ha trascinata per la forza delle storie, per i terribili interrogativi che suscita sulla violenza, per il coinvolgimento che induce.

In un percorso di ricerca lungo e complesso non si contano i colleghi che hanno fornito suggerimenti, consigli, critiche. Sarebbe impossibile
nominarli tutti. Devo molto alle discussioni e alle riflessioni sviluppatesi nel corso della ricerca nazionale finanziata dal ministero dell’Università
sulle stragi naziste, diretta da Paolo Pezzino, in cui ho guidato l’unità dell’Università di Napoli. Ringrazio tutti i componenti del gruppo di ricerca,
e in particolare Salvo Ascione, Andrea De Santo e Maria Porzio che hanno lavorato con me nell’unità napoletana, Dianella Gagliani e Paolo
Pezzino, con cui ho avuto uno scambio intenso di opinioni. Con Dianella ho anche condiviso osservazioni e idee sulla guerra dal punto di vista del
genere. A Salvo Ascione devo l’importante ritrovamento presso l’Archivio militare territoriale di Napoli delle inchieste dei carabinieri svolte nel
1944; egli mi ha inoltre consentito di utilizzare alcune delle interviste da lui condotte sulle quattro giornate di Napoli nell’ambito di una ricerca
finanziata dall’Istituto Campano per la Storia della Resistenza nel 1998, sbobinate successivamente con i fondi della ricerca su citata. Ringrazio
per la collaborazione l’Istituto Campano.

Vorrei ringraziare ancora Marco Buttino che in una lunga consuetudine di scambi mi ha offerto spunti preziosi di riflessione sulla guerra e le
popolazioni coinvolte. Una gratitudine particolare va a Claudio Pavone, che ha partecipato ad alcuni dei seminari sulla ricerca con la generosità e
l’intelligenza che lo contraddistinguono, costituendo per me un riferimento ineludibile.

A Giovanni Starace, oltre che la pazienza mostrata nel sopportare una moglie intenta a scrivere e a pensare alla guerra i sabati, le domeniche, i
giorni festivi, devo la lettura di molte parti del manoscritto e suggerimenti e osservazioni sui racconti di vita.

Carolina Castellano ha tradotto per me la documentazione tedesca. Pietro Maturi mi ha fornito consigli linguistici sui dialetti.

Un ricordo particolare ad Alfredo Salsano, direttore editoriale sensibile e colto. Ho avuto con lui un dialogo sul libro che purtroppo si è
bruscamente interrotto con la sua morte. È un dispiacere che il volume veda la luce in sua assenza.

Ho lungamente lavorato sui fondi dell’Archivio di Stato di Napoli, dove ho trovato un grande spirito di collaborazione. Ringrazio la direttrice,
Felicita De Negri, Raffaella Nicodemo e in modo particolare Anna Portente, che ha curato la catalogazione del fondo di Prefettura e mi ha fornito
un’assistenza puntuale e generosa. Ringrazio anche il direttore dell’Archivio di Stato di Latina, Agostino Attanasio, che mi ha aiutato nella ricerca
dei fondi sulle violenze sessuali.

Fondamentale è stato il contributo di Archie Difante, archivista dell’AFHRA (Air Force Historical Research Agency, Maxwell, Alabama, USA), che,
con grande efficienza e generosità, attraverso uno scambio epistolare elettronico, mi ha fornito tutti i dati utili per acquisire le fotografie e i
microfilm riguardanti i bombardamenti aerei sull’Italia meridionale. I colleghi e il direttore, Paolo Malanima, dell’Istituto di Studi sulle Società del
Mediterraneo (Napoli-CNR) mi hanno poi gentilmente messo a disposizione le loro attrezzature per esaminare i microfilm.

Il direttore del Servizio di Stato Civile del Comune di Napoli, Fiorentino Trosino, che si è mostrato vivamente interessato alla ricerca, mi ha
permesso di consultare i registri dei morti del comune, da cui ho potuto trarre informazioni cruciali sulle vittime dei bombardamenti e delle
violenze tedesche nel settembre 1943.

Ho potuto acquisire la documentazione inglese e americana con un finanziamento dell’Istituto Banco di Napoli, che ringrazio.

La ricerca è stata anche un’immersione nel territorio, un lento vagare inseguendo tracce di storie, fonti, testimonianze. Ho trovato a livello locale
una grande collaborazione, un interesse nuovo per la memoria da parte di individui e istituzioni nel desiderio di veder riconosciuta la propria
storia oltre i confini del paese o della città. In alcuni casi la collaborazione è stata cruciale.

A Napoli Ponticelli sono stata coadiuvata da Andrea D’Angelo. Alberto Esposito di Cancello Arnone, oltre ad accompagnarmi presso testimoni
preziosi, ha in prima persona condotto alcune interviste audiovisive estremamente efficaci. Giovanni Bove di Formia mi ha fornito informazioni
che egli stesso aveva ottenuto nelle sue ricerche sulla cittadina in guerra e mi ha consentito di citare interi brani di testimonianze, da lui raccolte
per il volume uscito nel 1994, di donne e uomini che oggi purtroppo non potremmo più interrogare. Il sindaco di Campodimele, Aldo Lisetti,
autore di un volume sull’esperienza bellica nel paese che rappresenta, mi ha dato indicazioni importanti e mi ha aiutata nella ricerca di testimoni.

Antonio Lepone di Minturno mi ha procurato materiale e pubblicazioni locali. Così Nicola Ialongo di Itri che mi ha anche accompagnata nella
registrazione di una testimonianza. A Teano ho avuto da Anna Marrese la ricerca da lei curata nella sua scuola. A Marzano Appio sono stata
aiutata dal parroco don Paolo Martuccelli.

Andrea Farinaro e Vittorio Gallichi, oltre a concedermi interviste preziose sul caso di Tora e Piccilli, mi hanno consegnato fotografie e
documentazione del tempo. Da Aldo Sinigallia, testimone delle vicende della comunità ebraica napoletana, ho avuto il diario paterno. Non avrei
potuto raccogliere tante testimonianze, sparse sul territorio, senza l’aiuto delle studentesse e degli studenti che hanno partecipato ai seminari
legati al corso di Storia contemporanea e che ho seguito in innumerevoli tesi. Ricordo qui per il loro particolare contributo Maria Buglione che ha
lavorato su Capua, Francesca Lauretti su Lenola, Cinzia Rummo su Benevento, Paolo Ciardo, Rosalia D’Amore, Gianfranco Mari, Vittorio Meola,
Lucia Nicodemo, Olga Perricone su Napoli. Tutti gli altri giovani intervistatori o intervistatrici compaiono nell’elenco dei testimoni. Le
testimonianze che hanno raccolto sono state fondamentali perché, essendo legate in maggior misura alla casualità, alle reti di conoscenze degli
studenti, hanno portato verso percorsi e spazi nuovi, hanno ampliato il raggio circoscritto delle reti da me costruite, facendo emergere notizie
inedite, opinioni varie, eventi sconosciuti ai più.

Infine vorrei ricordare le donne e gli uomini che hanno raccontato le loro storie, rendendo a volte con dolore delle testimonianze struggenti,
poetiche, vivide. A loro va tutta la mia gratitudine. Spero di non aver travisato il loro pensiero.

Napoli, 11 ottobre 2004


Guerra totale
A Giovanni, a Martina
Parte prima

Una città in prima linea. Napoli 1940-44


1. La prima fase della guerra: i bombardamenti della RAF.

Napoli, giugno 1940-novembre 1942

«La guerra iniziò, io ero incinta di Gennarino»

«Quando è iniziata la guerra io avevo venticinque anni e già ero sposata, mi sono sposata il 10 dicembre 1939. La guerra iniziò, io ero incinta di
Gennarino. Quando iniziò faceva nu poco frischetto, io ero incinta e sparavano, nun cio crereveme ca era na bomba, e sparavene cchiù abbasce
accà, 1 pensavamo che erano i fuochi di Sant’Antonio, era il 13 giugno» (Carmela M.).

«Mio marito faceva o mil itare a Civitavecchia, io vivevo con i miei in campagna, avevo una bambina di pochi anni... Il 13 giugno, Sant’Antonio, ci
fu il primo bombardamento, noi pensavamo che fossero i botti di Sant’Antonio. Poi guardammo su nel cielo e i bambini gioivano perché non
avevano mai visto aerei così vicini» (Maria Maglione).

«Il 13 giugno del 1940, il giorno di Sant’Antonio, la sera tardi si sentiva tanto fuoco, allo ra tutti dicevano: o fuoco ’e Sant’Antonio... Ed io dicevo:
ma comme è possibile, quanne mai da Napoli si è sentito il fuoco! Nun erene e botte, era a guerra!» (Carmela Esposito).

«Era il 10 giugno del 1940, quando si è dichiarata la guerra. Mussolini per radio diceva che era stato alleato della Germania e doveva succedere
questa guerra. Questo il 10 giugno del 1940... il 13 che era Sant’Antonio è venuto il primo bombardamento. Però una cosa lieve, non proprio...
Noi veramente, ignoranti comme simme, tutta a gente do vico, ce mettettime a gguardà, pareva o fuoco ’e Sant’Antonio» (Giuseppina Romano).

«Avevo sei anni quando è iniziata la guerra... mi pare che era il 13 giugno e si sentivano i botti e mi ricordo che ci affacciammo alla finestra...
Sant’Antonio, i botti di Sant’Antonio! Invece poi si seppe dopo...» (Elena D’Alessandro).

«Una mattina, era il 13 giugno, pensavamo che erano l’aerei normali, mentre invece erano l’aerei di bombardamenti... facevamo noi: stanno
sparando i fuochi di Sant’Antonio... ma era la prima volta che erano venuti a bombardarci» (Ada Sciacca).

Il 13 giugno 1940, festa di Sant’Antonio, avvenne il primo bombardamento su Napoli. Molti stavano festeggiando in famiglia un Antonio, un
padre, un fratello, un figlio, un fidanzato... Il suono delle bombe è accostato a quello dei fuochi d’artificio in onore del santo. È dunque la festa del
santo, il calendario liturgico, a segnare simbolicamente l’inizio della guerra: la scelta operata dalla memoria ne indica la forza nella cultura di
allora e segna nel contempo, attraverso una coppia di opposti significativa (il santo e le armi), il contrasto fra pace e guerra, tra festa e sciagura
imminente. Allude ancora alla difficoltà, in quel preciso momento storico, a pensare la guerra nei modi in cui si sarebbe svolta, coinvolgendo tutta
la popolazione. Non esistevano esperienze né linguaggi o rappresentazioni possibili per immaginare ciò che stava arrivando. Sono ovviamente
solo donne, più legate alla sfera del sacro e del rito, a ricordare l’entrata in guerra con gli immaginati botti di Sant’Antonio e non attraverso il
discorso di Mussolini avvenuto tre giorni prima. Si tratta, anche, di donne debolmente coinvolte con l’ideologia e i rituali fascisti. Terza
elementare, quinta elementare... l’educazione alla cultura fascista, in cui le scuole hanno avuto larga parte, è stata per loro limitata.

Tre giorni prima, il 10 giugno, Mussolini aveva tenuto il fatidico discorso di dichiarazione di guerra, che era stato trasmesso in tutte le piazze
d’Italia.

«La data non mi ricordo... era un giorno piovoso, pioveva fino fino e il duce proclamò la guerra. Allora noi mettemmo la radio, avevamo una radio
piccolina, fummo obbligati, aprimmo il balcone, noi avevamo il cortile, e mettemmo la radio e il duce proclamò la guerra senonché mio padre
disse così: è un brutto segno... perché si oscurò il cielo, il cielo diventò nero e infatti cominciò l’odissea» (Elena Sorge).

«Un giorno stavamo a casa mia a Ponticelli, io, mia madre e le mie cugine ed ascoltavamo le canzoni per radio, quando all’improvviso si
interruppero le canzoni e sentimmo la voce del duce che annunziava che l’Italia era entrata in guerra, era il 10 giugno del 1940. Infatti Mussolini
entrò in guerra prima contro la Francia, poi la Francia si arrese solo dopo dieci giorni, e mi ricordo che noi andammo anche a vedere un film che
si chiamava: la Francia depone le armi... Ero molto giovane, avevo tredici anni, non diedi subito molta importanza a quell’annuncio, ma solo in
seguito mi accorsi della gravità della cosa e che la guerra era una brutta cosa» (Liliana Chianese).

«La notizia dello scoppio della guerra l’appresi dalla radio... io ancora non capivo che cosa era la guerra, si conosceva la guerra per sentito dire,
perché allora non esistevano tante di queste cose... per esempio, se fosse adesso non mi farebbe niente ma allora non capivo... Sì io sentivo: è
scoppiata a guerra, è scoppiata a guerra! Ma non sapevo neanche cosa significasse realmente questa guerra... Poi giorno per giorno incominciai a
capire la guerra che cosa significasse» (Anna Garofano).

«Io ero ancora signorina, tenevo ventiquattro anni, quanne sentetteme per radio, perché a casa mia c’era pure la radio, che Mussolini, o duce,
disse che si doveva entrare in guerra. Quando mio padre me lo disse a me e alle mie quattro sorelle, io pensai che era certamente una cosa brutta
e che stavano per venire tempi troppo brutti. Già la prima guerra mondiale aveva lasciato una povertà terribile e per questo ie nun eve potute ì a
scola, che io tanto ci tenevo a m’imbarà a legge e a scrive... Nuie eveme faticà rint’e terre assieme a loro [ai fratelli], pe ce ’mbarà,2 che se poi
loro dovevano partire soldati noi non dovevamo abbandonare la terra, che ci toglieva la fame di bocca. Poi quando seppi della guerra nuova
pensai che Mussolini non ce lo doveva fare... Era tanto bravo, aveva aiutato la sorella mia sposata a prendere i soldi per i figli, poi ci dava i soldi
per le campagne e ci trattava bene... Quella guerra non ci ha fatto niente di buono, ci ha ucciso due fratelli belli e bravi... Ci ha fatto morire di
paura quando lanciavano le bombe, ci hanno rubato la biancheria che ci eravamo fatte...» (Carmela Forino).

«Anche se quando è scoppiata la guerra avevo solo dodici anni ricordo tutto nei minimi particolari e come se fosse ieri, eppure sono trascorsi più
di quarant’anni. Io appresi che l’Italia era entrata in guerra dalla radio. Era Mussolini che parlava, stavo giocando con due mie amiche, una delle
due scoppiò in lacrime perché ebbe paura, mentre io e l’altra mia amica ridemmo al suo pianto perché non pensavamo che la guerra sarebbe
giunta fino a Napoli, ma mi ero sbagliata. Al primo bombardamento a tappeto fu distrutta la casa di questa mia amica... i genitori si trovavano a
casa quando ciò avvenne... lei no, era a scuola con noi, quindi si salvò» (Rosa Fusaro).

«Che mi ricordo io era già nel 1939 quando già si pronunciava la guerra. Mussolini si metteva al microfono, però noi sentivamo per radio il
discorso che faceva Mussolini logicamente, e subito dopo è scoppiata la guerra... dopo che lui aveva fatto tante parlate: vinceremo, vinceremo...
Aspetta come diceva? Vincere e vinceremo. Se vinco seguitemi, se perdo uccidetemi. E così è stato fatto. Non lo abbiamo ucciso noi qua a Napoli
perché noi non siamo di questo parere, ma in alta Italia ce l’hanno fatta, dov’è finito Mussolini» (Immacolata Tarallo).

Nelle parole delle testimoni è netto il contrasto tra incoscienza e futuro terribile in agguato. Il presagio si esprime attraverso alcuni segni: si
oscurò il cielo... Il riso delle ragazze incoscienti e il pianto dell’amica, che allude al destino che sta per travolgerla. Mussolini, che parla enfatico
quel 10 giugno 1940 e non sa che sta decidendo della propria vita. «Vincere e vinceremo. Se vinco seguitemi, se perdo uccidetemi. E così è stato
fatto». Una lapidaria sentenza sulla guerra e sul duce.

I racconti ci riportano ancora una popolazione divisa: fra generazioni, fra sessi, fra gruppi sociali, fra individui... Sullo sfondo madri che piangono.

«A me è rimasta nella mente l’impressione di mia madre quando c’è stata la dichiarazione della guerra. Il 10 giugno io mi trovavo a passare per
piazza Vergini dove c’era la sede del fascio e dove avevano messo degli altoparlanti e io ho sentito il discorso di Mussolini, questa dichiarazione di
guerra, ricordo di aver fatto una corsa, io abitavo al quarto piano, ho fatto le scale a quattro, sono arrivato in un lampo, sono arrivato a casa che
ancora c’era il discorso di Mussolini e ho trovato mia madre che piangeva. Questo fatto di mia madre che piangeva mi è rimasto nella mente,
tuttora io rivedo questa scena. Il 25 luglio non me lo ricordo bene però ricordo bene la dichiarazione di guerra di Mussolini perché mia madre
piangeva, piangeva perché aveva capito la gravità della situazione, quello che saremmo andati incontro» (Antonio Amoretti).

«M’arricordo ca ereme iute a magnà a Capodimonte al ristorante O Schiavuttiello, ad un certo punto pe’ dentro la radio sentiamo che è scoppiata
la guerra. Mi ricordo che era il 10 giugno 1940, era la festa della marina, mio marito nun iette a faticà e ietteme a magnà llà. Come si sentì
questa notizia chi scappava di qua chi scappava di là, nun se capette cchiù niente. Mario ricette: fernimme ’e magnà e po’ ce n’iamme, tanto per
oggi non c’è pericolo. Fernute ’e magnà, pavaime e ce ne ietteme. Nu sacch’e gente se ne fuiette senza pavà. Quanne turnaimo a casa trovai a
mammà annanz’a radio che mane ’n faccia. Già il giorno dopo Napoli si oscurò, a gente metteve e strisce vicine e lastre pe’ nun fà scassà e vitre.
Io ero contraria all’entrata in guerra perché so’ pacifista e po’ che c’azzeccaveme nui cu sta guerra ccà? Chell’ata era fernuta a poche, ce
steveme ancora arripiglianne, chest’ata ccà cu ati muorte ati feriti nun c’azzecca proprio. A quell’altra guerra mio fratello era partito per il fronte,
aveva fatto Caporetto e o sacc’ie cumm’era turnate! Mo, penzai, si chiammane a mariteme e ie comme facce ca so’ pure gravida?»3 (Livia
Majolo).

Padri che ricordano la guerra del ’15-18.

«Avevo tredici anni, abitavo in via Santa Croce a Ponticelli... Non avevo mai visto una guerra, all’inizio si pensava a un divertimento, infatti la
prima incursione che venne noi stavamo fuori dal balcone di Santa Croce, con un primo e un secondo piano, era una loggia a lungo a lungo con
cinque quartine. Stavamo tutti insieme e vedevamo gli apparecchi, non li capivamo, non sapevamo cosa era un’incursione... Papà capiva la guerra
perché aveva fatto la guerra del ’15-18, sapeva cchiù o meno di cosa si trattava...» (Maria B.).

Adulti tristi e presaghi contro l’entusiasmo dei giovani.

«Una cosa che mi è rimasta impressa, è stato il discorso quando l’Italia ha dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra. Il grande discorso che
fece Mussolini a piazza Venezia. Fu radiotrasmesso e io mi trovavo vicino a un bar, al Borgo Loreto, appunto per sentire perché sapevamo che il
duce doveva parlare... e disse che l’Italia aveva dichiarato guerra, aveva presentato agli ambasciatori della Francia e dell’Inghilterra la
dichiarazione di guerra. Quindi noi dal canto nostro scese un certo velo di tristezza. Perché noi parlando con i nostri genitori e le persone anziane
che capivano l’importanza di questi due stati potenti e che poi erano appoggiati dall’America... c’era qualcuno pure che noi conoscevamo che
avevamo anche parlato, che era stato anche in America parecchi anni e poi era venuto un’altra volta a Napoli... e queste persone dicevano: voi
non conoscete chi sono gli americani. E quindi loro dichiaravano apertamente, quando parlavano con le persone, che l’Italia aveva commesso un
grosso errore. Un errore grande di scendere in guerra» (Antonio Esposito).

«Quando scoppiò la guerra io avevo circa quattordici anni. Sapevo degli eventi perché mio padre mi raccontava ogni cosa, e sapevo che c’erano
queste potenze che si affrontavano, l’Inghilterra e la Francia da una parte e l’Italia e la Germania dall’altra. Noi italiani eravamo contenti della
guerra perché ci sembrava di essere forti, infatti dopo le prime vittorie noi ragazzi cantavamo delle canzoni scherzose su Churchill. Eravamo
convinti di avere la vittoria in tasca...» (Salvatore Manfro).

«Era giugno... si facevano le adunate nelle piazze più grandi, visto che non c’era la televisione e non tutti avevano la radio... Istituirono delle radio
per fare ascoltare a tutti i discorsi di Mussolini. Tu eri in una di queste piazze? Io ero a piazza Cavour per sentire il discorso... C’era molta gente?
Un mare di gente, fanatici, persone che inneggiavano alla guerra e a Mussolini... Volete voi la guerra? Disse Mussolini. Ma si tratta di frasi che si
dicono quando un popolo è stato portato a quell’entusiasmo... diciamo entusiasmo... quando man mano gli è stato fatto il lavaggio del cervello! Lui
se ne lavò le mani, come Ponzio Pilato, disse: voi volete la guerra? E gli italiani risposero tutti: sì! Erano tutti ragazzi che andavano a scuola o
all’università e furono proprio loro i primi a morire, i giovani» (Vincenzo Di Gennaro).

«Noi vedevamo un sacco di manifestazioni di studenti che facevano scioperi e poi Mussolini dichiarò la guerra. Qualcuno che aveva la radio la
metteva fuori al balcone perché poche persone l’avevano... Noi eravamo ragazzi e non dicevamo niente della guerra ma i grandi parlavano male
della guerra di Mussolini» (Maria Barretta).

«Sono stati gli studenti, no noi, chille e sturiente vulevene a guerra.4 Io mi ricordo» (Pia Belli).

Alcune brevi frasi, alcune immagini, proposte quasi di sfuggita fanno emergere la contrapposizione fra generazioni. Una contrapposizione dovuta
all’età – diverso è l’atteggiamento di fronte alla guerra e alla morte di un giovane o di un adulto – ma anche al diverso coinvolgimento nella
politica fascista. «Sono stati gli studenti, non noi a volere la guerra». L’identificazione è precisa e rimanda, d’altro canto, proprio alle
testimonianze degli studenti, e soprattutto degli studenti delle scuole superiori che, in quel lontano 1940, appartenevano anche a gruppi sociali di
status più elevato.

«Nel giugno del ’40 Mussolini dichiarò guerra e ricordo ancora, perché stavamo tutti incollati alla radio, Mussolini ne diede notizia a tutto il
popolo italiano da palazzo Venezia a Roma e c’era qualcosa di strano i n ognuno... io ti parlo di quello che sentivo io... uno sgomento perché era la
guerra e poi... un senso di orgoglio perché noi affrontavamo la vecchia Albione e la Francia e saremmo usciti vincitori, sempre secondo me...»
(Annamaria Romano).

«Un giorno abbiamo saputo che il duce avrebbe parlato da palazzo Venezia al popolo italiano per chiedere: volete la guerra? Si aspettava il suo
discorso alle 18, così tutta l’Italia era o a piazza Venezia o nelle proprie case con la radio accesa. Alle 18 cominciò il discorso... molta emozione
molta commozione... il duce fece la domanda e tutti rispondemmo: sì la vogliamo! Qualche persona, io dico poco intelligente, dice: Mussolini ha
voluto la guerra. Ma vogliamo scherzare? Era tutto il mondo che voleva la guerra! Gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia... Che cosa
rappresentava Mussolini? Una piccola molecola di fronte al mondo! [...] Dunque dopo il discorso del duce ci sono stati pianti, molte discussioni,
comunque la gioventù di allora accolse la notizia con dispiacere ma d’altro canto con grande coraggio, ognuno pronto per il duce e per l’Italia a
battersi fino all’ultimo... ed eravamo veramente innocenti e onesti a dire questo... eravamo disposti a tutto... e abbiamo passato tutto...»
(Domenica Laganà Alliata).

«Il primo ricordo è il giorno in cui è stata dichiarata la guerra, ricordo come fosse ora, stavamo in strada, improvvisamente la radio a tutto
volume... e la voce di Mussolini che dichiarava la guerra: Italiani!... Noi quasi ci entusiasmavamo a quella cosa, come se fosse stata una bella
cosa, non sapevamo cosa era la guerra, cosa ci riservava...» (Delia Tafuri).

I bombardamenti: giugno 1940-novembre 1942

Nella primavera e nell’estate del 1940 la guerra sembrava ancora lontana da Napoli. I bombardamenti di giugno furono poco più che dimostrativi.
Il 13 giugno a Santa Lucia un pescatore era stato travolto da un’onda anomala, provocata da una bomba.5 I giovani erano partiti per il fronte e se
l’atmosfera della guerra aveva pervaso le famiglie colpite, pareva tuttavia ancora un conflitto tradizionale, un combattimento fra soldati.

Ma già nei mesi precedenti, i comandi militari e le diplomazie inglesi e francesi preparavano la campagna aerea che avrebbe coinvolto la
popolazione civile in modi allora impensabili. In una relazione del 3 maggio 1940 si possono leggere le linee di una strategia di bombardamenti
sulla penisola, accompagnate da significativi giudizi politici. L’Italia era giudicata un nemico «estremamente vulnerabile da pressioni dal mare e
dal cielo, come blocchi navali e bombardamenti», la sua difesa antiaerea scarsamente sviluppata e il suo tessuto economico fragile perché
dipendente «dalle importazioni per molti beni basilari, come benzina, carbone e ferro». La distruzione di stabilimenti elettrici e raffinerie avrebbe
potuto portare, secondo gli estensori della nota, al collasso del potenziale di guerra dell’Italia. Infine «la psicologia italiana» veniva definita «non
adatta alla guerra» e di conseguenza si reputava che bombardamenti sistematici avrebbero potuto facilmente deprimere il morale degli italiani.
La conclusione era conseguente. «Ciò considerato, la nostra azione dovrebbe: Primo: tentare di abbattere il morale degli italiani con pesanti
attacchi di notte e, con condizioni di tempo adatte, di giorno contro le quattro città industriali più importanti. Secondo: completare la distruzione
delle industrie aeronautiche [...] Terzo: distruggere le più importanti raffinerie e depositi di petrolio. [...] i bersagli degli attacchi notturni
dovranno essere selezionati con l’obiettivo di incrementare gli effetti morali su un’area la più ampia possibile [...]. Se l’Italia non viene spinta alla
pace dopo la completa distruzione degli obiettivi indicati, attaccheremo i rimanenti stabilimenti e depositi di petrolio. Al momento stimiamo che
abbia petrolio sufficiente per otto mesi di guerra».6

Nei giorni successivi seguivano parecchi incontri, durante i quali si precisavano compiti e obiettivi. Alla RAF erano affidati i raid aerei sulla
penisola: fra gli obiettivi principali le raffinerie e i depositi di petrolio di Napoli, che sarebbero stati fra i primi ad essere colpiti nell’autunno di
quello stesso anno.7 Venivano formulati già allora con chiarezza quelli che sarebbero stati giudizi e obiettivi di tutta la campagna alleata fino
all’ottobre 1943 e che troveremo enunciati con compiutezza a partire dal 1942.

La fulminea avanzata dei tedeschi sul suolo francese, la disfatta degli eserciti alleati bloccarono per un po’ l’iniziativa. I raid aerei ricominciarono
nell’autunno del 1940: il primo avvenne a Napoli il 1° novembre, seguirono quelli del 4 novembre, del 2 dicembre, della notte fra il 14 e il 15
dicembre. Obiettivi: il porto, le zone industriali di Barra, San Giovanni a Teduccio, Bagnoli, lo stabilimento dell’Alfa Romeo a Pomigliano. Nella
notte fra il 14 e il 15 dicembre veniva colpito l’incrociatore Pola, 26 marinai perdevano la vita e 42 venivano feriti. Crollava un palazzo a Bagnoli
provocando 10 morti e 28 feriti. Le incursioni continuavano il 29 e il 30 dicembre, il 6, l’8, il 18 e il 27 gennaio: nel mirino di nuovo le zone
industriali e il porto. 8

Autorità, messa solenne e corteo accompagnavano i funerali delle vittime: prima, e con maggiore pompa, quelli dei militari cui seguiva l’appello
fascista ai caduti, poi quelli dei civili.9 Ma, nello stesso tempo, ci si preoccupava di contenere le informazioni e di nascondere l’entità dei danni
subiti, il numero delle vittime, le dimensioni del lutto. Ecco un appunto del prefetto datato 11 novembre 1940: «Il Ministero della Cultura
Popolare telefona disponendo che i giornali nel titolo generale della prima pagina non pubblichino “il bombardamento di Napoli” o altro consimile
ma intitolino la pagina alla notizia più importante dell’odierno bollettino».10 Per tutto il periodo della guerra, anche quando le vittime furono
nell’ordine delle centinaia, il silenzio sui bombardamenti, nelle cronache dei giornali napoletani, sarebbe stato quasi t otale.

La primavera del 1941 passò relativamente calma, i raid aerei ricominciarono in luglio. Due grandi incursioni avvennero la notte tra il 10 e l’11 e
tra il 20 e il 21 luglio: vennero colpiti la stazione ferroviaria, la zona industriale e i quartieri circostant i. Andarono in fiamme alcuni vagoni
carichi di munizioni, che esplosero provocando danni e incendi nel quartiere di Poggioreale e in quelli vicini. Bruciarono i serbatoi della Società
italo-americana di petroli con 13000 tonnellate di benzina.11 Per la prima volta venivano coinvolti alcuni quartieri del centro cittadino, in
particolare i Quartieri Spagnoli, gli stretti vicoli che da via Roma congiungono il corso Vittorio Emanuele, dove crollarono palazzi a vico Lungo
San Matteo, via Speranzella e vico Lungo Concordia. Un migliaio di persone perse la casa.

Gli informatori riferivano che la popolazione cominciava a dubitare dell’efficienza dell’antiaerea, che i danni dei bombardamenti «malgrado il
giusto riserbo, [erano] di dominio pubblico».12

Nella notte tra il 20 e il 21 luglio una nuova incursione aerea completava l’opera di distruzione alla stazione ferroviaria, si abbatteva sulla zona
industriale e sul porto dove si incendiava il piroscafo Giulia, carico di 700 tonnellate di esplosivo. A vico Lungo Trinità degli Spagnoli si verificava
il primo di un lungo elenco di disastri provocati dagli stretti accessi ai ricoveri, c he erano stati ricavati, senza grandi lavori di apprestamento,
dalle cavità sotterranee di cui Napoli abbonda.13

«Dal portoncino del palazzo (n. 59) si accede ad uno dei più vasti ricoveri pubblici sotterranei capace di diverse migliaia di persone – con altri
ingressi a vico D’Afflitto e via Tofa. La forte massa di persone che affluiva all’ingresso di vico Lungo Trinità degli Spagnoli ha determinato un
ingorgo nel piccolo androne. Molte persone, nell’intento di arrivare più presto all’ingresso, hanno scavalc ato la prima rampa della scalinata del
palazzo provocando la caduta di una parte della ringhiera e rovesciandosi quindi di colpo su coloro che nel passaggio sottostante cercavano di
raggiungere la porta del ricovero. Nel tafferuglio e confusione determinatasi alcune persone e bambini sono caduti per terra e sono stati
calpestati dalla folla che sopraggiungeva e faceva ressa. Si deplorano 9 morti».14

Fra le vittime dell’incursione si contavano 7 camicie nere della milizia contraerea: anche per loro si svolsero esequie imponenti. Le salme,
deposte su quattro autocarri, vennero condotte dalla cappella della sala anatomica verso il cimitero, seguite da parenti, autorità civili e militari,
gerarchi, rappresentanze di tutte le armi; a corso Garibaldi sostarono di fronte a un palco dove attendevano il principe di Piemonte, il podestà e
gli ufficiali superiori e dove si svolse il solito rito dell’appello fascista.15 Il giorno seguente a Melito, un paese della cintura napoletana, al funerale
di due delle vittime fasciste, le cose non andarono, invece, così lisce. Il parroco aveva disposto che «l’associazione delle donne cattoliche con
bandiera prendesse posto immediatamente dopo il carro funebre. [Ma] l’ispettore dei fasci di combattimento fece avvertire il parroco che,
trattandosi di funerali di appartenenti a forze armate, l’Associazione Cattolica avrebbe dovuto prendere posto dopo il Gagliardetto del fascio. Il
sacerdote non volle aderire e diede ordine all’Associazione di rientrare in chiesa».16

Per tutto il periodo della guerra le vittime militari o fasciste sarebbero state onorate con esequie pubbliche e solenni, ma nel frattempo
cominciavano a morire in massa i civili. Il piccolo conflitto fra parroco di Melito e fascisti è solo una debole spia di alcune contraddizioni più
vaste. Mentre la morte mieteva via via sempre più vittime fra la popolazione, si celebravano i caduti militari, con codici e riti inadeguati alla
situazione, approfondendo il solco che si stava aprendo tra la gente comune e i rappresentanti del regime. La distanza tra popolazione e
istituzioni filtra nei racconti attraverso immagini espressive: i fascisti che avevano scorte di cibo mentre gli altri morivano di fame, i fascisti cui
venivano tributate esequie altisonanti mentre i poveracci rimanevano sepolti sotto le macerie o andavano al cimitero su una carretta...

Tra le carte della prefettura troviamo altre tracce significative di inquietudine. Un caso esemplare affiora dai documenti nel gennaio 1941. Nella
lettera al ministero dell’Interno del 14 gennaio, a firma del prefetto Benigni, si proponeva di risarcire «D.L., Grande Ufficiale, preside
dell’Amministrazione Provinciale, anziché della cifra di 3000 lire data ai sinistrati ordinari, di una sovvenzione straordinaria di 10000 lire per aver
perso, nell’incursione, mobili e oggetti di corredo di particolare valore». Una seconda lettera del 25 gennaio, questa volta a firma del questore,
aggiungeva, per avvalorare la richiesta, l’attestazione di un comportamento del preside particolarmente valoroso nell’aiutare gli inquilini del
palazzo a mettersi in salvo. Ma ecco comparire il 6 febbraio un telegramma del sottosegretario agli Interni Buffarini in cui si chiedeva spiegazione
di una voce giunta fino a Roma. «Est stato segnalato che in occasione della ultima incursione aerea nemica in codesta città essendo stato
danneggiato edificio dove abitava vice preside D.L. sarebbe apparsa una quantità di sacchi di pasta che il D.L. teneva in casa. Questo fatto noto al
popolo napoletano avrebbe prodotto pessima impressione. Vi prego di farmi conoscere per telegramma quanto di vero vi est nella notizia». Il
giorno successivo si trova il telegramma di risposta del prefetto, volto a tacitare le voci popolari che sostenevano essere la casa del preside piena
di ingenti quantitativi di pasta, caffè, lardo... «Escludesi modo assoluto che alcuna esistenza sia stata accertata e meno che mai vista
nell’appartamento sinistrato e immediatamente visitato da non pochi cittadini di riserve se non quelle comuni ad una famiglia della sua
condizione. Deve anche aggiungersi che macerie fabbricato tra le quali sarebbero state constatate anzidette riserve interessano non soltanto casa
D.L. ma altri quattordici inquilini dei quali alcuni molto benestanti».17 Segue quello stesso giorno una lettera anonima. «Nel riparare i danni
prodotti dagli aeroplani inglesi in un palazzo signorile del Parco Margherita si è scoperto che due maggiori esponenti del partito dominante
avevano, per le loro famiglie, incettati viveri in misura ingente: pasta di semola, farina bianca, riso a sacchi, un sacco di caffè, salami ed altro ben
di Dio. E ciò si sussurrano nell’orecchio tutti i napoletani ed attendevano che i due mistici tanto buoni masticatori fossero colpiti dai rigori della
legge. Ma è possibile che questa storiella che accumuna 2 esponenti del partito a dei civili borghesi sia tutta un’invenzione antifascista? È
possibile che ciò che sanno anche le sepolte vive della clausura non sia a vostra conoscenza?» Nel giugno dello stesso anno un informatore
rendeva note le dicerie, che non si erano placate e che parlavano dello scandalo di Parco Margherita, delle scorte alimentari sottratte al consumo
da un esponente del fascio e dell’ingiustizia ulteriore perpetrata dalle autorità, le quali, invece di destinare al confino detta persona, come
sarebbe avvenuto per chiunque altro, l’avev ano premiata con un risarcimento particolare.18

La notte tra il 20 e il 21 luglio cominciò anche il lancio di volantini inglesi diretti alla popolazione. «Napoletani. Noi inglesi, che mai finora fummo
in guerra contro di voi, vi mandiamo questo messaggio. Questa notte abbiamo bombardato Napoli. Non volevamo bombardare voi cittadini
napoletani perché non siamo in lite con voi. Noi vogliamo soltanto la pace con voi. Ma siamo costretti a bombardare la vostra città perché voi
permettete ai tedeschi di servirsi del vostro porto. Finché partono da Napoli navi cariche di armi e materiali tedeschi per le forze germaniche in
Libia, Napoli sarà ripetutamente bombardata. Il bombardamento di questa notte è solo il primo rombo della tempesta che si avvicina. Perciò se
volete salvarvi: 1°) I manovali di porto devono rifiutare di caricare le navi per i tedeschi. 2°) I vostri marinai devono rifiutare di navigare per i
tedeschi. 3°) Voi stessi cittadini, dovete scendere al porto e urlare e gridare affinché i manovali e i marinai scioperino».19

Bombardamenti violenti riprendevano nell’autunno di quello stesso anno. Nella notte fra il 21 e il 22 ottobre si verificava quella che il comandante
dei vigili del fuoco giudicava l’incursione più violenta fino ad allora effettuata. «Attraverso cinque ondate, dalle 21.09 alle 2.30 – cioè per oltre
cinque ore» venivano sganciate alcune centinaia di bombe.20 Nel mirino ancora la stazione ferroviaria e la zona industriale, il quartiere di San
Giovanni a Teduccio, dove andavano in fiamme i serbatoi dell’AGIP provocando esplosioni e incendi terrificanti. Nelle relazioni si legge di torrenti
di fiamme, incendi dell’atmosfera gassata che continuarono per tutta la giornata successiva. Il ricordo di questo bombardamento è vivo anche
nella memoria degli abitanti del quartiere.

Le contraddizioni crescevano, si facevano più evidenti. Affiorano dalle carte di prefettura.21

«La gravità e la violenza che vanno assumendo le incursioni aeree nemiche preoccupano la popolazione di ogni ceto che si riversa in fuga
precipitosa e disordinata agli ingressi dei ricoveri pubblici, costatata, ormai, l’insufficiente garanzia che offrono i ricoveri privati improvvisati,
senza puntellatura e senza adeguati sostegni. Tutti dicono che bisogna aumentare le porte di accesso a questi ricoveri pubblici che offrano
maggiore sicurezza. Nei rioni popolari – tra Montecalvario e San Ferdinando – esiste un ricovero capace di ospitare migliaia di persone, ma gli
ingressi sono pochi ed insufficienti e la popolazione resta sotto il fuoco allo scoperto per attendere il turno d’entrata. All’ingresso di vico d’Afflitto
si svolgono scene addirittura “selvagge”: bambini che rotolano per terra, gente che resta soffocata sotto la pressione violenta della folla che viene
da tutti i vicoli adiacenti. Ne deriva una mischia nell’oscurità che degenera in una lotta furibonda e produce un panico indescrivibile che deprime
il morale della popolazione stessa che si dice non garentita sulla vita dalle autorità».

«L’ultima incursione nemica su Napoli ha prodotto profonda impressione sulla popolazione perché, nonostante la vivace reazione di fuoco opposta
dalle batterie contraeree, il nemico ha potuto ripetute volte colpire numerosi ed importanti stabilimenti della zona industriale napoletana ed i
nodi ferroviari col lancio di centinaia di bombe. E poiché con i manifestini lanciati precedentemente il nemico aveva accennato al fatto che Napoli
sarebbe stata duramente colpita da una serie di incursioni appunto perché punto di partenza dei rifornimenti destinati in Libia, la popolazione
trae la conseguenza che il programma del nemico si sta traducendo in atto e che perciò gravissimi danni ancora dovrà aspettarsi Napoli e la sua
preziosa rete ferroviaria e la sua attrezzatura industriale e portuaria. Il contegno della popolazione è disciplinatissimo, ma la preoccupazione
affiora nei commenti. Si domandano i più come abbiano potuto tanti apparecchi nemici sostare nel cielo di Napoli per ben cinque ore consecutive
senza essere colpiti e si commenta che, altrove, il nemico, almeno paga la sua audacia con la perdita di apparecchi e di uomini. Trapelano già tra
la popolazione i commenti che la Radio di Londra ha diffuso sulla inefficacia della difesa contraerea di Napoli e sulla vantata impunità della sua
lunga azione su questa città. Il popolino che serba un contegno ammirevole non si rende conto delle difficoltà che sorgono per opporsi
efficacemente ad un nemico nel buio della notte, ma gli evidenti e sensibili danni prodotti a stabilimenti ed impianti in tutta la zona industriale
della città ed il numero delle povere vittime non possono lasciare insensibili gli animi dei napoletani che avrebbero almeno tratto un certo
conforto dall’abbattimento di sia pure qualcuno dei numerosi apparecchi che venivano distintamente sentiti anche tra il rombo del fuoco della
difesa».

Dal cielo erano caduti anche, puntuali, i nuovi volantini inglesi. Un vero e proprio opuscolo, che enumerava con precisione le promesse di
Mussolini e i risultati conseguiti: le sconfitte subite in Africa, le perdite di uomini, di materiali, di navi, la prepotenza dei tedeschi... «Quale sia
questa gloria Mussoliniana, 200000 prigionieri italiani lo attestano; gli orfani italiani lo ricorderanno. Colui che si chiamò fondatore di un impero,
fondato col sangue dei vostri figli, l’ha distrutto: ha venduto le belle contrade d’Italia all’odiato tedesco e ora manda i vostri figli a combattere in
terre straniere per il benessere e la grandezza germanica».

E un appello diretto alle donne: «Oggi i vostri uomini sono mandati a morire in Russia. Agite prima che sia troppo tardi! [...] Quale sorte attende il
VOSTRO MARITO, il VOSTRO FIGLIO, il VOSTRO FIDANZATO? [...] Agite ora! Salvate i vostri uomini dalla morte in Russia!»22

Dopo il bombardamento del 21-22 ottobre, le incursioni continuarono con violenza e metodicità fino al febbraio 1942. Ma l’apice si ebbe
nell’ottobre-novembre 1941: incursioni il pomeriggio del 23 ottobre, la notte fra il 24 e il 25 ottobre, fra il 31 ottobre e il 1° novembre, fra il 6 e il
7 novembre, fra l’8 e il 9, tra il 9 e il 10, la notte dell’11, fra il 17 e il 18, fra il 18 e il 19, fra il 19 e il 20, fra il 20 e il 21, la sera del 27 novembre.
Venivano colpiti ancora i quartieri della zona industriale e della stazione ferroviaria, il porto, il centro cittadino e i comuni del golfo sede di
impianti industriali: Torre Annunziata, Castellammare, Capodichino, Pomigliano, Pozzuoli. L’8-9 novembre veniva raggiunto dalle bombe anche il
palazzo dell’università insieme ai vicoli dei decumani, il cuore antico della città che avrebbe ancora subito svariati bombardamenti. Quella
dell’11-12 novembre veniva di nuovo segnalata come un’incursione particolarmente violenta. Bombe dirompenti cadevano in via Duomo, via
Mezzocannone, Forcella, piazza San Giorgio ai Mannesi, sulla stazione Centrale, in via Marina Nuova, nel quartiere di Secondigliano, sul porto. A
vico Carbone a Forcella crollava un fabbricato di sei piani e le macerie cadevano sull’apertura di un ricovero, seppellendo anche coloro che vi
avevano cercato rifugio. Un caso analogo si ripeteva nella notte tra il 17 e il 18 novembre in una zona dei Quartieri Spagnoli già colpita nei mesi
precedenti. «A Piazza Concordia n. 3 [...] una bomba dirompente, caduta su un piccolo fabbricato a due piani, ha perforato i solai e la volta
ricoprente un locale scantinato in verticale del fabbricato, che fa da antiricovero ad un ricovero pubblico, ed è scoppiata nel locale stesso,
colpendo numerose persone che sostavano nell’antiricovero».23 I depositi dell’AGIP bruciavano ormai da giorni insieme al gasometro poco
distante; gli impianti industriali della zona est erano seriamente danneggiati.

In tanto disastro si celebravano ancora funerali solenni di militari. Il 13 novembre si svolsero le esequie di un sergente dell’artiglieria «caduto per
la patria» durante l’incursione della notte fra il 9 e il 10. Intervennero un generale di brigata, una scorta d’onore di 30 artiglieri, una banda di
militari tamburini, una rappresentanza folta di alti e medi comandi. Le disposizioni erano meticolose: il drappello armato e i tamburini avrebbero
dovuto marciare con elmetto e pastrano, le rappresentanze con berretto a busta e pastrano. La bara doveva essere posta su un autocarro
attrezzato con paramenti funebri.24 Quello stesso giorno ebbero luogo anche i funerali di due marinai uccisi dalle bombe nella notte tra l’11 e il
12 novembre, con un corteo che partiva da piazza Piedigrotta fino a piazza Principe di Napoli. Possiamo immaginare che cosa provocassero
queste solenni esequie per le vittime militari nell’animo di una popolazione colpita da sofferenze e lutti quotidia ni fino ad allora inimmaginabili.

Gli appunti degli anonimi informatori confermano il crescere del malcontento. Una missiva del 15 novembre descrive la vita nei ricoveri antiaerei:
malati e invalidi portati a braccia da volenterosi animati da spirito di umanità, centinaia di bambini che «giacciono per terra nei ricoveri pubblici
e privati distesi su qualche coperta o pochi stracci, e passano le intere notti in questi ambienti umidi e freddi con aria viziata e nociva alla salute
ed allo sviluppo di codeste tenere creature». Il 21 novembre un altro informatore aggiungeva particolari. «In seguito alle lunghe incursioni aeree
il pubblico lamenta che le lunghe incursioni li costringe a passare notti in ricoveri privi di ogni elementare misura igienica, costituita da
mancanza di gabinetti di decenza, privi di scarico d’acqua, per cui l’emanazione dell ’odore rende addirittura irrespirabile l’aria già resa rarefatta
dal non indifferente numero dei rifugiati. Lamenta di dover trascorrere la notte all’impiedi non essendovi panche od altro su cui potersi sedere.
Lamenta la mancanza d’acqua e di tutto quanto può essere utile al pronto soccorso pur essendosi verificati moltissimi casi di deliquio di donne e
bambini cui è mancato il necessario ristoro». «In seguito alle continue e prolungate incursioni aeree nemiche la popolazione dei rioni popolari,
come Vicaria e Mercato, lamenta vivamente l’insufficienza dei ricoveri e la mancanza in essi di un qualsiasi mezzo onde sedersi. Difatti in queste
ultime notti si è potuto osservare che in alcuni ricoveri pubblici, come quello sito nell’interno del Tribunale, vico Zito al Lavinaio, piazza Cavour
(nei locali della Direttissima), via Carriera Grande, la gente è in essi stipata, per cui dopo alcune ore l’aria diventa rarefatta e la temperatura
aumenta tanto da rendere la respirazione quasi impossibile. La mancanza poi di panche per sedersi, gabinetti di decenza e di prese di acqua
sufficienti rende il morale della popolazione depresso in quanto è costretta a fare i propri bisogni alla meglio sacrificando il proprio pudore». Si
lamentava ancora il cibo scarso, la speculazione dei profittatori, si chiedeva di combattere gli abusi.25

Eppure il peggio non era ancora arrivato... E infatti nelle testimonianze, tranne nei casi in cui coloro che narrano siano stati coinvolti
direttamente in qualche bombardamento preciso (è vivissimo, ad esempio, tra gli abitanti dei quartieri orientali, San Giovanni, Barra,
Poggioreale, l’incendio dell’AGIP), questo primo periodo, che vede agire unicamente i bombardieri britannici, viene ricordato con minore intensità
e, soprattutto, con minore drammaticità. Nei racconti i due periodi sono nettamente separati e lo spartiacque è il primo grande bombardamento a
tappeto del 4 dicembre 1942, data fatidica nell’inasprimento della guerra aerea a Napoli.

Ma, a questo punto, è necessario fare una lunga digressione sulla strategia dei bombardamenti alleati.
2. La guerra vista dall’alto
Guerra aerea: strategie e legittimazione

È solo con la seconda guerra mondiale che il bombardamento delle città e quindi della popolazione nemica, compresi donne, bambini, anziani,
diventa un mezzo ordinario e acce ttato di fare la guerra. Fra Ottocento e Novecento le cosiddette nazioni «civili» avevano tentato di limitare il
coinvolgimento della popolazione nelle azioni militari e avevano stabilito alcune norme per evitare l’uccisione di «non combattenti». Bombardare
significava, infatti, prendere in ostaggio e colpire la popolazione delle città, in contrasto con le norme internazionali formalmente accettate.
Eppure il bombardamento divenne l’arma cruciale e più usata nella seconda guerra mondiale, in un processo contraddittorio ma inarrestabile, in
cui giocarono un ruolo decisivo i nuovi corpi aerei, che cercavano potere e legittimazione, le strategie di guerra, il crescere dello spirito di rivalsa
contro il nemico. Ciò provocò, per tutto il periodo della guerra e non solo nel campo degli stati totalitari, un abbassamento delle soglie morali che
normalmente consideravano un grave crimine l’uccisione di popolazioni inermi.

Durante la prima guerra mondiale i civili erano stati coinvolti con la fame, le malatt ie, le deportazioni forzate lontano dalle linee del fronte;
alcuni bombardamenti e cannoneggiamenti avevano colpito già alcune grandi città, come Londra e Parigi. A partire da questi episodi si erano
creati due opposti partiti: coloro che giudicavano gli effetti delle incursioni aeree straordinariamente utili per la strategia di guerra e coloro che li
stigmatizzavano proprio perché colpivano in maniera indiscriminata la popolazione civile. La controversia continuò con toni molto accesi per
parecchi anni. Col volgere del tempo, a poco a poco, la voce di coloro che difendevano gli aspetti morali e condannavano i bombardamenti si
affievolì e venne messa a tacere in un processo inarrestabile durante la seconda guerra mondiale.

I bombardamenti di città e villaggi in realtà erano stati attuati ampiamente nei paesi coloniali, contro popolazioni giudicate «incivili», la cui
esistenza notoriamente era considerata assai meno preziosa della «civile» Europa. Le norme contro il coinvolgimento della popolazione «non
combattente» nella guerra si riferivano infatti unicamente alle popolazioni ordinate e progredite dell’occidente cristiano, ed escludevano i
conflitti contro i «ribelli e i selvaggi».

«Le leggi di guerra hanno sempre risposto a due interrogativi: Quando è lecito dichiarare guerra? Che cosa è permesso in guerra? Le leggi
internazionali danno due risposte completamente diverse a queste domande, a seconda di chi è il nemico. Le leggi di guerra proteggono il nemico
della stessa razza, classe e cultura. Le leggi di guerra escludono dalla protezione lo straniero, l’estraneo. Quando è permesso dichiarare guerra
contro selvaggi e barbari? Risposta: sempre. Che cosa è permesso in guerra contro selvaggi e barbari? Risposta: tutto».1

Quando nel 1925 i francesi sedarono la ribellione dei siriani bombardando Damasco e i villaggi drusi e provocando circa mille morti, si difesero
asserendo che dovevano combattere contro «banditi» e che quindi le leggi di guerra non potevano essere applicate ad azioni di polizia. Le
opinioni pubbliche dei paesi occidentali erano d’altronde avvezze a considerare tali popolazioni come incivili e non degne di rispetto. La cultura
razzista, che era già profondamente radicata fin dalla conquista delle Americhe, nel corso dell’Ottocento con il colonialismo e il razzismo
biologico si era infatti consolidata ed estesa a gran parte della popolazione.

Già nel secolo XIX erano state colpite città ribelli con numerosi cannoneggiamenti. Il 13 giugno 1854 navi nordamericane bombardarono e
distrussero San Juan del Norte in Nicaragua, perché l’ambasciatore statunitense era stato insultato e maltrattato. Gli inglesi protestarono per
questo cannoneggiamento contro una città indifesa, senza precedenti fra nazioni «civilizzate», ma due anni dopo la British Navy avrebbe distrutto
Canton, uccidendo un elevato numero di civili. Gli inglesi non ammisero mai di avere voluto colpire la città intera, dissero che erano state prese di
mira le mura e ch e per errore erano stati colpiti gli edifici circostanti.2 Nell’agosto 1863, per rappresaglia contro l’uccisione di un cittadino
britannico, l’armata navale britannica bombardò Kagoshima in Giappone, e, stando al rapporto dell’ammiraglio inglese, la ridusse a un ammasso
di rovine. Nella discussione al parlamento si giustificava l’attacco, ribadendo semplicemente il principio secondo cui non ci si sarebbe dovuti
discostare da una giusta proporzione fra l’attacco a un obiettivo e il coinvolgimento di persone innocenti. La proporzione era, ovviamente, del
tutto opinabile. L’indignazione crebbe ancora tra gli inglesi nel momento in cui erano altri a bombardare, come quando nel 1866 gli spagnoli
colpirono Valparaiso in Cile.

I bombardamenti contro le popolazioni coloniali o «incivili» si fecero più massicci a partire dai primi anni del Novecento con lo sviluppo dell’arma
aerea. Fra i primi a usare tale arma contro popolazioni «selvagge» furono gli italiani in Libia nel 1911. «La prima bomba lanciata da un aeroplano
esplose in un’oasi vicino a Tripoli il 1° novembre 1911».3 Si trattò di un atto di vendetta contro gli arabi provenienti da tale oasi che si erano
distinti nella battaglia contro gli italiani. Il primo comunicato dell’esercito proclamava che le bombe avevano avuto uno «stupendo effetto sul
morale degli arabi». A difesa dell’azione furono accampati i diritti di civilizzazione che potevano in alcuni casi contraddire le leggi umanitarie.
Due anni dopo gli spagnoli bombardavano i villaggi marocchini per punire i ribelli; contro i ribelli avrebbero agito con un’azione a largo raggio e
per più anni gli inglesi in Iraq nel 1920, gli spagnoli e i francesi in Marocco nel 1925, di nuovo i francesi, come si è detto poc’anzi, in Siria nel
1925, infine gli italiani avrebbero di nuovo usato, oltre ai gas, bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile nel 1936 in Etiopia.4 Le
truppe sovietiche avevano utilizzato i bombardamenti aerei nel 1918 contro i «ribelli» uzbechi, kirgisi e kazachi, devastando città e sterminando
la popolazione musulmana, in nome della rivoluzione e della modernità.5

Non è un caso che la memoria di tali bombardamenti sia estremamente labile. È Guernica il simbolico discrimine per il mondo occidentale, poiché
allora entrarono nel mirino degli aerei le popolazioni della «civile» Europa.

Alcune delle caratteristiche della seconda guerra mondiale affondano le radici nella guerra coloniale. La guerra totale contro i ribelli e i selvaggi
si trasferiva in Europa: una guerra a oltranza contro le popolazioni delle nazioni ostili, considerate anch’esse nemiche nella loro totalità e quindi
colpibili come i soldati; una guerra etnica per Hitler, per il quale ebrei e slavi erano popolazioni indegne di esistere e che pertanto andavano
distrutte o rese schiave.

Il primo importante ideologo della strategia dell’aria nella guerra fu il generale italiano Giulio Douhet (1869-1930) che si ispirò fra le altre cose
proprio ai bombardamenti libici. Egli sostenne con brutale franchezza l’utilità dei bombardamenti su larghi obiettivi che prendessero d i mira gli
abitanti di tutta una nazione, e si spinse ad affermare che questa sarebbe stata l’arma vincente delle guerre future. Le popolazioni intere erano, a
suo parere, sempre più coinvolte nella guerra, ed era quindi naturale che diventassero, come i militari, obiettivo degli eserciti in armi. Nella
prima guerra mondiale, la rigidità della tecnologia militare aveva reso ciò estremamente difficile. Nel 1914-18 i combattimenti si svolsero lungo le
linee del fronte, che fu impossibile o estremamente arduo rompere: si ebbero battaglie di mesi e di anni con gravi perdite di giovani combattenti,
ben più preziosi, secondo Douhet, di donne, bambini e anziani, che non potevano combattere e difendere la nazione. «Nella grande guerra,
benché essa venisse ad interessare profondamente popoli interi, avvenne che, mentre una minoranza di cittadini combatteva e moriva, la
maggioranza viveva e lavorava per fornire alla minoranza i mezzi per combattere. Tutto ciò perché non era possibile oltrepassare le linee del
fronte senza prima spezzarle. Ma tutto ciò, ora, cade, perché ora è possibile oltrepassare le linee del fronte. L’aereo dispone di questa capacità.
[...] Non più possono esistere zone in cui la vita possa trascorrere in completa sicurezza e con relativa tranquillità. Non più il campo di battaglia
potrà venire limitato. Esso sarà solo circoscritto dai confini delle nazioni in lotta: tutti diventano combattenti perché tutti sono soggetti alle
dirette offese del nemico: più non può sussistere una divisione fra belligeranti e non belligeranti».6 «I bersagli delle offese debbono essere
sempre grandi: i piccoli bersagli hanno poca importanza e non meritano, generalmente, che di essi ci si preoccupi. [...] I bersagli delle offese
saranno quindi, in genere, superfici di determinate estensioni sulle quali esistano fabbricati normali, abitazioni, stabilimenti ecc. ed una
determinata popolazione. Per distruggere tali bersagli occorre impiegare i tre tipi di bombe: esplodenti, incendiarie e velenose, proporzionandole
convenientemente. Le esplosive servono per produrre le prime rovine, le incendiarie per determinare i focolai di incendio, le velenose per
impedire che gli incendi vengano domati dall’opera di qualcuno».7 Si trova qui una chiara anticipazione dei bombardamenti a tappeto: le bombe
esplosive e incendiarie sarebbero state l’incubo delle popolazioni nella seconda guerra mondiale; per loro fortuna la terza bomba consigliata da
Douhet non fu utilizzata... Uno dei pochi accordi internazionali conseguito e osservato fu quello contro le armi chimiche e batteriologiche, che
venne invece infranto dagli italiani in Africa nel 1936.

In Italia le teorie di Douhet sulle armi aeree furono all’inizio fortemente contrastate, non certo per una superiore moralità degli italiani, che, come
abbiamo visto, non esitarono a usare contro popolazioni indifese le armi più letali , quanto per la mancanza di mezzi economici, per l’arretratezza
dell’esercito e dei suoi comandi (nel 1916 Douhet, allora colonnello, fu condannato a un anno di prigione dalla corte marziale per aver prodotto
una memoria sulla disorganizzazione e l’arretratezza dell’armata italiana); sarebbero state comunque riconosciute pienamente dal fascismo, e
avrebbero trovato un’eco significativa nella propaganda del regime che destinava un ruolo simbolico importante ai fasti e alle imprese
dell’aviazione italiana.8

A Douhet si ispirarono esplicitamente i primi sostenitori delle armi aeree e i fautori della creazione di corpi autonomi all ’interno degli eserciti
nazionali, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Fu allora che si sviluppò la discussione più interessante e più accesa e si originò un processo che
avrebbe portato ai bombardamenti indiscriminati della seconda guerra mondiale. «L’offensiva dei Bomber Commands nella seconda guerra
mondiale ha segnato uno dei passaggi più importanti nella storia delle armi. [...] Vi si è impegnata tutta una generazione di vecchi aviatori
determinati a provare che il potere strategico dell’aria poteva rappresentare l’unico e decisivo contributo alla guerra. Ciò sfociò in una
controversia, morale e strategica, che non è ancora finita».9

Tra il maggio e il giugno 1917 i bombardieri tedeschi avevano colpito la città di Folkestone e alcuni villaggi in Kent e in Essex. Si era fatta strada
negli ambienti militari l’idea che si dovesse formare un corpo autonomo dell’aria in grado di contrapporsi efficacemente a tali azioni. Fino ad
allora le forze aeree britanniche erano state subordinate alle forze di terra e alla Royal Navy, secondo una concezione che considerava gli aerei di
supporto alle azioni di guerra tradizionali condotte dall’esercito e dalla marina. Il 1° aprile 1918 dalla unione del Royal Flying Corps e del Royal
Naval Air Service nacque la Royal Air Force (RAF), il cui primo comandante in capo fu Sir Hugh Trenchard, una figura importante nella
costruzione del corpo, nella sua progressiva affermazione e nella strategia di guerra attraverso i bombardamenti. Trenchard guidò gli attacchi
aerei che vennero lanciati sulla Germania dalla Francia nella prima guerra mondiale. Dopo l’armistizio trovò il modo di opporsi allo
smantellamento della RAF come corpo autonomo, proponendo il suo uso contro i ribelli iracheni. «Trenchard persuase il governo che piuttosto
che mantenere costosi presidi di truppe e compiere spedizioni punitive contro recalcitranti uomini tribali, la RAF poteva tenerli a bada ricorrendo
ad attacchi aerei. Negli anni venti, conseguì l’unica esperienza pratica gettando bombe sui villaggi montani dei contadini ribelli». 10

Cominciò in quegli anni da parte dei sostenitori della guerra aerea una battaglia su due fronti: da un canto per legittimare il potere della nuova
forza e crearsi uno spazio negli eserciti tradizionali, dall’altro per imporre una visione strategica nuova della guerra in cui l’Air Force diventava
l’arma decisiva, l’arma della vittoria. Ovviamente i passaggi erano inestricabilmente legati. Se la guerra si poteva vincere quasi soltanto con gli
attacchi aerei, allora l’Air Force diveniva il corpo più importante. L’idea che ricalcava quella di Douhet, considerato il capostipite, consisteva
nell’attaccare il territorio nemico al di là delle linee del fronte, nei suoi gangli vitali, distruggendo gli stabilimenti, le strade, le infrastrutture
necessarie per sostenere la guerra. E, ancora, si insisteva su un punto che avrebbe segnato le campagne contro Germania e Italia: bisognava
infliggere alla popolazione civile tali afflizioni e difficoltà da indurla a detestare la guerra e i propri governanti e a chiedere la pace. Insomma
indurre il nemico al «collasso morale».

Negli Stati Uniti fu il colonnello Gorrell a sostenere nel primo dopoguerra l’importanza della strategia aerea. Anch’egli affermava la rilevanza di
bombardare gli impianti industriali e le linee di comunicazione, che avrebbero anche provocato uno shock psicologico. Proponeva infine la
categoria di area precision bombing, cioè il bombarda mento, invece che di uno specifico obiettivo, di un’area in cui venivano individuate
particolari concentrazioni di impianti; il passo successivo sarebbe stato l’area bombing, il bombardamento a tappeto, che gli inglesi avrebbero
teorizzato nel corso del conflitto mondiale.11 Dopo di lui fu il generale Billy Mitchell a continuare la crociata a favore dei raid aerei.12 Egli
proveniva da un’esperienza di lotta contro la guerriglia nelle Filippine, e aveva incontrato Douhet in Italia nel 1922, assumendo alcune delle sue
idee e adattandole alla situazione americana: le città erano considerate attractive targets non tanto per la distruzione in sé ma per la
disorganizzazione sociale ed economica che dalle distruzioni poteva derivare. Con il tempo il suo pensiero si evolse vieppiù verso l’idea di
bombardamento terroristico, che fu però, in linea di principio, rifiutato dalla scuola americana, perché in conflitto con i sentimenti prevalenti
della popolazione. Si ripiegò sul concetto di bombardamento strategico, «un compromesso accettabile per il popolo americano».13

Negli anni venti e trenta la discussione sulla strategia aerea e sui suoi risultati fu accesa e la vittoria dei difensori della guerra dal cielo non
sembrava così vicina. Nel 1933 il «Times» denunciava la barbarie dei bombardamenti aerei, Bernard Shaw li condannava, l’ammiraglio della
Royal Navy esprimeva la convinzione che la guerra dovesse essere combattuta secondo le regole della cavalleria e che certo non era da
considerarsi cavalleresca l’azione di gettare bombe sulla popolazione.

La condanna morale degli attacchi indiscriminati alla popolazione civile era stata affermata più volte a partire dall’Ottocento e più volte in
congressi internazional i si era arrivati a definire norme che escludessero la popolazione civile dalla battaglia, cosa che, come si è visto non
impedì di utilizzare gli stessi mezzi contro i ribelli e gli «incivili». Alla conferenza dell’Aia del 1899 fu adottata all’unanimità una risoluzione che
vietava per un periodo di cinque anni il lancio di esplosivi o di proiettili dai cannoni verso città o villaggi. La decisione veniva giustificata con
l’imprecisione del tiro che metteva a rischio gli abitanti che vivevano intorno all’obiettivo da colpire. C’era in nuce la giustificazione del
bombardamento strategico: nella misura in cui la tecnologia fosse avanzata e si fosse potuto dimostrare che i bombardieri erano capaci di
puntare con precisione i bersagli, i raid aerei sarebbero diventati un’arma legittima. Nel 1 907, nella nuova conferenza dell’Aia, fu stigmatizzato
l’uso delle armi chimiche e dei bombardamenti su città indifese.14 Ma furono i primi attacchi aerei sulle città inglesi e i cannoneggiamenti su
Parigi durante il corso della prima guerra mondiale a far alzare il tono della discussione. Alla conferenza che si svolse nella città olandese, fra il
dicembre 1922 e il febbraio 1923, con l’articolo 32, vennero messi fuori legge «i bombardamenti aerei che avessero l’obiettivo di ferire i non
combattenti o di distruggere o danneggiare la proprietà privata senza carattere militare, o di terrorizzare la popolazione civile».15 Non si riuscì
però a definire quali fossero gli obiettivi militari consentiti né venne formulata alcuna regola precisa sulla condotta della guerra aerea, rinviando
genericamente alle «condotte di guerra». Alla Società delle Nazioni nel 1931-32 venne operato un tentativo più avanzato, in cui si cercava di
arrivare alla totale messa fuori legge dei bombardamenti e dei corpi militari aerei. Furono i tedeschi a proporre per primi il bando; appoggiavano
questa presa di posizione la Svizzera, l’Olanda e il Belgio. L’Inghilterra proponeva di permettere l’uso dell’arma aerea soltanto contro i ribelli
dell’impero. Gli Stati Uniti suggerivano che si permettessero i bombardamenti solo nelle zone di combattimento.16 Ma si era alla vigilia
dell’ascesa di Hitler, che dava inizio al riarmo della Germania, abbandonava la conferenza e la Società delle Nazioni. La strada era segnata.

La discuss ione, tuttavia, non si spegneva. Da parte dei difensori della guerra aerea i bombardamenti venivano presentati come «strategici».
«Non ha senso parlare di uccisione di donne e bambini – affermava nel 1928 il vicemaresciallo dell’aeronautica Sir John Steel. – Ogni obiettivo
che ho scelto per i miei Bomber Commands è un punto di importanza militare». Sia i piani preparati prima della guerra sia le prime operazioni
venivano spiegati dagli equipaggi come obiettivi strategici specifici: industrie, ferrovie, stazioni elettriche. Ma spesso si trattava di dichiarazioni
tranquillizzanti; al la base c’era sempre l’idea di portare al collasso morale una nazione. La maggior parte di coloro che discutevano e
difendevano l’operato della RAF sapevano perfettamente che provocare il collasso morale significava, in parole povere, uccidere donne e bambini.
In un memorandum del 1938 lo stato maggiore dell’aeronautica distingueva tra un precise target, come una stazione ferroviaria ad esempio, e un
target group, una considerevole area in cui erano concentrati diversi obiettivi di eguale importanza, come quartieri o intere città industriali, in cui
non era necessario un bombardamento di precisione per raggiungere il risultato atteso. Si prefigurava così quello che sarebbe stato l’area
bombing britannico dal 1942. Si stava facendo strada la teoria di Trenchard strettamente legata a quella di Douhet: i bombardamenti come arma
decisiva della guerra per terrorizzare la popolazione, indurre la «nazione in armi» alla resa. «La storica divisione tra uomini in armi e civili stava
per cadere».17

Venivano espressi ancora molti dubbi, soprattutto da parte politica, che sarebbero emersi anche durante la guerra. All’inizio del conflitto il
presidente americano Roosevelt fece un appello ai belligeranti affinché rinunciassero a bombardare obiettivi civili, appello ufficialmente accettato
dai britannici. Nel memorandum del 7 settembre 1939 il capo di stato maggiore dell’aeronautica asseriva che «indiscriminati attacchi alle
popolazioni civili non avrebbero mai fatto parte della politica» britannica.18

Ma intanto la lobby dell’aria chiedeva più finanziamenti per affinare le tecniche e per poter effettuare i bombardamenti strategici: maggiore
capacità di raggiungere obiettivi precisi e meno vittime civili, si diceva. Paradossalmente si sviluppavano forze distruttive attraverso un discorso
umanitario. Il 4 aprile 1940 veniva nominato comandante in capo del Bomber Command Sir Charles Portal, un allievo e protetto di Trenchard, che
sarebbe presto diventato capo di stato maggiore dell’aeronautica e, insieme al futuro comandante del Bomber Command, Arthur Harris,
significativamente soprannominato «the butcher», avrebbe avuto un ruolo cruciale nello sviluppo della strategia di guerra aerea.

Il processo di attacco e risposta che percorse la guerra fece il resto. Il bombardamento di Rotterdam da parte dei tedeschi diede alla RAF la
giustificazione ad abbandonare gli obiettivi prevalentemente militari, come i convog li di soldati, le navi, i porti militari, i campi di aviazione.
Portal ordinò allora i bombardamenti delle ferrovie e delle installazioni industriali nella Ruhr. Fu poi l’attacco a Londra, la battaglia d’Inghilterra,
a cambiare definitivamente la tattica della guerra aerea. Dopo la prima bomba del 24 agosto sul centro di Londra, il primo ministro ordinò di
colpire Berlino nella notte del 25. In novembre ci fu la distruzione di Coventry da parte della Luftwaffe. Mentre fino ad allora c’era stata una certa
attenzione da parte dei Bomber Commands nella scelta degli obiettivi, da quel momento ogni azione venne giustificata. Il 24 nov embre 1940 il
capo di un Bomber Command invitato a scegliere un obiettivo fra Amburgo, Colonia e altro, scelse l’aerodromo di Eindhoven in Olanda perché si
trovava lontano dalla popolazione civile. Ma, man mano che la collera della stampa montava, e con ciò la convinzione del governo che l’opinione
pubblica britannica chiedesse vendetta, l’attenzione dei Bomber Commands a evitare obiettivi che coinvolgessero civili diminuì.19

Nell’estate del 1940 il ministro dell’Aeronautica aveva ordinato a Portal di attaccare i rifornimenti e la produzione di petrolio tedesca concentrata
nell’area di Amburgo, Francoforte, Brema e nella Ruhr, ma aveva aggiunto: «In nessuna circostanza il bombardamento notturno dovrebbe
degenerare in un’azione indiscriminata, cosa che è contraria alla politica del governo di Sua Maestà». In una direttiva successiva il ministro
inseriva come obiettivi le industrie aeronautiche, le vie di comunicazione, le fabbriche di armi. Seguiva un dispaccio in cui si aggiungevano le navi
nei porti e in mare. Portal rispondeva che attaccare obiettivi isolati era molto dispendioso e poco incisivo: si consumavano troppe bombe, ore di
volo, benzina e fatica per produrre danni limitati dal punto di vista materiale e psicologico, a causa dello scarso coinvolgimento della popolazione.
Nasceva così il concetto dell’area bombing. «Aumenterebbero largamente l’effetto morale delle nostre operazioni l’allarme e la molestia creati su
una grande area». Portal descriveva l’area bombing come il bombardamento di un territorio in cui erano concentrati nella più alta proporzione
possibile installazioni industriali. Questo significava coinvolgere le case, i negozi, i caffè, i cinema, i servizi dei lavoratori che abitavano in quei
territori e non ultimo le loro vite. C’erano una chiara coscienza di ciò e una intenzionalità esplicita. Le bombe dovevano anche avere l’effetto
decisivo di demoralizzare, terrorizzare la popolazione.20

Nel 1940 e 1941 le incursioni aeree continuarono sostanzialmente su obiettivi specifici, senza escludere quelli che si trovavano al centro di vasti
abitati o di città. Anzi, e lo vedremo molto chiaramente anche nella documentazione che riguarda l’Italia, tali obiettivi diventavano preferibili
nella misura in cui procuravano alla nazione nemica danni molto più intensi da tutti i punti di vista. Il passaggio concreto all’area bombing era
ormai breve.

Nel passaggio fu cruciale il ruolo di Winston Churchill, il quale si era convinto vieppiù che i bombardamenti sarebbero stati la vera arma della
vittoria nella guerra ed era inoltre mosso da un sentimento di vendetta nei confronti della nazione tedesca responsabile dei grandi
bombardamenti della popolazione di Londra, un sentimento che appare anche con chiarezza nella documentazione che riguarda l’Italia. Il collasso
morale, l’attacco psicologico sono termini che tornano spesso nei suoi discorsi e nei suoi comunicati: un modo eufemistico per dire di attaccare la
popolazione civile senza tanti riguardi. Già il 20 ottobre 1940 Churchill chiedeva che si incrementassero gli attacchi sulla Germania, che si
scegliessero vaste aree, che si facesse uno sforzo incondizionato per gettare sulla Germania il maggior numero di bombe, che si lanciassero da
grande altezza per la sicurezza dei piloti senza badare troppo alla precisione degli obiettivi. «Porre i Bomber Commands al primo posto nello
sforzo bellico fu una decisione personale di Churchill, a fronte di una forte opposizione».21

Fra il 1940 e il 1941 si svolse infatti un intenso dibattito sui problemi morali e strategici connessi ai bombardamenti. Era ormai chiaro che anche
gli obiettivi strategici, quando erano scelti all’interno delle città, provocavano centinaia o migliaia di morti. Oltre a una sparuta minoranza di
pacifisti, intervennero membri del governo, deputati dei Comuni, sacerdoti. A proposito di strategia non tutti erano d’accordo sull’idea che i
bombardamenti fossero decisivi nella vittoria della guerra né che inducessero il collasso morale, molti anzi pensavano che spingessero la
popolazione a sentimenti di rivincita e di vendetta contro il nemico e la inducessero a sopportare le sofferenze in nome della patria colpita
indiscriminatamente. Gli strateghi favorevoli, d’altro canto, giustificavano la tattica dei raid aerei sostenendo che sul fronte europeo, dopo la
sconfitta della Francia, non rimanevano altre armi oltre alle bombe. Quando i tedeschi invasero la Russia, tale argomentazione divenne decisiva e,
come è noto, fu usata da Churchill per giustificare gli ultimi e devastanti bombardamenti di città tedesche indifese e senza impianti industriali,
come Dresda: si trattava di aiutare l’avanzata dei russi. Un’altra giustificazione era data dalla percentuale altissima di perdite fra i piloti:
bisognava preservare le loro vite nei limiti del possibile e quindi badare di meno all’accuratezza degli obiettivi; si dovevano sganciare più bombe
insieme, da una maggiore altezza, e uscire velocemente dai cieli nemici.

La decisione di passare all’area bombing, di attaccare direttamente le città con bombardamenti a vasto raggio fu presa agli inizi del 1942. «Non
ci fu dibattito morale a Downing Street o al ministero dell’Aeronautica sul lancio dell’offensiva contro le città». L’uccisione di civili discendeva
dalla realtà della guerra. Diventava una questione di secondo ordine definire se la strategia adottata provocava morti deliberate o incidentali; la
decisione veniva presentata come l’unica possibile. Il collasso morale delle nazioni attraverso il bombardamento divenne l’obiettivo principale
della guerra: costringere i cittadini a chiedere la pace, come avrebbero recitato i volantini lanciati insieme alle bombe sulla testa della gente, in
Italia come in Germania. L’opposizione divenne minoritaria e non ebbe voce né influenza. Ci fu una campagna di stampa enorme ed entusiastica a
favore dei Bomber Commands e dei loro attacchi aerei. Intanto l’alleanza con gli Stati Uniti d’America rendeva possibile aumentare la produzione
di aerei e di bombe.

Il 22 febbraio 1942 fu nominato comandante in capo del Bomber Command Arthur Harris, un fedele sostenitore delle idee di Trenchard. Harris
era convinto che ci si dovesse dedicare a una sistematica, progressiva distruzione delle città del Terzo Reich, «ridurre il nemico a una nazione di
trogloditi, gettarlo nella rovina».22 Il 5 ottobre 1942 il comandante dell’Air Force Charles Portal prevedeva l’uso di 1250000 tonnellate di bombe
nei successivi due anni, calcolava che un milione di civili sarebbero stati uccisi, un altro milione sarebbero stati seriamente feriti e oltre
venticinque milioni sarebbero rimasti senza casa. Il ministro dell’Aeronautica, imbarazzato, chiedeva di evitare di pubblicizzare simili calcoli:
«Non è necessario in ogni documento enfatizzare tali aspetti, che sono contrari ai principi enunciati dalle leggi internazionali e anche alle
decisioni prese un po’ di tempo fa dal primo ministro, il quale auspicherebbe che le nostre bombe non fossero dirette a terrorizzare la
popolazione civile, neppure per vendetta».23 Era necessario nascondere la verità.

Per la maggior parte della popolazione inglese i crimini nazisti giustificavano la morte di massa; gli oppositori erano assolutamente una
minoranza. Il primo ministro nella risposta a un deputato laburista al parlamento che criticava l’area bombing e chiedeva spiegazioni disse: «Gli
obiettivi delle offensive dei nostri bombardieri sono distruggere la capacità della Germania di fare la guerra e limitare la pressione della
aeronautica militare e dell’esercito tedeschi sugli alleati russi».24 Molti sacerdoti accettarono il compromesso per motivi patriottici; alcuni
presentavano la strategia aerea come una scelta fra due mali: meglio sacrificare la popolazione tedesca, aggressiva e militaresca, che la propria
gente, favorevole alla pace, e affrettare, nello stesso tempo, la fine della guerra. Una dell e poche autorità morali a opporsi fu il vescovo di
Chichester: non ci si poteva presentare come i liberatori dell’Europa con mezzi immorali, al di fuori del controllo delle leggi.

Quando gli americani entrarono in guerra e cominciarono a partecipare e ad attuare bombardamenti sulle città tedesche e italiane non aderirono
mai ufficialmente all’idea dell’area bombing. Parlarono sempre e solo di bombardamento strategico. La storia ufficiale dell’American Air Force
(AAF) avrebbe continuato a sostenere l’intenzione dei governanti americani di non colpire, per motivi militari ed etici, i «non combattenti» in
Europa: l’uccisione dei civili non sarebbe stata intenzionale, ma un indesiderato e criticabile effetto della caduta delle bombe sugli obietti vi
strategici.25 Ma, attraverso il concetto di necessità militare, potevano essere introdotti ben altri obiettivi. Una peculiarità della politica americana
fu il notevole pragmatismo. La dottrina strategica rappresentava soltanto una sorta di linea guida, che doveva essere adattata alle situazioni
tattiche concrete. Veniva inoltre tradizionalmente lasciato ampio margine d’azione ai comandanti che operavano sul teatro locale della guerra e
che controllavano le decisioni tattiche. Questa debole direzione dottrinale e operativa fece sì che la politica dei bombardamenti fosse stabilita dai
c omandi operazionali e tattici che lanciavano le bombe. Per capire la strategia dei raid americani, secondo Crane dobbiamo analizzare la
pianificazione giorno per giorno e le operazioni sul campo, non gli scritti strategici del Pentagono: i cambiamenti erano il risultato di problemi
operativi più che conseguenze di decisioni politiche consapevoli.26

La dottrina dei bombardamenti di precisione riconosceva come obiettivi strategici, ad esempio, le vie di comunicazione o le stazioni ferroviarie; si
taceva, ovviamente, sul fatto che la maggior parte degli obiettivi si trovavano al centro di estesi abitati e la loro distruzione era necessariamente
destinata ad aumentare oltre misura il numero delle vittime civili. È il caso delle città e dei paesi che compaiono nella nostra storia, a cominciare
da Napoli, che subirono devastanti attacchi – e in alcuni casi vennero rasi al suolo – perché erano situati sulle rive di un fiume o nei pressi di un
ponte importante per la sua posizione strategica, o erano cruciali nodi ferroviari o stradali, o sede di impianti industriali. Inoltre, nonostante
appoggia ssero ufficialmente la dottrina dei bombardamenti di precisione e si opponessero ad attacchi indiscriminati sui civili, anche gli airmen
americani si attendevano dalla distruzione degli obiettivi economici e industriali un effetto significativo sul morale delle popolazioni nemiche.27

Molto forti erano in America le pressioni dell’opinione pubblica, che, assai più di quella inglese, era contraria ai bombardamenti indiscriminati
sulle città europee. Non avendoli subiti, come quella britannica, non era animata da propositi di vendetta; era inoltre legata all’Europa dai fili
dell’emigrazione, della parentela, della nostalgia per la terra d’origine con i suoi villaggi e le sue città e aveva difficoltà ad accettare la
distruzione dei propri paesi d’origine. Significativa a questo proposito è la cautela di Roosevelt di fronte alla decisione di bombardare Roma, per
timore del la reazione dei tanti cattolici americani. Era dunque molto più forte negli Stati Uniti la necessità di edulcorare la realtà. Non si poteva
usare il brutale linguaggio di Churchill o di Harris.28

D’altro canto si faceva strada negli alti comandi dell’AAF la spinta ad acquistare forza e autonomia e quindi a premere per una strategia della
vittoria attraverso il dominio aereo. Aumentavano gli aerei, le bombe, le operazioni. I comandi tattici e gli equipaggi erano stretti fra più
pressioni: salvare la forma dal punto di vista morale, raggiungere gli obiettivi strategici, ma nello stesso tempo preservare le vite dei piloti. Il
concetto di bombardamento strategico divenne un’arma fortemente autogiustificativa anche tra i piloti. Si diceva inoltre che sarebbe servito ad
abbreviare la guerra, ad aiutare i soldati che combattevano sul campo e a evitare la loro morte, in occasione degli sbarchi o nelle battaglie di
sfondamento del fronte. «La dottrina del bombardamento di precisione, attaccare industrie invece di donne e bambini, offriva una stra da all’Air
Corps per essere decisivo nella guerra senza apparire immorale».29

La giustificazione tecnologica arrivò con il puntatore Norden, un radar particolarmente efficace, che, secondo i militari, permetteva di segnalare
l’obiettivo con precisione e di usare bombe «intelligenti». Nel 1941, dopo l’attacco di Pearl Harbor e l’entrata in guerra, la dottrina del
bombardamento di precisione divenne la politica ufficiale dell’AAF: attacco a industrie e linee di trasporto nemiche per provocare un collasso
economico e morale. Il comandante in capo Arnold condannava in pubblico il terror bombing, ma in privato sosteneva che era necessario
abbreviare la guerra con ogni mezzo, abbattere il morale del nemico, disorganizzarne la vita. In pubblico affermava ancora che l’arma aerea era
decisiva per imp edire la carneficina della prima guerra mondiale e che, vista da questo punto di vista, si rivelava la «più umana di tutte le
armi».30

L’idea che la guerra aerea contribuisse ad alienare le popolazioni dai loro governanti e a deprimere il morale delle truppe fu applicata all’Italia, e
il caso italiano fu usato per valutarne l’efficacia. Il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 venne visto da diplomatici e commentatori come
una delle cause della deposizione di Mussolini. Nella cronaca del 310° gruppo bombardieri, che partecipò ai terribili raid del 17 luglio a Napoli e
del 19 a Roma, il nesso viene enunciato con chiarezza e ricordato tra gli onori del gruppo. «Il 17 luglio 1943 la stazione di smistamento di Napoli
è stata bombardata da nostri aerei B-26 e B-17. La devastazione che ne è risultata è stata tremenda; non solo sono state demolite la stazione e le
case circostanti ma sono state anche incendiate le raffinerie che stavano ai confini dell’obiettivo. Il 19 luglio un altro spettacolare raid è stato
inflitto al nemico (Roma Ciampino e stazione). In tutta Italia nascevano dimostrazioni per la pace e attività di sabotaggio provocate da questa
ondata di bombardamenti. [...] Il 25 luglio, dopo oltre due decenni di dittatura assoluta, il premier Benito Mussolini veniva sostituito dal re».31

Si accrescevano gli strumenti della propaganda per rafforzare il ruolo dell’AAF e per convincere la popolazione della bontà delle proprie teorie. I
Bomber Commands vennero equipaggiati con macchine fotografiche e cineprese che riprendevano obiettivi, mostravano bombardamenti
tecnologici. Le fotografie scattate da un aeroplano a 25000 piedi di altezza ci fanno vedere la città in lontananza: i risultati delle bombe sganciate
dall’aereo appaiono come piccole nuvolette che si sprigionano dagli obiettivi colpiti. Visti dall’alto, sembrano davvero bombardamenti di
precisione; la prospettiva dal basso era, come vedremo, assolutamente diversa.

Gli americani contrapponevano le bombe esplosive a quelle incendiarie (più diffusive), i bombardamenti diurni a quelli notturni indiscriminati
attuati dalla RAF, i bombardamenti di precisione all’area bombing.32 Per quel che riguarda la strategia dei bombardamenti europei essi negarono
sempre il loro ruolo nella campagna dell’area bombing e cercarono di addossare agli inglesi le responsabilità per gli attacchi più furiosi alle città
tedesche, in particolare Dresda. Diverso fu l’atteggiamento rispetto al Giappone. Già prima delle bombe atomiche gli statunitensi avevano raso al
suolo e incendiato, usando il napalm, le città giapponesi provocando in un solo giorno 82000 morti. Poi ci fu l’atomica: difficile sostenere che
l’obiettivo delle due bombe non fossero i civili. È significativo che gli americani non abbiano mai pensato di usare il napalm o le atomiche contro
la popolazione tedesca. La guerra in Giappone assunse in effetti forti colorazioni razziste.33 I giapp onesi erano tipizzati come una razza
subumana, animalesca, erano dipinti nel loro insieme come un popolo sadico e crudele, senza distinzioni, mentre distinzioni si ammettevano per
quel che riguardava i tedeschi.

Eppure gli americani riuscirono a esprimersi anche sull’atomica in termini di bombardamento di precisione. Ecco il messaggio mandato dal
generale Norstad, comandante della XX Air Force nel Pacifico, al generale Spaatz, comandante delle United States Strategic Air Forces: «È
sottinteso che il segretario di Stato nella sua conferenza stampa domani distribuirà una mappa fotostatica di Hiroshima che mostra l’obiettivo e
l’area del danno maggiore... Si pensa che far vedere l’accuratezza con cui la bomba è stata sganciata possa contrastare efficacemente l’idea che il
lancio della bomba atomica produca un gratuito, indiscriminato bombardamento».34

Alla fine del la guerra gli inglesi, soprattutto quando in Inghilterra apparvero le fotografie delle devastazioni di Dresda, cercarono di dimostrare
di essersi attenuti al concetto di area bombing; anche se in molti casi era assai difficile sostenerlo, gli americani continuarono a difendere il
bombardamento di precisione. Colpisce, e lo vedremo nelle memorie dei nostri testimoni, come tali concetti e tali giustificazioni siano entrati nel
senso comune, siano accettati dalla gente. Lindqvist racconta di essere stato in una famiglia di operai a Saint Albans nel 1948 e di avere discusso
con loro dei bombardamenti. Difendevano con assoluta convinzione il fatto che i britannici avessero bombardato solo obiettivi specifici: trasporti
militari, industrie belliche... All’autore che faceva notare come Amburgo fosse stata rasa al suolo dagli inglesi, gli ospi ti obiettarono: «Saranno
stati gli americani, noi inglesi abbiamo colpito solo gli obiettivi militari. E dopo una breve insistenza tagliarono corto. Il capofamiglia disse: non
voglio propaganda tedesca a casa mia».35

D’altro canto «l’8 agosto 1945, due giorni dopo Hiroshima e un giorno dopo Nagasaki, gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, la Gran Bretagna e la
Francia firmavano gli accordi di Londra, che definivano i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità azioni punibili in un tribunale
internazionale. [...] Come prevenire la condanna dei loro sistematici bombardamenti di aree residenziali civili in Germania e Giappone, secondo le
norme che prima della guerra erano state accettate come leggi internazionali anche dagli stessi alleati? Che cosa dire quando i comandanti
tedeschi, accusati dai tribunali di avere distrutto interi villaggi in azioni contro i partigiani, rispondevano che essi avevano fatto esattamente
quello che gli alleati avevano fatto bombardando città e villaggi? Nel suo rapporto conclusivo il capo dell’accusa Telford Taylor dichiarò sia i
tedeschi sia gli alleati non colpevoli per quanto riguardava i bombardamenti, poiché “i bombardamenti aerei di città e industrie sono stati
riconosciuti parte della moderna guerra, essendo praticati da tutte le nazioni”. I bombardamenti di civili erano diventati, secondo il tribunale, una
legge consuetudinaria. La quarta convenzione dell’Aia del 1907, che proibiva i bombardamenti sui civili, non fu applicata durante la seconda
guerra mondiale e quindi, secondo il tribunale, aveva perso la sua validità».36

Ma oltre che nelle leggi consuetudinarie i bombardamenti erano anche entrati nell’universo mentale della gente. «Da una guerra all’altra, una
soglia quantitativa e qualitativa nell’uso della violenza è stata abbattuta. Una volta ammessa l’idea che nella guerra totale le popolazioni potevano
essere considerate come soldati, la nozione di presa in ostaggio, accidentalmente o congiunt uralmente necessaria, portava a pensare a quella del
loro annientamento. [...] Anche se è diventato evidente, è sempre difficile ammettere che le violenze di guerra considerano proprio i civili come
obiettivo. [...] Rispetto alle nuove strategie sviluppate da un centinaio di anni, alle popolazioni civili non resta che armarsi di pazienza, imparare a
escogitare stratagemmi per sopravvivere e vivere sotto le bombe, mentre i militari lasciano trasparire la loro falsa coscienza inventandosi una
retorica della legittimazione. Come leggere altrimenti la deriva del vocabolario (dal male necessario alle uova strapazzate per fare l’omelette, dal
bombardamento chirurgico ai danni collaterali) utilizzato per definire l’atto di uccidere uomini, donne e bambini sotto le bombe, che siano
esplosive, incendiarie al fosforo, al napalm, a frammentazione, a biglie, atomiche...? La guerra totale non ha abolito l’interdizione del quinto
comandamento. Ha obbligato coloro che lo trasgredivano a camuffare l’idea».37

I bombardamenti in Italia

Nel novembre 1942 inglesi e americani decidevano una massiccia campagna di bombardamenti sull’Italia. Diplomazia e alti comandi militari
discutevano sulle prospettive della guerra: la debolezza dello stato italiano sul fronte militare era chiara e chiare erano le difficoltà interne;
l’obie ttivo era dunque quello di spingere la nazione fuori dal conflitto, dividendo il fronte nemico. «Le disfatte dell’Asse nel deserto e le
operazioni in Nordafrica dove le truppe italiane sono state lasciate al loro destino dai tedeschi in Egitto, oltre che i bombardamenti britannici
sulle città del Nord, hanno avuto indubbiamente un effetto considerevole sul morale degli italiani, sia civili sia militari. Possiamo trarre vantaggio
dalla presente confusione in campo italiano e sviluppare ciò come parte di una generale strategia di guerra?»

Il segretario di stato del Foreign Office scartava in quel momento la possibilità di stipulare una pace separata, per il coinvolgimento della corona
con il fascismo e per la difficoltà da parte dei fascisti moderati di rovesciare il regime, pensava invece che l’alternativa più realistica fosse quella
di «provocare un collasso interno». «Nell’evenienza di un collasso interno, i tedeschi dovrebbero scegliere o di abbandonare l’Italia al suo destino
e tracciare una frontiera al Brennero, o di mandare truppe in Italia per restaurare e possibilmente mantenere la situazione. Politicamente i
tedeschi non possono permettersi di accettare la prima alternativa a meno che non sia fisicamente impossibile per loro inviare le truppe
necessarie per l’occupazione dell’Italia. [...] Inoltre, un collasso interno proprio in Italia, specialmente se conduce o è preceduto da serie
disaffezioni tra le forze armate italiane, potrebbe provocare un ammutin amento delle forze italiane di occupazione in Grecia, Iugoslavia e
Albania. Così i tedeschi sarebbero costretti a dirottare truppe per l’occupazione dell’Italia e dei Balcani [...] L’occupazione dell’Italia e dei Balcani
richiederebbe tre o quattro divisioni tedesche. [...] Un’occupazione tedesca dell’Italia sarebbe particolarmente odiata dagli italiani, [...] e
predisporrebbe la popolazione in nostro favore e faciliterebbe le operazioni militari da parte nostra contro l’Italia. [...] Dunque, ritenendo poco
possibile concludere una pace separata con l’Italia, raccomando che ci si concentri sull’obiettivo di provocare un collasso interno, con il fine di
costringere la Germania a occupare l’Italia e i Balcani. [...] Le armi a nostra disposizione sono due: 1) La guerra militare: a) alcune operazioni
militari contro l’Italia e b) le azioni aeree. [...] Riguardo al punto 1.b (azioni aeree), per capire se la continuazione di bombardamenti pesanti
possa favorire o arrestare la disintegrazione dell’Italia, bisogna tenere a mente le seguenti osservazioni. Tutti i nostri riscontri mostrano che i
recenti pesanti attacchi a Genova e Milano, i nostri bombardamenti sulle città italiane in generale hanno avuto salutari effetti per quel che
concerne la popolazione italiana. È stata espressa ammirazione per il comportamento cavalleresco della RAF che ha limitato la sua azione a
obiettivi militari. Ma ci sono anche rapporti che dicono che i bombardamenti indiscriminati che hanno provocato morti e feriti tra la popolazione
civile nei recenti pesanti raid hanno aumentato il rancore e il sentimento antibritannico. Simile rancore è cresciuto anche fra le truppe italiane
fuori dell’Italia pensando alle sofferenze delle loro famiglie. D’altro canto, la demoralizzazione e il panico prodotti da bombardamenti aerei
intensivi senza dubbio controbilanciano la crescita del sentimento antibritannico. Sulla bilancia, dunque, tutto suggerisce di mantenere e
incrementare i nostri bombardamenti pesanti sulle città italiane. [...] Un’altra questione che si pone adesso è se bombardare Roma. È probabile
che il grande effetto di bombardare la sede del fascismo, che per ora non è stata toccata, possa essere riservato come culmine di un’intensa
campagna di bombardamenti. Raccomando, dunque, che il bombardamento di Roma sia lasciato al momento in cui avremo ragione di pensare che
il morale italiano abbia raggiunto il punto di rottura. [...] Al popolo italiano deve essere detto costantemente e con tutto il peso della propaganda
che Mussolini e il partito fascista hanno scelto di legare il futuro dell’Italia al nazismo, che essi si sono legati allo stesso destino di Hitler, e che
noi siamo determinati ad assicurare la disfatta e a punire il nazismo e tutti coloro che si sono associati ad esso. Noi capiamo che il popolo italiano
è stato spinto a combattere dal regime fascista. Ma se ora il popolo italiano decide di continuare lungo la strada fascista, esso sicuramente
soffrirà tutte le sventure e le sofferenze che spettano ai vinti».38

Il documento britannico è estremamente chiaro: quasi nulla era la fiducia nella classe dirigente italiana troppo coinvolta con il fascismo e ormai
invisa alla popolazione, sulla cui progressiva e veloce disaffezione al regime si puntava quindi tutto. E i modi per provocare questo collasso
interno venivano individuati con nettezza nei bombardamenti: non bombardamenti chirurgici, cioè contro impianti militari e obiettivi strategici,
ma «bombardamenti indiscriminati che provocassero morti e feriti fra la popolazione civile». La popolazione diventava un chiaro ostaggio nella
guerra: ad essa andava costantemente detto che per salvarsi doveva cercare di dividere la sua sorte da Mussolini e dalla Germania, ribellarsi,
sabotare. Essa veniva descritta dagli inglesi come innocente: il popolo italiano, un popolo pacifico e poco propenso alla guerra era stato spinto a
combattere dal regime fascista. Argomenti analoghi avrebbero usato gli italiani nel dopoguerra per distinguere la propria sorte da quella del
fascismo. In fondo gli stessi alleati avevano fornito loro gli argomenti. Erano questi i toni dei volantini che scendevano dal cielo e avrebbero
continuato a cadere con regolarità fino all’8 settembre 1943.

Dieci giorni dopo il ministro degli Esteri britannico scriveva all’ambasciatore inglese a Washington: «Io sono assolutamente dell’opinione che il
migliore metodo per facilitare un collasso interno dell’Italia è quello di portare allo stremo la posizione militare dell’Italia [...] Secondo la mia
opinione non c’è nulla da guadagnare attraverso appelli al popolo italiano o alle forze armate a insorgere per rovesciare il regime fascista e
abbandonare la Germania. [...] Al momento non ci sono leader o movimenti antifascisti di calibro sufficiente [...]».39

Dava quindi un resoconto su messaggi indiretti av uti dalla legazione di Lisbona, dal generale Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, dal
console generale di Ginevra a proposito del principe erede al trono dell’Italia, affermando che i contatti non sarebbero proseguiti, che erano
incerti, inaffidabili, che prima di trattare era necessario attendere il crollo del regime.

Intanto si organizzavano e affinavano le strategie e le tecniche dei raid aerei da parte dei Bomber Commands. La RAF avrebbe continuato a
raggiungere con i suoi bombardieri le grandi città del Nord direttamente dalle basi inglesi, e avrebbe «lavorato» d’intesa con i bombardieri
americani dalle basi di Malta e del Nordafrica.40 In una missiva successiva, indirizzata al primo ministro, Portal ribadiva gli argomenti citati nel
rapporto e precisava gli obiettivi dei principali bombardamenti. «Gli attacchi dovrebbero essere concentrati su alcune delle più importanti città e
basi navali. La lista provvisoria è: Milano, Roma, Napoli, Torino, Genova, Taranto, Spezia e Brindisi. [...] La quantità mensile delle bombe
sull’Italia potrebbe essere di circa 4000 tonnellate. Questo dato è confrontabile con la media delle bombe sganciate sulla Germania nei tre mesi
passati».41

Ed ecco le prime valutazioni. «Gli ultimi attacchi della RAF hanno creato una situazione seria in Italia. Le autorità non riescono a risolvere i
problemi derivanti dall’evacuazione delle masse. La popolazione è molto scontenta e lo dice apertamente. Questo è il momento per continuare i
bombardamenti (nota – identico punto di vista è stato espresso a me da altre attendibili fonti che sono appena arrivate dall’Italia). [...] Il nostro
raid su Torino la notte del 28-29 novembre ha causato danni eccezionali. [...] Pratic amente tutte le principali industrie nelle città del Nord hanno
evacuato i loro uffici. Questo ha provocato confusione e ha colpito la produzione. [...] Grande richiesta di denaro da parte dei privati alle banche.
Ciò ha creato mancanza di contanti alle maggiori banche. [...] L’informatore è dell’opinione che se i raid della RAF fossero estesi a Bologna e se
possibile al Sud, sorgerebbero eccezionali difficoltà alle autorità fasciste. L’interesse della popolazione settentrionale in questo momento non è la
guerra, sono tutti occupati a fuggire dalla RAF».42

È il 1° dicembre 1942; tre giorni dopo, il 4 dicembre, si verificherà il primo grande bombardamento diurno su Napoli, diretto dai comandi
americani del Nordafrica.

Ai primi del 1943 erano le NAAF (Northwest African Air Forces) a operare in tutto il settore del Mediterraneo. Il generale americano Carl Spaatz
aveva lasciato il comando dell’VIII Air Force in Gran Bretagna, per assumerne la direzione. Nelle NAAF c’erano squadriglie britanniche e
americane con la prevalenza di queste ultime; ma i britannici agivano anche attraverso il Middle East Air Command e la RAF di Malta. Nel corso
della primavera del 1943 tutte queste forze sarebbero state raggruppate nelle Mediterranean Allied Air Forces, al cui comando venne posto un
inglese, Sir Arthur Tedder. Ma il comandante de lla superunità operativa più importante era un americano, Spaatz appunto, e tutte le forze erano
poste sotto il comando supremo di Eisenhower.43 Gli americani avrebbero di fatto ispirato la strategia dei bombardamenti nell’Italia meridionale.
Quindi, almeno nominalmente, non venne adottata la tattica dell’area bombing, ma quella degli obiettivi strategici. La RAF inoltre si occupò in
prima persona di colpire le linee di comunicazione e gli impianti industriali, integrando il lavoro diurno degli americani con attacchi notturni.
Nella realtà dei fatti le incursioni aeree diurne furono moltissime, di grande potenza ed effettuate da alta quota, per cui i risultati furono gli stessi
dell’area bombing britannico nell’Italia settentrionale.

L’Italia meridionale e centrale fu analizzata meticolosamente. Le aree venivano fotografate, i bersagli identificati e trasferiti su piante. Dagli
archivi emergono migliaia di fotografie seguite da mappe: gli obiettivi punteggiano la penisola coprendola quasi completamente. Lunghi elenchi
di bersagli compaiono nella documentazione americana, catalog ati secondo l’importanza strategica (first, second, third priority) e accompagnati
da accurati studi.44 Insieme vi si trovano analisi minuziose degli impianti industriali e delle linee di comunicazione con i nodi strategici da colpire.
Documentazione analoga si può rintracciare negli archivi della RAF: l’esame delle linee di comunicazione a sud e a nord di Napoli, da bombardare
in supporto alle operazioni di terra. Frecce e cerchi indicano con precisione gli obiettivi.45 La piantina della città di Napoli è estremamente
significativa: la città è letteralmente punteggiata dai numeri che indicano gli obiettivi. E, se si pensa che gli aerei americani sganciavano le
bombe da 20-25000 piedi, pretendendo di colpire un impianto strategico nel cuore della città, si può capire quale fosse il risultato per coloro che
nell’area della mappa vivevano.

Dai rapporti degli equipag gi si ricavano alcuni indizi per ricostruire le pratiche dei bombardamenti. Pressoché tutti gli ordini di operazioni su
Napoli indicano come obiettivo l’area del porto; oltre al target primario ne sono contemplati anche uno o due secondari. Se l’obiettivo era coperto
dalle nuvole, se si verificavano incidenti o contrattempi, l’equipaggio si dirigeva sugli obiettivi secondari. Napoli era in genere accoppiata a
Crotone, Villa San Giovanni, Messina, Palermo. Nei rapporti i capitani dichiaravano spesso di aver colpito senza aver potuto individuare con
precisione l’obiettivo a causa del maltempo e di aver sganciato le bombe senza «prendere la mira accuratamente», come affermò il comandante
dell’equipaggio della RAF che il 25 aprile 1943 colpì Torre del Greco, provocando la morte di un centinaio di persone, fra cui un numero
impressionante di bambini.46 Notizia, quest’ultima, che veniamo a sapere non certo dai rapporti dei bombardieri, ma dalla relazione dei nostri
vigili del fuoco che quel bombardamento vedevano dal basso. Il 13 marzo 1943 un comandante affermava di non aver potuto «individuare il porto
e di aver sganciato le bombe in un’area a sud del porto», un altro di aver lanciato le bombe attraverso un tappeto di nubi «nell’area della città a
metà del tragitto».47 Un equipaggio dichiarava di aver fatto cadere le bombe nella zona dell’obiettivo secondario su un villaggio la cui identità
rimaneva sconosciuta. Ovviamente nessun rapporto parlava delle conseguenze sulle popolazioni colpite dalle loro azioni. La guerra raccontata
dai militari non ha morti civili. Questi sono costantemente negati. Si trovano liste e stime precise dei danni inferti a beni e servizi, mai una nota
sui morti provocati. Sono un non detto della guerra.

Infine, nonostante la difesa ufficiale del bombardamento di precisione e il tentativo di distinguersi ideologicamente dai britannici, soprattutto di
fronte alla propria opinione pubblica, i comandi tattici e strategici americani si mostravano molto spesso ben più in sintonia con i loro alleati di
quanto non lasciassero intendere. Un significativo esempio è il documento del 1° agosto 1943 dal titolo estremamente espressivo: «Operazione
psicologica di bombardamento per spingere l’Italia ad arrendersi». Siamo alla vigilia del grande raid su Napoli del 4 agosto.

«1) È ferma convinzione che sia arrivato il momento per un decisivo colpo che possa distruggere i nervi e far crollare il morale del popolo italiano,
specialmente in questo periodo di riaggiustamento e riorganizzazione dopo la caduta del regime di Mussolini. Ciò può essere ottenuto
dimostrando opportunamente il potere di devastazione della Strategic Air Force. Per fare ciò in modo ancora più impressionante e terrificante,
occorrerà definire una lista di città italiane da isolare sistematicamente e distruggere totalmen te. Le operazioni su queste città dovrebbero
essere periodiche e alternate alle altre operazioni.

2) Il nemico dovrebbe sapere che le operazioni di bombardamento sono appena cominciate, ma che altre operazioni, come gli attacchi contro gli
aerodromi, le stazioni di smistamento ecc. saranno effettuate e i caccia e le difese contraeree non riusciranno a contrastare gli attacchi sulle città
destinate alla distruzione, [i cittadini devono avere] piena coscienza che le loro città possono essere le prossime e questo potrebbe avere un
effetto tremendo sui nervi con il progredire delle operazioni. Queste operazioni dovrebbero essere pubblicizzate attraverso la propaganda delle
trasmissioni radiofoniche e attraverso i volantini. Le trasmissioni e i volantini dovrebbero descrivere nei minimi dettagli i futuri bombardamenti
strategici, così come quelli di Roma, Napoli, Palermo, Tunisi e gli altri raid, soffermandosi sull’estrema accuratezza dei bombardamenti, sulle
distruzioni causate e l’entità dei danni che i B-17, B-26, B-25, P-38, Wellington e P-40 sono in grado di infliggere quando sono a pieno carico. Tale
conoscenza causerà una costante paura per le loro vite ogni volta che un aereo amico od ostile volerà sulle loro teste. Un pericolo certo che
arriverà in un tempo imprevedibile ha un effetto ancora più terrificante su una popolazione spaventata e scioccata di un pericolo che possa essere
anticipato.

3) Le città dovrebbero essere scelte con attenzione in modo tale che tutta l’Italia senta gli effetti tremendi di una guerra simile. Questa lista
dovrebbe contenere città come Roma, Napoli, Firenze, Genova e Venezia che sono quelle più vicine al cuore degli italiani. [...] Tra i primi obiettivi
si raccomanda di includere anche Foggia, come cavia. Questa città viene scelta perché ha quattro grossi aerodromi nelle vicinanze ed è anche
una città abbastanza grande situata sulla linea ferroviaria orientale che proviene dal Nord Italia».48

Le raccomandazioni non potrebbero essere più esplicite: la guerra terroristica, negata in altre sedi, emerge con crudezza nel linguaggio usato
dagli strateghi militari.

Che la strategia di distruggere il territorio e demoralizzare la popolazione da «liberare» fosse la più adatta ai fini della vittoria militare era,
ovviamente, un’idea opinabile e in discussione. L’8 settembre 1943 dopo i terribili raid di luglio e di agosto su Napoli, l’ambasciatore presso la
Santa Sede scriveva al Foreign Office, riferendo le argomentazioni del Vaticano: «I recenti raid su Napoli hanno terribilmente danneggiato la città
senza alcun rapporto chiaro con obiettivi militari. Mi è stato autorevolmente fatto presente che attacchi simili non aiutano i nostri fini militari ma
indeboliscono soltanto la forza degli italiani e impediscono loro di liberarsi dei tedeschi».49

A maggior ragione dopo la caduta del regime fascista le bombe sulle città sembravano infierire inutilmente su una popolazione già affranta e
colpita da sofferenze inenarrabili. E più che mai il discorso sugli obiettivi strategici si rivelava una mistificazione.

Un’altra interessante documentazione affiora dagli archivi britannici a proposito del «caso Roma». A cominciare dal gennaio 1942 tra inglesi e
americani si intrecciava la discussione sulla capitale, cui il Vaticano chiedeva di dare, in quanto sede del papato e quindi luogo simbolico di tutta
la cristianità, lo status di «città aperta». Negli incartamenti del Foreign Office e del ministero dell’Aeronautica il caso romano occupa largo spazio
e consente di cogliere altri elementi interessanti sulla politica dei bombardamenti e sulle strategie dei due principali alleati. I britannici
sostenevano che la capitale era la sede reale e simbolica del regime fascista e dello stato italiano e, come tale, obiettivo centrale per la campagna
aerea. «Le autorità del Vaticano e il papa stesso dal momento della dichiarazione d i guerra dell’Italia non hanno mai cessato di premere sul
Regno Unito perché eviti di bombardare Roma. [...] il governo di Sua Maestà depreca l’atteggiamento del papa [...] si ha l’impressione che voglia
proteggere lo stato italiano e il governo fascista dalle conseguenze della sua azione nel bombardare Londra. Al papa è stato assicurato che il
Vaticano non verrà bombardato (questo gli deve essere sufficiente). [...] Il punto è che Roma è la capitale dello stato italiano e del governo
fascista ed è essa stessa un obiettivo militare legittimo, a parte il fatto che contiene al suo interno specifici obiettivi militari come la stazione
ferroviaria».50

Una nota significativa accompagna le considerazioni sui raid negli incartamenti del ministero dell’Aeronautica. «Due osservazioni generali dal
punto di vista di uno studioso di leggi internazionali. In primo luogo non so se ci siano leggi internazionali che confer iscano immunità da attacchi
a città che si dichiarino aperte. La questione se una città può essere legittimamente bombardata dall’aria dipende non dal fatto che essa si
dichiari “aperta” o “indifesa” ma dal fatto che contenga obiettivi militari. I civili che non abbiano preso parte o non abbiano contribuito alla
conduzione della guerra non sono oggetto di attacchi deliberati e diretti. [...] Ma la semplice dichiarazione che una città è aperta non fa alcuna
differenza. Sarebbe come issare una bandiera bianca mentre continuano i combattimenti. In secondo luogo, sembrerebbe in ogni caso impossibile
trasformare una grande città capitale, il cuore del governo e della direzione della guerra, sede di industrie legate alla guerra, centro nevralgico
dell’amministrazione e snodo dei trasporti militari, in un’area non belligerante».51

Gli inglesi sembrano quasi accusare il papa di preoccuparsi soltanto dell’incolumità della capitale e del Vaticano, senza pensare alle altre città
italiane, vittime di terribili bombardamenti.

Il 1° agosto 1943, quando già la città è stata colpita dal grande bombardamento del quartiere di San Lorenzo il 19 luglio, Churchill scriveva al
segretario del Foreign Office: «Non capisco perché, se continuiamo a bombardare le città del Nord Italia, le cui popolazioni sono favorevoli agli
alleati e violentemente antigermaniche, non dovremmo continuare a bombardare obiettivi militari e sobborghi di Roma. Molti credono che il
bombardamento di Roma sia stato il colpo finale per Mussolini. Io non sono convinto di ciò, ma non riesco a vedere nessuna ragione perché, se
Milano, Torino e Genova devono stare sotto le bombe, Roma debba esserne esentata».52

Tra la documentazione del primo ministro troviamo ancora una nota del 15 agosto 1943, in cui il concetto di città aperta viene definito «un
anacronismo che non ha alcun significato nella guerra moderna» e si raccomanda di «non prestare attenzione a nessuna dichiarazione italiana e
continuare a prendere tutte le misure richieste dalla situazione militare».53

Nel dicembre 1942, data fatidica per la maggior parte delle grandi città italiane, il segretario di stato per l’Aeronautica aveva scritto a
Washington che Roma era un centro di comunicazioni stradale e ferroviario cruciale nella penisola italiana, che si poteva accettare di preservare
una parte della città dai bombardamenti, cioè una zona di cinque miglia intorno a palazzo Venezia, che avrebbe potuto includere la stazione, a
patto che il governo e i comandi militari italiani e tedeschi si fossero impegnati a non farvi passare convogli militari. In caso contrario sarebbero
stati preservati il Vaticano e la zona di Valle Aurelia, mentre ci si sarebbe riservata la facoltà di bombardare la stazione ferroviaria e altri ob iettivi
militari, non garantendo che alcune bombe potessero occasionalmente finire nell’area della città aperta. «Se il governo italiano non accetterà le
nostre condizioni saremo costretti a bombardare Roma e gli snodi ferroviari. [...] Ci sono soltanto due altri centri in Italia di importanza
paragonabile; uno è Bologna che è troppo lontana, l’altro è Napoli che è più vicina – qui potrebbe esserci il raid principale. Mi piacerebbe,
tuttavia, avere un parere più dettagliato dal Target Committee prima di decidere definitivamente sulla linea d’azione».54

In effetti la stazione e il porto di Napoli erano già allora, e lo sarebbero stati per tutta la durata della guerra, fra gli obiettivi principali della
campagna aerea americana e britannica. Proprio nel dicembre 1942 Napoli avrebbe subito i primi terrificanti bombardamenti a tappeto, che
sarebbero proseguiti senza interruzione fino al settembre succ essivo, provocando terribili distruzioni e un numero di morti elevatissimo. Nel
documento la città appare quasi come un obiettivo alternativo alla città «sacra», che gli americani temevano di bombardare. Roma sarebbe stata
colpita il 19 luglio 1943: insieme alla stazione sarebbe stato distrutto il vicino quartiere di San Lorenzo. Gli angloamericani accettarono di
rispettare ufficialmente solo i confini della città-stato del Vaticano. 55
3. I bombardamenti a tappeto
Inglesi e americani: la memoria

«E bumbardamente degli americani nun erene come i tedesche, come gli inglesi. Chille steveno in città, sorvolavene sempe, però ittavene cocche
bombe accussì. Americane scaricavene e bombe a muntune e fuievene»1 (Cesare Giorgio).

«All’inizio c’erano gli inglesi a bombardare, ma era una cosa più leggera, gli inglesi giravano, se paperiavene,2 ma era raro che buttavano le
bombe. Gli americani, secondo me, addo se truvavene là menavene i bombe e se ne ievene, e menavene comme i caramelle»3 (Carmela Esposito).

«Quando gli americani bombardavano e suonavano le sirene non avevamo neanche il tempo di... che già avevamo e bumbardamente ’n cuolle bu
bu bu bu... quindi gli americani bombardavano sempre, bombardavano sempre. Non c’era tregua. Però precedentemente l’America non era in
guerra, la guerra sta va tra o Giappone, la Germania, l’Italia e... dopo che il Giappone bombardò gli stati americani i giapponesi bombardarono e
l’America scese in guerra, fecero un patto Truman, Churchill, Stalin e c’era anche questo ministro francese... Così quando l’America scese in
guerra, non si è capito niente più, morti sopra morti... Napoli distrutta... si piangeva una continuazione, perché tra la paura e il fatto che non
c’era niente da mangiare, non c’erano viveri... ma non c’era niente credetemi proprio niente!» (Antonio Iannucci).

«Quando erano gli inglesi a sganciare le bombe erano molto prudenti, lanciavano bombe solo quando erano sicuri di individuare il bersaglio...
L’allarme scoppiava immancabilmente ogni notte e tutti dovevamo scendere verso le 22.30, le 23 nei ricoveri fino alle 4, alle 5 di mattina senza
capire niente. A un certo punto ci eravamo talmente abituati a questo che noi giovani non volevamo più scendere, ma i nostri genitori ci
obbligavano... Invece quando arrivavano gli americani gli aerei erano talmente tanti che il cielo si oscurava, erano decine e decine di aerei e
quindi sparavano in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, non avevano nulla da perdere» (Pasquale Pagano).

«Mi ricordo che era in autunno grosso modo perché mi ricordo che chiuveve4 e cominciarono i primi bombardamenti, ma erano gli inglesi che
venivano e sempre di notte mai di giorno, incominciavano dopo a mezzanotte, un po’ prima della mezzanotte, suonavano le incursioni e fuieveme
sotto i ricoveri. C’erano alcuni ricoveri ma di solito a Ercol ano si andava sotto la cantina, nui dicimme abbasce a cantina, che poi erano zone
scavate che poi non per niente ce steva a roccia vulcanica, e nuie diceveme: ccà ce sta a roccia vulcanica, quanne care a bomba nun crolla. Po i e
case pesante, e case cun e arcate praticamente, aro stevene e trave ce ne fuieveme, perché addo stevene e arcate era meno pericoloso...5 Era la
nostra mentalità. Poi man mano le cose cominciarono intensificarsi maggiormente, perché poi mi ricordo che arrivarono gli americani nel ’42... E
mi ricordo che venivano gli americani e menavene bombe a carrette, gli americani venivene ’e iuorne6 e gli inglesi venivene ’e notte, pecché gli
inglesi bombardavano agli obiettivi, gli americani arrivavane, scaricavene e se n’ievene, arrivavano coi quadrimotori, scaricavene e se n’ievene.
Questo è successo nel ’42, quando poi l’America è entrata in guerra, l’America praticamente aveva chillu potenziale bellico. E a nu certo momente
veneva a menà bombe a tutta forza, teneve e portaerei» (Giorgio Formicola).

«Io mi ricordo che i primi bombardamenti erano quelli inglesi e non facevano paura perché scendevamo dentro ai ricoveri che erano dei rifugi...
Stavamo ore e ore dentro a questi ricoveri, però ripeto non facevano tanta paura perché gli inglesi cercavano di colpire gli obiettivi. Poi subentrò
l’America e qui fu terribile perché ccà succiesse proprie brutte, perché non guardavano gli obiettivi, niente, e addirittura bombardarono prima
che suonavano le sirene. La sirena suonava dopo che la bomba, boom, boom, boom, scoppiava. All’improvviso uccidevano tutti sia civili che
militari, cadevano palazzi come se niente fosse perché questi non guardavano gli obiettivi militari. Una volta addirittura l’ufficio postale di
Materdei mitragliarono tanto a bassa quota che uccisero quasi tutte le persone che si trovavano in un pullman. Poi andavamo ai ricoveri di monte,
che si andava più sotto ai palazzi... questi ricoveri dovevano essere più sicuri, però alcune persone sono morte soffocate là sotto. Una volta mi
ricordo che hanno bombardato il carcere di Poggioreale, e che succedette! Noi andavamo a vedere perché eravamo ragazze e vicino a noi ci stava
la testa di un giovane e le gambe a un’altra parte... devo dire che questa è un’immagine che mi è rimasta molto impressa. Questi bombardamenti
sono stati una cosa terribile, hanno preso pure tutta via Foria e andando a vedere a Poggioreale vedemmo tutte queste tragedie» (Maria
Barretta).

«Tutte le notti passava un ricognitore e buttavano dei lampioncini che facevano luce p erché loro gli inglesi volevano colpire gli obiettivi, mentre
gli americani buttavano le bombe dove gli pareva e piaceva, dove gli faceva comodo» (Erminia Cannavale).

«Gli inglesi erano bombardamenti più lunghi, me lo ricordo, facevano una guerra di nervi, perché ogni tanto si s entivano queste bombe che
cadevano e durava tutta la notte, gli americani invece mandavano bombe bombe bombe e poi invece dopo smettevano... gli altri invece stavano
tutta la notte. I bombardamenti colpivano anche la popolazione perché sbagliavano siccome in quel periodo manco a farlo apposta il Vesuvio era
in azione... cosa da uscire pazzi... appena finì la guerra si spense... quindi loro avevano come mira il fatto del Vesuvio e potevano vedere
benissimo là... però a regolarsi proprio bene no... non è che avessero tutte queste strutture moderne... e per questo sbagliavano mira, ma non lo
facevano a proposito, non erano così malvagi, anzi sono stati sempre gentili con le persone gli americani» (Flora Greco).

«Bombardamenti pesanti sono stati quelli che abbiamo avuto purtroppo dagli americani. Gli americani sono stati... Hanno ucciso a Napoli... Ie
penso ca Napoli è stata la città più martorizzata di tutta l’Italia... o perché il porto o perché partivano convogli a non finire» (Teresa Ciciliano).

«Gli americani non faceva eccezione... addo ievene ievene7 e bombardavano. – A tappeto... ospedali, case... – Invece gli inglesi vedevano, perciò e
bombe e vote e ievene a menà a mare, ma nun è ca cuglievene gli ospedali.8 – Perché loro volevano colpire l’obiettivo, se l’obiettivo non lo
colpivano, allora andavano a gettare il carico a mare, ma gli americani no... – Invece gli americane addo ievene ievene e menavene! – E vedete a
Napoli tanti ospedali e chiese... so’ stati loro la causale. Perciò noi siamo atterriti dall’America, per le paure, per il sangue che scorreva alla
popolazione e quello è stato il fatto. Poi ha vinto la Germania, ed è andata in Giappone, e poi ha annientato pur’o Giappone, o Giappone cu chilla
bomba atomica va a morire e la distruzione è avvenuta e perciò ha vinto la guerra. Perché l’americano non è portato, non sa combattere e noi ne
abbiamo avuto le prove. Quando l’America ha dovuto entrare in questa zona, si doveva assicurare che i tedeschi se n’erano andati, se se ne erano
andati allora loro entravano gloriosi e trionfanti» (Armando e Francesca Del Peschio).

«Il 4 agosto un bombardamento terroristico, fine a se stesso, insomma una cosa che non ho mai perdonato agli americani, perché era l’armistizio,
stavano trattando, si può dire che era fatto, mancava un mese, l’armistizio non si fa in pochi giorni e bombardare nelle case dove c’erano degli
inermi cittadini che scopo aveva? Il fascismo era caduto, la guerra ormai... perché fare questo bombardamento? Ne avevano fatti tanti, ma come
quello... quello fu il più terribile, che poteva avere anche una certa giustificazione se fosse stato fatto prima, all’inizio! Ma i bombardamenti
terroristici, secondo me, non hanno mai una giustificazione, perché noi possiamo concepire il bombardamento su obiettivi militari, le fabbriche...
Gli inglesi facevano i cosiddetti bombardamenti di disturbo, all’inizio, perché avevano pochi aerei, allora quei pochi aerei servivano per
disturbare, infatti mi ricordo che arrivava l’allarme, andavamo nel rifugio e dopo mezz’ora cessato allarme, si ritornava a casa, ci si spogliava, si
metteva a letto, oppure ancora non si era spogliati, un altro allarme. Questo che cosa causava? Era una tattica intelligente sotto questo profilo,
perché la gente non ce la faceva ad andare a lavorare e produrre, perché la guerra è anche questo: evitare che il nemico produca e qua rientra
nella logica della guerra, se possiamo dire che la guerra sia una cosa logica, ma non lo è mai, secondo me, comunque secondo il ragionamento di
coloro che fanno le guerre rientrano nella logica, ma il bombardamento. .. e quella era una cosa che era stressante, stavamo tutti i giorni, la
notte, il giorno, continuamente, chille bastava n’aereo, anche un ricognitore, si era costretti a suonare l’allarme, si cominciava a sparare, perché
poi bisognava difendersi non solo dalle bombe, ma anche dalle schegge, perché quando la contraerea spara queste granate che arrivate a una
certa altezza si aprono sotto forma di schegge, cadono e le schegge ne hanno colpiti parecchi, hanno fatto parecchie vittime pure le schegge»
(Antonio Amoretti).

Gli inglesi sono associati alle lunghe ore della notte nei rifugi. Cercano obiettivi, buttano bombe qua e là, girano sulla città con una certa
flemmaticità: «stavano in città, sorvolavano sempre». In contrapposizione gli americani buttano mucchi di bombe, arrivano in tanti e
all’improvviso «scaricano e fuggono». L’oculatezza e la flemmaticità si addicono agli inglesi, l’impeto e la potenza agli americani. I nostri narratori
hanno spesso usato gli stessi termini, addirittura le stesse frasi.

Gli americani si affacciano con tutta la loro forza. C’è una continuità nella loro immagine prima e dopo l’armistizio, da nemici ad amici. È la
continuità nella grandezza, nello spreco, nei consumi. Americani e inglesi possono essere rappresentati pienamente secondo i canoni di uno
stereotipo già presente (e perdurante direi).9

Nella memoria dall’autunno del 1942 gli inglesi spariscono e la guerra diventa solo americana. La responsabilità dei bombardamenti a tappeto è
attribuita interamente a loro. Il tentativo americano di differenziarsi ideologicamente dalle scelte inglesi non ha certo fatto breccia nella testa dei
napoletani. Per i napoletani gli inglesi rimasero i gentlemen della prima parte della guerra e gli americani i protagonisti della guerra aerea
terroristica.

4 dicembre 1942

«Ore 16.45 prima che fosse dato segnale allarme et prima che fosse intervenuta difesa antiaerea apparivano cielo Napoli circa dodici apparecchi
nemici che lanciavano numerose bombe dirompenti et alcune incendiarie Porto et centro Città. [...] Risultano colpite seguenti località: punti
Palazzo Poste nei cui pressi est stata investita vettura tranviaria carica passeggeri, palazzo Posta Vecchia, fabbricato corso Umberto a Porta
Nolana, Stazione marittima Molo Razza, Porta di Massa, fabbricato via Stella a S. Teresa, R. Capitaneria Vecchia, fabbricati via Nuova a S.
Giovanni a Teduccio, corso Vittorio Emanuele in Barra, via Protopisani a S. Giovanni a Teduccio, via Vittoria Colonna, vico Maiorana. [...] Nel
ricovero pubblico vico Purgatorio a Foria per eccessiva ressa rampe di accesso deploransi tre morti et circa cinquanta feriti. In porto colpiti da
bombe incendiarie e dirompenti RR. Incrociatori Eugenio di Savoia, Attendolo, Montecuccoli. Incrociatore Attendolo rovesciatosi ore 22.
Segnalate numerose vittime il cui numero est ancora imprecisato».10

Al momento dell’attacco aereo era in corso nella caserma Vittoria la celebrazione della santa patrona del corpo dei pompieri, santa Barbara, e la
prima bomba cadde a pochi metri dalla caserma. La relazione dei vigili del fuoco specifica e descrive nel dettaglio la drammatica lista delle
distruzioni: vengono citati e descritti crolli a via Santa Luciella ai Librai, via Vittoria Colonna, vico Maiorana, via Nolana, via Stella, via Porta di
Massa, nei quartieri industriali di San Giovanni a Teduccio e Barra. Diverse bombe avevano colpito la posta centrale cagionando numerose vittime
all’interno. Altre erano cadute nella strada adiacente, via Monteoliveto, provocando altri morti.

«Una bomba caduta sul binario del tram all’altezza dei magazzini del CIM ha causato la morte di numerose persone, il crollo di tutti gli infissi, dei
balconi, dei soffitti e dei muri sottili dei palazzi limitrofi. Sono rimaste danneggiate alcune vetture tranviarie e sono saltate le tubazioni dell’acqua
e del gas. Dopo un laborioso e penoso lavoro, durato fino alla mezzanotte, sono state recuperate dai vigili 47 salme, di cui 24 uomini, 14 donne, 5
ragazzi, un soldato, 2 marinai ed un soldato tedesco». La scena della posta con i due tram distrutti e i cadaveri turpem ente sfracellati è una delle
più vive nella memoria della gente. Al porto uno scenario apocalittico. Ben 12 unità navali da guerra erano affondate o bruciavano al molo
Pisacane.11 Dall’incrociatore Muzio Attendolo «marinai aggrappati alle catene, a boe, a relitti e a mare chiedevano aiuto e molti di essi erano
feriti gravi, furono salvati e portati a terra. Dalla nave e dal mare furono presi più di 40 marinai fra morti e feriti».12

Al ricovero di via Porta San Gennaro molti morirono soffocati per l’eccessivo affollamento all’ingresso. Feriti e contusi ci furono anche nel
ricovero di via San Paolo, poco lontano. Gli elenchi della prefettura riportano i nomi di 286 vittime, una cifra mai denunciata prima di allora e
sicuramente una cifra per difetto.13 Si tratta di un evento discrimine, vivissimo nella memoria della città.

«Le bombe, come è noto, caddero in pieno giorno sul centro cittadino, senza che fosse suonato l’allarme; colpirono mentre la città era nel pieno
ritmo di vita, mentre la gente si tratteneva nelle strade, sostava nei negozi, usciva dagli uffici, si accingeva a raggiungere la propria casa dopo
una giornata di lavoro. Gli ordigni micidiali piovvero mentre il sole stava per volgere al tramonto, e lanciava barbagli d’oro da Capri e da Capo
Misero ed accecava le vedette; esplosero sulle navi in porto e sulla zona industriale, sui vicoli e alla Posta, alla Riviera di Chiaia ed a Toledo;
bloccarono rifugi e spezzarono condutture; uccisero uomini, donne, vecchi, bambini; mieterono vittime un po’ dovunque nella città indifesa. A via
Monteoliveto, quasi all’altezza dei magazzini della Provvida, transitavano, in quel fatale momento, due vetture tranviarie cariche di passeggeri.
Uno stick di bombe, che doveva colpire d’infilata anche il Palazzo delle Poste e gli altri edifici vicini, fino a Santa Chiara, prese in pieno due tram.
[...] Le due vetture, centrate dagli aerei, saltarono in aria con il loro carico umano, mentre tra le lamiere contorte e quasi polverizzate era un
macabro ammasso di membra umane insanguinate; brandelli ne furono raccolti in un raggio di parecchie decine di metri».14

Amedeo Maiuri, sovrintendente archeologico della Campania, stava tornando da Pompei dove quasi giornalmente si recava per controllare gli
scavi. «Arriviamo a Napoli fra soste e incroci di treni ritardatari, gremiti più del solito di grappoli umani , e troviamo la stazione al buio. E in
quell’oscurità i binari, le pensiline gremite d’una folla affannosa: la folla tragica e muta delle ore di terrore, sorda ad ogni richiamo, che non sa e
non vede i treni che deve prendere e che chiama disperatamente figli, parenti, amici. [...] Duriamo fatica a uscire noi sopraggiunti ed estranei a
quella trepida angoscia: riesco a gran pena a guadagnare la scala e, fra le tante voci rotte e affannose, distinguo solo quella di un marinaio che
bestemmia redarguito da una voce tremante di donna. A Porta Nolana ho la sensazione tragica della rovina: invece dell’urlio sommesso della folla,
mi addentro e mi sento sempre più avvolto e premuto da una calca di gente muta che emigra. [...] Sotto l’arco della porta il primo arresto dinanzi
alle ma cerie; giro nel vicolo preso anch’io nella torma dei fuggiaschi, e dopo pochi passi altro intoppo, altre luci abbaglianti di carri d’ambulanza,
altre voci concitate. Ho saputo dopo che erano le case crollate del quartiere di Porta Nolana, con molte vittime sepolte: la via che avevo
attraversato di corsa poche ore prima, scendendo a precipizio dal tram, fra ceste di pesche, carrettini di verdummari e vocio di carrettieri
ingorgantisi sotto le torri della cinta aragonese, per afferrare il treno all’ultimo minuto di partenza, non era che un cumulo di macerie; e i
fuggiaschi erano il popolo minuto dei quartieri più popolosi e più luridi di Napoli che emigra verso la galleria litoranea. Al Rettifilo la fiumana
nera e densa di popolo sfocia in una bolgia di luci e di macchine: tutte le auto capaci di muoversi con qualche litro di benzina e con le gomme non
ancora requisite, si allontanavano da Napoli per l’autostrada verso Sorrento, Salerno o nelle case e nelle ville dei comuni vesuviani. Una misura
dell’estensione del disastro me la dava lo strato dei vetri e dei cristalli su cui ho camminato ininterrottamente fino a casa. E dovunque quel
silenzio fatto di sgomento e di rassegnazione come dinanzi all’inevitabile, ai grandi cataclismi della terra, a un terremoto, a un’eruzione, a un
alluvione. [...] a casa raccolgo altre tragiche notizie: alcune delle navi in porto colpite; le salme dei marinai distese allineate sulla banchina dietro
la poppa della propria nave. Era la festa della Santa Bar bara e le navi avevano issato il pavese per solennizzare la loro santa patrona: si disse
financo che i marinai fossero radunati sul ponte per salutare un caccia di ritorno da una felice e rischiosa missione. In un capannello di curiosi, un
esportatore fa un quadro apocalittico delle rovine del porto: binari e carrozze ferroviarie rovesciate e contorte; la gente che s’era appiattata sotto
le rotaie, sollevata come piume in aria...»15

Il primo bombardamento diurno è anche quello più vivo nella memoria dei napoletani.

«Io... il periodo dicembre del ’42... nel ’42 io lavoravo nel porto, lavoravo in uno stabilimento di macchine frigoriferi industriali, tenevamo dei
grossi frigoriferi che venivano messi le carni d’importazione. Io avevo sedici anni nel ’42 e lavoravo lì e quindi poi un pomeriggio del 4 dicembre
del ’42 venne un bombardamento all’improvviso a Napoli e gli apparecchi americani si misero sulla scia dei nostri caccia che rientravano dalla
Tunisia – allora noi già stavamo sgombrando dall’Africa e stavamo in Tunisia – e quindi venne un grosso bombardamento a Napoli. Erano le
cinque del pomeriggio, era la festa di Santa Barbara, il 4 dicembre la festa della marina... mi ricordo che c’era tutta la flotta navale nel porto e
quindi fu un bombardamento all’improvviso, a altissima quota, incominciarono a buttare bombe, i nostri marinai festeggiavano la festa della
marina e da un momento all’altro viene questo grosso bombardamento, io che lavoravo in questo stabilimento... ero apprendista di macchine
frigoriferi, stavo nella meccanica e quindi all’improvviso ci fu un bombardamento enorme, lo spostamento d’aria, io andai a finire in una cella
frigorifero... le porte blindate lì si chiusero e rimasi... Stavo in questa cella frigorifero che chiamavo aiuto, perché le bombe che andavano a mare
risucchiavano e allora io... poi riuscirono a farmi uscire da questa cella e scappai. Comunque io rimasi senza lavoro, perché poi quel
bombardamento successe l’ira di Dio, fu affondato un caccia nostro, ma a cinquanta metri dove stavo io, ci furono morti e feriti a non finire. Io mi
ricordo che c’erano dei finanzieri che stavano con la testa sfracassata nel liquido del porto, che poi passavano i tram là a via Marina e lo
spostamento fu un orrore, io me ne scappai e mi ricordo che poi scappando c’era una parte fuori al porto chiamato il Mandracchio... mi ricordo...
l’apparecchi a bassa quota che mitragliavano e io non so come so’ vivo. Io mi commuovo ancora pensando solamente... poi iniziarono altri
bombardamenti ancora, dopo una settimana, l’11 dicembre del ’42... l’11 dicembre, il venerdì, ci fu un altro grosso bombardamento, perché noi
abitavamo nella parte del porto, perché i nostri genitori erano portuali, noi stavamo nel borgo Loreto, stavamo proprio vicino ai bacini a scali, là
c’erano le mitragliatrici sui bacini, le contraeree eccetera...» (Michele Lubrano).

«Io mi ricordo che una volta sono uscita dalla scuola sul ponte Sanseverino, l’Elena d’Aosta, uscii da scuola, avevo i libri in mano, quando
bombardarono il porto. Ad un certo punto, stavo proprio vicino alla posta, mi sentii come se uno mi avesse spinto con tutta la forza nella schiena e
mi caddero tutti i libri a terra. Il mio terrore era di perdere i libri. Con il sangue che mi usciva dal naso cercavo di raccattare i libri da terra. Mi
ricordo sempre di un marinaio che mi alzò da terra, mi pulì il viso e mi portò per forza ai Pellegrini. Dicevo io: guarda che non mi sono fatta
niente, sto camminando. E lui: ma c’hai tutto questo sangue! Mi portarono ai Pellegrini... ed infatti avevo solo il naso gonfio, il viso gonfio, ma non
mi ero rotta niente. Ricordi brutti... Figurati che si trovò una gamba e un braccio alla stazione di Bellavista e non si è mai saputo a chi
appartenevano. È stato il 4 dicembre 1942. Me lo ricordo perché avevo la carta fatta dall’ospedale. Ed io stavo in ospedale con quella
confusione... c’era gente veramente con le budella da fuori... mi medicarono alla meglio, mi lavarono la faccia. Come ti senti? Cammini? Sì sì
cammino. Dissi. E me ne andai a casa a piedi, perché non ci stavano più mezzi... Quando venivano i bombardamenti si fermavano i tram, i treni e
tutto il resto... E piano piano dalla posta centrale a Bellavista,16 arrivai la sera. Dopodiché decisi di non andare più a scuola» (Armida Amodio).

«Io mi ricordo che la guerra scoppiò il 10 giugno del 1940 e all’inizio era una pacchia perché c’era solo l’oscuramento, poi incominciarono i
bombardamenti inglesi e si faceva ste nottate nei ricoveri e si tirava avanti. Nei ricoveri chi diceva un fatto, chi diceva il rosario. A volte ci
portavamo il mangiare, i bambini dormivano. Ma dopo no, anche perché quando mi sono sposata non andavo più al ricovero. Andavo quando mi
trovavo per strada, ma mio marito diceva: non dare retta, buono buono muoriamo tutti e due. Io stavo a casa ma facevo i vermi. Mia cognata
diceva: datemi il bambino. Io mi sposai e aiutavo mio marito che teneva il ristorante a piazza Monteoliveto e incominciarono verso le 16.30 del 4
dicembre 1942 i bombardamenti terroristici. C’è da dire che nel porto erano arrivate le navi da guerra e da noi entrò un capo di marina che
veniva sempre. Io lo vidi e dissi: siete un malaugurio, siete venuto voi e fate venire i bombardamenti. Mio marito si stava mangiando la frittata di
maccheroni e io stavo seduta dietro la cassa e tenevo una pianta alle spalle: cadde la pianta, sentimmo un rumore e solo dopo suonò l’allarme.
Quello fu terribile perché si vedevano i feriti che li pigliavano e li mettevano sopra i carrettini e li portavano a tutti gli ospedali. I più gravi subito,
gli altri che erano quasi morti li mettevano da parte: un’odissea spaventosa. Nel ristorante entrò uno con un polpaccio ferito, tutto sangue: i
pianti, la paura. Non si capiva niente perché colpirono proprio tutta la posta centrale» (Grazia Grimaldi).

«Il ricordo più importante è che mia mamma perse un occhio con il bombardamento del 4 dicembre giù alla posta. Mamma si trovava per la
strada ed ebbe la sfortuna di avere tutte le schegge e perdette un occhio. Giù alla posta un marinaio per pochi istanti camminò solo il corpo
perché la testa fu buttata via. Io stavo nella salumeria e dietro alla cassa c’erano tutte mensole con scatolame sopra; ad un certo momento
caddero e io dissi: Armando ma questo è il terremoto! In quel momento entrò un ufficiale dell’aviazione e disse: signorina, quale terremoto,
questo è un bombardamento. Lei che ha la botola, andiamo giù. Mamma pochi istanti prima aveva detto a noi: Rosa guarda che io mi allontano
con Vittoria a cercare della stoffa per farvi dei cappotti, perché noi dobbiamo sfollare perché a Napoli non si può stare più. Prese il numero 14 a
piazza Dante: quando ci avviammo verso casa, mammà non era tornata. Si misero alla ricerca e la vedemmo arrivare con una carrozzella: a lei lo
spostamento d’aria le aveva strappato perfino gli abiti e Vittoria aveva tutti i capelli rigidi e tante schegge per il viso ma non era grave. Al
momento del bombardamento mia madre stava nel tram e si trovava all’impiedi perché doveva scendere alla prossima fermata. Passò anche per
l’ospedale dei Pellegrini ma non la vollero neppure medicare e le dissero: Signò qua sta gente che ha più bisogno, voi un poco l’occhio. Andate a
casa, mettete una garza e tiratelo su» (Rosa De Martino).

«Prima di venire un bombardamento le sirene suonavano. Invece un giorno si vede che i radar o gli addetti ai radar non si erano accorti che gli
aerei americani erano arrivati fino alla posta centrale e incominciarono a bombardare, dopo cominciarono a suonare le sirene e scappavano tutti
quanti e c’è gente che ha visto sulla posta centrale persone che senza testa facevano ancora due tre passi e poi cadevano. La gente scappava da
per tutto... io per scappare e tornare a casa mi venivano meno le gambe, ogni due tre passi cadevo per la paura finché non raggiunsi il ricovero
dove stava mia mamma» (Erminia Cannavale).

«Il primo bombardamento vero e proprio l’ho vissuto con la mia fidanzata Delia. Fu il primo bombardamento americano e ci trovavamo nel tram a
via Guglielmo San Felice che allora faceva il tratto Montesanto-piazza Nazionale. Sentimmo un aereo a bassissima quota, poteva stare a circa
trecento, quattrocento metri e subito sganciarono le bombe... un putiferio! Gente che cercava di scendere dal tram di corsa, trascinandoti, era il
’41-42 forse... quando venne bombardata la posta» (Pasquale Gallotti).

«Quando bombardarono le navi nel porto. Ci stavo io e due sorelle mie che stavamo andando al negozio di mio padre, e là quando arrivammo a
posta era a fine ro munne.17 A ggente cammenavene senza testa... Andammo a finire, io andai a finire sott’a questura, ma non so nemmeno come
ci so’ arrivato: forse o spostamento d’aria non lo so, forse ci hanno pigliato e ci hanno portato là, non lo so. Sotte arò stevene e carcerati.18 Però
stevene e tram dove stava Upim, comme se chiamma quella strada là? Quello che porta su allo Spirito Santo. E là stava nu tram chine ’e
muorte...19 e là sono stato sbattuto. Poi per esempio alla questura si vedeva la gente che si buttavano giù. Cchiù è chelle ca me pozz’arricurdà, o
tenghe ancora davanti a gli uocchi.20 E ggente camminavano senza testa! Ma no camminavano perché tenevano a forza ’e camminà,21 perché era
lo spostamento d’aria d’e bombe che avevano buttato. Allora si vedeva ancora qualcuno... fu proprio una cosa... E chille buttarono a volontà, a
tonnellate. Come l’acqua, come quando tu vire e buttà l’acqua, accussì bombardavano...22 [...] O bombardamento a posta. Ho visto i morti
camminare, ma camminare proprio. Che io poi ero piccolino, dicevo: ma come cammina quello senza testa? Era lo spostamento d’aria stesso che e
faceva fà l’ultimo passo e poi sbattevene ’n terra» (Antonio Basile).

Alcune immagini sono comuni a molti racconti, le navi distrutte nel porto, la gente che fugge sorpresa nelle sue quotidiane attività... Ma la vera
icona di quel bombardamento è costituita dai corpi mutilati che si muovono: le persone che «camminano senza testa».

La gente non si era ancora ripresa dallo shock quando, pochi giorni dopo, l’11 dicembre, un’altra violentissima incursione faceva altre distruzioni
e altre vittime. Dalle 15.45 alle 17.10, secondo la fonte britannica,23 Napoli fu di nuovo bombardata a tappeto: vennero colpiti il porto, i quartieri
del centro storico, la periferia orientale e i comuni del golfo. Crollarono in alcuni punti il porticato di San Francesco da Paola e il Palazzo Reale a
piazza Plebiscito. A via Tappia una bomba dirompente fece cadere la scala di un palazzo sull’imbocco del ricovero, travolgendo numerose
persone. Crolli e morti si ebbero ancora a via Gennaro Serra, via Borgo Loreto, vico Giovanni Tappia, via Sant’Anna delle Paludi, via Chiaia, vico
delle Grazie a Loreto, Ponte di Casanova, via Ferrara, v ia Santa Maria degli Angeli, via Ferraris, via Aquila, via Arenaccia, all’ospedale Loreto
dove morirono alcuni feriti delle precedenti incursioni. Vennero colpiti il gasometro, l’officina ferroviaria di via Reggia di Portici, molti
stabilimenti della zona orientale, la base dei sommergibili al porto. Sull’incrociatore ausiliario Arborea v i furono morti e feriti.24 Troviamo il
puntuale elenco delle imbarcazioni e degli stabilimenti colpiti nella documentazione britannica. 25

Il 15 dicembre un altro grande bombardamento colpiva il carcere di Poggioreale e la zona circostante. Dalla documentazione emergono i segni di
un profond o disagio. All’obitorio, nella sala mortuaria del cimitero di Poggioreale, negli ospedali non si contavano i cadaveri abbandonati; le
pratiche del riconoscimento erano lente ed estenuanti. Il podestà protestava presso la procura per i ritardi con i quali si procedeva al
riconoscimento delle vittime; faceva presente che ancora il 14 dicembre giacevano nei depositi dell’obitorio «non pochi cadaveri delle vittime
della incursione dei giorni scorsi, mentre vi [stavano] affluendo quelli dell’ultima incursione»: se si fossero ripetuti altri raid aerei, l’obitorio non
avrebbe potuto più ricevere salme, bisognava aumentare il numero dei magistrati preposti al riconoscimento dei cadaveri. Il prefetto stesso
sollecitava i magistrati a lavorare più alacremente per procedere al riconoscimento e permettere le sepolture. Dispacci della prefettura e della
questura sollecitavano l’apertura continuata delle camere mortuarie dei cimiteri. Il questore segnalava la grave situazione dei ricoveri, in
particolare l’urgenza di provvedere alla costruzione di un rifugio per l’ospedale dei Pellegrini, che disponeva allora «di un piccolo e mal sicuro
ricovero di fortuna» dove non era possibile accogliere i feriti più gravi. Proponeva di far arrivare alla stazione di Mergellina un treno ospedale per
i feriti.26

Dal cie lo, intanto, piovevano i volantini per la popolazione. Erano le donne questa volta le principali destinatarie. «DONNE DI NAPOLI! Dove
sono i vostri uomini che andarono in Africa? [...] MADRI DI NAPOLI! Date l’ultimo addio ai vostri cari che stanno per partire o fate qualche cosa
per salvarli! [...] SPOSE DI NAPOLI! [...] Fate la guardia alle navi... Fermate i treni militari... Nascondete l’equipaggiamento dei vostri amati
soldati... Mutilateli se occorre... Meglio un braccio rotto per loro che un cuore infranto per voi. Impedite ai soldati italiani d’imbarcarsi. IL MARE
SIGNIFICA LA MORTE».27 Seguiva la figura di un uomo annegato in mare...

Gennaio-marzo 1943

11 gennaio 1943. Una nuova incursione colpiva Napoli alle 16.27.28 «L’incursione, di bre vissima durata, è stata una delle più impressionanti per
le conseguenze avute e per taluni episodi che hanno rivestito carattere di particolare drammaticità». 29

A crollare quella volta furono alcuni palazzi delle zone residenziali, di piccola e media borghesia, fra piazza Mazzini e il Vomero: via Girolamo
Santacroce 3, 6 e 8, dove sparì letteralmente una famiglia di 5 persone, via Battistello Caracciolo 4, viale Michelangelo, via Gonfalone 11 e 12, via
Salvator Rosa 161 e 165, 121 e 125.

Siamo in presenza di gruppi sociali più «colti» e più agiati ed è per questo forse che può partire la denuncia anonima spedita direttamente al duce
e inviata quindi dal ministro degli Interni alla prefettura di Napoli con la richiesta di spiegazioni. «Duce! Dobbiamo denunziarvi un fatto
vergognoso, mostruoso, che è tanto incredibile da poter dubitare della sua autenticità. Eppure purtroppo è vero. Dall’ultima incursione su Napoli
e cioè da Lunedì, ed oggi è Giovedì, sono rimasti sepolti sotto le macerie, in un palazzo sito in via Ponte della Cerra a Salvator Rosa, parecchie
decine di persone che si erano rifugiate nel ricovero del palazzo. Diggià si parla di centinaia di persone, ma parecchie diecine sono certe. Questi
disgraziati fino ad ieri rispondevano agli appelli, ma oggi non più. Sapete quanti operai lavoravano allo sgombro? Ne abbiamo contati 4!! I quali
operai poi all’ora della colazione sospendevano il lavoro e così lo stesso la sera. È da chiedersi se viviamo in un paese civile dove simili cose
avvengono. Gli ingegneri fanno perizie, prendono fotografie ma non si fa nulla per salvare i disgraziat i sotto le macerie e pensare che bastava
chiamare un po’ di truppa per fare aiutare ad un rapido sgombro. Con mille soldati ad una pietra ognuno salvavano queste vite umane, di italiani
come loro; ma anche se si fosse trattato di animali per umanità bisognava tentare di salvarli. Siamo in piena disorganizzazione, dove non c’è un
uomo che occupa il posto che dovrebbe occupare. Una inchiesta seria è necessaria».30

Vediamo la versione dei vigili del fuoco. «Il ricovero del fabbricato n. 121, con accesso da una scala che partiva dall’androne, era rimasto bloccato
da enormi cumuli di macerie prodottesi nel crollo di alcune verticali del palazzo. Una bomba nemica, di peso non inferiore a 500 Kg, era caduta
nel terrapieno in prossimità dei muri esterni di due ambienti del ricovero, e, scoppiando, aveva determinato il crollo di detti muri, quindi quello
delle volte di detti compresi, alle quali erano venuti a mancare i sostegni. Era cr ollato anche il muro interno di sostegno alla volta del terzo
compreso, in un angolo fra l’androne e il giardino. In conseguenza dello scalzamento dei muri di fondazione, si era verificato il crollo delle
verticali di vani insistenti sui tre compresi del ricovero . L’ing. Andriello accedeva subito per la scala che parte dall’androne, e percepiva, distinte,
le voci di alcune persone rimaste sepolte che invocavano aiuto dal primo compreso del ricovero, colmo di macerie in continuo movimento; vi era
appena lo spazio per consentire ad un uomo accovacciato di muoversi...»

Seguiva un lungo resoconto di salvataggi, tentativi, vigili del fuoco feriti... «Si è lavorato ininterrottamente per 104 ore, con la presenza
complessiva di 10 ufficiali e 1020 fra sottufficiali, graduati e vigili».

Tutte le vittime (96 in tutto) erano state estratte entro la sera del 14 gennaio. Fra le macerie, che avevano completamente travolto interi gruppi
familiari, erano stati trovati titoli di stato, gioielli, libretti di risparmio, denaro contante... I beni di un gruppo di famiglie di media borghesia...31

La nota di un informatore di alcuni giorni dopo parla di preoccupazione e sfiducia dei cittadini verso le istituzioni preposte alla difesa della città.

26 gennaio 1943. 14 B-24 colpivano la città in due ondate, la mattina e la sera.32

7 febbraio 1943. «12 B-24 del 93° gruppo hanno attaccato la flotta nel porto di Napoli dalle 15.12 alle 15.47 del 7 febbraio e hanno sganciato 108
bombe americane da 500 libbre. La maggior parte delle bombe è caduta sul molo Bausan e sul molo Vittorio Emanuele. Alcuni scoppi sul
lungomare Porta di Massa. Fumo e vasti incendi al molo Masaniello e al molo Vittorio Emanuele. Alcune bombe sono cadute ai bordi della città e
alcune in mare. 9 B-24 del 376° gruppo hanno attaccato la flotta nel porto di Napoli alle ore 16.25 del 7 febbraio, sganciando 72 bombe
americane da 500 libbre da 23000 piedi di quota, sull’area del mo lo Masaniello. Incendi e fumo sul molo e sul lungomare Aosta. Obiettivo
secondario Messina».33

Così descrivevano l’operazione i comandi americani. Le relazioni della prefettura e dei vigili del fuoco segnalavano distruzioni nella zona
industriale e portuale: venivano colpiti i bacini di carenaggio, la stazione marittima, le cacciatorpediniere Vivaldi, Montanaro e Lira, il palazzo
della Dogana, i pontili Vittorio Emanuele e Duchessa d’Aosta, la Navalmeccanica, la caserma Bianchini, lo stabilimento Cellulosa Cloro Soda. I
danni del bombardamento sono puntualmente segnalati dai servizi di intelligence britannici: totale sospensione del lavoro alla Cellulosa Cloro
Soda; danni alla Navalmeccanica, a La Precisa, all’Alfa Romeo di Pomigliano.34 Infine a piazza Mercato si verificava l’ennesima strage all’ingresso
di un ricovero. Crollavano fabbricati a via Sant’Eligio, vico Spigoli, al ponte della Maddalena, a San Giovanni a Teduccio.

15 febbraio. I bombardieri attaccavano lungo tutto l’arco del golfo, dal porto napoletano fino a Torre del Greco.35

20 febbraio. Una nuova terribile incursione: «10 B-24 del 98° gruppo si sono alzati in volo il 20 febbraio per attaccare Napoli. 3 aeroplani sono
passati attraverso solide nubi e hanno sganciato 15 bombe da 1000 libbre alle 15.50. Due navi colpite. [...] una esplosione nei magazzini».36

«A ore 16.55 est stato dato allarme su segnalazione posti Capri et Ischia presenza quattro apparecchi nemici provenienti dal mare. Quasi
contemporaneamente apparecchi sganciavano bombe sulla città. Popolazione pertanto non ha avuto tempo ricoverarsi. Morti per asfissia causata
da ressa presso ricoveri. Trentuno ricovero piazza San Gaetano, nove ricovero piazza Donnaregina, due ricovero piazza Ottocalli». 37 Zone colpite:
Porto, via Duomo, piazzetta Grande Archivio, corso Umberto...

Il 21 già si contavano 119 vittime ufficiali, ma si onoravano le vittime fasciste. «Messa in suffragio di Fascisti gruppo Belfiore caduti in occasione
incursione aerea nemica del 20 andante avuto luogo stamane nella chiesa San Pietro ad Aram con intervento federale, ufficiali, rappresentante
Comando Presidio, Presidente Associazione Combattenti, mutilati, organizzazioni del PNF e rappresentanza fascio femminile. Terminata messa si
è formato corteo con musica che ha percorso corso Umberto I, piazza Garibaldi, corso omonimo, dove si è sciolto con l’appello ai caduti».38

24 febbraio. «6 B-24 del 376° gruppo hanno attaccato le navi nel porto di Napoli, alle ore 2.02 di notte. 36 bombe da 1000 libbre sono state
sganciate da 17500-26000 piedi. Sono stati colpiti il porto e l’area dei magazzini».39

1° marzo. «Inizio dell’offesa alle ore 17.35 su tre formazioni. La prima formazione su 3 apparecchi da est. La seconda su 6 apparecchi da sud e la
terza su 6 apparecchi da sud. Le tre formazioni hanno svolto un attacco concentrico sul porto di Napoli in un solo passaggio sganciando in quota
una ottantina di bombe di grosso e medio calibro, dopo lo sgancio hanno invertito la rotta dirigendosi vers o sud in uscita tra Ischia e Capri. Tipo
degli apparecchi: quadrimotori Liberator. Sganci in quota: uno in un’unica ondata. Luogo di caduta: zona portuale-zona industriale-Mercato-
Binari delle FF.SS.-piazza Cavour (adiacenze Museo)-corso Umberto (adiacenze Università). Danni subiti: Piroscafo Creta 2000 tonn. Carico
benzina bruciato. Altri tre piroscafi colpiti non gravemente (Oriani, Modica e Rea). Un motoveliero affondato. Cacciator pediniere Monsone
affondato con morti e feriti. Il piroscafo Ines Corrado affondato con automezzi ed artiglierie. Due edifici crollati via Duomo angolo via Marina; 5
edifici crollati a corso Umberto adiacenze Università fra i quali albergo Napoli. 5 o 6 edifici nella zona piazza Cavour salita Stella in gran parte
crollati. Cinque o sei edifici in piazza Mercato crollati e incendiati. Vagone carico ossigeno di strutto».40

I vigili del fuoco stilavano un lungo elenco di crolli e vittime: crolli con vittime alla clinica della Maternità e Infanzia a Caponapoli, a piazza
Montesanto, via Pasquale Scura, piazza Cavour 114, via San Nicola dei Caserti, via Stella, piazza Mario Pagano, piazza Sanità, via San Severo alla
Sanità, piazza Mercato, via Pignasecca, corso Umberto I. Incendio a vico Lammatari alla Sanità. Danni allo stabilimento CLEDCA (distillazione
catrame) a via Benedetto Brin. Al molo San Vincenzo il cacciatorpediniere Monsone affondava con morti e feriti. Si incendiavano il Brema, il
dragamine Eugenio, la motonave Alice, i piroscafi Rea e Ines Corrado che si inabissava con automezzi e artiglierie. Sulle banchine esplodevano
bombole di ossigeno e in un capannone fusti di benzina. Venivano colpite le Officine del Gas e le Manifatture Tabacchi.41

Intanto l’area colpita dai bombardieri cominciava a estendersi oltre la cerchia della città e del golfo. Il 5 marzo alle 2.20 di notte finiva nel mirino
un piccolo paese del Nolano, San Vitaliano di Nola. «Le bombe h anno demolito una quindicina di abitazioni sorprendendo nel sonno quasi tutti gli
abitanti. 15 vittime fra cui alcuni sfollati da Napoli».42 Gli abitanti di San Vitaliano protestarono chiedendo le sirene per gli allarmi, ma venne loro
risposto che una sola incursione non giustifi cava l’acquisto di una sirena e che, fra l’altro, anche le sirene richieste per Napoli, dove in più zone
della città non funzionavano o funzionavano male, non erano arrivate né era prevista la data di consegna.

13 marzo 1943. 12 aerei colpivano la città in due ondate alle 17.30 e alle 19.35, sganciando ciascuno 5 bombe da 1000 libbre e alcune bombe
incendiarie.43 I capitani che stilavano i rapporti dei singoli equipaggi informavano di non aver potuto individuare con precisione l’obiettivo a
causa del maltempo. Uno comunicava di «aver sganciato le bombe in area e di aver visto le fiamme alzarsi», un altro di non aver potuto
«individuare il porto e di aver sganciato le bombe in un’area a sud del porto», un altro ancora di aver lanciato le bombe attraverso un tappeto di
nubi «nell’area della città a metà del tragitto».44

18 marzo 1943. 17 aerei partivano dalle basi dell’Africa per colpire nuovamente il porto e sganciavano sulla città 108 bombe da 500 libbre. Nel
rapporto sull’operazione si osservava che «era stato visto un incendio in città» di cui non si era potuto capire la provenienza a causa di un vasto
manto di nuvole. 45

Due giorni dopo, 20 marzo, 7 aerei del 98° gruppo tornavano in città con l’ordine di attaccare per l’ennesima volta il porto e in particolare il molo
Vittorio Emanuele. Venivano fatte cadere delle bombe incendiarie e 93 bombe esplosive da 500 libbre. Anche quel giorno Napoli era coperta da
un manto di nubi e la mira fu per forza approssimativa.46 Il 21 marzo i vigili del fuoco registravano crolli tra via Nolana e la chiesa del Carmine.
Bombe anche nei paesi di Casavatore e Scisciano.

Nella notte del 22 marzo veniva silurata la motonave Manzoni, al largo di Capri. La nave, di 4600 tonnellate, era partita dalla Tunisia e
trasportava soldati italiani e tedeschi. Venivano raccolti circa 100 naufraghi. 47

Il quartier generale del IX Bomber Command, nel rapporto del 1° aprile, segnalava i danni inferti nei bombardamenti di marzo, dedotti dalle
fotografie dei ricognitori. Dalle immagini del 22 marzo si potevano rilevare «tre isolati distrutti fra piazza Mercato e corso Umberto; tetti di
costruzioni abbattute; danni a sud della chiesa di San Lorenzo; otto crateri nell’aeroporto di Capodic hino». I danni riscontrati il 30 marzo erano
forse superiori: «Un cargo bruciato e interamente distrutto da una esplosione che ha anche distrutto l’angolo del molo Vittorio Emanuele, il
lungomare Marinella, danneggiati gli edifici vicini al molo Cesario Console. Circa cinquanta chiatte sono state affondate nel bacino Armando Diaz
e i binari lungo il lungomare Marinella appaiono inservibili. Danni sono stati inferti anche a un hangar delle ferrovie, al gasometro, e al
magazzino del lungomare Duchessa d’Aosta».48 Tuttavia, concludeva il rapporto, poiché do po il 22 marzo non si erano svolte incursioni, tali
danni non erano imputabili ai bombardamenti angloamericani ma all’esplosione di una nave italiana carica di munizioni. C’è qui l’accenno a uno
degli episodi più oscuri e terribili della guerra, estremamente vivo nella memoria della città: l’esplosione della Caterina Costa, carica di bombe e
di combustibile da trasportare in Africa.

L’esplosione della Caterina Costa: 28 marzo 1943

«Il 28 marzo alle 5 circa pm nel porto di Napoli la barca Caterina Costa è saltata in aria. L’esplosione ha causato considerevoli danni nel porto e
nel centro della città. A bordo due autocarri di un reggimento di granatieri. Impossibile stabilire le perdite di personale. I motivi sono per ora
sconosciuti».49

La terri ficante esplosione, che causò morti e distruzioni pari a uno dei bombardamenti più efferati, fu il risultato finale di una catena di omissioni
e di atti di irresponsabilità, che gettano una luce significativa sulle caratteristiche della classe dirigente politica e militare.

La nave si incendiò alle 14.10 e scoppiò alle 17.30. La popolazione non fu messa in allerta, venne colta per strada o nelle case da una spaventosa
pioggia di proiettili e di relitti che si riversarono su tutta la città. Le relazioni del prefetto, del questore, del comandante dei vigili del fuoco
raccontano i fatti con disarmante franchezza.

«Il Caterina Costa, stazzante 10000 tonnellate, stava ormeggiato all’atto dell’incendio presso il pontile Vittorio Emanuele presentando la prua
verso terra».50 La nave si trovava, dunque, in una posizione non regolamentare: una nave carica avrebbe dovuto volgere la prua verso il mare e
non verso la banchina. Inoltre «il carico – misto di benzina, nafta e munizioni, fra cui quattrocento bombe da 500 Kg ciascuna – era stato ultimato
fin dal 26; tuttavia il piroscafo, nell’attesa dell’ordine di partenza, era stato lasciato presso il pontile di carico, che è tra i più centrali dell’ambito
portuale». Nell’attesa degli ordini, che dovevano giungere da Roma, il piroscafo avrebbe dovuto sostare presso la diga foranea. «L’incendio,
manifestatosi con una prima forte esplosione – continua la relazione del prefetto – ebbe inizio alle ore 14.10 ed apparve localizzato nella stiva n. 6
di poppa, contenente benzina e nafta. Detta stiva era chiusa con un coperchio in legno; ma questo non era coperto dal relativo telone. Sembra che
da parte del personale della nave non si sia spiegato alcun intervento per lo spegnimento con i mezzi di bordo, ma date le proporzioni allarmanti
assunte fin da principio dall’i ncendio, il comandante e l’equipaggio si allontanarono subito dalla nave». Il comandante dei vigili del fuoco,
chiamato sul posto, si rendeva conto della gravità della situazione e cercava inutilmente le autorità portuali per prendere delle decisioni gravi,
quali quella di affondare la nave. Nella capitaneria di porto non veniva trovato «nessun elemento responsabile». Solo verso le 15.15 si presentò
alla banchina il comandante interinale che «si limitò a fare allontanare due piroscafi e alcune chiatte che stava no ormeggiate presso il Caterina
Costa. Alle 15.30 sopraggiunse nel porto l’Ammiraglio Comandante il Dipartimento Marittimo e dopo qualche tempo l’Ammiraglio Alto
Commissario per il Porto. Nessuna disposizione precisa venne impartita dalle autorità».

Dalla lettera riservata del questore al prefetto sembra che a un certo punto sia stata presa in considerazione la decisione di affondare la nave, che
sia stato chiesto l’aiuto di un cacc iatorpediniere perché facesse una breccia sulla fiancata, che si sia pensato all’intervento della contraerea.
«Perdurando l’incendio dovette essere esaminata la possibilità di portare la nave al largo o di farla affondare, sparando ai suoi fianchi qualche
cannonata (ormai non era più possibile aprire le valvole) e per effettuare questa seconda manovra mi si dice che sia stato richiesto qualche
cannone. Se non che essa non ebbe esecuzione, perché fu prospettata la possibilità che il liquido infiammato, venuto fuori dalla nave sventrata, si
sarebbe sparso per la superficie dell’acqua, determinando altri incendi. Mi si dice che tale ipotesi sarebbe assurda, perché i colpi di cannone
dovevano essere diretti nella zona delle macchine e non nelle stive e quindi il piroscafo sarebbe affondato con le stive intatte. In complesso fu solo
deciso e richiesto dal Commissario di PS di sgombrare la zona circostante per un raggio indicato prima in 300 metri e poi in 500, il che fu fatto e
si rimase in attesa che s i spegnesse l’incendio, che si disse sarebbe durato attorno ai tre giorni. Per quel che è stato possibile apprendere,
sembra che gli organi portuali competenti, lungi dal temere l’esplosione contemporanea di tutto il carico esplosivo, abbiano pensato ad una
esplosione graduale delle bombe, per cui la cautela dello sgombro era più che sufficiente. [...] Quanto oggi ognuno si chiede è di precisare perché
la nave non fu spostata e portata al largo, in modo che la esplosione, resasi purtroppo inevitabile, non avrebbe prodotto i danni che poi ha causato
sia alle persone come alle cose. [...] Qualcuno poi, in proposito, fa presente che, secondo una disposizione della commissione di allestimento, i
piroscafi, ultimato il carico, dovrebbero essere ormeggiati alla Diga Foranea, in attesa della partenza. Pare che questa disposizione non venga
sempre osservata, perché il personale di bordo sarebbe costretto a prendere imbarco sul piroscafo e a restare bloccato fino alla partenza, a meno
che non trovi modo di farsi portare a terra da qualche motoscafo o da qualche altro natante con perdita di tempo e sciupio di benzina. È certo che
gente di mare presente sulla banchina rilevava che la nave poteva essere portata al largo; qualcuno anzi faceva mostra di avere pronti gli uomini
animosi per tagliare gli ormeggi e rimorchiare la nave al largo; qualche altro faceva presente che si potevano e si dovevano pigliare gli uomini
della R. Marina, coi quali si sarebbe dovuto effettuare la manovra dell’allontanamento della nave dalla città. [...] È stato insinuato che, essendo
giorno di festa, il personale dell’ufficio competente non era adeguato alla circostanza e sembra che il sinistro abbia determinato un certo
disorientamento e una certa indecisione negli organi portuali competenti, così che la perdita di tempo ad adottare le congrue decisioni, fece
aggravare la situazione al punto che non fu più possibile far nulla di concreto. [...] È stato fatto appunto perché non siano state suonate le sirene
di allarme quando si intuì che doveva avvenire la esplosione. [...] Certo se fosse stato dato l’allarme la massima parte dei danni alle persone
sarebbe stato evitato».51

Anche a proposito delle cause dell’incendio questore e prefetto traevano conclusioni disarmanti. Contrariamente alla voce che si era sparsa e di
cui rimane ampia traccia nelle testimonianze orali, le relazioni escludevano atti di sabotaggio e imputavano lo scoppio della scintilla a umana
trascuratezza. «Sembra molto probabile che la causa dell’incendio possa attribuirsi all’accensione di esalazioni del carburante provenienti dalla
stiva attraverso le fessure del coperchio mancante del relativo telone. Da notarsi poi che i recipienti e i fusti del carburante soprattutto quelli di
provenienza germanica mi si assicura non essere mai di perfetta tenuta e facili a lasciare sfuggire impercettibili rivoli di liquidi, soprattutto se il
caricamento non viene eseguito alla perfezione e cioè coi tamponi di chiusura dei recipienti situati in alto. Per tale accensione si formulano varie
ipotesi: fra queste l’accensione inconsiderata di qualche sigaretta del personale e la autocombustione spontanea, fra le diverse voci da segnalare
quella di un soldato tedesco che avrebbe lavorato con la fiamma ossidrica in coperta e precisamente presso i boccaporti della stiva incendiata».52

Questore e prefetto sottolineavano «l’imprudenza con cui si erano praticati nel porto carichi misti di carburanti ed esplosivi». Allegavano alle loro
relazioni una lettera del comandante dei vigili del fuoco datata 7 marzo inviata alle autorità marittime italiane e tedesche «per richiamare la loro
attenzione sui gravi pericoli che sarebbero potuti derivare da tale situazione». Lettera che aveva avuto una risposta dal Comando germanico e
nessuna da quello italiano.53 Questore e prefetto facevano notare che la nave era ormeggiata con la prua verso terra «mentre per i carichi
pericolosi sarebbe stata prescritta la posizione inversa; che il piroscafo era circondato da altre due navi e varie chiatte con pregiudizio tanto per
esse medesime che per eventuali manovre per il suo rimorchio al largo; che sebbene il carico fosse ultimato fin dal 26, non si era provveduto a
trasportare la nave presso la diga foranea, ove avrebbero dovuto essere ormeggiate le navi cariche in attesa di partenza».

Il prefetto chiudeva la sua relazione con le considerazioni sul comportamento delle autorità, che vale la pena citare per esteso, per la loro
rilevanza. «Nulla si fece per affondare la nave allagandola, allorquando in un primo tempo la portata dell’incendio avrebbe potuto forse
consentirlo, mediante apertura delle valvole di sicurezza che stanno presso le macchine. Ed ammesso che questa operazione fosse impossibile per
i bassi fondali, non si tentò neppure di prenderla a rimorchio per portarla in alto mare, cosa che, forse, avrebbe potuto avvenire con una certa
agevolezza, in quanto la nave non era ancorata ma ormeggiata con gomene facilmente tagliabili. Va soprat tutto posta in evidenza l’indecisione
mostrata dall’autorità portuale, la mancanza di coordinamento e di senso di responsabilità, l’insufficienza delle iniziative. Le autorità che avevano
ordinato o presieduto al carico della nave dovevano conoscerne esattamente il contenuto e misurare su questo l’entità del pericolo soprastante
alla città; ciò nonostante nessuna segnalazione o richiesta venne rivolta alla Prefettura o alla Questura o al Comitato di Protezione Antiaerea. [...]
Venne invece perduto un tempo prezioso fra dubbi ed indecisioni; né si seppe valutare appieno quali tragici effetti avrebbe potuto avere
l’esplosione, tanto che venne semplicemente disposto lo sgombero per un raggio di 500 metri, mentre si sarebbero potute evitare per la città
tante vittime solo se gli organi competenti avessero dato l’ordine di suonare le sirene d’allarme. [...] Devo inoltre affermare che l’ufficiale di
servizio al Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea presso la Prefettura chiese notizie sugli scoppi iniziali nettamente percepiti in città sia
alla Dicat e sia alla Capitaneria di Porto che rispose, oso dire, quasi in modo superficiale». Il questore aggiungeva di avere avuto notevoli
difficoltà nella sua inchiesta «dovendo indagare in ambiente militare».

Nella lettera allegata alle relazioni l’ingegnere Della Morte, ufficiale dei vigili del fuoco mandato dal comandante a conferire con la capitaneria di
porto e con il comando della marina alle 14.35, riferiva di non aver trovato negli uffici relativi nessun ufficiale superiore. All’ufficio operativo del
comando, dove lui e il commissario militare della Caterina Costa avevano fatto presente la gravità della situazione, era stato loro risposto che
«senza ordini superiori, non era possibile prendere alcuna decisione».54 Il resto del documento è una descrizione di corse attraverso il porto per
portare inutili messaggi e cercare di spingere le autorità a prendere delle decisioni che non vennero prese.

Le parole di prefetto e questore si commentano da sole. D’altro canto, come mostrò magistralmente Marc Bloch a proposito della disfatta
francese,55 nella nazione in guerra emergono con grande evidenza le caratteristiche culturali e strutturali delle élite dirigenti, già presenti in
tempo di pace. Incapacità di previsione, trascuratezza, leggerezza, scarsa considerazione per i destini della gente comune, irresponsabilità delle
classi dirigenti non nascevano nella guerra e, purtroppo, non sarebbero finite con la guerra. Sembra di vedere all’opera quelle che saranno le
dinamiche dell’8 settembre e dello sfaldamento dell’esercito.56 Per la popolazione era l’ennesima dimostrazione che avventurieri incapaci la
tenevano in balia e la stavano conducendo alla rovina. Lo suggerisce ancora il commento dello stesso prefetto. «È ovvio che il susseguirsi di
episodi dolorosi ha generato nella opinione pubblica un profondo scoraggiamento e la sensazione di essere in balia di ogni evento. L’ultimo tragico
avvenimento, che forse avrebbe potuto essere evitato od almeno attenuato da pronte decisioni e da precise direttive, conferma in pieno il giudizio
della cittadinanza».57 E il 15 maggio successivo a proposito dei risultati dell’inchiesta ufficiale lo stesso prefetto aggiungeva: «L’inchiesta,
condotta dall’Ammiraglio Ecc. Cavagnari, portò all’accertamento della responsabilità dell’Alto Commissario del Porto, Ammiraglio Falangola, che,
con recente provvedimento è stato esonerato dalla carica medesima. La notizia comunicata alla stampa, ha peraltro suscitato un senso di
generale delusione nella popolazione che si attendeva provvedimenti di più larga estensione. Infatti se l’esito della inchiesta ha portato
all’esonero dell’Alto Commissario, sarebbe parso opportuno che fossero state adottate altresì sanzioni a carico di quegli elementi che prestavano
servizio alle di lui dipendenze occupando posti di responsabilità e che per asseriti attriti esistenti con il predetto Ammiraglio o per affermata
irresolutezza d’azione non si sarebbero mostrati all’altezza delle esigenze del delicato servizio cui erano preposte».58

Dunque, dopo la lunga sequenza di atti mancati, alle 17.30 la nave esplodeva «proiettando rottami infuocati e un numero enorme di proiettili a
grande raggio per tutta la città».59 Su Napoli si rovesciava «una pioggia di detriti incandescenti, taglienti come lame di ghigliottina [...] Una
pioggia di ferro e di fuoco, una pioggia di spolette, di proiettili, di bossoli arroventati; una pioggia di lamiere, di brandelli di car ro armato, di
pezzi informi di metallo, strappati alla nave e al suo carico, alle banchine, alle case, piovve nelle strade. Un pezzo di nave finì sul ponte della
Maddalena, dove crollarono due file di fabbricati, seppellendo gli abitanti. Fu la devastazione più selvaggia e tremenda di tutta la zona dei
Granili, della Caserma Bianchini, del Lavinaio e del Borgo Loreto».60

Tutta la città fu colpita. Si ruppero quasi tutti i vetri di porte e finestre, il botto dell’esplosione fece cadere tramezzi e soffitti in molte abitazioni,
ma i quartieri più vicini al porto e antistanti la marina subirono danni e vittime pari a un vero e proprio bombardamento. L’ispettore del genio
civile calcolava in 50000 i palazzi sinistrati.61 La storica basilica del Carmine fu gravemente danneggiata, si sviluppò un incendio all’Archivio di
stato, sal tarono le banchine del porto, ebbero danni i magazzini generali e la dogana, le industrie della zona industriale già regolarmente colpite
dai bombardieri; fu seriamente danneggiato il gasometro, provocando l’interruzione dell’erogazione del gas a tutta la città. In alcune zone
vennero interrotte l’illuminazione e le linee tranviarie. Furono inoltre colpite in modo grave la stazione Centrale e la stazione della
circumvesuviana: fra coloro che gremivano i treni in sosta o si trovavano sulle banchine in attesa ci fu un numero imprecisato di vittime. In tre
teatri crollò lo scenario, in un cinema cadde il soffitto. Era domenica ed essi erano affollati, ci furono morti e feriti. Negli incartamenti della
prefettura troviamo elencati 1100 feriti, molti dei quali sarebbero deceduti nei giorni successivi, e soltanto 48 vittime. L’elenco delle vittime risale
al 28 marzo; sappiamo con sicurezza che le vittime furono molte di più. Aldo Stefanile parla di 549 morti e più di 3000 feriti.62 La relazione del
comandante dei vigili del fuoco riferisce di numerosi morti «raccolti nella stazione ferroviaria, nel porto e nelle strade, e trasportati nelle varie
sale di deposito».

Che la città fosse prostrata come dopo un gravissimo bombardamento lo si ricava anche da questa testimonianza di un confidente: «La
cittadinanza è ancora stordita per il fulminio incidente di ieri e molti non si stancano di parlare e criticare, ritenendo che la colpa sia da
addebitarsi alle persone e non alla fatalità. La mancanza del gas in più rioni della città aggrava que sto stato d’animo. Inoltre stamane alcune
panetterie non hanno potuto panificare per la mancanza della forza motrice. Ho visto accanto ad una panetteria al vico Vasto a Chiaia una folla di
persone, per lo più donne che protestavano ad alta voce reclamando il pane. Alcune dicevano: non basta la paura, no n bastano i sacrifici, anche il
pane ci fate mancare e dire che si tratta di una razione che non basta a sfamare una creaturina».63

L’episodio è, insieme al bombardamento del 4 dicembre 1942, uno dei più vivi nella memoria cittadina. I racconti del tempo e quelli dei testimoni
riportano la dimensione di eccezionalità e di stupore che circondarono la catastrofe.

«Dopo le incursioni e i bombardamenti durante tutto il mese di marzo, interrotti solo dal maltempo, si è avuto, a suggello del tragico bilancio del
mese, lo scoppio della Santa Barbara di una nave ormeggiata al molo San Vincenzo, carica di proiettili e di bombe tedesche. Tornando da Pompei
avevo visto una densa nuvola di fumo squarciata da lampi gravare sul porto, e lo scoppio intermittente di proiettili m’aveva accompagnato lungo il
rettifilo nel tram semivuoto; ma dalla finestra di casa sul vecchio Arsenale, avevo potuto misurare la gravità del disastro: in mezzo ad un cratere
fumigante di nero bitume un rogo incandescente come di un immenso forno di fusione. E gli scoppi s’infittivano di forze e frequenza: alcuni con il
rimbombo di cannonate. Eppure nessun allarme. Dal parapetto di via Cesario Console, dal giardino dell’Arsenale, dalle finestre del Palazzo
dell’Armata la gente assiste allo spettacolo tremendo come a una paurosa girandola. Esco dal palazzo, vado alla farmacia più vicina a via Gennaro
Serra per mia figlia convalescente; sono entrato appena nella farmacia, il farmacista ha avuto appena il tempo di far la ricetta e di lasciar aperta
la vetrata prevedendo uno scoppio più violento, quando un fragore immenso preceduto da un sussulto e seguito da un rovinio di vetri e da un
polverone fitto di tenebre, invade la bottega e la strada.

Sono corso giù per la strada in mezzo agli urli della gente atterrita, tra calcinacci e imposte che rovinavano, pensando già di vedere i miei tra le
rovine, feriti, forse accecati dai vetri [...] e li ho incontrati fortunatamente illesi in mezzo al cortile che mi venivano incontro anch’essi affannosi
della mia sorte. In casa tutte le finestre divelte, spezzate, contorte, traballanti sui telai strappati alle cerniere: i saliscendi spezzati come percossi
da un gran colpo di maglio. E non era finito. Si temeva che l’incendio si appiccasse a un’altra nave carica anch’essa di munizioni. Ci siamo coricati
con quell’incubo dopo aver puntellato alla meglio i balconi con mazze e spuntoni, ché la notte era insolitamente fredda e più tardi sopravvenne lo
scroscio dell’acqua su quell’immenso polverone della città devastata.

Il giorno appresso circolavano le voci più strane e mirabolanti: un carro armato lanciato dalla forza dell’esplosione sul tetto di una casa, come un
bolide pauroso piovuto dal cielo; lamiere di qualche tonnellata finite sul piazzale della ferrovia e sull’autostrada; il tetto della chiesa del Carmine
crivellato dalla caduta dei proiettili, distaccato dalle armature di sostegno e precipitato rovinosamente sul pavimento; la caldaia del piroscafo in
fiamme scagliata in mezzo a via Duomo; finestre e balconi divelti fin sul Vomero e a Capodimonte. E c’era chi raccontava di uomini visti volare
come aucielli per aria. Che altro poteva attendere Napoli di più tremendo?» 64

La memoria dell’esplosione della Caterina Costa è presente in quasi tutte le testimonianze. Alcune riprendono le immagini di Amedeo Maiuri.
L’arrivo dello scoppio dopo una lunga serie di botti intermittenti, le lamiere che cadevano sulla città, pezzi di uomini che volavano per il cielo...
Nel ricordo i tempi si espandono, alcuni affermano di aver sentito i botti fin dal mattino; emergono poi le varie versioni riportate dalle voci, fra cui
quella del sabotaggio.
«Una mattina ci svegliammo con dei... comme se rice quanne65 cade una bomba... una bomba che scoppiava ogni cinque minuti, all’epoca noi
abitavamo a Mergellina e c’era un terrazzo e si vedeva tutto il mare dietro al Castel dell’Ovo, si vedeva che c’era una nuvola nera e ogni volta ca
ci stava stu scoppio sta nuvola nera usciva. Cominciò dalle otto e mezza, le nove e nel ritmo di cinque minuti ci stava chistu scoppio. Nessuno
disse niente, non si sapeva niente, tutto silenzio, tutto tace. E quindi era una domenica e io all’epoca andavo al cinema, e me ne andai al cinema
cumme tutte e domeniche, ma verso le 16, le quattro del pomeriggio è successo la fine del mondo! Uno scoppio terribile, si ruppe tutti i vetri di
tutta Napoli proprio e nel cinema successe proprio il finimondo. Io mi allungai sotto le sedie io e mio fratello... perché la ressa c’avesse accise e
perché mio padre cio riceva sempe: quando... non fuggite, mettetevi inta n’angolo, fate passare prima gli altri. Infatti fu molto valida chesta
lezione che mio padre ci dava e ne uscimmo. Dopo per la strada... tutti vetri... il cinema si trovava a viale Elena, dovevamo scappare sotto la
grotta, il tunnel, che poi nun ve riche66 stu tunnel... erene i due tunnel, i tre tunnel il rifugio di tutta la zona perché la gente correva sotto le
montagne come le talpe... e poi quando scoppiò la nave nun avevene avvertite, nun avevano suonato allarmi per la popolazione e fu una
carneficina. La nave scoppiò vicino al molo San Vincenzo nel porto e i pezzi della nave furono trovati alla ferrovia, al rettifilo, a piazza Municipio.
Piazza Municipio nun ve racconto cher’era... tutto un campo di macerie... fu un pezzo di autocarro su un tram pieno di gente... morirono... non si
diceva la gente che era morta. Nessuno parlava... [...] Quello fu un attentato, non sappiamo... americano inglese...» (Teresa Ciciliano).

«Quando è scoppiata la guerra, nel ’40, avevo venticinque anni, nel ’41 mi sono sposata. Quando scoppiò la nave nel ’43, io abitavo a corso
Garibaldi, stavo affacciata al balcone e stava passando una famiglia che camminava per strada, nu pate na mamma e na figlia. La figlia teneva nu
micillo ’n braccio... e nunn’e verette cchiù,67 scoppiarono anche loro con la nave» (Tommasina Conte).

«Il 1942... no il 1943... il 23 marzo scoppiò una nave. Io mi trovavo con mia sorella, mia sorella aveva una bambina di otto mesi, e dovevamo fare
fidanzare una sign orina... pecché nun ciamme fatte mai e fatte nuoste...68 che avevamo appuntamento con un giovane dell’aeronautica che la
voleva conoscere, tenevamo un appuntamento sotto un palazzo... [...] Nel frattempo che scoppiò questa nave arrivò un pezzo di carrarmato sotto
questo palazzo, questo palazzo si trovava in vicolo Abbagnari, piazza Dante. Questi pezzi che arrivavano li avettimo tutti in testa. Veramente uno
mi andò in una gamba. E mia sorella si mise la bambina di otto mesi nella fodera del cappotto e fu ferita alla mano che aveva sulla testa della
bambina. Fu un’esperienza! Ed io vicino alla gamba mi feci un buco, andai al pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini e mi medicarono. Dopo
questa medicazione che mi fecero l’antico tempo del ’43, ie avette 250 lire e mia sorella 500 lire, perché pagavano, diciamo, i feriti di guerra»
(Anna De Rosa).

«Poi quando c’è stato lo scoppio della nave... una cosa terribile! Lo sai che non si è mai saputo se era dolo o cosa diavolo era stato? Io in quel
momento ero alla ferrovia, mi sono morte vicino due persone perché il porto e la ferrovia era vicinissimo, stavo con una mia amica che doveva
andare a Roma... e ce ne siamo andate con tutta la strada di via Nicola Amore là... tutti calcinacci per terra... guarda era una cosa incredibile
come stava combinata Napoli quella notte! Ho sentito un boato terribile, non ho visto nulla dello scoppio... Non si è però saputo perché, lo hanno
mantenuto segreto, capisci? Che anche adesso tutte ipotesi diverse» (Flora Greco).

«Ricordo quando è scoppiata la nave nel porto di Napoli. Questo successe perché evidentemente dei traditori erano andati a mettere delle bombe,
non era scoppiata spontaneamente. In Africa i soldati nostri aspettavano le muni zioni, ma da quando scoppiò la nave non è arrivato più niente...
quindi spie... Siccome i nonni erano sfollati a Pompei, però io frequentavo la scuola, ero arrivata al primo liceo, perché allora c’erano cinque
ginnasiali, stavo facendo i compiti e stavo a casa di mio padre e della mia matrigna che abitavano a Luigia Sanfelice dov’è la Santarella al
Vomero, una casa panoramicissima che dava proprio sul porto... il porto stava là, mia sorella stava vicino ai vetri della finestra ed io stavo facendo
i compiti, ad un certo punto ho visto una palla di fuoco in cielo... mentre guardavo questa palla di fuoco uno scoppio che non ti dico! Si sono rotti
tutti i vetri... sì... a mia sorella tutti i vetri in testa... tale fu l’esplosione. Dal porto al Vomero quei pochi vetri che erano rimasti si ruppero tutti.
Figurati che c’erano ancora le carrozzelle allora... una carrozzella... Come ora ci sono i posteggi dei taxi allora ci stavano i posteggi delle
carrozzelle vicino all’Università a via Mezzocannone... è saltata in aria a carrozzella col cocchiere e o cavallo, o cocchiere e a carrozza... eh...
questa è storia! Ma morirono centinaia di persone per uno sposta mento d’aria, gente che poi è stata mutilata... Non si è saputo chi è stato, ma
certamente è stato un sabotaggio» (Annamaria Romano).

«Era domenica! Giocavamo a carte, avevamo un tavolo con un bellissimo marmo, a un certo punto io mi son sentito prima la sedia sotto vacillare:
che succede? E poi questo scoppio enorme, poi dopo lo scoppio la cosa che mi ha impressionato è che non pensavo allo scoppio, addirittura ho
pensato a un bombardamento navale, perché sentivamo esplosioni dappertutto perché erano i proiettili della nave che dove arrivavano là
esplodevano, allora si sentivano spari dappertutto, noi lo vedevamo dalla casa mia, c’era il ponte della Sanità, vedevamo il Castel Sant’Elmo, il
mare no, perché c’era un giardino, perché abbiamo visto questa grossa colonna di fumo e da questo abbiamo capito che poteva essere uno
scoppio. Ma là fu una cosa terribile perché arrivarono pezzi di carri armati, pezzi di nave, proiettili che scoppiavano dappertutto e io la prima
cosa che pensai: questi stanno bombardando, stanno vicino Capri e stanno bombardando. Pensai subito a un bombardamento navale e fu una cosa
veramente terribile, non so quanti morti ma credo tantissimi, perché là ci furono anche degli errori: questa nave poteva essere rimorchiata e
portata al largo» (Antonio Amoretti).

«Bombardarono una nave nel porto di Napoli e si sentì lo spostamento fino a qua, ma forte... figurati che la gente che si trovava vicino verso il
porto si sono disintegrati. Un parente di mio marito dice che aveva preso il tram per andare fino a Napoli, poiché loro abitavano a San Giovanni a
Teduccio o a Barra, pigliai il treno quella volta che succedette questo fatto, non si è proprio trovato» (Aurora Belli).

«Mi ricordo lo scoppio della nave, la Santa Barbara... quando scoppiò sta nave tenevamo ancora i tedeschi qua. Scoppiò e buttava i proiettili che
andavano a finire a tutt’e parte, fino al vico Giganti ’ncoppa o Purgatorio... era la Santa Barbara... nun sacce quanti morti furono... fu uno scoppio
potente... Napoli sotto sopra... la Santa Barbara era na nave da guerra, mi pare che era na corazzata. E dicevano che l’avevano minata... I
tradimenti!» (Antonio Iannucci).

«Po’ fuie o scoppio d’a nave... e bossole arrivarono fino a vico Giganti. Nui mo era di domenica, mammà era scesa da una zia, ca sta zia a voleva
bene a mia mamma, e ce steve ie, papà steve durmenne, ie e na sorella mia stiveme assettate vicino o fuoco, l’ati ragazzi steveno a durmì,
sentimme stu spostamente... maronna e cher’è? E murettero parecchie persone ’e San Gaetane. [...] murettero parecchi giovani. [...] u fatte d’a
nave fui terribile proprie»69 (Maria Genovese).

«Ricordo che stavamo in casa. Naturalmente era di mattina. Io e mia sorella si sfaccendava in casa e di tanto in tanto si sentivano degli scoppi, in
lontananza. Passavano le ore. Venne il primo pomeriggio e questi scoppi si continuavano a sentire. Forse erano un poco più frequenti. La cosa
cominciava a dare sospetto, anche se non ci rendevamo conto di cosa potesse essere. A un bel momento la famiglia che stava affianco a noi
cominciò a fare la stessa riflessione. Ma che sarà? Allora la signora ci disse: signurì, andiamo a vedere sul terrazzo. Ci recammo così sul terrazzo
e vedemmo dei palloni tipo dirigibili in aria, verso la zona del mare. Nella nostra ignoranza dicevamo: uè, vuoi vedere che stanno scoppiando e
palluni? Così ce ne scendemmo giù e continuammo le nostre cose. Passava ancora del tempo e si fecero le 4 del pomeriggio. Ad un certo punto il
marito della signora ci bussò e disse: signor Villani ma a me sta cosa non mi piace proprio! Chisto o porto, pazzianno pazzianno,70 ci sta tirando
nu brutto scherzo! Mia moglie mi ha accennato e sti palloni, vogliamo andare a vedere di che si tratta? – E risalimmo sul terrazzo. Naturalmente
salii pure io, perché ero ragazza e volevo vedere. Mi ricordo che eravamo cinque o sei persone. Altro che pallone! Ogni scoppio si vedeva na palla
di fuoco in cielo. Dopo tre minuti un’altra, dopo tre minuti un’altra. Di qua, di là. Queste palle di fuoco erano accompagnate da schegge nere. Poi
ci fu uno scoppio enorme, una fiammata che salì in cielo con un boato enorme. Nientemeno lo ricordo come adesso. La fiamma era come un
ventaglio aperto a metà. Vi lascio immaginare la paura. Ci trovammo a terra, uno sopra l’altro, perché la fiamma ce la sentivamo in testa... Molti
dettagli nun m’e ricordo cchiù, ma molte persone venivano e dicevano: è scoppiata la nave!» (Dolores Imparato).

«A marzo poi del ’43, di domenica, la Caterina Costa incominciò a scoppiare, era una nave piena di munizioni, i tedeschi non la vollero portare al
largo e mi ricordo che ci facettero andare a casa. – Quindi non scoppiò all’improvviso? – No, all’improvviso no, piano piano... – Dalla mattina... – E
mi ricordo che io andai a casa, mi lavai, mi vestetti, perché a me mi è piaciuto sempre ballare, andai a piazza Ottocalli, entrai in un bar, alle
cinque, le cinque e mezzo e la porta del bar, che era di vetro, fece uno scoppio enorme. – A Capodimonte c’erano pezzi della nave... – Io mi
credevo che erano colombi che volavano, invece erano tutti proiettili da 75 che volavano, pezzi di carri armati si sono trovati sui palazzi. – Io
quando scoppiò la nave stavo sopra i Gradoni, abbasce o Cavone.71 Tanto dello scoppio tremendo pe’ poco nun ieveme a coppe abbasce,72 che poi
ci stava una ringhiera, ci sta ancora, non è che l’hanno levata, giù al Cavone c’era una ringhiera, io e altri due o tre compagni che stavano là non
avevamo... cioè sapevamo che scoppiava, ma a quel momento nun pensaveme, me pareve o scoppio ro Vesuvio, ma uno scoppio tremendo! uno
che mo è morto, un amico mio si fece addosso dalla paura, che poi o mettetteme nu soprannome... 73 non era una cosa di bombardamento, già
sapevamo. – In quel momento passò un apparecchio a bassa quota, però era tedesco, portava proprio le croci... quindi in un primo momento
pensavo che era questo apparecchio che era caduto, poi dopo la mente andò un po’ indietro, diciette: ma allora è quella nave che è scoppiata nel
porto! Che io quattro o cinque ore prima ero stato lì. – Che c’era nu nipote i zi Carmela, a sore ro marito i mia mamma, non so se ti ricordi... – Sì,
mi ricordo. – Un nipote di quello non lo trovavano più, poi lo trovarono fuori a un balcone al terzo o quarto piano... – Dove? – Al porto! Lui
lavorava in quei paraggi, si chiamava Pasqualino, lo trovarono tutto smembrato, al quarto piano. N’ate, pure ro Cavone,74 non so pure dove lo
trovarono, io ho visto i pezzi della nave che fino a quindici anni, quindici, venti anni fa stavano ancora a Capodimonte, a terra. – Comunque il
giorno successivo io sono stato al porto, perché quella era la fonte del mio lavoro, e che truvaie là! Tutto distrutto, andai verso i fri goriferi dove
stava lo stabilimento mio e stava un’altra officina dietro e mi ricordo che nu compagno... io trovai nu compagno mio che stava nudo, era nudo! Lo
scoppio d’aria gli aveva tolto tutti i panni da dosso, nudo, con un tubo in fronte qua, con un tubo di ferro... comunque rimasi sbalordito» (Michele
Lubrano, Vincenzo Sanno).

«Io ricordo questa cosa: era un pomeriggio e io e mia madre, io avevo già perso mio padre. Mia madre stava cucendo con una macchina da cucire
e improvvisamente si sentì un rumore terribile, come se fosse una scossa di terremoto... io allora dissi: mamma hai sentito? e allora mia madre
improvvisamente prese e scappammo. Il cielo si fece nero... il cielo si fece nero... nero come stamattina: nero nero. E dal cielo cominciò a cadere
della roba che sembravano fogli di giornale. Tutto ciò che... diciamo, consideriamoli detriti: pezzi di carro armato, lamiere, pezzi di armi. E quella
fu una cosa che è rimasta ancora impressa e non mi sono mai dimenticato. [...] la nave era dalla mattina che aveva preso fuoco... era da parecchio
che aveva preso fuoco... Non era stato un bombardamento... No, no, quello era stato secondo me, fu un sabotaggio a tutti gli effetti perché la
guerra ormai si incominciava a sapere che era persa. Si sapeva che c’erano le spie: pure io da piccolo che volevi capire, ma quando vedi una nave
che ha preso fuoco e non si riesce a spegnerla, non era diciamo... non è ammissibile, anche con i mezzi di allora. Una nave che era carica e che
doveva portare dei rifornimenti in Africa, non era una nave merci che portava diciamo, derrate alimentari» (Carmine Gaglione).

4 aprile 1943

La prima incursione del mese di aprile si verificò il 2 alle 18, seguita da due ondate alle 18.30 e alle 20.30. In tutto 22 aerei bombard arono la
città.75

Due giorni dopo si abbatté su Napoli un raid aereo apocalittico. Diverse formazioni venivano inviate nello stesso momento su più obiettivi. Il
rapporto americano, corredato come sempre da fotografie scattate dagli equipaggi, è eloquente.

«91 B-17 del 97°, 99° e 301° gruppo hanno condot to un attacco coordinato sulle navi e gli impianti del porto e sulla stazione di Napoli, Italia.

Capodichino: 33 B-17 (301° gruppo) sono partiti alle 9.55 per bombardare Capodichino a Napoli. [...] Alle 14.10, 3876 bombe a frammentazione
da 20 libbre sono state sganciate da 24000 piedi. [...] Sono stati osservati incendi nell’aeroporto e nell’area del rifornimento del carburante. [...]
Tutti gli aeroplani sono tornati alla base alle 17.45.

Napoli. Navi e servizi del porto. 45 B-17 (97° gruppo) si sono alzati in volo alle 10.30, per bombardare porto e navi a Napoli. [...] Alle 14.10, 456
bombe da 500 libbre sono state sganciate da 23500 piedi. L’obiettivo è stato colpito da bombe esplosive, che si sono estese alla città. L’intera area
è stata coperta da fumo. Una nave cisterna e una grossa motonave sono state colpite e un’altra si è incendiata. Il fuoco è stato notato anche alla
base del frangiflutti. Si pensa che il fuoco abbia anche colpito le baracche, il gasometro e la centrale elettrica. [...] Tutti gli aeroplani sono
rientrati alle 17.19.

Napoli. Stazione di smistamento. 25 B-17 (99° gruppo) sono partiti alle 10.56 per bombardare la stazione di smistamento di Napoli. Alle 14.12,
416 bombe da 300 libbre sono state sganciate da 24000 piedi. Colpite due piccole motonavi, una delle quali è esplosa. Incendi sono stati visti
nell’area dei magazzini, tra i magazzini e la stazione ferroviaria esplosioni e incendi. Tutti gli aeroplani sono tornati alle 17.15».76

Ben 194 velivoli colpirono dunque la città in punti diversi. Gli obiettivi dichiarati, come sempre, erano il porto, la stazione, l’aeroporto; in verità
tutti i quartieri del centro furono coinvolti, come si ricava dalla relazione minuziosa dei vigili del fuoco.77

Colpita la caserma dei pompieri insieme all’ingresso del Policlinico a piazza Miraglia, l’ospedale psichiatrico Bianchi, la caserma Granili, lo
smistamento Sperone alla stazione. Crolli nel centro antico in via Maffei, via Tribunali, via San Giuseppe dei Ruffi, vico Limoncelli. Distruzioni e
incendi a piazza Amedeo, Parco Margherita, via Vetriera e vico Vasto a Chiaia. Crollo dell’albergo Isotta e de Genève a via Medina. Crolli a vico
Scassacocchi, via Concezione a Montecalvario, corso Vittorio Emanuele, via Portacarrese a Montecalvario, corso Umberto I, via San Giuseppe dei
Nudi.

Nel porto. Colpite la nave cisterna Lombardia, la nave ospedale Sicilia e il piroscafo San Luigi che si incendiarono. Incendi al molo Bausan, al
varco n. 7, ai Magazzini generali e ai Silos Meridionali. Incendio e crollo di tre magazzini.

Salita Capodichino, San Pietro a Patierno. «Convoglio della ferrovia Piedimonte d’Alife, fermo nella stazione di Secondigliano, con 13 morti, e
circa 40 feriti». Altri 6 morti racco lti in via Sant’Andrea Avellino a Capodichino. Incendio all’aeroporto di Capodichino. Incendio allo Stabilimento
italo-americano del petrolio (SIAP) dove andò a fuoco un serbatoio di 500 quintali di petrolio.

San Giovanni a Teduccio (zona industriale est). Colpiti lo stabilimento Cirio, la Società Metallurgica Giacomo Corradini, l’AGIP, la SNIA Viscosa,
La Precisa.78

A via Marina crollava un sotterraneo adibito a rifugio antiaereo, dove perivano dei soldati tedeschi; alcuni venivano feriti mentre correvano verso
il ricovero di una fabbrica di conserve.

Uno degli episodi più gravi si verificò ancora una volta nei vicoli del centro storico, nei rifugi ricavati dalla stazione della metropolitana, che aveva
e ha tuttora rampe ripidissime di accesso. «Largo Olivella a Montesanto. Numerose vittime in un ricovero pubblico. A causa del panico
manifestatosi nel pubblico che si attardava all’ingresso del ricovero, e che al momento in cui è incominciato il fuoco delle batterie contraeree, si è
riversato lungo la scala d’accesso al ricovero stesso, si sono verificati numerosi casi di asfissia. Dalle nostre squadre sono stati raccolti molti morti
e feriti, trasportati al vicino Ospedale dei Pellegrini. Molti altri sono stati raccolti dalla CRI e dal pubblico stesso».79

Nel quartiere di San Pietro a Patierno, confinante con Capodichino, uno degli obiettivi dichiarati dell’incursione, colpito con 3876 bombe a
frammentazione, un tram articolato diretto in provincia fu centrato in pieno. Il ricordo del bombardamento è tuttora vivissimo e ha trovato in
questo caso un’espressione pubblica. La via, che si chiamava via Tramwaj, fu rinominata «viale 4 aprile» e nel 1983, a quarant’anni dalla strage,
vi fu scoperta una lapide: «A perenne memoria di quanti qui peri rono il 4 aprile del 1943 – Vittime civili di un’assurda guerra – La cittadinanza di
S. Pietro a Patierno – 4 aprile 1983».

«Erano le 15 e 4 minuti quando le sirene lanciarono l’allarme. Intanto il tram a più vagoni della linea Porta Capuana-San Pietro-Casoria-Afragola-
Caivano, stracolmo di passeggeri, raggiungeva lo scambio sulla strada fe rrata a ridosso della via Tramwaj. Grosse formazioni aeree
angloamericane si avventarono sulla città di Napoli e alcune presero di mira i binari del tram, che, nel frattempo, si era fermato. Dopo un violento
e rapido bombardamento, alle 15 e 40, alcuni aerei calarono a bassa quota, mitragliando brutalmente i passeggeri che sconvolti scendevano dai
vagoni in cerca di qualche riparo. Chi fu testimone oculare di questa strage ha riferito che in pochi minuti i binari si coprirono di cadaveri e di
centinaia di feriti, tanto da rendere difficile il passaggio a chi, in fuga, cercava di non calpestare quei poveri corpi riversi sul selciato».80

Antonio Coppola aveva undici anni e mezzo nell’aprile 1943 e stava tornando da Castellammare dove con due cugini era andato a trovare la
sorella in collegio. Dalla ferrovia Vesuviana a piedi si era incamminato verso Porta Capuana da dove partivano i tram per il suo quartiere, per
proseguire poi nei paesi circostanti costeggiando l’aeroporto. C’era stato il preallarme e la gente affollava le vetture per scappare dalla città,
senza pensare che il tragitto era uno dei più colpiti e dei più pericolosi della città.

«Ci fu quasi una violenza al capostazione perché desse il via... che c’era un tram ordinario e uno straordinario, ognuno di tre vetture che
passavano per San Pietro... I tram provinciali salivano tutti per Capodichino. – No andiamo andiamo, non vogliamo rimanere a Napoli – non
pensando che il tram avrebbe fatto un percorso che l ’avrebbe portato lungo il muro di cinta del campo dell’aviazione, che poi alla periferia del
campo erano allocati tutti gli impianti: i capannoni degli aerei, gli hangar degli aerei tedeschi eccetera eccetera... Quindi il percorso avrebbe
seguito proprio la linea maggiormente calda del muro perimetrale che rasenta via Nuovo Tempio... già dalla calata Capodichino... questi due tram
ordinario e straordinario di tre vetture, motrice più due carrozze, cominciò a salire e già vedemmo gli effetti del bombardamento... un muro
sbrecciato... una serie di cavalli morti... quindi c’era stato uno spezzonamento, perché buttavano piccole bombe... Il manovratore... io non l’ho
visto, ma seppi dopo che era morto decapitato addirittura... il tram in cui stavo io riuscì ad arrivare a San Pietro all’altezza dell’ufficio postale,
vicino al bar... là c’era solo una rete che consentiva di guardare il campo d’aviazione dove i tedeschi avevano allestito degli enormi hangar, gli
americani erano riusciti a centrarli... tutti, scesi dal tram, incoscientemente, presi dalla paura, terrorizzati, ce rcavano di scappare... e dove
scapparono? Purtroppo scapparono verso la campagna, dove naturalmente furono tutti quanti mitragliati, bombardati... Io persi il contatto con i
miei cugini, i quali furono feriti pure loro, e mi salvò la mia curiosità di ragazzo... sorpreso, affascinato da questo sinistro spettacolo degli aerei
che bruciavano in questi hangar e il fuoco... fuochi incrociati da parte degli aerei e da parte di qualche batteria che era entrata in funzione che
stava allocata nel recinto dell’ex ippodromo di San Pietro, quindi ci fu proprio l’inferno... io scappai, ma mi misi con le spalle al muro del palazzo
dove attualmente c’è il bar e guardavo il campo d’aviazione... fui raggiunto da queste schegge di bomba aerea, una fu quella che mi fece saltare
la branca orizzontale della mandibola, e poi altre due schegge nei tessuti molli della coscia... Ricordo che mi soccorsero e mi portarono sotto il
palazzo dove sta la farmacia, mi trasferirono su una sedia che fece da barella. Io ricordo che i primi soccorsi furono apprestati dai tedeschi, alcuni
camion tedeschi... io ricordo che mentre mi trasferivano con questa sedia che poggiava su due delle gambe io vidi a terra... diciamo così... il foro
bruciacchiato dov’era caduta la bomba che mi aveva colpito, e io stavo di fronte, lì c’era un vespasiano, un orinatoio pubblico... la bomba lo centrò
proprio e furono le schegge di questa bomba che mi colpirono sul lato sinistro... Poi mi portarono all’ospedale vecchio Pellegrini dove
naturalmente non si accorsero neppure che io ero ancora vivo, quindi mi stavano avviando proprio... vicino a tanti cadaveri... Io poi con la mia
vivacità di ragazzo: no, aiuto! aiuto! [...] La visione che è rimasta scolpita... impressa nei miei occhi, sulla mia retina quasi come una fotografia, è
questo spettacolo di questo gregge, di queste persone che erano tutte bocconi lungo questa via... lungo l’attuale viale 4 aprile...» (Antonio
Coppola).

«Il 4 aprile facettene na massacrata. La mattina del 4 aprile 1943 ce fuie nu bombardamento a catena. Nuie steveme vicino all’aeroporto, ma
soprattutto vicino o tram. Dietro al tram buttaiene nu sacco ’e bombe, perché allora per quella strada passava o tram a tre carrozze, e loro se
crerevene che era o treno. Allora erano le undici e mezzo a matina, accuminciaiene a buttare nu sacco ’e bombe. Murette nu sacco ’e gente il 4
aprile, murette nu sacc’e gente. Mi ricordo ca murettene due fratelli e quella povera mamma teneva solo a tutti e due. Giovani proprio murettene,
facettene na massacrata. A terra stevene i morti accussì, stevene a terra. Poi con i camion venivano, li pigliavano da terra e li ammassavano come
le galline. Aret’o81 tram ce fuie nu bombardamento continuo, però cheste bombe e menavene tuorno tuorno» (Rosina Monteriso).

«Il giorno 4 aprile 1943 avevo sedici anni... io stavo da mia suocera e mio marito era militare e mangiavo a casa ’e mia suocera. Io ero incinta di
otto mesi della mia prima bambina. Alle ore... all’una di pomeriggio suonò l’allarme e noi scappammo nei rifugi, allora non c’erano rifugi...
ricoveri... scappavamo nei bassi e io scappaie pure io. O bombardamento duraie n’ora, quann’ascetteme truvaieme tutte fora a strada piena di
morti, feriti... ggente cu e panze squartate, ggente senza testa... Nu maciello... Chiammaine l’allarme. Venette o camion e caricaie morti, feriti e
tutte quante ’ncopp’a chistu stesse camion e purtavene all’ospedale»82 (Giuseppina Simonetti).

Stando alle liste della prefettura le vittime dell’incursione del 4 aprile furono 236, i feriti 317.83

I raid continuarono il 10, l’11, 12, 16 e 21 aprile: nel porto venne affondato un sommergibile. Furono colpiti il quartiere di Santa Lucia e, per la
prima volta, la zona collinare con il Vomero.84

Il 25 aprile alle 2.20 di notte piovvero bombe su Torre del Greco. L’elenco ufficiale contiene 75 vittime, di cui colpisce l’elevato numero di bambini
(fra loro 6 fratellini fra i tre e i tredici anni). Quella notte a bombardare erano stati 6 Liberator della 178a squadriglia della RAF, i quali nel loro
rapporto comunicavano di aver trovato una densa coltre di nubi e di aver sganciato sull’obiettivo senza «prendere la mira accuratamente».85

Il 28 aprile 25 B-24 sganciavano 216 bombe da 500 libbre.86 Quel giorno furono colpiti il porto, il quartiere di Santa Lucia, la stazione ferroviaria,
la Circumvesuviana, la zona orientale. Nel fonogramma del giorno seguente il prefetto denunciava 84 morti civili e 25 militari, ma dopo pochi
giorni l’elenco conteneva già 114 nomi. A Santa Lucia crollava ancora un ricovero. Esasperazione e polemiche erano all’apice. Ne possiamo
trovare traccia nella documentazione del prefetto di Napoli, che nei giorni successivi riceveva una riservata urgente dal ministero dell’Interno.

«Oggetto: Ricovero del Pallonetto S. Lucia. Viene riferito a) che il ricovero Pallonetto S. Lucia, crollato nell’incursione del 28 aprile scorso, non
era il più idoneo ad assicurare un sufficiente grado di protezione; b) che nessuna autorità è intervenuta per confortare, con la sua presenza, i
parenti delle vittime rimaste sotto le macerie; c) che il Genio Civile si è recato sul posto con sensibilissimo ritardo e nuovi danni si erano verificati
a causa della frana provocata, per mancanza di direzione tecnica, dai soldati tedeschi accorsi a prestare aiuto; d) che non vi era neppure
un’autoambulanza per il trasporto dei feriti; e) che l’ospedale è stato aperto soltanto alle ore 11 del giorno successivo per identificare delle
vittime, e che queste si trovavano quasi ammassate sulla nuda terra del nosocomio, con quanto conforto per i familiari è facile immaginare. Si
prega di disporre rigorosi accertamenti, specie p er quanto concerne la revisione dei ricoveri ai fini della loro efficienza anticrollo, e riferire
esaurientemente con ogni possibile sollecitudine».87

Le relazioni dei vigili del fuoco e dell’ispettore provinciale, cui fu demandato il compito di condurre un’inchiesta, cercavano di difendere l’operato
delle istituzioni. Ecco il rapporto del comandante dei vigili del fuoco stilato il 13 maggio.

«Ore 13.41, via Santa Lucia. È stato segnalato che all’Albergo di Russia, per lo scoppio di una bomba nemica, era rimasto ostruito l’accesso al
ricovero, nel quale si trovavano bloccate molte persone. [...] In prossimità del muro paraschegge del ricovero, una bomba dopo di avere
attraversato uno strato di terra naturale sulla volta naturale in tufo ricoprente il compreso di accesso al ricovero, e la volta stessa, era scoppiata,
provocando il crollo di buona parte della volta ed ostruendo, quindi, l’accesso al ricovero. I massi di tufo e la terra crollata avevano investito
molte persone, al salvataggio delle quali si dedicò subito parte del personale; altra parte, invece, aprendo un vano di fortuna in un muro del
ricovero, rese agevole l’uscita delle numerosissime persone che non erano riuscite a sfollare attraverso l’uscita di sicurezza. Ricevuto notizia della
gravità della situazione, inviai sul posto altre squadr e, con materiale di puntellamento, nonché il vice comandante. Dopo pochi minuti, quando già
una diecina di persone erano state estratte rapidamente dalle macerie, si verificò il crollo di altra parte della volta, e di un rilevante volume della
terra soprastante, il che rese più grave la situazione, e più difficili le operazioni di salvataggio. [...] Sotto alcuni grossi massi di tufo si trovavano
parzialmente sepolte vive alcune persone, che sarebbero state schiacciate da un eventuale ribaltamento dei massi; questi, perciò, furono subito
assicurati con sostegni di legname, collocati con ogni cautela. [...] Feci int ervenire la nostra squadra di cavamonti, che con energie ed
accortezza, sotto la mia personale sorveglianza iniziarono la spaccatura e la rimozione dei blocchi di tufo crollati, al di sotto dei quali, fra un
groviglio di informi corpi umani, oltre venti persone erano ancora in vita ed invocavano aiuto. L’opera dei vigili fu talmente apprezzata dallo
stesso Comando Tedesco, che questo dispose il ritiro di due ufficiali in un primo tempo fatti intervenire, con numerosi militari, per liberare alcuni
loro camerati, che trovavansi ancora tra le macerie, affidando esclusivamente a noi tale compito. Lavorando con quello spirito di sacrificio e
sprezzo del pericolo che animano, in simili contingenze, i nostri vigili, che rifiutarono il cambio ed ogni conforto, pur di non perdere nessun
minuto che poteva essere prezioso, in ben diciassette ore di duro lavoro, espletato sempre col rischio della propria vita, fu possibile operare il
salvataggio di quanti erano rimasti vivi, dopo il crollo, ossia di ben 21 persone. Furono, inoltre, estratti dalle macerie 106 morti, di cui molti
militari tedeschi».88

Seguiva con notevole ritardo il rapporto dell’ispettore provinciale del Comitato di Protezione Antiaerea, il quale segnalava – dopo tre anni di
guerra e dopo un anno di morti continue nei ricoveri! – l’intenzione del comune di rivedere i «ricoveri ai fini della loro efficienza». «Al Pallonetto
S. Lucia il ricovero non è stato colpito. a) trattasi probabilmente di quello dell’Albergo di Russia colpito nell’antiricovero, che a parere dello
scrivente avrebbe dovuto essere convenientemente protetto, considerato che la copertura non presentava quelle garanzie derivanti da un esame
superficiale. b) la direzione tecnica delle operazioni di soccorso è stata assunta dal comando dei vigili del fuoco; le operazio ni in un primo tempo
sono procedute poco ordinatamente e non con la sollecitudine necessaria perché ostacolata dalla ressa di pubblico in cerca dei familiari che si
trovavano nel ricovero all’atto del crollo. Successivamente procedettero regolarmente dopo il collocamento dei cordoni per allontanare gli
astanti».89

Dalla relazione del IX Bomber Command sappiamo che in aprile in sole tre missioni furono sganciate 531 bombe, per un totale di 265500 libbre.90

Nella notte fra il 12 e il 13 maggio 21 Wellington attaccarono la stazione ferroviaria e i magazzini del porto. I piloti comunicavano di aver visto
fuochi innalzarsi dall’area industriale e aver potuto distinguere nettamente gli obiettivi alla luce del Vesuvio che eruttava.

13 maggio. Bombe sul porto, su via Medina e via Depretis, sui Quartieri Spagnoli, sul Vomero, a Ercolano e a Portici. Una ventina le vittime
ufficiali.

Negli archivi americani troviamo la segnalazione di raid aerei il 17, 21, 22 maggio.

Il 30 maggio si verificava ancora un’incursione particolarmente violenta. Obiettivi: i magazzini e un luogo non identificato.91 Gli inglesi stilarono
puntualmente l’elenco degli stabilimenti danneggiati: le Industrie Meccaniche Meridionali; la Ernesto Breda a Capodichino; la Navalmeccanica e
4 sottomarini; La Precisa.92

«11.04. Allarme a Napoli. Cessato ore 13.43. Formazione aerea nemica di quadrimotori americani ha sorvolato città e dintorni effettuando
sgancio di bombe.

Zone colpite. Impianti ferroviari e zona porto. Stazione Napoli Centrale. Circolazione treni sospesa. Napoli smistamento. Colpite officine con
incendio veicoli. Sfondata 1a arcata ponte Granturco. Napoli Stazione Marittima. Colpiti pontili e due piroscafi, di cui uno carico di munizioni è
scoppiato. Stazione San Giovanni a Teduccio-Barra. Sede compartimentale FF.SS. A Santa Lucia crollo di buona parte dello stabile. Stazione
metropolitana a piazza Cavour: ricovero pubblico. Si lamentano due morti e dieci feriti tra la popolazione civile dovuto a ressa causa l’incursione
che ha avuto luogo subito dopo il segnale di allarme. Ferrovia secondaria Napoli-Piedimonte d’Alife, danni al ponte di Capodichino. Tranvie
provinciali: servizio sospeso per l’intera rete, causa rottura linea aerea tratto Capodichino-viale Maddalena.

Zona industriale. Opificio Produzione Gas di via Stella Polare. Gasometro di San Giovanni a Teduccio . Stabilimento La Precisa a via delle Brecce
ai granili. SME.

Centro abitato. Zona di Poggioreale. Via Poggioreale. Colpita ala fabbricato Carceri Giudiziarie. Ammutinamento di detenuti, prontamente sedato.
[...] Castelcapuano. Via Arenaccia. Zona Capodichino. Manicomio provinciale».93

A via Marino Turchi il palazzo delle ferrovie era un «enorme ammasso di macerie» da cui si levavano i lamenti. Otto giorni di lavori sarebbero
stati necessari per estrarre «in condizioni pietose 23 salme» oltre alle 5 estratte subito. La chiesa del Buon Cammino al Vasto era completamente
crollata addosso al palazzo vicino, facendo numerose vittime; solo il quadro della Vergine con i gioielli offerti dai fedeli venne trovato
«miracolosamente intatto».

«Un padiglione del carcere di Poggioreale era crollato, per caduta di bombe nemiche; alcuni morti e feriti erano già stati sgombrati. Fra le
macerie vi era ancora un detenuto, per salvare il quale è stato necessario praticare un foro nel divisorio con la cella limitrofa a quella dove
l’infelice si trovava sepolto. Questi è stato salvato, estratto dalle macerie, con ferite varie per il corpo, dopo circa quattro ore di lavoro».94

Anche i detenuti erano in agitazione. «Come est stato già segnalato durante incursione aerea nemica odierna est stato colpito edificio carceri
giudiziarie Via Poggioreale con vittime et feriti. Perdurando allarme detta incursione si sono verificati due tentativi ammutinamento da parte
detenuti cui hanno fatto riscontro vivissime pressioni sulla forza pubblica colà dislocata da parte familiari detenuti stessi. Prevedendosi che
rinnovandosi incursioni nemiche possano ripetersi predetti inconvenienti et in forma più grave si segnala opportunità che detenuti siano fatti
trasferire in località decentrata da questo Capoluogo. Numero detenuti attualmente associati carceri est 2405».95

Il raid aereo si estendeva ai paesi di Brusciano, Castelcisterna, Pozzuoli e Pomigliano D’Arco, dove veniva colpito lo stabilimento dell’Alfa Romeo,
che appare tra i targets first priority dell’Air Force:96 «Pomigliano d’Arc o – stabilimento Alfa Romeo: sgancio di circa 50 bombe di cui alcune con
effetto ritardato, lancio di spezzoni incendiari, nonché azione di mitragliamento».97

Il danno subito dallo stabilimento di Pomigliano era stimato in 80-100 milioni e si prevedeva che l’impianto potesse rientrare in funzione non
prima di un mese. Ma quello stesso giorno il questore parlava di danni ingenti e non facilmente riparabili, di tempi non prevedibili per la
riattivazione, della quasi totalità di manodopera rimasta disoccupata. Si denunciavano inoltre 200 feriti, la morte di 19 operai e di una ventina di
tedeschi. «Molti si trovavano al campo sportivo e non hanno potuto ricoverarsi per il brevissimo tempo intercorso fra il segnale di allarme e lo
sgancio di bombe nemiche».

«Era il 30 maggio del 1943, andai a vedere la partita all’Alfa Romeo, ce steva a partita ’e pallone no, era prima di mezzogiorno, improvvisamente,
mentre stavano giocando, suonò la sirena e contemporaneamente le bombe ca carevene... c’era un ricovero, perché là c’era la sala mensa, il dopo
lavoro, e tutti fuggimmo là sotto, poi arrivarono pure i giocatori, però non tutti, tanto è vero che carette una bomba proprio sopra il ricovero e il
centravanti della squadra avette na scheggia ’nfronte e si spaccava tutta a capa. Noi poi non potevamo uscire perché era tutto ostruito l’imbocco
del ricovero e uscii dopo un’ora, un’ora e mezzo nun o saccio. Asciette, arrivai vicin’a stazione, e trovai a buonanima ’e papà mio, ca steva
appuiato vicino a n’albero, pe nsando che era morto, po’ appena me verette si arripigliva... e chest’è tutt’a storia.98 Io sono del 1928, avevo
quattordici anni e mezzo. Il bombardamento durò un quarto d’ora, venti minuti, poi fecero un po’ di pulizia vicino all’imbocco e ci fecero uscire.
Fu una cosa a tappeto, ci furono parecchi morti, e due morirono proprio sulla strada qua vicino casa... per fortuna che fu di domenica ca into o
stabilimento nun ce steva nisciuno, se no la succereva nu maciello. Là per esempio c’era la pista degli apparecchi che da qua arrivava ad Acerra,
e là ogni trenta, quaranta metri c’era una bomba, solo il segno a terra, e poi tutte le schegge attorno, e poi ogni due, trecento metri c’era una
bomba di grosso calibro che faceva il buco a terra, buco di quattro, cinque metri» (Pasquale C.).

«Quello che mi ricordo bene poi è il bombardamento dell’Alfa Romeo del 30 maggio 1943, era la domenica mattina alle 10, stavano dic endo la
messa solenne in chiesa, io però stavo a casa e... appena suonò l’allarme già incominciavano a cadere le bombe, mia mamma scese nel ricovero
della chiesa, io rimasi sopra nella stanza da pranzo con Mario, Rosetta e Enzo, le bombe che cadevano, si sentivano le mura che tremavano, strilli,
una cosa tremenda proprio, i vetri che sbattevano... poi dopo un poco finirono ste bombe, aprimmo le porte e il parroco fu il primo a correre
nell’Alfa Romeo, perché là si sapeva che erano cadute le bombe, e ci stava la partita di calcio quella domenica, e ci stava mio fratello Pasquale, e
mio fratello Franco a vedere la partita. Pasquale era un fifone, scese giù nel ricovero, Franco sulla porta mentre scendeva, una bomba cadde e
buttò a terra il dopolavoro, e quando rientrò qua Franco, tornò con le spalle piene di polvere... i primi a correre furono due sacerdoti, il parroco
Iasevoli e monsignor Campanale di San Felice. Mio padre, poi, stava nel solito posto a giocare le carte al bar e vedeva le bombe che cadevano da
questa parte, vicino al nostro palazzo, e diceva: povero palazzo mio! Però non si poteva muovere perché era un inferno quel giorno. Poi Franco
arrivò senza Pasquale e cominciammo a piangere perché Pasquale non si trovava. Pasquale stava là sotto. Si saliva attraverso una botola, lui
sentiva la botola fare boom, cioè saliva una persona e la botola faceva rumore, e lui pensava che erano s empre le bombe che cadevano e non si
muoveva... arrivò a casa dopo tanto tempo e mi ricordo che quando mio padre lo vide si appoggiò ad un albero, questo fu il 30 maggio. Poi,
portarono tutti i morti qua e mio padre fu uno dei più validi che aiutava, e nella chiesa nostra c’erano 47 morti e oggi ci sono ancora le macchie di
sangue sull’altare della Madonna del Rosario, e mi ricordo che io e Titina le pulivamo» (Maria C., sorella di Pasquale).

Un lungo opuscolo lanciato dal cielo spiegava agli italiani che la guerra era ormai persa. Erano elencate tutte le vittorie degli inglesi e dei loro
alleati. Alla frase:

«ITALIANI! VOI SIETE SOLI. DI CHI È LA COLPA?» seguiva l’elenco delle perdite italiane di soldati, di navi, di aeroplani. I soldati feriti, uccisi,
prigionieri, le divisioni distrutte o catturate. Poi, enorme, la scritta: «PIÙ DI 1000 BOMBARDIERI IN UNA SOLA NOTTE SULL’ITALIA». Quindi
l’opuscolo proseguiva: «Le forze dell’Asse durante i più terribili bombardamenti di Londra non hanno mai lasciato cadere più di 450 tonnellate di
bombe in una notte». In questo punto erano inserite fotografie delle case inglesi distrutte e degli abitanti sepolti dalle rovine. «Dall’aprile 1942
all’aprile 1943 10000 tonnellate di bombe sono state lasciate cadere in Italia. Fino al 1943 la RAF bombardò l’Italia. Per bombardare Milano,
Torino e Genova la RAF era costretta a volare sopra i territori occupati dal nemico e sopra le Alpi. In una sola notte la RAF sganciò sulla città di
Genova più di 500 tonnellate di bombe. Ora assieme i bombardieri american i ed inglesi sono alle porte dell’Italia. Attualmente l’Italia può essere
bombardata sia dal nord che dal sud. Padroni dell’Africa noi ci troviamo a meno di 300 miglia di volo da Roma e da Napoli. Fino a che le vostre
industrie lavoreranno per la Germania ed i vostri soldati combatteranno per i Nazisti le vostre città saranno bombardate senza tregua. POPOLO
D’ITALIA: Le nostre forze aeree sono in possesso di tutti gli aerodromi dell’Africa del Nord. I nostri potenti bombardieri possono oggi spiccare il
volo da Malta, dalla Tripolitania, dalla Tunisia e dall’Algeria contro l’Italia. POPOLO D’ITALIA: L’ora è grave per voi. I vostri porti ed i vostri centri
industriali saranno bombardati giorno e notte. Noi centriamo gli obbiettivi militari, ma noi non possiamo garantire la vita di coloro che abitano
nella zona di questi obbiettivi. Voi dovete allontanarvi immediatamente da queste zone. La vostra D.C.A. [difesa contraerea] non può fare nulla
contro le flotte dei nostri bombardieri. [...] CHIEDETE LA PACE. Voi non avete nulla da perdere ed avete tutto da guadagnare».

I volantini si moltiplicavano.
«[...] finita la guerra d’Africa siamo liberi di attaccare l’Italia con tutte le nostre forze. Sulla Germania solo nel mese di aprile abbiamo sganciato
10000 tonnellate di bombe. ORA TOCCA ALL’ITALIA. PERCHÉ MORIRE PER HITLER? [...] LA GERMANIA COMBATTERÀ FINO ALL’ULTIMO...
ITALIANO. Nessuno ti ha chiesto se volevi questa guerra. Ma ti hanno mandato a morire. Ti hanno detto: CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE.
PERCHÉ PER CHI PER QUANTO?»

«ITALIANI! [...] Da ora in poi le nostre incursioni non saranno più limitate ai vostri porti e al vostro naviglio. I nostri bombardieri controlleranno
tutto il vostro paese. Essi martelleranno giorno e notte le vostre fabbriche e le vostre ferrovie che oggi lavorano per l’Asse. Queste saranno
distrutte sistematicamente, come furono distrutti i vostri porti e le vostre navi. [...] DOMANDATE LA PACE. FATE DIMOSTRAZIONI PER LA
PACE».

«Rammentatevi che la vostra alleanza con la Germania è l’unica causa dei bombardamenti sulle città italiane».

«Hitler e Mussolini hanno condannato l’Italia a diventare la “terra di nessuno”. Terra di nessuno: con questo nome gli strateghi definiscono quel
settore desolato, che si comprende fra due opposti fronti di combattimento. Con la liquidazione della campagna d’Africa, il posto dell’Italia, nella
strategia dell’Asse, è quello di un cuscinetto o paravento lungo il quale lo Stato Maggiore tedesco spera di rallentare la marcia delle Nazioni
Unite, mentre si completano le fortificazioni sulle Alpi, nella Germania meridionale e nei Balcani. [...] Voi conoscerete che cosa vuol dire diventare
la terra di nessuno, il centro di un campo di battaglia combattuta con armi moderne. L’Italia è stata gettata in guerra frettolosamente e
crudelmente, quando alla miopia di Mussolini la guerra pareva facile; esaurita da vent’anni di follie politiche e disonestà amministrativa, era già
allora militarmente impreparata. [...] Eppure quello che è successo finora è un nulla in confronto di quello che Hitler e Mussolini stanno per
scatenare sul vostro paese. Se noi vi diciamo che l’Italia diventerà “terra di nessuno”, vi parliamo sul serio; il vostro paese sarà esposto al
bombardamento, al mitragliamento, alla disorganizzazione più completa; innumerevoli case finiranno in fiamme, per città e campagne si
accumuleranno cadaveri. Freddo d’inverno, infezioni d’estate, sgomento, fame si moltiplicheranno».99

Giugno-agosto 1943

Siamo alle soglie dello sbarco in Sicilia. Oltre a continuare a colpire la città di Napoli e le altre città italiane con il chiaro obiettivo di dare l’ultima
spallata al regime e al morale della popolazione, le bombe cominciavano a preparare il terreno per l’avanzata delle truppe e per il probabile
secondo sbarco: bisognava distruggere le linee ferroviarie, le strade principali, i ponti... Così nel mirino entrarono piccole città di provincia,
inconsapevoli borghi rurali, la cui unica colpa era quella di trovarsi vicino a uno snodo stradale, a una via di comunicazione giudicata
importante... Le fotografie conservate negli archivi britannici e americani ne sono una documentazione eloquente. Ma su questo e sulla sorpresa
da cui furono colti gli abitanti, torneremo.

Fra il 15 e il 21 giugno 1943 la Strategic Air Force pianificava e conduceva in porto una serie di operazioni miranti a distruggere le linee di
comunicazione nell’Italia meridionale e in Sicilia: in azione le squadriglie della RAF di notte e i gruppi di bombardamento americani di giorno.
Nella notte fra il 16 e il 17 giugno, 27 Wellington colpivano la stazione di smistamento di Napoli.100 Quello stesso giorno i bombardieri
centravano San Giovanni a Teduccio, San Giorgio a Cremano, Cimitile, Sarno, Pompei, Ottaviano, il quartiere di Poggioreale.101

Il 20-21 giugno si svolgeva un attacco coordinato agli snodi ferroviari di Napoli, Salerno, Battipaglia e Cancello. Nella notte del 20 giugno, 29
Wellington sganciavano 40 tonnellate di bombe sulla stazione di Napoli, alle 13.45 del 21 giugno arrivavano sulla città 51 B-17 lanciando 60
bombe da 300 libbre e 144 bombe incendiarie da 500 libbre sulla stazione di smistamento e le installazioni vicine. Intanto 37 B-17 attaccavano
con 592 bombe da 300 libbre il deposito aereo di Cancello; 36 B-25 facevano cadere 27 bombe da 1000 libbre e 160 da 300 sulla stazione di
smistamento di Salerno e sulla ferrovia; 36 B-25 sganciavano 286 bombe da 300 libbre sulla stazione di smistamento e la stazione ferroviaria di
Battipaglia. Nella notte del 21 giugno, 26 Wellington tornavano con 52 tonnellate di bombe sulla stazione di smistamento di Salerno.102

Il 21 giugno la prefettura segnalava 4 morti ad Acerra, 42 a Cancello, 2 a Brusciano, 2 a Nola, 6 a Santa Maria Capua Vetere, 6 a Capua, e 113
feriti. Dichiarava inoltre che 180 apparecchi tipo Boeing-17 da bombardamento, scortati da 50 caccia, avevano colpito la zona orientale della
città. «L’incursione ha avuto carattere prevalentemente incendiario: numerosissimi spezzoni e bombe incendiarie sono stati disseminati
soprattutto nelle zone della stazione Centrale e nella zona industriale, causando oltre 280 incendi».103

La relazione dei vigili del fuoco contiene l’elenco minuzioso degli incendi domati. Si ha l’impressione che tutta la Napoli orientale bruciasse...
Epicentri, stazione e zona industriale, ma il fuoco si propagava ai quartieri vicini. «L’azione nel capoluogo si è svolta con particolare intensità
nella zona industriale orientale dalla stazione Centrale fino a via Nuova Traccia a Poggioreale. La stazione Centrale è stata colpita da bombe
dirompenti che hanno fatto saltare in aria alcuni tratti di binari oltre le linee aeree e numerosissimi spezzoni incendiari hanno provocato incendi
di vasta portata alle tettoie, ai vagoni ed ai magazzini nei quali merci di ingente valore sono andate distrutte. Il numero degli incendi è stato
talmente elevato da non potervi far fronte con i mezzi a disposizione alcuni dei quali eran o stati impegnati per altri numerosi incendi sviluppatisi
nella zona indust riale».104

Il rapporto americano conferma la visione apocalittica. «Napoli: più di 25 incendi e una densa cappa di fumo su tutta l’area della ferrovia un’ora
dopo il nostro attacco, con un esteso e intenso incendio. Il giorno seguente le fotografie dei ricognitori mostrano il 40 per cento dell’Arsenale
Reale con la fabbrica di torpedini distrutto, severi danni all’industria di materiale aereo, più di 35 attacchi ai binari della stazione e al deposito
delle locomotive».105

Il 27 giugno toccava ai comuni vesuviani, a Pomigliano, Marigliano. Veniva ancora colpita la fonderia Corradini a San Giovanni a Teduccio.

In luglio, subito dopo lo sbarco in Sicilia, gli strateghi militari programmavano un’ondata di bombardamenti particolarmente feroci con l’intento
di provocare quel collasso morale e istituzionale tanto auspicato. E in questa prospettiva non venne risparmiata neppure Roma.

La notte del 14-15 luglio i bombardieri colpirono Napoli e una serie di cittadine e paesi della provincia: Castellammare di Stabia, Torre
Annunziata, Torre del Greco, Resina, San Giorgio, Cimitile, Nola, Pomigliano, Pompei, Bacoli, Acerra, San Felice, Cancello. Venivano segnalati
incendi di boschi a Pontelatone e a Formicola.

A mezzogiorno del giorno dopo, il 15 luglio, quando la gente era appena risalita dai ricoveri notturni, si abbatté su Napoli e sui paesi del golfo un
raid feroce. Il fonogramma del questore, redatto alcune ore dopo, è la cronaca di una giornata tragica. Oltre ai crolli per le bombe,
all’imboccatura di ben tre ricoveri si verificavano i soliti morti per schiacciamento e asfissia.

«Risultano colpiti: nella zona industriale stabilimento AGIP con incendio, Oleificio Gaslini, Arsenale, R. Esercito in via Gianturco ove lamentasi
gravi danni materiali et incendio serbatoio nafta. Nello scalo ferroviario Centrale e smistamento risultano cadute numerose bombe che colpivano
e incendiavano diversi capannoni grande e piccola velocità, carri vetture ferroviarie e fabbricati producendo gravissimi danni. Elettrotreno
proveniente da Roma è stato mitragliato e colpito a ingresso stazione Centrale da bombe e spezzoni in cendiari. Lamentansi tra i viaggiatori
numerosi morti e feriti. Ponte ferroviario in via Gianturco colpito da bombe è parzialmente crollato e diversi cittadini riparatisi sotto di esso sono
rimasti feriti ed alcuni sono deceduti. At ingresso ricovero galleria sotterranea ferrovia metropolitana stazione Garibaldi ressa prodottasi tra folla
accorsa al ricovero verificatisi morti circa 10 civili mentre numerosi altri rimanevano feriti. Traffico ferroviario da e per Napoli Centrale è
completamente interrotto. In sezione Poggioreale risulta nuovamente colpita facciata esterna reparto femminile carcere Poggioreale. In sezione
Vasto risultano colpiti magazzini Fiat e danneggiati terranei e giardini corso Meridionale. In sezione Porto bombe esplose su piano stradale via
Conte Olivares e largo Mandracchio provocavano danno a fabbricati adiacenti. In sezione S. Ferdinando ressa prodottasi a ingresso ricovero
pubblico via Speranzella 109 venivano travolte e restavano uccise 12 persone. In sezione Ponticelli lamentansi rilevanti danni alle campagne et
mancano acqua et energia elettrica. A ingresso ricovero pubblico Galleria ex linea ferroviaria Napoli-Foggia per ressa rimanevano morte per
asfissia 25 persone in maggioranza donne e bambini. Riservomi precisare numero morti et feriti fra popolazione civile in sensibile aumento ed in
corso di accertamenti».106

Il calcolo ufficiale delle vittime del raid è di 235 morti civili, di cui 50 non identificati. I feriti sono 398.107


Nella notte del 16-17 luglio venivano prese di mira la stazione di smistamento e l’aerodromo. Il prefetto segnalava 55 morti a Napoli e 22 in
provincia.

Ma nel pomeriggio del 17 luglio i bombardieri tornavano in massa. «Un migliaio di apparecchi quadrimotori nordamericani scortati da una
cinquantina di apparecchi da caccia sorvolavano la città in diverse ondate sganciando centinaia di bombe dirompenti ed incendiarie».108
Venivano colpiti il porto, la zona industriale, la stazione ferroviaria e il carcere di Poggioreale. Dal carcere evadevano 35 detenuti. Si trattava di
uno dei bombardamenti più intensi e preannunciava quello che si sarebbe verificato due giorni dopo a Roma. Troviamo il rapporto del 310°
gruppo che quel giorno ebbe il compito di colpire l’area della stazione e la zona industriale. «17 luglio 1943. Attacco a Napoli alle ore 16.38 da 36
B-25. Sganciate 211 bombe da 500 libbre. Colpita la stazione di smistamento, il magazzino delle locomotive, alcune industrie. La bomba su un
serbatoio di benzina ha prodotto un fumo alto 6000 piedi. Una terrificante esplosione è seguita agli innumerevoli colpi inferti alla raffineria di
petrolio, alla fabbrica di torpedini e all’arsenale».109 «La devastazione che ne è risultata è stata tremenda; non solo sono state demolite la
stazione e le case circostanti ma sono state anche incendiate le raffinerie che stavano ai confini dell’obiettivo».110

Fra il 15 e il 17 luglio, si legge ancora nei rapporti americani, «in totale 341 bombardieri, in raid diurni, hanno sganciato 2640 bombe (712
tonnellate). 31 Wellington hanno sganciato 235 bombe (69 tonnellate) durante la notte fra il 16 e il 17 luglio. Inoltre 72 B-24 della IX Air Force
hanno condotto un attacco il 17 luglio. Durante questo attacco 44 bombe (da 500 libbre ciascuna) hanno colpito la zona della raffineria».111 In
questi raid veniva incendiata la raffineria di petrolio SAI nella zona industriale orientale. L’opera di distruzione sarebbe poi stata portata a
termine con le mine dai tedeschi tra il 23 e il 27 settembre.

Il 19 luglio sarebbe stata colpita Roma. Vanto del 310° gruppo, che condusse gli attacchi del 17 e del 19 contro le due città, fu proprio quello di
potersi considerare fra i protagonisti dell’ultima spallata al regime fascista.112

Il 18 luglio si segnalavano vittime a Nola, Roccarainola, Cimitile.

Il 20 luglio venivano colpite Aversa, Capua, Caserta, Montecorvino.113 Il 22 luglio il 310° gruppo sganciava su Battipaglia 138 bombe da 500
libbre. Il giorno dopo gli aerei tornavano su Battipaglia e colpivano anche Salerno.

27 luglio. «ore 22.30. Allarme a Napoli. Cessato alle ore 1.05. Circa 30 apparecchi nemici bimotori hanno sorvolato città e comuni viciniori.
Lancio di numerosi razzi luminosi. Sgancio di circa 150 bombe dirompenti e incendiarie di grosso e medio calibro zone Porto, Industriale, Vesuvio,
Torre del Greco e Pomigliano d’Arco. Colpito Ponte Ferroviario a via Pontetti, S. Severino con crollo di un’arcata, ponte adibito a ricovero di
fortuna per abitanti del luogo. Si lamentano 10 morti e 10 feriti. Colpiti in pieno alcuni vagoni ferroviari di nafta stazionanti a Napoli
smistamento. Incendio di alc uni capannoni della società ICMESA in via Traccia a Poggioreale. [...] Vi è stata altresì incursione nemica provincia
di Salerno con sgancio bombe dirompenti e incendiarie su zona sud ferroviaria Salerno, Fratte e aeroporto Pontecagnano». 114

Da Caserta si relazionava per il prefetto: crollo della caserma del 10° Artiglieria, dell’officina aeronautica, dei fabbricati della stazione ferroviaria,
dell’Istituto Tecnico, della Palestra Ginnastica, del gasometro colpito in pieno, dei magazzini generali, dell’ospedale civile, della chiesa di
Sant’Anna e della chiesa e del collegio dei Salesiani e di 11 edifici civili. Le vittime accertate il giorno seguente erano 105 ma si presumeva che
altri cadaveri giacessero s otto le macerie. I feriti erano 280. Si chiedevano aiuti per lo sgombero delle macerie e per la costruzione di ricoveri.115

Per tutto luglio, ma in particolare a ridosso dei bombardamenti tra il 15 e il 17, erano piovuti dal cielo opuscoli e volantini, di cui proponiamo
alcuni significativi esempi.

Roosevelt e Churchill firmarono insieme un messaggio al popolo italiano: «In questo momento le Forze Armate associate degli Stati Uniti, della
Gran Bretagna e del Canadà [...] stanno portando la guerra nel cuore del vostro paese. Questo è il risultato diretto della politica vergognosa che
Mussolini e il regime fascista vi hanno imposto. Mussolini vi ha trascinato in questa guerra come nazione sa tellite di un distruttore brutale di
popoli e di libertà. L’adesione dell’Italia ai piani della Germania nazista era indegna delle antiche tradizioni di libertà e di cultura del popolo
italiano – tradizioni alle quali tanto devono i popoli dell’America e della Gran Bretagna. I vostri soldati non hanno combattuto affatto per gli
interessi d’Italia ma solo per quelli della Germania nazista. Essi hanno combattuto con coraggio, ma sono stati traditi e abbandonati dai Tedeschi
sul fronte russo e su ogni campo di battaglia in Africa, da El Alamein a Capo Bon. [...] Le forze che vi stanno di fronte sono impegnate a
distruggere la potenza della Germania nazista, la quale ha spietatamente inflitto schiavitù, distruzione e morte a tutti coloro che rifiutano di
riconoscere nei Tedeschi la razza dominante. L’unica speranza che l’Italia ha di sopravvivere sta in una capitolazione che non sarebbe
disonorevole, data la potenza soverchiante delle forze militari delle Nazioni Unite. Se continuate a sostenere il regime fascista, asservito alla
potenza criminale dei nazisti, voi dovete subire le conseguenze della vostra scelta. A noi non fa piacere invadere il suolo d’Italia e portare la
devastazione tragica della guerra nelle case degli Italiani. Ma siamo decisi ad eliminare i capi falsi e le loro dottrine che hanno ridotto l’Italia al
suo stato attuale. Ogni momento che resistete alle forze associate delle Nazioni Unite, ogni goccia di sangue che versate, non può servire che a
uno scopo: a dare ai capi nazisti e fascisti un altro margine di tempo per sfuggire alle conseguenze inevitabili dei loro delitti. Tutti i vostri
interessi, e tutte le vostre tradizioni sono state tradite dalla Germania e dai vostri ca pi falsi e corrotti; solo abbandonando la Germania e i capi
fascisti un’Italia rinnovata può sperare di acquistare un posto rispettato nella famiglia delle nazioni europee. È venuto il momento per voi Italiani
di considerare la vostra dignità, i vostri interessi e il vostro desiderio di una restaurazione del decoro nazionale, e di una pace sicura. È venuto
per voi il momento di decidere se gli Italiani debbono morire per Mussolini e per Hitler, o vivere per l’Italia e per la civiltà».116

Un altro volantino era eloquentemente intitolato La lezione di Pantelleria. «L’isola fortificata di Pantelleria che Mussolini descrisse come “Il più
potente bastione del sistema difensivo italiano nel Mediterraneo” fu costretta a capitolare dopo soli cinque giorni di intenso bombardamento
aereo. [...] La forza aerea Alleata, la cui schiacciante superiorità è stata ammessa dallo stesso Comando Supremo Italiano, è ora pronta a
rovesciare tutta la sua forza sull’Italia. Nulla può fare l’Asse per prevenire ciò. HANNO APPRESA I VOSTRI COMANDANTI LA LEZIONE DI
PANTELLERIA? O PREFERISCONO CHE NOI LA SI RIPETA?» E ancora: «MUSSOLINI LO CHIESE... Nel 1940 Mussolini dichiarò: Io ho chiesto
ed ottenuto dal Fuehrer il permesso di partecipare direttamente alla guerra aerea contro la Gran Bretagna. Dalla carta geografica acclusa potete
osservare le conseguenze della pazzia di Mussolini. Tutta l’Italia è esposta agli attacchi delle forze aeree alleate. Non vi è città che possa salvarsi.
Grazie a Mussolini voi non avete né difesa né numero sufficiente di caccia capaci d’opporci, ed i Tedeschi non sono in grado di venirvi in aiuto.
Questi attacchi aumenteranno con maggiore intensità finché il popolo italiano darà prova, con i suoi at ti, di aver ripudiato la pazzia di Mussolini.
MUSSOLINI LO CHIESE, VOLETE CHE L’ITALIA NE SOFFRA?»

Seguiva una mappa con i principali obiettivi dell’aviazione alleata dalle basi aeree del Nordafrica.

Eisenhower indirizzò un messaggio «AL POPOLO ITALIANO!» «Le Forze Alleate stanno occupando la terra italiana. Agiscono non da nemici del
popolo italiano, ma in conseguenza ineluttabile della guerra che ha lo scopo di distruggere la forza dominatrice della Germania nell’Europa. La
loro meta è di liberare il popolo d’Italia dal regime fascista che lo ha trascinato in guerra e, ciò compiuto, di restaurare l’Italia come nazione
libera. Le Forze Alleate non hanno l’intenzione di cambiare o di menomare le leggi e le usanze tradizionali del popolo italiano. Verranno prese,
nondimeno, tutte le misure necessarie per eliminare il sistema fascista in qualsiasi territorio italiano occupato dalle loro forze».

Non mancò nemmeno un vero e proprio opuscolo che iniziava: «È GIUSTO CHE CHI SCEGLIE L’ORA DI COMINCIAR LE GUERRE NON SIA LUI A
SCEGLIERE L’ORA DI FINIRLE».117 Seguiva il discorso di Churchill alla Camera dei Comuni dell’8 giugno 1943. La situazione della guerra in
Africa e sui vari fronti, il numero dei soldati uccisi, dei prigionieri ecc. Poi: «Il nemico credeva che nell’aria fosse il mezzo della sua vittoria, ma
oggi invece trova in essa la prima causa della sua rovina [...] Nulla ci farà desistere dal bombardamento aereo, aggiunto ad altri metodi, per
giungere alla distruzione completa dei nostri nemici. Oggi il nemico sta levando alti lai e lamentazioni, quando questa forma di guerra, con la
quale egli sperava di conquistare il mondo, sta volgendo definitivamente a suo svantaggio. Queste lamentazioni, per noi, non sono altro se non
una prova soddisfacente dei risultati crescenti del nostro attacco. Noi britannici oggi siamo in condizione di sganciare un peso di bombe più che
doppio dell’anno passato, entro un raggio di 2500 chilometri».

Intanto ciò per cui gli alleati avevano combattuto nella loro campagna aerea, era avvenuto. Il regime era crollato dal suo interno. Mussolini era
stato scalzato. Ma la guerra, aveva dichiarato Badoglio raggelando il tripudio degli italiani, proseguiva a fianco dell’alleato. Si trattava allora di
dare l’ultimo scossone a un paese ormai allo sfascio. I bombardamenti dovevano continuare con ancora maggiore intensità, come proponeva con
estrema durezza il colonnello della Strategic Air Force nel documento citato nel capitolo precedente: «Operazione psicologica di bombardamento
per spingere l’Italia ad arrendersi». Era arrivato il momento decisivo per «distruggere i nervi e far crollare il morale del popolo italiano» dopo il
collasso del regime fascista; biso gnava mostrare tutto il proprio potere di devastazione, colpendo nel modo più «terrificante» alcune città
italiane, scelte fra le più grandi e le più simboliche. Fra queste Roma e Napoli.118

Era il 1° agosto 1943; quello stesso giorno un altro bombardamento terribile si abbatteva su Napoli alle 11 di mattina, e sulla provincia alle 22. In
città 40 quadrimotori sganciavano numerosissime bombe sul porto, sulla zona industriale e sulla stazione, colpendo, come sempre, anche i
quartieri circostanti (Secondigliano, San Carlo all’Arena, Poggioreale, Vasto, Vicaria, Mercato). Una bomba perforava la volta della galleria della
metropolitana usata come ricovero dalla popolazione. A Capodichino 47 B-17 lanciavano 112 tonnellate di bombe da 300 libbre da una quota di
23000-25000 piedi.119

Insieme giungeva dal cielo il volantino con il messaggio di Eisenhower del 29 luglio. Si elogiava il popolo italiano che aveva saputo liberarsi di
Mussolini. «Voi volete la pace. [...] Noi veniamo a voi come liberatori. [...] Se volete la pace agite subito aiutandoci a liberare l’Italia dai tedeschi».
Seguivano le «istruzioni»: sabotaggio, sciopero, non collaborazione con i tedeschi, manifestazioni per la pace. «LAVORATORI D’ITALIA!
L’UNIONE FA LA FORZA. Scendete nelle piazze e nelle strade e fate dimostrazioni per la pace. Sono le vostre dimostrazioni delle scorse
settimane che cacciarono Mussolini. Continuando a fare dimostrazioni caccerete i tedeschi e porrete fine alla guerra. [...] Italiani, sta a voi
impedire che i tedeschi lascino l’Italia da vivi. AGITE SUBITO».

Ma il 4 agosto arrivava uno dei bombardamenti più feroci di tutta la guerra. Il raid era stato preparato e pensato con cura: sin dal 1° agosto 1943
erano state date le direttive per un grande bombardamento su Napoli.120

«Ore 13.30. Allarme a Napoli senza preavviso. Numerosi quadrimotori hanno sorvolato la città sganciando numerose bombe incendiarie e
dirompenti. La più dolorosa e grave incursione che ha colpito Napoli durante tre anni di guerra. Tutti i centri cittadini sono stati incursionati,
impedito il transito in tutte le maggiori arterie della città. Il cessato allarme non si è potuto dare che con mezzi di fortuna per la interruzione
dete rminatasi dalla rottura del cavo principale della centrale delle sirene».121

Era l’intera città a bruciare e a crollare. L’elenco delle case e dei monumenti colpiti è impressionante. Fra questi le due più antiche e preziose
chiese napoletane, San Domenico e Santa Chiara. La distruzione di quest’ultima, immortalata in una celebre canzone napoletana, sarebbe
diventata una delle icone della guerra.

«Da Pompei ho assistito alla tremenda incursione su Napoli del 4 agosto e, insieme con quelle rassicuranti sui miei, mi giungono le prime gravi
notizie: colpito da molte bombe e reso inabitabile Palazzo Reale; Santa Chiara col tetto crollato in fiamme trasformato in un immenso rogo in cui
calcinavano le preziose arche delle tombe dei re; via Toledo sventrata: Palazzo Salerno colpito; dalla Riviera al Rettifilo una corona di bombe e di
crolli; i grandi alberghi di via Partenope distrutti».122

Nel centro antico crollavano palazzi a via Mezzocannone, piazza Borsa, l’Istituto Tecnico a piazza del Gesù, l’edificio delle Manifatture Tabacchi a
via Porta di Massa.

L’elenco era lunghissimo anche per il quartiere di Chiaia. «Via Nicotera sul ponte di Chiaia crollo fabbricato e a via Egiziaca a Pizzofalcone e
Archivio di Stato sez. Militare. Via Roma angolo De Cesare crollo totale fabbricato che ha ostruito la via Toledo. Colpito palazzo della Borghesia
con crollo totale delle due estremità angolo via Giardini Reali e via Verdi. Via Generale Orsini fabbricato colpito. Alberghi Santa Lucia-Excelsior e
Metropol a via Caracciolo colpiti con danni rilevanti. Crollo totale di un’intiera ala dell’albergo Vesuvio. Colpito circolo Canottieri Savoia e
banchina attra cco piroscafo per Capri. Bomba esplosa in piazza Plebiscito ha danneggiato per riflesso Palazzo del Governo. [...] Crolli a via
Tommaso Carovita, a piazza VII settembre, via Colascione, vico Solitaria, salita Santo Spirito, via Chiaia, piazza dei Martiri, via Cappella vecchia,
la compagnia del gas a via Chiaia, Piedigrotta...»123

Ovviamente bruciava il porto con i quartieri circostanti. Crollava un’ala dell’ospedale Pellegrini, il più grande della città e quello che aveva
lavorato incessantemente per curare i feriti. Si verificava l’interruzione parziale dell’alimentazione idrica e dell’illumin azione elettrica.

Il giorno successivo il comandante dei carabinieri della sezione Stella, dove a via Mario Pagano era crollato un rifugio, provocando un numero
imprecisato di morti, scriveva al prefetto che nella sezione mancavano luce e acqua, tanto che i panettieri non avevano potuto panificare, che i
sinistrati erano senza tetto e senza cibo, avendo perso le tessere annonarie nei crolli delle loro case, e nessuno arrecava loro aiuto.

Le vittime dichiarate negli elenchi della prefettura sono 278, i feriti 447. Dal registro dei morti del comune possiamo ricostruire la cifra minima di
342 vittime,124 una cifra contestata dai testimoni che ricordano centinaia e centinaia di morti ammassati.

«Mia moglie... il 4 agosto del ’43 aveva dieci anni e con la famiglia si era trasferita a Marcianise, come tanti altri napoletani. Solo che il nonno
paterno, col quale vivevano, avevano una casa in comune a via Mario Pagano, si chiamava Camillo e il figlio maschio Giova nni, venivano tutti i
giorni a Napoli per aprire quest’attività commerciale e la sera chiudevano e rientravano a Marcianise. Il 4 agosto venne l’allarme, come di solito
succedeva spessissimo in questi bombardamenti, prima erano di disturbo, poi i bombardamenti a tappeto e c’era un grosso rifugio antiaereo,
ubicato alla piazza Mario Pagano, il quartiere Stella, proprio di fronte... l’ingresso era di fronte alla scuola Andrea Angiulli, un grosso edificio, una
scuola elementare. C’è ancora. Io ho frequentato quella scuola elementare. C’era anche un altro ingresso per questo rifugio, era l’ingresso del
civico 14, era il palazzo, poi un paio di civici prima, dove attualmente c’è una sala biliardo, c’era un altro ingresso. Cioè attraverso quel
sotterraneo c’era una scaletta... una scala che si scendeva. Ora, suonato l’allarme lo zio, il figlio di questo Camillo... Il nonno andò all’ingresso
principale, perché era più agevole, era più spaziosa l’entrata del palazzo e ha cominciato a scendere, invece il figlio è entrato dall’altro civico,
dove la strada era meno agevole. So’ arrivate le bombe e il nonno c’è rimasto sotto, lo zio si è salvato. Allora fu comunicata la cosa a loro che
stavano a Marcianise e sono rientrati e il corpo non si trovava e furono – io lo ricordo anch’io, perché io abitavo in zona – ... è bene precisare
questo: che il 4 agosto non fu colpito solo l’edificio 14 di via Mario Pagano, ma fu colpito anche l’edificio di via Arena alla Sanità, adesso non
ricordo il numero civico. Nella scuola Angiulli venivano portati i corpi man mano che venivano estratti dalle macerie, delle vittime anche del
civi co 14, che era un rifugio importantissimo perché abbracciava tutta la zona della Stella: salita Stella, via Mario Pagano, piazza Cavour, via
Arena alla Sanità, piazza dei Vergini, perché era ritenuto un rifugio abbastanza sicuro, perché andava parecchio sotto le viscere della terra, si
scendeva di molti metri. [...] erano le solite caverne sotto i palazzi. Purtroppo, ripeto, non solo quel palazzo, del civico 14 di piazza Mario Pagano,
ma furono colpiti anche altri palazzi. Ora, tutte le vittime di questo bombardamento furono portate nell’edificio della scuola Angiulli, che
miracolosamente era rimasto intatto. Cioè le bombe andarono sui palazzi che crollarono sul rifugio? Esatto, addirittura ci stava quello di fronte,
alla via Arena alla Sanità, ci stava una ragazza, la figlia di un fruttivendolo – lo ricordo benissimo – una ragazza snella, alta, una bella ragazza, mi
ricordo che questa ragazza non fu trovata. Mai? Non è stata mai trovata, proprio sparita, stava lì, non so... non si è trovato più il corpo di questa
ragazza. Ci furono parecchie vittime conoscenti, mi ricordo la sorella di uno che aveva la latteria, il padre di una nostra amica, che è diventata
amica nostra dopo, pure là. Mia moglie ne conosceva tantissimi che ci hanno rimesso la pelle in questa circostanza. Dicevo che nella scuola
furono portati i corpi non solo del 14, ma anche degli altri palazzi, allora questo comportò un sovraffollamento, perché la scuola Angiulli aveva
una grossa palestra coperta, una grossa palestra scoperta e poi aveva enormi corridoi, tipo... non so se quella scuola la conosce... Allora i corpi
furono addirittura accatastati, uno sull’altro. Non ce la fecero più e li portarono direttamente al cimitero, infatti il nonno suo fu trovato...
rintracciato al cimitero e il padre suo... diede incarico, promettendo dei soldi... Perché la mamma non si rassegnava a non trovare il corpo del
papà, allora mio suocero promise una somma, a quell’epoca abbastanza consistente, dando la descrizione. E la descrizione principale erano degli
stivaletti di vitello, nonostante era estate lui portava sti stivaletti, quelli coi bottoncini come si usava una volta, ed aveva dei capelli bianchissimi.
Fu trovato là dopo alcuni giorni tra queste vittime... tra questi corpi al cimitero di Poggioreale, insomma lo portarono al cimitero perché là non
c’era più posto. Ora, questo dimostra che le vittime di quel bombardamento nella zona di piazza Mario Pagano erano centinaia, erano accatastati
uno sull’altro, quindi non è possibile che fossero 20-30, perché li portarono con i carretti... Andavano con questi carrettini a mano, man mano che
scavavano li prendevano e li portavano al cimitero co sti carrettini. E scavarono per parecchi giorni. Lì ricordo che c’era un fetore, perché il 4
agosto... nella scuola si rovistava, diciamo così. Là c’era questo via vai di gente che cercava tra i corpi massacrati... Terribile! Era una cosa
veramente terribile. Che poi era il 4 agosto... faceva caldo. Sì, era caldissimo, una cosa allucinante. Allora ci sono stati centinaia di morti, non
decine di morti, centinaia e centinaia di morti solo in quel posto, non lo so come i giornali dell’epoca... Ci sono le liste della prefettura all’Archivio
di stato... mi pare che siano circa 300 persone in tutto. 300? No! Sono state molte più di 300 là, solo in quel posto, che, ripeto, non era solo il
palazzo del numero 14, ma là c’era il palazzo che fa angolo piazza Vergini con via Arena alla Sanità, a sinistra, che noi lo dicevamo il palazzo di...
come si chiamava quel salumiere... don Federico, che era una buonissima salumeria. Il palazzo di don Federico è crollato, poi di fronte a questo
c’era il bar Rubino allora, adesso c’è ancora una caffetteria, era in effetti il capostipite di quelli che hanno fondato il Kimbo caffè, famosa, e là
hanno cominciato, don Michele là teneva la torrefazione, questo palazzo dove c’era la torrefazione Rubino fu bombardato, nella zona ci furono
anche altri palazzi... [...] Ho parlato proprio ieri sera con una persona che ha ottant’anni, la quale ha confermato sto fatto dei cadaveri accatastati
e che non c’era più posto, che abitava e abita ancora proprio al 14, che poi è stato ricostruito quel palazzo, piazza Mario Pagano, c’è via Mario
Pagano e piazza Mario Pagano. Via Mario Pagano 14 pure ebbe la sua bombetta, solo che non esplose. [...]

Questa fu una giornata terribile, perché non ci fu una strada di Napoli che non fosse colpita dalla bomba. Io ero... e me lo ricordo sempre...
quando va a vedere Napoli sotterranea, io ero là proprio il 4 agosto perché mi trovavo nel palazzo Corigliano, piazza San Domenico Maggiore.
Dove adesso c’è l’Orientale... Sì, allora c’era l’istituto nazionale fascista della previdenza sociale, verso piazzetta Nilo c’era una farmacia, suona
l’allarme e noi ci siamo trovati in questo rifugio, come ce n’erano tantissimi, nello scantinato, era lo scantinato del fabbricato con i puntelli,
puntellato, uscita di sicurezza con i finestroni... che l’ingresso era il portone principale del palazzo Corigliano, l’uscita di sicurezza quei finestroni
che danno sulla piazza del seminterrato, avevano tolto l’inferriata e avevano fatto delle scalette di legno dall’interno. Ora, stavamo là in questo
bombardamento, a un certo punto la parete divisoria col fabbricato che sta affianco al palazzo Corigliano, quello che sta di fronte alla chiesa di
San Domenico Maggiore, un altro bel palazzo, non so che nome abbia... perché quelli che stavano in quel rifugio, siccome il palazzo fu colpito e
non potevano uscire, sfondarono la parete; noi ci siamo visti cadere sta parete, che era fatta di mattoni rossi, sta parete e sta gente che non
poteva uscire. Siamo usciti nella piazza, dove c’era roba di intonaci, polvere schizzata dappertutto, io per andare... siccome abitavo nella zona
Stella, la strada dove c’era la casa di Benedetto Croce, non so come si chiama. Adesso si chiama via Benedetto Croce, allora non so come si
chiamava, era bloccata perché era stata bombardata, via Mezzocannone era stata bombardata, questa strada affianco a San Domenico Maggiore
bombardata, piazzetta Nilo, via Nilo era bombardata, via San Biagio de’ Librai... mi sono incamminato per via San Biagio de’ Librai e sulla sinistra
ci stava un vicoletto, che si chiamava, non so se si chiama ancora così, vico Fico... Un vicoletto piccolino dove c’è pure un arco, vico Fico, c’era
anche là... c’erano dei calcinacci, so’ passato per sopra questi calcinacci e arrivo a via Tribunali, vado verso via Duomo, che era la strada che
dovevo fare, in genere io facevo la strada di San Paolo, era la traversa che va dietro gli Incurabili, un altro allarme, allora scappo nel rifugio che
adesso è Napoli sotterranea a piazza San Gaetano. Ecco perché conosco quel rifugio, sono stato là e quello era affollatissimo, quello è un grosso
rifugio, perché da là si arriva a San Gregorio Armeno, poi aveva anche l’uscita di sicurezza a via San Paolo, dove c’era l’archivio notarile una
volta. E a un certo punto mi sono stancato di aspettare, perché questo cessato allarme non finiva mai, ero ragazzo: mi sono stancato, mo me ne
vado! E sono uscito un po’ all’aperto per respirare un po’ d’aria perché questo sotterraneo, ovviamente, affollatissimo, gente che dormiva sempre
e non si respirava aria buona, sono uscito e proprio davanti agli occhi, m’è rimasta impressa sta cosa, una bancarella... un carrettino che vendeva
angurie e meloni, il mese di agosto, queste fette e allora si usavano i chiodi e poi su questi chiodi c’erano le fette tagliate, allora non c’era la
pellicola che si usa ora per l’igiene, ste fette erano diventate nere dalla polvere ed era tutto impolverato, tutto pieno di calcinacci dappertutto.
C’era una cosa cilindrica a terra, che io ho scambiato per un tronco d’albero, mi sono seduto su questa cosa cilindrica, è venuto un uomo, dice:
giuvinò, cheste è na bomba! Era una bomba inesplosa. Allora a questo punto dico: è meglio che me ne vado proprio. E me ne sono andato. E
quando sono arrivato a piazza dei Vergini, vicino a questo rifugio che ha avuto tanti morti, incontrai una ragazza che abitava... aveva qualche
anno più di me... che abitava nel mio palazzo e che piangeva. Io con l’incoscienza dei giovanissimi dico: ma perché piangi? È successo qualcosa?
La casa c’è ancora? Nessuno è morto? Dice: no, no, noi fortunatamente... – E allora di che ti preoccupi? Quella piangeva. – Tuo padre stava
morendo... Perché papà stava rifugiandosi in quel rifugio, poi ha visto la ressa ed è scappato, per via Cristallini se n’è andato. Perché noi a casa
avevamo un ottimo rifugio ricavato proprio in una grossissima grotta di tufo, che addirittura portava ai Miracoli, zona Miracoli, era immenso,
prima di essere adibito a rifugio era stato adibito a scarica di una fonderia, dove buttavano i residui in questo spazio, ste grotte erano immense,
poi fu adibito a rifugio e veniva gente dappertutto, perché anche là soggiornavano, si erano fatti gli angoletti, con le coperte. Papà preferì
correre, andare là, e si salvò. E si entrava da via Cristallini? No, si entrava da una strada che si chiama via Centigradi ai Cristallini, che era uno
spazietto cieco, alla fine di via Cristallini c’è una scalinata, c’è la chiesa, c’è la parrocchia, la scala, a destra, in fondo c’era questo spazio di via
Centigradi ai Cristallini, dove si entrava in questo rifugio, che era immenso e portava fino ai Miracoli e ci entravano migliaia e migliaia di
persone, c’era gente dappertutto» (Antonio Amoretti).

Dal cielo pioveva l’ennesimo volantino, questa volta diretto alle donne e alle mamme italiane. «A Messina, a Palermo, ed in altre città della Sicilia
le donne hanno dato l’esempio pregando e facendo dimostrazioni per la pace. L’ora è scoccata per le donne della penisola di fare altrettanto. Se
volete la pace, se volete prevenire il massacro dei vostri figli in una lotta indegna e senza scopo innalzate le vostre grida di dolore». «Tu, o
mamma italiana, tu che hai creato nuovi figli, tu che con tanto amore li hai allevati [...] da tre anni sopporti che i tuoi figli tanto amati vengano
strappati dal seno della tua famiglia per essere inviati alla morte, contro altri figli che difendono la causa della libertà e fratellanza dei popoli: non
puoi permettere, mamma italiana, non devi permettere, che gli esseri nelle cui vene scorre il tuo sangue, si sacrifichino per una tale vita. [...]
Mamma italiana ascolta il tuo amore, sii degna di essere madre».

Alcuni giorni dopo in un volantino analogo comparivano di nuovo le donne, madre e figlia che piangendo leggevano un telegramma. «Quanto
tempo ancora la guerra tedesca farà versare lacrime italiane?»125

Per tutto agosto i bombardamenti continuarono senza tregua. Il 16 agosto i sinistrati avevano cercato di invadere gli uffici dell’ECA, la truppa
aveva sparato «in aria» e aveva ferito all’addome un abitante del quartiere Loreto, il quartiere più vicino al porto, uno dei più distrutti.126 La
situazione in città era ai limiti.

Il 20 agosto un altro durissimo raid colpiva con particolare violenza il quartiere di Ponticelli. Il prefetto scriveva al ministero dell’Interno:
«Informasi bombe cadute su abitato Ponticelli hanno colpito vari fabbricati a via Napoli provocando crolli. Finora accertati 93 morti et 30 feriti.
Continua lavoro et presumesi esistenza altre vittime».127

Due giorni dopo il commissario del quartiere scriveva alla prefettura di aver fatto chiedere altre 100 casse mortuarie oltre alle 100 già richieste. I
cadaveri estratti erano in quel momento 109, ma molti giacevano ancora sotto le macerie.128

Ed ecco il racconto dello stesso prefetto fatto alcuni anni dopo: «Vi era stato un bombardamento in pieno meriggio, mentre le stradicciuole del
villaggio sovra-popolato e le piazze erano gremite di bambini. Un centinaio di cadaverini di bimbi sfracellati dalle bombe giacevano ancora nelle
strade e sulla soglia del cimitero. Mancavano le casse mortuarie e i cadaveri giacevano in una macabra mescolanza, sotto il sole bruciante. [...]
Delle madri, con gli occhi allucinati, vagavano cercando di riconoscere i propri figli con dei gemiti che non avevano nulla di umano».129

Il 24 agosto alle 5 del mattino era la zona occidentale del golfo a essere colpita con grande violenza. «Ore 4.45. Allarme a Napoli. Circa 30
apparecchi plurimotori hanno sorvolato zona occidentale della città effettuando in un primo tempo lancio di razzi illuminanti su Napoli, Bagnoli e
Pozzuoli e poi sgancio di bombe incendiarie e dirompenti».130 Venivano colpite l’ILVA e l’Eternit, la stazione della Cumana con la sospensione del
traffico di treni, molti palazzi crollavano. Ma soprattutto a via Enea crollavano quattro palazzi e il ricovero sottostante dove si trovavano circa 200
persone. Quel giorno stesso il comandante dei carabinieri comunicava una cifra provvisoria di vittime accertate: 37 a Pozzuoli, 100 a Bagnoli, 29
a Fuorigrotta. Seguiva un fonogramma del prefetto con la stima di 166 morti e 227 feriti.

«Il bombardamento principale che noi abbiamo avuto a Bagnoli è stato il 24 agosto del 1943, pecché gli americani, i quali poi lo hanno riferito
dopo, ebbero l’ordine di distruggere il Costanzo Ciano, in pratica dove stava la base dei tedeschi ed ebbero come punto di riferimento la ferrovia
dello stato, la metropolitana, però venendo da mare, la prima ferrovia che videro fu la Cumana, quindi praticamente scambiarono la Cumana, i
binari della Cumana... perché quel mattino alle quattro e mezzo del mattino loro lanciarono i lanciarazzi, in modo che venisse... sembrava
mezzogiorno con i razzi, no? Si vedeva proprio chiaro, loro videro i binari della Cumana e pigliandoli per quelli della direttissima invece di
bombardare il Costanzo Ciano bombardarono Bagnoli e quindi la distrussero, ci furono cinque o seimila morti, perché colpirono tre ricoveri
pubblici, li colpirono proprio in pieno, difatti uno di questi ricoveri, questo fabbricato altissimo, che stava giù il ricovero, addirittura non ci fu
nemmeno il tempo di seppellire tutti i morti e rimasero lì proprio. [...] al mattino del 24 agosto, la notte fra il 23 e il 24 agosto da noi c’è una zona
che si chiamava... le montagnelle, dove adesso c’è l’INA casa, allora erano tutte campagne, io vidi la mattina un maiale con il braccio di una
persona in bocca, perché c’erano proprio brandelli umani sparpagliati per tutta sta campagna. [...] Il bombardamento del 24 agosto fu preceduto
da due incursioni, una alle 11 e una alle 3 di notte, per cui quello delle 5 di mattina noi lo considerammo come un allarme falso, invece chille ce
facettene fesse. Infatti molte persone non uscirono appunto, dice: o terzo bombardamento... invece fu quello che distrusse completamente
Bagnoli, via Enea, viale Campi Flegrei fu completamente distrutto, gli unici palazzi che si salvarono furono i palazzi dove sta Ferdinando e quello
di fronte, perché loro passarono e poi incominciarono a lanciare le bombe. La tua casa restò intatta? No, rimase intatta, però siccome avevamo la
buonanima di mio padre che non voleva morire sotto le bombe allora mentre mia mamma e mia sorella stavano giù al ricovero lui mi prese e mi...
voleva andare dove poi cadde la bomba in questa capanna, perché più che un ricovero era una capanna, una grande capanna, dove la gente si
buttava dentro appunto per non morire sotto le macerie, che poi morì lo stesso, no? E io mi ricordo che io e mio padre, mentre stavamo
andando... cadde una bomba davanti a noi, però non esplose, rimase inesplosa, dove adesso hanno fatto il municipio di Bagnoli. Lì cadde una
bomba e fortunatamente... altrimenti non starei parlando e fu una notte tragica» ( Alessandro Narducci).

Quello stesso giorno alle 21.40 altre bombe caddero su Torre Annunziata dove, oltre a numerose abitazioni, vennero colpite le ferriere ILVA, crollò
la torre centrale della stazione, furono abbattute le linee elettriche e telefoniche. A pochi chilometri di distanza gli aerei colpirono gli scavi di
Pompei: crollò una parete del Museo e venne danneggiato il tempio di Venere.

«Fu la prima tragica notte di Pompei. [...] una bomba scoppiata nel Foro dinanzi all’Arco di Druso e il custode gettato a terra tramortito entro le
favisse del tempio di Giove; un’altra aveva schiantato il portico della casa di Trittolemo; tutta la zona di Porta Marina ridotta un cumulo di
macerie e il Museo pompeiano, accanto alla Porta, colpito in pieno, distrutto nell’edificio e negli oggetti. L’inconcepibile era avvenuto: il cieco
orrore della guerra degli uomini distruggeva quello che il più tremendo cataclisma della terra non aveva distrutto. Quand o all’alba s’iniziò il
doloroso ufficio dei ricuperi, s’ebbe piena la visione del disastro. Della lunga galleria a volta ricavata, fin dal tempo del Fiorelli, tra le vecchie
mura della correa della città, non restavano in piedi che le pareti traballanti della prima stanza: il resto macerie e voragini. E tra le macerie
affioravano le suppellettili frantumate delle vetrine e giacevano rovesce, contorte, mutilate, come vittime di quella recente catastrofe, le
impront e dei morti di due millenni fa, le vittime che i lapilli e le ceneri dell’eruzione del 79 avevano pietosamente composto e che una più
disumana violenza aveva mutilato e violentato in quella loro pur religiosa pace di morti sopravvissuti».131

Altro volantino: «ITALIANI! Voi volete la pace ma il vostro governo vuole continuare la guerra! Ciò significa la distruzione delle più belle città
italiane, la morte di migliaia di Italiani, amanti della pace, vittime inevitabili dei nostri bombardamenti aerei. [...] La guerra Fascio-Nazista è
perduta. Perché prolungarne l’agonia? Il vostro Governo deve ascoltare la vostra voce». Insieme al volantino una cartolina postale da indirizzare a
Badoglio. La frase finale: «Il popolo italiano vuole la pace».

Nella notte tra il 26 e il 27 i bombardieri sorvolavano di nuovo la zona occidentale (Bagnoli, Pozzuoli, Fuorigrotta). Finiva nel mirino ancora una
volta la ferrovia Cumana, dove crollava la volta di una galleria, che era diventata naturale ricovero degli abitanti. Il 27 agosto venivano segnalati
centinaia di morti a Caserta.

Nella notte del 29-30 giugno, 78 Wellington sganciavano 124 tonnellate di bombe su Torre Annunziata. Si sviluppavano fuochi e incendi.132 Il
pomeriggio seguente, alle 13, arrivavano gli aerei americani per completare l’opera.

«Ore 13.04. Allarme a Napoli. L’incursione si è localizzata sullo scalo ferroviario di Torre A. Centrale con circa 100 plurimotori con sganci di
numerose bombe incendiarie e spezzoni causando gravi danni e incendi. Colpiti ed incendiati vari vagoni ferroviari. Si è provveduto all’isolamento
di carri con munizionamento. Colpiti stabilimento ILVA, Officina Ricciardi, Pastificio Impicca, Caserma Toselli, Centrale elettrica con interruzione
distribuzione energia. Finora accertati 31 morti e 24 feriti. Torre ha chiesto autoambulanze da Napoli. [...] Ore 0.45. Allarme a Napoli. Lancio di
numerosi razzi sulla zona tra Torre Annunziata e Castellammare. L’incursione è stata sferrata da circa 200 bombardieri di tipo imprecisato
provenienti da Sud, Sud-Est e Sud-Ovest su cinque ondate e pattuglie frazionate di 3-4 aerei. Sgancio di numerose bombe di grosso e medio
calibro dirompenti et incendiarie e spezzoni a circa quota metri 4000. Apertura fuoco 0.51 – cessazione ore 2.33. Località colpite: scalo
ferroviario di Torre Annunziata Centrale – spolettificio 3° e 8° reparto con incendio – stabilimento ILVA – officina Ricciardi – centrale elettrica –
Cantieri Metallurgici – Torre marittima – Magazzini generali con vasti incendi – Molino Orazis – Pastificio Lettieri e Segheria Cirillo – via Cavour
n. 13 – via Maresca – traversa Maresca. Non ancora accertato il numero delle vittime».133

Il 31 agosto veniva colpito l’aeroporto di Grazzanise, uno dei first priority targets negli elenchi americani.

Il 1° settembre era la volta di Salerno.

Il 3 settembre 1943, alle ore 13.01, il Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea segnalava l’allarme a Napoli. «Tre formazioni nemiche, in uno
150 plurimotori su tre ondate, hanno sorvolato periferia Napoli zona settentrionale e orientale, nonché comuni viciniori». A Cancello fu colpito lo
scalo ferroviario, e danneggiato l’acquedotto del Serino.134

Dal cielo un opuscolo, zeppo di fotografie di gerarchi nazisti, di Hitler e Mussolini, di massacri nell’Europa orientale, ebrei torturati e umiliati,
sacerdoti perseguitati. Titolo: «L’eredità di Mussolini». «Uno se ne è andato, sopprimiamo l’altro». «Mussolini è andato; ma rimane la guerra
nazista». Concetti espressi: la guerra il più bel regalo di Mussolini al popolo italiano. Senza l’alleanza con Hitler la rivoluzione fascista sarebbe
stata soltanto una «farsa macabra»...

La notte del 4 settembre tre formazioni di circa 100 plurimotori sorvolavano la Campania e colpivano Capua, Cercola, a Napoli la zona industriale
orientale, la Doganella e Capodichino (aeroporto e aviorimessa), le case popolari di salita Capodichino, il ponte della Maddalena, i quartieri di
Ponticelli, Poggioreale, Porto. A Miano veniva colpito il sifone dell’acquedotto.

Il 5 settembre alle ore 18 entravano nel mirino Capua, Villa Literno, Cancello Arnone. La notte altre formazioni attaccavano Battipaglia,
Pontecagnano, Castellammare, Capua, Aversa, la via Appia tra Minturno e Sessa Aurunca.

6 settembre. «Ore 12.40. Sgancio di bombe sulla zona di Villa Literno, Capua e via Appia. Ore 24.02. Villa Literno: numerosissimi razzi e bombe
di medio e grosso calibro. Stazione ferroviaria [...] Ore 14.20. Attacco a Napoli con oltre 200 apparecchi quadrimotori. Vomero, centro della città,
Chiaia, Castelcapuano [...] ore 0.02. Salerno Battipaglia».135

Il 7 e l’8 settembre gli aerei bombardavano Capua, con l’aeroporto e la foce del Volturno, e Benevento.

Alla vigilia dell’armistizio, Napoli era una città distrutta.

Il 9 settembre la relazione dell’antiaerea segnalava le trasformazioni delle alleanze. «Durante la notte si apprende che i tedeschi hanno occupato
il presidio e l’amplificatrice telefonica di Mignano, ma che il Comando del XIX Corpo d’Armata ha inviato truppa sul posto per l’immediata
rioccupazione. A Salerno si conosce che i tedeschi hanno fatto saltare la zona portuale, minata la spiaggia et incendiato i magazzini generali ed
occupato l’amplificatrice e cen trale telefonica ed una nostra batteria in postazione contraerea».136

Ma, contrariamente alle aspettative della popolazione che festeggiava la pace, quello stesso giorno i bombardieri tornarono in provincia con raid
violentissimi. A Capua, a Cancello Arnone, a Benevento si contarono centinaia di vittime. Questa volta gli obiettivi strategici erano i nodi
considerati cruciali per la ritirata tedesca. Le navi inglesi e americane cannoneggiavano il territorio circostante il golfo di Salerno. Per tutto
settembre le città e i paesi che si trovavano tra il golfo di Salerno e le linee di fortificazione che i tedeschi andavano costruendo, lungo le strade e
le ferrovie che avrebbero visto la ritirata della Wehrmacht e l’avanzata della V Armata, furono flagellati da bombardamenti continui e in alcuni
casi rasi al suolo.

Dopo l’8 settembre alla violenza dei bombardamenti si sovrappose la violenza delle truppe tedesche che occupavano il territorio italiano e in
Campania combattevano contro l’avanzata degli alleati. Altre distruzioni, altre vittime. I tempi si facevano convulsi e incerti. Le istituzioni italiane
erano allo sfascio. La terribile predizione del volantino inglese si avverava, la Campania diventava terra di nessuno.

La documentazione della prefettura si fa lacunosa e incerta.

La memoria collettiva dei bombardamenti a Napoli a questo punto si arresta. La guerra «vera» finisce con l’arrivo degli alleati, poi comincia
un’altra guerra, quella della sopravvivenza in regime di occupazione «amica», che è quella che ha alimentato le immagini della città nella
comunità nazionale.

I raid tedeschi: inverno 1943-44

Oltre ai massacri dovuti alla violenza della Wehrmacht, la città subì, dopo l’armistizio dell’8 settembre, alcuni bombardamenti tedeschi, uno dei
quali di elevatissima intensità.

Il primo si ebbe il 21 ottobre 1943, e colpì il rione Miraglia, i Camaldoli, piazza Garibaldi. 46 è il numero ufficiale dei morti. Dopo pochi giorni ,
alle 18.40 del 1° novembre, un’altra incursione più violenta, provocò, secondo i dati ufficiali, 136 vittime. Il 22 dicembre dalle macerie di vico Tofa
venivano ancora estratti 3 corpi, fra i quali quelli di due sorelle di dodici e sedici anni. Nel mirino era di nuovo finito il martoriato quartiere di
Montecalvario (via San Sebastiano, vico Lungo Montecalvario, vico Canale, vico Giardinetti a Toledo, gradini San Matteo, vico Tofa, vico Canale a
Taverna Penta... via Gesù e Maria). Veniva colpito anche il Palazzo Reale di Capodimonte.

Il 15 marzo 1944, quando nessuno più se lo aspettava, si verificò il raid tedesco più intenso, uno dei più gravi della guerra. La lista ufficiale
contiene il nome di 278 vittime.137 Venne colpito soprattutto il centro più antico della città, fra i decumani e via Duomo (via Cinquesanti, vico
Gerolamini, largo Avellino, vico Zite, vico Scassacocchi, via Giudecca, piazzetta Giganti, via San Gregorio Armeno), poi la zona che va da via Roma
a Chiaia (via Santa Teresa a Chiaia, via Bausan), il Vomero (via Scarlatti e via Alvino). A piazzetta San Gregorio Armeno moriva una madre con 4
figli di sei, cinque, tre, due anni...

Il 24 aprile 1944 i bombardieri tedeschi tornarono per l’ultima volta sulla città. Troviamo la notizia nei rapporti americani. «Fra le 21.15 e le
22.00 i bombardieri sono arrivati da nord-nord-est alla quota di 8000-12000 piedi. [...] la maggior parte delle bombe lanciate sono
approssimativamente di 250 libbre, e delle 60 trovate, la maggioranza è caduta in un semicerchio di 4 miglia d i raggio intorno ai magazzini
centrali. La metà circa delle bombe totali è caduta vicino al centro della città e nei pressi dell’aeroporto di Capodichino. Non è chiaro se obiettivo
dell’attacco fosse una distruzione generale. L’unico danno militare è stata la distruzione di 13000 galloni di petrolio nei depositi. Sono stati uccisi
1 soldato americano, 1 soldato britannico, 48 soldati italiani, 20 civili. Danni agli immobili, non alle navi».138

Sono 470 le vittime ufficiali dei bombardamenti tedeschi, che sono tuttavia pressoché assenti nella memoria cittadina. Dal 1° ottobre, giorno
dell’entrata delle truppe alleate, sono gli americani al centro della scena.

Danni collaterali

Quante fu rono le vittime dei bombardamenti a Napoli? È pressoché impossibile indicare una cifra esatta. Stefanile nel suo I cento
bombardamenti di Napoli propone il numero di 20000 senza fornire le fonti su cui basa la sua ipotesi. In un appunto del 1° giugno 1943, rivolto al
direttore generale per i servizi di guerra al ministero degli Interni, il prefetto stimava le vittime della provincia, capoluogo compreso, in 1499, e
quelle del solo capoluogo in 1388. Dati che sono addirittura inferiori agli elenchi forniti dalla stessa prefettura volta per volta. Se si fa la somma
totale delle liste ufficiali contenute nei resoconti fino al 21 settembre 1943 si raggiunge la cifra di 3100 circa, cui si devono aggiungere le 470
vittime dei bombardamenti tedeschi. Benché la vastità della popolazione e quindi dei registri di morte comunali impedisca di fare una conta
precisa, si può tuttavia provare ad approssimarsi alla cifra reale. I registri napoletani sono costruiti per quartieri; una prima sezione contiene le
morti avvenute nelle case; una seconda sezione speciale (II B) contiene invece le morti avvenute negli ospedali o le vittime finite direttamente
dalla strada alla camera mortuaria dei cimiteri. Dal 1° aprile 1943 fino alla fine dell’anno, forse per il terribile incremento delle vittime dei
bombardamenti, troviamo un registro apposito (Centrale) che elenca i decessi prima contenuti nelle sezioni speciali dei quartieri. Ho provato
quindi a ricostruire le morti del 1943, l’anno più tragico, e sono arrivata alla cifra di 6097 vittime.139 A questo dato bisognerebbe poi aggiungere
quelli del 1940, 1941 e 1942. Se si pensa che moltissimi corpi non ebbero sepoltura, risultarono dispersi, non furono mai denunciati o lo fu rono
molto tempo dopo, allora la cifra raggiunta consultando i registri dei morti del comune appare anch’essa per difetto. Dunque i numeri della
prefettura sono decisamente sottodimensionati.

A tutte queste vittime dovremmo aggiungere quelle morte per il tifo o per altre malattie infettive, per il freddo, per gli stenti. I bambini, ad
esempio. Proviamo a scorrere gli atti «normali» della sezione Stella dal 29 luglio al 12 agosto 1943. In soli quindici giorni troviamo la
registrazione di 51 decessi; fra questi 29 di bambini sotto i quattro anni. Un bimbo di dieci mesi, un altro di quattro anni, poi di nuovo uno di dieci
mesi, uno di sedici giorni, uno di un anno, due di sette mesi, uno di due anni, uno di quattro anni... Si sa che i bambini sono i primi a morire in
queste circostanze, ma leggere l’elenco colpisce, è un utile esercizio di comprensione storica.

D’altro canto i bambini erano morti in massa sotto le bombe. Proviamo ad analizzare qualche altra lista. Il 15 aprile 1943 tra le 66 vittime di Torre
del Greco troviamo cinque fratellini di sette, sei, cinque, tre, tredici anni... e Annunziata Ascione di sette anni, Americo Borriello di otto,
Giuseppina Cavaliere di dodici, Luisa De Simone di d ue, Lucia Di Donna di uno, Maria Filiberto di sette, Michele Iorio di diciassette mesi, Saverio
Iorio di tre anni, Amedeo Luise di tredici anni, Vincenzo Busso di un anno... Nella notte fra il 14 e il 15 dicembre 1940, una delle prime incursioni,
quelle che la memoria ricorda come minori, che la gente definisce «strategiche», tanto per intenderci, moriva Angela Miele di quarantun anni, i
figli Giacomo di diciassette anni, Delfina di sedici, Renato di quattro, Giuseppina di uno. Il 15 marzo 1944, a piazzetta San Gregorio Armeno 2
moriva Elena Capaldo, coniugata con quattro figli, ed ecco, di seguito, insieme a lei, fra le vittime, i 4 figli di sei, cinque, tre, due anni... Il marito
e padre si era salvato, solo. In un attimo la sua famiglia era stata inghiottita dalla guerra.

Molte delle vittime morirono nei rifugi travolte dalla folla che scappava dai bombardamenti, nei crolli o per le epidemie che dilagarono proprio a
causa delle terribili condizioni igieniche in cui si trovavano.

«Qua nel vicolo dove sta il monastero di Santa Patrizia, ci sta un ricovero, se scenneva abbasce, non so quale preciso se scenneve giù e se
spuntava a dietre ccà a San Gaetano nel sottopassaggio, dove adesso si paga 10000 lire a persona per andare a vedere o ricovero. E llà steveno i
gente notte e iuorne, che po’ chelle person e chi teneva nu negozio chi teneva na cosa, se ne saglievano... e nui curreveme llà abbasce... sia ccà
sia o ricovero ’n miezzo a largo Avelline»140 (Maria Genovese).

«Io fuggivo verso il largo Avellino nella strada Ant icaglia, lì c’era un rifugio di cento metri di profondità e nonostante fosse così profondo quando
c’erano i bombardamenti vi erano degli spostamenti d’aria, era un rifugio che andava da via Duomo a via Foria» (Rosa Fusaro).

«Sotto il largo Avellino, lì c’è un palazzo grande, sotto c’era il ricovero, e là stavamo tutti quanti. Tutto il quartiere stava sotto a sto ricovero, tutti
quanti sotto a quel palazzo, nei ricoveri sotto terra. Ci stava qualche scanno, qualche posto, qualcuno stava all’impiedi, così... tutti quanti con le
valigie» (Dolores Imparato).

«Il rifugio figurati che noi ne tenevamo uno qua affianco alla casa, tutta la gente che scendeva là sotto, chi era era. Si scendeva sotto. E quelli
erano i ricoveri. Figurati da qua corrispondeva all’Augusteo. Dall’Augusteo due traverse dopo al vico Tofa. Da qua alla Pignasecca, dove stavano
le mie sorelle. [...] Il giorno che ha sposato mia cugina Dora siamo scappate all’allarme lei vestita da sposa e io coi tacchi tanti che correvo per
arrivare al vico Tofa. Queste date qua tu te le ricordi, le altre cose poi... Noi figurati tenevamo degli sgabellini quelli che si chiudevano, come
quando o militare addà ì a combattere ca tene o fucile a portata e mano. Noi tenevamo degli sgabellini all’entrata... Eravate già pronti per
scappare... Eh, mia zia prima di uscire quando andava a fare la spesa diceva a me: guarda, si succede qualcosa ci vediamo o vico Tofa, dove stava
il ricovero perché ci dovevamo incontrare. Perché tu uscivi in balia delle onde. E così è successo che venne l’allarme e io chiusi il negozio subito
senza manco mettere le chiavi e scappai al vico Tofa. Mentre correvo in una di quelle traverse del vico Tofa un signore a un palazzo, mezzo
palazzo chiuso, stava chiudendo mi tiraie per la giacca di dietro così: a chi aspetti che ti ammazzano? Vieni dentro. Tanto è vero mia zia, che stava
sotto al ricovero che aspettava a me. Io come sentii che si erano calmati quegli spari, si trattava di cinque, sei minuti da vico Tofa, la traversa
dopo me ne scappai da mia zia. – E che hai combinato? – quella dice. – Un signore s’è messo paura che qualche scheggia mi poteva pigliare.
Perché io correvo sotto i bombardamenti. [...] Quando stavamo sotto il palazzo mio cugino suonava la fisarmonica per mantenerci tutti... mo è
morto mio cugino Umberto... per mantenerci distratti perché la mamma soffriva molto della paura. E allora suonava la fisarmonica, noi tutti
ragazzi attorno cantavamo assieme a lui. Poi non si conosceva nessuno, noi tenevamo gli sgabelli ma gli altri niente. E mia cugina è partorita
sotto il ricovero del vico Tofa, Nino... tiene i figli grandi mo. Il periodo di guerra me lo portavo io in braccio. E quando mia cugina è partorita, che
gli so’ venuti i dolori sotto al ricovero dopo due giorni l’abbiamo salita, ma è nato là sotto, sotto al ricovero del vico Tofa, il 14 luglio, era il mio
compleanno, perciò me lo ricordo bene. Dopo due giorni la facemmo salire sopra e proprio quella notte è successo un altro bombardamento, che
io e Dora e la moglie di mio cugino portavamo a Dora sotto al braccio e arrivammo al paraschegge, non facemmo in tempo al ricovero»
(Enrichetta Nerone).

«Ci stavano dei ricoveri di tufo, perché erano stati scavati al... diciamo dagli antichi Borboni, il periodo borbonico che facevano l’acquedotto. E
scavavano diciamo, questa collina, cisterne... e allora noi ci rifugiavamo là sotto là, tutta la gente» (Antonio Scherma).

«All’epoca c’erano dei ricoveri che mo... oggi vanno a fare le visite guidate, perché scendono, vanno sotto terra. Io mi trovai un giorno che feci
questa esperienza. Mi trovai su a via dei Mille. Là me pare ca se chiama Vasto a Chiaia e incominciò a suonare la sirena e... come ho detto prima,
sirene e bombe erano tutto una cosa... e io non sapendo dove andare mi misi in un angolino c’i bombe ca cadettere... Nun capette cchiù niente,
passò un gruppo di donne ca dicette: picciré vieni con noi, vieni con noi. E infatti io vedevo tutta sta gente ca correva, ca correva in un basso, ca
po’ era nu negozio aro se vendeva o vine e qua dentro appena entrato c’era una botola e ce stevene delle scalinate ca nun fennevene mai, ce
capevene doi persone, na scala pericolosa perché a un lato senza ringhiera e n’atu late sotto a montagna.141 Io dovevo correre per forza perché
c’era na fiumana ’e gente ca te faceva correre. Ma... io non lo so... quanti scalini... scendevano scendevano, si arrivava a una caverna che non
finiva mai. Io rimasi sbalordita, tanto della vastità di questa grotta e quella scala ca nu n ferneva mai... non mi dimenticherò mai. E venni a
sapere... ca ie facevo inta a mente mia: chiste si care a bomba e ostruisce l’ingresso aro ere trasute... ccà cumme se esce? Chi o sape ca nui
stamme ccà sotte? – Nun te preoccupà picciré perché vire l’entrata i chesti grotte, vedi chellalà nel buio? Quella esce a piazza Amedeo, dice, addò
passa a metropolitana. Da quest’altro lato, a viri chesta? Arriva a piazzetta Augusteo, dove ce sta n’atu ricovero ca scenne.142 E ci stanno tutte
queste diramazioni. E queste diramazioni all’epoca furono scoperte ma poi sono andate nel dimenticatoio, ma po’ mo ho letto che... mi disse pure
mia nuora ca mo sarebbe andata a fare una visita guidata, ca mo fanno scennere inta sti grotte dove durante la guerra erano ricoveri, perché poi
sui muri ce stanne scritti tutti i pensieri dei ragazzi dell’epoca... e delle frasi degli innamorati... è diventate nu monumento nazionale» (Teresa
Ciciliano).

La maggior parte dei ricoveri cittadini erano stati ricavati, senza grandi lavori, nelle antichissime cavità del sottosuolo napoletano: alcune erano
già state rifugio dei primi cristiani, altre si erano formate nel corso dei secoli per l’uso di scavare e prelevare il tufo per costruire le case
soprastanti, altre ancora erano ricavate dall’acquedotto borbonico; erano unite da lunghissime gallerie che percorrevano nel sottosuolo tutto lo
spazio cittadino. Oggi si possono visitare, sono diventate meta di itinerario turistico, come ci ricordano molti testimoni, e non manca chi, in tempo
di pace, senza dover correre per le bombe, viene colto da crisi di panico e di claustrofobia. Dappertutto scale lunghe e ripide, cunicoli e
strozzature, dove la folla in fuga e in preda al panico si accalcava, e se qualcuno cadeva si verificava una strage. Gli episodi non si contano, come
testimonia la documentazione prefettizia.

Ci furono vittime e feriti nei ricoveri di vico Lungo Trinità degli Spagnoli, nella notte fra il 20 e il 21 luglio 1941; piazza Concordia, la notte fra il
17 e il 18 novembre 1941; vico Purgatorio a Foria, Porta San Gennaro e via San Paolo, il 4 dicembre 1942; via Tappia, l’11 dicembre 1942; via
Salvator Rosa, l’11 gennaio 1943 (crollo ricovero); piazza Mercato, il 7 febbraio 1943; via San Gaetano, via Donnaregina, piazza Ottocalli, il 20
febbraio 1943; metropolitana Montesanto, largo Olivella, il 4 aprile; albergo di Russia a Santa Lucia, il 28 aprile 1943 (crollo); metropolitana
piazza Cavour, il 30 maggio 1943; galleria sotterranea della metropolitana stazione Garibaldi; ricovero pubblico via Speranzella 109; galleria ex
linea ferroviaria Napoli-Foggia, il 15 luglio 1943; via Mario Pagano, il 4 agosto 1943; via Enea, il 20 agosto.

La metropolitana con le sue stazioni costituì un altro dei rifugi più usati dai napoletani. Le gallerie dove corrono i vagoni nel centro storico sono
particolarmente profonde, hanno scale d’accesso lunghe e ripidissime. E sono proprio le due stazioni centrali di Montesanto e di piazza Cavour,
dove l’accesso è più impervio, a vedere gli episodi più gravi.

«Un giorno suonò l’allarme e naturalmente scappando, stesso per la paura, scendendo le scale della metropolitana di Montesanto incominciò a
cadere la prima persona: una che cadde, caddero tutti quanti uno sopra l’altro e ci furono 125 morti. La sorella e il fratello di papà morirono. Noi
ci salvammo perché Peppino salì sopra il corrimano e allora vide tutta sta gente che stava, logicamente, una sopra l’altra perché era caduta.
Pensava che fosse caduta la scala, invece no non era caduta. Fu la prima persona che cadde per le scale, caddero tutti quanti perché stavano
pressati come le sardine per quell’ansia, per quella paura di mettersi in salvo. Comunque morirono tante persone, noi scappammo: stavo io e
Peppino. Peppino quando se n’accorse: indietreggiate, indietreggiate. Al che tutti quanti invece di scendere se ne tornavano indietro un’altra
volta. Quando scappammo, andammo sotto il tunnel della Cumana a Montesanto, che era un altro ricovero. Finito l’allarme poi incominciammo a
sentire: se n’è caduta, so’ morte tante persone, se n’è caduta la scala. Difatto dopo pochi passi, all’Olivella, ci stavano autoambulanze, pompieri,
polizia, soldati, finanche dei carretti che servivano per trasportare la roba» (Carmela Nicodemo).

«La metropolitana di... piazzetta Olivella, alla Pignasecca, a Montesanto una strada che si chiama piazzetta Olivella, là ci sta la metropolitana e si
scende a Montesanto. E là scen dendo ai ricoveri fra di loro si sono ammazzati parecchi, parecchie persone che... scendendo le scale, perché
dovevano scendere più di una settantina di scale a piombo, e man mano cadevano tutti quanti a terra» (Alfonso Totaro).

«Nel giugno ’40 tenevo ventun anni, ero incinta a Tommaso, mio marito era partito. Lo mandarono in Russia e da quel giorno non ho saputo più
niente... Quando Tommaso aveva due anni incominciammo a scappare, ci nascondemmo nei ricoveri, alla direttissima... Incominciarono a cadere
palazzi, morti al Duomo, alle Cavaiole, al Museo... Noi avevamo due ricoveri: uno di fronte e un altro sotto e grare143 dell’Educandato. Allora mio
fratello diceva: andiamo sotto e grare dell’Educandato. No, io dicevo, no, io me ne vado dint’a direttissima.144 Io tenevo o figlio mio ’n braccio,
che sarebbe Tommaso, due anni. Io vado dove voglio. E me ne andai alla direttissima e là mi scanzai.145 Il ricovero sotto e grare fu tutto
sfrantumato. Morti e feriti. Scappavo dal vicolo mio, vicino a via Foria, per andare nella direttissima, perché all’epoca il comune ci mise le
cuccette, per non farci coricare a terra. Io tenevo la cuccetta mia e tenevo sempre una borsa preparata, o nennillo sempe c’a robba soia, ch’e
scarpette ’e lana, e fuieve. Quanne scuppiaie a nave... me mengo a terra ’ncopp’e scale d’a direttissima... e io, per grazia di Dio, ho avuto sempre
la mia forza di spirito... o guaglione sempe sotto a me, accussì moro io e no o guaglione... Mi alzai e vidi che gente dint’a direttissima... a
ammuina forte... fuievane, invece di entrare uscivano. Pecché stesso o blocco... ca se menavene uno ’ncoppa n’ato, murevane a ggente. E allora
p’a paura, ca verevene e morti in terra, se ne scappavano. Io che feci? Io mi pigliai n’ata vota o piccirillo mio e me ne tornai a casa mia e non
entrai più nel ricovero»146 (Giuseppina Romano).

«Ci furono molti morti a piazza San Gaetano che fecero il ricovero che sarebbe adesso dove ci sta o... comme o chiamane? dove vedono Napoli
antica là... Napoli sotterranea... e là morirono nun sacce quanta gente... perché là erano tutti scalini no? Uno pestò, facettere piere e piere... bu
bu bu... e murettene quaranta, cinquanta persone»147 (Antonio Iannucci).

A un certo punto molte famiglie si sistemarono in modo permanente nelle grotte, che diventarono dei veri e propri alloggi di fortuna con pareti
divisorie fatte di coperte, con giacigli, sedie, fornelli.

«Noi andavamo a rifugiarci, mi ricordo, io stavo al principio del corso vicino a Mergellina nella metropolitana, la quale non funzionava
naturalmente e allora lì figurati che tu vedevi che la gente stava le notti e il giorno, mangiava dentro la metropolitana, avevano portato coperte,
cose, insomma bivaccavano lì, vivevano là senza uscire, come un rifugio» (Flora Greco).

«Roppe re bumbardamente mammà ro ricovere se ne saglive sopra, po’ ce purtave o mangià cchiù tardi o c’o scenneva qualcune e ce durmevemo
llà. Ce stevemo sempe a durmì, notte e giorne abbasce e ricovere. Tutte quante teneveme e liette fatte fisse, teneveme a cuperte imbottita,
pecché chelle era vierne. Po’ roppe giocaveme, o giorne ce vesteveme, ce lavaveme llà abbasce llà. Chelle ere pulite, cierti stanze pulite, cierti
stanzune... – Chelle erene tutte caverne, ogni caverne lore a chiurevene ch’e lenzole no, e durmevene, stevene notte e giorne, cucenavene tutte
cose llà. – Me ricorde ca giocaveme pure, nuie ereme guaglione, ce metteveme a fà i camminetelle stesse llà. – Se fidanzavene pure llà sotte.
Steve sopra ai quartieri. – A gente s’ere abbituata»148 (Concetta Stanzione e Cesare Giorgio).

«Le mie sorelle non salivano mai dal ricovero. Rimanevano là sotto. Là facevano i loro bisogni, là si lavavano. [...] mia mamma le diceva: venitevi a
piglià nu poco d’aria, venitevi a lavà nu poco, come fate a stare qua sotto? Ninuccia e Giuseppina... Embè quelle non salivano manco e scale, non
arrivavano manco a casa... vuvuvuvu l’allarme. Corri, non salivano più. Invece noi no, perché noi avevamo a lavorà. Cheste non avevana lavorà e
putevano stà notte e giorno là sotto. [...] Ma non solo loro, tanti e tanti, quelli che avevano più paura... di morire. Ma quanto tempo sono state là
sotto? Tutto il periodo dei bombardamenti. Per anni. Salivano un poco... te l’ho detto, come salivano sopra suonava l’allarme. Suonava l’allarme e
stavano spaventatissime, io non vivevo con loro, io stavo con mia zia. Come si cambiavano non te lo so dire, ma so che mia mamma ci portava da
mangiare lì sotto, a San Liborio. Loro stavano al ricovero del San Liborio» (Enrichetta Nerone).

«Noi addirittura quando si andava a scuola o quando si andava... s’incontrava sotto alla metropolitana una vera stazione, come potrebbe essere
sia piazza Garibaldi sia a Foria o altri... a Montesanto eccetera, gente che avevano stabilmente i letti, che dormivano sott’a stazione. Quelli che
non avevano la capacità di salire e scendere con molta facilità rimanevano laggiù, chi procurave o mangià e chi rummaneve llà,149 specialmente i
bambini, cose, e persone anziane. Quanne noi pigliavame nu trene pigliavamo il treno co questi letti che stavano sotto alle varie stazioni. Questo
era uno spettacolo giornaliero» (Antonio Chierchia).

La vita nelle cavità del suolo fu esperienza inconsueta e, in un certo senso, liminale. Vi si viveva una vita sospesa in attesa di un evento che
riportasse la luce. Il sottosuolo cost ituisce una sorta di limbo immaginario che si radica fortemente nella memoria.

Per chi la guarda da fuori la vita nelle cavità sotterranee sembra riproporre i caratteri del vicolo, l’immagine si vena di paternalismo e
condiscendenza: è il rassegnato ma industrioso popolo napoletano capace di adattarsi a ogni situazione...

«Per molti pomeriggi ho assistito dalla finestra alla quotidiana emigrazione nei ricoveri. Sono famiglie e famiglie che muovono dai quartieri della
Marina con il fagotto delle coperte, il fornelletto di coccio, il fascetto della legna, il seggiolino per il pupo, una pentola di cucina, i meglio provvisti
con un carrettino a mano e qualche materasso arrotolato, verso il dormitorio della galleria. Per via i gruppi si ingrossano, si ritrovano, le donne si
scambiano gli ultimi discorsi sulla spesa, i ragazzi si rincorrono a festa, fanno truppa fra le grida e i richiami delle madri; poi [...] imboccano il
nero dell a galleria inghiottiti dal tremendo frastuono dei tram e degli autocarri. È la loro Pedigrotta di guerra. Nell’interno della galleria c’è una
fila di celle per i ricoverati, come stalli d’una scuderia di magnati... Già i primi gruppi hanno occupato la cella assegnata: qualche fornelletto
sprizza di fiamme per la bollitura di una zuppa di verze: gli uomini siedono gravemente sulla panca e qualcuno si è disteso sibariticamente su una
sedia a sdraio, relitto chissà di quali polverosi fondi di riga ttiere... [...] È la vita dei bassi che si trasporta dai vicoli al ricovero senza troppo
disagio e senza proteste: e le condizioni di alloggio non sono per molti di loro peggiori».150

In realtà la vita nei rifugi era terribile: al freddo, nello sporco, in mezzo alle cimici e ai pidocchi. Oltre a coloro che morirono travolti dalla folla o
sotto le macerie nei crolli delle volte, furono moltissime le vittime di malattie contratte in quelle condizioni. Non li possiamo contare.

Nell’autunno del 1943 migliaia di famiglie senza tetto abitavano stabilmente nei ricoveri. Fu in quelle condizioni che si diffuse l’epidemia di tifo.
Anche le vittime del tifo sono dunque da annoverare fra i «danni collaterali» dei bombardamenti.

«La città ha sofferto danni veramente seri. Il gas, l’elettricità, l’acqua e il sistema fognario erano fuori uso e un considerevole numero di persone
viveva più o meno permanentemente nei rifugi antiaerei. È evidente che tali fattori, operando su una popolazione di quasi un milione di persone,
depressa, malnutrita, sporca, erano ideali per l’avvento e la rapida diffusione di un’epidemia infettiva. [...] Nel periodo ottobre 1943-febbraio
1944 si sono verificati 1500 casi conosciuti di tifo in Napoli e nei suoi immediati dintorni. Anche se si sono potute ottenere poche informazioni su
precedenti casi, è evidente che ce ne sono stati numerosi per molti mesi prima. La fonte iniziale dell’infezione è stata probabilmente il fronte
russo. Il contagio è avvenuto prima nelle prigioni e nei ricoveri. Non sono state messe in atto misure vigorose per combattere l’insorgere
dell’infezione. Alla fine dell’estate per il pressoché completo disfacimento dei servizi essenziali e la disorganizzazione delle cure mediche per gli
italiani era quasi impossibile curarsi con i servizi allora disponibili. Nello stesso tempo la popolazione nei rifugi aumentò e l’infestazione dei
pidocchi si diffuse ulteriormente. I raid aerei di ottobre hanno aumentato le difficoltà».151

In un rapporto del 4 aprile 1944 la commissione medica alleata denunciava la cifra ufficiale di 1841 casi di tifo, con un tasso di morte del 15 per
cento, che si elevava al 50 per cento nella fascia di età sopra i cinquant’anni. Il picco dell’epidemia era stato in gennaio. Si parlava di ospedali in
cui era impossibile guarire, anzi c’era il rischio serissimo che anche i medici si ammalassero: l’ospedale infettivo di Napoli, il Cotugno,
semioccupato militarmente, era stato bombardato ed era completamente privo di finestre. Quasi tutte le case e gli edifici pubblici della città
erano senza vetri in quel terribile inverno 1943-44. «La situazione della disinfezione e della pulizia dei pazienti era particolarmente
insoddisfacente e rendeva molto elevato il rischio di infezione dei medici e degli infermieri». Gli alleati avevano preso misure drastiche per
combattere l’epidemia. La misura più nota e più usata era, come è noto, la polvere di DDT. Centri di disinfestazione con la polvere insetticida
erano stati aperti in vari quartieri, alla stazione ferroviaria, negli ospedali, al porto e nei campi per i rifugiati. Erano state ingaggiate squadre di
medici e infermieri italiani, alcune delle quali lavoravano nei ricoveri di notte. Venivano trattate circa 60000 persone al giorno e alla fine di
febbraio circa 250000 persone erano state disinfettate. Inoltre era stato inoculato il vaccino a 60687 persone.152

Il tifo si era diffuso dunque soprattutto tra la popolazione dei ricoveri. Furono gli alleati a spingere la questura di Napoli a verificare la situazione
delle famiglie che «abitavano» nei rifugi e a cercare soluzioni alternative. «1) Considerato il persistente pericolo del diffondersi del tifo causato
dall’uso continuato di ricoveri pubblici da parte di un gran numero di persone è essenziale che questi siano puliti al più presto possibile. 2) Il
numero esatto dei colpiti può essere ottenuto dietro richiesta alla Commissione per il tifo. 3) È probabile che una sistemazione alternativa per la
maggior parte delle persone che vivono o dormono nei ricoveri non sarà trovata. Le persone in questione saranno pertanto considerate come
profughi e sotto la responsabilità della Sezione Profughi di questo Quartier Generale. 4) Sarà richiesta la maggiore cooperazione possibile da
parte della Polizia nel rendere puliti i ricoveri, una volta che le persone siano state allontanate. 5) Si richiede pertanto che sia immediatamente
formata una commissione ad hoc consistente nei seguenti membri: rappresentante del Commissario, rappresentante dei carabinieri, il SPAHO
[Sezione profughi dell’Allied Health Organization] della città di Napoli, il rappresentante della sezione profughi della V Armata. 6) Questo
comitato prenderà in esame ciascun pubblico ricovero a turno e prenderà tutte le disposizioni per l’allontanamento, la sistemazione e la
disposizione delle persone allontanate. Per ordine del T. Colonnello Kraege, F.to T. Douglas Batson. 8 febbraio 1944».153

La commissione redasse un lungo elenco, da cui risultava che ben 11930 persone vivevano quotidianamente nelle viscere della città. Vi si trovava
la lista di 41 ricoveri nella Napoli antica e popolare, quella che era stata maggiormente bombardata e dove era più alta la concentrazione di
coloro che non avevano risorse alternative (senza parenti con case che li potessero alloggiare, impossibilità di affittare altri locali): sezione Stella,
Porto, Mercato, Vicaria, Pendino, San Ferdinando, Montecalvario, Vasto Arenaccia, San Carlo all’Arena, Poggioreale, San Lorenzo. Colpiscono
alcuni casi. Nel ricovero di via Foria 76 c’erano «43 famiglie sinistrate, tutte prive di mezzi e di alloggio, per complessive persone 211» e sempre
a via Foria ai numeri 106-108-122 si trovavano 107 famiglie per un numero complessivo di 876 persone, a Montecalvario nel ricovero di vico Tofa
e vico Lungo Trinità degli Spagnoli alloggiavano ben 400 famiglie per complessive 2000 persone; al ricovero del Petraio, gradini San Nicola da
Tolentino e corso Vittorio Emanuele (si trattava in realtà della stazione e della galleria della funicolare centrale) erano rifugiate 150 famiglie per
complessive 2000 persone; nei ricoveri di San Lorenzo tra piazza San Gaetano, via Nilo, via Tribunali, Porta San Gennaro abitavano circa 230
famiglie per complessive 1900 persone.154

L’attenzione delle autorità per questa folla lacera e malnutrita, che viveva letteralmente negli antri della città in condizioni apocalittiche, si era
destata dunque per l’allarmante epidemia di tifo che si era diffusa in città e sulla spinta degli alleati che sollecitavano l’allontanamento della
gente dai rifugi e la loro chiusura. I sinistrati senza casa sarebbero stati considerati «profughi», e si sarebbe cercata loro una soluzione
abitativa.155 Tra le possibili sistemazioni il prefetto della città indicava l’ospedale Morvillo in grado di ospitare 1500 persone, l’istituto del
Carminiello 400 persone; al di fuori della città il manicomio di Aversa 600, il manicomio criminale di Aversa 1000, l’istituto San Lorenzo di Aversa
tra 500 e 600 persone, il manicomio consorziale di Nocera Inferiore 1000 persone, l’istituto Mater Domini di Nocera Superiore 300 persone.156

Anna Maria Ortese nel suo racconto reportage, scritto immediatamente dopo la guerra, descriveva la situazione dei circa tremila senza tetto
alloggiati al porto nei granili, gli antichi magazzini borbonici per il grano: un labirinto infernale di celle scure e fetide, pullulante di un’umanità
resa malata e sordida dalla povertà, dal buio, dalla mancanza pressoché totale di servizi igienici. Uomini e donne comparivano alla luce incerta di
poche lampadine fra porte «fatte di assi, di lamine di metallo, pezzi di cartone o di tendine scolorate», «larve di una vita in cui esistettero il vento
e il sole» e di cui «non serbavano quasi il ricordo».157

I danni collaterali della guerra si sarebbero fatti sentire ancora per lunghi anni a Napoli. Ma questa è ancora un’altra storia.
4. Una resistenza popolare. Napoli, settembre 1943
La cronaca

Il 9 settembre 1943, all’alba, gli alleati sbarcavano a Salerno. Lo sbarco fu più difficile del previsto, disseminato da errori strategici e tattici,1
tanto che la sera del 14 settembre il generale Clark, comandante della V Armata, stava per prendere la decisione di reimbarcare le truppe. Le
divisioni della Wehrmacht d’altro canto opposero una inaspettata resistenza; solo dopo ulteriori rinforzi dal mare e dal cielo e dopo l’arrivo
dell’Armata britannica che era risalita dalla Sicilia fu possibile completare lo sbarco e attestarsi solidamente sulla terra. Ci vollero però ben tre
settimane per percorrere i cinquanta chilometri che dividono Salerno da Napoli, e ci sarebbero voluti ben otto mesi per percorrere gli altri
sessanta da Napoli a Cassino. Lo sbarco di Salerno era, inoltre, ampiamente previsto dal comando tedesco, che aveva predisposto per tempo un
adeguato contrattacco. Una direttiva di agosto dello stesso Hitler indicava nel tratto di mare fra Napoli e Salerno il luogo più probabile per uno
sbarco nemico, ordinava di concentrarvi la maggior parte delle forze e di difendere la zona, abbandonando invece il resto dell’Italia meridionale.

I tedeschi occupavano repentinamente il territorio italiano. Il 4 settembre 1943, prima della divulgazione dell’armistizio, nel diario di guerra del
battaglione corazzato genieri della divisione Hermann Göring troviamo le previsioni sulla condotta degli italiani e gli ordini relativi. «La
situazione politica e militare italiana si aggrava. Vengono inviate alle truppe le disposizioni cui attenersi in caso di disordini interni e di sbarchi
nemici».2 Veniva emanata una serie di ordini da attuare prontamente, qualora l’Italia avesse abbandonato l’alleato. Il 9 settembre ecco la
comunicazione: «Il nemico sbarca a Salerno con forze sconosciute. Si dirige da Vietri verso nord».3 In base alle disposizioni si dovevano
«disarmare immediatamente e arrestare i soldati italiani e requisire le apparecchiature». Poi si doveva proseguire con i lavori di fortificazione e le
opere di distruzione.

Il territorio campano attraversato dalle linee del fronte si trovò compreso nelle zone definite «di operazione» affidate a Kesselring, comandante
delle forze armate tedesche nell’Italia meridionale.4 In queste zone le autorità civili locali dovevano essere insediate e controllate dai tedeschi e
al comandante veniva esplicitamente conferito il diritto di emanare ordini nei confronti delle autorità e della popolazione civile italiane.5 Il 12
settembre Kesselring dichiarò il territorio posto sotto il suo comando «area di guerra»: in futuro tutti gli atti penalmente rilevanti nei confronti
dell e forze armate tedesche sarebbero stati perseguiti ai sensi del diritto di guerra tedesco ad opera dei tribunali militari. Seguirono altri decreti
che specificavano e ampliavano i reati perseguibili dalle forze armate tedesche. Il diritto penale militare tedesco considerava diversi casi di delitti
passibili di pena di morte: spionaggio, favoreggiamento del nemico, comportamento da franco tiratore, contravvenzione agli ordini riguardanti le
zone di combattimento chiuse o evacuate. L’accusa di spionaggio rendeva addirittura possibile l’uccisione di donne e bambini e fu usata come
giustificazione nelle esecuzioni di civili da parte dei soldati tedeschi. (Questo avvenne, ad esempio, nelle zone soggette a evacuazione forzata,
dove coloro che trasgredivano il divieto venivano considerati spie e potevano essere uccisi sul posto). Uccisioni e massacri trovarono inoltre la
loro legittimazione in un altro notissimo ordine: la direttiva di combattimento per la lotta contro le bande nell’Est dell’11 novembre 1942
(Merkblatt 69/1). In essa si stabiliva che i partigiani catturati dovevano e ssere fucilati sul posto e si specificava esplicitamente che chiunque
sostenesse le bande, «offrendo rifugio o alimenti, tenendo segreto il luogo dove si nascondevano o in qualsiasi altro modo», meritava la morte. E
si richiamava l’attenzione «sul fatto che i banditi spesso utilizzavano donne, ragazzi e bambini come spie», giustificando anche in questi casi la
loro uccisione. Questo foglio di istruzioni entrò in vigore in Italia a partire dal 28 novembre 1943 nell’ambito del XIV Corpo d’armata, ma è da
supporre che fosse stato introdotto nell’ambito del X Corpo d’armata già con l’8 settembre.6 Le unità militari potevano richiamarsi a questa
disposizione per giustificare qualsiasi eccidio. Un comanda nte di battaglione o di compagnia aveva il potere di stabilire chi, essendo un bandito,
poteva essere ucciso. Molti dei massacri di civili avvennero nelle zone circostanti il fronte; essi erano parte di una stessa «lotta contro le bande»,
che in realtà era al servizio di un ferreo controllo del territorio.

Fin dall’annuncio dell’armistizio l’eserci to tedesco si preparò a fronteggiare con durezza qualsiasi episodio di resistenza attiva o passiva della
popolazione. I soldati operarono saccheggi, rapine, forme di ritorsione violenta, massacri. Come con lucidità evidenziano quasi tutti i nostri
testimoni, si trattava di azioni di «vendetta» inflitte a una popolazione riottosa, vista come nemica nella sua interezza. Se, fino al giorno prima, i
napoletani avevano conosciuto morte e stenti a causa delle bombe angloamericane che piovevano dal cielo, ora avrebbero conosciuto la violenza
esercitata da quegli stessi soldati che avevano stazionato in città fin dall’inizio della guerra.

La città era importante dal punto di vista strategico: ci si attendeva un ulteriore sbarco nel golfo, e il porto, le navi, le caserme erano affollati di
soldati. Vi si trovava un comando di piazza, agli ordini del colonnello Schöll, che poteva disporre di un battaglione e di circa 300 uomini di fureria.
Dall’11 settembre dodici reparti della divisione Hermann Göring avrebbero presidiato Napoli, e il maggiore Saggau avrebbe diretto le operazioni
militari in città fino all’evacuazione, controllando lo stesso comando di piazza.7 Il 9 settembre i soldati tedeschi occuparono le caserme e le
infrastrutture strategiche, disarmarono i militari italiani, requisirono mezzi e macchinari utili. Immediatamente si creò una situazione di acceso
conflitto, puntualmente registrata dai rapporti giornalieri della Wehrmacht.

«Il 9 settembre 1943 la situazione nella città di Napoli si era inasprita a tal punto da arrivare a sparatorie tra soldati italiani, civili e membri
dell’esercito tedesco. La causa scatenante sembra essere stata la requisizione di veicoli dell’esercito ita liano da parte di soldati tedeschi. Questa
motivazione tuttavia viene energicamente contraddetta da parte nostra. A questo proposito il maggiore Marold, facente funzioni di comandante di
reggimento, nel pomeriggio dello stesso giorno ha intrapreso un giro di ricognizione attraverso la città e presso i repart i e ha dovuto constatare
che gli abitanti e i soldati italiani hanno assunto atteggiamenti di minaccia. È stato comunicato al reggimento che i soldati tedeschi lievemente
feriti o uccisi e portati via dalla plebaglia8 sarebbero stati depredati e i mezzi di trasporto tedeschi distrutti. Verso le 19 dello stesso giorno il
comando di reggimento tedesco si è trovato coinvolto in un pesante scontro a fuoco tra soldati tedeschi, civili e soldati italiani presso la ca serma
Garibaldi a Napoli. Il maggiore Marold e il suo autista sono stati sopraffatti nell’androne di un palazzo, dove si erano rifugiati in seguito alla
sparatoria, e soltanto per caso sono stati salvati, prima di essere ammazzati, da due carabinieri. Questi ultimi li hanno quindi trasportati alla
caserma Garibal di dove sono stati fatti prigionieri da militari italiani. Soltanto dopo lunghe trattative è stato possibile raggiungere
telefonicamente l’ufficiale di collegamento italiano con l’esercito tedesco tenente Moretti, il quale tramite il generale di divisione Deteo9 ha
ottenuto la liberazione del comandante, dell’autista e del veicolo».10

Si delineano con chiarezza le prime dinamiche degli scontri con gli occupanti: i soldati italiani si difendevano e attaccavano, sostenuti dai civili
del territorio circostante. La violenza si diffondeva nei quartieri antichi e prospicienti la marina con morti e feriti fra entrambi i contendenti.

«La prima parte della notte tra il 9 e il 10 settembre si è svolta tranquillamente. Sono state annunciate ulteriori sparatorie con soldati tedeschi ed
è stato accertato che unità di fanteria italiane hanno circondato il comando generale, le postazioni di servizio e le batterie tedesche e si sono
preparate all’attacco con armi automatiche e di fanteria. Nel frattempo anche i soldati italiani hanno occupato parte degli sbarramenti stradali
con armi pesanti (come cannoni, lanciagranate ecc.), che impedivano qualunque traffico tedesco da e verso Napoli. Tutto ciò ha portato,
specialmente a nord di Napoli, a combattimenti pesanti ai quali hanno partecipato anche civili da nascondigli insidiosi. Durante una riunione al
posto di comando tattico nella mattinata del 10 settembre alcune squadre d’azione hanno stabilito che anche la postazione di combattimento
sarebbe stata accerchiata da circa un battaglione di fanteria italiana. [...] Nel pomeriggio e nella serata del 10 si sono avute violente sparatorie
tra tedeschi e italiani nel quartiere delle caserme a nord e nord-oves t. Secondo notizie incomplete sono stati uccisi o feriti almeno 50 soldati
tedeschi. Dal momento che il 57° reggimento di artiglieria dal 10 settembre era privo di collegamenti con le postazioni di servizio rimaste ancora
a Napoli, [e] gli italiani avevano interrotto tutte le comunicazioni già dal 9, dopo continue telefonate con il XIV Corpo corazzato e con il tenente
colonnello Wolfgang Maucke della divisione Hermann Göring, è stato deciso che l’unica scelta responsabile fosse di impiegare tutte le energie per
liquidare questa situazione insostenibile per l’esercito tedesco a Napoli».11

Dal rapporto emerge con evidenza la resistenza di soldati e civili: scontri a fuoco, militari tedeschi uccisi, postazioni accerchiate. I combattimenti
intorno alla caserma Garibaldi si protraevano, i tedeschi rispondevano puntando i cannoni sulle zone da cui erano partite le sparatorie e
iniziavano i patteggiamenti con gli alti comandi.

«Verso le 9, è stato comunicato che nelle vicinanze della caserma Garibaldi soldati tedeschi sono stati nuovamente uccisi, saccheggiati e portati
via. Quattro motociclisti portaordini del reggimento hanno cercato, con uso sconsiderato delle loro armi automatiche e granate, di recuperare i
corpi dei soldati tedeschi, cosa tuttavia resa impossibile dalla pesante battaglia a fuoco proveniente dalla caserma Garibaldi e dai palazzi
circostanti. Il comandante di reggimento ha quindi ordinato che l’11 settembre 1943 dalle 10.36 alle 10.40 il 4° reparto di artiglieria pesante 523
sparasse 75 colpi di carro armato contro la caserma e i palazzi circostanti. Per quanto se ne sa, l’azione ha avuto un buon risultato.
Conte mporaneamente il 57° reggimento di artiglieria ha inviato ancora un corriere ufficiale al generale Deteo con le seguenti richieste:
1) Immediato disarmo e consegna della caserma Garibaldi.

2) Immediato disarmo e restituzione delle altre caserme e basi d’appoggio sottoposte al Comando di difesa.

3) Rimozione degli sbarramenti stradali.

4) In caso di mancato rispetto dell’ultimatum entro le ore 16 sarebbe stato aperto il fuoco di tutte le batterie tedesche contro Napoli.

Nel frattempo il 2° reggimento di artiglieria pesante, guidato dal tenente Hudelmeier, ha mandato pattuglie e cannoni a sparare direttamente
contro le caserme a nord e ha fatto saltare gli sbarramenti stradali.

Il 10 settembre 1943 è trascorso in grande tensione e attesa. In costante comunicazione con il gruppo Maucke (brigata Schmalz) e il XIV Corpo
corazzato sono state approvate tutte le possibili misure future del 57° reggimento di art iglieria in caso di mancato rispetto dell’ultimatum,
mentre le due postazioni di servizio rimanevano in attesa di un attacco sconsiderato. Verso le 15.30 del 10 settembre è comparso sulla postazione
di combattimento del reggimento il tenente Moretti, ufficiale di collegamento del Comando di difesa, il quale ha consegnato l’accettazione
dell’ultimatum della mattina. In questo modo il Comando di difesa ha prima di tutto consegnato la caserma Garibaldi e ha promesso il disarmo
delle altre caserme. Il Comando di difesa ha quindi immediatamente sorvegliato, tramite pattuglie di ufficiali, l’applicazione delle misure richieste
e ha stabilito che tutti i soldati italiani venissero rilasciati dalle caserme e mandati a casa. Si sono poi nuovamente avute sparatorie tra soldati
tedeschi, civili e soldati italiani, senza che i tedeschi subissero perdite gravi». 12

Intanto arrivava la comunicazione che si era installato un nuovo govern o fascista. La volontà di resa dei comandi italiani si faceva ancora più
salda. I comandanti tedeschi si avviavano verso i loro colleghi italiani per trattare la «pacificazione».

«Verso le 13 del 10 settembre 1943 è stato reso noto per via radiofonica che il governo Badoglio è caduto e si è installato un nuovo governo
fascista. In conseguenza di ciò pare che le unità di fanteria italiane si siano ritirate alle loro basi, lasciando tuttavia occupati tutti gli sbarramenti
anticarro e impedendo il traffico di mezzi e soldati tedeschi. [...] Dopo continue telefonate con il comandante di reparto del reggimento nella notte
dal 10 all’11 settembre 1943 il maggiore Marold si è deciso all’ultima trattativa amichevole con il generale di divisione italiano Deteo. Alle 5
dell’11 settembre il maggiore Marold si è recato, in compagnia del capitano Sachtleben, comandante del reparto di artiglieria pesante 454, e di
molti altri ufficiali, al Comando di difesa di Napoli e ha chiesto al generale Deteo di occuparsi di disporre pattuglie miste tedesche e italiane per
l’immediata pacificazione di Napoli; altrimenti le armi tedesche sarebbero intervenute a porre fine a questo insostenibile stato di cose. Tali
contromisure sono state approvate dalla parte italiana, che ha ripetutamente promesso con forza di non lasciare nulla di intentato per la
pacificazione della città».13

Nonostante la resa e l’inizio della collaborazione con i tedeschi da parte degli alti comandi italiani, il 10 settembre continuavano gli scontri.14

«Il 10 settembre 1943 verso le 18 il reggimento ha ricevuto la comunicazione che sul corso Umberto, nei dintorni del porto, un capitano, un
tenente e un autista dell’aviazione tedesca erano stati uccisi in un agguato e rapinati, e il veicolo WL n. 403158 era stato distrutto. Mentre alcuni
fanti tedeschi riprendevano i loro corpi, è scoppiata una sparatoria tra marinai italiani, civili e tedeschi, e il reggimento è dovuto intervenire.
Dopo una più precisa ricognizione e conferma degli avvenimenti da parte di ufficiali sul posto il comandante di reggimento ha ordinato che a
partire dalle 20.15 tre artiglierie pesanti aprissero il fuoco di rappresaglia sul quartiere malfamato del porto e nelle stazioni di marina ancora
occupate e fortificate. Dopo che tutte le unità e postazioni di servizio tedesche hanno comunicato che in questi quartieri non ci sono tedeschi, è
stato aperto il fuoco secondo gli ordini. [...] Secondo nostri osservatori e testimoni l’azione ha avuto buon effetto. Il caseggiato dal quale avevano
sparato i militari citati sopra è andato a fuoco, la stazione marittima alla banchina del molo San Vincenzo e i magazzini di marina fortificati
circostanti sono stati incendiati e ci sono state varie esplosioni; gli incendi sono durati fino al 12 settembre anche su Castel dell’Ovo, che era stato
colpito da munizioni Zzt poiché da quella parte la marina italiana aveva sparato con armi leggere contro veicoli e pattuglie tedesche».15

Nel rapporto si delineano chiaramente le dinamiche che coinvolsero l’intera città. Si sparava contro coloro che combattevano, ma si puntavano i
cannoni, si incendiavano e si minavano tutti i palazzi circostanti, si rastrellavano ostaggi nelle zone da cui provenivano le sparatorie.16 Tutta la
popolazione entrò in questo modo nel mirino delle armi tedesche.

L’11 settembre 8 soldati della 229a compagnia fotoelettricisti che si erano rifiutati di consegnare la postazione ai tedeschi, venivano catturati e
fucilati ai Camaldoli, dopo essere stati obbligati a scavarsi la fossa.

Il 12 settembre i tedeschi riuscivano a prendere possesso delle caserme, degli edifici pubblici, delle istituzioni dello stato. Ci furono ancora
resistenze in alcune caserme con altri morti e altri feriti. 8 militari che si erano rifiutati di arrendersi a Castel dell’Ovo furono fucilati davanti al
palazzo dell’Ammiragliato. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, in risposta all’uccisione di alcuni commilitoni, truppe tedesche entravano nella
caserma Zanzur della guardia di finanza, conducevano i militari a piazza Borsa, dove già era raccolta una folta rappresentanza di popolazione
civile e fucilavano 6 ostaggi, fra cui 2 finanzieri e 2 carabinieri. Intanto i carri armati continuavano a cannoneggiare i palazzi circostanti. Le fonti
testimoniali del processo parlano di 18 persone legate a una mina posta nel palazzo della Borsa e fatta saltare alle 17.45.17

Intanto un altro dramma si stava svolgendo a pochi metri di distanza, nella zona dell’università. Il giorno prima, l’11 settembre, si era verificato
uno scontro con i carabinieri della stazione Porto, che avevano difeso la centrale dei telefoni insieme a uomini del 40° fanteria e avevano ferito a
morte 3 soldati tedeschi. La mattina del 12, secondo la versione germanica, alcuni colpi provenienti dalle finestre dell’università avrebbero
provocato la morte di altri militari. A quel punto le truppe di occupazione accerchiavano la zona, catturavano i 14 carabinieri trovati nella
stazione Porto e li conducevano davanti alla sede centrale dell’università, dove nel frattempo avevano dato luogo a incendi e stavano per
procedere all’esecuzione di un marinaio accusato di aver sparato.

«Il giorno 12 settembre 1943 alle 15.15, domenica, si presentarono al portone che dà accesso nel cortile del Salvatore, dopo di aver rotto il
cancello posto all’imbocco delle rampe del Salvatore alla via Tari, una compagnia di soldati tedeschi, comandati da un ufficiale, armati di fucili
mitragliatori e bombe a mano, che senza troppi preamboli e con modi molto bruschi puntando le loro armi contro di noi ci fecero uscire nella
strada, lo scrivente ed il cognato; giù alle rampe ci fecero montare su un camion, di marca italiana, dove trovammo altri quattro giovani di cui due
conoscenti dello scrivente, uno impiegato della R. Università, edificio San Marcellino, l’altro figlio di impiegati della R. Università. [...] Saliti sul
camion, lo scrivente non si rendeva conto del perché di tale cattura armata; nello spazio visivo e nel posto ove ci trovammo, via Tari, si poté
vedere che al corso Umberto I i vicoli adiacenti a destra e a sinistra erano bloccati dai tedeschi, e si poteva vedere che due carri armati erano
fermi ma con i cannoni puntati verso la R. Università, uno sul fianco destro di chi guarda l’entrata, e l’altro sulla facciata centrale. Lo scrivente fu
richiamato dal comandante la compagnia e, sempre accompagnato da un tedesco armato di pistola e sempre pronto a far fuoco, ritornò
nell’edificio e trovò il comandante e un borghese parente di un impiegato della R. Università, il quale lo avevano tenuto per essere accompagnati
nella visita dei locali, e fece conoscere che quella compagnia doveva perquisire tutto l’edificio perché dei studenti avevano sparato sui tedeschi
dai balconi; spiegai, sempre con un po’ di francese, che ciò era impossibile dato la giornata di festività, e dato ancora che la R. Università era
chiusa per il periodo di vacanze estive; accompagnai insieme al parente dell’impiegato per tutti gli istituti e locali che contiene la palazzina
medioevale, mentre la mia famiglia, in numero di nove persone compreso la madre vecchia e cinque piccoli, rimasero davanti all’alloggio
sorvegliati da due sgherri sempre con le armi pronte. Tutte le porte furono sfondate a colpi di arma da fuoco, fecero un’infernale sparatoria e ci
obbligarono ad asportare dall’Istituto di Zoologia una macchina parlante, un apparecchio radio, una scatola porta dischi grammofonici ed un altro
apparecchio, pare che sia un microscopio.

Ritornammo tutti al camion col fardello degli oggetti asportati: rimasero ancora a scorazzare per l’edifico l’ufficiale e molti sgherri: messa sul
camion la refurtiva, perché tale bisogna dire, sempre accompagnati da due sgherri con le armi pronte ci portarono a piazza Borsa e lì trovammo
un popolo di circa quattromila persone tra uomini, vecchi e vecchie donne e bambini, e tra questa popolazione composta di tutti i ceti, tra i quali il
vicecommissario di PS con gli agenti della sezione Porto, i carabinieri della stessa sezione, nonché vigili del fuo co, guardie di finanza, agenti di
imposta di consumo ed altri, vi erano due donne paralitiche, una su una sedia comune ed altra su una sedia speciale con rotelle. Sui gradini del
palazzo della Borsa vi erano quattro cadaveri, che seppi da persone trattavasi di due marinai e due agenti di finanza ammazzati dai tedeschi
perché armati di pistola; tutte le vie erano bloccate, da piazza Municipio, dal palazzo Upim fino alla ferrovia con i vicoli e traverse comprese sul
percorso del corso Umberto I a destra e a sinistra, dai tedeschi armatissimi, carri armati che puntavano le loro bocche da fuoco sul palazzo della
Borsa, sui fianchi ed al centro della R. Università facevano chiaramente capire che dovevano sparare sugli edifici, e così fu, infatti mentre tutta
questa popolazione ed altra ancora si veniva ad accumulare, perché fatte sloggiare dalle proprie abitazioni oppure fatte scendere da mezzi di
trasporto come tram, auto e carrozze, gente che veniva da Posillipo e dal Vomero e altre località [...] era addossata sotto il palazzo della Borsa
nella via Sant’Aspreno: i cannoni dei carri armati di piazza Borsa incominciarono la sparatoria contro l’edificio, non so descrivere quello che
accadde a tanta fredda vigliaccheria dopo un ammassamento e che lo scrivente ne uscì tutto ammaccato poté vedere che molti erano i feriti
provocati dalla caduta delle macerie e dei pezzi di vetro, tutti in maggioranza feriti alla testa perché dato l’ammassamento solo le teste erano
esposte, e se questo barbaro trattamento non bastasse erano puntate contro tutta questa massa diecine di mitraglie, tanto che tutti eravamo
pienamente convinti di essere mitragliati senza poter conoscere il motivo di questo trattamento. Invece ci incolonnarono e ci avviarono presso
l’edificio della R. Università e girando per piazza Borsa lo scrivente poté vedere che mediante rottura delle saracinesche dei magazzini Re del
Caffè, Unica e uno di radio e grammofoni, asportavano tutto quanto vi era tra apparecchi, liquori e sacchi, forse contenenti zucchero, che
venivano caricati su camion.

Arrivati che fummo di fronte alla R. Università ci fecero fermare e dato che lo scrivente non sapeva la sorte dei suoi cari cercava tra la massa di
poterli vedere, e constatò che la massa era imponente e che la forza armata tedesca era spaventevole dato il numero delle armi; intanto dalle
aperture dell’edificio della R. Università, scantinato, pianterreno e primo piano, uscivano lampe terrorizzanti di fuoco ed era tanto e tale
l’incendio che noi tutti posti sul marciapiede di fronte risentivamo del calore tremendo che sprigionavano le fiamme, alle nostre spalle nel vicolo
Palmieri, vedemmo un camion macchina cinepresa ed un carro armato: l’uso del camion cinepresa era chiaro, riprendeva le scene che si
svolgevano, ed infatti fu portato un giovane, un bel ragazzone alto e robusto scamiciato, era un marinaio della marina civile e fu posto sopra le
scale vicino all’ingresso, proprio il centrale, della R. Università; lo si voleva fare entrare nell’edificio in fiamme mediante l’entrata per uno dei due
buchi praticati certamente dal cannone, ma se noi alla distanza di una quindicina di metri risentivamo del calore era impossibile al disgraziato
entrarvi; egli gridava e piangeva invocando la madre e tutti i santi che in quel momento il suo cervello offuscato da tanto terrore ricordava, da
straziare l’animo di chi doveva contro voglia e per forza, perché con la forza obbligati, assistere e vedere tanta barbarie.

Tra i tedeschi e sempre accompagnandosi ad un ufficiale vi era un borghese italiano, alto, sbarbato e roseo in viso, vestito in grigio con
accuratezza anzi con eleganza, con un portamento aitante e signorile ma con un’anima fredda e cinica: questo borghese pare che l’abbia visto
altre volte, e se non sbaglio, tra le altre personalità del fascismo napoletano; era lui che sempre ci dava ordini dopo che l’ufficiale tedesco aveva
parlato. Qui lui ci ordinò di inginocchiarci davanti al rogo e davanti a tanta rovina, dicendoci e additandoci il disgraziato marinaio: quest’uomo ha
gettato delle bombe a mano sui soldati tedeschi e sarà fucilato. Si può immaginare lo stato d’animo di tutti noi e del poveretto il quale invocava
aiuto gridando la sua innocenza, folle per il forte calore che lo investiva.

Tre sgherri all’ordine del superiore, con fucili sparavano addosso all’infelice, il quale cadde, colpito all’addome, rantolando, poi uno dei tre
assassini freddò con un colpo magistrale alla nuca il poveretto. Mi dimenticavo di dire che, quando l’uomo borghese ci disse che avrebbero
fucilato quel marinaio ci fece cenno che dovevamo applaudire alla sentenza pronunziata, cosa che una porzione fece, altri accennò al battimano
ma non lo eseguì.

Il glorioso Ateneo bruciava; grosse vampate uscivano dalle finestre che scoppiettavano e noi tutti uomini, donne, vecchi e perfino bambini di
piccola età stavamo ginocchioni e secondo i barbari dovevamo gioire di tanta rovina. Tra la folla riuscii a vedere i miei che erano ad una ventina
di metri tutti inginocchiati. Verso le ore 19.15 ci fecero alzare, eravamo stati inginocchiati per ore 2.45, e formammo una colonna.

Verso le 20 si formarono due colonne, l’una di uomini l’altra di donne vecchi e bambini, sempre davanti all’Università che sempre bruciava;
intanto nella via Mezzocannone un po’ dopo l’ingresso del palazzo medioevale si vedevano grosse fiamme; era l’edificio che dalla base ai tetti era
tutto un rogo, era la casa di Manco, della signora Bakunin ed era tutta la Società Reale che bruciava; qualcuno aveva chiamato i pompieri i quali
sempre velocissimi accorsero ma furono minacciati con le armi dai barbari, se avessero solo accennato a voler spegnere, anzi obbligarono
l’ufficiale dei vigili ad ordinare il rientro subito in caserma mentre il povero ufficiale rimase quale ostaggio.

Dopo che demmo un fugace abbraccio ai nostri cari, la colonna di tutti uomini si avviò verso la ferrovia: a piazza Ferrovia trovammo altro
ammassamento di popolo e che presi i soli uomini si accodarono alla nostra colonna, m’informai e seppi che anche in quella zona avevano fatto
razzia, ma che per fortuna non si deploravano incendi, anche là avevano entrato e frugato in tutte le case obbligando tutti a uscire sulla strada
senza alcun motivo».

A raccontare è l’allora custode dell’università, Mariano Petino, che testimoniò sugli eventi da lui vissuti di fronte a una commissione d’inchiesta.18

Dopo tutto ciò la colonna di uomini fu messa in marcia e costretta a raggiungere a piedi Teverola, un paese a circa 15 chilometri da Napoli. Lì
l’indomani i 15 carabinieri e l’appuntato della guardia di finanza, accusati di aver combattuto contro i tedeschi per difendere la centrale
telefonica, vennero fucilati dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. Tutti gli altri uomini dovettero assistere all’esecuzione, dopo di che
furono rilasciati.

Ed ecco il ricordo del figlio del custode allora bambino.

«Innanzi tutto ricordo bene era il giorno dell’onomastico di mio padre, purtroppo l’acqua scarseggiava e nel primo pomeriggio andammo giù alla
fontana di piazza della Borsa, era l’unica che dava l’acqua potabile... riempimmo le solite bottiglie qualcosa come delle damigiane... le portammo
a casa e papà tutto spaventato, molto preoccupato disse: ci sta molto movimento, autoblindati che corrono per la città, si sono sentiti degli spari,
c’è una certa reazione da parte dei tedeschi... chiaramente sono parole mie, non quelle che disse mio padre al momento, ma io mi rifaccio ai miei
ricordi... dopo di ciò incominciò il tormento. I tedeschi invasero l’università, entrarono con i carri armati su nel cortile tramite le rampe di San
Marcellino, entrarono nel cortile della facoltà di matematica con i carri armati, mitragliarono tutta la facciata, perché dicevano che c’erano degli
studenti nelle aule, i giovani, gli uomini... e dopo di ciò incendiarono il nostro appartamento [momento di commozione del testimone]...
appartamento che era prospiciente a questo cortile, era composto da diverse camere, un bell’appartamento, la famiglia mia era già abbastanza
numerosa, eravamo tutti quanti piccoli e con noi viveva anche una sorella di papà, una mia zia, in quanto per i bombardamenti che c’erano stati
precedentemente aveva perso la casa e stava con noi. Noi avevamo fatto in tempo a rifugiarci nello scantinato che ci serviva da rifugio...
rimanemmo illesi dal rogo, dalle fiamme di questo incendio, ma purtroppo rimanemmo senza niente... [...] dopo di ciò papà nel frattempo era
sparito, nel senso che alcuni figuri, dei civili alle dipendenze dei fascisti, o meglio ancora coloro che erano rimasti fedeli ai tedeschi,
incominciarono a girare per tutto il quartiere... noi abitavamo proprio nel quartiere principale, nel quartiere Porto, dove c’era una sezione dei
carabinieri, una sezione della polizia di stato, e la caserma dei pompieri... dopo di ciò papà era sparito perché preso da questi figuri... Sapevano
che era il custode della palazzina medioevale, vollero visitare tutto l’edificio per vedere se c’erano delle persone nascoste o armi o altre cose del
genere. Nel momento che lo lasciarono libero papà riuscì ad avvisarci che dovevamo uscire tutti dal ricovero... perché non abitavamo solo noi lì,
c’erano altre famiglie, famiglie di altri dipendenti dell’università, il custode della facoltà di mineralogia, il custode del cortile del Salvatore oggi
detto il cortile delle Statue... ed altre persone, tra cui un vicecommissario di polizia della sezione Porto che abitava non so come nell’università...
così una volta usciti ci portarono giù al rettifilo, di fronte là [si commuove] all’ingresso principale dell’università di Napoli dove, sullo scalone
principale, nella navata laterale, era stata riversa una lamiera da vicino il cancello... noi eravamo schierati tutti quanti, tutto il popolo del rione
Porto lì... tutti sul rettifilo, sul marciapiede laterale di fronte all’università... arrivò un carro con una cinepresa, un auto con un ufficiale tedesco a
cui dovemmo battere le mani... tutti quanti... e ci stava sempre questo signore, questa figura di uomo distinto, in doppio petto, in un abito...
probabilmente doveva essere gabardin, chiaro, molto elegante, ed era molto unito ai tedeschi ma era un italiano, non ho mai saputo chi fosse, il
quale ci comandava di battere le mani, di inginocchiarci, di alzarci, di fare tutto, e noi purtroppo lo dovevamo fare... e da questa lamiera riversa
uscivano le fiamme perché l’androne dell’università già bruciava... e c’era un marinaio della marina civile... [si commuove] che volevano fare
entrare dentro questa lamiera che bruciava... forse avrebbe fatto bene perché, come mi ha detto poi successivamente un amico di mio padre, il
custode della sede centrale, l’incendio era solamente sulla parte del cancello, all’interno si era propagato poco... se quel ragazzo fosse entrato lì
dentro si sarebbe salvato probabilmente... se non l’avessero sparato prima... comunque dato il rifiuto di quel ragazzo non ci furono ragioni, lo
fucilarono all’istante.

Dopo di ciò lasciarono andare tutte le donne e i bambini, presero tutti gli uomini anziani e giovani... avemmo solamente il tempo di salutare mio
padre e mio zio che dissero: non so dove ci portano, ma ce ne dobbiamo andare, voi tornate a casa poi ci teniamo in contatto. Mio zio e mio padre
se ne andarono e noi lenti lenti mogi mogi ce ne tornammo un’altra volta all’università... dove purtroppo non trovammo casa... era tutto
bruciato... non c’era più nulla» (Gennaro Petino).

Il 12 settembre i soldati della caserma Garibaldi, aiutati dai civili dei palazzi circostanti, resistevano ancora; intorno alla caserma si verificavano
scontri significativi. A pochi isolati di distanza il 13 settembre avveniva il saccheggio dei magazzini all’Albergo dei Poveri di piazza Carlo III, che
ritroveremo vivissimo nella memoria. Fra il 9 e l’11 settembre nel registro centrale dei morti del comune di Napoli sono 20 le vittime di
mitragliamenti o ferimenti tedeschi, fra cui 4 militari; fra la domenica 12 e il martedì 14 settembre, vengono denunciate 41 uccisioni.19 Anche
questa sequenza di eventi è documentata dal rapporto tedesco più volte citato.

«La prima parte del 12 settembre 1943 è trascorsa tranquillamente, nonostante fossero ancora in corso sparatorie contro i soldati tedeschi da
parte di civili da nascondigli, angoli nascosti, attacchi proditori e così via. Il 12 e 13 settembre il maggiore Marold si è personalmente reso conto,
dopo vari giri di ricognizione attraverso la città, dello stato della situazione e il 12 ci sono state nuovamente sparatorie dalla caserma Garibaldi. Si
è quindi aperto il fuoco contro i palazzi e la caserma, e il maggiore Marold ha fatto nuovamente disarmare dalla sua pattuglia i soldati italiani
della caserma Garibaldi. Le perdite da parte tedesca sono state minime, mentre ci sono stati vari morti da parte italiana. Durante una nuova
perlustrazione, il 13 settembre il maggiore Marold è stato preso di mira con armi da fuoco portatili dalla caserma Garibaldi e dall’adiacente
palazzo della Vittoria. In questo palazzo, una folla numerosa ha saccheggiato un magazzino di vino, assumendo in tale circostanza atteggiamenti
minacciosi. La batteria pesante 1/243, che nel frattempo, durante la notte, si era ritirata secondo gli ordini del reggimento nella vecchia
postazione n. 113 (cava di sabbia), verso le 11, dopo alcuni colpi di avvertimento, ha aperto il fuoco su ordine del comandante di reggimento
contro il palazzo della Vittoria [...] distruggendo così in parte l’ala laterale del palazzo, dalla quale poco prima erano stati sparati dei colpi. Da
parte italiana si sono avute molte perdite. L’adozione di queste misure, tuttavia, ha fatto sì che le autorità della città si mettessero
immediatamente in comunicazione con l’ufficiale di guarnigione tedesco, il colonnello Schöll, e che si giungesse così a una prima pacificazione
della città. Fino al 17 settembre 1943 non sono state segnalate ulteriori sparatorie contro tedeschi».

Alla descrizione degli scontri segue una lucida previsione della rivolta armata.

«In conclusione tuttavia bisogna ancora rendere noto che a causa dell’inadeguata sorveglianza tedesca le armi portatili italiane che erano state
raccolte sono state in parte rubate durante la notte da civili italiani, così che sussiste ancora il rischio che s’infiammi di nuovo la rivolta locale,
non appena gli inglesi si avvicineranno alla città mentre le truppe tedesche rimangono impegnate nella battaglia difensiva. Sembra quindi
indispensabile disporre un ulteriore dispiegamento di forze motorizzate tedesche per la soppressione dei franchi tiratori, altrimenti sussiste il
rischio che le perdite tedesche nella città di Napoli risultino maggiori di quelle causate dal nemico. La mentalità della popolazione è vile e
malvagia, forte l’impatto del comunismo. Soprattutto, in seguito all’insufficienza dei rifornimenti alimentari, c’è il rischio di rivolte per fame, atte
a scatenare tutti insieme gli elementi rivoluzionari della città».20

La domenica 12 settembre con l’incendio di biblioteche, istituti e aule dell’università,21 si inaugurò la politica di distruzione sistematica dello
spazio urbano, operata con cannoneggiamenti e mine, con saccheggi e requisizioni forzate. Furono fatte saltare fabbriche, edifici pubblici, furono
minati gli impianti e i luoghi nevralgici per il funzionamento della città. Quello stesso giorno veniva emanato il primo proclama del colonnello
Schöll, che aveva assunto il comando assoluto della città. Veniva indetto lo stato d’assedio, si intimava la consegna di tutte le armi e munizioni, si
ammoniva la popolazione a non opporsi agli ordini dei soldati tedeschi, si promettevano durissime rappresaglie: «Ogni soldato germanico ferito o
trucidato verrà vendicato cento volte».

Intanto venivano invasi tutti i magazzini, le fabbriche, i negozi della città. Entravano per primi i soldati tedeschi, che aprivano poi le porte alla
popolazione istigandola al saccheggio. Si creavano risse e conflitti tra saccheggiatori di opposti schieramenti. I militari germanici deridevano la
popolazione affamata e lacera, filmavano, sparavano... Torneremo sui saccheggi, che sono vividamente presenti nella memoria dei testimoni.

Qui si concludeva una fase. L’occupazione del territorio era avvenuta con una prima ondata netta di resistenza della popolazione civile e dei
militari e una prima sanguinosa repressione: rappresaglie, morti militari e civili, cannoneggiamenti di interi isolati...

Una seconda fase si inaugurava con il 23 settembre, giorno in cui venivano emanati due ordini cruciali. Veniva imposta l’evacuazione della fascia
costiera napoletana per 300 metri verso l’interno.22 Più di 200000 persone furono costrette a lasciare le loro case entro le ore 20 del 24
settembre. Si trattò di un esodo disperato e convulso. L’ordinanza tedesca minacciava l’uso delle armi contro coloro che entro quell’ora non si
fossero allontanati dalla zona proibita.

«Io ero scesa la mattina alle sette e mezza, ero scesa per comprare il pane, sempre con la tessera e vidi che stavano attaccando dei manifesti
vicino al muro e mi fermarono... All’epoca: picciré legge. Perché ci stava l’analfabetismo... e io lessi che si avvertiva la popolazione che ci davano
3 o 4 ore di tempo perché dovevamo evacuare tutta la fascia costiera a 200 metri dalla riva. E noi stavamo proprio vi cino al mare... nui steveme
proprio a 20 metri dal mare. Corsi subito a casa. A casa mi ricordo che c’era mio padre, ca steve in licenza. Dissi io: guarda papà che ce ne
dobbiamo scappare perché chisti i tedeschi ci hanno dato 4 ore di tempo altrimenti ci passavano per le armi. Mio padre disse: iamme picciré nun
dicere fessarie!23 Comunque si vestì e scese lui, e venne a casa e disse: ce ne dobbiamo andare e addo iamme a ddurmi cu sti creature?24 Non ci
avevano neanche detto per quanto tempo durasse sta cosa. E così mio padre andò da suo fratello che abitava verso Vasto a Chiaia e questo ci
ospita perché lui all’epoca faceva il portiere di questo palazzo che poi è il palazzo di Gay-Odin, che teneva pure la fabbrica: ma ie nun tengo
posto, aggia chiedere o proprietario... Onestamente Gay-Odin come seppe che noi eravamo cinque bambini, che non c’era possibilità, che non
sapevamo dove andare, disse: Eugenì apri alla famiglia di tuo fratello. E andammo a finire in una baracca e... e mi ricordo che furono... ecco... le
quattro giornate di Napoli. Fu allora... fu allora che fu la prima rivolta contro i tedeschi. I carrarmati che ci stavano per la strada! Ogni tanto si
sparava... mitragliatrici e tutto quanto... Comunque sta gente... ca veniva da e quartieri s’era scucciata dei bombardamenti, da miseria dei
sacrifici... e... era proprio una rivolta popolare che avvenne a Napoli contro i tedeschi... non volemmo saperne più niente... e tutti sti scugnizzi, sti
uagliuni contro i carrarmati con bottiglie esplosive... fu veramente un inferno quei giorni... La mia era una famiglia patriarcale, stavamo tutti
vicini di casa... la famiglia... e poi uno si riuniva in casa la sera, si parlava... ci stava il fidanzato di una cugina di mia madre che si trovava in
licenza all’epoca e allora: addo vache?25 – No assolutamente int’a caserma pecché e tedesche là te pigliane. Perché i tedeschi cominciarono a
pigliare gli uomini che stavano nelle strade... e rastrellavano... E cumm’amm’a ffà?26 E quando fu il momento che dovevamo lasciare la casa,
pecché aveveme a evacuà, addo o metteveme a stu giovane?27 Come si faceva a nasconderlo? E a cosa ridicola... pecché cia dda stà sempe a cosa
ca te fa ridere...28 e allora gli mettemmo un materasso in testa... e allora ci facemmo un percorso ca... per il viale Elena che non era un percorso
dove passavano i carrarmati che andavano per via Caracciolo e se ne andò a casa da parenti che stavano al corso Vittorio Emanuele... e meno
male riuscetteme a farla franca. E questo fu un episodio pure della famiglia che scappava» (Teresa Ciciliano).

Quello stesso giorno veniva inoltre emanato il decreto di lavoro obbligatorio per tutti gli uomini appartenent i alle classi dal 1910 al 1925. Ma
entro il termine del 25 settembre ai punti di raccolta si presentarono solo 150 uomini.

Domenica 26 apparve infine il perentorio avviso del comandante di Napoli Schöll. «Al decreto per il servizio obbligatorio di lavoro hanno
corrisposto in quattro sezioni della città complessivamente 150 persone, mentre secondo lo stato civile avrebbero dovuto presentarsi oltre 30000
persone. Da ciò risulta il sabotaggio che viene praticato contro gli ordini delle Forze Armate germaniche e del ministero dell’Interno italiano.
Incominciando da domani, per mezzo di ronde militari, farò fermare gli inadempienti. Coloro che non presentandosi sono contravvenuti agli ordini
pubblici saranno dalle ronde senza indugio fucilati».29

Il 24 nelle campagne di San Rocco erano stati fucilati 4 giovani sospettati di aver aiutato dei soldati a fuggire. Nello stesso giorno nei pressi della
stazione Centrale, nel quartiere Vasto, che già era stato scenario di molti scontri e che sarebbe stato uno degli epicentri delle quattro giornate,
erano stati uccisi 1 marinaio, 2 uomini civili, 1 donna.

Dalla documentazione trovata negli archivi tedeschi, sappiamo che in quel momento si stava apprestando il grande rastrellamento napoletano e
che nelle campagne erano già state catturate migliaia di uomini.

L’insurrezione della città fu dunque la conclusione di un crescendo di violenze che seguirono l’8 settembre e che si conclusero con il
rastrellamento operato dalla divisione Hermann Göring, dalla 15a divisione meccanizzata e dalla 16a divisione corazzata il 26 e il 27.

«Quelli mi cercavano, mi volevano portare p rigioniero schiavo. Se mi vogliono, mi devono portare morto! Orizzontalmente! Io dissi» (Giuseppe
Iaccarino).

«La gente comune si era scagliata contro i tedeschi perché si portavano i figli, i giovani, dato che cadendo il fascismo, il generale Badoglio chiese
l’armistizio, l’esercito si sciolse e parecchi militari se ne andarono a casa. Ad un certo punto questi militari si trovavano proprio al momento in cui
ci furono le quattro giornate, i tedeschi si portarono pure a loro in un certo senso, in quel momento là è stato uno sfascio: i soldati non sapevano
più quello che dovevano fare, il comando li aveva abbandonati proprio. Badoglio infatti aveva fatto l’armistizio con gli americani, e passò dalla
parte di questi contro i tedeschi, perché chilli erano monarchici, perché a Napoli le quattro giornate le hanno fatte anche i monarchici, che erano
antifascisti, però la maggior parte era a gente ro populo, perché eravamo oppressi» (Vincenzo Leone).
«Il motivo principale per cui il popolo napoletano si è ribellato ai tedeschi è stato quello che i tedeschi razziavano i giovani, deportavano, è stato
un senso di difesa ed è stato un movimento spontaneo di popolo» (Antonio Amoretti).

Pressoché tutti i testimoni napoletani mettono esplicitamente al primo posto, tra le cause dell’insurrezione napoletana, le razzie di uomini. La
documentazione tedesca sembra confermare in parte questa ipotesi. È del 26 settembre, come abbiamo visto, l’ordine di «catturare, in
collaborazione con il comandante di presidio di Napoli colonnello Walter Schöll, con azione improvvisa, la manodopera specializzata» e del 27 la
comunicazione dell’inizio del grande rastrellamento: «Questa mattina è cominciata l’azione di rastrellamento nella zona urbana di Napoli. Finora
raccolti 2000 uomini».30 L’ordine successivo è quello di «mettere in marcia alla volta di Napoli un battaglione rafforzato con carri armati» perché
in città è scoppiata l’insurrezione.31

Dunque l’insurrezione armata ha inizio tra il 27 e il 28 settembre. All’alba del 28 innumerevoli camion sostavano a piazza Dante, zeppi di uomini
da deportare. La scena si svolgeva nel cuore della città, sotto gli occhi di tutti. Intorno donne e bambini. Si urlava, si cercava di salvare dei
familiari.

Quello stesso giorno nei quartieri i giovani si organizzavano per cercare e raccogliere le armi, assaltando caserme e depositi abbandonati. «Si
calcol a che a Napoli e nei sobborghi, prima delle 4 giornate si potettero armare poco più di duemila cittadini»; «All’alba del 28 settembre le vie
di Napoli furono percorse da cittadini armati di ogni età. [...] L’aria che si respirava quella mattina era rivoluzionaria». 32 Cominciarono i primi
seri scontri armati; al Vasto morirono un insorto e alcuni soldati tedeschi. Furono assalite camion ette cariche di uomini razziati; un gruppo venne
liberato dalle donne ai Quartieri Spagnoli. Intanto gli uomini rastrellati, circa 8000, venivano condotti lontano dalla città e dep ortati. Lo scontro
fra popolazione e soldati tedeschi si faceva via via più acuto e coinvolgeva i giovani che si ribellavano con le armi alla cattura. Vennero alzate
barricate a piazza Cavour, a via Duomo, a via Tribunali, a porta San Gennaro, a port’Alba, a via Cristallini alla Sanità, a Materdei nei vicoli che
sfociavano su via Santa Teresa. Venne impedito il transito dei reparti tedeschi tra via Foria, via Santa Teresa e via Pessina, passaggio obbligato
per uscire dalla città. Furono installate postazioni di mitragliatrici. Scontri intensi si verificarono al Vasto, al Vomero, a Capodimonte, dove erano
attestati migliaia di soldati tedeschi. A via Santa Teresa un gruppo di combattenti difese e salvò il ponte della Sanità contro un reparto di
guastatori che vi stava posando una carica di dinamite. Un altro gruppo di partigiani a Capodimonte salvò l’acquedotto e catturò alcuni soldati.

L’intensità della sommossa emerge con chiarezza dalla documentazione tedesca. Il 28 settembre alle ore 23 il comando del XIV Corpo d’armata
dava l’ordine telefonico «di mettere in marcia alla volta di Napoli un battaglione rafforzato con carri armati ed artiglieria», poiché a Napoli «è
scoppiata una sommossa, il comandante di presidio è circondato». Il battaglione ha l’incarico di «soffocare la sommossa, impossessarsi della
centrale idrica e di quella elettrica, prendere cont atto con il comandante territoriale».33 La notizia e l’allarme vengono confermati da un altro
documento: «Dal pomeriggio pesanti sparatorie a Napoli, ma non sono ancora certi i confini della rivolta. Alla 16a divisione corazzata viene
impartito l’ordine di inviare a Napoli un battaglione rinforzato con carri armati ed autoblinde, per epurare la zona».34

Il 29 settembre la battaglia continuava. Al centro della città veniva salvato dalla distruzione il teatro San Carlo. A piazza Mazzini, 2 tedeschi
venivano uccisi e 2 erano presi prigionieri. A via Santa Teresa gli insorti costruivano una barricata spostando al centro della strada i tram, ma nel
pomeriggio alcuni reparti della Wehrmacht, che tentavano di penetrare in città per liberare le truppe assediate dagli insorti, dopo aver
combattuto contro i partigiani a Capodimonte, si facevano strada scendendo verso via Santa Teresa e travolgendo la barricata con tre carri armati
Tigre. Qui cadeva uno dei ragazzini onorato con la medaglia d’oro.35 I Tigre continuavano a scendere verso il centro, percorrevano via Roma,
sparando contro i vicoli da cui partiva il fuoco degli insorti e provocando parecchi morti. Venivano fermati da un’altra barricata poco prima della
storica piazza Plebiscito, dove si trova il Palazzo Reale, nel cuore della città. Qui morivano altri 3 insorti. Intanto al Vomero, in collina, un reparto
tedesco si era asserragliato nel campo sportivo con 47 ostaggi rastrellati il giorno precedente; il gruppo di combattenti del quartiere accerchiava
il campo costringendo il comandante tedesco alla trattativa. Una delegazione di tedeschi e partigiani si recava a parlamentare con il comandante
supremo della piazza di Napoli, Schöll. Si raggiungeva un accordo: i 47 ostaggi sarebbero stati rimessi in libertà, ma in cambio gli insorti
avrebbero permesso l’uscita dalla città del comando territoriale tedesco. Il colonnello Schöll avrebbe lasciato Napoli la mattina seguente all’alba,
scortato da una pattuglia con la bandiera bianca.

Il 28 e il 29 settembre la lotta era stata altrettanto intensa nella zona orientale, in particolare nel quartiere di Ponticelli, fino al 1930 paese
autonomo a forte tradizione socialista. Diversi scontri fra gruppi di partigiani e reparti tedeschi avevano avuto luogo; alcuni soldati erano stati
fatti prigionieri, uno ferito. Qui il 29 settembre si verificò l’episodio più feroce di rappresaglia all’interno dell’insurrezione: vennero uccisi a via
Ottaviano 37 civili, fra cui 2 bambini.

Troviamo di nuovo traccia sicura della lotta e di alcuni degli episodi più importanti ricordati dai testimoni nei diari di guerra della Wehrmacht.
«29 settembre. Aumentano le agitazioni a Napoli. Dopo un combattimento durato tre ore la centrale idrica è stata presa e fatta saltare. Sono
ancora previsti per la sera lo sgombero e la copertura delle vie d’uscita dalla città. È possibile compiere azioni distruttive nella città soltanto con
una forte protezione dei carri armati». Alle ore 17 il comandante del 79° reggimento meccanizzato granatieri comunicava. «Il 1° battaglione ha
1) fatto saltare in aria la centrale idrica, 2) l’attacco alla centrale elettrica non ha avuto successo perché difesa dagli italiani con un cannone a
tiro rapido. In conseguenza di ciò viene effettuato con i mezzi corazzati un tentativo di prendere contatto con il comandante di presidio. In città
barricate nelle strade e nidi di resistenza. Domanda se il battaglione durante la notte deve essere ritirato dalla città e messo a presidiarne la
periferia [...] Il comandante del 79° reggimento meccanizzato granatieri informa che anche nelle località a nord di Napoli si delinea attività di
resistenza organizzata». Lo stesso giorno alle ore 18 si aggiungeva: «La completa ripulitura di Napoli non è possibile con un solo battaglione e
altre forze non sono disponibili. Il 1° battaglione del 79° reggimento si ritira in direzione nord e blocca tutte le strade che escono da Napoli in
dir ezione nord [...] il comandante di presidio blocca le uscite verso ovest dopo aver distrutto con la sua compagnia genieri e i mezzi corazzati
tutti gli impianti vitali».36

E ancora: «Nella città di Napoli, forse sotto l’impressione delle crescenti distruzioni, l’attività delle bande è aumentata fino a trasformarsi
nell’insorgere dell’intera popolazione. Il presidio tedesco della centrale idrica (circa 30 uomini) sembra sia stato annientato dagli insorti. La
centrale è stata distrutta con i carri armati. Come misura di rappresaglia è in preparazione un bombardamento aereo. Poiché l’insurrezione nella
metropoli non può essere soffocata se non con l’impiego di forze pari a una divisione circa, l’ulteriore ritiro nell’area a nord di Napoli sarà
effettuato già durante la notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre».37 «A Napoli, dopo duri scontri, sono state fatte brillare la centrale elettrica nel
porto e la centrale telefonica. Nelle retrovie della divisione corazzata Hermann Göring si è rafforzata la comparsa di bande, alcune delle quali
vestono uniforme inglese. In particolare nell’area di Caivano (a nord di Napoli)».38

Il 30 settembre, dopo la partenza del comando territoriale, i reparti tedeschi sparavano e cannoneggiavano da Capodimonte sul centro urbano.
Gli insorti rispondevano spingendosi nelle zone ai limiti della città; molti di loro erano stati feriti o uccisi. Nelle campagne ai confini del Vomero
venivano rastrellati e uccisi 8 civili tra cui 2 bambini; venivano catturati diversi giovani e distrutta una casa. A Capodichin o, vicino all’aeroporto,
venivano presi 18 ostaggi; fra di loro due sarebbero stati uccisi, gli altri rilasciati l’indomani. Accanto ai tedeschi, in alcune operazioni erano
comparsi gruppi di fascisti; molti di loro facevano inoltre opera di cecchinaggio dai tetti delle case. Alcuni venivano catturati e uccisi.

Gli scontri continuavano fino alla mattina del 1° ottobre, quando, verso le 11, entr avano i primi reparti angloamericani.

La valutazione che finora è stata data dei morti e dei feriti è quella fatta da Antonino Tarsia in Curia nel 1950, basata sulle perdite accertate dalla
commissione che ebbe il compito di riconoscere le qualifiche di combattente partigiano o patriota e che egli stesso presiedette. «In settantasei
ore di combattimento quasi continue, dal mattino del 28 settembre all’antimeriggio del 1° ottobre, nella sola città di Napoli, caddero 178
partigiani combattenti (in questo numero sono compresi 26 uccisi nei giorni 10, 11, 12 settembre) e 140 civili, oltre 162 partigiani furono feriti
dei quali 75 rimasti mutilati ed invalidi. Inoltre furono rinvenuti per le strade 19 cadaveri di cittadin i rimasti ignoti».39 Una ricerca all’Archivio
dello Stato Civile del comune di Napoli con la consultazione dei registri dei morti ha dato risultati inaspettati. I morti per mano tedesca trovati nel
registro centrale sono 542. Il picco delle morti si raggiunge fra il 28 settembre e il 1° ottobre: 284 uccisi (215 uomini e 69 donne). Nei giorni
seguenti moriranno però ancora molti feriti negli ospedali. Confrontando poi quest’elenco con quello di Tarsia in Curia40 e con quelli conservati
nelle parrocchie di Ponticelli,41 quartiere dove avvenne una delle rappresaglie più massicce, e aggiungendo quindi i nomi di coloro che mancano
nei registri si raggiunge la cifra di 663 morti. Sono numeri che gettano una luce definitiva sulla portata di un’insurrezione spesso sottovalutata
nella memoria pubblica del paese.42 Ne parleremo più avanti.
I saccheggi

I saccheggi erano già cominciati all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, quando erano state devastate e spogliate le sedi del
regime; dopo l’8 settembre, con il crollo di tutte le istituzioni dello stato, nuovi obiettivi divennero le caserme con le armi, i magazzini con le
scorte alimentari, le fabbriche statali. Furono in parte rituali collettivi che seguirono e sancirono il crollo del fascismo, ma furono anche momenti
durissimi di contrasto con i soldati tedeschi sulle risorse. Quasi tutti i saccheggi seguirono una dinamica simile: i tedeschi aprivano un magazzino
e cominciavano a depredare, arrivavano i napoletani e contendevano il bottino ai rapinatori. A questo punto i tedeschi li affrontavano e iniziava lo
scontro. In alcuni casi gli occupanti filmavano i saccheggiatori indigeni e li dileggiavano, costruendo essi stessi una prima rappresentazione della
folla come plebe stracciona e impolitica, una rappresentazione che si fermerà nella memoria pubblica della città e della nazione. I ragazzini erano
fra i principali protagonisti dei saccheggi; in alcuni casi agivano come avanguardie delle famiglie, perché più agili, più veloci, meno perseguibili
dalle truppe di occupazione, in altri casi giravano autonomamente, come nel caso di Ernesto Minino, che considera, non a torto, il conflitto su
cibo e beni materiali con i tedeschi una delle principali scintille dell’insurrezione.

«Il primo combattimento è stato all’Arenella. Abbiamo cominciato noi all’Arenella perché all’Arenella stavano i tedeschi battendo in ritirata e
stavano con i camion con la roba da mangiare che andavano verso i Camaldoli per poi prendere Pianura, Soccavo. Noi abbiamo cominciato a
saccheggiare e i tedeschi hanno cominciato a sparare contro la popolazione. Allora da questo punto abbiamo cominciato. [...] Incominciarono i
saccheggi con i tedeschi e il primo saccheggio quaggiù che stava la fabbrica delle scarpe militari. Siamo andati là che i tedeschi c’erano però non
erano iniziate le quattro giornate. Io stavo ruba ndo un rotolo di cuoio e me lo stavo portando perché la forza ce l’avevo. Allora che è successo?
Quelli mi hanno inseguito alle spalle, io sentendo questo ho lasciato e gli è andato addosso. Via! e me ne so scappato. Io sono andato per una
porticina secondaria, il tedesco per la porta principale e mi ha intravisto e mi ha mitragliato, però non ha colpito me, perché io mi sono buttato in
una campagna e ha colpito due poveretti. Uno è morto e l’altro gli hanno tolto il braccio, uno era il padre di un ragazzo che noi chiamavamo
Pinocchio perché era col naso lungo e quell’altro invece è morto. E allora quando noi abbiamo visto tutto questo, ci siamo riuniti e abbiamo
cominciato a fare le quattro giornate».

Il conflitto sul cibo e sui beni s erve a svelare e a mostrare oggi in modo molto efficace la natura dell’occupante tedesco. Dice ancora Ernesto
Minino: «I tedeschi non li ho mai potuti vedere. L’avevo nel sangue perché erano troppo brutali. Giù c’era un panificio, questo panificio prima
delle quattro giornate faceva il pane, facendo il pane, faceva il pane tedesco, che hanno preso loro il forno... che adesso è vivo ancora il titolare, i
figli ci sono. Questo pane stava nel forno, noi eravamo ragazzi e avevamo fame... Noi... c’era l’incoscienza, noi eravamo ragazzi. Pupetto ha detto:
Ernesto ho preparato la forchetta. Un’asta che ha la punta come una forchetta, perché la cancellata era fatta a quadretti, mentre il tedesco si
girava noi con questa forchetta zitto zitto ci prendevamo un pezzo di pane. Perché sono cattivi? Perché non è che si è preso il pezzo di pane, no, ci
ha fatto prendere il pezzo di pane, poi uscito ci ha dato un sacco di mazzate. Allora perciò io mi sono messo qua [nella lotta]». «I tedeschi ci
facevano saccheggiare perché facevano i film, giravano le pellicole perché a piazza Mazzini quando ancora non erano cominciate le quattro
giornate ed erano in atto i saccheggi, andavo io e un ragazzo che poi ha avuto la medaglia d’oro morto. A piazza Mazzini c’era la Provvida, come
adesso i supermercati le chiamavano le provvide. Mentre io prendevo l’olio da un fusto grande, io ero ragazzo, sempre con i tedeschi che
filmavano, io pensavo che mi facevano prendere l’olio per farmi del bene, invece no mi hanno preso per i piedi e mi hanno messo con la testa
nell’olio, quando poi mi hanno cacciato che io stavo tutto bagnato d’olio hanno fatto il film. Poi mi hanno dato il fiaschetto d’olio e me ne sono
andato. Perché secondo lei hanno fatto queste cose? Secondo me per far vedere che loro comandavano, che loro avevano tutta Napoli in pugno,
facevano tutto quello che volevano. C’era molta gente che partecipava? Un sacco di persone. Ce la davano qualcosa, ma la base fondamentale
loro era di fare questo. Un altro saccheggio hanno messo addirittura le lance con l’acqua, sotto i vestiti con il lancio dell’acqua addirittura li
alzavano da terra e filmavano. Allora a t utto questo è scoppiato il fatto: ah, no! E abbiamo cominciato. Era una banda di dieci, dodici di noi».

Si razziava tutto ciò che si riusciva a prendere, perché qualsiasi cosa poteva diventare preziosa per un baratto, merce di scambio per ottenere
cibo.

«Ie verette correre a gente e currette pure ie, perché e tedeschi che facevano? Questo è stato a Poggioreale alla zona industriale, aprivano le
fabbriche, si pigliavano le mater ie prime, però loro entravano per primi, si prendevano tutto quello che dovevano pigliarsi, saccheggiavano, poi
alla fine uscivano f uori e facevano entrare la gente. Ie aroppe n’ora riuscii ad entrare nella fabbrica della Richard Ginori, ce steva tutte cose
scassate, piatti, piattini, boccali, poi ce stevene dei scaffali e nu pacco miez’aperto, mieze scassato, vado a vedere, l’apro e ce stanno dei servizi
da tè. E pigliai, e mettette aind’a nu scatolo vuoto e mi pigliai tre pacchi belli e chille, che poi nun ce ne stevane cchiù, verette che erano buoni e
m’e purtai a casa. Stevano avvolti nella p aglia e i tedeschi non li avevano visti. Però mentre venivo dalla fabbrica, dato che avevo pigliato quelle
cose che già erano molto pesanti, più avanti ce steva a fabbrica ’e tabacco, e vedevo che i tedeschi o stesso, prima si pigliavano quello che gli
serviva loro e poi facevano entrare la gente. Però miez’a folla, e tedeschi, m’accurgette, che facevano? Ce steva nu camion fuori, si pigliavano i
giovani e li facevano saglì ’ncoppa nu camion. Ie acchiappai e me ne ietti. Li sceglievano tra la folla, ci stevano donne, anziani, giovani,
giovanissimi... Ie piglio e me ne scappo con i servizi da tè e me ne torno. Ce steva nu fascista là, sparava verso il carcere di Poggioreale, ie
crerevo che sparava ai colombi, ma chissà pecché sparava, o forse per fare dei segni a qualcuno all’interno e ce ricett’ie: ma pecché spari ai
colombi? Si voltò e me ricette: che porti là dentro? Ricette ie: tengo o pane da portare a casa. Nun ricette chelle ca tenevo, pecché può essere
pure che so pigliava. Dissi che stavo venendo dal paese, e lui disse: cammina, statte zitto, altrimenti ti sparo comme nu cane. Nun m’o facette
ricere manche mieza vota e a piedi iette a casa. Mio padre li vendette quei servizi e mangiaime na semmana, pecché i servizi costavano. [...] O
iuorne appresse iniziarono saccheggi da tutte le parti e stevano facenne nu saccheggio all’Arenella; andai pure all’Arenella... ie ero guaglione...
pecché asceva a gente che sacchi ’e farina che pesava molto. Pure là riuscii ad entrare, mi tagliai pure nu piede, e mi pigliai nu materasso ’e lana,
tante facette che m’o purtai a via e fora. Me ne esco dietro allo spiazzale di questo deposito, che era un deposito dei fascisti, e nu tedesco con un
fucile in petto me ricette ca o materasso era suo, che doveva dormire, vide che tenevo il piede insanguinato, comunque arrivai a scappare. [...] O
iuorne appresse sapette che allo stadio Collana del Vomero stavano facendo dei saccheggi e currette là p’a famme, sapette che là ce steva na
cucina, scavalcai il muro e mi buttai. Me votte aind’a cucina e truvai e sacchette ’e farina e ci steva del grano grezzo che si doveva macinare.
Comunque riesco a pigliarmi sta sacchetta e riesco ad uscire. A purtai a casa e mio padre col maciniello del caffè macinammo il grano dentro il
macinino, però dato che il grano era duro, a mano non si poteva fare, perché girava tutt’a base del macinino. Mio padre fa un pezzo di ferro, lo
quagliò aind’o muro, mettette o catenaccio vicino e lo bloccò, e mia madre ci faceva la farina, il pane, la pizza»43 (Vincenzo Leone).

«Noi ne eravamo nove, sette figli e genitori e ognuno di noi cercava disperatamente qualche cosa per poter mangiare, quando ci fu la disfatta del
fascismo noi saccheggiammo sto Sferisterio e da questo saccheggio noi rimanemmo tutti quanti sbalorditi, perché là ci stava giacenza di scarpe,
perché poi sentivamo che i nostri soldati stavano senza scarpe e là dentro stavano un sacco di scarpe. Io ricordo che a me... io e i miei fratelli
andammo là dentro e non le so dire quanti centinaia di scarpe portammo a casa... coi sacchi, mettevamo nei sacchi, sulle spalle e portavamo a
casa, poi tutte ste scarpe a che cosa ci potevano servire? Servivano semplicemente per fare il baratto coi contadini, si portava o paio di scarpe e
chille ci dava o chile i fagioli, oppure ci dava, non lo so, frutta, verdura, qualche salame e quindi questo centinaio di paia di scarpe, che noi in casa
nascondemmo, che facemmo un doppio soffitto e là sopra mettevamo tutti questi paia di scarpe, queste coperte, era pieno pieno lo spessore. E io
proprio in quel momento mi trovai a saccheggiare questo Sferisterio io e mio fratello, vennero i tedeschi, che erano di passaggio, stavano in
ritirata, videro tutta sta gente, si affacciarono là dentro, si resero conto di cosa stava succedendo, incominciarono a pigliare quelle mitragliette,
quelle pistole a mitragliette che tenevano e: tu tu tu tu tu tu... a tutti quanti, e tutti quanti a buttarci nello scatolame dove stavano ste scarpe, sti
vestiti, non si capiva niente, però quest’intervento tedesco fu un intervento momentaneo, durò pochi istanti, fecero quella bravata, spararono, se
ne andarono e noi continuammo» (Franco Cammardella).

«Vicino a piazza Borsa c’era la fabbrica del tabacco, la manifattura del tabacco, ricordo l’assalto, hanno sfondato i portoni, proprio di fronte
all’università, quella piazzetta dove c’era la statua di Bovio, e di lì uscivano donne, bambini, uomini, con pacchi enormi di sigarette. Nella
caserma di Torquato Tasso, lì c’era la mia scuola, c’erano i soldati, quindi c’era un magazzino enorme pieno di divise, tabacco, olio, farina, pasta,
tutto... c’era il ben di dio... Allora io ho seguito tutta quella folla, che c’era lì. Ognuno prendeva tutto quello che poteva. Io sono capitato, spinto di
qua e di là, vicino a delle balle di divise. Ho preso una balla di sei, sette giubbe, avevo dieci anni, me la sono caricata sulle spalle e stavo correndo
a casa, nel frattempo me l’hanno rubata, è sparita, perché ero piccolino, quindi ad un certo momento mi son visto trascinare via questa balla, poi,
quello che l’aveva presa, si vede che nel correre ne ha persa una, perché erano legate con un po’ di spago, ho preso questa giacca e l’ho portata a
casa che mia madre mi ha fatto un cappottino» (Giuseppe Riccio).

«Andammo poi al Tarsia e c’erano le scarpe militari, ie piglio due scarpe, o stesso piede, ma a me non mi andavano, potevano andare a mio padre.
In tutti i modi io piglio nu pare i scarpe e na cassa vuota, esco fuori, in motocicletta, na Prince, non mi scordo mai, comunque sta Prince
incominciò a sparare, io pigliaie a cassa e me mettette dinte a cassa e finì là, però chillu pare i scarpe o teneve sempe sotto... ancora me n’era
addunà che era unu piede.44 – Il saccheggio io l’ho fatto nella manifattura di tabacchi, dove c’era l’università... a via Porta di Massa, entrammo lì
e ce pigliamme e sigarette... Ma come si veniva a sapere che c’era... Si spandeva a voce tra di noi. Ha partecipato anche ad altri saccheggi? Sì, sì,
a Carlo III, ma là stava roba infinita. Io mi so’ venduto na pistola nel periodo che so’ venuti gli americani, m’a pigliaie e m’a mettette nello scarico
del gabinetto di casa, nella cellofan, come pure un libro tedesco, mia sorella studiava il tedesco, chille vene n’americano, voleva un libro di verbi
tedeschi, diciette ie: se aspetti lo vado a prendere, però non è proprio nuovo. Isse me rette i soldi, lui doveva andare al fronte» (Michele Lubrano
e Vincenzo Sanno).

I tedeschi filmano, irridono, sparano, in un gioco tra la violenza e lo scherno, l’umiliazione. I napoletani sono, in quel momento, oltre che traditori,
anche straccioni e vili.

«Mentre stavamo alle file passavano i tedeschi a buttare le caramelle e per raccogliere le caramelle ce ne fuggivamo dalla fila e dopo ci dovevamo
dare tutte mazzate per tornare in fila, dicendo: io stavo davanti, tu stavi dietro. Ma chi lo sa perché quei fetenti buttavano le caramelle
guastandoci la fila?» (Maria R.).

«E tedesche quanne se n’avevene a ì facettene e rispette pure lore. Miezze a la Carità tenevene certi scatole chiene ’e marmellate, pigliavene e e
mettevene o centre. Tutte quante nuie faceveme l’assalte pe’ piglià chelli scatole ’e marmellate... ce steve na famme allora! Lore piglie e quanne
ce verevene vicine, sparavene in arie e nuie tante ra paura ce ne fuieveme n’ata vota»45 (Concetta Stanzione).

«Tutti i cinema della zona erano adibiti a depositi di vettovaglie militari. Quando ci fu il fenomeno del saccheggio è ovvio che la gente si recava lì
a rubare. Mio fratello ed io seguivamo sempre i movimenti e andavamo nel cinema. Entrammo e vedemmo che c’era una chiazza d’olio. Tutti
quanti dicevano: spustateve! E dal fondo del cinema si vedevano slittare su questa massa d’olio delle forme di parmigiano e li caricavano sul
carretto. Non solo il parmigiano anche il riso. Mio fratello ed io è ovvio che non potevamo competere con i grandi, la forma di parmigiano pesava
trenta chili. Era al di là delle nostre forze fisiche. E allora ci contentammo di rompere un sacco e lì uscì del riso di cui noi ci riempimmo i vestiti.
Mio padre affacciato alla finestra diceva: povera Italia! E imprecava contro Badoglio, contro i russi... Poi lasciammo il cinema Gloria e andammo
al cinema Imperiale. Solita ressa. Lì mio fratello riuscì a pigliare dei fiaschi di vino Chianti e delle bottiglie di acqua minerale che erano di
alluminio. Ci avviammo verso piazza Carlo III, a un certo momento... c’era una postazione tedesca che sparava ad altezza d’uomo! Mio fratello che
portava questo grappolo di bottiglie... vidi che questo grappolo fu tranciato da una raffica! Ci buttammo a terra e scassaieme e fiasche. Mirarono
per colpire, ma fortunatamente andò così» (Rosario Rega).

Il racconto si trasfigura qui attraverso una fervida, creativa capacità di rappresentazione: le forme di parmigiano che volano sull’olio dal fondo del
cinema sono un’immagine surreale, ricordano le visioni della cuccagna che tanta parte hanno nella cultura della città. Il saccheggio è parte
inscindibile dell’insurrezione, ripercorre le orme delle tante rivolte napoletane, ma è anche un rituale che emerge dal teatro della guerra un po’ in
tutte le città italiane ed europee. È un rito che accompagna la fine del regime46 ed è uno scontro vero tra tedeschi e italiani sulle risorse.

Sui saccheggi si potrebbero citare infiniti brani: vi parteciparono in tanti, soprattutto donne e ragazzi... Anche in questo caso la dimensione del
quartiere era la principale. Ogni quartiere aveva una «Provvida», cioè un magazzino di beni alimentari, e aveva una sede del fascio, e queste
furono le prime a essere prese di mira. Tutti i saccheggi descritti dai testimoni si svolgono nello spazio del quartiere, con alcuni sconfinamenti in
quelli vicini. I ragazzi andavano in avanscoperta, correvano verso altri magazzini, verso fonti inaspettate o particolarmente abbondanti. L’episodio
più vivo nella memoria è il già citato assalto ai depositi del grande Albergo dei Poveri di piazza Carlo III del 13 settembre.47 Qui lo scontro fu
durissimo, ci furono morti e feriti.

«Poi che è successo? I tedeschi cosa fecero? Ruppero in mezzo alla strada dove passa l’acqua. E rimanemmo tutti quanti senz’acqua. Però a Carlo
III nel serraglio, era l’Albergo dei Poveri, ci stava il rifornimento delle acque, che vendevano nelle bottiglie. Allora io, una delle mie sorelle, che
poi questa sorella, da allora prese la morte, andammo a prendere quest’acqua. Ignorantemente! Perché, che facevano? Ci facevano entrare, dopo
entrate, quando uscivamo, vedevano se stavano gli uomini, agli uomini li sparavano, a noi invece ci maltrattavano. Morte di paura! E ce ne
dovevamo andare, pigliavano l’acqua e ce la buttavano. E non ce la davano. Ce la buttavano. Siccome che con me venne una sorella mia, a paura
forte, tanto da a paura, tanto da a paura, si sentì male. Portammo mia sorella fuori da là, cadde, stavano delle bottiglie a terra e si fece male. La
portammo all’ospedale, si mise a letto: bronchite, polmonite, perché cadde dentro le bottiglie d’acqua, tutta l’umidità a terra... si mise a letto e
dopo sei, sette mesi morì, mia sorella Concetta» (Giuseppina Romano).

«Io avevo un amico mio che faceva l’interprete con i tedeschi, si chiamava Ugo Tissi, e lui mi disse: vieni a piazza Carlo III, lì c’è il vino, vieni a
prenderti un po’ di vino. Io: vabbè, andiamo! Era buio là sotto. I tedeschi stavano saccheggiando. Era vino Chianti, stava nei fiaschi di paglia, ogni
cassa era di 24 fiaschi. [...] Io presi i due fiaschi di vino. .. fuori c’era una macchina dei tedeschi piena di pane, di pane italiano, panelli cafoni, e
c’era un vecchio là vicino, una persona anziana. Era successo che questo vecchio si era preso una pagnotta di pane e l’autista l’aveva visto, e
disse: non muoverti. E il vecchio la prendeva come se non fosse niente. Il pane però era italiano, mica era tedesco, erano loro che lo avevano
saccheggiato. Uscirono i tedeschi con le casse di vino e le caricarono sui loro mezzi e le misero anche su questa macchina del pane. L’autista disse
a un ufficiale, che io non dimenticherò mai... aveva il berretto dell’aviazione. E l’autista disse: questo si è preso un pezzo di pane. Io l’ho visto.
Quella carogna sai cosa fece? Immediatamente prese la pistola, davanti a me, cadde davanti a me! Un attimo... un colpo alla nuca e lo ammazzò.
Mannaggia alla miseria! E il pane era italiano! Io rimasi così. Sto scappando ancora!» (Giuseppe Iaccarino).

Giuseppe Iaccarino sottolinea: il pane era italiano. Cioè mette in evidenza l’iniquità dell’azione tedesca contro la legittimità del saccheggio dei
napoletani, i quali non facevano altro che riappropriarsi di cose loro. La morte del vecchio è una violenza non solo orrenda ma anche
tremendamente iniqua. Insieme al rastrellamento l’episodio diventa il simbolo della propria personale decisione di combattere. «Scappai e trovai
dei carabinieri con dei moschetti. Non me li volevano dare, io li saltai addosso e me li diedero per forza. Io lo volevo vendicare quel vecchio, ma
poi a quello con il berretto con l’aquila ce lo avevo stampato in fronte. Lo volevo trovare ma non riuscii più a trovarlo. Comunque riuscii a
salvarmi quella mattina, ma giurai a me stesso: adesso quando li vedo, se posso li ammazzo. E così avvenne... senza organizzazione però, perché
io non appartenevo a nessun partito politico» (Giuseppe Iaccar ino).

Le razzie di uomini

«E tedesche iniziarono a ritirarsi portandosi gli uomini e i capi famiglia e allora se purtaine a Vittorio. Mentre se ievene se purtavene a gente e
sparavano da qua e da là uccidendo chi si ribellava o chi non li voleva seguire, perché si volevano vendicare del tradimento. Stevene incazzati per
il voltafaccia dell’Italia che gli aveva girato le spalle. Ci mancava poi che co tutte e putecarie ca c’avevene fatte, steveme ancora cu lloro... e loro
se vendicavano accerenne a tutte quante. E fui allora ca mentre se n’ievene, se purtaine a Vittorio. Era iuto a truvà Rosa, mentre turnava a casa
s’o pigliaine a isso e a ati duie e s’e purtaine in Germania»48 (Livia Majolo).

«Ci fermarono... e dissi: io sono piccolo. E ce purtaiene dietro al Teatro Roxy, adesso, allora si chiamava Reale, stavano già due camion tedeschi
fermi, allora ce mettettene in fila e dissero: allora la prima fila un passo avanti, a terza fila uno indietro e la fila di centro ferma. E io stavo alla
terza fila, l’ultima fila. Alle mie spalle c’era un bar e c’è ancora, un bar a due porte, uno di fronte al cinema e un altro a scala così, ie facette due
passi indietro, ma così, istintivamente, facette due passi indietro e me ne scappai da quell’altra strada. Una porta si trovava alle spalle, però
un’altra porta si trovava da quest’altra parte e io me ne scappai da quest’altra parte, non se ne accorse nessuno. Poi incominciò la paura, dicette
ie: chiste mi hanno pigliato pe’ grande, po’ va a furnì che dobbiamo cominciare a scappà! E come infatti io incominciai a scappare con i grandi e
mi ricordo che io stavo sull’arcoscenico del Bellini, ce stevene treciente perzune là ’ncoppe. Scappavamo perché i tedeschi facevano
rastrellamento di giovani. [...] noi sentivamo i tedeschi che entravano nel Bellini coi famosi stivali: bunghete, banghete, noi steveme
sull’arcoscenico prop rio! Poi era passato quel periodo, siamo scesi dal Bellini e siamo andati a casa nostra poi. Perché il pericolo era considerato
scampato? I tedeschi non venivano più in quella zona, perché poi la città era grande, non erano molti tedeschi nel senso di migliaia e migliaia,
pattuglie così... siamo scesi di là e siamo andati a casa un’altra volta e un’altra volta dietro al Bellini i tedeschi che andarono vicino a un sarto e
dissero: tu quanti anni hai? Allora non ti muovere di qua. E entrarono nel palazzo dove abitavo io, così io e mio cognato siamo scappati sul
terrazzo e lì c’erano due serbatoi di acqua, perché sotto al palazzo c’erano due bagni caldi, due erano vuoti e uno era pieno. I tedeschi
incominciarono a salire sulle scale, io e mio cognato siamo scappati, io mi so’ buttato dint’all’acqua, dint’o serbatoio metà acqua e chille iette a
furnì dinte o serbatoio vuoto. Però... venettene sul terrazzo, però niente... niente, non hanno guardato, perché poi con quei scarponi pesanti,
come abbiamo visto nei film... veramente, eh? E così poi, dopo che se ne sono scesi, è passato il pericolo» (Vincenzo Sanno).

«Mi ricordo bene quel giorno. Era l’8 settembre. Noi apprendemmo quella notizia prima per radio e poi dalla gente che urlava. Mussolini firmò
quest’armistizio con l’America o con l’Inghilterra mi pare. E quindi i tedeschi si scagliarono contro gli italiani, chiamandoli traditori perché
dicevano: fin’e mo simme state alleati, mo ci avete tradito. Da allora successe una vera e propria rivoluzione con i tedeschi, i quali cominciarono a
prendere tutti quei poveri giovani... mi ricordo che un giorno c’era un signore che faceva finta di allearsi con i tedeschi e quindi, invece di
accompagnarli a prendere i giovani si mise sulla motocicletta e diceva: stanne e fetiente p’o paese, stanne e fetiente p’o paese!49 E tutti capivano
che erano arrivati i tedeschi e i giovani si nascondevano. Infatti alcuni si nascosero anche a casa nostra, si nascose l’avvocato Canfora, mio cugino
Pietro, mio cugino Gigino e si nascosero sopra o suppigne.50 Infatti un giorno i miei cugini stavano nascosti e quei fetenti dei tedeschi con la
sciabola, quella che sta dietro al fucile, colpivano sotto il soffitto per vedere se c’era qualcuno e per poco non sfioravano la spalla di mio cugino.
Mi ricordo però una volta che sempre questi miei cugini si nascosero dietro a una porta dove c’era la cucina e noi mettemmo davanti a questa
porta uno stipo e poi per il balcone e la finestra a fianco noi con un filo gli mandavamo la roba da mangiare... quando i tedeschi salivano vedevano
solo quel mobile e non si accorgevano che là dietro c’era una porta e dietro la porta un altro appartamento. [...] Una volta catturati li portavano in
Germania. Pure un mio amico, o professore Perillo ca tene sole nu bracce, lo pigliarono e lo portarono nei campi di concentramento in Polonia e in
Germania, e lui proprio in quell’occasione perse il braccio, perché mentre stava scappando i tedeschi lo spararono appresso e colpirono il braccio
destro spappolandolo. E in seguito a questo la ferita prese infezione e quindi dovettero amputare il braccio. Ancora adesso questo povero uomo
porta le conseguenze di questo tragico incidente. Infatti dopo questi tremendi episodi, che la mia mente ha in parte cancellato, i tedeschi
divennero per noi veri e propri nemici. Essi ammazzarono dei giovani in modo bruttissimo, li presero con la forza, alcuni di loro venivano
trascinati a calci e pe’ capilli e li portarono for’a via Nova. Dopo li misero in faccia al muro e li fucilarono a tutti quanti. Ie perciò nun e pozze veré
e tedesche. Comm’erene belli chelli guagliune! Io a volte penso a questa cosa: i tedeschi prima della guerra erano bravi, poi nun sacce cosa è
succise, chille so’ addeventate cattive c’a guerra»51 (Liliana Chianese).

«Un giorno vennero i tedeschi a rovistare la casa, fecero un casino, entrò la mia vicina di casa per farmi compagnia piangendo perché questi due
o tre giovani tedeschi puntavano i fucili verso di noi – ma che volete? entrate, che volete? – così dicevamo gridando e piangendo. Materassi per
terra, biancheria, tutto per terra chissà che cosa cercavano. – Uomini, uomini, uomini! – Non ce ne sono uomini, dissi io con rabbia, ce n’era uno
solo e l’hanno chiamato già, che non ci scrive e non ci dà notizie sue. Allora che feci? Indignata come ero, aprii la porta del bagno, del gabinetto,
non era il bagno, era il gabinetto allora. Aprii così e: vedi, vedi pure qua. Lui non fece altro e mi puntò il fucile alla gola e io alzai le mani così: no
perdono, perdono non lo faccio più. Piangendo le mani in alto, piangendo così. Piano piano se ne andarono e io poi mi sentii così male che me la
feci a piangere quel giorno. Parliamo proprio della venuta dei tedeschi, quella è stata la cosa più brutta, perché prendevano i giovani e quelli non
giovani, bambini dalle case li portavano a un certo posto e li fucilavano, me li hanno fucilati a poca distanza da casa mia in un giardino e li hanno
messi in fila e li hanno fucilati» (Nunzia R .).

«Al Museo c’era una beccheria, mi misi là e se sapessi che pietà, si portavano tutti i ragazzi in Germania, per la strada tutta la gente volevano
salvarli ma i tedeschi... uno accà, uno allà, se li portavano tutti. A mio fratello che era avvocato al Banco di Napoli fu avvisato da mia sorella che
andò per dietro al Cavone per non farsi vedere, lei lo salvò a Eduardo. Se li prendevano tutti, perfino fuori la scuola li aspettavano e se li
portavano nei campi nazisti. Allora il beccaio diceva: fai vedere che non vedi. Noi non potevamo far vedere che vedevamo. Noi tenevamo questo
palazzo a Materdei, un bel giorno di mattina si sentì un trambusto, c’erano i tedeschi nel palazzo, allora mettevamo tutti i giovani nei scantinati e
li muravamo vivi, che poi un cugino mio murette, li murammo e vicino al muro ce mettemmo tutte le cipolle e infatti loro entrarono e
domandavano dove stavano i giovani. Donna Antonietta non rispose e andarono per le case a sporcarle, però non arrivarono a trovarli. Così i
tedeschi ci seviziarono» (Elena Sorge).

«Noi stavamo in casa quando i tedeschi sparavano a chi fuggiva. Quando ci fu l’armistizio tutti gridavano: è fernuta a guerra, è fernuta a guerra!
E ci stavano non so quanti marinai che uccisero uno o due tedeschi e non so quanti soldati nostri i tedeschi uccidevano e molti marinai mentre
tornavano a casa, poveretti, furono uccisi e noi ci dispiacevamo. Questo facevano, acchiappavano a gente e la uccidevano. Una volta dovettimo
nascondere sopra a una scuola a Vincenzo e a uno di Trapani. Li tenevamo nascosti dietro ai banconi perché quelli andavano guardando tutti i
posti per vedere di portarsi le genti e ucciderle. Facevamo tutte queste cose pieni di paura di uscire perché sparavano a tutta forza. Le
camionette vedevano un gruppo di giovani, si fermavano e così... Quando i nostri vedevano che quelli prendevano la gente si diedero da fare pure
loro» (Maria R.).

«C’eravamo trasferiti da via Tasso al Vomero, perché lì c’era un ricovero più resistente ed i tedeschi andavano casa per casa per fare razzia di
uomini dove c’erano giovani che non erano ancora in età da essere richiamati, per cui a via Tasso erano rimasti dei cugini miei che erano ragazzi
un po’ grandicelli... questo è un episodio che ricordo bene: se fossero usciti da soli, avrebbero corso più pericoli, io sono sempre stata abbastanza
coraggiosa... andai a via Tasso e presi questi tre cugini... per non fare il Vomero vecchio che era più pericoloso, facemmo via Tasso, via Aniello
Falcone... il comando tedesco era alloggiato presso l’hotel Parker e quindi noi per forza dovevamo passare per via Aniello Falcone e via Tasso che
inizia al Corso, arrivati a via Aniello Falcone sopraggiunse una colonna di camion con tutti militari tedeschi in assetto di guerra ed era il primo dei
quattro giorni delle quattro giornate di Napoli, quando vedemmo una lunghissima colonna, i palazzi era tutti chiusi, quindi se uno avesse voluto
chiedere asilo non potevi chiederlo perché era tutto sprangato, quindi arrivammo all’altezza delle Arcate e questa colonna che sopraggiungeva...
– dissi ai miei cugini: nascondetevi che là ci stanno de i pilastri e se questi vi vedono vi prendono... aspettiamo che passino. Sennonché era una
colonna lunghissima, non finiva mai... su ogni camion c’erano molti molti soldati coi fucili, mitragliette e se avessero voluto farci male, qualunque
soldato tedesco ci poteva uccidere, chi gli faceva niente? Invec e questa colonna proseguì... noi riuscimmo ad arrivare a via Scarlatti e nessuno ci
fece niente. [...] Ricordo che dove sta la calata San Francesco che attraversa via Aniello Falcone, mentre noi arrivavamo e questa colonna
arrivava, io ho visto dei marinai in divisa, quindi marinai italiani, che si arrampicavano sui muri e tenevano le armi... questi marinai si nascosero, i
tedeschi non li videro proprio e andò tutto liscio. Invece poi arrivati a casa ad un certo momento... eppure il portone era chiuso, come potettero
aprire il portone non so... arrivarono dei soldati italiani, sbandati, erano del nord e chiesero asilo, proprio quel giorno lì, siccome scattò
l’allarme... evidentemente c’erano ancora i bombardamenti degli americani... noi dovevamo andare nel ricovero chiaramente, allora sono venuti
pure gli sbandati che erano soldati scappati, sono venuti pure loro nel ricovero. Sì questo lo ricordo benissimo, c’è stato il bombardamento... poi è
finito il bombardamento ma loro non potevano uscire perché stava per scattare il coprifuoco, allora... erano giovanissimi... hanno chiesto: aiuto,
aiutateci, come facciamo? Non possiamo rimanere qua perché qualcuno ci ha visto entrare. Allora mia nonna pensò di vestirli da donna... siccome
mia nonna era molto alta... insomma erano quattro giovani, insomma noi li vestimmo da donna con i fazzoletti, non sembravano più uomini... poi
siccome stava per scattare il coprifuoco ma non ancora, quindi si stava facendo buio, li facemmo andare via. Tenevano le bandiere italiane e le
armi e le nascondemmo. Siccome nei ricoveri c’erano delle travi e sopra delle tavole nascondemmo le bandiere e queste armi, che poi se le
vennero a prendere su questi tavolati» (Annamaria Romano).

«Mia madre faceva bene assaie ai militari, sai perché? Do ve stavamo noi stava la Bernini. Nella Bernini, quanne ce steva a guerra, ce stevene e
soldate sfollati ’e l’aviazione e ce steva nu mure ’e cinta e s’affacciavene addò abitavamo noi.52 E quando scappavano mia madre li ospitava, li
dava a mangiare, a dormire perché noi non ci stavamo. Noi stavamo al corso, dint’o negozio cu papà perché stavamo vicino al ricovero. La casa
nostra era vuota e mammà e teneva tre, quattro giorni e o momento opportuno e faceva scappà. Ca poi, dopo la guerra, la scrivevano. Con uno è
rimasta in contatto paricchiu tiempe. Diceva che mammà l’aveva salvato» (Matilde B.).

«Nel palazzetto dove stavamo noi ad abitare c’erano due scalini e poi veniva il portoncino, c’erano due tedeschi... questi due tedeschi si misero
dietro a questa porta, dove noi stavamo dentro con i moschetti. Ognuno che passava, che scappava con le macchine, mitragliavano... io parlo
come voglio, perché io non so parlare italiano... e allora questi due tedeschi, quando finirono di sparare, entrarono dentro! Ricette ie: mo
murimme tutti quanti! Papà allora era anziano, non era stato richiamato, però teneva nu fratello ca si era nascosto, e si era nascosto dietro a nu
armadio. Io tenevo a Tommaso in braccio e chille steve dietro all’armadio nascosto. Io morta di paura! Allora nu tedesche ’e chilli pigliò o
moschetto e come se lo avesse fatto na carezza a mio figlio. E io dicevo: mo ci uccide, mo ci uccide!... [...] Una volta si rifugiarono dint’o vico
Tagliaferri, in un palazzetto vicino alla direttissima, là sopra. Là ci stava un palazzetto chiamato o funneco.53 Al primo piano ci stava un corridoio
e c’era na signora chiamata Guerra. Tengo a mente pure o nome! E sta signora era na cara amica. Allora tutt’assieme, chesta signora, pigliò nu
sacc’e giovani ’e chillu palazziello, perché llà ce steva nu sacc’e ggente...54 Pigliò l’armadio, e ’nce steve nu fuosse in faccia o muro, come, sapete,
come nu guardaroba a muro, e li metteva là dentro. Nu bello iuorne salgono i tedeschi, io morta di paura, tutti quanti in fila... Comunque chilli llà
fessi come erano, se ne andarono, non acchiapparono a nessuno. Eh! Poi dopo ci chiudemmo dentro, ci abbracciammo, ci baciammo dalla
contentezza. Eh...» (Giuseppina Romano).

«I tedeschi volevano gli uomini, volevano reclutare tutti gli uomini. Io ricordo che noi dalla casa nostra tenevamo il nostro balcone affacciato in un
giardino e in questo giardino c’era un piano terra e poi c’era come fosse un suppegno. E noi dal balcone nostro della cucina tenevamo un buco:
allora che fecero. Tutti gli uomini del palazzo si andarono tutti a rintanare in quel buco; quando i tedeschi arrivarono, che venivano fino a casa e
ti venivano a bussare, perché loro alle donne non facevano niente, ma appena vedevano un uomo se lo prendevano. E loro si misero tutti quanti lì
dentro in quel buco e non potevano stare in piedi: tutti distesi a terra e noi dal nostro balcone attraverso il buco mettemmo una tavoletta e di là ci
passavamo un poco d’acqua, cibo, tutta roba calda. Stettero non so per quanto tempo, perché poi quando finiva che i tedeschi andavano via si
veniva a sapere e loro uscivano. Poi appena c’era un’altra volta movimento allora immediatamente tutte queste persone salivano a casa nostra e
con questa tavoletta di legno, dal balcone, si infilavano là dentro in quel buco» (Teresa Esposito).
«Quando tornò il carro armato acchiapparono una buona porzione di italiani, di giovanotti e li portarono nel bosco di Capodimonte, dove appena
si entra c’è una palizzata tonda e li misero tutti là dentro e poi se li portarono pure dietro, quando se ne scapparono. Ed io mi ricordo che andai
con le mie amiche nel bosco e molti giovanotti mi diedero pure gli indirizzi per andare a dire alle madri che i tedeschi se li portavano via, poi non
so che fine hanno fatto... Che poi dopo io insieme ad un’altra ragazza, si chiamava Olga Di Giacomo, andammo con questi bigliettini e mi ricordo
c’era un signore al museo, gli andammo a dire che il figlio se ne era andato, insomma andammo torno torno con questi bigliettini che ci avevano
dato i nostri giovani» (Maria Musto).

«Quanne ce mettetteme cu i mericane nun se capette niente cchiù, perché i tedeschi diventarono ancora più cattivi, fecero un sacco di brutalità.
Mi ricordo una volta stavo con mia mamma, mio padre, mio marito e mio fratello, quando vennero i tedeschi nella nostra strada, si venivano a
prendere gli uomini, noi sentivamo le grida, mio marito era giovane e come, infatti stava sempre nascosto. Vicino a mia mamma abitava una
famiglia di Lagonegro e erano sfollati in Calabria e ci avevano dato le chiavi di casa, così nascondemmo mio marito là dentro e chiudemmo con un
grande catenaccio la porta. All’improvviso i tedeschi bussarono, andammo ad aprire e loro subito a gridare: uomini, uomini... e noi a piangere.
Stava mio padre nel letto perché non riusciva a stare in piedi per la debolezza, le gambe non lo tenevano, ma mio padre era vecchio. Guardarono
dappertutto, pure dentro ai materassi, mettettene tutte sott’e ’ncoppa.55 Si presero a mio fratello che non si era voluto nascondere, lo
picchiarono... non vi dico quella povera donna di mia mamma... fu un brutto momento, pensavamo che lo uccidevano, quei maledetti gridavano e
ci allontanavano con le armi, non ci fu niente da fare, si presero a mio fratello e lo caricarono su un camion pieno di tanti giovani. Mio marito si
salvò perché non riuscirono ad aprire quel catenaccio. Da quel momento si andò a nascondere nel bosco [della Reggia di Portici] con quelli del
palazzo che non erano stati presi. Si mettevano le coperte addosso e stavano là dentro, perché si potevano nascondere se andavano i tedeschi,
avevano pure scavato delle buche e si nascondevano là dentro. Quello poi il bosco è grande e i tedeschi non lo conoscevano come noi, quanti
giovani si nascondevano là... A mio fratello lo portarono in Germania sui camion, stette prigioniero in quei campi per un sacco di tempo. [...] penò
assai quando fu prigioniero, lavorava dalla mattina alla sera come un mulo senza fermarsi, nudo e tutto sporco. Quando parla di quel periodo
piange, ma signurì piange con i singhiozzi, chissà...» (Elisabetta Auricchio).

«I tedeschi man mano che si ritiravano verso Capodimonte trasformavano questo luogo in un vero e proprio campo di battaglia, da lì sparavano
sulla città sottostante. Mentre si ritiravano prendevano anche dei prigionieri. Fu anche la volta di mio fratello Antonio. Io e mia madre la quale
era molto coraggiosa andammo a piazza Dante dove c’era il concentramento dei mezzi che si dovevano ritirare con gli ostaggi e ci accostammo
ad un capitano tedesco e gli chiedemmo se poteva ridarci Antonio, visto che era ancora piccolo per fare la guerra. Il capitano rispose: gut e se ne
andò. Mia madre non si arrese e andò da un altro capitano e lui rispose: se potete riportarvelo a casa, fatelo, perché tutti questi ragazzi che
vedete qui non torneranno mai più a casa. Mia madre, nonostante nel frattempo giungevano davanti a lei altri tedeschi, riuscì a prendere mio
fratello e portarlo a casa» (Rosa Fusaro).

«Ereme tutte povere, tutte popolane. Ce stevene gente istruite, perbene, ma chille se facevene e fatte loro... E po’ chelle ca è state na cosa
impressionante è stata a cacciata de tedesche. Allora finì a guerra e ce furene e quattro giornate. E allora tutte e giuvene fina a vent’anne se
ievene annascunnenne. Dicevene sule e giuvene fine e vent’anne pigliavene, invece ce fuie nu mumente tutte l’uommene se pigliavene e tedesche
e allora nu iuorne vennero all’improvviso int’a strada mia. Allora u marite mie nun teneva aro se nasconnere, piglie e allora o mettetteme ’ncoppe
o liette. Ie steve int’u basce, loro quattro o cinque cu due fasciste pure vicine, pigliaiene o zi Vicienze, siccome chille aveva avuto cinque morti in
famiglia, aveva cinque stelle in petto. Ogni morto sarebbe una stella? Sì. E allora une ’e chille vulette domandà: cher’è? Facette segne. E isse
ricette ca nu bumbardamente americane e cose. Allora ricette: u bumbardamente e fa ceve segne... e cose. Loro n’avettene pena e o rilasciaiene.
Chistu fatte mentre camminavene davanti a casa mia. Pe’ parlà cu chille nun guardaiene rinde a casa mia, si no su pigliavene. Chille coppe o
liette accussì. E nun sacce comme se salvaie. Nel salire ce steve nu portone a rimpette a me e iettere inta chillu portone, se pigliaiene a nu
gi ovane, ad un bravissimo giovane e su purtaiene, e chissà a fine ’e sto giovane ca fatte. Uno e n’ate e duie e se pigliaiene. Pigliavene accussì...
ma chille e giuvene ievene scappanne tuorne tuorne, ievene scappanne, però prima ca se rivoltaiene e quattro giornate. Ca e sparaiene perché
po’ se sfasteriavene e facettene nu complotte e nu iuorne prennettere nu tedesche mieze a Carità e dui giuvene o sparaiene. Cheste fuie a
scintilla, ca u sparaiene, fui na cosa pe’ tutt’o quartiere. Na rivoluzione. Scennevene tutte quante ch’e bombe a mane, ch’e pistole, cose... [...]
Murerene e giuvanotte pure. Une ’e diciotto anne vicine a Rinascente, n’atu giuvene a piazza Carità»56 (Anna Lobascio).

Una grande epopea: la fuga dai rastrellamenti. Qui i ricordi della città sono infiniti e comuni a tutti. Perché tutti, tranne quei 150 citati dal
proclama tedesco, scapparono, e pressoché tutto il resto della popolazione si prestò ad aiutare i fuggitivi. La solidarietà è ricordata con grande
semplicità, come un atto naturale, nell’ordine delle cose. Nessuno pensa di avere fatto o visto fare un atto eroico. L’immagine della madre che si
porta via il figlio, già in fila per essere deportato, non ha nulla di retorico: con la più grande naturalezza se lo prende e se lo porta a casa. Sono le
donne le maggiori protagoniste e narratrici dell’epopea. Ogni botola, ogni soppalco, ogni soffitta, ogni nascondiglio era zeppo di uomini. I
racconti spesso accomunano le varie fasi: uccisione di marinai, incendi, distruzioni, rastrellamenti occupano indistintamente tutto il mese di
settembre senza soluzione di continuità nella memoria. Ma nella maggior parte dei casi i rastrellamenti e la fuga preludono, nella narrazione, alla
rivolta armata vera e propria, come, ad esempio nell’ultima testimonianza riportata. «Pigliavano così. Ma i giovani andavano scappando
tutt’intorno, andavano scappando, ma prima che si rivoltassero le quattro giornate [...] Fu una scintilla, fu una cosa per tutto il quartiere, una
rivoluzione, scendevano tutti quanti con le bombe a mano, con le pistole...» È bellissima la frase usata da Anna Lobascio: spararono perché «si
sfastidiarono». È difficile rendere in italiano il senso di sfastidiarsi, significa scocciarsi, ma insieme implica un’idea di leggerezza, di sufficienza, e
il passaggio all’azione diventa un fatto naturale, privo dei connotati dell’eroismo.

Luigi Giovansante, marinaio, arrivò a Napoli proprio quando iniziavano i rastrellamenti. «Appena arrivato a casa in via Discesa Sanità, le donne
gridavano: i tedeschi, i tedeschi se stanne piglianne e giuvene, se stanne piglianne e giuvene! Currite, currite! Manco dopo un’ora, due ore, mi
sono trovato sotto terra. Qua ci sono delle botole sotto a un palazzo. C’era un portiere, per salvarci ad una ventina di noi tutti giovani ca steveme
ccà, c’ereme sbandati, con una fune ci hanno portati giù e siamo stati sette, otto giorni sotto terra e loro ci davano il mangiare da sopra. Ci hanno
murato pe’ nun facce veré dai tedeschi e poi la parola d’ordine era: se noi spegniamo la luce, state zitti non parlate; se facciamo tutu, state zitti,
stanno i tedeschi in giro. Pecché e tedeschi andavano in giro ie e vedevo. Mandarono un bando e tedesche che dovevamo andare a piazza Dante e
portare il cucchiaio e una scodella, c’erame purtà appresso perché c’erane purtà in Germania. Dopo otto giorni che siamo stati laggiù hanno
gridato: Uscite! Uscite! Stanno minando il ponte. E stavano qua sopra qua, questo ponte qua sopra. C’era un buco per terra e c’erano due
tedeschi che stavano mettendo una bomba, perché dovevano far saltare questo ponte. Loro, siccome noi stavamo là sotto, dice: chisto mo cade o
ponte e rimanene là sotto là. E ci hanno fatto uscire. Nell’uscire c’erano parecchi uomini più grandi di me che erano armati. S’anne pigliate e
fucili, s’anne mise qua sotto ed hanno ammazzato... della quale incominciò le quattro giornate. E a capa di questi, di questi che ammazzarono i
tedeschi, era quella... C’è la lapide qua, comme si chiamava? Lenuccia [risponde la moglie]»57 (Luigi Giovansante).

Man mano che queste storie venivano alla luce il mio stupore cresceva. Come è possibile che i partiti antifascisti a Napoli (e in generale nel
Mezzogiorno) non si siano fatti carico di tramandare, di portare alla luce memorie così vive, episodi così intensi di solidarietà? Come avvenne per
altri episodi della guerra, l’esperienza fu vissuta a livello individuale e di gruppo, ma non assunta nella narrazione pubblica sia a livello locale sia
a livello nazionale. Eppure la solidarietà alle vittime, la disobbedienza, la resistenza attiva al nazismo avrebbero potuto a tutti gli effetti comparire
tra gli elementi del discorso nazionale che legittimava lo stato emerso dal 25 aprile e contrastare l’immagine di un Mezzogiorno qualunquista che
determinate forze avevano interesse a mostrare.

Emerge uno scarto fortissimo tra classi dirigenti e popolazione: le istituzioni crollavano, non riuscivano a proteggere i cittadini, confermavano ciò
che tutti avevano potuto sperimentare in anni di guerra con soldati mandati allo sbaraglio, abitanti delle città senza rifugi e senza cibo, e cioè
l’incapacità, il pressapochismo, lo scarso senso di responsabilità della classe dirigente del momento. Alle istituzioni sopperirono, secondo una
tradizione radicata nella società italiana, le famiglie e le reti informali di vicinato e di amicizia. Ovviamente fu una conferma e un rafforzamento di
tali strutture, fenomeno che probabilmente avrebbe influito negli anni a venire. Forse, in una certa misura, questa distanza spiega anche l’oblio
successivo da parte della classe dirigente di destra come di sinistra, con poche se pur lodevoli eccezioni.

Insieme ai rastrellamenti cominciò dunque quella che viene ricordata come la vera e propria insurrezione.

I massacri

Sarebbe estremamente riduttivo ricostruire il settembre napoletano soltanto dal punto di vista dei combattenti. In realtà per tutto il mese si attuò
una violenza indiscriminata contro la popolazione civile, violenza che è passata sullo sfondo nella ricostruzione delle quattro giornate.58 Gli eventi
che si verificarono il 12 tra piazza Borsa e l’università, ripercorsi nelle pagine precedenti attraverso la documentazione tedesca e alcune
testimonianze, ci hanno mostrato alcune dinamiche delle ritorsioni. La misura più immediata e più utilizzata fu il cannoneggiamento delle zone da
cui provenivano spari o da cui si diceva che provenissero. Si giravano i carri armati e si puntavano i cannoncini verso le abitazioni civili e le
strade. Lo abbiamo letto nei documenti tedeschi. Ne abbiamo ampia testimonianza dai racconti.

«Questi carri armati scesero per via Pessina! Io stavo su un terrazzo a via Bellini, dove abitavo da un anno e mezzo e verette sti carri armati che
scendevano, ma mi devi credere, quando verettene i cannoni... perché poi loro buttavano na cannonata al vicolo Bagnara, perché ce stevene dei
partigiani coi fucili che sparavano... – Ce ne era uno chiamato o Pazzignano, allora cosa fece? Sparò un colpo di fucile contro un carro armato,
quello girò o cannone e sparaie dinte a chillu viche e morir ono quattro o cinque persone di una famiglia, che erano i portieri i stu palazzo... vico
Abbagnari ... sa il Bar Messico dove sta a piazza Dante? Affianco ci sta il giornalaio e vicino ci sta nu vicolo, là dentro e morirono quasi tutta la
famiglia, perché stavano fuori al palazzo per vedere sti carri armati che passavano»59 (Michele Lubrano e Vincenzo Sanno).

Vincenzo Sanno, lo stesso testimone che assistette al massacro della famiglia ferma nel vicolo, rimase poi gravemente ferito dalle cannonate
sparate sulla città dai tedeschi in ritirata.

«Poi dopo si so’ fermati sulla Specola, a Capodimonte, dove sta l’osservatorio e da là sparavano nella Sanità. So’ stati diversi giorni su alla
Specula a sparare... – E buttavano i colpi di mortai... E arrivò una a via Ruvo, c’era una salumeria, c’era la gente in fila, che è morta anche una
cugina di mia mamma... [...] Mi trovavo anch’io là. Mio padre... c’era una fila che davano un po’ di farina, pasta, allora mio padre, che aveva un
braccio in meno, o mettettene là, dicette: io non appena tu entri... Io stavo proprio all’angolo della strada e tenevo una tuta di macchine addosso,
di quando facevo o meccanico, e quando hanno buttato questi colpi di mortai appresso... È stato proprio il 1° ottobre. Il quarto giorno delle
quattro giornate, no? Sì, sì, la venuta degli americani, gli americani aspettavano che gli italiani i ievene a piglià c’a mano, anche perché da
Salerno che venivano, dice: entrate che nun ce sta cchiù nisciune! Perché i tedeschi hanno incominciato a bombardare con questi colpi di mortai?
Hanno fatto i morti a non finire, perché poi e mortai non è che miravano un posto preciso, li scagliavano nella città... E allora io mi trovavo
all’angolo di questo negozio, nu colpo i mortaie andò a finire di fronte e fui ferito, perché il colpo di mortaio, lo spostamento d’aria, fui ferito in
petto, alla gola, alla gamba sinistra, al torace e così feci un girotondo e a mio padre poi nun l’aggia viste cchiù, andai a terra e mia madre: figlio
mio! C’erano due sorelle mie, Elena e Maria, che allora una era del ’35, n’ata ro ’32, figuratevi! Quanti anni tenevano? Una teneva sette anni,
un’altra teneva dieci anni... comunque mi accompagnarono in un palazzo... dicevano che là c’era un pronto soccorso, dove c’è quella statua di San
Gaetano, vicino alla Galleria Principe di Napoli, dice che c’è un medico che dice portatelo all’ospedale... Erano verso le nove del mattino. E poi
assieme a un’altra ragazza che hanno preso ci hanno messo sul carretto e ci hanno portato, in quel momento una macchina con una croce rossa...
questa ragazza... stavamo proprio mano e mano tutti e due... teneva proprio tutto o cranio sollevato, dice: nun te preoccupà, chille me
l’azzeccano. Proprie accussì, le ultime parole i chestaccà.60 E fummo messi in questa macchina, andammo agli Incurabili e me mettettene
ammieze i morti a me, poi io incominciai a muovermi e passò una suora: c’è un ragazzo qui che si muove, aiutatemi! Mi alzai allerte, me mettette
vicine a veste e la sporcai piena di sangue a quella suora vestita bianca... Accompagniamo a questo ragazzo in infermeria. Così mi medicarono il
collo, il braccio, l’avambraccio... C’erano molti feriti? Sì! Un sacco di feriti. Poi venne mia madre: o figlio mio dove sta? – Al primo piano! Appena
venette mio padre al primo piano io stavo dint’o letto, l’unico letto lo occupai io, ve nne una commissione americana, dopo un paio d’ore, perché
noi stavamo senza acqua, e formiche camminavano pe’ sopra i letti e s’intromettevano nelle ferite, nun teneveme da bere, perché avevano minato
tutti gli acquedotti i tedeschi prima di andar via. A questo punto sta commissione americana portarono delle casse d’acqua e si cominciava a
distribuire, non appena distribuettero l’acqua dei cecchini da sopra là sparavano, gli americani ch’e pistole rispondevano alle armi, i familiari a
me me pigliarono e me purtarene sott’o letto. Il giorno dopo io fui trasferito per amicizia dei miei e fui trasferito al Loreto a via Crispi, il 2
ottobre. [...] io sono una vittima civile proprio, non so’ partigiano» (Vincenzo Sanno).

Altrove la violenza è più sistematica e si attua secondo la logica della rappresaglia, come nel caso delle esecuzioni dei Camaldoli, di piazza Borsa,
dell’università e di Teverola. La rappresaglia più sanguinosa avvenne a Ponticelli.

Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli, comune socialista all’inizio degli anni venti – lo abbiamo già ricordato –, era entrato solo
nel 1930 nella cerchia della città. A ridosso della zona industriale, aveva subito terribili bombardamenti con centinaia di morti. Fra il 23 e il 27
settembre erano stati catturati e deportati in Germania moltissimi giovani. I soldati infierivano sul territorio facendo razzia di beni. Il 28 avevano
vuotato un negozio di coloniali portando via sei quintali di zucchero, ottantadue bottiglie di marsala all’uovo, quattro damigiane di vermouth, un
quintale di surrogato di caffè... Nel cortile di un’altra casa si erano impossessati di un maiale. Avevano saccheggiato, a parecchie riprese tra il 13
e il 29 settembre, la Scuola Pratica di Agricoltura portando via «un pianoforte, un apparecchio radio, un grammofono, una macchina da scrivere,
un fucile da caccia, un lettino completo di materassi e coperte, oggetti vari di cancelleria, due poltrone, tre sgabelli laccati, due tavoli laccati, un
apparecchio telefonico, cinque suini, ventisei colombi, un cassone pesa maiali, sei chili di patate».61

Come nel resto della città il conflitto era dunque cominciato subito dopo l’armistizio, ma si fe ce intensissimo in quei fatidici ultimi giorni di
settembre. Gli scontri armati furono particolarmente aspri. È in questo quadro che si situa la rappresaglia del 29 settembre. Ne possiamo
ricostruire in parte la dinamica grazie all’inchiesta che nel 1945 condussero i carabinieri.

Il 29 settembre gli scontri armati erano iniziati al centro del quartiere, o paese, come erano usi ancora chiamarlo gli abitanti, sulle vie principali,
via Napoli e via Principe di Napoli. Qui ci furono i primi morti, fra cui anche due donne, scese in strada per aiutare il marito e padre.

«Il giorno 29 settembre 1943, assieme ad altre persone, tutti armati di moschetto 1891, ci aggiravamo nelle adiacenze di via Napoli e via Principe
di Napoli, quest’ultima strada di mia abitazione, allo scopo di combattere i tedeschi, i quali, con due autoblinde si erano appostati all’imbocco
della via Principe di Napoli. Giunti a contatto di fuoco incominciammo a sparare contro. Poiché i tedeschi reagivano con i pezzi delle autoblinde ci
disperdemmo e io riparai in casa mia dove trovavasi mio padre, Aprea Umberto, mia madre e altre persone. Vistici sparire, i tedeschi cessarono il
fuoco, così, rassicurato, uscii nuovamente sulla strada, seguito da mio padre, il quale si era armato di altro moschetto che deteneva in casa. Usciti
che fummo, verso di noi fu indirizzata una scarica di mitraglia e mio padre fu colpito al p etto decedendo sull’istante» (testimonianza del figlio
Saverio Aprea di ventun anni. Il padre aveva quarantasette anni).62

«Il 29 settembre 1943, verso le ore 11, un gruppo di patrioti di Ponticelli era sul punto di venire sopraffatto da forti forze tedesche quando mio
padre, Coppola Gennaro, sentito il grido di aiuto di uno dei patrioti uscì sulla strada armato di pistola e in quel mentre venne colpito da due colpi
di mitraglia sparati dai tedeschi nascosti poco lontano. Mio padre decedette sull’istante e solo dopo due giorni fu possibile portarlo al cimitero»
(testimonianza del figlio Antonio Coppola. Il padre aveva quarantanove anni).

«Il 29 settembre, mio figlio Tammaro Alessio, approfittando di una apparente sosta della lotta che sostenevano i patrioti contro i tedeschi, usciva
da una casa dove si era riparato per diverse ore, quando veniva colpito alla schiena da una mitraglia partita da un gruppo di tedeschi appostati in
un portone all’inizio di corso Umberto I. Mio figlio decedette sull’istante e il suo corpo fu portato da una ragazza, anch’essa rimasta ferita al
momento che gli porgeva aiuto da un’altra scarica, in un terraneo vicino» (testimonianza del padre Alfonso Tammaro. Il figlio aveva ventitré anni).

«Addolorato perché i tedeschi il 24 settembre avevano razziato mio figlio Emilio, mio marito, il 29 settembre seguente, visto che i patrioti
iniziavano i combattimenti contro l’invasore decise di prendere parte alla lotta e uscì di casa prendendo parte a diversi combattimenti. Durante
una di queste lotte rimase ucciso» (testimonianza della moglie Carolina Salvati. Il marito, Ciro Giordano, aveva quarantaquattro anni).

«Verso le ore 14 del 29 settembre 1943, in Ponticelli, alla via Napoli, strada di mia abitazione, insieme ad altre persone sparavamo contro gruppi
di tedeschi appiattati allo sbocco di via Napoli, e precisamente all’imbocco di via Argine, quando per il sopraggiungere di ingenti rinforzi con
numerose mitragliatrici dovemmo scappare e così mi rifugiai in una campagna limitrofa al paese. Dopo alcune ore e durante una relativa calma,
mi fu detto che mia moglie, Santoro Amalia e mia figlia adottiva, Granilo Rita, erano state ferite durante il combattimento che poco prima
avevamo avuto con i tedeschi. Subito mi recai sul posto e constatai veritiero quanto mi era stato detto: mia moglie giaceva supina con una scarica
al petto e mia figlia bocconi colpita al fianco, al piede e al gomito ma non ancora mort a. Cercai di porgerle tutte le cure ma dopo poco anch’ella
spirò. Al momento del combattimento che avevamo con i tedeschi mia moglie e mia figlia si trovavano in casa, ma poiché, dalla finestra avevano
notato l’avvicinarsi di numerose truppe allemanne le quali ci avrebbero preso alle spalle, scesero in istrada per avvisarci e sulla strada furono
colpite allo stesso tempo da una scarica» (testimonianza del marito e padre adottivo Mario Altobelli di quarantasei anni. La moglie aveva
quarantaquattro anni, la figlia sedici).

«Il 29 settembre 1943, verso le ore 11, uscii di casa per provvedere del cibo ai miei parenti nascosti per evitare la cattura dei tedeschi i quali
imbestialiti della lotta che dovevano sostenere contro i partigiani, ferocemente ammazzavano chiunque capitava sulla loro strada. Giunta che fui
in contrada Santa Rosa, località di Ponticelli, trovai ferma sulla strada una camionetta tedesca, senza nessuno a bordo, sulla quale vidi delle casse
scoperchiate contenenti delle bombe a mano italiane, pensai di prenderne allo scopo di portarle ai miei parenti. Nel mentre che allungavo le mani
vidi sbucare, lontano un cento metri, due tedeschi da una siepe i quali appena mi scorsero puntarono contro di me le armi. Impaurita mi diedi alla
fuga e i tedeschi mi esplosero contro una raffica di mitraglia colpendomi al ginocchio destro. Noncurante del dolore atroce mi diedi a correre
mentre i tedeschi mi indirizzavano nuovamente altra scarica dalla quale rimasi immune. Non so perché i tedeschi non mi inseguirono, posso
solamente dire che quando correvo udii una fitta fucileria; forse i tedeschi erano stati attaccati dai partigiani e per difendersi non pensavano
certamente ad acchiapparmi. Dopo fatto un trecento metri caddi per il tremendo dolore e fui raccolta da una certa Maria adagiandomi su due
sedie, poscia si recò ad avvisare i miei e mio padre venne con un carrettino, mi trasportò a un pronto soccorso a Cercola, poi all’Ospedale degli
Incurabili in Napoli, dove rimasi per tre mesi» (testimonianza di Sirina Angora di diciannove anni).

Queste prime testimonianze aprono squarci suggestivi sugli eventi che si stavano svolgendo per le strade di Ponticelli: molti uomini armati di
bombe a mano e di moschetti che combattono per le strade accanto alle loro abitazioni, padri e figli che lottano insieme, donne che porgono aiuto,
madre e figlia che muoiono per avvisare il loro caro che stanno arrivando i tedeschi, la ragazza sconosciuta che si prende cura del corpo del
giovane ucciso, una ragazza ferita mentre porta cibo agli uomini nascosti. Sono tracce chiare di una lotta popolare, che si sviluppa a partire dai
rapporti di vicinato e di quartiere, come accade, lo vedremo fra breve, al centro della città.

«Mo, steve nu fratello ro mie, pur’isse ere do 16, tanne pur’is se ere militare, ere fatte l’Africa, allora steveme ccà sotte tutti quanti, mo quanne
s’è fatte il giorno 27 siamo usciti fuori... chille e tedesche, tutte e colonne tedesche ca venevene ra Napule, tutta via Argine, vicin’o cimitero,
annanze o cimitero, arrivate ’ncopp’o ponte ccà, aro sta Gesù Cristo, e monache... giravene a sinistra e se ne ievene a Taverna Nova e ievene a
Secondigliano, ievene a Casalnuove, Pomigliano D’Arco e se ne ievene a chella parte llà, stavano in ritirata. Allora ’ncopp’a chiste attiche ccà, ca
teneveme ’ncoppe ccà, saglieveme ccà ’ncoppe così... pum pum... sparaveme... Allore mo acoppe llà sparave e tedesche ca se ne fuievene... chille
allà sparavene pure a nuie, però ereme incosciente tanne... Un amico nostro, u frate ’e Vittorio, chille nun ascette fore? Allore mentre si sparava,
chille arapette pe’ dint’o balcone p’accirere e tedesche... pum... o sparaiene a inte llà e murette. Bellu giovane... Mio fratello ere cchiù evoluto,
cchiù bravo, in Africa ere caporalmaggiore, avieri scelti, teneve o cumando, allora pigliaie na motocicletta ai tedeschi se mettette acoppa, pecché
sapeve gglì acopp’a motocicletta: allà stanne e tedesche... po’ vanne llà... tu fa lloche... po’ facimme ccà... Incoscientemente... chille pure n’ate
fratello ro mie ca pur’isse ieve annanze e arete, però nun ce alluntanaveme, ie nun me so maie allontanato a chesta zona accà, da Ponticelli. [...]
Teneveme acoppe l’attico ccà, teneveme proprie e spaccate pe’ guardà e tedesche quanne venivene... Allore quanne arrivaiene ccà ’ncopp’o ponte
’e Gesù Criste, nuie sparaveme... ere na bella vedetta, appena vereveme l’autocolonna ca veneva, chilli po’ erena girà... e facemmo tre prigionieri
tedeschi»63 (Gerardo M.).

Come tutti i quartieri industriali del tempo, Ponticelli era immerso nelle campagne e i suoi abitanti erano in parte operai e in parte contadini. Via
Ottaviano, la via che conduceva verso Cercola, il paese confinante, dove di lì a poche ore si sarebbe svolta una vera e propria rappresaglia, era
costituita da due file di case con i cortili che davano sulla campagna. Dalle vie del centro i combattenti si spostavano verso i campi. Qui avvennero
altri scontri e cominciarono le uccisioni sistematiche.

«Mio padre e mio fratello mentre per le campagne limitrofe alla nostra abitazione si avviavano, con altri patrioti di Ponticelli, per prendere alle
spalle dei tedeschi appostati in un frutteto, furono sorpresi da altre forze germaniche e fatti segno a diverse scariche di mitragliatrice. Invano
cercarono di disperdersi, furono entrambi uccisi compreso altro patriota che non ricordo il nome. Posso dire che mio fratello era armato di un
moschetto e mio padre di bombe a mano, quando la mattina del 29 settembre 1943 erano usciti di casa per unirsi ad altri patrioti» (testimonianza
di Giuseppina La Rocca, figlia e sorella di Giuseppe La Rocca di quarantasette anni e di Ulderico La Rocca di diciassette anni).

«Verso le ore 13 del 29 settembre un gruppo di partigiani di Ponticelli si presentò davanti a casa mia con lo scopo di combattere i tedeschi. Mio
fratello Vincenzo, spinto da amor patrio, uscì in istrada per unirsi ad essi. In quel mentre provenienti da Cercola, comparvero parecchi tedeschi a
bordo di autoblinde, i quali aprirono un nutrito fuoco contro i patrioti. Io scappai in casa e quando ne uscii rinvenni mio fratello ucciso»
(testimonianza di Carmela Aprea sul fratello Vincenzo Aprea di quarantacinque anni).

«Il giorno 29 settembre 1943, mio marito Migliaccio Vincenzo fu trovato armato di bombe a mano dai tedeschi, nel domicilio di Malasomma Luigi
mentre curavano un ferito. I tedeschi, fatta allontanare la moglie del Malasomma, procedettero al massacro dei tre con lancio di bombe a mano.
Trovai mio marito rantolante in casa del Malasomma, egli mi disse che i tedeschi li avevano uccisi con bombe a mano» (testimonianza della
moglie Carmela Annona. Il marito aveva quarantasei anni. La terza vittima non è stata identificata).

«Verso le ore 16 del 29 settembre 1943 un gruppo di patrioti, tra i quali si trovava mio fratello Porricelli Luca, fu fatto prigioniero e
immediatamente passato per le armi. Non conosco gli altri fucilati, in tutto potevano essere otto persone. Solo assistetti alla esecuzione nascosta
dietro un muro. Dopo parecchie ore potemmo portare la salma in casa e non prima perché i tedeschi erano rimasti sul posto e minacciavano con
le armi chiunque si accostasse» (testimonianza della sorella Antonietta Esposito. Il fratello aveva ventidue anni).

«Il 29 settembre durante i cruenti combattimenti contro gli invasori, un gruppo di tedeschi si presentò ad un ricovero in via Ottaviano e
impadronitisi di sei persone, tra le quali si trovava mio figlio, Grieco Enrico, li fucilarono addosso a un muro antistante il ricovero. Poiché mio
figlio non era ancora spirato, uno dei tedeschi con una baionetta, gli staccò la testa dal busto. Mio figlio apparteneva a un gruppo di patrioti della
zona ed aveva preso parte a diversi combattimenti». (La madre Francesca Esposito testimonia alla stazione dei carabinieri di Ponticelli, l’8 aprile
1945. Enrico Grieco aveva tredici anni).

Queste prime esecuzioni sono strettamente legate allo scontro armato. E sono particolarmente efferate: la testa staccata del ragazzino, gli uomini
uccisi con le bombe a mano che essi avevano intenzione di usare contro i tedeschi. Poi la rappresaglia continuò colpendo nel mucchio tutti gli
uomini che si trovarono in via Ottaviano e nelle vicinanze in quel primo pomeriggio del 29 settembre 1943. E i modi in cui si diede la morte non
furono meno atroci.

«Mio marito lo catturarono e portatolo poco distante, nella campagna retrostante alcune abitazioni vicino alla mia, gli esplosero un colpo di fucile
al petto e poiché egli si lamentava, gli spararono altro colpo all’orecchio. Mio marito fu catturato dai tedeschi per rappresaglia poiché sul posto
poco prima dei tedeschi erano stati presi a fucilate» (testimonianza della moglie Carmela Potentino. Il marito Raffaele Panico aveva cinquantadue
anni).

«Il 29 settembre 1943, verso le ore 14, si presentarono a casa mia un gruppo di tedeschi, i quali preso mio marito lo portarono sul cortile
antistante la casa e lo passarono per le armi. Tanto per rappresaglia perché poco prima alcuni patrioti avevano catturato un loro automezzo
uccidendone gli occupanti» (testimonianza della moglie Benedetta De Concilio il 7 aprile 1945. Il marito Michele Cipolletti aveva
cinquantaquattro anni).

Vincenzo Gallinaro fu mitragliato dai tedeschi mentre stava tornando a casa da Napoli con un amico, che riuscì invece a scappare. Luigi Romano
fu sorpreso in bicicletta mentre cercava di raggiungere la sua abitazione, fu ferito al fianco con la baionetta e ucciso. Morirono giovani, vecchi,
ragazzi di tredici anni. Cominciarono con un’esecuzione di gruppo a casa Cocozza, sulla stessa via Ottaviano, ai confini con Cercola. Poi
proseguirono lungo la strada.

«Cercavano gli uomini, li portavano a pochi metri dalla loro casa in campagna e li uccidevano con un colpo alla nuca. [...] Circondarono con i
mezzi corazzati, poi loro scesero... Per intimidire così... Poi entravano nelle case, nei palazzi, portavano via e sparavano» (Aniello Borrelli). «Gli
davano il colpo dietro alla nuca e poi li scannavano, con la baionetta, al collo. Mio suocero l’hanno ammazzato dietro a una salumeria, dove ora
sta il tabaccaio di fronte... L’hanno sparato. Visto che non era finito l’hanno sgozzato con una baionetta... Ma a diversi l’hanno fatto... Come si fa
con i maiali» (Nino Ascione). «Sul marciapiedi si fecero i fossi e i fossi erano pieni di sangue» (Pasquale Sannino). «Alla fine è stato dato incarico
a due persone di raccogliere i corpi a palazzo Cocozza... Al tempo c’era un vialone... Furono incaricati un padre e un figlio con una carrettella a
mano di prenderli e di portarli lì, furono accumulati. Non furono fatti i funerali, ognuno si andò a cercare il proprio morto... Poi con delle casse di
legno così approssimate... Una benedizione del prete...» (Aniello Borrelli).

Teresa Sannino ricorda ancora il corpo e la testa sfracellata di Gennaro C., che non volle nascondersi per aspettare la moglie che lavorava alle
Manifatture Tabacchi ed era in ansia per lei. E ricorda una donna pietosa che cercava di ricomporre il corpo, di raccogliere le cervella che si
erano sparpagliate sul marciapiede, prima che arrivasse la moglie dal lavoro. Poco distante, a San Pietro i soldati entrarono in un’altra masseria.

«Si chiamava Luchino. Mia madre, dal balcone che affacciava nel cortile, vide Luchino che osservava i tedeschi che facevano operazioni di razzia
e gli urlava: Luchino scappa, scappa, questi ti prendono, scappa scappa. Allora fiducioso questo giovane dice: no ma a me non mi fanno niente. E
invece lo presero e lo fucilarono senza misericordia. Lui non aveva fatto niente in realtà, aveva commesso l’imprudenza di stare lì a guardare
questi tedeschi e invece quelli lo fucilarono senza pensarci due volte» (Gaetano Di Porzio).

La testimonianza più struggente è quella di Maria Borrelli, figlia di Raffaele. I suoi genitori erano contadini e avevano quattro figli. Quel giorno il
padre era a lavorare la terra, la mamma aveva messo sul fuoco una pentola di fagioli e aspettava il marito, che non arrivava... Allora si
addormentò, così, all’improvviso, con il capo chino sulla tavola e lui le apparve nel sonno. «Carmè m’hanno ferito... Non aver paura, m’hanno
soltanto ferito». La madre scese in strada, corse verso via Ottaviano e se lo trovò davanti morto a terra, proprio sull’angolo della via che portava a
casa (Maria Borrelli).

A via Ottaviano tutti si conoscevano. La contrada era una grande famiglia. Il lutto dunque fu generale. «Era tutto un lamento, un pianto...
Dall’inizio della strada fino a Cenzi dell’arco... Piangevano tutti perché tutti c’avevano qualche parente ucciso...» (Armando Sorrentino).

Il giorno successivo, con gli alleati alle porte, la gente avrebbe operato anch’essa una sua rappresaglia, linciando il segretario locale del fascio.

I testimoni: racconti e pratiche dello spazio

Quella di Ponticelli è una scena corale, non dissimile da quella che possiamo ricostruire e immaginare al centro della città. Proviamo a penetrare
nell’atmosfera di quei giorni, nelle strade, nei vicoli, nella testa della gente che vi partecipò.

«Io abitavo in via Cristallini, a via Cristallini è sorto questo nucleo e c’era questo sottotenente di cavalleria che era un disertore, Lembo, e abitava
in uno dei primi palazzi a sinistra di via Cristallini, salendo da piazza Vergini. Con l’8 settembre, l’esercito sbandato, lui quando c’è stata
l’insurrezione è stato uno di quelli ad organizzare perché poi è stato il nostro comandante. Ha organizzato questi gruppi, si è sparsa la voce e si è
fatta sta barricata. Poi c’era un sottufficiale, Di Giovanni, che abitava in via Cristallini, e questo sottufficiale ha fatto da vicecomandante. Io mi
sono unito, ho visto che si cominciava sta barricata. La barricata era stata messa all’ingresso di via Cristallini, all’imbocco c’è un vicoletto, lì fu
eretta la barricata con i materiali presi dai palazzi crollati, perché c’erano dei palazzi che erano stati bombardati. [...] Noi combattevamo per la
difesa della strada, dei quartieri... poi ci stavano altri gruppi verso la Sanità, verso la Stella. I contatti erano a voce» (Antonio Amoretti).

Cerchiamo di entrare nella dimensione della lotta, seguendo sul territorio le tracce descritte dai testimoni: le aree dei combattimenti, i luoghi
dove vennero erette le barricate, i personaggi... L’insurrezione può così essere letta come un’azione eccezionale che nasce però in uno spazio
vissuto ed elaborato ogni giorno, nelle pratiche ordinarie.64 Il vicinato fu la struttura di base su cui vennero costruite le bande, uno spazio sociale
denso in cui circolavano velocemente le notizie e si articolavano le decisioni. «Abbiamo cominciato tutti i ragazzi a sentire, a mormorare: stanno
venendo, se ne sono scappati, i fascisti se ne sono scappati. Mussolini forse non c’è più, i soldati stanno tornando. Si creava questa cosa per tutto
il quartiere. Il popolo la portava questa voce, i soldati che tornavano e scappavano dalla prigionia e venivano qua, ognuno raccontava qualcosa
perché non c’era telefono, non c’era radio, non c’era niente...» (Ernesto Minino).

I combattenti usarono in modo adattivo lo spazio cittadino: un groviglio di vicoli, attraversati da poche vie di transito, assediate esse stesse dai
quartieri sovraffollati. Su queste vie convergevano le innumerevoli bande dei vicoli che altrettanto velocemente rifluivano nei quartieri di
appartenenza, dopo aver attaccato i tedeschi. Alla confluenza delle strade si organizzavano anche azioni comuni e si diffondevano le voci. Le
prime barricate vennero costruite agli sbocchi dei vicoli; poi vennero spostate al centro delle strade per impedire il passaggio ai carri armati.

Ecco la descrizione di un’altra barricata nel quartiere di Materdei (circoscrizione di Avvocata): «Io, mio padre e gli amici di mio padre facemmo
una specie di trincea prima del ponte dove sta quella scuola e facemmo una trincea, eravamo sei, sette, otto di noi e non successe niente, non
scesero. Poi incominciarono a scendere, prima delle camionette e a sparare e noi alzammo delle barricate a Santa Teresa sopra Santa Teresa,
verso Materdei, una a vico della Purità e una a Materdei. Presero i tram e formammo delle barricate» (Maddalena Cerasuolo).

Fu su questa barricata che venne ucciso, mentre tirava una bomba contro un carro armato, un bambino di undici anni, poi decorato con la
medaglia d’oro e divenuto simbolo, come vedremo, dell’insurrezione napoletana. Era il cugino della donna che racconta.

I parenti costituirono una delle cellule di base della lotta: padre e figlia, fratelli, cugini... seguendo la trama dei rapporti sociali della città, dove le
famiglie numerose costituivano punti di convergenza, di solidarietà per una vasta rete di rapporti.65 I soldati sbandati non napoletani si inserirono
in questi gruppi, vennero adottati dalla popolazione: alcuni combatterono, altri si nascosero nelle case della gente. Compaiono in moltissimi
racconti: nei soppalchi, nelle cantine, negli armadi a muro con i figli, i fratelli...66

Nei gruppi di combattimento possiamo riconoscere la stratificazione del quartiere, con i suoi leader, i suoi personaggi autorevoli. Il padre di
Maddalena Cerasuolo era cuoco di bordo sulle navi e poi gestore della mensa di una fabbrica, ma era soprattutto molto rispettato.

La rappresentazione della banda di via Cristallini alla Sanità è una fotografia di gruppo estremamente efficace: Antonio Amoretti, il testimone,
aveva allora sedici anni, era figlio di un tranviere e frequentava l’istituto commerciale. Il comandante del gruppo era il sottotenente di cavalleria
Lembo, personaggio descritto a tinte vivissime. «Il personaggio più significativo è stato il comandante, perché lui è stato l’animatore, Lembo,
questo tenente. Era ufficiale di cavalleria e per un periodo di tempo dopo la liberazione si occupò di rastrellare, di reperire i cavalli che erano
stati presi dai civili. Lui andava in giro con un altro di via Cristallini, un certo Ciro Bocchetti che era uno che s’intendeva di cavalli, e andavano
insieme a prenderli. Era un tipo simpatico, molto coraggioso, il pericolo lo affrontava facilmente. Mi ricordo questo comportamento sprezzante
del pericolo. [...] Anche ferito non volle farsi ricoverare, lo portarono all’ospedale Incurabili ma lui non volle rimanere ricoverato e tornò alla
barricata, stava su una poltrona e continuava a dirigere dalla poltrona perché non era in grado di camminare. Aveva la testa tutta fasciata, la
gola... e dirigeva ancora e comandava ancora». Poi troviamo ragazzi, soldati sbandati, altri uomini del quartiere. «La maggioranza eravamo
ragazzi, i ragazzi non pensano al pericolo, ma c’erano anche parecchi adulti. Poi mi ricordo un marinaio che aveva i suoi ventisei, ventisette anni,
portava ancora qualcosa di marinaio addosso ed era della zona lì. C’erano alcuni soldati sbandati che si erano aggregati e poi c’erano cittadini,
giovani militari che erano rientrati, anche padri di famiglia, perché lo stesso sergente Di Giovanni era sposato già allora». E vecchi antifascisti
della zona. «A Foria c’era Ciccio Lanza, vecchio antifascista, Vittorio, anarchico». Compare un uomo di rispetto. «Luigi Pappalardo che era uno
che quand’era giovane lui faceva parte della camorra, però stando in carcere aveva conosciuto dei comunisti e possiamo dire si era convertito ed
era diventato comunista, però era rimasto sempre un dritto ed era uno che nell’ambiente era abbastanza temuto, nell’ambiente popolare della
Sanità, era rispettato, era un uomo di rispetto, anche se lui aveva cambiato, era uno dritto». Intorno, secondo Amoretti, la maggioranza del
quartiere. «C’è stata questa massa di popolo perché oltre quelli che eravamo organizzati in gruppi comandati, i vari gruppi di antifascisti, era la
massa, erano anche le donne, erano tutti, anche coloro che poi ufficialmente non hanno fatto le quattro giornate, hanno collaborato, hanno
contribuito alla cacciata dei tedeschi. Si può dire che le quattro giornate a Napoli le ha fatte tutta Napoli, forse non ci doveva essere nemmeno il
bisogno di fare il riconoscimento dei partigiani delle quattro giornate. Questo dimostra che è stata una questione di popolo, non siamo stati solo i
quaranta, i cinquanta che stavamo alla barricata ma avevamo il supporto di tutti quanti i cittadini».

Nelle parole di Antonio Amoretti, come in quelle degli altri testimoni, le bande esprimono la stratificazione complessa del quartiere: una
stratificazione verticale che va dal personaggio di rispetto, al cuoco, all’artigiano, all’ufficiale, ai ragazzi di varie età. Ovviamente a questi si
aggiungono i vecchi antifascisti riconosciuti. Anche in questo caso i racconti orali trovano una incredibile conferma nella documentazione
d’archivio, che ci permette anche qualche altra osservazione significativa.

La più alta percentuale di vittime è costituita dagli operai e dai lavoratori manuali (30 per cento), a cui si possono aggiungere gli artigiani e i
piccoli commercianti (un altro 30 per cento). Poi troviamo, oltre ai militari che già sono stati citati, contadini e braccianti, agenti di pubblica
sicurezza, donne (19,16 per cento divise in casalinghe, sarte, operaie, orlatrici) e impiegati,67 che costituiscono pure una percentuale significativa
(13,63).

Due esempi. 1) Un gruppo di strade vicine nel quartiere di Montesanto all’interno della circoscrizione di Avvocata: tra il 29 e il 1° ottobre 1943
veniv ano uccisi due calzolai di venticinque e trentacinque anni, un commerciante di ventisette, un meccanico di trentaquattro e uno di
cinquantatré, un sottotenente del genio di trentadue, un marinaio di cinquanta, un salumiere di venti, un impiegato di cinquantasette, un
muratore di ventuno, un capogestore delle ferrovie di cinquantasette, un’impiegata di cinquantatré, una orlatrice di venti, una casalinga di
quarantuno, un adolescente di undici, che ritroviamo anche nella lista dei combattenti, e due bambine di nove e sei anni. 2) La zona compresa tra
via Carbonara, via Foria, piazza Carlo III, corso Malta, stazione ferroviaria, tra i quartieri del Vasto e dell’Arenaccia (circoscrizione di San
Lorenzo). Qui avvenne il più grande scontro fra napoletani e tedeschi per il saccheggio di un magazzino di viveri (piazza Carlo III), si verificò poi
il conflitto intorno alla caserma Garibaldi, ricordato nella documentazione tedesca, e vi si formarono alcune delle barricate più vive nella memoria
dei testimoni.68 Il 13 settembre, giorno del saccheggio, morirono un fattorino di quarantadue anni, una casalinga di cinquantaquattro, un
guantaio di trentadue, un uomo di sessantadue. Il 15 un’operaia di quindici anni, il 18 un venditore ambulante di diciotto, il 19 un uomo di
cinquant’anni. Il 24 settembre un operaio di sessantatré anni, il 27 un operaio di quaranta, il 28 un saldatore elettrico di venti e un bambino di
dieci. Il 29 il numero dei morti sale vertiginosamente, è l’apice dell’insurrezione: troviamo tra gli uccisi un cartonaio di trentanove anni, un
muratore di quarantadue, due venditori ambulanti di ventuno e venti (iscritti fra i combattenti), un’operaia di cinquantasei, un calzolaio di
cinquantasei (combattente), uno spazzino di quarantatré, un macellaio di trentaquattro (combattente), un impiegato di cinquantatré
(combattente), un ferroviere di trentasette, uno studente di sedici, quattro donne di cinquantacinque, cinquanta, quarantaquattro e quarantatré
anni, una giovane di diciassette, un pensionato di sessantadue (combattente), un uomo di quaranta di cui non viene indicata l’occupazione.

Emerge un quadro estremamente chiaro, quasi plastico: sono gli abitanti dei quartieri antichi che combattono a partire da un’identità territoriale,
per difendere lo spazio infranto della vita quotidiana. La maggioranza delle vittime risiedeva nelle tre grandi circoscrizioni di Avvocata (24,92 per
cento), San Lor enzo (19,59 per cento) e Stella (17,30 per cento), le tre aree più popolari, più densamente abitate e più antiche della città.69 Il
gruppo, estremamente articolato e complesso, non comprende, però, le fasce medio-alte della popolazione. Troviamo artigiani, commercianti,
impiegat i; non un avvocato, un professore, un dirigente compaiono fra le vittime, solo un medico, residente a via Salvator Rosa, nel quartiere
Avvocata, risulta mitragliato dai tedeschi il 29 settembre. Ma saranno questi poi a parlare dell’insurrezione, a esaltarla o svilirla, a costruirne
l’immagine.

I dati mettono in risalto la natura popolare dell’insurrezione e la distinzione nettissima tra le due parti della città: quella del grande centro storico
e quella dei nuovi quartieri operai e borghesi. Sembra proprio uno spazio sociale e geografico antico, simbolicamente ridondante, a favorire
l’insurrezione, che non ha invece momenti altrettanto visibili nei nuovi quartieri operai ridisegnati dall’architettura del regime fascista, quelli che,
secondo il modello marxista, avrebbero dovuto invece essere alla guida della rivolta antifascista. Ogni gruppo viene ricordato in relazione a una
strada, a un vicolo, a un quartiere: il gruppo della Sanità, di Materdei, dei Miracoli... I riferimenti spaziali espliciti rimandano ai quartieri della
città stabiliti nel 1779 (per il centro storico Avvocata, San Lorenzo, Stella, Montecalvario, San Carlo all’Arena, Vicaria) e ai più antichi
agglomerati barocchi che venivano connotati attraverso le chiese e i palazzi significativi: la Salute (Santa Maria della Salute), la Sanità (Santa
Maria della Sanità), Materdei (la chiesa di Materdei), i Miracoli (Santa Maria dei Miracoli), lo Spirito Santo (chiesa dello Spirito Santo), il Museo
(il grande palazzo del Museo Archeologico) ecc.70 Il quartiere sembra rievocare un’identità residenziale e di nascita, mentre l’area più
circoscritta di vie e vicoli addossati a una chiesa o a un palazzo storico emerge quando si descrive l’operato delle bande di combattenti. Questa
sorta di distinzione funzionale rimanda in parte alla costruzione sociale e spaziale delle azioni: l’aggregazione primaria si forma in un vicinato
stretto, che ha però un riferimento spaziale e simbolico antico. Qui può avvenire la costruzione di una banda coesa, riconosciuta e sostenuta dagli
abitanti, ma agile e veloce nello stesso tempo, in grado di muoversi poi nel quartiere più ampio e di agire con gli altri gruppi alla confluenza delle
strade più importanti. In effetti è il territorio vissuto della vita quotidiana che viene agito nella lotta. Viceversa si può dire che la lotta è possibile
proprio perché esiste questo luogo particolarmente vivo, dove già prima hanno potuto trovare spazio momenti di «resistenza ordinaria» al
tentativo totalitario del regime.71 Ed è una memoria antica fatta di esperienze tramandate e di riferimenti simbolici densi a riattualizzare e ad
adattare le pratiche dello spazio alla resistenza alle truppe tedesche.

È stata proprio l’incapacità di analizzare con mente libera questo spazio sociale, di coglierne le dinamiche interne‚ a impedire il riconoscimento
dell’insurrezione. L’insurrezione, per i suoi caratteri spontanei e per la sua dimensione territoriale (gli antichi quartieri cittadini identificati con la
plebe o il popolo minuto), è stata assimilata, come vedremo, alle cicliche rivolte napoletane, a loro volta descritte come esplosioni di rabbia
atavica, prodotte dalla miseria e dalla fame, secondo un modello ideologico che accosta meccanicamente uno spazio geografico barocco con
forme e obiettivi di lotta tipici di una società di ancien régime. In un suo libro Hobsbawm72 descriveva le città ideali per la sommossa e
l’insurrezione: erano densamente popolate, con una forte concentrazione abitativa nello spazio, non erano attraversate da grandi arterie
moderne, i centri del potere e le istituzioni erano inseriti nelle zone più popolose. E Napoli con le quattro giornate era proprio uno degli esempi
citati nel testo. Essa veniva accostata ad altre grandi città «sottosviluppate», ma anche a Parigi con l’insurrezione contro i tedeschi del 1944 e la
rivolta degli studenti del 1968, che si svolsero entrambe nel Quartiere Latino. In effetti possiamo pensare che la tradizione di rivolte cittadine
abbia fornito un modello d’azione e che questo modello abbia potuto agire entro quartieri la cui forma e i cui simboli si riproponevano nel tempo.
Ma sono stati i nnanzitutto le relazioni e gli scambi che animavano il quartiere, la memoria che vi si era costruita, a rendere possibile la
mobilitazione in una congiuntura eccezionale: spazi e relazioni furono attivati per nuovi obiettivi, i simboli piegati a diversi fini assunsero nuovi
significati. La rappresentazione oscura di «popolino» o di folla plebea si dissolve in questo quadro: emerge la complessità della stratificazione
sociale nei gruppi combattenti e la razionalità delle loro azioni. Torneremo su questo nelle riflessioni finali del capitolo, dopo esserci ancora
soffermati a percorrere dal di dentro lo spazio dell’insurrezione.

Autoritratti

I testimoni di oggi erano allora giovani o addirittura ragazzi, bambini. Ci rinviano dunque una particolare immagine di combattente, e di questo
dobbiamo ovviamente tenere conto. Non abbiamo, insomma, il racconto degli adulti di allora, che ci appaiono soltanto attraverso la memoria dei
loro figli o dei loro vicini più giovani.

L’autoritratto che i testimoni ci presentano è, nella maggior parte dei casi, quello di un leader naturale nel gruppo dei pari e, a volte, quello del
ribelle: ribellione all’ordine e alla disciplina che si può identificare nella scuola come nel genitore autoritario, e si indirizza poi contro l’ordine
fascista.

La causalità che lega le scansioni del racconto e le motivazioni che vengono annesse alle azioni sono in parte frutto di razionalizzazioni
successive, ma, certamente, il rifiuto del fascismo, oltre che nel logoramento della guerra, nella ribellione a una violenza considerata illegittima,
si radica anche nel rifiuto di una gerarchia e di un ordine imposti con la forza, nella irrisione di riti obbligati e retorici.

Antonio Amoretti nel settembre 1943 era un ragazzo di sedici anni, abitava in via Cristallini all’angolo di piazza Vergini, la piazza da cui si apre il
quartiere Sanità e che, attraverso uno stretto vicolo, comunica con via Foria e piazza Cavour, luoghi di transito tra i più importanti della città,
verso la stazione e l’aeroporto da un lato e verso il centro cittadino e i quartieri della collina dall’altro. A via Foria, a piazza Carlo III e al Museo,
tra piazza Cavour e via Santa Teresa si sono verificati gli scontri più importanti. Su via Foria si affacciava la caserma Garibaldi citata nel
documento tedesco, e alla fine della stessa strada, in piazza Carlo III, si trovava il Reale Albergo dei Poveri sede del magazzino dove – come
abbiamo già detto – avvenne lo scontro più drammatico fra popolazione civile e soldati per la spartizione del cibo.

Era figlio di un tranviere, da lui definito un «antifascista passivo». «Mio padre era ispettore all’ATAN, l’azienda tranviaria, era un tranviere. Mio
padre era un antifascista passivo. Gli ant ifascisti attivi erano quelli che andavano in galera, mio padre era passivo, non si mostrava, non andava
alle adunate, perché loro imponevano l’adunata. Nei miei ricordi di bambino, di ragazzino, mi è rimasto il terrore che ebbi una volta che mio
padre fu chiamato e anch’io perché ero inquadrato come balilla, avanguardista, perché andavo a scuola e chi frequentava le scuole era costretto a
fare queste adunate e io non ci andavo mai perché mio padre mi diceva di non andarci. E fummo convocati dalla sede del fascio che stava in
piazza Carlo III dalla casermetta che adesso c’è la polizia stradale e allora c’era questo comando e entrammo in questa stanza e rimasi
terrorizzato anche dall’aspetto di questo fascista che era uno con una testa enorme, con i capelli rossi, questo faccione tutto butterato,
fortemente brutto. E questo a inveire contro mio padre perché non andava alle adunate, io non andavo alle adunate, minacciava di metterci in
galera, di far perdere il posto a papà. [...] Questo è stato prima della guerra, ero ragazzino, forse nel ’37-38».

Ci vuole comunicare l’immagine di chi non ha respirato a casa quel clima di adesione e di entusiasmo propagandati. Il segno di questa estraneità
viene espresso con la distanza dalla retorica del regime, la manifestazione simbolica è la mancata adesione alle sfilate, elemento questo comune a
molte altre narrazioni. «Una volta sola ci sono stato (all’adunata), era il 9 di maggio, ero avanguardista pre-aviere, perché allora si distinguevano,
c’erano i pre-marinai, i pre-avieri e quelli dell’esercito, e il pre-aviere teneva la divisa più bella e io non ci andavo mai a queste adunate, me
l’avevano data e un giorno mi mandarono a chiamare che dovevo fare... Il 9 maggio veniva il re a Napoli, c’era una sfil ata a via Caracciolo, era
una giornata caldissima e io lasciai tutto con altri tre amici, fittammo una barca a Santa Lucia dove c’è Zi Teresa e ce ne andammo a fare il bagno
con tutti i moschetti e ce li portammo a casa. Lascio immaginare poi il giorno dopo che questi ci cercavano perché contavano: minacciavano di
metterci in prigione, poi non fecero niente».

Era il primo di quattro fratelli (tre maschi e una femmina) e frequentava una scuola commerciale a via Tribunali, uno dei decumani del centro
storico. «Era una scuola commerciale, l’istituto Francesco Caracciolo, avevo fatto le medie e poi ero andato in questa scuola tecnica superiore.
Stava a via Tribunali, una traversa di via Tribunali, proprio dove c’è la chiesa dei Gerolomini, di fronte alla chiesa c’è una traversa e c’era sta
scuola e fu rasa al suolo nel ’42, di conseguenza non fu possibile proseguire gli studi, allora quasi tutte le scuole erano chiuse perché c’erano
bombardamenti. Era un ambiente popolare, abbastanza proletario, perché i signori, la borghesia, frequentava altre scuole, c’era il ginnasio
perché poi mirava all’università. Poi via Tribunali era un ambiente abbastanza proletario». «Eravamo un gruppo di amici. Io poi sono nato e
cresciuto in una zona molto popolare. La maggior parte erano analfabeti o semianalfabeti, io ero uno dei pochi che aveva fatto più della quinta,
uno dei pochi studenti. Poi erano operai, lavoratori. Qui era un quartiere operaio, di lavoratori. Studenti dove abitavo io eravamo pochissimi, si
contavano sulla punta delle dita, tutti i miei coetanei erano ragazzi che facevano il falegname, il fabbro, il guantaio, il calzolaio. Le idee non
c’erano, io fui quello che portò tra loro un po’ di idee di socialismo, organizzai in seguito, allora non c’erano ideali. Eravamo fascisti nel senso che
chi studiava a scuola era costretto ad indossare la camicia nera quando ce lo imponevano, io il meno possibile, ma gli altri che poi lavoravano non
si interessavano proprio».

Uno studente, figlio di tranviere, in un quartiere di piccoli artigiani e lavoratori non scolarizzati. Antonio Amoretti, espressione di un cammino di
piccola mobilità sociale, si descrive come un leader nel gruppo dei pari. «Io ero l’elemento trainante, li portavo con me, li portai alla sede del
partito socialista. Loro mi aiutavano a mettere i manifesti, quando io ho iniziato».

Sullo sfondo emerge un quartiere non troppo coinvolto nella vita del regime e ancora meno convinto delle ragioni della guerra. E compaiono,
anche se sfocate, le figure degli adulti: il ricordo della prima guerra mondiale... «Prima dell’8 settembre ci stava questa cosa, i tedeschi non sono
mai stati visti di buon’occhio... anche se, devo dire la verità, si comportavano bene prima quando eravamo alleati, erano rispettosi, educati... Mia
suocera, che era una donna di casa, odiava i tedeschi. Forse per la guerra prima... dal ’15-18 non erano poi passati tanti anni. Mio padre aveva
fatto la guerra ’15-18 e ogni famiglia aveva un reduce della guerra ’15-18 che aveva combattuto contro i tedeschi. Gli austriaci li chiamavano
tedeschi. Secondo me era proprio questo, che erano passati pochi anni dal ’18 e la gente se lo ricordava».

Nel momento dello sbandamento nel quartiere, a partire dalla sua famiglia, si attivarono immediatamente catene di solidarietà. «Ci fu questa
ondata di soldati sbandati uno dei quali fu anche soccorso. Con il gruppo dei miei am ici demmo aiuto ad uno sbandato, un toscano, si chiamava
Re Roberto, un soldato sbandato, non sapeva dove andare e noi lo accogliemmo e poiché a casa mia non c’era spazio, gli facemmo un letto di
fortuna nel ricovero antiaereo che c’era proprio sotto al mio palazzo e gli portavamo... il più delle volte mangiava a casa mia perché casa mia era,
a differenza delle altre, più aperta agli estranei. A casa non potevamo ospitarlo perché avevamo già altri due sbandati, avevamo un cugino di mio
padre che era un sottufficiale della guardia forestale che stava a Pozzuoli e poi c’era un altro soldato, un certo Paolillo, che era sempre del paese
di mio padre e faceva l’attendente con un capitano che stava a viale Michelangelo e questo qua bello bello al momento dell’8 settembre se ne lavò
le mani: te ne devi andare, qua non puoi stare. E questo poverino rimase e papà lo ospitò a casa. Mia madre era molto buona e la pigliava
filosoficamente, perché già mia madre ospitava due fratelli di papà che lavoravano. La casa nostra era un po’ l’albergo di tutti e si mangiava
quello che c’era».

Dunque la decisione di correre in strada per combattere contro i tedeschi viene presentata come il frutto di una scelta del tutto naturale, radicata
nella storia della sua famiglia e nel clima del vicinato. «Io personalmente pigliai la pistola di mio padre, mio padre teneva una pistola
regolarmente dichiarata, pigliai la pistola di mio padre e andai con un altro ragazzo ad armarmi di moschetto. C’era la caserma, il decimo centro
automobilistico all’Arenaccia, dove adesso c’è il distretto militare, là c’era la caserma del 31° fanteria. Andai lì e non trovai armi ma solo
munizioni e tra queste trovai dei proiettili di mortaio, io poi non ne capivo niente di armi, e io mi illudevo di poterle adoperare perché avevano
due alette laterali, allora io, poiché c’erano nel cortile degli alberi enormi, presi uno di questi qua, sperando di poterlo utilizzare come bomba a
mano, tirai e lanciai nascondendomi dietro all’albero, non successe niente e capii che non era possibile utilizzarle e me ne andai alla caserma
dove c’era l’autocentro e lì trovammo delle casse di moschetti nuovi, proprio le casse imballate, le abbiamo sballate noi. Del mio gruppo, della mia
barricata, questo è stato il secondo giorno, ero io e un altro: pigliai il moschetto, l’elmetto, la bandoliera, la baionetta e poi ripassammo per il 31°
e pigliammo le munizioni perché lì ce n’erano e così ci armammo e andammo alla barricata e lo dicemmo che là ci stavano altre armi e forse
anche altri ci sono andati».

Da questo punto in poi il racconto di Amoretti si apre sullo scenario della lotta nel proprio quartiere. Abbiamo seguito già il filo del suo racconto.

Dopo l’insurrezione Antonio Amoretti avrebbe voluto continuare a combattere. «La gente li [gli americani] hanno applauditi, io no, lo dico sempre,
non li ho applauditi, non mi son fatto disarmare, perché loro diedero subito l’ordine di posare le armi. E qua ci sta una cosa che non ho letto nei
libri, non so perché: ci fu il padre di Pansini, di Eduardo Pansini – che chiamavamo il professore, non lo so se fosse professore, che era un
mazziniano, non era un comunista – che stampava un giornale culturale, che col fascismo fu chiuso. E lui aveva la tipografia, lo stampava nella
tipografia proprio di fronte a Napoli sotterranea, il palazzo comunale. Dopo le quattro giornate ci riunivamo perché lui voleva costituire un corpo
di spedizione per seguire gli alleati verso Cassino. Ed eravamo – la cifra che io ricordo bene – eravamo 320 persone, senza consegnare le armi. Gli
alleati si rifiutarono, non vollero accettare questa cosa e ordinarono di depositare le armi, cosa che io e tanti altri non abbiamo fatto e per
giustificare mi feci fare un falso certificato del comando patrioti della scuola Sannazzaro, che diceva che io avevo depositato il moschetto, non era
vero, era falso, non era vero, e mi son tenuto questo moschetto con la speranza di poterlo utilizzare... Mo, ritornando al professore Pansini, là
bisogna collegare la cosa con Jaime Pintor, dopo i combattimenti dell’8 settembre a Porta San Paolo, dopo la resistenza di Roma, passò le linee e
venne a Napoli con l’idea di formare questo corpo di spedizione. Perché gli americani volevano un corpo di spedizione, però volevano un corpo di
spedizione come esercito italiano, cioè fatto dal governo, ma non dal popolo. [...] A noi non vollero farci costituire. Allora Pintor tentò di passare le
linee e morì su una mina, su un terreno minato, in un paese in cui io sono stato pure, mi hanno chiamato per una celebrazione, presso un
consiglio comunale e adesso non ricordo come si chiama. E morì perché lui vide una pattuglia tedesca, andò per i campi per non incontrare la
pattuglia tedesca, saltò su una mina e finì la storia di Pintor, il fratello di Luigi. Quindi c’è stato questo tentativo a Napoli di continuare la lotta,
però continuare la lotta in chiave popolare, in chiave antifascista, popolare, partigiana, così e gli alleati non vollero, a loro non garbava la cosa».

Maddalena Cerasuolo, unica donna fra i testimoni a chiedere e ottenere il riconoscimento di partigiana, si presenta come una ribelle. «E poi sono
andata a scuola a Vincenzo Russo, a Santa Teresa, a via Fonseca, era un monastero. Mi ricordo soltanto che il 1° aprile andai tardi a scuola e la
maestra mi mise fuori la porta. Sono stata sempre ribelle, andavo all’asilo delle suore, tenevo tre, quattro anni, c’era una suora chiamata suor
Cecilia, mi tirò l’orecchio e mi spaccò qui sotto. Il giorno appresso, la mamma di mia mamma fece una questione. Quando fu le quattro giornate,
mio padre non c’era, allora fecero da mangiare ai partigiani le suore e la suora mi conobbe: Cerasuolo non hai cambiato. No sorella fino a che
muoio io non cambio». «Era la fine dell’anno scolastico, quando a settembre mi sono andata a riscrivere un’altra volta c’era la direttrice – mi
accompagnò mia madre – la direttrice sulle scale prima di entrare nelle classi: come ti chiami tu? Cerasuolo Maddalena. Ah, avanti, avanti, che
sei carta conosciuta. Perché ero ribelle. Le cose storte non me le sentivo di vedere».

Poi si descrive come una ragazza che emerge da un ambiente popolare, denso però di distinzioni interne. La figura del padre, significativa nella
stratificazione sociale del quartiere, è centrale nella sua storia. È a lui che Maddalena Cerasuolo guardava per costruire la sua identità. «Io ho
finito la quinta elementare. Dopo la scuola sono andata a fare la ragazza orlatrice vicino a Materdei e poi mi imparai, tante maestre mi hanno
insegnato che già anche sapevano lavorare. Ho lavorato verso il ’39 fino al ’43. Poi andammo al collocamento io e altre ragazze e ci mandarono a
lavorare a Pomigliano D’Arco con i tedeschi, però in cucina, nel ’40-41. Come orlatrice lavoravo in casa, mi portavano il lavoro in casa e io
lavoravo in casa. Le mie sorelle no, una faceva l’apparecchiatrice di scarpe».

«Mio padre partecipò alle quattro giornate e io stavo sempre insieme a lui. [...] Mia madre era un po’ più scostante nei modi, era severa
soprattutto verso di me, papà no. Quando sono state le quattro giornate, anzi un altro fatto, quando veniva un’incursione aerea mammà scappava
nel ricovero con gli altri ragazzi, io no. Papà non andava e io rimanevo con mio padre. Io gli volevo molto bene e avevo un rispetto straordinario.
Alle volte c’era mia nonna e diceva: ma che fai, se succede qualche cosa? – Io voglio morire con papà. Era un uomo meraviglioso e quando furono
le quattro giornate lui mise a me avanti. [...] Io andavo appresso a mio padre perché mio padre era un uomo pieno di virtù. Mia madre era una
donna un po’ scostante e ci maltrattava. Mio padre ci trattava in un altro modo, allora quando incominciò ad uscir fuori con gli amici, io sentii
parlare in casa e gli andai appresso. Papà non scendeva al ricovero. È andato in guerra, anzi è medaglia d’argento al valor militare papà. Ha fatto
la guerra dell’Africa e quella del ’15-18, quando è morto aveva cinquantotto anni».

Cuoco sulle navi, quindi gestore delle mense della caserma Bianchini e poi dell’Ansaldo, era, secondo la figlia, un uomo considerato nel quartiere.
«Mio padre era un uomo molto rispettato, poi era un uomo elegantissimo». La sua leadership emerge dal gioco delle distinzioni sociali del
vicinato: rispettato ed elegantissimo... «Antifascista ma in nessun partito». C’è di nuovo nel racconto la descrizione di una posizione di distacco
dal fascismo. Un antifascismo passivo, che ritroviamo in molte storie, cresciuto nel corso della guerra, trasformatosi in antifascismo attivo di
fronte al comportamento nazista.

Maddalena Cerasuolo si descrive con una personalità forte e indipendente, come un soggetto attivo e al centro della scena. Ecco la
rappresentazione dell’arrivo degli alleati. «Quando entrarono gli americani, dopo che i tedeschi se ne andarono, facemmo un corteo da Santa
Teresa, mi mettette ie annanze insieme ad altri ragazzi e la musica dietro dei carabinieri che suonavano il Piave. Una crocerossina mi dette un
mazzo di fiori, camminammo per via Roma tutti cantando il Piave, andammo a Palazzo Reale, là stavano gli inglesi, Montgomery e un altro
generale chiamato Hund, era uno scozzese, steveno al primo piano dove s’affacciava il re e fecero segno di salire. C’erano i figli della mia
commara, mi fecero un sediolino con le braccia, io non sapevo come parlavano perché chi li aveva mai sentiti gli inglesi, entrai e dissi: vi porto
questi fiori a nome di Napoli. Trasette proprio nel salone del trono, steve tutto scassato sgarrupato tutto o vetro per terra, c’era Montgomery e
Hund. Dicette io: vi porto questi fiori a nome di Napoli, che voi siete i benvenuti. – Grazie. Me rette nu bacio allà e nu bacio accà. Montgomery
proprio mi baciò. E poi un altro ufficiale me rette a mano e me vasai pur’isso, poi stettemo acoppa e me sbattettene e mani tutti quelli ca stevene
abbasce».

Notare il rito: il corteo che scende da Santa Teresa verso il Palazzo Reale cantando una canzone patriottica (si sceglie ciò che si conosce, che si ha
a disposizione; come vedremo, i più colti del Vomero scelsero la Marsigliese), poi la ragazza del gruppo portata come su un trono ad accogliere i
comandanti dell’esercito alleato. A fare da seggiolino i figli della «commara»:73 i rapporti di vicinato, centrali nei combattimenti, come vedremo,
si snodano intorno al personaggio, la seguono nella città e nell’azione.

E, ancora, nel suo racconto l’insurrezione è centrale per determinare la storia successiva della sua vita. «Una sera si presentò un uomo a casa
mia, disse: sentite signorina a un indirizzo ci sono degli uomini che vogliono parlarvi. Dato che allora si combatteva ancora contro i fascisti, c’era
un ragazzo e dice: Elenù ti accompagno io. Una strada prima di piazza Dante, di fronte all’Istituto di Belle Arti, un palazzo al secondo piano ci
vennero ad aprire: lei si sente di aiutare ancora la patria? – Sì. E m’ingaggiarono per senza niente. Tentammo cinque tentativi di sbarco sulle
coste nemiche che nun putettemo proprio passà, sempre in Italia, era verso il 1944. Una sera aspettavamo che dovevamo rientrare, mi trovavo a
Genova e allora vennero dei fascisti vicino, dato che io avevo uno zio a Sanremo: io aspetto il treno per Sanremo che ci ho uno zio a Sanremo,
domani mattina. – Ti accompagniamo noi domani mattina. Allora la mattina appresso, mi accompagnarono a Sanremo e dissi: zio sono rimasta
sola, un bombardamento ha ucciso a tutti quanti. E mi misi a piangere perché dovevo fare la parte e dopo mio zio disse che ero una grande
artista. Stetti una quindicina di giorni poi ritornai a Napoli con un Mas, un sommergibile».

Riconosciuta come partigiana, ebbe la medaglia di bronzo. Si iscrisse al partito comunista, fece l’operaia alla Manifattura Tabacchi. Sia nel
matrimonio che nel lavoro contarono i legami e l’identità costruiti nell’insurrezione. «A mio marito l’ho conosciuto il ’44 quando mi sono iscritta al
partito comunista. Stava all’angolo del Duomo, il partito, un ragazzo: vieni a iscriverti al partito comunista, se vedessi il sabato si balla. E così là
sopra conobbi mio marito. Ci siamo sposati al ’48, io sono entrata in Manifattura Tabacchi nel ’46». «Mi presi i documenti e partii la sera alle 11
da Napoli andando a Roma alle 7 e andai alla direzione generale. Giù c’era un impiegato: sentite io devo vedere il direttore. E mostrai i
documenti: se volessimo occupare tutti i partigiani d’Italia, ci vorrebbe una manifattura ad ogni angolo di strada. Combinazione, io trovai un
partigiano di Napoli che faceva l’usciere a Roma, fu una fortuna. Mi facette saglire ’ncoppa e il direttore generale si chiamava Cova, allora io
bussai la porta: avanti. Guardò i documenti e disse: a Napoli si dice femmena curtulella diavolo pigliatella.74 Era tempo di Pasqua. Sono andata il
giorno 12 a Roma, il 18 ebbi la chiamata in Manifattura, dopo sei giorni. Stavo nella scotellatura: erano tele che camminavano e c’era il tabacco
mischiato e noi dovevamo togliere solo le foglie».

Alberto Defez spiega la sua immediata adesione all’insurrezione a partire da una diversità consapevole e una ragione chiara per essere contro il
regime fascista. «Io ero una persona singolare, perché ero uno diverso, ero uno che era nato diverso...» Era ebreo e aveva subito in prima
persona la politica razziale fascista; ne era uscito determinato e coraggioso. Nel 1938, quando furono promulgate le leggi razziali, aveva quindici
anni. «Io ero quindicenne, non ero il quindicenne... il ragazzo quindicenne oggi è un bambino, ma io quindicenne ero uno che è stato già
coinvolto, cioè le leggi erano del ’38. Io andavo a scuola, mio padre doveva lasciare l’Italia, però non aveva il passaporto, lui era turco. Voleva
acquisire la nazionalità italiana, quindi aveva già rinunziato alla nazionalità turca, si è trovato senza la nazionalità turca e senza quella italiana,
quindi era diventato apolide, non poteva avere un passaporto di nessun genere. [...] Noi stavamo sotto le leggi razziali. Non avevamo la radio, non
potevamo avere la cameriera, che vi posso dire? Non potevamo avere un sacco di cose, non potevamo usufruire di servizi pubblici, impianti
pubblici, non si poteva... io andavo a scuola. Mio fratello e mia sorella... mia sorella piccola stava alle elementari, nelle elementari ci stava un’aula
con tutti gli ebrei di tutta Napoli, dalla prima alla quinta elementare, mentre al di là non si poteva andare. Quindi ci stava una scuola con un
gruppo di insegnanti ebrei, si era creata una scuola nelle case... Io conseguii la licenza liceale nel ’41. Per conseguire la licenza liceale io mi
spostavo dalla professoressa Cassola a via Crispi, poi andavo dal professore Cantoni di matematica al Vomero, poi andavo a casa di Sereni, quindi
era un circolare continuo».

La rappresentazione è quella di un giovane coraggioso. «Mio fratello aveva un po’ paura, perché mi vedeva un po’ troppo... attivo! Ma io avevo un
gran desiderio di ammazzare, eh? Aveva un desiderio di ammazzare? Sì! Quello di ammazzare i tedeschi». «Ero andato incontro allo scontro a
fuoco con una certa disinvoltura e anche... con un eccesso di disinvoltura».

Come Amoretti e Maddalena Cerasuolo, descrive la famiglia solidale con le sue azioni. «Mio padre mi dette una pistola che non era stata mai
usata, era del portiere del palazzo accanto, a sei colpi, che se fosse stata usata non avrebbe neanche sparato. E da là io raggiunsi... Fu lei a
chiedere la pistola a suo padre? No, fu mio padre che me la dette spontaneamente». «Mio fratello mi seguiva. E mia madre... mia madre si
rammaricava di non essere con noi».

Con Alberto Defez cambiamo ambiente sociale e scenario. Studente liceale che non poté proseguire gli studi a causa delle leggi razziali, si
sarebbe iscritto a ingegneria nel 1944 diventando professore universitario. Con lui entriamo in un altro gruppo di combattenti, quello più
politicizzato degli studenti del Vomero. La ricostruzione ideologica e di sinistra dell’insurrezione assegna a questo gruppo un ruolo cruciale di
coordinamento organizzativo e di riferimento politico.

Defez narra i fatti, di cui fu protagonista attivo, senza alcuna enfasi retorica. Per certi aspetti il suo racconto non diverge da quello dei testimoni
dei ceti popolari. Nel suo caso la motivazione politica fu, ovviamente, prevalente. Il gruppo con cui combatté si era formato il 25 luglio, alla
caduta del regime, e aveva esordito il 1° settembre con una manifestazione contro la guerra. Alcuni avevano, attraverso i padri, relazioni con la
generazione precedente di antifascisti.

«Il 25 luglio del ’43 cade Mussolini, viene annunciato per radio da Badoglio eccetera eccetera tutte cose ben note, e noi usciamo di casa di notte,
c’era l’oscuramento, potevano essere verso le dieci e andiamo io e mio fratello in via Luisa Sanfelice, sotto la sede del partito fascista, che stava...
uscendo dalla funicolare di Chiaia, quel fabbricato a destra, che fa angolo. E là si raccolsero tutti quelli che avevano accolto questa notizia della
caduta di Mussolini con gioia... Potevano esserci un centinaio di persone. Nella sede del partito c’era un custode, qualcuno che stava dentro, noi
bussammo, entrammo, ma non ci fu scontro, non ci furono scontri, poi venne la polizia, ma senza grande impegno. Ci dissuadeva: andate via,
lasciate stà... Questo siamo la sera del 25 luglio. Poi iniziammo, nacquero questi incontri. Incontrai subito Adolfo Pansini, perché abitava vicino
casa mia, a quel punto ci incontrammo e solidarizzammo. Poi incontrai Ugo Fermariello col quale già da prima parlavo in maniera esplicita e
riservata di queste cose. Si era creata una certa maturità nei riguardi del fascismo, nel giro di un anno, quindi anche le vicende belliche, la guerra
nell’Albania, la Grecia... Si creò questo movimento, questo gruppo di studenti... C’era La Capria, ma non Raffaele, il fratello, Eros La Capria...
Questo nel giro di un paio di giorni, eh? Perché u no conosceva un altro, io conoscevo Pansini, Pansini conosceva un altro, poi venne Camillo
Boldoni... Camillo Boldoni era uno che portava un altro, il gruppo era un gruppo militare. Ci riunivamo a casa di Amedeo Matacena, Amedeo
Matacena è quello che poi è diventato sindaco di Reggio Calabria, e poi da Tropeano a via Posillipo. Quali erano le discussioni che si affrontavano
in queste riunioni? Eravamo protesi verso la pace, quindi noi creammo un movimento... questo movimento era indirizzato a far terminare le
ostilità, la guerra». «Il nostro referente ideologico era Amedeo Matacena, poi ci stava Nino Ruggiero e poi ci stava... c’erano i fratelli Tropeano,
c’era Franco Bizzarro e appresso a questi Ugo Fermariello, io, ma anche persone più o meno di età intorno ai ventidue, ventitré, il più anziano era
Amedeo Matacena, che poteva avere ventisette, ventott’anni, quello che adesso... Com’è che si era formato questo gruppo, com’è che vi
conoscevate? Questi qua, Nino Ruggiero, Amedeo Matacena avevano fatto... anche Adolfo Pansini... delle attività antifasciste di modesta...
modesto impegno... come vi posso dire? Una scritta sul muro, oppure un manifestino e Adolfo Pansini era stato in carcere. Adolfo Pansini abitava
vicino a casa mia e quindi quando lo vedetti con i capelli rasati, accompagnato dal poliziotto al Sannazzaro, che doveva fare la licenza liceale, per
me fu un colpo, aveva diciott’anni, diciassette anni. Quindi io lo conoscevo da prima, sapevo che era stato arrestato ed era stato in carcere, come
era stato anche in carcere Amedeo Matacena, Nino Ruggiero, per dei movimenti di carattere... non grandi cose, eh? Ma che non erano consentite.
Adolfo Pansini era il mio compagno di gioco di bambino, fu il primo ad essere coinvolto politicamente e ideologicamente, il padre aveva una
rivista, era un pittore... Lei era vomerese? Vomerese!» «Questo gruppo si definiva social-liberale. E lei condivideva questa autodefinizione? Ma
non era... così, una autodefinizione, perché in effetti poi non è che ci stava un programma... C’erano soltanto dei fatti immediati da poter
conseguire, belli, importanti, per noi era la pace, la pace e la fine della guerra, ma... certo non c’era la sinistra, la sinistra venne un po’ dopo... Da
parte mia io avevo avuto come professore privato Ennio Villone, il fratello è Libero Villone. Erano due fratelli, poi Ennio divenne funzionario del
partito comunista, Libero, invece, era di Bandiera Rossa... Libero Villone, quindi contestava la politica del partito comunista, da un certo punto in
poi... cioè diciamo da quando venne Togliatti. Ennio Villone era fidanzato allora con un’ebrea, però con le leggi razziali del 1938 non pote va
sposarla, per cui il loro rapporto era un rapporto illecito, anche agli occhi dei fratelli di lei, perché era un rapporto che non si poteva concludere
col matrimonio, quindi lo ostacolarono... da parte dei fratelli di lei... ma lui era una persona... Libero Villone professore di filosofia, di un’estrema
coerenza. Venne da noi in questa scuola ebraica a fare l’insegnante di filosofia, oltre la sua attività normale. E ci metteva al corrente... ci parlava
anche di fatti politici che per noi erano molto lontani e... tanto che quando un giorno alla lezione venne e disse: ragazzi un momento di silenzio,
mettiamo il nostro pensiero... è caduta Madrid. Be’ per me era un fatto lontanissimo che Madrid fosse caduta... cioè la guerra di Spagna era un
fatto lontano... Io aderii a questo silenzio, ma non mi rendevo conto di cosa fosse».

«Gennaro Fermariello aveva dei contatti con quelli che diventeranno poi i personaggi del primo governo dopo Badoglio, però erano quelli che nel
’22 avevano già trent’anni, quindi noi eravamo ragazzini, quindi quasi davamo fastidio a queste persone adulte con le nostre posizioni, i nostri
atteggiamenti, le nostre iniziative. Quindi non sempre le vostre iniziative erano concordate con... No, non erano affatto concordate, anzi gli adulti
ci consideravano un po’ rompiscatole. Loro avevano i loro incontri, erano quelli che avevano avuto già un ruolo venti anni prima, quindi erano i
cinquantenni, sessantenni, noi eravamo i ventenni, anzi, qualche cosa pure in meno, quindi eravamo... e danneggiavamo la loro posizione più
equilibrata». Sulla manifestazione del 1° settembre: «Gli anziani non aderirono assolutamente e se potevano eventualmente ci rimproveravano».

Alberto Defez combatté anch’egli nel suo quartiere, il Vomero, e qui partecipò a uno degli episodi più noti dell’insurrezione, l’assedio al campo
sportivo, che terminò con la resa dei tedeschi. Dopo le quattro giornate si iscrisse subito all’università, quasi come un atto di liberazione e rivalsa
rispetto alle leggi razziali subite, al principio del ’44 si iscrisse al partito comunista e divenne segretario del movimento giovanile comunista della
sezione Vomero, alcuni mesi dopo si arruolò come volontario nel battaglione San Marco risalendo la penisola per partecipare alla liberazione
dell’Italia.

«Alla fine del ’44 incontrai, in una sezione del partito comunista, un maresciallo della marina italiana che stava svolgendo un arruolamento
volontari per il reggimento San Marco. Colsi l’occasione e mi arruolai trascinando in questa operazione alcuni amici e cioè Ugo Fermariello,
Alberto Calbrò, Pietro Andalò e mio fratello Leo».75

Nel suo racconto Defez sceglie un tono minore, e nella rievocazione della giovinezza molti sono i punti in comune con gli altri testimoni.
Coraggioso perché giovane, un po’ spavaldo, politico di breve corso, anche se con molti motivi per combattere il regime fascista, combattente
improvvisato, dice, con ironia, di essersi ispirato alla cinematografia. «Perché noi eravamo allenati alla cinematografia!» «Ispirandoci ai film
western». Alcune scene sono effettivamente rese con le tinte e i caratteri di un film. Su tutto ironia e distanza. «Il vicequestore di Napoli... noi
dovevamo arrestarlo. Ci hanno detto quelli del palazzo, i coinquilini del vicequestore di Napoli, che il vicequestore riceveva i tedeschi, quindi loro
stavano sempre sotto preoccupazione di incontrare i soldati tedeschi. E andammo... volevamo arrestare il vicequestore... a requisirgli la
macchina, era un’automobile che stava in un garage... Ci hanno indicato quelli del palazzo dove stava l’automobile e quello stava chiuso e non si
poteva aprire, quindi ispirandoci ai film western, che uno spara sulla serratura e si apre la porta, cominciammo a fare una sparatoria sulla
serratura e non si apriva mai, poi quando alla fine vennero e aprirono trovarono questa macchina che era diventata tutta un colabrodo nella
sparatoria. Quindi stava senza ruote, senza pneumatici e quindi la cosa finì lì».

Armando Aubry sceglie, per presentare la sua storia, l’evoluzione da soldato fascista a combattente antifascista. «Sono partito a vent’anni, di leva,
classe 1921, sui sommergibili in marina. Ritornato a casa, come ferito di guerra, nell’aprile del ’43... in licenza di convalescenza ho partecipato
alle quattro giornate di Napoli contro il fascismo. Dall’entusiasmo all’odio, questa è la mia trasformazione. Mia madre era un’ostetrica, vedova, e
nel periodo della guerra teneva me con altri tre fratelli in guerra, divisi come i quattro punti cardinali: mio fratello Gennarino, paracadutista
guastatore, al fronte russo, mio fratello Diego in Iugoslavia, in marina, affondato due volte, sul Giulio Cesare e a Spalato, mio fratello Augusto in
Africa, El Alamein. La mia trasformazione cominciò quando... nel ricevere una lettera da mia madre, mia madre mi portava a conoscenza che
agenti delle tasse erano andati a casa sequestrando il mobilio. Tutti devono pagare le tasse, ma io mi domando, se siamo noi quattro fortunati nel
ritornare a casa sani e salvi, e troviamo la casa senza mobilio? Di questo fatto io ne parlai con il mio comandante dimostrando il mio dispiacere e
lui nell’accarezzarmi e nel darmi coraggio mi confortò con queste parole: questi sono gli uomini che governano il nostro paese. Da quel giorno
cominciai ad avvertire dissenso e odio contro la guerra. Sui sommergibili la mia paga era di lire 4 al giorno e una camicia nera ne prendeva 24 e
alla sera dormiva a casa assieme alla moglie. Io venivo da un’educazione con questo insegnamento: libro e moschetto balilla perfetto. E vedevo il
duce come uno che faceva il benessere del mio paese, tanto è vero che un giorno a Bordeaux ebbi il piacere di essere stretto la mano da lui... Un
giorno che sono venuto in licenza, mi capitò che per raggiungere Napoli, ci arrivai dopo quattro giorni, dopo uno snervante viaggio e quando
arrivai nel prendere il tram per raggiungere casa, durante il percorso dalla ferrovia alla Torretta, dove abitavo, prima di Santa Lucia ebbi uno
scontro con un milite perché io, assonnacchiato e raccolto sui miei zaini, non gli avevo mostrato subito il biglietto. Il fattorino mi invitò a fare il
biglietto e io gli risposi: perché lo chiedi a me e non a lui? E lui con modi scorretti e violenti, nell’afferrarmi il braccio mi invitò a pagare. In
risposta lo mandai all’ospedale. Tutti questi episodi mi portarono a odiare la guerra e chi la voleva».

Armando Aubry, in licenza al momento dell’insurrezione, scese in strada fin dal 9 settembre. Nel suo racconto compaiono i primi scontri nel
quartiere di Piedigrotta, vicino al mare. A spingerlo a combattere contro i tedeschi e contro il vecchio regime una serie di ingiustizie di cui solo
allora prendeva piena coscienza. L’odio dei soldati per le camicie nere, che cresce nel corso della guerra, ritorna in moltissime storie. Ovviamente
quando il sistema politico si avvia verso lo sfacelo portando con sé nel disastro tutta la popolazione, riemergono e vengono organizzati in forma
consapevole tutti gli elementi di crisi e di contraddizione individuale e sociale con il fascismo.

Molti furono i soldati sbandati che combatterono; ne rimane traccia evidente, come abbiamo visto, nel registro dei morti, e nelle testimonianze
dei più giovani. In alcuni casi sono essi stessi a raccontarcelo.

Savino E. di Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli, era stato mandato in licenza, perché sotto i bombardamenti era morta tutta la
sua famiglia: mamma, papà, le due sorelle e la nipotina. Non ebbe quasi il tempo di arrivare a Napoli e di rendersi conto delle morti – almeno così
appare dal ricordo – che sopraggiunsero i rastrellamenti dei tedeschi. «Poi dopo pochi giorni sono venuti i tedeschi che cercavano ’o
rastrellamento. Allora ho cominciato a combattere contro i tedeschi, i fascisti. [...] Poi sono andato a San Giorgio, c’era una famiglia che quasi mi
apparteneva, c’ero io, a bon’anema ’e nu mio cognato e altre tre quattro persone e là loro chi aveva le pistole contro i tedeschi... perché là
cercavano di sopprimerci... Allora noi facemmo delle barricate, poi da lì siamo arrivati dove c’è la posta. C’era un camion tedesco che veniva
allora ce steve pure a bonanema ’e Luigi mio cugino... senza niente ci siamo messi davanti e abbiamo fermato questo camion e abbiamo
sequestrato questo tedesco. Questo è stato. Lo portavamo dove sono le suore ’ncoppa o ponte là stava sopra là. Mentre che stava così sono venuti
i tedeschi, a scappare allora... siamo scappati là ce steve o lago pe’ dint’o lago... fui di qua fui di là, è state dicimme nu finimondo».

Mario P. era aviatore in Africa settentrionale. «Erano cadute le bombe e sotto le pietre c’erano mamma e papà e arrivai a Napoli. [...] Abbiamo
preso le armi, io facevo parte del gruppo di Santa Croce, prendemmo un camion con due tedeschi e ci stava un lago dove scendeva l’acqua e da lì
affrontammo un altro camion di tedeschi e li portammo al quartiere generale nostro alla scuola Volpicelli».

Sono, queste, voci di soldati, che trovarono naturale difendersi con le armi. Nessuno pensa di aver fatto particolari eroismi: essendo ricercati dai
tedeschi pensarono che fosse meglio combatterli apertamente. «Perché io se devo morire, voglio morire gloriosamente» dice Savino E.

Anche Gerardo M. viveva nel quartiere di Ponticelli, anch’egli era un soldato ed era appena arrivato dopo lo sbandamento dell’esercito. «L’8 ’e
settembre nuie ieveme fuienne, ie l’8 settembre faceve o surdate, steve a Caserta. [...] pigliàie a balicetta, ie steve cu nu tenente e teneve pure a
rrobba ro tenente. Venenne venenne, ce ne turnaime a casa a ppere, da Caserta a Ponticelli a piedi. Mo p’a via trovaime e tedeschi, a me
m’acchiappaiene e ricettene: cosa porti in questa borsa? E ie teneve nu pantalone ro tenente... Ricettene: tu sei tenente, ufficiale... – No, io
soldato, io soldato, niente tenente! – Int’a chella bborsa... Chille me vulevene purtà! Io li convinsi: No, io soldato! Ecco questi so’ e panni miei,
ebbìì? E ce facette veré chille re aviere. A me mi lasciarene e po’ ie p’a via ’ncuntraie n’aviere ca steve cu miche, ca isse saccheggiave po’ a chilli
surdate ca passavene pe’nnanze a isse, o zaine, o tascappane, cocche pagnotta, coccheccosa... Camillo se chiammave, ere nu surdate delinquente,
e aspettave sti avieri ca venevene... ch’evene passà pe’ forza pe’ Casalnuovo, chella strada ca faceveme passave proprie pe’ Casalnuovo, e isse
steve mmieze a strada e acchiappave tutte sti soldati ca purtavene coccosa a mangià, avieri italiani ch’eveme rimaste senza padrone. Chille
Badoglio, o capo, ricette: da oggi sparate da qualunque parte siete offeso, si ve sparano i tedesche, sparate e tedesche, si ve sparane gli
americani... Allora ce lasciaie accussì a nuie, e ognune e nuie ièveme truvanne e arrivà a casa quanne cchiù ambresse, e nun sparaveme a
nisciune né accà, né allà. Pe’ dinte pe’ dinte, pe’ dinte e frasche, cioè a piedi, accussì simme arrivate a casa, però coccheruno è stato deportato.
Simme stati abbandonati... non c’era più... pure o tenente, e pantaloni suoie m’a lasciate int’a bborza... e ie pe’ nun ce gglittà pecché ce vuleve ra,
ere nu siciliano po’ chiste... non ho sentito più niente di lui, ma...»76

Il racconto evoca con ironia l’8 settembre. Il proclama di Badoglio tradotto in napoletano è magnifico: se vi sparano i tedeschi, sparate ai
tedeschi, se vi sparano gli americani sparate agli americani... «e non sparavamo a nessuno né di qua né di là»... La pusillanimità degli alti gradi
dell’esercito viene resa con grande efficacia dall’immagine del tenente che si fa portare i pantaloni nella borsa dall’attendente e poi sparisce. Ma
l’immagine evoca ancora altri sentimenti: la lealtà del soldato semplice che non abbandona il superiore, mentre è abbandonato da lui. E poi l’idea
di salvare i pantaloni buoni... Anche in questo caso il passaggio al ruolo di combattente partigiano è evocato con naturalezza: a riunirsi è un
gruppo di giovani soldati coraggiosi e un po’ incoscienti che non vogliono essere da meno di coloro che già stanno combattendo. Continua
Gerardo M.: «Comunque arrivaieme a casa, tutte quante steveme d’accordo, ieveme fuienne, steveme nascoste. Stavamo qua a venti metri, llà
sotte steveme, tutti llà e steveme tutti i giovani, tutti i soldati come me, mio fratello, i fratelli miei, tutti i capi, tutte quante llà sotte llà, e i
tedesche nun ce truvaiene llà sotte llà. Anne truate a coccherune e se l’anne purtate, l’anne purtate a Germania. Nuie simme rimaste llà fore llà,
llà sotte. Mo, e vintisette ’e settembre siamo usciti, allore: ah, o Vommere stanne sparanne... Chille llà anne occupate...»77

Gli «scugnizzi»

Ernesto Minino si presenta come un ragazzo di strada per libera scelta. Un monello, un ribelle in contrasto con il padre fascista. Il conflitto con il
genitore si colora di elementi politici nel momento in cui il disconoscimento dell’autorità paterna diventa disconoscimento dell’ordine fascista.

«Andavo alla scuola. Più che scuola eravamo ragazzi di strada, ragazzi del popolo, i famosi scugnizzi eravamo...» «A dodici anni co’ tutto che mi
pigliavano, che mi battevano, ho lasciato le scuole. Una volta c’era una bidella, questa disse vicino a un’altra bidella: lo sai ieri sono stata a farmi
una scampagnata a Secondigliano, ci siamo divertiti, ci siamo mangiati gli gnocchi il pollo i crocché e palle ’e riso. E tengo inta o stipetto. – Pupé,
onna Assunta è gghiuta in campagna. – Ie rumpette o stipetto e me pigliai a marenna, ce mettetteme arete a na machina e ce mangiaime tutte
cose. A mezzogiorno: s’anne pigliate e panzarotte!»78 «Io la scuola l’ho cominciata da grande, da piccolo non l’ho fatta: ho cominciato a studiare
che avevo diciassette, diciotto anni. Prima non andavamo a scuola, eravamo solo banditi di strada. Ero la pecora nera della famiglia, eravamo in
otto, il resto so’ andati a scuola, erano impiegati ma io volevo fare il monello. Sono il quarto, tre sorelle e quattro maschi».

«Siamo sempre stati in questo quartiere, avevamo un soprannome, a noi ci chiamavano la famiglia dei Castelloni. Perché avevamo una fabbrica,
stavamo bene, ma i sentimenti miei erano di fare il monello e ho fatto il monello fin quando, a dodici anni, me ne sono andato a Palermo, solo, era
il giorno di Natale, di sera, stava la guerra, i bombardamenti io mi so’ messo a bordo alle 10 e un quarto fuori al porto di Napoli e me ne sono
scappato a Palermo per l’arrembaggio. Mio padre era un fascista, uno squadrista, però io non l’accettavo in quella politica, ero sempre contro
perché comandavano troppo e a me non mi piaceva. E questo fatto è scattato nella mia mente, questo è scattato... che poi racconto le quattro
giornate, perché l’ho fatto con tutto lo sdegno perché non accettavo. Io ero piccolo, non sapevo che era la politica, però a me quel fatto non mi
andava perché comandavano solo loro. Ogni cosa che facevamo botte a morire e nonostante non sono andato alla scuola in piccola età, non volevo
andare perché ho cominciato gli studi a diciotto anni, io non sapevo né leggere né scrivere, quando sono tornato che mi hanno fatto prendere dai
fascisti, papà mi ha fatto prendere dai fascisti e mi hanno portato un’altra volta qua. Quando so’ tornato qua, mi so’ imparato il mestiere, il
calzolaio, ma mai a lavorare con papà, perché papà non mi voleva dare i soldi, aveva la mente che, io ora ho capito, di padre-padrone, ma allora
non lo sapevo e non volevo lavorare con papà. Mi so’ imparato il mestiere.

La prima base, che ho avuto il contatto con la vita, sono state le quattro giornate perché essendo un ragazzo in mezzo alla strada è successo
questo: avanti tutto, pure quando stava la guerra che succedevano i bombardamenti e tutto quanto, io e altri ragazzi andavamo a rubare, ma no a
rubare per fare i ladri, a rubare per mangiare, dove stavano i polli, i conigli, dove stava il pane, qualche signore benestante che aveva la
provvista... noi andavamo a rubare ma non per fare i ladri, i sentimenti non erano cattivi, di ladro, ma di ragazzo che dovevamo vivere. Perché noi
potevamo anche andare dai fascisti, ce lo davano il mangiare però dopo – uno due, uno due – tutti i gironi dovevamo andare a fare. Noi eravamo
sette, otto, io ero il più grande, il più pazzarello, perché poi i ragazzi si facevano base su me perché pensavano: Minino, il padre è qualcuno, il
padre è fascista allora nessuno ci tocca. Allora prendevano base da me come se io fossi, che ti devo dire, il capobanda».

La ribellione al padre può facilmente assumere anche un carattere politico con la caduta del regime, e ovviamente facilita una ricostruzione della
propria autobiografia in chiave organicamente antifascista. Ci troviamo di fronte a una razionalizzazione della vicenda personale con gli occhi del
presente, ma in un certo senso l’interpretazione è corretta e sincera: il suo comportamento di ragazzo di strada mal si conciliava con la politica di
ordine e di imposizioni del regime, la quale a sua volta si identificava con la figura del padre.

«Quando non c’era mio padre. Sapevo che papà non c’era, era impegnato che stava fuori, mamma piangeva: vieni, vieni. E io ci andavo, ma un
poco, mangiavo e me ne andavo, scappavo un’altra volta. T’acchiappavano i fascisti per strada e ti portavano, sapevano tutti: ci prendevano dietro
il tram, nella villa, sotto la stazione. Non c’era niente da rubare, per questo non c’erano ladri, però se pure un ladro veniva preso che si rubava
una gallina, non è che andava in galera: ti facevano camminare zoppo tanto dalle mazzate che ti davano. Il carcere, per il fascista, non era
ammesso, erano ammesse le mazzate perché poi i delinquenti li tenevano tutti a favore loro per non farsi toccare».

Quella di Minino è l’insurrezione vista da un ragazzino, uno di quelli che a Napoli venivano chiamati scugnizzi79 e che sono diventati icone
dell’insurrezione napoletana, usati ora in chiave di enfatizzazione retorica, ora in chiave negazionista. Ci torneremo.

«Eravamo una famiglia numerosa, io ero il primo; mia madre ha avuto dieci figli, il primo proprio gli morì, poi nacqui io». Così comincia la sua
storia Vincenzo Leone, figlio di un fabbro che lavorava qua e là senza un’officina propria, e di una sarta che cercava di arrotondare con piccoli
commerci, fra cui il contrabbando di pane, cosa per cui era finita in carcere per un mese. Al centro del racconto la rappresentazione di una
famiglia poverissima che abitava nel quartiere collinare e panoramico del Vomero, ma del Vomero non godeva certo aria e panorama poiché
viveva in un sottoscala. «Stavo in un’abitazione più o meno civile a via Kerbaker, mia madre lo chiamava o palazze ’e Criotte, mia madre faceva la
sarta e mio padre lavorava nelle varie officine, stavamo bene più o meno. Per quello che ricordo io, sono nato là, in quell’abitazione al primo
piano, poi ho sempre vissuto nei sottoscala. A dieci anni, proprio all’inizio della seconda guerra mondiale, mi arrangiavo, andavo nei mercatini, a
portare le spese, facevo o guaglione re spese. Poi caddi ammalato e in quel periodo abitavo proprio in un sottoscala a via Belvedere che prima
era in terra battuta, adesso ci hanno fatto un garage, è come se ho vissuto in un garage, ma quella di Torrione San Martino era ancora più sotto,
anzi al Parco Fiore e là caddi ammalato, poi andai in ospedale e quando sono uscito incominciai a vendere fichi d’india in mezzo alla strada, presi
al Petraio, avevo dieci, undici anni. Uscito dall’ospedale, mio padre trovò la casa nel sottoscala di via Belvedere, ascevano80 topi in quantità.
Eravamo sei persone in una sola stanza e comunque mio padre lavorava saltuariamente, lavorava in un’officina qua a vico Acitillo in mezzo alla
campagna e mi portava anche a me a lavorare, perché ie po’ andavo a scuola, avevo dieci, undici anni, ma steve sempre a primma,81 però la
mattina andavo a scuola e quando uscivo andavo a dare una mano a mio padre nell’officina. Mia madre invece stava ad accudire, però anche
prima della guerra, mia madre faceva la contrabbandiera di pane, farenella e cumpagnia bella».

Primogenito, fin da piccolo racconta di avere aiutato il padre, ma di avere anche lavorato come «guaglione» di artigiani e bottegai e di essersi
industriato in piccoli e poveri commerci. «Io ero o cchiù gruosse, chill’era o problema. Guardando un fatto psicologico io dovevo lavorare con mio
padre, cumme si ie avev’a purtà cumme mio padre a famiglia annanze, io ero il responsabile c ome mio padre, cosa assurda! Ma io lo sapevo
questo e m’appiccicavo pure, p ecché quanne era o sabbate assera nun me vuleva dà manc’e sorde pe’ ggli o cinema. Al cinema allora all’Olimpia,
ora se chiamma o Plaza, se pavava na lira e nu sorde, isse nun me vuleve dà e sorde p’o cinema e allora pecciò me sfasteriavo, o lassavo e me ne
ievo, me ne ievo a faticà a n’ata parte e lavoravo nelle officine e cumpagnia bella».82 «In quel periodo io stavo anche con altri ragazzi, io andavo
alla Polifilm a via Mattia Preti dove giravano i film, ci andavamo a rubare il legname, e casciunette vicine all’albere per accendere il fuoco. Ieve
facenne cheste; comunque incominciai a guadagnare qualcosa, perché sempre dovevo portare qualcosa a casa. Anche gli altri miei fratelli si
arrangiavano, une faceve o guaglione ro fruttivennole, ma ie nun agge mai volute faticà ch’e mastre. In quel periodo feci il sarto, niente meno
chille m’ammisurava e vistite ca erane ellate ’ncuoll’a me, ie ca teneve nu cazone ch’e pezze in culo, facevo o modelle,83 cose dell’altro mondo!
Poi facevo o sca rpare, comunque ho fatto parecchi mestieri. Poi alla fine incominciai ad industriarmi per conto mio». «Nell’infanzia non ho avuto
molte amicizie, solo alcune occasionali come per esempio Saverio, che la madre vendeva le uova nel mercatino. Isse s’arrobbava rieci lire, e chilli
tiempe... a rint’o tirette ra cassa e andavamo o Marconi a veré o cinema e ci divertivamo. Però io avevo un problema, io dovevo portare i soldi a
casa, nun me puteve nemmeno addivertì, che e sorde nun erane nemmeno re mmie. Quel poco che guadagnavo ie cercave almeno ’e me fà na
pizza. Quanne se trattava ’e fà na pizza o andare al cinema e cumpagnia bella, isse se pigliava e sorde ra mamma. Una volta feci una figura di
merda vicino al mio amico, dissi: siente me ra caccose che l’aggia purtà a casa. Se no a casa nun se mangiave, si nun purtave e sorde».84

Vincenzo Leone descrive la sua famiglia come antifascista, un antifascismo che si caratterizza per aspetti diversi e significativi: il pratico
comportamento della madre che aggira continuamente i divieti imposti dal razionamento; l’opposizione dichiarata e politica del padre «socialista»
accompagnata dall’immagine classica degli artigiani intorno al tavolo delle carte, uniti nella critica al regime; il rifiuto di contribuire alla guerra
con le proprie misere risorse, egregiamente esemplificato in un conflitto fra padre e maestra fascista.

«La mia famiglia è stata sempre antifascista, pecché mio padre quando lavorava come fabbro, e ci steva anche o stagnaro, sarebbe l’idraulico che
prima facevano pure a ramma, saldavano, e cumpagnia bella, a rummenica si riunivano a iucà e carte tutti gli artigiani ro Vommero, nun è cumme
mo, se cunuscevano tutte quante, e ie stevo là, ero guaglione, era ancora primma ra guerra; mio padre e gli altri parlavano già contro o fascismo,
parlavano ’e Zanardelli, Aurelio Padovano».85 «Mio padre era antifascista per eccellenza, era nu vecchio socialista. [...] Durante la guerra
Mussolini fece togliere le ringhiere a tutti i palazzi per fare le armi belliche perché aveva bisogno di ferro, che io andavo a scuola e la maestra
diceva vicino a me, sapeva che io facevo il fabbro con mio padre, diceva di portarci del ferro, e spezzune ’e fierre, io andavo nell’officina pe’ me
piglià o fierre e mio padre me vuleve vattere».86

Infine, come nella storia di Ernesto Minino, l’antifascismo si caratterizza come l’istintiva ripulsa di un ordine vissuto come estraneo e imposto con
la prepotenza. «M’acchiappaine due fascisti in borghese, Marzano e Collinetti, mi ricordo ancora i nomi, che già mi acchiapparono perché
camminavo scalzo a via Scarlatti o mese primma, e mi portarono alla scuola Vanvitelli, stette nu mese e poi nun ce iette cchiù. A seconna vota mi
acchiapparono con il piombo e mi riportarono alla scuola Vanvitelli e là ce stevano gli amici che ho conosciuto, Silvano, Pachialone, Camillo. Là
andavo la mattina alle otto e ascevo la sera alle sette, in estate alle otto, otto e mezzo di sera, che doveva venire mia madre a prendermi, che io
dicevo vicino al capitano: capità ie me ne sacce ì a casa,87 nun ve preoccupate!»

Vincenzo Leone incominciò con i saccheggi, come Ernesto Minino, e proseguì con i combattimenti nel suo quartiere.

Vincenzo De Falco dice di aver partecipato alle quattro giornate in risposta alla violenza tedesca. Era e rimase fascista, nonostante avesse un
padre contrario al regime.

Si definisce, anch’egli, un ragazzo di strada, ribelle. «Ho fatto la terza elementare. Io litigai con il professore perché vuttave sempe e mane e nun
ci iette cchiù a scola.88 Io non andavo più a scuola da un sacco di tempo. Diciamo che io non lavoravo neanche. Mio padre diceva: vieni a lavorare
con me e io me ne scappavo». «Io perciò dico che ho un’esperienza infinita, perché ho esperienza infinita del marciapiede, che è la più grande
università che esiste al mondo e posso dibattermi con chiunque... E l’università è solo quella... all’università c’è s olo una materia, invece per
strada trovi tutto il mondo».

Nel suo caso il conflitto con il padre assume una colorazione politica opposta. «Mio padre era antifascista, ma io ero fascista. Quando l’Italia si
arrese, io piangevo e mio padre mi picchiò pure e disse: ma che chiagni a ffà, ringrazia a dio che è finita la guerra! E io risposi: mi dispiace che
abbiamo perso la guerra». «Io sono nato sotto il fascismo e ancora oggi sono fascista perché parlano sempre male del fascismo ma non è vero
tutto, hanno fatto i tedeschi non Mussolini, lui era un illuso, ha fatto una dittatura all’acqua di rosa, infatti i fascisti abbuscavano a nui...89 Sì,
avranno purgato a qualcuno, ma Stalin ha accise a tutte quante, Hitler a tutte quante, lui doveva essere più cattivo per essere un buon dittatore
secondo il mio punto di vista. E mio padre era antifascista per un motivo: perché lui aveva le stalle con tante vacche e tutta la sua famiglia con
questi animali scendeva per vendere latte fresco e non lo fecero scendere più con questi animali non mi ricordo bene per dove, così lui era
diventato antifascista per fatti suoi, non perché questi lo avevano fatto qualcosa. Tranne questo il fascismo non gli aveva fatto niente. Io ho
partecipato a balilla, avanguardista c’è mancato poco che non diventai giovane fascista. Quando io andavo a scuola non mancavo mai a tutte le
adunate e facevo la guerra in casa perché mi dovevano comprare la divisa e i giovani ragazzi il sabato andavano all’adunata, era bello e ricordo
ancora il ritornello: libro moschetto e balilla perfetto... una cosa di queste...»

La giovane intervistatrice si stupisce, come mai fascista e combattente? «In piazza Carità c’era un cinema a Cavallo San Felice che si chiamava il
dopolavoro e stavamo io e quattro amici miei a vedere un film non mi ricordo mo che film è. Bello e buono si accendono le luci e c’erano tutti i
tedeschi con i mitra in mano che ci fecero uscire a tutti quanti, ci fecero mettere in fila e ci portarono all’università di giurisprudenza al rettifilo e
sulle scale stavano tre marinai fucilati per dare un esempio di quello che sarebbe successo se anche noi ci saremmo ribellati...» «E, a me mi ha
colpito il fatto dei tre marinai uccisi all’università. E là c’è stata una reazione mia. Altrimenti non avrei mai partecipato. E poi sentivo dire che
avevano ammazzato uno qua un altro là e noi certo non avevamo cominciato prima noi. Così era una controcambiatura tra noi e loro. Perciò io ho
partecipato per andare contro i tedeschi e poi veramente volevano minare qualcosa. Io sentivo dire queste cose. Diciamo che il fatto scatenante
mio sono stati quei marinai uccisi. È stata una mezza vendetta e poi anche il fatto stesso che mi pigliarono e mi portarono al municipio. E pensai:
ma che vonne, io sono un ragazzo. E incominciai a fare l’eroe, feci fuggire questi qua, se no li avrebbero portati in Germania tutti quanti. E poi...»

Coerentemente con la sua visione del mondo egli minimizza la portata dell’insurrezione. «Noi giovanissimi eravamo tutti esaltati a causa del
fascismo con l’amor di patria e compagnia di seguito e facevamo delle cose spaventose senza pensare a salvarci la vita. Ed è vero che noi
inseguimmo i tedeschi. Noi ci siamo lusingati di averli inseguiti, ma basta che pigliavano le armi che avevano che ci facevano una spazzatura a
tutti quanti. Uno poi lo pensa dopo. Ma come abbiamo fatto noi a inseguirli? Perché loro presero la strada di Capodimonte per andare via. Ma in
queste quattro giornate si è rischiati la vita tutti quanti e la maggior parte eravamo ragazzi dai quattordici ai diciassette anni. [...] Comunque la
rivolta c’è stata, li abbiamo dati fastidio senz’altro, ma io non dirò mai li abbiamo cacciati. Lo dicono i politici ma... perché se volevano ci
distruggevano... e se n’erano ì,90 perché gli americani stevene a Saler no e difatti dopo un po’ dell’inseguimento stevene già gli americani a
Napoli... cioè noi eravamo convinti di durare quindici, sedici giorni sicuramente, però arrivando gli americani praticamente... noi non lo sapevamo
che erano arrivati gli americani quindi... se non venivano gli americani ci sarebbe stata un’altra città distrutta, perché noi cosa sparavamo? Le
molotov e in sostanza non avevamo tante cose. E quelli ci sopportavano, poi si sfasteavene91 e ci sparavano».

Le bande dei ragazzini, plasticamente descritte, percorrono gli spazi dei quartieri, si muovono velocemente, sconfinano spesso, vanno in cerca di
avventure, seguono le voci: c’è un saccheggio da fare, un fascista da battere, dei tedeschi da fermare... e si corre.

«Era una banda di dieci, dodici di noi. Tutti ragazzi di strada tra nne sette, otto un po’ più grandi di noi che non erano andati a fare il militare,
perché chi aveva un po’ la gamba così, chi la gamba non ce l’aveva proprio, aveva la stampella, eravamo in dieci, dodici di noi, quattordici,
quindici anni fino a vent’anni». «Tutti i ragazzi, sempre armati, avevo amici pieni di bombe, i fucili, che non sapevamo proprio come adoperarli,
mitra... nessuno si metteva a dirigerci a noi, qualcuno più grande, nessuno nessuno è riuscito mai a dire: io ora vi comando. No, ci avevamo
sempre delle bande formate, di quartiere, a piazza Dante c’era un’altra banda di ragazzi come noi, sopra i Quartieri, giù alla Sanità» (Ernesto
Minino).

Anche Vincenzo Leone si avvia con gli amici Totò, detto Rodolfo Valentino, ed Enzitiello. La descrizione è un pezzo di cartolina del tempo.
«Incontrai due amici dei miei Totò, soprannominato Rodolfo Valentino e Enzitiello. Enzitiello teneva nu fucile che ci mancava tutto il pezzo di
dietro, ce steva sule a canna e o grilletto e l’otturatore per sparare. Pioveva pure e ie teneve e zuoccole o pere,92 anche se di solito li mantenevo
in mano e camminavo scalzo». Ma, come abbiamo visto, Vincenzo Leone era figlio di un antifascista e combatté poi accanto ai partigiani più
grandi partecipando ad azioni riconosciute e importanti come quella che avvenne nelle campagne di Pezzalonga. Nella maggior parte dei casi
bambini e ragazzi erano a fianco di padri, fratelli, cugini, vicini di casa più grandi. Gli adulti ci sono sempre nei loro racconti e affidano loro
compiti di messaggeri, di procacciatori di armi, di aiutanti. Vincenzo Sanno, allora t redicenne del quartiere Montesanto, racconta di essere stato
mandato alla ricerca di munizioni. «C’era una mitragliatrice francese con una base e c’era un ufficiale della marina vicino che si rammaricava che
non c’erano le munizioni adatte, allora partimmo tre o quattro ragazzi e andammo alla scuola Vincenzo Cuoco e c’erano munizioni, c’erano armi
là... ora noi non sapevamo che dovevamo prendere, uno prese quelle là a strisce, un altro altre e le portammo a quell’ufficiale. Quanti anni avevi?
Avevo tredici anni. Ma sai come le portavamo? A volte le strisciavamo per terra... Comunque pigliammo queste armi e furono buone per questa
mitragliatrice. Ora che successe? Che in questo frattempo scesero i carri armati da Capodimonte, ora quelli misero all’angolo del Museo, fra la
galleria e di fronte alla galleria, le mine sotto e i tram di traverso che venivano da Foria e li misero tutti... Quelli non si perser o di coraggio, la
prima cannonata nella galleria e scappammo, io mi vidi uscire il sangue dalla gamba, dissi io: e che è successo? Poi mi tolsi io stesso una scheggia
di quella cannonata».

Le immagini si affollano simili: bambini che accorrono con armi trovate in casa, bambini e ragazzi che trascinano caricatori, che reggono
cartucce...

«Io ero bambino, loro erano grandi, chi teneva ventotto, chi trenta, poi sapevo che erano della zona, ma non avevo nessun rapporto con quei
ragazzi. E vidi che loro si erano raggruppati dietro questo fabbricato e si avviavano verso via Foria. Io prendo questo moschetto di nascosto...
Mia madre lo teneva nascosto sopra a un armadio e me lo andai a prendere. Arrivato in mezzo alla strada... li raggiunsi. Dice: che fai co sto coso
in mano? Vattene a casa! Sai, mi minacciavano, capito? Io non lo volevo mollare il moschetto. Insomma si prese il moschetto, dice: non è cosa per
te, questa è cosa di grandi, tu sei ragazzino. Tenevo nove anni, immagina un po’, e me lo strapparono, mi permisero di seguirli... E li seguii. Dagli
scontri a me mi tenevano proprio lontano per cautelarmi» (Salvatore Borrelli).

«Io ero o raccoglitore re feriti, perché poi a piazza Montesanto fu un combattimento fra fascisti e partigiani... le scale di Montesanto, quelle che
portano al corso... lì ci fu un combattimento, fu colpito un civile in mezzo a una gamba e io lo portai ai Pellegrini e poi dicette chille: Purtateme a
casa. E abitava in un basso, io e un altro sopra a una sedia facemmo tutta la salita del Cavone, all’inizio della salita ci fu un combattimento fra
tedeschi... nun se capeve niente llà, iie nun saccie neanch’ie comme so’ vive llà.93 Poi finito questo combattimento un silenzio e a chiste lo
accompagnammo dint’a sto basso e poi me ne andai a casa» (Vincenzo Sanno).

«L’accampamento dei soldati italiani al Frullone, dove ora c’è il cimitero dei soldati inglesi, fu saccheggiato anche quello: rimasero solo una lunga
fila di camion, autoblindo ed altri mezzi incustoditi. Io ed altri ragazzi potevamo girare perché i tedeschi non ci facevano niente. Io mi sono messo
su un camion e, spinto da altri ragazzi dietro, sono riuscito a farlo camminare un po’ in discesa, poi, non sapendo come frenare, per fortuna ho
strisciato contro il muro e si è fermato. Appena siamo scesi ci hanno chiamato delle persone adulte che stavano in campagna. Noi siamo andati lì
e ci hanno detto che dovevamo rompere le coppe dell’olio in modo che i tedeschi non li potevano prendere, infatti si sarebbero fusi i motori... E
poi ci chiedevano delle armi. Io e ragazzi come me siamo andati nella caserma di Secondigliano e di Piscinola perché c’erano le armi nei cortili,
c’erano tutti i fucili, bombe a mano, pistole, elmetti. Noi andavamo a prendere queste armi, le mettevamo nelle camicie, nei giubbotti e le
portavamo lì. Questo solamente per un giorno, poi i tedeschi hanno messo le sentinelle e non facevano più entrare nessuno. Io e gli altri ragazzi
della mia età ci limitavamo a prendere le armi e a portarle, invece altri ragazzi combattevano per le strade» (Giuseppe Riccio).

«Poi andavamo nel distretto militare a prendere le munizioni e io ero piccolino allora, non sapevo nemmeno come si sparava: presi il fucile, misi
un colpo in canna, mi andò in fronte! Il fucile quando spara fa po-po-pom e mi feci un bernoccolo in testa! Io sono stato vicino alla mitragliatrice,
tenevo i colpi in mano a quello quando sparava. Io ero piccolino, non sapevo neanche il pericolo, non me ne rendevo neanche conto di quello che
facevo, tenevo solo quattordici anni» (Antonio Barrella).

I ragazzi, passati alla storia con il termine di scugnizzi, erano gli stessi che si appendevano ai tram, che disobbedivano e litigavano con i fascisti
del quartiere. Erano indipendenti, coraggiosi e curiosi. Ed erano i più mobili. Nessuno riusciva a trattenerli prima e nessuno riuscì a tenerli in
casa durante gli scontri. Essi stessi oggi si definiscono ragazzi di strada. Ma il termine di scugnizzo, nell’accezione in cui si è diffuso a livello
nazionale, travisa la loro figura sociale. Esso trasmette un senso di marginalità, un’idea di fanciullo plebeo attraverso cui passa in effetti un
giudizio sull’insurrezione.

«Le quattro giornate io non le ho viste, però se ne parlò molto. So che dei ragazzi, dei delinquentucci si sono ribellati, dei giovani insomma
cominciarono a muoversi un po’. Parlarono delle quattro giornate di Napoli proprio perché ci furono parecchi ragazzi più delinquenti, che
facevano saltare i carri armati». Giuseppe F. di Ercolano esprime con grande chiarezza una precisa immagine storica e sociale, un’immagine
molto diffusa su cui ci soffermeremo. In realtà, come ci indicano i personaggi che abbiamo incontrato, i ragazzi erano figli di artigiani, di piccoli
commercianti, anche di piccoli impiegati, ragazzi dei quartieri popolari, che vivevano fin da bambini la dimensione della vita quotidiana nelle
strade della città. Erano semplicemente l’espressione dell’infanzia del tempo a Napoli. Gli spazi della strada erano gli spazi dei giochi e divennero
lo scenario di una grande avventura, vissuta accanto o in mezzo ai grandi, tra le pieghe della guerra.

La caccia ai fascisti

I tempi convulsi dell’occupazione tedesca e dell’insurrezione limitarono reazioni e vendette contr o gli esponenti del passato regime. E la
memoria ne cancellò poi quasi del tutto le tracce, tranne in casi isolati e simbolicamente più significativi. Ci furono, fra l’altro, sostenitori convinti
del regime che combatterono contro le truppe tedesche, in quanto occupanti, seguendo un ideale patriottico. Non mancarono episodi di scontri
con i fascisti più accesi, che si schierarono senza mediazioni con i tedeschi e che fecero opera di cecchinaggio dai tetti delle case, ferendo e
uccidendo molti insorti.

«Chi era fascista incominciò a uscire fuori e incominciò a fare degli atti un po’ disgraziati, infatti abbiamo avuto un tizio che stava qui al Parco
Cis, che poi i partigiani l’hanno fucilato, c’a capa dinte a spazzatura a chille l’anna vuttate,94 mi pare che si chiamava Mautone. – Rosario Nasti, il
padre di Rosario Nasti... uno dei fratelli lo chiamavano Piglione, era il capo ra resistenza di Materdei, dice che questo qua fu ucciso perché teneva
un baldacchino e da sopra alla casa sua al Parco Cis dava notizie ai fascisti. I partigiani, Piglione, lo zio di Rosario Nasti, capettene95 che era lui
che diffondeva queste notizie e o iettene a sparà, Rosario dice che fu proprio il fratello a ucciderlo. – Vigliaccamente si mettevano sui terrazzi i
fascisti, a stento cacciavano solo a testa...» (Michele Lubrano e Vincenzo Sanno).

Ma, come nelle insurrezioni del centro-nord, vennero cercati, picchiati, a vol te linciati e uccisi soprattutto quei fascisti che si erano distinti per le
prepotenze nei quartieri. Con loro la gente regolò vecchi conti, attuò una vendetta meditata da tempo.

Franco Vassetti, allora bambino, non combattente né tanto meno politicizzato, racconta senza toni di condanna l’uccisione del gerarca locale. «Io
abitavo lì, a rione Materdei e il panettiere si trovava in via Salute, quando incomincia a salire verso piazza Canneto, all’inizio, sulla destra c’era
questo panificio, il quale, poverino, distribuiva il pane con le tessere. E a volte se andavi un po’ più tardi, a volte non riuscivi ad avere il pane,
perché comodamente un gerarca fascista che stava nella zona si alzava con comodo, andava dal panettiere, non faceva la fila... Usciva il
panettiere un po’ con la faccia bianca, perché poi si ribellavano le persone, e diceva: il pane è finito. Perché quello aveva sequestrato tutto il pane
per la famiglia, per gli amici, non lo so. E la cosa bella... non lo so, sentimenti non di bambini, sentimenti da adulto ferito... cioè quando fecero le
quattro giornate a questo fascista lo uccisero. Perché era una carogna e lo misero in quei bidoni dell’immondizia dell’epoca. Lei lo ha visto
ucciso? Sì. E lo misero così, con le braccia a penzoloni fuori e morto, così, e tutti passavano e lo sputavano in faccia, io gli ho sputato pure io in
faccia. Dove lo misero? Alla Salute. Sa chi è che lo uccise? No, io penso che furono i partigiani, furono i partigiani. Ma come venne ucciso,
fucilato? Sì, sparato, perché gli grondava del sangue mi pare dalla testa».

I racconti di prepotenze, di soprusi fatti da uomini del quartiere in nome di una posizione locale nel partito fascista sono numerosissimi.
L’insurrezione fu anche il momento per fare pagare chi nel rione si era particolarmente distinto per tracotanza.96 Nel quartiere di Ponticelli si
ebbe l’uccisione ritualmente più significativa, strettamente legata alla massiccia deportazione di giovani che avvenne in zona e alla strage operata
dai tedeschi il 29 settembre.

Il giorno dopo la rappresaglia, il 30 settembre, con gli alleati alle porte e i tedeschi in ritirata (Ponticelli è il quartiere attraverso cui le truppe
alleate entrarono in città) sulla piazza principale venne ucciso il segretario del fascio, Federico Travaglini. Alcuni raccontano che fosse sospettato
di aver aiutato i tedeschi nell’opera di rastrellamento, altri ricordano l’episodio come un’azione di vendetta popolare contro una famiglia che
aveva incarnato il regime. Le testimonianze si dividono anche sulle caratteristiche della persona.

«Lo rincorsero fino a viale Margherita all’altezza della farmacia Scamarcio presso il quale Travaglini fece l’ultimo tentativo per salvarsi
chiedendogli aiuto, ma Scamarcio, altro esponente fascista, lo sbatté la porta in faccia. Lo ammazzarono davanti alla farmacia e poi ne fecero
scempio del corpo, sputazzate, calci, che era quello che lui aveva fatto a tanta gente nel paese» (Mario D’Amore).

«A damigiana ’e benzina ’ncuolle, po’ chille se ne fuiette, o purtaiene ’nc opp’a caserme re carabinieri, chille se ne fuiette n’ata vota... uh... o
sparaiene mmieze e cosce, uh... accussì, e chille se ne fuieva ancora, po’ se ne fuiette int’u palazzo ’e Scamarcio, int’o palazzo ’e Scamarcio o
iettene a piglià e o ccirettene»97 (Gerardo M.).

«I tedeschi erano troppo preoccupati e stavano scappando, gli alleati non avevano ancora instaurato un governo e un controllo e nei tumulti di
piazza fu catturato Travaglini e fu ucciso. Si ebbero questi moti a Ponticelli contro il federale fascista il quale si sarebbe anche salvato se ci fosse
stato un minimo di legalità, ma non c’era e chi aveva un fucile contava di più di chi non l’avesse» (Gaetano Di Porzio).

«Ma chilli settene e comunisti... mo nel senso, quando po’ è caruto o fascismo, che è successo? Quello che poi la storia lo dice, llore erene avuto o
mmale a chesta gente ccà, allora o tenevene int’o sanghe o mmale... mazzate, pugni, ppurrghe, carcere, anni e anni ’e carcere... Mo chesta gente
avendo il momento opportuno ro llore, sarrà pure peccato... nun l’erane a ffà, erene perdunà... Gesù Cristo dice vuole il perdono... e s’anne
vendicate, e venette pe Punticielli st’atu fatte, io me lo ricordo quanne po’ accirettene a Travaglini»98 (Melania M.).

«Abitava a via Ottaviano e teneva una provvista di viveri esagerata. Comandava quasi tutta Ponticelli con vari seguaci intorno. Adamo un uomo
che calpestava la cittadinanza, Salernitano diventato comunista, Tammaro, mezza gonnella, e un figlio di questo scappando verso corso Ponticelli
fu ucciso dai tedeschi. Il fascismo è stata una dittatura totalitaria. Io andavo a scuola con le scarpe mentre gli altri andavano scalzi e non avevano
niente... Dopo la liberazione d’Italia ci sono state le quattro giornate e c’è stata un’organizzazione diversa. Travaglini quindi è stato ucciso perché
ne ha approfittato troppo di Ponticelli... Travaglini era un approfittatore che conservava tutto. Quando c’è stata la liberazione uno di Barra lo ha
preso per il collo e lo ha portato a Ponticelli. A Ponticelli volevano fucilarlo. Qualcuno aveva pure una latta di benzina che gli buttò addosso per
bruciarlo... Comunque a furia di pugnalate, calci, sputazzate, lo hanno ucciso così straziatamente... Però io per l’umanità non ero tanto d’accordo,
ma stando in mezzo così non potevo dire niente. Se tu devi condannare una persona lo devi fucilare e basta» (Eduardo Aurino).

L’uomo fu dunque ucciso dalla folla, che poi infierì sul suo cadavere. Ci fu un processo nel dopoguerra, in cui vennero individuati i colpevoli, poi
amnistiati nel 1947. Abbiamo una descrizione particolareggiata degli eventi nella sentenza della Corte di Assise di Napoli del 1946.99

Una prima versione dei fatti era apparsa in un rapporto del maresciallo dei carabinieri della stazione di Ponticelli del 2 ottobre 1943. Travaglini
«era stato ucciso sulla pubbblica piazza a colpi di fucile e di pugnale dalla folla inferocita e armata, in seguito alle accuse di aver costui favorito i
tedeschi nella ricerca dei giovani del luogo...» Si specificava nel rapporto che «l’Arma, dopo essere riuscita a strappare il Travaglini una prima
volta dall’ira della folla, che l’aveva ridotto malconcio e finanche bagnato di benzina per bruciarlo nella pubblica piazza, lo aveva fatto riparare in
caserma, senonché un migliaio di persone circa, fra cui moltissimi armati di fucile e moschetti, avevano aperto il fuoco contro le finestre, i
balconi e il portone della caserma, gridando ad alta voce di non dare rifugio al traditore, con minaccia di incendiare la caserma e, nel momento in
cui il carabiniere Poletti Roberto rientrava in caserma, la folla vi aveva fatto irruzione portando fuori il Travaglini e sulla piazza Margherita, alle
grida di vendetta, uccidetelo, uccidetelo, molti colpi d’arma da fuoco erano partiti dalla folla, quindi il Travaglini era stato raggiunto, era stato
finito a colpi di fucile sparatigli a bruciapelo e con pugnale, ed il cadavere era stato poi vilipeso dalla folla con calci e sputi». Dopo l’uccisione il
corpo era stato portato al cimitero e sotterrato in gran fretta, nessuna autopsia era stata compiuta. Si dichiarava che il fatto era stato compiuto
da una folla indistinta, perciò da ignoti, e si chiudeva il caso. Ma, nell’agosto del 1944 arrivava al giudice istruttore la copia di un verbale che
conteneva accuse precise. A guidare la folla erano stati militanti comunisti che si era no resi protagonisti di una vera caccia all’uomo: scovato sul
campanile di Barra, condotto a San Giovanni fra le percosse, era arrivato in piazza «malconcio», lo avevano cosparso di benzina, era stato salvato
da un carabiniere, ma – e qui il racconto divergeva nettamente da quello del rapporto precedente – era stato successivamente abbandonato dagli
stessi carabinieri. A un certo punto la porta della caserma «era sta ta aperta ed era stato visto uscire il Travaglini, solo, mentre la porta era stata
chiusa dall’interno». Federico Travaglini era ancora riuscito a fuggire nella farmacia Scamarcio (si dice oggi che Scamarcio fosse fascista e amico
suo) ma anche da questo luogo era stato cacciato. A questo punto distrutto si «era ripiegato su se stesso e aveva implorato il suo uccisore primo
che conosceva: Umbè tu uccidi un padre di undici figli, io non ho alcuna colpa. Ma costui digrignando i denti, aveva fatto partire il colpo dall’alto
in basso. Erano seguiti altri colpi di arma da fuoco e, mentre il Travaglini rantolava, Migliaccio Eduardo gli aveva vibrato tre colpi di pugnale al
busto ed aveva levato in alto l’arma intrisa di sangue, per mostrarla alla folla che assisteva».

A seguito di questo verbale il giudice istruttore il 10 dicembre 1944 aveva ordinato la riapertura delle indagini. Fu allegato agli atti un rapporto
del maresciallo dei carabinieri di Ponticelli del 18 ottobre 1943 sulla strage tedesca e sulla successiva uccisione di Travaglini. Il rapporto mette in
relazione i due fatti. «Il 29 settembre, in seguito al bando germanico, il quale ordinava la presentazione obbligatoria dei giovani delle classi dal
1910 al 1925 e, poiché tale bando non aveva avuto alcun esito per essere i giovani nella quasi totalità mancati alla presentazione erasi realizzato
il prelevamento di essi a mezzo della forza, dei sequestri, delle violenze, donde la insurrezione contro i tedeschi ed una vera battaglia tra costoro
e i patrioti nella quale vi erano state 35 vittime di Ponticelli, durata fino al giorno 30 settembre, e si aggiungeva che non si escludeva che durante
tali avvenimenti qualche vittima era stata fatta da elementi fascisti, pur non essendovi elementi concreti a carico di chichessia».

Sono molti gli elementi di particolare interesse che emergono dalla sentenza e su cui non abbiamo qui tempo e spazio per indagare: il
comportamento dei carabinieri che consegnano il loro antico amico in pasto alla folla, la negligenza delle prime indagini, le figure di coloro che
vengono indicati come gli esecutori materiali e sobillatori della folla. Qui possiamo limitarci a sottolineare il senso che i testimoni oggi e il giudice
allora danno all’accaduto. Un rito di vendetta, che risponde alla rappresaglia del giorno precedente e che, in qu alche modo, anticipa a livello
locale il più grande rito collettivo che si verificherà a piazzale Loreto. La memoria ha dimenticato alcuni particolari della scena che rimandano a
visioni antiche, che sottolineano la ritualità tragica dei fatti e la rendono, anche da questo punto di vista, vicina all’uccisione del duce.100
Particolari che emergono invece vividamente nelle testimonianze raccolte allora e che il giudice comprese con particolare intelligenza, facendone
la base interpretativa dei fatti.

«Il Travaglini fu il capro espiatorio dei dolorosi avvenimenti che afflissero la popolazione di Ponticelli, per la carica fascista che aveva ricoperta,
senza alcuna particolare colpa da parte sua, come indicano le stesse modalità dell’uccisione avvenuta in una piazza pubblica ed in presenza della
popolazione alla quale il Migliaccio mostra la lama intrisa del suo sangue, come pegno di espiazione, e coloro che tale uccisione eseguirono
ebbero solo il movente di tale espiazione e di attuare una giustizia popolare».

L’uccisore che porge la lama grondante del sangue di Travaglini campeggia sulla scena del linciaggio e ricorda il gesto antico del carnefice o del
sacerdote che ha ucciso la vittima sacrificale. Anche il vilipendio del corpo rimanda a una ritualità antica radicata nella memoria della nostra
civiltà.

Antifascismo?

Antifascismo è un termine forte, ha un significato politico consolidato ed enfatizzato: viene collegato a variabili precise, prim a di tutte la
«coscienza», vale a dire la consapevolezza politica di combattere contro il regime insieme a una sua chiara condanna. In ogni quartiere – e nei
racconti sono più presenti di quanto mi aspettassi – vi erano dei personaggi noti per la loro avversione al regime e per le persecuzioni che da esso
avevano subito, ma una coscienza antifascista netta e chiara non era certo diffusa a tutta la popolazione, come del resto nella maggior parte del
paese, mentre erano invece molto diffusi una sincera rabbia contro il regime che aveva condotto alla guerra e un grande disprezzo per la classe
dirigente che aveva lasciato civili e soldati in balia dei nemici.101

«Noi non abbiamo saputo proprio niente, non si capiva proprio niente, disorganizzazione... I tedeschi disarmarono tutta l’Italia, non c’erano
ordini, il re se ne scappò, quel vecchio disgraziato! Perché se quello fosse rimasto a Roma, il popolo sarebbe accorso a lui, invece lui
vigliaccamente se ne scappò. Lui non doveva abbandonare la capitale, doveva dire: io sono il re e rimango qua, e se i te deschi mi ammazzano,
vendicatemi» (Giuseppe Iaccarino).

Era inoltre profondo e diffuso l’odio per chi approfittava di una posizione politica per imporre la propria personale prepotenza.102 Lo abbiamo già
trovato nelle descrizioni di molti testimoni, compare in moltissimi racconti. È uno degli elementi distintivi del discorso contro il regime, insieme al
fastidio e all’irrisione per le parate e i riti. Sono spesso i figli a raccontarci le vessazioni subite dai genitori.

«I fascisti allora presero a mio padre, pecché ce steve fore a via Nova un alimentare ca venneva tutte chesta rrobba, accussì. Allora dato che si
trattava con mia madre, la moglie di questo ci conoscevamo e ci dava ogni tanto un poco di farina a mia madre, pecché allora nun ce steve, di
nascosto pecché llà guaie a chi faceve sti ccose... e mio padre, nun c’ere manco a luce pe’ Punticielle, nun ce stevene e luce, me ricorde ca mio
padre mentre veneve allà fore llà, ca teneve stu sacchettine cu chillu ppoche ’e farina... ci stava un fascistone grande grande, n’omme, che vi
debbo dire, ca pareve na muntagna, tutte medaglie... Lo chiamavano Barlettaro, perché era di Barletta... questo è l’episodio mio da bambina, da
ragazzina, che mi posso ricordare e fino a che more non me lo scordo mai... chillu berretto da fasciste, chilla frangia che sventolava quando
camminava, cu chilli cazuni a zuava, cu chilli stivali, proprie nu fascistone proprie... Comunque chiste e n’atu ’e Punticielle, ca mo è vive ancore,
insomme acchia ppaiene a chistu pate ro mie cu chesta sacchettina cu chesta farina, ca chille per amicizia ce lo diede a mio padre. Erene quatte,
cinche, sei chile ’e farine insomme, chistuccà pigliaie na svista pensando che mio padre... llore cercavano una contrabbande di pane che abitava a
via Napoli, e se pensavene ca eremo noi quella contrabbanda di pane che llore andavano in cerca. Vennero a casa, questo fascisto grande che vi
ho detto ca pareve na muntagna, assieme cu chistuccà, perquisirono tutta la casa, e mia madre allora teneve na valanzella piccolina, bilancina per
uso di casa insomma di cucina, se pigliaiene chella bilancia, non so se vi ricordate, allora quando si faceva o pane int’a casa teneveme chelli
mattunelle ’e legne, ca facevene o ppane arinte, se pigliaine chella martere... Insomma, già s’erene purtate a papà sul fascio, aro ce sta o
municipio ’n miez’a piazza, ce steva o fascio, e mammà faceve vicino a chillillà: ma pecché me state facenne cheste, che è successe? – Vuie site a
contrabbande ’e vasce... – Ie, a contrabbande ’e vasce a Santa Croce? – Mammà lottava con quello così, e se pigliaiene pure a mia madre e s’a
purtaiene sul fascio. – E non ci prendiamo pure la bambina... – che allora era io – perché è troppa piccola. – Io rimasi cu chesta sora ’e mia madre,
pecché s’erene pigliate a mammà, ie so’ unica figlia, e insomma me ne ietti addu chesta zia, pecché allora poie teneve sette, otto anni, nove anni,
dieci anni, non mi ricordo bene l’età, e se purtaiene a mammà e papà, e purtaiene carcerate proprie, e purtaiene a Barra, a Barra ce sta nu
carcere allora, e dice ca e accirettene e palate, tante re schiaffe che rettene a mio padre... papà steve a na stanza, sempe ’ncoppe o fascio ccà a
Ponticelli, e mammà steve a n’ata stanza, mammà...»103 (Melania M.).

La signora Melania racconta che la madre sentì le urla del marito dall’altra stanza, ne riconobbe la voce perché non sapeva che avevano preso
anche lui, e non sapeva il motivo per il quale avevano perquisito la casa. Si rese conto solo allora che anche il marito era prigioniero. Cominciò a
chiamarlo, a dirgli che pure lei era lì. «Mi hanno dato tanti di quelli schiaffi, mi hanno stordito – ricette vicino a mammà. – Tonì, Tonì! – la mamma
rispondeva dal muro. Muro a muro si parlavano, sempre stanne in queste camere di sicurezza che a vvote tenevene sul fascio. Allora mia madre
diceva – Pure a me chille me steve cecanno l’uocchie. Ha detto vicino a me: si nun facite il nome, dice, ti ceco gli occhi. – Cecamille, famme veré
si tiene o curagge ’e me cecà. – Mia madre cu chillullà ’e Punticielle, o cape re fasciste ca steve ’ncopp’o fascio a Punticielle. Chille po’ e purtaie
pure carcerate a Barra. [...] Chille, pateme, avette o male, chille stette c’a capa stordita, pure ’n mane ’e miereche ett’a ggli, o sturdettene tutt’a
capa, rice, ch’e pacchere c’o rettene»104 (Melania M.).

Molti altri racconti riportano una diffusa insofferenza verso le prepotenze dei fascisti, un clima di «resistenza» più o meno attiva, cresciuta
proprio nei rapporti e negli scambi quotidiani, che appare già radicata negli anni del ventennio, e che va messa anch’essa tra le cause strutturali
dell’insurrezione. «Ah, il 25 luglio... noi che non sentivamo quell’attaccamento al fascismo: ah, meno male, se ne so’ iute a annanze i pere!»105
(Michele Lubrano).

«Mi ricordo che un giorno mio padre aveva speso tutti i soldi perché era andato in campagna a prendere qualcosa da mangiare e aveva comprato
anche delle conserve per i giorni prossimi, proprio quella sera vennero i fascisti e si presero tutto, mio padre piangeva come un bambino, non ha
pianto così neanche quando è finita mia mamma, ma era disperato, non avevamo più soldi e niente da mangiare. I fascisti se ne sono visti bene
dei saccheggi e delle mazzate alla gente che si ribellava, e che mazzate! Qualcuno è morto perché erano colpi forti e poi non si fermavano fino a
quando uno non rimaneva a terra senza muoversi. Pure per il coprifuoco picchiavano quelle persone che non rimanevano a casa o anche che
lasciavano una piccola luce accesa, entravano e riempivano di mazzate a chi truvavene... una volta pure a una mia parente che aveva lasciato la
luce accesa a rumpettene e costole, non so quanti giorni è dovuta stare ferma nel letto. Quando poi la situazione si fece brutta per Mussolini, che
era stato tradito e stavamo pure perdendo la guerra, mi ricordo che si pigliarono tutti i cancelli dalle ville, le ringhiere dai balconi, le fedi, il
rame... Tutta questa raccolta per l’onore della patria, perché i soldi erano finiti e i nostri eserciti non avevano più armi, e li volevano da noi. Già in
quel periodo però e fasciste acalaine a capa106 perché cominciarono a sentire che per loro era arrivato il momento, e si mettevano paura della
gente che avevano offeso e picchiato» (Teresa Peluso).

«Se non ci fossero stati gli antifascisti a impedirlo il popolo napoletano avrebbe dato sfogo alla rabbia, tutta l’ira che aveva in corpo per tutte le
angherie subite, che poi questi menavano, a parte il vecchio olio di ricino, però schiaffeggiavano facilmente, abusavano... Se noi adesso abbiamo
la camorra che impone la tangente allora la tangente la mettevano questi fascisti. Proprio la tangente? No, andavano al negozio e si facevano
mandare la spesa a casa, sotto questo profilo abusi ne facevano. Questi sfogavano la loro prepotenza, la loro arroganza» (Antonio Amoretti).

«Ma chi aveva a tessera e chi viveva con loro stava un po’ meglio di me senz’altro, meglio di me nel senso che chille faceve... erene guapperie
quelle che facevano loro, non era più una cosa normale, perché diceva: io so’ fascista. E se ne andavano do ve volevano e si pigliavano quello che
volevano, perché poi la mafia l’ha creata il fascismo, non è che si era fatta... perché i fascisti erano dei mafiosi, erano dei prepotenti che si
presentavano in un posto: io so’ fascista e mi devi dare questo! Hai capito? E allora non è che a mafia... esiste oggi, che nun tenene a divisa, ma
prima tenevene a divisa e era la stessa cosa, nun te preoccupà! Hai capito?» (Giovanni Palumbo).

«Se viveva o stesso ma sempe cu chella cosa ca nun putive dicere niente, nun putive parlà ’e politica, aviva ricere sempe: bello chesto, bello
chello. Vulevane cumannà tutta cosa, oì. Luaine pur’o libro Cuore a int’a e scole, perché era troppo sensibile. Se riceva: libro e moschetto fascista
perfetto. Luaie tutte e cose bone, pe’ mettere solo cose violente. O re nun se ne mpurtave si tu eri ricco povero o che facevi, bastava che ci
pagavi le sue tasse e poi ti lasciava fare. Mussolini no, a scola si andava c’a camicia nera, aviva dicere sempe... si qualunque cosa dicevi o facevi
te purtavano copp’o fascio e là erano mazzate e morte. A gente era scontenta, a rabbia cchiù grossa è che eravamo impotenti, nun puteveme fà
niente. Se riceva: duce duce che alla fame ci conduce... Erano tutte quelle imprecazioni popolari che servivano pe’ se sfucà, a si no a rabbia
scoppiava. Faceva sempe adunate, parate, tutte cose finte pecché areto nun aveva niente, facette a guerra senza cannoni, senza fucili e ricette: in
venti giorni... Oi lloche...»107 (Livia Majolo).

«Pensa un po’ io ricordo un episodio e non me lo dimentico, stavamo fuori alla chiesa qua, la chiesa in via Salute e c’era la squadra dei fascisti
che doveva uscire con la bandiera con la testa di morto e doveva uscire. Di fronte alla scuola Petrarca c’era un barbiere. Questo barbiere stava
facendo la barba a un signore, questo poveretto si faceva fare la barba, non ha pensato al gagliardetto, si sono tornati due di loro e hanno detto
vicino a don Pasquale, che era il barbiere: fate uscire a quel signore. Prima lo hanno fatto alzare il gagliardetto e dopo... le botte che ci hanno
dato! schiaffi a dozzine, perché si è fatto fare la barba e doveva salutare. Allora tutto questo nella mia mente lavorava, lavorava sempre e che è
successo? So’ venute le famose quattro giornate...» (Ernesto Minino).

Sono molte le descrizioni di prepotenze e di soprusi: vanno dall’incarceramento facile alla soperchieria spicciola, all’ordine imposto con la forza.
Sono racconti di panni stesi tra i vicoli e di fili tagliati con tutti gli indumenti caduti e sporchi perché qualche fascista locale aveva deciso di
portare ordine al panorama del vicolo, di ragazzi rincorsi e picchiati perché si attaccavano ai tram, di bottegai multati per occupazione della
strada, o cacciati perché irregolari...

«Quando io ero proprio piccola, avevo sette anni, in mano ai fascisti... mio padre lavorava nel porto di Napoli e fu ferito nei treni, papà era
ormeggiatore e aspettava una nave che rientrava per ormeggiare, non fu fatta a manovra dall’addetto e a papà gli schiacciarono il braccio. Noi
eravamo nove in famiglia... a famme ca ce steva... e purtroppo incominciammo a lavorare tutti quanti, ed io compravo gli aranci, li facevo a fette,
li giravo nello zucchero e li vendevo. Purtroppo queste cose non si potevano fà... nun se putevene fà, nun esisteva proprio ca tu te mettive cu
bancarielle, venevene e fasciste, pigliavene sta rrobba e buttavano tutto. E ie che puteve fà?108 Piangevo perché noi eravamo dieci persone di
famiglia e a mangià... [...] Toglietti questa roba da mezzo e mi mettetti a vendere le uova. Mammà l’andava a prendere a Nola, Caivano, con la
Vesuviana, di contrabbando... [...] La domenica servivano le uova per chi doveva fare ’ndurate e fritte e quindi si vendevano queste uova di
contrabbando... o salumiere e venneva a na lira, ’e contrabbando se vennevene na lira e mieze, giustamente. Quanne m’a faceve fore che uardie
tutto andava bene, quanne me ’ncastagnavene109 purtroppo le dovevo vendere a prezzo di calmiere. Io tale era la rabbia brutta perché sapevo
come mia mamma se le era procurate... Allora una volta di queste le guardie mi dissero che le dovevo vendere a prezzo di calmiere, io dissi:
manco si m’accirene. Lanciai la seggiolella che avevo in terra ai guardie e loro mi portarono in questura. Dissero che io piccirella piccirella avevo
fatto oltraggio a pubblico ufficiale e mi mettettero sotto a una finestra per due ore e mezza, chiusa, aspettando che qualcuno portasse
l’imbasciata a mia mamma per fargli sapere quello che era successo...» (An na De Rosa).

Si potrebbe leggere tutto ciò come il conflitto fra una popolazione povera e ribelle e le istituzioni che cercano di imporre un certo ordine, ma i
fautori dell’ordine sono spesso «guappi» prepotenti e iniqui, oscuri personaggi che cercano una ribalta attraverso la prepotenza nel vicinato,
come ci hanno suggestivamente narrato i testimoni. I ragazzi di allora ricordano le vessazioni imposte ai genitori. In alcuni casi la propaganda
fascista attraverso la scuola era riuscita a creare una divisione all’interno della stessa famiglia tra genitori e figli, come nel caso di Domenico
Toscano che ricorda il padre antifascista e le prepotenze subite da lui e dalla famiglia con una mirabile analisi del regime locale e della sua
affermazione, ma insieme mostra una sorta di astio nei suoi confronti per aver subito una condizione di disagio a causa della sua scelta. «Mio
padre era un antifascista. Il fascismo aveva accolto per potersi affermare una massa di gente poco pulita che non aveva un lavoro, quasi
ignorante, che poi ripulì piano piano nel tempo. Ad esempio un tizio che non sapeva fare niente, diventò una guardia fascista e poiché sapeva che
mio padre fosse un liberale non lo digeriva e lo fece licenzi are... po’ stu tizie che facette? Oltre che noi già steveme ’nguaiate, mettette e bombe
sotto o purtone, perché la nostra era una famiglia conosciuta. Questo in mezz’a via chiedeva: sei fascista? Non sia mai dio dicevi. No. Ti portava
in farmacia e ordinava un quarto di olio di ricino po’ e mazzate, perciò dico Mussolini dovette circondarsi anche di personaggi poco... Mio padre
essendo antifascista, poiché i militari che andavano al fascio portavano una divisa, mio padre un po’ perché nun ce stevene sorde, nu poche
perché nun cio vulette fà, mio fratello andò senza divisa e il tizio o fa cette stà na notte in galera». Ma ecco che nel racconto emergono frammenti
di sofferenza tradotti in astio verso il padre. «Noi abbiamo vissuto male proprio per la vicissitudine di mio padre che è stato antagonista del
fascismo, che poi lui era consapevole ca teneva cinque figli... che me ne fotte si so’ fascista o no! E invece proprio e cervella ca a vote nun è
bona... ce fai suffrì a famme... mia madre vendette tutte e proprietà».

Qualcuno usò il fascismo per farsi strada, molti giovani lo vissero come un momento di riscatto e di affermazione, parecchi lo subirono invece
come ulteriore moltiplicatore di differenze. Le differenze fra i militi fascisti e i soldati, le differenze fra chi aveva la divisa e chi no, fra chi era
figlio di un fascista e chi di un poveraccio... come mostra il brano estremamente suggestivo di Francesco Russo, figlio di barbiere, di Fuorigrotta.
«Sono nato con una fame arretrata... anzi a pensarci bene, la fame è stata il motivo dominante della mia giovinezza... Appartengo a una famiglia
di sette figli. Vivevamo, nonna compresa, in dieci persone in tre stanze del rione Duca d’Aosta a Fuorigrotta. Mio padre era artigiano, aveva un
salone da barba. Le nostre condizioni economiche erano molto basse e nel periodo fascista eravamo aiutati dal governo, attraverso l’assistenza
alle famiglie numerose. Godevamo della refezione scolastica e della befana fascista. Una volta all’Epifania ebbi regalato un filone di pane. Me lo
ricordo ancora infilato in un pantalone di mio padre ai piedi del letto. Pensavo che la befana fascista fosse una vecchietta vestita con la divisa
della milizia ed il cappello da giovane italiana con tanto di fascio littorio. Riservava i doni più belli ai figli di quelli che erano fascisti, mentre ai
figli di barbieri come me, spettava un filone di pane. Forse, pensavo, se papà fosse fascista, la befana mi porterebbe anche una bicicletta! [...] Lo
sa che esistevano balilla di serie A e di serie B? Io naturalmente ero di serie B perché non possedevo la divisa ed ero sbattuto sempre indietro a
tutti dal capomanipolo. Mio padre era obbligato a frequentare le adunate del sabato fascista ma non ci andava mai. Il sabato era l’unico giorno
che guadagnava un poco di più. Una volta venne convocato dal fiduciario, al palazzo del fascio, dove fu schiaffeggiato e rimproverato di non
partecipare a queste adunate. Io rimasi fuori dalla stanza ma sentii tutto. Schiaffi e calci in culo compresi, che il fiduciario diede a mio padre. Mio
padre per non essere additato di antifascismo comprò una gigantografia di Mussolini a cavallo con tanto di pennacchio bianco sull’elmetto e
l’espose nel salone. Quando i guadagni andavano male, si voltava verso quella fotografia e gli diceva parolacce feroci sputacchiando per poi
ripulire subito dopo “il quadro del santo”, come lo chiamava lui, col fazzoletto. Peccato che non hai i capelli San Benito perché saprei divertirmi a
farti un bel pelo e contropelo! Diceva, e noi tutti ridevamo amaramente. Quando il 25 luglio cadde il fascismo mio padre buttò finalmente per
strada quella foto».

La divisa fascista, simbolo di uguaglianza del popolo di fronte al capo, che diventa invece simbolo di differenza è una delle immagini più forti di
una sorta di memoria antifascista dei «poveri». Poi la prepotenza: schiaffi, pugni, umiliazioni per un nonnulla sempre sui poveracci che non
potevano reagire. Emerge inoltre una sorta di difesa personale dalla sopraffazione, fatta con le armi dell’ironia e della distanza. Il barbiere alle
prese con la gigantografia di Mussolini è una figura strepitosa. L’ironia e il riso sono, si dice, l’arma dei deboli, di chi non ha altri mezzi per
combattere il potere. Come è noto, l’ironia è profondamente radicata nella cultura della città. Ne è stato visto l’aspetto folclorico, teatrale, sono
stati sottovalutati invece i contenuti di critica del potere e le risorse individuali di resistenza che può fornire. Si veda il racconto della
partecipazione a una sfilata.

«Il regime... io mi ricordo di una cosa che è rimasta in famiglia. Fu quando arrivò Hitler a Napoli e allora mio padre con mio zio Carluccio
dove ttero per forza all’epoca mettersi in divisa fascista, altrimenti erano buttati fuori dal posto di lavoro... all’epoca si andava al confino... era un
obbligo... Mio padre quando arrivò Hitler si avviò per... insomma dovette fare la rivista, mio padre dovette passare cu tutte sti persone un pochino
anzianotte che era il suo gruppo. Con tutto il suo gruppo dovette passare per... lungo via Caracciolo a... stavano Hitler con il duce cu tutt’e
gerarchi e loro dovettero sfilare con gli altri. Senonché a mio padre andò a finire un sassolino nello stivale... e certamente cumme se fa a sfilà nu
stivale pe’ levà u sassolino... dovette suppurtà chistu supplizio pe’ tutta via Caracciolo, facendo il passo alla romana che si alzava la gamba. Mio
padre ogni volta che alzava il piede era na bestemmia, una verso Hitler n’ata verso il duce. Zi Carluccio ca steva affianc’a lui ed era più anziano di
mio padre diceva: Pascà zitte ca c’arrestene! Pascà statte zitte! Carlucce me fa troppo male e stanne facenne sti pagliacciate sti dui fetiente. –
Zitte, silenzie, nun dicimme... – quando mio padre tornò a casa, imprecazioni, bestemmie contro o duce, contro Hitler, contro le divise, contro il
fascismo... Chiudete la porta! Tutti barricati dentro. Mia madre diceva vicino a noi: fate chiasso, ballate, cantate... Perché il vicinato poteva
sentire le male parole contro...» (Teresa Ciciliano).

La sfilata vista da uno che ha un sassolino nella scarpa è davvero straordinaria. Hitler e il duce tutti impettiti e il poveraccio obbligato a sfilare
con i piedi doloranti. La partecipazione marziale viene svilita. È come se uno zoom entrasse nelle file e cogliesse i sentimenti di un individuo in
quel momento, quello che sta oltre la visione dall’alto della massa obbediente ed entusiasta. Vengono in mente i film di Charlie Chaplin: il banale
che ridimensiona la retorica del potere, il poveraccio alle prese con i piccoli casi della vita quotidiana, al quale capita sempre qualcosa nei
momenti meno adatti... Dello stesso avvenimento Alberto Defez ci offre un altro squarcio ironico. «Con quell’atteggiamento un po’ napoletano... Il
Führer quando passò lo chiamavano o furiere» e aggiunge: «non c’ era affatto simpatia» anzi «un certo senso dispregiativo». Non si deve
sottovalutare l’arma dell’ironia, consente una distanza che può diventare critica nel momento opportuno, mantiene e alimenta uno spazio di
giudizio di estrema importanza.

Più il sistema è arrogante, repressivo, spettacolare, più è difficile mettere a fuoco gli individui inermi e silenziosi. Ma questo non significa che essi
non pensino, non agiscano, non si muovano negli interstizi delle istituzioni totalitarie, non resistano silenziosamente. Quando si studiano società
governate da r egimi totalitari o dittatoriali, si rischia di assumere come reale quella medesima visione delle masse che i regimi stessi tendono a
proporre, con il «popolo» simbolicamente radunato sotto la guida del capo, uomini e donne ridotti a replicanti che si muovono sollecitati dagli
ordini e dagli incitamenti che vengono dall’alto.110 Esistono, invece, anche nel sistema più autoritario e violento, atti di resistenza ordinaria,
tattiche quotidiane che i deboli praticano contro un potere troppo più forte di loro perché essi possano agire in modo scoperto e diretto. Sono gli
uomini ordinari di cui parla Michel de Certeau, gli antieroi che si oppongono silenziosamente al potere, che cercano di resistere nei meandri delle
istituzioni totalitarie, gli umili che esorcizzano il potente, tentando di scansare i colpi della sorte avversa, giocando d’astuzia con il potere e con la
storia. È possibile applicare strategie calcolate quando si ha un proprio spazio autonomo per decidere, quando si possono fare calcoli fra rischi e
benefici; quando, invece, si è costretti ad agire all’interno dello spazio controllato dal nemico, allora si devono affinare tattiche specifiche: l’arte
di «fare dei colpi», una somma di abilità polimorfe che rendano possibile cogliere le opportunità che si presentano e in alcuni casi rovesciare le
posizioni.111 I racconti, passati di generazione in generazione, narrano di un repertorio di tattiche di salvezza, strategie quotidiane contro i poteri
costituiti per difendere il proprio limitato campo di autonomia. È l’epopea del debole che vince sul più forte: l’elogio del furbo sul prepotente, i
rapporti di forza che si capovolgono per un atto di astuzia, come nei racconti popolari.112 L’ironia, l’immagine del potente ridicolizzato e
sbeffeggiato sono l’espressione precipua di tali modalità di azione, rappresentano anch’esse una sorta di opposizione al messaggio totalitario.
L’esistenza di queste forme di resistenza silente è fondamentale: rende possibile mantenere autonomia di giudizio e pratiche sociali relativamente
indipendenti, che si possono mettere in funzione non appena il sistema mostri delle crepe o si aprano occasioni insperate per l’azione. Studiare
questi ambiti, queste pratiche sommerse è dunque estremamente importante per capire il grado di adesione di una società all’ideologia del
sistema politico.

Fra gli strati popolari napoletani scopriamo un sentimento di distanza dal regime e dalle sue manifestazioni retoriche che non ci saremmo
aspettati. Troviamo, ovviamente, anche esplicite dichiarazioni di appoggio a Mussolini – non si deve certo cadere in un’enfasi opposta e
altrettanto fuorviante. E, soprattutto fra i testimoni più acculturati, si scorge potente l’influsso della retorica fascista. I casi di dichiarata adesione
all’ideologia fascista sono ovviamente pochi. Perché la maggior parte abbandonò il regime allora, perché le riflessioni e le idee del dopoguerra
indussero su altri sentieri, o semplicemente perché oggi ci si vergogna di ammettere il proprio appoggio a un regime totalitario. Abbiamo due casi
estremi che, naturalmente, non ci possono dire nulla sull’estensione, sulla profondità del fenomeno, ma possono illuminarci sui modi di vedere,
sui punti di vista di chi ancora oggi difende scelte condannate con veemenza dalla nostra cultura.

«I fascisti non hanno mai picchiato nessuno. Hanno picchiato solo coloro che si mettevano in condizione di essere picchiati, altrimenti venivano
accolti bene» (Luigi D’Onofrio).

«La dittatura è una cosa brutta, ma è anche una cosa buona per le persone per bene che non commettono reati. La libertà come è intesa adesso è
per i delinquenti. La dittatura è dittatura, ma alle persone perbene non facevano niente» (Giuseppe Di Donato).

Ci troviamo di fronte a due laureati, uno dei quali insegnante in pensione. Accanto a queste frasi abbiamo il racconto spontaneo di ciò che hanno
fatto per il regime.

«Quando io appartenevo alla 138a legione che stava al Museo ero caposquadra della milizia e acchiappavo i delinquenti, mica li portavo al
commissariato. I fascisti erano come dei poliziotti, potevano arrestare e allora io prendevo questi cretini, che poi sono quelli che oggi comandano,
e senza dire niente li portavo sulla sezione al comando federale ai Vergini, il comando della polizia dei fascisti. Non c’era bisogno della pubblica
sicurezza, c’eravamo noi. E senza processi e senza niente lo portavamo alla camera, avevamo i nerbi di bue, cioè le fruste, che già fanno male per
se stesse, però noi ci mettevamo i piombini che facevano ancora più male» (Luigi D’Onofrio).

«Quando il 10 giugno fu dichiarata la guerra, io mi trovavo su una nave per fare da scorta a navi da trasporto che andavano in Africa
settentrionale, in qualità di artigliere. Avevo uno zio, un cugino di mio padre, che era capo di stato maggiore e siccome la scorta convogli non era
molto piacevole perché si può essere affondati, lui mi trovò un posto molto bello, comodo, ed era quello al SIM, Servizio Informazione Militare.
Ero una spia. Facevo il percorso Roma-Mestre, Mestre-Roma. All’epoca c’era la prima, seconda, terza classe ed io potevo viaggiare dove volevo.
Avevamo tagliandi per andare in albergo, al ristorante. Io dovevo entrare nello scompartimento, sentivo i discorsi che si facevano, se qualcuno era
un tipo sospettabile, che parlava male del fascismo, dove scendeva lui, scendevo anch’io. Io personalmente non facevo niente, l’additavo alla
polizia. Loro lo arrestavano, lo rilasciavano, non era affare mio. Prima di tornare, mangiavo, andavo dove volevo, era un servizio che mi piaceva,
assai comodo, l’unico pericolo erano gli aerei se eventualmente bombardavano i treni. Arrivò poi qualcuno più raccomandato di me e mi
mandarono in Grecia» (Giuseppe Di Donato).

Ciò che sorprende in questi racconti non sono tanto i fatti (sappiamo che sono avvenuti e che qualcuno ha compiuto quei gesti) ma è l’assoluta
mancanza di consapevolezza della gravità delle proprie azioni. «Io personalmente non facevo niente, l’additavo alla polizia. Loro lo arrestavano, lo
rilasciavano, non era affare mio». La frase è incredibilmente significativa. Il testimone tace anche a se stesso il nesso fra la sua denuncia e la
sorte dei denunciati, tra la sua azione e l’illibertà del regime. Neppure, ovviamente, vede la contraddizione tra le sue affermazioni della purezza
del fascismo e il suo incarico di raccomandato, come se quest’ultimo facesse parte della natura umana. Luigi D’Onofrio sostiene prima che i
fascisti «non hanno mai picchiato nessuno», ma la frase successiva corregge il concetto: solo coloro che si mettevano nelle condizioni di essere
picchiati.

A questo proposito, direi, c’è una frattura fra gruppi sociali e fra culture. La critica del potere, la distanza, l’ironia emergono con forza e quasi
esclusivamente da testimoni illetterati o di origine popolare. Bisogna ancora sottolineare che l’arma dell’ironia come critica del potere è
ovviamente una possibilità presente, va esercitata e non tutti la esercitano. Qui non si vuole dire che l’ironia implichi necessariamente critica e
disobbedienza, ma che è una possibilità insita in una certa cultura, può essere utilizzata e può costituire una base su cui costruire una vera
disobbedienza. È un’arma potenzialmente antitotalitaria perché difende l’autonomia di giudizio individuale: impedisce un’adesione acritica ai
messaggi dell’autorità e lascia la capacità di vedere l’altro e se stessi attraverso una lente dissacrante. Si tratta di tenere sempre presente la
mobilità dei codici, il loro doppio aspetto, le ambiguità e il loro gioco sociale e nella storia. Se uno è ironico non significa che è più democratico e
quindi più antitotalitario di un altro, ma che ha un’arma in più per «vedere» qualcosa che gli altri non vedono, insomma ha in mano un’arma di
critica, sta a lui poi utilizzarla.

«Credere obbedire combattere» non era certo uno slogan in cui molti napoletani potessero riconoscersi. È uno degli aspetti stigmatizzati della
cultura della città: chi crede nell’ordine imposto dall’alto vede le difficoltà della città derivare dalla tenace opposizione dei suoi abitanti ai
messaggi di ordine e di autorità. In questo caso di nuovo un comportamento fortemente disapprovato nella società nazionale e napoletana fornì la
base della ribellione o della scarsa adesione. Ernesto Minino, Antonio Amoretti, Maddalena Cerasuolo, Vincenzo Leone ci dicono innanzitutto che
loro erano dei ribelli e che non potevano sopportare i fascisti.

«Non lo so, io sono stato sempre contrario alle cose imposte, forzate, obbligate, sono stato sempre contrario, non lo so, io anche da piccolo ho
cercato di essere sempre un poco libero, autonomo, che poi questa libertà l’abbiamo chiamata democrazia, allora noi non sapevamo che cosa
significasse democrazia, dopo abbiamo cominciato ad emanciparci, ad istruirci, a conoscere la parola che cosa significasse, ma allora
assolutamente questo vocabolo non esisteva proprio e quindi ognuno di noi ha cercato di andare avanti così, alla buona, c’incontravamo con gli
amici giocando fra noi con mezzi di fortuna, facendo il salto con la fune, facendo il cosiddetto mazza e piveze, con due mazze, c’era poi il mazzetto
che si batteva, chi lo buttava più lontano... non so si giocava col soldo, si faceva il cerchio a terra e si buttava, chi andava nel cerchio...» (Antonio
Amoretti).

«Le quattro giornate le ho fatte con tutto lo sdegno perché non accettavo. Io ero piccolo, non sapevo che era la politica, però a me quel fatto non
mi andava perché comandavano solo loro. Ogni cosa che facevamo botte a morire» (Ernesto Minino).

Ovviamente nel 1943 dopo tre anni di bombardamenti terribili, con i fratelli, i padri, i mariti, i fidanzati prigionieri o dispersi, il sentimento di
avversione verso la guerra e chi in quella guerra aveva cacciato l’Italia, era ormai diffuso in gran parte della popolazione. Lo sappiamo da molti
studi sull’argomento.113 Antonio Mari, che abitava allora a via Attanasio, nel centro storico, nei pressi dei decumani, ci offre uno scorcio
suggestivo sul crescere della discussione fra la gente, nello stesso tempo ci fa vedere le contraddizioni, gli opposti sentimenti, le diversità che
caratterizzavano gli abitanti di uno stesso vicinato. Anche in questo caso sono gli occhi di un bambino di allora a riportarci l’immagine. «I fratelli
Vitucci erano, diciamo, un’altra razza, disprezzavano la scuola e ogni mollezza, esaltavano la forza e il rischio... e poi erano contro il governo. Il
governo, come si chiamava per loro lo stato, era il nemico vero. Dava miseria e terrore e poi era anche vigliacco, perché pretendeva di avere una
forza che non possedeva. C’erano due partiti quello pro e quello contro il governo. Il governo aveva dato l e tessere, i bombardamenti e stavano
bene solo i mangiafranchi. Io il governo cominciavo a odiarlo sempre più in opposizione alla simpatia che per questo mostrava mia madre. E mi
turbavo quando mi chiamavano il figlio della fascista al quarto piano. [...] Le loro discussioni erano contorte e confuse, espresse in modo
improprio. Avevano un gusto particolare a parlare davanti a me contro il governo, per via di mia madre, ma io pensavo confusamente che avevano
ragione, specie sul tema della fame, delle tessere, della paura e delle pretese di “vincere e vinceremo”. Su questo motto ci scherzavano in modo
assai volgare. Quando si accorgevano che sembravo condividere dicevano: statte zitto tu! Che parli a fà, tu si o figlio d’a fascista».

La scena si svolgeva nella zona dei decumani, il cuore antico della città dove vivevano insieme diversi gruppi sociali: artigiani, piccolissimi
bottegai, ambulanti, impiegati, operai, manovali. Antonio Mari era figlio di un’impiegata, il padre disoccupato e smobilitato dalla milizia contava
poco. Era la madre a decidere e a dirigere la famiglia. Abitavano al quarto piano; i fratelli Vitucci stavano nei bassi, forse direttamente sulla
strada. E infatti la strada era il loro regno. Una strada agognata da Antonio Mari che veniva additato come un cocco di mamma, un bambino... Fra
gli amici i fratelli Rega, figli di un poliziotto, quello stesso che Rosario Rega, anch’egli intervistato, descrive con un’immagine vivida affacciato al
balcone della casa mentre i figli con i ragazzi della strada saccheggiano i magazzini, gridare «povera Italia» e imprecare contro Badoglio e contro
i russi. I ragazzi Rega, anche loro dei piani alti, giocavano sempre con una banda di ragazzini in mezzo alla via, sfuggivano al controllo dei
genitori, sfidavano l’autorità impersonata dal padre, e costituivano per Antonio Mari, il figlio riguardato e tenuto sotto controllo della signora
fascista, il trait d’union con i fratelli Vitucci. In questo caso la gerarchia sociale rappresentata nella struttura del caseggiato e nella socialità
giovanile corrispondeva a una stratificazione politica. E l’antifascismo dei fratelli Vitucci, di cui non possiamo misurare la forza dai ricordi di un
testimone allora ragazzino, ha una drammatica conferma nei documenti di archivio. Nel registro dei morti del 1943, scheda n. 1287, ecco
comparire Vitucci Giuseppe figlio di Ciro, di anni diciotto, venditore ambulante, residente in via Attanasio 5, mitragliato dai tedeschi e morto
all’ospedale Incurabili, poco lontano da casa, il 18 settembre 1943. La testimonianza orale trova in questo caso una inaspettata prova
documentaria.

Antonio Mari cercava di uscire dalla sua condizione di figlio della fascista. «Ho indossato la divisa solo due volte costretto da mia madre e dal
maestro. Una volta costretto a partecipare ad una adunata del sabato a scuola sono scappato. Ci misero in fila e dissero: adesso si va tutti al
gruppo Giovanni Berta. Eravamo in ordine di altezza, io più piccolo ero davanti a tutti e sembrava non potessi sfuggire. Verso l’uscita la fila
entusiasta si snodava sempre più rapida, mentre io rallentavo, quasi d’istinto sull’uscio mi fermai e vidi scorrere la fila verso piazza Carlo III. A
furia di rallentare ero diventato l’ultimo della fila, dal primo che ero. E così dall’ingresso della scuola girai i tacchi verso casa. Odiavo
istintivamente ogni forma di esibizione, di costrizione, di militarismo. Per le divise avevo un’avversione invincibile, anche se mia madre aveva
preteso che indossassi il vestitino di Tito Minniti, un caduto della guerra d’Africa che l’aveva particolarmente impressionata, fino a santificarlo.
Questo aviatore era caduto, era stato catturato e decapitato dagli abissini, che ne avevano affisso la testa su di una picca. Mia madre per lungo
tempo ebbe in sogno la testa di Minniti».

Pare di vedere questi mondi così diversi confrontarsi e scontrarsi nel settembre del 1943. La socialità dei ragazzi li attraversa, ne riporta e ne
subisce anche talvolta i conflitti. Non è difficile immaginare i commenti che il povero Antonio Mari vestito da piccolo aviatore poteva suscitare nei
ragazzi della banda e i sentimenti che potevano crescere in lui.

La testimonianza di Alberto Defez ci rimanda infine a un antifascismo dichiarato e cosciente. Ovviamente Defez, rappresentante della comunità
ebraica napoletana, aveva motivi fortissimi per combattere il fascismo, che lo aveva discriminato, gli aveva impedito di frequentare le scuole
pubbliche, di iscriversi all’università, aveva ridotto suo padre da cittadino italiano ad apolide.114 Defez fece, però, una scelta attiva che va
sottolineata: scese a combattere per strada insieme al fratello con la benedizione di padre e madre e poi si arruolò per andare a liberare il resto
del paese. Nella sua intervista vengono raccontate le vicissitudini legate alla persecuzione razziale che in parte abbiamo già riportato, in cui
compaiono interessanti storie legate all’atteggiamento di coloro che gli stavano intorno. Emergono nei combattimenti al Vomero alcuni dei
giovani che andranno a costituire le file dei partiti antifascisti, ma anche i fratelli Villone, nell’atto di una solidarietà attiva agli ebrei cacciati dalle
scuole e dagli impieghi. E si commuove Alberto Defez quando ricorda l’atto di solidarietà nei suoi confronti dell’ingegner Del Vecchio. «Un amico
mi disse che una certa ditta, Del Vecchio, del professor Del Vecchio, un ingegnere, assumeva personale e io mi presentai... mi presentai alla fine
del ’42, sì, esattamente, alla fine del ’42 e questo professore Del Vecchio mi fece il colloquio e mi trovò molto adatto, mi considerò idoneo a lui e
mi dette un modulo da riempire, uno stampato da riempire, lo stampato da riempire: Alberto Defez, nome, cognome, titolo di studio... Alla fine
dice: dichiaro di appartenere alla razza ariana. Allora io, molto umilmente, tornai dal professor Del Vecchio, dissi: professò, mi dispiace, lei è
molto gentile, però io non posso perché non appartengo alla razza ariana. Scusate, ma io mi commuovo... Lui strappò il foglio e mi disse: siete
assunto. È una cosa questa che mi commuove molto». «Quando fu il 25 luglio del ’43 cadde Mussolini e fui accolto in ufficio il 26 luglio con un
certo... quasi... molto... felicemente accolto e alcuni che sapevano di me, e io non sapevo che sapevano di me, mi accolsero come il festeggiato da
festeggiarsi».
Fu tra i vecchi compagni di scuola che Defez trovò invece un nemico. «C’era molta amicizia e solidarietà nei miei riguardi. Diciamo forse la
comunità a Napoli era una cosa così modesta, per cui io non ricordo, salvo un caso particolare di un ragazzo della mia classe [...] scriveva su un
giornale del GUF, che era gruppo universitario fascista, dove erano iscritti gli universitari; in questo GUF, in questo giornale, lui faceva degli
articoli, ma degli articoli non scientifici, diceva: nella ditta tale si cela un ebreo... quindi faceva delle delazioni di un livello talmente mortificante e
squallido che io e Giorgio Formiggini, che stavamo insieme, quando lo incontravamo – lui era nella nostra classe, stava al Vomero –, quando lo
incontravamo temevamo, dice: questo ci denuncia che siamo andati... che so, al cinema, ma questo per fortuna non avvenne, non avvenne e i suoi
articoli erano articoli di questo livello squallido e tutto questo fino al 25 luglio. Il 26 luglio la prima cosa che facemmo io e Giorgio Formiggini
andammo a casa sua e Giorgio Formiggini quando lui uscì lo prese a schiaffi e si tolse... io lo aspettavo sotto il giorno dopo e lui mi disse:
schiaffeggiami, io non reagirò. Io non fui capace di schiaffeggiarlo. Questo poi divenne un grande studioso, uno storico, uno scienziato che fu
riconosciuto, tanto che gli è stata dedicata addirittura un’aula scolastica. Ma non ha mai avuto la forza di dire: io ho sbagliato nella mia gioventù,
avevo questo comportamento».

Attraverso Defez un altro pezzo di Napoli entra nel quadro. Anche questo molto mosso. I giovani studenti, il gruppo in cui la propaganda del
regime più aveva attecchito, compaiono qui come antifascisti e come fascisti. Il morto più noto delle quattro giornate fu uno di loro, Adolfo
Pansini; il suo corpo, inquadrato dal fotografo al liceo Sannazzaro dove era stato composto, divenne una delle icone dell’insurrezione. «Uscimmo
dal Sannazzaro con le bare in spalla. La bara di Adolfo Pansini la portammo io, Nino Ruggiero, Enzo Pansini, Camillo Boldoni e Ugo Fermariello.
Scendemmo lo scalone antistante l’ingresso e fummo animati dal desiderio di cantare e l’unica canzone che ci venne in mente e accennammo
brevemente fu la Marsigliese. La strada antistante lo scalone d’ingresso era affollata. Tra la folla si vedevano anche alcuni militari inglesi e
qualche fotografo anche in divisa inglese. Vi erano i familiari dei caduti ed il loro pianto copriva il silenzio degli altri. Procedendo con la bara in
spalla passammo tra un gruppo di persone che salutò il nostro passaggio con il braccio sollevato ed il pugno chiuso. Era la prima volta che vedevo
questo segno di saluto».

Molti dei combattenti si sarebbero identificati con gli ideali dei partiti e dei gruppi antifascisti, di cui alcuni divennero militanti, se pure di base
(Antonio Amoretti, Vincenzo Leone, Maddalena Cerasuolo, Alberto Defez, ad esempio).

Nel loro caso le quattro giornate rappresentarono un’esperienza di liberazione inscrivibile nel mito di fondazione della repubblica. Molti chiesero
e si riconobbero nella qualifica di partigiani. Altri tornarono silenziosamente alla vita quotidiana e alle sue difficoltà. Vincenzo Leone, che pure
divenne un militante attivo del partito comunista e dei gruppi extraparlamentari poi, interpretò la richiesta della qualifica di partigiano quasi
come il perseguimento di un sussidio, di una forma di assistenza di cui non sentiva il bisogno e non si preoccupò di ottenerla, nonostante la sua
vita sia trascorsa fra mille difficoltà e lavori diversi. «Ho partecipato a queste barricate solo al Vomero, non al centro. Però aroppe cheste agge
continuato a campà a vita mia, a fà o scugnizzo, a m’arrangià, alcuni invece se iettero ad iscrivere come partigiani, mentre ie nun agge mai
pensato di iscrivermi come partigiano. Poi sapette che alcuni di loro avevano nu sussidio per chi aveva fatto le quattro giornate, ma ie nu me
iscrivett, perché poi agge fatto cinquantamila mestieri e cumpagnia bella»115 (Vincenzo Leone).

Giuseppe Iaccarino combatté sulle barricate di porta San Gennaro, di via Santa Teresa e a Capodimonte, e ottenne il riconoscimento di partigiano
che mostra con fierezza a chi lo intervista. Rifiutò però l’iscrizione all’ANPI che considerava una filiazione politica del partito comunista. «Io non
appartenevo a nessun partito politico. Perché dopo le quattro giornate vennero da me i comunisti dell’ANPI e loro volevano che io mi iscrivessi.
Ma io non mi voglio scrivere a nisciuna parte, perché a me è stata una cosa spontanea, insomma indipendente, non è che ho appartenuto a
qualche organizzazione politica. Noi l’abbiamo fatto per liberare la città da queste carogne. A noi non ci interessa la politica. E non mi volli
iscrivere, perché noi avevamo rischiato la pelle, chissà quanti ne erano morti... e poi voi vi volete prendere il merito! E non è giusto! A parte
questo, a me non interessava la politica, a me interessava che quelle carogne se ne dovevano andare da Napoli... o con le buone o con le cattive».

Le parole di Iaccarino sono interessanti: non rinnega affatto la lotta, anzi ne va fiero. «Se tutta l’Italia avessero fatto quel poco che abbiamo fatto
noi a Napoli, i tedeschi sarebbero durati poco in Italia. Perché non furono capaci di tornare in città, dovettero tagliare la corda e di corsa». Il
pensiero viene ribadito più volte. «I tedeschi, non so, ebbi l’impressione che con la guerriglia non si trovavano». Ma c’è insieme una sorta di
rivendicazione dell’aspetto spontaneo e popolare delle quattro giornate e l’idea che l’ANPI volesse attribuire loro un’organizzazione di parte che
non c’era stata. Significativa la frase «noi avevamo rischiato la pelle, chissà quanti ne erano morti... e poi voi vi volete prendere il merito».
Giuseppe Iaccarino dà voce a risentimenti e discussioni che si sono protratti fino ad oggi: c’è ovviamente la constatazione amara dei tanti
millantatori che dopo ogni lotta sanno prendersi il merito e offuscare a volte l’azione di chi ha veramente combattuto, c’è la consapevolezza di
essere sceso in piazza con tanti altri senza una guida precisa, rischiando in proprio, mentre dopo poco sarebbero arrivati i militanti politici a
rivendicare illegittimamente l’ispirazione ideale, se non l’organizzazione concreta, della lotta. Le sue parole rimandano alla storia
dell’interpretazione e della memoria dell’insurrezione, una storia complessa su cui torneremo alla fine del capitolo.

«A difesa e amore della propria città»

«Fu una guerra a difesa e amore della propria città» dice nella sua testimonianza Armando Aubry. E sono parole condivise da molti altri. «Il
merito delle quattro giornate, oltre al fatto simbolico di essere stata la prima città a ribellarsi contro i tedeschi, è stato quello di aver salvato la
città: abbiamo salvato il ponte della Sanità, l’acquedotto, molte industrie centrali. La stessa metropolitana a piazza Cavour i tedeschi erano andati
per minarla. Loro avevano armi automatiche, autoblindo, carri armati che poi di fronte alla reazione popolare si sono dimostrati quasi insufficienti
perché Napoli con i vicoli stretti, quando loro scendevano per rastrellare venivano colpiti da oggetti che volavano dalle finestre, dai balconi. È
stata una ribellione generale, tutta la città si è ribellata ai tedeschi, anche coloro che non hanno attivamente partecipato hanno espresso la loro
solidarietà o forse perché io sono stato in un quartiere popolare, ma penso che al Vomero sia stata la stessa cosa» (Antonio Amoretti).

Lo spazio simbolico della città, che si mostra attraverso il proprio quartiere, è la vera patria da difendere contro l’occupante che l a aggredisce e
che infrange il tessuto della vita quotidiana, fa razzie di uomini, procurando una ferita non sopportabile.

Questa interpretazione coincide in fondo con la spiegazione ufficiale più diffusa: l’idea che i napoletani siano scesi a combattere per le strade
«per la difesa del focolare»,116 che le quattro giornate debbano essere lette come una lotta spontanea contro l’invasore straniero, «una
manifestazione istintiva di forza nazionale e di spirito patriottico agli albori».117 Nel discorso nazionale su quegli anni, fondato sull’antifascismo e
sulla sollevazione morale degli italiani contro il regime che aveva partecipato in prima persona alla guerra accanto al nazismo, la lotta dei
napoletani appariva quasi una battaglia di second’ordine, patriottica, appunto, e non antifascista, non aperta verso ideali avanzati e
universalistici. Ciò ovviamente dipendeva anche dalla contemporanea enfatizzazione retorica ed eroica della lotta partigiana nel Nord del paese.
In questo modo i due quadri tendevano a divaricarsi. Da un canto un Sud ribellista, ma incapace di individuare obiettivi politici moderni e
democratici, dall’altro un Nord tutto coscientemente teso a lottare contro il fascismo in nome di ideali democratici e universalistici. Ma quale
lotta nel settembre 1943 si delineò immediatamente con quella purezza di ideali? È mai esistita una banda partigiana, nel Nord dell’Italia come in
altri paesi europei, composta interamente da uomini e donne che combattono in nome di un ideale puro e chiaro? Le insurrezioni e le ribellioni
incominciano perché lo spazio sociale e civile in cui si vive è stato gravemente ferito, perché i vincoli, i legami quotidiani rischiano di spezzarsi,
perché è stata inferta una offesa profonda al sentire della gente. La guerra aveva già inciso notevolmente sul tessuto connettivo dei legami
sociali, dissolvendo il rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni. Fu del tutto naturale, quindi, non obbedire agli ordini dei tedeschi e difendersi
con le armi dai rastrellamenti e dalle rappresaglie. Ciò nondimeno fu un atto di resistenza, che avrebbe dato luogo, come altrove, a nuclei di
organizzazione armata più stabili se la fase di occupazione tedesca si fosse protratta nel tempo.118

Proviamo a confrontare i racconti dei nostri testimoni con quelli di uno scrittore, Luigi Meneghello, che in quello stesso periodo, giovane soldato
sbandato e reduce da una lunga fuga attraverso la penisola, si trovava in Veneto agli albori della lotta partigiana, cui egli stesso avrebbe
partecipato. «C’era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l’avevano contro la guerra, e implicitamente,
confusamente, contro il sistema che prima l’aveva voluta cominciare, e poi l’aveva grottescamente perduta per forfè. Il moto degli animi investiva
non solo il regime crollato, ma l’intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni:
c’era un po’ di antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po’ di rabbia contro i tedeschi spaccatutto, un po’ di patriottismo popolare, e una
bella dose dell’eterno particolare italiano, gli interessi locali, parrocchiali. La frase più comune era “salvare il paese” (ossia soprattutto le case del
centro, il ponte sul torrente, le cabine, anzi le gabine, dell’elettricità) dalle presumibili vendette dei tedeschi in ritirata. [...] Ma l’anima di questi
tropismi era l’idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque
iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d’occhio. Gli istituti non c’erano più, li
avremmo potuti rifare noi, di sana pianta; era ora. Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento
collettivo; era l’esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose
spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale».119 E più avanti la descrizione di una
banda partigiana di paese. «Riflettevo che un paese, il Veneto mettiamo, anche lasciando stare l’Italia, contiene enormi riserve di energie non
catalogate nei libri. [...] Cosa valgono questi qui si vede ora che si organizzano da sé. Fanno le cose più facilmente di noi, con meno fisime;
sbagliano anche, ma così alla buona, in modo pratico e rimediabile, sbagliano per eccesso non per difetto. [...] Si sentiva che qui le cose erano
venute prima delle idee. [...]. [Il Castagna] non aveva teorie preconcette: l’idea generale era di spostare la gioventù dell’Altipiano dai piccoli
centri abitati ai greppi deserti; la guerra si sarebbe fatta secondo il bisogno, senza andare a cercarsi rogne speciali. Conoscevano bene i greppi, i
boschi, la macchia, le grotte, le scafe; ogni volta che venissero i tedeschi, contavano di cavarsela; non occorrevano piani. “I piani confondono”, mi
disse il Castagna. “Vedremo in pratica”. Volevo anche informarmi un po’ sul loro ethos, ma naturalmente c’è lo svantaggio che in dialetto un
termine così è sconosciuto. Non si può domandare: “Ciò, che ethos gavìo voialtri?” Non è che manchi una parola per caso, per una svista dei
nostri progenitori che hanno fabbricato il dialetto. Tu puoi voltarlo e girarlo, quel concetto lì, volendolo dire in dialetto, non troverai mai un modo
di dirlo che non significhi qualcosa di tutto diverso; anzi mi viene in mente che la deficienza non sta nel dialetto ma proprio nell’ethos, che è una
gran bella parola per fare dei discorsi profondi, ma cosa voglia dire di preciso non si sa, e forse la sua funzione è proprio questa, di non dire
niente ma i n modo profondo. Ce ne sono tante altre di questo tipo; la più frequente, all’università, presso studenti e professori, era istanze.
Adesso che ci penso anche istanze in fondo vuol dire ethos, cioè niente. Domandai quindi al Castagna: “Perché siete qua voi altri?” Il Castagna
disse: “Come perché?” “Come mai vi siete decisi a venire qua?” “E dove volevi che andassimo?” disse il Castagna».120

La conversazione continua con domande tipo: cosa farete dopo? E vorreste cambiare l’Italia? Eccetera. Domande e risposte sono su due livelli
diversi di codice linguistico e culturale. Il Castagna agisce secondo una logica stretta e naturale legata alla pratica della vita quotidiana, da cui
deriva un agire conseguente. La retorica, il «senso ultimo» dell’agire, l’interpretazione alta e, fa pensare Meneghello, «fumosa», sono
dell’intellettuale, e sono sovrapposizioni. I nostri napoletani non sono dissimili dai veneti di Meneghello: agiscono di conseguenza con grande
coraggio, non ci pensano due volte ad armarsi e a combattere contro i tedeschi, e lo fanno sulla base di spinte concrete come in tutte le altre parti
dell’Italia. Solo che i napoletani sono rimasti fuori dal recupero retorico per una serie di motivi. Fra questi certamente i tempi brevi
dell’occupazione tedesca e della resistenza popolare, e l’incalzare di un nuovo momento, quello dell’occupazione alleata.

Lo sbarco degli americani pose fine troppo velocemente alla rivolta. Il lieto fine spense per forza l’eroismo, soffocò le ragioni ultime della lotta e
condizionò la memoria. Il racconto di un testimone, marinaio, in licenza perché reduce da un naufragio, esprime bene ciò che accadde.

«Nel ’43 durante l’armistizio, mi associai alle brigate per la liberazione dell’Italia e io mi associai a una casermetta spagnola che si trovava a
piazza Miracoli 23, nella zona retrostante dove stavano tutti i partigiani. E lì naturalmente cominciarono i primi pattugliamenti, i primi
combattimenti a via Foria, sulla chiesa dei Crociferi, dove c’erano dei cecchini tedeschi che sparavano, furono catturati e furono portati di corsa
alla casermetta spagnola dove furono immediatamente sparati tutt’e due. Dopo queste fasi di avventure cominciarono i saccheggi, mi ricordo che
la città era talmente sconvolta che non si sapeva più dove prendere la roba. [...] Un giorno passando per via Foria c’era il distretto militare aperto
e io saccheggiai un cavallo e me lo portai per tutta via Foria. Non sapevo nean ch’io come me lo dovevo portare, con una sella pesantissima ma di
valore... Io camminavo a piedi e non in sella e mentre camminavo... stavo da solo... si seppe che stavano arrivando i tedeschi che stavano
scappando. Dovetti lasciare questo cavallo che scalpitò per tutta via Foria, lo lasciai a se stesso... e cominciò la sparatoria a piazza Cavour, tra i
giardinetti e porta San Gennaro. I tedeschi stavano scappando verso il ponte della Sanità. Ho tutta una confusione di date, fasi, perché sono
momenti vissuti, particolarmente degli attimi, dei momenti... non mi ricordo... so solamente che inseguendo i tedeschi verso il ponte della Sanità,
perché io facevo parte delle quattro giornate, io e l’amico mio, Antonio Bianchini, ci appostammo e quando i tedeschi passarono con i loro
carrarmati verso Capodimonte, cominciammo a sparare all’impazzata. Questo mio amico Antonio Bianchini aveva una bottiglia di benzina e come
uno scriteriato uscì dal suo rifugio e scagliò questa bottiglia di benzina sul carrarmato e giunse una raffica di mitra che gli tagliò le gambe in
due... Mentre si combattevano ancora queste giornate si seppe che poi alle porte di Napoli, partendo da piazza Garibaldi c’erano gli alleati in
arrivo. Si vide arrivare una camionetta. Tutti quanti scappavamo perché non sapevamo se erano tedeschi o alleati, senonché capitò verso la zona
di San Giovanni a Carbonara una camionetta con una bandiera bianca e uno di questi gridava: siamo inglesi, alleati, liberatori... i primi alleati
come alleati... e a piazza del Duomo all’incontro tra via Duomo e via Miracoli cominciarono ad accerchiarci tutti e a fermarci e ci disarmarono, chi
teneva il pugnale, chi il moschetto a fucile, io avevo il modello 91 e andavo ancora vest ito da fascista senza però la camicia nera e ci distribuirono
delle scatole che contenevano cinque biscotti, una scatoletta di carne, due pacchetti di cinque sigarette ognuna e cominciammo a rifocillarci»
(Giuseppe L.).

Il racconto si conclude con l’arrivo degli americani da via Duomo. Sono passati gli ultimi carri armati tedeschi e sullo sfondo si intravvedono
alcune camionette di identità ancora incerta; è questione di momenti, i combattenti si ritrovano, senza quasi rendersene conto, a consegnare le
armi, ricevendone in cambio scatolette: una scena fra il ridicolo e l’umiliante. Emergono con grande efficacia i tempi: tutto si svolge con una
rapidità incredibile, non c’è modo di sedimentare le esperienze.

Certamente tale congiuntura e poi la lunga occupazione dell’amico-nemico con tutte le ambiguità e le contraddizioni che indusse nella vita della
città contribuirono a sopire la memoria e l’impeto ideale del settembre napoletano. Poi ci fu il lavoro della memoria pubblica.

Interpretazioni, narrazioni, discorsi sulle quattro giornate

L’insurrezione divenne subito materia di dibattito politico. In una sorta di processo interpretativo,121 attraverso un vero e proprio conflitto tra
versioni proposte da politici, giornalisti e studiosi, discorsi e immagini si sono a poco a poco impadroniti dell’evento, reificandolo e lasciando sullo
sfondo, opaca e dimenticata, la realtà storica e i suoi veri protagonisti.

Sono state utilizzate categorie e rappresentazioni, formatesi a cavallo tra analisi scientifiche e discorsi politici, che si possono fare risalire,
semplificando, a un più generale modello dicotomico di analisi. In esso i mob cittadini, le jacqueries, i riots delle folle preindustriali vengono
contrapposti alle lotte operaie or ganizzate, alle battaglie politiche guidate dai partiti, alle masse moderne strutturate in gruppi di interessi. Si
tratta di un modello antico ma resistente: da un canto irrazionalità, istinti primordiali, passioni, e dall’altro coscienza di classe, idea politica,
scelta razionale. Folle indistinte, prede di sentimenti primordiali, che emergono dal profondo e, in uno scoppio incontenibile, sommergono la
ragione e lasciano agire una rabbia incontrollata, vengono contrapposte alla protesta sociale organizzata, che si caratterizzerebbe per l’elemento
della coscienza di classe o degli interessi, e per una chiara ideologia politica.122 Edward P. Thompson e Natalie Zemon Davis hanno criticato tale
modello, scomponendo e analizzando le folle preindustriali, e mostrando la razionalità e il senso dei loro obiettivi.123 Esso riemerge invece, a
volte in modo quasi inconsapevole, quando vengono analizzati casi di ribellioni, insurrezioni, rivolte novecentesche, proprio perché la discussione
su di esse si fa immediatamente politica e la versione degli eventi viene continuamente manipolata nei discorsi pubblici. Ciò è tanto più evidente
quando queste si verificano in momenti storici particolarmente significativi, che si inquadrano in una grande narrazione o in un «discorso»
nazionale, e quando concernono parti della popolazione o territori del paese su cui si riversano stigmi, pregiudizi, stereotipi tenacemente radicati
nella «comunità immaginata» della nazione.124

Una lunga tradizione iconica e teorica rappresentava le popolazioni meridionali e soprattutto quelle napoletane come plebi apolitiche e
canagliesche. Era servita per rappresentare Masaniello, il 1799, i fasci siciliani, le proteste contro il macinato del 1898. In una città sempre
uguale a se stessa, in maniera ciclica folle disordinate e indistinte scoppiavano come il vulcano... D’altronde furono i tedeschi i primi a voler dare
quest’immagine delle folle napoletane, incitandole al saccheggio, irridendole. Il confronto con il modello ideale della lotta partigiana del Nord
aggravava le immagini e l’interpretazione politica. L’insurrezione divenne subito materia di contesa politica cittadina e nazionale. Napoli, la più
grande conurbazione urbana del paese, era uno dei luoghi cruciali della battaglia politica. Qui monarchici, ex fascisti, cattolici reazionari
cercavano un radicamento politico rifacendosi ai sentimenti legittimisti di un’antica capitale detronizzata, enfatizzandone l’anomalia rispetto al
resto del paese, manipolando la sua cultura popolare. D’altro canto le sinistre e in particolare il partito comunista si opponevano cercando
consensi nella Napoli operaia, importante ma minoritaria nel grande assortimento di strati e gruppi sociali della città, con discorsi politici
ideologici e riduttivi, costruiti su realtà profondamente diverse. L’ideologia marxista, mescolata ai tenaci stereotipi sulla cultura meridionale,
produsse immagini, comportamenti, pratiche politiche e influenzò anche tutto un filone di studi profondamente legato alla lotta politica e in
particolare ai partiti di sinistra.

In questo caso gli studiosi si sono misurati tutti, non uno escluso, con domande e obiettivi obbligati, che hanno segnato ovviamente i sentieri e i
risultati dell’analisi. La domanda principale: si trattò di una lotta organizzata e come tale cosciente, antifascista? Ecco quindi tutti a cercare di
dimostrare che lo fosse o no, a seconda della tesi che prediligevano e dell’idea di Napoli che si erano fatti. Ovviamente sulle immagini
dell’insurrezione come su tutti gli episodi della guerra hanno influito profondamente le immagini nazionali che filtrano la percezione della città.
Invece di partire dalla lotta concreta, dai suoi spazi geografici e sociali, per trovare poi elementi di interpretazione, le si cala addosso un modello
precostituito, che forza le domande, irrigidisce l’analisi, impedendo la comprensione reale dell’evento.

«Definire le quattro giornate di Napoli come “un’insurrezione” vera e propria è già dire qualcosa di troppo preciso di fronte a un fenomeno che ha
tutte le caratteristiche grandiose e indefinibili d’un fenomeno della natura: poiché il termine insurrezione nei tempi moderni presuppone un piano
da parte degli insorti, degli obiettivi precisi da raggiungere e già prestabiliti sulla carta, presuppone un comando, una prospettiva di lotta, un
successo o una sconfitta. Mentre a Napoli mancano tutti questi elementi che saranno evidenti nell’insurrezione di Parigi o di Praga o di Genova:
ed è ancor oggi difficile dire che cosa si proponessero gl’insorti di Napoli, se cacciare i tedeschi ormai ridotti a un presidio di scarsa entità, se
sbarrare la città alle colonne in ritirata, oppure impedire le ultime distruzioni. In realtà questi obiettivi che sono gli obiettivi logici di qualsiasi
insurrezione, balenarono qua e là nel corso delle quattro giornate e possono essere colti o isolati a fatica nel corso della lotta. Ma non ciò era
importante. Importante era invece dare addosso al tedesco, sfogare sull’ultimo oppressore l’ira così a lungo repressa, colpirlo ovunque e con tutti
i mezzi. E l’ordine, la successione logica che oggi noi possiamo dare agli avvenimenti ricostruendo sulle testimonianze frammentarie e spesso
discordanti l’insurrezione di Napoli, acquista necessariamente il sapore di una ricostruzione artificiosa, fatta a posteriori e a freddo; poiché è
veramente impossibile descrivere l’incendio quando esso si propaga in una materia così infiammabile, nei suoi guizzi e nelle sue vampate, nelle
sue pause improvvise e nella sua furia di distruzione».125

Il volume di Roberto Battaglia da cui è tratta la citazione, pubblicato nel 1953, fu il primo studio sistematico sulla «resistenza»; aggiornato e
riproposto al pubblico nel 1963 dopo la morte dell’autore, divenne una sorta di testo base sulla lotta armata contro nazismo e fascismo. Nel brano
possiamo trovare le forme precipue di una rappresentazione che durerà nel tempo, emergerà in modi diversi nelle interpretazioni di opposti
schieramenti politici e influenzerà a sua volta la memoria di molti napoletani. Prima di tutto la proposizione di un modello normativo.
Un’insurrezione, per essere inquadrata in forma positiva nella cornice ideale della lotta antifascista, deve rispondere ad alcune caratteristiche:
avere una guida politica istituzionalizzata dichiaratamente antifascista, un piano operativo, un comando centralizzato militare.126 L’insurrezione
napoletana non entrava pienamente in questo schema e veniva letta quindi secondo i modelli della folla premoderna e del mob cittadino,127 come
lo scoppio inarrestabile di una rabbia repressa, una sorta di esplosione della natura simile all’eruzione del vulcano simbolo della città, spesso
usato proprio per rappresentare la natura aggressiva e sulfurea dei napoletani.128

Inoltre, alcuni brevi accenni suggeriscono un’idea svalutante della rivolta, cioè che essa non abbia fatto altro che assecondare la ritirata dei
tedeschi già in fuga. Un’idea ripresa, come vedremo, nelle tesi negazioniste della destra, smentita dal numero dei morti e dei feriti e dalla stessa
documentazione tedesca citata in precedenza, che parla di popolazione insorta, di battaglioni mandati a sedare la rivolta, di azioni fallite per
l’intervento dei combattenti napoletani.

Nel primo dopoguerra erano uscite alcune brevi storie dell’insurrezione composte da protagonisti; tra queste quella di Antonino Tarsia in Curia,
comandante del Vomero, cui, come già ricordato, era stato dato il compito nel 1945 di presiedere la commissione che avrebbe dovuto attribuire la
qualifica di partigiano ai combattenti. Egli incentrò il suo racconto sui fatti del quartiere Vomero cui aveva partecipato, ma, in una introduzione
più generale, delineò gli accadimenti salienti delle quattro giornate mettendone in luce le caratteristiche principali. Tarsia non aveva modelli
consolidati di analisi: raccontò ciò che vide, sottolineando gli elementi di spontaneità, non sapendo che le sue parole, tra le altre, sarebbero
servite alla costruzione di tesi ideologiche molto distanti dalle sue intenzioni. «La lotta ebbe continui ondeggiamenti, ma si può affermare che i
partigiani, nella grande maggioranza, combatterono nei propri rioni; spostamenti notevoli nel senso che gruppi armati si recassero da un capo
all’altro della città – percorrendo distanze di chilometri – non ve ne furono. La perfetta conoscenza della topografia del proprio quartiere e dei
posti dove potersi rifornire di munizioni, furono gli elementi che obbligarono i gruppi di partigiani – operanti con assoluta autonomia – a limitare
il campo d’az ione al proprio quartiere. Non pertanto si ebbero casi in cui i partigiani finirono per combattere in quartieri limitrofi al proprio,
spinti dal generoso impulso di portare aiuto ai compagni di lotta in situazioni difficili».129 «Le “quattro giornate” bisogna considerarle
l’esplosione spontanea, irresistibile della santa ribellione di un popolo insofferente del giogo straniero: esse s’inquadrano nel ciclo storico delle
rivoluzioni napoletane che, dalla rivolta di Masaniello nel 1647 – attraverso le rivoluzioni del 1799 e 1821 – va a quella del 5 maggio 1848, e
segnano l’inizio della guerra partigiana di liberazione in Italia che fu anche guerra di redenzione per il nostro paese».130

Nel primo brano troviamo la descrizione delle dinamiche che avevano caratterizzato la lotta, senza vernice retorica o ideologica; nel secondo essa
viene inserita nella tradizione napoletana di rivolte contro lo straniero. Le parole di Antonino Tarsia, che fu tra gli informatori usati da Battaglia
per costruire il suo libro, si sarebbero trasformate nel dibattito successivo in immagini e interpretazioni di tipo etico-politico. Entrambe le idee
sarebbero state riprese per avvalorare discorsi ideologici: la prima servì a rafforzare la visione della rivolta spontanea senza fini politici di cui già
abbiamo parlato, la seconda a differenziare l’insurrezione napoletana, «patriottica», dalle insurrezioni del Centro-Nord, «antifasciste».
Ovviamente l’accento sull’uno o sull’altro elem ento e il giudizio etico dipendevano dalla sensibilità politica di chi scriveva o parlava. Anche
questa fu materia di manipolazione e di battaglia politica del tutto indipendente dai fatti.

Una voce relativament e fuori del coro fu ancora quella di Aldo De Jaco, giornalista, che tentò una minuziosa cronaca dell’insurrezione,
intervistandone i protagonisti.131 Ma anch’egli, militante comunista, dovette misurarsi – e in parte fare propri – con i modelli politici prevalenti
nella sinistra organizzata. Mentre Meneghello, che aveva voluto deliberatamente dare una interpretazione «anti-eroica»132 della resistenza,
aveva sottolineato proprio la concretezza, la distanza da discorsi alti e ideali dei paesani veneti, De Jaco cercava di salvare i napoletani cercando
nei loro atti i simboli della retor ica resistenziale.

«Se a proposito delle quattro giornate non si può parlare propriamente di insurrezione giacché non vi fu una accurata preparazione, un piano di
lotta, una direzione unica – sarebbe però errato e contrario ai fatti giudicare la lotta armata del popolo napoletano solo un moto spontaneo e
disorganizzato, una esplosione casuale di furore. Non c’è dubbio che per molti patrioti il primo moto per cui si ricorse alle armi fu un moto di
difesa dall’immediato pericolo, un moto di ribellione contro i soprusi, le violenze, i saccheggi dello straniero; ma sarebbe un errore non vedere
che nel fuoco del combattimento questi motivi si trasformarono e diventarono più generalmente validi, sì da sorreggere il combattente nei
momenti di più grave e generale pericolo, sì da sorreggere il giovane dopo ore e ore di fuoco e da lanciarlo all’attacco: i napoletani combattevano
per la libertà, combattevano contro l’oppressione e la miseria; concludevano con la rivolta armata la lunga, mai cessata lotta di Napoli contro il
fascismo e ancora contro l’arretratezza secolare, contro la vecchia e ingiusta struttura dello stato italiano».133 Nell’introduzione all’edizione del
1972, invece, forte anche di un clima di studi mutato, riprendeva questo tema con altri accenti: «Al tempo in cui io raccoglievo il materiale per
questa inchiesta si faceva un gran parlare delle quattro giornate, e mentre qualcuno riduceva il tutto a una sommossa di ragazzini, qualche altro,
pur riconoscendo l’eroismo della città, si domandava dubbioso: si era trattato di una vera insurrezione come poi nel ’45 avvenne in molte città del
Nord o di qualcos’altro?» L’autore metteva quindi in luce l’impossibilità di darsi un’organizzazione nei tempi brevi e concitati in cui tutto avvenne
e concludeva con una considerazione aperta e nuova: «Del resto, ci pare giusto ora aggiungere, quelle differenze non erano tutte a danno di
Napoli; ce ne era anche qualcuna a favore della città meridionale. Il carattere cioè popolare, di massa, del moto armato in cui si cementavano
motivazioni le più diverse».134

Il rifiuto di accettare con naturalezza questa dimensione popolare dell’insurrezione trovava le sue radici nel rifiuto aprioristico della ideologia
marxista per la cultura popolare della città,135 che aveva equivalenti altrettanto robusti negli esponenti liberali e idealisti, il cui rappresentante
più illustre, Benedetto Croce, aveva ignorato del tutto la vicenda dell’insurrezione, in linea d’altronde con la sua filosofia della storia che
assegnava alle élite colte il ruolo fondamentale nello sviluppo delle civiltà.136 Ma oltre a ciò, sul giudizio della sinistra influì, secondo alcuni
studiosi, la politica di attendismo del partito comunista, i cui militanti, per preservare le strutture di partito ai fini di una presenza incisiva nel
momento del rovesciamento del fronte, non avrebbero partecipato alla lotta in modo organizzato. «I dirigenti locali erano nascosti o riparati fuori
Napoli», fra i pochi rimasti, quasi nessuno di quelli che avrebbero formato il «partito nuovo».137 Si sarebbe tacciata, dunque, di spontaneismo
una lotta che solo dallo spontaneismo aveva potuto nascere, poiché nessuna organizzazione politica si era fatta carico seriamente della sua
gestione. Tale spontaneità fu poi enfatizzata e divenne il tratto caratteristico di una rappresentazione negativa, che metteva al centro del
comportamento politico dei napoletani un istinto ribellistico, apolitico; definizione che sarebbe servita in ultima analisi ad assolvere gli stessi
militanti del partito incapaci di mettere le radici nel tessuto cittadino.

Quando i comunisti, per supportare una nuova politica di apertura verso strati sociali più ampi, ripresero la tematica delle quattro giornate in
chiave popolare, subirono essi stessi, da parte di ortodossi difensori dell’ideologia marxista, l’accusa di populismo, di indulgenza verso la
na poletanità.138 Contro la tesi giudicata populista ci fu allora chi andò cercando nell’insurrezione il modello organizzativo antifascista: per
questo fu dato un particolare rilievo al ruolo di un nucleo di militanti antifascisti e del gruppo armato più politicizzato e organizzato del
Vomero.139 Nel corso del tempo la sua funzione è stata enfatizzata fino ad assurgere quasi a simbolo unico di tutta l’insurrezione.
La rappresentazione della rivolta come rivolta tradizionale delle plebi napoletane contro l’invasore, spinte da rabbia e miseria ataviche, fu
ripresa, con mutati accenti etici, dalle forze politiche di centrodestra: l’enfatizzazione della spontaneità meridionale, della dimensione popolare,
interclassista e patriottica era contrapposta, in questo caso come modello p ositivo, alla guerra civile che si era svolta nel Nord del paese, sotto la
guida e la spinta dei comunisti. Nel 1948, allorché venne conferita la medaglia d’oro alla città, un quotidiano locale rappresentava l’insurrezione
come una rivo lta guidata dalla «plebe», dagli «scugnizzi», dai poveri.140 Negli anni sessanta dopo un decennio circa di silenzio da parte delle
autorità pubbliche141 la memoria delle quattro giornate fu riproposta dai politici democristiani della città nella stessa direzione: rivolta plebea-
popolare fissata nell’icona significativa dello «scugnizzo», il ragazzo di strada figlio degli strati marginali della città. Nel comitato d’onore per la
realizzazione del monumento alle quattro giornate gli esponenti democristiani riuscirono a fare passare la decisione di dedicare il monumento
delle quattro giornate allo «scugnizzo», offrendo così alla memoria pubblica della città un’immagine duratura e significativa.142 «Uno, guardando
il monumento dello scugnizzo, dice: va be’, ma chiste ccà è na cosa i niente, se Napoli con quattro scugnizzi si è liberata»: sono le sconsolate
parole di Salvatore Borrelli, un giovane combattente di allora, uno di quelli che furono definiti «scugnizzi».

L’immagine dello scugnizzo conduce poi direttamente alla tesi negazionista, che contesta, cioè, l’esistenza stessa dell’insurrezione, definendola
una lotta condotta da ragazzi di strada (gli scugnizzi appunto) contro poche retroguardie tedesche in ritirata, che non avrebbero avuto interesse e
intenzione di rispondere alle armi degli insorti con il dovuto ardore. È una tesi riprodotta in un volume apertamente di destra.143 Per la destra
ridimensionare le quattro giornate era operazione naturale: Napoli doveva rimanere la città monarchica e fascista che essa vagheggiava e la
rivolta doveva risultare il frutto di un’invenzione antifascista. La tesi si fece strada dal dopoguerra alimentata da fonti diverse: i monarchici, la
destra postfascista. È una tesi presente a livello politico e nei mass-media e fatta propria da una parte della popolazione.

«Io abitavo al Vomero. Naturalmente i tedeschi temevano che gli americani fossero arrivati subito e allora se ne stavano andando. Se ne andavano
e avevano lasciato a Napoli alcuni gruppi di guastatori, sarebbero quelli che dovevano lasciare un po’ di terra bruciata agli invasori americani. I
napoletani a questo punto si sono sollevati e sparavano contro i tedeschi che se ne andavano per i fatti loro. Questi ogni tanto sparavano una
cannonata, cannonate che arrivavano perché si ritiravano con i loro carri armati, quei pochi che erano rimasti, e dalle zone di Capodimonte ogni
tanto di lassù tiravano alle loro spalle, contro questa Napoli che si era un po’ ribellata, delle cannonate. [...] i tedeschi già avevano deciso di
andarsene. Quindi la loro reazione ha fatto senz’altro qualche vittima, ma molte di queste erano vittime che non c’entravano proprio con la
res istenza. [...] Di persone che veramente hanno partecipato, ma veramente, non ne ho conosciuta nessuna. L’unico che ho conosciuto che ha
detto, che adesso dice che è un eroe della resistenza, è uno che fa i motoscafi, il quale gli scoppiò una bomba in mano perché sparava in mare per
pescare di frodo con le bombe, che non si fa. Come lui, chissà quanta gente si è spacciata per eroe, ma eroe non è. Non ho visto azioni di guerra,
né mi è stata mai data occasione di conoscere qualcuno dei miei compagni di scuola, amici, eccetera, che avessero partecipato. Io nemmeno ho
partecipato. Hanno sparato perché si andavano a prendere queste armi. Anch’io mi ero andato a prendere un moschetto, delle bombe a mano a
Castel Sant’Elmo, perché i soldati se ne erano andati, quindi avevano abbandonato tutte ste armi, e poi dopo ho preso queste armi e le tenevo per
un po’ di tempo, poi le ho dovute dare via perché non si potevano più tenere queste armi. Ma qualcuno che ha preso queste armi le ha usate, ha
sparato, ha fatto rumore, ha sparato qualche colpo, sarà morto pure qualche tedesco, non lo metto in dubbio, ma secondo me tutto il resto è bluff.
Noi siamo abituati ai bluff. [...] L’unica azione che mi risulta è quella del tram che non l’ho vista. L’unica azione che mi risulta... Può darsi che ce
ne siano altre. È quella del tram m esso di traverso dai cosiddetti partigiani, alla salita del Museo, allora c’era il tram che saliva per il Museo.
Presero un tram e lo abboccarono, lo ribaltarono e lo misero di traverso per impedire ai pochi guastatori tedeschi che erano rimasti per minare
gli stabilimenti, i ponti, insomma tutto ciò che poteva esser e utile agli amici d’America che erano sbarcati a Salerno, di scappare. Se non che i
tedeschi... avevano ancora qualche piccolo carro armato loro, piccolo per modo di dire, perché i nostri erano scatole di sardine, quelli dei tedeschi
erano buoni come quelli degli americani. Quindi spostarono il tram e se ne andarono per i fatti loro, qualche colpo di fucile fu sparato alle spalle
dei tedeschi che se ne andavano... Quindi non è che scappavano, si ritiravano, perché i tedeschi non sono mai scappati, si sono sempre
ordinatamente ritirati, tant’è vero che si sono attestati sulla famosa linea gotica ed hanno dato quel filo da torcere agli americani che per
combinazione l’hanno vinta. Quindi non è che i tedeschi siano scappati, i tedeschi non sono scappati, solamente che i napoletani dicono di aver
fatto scappare i tedeschi. Qualche napoletano che aveva magari preso il fucile, ma napoletano nel senso qualche scugnizzo, gente del popolo, il
popolino... sti giovani e giovinastri, quelli che poi correvano dietro ai camion americani per prendersi la roba che stava dentro, tipo scippatori,
quindi non gente eletta. Quelli non è che volevano che se ne andassero i tedeschi per essere liberi... liberi forse di saccheggiare, cosa che hanno
fatto. Quest’è stato l’eroismo». Alla domanda – ma tu dove eri? – il testimone risponde: «Ero a Napoli, al Vomero, anche perché quello era un
momento che i tedeschi rastrellavano i giovani per portarseli in Germania, perché c’era bisogno di manodo pera e quindi c’era un bando che se
mi avessero preso, mi avrebbero deportato. Stavo a casa, non uscivo per la strada, perché non era prudente, perché mi avrebbero preso»
(Giuseppe Fusco).

Il brano è la summa di una certa visione dell’insurrezione. Feriti, morti ed eroi per caso. I tedeschi che se ne stavano ormai andando, pochi
ragazzi e giovinastri, paragonati agli odierni scippatori, che li inseguivano con lo stesso animo con cui avrebbero inseguito di lì a poco i camion
americani. Il tutto immaginato, filtrato da una certa visione del mondo,144 inverata da una stampa cittadina nettamente schierata con la destra
soprattutto negli anni cinquanta, poiché, come ammette sinceramente, lui era chiuso in casa e non ha visto nulla.

Contro questa rappresentazione a livello cittadino e politico si è spesso usata una vuota retorica che non ha fatto che approfond ire la pubblica
rimozione dell’insurrezione. Una memoria vuota, ampollosa, che non si radica nel vissuto della gente, viene giustamente rifiutata e alla fine
alimenta il negazionismo. Il giorno della commemorazione dell’insurrezione vengono portate corone di fiori al monumento allo scugnizzo e a Salvo
D’Acquisto, carabi niere morto in Lazio in una rappresaglia, offertosi in cambio di vittime civili, celebrato non a caso in quanto «vittima
innocente» non partigiana. Si celebra un avvenimento onorandone un altro, in questo modo si nega l’accaduto, si crea una dissonanza fra
esperienza e memoria, si impedisce la costruzione di una memoria collettiva.

D’altra parte porre l’enfasi quasi soltanto sul momento insurrezionale ha significato oscurare tutto ciò che la popolazione visse in quei giorni –
uccisioni di massa, deportazioni, cannoneggiamenti – aggravando ancora di più lo iato fra memorie singole e memoria pubblica, incapace di
trovare un linguaggio che tocchi le corde dell’emozione vera, del ricordo più autentico.
Parte seconda

Nella terra di nessuno. La popolazione civile tra le linee del fronte: dal Volturno alla linea Gustav 1943-44
5. Violenza da terra e violenza dal cielo. Lungo il Volturno, settembre 1943
La violenza degli alleati: i raid aerei e lo sbarco di Salerno

Nei primi anni di guerra obiettivo costante dei bombardieri era stata Napoli con le cittadine del golfo. A partire dal luglio 1943, nel momento in
cui gli alleati preparavano lo sbarco a Salerno – l’operazione Avalanche – l’area delle incursioni si estese ed entrarono nel mirino i paesi sede di
industrie e di infrastrutture importanti, i ponti, gli snodi stradali e ferroviari allo scopo di rendere difficile o impossibile il cammino dell’esercito
nemico. Vennero così colpiti piccoli paesi, a volte inconsapevoli della loro posizione strategica. Era la piena attuazione pra tica della strategia dei
bombardamenti di precisione.

Lunghi elenchi di obiettivi compaiono nella documentazione americana, catalogati secondo l’importanza strategica (first, second, third priority) e
accompagnati da meticolosi studi degli impianti industriali e delle linee di comunicazion e con i nodi strategici e dalle fotografie delle ricognizioni
aeree seguite da mappe con l’indicazione dei bersagli da colpire.1 Nella lista degli obiettivi di primaria importanza emergono tra gli altri
Benevento, Capua, Cancello Arnone con il ponte sul fiume, Formia, che sono i casi che analizzeremo dal basso, dalla parte della popolazione che
finì negli obiettivi dell’Air Force. Documentazione analoga si può rintracciare negli archivi della RAF: l’esame delle linee di comunicazione a sud e
a nord di Napoli, da bombardare in supporto alle operazioni di terra. Frecce e cerchi indicano con precisione gli obiettivi.2 Ovviamente, lanciare
bombe da 23000 piedi come facevano gli aerei americani, o da 9000-10000 piedi di notte, come gli inglesi, significava colpire una gr ande area. In
genere con l’obiettivo veniva inghiottito il paese o il quartiere circostante con i suoi abitanti. Fra i target della RAF troviamo ancora Formia con
gli snodi stradali e la stazione, la ferrovia tra Formia e Itri, i ponti sul Garigliano a Minturno, le stazioni di Minturno, Villa Literno e Caserta, la
stazione e i ponti di Benevento, la stazione di Cancello, i ponti sul Volturno a Cancello Arnone, lo snodo ferroviario di Battipaglia, tutti obiettivi
che sarebbero stati ripetutamente colpiti, con la distruzione totale di ciò che li circondava.

Le prime grandi incursioni in provincia si verificarono già in giugno. Molti paesi vennero colpiti il 21 giugno, la notte del 14-15 luglio, il 17 e il 20
luglio.

Il 23 luglio un grande bombardamento prese di mira il golfo di Salerno, danneggiando gravemente il capoluogo e molti paesi della piana del
Sele.3 Salerno venne ancora colpita nella notte, e il Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea segnalava l’impossibilità di dare un resoconto di
crolli e vittime perché le comunicazioni con la città erano interrotte.

La notte tra il 28 e il 29 luglio altri bombardamenti si verificarono nei paesi della provincia di Napoli. Ma i raid più intensi cominciarono nella
seconda metà di agosto.

Il 20 agosto vennero gravemente colpite Villa Literno, Capua, Benevento. A Marcianise crollarono 6 fabbricati rurali e vennero denu nciati 6 morti
e 20 feriti. A Capua e ad Aversa nel mirino entrarono le stazioni ferroviarie, dove esplosero vari carri di munizioni, producendo uno spostamento
d’aria che fece a sua volta crollare alcuni edifici della città. Il rapporto tedesco intercettato dall’intelligence britannico conferma la gravità
dell’incursione su Capua. «Un treno pieno di munizioni arrivato il 19 e pure 6 carri carichi di riserve di medicinali completamente distrutti
nell’attacco di 30 bombardieri su Capua ore 10.40 del 20. Pesanti danni a caserme e considerevoli perdite fra i militari italiani e la popolazione
civile».4 A Benevento la distruzione della stazione portava con sé quella di tutti i quartieri circostanti, morti e feriti non si contavano.

Il 26 agosto i bombardieri prendevano di mira il Volturno e il territorio circostante. Il fiume assumeva un ruolo strategico per gli alleati come per i
tedeschi: i primi pensavano di bloccare la Wehrmacht, distruggendo i ponti, le ferrovie e le strade che lo attraversavano; i secondi, d’altro canto,
avevano costruito una linea di fortificazione proprio a ridosso del suo percorso e avrebbero cercato di ostacolare l’avanzata degli alleati
distruggendo esattamente gli stessi manufatti individuati dagli alleati come obiettivi. Gli abitanti avrebbero pagato cara la sorte di abitare sulle
rive del fiume. Quel giorno entrarono nell’obiettivo dei bombardieri le campagne intorno a Cancello Arnone, Castelvolturno, Bellona. Il
commissario prefettizio di Cancello denunciava 6 morti accertati e 12 feriti.5 A Bellona il podestà scriveva: «Verso le ore 13 di giovedì 26 agosto,
aerei nemici sganciarono bombe nelle campagne di questo comune colpendo tre case coloniche distanti poco più di un chilometro dal centro
abitato della frazione di Bellona. [...] Due feriti gravi sono stati trasportati all’ospedale di Caserta da un autocarro tedesco. Furono medicati altri
otto feriti e i più gravi furono trasportati con l’autoambulanza all’ospedale di Capua. Poi si procedette a rimuovere e trasportare al cimitero le
nove salme. Furono ammazzati alcuni bovi, ovini e bufalini».6 Su questo bombardamento abbiamo una delle testimonianze più struggenti e
significative, quella di Giovannina Addelio, che perse quel giorno la madre e due sorelline e dopo pochi giorni avrebbe perso il padre e il fratello
uccisi in diverse circostanze dai tedeschi. Torneremo più avanti sulla sua storia.

Caserta, 27 agosto. Crollava la caserma del 10° artiglieria, l’officina auto dell’Accademia Aeronautica, i fabbricati della stazione ferroviaria,
l’Istituto Tecnico, la palestra Ginnastica, il gasometro, i Magazzini Generali, la chiesa di Sant’Anna, la chiesa dei salesiani e 11 fabbricati civili. La
relazione inviata dal commissario al prefetto il giorno successivo dichiarava 105 vittime civili accertate e tanti altri cadaveri che «giacevano sotto
le macerie». «Imprecisato [era] il numero dei militari deceduti e feriti».7 Ma nella relazione del 2 settembre il commissario prefettizio parlava già
di 184 morti fino ad allora accertati. I degenti dell’ospedale civile bombardato venivano trasportati all’ospedale militare. Si rilevava gente
asfissiata e colpita da «shock nervoso». Si faceva presente la necessità di disinfezioni in tutti i luoghi sinistrati, al cimitero, nei ricoveri pubblici.8
A Benevento era di nuovo colpita la stazione ferroviaria: 36 aerei sganciavano 198 bombe da 500 libbre.9

Il 28 agosto una bomba cadeva sulle condotte idriche a Cancello e interrompeva il servizio di acqua potabile per 63 comuni della provincia e parte
della città di Napoli.10 «Circa 300 apparecchi, su cinque formazioni scortati da numerosi caccia, hanno sorvolato Provincia con sgancio di bombe
et spezzoni incendiari a Cancello, Lago Patria e dintorni S. Maria Capua Vetere. Formazioni nemiche sono state intercettate dalla nostra caccia
levatasi su 30 apparecchi, nel cielo di Villa Literno e Ischia. Aerei nemici dati per abbattuti sicuramente due. Finora a Cancello risultano colpite
due locomotive giacenti scalo ferroviario e sifone da 800 Acquedotto Napoli, in maniera piuttosto grave, per cui prevedesi mancanza erogazione
acqua nel capoluogo e in sessanta comuni provincia, per circa sette giorni».11

1° settembre. «Violenta incursione a Salerno con due ondate di apparecchi nemici. Danni sensibili alla zona orientale della città. Molti incendi. Il
Palazzo del governo è stato colpito».12 Capua. Troviamo il bombardamento della città tra gli ordini trasmessi al 310° gruppo.13

Lo sbarco a Salerno si avvicinava, l’Air Force aveva il compito di preparare il terreno alla V Armata. Il 2 e il 6 settembre la Northwest African
Strategic Air Force diramava gli ordini per le operazioni. Si dovevano rendere inoffensive innanzitutto le difese aeree, colpendo gli aeroporti
principali.

«Il nemico ha radunato nell’area di Napoli una forza di cacciabombardieri che costituisce un serio deterrente per la nostra offensiva aerea in
quell’area. Molti di questi sono dislocati in quattro aeroporti nel circondario della città a nord. La Northwest African Strategic Air Force, nel
corso di tre giorni a partire dal 4 settembre 1943 perseguirà due obiettivi: 1) Distruggere il maggior numero possibile di aerei nemici nell’area di
Napoli; 2) Rendere l’area di Napoli insostenibile per tutti gli altri aerei nemici.

Questi obiettivi saranno raggiunti attraverso l’uso combinato di bombardamenti diurni da alta quota, bombardamenti diurni e notturni da media
quota, e attacchi a volo radente.

Elementi NASAF della RAF attaccheranno quattro aerodromi con 40 Wellington ciascuno. Le bombe saranno sganciate e fatte saltare in modo che
non esplodano tutte insieme subito dopo la mission e, ma con un intervallo di circa trenta minuti per 18 ore. Gli obiettivi dell’attacco saranno i
seguenti: Capodichino, notte fra il 3 e il 4 settembre; Capua, notte fra il 3 e il 4 settembre; Grazzanise, 4-5 settembre; Grazzanise Satellite, 4-5
settembre.

Il 5° stormo di B-17 attaccherà gli aerodromi di Capua e di Capodichino il 4 settembre». 14

Seguiva il vero e proprio piano di operazioni per il D-1 e il D-Day, che prendeva in considerazione una vasta area compresa tra Salerno e il basso
Lazio, seguendo le direttrici delle comunicazioni stradali e ferroviarie tra Salerno, Napoli e Roma.

«Notte fra D-1 e D-Day.

Il massimo sforzo dei Wellington deve essere messo in atto contro i seguenti obiettivi: 1) Battipaglia. Le strade e i ponti che attraversano la città,
soprattutto quelli sulla Battipaglia-Eboli devono essere bombardati. Gli attacchi dovrebbero cominciare all’ora H e dovrebbero essere conclusi
all’ora H più trenta minuti, tempo in cui i bombardamenti dovrebbero essere stati portati a termine. 2) Eboli. [...] 3) Golfo di Gaeta. Per assistere e
diversificare gli attacchi portati dalle US Naval Forces nel golfo di Gaeta 5 Wellington devono attaccare i seguenti obiettivi:

a) Flotta e magazzini nel porto di Gaeta; b) postazioni di artiglieria a Formia; c) flotta e magazzini nel porto di Forio d’Ischia.

D-Day.

1) Capua. Due gruppi di B-17 devono attaccare la città di Capua, il ponte stradale sul fiume Volturno come obiettivo primario e il ponte ferroviario
come obiettivo secondario. Con questo attacco si vuole impedire il flusso dei rinforzi tedeschi verso sud da nord di Napoli. Perché abbia effetto,
l’attacco deve essere condotto il più presto possibile alle prime luci del giorno. 2) Cancello. Due gruppi di B-17 devono attaccare i ponti stradale e
ferroviario sul fiume Volturno [...]». 15

Gli ordini si sarebbero trasformati in tragica realtà di lì a poco.

«Se noi vi diciamo che l’Italia diventerà “terra di nessuno”, vi parliamo sul serio; il vostro paese sarà esposto al bombardamento, al
mitragliamento, alla disorganizzazione più completa; innumerevoli case finiranno in fiamme, per città e campagne si accumuleranno cadaveri.
Freddo d’inverno, infezioni d’estate, sgomento, fame si moltiplicheranno».16 L’incubo promesso dal volantino lanciato dagli aerei angloamericani
nei bombardamenti del maggio 1943, qualora gli italiani non avessero abbandonato la guerra al fianco dei tedeschi, si avverò, paradossalmente,
all’indomani dell’8 settembre, giorno della resa e dell’abbandono dell’alleanza fatale con la Germania nazista. Le cittadine e i paesi divenuti
obiettivi strategici vennero in gran parte rasi al suolo, migliaia furono i morti. Impossibile il conto della popolazione senza casa, lacera, affamata,
preda di epidemie.

La violenza degli occupanti

Mentre la morte pioveva dall’alto, gli abitanti si trovarono in balia di un’altra violenza: quella delle truppe tedesche, che occupavano
repentinamente il territorio e si preparavano a opporsi allo sbarco alleato e all’avanzata della V Armata.

Gli ordini degli alti comandi della Wehrmacht erano quelli di resistere il più a lungo possibile sulla linea Salerno-Eboli-Benevento, mentre si
preparavano le successive linee difensive e si decideva un ripiegamento scaglionato. Il cammino degli alleati avrebbe dovuto essere arrestato
lungo queste linee difensive: una serie di posizioni intermedie (Otto, Anni, Viktor o del Volturno, Barbara, Bernhard) che culminavano nella linea
Gustav, la linea su cui avrebbero dovuto attestarsi infine le truppe per fermare con decisione il nemico.17 Bisognava poi ostacolare con la maggior
determinazione possibile il cammino della V Armata, distruggendo le linee di comunicazione e le infrastrutture che sarebbero potute servire
all’avanzata degli alleati e saccheggiando e devastando ogni cosa per lasciare al nem ico «terra bruciata».18 Abbiamo già visto le distruzioni
operate sul territorio napoletano; misure analoghe vennero attuate su tutto il territorio qui analizzato.

Dai diari giornalieri della divisione corazzata Hermann Göring si possono ricostruire, ad esempio, alcuni tratti di questo percorso di distruzioni. Il
25 settembre la 2a compagnia ha fatto «terra bruciata», e la 3a compagnia del 16° genieri ha fatto esplodere ponti, case, tramogge a Scafati, San
Marzano, San Mauro e Castelluccio; il 28 settembre c’è stata una «azione di distruzione di infrastrutture importanti nei dintorni di Nola»; il 2
ottobre la 1a compagnia ha fatto saltare l’antico ponte romano di Capua, insieme alle parti del nuovo ponte stradale che erano ancora in piedi e il
giorno successivo «ha annientato tutte le infr astrutture rilevanti per il nemico, che si trovavano a Capua»; il 10 ottobre «sono state distrutte
circa 150 infrastrutture che avevano rilevanza per il nemico, e la 2a compagnia, trasferita nel settore del gruppo di combattimento Maucke, ha
cominciato con le operazioni di sbarramento e con la distruzione delle località di Sasso, Preci, Formicola e Fontala; l’11 ottobre «è stata portata a
termine la distruzione di Pietravairano» e «nel settore del gruppo di combattimento Corwin sono stati distrutti edifici importanti della località
Pignataro e nella notte tra il 10 e l’11 sono state distrutte in que sta città 141 case, e 36 nei dintorni». Il 25 ottobre si segnalano distruzioni di
case a Teano.19 La divisione lasciava sul suo cammino una scia di rovine, alcune legate all’opera di desertificazione del fronte e alle esigenze di
rendere più difficile l’avanzata del nemico, altre chiaramente dettate dal desiderio di vendetta verso atti di insubordinazione della popolazione.
Molte di queste distruzioni erano accompagnate da massacri e rappresaglie.

Dal territorio occupato avrebbero dovuto, inoltre, essere prelevati e asportati tutti i beni e le materie prime importanti per l’economia di guerra.
Il 19 settembre veniva trasmesso alle truppe un ordine estremamente significativo: «Il comandante generale ha ordinato che da questo momento
per il vettovagliamento della truppa si debba ricorrere esclusivamente ai beni della Campania. Nei prossim i 14 giorni la campagna deve essere
completamente depredata soprattutto di carni (manzi, anche buoi da traino, maiali, polli) e ortaggi. Le compagnie addette al macello devono
lavorare al massimo regime. Agire senza scrupoli. Da questo momento è severamente proibito consumare provviste tedesche. È essenziale
riportarle indietro».20

In alcuni paesi la documentazione indica la requisizione di migliaia di capi.21 Il ricordo di questo tipo di violenza è vivissimo; sono
numerosissime le testimonianze raccolte che ci raccontano la contesa con i tedeschi sul maiale, sulle mucche, sulle pecore... E sono moltissimi i
contadini e i pastori uccisi perché difendevano i loro animali. Casi esemplari quelli di Mondragone e di Teano su cu i mi soffermerò fra breve.

Si sarebbe inoltre dovuto razziare la manodopera italiana per i lavori di fortificazione e per la deportazione verso il lavoro forzato in Germania.
Come vedremo, il 23 settembre, con un’azione quasi fulminea, vennero rastrellati migliaia di uomini in Campania e nel basso Lazio.

Difficile fare una divisione netta dei tipi di violenza. Nel caso campano, come è stato detto, le varie fasi dell’occupazione tedesca, che altrove si
dispiegarono nel giro di più mesi o anni, si verificarono contemporaneamente e all’improvviso.22 Occupazione militare, ritirata strategica con la
politica della terra bruciata, linee di fortificazione e difesa, combattimenti con gli alleati, alto livello di concentrazione delle truppe, accelerazione
della violenza da parte dei soldati, tutti questi elementi strettamente connessi fra di loro e tutti operanti nel medesimo periodo di tempo
produssero effetti letali per la popolazione. Le violenze si sommarono in alcuni casi, raggiungendo livelli particolarmente a troci, quando si
ebbero contemporaneamente rappresaglie, rastrellamenti e deportazioni di uomini, distruzioni dell’abitato, saccheggi. Comunque si operò su
tutto il territorio una politica di occupazione durissima, cui la popolazione rispose con una insospettata e sottovalutata energia, che si dispiegò in
particolare nel territorio che sopportò il primo impatto della ritirata tedesca, a ridosso dello sbarco, e che giunse a vere e proprie insurrezioni
spontanee, come quelle di Napoli e di Acerra.23

Le violenze verso i civili si svilupparono in un crescendo, a partire dai saccheggi e dalle razzie di uomini fino a giungere a massacri indiscriminati.
Schematizzando, è possibile individuare quattro tipi di violenze, che nella gran parte dei casi si sommarono: il saccheggio del territorio che si
risolse in un vero e proprio conflitto sul cibo e sui beni primari fra le truppe di occupazione e la popolazione locale e che toccò punti altissimi di
intimidazione da un canto e di disobbedienza dall’altro; le razzie di uomini che suscitarono una resistenza accanitissima e furono all’origine di
episodi di insurrezione e di insubordinazione armata; la distruzione di interi abitati legata all’opera di devastazione tattica contro l’incalzare del
nemico ma anche alla ritorsione contro l’atteggiamento conflittuale e non collaborativo della popolazione; i veri e propri massacri sistematici di
civili.

Altrove ho descritto analiticamente le violenze tedesche.24 Qui punto l’obiettivo sui casi in cui si sommano e si intersecano con quelle degli
alleati.

Le violenze furono pi ù elevate intorno alle linee del fronte, dove fervevano i preparativi per la difesa, quindi si reclutavano uomini per le opere di
fortificazione e si evacuavano le popolazioni. Coloro che si trovarono fra le bombe degli alleati e le linee tedesche vissero per uno, due mesi
(intorno alla linea Gustav, per otto mesi) nella terra di nessuno. Stragi e uccisioni si addensano nel Napoletano e nel Casertano intorno alla linea
del Volturno. E la cronologia segue la ritirata tedesca e le battaglie fra le due armate.25 I tedeschi abbandonarono la linea del Volturno il 17
ottobre, poi molto lentamente cominciarono a indietreggiare verso la linea Gustav che seguiva il fiume Garigliano, dalle foci alle vallate dei suoi
affluenti Rapido e Liri, fino alla val di Sangro. Fra la linea Viktor e la Gustav si combatterono alcune fra le battaglie più dure e sanguinose della
campagna d’Italia (Monte Camino, Montelungo, fiume Rapido). Sulla linea Gustav si svolsero infine le interminabili battaglie di Cassino e del
Garigliano, dal dicembre 1943 al 22 maggio 1944.

Le violenze tracciano sulla mappa il cammino delle armate tedesche verso Cassino, lungo lo storico percorso che tanti eserciti avevano
attraversato nella storia lasciando già allora una scia di morti e di distruzioni al loro passaggio. Guardando dall’alto della sua terrazza la vallata
sottostante, Giulio De Simone, un abitante di Tora e Piccilli, un piccolo paese situato su un cocuzzolo da cui si domina l’ampia valle che congiunge
Capua a Cassino, la definisce la «valle del destino»: vide il passaggio di Annibale, che si fermò a Capua, per questo rasa poi al suolo dai romani, e
quello dei visigoti che distrussero nuovamente la città; nei suoi spazi si svolsero la battaglia del V olturno dove i soldati piemontesi sconfissero i
napoletani e lo storico incontro fra Garibaldi e il futuro re d’Italia, e infine nel 1943 la marcia dei tedeschi incalzati dagli alleati, le terribili
battaglie di Montelungo e di Cassino e l’ennesima distruzione di Capua.

Come vedremo, gli eserciti seguirono nel 1943 le strade romane, l’Appia, la Casilina, la Domiziana, e si scontrarono spesso proprio negli spazi che
avevano visto antiche battaglie.26

«Eravamo un popolo di sbandati»

Trovarsi nella terra di nessuno fu terribile. Tutto avvenne in tempi incredibilmente accelerati: nel giro di ventiquattr’ore un esercito amico
divenne nemico, i soldati italiani si sbandarono, le istituzioni si eclissarono, lasciando la popolazione nell’incertezza e nella solitudine, e i nuovi
alleati si presentarono in veste di bombardieri.

Le testimonianze esprimono quasi tutte lo stesso sentimento.

«C’era brutto, c’erano i morti e i tedeschi sparavano, gli americani sparavano e s’incrociavano le cose» (Anna A., Cassino).

«Il brutto cominciò dopo l’8 settembre, cioè dopo l’armistizio quando noi pensavamo che la guerra fosse finita e che quindi il rischio per noi civili
non c’era più. [...] L’11 settembre verso le due del pomeriggio... in città la gente, sapendo che c’era l’armistizio, sentì gli apparecchi che
arrivavano, uscì per festeggiare, per chiamare, per gridare, agitavano le braccia. Stavolta erano apparecchi amici, mica erano nemici! Invece
sganciarono le bombe proprio sull’abitato» (Antonio Feo, Benevento).

«A Cancielle se diceve a messa i ringraziamente pecché evene chieste a pace, s’eve fatte l’armistizie, invece cainateme dicette: mo abbia a venì a
guerre, chelle che è state fine a mo nun è niente, dicette, mo accummence a guerre, rop pe l’armistizie. Graziano s’arreterave, Badoglio
s’arreterave, Muselline nun le passave manche pe’ l’anticamera cchiù, o re se ne fuiette e rimanerene proprie sule nuie scunzulate che s’eve, che
nun teneveme a chi ce defenneve». «Chille furnette o munne tanne, fui na cosa proprie esagerata, proprie o iuorne ’e l’armistizie, o iuorne i
l’armistizie furnette o munne proprie»27 (Maria Della Valle, Cancello Arnone).

«Ie steve a Capua, nu sfullaie. Steveme a cuntà l’apparecchie!!! Nuie steveme accussì e veretteme e arrivà... vuu vuu vuu... l’apparecchie e
dicetteme: uh, guarda là, guà, e cuntaveme tutte quante. A bonanema ’e Ndre ricette vicine a maste Austine, u zuoppe, u fravecatore, vuie
sbattite i mane, ccà nun se sape si cia verimme malamente cu i mericane o cu i tedesche. Po’ succerette o bumbardamente. Fuie zieme ca dicette:
ccà o i tedesche o i mericane ce fanne na paliata bbona»28 (Annibale Merola, Capua).

«Quando ci fu l’8 settembre io stavo raccogliendo le noci e sentimmo che dal paese suonavano le campane, urla di persone, tutti gridavano: è
finita la guerra! Noi tutti contenti: è finita! Quando poco dopo incominciammo a sentire aerei che volavano bassi e poi mitragliavano e noi: ma
come? È finita la guerra e questi continuano a bombardare? Noi avevamo messo su un balcone un grammofono e tutti ballavano e cantavano che
era finita la guerra e quella invece incominciò peggio di prima. Buttavano i razzi e poi bombardavano. L’armistizio fu fatto dal re e poi se ne
scappò e a noi ci rimase in mezzo alle botte e lui se ne scappò. L’Italia è sempre stata così... Tanne29 fu fatto nu maciello, dove ti giravi giravi ci
stavano i soldati. Verso questa zona ci stavano gli americani e dall’altro canto verso i confini, i tedeschi... chi andava contro l’America e chi a
favore. Da questo lato a Ceppaloni andavano a favore degl i americani, a Beltiglio dei tedeschi... dove stavano i tedeschi andavano mettendo
bombe sotto i ponti, tutti i ponti che stavano in questa zona furono fatti saltare dai tedeschi... ai Martini, ai Marotti, perché quelli si ritiravano e
sparavano bombe per non farsi avvicinare dagli americani, tutti sgarrupati furono i ponti di questa zona, solo il ponte Calore non ce la fecero a
fare sgarrupare. Là gli americani a voglia quante bombe ci misero, fecero sgarrupare tutto Benevento ma quel ponte non ci riuscirono a farlo
cadere. Con gli apparecchi distrussero tutte le chiese, tutto... Qua sparavano i tedeschi... noi lavoravamo la terra nel mese di settembre e i
tedeschi stavano accampati qua, passarono gli americani con la contraerea, videro che ci stavano i tedeschi e li cominciarono a sparare. I
tedeschi tiravano contro gli aerei americani e loro sparavano dagli aerei e si sentivano solo fischi di bombe e le schegge arrivavano pure dove noi
stavamo lavorando la terra e ruppero delle viti... tanto che arrivavano forti noi scappavamo perché avevamo paura» (Pellegrino Penna,
Ceppaloni).

«Quando è stato che si sono divisi che c’è stato l’8 set tembre sono cominciati i guai tra i tedeschi e noi. Dicemmo meno male è finita la guerra,
invece la guerra non era finita, stava cominciando la guerra, cominciando e male veramente. Insomma i tedeschi da che era che non davano
fastidio, che erano nostri alleati, non furono più alleati. I nostri in quei giorni lasciarono l’esercito e per la strada incontravi tutti i giovani che non
facevano più il militare, avevano lasciato tutto. Agli inizi è stato tutto rose e fiori, poi abbiamo capito la gravità di quello che stava succedendo,
perché tanne è stata la vera guerra, perché poi non è stata solo la guerra dei bombardamenti, è stata la guerra tra gli uomini, perché i tedeschi
erano armati, i nostri avevano lasciato tutto. Si restò in balia delle onde perché, non avendo esercito alle spalle, eravamo un popolo di sbandati.
Gli americani sono arrivati piano piano, non è che correvano troppo... piano piano correvano. Però poi c’erano i tedeschi che man mano
indietreggiavano mentre loro arrivavano ed era una cosa veramente brutta... quando ci capitavi in quel periodo... Ricordo quando loro dovevano
attraversare il Volturno. Tra Caserta e Santa Maria Capua Vetere, più o meno, erano arrivati gli americani, allora noi fra i parenti nostri...
e ravamo tutte ragazze... dicevamo: so’ arrivati gli americani, vogliamo andare a vedere. E andammo a vedere questa truppa, erano tutti seduti
per terra... Mentre attraversavamo la campagna cominciarono a cannoneggiare, io non capivo niente, avevo delle cugine affianco con i fratelli,
tutti assieme ci buttammo a terra. Erano i tedeschi che cannoneggiavano su questi americani. E figurati l’inferno... Tornammo a casa e la notte fu
l’inferno aperto tra i tedeschi e gli americani, però questo ci salvò perché se stavano un’altra notte i tedeschi facevano la strage degli innocenti,
perché datosi che gli uomini se ne erano andati sulla montagna due notti prima, allora i tedeschi dettero l’ultimatum: o che loro scendevano o
loro se la sarebbero presa con donne e bambini... e stavi sempre sul chi va là con una coperta a terra» (Addolorata De Blasio, sfollata nel
Casertano dopo aver perso la casa a Napoli).

«Fin quando erano alleati gli italiani con i tedeschi tutto era tranquillo, si ve devano questi militari sempre con le mani sulle mitragliatrici, sulle
camionette, ma non è che facevano qualcosa contro a noi. Il male è venuto poi, con l’armistizio, l’8 settembre 1943. E allora si cominciò a parlare
dello sbarco a Salerno. Da quando cominciarono a bombardare pesante non si parlava altro che di questo sbarco che ci doveva essere, di sera,
quando ci riunivamo nel cortile e sentivamo il rumore dei cannoni da lontano, subito pensavamo che forse erano sbarcati gli inglesi. Un giorno
dopo una di quelle sere cominciammo a vedere sulla mia strada passare un sacco di camionette con la croce rossa sopra, piene di soldati tedeschi
e così capimmo che veramente stavolta gli inglesi erano sbarcati a Salerno... poi man mano arrivarono fin qui e bombardavano Napoli e ci
vennero allora ad uccidere fin dentro casa... Giustamente, quando c’è stato lo sbarco... sbarcarono gli inglesi e i tedeschi dovevano indietreggiare
e questi tedeschi tornando indietro cominciarono a fare una strage... Con l’armistizio è cominciato il terremoto, gli inglesi avanzavano e i tedeschi
prima di andarsene cercavano di bloccare tutte le strade p er fare perdere tempo e allora bombardavano dappertutto. Prima di andarsene,
avevano fatto depositi di munizioni ovunque, a momenti anche nei nostri cortili e cosa facevano? Li facevano scoppiare senza pensare a noi che
stavamo là e non c’azzeccavamo proprio niente... Infatti a Nola sono scoppiate tante di queste munizioni... insomma la guerra noi l’abbiamo
vissuta davvero... Ogni giorno era una scommessa... A Cicciano in un portone appresso al mio c’era una cantina che si scendevano settanta-
ottanta scalini e noi scappavamo lì dentro, là veniva pure gente di Camposano e di Cimitile in quel ricovero... Ad un bel momento però capimmo
che non era buono perché metti che cadeva una bomba proprio là sopra e chi ci pigliava più? Allora da quel mome nto quando suonavano le
sirene scappavamo nelle campagne... scappavamo nelle campagne e che risolvevamo però? Niente perché quelli sparavano dei razzi, o come altro
si chiamavano, che illuminavano a giorno, allora noi ci stringevamo tutti sotto gli alberi sennò ci vedevano e ci mitragliavano... Non sapevamo
proprio più dove andare... Così con quell’armistizio venne peggio ancora. E noi invece quando lo sentimmo, prima a tutto tutti quanti a dire:
evviva hanno fatto la pace, è fernuta a guerra, è fernuta a guerra! Specie noi giovani eravamo tutte contente perché uscivamo da quell’incubo. Io
già pensavo a mio fratello e al mio ragazzo che tornavano e tutto che ritornava come prima... macché! Poco dopo venne peggio di peggio... perché
giustamente dopo i tedeschi cominciarono ad ammazzarci: loro ci ammazzarono perché ci chiamavano traditori. Ma quello che dico io: ci voleva
tanto a pensare che a un bel momento voi mi firmate con gli americani cu cchisti tedeschi ancora int’all’Italia, e nun succere niente? E chille ce
massacrane! E alla fine dei conti dovemmo rendere conto ai tedeschi, poi l’esercito italiano non combatteva più perché c’era stato lo sfasciamento
delle truppe e insomma...» (Teresa Napolitano, Cicciano).

«La guerra più manifesta l’abbiamo avuta dal ’43 al ’45, perché prima la guerra era lontana, si parlava del fronte, dei soldati che morivano nei
vari combattimenti o negli affondamenti delle navi. Ogni tanto arrivava qualche notizia di qualche soldato caduto in guerra e si sentivano strilli e
pianti di qualche madre che gridava e quelle grida, quella disperazione sono ancora vive nella mia mente. Ricordo quella coppia di carabinieri che
passava per andare a portare la notizia ai genitori di qualche soldato caduto in guerra che non sarebbe più ritornato a casa... Basti veder e
l’elenco dei caduti sulla lapide in piazza. Erano comunque notizie di una guerra lontana. La guerra l’abbiamo vissuta intorno al 1943-44, cioè
quando c’è stato lo sbarco degli americani e quando c’è stato man mano lo spostamento del fronte, ecco che noi abbiamo cominciato a vedere la
guerra da vicino... subito dopo l’8 settembre 1943, quando abbiamo visto i primi aerei delle truppe alleate, i bombardieri dal nome “liberator” un
poco allusivo o cattivamente allusivo... Questi aerei che venivano a bombardare e distruggere quanto trovavano davanti. Liberatori poi non erano,
ma veri trucidatori, poiché sganciavano bombe, oggi dette intelligenti che intelligenti non erano, cadendo come cadevano... E noi ragazzi ma pure
qualche anziano abbiamo assistito al primo bombardamento a Benevento, dalla collina più alta di Beltiglio... 1700 morti... è stata colpita la
stazione ferroviaria mentre erano fermi due treni» (Patrizio Mazzone, Ceppaloni).

«Il primo bombardamento di Cassino per noi fu una cosa strana, perché l’8 settembre del ’43 c’era stato l’armistizio e il 10 settembre arrivarono
questi aerei e noi eravamo ragazzi, naturalmente nel vedere questi aerei eravamo entusiasti perché arrivavano gli alleati. Noi stavamo al bar
Centrale a salutare questi aerei che erano i liberatori, i liberatori... contraddizione... perché noi pensavamo che adesso non succedeva più niente,
no?» (Michele Malatesta, Cassino).

«Allora, dall’8 settembre dichiararono la guerra finita. Dissero che la guerra era finita. Ci furono degli accordi e allora tutti quanti eravamo felici
e contenti. Invece poi due giorni dopo, il 10 settembre, veramente mi ricordo che erano circa le 11, 11 meno un quarto... Allora sentiamo il
rumore degli aerei. A quel punto io e mio fratello Aldo stavamo ad abitare qui a via del Foro, qui vicino, e dicemmo con mio fratello: andiamo,
andiamo a vedere gli aerei, gli aerei americani, gli americani! Allora manco arriviamo su che cominciarono a bombardare e scappiamo giù al
portone di corsa. Abbiamo fatto cinque piani volando, si può dire. E dopo che ci fu questo bombardamento così si seppe che ci furono oltre cento
morti e... io ricordo un particolare... due ragazze che stavano parlando sui balconi, erano due appartamenti, uno accanto all’altro, le due ragazze
mentre parlavano, una è rimasta sul balcone, l’altra invece è andata giù, perché la bomba evidentemente è andata a finire proprio sul palazzo»
(Ersilia Gradini, Cassino).

«Fatto l’armistizio, allora u giorno aroppe, tutta a gente torna, chi stava prima dint’e gallerie, chi presso i parenti... Vanno a e case lloro... Invece
il giorno dopo entrarono in città e andando in città che succede? Che gli inglesi americani avanzavano e i tedeschi invece indietreggiavano,
andavano al nord... andare al nord che significa? Chi da a parte ’e Montesarchio arriva a Benevento arriva, entra int’a piazza... via Gaetano
Rummo, poi piazza Orsini, u duomo, piazza Santa Maria... Tutta sta storia pe’ bloccà sti tedeschi, insomma bombardà sti tedeschi che dovevano
passà sopra u ponte Calore, cheste e chellate... Acchiappane tutte ste zone che vengono tutte bombardate... bum bam destra e sinistra... E
pecché? P’inseguì sempe sti tedeschi che indietreggiavano, se ne andavano verso u nord. Verso le 8 u 9 di... u giorno dopo dell’armistizio... piglia
e murerene tanta e tanta gente...»30 (Lodovico Fune, Benevento).

«Io ero bambina e vivevo a Benevento... era un punto strategico per via della presenza della stazione ferroviaria, di molti ponti e vie di
comunicazione. Da quello che ricordo si parlava della guerra ma a Benevento ancora non l’avevamo avvertita, subita... io e le mie sorelle quando
vedevamo gli aerei passare ci mettevamo a contarli, uscivamo fuori e con gli occhi al cielo li contavamo: 1, 2, 3, 4, 5... Poi gli aerei andavano via e
al mattino successivo sentivamo: questa notte hanno bombardato qua, hanno bombardato là eccetera eccetera... e così a un certo punto
cominciammo a sentire delle voci le quali dicevano che i bombardamenti si avvicinavano sempre più a Benevento. Così noi ci dicemmo:
scappiamo! Noi avevamo il nonno che abitava a Capodimonte, una frazione di Benevento... così decidemmo di andare da lui in campagna... Fu
proprio una di queste sere quando eravamo tutti insieme che sentimmo suonare le campane, le sirene e tutti che urlavano: è finita la guerra! È
finita la guerra! Hanno firmato l’armistizio! Ecco l’annuncio dell’armistizio lo ricordo, ma l’annuncio della guerra no... l’annuncio dell’armistizio lo
ricordo, ricordo gli altoparlanti, la radio, le sirene e ricordo che noi abbiamo festeggiato: evviva, dicevamo, è finita la guerra! Anche se noi
eravamo piccole e non capivamo realmente cosa significasse quello che dicevamo poiché la guerra in realtà non l’avevamo vissuta... dopo invece è
stato il dramma. Ricordo anche che in quell’occasione papà disse: allora ce ne andiamo. E il nonno invece disse: aspettate, ormai vi trovate qua,
restate almeno per questa notte, domani con calma andate a vedere come stanno le cose e poi se è il caso ve ne andate. Proprio quella notte
invece se non mi sbaglio, iniziarono i veri e propri bombardamenti poiché gli americani avevano saputo che Benevento era piena di tedeschi... ma
i tedeschi avevano cominciato a indietreggiare e nella fuga prendevano gli uomini per farsi spianare la strada e fuggire più in fretta, in quanto le
strade erano tutte ricoperte di macerie e i loro carrarmati non potevano passare. Nel frattempo gli americani per prendere in trappola i tedeschi
che indietreggiavano iniziarono a bombardare il ponte, la ferrovia e tutte le vie di comunicazione. Bombardavano nelle ore più impensate, di
solito di giorno» (Ada B., Benevento).

I racconti registrano l’inversione rapida degli schieramenti, il precipitare degli eventi, il sentimento di stupore e di sgomento che si diffonde fra la
gente. Si potrebbero citare ancora numerosi altri brani con gli stessi termini, la stessa sintassi, lo stesso modo di presentare i fatti. L’8 settembre:
una festa, la gente correva per strada, suonavano le campane, si ballava, si cantava. Parole chiave: entusiasmo, festa. Il giorno dopo cambia
rapidamente la scena: pensavamo che la guerra fosse finita, «invece» è incominciata peggio di prima, è stato un abisso. «Allora è stata la vera
guerra». «Si restò in balia delle onde». «Eravamo un popolo di sbandati». Parole chiave: paura, sconcerto, confusione, fuga, sbandati, abbandono
del re. I tedeschi rapinavano e facevano violenze. Stupore: i tedeschi si trasformano in esercito occupante. «Insomma i tedeschi da che non
davano fastidio, che erano nostri alleati, non furono più alleati...» Poi la percezione di essere come assediati: stare in mezzo alle botte, da una
parte i tedeschi, dall’altra gli americani, noi in mezzo, non sapevamo da chi ci dovevamo difendere. «Dove ti giravi, c’erano i soldati». I tedeschi
distruggevano dal basso, gli americani bombardavano dall’alto. Gli americani arrivavano «piano, piano. I tedeschi indietreggiavano ed era una
cosa veramente brutta se ci capitavi in mezzo». «I tedeschi sparavano, gli americani sparavano e si incrociavano le cose».

Viene descritta con chiarezza la situazione di «guerra totale» in cui si è vissuti. Questi brani esprimono meglio di qualsiasi commento l’essenza
della guerra sul fronte. Andando a ricostruire le storie individuali troveremo poi il tragico e casuale sovrapporsi della violenza.

Obiettivo: il ponte sul Volturno di Cancello Arnone

Cancello Arnone era composto da due frazioni distese sulle rive del Volturno e unite da un ponte, che si trovava proprio al centro fra i due abitati.
Fu questa sua posizione che fece del paese un obiettivo strategico per i bombardieri alleati, che lo colpirono la mattina del 9 settembre insieme a
Capua.31 Molti degli abitanti non volevano credere di poter interessare le bombe angloamericane, altri invece avevano capito il pericolo e se ne
erano già andati, o avevano fatto sfollare i bambini.

«Ma nuie tutte quante nuie pensaveme: può essere mai stu paese ’e niente vene bombardate? Ma mai a pensà. Non lo pensavate? No, signò,
neanche lontanamente. È nu paese insignificante, diceveme nuie. Però babbo mio diceva accussì: ccà tenimme o ponte, ccà tenimme o ciumme.
Diceve babbo mie. Signò, chille ere n’omme intelligente, babbo mio. – Non vi illudete, diceva lui, tenimme o ponte, tenimme o ciumme. E difatti fu
così»32 (Antonietta Marra).

Quella mattina, nel momento in cui arrivarono gli aerei, per una tragica ironia della sorte, la gente era in chiesa dove si stava celebrando una
messa di ringraziamento per la fine della guerra. Le bombe centrarono in pieno la chiesa, oltre alle abitazioni. In un villaggio di 4000 anime ci
furono 100 vittime accertate tra gli abitanti. Morirono anche soldati italiani e tedeschi.33 Il paese fu distrutto.

«Successe il finimondo. Incominciarono a bombardà i paesi, era l’ora che firmarono l’armistizio, disse mio padre: accorte, oggi non andare a
messa, dicette vicino a me, oggi viene il finimondo! Mio padre, chille già eva fatte o ’15-18 e sapeva che significava. Ma come, dicette ie, aggia
ringrazià a Gesù Criste. – Gesù Criste, si u vuò ringrazià, ringrazialo ccà! – Ue! Maronna mia, che male augurie me state a dà! Signò, dette queste
parole, facevene a feste pe’ ccà ammieze, ma nuie steveme ammieze i tedeschi! Tutti a festeà pe’ ccà ammieze che ereme fatte l’armistizio. Signò
e che bombardamento! Currevene botte pe’ tutte parte, ccà era nu fumme! Chiuveve fuoche pe’ tutte... fumme po’, tante ro fumme! E case se ne
saglievene, e bombe carevane, nun se vereve niente cchiù, sultante i dispiacere, turnavene dentro e nun truvavane cchiù i famiglie, cheste era!
Nun se capeve niente chelle che ce steve: e vire ccà e vire llà! Signora mia steve na sora mia, che venette r’america, steve dinte a chiesa, llà
rumanette, dinte a chiesa, e nu figlie i diciott’anne, facevene parte ra famiglia Cicala. – E nun ce stanne e nun ce stanne! – No, chille so’
scappati... Quanne turnette ccà, a casa mia... chine ’e muorte! I pigliavene a fore llà e i trasevene tutte arinte. E che è succise?! Diciette ie, chella
a perso nove figli signò, nove figli! tutti i figli, tutte ccà... [...] I figli stevene tutte ccà, pecché venette o bombardamente e nuie fesse faceveme o
ricovere, scavaveme ’nterre e ce nzeppaveme a sotte, a bomba carenne n’abbarrave sotte a terre? [...] Comunque, signò, mente nuie steveme a
ffà chistu fatte, chillate chiammavene a sott’a terre: aiutateci, aiutateci, che stamm’a murì! Faceve o pate i Pascale: aiutatemi, che mugliereme
già è morta, si nun me scavete a me, stong’a murì pur’ie. [...] E n’atu figlie ra sora mie era l’urdeme che s’era scappate, se chiammave Pezzì, era
mericane e steve sott’o ricovere: zì, zì, diceve vicine a me, aiutatemi, stong’a murì pur’ie! Però stateve accorte quanne menate a pala che tenghe
a mane ccà, tenghe a mane ccà, se menate a pale cchiù accà me tagliate a mane! Stong’a murì pure ie, facite ambresse, preparate na coperta che
si esco fore moro! Diceve isse. Comunque chiste ascette... E se salvaie!»34 (Antonietta Marra).

Elio Branco è il figlio superstite di quella donna che perse otto figli e il marito. Si salvò perché era militare in Grecia. Oggi ci racconta il dolore di
allora. «Quanne arrivaie o paese ccà, era martirato, steve tutto...35 non si poteva passare neanche il fiume, si doveva arginare, oppure ce stava
qualche barchetta che uno s’inzeppava36 e passava... Ma voi non sapevate niente che la vostra famiglia era... Io non sapevo niente che la famiglia
mia non c’era, non lo sapevo, perché stavo in Grecia, quando so’ venuto ccà... neanche all’altro paese l’ho saputo, perché non me lo volevano far
sapere, sono arrivato a quest’altra parte e me l’hanno detto. Chi ve l’ha detto? Certi amici che ho trovato: vedi che tua mamma così così, sta a
Sant’Andrea... un paese dove aveva dei compari, certi amici e io sono andato a quel posto, ma sono stato quattro mesi che non capivo quasi
niente, m’ero così confuso che è una cosa straordinaria... È stato una cosa... grande... io ho perso mio padre, nove in tutto nella mia famiglia e mi
so’... quasi quasi mi so’ paralizzato, mi so’ fatto... Mia madre piangeva tutti i giorni... Chille non era uno, erano nove, otto figli, o marito, na cosa
che forse forse... era una cosa troppo grande. E quando poi so’ arrivato io, ripeto, ie me so’ quasi ’nzallanute,37 mi so’ rimbambito a Sant’Andrea,
so’ rimasto nu quattro mesi che quasi quasi non parlavo manco. Mia madre stava in chiesa e stando in chiesa stavano dicendo la messa quando
hanno bombardato, è capitato che c’era nu marmo e s’è mise c’a testa sotto o marmo, ienne38 c’a testa sotto o marmo è uscita tutta fratturata,
queste parti, e gambe, è stata all’ospedale, è stata rivista e si è rimessa. Mia madre era una bella donna, na donna robusta, così si è rimessa e
cercava di rimettere a me. Era una cosa terribile, terribile, ripeto. Io quanne so’ arrivate m’anno mise ’ncoppe a na carrette, so’ arrivate a casa
ma non lo sapevo, so’ arrivato a casa, po’ m’anna ritte39 che non me lo avevano detto... e chianu chianu mi so’ quasi paralizzato, una cosa
terribile! Ie teneve na famiglia, na casa... so’ arrivate là e poi ho trovato mia madre mezza morta, na madre ca chiagneve tutti i giorni, era na cosa
terribile, e aveva ragione pure! Stava in chiesa, sennò mureve pure esse là dinte, ccà, dietro ccà, teneveme... nu poche cchiù allà teneveme
comme nu ricovere... E la bomba ha preso proprio il ricovero? Tre bombe ce cuglierene là. Ce so’ capitate pure ate, però i miei so’ stati molti,
molti, ate erene cchiù poche».

Antonio Chierchia perse il padre in un rifugio analogo. «Il bombardamento del 9 settembre, perché noi di Cancello Arnone ce lo dobbiamo
ricordare, perché è stato appena dopo l’armistizio, sembrava che con l’armistizio dell’8 settembre tutto era finito, tutto sembrava tornare... mi è
morto anche mio padre in quell’occasione, il 9 settembre, oltre logicamente nel mio fabbricato, fabbricato abbastanza grande, no come oggi, so’
muorte parecchie persone, noi abbiamo avuto morti nel mio fabbricato come una decina di morti. Noi avevamo fatto, perlomeno mio padre, aveva
organizzato certe fosse antischegge e quando sentivamo l’allarme si doveva correre sotto a sti ripari, a qualcuno è stata una salvezza, a qualche
altro è stato il contrario, perché ci so’ stati parecchi di questi ricoveri che so’ finiti schiacciati e so’ muorte tutte quante. [...] Parecchie famiglie
intere, so’ state famiglie intere che so’ state schiacciate sotto i ricoveri. Io non ci so’ ricapitato non per qualche cosa, forse nostro signore non ha
voluto che io morissi, perché in quella occasione, la mattina del 9 settembre, mio padre mi mandò a trebbiare in campagna [...] il bombardamento
l’ho visto da lontano. Cancello Arnone era tutto nuvole di fumo, o perlomeno sembrava, era polvere, perché gli americani bombardavano a
tappeto, cioè gli americani nun è che vanne a bumbardà sull’obiettivo, quando decidono di bombardare gli americani fanno i bombardamenti a
tappeto, dove capitava capitava. In mezzo a questi fabbricati come stanno oggi, la casa mia è quella che fu pigliata dalle bombe, mentre
quell’altra in qualche modo si spaccò, che si ruppe na parete, ma a me morirono tutte chille che s’erene ricoverati dinte a chistu ricovero che
aveva fatto mio padre. Vedeste questa polvere e correste verso il paese? Sì, io quando ho visto ho pensato che qualcosa stava succedendo, so’
corso e qui non ho visto a nessuno, ho visto na muntagne i macerie, ho cominciato a scavare, scava scava scava, prima incontro mio fratello sotto
le macerie, poi mia sorella, poi la seconda moglie di mio padre, alla fine scavavo un altro era morto, scavavo un altro era vivo eccetera...
Caccherune vive riusciste. Sì, caccherune vive sì, mio fratello e mia sorella uscirono vivi dalle macerie, perché era il modo come furono colpiti,
nel senso che sotto o portone c’erano delle balle ’e fieno e fecero ponte sia coppe o fierro che a terra, chi è capitato sotto a quello spazio in
qualche modo si è salvato, chi è capitato oltre, dove a trave appoggiava a terra, chi stava al di sopra della trave è morto, così è stata la dinamica.
[...] Mio padre l’ho trovato dopo tanto tempo, l’ho trovato... lì per lì facemmo una sala mortuaria in una casa che non era diroccata, dove ci
stavano queste salme che erano morte qua e all’indomani poi ognuno ha provveduto a portarli o cimitero, come ho fatto pure io con mio padre.
Con le casse pure... Sì, vennero da Casale, Casale di Principe, co nu carrette e per passare sopra e macerie fu un’avventura, per caricarle, per
farle e così poi lo portai al cimitero e al cimitero c’era uno spazio sotto, cercai con i paletti rotondi, che facevo camminare a bara sopra i paletti e
spingevo, pecché ero solo io, non ci stevene altra gente. C’erano nu mare ’e muorte, c’erano parecchie soldate, che qua c’erano i soldati allora, ed
erano morti parecchi soldati e stavano tutti quanti a sala mortuaria, non è che ce steve il parente che lo seppelliva, insomma non... Quello poi i
soldati italiani capitarono sotto al bombardamento... Quelli che stavano qua erano... c’era l’artiglieria qua e si pensa che addirittura c’era partito
qualche colpo d’artiglieria, poi non me lo ricordo che i comandanti hanno fatto sparà con l’artiglieria che stava qua, non me lo ricordo, perché
penso che gli americani volevano buttà a terra o ponte e allora cumminciaiene a fà o bombardamente, che poi non so’ stati capaci di buttarlo a
terra, a terra l’hanno buttato gli italiani pecché neanche i tedeschi furono capaci».

Maria Teresa Di Caprio, allora bambina, perse la mamma tra i muri della chiesa. «La mamma aveva il negozio e allora ci ha mandati sfollati a
Pietramelara, stavano tutti i miei fratelli co mia zia e stavamo a Pietramelara, quindi quando è morta la mamma noi qua non c’eravamo, siamo
ritornati dopo, e mi ricordo che io ero piccolina e mi ricordo che papà ci ha messi sopra o camion con quel pochettino ’e roba che tenevamo e
siamo arrivati a Cancello. Quando siamo arrivati a Cancello quindi era tutto bombardato, a chiesa... tutto a terra, e case ccà tutte a terra, non
c’era niente in piedi, tanto che io mi ricordo che dico vicino a papà: ma ad dò ciai portati? – Siamo arrivati a Cancello! – Ma dov’è casa nostra?
Noi eravamo in cinque, la prima aveva tredici anni quando è morta la mamma, l’ate eravamo più piccolini, l’ultima aveva tre anni.

C’era a Cancello il papà e il nonno, il papà di mia mamma. Da Pietramelara gli apparecchi già si sentivano che passavano, perché Pietramelara
non è troppo lontana di qua, però dice mia zia: chissà addò vanne chist’apparecchi! Dio mio, forse vanno a Cancello! Perché noi sapevamo che
Cancello era caposaldo, perché c’erano i due ponti, no? Per questa ragione ccà mamma ci ha mandati e solamente che lei non ha potuto venire,
perché teneva a rifornitura dei militari, di più a popolazione che erano tesseramenti, cioè le i l’eva fà mangià,40 insomma. Aveva un negozio di
generi alimentari, di fronte qua. E allora pe’ chesta ragione è rimasta lei, papà e il nonno qua a Cancello e noi pecché ereme tutti piccolini ci ha
portati là, perché i primi momenti stavamo a Cancello, infatti una volta è venuto un bombardamento di sera e la mamma, poiché noi eravamo
piccolini, mia mamma ci ha presi e dice: andiamo sotto al ricovero! Ricovero in che senso? Ricordo che era tagliato in me zzo, noi scendevamo e
chissà sopra che c’era, non lo so che cosa c’era, comunque so’ morti là dentro, un sacco di gente, na quindicina i persone, forse anche di più! Là
stavamo noi e così poi la mamma ha visto così e dice vicino a mio padre: prendiamo una casa, così se ne vanno assieme a mia sorella. E ce ne
siamo andati insieme a mia zia, i figli e noi a Pietramelara. Dopo che è venuto il bombardamento, poi il papà è venuto dopo tre giorni, che non
sapevamo nemmeno se lui era vivo oppure era morto. E mi ricordo che mia zia piangeva e si disperava proprio, diceva: Dio mio come faccio
adesso? Come faccio? Allora così quando è venuto papà, dopo tre giorni, lui disse: ma io la mamma non l’ho trovata. Non sapevamo nemmeno
dove stava. Dopo sei mesi papà ha chiamato gli operai a Mondragone, perché diceva il nonno: ma lei è uscita con la borsa che doveva andare a
messa.

Invece se si steve nel negozio insieme al nonno e papà non moriva... Dice, poiché teneva a roba sopra a macchina, che dovevano andare a
Pietramelara da noi, dice: primme i ì add’i bambini me vache a ascoltà a messa.41 E così diceva il nonno vicino a papà: Vincenzì, forse lei è andata
a messa, là è andata, è l’unica parte che è andata! Poi a gente... nun è che tu verive...42 chi scappava, chi erano morti, era na babilonia, proprie,
cheste poi lo raccontavano o nonno e papà. Comunque la mamma non l’hanno trovata e non sapevano nemmeno addò steve. Dopo sei mesi ha
fatto sta ricerca, dice: allora incominciamo a scavare dalla chiesa, incominciamo a scavare e dopo l’hanno trovata, l’hanno trovata ed era intatta,
sì, sì, e mi ricordo che il mio papà c’è venuto a prendere a me, a mia sorella e a mio fratello, che ereme cchiù grandicelli, ma all’altri più piccolini
a nonna non ce li ha fatti venire, perché uno aveva tre anni e l’altro ne aveva cinque. Dice: no, voi state qua, state qua... Invece papà disse: no, voi
venite perché la potete guardare che è intatta. Ed era proprio... mi ricordo lei era bionda, gli occhi azzurri. E mi ricordo che mia zia coi capelli
aveva fatto togliere a polvere sopra, no? E ricordo che lei piangeva, a disperazione, erano due sorelle, mia mamma e lei, e piangeva e diceva: ma
come mai tu? Perché non sei uscita assieme agli altri? Faceve esse. Comunque non c’è stato niente da fare. Lei aveva le b raccia incrociate, sai,
quando uno dice: Dio mio... in croce, no? Era na donna troppo cattolica, ma pure mio padre, e allora pe’ s’ascoltà a messa... o Dio non è perché è
andata in chiesa e Dio l’ha fatta morire, pecché so’ morti tanta e tanta gente».

Il bombardamento sulla chiesa parve un segno di indifferenza divina. Molti se l a presero con il signore che non aveva salvato le sue creature
nella sua dimora. «Eh, sbariavane, sbariavene ca vocche signò, so pigliavene cu Gesù Criste. C’adda fa Gesù Cristo? E gliastemmia vene, dicevano
accussì: che stai a fà tu loche dentro che non ci hai aiutato?»43 (Antonietta Marra).

In chiesa erano soprattutto donne e bambini e furono loro a morire in maggior numero.

«Il 9 mattina, il giorno prima c’evame a nasconnere dint’o giardine ccà, steve fatte nu parascheggie, che ce menaveme llà dinte quanne vulavene
l’apparecchi bassi bassi e steveme llà, po’ l’apparecchi s’alluntanerene e nuie ascereme da quel fosso. Il giorno dopo aspettaveme tutte quante,
dicevene: so’ venuti a fà a pace, a pace... Nun era o vero! O giorno del bombardamento si ieve a sentì la messa, il giorno 9. Nuie ascereme a sotte
o paraschegge e ce iereme a sentì a messa, la fine della messa succedette o bombardamento. Mentre che stavamo uscendo vedereme
l’apparecchie a schiera accussì, verite, ma assai proprio! Messi a ventaglio accussì e allora uscereme ra messa e vuleveme turnà a casa, ie a
braccetto co mi a mamma dicette: mammà, vieni qua, che nuie murimme pa via! Diceve: chiste mo menene e bombe! E ce turnareme arrete,
mente che steveme a sagliere e scale ra chiesa, pe’ trasì dint’a chiesa vene o bombardamente, u spostamente me mene a faccia ’nterre, o
spostamento forte, e accussì rimanereme ie e mamma mia abbracciate accussì a faccia ’nterre. E steve me aspettanne che ce venevene a sollevà
llà, sotte e macerie e venettene po’, eve essere verso le nove, le nove e mezzo e ce tererene allà sotte ferite... Rusenelle carette ’nterre affianche
a me, e ie teneve a mane ’e chelle ’n mane, e senteve a cheste che mureve e ie puteve parlà, chelle nun potette dicere niente cchiù, steve ca
bocca cchiù chiusa... e ie diceve: Rusené, mo murimme ccà, mo murimme sotte e prete! E a mane ’e chelle ie a teneve ’n mane... steve a murì.
Senteve che a mane ’n mane a me faceve ttttt e accussì tremmave e murette e na veriette cchiù. Fuie brutte! ... E po’ aroppe furnette o
bombardamento e senteveme i cammenà pe’ cape a nuie comme fosseme state sotte na montagna ’e macerie e ie teneve tante ’e spazie, teneve
nu scannele ra chiese e accussì puteve alluccà nu poche e gridaveme, a sotte llà nuie senteveme che dicevene: scavamme, che ccà se sente che
so’ ancora vive, nun so’ muorte, dicevene. Cominciarono a scavà piano piano, piano piano e ce tererene a nuie ferite a llà sotte»44 (Vincenzina De
Micco).

«Stevene nu sacche ’e cristiane sotte a chiese, chi s’arrevave a ascì p’a sacrestie fui salve, poca gente, l’ate murettene. Donatina a mugliere i
Scipione, a chiammavene Assunta a zoppa, n’ata zie ca teneve na cosce... che teneve na stampella... murerene assai cristiene llà, Aida a figlia i zi
Giuvanne, murerene parecchie persune, pecché steve l’armistizie e ievene a ringrazià a madonna. Che vuò ringrazià a madonna!? Chille
bumbarderene ’ncoppe o ponte [...] Uh! Tutti, tutti, tutti, fui na cosa... e chella povere die i Peppenella, faceve ammore cu Tummase frateme, se
vulevene bene, che ere cresciute dint’a casa noste, venevene addu Iolanda, cuseve quann’ere giovene. E esse steve llà e a povere die a
chiagneveme e m’a sunnaie, che dicette che esse e Donatine stevene tutt’e doie vicine, quanne bumbarderene e s’eve state quatte iuorne sotte a
segge, era morte ’ncape e quatte iuorne, teneve a cape sotte a segge e rimanette, e ’ncape quatte iuorne murette. A chella povere Assunte a
truvarene azzeccate vicine a colonne ra chiese, pe’ poche metre n’arrevave a ascì. Vicenzine pure steve... e Marie a guardie, Vicenzine, parecchie
ascerene p’a sacrestie... nun arrevave a caré a sacrestia, se ne carette annanze, a coppe, e cheste, carette a piombe accussì a bombe. E chelle,
chiene ’e terre, ’nturzate ’e povere arreverene a ascì, l’atu rieste rummanerene tutte llà dinte. Parecchie murerene dint’a chiesa sotte o
bombardamente... [...] Quanne steveme sfollate llà venevene a gente che venevene a Cancielle, mieze spugliate, sfracellate, comme aggia dicere?
Me ricorde assai a Pietro Antonio, o pate ’e Orsolina Ciota, e chille ce ricette ’e muorte che stevene a Cancielle, ce ricette tutte e muorte... chille
furnette o munne tanne, fui na cosa proprie esagerata, proprie o iuorne ’e l’armistizie, o iuorne i l’armistizie furnette o munne proprie, murerene
assai cancellesi»45 (Maria Della Valle).

Era la «fine del mondo». Sono le immagini dell’apocalisse a dominare i racconti: macerie e macerie, corpi insepolti, corpi sfracellati, e infine,
dramma estremo, corpi profanati dagli animali.

«Quando fu il 9 settembre la mattina, a sera era stato l’armistizio l’8 settembre, tutte feste, imma fatte a feste: è furnute, l’armestizie, è finita a
guerra! E tutte ce crereveme che era furnute a guerra, mentre chi teneve a radio... nuie a radio a sentevene poche... invece i sparà contre
l’americane ereme sparà contre i tedeschi, chiste fu o disastro cchiù gruosse! Quando fu le nove di mattina in paese, chillu bombardamento nun
furnette mai. Ie me truvaie qua in campagna a assistere gli animali, già reduce ro fronte... Io sono corso in paese e aggia truvate o disastro che
non finiva mai, morti, la gente ferita... Allora c’erano i tedeschi che ci davano il disinfettante, aggia incominciate ie, reduce ro fronte, viste chelle
che succereve o fronte, che ce scannaveme ognune cu n’ate, teneve o curaggie, quanne vereve a une che asceve o sanghe pe’ tutte parte, ieve
vicine i disinfettave, i pulezzave e i metteve pe’ terre. E so’ andato in paese, o paese era finito, gente che gridava, alluccava, si cercava sott’e
macerie... I soldati nuoste i teneveme ccà, scapparono, buttarono le armi e se ne scappavano. E rimase il popolo, il popolo che non teneva
nisciune che l’aiutava, pecché i tedeschi pensavene pe’ fatte suoie a saccheggià, a fà, nuie, i suldate nuoste cercavene a fuii, non c’era chi ti dava
una mano, chi t’aiutava... Io poi girando a destra, girando a sinistra trovai a mio fratello che non l’era successo niente, trovai a mia sorella
impaurita... e ce ne venereme ccà, tornato qua sono tornato in paese perché teneveme delle case in paese. Comunque finì così fino alla sera a
notte, che po’ c’era qualcuno che salvava, chi fuieve a destra, chi fuieve a sinistra. Il giorno dopo noi simme continuati a andare in paese e allora
stando in paese e allora vedevi nu muorte a destra, nu muorte a sinistra... e dopo pochi giorni i maiali, che stavano in paese che allora tutti
tenevano i maiali, portavano le teste di noi umani in bocca, dint’o paese...»46 (Gaetano Graziano).

«Cancielle ere sule ’e terre caputtate pe’ sotte e pe’ coppe... Steve tutte o paese carute, nuie pe’ ì addu nuie steve tutte cose... e muntune ’e terre
arravugliate accussì, tutte quante arravugliate, tutte prete, tutte marmere, tutte sti cose i marciapiede, tutte e vasule, pecché stevene e vasule
ammieze a vie a nuie, allore chelli vasule stevene tutte ammuntuliate, na cosa troppo... ma chille bumbardarene Cancielle pe’ via ro ponte llà, pe’
via ro ponte ccà, fui fatta na cosa... proprio rasa al suolo! Figuratevi che io m’ammaretaie, però aroppe o ’45, ie me spusaie o ’48 e aviette o
primme figlie o ’49, tra nuie, zia Assunta ’e Ciccille e zi Crestenelle, insomma nun se puteve passà, che steve tutte cose ammuntuliate, che i case
se n’erene carute, steve tutte ammuntuliate, pe’ ì addu soreme Mirella, m’era menà pe’ coppe a chella terra cu creature, che nun se puteve ascì a
nisciune parte, né accà, né allà e nun verive na faccia ’e anima vive [...] Teneve o primme figlie ca nascette o ’49 e steveme ancora tutte accussì,
robbe pe’ tutte parte, tutte muntune ammuntuniate ca arrevavene vicine e case. I vie nun esistevene proprie cchiù, esistevene tante pe’ dicere
accussì, ma steve tutte cose ’ncapetate, tutte ’ncapetate sotte e ’ncoppe, poi mane mane... Ma quanne po? Quanne teneve e figli e giuvene,
quanne s’abbieve a accuncià cacche cose, nun esisteve niente e nun putive cercà niente a nisciuna parte... [...] Cancielle insomma nun era
Cancielle, ia! Era na cosa accussì...»47 (Maria Della Valle).

Ecco il racconto di chi arrivò a Cancello Arnone il 25 aprile 1944.

«Nelle prime ore del pomeriggio faccio il mio ingresso in Arnone [la metà del paese che si trova a sud del Volturno]. Ai miei occhi si presenta uno
spettacolo penosissimo. Per quanto avevo cercato di immaginare il disastro non l’avrei creduto così grande. Non è rimasta in piedi neppure una
casa. [...] anche Cancello è totalmente distrutto. [...] Lo spettacolo che si presenta ai miei occhi è indescrivibile. Cancello è un ammasso di
macerie irriconoscibile».48

Dopo il bombardamento gli abitanti, senza case e terrorizzati dalla eventualità di altre incursioni, si sparsero nelle masserie, nei casolari di
campagna e nei paesi delle colline. Tuttavia la fuga era limitata a uno spazio circoscritto. Tutti si trovarono a girare in un tragico cerchio, senza
scampo, andando a sbattere ora in una batteria o in un gruppo di soldati tedeschi ora sotto i cannoni o le bombe lanciate dagli alleati. Le
testimonianze rendono con efficacia la situazione.

«Poi successe il finimondo, nun se capeve niente cchiù: soldati accà, soldati allà, tedeschi, inglesi, s’ammiscaiene i p roblemi. C’era troppo un
movimento di soldati, signò, troppo!»49 (Antonietta Marra).

A Cancello erano quasi tutti al levatori. Ancora oggi il paese è il centro dell’allevamento della bufala e della mozzarella. Tutti avevano animali e
cercavano di difenderli come potevano. Erano la loro unica fonte di sostentamento, per questo il conflitto con i soldati tedeschi, che avevano
l’ordine di requisire gli animali e lo applicavano con solerzia e ferocia, fu particolarmente aspro. In zona si trovava la divisione corazzata
Hermann Göring, la cui presenza è puntualmente segnalata dai diari di guerra citati poc’anzi. Uno dei testimoni, Gaetano Graziano, racconta che
un ufficiale tedesco «austriaco» (i buoni sono sempre austriaci, in tutte le storie, e sono tanti) lo aveva messo in guardia contro la violenza dei
«guastatori», ed è probabile che si riferisse proprio ai guastatori della divisione corazzata.
Gaetano Graziano, soldato arrivato da poco dal fronte, anch’egli allevatore, era proprietario di terreni e casolari sparsi per la pianura fra Cancello
e Castelvolturno, tra cui vagò, nel settembre e ottobre 1943, portandosi dietro quaranta, cinquanta persone, fra le quali cinque soldati siciliani
sbandati. Uno di loro si sarebbe sposato e avrebbe messo su casa a Cancello Arnone. La prima tappa fu nella masseria più vicina al paese, quella
in cui ha avuto luogo il mio incontro con lui. Giudicata troppo esposta alle incursioni dei soldati e ai bombardamenti, la compagnia si spostò in un
casolare nascosto tra gli alberi e sotto l’argine di un piccolo fiume. Ma a poca distanza era stata posta una batteria tedesca. Così avvenne il primo
contatto diretto con i soldati, che cominciarono con il cercare le donne. L’aggressore appare qui nelle vesti di un russo arruolato nella Wehrmacht.
Un austriaco, come in tanti altri racconti, è, invece, rappresentato come salvatore. Egli sarebbe intervenuto per difendere e mettere in guardia il
gruppo da possibili violenze e avvertire di un probabile bombardamento. L’incontro è descritto attraverso un buffo dialogo in dialetto.

«Un tedesco incominciò co na ragazza e allora c’era un maresciallo austriaco, era na brava persona, dice: chille è nu mascalzone, chille è russo.
Diciette ie: ma comme s’adda fà? Amme accirere? Dice: nun sia mai! Manche i cane! Si facimme na cose a chiste, chille accirene tutte quante
chille ca stanna ccà, nun scampe nisciune! [...] E stetteme na quinnecine, na ventina i giorni llà. Comunque noi continuavamo sta storia i ì
annanze e arete a Cancello. O paese nun ce steve nisciune, se senteve na puzza ca nun furneve mai dint’o paese. Na sera verse i sette, i l’otte a
sere arriva stu maresciallo tedesco, dicette: paisà, tu te n’ai a ì accà. Siente, tu te n’ai a ì, pecché dimane e matine e nove tutto distrutto! [...] Nuie
ce ne ietteme, partereme dinte a nuttate e p’a vie tutte e galline, papere, chelle che purtareme cu nuie i tedesche ce fermerene e ce luvaine tutte
cose coppe o ciumarielle ccà... Tutto! Era tutte robe ’e pullame, ce luvarene tutte cose, però l’animale ce purtareme. Le bufale ve le portaste
dietro? Quante bufale sevene? Na cinquantina, cinquanta, sessanta animali...»50

Nonostante avesse perso parte del bestiame, quello più utile per sfamarsi (le bufale non si mangiavano), il gruppo aveva evitato stupri e bombe.
Di nuovo la carovana era in fuga verso un’altra masseria. Quando già gli americani erano arrivati, la notte successiva soldati tedeschi
riattraversarono il fiume, rastrellarono parecchi uomini e li portarono in Germania. «Quanne fu a notte, a notte appriesse ca c’erano stati gli
americani già ccà, chisti tedeschi passaiene o ciumme e se piglierene parecchie gente i Arnone, se piglierene persine o Cavaliere, a buonanima i
Peppe Circio, l’ata gente, s’e piglierene prigionieri e s’e purterene, che poi s’e purterene pure in Germania, Lurenze o ciclista, insomma tutte
chisti lloche, s’e piglierene prigionieri e s’e purterene. Allora ccà tuorne ccà na confusione ’e pazze, t’aggia dicere a verità...»51

Antonietta Marra narra anche lei di essere finita tra gli americani con il suo gruppo e di essersi ritrovata di lì a poco in mano ai tedeschi, a causa
di un fratello fifone. «Ce mettetteme ’n cammine, ce mettetteme ’n cammine e ghietteme a chistu putere. Arrivaiene a chistu putere e steveme a
fà fagioli e cucuzze, nun ce steve niente! Mente steveme accussì chistu nipote mie americane se mettette accavalcate ’ncoppe o cancielle e co
binocolo guardava, diceva vicino a me: zia, c’è movimento! – Scendi, diceve ie, nun te fà veré che, manche e cane, ce verene c’accirene. – Nun te
preoccupà, diceve isse. Piglio nu secchio e vache a piglià l’acqua, correva na corrente i acqua ma nun ce steve funtane... Vache a piglià chistu
sicchie ’e acqua signò e ce steve na capanna i canapa, fatta a uso i... na capanna e sotto là ce stevene dui surdate, pose o sicchie e me ne fuie.
Pezzì! Pezzì, dicette ie, ce stanne dui surdate accà sotte! – Zitte, dicette isse, si no ce fai accirere! Dicette vicine a mme: comme ievene vestite?
Diciette: tenevene nu elmette ’ncape cu na lettera. – So’ inglesi, dicette isse, nun te mettere paura! E isse a coppe o cancielle: Hallo! Hallo!
Parlave cu chilli americane. E venettene vicine a nuie, trasettene dentro, vulevene sapé che ce steveme mangianne e che ce steve pe’ mangià e
dicette l’interprete: non vi muovete di qua, che fra un’ora viene il camion e vi porta a destinazione. Signora mia, c’era nu fratello ro mio che era
troppo pauroso: e iammucenne! E iammucenne! E iammucenne! Ce mettetteme dint’a chillu sentiere sotto sotto a ferrovia e ietteme a furnì ’n
mane i tedeschi n’ata vote! Signò! Mane i tedeschi n’ata vote! Nun puteveme parlà, nun puteveme dicere niente».52

Il racconto più drammatico è quello di Antonio Chierchia rastrellato, condotto al campo di concentramento di Sparanise per essere deportato in
Germania, fuggito da un camion verso Cancello con un giovane compagno, ripescato dai tedeschi... «Quando sono arrivato là so’ usciti i tedeschi
dal cimitero e m’hanno acchiappato un’altra volta. Io ero convinto che ero solo, che il ragazzo se n’era andato, e invece poi non so come è stato i
tedeschi che venevene da Aversa portavano stu ragazzo co loro. Evidentemente stu ragazzo andando verso a ferrovia non ha avuto il coraggio di
proseguire e è andato lungo o fosso ra strada,53 dove i tedeschi più avanti l’avevano visto, e l’hanno riportato là dove stavo io. Hanno legato a lui
e a me vicino a un albero e hanno sparato a chillu ragazzo, sparato a quel ragazzo... io ho visto chesta funzione, ho visto o colpo che è partito e
allora mi sono accasciato dalla paura, dall’impressione, insomma nun ere cchiù ie, non avevo controllo di me, non so quanto tempo so’ stato
appoggiato sulle funi e poi quando mi so’ ripigliato non ero convinto si era vero o nun era vero! Cioè se mi avevano ucciso pure a me o no... però
quel ragazzo stava appeso come me... poi tutto a un tratto non so... a mano celeste, a mano i mio padre, a mano i mia madre... venne un tedesco
che era colpito al braccio e portava na specie i gessatura: vviene ccà, dicette, piglie o cavalle e vavattenne! Ma primme ’e fà chelle m’hanne
saziate e palate.54 Vi hanno picchiato? Picchiato a sangue! [...] i palate furene assai, allora io ho pensato che nel sparare si è inceppato qualche
cosa e non hanno sparato, questa è la mia versione, può darsi che è andata così...»

Mondragone: evacuazione e massacri

Nel paese vicino, Mondragone, le cose con i tedeschi andarono ancora peggio. La cittadina subì un bombardamento la notte tra l’8 e il 9
settembre. Le violenze naziste furono così estreme e manifeste che anche il bombardamento notturno è stato attribuito da gran parte della
popolazione a un’azione germanica. In realtà quella stessa notte i Wellington della RAF erano in zona; negli ordini che si riferiscono al D-1
troviamo l’indicazione di bombardare Formia e Gaeta, ed è molto probabile che l’azione sia stata perfezionata con obiettivi secondari vicini.55 Fu
colpito il rione San Nicola, morirono 16 persone. Due famiglie vennero distrutte.

«Era l’8 settembre del ’43, alla radio era stata data notizia dell’armistizio e, quindi, convinti che la guerra fosse ormai finita, ritornammo a
dormire nelle nostre case, invece di andare a rifugiarci nei ricoveri dove normalmente ci nascondevamo per proteggerci dalle bombe. Alle 3 di
notte mia nonna paterna, Miraglia Giovannina, venne a svegliarci per avvertirci che stavano arrivando i cacciabombardieri. Allora ci alzammo e
volevamo andare a nasconderci in un fosso che era stato scavato nell’orto dietro casa mia. Facemmo solo in tempo ad uscire in giardino: mia
madre, Riccardi Vincenzina, era inginocchiata davanti alla mia sorellina di quattro anni, Angela, e stava cercando di vestirla. Una bomba cadde in
via Napoli proprio sulla casa di fronte la mia, dove morì il proprietario, Nardella Antonio, cugino di mio padre. Era ancora buio e non mi accorsi
che una scheggia aveva colpito mia madre al volto, uccidendola. Provai a chiamarla e, non avendo risposta, cercai di scuoterla con la mano e
sentii il caldo del suo sangue. Insieme a mia sorella Giovannina, che aveva undici anni, prendemmo Angela e cercammo di scappare; poco più
avanti trovammo il corpo senza vita di mio fratello Giuseppe, di anni tredici, mentre nel buio sentivamo la voce di Francesco, di otto anni. Gli
gridai di scappare, ma lui mi rispose che non sentiva più le gambe. Prese dal panico, non cercammo di aiutarlo ma riprendemmo a scappare. In
strada trovammo i corpi, anch’essi senza vita, di mio padre, Nardella Salvatore, di mia nonna Giovannina e di mio zio, Nardella Giuseppe.
Sconvolte e piene di paura, allora, trovammo rifugio nella casa della nonna. Intanto il fratello di mia madre, avvisato dell’acc aduto, raggiungeva
casa dove trovava in una pozza di sangue, ma ancora in vita, mio fratello Francesco. Lo caricò su di un carretto e inutilmente cercò un medico.
Francesco morì dissanguato davanti al portone delle suore dell’attuale rione Amedeo. Quella notte morirono 17 persone e la mia famiglia fu
distrutta... quante volte ho pensato che sarebbe stato meglio morire con loro! Siamo sopravvissute solo noi tre: io, Giovannina e Angela; siamo
state cresciute dalle due sorelle di mia madre che ci hanno fatto da padre e da madre»56 (Filomena Nardella).

La mattina del 9 settembre i tedeschi occupavano i pun ti strategici della città. I soldati di stanza a Mondragone resistevano, venivano accerchiati
e il comandante, colonnello Ferraiolo, ucciso. Sulla sua morte diverse sono le versioni fra i testimoni. Carmela Ceraldi, che abitava proprio vicino
al comando militare, racconta di aver visto Ferraiolo schierato con i soldati sul marciapiede, all’intimazione della resa molti soldati fuggirono e il
colonnello fu ucciso. «I tedeschi inseguono i soldati. [...] Poi sono tornati indietro, e dopo una decina di minuti è passato di qua un carretto con il
colonnello Ferraiolo morto, disteso sul carretto con le gambe penzoloni, cosa che mi è rimasta impressa...»

Altri sostengono che sia stato ucciso nella sede del comando per non aver voluto consegnare le armi. Ecco la testimonianza resa dall’allora
commissar io prefettizio ai carabinieri nel maggio 1945. «Nella mattinata del 9 settembre mi recai dal colonnello Ferraiolo, comandante del 16°
reggimento costiero di stanza a Mondragone, per chiedere un automezzo occorrente per il trasporto a Napoli dei feriti gravi della recente
incursione, avendo i tedeschi requisito tutti gli automezzi esistenti nel comune. Il colonnello Ferraiolo nel promettermi l’automezzo mi fece
comprendere che non si sarebbe piegato alla volontà tedesca e che, qualora attaccato, avrebbe reagito. Mi allontanai dal comando ove avevo
avuto il colloquio col predetto ufficiale ed appena all’uscita vidi uno schieramento di truppa tedesca da un lato e di truppa italiano dall’altro lato.
Dopo alcuni metri sentii i colpi di mitragliatrici e fui costretto a ripararmi in una casa privata. La sparatoria durò circa un quarto d’ora ed appena
dopo si ebbe la notizia che l’eroico colonnello Ferraiolo era caduto nell’adempimento del suo dovere di soldato colpito dalla mitraglia tedesca».57

Per tanti anni la morte del colonnello ha rappresentato l’unica memoria riconosciuta di Mondragone, offuscando, come avvenne in molti altri casi,
i massacri che coinvolsero la popolazione civile, che sono invece ben presenti nei ricordi della gente «comune».

Il 12 settembre, in previsione di un possibile nuovo sbarco alleato, il paese fu soggetto all’evacuazione forzata. Chi fosse stato trovato in paese
sarebbe stato trattato come una spia e condannato a morte. Fu l’evacuazione, con l’ordine tassativo di abbandonare le proprie case e non farvi
ritorno, a provocare a Mondragone la maggior parte dei lutti. La gente sfollò verso l’interno, Roccamonfina, Carinola, Teano, Falciano... Ma molti
tornavano per cercare cibo nelle case di campagna abbandonate, o per salvare qualche cosa... Alcuni poi non avevano proprio obbedito, per
difendere la casa, gli averi, gli animali... E quando incappavano in soldati tedeschi, numerosi nella zona, rischiavano la fucilazione.

La versione raccolta dai carabinieri nel 1945 conferma quest’ipotesi. «Il giorno 12 settembre cominciò lo sfollamento coattivo della popolazione,
intimando ad essa di portare pochi indumenti personali. Nei giorni seguenti continuò il sistematico saccheggio delle abitazioni civili e rurali, la
razzia del bestiame e l’asportazione di tutte le provviste alimentari del comune. La deportazione di uomini si rese sempre più feroce. I poveretti
che, per diverse ragioni non erano riusciti ad allontanarsi da Mondragone, venivano ricercati e quelli che cercavano di scappare venivano uccisi.
Infatti al rientro della popolazione sono stati rinvenuti in località San Sebastiano di Mondragone le seguenti persone [segue il nome di 10
persone], in località San Biagio il cadavere di 10 persone di cui 3 ignoti [segue il nome delle persone riconosciute], nella località Pineta Vecchia
altri 2 cadaveri ignoti, in località masseria Taglialatela 6 cadaveri di ignoti, in località Cementara i cadaveri di 17 persone di cui 2 ignoti. Infine in
località Cimitero, agro di Mondragone, i cadaveri di altri 4 uomini. È evidente che i suddetti rientravano in paese perché spinti dalla fame alla
ricerca di viveri per la loro famiglia e venivano catturati e fucilati dalle truppe tedesche».58

I racconti dei testimoni aggiungono al caso molti importanti particolari.

«Quando so’ venuto qui a Mondragone dissero: non credere che a guerra aita fatte sule vuie che stavate in guerra, ca è stata la guerra, anche a
Mondragone. Siccome che Mondragone ha dovuto scappare, perché? Perché c’era il mare, allora temevano uno sbarco americano i tedeschi,
capito? Allora hanno preso i mondragonesi: via, via, dovete scappare! Tant’è vero che mia moglie è fuggita, mia moglie con un figlio che avevo
lasciato qua, di otto giorni. E dove si andarono a rifugiare? A Falciano, Falciano, Casanova, là si andava e quindi Mondragone è rimasto vuoto,
diciamo così, non c’era nessuno e chelli povere gente che hanno pigliato i tedeschi li hanno portati là, l’hanno fatte fà nu fosse a loro stessi e li
hanno mitragliati. Senta, ma perché li hanno uccisi? Lei che cosa sa? Perché li hanno uccisi? La guerra è una pazzia della mente umana, solo
l’uomo pazzo può formare la guerra, perché? Ma... hanno detto quello che non si doveva fare, secondo me che questo... adesso non lo so, fesserie
non ne voglio dire, ma sono cose anche fuori programma, perché quando fanno le guerre c’è una regola internazionale e quindi a piglià questa
gente civile, donne, uomini e bambini e ammazzarli questa è da feroce, questa è una cosa sovrumana, specialmente i minorenni, come ho detto
che c’era anche un nipote mio. Dunque questa è gente che girava, gironzolava e ievene a piglià o pane, andavano in cerca della mamma – come
ho detto qua – invece chille li pigliavano e li hanno ammazzati, questa è la cosa più sacrilega dell’inferno, hai capito? Pecché è tutta gente che non
apparteneva alla guerra, tutte donne, bambini, vecchi e minorenni, non erano soldati che stavano a combattere, li pigliavano prigionieri pecché
puteve accirere ie a te, no! Tutta gente sbandata. Ripeto, che Mondragone era stata sgombrata per ragioni del mare che potevano sbarcare gli
americani e i tedeschi hanno fatto andar via i mondragonesi e quindi che c’era ccà? C’erano i tedeschi, che le case spogliavano, facevano chelle
che vulevene loro, si prendevano degli animali, si prendevano delle mucche, si prendevano tutto quello che c’era, spogliavano le case, addirittura.
Senta, ma che cosa le ha raccontato questa sua parente... i parenti di questa... di questo ragazzo ucciso... Eh, le ripeto, era sbandato, le famiglie
non si controllavano più, perché i tedeschi: no, dovete uscire, dovete uscire! Allora non s’incontravano più, non poteva dire: mo aspetto a questo,
mo aspetto a mia madre, aspetto a mia sorella. No, tutti sbandati! Seguitati dai tedeschi e armati pure per la strada, perché non è che l’hanno
ammazzato soltanto là, hanno ammazzato anche quelli che trovavano per la strada, dovete tener conto anche di questo. Quando loro hanno
svuotato Mondragone... – dovete andar via da Mondragone – tutti quelli che trovavano li ammazzavano, anche in mezzo alla strada, là alla massa,
diciamo così, hanno fatto questo, ma gli altri li ammazzavano in mezzo alla strada» (Salvatore Coronella).

«Quelli che hanno rimasto a Mondragone, non hanno voluto sfollare, ci hanno rimesso la pelle. Ci sta qualcheduno che non ha voluto
abbandonare l’abitazione, perché le cose sue, naturalmente uno lascia la casa tutta piena... c’è stato un mio parente che la casa non l’ha voluta
lasciare . Alla famiglia ha detto: voi andate via, io sto qua e do un’occhiata alla casa. Invece è stato fatale. – Ci ha rimesso la pelle. – Lui è andato
a fare due passi qua al corso Umberto, i tedeschi l’hanno preso e l’hanno ammazzato. Proprio al corso Umberto. Macera, Macera Epifanio»
(Giuseppe Macera e Filomena Taglialatela).

«Epifanio Macera era un cugino di primo grado, lo spararono a tradimento, alla nuca. Abitava a treciento metri da qua e pensate un poco: era
appena sposato, aveva la moglie incinta e ancora non s’era sfollato. Andava dal farmacista, la farmacia era chiusa, i tedeschi l’achiapparono, a
tradimento, di spalle, gli spararono un colpo alla nuca. Così? Così. Ma il motivo che loro adducevano cos’era? Che non era evacuato? Niente,
perché ci accusavano di traditori... senza preamboli... Al di fuori di questi 19 della fossa comune ne hanno ucciso a Mo ndragone quasi una
ventina» (Emilio Pagliaro).

«Tennero un coraggio fortissimo a rimanere in paese, perché rimasero in pochi... Poi ne hanno trovati di morti parecchi in campagna... Il generale
Strozzi non l’hanno trovato morto in campagna in un f osso? Insomma un pochino di difesa penso ci sia stato da parte di qualche mondragonese
un pochino più vivo, un pochino più risentito, anche come idea di difesa senza sapere che poi c’era la rappresaglia» (Carmela Ceraldi).

Il 23 settembre fu ucciso Achille Leone, il 9 ottobre Giuseppe Federico, il 10 ottobre Pietro Epifanio Macera, Salvatore Toscano, Antonio e
Domenico Vigliotti, il 15 ottobre Salvatore Palmieri. Negli ultimi dieci giorni di ottobre la violenza andò crescendo, vennero uccise 31 persone in
diverse località. Fra di loro alcuni soldati sbandati rimasti ignoti. I loro corpi furono in alcuni casi ritrovati a distanza di mesi. 4 contadini
morirono a l ocalità Fosso Riccio in data imprecisata. Il 21 ottobre in località Corsole 7 uomini, che stavano raccogliendo pomodori per portarli
alle famiglie sfollate, vennero obbligati a scavarsi la fossa e uccisi. Il 25 ottobre in località Macello furono ammazzati 3 soldati ignoti e un
contadino, lo stesso giorno altri 2 soldati trovarono la morte in località Pineta Vecchia, e tra il 25 e il 26 altri 7 in località masseria Taglialatela. 4
contadini trovarono la morte il 28 ottobre vicino al cimitero, fra di loro un ragazzino di undici anni che non volle staccarsi dal padre. Quello stesso
giorno, in una cava in località Cementara, vi fu un massacro. I corpi vennero trovati soltanto dopo alcuni mesi. 19 giovani che da Falciano, dove
erano sfollati, si erano avventurati in territorio di Mondragone per passare le linee e andare incontro agli alleati, vennero intercettati da soldati
tedeschi, imprigionati e poi uccisi. Lo racconta oggi la sorella di una delle vittime.

«A Falciano sti ragazzi stavano sempre nascosti. C’era un tavolo e sotto c’era un coso che scendeva giù in cantina, avevano fatto questo rifugio.
Allora noi quando i tedeschi andavano via, allora noi spostavamo il tavolo, aprivamo quella cosa che c’era sopra e sti uomini piano piano salivano
sopra, ma quando venivano sopra non si conoscevano, perché erano proprio sfiniti, gli mancava pure l’aria, poi quando ievene i tedeschi
mettevamo il tappeto, chiudevamo e mettevamo il tavolo attorno. E c’avevamo quasi na ventina di ragazze tra giovani e giovanissime, sposate e
no, che dormivano dentro a una stanza, una stanza un trenta metri quadri, na cosa del genere. Tutte buttate per terra, chi da qua, chi da là. Alla
sera sti cornuti dei tedeschi sai che facevano? Bevevano poi si mettevano i mitri addosso e andavano alle case dove stavano le persone, no?
sempre cercando gli uomini. Allora quando arrivavano là ste ragazze avevano paura, avevamo paura, perché era na cosa da aver paura, quelli
sempre co quei cosi sempre in mano che ti volevano ammazzà. E allora avevano l’ordine, però, che le donne non le dovevano toccare, che se
toccavano le donne, loro lo sapevano, l’ammazzavano, questo è l’ordine che c’avevano. Mo per spaventare la popolazione, loro co sti mitra
entravano dentro di notte, a mezzanotte, l’una, non c’era orario, e allora andavano mano mano da tutte ste ragazze che dormivano per terra, chi
aprivano la gola qua, chi le levavano gli anelli, la catenina, le spogliavano completamente, però non le toccavano! Figurati! Leva a catenina, leva
gli orecchini... mo gli uomini stavano tutti sotto, loro sentivano quello che succedeva sopra, si ribellavano perché quelle erano le ragazze che poi
erano fidanzate, paesane insomma, di Mondragone. E così salivano: io l’ammazzo, l’ammazzo, quando loro vengono, io... Insomma cominciarono a
ribellarsi sti ragazzi. Allora un giorno, mentre stavamo a Falciano venne uno di Mondragone. Anne arrivate l’americane! Anne arrivate
l’americane! Sti ragazzi non li poteveme mantené più. Io mi ricordo mia madre con mio fratello che lui voleva venì a Mondragone. Si fece dà le
chiavi da mia madre. Mia madre piangeva, diceva: ah, gli ultimi giorni, chiste mo se ne vanne, l’americane n’anne arrivate ancora. – No, mà, anne
arrivate, anne arrivate, che stat’a ffà ccà? Nun i puterene mantené.59 Allora che fecero sti ragazzi, tutti quanti, s’avviarono per la strada, perché
poi tra Falciano e Mondragone c’è la strada di campagna, che magari loro si immaginavano che nun putevene ’ncontrà a nessuno. Allora so’
partiti, non so quante persone, pecché c’erano due figli di zi Liberatrice, nu figlie de Miscione, mio fratello... e allora se volettene andà pe’ forza,
ce stevene pure le donne che stavano con noi nella casa: zi Mariuccia Mezzi, a mugliere di Nicola, ce stevene tutte chisticcà. Mo quando so’
andati per questa strada che accorciavano, allora hanno incontrato i tedeschi, però erano femmine e uomini. Li hanno portati ’ncoppe... a località
Starza, ci sono delle grotte romane, vicino al cimitero quasi... là c’era una salita, allora presero donne e uomini e nun se sapeva che volevano fare.
Poi queste donne so’ venute, tornate, ci hanno raccontato loro, perché noi non ci stavamo... ci hanno raccontato che hanno detto, hanno parlato
tra loro, dice: le donne mandale via e gli uomini lasciali. Allora ste donne se ne sono tornate a Falciano e gli uomini... si faceva notte e sti uomini
non venivano e allora steve mio padre che era vecchio... vecchio, insomma, aveva già fatto una guerra, sapeva ste cose come potevano andare,
dice: mo, sai che faccio? Chille i tedeschi di notte dormono, piano piano voglio vedere suppergiù se sento qualche cosa. E invece non riuscì
perché c’erano i soldati, perché sti ragazzi li hanno presi e l’hanno portati dentro a sta grotta, che ancora oggi esiste e là dentro ci mettevano la
sera i pecorai, allora, le pecore. Ci hanno portato sti ragazzi. Mo sti ragazzi passava un giorno e non tornavano, passava un altro giorno. Qualcuno
passava davanti alla grotta, dice: che fanno questi? Non ci dicono niente, dice, c’ammazzano o ci portano via? E ce venettene a dicere sti cose a
noi, dice: noi l’abbiamo visti i ragazzi, stanno disperati pecché dice che non mangiano e non si sa che vonne fà. E noi stavamo come le pecore,
perché chi s’andava a ribellà co quelli? O dovevi... faccia a faccia ne ammazzavi uno, loro ne ammazzavano dieci dei nostri e così sti ragazzi
rimasero lì dentro per tre giorni... noi... posso raccontà quello che abbiamo saputo dopo, perché c’erano un paio di casolari vicino, che gli uomini
stavano nascosti sopra i granai. Loro al buio da lì dentro dice che hanno visto sti tedeschi coi mitri che hanno portato questi ragazzi dentro a
questa cementara, questa cava. E lì c’era anticamente una fossa che ci squagliavano a calce per fabbricare proprio la calce che bolliva, poi venne
abbandonata e sti fuosse erano rimasti aperti, però questi fossi non bastavano per tutti quanti i ragazzi, che loro li volevano nascondere, no? E gli
hanno fatto scavare le fosse. Questa persona che ha visto ha parlato con le mamme e davanti all’autorità che loro hanno fatto scavà altri fossi.
Dice che quando l’anne messi di fronte sti ragazzi, sti ragazzi minimamente al principio avevano capito che li volevano ammazzare, si credevano
che li facevano lavorare là sotto, quando poi hanno visto che li hanno messi tutti in fila sti ragazzi, e coi mitra... dice che ci stavano i più piccoli,
perché ce sta lu figlie de Miscione, chelle puteve avé dodici, tredici, quattordici anni... e allora dice che cadevano per terra, cadevano, magari
svenivano, perché avevano paura che li ammazzavano, loro vedevano tutto da là sopra, ma non potevano reagire, ci voleva un cannone, magari
buttava via tutti quanti! E allora così ci hanno raccontato, dice che loro andavano vicino, che dovevano stare in piedi, coi fucili li facevano alzare,
all ora quando mio fratello, altri, hanno visto così, hanno buttato le chiavi, dice: questi mo ci ammazzano e mammà nun sape manche ca stamme
ccà abbasce. Capì? E loro dopo hanno visto anche questo, che prendevano sti ragazzi che ancora si lamentavano, ancora piangevano perché coi
mitri chi cascava, chi faceva... non li pigliavano proprio a morte tutti quanti, allora non erano proprio morti tutti quanti, perché quando li
pigliavano sti ragazzi li mettevano in questo fosso, li mettevano a destra e a sinistra, a destra e a sinistra, e allora loro, quelli che non erano morti,
perché poi di terra sopra ce ne hanno messa ben poco, quel poco che avevano radunato, li mettevano na volta la testa da qua e na volta la testa
da là, per farceli entrare tutti... poi dopo che li abbiamo trovati, mia madre che è andata là, abbiamo trovato i proiettili ancora dentro al fosso,
perché i ragazzi non erano morti, l’hanno finiti di uccidere lì dentro. Gli hanno levato l’oro, perché gli anelli, le cose non abbiamo trovato niente.
Dopo hanno messo un po’ di terra sopra pe’ nun dà subito nell’occhio... Non si è saputo subito perché quest’uomo che ha visto sta tragedia diceva
che... perché noi tutti quanti lo abbiamo rimproverato: ma comme? Tu sapevi un fatto del genere e te ne sei stato... Dice: se io andavo prima dalla
polizia o al municipio qua veniva il finimondo... Che è successo? Allora pioveva pioveva pioveva, quel poco di terra s’a accumenciate a sentà60
addosso ai ragazzi e hanno incominciato a uscì le punte delle scarpe da fuori, mo i cani incominciavano a sentì la puzza e cominciavano a andare
là sotto e hanno incominciato a scavare. Quando quello che ha visto la tragedia ha visto che incominciavano a uscì i piedi da fuori è stato
costretto a andare all’autorità, che poi hanno messo a scavare e hanno tirato fuori. Quando levavano la terra i ragazzi erano ancora un po’
freschi, diciamo, chi conosceva la testa, che il figlio aveva i capelli ricci, chi conosceva le scarpe, chi conosceva la camicia, allora tira tu, tira lei...
figuratevi che noi na gamba, un piede di mio fratello manche piglienne a terra così, lo abbiamo potuto trovare, perché si vede che l’hanno messo
dentro a un altro cassettino... insomma tiravano fuori... E l’abbiamo conosciuto perché? Perché il torace con la giacca di lana si è appiccicata
addosso e il pezzo è rimasto dentro, allora quando papà ha preso il corpo del figlio a testa è cascata, perché a testa è a prima che va via, no? Però
il corpo ha conosciuto a giacca, ha conosciuto tutto quello che aveva il figlio addosso, però il piede non l’abbiamo trovato, abbiamo fatto tanti
cassettini e l’abbiamo portati al cimitero. [...] Mio padre ha cunusciute il figlio, ognune cunusceve. Perché ognuno che mancava il figlio o il marito
che è successo? So’ andati, no? E allora li conoscevano. Anche vostra madre è andata? Come! Mamma, papà, le sorelle, i fratelli, tutti. La mattina
che lui prima andava via s’è preso il fazzoletto, s’è preso le chiavi, tutto abbiamo trovato addosso, le chiavi le ha buttate all’ultimo momento,
quando ha visto che non c’era niente da fare...» (Giuseppina Taglialatela).

Fu una rappresaglia per l’uccisione di un tedesco? Fu la pena inflitta per la trasgressione all’ordine di evacuazione, per essersi i giovani inoltrati
nella prima linea finendo tra le truppe in ritirata?

«Non si è mai capito, non si è mai capito bene perché fucilarono questi 15... 14 mondragonesi qui sotto a montagna e poi fecero saltare un po’ di
montagna e li fecero atterrare. Alle volte uno li paragona alle Fosse Ardeatine, perché prima li fucilarono e poi fecero saltare la montagna sopra,
non si è mai saputo il perché, si vociferava che avevano ammazzato uno dei tedeschi qua, che volevano violentare una donna e il padre di questa
donna pare che ammazzò questo tedesco e loro fecero questo per rappresaglia ecco, si diceva. Però se debbo essere onesto neanche non... questo
ci dice il perché, perché... anzi, lo racconta diverso questa...» (Luigi Caterino).

Si narra che tre sorelle avessero ucciso uno o più soldati che avevano tentato di violentarle.

«Lui ’mbriache è andato su che voleva ste ragazze, quelle so’ state brave, che hanno fatto? Non l’hanno fatto uscì dalla camera, lo hanno
ammazzato! Sì! Lo hanno ammazzato e lo hanno buttato giù al pozzo. Queste ragazze se mettevane paura che loro andavano sopra, che volevano
servirsi di loro. Dice: questi prima si servono e poi ci ammazzano pure. Hanno provveduto. Quando so’ andati su volevano fare quello che
dicevano, lo hanno ammazzato. Avevano una trattoria, allora questa aveva tre o quattro figlie femmine. Allora queste dice: questi vengono una
volta e fanne cheste, vengone n’ata vota e fanno chest’ate, nui simme guaglione, simme ragazze, chiste mo venene ’ncoppa... S’embriachettene
abbasce a mangià? Po’ cu tutt’u fucile e cose salirono le scale che volevano andà da ste ragazze, ste ragazze che erano mezze... erano un po’
manesche, più forti... guappe... Dice: chiste mo venene ’ncoppa e c’accirene!61 Quando so’ entrati dentro non l’hanno fatti uscire più tutti e tre o
quattro. Lo hanno ammazzato e l’hanno buttato giù a un pozzo che non c’era l’acqua, però dopo sai i tedeschi com’erano? Lo hanno trovato lo
stesso e allora poi misero la legge che ogni tedesco ammazzato ne ammazzavano dieci, dieci civili ammazzarono, dieci civili! E li ammazzarono
dieci civili dopo? Eh li ammazzarono eccome! Qui in paese? No tutti insieme, ogni tanto ne ammazzavano uno, però questa è la legge che
misero...» (Giuseppina Taglialatela).

Gli episodi sono confusi, si affastellano in una cronologia incerta. È difficile legarli insieme e trovare i nessi casuali. Emerge comunque con
grande chiarezza l’immagine di un territorio su cui le truppe di occupazione esercitano un dominio violento, compiono atti di arroganza di ogni
specie, si impossessano dei beni primari, uccidono e, a differenza di uno stereotipo tenace che dipinge i tedeschi come violenti ma rispettosi
dell’onore femminile, violano anche il corpo delle donne.

Due casi emergono dalla documentazione del Tribunale militare.

Il 14 ottobre una giovane di diciannove anni era tornata in paese da Casanova dove era sfollata con la famiglia, per prendere delle provviste. Fu
catturata, insieme a un’altra ragazza, da «una pattuglia tedesca che andava rovistando nelle abitazioni» con la scusa di portarla a cucinare.
Vennero condotte in un fabbricato dove due soldati cercarono di violentarle. Ne nacque un corpo a corpo, uno dei due sparò un colpo di rivoltella,
nella confusione le ragazze riuscirono a raggiungere la finestra e a buttarsi giù per strada. Pur ferite, continuarono a correre e a nascondersi.62
La stessa fortuna non ebbe invece E.R. di ventun anni.

«Il 22 ottobre 1943, verso le ore 18, mi trovavo in compagnia di un centinaio di persone, nascosta in un cortile di proprietà di tale Campanile
Bernardina, sito in via San Francesco di Mondragone, si manifestò tra tutti i nascosti un certo panico siccome alcuni soldati tedeschi avevano
bussato alla porta del cortile e volevano entrare. Quasi tutti riuscirono a scappare per la campagna attraverso uscite secondarie del cortile, ma io
e le altre sei donne non si fece in tempo tanto vero che entrarono i tedeschi dopo aver forzato la porta. Erano 4 soldati tedeschi, i quali si
limitarono a condurmi con sé con violenza e col pretesto che sarei occorsa loro per sbucciare le patate. Le altre sei donne le lasciarono. Mi
condussero nella abbandonata trattoria di Pacifico Eduardo sita in via Marco mentre uno dei 4 tedeschi rimase fuori, gli altri 3 mi fecero salire al
primo piano della trattoria ove con violenza e minaccia di morte, mi gettarono a terra e mi sedussero nonostante la mia viva opposizione e le
grida. Due mi ridussero all’impotenza ed uno mi sedusse, dandosi il cambio avvicenda fino a che tutti e tre sfogarono la loro libidine. Verso le ore
19 dello stesso giorno salì allo stesso primo piano della trattoria il quarto tedesco rimasto fuori a guardia, il quale, senza muoversi, mi fece
indossare il cappotto e mi fece uscire lasciandomi libera. Mi riportai al luogo ove ero stata rilevata e dove trovai mio padre il quale mi disse che si
era recato alla trattoria per liberarmi, ma che era stato respinto con un colpo di pistola andato a vuoto. Provo ancora ribrezzo contro i miei
seduttori, la cui razza odierò per tutta la vita, ormai per me finita».

In quella brevissima frase finale tutta la disperazione e l’allusione alle conseguenze di un simile atto sul suo futuro.63

Giuseppina Gallo narra invece la storia di una fuga riuscita. «M’anne venute a piglià ’ncopp’a montagna, a me, soreme cugine e n’ate, steveme
tre, cu tre guagliune pure, nu frate ro mie, frateme cugine e n’ate, ca u canusceve appene, ereme sei perzune, ce venettene a piglià ’ncopp’a
montagna e ce scennettene abbasce. So’ stata na nuttata... duie nuttate e na iurnata e nun m’anne fatte fà niente. Ammuntunavene l’uommene,
poi e nun o sacce proprie. Po’ a sere venettene, e ie steve llà, arrevarene a sere, a notte, ere buie... arreverene llà e ce mettetteme a terre
assettate tutte quante, uommene, femmene, po’ l’uommene se n’iettene ’ncopp’a n’ata casa e nuie dint’a na casetta cu nu cristiane ’e
cinquant’anne e se mettette a fà lu guardiane a nuie... Ce mettetteme ’nterre assettate tutte quante e nisciune rurmeve, addò ira a durmì?
’Nterre? E accussì... o iuorne appriesse... quanne venette a sera o marescialle ce iette truvanne a nuie femmene, era sempe tedesche... Rice:
assettateve, vulimme sapé do paese... isse stesse, comme diceve isse, ma chi u capeva! E caccette cierti attrezzature che se metteve ’nfaccie...
chilli cose sporche, ie n’aggia viste mai chilli cose llà, dice: nix papà, nix mammà. Comme accuminciaie a dicere cheste, ie m’accumenciaie a
’mpressionà, ricette vicine a chella guagliona: nui ce n’ammo a ì rimane, ie rimane me ne vache! A matine me sussiette e diciette: ie me ne vache,
ve ne venite o no? Faccette na ricina ’e metre, chelle piglie e me chiammerene, dice: aspettace arrete a Caselle ra Fosse... na masseriette ’n
campagne... e diciette: venite ’mpressa mo! Invece ’e venì esse, venette u tedesche, cu nu fucile mitragliatore, dice: iammuncenne! Ie senza
ricere... che era ricere? Nun ce voglio venì? Aiett’a vutà, ie camminave annanze e chille arete a me e iereme llà addò steveme... me purtette llà e
chelli dui guaglione nun ce stevene cchiù! Diciette: chelle femmene addò stanne? Aggia rimaste ccà e nun ce stanne! Se n’evene iute! Ie sola ce
rummaniette, m’assettiette llà, chille se n’iette e ie steve quasi pure sempe sola... verso e quatte a sera venette nu camion cu grasse, u grasse i
l’animale, s’eva taglià a piezze pe’ fà ’nzogna...»64 I tedeschi avevano con loro due italiani che misero a tagliare il grasso. Questi dissero alla
ragazza di aiutarli. Si misero a tagliare, mentre il tedesco mangiava, Giuseppina pensava sempre a come scappare. «Ie riche: aggia a ì a fà nu
poche d’acqua fore, aggia a ì ccà affore e po’ ritorne. Me ne iette fore e chille nun me chiammarene... chelle a casa steve ccà [fa segno, in alto], e
sotte proprie, quatte o cinche metre, ce steva a via ca passave pe’ Sarracine. Iette llà me guardai tuorne tuorne e nun ce steve nisciune, po’
scenniette proprie mieze a via, scenniette e nun ce steve nisciune, allà nun ce steve nisciune, allà nun ce steve nisciune, chiste è o mumente! Me
mettiette a correre e me ne iette e ariviette a Fosse... proprie dint’a vigna mia... addeventiette cchiù padrona, a paura me passette
completamente... po’ cagnai poste pecché aveve paure de chille, m’avessene acchiappà...»65

Il caso di Mondragone è uno di quelli in cui emergono con maggiore chiarezza le dinamiche dell’occupazione e in cui più elevata è la
consapevolezza delle persone, scevra di qualsiasi elemento retorico: evacuazione forzata, deportazioni, razzie degli uomini, razzie del bestiame,
tutto è eseguito sempre con estrema violenza ed estrema ostentazione della forza. Chi occupa un territorio nemico vuole fare capire che è il
depositario dei destini della gente, è padrone della vita e della morte delle persone.

«Quanne fui na sera i tedeschi si pigliarono tutti gli animali. Noi qua allora ogni casa aveva il maiale, l’asino... ci i purtaiene appriesse pecché
addò i rimanereme?66 Quanne fui na sera si pigliano gli animale, prima l’asino, poi il maiale. Allora li ammazzano, li ammazzarono... noi li
guardavamo soltanto, perché non sapevamo che era successo a guerra, chi era passato? E allora quando è stato così, a sera dovevano portarci
fuori, loro dicevano queste parole, questo lo ricordo perché mi sono rimaste dentro la testa: che dovevamo andare al Garigliano, da lì dovevamo
scendere dalla montagna, dovevamo andare a Casanova, che poi da Casanova ci portavano direttamente al Garigliano. Allora ce purtavene
annante accussì, gli animale ce l’accerettene... e creature... tutte mamme coi bambini piccoli in braccie... la sera quanne fui verso le dieci
c’accumenciaiene a appiccià tutte e pagliare che se truvaiene sopra a chesta muntagna addò steveme sfollate noi. Allora e pagliare bruciavene e
noi con le creature ’mbraccie e cose scendeveme a muntagne e andaveme a Casanova...67 perché loro dovevano portarci tutti giù al Garigliano.
Loro lo dicevano chiaramente: il Garigliano, bom, bom! Tutti là, doveveme murì, insomma! Mo le mamme, io avevo Luigino, queste mamme che
tenevano i creature cchiù piccole allora pigliavene le creature, no? e ce le vuttavene ’mbracce. Dice: addò amm’a ì?68 Piove, tutti sti bambini che
vogliono mangiare! Piangevano. E loro dicevano: Garigliano, Garigliano! Ettene69 a mettere gli uomini più vecchi a tirare le carrette co sta roba
sopra, i cuscini, materassetti, coperte... Prima di arrivare a Casanova cominciò... tanto che pioveva, tanto che pioveva... e sti tedeschi... ancora coi
fucili, no? ci spingevano che duveveme camminà, pecché nun vuleveme andare avanti. Dice: sta a piovere, tutte ste anime innocenti, che
facciamo? Allora uscì da Casanova un prete, un prete che voleva far fermare, diceva vicino a sti tedeschi: abbiate pazienza, abbiate un po’ di
carità, tutti sti bambini piccoli piangono, vogliono mangiare, piove, come devono fare? Loro non si convincevano, niente! Garigliano, Garigliano! E
allora sto prete s’arapette a tunica e s’inginocchiò davanti a sti tedeschi. Che spettacolo! Dice: guardate, io vi do la parola mia stasera, se voi
facete fermà ste persone, le mettiamo sotto i portoni, in modo che non prendono la pioggia per i bambini, io domani mattina vi do la mia parola
che come stiamo ci mettiamo in cammino un’altra volta per il Garigliano. Questi non volevano assolutamente. Dice: allora fate una cosa, domani
mattina se noi non stiamo qua, il primo che ammazzate dovete ammazzà a me, disse sto prete, e poi tutti gli altri. Chissà chiste comme facette,
pensette caccose, dice: già erano verso le dieci, fino a domani mattina ce e ripigliamme e e purtamme. No? Ci fecero entrare dentro a un portone
e lì poi tutti ammucchiati per terra, non vi dico quelle che succereve. Allora pure ci stava qualcuno che aveva già fatto la guerra, i vecchi, dice:
chiste ce portane al Garigliano, là ci buttano giù, scarrubane tutte cose, e c’accirene.70 Quanne fui la matina, verso le tre e mezzo, le quattro,
sentimmo una sparatoria, mitraglie erano, pecché po’ allora manco ce pensaveme a ste cose, manche sapeveme comme erene... dei fuochi troppo
stretti, diciamo, allora noi acconciati sotto gli animali, sott’a chillu portone, sotto alle mucche, verso le tre, le quattro, dopo questa sparatoria non
sentimmo più nulla, un silenzio di tomba, proprio un silenzio. E allora noi stavamo là, si fece giorno e non uscivamo da dentro a questa casa. Ecco
che viene il prete, viene a bussà il portone, dicette: usciamo fuori, qua non c’è più nessuno! Erano spariti, erano scappati loro, perché era proprio
il momento che stavano a arrivà gli americani» (Giuseppina Taglialatela).

I soldati armati con gli elmi in testa, il mitra puntato contrastano con la gente inerme. Non si può discutere con loro. Parlano una lingua che non
si capisce e mettono in atto regole e leggi che non si possono discutere. Non si controlla nulla, non si può dialogare. Non si parla la stessa lingua
in senso letterale e in senso morale. Il sacerdote è l’unico che prova a dialogare usando il linguaggio religioso, la simbologia sacra: l’abito talare,
la genuflessione per impetrare la grazia... La religione appare come l’ultima speranza e i sacerdoti come gli unici a tentare di difendere la gente.

Pagliai che bruciano, animali uccisi, donne, bambini, vecchi che camminano incalzati dai soldati con il mitra. E poi carretti, piccoli in braccio,
fagotti in testa. I ricordi riemergono come immagini vivide da un mondo ora inimmaginabile. Sembra la rappresentazione di un film, di un incubo
che viene dal passato. Chi lo ha vissuto lo guarda con stupore.

«Tutte chelli povere gente ca se verene pe’ televisione cu chelli pacche ’ncape, pure nuie c’avimme passate, noi ci abbiamo passato...»71
(Filomena Taglialatela).

Capua: «tanne nun ce steve né ciele a veré né terra a cammenà»

Capua compare anch’essa fra gli obiettivi di primaria importanza. La città, con una popolazione di circa 12000 abitanti, era cruciale dal punto di
vista strategico per la presenza dell’aerodromo, la fabbrica di munizioni, il pirotecnico. Non meno importanti i ponti sul Volturno e la stazione
ferroviaria.72

I primi bombardamenti arrivarono in luglio e in agosto. Il 20 agosto 1943 furono colpiti lo spolettificio e la ferrovia, dove scoppiavano i vagoni
ferroviari carichi di munizioni; molti furono già allora i morti e i feriti. Poi il 9 settembre, all’indomani dell’armistizio, quando nessuno se lo
aspettava, vi fu la distruzione della città con centinaia di vittime. Nel piano di operazioni per il D-Day Capua era, come abbiamo visto, tra i
bersagli principali, ma gli abitanti non lo immaginavano, pensavano di avere ormai scampato il pericolo. Quando gli aerei americani si profilarono
nel cielo, molti stavano ancora festeggiando l’armistizio; numerosi erano tornati dalle campagne dove erano sfollati, pensando che la guerra fosse
finita. Qualcuno racconta che i ragazzi salutavano entusiasti gli aerei che di lì a poco avrebbero sganciato le bombe.

«Quel bombardamento per noi di Capua fu una tragedia, perché non si aspettava, infatti molta gente si era riversata per le strade o era ritornata
a Capua. Il 9 tornò a Capua mio cugino con la sorella, ormai c’era l’armistizio: torniamo a casa. Ma morirono sotto il bombardamento di Capua a
via Roma» (Vittorio Sortini).

«Nu belle mumente, bell’e buone ascette st’armistizio. Ie cu e figlie ’e zi Cuncetta e chelle ’e Fusche steveme a mettere i cipolle, chelli cipolle
piccerelle, ca se mettevene... tant’è ca veretteme passà st’apparecchie. Ma nuie sapeveme ca avevene fatte l’amnistia! Chelle era proprio o primo
giorno! E nuie guardaveme... po’ bu bu bu bu e menarene sti bombe. E tanne cugliettere a Capua, bumbardarene Capua p’i ponte. E mammà e zi
Cuncetta erene venute a piglià u pane a Capua. E nui chiagneveme, chiagneveme...»73 (Maria Rendina).

Maria Rendina rimase senza casa allora. Il marito, invece, che nel bombardamento si trovava addirittura sul ponte del Volturno e «a capriole»
riuscì a correre nel ricovero del castello, ebbe la madre gravemente ferita e perse la sorellina di undici anni, che morì nel ricovero del seminario.
Il suo corpo, intatto sotto le travi, fu trovato dopo sette anni. Era morta soffocata. Il fratello era andato via dal ricovero pochi minuti prima e la
voleva portare con sé, lei volle rimanere con gli zii e rimase sepolta sotto le macerie.

«Nuie e 9 ’e settembre steveme a Capua, steveme ccà proprio, steveme proprie ccà a Capua, quanne succerette o bumbardamente ’ncopp’o
ponte. ’Ncoppa o ponte proprio! Addò sta u bar ’e Giacobbone, steveme ie e Ferdinande, u marite ’e Anna, Anna Capastorta. Steveme tutt’e dduie.
E accussì a capriole ce truvaieme rint’o ricovere e rimpette o castielle. Llà nu poco cchiù annanz e ce steve u ricovere. Nuie trasenne rinte o
ricovere e s’abbarraie a vocca ru ricovere, se ne carette u palazze ’e rimpette. Po’ pe’ dinte a nu ciardine, pe’ sott’a chill’archetielle... llà ce steve
nu ciardine cu i piante ’e fiche e ce ne ascetteme allà. Ascetteme allà e pe’ copp’e macerie venetteme accà e nun truvaie a nisciuno. Po’ sapette
che mammà steve ferita, e a purtarene a Caserta, le zumpaie nu purpacce ra coscia, steve e rimpette addò chilli ’e Somma, allà stevene i case,
steve tutte vasce. Carette nu palazze llà. Frateme Ntonio che sta u Belgio, e sorema stevene rint’o ricovere ru seminario. Steve u padre ’e
Luigiotte, u padre ’e Rusine, steve sorema e frateme. Sorema nu vulette gghì cu frateme. Ricette [frateme]: iammucenne cchiù annante accà.
Ricette: ie stongo ccà cu llore, nu voglie venì. Chella po’ era piccerelle, chille erene cchiù anziane, s’a vulevene sta cu llore, essa teneve undici-
dodici anni. E nun se vulette movere. Essa murette e frateme se ne ascette. Essa po’ quanne a scavareme stevene tutt’e tre, tutt’e tre stevene
assetatte accussì, vì, chi trave annanze, murettene senz’aria. [...] po’ a mammema a purtarene a Caserta, o spitale a Caserta e papà ogni matina,
pe’ copp’e binarie ra ferrovia, ghieve a Caserta, pecché p’a via nun se puteva cammenà, se metteve u panarielle sotto o racce e ce purtave u poco
’e mangià»74 (Pietro Carbone).

Massimo Lanziello arrivava a Capua dopo la fuga da Roma con lo sbandamento dell’esercito; giunse davanti a casa e la trovò completamente
distrutta. «Ere ’e leva. Agge partuto o ’41 e agge rientrate con l’armistizio che è stato l’8 settembre del ’43. U iuorne aroppe se sfasciaie
l’esercito e i comandanti nostri dicettere: chi se po’ salvà se salva, stregneteve a salvezza, chi tene a famiglia ccà a Roma se ne va e chi no cerca
’e s’arrangià. Comunque io riuscette a venì a Capua, cu u trene. Ma era nu trene accussì affollato che ogni tante p’a via se fermava ca i gente
erene tropp’assaie. Comunque arrivaie fino a Pignataro e a Pignataro nu cammenaie cchiù u trene pecché a Capua steve u ponte interrotte. Steve
u ponte ’nterra. E accussì stesso a notte riuscette a venì, riuscette a passà ’ncopp’u ponte, passammo p’u ponte, pe’ ’ncopp’a ringhiera e
riuscetteme a passà o ponte e venetteme a Capua. Venetteme a Capua e truvaie u coprifuoco cu i tedeschi, ce rifugiaieme parecchie e nuie pe’
sotto e ricovere e llà facetteme a matina. Po’ quanne verette ca se facette iuorne ie ieve truvanne ’e veré a famiglia. Senonché, arrivaie vicine o
purtone... quando arrivaie llà vicine, addò steve abbità a famiglia mia, o truvaie tutte ’nterra. E a gente accussì [fa un gesto per indicare la folla]...
E ie ieve truvanne a famiglia mia e la gente mi disse che stava a Sant’Angelo. Si erano rifugiati a Sant’Angelo. Mo sotto a stu bumbardamento na
bomba pigliaie in piene u palazze nuostre, a ro steveme nuie, e a famiglia mia, siccome steveme abità all’ultime piano se salvaie, carette
appriesse e prete. Ma ce stevene rui nipoti miei, i figli ’e na sorella mia, ca carenne appriesse i prete murettene».75

Una morte di massa indicibile. I morti vennero allineati nei giardini della villa co munale dove furono sotterrati. Ma per innumerevoli anni,
scavando nelle macerie, si disseppellivano cadaveri. Molti non vennero mai ritrovati, numerosissimi corpi furono trascinati via dal Volturno, altri
finirono nelle ruspe che spostavano le macerie.

«Chelle ropp’e 8 ’e settembre, tante ri bombe ca ce stevene ca i muorte nun i purtavene neanche cchiù o cimitere. Arapettene nu cimitere rinte a
villa comunale. E senza cascia e senza niente i mettevene rint’a terra. Ca chelle po’ roppe, roppe tre o quatt’anne ca accuminciaiene a scavà... no
cchiù assaie... roppe na decina d’anne accuminciaiene a scavà i macerie... ascevene e muorte allà sotte. – Pecché a chille, o zie ’e Maria, a
Giacumine Mandate, annu truvato a chille? Nun annu cchiù truvate a chille, né muorte e né vive, a chille. – Ma chelle, esse nde ca ce stevene
poche persone ccà a Capua, che a maggior parte ra gente steve sfullate, coccurune ca steve sott’e prete nun se manche sapeva. Po’ se so truvate
gente ca nun se sapeve addò steve, quanne po’ gghievene a levà i macerie ascevene a llà dinte. Chelle bombardavene e a gente mureve sott’e
prete. – Pure o mute ’e Labadia, sott’a caserma, llà o truvarene muorte, a Gire o truverene muorte mieze chiazze, sott’e macerie»76 (Giuseppina
Ingicco e Francesco Buglione).

La morte di massa rese, allora, impossibile il cordoglio e, dopo, difficile la rielaborazione del lutto. I racconti di oggi ne risentono, sono secchi e
lapidari. Non indulgono sui sentimenti...

«Diciannove anne teneve quanne turnaie ra fà o surdate. Ce fuie l’armistizie e venetteme ccà. Ma ccà truvaieme Capua ’nterra, tutte pe’ terre. E
comme infat ti truvaie pure a mammema e a sorema sott’u bumbardamente»77 (Antonio Vinciguerra).

«A bonanema ’e nonnema ricette: fuimmecenne rinte u purtone, ricette... U purtone se ne carette e a casa rimanette. L’unica cosa che rimanette.
Steve zieme, zi Nanninella e a bo nanema ’e frateme Ciccio. Quanne iette... ca steve mammà, frateme, sott’i prete, ricette: e chi è chiste? Chille
teneve e capille ricce, se metteve a brillantina ’ncape, i capille eren e tutte bianche... Sott’i prete stevene a bonanema ’e nonnema, mammà e i
dduie frateme. A uno o truvaieme subite e n’ate, u cchiù piccerille, u spostamente u spustaie e po’ u scavareme roppe dduie tre ghiuorne»78
(Annibale Merola).

Immediatamente dopo i capuani dovettero pensare a difendersi dai tedeschi che saccheggiavano e razziavano gli uomini e dovettero abbandonare
i loro morti. Tutto avvenne in tempi terribilmente stretti e convulsi.

Rosaria Ferrone aveva allora dieci anni, era sfollata con la famiglia nelle campagne intorno alla cittadina. Il 9 settembre al momento del grande
bombardamento i genitori e il fratello erano nella casa al centro. Ricorda che la mamma aveva comprato dei pomodori da appendere e ci teneva
ad appenderli a casa. Si pensava che nulla potesse più accadere visto che c’era stato l’armistizio. I genitori se la presero calma. Appesero i
pomodori, il padre volle bagnare le piante e mandò il figlio in piazza San Domenico a prendere l’acqua con un secchio. Fu allora che scoppiò
l’inverosimile. «Frateme piglie e scennette cu i sicchie pe’ piglià l’acqua. Mo, mentre steve piglianne l’acqua mieze Santu Dummineche
accuminciaie u bumbardamente. Mo frateme se verette ’mpappinate, nu capeve niente, se ne iette pe’ fuì a via ’e casa però invece ’e ghì ’ncoppa
se n’iette a ficcà rint’u ricovere abbasce. Mo mammà mentre steve appennere e pummarole se verette c’a casa facette e cheste e de cheste.
Ricette: Carmeniè, Carmeniè fuimme, fuimme! Ricette mammà: me truvai abbasce o ricovere e nu sacce neanche comme me ce so’ truvate. Non
lo so. A casa tutta ’nterra. Tutte! Tutte! Perdetteme tutte! Mubilia, biancheria, llà nun se capeve niente... Carette tutte cose llà... e purtaiene a
don Peppe Giglio, a mugliera e a cainate ’ncopp’a carrettella, ca o tiravene a sott’e prete. E nuie verenne na cosa ’e cheste, a chiagnere! Tutte
quante ca venevene for’o macielle, vereveme a tutte quante ca venevene, fore ca mammà e papà, frateme. A ognuno ca veneve domandaveme:
avisseve viste a mammà? Chi riceve aggiu viste mieze chiazza, chi riceve aggiu viste ’ncopp’o ponte, chi riceve accussì, e nuie... e ponte stevene
tutte quante ’nterra, mieze chiazza nun se capeve niente, ricetteme nuie: mammà è morta, nun torna cchiù. Nuie a chiagnere a chiagnere... se
facette mezze iuorne, i l’una... e nun vereveme e venì a mammà, a nisciune. Venettere chiste ’e Giglie, a mugliera e a cainata e nuie faceveme
avisseve viste a mammà? E chella facette: figlia mia, che mammà avevema veré? Chelle c’ammu viste i prete ’ncuollo e nun ce ne simme manco
accorte! Rint’a nu mumente a n’ate è venute u bumbardamente. Erene i ddoie, nuie a chiagnere for’o macielle! Chi ciaccate, chi struppiate, chi
accussì, e sule mammà, papà e frateme nun se verevene. Verse a via e ddoie e mezze, i tre, veretteme a luntane ca venevene tutte... Mammà,
mammà, mammà! Ie curreve annanze ca ere a cchiù piccerelle. Essa faceva: nun te movere! Nun te movere! Tutta chella gente, tutte chilli
sfollate! A tutt’i modi nun se facettere niente. Mo mammà abbasce o ricovere, no, pensave a frateme, faceve: a te e i piante! A te e i piante! M’è
fatte murì a chillu figlie mie mieze santu Dummineche, m’è fatte murì a chillu figlie mie! Figliu mie, figliu mie! Frateme a sentette e facette: mà,
mà, ie sto ccà, a rinte o ricovere. U ricovere ca nun ce capeve neanche na mosca, chelle se ficcarene tutte quante comme e... po’ a mane a mane
accuminciaiene a rientrà tutte quante».79

Qui il racconto continua senza alcuna sospensione. La scena cambia improvvisamente e compaiono i tedeschi. «Al lore mo e tedesche ievene
acchiappane l’uommene. Mo nuie teneveme i dduie frateme, pateme ere anziane, se ghiette a nnasconnere abbasce o ricovere, riceve: si me
pigliene a me, a me nun me ne ’mporta ma chille so’ guagliune! E allore che facetteme? Chille venette nu, nu tapp’e butteglie tante, cu nu mitra
’nmane, nu tedesche, chille arapettene, chille ru macielle, se mettette mieze llà ’nsomma ca vuleve l’uommene, vuleve cheste, allore faceve u
padrone ru macielle: ccà nun ce stanne uommene, t utte donne, tutte donne. E nuie teneveme i dduie frateme annascoste sott’e matarazze e
tenevene nu poco poco acussì pe’ puté respirà, acussì, e ce steveme tutte quante menate ’ncuollo, faceveme veré ca nuie steveme cuccate!
Pecché si no chille i verevene e accerevene. In tutt’i modi chiste facette a perquisizione pe’ tutte parte e se ne steve a gghì. Mo, vì, frateme
Vicienze, chille è state sempe nu pernacchie, vuleve ascì, faceve: mammà chille se ne è gghiute, ie pozzo ascì. Neh, comme chille ascette, chille
steve ancor llà o verette e se pigliaie a frateme e s’o mettette ’ncopp’o carruzzine. Mammà a chiagnere, alluccà! U padrone ru macielle ricette:
signò nun ve preoccupate, u guaglione ra ccà nun esce! U figlie vuostre a ccà nun se move! Chille po’ stevene tutte chille ’e Serete ca erene
tutte... ma nun tenevene, ma nu tenevene niente, chille comme ascevene i facevene a suole ’e terre, capettere ca coccose o puteva fa sule u
padrone ru macielle. Lascialo, chill’è un bambino, ie te dongo tanta pulle, te dongo nu maiale, te dongo cheste, chelle, tante ca u ’mpappinaie,
comunque lassaie a frateme. Comme appena scennette a copp’o carrettine se ne fuiette addò nuie».80

A Capua erano attivi già durante il ventennio alcuni gruppi di antifascisti: degli intellettuali, fra cui il direttore del Museo Campano, alcuni operai
del pirotecnico, un gruppo di ferrovieri socialisti particolarmente agguerriti, un professore che aveva rifiutato il giuramento al regime e per
questo era stato allontanato dalla scuola.81 Vi si stampava anche un giornale clandestino, «Il proletario», che veniva diffuso in Campania proprio
attraverso la rete dei ferrovieri socialisti, di cui troviamo traccia anche nelle testimonianze orali.

«E ferroviere erene tutte socialiste. Anche a quell’epoca erano tutti socialisti. Nu fratello e mio padre, che si chiamava Luciano... mio zio Luciano
s’era fatto tutta la guerra in Africa come ufficiale pilota ed era decorato al valor militare. Poi finita la guerra, sto parlando della guerra del ’15-18
però, e lui fu decorato pure, era ufficiale in aeronautica e fu decorato per una azione che fecero, e aveva una medaglia al valor militare. Era una
medaglia molto prestigiosa. Se non che lui poi fu assunto in ferrovia e fu nominato capostazione principale e ha fatto servizio pure ’ncopp’a
stazione ’e Capua quanne a stazione ’e Capua ere chelle che era, a quei tempi, parliamo del 1900, io nun ere nato ancora, il 19-20-21-22. Con
l’avvento del fascismo e compagnia bella... mio zio era un socialista... Chistu zio ru mio ccà, faceva u capestazione principale, cummannave isso
’ncopp’a stazione ’e Capua, che allora era na stazione importante pecché a linea ’e Formia nun era fatta ancora e chesta era na linea importante.
E nu iuorne a mio zio, nu fasciste ’e chisti c’a divisa, nu fascistone ’e chisti ca facevene i capuzzielle, nun saccio che dicette vicine a mio zio che
l’offese a mio zio. Mio zio ricette: tu nun te permettere proprio vicine a me! Nun saccio che cacciata che le facette che mio zio talmente che se
’ncazzaie, pigliaie a tessera ’e fasciste e cia stracciaie ’nfaccia. Nun l’avesse mai fatte! Insomma fuie denunziato, chelle ca succedette nun v’o
saccio ricere ma a nu certe mumente fu chiamate addirittura e fu processato per atti che aveva fatto contro u fascismo e allora non potendolo
licenziare perché aveva una medaglia al valor militare, anche se essendo allora u periodo fascista u putevene pure fà, l’esiliarono, lo mandarono
in una stazioncina. U luarene a ccà e u mandarono a na stazioncina verso Reggio Calabria, si chiamava Melito Portosalvo, è l’ultima stazione alla
punta dello stivale, na stazioncina scurdata ra Dio e dai santi dove è stato esiliato pe’ tutta a vita soia, fine a che nun’è ghiute ’n pensione»82
(Angelo Pelagalli).

«Se passava per Capua un treno che portava una personalità politica all’epoca... si intende fascista, mio padre la sera lo andavano a prelevare e
passava la notte in camera di sicurezza, tanto che quando sono arrivati gli alleati a Capua, a Napoli, forse alla prefettura, alla questura,
arrivarono con dei nominativi e Luigino Zenga, ex cocc hiere, il padre di Mario Zenga, l’avv. Mariano, Luigino Scialò, i fratelli Tucci ed altri
nominativi che adesso mi sfuggono, formarono il comando alleato a Capua e formarono la squadra civica che non c’era subito il sindaco, la
squadra civica che amministrarono la città di Capua prima delle elezioni, prima che venisse il sindaco... [...]

Mio padre si iscrisse nelle file del partito comunista e fu fondatore della sezione socialcomunista all’epoca fratelli gemelli, socialisti e comunisti,
con altri compagni, fondarono la sezione comunista a Capua tanto che tra me e mio fratello che eravamo due ragazzi ci portarono nell’ex casa del
fascio, oggi pretura, a pigliare dei suppellettili per allestire questa sezione. E propriamente si portarono pure il custode, il famoso Ciccio
capochiatto. Mio padre all’epoca, parlo del..., che era in vita il prof. Iannone. Lui non è stato perseguitato ma è stato un antifascista che riuscì a
passare il periodo fascista, come mio padre e qualche altro, riuscirono a passare il periodo fascista senza fare la tessera da fascista. Poi Aniello
Tucci e Tommaso Tucci, che hanno stampato pure dei volantini, qualche opuscolo all’interno della salumeria di Tommaso Tucci. Però questo l’ho
sentito dire, ma non l’ho visto. Ricordo che Tucci il ferroviere ogni tanto aveva dei trasferimenti e lo mandavano nei posti più isolati. Lui che è
rimasto fino alla fine nelle ferrovie dello stato è riuscito ad avere uno stipendio anche nel periodo fascista. Mio padre invece no. E che lavoro
faceva vostro padre? Faceva il fabbro. All’origine mio padre era tornitore e lavorava per l’Alifana, all’epoca Napoli-Piedimonte, stava in officina e
fu licenziato per riduzione di personale. Ma figurati! Ed ovunque si è presentato, ovunque è andato, anche nel periodo fascista, anche nel periodo
più critico, non ha avuto mai un posto di lavoro. E così cominciò a fare l’artigiano. Ma un antifascista che per tanti anni ha aspirato ad avere la
liberazione politica, che fosse caduto questo fascismo e finalmente è successo ed è venuto il partito comunista, finalmente... Poi uscì fuori
Togliatti che a lui non gli piacque per niente. Togliatti e tutto il seguito di Togliatti e disse: io non sono più comunista, sono anarchico. Dagli Stati
Uniti, da New York, gli arrivava il mensile che si chiamava “L’adunata dei refrattari”, stampato in italiano. E gli spedivano periodicamente dei libri
che riguardavano sempre storie politiche. E con questi libri loro avevano l’intenzione, lo scopo, di creare una biblioteca a Capua per i giovani. E
mio padre man mano che gli arrivavano questi libri li distribuiva, però nessuno è mai tornato indietro. Poi fui io a scrivere a New York dicendo
che il compagno Di Cecio non c’era più e che avrebbero dovuto trovare altre persone, ma penso che non trovarono più nessuno. Mio padre è
morto nel ’59. Fino al ’60 è arrivato, dal ’50 fino al ’60 questo mensile. Mio padre riuscì sia nel periodo fascista sia dopo a non pagare mai le
tasse. Quando si era tutti ormai a casa, nelle case c’erano ste radio, sti giradischi. Mio padre a casa teneva una radietta nascosta per non pagare
la tassa. La sera la pigliava e si sentiva i suoi giornali radio» (Ugo Di Cecio).

«A Capua po’ ce stevene parecchie persone anarchiche che quanne venette Musulline s’i pigliaiene e ce rettene a purgà pe’ nun i fà ascì. Chelle
tanne ce stevene i g iovani italiani, i balilla, i fascisti, ce steve a bonanema ’e zi Pappone, teneva u cappielle, chilli c’a fragia ccà, chille era nu
squadrista chille. Paglino, u viecchie, pure faceva o squadrista. E zi Santillo invece se n’avett’a fuì pecché chille iere socialista, comunista, chelle
ca gghieve, e se ne iette in Francia, n’atu frate ’e papà. – Chelle a Capua quanne veneve qualche autorità, o l’acchiappavene e i mettevene rinte e
carcere e i tenevene llà ventiquattro, quarantott’ore oppure i acchiappavano, i facevene assettà e ce facevane bere i mezze litri ’e uoglie ’e ricino,
i purgavano e non se putevene movere ra casa. Chille ce st eve u cugine ’e mammà, u padre ’e Ugo Di Cecio, chille era anarchico, e ogni vota o
pigliavano e ce revene i purghe e uoglio ’e ricene»83 (Giuseppina Ingicco e Francesco Buglione).

Quando Mussolini venne a Capua e parlò sulla piazza principale sulle scale di Sant’Eligio gli antifascisti poterono utilizzare la leggenda per
augurarne la caduta.

«Quanne venette Musulline ca parlaie a copp’i grare ’e Sant’Eligio, Giro o monaco ricette: lloche si venute e na mala fine faie. E come infatti... E
perché? Venette a Capua, no, e facette u discorso. E allora steve nu cristiano c he se chiammava Giro o monaco. Faceva u monaco e po’ se
spugliaie. Facette accussì: eh, Benito è venuto sopra i grare ’e Sant’Eligio e fa na brutta fine. Pecché rinte e nicchie ’e late ra chiesa llà ’ntiempe
antiche ce mettevene i muorte a sculà e ancora mo se rice, quanne vuò male a qualcune se rice: t’aggia veré ’ncopp’e scale ’e Sant’Eligio»84
(Giuseppina Ingicco).

Come a Napoli e in molti altri paesi, tutti i vecchi militanti antifascisti, gli anarchici, i socialisti, si precipitarono a saccheggiare le armi del
pirotecnico, dello spolettificio, delle caserme. Insieme a loro tutti gli uomini che «non avevano paura».

«Chille ievene truvanne e fucili, chelle ievene ’ncoppa a sala d’arme e pigliavene e fucili. – Chille s’organizzavene proprie, erene e partigiane. –
Po’ n’ata vota a bonanema ’e Vicinzine Faenza, u nonne, Luigi ’e Picciane, zi Raimonde, Inelle, a bonanema ’e Ngiuline Inelle, stevene a via
Gianfrotte, addò vuo ghi a ferrovia Alifana, se mettettere ’ncoppa llà, i tedesche passavene... abbiavene a sparà, cose ’e pazze... Un’e chille o
eliminarene llà ’ncoppa e o atterrarene sott’a stazione rint’o mure llà. – Chelle a Sant’Antonio, miez’a Castellucce, miez’a lievere ccà, abbiavene a
sparà. – Chille facevene a use ’e squadre, comm’e partigiane. E dicevene: c’avimme a fà, ci avimme fà accirere? E si avimme fà fuoche, facimme
fuoche pure nuie. Iettene piglià l’arme ’ncopp’a sala d’arme, e fucile, i mitragliatrice, i cartucce, e facettere pure llore e partigiane»85 (Ugo
Buglione e Rosaria Ferrone).

«Mio padre, Di Cecio Giuseppe, antifascista e perseguitato politico, nel periodo bellico quando è passata la guerra per Capua, mio padre, noi la
famiglia, sfollammo tutti a Sant’Angelo e da Sant’Angelo mio padre si prodigò anche nelle file partigiane con dei compagni di Santa Maria Capua
Vetere. Con Salvatore Ciglione, Salvatore Cecere di Santa Maria Capua Vetere, e questi sono i nominativi che ricordo, per l’approvvigionamento
delle armi dalla montagna di San Prisco scesero a Santa Maria e andarono alla caserma dei carabinieri di Santa Maria dove non trovarono i
carabinieri ma trovarono un inserviente che si oppose a far pigliare le armi. Salvatore Ciglione senza esitare lo sparò» (Ugo Di Cecio).

E quando i tedeschi cominciarono a saccheggiare, cercare gli uomini, terrorizzare la popolazione, alcuni di questi vecchi antifascisti tentarono
azioni di resistenza.

Dopo il 9 settembre i soldati tedeschi abbandonarono la città e si schierarono al di là del Volturno sulla riva destra del fiume, con i lontri (così si
chiamavano le barche dei pescatori capuani) attraversavano il fiume per saccheggiare e depredare la città. E sulle rive del Volturno avvennero gli
scontri più significativi. Lungo il fiume si erano attestate tre divisioni tedesche. L’ordine era di resistere almeno fino al 15 ottobre, per permettere
alle retrovie di preparare la linea di fortificazione che avrebbe dovuto chiudere la strada agli alleati nella strettoia della valle, a Cassino, la
famosa linea Gustav. Il territorio di Capua fu il teatro principale della battaglia del Volturno, che durò dal 12 al 16 ottobre.

Le uccisioni di civili operate dai tedeschi cominciarono il 2 ottobre con il massacro di 5 persone in una masseria fra Capua e Bellona.86 Quello
stesso giorno era stato ucciso un soldato sbandato. Il 4 ottobre vennero uccisi 2 uomini e 1 donna. Due di essi erano invalidi.

Troviamo documentazione precisa degli eventi nelle inchieste che i carabinieri condussero nel 1945 e che vennero poi archiviate dalle procure
militari nel 1968.87

4 ottobre 1943, uccisione di Mario Lombardi nel ricovero di Santa Caterina: «Il mattino del giorno 4 ottobre 1943, alle ore 6 mi trovavo nel
ricovero in Santa Caterina, parte nord della città – insieme a mio cognato Lombardi Mario in Vincenzo di anni 77 da Capua. Mio cognato alcuni
giorni prima si era ferito in seguito a caduta dalle macerie, alla gamba destra, e quindi era nelle condizioni di non potersi muovere. Si sono
presentati entro il ricovero n. 2 militari tedeschi armati di pistola mitragliatrice che ci intimarono di lasciare subito il ricovero stesso perché
avrebbero dovuto minarlo. Insieme ad altra signora Elia De Tullio da Capua, cercai di trasportare mio cognato e vi riuscii fino all’ingresso del
ricovero. Qui giunta, poiché i tedeschi ci intimavano di far presto puntandoci contro le pistole, la signora che ci accompagnava si intimorì e quindi
mi lasciò sola, anche perché portava seco un bambino di pochi mesi. Pregai il militare tedesco di accompagnarmi e aiutarmi a trasportare mio
cognato, questi si prestò ma fino ad un certo punto perché altro militare tedesco, intervenuto gli ordinò di lasciarmi sola a trasportare il ferito.
Ero già priva di forze per il tragitto compiuto, allora adagiai mio cognato su di una pietra e mi portai nel la strada adiacente per invocare l’aiuto
di qualche volenteroso che potesse soccorrermi. Quando tentai di ritornare per riprendere mio cognato, una schiera di tedeschi mi imposero di
fermarmi con la pistola in pugno dicendomi di essere l’ora dello scoppio delle mine, ed aggiungendo: vecchio niente paura di morire. Il mio
povero cognato rimase sul posto ed alcuni trovatisi sul posto stesso, mi dissero che i due soldati lo avevano ucciso barbaramente con colpi di
pistola alla tempia, lo hanno anche derubato di quanto aveva seco: un orologio d’oro del valore di L. 6000 e lire 10000 in contanti che portava
nascosti in una calza; anelli d’oro e vari titoli di banca» (firmato con bella calligrafia da Elemerina Nobile, nata a Lauro di Nola il 10 marzo 1883,
domiciliata a Roma, via Sabatino 45 presso fratello generale aeronautica Nobile. Testimonianza resa il 25 aprile 1945).

4 ottobre 1943, uccisione di Anna Zuppa, paralitica al braccio destro e alla gamba destra: «Due soldati tedeschi entrarono nell’abitazione della
mia defunta zia, con evidente scopo di rapina, la trovarono a letto perché inferma da vari giorni e gli intimarono di uscire fuori dell’abitazione
stessa. Poiché la povera vecchia non poteva muoversi a causa della paralisi, i due tedeschi, dopo avergli scoperto il letto ed assicuratisi della
malattia della mia defunta zia, barbaramente la uccisero a colpi di pistola» (testimonianza di Maria Zuppa di anni quarantuno, nipote, resa il 25
aprile 1945).

4 ottobre 1943, uccisione di Luigi Polito: «Il mattino del giorno 4 ottobre 1943, alle ore 10 circa, presso il negozio di generi alimentari (presso cui
abitavo provvisoriamente) di proprietà di mio fratello Canciello Pasquale, sito in via Bartolomeo De Capua 24, si presentarono due militari
tedeschi, armati di pistola, e mi intimarono a me ed ai miei famigliari, le due figlie Anna ed Olimpia Polito, mio marito Luigi, di lasciare subito
l’abitazione perché dovevano minare il casamento. Scopo esatto dell’intimazione che si comprendeva dalle occhiate dei due militari rivolte al
negozio presso cui alloggiavo, era quello di derubare quanto avessero potuto, allorché ci saremmo allontanate. Spiegammo, con i gesti più
comprensivi, che mio marito era invalido delle due gambe e non poteva camminare. Al nostro temporeggiare cercavamo di trasportare via mio
marito nel modo migliore; i due tedeschi si impazientirono del nostro perdere tempo e senz’altro trascinandoci fuori per il braccio ci fecero uscire
avanti la porta. Vistoci fermi sull’uscio cercavamo di farci comprendere, piangendo, che mio marito non poteva camminare, i due ci esplosero
vicino due colpi di pistola per mandarci via. Ci rifugiammo nell’adiacente vicolo e sentimmo ancora esplodere altri colpi di pistola. Poco tempo
dopo ritornammo nell’abitazione e trovammo mio marito morto a terra colpito da alcuni colpi di pistola alla tempia destra. I barbari, per non aver
testimoni del furto che volevano operare avevano barbaramente ucciso un povero cinquantenne padre di tre figli. Nell’abitazione i tedeschi hanno
asportato: una bicicletta da uomo; una valigetta contenente un paio di stivali; una paia di scarpe basse; un orologio di tavolo e biancheria varia.
La bicicletta e la valigetta erano di proprietà del sergente della R. Aeronautica D’Auria Aldo. Una sveglia ad orologio; un cappotto da uomo quasi
nuovo; una borsa di cuoio con circa mille lire e diversi oggetti di oro di mia proprietà e delle mie figliuole, il tutto per un valore di lire novemila»
(sottoscritto da Canciello Elisabetta, nata a Capua nel 1894, ivi residente in via Flavio Ventriglia n. 12; testimonianza resa il 25 aprile 1945).

I guastatori tedeschi appostati sulla riva destra del fiume, attraversavano il fiume, arrivavano in città, saccheggiavano e incendiavano le case tra
corso Gran Priorato di Malta e via Roma. Ed è a questo punto che intervennero le squadre di uomini armati che si appostarono sul fiume e
spararono alle barche che cercavano di attraversarlo. Una barca con soldati tedeschi venne attaccata e affondata. Qui sarebbe stata anche uccisa
una spia fascista accusata di indicare ai tedeschi le case da distruggere.

«Po’ ce steve une ca u chiammavane Peppe u pazze ca purtava e tedesche rint’e case ra gente e faceva brucià i case. I purtave ’ncopp’i case ri
signure ca tenevano qualche cosa. E faceve saccheggià, faceve accirere, che po’ iett a fennì che i partigiane u spararene e accerettere pure a
isso»88 (Massimo Lanziello).

«Chiste che fa, isso steve ’ncoppa ciumme a ccà e i tedesche stevene allà. Nun saccio chiste comme arrivaie a fà che pigliaie e facette nu segno
cu fazzulette accussì e tedesche, pe’ dicere insomma che accà putevene venì. Chiste Alfredo o verette, pigliaie u fucile e pà! U facette a suole ’e
terra. E chille niente di mene che faceve? Faceve segne e tedesche p’i fà venì rinte Capua pe’ fà piglià l’uommene, e faceve fà mitragliamente pe’
tutte quante!»89 (Rosaria Ferrone).

«Un giorno si organizzarono tre, quattro, cinque persone, tra cui un certo Vincenzo Faenza, un operaio del pirotecnico e questo Di Benedetto e
quando i soldati si misero nella barca per attraversare il fiume per il viaggio di ritorno, loro spararono e ne uccisero più di uno. Mentre il Di
Benedetto si mise dai balconi del palazzo Gentile, che sta qui in via Pomerio, e quando stu Peppe o pazzo tornava per andare a fare man bassa di
quello che i tedeschi avevano lasciato, lo sparò, tanto che dopo, ecco per fortuna ci fu l’associazione come è chiamata dei partigiani, e per fortuna
questo Alfredo Di Benedetto si iscrisse nelle file partigiane perché ci fu il processo e grazie a quell’iscrizione non fu condannato, come Salvatore
Ciglione di Santa Maria che uccise il custode della caserma dei carabinieri, che subì il processo e grazie al fatto che era iscritto nelle file
partigiane, non fu condannato» (Ugo Di Cecio).

In uno scontro a fuoco nei pressi di Porta Roma vennero fatti prigionieri quattro soldati tedeschi che sarebbero stati consegnati ai comandi alleati
pochi giorni dopo. Il 5 ottobre veniva impiccato Carlo Santagata. Abbiamo la testimonianza del padre Giuseppe Santagata, resa ai carabinieri il 25
aprile 1945. «Il giorno 5 ottobre 1943, verso le ore 11 fu barbaramente ucciso dopo atroci sofferenze e sevizie della soldataglia tedesca in
postazione sulla via nazionale che da Capua viene a Santa Maria Capua Vetere. Il luogo del martirio è a destra della prefata strada precisamente
nello spazio di terreno intercorrente tra i pilastri indicanti la proprietà di Teresa Palumbo ed il casolare contraddistinto dal numero civico 163,
qualche passo da questo casolare, nei pressi di una cunetta, vegeta l’albero che servì a consumare il misfatto. La mattina del predetto giorno 5
ottobre all’approssimarsi delle armate inglesi su Santa Maria Capua Vetere, facoltato ad armarsi per cacciare il tedesco, affluì alla locale caserma
dei CC.RR., ma mio figlio non poté ottenere il fucile perché giunse quando tutte le armi erano passate nelle mani del popolo. Deciso a dare il suo
contributo per l’espulsione dal suolo patrio dell’odiato nemico, senza esitare s’avvia a Capua da dove riesce ad armarsi di un moschetto, di alcuni
caricatori e di alcune bombe a mano; armi che egli sapeva ben maneggiare per aver fatto parte del 30° battaglione guastatori del genio. Il
comandante del predetto battaglione nella dichiarazione di servizio prestato da mio figlio si esprime: “dimostrando di possedere fisico,
intelligenza vivace e buone doti di coraggio. Quando il battaglione fu assegnato al corpo d’Armata Alpino dimostrò di avere buone doti anche per
l’impiego di montagna”. Quindi, arditamente, conscio di compiere il proprio dovere di soldato per l’odio che nutriva verso l’odiato oppressore,
ritorna sulla via nazionale Capua-Santa Maria Capua Vetere: e poco lungi dal luogo ove subì il martirio si iniziò l’impari lotta fra l’adolescente
soldato e l’orda feroce di undici uomini tra cui un maggiore, un capitano e un tenente. Il numero dei mezzi bellici ebbe ragione sul piccolo
soldato, che, catturato venne seviziato ed impiccato. Sul corpo ancora dibattentesi negli spasmi dell’asfissia gli assassini scaricarono le loro armi.
Gli avambracci. Dai polsi alla piegatura dei gomiti presentavano cospicue ecchimosi per pe rcosse inflitte col moschetto del martire. Il martirio di
mio figlio Carlo addita al disprezzo dei popoli civili la ferocia di coloro i quali la nazione italiana fu ignominiosamente venduta ed io mi attendo
dalla riconoscenza patria che il luogo ove il giovane patriota s’immolò venga recintato, perché ai venturi sia ricordato da tanti sacrifici».

«Il giovanetto, prelevate armi e munizioni da un nascondiglio, affronta da solo una pattuglia di tedeschi che formano un posto di blocco al
Pagliarello, incrocio tra la nazionale Appia con via Grotte San Lazzaro. Molti tedeschi furono feriti finché, inceppato il fucile, il ragazzo è preso e
impiccato».90

Sul luogo della sua impiccagione, già il 5 ottobre 1943 fu posta una lapide con testo di Benedetto Croce. «A quest’albero fu impiccato | Carlo
Santagata | medaglia d’oro della resistenza | giovane sedicenne pur reso edotto | del pericolo cui andava incontro | s’impegnava da solo in azioni |
di guerriglia contro il nemico | ripiegante tra S. Maria C.V. e Capua | catturato dal nemico seviziato ed | impiccato immolava la sua giovane
esistenza con serenità e virile coraggio | luminoso esempio del tradizionale eroismo della gioventù italiana».

Infine un gruppo di combattenti fu decisivo per aprire la strada alle cingolette inglesi che stavano entrando in Capua, mettendo in fuga gli ultimi
soldati tedeschi.
Intanto il 5 e l’8 ottobre 18 persone venivano fucilate per ritorsione. Una di queste, la cui morte è estremamente viva nella memoria dei testimoni,
era un allevatore: aveva già dato ai tedeschi animali da macellare, ma quel giorno, oltre a prendersi gli ultimi animali rimasti, i soldati uccisero
anche lui.

«Chella a bonanema ru nonne cio dicette. Ie ce faticave cu zi Nicola, Nicola u vaccare, u padre ’e Bertucce. Chille teneve vacche, teneve
iummente, tutte l’animale. Quanne fuie chistu fatte ccà, ricette u nonne mie: Nicò nun te fidà ’e chisticca, i vi? E capite? Ricette: eh, che m’ann’a
fà Gennarì, va buone! Perché? Stava in buoni rapporti con i tedeschi? Eh, chille quanne venevene ce reve a gallina, ce reve u piezze ’e cheste...
Venette u iuorne ca abbiavene a gghì acchiappanne a gente. Ie, mo, a bonanema ’e zi Luigi, zi Raimonde u padre i Peppe ce ietteme a
nnasconnere ’ncopp’a funtanelle ’ncapa all’arco, a funtana... A via Roma? Eh, chelle tanne stevene tutte chelle funtane. Nuie ra llà vereveme
tutt’e fatte. Passaie Dunatielle, Zuccarielle, u padre ’e... Ricette a bunanema: Dunatié! Chille se girava tuorne tuorne, faceve: ma chi è? U nonne u
acchiappaie e dicette: Dunatié a ro vai lloche? Ricette: vaco miez’Iurece a veré si trovo nu poche ’e faticà. Ricette: nun ghi, chille e tedesche te
pigliane! Tanne accirettere tutt’i vacche a Nicola, se pigliarene a isse e a Dunatielle e u patre ’e Ninotte Zarrille, Ciccie, u frate ’e zi Rusinella e se
purtaiene»91 (Ugo Buglione).

«M’arrecorde u pate ’e Lucia, Lucia ’e Santa Catarina, ca tenevene i vacche, Luisella a vaccara, chella era tanta na bbona crestiana, tenevene a
c ampagna... l’animale, i vacche, i cavalle, tutte ce accerettene e chille s’amareggiaie... Eh, chest’è na storia però, eh! Scrivelle lloche! E per la
seguente ragione: chille s’amareggiaie ca ce accerettene pure tutte l’animale... ce accerettene e faggiane, tutte cose, e po’ p’a paura che ce
accerevene e figlie se tenette e po’ s’o purtaine e s’o purtaine a via ’e Porta Tifatine, a via u campo r’aviazione, e s’u purt aine, ce facettere scavà
u fuosso. Accerettene a isso e pur all’ate. Succerette l’ira di Dio mieze a terra. Questo si chiamava Di Benedetto, il padre di Bertuccio. Chelle po’
ie steve abità vicine, certe che è nu ricordo che i gente u tenene sempe presente, è inutile che si discute»92 (Gaetana Valletta).

Il 7 e l’8 ottobre, in una tragica sequenza, vennero uccisi un padre e due figli. In questo caso le vittime sembrano aver subito tale sorte per aver
aiutato coloro che fuggivano dai rastrellamenti tedeschi.

«Il giorno 7 ottobre 1943, alle ore 14.45 circa, mio padre Giuseppe Paternostro fu Antimo, di anni 63 insieme a mio fratello Mario di anni 12, si
trovavano dinanzi all’abitazione, mentre i soldati inglesi occupavano la città di Capua. D’altra parte del fiume Volturno, i tedeschi seguitavano a
sparare su quanti passavano sulla riva opposta al solo scopo barbarico di uccidere i cittadini inermi che dovevano per forza transitare sulla via
che da Capua porta a Sant’Angelo in Formis. Mio padre cercava di indicare a quelli che passavano la via più facile da seguire per essere defilati
agli spari; mio fratello faceva altrettanto coadiuvando mio padre. Alcuni militari tedeschi portatisi sul margine della opposta riva, forse intuendo il
lavoro fatto dai miei congiunti, con il moschetto mitragliatore spararono continuamente su di essi. Mio padre è rimasto cadavere quasi sul colpo,
mio fratello invece ha riportato ferite alla gamba sinistra ed al braccio destro. In seguito a tali ferite, all’ospedale di Santa Maria Capua Vetere, ha
dovuto subire l’amputazione dell’arto.

Il giorno 8 ottobre 1943, alle ore 19 circa, poiché nel posto in cui è la abitazione giungevano cannonate, sia da parte tedesca che da Capua, io e
mia sorella con altri parenti ci siamo recati in un ricovero poco distante di casa, mentre i miei fratelli: Antimo di anni 30 ed Emilio di anni 33
insieme ad altro parente rimasero nei pressi di casa in un altro piccolo ricovero antischeggie. Era da poco fatto notte quando 5 militari tedeschi,
passati il fiume si presentarono nel ricovero dicendo: non avete paura noi siamo inglesi, dove sono i tedeschi? I miei fratelli e l’altro giovanotto
uscirono fuori per indicare che tutto il giorno avevano sentito sparare la mitragliatrice, invece fuori trovarono altri soldati che riconobbero bene
per i tedeschi. Li obbligarono a passare il fiume e durante il guato l’altro giovanotto, Francesco Di Cecio di Vincenzo abitante nel casello
ferroviario di Piedimonte d’Alife, nei pressi della mia casa, riuscì a fuggire mentre i miei fratelli furono portati via dai tedeschi. Ho atteso invano il
ritorno dei miei poveri fratelli speranzosa che anche loro riuscissero a fuggire dai tedeschi, così come tanti giovani fuggivano, intanto chiedevo a
quanti ritornavano se avessero visto i miei fratelli e dove potessero essere. Intanto sentivo nel cuore l’ansia di tanta sventura e quasi il
suggerimento di vedere nel tratto antistante del fiume, insieme ad altro giovanotto riuscimmo a guardare dall’altra parte e proprio sulla sponda
opposta ritrovai i corpi dei miei poveri fratelli, ridotti a tanti pezzi, specialmente uno. Denunziai all’Arma dei CC.RR. la scoperta fatta e tramite
loro stesso furono esumati i cadaveri e portati al cimitero. Di tante sventure subite conservo solo i brandelli dei vestiti dei due poveri defunti, a
testimonianza delle barbarie commesse dalle soldataglie» (Maria Paternostro fu Giuseppe e fu Di Rienzo Giovannina, nata a Capua, abitante a via
Porta Tifatina n. 319; testimonianza resa il 25 aprile 1945).

Altre 11 persone sarebbero state trovate uccise al di là del Volturno dopo l’arrivo degli alleati.

Nello stesso giorno in cui si verificavano le violenze tedesche a Capua, il 7 ottobre 1943, a pochi chilometri di distanza, nel piccolo paese di
Bellona aveva luogo uno dei massacri più significativi e presenti nella memoria della zona. Fra le vittime anche alcuni capuani che, dopo il grande
bombardamento del 9 settembre vi avevano cercato rifugio. Su questo massacro ho scritto un racconto dettagliato; ne ripercorro qui le dinamiche
principali.93

La sera del 6 ottobre un soldato tedesco fu ucciso dal fratello di una ragazza che avrebbe cercato di violentare. La mattina successiva all’alba
erano stati rastrellati 100 uomini (anziani, adulti e ragazzi) e ne erano stati uccisi 54. Alle loro famiglie fu fatto credere che sarebbero stati
utilizzati per i lavori di fortificazione, mentre furono invece trucidati in una cava di tufo, che venne poi fatta saltare con le mine. Subito dopo, la
popolazione fu evacuata; l’eccidio fu scoperto solo quando arrivarono gli angloamericani, il 17 ottobre. Bellona era un piccolo paese, molti erano i
nuclei familiari colpiti. Il tragico rituale del ritrovamento e della sepoltura dei cadaveri aveva visto insieme tutta la popolazione; lutto e cordoglio
erano stati generali.

I motivi della rappresaglia sono chiari, ma non sarebbero sufficienti, forse, a spiegare la gravità dell’eccidio. A Giugliano, ad esempio, per un
soldato ucciso vennero fucilate 13 persone, a Buonalbergo si accettò un risarcimento.94 Alcuni sostengono che i tedeschi non avrebbero agito se
non provocati, secondo una spiegazione comune ad altre popolazioni vittime di rappresaglie;95 ma gli atti di violenza erano cominciati già da
tempo. Il ponte accanto al paese era stato minato e fatto saltare dai tedeschi,96 erano stati operati continui rastrellamenti per i lavori di
fortificazione, molti altri uomini erano stati deportati. Alcune famiglie erano state già duramente colpite: tre fratelli erano stati uccisi mentre
raccoglievano il foraggio per le bestie, un pastore mentre pascolava gli animali. E le vessazioni degli occupanti si erano sovrapposte a quelle
alleate: in una stessa famiglia la madre e due figlie erano morte mentre lavoravano in campagna sotto un bombardamento alleato, il padre era
stato ucciso pochi giorni dopo dai soldati tedeschi mentre pascolava il gregge e il figlio primogenito assassinato nella rappresaglia del 7 ottob re;
in un’altra tre fratelli erano stati trucidati nel massacro e il padre pochi giorni dopo era stato colpito a morte dalla scheggia di una bomba
americana. Bellona, come tanti altri paesi posti sulle rive del Volturno o nelle sue vicinanze, si trovò nel bel mezzo dello scontro tra eserciti e la
sua popolazione pagò a caro prezzo l’accresciuto livello di violenza.

Significativa la storia di Giovannina Addelio che nel massacro perse il fratello maggiore, ma aveva perso la madre e due sorelline nel
bombardamento americano del 26 agosto e il padre anch’egli ucciso dai tedeschi il 3 ottobre, probabilmente per difendere il gregge.97

Il senso delle violenze e le dinamiche in cui fu coinvolta la popolazione sono chiari: Capua e i paesi lungo il Volturno finirono in quei giorni in una
vera e propria terra di nessuno e dovettero subire i soprusi da entrambi gli schieramenti. Violenze che segnarono in maniera impressionante la
vita di moltissime persone.

Maria Mandato ci racconta la storia del padre. Un racconto emblematico. Le bombe americane a Capua, il fratello morto accanto a lui salvo per
miracolo, poi lo sfollamento per evitare i raid aerei, per finire invece nelle mani dei tedeschi, nella più estesa rappresaglia della zona. Il padre è
già nel gruppo che deve essere fucilato, un ordine improvviso lo salva insieme ad altri, ma alla fine muore nello scoppio della polveriera di
Carditello. La storia si chiude bruscamente, di fronte alla morte c’è sempre una certa ritrosia, un certo pudore... «Po’ ce simme arretirate, tutte
bombardate e tutt’i pateterne, papà è muorte a Carditelle e statte buone!... a vita nostra».98

La lunga storia, zeppa di vicende angosciose, di morti, di pericoli, si svolge tra il 9 settembre e l’11 ottobre 1943. I tempi sono spasmodici e
ravvicinati: la storia di quegli anni, la storia con la esse maiuscola che si sarebbe dipanata nel resto del paese per due, tre lunghi anni qui ha il
suo epilogo in pochi giorni. Pochi giorni in cui a volte non si ha neppure il tempo di capire esattamente cosa stia succedendo, si capisce solo che
la guerra non lascia scampo a nessuno, si capisce profondamente il senso della guerra totale. Come dice, con espressione incredibilmente
suggestiva, una testimone: «Tanne nun ce steve né ciele a veré né terra a cammenà».99 Quello che esprime la gente non è fatalismo, come più
volte è stato detto, ma piena e razionale comprensione di cosa fosse realmente la guerra per i poveracci. Nel numero dei morti, contadini e operai
superano di gran lunga gli altri gruppi sociali.
La spiegazione è la violenza della guerra, e le immagini dei conflitti odierni (le interviste a Capua sono state fatte nel periodo della guerra dei
Balcani) confermano quest’idea, oggi altri finiscono come i capuani nella terra di nessuno. Molti testimoni evidenziano il parallelo e non si può
dire che sia una interpretazione sbagliata.

E il giudizio? In alcuni casi è sospeso... Colpisce, e su questo torneremo, la violenza faccia a faccia dei tedeschi: l’uccisore si vede, infierisce sui
corpi, fa scavare la fossa e poi uccide, infligge la morte con il gusto della vendetta... e questo colpisce, rende la morte meno accettabile. E poi i
comportamenti quotidiani dei tedeschi, il conflitto sul cibo ad esempio. Pure questo si fissa fortemente nella memoria e si confronta con la
ricchezza e la munificenza degli americani, i quali gettavano le bombe e poi riparavano con il cibo. «Po’ mmane e mericane mangiaveme, e capì?
Ce mangiavame a pulentine, o pane, c’abbiaveme a mangià piatte caure. E tedesche no! E tedesche i ghittavene... i porche sane sane a copp’o
ponte. I tedesche u ghittavene ma nun cio devene!»100 (Antonio Vinciguerra). Il brano è tanto più significativo se si pensa che proprio Antonio
Vinciguerra ha subito soprattutto la violenza americana attraverso la morte di mamma e sorella.

D’altro canto la memoria cittadina assunse da subito il grande eccidio del 9 settembre in una narrazione storica che vedeva Capua destinata dalla
sua posizione geografica e dal fato a continue distruzioni e rinascite. Il bombardamento americano non faceva che reiterare i tragici
appuntamenti con la storia dei capuani. «Lo stemma di Capua è composto di una tazza dalla quale emergono sette vipere: ogni vipera rappresenta
una distruzione della città avvenuta ad opera di eserciti stranieri nei vari millenni della sua storia. Ora a tale stemma bisogna aggiungere un’altra
vipera che rappresenta il 9 settembre 1943. E sarà l’ottava di cui si potrà vantare tragicamente Capua, sempre protagonista in ogni vicenda
storica».101 Lo stemma della città è raffigurato, dunque, da una croce, che rappresenta la Capua longobarda riedificata sul Volturno e fedele alla
religione cristiana, e da una coppa con sette idre: l’idra che riemerge non appena le viene recisa la testa ricorda le sette leggendarie distruzioni
della città. Nel 211 a.C. alleata di Annibale fu distrutta dai romani; nel 410 fu invasa e distrutta dai visigoti di Alarico; nel 455 dai vandali di
Genserico; nel 553 fu teatro della battaglia tra Narsete e i goti; nell’841 fu assediata e distrutta dai saraceni; nel 1098 da Ruggero II di Altavilla;
nel 1501 da Cesare Borgia.

Si inseriva poi la retorica antifascista e risorgimentale: la battaglia del Volturno dei primi giorni di ottobre del 1943 veniva paragonata alla
battaglia del Volturno del 1° ottobre 1860 fra garibaldini ed esercito borbonico. E infine la memoria pubblica assumeva i toni della retorica
antifascista per cui i bombardamenti americani erano un tributo necessario alla caduta del regime fascista e del regime di occupazione tedesca. È
emblematica la delibera della giunta comunale di Capua che chiede la medaglia d’oro.

«Il 9 settembre si compiva il tragico destino della città. Quel giorno la morte esultò: 1062 morti furono contati (e solo parte di essi identificata)
tra le macerie di Capua distrutta per il 75 per cento delle sue case. Dopo il bombardamento la ferocia tedesca: i reparti germanici cercarono i
loro morti, curarono le loro fe rite e nessun aiuto portarono ai civili Capuani; nessuna pietà mostrarono per i morti» (Seduta del consiglio
comunale di Capua, 22 luglio 1964. Appello del popolo al presidente della Repubblica perché a Capua venga conferita la medaglia d’oro al valor
militare).

Qui la responsabilità delle morti per bombardamenti è slittata sui tedeschi che non soccorrevano. Chi porta la morte dall’alto non viene nominato,
non ha volto. Nella retorica del discorso i tedeschi sono gli unici colpevoli.
6. Una città distrutta e saccheggiata
Obiettivo n. 13: Benevento

L’obiettivo Benevento, numero 13 nella lista delle first priorities, era stato fotografato e studiato fra gennaio e febbraio 1943 dalla XII Air Force.
Nelle fotografie vengono indicati gli snodi stradali intorno alla città, il fiume Calore con i ponti, la stazione ferroviaria, la stazione di smistamento
con un deposito di locomotive, la centrale di energia elettrica e la linea ad alta tensione con Foggia, due industrie a nord della città, una piccola
area di atterraggio a tre miglia e mezzo dalla città collegata con due ponti a est e a ovest.1 «Benevento e l’area circostante» compaiono anche tra
gli obiettivi studiati dalla RAF. Nella fotografia aerea si vedono chiaramente la ferrovia, lo snodo stradale, il ponte sul Sabato.2

Si tratta dell’area che venne bombardata nelle grandi incursioni dell’agosto e del settembre 1943.

La prima avvenne il 20 agosto. Di questo raid abbiamo notizie nella documentazione e un ricordo vivissimo nella memoria cittadina.

Secondo la relazione del questore «una formazione di 63 quadrimotori americani alle ore 13.40 sganciò sulla città, all’altezza della stazione
ferroviaria e della zona industriale, un carico di bombe di grosso e medio calibro e numerosi spezzoni incendiari, colpendo lo stabilimento della
Società Aeronautica Sannita, il Cinema Dopolavoro Ferroviario, la Stazione Ferroviaria Centrale, la segheria Miele, la distilleria Alberti, il palazzo
Alberti, una casa colonica».3 Sulla strada rotabile accanto alla ferrovia i bombardieri avevano distrutto in due punti la conduttura principale
dell’acquedotto pubblico della città, provocando l’interruzione della fornitura idrica e del traffico cittadino. La stazione era tutta una maceria:
divelti i binari, distrutti il fabbricato principale, la palazzina degli uffici, il deposito locomotive. Le bombe avevano inoltre centrato un treno pieno
di viaggiatori in partenza per Campobasso e molti carri merce, che, raggiunti anche da spezzoni incendiari, erano stati avvolti dalle fiamme.
Ardevano tra le rovine case coloniche, boschi e terreni circostanti. Il 23 agosto l’elenco dei morti raggiungeva il numero di 107, ma molti erano i
dispersi fra coloro «che, trovandosi all’atto dell’incursione sul treno viaggiatori, non riuscirono a porsi in salvo e perirono tra le fiamme
completamente carbonizzati».4 Era stato impossibile spegnere gli incendi per la distruzione delle condotte idriche.

È il bombardamento più vivo nel ricordo. I beneventani non se l’aspettavano, non pensavano di essere nel mirino dei bombardieri, non reputavano
i loro impianti così importanti per la strategia di guerra degli alleati.

«20 agosto verso mezzogiorno, l’una. Quando ci fu questo bombardamento è una scena che io ricordo perfettamente. Stavamo io, mio cugino e
papà. Papà era venuto la mattina da Foggia con mio fratello, il primo, perché a Foggia c’era stato un ferocissimo bombardamento, era caduta casa
nostra, perché noi abitavamo a Foggia perché mio padre era impiegato dello stato eh... però in un secondo momento, siccome mia madre non
stava bene, io e mia madre ce ne venimmo a Benevento dove avevamo la casa e fummo raggiunti da mio padre e da mio fratello... Mentre stavamo
là che parlavamo con mio padre sul terrazzo a via Bagni di fronte alla stazione... eravamo abituati a vedé gli apparecchi americani che passavano
su Benevento e li guardavamo come se fossero apparecchi nostri pecché a Benevento non avevano mai bombardato... Poi invece quel giorno
cominciarono a cadere le bombe, improvvisamente... ma prima che cadessero mio padre già gridò: adesso bombardano ecco! Era ancora fuori di
sé per quel che aveva visto a Foggia, già aveva capito che stavano per bombardare. Difatti la formazione era bassa, aveva non so quattro o
cinquecento metri di altezza sì e no... tutta compatta, veniva da sud-ovest dalla zona di Napoli... [...] cominciarono a cadere le bombe sotto i nostri
occhi nel fiume, e mi ricordo anche un particolare che c’erano delle donne che lavavano i panni... pecché là una bomba scoppiò sul greto del
fiume. E poi bombardarono alla stazione centrale e alla stazione secondaria di Valle Caudina, l’Appia che stava però a cinquanta metri, stava nella
stessa stazione centrale. E c’erano due treni in partenza pieni di persone, fu na strage. Anche mi pare che c’erano dei treni fermi che
contenevano benzina, benzina che poi cadde nei sottopassaggi e quindi molta gente rimase... prese fuoco e ci furono parecchi morti e feriti e non
fu possibile tutti quanti farli accogliere dagli ospedali pecché erano zeppi, i feriti stavano per le strade... Nell’ospedale Fatebenefratelli c’era una
bomba inesplosa, andarono gli artificieri per disinnescarla, senonché non ci riuscirono e scoppiò la bomba» (Antonio Feo).

«Mentre stavamo tutti fermi là, guardavamo come venevane avanti sti aerei e sai u core nuostre faceva brutte a pensà: come caspita se truovene
ccà chiste? E po’ se vedene belle belle proprie vicine, vicine... ma luccicavene assaie assaie... ve dico tanta vote stu luccicare per far capire come
stavano vicini. Chille stevene a tremila a quattromila metri ma erano apparecchi grandi. Erano gli apparecchi grandi, non so’ gli apparecchi
nostri, luccicavene assaie. Buttavene e bombe ’ncoppa a ferrovia e so’ morte chissà cento duecento persone, sono belle morte subito subito, e fra
questi ci stava pura la figlia de... a figlia del grande industriale, a figlia di Alberti. E a sera andai a vedé poi, u pomeriggio andai a vedé vicino a
ferrovia e vidi ammucchiati, buttati sopra a nu camion na quindicina ’e persone llà, saccio si erano femmene, chi puteva esse femmina, chi puteva
esse omme, insomma chi na giovene, tutta carne rotta, nun se capeva niente. So’ morte veramente a gente»5 (Lodovico Fune).

«Era l’1.10, stiamo a tavola io, mia madre e tre sorelle, Maria, Bianca e Aurora, i miei fratelli non c’erano perché erano in guerra.
Improvvisamente io sento un rumore di aerei. A tavola mia madre aveva già portato il riso in bianco, che già fumava sulla tavola: gli aerei! – dico
io – e mi alzo e vado alla finestra... [...] guardo di fronte, di fronte ci stava la collina che guardava verso Napoli in effetti. E vedo dietro la collina
tutto un luccichio, erano aerei, era una formazione di aerei nemici che arrivava. Gli aerei, gli aerei, gli aerei! Faccio io... Contemporaneamente
nemmeno dico gli aerei gli aerei che vedo un bagliore, un bagliore... erano le prime bombe che lanciavano a contrada Pantano, là dove il fiume
Sabato si versa nel Calore e lì buttarono le prime bombe... Io dico: bombardano. Pecché vedo luci, sentii bububu, si sentirono i boati e allora
lasciammo là e ci precipitammo per le scale... io abitavo al secondo piano, nel palazzo erano quattro piani, tutt e famiglie numerose pecché
all’epoca poi Mussolini dava un premio alle famiglie numerose e quindi mio padre... Eravamo sei figli e a scuola, essendo sei figli, io risparmiavo
mezze tasse, famiglia numerosa... Dunque... oh... e quindi scendemmo, mi ricordo che tra il secondo e il terzo piano, la signora Cucuccia abitava
porta a porta con noi, era la dirimpettaia che era bella grossa, per l’emozione, diciamo, rimase a metà in mezzo alle scale e noi a gridare, gridare,
donne bambini eccetera... e quindi ci riversammo tutti insieme nel sottoscala, chi pregava, chi urlava, chi tremava, chi stava zitto... E si sentiva
poi, chesta era a caratteristica, che arrivavano le bombe, bububu, il bombardamento... poi il boato delle bombe faceva quasi scomparire il rumore
degli aerei. Poi diminuito il boato delle bombe si sentiva gli aerei che si allontanavano e... allora il cuore diciamo che piano piano insomma se
calmava. Oh... senonché a nu certo momento il rumore comincia ad aumentà un’altra volta, in effetti erano gli aerei i quali facevano tutt’attorno,
poi facevano vari giri, le ondate di bombardamenti, come venivano chiamate, quindi giravano, poi vedevano gli obiettivi, tor navano... oh, e na
paura... fino a che a nu certo momento ho sentito che si allontanavano e non sentimmo più niente. Allora un silenzio di tomba, non si sentiva
proprio niente e nessuno si azzardava a uscire fuori, rimanemmo non so per quanto tempo. Oh, improvvisamente poi dovette qualcuno scendere e
era andato fuori a vedere: hanno bombardato la stazione, hanno bombardato la stazione! Siccome là erano tutti ferrovieri, quindi tutti, anche
papà stava alla stazione. E allora dicemmo: come si fa? Ie tenevo n’amico, Amedeo Romano si chiamava, e dico: Amedé, andiamo alla stazione. –
Io aspetto a mammà. – Il padre era ferroviere e la madre teneva un negozio di merceria al corso Vittorio Emanuele, sarebbe dal Duomo si scende
verso il ponte Calore, ad andare verso la stazione sul lato destro ci sta questo negozio. Non finiamo nemmeno di dire questo che vediamo
arrivare dal cancello una donna tutta piena di calcinacci che si trascinava e l’uomo che la sorreggeva. Mammà, mammà! Era la madre di Amedeo
Romano. In effetti l’uomo era il marito e non so se lui poi era andato a prenderla, certo è che era rimasta sotto le macerie, però poi
fortunatamente non successe niente, solo paura, qualche escoriazione, insomma... e allora decidemmo di andare alla stazione. Ci avviammo e
arrivammo all’imbocco del corso, senonché là ci stava la folla e non si riusciva a passare e ci stavano i soldati tedeschi con i mitra e salivano in su
verso l’ospedale che allora stava nei pressi del Duomo, l’ospedale di San Diodato. E quindi là salivano dei camion. Questi li ho visti io pieni di
cadaveri, feriti, proprio ammucchiati là sopra... [...] tornammo indietro e prendemmo l’altra strada, dietro la Madonna delle Grazie e di là mi
ricordo che vidi un contadino del luogo tutto pieno di sangue, si trovava in campagna, ma noi proseguimmo dritto pecché tenevamo la
preoccupazione di papà. E arrivammo al ponte che poi sale sulla massicciata a sud della stazione. Arrivati al ponte salimmo sul terrapieno, mio
padre era caposquadra deviatori, salgo sulla massicciata e guardo verso la cabina dove stanno i deviatori e vedo... questa è la scena... tre uomini
fuori: era mio padre e i due deviatori. Mio padre stava seduto su un mucchio di traverse di legno, stava in maniche di camicia, mezzo sudato,
rosso in viso... [...] Ci abbracciammo... e io commosso, il p ianto insomma eccetera... mi fece guardà verso la stazione, verso la stazione i carri in
fiamme. E poi me ne tornai a casa. [...] Mo un particolare... quella mattina ero uscito di casa verso le 9, 9 e mezza, avevo varcato il cancello del
palazzo dei ferrovieri e avevo attraversato la strada e... stavo più o meno all’altezza dell’ingresso delle poste centrali, venne da dietro un’amica di
famiglia, Anna De Rosa, con altre ragazze con tutti pacchi, così, borse di panni... ce dico: Anna dove andate? Abitava alla società elettrica, il padre
e un fratello erano impiegati alla società elettrica, uno dei due era il custode. Dice: andiamo a vico Bagni perché là ci ha la casa Sabino – Il
fidanzato era di Napoli, di Cercola, però siccome era ferroviere pure lui, teneva un riferimento a vico Bagni. – Pecché là possono bombardare, è
obiettivo militare, allora abbiamo deciso di andare a vico Bagni. Dove stava il fidanzato e lì stavano più sicuri. Questo fu l’incontro. Quel giorno
vico Bagni fu bombardato. Anna De Rosa col fidanzato, il fratello del fid anzato e altri parenti... morirono, morirono, morirono. Anna De Rosa io
l’avevo nel cuore...» (Mario Feleppa).

Gli aerei americani tornarono il 27 agosto. «Alle ore 12.40 la città fu sorvolata da tre formazioni di aerei nemici, rispettivamente di 15, di 26 e di
6 apparecchi, bombardieri americani. La prima formazione, proveniente da nord-ovest sganciò numerose bombe (circa 300) dirompenti; tutte di
medio calibro, nella zona a nord della città, devastando il piazzale della Stazione centrale delle FF.SS. per una lunghezza di oltre un chilometro.
Molte bombe esplosero in aperta campagna nelle vicinanze della zona ferroviaria. [...] L’attacco fu rapido e violento. Furono inoltre colpiti il
deposito locomotive, i capannoni della grande e piccola velocità che sono stati completamente distrutti, la cabina elettrica di trasformazione che
alimenta la città e la rete ferroviaria, una casa colonica e tre case popolari asismiche completamente distrutte. [...] Fu colpita anche la conduttura
principale dell’acquedotto civico che passa per la ferrovia. [...] I danni alla ferrovia risultano ingenti, per cui il traffico è rimasto completamente
interrotto».6

A condurre il bombardamento del 27 agosto era stato il 310° gruppo bombardieri, che aveva attaccato con 36 Mitchell e aveva sganciato 198
bombe da 500 libbre. Il gruppo ricevette la menzione del dipartimento della Guerra per il risultato conseguito in quella missione. «Benevento,
centro chiave dei trasporti dell’area Napoli-Salerno-Foggia – recitava la menzione – era considerato un “must” target – la stazione doveva essere
distrutta a tutti i costi, per impedire ai tedeschi il trasporto delle forniture prima dell’invasione. [...] Distinguendosi per straordinario eroismo e
determinazione, di fronte a un intenso fuoco di antiaerea e alla forte azione di aerei da caccia, il gruppo di combattimento distruggeva 18 degli
obiettivi pianificati e bombardava la stazione di smistamento con effetti devastanti».7 Il 4 giugno 1944 il capitano Kenneth M. Johnson, che il 27
agosto a Benevento era caduto con il suo aereo ed era stato fatto prigioniero, raccontava la sua esperienza.

«Io ero pilota di un B-25 del 310° gruppo, ed ero precipitato nelle vicinanze dell’obiettivo. Dopo essere stato catturato dagli italiani venni portato
nel centro della città di Benevento per poi essere trasferito in un campo prigionieri nel Nord Italia. Ebbi così l’opportunità di vedere gli effetti del
nostro bombardamento. Fummo costretti a tornare tre volte indietro per entrare in città perché le strade nelle vicinanze del nostro bersaglio
erano completamente distrutte. La stazione di smistamento era rasa al suolo. I binari ferroviari erano spezzati e buttati per aria. Le c abine
dell’alta tensione usate per i treni elettrici erano a terra e stavano bruciando. Un grande edificio e innumerevoli edifici più piccoli adibiti a
deposito delle forniture erano crollati grazie alla precisione del bombardamento. Il capitano Donovan W. Rulien, prigioniero con me, commentò in
quel momento: Non ho mai visto un lavoro così ben fatto da un bombardamento».8

Sono le due facce della guerra aerea. Gli abitanti e i piloti. Un lavoro ben fatto!

Le incursioni sarebbero continuate con grande violenza per tutto settembre, colpendo anche il cuore della città.

Due incursioni la sera e la notte del 7 settembre. «Vi è stata incursione su Benevento, ove vi è stato sgancio di circa duecento bombe. Colpiti
Scalo ferroviario-Stabilimento Aeronautico Sannita e diversi fabbricati civili». Un nuovo allarme alle 22.50 e alle 23.30: «Aerei nemici hanno
sorvolato Benevento sganciando 2 bombe incendiarie nei pressi della Stazione centrale provocando un forte incendio . Gli stessi 2 aerei hanno
sganciato bombe dirompenti al viale Principe di Napoli provocando il crollo del fabbricato di proprietà Raffio».9

Il 9 settembre un massiccio bombardamento colpisce di nuovo la città. Lodovico Fune nel capitolo precedente ha descritto minutamente questa
incursione; secondo lui i bombardieri hanno seguito passo passo la strada che attraversava Benevento portando verso il Nord, e questo a suo
parere è il motivo per cui distrussero la città: la strada era la via principale, intorno tutti i palazzi più importanti, il duomo... sembra di vederla la
scia di distruzioni.10 Non pare possibile che i bombardieri abbiano deliberatamente raso al suolo una città, si deve cercare una giustificazione.
Torneremo su questo.

L’11 settembre si verificava l’occupazione del territorio da parte delle truppe tedesche che si impossessavano dei palazzi e dei luoghi istituzionali
più importanti. «Alle ore 12.20 truppe tedesche accerchiavano il Palazzo del Governo piazzando delle mitragliatrici ed un cannoncino in direzione
dell’ingresso municipale. Subito dopo procedono all’occupazione del fabbricato. Un ufficiale tedesco provvede a far tagliare i fili del telefono del
Comitato PP.AA. ed il comando centralizzato delle comunicazioni di allarme, gli uffici del comitato vengono parzialmente devastati».11

E a questo punto avveniva una nuova terribile incursione, una delle più devastanti. Le sirene, il cui filo era stato spezzato, tacquero.

«Alle ore 14 numerosi aerei nemici provenienti da sud e da ovest sganciano bombe sulla zona bassa della città prevalentemente sul versante
presso il ponte sul fiume Calore, presumibile obiettivo. L’allarme non viene dato per le ragioni innanzi dette. Risultano distrutti i fabbricati di
destra e sinistra del corso Vittorio Emanuele, tratto di strada che da piazza Duomo mena al ponte sul Calore; nella quasi totalità quelle
dell’attiguo rione Bagni [...]; via Appia e viale San Lorenzo. Grande ammasso di macerie ingombrano le strade della zona anzidetta. Iniziare la
rimozione di esse non è possibile per l’attuale mancanza di mano d’opera. La città è completamente deserta, tutta la popolazione si rifugia nelle
campagne e nei paesi. Vasti incendi si sono sviluppati in più punti della città, nessun intervento del personale dei vigili del fuoco e della UNPA ai
quali sono stati sottratti mezzi di cui erano prima dotati, moltissimi morti e feriti. La truppa tedesca provvede a liberare qualche ferito e
null’altro. [...] La popolazione è in preda al panico ed il suo esodo da Benevento è quanto mai commovente».12

«L’11 settembre, verso le 14, un mostruoso bombardamento segnò l’inizio di tanti e tanti altri che di giorno e di notte si protrassero, senza poterli
più contare, fino al 1° ottobre, causando la ripugnante e inconcludente devastazione di Benevento. [...] Le vie che menavano al tempio delle
Grazie, comprese via Afragola e viale San Lorenzo, ingombre di pietre e di rottami, per cui diveniva impossibile avanzare. Dovunque uno
squallore, immagini di morte e di distruzione. [...] Il giorno seguente, domenica 12 settembre, quasi alla stessa ora si rinnova un altro furioso e
insano bombardamento, che sconvolge le macerie accumulate precedentemente e colpisce il Duomo. Cominciava la fine di Benevento,
sistematicamente abbattuta nei giorni successivi con una strategia diabolica che sembrava avesse studiato fin nei minimi particolari l’eversione
della città e di quanto di bello, di artistico, di nobile in essa contenuto. [...] Di ora in ora, come si avvicendavano le squadriglie, tutto veniva messo
sottosopra, sconquassato, stritolato. Il Duomo, il Palazzo arcivescovile e molte altre chiese e innumerevoli edifici cadevano frantumati sotto
l’irruente valanga di bombe e spezzoni incendiari. Un po’ alla volta dallo scalo ferroviario in su a piazza Orsini, a via Gaetano Rummo, a Porta
Rufina, in via dei Mulini e poi a piazza Dogana, nei dintorni dell’Arco Traiano e in altre varie zone tutto era raso al suolo in pochi minuti».13

«L’11 settembre verso le 2 del pomeriggio [...] sganciarono le bombe proprio sull’abitato. [...] la zona distrutta, completamente distrutta era la
zona che raccoglieva le strade che si immettevano sul ponte Calore, l’unica strada che permetteva da Sud di andare verso Nord. Per colpire il
ponte loro hanno distrutto, secondo i calcoli miei, un 35-40 ettari di zona fittamente abitata, distrutta proprio rasa al suolo. In quest’occasione ci
sono stati parecchi morti, migliaia di morti... dietro a casa mia a vico Bagni ci sono stati due gruppi di morti: uno a cinquanta metri da casa mia,
erano inquilini di casa mia, quattro generazioni distrutte. Fra questi morti che abitavano a vico Bagni c’era pure un soldato italiano il quale si era
rivolto a una delle famiglie per avere degli abiti civili perché l’esercito si era sciolto, quindi i soldati cercavano di trovare abiti civili per non farsi
riconoscere dai tedeschi che cominciavano a prelevare questi soldati. E là ci furono 16 morti a quel posto là a venticinque metri da casa mia. Su
quelle macerie che ancora ci stanno morirono 25 persone, parenti, c’era la zia di don Mario Mazzone, dell’avvocato Mazzone, che abitava là e
altri. Dove sta il palazzo INA, là si scendeva al di sotto del livello stradale e lì sotto c’erano delle grotte dove i contadini che venivano dalla
campagna mettevano i cavalli. Lì furono sepolte famiglie, lì non si è mai scavato, non si è mai saputo quanti morti fossero stati là. [...] Dietro casa
mia c’era un’aria di cimitero. Io sapevo che in quel posto c’erano ancora sepolte centinaia di persone, c’erano dei morti, persone che io
conoscevo, che in un altro punto poco lontano, c’erano altri morti... c’erano dei cani randagi... un paesaggio apocalittico... cani randagi,
saccheggiatori. Ricordo ancora la manina di una bambina tagliata che vidi nella casa di mastro Pasquale, il falegname, c’era la manina di un
bambino, color cenere era diventata... a pochi metri da dove era stata distrutta quella famiglia di quattro generazioni. [...] Oh, e quel soldato... poi
vennero a scavà e recuperarono le salme e u surdate o rimanettero là pecché nun se sapeva chi era e per un certo periodo di tempo la sera
quando uscivamo passavamo vicino a stu surdate muorte che era stato... Papà si interessò a farlo mettere in una cassa fatta alla buona. Poi fece
delle ricerche pure ma insomma... e poi lo fece seppellire al cimitero...» (Antonio Feo).

Le incursioni continuarono per tutto settembre. Nei racconti è rimasta ormai solo la traccia delle immani distruzioni, anche perché dopo il grande
raid dell’11 settembre, chi poteva prese la strada delle campagne. «A gente scappava n’ata vota, chi va sotte e gallerie, chi va a n’ata parte...»
Pare di vedere la scena. La gente ritorna, le bombe la disperdono di nuovo: un formicaio colpito da una pietra. Un racconto che si ripete.

Da quel giorno Benevento distrutta, con i cadaveri insepolti sotto le macerie, oltre a restare obiettivo perenne dei bombardieri dal cielo, sarebbe
diventata preda di violenze tedesche e di saccheggiatori italiani dal basso. Le autorità svanirono, come lo stesso diario del capitano Amato Miele
riporta con precisione: «In considerazione che il Comitato non può migliorare il proprio compito perché ostacolato dal comando tedesco, il quale
ancora una volta dimostra il suo vero carattere di razza selvaggia ed il suo odio profondo verso il popolo italiano, l’Ecc. il Prefetto chiede di
allontanarsi provvisoriamente da Benevento impartendo ordini di essere con lui in contatto per ogni evenienza. La prefata Eccellenza si porta per
via ordinaria ed attraversando i campi a San Giorgio del Sannio». Insieme al prefetto fuggivano un gruppo di ufficiali, sergenti maggiori con gli
immancabili attendenti.

La situazione è vividamente descritta anche dall’allora direttore dell’Archivio storico e della Biblioteca provinciale di Benevento Alfredo Zazo nel
suo diario: «Le guardie municipali e il corpo dei vigili si sono dispersi con i loro comandanti. La città è deserta e senza autorità. Il solo
arcivescovo coadiuvato dai frati del La Salle agiscono come possono». «I morti dell’ultima incursione di Benevento non trovano chi li scavi dalle
macerie. I soldati tedeschi obbligano i passanti a liberare dalle macerie il passaggio sul ponte ostruito con la minaccia delle pistole».14

Ci fu dunque un collasso completo delle istituzioni pubbliche. La città divenne a tutti gli effetti una terra di nessuno, un campo di battaglia, un
luogo di guerra da saccheggiare. Come in altre zone, a presidiare il territorio restarono solo le autorità ecclesiastiche: l’arcivescovo con il suo
segretario, il direttore del seminario e i frati francescani sembrano le uniche figure istituzionali rimaste in città, a cercare di apprestare una
minima opera di soccorso.15

«I tedeschi con un piano disperato, mirante però a creare un più spiccato caos, il 10 settembre e maggiormente l’11 si diedero ad occupare gli
edifici pubblici e molti palazzi privati incitando scassinatori e furfanti a razziare senza scrupoli. Alcune scene furono anche filmate forse per poter
in seguito documentare la rabbia vendicativa nazista. Il Seminario Regionale, i Collegi delle Madri Orsoline e Battistine, i palazzi Collenea,
Carrano e numerosi altri, comprese modeste abitazioni, magazzini, in modo particolare quelli più appetibili del corso Garibaldi, furono scassinati,
depredati e alcuni incendiati».16

12 settembre. «Alle ore 13.25 aerei americani provenienti da sud sganciano bombe (un centinaio) sulla zona già bombardata aumentando i danni
e colpendo altri fabbricati tra i quali il Duomo».17 Alle 22 apparecchi inglesi sganciavano ancora bombe nei pressi del ponte sul fiume Sabato. «I
tedeschi obbligano i cittadini che incontrano a sgomberare le strade che devono servire al passaggio di propri automezzi. Molti cittadini si
rifiutano a tale lavoro per non collaborare con essi. I tedeschi incominciano il saccheggio delle caserme spronando la popolazione a fare
altrettanto con le abitazioni civili: è questo l’ordine vigliacco dei dittatori nazi-fascisti per portare il caos ovunque.

13 settembre. Nessun bombardamento, il saccheggio da parte della popolazione, specialmente rurale prende proporzioni allarmanti.

14 settembre. Alle ore 2, alle ore 3 e alle ore 4 l’aviazione inglese ha nuovamente bombard ato Benevento colpendo il Duomo ancora, il Palazzo
Arcivescovile e il rione Bagni che ormai è un ammasso di rovine. Tutte le strade sono ingombre di macerie; alle ore 22 un aereo lanciò 3 bombe
incendiarie nei pressi di piazza Orsini e nei pressi dell’ospedale di San Diodato.

15 settembre. Nessun bombardamento, continua il saccheggio e le angherie tedesche».18

Il 16 settembre i bombardamenti ricominciarono. «Alle ore 7 pochi aerei nemici bombardano la zona bassa della città. Alle ore 10 Benevento
viene bombardata dalle successive ondate di apparecchi inglesi. Risultano completamente distrutti lo stabile De Chiaro in piazza Orsini, le case
sul lato di via Gaetano Rummo, il deposito in piazza Cardinal Pacca, già precedentemente colpito, divorate poi da vasto incendio le case
adiacenti, le abitazioni di fronte alla chiesa di San Modesto, una casa in via Torre delle Catene, garage e casa Zoppoli parimenti distrutti. Il
Palazzo Arcivescovile ha subito nuovi danni e può considerarsi totalmente distrutto. Il palazzo Lamparelli e il molino in piazza 9 maggio è
parzialmente distrutto».19 L’elenco degli stabili distrutti continua. La sera il bombardamento riprendeva aumentando le rovine.

17 settembre. «Dalle ore 3 alle ore 4 ripetuti bombardamenti sulla zona bassa e sul centro abitato, rione Ferrovia Valfortore. Stabilimenti e
palazzi già in parziale rovina completamente distrutti. Incendi».20 Nel rapporto americano si legge che 12 B-25 alle 4.20 del pomeriggio hanno
bombardato uno snodo stradale da 7200-9200 piedi, distruggendo il ponte stradale e provocando un esteso incendio sulla riva nord del fiume e
sulla strada principale.21

18 settembre. Incursione in quattro ondate. Ore 3, ore 6, ore 16, ore 23; colpite l’area nei pressi del ponte sul Calore, contrada Tiengo, via Arco
Traiano... Continuava il saccheggio.

19 settembre. «Alle ore 18 aerei inglesi provenienti da nord bombardano la zona limitrofa al campo di aviazione con l’evidente meta di
interrompere la comunicazione stradale Benevento-Telese, nel quale ultimo centro i tedeschi hanno un grande deposito di benzina. Molte bombe
di grosso calibro sono cadute in aperta campagna. Il saccheggio è sempre in atto».22

20 settembre 1943. «Dalle ore 1 alle ore 4 parecchie ondate di numerosi apparecchi hanno effettuato bombardamento di estrema violenza con
bombe anche di grosso calibro; la zona principalmente posta in rovina è quella della stazione ferroviaria. [...] Alle ore 7 altro massiccio
bombardamento ove risultano colpiti automezzi tedes chi; il saccheggio perdura».

21 settembre. «Alle ore 1.50, 3.10, 4.30 successive ondate di aerei inglesi hanno bombardato la città, colpendo piazza Roma, palazzo Collenea, lo
stabile ove ha sede la centrale telefonica ed il Genio Civile, l’edificio della Banca d’Italia». Ancora due incursioni alle 10.30 e alle 14.30 che
colpivano ancora il pieno centro storico aggravando le distruzioni. Divampavano incendi, continuavano i saccheggi.

22 settembre. Alle ore 1.35 un apparecchio inglese colpiva un caseggiato popolare del centro e l’orfanotrofio.

24 settembre. Due incursioni: la notte gli inglesi sul centro abitato e alle 14 altri aerei sulla parte bassa della città.

25 settembre. Dalle ore 4 alle ore 5.30 aerei inglesi in cinque ondate successive: crollavano l’Istituto Industriale e il santuario della Madonna
delle Grazie. Il saccheggio continuava.

Il 26 e il 27 settembre nella città distrutta continuavano a sprigionarsi incendi. Il pomeriggio del 27 incominciava anche l’opera di distruzione dei
tedeschi che preparavano la ritirata, ottemperando agli ordini superiori che erano di lasciare alle spalle «terra bruciata». Colonne di fumo si
sprigionavano dal gasometro e da una cabina elettrica . Si sentivano le detonazioni delle mine sul ponte di ferro sul Calore e sulla ferrovia
Benevento-Avellino.

Il 28 settembre altre bombe nelle località intorno a Benevento.

29 settembre. I tedeschi facevano saltare il ponte Valentino. Nel pomeriggio gli aerei alleati lanciavano bombe sul fiume Sabato e sulle sue
sponde, colpivano una casa di riposo per anziani sacerdoti, sulla contrada Santa Colomba. C’erano morti e feriti nelle case coloniche sulla sponda
destra e sinistra del fiume.

Il 30 settembre mentre i tedeschi continuavano a minare e distruggere via terra, i bombardieri continuavano la loro opera dall’alto. Il diario di
Amato Miele descrive due ondate successive di nuovo sulla vallata del fiume Sabato, poi sulla stazione Appia, sui fabbricati di via dei Mulini, sulla
centrale elettrica di Santa Barbara. I tedeschi facevano saltare alcuni edifici esattamente nella stessa zona colpita: alcuni mulini, i binari e il
ponte vicino alla stazione Appia. Troviamo il rapporto del bombardamento nella documentazione americana. «30 settembre. 24 B-25 bombardano
la strada e il nodo ferroviario di Benevento, Italia, da 8500-10000 piedi. Risultati: interessata area incrocio strada N-685800 e strada che giunge
ai bordi della città, numerosi colpi a grandi fabbricati proprio nei pressi della fe rrovia e delle strade a nord-ovest della ferrovia. Provocato un
pesante fumo nero». Quello stesso giorno un altro gruppo di 12 B-25 alle 16.04 attaccava la città con obiettivo il ponte sul fiume.23

L’ultima incursione si verificava il 1° ottobre, il giorno prima dell’arrivo delle truppe alleate. In cinque successive ondate gli aerei alleati
sganciavano bombe sul viale degli Atlantici, sul seminario regionale, sulla ferrovia centrale e sulla stazione Appia. Anche di questo
bombardamento abbiamo il rapporto americano. «24 B-25 hanno bombardato nodo stradale a Benevento da 9500-10000 piedi alle 15.37-15.40.
Tutte le bombe sono cadute sull’obiettivo. È stata coinvolta una superficie a nord del ponte stradale di Benevento fino alla stazione di
smistamento. Sono stati colpiti palazzi ed è stato avvistato un incendio nella stazione di smistamento». Un altro gruppo composto da 12 B-25 alle
16.04 colpiva di nuovo il ponte stradale sul fiume.24

Quello stesso giorno e la mattina successiva i tedeschi, prima di ritirarsi, completavano l’opera di distruzione con le mine: la ferrovia Appia, il
ponte stradale sulla strada per Castelpoto, il ponte stradale sul fiume Sabato in contrada Santa Maria degli Angeli.

La sera del 2 ottobre i primi reparti alleati entravano in Benevento.

«Quanne vedemmo e sfilà sti grandi mezzi americani pensavamo: che guerra vulimme vence nuie! Passavene p’u corso sti carrarmati che erene ’e
fierre, insomma era pesà nu carrarmate ’e chille: ferro massiccio, ferro pieno, massiccio... Mussolini se difende... a guerra... allora fecero togliere
tutti i cancelli tutti sti... sti cancelli d’ornamento, ste inferriate d’ornamento comme stavano alla villa comunale... tutto tolto, tutto pe’ fà i colpi!
Cu chelle vuleveme vence a guerra!»25 (Lodovico Fune).

Ma il 4 ottobre gli aerei americani bombardavano ancora gli snodi stradali intorno alla città per colpire l’esercito tedesco in ritirata.26

«Poi i tedeschi cominciarono a ritirarsi verso Campobasso e gli americani continuarono a bombardare, bombe su bombe, bombe su macerie... Gli
americani usavano la tattica che noi vediamo anche oggi nelle guerre che hanno fatto, cioè non deve morire un soldato americano: preferiamo
che muoiano centomila altre persone ma non un soldato americano. E allora si decidevano di andare avanti quando erano strasicuri che i tedeschi
se ne erano andati» (Antonio Feo).

Con tutta calma, aspettando che anche gli ultimi colpi fra gli eserciti risuonassero per l’aria sarebbe ricomparso il prefetto. «5 ottobre.
L’Eccellenza il prefetto dopo 18 giorni di assenza forzata ritorna a Benevento. Il Comitato si ricompone e si mette a disposizione dei superiori».27

Il 7 novembre, dopo aver visitato tutte le zone colpite e aver dato inizio ai lavori di recupero delle preziosissime porte di bronzo del duomo,
Alfredo Zazo scriveva: «Ho visitato quasi tutte le zone colpite. Che immensa desolata visione! Caduta anche la bella torre medioevale all’angolo
del palazzo antico di Prefettura, distrutti angoli caratteristici medioevali come quello accanto al palazzo De Cillis, cumoli spaventosi di macerie
nella zona vico Bagni fino a piazza Cardinal Pacca ed oltre... Come potrà risorgere questa città morta?»28

Norman Lewis il 12 agosto 1944 trovò una città ridotta in macerie: «Questa antica città è stata distrutta, senza motivo, dalle fortezze volanti, e a
mesi di distanza non dà ancora segno di riprendersi. La stupenda cattedrale longobardo-saracena dell’XI secolo è soltanto uno scheletro, e i suoi
straordinari portali di bronzo sono scomparsi. Mi hanno detto che solo una casa su cinque è rimasta in piedi. [...] L’acqua arriva solo per pochi
minuti al giorno. Consigliano di lasciare i rubinetti aperti, in modo da poter raccogliere ogni goccia che filtra».29

«Erano tempi brutti, signurì! Se mureva. Naturalmente tempi brutti è facile a dirsi, però bisogna vedere cos’erano veramente, cioè non c’era la
corrente elettrica, quindi non c’era la luce, non c’era acqua. Per bere noi armavamo dei bastoni, li infilavamo ai manici di una lancella e
andavamo camminando tra le macerie a prendere l’acqua e la portavamo a casa, quel poco d’acqua per mangiare, per bere, per la pulizia restava
ben poco...» (Antonio Feo).

«Po’ ognuno va a casa propria, riprende a vita, si riprende a scavà, scavà pe’ veré addu stanne e muorte, addu stanne e parienti loro, oppure pe’
truvà i loro averi, e cose proprie... [...] Intante a guerra ha portato distruzione, morti, morti ’e soldati, morte ’e gente pe’ causa d’i
bombardamenti, malattie... è uscito il vaiolo e so’ morte tanti compagni. Morirono tante signorine, u dottore Cecco... Miseria, inflazione, i soldi
non valevano... ste parole nun e sapeveme, nun sapeveme a parola democrazia...»30 (Lodovico Fune).

Il saccheggio

Nei paesi bombardati o evacuati si verificarono ovunque razzie. I poveri rubarono ai ricchi, i contadini ai cittadini... A Benevento il sacco fu
qualcosa di estremo, enorme. La città fu interamente ripulita da tor me di saccheggiatori, molti dei quali venivano dai paesi della provincia per
impossessarsi dei beni dei cittadini scappati.31

Ogni autorità civile era sparita. I tedeschi facevano essi stessi le razzie e aizzavano gli altri a farle. Nel caso di Benevento troviamo anche una
documentata presenza di fiancheggiatori degli occupanti: fascisti locali molto vicini a figure delinquenziali.32 Emerge con chia rezza la natura
dell’occupazione in quel preciso momento: come nel caso napoletano il disordine è cercato e fomentato, ed è l’ala del fascismo più violenta che
partecipa e collabora.

«Nella città diroccata e deserta scorrazzavano reparti tedeschi e predoni calati a ondate dai luoghi vicini o solitari sbucanti da rifugi improvvisati.
Le case rimaste in piedi erano perlustrate minuziosamente e dalle stesse macerie veniva estratto e asportato quanto era stato frutto di intenso
lavoro e di una vita intera. Dai balconi semidistrutti o incastrati nei fili elettrici pendevano masserizie e pezzi di biancheria, resti di tutto quello
che era stato buttato giù dai rovistatori. E non raramente attraverso le vie non del tutto ingombre della parte superiore della città veniva
trascinato qualche carro ricolmo di refurtiva. Rappresentava la scena più disgustosa e più infamante: una catastrofe morale superiore alle rovine
circostanti. [...] Allo sbocco delle diverse vie stavano in agguato i predatori dei predoni. Si trat tava di masnade di ragazzi e di adulti che
assalivano i rapinatori ritornanti con le prede sulle spalle e sui carretti e li depredavano del bottino».33

Palazzi sventrati, sfollati che fuggono e vagano in cerca di cibo come anime in pena, poveri delle campagne che si dirigono verso Benevento per
saccheggiare i beni dei fuggiaschi, predatori che assalgono altri predatori. Una visione apocalittica.

Ecco il racconto del saccheggio visto dal contado.

«Beniviente fu sconquassata tutta... nui dopo che ci stavano i bombardamenti ci andavamo a Beniviente, partivamo a matina presto perché ci
andavamo a prendere dei mobili, delle pezze, dei vestiti... io me lo ricordo perché ci so’ stata pure io a prendere a robba sotto e macerie... na vota
stavo co mio fratello e altre persone e mentre stavo camminando sotto ai miei piedi sento na cosa strana... noi pensavamo che questo era vivo
ancora, quello era morto... io scappai senza prendere manco na spingola p’a paura» (Lucia R.).

«Ricordo quando bombardavano Benevento e dopo aver b ombardato la città la gente andava a rubare nei negozi distrutti, nelle case... si
prendevano pure le scarpe e gli abiti dei morti, tutto si prendevano... partivano anche da Tufara e andavano nei grandi negozi, nelle oreficerie e
rubavano quello che trovavano, lo sciacallaggio che c’era... partivano a piedi la mattina presto e si ritiravano con grossi sacchi di roba... molte di
queste persone non avevano niente e si sono arricchiti molti... però lo facevano per fame» (Sabbatino D’Angelo).

«Nelle nostre zone ci stavano molti sfollati che venivano sia da Benevento sia da Napoli. Ricordo che in quel periodo ci stava molto sciacallaggio e
specialmente a Tufara. Andavano a Benevento perché lì non ci stava più nessuno e si prendevano tutto, spogliavano persino i morti. Io questo me
lo ricordo bene. Si pativa la fame e il freddo e le cose che maggiormente prendevano erano coperte, lenzuola, forchette... andavano persino con i
sacchi, venivano pure da Afragola e andavano a prendere qualcosa da mangiare. Perché prima non si mangiava niente, si andava scalzi, poi
uscirono le scarpe a zoccolo e quelli andavano bene estate e inverno sotto la neve. Molte di queste persone andavano facendo atti di sciacallaggio
non perché erano persone d i malaffare ma perché avevano bisogno. Sapete cosa significa bisogno?» (Decio Cavuoto).

«Noi eravamo usciti di casa solo con le chiavi, con la convinzione che saremmo tornati presto, come quando si esce a fare una passeggiata e
siamo rimasti senza niente, non avevamo niente, niente per vestirci, stavamo nudi... I bombardamenti di solito avvenivano di giorno cosicché un
bel giorno papà si alzò di buonora, prese un sacco, prese un coltello con cui aprire il portone di casa, perché le chiavi erano andate perdute e
disse: almeno vado a prendere le scarpe. A Benevento avevamo un ripostiglio con tutte le scarpe, dentro lì eravamo nudi. Vado a prendere almeno
le scarpe, poi quello che posso prendere lo prendo e lo porto. Disse papà. Quella mattina alle sette sentimmo arrivare gli aerei. Papà già si era
avviato... si vedeva che gli aerei lanciavano le bombe su Benevento. Per fortuna papà non era ancora arrivato e si era messo al riparo. Fu un raid.
Gli aerei bombardarono e se ne andarono. Il tutto non durò neanche una mezz’ora. Quando papà arrivò a Benevento tutto era finito, non riusciva
più ad orientarsi, non riusciva a trovare la nostra casa, non riconosceva più le strade poiché con i bombardamenti la planimetria della città era
cambiata, o meglio, era stata distrutta. Papà era disorientato... quando poi riuscì a trovare la casa, vide che era tutto a terra, tutto distrutto. Nel
vedere quello spettacolo si sentì male, ebbe quasi uno svenimento, così sconvolto com’era, si girò e se ne tornò in campagna». «La prima volta
che mamma e papà andarono a scavare sul suolo dove un tempo c’era la nostra casa, trovarono l’armadio distrutto e i cassetti intatti sopra le
macerie, tutti vuoti. Ormai gli sciacalli già si erano presi tutto. Noi trovammo ben poco delle nostre cose. Così si iniziò a reclutare uomini per
scavare poiché da soli non era possibile farcela. Quando calava il sole bisognava lasciare tutto così come stava e andarsene e spesso il giorno
dopo quando si tornava a scavare non si trovava più niente poiché c’era chi trovava le buche già belle e scavate e prendeva tutto ciò che c’era. Le
uniche cose che noi trovammo furono la lana dei materassi che mamma aveva rifatti nuovi nel settembre e che riuscimmo a recuperare, la
macchina da cucire tutta a pezzi che poi abbiamo fatto saldare e qualche vestito... Ben poche cose» (Ada B.).

Ad Avellino alcuni saccheggiatori vennero scoperti e denunciati. Subirono un regolare processo e vennero condannati. Così finì in carcere
un’intera famiglia, di vantate origini nobili: un barone, la moglie, la nuora e due domestiche, accusati di aver razziato la casa del vicino, un
giudice che, proprio per la sua professione, riuscì a trovare i colpevoli del saccheggio.34 Anche nella cittadina irpina, come a Benevento, arrivò
poi il contado con sacchi, carretti, mezzi di ogni tipo, e portò via tutto il possibile.

Avellino fu bombardata per la prima volta il 14 settembre 1943. Più che in altre città gli abitanti si sentivano sicuri, pensavano di non costituire
un obiettivo strategico e di essere ormai scampati alle furie della guerra, e così furono colti in massa nelle case, nelle vie, al mercato, nei luoghi
di lavoro, intenti alle attività quotidiane. Seguirono ancora i bombardamenti del 15, 17, 20 e 21 ottobre. I morti, secondo Cannaviello, furono
circa 1500.35 Nello stesso tempo, con modalità analoghe a quelle che abbiamo già visto per gli altri paesi e città, i tedeschi occupavano il
territorio con particolare durezza, cominciando essi stessi il saccheggio dei beni e delle vettovaglie. Come Benevento, la città fu completamente
abbandonata dalle autorità pubbliche. Il giorno del bombardamento il podestà era in «regolare licenza», il prefetto in missione, il questore fuggito
per paura della deportazione da parte dei tedeschi, i comandanti militari allo sbando... Molti feriti morivano, privi di assistenza: un uomo la cui
moglie trovò la morte per la suppurazione delle ferite denunciò il direttore dell’ospedale, che era fuggito per paura degli ulteriori
bombardamenti, lasciando gli ammalati alle cure di poche suore coraggiose ma inesperte. Molti cadaveri giacevano insepolti. L’elenco delle
omissioni e delle mancanze è lunghissimo. Anche in questo caso si staglia sugli eventi la figura del vescovo «in strada ad assistere i moribondi e a
seppellire i morti».36

Dunque a Benevento come ad Avellino le autorità diedero prova di una elevatissima irresponsabilità. La loro inefficienza e la loro viltà
aggravarono la condizione di abbandono in cui versarono le popolazioni fra bombardamenti e violenze tedesche. D’altro canto la gente comune
compare qui sotto una duplice rappresentazione, ora vittima ora predatrice, portando in luce un altro dei fenomeni che accompagnarono esodi e
sfollamenti sui fronti di guerra: lo sciacallaggio tra le macerie, il saccheggio delle case abbandonate, l’esatto opposto della solidarietà di cui a
lungo abbiamo parlato, in cui le popolazioni sfogarono a volte antichi risentimenti (contadini contro cittadini, poveri contro ricchi...) dando vita a
rituali antichi di spoliazione del nemico, ma in cui trovarono anche ampio spazio criminali comuni, avventurieri, emarginati, che a volte
costruirono i primi passi della loro carriera proprio tra le rovine della guerra.
7. Fra razzie di uomini e bombardamenti
Il rastrellamento del 23 settembre 1943

«Teano 23 settembre 1943. Sono svegliato da un vocio confuso che proviene dalle case vicine. Sono le 6: mi alzo. Dopo poco anche Corinna è in
piedi e tutti e due ci mettiamo in ascolto alla finestra. Ci sembra di capire che un reparto tedesco è arrivato in paese: infatti, a distanza, per le
strade di Teano si odono i passi ferrati dei soldati germanici. Non ce ne impressioniamo. La guerra è alle porte – in paese da ieri si parlava
dell’imminente occupazione di Napoli da parte angloamericana – saranno complement i diretti al fronte. Intanto mentre le strade rimangono
vuote, le case si risvegliano e si rianimano. Non v’è finestra dalla quale non s’affacci, più o meno nascostamente, qualcuno. Mentre continua un
vocio fatto di richiami, di commenti, di domande e risposte da finestra a finestra. Impera per ò la nota gaia: il popolo napoletano non manca mai
di buon umore. Passa un’ora e dal fondo della piazza vedo farsi avanti un uomo. L’improvvisa apparizione provoca un silenzio generale: lo
sconosciuto infatti accenna a parlare. In buon dialetto napoletano ripete varie volte, con voce alta e sonora: tutte l’uommene e tutt’e femmene
fin’a sissant’anne s’anna trovà all’otto e mezze miezza a piazza pe’ sentere na proclamazione do Comando tedesco. Saranno delle disposizioni per
la cittadinanza in caso di avanzata nemica – dico a Corinna – niente di grave.

Alle 8 e mezzo infatti siamo in piazza. Anche Paola è con noi. La piazza di Teano rigurgita di gente: gente allegra e spensierata, come ai giorni di
festa. L’attesa dura un’ora circa, poi si fa largo tra la folla un’automobile militare tedesca nella quale si scorgono due ufficiali della Wehrmacht e
un piccolo seguito. Essi salg ono sui gradini della chiesa. In piazza si fa un silenzio di tomba. L’ufficiale più alto in grado chiede del podestà di
Teano e gli consegna un foglio – il messaggio – da leggere alla cittadinanza. Sono molto vicino al gruppo delle autorità e posso notare le
espressioni dei volti di ognuno. Mi colpisce soprattutto il pallore che acquista il viso del Podestà dopo aver dato una breve scorsa al messaggio.
Con voce rotta dall’emozione, egli poi legge un bando del maresciallo Kesselring, comandante le truppe tedesche d’occupazione in Italia, e che
dice presso a poco così: In unione col nuovo Governo italiano si è stabilito che sono richiamati per il servizio delle arm i e del lavoro tutti gli
uomini nati dal 1900 al 1925. I richiamati saranno avviati in località lontana dalla zona di operazione, dove fra qualche mese a loro richiesta,
potranno farsi raggiungere dalle proprie famiglie.

Terminata la lettura del testo che ha suscitato nelle sue parti essenziali mormorii e commenti da parte del pubblico, questo fa per sciogliersi e
anch’io con Corinna e Paola penso di avviarmi verso casa in preda alla più viva agitazione, ma convinto che nei prossimi giorni avrei potuto
mettere in chiaro la mia situazione di smobilitato, di sinistrato e pertanto cavarmela. Ma con terrore mi accorgo che dalla piazza non è possibile
più uscire.

Infatti tutte le strade di accesso ad essa sono guardate da soldati tedeschi armati di mitra, pronti a sparare. La folla ondeggia di qua e di là,
quand’ecco si sente di nuovo la voce del Podestà, che parla a nome del Comando tedesco, e che annuncia: gli uomini restino in piazza, le donne
vadano a casa a prendere per i propri familiari un cucchiaio e una coperta. La partenza è immediata!

Se fino ad allora ognuno aveva potuto sentire qualche speranza di defezioni o di fuga, questo nuovo ordine fa cadere ogni illusione. D’un tratto
quello che fin’allora era stato un represso mormorio diventa un potente urlo. S’impreca, si piange, si grida: mentre le donne si avvinghiano ai colli
dei loro uomini e i bambini si stringono ai loro padri singhiozzando. Anche Corinna mi si butta tra le braccia disperata mentre la mia piccola,
dolce Paolina mi grida, fra i più strazianti singhiozzi: papà i tedeschi ti uccidono! I tedeschi ti uccidono!

I soldati tedeschi, con l’abituale energia, allontanano le donne che, dopo qualche tempo, si vedono ritorn are coi loro piccoli carichi. Nessuna si è
attenuta alle disposizioni avute: ognuna ha voluto porta re al proprio uomo se non altro un po’ di cibo.

Chiedo e ottengo da un ufficiale tedesco di salire in casa – che è nella piazza stessa – per prendere qualche indumento. In fretta e furia mi
provvedo di qualche panno. Corinna e Paola fanno a gara per darmene: ma io rifiuto quasi tutto. Non voglio eccessivo peso per il mio viaggio di
ritorno che prevedo fra giorni. Troppo ho faticato – una decina di giorni prima – tornand o da Milano e percorrendo, in gran parte a piedi, la
Roma-Teano.

Teresina, anch’essa in pianti, mi dà a baciare il piccolo Franco, che spaventato assiste alla scena. Do un ultimo sguardo alla casa, che fino a
qualche ora fa ospitava una famiglia più che felice, e con Corinna e Paola sono di nuovo in piazza. Qui l’ambiente è più che ma i infocato! I
partenti vengono incolonnati per cinque e ogni drappello di cinquanta uomini è accompagnato da due soldati alla piazzetta dell’ingresso del
paese, dove attendono numerosi autocarri. Ad ogni partenza di drappello è un grido straziante che si leva dalla folla, è un ripetersi di invocazioni
e di bestemmie. Vedo una sentinella tedesca che piange: so, poi, da lui stesso – alsaziano – che la stessa scena si è svolta al suo paese e che il
ricordo di tanto dolore lo commuove ancora! Comincio a temere che un atto inconsulto, di qualche scalmanato, provochi la reazione dei tedeschi e
perciò consiglio Corinna di tornarsene a casa rinunciando così a qualche minuto di compagnia. Temo anche che Paola risenta troppo le
conseguenze di una scena tanto disumana. Ci separiamo infatti dopo esserci lungamente, teneramente abbracciati: Corinna e Paola sempre in
pianti, io, chissà come, senza aver versato ancora una lacrima! Non appena però, poco dopo sono anch’io sull’autocarro e vedo allontanarsi Teano
con le sue case, con la mia casa, con i miei cari, non reggo più e do in un pianto dirotto che mi addolcisce l’animo straziato! Penso che è il più
gran dolore sofferto finora nella mia vita! Il pianto dura a lungo; non so io stesso quanto: ormai ho perso la cognizione del tempo. Il mio spirito si
è rinchiuso in se stesso; nulla di quanto mi circonda m’interessa: non mi accorgo neppure di non poter muovere le braccia, tanto si è stipati
nell’autocarro, né percepisco i discorsi di quelli che mi circondano. [...] Intanto l’autocarro continua la sua corsa, seguito a distanza da altri
numerosi automezzi. Una formazione di bombardieri americani passa sulla nostra verticale a grande altezza. Non si accorge neanche di noi. Verso
le 3 p.m. siamo a Cellole Fasano presso Sessa Aurunca. Un punto di raccolta è organizzato in una località appena fuori del paese, in un oliveto.
Smontiamo dagli autocarri e ci uniamo ad un gruppo di oltre trecento uomini provenienti tutti dalla regione di Sessa. Si parla del prossimo arrivo
qui di una commissione di ufficiali tedeschi che dovrà esaminare i documenti personali di ognuno di noi per poi decidere dove inviarci. Il cuore si
apre alla speranza. Passano le ore. Ho già consumati i due panini datimi da Corinna all’ultimo momento e già la fame si fa sentire. Intanto gli
autocarri vanno e vengono portando sempre nuova gente. Gente di tutte le condizioni, di tutte le età. C’è chi ha superato e chi non ha raggiunto i
limiti di età fissati dal decreto di chiamata... per ora stiano lì tranquilli, la Commissione poi deciderà. Noto anche parecchi minorati: parecchi
guerci, qualche storpio, dei sordomuti... anch’essi attendono la Commissione. Rivedo il barbiere che ieri mattina a Teano mi tagliò i capelli: era
marinaio e la sera prima era tornato da La Spezia a piedi! Ecco il cocchiere che tante volte ci ha condotti in giro con la sua carrozza, ecco il
sagrestano che servì l’ultima messa che ho ascoltato in Duomo... Predominano i contadini, reclutati così come si trovavano nei campi: scalzi e in
maniche di camicia. Un giovane dall’aspetto distinto, ma anch’egli in maniche di camicia e scalzo, racconta: Sono professore di lettere al liceo di
Sessa, ero nella mia villa in campagna da qualche giorno. Stamane mi è venuto in mente di cogliere dei fichi, e perciò ho indossato gli abiti
peggiori e per essere più agile non ho messo le scarpe. Mentre ero sull’albero mi son sentito chiamare da un soldato tedesco dal mitra puntato...
ho tentato di spiegare la mia situazione: ma non c’è stato verso, son dovuto venir via così!

Si fa sera. L’arrivo d’un autocarro carico di pane e di scatolette di carne è salutato con entusiasmo. I viveri vengono distribuiti in un batter
d’occhio col massimo ordine. Mi unisco a un gruppo dove vedo uno dei Zezza di Napoli che conosco da tempo. Decidiamo di amministrare con
parsimonia i viveri ricevuti, aprendo a turno una scatola di carne per tutti e cinque. Oggi è il mio turno. In pochi minuti la mia scatola è divorata.
Ma non abbiamo tempo di ultimare il frugale pasto che dobbiamo inquadrarci e riprendere posto sugli autocarri che son qui di nuovo. [...] Si
cammina tutta la notte: qualcuno pratico di quei posti dice che facciamo dei giri viziosi, e che ci troviamo sempre nella stessa zona.
Evidentemente l’autista non ha premura! [...]

24 settembre 1943. All’alba ci viene dato l’ordine di smontare. Veniamo ammassati in un prato e subito circondati da numerose sentinelle. L’erba
è tanto bagnata che non possiamo neanche sedere. Ci vorranno parecchie ore di sole prima di poterci stendere. Vado in cerca dei compagni di ieri
sera: essi non sono qui, pare che siano stati portati in un altro punto di raccolta. Addio viveri per i prossimi tre giorni... non mi resta che un pezzo
di pane tedesco. Per fortuna dei contadini vengono a tenderci dell’uva e con questa tiro avanti tutto il giorno. Verso sera, siamo di nuovo caricati
su autocarri, penso con terrore a un’altra notte insonne, se non che, dopo un’oretta di marcia, la macchina si ferma: è in panne. Il sergente che ci
scorta ci permette di accamparci sotto un grande albero di olivo. Mi avvolgo nella coperta e aspetto a lungo il sonno.

25 settembre 1943. Siamo prelevati dal solito automezzo. Questa volta, non più incolonnati, filiamo che è un piacere verso nord. Per la strada
gran traffico di soldati tedeschi. Ci accorgiamo di essere in provincia di Frosinone. Sarà qui che troveremo la famosa Commissione? Dopo un paio
d’ore di marcia siamo infatti in vista di Frosinone ove giungiamo verso le 11. Punto di raccolta questa volta è la Scuola Elementare Tiravanti.
Grande edificio all’ingresso del paese. Qui troviamo a dir poco un paio di migliaia di uomini, provenienti da tutte le zone circostanti: Sessa,
Galluccio, Teano ecc. Le aule rigurgitanti di gente, ugualmente le scalinate. Trovo a stento a depositare il mio sacco e a segnare così un posto per
la notte sull’ultima gradinata prima della terrazza al terzo piano. Sebbene le finestre siano spalancate l’aria è pestilenziale: mi accorgo che dai
gabinetti ostruiti rigurgita... come si potrà passare una notte in quest’ambiente? Le ore passano lente: mi riposo un po’ appoggiandomi a un
muro: sedersi neanche a parlarne. Improvvisamente suonano le sirene: assistiamo ad un duello fra caccia inglesi e tedeschi. Un apparecchio, si
dice tedesco, precipita in fiamme sulla piana antistante. Della Commissione neanche l’ombra. Un gruppo di teanesi mi offre una cucchiaiata di
carne che accetto volentieri: altrimenti non avrei che pane. Tutt’a un tratto si sentono diverse raffiche di fucile mitragliatore, poi delle urla dalla
strada e dall’ultima finestra del caseggiato. È un ufficiale tedesco che ha sparato contro cinque persone che, profittando di un momento di
confusione alla porta, cercavano di allontanarsi. Questi rientrano incolumi: mentre sono stati colpiti alla fronte e al braccio due poveretti che in
quel momento erano alla finestra. Grande emozione suscita questo episodio anche perché i cinque fuggitivi dovrebbero essere immediatamente
fucilati. Per fortuna essi saranno graziati dall’ufficiale comandante il campo. Col sopravvenire dell’oscurità aumenta da parte tedesca la
sorveglianza attorno all’edificio e non passa ora che non si senta crepitare l a mitragliatrice. Vado a sedermi sul mio gradino all’ultimo piano con
la speranza di poter, per lo meno, sedere in pace. Ma è una notte d’inferno: un forte temporale si scatena: una massa di gente si precipita dalla
terrazza verso l’interno. Mi tocca alzarmi per non essere travolto da tanti energumeni che brancolano nel buio. E in questa situazione... attendo
l’alba e con essa il nuovo giorno.

26 settembre 1943. Cielo plumbeo: pioggia dirotta: tristezza mortale! Improvvisamente alle 8 e mezzo, viene dato l’ordine di partenza. Una
colonna interminabile di oltre duemila persone procede lentamente verso la stazione merci di Frosinone. L’acqua viene giù a catinelle. Come Dio
vuole, verso le 10 siamo in stazione e, previo controllo del personale militare della tradotta, siamo rinchiusi cinquanta per volta in un carro
bestiame. Chiusa a spranga la porta centrale, il treno si mette in moto alle 10 e mezzo».

È il 29 settembre 1943, il treno ha appena attraversato il Brennero fra la commozione e la tristez za di tutti. L’autore del diario annota: «uno dei
miei compagni di viaggio – il signor Michele Lerro di Teano, festeggia oggi il suo onomastico: facciamo a gara a offrirgli qualche dono: io delle
sigarette. Con lui sono due fratelli, tre cognati e due cugini: un’intera famiglia!» All’arrivo a Memmingen, la prima tappa in terra straniera, egli
registra: «Siamo condotti in una baracca di vecchia costruzione dove troviamo altri compagni di passione – giunti qui in mattinata – coi quali
immediatamente fraternizziamo. Siamo in tutto venti e per la maggior parte meridionali. Ecco i nomi dei compagni tutti: Memoli Enrico – via
Nicotera 99 – Napoli; Capasso Guido – via Caracciolo 9b – Napoli; Antonucci Armando – via Nizza 86 – Salerno; Caruso Vitaliano – Teano; Rolandi
Luigi – via Santa Brigida 51 – Napoli; Pannone Ottorino – via Tanucci 41 – Caserta; Cavallo Angelo – Ponte di Chiaia 39 – Napoli; Parravicini
Achille – Gaggiano (Milano); Giudetti Francesco – via Atratina 31 – Gaeta; Rossi Adelio – via Filatorio 6 – Napoli; Caravita Francesco – via M.
Stanzione 18 – Napoli; Masi Salvatore – via E. Gravero 20 – Roma; Rimoli Gennaro – viale Elena 19 – Napoli; D’Aiello Corrado – Teano; Signore
Enzo – viale Angelico 97 – Roma; Guadagno Italo – via Aniello Falcone 58 – Napoli; Coletta Mario – via Duomo 193 – Napoli».

Carlo Starace, napoletano, allora trentottenne, rastrellato a Teano, dove erano sfollati la moglie e i due figli, fu portato con i suoi compagni di
viaggio in Germania e poi in Polonia. Passò l’inverno e la primavera del 1944 in un campo di prigionia per ufficiali estremamente duro. Avendo
rivendicato la sua condizione di smobilitato e quindi di civile, venne destinato al lavoro coatto. Egli scrisse il diario, di cui qui ho riportato l’inizio,
giorno per giorno su fogli di fortuna, e lo ricopiò quasi interamente con grande cura dopo il suo ritorno.1 Tornò dalla prigionia con una grave
malattia cardiaca, che lo condusse alla morte nel 1965.

La scena della razzia di uomini ha una forza suggestiva eccezionale. La vicenda si snoda di fronte ai nostri occhi attraverso alcune immagini
altamente evocative: la piazza di Teano quasi allegra al risveglio mattutino, gli ordini, il cambiamento di umore della folla, l’incredulità, poi la
disperazione, la separazione degli uomini dalle donne e dai bambini, il suo personale distacco da moglie e figlia, il viaggio, la commissione
tedesca che non arriva, la scena apocalittica di migliaia di deportati che si avviano alla stazione... Cose e persone vengono annotate con nitida
precisione: i due fratelli, i tre cognati e i due cugini del signor Lerro, poveramente festeggiato sul carro bestiame, l’elenco puntiglioso dei
compagni di baracca. Vengono evocate senza enfasi le dimensioni dei rastrellamenti meridionali in quel fatidico settembre 1943. Un paese che
perde tutti gli uomini in età da lavoro, intere reti parentali in Germania. E poi insieme un gruppo di napoletani, cui Carlo Starace ha chiesto nome
e indirizzo puntualmente annotati. Il racconto apre uno squarcio di straordinaria efficacia sull’evento.

I testimoni oggi narrano che quel giorno partirono da Teano 6 camion carichi, circa 350 furono gli uomini deportati dal centro, altri 250 circa
furono razziati nelle frazioni.

A pochi chilometri di distanza, a Carinola, si svolgeva una scena analoga. «All’alba [del 23 settembre] fu consegnato al podestà prof. Tuozzi un
ordine del comando militare tedesco di mobilitazione al lavoro obbligatorio di tutti gli uomini [...] Si vuole che già il giorno precedente, fino a
notte fonda, si fossero compilati gli elenchi nominativi degli uomini dal 1903 al 1925; e senza alcuna formalità, la notifica dell’ordine fu eseguita
ad personam, dai militari tedeschi. [...] A Carinola ci fu il reclutamento coatto, a mano armata senza distinzione di età (mio padre ne aveva 40 di
anni e non 33). [...] Le SS2 circondarono il centro abitato e posero postazioni di mitragliatrici col nastro dei proiettili inserito su tutte le strade di
accesso, comunali e di campagna. Contemporaneamente altre SS fecero il giro in tutte le abitazioni dando la sveglia, col calcio del fucile
mitragliatore contro l’ingresso; accedettero nelle stanze da letto ove le famiglie non avevano fatto in tempo neanche a lavarsi e vestirsi. Venivano
individuati gli uomini validi e condotti fuori: un blitz, insomma. [...] Dopo circa un’ora, era ormai giorno, gli uomini furono mandati a casa a
rifornirsi e a provvedersi del cappotto, con ordine di ripresentarsi in piazza non più tardi delle 9. Alle 9 o quasi, tutti si ritrovarono in piazza,
mentre venivano ravvicinate le postazioni di mitragliatrice fino a circondare la piazza. Qui un paio di camion militari erano già pronti. Gli uomini
furono fatti salire fra strazianti scene di addio con le mogli, i figli piccoli (i grandi o stavano tra i deportandi o erano nascosti), le madri, le sorelle,
i nonni, sotto lo sguardo attonito e sospettoso dei militari. Poi la partenza, le urla, i pianti, gli svenimenti, il rientro desolato nella casa vuota».3

134 furono gli uomini che al ritorno dalla Germania si iscrissero all’associazione dei deportati di Carinola.4 La stessa razzia venne attuata nelle
frazioni di Casanova, Casale, Nocelleto, Falciano. I rastrellati vennero condotti in una radura a pochi chilometri di distanza, dove furono trattenuti
la notte sul greto di un fiume in secca. L’indomani mattina i familiari cercarono ancora di portare loro viveri e indumenti, ma non trovarono più
nessuno. Come i teanesi, essi furono trasportati sui carri bestiame fino a Monaco di Baviera e poi smistati; molti di loro avrebbero lavorato nello
stabilimento della BMW, prima a Dachau e poi a Marklissa nell’Alta Slesia.

Abbiamo tracce e documenti scritti su numerosi casi di deportazioni. Troviamo indicazioni sicure delle razzie del 23 settembre in moltissimi paesi
e cittadine. Da Castellammare di Stabia quel giorno furono rastrellati migliaia di cittadini.5 Nell’archivio comunale abbiamo ritrovato 627 schede
personali di uomini presi il 23 settembre e deportati in Germania, che sono probabilmente soltanto la punta emergente di una più larga schiera;
una lapide posta nell’attuale piazza Giovanni XXIII, allora piazza Municipio, parla di 5000 uomini deportati. Nelle testimonianze orali l’episodio è
vivissimo, è il luogo centrale della memoria di Castellammare in quei giorni. Alcuni combattenti avrebbero ucciso di lì a pochi giorni un
maresciallo che aveva collaborato al rastrellamento. Il capitano dei carabinieri Angelo Simio avrebbe subito un processo per collaborazionismo
nel 1944, e sarebbero state le donne dei deportati a lottare per la sua condanna e a testimoniare contro di lui.

«In data 15 agosto 1944 perveniva dall’Alto Commissariato per la punizione dei delitti fascisti una denuncia a carico del capitano dei RR.CC.
Simio Angelo a firma di Esposito Maria e altre cittadine di Castellammare di Stabia e si faceva fra l’altro la specifica di avere egli, in assenza del
commissario prefettizio di detta città, formato falsamente un manifesto per il reclutamento dei giovani pel servizio del lavoro relativamente ai nati
dal 1910 al 1925, curando la diffusione dell’ordine di mobilitazione, obbligando con minacce il tipografo Lanzara di stamparlo, partecipando
all’esecuzione dell’ordine, e inoltre tentando di ottenere dall’autorità amministrativa locale lo sgombero della città di Castellammare da parte
della popolazione civile, in base a una personale interpretazione dell’ordinanza prefettizia che ordinava lo sgombero della fascia costiera
relativamente alla città di Napoli. Espletate preliminari indagini vennero acclarati i fatti su esposti; e inoltre si accertò che il Simio fornì al
tipografo Lanzara, per la stampa del manifesto, personale per azionare le macchine tipografiche in mancanza dell’energia elettrica. Curò
l’esecuzione dell’ordine di mobilitazione, predisponendo e comandando un servizio di ordine, confermando la legalità dell’ordine di mobilitazione
ai famigliari dei giovani che gliene avevano fatto richiesta e la minaccia di fucilazione per quelli che non si fossero presentati e commettendo
anche violenza contro alcuni dei presentandi».6

Secondo la ricostruzione dei fatti operata dal giudice militare erano stati deportati circa 2000 uomini. Il capitano dei carabinieri sarebbe stato
riconosciuto colpevole di «aiuto al nemico» e condannato a sedici anni di reclusione. La sua difesa, aver eseguito ordini sotto minaccia della vita,
non fu accettata poiché egli aveva agito ben al di là delle funzioni che a lui erano attribuite, prestando quindi opera del tutto volontaria
all’esecuzione dell’ordine dei tedeschi. Egli avrebbe ancora tentato di difendersi attribuendo alle sue accusatrici un desiderio di vendetta nei suoi
confronti, cresciuto nel corso del tempo per la sua funzione di difensore dell’ordine pubblico. E qui, dalle scarne righe della sentenza, emerge
un’altra traccia interessante di quello scontro sociale di cui già si è parlato a proposito di Napoli. La difesa di Angelo Simio parlava di «sentimenti
di vendetta, livori personali e risentimenti di varia natura, determinati dall’azione energica del Simio, in varie contingenze, per la tutela
dell’ordine pubblico, specialmente in occasione di una manifestazione pro-pace, per cui si rese necessario il lancio di qualche bomba e per la
repressione del mercato nero».7 La manifestazione cui si fa cenno è quella del 1° settembre 1943 contro la guerra, organizzata dagli operai del
cantiere navale e delle altre industrie e che si svolse con una grande partecipazione delle donne. Ci furono feriti e arrestati. Nella memoria è
tuttora vivo il ricordo della repressione violenta. Una delle relazioni archiviate allora dalla prefettura napoletana fu stesa proprio dal capitano
Angelo Simio.8 Fin dai primi di settembre, dunque, ancora prima della dichiarazione di armistizio, si era verificato un acceso conflitto tra
popolazione e autorità costituite, che crebbe fino a diventare uno scontro armato contro gli occupanti tedeschi, immediatamente dopo
l’armistizio. Il rastrellamento così esteso e violento ha probabilmente un legame con questa storia di disobbedienza e di opposizione politica al
regime, svela un altro aspetto della deportazione per il lavoro coatto in quanto arma di repressione e di vendetta contro una popolazione indocile
e attribuisce alla deportazione quell’aspetto politico che non le è stato riconosciuto.9

Dopo il 23 settembre, nei paesi rimasti al di là del fronte, in mano tedesca, le incursioni per prelevare uomini continuarono per tutto ottobre e
oltre. Documentazione scritta si trova su Alvignano (140 deportati), Castelcampagnano (220), Gioia Sannitica (160), Limatola (100), Telese (124),
Conca della Campania (118), ma sappiamo che le razzie furono estese a tutti i paesi della zona occupata. A San Salvatore Telesino gli uomini,
concentrati nel paese vicino, riuscirono a scappare, ma il rastrellamento ebbe comunque, per alcuni di loro, un tragico epilogo. Ne abbiamo
notizia nella documentazione americana: «Massacro di San Salvatore Telesino. Il 9 ottobre 1943 128 uomini furono presi e messi sotto controllo
di guardie italiane nelle vicinanze di Piedimonte. Dopo quattro o cinque giorni le guardie italiane aiutarono tutti i prigionieri a scappare. Quattro
giovani decisero di raggiungere le loro case attraverso una via diretta invece che attraverso le colline come i loro compagni. Il 18 ottobre 1943 i
corpi di questi 4 giovani furono trovati in una cappella abbandonata a Faicchio nelle vicinanze di San Salvatore Telesino. Essi erano stati uccisi
dal fuoco di una mitragliatrice o di una pistola».10

Gli ordini tedeschi

Il 20 settembre 1943 il capo di stato maggiore aveva inviato al comando generale del XIV Corpo d’armata corazzato il seguente ordine: «Il Führer
ha ordinato che vengano deportati tutti gli italiani abili, in particolare tutti gli operai adatti a lavori di fortificazione e i lavoratori specializzati. Il
comandante supremo dell’armata Sud ha quindi consegnato al ministero degli Interni italiano il decreto allegato che concerne esclusivamente il
reclutamento dei lavoratori del territorio di Napoli e sobborghi. Il comandante di Napoli ha ricevuto un ordine speciale orale per l’attuazione di
queste misure in un ambito più esteso. A questo scopo nei prossimi giorni un battaglione di polizia (motorizzato) verrà inviato e sarà sottoposto al
suo comando. Tutti i reparti impiegati tatticamente nel settore del comandante di Napoli o nel territorio circostante dovranno, a richiesta,
sostenere l’azione nella maniera più decisa possibile, nei limiti consentiti dall’impegno in combattimento. [...] Vengono inoltre assegnate alle
divisioni e ai gruppi di combattimento zone precise, nelle quali reparti speciali, la cui composizione e consistenza dovrà essere stabilita volta per
volta, nel tempo ancora a disposizione dovranno prelevare il maggior numero possibile di italiani abili alle armi e validi per l’impiego di lavoro in
Germania o nei territori occupati. Dal momento che non c’è da aspettarsi che si presentino volontari, bisogna procedere con la forza, anche se
con la maggior discrezione possibile. Sono particolarmente importanti i lavoratori specializzati sopra citati. Gli italiani catturati dovranno essere
raccolti in appositi campi ed essere trattati come prigionieri di guerra. La 15a divisione granatieri corazzata e la 16a divisione corazzata devono
allestire i loro campi di raccolta a Formia e a Sparanise dove saranno apprestati i mezzi di trasporto necessari, con una capienza di almeno 1000
uomini ciascuno. La divisione corazzata Hermann Göring e il comando cittadino di Napoli devono consegnare gli italiani da loro catturati alla 16a
divisione corazzata (Sparanise), i gruppi di combattimento Maucke e von Corvin alla 15a divisione corazzata (Formia). L’intendente del XIV Corpo
d’armata corazzato riceverà disposizioni speciali per il rifornimento finanziario dei campi di raccolta di Formia e Sparanise. Fin dall’arrivo dei
primi prigionieri, la 15a divisione granatieri corazzata e la 16a divisione corazzata devono comunicargli giornalmente le forze di lavoro dei campi
di raccolta. L’intendente del XIV Corpo d’armata corazzato disporrà la preparazione di adeguati treni per il trasporto a Cassino. Le sentinelle
necessarie per il trasporto ferroviario verranno messe a disposizione dal comando generale».11

Il giorno seguente troviamo la trasmissione dello stesso ordine alla divisione Hermann Göring.12 Nel passaggio il tono si è fatto più aggressivo:
«Trattamento da prigionieri nemici; colpire a morte in caso di tentativo di fuga. Si può prevedere con certezza che dopo alcuni episodi di questo
tipo, i tentativi di fuga non si ripeteranno»; «In occasione di azioni di cattura sulla strada o nei villaggi, bisogna prendere il mulo, l’asino o il carro
(possibilmente insieme al proprietario), e portarlo al posto di raccolta dei prigionieri, secondo gli ordini. Anche in queste operazioni è vietato
qualunque atto di riguardo nei confronti della popolazione».

Segue l’ordine di comunicare il numero dei prigionieri portati nel campo «giorno per giorno», ordine che puntualmente viene eseguito. Così il 22
settembre «viene disposta un’azione di cattura di forza lavoro italiana maschile» e la costruzione di «un campo di raccolta in località Maddaloni».
Il 23 settembre la divisione corazzata annota il numero di 1500 prigionieri raccolti nel campo appena costruito. La 15a e la 16a divisi one
corazzata avevano, nel frattempo, rastrellato ciascuna 6-7000 uomini.13 Il 24 si comunica che i prigionieri catturati fino ad allora sono 2500, il 25
si segnala la resistenza alla cattura.14 Il 26 settembre troviamo l’ordine di «catturare, in collaborazione con il comandante di presidio di Napoli,
colonnello Walter Schöll, con azione improvvisa, la manodopera specializzata». Il 27 si segnala l’inizio di un grande rastrellamento. «Questa
mattina è cominciata l’azione di rastrellamento nella zona urbana di Napoli. Finora raccolti 2000 uomini».15

L’intelligence britannico intercettava in quei giorni i rapporti dell’esercito tedesco sulle razzie di uomini. «La 15a divisione granatieri corazzata
riporta 5000 razziati, di questi 1000 sono stati immediatamente mandati a Sparanise, 1000 a Frosinone e 1000 a Fondi. È stato ordinato il
trasporto da Frosinone per altri 2000. La divisione corazzata Hermann Göring riporta fino a 6000-7000 razziati. Gli alti comandi dell’esercito di
stanza a Napoli prevedono circa 30000 uomini in età di servizio militare».16

È forse la presenza del grande campo di raccolta di prigionieri, insieme alla solidarietà e alla disobbedienza della popolazione locale, a provocare
le distruzioni e i massacri che si verificarono a Sparanise fra il 10 e il 22 ottobre.17

Le violenze della Wehrmacht: Teano, Marzano Appio, settembre-ottobre 1943

Torniamo ora al caso di Teano. I racconti ripropongono oggi molte delle immagini del diario di Carlo Starace.

«In effetti io ho sentito un banditore la mattina del 23 settembre – il band itore era accompagnato da una pattuglia tedesca e un vigile che era
rimasto a Teano. – Ch’i carabinieri appriesse però... ce stevene pure e carabinieri! – E la frase che il banditore diceva, io da ragazzo me la ricordo.
O comando tedesco – in dialetto – o comando tedesco ordina a tutti i maschi... – Femmene e uommene... – Femmene e uommene dai 18 ai 55
anni... [...] e per curiosità siamo andati in piazza, però non c’amma portato né coperte, no, poi hanno detto... [Avevo] diciassette anni, io sono del
’25... Assieme a me c’era pure mio fratello, era del ’24, lui era militare, è tornato pochi giorni prima, quando si è sfasciato l’esercito. Dopo due o
tre giorni è stato preso n’ata vota. [...] Ci hanno detto che si doveva andare... si è messo a parlare in italiano una persona, mo non mi ricordo chi
è, e dice che dovevamo andare a lavorare a Milano, verso Milano. Noi a casa ce mureveme... a famme se senteve, ereme guagliune, cia fatte
piacere, simme iute così contenti... così contenti in piazza, ata capì?18 Ci siamo capitati nella trappola. Mentre che parlaveme sono arrivati i
camion in piazza, hanno circondato tutta l’uscita per San Nicola, piazza Umberto è stat a circondata... Chelle tene quatte uscite, insomma...
Insomma amme truvate nu mure, i tedeschi ch’i fucili ’n mane...19 Poi hanno detto: andate a casa, le donne vanno a casa, e mamme, prendono
una coperta, nu cucchiare e na forchetta, perché si va a Milano a lavorare. Ci hanno caricato ’ncoppe i camion, ci hanno portato a ponte di Gaeta,
a prima tappa, ci hanno scaricato dint’a na campagna, ce steve nu pergolato d’uva, solamente chelle amma truvate e buone, amma dormito
all’aperto là, senza coperta, senza niente. E chest’è. E poi? Poi dove vi hanno portato? No, chelle poi ci hanno portato in una scuola a Frosinone,
però giungevene a l’ati parte, a Sparanise, a... a noi c’anne pigliate primme i ce spustà da Fondi, da Gaeta, simme state un paio di giorni dinte a
na campagna e steve nu pergulate d’uva e c’amme pulezzate tutte quante.20 [...] A Frosinone in una scuola. Insomma concentravano tutti quanti.
Poi una domenica, dopo sette o otto giorni, credo, ci hanno incolonnato, di mattina, dalla scuola ci hanno portato in ferrovia. In ferrovia ce
stevene tutti i carri bestiame, i carri, no? Hanno riempito vinte, trenta camion i chilli camion e là dinte... Quanti eravate di Teano lì? E ma di
Teano secondo me più i na cinquantina i persone che conosco, certo non mi ricordo tutti quanti... – Il numero totale risultante da qualche scritto...
fra Teano e frazioni sono stati più di seicento. – Ci hanno messo nei carri bestiame e secondo me per raggiungere la Baviera, un paese chiamato
Memi... Memingen... n’o saccie manche chiammà...21 Là era un concentramento, però ci hanno smistati, mio fratello ca steve cu me è andato a
n’atu campo, o direttore Conestabile a n’ata parte... Con me sono stati pure i fratelli D’Aiello, Alberto e Lucio... Pilotti, Rucchetielle ’o
chiammavene» (Giuseppe Panicaro con interventi di Vincenzo Mastrostefano).

«Un banditore, cioè come erano una volta, col campanello, che suona... Attenziò tutti gli uomini... – ricordo ancora – tutti gli uomini dai... sedici
mi sembra, sedici, diciotto anni ai sessantacinque, tutte le donne, a meno che non siano incinte, si devono recare in piazza Umberto... – che era la
piazza del comune e quindi la piazza più grande di Teano – per importanti comunicazioni. Mia madre disse a mio fratello, che a dire la verità
aveva quindici anni, ma sembrava molto più grande, dice: tu da qua non ti muovi. Invece moltissima gente non si rese conto del pericolo, quando
la piazza fu piena, misero le mitragliatrici all’uscita... delle varie uscite della piazza, dissero: gli uomini restano qua, le donne vadano a casa a
prendere un po’ di roba... Poi se li caricarono sui camion e se li portarono, se li portarono prima a Sparanise, dove c’era un centro raccolta di
uomini, lì stettero alcuni giorni, qualcuno corruppe le guardie e riuscì a scappare o riuscì a scappare anche senza corrompere le guardie. So di un
mio parente con un suo cognato che, credo, diedero un po’ di soldi e riuscirono a fuggire. Molti furono invece presi, li portarono in Germania,
qualcuno tornò, ma molti non tornarono più» (Riccardo Condurso).

Si racconta ancora che gruppi di donne avessero cercato di fermare i camion e in alcuni luoghi ci fossero rius cite. Si narra che il banditore,
obbligato a gridare per il paese il bando camminando in mezzo a due soldati, cercasse nel contempo, attraverso occhiate e smorfie eloquenti, di
far capire l’inganno.

«Con il dito faceva il segno di non andare, perché i carabinieri e il vigile erano dietro, affianco invece del banditore ci stava questa pattuglia di
tedeschi con il mitra, che però portavano sulle spalle... siccome questi andavano un passo indietro non vedevano il dito del banditore detto Luigi a
Titiella – devo riportarlo così, testualmente – Luigi a Titiella, che era un gran brav’uomo, il quale cercò di salvarne quanti più possibile» (Vincenzo
Mastrostefano).

È una rappresentazione diffusa questa del banditore che grida e ammicca. Certo è un’immagine che sembra emergere dalla trama di una favola o
dalla scena di un teatro napoletano, ma, vera o fantastica che sia, corrisponde a una costruzione culturale interessante, ci ripropone un’idea di
resistenza minore, illustra le possibilità dei deboli di fronte a un potere cui è impossibile opporsi. Il banditore cerca di aggirare ordini feroci in
quello stretto margine in cui si può muovere e con le scarsissime risorse che ha a disposizione, la sua figura e la sua azione sono un ap ologo che
allude a una condizione umana diffusa di fronte a poteri forti e violenti. Per questo forse campeggia nei racconti di razzie.

Il podestà che aveva firmato il bando per il raduno in piazza fu denunciato per collaborazionismo e, a differenza del capitano di Castellammare, fu
prosciolto: sostenne di essere stato obbligato con le armi dai tedeschi. Giuseppe Panicaro, uno dei deportati, ricorda di essere andato a Napoli a
testimoniare in suo favore, dicendo di essersi presentato spontaneamente al raduno nella piazza pensando di andare a lavorare. Il podestà riebbe
un ruolo nella vita politica del paese, ricoprendo addirittura importanti incarichi politici nel dopoguerra fino a diventare, nel 1956, consigliere e
quindi assessore provinciale nelle liste della Democrazia cristiana.22 Altri testimoni lo scagionano ancora, sostengono che non potesse
comportarsi diversamente. In realtà si capiscono il suo ruolo e la sua figura, se se ne approfondisce la conoscenza. L’avvocato Marseglia era, in un
certo senso, un notabile all’antica (e spesso il fascismo, dopo aver suscitato violenze , conflitti, fazioni, dovette ricorrere ai notabili per governare
nella periferia meridionale), aveva una legittimazione locale, e si racconta che abbia aiutato le famiglie dei deportati attraverso l’ente di
assistenza, l’ECA.

«Avendo ricevuto da don Gaetano Marseglia tante cose buone e tra l’altro si può andare a vedere all’ECA, nei registri dell’ECA non ha
dimenticato nessuno di quelli che erano stati deportati a dare dei sussidi alle famiglie... c’è stata la riparazione spontanea della persona che si è
trovata in quel momento a dover decidere molto probabilmente per la sua vita o per questa prospettiva di lavoro...» (Vincenzo Mastrostefano).

In contrapposizione emerge invece la figura negativa di un fascista, tal Caruso, che fu accusato di avere accompagnato i soldati nella razzia
segnalando i nascondigli, e di aver denunciato, provocandone l’uccisione, i tre ferrovieri che avevano rifiutato la loro opera per il trasporto dei
prigionieri, rendendo possibile la fuga di un gruppo nel viaggio tra Teano e Sparanise.

«Questi tre ferrovieri facevano servizio alla stazione di Teano. Il 23, quando vengono presi la maggior parte dei teanesi per la deportazione,
dovevano essere caricati... una parte doveva essere caricata alla stazione di Teano. Sennon ché questi ferrovieri si danno alla macchia, resta solo
il capostazione, che, non avendo i ferrovieri rifiuta... dice che non può far arrivare i carri merce, né agganciare i carri merce di Teano, per cui una
parte degli uomini di Teano vengono dirottati su Sparanise, per essere caricati sui carri merce a Sparanise. Sennonché i tedeschi riescono a
sapere... evidentemente per il tradimento di Caruso... E questi sono stati uccisi... quindi è stata fatta a bella posta. Uno è stato colto mentre
scappava a borgo Sant’Antonio Abate, un altro è stato trovato nel letto di prima mattina, il 3 di ottobre, e un altro... il 22 viene sorpreso invece...
viene sorpreso mentre si ritira dalla ferrovia» (Vincenzo Mastrostefano).

Dopo l’arrivo degli alleati, Caruso fu ucciso in un agguato.

«Sì, ha fatto prendere parecchie persone sta famiglia Caruso, ha fatto prendere... erano responsabili loro, ita capite? – In effetti Caruso con una
sua spiata ai tedeschi direttamente ha fatto prendere venti, venticinque persone che si erano nascosti nel vecchio convento benedettino di Santa
Maria De Foris. – E nu figlio lavorava coi tedeschi, Vitaliano. Era andato volontario con i tedeschi. – Volontario con i tedeschi, precisamente. E
allora mischiando amor patria con amor proprio... in effetti si diceva che questo Caruso aveva insidiato – o se la intendeva – con la moglie di
questo spazzino... – Amedeo, Amedeo... – Amedeo! – Ma dice ca o tagliaie a capa! – Il quale in località Cavone fu attratto in un tranello – proprio
con la moglie di questo Amedeo lo spazzino – e fu ammazzato, fu decapitato» (Vincenzo Mastrostefano e Giuseppe Panicaro).

Su questo episodio in un’altra intervista si accende una discussione tra i testimoni: uno, che tende a minimizzare la violenza nazista e la
resistenza dei teanesi, dipinge l’episodio come la vendetta di un marito «cornuto», gli altri sostengono invece che l’uccisione fu preparata a
freddo e che se ne assunse l’incarico ben volentieri l’uomo che, oltre tutto, voleva anche vendicare l’onore infranto.

La differenza tra le due rappresentazioni dei personaggi è significativa. Ci dà la misura del concetto di collaborazione dal punto di vista locale.
Nessuno mette in dubbio che Caruso sia stato un collaborazionista e un delatore. Il giudizio è netto. Caruso viene definito «fascista». Il termine
sta a indicare un coinvolgimento preciso nel partito nazionale fascista e nella sua politica locale, non è mai genericamente attribuito. Il podestà
invece non è considerato un «fascista», ma uno appartenente all’élite locale, e come tale può attraversare le congiunture, mediare tra la comunità
e gli altri e può facilmente essere assolto. Ovviamente anch’egli osserva certe regole: non si oppone saldamente ai tedeschi, fa da tramite, ma se
sa che c’è qualche uomo nascosto che non viene trovato, certamente non lo denuncia...

Si narra ancora di un’altra persona ferita gravemente per gli stessi motivi.

«Fu sparato da uno che era stato appunto tradito e preso dai tedeschi, che però poi riuscì a scappare. Venuto a Teano lo aspettò fuori al cancello
della villa e lo sparò, era di notte, m a doveva non essere preciso con la pistola, non si è mai saputo, né i carabinieri hanno saputo chi è che l’ha
sparato; il popolo lo sapeva, ma nessuno mai è riuscito... – La voce, la voce... voce di popolo voce e Dio» (Vincenzo Mastrostefano e Giuseppe
Panicaro).

Teano si trovava sulla linea di fortificazione Barbara (Mondragone, Teano, sud di Conca della Campania, parte settentrionale del Volturno) e a
ridosso della importante linea Bernhard (tra il monte Santa Croce a ovest di Roccamonfina, il massiccio del monte Camino a nord, e il monte
Cesima che dominava la strettoia tra Mignano e San Pietro Infine, dove si svolse una delle battaglie più note e cruente della campagna d’Italia).23
In alcuni punti la Bernhard combaciava poi con la Gustav.24 Per questo nella zona si trovava concentrato un numero elevato di soldati, con un’alta
carica di violenza e di conflittualità con la popolazione.25

Pochi giorni dopo la razzia degli uomini, la popolazione conobbe altre viole nze. Si dice che i giovani avessero cominciato ad armarsi, che fosse
stato ferito un soldato tedesco. Il 3 ottobre 15 persone furono prese nella masseria Pagliarella (contrada San Massimo), tre di queste furono
legate a un pagliaio, a cui venne dato fuoco. Nel registro dei morti del comune di Teano compaiono il 3 ottobre Gennaro Mancini di anni diciotto,
Gelasio Balletta di trentanove anni, entrambi braccianti, e Sabatino Giarusso di trentadue anni, insegnante, morti a contrada San Massimo per
fatti di guerra, annotazione che indica le vittime della violenza tedesca. Nelle testimonianze le date si sovrappongono.

«[Era stato allestito] un mini campo di concentramento nel giardino del convento di Sant’Antonio... tutte le mattine, tutti i giorni, i tedeschi
uscivano con le pattuglie per rastrellare altri uomini. I tre erano nascosti in una grotta in località San Massimo, di questi uno era insegnante,
adesso mi sfuggono i cognomi. [...] Dal 6 di ottobre al 22 di ottobre i rastrellamenti diventarono più frequenti, si può dire quotidiani. Questi tre
furono sorpresi nelle grotte di San Massimo, per la verità non stavano proprio nella grotta, perché non sarebbero stati scoperti, ma si erano
allontanati per procurarsi del cibo... [...] I tre furono immediatamente legati attorno a questo cumulo di paglia, a meta ’e paglia se chiama, non
era il pagliaio, il pagliaio era la paglia di lupini messa a triangolo e non ci pioveva dentro ed erano il ricovero di tutti gli animali, di tutti i
contadini, e stava in tutte le masserie nelle case di campagna di Teano. Invece a meta ’e paglia, o metale, detto in dialetto, era... si formava
attorno a un palo tutto si metteva la paglia in modo tale che la parte este rna scacciasse l’acqua e con un uncino di ferro, che aveva la punta, si
tirava poi la paglia da dare agli animali come lettiera o come cibo, perché allora solo quello c’era. Lo stesso arnese era quello che poi serviva per
prendere il maiale sotto la gola e poi trafiggerlo con il coltello e ammazzarlo... E quindi questi furono trovati in campagna, ma perché c’era stato
un ferimento? C’era stato qualche cosa? C’era stato un ferimento di un tedesco da parte di un militare della finanza, nella masseria Pagliarella.
Allora i tedeschi fecero immediatamente il rastrellamento per prendere questo finanziere. Ecco perché la pattuglia tedesca convenne su San
Massimo perché aveva preso a largo raggio il rastrellamento, trovarono i tre che non si erano presentati alla chiamata per andare a lavorare con i
tedeschi e immediatamente, pensando che fosse... uno di questi fosse questo brigadiere della finanza, spararono nel pagliaio e li fecero bruciare,
non li ammazzarono, li fecero bruciare. Gli strilli di questi tre poveracci si sentirono fino a mezzo chilometro di distanza, perché poi allora non
c’erano i rumori dell’inquinamento acustico di oggi, per cui qualsiasi canto di uccello notturno, anche a distanza di un chilometro, si sentiva, in
quanto c’era questo silenzio, che oltretutto era ancora più cupo, essendovi il coprifuoco, perché non c’era corrente, non c’era niente e stavano
tutti con l’orecchio teso perché improvvisamente cominciavano i cannoneggiamenti, all ora si cercava di correre nei rifugi che si erano approntati
e i pagliai servivano anche come rifugio contro i cannoneggiamenti [che si concentravano sul centro cittadino]» (Vincenzo Mastrostefano).

Il 12 ottobre, «due ufficiali tedeschi con una camionetta salirono per verificare l’esistenza di una strad a che portasse a Roccamonfina, uno, con in
mano una mappa, si diresse verso vico Sant’Eustachio, adiacente alla chiesa e alla casa parrocchiale. Un uomo di Fontanelle, Antonio de Fusco,
nascosto dietro a una finestra, sparò e lo ferì a morte. Il tedesco si trascinò fino all’imbocco del vicolo e il parroco don Cristoforo Rotoli,
vedendolo, scese per dargli l’estrema unzione; accorse il commilitone che puntò la pistola alla tempia del sacerdote, ma la pistola si inceppò,
allora gli diede uno schiaffone fortissimo; poi provò a trascinare il suo compagno fino alla camionetta, non riuscendovi, andò via da solo. I
tedeschi tornarono in forze al paese e si installarono in chiesa, usando due case di fronte alla chiesa come cucine, obbligando due ragazze,
catturate per forza a pelar patate per loro». 26

I tedeschi avrebbero intimato la consegna dell’uccisore e, non trovandolo, avrebbero cercato gli uomini fuggiti in giro per le campagne per
effettuare una rappresaglia.

«Quanne accerettene i dui ufficiali... unu ’e chille o sparette? Ne culpette a uno e n’atu o ’ncappette e s’o steve a purtà, senonché sotto a fineste o
iette a pusà pecché era muorte e se ne fuiette sule isse c’a camionetta... e aroppe po’ venerene. Quanne accererene o tedesco venerene a matine
e s’o venettene a piglià allora dinte a chille iuorne... lu iuorne appriesse venerene accà, s’estallerene accà e stettere parecchie tiempe, sette o
otto iuorne, dint’a chiesa e dint’a cas a ra mugliera i Pascaluccie. Sterene na recina de iuorne, però dinte a chilli uorne insisterene sempe pecché
vulevene sta persona che aveva ucciso lu tedesco, quanne nun ce iette nisciune allora aroppe sai che facerene? Scarrubberene lu ponte, co e
mine, scarrubberene la casa i [...] co e mine, po’ scarrubberene chelle i Pascaline Candelle e chelle i Maria di Tummasino llà, co le mine, po’
appiccerene chelle i zì Francesco... [...] pochi iuorne roppe accererene a buonanima d’Alfredo, duie frate e na sore: Agnese, Salvatore e Girolamo
e Alfredo, lu marito ra buonanima di Piacentina, chiste erene... A buonanima d’Alfredo chille veramente steve annascuse, avevene pigliate lu
padre, allora chille le dispiacette che erene pigliate lu pate? E ascette isse, ascette isse, lu pigliarene e spararene a isse e lu padre no, che era
viecchie. O erane chiedere o permesso che l’erene purtà abbasce allu cimitero, ’ncoppe a na scala»27 (Cristina Taffuri).

«Salvatore e Girolamo De Biasio erano entrambi militari dell’esercito italiano. Dopo l’8 settembre avevano preferito tornare nel loro paese.
Girolamo (nato il 25 marzo 1920) era un brigadiere dei carabinieri e faceva servizio all’isola di Ponza ed era tornato a piedi dai luoghi dove
prestava servizio. Salvatore (nato il 2 giugno 1911) era nella cavalleria. Alcune persone di San Giuliano ricordano che erano passati per la
cappella di San Vito. [...] Di loro si ricorda la prestanza fisica e i modi gentili. Le donne della loro famiglia portavano il cibo tutti i giorni, la madre
e le sorelle, Agnese (nata il 24 gennaio 1913) piccolina e cicciottella, e Maria, alta e magra. Anche quel giorno (22 ottobre) erano andate da loro
che erano nascosti nella zona tra la Oria e Rocci, quando videro che i tedeschi avevano catturato i loro familiari. Agnese li abbracciò e non volle
staccarsi da loro e quando la squadra sparò fu uccisa con loro. La madre e la sorella Maria furono mute testimoni fermate dai fucili. Furono
seppelliti nelle buche già scavate e gli tolsero solo le scarpe, che diedero al traduttore. Solo nell’ottobre del 1944 i loro resti furono traslati al
cimitero di Fontanelle, accompagnati da autorità civili e militari. Alfredo Dragone (nato il 12 settembre 1909) abitava in una casa in campagna
nelle vicinanze di Rocci, poco distante dal luogo dove furono uccisi i tre fratelli, e per non essere catturato era nascosto nella soffitta della sua
casa, quando vide che i tedeschi avevano catturato l’anziano padre e stavano per fucilarlo, si fece avanti per impedirlo, ma fu giustiziato sul
posto. Il suo corpo fu portato al cimitero su una scala e lì seppellito, dopo aver chiesto il permesso ai tedeschi. Lasciava la moglie incinta di pochi
mesi. I soldati tedeschi non trovarono altre persone per vendicarsi, ma per sfogare la loro rabbia prima di scappare verso Roccamonfina,
minarono due case in piazza Chiesa e una casa a via Lupara, già nei giorni precedenti avevano bruciato la casa di Pasquale Marrese in vico
Sant’Eustachio convinti che fosse del De Fusco, e fecero saltare con le mine anche il ponte di pietra che collegava le due parti del paese. Nella
loro fuga verso Roccamonfina fecero saltare in aria con le mine anche il ponte di San Giuliano».28

Sull’episodio indagarono i carabinieri nel 1945. Abbiamo quindi la testimonianza del tempo che conferma i racconti raccolti oggi.

«Il giorno 20 ottobre 1943, verso le ore 13, in Fontanelle di Teano, fui catturato da un maresciallo tedesco che era seguito da 17 dipendenti.
Costui, del quale sconosco il nome come pure degli altri militari tedeschi, mi pose con le spalle contro il muro dirimpetto alla chiesa del luogo per
fucilarmi. Alle mie implorazioni, in lingua tedesca, il succitato sottufficiale, che di già stava per far fuoco con la pistola mitragliatrice, di cui era
in possesso, si rattenne e mi invitò a seguirlo poco lungi, ove mi diede incarico di cercare per il paese roba da mangiare e, poi, portarla a lui pena
la morte. Verso le ore 12 del giorno 22 ottobre 1943 il precitato ufficiale tedesco formò, dei militari da lui dipendenti, tre squadre, a capo di una
delle quali si pose egli stesso, ordinando a tutti i militari di uccidere quanti uomini avessero trovato lungo il loro cammino. Difatti, le squadre si
mossero chi per un versante chi per un altro per scovare degli uomini. Io fui costretto a seguire il sottufficiale predetto. Giunto verso le ore 15
con costui e altri quattro militari tedeschi in contrada “Solignano” di Fontanelle di Teano, vidi che altri militari tedeschi componenti una delle tre
squadre suddette erano già colà ed avevano già fucilato il carabiniere a piedi De Biasio Girolamo ed il fratello Salvatore, entrambi da Fontanelle
di Teano. Gli stessi militari tedeschi avevano pure catturata la sorella dei succitati fratelli De Biasio, di nome Agnese, che fucilarono alla mia
presenza. Compiuto ciò il maresciallo in parola mi diede ordine di cavare le scarpe ai tre predetti cadaveri, facendosele consegnare. Detto
sottufficiale m’impose di provvedere alla sepoltura dei cadaveri, cosa che feci alla di lui presenza».29

Il 25 ottobre, negli archivi del comune di Teano, risultano 7 morti per fatti di guerra (Antonio Giorgio, Assunta De Lucia, Virgilio Tella contadino
di trentasette anni, Alessandro Tella, contadino di trentadue anni con la figlia Angela di tredici anni, Antimo Palombo, Genovina D’Angelo). Altri
furono uccisi qua e là: il corpo di Angelo Mastrostefano fu trovato molti giorni dopo con i segni del mitragliamento subito.

Nella documentazione del Tribunale militare troviamo le testimonianze sulle uccisioni di due delle vittime.

«Il giorno 25 ottobre 1943, verso le ore 14, mio marito Giorgio Antonio, nato nel 1892 a Teano, si trovava ricoverato in un ricovero sito nel
giardino di proprietà Zarone Giuseppe da Teano, che trovasi distante qualche centinaio di metri dall’abitato, per sfuggire alla cattura da parte dei
tedeschi, che non so come abbiano fatto a scoprirlo. Mio marito a vista di costoro si dette alla fuga col vano intento di non farsi prendere
menandosi nel giardino di proprietà di Giglio Francesca, attiguo al ricovero stesso. Mentre fuggiva incontrò altri tedeschi, i quali non hanno
esitato a fare fuoco addosso a mio marito ed ad un’altra donna a nome De Lucia Assunta da Teano, che trovavasi nel giardino essendo lei la
fittuaria. Sono a conoscenza di ciò perché mi è stato riferito da mio nipote Chiappinelli Gaetano e da De Donato Anna».30

«Il giorno 25 ottobre 1943, verso le ore 14, mia moglie De Lucia Assunta, nata a Teano il 1901, trovavasi nel giardino di proprietà di Giglio
Francesca, distante dall’abitato circa un centinaio di metri per raccogliere delle melanzane, essendo il giardino stesso tenuto in fitto da noi. Ad un
certo momento una quindicina di tedeschi si schierarono lungo il giardino stesso con le armi in pugno facendo fuoco addosso a certo Giorgio
Antonio da Teano, mentre questo fuggiva col vano intento di non farsi prendere. Dopo aver ammazzato quest’ultimo un tedesco si avvicinò a mia
moglie proferendo le testuali parole: “traditori italiani”. E senza aspettare altro gli sparava contro una raffica di mitraglia, freddandola
sull’istante. Sono a conoscenza di ciò perché mi è stato riferito da certa De Donato Anna, la quale trovavasi anch’essa nel giardino medesimo
nascosta sotto le piante delle melanzane».31

Vincenza Ruggiero testimoniava sulla morte del marito Antonio Ciambella, avvenuta il 30 ottobre.

«Il giorno 30 ottobre 1943, verso le ore 16, mentre prendeva un fiasco d’acqua nella propria casa, un grande spostamento d’aria, verificatosi ad
opera del brillamento di mine collocate dai tedeschi negli stabili viciniori, per distruggerli, apriva il portone d’ingresso. Così venne visto da alcuni
militari tedeschi (tre in tutto) i quali forse intendevano portarlo via e lui che si opponeva o per altro motivo, ma il fatto è che lo ammazzarono
brutalmente, mediante tre colpi di pistola, di cui uno alla guancia destra ed altri due alla regione cranica».32

Testimonianze di oggi e documentazione del tempo fanno emergere una situazione di violenza diffusa, una elevata conflittualità cui i tedeschi
risposero sempre con brutalità.

A pochi chilometri di distanza, a Campagnola, frazione di Marzano Appio, il 10 ottobre si era verificato un altro episodio di ritorsione. Un giovane
contadino aveva lanciato una bomba contro un tedesco che gli voleva requisire un maiale e lo aveva ucciso. Era seguita l’immediata ricerca degli
uomini per la rappresaglia. Essendo Campagnola una piccola frazione in mezzo a grandi boschi di castagni che digradano dal monte Santa Croce
(1005 metri di altezza), fu più facile per gli uomini scappare e nascondersi in montagna. Già molti di loro vi stazionavano per paura dei
rastrellamenti. I soldati uccisero dunque quelli che incontrarono, uno storpio che non era scappato perché pensava di non essere nel mirino dei
soldati, degli anziani anch’essi convinti di non essere colpiti per la loro età. Fino all’ultimo, anche allora, tutti pensarono che i soldati seguissero,
nonostante la violenza, delle inflessibili leggi di guerra.

Nella sacrestia della parr occhia di Campagnola ho incontrato Candida Romano, la figlia di colui che gettò la bomba. Nata subito dopo la guerra,
ha riportato la versione che il padre le raccontò. Stava tornando a casa quando incontrò i tedeschi che si stavano portando via il suo maiale. Non
fece altro che difendersi («o lui o loro»), sparò e ferì gravemente un soldato. Poi scappò. E i tedeschi fecero la rappresaglia.

Maria Paolino vide la rappresaglia dalle finestre di casa sua, uccisero due vecchi, di settantadue e ottantadue anni, uno storpio e un minorato. Li
uccidevano e buttavano i corpi giù dal parapetto della strada in un piccolo dirupo.33

Il caso di Campagnola è ampiamente documentato dalle inchieste dei carabinieri del 1945.

«La sera del 10 ottobre 1943, verso le ore 17, mentre stavo al davanzale della mia finestra, vidi un gruppo di sei o sette militari tedeschi
provenienti dalla frazione di Campagnola i quali, scorto in mezzo alla via il nominato De Quattro Paolo fu Pietro di anni settantadue, aprirono
subito il fuoco su di lui uccidendolo. Accertatisi che il De Quattro era deceduto, i militari suddetti tornarono indietro lasciando il cadavere
dell’infelice sulla pubblica via. I tedeschi, prima di aprire il fuoco non profferirono alcuna parola ed uccisero il De Quattro per solo spirito di
barbarie e vendetta contro gli italiani».34

«Il 10 ottobre 1943 essendo fuggiasco per le campagne della frazione Campagnola di Marzano Appio onde sottrarmi alla cattura da parte dei
tedeschi, mi recai in detta frazione per farmi radere la barba. Via facendo incontrai il nominato Martino Antonio fu Michele del luogo ed un
militare fuggiasco a nome Osvaldo, ai quali dissi che cercavo un barbiere per farmi radere la barba. Gli stessi mi comunicarono che nella frazione,
poco prima, un individuo aveva lanciato una bomba a mano contro un camion di militari tedeschi e che, per questo, gli stessi militari, stavano
uccidendo delle persone. Mentre ciò mi raccontavano abbiamo sentito il rumore di camion tedeschi e per non farci prendere, fuggimmo andando
a nasconderci dietro una rupe dove, però, fummo scorti dai tedeschi i quali senza profferire motto, aprirono il fuoco contro di noi uccidendo il
Martino e ferendo alla gamba il militare del quale, come sopra ho detto, conosco il solo nome. Io rimasi miracolosamente illeso e mi diedi subito
alla fuga senza vedere che cosa abbiano fatto i tedeschi del morto e del ferito».35

«Il giorno 10 ottobre mentre mi trovavo in casa assieme ai miei quattro bambini, vennero tre militari tedeschi e violentemente mi costrinsero a
seguirli fino alla chiesa parrocchiale della frazione. Li seguii portando meco i quattro miei bambini ed ivi giunta, trovai molte altre donne, vecchi
e bambini della frazione. I tedeschi volevano sapere a forza da noi chi era stato a lanciare una bomba contro un loro autocarro e, siccome nessuno
di noi sapeva tanto ed anche quando lo avessimo saputo non lo avremmo mai detto, i tedeschi dal piazzale della chiesa ci condussero tutti in
mezzo alla piazza del paese dove, le donne ed i bambini ci misero a ridosso delle abitazioni e gli uomini dall’altro lato a ridosso del muro che
recinge il ponte. Tutto questo avveniva sotto la minaccia delle armi che i tedeschi tenevano sempre spianati contro di noi tutti. Fatto tanto
cominciarono ad aprire il fuoco contro gli uomini ed io vidi uccidere il nominato Martino Patrizio vecchio di circa settantacinque anni; non potei
vedere altro perché i tedeschi, alle nostre grida e temendo che avessimo potuto reagire, ci rinchiusero subito dentro la casa di certo Romano
Luigi, da dove abbiamo solo sentita la sparatoria ma nulla abbiamo potuto vedere di altro. Quando uscimmo fuori di detta casa ho visto a terra il
cadavere di Martino Patrizio e quello di Marcello Giacomo che erano stati buttati sotto il ponte e sul luogo dell’eccidio vidi le carogne di due asini
ed il cadavere di certo De Quattro Vincenzo anch’egli vecchio che giaceva vicino alla carogna del proprio asino. In preda al terrore scappai subito
a casa e non vidi null’altro delle barbare gesta dei tedeschi».36

«Il giorno 10 ottobre 1943, verso le ore 16, circa, mentre stavo in casa assieme a mia madre ed a mio padre Marcello Giacomo, vennero dei
militari tedeschi i quali, senza profferire alcuna parola, con le armi in pugno, presero mio padre e con modi alquanto burberi ed inumani
puntandogli le armi contro lo obbligarono a seguirli. Rimasta in casa allibita dal terrore vidi che mio padre venne condotto nella piazza di
Campagnola dove c’erano anche delle altre persone che i tedeschi guardavano con le armi in pugno. Ivi separarono uccidendolo il nominato
Martino Patrizio di Paolo di anni ottantadue e poi uccisero barbaramente anche mio padre. Dopo di ciò presero i loro cadaveri e li buttarono nella
campagna sottostante. A circa venti metri dal posto dove furono uccisi mio padre ed il Martino Patrizio furono anche uccisi i nominati De Quattro
Vincenzo di anni settantadue circa, il quale, appena vide che stavano uccidendo mio padre ed il Martino Patrizio, aveva cercato di sottrarsi
all’eccidio con la fuga. Come sopra ho detto, sia mio padre sia le altre suddette persone furono uccise per semplice atto di barbarie perché nulla
avevano fatto in danno dei loro carnefici. Mio padre si era ritirato dal lavoro in campagna pochi momenti prima che i tedeschi venissero a
prelevarlo in casa».37

«Il giorno 10 ottobre 1943, mentre ero affacciata alla finestra della mia casa di abitazione, finestra che ha la visuale dirimpetto alla chiesa della
frazione, vidi due militari tedeschi che, incontrato il nominato Loffredo Paolo, vecchio debilitato di una gamba, ragione per la quale era costretto
a camminare con due bastoni, senza dirgli alcuna parola, lo freddarono a colpi di rivoltella e, dopo, presolo per le braccia e per le gambe, lo
buttarono nella casa in costruzione di proprietà di un certo Lombari Pasquale fu Carmine da Marzano Appio. Subito dopo vidi che gli stessi
militari, incontrato il nominato De Quattro Luigi fu Orazio di anni quarantatré, lo uccisero a colpi di arma da fuoco buttando il cadavere in un
giardino sott ostante. Inorridita di tanto scempio mi ritirai in casa e, dopo, seppi che anche mio padre era stato così barbaramente ucciso e senza
alcuna ragione».38

Si racconta che risparmiarono un padre di famiglia, cui i sette figli fecero da corona, implorando i soldati di lasciarlo in vita per loro, e che, per
raggiungere un numero adeguato di vittime, uccisero allora un certo numero di asini. Nei paesi vicini l’uccisione degli asini è stata enfatizzata ed
è passata alla storia come un atto estremo di spregio verso la popolazione: l’esecuzione di un certo numero di uomini e di asini sarebbe stata fatta
con l’intento esplicito di mostrare una umiliante similitudine. Uomini italiani e asini erano equivalenti. A Campagnola ho solo trovato il ricordo di
una grande strage di animali, con preponderanza di asini, che erano d’altro canto estremamente diffusi nelle campagne meridionali, ma la
ricostruzione rievoca anche in questo caso un atteggiamento presente tra i soldati tedeschi dopo l’8 settembre.

Maria Paolino e Giuliano Lucio ricordano insieme.

G.L. L’episodio è scaturito da un soldato di Campagnola, che andò... che era fuggiasco, scappò dal fronte, che successe? Che questi tedeschi
cercavano dei maiali perché non arrivavano più i vettovagliamenti, no? E allora cercavano... difatti io mi ricordo che quella mattina vennero pure
a casa nostra, disse mia mamma... E dice che forse stavano rubando sto maiale, questo li vide... M.P. Ma se lo presero proprio, perché poi dalla
rabbia lui buttò la bomba mentre quelli passavano, perché presero il maiale e se lo portavano. Io me lo ricordo, lo raccontava la gente. G.L. Quella
mattina mia mamma... noi abitavamo in un vicolo qua, che si... in cui non c’era sbocco di strade, arrivati a Campagnola, massimo a Tuoro Funaro,
paese qui vicino, lì moriva la strada, non c’era la strada per Roccamonfina, non c’era la strada per Marzano Appio, allora qui c’era il blocco. E mio
padre stava sempre in casa, perché? Perché una volta mia cugina, una volta un’altra sorella mia stavano sempre di postazione. Allora come: papà,
dice, papà, so’ passati i tedeschi sopra là dietro le curve che vengono da giù, dall’autostrada, allora papà si dava alla macchia. E quel gi orno,
quella mattina, ricordo mammà che dicette a mio fratello Corrado disse: stamatina è male tiempu. Dicette. Che cosa fece? Gli dette un prosciutto,
un rotolo di pane e dice: andatevene sotto là, sotto al ruscello. Dove tenevamo pure le pecore, le capre, in una grotta. Tutti scapparono!
Scapparono un poco tutti scapparono... E poi avvenne... poi noi non lo abbiamo visto, poi ce l’hanno raccontato, che ci fu la rappresaglia [...] M.P.
E ma a tuo nonno pure o sparaiene a Campagnola, perché lui dice: sono vecchio, dice nessuno mi fa niente. Invece... G.L. Morì mio nonno, un
certo De Quattro Paolo, però verso Tuoro Funaro, andava a pascolare una capra, era un po’ sordo, aveva settantatré anni, chissà che gli chiesero,
magari capì una cosa per un’altra, quelli: pa! pa! E lo spararono e lì morì. Invece qui fecero proprio... un rastrellamento e qui pure io ebbi
parecchi morti. Mio suocero Antonio Martino... Luigi, il fratello di mia suocera... M.P. Martino mi pare che s’era iute a affaccià sopra a chella
sagliuta, alle castagne, e dice che si mise dietro a un castagno... G.L. Era il 10 di ottobre, mi pare che era il 10 di ottobre. M.P. Perché quelli erano
ragazzi, allora dice che si mise dietro un castagno, vide passare e lo spararono proprio sul posto... G.L. Sì, lo spararono in quella villa proprio
all’inizio del paese. M.P. Là, ci stavano i castagni, lui andò a prendere le castagne. G.L. Invece gli altri li raccolsero nelle case, che poi erano tutti
vecchi, perché i giovani erano andati alla macchia e ne uccisero... quanti ne uccisero? Una decina? M.P. Non lo so i numeri, però ricordo pure il
nonno di mio marito. Patrizio, Giacometto, chisti due ccà i Martino. G.L. Vostro suocero, Patrizio Martino... M.P. No, no, chille era nonno a mio
marito, il padre della mamma. G.L. Ah, sì, sì, sì, avete ragione. M.P. Chille dice che la figlia, che era mia suocera, disse di non uscire, quello: io so’
vecchio, non mi fanno niente. Invece o sp ararono, lo incontrarono in mezzo alla strada e lo spararono. G.L. Sì, sì, c’era un altro vecchietto,
almeno ci hanno raccontato sempre, [disse ai tedeschi]: io poi vi dicevo sempre buongiorno... e invece lo spararono lo stesso. M.P. Sì, Giacometto.
G.L. Si salvò un certo De Quattro Alfonso, perché? Aveva nove figli, si misero tutti lì a piangere... M.P. A piangere, così, a disperarsi... G.L. E lo
salvarono. Poi che cosa... che ci hanno raccontato, io ripeto sempre la stessa cosa, perché difatti non c’ero, per raggiungere poi il numero che
dovevano essere... doveva essere trenta, trentatré, una cosa del genere, mi pare così era, da uno a trenta, vero? Che cosa fecero? Presero degli
asini, delle pecore, degli asini per raggiungere un certo... venne un maresciallo della... e disse... forse mosso a pietà, non lo so, visto che poi la
guerra era andata a rotoli e fecero il numero con gli asini, le pecore. M.P. Ma più che altro gli asini ammazzarono. G.L. Maria, mi raccontava
vostro fratello, mio cognato, che vostro padre, don Tommaso, stava sopra al tetto, aveva chiuso bene bene il portone... M.P. Si era nascosto sotto il
fieno. G.L. Era salito sul tetto e da sopra al tetto vedeva tutto quello che succedeva in mezzo lì, dove sta il monumento, che poi là è successa la
storia. M.P. Vicino al monumento ci stava una croce. G.L. Perché poi dove sta quella cabina telefonica sotto c’era un vuoto, allora li pigliavano e li
buttavano giù. M.P. Dopo che li avevano uccisi, poveracci, li buttavano sotto là. G.L. E poi mi pare che con un carretto li portarono al cimitero.
Questo è quello che sappiamo noi, che ci hanno raccontato.

Non ho trovato tra i testimoni un particolare livore verso colui che uccise il tedesco. Sembra piuttosto emergere l’accettazione di una reazione
inevitabile, di un atto di difesa. Il rifiuto di consegnare le proprie bestie rimane uno dei motivi più diffusi di esecuzioni sommarie. A Caianello, un
paese vicino, veniva ucciso un giovane pastore che cercava di sottrarre il gregge alla requisizione.

«Poco prima del mezzogiorno del 28 ottobre 1943 fu catturato da militari tedeschi il mio figliastro Izzo Nicola di Antonio, in un burrone nella
campagna di Caianello mentre teneva nascosto il bestiame per sfuggirlo al loro saccheggio. Io mi feci avanti implorando di farmelo rilasciare,
offrendo ai militari stessi la somma di lire 500,00, ma fu tutto inutile. Lo condussero a viva forza con loro e giunto nella fra zione Aurivola pure
del comune di Caianello, e precisamente al fondo Lonardo, lo spararono uccidendolo».39

«Verso mezzogiorno del 28 ottobre 1943, mentre mi trovavo alla casa di mia sorella Adelina udii sparare diversi colpi d’arma da fuoco nel fondo
Lonardo della frazione Aurivola del comune di Caianello e subito gridare aiuto ed invocando la madre da Izzo Nicola di Antonio».40

La strage più grave avvenne a Conca della Campania. Il 1° novembre un soldato tedesco era stato ucciso da un ufficiale italiano, aggregato alle
truppe alleate e giunto in perlustrazione. Fra il 1° e il 3 novem bre le truppe della divisione Hermann Göring risposero uccidendo tutti coloro che
incontrarono nel territorio di Conca e delle sue frazioni e mietendo 40 vittime.41

A Teano memoria e interpretazioni si dividono. Vincenzo Mastrostefano ricorda che sentiva gli uomini che si organizzavano, che raccoglievano
armi; dice che era arrivata la voce della rivolta di Napoli e che non si voleva essere da meno. Collega la violenza nazista a una resistenza armata
in nuce: l’episodio dei ferrovieri, l’uccisione del soldato nella frazione di Fontanelle. Invece c’è chi nega totalmente la volontà omicida della
violenza nazista. Un’uccisione sarebbe avvenuta perché qualcuno voleva derubare una contessa e nel frattempo sarebbero arrivati i militari
tedeschi e avrebbero sparato, nel pagliaio le vittime si sarebbero rifiutate di uscire all’ordine dei soldati che avrebbero quindi appiccato il fuoco.
In un certo senso sarebbero morte «volontariamente», se fossero uscite forse avrebbero avuto salva la vita... Questa è la tesi di Alfredo Lucianelli,
che allora aveva quattro anni e riporta una delle interpretazioni presenti nel paese. I due testimoni discutono sul fatto che si trattasse di un
pagliaio chiuso o di un cumulo di paglia.

Riccardo Condurso, sfollato a Teano da Napoli e ospite dei duchi Del Pezzo di Caianello, racconta di essere stato rifugiato a lungo in una grotta,
per sfuggire ai bombardamenti alleati che stavano distruggendo Teano, e di aver convissuto per tutto questo periodo con soldati tedeschi. Alcuni
di loro si nascosero, non seguirono i loro compagni in ritirata e si consegnarono agli inglesi.

«Per dire la verità questi tedeschi erano bravissime persone, ci davano addirittura il loro rancio quando potevano, perché noi oltretutto avevamo
una mancanza assoluta di mangiare. Una volta mangiammo una scatole tta di simmental, quella normale di simmental, in sette persone per tutta
la giornata, con un pezzetto di fresella, pane biscottato, io ho sofferto veramente la fame, assolutamente. Poi vennero delle... credo che fossero
delle SS che ci volevano portare... ci volevano far sgombrare dalla grotta e portare a Cassino, ma noi non avevamo nessuna intenzione, gli alleati
stavano per arrivare e questi tedeschi ci difesero e per perorare la nostra causa, parlando con questi... truppe d’assalto, truppe più... e riuscirono
a convincerli di lasciarci lì, anzi, ci fu di più perché all’ultimo momento tre tedeschi si misero nella nostra grotta e si nascosero perché si volevano
arrendere, cosa che ci preoccupò perché non sapevamo che intenzioni avessero, se avessero intenzione di contrastare... però poi c’era un
magistrato nostro amico lì eccetera che parlava il tedesco, insomma... non ce lo disse chiaramente, ma loro praticamente lo confessarono a
questo che si volevano arrendere. E poi si arresero. Una bella mattina per fortuna vedemmo arrivare uno con un casco blu, era un canadese, il
quale arrivò, domandò subito se c’erano tedeschi, noi gli dicemmo che c’erano tre tedeschi, questi si consegnarono, anzi ci volevano dare le loro
pistole per non darle... non ce le prendemmo. [...] Io ricordo la tristezza con cui questi tedeschi... tra l’altro erano bravissime persone, uno ci
raccontò che lui aveva famiglia a Düsseldorf, che non aveva notizie da più di un mese della sua famiglia e che sentiva ogni giorno che migliaia di
bombardieri bombardavano Düsseldorf eccetera e ci confidò: se la cosa dura ancora più di un mese io mi sparo.

Con quelli che si sono arresi non avemmo proprio rapporti. Loro entrarono là, si nascosero sotto la paglia e non si fecero né vedere né sentire,
viceversa con questi rimanemmo dodici, tredici giorni insieme e fummo... uno di Berlino era un po’ più antipatico, ma c’era questo di Düsseldorf
che era una bravissima persona, un altro era austriaco, pure era una persona molto mite, molto perbene, non solo no n ci diedero fastidio...
ricordo che c’era una bambinetta che poi purtroppo... è cresciuta ed è cresciuta poco perché io dicevo sempre perché non le davano da mangiare,
le zie erano molto avare, e era piccola... e regalarono una tavolettina di cioccolato così a questa bambina... e queste cose... insomma... poi ci
davano il rancio che allora avanzava» (Riccardo Condurso).

L’immagine dei tedeschi pencola continuamente nella memoria, tra quella del massacratore privo di comprensione (nemico che non parla ma
uccide...) e quella dell’esecutore di ordini, con qualche traccia di umanità. In questo caso le interpretazioni sembrano divaricarsi a seconda delle
classi sociali, e nobili e borghesi sembrano aver avuto con i tedeschi una possibilità di colloquio e un rapporto migliore. E i tedeschi stessi
potrebbero aver usato un maggiore rispetto per chi mostrava un contegno superiore e aver disprezzato la massa dei contadini lacera e affamata.

Riccardo Condurso ci riferisce ancora la storia di una contessa fermata all’ingresso del paese con un milione di titoli in borsa, la quale, quasi
ammirata, riferiva che i soldati l’avevano sì rapinata dei titoli, ma le avevano rilasciato una ricevuta. «Mentre lei arrivava con un carrozzino
guidato da un nipote, i tedeschi la fermarono e lei aveva una valigetta con un milione in titoli e un anello di brillanti; un milione in titoli allora era
una grossa cifra, bisogna pensare che... non dico che era un miliardo di oggi ma insomma ci si avvicina. E comunque glieli sequestrarono
lasciandole una ricevuta. Ora lo spirito era... anche se magari sta ricevuta non serve a nulla... non so se li abbia mai recuperati, questo non lo so,
però, ci fu fatto qu esto racconto che questi tedeschi sequestrarono questa valigetta eccetera eccetera però rilasciarono una ricevuta. Quindi uno
spirito antico amichevole... ma perlomeno una certa legalità c’era ancora, poi se ci sia stata qualche uccisione di qualcuno...»

L’immagine della nobildonna impettita sul biroccio e dei tedeschi che le rilasciano la ricevuta suscita un’immediata ironia, ma il racconto è serio e
rimanda in maniera plastica e immediata alla rappresentazione del soldato «teutonico» e a una certa memoria della violenza.

Ma che la violenza dei tedeschi tenda ad affievolirsi nella memoria non dipende solo da una predisposizione di chi ricorda a giustificare il vecchio
alleato e con lui il regime che lo aveva appoggiato, dipende da un motivo serissimo e cioè dal fatto che a Teano, come a Capua, a Cancello, a
Benevento, negli stessi giorni in cui si dispiegava l’occupazione tedesca con le sue durissime regole, le bombe degli alleati mietevano un alto
numero di vittime e distruggevano interi quartieri.

I bombardamenti alleati: Teano, 6 e 22 ottobre 1943

Teano si venne dunque a trovare sulla linea Barbara e a ridosso della linea Bernhard, che sarebbero state superate rispettivamente alla fine di
ott obre e alla fine di dicembre. Si trovava poi fra la Casilina e l’Appia che costituivano anche le direttrici dell’avanzata alleata, insomma
nell’epicentro della guerra. Inoltre era stata sede della divisione Pasubio, acquartierata nel convento di Santa Riparata, e ospitava in quel
momento un ospedale militare tedesco, sovrastato da una grande croce rossa. Venne bombardata il 6 e il 22 ottobre. Le cause dei due
bombardamenti sono ancora oggi motivo di discussione fra i teanesi che vogliono trovare un motivo valido per tanta furia distruttrice: c’è chi dice
che la Pasubio avesse lasciato in evidenza un fascio di fili di telefono da campo sul convento di Santa Riparata e che questo avesse fatto pensare
agli alleati che vi fosse una sede operativa militare tedesca, qualcun altro sostiene che fu l’antica gabbia sul campanile a indurre in errore i
bombardieri, qualcun altro ancora ritiene che sia stato l’ospedale ad attirare l’attenzione... Si va alla ricerca di una causa che spieghi, che
giustifichi la scelta di Teano come obiettivo strategico.

«Dopodiché incominciarono i bombardamenti. In linea puramente teorica non avrebbero... non ci sarebbe dovuto essere il bombardamento, ma i
dubbi restano. Loro [i tedeschi] misero un piccolo ospedale militare, con Croce Rossa eccetera eccetera, poi misero anche i camion con la
benzina, allora gli inglesi non è che avevano molta... molto rispetto, come non lo avevano probabilmente neanche i tedeschi delle Croci Rosse
messe a protezione degli ospedali, tant’è vero che sono stati colpiti tanti ospedali, veramente ospedali... in realtà se ci fossero veramente i feriti o
non ci fossero non si può dire. Comunque appena messo questo insediamento ufficialmente ospedaliero venne il primo bombardamento
americano... Pare che fossero stati 7 aerei, così si diceva, il primo bombardamento 7 aerei, precisarono anche il tipo di aereo allora, mi pare un
Wellington, insomma Teano ebbe un primo bombardamento veramente molto forte. Allora io ero a Teano, ero in villa Del Pezzo, può immaginare
cosa sentimmo, ma fu molto più terribile il secondo, e in questo primo bombardamento morirono parecchie persone, tra cui morì il professore
Genna, il professore di matematica, una persona molto simpatica, morì uno zio di un mio futuro cugino, Marotta, Marotta Gino, mi pare che si
chiamasse, morì un ragazzo, Zarone, che fu seppellito proprio nella mia casa, e poi morirono tanti altri teanesi di cui non conosco il nome, ma
insomma ci furono parecchi morti. [...] Poi venne il secondo bombardamento di Teano. Io credo che forse è la volta che ho avuto più paura nella
vita perché sembrava la fine del mondo, pur stando a due chilometri... in linea d’aria saranno stati due chilometri, due chilometri e mezzo,
sembrava che la terra... fu un bombardamento molto più pesante del primo e veramente credo che usarono delle bombe anche molto più grosse
perché io stavo in campagna, mi ricordo che mi misi sotto un cumulo di terra, addossato, sembrava veramente che il mondo stava crollando,
molto più di un terremoto, insomma una cosa tremenda e quando finì Teano non si vedeva più, era solo una nuvola di polvere perché siccome
Teano è un po’ sollevata da questa località, da questa campagna, si vedeva il paese, non si vedeva assolutamente più nulla» (Riccardo Condurso).

Il primo grande bombardamento avvenne dunque il 6 ottobre alle 10.50 di mattina.42 Gli aerei distrussero una grande striscia del centro storico a
partire dal duomo e dal vicino seminario che era, appunto, sede dell’ospedale tedesco. Un secondo raid giunse il 22 ottobre, sette giorni prima
che i tedeschi si ritirassero. L’incursione venne attuata dal 12° gruppo bombardieri, e ne troviamo notizia precisa nei rapporti giornalieri. «24 B-
25. Obiettivo: Teano, Italia, da 8500-9500 piedi alle ore 9.38-9.42. Risultato: colpita un’area della città con numerose bombe sulle strade e sulla
cittadina, due incendi visti nella città».43

Dalla documentazione americana possiamo dedurre un elemento di estrema importanza: Teano era un obiettivo preciso, i bombardamenti non
furono errori dei piloti né bersagli sostitutivi. Mentre per Capua, Cancello Arnone, Benevento sono molto chiari gli obiettivi (i ponti, le industrie, i
capisaldi tedeschi, i piccoli aeroporti...), anche se poi insieme a loro erano entrati nel mirino le città e i paesi interi, per Teano è difficile trovare
elementi strategici importanti. D’altro canto, se si guarda la mappa americana del territorio campano con gli obiettivi, si può facilmente notare
come sia pressoché tutto il territorio a essere nel mirino dei bombardieri. I paesi che si trovavano sulle linee o sulla strada della ritirata tedesca
dovevano essere bombardati; giustificazione tattica era che vi si annidavano comandi e soldati tedeschi, facendosi scudo della popolazione...
L’incursione di Teano demistifica il concetto di bombardamento strategico degli americani. Anche il rapporto lo manifesta con chiarezza. 24 aerei
su una piccolissima cittadina che colpiscono il centro con «numerose bombe sulle strade» producono un risultato incontrovertibile: a Teano non
morirono tedeschi, ma donne, uomini e bambini. Soprattutto donne e bambini.

Ho ricostruito, attraverso i registri del comune, le morti avvenute in quei due mesi fatidici. I morti registrati sono 141 (non possiamo sapere il
numero dei cadaveri insepolti, che rimasero sotto le macerie e la cui scomparsa fu registrata in anni successivi), di cui 31 per «fatti di guerra»,44
definizione che, come abbiamo già detto, indica quasi sempre l’uccisione per mano tedesca, e 110 per le due incursioni aeree. Fra le 110 vittime
dei raid si possono contare 61 bambine e bambini fra i cinque mesi e i quattordici anni (22 di loro non avevano ancora compiuto cinque anni), più
del 55 per cento, e fra gli adulti (diciannove-cinquantacinque anni) le donne sono il 70 per cento. I numeri non hanno bisogno di commento.

Proviamo ancora ad addentrarci nella tragica lista. Il 25 novembre 1943 si presentavano al comune i due cognati Claudio Trifiletti e Francesco
Adinolfi per denunciare la scomparsa totale delle loro due famiglie. A piazza Duomo il 6 ottobre erano state travolte dalle macerie le loro due
mogli con i figli: le due sorelle Sara Zarone (quarantasei anni) con i quattro figli, Mario di sei anni, Maria Rosaria di dieci, Enrico di tredici, Anna
Maria di quindici, ed Elisabetta Zarone (quarantanove anni) con i figli Antonio di cinque anni e Armando di tredici. Insieme a loro morivano le
cognate Ada (quarantacinque anni) e Clelia Trifiletti (quarantasette) con la figlia di sedici, e la suocera Emilia Danese (settantatré anni),
rispettivamente sorelle e madre di Claudio Trifiletti. Quest’ultimo perse contemporaneamente: madre, due sorelle, moglie e quattro figli. La
maggior parte dei componenti delle famiglie distrutte vivevano a Napoli e si erano riuniti nella casa di famiglia di uno di loro per evitare i
bombardamenti della città. Anche in questo caso il commento è superfluo. La freddezza degli elenchi dice molto di più di qualsiasi riflessione.

Donne e bambini... sono loro a morire di più sotto le bombe, non solo a Teano. A Teano paradossalmente gli uomini furono, forse, salvati dai
rastrellamenti tedeschi. Molti di loro erano stati razziati, altri fuggivano per i boschi per la paura di nuovi rastrellamenti, videro il paese crollare
da lontano...

Ecco la cronologia secca degli eventi: 23 settembre, razzia di 600 uomini circa; 3 ottobre, uccisione di 3 uomini arsi vivi in un pagliaio; 6 ottobre,
bombardamento alleato; 22 ottobre, altro bombardamento alleato e rappresaglia tedesca; 25 ottobre, nuove uccisioni per mano tedesca, che si
verificano, tuttavia, in maniera sparsa per tutto il tempo dell’occupazione.

L’interpretazione dei fatti a Teano è, ovviamente, ambigua, contraddittoria, conflittuale.


8. Ebrei napoletani nel cuore della guerra. Tora e Piccilli: un paese virtuoso?

Le leggi razziali a Napoli

Nel maggio 1942 venivano schedati tutti gli ebrei residenti a Napoli e provincia. Troviamo un puntiglioso elenco di 580 nomi, un numero già
notevolmente ridotto rispetto al censimento che era seguito alle leggi razziali, poiché molti se n’erano andati da Napoli spinti dalle vessazioni
incalzanti e molti erano stati allontanati perché ebrei stranieri o per aver perso la cittadinanza in seguito alle leggi.1 Nonostante ciò, nell’elenco
del maggio 1942 risultavano ancora 283 ebrei stranieri.2

A Napoli vivevano molti ebrei greci e turchi, in particolare vi si trovava una piccola colonia di salonicchioti, scampati al grande incendio di
Salonicco dell’agosto 1917.3 Con il decreto del 7 settembre 1938 gli ebrei stranieri venivano ufficialmente espulsi dal regno; ed era revocata la
cittadinanza a coloro che l’avevano ottenuta dopo il 1919.4 Per molti l’espulsione e l’allontanamento da Napoli significò finire nelle mani dei
nazisti e seguire la sorte della maggior parte degli ebrei europei.

Mario Levi era arrivato bambino da Iannina, in Grecia. Nel 1935 si era laureato in legge e, al momento della promulgazione delle leggi razziali nel
settembre 1938, stava facendo pratica legale presso un avvocato. Perse insieme il lavoro e la cittadinanza. «Io mi son laureato nel 1935, ho fatto
pratica legale presso lo studio di un avvocato dal 1935 al 1938, sennonché il 3 settembre del 1938 hanno inizio le leggi razziali. La prima legge 3
settembre 1938: tutti gli stranieri che son venuti in Italia dopo il 1920 devono lasciare il regno e le colonie. Io ero fra questi, avevo mio padre a
Napoli, avevo due fratelli a Napoli, guarda caso mio padre aveva più di sessantacinque anni, i miei fratelli avevano sposato cittadine italiane e la
legge diceva: tutti gli stranieri che son venuti dopo il 1920 in Italia e nel regno italiano debbono lasciare il regno e le colonie entro sei mesi da
oggi 3 settembre, tranne quelli che hanno compiuto i sessantacinque anni – e mio padre aveva compiuto i sessantacinque anni –, tranne quei
cittadini stranieri che avevano sposato cittadine italiane – e i due miei fratelli avevano sposato cittadine italiane. Quindi mio padre e i miei fratelli
restavano in Italia e io dovevo lasciare il regno e le colonie, entro sei mesi. Allora ero fidanzato con una cittadina italiana, non era sufficiente
essere fidanzati con una cittadina italiana per poter godere di questo privilegio, allora mio suocero, che era una persona abbastanza intelligente e
conosceva molti personaggi di Roma di allora, si dette da fare, andò a Roma e cercò di trovare una scappatoia per farmi rimanere in Italia. Prima
della scadenza di sei mesi – perché c’erano sei mesi di tempo per lasciare l’Italia e le colonie – poté avere un certificato di residenza per me come
studente che doveva proseguire gli studi in Italia e quindi – sebbene ci fosse una legge che mi espelleva dal regno e dalle colonie – io ero
autorizzato con questo certificato di residenza per ragione di studio a continuare a restare in Italia: prima vittoria. Questo è avvenuto nel 1938,
dopo il 3 settembre».

Dopo la dichiarazione di guerra alla Grecia la sua condizione di ebreo si era aggravata, perché era diventato anche cittadino di uno stato nemico.5
Con il padre fu internato prima in un paese vicino a Napoli, poi ad Atessa in Abruzzo, dove erano confinati altri ebrei stranieri, tra cui il fratello
Giuseppe, giunto dall’America. Il gruppo internato ad Atessa fu in un certo senso fortunato, poiché riuscì a superare indenne, nascosto sulle
montagne insieme agli abitanti e ai partigiani, la lunga battaglia dell’inverno 1943-44 e a passare nel territorio liberato nella primavera del 1944.

Non tutti gli ebrei greci ebbero la stessa sorte. I genitori di Alberto Bivash erano originari di Salonicco; con le leggi razziali avevano perso la
cittadinanza italiana, ma avendo rinunciato precedentemente a quella greca, divennero apolidi. Nel 1940 il padre fu inviato al campo di
internamento di Ferramonti Tarsia,6 poi con tutta la famiglia a San Severino Marche, dove, dopo l’8 settembre, fu rastrellato insieme agli altri
uomini e portato in un paese vicino, da cui nel ’44 fu inviato a Fossoli e da lì ad Auschwitz.7 «L’ultima notizia che abbiamo avuto da mio padre è
stata una cartolina che ha mandato da Fossoli, quindi abbiamo immaginato che la cosa... poi abbiamo saputo le cose com’erano, molto tempo
dopo abbiamo avuto notizie da persone che sono passate da Napoli, che si erano salvate da Auschwitz e avevano visto tutto il gruppo che era
stato direttamente eliminato».

Alberto Bivash con la madre e la sorella si salvò nascosto sulle montagne di Stigliano con l’aiuto del parroco, dei contadini e dei partigiani locali. I
cugini (lo zio, la zia e due figli) ebbero purtroppo la stessa sorte del padre, anche se per una strada diversa: espulsi dall’Italia, tornarono in Grecia
da dove furono deportati e uccisi.

Dunque una parte della comunità napoletana subì la deportazione e la morte nei campi di sterminio attraverso l’espulsione da Napoli e dall’Italia,
gli ebrei di cittadinanza italiana furono invece assoggettati al lavoro coatto. Seguendo le disposizioni sul lavoro obbligatorio, la prefettura di
Napoli aveva ordinato di schedare gli ebrei residenti in città e provincia. «Visto le disposizioni del Ministero dell’Interno relative alla
precettazione civile degli ebrei tutti gli ebrei, anche se discriminati, di età tra i 18 e i 55 anni compresi, residenti in questa provincia, devono
denunziare entro il 10 giugno 1942-XX, le proprie generalità, l’età, le condizioni fisiche e familiari, le proprie capacità lavorative, la loro
occupazione e residenza abituale. [...] Il prefetto Albini, 16 maggio 1942-XX». 8

L’ordine era trasmesso alla questura che diramava a sua volta le direttive alle singole compagnie di pubblica sicurezza e ai carabinieri.

Venivano così compilati gli elenchi di tutti coloro, tra i residenti, che dovevano essere assoggettati al lavoro coatto: 63 donne e 90 uomini italiani,
18 donne e 26 uomini stranieri.9 Il 19 settembre 1942 venne emanato il decreto di precettazione e di invio al lavoro obbligatorio nel comune di
Tora e Piccilli, un piccolo paese a circa 40 chilometri da Napoli, non lontano dalla Casilina, la strada che portava verso Cassino e verso Roma. Qui
si sarebbero concentrati i combattimenti tra soldati e le violenze sulla popolazione civile, e questi luoghi nell’autunno del 1943 divennero un vero
e proprio campo di battaglia. L’occupazione tedesca durò dall’8 settembre ai primi di novembre del 1943. La presenza delle truppe della
Wehrmacht si fece sentire come in tutta la zona: il 23 settembre anche Tora fu coinvolta nella generale e massiccia razzia di uomini, a pochi
chilometri di distanza si verificarono i massacri di Conca della Campania e di Marzano Appio. Dunque gli ebrei napoletani a Tora – altri ne
sarebbero dovuti arrivare, ma giunse prima la caduta del fascismo10 – si trovarono in uno dei punti più caldi della guerra e nel momento in cui i
tedeschi rastrellavano gli uomini per portarli al lavoro coatto in Germania.

Gli ebrei e la popolazione

Vennero mandati a Tora in una prima ondata 30 giovani maschi, alcuni dei quali chiamarono le famiglie.11 In altri casi ci si unì volontariamente ad
amici e parenti, come racconta Vittorio Gallichi: «Noi stavamo a Napoli, noi non andavamo a scuola, mio padre non andava in banca, a un dato
momento vennero le bombe, allora: dove andiamo, dove non andiamo? Allora una prima ipotesi papà disse: andiamo a Pisa, dove avevamo dei
parenti. Meno male che non siamo andati! Perché i nostri cugini Gallichi sono morti in una stanza con una bomba buttata dai tedeschi. Tre cugini
nostri: Dario Gallichi... Allora papà disse, proprio da pazzi: andiamo a Tora, costi quel che costi! Almeno stiamo vicino ai nostri correligionari.
Prendiamo con la zia Adele, tutti quanti e andiamo a Tora. Dalla sera alla mattina...»

Quando i Gallichi arrivarono a Tora si era già instaurata una serie di rapporti fra il gruppo degli ebrei e la popolazione. Ma ricostruiamo la storia
dall’arrivo. Un primo racconto è quello di Renato Sacerdoti, uno dei giovani precettati, fatto alcuni anni fa alla nipote, nata proprio a Tora nel
novembre 1943.12

«Il 25 settembre ci trovammo sul treno che da Napoli ci doveva portare a Presenzano, a pochi chilometri da Cassino. Tutti e 36 (tutti uomini)
avevamo avuto dalla Questura di Napoli il foglio di via che ci obbligava a raggiungere Tora e Piccilli dove, in quanto ebrei, eravamo stati
richiamati al lavoro coatto. Alla stazione di Presenzano trovammo un gruppo di carabinieri armati che ci fece salire su un camion: Tora e Piccilli si
trovavano in cima al colle, a circa 8 chilometri di distanza. [...] Da Presenzano il gruppo fu lasciato nella piazza principale del paese a Tora. Il
paese che nell’insieme contava appena 400 anime, era composto da due frazioni, Tora, appunto, e Piccilli. Queste si fronteggiavano su due colli
uniti da un ponte: a Tora, sulla piazza, si affacciavano il municipio, la chiesa e la grande casa dei baroni Falco, la più importante famiglia di questa
frazione, che da Napoli erano sfollati nel paese. A poca distanza da questa casa padronale si trovavano alcune botteghe e piccole case di
contadini, allineate lungo l’unica strada che, dopo un bosco di castagni e un vigneto, arrivava a Piccilli. Il nucleo di questa seconda frazione si
stringeva intorno alla grande casa della signora Maffuccini, moglie (ricca) del podestà del posto e appartenenti alla seconda famiglia, per
importanza, del paese. All’orizzonte si stagliava la grande sagoma dell’abbazia di Montecassino. Poco distante dalla piazza fummo portati in un
capannone assolutamente spoglio, all’int erno del quale c’erano per terra alcuni pagliericci: sarebbe stata la nostra casa per i futuri mesi.
Depositato il piccolo bagaglio, uscimmo per comprare le sigarette e qualcosa da mangiare ma, con grandissima sorpresa, appena i negozianti ci
videro arrivare, sbarrarono le porte. Sembrava l’inizio di un incubo. Era ormai pomeriggio. Tutti insieme rientrammo nel capannone per discutere
sul da farsi quando una donna entrò, facendo cenno a uno di noi, Jossua Gabai, di seguirla. [...] Gabai fu accompagnato a casa della baronessa
Falco. Si conoscevano da tempo, quando entrambi frequentavano i salotti buoni di Napoli: lo stupore de lla signora nel saperlo a Tora e in più
trattato come un semidelinquente era stato quindi grande. La baronessa chiese che cosa poteva fare per aiutare lo sfortunato amico e gli altri del
gruppo. Seppe delle porte sbarrate e non ebbe dubbi: doveva essere l’arciprete che aveva annunciato, nei giorni precedenti, l’arrivo dei senzadio
napoletani. Non ebbe un attimo di esitazione. Si recò dall’arciprete che, di fronte all’intervento della signora, richiamò in chiesa i parrocchiani:
passarono poche ore, il tempo per le donne del paese di cuocere e lasciare alle prime luci dell’alba davanti alle porte del capannone alcune
torte».13

Nel racconto di Renato Sacerdoti emergono due figure in contrasto, l’arciprete e la baronessa. Sembrano i personaggi di un romanzo, e forse in
parte la ricostruzione narrativa ne accentua i tratti contrapposti. Vittorio Gallichi, che è tornato a Tora con me e ha fornito una lunga
testimonianza, difende l’arciprete, sostiene che li ha aiutati e che il fratello, Peppino Di Corpo, frequentava il gruppo dei giovani ebrei, come
dimostra la fotografia riprodotta nell’inserto illustrato che lo vede accanto alle sorelle Falco e a otto di loro. Può darsi che il suo atteggiamento sia
cambiato dopo l’intervento dei maggiorenti locali, può darsi che il suo primo rifiuto sia stato ingigantito da Renato Sacerdoti nel ricordo e nella
contrapposizione con la generosità della baronessa. Non lo sapremo mai con certezza, lasciamo il giudizio sospeso. Possiamo invece dire qualcosa
di certo sull’altro personaggio che emerge dal racconto, la baronessa Falco. 14 Alcune fotografie, il diario di Jossua Gabai, le testimonianze di
Vittorio Gallichi e di alcuni torani dimostrano l’esistenza di una socialità e di un’amicizia, che non tennero nel minimo conto le leggi razziali e le
disposizioni di polizia che vietavano contatti fra torani ed ebrei.

Ed ecco il racconto della figlia della baronessa, Clarissa Falco, del momento in cui vide arrivare il gruppo degli ebrei: «Io mi ricordo un
pomeriggio... una mattina che arrivarono co’ sti pullman. [...] Dunque a Tora c’è quel giardino e a un certo momento “rrrrrrr” e arrivarono tanti
camion. Cosa è? Cosa è? E tutti sti ragazzi che scendevano. Poi a Tora non c’erano i carabinieri fissi, noi dipendevamo da Marzano Appio, dove
c’era il maresciallo coi carabinieri; invece in quel momento c’era il brigadiere dei carabinieri. [...] scesero e poi se ne andarono in fila, nu poche
tristi, ma insomma c’era un altro bravo uomo, don Alfredo, così, cu nu fischietto in mano “fffff” e camminavano, poveretti! Tutti quanti: Chi è? Chi
non è? Come mai? E perché? Insomma non si seppe; poi portarono tutti quanti in una casa che ora non c’è più, perché i tedeschi praticamente
l’hanno fatta saltare. [...] Poi alcuni di questi insomma poi, per esempio Voghera, Navarro, loro [il riferimento è a V. Gallichi], Gabai poi fittarono
proprio la casa per le famiglie».

La descrizione dell’incontro tra la madre e gli ebrei, sollecitato da una mia domanda, ha il sapore di aneddoto in parte romanzato, serve
comunque a esprimere lo stupore e la profonda distanza dalle leggi razziali. «A un certo momento si fulminò la luce a casa nostra, a casa Falco,
allora mamma disse ad Enrichetta... perché in questo palazzo dove stavano gli ebrei, che erano tutte persone perbene, ci stava pure un’altra ala
di cosiddetti sfaccendati, cioè un poco di quelli... ah! Mi son sempre domandata perché l’hanno fatta questa cosa... allora dice che c’era pure il
“principe di Capri”.15 Allora mamma dice ad Enrichetta: Enrichetta, fatemi un piacere, andate qua dagli sfaccendati e vedete se c’è qualche
elettricista per farci aggiustare la luce. Enrichetta va e dice abbasso al palazzo “alla baronessa Falco si è fulminata la luce, chi di voi vuole
andare?” Pensando di avere a che fare con gli sfaccendati, invece... io non so se loro sentirono perché stavano vicini, insomma a un certo
momento ne arrivano tre. Va bene, io torno a casa e dico: mamma e come hai fatto? D ice: no, ho mandato Enrichetta e mi so’ fatta venire un
operaio degli sfaccendati. – Mamma ma tu ti sbagli. – Ma perché? – Gesù! Quello uno è Gabai e due s o’ Ascarelli! Allora mamma si mortificò,
chiese scusa».

Lo stupore, la dissonanza tra il vissuto familiare e la propaganda del regime emergono con grande efficacia dal racconto preciso e pacato di
Giulio De Simone, allora non ancora quindicenne. «La storia degli ebrei incomincia nell’ottobre del 1942, io all’epoca avevo quattordici anni e di
guerra, di storie ebree, di difesa della razza, mi veniva solo da alcuni manifesti che vedevo. Mi ricordo in particolare c’era nello studio del medico
condotto un man ifesto della difesa della razza, quello che è rimasto uno dei classici, il drago romano che separa gli ariani dagli ebrei. Mi era
rimasto impresso, però non ci fa cevo più di tanto caso, perché nella mia esperienza scolastica non avevo avuto mai impatto con questa
legislazione, avevo avuto qualche compagno di scuola che era non di religione cristiana, quindi frequentava altre religioni, mi sembrava che ci
fosse una certa libertà e una certa tolleranza, po i noi eravamo cresciuti nel periodo fascista, sentivamo parlare sempre di patria, di libertà, di
difesa della famiglia e cosa, quindi credevamo che tutto quello che veniva detto... io ci credevo, fino a quattordici anni nel fascismo io avevo
creduto. Ne ll’ottobre quest’impatto improvviso: verranno a Tora gli ebrei... verranno a Tora gli ebrei. Il manifesto: non potete avere contatto con
gli ebrei, vengono qui per lavorare, sono... sono separati, non dovete avere nessun contatto, non dovete avere nessun rapporto. Rimasi
meravigliato perché tra questi ebrei c’era un giovane che avevo conosciuto poco prima, che era fidanzato con una mia cugina, e non sapevo che
fosse ebreo, quindi quando l’ho visto tra questi so’ rimasto un pochettino sorpreso, si chiamava Guido Cantoni, lo incontrai... ci siamo visti di
sotterfugio, ci incontravamo di nascosto, lui aveva dei problemi, quindi voleva un pochettino di olio di ulivo buono che noi produciamo, quindi mi
ha detto: se me lo dai... Ci siamo dati appuntamento in una selva, ci siamo nascosti, ho messo lì la bottiglietta di olio per potergliela dare, è
incominciata quest’attività un pochettino diciamo clandestina. Non li potevamo vedere, non li potevamo contattare. Durante l’inverno però i
rapporti con gli ebrei sono andati... non sono stati poi così rigidi... Avevano istituito qui a Tora anche un posto di carabinieri, da noi non c’era mai
stata la caserma di carabinieri, dipendevamo dalla caserma di Marzano Appio, invece di proposito avevano fatto un posto di carabinieri per
sorvegliare questi ebrei e gli sfaccendati abituali, perché avevano portato qui anche gente di Napoli, dei dintorni, che non lavoravano
abitualmente, che li chiamavano sfaccendati abituali, e li avevano portati qui che dovevano dare una mano nell’agricoltura, anche per sostituire
quelli che di qui erano partiti per fare i soldati... sennonché questi non avevano nessuna attitudine a lavorare in campagna, né gli sfaccendati
abituali né tanto meno gli ebrei. Gli ebrei erano rappresentati dalla classe diciamo borghese, ricca, di Napoli, c’erano alcuni nomi, credo che ci
siano ancora oggi: gli Ascarelli, i Sacerdoti, i Modiano, i... e poi c’erano anche gli ebrei meno fortunati, diciamo, economicamente, in particolare
mi ricordo di uno che esercitava l’arte dell’orologiaio e questo cercò di arrangiarsi stando qui... di riparare gli orologi... E fu uno dei primi
contatti, non più proprio clandestini, che ho portato un orologio a riparare come anche altri hanno portato degli orologi a riparare. Poi, ripeto, si è
allentata un pochettino questa tensione, gli è stata data più libertà anche a questi che erano confinati e poi andavano a lavorare solo con il
podestà che era all’epoca l’avvocato Maffuccini. Noi e altri pure non ritenemmo opportuno prendere questa manodopera per i nostri lavori di
agr icoltura, perché la mia famiglia possedeva e possiede ancora dei terreni, ma non abbiamo mai occupato questi lavoratori. Però... ecco è
successo qualche cosa, gli ebrei a Tora hanno trovato... non hanno trovato astio, si sono inseriti, al punto che hanno ritenuto opportuno – essendo
un periodo di guerra, essendo Napoli bombardata in continuazione – di portare anche le loro famiglie come... come sfollati per sfuggire alla
guerra e ai bombardamenti... ai bombardamenti di Napoli. Ed è allora, quando sono venuti non più solo uomini guardati a vista, diciamo, ma sono
venute tutte le famiglie, con queste famiglie abbiamo fraternizzato come... senza tener conto della differenza razziale o della differenza di
religione. Come già abbiamo avuto modo di dire... ho rivisto Gallichi, che era quasi mio coetaneo, c’incontravamo, facevamo delle passeggiate
insieme, c’incontravamo sulla casa di un’altra famiglia di Tora, la famiglia Falco, che ha un grosso terrazzo, molte volte eravamo poi... ci
avviavamo verso la primavera... verso l’estate, incontravamo... stavamo molte volte la sera, era lì un punto d’incontro, un punto di riunione».

Alcuni elementi importanti affiorano dal racconto e vanno sottolineati. Un manifesto indicava chiaramente che gli ebrei sarebbero venuti a Tora e
che bisognava tenerli a distanza. I torani erano dunque informati sull’identità di coloro che stavano per arrivare ed erano anche diffidati
dall’avere rapporti con loro. Quindi i successivi contatti, l’amicizia, la socialità avvennero con una consapevole disobbedienza agli ordini. È una
prima importante acquisizione. Fra i lavoratori coatti si presentò a Giulio De Simone una persona quasi di famiglia: il fidanzato della cugina,
giovane borghese laureato. In quell’occasione veniva mostrato ai suoi occhi secondo una nuova classificazione: come ebreo e come cittadino di
razza inferiore. Ma questa classificazione negativa non venne accettata, non risultò credibile e non mutò i rapporti. Anzi la relazione si trasformò
in solidarietà. L’arrivo delle famiglie fu un altro importante evento nella costruzione dei rapporti fra ebrei e torani: trasformò i lavoratori coatti da
uomini soli in figli, mariti, padri di famiglia, secondo un linguaggio comune che a Tora era assai più forte del linguaggio fascista della «razza».
Infine, anche De Simone sottolinea il ruolo della famiglia Falco, che appare cruciale in tutti i racconti.

Narra Clarissa Falco che la sorella più giovane scrisse una lettera a un’amica decantando l’arrivo degli ebrei da Napoli. La missiva, intercettata
dalla censura, riemerge oggi dagli archivi della prefettura napoletana.16 «Io sto a Tora da sabato ed ho trovato delle novità, come per esempio la
ven uta di 30 ebrei condannati all’esilio ed ai lavori forzati. [...] Sono quasi tutti ricchissimi e per bene. [...] Insomma la venuta degli ebrei a Tora è
la grande novità del momento». La madre fu convocata dai carabinieri e ne ebbe un richiamo ufficiale, ma l’atteggiamento della famiglia non
mutò. Le fotografie testimoniano questi rapporti. Una istantanea ci mostra la baronessa stessa sul terrazzo del suo palazzo con la figlia Clarissa,
Vanda Sacerdoti, le piccole Vera e Sara Sacerdoti, Vit torio Gallichi (il nostro testimone). In un’altra fotografia Giuseppe Di Corpo (fratello
dell’arciprete), Mary, Adele e Clarissa Falco posano sorridenti insieme a Raoul e Vera Navarro, Vittoria Levi Modiano, Gina Formiggini, Vera,
Vittorio, Luciana e Raoul Gallichi. Nel novembre 1943 Vanda Sacerdoti avrebbe partorito la figlia Annie nel palazzo dei Falco. A tale punto erano
arrivate le relazioni tra la famiglia e il gruppo degli ebrei.17

Secondo Vittorio Gallichi fu il figlio maggiore, Gaetano Falco, che aveva allora ventisei anni e si occupava delle proprietà e delle imprese agricole
della famiglia a Tora, a trovare l’alloggio per gli ebrei che volevano farsi raggiungere dalle famiglie. «[...] papà era amico di Gaetano, ecco, adesso
mi ricordo! Mi ricordo! Tutti gli ebrei di Napoli che andarono a Tora... le famiglie che andarono a Tora, per po i sistemarsi per stare vicino ai figli,
quando arrivarono a Tora trovavano il fratello di Clarissa, che era Gaetano, e che era il signor Falco, che curava le proprietà della famiglia. Era
vestito proprio da persona... col gambaio e s i metteva a disposizione per trovare la casa, Gaetano. Ad esempio Gaetano io so che era lui che...
appena uno andava non sapeva dove andare? Andava da Gaetano Falco e Gaetano Falco diceva: lì c’è una casa in affitto. Questo Gaetano è
importantissim o! Vedi [rivolto a Clarissa Falco] è venuto fuori nella conversazione! È Gaetano che è stato il punto di unione con tutti quanti
perché poi Gaetano girava sempre per la strada, andava nelle tenute, Gaetano a me mi portò sulla proprietà di [...] Gaetano stava nel paese, lui
era come un contadino, curava le sue terre, le sue proprietà; allora quando veniva qualcuno era lui quello che gestiva... non so volevano una casa
e allora lui s’impegnava per cercare un’abitazione e io credo papà sia andato là da Gaetano Falco e Gaetano Falco gliel’ha trovata».

Fu certo la comune appartenenza all’élite napoletana, il riconoscimento di una posizione sociale a unire i Falco agli ebrei. Ma la comune
appartenenza in quanti altri casi fu infranta? Quanti nobili, quanti borghesi non salutarono più i loro amici? Per ignavia, o perché diventati
convinti razzisti, o per paura. La baronessa Falco non ebbe invece esitazioni di fronte ad amici che vedeva in stato di necessità e mostrò di non
tenere in alcuna considerazione le leggi razziali.

Altre donne testimoniano della vita di allora. Nice e Concetta Farinaro raccontano che fra gli ebrei c’erano dei bellissimi giovani e che per loro
questo fu l’elemento principale di attrazione. Le lettere censurate confermano le parole delle sorelle. «Qui sono venuti belli giovanotti chiamati
ebrei, cioè vengono dalla discendenza ebraica, ma sono nativi di Napoli, ma sono tutti distinti e istruiti e li hanno mandati qui come se fossero dei
prigionieri, e quasi quasi mi è convenuto di prendere amicizia che ti dico che sono belli e gentili, e per troppo pensare quelli mi dimenticavo di
scriverti».18

Vittorio Gallichi trovò alloggio con i genitori e la sorella, proprio presso la famiglia Farinaro. Simeone Farinaro e i suoi fratelli erano noti
comunisti. Nella loro casa abitarono ben due famiglie di ebrei. La disobbedienza alle leggi razziali e la solidarietà con i perseguitati fu per loro un
atto cosciente di antifascismo. Le figlie di Simeone, Nice e Concetta, ricordano la grande festa che il 25 luglio vide insieme i due gruppi, felici
entrambi per la caduta di un comune nemico. La loro storia costituisce un altro tassello importante per capire ciò che accadde a Tora e Piccilli.
Appaltatori edili e restauratori di chiese e monumenti, avevano aderito al partito socialista e, dopo la scissione di Livorno, al partito comunista.
Racconta Andrea Farinaro che attorno a loro si era formato un nutrito gruppo di adepti e simpatizzanti. Una fotografia scattata nel 1920 a una
manifestazione socialista a Formia mostra Simeone Farinaro accanto a uno stendardo rosso e alla testa di un gruppo stipato su un camion:
insieme a lui ci sono i fratelli, la moglie e le sorelle (le uniche donne che posano davanti a tutti sui sedili del veicolo). Nel 1920 la sezione di Tora
del partito socialista era costituita da 55 iscritti, l’anno successivo avrebbe aderito al partito comunista. Gennaro Farinaro, fratello di Simeone,
era, nel 1921, uno dei due sindaci comunisti della provincia di Caserta, e sarebbe stato rieletto nel secondo dopoguerra. Nel 1945 il partito
comunista aveva a Tora e Piccilli 240 iscritti (il paese contava allora 1784 abitanti) e nelle elezioni del 2 giugno raggiunse il 25,17 per cento di
voti contro il 4,98 della media casertana. Non a caso Tora e Piccilli era menzionata come uno dei paesi con tradizione comunista della zona.
Rappresentanti di Tora furono sempre presenti nel comitato federale del partito; fra gli eletti al comitato nel dicembre 1947 troviamo, unica
donna, Concetta Farinaro, una delle figlie di Simeone.19 Questi dati già dicono molto sulla famiglia Farinaro e sui torani, ma c’è ancora un altro
episodio che è necessario ricordare e che completa egregiamente il quadro.

Alla fine del dicembre 1925 uno storico conflitto, che vedeva contrapposti i torani alla famiglia Falco sull’uso della piazza antistante il palazzo
avito, era esploso in uno scontro aperto. Il largo, chiamato largo di Palazzo, era stato recintato dai Falco che lo consideravano di loro proprietà,
mentre dagli abitanti era invece ritenuto proprietà civica e nell’immediato dopoguerra vi era stato costruito il monumento ai caduti. La sera del
28 dicembre 1925 la popolazione guidata dai Farinaro rase al suolo il muro sul fronte stradale, staccò la lapide dei caduti che era stata spostata e
murata sulla facciata della chiesa e la piantò in mezzo al largo. Cominciò allora una lunga contesa con le autorità provinciali, che chiedevano la
rimozione della lapide. Nell’aprile del 1929 la lapide era ancora lì e il podestà era costretto a scrivere all’alto commissario provinciale che era
impossibile reperire in paese operai che si prestassero all’opera di rimozione, comunicava che avrebbe ingaggiato lavoratori del paese vicino e
chiedeva c he il giorno della rimozione fossero inviati a Tora almeno una decina di carabinieri. Per le vie del paese apparve un manifesto che
chiamava i cittadini a opporsi allo spostamento della lapide, facendo leva anche sul sentimento patriottico e di pietas verso i caduti violato. Il
mattino previsto per i lavori le donne del paese sommersero la lapide di fiori e cominciarono a protestare in nome dei figli, mariti, fratelli morti in
guerra. Poi arrivarono gli uomini. Gli operai di Conca, presi a sassate, dovettero darsi alla fuga. La folla si disperse soltanto quando arrivarono
dodici carabinieri a cavallo da Sessa Aurunca, armati con sciabole e moschetto, e caricarono la folla radunata nel largo di Palazzo. Alla fine i
carabinieri ebbero la meglio, ma a quel punto la lapide fu rimossa in tutta fretta e interrata all’interno del comune, per impedire nuovi simbolici
riti di ribellione. La lotta ebbe comunque un esito positivo poiché nel 1934 la famiglia Falco donò il largo in uso perpetuo al comune e vi fu eretto
un nuovo monumento.20

Dunque, Tora non era, come alcuni potrebbero credere, un paese lontano dal mondo, con abitanti docili e inconsapevoli. L’aiuto agli ebrei assume
quindi aspetti di consapevolezza, che a una prima indagine non erano apparsi, perché oscurati, in un certo senso, dalla memoria.

Gli ebrei e le istituzioni del regime

Ebrei e sfaccendati vennero utilizzati in un primo tempo a spostar sassi sotto la scorta di una guardia campestre («un lavoro inutile, guidato da
nessuna logica»,21 fatto secondo Aldo Sinigallia con una certa rilassatezza), poi a fare lavori stradali.

All’intervallo del pranzo e alla sera, ricorda Renato Sacerdoti, si riunivano ufficialmente nella casa del fascio per sentire il giornale radio. In realtà
la sera il podestà se ne stava tranq uillamente a casa e il gruppo sentiva senza troppo nascondersi radio Londra. I controlli erano piuttosto
allentati. «Il gruppo godeva nell’insieme di una certa libertà: i permessi per andare a Napoli erano facili da ottenere. Anzi, a guerra ultimata, si
seppe che il podestà era stato più volte richiamato proprio per questa sua generosità. Mio cognato Luciano Pinto, regalando il suo impermeabile
al maresciallo dei carabinieri, era riuscito a tornare a Napoli quasi subito e nessuno era più andato a cercarlo; io stesso chiesi un permesso
matrimoniale di quindici giorni, che mi fu regolarmente concesso, tornai ancora una volta a Tora giusto per salutare mio fratello Enrico, che si era
trasferito con tutta la famiglia, chiedere un secondo breve permesso e, una volta a Napoli, eclissarmi fino alla fine della guerra, rifugiandomi, con
mia moglie Sara, a Meta di Sorrento».22

Anche Aldo Sinigallia racconta di avere lasciato Tora con un permesso dovuto a malattia e di esservi tornato solo negli ultimi mesi. Egli conserva
ancora il certificato del 9 novembre 1942 con cui ottenne la proroga del soggiorno a Napoli. «Oggetto: Ebreo Sinigallia Aldo di Tommaso. L’ebreo
in oggetto, precettato con cartolina n. 4202, del 19 settembre 1942-XX e messo a disposizione dell’azienda agraria Maffuccini Ciro fu Matteo, in
codesto Comune, ha presentato a questo Centro, in data odierna, regolare certificato medico dal quale si rileva che lo stesso, recatosi nel proprio
domicilio a Napoli, sabato 7 corrente, non ha potuto raggiungere oggi lunedì, il posto di lavoro assegnato perché affetto da colica addominale con
lieve risentimento appendicolare. Dispongo pertanto che allo stesso sia concessa una licenza di giorni 20, onde possa ristabilirsi, e precisamente
fino al 1° dicembre prossimo, epoca in cui dovrà raggiungere l’azienda a disposizione della quale è stato precettato. Qualora non ottemperi a tale
obbligo al termine del periodo indicato, saranno presi a suo carico provvedimenti di rigore».23

Dagli archivi emergono decine di permessi accordati dal prefetto, di quindici, trenta, sessanta giorni, in favore della maggior parte dei precettati,
per ragioni di salute, per la malattia di un parente stretto, per gravi motivi familiari, per la «sistemazione di importanti affari di famiglia». Renato
Lattes ebbe ripetuti permessi, per l’ammontare di tre mesi circa, per prepararsi agli esami di stato di agronomo. Aldo Sinigallia, dopo
l’autorizzazione di venti giorni per motivi di salute, ne ottenne una di sessanta il 28 novembre, per completare la convalescenza. Veniamo a
sapere che Alberto Cavalieri aveva chiesto di allontanarsi per sessanta giorni a causa di «gravi affari di famiglia» e invece era rimasto a Tora
«esplicando attività di orologiaio». A una richiesta di chiarimento sui motivi di questo comportamento, che faceva temere «scopi reconditi», il
tenente della compagnia dei carabinieri rispondeva che «l’ebreo in oggetto» manteneva «buona condotta morale e politica» e non aveva mai
«dato luogo a speciali rilievi sul suo conto». In seguito, di fronte a un’ennesima richiesta di permesso, il prefetto invitava il podestà a una
maggiore osservanza delle regole che disciplinavano il lavoro coatto. Un altro rimprovero aveva ricevuto Maffuccini per aver utilizzato Raoul
Navarro per «lavori di dattilografia» invece che per «lavori agricoli», violando le disposizioni del regime.

Il 21 gennaio 1943 il presidente della Commissione provinciale di censura scriveva al prefetto: «Come è dato desumere dai rilievi del censore gli
ebrei precettati e concentrati in detto comune hanno finito col trovarsi a loro agio, beneficiando di favori e di simpatie con manifesto pregiudizio
per la dignità della razza ariana».24 Il 25 giugno 1943 in una missiva al ministero degli Interni il prefetto chiedeva di non assegnare in futuro
nessun centro di raccolta di ebrei alla provincia di Napoli – cui allora appartenevano Tora e Piccilli –, vista la «sistematica indisciplina dei
precettati a Tora e la scarsa comprensione di taluni organi di vigilanza».25

La documentazione d’archivio conferma dunque in parte la flessibilità e lo scarso fanatismo dei rappresentanti delle istituzioni, di cui narrano i
testimoni. Vengono però alla luce alcune contraddizioni significative: atti che produssero conseguenze di non poco conto, che affiorano confusi
nei ricordi, e solo in alcuni casi possono essere chiariti dalla corrispondenza della prefettura.

Vanda Sacerdoti fu arrestata dai carabinieri perché sorpresa mentre ascoltava radio Londra e finì in prigione per alcuni mesi. È la figlia Annie,
oggi, a richiamare alla memoria i racconti della madre: forse chi aveva fatto la denuncia pensava di coinvolgere tutto il gruppo degli ebrei e
quindi trarre vanto dall’iniziativa; i carabinieri trovarono invece la signora sola, intenta a stirare, con l’apparecchio radiofonico sintonizzato su
radio Londra. La donna, che era incinta, venne arrestata e imprigionata a Cassino. Nell’estate del 1943 era stata rilasciata a causa della
gravidanza inoltrata. Il 19 novembre, tre giorni dopo il parto, sarebbe stata ricondotta a Napoli con tutta la famiglia dalla brigata palestinese, che
si trovava in città per risalire l’Italia combattendo a fianco degli alleati e a cui era stata riferita la sua storia.

Guido Modiano fu invece allontanato forzatamente da Tora insieme a Quirino Farinaro, che lo ospitava. Ricorda l’episodio il nipote di
quest’ultimo, Andrea Farinaro, e ne troviamo conferma nella corrispondenza del gabinetto di prefettura. In una lettera dell’11 dicembre 1942 il
podestà Ciro Maffuccini denunciava i due.26 Guido Modiano aveva cercato di affittare una casa «per sé e per i suoi correligionari», ma «il
proprietario della casa suddetta, sig. Farinaro Quirino, non è iscritto al PNF ed appartiene a famiglia di noti e pericolosi comunisti ed egli stesso
deve considerarsi pericoloso sovversivo. [...] per tale fatto ho immediatamente redarguito il sig. Farinaro e l’ebreo in oggetto ed ho risolto di
autorità il contratto, non potendo consentire che in casa di un antifascista noto ed irriducibile, prendesse alloggio un ebreo e proprio l’ebreo in
oggetto che, varie volte diffidato per la sua condotta privata poco corretta, viene accuratamente e riservatamente sorvegliato per sospetti politici.
[...] Ho messo a disposizione della famiglia del Modiano altra casa in Tora, ma egli l’ha rifiutata; il che conferma in modo perentorio e definitivo,
l’esistenza di un tacito accordo fra il Modiano e il Farinaro, la loro intima amicizia, la loro comunanza e fratellanza di intenti, di sentimenti, di
aspirazioni. Nel comunicarvi quanto sopra, mi permetto richiamare, Eccellenza, la vostra particolare ed autorevole attenzione sul comportamento
dell’ebreo in oggetto, che si rivela ogni giorno di più un elemento veramente pericoloso e che, per la puntuale volontà manifestata di essere
vicino troppo vicino ad un noto comunista, oltre che per la ossessionante smania di avvicinare elementi ariani, recandosi per tale scopo, perfino in
comuni vicini, per sfuggire ad ogni controllo, ha ormai palesato i suoi sentimenti, che sono quelli di un acerrimo, irriducibile nemico del Regime».

La lettera finiva con la proposta di confino per Guido Modiano e per Quirino Farinaro, misura che venne attuata secondo la testimonianza del
nipote, che ricorda il giorno in cui i carabinieri vennero ad arrestare lo zio e il loro ospite. Andrea Farinaro non rammenta per quanto tempo i due
uomini rimasero lontani dal paese, ma nel settembre del 1943 Modiano era di nuovo a Tora come libero cittadino.

La vicenda merita alcune riflessioni importanti. La prima riguarda i Farinaro e il loro antifascismo. Il documento conferma il legame tra
l’opposizione al regime e l’aiuto agli ebrei precetta ti. Ci mostra inoltre come tale sostegno sia costato arresto e confino a Quirino Farinaro, il
quale agì in favore degli ebrei nonostante fosse sottoposto a continuo controllo di polizia a causa dei suoi noti precedenti. Tutto ciò è andato in
parte disperso nella memoria del paese, annegato nell’immagine della solidarietà diffusa. Va messo in luce e rivalutato.

Una seconda riflessione concerne invece il comportamento del podestà, che appare sotto vesti contraddittorie. Non fanatico, poco attento a
osservare le regole della sorveglianza – tanto da ricevere alcuni rimproveri e da indurre il prefetto a scrivere a Roma quella lettera con il
consiglio di non creare mai più centri di raccolta in provincia di Napoli, proprio a partire dall’esperienza di Tora e Piccilli –, egli è, d’altro canto,
responsabile di una denuncia che provoca gravi conseguenze, che avrebbero potuto essere ancora più pesanti se non fosse intervenuta la caduta
del fascismo il 25 luglio 1943. Il suo modo di agire potrebbe essere stato dettato proprio dall’esigenza di mostrare severità per arginare le
critiche; e per questo la scelta sarebbe caduta su colui che univa alla qualità di ebreo quella di antifascista, colpendo insieme a lui il comunista
Farinaro. Ed è questa una spiegazione verosimile. Ma la sua condotta, insieme a quella del prefetto di Napoli, merita ancora alcune osservazioni.

Il prefetto Albini aveva curato l’applicazione delle disposizioni riguardanti le leggi razziali con l’ossessività e lo spirito persecutorio che
caratterizzarono la campagna antiebraica in Italia,27 ma aveva poi concesso continue deroghe a quelle stesse leggi che pedissequamente e con
convinzione aveva fatto applicare. Lo mostrano le decine di permessi concessi ai precettati, anche per motivi che attenevano a sfere pubbliche
altrimenti vietate agli ebrei. I comportamenti del podestà e del prefetto possono costituire un esempio significativo per mettere in luce una delle
caratteristiche precipue del fascismo: privare i cittadini dei diritti politici e civili, a cominciare da quelli sottratti ai comuni cittadini (il diritto di
voto, di libertà di espressione ecc.) fino alle privazioni gravissime inflitte a quelli di «razza ebraica», e farlo con un certo accanimento poliziesco,
per poi consentire eccezioni attraverso rapporti clientelari, personalistici e di corruzione. Caratteristica questa che ha in un certo senso
contribuito a moderare il totalitarismo fascista, rendendo possibile, molto più che nel sistema nazista o stalinista, agire nelle pieghe del sistema,
ma ha prodotto una estesa degenerazione delle coscienze, ha portato a sot tovalutare la gravità della soppressione dei diritti formali, della
«libertà» dei cittadini. Una sottovalutazione largamente presente nel senso comune riguardo al regime.

Nel piccolo paese campano tali aspetti si coniugarono, tuttavia, con le scelte coscienti di molti degli abitanti e produssero alla fine effetti virtuosi.

Torani ed ebrei di fronte a un comune nemico: settembre-ottobre 1943

Fra l’8 settembre e i primi di novembre gli ebrei a Tora scamparono a ogni pericolo. Ci fu una delazione che per pura fortuna non ebbe
conseguenze tragiche. Un paracadutista inglese era caduto nei pressi del paese ed era stato nascosto da Valentina Pinto Voghera, cognata di
Vanda Sacerdoti che era già finita in carcere per aver sentito radio Londra; i tedeschi, messi sull’avviso da una voce, si recarono presso la casa
dei Voghera, ma non riuscirono a trovare il soldato, nascosto sotto un mucchio di fascine. L’autore della delazione era il maestro elementare,
Vincenzo Fischietti, considerato, lui sì, un fascista fanatico e, per questo, picchiato, segnalato agli americani al loro arrivo e condotto da questi al
campo di internamento per fascisti a Padula. Ma nessuno denunciò apertamente la presenza degli ebrei in paese. Alfredo Iulianis, un carabiniere
che era arrivato dopo l’8 settembre dalla Iugoslavia, dice di essere scappato anche lui con gli altri uomini e gli ebrei nel bosco. Andrea Farinaro
ricorda che il padre antifascista diede dei vestiti borghesi ai carabinieri che venivano da fuori e ne ebbe in cambio le armi che nascose insieme ad
altre in una grotta.

Vittorio Gallichi reputa la salvezza sua e degli altri ebrei come la conseguenza di un atto da annoverare fra le azioni di coloro che furono definiti i
«giusti». Si trattò veramente di un atto cosciente di salvezza o furono semplicemente una serie di circostanze fortuite dovute al contesto e al le
contingenze storiche a salvare la vita degli ebrei?

Come già si è detto, Tora si venne a trovare nel mezzo delle linee fortificate, con una rilevante presenza di soldati della Wehrmacht. Nel palazzo di
Giulio De Simone si era installato un comando tedesco, la casa dei Farinaro era stata anch’essa requisita. Entrambe sarebbero state minate e
distrutte prima della ritirata. Brutalità e violenza si diffondevano in zona. I tedeschi non andavano tanto per il sottile: colpivano con estrema
durezza ogni atto di ribellione e cercavano gli uomini. Il loro intento era quello di intimorire la popolazione civile rendendola inoffensiva e
rastrellare gli uomini per il lavoro in Germania e per le opere di fortificazione. Gli ebrei maschi scapparono e, ancora più intimoriti degli altri,
seppero forse prendere maggiori precauzioni. Le donne si confusero con le donne del paese.

Ricorda Giulio De Simone: «Qui c’erano dei distaccamenti tedeschi accampati fuori dal paese, in quei giorni passavano quando attraversavano il
nostro paese e passavano di corsa con i mitra spianati, tutti in paura, perché non sapevano che cosa li aspettava, se noi non li disturbavamo
oppure se li attaccavamo. E incominciarono... ecco l’afflusso dei soldati italiani che avevano smesso la divisa che passavano... demmo accoglienza
a quelli che stavano di passaggio, molte volte abbiamo dato anche qualche vestito smesso, qualche cosa per fargli togliere la divisa, per farli
diventare civili perché a piedi andavano verso le loro case. Gli ebrei invece si sono messi subito in allarme, hanno incominciato a nascondersi, so’
andati verso i boschi, hanno trovato delle maniere per non farsi vedere tanto, per evitare i contatti dei tedeschi. Noi siamo rimasti più o meno
tranquilli, abbiamo continuato le nostre piccole attività, mi ricordo era settembre, abbiamo vendemmiato, abbiamo cominciato a raccogliere
castagne, non una grossa possibilità neanche agricola, ma qualche cosa si continuava a fare, naturalmente non c’era commercio, non c’era
traffico, non c’era niente, eravamo perfettamente isolati, però avevamo ancora la corrente elettrica, avevamo... cioè i servizi essenziali esistevano
ancora. A metà settembre hanno dato il bando per la raccolta delle armi e quindi anche in casa c’erano delle armi storiche, in parte le ho
consegnate e un’altra piccola parte le ho nascoste. Arriviamo al primo fatto importante che ci colpisce molto più da vicino... al 23 settembre. Il 23
settembre nella nostra zona è avvenuto un fatto anche questo eccezionale, come quello degli ebrei... Il 23 settembre, la mattina, siamo stati
svegliati, cacciati dal letto, fatti vestire in fretta, siamo stati prima concentrati in questa frazione, l a frazione Tuoro, poi siamo stati presi, mentre
stavamo andando a Tora, ci stavamo spostando a piedi e devo dire che qui a casa mia c’erano anche altri sfollati, c’era sfollato un giudice di
Napoli, avevamo dato ospitalità a questa famiglia, avevamo dato ospitalità a degli altri parenti... e questo parente soprattutto, che era stato preso
con noi e che conosceva anche il tedesco, aveva capito che c’era una retata per portarci... per portarci via, quindi a me, al figlio, a mio fratello e
ad altri ragazzi, perché dovevamo essere oggetto di deportazione, ha detto: se possibile squagliatevela! Infatti quando siamo partiti a piedi per
trasferirci all’altra frazione noi ci siamo messi in testa a camminare perché avremmo attraversato una strada dove a un certo momento c’era una
stradina laterale e siccome eravamo in curva se riuscivamo a distaccarci un pochettino prima, a guadagnare un pochettino di terreno, alle
guardie tedesche che venivano alle spalle non... sfuggivamo alla loro vista e quindi potevamo... potevamo scappare. Sennonché un italiano che
stava con loro e che faceva da interprete ha mangiato la foglia, si è accorto e ci ha fatto ritornare indietro, ci hanno caricato sul camion e ci
hanno portato sul camion. Ah, questo italiano era di Tora? No, era di Mignano. Era un collaboratore, praticamente... Sì, era... in quel momento si
era rivelato un collaboratore, come un altro, era venuto con i tedeschi a chiamarci, a bussare, però senza essere un grosso collaboratore, era
diventato collaboratore in quel momento, però poi fu deportato pure lui in Germania, quindi la sua az ione di collaboratore finì immediatamente.
Ci hanno concentrati tutti nella piazza di Tora, questi noi della frazione Tuoro, Foresta e Tora, e lì ci hanno circondati con dei soldati tedeschi
armati di mitra in duplice fila e uno ha letto un proclama, ci hanno detto: Mussolini vi manda a dire che dovete collaborare con i tedeschi, voi
sarete trattati bene se andrete a lavorare in Germania e chi di voi vuole andare volontariamente a lavorare in Germania faccia un passo avanti. Vi
assicuro che nessuno si è mosso; a questo punto allora hanno detto: Bene, allora tutti i nati dal 1900 al 1925 devono andare in Germania, i più
vecchi e i più giovani possono tornare a casa. In quel momento io ero il più giovane, insieme a Vittorio Gallichi, preso con noi. C’era mio fratello.
Il cugino, figlio di questi parenti, seguendo le istruzioni che aveva preso dal padre, immediatamente ha cercato di incominciare a muoversi, a
nascondersi, ha fatto aprire una porta di uno che stava sulla piazza ed è scappato, è scomparso. Mio fratello invece non si è voluto muovere, io e
Vittorio cercavamo di portarlo fuori dalla fila..., io avevo già... anche se ero già grosso così più o meno come sono adesso, però avevo in tasca una
carta d’identità, perché avevo preteso al comune già a dodici anni che mi facessero una carta d’identità, perché anche quando viaggiavo sui treni
da studente già allora ogni tanto veniva la polizia a controllare i viaggiatori, siccome non potevo presentare la tessera di balilla, dove non c’era
neanche la fotografia, quindi con la carta d’identità non volevo seccature, visto che sembravo più grande dell’età che avevo. Dato che mi ricordo
che quando sono venuto fuori dalla fila uno dei tedeschi che stavano fuori mi ha fermato, io gli ho fatto vedere la carta d’identità, lui mi ha
guardato la carta d’identità e poi si è messo a fischiare per dire quanto ero alto, quanto ero lungo. Comunque siamo usciti, però dal 23 settembre
ci siamo cominciati a nascondere. Gli ebrei erano già nei boschi e nessun ebreo è stato coinvolto in questo rastrellamento. Vittorio stava lì, però
l’hanno lasciato perché era bambino, come non hanno preso il padre e altre donne che non c’erano. Ma i Modiano, i Sacerdoti, i Gabai... cioè
Modiano era andato via, era rimasta la madre, la sorella, il padre anziano, quindi in quella retata non li avrebbero presi come lavoratori. Ma gli
altri che potevano pigliare so’ rimasti tutti quanti indenni, so’ rimasti tutti quanti... so’ andati nel bosco, cioè nel bosco tra Tora e l’altra frazione
Piccilli e Marzano, esteso più o meno... un bosco ceduo, dove è anche un pochettino difficile muoversi, diversi ettari a superficie boschiva e lì
hanno fatto delle capanne, hanno costruito delle capanne al centro del bosco e si sono messi lì in attesa, per nascondersi, in attesa che passasse il
fronte, che fossimo occupati poi dagli americani. I tedeschi non lo sapevano che lì c’erano gli ebrei o lo sapevano? No, non lo sapevano. E non
sono venuti a saperlo? No, i tedeschi non lo sapevano, non sono venuti a saperlo e qualcuno mi ha detto – poi ho chiesto conferma, non so se è
vero o no – che gli impiegati del comune di Tora, su sollecitazione degli ebrei, hanno fatto sparire dal comune tutte le carte che potessero portare
tracce che indicavano che a Tora c’erano gli ebrei.28 Non posso confermarlo, però ci è stato detto: è stato possibile salvarli, nasconderli dopo l’8
settembre... dopo il 23 settembre proprio perché dal comune non c’erano rimaste più tracce di questo passaggio che c’era stato degli ebrei. Poi
se in altri posti nella questura di Napoli – perché allora qui era provincia di Napoli, quindi questura, prefettura, gli uffici di dirigenza fascista e
cosa era tutto a Napoli, non so se a Napoli avessero tracce o avessero interesse poi di cercare queste... queste tracce. Certo è che non c’è stata
nessuna ricerca specifica per gli ebrei».

Vittorio Gallichi ci racconta di essere stato preso in una retata successiva insieme agli uomini di Tora e di essersi salvato grazie alle indicazioni
della madre, alla sua presenza di spirito, ma anche grazie all’aiuto degli abitanti del villaggio. «Mi trovavo a Tora, in un’altra occasione quando fu
fatta una retata per degli uomini da prendere, io ero a Tora girando per la città. Si vede che i tedeschi s’impressionarono di vedere a me girare
per la città e s’impressionarono credendo che io andavo ad avvisare che loro stavano prendendo gli uomini, allora mi presero e mi misero sul
camion, per portarmi via con gli altri di Tora. Mia madre era l’interprete e parlò con l’ufficiale, in tedesco perfettamente, e l’ufficiale disse:
signora, mi chieda qualsiasi cosa, però ormai suo figlio sta sul camion e io non posso fare niente, se lo portano. Però faccio una premessa: fui
preso non come ebreo, fui preso così... allora mia madre disse vicino a me: guarda Vittorio prenditi queste sigarette antiasmatiche, poi di’
sempre: Ich bin krank, io sono malato. Zu viel arbeit, ho molto lavorato. E cerca di scappare. Fummo portati a Cassino, lì siamo stati due giorni a
Cassino, mangiando solo uva, fortunatamente nessuno disse che ero ebreo, non incontrai nessuno, quelli del paese non dissero niente, io a un
dato momento da ragazzino, da bambino, andai v icino a un ufficiale e dissi: ich bin krank, zu viel arbeit. E me ne andai senza aspettare e così
fortunatamente riuscii, unico e solo di tutto il gruppo, a salvarmi e a ritornare a Tora Presenzano. Poi queste persone che erano state prese con
me tornarono dopo la guerra, alcune non tornarono proprio e quelle che tornarono piuttosto malconce. E furono portate in Germania? Furono
mandati in Germania e caso strano proprio i fascisti furono presi e quindi io mi sono salvato per miracolo e quando lo ricordo questo fatto
effettivamente ne soffro, perché io non so come sono arrivato da Cassino a Tora Presenzano, io non lo so, a piedi, ma non so... la strada non la
sapevo. Comunque io arrivai a Tora e arrivai con le braccia paralizzate, fu uno shock e arrivai a casa e mia madre prese una bacinella con l’acqua
calda e mi passò... Diciamo che in quel periodo non ci pensai proprio, adesso penso che sono salvo per miracolo, perché poi durante questa strada
che io facevo per tornare a Tora incontravo dei tedeschi sbandati pure, che mi chiamavano, io correvo e me ne scappavo».

La conclusione di Gallichi è ironica: finirono in Germania i cattolici e io che ero ebreo mi salvai. «Sì, una trentina, tutti i torani! Tra cui io. Io fui
preso, fui portato a Cassino e io solo riuscii a scappare, riuscii a scappare io solo».

La madre, Gina Modiano Gallichi, fece da interprete con i tedeschi e fu indicata per questo ruolo proprio dal podestà! «Le interpreti del paese
erano mia madre e la signora Modiano, perché Maffuccini... me lo ricordo io, che venne nel paese un bellissimo uomo, un ufficiale tedesco:
Modiano, Modiano, dov’è Modiano! Figurati! Noi stavamo morendo... e Maffuccini, l’avvocato Maffuccini, mandò quest’ufficiale tedesco dicendo:
andate da questa signora, queste due signore parlano molto bene tedesco e vi possono essere utili. Ma non disse che erano ebree. [...] Quando i
tedeschi andarono via da Tora, certo mia madre non diceva una bugia, dissero a mia madre: signora, noi le mettiamo un camion a disposizione per
lei e per la sua famiglia, in modo che lei viene con noi. Mia madre figurati! Non sia mai, disse: no, sa, io ho la mia famiglia...»

Verso la fine di novembre il paese fu evacuato. I torani furono obbligati a fuggire e si rifugiarono nei boschi circostanti. Di nuovo ci viene
tramandata l’immagine di ebrei, abitanti del paese, soldati sbandati in fuga insieme. Come racconta Giulio De Simone, il bosco è diventato un
rifugio comune contro la guerra.

«Il 17 invece siamo dovuti uscire, per fortuna era il primo giorno anche di pioggia, c’era un pochettino anche di nebbia, c’era una postazione di
mitragliatrice tedesca su un poggio che passava sul vialetto che usciva da casa, siamo passati... a uno a uno siamo passati sotto questo... questi
tedeschi e ci siamo diretti verso il bosco, pure noi verso il bosco, verso una località che è chiamata La Pedata, dove c’era una grossa grotta
naturale e c’era anche una sorgente d’acqua e c’era anche una strana cosa, quella zona è chiamata Pedata perché nella roccia ci stanno delle
impronte umane e la leggenda del paese dice che lì è caduto il diavolo quando è stato cacciato dal paradiso da Dio e ha lasciato le impronte nella
roccia, le impronte stanno ancora lì, ci stanno le impronte dei piedi... Io mi ci sono misurato, ci son passato e cadendo c’è l’impronta anche della
mano e corrispondeva proprio alle mie proporzioni e potevo essere stato il diavolo caduto lì a lasciare le impronte. Comunque siamo andati in
questa grotta dove c’erano anche altri, questi della famiglia Falco e c’erano i soldati calabresi, che venendo dal Nord erano giunti qui e avevano
trovato accoglienza con noi ed erano rimasti in queste capanne aspettando che arrivassero gli americani per riprendere la via poi per andare
verso casa. Mentre eravamo... siamo stati alcuni giorni tranquilli in questa capanna, organizzati, come avete visto nei film dei partigiani, chi...
uscivamo in pattuglia ogni sera due o tre per andare a prendere l’acqua per fare qualche rifornimento e poi con quello che avevamo riuscivamo a
mangiare e ci siamo nutriti molto anche di funghi, perché piovve abbondantemente e ci fu un’abbondanza di funghi, tanto che i miei compaesani
dicevano: Dio ci vuole bene, ci ha mandato i funghi per farci nutrire, così non soffriamo la fame. Un giorno, mentre stavo vicino alla capanna,
c’erano dei mitragliamenti con gli aerei, si sparava, il fronte si era avvicinato, si sentivano già i rumori dei carri armati, della battaglia che si
svolgeva a poca distanza, noi eravamo lì in una vallata, non è che... che vedevamo... ho sentito un colpo di pistola che è passato tra la testa mia e
questo ebreo, Sacerdoti, che stava seduto vicino a me, e purtroppo ha colpito uno di questi soldati calabresi che stava nella capanna, gli ha
sfondato... gli ha sfondato il cranio. Nella stessa giornata io mi sono mosso per prendere questo soldato che non era morto, ma era rimasto in
coma, c’era anche con noi un medico, disse: non c’è niente da fare. Io il piglio del medico ce l’avevo, ma avevo quindici anni, ho cercato di
medicarlo solamente così, un pochettino, siamo andati a chiamare le donne che stavano... per portarlo in chiesa, per farlo morire... per farlo
morire da cristiano. Nel rientrare abbiamo incontrato una pattuglia di tedeschi, io sono stato catturato, mi hanno fatto camminare con la pistola
puntata per qualche chilometro, ma poi ho capito che cercavano... andavano razziando maiali e asini e volevano che come ragazzo li
accompagnassi a fare questa... questa razzia, non abbiamo trovato niente, ci siamo fermati poi in un altro rio mentre c’era un altro
mitragliamento di aerei americani, dopo di che mi hanno lasciato e me ne sono andato via e poi ho lasciato anche la capanna, sono andato da
un’altra parte».
Che giudizio dare? Il comportamento dei torani è da inscrivere fra gli atti di resistenza consapevole? Fu una cosciente opera di salvezza, come
tiene a sottolineare Gallichi?29 Cominciamo dalla questione dei tedeschi. In Campania, come è noto, non ci furono rastrellamenti di ebrei. A
Napoli arrivarono prima gli alleati. Alcuni ritengono che l’insurrezione li abbia salvati, in città circolano voci di liste non date o fatte sparire. Si
può dire, tuttavia, che, se anche ce ne fosse stata l’intenzione, non ci furono né i mezzi né i comandi per attuare il rastrellamento degli ebrei. Non
c’erano le SS, non c’era ancora in Italia il comando operativo di Dannecker che arrivò soltanto il 6 ottobre.30 Ma a Tora i tedeschi si ritirarono i
primi di novembre e la questione potrebbe porsi in modo differente. Infatti la grande razzia di Roma è del 17 ottobre, il 5 ottobre «il locale
comando militare tedesco iniziò il rastrellamento degli ebrei della provincia di Ascoli Piceno, affidandone qualche giorno dopo la prosecuzione
alle forze di polizia italiane e disponendo il loro concentramento nel campo di Servigliano», da dove nella primavera successiva sarebbero stati
trasferiti a Fossoli e da lì deportati ad Auschwitz.31 Come la provincia di Ascoli Piceno, la zona di Tora e tutto il territorio della Campania e del
basso Lazio ricadevano nelle zone definite «di operazione» in cui l’amministrazione civile e le operazioni di polizia erano interamente gestite dai
comandi militari tedeschi. Sarebbero stati dunque i comandi e i reparti tedeschi che avrebbero dovuto organizzare eventuali razzie di ebrei, come
avvenne infatti nella zona adriatica. L’organizzazione e il sistema di ordini tedesco, come ha mostrato Lutz Klinkhammer, non era un sistema
ordinato e razionale, come è invece raffigurato nelle rappresentazioni stereotipate, ma era suddiviso fra gruppi diversi in lotta fra di loro per il
predominio e in una serie di strutture con competenze specifiche.32 Le operazioni antiebraiche erano di competenza di sezioni di polizia
specializzate, dipendenti dal comando supremo delle SS e dalla Direzione generale per la sicurezza del Reich in Italia (Kriminalpolizei e
Gestapo).33 A Tora, come in Campania, non operarono né i reparti di SS utilizzati per la caccia agli ebrei né le sezioni di polizia specializzate.
Invece, i reparti della Wehrmacht furono usati, oltre che per i feroci combattimenti che avvennero sulle linee e che videro migliaia di caduti
tedeschi, per le razzie di uomini (in particolare la divisione corazzata Hermann Göring) e per la lotta contro le popolazioni ribelli, la lotta contro i
banditi. Non ci fu quindi la ricerca esclusiva e circoscritta degli ebrei con una organizzazione di spionaggio, l’incitamento alla delazione, e tutto
ciò che un sistema così organizzato avrebbe potuto produrre. Il carabiniere geloso sarebbe stato zitto? Il maestro fascista che cosa avrebbe fatto?
La popolazione, messa di fronte a un rischio consapevole, avrebbe aiutato gli amici ebrei? Possiamo però notare che non ci fu nessun fanatico che
travalicò i suoi compiti per fede fascista. Nessuno durante i rastrellamenti disse che nel bosco c’erano gli uomini ebrei nascosti. Nessuno disse
che le due donne che fungevano da interpreti erano ebree. Nessuno si rifiutò di condividere con gli ebrei il rifugio, la grotta, la capanna in mezzo
al bosco. Questo mi sembra comunque un comportamento umano, generoso, distante dalle regole e dalle ideologie imposte dal fascismo. Come
disobbediente fu il comportamento del periodo precedente, quello del lavoro coatto.

Che cosa rese possibile tutto ciò? Probabilmente molti elementi operarono insieme. L’esempio della famiglia più importante del luogo che
disobbedì per prima e diede l’esempio, l’antifascismo dei Farinaro e del gruppo a loro legato, la compassione dell’arciprete, e, non ultima, la
scarsa propensione dei torani all’obbedienza supina, la tradizione di lotte del paese, l’estraneità al linguaggio razziale, il prevalere dei codici
morali locali su quelli del regime, il riconoscimento degli ebrei all’interno di una comune appartenenza.34

«Un posto fra i giusti? È un poco esagerato... noi abbiamo fatto solo qualcosa di semplice». Così ha reagito uno dei testimoni, Giulio De Simone,
quando ha letto la lettera di Vittorio Gallichi che chiedeva un posto fra i giusti per i torani. È una frase significativa, che mette in luce una sana
attitudine antiretorica e suggerisce un’interpretazione sottotono. La semplicità e la naturalità con cui tutto ciò avvenne non ci devono tuttavia
portare fuori strada. La ricomposizione della vicenda attraverso più voci e attraverso i documenti del tempo ci ha mostrato una società
complessa, consapevolmente distante dal regime e dalla sua ideologia, e non, come la memoria tenderebbe in alcuni casi a rievocare, una
comunità di «brava gente», lontana dal fascismo perché ignorante e fuori dalla storia.
9. Nove mesi nella terra di nessuno.

Dal Garigliano al golfo di Gaeta, settembre 1943-maggio 1944


Il fronte e i tentativi di sfondamento

Dopo aver abbandonato la linea di fortificazione Viktor, che seguiva il Volturno, il 17 ottobre, e la linea Barbara alla fine del mese, le truppe
tedesche si attestarono lungo la Bernhard, dove si sarebbero svolte alcune fra le battaglie più dure e sanguinose della campagna d’Italia (Monte
Camino, Montelungo ecc.). La difesa della Bernhard avrebbe dovuto permettere alla Wehrmacht di attestarsi saldamente sulla linea di Cassino o
Gustav, che seguiva il fiume Garigliano, dalle foci alle vallate dei suoi affluenti, Rapido e Liri, e si imperniava su uno sbarramento naturale
costituito dalla strettoia della valle nei pressi di Teano, Mignano e Cassino, con i monti Aurunci da un lato e gli Appennini abruzzesi (le Mainarde)
dall’altro. Attraversato, non a caso, da ben due strade romane, l’Appia e la Casilina, era questo un crocevia storico, che era stato teatro di molte
battaglie, come ricordava il generale Frido von Senger und Etterlin, comandante del XIV Corpo d’armata corazzato. «Il fronte del corpo seguiva
un tracciato che poteva essere definito senza tema di smentite storico. La linea di resistenza combaciava infatti con la frontiera del regno
saraceno e poi normanno. Proprio lungo questa linea si fronteggiarono nel 1504 gli spagnoli e i francesi. [...] Gli spagnoli attraversarono il
Garigliano presso Suio nel punto preciso in cui gli alleati sfondarono nel maggio del 1944. [...] Non sono mai riuscito a liberarmi dell’idea che
fosse mio destino combattere con modalità quasi identiche una battaglia che era già stata combattuta nello stesso luogo nel 1504. Analogie del
genere sono frequenti nella storia e stanno a dimostrare come certi fatti d’arme scaturiscano quasi necessariamente dalle particolarità del
terreno». «In entrambi i casi era in ballo la conquista della stretta Mignano-Cassino, allora per avanzare su Napoli, stavolta per conquistare
Roma. In entrambi i casi il tentativo di sfondamento fallì in un primo tempo, ed entrambi gli avversari occuparono la linea che noi chiamiamo
linea Gustav».1

Le divisioni alleate lottarono dal novembre del 1943 al maggio del 1944 per riuscire a sfondare la linea Gustav e aprirsi la strada per Roma. In
varie ondate le truppe alleate tentarono di far arretrare le divisioni tedesche, accompagnando i movimenti dei soldati di terra con terribili
bombardamenti. Fra il 6 e il 15 novembre e il 30 dicembre la battaglia si svolse alle foci del Garigliano. Tra la fine di novembre e i primi di
dicembre furono sferrati altri due attacchi sulle montagne abruzzesi e intorno a Cassino. In gennaio, in preparazione dello sbarco di Anzio che
doveva avvenire il 22 dello stesso mese, i raid aerei si intensificarono con «danni collaterali» di tragica portata su tutto il territorio circostante il
fronte; intanto, fra il 17 gennaio e gli inizi di febbraio, si verificavano due tentativi di spezzare la linea nei pressi di Cassino e sul Garigliano. Il 15
febbraio, dopo aver inutilmente tentato di avanzare, gli alleati decisero di bombardare il monastero di Montecassino, che sovrastava la valle e che
veniva identificato, a torto, come una roccaforte dei tedeschi, che da lì avrebbero potuto dom inare le mosse degli avversari e difendere con
successo le proprie posizioni. Il bombardamento si sarebbe rivelato tragicamente inutile: fece 296 vittime civili2 fra la popolazione che vi aveva
trovato rifugio e non colpì i soldati tedeschi, i quali, invece, si insediarono poi tra le rovine e furono in grado di contrastare con maggiore efficacia
l’avanzata alleata, ricacciando indietro le divisioni neozelandese e indiana. Il 15 marzo iniziò un altro tentativo di sfondamento con la distruzione
totale della città di Cassino: 190000 granate e 1000 tonnellate di bombe furono rovesciate sulla cittadina che venne rasa al suolo e divenne, come
il monastero, teatro di battaglia fra le opposte divisioni; il 23 marzo i comandi alleati, dopo gravissime perdite, decisero di sospendere ancora una
volta l’attacco. Dall’11 al 22 maggio si svolse la battaglia decisiva: gli alleati costrinsero alla ritirata le truppe tedesche con una morsa a tenaglia
che vide impegnate le truppe inglesi, americane, polacche, canadesi, sudafricane e il Corpo di spedizione francese, che sfondò il fronte all’altezza
di Minturno e Suio, sul fiume Garigliano e si inoltrò nei monti Aurunci attraverso Esperia e Castelforte verso Formia, Itri, Campodimele, Pico,
Ceprano.

Molti libri sulla seconda guerra mondiale riportano le cartine con le avanzate, le battaglie, i momenti di impasse, ma pochi si occupano del
destino delle popolazioni che intorno e in mezzo a quelle battaglie si trovarono a vivere. Coloro che abitavano nel territorio circostante la linea
Gustav vissero una situazione estrema, per la durata del fronte (quasi sette mesi), per le distruzioni pressoché totali operate dai bombardamenti
alleati, per l’accanimento con cui i tedeschi difesero la linea, infierendo spesso sui civili e, infine, per le terribili violenze perpetrate sulle donne
dalle truppe del Corpo di spedizione francese. Alcuni dicono esplicitamente di essere vissuti nella «terra di nessuno». Le fotografie del tempo
riportano truppe, popolazione, paesi e macerie immersi nella neve. Nella memoria nazionale si è fissata l’immagine di uno dei più antichi conventi
della cristianità distrutto, ma pochi ricordano che Cassino fu rasa completamente al suolo, che moltissimi altri abitati della zona da Gaeta a
Cassino subirono distruzioni quasi totali e che infine il 22 maggio, quando si apprestavano a esultare per la «liberazione», numerosi paesi si
trovarono di fronte all’invasione delle truppe francesi che si diedero a saccheggi e stupri.

Focalizziamo qui la nostra attenzione sulle zone che furono teatro della battaglia del Garigliano, da Minturno sul fiume, nel punto in cui le due
linee Bernhard e Gustav si incontravano, poi lungo il mare e i monti Aurunci.3

Il porto di Gaeta, l’importante snodo ferroviario di Formia, il Garigliano con i suoi ponti furono obiettivi ripetuti dei bombardieri angloamericani.
Nella zona si addensarono inoltre le truppe tedesche che, oltre a costituire la linea Gustav e la linea Hitler poco lontano, presidiarono duramente
le coste, evacuando e deportando le popolazioni, distruggendo tutte le infrastrutture dei porti, poiché il golfo di Gaeta era stato individuato come
uno dei luoghi per un possibile sbarco alleato dopo quello di Salerno.

Caratteristica precipua della guerra in queste zone è la lunga battaglia terrestre, in una situazione di stallo di entrambi gli eserciti bloccati al di
qua e al di là delle linee difensive, con tentativi di sfondamento che vedevano i soldati coinvolti in combattimenti corpo a corpo, continui
cannoneggiamenti fra gli opposti fronti, bombardamenti dall’aria, evacuazione forzata degli abitanti. Si trattava di una situazione molto simile a
quella in cui erano state coinvolte le popolazioni che si erano trovate sui fronti della prima guerra mondiale, aggravata, in questo caso,
dall’innalzamento del volume dell’artiglieria e dei bombardamenti.4 E come quella delle popolazioni trentine e venete nel 1915-18,5 anche questa
storia è scarsamente rappresentata nella memoria nazionale, mentre esiste invece un’estesissima produzione di diari e ricordi individuali, di
storie di paese e di gruppi, che testimonia di una memoria locale molto profonda. I racconti descrivono con grande efficacia la vita fra le linee, il
mischiarsi delle violenze, la quotidianità in mezzo alle bombe cercando di scansare la morte, la condizione di ostaggi estremi della guerra.

Storie6

Pompea Di Maio: «Avevo quattordici anni, allora, e ricordo nitidamente tutti gli avvenimenti drammatici di cui siamo stati protagonisti in quei
nove mesi trascorsi in montagna, senza cibo e abbandonati da tutti, anche da chi avrebbe dovuto avvertire la responsabilità di essere presente.
[...] Dopo il bombardamento, avvenuto durante la notte tra l’8 e il 9 settembre 1943, ci rifugiammo nei pressi di Rio Fresco, nella casetta di
campagna di un nostro conoscente. Con noi c’erano altre famiglie di Mola con tanti bambini. Distanti dal centro abitato ci credevamo al sicuro
dalle bombe, ma un destino spaventoso incombeva su tutti noi, perché, essendo vicini alla ferrovia Roma-Napoli, senza rendercene conto,
eravamo proprio l’obiettivo militare degli aerei alleati. Infatti, nel primo pomeriggio del 20 settembre 1943, le fortezze volanti angloamericane,
come nei giorni precedenti, erano ritornate e riversarono sulla stazione ferroviaria, su tutto il tratto di strada ferrata fino al casello di Rio Fresco
e sulla cabina elettrica, una pioggia di ferro e di fuoco. In preda al panico e urlando disperatamente, ci rifugiammo dentro un lungo fosso. [...] Mia
madre non fece in tempo a scendere nel fosso insieme a noi, perché uno spostamento d’aria la scaraventò a terra facendola rimanere esanime.
Quando uscimmo dal fosso vedemmo mia madre immobile in una pozza di sangue: grosse schegge l’avevano colpita in varie parti del corpo,
uccidendola. [...] Per la mia famiglia fu una tragedia e la perdita della mamma ci gettò nell’angoscia più profonda. La mamma lasciava sei figli, dei
quali due gemelli di appena cinque mesi! Il babbo era distrutto dal dolore e spesso lo vedevamo piangere di nascosto. Dopo il bombardamento
andammo in montagna e trovammo riparo in una grotta fredda e umida sulle montagne di Trivio. Col passare dei mesi il cibo cominciò a
scarseggiare e a diventare sempre più introvabile. Mio padre per procurarcelo e non farci soffrire dette in cambio tutto l’oro della mamma!
Intanto l’attività bellica andò sempre più crescendo, con cannoneggiamenti quotidiani dal fronte del Garigliano, dove gli angloamericani si erano
attestati. [...] Quanta paura e quanta fame in quei mesi tremendi! Anche le carrube divennero introvabili e ci eravamo ridotti a cibarci di erbe
selvatiche, bollite in acqua di mare per renderle più mangiabili. Per prenderla molti formiani finirono sulle mine, perché i tedeschi, per timore di
sbarchi alleati, avevano minato tutta la costa di Formia. Il 2 aprile, proprio su una mina morì mio zio Giovanni di trentatré anni, mentre mio
cugino rimase gravemente ferito ai polmoni. Trasportato all’ospedale militare di Fiuggi dai tedeschi, vi morì dopo circa un mese. Si chiamava
Erasmo Di Russo e aveva diciotto anni. Il 16 maggio 1944, proprio quando gli alleati, conquistata Castellonorato, stavano avvicinandosi presso il
nostro rifugio di montagna, un’ultima pattuglia di tedeschi in ritirata, prima di incamminarsi per la mulattiera, scaricarono il loro mitra su mio
padre, e sul suo compare, proprio davanti ai nostri occhi, facendoci rimanere agghiacciati dal dolore».

Rosina Di Marco: «Il 20 settembre del 1943 ero con i miei familiari rifugiata nella casetta di campagna di Salvatore Scipione, poco distante dal
casello ferroviario di Rio Fresco. Verso l’1 pomeridiana, mentre cucinavamo, all’improvviso vedemmo più di dodici bombardieri provenire dalle
montagne di Itri. Giunti all’altezza della stazione ferroviaria, incominciarono a sganciare le bombe. A quella vista ci rifugiammo di corsa dentro il
ricovero che aveva costruito il mio compare Salvatore Scipione. [...] Eravamo quattro famiglie, 32 persone. Gli aerei, bombardata la stazione di
Formia, si avvicinarono verso di noi per colpire i ponti di ferro della Madonna di Ponza e di Rio Fresco. Intorno a noi caddero decine di bombe.
[...] Mio padre Erasmo e mio fratello Giovanni, colti di sorpresa, si rifugiarono invece sotto un albero di carrube. Quando uscimmo dal rifugio,
mio fratello Giovanni lo trovammo svenuto in una cunetta con la spalla rotta e mio padre giaceva morto sotto l’albero. [...] Seppellito mio padre
nel vicino cimitero, ci rifugiammo alle pendici del monte Campese, nella casetta del sacrestano di Trivio. La mattina del 26 novembre 1943, ci
eravamo appena destati quando, all’improvviso, diedero un calcio alla porta della nostra casetta, mandandola a terra. [...] tre soldati tedeschi in
divisa nera con i fucili mitragliatori in mano , minacciosamente dissero: uomini venire con noi. Si portarono solo mio fratello Armando, perché
mio marito e Giovanni erano già usciti in cerca di qualcosa da mangiare. Mio marito fu preso e bastonato selvaggiamente. Lo lasciarono perché lo
credettero morto. Mio fratello Giovanni, che, nascosto dietro una roccia, aveva assistito al brutale linciaggio, ci raccontò che i tedeschi, con i calci
dei fucili lo avevano ridotto a un ammasso di ossa rotte. Anche lui lo credette morto, ma, dopo un po’, lo vide rinvenire, e portandolo sulle spalle,
raggiunse la nostra casetta. Dopo quel giorno non si riprese più. Morì il 18 marzo 1944, dopo mesi di sofferenze atroci. Mi lasciò con una figlia di
due anni e mezzo. Si chiamava Gabriele Italiano».

Assunta Scipione: «Abitavo con mio ma rito Giovanni in via Anfiteatro. L’8 settembre, impauriti, scappammo in campagna in località Mamurrano;
il giorno 10 tornammo a casa per prendere un po’ di biancheria e, mentre ce ne stavamo ritornando in campagna, sentimmo avvicinarsi tanti
aerei che bombardavano il quartiere di Mola. Ci tro vammo su un carro tirato da un ciuccio e guidato da mio padre Giuseppe; c’erano anche mia
sorella Gelsomina di quattordici anni, mia cognata Francesca e sua figlia Antonietta. [...] Ci rifugiammo nel pastificio Paone. Successe la fine del
mondo, una grande nuvola di polvere nera copriva la farina sparsa dappertutto, non si capiva più niente, il vecchio Domenico Paone stava lì tutto
bianco di farina. Fummo tutti feriti, tranne mio padre. [...] Sul carro, che trasportava i feriti alla clinica, morì mia sorella Gelsomina. Mio marito
che era infermiere fu di grande aiuto a tutti [...] Un giorno mentre mi stava medicando, vennero dei tedeschi che volevano portarlo via: al rifiuto
di mio marito gli spararono e la pallottola lo colpì al cuore. Lo vidi morire davanti a me! Ora ero sola con un figlio in grembo. Con alcuni miei
parenti mi rifugiai a Trivio; la casa dov’ero alloggiata fu colpita da una cannonata, ci fu un’altra tragedia. Morirono in quello stesso momento mia
sorella Teresa, il marito Agostino Lombardi e la madre Esterina Arienzo. La piccola figlia di Teresa, di appena tre mesi, in braccio alla mamma, si
salvò, ma dopo poco morì di fame! [...] Dovemmo andar via, non avevamo da mangiare, eravamo mal ridotti, io dovevo partorire. Con un camion
andai a Roma, dove nacque la mia bambina a cui diedi il nome di Giovanna in ricordo del padre Giovanni».

Pietro Tommasino: «Per fame ci sono morti, uno dopo l’altro, tre figli: tre anni, un anno e mezzo e l’ultimo, nato in montagna, di soli due mesi. Mia
moglie non aveva più latte e non vi era nessuna capra. I tedeschi ci tolleravano e avevano compassione di noi. Ci ammiravano soprattutto per il
nostro coraggio di sopravvivere. Quando gli aerei alleati bombardavano il ponte di Rialto, essi venivano a Santa Maria, rastrellavano uomini e
giovani e li portavano a lavorare; lavorai anch’io con i tedeschi un paio di mesi, febbraio e marzo. C’era molto lavoro da fare e ci davano, oltre al
cibo, anche 500 lire ogni 15 giorni. Io non mangiavo il pane per portarlo ai miei figli. I tedeschi ci facevano liberare le strade dalle macerie e
riempire le buche prodotte dalle bombe, per far passare i camion. Poi mi sono ammalato e, per non perdere la pagnotta per i miei figli più piccoli,
mandai al mio posto Tommaso, il primogenito, di quasi quindici anni. Ogni mattina andava a Rialto con i tedeschi e tornava alla sera con la
preziosa pagnotta; quando bombardavano o cannoneggiavano Rialto, il nostro cuore si squarciava pensando a quel povero ragazzo che si
sacrificava per tutti.

Il 18 aprile 1944 un furioso cannoneggiamento dal fronte del Garigliano costrinse gli operai, intenti a ripristinare il ponte di Rialto, a rifugiarsi nei
ricoveri. Mio figlio ed altri venti sventurati, si rifugiarono in un palazzo: ma una cannonata centrò la scalinata, ostruendo l’uscita; dopo circa
un’ora, avvertito da due persone che lavoravano a Rialto, scesi di corsa insieme ad altri familiari dei sepolti vivi e, dopo tre ore di lavori febbrili,
riuscimmo a liberare l’uscita. Ma ormai non c’erano più speranze, erano tutti morti soffocati. Mio figlio era vicino alla porta e sembrava
addormen tato. Col cuore straziato dal dolore, lo presi e lo seppellii nel giardino delle suore di Cristo Re. Messa una croce sulla tomba, tornai e
arrivai alle 17.30 a Santa Maria. Mia moglie era distrutta dal dolore, perché, verso le 2 del pomeriggio era morta Civitina, un’altra mia figlioletta
di nove anni. Era ammalata di nefrite e non potevamo curarla per mancanza di medicine e di medici.

I tedeschi ai primi di maggio ci portarono prima a Narni e dopo a Firenze. Liberata Firenze dagli alleati, tutte le famiglie sfollate furono trasferite
a Roma, nella caserma di Santa Croce in Gerusalemme. C’erano tante famiglie formiane. Solo nel 1945 facemmo ritorno a Formia».

Violenza che viene dal cielo, violenza che arriva dagli occupanti, morte per fame e per malattie. Una vera no man’s land.

Vediamo ora di distinguere le due violenze, anche se, è importante ricordarlo, esse furono subite contemporaneamente dagli abitanti, con
conseguenze importanti sulle dinamiche della memoria e sulle interpretazioni individuali.

Le violenze tedesche

Oltre alle dinamiche connesse alla repentina occupazione del territorio, che avvenne con le modalità che ormai conosciamo – presa di possesso di
istituzioni e uffici pubblici, esautoramento dei comandi militari e delle autorità italiane, saccheggio delle risorse – e che ebbe a Gaeta i momenti
più alti di scontro, essendo la cittadina un importante porto militare e avendo tentato i marinai una qualche forma di resistenza,7 le situazioni più
drammatiche in questa zona, così a lungo attraversata dal fronte, sono legate alle evacuazioni forzate e ai continui rastrellamenti degli uomini,
finalizzati al lavoro coatto in Germania, all’opera di fortificazione e allo sgombero delle vie di transito bombardate.

Ordini di sfollamento, temporaneo o definitivo, vennero imposti a tutte le c ittadine della costa il 24 settembre 19438 e ad alcuni paesi dell’interno
diventati sede di postazioni tedesche nel corso dell’inverno 1943-44. Le evacuazioni avvenivano con grande violenza, erano spesso improvvise, si
coglieva di sorpresa la popolazione, le si intimava di lasciare le case entro pochi minuti, la si portava via con la forza in alcuni casi, la si caricava
sui camion per destinazioni decise dai comandi tedeschi, in altri si ordinava semplicemente l’allontanamento dalla zona, lasciando agli abitanti la
scelta del nuovo rifugio. Molti non obbedivano, perché non volevano abbandonare le loro abitazioni, le loro cose, gli animali. Temevano i
saccheggi, avevano paura di essere deportati chissà dove. Anche in questa zona molte uccisioni sono legate alle evacuazioni forzate: chi veniva
trovato in una zona proibita poteva essere passato per le armi senza indugio, accusato di insubordinazione all’esercito occupante o considerato
una spia, come avvenne il 6 marzo 1944 a Santa Maria Infante dove «un gruppo di otto persone, spinte dalla fame, ritornò in paese, con la
speranza di trovare le provviste alimentari, nascoste nelle loro case, ma trovarono le loro abitazioni devastate dalle cannonate e mentre
scavavano tra le macerie furono viste dai soldati tedeschi, vennero prese e condotte in via Fontana e lì vennero fuci late»,9 e a Sant’Ambrogio del
Garigliano dove furono uccisi un padre e un figlio che non avevano voluto abbandonare la loro casa.

«Due compaesani non ebbero né la forza fisica né la forza morale di uscire di casa: Carmine e Giovanni Broccoli, padre e figlio inseparabili. Il
padre era stato emigrato nelle fazende di caffè in Brasile da dove era tornato con poche lire e senza nemmeno un dente, gli erano saltati, diceva,
quando mangiava il riso bollente in un gran piatto comune servito a mezzogiorno in campagna e bisognava far presto altrimenti non arrivava
niente. Giovanni, un po’ sempliciotto non era in grado di fare da sé; era però abile fischiettatore e sapeva ripetere benissimo le melodie degli
uccelli e quelle più note delle bande musicali che venivano per le feste patronali; era, altresì, umile bracciante agricolo. Furono fatti uscire e
fucilati vicino al loro rifugio».10

Le rappresentazioni dello sfollamento coatto sono cupe: soldati che spingono con i calci dei fucili, mitra spianati pronti a sparare, donne e
bambini terrorizzati, famiglie divise.11 Molti finirono sui monti dove vissero per alcuni mesi in grotte e capanne di strame, ai limiti dell’umana
sopportazione, altri furono trasferiti in paesi lontani dal fronte – vedremo nel capitolo successivo il caso di Campodimele – o in campi profughi. Il
più grande e il più noto fra questi è quello della Breda a Roma, che rappresenta un’altra tappa drammatica della via crucis cui la popolazione fu
sottoposta, come racconta il sacerdote Paolo Capobianco. «La notte tra il 12 e il 13 maggio al chiarore delle bombe e dei razzi di Scauri siamo
condotti spinti col calcio del fucile del gendarme tedesco sui camion e portati a Ferentino di Frosinone e poi alla Breda, presso Roma. [...] La
Breda di Roma rimane un nome abbastanza triste per chi ha la sventura di esservi deportato durante l’occupazione germanica. Uomini, donne,
bambini delle zone prossime al fronte del Garigliano vengono ivi convogliati, strappati a viva forza dai loro rifugi prima dell’arrivo delle truppe
alleate. È un vero e proprio campo di concentramento di gente deperita per la fame, patita da mesi, impaurita dalle angherie teutoniche e dai
bombardamenti aeronavali, qui sottoposta ad opprimenti accertamenti sanitari, molto avvilenti per le donne non abituate ai sistemi militari in uso
per gli uomini. Sotto i grossi capannoni sono mimetizzati numerosi carri armati e materiale bellico di ogni spec ie per cui il terrore invade gli
animi degli sfollati ad ogni incursione aerea che non risparmia il campo, privo peraltro di rifugi antiaerei. I morti ed i feriti non si contano e
vengono portati in infermeria ove le suore, figlie della carità di San Vincenzo de Paoli, apprestano le cure che possono, scarseggiando il materiale
sanitario. Quivi giacciono numerosi gli ammalati e giornalmente ne muoiono in media da cinque a sei. Per dormire i giacigli sono costituiti da
stracci prelevati da sacchi sparsi a terra. Non esistono servizi igienici: bisogna recarsi lontano, fuori dal baraccato, allo scoperto, dove
pozzanghere pestifere ammorbano l’aria: è una bolgia infernale. Tutte le sere, verso le ore 22, irrompono i soldati nazifascisti ed
indiscriminatamente rastrellano un certo numero di persone che fanno salire sugli autocarri diretti in alta Italia. Non usano modi civili questi
militari: con sadismo puntano i fucili contro gl’inermi, non badando se sono anziani, donne o bambini».12

Il padre di Vincenza Scipione, di Formia, fu rastrellato e deportato in Germania in settembre. La madre rimase sola con cinque figli piccoli.
Fuggirono in montagna. Qui subirono le soperchierie dei tedeschi. Uno arrivò in casa, sfondò la porta della stanza che la nonna non aveva voluto
aprire, prese i soldi, il corredino che era stato preparato per il bimbo che d oveva nascere, e poi orinò nella cassapanca. Di nuovo in fuga, la
famiglia venne coinvolta in un rastrellamento. «Ci rifugiammo nella chiesa di Trivio, credendo di stare più sicuri, invece... fummo tutti rastrellati
per essere portati al campo di Ferentino, almeno così ci dissero: in realtà ci abbandonarono all’aperto, in mezzo ad una strada, in pieno
bombardamento. Passarono delle corriere, ci fecero salire, per gruppi, fummo portati via per diverse destinazioni. Cominciò un’altra mia terribile
esperienza. Io, mia sor ella di quattordici anni e un’altra di appena otto anni ci trovam mo d’improvviso sole, mentre mia madre e il resto della
famiglia venivano portate altrove. Prima andammo alla Breda e poi a Cesano. Io stavo male; costretta a mangiare bucce di legumi e robaccia
senza alcuna vitamina, m’ero riempita di foruncoli e piaghe; una signorina addetta al campo ebbe pietà di me, chiese notizie dei miei genitori e,
saputo che mio padre era stato deportato in Germania, mi fece scrivere una lettera. La misericordia divina non mi aveva abbandonato; mio padre
ricevette la lettera, qualcuno ebbe pietà di lui e lo fece tornare in Italia. Venne a Cesano ma non ci trovò; poi a Roma, ma nemmeno lì ci trovò. Noi
tre sorelle eravamo state rintracciate da alcuni parenti e a piedi avevamo raggiunto Roma ove fummo alloggiate in una caserma. Liberata Roma,
ci avviammo a piedi per Formia; per fortuna dopo pochi chilometri alcuni militari inglesi ci fecero salire sul loro camion. Qualche giorno dopo ci
riunimmo a mia madre e cominciò la nuova vita tra la malaria e la miseria».13

In molti casi l’evacuazione coatta fu un calvario a più tappe, e non terminò con la fine della guerra, perché, tornati a casa, i reduci delle
deportazioni non trovarono le loro case e dovettero riprendere la strada dei campi profughi. «La notte del 21 marzo 1944 la popolazione sfollata a
Trivio fu caricata su camion dai tedeschi, quindi portata al campo di Ferentino, poi alla Breda, quindi a Cesano e da lì a Verona. Circa settanta
persone tutte formiane. [...] Ritornammo a Formia solo il 4 giugno 1945. La nostra città era distrutta e piena di macerie. Le poche case erano già
state occupate, e le famiglie, che man mano ritornavano dai vari paesi d’Italia, dove erano state deportate dai tedeschi non sapevano dove
alloggiare. Io trovai da dormire in un sotterraneo di via Anfiteatro, senza finestre e pieno di ratti. Ci ammalammo di malaria e non avevamo nulla
da mangiare. Dopo quattro mesi il sindaco, vedendo le nostre pietose condizioni, ci mandò a Littoria al campo profughi, dov’erano tante famiglie
come la mia che non avevano più una casa e un lavoro. È stato ancora più triste per noi formiani continuare a vivere da profughi, lontani da
Formia, a guerra finita».14

91 formiani morirono nei luoghi di deportazione, fra questi ben 46 nel famigerato campo della Breda a Roma, in grande maggioranza,
ovviamente, vecchi e bambini. 317 furono coloro che trovarono la morte per fame o malattia sulle montagne.15

A partire dalla prima grande razzia del 23 settembre,16 per tutti i lunghi mesi in cui il fronte rimase fermo a pochi chilometri dal Garigliano, i
tedeschi continuarono sistematicamente a razziare gli uomini per adibirli ai lavori di fortificazione e di sgombero di macerie in zona o per inviarli
in Germania. Le due cose potevano anche andare insieme. Questo provocò un clima di disobbedienza diffusa, di fughe e caccia continua. Molti
furono gli uccisi fra coloro che cercavano di fuggire, come a Tufo, frazione di Minturno, dove il 4 dicembre un giovane che tentava di sottrarsi a
un rastrellamento, raggiunto, venne freddato con una pallottola in bocca.17

Le razzie di uomini sarebbero continuate, improvvise, per tutto il tempo dell’occupazione. I testimoni ricordano l’8, 10, 16, 17, 26 ottobre per
Minturno; l’8 gennaio e l’8 aprile per Gaeta.18

Il rastrellamento si delineava anche come una misura di rappresaglia nei riguardi di una popolazione infida e disobbediente, come avvenne il 26
novembre sulle montagne di Formia, quando i soldati tedeschi, dopo aver bloccato le strade di accesso e circondato le frazioni di Castellonorato,
Maranola e Trivio, fecero irruzione nelle case rastrellando tutti gli uomini, compresi i vecchi e gli inabili. Alcuni di loro riuscirono a fuggire, ma
furono inseguiti dai nazisti, catturati e fucilati. I loro corpi vennero lasciati a terra fino a tarda sera. Gli altri furono portati in colonna a Formia
dove furono impiegati per rimuovere le macerie e fare postazioni nella zona fino a Scauri e Minturno. I più giovani vennero successivamente
deportati in Germania.

«Un giorno, trovando i fili del telefono tagliati, i tedeschi si convinsero che nella zona operavano bande di partigiani che dovevano essere puniti.
Dopo alcuni giorni infatti, e precisamente il 26 novembre 1943, alle prime luci dell’alba, squadroni di SS circondarono Trivio rastrellando giovani
e anziani tra il pianto disperato delle donne e dei bambini. Radunarono nella piazza più di 500 uomini, catturati anche sulle montagne, nelle
campagne e nei centri abitati di Castellonorato e Maranola. Alcuni tentarono di fuggire, ma furono fucilati senza pietà dalle raffiche di mitra. Quel
triste giorno fucilarono due formiani, due triviesi e due giovani di Castellonorato. Dopo la spietata retata i vecchi furono rilasciati, mentre i
giovani, incolonnati, furono scortati fino allo stabilimento SALID di Rio Fresco. Divisi in squadre di 30 e di 50 elementi, furono mandati a lavorare
sul fronte del Garigliano e a Itri. Io lavorai a Formia circa tre mesi. Feci le piazzole per le mitragliatrici lungo il fossato di Rio Fresco e le
postazioni per i cannoni alle “Pientime”. [...] poi mi deportarono a Mantova. Ritornai a Formia nel 1945».19

«Il 26 novembre, verso le 8 del mattino, presero me e mio padre, di settantadue anni, e ci portarono vicino al cimitero di Maranola, perché la
piazza di Trivio si era riempita di rastrellati. Il rastrellamento durò fino alle tre del pomeriggio. Poi, incolonnati e guardati a vista, ci
ammassarono nell’ampio piazzale dello stabilimento di mattoni della SALID, a Rio Fresco. Eravamo circa un migliaio di uomini. Dall’alto di un
mucchio di mattoni ci parlò un tenente tedesco. Il professor Gaetano Vitaliano, che fungeva da interprete, ci disse che avrebbero rimandato a
casa i vecchi e gli invalidi, mentre gli altri sarebbero andati a lavorare a Itri, Gaeta, Formia e al fronte del Garigliano. Mentre tornavamo a Trivio,
un formiano ci disse che i tedeschi avevano fucilato 9 uomini».20

«Al comando tedesco di villa Irlanda già da tempo sospettavano che sulle montagne di Maranola e Trivio vi fossero dei banditi armati che
dovevano essere puniti e che molti cittadini avessero armi e munizioni nascoste. La certezza l’ebbero il giovedì del 18 novembre 1943 quando, in
seguito ad un litigio avvenuto in una bettola di Trivio fra formiani e giovani del posto, fu ucciso con una fucilata il giovane ventunenne Salvatore
Di Russo di Formia. Il 26 novembre, alle ore 8, una trentina di camionette piene di SS armate fino ai denti circondarono Maranola e Trivio per
rastrellare tutti gli uomini, ognuno cercava di fuggire e nascondersi, ma tutti furono fermati e condotti in piazza. Si sentirono anche degli spari e
delle grida disperate. Mio marito, per non essere preso e deportato in Germania, come spesso era accaduto, si gettò dalla finestra e scappò. E da
allora non l’ho più visto! Il rastrellamento si protrasse per tutto il pomeriggio mentre il mio terrore cresceva di ora in ora. Scesi per accertarmi se
tra le centinaia di uomini ammassati nella piazza, ci fosse mio marito. Ma quando mi fui avvicinata, notai che tutte le donne mi guardavano e
abbassavano la testa come per nascondermi qualcosa. Ebbi un brutto presentimento, e non mi sbagliavo! Una giovane che io conoscevo bene mi
si avvicinò e mi disse dolcemente: non impressionarti, tuo marito è ferito e si trova, insieme ad altri uomini, sulla collina di Costarella. [...] Lo
spettacolo che si presentò ai miei occhi non lo dimenticherò più. Mio marito Salvatore giaceva a terra, accanto ad altri otto uomini. Erano stati
fucilati. Due soldati, accanto a una mitragliatrice piantata per terra, mangiavano fichi secchi e bevevano una bottiglia di liquore. A quella vista
con le lacrime agli occhi, dissi ai due soldati: quello è mio marito. Posso portarlo via? E il barbaro senza pietà rispose: nix, banditi non avere
famiglia! Questa frase mi martella la testa, mi è rimasta così impressa che non riesco a dimenticarla. Ed io ancora a supplicarlo: per pietà, per
amore di Dio! Io sfollata, avere due bambini che domandano del papà! Quello è mio marito, ridatemelo! Sentendo queste parole il tedesco che
stava bevendo, forse impietositosi o forse ubriaco, alzò la mano quasi per dire: va bene, prendetevelo! Allora prendemmo una mezza scala che
stava in una casetta poco distante, ve lo adagiammo sopra e col cuore che mi scoppiava in petto, lo portammo a Trivio. [...] Quando arrivammo in
piazza, gli uomini rastrellati erano stati portati via e c’erano le mogli e i parenti che piangevano».21

L’esercito occupante temeva qualsiasi atto di insubordinazione e sopravvalutava gli atti di sabotaggio e ribellione organizzati. Il mese precedente,
il 17 ottobre, nella frazione di Maranola erano stati fucilati l’ufficiale di governo di Maranola, il capitano Antonio Ricca e Aurelio Pampena,
accusati di detenere armi, di aver compiuto atti di sabotaggio nei confronti dell’esercito tedesco e di aver aiutato militari sbandati italiani e
alleati. In questo caso erano stati i fascisti locali a denunciarli e a partecipare alla loro uccisione; fu uno di loro a tirare il colpo di grazia su una
delle vittime. Uno dei ricercati, Luigi Papa, riusciva a fuggire; al suo posto veniva p resa in ostaggio l’intera famiglia, moglie e sette figli, e portata
al comando tedesco. La promessa era di fucilarli uno alla volta, se il capofamiglia non si fosse presentato. La liberazione avvenne solo dopo che il
centurione della milizia fascista Rocco Palmieri, responsabile primo della rappresaglia, trovò la morte nel vicino paese di Fondi. Allora il
comandante tedesco decise di risparmiare la famiglia.22

I fascisti sarebbero di nuovo compar si in un’altra esecuzione, il 4 dicembre 1943, quando, insieme a un gruppo di tedeschi, irruppero in una
galleria in cui si erano rifugiati gli abitanti, uccidendo Ernesto Ribaud, accusato di avere organizzato un gruppo di giovani per sabotare l’opera
dei tedeschi, e ferendo Mario Rossini e il padre Antonio, che tentava di difenderlo. Padre e figlio sarebbero morti di lì a pochi giorni per mancanza
di cure. Poco tempo dopo in aperta campagna sarebbe stato trovato il cadavere della madre di Ernesto Ribaud sotto una rupe, da cui forse si era
gettata, sconvolta dal dolore per la morte del figlio.23

Come in Campania, altri episodi di violenza contro i civili erano legati alla requisizione di cibo e bestiame. Molti di questi paesi, soprattutto quelli
sulle colline e sulle montagne, erano dediti alla pastorizia e all’allevamento. A Itri, a Pulcherini, a Campodimele e in molte altre comunità furono
sottratte ai pastori intere greggi. Per tutto il tempo dell’occupazione perdurò un conflitto intenso e strisciante tra soldati occupanti e popolazione,
che difendeva i propri animali e i propri viveri. Le testimonianze sono a questo proposito numerose. Ricorda Paolino Manzo di Itri che tutto il
bestiame della sua famiglia fu requisito e in cambio i tedeschi rilasciarono, beffardamente, una ricevuta per poter chiedere il rimborso al
maresciallo Badoglio.24 Egidio Agresti, itrano anch’egli e allora bambino, ha immagini vivide delle razzie che avvenivano tra gli sfollati in
montagna. «C’erano molti di Itri, si viveva nelle capanne di paglia costruite con la base in pietra, con dei pali... Dove si trovava questa zona?
Ecco, viene chiamata la forcella di Campello, all’esterno c’è il monte Grande... Io ricord o che i tedeschi razziavano animali per il cibo,
prendevano gli asini, i cavalli... Una volta fecero un po’ un giro per il villaggio, tra queste capanne, sempre per vedere se c’era qualche animale...
ricordo una minaccia col fucile, che questa mi è rimasta come una paura... Un’altra volta i pastori, i proprietari di quelle terre, e c’era anche un
parente di quello che ci aveva battezzati, perciò ci trovavamo lì, dissero: arrivano i tedeschi! arrivano i tedeschi! Perché c’erano giovani che si
muovevano nella zona e vedevano i tedeschi in arrivo. Al che si diceva la sera prima che sarebbero arrivati i tedeschi, e mi ricordo che uccisero
parecchie capre, belle grosse, per evitare che le prendessero i tedeschi. Per mangiarle voi? Per mangiarle noi. Difatti ricordo... un ricordo così
lontano... cosa molto rara in quel periodo, un contenitore grande grande grande con un montone o due cucinato. Comunque arrivò questo gruppo
di tedeschi mentre io mi trovavo su una piazzola, uno spiazzo, dove ci stava no tante donne, io ero piccolo, e mi coinvolsero! I tedeschi presero
delle galline che gli abitanti del luogo avevano nascosto nei sacchi, le trovarono e le presero e incaricarono le donne di spennarle perché se le
portarono via. E a me dettero la gallina da spennare, ero più basso e mi trovavo in quest o ambiente e c’erano i tedeschi con il fucile che ci
guardavano in attesa di prendere le galline. Da una collina spuntò un... io dico un uomo, ma erano quelli che correvano il pericolo di essere presi
dai tedeschi e portati nei campi di lavoro nel Nord, quindi appena si sentiva parlare dei tedeschi scomparivano. Uno di questi non sapendo della
presenza dei tedeschi in luogo, arrivò... e subito questi lo videro e puntarono, ci fu un pandemonio... un allarme da parte di queste donne con la
paura che venisse sparato... e io rimasi sotto ai piedi co sta gallina preoccupato di mantenerla e non farla sporcare e io in mezzo al fango tra i
piedi delle donne... Lui se ne scappò e non fu preso».

A Pulcherini, frazione di Minturno, si ricorda un uomo ferito a morte per non aver voluto lasciare il suo cavallo.25 Molti pastori e allevatori furono
trovati uccisi sulle montagne ed è probabile che la loro morte sia legata a questo tipo di conflitto.

Anche in questa zona, infine, venne applicato l’ordine estremo di lasciare alle proprie spalle «terra bruciata» per rallentare l’avanzata degli
alleati. Venivano fatti saltare ponti, ferrovie, strade: gli storici 25 ponti che univano Formia a Gaeta, il ponte borbonico sul Garigliano a Marina di
Minturno, le stazioni ferroviarie, le strade ferrate, le vie principali. Univa i paesi e le cittadine della zona la via Appia, antico tracciato romano che
conduceva a Roma, che era stata continuamente bombardata dagli alleati e ora veniva distrutta dai tedeschi. E, anche in questo caso, la politica
di distruzione del territorio si colorava di sentimenti di vendetta verso una popolazione giudicata traditrice: insieme a ponti, ferrovie e
infrastrutture considerate strategiche, venivano minati chiese, palazzi antichi, biblioteche...

A Formia, già quasi interamente ridotta a macerie dai raid alleati, vennero minati il porto e tutta la strada principale. A Gaeta vennero
completamente distrutti il porto e il litorale. Furono rase al suolo, spianate e disseminate di mine le due spiagge di Conca e di Serapo.

«A Conca rimane in piedi, semidistrutta, solo la chiesa di San Carlo; Serapo è devastata completamente e ridotta ad un campo minato di vaste
proporzioni, v i rimane diritta solo la chiesetta di San Nilo. Tutte le vie dell’abitato di accesso al mare vengono ostruite facendo crollare i palazzi
capistrada; rimangono aperti solo due varchi, uno dei quali è la chiesa di San Giacomo, diventata per lo sfondamento appositamente fatto un
vicolo di comunicazione. Si salva da questa distruzione generale la vecchia Gaeta, pur essa ovviamente bombardata, cannoneggiata e minata, per
la sua posizione topografica che non consente facili accessi dal mare. [...] si distruggono le case e gli edifici: il municipio, le scuole, i palazzi
storici, le caserme; si minano la banchina Sant’Antonio, il pontile Ciano; si abbattono i platani di Montesecco, che impediscono la visuale in un
eventuale sbarco degli alleati».26 «Gaeta era un cumulo di macerie» ricorda Frido von Senger und Etterlin.27

Nello stesso tempo continuavano ininterrotti i bombardamenti dal cielo. Posta in una posizione strategica, sulla punta che chiude il golfo e segna
storicamente la divisione fra i regni del Sud e il regno pontificio, Gaeta si era trovata ciclicamente nel turbine di una guerra e aveva subito nella
sua storia molteplici assedi e cannoneggiamenti dal mare. Nel 1503 vi si arroccarono i francesi e la assediarono gli spagnoli, nel 1707 i tedeschi
combatterono contro gli spagnoli, nel 1799 e nel 1806 i francesi contro i borbonici, nel 1815 i borbonici contro i murattiani, infine nel 1861,
quando divenne l’ultimo avamposto dei Borboni, dopo la sconfitta nella battaglia del Volturno, subì il lungo e duro assedio dei piemontesi e fu
selvaggiamente bombardata dal mare. Anche allora i piemontesi avevano emanato un bando di evacuazione per gli abitanti. «Sono invitati tutti gli
abitanti del Borgo di Gaeta di sgombrare dal paese dalle ore 7 ant. alle ore 5 pom. portando seco loro quei pochi effetti che possono trasportare,
con l’ordine di non poter più ritornare», e anche allora chi avesse disobbedito al bando sarebbe stato «considerato come agente del nemico».
Anche allora Gaeta era uscita dal lungo assedio gravemente distrutta e molti suoi abitanti erano rimasti vittime dei cannoneggiamenti. Così
l’assedio del 1943-44 confermava una memoria storica radicata nel tempo.

I bombardamenti alleati

Nello stesso momento in cui i tedeschi facevano brillare ponti, ferrovie, porti, su quelle stesse strutture si accanivano gli aerei degli alleati.
Paradossale situazione, se vista con una logica «normale». A chi giovava? Quale tattica sosteneva quegli attacchi? Gli uni tendevano a ritardare
l’avanzata, gli altri a rendere difficile la ritirata. Si trattava di un tragico gioco a rimpiattino (chi arrivava per primo a distruggere), che risultò
terribile per chi si trovò in mezzo e che fece, con il concorso di entrambi gli eserciti, «terra bruciata».

Il 23 ottobre alle 2 del pomeriggio 24 bombardieri colpivano da 9400-9700 piedi il porto di Gaeta, la ferrovia e un vicino serbatoio di benzina, il
cui incendio si propagava nella zona circostante. Inutile dire che i bersagli erano nel centro abitato e che da quell’altezza non si po tevano certo
colpire obiettivi di precisione.28

Il giorno successivo, alle 10.42, veniva colpita Formia: le bombe cadevano in centro e a est della città.29 La cittadi na, snodo stradale e stazione
ferroviaria di estrema importanza puntualmente studiata e fotografata dai ricognitori britannici e americani subì continue incursioni, uscendone
di strutta al 90 per cento.

Le prime due incursioni avvennero di notte, immediatamente dopo l’armistizio, a opera dei Wellington della RAF. Poi cominciarono i
bombardamenti diurni con i B-17 e i B-25 americani. Ci furono raid il 10, 20, 29-30 settembre, il 1°, 2, 4, 5, 6, 18, 24, 28 ottobre, il 5 dicembre, il
1°, 17, 18 gennaio, il 22 febbraio, il 1°, 18 e 22 marzo. Gli obiettivi indicati dalle mappe militari sono l’Appia, gli snodi stradali, la ferrovia, la
stazione ferroviaria, l’area della città.30

Prima d ell’8 settembre Formia non aveva conosciuto la guerra sul suo territorio. Il primo raid, il 6 settembre, si era limitato a scaricare alcune
bombe a mare; poi erano arrivati due raid notturni, fra l’8 e il 9 e fra il 9 e il 10 settembre. Dopo le due incursioni notturne la gente non si
aspettava il ritorno immediato dei bo mbardieri e soprattutto non pensava che arrivassero in pieno giorno. Molti, fuggiti nelle campagne di notte,
erano tornati in città per prendere viveri e indumenti, e furono colti la mattina del 10 settembre dal bombardamento più tragico. «Quella mattina
quasi tutti i negozi erano aperti e le massaie intente alle loro compere con le tessere annonarie. Diversi commercianti dei paesi vicini attendevano
il loro turno, sotto la pensilina del pastificio Paone, per caricare sui carretti pasta e farina. Tutto era calmo e nessuno poteva prevedere la
catastrofe imminente. Verso le ore 11.30 si sentì il sinistro rumore di molti aerei, ma nessuno ci fece caso. Sempre li avevamo sentiti rombare gli
aerei angloamericani quando passavano in formazione nel cielo di Formia. Quella mattina, però, il fragore delle fortezze volanti era diverso: più
lacerante, più rimbombante man mano che si avvicinavano. Poi, l’inattesa tragedia! Centinaia e centinaia di bombe dirompenti si abbatterono con
una violenza inaudita sull’industrioso rione Mola, distruggendo, danneggiando, uccidendo. Mentre una densa nube di fumo e polvere di calcinacci
avvolgeva l’intero quartiere, dalle macerie e dai palazzi sventrati si levavano le grida disperate dei feriti e dei sopravvissuti. Le bombe avevano
prodotto buche profonde come crateri lungo tutta la strada e avevano fatto crollare lo storico “ponte di Mola” a due arcate, il pastificio Paone, lo
stabilimento di laterizi della Società D’Agostino, tutti i palazzi del Mercato Vecchio, di via Ferrucci, di via Tosti. Ovunque corpi straziati, dilaniati,
schiacciati. Ovunque un silenzio di morte».31

Il 29 settembre un bombardamento aeronavale colpiva il palazzo comunale e molte case della via principale, via Vitruvio. Alcune bombe
raggiungevano la collina di Santa Maria La Noce colpendo una «mandria» – un ricovero per animali – dove erano rifugiate 30 persone, che
morirono tutte. Il 27 gennaio un cannoneggiamento dal mare raggiunse la frazione di Trivio causando la morte di 40 persone, fra le quali molti
sfollati dal centro della cittadina. Fra aprile e maggio del 1944 i bombardamenti si intensificarono per preparare l’offensiva finale, la battaglia del
Garigliano. Venivano colpite di nuovo Formia, Trivio, Maranola. Castellonorato fu ridotta a un ammasso di macerie. Il 18 aprile un
cannoneggiamento dal Garigliano colpiva la zona di Rialto, uccidendo 26 uomini, quasi tutti adolescenti, che stavano lavorando al ripristino del
ponte sull’Appia.

Le vittime civili accertate per i bombardamenti e i cannoneggiamenti furono a Formia 584.

A pochi chilometri di distanza Itri, allora piccolissimo paese appollaiato su una rocca, nel punto in cui l’Appia si incunea nella valle che porta a
Fondi (non a caso era stato un famoso paese di brigant i) veniva bombardato a tappeto il 12 dicembre. La Protezione Antiaerea di Littoria
segnalava il 15 dicembre 77 vittime dell’incursione, ma il conto finale sarebbe stato di 106 morti.32

«Il 12 dicembre 1943, alle ore 15, il mulino fu bombardato. Quel giorno mi ero recato con mia madre per macinare un po’ di grano. C’era una
grande confusione. Caricammo i sacchi sul somaro e ritornammo a Santo Stefano. Dopo un’ora vedemmo arrivare una flottiglia di aerei. Girarono
intorno al monte Grande, si abbassarono e cominciarono a buttare bombe su Itri. Una cadde a poca distanza dalla nostra casetta; ci salvammo per
miracolo. Dopo un po’ arrivarono delle persone che piangevano disperatamente. Dissero che il mulino era stato bombardato e che c’erano tanti
morti e feriti. Subito mio padre ed io corremmo per portare aiuto, ma non si poté fare molto. Il mulino non c’era più, era ridotto ad un cumulo di
macerie intorno a cui si aggiravano povere persone alla ricerca disperata dei loro familiari: aite viste tata? Gliu frateme? Ando ste memma mia?
[...] Morirono 60 persone, tra cui alcuni componenti della famiglia Mancini proprietaria del mulino. A lungo si sentirono i lamenti, sempre più
flebili, dei sepolti vivi, ma non si riuscì a fare niente per salvarli. Ricordo la voce straziante di un ragazzo che sotto le macerie invocava aiuto. Con
i picconi, con le mani, disperatamente, si cercò di liberarlo, ma ogni sforzo fu inutile. Il povero padre, bianco di polvere, lo chiamava, lui
rispondeva. Benché facesse molto freddo, era dicembre, la fronte del povero uomo gocciolava di sudore. Poi non si sentì più nulla. Si poté dare
sepoltura solo ai cadaveri che stavano in superficie. Gli altri rimasero sotto le macerie».33

«Stavo mangiando intorno alle 14 a casa, con tutta la famiglia, e in famiglia eravamo in nove e non stavamo mangiando tutti nel locale dove si
mangiava, perché eravamo in tanti, e mio fratello, perché eravamo sette figli, io sono l’ultimo e con quello più grande di me si mangiava sul
davanzale di una finestra... ad un tratto giocherellando mio fratello mandò una mosca... un moscerino sul piatto. Io mi lamentai così forte che
lasciai casa e andai in piazza Incoronazione, lì notai un fatto molto interessante che attirò l’attenzione mia da ragazzo e vidi una decina di carri
armati, otto, dai sei ai dieci... adesso non ricordo... erano mimetizzati con rami di ulivo, di altri alberi e stavano lì con il pilota. Dal lato della
piazza io mi misi a oss ervare, ad un tratto vidi un aereo, che poi ho dedotto che era la famosa cicogna... Passò di là, dopo poco tempo ci fu
l’inferno, quindi bombardamenti, bombe, questi colpi forti... [...] Itri rientrava nella linea Hitler, che andava dal mare Adriatico al Tirreno. E io non
notai più nulla, quindi tutto fu buio per via della polvere. Fortunatamente mi prese per mano uno che era lì nella piazza, mi sentì piangere, mi
prese per mano e all’ingresso da piazza Incoronazione lungo il corso Appio Claudio... fatti venti metri da piazza Incoronazione altri
bombardamenti, altre bombe che cadevano e questo giovane che mi prendeva per mano mi fece infilare in un ingresso che portava a un
sotterraneo, questi vani dove mettevano gli animali, che si scendevano un po’. E rimanemmo lì in attesa... E quindi quando incominciò a diradarsi
la polvere sollevata dai bombardamenti questo giovane mi condusse verso casa e per la strada incontrammo mia madre che mi cercava [...] Ecco,
questo è stato il primo ricordo che mi è rimasto impresso. Ma conseguentemente fu il bombardamento che comportò la distruzione di Itri... Lo
stesso bombardamento che causò la distruzione del mulino, dove accedevano molti cittadini di Itri per ottenere la farina da quel poco di grano
che tenevano in casa... facilmente la ricognizione aerea vide l’assembramento in questo luogo, anche se poteva essere un bersaglio sbagliato, che
cercavano di colpire il ponte, che noi chiamiamo Ponte Nuovo, che poi fu distrutto dai tedeschi per ritardare l’avanzata degli americani... e quindi
cercavano pure di colpire la stazione ferroviaria... [...] Il giorno seguente, io notai che c’erano tanti operai che stavano estraendo i corpi, alla
ricerca dei corpi delle persone che capitarono lì e intanto c’era già una fila di corpi all’esterno e avevano già riempito quei vani di quell’isola che
si trova tra via Santa Maria di Misericordia e via Aurelio Padovani, una specie di prora di una nave e all’interno dei vani terranei... i v ani erano
stati già riempiti di questi corpi e poi li misero in fila all’esterno, quindi mi è rimasto impresso questo insieme di corpi ordinati a terra e quelli che
stavano...» (Egidio Agresti).

Il giorno dell’Epifania fu bombardata la vicina Fondi. Il 22 gennaio un raid aereo raggiunse il piccolo centro di Lenola in cui erano sfollati molti
abitanti della costa, fra cui molti dei fondani che erano fuggiti dalla cittadina dopo il 6 gennaio (su tale bombardamento torneremo nel capitolo
seguente). Per tutto il mese di gennaio gli aerei colpirono senza sosta il territorio che circondava il luogo del nuovo sbarco, la pianura Pontina e le
colline circostanti.34

Minturno, le sue frazioni e i paesi vicini, che r appresentavano il perno della linea Gustav alla foce del Garigliano, furono teatro di plurimi
combattimenti, e lì avvenne lo sfondamento decisivo della linea nel maggio 1944. La frazione di Santa Maria Infante, immortalata in un combat
film americano, è l’icona della guerra sul Garigliano. Conquistata e perduta dagli alleati per ben diciassette volte tra il 12 e il 14 maggio, uscì
dalla battaglia completamente distrutta. In un solo giorno, 11 maggio 1944, «l’artiglieria da campo del 913° battaglione d’artiglieria sparò 4268
raffiche su Santa Maria Infante riducendola a una piccola Cassino».35

«Nonna mi ha raccontato che prima della guerra Santa Maria era un bel paesetto, c’erano molte case, gli abitanti erano contenti e felici nelle loro
case. Ma un triste giorno il nostro bel paese fu colpito dalla guerra e le case furono distrutte e le famiglie perdettero i loro beni. Anche la mia
famiglia ha sofferto e la mia nonna racconta che anche la mia mamma è stata ferita e morì anche mio nonno sulla montagna di Spigno. Poi i
tedeschi tutte le famiglie le hanno portate nei campi di concentramento. Finita la guerra sono ritornati nelle loro case che erano tutte un mucchio
di macerie».36

Sulle montagne

Chi evacuato forzatamente, chi fuggito di sua spontanea volontà dai bombardamenti, la popolazione della zona si trovò a vivere l’inverno 1943-44
in rifugi di fortuna, trasmigrando da un punto all’altro a seconda dei movimenti delle truppe e delle cannonate. Insieme a loro, gruppi di soldati
sbandati italiani, disertori tedeschi, soldati alleati finiti oltre le linee... Mai le montagne erano state così abitate e brulicanti di vita.

Domenico Branco, militare in fuga da Brescia, diretto a Cancello Arnone, oltre il Garigliano, venne bloccato dal fronte sulle montagne degli
Aurunci per tutto l’inverno. Sceso dal treno a Itri il 1° ottobre 1943 si inoltrò sui sentieri che si inerpicano sui monti alle spalle di Formia,
evacuata e interdetta. «Tra le montagne trovo tutta la popolazione civile dei paesi vicini che è stata cacciata dalle case. Tutti sono accampati in
spelonche e case di pastori, in grotte e alcuni addirittura all’aperto. Assisto a scene talmente pietose che non è possibile darne un’idea. Ci
vorrebbe ben altra penna per poter descrivere ciò che ho potut o vedere in quelle prime ore di marcia. Cornice degna di tanti pietosi quadri l’eco
del cannone che tuona costantemente e il fragore delle bombe lanciate dagli alleati...»37

Insieme a lui Michele Esposito, fante di Aversa (della provincia di Napoli) proveniente dalla Iugoslavia, e Filippo Buonincontro, artigliere di San
Severino Rota (della provincia di Salerno). Dormivano nelle caprarecce38 di montagna e ricevevano un po’ di cibo dalla gente del luogo rifugiata
anch’essa nelle capanne e nelle grotte. A Spigno Saturnia si aggiunsero a loro due soldati siciliani e un tenente. Pochi giorni sulle montagne di
Spigno per riprendere il cammino, lasciando il posto agli abitanti del paese cacciati a loro volta dai tedeschi. «Anche noi dobbiamo andar via dalla
nostra caprareccia di montagna perché i proprietari di essa, cacciati da Spigno, sono costretti a riparare quassù. Verso le 2, approfittando di una
breve schiarita, ci muoviamo per metterci in cammino. Nessuna meta è stata decisa. Non sappiamo ove andremo e se stanotte troveremo un
riparo. Una sola cosa abbiamo deciso: avvicinarci verso il fronte. Perciò scenderemo e ci dirigeremo ai piedi dei monti di Spigno. Le scene che
abbiamo visto nel passare per l’abitato sono indescrivibili. Bambini, vecchi, infermi, tutti devono andar via! Tutti, infatti, stanno abbandonando le
case in fretta, portando le poche masserizie che si possono portare a spalla o con qualche asinello. E pochi sanno dove andranno stanotte e come
si ripareranno dalla pioggia. Da ogni parte arrivano a noi i lamenti e i pianti delle donne».39

In novembre i fuggiaschi, nascosti in un fienile, stavano per cadere in una delle rappresaglie più truci della zona.

«13 novembre 43. Sabato. Oggi è successo un incidente tra i tedeschi e i contadini di qui. Questa brava gente è ormai esasperata dalle continue
razzie di bestiame che i tedeschi fanno, perciò si è ritirata in montagna portandosi anche le bestie. I tedeschi, visto che a valle non trovavano più
bestiame, nel pomeriggio di oggi si sono arrampicati su per la montagna per raggiungere il nascondiglio. I contadini che facevano buona guardia
li hanno accolti a fucilate. Eran o in tre: uno è morto. Un altro è stato ferito gravemente e un terzo se l’è cavata con un po’ di fifa. Ora certamente
avremo delle rappresaglie! [...]
15 novembre 43. Lunedì. Stamattina c’è stata una rappresaglia per l’incidente avvenuto l’altro ieri. Sapevo che non avrebbero mancato. Per noi è
andata bene, ma quasi in ogni famiglia di questa zona è stato creato un vuoto. Chi è stato catturato, chi è stato ucciso e chi è stato ferito. Stavamo
per uscire ed andarcene verso la montagna quando abbiamo ricevuto l’informazione che i tedeschi avevano organizzato un’incursione su per la
montagna stessa. Abbiamo deciso di rimanere a valle e ci siamo nascosti in una boscaglia dentro una piccola capanna. Le raffiche di mitra non
tardano a farsi sentire. La giornata è più brutta di ieri. Piove con forte vento ed i tedeschi hanno trovato tutti i contadini nelle capanne costruite
lassù. Sarà perciò un vero disastro oggi. Per tutta la mattinata, tra i fischi del vento e gli scrosci d’acqua si odono le raffiche di mitra e qualche
esplosione di bombe a mano. Ogni tanto qualche notizia arriva giù a valle [...] A sera apprendiamo che ne sono stati uccisi parecchi tra i quali
molti militari come noi sbandati. Molti altri sono feriti e moltissimi catturati. I tedeschi sono arrivati lassù e hanno intimato la resa. Al minimo
tentativo di fuga, sparavano come dannati ed ammazzavano senza misericordia gli animosi che tentavano di prendere il largo. Anche la famiglia
vicino a noi dalla quale abbiamo ricevuto ogni aiuto è stata colpita. Luciano Cardillo – Lallo – è stato colpito da una pallottola in una gamba,
proprio all’altezza dell’inguine, ed il cognato Raffaele è stato catturato. Noi cerchiamo di confortare queste povere donne, ma non ci sono parole
che tengano, anche perché si teme che i catturati verranno trasportati in qualche comando tedesco ed ivi trucidati come usano fare spesso in
queste circostanze i tedeschi.

16 novembre 43. Martedì. Oramai questa zona non è più praticabile e cominciamo a pensare all’opportunità di fare un salto verso la prima linea.
Abbiamo saputo che sulla montagna sono stati trovati molti morti che non sono della zona. Sono militari sbandati. A parecchi di loro non sono
stati trovati indosso documenti e perciò non è stato possibile riconoscerli. Sono stati dunque sotterrati senza avere la possibilità di avvertire un
giorno le famiglie».40

Accompagnati da un abitante della zona che li guidò fino alla valle Formia-Cassino, si inoltrarono di nuovo negli Aurunci verso il Garigliano. Si
aggiunsero altri sbandati, un finanziere di Castigavo, un operaio e un rag ioniere di Albanova, uno studente di medicina siciliano. Trascorsero
dicembre vagando inutilmente per le montagne in cerca di un possibile passaggio fra le linee. Alcuni vennero definitivamente accolti da famiglie
sfollate, che dividevano generosamente il cibo e lo spazio, entrambi estremamente scarsi. Per loro Domenico Branco ha parole di sincero
affetto.41

Il 6 gennaio in una giornata freddissima incapparono in un rastrellamento tedesco, che li riportò indietro verso Frosinone, con molti altri
deportati. Fuggiti nella notte grazie all’aiuto di alcuni carabinieri italiani che avrebbero dovuto fare loro la guardia, ripercorsero gli Aurunci,
camminando senza mai fermarsi.

Il 17 gennaio ricominciò l’offensiva degli alleati, con un fuoco intensissimo di artiglierie, cannonate, bombardamenti. Il 19 gennaio «circolava la
voce che gli alleati avessero oltrepassato il Garigliano facendo una testa di ponte al nord di esso». Il gruppo si rimise in marcia e finì sulla linea
del fuoco. Alcuni, impauriti, tornarono indietro per aspettare l’arrivo degli alleati. Domenico Branco rimase a vagare vicino alla linea, trovando
rifugio a Castelforte, in una casa dove era «costretto a passare le notti a cavallo di una seggiola, dato che non c’era un millimetro di spazio per
sdraiarsi come gli altri sul pavimento».42

Finalmente il 10 febbraio con un folto gruppo di abitanti di Castelforte tentò di passare il fronte. «Ci siamo diretti verso San Rocco da dove è più
facile scendere inosservati in fondo al rivolo. [...] Cominciamo la discesa abbandonando l’abitato. Scavalcando siepi, reticolati, rovi arriviamo fino
in fondo al rivolo tutti laceri, sudati e stanchi. Qui in fondo siamo stati scoperti dai tedeschi che cominciano a tirare fucilate. I fuggiaschi sono
divisi in due gruppi; io faccio parte del secondo; il primo procede a qualche distanza tra noi (una sessantina di metri). Entrambi i gruppi seguono
il bordo del rivolo. [...] Ad un tratto due scoppi tremendi squarciano l’aria e poco lontano vedo due enormi nugoli che si alzano da terra. È il primo
gruppo di una ventina di persone che è andato a finire su un campo minato. Sono quasi tutti morti e pochi salvati si ricongiungono a noi. Molti
tornano indietro per tornare a Castelforte. Anche il ragionier Reccia torna e vorrebbe che tornassi con lui. Ma io non voglio saperne più di
tornare. Voglio proseguire con gli altri animosi che decidono di riprendere la marcia cambiando direzione. Riprendiamo quindi la marcia
dirigendoci per il pendio opposto onde arrampicarci sulla strada che va da Santi Cosma e Damiano a San Lorenzo. Una donna del luogo ha
perduto la figl ioletta di un paio d’anni, un fior di bimba, sulle mine. Non ha esitato a buttarsi nel campo minato a recuperare il cadaverino che si
è caricato sulle spalle ed a raggiungerci accodandosi a noi. Intanto i tedeschi sparano, fortunatamente solo col fucile. Uno del gruppo viene
colpito ad una gamba malgrado la distanza da dove partono i colpi. Gli amici se lo caricano sulle spalle e proseguono. Marciamo così in fila
indiana su un sentiero che si spera sia sgombero dalle mine e fra poco saremo sulla strada. [...] Sulla strada c’è un contadino che non ha voluto
lasciare la casa per difendere le sue robe. Questo ci rincuora dicendoci che siamo fuori pericolo e che a poche centinaia di metri ci sono gli
alleati, proprio alle porte di San Lorenzo».

A San Lorenzo si concluse dunque la fuga, segnata dalla triste morte della bimba sui campi minati. «Agli alleati ha fatto molta impressione il
nostro ordine e la scena della mamma con la bimba morta li ha commossi».

I profughi vennero trasferiti a Napoli. I civili proseguirono per la Lucania; Domenico Branco, soldato, fu inviato al presidio di Bari. Sarebbe
riuscito a tornare al paese natale, Cancello Arnone, che sapeva distrutto da un bombardamento, il 25 aprile 1944. È sua la descrizione della
cittadina ridotta in macerie, citata nel quinto capitolo.42

Una famiglia di ebrei sui mon ti Aurunci

Tommaso Sinigallia, ebreo napoletano sfollato a Formia con tutta la famiglia e scappato dopo l’8 settembre sulle montagne circostanti, ha
raccontato la sua esperienza in un lungo e particolareggiato diario.44 Ovviamente nel suo caso i tedeschi erano doppiamente pericolosi e
chiaramente individuati come nemici, cosa che invece gli abitanti del luogo andavano scoprendo in quei giorni. La fuga delle famiglie ebraiche
avvenne insieme ai pastori e agli allevatori che spingevano sempre più in alto, sempre più lontano i loro armenti per non farli cadere in mano
tedesca. Il quadro è quello arcaico del presepe con pastori, grotte, stalle, armenti.

I Sinigallia si erano rifugiati a Formia nella villa di alcuni parenti, per sfuggire ai bombardamenti napoletani. Aldo Sinigallia era stato internato a
Tora nel settembre del 1942, ma era riuscito a tornare a Napoli ed era poi finito anche lui con il resto della famiglia nella cittadina del golfo di
Gaeta, piombando nel turbine della guerra. Sospinti da Formia verso l’interno dai grandi bombardamenti che distrussero gran parte della
cittadina e della vicina Gaeta, trovarono ospitalità con altri sfollati nella scuola comunale di Castellonorato; dopo il 24 settembre come gli abitanti
di Napoli e di tutta la costa tirrenica furono obbligati dal decreto di evacuazione della fascia costiera a inoltrarsi ancora più lontano sulle
montagne. Oltre a subire, come gli altri, le incursioni aeree e le violenze degli occupanti, essi vissero nel terrore di essere identificati dai
tedeschi come ebrei ed essere deportati. Dall’ottobre 1943 fino al 20 maggio 1944 trovarono rifugio nelle grotte, nelle capanne e nelle stalle dei
pastori sulla montagna, spingendosi sempre più lontano fino ad arrivare a 1000 metri di altezza.

Ecco la descrizione di Tommaso Sinigallia della partenza dalla scuola il 24 settembre: «Ognuno racimolò le proprie cose. Un turbinoso andare e
venire, un generale affacendarsi, un’affannosa ricerca di mezzi di trasporto per trasferirci nella mandria45 più lontana, là sulla montagna a 400
metri e che dalla nostra scuola si vedeva e si giudicava sufficientemente distante. [...] Come Dio volle le cose furono raccolte e verso le 16.30 la
comitiva si avviava alla nuova residenza che credevamo di trovare a nostra disposizione. [...] La meta fu raggiunta quando la sera già calava!
Trovammo però alla mandria una turba di gente di ogni sorta. Oltre 50 persone si erano dirette in quel luogo e fu gran che se potemmo ottenere,
per noi e le cose trasportate, un angolo appena sufficiente. La nostra impressione era così profonda che toglieva anche la parola. Una lurida
mandria, coperta malamente da tegole e puteolente di sterco, un sudicio angolo sull’immondo pavimento, un nauseante olezzo, un buio
opprimente [...] erano più che sufficienti ad inaridire la nostra gola ed a far turbinare il nostro cervello».

Dalla mandria a 400 metri la famiglia passò a un fienile, poi a una grotta, quindi a una capanna col tetto di strame sempre spinta dalla guerra e
dalla paura dei tedeschi in attesa dell’arrivo degli alleati. I soldati compaiono continuamente nelle cronache delle giornate: a cercare uomini, a
requisire gli averi che la gente si era portata con sé.

«I tedeschi che in un primo momento sembravano disorientati dagli avvenimenti, che non erano molti e con limitati mezzi e che spontaneamente
ammettevano che non avrebbero potuto trattenersi a lungo nella zona, a quanto si riferiva, allargavano intanto ad ogni giorno la loro sfera
d’azione e la personale conoscenza di ogni casa, di ogni strada, di ogni sentiero e di ogni trattore. Prima la ricerca delle uova, ben inteso ricerca
sempre a mano armata, poi quella delle galline, che in verità non supponevano di morire fucilate come dei miseri mortali, poi quella dei maiali,
poi le vaccine, i vitelli ed in seguito pecore e capre, cavalli ed asini. A ciò aggiunsero, in pari tempo, la ricerca di armi, la ricerca di uomini
(talvolta anche le donne venivano forzate a prestare la loro opera); la ricerca dei disertori e la ricerca dei banditi (come essi solevano chiamare i
franchi tiratori); la ricerca degli apparecchi radio e quelli di segnalazioni clandestine, nonché la ricerca dei seguaci di Badoglio. In seguito la
ricerca e l’appropriazione di ogni valore e di ogni cibo, per quanto minima fosse la quantità, ed anche nelle case, nei ricoveri, nelle stalle di
abitazione di povera gente ed infine la sistematica distruzione di ogni opera, sia o non di carattere militare, determinarono esattamente l’opera
che essi svolsero per tanti lunghi mesi, e ci resero edotti di che cosa ci fosse da attendersi ad ogni loro visita. Il compiersi di questi misfatti con il
corollario che il tale, sindaco di Maranola, era stato fucilato perché aveva armi in casa che poi erano di terzi, che la casa di Caio era stata
bruciata perché non aveva voluto dare le galline, che la gamba di Tizio era stata colpita dalla mitraglia perché si era nascosto nella macchia del
monte per salvare le sue due pecore, che a Sempronio di notte avevano svaligiato la casa, che Pinco, Pallino, Nevio erano stati presi ed inviati a
lavorare in prima linea; che il sindaco di Castello era stato cacciato dal paese perché proteggeva la popolazione; che presso il tal altro era stata
portata via ogni provvista alimentare; che Lufrasio era morto per non aver voluto accompagnare i tedeschi; che le case di molti erano state
scoperchiate per fare i ricoveri; che altre case erano senza porte e senza infissi smantellati senza apparente ragione; che gli alberi della tenuta X
erano stati tagliati. Questo ci veniva riferito giornalmente dai nostri operai che scendevano alla campagna durante la no tte, dai venditori che con
mille stratagemmi montavano alla montagna per vendere a noi cibarie e cose, dagli amici anche essi rifugiati in montagna, e formava l’argomento
delle nostre conversazioni».

Il 30 ottobre erano stati raggiunti dalla notizia che la villa di Emilio, colui a cui tutta la famiglia si era appoggiata per lo sfollamento, era stata
saccheggiata dai tedeschi, che i soldati erano accompagnati da un tizio noto alla famiglia e che cercavano il proprietario. Il colono che aveva
portato l’informazione era spaventatissimo e consigliava la fuga in un rifugio più lontano. Così dal fienile il gruppo si era spostato verso il monte
Lavo dove aveva ottenuto dai pa stori una capanna al prezzo di 1000 lire, a condizione che fosse completata del tetto di strame.

Intanto sopraggiungeva l’inverno. «Mai la zona di Formia ebbe tanta neve come nell’inverno 1943-44. Sembrò quasi che il castigo nostro non
fosse completo e che perciò ai dolori spirituali dovessero aggiungersi altri disagi fisici. Quel mal tempo alternavasi a base di neve, freddo, vento,
nebbia, pioggia e grandine; ci infelicitava per noi che eravamo senza indumenti, senza scarpe, senza biancheria pesante, fino al 13 marzo 1944
aggravando il nostro spirito».

Il 2 aprile 1944 i tedeschi raggiunsero il gruppo in un’altra capanna ancora, sul monte Sarraciano. Erano guidati da un delatore locale. «Io non
dimenticherò mai la cinica espressione di un tal Gelardo da Castello Onorato il quale organizzò e condusse una spedizione di ben dieci tedeschi
ed un maresciallo nella primissima ora del 2 aprile 1944 a monte Sarraciano. Era la domenica delle Palme. Le sei del mattino! Io ero uscito dalla
capanna pochi minuti prima. Un grido! Alle hinaus (tutti fuori). Mi precipito alla capanna. Siamo circondati da tedeschi tutti armati con fucili
mitragliatori. Vengo fermato. Un fucile è puntato alle mie spalle e sento la canna dell’arma contro la mia schiena. Altri fucili sono ugualmente
puntati contro gli altri abitatori della capanna, svegliati di colpo dall’improvviso avvenimento. – Sei tu italiano o ebreo? – Mi apostrofa il
ma resciallo. Sento il sangue gelarsi nelle vene, ma trovo ancora tanta forza ed un’apparente indifferenza per rispondere: certamente siamo
italiani (e credo di non aver mentito). Il biondo soldatino, acido nel viso, che mi era a fianco sempre col fucile spianato non sembra convinto della
mia risposta e biascica qualche cosa che io cerco di ca pire per non dover rispondere. Io sento in quel momento che è in giuoco la vita di tutti.
Occorre che il dialogo breve ma eloquente non abbia ulteriore seguito. Attendo qualche istante... poi fortunatamente l’attenzione è distratta
dall’ordine di invadere la capanna. Gelardo ha scelto un posto di osservazione e sorride. I miei occhi cercano di incontrare i suoi, ma mi sfuggono.
Un attimo solo di incontro dovette essere sufficiente a fargli sentire tutto il mio disprezzo e lo schifo per la sua vigliaccheria! [...] La capanna fu
invasa. Mia moglie soltanto rimase sdraiata sul giaciglio perché era ammalata. Tutto, tutto, nel senso lato della parola venne frugato e la visita
devastatrice durata oltre un’ora non cessò che quando la soldataglia non fu carica di tutto quel poco che ancora eravamo riusciti a salvare».

Andando via si portarono anche il cane di uno dei ragazzi, un setter irlandese che guardava con aria implorante i suoi padroni che non lo
potevano difendere e piangevano. L’aggressione del 2 aprile spinse la famiglia a scappare ancora verso altre mandrie e altre capanne, lungo il
tratturo che da Esperia portava verso Itri e verso Campodimele. Il 3 aprile, infatti, il giorno dopo, i tedeschi si prese ntarono ancora al rifugio
appena abbandonato, questa volta, pare, intenzionati a portarsi gli abitanti stessi. Ad aiutare i fuggiaschi, nel tormentato cammino fra le
montagne, il colono con una rete di parenti e amici che egli stesso mise a disposizione. Ovviamente costui era del tutto consapevole dell’identità
della famiglia e del rischio che correva. Ma non è il solo a comparire fra i soccorritori.

«Paolo Treglia, un onesto mediatore di bovini che era salito al monte prima ancora dell’armistizio e che non ne era più sceso. Con un carico di
figli aveva consumato, nell’attesa, il suo modesto patrimonio ed andava uccidendo di giorno in giorno gli avanzi del suo gregge caprino, per
mantenersi in vita con i suoi, delirante di rabbia contro l’odioso tedesco. La partenza di Emilio lo aveva commosso fino alle lagrime e la nostra
partenza rinnovava la sua doglianza. Non sapeva rendersi conto del nostro repentino procedere».

Una folla di fuggiaschi popolava le montagne. Le campagne e le montagne che in tempo di pace si popolavano soltanto durante i lavori agricoli e
d’estate erano attraversate dalle mandrie che trasmigravano dalla costa verso l’interno, durante quei mesi si popolarono invece di sfollati di ogni
tipo: borghesi delle città, contadini, pastori, soldati sbandati...

La famiglia Sinigallia era ovviamente conosciuta in zona e correva un serio pericolo. «Noi avevamo presso tutta quella modesta e povera gente,
accampata pel monte, la nomea di capitalisti. Ciò derivava da cause diverse. Anzitutto si sapeva qual era la nostra famiglia; gli acquisti di viveri
che noi facevamo (e che d’altra parte servivano per venti persone) erano sempre di una certa entità; pagavamo senza discutere i prezzi che ci
chiedevano; poi avevamo un numeroso personale per l’espletamento dei diversi servizi di acqua, legna, trasporti, sistemazioni; non rifiutavamo
aiuto a chicchessia, accoglievamo tutti indistintamente senza boria alcuna ma con familiarità e benevolenza. Ma, da capitalisti ad ebrei, per
quella falsa concezione del popolo che non si possa essere israeliti senza essere ricchi, il passo è molto breve. Se per una disavventura anche
minima, una tale qualifica fosse stata pronunziata anche a titolo di riconoscimento o di riconoscenza, la nostra sorte era segnata, come
disgraziatamente lo fu per tanta altra povera gente innocente».

Ci fu quel tal Gelardo che condusse i tedeschi a saccheggiare la roba nella capanna, la casa di Formia fu, ovviamente, svaligiata, la famiglia
dovette subire l’esosità dei prezzi da parte dei contadini e dei pastori. Non erano solo santi e benefattori coloro che li circondavano, ma il fatto
che una famiglia di origine ebraica di venti persone, nota nella cittadina più vicina, si sia salvata in condizioni di così scarso anonimato, ha
qualcosa di straordinario, significa che per la maggior parte la gente è stata solidale con loro o perlomeno non ha collaborato con i tedeschi, e
questo va in fondo a onore della maggioranza dei contadini e dei pastori degli Aurunci.

Ultima tappa: la mandria del padre di An tonio, cognato di Giuseppe, il colono, su a monte Revole in contrada Faletto. Un cammino molto lungo e
scosceso – il monte Revole è uno dei più alti degli Aurunci – interrotto da fermate organizzate dai tenaci soccorritori. «Per raggiungere la mandria
ove eravamo diretti occorreva attraversare tutto l’altipiano fino all’estrema parete montante a nord della conca, a 50 metri dal tratturo che da
Esperia conduce a Itri, a 200 metri dalla cima del monte Revole verso Campodimele». Da un altro cognato, Angelino, furono ospitati per una notte
a metà del cammino; la moglie Maria Civita aveva preparato per loro addirittura dei tagliolini al sugo di carne, una prelibatezza che non
assaggiavano da mesi. 46 Antonio porta sulle spalle, nelle salite più difficili, la moglie di Tommaso Sinigallia, che non ce la fa più a camminare.
«Antonio non esitò a trasportarla sulle braccia e sul dorso fino a che la strada non divenne praticabile. Mi piace di ringraziarlo ancora». «Durante
il percorso un primo incontro ci aveva agghiacciati. Due tedeschi, dal fondo di un canalone verso valle, sembravano spinti a tutta velocità per
tagliarci la strada, dalla posizione di fermo erano partiti a tutta corsa, ciò che ci aveva impressionati, né potevano avere altra meta che il nostro
percorso». I due se ne erano andati, ma poco prima di arrivare a La Fontana ecco altri cinque tedeschi fare man bassa dei bagagli. «Calze camicie
scarpe fazzoletti biancheria sapone tutto era sparito». Ma lo svaligiamento servì forse a salvare loro la vita, riflette l’autore del diario: i soldati,
intenti a considerare il bottino e a esaminarlo, li avevano lasciati andare senza pensare.

Proprio sul monte Revole passava la linea Hitler, che univa i l monte Revole e il monte Pezza e sbarrava la strada per raggiungere la più
importante strada Itri-Pico, che si trovava alle spalle delle alture. Gli sfollati che vi si erano rifugiati per sfuggire alle bombe, si trovarono a fianco
a fianco dei tedeschi che vi stavano approntando le linee di fortificazione. «Ripreso il cammino dalla Fontana, da ogni mandria e da ogni capanna
che incontravamo nell’attraversare tutto l’altipiano, da parte dei locali ci veniva dato un solo consiglio: guardarsi dai tedeschi che giornalmente e
a tutte le ore vessavano e defraudavano la popolazione ormai affamata ed esausta».

«Dal 12 aprile all’11 maggio 1944 vivemmo una vita di minimi termini, melanconica e silenziosa, ma abbastanza quieta. I tedeschi non vennero
mai alla mandria (eravamo proprio fuori tiro) e quei pochi che salivano la montagna percorrevano camminamenti tanto lontani da noi quanto
bastava per non richiamare la loro attenzione e lasciarci indisturbati. [...] Gli otto mesi dell’armistizio e gli otto mesi della fuga a Castello Onorato
si erano compiuti. Perdurava, però, terrificante il silenzio degli eserciti di fronte ed a dire il vero, questo era l’incubo maggiore. Del mese di
maggio era già trascorso un terzo e tutto languiva; come mai era possibile che si lasciasse trascorrere la primavera e forse anche l’estate senza
liberarci?»

L’11 maggio finalmente ripresero a tuonare le artiglierie; dalle pendici del monte si scorgevano i segni della battaglia. «Sono molte le barelle che
hanno percorso la strada in quel giorno e l’esame dei fatti ci dà a riflettere lungamente. Qualche cosa accade o sta per accadere, ma non
possiamo percepire nulla di preciso. Quella notte dell’11 e del 12 sentimmo nuovamente, lontano, lontano il rombo dei cannoni. Fuori, nella notte,
grandi lampi di fuoco si dissolvevano nel cielo. Non eravamo capaci di pensare a nulla. Troppe disillusioni avevamo sopportate. Dormimmo. Ogni
evento sarebbe a suo tempo arrivato a noi».

Il 13 maggio comparve un soldato in divisa tedesca, solo e impaurito; era un polacco arruolato forzatamente, che cercava di scappare e disertare.
Portava notizie di una battaglia durissima. «Tanti morti, morti tedeschi molti, cannoni inglesi sparare molto e tanti sono feriti e inglesi sparano
sempre più forte e tedeschi non possono resistere ed ecco perché io scappo». La mattina del 16 maggio dalla montagna si scorgeva sul tratturo
Itri-Esperia una lunga colonna di soldati tedeschi, una colonna di circa trecento persone che si dirigevano verso il fronte... Ma poco più tardi la
scena si trasformava ancora.

«Sporgo la testa per vedere ed uno spettacolo insolito mi si offre. I tedeschi passati un’ora inna nzi discendono, gridando, in disordine, sbandati,
dai visi stravolti, corro no, barcollano sui sassi del monte, gettano le armi, si disfanno dello zaino e dei pesi, strillano, si lanciano in tutte le
direzioni. Grida più forti si elevano da parte di ufficiali e sottufficiali; sono ordini inviati al vento! Poi si inizia una serie di colpi di pistola e di
fucile alimentati da grida sempre più forti e da altri colpi di pistola. Ma gli uomini non si fermano! Cerco di guardare ancora e vedo che la scena
continua ancora; mentre i tedeschi scappano, gli ufficiali e i graduati si lanciano innanzi per impedire la discesa del monte interdicendola con
spari. [...] La sparatoria non cessa. In un certo raggio io vedo la scena. Si cerca di spingere i soldati sulla via di Itri».

Dall’osservatorio dei Sinigallia, che più di tutti si erano spinti in alto per sfuggire ai tedeschi, si poté scorgere distintamente lo sfondamento del
fronte. Il diario ci consegna la descrizione, rara, dei tedeschi che fuggono incalzati dai goums marocchini. «Decorre una buona mezz’ora, poi
sentiamo Luisa che grida: signurì, venite a vedé, so’ tedesche, tutte ch’e cosce a fore, tutte stracciate, se stanno appicecanno cu e cavalle.
Usciamo ad osservare, cerchiamo di distinguere ciò che accade ancora. Erano uomini che cercavano di deviare verso il sud i venti cavalli di un
certo Antonio. Venivano giù dalla montagna come dei caprioli sbalzanti da roccia a roccia, coi loro sandali a sola suola il che li faceva sembrare
scalzi, col fucile pronto, col sangue negli occhi alla ricerca degli alemanni. Erano le avanguardie del corpo marocchino. [...] Nel pomeriggio, col
calare del sole, un lungo ed interminabile nastro cominciò a svolgersi scendendo fino a raggiungere il trattore di Itri. E continuarono a passare,
uno dopo l’altro migliaia e migliaia di figli della terra africana durante quello scorcio di giorno e durante l’intera notte».

L’arrivo dei marocchini è per i Sinigallia la salvezza, il loro ricordo è associato all’esultanza. «Ma non vedete che sono neri? Questi sono truppe
inglesi. Sono truppe di colore alleate in calzoncini corti. Sono il segno della liberazione!»

Ma per molti degli abitanti degli Aurunci, soprattutto le donne, l’arrivo delle truppe francesi fu una sorpresa ancora più a mara. Per molte donne
quella giornata fu il momento peggiore della guerra e della loro vita. E qui arriviamo a un’altra delle contraddizioni della storia e delle dissonanze
più forti fra discorso nazionale e memorie private.
10. Gli stupri di massa
Il cammino del Corpo di spedizione francese attraverso gli Aurunci

Dopo alcuni giorni di durissima battaglia, il 15 maggio i soldati della V Armata sfondavano finalmente il fronte sulla linea Gustav, oltrepassavano
il Garigliano ed entravano in Scauri, la frazione di Minturno posta sulla riva del mare.1 Mentre inglesi e americani proseguivano lungo l’Appia
verso Formia, Gaeta, Itri, il Corpo di spedizione francese affrontava le truppe tedesche sulle montagne. I diari di guerra ne tracciano il percorso.

Il 15 maggio le teste del raggruppamento spezzavano le linee nemiche sul monte Revole e sulle alture che dominano Esperia,2 quindi si
inoltravano nelle montagne verso la linea Hitler che costeggiava la strada Itri-Pico. Qui, sui monti che sovrastano la valle e sulle dorsali che
scendono verso Campodimele, i soldati combatterono duramente per cacciare i tedeschi e farsi strada. La testimonianza dei diari di guerra è
chiara.

«Il corpo di montagna incontra delle difficoltà nell’avanzare sulle strade dove il nemico ha immediatamente messo in azione dei distaccamenti
blindati e delle autoblindo. L’interruzione della strada Itri-Pico, realizzata il 18 maggio all’altezza del monte Vele e Le Pezze, non può essere
estesa più a nord. L’avanzata attraverso Campodimele verso Pico si scontra con resistenze crescenti. Equipaggiati con il loro solo armamento
portato a dorso di mulo, le unità di montagna non hanno la potenza necessaria per sconfiggere i mezzi del nemico nella valle; l’avanzata
attraverso la montagna, dove il nemico si è rinforzato, è lenta. Fortunatamente gli americani aprono la strada di Itri il 19. Il Corpo di spedizione
francese decide anch’esso di costituire e inviare un distaccamento blindato verso Itri. Questo sostegno di forze, che sono complemento
indispensabile dei corpi di montagna, permetterà di ripulire la strada Itri-Pico attraverso la valle mentre si proseguirà l’avanzata in montagna, e
di completare la manovra. In quest’ultima fase, il corpo di montagna deve piegare verso nord-ovest, in direzione Pastena, per coprire il fianco
sinistro della 3a divisione di fanteria algerina che avanza in direzione Pico-Ceprano. Il corpo di montagna rinforzato da una terza compagnia
dotata di muli deve portarsi nella regione di Pico per tenere la strada Campodimele-Pico».

La divisione di montagna, comandata dal generale Sevez, fu divisa in tre gruppi; il gruppo Guillaume, quello centrale, doveva sfondare la linea
Itri-Pico e avanzare in direzione di Pico, verso la valle del Liri, gli altri due dovevano sostenere la manovra a ovest e a est. Il punto dello
sfondamento era Campodimele, un piccolo paesino ai piedi del monte Faggeto sulla strada Itri-Pico, che era diventato roccaforte tedesca. Qui il
corpo di montagna trovò serie difficoltà.

«Il gruppo Guillaume occupa Campodimele sorprendendo il nemico, poi l’evacua per una forte pressione avversaria, ma si mantiene ai bordi della
località nella notte dal 18 al 19. Esso è anche avanzato in direzione del monte Croce malgrado le difficoltà incontrate dal raggruppamento Bondis
per assicurare la protezione del suo fianco destro. [...] Il 19 maggio il corpo di montagna marcia verso Pastena. Ha l’incarico di occupare i due
incroci costituiti dalla linea di arroccamento da Itri a Pico e le strade che portano a Lenola e a Pastena. [...] Il gruppo Guillaume incontra, tra le 8
e le 10, due compagnie tedesche nel vallone Fontana, a sud-est di Campodimele e fa 116 prigionieri. Campodimele che era stata presa e poi
evacuata il giorno prima sotto la pressione nemica, è rioccupata verso le 9 ma deve essere di nuovo evacuata, questa volta per mancanza di
munizioni. Ma il monte Croce è occupato da mezzogiorno e tenuto malgrado un forte contrattacco nel pomeriggio. L’ala sinistra del gruppo
Guillaume (il gruppo Charrière) è stata, anch’essa, praticamente bloccata dalla resistenza tedesca. Il monte Pezze, tenuto il 18, è ripreso dal
nemico verso le 5 del mattino del 19. È finalmente rioccupato dal gruppo Charrière intorno alle 15, dopo parecchi attacchi e contrattacchi, e la
regione è liberata fino alla strada Itri-Pico. [...] Fortunatamente gli americani sono avanzati. Itri è stata occupata il 18 (dal 349° reggimento di
fanteria americano) e il 351° reggimento di fanteria americano oggi, 19, è riuscito a interrompere la strada al nord della località e a raggiungere
il monte Grande. La grande via di approvvigionamento che viene da Minturno e da Formia passando per Itri è aperta».3

Dopo Campodimele i goums dovevano ancora combattere duramente per conquistare Pico, ultimo paese della strada prima della discesa nella
valle del Liri, e per raggiungere, attraverso Lenola, il paese di Pastena, altra località sita ai bordi della valle.

«20 maggio: resistenza tedesca verso Pico. I tedeschi cercano ancora di tenere la linea Itri-Pico. Il distaccamento blindato del Corpo di spedizione
francese proveniente da Itri è incaricato di liberare la strada Itri-Pico e spingersi con il gruppo Blondis verso Pastena.

21 maggio: continua la battaglia intorno a Pico. Alcuni elementi riescono a penetrare in Pico; ma la loro situazione diventa subito difficile. [...]
[alle 19] gli elementi del gruppo Chappuis che erano a Pico hanno dovuto evacuarla. La località costituisce una sorta di “no man’s land”. Sarà
riconquistata l’indomani mattina. [...] Il distaccamento blindato Dodelier procede da sud verso nord, lungo la strada Itri-Pico, aiutando
successivamente i gruppi di montagna ad attraversare la linea di fortificazione da est a ovest».

Dalla strada Itri-Pico il corpo di montagna doveva ancora attraversare la catena di monti che lo separava da Lenola e Pastena dove si trovavano
ancora roccaforti tedesche. Il 21 maggio i combattimenti proseguirono anche in quella direzione.

«Il gruppo Cherrière che si era già insediato a ovest della strada, sul monte Vele, occupa il monte Crispi. Si porta successivamente sul monte
Vallerotonda, poi sul monte Raparolo che raggiunge verso le 11 ma vi rimane bloccato da tiri nemici.

Il gruppo Guillaume, dopo aver distrutto un elemento blindato tedesco a La Taverna, raggiunge il monte Reginatonda dalle 9.30 alle 12.30, poi il
monte Appiolo alla fine della giornata.

Il gruppo Bondis occupa alle 9 il monte Ponticelli di Onofrio e i versanti sud del massiccio della zona di Pastena. A mezzogiorno domina la curva
della strada Pico-Itri. Si tratta di oltrepassarla. Ma un attacco all’incrocio fra la strada Pico-Itri e la strada che porta a Lenola, lanciato alle 18.15,
con l’appoggio del distaccamento blindato Dodelier, non riesce a cacciare il nemico. I tedeschi tengono i monti Calcarato e il Castello da una
parte all’altra della strada di Pastena.

L’ultimo obiettivo fissato il 27 aprile è stato raggiunto la sera del 21 maggio con la presa del monte Appiolo. La battaglia del Garigliano – che era
cominciata l’11 maggio alle ore 23 – è terminata».4

Il percorso vittorioso delle truppe lasciava migliaia di caduti da entrambe le parti. Il 27 maggio a conclusione della battaglia il generale Juin
scriveva al generale De Gaulle che il Corpo di spedizione francese aveva fatto 4400 prigionieri di cui 110 ufficiali, ma aveva perso ben 7000
uomini di cui 260 ufficiali. I diari di guerra tacevano ovviamente sulle altre vittime dell’avanzata, le donne. Ma i rapporti fissano con grande
evidenza i punti di quella che per le popolazioni civili fu una vera e propria via crucis dolorosa. Campodimele, Lenola, Vallecorsa, Pico, Pastena
segnano i combattimenti delle truppe francesi, ma segnano anche i luoghi in cui dalle storie raccolte oggi e dalla documentazione del tempo
emerge la memoria degli stupri collettivi.

Si trattò di una importantissima vittoria militare, di cui i francesi andarono immensamente fieri. Il valore militare delle truppe venne riconosciuto
dagli alleati come dai nemici, ma non per tutti coloro che popolavano quelle montagne, in fuga dalla guerra, quella fu una vera liberazione.

Campodimele e Lenola: due paesi travolti da violenze successive.

Il ricordo delle donne

Campodimele, piccolo paese degli Aurunci, appollaiato su una rocca che domina la strada Itri-Pico, si venne a trovare nel bel mezzo della linea
Hitler, la linea che doveva sostenere la più importante Gustav. Per la sua posizione era diventato una roccaforte tedesca.

«Dalla metà di novembre truppe tedesche si insediarono nel borgo medioevale di Campodimele: il palazzo comunale ospitò il centro
comunicazioni radio (l’antenna venne installata sul balcone dell’ufficio del Podestà) mentre la cucina fu allestita nel locale a piano terra dello
stesso edificio».5 Ufficiali e soldati si insediarono negli altri palazzi importanti del paese. Postazioni di cannoni vennero installate in luoghi
strategici della valle e un grande deposito di esplosivi sulla strada del monte Faggeto, quello stesso monte da cui sarebbero scese le truppe
francesi.

Gli abitanti di Campodimele erano per la maggioranza pastori e allevatori, avevano greggi e mandrie. Cominciò allora il conflitto per il possesso
degli animali e per le riserve alimentari. Luciano Sepe racconta di essere stato obbligato a scortare da Campodimele a Fondi un gregge di
duemila pecore razziate e un altro pastore ricorda che i tedeschi si appropriarono delle sue trecento pecore mentre pascolava in località Serra
Postiglia.6 Il 2 novembre due tedeschi armati entrarono in paese e fecero razzia di cibo nelle case. Sulla via del ritorno furono presi a fucilate da
alcuni campomelani nascosti nella boscaglia lungo la strada. Uno morì subito, l’altro, ferito, riuscì a raggiungere il reparto nelle vicinanze di Pico.
La sera reparti di soldati comparvero con l’intento di rastrellare ostaggi per la rappresaglia, trovarono solo donne, ne presero venti e le
condussero al comando di Pico, dove si svolsero un interrogatorio e una lunga contrattazione. Alla fine i tedeschi decisero di salvare loro la vita,
ma le liberarono togliendo loro le ciocie (i calzari ciociari fatti di stracci e pelle ) e costringendole a tornare al paese a piedi nudi. Si trattava di
circa quindici chilometri di strada. Le donne arrivarono sanguinanti.

Il 10 gennaio 1944 ci fu l’ordine di evacuazione. All’alba il paese fu circondato da soldati tedeschi. Attraverso un banditore a tutti i campomelani
fu dato l’ordine di radunarsi in piazza per la improvvisa partenza. Alle porte del paese aspettavano i camion che avrebbero condotto la
popolazione fino alla stazione di Priverno; furono raccolte circa 300 persone. L’atto repentino e violento fu vissuto come una vera e propria
deportazione. Si sentirono pianti, grida. Quelli che potevano fuggivano.

«Stevene e fasciste dietre a la casa de mamme allora, cunuscevene a Duminiche, fratreme... ie me trovai, dicetti: Cartò pecché abitavene e
durmevane int’a camera e la bonanema i zi Onorato no, facetti: io sono la sorella di Domenico... facette: se potete... Ere sola sola come nu cane,
nun sapeve chello ca aveve a fà... nun teneve nu marite vicine, mariteme steva prigioniero... lassa perde! Ca si te mettie a mente tuttu lu
passate... allura chiglie pe’ m’aiutà disse accusì: fai cunte ca ie nun te so viste... A ro se fermava a curriera llà sopra a du Giordane alloche... fai
cunte ca ie nun te so viste, si tu si capace i te iettà abbasce, ie nun ce manche vedde... ma nu mure aute... nun sapeve manche chello ca faceve
pe’ nun sta ’n mezz’a strada, nun sapeve si ive de capa si ive de piere... me trovai ’n miezze a la strada... [...] pe’ nu saglì su gli camii ca purtavene
la gente... ca ievene facenne chella cosa, purtavene a gente... Chi piagneva a na parte, chi piagneva a n’ata... cu chelli camii me pareva a fine do
munno, chi nun a viste nun lo può dicere... Chi piagneva la mamma, chi piagneva lu patre, chi li figlie sule lassate... Piagnevane piagnevano
proprio la gente... ma lassa perde! Mo tutte ste cose... sola sola... na cristiana sola sola sola! Stie fine all’una de la notte lloche sotte. Ce sta nu
bosche vicine, me ficcave lloche sotte... e ie so’ rumaste... e nun sentive cchiù gli camii ca passavene p’a strada. Allora pur’ie m’abbiai sola sola
tutta la piana e me ne ive pe’ chella via addo steva Chiarina addo chesti ci avevene fatte tutta na capanna de stramma»7 (Rosa M.).

Chi piangeva, chi cercava il figlio, chi la madre, chi il fratello... la gente non sapeva dove sarebbe stata condotta, i modi dei soldati erano spicci e
violenti e non facevano ben sperare. Tutti di corsa, via, con poche cose, quindi sui camion, poi sui vagoni fino a Reggio Emilia, dove il treno che li
portava sarebbe stato fermato da un bombardamento. Lì i campomelani sarebbero stati alloggiati in un manicomio adibito a campo profughi.
Avrebbero fatto ritorno al paese soltanto nel giugno 1945.8 Le donne rimaste maledicono il momento in cui riuscirono a scappare. Infatti dopo
venne il peggio: tutto un inverno sulle montagne in capanne di strame o in grotte e alla fine la «liberazione» attraverso le truppe del Corpo di
spedizione francese.

Come emerge con chiarezza dai diari di guerra, i soldati del Corpo di spedizione francese scesero dal monte Faggeto proprio dietro a
Campodimele e per ben due giorni contesero il paese ai tedeschi che vi si erano arroccati. Molti furono i morti dall’una e dall’altra parte. Si
racconta che centinaia fossero i corpi dei tedeschi ammassati e inceneriti in un grande rogo vicino al cimitero. 162 soldati franco-marocchini
furono sepolti nella frazione Taverna, dove tuttora sono ricordati da un cippo; altri furono seppelliti alla piana dei Pozzi.9

La popolazione era disseminata per le montagne, nelle poche case sparse, nelle capanne di strame, nelle grotte. Si trovò sul percorso delle truppe
e ne fu travolta.

«Nui steveme nascoste, ce semme viste tutte na brigata de cavagli de... ca venevene verso de noi, scendevane tutte da a parte do Faggeto accà cu
gli cavagli... tutte surdate... na marea de surdate... salivane le muntagne e passavene u fronte... nun è ca escevene solo pa a strada, passavene
per le muntagne... Si tu stive nascosta a la montagna te pigliavene lu stesse. Non c’era modo di nascondersi... E aro t’eri a nascondere, signò!?»10
(Maria P.).

Donne e uomini fuggirono da una parte all’altra della valle, ma non trovarono scampo. Nel suo racconto sofferto e spezzato Maria P., che in un
bombardamento aveva perso la madre pochi mesi prima, descrive due episodi di violenza, vissuti in due luoghi diversi.

«E allura ce simme scappate a n’ata montagna verso Pozzi della Valle. Simme iute llà dinta na casetta... la sera ereme tutte llà... acchiappavene...
i uommene gli acchiappavene gli chiudevane nei pagliai... chi se le trascinavano via, chi da lloche... che passemme llà nui chella notte... [piange]
Luigina chiamava Luigì Luigì! Chilli i avevene chiusi int’o pagliaie, che putevene fa? E ce trascenavene tutte allà... [si commuove ma si trattiene e
continua] po’ la mattina ce ne simme scappate dallà... tutte quante... Lu giorne prima c’ere state tutte chelle de Lenola allà la sera se n’anne ite e
ce simme capitate nui! Llà... poi da llà simme capitate int’a muntagne dopo ca ere passate u frunte a Itri... ce stevene gli americane... llà... dopo
ce ne simme venute a Campodimele.

Po’ quanne stavame a valle Cerase ereme riunite tutte llà inta na stanza, simme iute int’u comande... cianne ditte callà venivene gli marocchine...
chiste cia mannate na sentinella... Stavame chiuse tutte inta na stanza senonché chella sentinella chella notta ieva truvanne pur’isse na
femmina... a chiammate gliu padre e a ritte ca isse ieva truvanne na femmina. Ma dice: cheste nun so donne ca dicite vuie. Allora ciamme mise
tutte sopra l’astreche... cianne venute a truvà llà ssopra... Nui simme tutte scese abbasce, ce simme buttate e come truvaveme la porta pe’ ascì
fora lui... a come ascivame con la canna dei fucili menavene a tutte quante allà... anne fatte nu macelle... ce menavene cu la canne de fucili ce
menavene...»11 (Maria P.).

Rosa M. con la madre scappava ve rso Itri e Lenola cercando i fratelli che erano stati presi dai tedeschi. «Li purterene fino a Lenola fino a Santu
Martine allocche venne nu bombardamente e chi se puteve salvà se salva e chigli frati miei ringraziando ddie se scansirene tutti e due e iene
’ncontra a poera matre...»12 Fu proprio nei pressi della strada che conduce da Campodimele a Lenola che avvenne l’incontro terribile. «Da a
parte de Lenola dentro chella vallata addo stave tutte chelle case... tutte chelle case llà alloche steveme... ie sapenne... nun partive addo steve...
ma po’ era o stesse pecché cognateme nun e acchiapperene? E a sore ’e Vitucce e a cognata d’Assunta? Nun l’acchiapperene? Si steva alloche era
uguale pecché alloche addu scappave? E me truvave alloche... cu tanta giuvene... Lassa perde! La fine del mondo! La fine del mondo! Signore
Gesù Cristo! Signore scansalo a questi figli... Nun tenevame la forza i scappà cchiù... come scappi co core ca s’affanna e addove scappi con
chesti? Quanti anni tenevate? Vint’anne... Alloche ce steve chella povera Cesira, stevene chelle poverelle malate malate... e caccirene fora comme
l’eva fatte la mamma! Nude! Nude! Abbasta... le caccirene nude! Chelle c’anne fatte! [...] Ce stevene pure de creature... da a parte de Lenola
anne accise pure la gente... Matilde se ne ieve pe’ sti muntagne nun l’anne truvata cchiù... chille è sicure ca l’anne ammazzata e è rumasta da
qualche parte».13

Rosa M. aveva perso la bambina di pochi mesi nel Natale del 1941 e a gennaio il marito era partito per l’Africa. «Eva spusata, eva fatto pure na
figlia ca a Natale se muriva la figlia e se ne iva o marito... alla vigilia di Natale del ’41 se muriva chella creatura o 23 i gennaio se ne iva o
marito... era ’n prima linea, era a... nun te lo saccio manco dicere... Africa... gli anne prese prigionieri... è arrivato il 13 luglio del ’46...»14

A Lenola si erano installati un comando tedesco e un piccolo ospedale per i feriti del fronte di Cassino.15 Il paese non subì l’evacuazione da parte
dei tedeschi, anzi fu meta di numerosi sfollati ed evacuati da Fondi, Sperlonga e dagli altri paesi della fascia costiera. Fu invece colpito da un
grave bombardamento il 23 gennaio 1944. Il centro antico, «sopra la terra» era il suo nome suggestivo, fu completamente distrutto, scarupatu,
come viene ricordato in dialetto. 58 furono le vittime, fra cui alcuni sfollati di Fondi, che era stata bombardata a sua volta il 6 gennaio 1944.
Nessuno se lo aspettava, era domenica, erano le 10.45, alcuni erano a messa, molti erano in casa.

«Capitai sotto il bombardamento con mia madre, mio padre e due miei fratelli. Un fratello si trovava in Germania e un altro ancora era dal
barbiere. All’ora del bombardamento ci trovammo a casa, “sopra la terra”, dove attualmente c’è il parcheggio. I miei familiari morirono e io
rimasi sotto le macerie per circa ventiquattro ore. Ho visto la bomba esplodere... una fiamma di fuoco... e i miei genitori sprofondare. Eravamo
sotto le macerie... ho sentito mia madre che mi stringeva la gamba mentre stava morendo. Gli altri componenti della famiglia sono morti sul
colpo. Solo io mi sono salvata. Sentivo delle voci che chiamavano tutti noi. Sentivo che chiamavano mio nonno per cercare di scavare. Ne hanno
tirati fuori due o tre prima di me. Io sono stata l’unica tirata fuori viva. [...] Dopo la guerra sono stata per un anno in ospedale a Roma dove mi
hanno fatto due o tre operazioni. Mio fratello se ne andò in Brasile, dove avevamo dei parenti. L’altro fratello quando tornò dalla Germania non
trovò più niente. Io sono rimasta con una gamba inferma e ferite ovunque. La mia casa era completamente distrutta. Mio padre era macellaio,
quindi economicamente stavamo bene, ma purtroppo sotto le macerie abbiamo perso tutti i nostri averi, anche perché hanno saccheggiato tutto.
Mio padre aveva anche dei polli. Ci hanno rubato tutto. Mi sono ritrovata con una gamba mal ridotta e cicatrici dappertutto: in testa, sulle
braccia. Queste sono cose tristi e penso che più tristi di queste non ce ne siano».16

«Mio padre stava uscendo per andare a messa...» Così comincia il racconto di Matilde Mancini che perse il padre, la zia, lo zio con i tre figli. Lei
fu estratta dalle macerie e portata all’ospedale di Anagni, dove rimase fino alla fine della guerra a casa di un sacerdote che la aveva accolta e che
cercava di mettersi inutilmente in contatto con Lenola. Pensava che la sua famiglia fosse andata completamente distrutt a. «Dopo qualche tempo
vidi arrivare mia madre che era venuta a prendermi con un carretto. Vedendola ebbi quasi paura, perché ero convinta che fosse morta. Dopo il
bombardamento, nel panico generale, non l’avevo più vista...»17

Gaetano Ruscio era sfollato a Lenola da Fondi e stava portando con due asini materassi, cuscini e altra roba verso un capanno dove avrebbe
dovuto rifugiarsi con la famiglia, poiché dopo lo sbarco di Anzio aveva visto dei razzi in zona e non si fidava, pensava che avrebbero bombardato.
In quel momento gli aerei bombardarono il paese centrando in pieno la casa in cui erano sfollati. «Dal punto in cui mi trovavo aspettai che
sparisse la polvere provocata dalle bombe. Vidi che la nostra casa era crollata. Lasciai le bestie in un campo e tornai indietro: mi trovai davanti a
un cimitero vivente. [...] Si sentivano i lamenti delle persone sotto terra e allora mi diedi da fare pur non avendo attrezzi. Insieme ad altri
salvammo la padrona di casa, Gemma, e una ragazza che aveva il padre macellaio, ma per i miei famigliari non ci fu nulla da fare: morirono mia
moglie, i miei due figli, mio zio Alessandro e sua moglie. Rimasi solo in un paese distrutto e che non conoscevo. Non sapevo dove andare e non
avevo più niente. [...] La prima sera fui ospitato da Anita Granelli. Quella notte fu terribile: mi svegliavo di soprassalto, urlavo nel sonno».18

Maria V. perse la madre, in maggio subì la violenza dei marocchini. Non si sposò, rimase con il padre e il fratello piccolo; dopo la morte del padre,
avvenuta non molti anni dopo la guerra, affrontò la vita in solitudine. «A volte mi domando perché non sono morta anch’io sotto quelle macerie,
perché dalla vita ho avuto solo sofferenze e infelicità».

Dopo il bombardamento la vita continuò nelle capanne, come per i campomelani e tutti gli abitanti della zona, poi in maggio ci fu l’arrivo delle
truppe alleate.

«Passata la bufera [i bombardamenti] a maggio dopo nu poco de gnorni arrivanno i americani e appresso a loro ce stevano le truppe de colore a
piedi. Il 25 maggio me pianno i francesi, me trascinanno mezu alle frasche... per carità!... Me pianno, me trascinanno. La suocera mia piangeva. A
me m’anne pignata dui vote. Po’ quannu chella sera me pianno i francesi, purtroppo me ripianne dopo pochi giorni, ma sta vota erano marocchini.
Che terrore! Sinceramente tenevo na paura, uh! Mitti caso restava incinta, m’accirevo, per carità de dio... Ringrazio dio che niente niente...
Chella sera per la prima vota, quanne me facinnu alle Strette, steva sfollata llà e ci steva pu re na famiglia de Spelonca ca teneva ne bella figna ca
teneva diciott’anni e se venino a nasconde llà cu nui. Evidentemente c’era stata na spia che aveva rittu che llà ce steva chella bella giovanotta e
quindi veninno. La facemmo nasconde sotto a gnu letto e quanno vennero steva la porta raperta, a saperlo me saria nascosta pure ine. Allora
ricinnu: tu! E mi facevano segno a me, poi facevano segno cu la mani: dui. Cioè volevano la seconda che era chella vagnona, ma la vagnona nun
ce steva. Steva nascosta. Ine teneva Annarella ’n braccio, me pianno e Annarella la buttanno giù... Ecco perché Annarella tene sempe gnu male de
capa e m’aggiu pentita i peccati mii, che coppa la carta n’aggiu missu pure stu fatto. Allora erano dui, uno me puntava gnu fucile e gnatu me
trascinava verso la valle. Mio marito veneva arrete pianu pianu. Ci riceva: vattenne! vattenne! Ca sparane pure a te. Ah... usciti dalla porta, uno e
loro colpì cu na pallottola gnu polso de cugnatemu e la pallottola uscì da parte a parte. Chi piagneva da na parte e chi dall’altra. Loro due me
tiravano, le mani ne le sentiva cchiù, me le giranno. Reagivo ma non ce la facevo, me trascinannu annanze e arrete, me portanno coppa na preta a
forma de tavo lo, uno me mettì gnu ginocchio coppa la trippa e chignatu me stringeva gnu cogno. Steva per terra, vreva tutte stelle, comme se
tutto brillasse. Nun parlava cchiù. Teneva paura che m’affogassero, non potevo fare più niente. Quanne ritornai, ero diventata nu masso duro,
nun riuscivo a parlà, a move mancu na mani... infatti pe 48 ore nu putitti allattà Annarella e la suocera mia pignò il latte della capretta,
aggiungette nu poco d’acqua e feci magnà cu nu cucchiaino a chella figna»19 (Costanza C.).

Alcune donne vennero uccise. «Ricordo una bella donna di Lenola, era fidanzata e u fidanzatu eva partitu a fà u militare. Beh, chella nse vuleva
stà, la mettinnu a zampe all’aria i culla baionett a a squarciannu».20

Il racconto più struggente è quello di una donna che allora era bambina.

«Io tenevo undici anni, me pianno sotto i miei genitori. Mamma teneva un altro bambino piccolo, che ci reva lu latte e aveva n’altra sorella che
teneva sotto i vestiti per non farla prendere. Allora me pianno a me la prima volta... Mamma e papà i caccianne, a me ficinnu rimané dentro... e
allora papà piagneva appresso a me... A papà i abbiarono na bottiglia appresso, n’atu poco o accedevano. Poi si misero il fucile vicino a me, le
botte, le mazzate... mi menannu, m’annu fatto tutto, m’annu oltraggiato, mi hanno fatto del male, tutto... Dopo scesa dalla casetta, tutta
piangent e, non potevo neanche camminà, pe’ comme m’avevano rovinata... ecco che vennero gnauti, mi pianno, lì c’era il grano alto, era notte,
mi portanno in mezzo al grano, erano cinque, sei, mi trascinarono come una cosa... me pianno, fecero i fatti loro chistauti e me lassanno mezu a
gnu grano. Mio padre piagnenne ieva cercanne la figlia: ando stai, ando stai!? e io, piagnenne, chiamavo: papà, mamma, tutti quanti... Era di
notte, era buio, non ci si vreva affatto... Non potevo nemmeno camminare, per come mi avevano rovinata... così papà venne a prendermi in mezzo
al campo di grano, piagnenne... eh... Sono tutti ricordi che... Allora dopo che m’incontrai con mio padre, con i miei genitori, mi misero dentro na
capanna di fieno, perché erano vnuti n’ata vota pe’ mi pignà, però non mi trovanno affatto perché mi ero messa già dentro un pagliaio. Quella
buona anima di mio fratello Pasquale e papà mi presero, mi misero ancionciu e mi portarono mezu na vallata de prete, in modo che là non
potevano venì. Piangevo tutta la notte, mi sentivo tanto male, tutti i dolori teneva ine... dopo che fu fatto giorno mio padre e mio fratello mi
misero ancionciu e mi portanno sulla Madonna del Colle... io piagnevo, non ce la facevo più... straziante... Dopo che arrivammo sulla Madonna del
Colle chiedemmo un’ostetrica e mi visitò e mi disse: figlia mia ti hanno rovinata, come ti hanno rovinata! n’sacciu come sei viva...21 [...] Dopo un
anno andai girando per l’ospedali, perché mi avevano infettato il sangue... Sono stata al San Camillo a Roma, a parecchi ospedali a Fondi... in un
ospedale trasevo e in un altro ne uscieva. Ho dovuto subire parecchi interventi alla gamba, a Fondi mi hanno ingessato, mi hanno fatto un
intervento sotto le braccia. A Fondi mi operarono... avevo ghiandole sotto il braccio, tutte infezioni... Al San Camillo c’era il prof. Chisciotte che mi
operò due volte [facendo vedere le ferite] tutto sangue infetto...» (Ludovica L.).

Molte madri si offrirono ai soldati per salvare le figlie. Donne adulte fecero da scudo alle bambine. Gli uomini cercarono inutilmente di difendere
le loro donne. Come vedremo più avanti, dalla documentazione di archivio emergono molti casi di uomini assassinati nel tentativo di opporsi ai
soldati. Nei racconti emerge spesso una sorta di tragico quadro familiare... Dobbiamo cercare di immaginare che cosa questo abbia significato
dopo: oltre al dolore dover ricordare da un canto l’umiliazione subita a volte di fronte agli uomini (quelle poverelle le cacciarono nude... nude...), e
d’altro canto la visione della sofferenza inflitta alla propria figlia, alla propria moglie, senza riuscire a difenderle.

«Quanne me pianne a me, mia madre teneva in braccio il figlio di L., lo pianno, lo buttanno e riempinno mia madre di botte perché aveva cercato
di aiutarmi»22 (Giovanna G.).

«Quando scappammo ’ncoppa le montagne, cu me ci stava mia cugina L., na bambina di dieci anni e la zia, evame assese rentu nu rifugio, quanno
all’improvviso arrivarenu dui d’issi. La prima cosa ca ficinnu fu chella d’ine vicinu la bambina e insultarla, s’agnavzannu la tunica marron che
purtavenu e ’ncomenzannu a fà le sozzerie. Eh, figlia mia, a quel punto dovetti intevenì, fare qualcosa. Piai a uno d’issi e lo sgraffignai in faccia.23
Lui cosa fece? Lasciò stare la bambina e venne da me. A quel punto era meglio morire, mi ammazzarono di botte, mi insultarono... Ma io dovevo
pur fare qualcosa per salvare quella bambina, poteva essermi figlia» (Camilla B.).

«Chigli gnorni ci furono massacri, violenze a tutta la popolazione campomelana e chi si poteva salvà si doveva ritené fortunato. Mamma cu papà
me facinnu passà pe’ malata, m’acchiappannu dalla capoccia a i peri cu nu lenzuolo. Ringrazio i genitori mii che non mi chiappannu. Issi facevano
le mosse peché credinnu che ero malata davvero. Ma se ine mi salvai, chera pora mamma mia la ficinnu eli, porella! Che scene brutte... pora
mamma mia eccome suffrì... Papà e zii mii cercarono di fare qualche cosa ma non ci stava niente da fare oramai. Venninnu allontanati messi in
faccia lo muro, non potevano reagire altrimenti incominciavano a sparà. Papà prendeva mamma per le braccia, ma issi ncumenzannu a esse cchiù
violenti di prima. Che dolore! Nun sapevo mancu che cosa significasse quelle cose, però capivo che steveno a fà del male a mia madre che, vrevo,
cercava con tutte le poche forze di ribellarsi... gridava ma inutilmente. Quei maledetti non scherzavano per niente e non avevano paura di
nessuno. Finito di fare i fatti loro, tutti stavamo in grande silenzio. Mamma piangeva, stava seduta sopra ne preta che avevamo preso per poterci
sedere. Ecco le cose so’ ite a sta maniera e soprattutto ecco cosa so’ stati gli alleati e come ci hanno trattati, vere bestie che d’umano non
avevano niente»24 (Silvana R.).

«Era maggio... la fine però. Arrivavano come tanti zulù dalle montagne, già al solo sguard o capivi che erano cattivi e malvagi. Na sera maledetta,
verso la sera, venetteru rento la casa do stavamo rifugiati tutti i parenti. Arrivanno come i diavoli, ’ncuminzannu a move le mani a fà gesti cu le
mani... soprattutto ci puntavano gnu fucile vicino la testa, ci facinnu mette tanta paura, allora ’ncominzannu a ’nsultarci. Uno di issi mi afferrai a
gnu vracciu e mi trascinò con violenza verso la porta. Gnatu piò papà e gni feci niro, ci rette na botta cu gnu fucile arrete la schiena, mentre
cercava di tirarmi rento. Me ’ncumenzannu a maltrattare, me tempestarono de schiaffi e de botte. Avevo capito cosa ievanu truvenne da me, ma
non riuscivo a capì se anche a mia cugina de dodici anni stevanu a fà la stessa cosa. Erano quattu de issi e ficinnu ciò, ’n se capeva niente cchiù.
Chi alluccava a destra e chi a sinistra, chi piagneva... eh... [piange, non riesce a parlare]. Eravamo tutti scossi, ni iscieva mancu na parola. Ine so’
stata tanto male, mia cugina è rimasta scioccata per tanti mesi... eh, poverina, ha dovuto affrontare moltissimi problemi»25 (Antonella A.).

La violenza cambiò profondamente la vita di tante donne. Le ragazze stuprate rimasero segnate dall’onta subita. Molte andarono incontro a un
destino di solitudine, altre si adattarono a mariti rifiutati dalle giovani «sane»: vedovi, storpi, anziani. Le donne maritate «nella disgrazia» si
ritennero fortunate.

«Ognuno negava perché aveva paura che nessuno più la sposava, io ero sposata quindi non era tanto il problema».

«A Lenola c’è stato un vero massacro, ci sono state donne che non sono state accettate, tanta gente che non si è più sposata, altra gente si è
nascosta. Ci sono stati casi di donne ripudiate dai fidanzati? C’era chi li accettava e chi no. Magari erano fidanzate e poi le lasciavano per questo
fatto. Poi magari hanno fat to un matrimonio con altre persone accontentandosi, se le sono prese, ma non in modo favorevole».

«Quando ero giovane nessuno mi voleva. Dicevano che ero impestata... Ho rubato due mariti così... ecco... Ho fatto due figli che non hanno
riconosciuto. Questi figli non stavano neanche bene, feci la domanda per mandarli in collegio. La figlia femmina mi ha disconosciuto come madre,
perché diceva che l’avevo fatta se nza padre... Capito come è la storia? Io ero giovane, non sposata!»

«Mia cugina è rimasta scioccata per tanti mesi... eh, poverina, ha dovuto affrontare moltissimi problemi. È possibile parlare con lei? No, non ci
provare proprio. Lei non vuole sentire parlare di queste cose. A volte parla con me e incomincia a piangere. Io in ogni modo nella sfortuna mi
ritengo fortunata, avevo già un marito che non mi ha fatto mancare niente e mi ha aiutato tantissimo. Alcune donne, come mia cugina, non si sono
più sposate oppure dovevano accontentarsi di chi dovevano sposare, e la maggior parte erano vedovi o persone più anziane di loro. Eri
considerata malata, usata, ti consideravano in un certo modo. [...] I ricordi sono sempre presenti, quelle scene le rivedevo sempre. Però grazie a
mio marito ho affrontato tutto. Tante umiliazioni... Pensa che la prima figlia l’ho fatta a ventisette anni e per farla...»

«Quindi dopo è stato duro... per voi, è stato difficile nel paese dopo? Sì signò... a gente ce schifavene tutte quante ccà, dicevene ca nui tenevame
la malatia de marocchine... accussì dicevene a e figli: chelle alloche tenene a mal atia de marocchine... amme passate parecchie... brutte brutte...
eh qualcheduna nun s’è spusata...»26

«Tutto pensavo tranne che sposarmi. Dovetti per molti anni curarmi. Andavo a Roma accompagnata da mio padre. Il dottore mi dava delle bustine
che dovevo prendere ogni giorno. Poi all’età di ventun anni mi fecero conoscere e mi fecero sposare mio marito. Non so se hai capito bene, ma
anche mio marito è stato preso dai marocchini».

«Ci hanno criticate tutti, ci hanno messo in mezzo a una strada per tutto quello che abbiamo subito. Meglio non ricordare quante umiliazioni
subite. Ricordi Rosà quando venivano quelle stronze? Che dic evano agli altri? Non andate là, che le hanno chiappate i marocchini. Noi siamo
scritte all’ottavo livello, mentre chi era scheggiato una mano con delle bombolette è iscritto al sesto livello e ricevono più soldi».

Due delle donne intervistate avevano perso la madre sotto le bombe degli alleati, un’altra aveva visto morire la figlioletta di pochi mesi per gli
stenti e dopo pochi giorni il marito partire per la guerra. Non esiste, credo, memoria più dissonante di queste dalla retorica nazionale. Prima i
bombardamenti, le cannonate, la fame, il freddo, le deportazioni, poi lo stupro.

«Dicevano che erano arrivati i liberatori, gli americani, ma al posto loro arrivarono i marocchini. La liberazione non l’ho mai festeggiata, perché
sono ricordi che non posso scordà... Che liberazione era quella? Liberati a quel modo là! Si sono sfiziati come hanno voluto loro... che ti credi... Ci
stanno femmine che hanno perso la vita. A me ha salvato la Madonna del Colle... non potevo camminare, mi portavano ’n cionciu, na vota papà, na
vota Pasquale... Zingarella spugliata e morta di fame».

«Ricordo bene che arrivarono il 22, perché proprio quel giorno vennero da noi, ma con precisione non so dirti quando andarono via... stettero 9-
10 giorni e in questi lunghissimi giorni fecero quello che non hanno fatto i tedeschi in sei mesi».

«Ricordo benissimo che vennero il mese di maggio e la loro non si deve chiamare liberazione, ma distruzione vera e propria».

«Erano lazzaroni i marocchini, ma ugualmente gli americani erano lazzaroni perché loro avevano permesso a quella gentaglia di fare tante cose.
La liberazione si doveva chiamare quella e invece...»

«Erano lazzaroni, non liberatori».

«Il 21 maggio arrivannu come diavoli dalle montagne. Veramente noi ci aspettavamo i liberatori e difatti a Mangiavacca, dove stavamo noi, la
gente uscì con una bandiera bianca, credevamo che erano liberatori. Invece, c ome ’ncummenzannu a venì, se purtannu le femmine e
’ncumenzannu a fà sfregi. A Lenola c’è stato nu massacro vero. Si diceva che sti marocchini erano venuti pe’ sfrontà il fronte. I tedeschi tenevano
tante fortezze e allora i marocchini rischiavano, non pensavano alla vita. E [...] i marocchini a passà passannu, ma passò gnu focu. Llà non si è
salvato nisciuno. A Lenola ne hanno ammazzate tre e pure una di cinquant’anni, la taglianno cu na forbice. Un signore ammazzò nu marocchino
che aveva violentato tutte e tre le figlie, tre belle vagnone e vicino a isso. Insomma nu paese intero in ginocchio. Porelle, le ficinnu come la veste
di Cristo chelle vagnone».27

«Mio zio salvò una ragazza di Fondi ma non riuscì a salvare un’altra. Noi stavamo nascoste sopra a una stanza e sentivamo gli urli di quella
povera ragazzina. Poi se ne andavano e dopo un po’ ritornavano con il fucile mitragliatore e ripetevano le stesse cose. Nessuno si aspettava quei
mostri. Altre donne ebbero delle emorragie... Nessuno poteva fare niente perché a loro era stata data carta bianca per tre giorni. C’erano anche
algerini... Ricordo che un giorno uno di loro venne a violentare una donna che aveva visto il giorno prima. Ecco come siamo stati trattati dai
liberatori».

Parole analoghe si trovano in tutte le testimonianze. I vincitori, i portatori della democrazia vestono qui i panni dei criminali, prima con il
bombardamento inaspettato e inspiegabile con le ragioni militari agli occhi degli abitanti di un piccolo paese dell’Appennino, poi con gli
stupratori marocchini. Nulla di più lontano dal discorso nazionale sulla guerra. Che cosa può accadere quando la dissonanza tra l’esperienza
vissuta e la narrazione pubblica è così forte? Affiora alla memoria un sentimento immediato di stupore. «Veramente noi ci nascondevamo per
paura della guerra, noi aspettavamo che erano liberatori e difatti la su ocera mia uscirono con una bandiera bianca... noi credevamo che erano i
liberatori». Uno stupore sostituito subito da un indefinibile sgomento, un dolore che non può essere espresso, che diventa silenzio per lunghi anni
e che si esprime non tanto attraverso un rifiuto quanto una distanza consapevole dalla retorica pubblica. L’esperienza ha insegnato che in guerra
tutti sono potenziali assassini, che spesso le ragioni si confondono, che le popolazioni dei territori in cui si combatte sono le vere vittime del
conflitto.

«Non riesco a capire chi a mannatu quei mostri e perché stu dispettu proprio a nui! Annu piegato nu paese interu, tra omini, bambini e donne.
Quello si trattava de nu veru dispettu, nu dispettu veru e propriu, ci trattannu come oggetti».28

Ci sono ovviamente le immagini degli africani selvaggi: diavoli, zulù, animali che scendevano con occhi di fuoco dalle montagne.29 Ma al di là
delle immagini ci troviamo anche di fronte a una constatazione razionale della violenza: ci hanno trattati come oggetti. «Hanno fatto tante di
quelle cose a noi perché gli italiani in Africa hanno fatto lo stesso, quindi hanno fatto uno sfregio a noi». Torneremo su questo.

Lo stupro lascia ferite aperte. È un atto che infrange l’integrità della persona, un’umiliazione indimenticabile che peserà sul resto della vita. Per
alcune ricordare è ancora impossibile, altre parlano per la prima volta dopo quasi sessant’anni. Non riusciamo oggi a immaginare l’intensità del
trauma collettivo; ci è difficile ricostruire i modi attraverso cui le comunità hanno reagito, si sono difese da quella che era stata una ferita
collettiva non marginabile. L’onore delle donne è un segno distintivo dell’integrità di tutta la famiglia, di tutta la comunità. Attraverso le donne
vengono colpiti anche gli uomini che non hanno saputo difenderle. Non è un caso che, come atto estremo di spregio e umiliazione, si stupri la
moglie di fronte al marito, la figlia di fronte al padre. Furono moltissimi gli uomini uccisi perché difendevano le donne, lo vedremo nella
documentazione d’archivio. L’immagine di queste madri, di questi padri che piangono, che vedono le loro figlie, le loro mogli patire questa
indicibile sofferenza, questa immensa umiliazione, sono le figure della passione... «Mamma mia passava e gnurnate a piagnere, la notte
’ndurmeva pe’ niente, alluccava pe’ gnu terrore... ha sofferto tanto pe’ me e la sora mia».30 «Però io piangevo, e allora papà piangeva appresso a
me...»

Qui non si tratta solo di onore, si tratta di sofferenza, di umiliazione. Possiamo immaginarla quella sofferenza...

«Quella violenza la subimmo tutta. Negli affetti, nella dignità di tutte le persone che conobbero la forma più s elvaggia di violenza. Come
potevamo sentirci liberi, ora che le nostre vite erano state vergognosamente schiacciate e ferite...» Gli psicologi che si sono occupati della
memoria legata al trauma sottolineano come certe esperienze limite (la tortura, le morti legate a eventi catastrofici sociali o naturali, improvvise
e terrificanti) in quanto esperienze intollerabili sono occ ultate dalla memoria, non possono essere elaborate. «Il lavoro della memoria e dell’oblio,
il lavoro della storicizzazione, sono impediti tanto per ragioni individuali che per la mancanza dell’iscrizione memoriale collettiva. È per questo
che l’abbandono delle resistenze al ricordo richiede tempi assai lunghi: ci sono voluti quasi quarant’anni perché venissero pensati fino in fondo il
terrore e l’orrore nazista».31 È probabile che siano state le stesse comunità, con il tacito consenso delle donne colpite, a rimuovere il ricordo di
ciò che era accaduto, vergognoso e indicibile. La memoria pubblica ha ovviamente assecondato e favorito i sentieri dell’oblio: nel secondo
dopoguerra di stupri non si è parlato. Lo stupro in sé era presentato «come un incidente scontato e tutto sommato non grave»32 della guerra.
Parlare delle violenze di massa operate dai marocchini avrebbe significato anche mettere in luce le contraddizioni della guerra, criticare l’operato
degli alleati, negare il carattere manicheo del conflitto: di qua il bene e di là il male, rigorosamente divisi.

Fra le eccezioni troviamo il libro di Moravia La Ciociara (1957) e il film successivo di De Sica ambientati proprio nei paesi delle donne
intervistate.33 Ma entrambi, notevoli per altri aspetti e importanti comunque per aver affrontato un argomento tabù nel dopoguerra, non rendono
appieno il trauma, il dolore fisico e psichico, la disperazione. Dopo la violenza la ragazza si alza, cammina. La sera scappa per andare a ballare
con un uomo incontrato per caso. Ovviamente l’episodio è simbolico: sottintende il dolore per la perdita di quell’innocenza tenuta così
gelosamente in serbo; è come se la giovinetta volesse assecondare fino in fondo il destino che l’ha oltraggiata e colpita, cercando altre umiliazioni
e ferite. Ciò nonostante, dopo aver letto le testimonianze, la visione di quella scena provoca un certo disagio. I racconti veri sono quelli di un
dolore e di una disperazione senza fine. E poi di un calvario tra me dici, ospedali, mortificazioni... Sembra quasi che anche Moravia e De Sica
abbiano registrato l’onore perduto ma non la sofferenza.

I documenti del tempo

L’entità della violenza nei paesi degli Aurunci, della Ciociaria e del Frusinate è incredibile. Ha lasciato stupita anche me.

Capire il numero delle donne che subirono lo stupro è difficilissimo, proprio perché nessuno negli anni successivi alla guerra ha mai studiato
seriamente il caso, per la situazione degli archivi gravata ulteriormente da divieti vari, perché nella contabilità delle sofferenze e dei danni subiti
gli stupri finirono sommersi dalle migliaia di denunce fatte dalla popolazione per recuperare una qualche forma di risarcimento.34 E ciò ha dato
spazio a ricostruzioni negazioniste, come nel recente volume apparso in Francia a opera di uno studioso di storia militare, che intende esaltare le
azioni del Corpo di spedizione francese. Il sottotitolo recita Le vittorie dimenticate della Francia. Nel capitolo dedicato al problema degli stupri si
allude a una campagna di falsità da parte degli italiani. «Dal loro arrivo sulla penisola le truppe francesi sono state all’origine delle storie più
folli».35 «Facendo del marocchino un capro espiatorio gli italiani trovano il modo di esorcizzare l’irruzione sulle lor o terre di quei francesi di cui il
10 giugno 1940 avevano fatto dei vassalli. Fare passare i nuovi conquistatori per i peggiori demoni permette senza dubbio di cancellare una parte
dell’umiliazione nazionale e della caduta del fascismo».36 Si contestano le cifre italiane a partire dai procedimenti disciplinari francesi: «160
procedure giudiziarie concernenti 360 individui di cui 14 concluse con un non luogo a procedere».37 Si difendono l’inflessibi lità e la disciplina
dell’esercito francese. Si insinua che il Vaticano abbia gonfiato la campagna per un uso antimusulmano, e si accusano i tedeschi di aver
amplificato i saccheggi e gli stupri dei marocchini per nascondere i propri. Infine il capitolo si conclude con l’esplicita allusione a una colpevole
condotta morale delle donne. «Ma l’Italia del dopo capitolazione è letteralmente dedita alla prostituzione come tradisce la foresta di cartelli
“Beware of VD” [attenzione alle malattie veneree] appesi in tutto il paese. All’inizio della campagna le donne vendevano i loro corpi per qualche
lira o per un po’ di cibo».38 I riferimenti documentari sono il libro di Curzio Malaparte La pelle che, come è noto, parla di Napoli e di una
situazione completamente differente da quella del basso Lazio e delle donne stuprate dopo la battaglia del Garigliano, e una lettera del cardinale
Tisserant, che allude addirittura a un «morboso desiderio di esperienza sessuale a carattere esotico» da parte delle italiane, che poi si sarebbero
giustificate pretendendo di essere state violentate.

Come è stato ampiamente dimostrato dagli studiosi che si sono occupati delle violenze sessuali in guerra e in pace, le denunce sono sempre una
piccolissima frazione degli atti subiti.39 Non si possono certo fare le statistiche delle violenze in guerra a partire dagli atti dei tribunali militari.
Dai processi possiamo cercare di capire le dinamiche delle violenze, le motivazioni dei soggett i, il contesto in cui sono avvenute. Ma il numero
sfuggirà per forza. Tanto più nel nostro caso in cui, come emerge già chiaramente dalle interviste, il grosso delle violenze avvenne a ridosso dei
combattimenti, in una sorta di terra di nessuno dove tutto era permesso e nulla era sotto controllo...

Le testimonianze orali, dure, precise, circostanziate, basterebbero per confutare una ricostruzione così rozza e di parte e per farci capire che
cosa successe. Le parole di una donna oggi hanno per noi lo stesso identico valore documentario di una testimonianza raccolta nel 1944. Ma,
sparsa negli archivi internazionali e nazionali, troviamo anche un’abbondante documentazione, che ci porta ulteriori e importanti elementi di
conoscenza per ricostruire il senso e il peso di ciò che avvenne.40

Il 25 maggio, a ridosso della battaglia, il commissario inglese scriveva: «Dopo l’avanzata il comportamento delle truppe native francesi ha causato
gravi difficoltà. Sono stati ricevuti continui rapporti di saccheggi, pestaggi, stupri e uccisioni. I crimini sono stati attuati soprattutto dalle truppe
francesi quando si fermavano. Soltanto un caso di uccisione è stato finora d efinitivamente accertato ma numerose specifiche accuse di stupro
sono state raccolte nei campi per i rifugiati e non c’è dubbio che molte delle rifugiate che hanno raggiunto le due aree di rifugio per le famiglie
sono fuggite terrorizzate dai goums. Dal punto di vista del morale dei civili nelle aree occupate da poco, le conseguenze del passaggio delle
truppe francesi sono, a dir poco, una grande disgrazia. Rimostranze sono state fatte dalla V Armata al Corpo francese [...] L’assenza di ufficiali e
sottufficiali europei è probabilmente all’origine dei disordini, insieme con il fatto che gli africani sono soliti comportarsi in questo modo quando
avanzano vittoriosamente in una regione ostile».41

Il giorno precedente il generale Badoglio aveva mandato un rapporto urgente al generale MacFarlane, capo della Commissione centrale alleata.
Vi era allegata la relazione stilata dall’ufficiale incaricato di interrogare i profughi, che su treni appositi venivano trasferiti verso sud dai paesi
della linea Gustav interamente distrutti. «La notte scorsa alle 20 ho visitato dei rifugiati in cammino dalle recenti aree liberate e diretti in treno a
Reggio Calabria. Mi sono fermato per un certo periodo di tempo specialmente con quelli che provenivano da Spigno e da Esperia, liberati il 17
maggio e che sono rimasti parecchi giorni a Capua prima di partire. Praticamente i ricoverati, nonostante le cure amorevoli riservate loro da
americani e inglesi, essi avevano, tuttavia, ancora nelle loro facce i segni delle ore di terribile esperienza al momento della liberazione. I
marocchini erano nel loro settore. La gente raggruppata nelle campagne vicino alle città, andarono incontro alle truppe pensando di incontrare i
liberatori, convinte di essere giunte alla fine della loro tragedia. – Noi abbiamo sofferto di più nelle 24 ore in cui abbiamo avuto contatto con i
marocchini che durante gli otto mesi in cui abbiamo sopportato i tedeschi – dicono i rifugiati insieme. – I tedeschi prendevano le nostre capre,
pecore, cibo, ma rispettavano le nostre donne [...]; i marocchini si scagliavano contro di noi come dei demoni scatenati, usavano violenza,
minacciando con le mitragliatrici, bambini, donne, giovani, ragazzi e ragazze, montandoli a turno come bestie, si prendevano i soldi, ci
inseguivano nei paesi prendendo lino, vestiti, scarpe, gettandoci nelle condizioni presenti. – Anche alcuni dei loro ufficiali che cercavano di
intervenire in loro difesa venivano trattenuti. [...] Ci sono ragazze e donne con lividi sui loro volti per aver tentato di lottare contro la violenza:
tutte sono prive di mezzi. [...] Molte ragazze e donne, malate come risultato degli attacchi, sono state ricoverate in ospedale a Capua (i rifugiati
rife riscono di un centinaio di casi), altre angosciate e smarrite erano sul treno. Ho richiesto al capitano incaricato sul treno di mandare una lista
di tutti i casi più seri».42

Il 28 maggio allo stesso MacFarlane veniva inviato un ulteriore rapporto dal generale Messe che includeva testimonianze dirette, raccolte nei
campi profughi della zona. «Mio caro generale, da varie fonti, civili e militari, sono stato informato di crescenti violenze e offese commesse dai
marocchini, in danno della popolazione civile italiana. Sono in questione gravi episodi, profondamente inumani, che producono nella mente della
gente un senso di profonda inquietudine e di forte ostilità verso le truppe marocchine. Le testimonianze di innumerevoli testimoni oculari e di
vittime – che allego in copia – possono fornire una significativa documentazione delle violenze sofferte dalle popolazioni della zona di Itri-Fondi-
Spigno-Lenola, che non era stata colpita così duramente da fatti di guerra. [...] Il maresciallo d’Italia, Giovanni Messe».

Seguivano le testimonianze tradotte in inglese.

«Mio fratello, T. Giuseppe, di quarantacinque anni, è stato ucciso dai goums il 18 alle ore 21 poiché tentava di difendere l’onore di sua figlia. Io
sono fuggito con l’intera famiglia quella stessa notte e sono arrivato a Itri il 22 maggio alla casa di mio cugino T. Giuliano [...] Sono stato derubato
dai marocchini di 40 capre, 2 maiali, 2 asini, 1 vacca e 20 polli, oltre a tutta la biancheria e il cibo» (T. Domenico fu Benedetto di Lenola – località
Campo Siriani).

«Sabato 19 maggio, c’erano alcuni dei primi soldati americani nella mia casa in campagna in cui io ero rifugiato con circa 70 persone, fra cui 30
erano donne. Questi soldati non fecero nulla, ma la domenica mattina un largo gruppo di marocchini arrivò alla casa, prese mia cognata Concetta
Di N., di vent’anni, moglie di Francesco F., la portarono a forza su un mucchio di fieno e fu violentata da quattro marocchini. Subito dopo un’altra
donna, una certa Santina, di trent’anni, moglie di Giuseppe A. fu trascinata sul mucchio di fieno dove circa dieci marocchini la violentarono. Una
delle mie nipoti, la signorina Natalina A., di ventitré anni, fu trascinata nei campi e violentata da sette marocchini, uno dei quali la ferì alla coscia
e al collo. L’intervento di un soldato americano mise fine alla scena. Un’altra mia nipote, la signorina Carlina F., di ventiquattro anni, mentre
tentava di scappare ai goums, fu presa da numerosi marocchini (penso cinque o sei). Dopo essere entrati nella casa presero la sorella di Carlina
(la signorina Leonora F. di diciotto anni) e tentarono di trascinarla fuori, ovviamente per violentarla. I presenti intervennero, ma furono picchiati e
la ragazza fu colpita violentemente con una forbice su una mano. La signorina Filomena A., di ventidue anni, che era scappata a una breve
distanza dalla casa, fu violentata da due marocchini e derubata di 350 lire. Mi fu preso tutto il gregge e 55000 lire. Quella stessa sera altri
marocchini vennero alla casa dove io mi ero rifugiato lontano con mia moglie e mia cognata, mi legarono e portarono via mia cognata, di
cinquantadue anni, che violentarono. Il giorno seguente altri marocchini vennero alla casa e ruppero tutto quello che trovarono. Un sergente
francese intervenne e li mandò via» (F. Francesco, residente a Itri – contrada Fonti – sorgente S. Arcangelo).

«Il 20 maggio nel pomeriggio mentre venivamo da Spigno per scappare dai marocchini abbiamo incontrato due di questi, i quali come ci videro
chiamarono un soldato francese. Eravamo a circa un chilometro da Spigno. Erano con me mia madre, di ottantadue anni, mia figlia Bianca Maria,
di diciannove anni, mia figlia Ornella, di sedici, mia figlia Cornelia di undici, e un bambino di diciannove mesi. Anche mio figlio Pasquale, di
ventun anni, era con noi. I due marocchini e il francese diedero chiaramente a capire a noi che volevano assalire mia figlia Bianca Maria, che
diceva di essere malata e riuscì a dissuaderli dalle loro intenzioni. Allora essi si rivolsero a mia figlia Ornella, che disse anch’ella di essere malata.
I tre uomini si infuriarono e ci presero a calci e ci presero a pugni tutti quanti e schiaffeggiarono il bambino di diciannove mesi che piangeva [...]
Io offrii loro 7000 lire per lasciarci in pace, ma i marocchini, pur accettando questo, non desistettero dalle loro intenzioni. Essi mi diedero la
scelta di offrire me stessa volontariamente a loro o di dare una mia figlia; altrimenti, essi dissero, ci avrebbero tagliato la testa. Io fui obbligata a
rispondere ai loro desideri per impedire il disonore delle mie figlie» (Margherita C., residente a Itri, al presente a Minturno, via Garibaldi).

«Lunedì 22, mentre ci dirigevamo verso una località sicura, incontrammo sulla strada un marocchino. C’erano con me mia figlia M. Giustina, di
vent’anni, e Savina di diciassette. Il marocchino prese la mia Giustina dalle mie braccia e tentavano di portarla via: a causa degli strilli miei e
dell’altra mia figlia, Savina, il marocchino se ne andò via. Degli americani ci diedero un grande aiuto indicandoci una strada in cui non avremmo
incontrato altri marocchini» (G. Teresa di Fondi).

«Il 23 maggio 1944, nelle vicinanze di Lenola sono stata assalita per quattro volte da marocchini e violentata. Con me c’era anche una bambina di
dodici anni, una certa T. Maria contrada Varani di Lenola, che subì il mio stesso abuso. La stessa sorte toccò a molte donne e giovani ra gazze di
Lenola. Mia madre fu derubata di tutto» (L. Giuseppina, di sedici anni, residente a Lenola).

«Il 19 maggio stavamo recandoci presso la località Montana, dove 12 ragazze e 3 donne erano rifugiate, a lcuni americani ci dissero di non
andare perché in breve tempo sarebbero arrivati i marocchini, che avrebbero assalito le donne. Noi scappammo nelle montagne, dove scortate
dai soldati riuscimmo a raggiungere Minturno. Venimmo a sapere che un intero gruppo di 6 giovani ragazze fu violentato» (Clara Buriali
D’Arezzo, residente a Itri).43

Dunque i racconti del tempo, ovviamente secchi e freddi, perché filtrati dagli ufficiali incaricati di raccogliere le denunce, confermano quelli delle
testimoni dirette oggi, che ci rendono, nonostante gli anni passati, il dolore fisico e la sofferenza morale. Esperienze così forti e così diverse
rispetto alla vita successiva rimangono come racchiuse in uno scrigno segreto dell’anima, e possono riemergere con tutto il loro vigore. Come si è
detto, non c’è stata elaborazione possibile.

Nella documentazione americana, proveniente dal Governo Militare Alleato e acquisita ora dall’Archivio Centrale dello Stato, troviamo altre
testimonianze significative.44

Il 10 agosto 1944 il questore di Littoria (l’odierna Latina) inviava al comando dell’AMG un «rapporto circa i delitti perpetrati da soldati delle
truppe marocchine in danno della popolazione della provincia di Littoria». Al rapporto allegava 241 denunce nominative, per la maggior parte
provenienti da Lenola e Campodimele. Il questore concludeva dicendo che non erano «neppure il terzo di quello rea le, perché per questione di
onore la maggioranza si è astenuta dal produrre le denunzie del caso».

Una parte minore di dichiarazioni riguardava furti e rapine di danaro, oggetti, biancheria, animali. 209 erano le denunce di violenza carnale dai
paesi di Lenola e Campodimele.

144 erano presentate da donne di Lenola. Le violenze erano avvenute in paese e nelle contrade. Erano state compiute sempre da più di un
soldato, in molti casi da cinque, sette, otto soldati. In contrada Ambrifi una donna di trentaquattro anni era stata violentata da dieci soldati, una
ragazzina di quattordici anni da sette soldati. In contrada Trelle una donna di trent’anni e una ragazzina di quattordici venivano violentate da
quindici soldati. E.C. di ventun anni, nubile, veniva violentata nella stessa contrada da trenta soldati. In contrada Madonna del Latte F.R. subiva la
violenza di tredici soldati. P.U. e F.F. di ventitré e trentaquattro anni subivano la violenza di dodici soldati in Lenola. Ancora in Lenola E.P. di sedici
anni e L.M. di ventuno venivano violentate da sedici soldati. Il padre di I.G. che cercava di difenderla veniva gravemente ferito. La maggior parte
degli stupri erano avvenuti tra il 22 e il 23 maggio.

63 denunce provenivano da Campodimele. L’elenco comincia con una ragazzina di tredici anni, segue una ragazza di diciassette violentata da
dieci soldati, un’altra ragazzina di quattordici da nove soldati, e così via: anni sedici, tredici, quindici. Troviamo anche una donna di sessantanove
e una di settantacinque anni. Le violenze erano state perpetrate tra il 21 e il 22 maggio.

L’ultima denuncia era di una donna della contrada Pisciarello del comune di Roccagorga rapinata e violentata il 1° giugno da sette soldati, davanti
ai quattro figli piccoli, in modo così «crudele, da farla riparare all’ospedale di Priverno ove tuttora si trovava in cura».

La documentazione alleata contiene ancora una serie di relazioni provenienti dalle stazioni dei carabinieri, a cui la popolazione si era rivolta nel
tentativo di trovare una difesa o per porgere tes timonianza della violenza subita.

A Prossedi il 29 maggio sei o sette «marocchini» si presentavano alla capanna di una famiglia di contadini rifugiati in campagna e cercavano di
violentare due donne: il marito di una di queste si opponeva, i marocchini sparavano, il colpo raggiungeva il figlioletto di quattro anni. Dopo, le
donne venivano violentate per la notte intera in aperta campagna. Nello stesso paese verso le 23 del 31 maggio cinque soldati marocchini si
portavano alla capanna abitata da una famiglia contadina in località Ciampone. Trascinavano a viva forza gli uomini fuori della capanna e
violentavano le donne di fronte ai loro figlioletti. «Mentre si coricavano nel letto assieme alle donne altri rimanevano a guardia fuori. Appena
soddisfatti i primi due entravano gli altri. Tale funzione venne ripetuta fino alle prime ore del mattino. I cinque malviventi, prima di allontanarsi
assassinavano a colpi di moschetto i due uomini. L e donne, oltre ad essere state violentate, stuprate ecc. venivano brutalmente percosse e
minacciate di morte. Prima di allontanarsi i criminali rubavano le galline e altri oggetti di cui non è stato possibile precisare la quantità e la
qualità, dato lo stato in cui si trovano le due disgraziate signore».

Il 2 giugno verso le 3 della notte, cinque soldati «marocchini» armati arrivavano in una casa della frazione Pisterzo (Prossedi). Abbattevano la
porta a colpi di moschetto e violentavano la donna che riuscivano a prendere, mentre gli altri erano scappati. «I cinque malviventi si scagliavano
contro la donna sfogando reiteratamente la loro libidine con crudeltà e ferocia, tanto da ridurre la poveretta in fin di vita. In seguito alle gravi
lesioni interne riportate Protomanni Massimina di cinquantun anni cessava di vivere».

Quello stesso giorno verso le 23.30 a contrada Trevi (Sezze) quattro soldati penetravano in una grotta abitata da varie famiglie sfollate e
sequestravano e portavano via la bambina A.P. di tredici anni che violentavano e defloravano. Dopo aggredivano anche la signora A.B. di trentun
anni. I familiari che cercavano di impedire ciò erano percossi e minacciati con le armi. Veniva no informate le autorità militari alleate che
procedevano all’arresto di alcuni soldati.

Più o meno alla stessa ora, verso le 11 di sera, un altro gruppo di soldati armati di moschetto e di una pistola tedesca penetravano in
un’abitazione a contrada Melogrosso (Sezze) dove dormivano sette donne. Elide Rosella di venticinque anni, nubile, che cercava di resistere alla
violenza ven iva uccisa. Anche questo crimine veniva denunciato alle autorità militari alleate che provvedevano all’arresto di alcuni militari del
«Marocco francese».

Ma le violenze nella zona di Sezze continuavano nei giorni seg uenti. Il 3 giugno verso le 23 un gruppo di soldati, accampati a Suso, dopo aver
scassinato l’abitazione di Luigi Noce in contrada Foresta dove era sfollato con la famiglia da Sezze, tentavano di violentare la figlia di diciotto
anni. Ferivano la ragazza che si opponeva e uccidevano il padre giunto in suo soccorso.

Verso l’1 del 4 giugno alcuni soldati del «Marocco francese» penetravano nell’abitazione di Paolini Teresa fu Ascenzo, sita in località Quarto la
Macchia (Sezze), dove dormivano otto donne, e dopo aver immobilizzato con le armi gli uomini di guardia davanti alla casetta, presero con loro le
ragazze V.M. di quindici anni e P.R. di diciassette e «si congiungevano con esse carnalment e, deflorandole con violenza». Mentre un altro gruppo
violentava sul letto una donna sposata di ventiquattro anni. La proprietaria della casa tentava di negoziare con i soldati offrendo danaro in cambio
della rinuncia alla violenza, ma invece di accettare la rapinavano della somma e di altri oggetti. Il fatto era stato denunciato alle autorità militari
alleate.

Il 5 giugno a contrada Cancellata di Zacarolo (zona di Priverno) Cesare P. veniva ferito con arma da fuoco mentre cercava di difendere la moglie.

In contrada Mazzacane a Priverno verso le 10 di sera dell’8 giugno due soldati «francesi, mussulmani del Marocco [...] aventi in testa un panno
arrotolato caratteristico copr i-capo degli appartenenti a tale razza» in cerca di donne arrivavano a un gruppo di capanne. In una di queste erano
rinchiuse una trentina di donne. Di fronte alle capanne c’erano alcuni uomini a guardia. I marocchini riuscivano ad aprire la porta, sceglievano
due giovani donne di venti e di ventidue anni e cercavano di portarle via. A questo punto il padre di una di loro cercava di difendere la figlia. Si
aveva una colluttazione. Partivano parecchi spari e rimaneva sul terreno un giovane contadino di diciotto anni.

10 giugno, ore 15, in località Madonna dei Martiri veniva aggredita una donna di ventidue anni. Un contadino, sopraggiunto per difenderla,
veniva ferito da colpi di fucile e ricoverato all’ospedale di Priverno.

I carabinieri mandavano al Governo Militare Alleato, al prefetto di Littoria, alla Regia Procura, un duro rapporto sulla zona di Priverno:45 «La
popolazione del comune di Priverno (Littoria) è vivamente allarmata del susseguirsi di atti di violenza commessi da militari marocchini in danno
di cittadine del comune predetto. Nonostante il riserbo che molte famiglie mantengono per ragioni comprensibili su quanto è loro capitato, si
possono segnalare alcuni casi la cui gravità appare evidente, con preghiera di intervenire presso i comandi competenti, acché tali atti inconsulti
vengano a cessare».

Seguiva l’elenco delle violenze. Il 1° giugno veniva violentata una giovane sfollata napoletana di vent’anni, il 2 una donna era stuprata e
malmenata a Roccasecca dei Volsci. Il 7 giugno alle 23 in località Valle del Canneto (Terracina) penetravano in una casa e con le armi spianate
costringevano una giovane di ventun anni a seguirli. Questa riusciva a fuggire, cercando rifugio nella capanna vicina dei coniugi Carinci di
Priverno, che si erano affacciati alle grida della ragazza. I soldati esplodevano contro le abitazioni numerosi colpi di fucile e uccidevano i due
coniugi, genitori di quattro figli. L’8 giugno venivano aggredite due donne, che cercavano di darsi alla fuga. Una delle due, una ragazza di sedici
anni, colpita alla testa, finiva all’ospedale in gravissime condizioni. Ecco il rapporto stilato dai carabinieri: «Verso le ore 18 di ieri, 8 giugno,
venne ricoverata nel locale ospedale civile, Marocchi Assunta, per ferita d’arma da fuoco con foro d’entrata e d’uscita dal cranio. Questo
comando, informato della cosa, ha subito esperito le indagini del caso, inviando in luogo il brigadiere Santonastaso con altri militari di questo
reparto, i quali accertarono che alle ore 14 di ieri un soldato marocchino, alto 1,70 circa, snello, vestito dimessamente con tenuta kaki, tipo
militare francese, girovagando per la contrada Forcella di Priverno, si avvicinò alla capanna rurale di Marocchi Assunta, ingiungendo a questa di
seguirlo, all’evidente scopo di soddisfare su di essa i suoi bassi istinti venali. La ragazza, però, intuito il pericolo che correva si diede alla fuga per
la montagna, venendo inseguita per qualche tratto dal predetto marocchino. Questi, non riuscendo ad acciuffare la preda e, indispettito
dell’atteggiamento sdegnoso mantenuto dalla Marocchi sparò all’indirizzo di costei un colpo di pistola, di cui era armato, il cui proiettile colpì alla
testa, producendole le lesioni di cui sopra. Dopo di che il marocchino, per tema di essere evidentemente sopraffatto dal sopraggiungere di gente
in luogo, si dileguò per la campagna. La Marocchi Assunta venne subito trasportata al locale ospedale e trovasi tuttora in gravi condizioni di
salute ed in pericolo di vita».

Ma l’elenco delle denunce dei carabinieri continua.

Verso le ore 17 del 14 giugno si è presentata alla stazione dei carabinieri una donna dicendo che la figlia era stata rapita dai soldati marocchini,
mentre con altre quattro donne e due uomini falciava l’erba in contrada Bronchino (Norma). I carabinieri, aiutati da quattro alpini di passaggio e
da due ufficiali francesi, si mettevano alla ricerca e trovavano la donna nei dintorni di una tenda appartenente ai marocchini. La donna era stata
violentata. La violenza era stata confermata dal medico che la sottoponeva a visita. Riconosceva i violentatori.

Il 15 giugno in località Foresta di Sezze due soldati cercavano di stuprare una ragazzina di tredici anni, alle sue grida disperate accorrevano tre
uomini in aiuto. Eugenio Cerroni di cinqu antaquattro anni veniva ucciso dai soldati con due colpi di moschetto.

Il 17 giugno in località Monte Corvino, agro di Sezze, dopo aver immobilizzato con le armi gli uomini che dormivano davanti a una casa, alcuni
soldati cercavano di entrare sparando colpi di moschetto contro la porta. Oliva Spaziani di ventidue anni, coniugata con due figli e al settimo
mese di gravidanza, veniva colpita alla testa e uccisa sull’istante. A quel punto i militari fuggivano dileguandosi nelle tenebre.

Il 17 giugno alle 0.30 circa in località Vandolente di Priverno due soldati penetravano a viva forza in varie capanne campestri in cerca di donne.
Quando cercarono di forzare una di queste, il capofamiglia, per difendere la moglie e la giovane figlia, sparò un colpo di fucile uccidendo un
soldato e ferendo l’altro. In mattinata giungevano sul luogo provenienti da Bucimo di Prossedi numerosi soldati i quali rimasero nella contrada
fino alle 23 circa della sera, razziando e «procedendo alla sistematica distruzione delle abitazioni della contrada» (venti capanne con il
contenuto). Venivano sparati altri colpi e ferito un contadino.

In luglio e agosto le violenze, seguendo le truppe, si spostavano nella zona di Sabaudia, nell’Agro Pontino.46

Il 4 luglio in località Ceserelle, agro Sabaudia, una donna era fermata da cinque soldati marocchini e trascinata in un bosco. Alle sue grida
accorrevano numerosi uomini dal circondario. I marocchini la liberavano dopo averla ferita con pugni e con il manico del pugnale. L’8 luglio alle
16 in località Migliara, veniva violentato un ragazzino di tredici anni. Il 21 luglio a San Felice al Circeo una donna che stava lavando la biancheria
veniva assalita e ferita. I soldati fuggivano perché sopravvenivano numerosi vicini. Il 1° agosto sette militari «appartenenti al reparto marocchini»
in transito cercavano di assalire alcune giovani nel podere 1710. Il padre, aiutato da altri contadini vicini, riusciva ad allontanarli. Ma i soldati si
dirigevano nel podere vicino dove riducevano all’impotenza il marito e violentavano la moglie, una donna di quarantaquattro anni. Il 3 agosto alle
24 «12 militari di razza bianca e di colore appartenenti al Corpo di spedizione francese, qui di transito, dopo di avere esploso alcuni colpi di arma
da fuoco e lanciato sassi dalle finestre al podere 1476 in una contrada del comune di Sabaudia mediante una scala appoggiata alla finestra
penetravano nell’abitazione e dopo di aver percosso il capofamiglia con i fucili puntati» violentavano quattro donne. Prima di andarsene
rapinavano oggetti e danaro.

Si può cominciare a notare che solo una parte degli episodi denunciati sono legati allo sfondamento del fronte e alla battaglia. Molte sono le
violenze relative a episodi e contesti relativamente lontani dai combattimenti, quando le truppe erano ormai accampate e sotto limitato controllo,
e, soprattutto, quando c’era un’autorità cui riferirsi per cercare una difesa o semplicemente per sporgere una denuncia: i comandi alleati (inglesi
o americani) o i carabinieri. Nel momento in cui si svolge la battaglia non esiste potere che possa o voglia intervenire a difesa dei civili.

Documentazione analoga si può trovare negli archivi militari francesi. Qui sono conservate proteste e relazioni inviate ai francesi dal Comando
militare alleato, che le aveva ricevute dai comandi locali inglesi o americani, cui la popolazione si era rivolta per avere aiuto o protezione nelle
zone in cui il Corpo di spedizione francese aveva stazionato. In alcuni di questi casi fu possibile individuare i colpevoli. Proprio perché non ci si
trovava nel mezzo dei combattimenti, era possibile fare un’inchiesta, cercare testimonianze, recarsi all’accampamento per fare delle ricerche.
Sono questi gli episodi che si sono tradotti in processi, quegli stessi processi il cui numero esiguo viene evidenziato da Notin. È chiaro dalla
documentazione che essi rappresentano solo una piccolissima parte dei crimini effettivamente avvenuti.

Il 1° marzo 1944 il colonnello Kirk Broaddus scriveva un rapporto al Judge Advocate della V Armata sui casi di violenza che avevano per
protagoniste le truppe «indigene» con le date e i nomi di coloro che avevano subito la violenza: 10 casi tra gennaio e febbraio in Campania. In due
occasioni alla violenza si accompagnava l’uccisione del padre che aveva cercato di difendere la figlia. Venivano poi denunciati numerosi tentativi
di stupro, e 16 casi di furti di animali e oggetti personali.

In aprile dalla commissione di controllo alleata venivano segnalati altri casi di stupro e di uccisioni in provincia di Salerno, a Colliano, Contursi,
Oliveto Citro e Bandita, zone in cui le truppe avevano sostato in attesa di partire per il fronte. Due mariti trovavano la morte nel tentativo vano di
difendere la moglie.47

In maggio seguiva un’altra relazione riguardo al territorio campano. Siamo nelle retrovie, poco lontano dal fronte. «Il 19 corrente a Gusti in
prossimità di Sessa Aurunca (provincia di Napoli) due soldati marocchini non identificati hanno abusato della nominata F. Pasqualina di vent’anni,
contadina. Il padre della giovane ragazza che cercò di opporsi a tale violenza fu minacciato dai soldati marocchini con le loro armi. Lo stesso
giorno a Galluccio un soldato marocchino sconosciuto ha violentato una contadina, D. Marianna, di settantaquattro anni dopo averla riempita di
botte. Il 22 corrente a Lauro (Sessa Aurunca) 3 soldati marocchini non identificati hanno ucciso a colpi di arma da fuoco il contadino Nardone
Tommaso che tentò di opporsi al ratto di una paesana C. Filomena, che fu poi violentata e abbandonata in piena campagna».48

Le proteste alleate rivolte ai francesi continuavano nei territori al di là del fronte, nei giorni successivi lo sfondamento.

«Nei pressi del villaggio di Monticelli, il 24 maggio 1944, un vecchio venne al posto di soccorso del battaglione e disse al medico che dei
marocchini avevano sparato a sua moglie e a sua figlia e le avevano stuprate. Il medico del battaglione fece un’inchiesta e curò la madre e la
figlia. La madre era stata ferita alla caviglia destra e poi stuprata, la figlia al piede sinistro e poi stuprata. Il padre era stato minacciato di morte
in caso di resistenza da parte sua. I tre civili dichiararono che questo atto era stato compiuto da 4 marocchini di una unità sconosciuta». La
notizia veniva dal comando del 995° battaglione dell’armata americana. Il rapporto proseguiva con la descrizione di u n caso ancora più grave.

«Nei pressi di Ceccano circa 150 civili italiani si riunirono e chiesero di essere protetti dalle truppe marocchine. La batteria B del 995°
battaglione di artiglieria di campagna piazzò tutto intorno delle guardie che tennero i marocchini a distanza. Le loro testimonianze sono le
seguenti:

Le truppe marocchine di una unità sconosciuta terrorizzarono gli italiani il 29, 30 e 31 maggio 1944. Gli italiani dichiararono che
approssimativamente 75 donne di età compresa fra i tredici e i settantacinque anni erano state stuprate. Una donna dichiarò di essere stata
violentata 17 volte nella notte del 28-29 e 11 volte la mattina del 30. Nove donne violentate erano in gravidanza avanzata. Una donna dopo essere
stata violentata scappò e fu inseguita fino alle pendici della montagna. In seguito alla fuga ebbe delle ferite alle gambe e ai piedi.

Essi dichiararono anche che 4 uomini e 1 donna furono uccisi e sotterrati sulla cima vicina; gli uomini del battaglione hanno visto le tombe. Una
donna fu colpita da pallottole al gomito sinistro poiché resisteva».49

Un altro rapporto proveniva dalla zona di Amaseno. Due marescialli e un brigadiere francesi passeggiavano nella valle al cui centro si situa il
villaggio di Amaseno, la mattina del 2 giugno 1944. Arrivati a un casolare pieno di formaggi, avrebbero cercato di parlamentare per comprarli
senza ottenere risultati e si sarebbero dunque insediati in casa per mangiare. Questa perlomeno era la versione dei francesi. A quel punto i civili
li avrebbero aggrediti, dicendo che dovevano abbandonare subito il luogo perché c’erano delle ragazze e delle donne, e per intimorirli avrebbero
sparato un colpo di fucile. I soldati (francesi europei) scappavano e tornavano nel pomeriggio con due sezioni del 9° reggimento di fucilieri
algerini per arrestare i civili che avevano sparato e requisire le armi. Sul luogo era stata trovata un’anziana donna e tre uomini che erano stati
arrestati, gli altri erano fuggiti.50

Nel giugno le lamentazioni seguivano il procedere delle truppe. Erano i paesi della provincia di Viterbo a protestare e a denunciare furti e
violenze. A Montefiascone, a Proceno, a Tivoli si registrano donne violentate, animali saccheggiati, biancheria rubata.

Sono testimonianze impressionanti, non solo per il numero, che pure è notevole, se si tiene conto che sono esclusi dalla documentazione paesi
dove le violenze sono state generalizzate, come Esperia o Ausonia, ma anche per i racconti che ci propongono. Emerge il quadro di un territorio
messo a sacco, invaso, travolto: con tutte le donne nascoste e tutti gli uomini che cercano di difenderle. Nel passaggio dalla violenza tedesca a
quella francese si era prodotto un rovesciamento di genere: dalle razzie di uomini si era passati alle razzie di donne.51

Troviamo un tentativo di dare un quadro generale e di tracciare una prima valutazione in cifre delle donne che avevano subito violenza, nella
relazione scritta dal direttore generale della Sanità al ministero dell’Interno il 13 settembre 1944, appena tre mesi dopo gli stupri, quando ancora
non si prospettavano promesse di indennizzi e c’era invece il problema urgente e drammatico di curare le ferite materiali e psicologiche prodotte
dalle violenze. Nella relazione si legge: «È stata fatta presente la situazione penosa in cui si vengono a trovare circa 1100 donne della provincia di
Frosinone e 2000 circa della provincia di Littoria, che a seguito delle violenze carnali subite dai marocchini, sono state contagiate da affezioni
veneree oltre ad essere state rese per la maggior parte in stato interessante. È stato pertanto richiesto a questa Direzione Generale di Sanità di
intervenire a favore di dette donne sia per curarle dalle malattie contagiate sia per assisterle durante la gravidanza e il parto».52

Seguiva la relazione sui sopralluoghi fatti nelle comunità delle vittime: «Durante la mia permanenza nella regione percorsa dalle truppe
marocchine ho potuto ascoltare, dalla viva voce delle persone colpite dalla brutalità di quei soldati, il racconto delle loro gesta. [...] Le donne che
furono violentate sono giovani ingenue contadinelle fra i dodici e i venti anni. Non sono state risparmiate spose oneste e timide prese nei ricoveri
della montagna ove si erano rifugiate per sfuggire alle cannonate, ridotte all’obbedienza con minacce, fucilate e anche ferite, trascinate in mezzo
a campi di grano o in capanne. Madri vituperate sui loro stessi letti in presenza dei bambini piangenti e dei mariti tenuti a bada dalla canna di
fucile puntata sul petto. Non sono sfuggite vecchie più che settantenni, paralitiche nel loro letto, uomini giovani e anziani. Le poche donne
precedentemente dedite a cattivi costumi sono note e segnalate. Sono stati uccisi alcuni congiunti che tentavano di difendere i loro cari. Oro,
biancheria, bestiame lasciato dai tedeschi è stato portato via dai marocchini. Si direbbe che la lunga striscia di montagna che va, presso a poco,
da Esperia, fra le valli dell’Amaseno e del Sacco per tutta la provincia, sia stata travolta da un uragano».53

La relazione si chiude con delle proposte di assistenza (pagamento delle cure, ospedalizzazione per quelle che ne hanno bisogno e per le donne
gravide) e alcuni rapporti su specifici paesi, compilati con l’aiuto dei medici locali. A Ceccano erano state visitate circa 35 donne, ad Amaseno una
trentina, a Castro dei Volsci 270, fra cui due donne gravide, a Giuliano di Roma una trentina di donne e un bambino di dieci anni, ricoverato
all’ospedale a Roma, a Pico 250 donne di cui alcune ricoverate all’ospedale della Croce Rossa di Roccasecca, a Vallecorsa 96 donne. A Pastena le
donne non erano state visitate né curate per mancanza di un medico locale e perché il paese era rimasto completamente isolato nella valle a
causa dei ponti distrutti; due giovani sposi erano stati uccisi perché avevano cercato di opporre resistenza, il fratello del sindaco era stato
abbattuto con una raffica di mitragliatore mentre cercava di difendere la moglie e il figlio nato il giorno prima sulla montagna.

I racconti propongono le stesse immagini che oggi ci vengono riportate dalle testimoni. «La popolazione sfollata sulle montagne per sfuggire alla
battaglia ha incontrato i marocchini a volte nei rifugi, a volte sulla strada per ritornare alle case. Soldati isolati, quasi sempre a gruppi, hanno
trascinato a forza le donne poco distanti dai familiari, o in casette vuote o in mezzo al grano o dietro agli alberi; l’hanno ridotte all’obbedienza con
minacce e percosse abusando di loro in due, tre, fino a dieci e più uomini imbestialiti».

Più di una donna denunciava di essere stata violentata anche da francesi, come successe a una delle testimoni di Lenola. A Ceccano gli stupri
erano avvenuti in una zona di campagna sotto il Monte, dove erano passate le truppe marocchine, mentre in paese e oltre il fiume, dove erano
transitate le truppe canadesi, non si erano verificate violenze. La stessa sorte che divise il centro abitato di Itri dalle campagne intorno e dalla
vicina Campodimele. Come risulta chiaramente dai rapporti giornalieri e dai resoconti dei comandanti francesi, le truppe del Corpo di spedizione
francese avanzarono sui monti tra Itri e Campodimele, occuparono Campodimele e Lenola, mentre gli americani si dirigevano verso Itri, che si
salvava dal flagello. 85, come abbiamo visto, erano i casi di violenza carnale accertati a Campodimele: 5 donne erano state contagiate da si filide,
trasmessa anche al marito di una di loro.54 I testimoni indicati nel rapporto stilato pochi giorni dopo la battaglia del Garigliano e citato poc’anzi
provenivano proprio dalla montagna di Itri, da Campodimele e da Lenola. La correlazione fra il passaggio delle truppe, i luoghi delle battaglie
sostenute dalle truppe francesi e gli stupri era ed è inequivocabile.

Nella relazione del direttore generale della Sanità mancano notizie su molti dei paesi e delle cittadine presenti invece nelle denunce e nei
rapporti degli alleati e dei carabinieri italiani, che riguardano le zone vicine al territorio della battaglia. Se si tiene conto di tutto ciò e del fatto
che le cifre della relazione sono una base sicura da cui partire, si può immaginare che il numero delle donne violentate si aggiri comunque
intorno ad alcune migliaia.

Francesi e italiani

Le divisioni del Corpo di spedizione francese erano composte per il 70 per cento circa da marocchini, algerini e tunisini e per il resto da francesi
europei. Gli ufficiali erano tutti francesi. Alcune donne dicono di essere state violentate da francesi, altre dicono che i soldati non si
distinguevano, «e là stevene ammischiate... chi lo sa si erane francese...», «dicevano la guerre...»

I francesi erano comunque pienamente consapevoli del comportamento delle truppe al loro servizio. Dalla documentazione emergono tracce
consistenti di un rapporto molto difficile dei francesi con la popolazione italiana, come suggeriscono d’altro canto le stesse testimoni.

«Ma chilli ca stevene llà dicevene la guerre... ce vedivene passà tutte tutte in compagnia no... e allura chisti alluccavane: adesso, dice, nun è bona
la guerre? Vogliamo la guerra, vogliamo la guerra! Adesso no buona la guerre. Sfuttevane pure quanne ce vedevene passà»55 (Maria P.).

Si trovano i rapporti su alcuni contrasti significativi fra italiani e francesi, coloniali e non. Le ostilità erano cominciate presto, subito dopo lo
sbarco delle truppe del Corpo di spedizione francese a Napoli. Il 24 dicembre 1943 dopo una lite in un ristorante partenopeo, vicino a corso
Umberto, veniva ucciso il soldato francese Starck. A ferirlo mortalmente era stato il soldato americano della Military Police che sostava davanti al
locale, e che, secondo le affermazioni dei compagni della vittima, «assecondava i traffici illeciti del ristorante, facendosi pagare per dei favori
femminili». L’inchiesta, attraverso le dichiarazioni dei testimoni, illumina aspetti interessanti sui rapporti tra italiani e francesi. Il motivo primo
della lite era il prezzo preteso dal ristoratore, che voleva 180 lire per un pezzo di pane, una salsiccia e una bottiglia di vino rosso. Il proprietario
era corso a chiedere l’aiuto del soldato americano. Intanto la lite era cresciuta e si era passati agli insulti reciprochi. «Il MP ci ha detto: bisogna
pagare ciò che vi si domanda, se anche vi avessero chiesto 300 lire, dovreste pagare. Noi allora abbiamo tirato fuori il portafoglio per pagare.
Starck si è messo allora a discutere con i civili italiani sulla Tunisia e la Corsica. Il MP ha allora cercato di portare fuori Starck, noi l’abbiamo
trattenuto e abbiamo detto al MP: se lo vuoi portare fuori, porterai fuori anche noi. Il MP allora ha armato il suo revolver e ha portato fuori
Starck. È stato sparato un colpo. Io sono accorso correndo».56 «Mentre Riera, Mathe e Coste discutevano con l’americano sulla questione del
prezzo, Starck è stato preso da parte da un civile italiano di bassa statura entrato con il MP, si è discusso di Corsica e Tunisia e l’italiano ha detto:
un soldato italiano vale tre soldati francesi. Starck così provocato ha alzato il tono, è allora che l’americano gli ha imposto di uscire».57

Due nuovi incidenti si verificavano dopo pochi giorni (il 3 e il 5 gennaio 1944) in un paese poco distante da Napoli, a Caivano, dove erano di
stanza alcuni reparti. Anche in questo caso erano soldati francesi a trovare la morte. E, in una occasione, accanto agli italiani comparivano ancora
militari americani. «Due spahis vanno, un po’ prima dell’ora di rientro obbligatorio (ore 19) in una casa dove gli si dà da bere e da mangiare e vi
si trova una prostituta. Quella sera era in compagnia di americani venuti da Napoli. Nel corso di una prima discussione gli americani sparano in
aria, sembra. Lo spahi Audry Alexandre avendo insistito per rientrare sarebbe stato minacciato o preso a colpi di bastone e infine ucciso
dall’italiano. [...] Esiste a Caivano una propaganda antifrancese. Penso che non si possano lasciare passare fatti simili senza prendere delle
misure eccezionali da discutere tra autorità francesi e autorità alleate. Ne va del prestigio della Francia».58

Carlo Falco «sotto il pretesto di difendere la sorella e la madre che dice essere molestate dai francesi ha ucciso lo spahi Dumont Lucien con un
colpo di fucile. La versione fornita dall’assassino è in contraddizione con quella dei parenti e di certi testimoni». Si richiede un processo veloce e
una condanna esemplare perché si tratta di «un secondo assassinio commesso nella medesima località a qualche giorno di intervallo; bisogna
dare un esempio per calmare i quadri e la truppa di quel reggimento che alla vigilia di partire per il fronte non capirebbe se non venisse fatta
giustizia sul campo».59

Il 28 aprile 1944 a Casaluce, piccolo paese della provincia di Caserta, si scontravano militari francesi e italiani, aiutati questi ultimi da civili.
«Alcuni giovani francesi e senza dubbio anche dei marocchini della seconda brigata» avevano malmenato degli italiani «uno dei quali era stato
ferito abbastanza gravemente con un colpo di bastone alla testa». «Gli italiani si erano armati e riprendendo coraggio avevano teso un’imboscata
a dei francesi isolati. L’intervento degli ufficiali di una parte e dell’altra aveva impedito che l’incidente diventasse più grave».60 La riflessione che
seguiva nel rapporto è per noi estremamente significativa. Il tenente colonnello Le Nulzec accusava gli italiani di indisciplina e uso sconsiderato
delle armi61 ma ammetteva che vi fosse «inizialmente qualche torto da parte dei soldati francesi che recentemente arrivavano dall’Africa del
Nord e non erano ancora ben inseriti nel clima della cobelligeranza».62

Troviamo ancora notizie di conflitti in maggio e in giugno.

Il 16 maggio 1944 a Cardito si verificava uno scontro fra soldati italiani e sottufficiali francesi. Ecco la versione del capitano del Corpo di
spedizione francese che condusse l’inchiesta: «Il 16 maggio 1944 verso le 20.50 un gruppo di soldati italiani circolava rumoreggiando nella via
principale di Cardito. Un capopattuglia volle verificare la regolarità del loro permesso di circolazione e gli italiani inscenarono una bagarre. Due
sottufficiali francesi che volevano aiutare il capopattuglia furono feriti uno alla gamba e l’altro alla testa. Dei civili che si trovavano sul posto
intervennero con bastoni, e delle pietre furono lanciate verso i fucilieri, in particolare dagli abitanti di piazza Garibaldi 23. Cinque soldati italiani
furono arrestati e gli altri fuggirono. Dei cinque soldati arrestati, 2 portavano delle baionette di cui una nascosta nel gambale, un terzo aveva un
rasoio in tasca. Le prescrizioni della nota 26/P datata 14 aprile 1944 che vieta l’accesso ai luoghi occupati dagli alleati ai militari italiani non
muniti di un permesso firmato dal maggiore di zona non sono rispettate e ogni giorno numerosi militari italiani sono arrestati. Dichiarano di non
esserne al corrente».63

Il capitano Vigouroux nel suo rapporto al capo battaglione de Fornel chiedeva che venissero prese sanzioni severe contro i soldati italiani (un
sergente e quattro caporali appartenenti alla 301ª e alla 302ª batteria) e contro gli abitanti di piazza Garibaldi 23, e che venisse revocato il
podestà di Cardito che si mostrava incapace di imporre l’ordine ai suoi amministrati.

Un altro caso scoppiava a Maddaloni il 2 giugno. Secondo la versione francese, verso le 15.30 un civile italiano aveva lanciato una granata contro
un sergente capo del centro francese di convalescenti di Maddaloni. Il graduato, gravemente ferito alle gambe, era stato portato subito
all’ospedale dove aveva subito un’amputazione. L’italiano era stato arrestato e consegnato alla Military Police americana che lo aveva rilasciato.
In questo modo, secondo il capo squadrone francese che stilava il rapporto, aveva potuto costruirsi un alibi con testimoni compiacenti. Ma nel
caso erano anche intervenuti soldati italiani, giunti sul luogo con un camion militare americano per «determinare l’ampiezza dell’incidente e
ristabilire l’ordine». Anche questi soldati, muniti di bombe a mano, erano stati arrestati dalla Military Police e poi rilasciati. Intanto i
convalescenti francesi del centro, avuta notizia della lite, si erano mobilitati e armati di bastoni. Avrebbero sicuramente creato gravi disordini se
il comandante medico non avesse preso l’iniziativa di tenere tutto il personale consegnato sotto i suoi ordini. Nello stesso modo si era comportato
il tenente americano, imponendo al comandante italiano di tenere consegnati i suoi soldati.64

Emergono già da questi primi incidenti le dinamiche dei conflitti e i sentimenti che li provocarono. I francesi che subirono l’onta della disfatta nel
giugno 1940, di cui il fascismo approfittò vigliaccamente, ora tornavano in Italia fra i vincitori. Non erano disponibili a trattare alla pari con gli
italiani. Questi a loro volta cercavano di difendere l’onore militare ferito. Tutto ciò si combinava con il contrasto tra soldati e popolazione. Il caso
scoppiato a Succivo il 14 giugno ci fornisce a questo proposito ulteriori indizi. I fatti vengono esposti in una lettera allo stato maggiore dal
generale di brigata Gross, comandante della base militare francese 901, sollecitata da una protesta del colonnello dei carabinieri italiani. Verso le
ore 20 l’ufficiale di sorveglianza all’accampamento dei militari francesi nel villaggio di Succivo si accorgeva che una lite era scoppiata, a qualche
distanza dal villaggio, tra militari francesi e italiani, e si portava subito sul luogo. Dopo aver separato i militari e aver sequestrato un manganello
a un italiano, l’ufficiale conduceva i soldati italiani al posto di polizia perché fosse fatta chiarezza sull’incidente. Nel corso dell’interrogatorio era
stata operata una perquisizione ed erano state trovate tre pistole automatiche cariche, nascoste nelle tasche. Alle ore 21 la Military Police
americana e un tenente dei carabinieri di Aversa arrivavano in jeep. Alle 22 il tenente dei carabinieri dichiarava di assumersi l’inchiesta e i
militari italiani gli venivano affidati. All’origine dell’incidente vi sarebbero state le intenzioni disoneste di un militare indigeno verso una ragazza
italiana, che avrebbe chiesto soccorso. Non ci sarebbe stato un tentativo di violenza, poiché la vittima non aveva sporto denuncia. Questi i fatti
secondo il generale Gross.

Ma è la seconda parte della lettera che ci offre alcune indicazioni utili a capire il senso dell’accaduto. Si tratta di alcuni punti che dovrebbero
servire a confutare la versione dei carabinieri e dei militari italiani. Questi ultimi non erano soldati semplici ma ufficiali: erano usciti dal campo
per intervenire in soccorso della giovane. L’ufficiale francese li aveva sorpresi nella lite, non li aveva individuati come ufficiali e li aveva trattati
come criminali comuni. Lo si capisce dalle parole spese dal generale per giustificare la condotta dei suoi soldati. «Gli italiani non sono mai stati
tenuti sotto tiro dai francesi nel posto di polizia. Se qualche italiano è entrato nel posto di polizia con le braccia levate lo ha fatto di propria
iniziativa. [...] non sono s tate profferite né ingiurie né parole oltraggiose, soltanto al momento dell’interrogatorio, come si usa in Francia, qualche
italiano ha avuto le scarpe slacciate. [...] all’arrivo del tenente della Military Police questi ufficiali erano interrogati solo per sapere per quale
ragione tenevano le pistole automatiche in tasca e non ben visibili nei cinturoni. Il comandante ha detto esattamente che i militari non avevano il
diritto di portare armi ma ha specificato: clandestinamente».

Quest’ultima frase è significativa: gli ufficiali italiani si erano sentiti lesi nel loro onore di militari, non essendo stata riconosciuta loro la
legittimità delle armi. E infatti la lettera continua: «Non c’è stata nessuna umiliazione pubblica, essendosi l’incidente prodotto all’inizio della
notte [...] se le armi trovate non furono rese ai loro proprietari che quarantotto ore dopo, invece gli oggetti momentaneamente requisiti – un
orologio e un accendino – furono loro immediatamente ridati». E conclude: «Le informazioni qui riportate mi sono state date dall’ufficiale
superiore francese presente durante gli incidenti. Non è possibile metterle in dubbio. Devo constatare che i fatti stessi sono stati presentati dal
colonnello dei carabinieri sotto una forma che ne travisa la natura. [...] Ne risulta che non avendo i fatti il rilievo negativo che si è voluto dar loro,
non mi sembra necessario ricorrere a sanzioni».65

L’atteggiamento ostile e irriverente dei soldati francesi viene confermato dalla relazione dei carabinieri su un episodio avvenuto a Sabaudia il 30
giugno. All’alba un capitano e tre militari semplici erano penetrati nel magazzino del palazzo comunale della cittadina, che conteneva i beni
confiscati, e si erano impossessati di 42 recipienti. Quando il figlio del guardiano accorso aveva protestato si era sentito rispondere: «Mussolini
avanti popolo adesso non fare guerra?»66

Come emerge chiaramente dalla quantità di relazioni e denunce presentate al Comando militare alleato, i carabinieri rappresentavano,
perlomeno nelle retrovie, una delle poche autorità in grado di difendere la popolazione e si trovarono in molte occasioni a contendere con i soldati
degli eserciti presenti. Il conflitto tra soldati francesi e carabinieri italiani si delineava già nettamente in una lettera del Comando militare alleato
il 10 maggio 1944. «Si è verificato un gran numero di casi in cui si sono prodotti incidenti fra truppe alleate e carabinieri italiani. A più riprese i
carabinieri hanno fatto uso delle armi con risultati fatali. Si dovrebbe comprendere a tutti i gradi della gerarchia che incidenti di tale natura
saranno trattati con la severità che meritano. I carabinieri hanno importanti responsabilità. Se dei soldati alleati li maltrattano o li limitano nel
corso del loro servizio non dovranno aspettarsi un trattamento diverso da quello che avrebbero se attaccassero in modo analogo la polizia militare
delle forze alleate. In generale i carabinieri italiani si sono comportati bene e rappresentano un importante fattore per il mantenimento
dell’ordine tra la popolazione civile. Il comandante in capo desidera sostenerli nella misura in cui hanno compiuto il loro servizio in maniera
corretta e ordina di infliggere punizioni appropriate ai soldati indisciplinati che si siano comportati male nei loro riguardi».67

Da tutto ciò emerge un clima di duro conflitto tra francesi e popolazione italiana, fra soldati del Corpo di spedizione francese e soldati badogliani.
Un clima che fa intravedere a sua volta il contesto in cui le violenze vennero tollerate.

Le ragioni della violenza

La violenza sessuale è sempre attuata da un gruppo e avviene in due situazioni diverse. La più generalizzata, ma anche la meno perseguita e
quindi la meno documentata negli archivi ufficiali, è quella che si verificò dopo lo sfondamento del fronte, nel cuore della battaglia, si può dire. Le
descrizioni delle donne sono molto espressive a questo proposito: torme di soldati che arrivano correndo con gli sguardi accesi dai combattimenti,
travolgono paesi, frazioni e case di campagna, capanne, tutto ciò che trovano sulla loro strada. Saccheggiano e violano le donne. È una violenza
che nasce dalla brutalizzazione della guerra, dalla ferocia del campo di battaglia, ma è anche una violenza di «conquista». Si attua su una
popolazione vinta, è l’ultimo oltraggio della guerra totale. In questo senso mette in luce l’ambiguità della condizione della popolazione italiana in
quel particolare momento. Nella seconda guerra mondiale violenze sessuali efferate furono compiute da parte delle truppe tedesche in Europa
orientale e poi delle truppe russe in Germania.68 In Germania anche gli americani si sentirono legittimati a violenze superiori alla loro norma.69
Ciò elimina argomentazioni di tipo razzista, che invece aleggiano nelle giustificazioni degli ufficiali francesi; anche i bianchi si sono comportati in
questo modo, quando è stato detto loro che lo potevano fare. E la licenza è stata data nei casi in cui si voleva infliggere un’ulteriore pena al
nemico o, comunque, non si badava molto alla condotta da tenere nei confronti della popolazione.

È questo uno di quei casi in cui emergono modi di condurre la guerra antichi: il popolo invaso viene schiavizzato, distrutto, saccheggiato, le sue
donne diventano bottino di guerra. D’altro canto le guerre coloniali questo erano state: eserciti che razziavano, distruggevano, violentavano. Si
era trattato di vera e propria barbar ie. La brutalità delle guerre coloniali, lo abbiamo già detto a proposito dei bombardamenti, si trasferì nella
guerra «civilizzata», e diede, fra l’altro, ampia legittimità a sfogare la violenza proprio a quegli uomini che provenivano dai paesi brutalizzati dai
bianchi. Ai soldati africani venne affidato un compito durissimo, che costò il sacrificio di molte vite. In cambio, i comandi del «civilizzato» esercito
francese tollerarono, quando non istigarono la violenza.

Come si è detto nell’introduzione, da von Clausewitz in avanti l’immaginario sulla guerra moderna si è costruito sul modello di una guerra
soggetta a regole formali e dominata dalla violenza tecnologica, con stati che controllavano i loro eserciti con rigida disciplina, rispettando le
convenzioni accettate internazionalmente. In realtà gli eserciti «civilizzati» facevano largo uso di guerri eri «irregolari» inquadrandoli in unità
speciali. E molto spesso il bottino rappresentava, come un tempo, la paga dei soldati. «Gli ufficiali degli stati civilizzati distoglievano lo sguardo
dai metodi illegittimi e non civili con cui quei guerrieri irregolari ricompensavano se stessi nelle campagne e dai loro modi barbari di combattere.
[...] L’espansione di queste forze – cosacchi, cacciatori, Highlanders, uomini di confine, ussari – durante il XVIII secolo fu uno degli sviluppi militari
più notevoli del tempo. Gli ufficiali civilizzati che li arruolavano stendevano un velo sulla loro abitudine di saccheggiare, rapinare, stuprare,
assassinare, rapire bambini, compiere estorsioni e vandalismi sistematici. [...] La guerra come continuazione della politica si rivelò essere per
l’ufficiale pensante un opportuno rifugio filosofico per evitare di contemplare gli aspetti più antichi, più oscuri e fondamentali della sua
professione».70

Ci fu, dunque, nel caso italiano un uso di unità speciali cui era normalmente consentita una condotta di guerra specifi ca, ma la documentazione
ci suggerisce che ci sia stato anche un «silenzioso» consenso da parte di ufficiali e comandanti, nato in un clima in cui i soldati francesi e
nordafricani stentavano a riconoscere agli italiani il ruolo di cobelligeranti, e vedevano piuttosto in loro gli antichi nemici.

Ce lo hanno raccontato le donne, lo abbiamo visto nelle pagine precedenti: «Adesso nun è bona la guerre? Vogliamo la guerra, vogliamo la
guerra! Adesso no buona la guerre. Sfuttevane pure quanne ce vedevene passà». Emerge chiaramente dagli innumerevoli contrasti che affiorano
dalle carte di archivio e dalle esplicite riflessioni dei comandanti. Significative, ad esempio, le parole di un ufficiale francese a proposito di un
marocchino, accusato di aver ucciso un guardiano che difendeva i montoni. «Il 23 marzo 1944 verso le 16 sono stato allertato da italiani di
Cescheto che sostenevano di essere stati oggetto di colpi di arma da fuoco da parte di soldati marocchini. Assistito dall’allievo ufficiale Alphonsi,
interprete di italiano, feci sul campo una rapida inchiesta attraverso cui venni a sapere che il nominato Ben Abdesselem, matricola 722, e Driss
matricola 6240, addetti alla mensa degli ufficiali del 2° e 3° Bureaux, erano usciti dopo il pranzo armati di fucili per cercare dei montoni. Si sono
imbattuti in alcuni guardiani che li hanno minacciati con un’ascia. Abdesselem dice di aver fatto fuoco con la sua arma per difendersi. Un italiano,
il signor Casale abitante a Cescheto, fu raggiunto da una pallottola al fianco destro e morì verso le 17, mentre lo trasportavano all’ospedale. I due
accusati riconoscono i fatti, ma a mio avviso non sono del tutto responsabili, soprattutto Abdesselem che è un sempliciotto. I marocchini educati
da noi a uno spirito di vendetta, non capiscono la cobelligeranza italiana. Per loro l’italiano è il nemico esattamente come il tedesco e in virtù
della vecchia legge marocchina il vinto è alla mercé del vincitore. Dunque per loro rubare un montone è una razzia santa, tanto peggio per coloro
che vi si oppongono. Tali fatti riprovevoli sono tut tavia frutto di retaggio e costumi, e io considero anche che questi due buoni soldati hanno
diritto a tutte le indulgenze e circostanze attenuanti. Meritano una punizione per scoraggiare avvenimenti simili, ma va tenuto conto che essi si
battono per noi e questo non lo dobbiamo dimenticare».71
Dunque la violenza, spesso tollerata ai fini della vittoria, è qui amplificata dal fatto che si sviluppa contro una popolazione che non viene
considerata amica, anche se ufficialmente è definita cobelligerante e l’operazione che si sta compiendo è di liberazione e non di occupazione o
conquista.

Diversa l’opinione del commissario del governo francese presso il tribunale. Dalle sue parole emergono tuttavia con chiarezza i problemi e i
sentimenti delle truppe e dei comandanti. «Il Tribunale militare questa mattina ha giudicato cinque marocchini appartenenti al 34° gruppo del
reggimento di fucilieri algerini accusati di omicidio e di complici tà. Tutti hanno confessato di essere partiti per una spedizione in un villaggio
italiano con l’intenzione sia di rubare bestiame o oggetti utili sia di violentare. Uno dei principali accusati, che sembrava esprimere i sentimenti di
tutti, si è mostrato sorpreso di vedere che i suoi atti erano considerati gravi. Egli ha detto che intendeva servire fedelmente la bandiera francese,
che per quel motivo era venuto sul fronte italiano, che egli non si sarebbe mai permesso di molestare dei francesi, ma che gli sembrava naturale
saccheggiare o anche violentare degli italiani, poiché essi erano nemici.72 Credo mio dovere segnalarvi questo fatto perché mi sembra che
questo spirito, che è radicato tra le truppe indigene, debba essere combattuto. Per lo stesso motivo e per evitare che si ripetano atti simili
(saccheggi, violenze, omicidi) propongo che le cinque gravi condanne pronunciate questa mattina (fra i 20 e i 15 anni di lavori forzati) siano citate
a titolo di esempio. [...] So che le autorità militari italiane non perdono occasione per montare una campagna contro le truppe francesi e la loro
condotta verso la popolazione civile. Mi sembra che le misure che ho l’onore di suggerire (lotta contro i sentimenti sopra riportati e pubblicità
delle pene) siano adatte a combattere questa campagna».73

Il 2 luglio 1944 lo stesso comandante in capo delle forze alleate, il generale Alexander, si esprimeva in modo chiarissimo sul problema. «Penso che
vi sia rimbalzata la notizia che esist ono incontrovertibili evidenze riguardo al cattivo comportamento delle truppe di colore francesi nei riguardi
della popolazione civile italiana. Numerosi casi di stupro, uccisioni e rapine sono stati perpetrati, e il disordine persiste. Avendo chiesto
personalmente attenzione s u questo tema, ho ricevuto assicurazione dal generale Juin che sarebbero state prese drastiche misure. So che ad
alcuni colpevoli è stata inflitta la pena di morte. Credo, dunque, che il generale Juin mi abbia dato la sua piena collaborazione. Nello stesso
tempo, ci sono ragioni per dubitare che i giovani ufficiali francesi prendano la cosa sufficientemente sul serio. C’è, come lei sa, un atteggiamento
profondamente negativo da parte delle truppe francesi verso gli italiani, e io temo che, in molti casi, questo atteggiamento conduca i giovani
ufficiali a tollerare o ignorare la condotta delle loro truppe. [...] Le assicuro che mi dispiace moltissimo dover scrivere questa lettera, vista la
magnifica prestazione delle truppe francesi in battaglia. È tuttavia necessario, secondo me, che lei sia a conoscenza dei fatti, perché la notizia
potrebbe giungere ai giornali o al Parlamento. Tali rapporti potrebbero danneggiare seriamente la reputazione della Francia».74

Ovviamente i comandi francesi gettarono la colpa delle violenze esclusivamente sui soldati «di colore». Sappiamo dalle donne, e anche da alcune
denunce circostanziate, che in molti casi essi furono affiancati da soldati bianchi, ma fu facile incolpare gli indigeni risalendo a una loro presunta
natura selvaggia, senza freni sessuali. 75 La rappresentazione fu fatta propria dalla popolazione locale che non era immune da tale tipo di
razzismo, diffuso in Italia dalla propaganda che aveva accompagnato l’avventura coloniale.

I comandanti parlavano di primitivismo delle truppe difficilmente tenuto a freno dagli ufficiali. Ecco la lettera del tenente Thevenot che chiede un
bordello al seguito dei suoi soldati: «Ho l’onore di attirare la vostra attenzione sul fatto che i 200 indigeni marocchini della mia unità si trovano da
due mesi e mezzo, da quando l’unità è arrivata in Italia, nell’impossibilità di soddisfare normalmente le loro esigenze sessuali. È in effetti una
questione che, pur essendo di ordine un po’ particolare, ha tuttavia una grossa influenza sul morale di esseri semplici, molto facilmente dominati
da appetiti assai primitivi, a tal punto che il comandante ha sempre ritenuto opportuno, per non dire necessario, aggiungere un BMC [bordel
militaire de campagne] alle truppe nordafricane chiamate a vivere lontano da una guarnigione. [...] Ora gli indigeni non potendo, come gli
europei, approfittare di certi vantaggi, si trovano ridotti a degli espedienti, del tutto riprovevoli a titoli diversi: 1) La pederastia, già frequente
presso di loro in tempi normali, è il modo loro più comodo per tirarsi su quando non ne hanno un altro a disposizione. Dal punto di vista sanitario
e morale presenta degli inconvenienti sui quali è inutile insistere, ma nonostante sia interdetta dai regolamenti, è impossibile impedirla
completamente. 2) La prostituzione clandestina, che riveste, soprattutto in Italia, forme assai sottili e varie, tenderà a divenire sempre più
temibile, se l’elemento indigeno dovesse farvi ricorso sempre più frequentemente. Il contagio di malattie veneree da donne non sottoposte a
controllo medico creerà dei problemi di profilassi sempre più gravi, essendo forte la difficoltà di inculcare negli indigeni i principi più elementari
di igiene sessuale e le abitudini più semplici di protezione individuale. [...] 3) Gli stupri che, in ragione dell’arrivo relativamente recente degli
indigeni nei paesi non sono ancora troppo frequenti, ma che tenderanno a generalizzarsi nella misura in cui si adatteranno e il periodo di
continenza aumenterà. Gli scandali, le zuffe, le uccisioni e le liti con l’AMGOT che ne deriveranno quasi certamente, non potranno che nuocere
alla buona reputazione del Corpo di spedizione francese e rendere tesi i rapporti con i nostri alleati e le popolazioni italiane».76

Le violenze ebbero inoltre largo spazio sulla linea del fronte nella misura in cui quelle zone divennero terra di nessuno e non vi si trovava alcuna
autorità civile o militare che potesse difendere le popolazioni civili. Tanto più grave era, da questo punto di vista, la situazione in Italia con un
esercito delegittimato e debole, con istituzioni locali espressione di un regime sconfitto e allo sbando. Non a caso molte donne si rifugiarono nelle
chiese di campagna, sperando in una protezione divina che purtroppo non venne, e pensando che forse il luogo sacro sarebbe stato rispettato dai
soldati. Anche in questo caso come per i bombardamenti e le altre violenze di guerra non rimaneva che il ricorso al sacro.

Elevatissima fu l’impunità dei colpevoli nelle zone di fronte. Era pressoché impossibile trovare gli autori dei misfatti nei momenti in cui i
combattimenti erano ancora in corso.77 Per questo le violenze sessuali risultano nettamente sottostimate nella documentazione, ed è più facile
dopo negare i crimini.

Numerose violenze avvennero tuttavia nelle retrovie, nei luoghi in cui le truppe erano accampate. Questi sono gli stupri che hanno lasciato più
tracce documentarie, perché i soldati erano fermi nei campi e si potevano, quindi, ricercare i colpevoli. Inoltre esisteva la possibilità di trovare
una qualche autorità cui appellarsi, fare una denuncia, in alcuni casi chiedere protezione. In particolare la popolazione si rivolse per aiuto ad
americani e a inglesi, a carabinieri e a soldati italiani, quando erano presenti in zona. E ciò, come si è visto, si risolse spesso in un conflitto aperto
tra italiani e francesi. In alcuni casi venne chiesto aiuto agli ufficiali francesi, affinché controllassero le truppe, ma non sempre la popolazione
ottenne collaborazione.

Insieme alle violenze sessuali i soldati si dedicarono a una sistematica opera di spoliazione di beni. «Elementi di truppe di colore che occupano la
zona evacuata dalla popolazione civile si sono dati a un vero saccheggio delle abitazioni lasciate senza sorveglianza dai loro proprietari. Tutto ciò
che era trasportabile è stato rubato e la desolazione regna in questi territori. L’intervento dei carabinieri ha, in qualche caso piuttosto raro, fatto
restituire il bene rubato, ma nella maggioranza dei casi essi non hanno potuto impedire né violenze né saccheggi contro queste sfortunate
popolazioni. [...] Il comando è obbligato a considerare che queste popolazioni esacerbate potrebbero rispondere alla violenza con la violenza, e
per evitare incidenti, che potrebbero diventare seri, si pregano le autorità competenti di intervenire».78

I militari nordafricani, che pensavano di essersi guadagnati in modo più che legittimo quella ricompensa, spedivano a casa la biancheria e gli
oggetti saccheggiati. «Il numero dei colli spediti dall’Italia da marocchini cresce sempre di più (5000 il mese passato). Per la sola regione di Fes è
stata constatata la cifra di 240 in aprile, 700 in maggio, 900 per la prima quindicina di giugno. I colli in gener ale contengono lino, per lo più
usato; si sono trovati anche libri antichi o accessori di culto. Gli oggetti in questione provengono dal saccheggio o sono stati presi nelle case
abbandonate dai loro occupanti; alcuni sono stati comprati sul luogo direttamente dai sinistrati o dai ricettatori. I mittenti sembrano appartenere
nella maggior parte dei casi ai servizi di retrovia e ai reparti motorizzati e alle unità di combattimento».79

Bisogna ricordare, a questo proposito, che i ted eschi avevano razziato cibo, animali e beni in misura ancora più estesa, e nelle case abbandonate
dalla guerra bande di italiani, a volte di compaesani, si erano date a un sacco sistematico. Nel caso dei «marocchini» l’immaginario ha amplificato
un comportamento definito «tribale» e, accostandolo inoltre alle violenze sessuali, lo ha ingigantito.

Non avendo potuto consultare le carte dei processi, ancora secretate dalle autorità francesi, possiamo riflettere solo superficialmente sulle
motivazioni addotte dai soldati. La maggior parte delle violenze sono perpetrate da militari in gruppo. Il gruppo maschile riveste ovviamente un
ruolo importante: gli stupri in tempo di guerra hanno un valore dimostrativo, sono un segno di virilità e di solidarietà tra uomini, espressione
della mascolinità trionfante. Chi non aderisce può essere considerato un debole, un traditore.80

Un ruolo possono averlo giocato anche il desiderio di ricambiare il trattamento avuto da parte dei bianchi nelle colonie e la libertà di possedere
una donna bianca. Nei paesi coloniali infatti, mentre era possibile per gli uomini bianchi avere donne indigene più o meno colorate, l’interdizione
dei rapporti sessuali fra donne bianche e uomini neri era assoluta e totale. Questo avveniva d’altronde anche nella società americana, dove
l’accusa di violenza contro una donna bianca diede origine a una serie impressionante di lincia ggi.81 La guerra dava la possibilità di rovesciare
per una volta i rapporti.

Epilogo

Dopo la protesta degli alleati più autorevoli il comando francese decise di dare un inde nnizzo a coloro che avevano subito violenze e danni dalle
truppe marocchine. Già all’origine, dunque, si scelse di risarcire non solo le donne che avevano patito violenza carnale, ma anche tutti coloro che
avevano subito saccheggi, distruzioni, incendi, brutalità di altro genere. Lo stupro fu, dunque, annegato fra le altre violenze di guerra. La
sofferenza delle donne fu messa alla pari con un ferimento o con la perdita di un bene materiale.

La violenza sessuale è stata, d’altro canto, considerata una fatalità della guerra, meno grave di altre violenze, per lungo tempo. Nonostante fosse
stata chiaramente condannata dalla convenzione di Ginevra nel 1949, essa fu giudicata per la prima volta come crimine di guerra soltanto nel
1996 dal Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia.82 Furono infatti gli stupri etnici e di massa in Bosnia a destare una corrente
d’opinione internazionale contro questo reato e a mutare l’atteggiamento della società europea. Fino al 1996 in Italia lo stupro era trattato come
un reato contro la morale, come la diffamazione; il procedimento giudiziario si accendeva soltanto in presenza di una querela di parte. Perché
una nuova legge venisse alla luce, furono necessari anni di discussioni, prese di posizioni e appelli del le donne parlamentari.83 La
sottovalutazione presente nella società e nelle sue leggi si riverberò ovviamente sul trattamento alle donne violentate allora. Non essendo lo
stupro un «crimine contro la persona», esso esisteva solo nel momento in cui produceva effetti fisici permanenti, come una ferita prodotta da
un’arma qualsiasi o da una scheggia.

Immediatamente fu data la possibilità di presentare domanda per i risarcimenti di ogni tipo di violenza, compresi i saccheggi. Ciò offuscò la
sofferenza delle donne e fece, nel contempo, lievitare enormemente le richieste di indennizzo. Queste furono valutate da una commissione
composta da un rappresentante del ministero del Tesoro, dai viceprefetti e dagli intendenti di finanza delle province interessate. La
documentazione ci dice che il 31 agosto 1947, data-limite per l’accettazione delle domande, erano state presentate 20000 richieste che
riguardavano tutti i tipi di violenza. Anche dopo la data fissata, alla commissione continuarono ad arrivare migliaia di domande, che nel luglio
1949 ammontavano a oltre 30000.84

Nei paesi della tragica linea Gustav, poverissimi e distrutti dalla guerra, tutti cercavano di procurarsi una certificazione che dimostrasse il danno
subito. Lievitavano le speranze e gli imbrogli. Già nell’aprile 1949 il capo di gabinetto del ministero dell’Interno scriveva ai prefetti di Latina e di
Frosinone: «Continuano a giungere a questo sottosegretariato numerose domande per risarcimento di danni che sarebbero stati arrecati alle
persone e alle cose dalle truppe marocchine e canadesi nelle province di Frosinone e Latina. L’invio di dette domande è iniziato da quando
l’Intendenza di Frosinone ha cominciato a pagare gli indennizzi liquidati dall’apposita commissione sulle domande prodotte a suo tempo alle
Autorità Militari Francesi e raccolte dalla società Restituere. Dal febbraio a tutt’oggi ne sono pervenute 22000 circa e da un calcolo
approssimativo può dedursi che, solo per danni alle cose, sono stati richiesti indennizzi per circa 12 miliardi di lire. Dette domande non sono per
ora prese in esame, sia per la mancanza di personale e sia, soprattutto, per l’assoluta inattendibilità della quasi totalità di esse. Sono però
pervenute notizie che alcune persone girano nei Comuni delle Province suddette svolgendo un’attiva propaganda per indurre alla presentazione
di tali domande, delle quali curano la compilazione mediante un compenso che si aggira sulle 500 lire a domanda. In tal modo si suscitano
speranze che con molta probabilità andranno deluse, cosa questa che potrebbe a un certo punto avere dannosi effetti sull’ordine pubblico».85

Segue un’ampia documentazione da vari paesi in cui vengono citati i trafficanti e descritte le loro attività. Altre lettere fanno elenchi di nomi da
Cori, Formia, Scauri, Minturno, Castelforte, Cisterna, Spigno. Vengono descritte le attività di 19 persone, fra cui una sedicente marchesa abitante
a Roma che aveva creato un’agenzia per i danni di guerra con filiali nei vari paesi. In una serie di missive dei capitani dei carabinieri locali e dello
stesso prefetto di Latina si legge che girano per la provincia «persone le quali svolgono attiva propaganda per indurre alla presentazione di
domande per il risarcimento dei danni prodotti alle persone e alle cose dalle truppe marocchine».86 La cifra che veniva richiesta per la
compilazione della domanda e la promessa di raccomandazione era fra le 400 e le 500 lire. Sempre più forte si faceva la pressione perché
venissero riaperti i termini per l’accettazione delle domande. A Castelforte addirittura il consiglio comunale espresse all’unanimità una petizione
in questo senso.87 In altri paesi scoppiavano le polemiche tra chi aveva già ottenuto l’indennizzo e chi lo aspettava, chi lo aveva avuto secondo i
suoi desideri e chi no, chi aveva subito danni e chi invece aveva approfittato della situazione. Nel fondo della prefettura di Latina si trovano
tracce consistenti di tali discussioni e liti nei paesi: una protesta da Lenola in cui si contesta l’elenco dei comuni ammessi al risarcimento (in
alcuni le truppe non sarebbero mai arrivate) e si denuncia una pioggia di «atti notori esibiti e contenenti false dichiarazioni di violenze subite». La
lettera trasmessa in via riservata al prefetto dal capitano dei carabinieri locale era stata mandata dal corrispondente del «Popolo» agli onorevoli
De Gasperi, Pella e Vanoni e si chiudeva con frasi significative. «E non può passare sotto silenzio, stimatissima eccellenza, le non poche e aperte
critiche che, imputate alla poca cura e capacità degli organi e delle persone preposte all’assegnazione degli indennizzi dei danni, o al sistema
adottato, si estendono in special modo al Governo e al Partito Democratico Cristiano. Ho ritenuto opportuno non pubblicare in merito alla
deprecabile situazione che si sta verificando circa l’indennizzo dei detti danni, per evitare inasprimenti di critiche, ma si rende necessario
stronc are ogni irregolarità di abuso, di percepimento di somme non dovute, sospendendo ogni erogazione che in atto si sta seguendo a titolo di
risarcimento danni di guerra arrecati dalle truppe marocchine».88

Da Itri il 25 settembre partiva un’altra missiva firmata questa volta da 34 cittadine e cittadini sui modi iniqui in cui il comune avrebbe diviso la
somma destinata. «Troppo palese è stata l’ingiustizia commessa per l’assegnazione delle indennità di risarcimento, per cui non si può restare
sordi a sì fatta evidente iniquità. Se è vero che al comune di Itri è stata assegnata una somma da essere distribuita a tutti i danneggiati si chiede
quali criteri sono stati adottati per le assegnazioni delle indennità da corrispondersi [...] perché si verifica che a persone le quali hanno subito
veramente danni, da come consta a tutti i concittadini, è stata assegnata una indennità inferiore a quelli i quali, detti danni, li hanno subiti in
ragioni trascurabili, senza considerare minimamente la consistenza economica di tutti i danneggiati. A voler esporre i casi che ci hanno indotti al
presente, e che sono innumerevoli perché purtroppo si è dovuto assistere ad un palese trattamento di favore per gli AMICI e col conseguente
danneggiamento di coloro veramente colpiti, ci vorrebbe molta carta e che noi invece vogl iamo evitare anche per non tediare la S.E.».89

Nella lettera i 34 firmatari si dichiaravano disposti a farsi sentire di persona perché convinti che gli amministratori attuali avrebbero trovato il
modo di giustificare il loro iniquo operato. Da Campodimele, uno dei paesi sicuramente più colpiti dalle violenze, il caso scoppiava l’anno
successivo, nella primavera del 1950. 57 donne firmavano una petizione inviata al prefetto di Latina, alla Camera dei deputati, al console
francese, al presidente della Repubblica, dicendo apertamente di essere state violentate nel maggio 1944 da elementi di truppe marocchine
(francesi), di aver avanzato la domanda di indennizzo per i danni morali subiti e di aver riscontrato diversità non giustificabili. L’elenco delle
donne era accompagnato dalla cifra del risarcimento ottenuto che variava dalle 60000 alle 149000 lire.90 L’incartamento che riguarda
Campodimele non s’arresta qui. Il 20 maggio dello stesso anno, cioè pochi giorni dopo la lettera delle donne, giungeva al prefetto di Latina una
missiva del comandante dei carabinieri accompagnata dall’articolo di un quotidiano sull’iniziativa delle donne di Campodimele. Nell’articolo si
cominciava a delineare il vero problema, che sarebbe risorto con ancora maggiore forza nel momento in cui le donne avrebbero avuto la
possibilità di richiedere la pensione.

Il dolore, la sofferenza patita dalle violentate era stata considerata alla pari con le altre offese; anzi, se non aveva lasciato tracce persistenti negli
anni, neppure più considerata. «Lo stato regolò i conti con le marocchinate così come li regola con i sinistrati di guerra: un inventario del danno
ed una liquidazione d’un centinaio di migliaio di lire. [...] nessuno [ora] si cura più di loro e l’assistenza è troppo lontana e troppo cara».91 Il
capitano dei carabinieri che inviava al prefetto l’articolo faceva il suo resoconto dei fatti. Le donne di Campodimele, la cui violenza era stata
accertata con sicurezza, erano, secondo lui, 85, di cui 5 erano risultate contagiate da sifilide e molte altre da blenorragia; tutte si lagnavano per
l’indennizzo «irrisorio».92 Qui si cominciano a delineare i problemi successivi e anche alcune parziali verità. È evidente che la cifra di 60000
richieste di indennizzo che emerge, come vedremo, da un dibattito parlamentare del 1952 non indica affatto le donne violentate, ma tutti coloro
che fecero domanda per ottenere il risarcimento per i danni subiti da parte delle truppe marocchine, ed è anche evidente, se si seguono le
contese documentate negli incartamenti della prefettura di Latina, che molte di queste erano probabilmente immotivate. Le donne violentate
furono comunque sicuramente nell’ordine di alcune migliaia. Tutto il grande imbroglio che ci fu dopo limitò i fondi che sarebbero stati utili a chi
aveva effettivamente sofferto e contribuì ad annacquare la vera violenza, dando anche alcuni strumenti a chi voleva negare l’accaduto. La storia
continuò poi con la pensione.

A queste stesse donne venne data la possibilità di chiedere la pensione come vittime civili di guerra. Il paradosso fu che la pensione poteva essere
ottenuta solo se la violenza aveva prodotto un danno permanente, poiché ricadeva sotto la legge che regolava gli indennizzi per danni arrecati
con «azioni non di combattimento dolosi o colposi attuate dalle forze armate alleate» secondo criteri stabiliti per gli infortuni sul lavoro (legge del
9 gennaio 1951, n. 10). Inoltre se si era ottenuto il risarcimento francese la pensione veniva negata o decurtata. Contro l’intervento di Maria
Maddalena Rossi, deputata comunista e presidente dell’UDI, che assumeva con grande forza e indipendenza il punto di vista delle donne, la
risposta del sottosegretario di stato per il Tesoro era vergognosa: «Le domande di pensione debbono essere istruite come richiede la legge:
bisogna accertare la veridicità del fatto, bisogna stabilire quali conseguenze il fatto stesso abbia lasciato, al fine di determinare quale trattamento
pensionistico debba essere praticato a colei che domanda la pensione, ed inoltre bisogna verificare, una volta liquidata la pensione di guerra,
quale sia l’importo dell’indennizzo. [...] È lo stesso caso di chi, investito da un automezzo alleato, abbia domandato indennizzo e
contemporaneamente abbia chiesto anche la pensione; ottenuta questa, quella qualsiasi somma che gli sia stata liquidata come indennizzo una
tantum gli deve essere realmente trattenuta».93

Valgono ancora oggi le parole di risposta di Maddalena Rossi: «Se l’onorevole sottosegretario ritiene che le sevizie inflitte a queste donne dalle
truppe marocchine siano in qualche modo paragonabili a qualsiasi altra sventura che la guerra può arrecare, per grande che essa sia, se crede
che questa sventura sia paragonabile a qualsiasi altro lutto o dolore di cui la guerra sia causa, mostra di non avere un briciolo di sensibilità. [... ]
Per queste donne non c’è conforto possibile. Si devono nascondere, come se si sentissero infette anche moralmente. [...] Non si deve confrontare
questa sventura con altre, piccole o grandi che siano, né tanto meno collocarla nella categoria degli incidenti. Altrimenti non basta più parlare di
insensibilità, perché si tratterebbe di parlare di cinismo».94

A questo punto tutto ciò divenne materia di lotta politica. Tracce consistenti di questa storia si trovano nei racconti delle donne oggi.

«Avevo ventitré anni... Ce rannu na miseria, na schifezza, cianne criticate tutti, cianne messo ’n mezzo a na via per tutto quello che abbiamo
subito. S’anne fatte meraviglia su di noi. Ricevene: malata, malate... Ringrezienne iddio so’ ancora viva e non so’ malata. Te pignavano e siccome
stavano riuniti a gruppi, ti vedevano e ti criticavano e schifavano che eravamo malate. Mo se ci mettiamo a raccontà non finiamo più. Chisto è nu
paese pieno di cattiveria, ci criticannu, ci mittinnu mezzo na via. Dicevano: chella ’nze sposa cchiù, chella è malata. [...] Mo me rannu na pensione
e 700000 lire più 254000 del fatto dei marocchini, appena dopo la guerra me revano 4000 lire. È na vergogna, massacrata e umiliata.95 [...] A noi
chi ci ha rovinate è stato il medico perché poteva scrive cose a nostro favore. Ad esempio la zia di L. ricevette la pensione subito perché la nipote
faceva le pulizie alla casa del dottore e quindi fecero degli imbrogli, fecero risultà che aveva subito due aborti dopo il fatto. Noi siamo scritte
all’ottavo livello, mentre chi s’era scheggiato una mano o con delle bombolette è iscritto al sesto livello e ricevono più soldi di noi» (Giovanna G.,
non si è sposata).

Il ricorso di una donna di Campodimele, cui era stata negata la pensione, ha prodotto una importante sentenza della Corte costituzionale. L’iter
del ricorso era iniziato nel 1966 e la sentenza arrivò soltanto nel 1987; ma i giudici accoglievano le ragioni della donna, rilevando una carenza
incostituzionale nel sistema pensionistico di guerra che non prevedeva un risarcimento dei danni morali e psicologici prodotti dallo stupro e
discriminava chi avesse subito una violenza carnale in tempo di guerra e chi l’avesse subita in tempo di pace, e finiva con il privilegiare situazioni
connesse a menomazioni dell’integrità fisica «assai meno rilevanti della compromissione dei valori non solo spirituali ma anche materiali, insita
nel danno prodotto da violenza carnale».96 La sentenza metteva in moto tante iniziative locali, moltiplicando i ricorsi delle donne... Anche per
questo oggi tornano a parlare.

«Ci devono pagare i danni morali subiti e sono ben sessant’anni che aspettiamo. Le carte sono tutte al ministero del Tesoro e se non le mandano
alla Corte dei Conti non si può fare la causa e nui moremo e i soldi ni vremo».

«Cianne pagà e danne morali. E quanne c’e danne? Quanne simme morte?»97
Parte terza

Riflessioni
11. Il racconto del dolore
Il passato oggi

Il ricordo della guerra rimanda a una dimensione straniante, ci si contempla come se si fosse stati altre persone: si rima ne increduli, ci si
stupisce nel vedere se stessi in una situazione impensabile oggi... Le guerre odierne, viste attraverso i reportage della televisione, fanno
riemergere le proprie immagini. Persone che scappano con i fagotti in testa, lacere, ferite... morti, bombardamenti e dolore diffuso... Sono
immagini apocalittiche. Così dissonanti rispetto alla vita oggi.

«Tutte chelli povere gente ca se verene pe’ televisione cu chelli pacche ’n cape, pure nuie c’avimme passate...»1 (Filomena Taglialatela).

«Chiane chiane me venene ammente tante cose. Aie voglia quanne n’emma passate! Madonna, scampece a tutte e guerre, manch’e cane, manch’e
cane! I verite chille che vanne fuienne dinte a televisione? Comme se chiamamene chisti... l’albanesi!»2 (Angelina Mignone).

«Brutto, troppo brutto... e guerre nun essano mai venì! Nientemeno quanno facettere veré chella guerra pe’ televisione, comme si chiama? Irak...
e facevene veré tutte chelli luci ca gghievene annanze e arete... ie assettata llà annanze a televisione me senteve male! Girai canale. Perché a
volte tu vedi chelli cose e te vene a mente o tuoie, chelle ch’è passate tu... e ie me senteve male, nun cia faceve. E poi sono cose che tu le hai viste
da bambino, è un po’ difficile che te le dimentichi quelle cose, non le puoi dimenticare facilmente... a me m’è rimasto sempe annanze a l’uocchie e
veré a gente morta in terra, e gente azzeccata vicino ai muri... nun m’o pozzo scurdà, e quanne o penze riche: ma perché è dovuto nascere tutto
questo?»3 (Anna Luongo).

«Quanne sente e ricere a uerra... Mo che stann’a fà tanta cose llà addo stanne, chilli llà nun e canuscimme nui... ma ie quanne sente e ricere
chelle, ie me vatte, accussì, diche: o chelle ca verereme nui, accussì stann’a veré sta gente»4 (Carolina Nardone).

«Eppure certe volte, quando sto così, mi metto a pensare a quelle cose che allora... Una volta l’ho raccontato ai nipoti, loro non ci credono.
Eppure dissi: guardate che questa è la realtà che il nonno vi racconta. Perché la guerra è una cosa tremenda, una cosa che...» (Giuseppe Cafaro).

Come ho detto nell’introduzione, la guerra è un evento liminale che spezza la vita. Il trauma rimane una ferita aperta nella storia personale, è
estremamente difficile effettuare quella che gli psicoanalisti definiscono «sostituzione simbolica». La sofferenza viene rimossa oppure ripropost a
per tutto il resto della vita. Nel primo caso evento e dolore vengono nascosti, appaiono nei racconti quasi di sfuggita. Nel secondo invece la
rappresentazione della morte emerge intatta quasi con l’immediatezza di allora. Come ci dice Giovannina Addelio che perse allora la mamma, il
papà, il fratello maggiore e due sorelline, «cheste pare mo... pare... cheste... ie quanne me vene ammente... pare proprio mo...»5

Le immagini della morte di m assa: corpi profanati, corpi insepolti

«Una scena orripilante e infernale si presentò sull’aia della masseria del Vescovo: morti e feriti a decine. I resti umani sparsi qua e là furono
raccolti alla men peggio, ricorrendo alle pale e ai tridenti, caricati promiscuamente su un carretto e trasportati al cimitero ove alcuni ebbero una
tomba, altri furono riversati in una fossa comune; furono contate le teste. Non tutti furono riconosciuti e vennero registrati nel registro del
cimitero e poi allo stato civile come ignoti. [...] Queste vittime non solo non ebbero alcuna onoranza funebre ma non ebbero nessun riguardo
umano: non lo consentirono né l’ora della tragedia essendo pomeriggio inoltrato, né il luogo essendo i profughi alloggiati alla meglio e privi di
tutto, né il numero delle persone, perché non si disponeva del quantitativo necessario di casse da morto, né le condizioni dei corpi maciullati,
mutilati, qualcuno decapitato, né infine la presenza dei gruppi familiari o di parenti, comunque pochi e pur essi feriti o vittime. Si caricarono
perciò alla men peggio i resti sul carretto per il trasporto al cimi tero, ove furono deposti in una fossa comune senza alcun rispetto umano, senza
alcuna compassione cristiana, senza distinzione tra resti umani e animali».6 Così Giuseppe Iannettone ricorda oggi il 13 luglio 1943, quando
Carinola, un’antica cittadina dell’alto Casertano, finì nel mirino dei bombardieri.

Il racconto pubblico della guerra aerea omette praticamente sempre la narrazione della morte. Capita anche ora con la guerra che ogni giorno
vediamo attraverso le immagini televisive: ci vengono descritte le terribili esecuzioni operate dai terroristi, ma sui corpi decapitati, maciullati,
distrutti dalle bombe quasi nulla.7 Chi invece ha vissuto un bombardamento ha negli occhi proprio quella visione. Nelle testimonianze raccolte
dominano le immagini dei corpi allineati a terra, dei camion carichi di cadaveri...

«A terra stevene e muorte accussì, stevene a terra.8 Poi coi camion venivano, li pigliavano da terra e li ammassavano come le galline» (Rosina
Monteriso).

«... i corpi furono addirittura accatastati, uno sull’altro. Non ce la fecero più e li portarono direttamente al cimitero» (Antonio Amoretti).

«Ce stevene tre camionette sotte e ’ncoppe ch’e crestiane ancora muorte arinte, chi steve cu na coscia fore, chi steve cu na coscia arinte, gente
che ievene llà, gente civile che i luvavene i scarpe ri piere e s’i pigliavene isse, ccà, dint’o paese. E tu se verive... ho detto: chi vere a guerra vere
a fine del mondo!»9 (Gaetano Graziano).

«E poi passavano i camion... queste sono anche cose che uno non può dimenticare, con dei lamenti di tutta la gente che era stata ferita, feriti, mo
là avevano fatto uno miscuglio forse. Gli ospedali erano tutti pieni e tu sentivi nu lamento quando passavano... faceva n’impressione enorme.
Passava per la salita di via Armando Diaz che poi dal porto li portavano alla Pignasecca, all’ospedale. Era impressionante» (Enrichetta Nerone).

I corpi ritornano continuamente nella memoria. Il loro smembramento, la loro distruzione sono gli elementi che più colpiscono e feriscono... Si
ricordano arti, pezzi di vestiti, particolari che rimandano a quello che è stato un individuo e a cui dopo la morte è stata negata identità,
compiutezza, riconoscimento.

«Quando scoppiò la nave nel ’43, io abitavo a corso Garibaldi, stavo affacciata al balcone e stava passando una famiglia che camminava per
strada, nu pate, na mamma e na figlia. La figlia teneva nu micillo ’n braccio... e nun e verette cchiù, scoppiarono anche loro con la nave»; «La
testa di un giovane e le gambe da un’altra parte»; «Si trovò una gamba e un braccio alla stazione di Bellavista e non si è mai saputo a chi
appartenevano»; «Da via Duomo si vedeva colare il sangue sui binari e nel palazzo dove abitavo giungeva la scarpa con un piede di un soldato»;
«Morì nella zona industriale e trovarono solo una scarpa col piede dentro»; «Si chiamava Pasqualino, lo trovarono tutto smembrato al quarto
piano»; «Poi uscii e vidi tutti morti, un braccio da una parte e dei ciucci morti pure... non posso dimenticarmelo la mano di quel braccio aveva lo
smalto». La mano con lo smalto rimanda a una storia individuale, a un soggetto che aveva desideri, cercava piaceri... nonostante la guerra.

A volte emergono immagini surreali che ci vogliono comunicare la dimensione anomala, incomunicabile di quel momento. Come nel racconto di
Maria G. sulla morte del nonno: «Po’ nun ve dico o fatte i mio nonno. Mia nonna... mia zia verette ca sbatteva ’n terra accussì, va a veré e nun ce
truvai cchiù a capa. A capa iette a fernì abbasce. Figurateve po’ a sera se ritirava uno e truvai nu piezze ’e carne ’n terra, dicette: oh, sarà d’uno
ca è fuiute e ha perso stu piezze i carne, cio porte a mugliera... – Vattenne vattenne... chella è a capa ’e don Vicienze! Vattenne vattenne chella è a
capa ’e don Vicienze! – Insomma chella capa, signora mia, iette a finì vicine o mure accà e allà. Che chille chiamava e nipote e ce tagliai a capa
proprie...»10

Poi – lo abbiamo già visto – ci sono i cadaveri umani profanati dalle bestie. È uno degli incubi ricorrenti nei ricordi, uno degli strazi maggiori, il
sacrilegio massimo.

«Dovettero abbattere alcuni porci, avevano cominciato ad assalire le persone, erano pericolosi per i bambini, per la fame si disse che avevano
mangiato dei cadaveri». «Furono ritrovati dei cadaveri mangiati da animali».11

«Però ho visto al mattino del 24 agosto, la notte fra il 23 e il 24 agosto da noi c’è una zona che si chiamava... le montagnelle, dove adesso c’è
l’INA casa, allora erano tutte campagne, io vidi la mattina un maiale con il braccio di una persona in bocca, perché c’erano proprio brandelli
umani sparpagliati per tutta sta campagna» (Alessandro Narducci).
«... allora vedevi nu muorte a destra, nu muorte a sinistra... e dopo pochi giorni i maiali, che stavano in paese c he allora tutti tenevano i maiali,
portavano le teste di noi umani in bocca, dinte o paese...» (Gaetano Graziano).

La guerra capovolge i valori e le consuetudini del tempo di pace. I corpi abbandonati, portati sui carretti, sui camion, senza bare o con bare
improvvisate stridono con i rituali della morte dei tempi di pace.

«Figuratevi che il padre li portava ’ncopp’o carretto tirato da un asinello. Li portava così, senza bara, senza niente... – ... le gambe uscivano al di
fuori del carretto. – Sì, pure e braccia, e braccia accussì... E accussì e menavene ’ncopp’o carrette e... po’ ’ncopp’o cimitere...»12 (dialogo fra
Carolina Nardone, Franco Valeriani e Gaetano Graziano).

L’immagine terribilmente realistica dei corpi senza vita che sobbalzano sul carretto ci trasmette l’idea della morte e insieme dell’abbandono:
abbandono dei corpi e abbandono di ogni forma rituale. I carretti, tristemente trascinati da un familiare verso il cimitero, popolano i racconti.
Ecco la fredda testimonianza di un padre, resa nel 1944 alla stazione dei carabinieri del quartiere di Ponticelli (Napoli) sulla morte dei figli per
mano tedesca: «Il 29 settembre avuta notizia che i tedeschi avevano barbaramente ucciso i miei figli Giovanni di anni ventinove e Carmine di anni
ventuno, feci di tutto per recuperarne i cadaveri. Ciò mi fu possibile farlo il giorno successivo. Raccolsi i cadaveri dei miei figli da solo,
trasportandoli al cimitero con un carrettino a mano. In via Luca Giordano un signore regalò cento lire a dei ragazzi per farmi aiutare a spingere il
carrettino. Giunto nei pressi della fabbrica di munizioni del dott. Achille Iacobucci, dovetti trasportare i due morti sulle spalle, uno alla volta,
perché la strada era interrotta».13

Poi c’è il dolore di non poter dare una degna sepoltura ai familiari: «No, non c’era niente, nemmeno o sacerdote non c’era, non c’era nessuno,
pecché i due ponti erano a terra e quindi a Cancello non c’era nessuno, qualche famiglia, eravamo sì o no sei o sette. Eravate isolati? Sì, sì, isolati
proprio. [...] La portarono [la mamma] in un portone affianco, pecché addu nuie ccà steve tutto a terra e llà pure a terra steve, però c’era na
casetta mezza diroccata e allora l’hanno presa e papà aveva fatto fare un cassettino, pensava che trovava qualche cosina, invece ha trovato lei
proprio intatta, intatta che si conosceva. Mia zia l’ha tolto gli orecchini, ha tolto la fede, si conosceva proprio i vestiti uguali, era intatta lei. Allora
papà che ha fatto? Un vecchio, che era nu mezzo falegname, diciamo, no? E allora ha costruito una bara, diciamo una bara, quatte casse e ce l’ha
messe dentro e mi ricordo che mia zia questo diceva, diceva: con tutti i tuoi sacrifici... perché lei era instancabile, aveva cinque di noi, ma lei
lavorava sempre, era na donna instancabile, poi era giovanissima, chelle nun teneve ancora trent’anni, quindi era giovanissima proprio. Allora
mia zia piangeva, diceva: nun t’amma fatte nemmeno nu funerale, niente amma putute fà! E così po’ amma purtate al cimitero e l’amma messa
dint’a tomba noste i famiglia» (Maria Teresa Di Caprio).

Molti cadaveri furono rinvenuti addirittura alcuni anni dopo, moltissimi non furono mai trovati. La mancanza del corpo e, quindi, di una sepoltura
adeguata produce una sospensione del ricordo, una ancora più grave impossibilità di elaborare il lutto. Sono stati consultati maghi, indovini,
fattucchiere. Le vittime disperse sono tornate regolarmente nei sogni di parenti e vicini. Hanno indicato il luogo in cui sono state uccise, hanno
esortato a cercarle... Il sogno tiene in vita il colloquio con morti che non si sono potuti onorare... e fioriscono le leggende. I sogni hanno un grande
ruolo nella storia e nella memoria della guerra.

«Giacumine iette ’n suonne a nu cugnate ru suoie e dicette: ie stonghe abbasce llà, abbasce o Chiavecone, i mericane m’anne ittate llà. Ma po’ si
è suonne o è la verità non lo so, però nuie a Giacumine nun l’avimme truvate cchiù»14 (Maria Mandato).

Una donna fu sepolta dalle bombe nella chiesa di Cancello, il marito scavava inutilmente. Lei comparve in sonno alla figlia e disse: di’ a papà di
scavare vicino al cuore di Gesù. L’uomo seguì le indicazioni della moglie e la trovò proprio nel punto indicato. Un bambino morto nella stessa
chiesa era disperso e la famiglia sconvolt a dal dolore. «Anni dopo, durante il restauro della chiesa un muratore forestiero rimase a dormirci, la
mattina il parroco lo trovò sconvolto seduto sugli scalini e gli chiese perché stava lì a prendere freddo, quello rispose che aveva preso paura come
mai nella sua vita, un ragazzino biondo della stessa età del piccolo durante la notte gli era andato vicino e gli aveva chiesto di mandare a dire a
sua madre di non stare più in pena perché lui stava bene, proprio perché era lì, nella chiesa».15

La morte dei cari: le parole e il silenzio

Sono soprattutto le donne, cui nella vita è in genere affidata la cura dei corpi, a offrirci una narrazione precisa, tenera, struggente, del momento
della morte o della visione dei cadaveri smembrati del proprio caro, quasi a voler esprimere oggi quella pietas che allora non potettero
esprimere, quasi una cura postuma del corpo amato nel ricordo.

Giovannina Addelio di Bellona, un piccolo paese della provincia di Caserta, perse in tre diverse occasioni la madre, due sorelline, il padre e il
fratello maggiore, fra il 26 agosto e il 3 ottobre 1943. Lei aveva allora quindici anni. Il 26 agosto la famiglia stava raccogliendo fichi, quando
arrivarono gli aerei americani; lei e il fratello più grande scapparono nella vicina masseria, la madre rimase vicino a un albero con altre due figlie.
«A fine re bumbe asciette fore addò stevene l’animali e veriette papà che veneve e zi Ntonie. Rice: po mai essere che chelle sta sotto a chella
pianta? Giuvannì, Giuvannì, ricette, mammete addò sta? Addò, addò? E abbiaie a chiagnere. Iereme llà, ie vicino nun ce arrivaie. Guardate, nun
ce facerene arrivà, iereme llà. Mammà teneve o renocchio dint’a gunnella e steve accussì... co’ muzzeche i pan e ’n vocche, chella ninne nun a
veriette proprie e a fine re cunte po’ ce piglierene, ce purterene a masseria e nun iette cchiù. Po’ ierene c’a barrelle, i piglierene li purterene
’ncopp’a via Nova, passere o camion. Tanne murette pure zi Ntonio i Cicielle, chella iurnata, murette, allora le carecherene ’ncopp’o camion e le
purterene o cimitero. Cheste pare mo... pare... cheste... ie quanne me vene ammente... pare proprio mo... è stata a guerra, ita capite?»16

Il padre raccolse e compose le salme, venne ucciso lui stesso pochi giorni dopo dai soldati del fronte avverso. «O 26 auste ce steve papà... e po’...
chille a vita nun s’a curava cchiù. Tutte quante facevene: Francì miettete... annascunnete... statte... È morta mugliereme e aggia murì pure ie. E
ieve guardanne le pecore o 3 ottobre, i 26 auste e 3 ottobre, verite quanta iuorne so’ passati, o sparerene proprie vicino alle pecore, abbasce San
Felice, e tedesche. Mia sorella e mio padre ievene guardanne e pecore. E po’ venette mia sorella, ricette: u nò, u nò! – Che ie? – Ricette: hanno
sparato a papà. È muorte o è vivo? Ricette: l’aggia rimasto ancora vivo. E chille faceva: papà ma che glié? Ricette papà: piglia le pecore e portale
alla masseria. Allora u nonno e mia sorella iettene llà, piglierene le pecore e li purterene a casa, po’ piglierene u traino, metterene e panne sotto,
piglierene u traino, ierene llà e o purterene diritto o cimitero, o metterene o lenzule ’ncoppe... e o purterene o cimitero. Po’ i 7 ottobre i tedeschi
piglierene mio fratello Ernesto. Stette duie o tre iuorne che nun s’arritiraie, a matina i tedeschi ievene casa pe’ casa, ievene verenne i cristiani pe’
dentro. Mio fratello veneve da campagna, arrivaie o centro ro paese, o piglierene e o accererene dinte i 54».17

Il racconto è asciutto, esprime l’ineluttabilità delle morti, la durezza della guerra, dove non rimane il tempo per il cordoglio e il rituale della
morte si fa secco ed essenziale come le parole oggi. «Andarono con la barella, le portarono sulla via Nuova... le misero sul camion e le portarono
al cimitero»; «Andarono col traino» e (la morte vien e sottintesa, non detta) «lo portarono direttamente al cimitero»; «Veniva dalla campagna,
arrivò al centro del paese, lo presero e lo uccisero fra i 54». Nessun commento. Anzi la morte in campagna, mentre si sta lavorando, con le bombe
o con i tedeschi pare anche più triste, più desolata, perché non si inserisce in un cordoglio collettivo, non lascia il tempo di commemorare e
onorare il defunto.

Le morti in guerra o, meglio, le morti in genere non sono uguali nella memoria pubblica. Ernesto Addelio è onorato nel sacrario dei «martiri» di
Bellona,18 poiché la sua esecuzione può essere compresa in un discorso pubblico. Sugli altri è sceso il silenzio pubblico, il ricordo si esprime
attraverso le parole tenere del linguaggio familiare. Continua Giovannina Addelio: «Quanne facerene e bombe, state a sentì, quanne carerene le
bombe, venette o nonno sotto a pianta, verette a ninne, chelle i cinche anne, me pare che tanne teneve cinche anni, o curpecciulle steve sott’a
pianta ’e fiche e a capuzzelle nun ce steve, a struncaje, a struncaje proprio, allora addò a truvaj e o nonno? A truvaje sotto a na pianta i aulive,
pigliaie chilli capellucce e i mettette vicino o curpecciulle. Riceve o nonno, riceva: teneve l’uocchie intatti proprio, apierte i teneva. Secondo me
quando avette a scheggia ’n cape, etta sta cu l’uocchie arapierte. E o nonno pigliaie a capuzzella e a mettette vicino o corpecciulle».19 Le parole
di oggi esprimono ancora la tenerezza triste del momento. Un corpicino vivo e vispo come quello di una bambina di cinque anni e poi la bomba;
gli occhi ancora aperti nello stupore di fronte alla morte. E la compassione, la cura verso i corpi cui non si può riservare un funerale più degno.

La tenerezza si coniuga con il riserbo, si esprime attraverso un lessico domestico, privo di enfasi retorica, e produce un linguaggio essenziale,
poetico, come i n questi altri brani.

«Non me lo posso mai dimenticare, truvaie mio fratello a terra cun nu pare d’uocchie sgranate, isso po’ me facette segno con la testa e po’
murette» (Rosina Monteriso).

«Rusenelle carette ’nterre affianche a me, e ie teneve a mane ’e chelle ’n mane, e senteve a ch este che mureve e ie puteve parlà, chelle nun
potette dicere niente cchiù, steve ca bocca cchiù chiusa [...] Senteve che a mane ’n mane a me faceve ttttt e accussì tremmave e murette e na
veriette cchiù»20 (Vincenzina De Micco).

Le parole descrivono con grande efficacia la vita che se ne va, così, in un soffio. Il dialetto, il passato remoto con i suoi stacchi, la sua definitezza
sono straordinari nel raccontare i tempi e le forme dell’evento.

Vi sono tuttavia anche morti tragiche e terribilmente vicine che vengono appena accennate, narrate con brevissime, fuggevoli espressioni. È un
altro modo di affrontare il trauma della perdita: non si trovano parole per descrivere, si considera il dolore troppo grande per esprimerlo, o lo si
rimuove più o meno consapevolmente.

«Nel primo bombardamento di sera, un’altra volta a bombardà a stazione e in quel caso morì mio padre. Poi stava al 7 settembre, poi il giorno
dopo fu fatto l’armistizio». Lodovico Fune ricorda così la morte del pad re, quasi tra parentesi, e passa subito ad altro. La giovane studentessa
c he lo intervista non ci può credere, prova a sollecitarlo... E lui risponde: «È morto alla stazione. Il secondo bombardamento della stazione fu di
sera e durò assaie assaie... e mio padre... pure allora lo sapevamo... dice a gente secondo le leggi di riparazione, per la protezione antiaerea...
dice mettetevi sotto l’archi d’a porta in modo che mantiene di più... chille s’andò a riparà ’ntu palazzo e piglie e fu bombardato quel primo palazzo
dei ferrovieri [...] Andarono i vigili del fuoco scavarono e siccome c’era tanto materiale, chille rantolava... Insomma se lamentava. Poi venne un
secondo allarme e se ne scapparono... andarono di nuovo più tardi... insomma s’u purtarene pure all’ospedale, ma era morto... erano trascorsi
cchiù n’ate tre quatt’ore pe’ scavà, per togliere da sott’e macerie, a scalinata s’era rotta...21 Mo che succede mo? Il giorno dopo, l’8 settembre ci
fu l’armistizio...» Il tono non è cambiato: il giorno dopo ci fu l’armistizio, e il racconto continua, come molti altri racconti di chi fu
improvvisamente scagliato nel turbine della guerra totale.

Savino Esposito era marinaio quando fu rimandato a casa per constatare la morte di tutta la sua famiglia: «Io stavo a Spezia. Una sera stavamo in
bombardamento, si sparava, si faceva, ma io mi sentivo già un pochettino disturbato. Quando è stato il giorno dopo mi ha chiamato il segretario
dicendomi: Esposito vieni in segreteria. Il comandante stava seduto dietro la scrivania e mi dice: tu di dove sei? Gli risposi che ero di Napoli,
precisamente di Ponticelli. Dice: ma quanti siete in famiglia? Gli risposi che eravamo solo io e mia moglie. Allora lui mi disse che dovevo andare a
casa. Dissi: e come signor comandante, se voi mi dite che sono sospesi i congedi, le licenze, come fate voi a dire... Dice: no sai c’è un problema,
non è niente di preoccupante... Tuo padre si è trovato in un bombardamento, ma è poco di niente, ma tu de vi andare a casa. Be, e io sono partito.
I bombardamenti... si scendeva dal treno, non si poteva viaggiare, fermati nelle stazioni... bombardamenti accà e allà, i tedeschi... nun se capeva
niente. Sono arrivato a Napoli e la gente, che c’erano parecchi di Ponticelli, a bonanema ’e Peppuzze ’e Febbrare, che mi guardava da sotto a
stazione vesuviana e mi guardava cos ì... Sono arrivato a Ponticelli e tutta la gente mi guardava, mi guardava... Ma, dico, come mai? Comunque
arrivato qui vicino a casa mia, a vico case Riccardi, vicino al vico ho incontrato mia zia, la sorella di mio padre, tutta vestita di nero e: figliu miu si
ruvinate! Allora io mi sono chiesto che cosa fosse successo. E mia zia mi ha detto che dovevo andare verso via Napoli dove stava la mia famiglia.
Arrivato a casa mia, trovo mia moglie vestita di nero... piangeva, gridava... così ho saputo il fatto che era morta tutta la mia famiglia. Sono andato
a via Napoli e ho visto tutto a terra, tutti bombardamenti, da vicino o palazzo dove c’è il bar, fino a tutta via Santa Croce è stato tutto scarrupato.
[...] Ho perso una famiglia di cinque persone, dopo ave r fatto otto anni di militare, ho perso mamma, papà, due sorelle e una nipotina, una
proprietà... fortuna mia che sono rimasto vivo».

Nel racconto di Mario Piccolo, anch’egli soldato di Ponticelli, le morti compaiono così, come tra parentesi: «Comunque erano cadute le bombe a
Santa Croce e sotto le pietre c’erano mamma e papà e arrivai a Napoli».

Cesare Giorgio ha perso la madre e cinque tra fratelli e sorelle il 3 febbraio 1943, in uno dei terribili bombardamenti a opera degli americani in
via Duomo. «Io lavoravo quando incominciarono i bombardamenti... Arrivaie a casa ca già erene cadute le prime bombe, arrivavene prime le
bombe e po’ sunavene e sirene, ere difficile e se salvà. Tutte le macerie, tutte fierre, tutte carute, nun verette niente... Mio padre anche lui stava
lavorando e si salvò, mio padre, io e due sorelle. Una mia sorella stava sopra (la trovarono viva sotto le macerie), un’altra era andata a prendere
l’olio, o rieste steveno tutte quante in casa e morirono».

Il racconto dell’episodio si chiude qui con un taglio netto: e morirono. Niente sul dolore, sul cordoglio. Si passa ad altro argomento. Quasi identica
è la struttura narrativa della testimonianza di Raffaella M., che allora abitava in piazza Mercato, zona uscita dalla guerra pressoché distrutta:
«Una sera mentre tornavo a casa dal lavoro vidi tanta gente che scappava perché era caduta una bomba proprio sul mio palazzo. Io sapevo che
quando buttavano le bombe si scappava o sotto il rifugio a piazza Mercato o, se si aveva tempo, alla Ferrovia. Mia madre non ce l’aveva fatta
neanche ad arrivare a piazza Mercato, infatti era morta sotto il palazzo crollato». La testimone continua poi con la descrizione di altri episodi
della sua vita; anche nel suo racconto dolore e dramma vengono eliminati.

Analogo il tono della testimonianza di Anna Garofano: «Poi quando hanno finito gli americani sono venuti i tedeschi a bombardare ed hanno
bombardato la mia casa con una bomba di cinquecento chili che buttò giù tutto, non esisteva più niente. Mia madre e mio padre si trovavano per
le scale, furono feriti e li portarono al convalescenziario di Torre del Greco senza nemmeno farceli vedere e là pochi giorni dopo morirono».

Come è stato più volte sottolineato, può essere difficile esprimere e rielaborare un dolore così intenso, un’esperienza così dilaniante. Il trauma
produce una disarticolazione della propria esperienza, una «memoria spezzata» che diviene un «discorso disarticolato».22 Un testimone che ha
perso padre, sorella e nipote sotto le macerie della sua casa, rievocando l’immagine dei corpi mutilati dice: fu un dolore che ancora oggi non
riesco a esprimere. Nel caso di Elio Branco, che ebbe il padre e otto, tra fratelli e sorelle, travolti dal bombardamento di Cancello Arnone, l’afasia
e la paralisi furono reali, i sentimenti di perdita, il senso della vita spezzata si trasformarono in espressioni corporee. «Io quanne so’ arrivate
m’hanno mise ’ncoppe a na carrette, so’ arrivate a casa ma non lo sapevo, so’ arrivato a casa, po’ m’anna ritte...23 che non me lo avevano detto...
e chianu chianu mi so’ quasi paralizzato, una cosa terribile! [...] sono stato quattro mesi che non capivo quasi niente, m’ero così confuso che è una
cosa straordinaria... È stato una cosa... grande... io ho perso mio padre, nove in tutto nella mia famiglia e mi so’... quasi quasi mi so’ paralizzato».

Madri e spose: rappresentazioni simboliche

Tutto il dolore della guerra si esprime nella rappresentazione del dolore delle madri. È l’immagine della mater dolorosa che simboleggia e
catalizza su di sé il dramma della morte. Appaiono sullo sfondo le figure della tradizione religiosa: la deposizione dalla croce, Maria che piange,
Maria che segue coloro che portano il corpo del figlio.

«Mammà era un’addolorata... mammà camminava dietro a papà come quando Gesù Cristo steve ’n coppa a croce... per me era a stessa cosa»
(Giovanni Imperatore).

«La moglie di Giudicianni, la signora Giudicianni portò il figlio e il marito sul carretto. Furono uccisi un padre e un figlio, Giudicianni, il padre e il
figlio, il figlio era un missionario, e li misero subito sul carretto... La mamma di Isidoro portò il figlio e il marito sul carretto, lei spingeva il
carro... il carretto, lo spingeva fino al cimitero. La seguivano gli altri figli, Isidoro, Mario, Peppino, Eugenio e la figlia Maria, li seguirono fino al
cimitero. Man mano che si avvicinava, si sentiva la voce di questa donna che gridava: che m’hanno fatto? che m’hanno fatto? che m’hanno fatto?
Mio marito, mio figlio l’hanno ammazzati! Sembrava una tragedia, insomma... questa donna che portava al cimitero...» (Franco Valeriani).

Le madri che aspettano, altra raffigurazione simbolica della sofferenza:24 «Venne il postino, gentilmente, troppo buono è stato stu postino, che
poi, salute a noi, è morto e doveva andare all’inferno e no dov’è andato, chissà... portò a lettera a mia mamma che mio fratello era irreperibile.
Mammà da quel giorno si mise sulla sedia e non uscì più. E da quel giorno mia mamma è uscita quando, salute a noi, mia mamma è morta. Perché
la lettera la ebbe proprio mammà. Mammà era desiderosa di avere le lettere di mio fratello. Quello il postino: donna Carmé, donna Carmé tenghe
a lettera pe’ vuie! Tu sai ca è na lettera ’e guerra e a rai ’n mane a na mamma, ca ce steve papà, steve ne e sorelle mie. Quanne mammà a pigliai,
steve scritte: irreperibile. Poi arrivarono i carabinieri a casa e ci portarono il nastrino tricolore vicino: questo è tutto. Fine della mia storia»
(Antonietta Brandi). Il fratello di Antonietta Brandi morì il 28 marzo 1941 nell’affondamento della nave che lo portava in Africa.

Le madri che proteggono, che salvano.

«Stevene i tedeschi accà, chille stette nu mese ca nun s’arritireve mai a case, steve na galleria ’ncopp’a montagna. Stevene dint’a chella galleria
annascuse, che evana paura ri tedeschi. Chella sera s’arretereve a case, o 6 i ottobre s’arritireve a casa, pecché riceve mia mamma... mia mamma
i purtava a mangià, metteva dint’a nu caniste, chilli stevene annascuse llà e i purtave a mangià. Mo – riceve mia mamma – mo cocche vote t’ai
venì a cagnà, te fai na lavata. Faceve isse: mà, io me mette paura e me ne venì. Chella sera se ne venette. Chella sera s’arritiraie, se lavaie, tutte
cose, se cagneie, e sule chella sera ’ropp’a nu mese verette o liette pe’ se cuccà. A matina, primme re seie, già venevene e s’u piglierene. Mio
padre steve ancora cuccate, dicette: sentite na cosa, ma pecché vi pigliate o ragazzo che è piccolo, rice, pecché nun ve pigliate a me? Dicette isse:
che n’imma fà ’e vuie? Ricette: nuie amma truvà e giuvene c’anne a faticà, l’imma purtà a faticà. Allora ricette mio padre: e na marenna se l’adda
purtà? Se ne vene senza mangià? Dicette isse: nun ve preoccupate ru mangià che faticane e mangiane. Ita capite? Pe’ nun fà capì chelle che
ievene fà.

S’u piglierene e o purterene in piazza, li metterene tutti in piazza e llà ce ne stevene assai, erano cchiù assaie di 54, tutti in mezzo a piazza e
metterene, poi i purtarene dint’a cappella i San Michele. [...] Mia mamma curreve appriesse, mia mamma facette a marenna cia purtaie dint’a
cappella i San Michele, o facette pure mangià, isse mangenne mangenne s’o piglierene e s’o purterene llà. Accererene crestiane gruosse,
crestiane piccule, fratreme quindici anni, accererene n’atu ninne trirece anne, n’atu ninne unnece anne, llà se verette a fine ru munne. Sette o
otto sacerdoti... miereche, tutte, accererene nu sacche ’e cristiane... 54 ita capì? 54 cristiane, i mierece, i prievete, muonace... Chille che erano
stati sotto alle armi a fà a guerra e s’erane arritirate, tutt’accise llà»25 (Carolina Nardone). Valentino Nardone venne rastrellato e ucciso nella
rappresaglia di Bellona il 7 ottobre 1943. Quello stesso giorno la famiglia fu evacuata con il resto della popolazione. Dell’esecuzione si seppe solo
molti giorni dopo. Allora, racconta ancora la figlia Carolina, la mamma «quando era mattina, pigliava il pane, pigliava qualche cosa... un fico
secco... e andava a casa nostra. Andava a casa e chiamava: Valentì, Valentì! Che volete, Valentino, quello non c’era più!»

La mamma di Valentino è un’immagine concreta strappata alla retorica che in genere aleggia intorno al soggetto. Il suo affetto, la sua ansia sono
concretamente rappresentati nella preoccupazione del cibo: la mamma lo seguì, gli portò la merenda fin dentro la cappella, lo fece mangiare, e
mentre lui mangiava, venne portato a morire. Anche nella testimonianza di uno dei sopravvissuti dell’eccidio, Giuseppe Cafaro, compare la
mamm a a portare il cibo e in questo caso il cibo è salvifico, porta anche la vi ta. La madre riesce a condurlo via con sé.

La lotta delle madri e delle mogli con i soldati per la difesa di figli e mariti è un elemento chiave nella narrazione della guerra. Donne che salvano
gli uomini dai rastrellamenti, donne che accolgono soldati sbandati, madri e mogli che strappano letteralmente i figli o i mariti ai razziatori.
Fastidiosa, ovviamente, quando si fa retorica ampollosa e avulsa da fatti e figure concrete, la raffigurazione rimanda però a un riferimento reale:
le madri, le mogli e le donne in genere sono i soggetti portanti di quella resistenza civile di cui si è parlato.26

Sono ancora le donne spesso ad accompagnare i corpi dei loro cari al cimitero. «Ci stava mia sorella, ci stava mia mamma, ci stava mia cognata
Angiulella, la moglie di mio fratello. Lo misero in una cassa e mia sorella si mettette ’n capa la cassa e lo portarono al cimitero. Fino ’ncopp’o
cimitero o purtava ’n capa». «Ci fu una donna... quella donna quando cacciarono il marito – si chiamava Cafaro Benedetto il marito – quando lo
cacciarono lei se lo mise in testa... la bara, no? Se la mise in testa e arrivò al cimitero, se lo portò lei al cimitero». L’immagine delle donne con la
bara in testa è di enorme suggestione. È una sorta di icona che non ha bisogno di commenti. Rimanda a un ruolo e a una forza che difficilmente
potrebbero essere tradotti in parole. È, ovviamente, anche l’immagine di un tempo molto molto lontano. Di una realtà che riemerge dal passato
come se si trattasse di un altro mondo...

Si tratta di racconti asciutti, privi di qualsiasi enfasi. Sono un resoconto sulla «guerra totale». Non filtrati da un linguaggio di tipo nazionale,
rispecchiano la vision e del soggetto, della famiglia, del villaggio... Troviamo parole e frasi dense di simboli, intessute di cultura quotidiana,
scarsamente influenzate dai modelli nazionali.

«Ie agge spusate o ’41 e mia figlia Enza nascette o ’43, passarono due mesi e i tedeschi se pigliarene mariteme, e tutti i giovani, anche se sposati,
e se li pigliarono tutti. I poveri giovani li facettero salire sul camion e loro si credevano che andavano a faticare, invece li portarono nei campi di
concentramento e se la videro malamente, chi è morto, chi no, parecchi giovani non tornarono più. Quando sono andati là hanno fatto dieci giorni
nei carri bestiame, senza i seggiolini, e là dormivano la notte, fino a che non arrivarono in Germania, dieci giorni senza mangiare e senza niente,
se la verettero malamente. Ebbi una cartolina, non so dopo quanto tempo, la mandò per la Croce Rossa, quando qui aveva fatto la cenere e lui
voleva sapere se veramente aveva fatto la cenere, Enza come cresceva... poi facette... era una cartolina postale, chissà comme arrivai, allora non
passavano proprio le lettere... e me facette o disegne ro musse, e tanne e cerimonie nun se facevene, e scriviette:27 baci a questo posto che ho
baciato io. Solo quella cartolina per tanto tempo. Con i carri bestiame arrivarono fino al Brennero. Mio marito fu preso il 23 settembre ’43. Solo
quell a cartolina per tanto tempo...» (Anna D’Andrea).

Quell’anno, 1943, Anna D’Andrea perse il cognato, una sorella e i genitori, una vicenda raccontata con poche parole, senza alcuna indulgenza
retorica, come d’altronde quella, or ora citata, del marito rastrellato e deportato in Germania nella grande razzia di Castellammare di Stabia:
«pigliarono mio marito, li fecero salire sul camion, se la videro malamente». E per esprimere un sentimento di amore la cartolina postale: «il
disegno della faccia, allora non si facevano tante cerimonie, bacia in questo posto che ho baciato io».

Maria Villano nel 1943 aveva ventitré anni, era sposata da due e aveva un figlio di pochi mesi. La sua storia è una vera e propria metafora della
guerra sulla linea del Volturno. Perse in pochi giorni il marito, il figlio e il fratello. Marito e fratello nella rappresaglia tedesca di Bellona, il figlio
per la malattia che lo colse al momento dell’evacuazione quando nessuno poteva curarlo: una vittima coll aterale. Lei ci racconta questa tragedia
con pochi delicati tratti. «Teneveme a campagna, e mucche, tutto! Però rettene o sgombro e ce n’ereme venì a Bellona... ce ne simme iute, e mio
marito e mio fratello so’ iute dinte a nu ricovero, addu dottore Rocco, chella iurnata che a sera erene accise a stu tedesco e l’erene accise rinte...
Uno n’enna accise e n’ate l’erene ferite... o ferito è iute a ricere o comando che l’evene accise dint’o paese, anna rate l’ordine e l’anna mannate...
enne mobilitate tutt’o paese... ricoveri, tutto! L’anne truvate llà dentro, l’anne pigliate, e dicevano pe’ nu fà spaventà a pupulazione che i
purtavene a lavurà; invece nun era o vere! Piglierene isse e mio fratello, tutt’e due, però nun sule isse, tante ce ne stevene, pure o padrone ro...
Pure o dottore Rocco anne prese e dicevene che erane ì a lavurà, invece no! L’erene purtate a na parte, dinte a cappella i San Michele, a Bellona,
po’ da llà li hanno po rtati fuori Bellona e po’ a dieci a dieci l’enne purtate ’ncoppe a cave e l’enne ammazzate. Ricevene che l’erene purtate a
lavurà, invece nun era vero. A matine ce simme spartute, e nuie steveme a fà o pane – che poi ce n’ereme ie pure nuie – e po’ nun l’aggia viste
cchiù. E poi l’aggia viste quanne l’imma iute a caccià a dinte a cava».28

Il piccolo di pochi mesi, malato, era curato per tragica ironia della sorte proprio dal dottore rastrellato insieme al marito e al fratello: in quei
giorni terribili, quando l’unica possibilità era quella di fuggire per le montagne nelle grotte, il bimbo si aggravò, non ci fu nessun medico che lo
potesse curare e morì. Anch’egli fu dunque una vittima della rappresaglia. «Po’ roppe vinticinque iuorne è muorte pure o creature, pecché fuieve
sott’e ricoveri, po’ o dottore c’o steve a curà murette... o occererene pure a isse e allora o criature fu... [...] Ie me so’ spusate a ventun anni e m’è
succiesa a disgrazia a vintitré anni, teneve nu creature e m’è muorte pure o creature...»29

Il commento sulla morte del marito è poetico e struggente: «Secondino quanne nuie ereme fidanzati, pecché sei anni c’ereme vulute, e allora ce
steve sempre cacche litigie pe’ mieze, caccherune che vuleve mettere cacche... allora riceve isse: nun te preoccupà, pecché sule a morte ce pò
spartere a nuie. E ie me vutave, riceve: chelle che vò Die. E a morte ce spartette».30

Ancora un racconto, quello di Giuseppina Romano che perse il marito nella campagna di Russia: «Il 30 ottobre 1940 mio marito ebbe il richiamo
per andare a fare la guerra. E lo mandarono sul Don... il primo combattimento. Lo mandarono in Russia e da quel giorno non ho saputo più
niente. Ebbi solo una lettera che diceva... c’era un amico che s’avevano incontrato là all’ospedale, che erano molto gravi. Tutti avettero o
rimpatrio, e mio marito stava in condizioni di non poter viaggiare. E là finì. Da ottobre del ’40 a mio marito l’ho visto poco e niente, perché... io
tenevo ventun anni, ero incinta a Tommaso... Mio marito mio figlio non lo conosce proprio. Io ci mandai na fotografia là, prima che moriva. Prima
di andare sul Don li sbarcarono a Gaeta. Tanto è vero ca a Gaeta, lui stava là e disse: guarda Geppì, io mi trovo a Gaeta. Ie ce feci na bella cosa
chiena e mangià. Dicette ie: Gaetà nun te movere. Io vengo, ti vengo a trovare. Ci diamo un saluto. Perché poi stavano in clima di partenza. E ci
portai mangià, rrobba e tutte cose. Io povera crista! Io vado fin’allà e loro erano appena partiti. Li portarono prima a na città ca è tanto
conosciuta, prima della frontiera, che adesso non ricordo... lì sul Don c’era uno che era partito con lui, che era delle Fontanelle, che faceva il
fruttivendolo. Questo partì insieme a lui. E chillu llà fu ferito a una gamba. Allora quando finì la guerra, non so c hi diede l’ordine se i russi o gli
italiani che dovevano rimpatriare tutti i soldati che potevano partire. Quanne chistuccà partì e venne in Italia, ci stava uno ca se chiama Pasquale
o cappellaro, mo sta a Milano, questo era n’amico di quello... lo zoppo lo mandarono, mio marito non potette partire perché aveva avuto il
congelamento di tutta la faccia. Allora stu Pasquale venne da papà e disse: signor Armando vi debbo dire na cosa. Ci sta nu soldato che vuole
portare qualche notizia di Gaetano. Rispose mio padre. E fatelo entrare. E entrò e dicette: guardate Gaetanino mi ha dato questa fotografia. La
fotografia di Tommaso quando era ancora piccolino, appena nato insomma. – Io sono stato ferito ad una gamba e mi sono potuto imbarcare, lui
non si poteva muovere, perché teneva tutto un congelamento alla testa e alla faccia, teneva la lingua così gonfia. – Stava in fin di vita insomma e
non poteva partire. A tutti i soldati gravi li rimasero in Russia, solo questo so. Dopo tanti anni mi mandarono a chiamare e avetti pochi soldi de
l’alzabandiera. Quando uno ha il premio di vedova di guerra. E da allora mi diedero pure il libretto di pensione, pigliavo 19 mila lire al mese
all’epoca».

Anche in questo caso la vicenda tragica è narrata attraverso poche frasi e immagini simboliche. Espressioni secche, verbi isolati, al passato
remoto. «Ebbe il richiamo... lo mandarono... e là finì». La borsa piena di cibo che viene però riportata indietro. La fotografia del bambino mandata
e tornata anch’essa. I pochi soldi dell’alzabandiera.

Perdite irreparabili

Il lutto si moltiplica. La morte di una persona può essere causa di altre morti, può segnare la storia di una famiglia per sempre. Come successe
alle sorelle Fattore di Sparanise letteralmente travolte dalla guerra. Ce lo racconta Annamaria Fattore. Erano quattro sorelle e due fratelli. Il
fratello Vittorio, rastrellato dai tedeschi nell’eccidio di Sparanise, non fu mai trovato con sicurezza. Il giorno dopo il massacro e l’incendio del
quartiere, fu rinvenuto un teschio bruciato e si pensò che fosse il suo, ma alla madre venne taciuta la notizia.31 «Bruciato vivo, a mamma non
glielo volevano dire. [...] Non lo accettava proprio, forse inconsciamente lo sapeva pure... Poi quando stava per morire lei l’ha visto, dice: ah figlio
mio quanto si bello, adesso sono sicura che stai vicino a me. [...] E lei non accettava... poi dopo poco è morta per il dispiacere, cioè si è avvelenata
il sangue, era giovane, bellissima e dopo un anno papà. Ma che malattia aveva? L’azotemia, il freddo addosso, poi piangeva notte e giorno, poi si
prendeva a me per la mano e andava sulla stazione tra la folla per vedere se l’avevano visto in Germania».

Dopo un anno dalla morte della madre morì il padre. «Perché papà era una cosa... ma era troppo buono, fedele a mamma, le voleva bene, tutte le
sere dice: fate presto a cenare perché dobbiamo dire il rosario a Ida, stava sempre con la corona in mano. Andava al cimitero, era pazzo per
mamma e morì per il dispiacere».

La sofferenza ebbe anche risvolti fisici: «[Rimanemmo] proprio nudi, che la superiora dovette dare un po’ di biancheria. Poi non è bastato questo,
io ero piccola, ancora non avevo fatto neppure la prima comunione, perché avevo sette o otto anni e vedendo la casa distrutta, poi mio fratello...
che lo tengo proprio... sempre davanti... in quel posto, in quel cassettino, incominciai a stare male, che non mangiavo più, svogliata... e
incominciai a accusare dei dolori, ma non erano dolori, dicevo io che mi facevano male le braccia, le gambe e incominciai con una malattia
nervosa, stavo undici mesi a letto, non camminavo... E i professori che mamma fece venire da Napoli, con sacrifici perché... come si faceva? Io
non potevo viaggiare e mamma li fece venire in casa, dice: ma questa bambina ha avuto qualche paura? E mammà gli raccontò. Dice: ah, ecco, è
stato tutto quello che ha visto, che ha subito. [...] Poi dopo tutto questo c’è voluto del tempo per riprendermi e poi vedevo sempre mamma così,
che piangeva notte e giorno... Quando era Pasqua e Natale... no che ci castigava... diceva: figli miei non dite niente, però io oggi non faccio da
mangiare, perché mi ricordo questa giornata che non c’è Vittorio che ha fatto quella fine. Poi mamma, dice: ha fatto quella fine! E lei cercava di
non crederci. Poi la morte di mamma, poi mio padre e mi dovettero mandare a Roma perché ero diventata pelle e ossa, non mangiavo, non
assaggiavo neppure l’acqua, quando è morto papà, per il dispiacere... una continuazione, una continuazione. [...] Appena morto papà non c’era
neanche da mangiare, perché... casa distrutta, senza lavoro, perché mamma ci teneva come quattro principesse, quindi... e siamo andati avanti
nei dispiaceri. [...] Io tutte le sere che mi metto a letto mi metto a rievocare tutto il passato, allora questo mi fa star male e si alza tutta la
pressione. C’è stato un periodo che so’ stata male, quest’estate, la pressione altissima, adesso sto prendendo quattro pillole al giorno, dice [il
medico]: so’ stati i dispiaceri, se lei pensa al passato non starà mai bene, lei non deve pensare al passato, deve pensare al presente. Invece io
penso sempre a quello. Non vi siete sposate? Sì! È stata una scelta nostra, perché ci siamo unite, attaccate, poi dopo il dispiacere dei genitori si
usciva poco... – Casa e cimitero. – Questo ci ha inguaiate, perché magari se si formava una famiglia era diverso, invece ci siamo rovin ate da sole».

La morte del fratello produce altre morti, quelle dei genitori, e getta nello sconforto le ragazze rimaste in paese. Nel caso delle sorelle Fattore
interviene poi una secca caduta sociale difficile da affrontare: nel racconto c’è una grande casa bellissima, con mobili intarsiati, quadri,
biancheria e poi più nulla; vi sono ragazze, tenute dalla mamma come «p rincipessine» che diventano donne che devono guadagnarsi da vivere.
Una allora si mette a ricamare, l’altra viene assunta in qualità di operaia alla Ginori. È mancata comunque loro la forza per superare il trauma
emotivo, e forse non sono riuscite a trovare un uomo che potessero considerare pari grado. In questo caso probabilmente la caduta sociale ha
impedito anche l’elaborazione del lutto.

Un caso analogo fu quello delle donne che subirono violenza sessuale, che, oltre al drammatico trauma fisico ed emotivo, ebbero ad affrontare un
terribile stigma sociale. Come abbiamo visto, molte di loro ne furono segnate per sempre.

Perdite materiali, perdite simboliche

La guerra spezza la vita, sconvolge i progetti, i disegni perseguiti con pazienza, rende vani i «sacrifici» compiuti, quei sacrifici che erano alla base
della morale e della visione del mondo di quella generazione di uomini e donne. Cose, oggetti, beni materiali irrimediabilmente perduti
simboleggiano con forza questa rottura irreparabile.

Anna Garofano perse genitori e casa nel primo bombardamento tedesco dell’ottobre 1943. «La mia casa fu bombardata dai tedeschi il 23 ottobre
del 1943; fu la prima incursione tedesca in Italia... Le cose si svolsero in questo modo: quel giorno io e mia sorella scendemmo giù, io avevo una
sorella che viveva con noi e che aveva due gemelli, io presi una bambina e scappai, con me scappò anche mia sorella e andammo nel ricovero, mia
madre e mi o padre restarono a casa... Mentre mio padre era andato in casa per prendersi la giacca e mia madre era andata a togliere il cibo dal
fuoco al momento del bombardamento si trovavano per le scale. Il bombardamento distrusse completamente la nostra casa, tutto diventò un solo
masso, secondo piano, primo piano e pianterreno, un solo masso di terreno di pietra a terra... Il ricordo più tremendo è quando poi venne mio
cognato, il marito di mia sorella, sotto al ricovero e ci disse che la nostra casa non esisteva più... quella è stata la cosa più tremenda, il ricordo più
penoso che ho della guerra... Io ero letteralmente rimasta in mezzo ad una strada, avevo solo ventidue anni, perché poi mia sorella se ne andò
dalla suocera con il marito. Io aspettavo la sera chi mi dava un ricovero, chi mi dava un pezzo di pane, chi mi dava da mangiare e così ho vissuto
per quasi un anno, poi mi prese una famiglia di Portici e sono stata con loro dodici o tredici anni ed è in quella famiglia che ho conosciuto mio
marito e mi sono sposata».

Anna Garofano ha per la morte dei genitori poche scabre parole. Si sofferma invece sulla perdita dell’abitazione. La casa diventa il simbolo della
sua guerra e della sua vita, che da quel momento non sarà mai più come prima. Essa racchiude tutta la vita precedente, rappresenta la continuità,
garantisce l’identità. La sua distruzione aggrava il senso di frantumazione e di angoscia che la guerra porta con lo sconvolgimento fatale e
irreversibile della vita quotidiana.

Significativa la testimonianza di Anna Sommella: «Io stavo facendo il bagno a mio figlio, aveva quaranta giorni, mi chiamarono perché suonava
l’allarme. E piglia o guaglione, asciugalo e pressa e pressa perché era bagnato... e insomma gli misi lo scialle, la sciarpa e scendemmo giù al
ricovero. Io allora abitavo verso Secondigliano, stavamo al quinto piano, stavamo bene, una bella casa, un terrazzo grande. Tenevo certi mobili
che aveva fatto papà mio. Era ebanista, falegname e faceva certi mobili! Una meraviglia! Tutti intarsiati! Tenevo uno studio con quei tavoli grandi
grandi che usano gli avvocati, poltrone grandi grandi, perfino i piedi del tavolo, così naturali, sembrava che tenevano le unghie, tanto che erano
fatte bene. Scesi giù al ricovero e cominciarono i bombardamenti. E mo fernesce e mo fernesce...32 Non finiva mai... verso la mattina, verso le sei
e trenta tutti dicevano: è finita è finita! Ma da un lato del ricovero non si usciva perché c’erano tutte le pietre dei palazzi che erano caduti.
Insomma uscimmo per un’altra apertura. Io lo dico, ma mi sento male... ci mettemmo in cammino su quell’altro marciapiede dove si vedeva la
casa, ci mettemmo lontano e ci mettemmo a guardare, ma chella nun ce steve cchiù, nun esisteve niente... Perché le bombe avevano fatto cadere
tutto, tutta la casa e quel palazzo grande grande... nun ce steve niente cchiù, ce steveno sole muntune ’e prete...33 casa mia non c’era più... A
quell’ora, alle sei, sette di mattina, io, mio marito e mio figlio ce ne andammo da mia su ocera e quanne ce verette e venì se mettette a chiagnere
e riceveva: e figli mii stanne ’n miezz’a via!34 Già aveva capito. Cominciammo a sistemarci un poco là. Non avevamo camicie, non avevamo
scarpe, non tenevamo vestiti, non avevamo soldi... niente. Perché come stavo a casa, così scesi giù al ricovero e così stavo. Figurati che abbiamo
fatto una vita senza materassi, abbiamo dormito a terra nel mese di gennaio, febbraio... cu chillu fridde...35 e neve... Noi dormivamo ’ncoppa o
pavimente freddo e gelato con una coperta vecchia che tenevano loro. Ce la mettemmo sotto e così dormivamo. E non so per quanto tempo ho
fatto questa vita, io e mio marito. Avevo un figlio che era piccolino che a volte loro se lo mettevano in mezzo a loro perché era troppo piccolo e ne
avevano pietà. Volevo una camicia per cambiarmi... e nun ce steva. Nu pare ’e scarpe, e calze, nu fazzulette, una cosa minima, nun esisteva niente
cchiù. Io tenevo una borsa con gli oggetti preziosi, brillanti, orecchini, soldi... tutto perduto... tutto perduto, tutto, tutto, neanche un centesimo!
Cominciò la via crucis da quel giorno... non avevamo dove dormire... niente... e così ci arrangiammo un po’ da mia suocera. Dalle sorelle di mio
marito ci sono stata quasi tre anni là ’n terra a durmì... A capa nun ce steve...36 neanche di lavorare. Mio marito tanto che era rimasto scioccato...
per il dispiacere che aveva avuto che non andava neanche a lavorare... Chi ci dava una camicia, chi ci dava una mutanda... ti dico che non
avevamo niente. Mia sorella qualche volta mi dava una camicia, una giac ca, perché non c’era niente. Per la strada non si vendeva niente, niente
proprio niente. E poi mano mano siamo andati avanti. Dopo tre quattro anni che siamo stati a dormire per terra... Ogni volta mi facevo dei pianti
perché cercavo un lenzuolo e non ce l’avevo... pensavo a tutta quella bella roba sotto le pietre, tutta strappata... ma neanche gli stracci... non ho
trovato niente. Che disastro! Tutto distrutto, casa mobili corredo soldi vestiti. Tutto tutto... E ti lascio immaginare quello che ho passato, quello
che abbiamo passato... Solo se ci penso me vene o fridde ’n cuolle...37 Tenevo una coperta imbottita che era troppo bella... A quei tempi si usava
che gli sposi si facevano i vestiti uguali, io me lo feci grigio a quadroni. A mio marito ci piaceva vestire e poi quel vestito era bello, aveva un
taschino rosso... Quando la casa mia è stata bombardata il pezzo più grande che ho trovato è stato un po’ di scollo di questo vestito e il taschino
con il fazzoletto rosso... E diceve: uh, o vestite, o vestite ro viagge...38 Tutto tutto rotto... tanti sacrifici! Perché poi sono stata fidanzata con mio
marito sette anni e me ne ero fatta di biancheria... che tutti dicevano che il corredo più bello me lo avevo portato io... E non me ne sono vista bene
di niente, niente, proprio niente, neanche un fazzoletto ho consumato! Tutto nuovo bello ricamato, di lino! Gli oggetti li ho persi tutti, non tenevo
niente, perché scendemmo quella sera pensando di ritornare un’altra volta e invece non fu così».

Sette anni di fidanzamento, di attesa per preparare una casa, un corredo ricamato, i mobili. E tutto è andato distrutto. Quei sette anni hanno
perso senso, sono diventati inutili. Improvvisamente scelte tanto meditate e sofferte hanno smarrito la loro ragione. La casa e il corredo sono per
le giovani spose elementi simbolici e affettivi di valore incalcolabile. Questo senso di perdita non si è sopito. Nel caso di Anna Sommella la casa
recava poi i segni di una distinzione sociale a lungo cercata, che la guerra mandò in frantumi: il corredo che tutti avevano visto e apprezzato, il
migliore del quartiere, il tavolo con le unghie che parevano vere... Tutto tutto perduto...

I corredi sotterrati, rubati, saccheggiati, venduti per comprare cibo occ upano miriadi di racconti. Qualcuno si è fatto uccidere per difenderli. Non
erano un tesoro solo delle donne, c’erano dentro i sacrifici di tutta la famiglia. Anche i maschi, padri e fratelli, avevano lavorato perché le loro
ragazze andassero spose con un corredo invidiabile. La loro perdita fu, in un certo senso, irreparabile.
12. Interpretazioni private, discorsi pubblici
Il destino

Maria Mandato che ci ha raccontato la storia dello zio Giacomino, disperso nel bombardamento di Capua e comparso in sogno al cognato,
continua con quella del padre. Si salvò per miracolo nel terribile bombardamento di Capua, di nuovo per miracolo scampò alla rappresaglia di
Bellona (erano stati presi 60 tra uomini e ragazzi; quando ormai ne erano stati uccisi 54, arrivò l’ordine di fermarsi; lui era fra gli ultimi sei) ma
morì nello scoppio di una polveriera a Carditello. «È andato a Carditello, è muorto e statte buono a vita nostra». Dopo essere scampato a opposte
morti sulle linee del fronte, alla fine il destino lo raggiunse.

Come raggiunse la sorella di Antonietta Marra di Cancello Arnone, che da poco era tornata dall’America: «Eh, esse cu nu figlie, o figlie
diciottanne e esse teneve quarantadue anni, era giovane; venette ra America e venette a pusà a pelle ccà».1

E il padre di Antonio Chierchia: «E mio padre disse: guagliò, prendi o grane, pigliate a cavalle e vai al mulino a Grazzanise pe’ macenà... pe’ fà a
farine, pe’ fà cose, pecché stavamo in tempi di guerra e a farina era na cosa... era nu bene preziose! Sennonché la mia sfortuna, cioè la sfortuna
di mio padre in particolare, io so’ andato a Grazzanise e il mulino non ha funzionato. Il che son tornato indietro e so’ andato a ripigliare loro che
stavano sfollati al podere. Logicamente se io tardavo allora può darsi che si salvava tutta la famiglia, non avendo avuto sta possibilità di macinare
so’ tornato indietro e mio padre ha accompagnato tutta la famiglia qua, compreso me, e poi doveva andare a Burtolotte, dove teneve nu campe,
pecché faceva il terreno, no come contadino, come azienda bufalina, teneva pecore, teneva mucche, teneve bufere, cavalli, insomma... e quella
mattina... il destino non è una cosa che inventiamo noi, il destino non si scoccia... quando ho depositato tutta a famiglia qua, andai in campagna,
dove tenevamo la trebbia che si doveva trebbiare il gr ano e io non ci volevo andare, mio padre m’ha forzato, io malgrado tutto non volevo
andarci: voglio rimanere qua! Dice: no, tu devi andare, sei il più grande! Io vache a Burtolotto e tu vaie a trebbià. Io andando alla trebbia mi sono
salvato, loro che so’ rimasti qua no, e in particolare mio padre che la mattina dopo aver accompagnato a tutti quanti voleva andare al Bortolotto,
scese la discesa del ponte, s’incontra con Gaetano Graziano, con un altro signore, che adesso mi sfugge il nome, che sarebbe il marito di
Giovanna Gagliardo, ce steve, diciamo così, questo signore che faceva o genere alimentare da tanto tempo proprio nei pressi dove stava la
farmacia una volta, Giglionese si chiamava, erano amici tra di loro, s’incuntrarene e se fermerene a parlà e tutt’e tre hanno optato a non uscire
fuori dal paese: sia Gaetano Grazian o, sia questo Giglionese e sia mio padre. Mio padre si fece convincere e tornò indietro, Gaetano Graziano
andò a casa e questo signore non si è mosso da rinte o genere alimentare. È venute o bombardamente e ha ucciso a tutti e tre. Tutti e tre morti in
quel bombardamento. Proprio quell’unione, quell’incontrarsi ha determinato il destino di tutti e tre e morirono tutti e tre nello stesso momento e
io che ero fuori non mi capitò niente».

Antonio Chierchia h a ricostruito la serie di coincidenze che portò il padre all’incontro con la sorte. Molte altre testimonianze riportano
quest’idea. Come dire: viviamo tutti sotto un cielo che ci arreca sciagure, poi ognuno ha il suo destino.

«Un mio zio era andato a Nola per fare il mercato, salì sul treno e lo mitragliarono e non morì. Andò a casa nella terra e ci stava il figlio e disse:
Totò ie so’ vive... anne mitragliate o trene, ringrazianne a dio ca nun è succiesse niente. Tutto all’improvviso passa un apparecchio, loro non
avendo dove fuggire allora si misero sotto a due alberi. Il padre diceva: Totò vienetenne cu miche... No papà, stonghe buone ccà.2 Così il figlio
stava in una parte e il padre in un’altra. Buttano la bomba ed il figlio alzandosi non vede il padre. Chiamò: papà, papà! Andò a vedere ed era
morto sotto l’albero. Poi c’era un altro mio zio, aveva una mucca con in grembo un vitello, e pure lì andarono a finire le schegge e presero anche
la mucca. Questa la portarono a casa ma morì con tutto il vitello e le schegge presero anche la sorella della moglie di mio zio che stava in casa e
morì anche lei. Così morì a cainate,3 o cainate e la mucca con il vitello. Il brutto fu che non potemmo fare l’esequio per colpa della guerra così
dovettero portarlo a Santu Nicola al cimitero» (Pasqualina Lo Fabio).

Schivare le bombe da una parte e poi morire dopo poco da un’altra, un racconto classico che allude alla più generale condizione umana, ma anche
un modo per dire: si continuava a vivere, si doveva continuare a vivere. Il fatalismo è l’unica arma di difesa che hanno le popolazioni diventate
bersaglio dei bombardieri o vittime delle vendette di un esercito nemico.

«Si era rassegnati, c’era rassegnazione perché dicevamo: chissà se domani saremo ancora vivi? I bombardamenti in quel periodo erano
bruttissimi... eh tu ti potevi trovare morto dopo cinque minuti... quindi c’era una grande rassegnazione perché eri preda degli eventi e ci si
sentiva impotenti» (Annamaria Romano).

«Steveme ammieze o bombardamente, steveme a aspettà l’ore quanne ereme murì... C’amma fà?»4 (Vincenzina De Micco).

La morte che viene dal cielo

Il lessico del destino serve anche a descrivere l’evento bombardamento. Il discorso ufficiale degli strateghi dell’aria ha trovato una traduzione nel
linguaggio e nella cultura popolari. La bomba è qualcosa che giunge dal cielo. Nel linguaggio comune una cosa caduta dal cielo simboleggia
proprio la sorte imponderabile in agguato. La bomba invera il linguaggio, cade letteralmente in testa e interrompe qualcosa, a volte la vita.5 Il
bombardamento nei racconti è presentato quasi sempre come uno squarcio repentino nella vita quotidiana. È associato a un’attività, è un ricordo
preciso. L’attimo in cui arriva la bomba tronca bruscamente la continuità della vita.

«Mi stavo facendo il bagno e Giuseppina mi disse: Marì dovessero arrivare gli aerei?»; «Io il 4 agosto mi trovavo a via Roma e là ci fu un
bombardamento e murette tanta gente. Io stavo con una compagna mia, dovevamo andare a comprà un pensiero po’ o fidanzato suo, perché il 6
agosto era il suo nome, San Salvatore, quando suonò la sirena...»; «Io mi trovavo con mia sorella... mia sorella aveva una bambina d i otto mesi...
e dovevamo fare fidanzare una signorina... pecché nun ciamme fatte mai e fatte nuoste...6 che avevamo appuntamento con un giovane
dell’aeronautica che la voleva conoscere, tenevamo un appuntamento sotto un palazzo...»; «Era il 30 maggio del 1943, andai a vedere la partita
all’Alfa Romeo, ce steva a partita ’e pallone no, era prima di mezzogiorno, improvvisamente, mentre stavano giocando, suonò la sirena e
contemporaneamente le bombe ca carevano»; «Stavo mangiando intorno alle 14 a casa, con tutta la famiglia... ad un tratto giocherellando mio
fratello mandò una mosca... un moscerino sul piatto»; «Il giorno 4 aprile 1943 avevo 16 anni... io stavo da mia suocera e mio marito militare e
mangiavo a casa ’e mia suocera. Io ero incinta di otto mesi della mia prima bambina»; «E mi ricordo che io andai a casa, mi lavai, mi vestetti,
perché a me mi è piaciuto sempre ballare, andai a piazza Ottocalli, entrai in un bar, alle cinque, le cinque e mezzo e la porta del bar, che era di
vetro, fece uno scoppio enorme»; «Ricordo che stavamo in casa. Naturalmente era di mattina. Io e mia sorella si sfaccendava in casa...»; «Nui mo
era di domenica, mammà era scesa da una zia, ca sta zia a voleva bene a mia mamma, e ce steve ie, papà steve durmenne, ie e na sorella mia
stiveme assettate vicino o fuoco»; «Era domenica! Giocavamo a carte, avevamo un tavolo con un bellissimo marmo, a un certo punto io mi son
sentito prima la sedia sotto vacillare: che succede? E poi questo scoppio enorme»; «Mio marito si stava mangiando la frittata di maccheroni e io
stavo seduta dietro la cassa e tenevo una pianta alle spalle: cadde la pianta, sentimmo un rumore e solo dopo suonò l’allarme»; «Io stavo nella
salumeria e dietro alla cassa c’erano tutte mensole con scatolame sopra; ad un certo momento caddero e io dissi: Armando ma questo è il
terremoto! In quel momento entrò un ufficiale dell’aviazione e disse: signorina, quale terremoto, questo è un bombardamento».

La ragazza che esce da scuola, quella che si sta facendo il bagno; le amiche che stanno andando a comprare un «pensiero» per l’onomastico del
fidanzato che si chiama Salvatore; le sorelle che si recano a un appuntamento per far fidanzare un’amica; il giovane che sta andando a trovare la
fidanzata; il ragazzo alla partita di pallone. Gli aerei americani sono un lampo nella vita che scorre e la scombussolano a volte irreparabilmente.

La bomba che cade dal cielo è separata dal gesto che l’ha sganciata. Il colpevole non si vede. Il risentimento verso gli americani per la morte di
un familiare è rarissimo. Il bombardamento è come una catastrofe, un terremoto, l’eruzione del vulcano, un’inondazione dovuta alla natura non
governabile. Lo aveva già notato Anders nel suo libro su Hiroshima. «Della catastrofe parlano sempre come di un terremoto, di un’inondazione o
di un’esplosione solare. La regolarità con cui omettono di nominare gli autori, con cui tacciono del fatto che la catastrofe è stata prodotta
dall’uomo; e con cui, benché vittime del delitto più orrendo, non mostrano il minimo risentimento. [...] Le vittime (per quanto possa sembrare
strano) non hanno vissuto la catastrofe stessa, ma solo la vita prima e la vita (o la morte) dopo di essa. E non il lampo in mezzo. Che fu qualcosa di
troppo immane, che arrivò e sparì troppo istantaneamente perché potessero afferrarlo e concepirlo come tale. [...] Ciò che si dice oggi sovente,
che il nemico è divenuto anonimo, è una definizione ancora insufficiente o già superata. La verità è che il nemico non si vede più affatto; e che
non si vedeva già più nel caso di Hiroshima. Così non si poteva realizzare la congruenza del colpo con l’autore di esso; e non si tentò neppure di
farlo. E le vittime rimasero senza odio. [...] anche ammesso che l’apparecchio che gettò la bomba sia stato visto (ed è probabile che sia stato visto
dall’uno o dall’altro), unire nella propria esperienza quel punto nel cielo e la catastrofe successiva era al di sopra delle capacità psicologiche; era
impossibile, e lo è ancora oggi».7

I racconti delle violenze subite per mano degli occupanti tedeschi sono profondamente diversi. In questi casi sono sempre uno o più uomini a dare
la morte, il legame di causa-effetto è immediato e il colpevole è ben individuabile. Spesso ha anche una faccia crudele: dà la morte con voluta
consapevolezza, infierisce sulla vittima. Le narrazioni de lla violenza nazista sono lunghe e articolate: c’è l’annuncio, la paura, la fuga, l’odio che
si costruisce in un rapporto diretto. Ci sono le immagini dei soldati con i mitra sempre in pugno, gli elmi in testa, le urla... Nei racconti dei
bombardamenti i soldati ovviamente non ci sono. C’è una sorta di separazione tra i bombardamenti in generale e l’evento vissuto: l’immagine
degli americani che buttavano tonnellate di bombe e la bomba singola caduta nel proprio quartiere, sulla propria casa, travolgendo una persona
cara. E poi ancora gli americani liberatori, un’altra immagine che cancella la prima, che convive con le altre. Sono rappresentazioni presenti a
volte nello stesso racconto.8

Il bombardamento appare, inoltre, in un discorso pubblico che si è consolidato nel tempo, come un’arma inscindibile dalla guerra moderna. E
l’interpretazione si presenta spesso profondamente influenzata dal linguaggio militare usato per descrivere e giustificare la guerra aerea. Una
narrazione che rappresenta una guerra virtuale, tecnologica, con obiettivi militari strategici, che nasconde quelli che sono i reali obiettivi, le vite
umane. Chi decideva gli obiettivi, non diceva mai quanti civili sarebbero stati coinvolti, parlava di ponti, di stazioni, di binari, di fabbriche, ma
sapeva benissimo che vi sarebbero state molte vittime civili. C’è chi ha parlato di indifferenza verso la morte. A questo proposito le testimonianze
sono dominate da una particolare ambiguità: nonostante tutti parlino di bombardamenti a tappeto, non smettono tuttavia di cercare un senso ai
raid che hanno travolto le loro case, la vita di parenti e vicini, usando la teoria degli stessi americani: quella dei bombardamenti di precisione. C’è
l’abitante di vico Giganti a Napoli che pensa che gli aerei volessero distruggere una tipografia che serviva i tedeschi, la contadina di Bellona, che
ha avuto madre e due sorelle colpite da una bomba mentre lavoravano i campi, la quale ipotizza che gli aerei abbiano preso i covoni per un
accampamento militare, gli abitanti di Teano che pensano che i bombardieri abbiano scambiato per un’antenna radio la gabbia sovrastante il
campanile... Anche i londinesi avevano cercato di interpretare le bombe tedesche come bombe intelligenti. I cittadini intervistati dal «Daily
Mirror» nel settembre 1940, quando fu colpito Buckingham Palace, avevano giudicato quel bombardamento un esempio di mira perfetta! «La
mente umana, desiderosa di chiarezza, prova frustrazione e sofferenza quando si trova di fronte a eventi che sembrano privi di scopo e di senso.
Ecco perché era per tutti naturale attribuire, durante la guerra, un particolare intento maligno a ogni bomba lanciata. [...] coloro che hanno
bisogno di trovare cause precise non possono abbandonare la convinzione che le bombe siano accuratamente mirate e che pertanto i danni da
esse arrecati abbiano un senso interpretabile».9

In realtà le interpretazioni delle persone comuni ci ripropongono, con vari impasti, i molteplici discorsi che sulla guerra sono stati fatti, le
ambiguità, le contraddizioni di una guerra fatta da «liberatori», ma con strumenti di morte. E ancora si muovono fra l’accettazione di una morale
«eccezionale» di guerra («in guerra è permesso tutto») e una morale «normale», governata dal quinto comandamento «non uccidere». Sono
restie a pensare che la violenza sia coscientemente inferta, in modo da produrre il numero di morti più alto possibile, secondo la logica chiara dei
bombardamenti terroristici, cercano quindi di trovare dei motivi, delle ragioni. E, non senza contraddizioni, hanno introiettato il discorso dei
vincitori.

La violenza nazista

Come già si è detto, i bombardamenti, arma dei vincitori, non furono incriminati nel dopoguerra e divennero nel discorso giuridico, come nel
senso comune, un’arma consuetudinaria accettata. Esisteva comunque tra la violenza dei bombardamenti e la violenza degli occupanti una
differenza, cui accennano alcuni studiosi e che in parte emerge anche nelle riflessioni della gente. Il bombardamento terroristico, mezzo terribile
e di scutibile di guerra, era finalizzato alla resa del nemico e nel momento in cui lo stato avversario si fosse arreso, la popolazione civile avrebbe
cessato di essere nemica. Nel caso nazista ebrei, zingari, prigionieri russi dovevano essere sterminati per un motivo di dominio razziale,
schiavistico. Vagoni pieni di ebrei venivano portati verso i campi di sterminio dai punti estremi dell’Europa, con un incredibile dispendio d i
energie, mentre si combatteva sui vari fronti con sempre crescenti difficoltà. Le uccisioni rispondevano a una logica di guerra che contemplava il
completo dominio e asservimento di uno spazio geografico e sociale. Nell’Europa orientale le truppe tedesche avanzavano distruggendo e
decimando le popolazioni, per creare lo spazio vitale per la nazione tedesca. Il razzismo dava la giustificazione morale per infliggere la morte con
una certa leggerezza e con un’aggiunta di sadismo e umiliazione della vittima: l’uomo ridotto a subumano poteva essere vilipeso e schiacciato con
maggiore facilità. Sono le riflessioni che emergono con tragica naturalezza dagli scritti di Primo Levi.10

La politica di occupazione nell’Europa occidentale non raggiunse mai tali livelli di violenza, con l’importante e tragica eccezione della
persecuzione degli ebrei, ma, dopo l’8 settembre, essa fu riprodotta in parte sul suolo italiano nei confronti di una popolazione che si era
macchiata agli occhi di Hitler e dei nazisti di un vile tradimento. Una popolazione infida, imbelle, che andava non solo combattuta, ma punita e
umiliata per quell’atto di «slealtà». Per i tedeschi, come per gli altri abitanti del Nordeuropa, le rappresentazioni dell’Italia e in particolare
dell’Italia meridionale avevano sempre pencolato tra immagini edulcorate di pastori immersi in un idillio classico fra rovine antiche e paesaggi
solari, e immagini di selvaggi sprofondati in un calore africano. Bastava recuperare alcune di queste rappresentazioni e riproporle ai soldati, per
rafforzare una condotta militare che Hitler in persona voleva durissima.11 D’altro canto il razzismo positivista di inizio secolo aveva utilizza to,
anche all’interno dell’Italia, categorie analoghe a quelle usate dai nazisti per distinguere, secondo una divisione Nord-Sud, una popolazione civile
e laboriosa da una popolazione primitiva e sfaticata (gli ari dai mediterranei). Tracce molto evidenti di razzismo si possono rintracciare nel
comportamento delle truppe tedesche dopo l’8 settembre verso i napoletani e i meridionali in genere: umiliazione delle vittime, filmati della
popolazione affamata e lacera incitata a saccheggiare... I casi occorsi ai napoletani, de scritti nel quinto capitolo, sono molto evidenti: il bambino
immerso nella damigiana di olio, il cibo buttato alle donne perché vi si gettino sopra affamate e poi gli spari per vederle fuggire impazzite...

Attraverso la deportazione massiccia degli uomini per il lavoro coatto e la requisizione violenta e sistematica delle risorse si attuava poi appieno
quella politica di rapina e saccheggio che aveva caratterizzato le occupazioni naziste.12

In Campania, dove la violenza tedesca si espresse in un certo senso nella sua radicalità, emerge, in netta contraddizione con quanto scritto nella
pubblicistica e diffuso nel senso comune nazionale, una memoria nettissima della violenza tedesca, unita a un’altrettanto netta condanna. C’è chi
lo ha fatto a partire da una rielaborazione politica, ma i più ci sono arrivati attraverso una spiegazione dei fatti del tutto personale. Hanno vissuto
o visto la violenza degli occupanti e l’hanno interpretata secondo i canoni normali, fuori da un approccio ideologico. Sono arrivati comunque alla
comprensione chiara delle logiche dell’occupazione. A Mondragone, ad esempio, dove la popolazione ebbe a subire in maggior misura la violenza
operata dalla Wehrmacht, il giudizio e il ricordo sono vivissimi, tanto che molti abitanti attribuiscono addirittura ai tedeschi un bombardamento
aereo che è invece con grande probabilità opera degli alleati.

Abbiamo analizzato nel quinto capitolo il caso di Mondragone: disperso il battaglione italiano, ucciso il comandante, la cittadina fu evacuata, e nei
giorni succe ssivi tutti coloro che vennero trovati nelle zone di evacuazione furono passati per le armi. Ci furono veri e propri eccid i sistematici,
come quello della Cementara, ma la violenza si espresse in modo diffuso: le truppe di occupazione imponevano la loro presenza, sottolineando i
rapporti di forza, si facevano beffe degli abitanti, li umiliavano. Giuseppina Taglialatela ci ha raccontato dell’uccisione del fratello, dell’odissea
delle donne sfollate spinte dai tedeschi verso il Garigliano in una notte di pioggia e freddo. Per spiegarci la violenza dei tedeschi ci narra ancora
alcuni episodi simbolici. «Il giorno prima di sfollà, perché loro dovevano sapere che noi dovevamo andar via da Mondragone, perché la legge la
sapevano loro, noi vivevamo come i pupazzi... allora sai che hanno fatto? So’ andati nella stanza dove stavano le botti col vino... loro ridevano
ridevano ridevano, passava a gallina e ammazzavano a gallina, passava il cagnolino e ammazzavano il cagnolino e si schiattavano dal ridere... noi
na paura! Dice: si se vottene13 pure verso di noi ci ammazzano. Mentre invece no, loro capivano che dent ro le botti c’era vino, coi mitri
sparavano vicino alle botti, no? Facevano i buchi, no? Allora sta botte usciva tutta a buchi, vino per terra, si allagava tutto... mangiavano,
bevevano e se ne andavano, sempre co sti fucili... la storia è triste, è proprio triste quello che abbiamo passato qua coi tedeschi».

Emilio Pagliaro racconta un episodio crudele che lo vide protagonista con due cuginetti: «Andammo a prendere l’acqua con un asinello, tre
ragazzi su quest’asino, con degli attrezzi, che noi li chiamavamo dei fardelli, dentro ci mettevamo le ancelle, brocchette pe’ piglià l’acqua i sta
fontana, io ero di campagna e m’intendevo. La notte aveva piovuto, io legai un asinello vicino a una quercia e andai a guardare subito il torrente,
l’acqua era alta. Allora dissi vicino ai miei cugini: sentite, noi qua ci dobbiamo levare le scarpe e i calzini, dobbiamo passare dall’altra parte per
prendere l’acqua. Allora ci siamo seduti tutti e tre davanti all’asino e ci stavamo sciogliendo le scarpe per toglierci i calzini, questi assassini
dall’altro lato... era una pattuglia di nazisti, non tedeschi, nazisti! Ci hanno mitragliato l’asino davanti, l’asino ci è caduto addosso, a tutti e tre...
noi portavamo sempre un cagnolino, che si chiamava Gigetto questo cagnolino, lo portavamo sempre dietro... questo solo che vedeva le divise
tedesche diventava un leone, quando ha sentito sparare e ha visto l’asino cadere co nu salto ha saltato o canale e è iute verso i tedeschi... questi
hanno cominciato a mitragliare il cane e allora noi ce la siamo svignata a gambe, quando siamo arrivati a questa casa di campagna uno solo
parlava, il più piccolo, gli altri due non ce la facevamo più a parlare gli altri due, fu un momento terribile».

Il ricordo della violenza connessa alla requisizione del bestiame è vivissimo; come abbiamo visto, sono numerosissime le testimonianze che
raccontano la contesa con i tedeschi sul maiale, sulle mucche, sulle pecore... La lotta per conquistare da un canto e difendere dall’altro gli animali
è parte di un discorso corale nelle campagne e si alimenta dei colori e dei linguaggi di una specifica cultura. Dalle interviste emerge una sorta di
ingenua epopea contadina costruita intorno alla difesa del maiale. I soldati tedeschi vengono colti, oltre che in azioni bellicose e militaresche,
nell’atto di cercare cibo contendendo ai contadini il maiale. E li vediamo descritti vicino alle stalle mentre fanno il verso della bestia: una lotta fra
i contadini e i tedeschi per il possesso del maiale. «Ai tedesche ce piaceva assai o maiale».

«Siamo tornati qua, appena tornati qua portavamo un maiale sul carretto, i tedeschi già... arriva un tedesco, dice: mhmh! [fa il verso del maiale] –
Eh, che gghié?14 Dice: mhmh! [di nuovo il verso del maiale]. – Ma tu che vuo a nuie?15 – Giù le armi!» (Gaetano Graziano).

«A loro piaceva avere un maiale, non è che ci pensassero due volte, se trovavano un maiale, una pecora, un q ualche cosa di loro gradimento... I
tedeschi quando battevano la ritirata per potersi rifocillare andavano alla ricerca dei maiali, proprio era un fatto tipico dei tedeschi che magari
per farsi comprendere facevano il verso del maiale, se tu non glielo davi spontaneamente... “se no dimmi dove sta che io me lo vado a
prendere”...» (Giuseppe D’Orsi).

«A Ripabianca facevane strage i tedeschi... Se pigliavene e caprette, se pigliavene o porche, se pigliavene i sasiccie, lardo... Tutto, tutto... ievene a
’mbazì po’ porche, bas te che truvavene o porche subite l’accerevene e o mettevene... E voi che facevate? Li nascondevate? I porche? O porche
mie o teneve loche abbasce, o faccette na rotte e llà steve, che chille ievene vicine e stalle»16 (Arturo Cavuoto).

«C’era stato un periodo prima che erano passati dei tedeschi e andavano girando per le case ammazzando i maiali. Ammazzando i maiali nelle
case, proprio nelle case, qui, qui, qui, a Buonalbergo. Ma poi li prendevano? No, li ammazzavano e li lasciavano, perché era il periodo di
settembre, mi pare, settembre-ottobre e c’erano dei maiali – insomma – abbastanza grossi da macellare poi in novembre, in dicembre cercavano
di distruggere togliendo il cibo principale alle famiglie – insomma – va! Andavano uccidendo i maiali, questo per eliminare il cibo... per togliere
cibo alla popolazione... Il maiale se lo uccidi in un modo... Ecco, se viene sparato l’animale non può essere più recuperato, perché il salame...
allora il maiale era il fesso della famiglia, si recuperava tutto dal maiale, salami, grasso, sugna eccetera. .. macellato in un certo modo, ma se
invece viene ammazzato non si può recuperare niente» (Vincenzo S alierno).

«L’animali s’i piglierene, se piglierene tutte cose! I tedeschi? I tedeschi! Primme i se ne ì, se piglierene tutte cose e se piglierene pure a iummente
noste che teneveme. Tutte cose, e puorche nuoste, se piglierene i puorche nuoste, se piglierene e galline, nuie teneveme e puorche a ’ngrassà, se
piglierene e quatte porche, piglierene a cape e i stentine e i iettane a mamelle, mamelle i pigliave e i ittave, dicette mamelle: puortatelle a
Germania! T’ai pigliate e puorche, mo me risse e stentine a me? Che me n’ aggia fà i stintine?»17 (Maria Della Valle).

La razzia si accompagna quasi sempre a segni di spregio e scherno. E gli episodi di questo tipo sono numerosissimi, non si finirebbe di
raccontare... Cani uccisi per dispetto, come quello dei Sinigallia, sulle montagne di Formia. Il pastore di Itri, a cui viene rubato tutto il gregge e a
cui viene rilasciata una ricevuta da consegnare a Badoglio per il rimborso.

«Stevene vicine a noi i tedeschi, sempe cu nu mitra pronto! Ce steve na maiala, spararene pure a chella maiala. Si pigliarono parecchie bufale?
Assai, assai, e accerevene annante annante, nuie teneveme na purcelle che eva parturì, fuie na cosa troppo orrenda! Va llà e a accerettene. Evano
fà sfreg io, pecché erano troppo sfrigiosi e a accerettene. Hanno fatto troppa strage accà, assai, assai, assai»18 (Antonietta Marra).

«I tedeschi massacravene tutte cose. I tedeschi... na matine venettene ccà, Salvatore e a mamma stevene a ’mpastà o pane, teneveme o negozie,
ce steve o furne ccà e facevene o pane. Chille venettene ch’e motociclette, chelli motociclette... bubububu, se fermene proprie llà annanze. E
trasene ccà, trasettene ccà: bababbaba. E ie nun capiette. Capiette na cosa, pigliaie e i purtaie ccà, addò se ’mpastave o pane. Mio fratello
dicette: io militare, così così, a contraerea... Cuntave tutte cose, comunque parlerene e poi se ne ierene. Ierene pe’ tutte e case. Chi diceve: chiste
mo furnesce a guerra. Chi diceve: chiste mo c’accirene... A paura c’aveveme! E accussì passaie chillu giorno brutto llà... [...] chille ievene
verenne, chi o sape che ievene verenne, no sacce! E accussì... a paura, a paura! Comme verive a une e chille murive! Murive prima c’arrevavene
vicine! Chille nun se manche capevene: bububububu... – Cosa ha detto? Cosa dice? – Manche p’a cape le passave! Mo ririmme, ma tanne
piangeveme, eh!»19 (Vincenzina De Micco).

Nella memoria affiorano le immagini dei soldati armati di tutto punto, sempre con i mitra in mano, che parlano una lingua indecifrabile, che
danno ordini, fanno paura, non ammettono discussioni. Emerge la percezione chiara del loro potere di dare vita o morte... «La legge la sapevano
loro, noi vivevamo come i pupazzi...» L’impossibilità di capire le ragioni del loro comportamento viene significativamente espressa attraverso
l’impossibilità di trovare un linguaggio comune. Perché uccidere un maiale? Perché impedire di tornare nella propria casa? O di camminare per la
campagna a cercare cibo? Non ci si adatta a un comportamento giudicato irragionevole. Chi ancora non è travolto dalla brutalizzazione della
guerra non riesce a entrare nella logica dell’occupante aggressore e quindi rischia di più. Così fecero ad esempio, a Mondragone, coloro che
sfidarono, senza pensare di fare una cosa tanto grave, l’ordine di evacuazione.

È rimasta impressa questa violenza voluta, inflitta con la coscienza di portare dolore. Qui sta la differenza, secondo le persone comuni, con la
violenza fredda che viene dal cielo.

«Lo ricordo uno... guarda lo ricordo uno che mi sembra che lo hanno preso pure, mi sembra... era uno alto, aveva uno sfregio in faccia, quello era
cattivo al cento per cento, come lui veniva a dare ordini era una cosa malamente proprio e questo sfregio che aveva in faccia mi ha portato fino a
oggi che quando hanno preso... perché hanno preso un po’ di questi ca hanno ammazzato a sti ragazzi, non solo qua, pure alle altre parti, quando
io l’ho visto per televisione l’ho conosciuto, l’ho conosciuto che era lui perché aveva questo sfregio in faccia che si vedeva, si vedeva proprio... e io
quando l’ho visto che poi l’hanno preso, l’hanno portato carcerato e tutto quanto... dico: disgraziato, non è questa la fine che dovevi fare, ti
dovevamo ammazzare noi! Perché noi lo dovevamo ammazzare, quando venivano dentro casa li dovevamo ammazzare!» (Giuseppina Taglialatela).

Chi l’ha conosciuta non ha dubbi. La violenza tedesca è più fortemente sancita di quella alleata perché fatta con cattiveria, direbbe un nostro
testimone, infierendo sulla vittima, in un faccia a faccia in cui la morte viene presentata e inflitta in modo esplicito, e a cui spesso si aggiunge
l’umiliazione dei corpi, l’offesa ultima. Il «morto acciso» è il più sfortunato dei mortali. Pensare al proprio caro morto in questo modo risulta più
doloroso e intollerabile. Nell’esecuzione e nella rappresaglia c’è l’oltraggio diretto, l’offesa arrecata da un uomo che guarda negli occhi un altro
uomo e lo uccide. L’umiliazione coscientemente perseguita dell’anima e del corpo del nemico, che rende il ricordo di chi è sopravvissuto più
doloroso.

L’8 aprile 1944 Ersilia Greco, napoletana, sfollata a Orta di Atella, dove il 30 settembre 1943 in una rappresaglia nazista aveva perso marito e
figlio, scriveva alcune pagine intense su quella sua sventura. «Il più nero, il più crudo destino era stato riservato a me povera sposa, povera
madre... Niente al mondo può colmare il mio dolore, passeranno gli anni, se pur resisterò, lo strazio che siete morti nel modo più crudele, fucilati
vicino a un muricciolo e rimasti per tutta una notte a terra in una campagna, soli soli, immersi nel proprio sangue, avvelena la mia esistenza. La
notte, specialmente, fatto il primo sonno, subito si presentano le vostre adoratissime immagini davanti ai miei occhi e penso alla triste storia di
quel giorno. Penso allorché separarono gli uomini dalle donne, mandarono noi alle nostre case e voi uomini foste condotti fuori dal paese, in
campagna. Penso quando con i vostri piedi doveste andare alla morte, al luogo del supplizio. [...] Arrivati vicino a quel muricciolo famoso vi
allinearono tutti e ventuno. Ognuno di voi av eva un delinquente tedesco davanti a sé, armato di un fucile mitragliatore... dopo poco, un attimo e
tutti cadeste fucilati. Dio, che momenti dovettero essere quelli, allorché aveste sentore del modo di come dovevate morire! E che sentiste quando
i colpi vi penetrarono nelle carni? Vincenzo mio adoratissimo, Michele amato, che sentiste allora?»20

Ci troviamo di fronte a una testimonianza del tempo, quando il lutto non è ancora stato elaborato. La memoria tragica e non sopita del momento
si contrappone alla memoria delle testimoni tanti anni dopo, quando la vita ha continuato il suo corso. Ma è chiarissimo il senso del dolore che si
aggiunge a quello della morte. Il corpo vilipeso, la sofferenza imposta coscientemente e coscientemente patita. Dice Carolina Nardone di Bellona:
«Dint’o core chillu frate nuoste nun se leve mai, tutte quanti so’ stati bravi, tutte quanti i pensammo, i vulimme bene, ma chille a fatte na brutta
morte».21

Il ricordo dei collaboratori

Nelle testimonianze domina la violenza per mano dei soldati. In questi anni molti lavori hanno messo in luce le dinamiche di collaborazione e di
condivisione dei processi di brutalizzazione all’interno dei territori occupati.22 La popolazione meridionale fu soltanto vittima, nel suo insieme? È
il ricordo che rielabora gli eventi, attribuendo la violenza solo ad altri, a forze estranee alla comunità, siano alleati con le bombe, o tedeschi con la
violenza dell’occupante? O è il nostro angolo visuale che distorce le dinamiche della guerra, cogliendone solo gli aspetti di guerra ai civili? E non
quelli di guerra tra i civili?

Come vedremo tra poco, la memoria pubblica, in un processo complesso, ha lasciato sullo sfondo l’occupazione tedesca sul fronte meridionale con
le sue dinamiche di terrore, e ciò ha comportato inevitabilmente la rimozione dei casi di collaborazione e di conflitti interni alla popolazione civile,
che sono invece r imasti molto spesso nei ricordi individuali e familiari. D’altro canto le dinamiche della guerra totale, per i tempi convulsi con cui
si è sviluppata nel territorio campano e laziale, sembrano avere letteralmente schiacciato la gente e reso molto limitati gli spazi di collaborazione,
tanto da indurre fascisti convinti a prendere le armi contro i tedeschi. Questo ovviamente esalta il ruolo di vittima della popolazione civile e
offusca gli episodi di violenza interna che pure ci furono. A comparire con più evidenza sono i saccheggi che si scatenarono a partire da conflitti
preesistenti: poveri contro ricchi, contado contro città, come nel caso molto evidente di Benevento che fu invasa da torme di abitanti dei paesi
limitrofi. Ma in quasi tutte le testimonianze sulle violenze emergono anche i collaboratori, i delatori fascisti al servizio dei nazisti. Ad alc uni di
loro viene attribuito un ruolo di primo piano nei rastrellamenti, a volte con conseguenze fatali per gli uomini segnalati, come a Formia o Teano.
Essi appaiono, tuttavia, come figure isolate in un contesto narrativo in cui il fenomeno della collaborazione non ha uno spazio autonomo. E ciò
avviene nelle memorie private ma anche in quelle pubbliche. I collaboratori vengono presentati spesso come figure particolarmente fanatiche, già
isolate all’interno della comunità. Il termine fascista viene significativamente riferito solo a loro e non ai rappresentanti delle istituzioni locali. La
solitudine di tali personaggi può effettivamente rappresentare un aspetto della realtà: nella maggior parte delle situazioni solo i più tenaci
sostenitori del regime si schierarono con i nazisti, gli altri si nascosero, non foss’altro che per opportunismo, visto che gli alleati erano alle porte;
altrove, come a Benevento, con i saccheggiatori e i razziatori tedeschi troviamo fascisti caratterizzati da una particolare attitudine criminale, da
tempo invisi alla popolazione. D’altro canto, la costruzione di queste figure isolate può anche essere nata dal desiderio di trovare un capro
espiatorio facile, assolvendo invece i rappresentanti della comunità che avrebbero costituito nel dopoguerra un elemento di continuità e di
identità insostituibile agli occhi dei cittadini. Molto evidente a questo proposito il caso di Teano, dove il «fascista» forestiero, accusato di
delazione, venne ucciso, e il podestà ufficialmente imputato di collaborazione per aver firmato il bando di convocazione degli uomini, assolto,
divenne il sindaco del dopoguerra.

La collaborazione dei podestà, che spesso si piegarono a emettere i bandi per il lavoro obbligatorio e a chiamare in piazza i maschi, è stata assai
debolmente sancita sia dalla giustizia istituzionale sia dal giudizio della gente. Essi si difesero sostenendo di aver agito sotto la minaccia della
forza nazista, di essere stati all’oscuro dei fini tedeschi, di aver agito in molti casi per evitare violenze maggiori. Le giustificazioni emergono con
evidenza dai processi contro il questore e il prefetto di Napoli23 e sono giustificazioni che in parte la popolazione ha accettato nel dopoguerra in
una interazione dinamica con il processo di rielaborazione della memoria pubblica.

I linguaggi pubblici della memoria

Napoli e il Sud per tutto il biennio 1943-45 continuarono a vivere una condizione di guerra: fame, miseria, contrabbando, malattie, prostituzione,
conflitti con g li alleati...24 La situazione economica era estremamente grave: le amlire avevano provocato squilibri enormi sul mercato della
moneta e un aumento dei depositi infruttiferi nelle banche, le distruzioni per cause di guerra erano superiori a quelle del resto del paese,
l’industria napoletana e meridionale era alla paralisi completa, il governo italiano, già dotato di poteri limitati, si mostrava del tutto inadeguato a
fronteggiare problemi così drammatici.25 Ufficialmente il territorio meridionale era però «liberato». Era una situazione ambigua, che
scompaginava per l’ennesima volta i parametri con cui identificare amici e nemici, e confondeva le linee di demarcazione politica. Inoltre, se
prima era stato terribile vivere sotto i bombardamenti e le violenze naziste, ora incominciava un’altra tremenda guerra per la sopravvivenza, in
cui trovavano uno spazio particolare nuovi protagonisti. La specializzazione criminale, l’uso della violenza a scopi predatori divenne
particolarmente importante nella gestione del contrabbando e nell’appropriazione illecita dei beni americani. A tutti coloro che avevano capacità
e risorse in questa direzione si aprirono nuove e sostanziose prospettive. Alcuni dei gruppi camorristi più potenti e ancora oggi all’opera (ad
esempio i Moccia di Afragola, i Giuliano di Forcella, gli Alfieri di Nola) incominciarono la loro carriera criminale in quegli anni. Nelle campagne ai
contrabbandieri si affiancarono veri e propri banditi: il caso più famoso è quello di Giuseppe La Marca nella zona vesuviana.26 In città
proliferavano i commercianti di residuati (Giuseppe Navarra, re di Poggioreale, lo stesso Lauro con le Liberty Ships) in un fragile equilibrio fra
illegalità e legalità.27 Gli alleati vollero e potettero fare ben poco contro queste reti intrinsecamente legate a quelle della sopravvivenza
quotidiana.28 Tra le pieghe di affari leciti e illeciti cresceva un’imprenditorialità arrogante e spregiudicata ben rappresentata da quello che
sarebbe stato il futuro sindaco della città, l’armatore Achille Lauro. Tutti questi personaggi acquistarono effettiva forza sulla scena locale e
conquistarono anche le scene nazionali attraverso i media. Le rappresentazioni legate a questo periodo divennero emblematiche e offuscarono
quelle precedenti: la contrabbandiera di De Filippo, lo sciuscià che ruba le scarpe al soldato americano di Rossellini, le prostitute di Malaparte...
Si ripropose una dinamica antica. L’opinione pubblica filtrava dal Sud, e in particolare da Napoli, solo certe immagini, e Napoli compiacente
assecondava: scugnizzi, contrabbandieri, banditi, «segnorine» venivano dati in pasto al pubblico, rafforzando tutta una serie di stereotipi
nell’immaginario della comunità nazionale. Non che non ci fossero queste cose, c’erano! Ma si trattava di percepire anche gli altri aspetti, di
inquadrarli in una storia che avesse un senso, che facesse vedere i chiaroscuri e che, soprattutto, non offuscasse il dolore patito, la resistenza
civile contro la violenza nazista, la solidarietà offerta ai perseguitati, che non ricacciasse le popolazioni meridionali in quell’immagine di plebe in
cui sempre erano state confinate.29

Le reti affaristiche erano concretamente e ideologicamente legate ai partiti e ai movimenti di destra monarchici e postfascisti – Achille Lauro e
Giuseppe Navarra personificano egregiamente tale connubio –30 i quali ebbero un ruolo fondamentale nel mandare all’oblio gli episodi di
resistenza, i massacri nazisti, le sofferenze dovute alla guerra fascista, e nel rafforzare l’immagine gaglioffa e plebea di Napoli e del Sud.

Nel Regno del Sud inoltre quel processo di normalizzazione che nel resto dell’Italia prenderà avvio nel 1946-47, magistralmente descritto da
Carlo Levi nell’Orologio,31 era cominciato all’indomani dell’arrivo degli alleati, non senza contraddizioni: il vecchio apparato dello stato si era
riorganizzato, le epurazioni erano state assai limitate, si era rafforzato un «fronte conservatore non fascista in grado di frenare e disciplinare gli
obiettivi delle forze di sinistra».32

D’altro canto, i partiti antifascisti, che traevano la loro legittimazione nella resistenza organizzata avvenuta nel Nord del paese, non furono in
grado di farsi portatori di una diversa immagine del Mezzogiorno. Come già aveva sottolineato molti anni fa Nicola Gallerano, il partito
comunista, in quel momento il più idoneo ad assumersi una funzione di guida, non mostrò «la volontà politica e la capacità di svolgere un ruolo
dirigente nella mobilitazione delle masse popolari meridionali».33 Il partito attento soltanto alle dinamiche che si stavano esplicando nel Comitato
di liberazione nazionale al Nord e dominato da un’ideologia scarsamente aderente alla complessità e alla specificità della realtà meridionale, in
particolare della realtà urbana, non fece nessuno sforzo serio di analisi né tanto meno seppe coniugare la linea politica con le esigenze concrete
della popolazione. Il Mezzogiorno e insieme la sua più grande città si trovarono all’indomani della guerra più emarginati che mai. Ad acuire il
processo ci fu poi il discorso pubblico che accompagnò la formazione della repubblica.

La guerra aveva rappresentato per l’Italia, come per tanti altri paesi, una cesura epocale: fascismo e alleanza con il nazismo fino al 1943, poi
l’incredibile sfaldamento dell’esercito l’8 settembre, il comportamento «vile» della corona simbolo dell’unificazione italiana e del risorgimento, la
Repubblica di Salò e la collaborazione con i tedeschi. La guerra di resistenza contro l’occupazione tedesca fu il fulcro intorno a cui costruire il
mito fondativo del nuovo stato. La rappresentazione della resistenza armata vittoriosa è una delle icone sacre dello stato democratico sorto nel
dopoguerra. 34 Enfatizzare il ruolo della resistenza armata significava sostenere che il regime fascista non aveva avuto tutto il sostegno popolare
che era andato millantando, che i combattenti erano stati l’avanguardia di una popolazione antifascista anch’essa, in una visione che sottolineava
l’atteggiamento positivo della maggior parte dei cittadini nei loro confronti. Significava infine mettere in risalto il ruolo militare delle bande
partigiane nella guerra contro la Wehrmacht, per attenuare la posizione di debolezza con cui gli italiani si dovevano sedere al tavolo delle
trattative per la pace. Fu dunque posta l’enfasi sulla resistenza armata e politicamente organizzata nei gruppi che avrebbero dato vita ai partiti
del cosiddetto «arco costituzionale». L’espressione «Repubblica nata dalla Resistenza» ne era il simbolo. Il linguaggio riprendeva miti e simboli
della retorica risorgimentale, ormai molto lontana dalla cultura e dai sentimenti della gente comune. Quest’immagine della resistenza armata e
politica non è soltanto italiana, ovviamente – il c aso della Francia è molto simile ad esempio –,35 ma in Italia l’esigenza di «riscatto» della nazione
dal passato fascista e dalla partecipazione alla guerra al fianco di Hitler fino al 1943 era, forse, ancora più urgente. Nella resistenza organizzata
militarmente intorno al CLN cercarono anche legittimazione i partiti politici che ne avevano fatto parte, innanzitutto i due partiti di massa, quello
comunista e quello cattolico, che rappresentavano anche le due vere novità del dopoguerra.

Quando, dopo la rottura dell’unità nazionale nel 1947, i due partiti divennero i poli di due opposte aree politiche lungo le linee della guerra
fredda, la memoria della guerra divenne terreno di battaglia politica. Sullo sfondo il problema della rielaborazione del fascismo dei cui
rappresentanti d’altro canto erano gremite le istituzioni pubbliche, essendo state le epurazioni del tutto simboliche.

Si misero in moto processi complessi. Il partito comunista poneva l’accento sulla resistenza come lotta contro l’occupante nazista, ma anche e
soprattutto contro il regime fascista caduto il 25 luglio 1943 e risorto con la Repubblica sociale nel settembre dello stesso anno. L’epopea della
resistenza si cristallizzava in una serie di immagini enfatiche: al centro gli eroici combattenti che avevano lavato l’onta dell’Italia fascista e alleata
del nazismo36 e che si ricollegavano all’ala popolare e democratica del risorgimento italiano. Non a caso le brigate comuniste avevano assunto il
nome di br igate garibaldine. I democristiani invece sottolineavano il ruolo popolare e moderato dei combattenti cattolici, che avrebbero
manifestato un maggiore rispetto per i beni e l’incolumità delle popolazioni a loro vicine, si sarebbero mostrati più magnanimi e moderati con i
nemici, avrebbero infine combattuto i propositi e le azioni di vendetta contro fascisti e collaboratori nell’immediato dopoguerra.37 Dopo la rottura
dei governi di unità nazionale nel 1947 i cattolici accentuarono la loro immagine di pacificatori e mediatori nella lotta fratricida fomentata invece
dai comunisti. Proponevano al ricordo figure di eroi positivi, morti per salvare la popolazione da possibili rappresaglie, di sacerdoti che avevano
tentato mediazioni tra occupanti e popolazione. La resistenza era in questa visione una naturale risposta al nazismo, frutto di uno specifico
carattere positivo della popolazione italian a: una profonda religiosità che avrebbe favorito pratiche di solidarietà verso tutti i perseguitati e
sentimenti di riconciliazione con i nemici. Questo atteggiamento veniva contrapposto alle pratiche «classiste» e «rivoluzionarie» dei comunisti,
fomentatori di odi tra fratelli. È questo uno dei temi che emergono con forza dalla documentazione locale. Il discorso cattolico ebbe una diffusione
capillare sul territorio, utilizzando, ovviamente, l’estesa rete delle istituzioni della chiesa e intervenendo con forza sulle scene politiche locali. Il
linguaggio della chiesa si incontrò con alcune esigenze profonde della popolazione e si prestò a dare voce attraverso le tradizionali immagini
religiose alla sofferenza e al lutto. Il richiamo cattolico all’armonia contro i conflitti, si faceva, d’altro canto, esplicito richiamo all’oblio. «Il popolo
vuole dimenticare Cefalonia, Salerno, le Fosse Ardeatine e tutte le tremende cose che non devono essere cinematografate».38 Così si esprimeva la
critica cinematografica cattolica nel 1947: accusava i registi neorealisti, della statura di Rossellini e De Sica, di rivangare nei mali dell’Italia,
riportando a galla «lacrime e fango», e invitava invece a offrire quadri ottimisti e di speranza a una popolazione esausta e funestata dai lutti.39

Nonostante le molte divergenze, alcuni elementi accomunavano le rappresentazioni di comunisti e cattolici che occuparono la scena del
dopoguerra e oltre. La resistenza veniva esaltata come guerra di tutto un popolo: diveniva in questo modo una sorta di «lavacro purificatore della
popolazione italiana», che poté presentarsi come «vittima» del fascismo e non come soggetto coinvolto, almeno in parte, nella politica del regime.

Negli anni cinquanta il discorso pubblico cattolico si consolidava: nelle celebrazioni i partigiani e i partiti di sinistra venivano estromessi, si
rimuoveva il carattere antifascista della guerra di resistenza e se ne appannava l’immagine combattente, che ritornava invece negli anni sessanta
con la svolta politica del centro-sinistra. «Un passaggio – tanto rapido quanto di duraturo effetto – dalla rimozione a una ufficializzazione della
resistenza che ne banalizza contenuti e lacerazioni. Si passa cioè dall’oblio alla costruzione di una memoria pubblica astrattamente apologetica,
che si sovrappone alle molteplici e differenti – talora opposte – memorie private senza riuscire a risolverle in sé. Senza aiutarle a riconoscersi
come parte di un processo».40 La narrazione della resistenza si monumentalizza, si concretizza in un discorso mitico, in una rappresentazione
pubblica che vede al centro il maschio combattente partigiano, dimenticando la popolazione civile, maggiore vittima della guerra in Italia, e tutti
gli altri perseguitati (ma questa è storia di tutti i paesi d’Europa). La narrazione era tanto più avulsa dai fatti in una nazione che aveva visto il suo
esercito distrutto e sbandato e i suoi soldati prigionieri41 o fuggitivi.42 Molti tornarono da lunghe prigionie (nel 1947 dall’India) senza aver
vissuto il rivolgimento avvenuto in patria. Si sentivano esclusi e umiliati. Erano stati in guerra per sette anni e più e non trovavano
riconoscimento. Nonostante l’armistizio e la successiva cobelligeranza con gli alleati, i nostri soldati erano rimasti sostanzialmente prigionieri
(vedi la sigla significativa che fino alla fine ebbero tra gli inglesi: POW, prisoner of war) di tutti, dei nuovi alleati e dei nuovi nemici. Questa è una
caratteristica specifica dell’Italia, che complica di nuovo la memoria della nazione. Senza parlare dei combattenti della Repubblica sociale,
rimasti fedeli al fascismo e al nazismo, protagonisti di una guerra civile a lungo taciuta.

La narrazione pubblica negava ancora altri frammenti di storia, vittime, sofferenze, che rimanevano individuali, nascoste, e producevano
linguaggi sotterranei. Silenzio sulla popolazione civile, sui terribili bombardamenti che avevano distrutto città e paesi, provocando migliaia di
vittime e che venivano ora liquidati con freddezza e superficialità come un necessario tributo alla libertà, o come un naturale, anche se tragico
portato della guerra moderna. Silenzio sugli stupri e sulla violenza dell’occupazione alleata. Infine silenzio sui conflitti all’interno della nazione,
sulla guerra civile, sulle contraddizioni tra resistenza e popolazione, sulle violenze subite dalla popolazione istriana nel 1945 e sulla sua
successiva fuga, sulla persecuzione razziale operata dagli italiani.

Tutte queste negazioni provocavano risentimenti, insoddisfazioni, profonde dissonanze rispetto al discorso pubblico. Si mettevano in moto
processi di ricostruzione della memoria in cui si mescolavano frammenti di discorso pubblico e immagini e interpretazioni private, che si
coniugavano con dinamiche e differenze locali, di gruppo sociale, di classe, di genere, individuali.

Le due interpretazioni fondamentali della guerra e della resistenza ricalcavano anche una divisione geografica rinforzata dalle vicende della
guerra: l’Italia tagliata in due dalla linea Gustav corrispondeva pure, fatalmente, alla divisione storica fra il Centro-Nord, c omposto di
innumerevoli staterelli fino al 1861, e il grande regno di Napoli, poi regno delle Due Sicilie, conquistato dalle truppe garibaldine con la spedizione
dei Mille. Le narrazioni nazionali poterono ripercorrere antiche immagini, scegliendo ciò che si doveva ricordare e ciò che si doveva porre in
oblio. Ne emerse una rappresentazione stereotipata che si contrapponeva a quella del Nord. Su ciò conversero memorie e interpretazioni di
opposti schieramenti. La tradizione di sinistra, proponendo un modello di resistenza armata organizzata, con un forte comando politico centrale, il
CLN, e un ruolo prevalente del partito comunista garante di una chiara coscienza antifascista, di fatto conduceva alla negazione o all a
sottovalutazione di tutte quelle forme di resistenza civile o popolare e «autonoma»,43 che avevano caratterizzato proprio la prima fase
dell’occupazione tedesca, immediatamente successiva all’8 settembre, quando civili e militari sbandati si erano trovati di fronte all’inattesa
violenza dell’ex alleato e avevano dovuto reagire con mezzi di fortuna, organizzandosi attraver so le strutture di solidarietà e le reti informali
della società. E questo era, appunto, il caso del Mezzogiorno. La lotta dei meridionali contro l’occupazione nazista veniva dunque sminuita oppure
assimilata alle antiche ribellioni della plebe, a delle jacqueries apolitiche e prive di coscienza. D’altro canto tale rappresentazione combaciava
involontariamente, per alcuni aspetti, con quelle della destra e della Democrazia cristiana, che cercavano nel Sud la propria legittimazione
politica ed erano entrambe interessate a contrapporre al modello di una resistenza settentrionale «comunista e fratricida» un’Italia meridionale
moderata, solidale, anticlassista. Il discorso aveva a livello locale salde radici nelle reti dei notabili e dei mediatori politici locali, nelle file dei
sacerdoti e nelle strutture della chiesa. Il Mezzogiorno divenne il terreno elettivo per diffondere quel discorso cattolico di cui ho parlato poc’anzi,
in un fecondo rapporto tra centro e periferia. Ma ci tornerò.

A livello della memoria nazionale tutto ciò riprodusse la visione dicotomica della «comunità immaginata»: al Nord una comunità che aveva lottato
contro il fascismo, civile, moderna, democratica, coraggiosa; al Sud una comunità che aveva passivamente seguito gli eventi, arretrata,
antidemocratica, plebea, ribelle, vile. Napoli divenne l’immagine simbolo della disgregazione prodotta dalla guerra sul tessuto sociale e civile
della nazione. Ciò condusse a un vero e proprio travisamento della storia: negazione della sofferenza della popolazione, oblio nazionale e locale
dell’occupazione tedesca, delle rappresaglie, delle stragi. Tutto coperto dall’epopea «americana» del contrabbando, degli sciuscià, delle
«segnorine». Immagini molto resistenti e introiettate dalla stessa popolazione meridionale.

Significativo il processo di interpretazione e di memoria connesso all’insurrezione napoletana descritto nel quarto capitolo. L’oblio
dell’occupazione tedesca e della resistenza civile e popolare che vi si oppose si accompagnava d’altro canto ai processi di rimozione delle violenze
di guerra operate dai vincitori: i bombardamenti negati come crimini di guerra che divennero un risultato naturale dei conflitti, gli stupri a
proposito dei quali la diplomazia italiana barattò il silenzio sui crimini fascisti nei territori occupati dal regime fra il 1939 e il 1940 fino al
settembre 1943. Tutto ciò fece sì che l’esperienza della guerra totale delle popolazioni che vissero allora tra Napoli e la linea Gustav non trovasse
alcuno spazio nella memoria pubblica.

La classe dirigente italiana repubblicana si è mostrata infine del tutto inadeguata a proporre simboli che toccassero le corde dei sentimenti
popolari, legandosi all’esperienza. Nel 1946 veniva riproposto un inno risorgimentale di scarso valore musicale con un vocabolario enfatico e
astruso: «stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte» «l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa»... E infatti solo dopo le insistenze
del presidente della repubblica gli italiani si sono in parte convinti a cantarlo. E non si riuscì a trovare un linguaggio consono alle morti in guerra,
alle migliaia di morti civili e di prigionieri di opposti fronti. Vittime dei bombardamenti, vittime militari sui vari fronti, vittime dei nazisti vennero
messe accanto, su lapidi che quasi sempre riportavano anche i militari della prima guerra mondiale. E, molto spesso, la data proposta per
ricordarle era il 4 novembre, la festa delle forze armate e data della vittoria del 1918: una festa civile istituita per celebrare una guerra vittoriosa
e per esaltare virtù militari scelta per ricordare le vittime civili di una guerra persa. Nulla di più assurdo e incongruente. E, nei pochi casi di
effettiva commemorazione delle vittime, riemergevano c omunque i simboli militareschi della guerra e della prima guerra mondiale in particolare.
È il Piave, l’inno composto per celebrare l’avanzata e la vittoria dell’Italia sulle truppe austriache, ad accompagnare ancora oggi la maggior parte
delle celebrazioni: un inno che celebra la forza militare e la conquista dei soldati per commemorare le vittime della violenza di altri soldati.44 Una
contraddizione che ci dice qualcosa sulla incapacità delle istituzioni di rappresentare e capire i sentimenti e il dolore delle persone. Incapacità
che si trasforma spesso in arroganza e disprezzo. Furono i primi a cadere nell’oblio, ad esempio, i massacri in cui a morire furono dei
«poveracci»: contadini, popolani, gente comune, che non ebbero parenti letterati e potenti che scrivessero di loro con parole altisonanti e che
pretendessero l’attenzione delle autorità.

C’è una particolare inadeguatezza del discorso pubblico ad accogliere la sofferenza. Le commemorazioni sono il più delle volte occasioni per
permettere alle autorità di fare mostra di sé con discorsi vuoti, retorici, che non rispettano il dolore dei familiari, la storia delle vittime.45 D’altro
canto la narrazione pubblica sulla guerra e sulle morti in guerra è una narrazione maschile, gestita a destra come a sinistra da uomini, manca di
quella pietas necessaria per rispettare la sofferenza degli umili. La patria continua ancora oggi a proporsi come patria virile: pochissimi sono stati
coloro che si sono levati a protestare contro il ritorno della sfilata militare per rappresentare l’identità della repubblica.

Anche per questo è stato spesso il linguaggio religioso l’unico a esprimere la sofferenza degli umili.

Il linguaggio religioso

La chiesa, che nel dopoguerra partecipò attivamente al conflitto politico schierandosi con la Democrazia cristiana, ebbe un ruolo cruciale nella
costruzione del racconto sulla guerra e su lla violenza. Essa mirò a rappresentarsi come istituzione al di sopra delle parti, tesa a garantire un
ritorno all’armonia e alla solidarietà contro la guerra civile; contribuì in modo decisivo a rappresentare la società meridionale in contrapposizione
con i l «vento del Nord» come una società non politicizzata, lontana da risentimenti antifascisti, oscurando gli episodi di resistenza e di conflitto
interno alla popolazione.

Il ruolo della chiesa nella gestione della memoria della guerra fu cruciale, non solo in Campania. D’altro canto le istituzioni ecclesiastiche si erano
spesso mostrate presenti e solidali nel momento in cui tutte le altre autorità erano svanite.46 I vescovi di Benevento e di Avellino unici a
presidiare la città tra bombardamenti e saccheggi; il vescovo di Acerra seduto a terra insieme agli uomini rastrellati;47 il sacerdote in ginocchio
davanti ai tedeschi per impetrare la grazia per le donne di Mondragone sono immagini che sarebbero rimaste nella memoria delle comunità locali
e si sarebbero rafforzate man mano che la popolazione si rendeva conto di essere stata abbandonata a se stessa dalle istituzioni dello stato. In
alcuni casi i sacerdoti si erano volontariamente offerti di mediare tra tedeschi e popolazione, in altri erano stati letteralmente prelevati dalle
parrocchie, dai conventi, dalle case e spinti di fronte ai comandi tedeschi per implorare clemenza. I religiosi apparivano agli occhi della gente le
uniche figure in grado di salvaguardare la popolazione; inoltre si pensava che anche il più crudele dei soldati si fermasse di fronte a un
rappresentante della sfera sacra. Gli occupanti avevano mostrato in molte occasioni di non dist inguere tra notabili fascisti, antifascisti, gente
comune. Ad Acerra, ad esempio, il segretario del fascio si era trovato per strada con un bimbo in braccio nel momento della rappresaglia; gli
avevano intimato di deporre il bambino a terra e lo avevano ucciso. A Ponticelli, quartiere di Napoli, avevano rastrellato e deportato in Ge rmania,
tra gli altri, il figlio di un altro segretario del partito fascista, che sarebbe stato, tragica ironia della sorte, accusato di collusione con i tedeschi e
linciato dalla folla dopo pochi giorni. Altri erano fuggiti o stavano nascosti nelle loro case. Dunque era inutile e a volte impossibile rivolgersi a una
qualche autorità civile e ci si rivolgeva ai sacerdoti. In alcuni limitati casi la loro opera ebbe qualche risultato (a Buonalbergo un prete di origine
tedesca riuscì a impedire una rappresaglia per l’ucc isione di tre soldati) ma nella maggioranza delle situazioni fallì l’obiettivo. Anzi, i sacerdoti
divennero essi stessi vittime dei massacri. Ovviamente, nel dopoguerra essi poterono incarnare degnamente il discorso cristiano del «sacrificio».
La chiesa seppe usare i suoi martiri. Un caso esemplare è quello di Mugnano.

Mugnano è un paese co nfinante con la periferia nord-occidentale di Napoli, che si venne a trovare su una delle linee di fortificazione, la linea
Anni, e, come Acerra, fu investito dall’arrivo delle truppe in ritirata da Napoli. Il 1° ottobre venne imposta l’evacuazione del paese; la popolazione
mandò a parlamentare con il comandante tedesco una delegazione composta da alcuni esponenti delle gerarchie fasciste e da sei religiosi (o, per
meglio dire, un sacerdote, un diacono e quattro seminaristi che avevano tutti l’abito talare e che i testimoni ricordano come «preti»). Questi
ultimi vennero cercati nelle loro case e spinti ad accompagnare i notabili fascisti di cui non ci si fidava appieno. Il comandante li incontrò sulla
strada che congiungeva Mugnano con il paese vicino. Da lontano si poteva vedere il luogo dell’incontro. Il risultato della mediazione fu negativo,
il comandante non li fece quasi parlare, non sospese l’ordine di evacuazione, anzi, intimò ai mediatori di allontanarsi e di non fare ritorno al
paese. I religiosi si diressero verso il centro vicino, ma poi ritornarono verso le loro case prendendo un sentiero che passava per la campagna; qui
ebbero la sventura di ritrovare il comandante che aveva intimato loro di andarsene, il quale ordinò ai soldati una esecuzione immediata. I sei
furono schierati contro il muro di una masseria; i due che si trovavano agli estremi riuscirono a fuggire, gli altri furono massacrati e sepolti in una
fossa comune.

L’uccisione del sacerdote e dei giovani seminaristi si fissò, anche se attraverso un processo contraddittorio e complesso, nella memoria di
Mugnano. Giovanni Imperatore, il fratello di una delle vittime, ci racconta che i preti andavano da sua madre per chiederle di perdonare, di non
rivangare nel passato. Ma furono gli stessi sacerdoti nel 1947 a chiedere a un allora giovane storico locale, amico dei seminaristi, di ritornare
sull’accaduto. È egli stesso a spiegarne le motivazioni: la chiesa aveva interesse a usare l’episodio per contendere alla sinistra l’egemonia nella
lotta al nazismo. L’episodio ben si prestava, ovviamente, alla riattualizzazione del martirio cristiano. Era un modo per la chiesa di entrare a pieno
titolo nella mitologia della resistenza, proponendo la figura del martire cristiano. La retorica del martirio, ampiamente utilizzata anche nelle
celebrazioni laiche,48 poteva in questo caso esprimersi nella sua interezza: il sacrificio cristiano, la redenzione attraverso il sangue, l’offerta delle
proprie giovani vite, la missione di pace.

«A Mugnano di Napoli una strada e una lapide ricordano il sacrificio generoso di quattro giovani sacri all’altare: uno di essi è il sacerdote don
Rolando Rossetti, e la sua dignità lo pone come a guida degli altri; ma la stessa luce di fede e di entusiasmo li illumina nel martirio. Era il 1°
ottobre 1943. Napoli accoglieva festosamente i liberatori e i tedeschi si ritiravano precipitosamente sotto la furia popolare verso il Nord,
distruggendo depredando, incendiando. Mugnano si trovò in prima linea nel terrore e nel lutto. I nazisti ordinarono lo sgombero immediato della
via maestra. Alcuni punti vengono minati, in altri sorgono delle barricate. Il panico invade tutti. Le donne abbandonano le case portando via quel
poco che possono. Gli uomini si preparano alla lotta. Delle fucilate fischiano, parecchi cadono da valorosi. Il clero si riunisce furtivamente, si
organizza un’ambasceria, perché cerchi di scongiurare dal tedesco altre rovine ed altri lutti. Rolando Rossetti sacerdote ed organizzatore
dell’azione cattolica locale, Capasso Nicola suddiacono, Vallefuoco Luigi seminarista, Imperatore Pasquale aspirante missionario, Mauriello
Antonio sacerdote novello e Vallefuoco Francesco accolito, si offrono per la nobile missione, si danno con slancio giovanile, fiduciosi nella bontà
della causa e nella lealtà degli uomini».49

I quattro religiosi vengono definiti «martiri della carità». La loro può diventare una storia esemplare, assurgere a simbolo dell’opera della chiesa
nella guerra. È per questo probabilmente che la loro morte non fu immediatamente dimenticata. La strada principale di Mugnano, dove i giovani
avevano incontrato il comandante tedesco, venne a loro dedicata (via dei Quattro Martiri) e vi fu posta una lapide. Poi per molti anni l’episodio
rimase latente nella memoria del paese, restò il nome della strada, ma la lapide scomparve. Nel cinquantenario della loro morte un giornalista
locale del «Mattino» ritornò sull’episodio, chiedendo che si indagasse per conoscere il nome del comandante, responsabile dell’uccisione.50 Lo
stesso giornalista, diventato presidente del Consorzio cimiteriale di Mugnano, propose un monumento e una tomba comune, che vennero
realizzati e inaugurati mentre era in corso il dibattimento processuale, nel dicembre 1999.

La memoria pubblica, che ha spesso rimosso i massacri nazisti e le loro vittime, ha invece scelto di ricordare i martiri religiosi, innalzandoli a
simbolo di umana carità contro le «belve naziste». Il linguaggio è chiaro: umanità cristiana contro ferocia demoniaca. Un’interpretazione al di
sopra della contingenza, che trasforma carnefici e vittime in simboli di un bene e di un male astorici, lontani dalla realtà complessa della guerra.
La retorica cristiana destorifica l’episodio e lo rende inoffensivo, impolitico. Cancella le ragioni storiche e specifiche della violenza per rimandare
a un discorso astratto sulla natura umana, sulla malvagità e sulla impotenza del buono, vittima sacrificale.

Sarebbe riduttivo, tuttavia, attribuire al linguaggio religioso solo un carattere strumentale. La simbologia sacra ha una forza spontanea
particolarmente adatta a rappresentare, molto meglio di qualsiasi retorica politica, la sofferenza delle vittime della guerra. Simboli e
rappresentazioni religiose che trasformano e trasfigurano il dolore di uomini e donne sono radicati nella tradizione e nella cultura popolare,
suscitano emozioni, offrono metafore forti e comprensibili. Nei racconti echeggiano tutta una serie di immagini sacre: la Madonna addolorata, la
deposizione di Cristo, la via crucis, le scene dei martiri. Sono le raffigurazioni della sofferenza dei deboli, dei vinti, che ben più degli altisonanti e
retorici inni patriottici potevano offrire un linguaggio a chi nei panni di un vincitore marziale non si poteva certo identificare.

Nel dopoguerra sono spesso i sacerdoti e le associazioni cattoliche a costituire quelli che Jay Winter ed Emmanuel Sivan definiscono élite sociali
secondarie nella costruzione della memoria.51 Insieme a loro organizzazioni informali di quartiere, gruppi di cittadini che non hanno avuto però la
possibilità di avere voce oltre l’ambito locale né di costruire un discorso sulla guerra. Disseminate sul territorio si trovano numerosissime
iscrizioni, poste dagli abitanti di un gruppo di case, da associazioni di quartiere, da unioni cattoliche, che testimoniano di una pietà popolare
intensa e di un desiderio di ricordare i parenti e i vicini di casa travolti dai raid aerei. Sono lapidi semplici, senza discorsi, senza frasi enfatiche.
Non hanno un vocabolario pubblico cui riferirsi.

Zona grigia?

La retorica della resistenza e l’impossibilità di riconoscere i propri atti nei suoi simboli, la dissonanza degli eventi vissuti (i bombardamenti, gli
stupri) rispetto alla narrazione nazionale, l’incrociarsi di affermazioni tendenti a negare le violenze hanno dunque impedito di costruire un
discorso pubblico serio sulla guerra nel Mezzogiorno. La catena di mediazione fra memoria individuale, locale e nazionale sembra non essersi
messa in moto nel nostro caso.52 Non c’è rappresentazione unitaria, ognuno ha quindi cercato di capire da solo quello che gli è successo, di
trovare le spiegazioni degli avvenimenti che gli sono caduti addosso. Lo iato con la narrazione ufficiale è enorme. Grandissima pure è la
differenza fra colti e illetterati, fra uomini e donne.

Le contraddizioni dell’esperienza, le difficoltà di identificazione con il discorso nazionale, le manipolazioni politiche hanno prodotto un
caleidoscopio di ricordi e di rappresentazioni che è difficile ricondurre a unità o ingabbiare in tipologie sociali e politiche. I giudizi sono
estremamente variabili e sono legati all’esperienza, è come se le idee di ognuno fossero state in un certo senso impermeabili al discorso pubblico.
O non avessero tro vato il vocabolario adatto a rappresentare la propria esperienza. 53 Significative a questo proposito le testimonianze sulla
violenza tedesca. Chi l’ha vissuta o vista, e sono molti, la ricorda con forza, ne ha interpretato a pieno il senso più profondo. Chi, per casi
individuali o per congiunture geografiche, è riuscito a evitare l’incontro con i soldati teutonici, e ha, invece, conosciuto la violenza delle bombe o
degli stupri o anche semplicemente la iattanza del vincitore in giro per i vicoli della Napoli miserevole del dopoguerra, ricorda il soldato tedesco
come un soldato duro ma leale e onorevole, e interpreta le rappresaglie come una inesorabile legge di guerra o una comprensibile vendetta
contro il comportamento sleale degli italiani, secondo la versione che gli stessi tedeschi offrirono agli italiani e che ancora oggi ha un’eco a livello
nazionale.54 E da questo punto di vista le interpretazioni sembrerebbero differenziarsi secondo linee di stratificazione sociale, linee che
parrebbero anche caratterizzare le differenze nell’adesione a episodi di resistenza, come mostra con grande evidenza l’insurrezione napoletana,
che ha un chiaro segno popolare.

Mentre in altri luoghi le contraddizioni sono state sopite o perlomeno nascoste dietro un discorso pubblico, non avendo nel Sud trovato una
narrazione comune che le ricomponesse, esse sono rimaste intatte nel ricordo a testimoniare della natura ambigua della guerra, della difficoltà di
distinguere sempre e nettamente il bene e il male... Quello che è stato spesso stigmatizzato come qualunquismo può essere letto qui come una
riflessione non ideologica sulle dinamiche dei conflitti armati.

Sono soprattutto le donne a mettere l’accento su questo elemento, sulla sospensione dei valori morali in guerra, sull’impossibilità di trovare delle
ragioni alla violenza, sia alleata, quando il bombardamento coglie un piccolo paese inoffensivo o dei contadini che stanno lavorando la terra, o
quando le truppe marocchine vengono lasciate libere di stuprare, uccidere, saccheggiare in massa, sia tedesca, quando colpisce alla cieca donne,
bambini, famiglie intere.

Considerazioni di questo tipo sono state attribuite in genere al qualunquismo e alla rassegnazione atavica delle genti meridionali; qui si
suggerisce invece che esse nascano da una giusta percezione della guerra in quel contesto storico e territoriale. È la coscienza che la popolazione
civile è la prima ad essere travolta dalla guerra, che i valori quotidiani vengono aboliti e che gli uomini che combattono stravolgono le certezze
morali cui si è profondamente legati, quei valori consuetudinari che le donne e gli uomini comuni cercarono di difendere con i loro atti di
resistenza ordinaria.

Attraverso le memorie individuali o comunitarie sono emersi inoltre altri elementi che ancora oggi stentano a trovare spazio nel discorso pubblico
o vengono da questo travisati. Se non fossimo entrati nell’ambito locale, se non avessimo preso in considerazione le vite delle persone, non
avremmo colto, oltre alla dimensione della sofferenza, anche la capacità di reazione, la vitalità, la forza, espresse in atti, che avrebbero potuto
inserirsi a pieno titolo nella narrazione nazionale della resistenza e che sono stati, invece, dimenticati. E questo vale per gli atti di resistenza
armata, più evidenti e manifesti nei casi delle insurrezioni popolari di Napoli e Acerra, ma vale anche per tutta una serie di azioni di resistenza
civile, di solidarietà con i perseguitati, di disobbedienza, diffuse capillarmente fra la popolazione.

È uso parlare sempre a nome della gente: è attendista, è qualunquista, avanzata, reazionaria... Le si impongono qualità e difetti costruiti
attraverso una lunga catena di deduzioni e di assiomi teorici, ma non la si interroga, non si cercano i documenti che ci potrebbero avvicinare alla
comprensione dei suoi comportamenti e delle sue ragioni. Come ha scritto James Scott, si tratta di scovare i «libri non scritti»,55 le manifestazioni
minute delle sue pratiche e dei suoi pensieri.

Se ci fossimo limitati a guardare questo mondo dall’alto, avremmo probabilmente dedotto interpretazioni diverse sui comportamenti locali. Un
esempio significativo: Tora e Piccilli e la salvezza degli ebrei. A un primo approccio il caso poteva sembrare quello di un piccolo paese
meridionale, lontano dalle correnti principali della storia e quindi anche distante dal discorso politico fascista, non un paese antifascista, ma un
paese «afascista», per usare una categoria coniata per indicare la distanza ma non l’opposizione all’ideologia del regime, e la salvezza degli ebrei
poteva apparire quindi come il risultato della naturale umanità dei contadini meridionali e della loro ignoranza, della loro distanza dalla Storia
con l’iniziale maiuscola. Ma il lento avvicinamento al contesto, con l’incrociarsi di testimonianze e documentazione, ha aperto squarci importanti
per capire. Ecco due famiglie dell’élite solidarizzare e socializzare con il gruppo dei lavoratori coatti e le loro famiglie. Poi, continuando nella
ricostruzione minuta delle relazioni sociali, ecco emergere un nucleo consistente di antifascisti attivi e conosciuti in tutta la zona. Allora il
comportamento dei torani assumeva una luce diversa. Non era un caso di ignoranza o di afascismo, ma di cosciente infrazione delle leggi razziali
del regime, che si andava ad aggiungere, senza esaurirsi, a un certo spirito di disobbedienza all’autorità costituita, a una certa umanità
contadina.

Va infine sottolineato come per capire le società in guerra sia cruciale interrogare le donne. I loro racconti sono importanti per affrontare la
dimensione della sofferenza, ma sono anche una delle fonti più rilevanti per capire gli atti di resistenza civile e di disobbedienza. Sia perché molto
spesso le donne ne sono state protagoniste, sia perché sanno riconoscerne il valore. Attraverso la loro narrazione emerge il ruolo delle reti
informali, delle famiglie, dei vicinati, che nel fatidico settembre 1943 si mostrarono l’unico argine alla disfatta, mentre le istituzioni dello stato si
disgregavano ignominiosamente, sotto il fuoco concentrico di americani e tedeschi. La vilipesa famiglia meridionale aveva fatto di nuovo fronte a
compiti altissimi e le donne vi avevano giocato un ruolo fondamentale, non solo per salvare i membri del nucleo familiare in pericolo. Gli sbandati
di passaggio, tutti coloro che non avevano rifugio trovarono ospitalità nelle case, nei soppalchi, negli armadi, nelle capanne dei campi, ebbero
vestiti, cibo e protezione. Non c’è memoria di donna che non ricordi i giovani salvati dalle madri, dalle zie, dalle vicine e non c’è uomo che non
ricordi la salvezza giunta dal genere femminile. A scorrere i racconti si ha l’impressione di un mondo sotterraneo ma mobilissimo, vegliato dalle
donne.

Colpisce poi la forza di queste immagini. Queste storie evocano una società attiva, vitale, che sfugge completamente alle categorie coniate per
interpretare il comportamento delle italiane e degli italiani e, soprattutto, delle donne e degli uomini meridionali in quel particolare momento
storico. Resistenza attiva/passiva, attendismo, zona grigia... si tratta di categorie che derivano da un’interpretazione maschile della guerra e della
resistenza. Ha dignità solo chi combatte con le armi. Gli altri sono visti nella posizione passiva dell’attesa, la posizione di chi non prende parte ed
è dunque considerato un vile. Le storie, oltre a spiegarci il senso dell’attesa e del silenzio, ci mostrano anche un mondo forte e coraggioso, ben
lontano da quell’immagine di zona grigia e amorfa con cui è stato stereotipicamente dipinto in tanta storia ufficiale. La «zona grigia» è un vero
buco nero che ingoia differenze, ragioni personali, atti individuali e di gruppo. E riduce il ventaglio delle scelte a due sole possibilità: nascondersi
o resistere in modo organizzato e armato all’occupante nazista. Oscura le pratiche di opposizione e di difesa messe in atto dalle persone comuni.
E questa è una considerazione che non vale solo per il nostro caso, ma ha un senso più generale. Mi riferisco ai discorsi sulla resistenza ordinaria
affrontati nell’introduzione, che spero abbiano acquistato concretezza nel corso della ricostruzione storica.

Da tutto ciò si può trarre qualche suggestione sul tema dell’identità italiana. La patria che naufraga nel settembre 1943 è la «patria in armi», per
usare un’espressione coniata appunto sul finire dell’Ottocento sull’onda dei nazionalismi che portarono alla prima guerra mondiale, una patria
virilmente intesa. Esiste un’altra patria, che resiste e che va a comporre, nel bene e nel male, parte inscindibile dell’identità italiana. La
potremmo definire un’identità debole, in un certo senso femminile. Si tratta di caratteri che possono facilmente essere volti al negativo, seguendo
un processo di stereotipizzazione comune, che, come è noto, si esplica in particolare per le riflessioni sul Mezzogiorno: la forza della famiglia
diventa familismo, la so lidarietà viene descritta come sentimentalismo ecc. Molte di queste storie sono state raccontate da donne, in
maggioranza illetterate. Paesane o cittadine, vivono condizioni e fasi diverse del conflitto, ma sono accomunate da un modo analogo di sentire e di
narrare, tanto più evidente se si paragonano i loro racconti con quelli delle donne che allora erano studentesse e che sono filtrati, come quelli dei
loro compagni maschi, dalla retorica del tempo. Le donne illetterate sono ovviamente più lontane dall’ideologia e dalla cultura del regime (le
storie sono anche un’interessante fonte per misurare la diffusione della cultura fascista) e più legate all’esperienza quotidiana, alla vita reale.

Sappiamo che non esistono mondi separati e che non possiamo pensare il mondo popolare degli anni trenta e quaranta come un mondo a parte,
autonomo e impermeabile alle sollecitazioni culturali di un regime così attento ai messaggi mediatici; ciò nonostante le immagini evocate da
queste donne rimandano a qualcosa di p rofondamente diverso, di estraneo alle narrazioni ufficiali, su cui dovremmo comunque riflettere.
Elenco dei testimoni

Ada B., Benevento 1933: intervista di Rosa Gatti, 1996.

Addelio Giovannina, Bellona 1928: interviste di Gabriella Gribaudi, 2000 e 2001.

Agresti Egidio, Itri 1936: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Amodio Armida, Portici 1923: intervista di Adele Simeoli, 1998.

Amoretti Antonio, Napoli 1927: interviste di Salvo Ascione, 1995, e di Gabriella Gribaudi, 2003.

Anna A. (nome fittizio), Cassino 1928: intervista di Francesca Burdi, 2000.

Antonella A. (nome fittizio), Campodimele 1919: intervista di Francesca Lauretti, 2000.

Ascione Nino, Napoli-Ponticelli 1927: intervista di Gabriella Gribaudi, 1998.

Aubry Armando, Napoli 1921: intervista di Maria Giorgio, 1996.

Auricchio Elisabetta, Portici 1919: intervista di Annalisa Poli, 2001.

Aurino Eduardo, Napoli-Ponticelli 1922: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

Barrella Antonio, Napoli 1929: intervista di Sara Barrella, 2001.

Barretta Maria, Napoli 1926: intervista di Mariangela Laurini e Vincenza Sena, 1997.

Basile Antonio, Napoli 1930: intervista di Paolo Ciardo, 2002.

Belli Aurora e Pia, Sant’Anastasia 1928 e 1932, con la madre Elena Nocerino, 1909: intervista di Anna Rosa Donizzetti, 1997.

Bivash Alberto, Napoli 1931: intervista di Gabriella Gribaudi, 2001.

Borrelli Aniello, Napoli-Ponticelli 1929: intervista di Gabriella Gribaudi, 1998.

Borrelli Maria, Napoli-Ponticelli 1939: intervista di Gabriella Gribaudi, 1998.

Borrelli Salvatore, Napoli 1934: intervista di Salvo Ascione, 1995.

Branco Elio, Cancello Arnone 1922: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Brandi Antonietta, San Giorgio a Cremano 1922: intervista di Adele Simeoli, 1998.

Buglione Francesco, Capua 1935: intervista di Maria Buglione, 1997.

Buglione Ugo, Capua 1930: intervista di Maria Buglione, 2001.

Cafaro Giuseppe, Bellona 1930: intervista di Gabriella Gribaudi, 2002.

Camilla B. (nome fittizio), Lenola 1918: intervista di Francesca Lauretti, 2000.

Cammardella Franco, Napoli 1926: intervista di Salvo Ascione, 1993.

Cannavale Erminia, Napoli 1923: intervista di Graziamaria Variale, 1997.

Carbone Pietro, Capua 1927: intervista di Maria Buglione, 2000.

Carmela M., Napoli-Ponticelli 1916: intervista di Roberta De Rosa e Giuseppa Di Sarno, 1996.

Caterino Luigi, Mondragone 1929: intervista di Salvo Ascione e Andrea De Santo, 2001.

Cavuoto Arturo, Ceppaloni 1914: intervista di Verdolina Testa, 2000.

Cavuoto Decio, Ceppaloni 1930: intervista di Verdolina Testa, 2000.

Ceraldi Carmela, Mondragone 1926: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Cerasuolo Maddalena, Napoli 1919: intervista di Salvo Ascione, 1995.

Chianese Liliana, Napoli-Ponticelli 1926: intervista di Marisa Chianese, 1997.

Chierchia Antonio, Cancello Arnone 1925: intervista di Alberto Esposito, 2003.

Ciciliano Teresa, Napoli 1931: intervista di Elena Luongo, 1997.

Condurso Riccardo, Napoli 1934 (sfollato a Teano): intervista di Gabriell a Gribaudi, 2002.

Conte Tommasina, Napoli 1915: intervista di Roberta De Rosa e Giuseppa Di Sarno, 1996.

Coppola Antonio, Napoli 1931: intervista di Angelo Orefice, maggio 2003.

Coronella Salvatore, Mondragone 1911: intervista di Salvo Ascione e Andrea De Santo, 2000.

Costanza C. (nome fittizio), Lenola 1922: intervista di Francesca Lauretti, 1999.

D’Alessandro Elena, Napoli 1934: intervista di Simona Renda, 1997.

D’Amore Mario, Napoli 1943: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

D’Andrea Anna, Castellammare di Stabia, 1921: intervista di Valentina Stile, 1997.

D’Angelo Sabbatino, Ceppaloni 1925: intervista di Verdolina Testa, 2000.

De Blasio Addolorata, Napoli 1927 (sfollata nel Casertano dopo aver perso la casa): intervista di Tiziana De Blasio, 1997.

De Falco Vincenzo, Napoli 1928: intervista di Tiziana Calabrese, 2001.

Defez Alberto, Napoli 1923: interviste di Salvo Ascione, 1995, e Gabriella Gribaudi, 2001.
Della Valle Maria, Cancello Arnone 1920: intervista di Alberto Esposito, 2003.

Del Peschio Armando e Francesca, Napoli 1 906 e 1910: intervista di Leandra Figliuolo e Antonio Caiafa, 2001.

De Martino Rosa, Napoli 1924: intervista di Lucia Nicodemo, 1997.

De Micco Vincenzina, Cancello Arnone 1909: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

De Rosa Anna (nome fittizio), Napoli 1933: intervista di Carla Fortunato, 1996.

De Simone Giulio, Tora e Piccilli 1928: interviste di Gabriella Gribaudi, 2002 e 2003.

Di Caprio Maria Teresa, Cancello Arnone 1933: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Di Cecio Ugo, Capua 1928: intervista di Maria Buglione, 2000.

Di Donato Giuseppe (nome fittizio), Castellammare di Stabia 1920: intervista di Adele Simeoli, 1998.

Di Gennaro Vincenzo, Napoli 1928: intervista di Marilena Di Gennaro, 1997.

Di Porzio Gaetano, Napoli-Ponticelli 1927: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

D’Onofrio Luigi (nome fittizio), Napoli 1918: intervista di Emanuela De Marco, 1998.

D’Orsi Giuseppe, Ceppaloni 1931: intervista di Verdolina Testa, 2000.

Esposito Antonio, Napoli 1925: intervista di Vittorio Meola, 2001.

Esposito Carmela, Cicciano 1925: intervista di Angela Cherubini, 1997.

Esposito Savino, Napoli-Ponticelli 1914: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

Esposito Teresa, Napoli 1930: intervista di Lucia Nicodemo, 1997.

Falco Clarissa, Napoli 1923 (nel 1942-43 era sfollata a Tora e Piccilli, nel palazzo di famiglia): intervista di Gabriella Gribaudi, 2003.

Farinaro Andrea, Tora e Piccilli 1928: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Farinaro Concetta, Tora e Piccilli 1925: intervista di Gabriella Gribaudi, 2003.

Farinaro Nice, Tora e Piccilli 1921: intervista di Gabriella Gribaudi, 2003.

Fattore Annamaria, Sparanise 1935: interviste di Gabriella Gribaudi, 2000 e 2002.

Feleppa Mario, Benevento 1926: intervista di Cinzia Rummo, 2003.

Feo Antonio, Benevento 1924: intervista di Cinzia Rummo, 2003.

Ferrone Rosaria, Capua 1934: intervista di Maria Buglione, 2001.

Forino Carmela, Pagani 1916: intervista di Antonella Peluso, 1996.

Formicola Giorgio, Ercolano 1932: intervista di Adele Simeoli, 1998.

Fune Lodovico, Benevento 1924: intervista di Cinzia Rummo, 2003.

Fusaro Rosa, Napoli 1928: intervista di Rossella Coppola, 1997.

Fusco Giuseppe, Napoli 1920: intervista di Salvatore Sorrentino, Nadia Russo, Sabato Tortorella, 2001.

Gaglione Carmine, Napoli 1930: intervista di Paolo Ciardo, 2002.

Gallichi Vi ttorio, Napoli 1928: interviste di Gabriella Gribaudi, 2001 e 2003.

Gallo Giuseppina, Mondragone 1920: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Gallotti Pasquale, Napoli 1923: intervista di Simona Tafuri, 1996.

Garofano Anna, Torre del Greco 1921: intervista di Maria Mustardino, 1997.

Genovese Maria (nome fittizio), Napoli 1928: intervista di Gabriella Gribaudi, 1994.

Gerardo M., Napoli-Ponticelli 1922: intervista di Marisa Gallo, 2001.

Giorgio Cesare, Napoli 1929: intervista di Gabriella Gribaudi e Stefania Alvino, 1991.

Giovanna G. (nome fittizio), Campodimele 1920: intervista di Francesca Lauretti, 2000.

Giovansante Luigi, Napoli 1920: intervista di Antonio Caiafa e Leandra Figliuolo, 2001.

Giuseppe F., Ercolano 1925: intervista di Cira Acampora, 2001.

Giuseppe L., Napoli 1924: intervista di Ilaria Vitiello e Annarita Esposito, 1996.

Gradini Ersilia, Cassino 1929: intervista di Francesca Burdi, 2000.

Graziano Gaetano, Cancello Arnone 1921: intervista di Gabriella Gribaudi, 20 04.

Greco Flora, Catanzaro 1913 (a Napoli dal 1918 circa): intervista di Daniela Costanzo, 1996.

Grimaldi Grazia, Napoli 1924: intervista di Lucia Nicodemo, 1997.

Iaccarino Giuseppe, Napoli 1925: intervista di Francesca Palmieri e Veronica Rendina, 2001.

Iannucci Antonio, Napoli 1933: intervista di Vittorio Meola, 2001.

Imparato Dolores, Napoli 1913: intervista di Vittorio Meola, 2001.


Imperatore Giovanni, Mugnano 1925: intervista di Gabriella Gribaudi, 1999.

Ingicco Giuseppina, Capua 1927: intervista di Maria Buglione, 1997.

Laganà Alliata Domenica, Napoli 1914: intervista di Manuela Fato, 1997.

Lanziello Massimo, Capua 1923: intervista di Maria Buglione, 2000.

Leone Vincenzo, Napoli 1929: intervista di Olga Perricone, 2001.

Levi Mario, Napoli 1910: intervista di Gabriella Gribaudi, 2001.

Lobascio Anna, Napoli 1913: intervista di Stefania Alvino, 1991.

Lo Fabio Pasqualina, Scisciano 1930: intervista di Marisa Di Palma, 1997.

Lubrano Michele, Napoli 1926: intervista di Salvo Ascione, 2000.

Lucia R., Ceppaloni 1919: intervista di Verdolina Testa, 2000.

Lucianelli Alfredo, Teano 1939: intervista di Gabriella Gribaudi, 2002.

Lucio Giuliano, Marzano Appio 1935: intervista di Gabriella Gribaudi, 2002.

Ludovica L. (nome fittizio), Lenola 1930: intervista di Francesca Lauretti, 2000.

Luongo Anna, 1931: intervista di Dénise Galiero, 2004.

Macera Giuseppe, Mondragone 1920: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Maglione Maria, Napoli-Ponticelli 1916: intervista di Roberta De Rosa e Giuseppa Di Sarno, 1996.

Majolo Livia, Napoli 1908: intervista di Barbara Viscione, 1997.

Malatesta Michele, Cassino 1925: intervista di Francesca Burdi, 2000.

Mandato Maria, Capua 1923: intervista di Maria Buglione, 2000.

Manfro Salvatore, Torre Annunziata 1926: intervista di Marianna Cirillo, 1997.

Mari Antonio, Napoli 1931: intervista di Gianfranco Mari, 2000.

Maria B., Napoli-Ponticelli 1927: intervista di Roberta De Rosa e Giuseppa Di Sarno, 1996.

Maria C., Pomigliano D’Arco 1927: intervista di Adele Rea, 1996.

Maria G., Napoli-Ponticelli 1927: intervista di Roberta De Rosa e Giuseppa Di Sarno, 1996.

Maria P. (nome fittizio), Campodimele 1924: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Maria R., Napoli 1924: intervista di Andrea Sanseverino, 1997.

Maria V. (nome fittizio), Lenola 1927: intervista di Francesca Lauretti, 1999.

Mario P., Napoli 1921: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

Marra Antonietta, Cancello Arnone 1916: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Mastrostefano Vincenzo, Teano 1936: intervista di Gabriella Gribaudi, 2002.

Matilde B., Napoli 1934: intervista di Maria Latrelli, 1997.

Mazzone Patrizio, Ceppaloni 1931: intervista di Verdolina Testa, 2000.

Melania M., Napoli-Ponticelli 1927: intervista di Marisa Gallo, 2001.

Merola Annibale, Capua 1929: intervista di Maria Buglione, 2000.

Mignone Angelina, Beltiglio-Ceppaloni 1913: intervista di Verdolina Testa, 2000.

Minino Ernesto, Napoli 1929: intervista di Salvo Ascione, 1995.

Monteriso Rosina, Napoli 1921: intervista di Angela De Donato, 2004.

Musto Maria, Napoli 1915: intervista di Francesca Palmieri e Veronica Rendina, 2001.

Napolitano Teresa, Cicciano 1924: intervista di Carmen Napolitano, 1997.

Nardone Carolina, Bellona 1917: interviste di Gabriella Gribaudi, 2000 e 2001.

Narducci Alessandro, Napoli 1930: intervista di Salvo Ascione, 2000.

Nerone Enrichetta, Napoli 1920: intervista di Paolo Ciardo, 2002.

Nicodemo Carmela, Napoli 1928: intervista di Lucia Nicodemo, 1997.

Nunzia R., Napoli-Ponticelli 1923: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

Pagano Pasquale, Torre Annunziata 1927: intervista di Lucia Sena, 1996.

Pagliaro Emilio, Mondragone 1933: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Palumbo Giovanni, Castellammare di Stabia 1910: intervista di Valentina Stile, 1997.

Panicaro Giuseppe, Teano 1925: intervista di Gabriella Gribaudi, 2002.

Paolino Maria, Marzano Appio 1925: intervista di Gabriella Gribaudi, 2002.


Pasquale C., Pomigliano d’Arco 1928: intervista di Adele Rea, 1996.

Pelagalli Angelo, Capua 1936: intervista di Maria Buglione, 2000.

Peluso Teresa, Portici 1924: intervista di Annalisa Poli, 2001.

Penna Pellegrino, Ceppaloni 1927: intervista di Verdolina Testa, 2000.

Petino Gennaro, Napoli 1939: intervista di Claudia Petino, 2003.

Piccolo Mario, Napoli-Ponticelli 1921: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

Raffaella M., Napoli 1923: intervista di Daniela Esposito, 1997.

Rega Rosario, Napoli 1934: intervista di Gianfranco Mari, 2000.

Rendina Maria, Capua 1929: intervista di Maria Buglione, 2000.

Riccio Giuseppe, Napoli 1933: intervista di Giulia Valentino e Manuela Scotto di Carlo, 2001.

Rivellini Pietrantonio (fra Bernardino), Benevento 1915: intervista di Marianna Mazzeo, 1997.

Romano Annamaria, Napoli 1926: intervista di Daniela Costanzo, 1996.

Romano Giuseppina, Napoli 1920: intervista di Vittorio Meola, 2000.

Rosa M. (nome fittizio), Campodimele 1923: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Russo Francesco, Napoli 1927: intervista di Alfredo Ciaramella, 1996.

Salierno Vincenzo, Buonalbergo 1930: intervista di Salvo Ascione e Andrea De Santo, 2001.

Sannino Pasquale, Napoli-Ponticelli 1937: intervista di Gabriella Gribaudi, 1998.

Sannino Teresa, Napoli-Ponticelli 1919: intervista di Gabriella Gribaudi, 1998.

Sanno Vincenzo, Napoli 1931: intervista di Salvo Ascione, 2000.

Savino E., Napoli-Ponticelli 1914: intervista di Rosalia D’Amore, 1996.

Scherma Antonio, Napoli 1932: intervista di Paolo Ciardo, 2002.

Sciacca Ada, San Giorgio a Cremano 1925: intervista di Adele Simeoli, 1998.

Silvana R. (nome fittizio), Campodimele 1933: intervista di Francesca Lauretti, 2000.

Simonetti Giuseppina, Napoli 1927: intervista di Angelo Orefice.

Sinigallia Aldo, Napoli 1911: intervista di Gabriella Gribaudi, 2001.

Sommella Anna, Napoli 1920: intervista di Tiziana Liccardo, 1997.

Sorge Elena, Napoli 1923: intervista di Carmela Mormile, 1997.

Sorrentino Armando, Napoli-Ponticelli 1926: intervista di Gabriella Gribaudi, 1998.

Sortini Vittorio, Capua 1929: intervista di Maria Buglione, 1997.

Stanzione Concetta, Napoli 1931: intervista di Gabriella Gribaudi e Stefania Alvino, 1991.

Taffuri Cristina, Fontanelle di Teano 1921: intervista di Anna Marrese, 2002.

Tafuri Delia, Napoli 1923: intervista di Simona Tafuri, 1997.

Taglialatela Filomena, Mondragone 1922: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Taglialatela Giuseppina, Mondragone 1924: intervista di Gabriella Gribaudi, 2004.

Tarallo Immacolata, Napoli - San Giovanni a Teduccio 1923: intervista di Adele Simeoli, 1998.

Toscano Domenico, Napoli 1930: intervista di Martina Mauriello, 1997.

Totaro Alfonso, Napoli 1920: intervista di Paolo Ciard o, 2002.

Valeriani Franco, Bellona 1931: interviste di Gabriella Gribaudi, 2001 e 2002.

Valletta Gaetana, Capua 1916: intervista di Maria Buglione, 2000.

Vassetti Franco, Napoli 1936: intervista di Salvo Ascione, 2001.

Villano Maria, Bellona 1920: intervista di Gabriella Gribaudi, 2002.

Vinciguerra Antonio, Capua 1924: intervista di Maria Buglione 2001.


Elenco delle abbreviazioni
AAF: American Air Force

ACS: Archivio Centrale dello Stato, Roma

AFHRA: Air Force Historical Research Agency, Maxwell (Alabama)

AMG: Allied Military Government

AMGOT: Allied Military Government of Occupied Territories

ANPI: Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

ASL: Archivio di Stato di Latina

ASN: Archivio di Stato di Napoli

BA-MA: Bundesarchiv-Militärarchiv, Freiburg im Breisgau

CLN: Comitato di Liberazione Nazionale

CRI: Croce Rossa Italiana

ECA: Ente Comunale di Assistenza

GUF: Gruppo Universitario Fascista

INA: Istituto Nazionale Assicurazioni

MP: Military Police

NAAF: Northwest African Air Force

NARA: US National Archives & Records Administration, College Park (Maryland)

NASAF: Northwest African Strategic Air Force

NATAF: Northwest African Tactical Air Force

PNF: Partito Nazionale Fascista

POW: Prisoner of War

PRO: Public Record Office, Kew, London (AIR: Air Ministry; CAB: Cabinet; FO: Foreign Office; PREM: Prime Minister; WO: War Office)

PS: Pubblica Sicurezza

RAF: Royal Air Force

SHAT: Service Historique de l’Armée de Terre, Château de Vincennes, Paris

SIM: Servizio Informazione Militare

SPAHO: Sezione Profughi dell’Allied Health Organization

SS: Schutz Staffeln (Squadre di sicurezza)

UDI: Unione Donne Italiane

UNPA: Unione Nazionale Protezione Antiaerea


Note
Introduzione

1 «Non tutti gli eventi sono della stessa specie, soprattutto non hanno la stessa funzione rappresentazionale. Ve ne sono alcuni che si integrano
con il racconto, che è omogeneo e continuo, e hanno principalmente il compito di descrivere, rappresentare, sintetizzare un avvenimento
specifico. Sono dunque coerenti e armonici con il discorso che si sta facendo [...] Abbiamo poi un altro tipo di eventi che penetrano nella
narrazione, rompono il racconto, fratturano un ritmo, creano una sospensione». L’evento orienta, in questo caso, l’intera storia biografica. «La
vita viene separata in due segmenti distinti: il prima, il tempo che ha preceduto l’evento [...], il dopo, il tempo presente, diretta emanazione di
quel momento fatidico. [...] Eventi di questo tipo, non riescono a catalizzare altri fatti della vita [...] si impongono unici e solitari, emergendo
imprevedibilmente da un contesto narrativo impreparato a raccoglierli. Questo concetto di evento ha un’assonanza con quello che più
comunemente viene definito un evento traumatico o semplicemente trauma». «Non soggetti all’oblio, evidente fallimento della rimozione, [questi
eventi] mantengono inalterato il loro carattere di concretezza [...] non riescono a essere proposti nelle vesti di come se, ma restano costretti a
mantenere rigidamente il carattere in sé» (G. Starace, Il racconto della vita. Psicoanalisi e autobiografia, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 44-
47).
2 S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La grande guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. 14-18,
retrouver la Guerre, Gallimard, Paris 2000), p. 4.
3 Clemenceau nel 1917 parlava di «guerra integrale», indicando con tale categoria lo sforzo massimo di mobilitazione nazionale. Un concetto
simile esprimeva l’anno successivo Léon Daudet con «guerra totale». Di «guerra totale» parlava il generale tedesco Ludendorff durante la prima
guerra mondiale alludendo alla necessità di un comando militare centralizzato sull’esercito, sull’economia e sulla società; ciò che la caratterizzava
era il potere dello stato sui cittadini, supportato da un’ideologia nazionalista e militarista. Non a caso nella traduzione inglese del 1938 Der Total
Krieg divenne Totalitarian War. L’espressione Totalitarian War fu utilizzata anche per commentare la campagna italiana in Abissinia e per
caratterizzare l’atteggiamento ideologico da crociata che l’aveva contrassegnata (H. Strachan, Total War in the Twentieth Century, in A. Marwick
e W. Simpson, a cura di, Total War and Historical Change: Europe 1914-1955, Open University Press, Buckingham-Philadelphia 2001, pp. 261-62).
D’altro canto, proprio in quegli anni, fascismo e nazismo facevano dell’etica della guerra la loro ideologia assoluta, il terreno su cui si sarebbe
dovuto costruire l’uomo nuovo (M. Di Giovanni, Violenza e tecnica. Fenomenologia bellica e coscienza collettiva nel Novecento, in Guerra,
«Parolechiave», n. 20-21, 1999). Il processo attraverso cui la guerra in quanto violenza generatrice diventa la base delle ideologie totalitarie è
egregiamente illustrato da G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 1982 (ed. or. Masses and Man, Fertig,
New York 1980) e La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), il Mulino, Bologna 1975
(ed. or. The Nationalization of the Masses, Fertig, New York 1975) e da E. Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia
fascista, Laterza, Roma-Bari 1993. Dal 1945 «guerra totale» è diventata una categoria generale usata per descrivere tutte le distruzioni delle
guerre. Churchill nel 1943 al Congresso degli Stati Uniti disse: «Modern war is total» (Strachan, Total War in the Twentieth Century cit., p. 262).
4 D. Gagliani, La guerra come perdita e sofferenza. Un vagabondaggio negli evi e nelle rilevanze storiografiche, in Guerra, «Parolechiave» cit.

5 I.F.W. Beckett, Total War, in Marwick e Simpson (a cura di), Total War and Historical Change: Europe 1914-1955 cit., p. 26. All’inizio del secolo
Wells in The War of the Worlds definiva guerre «limitate» quelle ottocentesche e anticipava l’idea di un conflitto che, a causa della nuova potenza
tecnica, avrebbe distrutto non solo le forze militari del nemico ma anche la sua organizzazione economica e sociale. La percezione che l’intera
società sarebbe stata coinvolta nella guerra futura era comune a molti scrittori alla fine dell’Ottocento. La vittoria sarebbe andata alla potenza
che avesse utilizzato meglio la scienza moderna e avesse dimostrato la maggiore capacità di organizzazione pratica (H.G. Wells, The War of the
Worlds, London-New York 1898, citato in A. Lyttelton, Il secolo che nasce: profezie e previsioni del Novecento, in Novecento, «Parolechiave», n.
12, 1996, pp. 137-38).

6 S. Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Storia d’Italia. Annali, 18, Guerra e pace, Einaudi, Torino
2002, p. 470.

7 Strachan, Total War in the Twentieth Century cit., p. 278.

8 R.A. Preston e S.F. Wise, Storia sociale della guerra, Mondadori, Milano 1973 (ed. or. Men in Arms, Praeger, New York 1956). Si vedano a questo
proposito le riflessioni di Dianella Gagliani, La guerra come perdita e sofferenza cit., p. 193, e di Beckett, Total War cit., p. 26: «Tradizionalmente
gli storici hanno descritto la seconda metà del Settecento come l’epoca della guerra limitata, in cui armate relativamente piccole combattevano
per obiettivi territoriali limitati in relazione a scopi politici o dinastici. Ma un’analisi più ravvicinata rivela che tra il 1648 e il 1789 la guerra è
limitata soltanto se la si confronta con gli olocausti del Novecento e la totalità delle guerre napoleoniche».

9 J. Keegan, La grande storia della guerra. Dalla preistoria ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1994 (ed. or. A History of Warfare, Knopf, New York
1993), p. 27.
10 Ibid., p. 12.

11 G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994, in particolare l’introduzione di
Ranzato e il saggio di C. Pavone, La seconda guerra mondiale: una guerra civile europea? Di Gabriele Ranzato si vedano anche il saggio Guerra
totale e guerra civile nel XX secolo, in Guerra, «Parolechiave» cit. e il volume L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini
1931-1939, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
12 Fa notare Gabriele Ranzato (Guerra totale e guerra civile cit., p. 242) come, nel caso della guerra civile americana, le truppe unioniste, che
operarono rappresaglie, decimazioni, massacri indiscriminati, fino a giungere a un vero e proprio sterminio della popolazione del Missouri, si
configurano sostanzialmente come un esercito occupante, che diffida della popolazione, non distingue fra amico e nemico. Significative le parole
pronunciate nel 1864 dal comandante Sheridan citate da Strachan. «La strategia appropriata consiste nell’inferire il massimo delle ferite ai
soldati nemici, e causare nelle popolazioni una sofferenza tale che essi desiderino ardentemente la pace, e forzino il governo a chiederla. La gente
non dovrà avere più nulla se non gli occhi per piangere la guerra» (Strachan, Total War in the Twentieth Century cit., p. 255).
13 Strachan, Total War in the Twentieth Century cit., p. 265. Sulle guerre coloniali cfr. N. Labanca, Dominio e repressione. I crimini di guerra
nelle colonie italiane, in L. Baldissara e P. Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004, e N. Labanca,
Guerre coloniali e guerre europee: il problema del nemico, relazione al convegno La guerra e il Novecento, Università degli studi di Napoli
«Federico II», Napoli 3-5 giugno 2004, in via di pubblicazione negli atti del convegno.

14 E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002, p. 25.

15 J. Horne, Les civils et la violence de guerre, in S. Audoin-Rouzeau, A. Becker, C. Ingrao e H. Rousso (a cura di), La violence de guerre 1914-
1945, Editions Complexe, Paris 2002, p. 143. I termini usati da Horne sono di G. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti,
Laterza, Roma-Bari 2002 (1a ed. 1990).
16 Mosse, Le guerre mondiali cit., capitoli VII e VIII. I concetti di George Mosse vengono ripresi da A. Becker e H. Rousso, D’une guerre l’autre, in
Audoin-Rouzeau, Becker, Ingrao e Rousso (a cura di), La violence de guerre 1914-1945 cit., p. 23.
17 A. Prost, Brutalisation des sociétés et brutalisation des combattants, in B. Cabanes e E. Husson (a cura di), Les sociétés en guerre 1911-1946,
Armand Colin, Paris 2003, p. 101.

18 Ibid., pp. 101-02. Cfr. anche J. Bourke, Le seduzioni della guerra, Carocci, Roma 2001 (ed. or. An Intimate History of Killing, Basic Books, New
York 1999).
19 C. Pavone, La guerra en la historia. Apuntes para una investigación sobre la guerra total en el siglo XX, in A. Vaca Lorenzo (a cura di), La
guerra en la historia, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca 1999, p. 255. Enzo Traverso vi vede la conclusione di un processo di
modernizzazione e serializzazione dei dispositivi di messa a morte che cominciano con la rivoluzione industriale. «Le camere a gas e i forni
crematori sono l’epilogo di un lungo processo di disumanizzazione e di industrializzazione della morte che integra la razionalità strumentale, sia
produttiva sia amministrativa, dell’impresa capitalistica occidentale, e fa uso delle nuove forme di dominio sociale e di disciplina dei corpi
elaborate nell’Ottocento (la fabbrica, l’esercito, la prigione)» (Traverso, La violenza nazista cit., p. 26).
20 Voltaire, Guerra (guerre), voce del Dizionario filosofico, Mondadori, Milano 1962. La voce è riportata in Guerra, «Parolechiave» cit., p. 343.

21 O. Bartov, Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945), il Mulino, Bologna 2003 (ed. or. The Eastern
Front, St. Martin’s Press, New York 1986).
22 Sulla violenza nei territori occidentali occupati cfr. L. Klinkhammer, La politica di occupazione nazista in Europa. Un tentativo di analisi
strutturale, in Baldissara e Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra cit., pp. 61-88; O. Wieviorka, Crimini di guerra e memoria pubblica in
Francia, ibid., pp. 142-56. Per quel che riguarda l’Italia si veda l’ormai consolidato filone di studi sulle stragi naziste di civili: G. Agnone e G.
Capobianco, La barbarie e il coraggio. Riflessioni sul massacro nazista di SS. Giovanni e Paolo. Caiazzo-13 ottobre 1943, a cura dell’Associazione
Storica del Caiatino, Napoli 1990; G. Schreiber, L’eccidio di Caiazzo e le miserie della giustizia tedesca, in «Italia contemporanea», n. 201, 1995;
L. Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, manifestolibri, Roma 1996; M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione
tedesca e politica del massacro, Toscana, 1944, Marsilio, Venezia 1997; G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; L. Klinkhammer,
Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997; P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una
strage tedesca, il Mulino, Bologna 1997; L. Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, La Nuova Italia, Firenze 1997; A.
Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999; P. Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di
Niccioleta, il Mulino, Bologna 2001; B. Maida, Prigionieri della memoria. Storia di due stragi della Liberazione, Franco Angeli, Milano 2002; M.
Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori, Milano
2002; G. Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; Baldissara e
Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra cit. Una rassegna critica in G. Gribaudi, Violenza e responsabilità nella guerra. Alcuni volumi sui
massacri nazisti in Italia, in «Quaderni storici», n. 100, 1999. Riccardo Chiaberge (Salvato dal nemico. 1944: una strage nazista nell’Italia divisa
dall’odio, Longanesi, Milano 2004) a partire da una strage nazista realmente accaduta, seguendo il filo di lettere, documenti e racconti familiari,
ha costruito un racconto letterario.
23 P. Fussell, Tempo di guerra. Psicologia, emozioni e cultura nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1991 (ed. or. Wartime, Oxford
University Press, New York 1989), pp. 151-53.
24 Horne, Les civils et la violence de guerre cit., p. 144.

25 P. Lagrou, La «guerra irregolare» e le norme della violenza legittima nell’Europa del Novecento, in Baldissara e Pezzino (a cura di), Crimini e
memorie di guerra cit.; P. Pezzino, Occupanti, partigiani, popolazioni civili in Italia: le variabili di un rapporto conflittuale, relazione al convegno
La guerra e il Novecento cit. (in via di pubblicazione negli atti del convegno).

26 Pavone, La seconda guerra mondiale: una guerra civile europea? cit.

27 E. Galli Della Loggia, Una guerra «femminile»? Ipotesi sul mutamento dell’ideologia e dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in A.
Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 7-8.
28 L. Capdevila, Identités masculines et féminines pendant et après la guerre, in E. Morin-Rotureau (a cura di), 1939-1945: combats de femmes.
Françaises et Allemandes, les oubliées de la guerre, «Autrement», n. 74, 2001, p. 210.

29 F. Virgili, La France «virile». Des femmes tondues à la libération, Payot, Paris 2000, p. 306.

30 F. Conti, I prigionieri di guerra italiani (1940-1945), il Mulino, Bologna 1986.

31 Capdevila, Identités masculines et féminines cit., p. 211.

32 Su questo tema ha sviluppato interessanti riflessioni A. Bistarelli, Fedeli a chi, fedeli a cosa? I militari italiani durante i periodi di crisi,
relazione al convegno SISSCO, Cantieri di Storia, sessione su Percorsi di vita e modelli disciplinari nei pubblici apparati (a cura di C. Castellano),
Lecce, 27 settembre 2003.
33 Si noti il brano con cui si chiude il volume di R. Vivarelli, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, il Mulino, Bologna 2000: «Credo che in
Italia la vera divisione, almeno sul piano morale, non sia tanto fra chi ha combattuto in buona fede da una parte della barricata e chi dall’altra,
bensì tra coloro i quali, una minoranza, sia pure in base a convinzioni diverse e basate su una diversa concezione dei fatti e quin di di una loro
diversa valutazione hanno comunque messo a repentaglio allora la loro vita e coloro i quali invece, la maggioranza, hanno preferito stare alla
finestra e vedere come andava a finire». Si vedano a questo proposito le riflessioni critiche di A. Lepre, Storia degli italiani nel Novecento,
Mondadori, Milano 2003, p. 218: «Negli ultimi anni ci sono stati tentativi di reciproco riconoscimento tra combattenti. Non di legittimazione [...]
ma di riconoscimento sì: sia gli uni che gli altri hanno definito “attendisti” coloro che non si schierarono apertamente o, come si è detto in
maniera spregiativa, rimasero alla finestra. Si è data così maggiore forza all’immagine della “zona grigia”, che sarebbe rimasta in attesa, pronta a
schierarsi dalla parte del vincitore. Ma dal 1943 al 1945 nessuno restò alla finestra. Se è vero che solo una minoranza combatté, è altrettanto
vero che la guerra coinvolse tutti, e non indirettamente. C’erano più probabilità di morire schiacciati sotto le macerie di un edificio bombardato o
in un treno improvvisamente mitragliato che di essere colpiti da una pallottola in un combattimento. [...] i veri eroi della seconda guerra mondiale
non ottennero nessun riconoscimento né da una parte né dall’altra. Non avevano imprese da tramandare, ma solo quella della quotidiana lotta per
la sopravvivenza. Talvolta vilipesa e sbeffeggiata dai celebratori degli eroi, ma lotta anch’essa, fatta non di momenti di effimera esaltazione
guerriera, ma di diuturna sofferenza».
34 Per quel che riguarda l’Italia i lavori a diffusione nazionale sui bombardamenti sono pochissimi. Fra questi: G. Bonacina, Obiettivo: Italia. I
bombardamenti aerei delle città italiane dal 1940 al 1945, Mursia, Milano 1970; C. De Simone, Venti angeli sopra Roma: i bombardamenti aerei
sulla Città eterna, 19 luglio e 13 agosto 1943, Mursia, Milano 1993; G. De Luna, Torino in guerra (1940-45), in Storia di Torino, vol. 4, Einaudi,
Torino 1998; A. Rastelli, Bombe sulla città: gli attacchi aerei alleati: le vittime civili a Milano, Mursia, Milano 2000. Su Napoli cfr. il volume del
giornalista del «Mattino» Aldo Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli, Marotta, Napoli 1968; l’analisi storico-letteraria di S. Lambiase e G.B.
Nazzaro, Napoli 1940-1945, Longanesi, Milano 1978 (nuova ed. L’odore della guerra. Napoli 1940-1945, Avagliano, Cava dei Tirreni 2002); G.
Chianese, Quando uscimmo dai rifugi. Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra, Carocci, Roma 2004, pp. 27-49.

35 Su questo tema si veda invece l’interessante e libero confronto tra E. Fano, A. Ferrara, P. Ferra ris, C. Pasquinelli, C. Pavone, S. Petrucciani, F.
Riccobono, M. Salvati, L. Zannino, Tra difesa dei diritti umani e ripudio del la guerra, in Guerra, «Parolechiave» cit., pp. 15-52.
36 Audoin-Rouzeau e Becker, La violenza, la crociata, il lutto cit., p. XXXIX.

37 G. Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000 (ed. or. Deutsche Kriegsverbrechen in
Italien, Beck, München 1996); Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit.

38 K. Trevisan, Jean Norton Cru. Anatomie du témoignage, in J.-F. Chiantaretto e R. Robin, Témoignage et écriture de l’histoire, L’Harmattan, Paris
2003, p. 48.
39 Karine Trevisan lo ha definito un linguaggio virile: quello di chi deve mostrare di essere freddo, forte e insensibile al dolore, non
impressionabile, non sentimentale (ibid.).
40 P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000 (trad. it. La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003); Id., Esquisse
d’un parcours de l’oubli, in T. Ferenczi (a cura di), Devoir de mémoire, droit à l’oubli?, Forum Le Monde, Le Mans, 26-28 ottobre 2001, Editions
Complexe, Paris 2002.
41 G. Lévy, Dire l’infime ou la langue du témoin, in Chiantaretto e Robin (a cura di), Témoignage et écriture de l’histoire cit., p. 279.

42 R. Robin, Autour de la notion de «représentance» chez Paul Ricœur, in Chiantaretto e Robin (a cura di), Témoignage et écriture de l’histoire
cit., p. 71.
43 M. de Certeau, La scrittura della storia, Il Pensiero Scientifico, Roma 1977 (ed. or. L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975), p. 2.

44 N. Lapierre, La discordance des temps, in Ferenczi (a cura di), Devoir de mémoire, droit à l’oubli? cit., p. 99. Si tratta di uno dei temi centrali
della memoria della Shoah, su cui Primo Levi ed Elie Wiesel hanno scritto pagine ineguagliabili. Per una rielaborazione complessiva si veda A.
Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina, Milano 1999 (ed. or. L’ère du témoin, Plon, Paris 1998).
45 «Le lingue sono fatte di buchi. Quando le si guarda dall’esterno, si nota che mancano numerose parole di cui ci sarebbe bisogno, si fatica a
credere che sia possibile raccontare una storia in quella lingua». Ghyslain Lévy cita qui Yoko Tawada, Narrateurs sans âmes (Lévy, Dire l’infime
ou la langue du témoin cit., p. 283). «Testimonianza» e «vero», ci dice Régine Robin, commentando Paul Celan, non possono passare attraverso
una «lingua limpida e ordinata» (Robin, Autour de la notion de «représentance» cit., p. 105).
46 M. de Certeau, L’invention du quotidien, vol. 1, Arts de faire, Gallimard, Paris 1990 (1a ed. 1980), pp. 118-21.

47 J. Topolski, Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 41-58.

48
J. Semelin, Sans armes face à Hitler. La Résistance civile en Europe 1939-1945, Editions Payot, Paris 1989; A. Bravo, Resistenza civile, in
Dizionario della Resistenza. Storia e geografia dell a liberazione, Einaudi, Torino 2000.
49 De Certeau, L’invention du quotidien, vol. 1, Arts de faire cit., pp. 119-22; J.C. Scott, Domination and the Arts of Resistance. Hidden
Transcripts, Yale University Press, New Haven-London 1990.
50 A. von Plato, Vittime in competizione? I perseguitati dal regime nazista e dai sovietici durante la Guerra fredda e il periodo della distensione, in
G. Corni e G. Hirschfeld (a cura di), L’umanità offesa. Stermini e memoria nell’Europa del Novecento, il Mulino, Bologna 2003; Wieviorka, L’era
del testimone cit. Si veda la discussione continuamente riproposta in Italia tra vittime del fascismo e vittime del comunismo con particolare
riferimento al caso istriano.
51
G. Levi, The Distant Past: On the Political Use of History, in J. Revel e G. Levi (a cura di), Political Use of the Past, «Mediterranean Historical
Review», vol. 16, n. 1, 2001, pp. 61-73.

1. La prima fase della guerra: i bombardamenti della RAF. Napoli, giugno 1940-novembre 1942
1
non credevamo che fosse una bomba, e sparavano più in basso qua.
2 per questo io non ero potuta andare a scuola, che io tanto ci tenevo a imparare a leggere e a scrivere. Noi dovevamo lavorare nella terra
assieme a loro, per imparare...

3 Mi ricordo che eravamo andati a mangiare a Capodimonte al ristorante O Schiavuttiello, ad un certo punto dalla radio sentimmo che è scoppiata
la guerra. Mi ricordo che era il 10 giugno 1940, era la festa della marina, mio marito non andò a lavorare e andammo a mangiare là. Come si
sentì questa notizia chi scappava di qua, chi scappa va di là, non si capì più niente. Mario disse: finiamo di mangiare e poi ce ne andiamo, tanto
per oggi non c’è pericolo. Finito di mangiare, pagammo e ce ne andammo. Un sacco di gente se ne fuggì senza pagare. Quando tornammo a casa
trovai mamma davanti alla radio con le mani in faccia. Già il giorno dop o Napoli si oscurò, la gente metteva le strisce alle finestre per non fare
scassare i vetri. Io ero contraria all’entrata in guerra perché sono pacifist a e poi che c’entravamo noi con questa guerra qua? Quell’altra era
finita da poco, ci stavamo ancora riprendendo, quest’altra con altri morti altri feriti non c’entra proprio. A quell’altra guerra mio fratello era
partito per il fronte, aveva fatto Caporetto e lo so io come era tornato! Ora, pensai, se chiamano mio marito e io come faccio che sono pure
incinta?
4 non noi, erano gli studenti che volevano la guerra.

5 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1.

6 PRO, AIR 2/7197, Operations against Italy by Bomber Squadrons, 3 maggio 1940: Note on Air Offensive against Italy.

7 Ivi, 3 giugno 1940. Il documento riporta la discussione tra inglesi e francesi in previsione dell’entrata in guerra dell’Italia. Erano presenti:
l’ammiraglio Darlan, il maresciallo dell’aeronautica Douglas, il generale Guillemin, l’ammiraglio Blake.

8 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1; ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, Cat. A5G, Seconda guerra mondiale, busta 88, fasc. 40-2-50.

9 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1. 16 dicembre 1940: funerale dei marinai morti sull’incrociatore Pola; 19 dicembre: funerale dei civili
morti nello stesso bombardamento; 8 gennaio 1941: funerali dei 4 marinai e dell’aspirante guardiamarina deceduti sul Giulio Cesare con corteo
funebre e appello fascista; subito dopo funerale delle vittime civili senza corteo.
10 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1.

11 Ivi, Fonogramma de i carabinieri dell’11 luglio 1941: «Il traffico dello scalo centrale è paralizzato. I serbatoi della società italo-americana di
petroli contenevano circa 8000 tonnellate di benzina assegnata nostra Marina da guerra et ci nque mila fusti di pertinenza del comando militare
tedesco». Notizie anche in ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, Cat. A5G, Seconda guerra mondiale, busta 88, fasc. 40-2-50.
12 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1, Informativa dell’11 luglio 1941.

13 Tornerò sul tema dei r icoveri nel terzo capitolo.

14 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1, Rapporto dell’Unione Nazionale Protezione Antiaerea (UNPA), 22 luglio 1941: «Il comandante
provinciale al Comando Generale, Oggetto: Incursione aerea nemica nella notte fra il 20 e il 21 luglio 1941». La notizia è confermata in ACS,
Ministero d ell’Interno, Gabinetto, Cat. A5G, Seconda guerra mondiale, busta 88, fasc. 40-2-50: le vittime, 7 donne e 2 bambini.
15 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1, Lettera del questore al prefetto, 23 luglio 1941.

16 Ivi, Lettera del colonnello comandante della legione territoriale dei carabinieri, gruppo esterno di Napoli, 26 luglio 1941.


17 Le lettere e i telegrammi citati sono conservati in ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1.

18 Ivi. Si noti che l’odio per gli accaparratori è una delle spinte più forti nelle vendette del settembre-ottobre 1943. Il segretario del fascio di
Ponticelli, ucciso dalla folla dopo la rappresaglia del 29 settembre 1943, era accusato innanzitutto di accaparrare beni mentre i cittadini morivano
di fame.
19 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1.

20 Ivi, Rapporto del 54° Corpo Vigili del Fuoco di Napoli su interventi per azioni di guerra, 28 ottobre 1941.


21 Ivi. Quelle che seguono sono due informative del 23 ottobre 1941.

22 I due volantini sono anch’essi conservati in ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1. Nell’estate del 1941 la Germania, con l’«operazione
Barbarossa», aveva dato inizio alla penetrazione nel territorio sovietico. L’Italia prese parte alla spedizione con 220000 uomini.
23 Ivi, Rapporto del 54° Corpo Vigili del Fuoco di Napoli su interventi per azioni di guerra, 26 novembre 1941.

24 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1, Fonogramma a mano firmato «Il generale di Divisione Comandante Gaetano Fricchiono», Comando
della Difesa Territoriale di Napoli, 12 novembre 1941.
25 Tutte le informative citate sono conservate in ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1221/1.
2. La guerra vista dall’alto
1 S. Lindqvist, A History of Bombing, Granta Books, London 2001, § 5 (il libro è privo di numerazione di pagine).

2 Lindqvist, A History of Bombing cit., § 39.

3 Ibid., § 4.

4 A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, vol. 3, La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano 1992 (1a ed. Laterza, Roma-Bari 1982).

5 M. Buttino, La rivoluzione capovolta. L’Asia centrale tra il crollo dell’impero zarista e la formazione dell’URSS, L’ancora del Mediterraneo,
Napoli 2003.
6 G. Douhet, Il dominio dell’aria, Edizione Rivista Aeronautica, Roma 1955, pp. 9-10. Il corsivo è nel testo. Il saggio fu pubblicato la prima volta
nel 1921. Nella prefazione all’edizione del 1955 il comandante dell’aeronautica militare, generale Raffaelli, affermava che aviatori e italiani
avrebbero dovuto trarre motivo di meditazione e di fierezza dagli scritti di Douhet: «fierezza per questo genio italico che per primo proiettò la
luce della verità sui nuovi vasti orizzonti».

7 Ibid., pp. 20-21.

8 L’Italia avrebbe condotto una campagna di bombardamenti terroristici in Grecia nel 1940 (R. De Felic e, Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra
1940-1943, vol. 1, Dalla guerra «breve» alla guerra lunga, Einaudi, Torino 1990; L. Santarelli, L’occupazione italiana della Gre cia, relazione al
convegno La guerra e il Novecento cit.).
9 M. Hastings, Bomber Command, Pan Macmillan, London 1999 (1a ed. 1979), p. 11.

10 Ibid., p. 39.

11 Il colonnello Edgar S. Gorrell, assistente capo dello staff dell’Air Service, durante la prima guerra mondiale, nel dicembre 1918 p reparò la
storia e il rapporto finale sulle attività aeree degli Stati Uniti in Europa (cfr. C.C. Crane, Bombs, Cities and Civilians. American Airpower Strategy
in World War II, University Press of Kansas, Lawrence 1993, p. 12).
12 William «Bil ly» Mitchell fu meno fortunato del suo collega britannico. Nel 1925 fu condotto di fronte alla corte marziale per la sua condotta
«che avrebbe pregiudicato l’ordine e la disciplina militare, per aver accusato il War and Navy Department di incompetenza e negligenza nella
politica aerea». Egli si dimise dal servizio e continuò la sua battaglia in favore della strategia aerea com e civile (ibid., p. 16).
13 Crane, Bombs, Cities and Civilians cit., p. 17.


14 D. Voldman, Les populations civiles, enjeux du bombardement des villes (1914-1945), in Audoin-Rouzeau, Beck er, Ingrao e Rousso (a cura di),
La violence de guerre 1914-1945 cit., pp. 151-73. Sul tema si veda anche P. Facon, La pratique de la guerre aérienne et le droit des gens, in A.
Wieviorka (a cura di), Les Procès de Nuremberg et de Tokyo, Editions Complexe, Paris 1996, pp. 115-36.
15 Voldman, Les populations civiles cit., p. 158.

16 Lindqvist, A History of Bombing cit., § 14 0.

17 Hastings, Bomber Command cit., pp. 47-48.

18 Hastings, Bomber Command cit., p. 55.

19 Hastings, Bomber Command cit., p. 94.

20 Ibid., pp. 94-96.

21 Hastings, Bomber Command cit., p. 106.

22 Hastings, Bomber Command cit., p. 139.

23 Lindqvist, A History of Bombing cit., § 200.

24 Hastings, Bomber Command cit., p. 172.

25 Crane, Bombs, Cities and Civilians cit., p. 1.

26 Ibid., p. 7.

27 Crane, Bombs, Cities and Civilians cit., p. 9. Nello sbarco in Normandia (operazione Overlord) i «danni collaterali» dei raid aerei furono
altrettanto distruttivi di quelli legati allo sbarco di Salerno (operazione Avalanche). Non ci fu, invece, nei riguardi della Francia la ca mpagna di
bombardamenti terroristici allo scopo di piegare il regime che, come vedremo, fu attuata contro la popolazione italiana soprattutto a partire dai
grandi bombardamenti a tappeto del novembre 1942 (cfr. O. Wieviorka, Les bombardements alliés en Normandie: guerre, actes de guerre,
violence de guerre, relazione al convegno La guerra e il Novecento cit., in via di pubblicazione negli atti del convegno).
28 Nel 1944 ci fu una protesta significativa dopo la pubblicazione in America dell’opuscolo della pacifista inglese Vera Brittain (Seed of Chaos:
What Mass Bombing really Means, New Vision Publishing Company, London 1944, ora tradotto in italiano in M.L. Berneri e V. Brittain, Il seme del
caos. Scritti sui bombardamenti di massa 1939-1945, Edizioni Spartaco, Capua 2004). L’opuscolo fu ripreso dal «New York Times» nel marzo 1944
con una petizione firmata da 28 insegnanti, professionisti e sacerdoti contro i raid sulle città tedesche. Seguirono circa duecento articoli di
condanna della strategia britannica. Furono mo lti i religiosi a schierarsi contro i bombardamenti. I cattolici furono fra i più attivi. Fra questi
padre John Ford parlò di «obiettivi immorali», che prendevano di mira le donne, i fanciulli, i lavoratori che vivevano accanto agli obiettivi
strategici. «Egli correttamente predisse che i bombardamenti sulle città avrebbero indebolito le interdizioni morali e condotto nella direzione
della guerra totale immorale» (Cra ne, Bombs, Cities and Civilians cit., pp. 29-30).
29 Crane, Bombs, Cities and Civilians cit., p. 19.

30 Ibid., p. 35.

31 AFHRA, microfilm B 0229-1859, The Air Echelon from the USA to Iceland, by Lt. Robert R. Thorndike.

32 AFHRA, microfilm A 16011-1976, Headquarters NATAF, Organization of American Air Forces, maggio 1943.

33
Fussell, Tempo di guerra cit., pp. 150-55.
34 Crane, Bombs, Cities and Civilians cit., pp. 141-42. Significativo il com mento dell’autore: «Se una bomba atomica sganciata su una città può
essere rappresentata come un metodo di bombardamento di precisione, allora significa che la dottrina è arrivata a un punto in cui le vittime civili
non sono più assolutamente tenute in considerazione».
35 Lindqvist, A History of Bombing cit., § 11.

36 Lindqvist, A History of Bombing cit., § 239.


37 Voldman, Les populat ions civiles cit., pp. 172-73.

38 PRO, FO 371/33228, War Cabinet, Position of Italy, Memorandum del segretario di stato agli Affari esteri Anthony Eden, 20 novembre 1942.

39 PRO, FO 371/33228, Lettera all’ambasciatore inglese a Washington, 30 novembre 1942.

40
PRO, CAB 120/292, Lettera di Charles Portal al primo ministro, 24 novembre 1942.

41 PRO, CAB 120/292, Lettera di Charles Portal al primo ministro, 29 novembre 1942. In una missiva successiva, 1° dicembre 1942, l’Italia veniva
indicata come il principale obiettivo del momento.

42 PRO , CAB 120/300, Rapporto firmato «T.A.C. Burgess, Squadron Leader», 1° dicembre 1942.

43 L’organizzazione delle NAAF è reperibile in AFHRA, microfilm A 6011-1976. Si veda anche Bonacina, Obiettivo: Italia cit., pp. 169-70.

44 AFHRA, microfilm B 567-1457, First, Second, Third Priority List. Target Chart Production, 12th Air Force.

45 PRO, AIR 23/6601, Bombing of Communications in Support of Army Operations, Central and Southern Italy.

46 AFHRA, microfilm B 5665-1665, Sortie Report 178th Squadr on.

47 AFHRA, microfilm B 5664-1448, Sortie Report 514th Squadron.

48
AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, APO 520, Rapporto del colonnello Reuben Kyke Jr al maggiore generale J.H. Doolittle,
1° agosto 1943.

49 PRO, AIR 20/5304, Lettera di Sir Francis D’Arcy Osbor ne, 8 settembre 1943.

50 PRO, FO 371/33228, Nota del Foreign Office, 13 gennaio 1942.

51 PRO, AIR 20/2565, House of Lords, S.W.1.

52 PRO, PREM 3/14/3.

53 PRO, PREM 3/14/3, Lettera di Charles Portal.

54 PRO, AIR 20/2565, Proposal to declare Rome an open city, 20 dicembre 1942.

55
«Vengono trasmessi i seguenti punti di vista dei governi degli Stati Uniti e del Regno Unito riguardo al trattamento da riservare alla città-stato
del Vaticano e alle proprietà vaticane: a) Lo stato del Vaticano sarà trattato come uno stato indipendente ne utrale secondo i normali diritti di uno
stato neutrale. b) Le forze alleate prenderanno ogni precauzione per evitare di violare il territorio della Città del Vaticano [...]. c) Le truppe alleate
ev iteranno anche numerose altre chiese e palazzi in Roma, che sono situati fuori della città del Vaticano ma sono proprietà della Santa Sede»
(PRO, AIR 20/2565, Rapporto dei «Combined Chiefs of Staff» a Eisenhower, 16 dicembre 1942).
3. I bombardamenti a tappeto
1 I bombardame nti degli americani non erano come i tedeschi, come gli inglesi. Quelli stavano in città, sorvolavano sempre, però gettavano
qualche bomba, così. Gli americani scaricavano le bombe a mucchi e fuggivano.

2 giravano come le papere

3 dove si trovavano gettavano le bombe e se ne andavano, le gettavano come le caramelle

4 pioveva

5 ...noi diciamo sotto in cantina, che poi erano scavate nella roccia vulcanica, e noi dicevamo: qua c’è la roccia vulcanica, quando cade la bomba
non crolla. Poi le case pesanti, le case con le arcate praticamente, dove c’erano le travi pesanti, perché dove c’erano le arcate era meno
pericoloso
6 di giorno

7
dove andavano andavano
8
le bombe a volte andavano a gettarle a mare, ma non è che colpivano gli ospedali
9 Sull’incontro tra cultura partenopea e americana alcune riflessioni in G. Gribaudi, Napoli 1943-45. La costruzione di un’epopea, in Italy and
America, 1943-44: Italian, American and Italian-American. Experiences of the Liberation of the Mezzogiorno, Atti del convegno tenutosi presso
l’Università del Connecticut, Hartford, 21-23 aprile 1995, Città del Sole, Napoli 1997, pp. 297-329.
10 ASN, Prefettur a, Gabinetto, busta 1224/1, Telegramma del prefetto Albini al ministero dell’Interno, 4 dicembre 1942.

11 PRO, AIR 14/2852, Air Raid Damage, 4 dic embre 1942, ore 15.55. Da questa data troviamo puntuali rapporti inglesi sui bombardamenti e i
loro danni.
12 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Rapporto del capodistaccamento Litoranea al comandante del 54° Corpo Vigili del Fuoco, 5
dicembre 1942, da cui è tratta anche la citazione precedente.
13
Ivi, Elenco di 183 vittime e 421 feriti fra i civili. Più 40 militari identificati, 63 non identificati e 24 6 feriti. Il 10 dicembre troviamo una nota
della questura in cui si precisa che 7 delle vittime indicate non sono da considerarsi vittime di bombe perché morte nella calca del rifugio a Porta
San Gennaro! Stefanile nel suo libro I cento bombardamenti di Napoli cit., parla di 900 vittime senza fornire, però, le fonti delle sue informazioni.
14 Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli cit., p. 5.


15 A. Maiuri, Taccuino napoletano, Vajro editore, Napoli 1956, pp. 65-67. Il diario va dal 6 giugno 1940 al 18 luglio 1944.

16 Si tratta del quarti ere Bellavista, zona alta di Portici, cittadina vesuviana che dista una decina di chilometri dal centro di Napoli.

17 la fine del mondo

18 Sotto dove stavano i carcerati

19 pieno di morti

20 È più quello che mi posso ricordare, ce l’ho ancora davanti agli occhi.


21 perché avevano la forza di camminare

22 come quando tu vedi buttare l’acqua, così bombardavano

23 PRO, AIR 14/2852, Air Raid Damage, 11 dicembre 1942.

24 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Rapporto del comandante della legione territoriale dei carabinieri di Napoli, 11 dicembre 1942. 141
sono le vittime riportate nell’elenco stilato dalla prefettura. Il numero delle vittime fornito dalla prefettura risulta, come vedremo da un confronto
con i registri dei morti del comune, sempre ampiamente sottostimato.
25
PRO, AIR 14/2852, Air Raid Damage, 11 dicembre 1942.
26 ASN, Prefettura, G abinetto, busta 1227/1.

27 Ivi, busta 1224/1.


28 Troviamo l’ordine dell’operazione in AFHRA, microfilm B 5664-1448, Headquarters 376th Bombardment Group AAF. I B-24 del 376° gruppo
avrebbero dovuto colpire il porto di Napoli. Obiettivi secondari erano i porti di Palermo e Messina.
29
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Rapporto del 54° Corpo Vigili del Fuoco, firmato dal comandante Francesco Tirone.

30 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1.


31 Ivi, Rapporto del 54° Corpo Vigili del Fuoco. Secondo la denuncia del 16 gennaio, il numero delle vittime del raid aereo sale a 138.

32
Ordine e rapporto sull’operazione in AFHRA, microfilm B 5664-1448, Headquarters 376th Bombardment Group AAF, 25 gennaio 1943.
Operazione n. 37. «Il porto di Napoli è usato dal nemico per ricevere navi e rifornimenti. 9 B-24D dovranno attaccare il porto di Napoli con
obiettivo secondario il porto di Messina e, terzo, il porto di Palermo. Metà delle bombe dovranno essere sganciate istantane amente, le altre a
intervalli da una quota-base di 24000 piedi». Segue il rapporto sull’operazione condotta dal IX Bomber Command: «8 aerei del 98° gruppo hanno
attaccato il p orto di Napoli il 26 gennaio con Messina come obiettivo secondario. 2 tornati indietro per guasti. (Sganciate 9 bombe da 600 libbre
e 45 bombe da 500 libbre). 9 aerei del 376° gruppo hanno attaccato ancora il porto con obiettivo secondario Palermo. Uno è tornato indietro (40
bombe da 1000 libbre)».

33 AFHRA, microfilm B 5664-1448, Ninth Air Force, I X Bomber Command, Daily Operations Summary and Supplementary Operations Summary,
7 febbraio 1943.

34 PRO, AIR 14/2852, Air Raid Damage, 7 febbraio 1943.



35 Ibid., 15 febbraio 1943. Danni segnalati: Navalmeccanica; Soc. Italiana Ossigeni e altri Gas; CLEDCA. Il rapporto in NARA, RG 18, entry WWII,
Combat Operations Reports, box 682, Air Intelligence Report n. 99: «10 B-24 del 93° gruppo hanno attaccato la flotta nel porto di Napoli alle
16.15-16.30 il 15 febbraio. 50 bombe da 1000 libbre sganciate da 22500 piedi. Affrontata una intensa, pesante, accurata contraerea sull’obiettivo.
I B-24 non hanno subito danni dal nemico. 9 bombardieri sono ritornati alla base; uno è disperso. Una seconda formazione di bombardieri ha
attaccato la flotta nel porto di Napoli. 5 B-24 del 376° gruppo sono arrivati sull’obiettivo alle 16.25. 25 bombe da 1000 libbre sganciate da 22000
piedi. Tutti gli aerei sono tornati sani alla base». Il rapporto anche in AFHRA, microfilm B 5664-1448.
36 AFHRA, microfilm B 5664-1448, Ninth Air Force, IX Bomber Command, Daily Operations Summary and Supplementary Operations Summary,
20 febbraio 1943.
37
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Telegramma del prefetto al ministero degli Interni, 20 febbraio 1943.

38
Ivi, Il questore Lauricella al prefetto, 25 febbraio 1943.
39 AFHRA, microfilm B 5664-1448, Ninth Air Force, IX Bomber Command, Daily Operations Summary and Supplementary Operations Summary,
24 febbraio 1943. Obiettivo secondario: Crotone.
40 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Comando Tattico D.T. Napoli alla prefettura, 1° marzo 1943. Anche questo bombardamento è
documentato dai rapporti americani: AFHRA, microfilm B 5664-1448, Ninth Air Force, IX Bomber Command, Daily Operations Summary and
Supplementary Operations Summary. «10 B-24 del 98° gruppo e 9 B-24 del 376° gruppo si alzavano in volo per bombardare il porto di Napoli. In
realtà solo 6 aerei raggiungevano l’obiettivo e sganciavano 63 bombe da 500 libbre e 12 bombe da 1000 libbre».
41 Anche per questa incursione troviamo il rappor to sui danni inferti in PRO, AIR 14/2852, Air Raid Damage. Danni segnalati: CLEDCA e
Navalmeccanica.
42
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Rapporto del 54° Corpo Vigili del Fuoco di Napoli su interventi per azioni di guerra, 5 marzo 1943.

43 AFHRA, microfilm B 5664-1448. Coinvolte nel bombardamento erano le squadriglie 415, 514, 345 e 343 del 376° gruppo.

44 Ivi, Sortie Report, 514th Squadron, 13 marzo 1943.

45 Ivi, Operation Summary Report, 98th Group, 18 marzo 1943.

46 Ibid., 20 marzo 1943.

47 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Fonogramma della legione territoriale dei carabinieri di Napoli al prefetto e al questore, 22 marzo
1943.


48 AFHRA, microfilm B 5664-1448, Ninth Air Force, IX Bomber Command, B engasi (Libia), 1° aprile 1943, Report of Damage on Naples Harbor.

49
PRO, HW 1/1532, CX/MSS/2340/T19, Rapporto dell’intelligence britannico datato 28 marzo 1943. Oltre a questa succinta relazione, troviamo
le va lutazioni dei danni stimate dall’intelligence britannico in PRO, AIR 14/2852, Air Raid Damage: «28 marzo 1943, ore 17: Navalmeccanica,
esplosione nel deposito dei proiettili, li re 15000000; magazzini e lungomare di Napoli per esplosione nel porto, lire 11000000; CLEDCA S/A
Conservazione Legno e Distillerie Catrame, via Brin 42, per esplosione, lire 200 000. 28 marzo 1943, ore 17.25: esplosione di una nave nel porto.
La Precisa, lire 264000. idem, ore 18: Industrie Meccaniche Meridionali Vasto, corso Malta 8, lire 150000 0. idem: Industrie Meccaniche
Meridionali, via Ferraris 1, lire 3000000».

50 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45, Relazioni del prefetto Vaccari e del questore al ministero dell’Interno, 31 marzo 1943. Le citazioni
seguenti sono tratte dallo stesso documento.
51 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45, Riservata personale del questore Lauricella al prefetto, 29 marzo 1943.

52 La versione ufficiale della società armatrice sostenne che l’incendio si propagò per autocombustione durante la sostituzione di un bigo di forza.
Cfr. Stefanile, I cento bombardamenti cit., p. 86.

53 Ecco le parole del comandante dei vigili del fuoco: «Ho sempre ritenuto una grave imprude nza caricare, sulle navi, munizioni e benzina
insieme. In proposito il 7 marzo c.a., ritenni necessario di segnalare ancora il grave pericolo che era da temersi. Dal Comando tedesco mi venne
risposto con la nota allegata in copia; nessun riscontro mi è stato dato dalle autorità italiane, mentre si è persistito nell’effettuare il caricamento
di munizioni e di benzina insieme, con le conseguenze che, fatalmente, si sono verificate» (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45, Relazione
al prefetto, 30 marzo 1943).
54 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45, Relazione dell’ufficiale ingegnere Della Morte al comandante del 54° Corpo Vigili del Fuoco
sull’incendio del piroscafo Caterina Costa, 7 marzo 1943.
55 M. Bloch, La strana disfatta, Einaudi, Torino 1995 (ed. or. L’étrange défaite, Société des Editions Franc-Tireur, Paris 1946).

56 E. Aga Rossi , Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, il Mulino, Bologna 1993.

57
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45, Relazione del prefetto al ministero dell’Interno cit. Significa tive anche le parole del comandante
della legione territoriale dei carabinieri di Napoli del 29 marzo: «Spirito della popolazione molto depresso perché essendosi iniziate le esplosioni
alle ore 14.30 la popolazione avrebbe desiderato che fosse stato dato il segnale d’allarme che avrebbe ridotto il numero delle vittime» (ivi).
58 Ivi, Riservatissima del prefetto al ministero dell’Interno, 15 maggio 1943.

59
Sono ancora le parole del prefetto nella relazione già citata del 31 marzo.
60 Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli cit., p. 88.

61 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45, Fonogramma del capo is pettore del genio civile al prefetto, 29 marzo 1943.

62 Stefan ile, I cento bombardamenti di Napoli cit., p. 85.

63 ASN , Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45, Informativa del 29 marzo 1943.

64 Maiuri, Taccuino napoletano cit., pp. 83-84. Le voci raccolte da Amedeo Maiuri trovano un riscontro nella relazione dei vigili del fuoco dove si
legge ad esempio: «In via Atri 23, gran parte di un carro armato proiettato dallo scoppio della nave, ha sfondato il tetto e la copertura del
fabbricato, provocando un incendio dell’abitazione sottostante» (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1330/45).

65 come si dice quando


66 non vi dico

67 La figlia teneva un micetto in braccio e non li vidi più

68 perché non ci siamo mai fatte i fatti nostri

69 Poi ci fu lo scoppio della nave... I boss oli arrivarono fino a vico Giganti. Noi, ora, era di domenica, mammà era scesa da una zia, che questa zia
voleva bene a mia mamma, e c’ero io, papà stava dormendo, io e una mia sorella eravamo sedute vicino al fuoco, gli altri ragazzi stavano
dormendo, sentimmo questo spostamento... madonna che è? E morirono parecchie persone a San Gaetano. [...] morirono parecchi giovani, il fatto
della nave fu proprio terribile.

70
scherzando scherzando
71 stavo sopra ai gradoni sotto via Cavo ne.

72 per poco non cadevamo sotto


73 gli mettemmo un soprannome

74
Un altro, anche lui del Cavone
75 AFHRA, microfilm B 5665-1655, Headquarters 98th Bombardmen t Group, 4 aprile 1943. 9 B-24 della 415a squadriglia attaccavano dalle 18.30

alle 18.40; 8 B-24 della 343a alle 18.05; 5 B-24 alle 20.30.

76 NARA, RG 18, entry WWII, Co mbat Operations Reports, box 682, Air Intelligence Report n. 146.

77 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Rapporto del 54° Corpo Vigili del Fuoco di Napoli su interventi per azioni di guerra, 4 aprile 1943.

78 PRO, AIR 14/2852, A ir Raid Damage, 4 aprile 1943.

79 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Ra pporto del 54° Corpo dei Vigili del Fuoco citato alla nota 53.

80 A. Esposito, S. Pietro a Patierno. Antico casale napoletano. Origine ed evoluzione, ed. Centro Studi L’idea, Napoli 1994.

81 Dietro al

82 Il bombardamento durò un’ora, quando uscimmo trovammo tutto fuori la strada piena di morti, feriti... gente con le pance squartate, gente
senza testa... Un macello... Suonarono l’allarme. Venne il camion e caricò morti, feriti e tutti quanti sopra a questo stesso camion e li portavano
all’ospedale.
83
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1. La lista è datata 18 aprile 1943.
84 AFHRA, microfilm B 5665-1665, IX Bomber Command, Sortie Report: «10 aprile, 2 4 B-24 hanno sganciato 227 bombe da 500 libbre da 20000-
23500 piedi dalle 16.50 alle 17. (376° gruppo, squadriglie 512, 513 e 514). Capodichino, po rto e bacino di riparazioni. 11 aprile, 7 B-24 della
343a squadriglia del 98° gruppo, alle 17.20; 5 B-24 della 415a squadriglia (98° gruppo) sganciano 27 bombe da 500 libbre sull’obiettivo, 180
incendiarie; 5 B-24 della 345 a squadriglia (98° gruppo) alle 20.15 sganciano bombe distruttive e incendiarie. 12 aprile, 20 B-24 del 376° gruppo,
alle 16.40 da 24000 piedi attaccano Napoli porto. 5 riescono a raggiungere l’obiettivo, altri raggiungono l’obiettivo secondario (Cosenza e
Crotone). 16 aprile. 6 Liberator della 178a squadriglia della RAF (4 su Napoli, uno su Messina e uno su Rosario). A Napoli alle 23.24 da 14800
piedi, 48 da 500 libbre. 21 aprile. 6 Liberator della 178 a squadriglia della RAF da 13500 piedi, 72 da 500 libbre, ore 1.24».
85 AFHRA, microfilm B 5665-1665, Sortie Report 178th Squadron, 25 aprile 1943.

86
AFHRA, microfilm B 5665-1665, Summary Report 376th Group (512, 513, 514, 515 Squadrons), 28 aprile 1943.
87 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Ministero dell’Interno al prefetto di Napoli, 15 maggio 1943.

88 ASN, Prefettura, Gabinet to, busta 1224/1, Relazione del comandante dei vigili del fuoco, 13 maggio 1943.

89 ASN, Prefettura, Gabinetto, bus ta 1224/1, Comitato di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ispettore provinciale, 29 giugno 1943.

90 AFHRA, microfilm B 5665-1665, Ninth Air Fo rce, IX Bomber Command, Bomb Damage Report. April 1-30, 1943, 9 maggio 1943. Il rapporto
illustra le missioni del 376° e del 98° gruppo sull’Italia meridionale nel mese di aprile: 247 sortite, 2710 bombe sganciate per un totale di
1255660 libbre. Città colpite: Messina, Palermo, Napoli, Catania e Bari.

91 NARA, RG 243, entry 23, file n. 2 O 4 b, The Air Attacks in Europe, A summary report by city of the bombing attacks firected against enemy
targets by the 12th AAF, US Strategic Bombing Survey.
92 PRO, AIR 14/2852, Air Raid Damage, 30 maggio 1943.

93 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Rapporto dei vigili del fuoco, 31 maggio 1943.

94
Ivi, Rapporto dei vigili del fuoco del 15 giugno 1943 sull’incursione del 30 maggio.
95 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Telegramma del prefetto al ministero dell’Interno, 30 maggio 1943.

96 Mappe e fotografie della fabbrica di Pomigliano D’Arco sono contenute nelle analisi del 10 gennaio 1943 sui possibili obiettivi di Napoli e
dintorni (AFHRA, mic rofilm B 5657-1457, XII Air Force, Target Chart Production).
97
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ufficia le di servizio. In questa stessa
busta è conservato il rapporto del questore citato poco sotto nel testo.
98
uscii dopo un’ora, un’ora e mezza, non lo so. Uscii, arrivai vicino alla stazione, e trovai la buonanima di mio padre che stava appo ggiato vicino
a un albero, pensando che ero morto, poi appena mi vide si riprese... e questa è tutta la storia.
99
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Foglio volante della RAF datato maggio 1943. I volantini qui citati sono contenut i in questa stessa
busta e nella busta 1226/1.

100 AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, Report on Results of Operations against Lines of Communication to Southern Italy and
Sicily, 22 giugno 1943.
101 ASN, Prefettura, Gabinetto, bust a 1224/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Fonogramma al ministero degli Interni e al ministero
della Guerra, 17 giugno 1943.


102 AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, rapporto citato alla nota 73.

103 ASN, Prefettura, Gabinett o, busta 1224/1, Rapporto del 54° Corpo dei Vigili del Fuoco su interventi per azioni di guerra del 21 giugno, 7
luglio 1943.
104 Ivi, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ufficiale di servizio dalle ore 8 del 2 1 alle ore 8 del 22 corrente, 22 giugno
1943.
105 AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, rapporto citato alla nota 73 .

106 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/ 1, Fonogramma del questore Lauricella al prefetto, ore 19.25 del 15 luglio 1943.

107 Ibid.


108 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Relazione del comandante della legione territoriale dei carabinieri di Napoli, 17 luglio 1943. La
notizia del bombardamento si trova in NARA, RG 18, entry 7 WWII, Mission Reports, Headquarters 47th Wing to Commanding Officer 310th
Bomb Group, Operational Priority 17 luglio 1943.
109 AFHRA, microfilm B 0229-1859, 310th Bomb Group, Headquarters and Group History, 17 luglio 1943.

110 Ivi, The Air Echelon from the USA to Iceland, by Lt. Robert R. Thorndike.

111 AFHRA, microfilm 670.424-2, Headquarters Fifteenth Air Fo rce, Operations Analysis Section, APO 520, A Report on the Bombing of the Oil
Refinery at Naples, Italy, 26 dicembre 1943.
112 Come mostra il documen to citato sopra, pp. 74-75.

113
AFHRA, microfilm B 0229 -1859, 310th Bomb Group, Headquarters and Group History, 18 luglio 1943. Il gruppo è responsabile del
bombardamento di Montecorvino, su cui vennero sganciate 496 bombe da 20 libbre (si trattava di bombe a frammentazione).

114 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ufficiale di servizio, 27 luglio 1943.

115 Ivi, Relazione del podestà al prefetto, 28 luglio 1943.

116 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1. Le argomentazioni usate da americani e inglesi sono analoghe a quelle usate dagli italiani nel
dopoguerra per distingue rsi e differenziarsi dalle scelte del regime fascista. Anche gli altri volantini citati qui di seguito nel testo sono conservati
nella stessa busta.
117 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Foglio volante portato dalle Forze Aeree delle Nazioni Unite n. 3.

118 AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, APO 520, 1° agosto 1943. Il documento è riportato sopra, p. 84.

119
AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, Operational Report, 1° agosto 1943.
120 PRO, AIR 20/2565, The Bombing on Italy, 1 ° agosto 1943.

121 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ufficiale di servizio, 5 agosto 1943.

122 Maiuri, Taccuino napoletano cit., pp. 100-01.

123 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Comitato Provinciale d i Protezione Antiaerea, Relazione del 5 agosto 1943.

124 Archivio dello Stato Civile, Comune di Napoli, Registro Centrale dei Morti, Parte II B, I e I I volume 1943. Secondo Stefanile (I cento
bombardamenti di Napoli cit., p. 14) le vittime sarebbero state più di 500.
125 I due volantini s ono conservati in ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1.

126 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1227, Fonogramma del q uestore al commissario straordinario del comune di Napoli e al prefetto, 16 agosto
1943.
127
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Fonogramma n. 2869, 22 agosto 1943.
128
Ivi, Lettera del commissario Solimena, 22 agosto 1943, ore 19.40.

129 D. Soprano, Il periodo del terrore napoletano, agosto-ottobre 1943, citato in S. Ascione, settembre 1943: Napoli tra stragismo e rivolta, in
Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit., p. 403. Si tratta della memoria prodotta da Soprano in sua difesa nel processo del Tribunale militare
territoriale di Napoli che lo accusava di collaborazione con il nemico nel 1944.
130
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto del 24 agosto 1943.
131 Maiuri, Taccuino napoletano cit., pp. 105-06.

132 AFHRA, microfilm A 6011-1976, Headquarters NATAF, Rapporto del 31 agosto 1943.

133 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto del 30 agosto 1943.

134
ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto del 3 settembre 1943.

135 Ibid., Ra pporto del 6 settembre 1943.

136 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1.


137 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1227, Elenchi inviati dal questore al prefetto, 5 aprile 1944.

138 AFHRA, microfilm 670.161, Ra pporto su attacco aereo nemico contro Napoli del 24 aprile 1944, 12 maggio 1944.
139 Ho preso in considerazione il registro centrale dei morti e i registri dei quartieri in cui erano presenti ospedali o cimiteri, tutti conservati
presso l’Archivio dello Stato Civile del Comune di Napoli.
140 E là stava la gente notte e giorno, che poi quelle persone chi aveva un negozio chi aveva una cosa, se ne salivano... e noi correvamo laggiù...
sia qua sia al ricovero in mezzo a largo Avellino.

141 Non capii più niente, passò un gruppo di donne che disse: piccola vieni con noi, vieni con noi. E infatti io vedevo tutta questa gente che
correva, che correva in un basso, che poi era un negozio dove si vendeva il vino e qua dentro appena entrato c’era una botola e c’erano delle
scalinate che non finivano mai, ci entravano due persone per volta, una scala pericolosa perché da un lato senza ringhiera e da un altro lato sotto
la montagna.

142 E venni a sapere... che io facevo dentro la mia mente: qui se cade una bomba e ostruisce l’ingresso da dove sono entrata... qua come si esce?
Chi lo sa che noi stiamo qua sotto? – Non ti preoccupare piccola perché vedi l’entrata di queste grotte, vedi quella là al buio? Quella esce a
piazza Amedeo, dice, dove passa la metropolitana. Da quest’altro lato, la vedi questa? Arriva a piazzetta Augusteo, dove c’è un altro ricovero che
scende.
143 le scale

144 dentro la metropolitana


145 mi salvai

146
il bambino sempre con la sua roba, con le scarpette di lana e scappavo. Quando scoppiò la nave... mi butto a terra sulle scale della
metropolitana... e io, per grazia di dio, ho avuto sempre la forza di spirito, il bambino sempre sotto a me, così muoio io e non il bambino... Mi
alzai e vidi che la gente nella metropolitana... una confusi one forte... fuggivano, invece di entrare uscivano. Perché lo stesso blocco... che si
buttavano uno sopra all’altro, la gente moriva. E allora per la paura, che vedevano i morti a terra, se ne scappavano. Io che feci? Mi presi un’altra
volta il mio piccolo e me ne tornai a casa mia e non entrai più nel ricovero.
147 e là morì non so quanta gente... perché là erano tutti scalini, no? Uno pestò, fecero piedi e piedi... [uno cadde e gli altri gli caddero addosso]
bu bu bu... e morirono quaranta, cinquanta perso ne.
148 Dopo i bombardamenti mamma dal ricovero se ne saliva su e poi ci portava da mangiare più tardi, o ce lo portava giù qualcuno. E dormivamo
là, stavamo sempre notte e giorno al ricovero. Tutti quanti avevamo il letto fatto fisso, avevamo la coperta imbottita, perché era inverno. Poi dopo
giocavamo, di giorno ci vestivamo, ci lavavamo là sotto. Era pulito, certe stanze tutte pulite, certi stanzoni... – Erano tutte caverne, ogni caverna
loro la chiudevano con le lenzuola e dormivano. Stavano notte e giorno, cucinavano tutto quanto là. – Mi rico rdo che giocavamo pure, noi
eravamo ragazze, ci mettevamo a fare le passeggiate là sotto. – Si fidanzavano pure là sotto. – Stava sopra ai quartieri. – La gente si era abituata.
149 chi procurava da mangiare e chi rimaneva là

150 Maiuri, Tacc uino napoletano cit., pp. 47-48.

151 PRO, WO 220/414, Allied Force Headquarters, Typhus Commission, Notes on the civil typhus outbreak. Italy 1943-44.

152 PRO, WO 220/414, Headquarters, Allied Control Commission, Public Health Sub-Commission, Typhus Control Section, APO 394, 4 aprile 1944.


153 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1227, Comando Terza Zona Govern o Militare Alleato, al Commissario della città di Napoli, copie al: SPAHO
della città di Napoli, Sezione profughi della V Armata.

154 Ivi, Questura di Napoli, 13 febbraio 1944, Oggetto: ric overi pubblici.

155 Ivi, Allie d Military Government, Naples Province, al Municipio, firmato «Lt. col. J.L. Kincaid», 7 febbraio 1944.


156 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1227, Il prefetto al colonnello J.L. Kincaid, Governo Militare Alleato, 12 febbraio 1944.

157 A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi, Milano 1994 (1 a ed. Einaudi, Torino 1953), pp. 74-75.
4. Una resistenza popolare. Napoli, settembre 1943


1 L’errore più grave fu la scelta dell’area geografica dello sbarco. Secondo tutti gli studiosi militari le forze alleate avrebbero conseguito risulta ti
strategici rilevanti se fossero sbarcate al centro dello stivale, in particolare nell’area di mare di fronte a Roma, poiché avrebbero diviso le forze
tedesche, isolato e b loccato le divisioni situate nell’Italia meridionale. La scelta di Salerno diede la possibilità al comandante Kesselring di
concentrare le sue forze in una stretta striscia di terra, di rallentare il cammino dell’armata nemica, appr estando nelle retrovie le linee difensive
su cui attestarsi, in particolare la linea Gustav. Cfr. B.H. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Oscar Mondadori, Milano
1999 (ed. or. History of the Second World War, Putnam, New York 1970), pp. 629-52.
2 BA -MA, RL 32/115, Diario di guerra n. 1 della divisione corazzata Hermann Göring, manoscritto.

3 BA-MA, RL 32/114, Diario di guerra n. 1 della divisione corazzata Hermann Göring cit.

4 L. Klin khammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 52-53. Si tratta delle misure decise dal Führer
in persona e dal comando italiano e meridionale dell’esercito. Le decisioni più importanti vennero prese dopo una riunione fra i maggiori
gerarchi nazionalsocialisti con Hitler nel suo quartier generale. Il risultato dei colloqui fu la «Disposizione del Führer per l’insediamento di un
plenipotenziario del Reich in Italia e per la suddivisione dei territori italiani occupati» del 10 settembre 1943. Una parte del territorio italiano
venne esclusa dalla riorganizzazione complessiva del paese e, per motivi di carattere militare, venne definita «zona d’operazione» e affidata al
governo del comandante supremo delle forze armate tedesche. Divennero «zone d’operazione» l’Italia centrale e meridionale che furono poste
sotto il comando di Kesselring. Alla disposizione del 10 settembre seguì il 12 dello stesso mese l’ordine di Keitel che forniva indicazioni per
istituire una organizzazione territoriale «al fine di stabilire l’ordine nelle città e nelle campagne». Nelle città maggiori dovevano essere istituiti
comandi di presidio, in quelle minori comandi di piazza cui assegnare funzionari amministrativi (militarizzati) incaricati di mantenere i
collegamenti con gli uffici dell’amministrazione italiana. Si istituiva un’amministrazione diretta nel caso in cui non ci fosse ancora o non ci fosse
più un’amministrazione in grado di funzionare (ibid., p. 58).


5 Ibid., pp. 58-60.

6
Klinkhammer, Stragi naziste in Italia cit., p. 51.
7 Ascione, settembre 1943: Napoli tra stragismo e rivolta cit., pp. 110-11.

8 Notare il termine dispr egiativo usato dai tedeschi che anticipa, in un certo senso, il linguaggio di molte interpretazioni di parte italiana, come
vedremo più avanti.
9
Si tratta in verità del generale Del Tetto, per il quale cfr. oltre, p. 180, nota 14.
10 BA-MA, RH 24-14/81, R apporto del 57° reggimento di artiglieria della Wehrmacht.

11 BA-MA, RH 24-14/81, Rapporto del 57° reggimento di artiglieria cit.

12 BA-MA, RH 24-14/81, Rapporto del 57° reggimento di artiglieria cit.


13 Ibid.

14 I generali Del Tetto, il generale Pentimalli, il prefetto Soprano e il tenente Maglio de lla guardia di finanza, innalzato dai tedeschi al ruolo di
questore, sarebbero stati processati per collaborazione con il nemico. Salvo Ascione (settembre 1943: Napoli tra stragismo e rivolta cit.) ha
analizzato il processo che si svolse nel 1944 contro Soprano e Maglio per collaborazionismo e contro Schöll e Wessell per i crimini commessi
contro civili e soldati, sviluppando ri flessioni di particolare interesse sulle dinamiche dell’occupazione tedesca e sulla relazione con le istituzioni
italiane. Il comando di piazza fungeva da organo di rapporto con le istituzioni italiane, usate a loro vo lta per trasmettere e imporre gli ordini.
Venivano tenute in vita e utilizzate solo le istituzioni preposte all’ordine pubblico, le altre erano sciolte o esautorate. I bandi per il lavoro coatto
come per l’evacuazione forzata furono emanati e firmati dal prefetto. Soprano e Maglio si sarebbero difesi di fronte ai giudici giustificando le loro
azioni come una necessaria opera di mediazione con l’esercito occupante, che avrebbe impedito violenze più efferate e garantito l’ordine pubblico
(contro saccheggi e violenze della stessa popolazione). Per mantenere l’ordine in città, a loro vo lta, i tedeschi usarono direttamente reparti della
Wehrmacht, in particolare la divisione Hermann Göring.

15 BA-MA, RH 24-14/81, Rapporto del 57° reggimento di artiglieria, Posizione di combattimento, 17 settembre 1943. I l rapporto è firmato dal
maggiore e facente funzioni di comandante di reggimento.
16 L’aspetto dello stragismo nei riguardi della popolazione è stato sempre sottostimato e scarsamente considerato nelle ricostruzioni
dell’insurrezione. Su questo tema si veda ancora Ascione, settembre 1943: Napoli tra stragismo e rivolta cit., pp. 105-06.
17 Ibid., p. 130.

18 La testimonianza scritta di Mariano Petino mi è stata data dalla nipote, Claudia Petino, studentessa, che ha anche intervistato il padre,
Gennaro, allora bambino. La storia dell’incendio dell’università e de gli eccidi del 12 e del 14 settembre è contenuta anche in ACS, Allied Military
Command, bobina 618, scatola 228, German Atrocities, ottobre 1943, Relazione del professor Guido della Valle. La relazione conferma la versione
del custode.
19
Archivio dello Stato Civile, Comune di Napoli, Registro Centrale dei Morti, 1943 e 1944. I registri riportano le morti, comunicate dalla
ques tura, di coloro che furono trovati per strada, portati direttamente al cimitero, o che morirono negli ospedali cittadini. Si tratta dunque di una
cifra minima. Non vi si trovano, ad esempio, coloro che furono trasportati e morirono nelle loro abitazioni. La morte di costoro fu denunciata
probabilmente da un parente presso l’anagrafe del proprio quartiere ed è contenuta nei registri di quartiere. Anche così, come spiegherò più
ampiamente a p. 198 il numero dei morti sopravanza notevolmente le stime utilizzate finora dagli studiosi. Nel registro centrale de i morti
troviamo notizia precisa dell’uccisione del marinaio a piazza Borsa: «Mansi Andrea, anni 24, marinaio militare, fucilato dai tedeschi a piazza
Borsa il 12 settembre 1943». Per gli altri non possiam o risalire alla zona in cui è avvenuto il ferimento, poiché viene indicato semplicemente
come luogo di morte un ospedale o il cimitero, dove le vittime furono portate spesso già cadaveri, ma possiamo notare le vie di residenza. La
maggior parte sono abitanti dei quartieri Stella e San Lorenzo, i quartieri dove avvennero gli scontri più accesi, indicati nella documentazione
tedesca che segue.
20 BA-MA, RH 24-14/81, Rapporto del 57° reggimento di artiglieria cit. C’è una sopravvalutazione, da parte tedesca, della presenza politica
organizzata.
21 Fra i danni rilevati dai britannici l ’incendio e la distruzione della Società Reale all’università, citata anche nella testimonianza di Mariano
Petino.

22 BA-MA, RH 24-14/81, Comando supremo Sud, Quartiere di Comando, 22 settembre 1943. L’ordine di evacuazione si riferiva a 5 chilometri per
tutta la fascia tirrenica in previsione di a ltri sbarchi; per le difficoltà connesse allo spostamento di migliaia di persone, l’evacuazione veniva
limitata a 300 metri nella città di Napoli.
23 andiamo piccola non dire fesserie!

24 dove andiamo a dormire con queste creature?


25 dove vado?

26 E come dobbiamo fare?

27 perché dovevamo evacuare, dove lo mettevamo questo giovane?

28 perché ci deve essere sempre qualcosa che ti fa ridere.. .

29 Citato in A. De Jaco, Le quattro giornate di Napoli, Edi tori Riuniti, Roma 1972 (1a ed. 1956), p. 120.

30 BA-MA, RH 24-14/73. «Nello spazio di una settimana – afferma Klinkhammer –, dal 20 al 27 settembre, le truppe avevano fatto prigionieri e
trasportato nei campi di smistamento 18000 lavoratori» (L’occupazione tedes ca in Italia cit., p. 133).

31 BA-MA, RH 27-16/9, Diario di guerra della 16a divisione corazzata.

32 A. Tarsia in Curia, La verità sulle Quattro Giornate di Napoli, Stabilime nto Tipografico G. Genovese, Napoli 1950, pp. 36 e 40.

33 BA-MA, RH 27-16/9, Diario di guer ra della 16a divisione corazzata.

34 BA-MA, RH 24-14/73, Riassunto degli eventi, «Punti principali: stima della posizione [del nemico e propria], tempi di partenza e arrivo di
comunicazioni e ordini».
35
Si tratta di Gennaro Capuozzo.
36 BA-MA, RH 27-16/9, Diario di guerra della 16a divisione corazzata.

37 GTB (Die Geheimen Tagesberichte – Bollettini di guerra segreti), vol. 8, 29 settembre 1943.

38 Ibid., 30 settembre 1943.

39
Tarsia in Curia, La verità sulle Quattro Giornate di Napoli cit., p. 44. L’autore aggiunge nella nota che queste perdite sono quelle «accertate
dal la Commissione riconoscimento qualifiche partigiani per la regione della Campania, ma non si esclude che vi siano state altre perdite».
40 Nell’elenc o di Tarsia in Curia compaiono 104 nomi che non risultano catalogati nel registro centrale dei morti.

41 Nel volume di L. Verolino, Le strade di Ponticelli, Il Quartiere edizioni, Napoli-Ponticelli 1999, p. 140, è riportato l’elenco dei morti della
rappresaglia di v ia Ottaviano desunto dalle parrocchie e dal cimitero di Ponticelli. Sono in tutto 33. Nel registro del comune abbiamo trovato
altre 4 vittime non citate nell’elenco, uccise probabilmente in un’altra zona di Ponticelli. Di 2 di queste abbiamo notizie dalle testimonianze.

42 Secondo Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Mondadori, Milano 1995, i mor ti del settembre 1943 a
Napoli sarebbero stati 60; nel testo dell’americano Eric Morris, La guerra inutile. La campagna d’Italia 1943-1945, Tea, Milano 1995 (ed. or.
Circles of Hell, Crown Publishers, New York 1993), p. 231, si parla di 50 vittime: «Vi furono alcune scaramucce che si protrassero per quattro
giorni e costarono la vita a cinquanta italiani e a meno di una dozzina di tedeschi». Sono commen ti e cifre significativi per dare l’idea
dell’immagine nazionale e internazionale dell’insurrezione.
43 Io vidi correre la gente e corsi anch’io, perché i tedeschi che facevano? Questo è successo a Poggioreale alla zona industriale, aprivano le
fabbriche, si pigliavano le materie prime, però loro entravano per primi, si pre ndevano tutto quello che dovevano pigliarsi, saccheggiavano, poi
alla fine uscivano fuori e facevano entrare la gente. Io dopo un’ora riuscii a entrare nella fabbrica della Richard Ginori, c’erano cose tutte
scassate, piatti, piattini, boccali, poi c’erano degli scaffali e un pacco mezzo aperto e mezzo scassato, vado a vedere, l’apro e ci sono dei servizi
da tè. Li pigliai, li misi in una scatola vuota e mi pig liai tre pacchi belli di quelli, che poi non c’erano più, vidi che erano buoni e me li portai a
casa. Erano avvolti nella paglia e i tedeschi non li avevano visti. Per ò mentre venivo dalla fabbrica, dato che avevo preso quelle cose che erano
già molto pesanti, più avanti c’era una fabbrica di tabacco, e vedevo che i tedeschi lo stesso, prima si pigliavano quello che serviva loro e poi
f acevano entrare la gente. Però in mezzo alla folla, i tedeschi, me ne accorsi, che facevano? C’era un camion fuori, si pigliavano i giovani e li
facevano salire sopra a un camion. Io presi e me ne andai. Li sceglievano tra la folla, c ’erano donne, anziani, giovani, giovanissimi... io prendo e
me ne scappo con i servizi da tè e me ne torno. C’era un fascista là, sparava verso il carcere di Poggioreale, io credevo che sparasse ai colombi,
ma chissà perché sparava, o forse per fare dei segni a qualcuno all’interno e gli dissi: ma perché spari ai colombi? Si volt ò e mi disse: che porti là
dentro? Dissi io: ho il pane da portare a casa. Non dissi quello che avevo, perché può essere pure che se lo pigliasse. Dissi che stavo venendo dal
paese, e lui disse: cammina, sta’ zitto, altrimenti ti sparo come a un cane. Non me lo feci dire neanche mezza volta e a piedi andai a casa. Mio
pa dre li vendette quei servizi e mangiammo una settimana, perché i servizi costavano... [...] Il giorno dopo iniziarono saccheggi da tutte le parti e
stavano facendo un saccheggio all’Arenella; andai pure all’Arenella... io ero ragazzo... perché usciva la gente con sacchi di farina che pesava
molto. Pure là riuscii a entrare, mi tagliai pure un piede, e mi pigliai un materasso di lana, tanto feci che me lo portai fuori. Me ne esco dietro al
piazzale di questo deposito, che era un deposito dei fascisti, e un tedesco con un fucile in petto mi disse che il materasso era suo , che doveva
dormire, vide che avevo il piede insanguinato... comunque riuscii a scappare. [...] Il giorno dopo seppi che allo stadio Collana del Vomero stavano
facendo dei saccheggi e corsi là per la fame, seppi che là c’era una cucina, scavalcai il muro e mi buttai. Mi butto nella cucina e trovai i sacchetti
di farina e c’era del grano grezzo che si doveva macinare. Comunque riesco a pigliarmi questa sacchetta e riesco a uscire. La portai a casa e mio
padre col macinino del caffè macinammo il grano dentro il macinino, però dato che il grano era duro, a mano non si potev a fare, perché girava
tutta la base del macinino. Mio padre fa un pezzo di ferro, lo fissò nel muro, mise un catenaccio vicino e lo bl occò, e mia madre ci faceva la
farina, il pane, la pizza.

44
ancora me ne dovevo accorgere che erano di uno stesso piede


45 I tedeschi quando se ne dovevano andare facevano i dispetti pure loro. In mezzo a piazza Carità avevano certe scatole piene di marmellata,
pigliavano e le mettevano al centro. Tutti quanti noi facevamo l’assalto per pigliare quelle scatole di marmellata... c’era una fame allora! Loro
piglia e quando ci vedevano vicini, sparavano in aria e noi dalla paura ce ne fuggivamo un’altra volta.
46 Si vedano le considerazioni di Carlo Ginzburg sul saccheggio rituale praticato a partire dal Trecento, dopo la morte di un papa. «Per
legittimare questa pratica venne elaborata la nozione di diritto di spoglio (jus spolii). Elze suggerisce cautamente l’ipotesi che lo jus spolii sia
derivato storicamente dai saccheggi di beni mobili perpetrati da chierici, da parenti dei vescovi o da folle anonime alla morte di vescovi o di papi.
Certo è che le folle dei saccheggiatori erano convinte di esercitare un d iritto, respinto in linea di principio (anche se tollerato di fatto) dalle
autorità laiche ed ecclesiastiche». Il saccheggio è un rito che non segue una «partitura stabilita», ma piuttosto un «canovaccio come quelli della
commedia dell’arte. Potremmo paragonare i saccheggi a un controteatro recitato in forme improvvisate sul palcoscenico della strada» (C.
Ginzburg, Saccheggi rituali. Premesse a una ricerca in corso, in «Quaderni storici», n. 65, 1987).
47 Notizia precisa dell’episodio è contenuta nella documentazione tedesca, in particolare nel rapporto del comandante del 57° reggimento di
artiglieria (BA-MA, RH 24-14/81). Cfr. sopra, p. 189.
48
I tedeschi iniziarono a ritirarsi portandosi gli uomini e i capi famiglia e allora si portarono Vittorio. Mentre se ne andavano si portavano la
gente e sparavano di qua e di là uccidendo chi si ribellava o chi non li voleva seguire, perché si volevano vendicare del tradimento. Erano
incazzati per il volt afaccia dell’Italia che gli aveva girato le spalle. Ci mancava poi con tutte le porcherie che ci avevano fatto, che stessimo
ancora con loro... e loro si vendicavano, uccidevano tutti quanti. E fu allora che mentre se ne andavano si portar ono Vittorio. Era andato a
trovare Rosa, mentre tornava a casa si pigliarono lui e altri due e se li portarono in Germania.
49 ci sono i fetenti pe r il paese, ci sono i fetenti per il paese!

50 il soppalco

51 Io perciò non li p osso vedere i tedeschi. Com’erano belli quei ragazzi! Io a volte penso a questa cosa: i tedeschi prima della guerra erano bravi,
poi non so cosa sia successo, quelli sono diventati cattivi con la guerra.
52 Nella Bernini, quando c’era la guerra, c’erano i soldati sfollati dell’aviazione e c’era un muro di cinta e si affacciavano dove abitavamo noi.

53 il fondaco

54 questa signora pigliò un sacco di giovani di quel palazzotto, perché là c’era un sacco di gente

55 miser o tutto sottosopra

56 Eravamo tutti poveri, tutti popolani. C’era gente istruita perbene, ma quelli si facevano i fatti loro... E poi quella che è stata una cosa
impressionante è stata la cacciata dei tedeschi. Allora finì la guerra e ci furono le quattro giornate. E allora tutti i giovani fino a vent’anni si
andavano a nascondere. Dicevano che pigliavano solo i giovani fino a vent’anni, invece ci fu un momento che i tedeschi si pigliavano tutti gli
uomini e allora un giorno vennero all’improvviso nella mia strada. Allora mio marito non aveva dove nascondersi, piglia e lo mettemmo sul letto.
Io stavo in un basso, loro quattro o cinque con due fascisti pure vicini, pigliarono zio Vincenzo, siccome lui aveva avuto cinque morti in famiglia,
aveva cinque stelle sul petto. Ogni morto sarebbe una stella? Sì. E allora uno di quelli volle domandare: che cosa è? Fece segno. E lui disse che un
bombardamento americano e cose... Allora disse: un bombardamento americano e faceva segno... e cose. Loro ne ebbero piet à e lo rilasciarono.
Questo fatto mentre camminavano davanti a casa mia. Per parlare con lui non guardarono dentro casa mia, se no se lo pigliavano. Lui sul letto
così... non so come si salvò. Salendo c’era un portone d i fronte a me e andarono in quel portone, si pigliarono un giovane, un bravissimo giovane
e se lo portarono e chissà che fine ha fatto questo giovane. Uno e altri due si pigliarono. Pigliavano così... ma quelli i giovani andavano scappando
tutt’intorno, andavano scappando, però prima che si rivoltassero le quattro giornate. Che gli spararono perché poi si scocciarono e fecero un
complotto e un giorno presero un tedesco in mezzo a piazza Carità e gli spararono. Questa fu la scintilla, che gli spararono, fu una cosa per tutto
il quartiere. Una rivoluzione. Scendevano tutti quanti con le bombe a mano, le pistole, cose... [...] Morirono i giovanotti pure. Uno di diciott’anni
vicino alla Rinascente, un altro giovane a piazza Carità.
57 L’episodio è uno dei più noti delle quattro giornate. Lenuccia è Maddalena Cerasuolo, una delle nostre testimoni più autorevoli, sulla cui storia
ci soffermeremo nelle pagine seguenti.
58 Il rimando è ancora alle riflessioni di Ascione, settembre 1943: Napoli tra stragismo e rivolta cit.

59 La notizia delle morti è confermata dai registri del comune di Napoli. Fra le vittime dichiarate il 29 e il 30 settembre troviamo Giuseppe
D’Ambrosio di sessantacinque anni, Nicola Batelli di cinquantanove, Carmela Reale di diciotto, Anna Reale di sedici, Salvatore Reale di
quarantuno, Salvatore Finale di cinquantuno, Anna Maria Finale di tre e Pasquale Marino di sette, tutti residenti in vico Bagnara. Alcuni deceduti
il 29, il giorno stesso del cannoneggiamento, altri il giorno seguente all’o spedale Pellegrini. Altre vittime potrebbero essere sfuggite poiché non
sempre nelle dichiarazioni di morte viene riportato il luogo di residenza.

60 non ti preoccupare, quelli me l’attaccano. Proprio così, le ultim e parole di questa qua.

61 Archivio del Tribunale militare territoriale di Napoli. Le denunce a proposito delle rapine e delle uccisioni avvenute il 29 settembre 1943 a
Ponticelli sono contenute nelle deposizioni che i rapinati e i parenti delle vittime fecero alla stazione dei carabinieri di Ponticelli nell’aprile 1945.
Le inchieste dei carabinieri, condotte quasi tutte fra il marzo e l’aprile del 1945, sono allegate alle sentenze emesse nel giugno 1968 dal giudice
istruttore militare presso il Tribunale militare territoriale di Napoli. In tali sentenze il giudice istruttore m ilitare «dichiara non doversi procedere
in merito al reato preindicato per esserne ignoti coloro che lo hanno commesso». La motivazione è la seguente per tutti i casi: «gli autori del
delitto in esame non furono, all’epoca, identificati; tenuto conto del lungo tempo trascorso, delle particolari circostanze storiche in cui i fatti
ebbero luogo, della nazionalità straniera dei loro autori, appare ormai impossibile pervenire alla identificazione ed al rintraccio dei medesimi».
Le sentenze non riguardano solo il caso Ponticelli ma centinaia di procedimenti relativi a violenze verificatesi in Campania nel settembre-ottobre
1943, che, dopo una prima rapida inchiesta, giacquero presso il tribunale per più di vent’anni fino al la loro definitiva archiviazione. Sul tema
delle violenze naziste e della chiara volontà di celarne le tracce si vedano Franzinelli, Le stragi nascoste cit. e M. Battini, Peccati di memoria. La
mancata Norimberga italiana, Laterza, Roma-Bari 2003.
62 Questa e le testimonianze che seguono sul caso di Ponticelli appartengono tutte all’Archivio del Tribunale militare territoriale di Napoli.

63 Ora, c’era un mio fratello, pure lui era del ’16, allora pure lui era militare, aveva fatto l’Africa, allora stavamo tutti quanti qua sotto, ora quando
si è fatto il giorno 27 siamo usciti... quelli i tedeschi, tutte le colonne di tedeschi che venivano da Napoli, tutta via Argine, vicino al cimitero,
davanti al cimitero, arrivate in cima al ponte qua, dove sta Gesù Cristo, le monache... giravano a sinistra e se ne andavano a Taverna Nova e
andavano a Secondigliano, andavano a Casalnuovo, Pomigliano d’Arco e se ne andavano da quella parte là, in ritirata. Allora sopra a questo attico
qua, che avevamo qui sopra, salivamo sopra così... pum pum... sparavamo. Allora io da là sopra sparavo ai tedeschi che se ne andavano... quelli di
là sparavano pure a noi, però eravamo incoscienti allora... Un amico nostro, il fratello di Vittorio, quello non uscì fuori? Allora men tre si sparava,
lui aprì dal balcone per uccidere i tedeschi... pum... gli spararono là e morì. Un bel giovane... Mio fratello era più evoluto, più bravo, in Africa era
caporalmaggiore, avieri scelti, aveva il comando, allora pigliò una motocicletta ai tedeschi, si mise sopra, perché sapeva andare sulla
motocicletta: l à stanno i tedeschi... poi vanno là... tu fai là... poi facciamo qua... Incoscientemente... quello pure un altro mio fratello pure lui
andava avanti e indietro, però non ci allontanavamo, io non mi sono mai allontanato da questa zona qua, da Ponticelli. [...] Avevamo sopra
quest’attico, avevamo proprio la fenditura per guardare i tedeschi quando venivano... Allora quando arrivarono qua s ul ponte di Gesù Cristo, noi
sparavamo... era una bella vedetta, appena vedevamo l’autocolonna che veniva, quelli poi dovevano girare... e facemmo tre pr igionieri tedeschi.
64 Mi riferisco qui ai concetti di De Certeau, L’invention du quotidien, vol. 1, Arts de faire cit., cui mi sono ispirata anche per il titolo del
paragrafo.
65 Ho descritto questa configurazione di rapporti in G. Gribaudi, Donne, uomini, famiglie. Napoli nel Novecento, L’ancora del M editerraneo,
Napoli 1999.
66 La percentuale dei militari uccisi è consistente e testimonia di un altro aspetto della resistenza napoletana poco ricordato: quello dei militari
che non si arresero ai tedeschi e risposero con le armi alle aggressioni. I militari uccisi risultano il 14,46 per cento tra le certificazioni di morte
trovate presso i registri dei morti del comune di Napoli. Le schede risultano lacunose ed è stato possibile accertare professioni e mestieri soltanto
di 313 vittime su 542. Più precise e complete risultano invece le informazioni riferite all’età. I dati sulle morti citati più avanti sono tratti tutti
dalla stessa fonte documentaria, conservata presso l’Archivio dello Stato Civile della città.

67 Con il termine «impiegato» si designa comunque un lavoratore dipendente di non altissimo livello. Si tratta anche in questo caso di una figura
contigua ai gruppi sociali degli artigiani e dei commercianti.
68 «Verso piazza Carlo III c’era maggiore presenza, perché c’era questa torretta tedesca che ostacolava ogni passaggio di qualsiasi cosa. Il
grup po si spostava a dare aiuto. Interveniva dove c’era... come si dice... dove sentiva i colpi, là correva, non aveva una postazione fissa. Qua c’era
una barricata fissa, e a piazza Carlo III anche c’era fissa. Qui invece scontri per via... quando avanzavano per via Duomo qualche mezzo
corazzato tedesco sparava e quelli non avanzavano più, cioè contenevano alle spalle, qua a via Duomo, da via Foria ostacolavano l’ingresso»
(Salvatore Borrelli).

69 Utilizzo qui i confini delle circoscrizioni odierne, che contengono gli antichi quartieri della città, cui si riferiscono le testimonianze orali e di cui
si parlerà più avanti. A questi si devono aggiungere i quartieri della zona orientale, Ponticelli, Barra e San Giovanni (47 vittime, 13,78 per cento),
in realtà centri con una storia autonoma fino agli anni trenta e a tradizione socialista. La cifra non è assoluta, poiché spesso nelle s chede di
morte manca l’indicazione dei quartieri di residenza (le schede complete sono 341 su 542). Si tratta comunque di un campione significativo.

70 Sono riferimenti utilizzati ancora oggi dai napoletani ; essi resistono anche ai cambiamenti della toponomastica.

71
Jacques Semelin (Sans armes face à Hitler cit.) collega la capacità di resistenza civile al grado di coesione sociale di una comunità. Le sue
riflessioni sulla resistenza civile di massa sono particolarmente appropriate per l’analisi del caso napoletano, come il concetto di m icroresistenza
quotidiana di Michel de Certeau (L’invention du quotidien cit.) è molto efficace proprio per immaginare quegli spazi di disobbedienza quotidiana,
di impermeabili tà ai discorsi del regime totalitario nei quartieri popolari della città, che avrebbero potuto costituire le basi inconsapevoli della
resistenza collettiva del settembre 1943.
72 E.J. Hobsbawm, I rivoluzionari, Einaudi, Torino 1975 (ed. or. Revolutionaries, Weindenfeld and Nicolson, London 1972).

73 Commara è la madrina di battesimo.

74
femmina piccolina diavolo prenditela tu!
75 Questa citazione è t ratta dal manoscritto in cui Alberto Defez ha ripreso la storia narrata nelle interviste.

76 L’8 di settembre noi stavamo fuggendo... io l’ 8 settembre facevo il soldato, stavo a Caserta. [...] pigliai la valigetta, io stavo con un tenente e
avevo pure la roba del tenente. Venendo venendo, ce ne tornammo a casa a piedi, da Caserta a Ponticelli a piedi. Ora, per la via trovammo i
tedeschi, mi acchiapparono e dissero: cosa porti in questa borsa? E io avevo il pantalone del tenente. Dissero: tu sei tenente, ufficiale. – No, io
sono soldato, io soldato, niente tenente! In quella borsa... quelli mi volevano portare! Io li convinsi. – No, io soldato! Ecco questi sono i panni
miei, li vedi? E gli feci vedere quelli da aviere. Mi lasciarono e poi io per strada incontrai un aviere che stava con me, che saccheggiava poi qu ei
soldati che passavano davanti a lui, lo zaino, il tascapane, qualche pagnotta, qualche cosa... Camillo si chiamava, era un soldato delinquente, e
aspettava questi avieri che venivano, che dovevano passare per forza per Casalnuovo, quell a strada che facevano passava proprio per
Casalnuovo, e lui stava in mezzo alla strada e acchiappava tutti questi soldati che portavano qualcosa da mangiare, avieri italiani che eravamo
rimasti senza padrone. Quel Bado glio, il capo, disse: da oggi sparate da qualunque parte siete offesi, se vi sparano i tedeschi, sparate ai tedeschi,
se vi sparano gli americani... Allora c i lasciò così a noi, e ognuno di noi cercava di trovare il modo di arrivare a casa quanto più in fretta, e non
sparavamo a nessuno né di qua né di là. Passando dentro dentro, dentro le frasche, cioè a piedi, così siamo arrivati a casa, però qualcuno è stato
deportato. Siamo stati abbandonati... non c’era più... pure il tenente, i pantaloni suoi mi ha lasciato nella borsa... e io per non gettarli perché glieli
volevo dare, era un siciliano questo, ma... non ho sentito più niente di lui, ma...

77 Comunque arrivammo a casa, tutti qua nti eravamo d’accordo, stavamo fuggendo, stavamo nascosti. Stavamo qua a venti metri. Stavamo là
sotto, tutti là e stavamo tutti i giovani, tutti i soldati come me, mio fratello, i fratelli miei, tutti i capi, tutti quanti là sotto, e i tedeschi non ci
trovarono là sotto. Hanno trovato qualcuno e se lo sono portato in Germania. Noi siamo rimasti là sotto. Ora, il 27 di settembre siamo usciti fuori
allora: ah, al Vomero stanno sparando... Quelli hanno occupato...
78 Li tengo in uno stipetto. – Pupetto, donna Assunta è andata in campagna. – Io ruppi lo stipetto e mi pigliai la merenda, ci mettemmo dietro a
una macchina e ci mangiammo tutto. A mezzogiorno: si sono presi i panzerotti!
79 Il testimone stesso ha utilizzato per definirsi un termine ripreso dalle immagini convenzionali dell’insurrezione. Ovviamente esiste una
contaminazione fra processo di costruzione della memoria pubblica e ricostruzione del ricordo personale, fra linguaggio pubblico e linguaggio
individuale, ma il termine scugnizzo è usato da Minino quasi fra virgolette: eravamo i «famosi scugnizzi». Come a cogliere la differe nza fra
stereotipo e realtà.
80 uscivano

81 ma ero sempre in prima elementare

82 Io ero il più grande, quello era il problema. Guardando un fatto psicologico, io dovevo lavorare con mio padre, come se io dovessi portare
avanti la famiglia come mio padre, io ero responsabile come mio padre, cosa assurda! Ma io lo sapevo questo e bisticciavo pure, perché quando
era sabato sera non mi voleva dare nemmeno i soldi per andare al cinema. Al cinema allora all’Olimpia, ora si chiama Plaza, si pagava una lira e
un soldo, lui non mi voleva dare i soldi per il cinema e allora io mi scocciavo, lo lasciavo e me ne andavo a lavorare da un’altra parte e lavoravo
nelle officine e compagnia bella.
83 uno faceva il ragazzo del fruttivendolo, ma io non ho mai voluto lavorare con i mastri. In quel periodo feci il sarto, niente meno quello mi
misurava i vestiti che erano di altri addosso a me, io che tenevo i calzoni con le pezze in culo, facevo il modello

84 Lui si rubava dieci lire di quei tempi... dal cassetto della cassa e andavamo al Marconi a vedere il cinema e ci divertivamo. Però io avevo un
problema, io dovevo portare i soldi a casa, non mi potevo nemmeno divertire, che i soldi non erano nemmeno miei. Quel poco che guadagnavo io
cercavo almeno di farmi una pizza. Quando si trattava di fare una pizza o andare al cinema e compagnia bella, lui si pigliava i soldi dalla mamma.
Una volta feci una figura di merda con il mio amico, dissi: senti, mi dai qualcosa che lo devo portare a casa. Se no a casa non si mangiava, se non
portavo i soldi.
85 perché mio padre quando lavorava come fabbro, e c’era anche lo stagnaro, sarebbe l’idraulico, che prima facevano pure il rame, saldavano e
compagnia bella, la domenica si riunivano a giocare a carte tutti gli artigiani del Vomero, non è come adesso, si conoscevano tutti quanti, e io
stavo là, ero ragazzo, era ancora prima della guerra; mio padre e gli altri parlavano già contro il fascismo, parlavano di Zanardelli, Aurelio
Padovano.

86 gli spezzoni di ferro, io andavo nell’officina per prendermi il ferro e mio padre mi voleva picchiare

87 capitano, so andare a casa

88 litigai con il professore perché facevo sempre a botte e non ci andai più a scuola

89 infatti i fascisti se le prendevano da noi

90 se ne dovevano andare


91 si scocciavano

92 gli zoccoli ai piedi


93 non si capiva niente là, io non so nemmeno come sono vivo

94
con la testa nella spazzatura quello l’hanno buttato
95 capirono

96 Sulle catene di vendette avvenute nel centro-nord e in particolare in Emilia cfr. G. Crainz, Il conflitto e la memoria. «Guerra civile» e
«Triangolo della morte», in «Meridiana», n. 13, 1992, pp. 17-56; M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano,
Editori Riuniti, Roma 1999.
97 Una damigiana di benzina addosso, poi lui se ne fuggì, lo portarono su alla caserma dei carabinieri, se ne fuggì un’altra volta... uh... gli
spararono in mezzo alle gambe, uh... così e se ne fuggiva ancora, poi se ne fuggì dentro il palazzo di Scamarcio, nel palazzo di Scamarcio lo
andarono a prendere e lo u ccisero.
98 Ma quelli furono i comunisti... ora nel senso... quando poi è caduto il fascismo, che è successo? Quello che poi la storia dice, loro avevano avuto
del male da questa gente qua, allora l o avevano nel sangue il male... mazzate, pugni, purghe, carcere, anni e anni di carcere... Ora questa gente
avendo il momento opportuno per loro, sarà pure peccato... non lo dovevano fare, dovevano perdonare... Gesù Cristo dice vuole il perdono... e si
sono vendicati, e avvenne a Ponticelli quest’altro fatto, io me lo ricordo quando poi uccisero Travaglini.
99 ASN, Corte di Assise di Napoli, sentenza del 9 agosto 1946. I brani che seguono sono tratti tutti da questa fonte.

100 Si vedano a questo proposito le osservazioni di S. Luzzatto, Il corpo del duce, Einaudi, Torino 1998.

101 Si vedano le considerazion i sviluppate da A. Lepre, L’occhio del duce. Gli italiani e la censura di guerra, Mondadori, Milano 1992, e P. Cavallo,
Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, il Mulino, Bologna 1997, a partire dall’analisi delle lettere passate al setaccio della
censura. Sul crollo del mito fascista, come sulle caratteristiche dell’adesione al regime cfr. R. De Felice, Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra
1940-1943, vol. 2, Cris i e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990; S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, 1929-43, Laterza, Roma-
Bari 1991; S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000.

102 Emerge con grande forza in moltissime testimo nianze l’odio verso quelli che vengono definiti «fascisti», cioè le «camicie nere», i funzionari
del partito ecc. Come fa notare Salvatore Lupo «dopo aver disprezzato le tessere, cioè l’appartenenza partitica come veicolo di divisione dei
cittadini, il fascismo creò un enorme sistema di discriminazione nel corpo della nazione basato sull’appartenenza: discriminazione tra fascisti e
non fascisti, tra fascisti della prima e dell’ultima ora, tra diciannovisti e ventottisti; e alla fine sulla richiesta della tessera per accedere al lavoro,
ovvero su quella che veniva definita la tessera del pane» (Lupo, Il fascismo cit., p. 27).
103 I fascisti allora presero mio padre, perché c’era fuori alla via Nuova un alimentare che vendeva tutta questa roba così. Allora dato che aveva
rapporti con mia madre, la moglie di questo ci conoscevamo e dava ogni tanto un po’ di farina a mia madre, perché allora non c’era, di nascosto
perché là guai a chi faceva queste cose... e mio padre, non c’era nemmeno la luce a Ponticelli, non c’era la luce, mi ricordo che mio padre mentre
veniva da là fuori, che teneva questo sacchettino con quel poco di farina... c’era un fascistone grande grande, un uomo, che vi debbo dire, che
pareva una montagna, tutte medaglie... Lo chiamavano Barlettaro, perché era di Barletta... questo è l’episodio mio da bambina, da ragazzina, che
mi posso ricordare e fino a quando muoio non me lo scordo mai... quel berretto da fascista, quella frangia che sventolava quando camminava, con
quei calzoni alla zuava, con quegli stivali, proprio un fascistone proprio... Comunque questo e un altro di Ponticelli, che è ancora vivo, insomma
acchiapparono questo mio padre con questo sacchettino con questa farina, che quella per amicizia la diede a mio padre. Erano quattro, cinque,
sei chili di farina insomma, questo qua prese una svista pensando che mio padre... loro cercavano una banda di contrabbandieri di pane che
abitava a via Napoli, e pensavano che fossimo noi quella banda che cercavano. Vennero a casa, questo fascista grande che vi ho detto che pareva
una montagna, insieme a questo qua, perquisirono tutta la casa, e mia madre allora aveva una bilancia piccolina, una bilancia per uso di cucina
insomma, si pigliarono quella bilancia, non so se vi ricordate, allora quando si faceva il pane in casa avevamo quelle mattonelle di leg no, dove
facevano il pane dentro, si pigliarono quella martire... insomma già si erano portato papà su al fascio, dove c’è il municipio in mezzo alla piazza,
c’era il fascio, e mammà faceva a quelli là: ma perché ci stanno facendo questo, che è successo? – Voi siete del contrabbando di giù... – Io del
contrabbando di Santa Croce? – Mammà lottava con quello così e si pigliarono pure mia madre e se la portarono al fascio. – E non ci prendiamo
pure la bambina... – che allora ero io – perché è troppo piccola. – Io rimasi con questa sorella di mia madre, perché si erano pigliata mammà, io
sono figlia unica, e insomma me ne andai da mia zia, perché poi allora avevo sette, otto anni, nove anni, dieci anni, non mi ricordo bene l’età, e si
portarono mammà e papà, e li portarono carcerati proprio, li portarono a Barra, a Barra c’era un carcere allora, e dice che li uccisero di botte,
tanti di quegli schiaffi che diedero a mio padre... papà stava in una stanza, sempre sopra al fascio qui a Ponticelli, e mammà stava in un’altra
stanza, mammà...
104 Muro a muro si parlavano, sempre stando in queste camere di sicurezza che a volte avevano su al fascio. Allora mia madre diceva: – Pure a me
mi stava accecando. Ha detto vicino a me: se non fate il nome ti acceco. – Accecami, fammi vedere se hai il coraggio di accecarmi! – Mia madre
con quello là di Ponticelli, il capo dei fascisti che stava su al fascio a Pontic elli. Quello poi li portò in carcere a Barra. Lui, mio padre, stette male,
rimase con la testa stordita, dovette andare dai medici, gli stordirono tutta la testa, dice, con le botte che gli diedero.
105 se ne sono andati fuori dai piedi!

106 abbassarono la testa

107 Si viveva sempre con quella cosa che non potevi dire niente, non potevi parlare di politica, dovevi sempre dire: bello questo, bello quello.
Volevano comandare tutto, ecco. Levarono pure il libro Cuore dalle scuole, perché era troppo sensibile. Si diceva: libro e moschetto fascista
perfetto. Levarono tutte le cose buone, per mettere solo cose violente. Al re non importava se tu eri ricco povero o che facevi, bastava che pagavi
le sue tasse e poi ti lasciava fare. Mussolini no, a scuola si andava con la camicia nera, dovevi sempre dire... se dicevi qualunque cosa ti portavano
su al fascio e là erano mazzate da morire. La gente era scontenta, la rabbia più grossa è che eravamo impotenti, non potevamo fare niente. Si
diceva: duce duce che alla fame ci conduce... Erano tutte quelle imprecazioni popolari che servivano per sfogarsi, se no la rabbia scoppiava.
Faceva sempre adunate, parate, tutte cose finte perché dietro non aveva niente, fece la guerra senza cannoni, senza fucili e disse: in venti
giorni... Ecco là...


108 non si potevano fare, non esisteva proprio che tu ti mettessi con un banchetto, venivano i fascisti, pigliavano la roba e buttavano tutto. E io
che potevo fare?


109 il salumiere le vendeva a una lira, di contrabbando si vendevano a una lira e mezzo, giustamente. Quando me la facevo al di fuori delle
guardie, tutto andava bene, quando mi beccavano

110 Sulla categoria del consenso rispetto a un regime che non permette alcun tipo di critica manifesta si vedano le annotazioni di Lupo, Il
fascismo cit., p. 330.
111 De Certeau, L’invention du quotidien, vol. 1, Arts de faire cit., p. 65. Riflessioni analoghe in Scott, Domination and the Arts of Resistance cit.
Forme di resistenza misconosciuta dalla storia ufficiale vengono analizzate e portate alla luce dagli storici del postcolonialismo, in particolare
dagli studiosi indiani dei Subaltern Studies: R. Guha e G. Chakravorty Spivak, Subaltern Studies. Modernità e post colonialismo, ombre corte,
Verona 2002 (ed. or. Selected Subaltern Studies, Oxford University Press, New York-Oxford 1988), D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa,
Meltemi, Roma 2004 (ed. or. Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000).
Aurelio Lepre nell’introduzione al suo Storia degli italiani nel Novecento cit. tesse l’elogio dell’italiano antieroe, pacifico e laborioso, che ha
silenziosamente costruito il benessere e la democrazia dell’ultimo cinquantennio, e riprende le parole di Giuliano Procacci per difendere la
maschera popolare di Pulcinella, simbolo estremo del debole che cerca di schivare i colpi dell a sorte e le prepotenze dei potenti. «Nel 1924 Piero
Gobetti, cercando di delineare i tratti di “un’autobiografia della nazione”, aveva condannato il “quietismo attendistico”, il “tirare a campare” delle
tante maschere popolari da Gianduia a Pulcinella, la fatalistica rassegnazione allo scorre re di un tempo sempre eguale a se stesso che ispiravano
i comportamenti della maggioranza degli italiani. Ma Pulcinella, ha ricordato Procacci, “ha molto vissuto, molto visto e molto sofferto”» (pp. 3-4).
Riflessioni interessanti sulle forme di resistenza e di disobbedienza popolare si tro vano in S. Peli, La resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi,
Torino 2004.

112 V.J. Propp, La morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 2000 (ed. or. Leningrado 1928).

113 Si vedano i volumi di De Felice, Mussolini l’alleato, vol. 2, Crisi e agonia del regime cit.; Cavallo, Italiani in guerra cit.; Colarizi, L’opinione
degli italiani sotto il regime cit.; Lepre, L’occhio del duce cit.; Id., Storia degli italiani nel Novecento cit.
114
Come già ricordato, il padre di Alberto Defez era arrivato a Napoli dalla Turchia e aveva ottenuto la cittadinanza italiana dopo il 1919. La
perse con le leggi razziali del 1938 che toglievano la cittadinanza agli ebrei che la avessero acquisita dopo quella data.


115 Però dopo questo ho continuato a campare la vita mia, a fare lo scugnizzo, ad arrangiarmi, alcuni invece si andarono a iscrivere come
partigiani, mentre io non ho mai pensato di iscrivermi come partigiano. Poi seppi che alcuni di loro avevano un sussidio per chi aveva fatto le
quattro giornate, ma io non mi iscrissi, perché poi ho fatto cinquantamila mestieri e compagnia bella.
116 Così recita la scritta su un cippo in memoria dei caduti a Capodimonte: «Caduti in armi per la difesa del focolare. Addì 29 settembr e 1943».

117 La citazione è di Togliatti ed è ripresa da Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri,
Torino 1991, p. 138), che riporta e fa sua anche quella di Croce: «Uomini, donne e fanciulli di Napoli hanno dimostrato, pur con le scarse armi che
sono riusciti a procurarsi, quel cuore e quello spirito pugnace e quello spontaneo eroismo che in passato rifulse in famose difese della nostra città
contro gli stranieri».
118 Per una ricostruzione dei protagonisti sociali e delle motivazioni che portarono all’adesione alla lotta partigiana si veda oggi l’interessante
lavoro di Peli, La resistenza in Italia cit. Sarebbe impossibile citare q ui la sterminata letteratura sulla resistenza; un lavoro di sintesi si può
trovare in E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza (vol. 1, Storia e geografia della liberazione; vol. 2, Luoghi,
formazioni, protagonisti), Einaudi, Torino 2000. È necessario ricordare, tuttavia, due volumi fondamentali nell’elaborazione storiografica e nella
discussione che hanno accompagnato lo studio della resistenza: quello di Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Feltrinelli, Milano 1977, che
con la categoria di antifascismo esistenziale e la proposta di un’analisi biografica dei partigiani precorreva in un certo senso una serie di temi e
oggetti di analisi che si sarebbero affermati compiutamente solo negli ann i novanta, all’indomani della caduta degli steccati ideologici che
avevano caratterizzato la guerra fredda; e quello di Claudio Pavone, Una guerra civile cit., che, con un approccio storico-sociale, entrava
all’interno delle file dei combattenti, spo stando l’attenzione dai partiti e dalle organizzazioni ai «soggetti operanti a più livelli, alle loro varie e
molteplici motivazioni, intenzioni, speranze, illu sioni», facendo riemergere la complessità della lotta, i plurimi livelli di senso che avevano
animato i suoi protagonisti e i suoi antagonisti, e riportando sulla sc ena uno degli aspetti prima negati, quella dimensione di guerra civile che
aveva visto contrapposti non solo italiani e tedeschi ma anche italiani e italiani.
119
L. Meneghello, I piccoli maestri, Oscar Mondadori, Milano 1986, p. 33 (1a ed. 1964).
120 Ibid., pp. 82 e 83.

121 Il concetto in P. Brass, Riots and Pogroms, New York University Press, New York 1996, p. 1.

122 Il lavoro più noto su questo tema è quello di G. Rudé, La folla nella storia, Editori Riuniti, Roma 1984 (ed. or. The Crowd in History, 1730-
1848, J. Wiley & Sons, New York 1964); sul mob cittadino si veda anche il testo di E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale,
Einaudi, Torino 1966 (ed. or. Primitive Rebels. Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th and 20th Centuries, Manchester
University Press, Manchester 1959). Una interessante disamina del concetto di folla e di mob cittadino in D. Frezza, Il leader, la folla, la
democrazia nel discorso pubblico americano, Carocci, Roma 2001.
123 E.P. Thompson, The Moral Economy of the English Crowd in the xviiith Century, in «Past and Present», n. 50, 1971 (trad. it. in Società patrizia
e cultura plebea, Einaudi, Torino 1981); N. Zemon Davis, The Rites of Violence: Religious Riot in Sixteenth Century France, in «Past and Present»,
n. 59, maggio 1973 (trad. it. in Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento, Einaudi, Torino 1980).


124 B. Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 1996 (ed. or. Imagined Communities, Verso, London-New York 1991).

125 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953, p. 122.

126 Si vedano i confronti operati da Battaglia con le insurrezioni di Firenze e di Genova, pp. 394 e 636. Battaglia avrebbe in parte corretto la sua
visione alcuni anni più tardi a partire dalla lettura del libro di Aldo De Jaco, su cui mi soffermerò più avanti. Si veda a questo proposito G.
D’Agostino, Le Quattro Giornate di Napoli, Newton & Compton, Roma 1998. Nel capitolo La quest ione storiografica. Tra politica e storia l’autore
compie una disamina critica dei lavori e delle interpretazioni sull’insurrezione napoletana.
127 Nel volume I ribelli cit. Hobsbawm aveva delineato il modello del mob: una mobilitazione che caratterizza le grandi città preindustriali, in
particolare quelle dell’Europa meridionale, metropoli fin dai tempi remoti, sedi di corte e quindi di un «popolino» da essa dipendente i n termini
di beni e di identificazione. Il popolino e non il proletariato è il protagonista del mob cittadino. Si tratta di un fenomeno primitivo che si
contrappone al modello di protesta politico della moderna società industriale. (In un volume successivo, I rivoluzionari cit ., Hobsbawm avrebbe
ripreso il discorso sulle rivolte e le insurrezioni nei grandi centri cittadini con le riflessioni sul rapporto fra spazio urbano e forme di protesta che
ho citato poc’anzi). La categoria del mob cittadino vantava d’altronde una tradizione consolidata nella politica e nelle scienze sociali americane,
dove era stata utilizzata per rappresentare le rivolte sociali delle masse di immigrati e degli afroamericani: sommosse popolari viste come
«fenomeni naturali al di fuori del controllo umano, vulcani, tempeste, animali selvaggi», la folla emotiva e irrazionale contrapposta alle masse,
protagoniste della società dei consumi e della moderna democrazia (Frezza, Il leader, la folla, la democrazia cit., p. 33). Essa aderiva
perfettamente alla natura degli stereotipi sugli abitanti del Mezzogiorno, radicati nell’immaginario nazionale ed europeo fin dai tempi del Grand
Tour, quando si faceva strada l’idea di un Sud primitivo e selvaggio, dominato da istinti e sentimenti primordiali in contrapposizione alle
popolazioni civilizzate e fredde del Nord (A. Mozzillo, Viaggiat ori stranieri nel Sud, Comunità, Milano 1964; G. Gribaudi, Images of the South, in
D. Forgacs e R. Lumley, a cura di, Introduction to Italian Cultural Studies, Oxford University Press, Oxford-New York 1996 e in R. Lumley e J.
Morris, a cura di, The New History of the Italian South. The Mezzogiorno Revisited, University of Exeter Press, Exeter 1997).
128 Ritroveremo queste idee in un volume, per altri versi serio e documentato, di uno studioso inglese, Percy Allum, anch’egli inquadrabile
nell’area culturale e politica della sinistra. Linguaggio e immagini utilizz ati sono estremamente significativi. «È da notare che proprio il gran
numero di disordini e di jacqueries è un indice del loro limite come arma di lotta, un’arma che non ha mai potuto cambiare le fondamentali
condizioni di vita della popolazione. Le rivolte e le jacqueries del popolo napoletano sono sempre state di breve durata per ottenere degli obiettivi
immediati o hanno avuto luogo in situazioni assolutamente disperate. Sono state sommosse per l’occupazione, per la cessazione di un particolare
abuso, oppure rivolte contro il “destino”. I napolet ani, chiusi negli angusti limiti della Gemeinschaft, non sono mai arrivati a capire che una
rivoluzione è finita, quando raggiunge i suoi scopi immediati solo a prezzo di sacrificarne i vantaggi; e ciò perché ad essi è se mpre mancata la
struttura intellettuale che li mettesse in grado di acquisire piena coscienza della loro situazione globale. Ciò è stato dimostrato più volte: per
esempio dalle quattro giornate di Napoli che molti considerano come l’inizio della resistenza in Italia. I napoletani, dopo aver costretto alla
ritirata i tedeschi, ricaddero nella loro antica cond izione, tanto che Napoli fu la città meno toccata dagli ideali della resistenza, come testimonia
ampiamente la sua storia del dopoguerra» (P.A. Allum, Potere e soci età a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino 1975 [ed. or. Politics and Society
in Post-war Naples, Cambridge University Press, Cambrid ge 1973], p. 140). In una nota di commento Allum faceva propria anche la tesi
negazionista, sostenendo che le quattro giornate erano state una jacquerie urbana, che il loro movente principale era stata la fame, e, facendo
propria un’unica testimonianza, che esse erano state pr evalentemente opera di «scugnizzi» (ibid., p. 140, nota 73). Percy Allum mi ha spiegato
che, a tale proposito, egli ha assunto quella che allora era la spiegazione prevalente f ra gli studiosi della città.
129 Tarsia in Curia, La ve rità sulle Quattro Giornate di Napoli cit., p. 36. Si veda anche l’importante ricostruzione di C. Barbagallo, Napoli contro
il terrore nazista (8 settembre-1 ottobre 1943), Maone, Napoli 1946, ristampato a cura dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, Città
del Sole, Napoli 2004.
130 Tarsia in Curia, La verità sulle Quattro Giornate di Napoli cit., p. 45.

131
La prima edizione del volume di Aldo De Jaco (Le quattro giornate di Napoli cit.) è del 1956. Lo stile è giornalistico, non vi si trovano
riferimenti alle fonti né alle interviste. Ma si trattò allora del tentativo più attento e serio di ricostruire la cronaca degli avvenimenti.
132 «Ho voluto in sostanza esprimere un modo di vedere la Resistenza che differisce radicalmente da quello divulgato (e non penso solo ai
discorsi e alle celebrazioni ufficiali) e cioè in chiave anti-eroica». Così scriveva Meneghello nell’introduzione del 1976 al volume I piccoli maestri
cit.
133 De Jaco, Le quattro giornate di Napoli cit., pp. 198-99.

134 Ibid., pp. 12 e 13.


135 Si veda la ricostruzione che Ermanno Rea (Mistero napoletano, Einaudi, Torino 1997) fa del periodo. Egli mostra la mancanza di categ orie
adeguate, l’incomprensione della città da parte dei militanti della sinistra. «Per Sereni – ma possiamo dire per il partito comunista nel suo
complesso – Napoli è una città maledetta: il suo “proletariato di straccioni” è fonte d i infezioni di ogni genere le quali si sono propagate ormai
all’intero corpo sociale» (p. 75). Non era l’incapacità del partito e dei suoi militanti, ma il carattere reazionario degli abitanti a impedire il
radicamento del comunismo in città. Dunque Napoli era, in questa visione, una città da combattere e da domare. Lo sprezzo o il rifiuto della
cultura popolare meridionale accomunava in quegli anni liberali-idealisti e comunisti. Le masse popolari del Mezzogiorno, e di Napoli, in
particolare, erano secondo questi intellettuali, preda di una cultura arretrata e reazionaria da superare attraverso un’opera di acculturazione e di
modernizzazione, secondo i liberali-idealisti, o attraverso la guida e gli insegnamenti del partito, espressione della più avanzata classe operaia del
Nord, secondo i comunisti. A questo punto si comprende l’idea, ampiamente illustrata da Roberto Battagl ia, che le insurrezioni nobili siano state
quelle di Genova, Torino, Milano, guidate dagli operai, dai partigiani armati e dal CLN.
136 B. Passaro e F. Soverina, Un antifascismo difficile: il Sud d’Italia (1943-1980), in «Il presente e la storia. Rivista dell’Istituto storico della
Resistenza in Cuneo e provincia», n. 45, 1994.
137 L. Cortesi, Comunisti, resistenza e quattro giornate, in G. Chianese (a cura di), Mezzogiorno 1943. La scelta, la lotta, la speranza, ESI, Napoli
1996, p. 416. Su questo tema nello stesso volume: L. Parente, Due o tre co nsiderazioni sulle quattro giornate. Per una rivalutazione
dell’insurrezione in chiave resistenziale si veda anche D’Agostino, Le Quattro Giornate di Napoli cit.
138 Emblematica fu la discussione che coinvolse il film di un noto regista di sinistra, Nanni Loy, Le quattro giornate di Napoli, concepito proprio
nel quadro di questo nuovo corso politico. Ferruccio Parri disse che Nanni Loy riduceva le quattro giornate a «pura sommossa popolare, semplice
esplosione di indignazione». Carlo Bernari rifiutò di riconoscere la sceneggiatura a cui aveva partecipato perché sarebbero stati eliminati gli
episodi contro i fascisti, che avrebbero ovviamente dato un taglio più politicizzato alla lotta, caratterizzandola come battaglia antifascista (Passaro
e Soverina, Un antifascismo difficile cit., p. 60). Il film di Nanni Loy, visto alla luce della documentazione e delle testimonianze, appare invece un
documento di grande interesse, capace di restituire il clima del momento e di offrire un’interpretazione realistica dell’insurrezione. In
un’intervista del 1993 Nanni Loy spiegava il senso del film e la sua costruzione. Il film «fa coppia con Un giorno da leoni. Un giorno da leoni era
un film su pochi personaggi e raccontava la costituzione di un gruppo di partigiani. Invece Le quattro giornate di Napoli ha cercato di raccontare
l’altro aspetto della resistenza al nazismo e al fascismo in Italia, cioè l’aspetto, non di un’organizzazione scaturita da una decisione del Comitato
di Liberazione, ma una sollevazione popolare. I partiti antifascisti, infatti, nelle quattro giornate di Napoli, non hanno avuto influenza diretta, ma
semmai precedente, di preparazione culturale. Le quattro giornate sono nate per istinto, per l’iniziativa delle donne che volevano salvare i loro
uomini dalle deportazioni in Germania e poi piano piano si sono allargate a macchia d’olio fino a diventare l’unico grande esempio di una città
intera, di civili, di inermi che prendono le armi per scacciare la guerra, la dittatura, la repressione, la morte della loro città» (in P. Iaccio, Cinema
e storia, Liguori, Napoli 1998, pp. 123-24). Sollecitato inoltre a rispondere alle critiche che gli erano state sollevate, Loy faceva proprie categorie
che alcuni storici e storiche hanno utilizzato per confutare un concetto di resistenza esclusivamente militare. «Soprattutto a Napoli, prima che in
tanti altri posti, si verificò un legame strettissimo tra i combattenti e la popolazione civile. Anche i civili inermi, le donne, gli scugnizzi ebbero un
moto di ribellione popolare contro gli occupanti. Se le donne, come è successo, hanno impedito ai tedeschi di caricare sui camion i loro uomini e
deportarli in Germania, hanno compiuto un atto di ribellione, di resistenza passiva ma anche attiva. Non han no sparato materialmente, ma si
sono battute a modo loro. Come dovrebbero essere conteggiate? E poi tutti gli altri che hanno partecipato, i ragazzini che facevano la spola, che
portavano armi e vettovaglie a chi sparava, tutti quelli che facevano da supporto, che ruolo dargli? Combattenti effettivi, di retrovia, aiutanti,
simpatizzanti? Anche loro non spararono materialmente, ma parteciparono. Fu questa la caratteristica delle quattro giornate, una sollevazione
popolare che mise in fuga un esercito occupante. E fu la prima volta che accadde sotto l’occupazione nazifascista... Altro che calcoli notarili sul
volume di fuoco...» (ibid., pp. 126-27).


139 G. De Antonellis, Le quattro giornate di Napoli, Bompiani, Mil ano 1973; P. Schiano, La resistenza nel napoletano, CESP, Napoli 1965.

140
V. Ricciuti, Napoli «medaglia d’oro», in «Risorgimento», 30 settembre 1948.
141 Gli anni cinquanta sono in Italia anni in cui si rafforza il dominio della Democrazia cristiana con l’appoggio dei partiti di destra e quindi c’è
una spinta a rimuovere o a mettere in sonno l’antifascismo e la resistenza, che torneranno negli anni sessanta con la svolta di centro-sinistra,
spesso reinterpretati con toni retorici ed enfatici, distanti dalla percezione e dalla memoria della gente.
142 Passaro e Soverina, Un antifascismo difficile cit., p. 65.

143 Si veda a questo proposito il volume di E. Erra, Napoli 1943. Le quattro giornate che non ci furono, Longanesi, Milano 1993.

144 Il testimone si dichiara apertamente di destra.


5. Violenza da terra e violenza dal cielo. Lungo il Volturno, settembre 1943
1 AFHRA, microfilm B 5657-1457, First, Second, Third Priority List, Target Chart Production, 12th Air Force.

2
PRO, AIR 23/6601, Bombing of Communications in Support of Army Operations, Central and Southern Italy.
3 ASN, Prefettura, G abinetto, busta 1226/1, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ufficiale di servizio, 23 luglio 1943.
«Formazione nemica ha sorvolato Salerno sganciando bombe dirompenti ed incendiarie che colpivano nuovamente stazione Salerno, già colpita
durante la notte, edifici civili ed industriali, zona orientale della città, provocando crolli e gravi danni. È stata colpita altresì postazione 31a
Batteria costiera per cui è saltata in aria la riserva di proiettili, il tratto della strada Nazionale Salerno-Battipaglia. Alle ore 10.10 circa altri 50
aerei sganciavano numerose bombe incendiarie e dirompenti, molte delle quali ad effetto ritardato su Battipaglia provocando danni gravi e crolli
alla stazione ferroviaria, alla rete dell’acquedotto e della luce».
4 PRO, HW 1/1955 (T.O.O. 1700/20/8/43), CX/MSS/3093/T18, JP/1745, South Europe, Report of evening 20/8 addressed to Luftflotte.

5 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1, Lettera del commissario prefettizio di Cancello Arnone al prefetto, 26 agosto 1943.

6 Ivi, Lettera del podestà di Villa Volturno al prefetto, 31 agosto 1943. Bellona era allora frazione di Villa Volturno.

7 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1.

8 Ivi, Relazione del commissario prefettizio di Caserta al prefetto, 2 settembre 1943.

9
AFHRA, microfilm B 0229-1859, 310th Bomb Group.
10 ASN, Prefettura, Ga binetto, busta 1226/1, Lettera del direttore dell’acquedotto al prefetto, 31 agosto 1943.

11 Ivi, Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ufficiale di servizio, 29 agosto 1943.

12 Ibid., 1° settembre 1943.

13 NARA, RG 18, entry 7 WWII, Mission Reports, Headquarters 47th Wing to Commanding Officer 310th, Operational Priority. «Obiettivo: Capua;
Ora: 11.50. [...] Asse dell’attacco da ovest a est ritirarsi verso nord quindi piegare ver so ovest 5 miglia a nord di Mondragone».
14 AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, APO 520, US Army, 2 settembre 1943.

15 AFHRA, microfilm A 6013-1621, Headquarters NASAF, From Air Command Post, Mediterranean Air Command, to Commanding General,
NAS AF, Air Chief Marshal. Air Commander-in-Chief, Mediterranean Air Command Norstad, 6 settembre 1943.
16 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1, Fogl io volante della RAF datato maggio 1943.

17 «Il ripiegamento doveva avvenire con le seguenti tappe: con la parola d’ordine “Stromboli”, si doveva avanzare dalla linea Otto alla linea II
(“Anton” nella piana tra il Vesuvio e il monte a nord del fiume Sarno), che doveva essere tenuta per almeno due giorni dai mezzi corazzati e
dall’artiglieria. Con il nome convenzionale “Etna” si doveva avanzare sulla linea III (Anni) [lago Patria Mugnano, Marano] da tenere per almeno
dodici ore, men tre con la parola d’ordine “Vesuvio” si doveva occupare la linea IV (Viktor) [la linea del Volturno] e far saltare i ponti sul Volturno.
Questa linea doveva essere difesa finché la situazione lo consentiva, ma si contava di passare presto ai ripiegamenti necessari sulla linea V
(posizione intermedia Barbara) e infine sulla linea VI, la “posizione difensiva Bernhard” (nomi convenzionali “Atlante” e “Alpi”), perché già alla
fine di settembre era evidente che Viktor non avrebbe potuto essere tenuto oltre il 15 ottobre» (Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia cit.,
pp. 456-57).
18 BA-MA, RH 24-14/81, Ordine al XIV Corpo d’armata corazzato, 18 settembre 1943.

19 BA-MA, RL 32-114. Una descrizione delle distruzioni si trova anche nella relazione del prefetto di Benevento inviata nel maggio 1944 al
ministro dell’Interno (ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, busta 14, fasc. 1098). La lista delle distruzioni è particolarmente lunga. Tutti i paesi
occupati hanno subito abbattimenti di case, saccheggi, requisizioni di massa, deportazioni di uomini.
20 BA-MA, RH 24-14/81, Ordine al XIV Corpo d’armata corazzato, 19 settembre 1943.

21 La relazione del prefetto di Benevento (ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto, busta 14, fasc. 1098) nell’elenco dei danni subiti dai paesi della
provincia parlava di requisizioni e saccheggi generalizzati, e citava con precisione i 200 capi di bes tiame requisiti ad Ailano, i 500 di Piana di
Caiazzo, gli 830 di San Gregorio d’Alife. Le relazioni dei carabinieri di Sessa Aurunca citavano i 2000 capi depredati a Carinola (ACS, Ministero
dell’Interno, PS, busta 52, Danni e brutalità commesse dai tedeschi), i 10 00 capi presi a Marzano Appio e i 350 nel vicino comune di Tora e
Piccilli (ACS, Ministero dell’Interno, PS, Governo del Sud 1943-44, busta 1, fasc. 1/5 , Affari diversi). Si hanno informazioni certe sulle migliaia di
capi razziati a Sparanise, Acerra, Bellona, Buonalbergo, Capua, ma le testimonianze ci descrivono un’opera di requisizione pressoché totale del
bestiame alleva to dai contadini nelle terre occupate dai tedeschi in Campania e nel basso Lazio.
22 Klinkhammer, Stragi naziste in Italia cit., p. 21.

23 Ho trattato il caso di Acerra in Città distrutta, abitanti sterminati: Acerra, 2 ottobre 1943, in Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit., pp. 231-
50.
24 Si veda il volume sopra citato da me curato Terra bruciata.

25
Oltre alle violenze su cui mi soffermo in questo volume, si verificarono sulla linea del Volturno e sulla successiva Bernhard gli eccidi di Bellona,
Caiazzo, Sparanise, Conca della Campania. I casi sono stati analizzati approfonditamente nel volume Terra bruciata.

26 Sostiene John Keegan che le battaglie tendono a ripetersi in punti vicini tra loro, sovente vengono combattute a più riprese nello stesso luogo
nel c orso di un periodo storico assai lungo. «I grandi fiumi, le barriere montuose, le foreste fitte formano “frontiere naturali” con cui nel corso
del tempo i confini politici tendono a coincidere; gli spazi che si aprono tra gli uni e le altre sono strade verso cui vengo no attratti gli eserciti in
marcia. Tuttavia, nel momento in cui attraversano questi spazi gli eserciti sono ben difficilmente liberi di manovrare a piacimento, anche se sulla
loro strada non si frappone alcun ostacolo visibile. Entra in gioco una geografia più sottile, rafforzata dal clima e dalle stagioni e adattata dal
costruttore di strade e di ponti [...] Ad esempio, osserviamo che la Blitzkrieg tedesca in Francia nel 1940, apparentemente un galoppo senza
confini in aperta campagna dopo che l’avanzata dei carri armati ebbe superato la barriera delle foreste delle Ardenne e del fiume Mosa, seguì
molto da vicino il percorso della route nationale 43, che per larga parte della lunghezza è la strada romana tracciata subito dopo la conquista
della Gallia ad opera di Cesare, nel I secolo a.C. [...] i comandanti dei carri armati tedeschi, per quanto si illudessero di seguire una traiettoria
libera, in realtà obbedivano a dettami topografici antichi quanto l’ultima modificazione della superficie terrestre nella Francia settentrionale,
provocata dal ritiro dei ghiacciai 10000 anni prima» (Keegan, La grande storia della guerra cit., pp. 71-74).
27 A Cancello si diceva la messa di ringraziamento perché avevano chiesto la pace, si era fatto l’armistizio, invece mio cognato disse: ora deve
arrivare la guerra, quello che è stato fino ad ora non è niente, disse, ora incomincia la guerra, dopo l’armistizio. Graziani si ritirava, Badoglio si
ritirava, Mussolini non gli passava neanche più per il cervello, il re se ne scappò e rimanemmo noi soli sconsolati che eravamo, che non avevamo
più chi ci difendesse. Allora finì il mondo, fu una cosa proprio esagerata, proprio il giorno dell’armistizio, il giorno dell’armistizio finì il mondo
proprio.
28 Io stavo a Capua, non sfollai. Contavamo gli apparecchi! Noi stavamo così e li vedemmo arrivare... vuu vuu vuu... gli apparecchi e dicemmo: uh,
guarda là, guarda, li contavamo tutti quanti. La buonanima di Andrea disse a mastro Agostino, lo zoppo, il muratore, voi battete le mani, qua non
si sa se ce la vediamo malamente con gli americani o con i tedeschi. Poi ci fu il bombardamento. Fu mio zio che disse: qua o i tedeschi o gli
americani ci riempiono di botte.
29 allora

30 Fatto l’armistizio, allora il giorno dopo, tutta la gente torna, chi stava prima nelle gallerie, chi presso i parenti. Vanno alle loro case. Invece il
giorno dopo entrarono in città e andando in città che succede? Che gli inglesi americani avanzavano e i tedeschi invece indietreggiavano,
andavano al nord... andare al nord che significa? Chi dalla pa rte di Montesarchio arriva a Benevento arriva, entra nella piazza... via Gaetano
Rummo, poi piazza Orsini, il duomo, piazza Santa Maria... Tutta questa storia per bloccare questi tedeschi, insomma bombardare questi tedeschi
che dovevano passare sopra il ponte Calore, questo e quell’altro. Acchiappano tutte queste zone che vengono tutte bombardate... Bum bam destra
e sinistra... e perché? Per inseguire sempre questi tedeschi che indietreggiavano, andavano verso nord. Verso l’8 o il 9... il giorno dopo
l’armistizio, piglia e morì tanta e tanta gente.
31 Come ho detto poc’anzi, Cancello Arnone con il ponte sul Volturno, situato proprio nel mezzo del paese, compare fra gli obiettivi di primaria
importanza in AFHRA, microfilm B 5657-1457, First, Second, Third Priority List, Target Chart Production, 12th Air Force.

32 Ma noi tutti quanti pensavamo: può mai essere che questo paese da niente venga bombardato? Ma mai a pensare. Non lo pensavate? No,
signora, neanche lontanamente. È un paese insignificante, dicevamo noi. Però il mio babbo diceva così: qua abbiamo il ponte, qua abbiamo il
fiume. Diceva il mio babbo. Signora, lui era un uomo intelligente, il mio babbo. – Non vi illudete, diceva lui, abbiamo il ponte, abbiamo il fiume. E
difatti fu così.
33 Troviamo notizia del bombardamento di Cancello e della posizione delle truppe tedesche nel diario di guerra della Hermann Göring. BA-MA,
RL 32-114, 9 settembre 1943: «Ore 15.00. Italiani liberano la posizione presso il ponte sul Volturno a Cancello. La seconda compagnia disarma il
contingente italiano. Pesante bombardamento su Cancello. Seconda compagnia, 5 morti e 11 feriti».
34 Successe il finimondo. Incominciarono a bombardare i paesi, era l’ora che firmarono l’armistizio. Mio padre disse: attenta, oggi non andare a
messa, disse a me, oggi viene il finimondo! Mio padre, lui aveva già fatto il ’15-18 e sapeva che cosa significava. Ma come, dissi io, devo
ringraziare Gesù Cristo. – Gesù Cristo, se lo vuoi ringraziare, ringrazialo qua! – Ue! Madonna mia che male augurio mi date! Signora, dette
queste parole, facevano festa qua in mezzo, ma noi stavamo in mezzo ai tedeschi! Tutti a festeggiare qua in mezzo che avevamo fatto l’armistizio.
Signora e che bombardamento! Correvano botte da tutte le parti, qua c’era un fumo! Piovev a fuoco dappertutto... poi fumo, tanto di quel fumo!
Le case saltavano, le bombe cadevano, non si vedeva più niente, soltanto i dispiaceri, tornavano dentro e non trovavano più le famiglie, questo
era! Non si capiva niente di quello che succedeva: e vedi qua e vedi là! Signora mia c’era una mia sorella che venne dall’America, stava dentro la
chiesa, là rimase, dentro la chiesa, e un figlio di diciotto anni, facevano parte della famiglia Cicala. – E non ci sono e non ci sono! – No, quelli sono
scappati... Quando tornai qua, a casa mia... pieno di morti! Li tiravano fuori da là e li portavano tutti dentro. E che è suc cesso? Dissi io. Quella ha
perso nove figli signora, nove figli! Tutti i figli, tutti qua. [...] I figli stavano qua, perché venne il bombardamento e noi fessi facevamo il ricovero,
scavavamo in terra e ci pigiavamo là sotto, la bomba cadendo non faceva finire sotto terra? [...] Comunque, signora, mentre noi stavamo facendo
questo fatto, quegli altri chiamavano da sotto terra: aiutateci, aiutateci, che stiamo morendo! Faceva il padre di Pasquale: aiutatemi, che mia
moglie è già morta, se non mi scavate muoio pure io. E un altro figlio di mia sorella era l’ultimo che era scappato, si chiamava Pezzì, era
america no e stava sotto al ricovero: zia, zia, diceva a me, aiutatemi, sto per morire pure io! Però fate attenzione, quando affondate la pala che ho
la mano qua, ho l a mano qua, se affondate la pala più in qua mi tagliate la mano! Sto per morire pure io, fate in fretta, preparate una coperta che
se esco fuori muoio! Diceva lui. Comunque lui uscì... e si salvò!

35 Quando arrivai al paese qua, era martoriato, stava tutto...

36 si ammucchiava

37 rincretinito

38 andando

39 mi hanno detto

40 li doveva far mangiare

41 prima di andare dai bambini mi vado a sentire la messa

42 vedevi

43 Erano fuori di testa, dicevano cose da pazzi, signora, se la pigliavano con Gesù Cristo. Che deve fare Gesù Cristo? E bestemmiavano, dicevano
così: che stai a fare tu lì dentro che non ci hai aiutato?
44 Il 9 mattina, il giorno prima, ci dovevamo na scondere dentro il giardino qua, c’era un paraschegge, che ci buttavamo tutti là dentro quando
volavano gli apparecchi bassi e stavamo là, poi gli apparecchi si allontanarono e noi uscimmo da quel fosso. Il giorno dopo aspettavamo tutti
quanti, dicevano: son venuti a far la pace, la pace... Non era vero! Il giorno del bombardamento si andava a sentire la messa, il giorno 9. Noi
uscimmo dal paraschegge e andammo a sentire la messa, alla fine della messa successe il bombardamento. Mentre stavamo uscendo vedemmo gli
apparecchi a schiera così, vedete, ma molti proprio! Messi a ventaglio così e allora uscimmo dalla messa e volevamo tornare a casa, io a
braccetto alla mia mamma dissi: mammà, vieni qua, che noi moriamo per strada! Dissi: ora questi buttano le bombe! E ce ne tornammo indietro,
mentre stavamo salendo le scale della chiesa per entrare in chiesa, viene il bombardamento, lo spostamento ci butta a faccia in terra, lo
spostamento forte, e così rimanemmo io e mia mamma abbracciate così a faccia in terra. E stavamo aspettando che ci venissero a sollevare là,
sotto le macerie e vennero poi, era verso le nove, le nove e mezzo e ci tirarono da là sotto ferite... Rosinella cadde in terra a fianco a me, e io
tenevo la mano di lei in mano, e sentivo lei che moriva e io potevo parlare, lei non poté dire più niente, stava con la bocca chiusa... e io dicevo:
Rosinella, ora moriamo qua, ora moriamo sotto le pietre! E la mano di lei io la tenevo in mano... stava morendo. Sentivo che la mano in mano a me
faceva tttt e così tremava e morì e non la vidi più. Fu brutto!... E dopo il bombardamento li sentivamo camminare sopra le nostre teste come
fossimo state sotto una montagna di macerie e io avevo tanto spazio così, avevo uno scanno della chiesa e così potevo gridare un poco e
gridavamo, da sotto là noi sentivamo che dicevano: scaviamo, che si sente che sono ancora vive, non sono morte, dicevano. Cominciarono a
scavare piano piano, piano piano e ci tirarono fuori noi ferite da là sotto.
45 C’erano un sacco di cristiani sotto la chiesa, chi riuscì a uscire dalla sacrestia si salvò, poca gente, gli altri morirono. Donatina, la moglie di
Scipione, la chiamavano Assunta la zoppa, un’altra zia che aveva una gamba... che aveva una stampella... morirono molti cristiani là, Aida la figlia
di zio Giovanni, morirono parecchie persone, perché c’era l’armistizio e andavano a ringraziare la madonna. Che vuoi ringraziare la madonna!?
Quelli bombardarono sul ponte. [...] Uh! Tutti, tutti, tutti, fu una cosa... e quella povera crista di Peppinella, faceva l’amore con Tommaso mio
fratello, si volevano bene, che era cresciuta in casa nostra, venivano da Iolanda, cuciva quando era giovane. E lei stava là e la poveretta la
piangevamo e me la sognai, che diceva che lei e Donatina stavano tutt’e due vicine, quando bombardarono ed erano state quattro giorni sotto la
sedia, era morta dopo quattro giorni, teneva la testa sotto la sedia e rimase, e dopo quattro giorni morì. Quella povera Assunta la trovarono
attaccata vicino alla colonna della chiesa, per pochi metri non riuscì a uscire. Vincenzina pure c’era... e Maria la guardia, Vincenzina, parecchie
uscirono dalla sacrestia... la sacrestia non cadde, cadde davanti, sopra, in questo modo cadde a piombo così la bomba. E quelle, piene di terra,
piene di polvere, riuscirono a uscire, il resto rimasero tutti là dentro. Parecchie morirono nella chiesa sotto il bombardamento. [...] Quando
eravamo sfollati là veniva la gente che arrivava da Cancello, mezzi spogliati, sfracellati, come posso dire? Mi ricordo bene Pietro Antonio, il padre
di Orsolina Ciota, e lui ci disse dei morti che c’erano a Cancello, ci disse tutti i morti... allora finì il mondo, fu una cosa proprio esagerata, proprio
il giorno dell’armistizio, il giorno dell’armistizio finì il mondo proprio, morirono molti cancellesi.


46 Quando fu il 9 settembre la mattina, la sera c’era stato l’armistizio l’8 settembre, tutte feste, abbiamo fatto festa: è finita, l’armistizio, è finita la
guerra! E tutti credevamo che fos se finita la guerra, mentre chi aveva la radio... noi la radio la sentivano in pochi... invece di sparare contro gli
americani dovevamo sparare contro i tedeschi, questo fu il disastro più grosso! Quando furono le nove di mattina in paese quel bombardamento
non finì mai. Io mi trovavo in campagna ad assistere gli animali, già reduce dal fronte... Io sono corso in paese e ho trovato un disastro che non
finiva mai, morti, la gente ferita... Allora c’erano i tedeschi che ci davano il disinfettante, ho incominciato io, reduce dal fronte, visto quello che
succedeva al fronte, che ci scannavamo ognuno con un altro, avevo il coraggio, quando vedevo uno che gli usciva il sangue da tutte le parti,
andavo vicino, lo disinfettavo, lo pulivo, lo m ettevo a terra. E sono andato in paese, il paese era finito, gente che gridava, gridava, si cercava sotto
le macerie... I soldati nostri che avevamo là, scapparono, buttarono le armi, e se ne scappavano. E rimase il popolo, il popolo che non aveva
nessuno che l’aiutava, perché i tedeschi pensavano ai fatti loro, a saccheggiare, a fare, noi, i soldati nostri cercavano di scappare, non c’era chi ti
dava una mano, chi ti aiutava... Io poi girando a destr a, girando a sinistra trovai mio fratello, che non gli era successo niente, trovai mia sorella
impaurita... e ce ne venimmo qua, tornato qua sono tornato in paese perché avevamo delle case in paese. Comunque finì così fino alla sera di
notte, che poi c’era qualcuno che salvava, chi andava a destra, chi andava a sinistra. Il giorno dop o noi abbiamo continuato ad andare in paese e
allora stando in paese e allora vedevi un morto a destra, un morto a sinistra... e dopo pochi giorni i maiali, che stavano in paese, che allora tutti
avevano i maiali, portavano le tes te di noi umani in bocca, dentro al paese...
47 Cancello era solo di terra, rivoltato sotto sopra... Il paese era tutto caduto, noi per andare da noi c’erano tutte le cose... i mucchi di terra
rivoltata così, tutto quanto rivoltato, tutte pietre, tutti marmi, tutte queste cose dei marciapiedi, tutti i basoli, perché c’erano i basoli in mezzo alla
via da noi, allora i basoli stavano tutti ammonticchiati, una cosa troppo... ma quelli bombardarono Cancello per via del ponte, per via del ponte
qua, fu fatta una cosa... proprio rasa al suolo! Figuratevi che io mi sposai, però dopo il ’45, io mi sposai il ’48 ed ebbi il primo figlio nel ’49, tra
noi, zia Assunta di Ciccillo e zia Cristinella, insomma, non si poteva passare, c’erano tutte le cose ammonticchiate, che le case se ne erano cadute,
erano tutte ammonticchiate, per andare da mia sorella Mirella, dovevo passare sopra a quella terra con la creatura, che non si poteva uscire da
nessuna parte, né di qua né di là e non vedevi una faccia di anima viva [...] Avevo il primo figlio che nacque nel ’49 e stavamo ancora cos ì, con la
roba dappertutto, tutti mucchi ammonticchiati che arrivavano vicino alle case. Le vie non esistevano più, esistevano tanto per dire così, ma stava
tutto rivoltato sotto sopra, poi piano piano... Ma quando poi? Quando le figlie erano cresciute non esisteva niente, e non potevi cercare niente da
nessuna parte... [...] Cancello insomma non era Cancello! Era una cosa così...
48 D. Branco, Diario di guerra 1943-45, Arte Tipografica Di Maio, Castel Volturno 2001, p. 73.

49 Poi successe il finimondo, non si capiva più niente: soldati di qua, soldati di là, tedeschi, inglesi, si mischiarono i problemi. C’era troppo
movimento di soldati, sig nora, troppo!
50 Un tedesco cominciò con una ragazza e allora c’era un maresciallo aust riaco, era una brava persona, dice: quello è un mascalzone, quello è
russo. Dissi io: ma che cosa si deve fare? Lo dobbiamo uccidere? Dice. Non sia mai! Manco i cani! Se f acciamo una cosa così a questo, quelli ci
uccidono tutti quanti, quelli che stanno qua, non scampa nessuno! [...] E stemmo una quindicina, una ventina di giorni là. Comunque noi
continuavamo questa storia di andare avanti e indietro a Cancello. Nel paese non c’era nessuno, si sentiva una puzza che non finiva mai dentro al
paese. Una sera verso le sette, le otto arriva questo maresciallo tedesco, disse: paisà, tu te ne devi andare da qua. Senti, te ne devi andar e,
perché domani mattina alle nove tutto distrutto! [...] Noi ce ne andammo, partimmo durante la nottata e per la via tutte le galline, papere, quello
che por tammo con noi, i tedeschi ci fermarono e ci levarono tutto sopra al fiumiciattolo qua... Tutto! Era tutta roba di pollame, ci levarono tutto,
però gli animali ce li portammo. Le bufale ve le portaste dietro? Quante bufale c’erano? Una cinquantina, cinquanta, sessanta animali...

51 Quando fu notte, la notte dopo che c’erano stati gli americani già qua, questi tedeschi passarono il fiume e si pigliarono parecchia gente di
Arnone, si pigliarono persino il Cavaliere, la buonani ma di Peppe Circio, altra gente, se li pigliarono prigionieri e se li portarono, che poi se li
portarono pure in Germania, Lorenzo il ciclista, insomma tutti questi qua, se li pigliarono prigionieri e se li portarono. Allora qua intorno una
confusione da pazzi, ti devo dire la verità...
52
Ci mettemmo in cammino, ci mettemmo in cammino e andammo a questo podere. Arrivammo a questo podere e stavamo a fare fagioli e
zucche, non c’era niente! Men tre stavamo così questo nipote mio americano si mise a cavalcioni sopra il cancello e col binocolo guardava, diceva
a me: zia, c’è movimento! – Scendi, dicevo io, non ti fare vedere che, manco i cani, ci vedono e ci uccidono. – Non ti preoccupare, diceva lui. Piglio
un secchio e vado a pigliare l’acqua, correva un ruscello di acqua ma non c’era una fontana... Vado a pigliare questo secchio di acqua e c’era una
capanna di canapa, fatta a uso di... una capanna e là sotto c’erano due soldati, poso il secchio e me ne fuggo. Pezzì! Pezzì, dissi io, ci sono due
soldati qua sotto! – Zitta, disse lui, se no ci fai uccidere! Disse a me: come erano vestiti? Dissi: avevano un elmetto in testa con una lettera. – Sono
inglesi, disse lui, non aver paura. E lui da sopra il cancello: Hallo! Hallo! Parlava con quelli americano. E vennero vicino a noi, entrarono dentro,
volevano sapere che ci stavamo mangiando e che cosa c’era da mangiare e l’interprete disse: non vi muovete di qua, che fra un’ora viene il
camion e vi porta a destinazione. Signora mia, c’era un fratello mio che era troppo pauroso: e andiamocene! E andiamocene! E andiamocene! Ci
mettemmo dentro a quel sentiero sotto sotto alla ferrovi a e andammo a finire nelle mani dei tedeschi un’altra volta! Signora! In mano ai tedeschi
un’altra volta! Non potevamo parlare, non potevamo dire niente.
53 il fosso della strada

54 vieni qua, disse, prendi il cavallo e vattene! Ma prima di fare quello mi hanno riempito di botte.

55 Non si hanno notizie di altri bombardamenti tedeschi, sarebbe l’unico nella zo na e in quel periodo.

56 La testimonianza di Filomena Nardella, nata nel 1934 a Mond ragone, è riportata nel CD Erba Rossa, a cura del Liceo Scientifico Galilei di
Mondragone, 2003.

57 Tribunale militare territoriale di Napoli, Sentenza del 28 giugno 1968, Testimonianza resa alla stazione dei carabinieri di Mondragone il 20
maggio 1945 da Domenico Papa possidente, già commissario prefettizio della cittadina.
58 Tribunale militare territoriale di Napoli, Sentenza del 28 giugno 1968, Testimonianza di Domenico Papa cit.

59 questi ora se ne vanno, gli americani non sono ancora arrivati. – No, mamma, sono arrivati, sono arrivati, che state a fare qua? Non li potemmo
fermare.

60 ha incominciato ad asse starsi

61 questi vengono una volta e fanno questo, vengono un ’altra volta e fanno quest’altro, noi siamo ragazze, questi ora vengono sopra... Si
ubriacarono sotto a mangiare? Poi con tutto il fucile e le altre cose salirono le scale che volevano andare da queste ragazze, queste ragazze che
erano mezze... erano un po’ manesche, più forti... guappe... D ice: questi ora vengono sopra e ci uccidono!
62 Tribunale militare ter ritoriale di Napoli, Sentenza di non luogo a procedere del 24 giugno 1968, Testimonianze rese alla stazione dei
carabinieri di Mondragone il 16 maggio 1945.
63 Tribunale militare territoriale di Napoli, Sentenza di non luogo a procedere del 24 giugno 1968, Testimonian za di E.R. alla stazione dei
carabinieri di Mondragone, 22 maggio 1945.
64 Mi sono venuti a prendere sopra alla montagna, a me, mia cugina e un’altra, eravamo tre, con tre ragazzi pure, un mio fratello, un cugino e un
altro, che lo conoscevo appena, eravamo sei persone, ci vennero a prendere sulla montagna e ci portarono giù. Sono stata una nottata... due
nottate e una giornata e non mi hanno fatto niente. Ammucchiavano gli uomini, poi non lo so proprio. Poi la sera vennero, e io stavo là, arrivarono
la sera, la notte, era buio... arrivarono là e ci mettemmo a terra seduti tutti quanti, uomini, donne, poi gli uomini se ne andarono sopra in un’altra
casa e noi dentro una casetta con un cristiano di cinquant’anni e si mise a fare il guardiano a noi... ci mettemmo in terra sedute tutte quante e
nessuno dormiva, dove dovevamo dormire? In terra? E così... il giorno dopo... quando venne la sera il maresciallo ci venne a trovare noi donne,
era sempre tedesco... Dice: sedetevi, vogliamo sapere del paese... lui stesso, come diceva lui, ma chi lo capiva! E tirò fuori certe attrezzature che
si metteva addosso... quelle cose sporche, io non ho mai visto quelle cose là, dice: nix papà, nix mammà. Come cominciò a dire questo, io
cominciai a impressionarmi, dissi a quella ragazza: noi ce ne dobbiamo andare di qua domani, io domani me ne vado! La mattina mi alzai e dissi:
io me ne vado, ve ne venite o no? Feci una decina di metri, quelle pigliano e mi chiamarono, dice: aspettaci dietro a Caselle della Fossa... una
piccola masseria in campagna... e dissi: venite in fretta adesso! Invece di venire loro, venne il tedesco, con un fuci le mitragliatore, dice: andiamo!
Io senza parlare... che dovevo dire? Non ci voglio venire? Dovetti tornare indietro, io camminavo davanti e lui dietro di me e andammo là dove
stavamo... mi portò là e quelle due ragazze non c’erano più! Dissi: quelle donne dove stanno? Le ho lasciate qua e non ci sono! Se ne erano
andate! Io sola rimasi, mi sedetti là, quello se ne andò e io stavo quasi sempre sola... verso le quattro della sera venne un camion col grasso, il
grasso di animale, si doveva tagliare a pezzi per fare la sugna.
65 Io dico: devo andare a fare un poco di acqua fuori, devo andare qua fuori e poi torno . Me ne andai fuori e quelli non mi chiamarono... quella
casa stava qua, e sotto proprio, quattro o cinque metri c’era la via per Sarracino. Andai là, mi guardai intorno e non c’era nessuno, poi scesi in
mezzo alla strada, scesi e non c’era nessuno, da là non c’era nessuno, da là non c’era nessuno, questo è il momento! Mi misi a correre e me ne
andai e arrivai a Fosse... proprio nella mia vigna... diventai più padrona, la paura mi passò completamente... poi cambiai posto perché avevo
paura di quelli, che mi acchiappassero.

66
ce li portammo dietro perché dove li lasciavamo?


67 Allora ci portavano avanti così, gli animali ce li uccisero... le creature... tutte le mamme coi bambini piccoli in braccio... la sera quando fu verso
le dieci cominciarono a bruciare tutti i pagliai che si trovavano sopra a questa montagna dove eravamo sfollati noi. Allora i pagliai bruciavano e
noi con le creature in braccio e cose scendevamo la montagna e andavamo a Casanova.
68 Ora le mamme, io avevo Luigino, queste mamme che avevano le creature più piccole allora pigliavano le creature no? e ce le buttavano in
braccio. Dice: ma dove dobbiamo andare?

69 Andarono

70 questi ci portano al Garigliano, là ci buttano giù, distruggono tutte le cose e ci uccidono.

71 Tutta quella povera gente che si vede in televisione con quei pacchi in testa, pure noi ci siamo passati...

72
AFHRA, microfilm B 5710-1329, Middle East Interpretation Unit, Photographic Interpretation Report n. 2854, 17 maggio 1943, Summary of
Target Intelligence, 25 maggio 1943.
73 Un bel momento bell’e buono uscì l’armistizio. Io con le figlie di zia Concetta e quelle di Fusco stavamo mettendo le cipolle, quelle cipolle
piccole, che si mettevano... tant’è che vedemmo passare questi apparecchi. Ma noi sapevamo che avevano fatto l’amnistia [armistizio]! Quello era
proprio il primo giorno! E noi guardavamo... poi bu bu bu bu e gettarono queste bombe. E allora colpirono Capua, bombardarono Capua per i
ponti. E mammà e zia Concetta erano venute a prendere il pane a Capua. E noi piangevamo, piangevamo...
74 Noi il 9 settembre stavamo a Capua, stavamo proprio qua, stavamo proprio qu a a Capua, quando successe il bombardamento sopra il ponte.
Proprio sopra il ponte! Dove c’è il bar Giacobbone, stavamo io e Ferdinando, il marito di Anna, Anna Capastorta. Stavamo tutt’e due. E così di
gran corsa ci trovammo nel ricovero di fronte al castello. Là un poco più avanti c’era il ricovero. Noi entrammo nel ricovero e si ostruì la bocca del
ricovero, se ne cadde il palazzo di fronte. Poi attraverso un giardino, sotto a quelle arcatelle... là c’era un giardino con le piante di fichi e ce ne
uscimmo di là. Uscimmo di là e passando sopra le macerie venimmo qua e non trovai nessuno. Poi seppi che mammà era ferita, e la portarono a
Caserta, le saltò un polpaccio della gamba, stava di fronte a quelli di Somma, c’erano le case, era tutto a terra. Cadde un palazzo là. Mio fratello
Antonio che sta in Belgio e mia sorella erano dentro al ricovero del seminario. C’era il padre di Luigiotto, il padre di Rosina, c’erano mia sorella e
mio fratello. Mia sorella non volle andare con mio fratello. Disse mio fratello: andiamocene più avanti qua. Disse: io sto qua con loro, non voglio
venire. Lei poi era piccolina, loro erano più anziani, se la volevano tenere con loro, lei aveva undici-dodici anni. E non si volle muovere. Lei morì e
mio fratello se ne uscì. Lei poi quando la scavammo, erano tutti e tre, tutti e tre erano seduti così, vedi, con le travi davanti, morirono senz’aria.
[...] poi la mamma la portarono a Caserta, all’ospedale di Caserta e papà ogni mattina, attraverso i binari della ferrovia, andava a Caserta, perché
per la strada non si poteva camminare, si metteva il cestino sotto il braccio e le portava un poco da mangiare.
75 Ero di leva. Ero partito il ’41 e sono rientrato con l’armistizio che è stato l’8 settembre del ’43. Il giorno dopo si sfasciò l’esercito e i nostri
comandanti dissero: chi si può salvare si salva, pensate alla vostra salvezza, chi ha la famiglia qua a Roma se ne va e chi no cerca di arrangiarsi.
Comunque io riuscii a venire a Capua, col treno. Ma era un treno così affollato che ogni tanto per la via si fermava perché la gente era troppa.
Comunque arrivai a Pignataro e a Pignataro il treno si fermò perché a Capua il ponte era interrotto. Il ponte era a terra. E così la notte riuscii a
venire lo stesso, riuscii a passare sopra il ponte, passammo per il ponte, sopra la ringhiera e riuscimmo a passare il ponte e venimmo a Capua.
Venimmo a Capua e trovai il coprifuoco con i tedeschi, ci rifugiammo parecchi di noi sotto i ricoveri e là facemmo la mattina. Poi quando vidi che
si fece giorno io andavo cercando di vedere la famiglia. Senonché arrivai vic ino al portone... quando arrivai là vicino, dove stava la mia famiglia,
lo trovai tutto a terra. E la gente così... E io andavo cercando la mia famiglia e la gente mi disse che stava a Sant’Angelo. Si erano rifugiati a
Sant’Angelo. Ora, sotto questo bombardamento una b omba pigliò in pieno il nostro palazzo, dove stavamo noi, e la mia famiglia, siccome stavamo
all’ultimo piano si salvò, cadde sulle pietre. Ma c’erano due nipoti miei, i figli di una mia sorella, che cadendo sulle pietre morirono.
76 Quello dopo l’8 settembre, tante bombe che c’erano che i morti non li portavano neanche più al cimitero. Aprir ono un cimitero dentro la villa
comunale. E senza cassa, senza niente li mettevano nella terra. Che quelli poi dopo, dopo tre o qua ttro anni che cominciarono a scavare... no
molto dopo... dopo una decina di anni cominciarono a scavare le macerie... uscivano i morti da là sotto. – Perché quello, lo zio di Maria, Giacomino
Mandato, l’hanno trovato quello? Non l’hanno più trovato né morto né vivo, quello. – Ma essendo che ci stavano poche persone qua a Capua, che
la maggior parte era sfollata, qualcuno che era sotto le pietre non si sapeva nemmeno. Poi si sono trovate persone che non si sapeva dove fossero,
quando poi andavano a levare le macerie uscivano da là dentro. Quelli bombardavano e la gente moriva sotto le pietre. – Pure il muto di Labadia,
sotto la caserma lo trovarono morto, Ciro lo trovarono morto in mezzo alla piazza, sotto le macerie.
77 Diciannove anni avevo quando tornai da fare il soldato. Ci fu l’armistizio e venimmo qua. Ma qua trovammo Capua in terra, tutta per terra. E
come infatti trovai pure mia mamma e mia sorella sotto il bombardamento.
78 La buonanima di mia nonna disse: fuggiamocene sotto il portone, disse... Il portone cadde e la casa rimase. L’unica cosa che rimase. Stavano
insieme zia Nanninella e la buonanima di mio fratello Ciccio. Quando andai... che c’era mammà, mio fratello, sotto le pietre, dissi: e chi è questo?
Lui aveva i capelli ricci, si metteva la brillantina in testa, i capelli erano tutti bianchi. Sotto le pietre c’erano la buonanima di mia nonna, mammà
e i miei due fratelli. Uno lo trovammo subito e un altro, il più piccolo, lo spostamento lo spostò e poi lo scavammo dopo due o tre giorni.
79 Mio fratello piglia e scese con i secchi per pigliare l’acqua. Ora, mentre stava pigliando l’acqua in mezzo a San Domenico cominciò il
bombardamento. Ora, mio fratello si vide impappinato, non capiva niente, se ne andò per la strada di casa però invece di andare sopra si andò a
ficcare dentro il ricovero sotto. Ora mamma mentre stava appendendo i pomodori vide la casa che si muoveva in qua e in là. Disse: Carminiè,
Carminiè fuggiamo, fuggiamo! Disse mammà: mi trovai sotto al ricovero e non so neanche come mi ci sono trovata. Non lo so. La casa tutta in
terra! Tutto! Tutto! Perdemmo tutto! Mobili, biancheria, là non si capiva n iente... Cadde tutto là... e portarono don Peppe Giglio, la moglie e la
cognata sopra alla carrettella, che lo avevano tirato da sotto le pietre. E noi veramente vedendo una cosa simile, a piangere! Tutti quanti che
venivano fuori dal macello, vedevamo tutti quanti che venivano, eccetto mammà e papà e mio fratello. A ognuno che veniva domandavamo: avete
visto per caso mammà? Chi diceva l’ho vista in mezzo alla piazza, chi diceva l’ho vista sopra il ponte, chi diceva così, e noi... i ponti stavano tutti
quanti in terra, in mezzo alla piazza non si capiva niente, dicemmo noi: mammà è morta, non torna più. Noi a piangere a piangere... si fece
mezzogiorno, l’una... e non vedevamo venire mammà, nessuno. Vennero questi di Giglio, la moglie e la cognata e noi facevamo, avete visto
mammà? E quella fece: figlia mia, che mammà dovevamo vedere? Quello che abbiamo visto sono le pietre addosso e non ce ne siamo manco
accorti! Da un momento a un altro è venuto il bombardamento. Erano le due e noi a piangere fuori dal macello! Chi acciaccato, chi storpiato, chi
così, e solo mammà, papà e mio fratello non si vedevano. Verso le due e mezza, le tre, vedemmo da lontano che venivano tutti... Mammà, mammà,
mammà! Io correvo davanti che ero la più piccolina. Lei faceva: non ti muovere! Non ti muovere! Tutta quella gente, tutti quegli sfollati! In tutti i
modi non si fecero niente. Ora, mammà era sotto al ricovero, pensava a mio fratello, faceva: te e le piante! Te e le piante! M’hai fatto morire quel
figlio mio in mezzo a San Domenico, mi hai fatto morire quel figlio mio! Figlio mio, figlio mio! Mio fratello la sentì e fece: mà, mà, io sto qua,
dentro al ricovero. Un ricovero che non ci entrava più neanche una mosca, quelli si ficcarono tutti quanti come e... poi a mano a mano
cominciarono a rientrare tutti quanti.
80 Allora adesso i tedeschi andavano acchiappando gli uomini. Ora, noi avevamo i due miei fratelli, mio padre era anziano, si andò a nascondere
sotto al ricovero, diceva: se mi pigliano me, a me non importa ma loro sono giovani. E allora che facemmo? Venne uno, un tappo di bottiglia tanto,
con un mitra in mano, un tedesco, quelli aprirono, quelli del macello, si mise là in mezzo, insomma che voleva gli uomini, voleva questo, allora
faceva il padrone del macello: qua non ci sono uomini, tutte donne, tutte donne. E noi avevamo i due fratelli miei nascosti sotto i materassi e
tenevamo un po’ così per poter respirare, così, e c’eravamo tutte quante messe addosso, facevamo vedere che eravamo coricate! Perché se no
quelli li vedevano e li uccidevano. In tutti i modi questo fece la perquisizione in tutte le parti e stava per andarsene. Ora, vedi, mio fratello
Vincenzo, quello è sempre stato uno strafottente, voleva uscire, faceva: mammà quello se ne è andato, io posso uscire. Neh, come lui uscì, quello
stava ancora là, lo vide e si prese mio fratello e se lo mise sul carrozzino. Mammà a piangere, gridare! Il padrone del macello disse: signora non vi
preoccupate, il ragazzo non esce da qua! Il figlio vostro da qua non si muove! Quelli poi ci stavano tutti quelli di Serete che erano tutti... ma non
avevano, ma non avevano niente, quelli come uscivano li stendevano, capirono che qualcosa poteva fare solo il padrone del macello. Lascialo,
questo è un bambino, io ti do tanti polli, ti do un maiale, ti do questo, quello, tanto lo impappinò, comunque lasciò mio fratello. Appena uscì dal
carrettino se ne scappò da noi.
81 R. De Cunzo, Per una storia della resistenza in Campania. Capua, in «Politica e Mezzogiorno», n. 2-3, 1967, p. 236.

82 Questo mio zio faceva il capostazione principale, comandava lui sulla stazione di Capua, che allora era una stazione importante perché la linea
di Formia non era ancora fatta e questa era una linea important e. E un giorno mio zio, un fascista di questi con la divisa, un fascistone di questi
che facevano i capetti, non so che cosa disse a mio zio che lo offese. Mio zio disse: non ti permettere proprio con me! Non so che cosa gli disse,
che mio zio talmente si incazzò, pigliò la tessera da fascista e gliela stracciò in faccia. Non l’avesse mai fatto! Insomma fu denunziato, quello che
successe poi non ve lo so dire ma a un certo momento fu chiamato addirittura e fu processato per atti che aveva fatto contro il fascismo e allora
non potendolo licenziare perché aveva una medaglia al valor militare, anche se essendo allora il periodo fascista lo potevano fare, l’esiliarono, lo
mandarono in una stazioncina. Lo levarono da qua e lo mandarono a una stazioncina verso Reggio Calabria, si chiamava Melito Portosalvo, è
l’ultima stazione alla punta dello stivale, una stazioncina scordata da Dio e dai santi, dove è stato esiliato per tutta la vita, fino a che non è andato
in pensione.

83 A Capua poi c’erano parecchie persone anarchiche che quando venne Mussolini se li pigliarono e gli dettero la purga per non farli uscire.
Allora c’erano i giovani italiani, i balilla, i fascisti, c’era la buonanima di zio Pappone, aveva il cappello, quelli con la frangia qua, quello era uno
squadrista, quello. Paglino, il vecchio, pure faceva lo squadrista. E zio Santillo invece dovette fuggire perché era socialista, comunista, quello che
era, e se ne andò in Fr ancia, un altro fratello di papà. – A Capua quando veniva qualche autorità, o li acchiappavano e li mettevano in carcere e li
tenevano lì ventiquattro, quarantotto ore oppure li acchiappavano, li facevano sedere e gli facev ano bere mezzo litro di olio di ricino, li
purgavano e non si potevano muovere di casa. C’era un cugino di mammà, il padre di Ugo Di Cecio, lui era anarchico e ogni volta lo pigliavano e
gli davano le purghe e l’olio di ricino.

84
Quando venne Mussolini che parlò sulle scale di Sant’Eligio, Ciro il monaco disse: là sei venuto e una brutta fine farai. E come infatti... E
perché? Venne a Capua, no, e fece un discorso. E allora c’era un cristiano che si chiamava Ciro il monaco. Faceva il monaco e poi si era tolto la
tonaca. Disse così: eh, Benito è venuto sulle scale di Sant’Eligio e fa una brutta fine. Perché nelle nicchie ai lati della chiesa là nei tempi antichi ci
mettevano i morti a scolare e ancora oggi si dice, quando vuoi male a qualcuno si dice: ti debbo vedere sulle scale di Sant’Eligio.
85 Quelli andavano a cercare i fucili, andavano alla sala d’armi e pigliavano i fucili. – Si organizzavano proprio, erano i partigiani. – Poi un’altra
volta la buonanima di Vincenzino Faenza, il nonno, Luigi di Picciano, zio Raimondo, Inella, la buonanima di Angiolino Inella, erano a via
Gianfrotta, dove arriva la ferrovia Alifana, si misero là sopra, i tedeschi passavano... cominciavano a sparare, cose da pazzi... Uno di quelli lo
eliminarono là sopra e lo sotterrarono sotto la stazione dentro il muro là. – A Sant’Antonio, in mezzo a Ca stelluccio, in mezzo all’erba,
cominciavano a sparare. – Quelli facevano a modo di squadre, come i partigiani. E dicevano: che dobbiamo fare, ci dobbiamo fare uccidere? E se
dobbiamo fare fuoco, facciamo fuoco pure noi. Andarono a pigliare le armi nella sala d’armi, i fucili, le mitragliatrici, le cartucce, e fecero pure
loro i partigiani.
86 Notizia di questo massacro, senza alcuna indicazione precisa della data, è nel fascicolo allegato all’inchiesta americana sulla rappresaglia di
Be llona, essendo la masseria nel territorio di Villa Volturno, denominazione che univa i due paesi di Vitulazio e Bellona, di nuovo autonomi nel
dopoguerra. Nel fascicolo si trova la versione inglese di una lettera dei carabinieri di Santa Maria Capua Vetere con le seguenti notizie: «Senza
motivo, i soldati tedeschi uccisero i seguenti individui nella zona di Masseria Lepore (Villa Volturno). 1) Gentile Armando di Ciro e Rauso Maria, di
anni 34, commerciante di Capua. 2) Gentile Ciro di Camillo e di Tufano Vincenza, di anni 67, commerciante di Capua. 3) Giacobbone Domenico fu
Giuseppe, di anni 43, agricoltore di Villa Volturno. 4) Santoro Ferdinando fu Enrico, di anni 36, agricoltore di Villa Volturno. 5) Scialdone Antimo
di Antonio, di anni 60, agricoltore di Villa Volturno. Gli abitanti di questa zona erano veramente terrorizzati da questo massacro. Essi hanno
vissuto sotto il terrore dei soldati tedeschi che hanno perpetrato ogni abuso al punto da gettarli in uno stato di esasperazione e reazione» (NARA,
War Crimes Office, Judge Advocate General’s Office, RG 153, box 544).
87 Le inchieste dei carabinieri condotte quasi tutte fra il marzo e l’aprile del 1945 sono allegate alle sentenze di non luogo a procedere emesse nel
giugno del 1968 dal giudice istruttore militare presso il Tribunale militare territoriale di Napoli, nel cui Archivio sono conservate.

88 Poi c’era uno che lo chiamavano Peppe il pazzo che portava i tedeschi nelle case della gente e faceva bruciare le case. Li portava nelle case dei
signori che avevano qualche cosa. Li faceva saccheg giare, faceva uccidere, che poi andò a finire che i partigiani gli spararono e uccisero pure lui.

89 Q uesto che fa, lui stava sul fiume di qua e i tedeschi stavano di là. Non so come arrivò a fare che pigliò e fece segno con un fazzoletto così ai
tedeschi, per dire che potevano venire di qua. Questo, Alfredo, lo vide, pigliò i l fucile e pà! Lo stese al suolo. E quello niente di meno che faceva?
Faceva segno ai tedeschi per farli venire dentro Capua per far pigliare gli uomini, e faceva fare mitragliamenti dappertutto.

90
V. Sortini, Capua città martire. Lettera al Presidente, lettera al presidente della Repubblica per il conferimento della medaglia d’oro al valor
militare alla città di Capua, a cura di Vittorio Sortini e firmata dal sindaco di Capua e da rappresentanti di istituzioni locali, 1999.


91 La buonanima del nonno ce lo disse. Io ci lavoravo con zio Nicola, Nicola il vaccaro, il padre di Bertuccio. Lui aveva vacche, aveva giumente,
tutti gli animali. Quando ci fu questo fatto qua, disse mio nonno: Nicò non ti fidare di questi qua, lo vedi? Hai capito? Disse: eh, che mi devono
fare Gennarì, va bene! Perché? Era in buoni rapporti con i tedeschi? Eh, lui quando venivano gli dava una gallina, gli dava un pezzo di questo...
Venne un giorno che stavano cominciando ad acchiappare la gente. Io, la buonanima di zio Luigi, zio Raimondo, il padre di Peppe, ci andammo a
nascondere sopra alla fontanella in cima all’arco, la fontana... A via Roma? Eh, allora c’erano tutte quelle fontane. Noi da là vedemmo tutto il
fatto. Passò Donatiello, Zuccariello, il padre di... Disse la buonanima: Dunatié! Lui si girò intorno, faceva: ma chi è? Il nonno lo acchiappò e gli
disse: Dunatié dove vai là? Disse: vado a piazza dei Giudici se trovo un po’ di lavoro. Disse: non andare, quelli i tedeschi ti pigliano! Allora
uccisero tutte le vacche a Nicola, si pigliarono lui e Donatiello e il padre di Ninotto Zarrillo, Ciccio, il fratello di zia Rusinella e se li portarono.
92 Mi ricordo il padre di Lucia, Lucia di Santa Caterina, che tenevano le vacche, Luisella la vaccara, quella era tanto una buona cristiana,
avevano la campagna... gli animali, le vacche, i cavalli, tutti glieli uccisero e lui si amareggiò... Eh, questa è una storia, però, eh! Scrivila lì! E per
la seguente ragione: lui si amareggiò che gli uccisero pure tutti gli animali... gli uccisero i fagiani, tutto, e poi per la paura che gli uccidessero i
figli si tenne e poi se lo portarono alla via di Porta Tifatina, alla via del campo d’aviazione, e se lo portarono, gli fecero scavare il fosso. Uccisero
lui e pure gli altri. Successe l’ira di Dio in mezzo alla terra. Questo si chiamava Di Benedetto, il padre di Bertuccio. Io poi abitavo vicino, certo è
un ricordo che la gente ha sempre presente, è inutile che si discute.
93 Ho descritto il massacro di Bellona in Una rappresaglia: Bellona, 7 ottobre 1943, in Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit., pp. 251-74.

94 Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit., pp. 49-50.


95 Si veda il caso di Civitella Val di Chiana analizzato da Contini in La memoria divisa cit.

96 La notizia è nel diario di guerra n. 1 della divisione corazzata Hermann Göring, 2 ottobre 1943 (BA-MA, RL 32/114).

97 Giovannina Addelio nel 1943 aveva quindici anni.

98 Poi siamo tornati, tutti bombardati, e tutti i padreterno, papà è morto a Carditello e statti buono!... alla vita nostra.

99 Allora non c’era né cielo da vedere né terra per camminare.

100 Poi in mano agli americani mangiavamo, hai capito? Ci mangiavamo la polentina, il pane, cominciavamo a mangiare piatti caldi. I tedeschi no!
I tedeschi li g ettavano... i maiali interi dal ponte. I tedeschi li gettavano ma non ce li davano!
101 C. De Vivo, 9 settembre 1943, in «Il Crogiolo», 19 settembre 1965. L’articolo mi è stato segnalato da Maria Buglione, che ringrazio.
6. Una città distrutta e saccheggiata

1 AFHRA, microfilm B 5710-1329, Middle East Interpretation Unit, Photographic Interpretation Report n. 2549, 10 febbraio 1943, «Benevento.
Summary of Target Inte lligence. 3 April 1943», data delle fotografie: 21 gennaio 1943.
2 PRO, AIR 23/6601, Bombing of Communications in Support of Army Operations, Central and Southern Italy.

3 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, busta 77, fasc. 40-2-12,
Relazione sull’incursione del 20 agosto 1943 del questore di Benevento al ministero dell’Interno, 23 agosto 1943.


4 Ibid.

5 Mentre eravamo tutti fermi là, guardavamo come venivano a vanti questi aerei e sai il cuore nostro faceva brutto a pensare: come caspita si
trovano qua questi? E poi si vedevano bene bene pro prio vicino vicino... ma luccicavano assai assai... vi dico tante volte questo luccicare per far
capire come stavano vicini. Quelli stavano a tremila a quattromila metri ma erano apparecchi grandi. Erano gli apparecchi grandi, non son gli
apparecchi nostri, luccicavano assai. Buttarono le bombe sulla ferrovia e sono morte cento duecento persone, sono morte subito subito, e fra
questi c’era pure la figlia di... la figlia del grande industriale, la figlia di Alberti. E la sera andai a vedere poi, il pomeriggio andai a vedere vicino
alla ferrovia e vidi ammucchiate, buttate sopra un camion una quindicina di persone, non so se erano donne, chi poteva essere donna, chi poteva
essere uomo, insomma chi una giovane, tutta carne sfracellata, non si capiva niente. È morta veramente tanta gente.
6 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, busta 77, fasc. 40-2-12,
Relazione del questore di Benevento al ministero dell’Interno sull’incursione aerea del 27 agosto 1943, 1° settembre 1943.
7 AFHRA, microfilm B 0229-1859, 310th Bomb Group, Headquarters and Group History.


8 Ivi.

9 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, busta 77, fasc. 40-2-12, Comitato
Provinciale di Protezione Antiaerea, Rapporto dell’ufficiale di servizio, 8 settembre 1943.
10 Per la testimonianza di Lodovico Fune cfr. sopra, pp. 326-27. Il bombardamento del 9 settembre è indicato nei rapporti americani. È la
trasmissione di un ordine al 310° gruppo bombardieri: attaccare la stazione di Benevento, la stazione di Gaeta e Cassino. Tutti gli attacchi
dovevano essere effettuati alle ore 11 (NARA, RG 18, entry WWII, Combat Operations Reports, box 107, 12th Bomb Group).
11 Diario di guerra del capitano Amato Miele, Biblioteca Provinciale di Benevento, Sezione Documenti Rari. Il diario mi è stato gentilmente
procurato da Cinzia Rummo.
12 Diario di guerra del capitano Amato Miele cit.

13 R. Boccaccino, Benevento nella terribile estate del ’43, edizioni Messaggio d’oggi, Benevento 1993, pp. 32-36. Si tratta della raccolta di articoli
scritti dal sacerdote Rocco Boccaccino comparsi in sette puntate tra il settembre e il novembre 1978 sul settimanale «Messaggio d’oggi» nel 35°
anniversario dei bombardamen ti.
14 A. Zazo, Pagine di un diario, p. 17. Il diario è stato pubblicato in due puntate in «Samnium», n. 1-2 e n. 3, gennaio e giugno 1997.

15 Racconta fra Bernardino (al secolo Pietrantonio Rivellini, 1915) che il convento francescano di Paduli divenne una sorta di ospedale per i feriti
e i malati.
16 Boccaccino, Benevento nella terribile estate del ’43 cit., p. 33.

17 Diario di guerra del capitano Amato Miele cit.

18 Ibid.

19 Ibid.

20 Diario di guerra del capitano Amato Miele cit.

21 NARA, RG 18, entry WWII, Combat Operations Reports, box 107, 12th Bomb Group. Mission 133, 17 settembre 1943.


22 Diario di guerra del capitano Amato Miele cit. Le due citazioni che seguono sono tratte dalla stessa fonte.

23 NARA, RG 18, entry WWII, Combat Operations Reports, box 107, 12th Bomb Group, Operazioni 148 e 149. Ad attaccare furono le squadriglie
81, 82 e 434. Venivano sganciate 198 bombe da 500 libbre e 80 da 250 libbre.
24 NARA, RG 18, entry WWII, Combat Operations Reports, box 107, 12th Bomb Group. Ad attaccare furono di nuovo le squadriglie 81, 82 e 434.

25 Quando vedemmo sfilare questi grandi mezzi americani pensavamo: che guerra volevamo vincere noi? Passavano per il corso questi carri
armati che erano di ferro, insomma dovev a pesare un carro armato di quelli... ferro massiccio, ferro pieno, massiccio... Mussolini si difende... la
guerra... allora fecero togliere tutti i cancelli, tutti questi... questi cancelli d’ornamento, queste inferriate d’ornamento come c’erano alla villa
comunale... tutto tolto, tutto per fare i bossoli! Con quelli volevamo vincere la guerra!
26 Ivi: «24 B-25. Bombardato snodo stradale Benevento, Italia, da 9200-9500 piedi alle ore 13.07-13.15. Risultati: l’obiettivo è stato colpito da un
bombardamento a tappeto sullo snodo stradale e ferroviario». Vengono dichiarati 9 dispersi (due di questi ritornati il 18 ottobre).
27 Si tratta del Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea che venne fatto ricostituire dagli alleati.

28
Zazo, Pagine di un diario cit., p. 191.
29 N. Lewis, Napoli ’44, Adelphi, Milano 1993 (ed. or. Naples ’44, Pantheon Books, New York 1978), p. 191.

30 Poi ognuno va a casa propria, riprende la vita, si riprende a scavare per vedere dove sono i morti, dove sono i propri parenti, oppure per
trovare i propri averi, le proprie cose... Intanto la guerra ha portato distruzione, morti, morti di soldati, morte della gente per causa dei
bombardamenti, malattie... è uscito il vaiolo e sono morti tanti compagni. Morirono tante signorine, il dottore Cecco... Miseria, inflazione, i soldi
non valevano... queste parole non le sapevamo, non sapevamo la parola democrazia...
31 Un grande saccheggio avvenne anche ad Avellino. Cfr. V. Cannaviello, Avellino e l’Irpinia nella tragedia del 1943-44, Tipografia Pergola,
Avellino 1954.
32 Nel diario del capitano Miele, già citato, troviamo i nomi di Amedeo Manna, Augusto Pisani, Mario Mucci, Edoardo Galasso, quest’ultimo
liberato dal carcere dai suoi compagni. Nel dopoguerra sarebbero stati accusati di collaborazionismo Amedeo Manna e Nicola Gerace.
33 Boccaccino, Benevento nella terribile estate del ’43 cit., p. 39.

34 Cannaviello, Avellino e l’Irpinia nella tragedia del 1943-44 cit., p. 61.

35 Ibid., pp. 30-37.

36 Ibid., p. 69.
7. Fra razzie di uomini e bombardamenti

1 Il diario è conservato presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano.

2 Contrariamente alla convinzione diffusa che siano state le SS a fare le razzie e le rappresaglie, responsabili di tutte queste operazioni in
Campania furono le divisioni della Wehrmacht.

3 G. Iannettone, Carinola, 1943, Ed. ZACO, Sessa Aurunca 1994, pp. 135-37. Ho ricevuto il testo dall’autore da cui ho avuto anche un racconto
degli eventi e che ringrazio.

4 L’elenco è contenuto nel testo sopra citato. «Ben 134 uomini (ma il numero è molto superiore, in quanto il dato risponde a coloro che, dopo anni,
si iscrissero alla speciale associazione carinolese) furono razziati e deportati in Germania. Di essi si è fatto un elenco postumo, con la costituzione
della sezione di Carinola dell’Associazione ex internati in Germania, un elenco incompleto, in quanto non tutti vi si iscrissero perché nel frattempo
erano emigrati, perché deceduti e per altri motivi».

5 Cfr. il saggio di Maria Porzio, Castellammare di Stabia: violenze e razzie, in Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit., pp. 178-99.

6 Tribunale militare territoriale di Napoli, Sentenza del 13 dicembre 1944.

7 Ibid. A Castellammare lo scontro sociale e politico era stato acceso fin dal primo dopoguerra. Il comune socialista era caduto nel 19 21 dopo un
terribile conflitto con nazionalisti e fascisti: amministratori comunali e militanti socialisti erano stati assaliti da un corteo di oppositori, nello
scontro era partito uno sparo che aveva colpito un maresciallo dei carabinieri uccidendolo, «a quel punto le forze dell’ordine si erano scatenate
contro i socialisti, uccidendone 5 e arrestandone ben 150», i quali furono tradotti nelle carceri napoletane provocando quasi un’insurrezione
popolare; una parte di questi venne prosciolta in istruttoria, 15, accusati per la morte del maresciallo, vennero assolti l’anno successivo dalla
Corte d’Assise di Napoli e «accolti a Castellammare da una grande festa popolare» (Porzio, Castellammare di Stabia cit., pp. 197-98).
8 «Circa mille operai non hanno stamane assunto lavoro questo stabilimento AVIS. Verso le ore 10.30 un gruppo di un centinaio dei predetti
operai riuscivano a raggrupparsi, ad un tratto, nelle adiacenze della Villa Comunale ed hanno tentato di raggiungere la sede del locale Presidio
Militare al grido: “VOGLIAMO LA PACE” ma sono stati affrontati dalla Forza, che ha fatto esplodere alcune bombe a mano, determinandone lo
scioglimento. Nell’occasione sono stati arresta ti circa 60 dimostranti. Successivamente in rioni popolari, molte donne e ragazzi hanno inscenato
altra manifestazione del genere. Sono stati dispersi e tra le donne più scalmanate ne sono state arrestate una diecina. Finora accertati n. 9 feriti.
Nelle campagne circostanti sono stati issati numerosi drappi bianchi» (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1130/45, Legione territoriale dei
carabinieri, Compagnia di Castellammare di Stabia, Relazione del capitano comandante Angelo Simio). «Verso le ore 9.15 del 1° corrente veniva
segnalato che da zona Carcere di questo centro andavansi formando colonna dimostranti per pace con bandierine bianche di circostanza.
Maresciallo di PS Di Pascale con agenti et carabinieri ivi servizio distruggevano dette bandierine et scioglievano dimostranti. Successivamente
folla dispersa ricomponevasi et muoveva volta Municipio per impetrare pace da queste autorità, ma, affrontato in Corso Vittorio Emanuele III da
truppa, veniva di nuovo dispersa, senza fare uso armi. Quasi subito dopo colonna ingrossata altri piccoli gr uppi ricomponevasi Corso Garibaldi et
via Vittorio Veneto dirigevasi verso ex Casa Littoria, con donne et bambini in testa, gridando: “Farabutti, vigliacchi, traditori, pagati da Mussolini
e da Hitler”. Tenente Di Giorgio, effettivo 26° Regg. Art., per ordine comandante sua batteria (capitano De Felice) affrontava dimostranti con una
pattuglia dipendenti, invitandoli a sciogliersi. Dalla folla partivano alcuni colpi arma da fuoco, che ferivano suddetto capitano et tre artiglieri, per
cui tenente Di Giorgio ordinava fuoco con moschetti. Nonostante tale reazione un autocarro carico di dimostranti tentava di portarsi avanti et
rompere schieramento truppe. Pertanto aprivasi fuoco con mitragliatrice. Subito dopo prim a raffica folla disperdevasi et autocarro veniva
sequestrato. Contansi 9 feriti civili» (Ivi, Telegramma del comandante la tenenza Giorgio Di Leo).

9 I rastrellamenti dei civili per il lavoro coatto, verificatisi in grandissime proporzioni in Campania e nel basso Lazio, non hanno avuto pressoché
alcun riconoscimento ufficiale, perché non inseriti nella categoria della deportazione politica.

10 NARA, RG 153, box 544, folder 309. Il racconto dell’episodio fatto nell’ottobre 1943 da un testimone della razzia è anche in ACS, Ministero
dell’Interno, Direzione Generale PS, Italia Liberata, 1944-1948, busta n. 2. I quattro giovani uccisi erano studenti. Rosario De Leva, di sedici anni,
era figlio unico di un noto musicista napoletano, autore di romanze e della canzone Spingule frangese. Le notizie su di lui sono tratte dall’articolo
di Max Vajro, De Leva. Una tragedia del 1943, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 agosto 2002.

11 BA-MA, RH 24-14/81.

12 BA-MA, RL 32/116, Lettera n. 767/43 del 21 settembre 1943 del capitano del reggimento ai gruppi di combattimento della divisione Hermann
Göring attestati sul fronte campano: «Il Führer ha ordinato che vengano rastrellati tutti gli italiani abili alle armi, soprattutto operai qualificati,
così come ex soldati e lavoratori forzati. Possibilmente, delle classi di età tra il 1910 e il 1925, anche se due o tre anni di più o di meno non fanno
differenza. Dal momento che non c’è da aspettarsi che si presentino volontari come sarebbe auspicabile, bisogna procedere con la forza. A questo
scopo, i reparti che stanno combattendo nella zona vicina al fronte devono fare una massiccia azione fulminea. Secondo le istruzioni del capo del
gruppo di combattimento e del comandante della truppa, bisogna costituire dei reparti di rapina, guidati da ufficiali e sottufficiali incaricati di
portare a compimento la cattura degli i taliani».

13 Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia cit., p. 132.

14 BA-MA, RH 27-16/9, Diario di guerra della 16a divisione corazzata.

15 BA-MA, RH 24-14/73. «Nello spazio di una settimana, dal 20 al 27 settembre, le truppe avevano fatto prigionieri e trasportati nei campi di
smistamento 18000 lavoratori» (Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia cit., p. 133).

16 PRO, HW 1/2048, CX/MSS/3270/T43, JP/5549, Rounding-up Italians liable for military service. Si tratta del rapporto tedesco n. 1556, datato 24
settembre 1943, del XIV Corpo d’armata corazzato, intercettato dall’intelligence britannico.

17 Ho ricostruito gli avvenimenti occorsi a Sparanise in Distruzioni e massacri. Sparanise, 1 0-22 ottobre 1943, in Gribaudi (a cura di), Terra
bruciata cit., pp. 276-93.

18 Noi a casa morivamo... si sentiva la fame, eravamo ragazzi, ci ha fatto piacere, siamo andati così contenti... così contenti in piazza, avete
capito?

19
abbiamo trovato un muro, i tedeschi con i fucili in mano...

20 ci hanno pigliato prima di spostarci da Fondi, da Gaeta, siamo stati un paio di giorni dentro a una campagna e c’era un pergolato d’uva e ce lo
siamo pulito tutto quanto.

21 non lo so nemmeno dire...

22 G. Capobianco, Il recupero della memoria, ESI, Napoli 1995, p. 150.

23 Fra l’8 e il 17 dicembre 1943 si combatterono le battaglie di Montelungo e San Pietro Infine, che ne uscì completamente distrutto. Cfr. Morris,
La guerra inutile cit., pp. 253-67, e F. Carloni, San Pietro Infine. 8-17 dicembre 1943: la battaglia prima di Cassino, Mursia, Milano 2003.
24 F. von Senger und Etterlin, La guerra in Europa. Il racconto di un protagonista, Longanesi, Milano 2002 (ed. or. Krieg in Europa, Kiepenheuer
& Witsch, Köln 1960), pp. 257-59.

25 La linea del fronte non era d’altro canto «una linea continua, stabile, omogenea, che definisce in modo netto il territorio» ma un «qualcosa di
estremamente mobile, elastico [...] un coacervo di postazioni innestate su barriere naturali e artificiali che a loro volta incrociano paesi e
campagne più o meno popolate, i cui abitanti interagiscono, nella quotidianità con le truppe». Cfr. A. De Santo, La Wehrmacht in Campania: le
strategie militari tedesche, in Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit., p. 70.
26 Questa ricostruzione è stata fatta dagli alunni della scuola elementare di Fontanelle sotto la guida della maestra Anna Marrese. Da lei ho avuto
il volumetto che raccoglie i risultati della ricerca.
27
Quando uccisero i due ufficiali... uno di quelli gli sparò? Ne colpì uno e un altro lo prese e se lo stava portando, senonché lo posò sot to le
finestre perché era morto e se ne fuggì solo lui con la camionetta... e dopo vennero. Quando uccisero il tedesco, vennero la mattina e lo vennero a
prendere quel giorno stesso... il giorno dopo vennero qua, si instal larono qua e stettero parecchio tempo, sette o otto giorni, dentro la chiesa e
dentro la casa della moglie di Pascaluccio. Stettero una decina di giorni, però in quei giorni insistettero sempre perché volevano questa persona
che aveva ucciso il tedesco, quando non ci andò nessuno, allora dopo sai che fecero? Abbatterono il ponte con le mine, abbatterono la casa di [...]
con le mine, poi abbatterono quella di Pas qualino Candelle e quella di Maria di Tommasino là, con le mine, poi diedero fuoco a quella di zio
Francesco... [...] pochi giorni dopo uccisero la buonanima di Alfredo, due fratelli e una sorella: Agnese, Salvatore e Girolamo e Alfredo, il marito
della buonanima di Piacentina, questi erano... La buonanima di Alfredo, lui veramente stava nascosto, avevano pigliato il padre, allora a lui
dispiacque che avevano pigliato il padre? E us cì lui, uscì lui, lo presero e spararono a lui e al padre no, che era vecchio. Dovettero chiedere il
permesso che lo dovevano portare giù al cimitero, sopra a una scala.
28 Anche questo brano è tratto dalla ricerca della scuola di Fontanelle.

29 Tribunale militare territoriale di Napoli, Testimonianza resa alla locale sezione dei carabinieri il 6 aprile 1945 da Taffuri Pasquale, nato il 6
gennaio 1900 a Casale di Carinola, domiciliato e residente a Fontanelle di Teano.

30 Tribunale militare territoriale di Napoli, Testimonianza resa il 12 aprile 1945 da Chiappinelli Pasqualina, nata a Teano nel 1896, ivi residente
via Sant’Antonio Abate.

31 Ivi, Testimonianza di Giorgio Antonio, nato a Teano il 20 settembre 1900, ivi residente via Sant’Antonio Abate. C’è un’omonimia tra la prima
vittima e il testimone-marito della seconda.

32 Tribunale militare territoriale di Napoli, Testimonianza di Ruggiero Vincenza, nata a Teano il 19 luglio 1901, ivi residente a via Porta Napoli,
resa il 12 aprile 1945 sulla morte del marito Ciambella Antonio, nato a Teano il 16 gennaio 1895.

33 Sul luogo è deposta una lapide: «Qui il 10 ottobre 1943 vittime civili della rappresaglia nemica cadevano. De Quattro Luigi, De Quattro Paolo,
De Quattro Vincenzo, Loffredo Paolo Antonio, Marcello Giacomo, Martino Antonio». A costoro bisogna aggiungere Martino Patrizio.

34 Tribunale militare territoriale di Napoli, Testimonianza di De Cunto Maria, nata a Marzano Appio il 19 marzo 1921, ivi domiciliata e residente
frazione Tuoro Funaro, via Montello 20, resa il 27 marzo 1945.

35 Ivi, Testimonianza resa il 29 marzo 1945 da Piccirillo Giovanni, nato a Caianello Gaudisciano il 24 febbraio 1910, contadino, ivi domiciliato e
residente via Roma 22.

36 Tribunale militare territoriale di Napoli, Testimonianza resa il 26 marzo 1945 da Martino Teresina, nata a Caianello Gaudisci ano il 29 luglio
1905, domiciliata e residente a Marzano Appio, frazione Campagnola, via Piave 50.

37 Tribunale militare territoriale di Napoli, Testimonianza resa il 27 marzo 1945 da Marcello Carmela, nata a Providence Long Island (USA) il 3
maggio 1922, domicil iata e residente a Marzano Appio, frazione Campagnola, vico Frangenti 15.
38 Ivi, Testimonianza resa il 27 marzo 1945 da Martino Maria Grazia, nata a Marzano Appio il 24 febbraio 1894, ivi domiciliata e residente nella
frazione Campagnola, via Garzoni 1.
39 Tribunale militare territoriale di Napoli, Testimonianza resa il 27 marzo 1945 da Martelli Carmela, nata a Caianello il 10 agosto 1885, ivi
domiciliata, analfabeta.

40 Ivi, Testimonianza resa il 27 marzo 1945 da De Fusco Silvia, nata a Caianello il 29 maggio 1915, ivi domiciliata.

41 Ha ricostruito il massacro Andrea De Santo in Le stragi di Conca della Campania, in Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit., pp. 294-310.


42 Notizia dell’incursione in NARA, RG 243, entry 23, file n. 2 O 4 b, «The air attacks in Europe, A summary report by city of the bombing attacks
directed against enemy targets by the 12th AAF, US S trategic Bombing Survey, The Secretariat, Tabulating Service Branch».
43 NARA, RG 18, entry WWII, Combat Operations Reports, box 107, 12th Bomb Group, Operazione 168.

44 Anche questa cifra è sottostimata. Non sono, ad esempio, registrati i tre fratelli Salvatore, Girolamo ed Agnese uccisi in campagna il 22
ottobre.
8. Ebrei napoletani nel cuore della guerra. Tora e Piccilli: un paese virtuoso?

1 Secondo i dati delle Comunità israelitiche erano presenti a N apoli, nel 1936, 867 ebrei; il censimento razziale del 1938 indica la cifra di 835
ebrei residenti a Napoli, di cui 484 di nazionalità italiana e 351 stranieri (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 960/08). Si veda anche M. Sarfatti, Gli
ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identit à, persecuzione, Einaudi, Torino 2000, p. 28.
2 ASN, Questura di Napoli, M assime, busta 84, fasc. 1999.

3 Vincenzo Giura ( La comunità israelitica di Napoli, 1863-1945, ESI, Napoli 2002, p. 67) ha trovato «50 nominativi di persone provenienti da
Salonicco che salgono a circa 125, cioè 55 famiglie, se si considerano anche quelli provenienti dalla Grecia, Turchia, Bulgaria e Iugoslavia».

4 K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Ital ia dal 1933 al 1945, La Nuova Italia, Firenze 1993 (ed. or. Zuflucht auf Widerruf, Klett-Cotta,
Stuttgart 1989), pp. 291-307; Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia cit., pp. 181-83.

5 Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 181.

6
Il campo di Ferramonti Tarsia, entrato in funzione nel giugno 1940 «in una landa malarica a circa 35 chilometri da Cosenza», era il più grande
dell’Italia meridionale. Nell’agosto del 1943 erano presenti nel campo 2016 internati, di cui circa il 75 per cento ebrei (C.S. Capogreco, I campi
del duc e. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004, p. 242).

7 Notizia dei rastrellamenti in provincia di Macerata in Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 240.

8 ASN, Questura di Napoli, Massime, busta 84, fasc. 1999.

9 Ivi.

10 «Il 23 luglio del ’43 avemmo l’invio al campo di concentramento a Tora e Piccilli, tutta la famiglia... tutta la famiglia dovevamo presentarci a
v ia Santa Lucia, a Santa Lucia al comando e ci presentammo tutti e cinque, perché la mia sorella piccola era al di sotto di una certa età, ci
presentammo a via Santa Lucia, ma guarda caso c’erano i bombardamenti americani e il giorno prima una bomba era caduta proprio là sopra, per
cui fummo rinviati dal 23 luglio al 26 luglio del ’43. Ma il 25 luglio del ’43 cadde il fascismo» (Alberto Defez).

11 L’elenco dei 30 uomini precettati per il lavoro coatto presso l’azienda agraria di Ciro Maffuccini, podest à di Tora e Piccilli, si trova in ASN,
Prefettura, Gabinetto, busta 962/04.

12
Il racconto di Renato Sacerdoti è stato raccolto, trascritto e riportato in un articolo dalla nipote Annie Sacerdoti. Cfr. A. Sacerdoti, Lavoro
coatto a Tora per gli ebrei napoletani, in «Shalom», n. 5, 1994, p p. 21-22. Insieme a Renato Sacerdoti fu inviato a Tora il fratello Enrico che si
fece raggiungere dalla moglie Vanda e dalle due figlie; nel novembre 1943 a Tora nacque la terza figlia, Annie.
13 Sacerdoti, Lavoro coatto a Tora per gli ebrei napoletani cit., p. 20.

14 I Falco discendevano, attraverso un ramo femminile, dalla famiglia che nel 1814 aveva acquistato il palazzo e i beni immob ili ex feudali di
Tora.

15 Uno sfaccendato noto con tale soprannome. La circolare del ministero delle Corporazioni del maggio 1942 invitava i prefetti a «precettare per
il servizio del lavoro gli ebrei e gli elencati sfaccendati professionali, togliendo una buona volta dalla circolazione individui che rappresentano un
peso morto nella vita italiana e che offendono con la loro oziosa esistenza» (Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 183).
1 6 Le lettere passarono al vaglio della Commissione Provinciale di Censura di Napoli (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 962/04). Raffaella Tirelli,
autrice di una tesi su L a situazione degli ebrei a Napoli nel periodo fascista, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere Moderne,
a.a. 1999-2000, mi ha segnalato la presenza di queste lettere nel fondo di pref ettura.

17 Annie Sacerdoti, che ringrazio, mi ha riferito i racconti sentiti dalla madre.

18 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 962/04. La lettera risulta spedita da una donna, definita moglie, a un soldato di stanza a Livorno.

19 Le informazioni sul partito comunista a Tora e Piccilli si trovano in G. Capobianco, Sulle ali della democrazia. Il Pci in una provincia del Sud
(1944-1947), Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2004.
20 La cronaca dell’e vento, che mi è stato raccontato anche da diversi testimoni, è in A. Iulianis, Tora e Piccilli, Edizioni Eva, Venafro 2002. Dal
figlio di Simone Farinaro, Andrea, ho avuto la sentenza e gli atti del processo in cui fu coinvolto il padre insieme ad altri 6 torani per aver
capeggiato, nella notte tra il 28 e il 29 dicembre, l’abbattimento del muro. Condannato a due anni e sei mesi di reclusione per violenza privata
dal Tribunale di Cassino il 22 dicembre 1928, ebbe ridotta la pena a tre mesi di reclusione nella sentenza del 30 aprile 1929 della Corte di Appello
di Napoli, e fu amnistiato dalla stessa Corte d’Appello il 30 dicembre 1930.

21 Renato Sacerdoti ad Annie Sacerdoti, in Sacerdoti, Lavoro coatto a Tora per gli ebrei napoletani cit., p. 22.

22 Ibid., p. 21.

23 Consiglio Provinciale delle Corporazioni di Napoli, Al podestà del Comune di Tora e Piccilli, Alla R. Questura di Napoli e per conoscenza alla R.
Prefettura di Napoli, al Comando Gruppo CC.RR. di Caserta, Napoli 9 novembre 1942. Il documento mi è stato dato direttamente da Aldo
Sinigallia, che ringrazio.
24 ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 962/04.

25 Ivi.

26 Ivi.

27 Fa impressione leggere oggi tutte le minute missive mandate dalla prefettura anche ai più piccoli paesi della Campania, che intimano la
denuncia degli ebrei residenti, la ricerca dei professori nelle scuole, la richiesta degli elenchi di libri o pubblicazioni che contengano anche
soltanto nomi di ebrei, l’ordine di rimuoverne i nomi dagli elenchi telefonici ecc.

28 È la stessa versione riportata da Vittorio Gallichi: «Per maggior sicurezza il signor Sacerdoti, di Napoli, insieme a qualchedun altro, salì al
municipio e riuscirono a levare le pratiche degli ebrei per evitare che qualche tedesco andasse lì a vedere se c’erano ebrei o no confinati».
29 Vittorio Gallichi ha scritto a Gerusalemme e poi al presidente della Repubblica Ciampi perché venga riconosciuta ai torani la qualifica di
«giusti».

30 Lo Hauptsturmführer SS Theo Dannecker venne inviato in Italia a capo di un gruppo mobile di intervento per mettere in opera le azioni di
rastrellamento nelle grandi comunità ebraiche italiane. Cfr. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia cit., p. 402.

31 Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 239.

32 Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia cit., pp. 84 sgg.

33 Ibid., pp. 88-91. Cfr. anche Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 234.

34 Furono l’indifferenza e il senso di estraneità a consentire persecuzioni e deportazioni, che trovarono invece ostacoli notevoli nei casi in cui
affiorava un senso di «identificazione e di appartenenza» nei riguardi delle vittime. Identificazione e appartenenza scattarono a Tora nel 1942-43.
Si creò inoltre, come abbiamo visto, un contesto favorevole costituito da una vasta rete di solidarietà che comprendeva gruppi sociali diversi.
Secondo Neima Barzel la maggior parte delle azioni di salvataggio si verificarono grazie a una rete di rapporti legata a sua volta a un contesto
sociale «solidale in senso attivo o passivo, quando si asteneva dall’ostacolare chi agiva» (N. Barzel, Alcuni aspetti degli interventi di salvataggio in
Polonia e nei Paesi Bassi, relazione alla ma nifestazione cittadina per la «Giornata della memoria», Napoli, 27 gennaio 2004). Ovviamente gli atti
di salvataggio in condizioni estreme, come nella Polonia e nell’Olanda occupate, dove il rischio della vita per chi aiutava gli ebrei era molto più
elevato, implicavano una tensione morale e doti di coraggio assai elevate. Da questo punto di vista la situazione di To ra e Piccilli presenta delle
differenze importanti, prima di tutte la brevità dell’occupazione; come ho detto, non possiamo sapere chi e quante persone, se questa fosse
continuata a lungo, avrebbero corso fino in fondo il rischio di aiutare le vittime della persecuzione razziale, ma possiamo dire, senza tema di
errori, che il contesto si mostrò «solidale in senso attivo e passivo» e che molto probabilmente queste doti non sarebbero venute meno nel lungo
periodo.
9. Nove mesi nella terra di nessuno. Dal Garigliano al golfo di Gaeta, settembre 1943-maggio 1944

1 Senger und Etterlin, La guerra in Europa cit., pp. 2 80 e 352-53.

2 Gli elenchi delle vittime di Cassino e Montecassino si trovano in Martirologio di Cassino, in «Studi Cassinati», n. 2, settembre 2001. Si veda
anche T. Baris, Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra sulla linea Gustav, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 69.

3 Per le cittadine e i paesi della provincia di Frosinone si rimanda a T. Baris, Le stragi naziste in provincia di Frosinone. Tra storia e memoria, in
Gribaudi (a cura di), Terra bruciata cit. e a Id., Tra due fuochi cit.

4 Cfr. A. Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991; Audoin-Rouzeau
e Becker, La violenza, la crociata, il lutto cit.

5 Oltre ai volumi citati nella nota precedente si vedano La memoria della grande guerra nelle Dolomiti, Paolo Gaspari editore, Udine 2001; E.
Folisi (a cura di), Carnia invasa 1917-1918. Storia. Documenti e fotografie dell’occupazione austr o-tedesca della Carnia e del Friuli, Artio
Grafiche Friulane, Udine 2003; D. Ceschin, «L’estremo oltraggio»: la violenza alle donne durante l’occupazione austro-germanica (1917-1918).
Studi, fonti, prospettive di ricerca, relazione al III Congresso della Società Italiana delle Storiche, Firenze, 14-16 novembre 2003.


6 Le storie riportate nel seguente paragrafo sono tratte da G. Bove, Io c’ero. L’odissea del popolo formiano attraverso le testimonianze
drammatiche dei sopravvissuti. 8 settembre 1943-18 maggio 1944, GRAFICART, Formia 1994. Si tratta della pubblicaz ione curata dal comune nel
50° anniversario della distruzione di Formia: una raccolta estremamente interessante di testimonianze, seguita dall’elenco delle vittime e dalle
fotografie delle distruzioni. L’autore, che mi ha concesso di pubblicare ampi stralci dalle storie e che ringrazio sentitamente per questo, è stato
testimone egli stesso degli eventi narrati. Egli ha riportato fedelmente le interviste, traducendo il dialetto in italiano.
7 La sera dell’8 settem bre si trovavano nel porto di Gaeta la nave officina Quarnaro, le corvette Gru, Gabbiano e Pellicano, il sommergibile Axum,
la nave ospedale Toscana, le motosiluranti 55, 64 e la 71, c he era in riparazione con il MAS 544. Alle 2 del pomeriggio del 9 settembre i tedeschi
si avviavano verso la Pellicano per trattare con il comandante, disarmare i soldati e prendere possesso delle navi. Alcune navi rompevano gli
ormeggi e fuggivano dirigendosi verso le isole Pontine. La Quarnaro, l enta e antiquata, non fece in tempo ad allontanarsi, venne cannoneggiata e
presa dagli occupanti, che la fecero saltare il 22 settembre per sbarrare i l porto. Nella caserma della marina e sulla Quarnaro i marinai rimasti
affrontavano i tedeschi. Il presidio di Gaeta si sarebbe arreso la sera del 9 settembre, per ordine del comandante Rattazzi, che giudicò
impossibile resistere oltre agli occupanti (G. Andrisani, La Resistenza a Gaeta, Centro storico culturale, Gaeta 1974, ripubblicato come saggio
introduttivo al volume di P. Capobianco, Dall’8 settembre 1943 alla liberazione, a Gaeta, Quaderni della Gazzetta di Gaeta, 1985).

8 Ecco il bando affisso a Gaeta il 24 settembre 1943: «A seguito delle disposizioni impartite dalla R. Prefettura la popolazione deve senz’altro
allontanarsi da Gaeta a km 5 dal mare e può recarsi con propri mezzi fino alla stazione di Itri per proseguire gratuitamente in treno nei comuni di
Bassiano, Roccagorga, Sezze, Fossanova, Priverno, Lenola, tutti appartenenti alla provincia di Littoria. Nei presenti comuni saranno
regolarmente assistiti. Coloro che rimarranno sul posto sempre a km 5 dal mare si esporranno a gravi pericoli e non potranno in nessun modo
essere approvvigionati da questo Comune. Si diffida la popolazione a non entrare in paese ad evitare provvedimenti gravi fino alla fucilazione»
(Andrisani, La Resistenza a Gaeta cit., p. 22).
9 Fra le vittime una donna Maria Mallozzi e il figlio Angelo Pensiero che non volle staccarsi da lei. Cf r. M. Tuccinardi e R. Cannella (a cura di),
Minturno nella seconda guerra mondiale, 1943/44-1993/94, Regione Lazio - Comune di Minturno, Minturno 1996, p. 144. Il volume contiene brani
di diari del tempo, testimonianze orali raccolte dagli studenti delle scuole di Minturno, alcune ricostruzioni della battagli a del Garigliano e
fotografie.

10 A. Broccoli, Dagli «uomini rana» del Garigliano alla caduta del fronte di Cassino, Arti Grafiche Caramanica, Marina di Minturno 2001, p. 44.

11 Antonio Proia descrive nel suo diario l’evacuazione di Scauri il 26 settembre 1943: «La gente si ammassa con sacchi e fagotti, terrorizzata.
Sotto la pioggia e con la minaccia delle armi vecchi, donne e bambini devono andare» (Tuccinardi e Cannella, a cura di, Minturno nella seconda
guerra mondiale cit., p. 82). Antonio Broccoli di Sant’Ambrogio del Garigliano ricorda la deportazione delle donne della famiglia nella Pasqua del
1944: «Mercoledì santo ritornando a casa dal nascondiglio non trovammo né mamma Giovanna né mia moglie Ida né la figlioletta Elisa. Sapemmo
che i tedeschi le avevano fatte uscire di casa e caricatele a piazza Vallegreca con altri paesani sui loro automezzi erano state portate a Roma;
prima tappa alle Officine Breda e poi tappa definitiva al campo profughi di Cesano di Roma» (Broccoli, Dagli «uomini rana» del Garigliano alla
caduta del fronte di Cassino cit., p. 43).

12 Capobianco, Dall’8 settembre 1943 alla liberazi one cit., pp. 88 e 131-32.

13 Bove, Io c’ero cit., pp. 163-64.

14 Bove, Io c’ero cit., p. 79, testimonianza di Luigi Amato.

15 Ibid., pp. 197-224.


16 Il 23 settembre, come in Campania, ebbe luogo il grande rastrellamento degli uomini. Le modalità erano sempre le stesse. A Minturno vennero
bloccati i crocevia, nella frazione di Trem ensuoli i rastrellati furono concentrati nella chiesa dell’Annunziata (Tuccinardi e Cannella, a cura di,
Minturno nella seconda guerra mondiale cit., p. 81). A Gaeta la popolazione «fatta confluire in piazza per ascoltare le comunicazioni relative alla
grave situazione venne accerchiata e gli uomini vennero p resi di forza e condotti in Germania» (Andrisani, La Resistenza a Gaeta cit., p. 26).
17 Tuccinardi e Cannella (a cura di), Minturno nella seconda guerra mondiale cit.

18
Gaeta, 8 aprile: «Nei pressi di via Atratina c’è purtroppo un’indescrivibile confusione. I nazisti accerchiano tutta la zona ed irrompono di casa
in casa rastrellando quanti vi abitano, uomini, donne, bambini, senza distinzioni, per incolonnarli ed avviarli in un luogo di concentramento in
città o nei pressi, per poi smistarli verso il nord, verso l’ignoto» (Capobianco, Dall’8 settembre 1943 alla liberazione cit., p. 110).
19 Bove, Io c’ero cit., p. 84, testimonianza di Francesco Centola detto Deciarieglie. Nel ricordo le viole nze tedesche più efferate sono attribuite
alle SS, che però non risultano presenti in zona.
20 Bove, Io c’ero cit., p. 70, testimonianza di Umberto Bove.

21 Bove, Io c’ero cit., p. 105, testimonianza di Benedetta Magliocco detta Tettina.

22 Il racconto è della figlia più gran de, Maria Civita Papa, ibid., p. 156.

23 Ibid., pp. 27-35.

24 P. Manzo e M. Pelliccia, Itri da non dimentic are. Storia di una vita e di un paese, Edizioni Confronto, Itri 2002, pp. 79-80 e 82. Il volume
raccoglie la storia di Paolino Manzo raccontata in prima persona, ma rivista da Maura Pelliccia.
25 Tuccinardi e Cannella (a cura di), Minturno nella seconda guerra mondiale cit., p. 126, testimonianza di Maria, settantun anni, di Pulcherini.

26 Andrisani, La Resistenza a Gaeta cit., p. 24.

27 Senger und Etterlin, La guerra in Europa cit., p. 279.

28 NARA, RG 18, entry WWII, Combat Operations Reports, box 107, 12th Bomb Group, «Operazione 169, 23 ottobre 1943, Gaeta. 24 B-25 dalle
ore 12.26 alle o re 16.05. Obiettivo: postazioni di artiglieria a Gaeta, Italia, da 9400-9700 piedi alle ore 14.08-14.11. Risultati: centrata l’area
dell’obiettivo. Colpi diretti su una postazione di artiglieria e sulla ferrovia e colpito un vicino serbatoio di benzina. Sentita un’esplosione. Una
grande quantità di fumo grigio e poi nero è stata vista uscire dall’area del bersaglio».

29 Ibid., «Operazione 170, 24 ottobre 1943, Formia. 24 B-25 dalle ore 9 alle ore 12.30. Bombardata la città di For mia, Italia, da 7000-9000 piedi
alle 10.42-10.45. [...] Le bombe hanno colpito in centro e a est della città fra la strada e il frangiflutti. Alcune bombe sono cadute in acqua. Un
fumo nero è stato osservato in città».

30 Un elenco dei raid aerei su Formia è contenuto in NARA, RG 243, entry 23, file n. 2 O 4 b, The Air Attacks in Europe. Altri riferimenti si
trovano in AFHRA, microfilm 25206.
31 Bove, Io c’ero cit., p. 15.

32 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, busta 86, fasc. 40-2-43,
fonogramma della Prot ezione Antiaerea di Littoria al ministero dell’Interno, 14 dicembre 1943. A cura del comune di Itri è invece la lista di 106
morti dovuti ai bombardamenti e 23 allo scoppio di min e nel dopoguerra. Nei giorni successivi (13, 18, 19, 20 e 21 dicembre) veniva
ripetutamente bombardata Terracina, che già era stata colpita duramente il 4 settembre. A proposito di tale incursione troviamo la notizia di 57
vittime comunicata dalla questura di Littoria il 5 settembre 1943.

33 Ma nzo e Pelliccia, Itri da non dimenticare cit., pp. 79-80.

34 Su questa zona si veda il lavoro di Pier Giacomo Sottoriva, Cronache da due fronti. Gli avvenimenti bellici del 1943-1944 sul Garigliano e

nell’area pontina, nuova ed. Il Gabbiano, Latina 2004 (1a ed. I giorni della guerra in provincia di Littoria. Luglio 1943-maggio 1944, CIPES,
Latina 1974 ).
35 Tuccinardi e Cannella (a cura di), Minturno nella seconda guerra mondiale cit., p. 51.

36 Ibid., p. 117, racconto di Benedetto Poccia, alunno della terza elementare.

37
Branco, Diario di guerra cit., p. 20.

38 Rifugi per animali.

39 Branco, Diario di guerra cit., p. 25.


40 Branco, Diario di guerra cit. , pp. 33-34.

41 A proposito degli sfollati di Ausonia. Il 24 dicembre: «siamo veramente tra brava gente, siamo stati accolti molto bene, ci hanno offerto una
magnifica polenta che ci ha ristorati un poco». Il 3 gennaio 1944: «La bontà di questa gente è veramente commovente. Fino ad oggi abbiamo
avuto il pane quasi ogni giorno» (ibid., p. 47).

42 Branco, Diario di guerra cit., p. 61.

43 Cfr. sopra, p. 340. Il tentativo di passare il fronte costituisce un’epopea nella memoria locale. Antonio Broccoli di Minturno ha raccontato la
fuga attraverso il fiume in un volume che porta significativamente nel titolo l’accenno ag li «uomini rana del Garigliano». Tra le pagine troviamo
la fotografia, scattata a molti anni di distanza, di tre dei fuggiaschi in posa nel punto in cui si immersero il 9 aprile 1944, giorno di Pasqua. Quella
stessa notte erano passati poco distante altri quattro uomini, ma un ragazzo era stato travolto dalla corrente ed era annegato. In contrada Cupole,
Pompeo Broccoli con l’aiuto di un falegname aveva fatto uno zatterino con cui aveva traghettato 15 persone: Pompeo, la moglie Civita e il piccolo
figlio Michele, Antonio Broccoli c on la moglie Peppinella e le figlie Maddalena, Carminozza e Maria, Simeone Arduino e i figli Carmela e Albino, i
fratelli Italo, Elena e Armando Riccardi e in più le sorelle Palmina e Olimpia Fargnoli. I primi ad avventurarsi erano stati due giovanissimi,
Alessandro Petreccia e Davide Simeone (Broccoli, Dagli «uomini rana» del Garigliano cit., pp. 45-49).

44 Tommaso Sinigallia, Nove mesi sui monti Aurunci nelle mani dei tedeschi; il manoscritto, depositato presso l’Archivio diaristico nazionale di
Pieve di Santo Stefano, mi è stato dato dal figlio Aldo che ringrazio sentitamente. Si tratta di una cronaca dei giorni che vanno dall’8 settembre
1943 al 22 maggio 1944, data in cui la famiglia riuscì a ritornare a Napoli, aiutata dalle truppe alleate. Così si chiude il racconto: «Ho finito di
scrivere questi ricordi oggi 8 settembre 1944 mentre si compie un anno dall’armistizio e l’Italia n on è ancora liberata che per metà soltanto!
Quante pene ancora e quanta sciagura ancora!»

45 Come già ricordato la mandria è, nell’accezione locale, la stalla.

46 Scriveva Tommaso Sinigallia: «Per le cortesie usateci da quei coniugi mi piace rendergliene grazie anche og gi scrivendo questi miei ricordi».
10. Gli stupri di massa

1 Si tratta della cosiddetta battaglia del Garigliano, che prevedeva di spezzare le linee tedesche dal mare e dalle montagne, aggirando Cassino,
ed era iniziata l’11 maggio. Nella frazione di Tre mensuoli (Minturno) una stele eretta dall’associazione dei veterani del 339° fanteria della V
Armata segna uno dei luoghi dello sfondamento («Gustav Line Breakthrough. May 15 1944»).

2 Gli ordini erano quelli di «rompe re il dispositivo nemico all’altezza del monte Majo ed estendere la testa di ponte fino ai contrafforti di Ausonia»
in una prima fase, e «raggiungere l’asse Ausonia, Esperia, Pico, aiutati da un gruppo di montagna sui monti Aurunci, al nord del monte Petrella»,
in una seconda fase. Erano il corpo di montagna marocchino guidato dal generale Guillaume e la 3a divisione di fanteria algerina ad attaccare e
liberare Esperia (SHAT, Ministère de l’Etat, Etat-Major de l’Armée de Terre, Guerre 1939-1945. Les grandes Unités Françaises, Imprimerie
National, Paris 1970, Journaux de guerre, p. 507). Nel maggio 1943 al momento della battaglia del Garigliano il Corpo di spedizione francese
raggiungeva i 113000 uomini, di cui circa il 70 per c ento africani. Ma tutti gli ufficiali e una buona parte dei sottufficiali erano francesi-europei
(ibid., p. 990).

3 Ministère de l’Etat, Etat-Major de l’Armée de Terre, par le lieutenant-colonel G. Boulle, sous la direction du colonel P. Le Goyet, Le corps
expéditionnaire Français en Italie (1943-1944). Les campagnes de printemps et d’été, Imprimerie National, Paris 1971, Journaux de guerre, pp.
101-13.

4 Le citazioni sono tratte da Le corps expéditionnaire cit. Il 4 giugno 1944 il generale di brigata Guillaume riassumeva e insieme cel ebrava le
gesta dei goums marocchini al suo comando, ripercorrendo la strada delle truppe all’assalto delle postazioni tedesche. «Ufficiali, sottufficiali e
go umiers dei 1°, 3° e 4° Groupes de Tabors Marocains [...] il primo obiettivo è stato raggiunto». Seguiva la cronaca della battagli a.
5 A. Lisetti, Silenzi di guerra. Campodimele 1943-44, Edizioni Alges, Gaeta 2003, p. 72.

6 Ibid., pp. 16 e 17.

7 C’erano i fascisti dietro la casa di mamma allora, conoscevano Domenico, mio fratello... io mi trovai, dissi: Cartò, perc hé abitavano e dormivano
nella camera della buonanima di zio Onorato, no, feci: io sono la sorella di Domenico... feci: se potete... Ero sola sola come un cane, non sapevo
quello che dovevo fare, non avevo un marito vicino, mio marito era prigioniero... lascia perdere! Che se ti metti a mente tutto il passato... allora
quello per aiutarmi dice così: fai conto che io non ti ho vista. Dove si fermava la corriera là sopra da Giordano là... fai conto che io non ti ho visto,
se tu sei capace di buttarti giù, io non ci vedo... ma un muro alto... non sapevo nemmeno quello che facevo per non stare in mezzo alla strada, non
sapevo se andavo di testa o andavo di piedi... mi trovai in mezzo alla strada... [...] per non salire sui camion che portavano la gente... che stavano
facendo quella cosa, portavano la gente... Chi piangeva da una parte, chi piangeva da un’altra... con quei camion mi pareva la fine del mondo, chi
non lo ha visto non lo può dire... Chi piangeva la mamma, chi piangeva il padre, chi il figlio lasciato solo... piangeva piangeva proprio la gente...
ma lascia perd ere! Ora tutte queste cose... sola sola... una cristiana sola sola sola! Stetti fino all’una di notte là sotto. C’è un bosco vicino, mi
ficcavo là sotto... e sono rimasta... e non sentivo più i camion che passavano per la strada. Allora mi avviai sola sola per tutta la piana e me ne
andavo per quella via dove stava Chiarina dove questi avevano fatto una capanna di strame.

8 Lisetti, Silenzi di guerra cit., pp. 37-38.

9
Ibid., pp. 29-30.
10 Noi stavamo nascosti, ci siamo visti tutta una brigata di cavalli che... che venivano verso di noi, scendevano tutti dalla parte del monte Faggeto
verso qua con i cavalli... tutti soldati... una marea di soldati... salivano le montagne e passavano il fronte... non è che uscissero sulla strada,
passavano per le montagne... Se tu stavi nascosta nella montagna ti prendevano lo stesso. Non c’era modo di nascondersi... E dove ti nascondevi,
signora!?
11 E allora ce ne siamo scappate su un’altra montagna verso Pozzi della Valle. Siamo andate là dentro una casetta... la sera eravamo tutte là...
acchiappavano... gli uomini li acchiappavano e li chiudevano nei pagliai... Chi se le trascinavano via, chi lì... che passammo noi quella notte...
Luigina chiamava Luigi, Luigi! Quelli li avevano chiusi nel pagliaio, che potevano fare? E ci trascinavano tutte da là, poi la mattina ce ne siamo
scappate da là... tutte quante... Il giorno prima c’erano state quelle di Lenola, la sera se ne erano andate e ci siamo capitate noi! Là... poi da là
siamo capitate sulla montagna dopo che era passato il fronte a Itri. C’erano gli americani... là... dopo ce ne siamo venuti a Campodimele. Quando
stavamo a Valle Cerase eravamo riunite tutte là in una stanza, siamo andate al comando, ci hanno detto che là venivano i marocchini... questo ci
ha mandato una sentinella... Stavamo chiuse tutte in una stanza, senonché quella sentinella quella notte cercava anche lui una donna, ha
chiamato il padre e ha detto che lui andava a cercare una donna. Ma dice: queste non sono donne che dite voi. Allora ci siamo messe tutt e sul
soppalco... ci hanno trovato là sopra. Noi siamo tutte scese sotto, ci siamo buttate e come trovavamo la porta per uscire fuori, come uscivamo
picchiavano tutte quante con la canna dei fuci li là... hanno fatto un macello... ci picchiavano con la canna dei fucili, ci picchiavano...
12 Li portarono fino a Lenola fino a San Martino, lì ci fu un bombardamento e si salvi chi può e i miei fratelli ringraziando Dio si salvarono tutt’e
due e andavano incontro alla mia povera mad re.
13 Dalla parte di Lenola dentro a quella vallata dove c’erano tutte quelle case... tutte quelle case là stavamo... io sapendo, non me ne andavo da
dove stavo... ma poi era lo stesso, perché mia cognata non l’hanno acchiappata? E la sorella di Vituccio e la cognata di Assunta? Non le
acchiapparono? Se stavo là era uguale perché dove scappavo? E mi trovavo lì... con tante giovani... Lascia perdere! La fine del mondo! La fine del
mondo! Signore Gesù Cristo! Signore evitalo a questi figli... Non avevamo più la forza di scappare... come scappi con il cuore che si affanna e
dove sc appi con questi? Quanti anni avevate? Vent’anni... Lì c’era quella povera Cesira, c’erano quelle poverelle malate malate... le cacciarono
fuori come le aveva fatte mamma! Nude! Nude! Basta... le cacciarono nude! Quello che hanno fatto! [...] C’erano pure delle creature... dalla parte
di Lenola hanno ucciso pure della gente... Matilde se ne andava per queste montagne e non l’hanno più trovata... è sicuro che l’hanno ammazzata
ed è rimasta da qualche parte.

14 Ero sposata, avevo fatto pure una figlia che a Natale era morta la figlia e se ne era andato il marito... alla vigilia di Natale del ’41 mo riva
quella creatura e il 23 di gennaio partiva il marito... era in prima linea, era a... non te lo so nemmeno dire... Africa... li hanno presi prigionieri... è
arrivato il 13 luglio del ’46...
15 F. Albani, Lenola: la memoria di guerra, relazione al III Congresso della Società Italiana delle Storiche, Firenze, 14-16 novembre 2003.

16 La testimonianza di Teresa De Filippis, nata nel 1929, è raccolta in «Scarupatu». Testimonianze di guerra, a cura del Comune di Lenola,
Assessorato alla cultura, 1993, pp. 20-21.

17
Ibid., pp. 23-24.

18 «Scarupatu» cit., pp. 28-29.

19 Passata la bufera a maggio dopo un po’ di giorni arrivarono gli americani e dietro a loro c’erano le truppe di colore a piedi. Il 25 maggio mi
presero i francesi, mi trascinarono in mezzo alle frasche... per carità!... Mi presero, mi trascinarono. Mia suocera piangeva. A me m’hanno presa
due volte. Poi quando quella sera mi presero i francesi, purtroppo mi ripresero dopo pochi giorni, ma questa volta erano marocchini. Che terrore!
Sinceramente avevo una paura, uh! Metti che restavo incinta, mi uccidevo, per carità di Dio... Ringrazio Dio che niente niente... Quella sera per la
prima volta, quando mi fecero alle Strette, stavo sfollata là e c’era pure una famiglia di Sperlonga che aveva una bella figlia di diciotto anni e si
venivano a nascondere là con noi. Evidentemente c’era stata una spia che aveva detto che là c’era quella bella giovanotta e quindi vennero. La
facemmo nascondere sotto a un letto e quando vennero c’era la porta aperta, a saperlo mi sarei nascosta pure io. Allora dissero: tu! E mi
facevano segno a me, poi facevano segno con le mani: due. Cioè volevano la seconda che era quella ragazza, ma la ragazza non c’era. Stava
nascosta. Io tenevo Annarella in braccio, mi presero e Annarella la buttarono giù... Ecco perché Annarella ha sempre mal di testa e mi sono
pentita dei peccati miei, che sulla carta non ho messo pure questo fatto. Allora erano due, uno mi puntava il fucile e un altro mi trascinava verso
la valle. Mio marito veniva dietro piano piano. Gli dicevo: vattene, vattene! Che sparano pure a te. Ah... usciti dalla porta, uno di loro colpì con
una pallottola il polso di mio cognato e la pallottola uscì da parte a parte. Chi piangeva da una parte e chi dall’altra. Loro due mi tiravano, le mani
non le sentivo più, me le giravano. Reagivo ma non ce la facev o, mi trascinavano avanti e indietro, mi portarono sopra una pietra a forma di
tavolo, uno mi mise il ginocchio sopra la pancia e un altro mi stringeva il collo. Stavo per terra, vedevo tutte le stelle, come se tutto brillasse. Non
parlavo più. Avevo paura che mi soffocassero, non potevo fare più niente. Quando ritornai ero diventata un masso duro, non riuscivo a parlare, a
muovere nemmeno le mani... infatti per 48 ore non potetti allattare Annarella e mia suocera pigliò il latte della capretta, aggiunse un poco
d’acqua e fece mangiare con un cucchiaino quella figlia.

20 Ricordo una bella donna di Lenola, era fidanzata e il fidanzato era partito a fare il militare. Beh, lei non voleva stare, la misero a gambe all’aria
e con la baionetta la squarciarono.

21 Io avevo undici anni, mi presero sotto i miei genitori. Mia madre aveva un altro bambino piccolo cui dava il latte e aveva un’altra sorella sotto i
vestiti per non farla prendere. Allora presero me, la prima volta... Mamma e papà li cacciarono, me mi fecero rimanere dentro... Però io piangevo,
e allora papà piangeva dietro di me... A papà gli buttarono una bottiglia dietro, un altro po’ lo uccidevano. Poi si misero il fucile vicino a me, le
botte, le mazzate... mi menavano, mi hanno fatto tutto, mi hanno oltraggiato, mi hanno fatto del male, tutto... Dopo scesa dalla casetta, tutta
piangente, non potevo neanche camminare, per come mi avevano rovinata... ecco che vennero gli altri, mi presero, lì c’era il grano alto, era notte,
mi portarono in mezzo al grano, erano cinque, sei, mi trascinarono come una cosa... mi presero, fecero i fatti loro questi altri e mi lasciarono in
mezzo al grano . Mio padre piangendo andava cercando la figlia: dove sei, dove sei!? e io, piangendo, chiamavo: papà, mamma, tutti quanti... Era
di notte, era buio, non ci si vedeva affatto... Non potevo nemmeno camminare, per come mi avevano rovinata... così papà venne a prendermi in
mezzo al campo di grano, piangendo... eh... Sono tutti ricordi che... Allora dopo che mi incontrai con mio padre, con i miei genitori, mi misero
dentro una capanna di fieno, perché erano venuti un’altra volta per prendermi, però non mi trovarono affatto perché mi ero messa già dentro un
pagli aio. Quella buona anima di mio fratello Pasquale e papà mi presero, mi misero in spalla, mi portarono in mezzo a una vallata di pietre in
modo che là n on potevano venire. Piangevo tutta la notte, mi sentivo tanto male, tutti i dolori avevo io... dopo che fu fatto giorno mio padre e mio
fratello mi misero sulla spalla e mi portarono sulla Madonna del Colle... io piangevo, non ce la facevo più... straziante... Dopo che arrivammo sulla
Madonna del Colle chiamammo un’ostetrica e mi visitò e mi disse: figlia mia ti hanno rovinata, come ti hanno rovinata! Non so come sei viva...
22 Quando mi pigliarono, mia madre teneva in braccio il figlio di L., lo presero, lo buttarono e riempirono mia madre di botte perché aveva
cercato di aiutarmi.


23 Quando scappammo sulle montagne, con me c’era mia cugina L., una bambina di dieci anni e la zia, eravamo sedute dentro un rifugio quando
all’improvviso arrivarono due di loro. La prima cosa che fecero fu di andare vicino alla bambina e insultarla, si alzarono la tunica marrone che
portavano e cominciarono a fare le sozzerie. Eh, figlia mia, a quel punto dovetti intervenire, fare qualcosa. Presi uno di loro e lo graffiai in faccia.

24 Quei giorni ci furono massacri, violenze a tutta la popolazione campomelana e chi si poteva salvare si dovev a ritenere fortunato. Mamma con
papà mi fecero passare per malata, mi acchiapparono dalla testa ai piedi con un lenzuolo. Ringrazio i miei genitori che non mi presero. Essi
facevano le mosse perché credevano che fossi malata davvero. Ma se io mi salvai, quella povera mamma mia la fecero, poverella! Che scene
brutte... povera mam ma mia e come soffrì... Papà e gli zii cercarono di fare qualcosa ma non c’era niente da fare oramai. Vennero allontanati
messi faccia al muro, non potevano reagire altrimenti incominciavano a sparare. Papà prendeva mamma per le braccia, ma essi incominciarono a
essere più violenti di prima. Che dolore! Non sapevo neanche che cosa significassero quelle cose, però capivo che stavano a fare del male a mia
madre che, vedevo, cercava con tutte le poche forze di ribellarsi... gridava ma inutilmente. Quei maledetti non scherzavano per niente e non
avevano paura di nessuno. Finito di fare i fatti loro, tutti sta vamo in grande silenzio. Mamma piangeva, stava seduta sopra una pietra che
avevamo preso per poterci sedere. Ecco le cose sono andate a questa manier a e soprattutto ecco cosa sono stati gli alleati e come ci hanno
trattati, vere bestie che d’umano non avevano niente.

25 Era maggio... la fine però. Arrivavano come tanti zulù dalle montagne, già al solo sguardo capivi che erano cattivi e malvagi. Una se ra
maledetta, verso la sera, vennero dentro la casa dove eravamo rifugiati tutti i parenti. Arrivarono come i diavoli, incominciarono a muovere le
mani, a fare gesti con le mani... soprattutto ci puntarono un fucile vicino alla testa, ci fecero mettere tanta paura, allora c ominciarono a
insultarci. Uno di loro mi afferrò a un braccio e mi trascinò con violenza verso la porta. Un altro prese papà e lo fece nero, gli diede una botta col
fucile dietr o la schiena mentre cercava di tirarmi dentro. Mi incominciarono a maltrattare, mi tempestarono di schiaffi e di botte. Avevo capito
che cosa andavano cercando da me, ma non riuscivo a c apire se anche a mia cugina di dodici anni stavano a fare la stessa cosa. Erano quattro di
loro e fecero ciò, non si capiva più niente. Chi gridava a destra e chi a sinistra, chi piangeva... eh... Eravamo tutti scossi, non ci usciva manco una
parola. Io sono stata tanto male, mia cugina è rimasta scioccata per tanti mesi... eh, poverina, ha dovuto affrontare moltissimi problemi.

26 Signora la gente ci schifavano tutte quante, dicevano che noi avevamo la malattia dei marocchini... così dicevano ai figli: quelle là hanno la
malatt ia dei marocchini... ne abbiamo passate parecchie... brutte brutte... eh, qualcuna non si è sposata...
27 Il 21 maggio arrivarono come diavoli dalle montagne. Veramente noi ci aspettavamo i liberatori e difatti a Mangiavacca, dove stavamo noi, la
gente uscì con una bandiera bianca, credevamo che fossero i liberatori. Invece, come cominciarono a venire, si portarono le femmine e
incominciarono a fare sfregi. A Lenola c’è stato un massacro vero. Si diceva che questi marocchini erano venuti per sfondare il fronte. I tedeschi
avevano tante fortezze e allora i marocchini rischiavano, non pensavano alla vita. E [...] i marocchini passare passa rono, ma passò il fuoco. Là
non si è salvato nessuno. A Lenola ne hanno ammazzate tre e pure una di cinquant’anni, la tagliarono con una forbice. Un signore amma zzò un
marocchino che aveva violentato tutte e tre le figlie, tre belle ragazze e vicino a lui. Insomma un paese intero in ginocchio. Poverelle, le fecero
come la veste di Cristo, quelle ragazze.

28 Non riesco a capire chi ha mandato quei mostri e perché questo dispetto proprio a noi! Hanno piegato un paese intero, tra uomini, bambini e
donne. Quello si trattava di un vero dispetto, un dispetto vero e proprio, ci trattarono come oggetti.
29 Testimonianze analoghe, a volte quasi con le stesse parole, ha raccolto Tommaso Baris a Esperia; cfr. Baris, Tra due fuochi cit., pp. 93-107.

30 Mia madre passava le giornate a piangere, la notte non dormiva per niente, gridava per il terrore... ha sofferto tanto per me e mia sorella.

31 R. Kaes, Rotture catastrofiche e lavoro della memoria, in Violenza di stato e psicanalisi, Guido Gnocchi editore, Napoli 1994 (ed. or. a cura di J.
Puget, Violence d’État et psychanalyse, Dunod, Paris 1989). Riprendendo Freud, Kaes ribadisce l’impossibilità di un ricordare esaustivo. «Non
tutto il passato può essere trasformato in ricordo. [...] Il complesso lavoro della memoria consiste nel disoccultare ciò che è stato c ancellato,
represso o rimosso; e anche nel rimuovere e mantenere nell’oblio e nel silenzio ciò che non può essere tollerato. [...] nelle catastrofi psichiche,
qualora la rimozione non si produca, i processi costitutivi della memoria e la possibilità di una rimemorazione sono impediti e di conseguenza
viene bloccato l’accesso del soggetto alla sua storia» (pp. 177-78).

32 Gagliani, La guerra co me perdita e sofferenza cit., p. 197.

33 La chiesa in cui viene ambientato lo stupro nel film si trova nelle campagne di Lenola. Alberto Moravia era stato sfollato durante la guerra
proprio nelle campagne tra Fondi e Lenola e scrisse il romanzo a partire dalla sua esperienza diretta. L’omonimo film di Vittorio De Sica uscì nel
1960. Sofia Loren, nel ruolo di madre, ebbe l’Oscar per la migliore interpretazione.

34 Il primo studio sul tema degli stupri nel basso Lazio lo troviamo in V. Chiurlotto, Donne come noi. Marocchinate 1944 - bosniache 1993, in
«DWF», n. 1, 1993, pp. 42-67. Sono seguiti in questi ultimi anni G. Chianese, Rappresaglie naziste, saccheggi e violenze alleate nel Sud, in «Italia
contemporane a», n. 202, 1996, pp. 71-84, oggi ripreso nel volume Quando uscimmo dai rifugi cit.; G. Gribaudi, Le voci dissonanti della retorica
nazionale e lo stereotipo dell’identità italiana, in «Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche», n. 1, 2002, pp. 234-42; Baris, Tra due
fuochi cit.; D. Frezza, Cassino 1943-44: la memoria, in «Passato e Presente», n. 61, 2004, pp. 115-40. La maggior parte dei lavori citati
concentrano la loro attenzione sui paesi del Frusinate.

35 J.-C. Notin, La campagne d’Italie. Les victoires oubliées de la France 1943-1945, Perrin, Paris 2002, p. 500.

36 Ibid., p. 511.

37 Ibid., p. 505.

38 Ibid., p. 512.

39
Robert Lilly in La face cachée des GI’S. Les viols commis par des soldats américains en France, en Angleterre et en Allemagne pendant la
seconde guerre mondiale, Payot, Paris 2003 (trad. it. Stupri di guerra, Mursia, Milano 2004), p. 40, parla del 5 per cento di crimini sessuali
denunciati in rapporto alla realtà.
40 Non è stato facile reperire e accedere alla documentazione sulle violenze. A Parigi all’Archivio militare dell’Armée de Terre (Service Historique
de l’Armée de Terre – SHAT) ho potuto consultare i journaux de guerre e una busta molto importante sui conflitti fra Corpo di spedizione
francese e popolazione italiana dopo aver chiesto e ottenuto la dérogation, che non mi è stata concessa invece per i processi del Tribunale
militare. Al Public Record Office di Londra è conservato un fascicolo concernente il «Goums Trouble», con denunce italiane, un carteggio fra
alleati e francesi, le relazioni di investigatori inglesi e americani: PRO, WO 204.9765, Goums Trouble. Una busta analoga molto importante è
conservata all’Archivio Centrale dello Stato nel fondo acquisito dagli Archivi di Washington del Comando militare alleato: ACS, Al lied Military
Command, Moroccans & French. Altri fascicoli sono stati reperiti all’Archivio di Stato di Latina.
41 PRO, WO 204.9765, Goums Trouble, M.S.L. Brigadier, Executive Commissioner, 25 maggio 1944. Ref. 307/CA.

42 PRO, WO 204.9765, Goums Trouble.


43 PRO, WO 204.9765, Goums Trouble.

44 ACS, Allied Military Command, Moroccans & French. Le citazioni che seguono sono tratte da questa fonte.

45 ACS, Allied Military Command, Moroccans & French, Rapporto del 22 giugno 1944.

46 Troviamo la segnalazione del campo da parte dei carabinieri di Sabaudia, 24 luglio 1944: «Comunicasi che nel pomeriggio di ieri sono giunti a
Sabaudia, provenienti da Siena, circa mille automezzi con truppe francesi e di colore. Continuano ad affluire altri automezzi che rimarranno in
questo territorio alcuni giorni. Truppe francesi alloggiate locali scuola Caracciolo edificio Infa nzia ed ex caserma Portuaria. Truppe colore
accampate a circa 5 km dall’abitato. Sottoscritto preso contatto col comando francese scopo prevenire incidenti» (ACS, Allied Military Command,
Moroccans & French).

47 SHAT, 10P11, Headquarters Fifth Army, Office of Provost Marshal, APO 464, US Army, Lettera al capo squa drone Lafitte, comandante del
distaccamento di gendarmeria del Corpo di spedizione francese, 12 maggio 1944.

48 Ivi, Lettera dello Stato Maggiore delle Forze Italiane in Campania al colonnello Donald J. Leehey, 31 maggio 1944.

49 SHAT, 10P11, Headquarters 995° Battalion, APO 464, US Army, Lettera del tenente colonnello Robert M. Douglass al generale comandante
della V Armata, 2 giugno 1944.

50 SHAT, 10P11, Headquarters 995° Ba ttalion, APO 464, US Army, Rapporto del colonnello Brun, comandante della zona di Amaseno, 2 giugno
1944.


51 È la riflessione prodotta da una testimone citata da Daria Frezza, La memoria indicibile. Le violenze subite dalle popolazioni del basso Lazio
nel passaggio della seconda guerra mondiale, relazione al III Congresso della Società Italiana delle Storiche, Firenze, 14-16 novembre 2003.

52 ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto 1944-45, busta 27, fasc. 2097. Oggetto: Assistenza sanitaria alle donne violentate dai marocchini nelle
province di Frosinone e Littoria.

53 ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto 1944-45, busta 27, fasc. 2097, Relazione «Sopralluoghi nei comuni percorsi dai marocchini», firmata
M.T. Viotti, ottobre 1944.

54 ASL, Prefettura, Archivio di Gabinetto, busta 140, Lettera del maggiore comandante dei carabinieri al prefetto, 20 agosto 1950. L’articolo di un
giornale dello stesso periodo parla di più di cento donne contagiate.

55 Ma quelli che stavano là dicevano la guerre... ci vedevano passare tutte in compagnia no... e allora gridavano: adesso, dice, non è buona la
guerre? Vogliamo la guerra, vogliamo la guerra! Adesso no buona la guerre. Sfottevano pure quando ci vedevano passare.

56 SHAT, 10P11, Affaire Starck, Dichiarazione dello spahi André Coste. Gli spahis, la cui denominazione risaliva a un’élite di cavalieri dell’Impero
Ottomano, erano soldati africani inquadrati nel corpo della cavalleria dell’armata francese. Quelli che arrivarono a Campodimele e a Lenola nel
maggio 1944 appartenevano al reggimento di spahis marocchino nella divisione marocchina di montagna.

57 Ivi, Dichiarazione dello spahi Schmauch.

58 Ivi, Lettera del generale di divisione de Goislard de Monsabert, comandante la 3 a divisione di fanteria algerina al generale comandante il
Corpo di spedizione francese, generale Juin, 3 gennaio 1944. Il soldato ucciso è Alexandre Audry del 64° reggimento di artiglieria algerina, nato il
21 luglio 1920 a Lione. Il processo è stato istruito dalla Corte militare alleata il 2 e 3 maggio 1944. Presidente maggiore William F. Waugh, USA.
Mariano Di Marco, di trentatré anni, venne condannato a morte. (La difesa aveva chiesto la pietà alla corte per legittima difesa e malattia
dell’imputato – sifilide). Il padre e il fratello di ventotto anni furono prosciolti.

59 SHAT, 10P11, Lettera del capitano Gacon, capo del Bureau della Sécurité Militaire del Corpo di spedizione francese, 5 gennaio 1944.

60 Ivi, Lettera del tenente colonnello Le Nulzec, maggiore di zona ad Albanova, al generale comandante della base 901, Albanova, 2 maggio 1944.

61 Ibid.: «è la mancanza di disciplina degli italiani e il fatto che i loro uomini hanno l’abitudine di portare delle granate e di sparare durante la
notte che ha fatto degenerare in battaglia dei conflitti riprovevoli, ma abbastanza poco pericolosi».

62 Ibid. Si tratta di argomentazioni molto simili a quelle che il capitano Dubois aveva espresso un mese prima a proposito dei marocchini che
avevano ucciso un italiano per un montone (cfr. oltre, pp. 558-59). Ma in questo caso sono so ldati di origine francese a contendere con gli italiani.
Fra i militari chiamati a testimoniare undici sono francesi e uno solo marocchino; questi non era direttamente coinvolto nella lite, si era
semplicemente trovato a dare una mano.

63 SHAT, 10P11, Il capitano Vigouroux al capo battaglione de Fornel, 17 maggio 1944.

64 Ivi, Rapporto del capo squadrone Lafitte, comandante del distaccamento di gendarmeria del Corpo di spedizione francese al generale
comandante del Corpo di spedizione francese, 6 giugno 1944. Sull’episodio tornava addirittura il generale di brigata Gross. Questa la sua
versione: alcuni italiani avrebbero aggredito militari francesi per motivi ignoti, questi ultimi sarebbero stati raggiunti da altri compagni accorsi in
loro difesa, a quel punto un italiano avrebbe lanciato una granata ferendo gravemente un francese. Sarebbero seguiti incidenti ancora più gravi,
in cui era stato ferito incidentalmente un MP ameri cano. L’italiano, arrestato dagli americani, era stato rilasciato. Gross sosteneva che erano stati
dati ordini a tutti i comandanti per evitare nella misura del possibile contatti fra le truppe francesi e la popolazione, ma ribadiva la necessità che i
civili italiani non si facessero giustizia da soli, che fosse impedito loro di perseguire un soldato francese anche se delinquente, e che in un caso
come questo l’inchiesta fosse condotta congiuntamente da ital iani e francesi.

65 SHAT, 10P11, Lettera firmata Gross, comandante della base militare francese 901, allo Stato Maggiore, 2 ème Bureau, 3 luglio 1944.

66 ACS, Allied Military Command, Moroccans & French, Legione territoriale dei Reali Carabinieri del Lazio al Comando Militare Alleato, reg . IV
Roma, 8 luglio 1944.

67 ACS, Allied Military Command, Moroccans & French, Headquarters Allied Armies in Italy, Oggetto: Rapporto con gli italiani, 10 maggio 1944.

68 Cfr. N. Naimark, The Russians in Germany. A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1959, Harvard University Press, Cambridge 1995;
B. Beck, Rape. The Military Trials of Sexual Crimes Committed by Soldiers in the Wehrmacht, 1939-1944, in K. Hagemann e S. Schüler-
Springorum (a cura di), Home/Front. The Military, War and Gender in Twentieth-Century Germany, Berg, Oxford 2002, pp. 255-73; B. Beck,
Wehrmacht und sexuelle Gewalt. Sexualverbrechen vor deutschen Militärgerichten 1939-1945, Schöningh, Paderborn 2004.

69 Lilly, La face cachée cit. (si veda anche la prefazione di Fabrice Virgili). Secondo Lilly la vittimizzazione delle donne è più elevata nei casi di
nazione sconfitta e di profonda disorganizzazione sociale.

70 Keegan, La grande storia della guerra cit., pp. 10-11.

71 SHAT, 10P11, Rapporto del capitano Dubois, comandante la 4a divisione marocchina di montagna.

72 Sottolineato nel testo.

73 SHAT, 10P11, Rapporto del commissario francese presso il tribunale del quartiere generale del Corpo di spedizione francese al generale
d’armata, comandante del Corpo di spedizione francese, 19 giugno 1944.
74 PRO, WO 204.9765, Goums Trouble, Lettera del generale Alexander al quartier generale delle forze alleate, 2 luglio 1944.

75 Sono simili le immagini dei soldati neri all’interno dell’esercito americano (Lilly, La face cachée cit., pp. 31-39).

76 SHAT, 10P68, Lettera del tenente Thevenot, comandante della compagnia 806/1 al colonnello comandante delle Trasmissioni del Corpo di
spedizione francese, 2 marzo 1944. La lettera è stata trasmessa al generale comandante del Corpo di spedizione francese il 4 marzo.


77 Situazione analoga si verificò per i soldati americani in Germania (Lilly, La face cachée cit., p. 271).

78 SHAT, 10P11, Legione territoriale dei carabinieri di Napoli, Sezione di Sessa Aurunca, 12 aprile 1944. Oggetto: violenza sulle persone e furti
da parte di truppe di colore, Rapporto firmato dal comandante della legione Arico, inviato all’AMG, al comandante del Corpo di spedizione
francese, al comandante del distaccamento di gendarmeria.

79 SHAT, RH 2477, Lettera del direttore degli Affari politici al comando dei Goums marocchini, Rabat, 25 luglio 1944.

80 Lilly, La face cachée cit., p. 65.

81 Ibid., p. 38.

82 F. Virgili, Prefazione a Lilly, La face cachée cit., p. 9.

83 Legge del 15 febbraio 1996, n. 66. In Francia lo stupro divenne crimine nel 1978 (ibid., p. 10).

84 ASL, Prefettura, Gabinetto, busta 140, Lettera del capo di gabinetto della presidenza del Consiglio dei Ministri al prefetto di Latina, 27 agosto
1949. Oggetto: danni arrecati dalle truppe marocchine.
85 ASL, Prefettura, Gabinetto, busta 140, Lettera del capo di gabinetto del ministero dell’Interno ai prefetti di Frosinone e Latina, 12 aprile 1949.

86 Ivi, Lettera del prefetto al comando gruppo carabinieri di Latina perché vengano svolte indagini nei relativi paesi, 21 aprile 1949.

87 Ivi, Deliberazione del Consiglio comunale di Castelforte, 27 aprile 1949.

88 ASL, Prefettura, Gabinetto, busta 140, Comunicazione del corrispondente di Lenola del quotidiano «Il Popolo», Giuseppe Lauretti, agli
onorevoli De Gasperi, Pella – ministro delle Finanze – e Vanoni – ministro del Tesor o – circa i danni causati dalle truppe marocchine. La lettera
del capitano dei carabinieri al prefetto di Latina era del 20 luglio 1949.

89 ASL, Prefettura, Gabinetto, busta 140, Lettera al prefetto di Latina, 25 settembre 1949.

90 Ivi, Lettera del 1° maggio 1950, protocollata il 23 maggio 1950.

91 Ivi, da «Il Momento», n. 164, 15 giugno 1950.

92 ASL, Prefettura, Gabinetto, busta 140, Lettera del comandante dei carabinieri del gruppo di Latina al prefetto di Latina, 20 giugno 1950.

93 Atti parlamentari, Camera dei deputati, Seduta notturna del 7 aprile 1952.

94 Atti parlamentari, Camera dei deputati, Seduta notturna del 7 aprile 1952.

95
Avevo ventitré anni... Ci danno una miseria, una schifezza, ci hanno criticate tutti, ci hanno messo in mezzo a una via per tutto quello che
abbiamo subito. Si sono fatta meraviglia su di noi. Dicevano: malata, malate... Ringraziando Dio sono ancora viva e non sono malata. Ti
prendevano e siccome stavano riuniti a gruppi, ti vedevano e ti criticavano e schifavano che eravamo malate. Ora se ci mettiamo a raccontare non
finiamo più. Questo è un paese pieno di cattiveria, ci criticarono, ci misero in mezzo a una via... Dicevano: quella non si sposa più, quella è
malata. [...] Ora mi danno una pensione di 700000 lire più 254000 del fatto dei marocchini, appena dopo la guerra mi davano 4000 lire. È una
vergogna, massacrata e umiliata.
96 «Il Messaggero», 17 dicembre 1987.

97 Ci devono pagare i danni morali. E quando ce li danno? Quando siamo morte?


11. Il racconto del dolore


1 Tutta quella povera gente che si vede in televisione con quei pacchi in testa, pure noi ci siamo passati...

2 Piano piano mi vengono in mente tante cose. Hai voglia quan te ne abbiamo passate! Madonna, scampaci da tutte le guerre, manco i cani,
manco i cani! Li vedete quelli che stanno scappando in televisione? Come si chiamano questi... gli albanesi! (In questo caso l’intervista è stata
fatta nel 2000, durante la guerra in Kosovo, la testimone ricorda la fuga dei kosovari verso l’Albania).

3 Brutto, troppo brutto... le guerre non dovrebbero mai venire! Nientemeno quando fecero vedere quella guerra in televisione, come si chiama?
Iraq... e facevano vedere tutte quelle luci che andavano avanti e indietro... io seduta davanti alla televisione mi sentivo male! Girai canale. Perché
a volte tu vedi quelle cose e ti viene in mente il tuo, quello che hai passato tu... e io mi sentivo male, non ce la facevo. E poi sono cose che tu hai
visto da bambino, è un po’ difficile che te le dimentichi quelle cose, non le puoi dimenticare facilmente... a me è rimasta sempre davanti agli
occhi la vista di questa gente morta in terra, la gente appiccicata contro i muri... non me lo posso scordare, e quando penso dico: ma perché è
dovuto nascere tutto questo?
4 Io, quando sento dire guerra... Ora che stanno facendo tante cose là, dove stanno, quelli lì non li conosciamo... ma io quando sento dire questo,
io mi batto la faccia, così, e dico: oh, quello che abbiamo visto noi, così sta vedendo questa gente.
5
Pare adesso... pare adesso questo... io quando mi viene in mente... pare proprio adesso...

6 Iannettone, Cari nola, 1943 cit., p. 161.

7 Mentre scrivo è in corso la guerra in Iraq, dove la popolazione civile vive una situazione analoga a quella qui descritta, stretta fra i raid
americani da un canto e le bombe, i rapimenti, le esecuzioni dei terroristi.

8 A terra stavano i morti così, stavano a terra...

9 C’erano tre camionette sotto sopra con i cristiani morti dentro, chi stava con una gamba fuori chi con una gamba dentro, gente che andava là,
gente civile che levava loro le scarpe dai piedi e se le prendevano, qua, dentro il paese. E tu se vedevi... ho detto: chi vede la guerra vede la fine
del mondo!

10 Poi non vi dico il fatto di mio nonno. Mia nonna... mia zia vide che sbatteva in terra così, va a vedere e non gli trovò più la testa. La testa andò
a finire giù. Figuratevi che poi la sera rientrava a casa uno e trovò un pezzo di carne in terra, disse: ah, sarà di uno che è fuggito e ha perso
questo pezzo di carne, glielo porto a mia moglie... – Vattene vattene... quella è la testa di don Vincenzo! – Insomma quella testa, signora mia, andò
a finire vicino al muro di qua e di là. Che lui stava chiamando la nipote e [la scheggia] gli tagliò la testa pro prio...

11 A. Esposito, 43 racconti del 43, Grafica Conte, Falciano del Massico 2000, p. 27. La citazione si riferisce a Cancello Arnone.

12 E così li portavano sul carretto e... poi al cimitero...

13 Tribunale militare territoriale di Napoli, Sentenza di non luogo a procedere del 28 giugno 1968, Testimonianza di Giorgio Maione resa alla
stazione dei carabinieri di Cercola il 18 settembre 1944.
14 Giacomino comparve in sogno a un suo cognato e disse: io sono laggiù, sotto al Chiavicone, gli americani mi hanno gettato là. Ma poi se è
sogno o verità non lo so, però noi Giacomino non l’abbiamo più trovato.

15 Esposito, 43 racconti del 43 cit., pp. 22-23.

16
Alla fine delle bombe io uscii fuori dove stavano gli animali e vidi papà che veniva con zio A ntonio. Disse: può mai essere che è sotto quella
pianta? Giovannina, Giovannina, disse, mamma dov’è? Dove, dove? E cominciò a piangere. Andammo là , io vicino non ci arrivai. Guardate, non ci
fecero arrivare. Mamma aveva il ginocchio dentro la gonnella e stava così... col mozzico di pane in bocca. La piccola non la vidi proprio e alla fine
di tutto ci pigliarono, ci portarono alla masseria e non ci andai più. Poi andarono con le barelle, le pigliarono e le misero sopra alla Via Nuova,
passò il camion. Allora morì anche zio Ntonio di Ciciella quella giornata, allora le caricarono sul camion e le port arono al cimitero. Questo pare
ora... pare... questo... io quando mi viene in mente... pare proprio ora... è stata la guerra, avete capito?

17 Il 26 agosto c’era papà. E poi lui la vita sua non se la curava più. Tutti quanti facevano: Francesco mettiti... nasconditi... stai... È morta mia
moglie e devo morire pure io. E stava guardando le pecore il 3 ottobre, dal 26 agosto al 3 ottobre, vedete quanti giorni sono passati... gli
spararono proprio vicino alle pecore, giù a San Felice, i tedeschi. Mia sorella e mio padre stavano guardando le pecore. E poi venne mia sorella,
disse: o nonno, o nonno! – Che è? – Disse: hanno sparato a papà. È morto o vivo? Disse: l’ho lasciato ancora vivo. E lei diceva: ma papà che è?
Disse papà: piglia le pecore e portale alla masseria. Allora il nonno e mia sorella andarono là, pigliarono le pecore, le portarono a casa, poi
pigliarono il traino, ci misero i panni sotto, pigliarono il traino, andarono là e lo portarono dritto al cimitero, misero i l lenzuolo sopra... e lo
portarono al cimitero. Poi il 7 ottobre i tedeschi pigliarono mio fratello Ernesto. Stette due o tre giorni senza tornare, la mattina i tedeschi
andavano casa per casa, andavano a cercare i cristiani den tro le case. Mio fratello veniva dalla campagna, arrivò al centro del paese, lo presero e
lo uccisero fra i 54.


18 Ho descritto la strage di Bellona in Una rappresaglia: Bellona, 7 ottobre 1 943, nel volume da me curato Terra bruciata cit., pp. 251-75.

19 Quando fecero le bombe, state a sen tire, quando caddero le bombe, venne il nonno sotto la pianta, vide la piccola, quella di cinque anni, mi
pare che allora avesse cinque anni, il corpicino stava sotto la pianta di fichi e la testolina non c’ era, la stroncò, la stroncò proprio, allora dove la
trovò il nonno? La trovò sotto una pianta di olive, pigliò quella testolina e la mise vicino al corpicino. Diceva il nonno, diceva: aveva gli occhi
proprio intatti, li teneva aperti. Secondo me quando la scheggia la colpì in testa doveva essere con gli occhi aperti. E il nonno pigliò la testolina e
la mise vicino al corpicino.

20 Rosinella cadde in terra a fianco a me, e io tenevo la mano di lei in mano, e sentivo lei che moriva e io potevo parlare, lei non poté dire più
niente, stava con la bocca chiusa [...] Sentivo che la mano in mano a me fac eva tttt e così tremava e morì e non la vidi più.
21 insomma se lo portarono all’ospedale ma era morto... erano trascorse più di altre tre o quattro ore per scavare, per togliere da sotto le macerie
e la scalinata s ’era rotta...
22 G. Bonansea, Scrivere la guerra. Paesaggi al confine tra linguaggi e immaginari sociali , in «Storia e problemi contemporanei», n. 24, 1999, p.
108. L’autrice continua sottolineando l’«afasia che si ritrova alla base dell’oblio, della censura, della rimozione o della sclerosi della memoria».
«Se il dolore vivo ritorna, il rischio che possa incunearsi in quel prescritto modul o narrativo è alto. La ferita, riaffiorando con la forza dirompente
e inaccettabile dell’allora, si arrende ai dispositivi discorsivi predati, trasformandosi in un’incessante iterazione» (p. 109). Si vedano anche le
riflessioni sulla memoria del trauma in J. Winte r e E. Sivan, Setting the Framework, in Idd. (a cura di), War and Remembrance in the Twentieth
Century, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 15.

23 mi hanno detto

24 Come ricorda John Keegan, riandando al ricordo della nonna che si era lasciata morire nell’attesa dei figli partiti per la prima guerra mondiale,
accanto all’angoscia del soldato che combatteva, c’era «il tormento di coloro che restavano a casa». Durante le due guerre mondiali milioni di
postin i si fermarono a consegnare telegrammi che annunciavano morte. «Il ragazzo del telegrafo che giungeva in bicicletta con i telegrammi,
pedalando per le vie desolate della città e simboleggiando per le popolazioni dell’epoca vittoriana un nuovo e benevolo progresso tecnologico,
divenne per i gen itori e mogli di entrambe le guerre mondiali un vero e proprio presagio di terrore [...] La vista del postino innescava
immancabilmente la stessa tacita preghiera: Fa’ che vada avanti, fa’ che si fermi davanti a un’altra casa, fa’ che non siamo noi» (J. Keegan, La
guerra e il nostro tempo, Mondadori, Milano 2002 [ed. or. War and o ur World, Vintage Books, New York 2001], pp. 11-15).

25 C’erano i tedeschi qua, lui stette un mese senza tornare mai a casa, c’era una galleria sulla montagna. Stavano tutti in quella galleria nascosti,
che avevano paura dei tedeschi. Quella sera tornava a casa, il 6 di ottobre tor nava a casa, perché, diceva mia mamma... mia mamma gli portava
da mangiare, metteva in un canestro, quelli stavano nascosti là e gli portava da mangiare. Ora – diceva mia mamma – ora qualche volta ti devi
venire a cambiare, ti dai una lavata. Diceva lui: mamma, ma io ho paura a venire. Quella sera se ne venne. Quella sera tornò, si lavò, tutte cose, si
cambiò, e solo quella sera dopo un mese vide il letto per coricarsi. La mattina, prima delle sei, già venivano e se lo pigliarono. Mio padre stava
ancora coricato, disse: sentite una cosa, ma perché vi pigliate il ragazzo che è piccolo, dice, perché non vi pigliate me? Disse lui: che ce ne
facciamo di voi? Disse: noi dobbiamo trovare i giovani che devono lavo rare, li dobbiamo portare a lavorare. Allora disse mio padre: e una
merenda se la deve portare? Se ne viene senza mangiare? Disse lui: non vi preoccupate del mangiare, che lavorano e mangiano. Avete capito? Per
non far capire quello che stavano per fare. Se lo pigliarono e lo portarono in piazza, li misero tutti in piazza e là ce n’erano molti, erano molti più
di 54, tutti in mezzo alla piazza li misero, poi li portarono nella cappella di San Michele [...] Mia mamma correva dietro, mia mamma fece la
merenda e gliela portò nella cappella di San Michele, lo fece pure mangiare, e mentre lui mangiava mangiava se lo pigliarono e se lo portarono là.
Uccisero cristiani grandi, cristiani piccoli, mio fratello quindici anni, uccisero un altro bambino di tredici anni, un altro bambino di undici anni, là
si vide la fine del mondo... Sette o otto sacerdoti... medici, tutti, uccisero un sacco di cristiani... 54, avete capito? 54 cristiani, i medici, i preti,
monaci... Quelli che erano stati sotto le armi a fare la guerra ed erano tornati, tutti uccisi là.

26 Il ruolo delle madri oltre a essere sottovalutato è spesso anche irriso: ancora oggi capita di sentire apprezzamenti ironici sulle madri che
temono la guerra, una delle tante debolezze della nazio ne italiana! Tenere testimonianze di mogli che corrono dietro ai mariti portando cibo e
vestiti pesanti nel volume Anche in questa piccola terra. L’eccidio nazista di Bellona (Comune di Bellona, 1999), che raccoglie il racconto della
rappresaglia fatto da sei parenti delle vittime. «Fu tra i primi dieci che uscì mio marito. Pioveva. Dissi a Lorenzo che sarei andata a p rendergli un
cappotto e lasciai la bambina a Puppenella e Putruzzella. Tornai a casa, presi il cappotto e scesi di nuovo in strada. Nel frattempo li avevano
portati tutti e dieci verso fuori Bellona. Correndo arrivai fino alla casa di don Andrea Anziano. Non c’era anima viva nella strada. Un tedesco
minacciò di spararmi. Tornai verso la chiesa, presi la bambina e rientrai in casa. E allora cominciai a piangere» (Gabriella Caputo). «I tedeschi
entrarono in casa e portarono [papà] nella piazza principale del paese, dove già erano stati concentrati altri uomini catturati qua e là. Il cielo era
n uvoloso. Cadeva una pioggia sottile ed insistente. Mia madre prese un cappotto e corse in piazza. Pensava che papà potesse averne bisogno
perché probabilmente lo avrebbero portato a lavorare chissà dove. [...] Ma in piazza non trovò più nessuno. Gli uomini erano stati trasferiti in una
piccola chiesetta lì vicino. Fuori c’erano molte donne tenute a bada da alcuni soldati. Lì ho raggiunto mia madre che aspettava di veder uscire
papà. Quando i tedeschi lo hanno portato via, noi abbiamo tentato di seguirlo, ma siamo state bloccate energicamente» (Assunta Simeone).
«Quando i soldati stavano per portar via Ciccio, io cercai di impedirlo. Mi aggrappai a lui assieme al mio bambino e non lo volevo lasciare. Ma,
mentre uno dei militari strattonava mio marito, l’altro mi colpì le mani col calcio del fucile. [...] Poi Ciccio uscì dalla cappella insieme ad altri, in
un gruppo di dieci. Allora io gli corsi dietro ma venni bloccata dai soldati. Dopo quasi un’ora tolsero il blocco e, col cuore in gola mi avviai lungo
la strada dove Ciccio era stato portato. I tedeschi mi bloccarono di nuovo vicino alla casa dei Pezzullo dove era sistemato il loro comando. Con me
avevo portato del pane e un cambio di biancheria intima. Pensavo che ne avrebbe avuto bisogno perché quella mattina cadeva una pioggia
leggera ma insistente. Dove avete portato mio marito? Ditemi dov’è! Gli ho portato da mangiare» (Maria Angela Della Cioppa).

27 e mi fece il disegno della faccia, allora le cerimonie non si facevano, e scrisse. (La «cenere» si riferisce all’eruzione del Vesuvio del 1944).

28 Avevamo la campagna, le mucche, tutto! Però diedero lo sgombro e ce ne dovevamo venire a Bellona... ce ne siamo andati e mio marito e mio
fratello sono andati dentro un rifugio, dal dottore Rocco, quel giorno che a lla sera avevano ucciso questo tedesco e l’avevano ucciso dentro... Uno
ne hanno ucciso e un altro lo avevano ferito... il ferito è andato a dire al comando che lo avevano ucciso nel paese, hanno dato l’ordine e li hanno
mandati... hanno mobilitato tutto il paese... ricoveri, tutto! Li hanno trovati là dentro, li hanno pigliati, e dicevano, per non far spaventare la
popolazione, che li portavano a lavorare; invece non era vero! Pigliarono lui e mio fratello, tutt’e due, però non solo lui, tanti ce n’erano, pure il
padrone del [ricovero]... Pure il dottore Rocco hanno preso, e dicevano che dovevano andare a lavorare, invece no! Li portarono da una parte,
nella cappella di San Michele, a Bellona, poi da là li hanno portati fuori Bellona e poi a dieci a dieci li hanno portati alla cava e li hanno
ammazzati. Dicevano che li dovevano portare a lavorare, invece non era vero. La mattina ci siamo divisi, e noi stavamo a fare il pane – che poi ce
ne dovemmo an dare pure noi – e poi non l’ho più visto. E poi l’ho visto quando siamo andati a tirarli fuori da dentro la cava.
29 Poi dopo venticinque giorni è morto pure il bambino, perché scappavo sotto i ricoveri, poi il dottore c he lo stava curando morì... uccisero pure
lui e allora il bambino fu... [...] Io mi sono sposata a ventun anni e mi è successa la disgrazia a ventitré anni, avevo un bambino e mi è morto pure
il bambino...

30 Secondino, quando eravamo fidanzati, perché sei anni c’erano voluti, e allora c’era sempre qualche litigio di mezzo, qualc uno che voleva
mettere qualche... allora lui diceva: non ti preoccupare, perché solo la morte ci può dividere noi. E io mi voltavo e dicevo: quello che vuole Dio. E
la morte ci divise.
31 Ho narrato gli eccidi avvenuti a Sparanise nell’ottobre 1943 in Distruzioni e massacri. Sparanise, 10-12 ottobre 1943 cit.

32 E ora finisce e ora finisce...

33 non c’e ra più niente, c’erano solo mucchi di pietre

34 quando ci vide venire si mise a piangere e diceva: i figli miei stanno in mezzo alla strada!

35 con quel freddo

36 Non c’era testa

37 il freddo addosso

38 il vestito da viaggio

12. Interpretazioni private, discorsi pubblici


1 Eh, lei con un figlio, il figlio di diciott’anni e lei ne aveva quarantadue, era giovane; vennero dall’America e vennero a posare la pelle qua.

2 Totò vieni con me... No papà, sto bene qua.

3 cognata

4 Stavamo in mezzo ai bombardamenti, stavamo ad aspettare l’ora quando dovevamo morire... Che dobbiamo f are?

5 Cfr. A. Portelli, Perché ci ammazzano? Ambiguità e contraddizioni nella memoria dei bombardamenti, in L. Piccioni (a cura di), Roma in guerra.
1940-1943, numero monografico di «Roma moderna e co ntemporanea», n. 3, 2003, p. 650: «Nella maggior parte dei casi, il racconto dei
bombardamenti è un blocco narrativo autoconcluso e autosufficiente che comincia con la prima bomba. In parte questo è dovuto al fatto che una
bomba è un incipit perfetto, una lacerazione di una quiete immaginata».

6 perché non ci siamo mai fatte i fatti nostri...

7
G. Anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961, p. 88.
8 Ancora Anders: «Quando, dopo la capitolazione, i G.I. sbarcarono e offrirono ai bambini cioccolato e bubble gum, furono irriconoscibili come
“autori” del gesto, agli occhi dei giapponesi. E ciò non solo era comprensibile; ma perfino, in un certo senso, legittimo, p oiché identificare quei
ragazzi con gli uomini che avevano ordinato il lancio della bomba sarebbe stato, com’è ovvio, un altro errore morale. Ma io penso a un’altra cosa:
e cioè il rischio che l’inv isibilità dei colpevoli renda invisibile il fatto stesso della colpa» (ibid., p. 90).
9 Fussell, Tempo di guerra cit., p. 22.

10 P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958; Id., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986. Enzo Traverso e altri autori hanno
collegato questo tipo di violenza con quella attuata dalle nazioni europee nei confronti delle popolazioni delle colonie, considerate selvagge,
subumane (Traverso, La violenza nazista cit.). George Mosse sostiene invece l’esistenza di un legame fortissimo tra le esperienze della morte di
massa nella prima guerra mondiale e i massacri operati dall a Wehrmacht nella seconda. Le logiche di tipo totalitario provocarono poi una sorta
di mobilitazione negativa interna che accelerò i meccanismi di imbarbarimento e di bruta lizzazione della guerra, l’economia di saccheggio nei
territori occupati, la rapina e schiavizzazione degli uomini (intervista a George Mosse, La guerre et le fascisme, a cura di Bruno Cabanes, in
«Revue Européenne d’Histoire», vol. 1, n. 2, 1994, ora anc he in Les sociétés en guerre cit., pp. 269-73).

11 Schreiber, La ven detta tedesca cit. Sull’interpretazione della violenza nazista in Italia e del sistema di ordini cfr. Battini e Pezzino, Guerra ai
civili cit.; P. Pezzino, Guerra ai civili. Le s tragi tra storia e memoria, in Baldissara e Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra cit., pp. 5-60.

12 Sul tema cfr. G. Corni, Terzo Reich e sfruttamento dell’Europa occupata. La politica alimentare tedesca nella seconda guerra mondiale, in
«Italia contemporanea», n. 209-210, dicembre 1997-marzo 1998, pp. 5-37.

13 voltano

14 Eh, che c’è?

15 Ma tu che cosa vuoi da noi?

16 A Ripabianca i tede schi facevano strage... Si pigliavano le caprette, si pigliavano il porco, si pigliavano le salsicce, il lardo... Tutto, tutto...
impazzivano per il porco, appena tro vavano il porco subito lo uccidevano e lo mettevano... E voi che facevate? Li nascondevate? I porci? Il porco
mio lo tenevo laggiù, gli fec i una grotta e là stava, che quelli andavano vicino alle stalle...

17 Si pigliarono gli animali, si pigliarono tutto! I tedeschi? I tedeschi! Prima di andarsene, si pigliarono tutto e si pigliarono pure la giumenta che
avevamo. Tutto, il nostro porco, si pigliarono il nostro porco, si pigliarono le galline, noi avevamo i porci da ingrassare, si pigliarono i quattro
porci, pigliarono la testa e le interiora e le gettarono a mammina, mammina li pigliava e li gettava. Disse mammina: portateli in Germania! Ti sei
pigliato il porco, e adesso daresti gli intestini a me? Che me ne faccio degli intestini?


18 Stavano vicino a noi i tedeschi, sempre col mitra pronto! C’era una maiala, spararono pure a quella maiala. Si pigliarono parecchie bufale?
Molte, molte, le uccidevano davanti [a noi] davanti, noi avevamo una porcella che doveva partorire, fu una cosa troppo orrenda! Va là e la
uccisero. Dovevano fare sfregio, perché erano troppo sprezzanti e la uccisero. Hanno fatto troppa strage qua, assai, assai, assai.

19 I tedeschi massacravano tutto. I tedeschi... una mattina vennero qua, Salvatore e la mamma stavano impastando il pane, avevamo il negozio,
c’era il forno qua e facevano il pane. Quello venne con la motocicletta, quelle motociclette... b ubububu, si fermano proprio là davanti. E entrano
qua, entrarono qua: babababa. E io non capii. Capii una cosa, pigliai e li portai qua, dove si impastava il pane. Mio fratello disse: io militare, così
così, la contraerea... Raccontava tutto, comunque parlarono e poi se ne andarono. Andarono per tutte le case. Chi diceva: adesso finisce la guerra.
Chi diceva: questi adesso ci uccidono... La paura che avevamo! Così passò quel giorno brutto là... [...] quelli andavano cercando, chi lo sa che
cosa andavano cercando, non lo so! E così... la paura, la paura! Come vedevi uno di quelli mor ivi! Morivi prima che arrivassero vicini! Quelli non
si capivano nemmeno: bubububu... – Cosa ha detto? Cosa dice? – Non gli passava nemmeno per la testa! [di spiegarsi] Or a ridiamo, ma allora
piangevamo, eh!

20 Il manoscritto di Ersilia Greco, intitolato «Quaderno della fucilazione di Orta di Atella», mi è stato consegnato dalla nipote Milena Greco,
quando nel corso di Storia contemporanea nell’anno accademico 1996-97 abbiamo raccolto e analizzato testimonianze sulla guerra.

21
Dal nostro cuore quel nostro fratello non si allontana mai. Tutti quanti sono stati bravi, tutti quanti li pensiamo, gli vogliamo bene, ma quello
ha fatto una brutta morte.
22 J.T. Gross, I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002 (ed. or.
Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Princeton University Press, Princeton 2001); C. Gerlach, I responsabili degli
stermini, le motivazioni e la politica d’occupazione: il caso dell’occupazione tedesca in Bielorussia dal 1941 al 1944, in Corni e Hirschfeld (a cura
di), L’umanità offesa cit., pp. 137-62.

23 Ascione, settembre 1943: Napoli tra stragismo e rivolta cit., pp. 124-26.

24
Dalle testimonianze come dalla documentazione emergono molti casi di violenza da parte alleata, a cui si devono aggiungere le gravissime
condizioni di miseria e di denutrizione che attanagliavano la città. Cfr. P. De Marc o, Polvere di piselli. La vita quotidiana a Napoli durante
l’occupazione alleata (1943-1944), Liguori, Napoli 1996, e Chianese, Quando uscimmo dai rifugi cit.
25 N. Gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo delle masse contadine, in Operai e contadini nella
crisi italiana del 1943-1944, Feltri nelli, Milano 1974, pp. 478-79; Id., L’altro dopoguerra, in Id. (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il Sud
1943-1945, Angeli, Milano 1985, pp. 31-51.

26 La banda capeggiata da Giuseppe La Marca, o ltre a controllare il contrabbando fra campagna e città, svolgeva attività di natura estorsiva e
per questo aveva anche attuato numerosi sequestri di persona (ASN, Tribunale di Napoli, sentenza n. 7/49, del 30 dicembre 1949).

27 Su Giuseppe Navarra cfr. Gribaudi, Napoli 1943-45. La costruzione di un’epopea cit. Sul tema cfr. anche il già citato volume di De Marco,
Polvere di piselli.
28 De Marco, Polvere di piselli cit.

29 Sfuggono a quest’immagine le lotte contadine, che trovarono una voce politica di livello nazionale nel partito comunista che vi giocò un ruolo
centrale. In Campania esse furono particolarmente importanti nella piana del Sele. Cfr. G. Gribaudi, A Eboli. Il mondo meridionale in cent’anni di
trasformazione, Marsilio, Venez ia 1990.
30 Ho delineato le due figure in G. Gribaudi, Les rites et les languages de l’échange politique. Deux exemples napolitains, in D. Cefai (a cura di),
Cultures politiques, PUF, Paris 2001, pp. 403-23.
31 C. Levi, L’orologio, Einaudi, Torino 1950.

32 Gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo cit., p. 476.

33 Ibid., p. 491.

34 Questo argomento è al centro di G. Miccoli, G. Neppi Modona e P. Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della
resistenza nella vita europea del dopoguerra, il Mulino, Bologna 2001, e in particolare del saggio di G. Miccoli, Cattolici e comunisti nel secondo
dopoguerra: memoria sto rica, ideologia e lotta politica, pp. 31-88. Si veda anche P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, in
particolare il secondo capitolo, intitolato La Resistenza fra mito, politica e storia. Secondo P. Lagrou (The Legacy of Nazi Occupation. Patriotic
Memory and National Recovery in Western Europe, 1945-1965, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2000) che mette a confronto le
memorie di Olanda, Belgio e Francia, gli stati-nazione che non avevano saputo difendere i propri cittadini e che uscivano umiliati e distrutti dalla
guerra avevano la necessità di ricostruire un’identità collettiva positiva, una sorta di autostima della nazione. L’esperienza collettiva della guerra,
che fu soprattutto un’esperienza di insicurezza economica, sofferenza individuale, umiliazione e persecuzioni arbitrarie, venne invece filtrata
attraverso il prisma della resistenza e del patriottismo; i primi dunque ad assurgere a emblema dell’eroismo della nazione furono i com battenti
che potevano essere assimilati ai veterani della prima guerra mondiale. In seguito, tutte le vittime furono assimilate a questo modello attraverso il
discorso antifascista, ma si persero le specificità delle varie esperienze (internati militari, lavoratori forzati, deportati per motivi razziali) e il
risultato fu quindi in un certo senso la sottovalutazione e l’oblio di alcune esperienze . Pieter Lagrou incentra qui il suo discorso
sull’emarginazione della persecuzione antiebraica per i primi vent’anni dopo la guerra, discorso valido anche per l’Italia, cui si aggiunge, per la
specificità della storia nazionale, il caso del Mezzogiorno qui analizzato.

35 H. Rousso, Le syndrome de Vichy, Seuil, Paris 1987.

36 Molto significativa la durissima critica mossa dall’«Unità» al racconto di Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, che nel 1953
rievocava la lotta partigiana senza alcuna retorica, a partire da personaggi concreti con tutte le loro ambiguità e contraddizioni. «L’“Unità” si
impermalì, e ne parlò come di una “mala azione”, scandalizzata per una rappresentazione della Resistenza non consona alla retorica vigente» (B.
Fenoglio, Una questione privata. I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 1986, prefazione).
37 P. Blasi na, Resistenza, guerra, fascismo nel cattolicesimo italiano (1943-1948), in Miccoli, Neppi Modona e Pombeni (a cura di), La grand e
cesura cit., pp. 150-51.
38 Piesse (Paolo Salviucci), Rassegna mensile, in «La rivista del cinematografo», n. 3, giugno 1946, citato in G.P. Brunetta, Storia del cinema
italiano. Dal neorealismo al miracolo economico 1945-1959, vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 105.

39 Brunetta, Storia del cinema italiano cit., p. 105.

40 G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 1996, p. 178.

41 600000 militari italiani furono catturati dagli anglo-franco-americani, circa 50000 dai sovietici, circa 650000 dai tedeschi dopo l’8 settembre
(Conti, I prigionieri di guerra italiani cit.).

42 Anche a questo proposito si possono sottolineare le somiglianze con la situazione francese (Lagrou, The Legacy of Nazi Occupation cit.).

43 Si veda la categoria utilizzata da Semelin, Sans armes face à Hitler cit.

44 Attraverso il discorso dei «martiri» morti per la patria si ripropone d’altro canto il paradigma del patriottismo, che viene poi ripresentato
attraverso i simboli e le immagini retoriche della prima guerra mondiale. Si vedano a questo proposito le stimolanti osservazioni di Pieter Lagrou,
The Legacy of Nazi Occupation cit.: «Ho descritto il potere del patriottismo nel formare le memorie della resistenza, delle deportazioni di
popolazione, del lavoro forzato; inevitabilmente il patriottismo in modo simile ha modellato la memoria della persecuzione nazista. [...] Ma i
combattenti di ogni tipo costituirono soltanto la minoranza di tutte le vittime della persecuzione. Per tutti gli altri la memoria nazionale impose il
paradigma del martirio. [...] Il paradigma del martirio nazionale fu imposto attraverso esclusione o assimilazione» (p. 13); «Le reazioni della
società in Francia e in Belgio al trauma della persecuzione nazista furono molto simili. In entrambe le società le memorie della persecuzione
erano centrali per l’esperienza degli anni di guerra. [...] Il discorso del martirio nazionale personificato da un gruppo che aveva subito eccezionali
sofferenze inizialmente costituì un appello unificante. [...] Ma il discorso e i rituali di questa memoria erano radicati nella tradizione post-1918.
Vittime delle persecuzioni emulavano il modello del movimento dei veterani con simboli presi dal contesto militare, come sventolare bandiere e
imporre lapidi presso i mem oriali del milite ignoto» (p. 241).

45 Jay Winter fa notare come spesso il «testimone morale» nasca in opposizione al discorso ufficiale da una dissonanza cognitiva tra la sua
esperienza e quella raccontata dalla retorica pubblica. «La testimonianza morale emerge dalla resistenza alla romantizzazione o alla
eroicizzazione [...] dal rifiuto delle convenzioni narrative esterne agli avvenimenti» (J. Winter, Le témoin morale et les deux guerres mondiales, in
Guerre et changement social, numero monografico di «Revue européenne d’histoire sociale. Histoire et Société», n. 8, 2003, p. 112).

46 Sul ruolo della chiesa e della sfera del sacro nella guerra si vedano F. Malgeri, La chiesa italiana e la guerra, Studium, Roma 1980; Id., La città,
la chiesa e i cattolici, in Piccioni (a cura di), Roma in guerra cit.; F. Traniello, La seconda guerra mondiale e il mondo cattolico italiano. 1940-
1943, in L’Italia in guerra (1940-1943), «Annali della Fondazione Micheletti», V, 1990-1991, pp. 669-79; Id., Guerra e religione, in G. De Rosa (a
cura di), Cattolici, Chiesa e Resistenza, il Mulino, Bologna 1997.

47 G. Gribaudi, «Città distrutta, abitanti sterminati»: Acerra, 2 ottobre 1943, in Id. (a cura di), Terra bruciata cit., p. 237.

48 Su questo tema cfr. Portelli, L’ordine è già stato eseguito cit.

49 Articolo di G. Capasso, in «Il Rabarbaro» (periodico cattolico milanese), 16 marzo 1947.

50 P. Imperatore, La verità sui quattro martiri, in «Il Mattino», 27 marzo 1993.

51 Winter e Sivan, Setting the Framework cit., p. 29.

52 Winter e Sivan parlano di una catena del ricordo che, attraverso élite secondarie, unisce famiglia e stato e produce un processo dinamico di
costruzione della memoria collettiva ( ibid., pp. 28-29).

53 Gli atti di resistenza civile che nel Centro-Nord trovano una cornice ideologica antifascista in cui inserirsi, nel nostro cas o sono considerati
azioni ordinarie: ad esempio la resistenza alle evacuazioni e alle requisizioni, l’aiuto ai soldati sbandati, o agli ebrei nel caso di Tora e Piccilli. Ho
potuto constatare questa differenza in numerosi contesti commemorativi; ultimo il caso di Carrara, dove ho partecipato alla commemorazione
della resistenza delle donne della città all’evacuazione imposta dai tedeschi, resistenza che è stata ricordata in innumerevoli occasioni rituali e ha
dato origine a un discorso pubblico locale di una certa importanza. La resistenza alle evacuazioni è una delle cause maggiori di rappresaglia sul
fronte meridionale (200 abitanti di Pietranseri in Abruzzo furono sterminati perché si rifiutarono di evacuare) ma nessuno ha mai rivendicato a
questa forma di lotta la veste di antifascismo.
54 A questo proposito si veda la vasta letteratura sui massacri nazisti già citata e sull’interpretazione delle comunità locali e la formazione di una
memoria divisa: Contini, La memoria divisa cit.; Pezzino, Anatomia di un massacro cit.; Portelli, L’ordine è già stato eseguito cit. Sull’opinione dei
romani rispetto a via Rasella e alla conseguente strage delle Fosse Ardeatine ha scritto A. Lepre, Via Rasella. Leggenda e realtà della Resistenza
a Roma, Laterza, Roma-Bari 1996.
55 Il sottotitolo del volume di James Scott Domination and the Arts of Resistance è, come abbiamo già ricordato, Hidden Transcripts.
Tavole

1. Mappa del golfo di Napoli con i principali obiettivi, novembre 1940. (AFHRA, microfilm B 5657-1457; per gentile concessione dell’Air Force Historical Research
Agency).

2. Napoli, giugno 1943. Bombardamento sul porto e sui quartieri circostanti. (NARA, 342-FH-3A-25344-23882AC; per gentile conces sione degli US National Archives).

3. Napoli, settembre 1943. Bombardamento sul porto, sul qua rtiere di Santa Lucia, via Caracciolo, Riviera di Chiaia. (NARA, 342-FH-3A-25340; per gentile
concessione degli US National Archives).


4. Napoli, 21 giugno 1943. Bombardamento sul porto. (AFHRA, Naples Photographic Collection CD-Rom; per gentile concessione dell’Air Force Historical Research
Agency).

5. Napoli, 1943. Il quartiere Porto dopo un bombardamento. (Archivio fotografico dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, Napoli).
6. Napoli, 1944. Ba racche a piazza Mercato distrutta. (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1492).


7. Resina (oggi Ercolano), 1943. (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224).

8. Volantino lanciato dagli alleati nel dicembre 1942. (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1).
9. Pagina di un opuscolo lanciato dagli alleati nel maggio 1943. (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1).

10. Volanti no lanciato dagli alleati nell’agosto 1943. (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1226/1).

11. Volantino lanciato dagli alleati nell’agosto 1943. (ASN, Prefettura, Gabinetto, busta 1224/1).
12-13. Le quattro giornate di Napoli, fine settembre 1943. (Archivio fotografico dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, Napoli).

14. Cancello Arnone. Obiettivo: il ponte sul Volturno, fotografato il 30 agosto 1943. (Aerofototeca dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, Roma).
15. Bombardamento su Capua, 9 settembre 1943. (NARA, 342-FH-3A-24966-26074AC; per gentile concessione degli US National Archives).
16. Benevento, il rione Bagni dopo i bombardamenti dell’agosto-settembre 1943. (Fotografia di Luigi Intorcia; Archivio fotografico Intorcia, Benevento).

17-18. Formia, il rione Mola dopo i bombardamenti del settembre 1943. (Archivio fotografico Giovanni Bove, Formia).

19. Santa Maria Infante, frazione di Minturno, maggio 1944. I soldati della V Armata entrano in paese. (NARA; per gentile concessione degli US National Archives).

20-21. Itri, dicembre 1943. Le rovine del centro storico e funerale tra le macerie. (Archivio fotografico di Vito La Rocca, Itri).
22. Lavoratori coatti ebrei, loro familiari e torani. In piedi, da sinistra, Raoul Navarro, Giuseppe Di Corpo, Vittoria Modiano Levi, Mary e Adele Falco, Vera Navarro,
una nipote di Vittoria Modiano e Gina Formiggini. In basso, da sinistra, Vittorio Gallichi, Clarissa Falco, Vera, Luciana e Raoul Gallichi. (Archivio Vittorio Gallichi,
Napoli).
Indice dei nomi
Abdesselem, Ben

Ada, B.

Adamo

Addelio, Ernesto

Addelio, Giovannina

Adinolfi, Francesco

Aga Rossi, Elena

Agnone, Giuseppe

Agresti, Egidio

Alarico I

Albani, Francesca

Alberti, Giuseppe

Albini, Umberto

Alexander, Harold Rupert

Alfieri, famiglia

Alighieri, Dante

Allum, Percy A.

Alphonsi, soldato francese

Altobelli, Mario

Amato, Luigi

Amodio, Armida

Amoretti, Antonio

Andalò, Pietro

Anders, Günther

Anderson, Benedict R.

Andriello, ingegnere

Andrisani, Gaetano

Angora, Sirina

Anna, A.

Annibale

Annona, Carmela

Antonella, A.

Antonucci, Armando

Anziano, Andrea


Aprea, Carmela

Aprea, Saverio

Aprea, Umberto

Aprea, Vincenzo

Arduino, Simeone

Arico, ufficiale dei carabinieri

Arienzo, Esterina

Arnold, Hen ry Harley

Ascarelli, famiglia

Ascione, Annunziata


Ascione, Nino

Ascione, Salvo

Attanasio, Agostino

Aubry, Armando

Audoin-Rouzeau, Stéphane

Audry, Alexandre


Auricchio, Elisabetta
Aurino, Eduardo

Badoglio, Pietro

Bakunin, signora

Baldissara, Luca

Balletta, Gelasio

Barbagallo, Corrado

Baris, Tommaso

Barrella, Antonio

Barretta, Maria

Bartov , Omer

Barzel, Neima

Basile, Antonio

Batelli, Nicola


Battaglia, Roberto

Battini, Michele


Beck, Birgit

Becker, Annette

Beckett, Ian F.W.

Belli, Aurora

Belli, Pia

Benigni, Francesco


Bernari, Carlo

Berneri, Marie Louise

Bianchini, Antonio

Bistarelli, Agostino

Bivash, Alberto

Bizzarro, Franco


Blake, ammiraglio

Blasina, Paolo

Bloch, Marc
Bocca, Giorgio

Boccaccino, Rocco

Bocchetti, Ciro

Boldoni, Camillo

Bonacina, Giorgio

Bonansea, Graziella

Borgia, Cesare

Borrelli, Aniello

Borrelli, Maria

Borrelli, Raffaele

Borrelli, Salvatore

Borriello, Americo

Bosch, Hieronymus

Boulle, Georges

Bourke, Joanna

Bove, Giovanni

Bove, Umberto

Branco, Domenico

Branco, Elio

Brandi, Antonietta
Brass, Paul R.

Braudel, Fernand

Bravo, Anna

Brittain, Vera

Broaddus, Kirk

Broccoli, Antonio

Broccoli, Carmine

Broccoli, Giovanni

Broccoli, Pompeo


Brun, colonnello

Brunetta, Gian Piero

Buffarini Guidi, Guido

Buglione, Francesco

Buglione, Maria

Buglione, Ugo

Buonincontro, Filippo

Burgess, T.A.C.

Buriali D’Arezzo, Clara

Busso, Vincenzo

Buttino, Marco

Cabanes, Bruno

Cafaro, Benedetto

Cafaro, Giuseppe

Calbrò, Alberto

Camilla, B.

Cammardella, Franco
Campanale, monsignore

Campanile, Bernardina

Canciello, Elisabetta

Canciello, Pasquale

Candelle, Pasqualino
Canfora, avvocato

Cannavale, Erminia

Cannaviello, Vincenzo

Cannella, R.

Cantoni, Guido

Cantoni, professore

Capaldo, Elena
Capasso, Guido

Capasso, Guido


Capasso, Nicola

Capdevila, Luc

Capobianco, Giuseppe

Capobianco, Paolo

Capogreco, Spartaco Carlo

Capuozzo, Gennaro

Caputo, Gabriella

Caravita, Francesco

Carbone, Pietro

Cardillo, Luciano

Carinci, coniugi

Carloni, Fabrizio
Carmela, M.

Caruso

Caruso, Vitaliano

Casale

Cassola, professoressa

Castellano, Carolina

Caterino, Luigi

Cavagnari, Domenico
Cavaliere, Giuseppina

Cavalieri, Alberto

Cavallo, Angelo

Cavallo, Pietro

Cavuoto, Arturo

Cavuoto, Decio

Cecere, Salvatore

Cefa i, Daniel

Celan, Paul

Centola, Francesco

Ceraldi, Carmela

Cerasuolo, Maddalena

Cerroni, Eugenio

Cesare, Caio Giulio

Ceschin, Daniele

Chakrabarty, Dipesh

Chakravorty Spivak, Gayatri

Chaplin, Charlie

Chiaberge, Riccar do

Chianese, Gloria

Chianese, Liliana


Chiantaretto, Jean-François

Chiappinelli, Gaetano

Chiappinelli, Pasqualina
Chierchia, Antonio

Chisciotte, medico

Chiurlotto, Vania

Churchill, Winston

Ciambella, Antonio

Ciampi, Carlo Azeglio

Ciardo, Paolo

Ciciliano, T eresa

Ciglione, Salvatore

Ciota, Orsolina

Cipolletti, Michele

Clark, Mark Wayne

Clausewitz, Karl von

Clemenceau, Georges

Colarizi, Simona

Coletta, Mario

Collinetti

Collotti, Enzo

Condurso, Riccardo

Conestabile, direttore

Conte, Tommasina

Conti, Flavio Giovanni

Contini, Giovanni
Coppola, Antonio

Coppola, Gennaro

Corni, Gustavo

Coronella, Salvatore

Cortesi, Luigi

Costanza, C.

Coste, André

Cova, direttore generale Manifattura tabacchi


Crainz, Guido

Crane, Conrad C.

Croce, Benedetto

Cucuccia, signora

Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Sucker)

D’Acquisto, Salvo

D’Agostino, Guido

D’Aiello, Alberto

D’Aiello, Corrado


D’Aiello, Lucio

D’Alessandro, Elena

D’Ambrosio, Giuseppe

D’Amore, Mario

D’Amore, Rosalia

D’Andrea, Anna

Danese, Emilia

D’Angelo, Andrea

D’Angelo, Genovina

D’Angelo, Sabbatino

Dannecker, Theo

Darlan, François

Daudet, Léon

D’Auria, Aldo

Davis, John
De Antonellis, Giacomo

De Biasio, Agnese

De Biasio, Girolamo

De Biasio, Salvatore

De Blasio, Addolorata

De Certeau, Michel

De Concilio, Benedetta

De Cunto, Maria

De Cunzo, Rosanna

De Donato, Anna

De Falco, Vincenzo


De Felice, capitano

De Felice, Renzo

Defez, Alberto

Defez, Leo


De Filippis, Teresa

De Filippo, Eduardo

De Fusco, Antonio

De Fusco, Silvia

De Gasperi, Alcide

De Gaulle, Charles

De Jaco, Aldo

Del Boca, Angelo

De Leva, Rosario

Della Cioppa, Maria Angela

Della Morte, ufficiale dei vigili del fuoco

Della Valle, Guido

Della Valle, Maria

Del Peschio, Armando

Del Peschio, Francesca

Del Pezzo, duchi

Del Tetto, Ettore

De Lucia, Assunta

De Luna, Giovanni

Del Vecchio, ingegnere

De Marco, Paolo

De Martino, Rosa

De Micco, Vincenzina

De Negri, Felicita

De Quattro, Alfonso

De Quattro, Luigi

De Quattro, Paolo

De Quattro, Vincenzo

De Rosa, Anna

De Rosa, Gabriele

De Santo, Andrea

De Sica, Vittorio

De Simone, Cesare

De Simone, Giulio

De Simone, Luisa

Deteo, vedi Del Tetto

De Tullio, Elia

De Vivo, Carlo

Di Benedetto, Alfredo

Di Caprio, Maria Teresa

Di Cecio, Francesco

Di Cecio, Giuseppe

Di Cecio, Ugo

Di Corpo, Giuseppe (Peppino)

Di Donato, Giuseppe

Di Donna, Lucia

Difante, Archie

Di Gennaro, Vincenzo

Di Giacomo, Olga

Di Giorgio, tenente

Di Giovanni, Marco

Di Giovanni, sottufficiale

Di Leo, Giorgio

Di Maio, Pompea

Di Marco, Mariano

Di Marco, Rosina

Di Pascale, maresciallo
Di Porzio, Gaetano

Di Rienzo, Giovannina

Di Russo, Erasmo

Di Russo, Salvatore

Domenico, T.

Dondi, Mirco

D’Onofrio, Luigi

Doolittle, James Harold

D’Orsi, Giuseppe

Douglas Batson, T.

Douglass, Robert M.

Douhet, Giulio

Dragone, Alfredo

Dubois, capitano francese

Dumont, Lucien

Eden, Anthony

Eisenhower, Dwight D.

Elze, Reinhard

Erra, Enzo

Esposito, Alberto

Esposito, Antonietta

Esposito, Antonio

Esposito, Carmela

Esposito, Francesca

Esposito, Maria

Esposito, Michele

Esposito, Savino

Esposito, Teresa

Facon, Patrick

Faenza, Vincenzo

Falangola, Mario

Falco, Adele

Falco, baronessa

Falco, Carlo

Falco, Clarissa

Falco, Enrichetta

Falco, famiglia

Falco, Gaetano

Falco, Mary

Fano, Ester

Fargnoli, Olimpia

Fargnoli, Palmina

Farinaro, Andrea

Farinaro, Concetta

Farinaro, famiglia

Farinaro, Gennaro

Farinaro, Nice

Farinaro, Quirino

Farinaro, Simeone

Fattore, Annamaria

Federico, Giuseppe

Feleppa, Mario

Fenoglio, Beppe

Feo, Antonio

Ferenczi, Thomas

Fermariello, Gennaro

Fermariello, Ugo

Ferraiolo, Michele
Ferrara, Alessandro

Ferraris, Pino

Ferrone, Rosaria

Filiberto, Maria

Finale, Anna Maria

Finale, Salvatore

Fiorelli, Giuseppe

Fischietti, Vincenzo

Folisi, Enrico

Ford, John

Forgacs, David

Forino, Carmela

Formicola, Giorgio

Formiggini, Gina

Formiggini, Giorgio

Fornel, capo battaglione francese

Francesco, F.

Franzinelli, Mimmo

Freud, Sigmund

Frezza, Daria

Fricchiono, Gaetano

Fune, Lodovico

Fusaro, Rosa

Fusco, Giuseppe

Fussell, Paul

Gabai, famiglia

Gabai, Jossua

Gacon, capitano francese

Gagliani, Dianella

Gagliardo, Giovanna

Gaglione, Carmine

Galasso, Edoardo

Gallerano, Nicola

Galli Della Loggia, Ernesto

Gallichi, Dario

Gallichi, famiglia

Gallichi, Luciana

Gallichi, Raoul

Gallichi, Vera

Gallichi, Vittorio

Gallinaro, Vincenzo

Gallo, Giuseppina

Gallotti, Pasquale

Garibaldi, Giuseppe

Garofano, Anna

Gay-Odin

Genna, professore

Genovese, Maria

Genserico

Gentile, Armando

Gentile, Ciro

Gentile, Emilio

Gerace, Nicola

Gerardo, M.

Gerlach, Christian

Giacobbone, Domenico

Giarusso, Sabatino

Gibelli, Antonio
Giglio, Francesca

Giglio, Peppe

Giglionese, farmacista

Ginzburg, Carlo

Giordano, Ciro

Giorgio, Antonio

Giorgio, Antonio

Giorgio, Cesare

Giovanna, G.

Giovansante, Luigi

Giudetti, Francesco

Giudicianni

Giuliano, famiglia

Giura, Vincenzo

Giuseppe, F.

Giuseppe, L.

Giuseppina, L.

Gobetti, Piero

Goislard de Monsabert, Joseph de

Gorrell, Edgar S.

Goya, Francisco

Gradini, Ersilia

Granelli, Anita

Granilo, Rita

Graziano, Gaetano

Graziani, Rodolfo

Greco, Ersilia

Greco, Flora

Greco, Milena

Gribaudi, Gabriella

Grieco, Enrico

Grimaldi, Grazia

Gross, generale di brigata

Gross, Jan T.

Guadagno, Italo

Guha, Ranajit

Guillaume, Augustin

Guillemin, generale

Hagemann, Karen

Harris, Arthur

Hastings, Max

Hayek, Friedrich von

Hirschfeld, Gerhard

Hitler, Adolf

Hobsbawm, Eric J.

Horne, John

Hudelmeier, tenente tedesco

Hund, generale scozzese

Husson, Edouard

Iaccarino, Giuseppe

Iaccio, Pasquale

Iacobucci, Achille

Ialongo, Nicola

Iannettone, Giuseppe

Iannone, professore

Iannucci, Antonio

Iasevoli, parroco

Imparato, Dolores
Imperatore, Giovanni

Imperatore, Pasquale

Imperatore, Pino

Inella, Angiolino

Inella, Raimondo

Ingicco, Giuseppina

Ingrao, Christian

Iorio, Michele

Iorio, Saverio

Italiano, Gabriele

Iulianis, Alfredo

Izzo, Nicola

Johnson, Kenneth M.

Juin, Alphonse

Kaes, René

Keegan, John

Keitel, Wilhelm

Kesselring, Albert

Kincaid, J.L.

Klinkhammer, Lutz

Kraege, tenente colonnello tedesco

Kyke, Reuben

Labanca, Nicola

La Capria, Eros

La Capria, Raffaele

Lafitte, comandante francese

Laganà Alliata, Domenica

Lagrou, Pieter

La Marca, Giuseppe

Lambiase, Sergio

Lanza, Ciccio

Lanzara, tipografo

Lanziello, Massimo

Lapierre, Nicole

La Rocca, Giuseppe

La Rocca, Giuseppina

La Rocca, Ulderico

Lattes, Renato

Lauretti, Francesca

Lauretti, Giuseppe

Lauricella, Giuseppe

Lauro, Achille

Leehey, Donald J.

Le Goyet, Pierre

Lembo, sottotenente

Le Nulzec, tenente colonnello francese

Leone, Achille

Leone, Vincenzo

Lepone, Antonio

Lepre, Aurelio

Lerro, Michele

Levi Modiano, Vittoria

Levi, Carlo

Levi, Giovanni

Levi, Mario

Levi, Primo

Lévy, Ghyslain

Lewis, Norman
Liddell Hart, Basil H.

Lilly, Robert

Lindqvist, Sven

Lisetti, Aldo

Lobascio, Anna

Lo Fabio, Pasqualina

Loffredo, Paolo Antonio

Lombardi, Agostino

Lombardi, Mario

Lombari, Pasquale

Loren, Sofia

Loy, Nanni

Lubrano, Michele

Lucia, R.

Lucianelli, Alfredo

Lucio, Giuliano

Ludendorff, Erich

Ludovica, L.

Luise, Amedeo

Lumley, Robert

Luongo, Anna

Lupo, Salvatore

Luzzatto, Sergio

Lyttelton, Adrian

Macera, Giuseppe

Macera, Pietro Epifanio

MacFarlane, Mason

Maffuccini, Ciro

Maglio, Salvatore

Magliocco, Benedetta

Maglione, Maria

Maida, Bruno

Maione, Giorgio

Maiuri, Amedeo

Majolo, Livia

Malanima, Paolo

Malasomma, Luigi

Malatesta, Michele

Malgeri, Francesco

Mallozzi, Maria

Mancini, famiglia

Mancini, Gennaro

Mancini, Matilde

Manco

Mandato, Maria

Manfro, Salvatore

Manna, Amedeo

Mansi, Andrea

Manzo, Paolino

Marcello, Carmela

Marcello, Giacomo

Margherita, C.

Mari, Gianfranco

Maria, B.

Maria, C.

Maria, G.

Maria, P.

Maria, R.
Maria, V.

Mariano, avvocato

Marino, Pasquale

Mario, P.

Marocchi, Assunta

Marold, Fritz

Marotta, Gino

Marra, Antonietta

Marrese, Anna

Marrese, Pasquale

Marseglia, Gaetano

Martelli, Carmela

Martino, Antonio

Martino, Maria Grazia

Martino, Patrizio

Martino, Teresina

Martuccelli, Paolo

Marwick, Arthur

Marzano

Masaniello (Tommaso Aniello)

Masi, Salvatore

Mastrostefano, Angelo

Mastrostefano, Vincenzo

Matacena, Amedeo

Mathe, soldato francese

Matilde, B.

Maturi, Pietro

Maucke, Wolfgang

Mauriello, Antonio

Mazzone, Mario

Mazzone, Patrizio

Melania, M.

Memoli, Enrico

Meneghello, Luigi

Meola, Vittorio

Merola, Annibale

Messe, Giovanni

Mezzi, Mariuccia

Miccoli, Giovanni

Miele, Amato

Miele, Angela

Migliaccio, Eduardo

Migliaccio, Vincenzo

Mignone, Angelina

Minino, Ernesto

Minniti, Tito

Miraglia, Giovannina

Mitchell, William (Billy)

Moccia, famiglia

Modiano Gallichi, Gina

Modiano, famiglia

Modiano, Guido

Monteriso, Rosina

Montgomery, Bernard L.

Moravia, Alberto

Moretti, tenente

Morin-Rotureau, Evelyne

Morris, Eric
Morris, Jonathan

Mosse, George L.

Mozzillo, Atanasio

Mucci, Mario

Mussolini, Benito

Musto, Maria

Napolitano, Teresa

Nardella, Antonio

Nardella, Filomena

Nardella, Giuseppe

Nardella, Salvatore

Nardone, Carolina

Nardone, Tommaso

Nardone, Valentino

Narducci, Alessandro

Narsete

Nasti, Rosario

Navarra, Giuseppe

Navarro, famiglia

Navarro, Raoul

Navarro, Vera

Naimark, Norman

Nazzaro, G. Battista

Neppi Modona, Guido

Nerone, Enrichetta

Nicodemo, Carmela

Nicodemo, Lucia

Nicodemo, Raffaella

Nobile, Elemerina

Nobile, Umberto

Noce, Luigi

Norstad, Lauris

Notin, Jean-Cristophe

Nunzia, R.

Ortese, Anna Maria

Osborne, Francis D’Arcy

Pacifico, Eduardo

Padovano, Aurelio

Pagano, Pasquale

Paggi, Leonardo

Pagliaro, Emilio

Palmieri, Rocco

Palmieri, Salvatore

Palombo, Antimo

Palumbo, Giovanni

Palumbo, Teresa

Pampena, Aurelio

Panicaro, Giuseppe

Panico, Raffaele

Pannone, Ottorino

Pansini, Adolfo

Pansini, Eduardo

Pansini, Enzo

Paolillo

Paolini, Teresa

Paolino, Maria

Paone, Domenico

Papa, Domenico
Papa, Luigi

Papa, Maria Civita

Pappalardo, Luigi

Parente, Luigi

Parravicini, Achille

Parri, Ferruccio

Pasquale, C.

Pasquinelli, Carla

Passaro, Biagio

Paternostro, Giuseppe

Paternostro, Maria

Pavone, Claudio

Pelagalli, Angelo

Peli, Santo

Pella, Giuseppe

Pelliccia, Maura

Peluso, Teresa

Penna, Pellegrino

Pensiero, Angelo

Pentimalli, Riccardo

Perillo, professore

Perricone, Olga

Petino, Claudia

Petino, Gennaro

Petino, Mariano

Petreccia, Alessandro

Petrucciani, Sandro

Pezzino, Paolo

Pezzullo

Piccioni, Lidia

Piccirillo, Giovanni

Piccolo, Mario

Pinto, Luciano

Pinto Voghera, Valentina

Pintor, Jaime

Pintor, Luigi

Pio XII

Pisani, Augusto

Plato, Alexander von

Poccia, Benedetto

Poletti, Roberto

Polito, Anna

Polito, Luigi

Polito, Olimpia

Pombeni, Paolo

Porricelli, Luca

Portal, Charles

Portelli, Alessandro

Portente, Anna

Porzio, Maria

Potentino, Carmela

Preston, Richard A.

Procacci, Giuliano

Proia, Antonio

Propp, Vladimir J.

Prost, Antoine

Protomanni, Massimina

Puget, Janine
Quazza, Guido

Raffaella, M.

Raffaelli, Ferdinando

Ranzato, Gabriele

Rastelli, Achille

Rattazzi, Niccolò

Rauso, Maria

Re, Roberto

Rea, Ermanno

Reale, Anna

Reale, Carmela

Reale, Salvatore

Reccia, ragioniere

Rega, Rosario

Rendina, Maria

Revel, Jacques

Ribaud, Ernesto

Ricca, Antonio

Riccardi, Armando

Riccardi, Elena

Riccardi, Italo

Riccardi, Vincenzina

Riccio, Giuseppe

Ricciuti, Vittorio

Riccobono, Francesco

Ricœur, Paul

Riera, soldato francese

Rimoli, Gennaro

Rivellini, Pietrantonio (fra Bernardino)

Robin, Régine

Rolandi, Luigi

Romano, Amedeo

Romano, Annamaria

Romano, Candida

Romano, Giuseppina

Romano, Luigi

Roosevelt, Franklin D.

Rosa, M.

Rosella, Elide

Rossellini, Roberto

Rossetti, Rolando

Rossi, Adelio

Rossi, Maria Maddalena

Rossini, Mario

Rotoli, Cristoforo

Rousso, Henry

Rudé, George

Ruggero II d’Altavilla

Ruggiero, Nino

Ruggiero, Vincenza

Rulien, Donovan W.

Rummo, Cinzia

Ruscio, Gaetano

Russo, Francesco

Sacerdoti, Annie

Sacerdoti, Enrico

Sacerdoti, famiglia

Sacerdoti, Renato
Sacerdoti, Sara

Sacerdoti, Vanda

Sacerdoti, Vera

Sachtleben, capitano tedesco

Saggau, Hugo

Salernitano

Salierno, Vincenzo

Salsano, Alfredo

Salvati, Carolina

Salvati, Mariuccia

Salviucci, Paolo (Piesse)

Sandri, Renato

Sannino, Teresa

Sannino, Pasquale

Sanno, Vincenzo

Santagata, Carlo

Santagata, Giuseppe

Santarelli, Lidia

Santoro, Amalia

Santoro, Ferdinando

Sarfatti, Michele

Savino, E.

Scamarcio, farmacista

Scherma, Antonio

Schiano, Pasquale

Schmauch, soldato francese

Schöll, Walter

Schreiber, Gerhard

Schüler-Springorum, Stephanie

Sciacca, Ada

Scialdone, Antimo

Scialò, Luigino

Scipione, Assunta

Scipione, Salvatore

Scipione, Vincenza

Scoppola, Pietro

Scott, James C.

Semelin, Jacques

Senger und Etterlin, Frido von

Sepe, Luciano

Sereni, Emilio

Sessi, Frediano

Sevez, François

Shaw, Bernard

Sheridan, Philip

Sherman, William Tecumseh

Sholto Douglas, William

Signore, Enzo

Silvana, R.

Simeone, Assunta

Simeone, Davide

Simio, Angelo

Simonetti, Giuseppina

Simpson, Wendy

Sinigallia, Aldo

Sinigallia, famiglia

Sinigallia, Tommaso

Sivan, Emmanuel
Smith, Jacob H.

Solimena, commissario

Sommella, Anna

Soprano, Domenico

Sorge, Elena

Sorrentino, Armando

Sortini, Vittorio

Sottoriva, Pier Giacomo

Soverina, Francesco

Spaatz, Carl

Spaziani, Oliva

Stalin, Iosif

Stanzione, Concetta

Starace, Carlo

Starace, Giovanni

Starck, soldato francese

Steel, John

Stefanile, Aldo

Strachan, Hew

Taffuri, Cristina

Taffuri, Pasquale

Tafuri, Delia

Taglialatela, Filomena

Taglialatela, Giuseppina

Tammaro, Alessio

Tammaro, Alfonso

Tarallo, Immacolata

Tarsia in Curia, Antonino

Tawada, Yoko

Taylor, Telford

Tedder, Arthur

Tella, Alessandro

Tella, Angela

Tella, Virgilio

Teresa, G.

Thevenot, tenente francese

Thompson, Edward P.

Thorndike, Robert R.

Tirelli, Raffaella

Tirone, Francesco

Tisserant, Eugène

Tissi, Ugo

Togliatti, Palmiro

Tommasino, Pietro

Topolski, Jerzy

Toscano, Domenico

Toscano, Salvatore

Totaro, Alfonso

Traniello, Francesco

Travaglini, Federico

Traverso, Enzo

Treglia, Paolo

Trenchard, Hugh

Trevisan, Karine

Trifiletti, Ada

Trifiletti, Claudio

Trifiletti, Clelia

Tropeano, fratelli
Trosino, Fiorentino

Truman, Harry S.

Tucci, Aniello

Tucci, Tommaso

Tuccinardi, Mario

Tufano, Vincenza

Tuozzi, Antonio

Umberto di Savoia

Vaca Lorenzo, Ángel

Vaccari, Marcello

Vajro, Max

Valeriani, Franco

Vallefuoco, Francesco

Vallefuoco, Luigi

Valletta, Gaetana

Vanoni, Ezio

Vassetti, Franco

Verolino, Luigi

Vigliotti, Antonio

Vigliotti, Domenico

Vigouroux, capitano francese

Villano, Maria

Villone, Ennio

Villone, fratelli

Villone, Libero

Vinciguerra, Antonio

Viotti, M.T.

Virgili, Fabrice

Virgilio Marone, Publio

Vitaliano, Gaetano

Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele III

Vitucci, fratelli

Vitucci, Giuseppe

Vivarelli, Roberto

Voghera, famiglia

Voigt, Klaus

Voldman, Danièle

Voltaire (François-Marie Arouet)

Waugh, William F.

Wells, Herbert G.

Wessell, Stefan

Wiesel, Elie

Wieviorka, Annette

Wieviorka, Olivier

Winter, Jay

Wise, Sydney F.

Zanardelli, Giuseppe

Zannino, Lucia

Zarone, Elisabetta

Zarone, Giuseppe

Zarone, Sara

Zazo, Alfredo

Zemon Davis, Natalie

Zenga, Luigino

Zenga, Mario

Zuppa, Anna

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